Demostene, Contro Leptine. Introduzione, Traduzione e Commento Storico 978-3-11-048868-5 [PDF]

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Table of contents :
Prefazione......Page 7
Il contesto: la Guerra Sociale e la crisi economica......Page 12
Antefatto e datazione......Page 17
Nomothesia e γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι......Page 21
Come abrogare una legge contraddittoria – Dem. 20.89–90......Page 26
Come abrogare una legge contraddittoria – Dem. 20.93–4......Page 28
Come promulgare la legge sostitutiva? Dem. 20.89......Page 32
Come promulgare la legge sostitutiva? Dem. 20.98–100......Page 34
La procedura seguita nell’accusa contro la legge di Leptine......Page 40
Gli attori......Page 42
Schieramenti e fazioni......Page 46
Il sistema liturgico......Page 56
La legge di Leptine e i suoi obiettivi......Page 64
La partecipazione di Demostene: interpretazioni......Page 73
Gli argomenti di Demostene: legalità e rilevanza......Page 80
Evergetismo ed economia degli onori......Page 86
L’esito del processo......Page 107
Conspectus siglorum - Edizioni e commenti di rilievo......Page 110
Papiri......Page 111
Nota testuale......Page 112
Testo e traduzione......Page 116
Commento......Page 184
Abbreviazioni......Page 441
Bibliografia......Page 442
Index locorum......Page 495
Index generale......Page 524

Demostene, Contro Leptine. Introduzione, Traduzione e Commento Storico
 978-3-11-048868-5 [PDF]

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Mirko Canevaro Demostene, Contro Leptine

TEXTE UND KOMMENTARE Eine altertumswissenschaftliche Reihe

Herausgegeben von

Michael Dewar, Adolf Köhnken, Karla Pollmann, Ruth Scodel Band 55

De Gruyter

Demostene, Contro Leptine Introduzione, Traduzione e Commento Storico

di

Mirko Canevaro

De Gruyter

ISBN 978-3-11-048868-5 e-ISBN (PDF) 978-3-11-049726-7 e-ISBN (EPUB) 978-3-11-049421-1 ISSN 0563-3087 Library of Congress Cataloging-in-Publication Data A CIP catalog record for this book has been applied for at the Library of Congress. Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.dnb.de abrufbar.

© 2016 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Druck und Bindung: Hubert & Co. GmbH & Co. KG, Göttingen ♾ Gedruckt auf säurefreiem Papier Printed in Germany www.degruyter.com

A mio nonno, Gustavo, a mio figlio, Layton

Prefazione Iniziai a lavorare a questo volume nel 2006, per la mia tesi di laurea magistrale all’Università degli Studi di Torino. Da allora la Contro Leptine ha accompagnato ogni passo della mia traiettoria di studioso, per lunghi periodi monopolizzando il mio tempo, sempre comunque sullo sfondo della mia riflessione, condizionando e spesso determinando le questioni che ho affrontato. Persino il mio progetto dottorale, risultato nel mio primo libro (The Documents in the Attic Orators: Laws and Decrees in the Public Speeches of the Demosthenic Corpus, Oxford 2013), è in un certo senso uno spinoff di questo lavoro, nato dalla frustrazione di non riuscire a capire come funzionassero le procedure di nomothesia ad Atene. Una prima versione del commento, nella forma di una tesi di laurea magistrale davvero troppo lunga, fu presentata a discussa a Torino nel 2008. Il commento fu poi quasi completamente riscritto tra il 2008 e il 2011, durante gli anni del mio dottorato a Durham University, rubando tempo prezioso al lavoro dottorale sui documenti – segno evidente della mia incapacità di abbandonare Leptine. Un’ulteriore, radicale revisione ebbe luogo tra il 2012, speso alla Universität Mannheim, e la metà del 2013, nei miei primi mesi a Edimburgo, durante i quali tenni un seminario sulla Contro Leptine per post­­graduates. Fu in quel periodo che il commento assunse il taglio corrente, con la progressiva definizione dei miei interessi, attraverso la discussione in classe, e anche per via della pubblicazione, quell’anno, dell’altro commento di Christos Kremmydas (Commentary on Demosthenes Against Leptines, Oxford 2012), il primo dal 1890: le discussioni più prettamente stilistiche e retoriche si ridussero di dimensione (e nel commento spesso rimando a Kremmydas su queste materie), l’apparato critico e la discussione della tradizione testuale furono abbandonati, e si espansero e approfondirono le parti relative alle istituzioni politiche, alle procedure giudiziarie e legislative, all’universo morale, all’ideologia politica, alle pratiche evergetiche, all’economia pubblica e al commercio (soprattutto granario) ateniesi – le aree della ricerca storica alle quali spero questo commento offrirà il contributo più nuovo e rilevante. In quel periodo si consolidarono anche alcune delle mie letture più “radicali”, sulla procedura seguita nel processo (intr. sez. 3, comm. passim), sul raggio di applicazione e gli obiettivi della legge di Leptine nel contesto del sistema liturgico e della gestione delle finanze ateniesi (intr. sez. 7, comm. passim), sulla concettualizzazione del sistema evergetico come base dell’argomentazione di Demostene (intr. sez. 10, comm. pas-

VIII

Prefazione

sim). Di lì in poi si è trattato di revisioni ulteriori ai fini della pubblicazione, condotte a margine di altri progetti, ma che mi hanno permesso di tenere in considerazione in alcuni casi pubblicazioni apparse fino alla fine del 2015 (e, in tre casi, nel 2016). Nel corso del mio lavoro decennale a questo commento ho incorso più debiti di quanti possa qui ricordare (e chiedo scusa a chi sto dimenticando). Debiti istituzionali: con l’Università degli Studi di Torino e l’EDISU, con l’associazione culturale Altera (nel cui spazio universitario, l’Acquario, scrissi la prima versione del commento), con Durham University e l’AHRC, con la Universität Mannheim e la Alexander von Humboldt-Stiftung, e infine con la University of Edinburgh. Debiti personali: prima di tutto con Lucio Bertelli, che guidò da relatore di tesi a Torino le prime fasi del mio lavoro, e mi è stato da allora invariabilmente maestro e amico; con Edward Harris, con cui ho discusso a lungo e per anni molti dei problemi qui trattati, e che lesse una versione intermedia del commento e, come sempre, mi offrì mille consigli e suggerimenti che hanno reso questo un libro migliore; con Christian Mann, che mi ospitò a Mannheim e che torturai a lungo con le mie teorie sulla nomothesia; con i miei studenti Matteo Barbato e Alberto Esu, che si sono occupati rispettivamente del copy editing, e della correzione delle bozze e degli indici del volume. Nino Luraghi, Douglas Cairns, Benjamin Gray, Ben Keim, Stephen Halliwell e David Lewis hanno letto e commentato varie sezioni (talvolta salvandomi da errori), e sono grato a tutti loro, così come sono grato ai partecipanti del mio seminario sulla Contro Leptine, a Edimburgo, nella primavera 2013 (Alexandre Johnstone, Victoria McVicar, Rebecca van Hove, Stefanie Michalopoulou) e, soprattutto, a Keith Rutter, che scelse di partecipare per il piacere di contribuire al lavoro di un giovane collega. Ringrazio anche gli editori dei Texte und Kommentare per aver accettato questo volume nella serie, e Katharina Legutke e Serena Pirrotta per il loro lavoro sul volume e la loro sollecitudine. Molto è cambiato nella mia vita da quando cominciai a lavorare a questo volume. Nel 2010 persi mio nonno Gustavo, il mio eroe e il mio migliore amico. Nel 2015 è nato mio figlio Layton, che mi pare già osservi il mondo con lo stesso gusto affascinato e divertito del suo bisnonno. La dedica di questo libro mi dà la possibilità di vederli insieme, almeno sulla pagina.

Indice Prefazione................................................................................................ VII Introduzione............................................................................................. 1 1. Il contesto: la Guerra Sociale e la crisi economica........................... 3 2. Antefatto e datazione......................................................................... 8 3. Nomothesia e γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι: l’accusa contro la legge di Leptine e la legge sostitutiva................................ 12 3.1 Come abrogare una legge contraddittoria – Dem. 20.89–90...... 17 3.2 Come abrogare una legge contraddittoria – Dem. 20.93–4........ 19 Come promulgare la legge sostitutiva? Dem. 20.89................... 23 3.3 3.4 Come promulgare la legge sostitutiva? Dem. 20.98–100........... 25 La procedura seguita nell’accusa contro la legge di Leptine...... 31 3.5 4. Gli attori............................................................................................ 33 5. Schieramenti e fazioni....................................................................... 37 6. Il sistema liturgico............................................................................. 47 7. La legge di Leptine e i suoi obiettivi................................................. 55 8. La partecipazione di Demostene: interpretazioni.............................. 64 9. Gli argomenti di Demostene: legalità e rilevanza............................. 71 10. Evergetismo ed economia degli onori............................................... 77 11. L’esito del processo........................................................................... 98 12. Conspectus siglorum......................................................................... 101 13. Edizioni e commenti di rilievo.......................................................... 101 14. Papiri................................................................................................. 102 15. Nota testuale...................................................................................... 103 Testo e traduzione.................................................................................... 107 Commento................................................................................................ 175 Abbreviazioni........................................................................................... 432 Bibliografia.............................................................................................. 433 Index locorum.......................................................................................... 486 Index generale.......................................................................................... 515

1.  Il contesto: la Guerra Sociale e la crisi economica Il discorso demostenico Contro Leptine fu pronunciato in una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι, un’accusa pubblica per abrogare una legge inadeguata (vd. pp. 12–22). Questa legge, proposta da Leptine di Cele, aboliva le esenzioni dalle liturgie, contribuzioni obbligatorie per i più ricchi tra gli Ateniesi che finanziavano particolari servizi pubblici, dalla gestione e manutenzione della flotta ai cori tragici, comici e ditirambici (vd. pp. 47–63). La legge fu approvata in un contesto di grande difficoltà per le finanze e l’economia ateniese, seguito alla ribellione di Bisanzio, Chio, Rodi e Cos nel 357, che aveva dato inizio alla Guerra Sociale, conclusasi nel 355 con la sconfitta ateniese. La Seconda Lega Navale Ateniese era stata fondata nel 378/7 a.C., quando Atene riuscì a consolidare l’opposizione all’egemonia spartana in una lega difensiva che includeva molti dei suoi antichi alleati. Atene, nel rinnovare le sue ambizioni egemoniche, fornì garanzie agli alleati che la nuova Lega non avrebbe comportato prepotenze e ingerenze analoghe a quelle del V secolo.1 La nuova lega dunque si impegnava a preservare, secondo il dettato della Pace di Antalcida, la libertà e l’autonomia degli alleati, e persino il termine usato per indicare i pagamenti ad Atene, syntaxeis (contributi: IG II2 123 l. 11, 207 l. 13), costituiva una rottura con gli odiati phoroi, i tributi del V secolo. La nuova Lega ottenne inizialmente notevoli successi. Nel 376 una flotta ateniese al comando di Cabria ottenne a Nasso una grande vittoria contro gli Spartani (comm. §§65[2], 77[1]), successo ripetuto l’anno successivo da Timoteo, che sconfisse gli Spartani ad Alizia nel 375 (comm. §84[3]). Questi successi ateniesi erano epocali, in quanto l’unica vittoria contro Sparta dai tempi della Guerra del Peloponneso era stata quella di Conone a Cnido nel 394, ottenuta però al comando di una flotta persiana (comm. §68[1]). Nel frattempo la nuova lega si espandeva rapidamente, con sempre più città sotto il controllo ateniese. Questa espansione fu tuttavia di breve durata: nel 371 Tebe abbandonò la Lega e guidata da Epaminonda sconfisse Sparta a Leuttra. Con la fine dell’egemonia spartana (comm. §161[3]), la principale giustificazione della Seconda Lega Navale venne a mancare, e negli anni successivi le politiche ateniesi divennero sempre più apertamente imperialiste. Nel 369, in funzione anti-tebana, Atene giunse persino ad allearsi con Sparta.2 L’obiettivo principale di Atene, in questo periodo come nel V secolo, Vd. Xen. Hell. 5.1.31, Diod. 14.110.2–4 e IG II2 43 con Accame (1941), Cargill (1981), Dreher (1995). 2 Xen. Hell. 7.1.1–14, Diod. 15.67.1. Cfr. Rhodes (2006: 235–40). 1

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Introduzione

era il controllo della Grecia settentrionale, area ricca di legname e di risorse naturali, oltre che fondamentale per la protezione dell’approvvigionamento granario (comm. §§31–2). Per questo Ificrate e Timoteo condussero negli anni ’60 del IV secolo varie campagne nell’Egeo Settentrionale (cfr. comm. §84[2]), che assicurarono ad Atene il controllo di molte poleis dell’area, ma al contempo esacerbarono l’ostilità degli alleati. Si inasprirono inoltre le ingerenze ateniesi negli affari interni degli alleati: p. es. Atene domò una rivolta a Ceo; rese vari procedimenti giudiziari trasferibili ad Atene (IG II2 111); Carete sostenne la parte oligarchica in un conflitto civile a Corcira.3 Le tensioni crebbero progressivamente, e portarono infine al collasso della lega: nel 357 Atene recuperò l’Eubea, che si era alleata con Tebe, in soli trenta giorni,4 ma, immediatamente dopo, Bisanzio, Chio, Cos e Rodi si ribellarono.5 Atene subì una prima sconfitta tentando un blocco navale su Chio, e Cabria morì in questa battaglia.6 Gli alleati ribelli nel 355 saccheggiarono varie isole, tra cui le cleruchie ateniesi di Lemno e Imbro, e assediarono Samo.7 Timoteo, Ificrate e Menesteo furono inviati con quaranta navi a rafforzare la flotta di sessanta navi comandata da Carete. Ne seguì una battaglia a Embata, tra Chio e la costa dell’Asia Minore. Per via del maltempo Timoteo, Ificrate e Menesteo rifiutarono di combattere (per questo furono poi processati, vd. comm. §84[2]), mentre Carete combatté e fu sconfitto. La sconfitta di Embata segnò la fine della guerra, e Atene dovette accettare la secessione di molti alleati dell’Egeo.8 La Guerra Sociale portò Atene sull’orlo del collasso finanziario. Nel 357 la città mancava persino di adeguato equipaggiamento per le navi, e l’Assemblea fu costretta a passare un decreto che obbligava chiunque fosse in possesso di equipaggiamento a consegnarlo immediatamente ai trierarchi dell’anno successivo, e un secondo che dava ai trierarchi autorità di recuperarlo dai trierarchi precedenti ([Dem.] 47). Trovare abbastanza trierarchi era un problema, e nel 357 la legge di Periandro riformò il sistema della trierarchia istituendo raggruppamenti contributivi (symmoriai, vd. pp. 51–3). La crisi dovette rendere difficili persino i pagamenti ai magistrati, ai buleuti, ai giudici e ai partecipanti dell’Assemblea.9 Nella Quarta Filippica (10.37) Demostene ricorda che “non molto tempo fa” le entrate di Atene erano scese 3 4 5 6 7 8 9

Diod. 15.95.3, Aen. Tact. 11.13–15 Diod. 16.7.2, Aeschin. 3.85, IG II2 124 (con comm. §80[2]). Sulla datazione e le fasi della guerra vd. comm. §80[2]. Per la datazione della battaglia e il ruolo di Cabria cfr. comm. §80[2]. Cfr. Sealey (1993: 103–8), Cargill (1995: 12–5, 17–21, Rhodes (2006: 239–40). Diod. 16.21–22.2, Polyaen. Strat. 3.9.29, Isoc. 8.16, Dem. 15.26. Sui costi di questi pagamenti vd. Pritchard (2015: 52–80).



1.  Il contesto: la Guerra Sociale e la crisi economica

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a 130 talenti, mentre nel 346, dopo alcuni anni di savia politica economica, erano tornate a 400 talenti annui, e continuavano a crescere.10 Il collasso fu dovuto alla perdita dei tributi della lega, per cui le finanze interne dovettero essere radicalmente riorganizzate.11 Dopo alcuni anni di lenta ripresa, le finanze raggiungeranno nel 346 i 400 talenti (Dem. 10.37–8), e alcuni anni dopo Cheronea, grazie alla gestione di Licurgo, saliranno a 1200 ([Plut.] Vit. X Or. 842f). Che Atene sia riuscita a raggiungere nuovamente tali vette di prosperità è testamento della competenza dei politici che ne furono alla guida negli anni successivi alla Guerra Sociale.12 Le politiche che portarono a questo successo risultarono da un acceso dibattito,13 testimoniato da testi come il discorso Sulla Pace di Isocrate (8.61– 81), che esorta gli Ateniesi ad abbandonare velleità imperialistiche, e i Poroi di Senofonte, sul governo delle finanze di un’Atene senza impero, il terzo capitolo del quale offre consigli su come stimolare il flusso di mercanti ad Atene, aumentando il volume delle transazioni commerciali e ottenendone crescenti entrate da tasse e dazi commerciali, che nel medio periodo sostituiscano i frutti dell’impero (3.6–7). Secondo Senofonte questo risultato era raggiungibile senza investimenti diretti, ma con la semplice adozione di buone leggi e misure adatte. Senofonte indugia sui vantaggi di Atene nell’attrarre mercanti (3.1–5): prima di tutto la sua posizione, con un approdo naturale al Pireo. Secondo, mentre altrove i commercianti sono obbligati a scambiare le loro merci per altre merci, ad Atene non solo c’è disponibilità di beni di ogni tipo, ma la città ha riserve eccezionali d’argento, grazie alle miniere del Laurion. Senofonte suggerisce dunque di intensificarne lo sfruttamento. Terzo, Atene deve implementare procedure che garantiscano un’equa e rapida soluzione delle dispute commerciali: i mercanti privilegerebbero Atene come meta dei loro viaggi per la certezza, in caso di dispute, di ottenere un equo processo. L’ultima proposta è che si assegnino posti di prima fila a teatro a commercianti i cui servizi siano particolarmente importanti per la città, e che alcuni siano invitati al Pritaneo per pasti onorifici (comm. §§18[5], 120[2] su sitesis e proedria). I mercanti sceglierebbero Atene non solo per profitto, ma anche nella speranza di ricevere premi e onori. Senofonte si riferisce qui a pubblici onori per i benefattori della città, riservati in genere 10 Cfr. Theop. FGrH 115, F 166; Dem. 19.89; 8.45; 9.40; 10.38. 11 Vd. i calcoli di Jones (1957: 6ss.), Andreades (1961: 418ss.). 12 Per lo sviluppo di competenze specialistiche in materia fiscale nel IV secolo vd. Davies (2004), cfr. Pritchard (2015: 1–27), e Ober (2015) sul regime fiscale di Atene. 13 Vd. Pritchard (2015: 1–26) sui dibattiti ateniesi sulla spesa pubblica. Vd. Gauthier 1976 per un commento ai Poroi di Senofonte.

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Introduzione

a euergetai, generali vittoriosi, magistrati distintisi nell’esercizio delle loro funzioni.14 La sua proposta di assegnare simili onori a stranieri come premio per i loro servizi di natura commerciale non è una completa innovazione (p. es. IG I3 174, 182, IG II2 81, 212 prima degli anni ’50 del IV secolo), ma il loro numero cresce certamente a partire da questi anni.15 Questi onori erano uno strumento fondamentale per vincolare mercanti e sovrani stranieri alla città, instaurando relazioni continuative di reciprocità, e rafforzando legami politici e commerciali. Senofonte sottolinea questo aspetto affermando che in questo modo i mercanti giungeranno ad Atene da amici (ὡς πρὸς φίλους, Xen. Poroi 3.4).16 Varie misure approvate in questi anni hanno il chiaro obiettivo di rafforzare le finanze pubbliche.17 Significativa è l’istituzione da parte di Aristofonte di una commissione incaricata di individuare e perseguire i pubblici debitori, ricordata nell’orazione Contro Timocrate (Dem. 24.11), che dà l’avvio agli eventi discussi in quel discorso.18 Un secondo provvedimento è ricordato sia nella Contro Timocrate (Dem. 24.160) sia nella Contro Androzione (Dem. 22.72): Androzione fece approvare un decreto per la riscossione degli arretrati dell’eisphora, riscossione di cui si incaricò lui stesso, riuscendo a recuperare tra i 5 e i 7 talenti.19. Il più importante interprete di questa politica di risanamento fu Eubulo, che portò le finanze ateniesi a 400 talenti annui (Dem. 10.37–39; Theop. FGrH 115, F 166).20 Il suo successo (Plut. Mor. 812 ss.) fu frutto di politiche di ampio respiro, spesso in linea coi suggerimenti di Senofonte:21 sforzi per ristabilire l’egemonia commerciale del Pireo attraverso nuove procedure per accelerare e rendere praticabili anche per i mercanti stranieri le dikai emporikai,22 investimenti in infrastrutture per i mercanti (Din. 1.96), interesse e investimenti nelle miniere del Lau14 Vd. pp. 77–97 per gli euergetai. 15 Engen (2010: 276–325) identifica nove decreti onorifici per ragioni commerciali prima degli anni ’50 del IV secolo, e 24 tra il 350 e il 320 (cfr. Mitchell 1997: 142; Hagamajer Allen 2003: 237–8; Moreno 2007: 189; Lambert 2011a: 178–9; 2012: 377–86; Liddel 2016: 311; Bissa 2009: 190–1). Vd. pp. 77–98. 16 Cfr. sotto pp. 83–5 per i vari onori che erano in genere accordati a mercanti e benefattori. 17 Schaefer (1885–87: I, pp. 179–180, 361–363, 415–416) fu il primo a identificare i contorni di questa politica economica. 18 Su Dem. 24 e la legalità della legge vd. Canevaro (2013a: 77–180). 19 Sull’eisphora vd. pp. 50–2. 20 Cawkwell (1963), Oliver (2011), Worthington (2013: 89–91), cfr. pp. 42–6. 21 Cawkwell (1963: 56); Oliver (2011: 122 e passim). Diog. Laert. 2.59 afferma che Eubulo sostenne il rientro di Senofonte dall’esilio. 22 Cawkwell (1963: 63–4); Sealey (1993: 116); cfr. Engels (1988).



1.  Il contesto: la Guerra Sociale e la crisi economica

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rion (Dem. 19.293).23 Eubulo ristrutturò la gestione delle finanze ateniesi e stabilì la centralità del fondo del theorikon (di cui fu il preposto), che incentivava la partecipazione dei cittadini ai festival religiosi amministrando pagamenti per chi vi prendesse parte.24 Iniziò un ambizioso programma infrastrutturale (Aeschin. 3.25), che coinvolse lavori sulla rete idrica e stradale (Dem. 3.29), e inaugurò una politica di rafforzamento della flotta, costruendo un arsenale, moli e ricoveri per le navi (IG II2 1613 l. 302; 505 ll. 12–13; Din. 1.96; Aeschin. 3.25). Altre sue iniziative, quali l’accusa (prima del 343) contro Cefisofonte e Merocle per avere intascato denaro pubblico (Dem. 19.293) e la minaccia (prima del 347/6) di perseguire Aristofonte per non avere consegnato una certa somma dovuta ad Atena, che non ebbe seguito perché Aristofonte restituì il denaro (Dem. 21.218), possono essere inscritte nel contesto dell’emergenza finanziaria che seguì la Guerra Sociale.25 Demostene partecipò a questo dibattito: nel 354/3 (Dion. Ad Ammaeum I, 1.4) propose di estendere il numero di cittadini inclusi nelle simmorie trierarchiche (Dem. 14; vd. pp. 53–4, 66, 70) e nel 349/8 (Dem. 1.19–20, 3.10–13) si oppose all’uso del fondo militare per finanziare i festival.26 La legge di Leptine fu anch’essa espressione di queste politiche, e della preoccupazione per le finanze e il funzionamento delle liturgie. Intorno a essa si sviluppò un largo consenso, che includeva politici che erano stati avversari in passato, quali Aristofonte, Leptine, Leodamante, Cefisodoto.27

23 Cawkwell (1963: 64–5). 24 Cawkwell (1963: 55–61 e passim); contro l’esistenza di una legge di Eubulo che vietasse l’utilizzo del theorikon per spese militari vd. Harris (1996: 57–76); cfr. Oliver (2011: 122–3); per questo fondo vd. Faraguna (1992: 189–93). Roselli (2009) sostiene che il fondo fu creato in questi anni (cfr. Rhodes 1981: 514). 25 Sulle sue posizioni in politica estera vd. pp. 42–4. 26 Harris (1996). 27 Vd. pp. 37–46.

2.  Antefatto e datazione Il discorso demostenico Contro Leptine attacca una legge proposta e approvata da Leptine (vd. pp. 33, 55–64).28 Un’accusa era stata intentata da un certo Batippo, non altrimenti noto, subito dopo l’approvazione della legge, ma Batippo morì prima del processo. In seguito altri due accusatori iniziarono azioni contro Leptine, ma entrambi rinunciarono a portarle a termine, il primo persuaso da Leptine, il secondo subornato (§145). Quando infine l’accusa approdò in tribunale grazie ad Apsefione, figlio di Batippo, più di un anno era trascorso dalla presentazione della legge, e dunque Leptine non era più personalmente perseguibile (comm. §144[3]). Demostene si rivolge ai giudici dopo un discorso di Formione (§§2, 51, 100, 159), non altrimenti noto.29 Anche Apsefione deve avere fatto parte del team di accusatori, come responsabile dell’accusa (§145), ma l’assenza di riferimenti alle sue parole suggerisce che si sia limitato a una brevissima presentazione, lasciando l’onere dell’argomentazione ai synegoroi. La partecipazione di synegoroi era frequente in particolare nelle azioni pubbliche, che si configuravano spesso come accuse di gruppo.30 L’Argumentum libaniano accenna alla possibilità che ci fossero ulteriori synegoroi, ma senza chiarirne l’identità o dichiarare la fonte dell’informazione. Dionisio di Alicarnasso (Ad Ammaeum I, 4.9–10) afferma che Demostene pronunciò questa orazione personalmente (mentre le orazioni Contro Androzione e Contro Timocrate, degli stessi anni e anch’esse per importanti processi politici, furono scritte per altri): questa sarebbe la prima vera uscita pubblica di Demostene, dopo i processi intentati ai tutori per la sua eredità (Dem. 27–31).31 I due Argumenta confermano la notizia, e in questo senso si 28 Vd. comm. §1[4] sulla promulgazione della legge. 29 Din. 1.111 menziona Formione, con Ctesippo, come colui che arruolò a pagamento Demostene agli inizi della sua carriera (in questo processo). Formione non è l’ex-schiavo di Pasione, come ritenuto da Worthington (1992: 280–1, vd. Rubinstein 2000: 50 n. 69). Ma l’accusa che Demostene pronunciasse discorsi a pagamento per conto di Ctesippo e Formione è strumentale. 30 Vd. comm. §1[7] e Rubinstein (2000) sul ruolo dei synegoroi. Cfr. Rubinstein (2000: 175, n. 148) sulla lunghezza del discorso di Apsefione, e pp. 64–70 sulle ragioni della partecipazione di Demostene. 31 Hansen (1975: 98–99) dà credito a Eschine (3.51–52) e ritiene che Demostene fosse stato già in precedenza, nel 359, synegoros di Euticle in un’eisangelia contro lo stratego Cefisodoto, sotto il quale l’oratore aveva servito l’anno precedente come trierarca, e che aveva intrattenuto stretti legami di amicizia con suo padre. Ma il contesto è quello della denigrazione sistematica della carriera dell’oratore, per cui le



2.  Antefatto e datazione

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può interpretare un passo di Dinarco (1.111) che riassume i primi anni della carriera dell’oratore con queste parole: “e come risultato delle prestazioni da logografo e della partecipazione a cause dietro compenso, per conto di Ctesippo e Formione e molti altri, è il più ricco in città”. Il caso specifico di Ctesippo e Formione è chiaramente quello della Contro Leptine, ma è dubbio se Dinarco lo consideri un caso in cui Demostene fu pagato come logografo, o un’occasione in cui agì personalmente dietro compenso (l’accusa di essere stato accusatore prezzolato è una facile calunnia32). Tuttavia, poiché Dinarco fa riferimento agli inizi della carriera di Demostene, nel citare le partecipazioni dirette di Demostene non poteva riferirsi ad altre orazioni giudiziarie coeve (22, 24), chiaramente pronunciate da altri. È possibile che Demostene abbia partecipato ad altre azioni di rilevanza pubblica delle quali non rimane traccia, ma d’altro canto Dinarco cita proprio quello di Ctesippo e Formione come un caso noto di collaborazione di Demostene con altri uomini politici, il che è più compatibile con una partecipazione in prima persona che non con un servizio logografico nell’ombra.33 La citazione di questa particolare collaborazione, se non prova definitivamente che fu la prima uscita pubblica di Demostene in un processo politico, certamente mostra che questo processo fu di tale importanza da essere ricordato trent’anni dopo come tale. Il processo è datato da Dionisio di Alicarnasso (Ad Ammaeum I, 4.8–9) sotto l’arcontato di Callistrato, tra il luglio del 355 e il giugno del 354, lo stesso anno di quello contro Androzione (Dem. 22). L’affermazione che la Contro Androzione fu il primo discorso politico composto da Demostene (per conto di Diodoro, vd. Dion. Hal. Ad Ammaeum I, 4.5–7) fornisce un ulteriore dato di cronologia relativa: nel 355/4 il discorso Contro Leptine sarebbe stata pronunciato dopo la Contro Androzione. L’attendibilità di Dionisio è stata messa tuttavia in discussione.34 Nel caso specifico, la data di Dionisio non può essere provata o confutata conclusivamente sulla base delle informazioni interne all’orazione, ma i dati cronologici del testo non contraddicono la sua datazione. affermazioni di Eschine sono dubbie. Per le accuse di Demostene contro i guardiani vd. MacDowell (2004; 2009: 31–57), Cobetto Ghiggia (2007). 32 Dem. 46.26 riporta un documento, una legge, che rende illegale agire come synegoroi a pagamento (vd. Rubinstein 2000: 52–3). Il documento potrebbe essere un falso tardo, ma vari passi degli oratori mostrano che pagare un synegoros non era accettabile, ed essere smascherato come synegoros prezzolato screditava irreparabilmente l’oratore (p. es. Dem. 1.111, Lyc. 1.138, [Dem.] 44.3). 33 Vd. comm. §1[6] sulle obiezioni di Blass e la relazione di Demostene con Ctesippo. 34 Vd. Lewis (1954; 1997: 230–251); Lane Fox (1997). Cfr. Sealey (1955a; 1993: 225–227) e Cawkwell (1962), che non rifiutano le datazioni di Dionisio in blocco.

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Introduzione

Un primo riferimento è quello di §23 alle simmorie trierarchiche, introdotte dalla legge di Periandro, probabilmente del 358/7,35 che costituisce dunque un terminus post quem. La morte di Cabria, che Demostene menziona a §80, è successiva, e risale al 357/6, probabilmente all’estate-autunno del 357 (comm. §80[2]). Non è chiaro se la Guerra Sociale fosse già terminata all’epoca del processo, ma gli accenni alla mancanza di denaro situano il discorso a cavallo tra la fase finale della guerra e il periodo immediatamente successivo alla pace, mentre il silenzio su qualsivoglia questione militare suggerisce che la guerra fosse già conclusa.36 L’accenno al colpo di mano siracusano di Dione (Diod. 16.9.2; Plut. Dione; Nep. Dione), che tolse il trono a Dionisio II, permette di posticipare ulteriormente il terminus post quem fino all’estate del 356. §§61–63, in cui Demostene parla delle conquiste di Filippo all’epoca dell’orazione, citando Pidna e Potidea, entrambe catturate nel 356 (comm. §61[2]), sono ulteriore conferma. Il silenzio su Metone, catturata nell’autunno del 354, potrebbe dare un’indicazione importante sul terminus ante quem, confermata dal fatto che Demostene pare considerare Dione (che fu deposto nel 353) ancora sul trono siracusano (comm. §162[1]). Questi indizi restringono l’arco cronologico a due anni: il 356/5 (dall’autunno del 356) e il 355/4. Demostene afferma anche che Leucone aveva aiutato Atene, in un momento di crisi dell’approvvigionamento granario, due anni prima del processo (comm. §33[4]). Dionisio poteva consultare l’opera di Filocoro, di cui è attestata l’attenzione all’approvvigionamento granario. È quindi possibile, come sostenuto da vari studiosi, che Dionisio potesse ricavare facilmente la data da questo riferimento.37 Una datazione dell’orazione al 355/4, secondo la sua testimonianza, ha certamente il vantaggio di porre l’aiuto di Leucone nel 357/6, proprio allo scoppio della Guerra Sociale,38 quando problemi di approvvigionamento sono altamente probabili. La data di Dionisio è dunque probabile: il processo avvenne probabilmente nel 355/4, l’anno precedente al primo discorso demostenico in Assemblea, quello Sulle Simmorie (14). Leptine presentò la sua legge oltre un anno prima del processo (§144), probabilmente nel 356/5, a due anni 35 Vd. pp. 52–3. L’unico accenno a questa legge è Dem. 47.21, su una disputa relativa all’equipaggiamento di una trireme. La disputa è del 357/6 (Dem. 47.44), e la legge di Periandro sembra fosse all’epoca molto recente, probabilmente dell’anno precedente (MacDowell 1986: 438). 36 Vd. Sandys (1890: XXVIII–XXIX); Sealey (1955b: 117). 37 Cfr. FrGrH 328 F 53; Sealey (1955b: 117); Cawkwell (1962: 41). 38 Si segue la cronologia di Cawkwell (1962). Per una sintesi della controversia sulla datazione della Guerra Sociale vd. Jackson-Rowe (1971: 54–55).



2.  Antefatto e datazione

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dall’introduzione delle simmorie trierarchiche con la legge di Periandro nel 358/7, e nella fase finale della Guerra Sociale, terminata probabilmente nella primavera del 356/5. Contemporaneo o poco successivo al processo fu probabilmente il decreto di Aristofonte che istituiva una commissione incaricata di accogliere le denunce contro i pubblici debitori, che portò all’azione di Diodoro contro Timocrate (24).39

39 Cfr. Traill, in PAA, III, s.v. Ἀριστοφῶν (n° 176170), che data il decreto al 355/4. Dion. Hal., Ad Ammaeum I, 4 data la Contro Timocrate al 353/2 (cfr. Sealey 1955a: 74 e Rubinstein 2000: 237–8). Lewis (1954) la predata al 354/53 (cfr. West 2000: 321).

3.  Nomothesia e γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι: l’accusa contro la legge di Leptine e la legge sostitutiva La procedura utilizzata dall’accusa contro la legge di Leptine era una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι, un’accusa pubblica contro una legge inadatta – Demostene usa ripetutamente οὐκ ἐπιτήδειον per descriverla (§§83, 88, 95, 153).40 Siamo relativamente ben informati su questa procedura, in quanto la Contro Timocrate (Dem. 24) è anch’essa un discorso d’accusa pronunciato in una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι. Era connessa alle complesse procedure di nomothesia, attraverso le quali nel IV secolo gli Ateniesi promulgavano le loro leggi,41 e fu probabilmente istituita al tempo della restaurazione democratica dopo i Trenta, nello stesso contesto in cui gli Ateniesi definirono la distinzione formale tra leggi (nomoi: misure di portata generale e valide per sempre) e decreti (psephismata: misure temporanee da applicare a casi e persone specifiche).42 Varie ricostruzioni sono state avanzate del funzionamento di queste procedure, basate su contraddittorie letture di Dem. 20.88–104 e Dem. 24.18– 35, le più dettagliate discussioni della nomothesia negli oratori.43 Queste analisi considerano i documenti di Dem. 23.20–3 e 33 autentici e faticano a conciliare le informazioni lì contenute tanto con i riassunti di Demostene quanto con le informazioni fornite nella Contro Leptine. Ho discusso altrove in dettaglio quei documenti e tutte le fonti sulla nomothesia di IV secolo, mostrando che i documenti sono falsi ellenistici inaffidabili.44 Ho quindi confrontato le informazioni in Dem. 20 e 24, e ho fornito una rico40 Cfr. §1: εἵνεκα τοῦ νομίζειν συμφέρειν τῇ πόλει λελύσθαι τὸν νόμον. ἐπιτήδειος definisce una legge come coerente con le leggi esistenti e, più in generale, con lo spirito delle leggi – va tradotto con “adatto”, “adeguato” (vd. comm. §83[3] e pp. 71–3). 41 Le leggi di IV secolo conservate per via epigrafica sono SEG 26.72; Stroud (1998); Agora Excavations, inv. no. I 7495 (inedita); IG II2 140; IG II3 1 429; IG II3 1 320; IG II3 1 447; IG II3 1 445. Cfr. Clinton (2005–8) no. 138; SEG 52.104. Si può aggiungere il documento attendibile a Dem. 24.63 (cfr. Canevaro 2013a: 151–7). Hansen (1978; 1979) mostra che nel IV secolo i nomoi erano promulgati sempre con la nomothesia. 42 Cfr. Harrison (1955: 26); Hansen (1991: 164); Kremmydas (2012: 24); Canevaro (2015). Sulla distinzione tra nomoi e psephismata vd. comm. §92[1]. 43 La bibliografia è immensa; vd. in particolare Kahrstedt (1938), Atkinson (1939), Wolff (1970), MacDowell (1975), Hansen (1979–80), Calabi Limentani (1981), Rhodes (1984); Hansen (1985); Piérart (2000), Rhodes (2003), Kremmydas (2012: 341–66). 44 Canevaro (2013a; 2013b).



3.  Nomothesia e γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι

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struzione non contraddittoria della nomothesia. Offro qui un riassunto dei miei risultati, che servirà da punto di partenza per l’analisi delle procedure della Contro Leptine. 1) Per promulgare una nuova legge serviva un voto preliminare in Assemblea, in qualunque momento dell’anno, che apriva alla presentazione di nuove proposte (Dem. 24.25; IG II3 320 = SEG 12.87, IG II2 140); questo voto, come ogni voto in Assemblea, era preceduto da un probouleuma del Consiglio. 2) Dopo l’autorizzazione dell’Assemblea, le nuove proposte di legge dovevano essere pubblicate davanti al Monumento degli Eroi Eponimi (Dem. 24.25; 20.94), in modo che chiunque potesse consultarle. 3) Il segretario doveva leggere tutte le proposte a ogni Assemblea fino alla convocazione dei nomoteti (Dem. 20.94). 4) Nella terza Assemblea dopo il voto preliminare, sulla base delle proposte presentate, il demos discuteva la convocazione dei nomoteti e passava un decreto di convocazione (Dem. 24.25; 20.92). 5) Ogni legge contraddittoria andava abrogata prima che le nuove leggi potessero essere promulgate dai nomoteti (Dem. 24.32, 34–5; Dem. 20.93). 6) Probabilmente nella stessa Assemblea che convocava i nomoteti si eleggevano esperti come syndikoi, il cui compito era difendere le leggi contraddittorie che i proponenti delle nuove leggi dovevano abrogare (Dem. 24.36; 20.146). 7) Se il proponente di una legge non seguiva queste regole, chiunque poteva portare contro di lui un’accusa pubblica per aver promulgato una legge inadeguata, una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι (Dem. 24.32); se l’accusa era portata entro un anno dalla promulgazione della legge, il proponente poteva essere punito con qualunque pena, da una piccola multa all’atimia e la morte. Rimane da comprendere in che modo le leggi contraddittorie dovessero essere abrogate (punto 5), e questa è la questione chiave per la comprensione delle procedure della Contro Leptine (§§88–104). A §88 Demostene si rivolge ai giudici con queste parole: “vi sarà letta la legge che abbiamo redatto e presentiamo in sostituzione di questa che secondo noi non è adeguata” (ἀναγνώσεται τὸν νόμον ὑμῖν ὃν παρεισφέρομεν γράψαντες ἀντὶ τοῦδε, ὃν οὐκ ἐπιτήδειον εἶναί φαμεν). Demostene afferma che l’accusa ha redatto

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Introduzione

(γράψαντες) una legge da promulgare al posto di quella di Leptine,45 e che questa legge sarà letta ai giudici (la legge è letta a §97). L’accusa presentò dunque una legge alternativa che avrebbe dovuto sostituire la legge di Leptine se questa fosse stata abrogata. Questa legge istituiva una procedura con cui chiunque poteva portare un’accusa pubblica (graphe) contro i detentori di ateleia, e dimostrare che era immeritata.46 L’accusa contro la legge di Leptine sembra dunque, secondo le parole di Demostene, costituire il passaggio necessario dell’abrogazione della legge precedente (contraddittoria) nella procedura per promulgare una nuova legge. Gli studiosi hanno tuttavia considerato queste parole problematiche: l’uso di ἐπιτήδειον chiarisce che questa è una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι, interpretata come un’azione giudiziaria separata dalla nomothesia vera e propria (perché successiva e non obbligatoria), e che dunque si concludeva semplicemente con l’abrogazione della legge in questione, senza comportare la promulgazione di una legge sostitutiva.47 Questa interpretazione, proposta inizialmente da Wolff,48 è basata sul testo del documento a Dem. 24.33, che afferma: “Non è lecito abrogare nessuna delle leggi in vigore se non davanti ai nomoteti. In quella circostanza sia permesso a chi tra gli Ateniesi lo voglia di abrogarne una, presentandone un’altra in sostituzione di quella che eventualmente voglia eliminare”. Questo testo sembra dimostrare che l’abrogazione di una legge con annessa promulgazione di una legge sostitutiva doveva avvenire davanti ai nomoteti, e non con una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι. Se questo fosse il caso, non solo la legge sostitutiva di Apsefione sarebbe null’altro che un espediente retorico o una irregolarità procedurale, ma Demostene, quando a §89 afferma che “da una parte, se si ritiene che una delle leggi in vigore non vada bene, si intenta un’accusa pubblica; dall’altra si presenta una legge sostitutiva”, starebbe mentendo.49 I dubbi sulla regolarità della procedura descritta nella Contro Leptine sono a prima vista corroborati dalle differenze tra il caso di Leptine e quello di Timocrate (Dem. 24). Nelle parole di Calabi Limentani: “Timocrate e non Leptine è personalmente perseguibile; la legge di Leptine e non quella di Timocrate viene difesa da syndikoi ufficiali; la accusa contro Leptine e non 45 Si noti la 1a pers. plur. παρεισφέρομεν. Il verbo è un hapax attestato solo in questo discorso, qui e a §§89, 94, 100, 197. 46 Vd. comm. §88[6] sulla legge sostitutiva. 47 Cfr. e.g. Wolff (1970: 28–44); Hansen (1979–80: 89–91); Calabi Limentani (1981: 361); Rhodes (1984: 58); Kremmydas (2012: 88–9). 48 Contra Kahrstedt (1938: 23–5) e Atkinson (1939: 133–4). 49 MacDowell (1975: 65, 73 e passim) ipotizza che citasse una legge ormai abrogata, ma vd. Hansen (1979–80: 92ss.), Rhodes (1984: 56).



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quella contro Timocrate si avvale della presentazione di una controproposta o legge alternativa”.50 Si sono proposte due principali soluzioni al puzzle:51 1) Vista l’anomalia del caso (più di un anno era passato dall’approvazione della legge, l’accusatore originario era morto e la legge era dunque in vigore) i tesmoteti formularono una procedura ad hoc che univa elementi della nomothesia e della γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι, con l’elezione di syndikoi e la presentazione di una legge sostitutiva.52 2) La legge sostitutiva è “eine blosse Finte”, un espediente retorico utilizzato da Demostene che tenta di ingannare i giudici e convincerli che con l’abrogazione della legge di Leptine la legge sostitutiva entrerà automaticamente in vigore.53 La prima soluzione si scontra con un problema insormontabile: dà ai tesmoteti il potere di creare nuove procedure (come se fossero pretori romani),54 ma le fonti mostrano che i tesmoteti non avevano questo potere.55 La seconda soluzione è basata sull’idea che Demostene cerchi di convincere i giudici che la legge sostitutiva entrerà in vigore automaticamente con l’abrogazione della legge di Leptine, ma (vd. pp. 23–5) Demostene non afferma niente del genere. Problema comune a entrambe le interpretazioni è che si basano sul documento a Dem. 24.33, che è inaffidabile.56 Se si ignora il documento e si leggono le parole di Demostene precedenti e successive alla citazione della legge, si scopre che non sono in contraddizione con quanto affermato qui da Demostene (e non specificano chi esattamente debba abrogare una legge vigente): Prendimi e leggi questa prima legge, che vieta espressamente di presentare alcuna legge opposta a quelle in vigore, e qualora qualcuno ne presenti una, impone di denunciarlo. Leggi. [...] Non permette di presentare un provvedimento in contrasto con le precedenti leggi, qualora non si abroghino quelle precedentemente in vigore. (Dem. 24.32–4)

50 Calabi Limentani (1981: 358). 51 Tralascio le teorie di Hansen (1979–80) e Calabi Limentani (1981), che Hansen (1985) ha rispettivamente ritrattato e convincentemente confutato. 52 Cfr. Hansen (1985: 350–1). 53 Wolff (1970: 36), seguito da Hansen (1979–80: 89–90), Rhodes (1984: 58), Kremmydas (2012: 342–3 e passim). 54 Sull’editto del pretore p. es. Watson (1970; 1995: 74–82); Brennan (2000: I, pp. 125–35). 55 Thür (2008: 70–1) e Harris (2013: 117–18) sui poteri dei tesmoteti. 56 Canevaro (2013b: 156–8; 2013a: 102–4).

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Introduzione

Nessuna fonte afferma che le leggi andassero abrogate di fronte ai nomoteti e nega che l’abrogazione dovesse avvenire con una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι.57 L’unico passo che potrebbe suggerire che questo sia il caso prova in realtà il contrario. Demostene nella Terza Olintiaca (3.10) si rivolge agli Ateniesi con le parole: “Non siate sorpresi, Ateniesi, se faccio un’affermazione che sarà per molti di voi inaspettata. Dovreste convocare i nomoteti. Usateli non per promulgare una nuova legge – ne avete abbastanza – ma per abrogare quelle leggi che al momento danneggiano i vostri interessi”. Demostene anticipa che gli Ateniesi saranno sorpresi (μὴ […] θαυμάσητε) del suo consiglio di convocare i nomoteti non per promulgare una nuova legge (μὴ θῆσθε νόμον μηδένα) ma per abrogare leggi esistenti. L’implicazione è che il loro compito fosse normalmente promulgare nuove leggi, non abrogare quelle esistenti58. L’affermazione può anche essere letta nel senso che è paradossale far abrogare una legge dai nomoteti senza averne proposta una nuova, coerentemente con il documento a Dem. 24.33. Ma l’incidentale εἰσὶ γὰρ ὑμῖν ἱκανοί dopo l’esortazione ἐν δὲ τούτοις τοῖς νομοθέταις μὴ θῆσθε νόμον μηδένα (ciò che è appunto παράδοξον) suggerisce che il normale uso dei nomoteti sarebbe risultato in un aumento nel numero delle leggi (da evitarsi perché ce n’erano abbastanza, cfr. Dem. 24.142, Dem. 20.91–2). Ma se le nuove leggi che Demostene esorta gli Ateniesi a non promulgare fossero state soltanto leggi sostitutive, non ci sarebbe stato alcun incremento nel loro numero, che sarebbe rimasto identico o inferiore, e l’espressione εἰσὶ γὰρ ὑμῖν ἱκανοί non avrebbe senso. L’unica soluzione è dunque interpretare la frase come un’allusione al fatto che il compito dei nomoteti è normalmente quello di promulgare nuove leggi, non di abrogare quelle esistenti. Nel prosieguo si vedrà che la procedura seguita dall’accusa contro la legge di Leptine non era un espediente né un’innovazione, ma la normale procedura di abrogazione di una legge in contraddizione con una nuova proposta. La γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι poteva essere utilizzata in due modi: 1) per abrogare con un’accusa contro il proponente una legge che era stata approvata dai nomoteti (il caso della Contro Timocrate); 2) per abrogare una legge contraddittoria prima di sottoporre una nuova legge ai nomoteti. 57 Possiamo isolare sei casi di γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι: Dem. 20; 24; due esempi a 24.138; Aeschin. 1.34; Lys. fr. 86–7. Cfr. Hansen (1974: 45–6), che mostra che Dem. 18.102–5 è un caso di graphe paranonom, pace Wolff (1970: 30, 39, n. 102); vd. anche Canevaro (2013a: 267–71). 58 Coerentemente con quanto leggiamo a Dem. 24.24–32. Cfr. Canevaro (2013b: 141– 2, 143–50) e Canevaro (2013a: 80–93).



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3.1  Come abrogare una legge contraddittoria – Dem. 20.89–90 Demostene comincia la discussione delle procedure della nomothesia a §88, confrontando la legge di Leptine con quella alternativa proposta dall’accusa. Afferma che lui e i suoi associati hanno seguito le procedure corrette nel presentare la loro proposta (§89), e che non c’è nulla di strano nella loro accusa pubblica contro la legge di Leptine, e nella proposta di una legge alternativa (καὶ τούτων πάντων οὐδὲν ἔστιν ἡμέτερον καινὸν εὕρημα). Leptine non ha invece seguito queste procedure correttamente (cfr. §94): non ha abrogato una legge contraddittoria prima di promulgare la sua. Il punto principale è mostrare che la procedura seguita dall’accusa è quella corretta.59 Demostene sostiene che la procedura da lui utilizzata per legiferare sia coerente con una “vecchia legge” (παλαιὸς νόμος). L’uso di παλαιός riferito alla legge sulla nomothesia qui discussa, insieme alla descrizione a §91 di nuove (e vergognose) pratiche legislative, ha ingannato MacDowell, che ritenne che l’accusa presentò la legge sostitutiva secondo le procedure di una vecchia legge del 403/2, ormai abrogata e sostituita da una nuova legge (§91), passata intorno al 370, che secondo MacDowell Demostene criticherebbe a §91–2.60 MacDowell confonde la descrizione di abusi legislativi a §§91–2 (cfr. Dem. 24.142) con una descrizione di nuove norme legislative, e la sua “Old Legislation Law” non è altro che un riassunto delle stesse norme sulla nomothesia descritte a §§93–5 e in Dem. 24.61 La legge sulla nomothesia è descritta come παλαιός non perché sia più vecchia di quelle successive, abrogata o in disuso, ma per attribuirle autorità. Al paragrafo successivo la legge è persino attribuita anacronisticamente a Solone (cfr. comm. §90[1]). Che l’antichità di una legge (precisamente delle norme sulla nomothesia) sia indizio della sua bontà e autorità è affermato 59 Cfr. §93: ἡμεῖς δ᾽, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, πάντα, καὶ παρεισφέρομεν πολλῷ καὶ κρείττω καὶ δικαιότερον τοῦ τούτου νόμον. γνώσεσθε δ᾽ ἀκούοντες. Pace Lanni (2010: 249–52), Kremmydas (2012: 50–2, 56), il punto della sezione §§88–101 (e §§88–94 in particolare) non è mostrare le irregolarità commesse da Leptine nel promulgare la sua legge – Leptine non era personalmente sotto processo (§144), per cui le sue violazioni specifiche sono secondarie (e sono discusse cursoriamente solo a §§95–7, per introdurre la discussione sulla bontà della legge sostitutiva). Il punto è che l’accusa ha seguito le procedure corrette nel presentare la legge sostitutiva, attaccando la legge di Leptine come contraddittoria – Demostene afferma esplicitamente (§§99–100) che Leptine aveva attaccato l’accusa all’anakrisis sostenendo che la procedura da loro seguita fosse irregolare, ragion per cui si premura di difenderla. 60 MacDowell (1975: 65, 73 e passim). 61 Vd. Hansen (1979–80: 88–95) e Rhodes (1984: 56); Canevaro (2013b: 241); Canevaro (2015).

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apertamente a Dem. 24.24: “Tutte queste leggi, o giudici, sono vigenti da ormai molto tempo, e spesso hanno dato prova di loro stesse, come leggi per voi vantaggiose, e mai nessuno fino a ora ha parlato contro la loro eccellenza”.62 Questo παλαιὸς νόμος non è un’antica legge abrogata o in disuso, che Demostene descrive come migliore di quella corrente, utilizzata da Leptine, per giustificare l’introduzione della sua legge sostitutiva e dimostrare che Leptine ha seguito una procedura inferiore nel promulgare la sua legge. È invece la legge corrente sulla nomothesia.63 Il metodo di legislazione prescritto dal παλαιὸς νόμος è articolato in due azioni, γράφεσθαι (presentare un’accusa pubblica) e proporre una legge sostitutiva, separate ma connesse dalle particelle μέν...δέ, e introdotte da οὕτω κελεύει νομοθετεῖν. La prima azione, γράφεσθαι, non sembra essere obbligatoria in tutti i casi, ma è qualificata dalla protasi dell’eventualità ἄν τίς τινα τῶν ὑπαρχόντων νόμων μὴ καλῶς ἔχειν ἡγῆται (“se si ritiene che una delle leggi in vigore non vada bene”), la cui applicazione è sintatticamente limitata a γράφεσθαι μέν. γράφεσθαι è dunque necessario soltanto se si ritiene che una delle leggi esistenti non vada (più) bene.64 L’espressione ἄν τίς τινα τῶν ὑπαρχόντων νόμων μὴ καλῶς ἔχειν ἡγῆται si riferisce alla norma per cui chiunque proponesse una nuova legge doveva prima di tutto abrogare le leggi contraddittorie (cfr. Dem. 24.32–4 e §93).65 Il medio γράφεσθαι (cfr. §96: πρὶν τοῦτον ἔλυσε γραψάμενος) va interpretato nel senso giuridico comune di portare un’accusa pubblica, una graphe. MacDowell lo legge come “getting a law put down for formal consideration of its repeal”,66 ma il suo uso qui e a §96 per la procedura seguita dall’accusa (cfr. §94), mostra che il verbo qui significa “portare una graphe”, in questo caso una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι. Demostene sta qui affermando che la corretta procedura per abrogare una legge che contraddice una nuova 62 Vd. Canevaro (c.d.s. b). Cfr. l’uso di παλαιός a §§18, 28 e 153, a rinforzare l’autorità di leggi citate espressamente come in vigore (Rhodes 1984: 57) 63 Hansen (1979–80: 88–95) sostiene (con Schöll 1886) che questa legge, riassunta più dettagliatamente a §§93–5, corrisponda esclusivamente alla legge del documento a Dem. 24.33 (che MacDowell chiamò “Repeal Law”). Ma il documento è un falso tardo e le sue norme non esauriscono quelle del παλαιὸς νόμος (che ha alcune norme in comune anche con la legge riassunta a Dem. 24.24–5). Il παλαιὸς νόμος è il complesso delle norme sulla nomothesia, come descritte a Dem. 24.18–36 (cfr. Rhodes 1984: 56–7; Canevaro 2013b: 141–2, 143–50; 2013a: 80–93). 64 Non per proporre qualsiasi nuova legge, pace Hansen (1985: 346–52), Rhodes (1984: 57). 65 Vd. comm. §93[2] sulle ragioni della norma. 66 MacDowell (1975: 64).



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proposta è portare contro di essa una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι (pace il documento a Dem. 24.33).67 La seconda azione introdotta da οὕτω κελεύει νομοθετεῖν, presentare una proposta sostitutiva (παρεισφέρειν δ᾽ αὐτὸν ἄλλον), è predicata partendo dal presupposto che una tra le leggi esistenti non vada più bene. La ragione di questa presupposizione è che questo è quanto è accaduto nel caso in questione: l’accusa ritiene che la legge di Leptine non sia adatta (cfr. §88). Spesso la nuova legge sarà invece stata presentata senza abrogare alcuna legge esistente (come sembrano aver fatto sia Leptine sia Timocrate, cfr. §§95–7, Dem. 24.32–64). Non c’è ragione di credere che questo fosse irregolare (γράφεσθαι era obbligatorio soltanto se c’erano leggi contraddittorie). Dunque la γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι poteva essere utilizzata in due modi: 1) per accusare il proponente di una legge (che poteva essere punito personalmente) durante la procedura di approvazione o entro un anno, se la legge contraddiceva le leggi esistenti o il proponente non aveva seguito le corrette procedure (Dem. 24.32–3; l’uso fattone da Diodoro in Dem. 24); 2) per abrogare una o più leggi contraddittorie durante la procedura per promulgarne una nuova (l’uso fattone da Apsefione, Formione e Demostene) – l’Assemblea nominava syndikoi delle leggi esistenti (cfr. §146, Dem. 24.36). L’accusa pubblica era dunque parte integrante della procedura della nomothesia. Chi mette in dubbio l’affidabilità di Demostene (sulla base del documento falso a Dem. 24.33) sostiene che l’oratore stia mentendo, o che voglia convincere i giudici di essere in realtà nomoteti. Bisogna dunque confrontare la procedura qui descritta con le sue parole immediatamente successive alla lettura da parte del segretario della legge sulla nomothesia a §§93–4.

3.2  Come abrogare una legge contraddittoria – Dem. 20.93–4 Demostene afferma a §92 che la ragione per cui fa leggere al segretario la legge sulla nomothesia è che il testo confermerà l’argomentazione di §§89– 92 che cioè il collegio d’accusa aveva seguito le norme della legge sulla nomothesia (ἵν᾽ οὖν μὴ λόγον λέγω μόνον, ἀλλὰ καὶ τὸν νόμον αὐτὸν ὅν φημι δείξω, λαβέ μοι τὸν νόμον). Il riassunto della legge a §93 andrà letto dunque alla luce di quanto affermato §§89–90. La legge letta dal grammateus è la normativa generale sulla nomothesia. L’espressione οἱ πρότερον νομοθέται è parallela alla descrizione della legge come παλαιὸς νόμος e coerente con la 67 Cfr. Kahrstedt (1938); Atkinson (1939).

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definizione fittizia di un tempo in cui la legge era rispettata, e un altro in cui è ignorata.68 τοὺς νόμους ὡς καλῶς κελεύει τιθέναι è parallelo a οὕτω κελεύει νομοθετεῖν di §89: Demostene conferma che la legge letta dal grammateus è il παλαιὸς νόμος dei paragrafi precedenti, e che lo scopo della sua lettura e discussione è confermare le affermazioni di §89: “E in tutto ciò non c’è nulla di nuovo né alcuna nostra trovata…”.69 La legge letta e riassunta a §§93–4 è dunque quella discussa a §89, come confermato dalla sua attribuzione a Solone sia a §93 che a §§9070 (la stessa legge discussa a Dem. 24.18–35).71 Demostene inizia il riassunto con queste parole: ὁ Σόλων τοὺς νόμους ὡς καλῶς κελεύει τιθέναι (‘[Vedete, Ateniesi,] l’eccellente metodo di legislazione arrangiato da Solone’). Le disposizioni rilevanti qui sono, nelle parole di Demostene, πρῶτον μὲν παρ᾽ ὑμῖν, ἐν τοῖς ὀμωμοκόσιν, παρ᾽ οἷσπερ καὶ τἄλλα κυροῦται, ἔπειτα λύοντα τοὺς ἐναντίους. La procedura richiede dunque la considerazione degli omomokotes e l’abrogazione delle norme contrarie. Questa espressione crea due problemi agli interpreti: stabilire l’identità degli omomokotes, e chiarire il significato di πρῶτον μὲν [...] ἔπειτα. ἐν τοῖς ὀμωμοκόσιν fa chiaramente riferimento a coloro che hanno pronunciato all’inizio dell’anno il giuramento eliastico e possono dunque presentarsi giornalemente per il sorteggio dei giudici.72 L’interpretazione più ovvia di questa espressione è quindi che πρῶτον μὲν la procedura per promulgare una legge si svolgeva davanti ai giudici. Gli studiosi l’hanno tuttavia generalmente interpretata come un riferimento ai nomoteti, che secondo il documento a Dem. 24.20–3 erano selezionati tra chi prestava il giuramento eliastico.73 Demostene menzionerebbe il giuramento per riferirsi ai nomoteti, al fine di ingannare i giudici sulla loro identità e le loro prerogative. Questo documento, tuttavia, come si è visto, è un falso, e la nozione che gli omomokotes servissero come nomoteti deriva probabilmente dal fraintendimento di questo passaggio. Omomokotes è inequivocabilmente usato a §118 in riferimento ai giudici, e i nomoteti non sono mai menzionati a §§93–4. È dunque essenziale per comprendere il riassunto di Demostene che si leggano le sue parole senza pregiudizi basati sul documento a Dem. 24.20–3. 68 Cfr. comm. §§91[1], 92[2] sull’identità di questi οἱ πρότερον νομοθέται. 69 Pace Kremmydas (2012: 350–1), che afferma senza fondamento che i due passaggi abbiano diversa enfasi. 70 Cfr. comm. §§90[1] per questa attribuzione. 71 Cfr. Canevaro (2013a: 143–50). 72 Su cui vd. §§118[1]. 73 P. es. MacDowell (1975: 62–74); Hansen (1979–80: 88–95); Rhodes (1984: 55–60); Rhodes (1987: 19); Hansen (1985: 363–5, 371); Rhodes (2003: 124–5); Kremmydas (2012: 16–31 e 350–1).



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Per quanto riguarda πρῶτον μὲν [...] ἔπειτα, il significato più ovvio, quello temporale, va escluso: se anche interpretassimo gli omomokotes come nomoteti, la sequenza temporale sarebbe invertita: secondo le norme citate a Dem. 24.32–4 le leggi contradditorie vanno abrogate prima della decisione finale dei nomoteti, non dopo.74 Inoltre al paragrafo successivo καὶ πρὸ τούτων, che introduce i passaggi precedenti (pubblicizzare le proposte davanti al Monumento degli Eroi Eponimi, farle leggere a ogni Assemblea), mostra che la discussione non segue un ordine temporale.75 Kremmydas sostiene ragionevolmente che i correlativi πρῶτον μὲν [...] ἔπειτα si riferiscano alla posizione delle norme nel testo di legge.76 È altrettanto probabile che riflettano semplicemente la priorità logica delle due nozioni nell’argomentazione di Demostene. In ogni caso, Demostene afferma esplicitamente a §§89 e 96 che una legge contraddittoria va abrogata con un’accusa pubblica, e cioè davanti ai giudici, l’interpretazione più ovvia dell’espressione ἐν τοῖς ὀμωμοκόσιν. Dobbiamo dunque considerare la possibilità che le espressioni πρῶτον μὲν παρ᾽ ὑμῖν, ἐν τοῖς ὀμωμοκόσιν [...] ἔπειτα λύοντα τοὺς ἐναντίους non definiscano due fasi distinte della procedura, ma due aspetti distinti (citati separatamente nella legge) dello stesso passaggio: l’abrogazione delle norme contraddittorie. La legge avrà affermato che la competenza era dei giudici che hanno prestato giuramento, e precisato che il loro compito era abrogare le leggi contraddittorie. A confermare questa interpretazione è il contesto argomentativo, che riflette ancora gli obiettivi di §89: dimostrare che l’accusa pubblica contro la legge di Leptine prima di promulgare una legge sostitutiva segue le norme della nomothesia.77 È dunque naturale che Demostene, dopo la lettura della legge da parte del grammateus, si concentri sulle regole relative all’abrogazione delle norme contraddittorie, che governano l’accusa in questione. ἐν τοῖς ὀμωμοκόσιν ha un’ulteriore specificazione: παρ᾽ οἷσπερ καὶ τἄλλα κυροῦται, espressione coerente con l’interpretazione qui avanzata. κυρόω al passivo e medio-passivo è utilizzato col significato di confermare, p. es. un matrimonio (Hdt. 6.130, ἐκεκύρωτο ὁ γάμος Κλεισθένεϊ). Andoc. 1.85 lo usa delle leggi della città, che sono già in vigore ma vengono passate in rassegna e confermate nel 403 dopo la restaurazione della democrazia 74 Se si segue il documento a Dem. 24.33 – che è però un falso – le leggi contraddittorie andrebbero abrogate dai nomoteti, senza alcuna sequenza temporale. 75 Lo scoliasta (Schol. Dem. 20.93. 205 Dilts) nota il problema e afferma: ‘πρῶτον’ δὲ οὐ τῇ τάξει, ἀλλὰ τῷ ἀξιώματι καὶ τῷ κυροῦν. 76 Kremmydas (2012: 250–1). 77 Pace Lanni (2010: 249–52).

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(ἐδοκιμάσθησαν μὲν οὖν οἱ νόμοι, ὦ ἄνδρες, κατὰ τὸ ψήφισμα τουτί, τοὺς δὲ κυρωθέντας ἀνέγραψαν εἰς τὴν στοάν).78 Così è utilizzato in questo passo: per promulgare una legge bisogna portare un’accusa contro le leggi esistenti che contraddicono la nuova proposta; queste leggi sono in vigore, e i giudici decidono se confermarle o abrogarle e permettere la promulgazione (da parte dei nomoteti) della nuova proposta. Quando Demostene afferma che i giudici possono confermare καὶ τἄλλα, fa probabilmente riferimento al loro potere di abrogare i decreti dell’Assemblea con la graphe paranomon. Solone (secondo Demostene) estende questo potere anche alle leggi. Se anche leggessimo in questa espressione un riferimento al concetto di “sovranità”, non c’è comunque incompatibilità con i dikastai. Le corti ad Atene avevano potere finale su ogni decisione dell’Assemblea o dei nomoteti, svolgendo una funzione paragonabile (seppur non identica) al moderno controllo di costituzionalità.79 Questo era chiaro tra gli autori dell’epoca, e Aristotele (Pol. 1274a 4–5) afferma che Solone era talvolta criticato per “aver reso la corte sovrana (κύριον) di ogni cosa (πάντων)”. Demostene a §93 discute dunque la necessità di portare un’accusa pubblica contro le leggi contraddittorie prima di promulgare una nuova legge. L’espressione ἐν τοῖς ὀμωμοκόσιν si riferisce ai giudici, non ai nomoteti. Le sue parole non sono in contraddizione con le affermazioni a §§89 e 96; al contrario ne confermano il contenuto.80 La necessità di abrogare le leggi contraddittorie in tribunale è ribadita a §94: Demostene ricorda ai giudici altri passaggi procedurali della nomothesia (pubblicare le proposte davanti al Monumento degli Eroi Eponimi e farle leggere in ogni Assemblea), dopodiché ripete che l’accusa ha seguito queste regole, al contrario di Leptine. A §§95–6 fa leggere alcune disposizioni della legge di Leptine seguite da una legge che, a suo parere, le contraddice ma non è stata abrogata. Leptine avrebbe dovuto portare una graphe contro quella legge in ottemperanza alle regole della nomothesia, che l’accusa sta invece seguendo alla lettera. Questo passo conferma quanto ricavato da §§89 e 93: le leggi contraddittorie devono essere abrogate con un’accusa pubblica. Demostene aggiunge che secondo “un’altra legge” (ἔτερος νόμος) chi non abroga le leggi contraddit78 Cfr. Canevaro-Harris (2012: 110–13). 79 Cfr. p. es. Pasquino (2010), Lanni (2010) sulla “judicial review”; vd. §2[9] per il dibattito sulla sovranità. 80 Se questa ricostruzione è corretta, questo passaggio non afferma che i nomoteti sono selezionati tra coloro che hanno prestato il giuramento eliastico (e la stessa affermazione nel documento a Dem. 24.20–3 è inaffidabile). Non abbiamo dunque alcuna notizia affidabile su chi fossero effettivamente i nomoteti (cfr. Piérart 2000 e Rhodes 2003 per ipotesi diverse).



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torie prima di promulgare la nuova legge può essere portato in tribunale con un’accusa pubblica. Questo ἔτερος νόμος non è in realtà una legge diversa, ma una diversa disposizione della legge sulla nomothesia, quella discussa anche a Dem. 24.32–4 (ignorando il documento), che autorizza l’uso della γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι contro chi non segue le procedure della nomothesia.81 La Contro Leptine presenta dunque un quadro coerente e unitario della procedura per abrogare una legge contraddittoria prima di promulgarne una nuova: l’abrogazione deve avvenire in tribunale, non di fronte ai nomoteti. Dem. 24.32–4 (ignorando il documento) non contraddice questo quadro. La γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι poteva dunque essere utilizzata in due modi (entrambi prescritti in due diverse disposizioni della legge sulla nomothesia): 1) per abrogare una legge contraddittoria prima di promulgarne una nuova (le leggi contraddittorie erano difese da syndikoi eletti dall’Assemblea, cfr. Dem. 24.36 e §146); 2) per portare in giudizio il proponente di una nuova legge che non avesse seguito le corrette procedure e non avesse abrogato le leggi contradditorie (in questo caso non si proponeva una nuova legge).

3.3  Come promulgare la legge sostitutiva? Dem. 20.89 Vari studiosi hanno ritenuto che alcuni passi della Contro Leptine sostengano che la legge sostitutiva proposta dall’accusa sarebbe stata promulgata automaticamente con abrogazione della legge di Leptine. Queste affermazioni sarebbero chiaramente false, perché Dem. 24.18–10, 24.32, 34–5 mostrano chiaramente che le nuove leggi devono essere promulgate dai nomoteti. Alcuni studiosi hanno sostenuto che Demostene stia mentendo e sfruttando ingannevolmente la presunta identità tra giudici e nomoteti per convincere i giudici di avere il potere di promulgare una legge senza ulteriori passaggi procedurali. Altri hanno affermato che l’uso di un’accusa pubblica in questo seguisse una procedura ad hoc creata dai tesmoteti.82 Bisogna dunque analizzare dettagliatamente questi passi (§§89, 99–100) per mostrare che Demostene è perfettamente cosciente che la legge sostitutiva andrà promulgata dai nomoteti. Inoltre, le obiezioni di Leptine all’uso da parte di Apsefione di un’accusa pubblica contro una legge inadeguata non hanno nulla a che 81 Cfr. Canevaro (2013b) 147–9. νόμος è utilizzato per indicare sia una legge sia una particolare disposizione di una legge, vd. Hansen (1985: 358). 82 Vd. pp. 15–16 per i problemi di queste letture.

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vedere con un presunto tentativo dell’accusa di convincere i giudici di avere il potere di promulgare la legge sostitutiva. Le obiezioni di Leptine riguardano invece l’inclusione di questa legge nell’enklema presentato da Apsefione quando iniziò la sua azione contro la legge di Leptine. Il primo passo controverso è §89: Demostene afferma che se si pensa che una legge esistente non sia buona, bisogna portare un’accusa pubblica e presentare una legge per sostituirla. Osserva poi: ὃν ἂν τιθῇ λύων ἐκεῖνον, ὑμᾶς δ᾽ ἀκούσαντας ἑλέσθαι τὸν κρείττω. Questa espressione secondo molti studiosi indicherebbe che Demostene sostenga che la legge sostitutiva entrerà in vigore automaticamente.83 L’espressione di Demostene è sincopata e può essere fraintesa, ma Demostene non afferma esplicitamente nulla di simile. Prima di tutto il verbo che regge l’intera sezione, κελεύει (νομοθετεῖν) non ha il significato forte di “ordinare”, come è in genere tradotto; significa piuttosto “permettere di”, “autorizzare”, “fornire una procedura per”.84 Dunque la legge sulla nomothesia non ordina che una legge sostitutiva sia proposta; lo permette. In secondo luogo ὃν ἂν τιθῇ λύων ἐκεῖνον non significa necessariamente che la nuova legge era promulgata automaticamente con l’abrogazione dell’altra.85 Il participio presente λύων, in posizione predicativa, non ha necessariamente connotazione causale (il proponente promulga la legge con l’abrogazione dell’altra, in quanto l’altra è stata abrogata) o temporale esprimente contemporaneità (quando abroga l’altra; contemporaneamente all’abrogazione dell’altra);86 il significato può anche essere condizionale (se abrogasse l’altra, a condizione che abroghi l’altra).87 La relativa aggettiva con congiuntivo eventuale (con ἂν) e non con l’indicativo mostra che la promulgazione della nuova legge è una eventualità, non una certezza, e la condizione della sua promulgazione è l’abrogazione dell’altra legge. Non è necessario dunque interpretare la frase a indicare la promulgazione automatica della legge sostitutiva, in un solo passaggio. Visto il contesto, il significato più naturale è che la nuova legge possa essere promulgata (in una fase successiva della procedura) soltanto se quella vecchia è abrogata. Questo significato è coerente con l’argomentazione di Demostene che portare una 83 P. es. Hansen (1979–80: 89; 1985: 350–1), Kremmydas (2012: 345). 84 Vd. Dem. 29.9 con MacDowell (1989: 257–72, 2009: 46–7). Cfr. Harris (2006: 131). 85 Per il significato di τιθῇ vd. comm. §1[4]. 86 La relazione temporale del participio va ricavata dal contesto; cfr. Smyth (1920: no. 1872, 2061). 87 P. es. Ar. Av. 1390 con Smyth (1920: no. 2067), Aloni (2003: no. 54b).



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γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι contro la legge di Leptine era la procedura corretta per promulgare l’altra legge. In terzo luogo, sebbene ὑμᾶς δ᾽ ἀκούσαντας ἑλέσθαι τὸν κρείττω sembri suggerire un solo passaggio procedurale nel quale i giudici ascoltano gli argomenti e decidono tra la due leggi, in realtà l’espressione si limita a riassumere rapidamente l’intera procedura. ὑμᾶς non allude all’identità tra giudici e nomoteti, ma agli Ateniesi in tutte le loro manifestazioni,88 che attraverso i vari passaggi della nomothesia conoscono le opzioni e decidono tra la legge esistente e la nuova proposta. Demostene dunque riassume rapidamente la procedura della nomothesia, afferma che l’accusa l’ha seguita alla lettera, ma non sostiene che si risolva in un passaggio unico. Non entra eccessivamente nel dettaglio, e la sua discussione sincopata può talvolta dare l’impressione che la procedura sia più rapida e semplice di quanto fosse in realtà. Ma Demostene non mente: pochi paragrafi dopo fa leggere al grammateus la legge sulla nomothesia, e più tardi, come vedremo, afferma esplicitamente che la promulgazione della legge sostitutiva dovrà avvenire davanti ai nomoteti (§137).

3.4  Come promulgare la legge sostitutiva? Dem. 20.98–100 La discussione più dettagliata della promulgazione della legge sostitutiva è a §§98–100, dove si affrontano anche le obiezioni di Leptine al modo in cui l’accusa sta utilizzando la legge sostitutiva in tribunale. Nei paragrafi precedenti Demostene discute le regole della nomothesia, affermando cursoriamente che Leptine non abrogò una legge contraddittoria prima di promulgare la sua. Quindi chiede al grammateus di leggere la legge sostitutiva per mostrarne la superiorità. A §98 afferma che neppure Leptine può provare che la sua legge è migliore. Userà invece l’argomento specioso che ha già utilizzato all’anakrisis:89 che la legge sostitutiva è stata accostata a quella di Leptine nell’enklema per ingannare i giudici, ma l’accusa non ha alcuna intenzione di promulgarla. Questo passo mostra che la legge sostitutiva era stata discussa all’anakrisis e quindi sigillata nell’echinos per essere letta in tribunale (comm. §27[3]), e che Leptine aveva obiettato già durante l’anakrisis. Hansen sostiene che i tesmoteti introdussero un’innovazione procedurale, a cui Leptine tentò di 88 Vd. comm. §2[9]. 89 Sull’anakrisis e la diaita vd. comm. §§1[8], 27[3], 98[3].

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opporsi. Tuttavia, come si è visto, i tesmoteti non avevano il potere di introdurre innovazioni procedurali, e non c’è ragione di pensare che abbiano infranto le regole in questo caso. Kremmydas d’altro canto sostiene che “at some point during the anakrisis the prosecution would have declared their intention of passing their draft law in place of Leptines’ law and that would probably have created confusion” e che “the thesmothetai were probably not competent juristically to disqualify it from the documents appended to the written documents of the graphe. It was up to the dikastai of the trial to decide the relevance of the appended documents”.90 Questa ricostruzione è problematica: cosa fosse rilevante in tribunale era definito dall’enklema (la formulazione scritta dell’accusa), non dai giudici, e i giudici giuravano ὑπὲρ αὐτῶν ψηφιεῖσθαι ὧν ἂν ἡ δίωξις ᾖ (Aeschin. 1.154: di giudicare esclusivamente sulle questioni definite dall’enklema).91 L’enklema era inoltre depositato quando l’accusa era presentata di fronte al magistrato, non all’anakrisis. Qual era dunque l’obiezione di Leptine? Demostene afferma chiaramente che Leptine era contrario al παραγεγράφθαι della legge sostitutiva (cfr. οἱ θεσμοθέται τοῦτον ὑμῖν παρέγραψαν, §99), che sembra riferirsi all’inclusione della legge sostitutiva nell’accusa scritta presentata di fronte al magistrato (graphe, o enklema). La legge sostitutiva era dunque inclusa nell’accusa scritta originale, e Leptine chiese ai tesmoteti all’anakrisis di obbligare l’accusa a cancellarla. Non stava protestando contro un’innovazione procedurale introdotta dai tesmoteti. Quando a §99 Demostene sostiene che οἱ θεσμοθέται […] παρέγραψαν la legge sostitutiva, intende che non si opposero alla sua inclusione (come richiesto da Leptine), ma la confermarono – in questo senso “inclusero” la legge sostitutiva. Con παρέγραψαν Demostene riassume in modo compresso l’accaduto – i tesmoteti rigettarono le obiezioni di Leptine e rifiutarono di chiedere ad Apsefione di rimuovere la legge dall’enklema – e al contempo dà l’impressione che l’inclusione della legge sostitutiva, in quanto legittima e necessaria, fosse direttamente opera dei tesmoteti.92 Demostene ci informa chiaramente sulla ragione per cui i tesmoteti non accolsero l’obiezione di Leptine e lasciarono la legge sostitutiva nell’accusa scritta: la sua inclusione era in accordo con la legge sulla nomothesia. Kremmydas mette in dubbio la veridicità delle parole di Demostene e sostiene che i tesmoteti non lasciarono la legge sostitutiva nell’accusa scritta 90 Kremmydas (2012: 361–2). 91 Sull’importanza dell’enklema, che doveva essere redatto secondo la lettera della legge che governava l’accusa, vd. p. es. Dem. 45.50 e Aeschin. 1.170 con Harris (2013: 114–36), Thür (2008: 67). Cfr. comm. §24[1]. 92 Cfr. Isae. 10.2.



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perché così prescritto dalla legge, ma soltanto perché “the thesmothetai were probably not competent juristically to disqualify it from the documents appended to the written documents of the graphe”. Tuttavia, abbiamo testimonianza che il magistrato in carica del processo aveva il potere di obbligare l’accusa a modificare l’enklema per renderlo più coerente col dettato della legge sulla base della quale l’accusa era intentata. Un esempio è quello di Lys. 13: Dionisio accusò Agorato di avere ucciso suo padre e portò contro di lui un’apagoge, che richiedeva che il criminale fosse colto ep’autophoroi, cioè in circostanze che rendessero chiara la sua colpa.93 Dionisio non incluse l’espressione ep’autophoroi (Lys. 13.85–7) nell’accusa scritta, al fine di vincolare i giudici a esprimere il loro giudizio senza tenere in considerazione quest’aspetto. Gli Undici lo obbligarono all’anakrisis ad aggiungere l’espressione al documento. Allo stesso modo, a Isae. 10.2 l’arconte obbligò il parlante ad aggiungere all’enklema che sua madre era sorella di Aristarco (II), riconoscendo un titolo all’eredità di Aristarco (I) da parte dell’accusatore, ma non in quanto Aristarco (I) era suo nonno (come voleva l’accusa), ma in quanto Aristarco (II) era suo zio.94 Dunque i tesmoteti avevano il potere di obbligare l’accusa ad apporre modifiche all’enklema quando questo contraddiceva le norme della legge di pertinenza. Leptine chiese loro di esercitare questo potere, ma i tesmoteti rifiutarono, secondo Demostene, coerentemente con quanto prescritto dalla legge sulla nomothesia (cfr. §99). Perché Leptine era preoccupato dall’inclusione della legge sostitutiva? La sua inclusione nella graphe, esposta di fronte al Monumento degli Eroi Eponimi (Ar. Nub. 770, Vesp. 349, Isoc. 15.237, Dem. 21.103), significava che il merito della legge sostitutiva non sarebbe stato al processo exo tou pragmatos ([Arist.] Ath. Pol. 67), “irrilevante”, in quanto il dettato dell’enklema determinava i criteri di rilevanza, e dunque su cosa le parti avrebbero potuto parlare e su cosa i giudici avrebbero potuto basare il loro giudizio. Se la legge sostitutiva non fosse stata inclusa nella graphe, i giudici avrebbero dovuto giudicare esclusivamente sul merito della legge di Leptine. Con la sua inclusione, potevano tenere in considerazione la legge sostitutiva e dunque giudicare sulla base delle due opzioni, potenzialmente abrogando la legge di Leptine non tanto perché inaccettabile, ma in quanto la successiva promulgazione dell’altra legge era giudicata preferibile (Demostene esplicita che l’approvazione sarebbe avvenuta davanti ai nomoteti a §137). Il processo sarebbe stato dunque più complesso per la difesa. Per questo 93 Cfr. Harris (2006: 373–90) per il significato dell’espressione. 94 Vd. Edwards (2007: 162); Cobetto Ghiggia (2012: 404); Griffith-Williams (2013: 213–14). Cfr. Harris (2013: 182).

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Leptine obiettò non tanto all’inclusione della legge tra i documenti scritti (il materiale probatorio) sigillati nell’echinos (che potevano essere letti, ma giudicati irrilevanti), ma alla sua inclusione nella graphe, che determinava la loro rilevanza e il loro peso nel giudizio dei giudici. Su che basi Leptine tentò di convincere i tesmoteti a cancellare la legge dalla graphe? Demostene spiega che il suo argomento era che se la sua legge fosse stata abrogata, l’accusa non avrebbe promulgato la legge sostitutiva (§98). Che questa fosse l’obiezione di Leptine è confermato dalle molteplici risposte di Demostene (§§99, 100, 137), che promette che lui e Formione saranno garanti della promulgazione, che la legge verrà portata davanti ai nomoteti, che ci sono meccanismi per perseguire chi fa false promesse al demos, e che infine esorta la difesa, se davvero è così importante per loro che la legge sostitutiva sia promulgata, a farla promulgare loro stessi. Demostene dunque, pace Kremmydas, non rispose a Leptine affermando che “the law-proposal in question was only brought as part of the evidence of the graphe to demonstrate the defects of Leptines’ law by contrast to a better law”.95 La legge non era semplicemente parte del materiale probatorio, ma della graphe stessa, e la sua presenza aveva lo scopo di determinarne la rilevanza nel giudizio. I tesmoteti non avranno accettato la legge sostitutiva perché ingannati dalla situazione bizzarra,96 o in quanto stavano elaborando una procedura speciale per una situazione speciale,97 ma semplicemente perché la legge sulla nomothesia confermava la posizione dell’accusa. A §99 Demostene afferma che i tesmoteti accettarono che la legge sostitutiva fosse parte della graphe per via del παλαιὸς νόμος (cioè la legge sulla nomothesia), che, come si è visto, imponeva che per passare una nuova legge si dovessero prima abrogare le leggi contraddittorie (questo era uno degli usi della γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι). Per cui secondo la procedura prescritta dalla legge sulla nomothesia l’accusa pubblica in questione era un passaggio della più ampia procedura per l’approvazione della legge di Apsefione, e dunque la sua inclusione nell’accusa scritta era pienamente giustificata. Queste saranno state le considerazioni avanzate dall’accusa all’anakrisis e accolte dai tesmoteti.

95 Kremmydas (2012: 361–2) confonde i documenti nell’echinos con quelli citati nell’accusa scritta. 96 Una situazione descritta erroneamente da Wolff (1970: 36), seguito da Hansen (1979–80: 89–90), Rhodes (1984: 58), Kremmydas (2012: 342–3, 361–2 e passim) come a metà strada tra nomothesia e γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι. 97 Cfr. Calabi-Limentani (1982) e Hansen (1985: 350–1).



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A §99 Demostene introduce un ulteriore argomento: le obiezioni di Leptine sono prova che persino lui sa che la legge sostitutiva è superiore. Proprio perché sa bene che sul piano della sostanza avrà la peggio, Leptine si concentra sulla procedura. La transizione verso questo argomento è effettuata con una paraleipsis (“non mi soffermerò sull’argomento che...” – ἐάσω), che contiene un’ulteriore compressa descrizione delle modalità dell’abrogazione della legge di Leptine. Molti studiosi hanno letto questa descrizione (come quella di §89) come un’allusione a una procedura in un solo passaggio, in cui lo stesso voto abroga la legge di Leptine e promulga quella sostitutiva.98 Quest’impressione, come a §89, è sbagliata. Prima di tutto bisogna chiarire il senso della paraleipsis, e abbandonare l’idea che indichi che gli argomenti procedurali di Leptine siano argomenti forti. La paraleipsis è qui utilizzata da Demostene semplicemente per aggiungere un ulteriore argomento a supporto della sua posizione, che resterà saldo anche se per assurdo gli avversari attaccassero la precedente argomentazione (le parole ἵνα μὴ περὶ τούτου τις ἀντιλέγῃ μοι fanno riferimento a questa possibilità). La stessa strategia è utilizzata a §§116, 121: dopo aver dimostrato che gli antenati onoravano i benefattori, Demostene contempla la possibilità che non lo facessero, e mostra che nulla cambierebbe nel merito delle circostanze attuali. Contemplare la possibilità che l’argomento precedente si dimostri sbagliato non è spia della sua debolezza, ma semplicemente uno strumento per introdurre un argomento ulteriore, che resterà valido anche per chi non trovasse il precedente convincente. Qui ἐάσω, che marca la paraleipsis, non comporta che l’oratore ammetta di avere torto, o glissi su un argomento debole: se con ἐάσω si introduce un’ammissione, è sempre per assurdo,99 e i concetti espressi con la paraleipsis non sono deboli, ma piuttosto sono argomenti solidi e suggestivi a cui si può efficacemente accennare senza la necessità di svilupparli eccessivamente (cfr. §§22, 52, 75, 107, Dem. 18.130, 21.15, 103). Qui, nell’effettuare la transizione, Demostene riassume in paraleipsis, in una serie di subordinate connesse a ἐάσω, l’argomento svolto a partire da §88. Dunque ἐάσω non indica che Demostene stia cedendo alle accuse dell’avversario sulla strumentalità della presenza della legge sostitutiva nella graphe.100 Al contrario, l’argomento nella paraleipsis 98 Cfr. p. es. Wolff (1970: 28–44); Calabi-Limentani (1981: 360) e Hansen (1979–80: 89–91). 99 Cfr. comm. §2[3]: l’argomento che è sbagliato punire tutti per i torti di alcuni è espresso rapidamente con una paraleipsis, ma non c’è alcuna concessione all’avversario. 100 Pace Kremmydas (2012: 363).

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Introduzione

è che è la legge sulla nomothesia ad aver guidato l’azione dell’accusa (e dei tesmoteti). Questo è l’argomento sviluppato per esteso a §§88–94, che mostrano che la graphe contro la legge di Leptine è parte integrante della procedura per promulgare la legge sostitutiva, e dunque la presentazione della legge sostitutiva non è strumentale. Demostene può alludervi in paraleipsis proprio perché l’argomento è stato sviluppato in precedenza. Con la paraleipsis l’oratore lo riassume ancora una volta, lo utilizza contro l’obiezione di Leptine, e quindi passa a nuovi argomenti. L’argomentazione in paraleipsis è dunque che la presentazione della legge sostitutiva (così come la γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι) è parte integrante della procedura seguita dall’accusa e prescritta dalla legge sulla nomothesia, e dunque includere il testo della nuova proposta nell’accusa scritta è legittimo. τῇ ὑμετέρᾳ ψήφῳ τοῦ τούτου νόμου λυθέντος τὸν παρεισενεχθέντα κύριον εἶναι σαφῶς ὁ παλαιὸς κελεύει νόμος, che è stato interpretato come prova che Demostene cercherebbe di dipingere ingannevolmente una procedura in un unico passaggio (un voto che abrogherà la legge di Leptine e promulgherà quella sostitutiva), non va interpretato in questo senso. Come a §89 il verbo reggente è κελεύει, che non ha il significato forte di “ordinare“, ma piuttosto “permettere di”, “autorizzare”, “fornire una procedura per”. La legge sulla nomothesia permette che la legge sostitutiva sia saldamente in vigore (τὸν παρεισενεχθέντα κύριον εἶναι σαφῶς)101 una volta che la legge di Leptine è stata abrogata (τοῦ τούτου νόμου λυθέντος) con il voto dei giudici (τῇ ὑμετέρᾳ ψήφῳ). τῇ ὑμετέρᾳ ψήφῳ è connesso al genitivo assoluto τοῦ τούτου νόμου λυθέντος, non a τὸν παρεισενεχθέντα κύριον εἶναι σαφῶς. Il voto dei giudici è fondamentale all’abrogazione della legge di Leptine, e l’abrogazione della legge di Leptine è condizione della validità della legge sostitutiva (che altrimenti, anche se promulgata, potrebbe essere abrogata con una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι). Il passo non afferma che l’abrogazione e la promulgazione avverranno contemporaneamente e con lo stesso voto. Demostene dunque non afferma né qui né a §89 che i giudici hanno il potere di promulgare la nuova legge, o che la nuova legge sarà promulgata come effetto del processo in corso. Né troviamo simili affermazioni a §164, dove Demostene sostiene che se i giudici voteranno come da lui suggerito, chi merita il premio lo manterrà, e chi non lo merita lo perderà e subirà ulteriori punizioni per effetto della legge sostitutiva. In quel passo è sottin101 σαφῶς è spesso utilizzato da Demostene dopo il verbo, p. es. Dem. 4.29, 18.121, 19.57, ma non prima sia del soggetto sia del verbo.



3.  Nomothesia e γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι

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teso che, se la legge di Leptine verrà abrogata, quella sostitutiva sarà infine promulgata, ma non si afferma che verrà promulgata con lo stesso voto che abroga la legge di Leptine.102 Questo è confermato da §100, dove Demostene afferma esplicitamente che la promulgazione della legge sostitutiva avverrà in una fase successiva della procedura della nomothesia (come indicato dall’infinito futuro θήσειν τὸν νόμον), sostiene che ci siano vari modi per costringere Apsefione a promulgarla e offre sé stesso e Formione come garanti che sarà promulgata. A §137 arriva persino a suggerire che se Leptine e i syndikoi sono così convinti che alcuni non meritino le esenzioni, dovrebbero portare contro di loro un’accusa pubblica secondo la legge sostitutiva, che Apsefione, Formione e Demostene promulgheranno. Ma se Leptine e i suoi hanno tanta fretta, la promulghino loro stessi alla prima sessione dei nomoteti disponibile! Al di là della battuta, questo passo mostra che Demostene comprende perfettamente, e ammette senza remore, che la legge sostitutiva dovrà essere promulgata dai nomoteti, e che abrogando la legge di Leptine i giudici non promulgheranno automaticamente la nuova legge. Non si può dunque accusare Demostene di aver tentato di ingannare i giudici e convincerli di poter promulgare direttamente la nuova legge, né c’è ragione di credere che la procedura seguita in questo caso fosse un’innovazione che prevedesse un unico voto per abrogare la legge di Leptine e promulgare la legge sostitutiva. La procedura seguita e rivendicata da Demostene non contraddice quella descritta a Dem. 24.18–19, 24.32, 34–5: le leggi vanno promulgate davanti ai nomoteti, non in tribunale.

3.5  La procedura seguita nell’accusa contro la legge di Leptine Ho offerto una nuova interpretazione delle procedure descritte, discusse e seguite nell’accusa contro la legge di Leptine. Questa interpretazione è coerente con quanto si può ricostruire da Dem. 24.18–19, 24–32, 34–35, e non postula improbabili innovazione procedurali dei tesmoteti, né che Demostene e i suoi alleati fossero riusciti a ingannare i tesmoteti, e abbiano poi tentato di ingannare i giudici e convincerli di poter promulgare una legge in una corte di giustizia come se fossero nomoteti. Qualunque fosse la natura dell’accusa portata in origine da Batippo contro Leptine (probabilmente una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι simile a quella contro Timocrate di Dem. 24), Apsefione (il figlio di Batippo) portò 102 Come ritenuto p. es. da Rhodes (1984: 58).

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Introduzione

una nuova accusa contro la legge di Leptine – Leptine non era più personalmente perseguibile perché era passato un anno dalla promulgazione della legge (§144). Questa nuova accusa era un’altra γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι. Non era tuttavia (a differenza della prima) un’accusa isolata. Era parte di una più vasta procedura di nomothesia che si sarebbe conclusa (se avesse avuto successo) con la promulgazione di una nuova legge. Demostene non discute i primi passaggi della procedura, ma è probabile, sulla base delle informazioni di Dem. 24.18–25, che ci fosse stato un voto preliminare in Assemblea per permettere nuove proposte, e che la proposta sostitutiva fosse stata pubblicizzata davanti al Monumento degli Eroi Eponimi e letta in successive Assemblee (§94). La procedura richiedeva anche l’abrogazione delle leggi contraddittorie prima che la nuova legge potesse approdare di fronte ai nomoteti. Questa è la funzione di questa γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι contro la legge di Leptine, come parte della procedura di nomothesia: come affermato da Demostene, abrogare le leggi contraddittorie è obbligatorio quando si cerca di approvarne una nuova, e dunque l’accusa, nel cercare di abrogare la legge di Leptine, segue le norme della legge sulla nomothesia. Conferma è il fatto che la legge di Leptine sia difesa da avvocati eletti dall’Assemblea, come prescritto dalla legge sulla nomothesia (cfr. §146; Dem. 24.36). Questa è anche la ragione per cui Demostene e i suoi colleghi scelsero di inserire il testo della legge sostitutiva nell’accusa scritta (graphe). Poiché erano d’accordo con l’accusa sulla natura di questa γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι, parte di una più vasta procedura di nomothesia che sarebbe risultata nella promulgazione della nuova legge, i tesmoteti ignorarono durante l’anakrisis le obiezioni di Leptine, che cercò di far cancellare la legge sostitutiva dalla graphe affermando che l’accusa non aveva realmente intenzione di promulgarla. Demostene, contro queste insinuazioni, promette che i membri dell’accusa procederanno a promulgare la nuova legge alla prima riunione dei nomoteti disponibile. Ma, prima, i giudici devono abrogare la legge di Leptine, perché le norme della nomothesia affermano che è illegale promulgare una legge se non si abrogano prima quelle contraddittorie.

4.  Gli attori103 Il proponente della legge, Leptine,104 è all’epoca dell’orazione un politico molto navigato. Aristotele (Rhet. 3.10.1411a) testimonia che nel 369, durante un’ambasceria spartana (Xen. Hell. 6.5.33–52), sostenne l’opportunità di aiutare Sparta dopo la sconfitta di Leuttra. Le sue parole, “non private la Grecia di un occhio”, diventarono famose, e ancora Plutarco (Mor. 803a) le cita per esteso. Il suo intervento si allineava alle indicazioni di Callistrato di Afidna, il cui sostegno a Sparta è citato come carattere distintivo della sua politica ancora trent’anni dopo ([Dem.], 59, 27).105 È probabile che il Leptine in questione possa essere identificato con il Leptine di Cele citato a Dem. 22.60 come una delle vittime di Androzione nella riscossione degli arretrati dell’eisphora, e con il Leptine che nel 363/2 consegnò ai Tesorieri degli Altri Dei alcune dediche (IG II2 1541 l. 2), che nel 366/5 servì come syntrierarchos e nel 347/6 come eponimo dei Tesorieri di Atena (IG II2 1455 l. 18). Un’iscrizione attesta che nel 342/1 il suo erede Onomacle di Ecale stava pagando alcuni suoi debiti (IG II2 1622 ll. 361 e 375), per cui la sua morte va situata prima di questa data. Non sappiamo nulla sugli accusatori di Leptine: Batippo,106 il primo ad accusare Leptine, e suo figlio Apsefione,107 che presentò l’accusa dopo la morte del padre, sono citati solo in quest’orazione, e Schol. Dem. 20.1.3 Dilts ipotizza che Apsefione invitò Formione a partecipare come synegoros per via della sua inesperienza. Anche Formione non è altrimenti noto. Ctesippo,108 figlio di Cabria, è spesso citato come membro dell’accusa, ma non fece probabilmente parte del team di accusatori, perché all’epoca minorenne. Il riferimento alla sua presenza nel pubblico durante il processo non va inteso come prova della partecipazione della sua famiglia alla preparazione del processo. Le fonti suggeriscono che Ctesippo avesse ereditato la ricchezza e i vizi del padre senza accompagnarli con la sua abilità e il suo valore,109 e che Focione, l’amico di Cabria, non riuscì a porvi rimedio (Plut. 103 Questa sezione riprende e rielabora Canevaro (2009: 120–3). 104 PAA s.v. Ληπτίνης (n° 643480). Cfr. Davies (1971: 340). 105 Sealey (1993: 69–73). 106 PAA s.v. Βάθυππος (n° 260275). 107 PAA s.v. Ἀψεφίων (n° 251130). 108 PAA, X, s.v. Κτήσιππος (n° 587475); APF, s.v. Χαβρίας (n° 15086); cfr. anche hypoth. 1.1 e hypoth. 2.3. 109 Diphilus, fr. 37 Kassel-Austin; Timocles, fr. 5, II 452 Kassel-Austin; Menander, fr. 303 Körte; Athen. 4.165e; Ael. De natura animalium 3.42.

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Introduzione

Phoc. 7.3). Ateneo (4.165e) attribuisce proprio al cattivo carattere del giovane la mancata citazione del suo nome nell’orazione – Demostene avrebbe preferito menzionarlo come τοῦ παιδὸς […] τοῦ Χαβρίου, richiamando le sue origini piuttosto che le sue qualità. Se si accetta tuttavia che Ctesippo fosse poco più di un bambino, quest’ipotesi diventa insostenibile. Piuttosto, la mancata menzione del suo nome sarà dovuta al fatto che era sconosciuto, mentre Cabria era un glorioso generale morto recentemente in battaglia. Non c’è ragione inoltre di ritenere che Demostene agisse per conto di Ctesippo e della sua famiglia (comm. §1[6]). Di ben altra levatura politica erano i syndikoi eletti a difesa della legge di Leptine, (secondo le norme della nomothesia; vd. p. 13) su cui Demostene si diffonde a §§146–153.110 In quanto eletti dal demos, il loro ruolo era pubblico, e la loro elezione dipendeva dalla fama e abilità oratoria. Il primo syndikos citato è Leodamante di Acarne,111 figlio di Feace e probabilmente appartenente a una famiglia di antica importanza (Feace è citato già nel 424 a.C. come imputato in un caso di omicidio in Ar. Eq. 1377ss.). Leodamante fu, secondo Plut. Mor. 837d, allievo di Isocrate. Partecipò a un’ambasciata a Tebe, testimoniata da Aeschin. 3.138, probabilmente quella che precedette la pace con Sparta del 371 (Xen. Hell. 6.3.2).112 Nel 346/5 fu accusato di empietà da Eschine insieme a Timarco ed Egesandro, con cui i suoi rapporti sembrano ottimi (Aeschin. 1.68–79, 111), mentre Aeschin. 3.138 testimonia che intorno al 330 Leodamante non era più in vita. Nello stesso contesto è richiamata la sua abilità oratoria, definita non inferiore a quella di Demostene (Aeschin. 3.139). Non è chiaro invece se questo Leodamante sia identificabile con il candidato all’arcontato, ricusato in seguito alle accuse di Trasibulo di Collito, citato da Lys. 26. A §146 Demostene ricorda la sua partecipazione a una γραφὴ παρανόμων contro il decreto in onore di Cabria seguito alla battaglia di Nasso (comm. §§75[2], 77[1]), e Arist. Rhet. 1364a ricorda un’ulteriore accusa contro Cabria e Callistrato dopo la perdita di Oropo. Il secondo syndikos è il più celebre: Aristofonte di Azenia.113 Demostene cita la sua partecipazione alla resistenza contro i Trenta nel 404/3, in seguito alla quale fu onorato con l’ateleia. Dopo la restaurazione democratica c’è traccia di una sua intensa attività politica: nel 403/2 fece nuovamente appro110 Su questo termine vd. comm. §1[7]. 111 PAA, XI, s.v. Λεωδάμας (n° 605110). 112 Cfr. Sealey (1955a: 80). 113 PAA s.v. Ἀριστοφῶν (n° 176170); APF s.v. Ἀριστοφῶν Ἀριστοφάνου Ἀζηνιεύς (n° 2108). Vd. pp. 37–43 per le sue relazioni con gli altri syndikoi.



4.  Gli attori

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vare la vecchia legge periclea sulla cittadinanza (Athen. 13.577b–c) e propose la reintroduzione della tassa per gli stranieri che lavorassero nell’agora.114 Inoltre, come leggiamo a §149, garantì la restituzione di cinque talenti a un tale Gelarco. Aristofonte scompare poi totalmente fino al 363/2, anno in cui Aeschin. 1.64 attesta un suo incarico come stratego a Ceo, in seguito al quale ricevette probabilmente la prossenia dell’isola.115 Dopo il 363/2 a.C. è attastata la sua continua attività politica, e Iperide (3.28) lo definì “il più potente nella città”: sappiamo di almeno nove decreti da lui presentati in Assemblea,116 e un decimo da lui emendato.117 Oltre all’ufficio di syndikos della legge di Leptine, è attestata la partecipazione di Aristofonte a varie cause sia come accusatore,118 sia, in un caso, come accusato.119 Aeschin. 3.194 testimonia che Aristofonte si vantava di essere stato assolto in accuse per illegalità ben settantacinque volte.120 Ben documentata è anche l’alleanza con lo stratego Carete (Schol. Aeschin. 1.64.145 Dilts): nel 362, quando Alessandro di Fere sconfisse gli Ateniesi guidati da Leostene, quest’ultimo fu condannato a morte e Carete lo sostituì (Diod. 15.95.1–3; Hyp. Eux. 1), fu Aristofonte a portare in giudizio alcuni dei trierarchi al servizio di Leostene. Nel 354/3 fu ancora lui ad accusare Timoteo, Ificrate e Menesteo per la sconfitta di Embata, attribuita da Carete ai suoi colleghi, e ottenne la condanna di Timoteo (Isoc. 15.12; Din. 1.14, 3.17), mentre Ificrate (Isoc. 15.129), seppure assolto, si ritirò a vita privata.121 Sono anche note le sue tendenze filotebane, attestate nel 330 tanto da Demostene (18.162) quanto da Eschine (3.138–139) come carattere distintivo della sua politica. Il terzo syndikos è Cefisodoto del Ceramico.122 Della sua carriera è nota la sua partecipazione all’ambasceria a Sparta del 371 a.C. (Xen. Hell. 6, 3, 2), e un decreto del 369 (Xen. Hell. 7.1.14), che sanciva l’alternanza nel comando delle forze terrestri e navali tra Spartani e Ateniesi ogni cinque giorni. 114 Dem. 57.32; la datazione al 403/2 risale a Kirchner, PA 2108 D, vd. Hansen (1983: 188–191); Whitehead (1986b: 315–316) è scettico; sull’origine di questa legge vd. Whitehead (1977: 77–78, 142, 172 n. 94). 115 IG XII 5 542 l. 43; cfr. IG II2 111; per questo lungo intervallo e opposte vedute sull’effettiva inattività di Aristofonte vd. Oost (1977) e Whitehead (1986b). 116 IG II2 111; IG II2 130; Dem. 50.4–8; IG II2 118; IG II2 121; IG II2 130; Dem. 24.11; Dem. 18.70; Dem. 18.75; IG II2 224; in due casi, IG II2 121; IG II2 130, la formula suggerisce che Aristofonte servisse da buleuta, vd. Rhodes (1972: 64–71). 117 IG II2 289 l. 6; cfr. Hansen-Mitchel (1984: 13). 118 Cfr. Hansen (1975: n° 88, 100, 101, 102, 142). 119 Hansen (1974: n° 10). 120 Oost (1977); Whitehead (1986b: 313–14). 121 Cfr. Hansen (1975: n° 100–102); Bianco (2002: 10–11). 122 PAA s.v. Κηφισόδοτος (n° 567790).

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L’ultima notizia riguarda l’accusa del 349 contro Carete per la gestione della campagna di Olinto, nella quale fu l’accusatore (Arist. Rhet. 1411a).123 Le qualità oratorie di Cefisodoto sono ricordate da Arist. Rhet. 1411a nel discutere l’accusa contro Carete, e Aristotele riporta alcuni suoi detti. Quanto al quarto syndikos, Dinia di Erchia,124 non abbiamo informazioni su attività politiche al di fuori di questo discorso, con l’eccezione possibile di una synegoria di Dinarco (Din. fr. 9 Conomis) a sostegno di Eschine rivolta contro un certo Dinia.125 Sono attestate però varie prestazioni liturgiche.126 È inoltre presente in una lista di poleti,127 e può forse essere identificato con il Dinia che donò uno stadio di terra alla città sotto l’amministrazione e su consiglio di Licurgo (Plut. Mor. 841d).

123 Sealey (1993: 138–139) non crede che questo passo, insieme a Dem. 2.25, alluda a un processo vero e proprio, ma piuttosto a tentativi di processare Carete per i fatti di Olinto; nondimeno esso testimonia che protagonista di questi attacchi a Carete fu Cefisodoto del Ceramico. 124 PAA, V, s.v. Δεινίας (n° 302275). 125 PA s.v. Δεινίας (n° 3163). 126 IG II2 1609 ll. 54, 93 + SEG 3.138 l. 16; IG II2 1631 ll. 145, 159, 210. 127 Agora 19 Poletai P5 l. 2.

5.  Schieramenti e fazioni128 Si è spesso considerato Aristofonte il politico di punta negli anni successivi alla Guerra Sociale, autore e ispiratore di misure economiche di emergenza volte alla ripresa delle ostilità nel minor tempo possibile, fautore di una politica definita da Pickard-Cambridge “imperialistic and militant”.129 La legge di Leptine sarebbe, secondo questa interpretazione, una delle misure sponsorizzate dal suo gruppo politico. L’unica ragione che giustifichi questa ricostruzione, a parte la nota inimicizia di Aristofonte con Eubulo,130 è tuttavia l’accusa di Aristofonte contro Timoteo, Ificrate e Menesteo nel 354/3. Quest’accusa è però spiegabile come un atto di sostegno a Carete che identificava i suoi colleghi strateghi come capri espiatori.131 Si è già ricordato un provvedimento di Aristofonte di questi anni:132 l’istituzione di una commissione incaricata di individuare e perseguire i pubblici debitori (Dem. 24.11).133 Schaefer accostò a questo provvedimento altre misure simili di questi anni, e le considerò il prodotto di un gruppo politico organico.134 Una di queste sarebbe una misura citata a Dem. 24.160 e a Dem. 22.72: Androzione fece approvare un decreto per la riscossione degli arretrati dell’eisphora, di cui si incaricò lui stesso (Dem. 22.44, 24.162).135 Secondo Schaefer la proposta di Leptine era improntata a un’austerità ana-

128 Questa sezione rielabora e modifica sostanzialmente gli argomenti di Canevaro (2009: 123–33). 129 Pickard-Cambridge (1927: 221). 130 Dem. 18.162; 19.291; 21.218. 131 Sealey (1955a: 77). 132 Vd. p. 11. 133 Questa commissione è tuttavia datata al 356/5 proprio in virtù della sua congruenza con altre misure fiscali del periodo, cfr. Sealey (1955a: 78 n. 55). 134 Schaefer (1885–87: I, pp. 179–180, 361–363, 415–416). 135 Moscati Castelnuovo (1980: 253–257) propone invece la data del 376/5, nel contesto proposto da Jacoby, FGrH, IIIB suppl. I, p. 88, ma contestando la sua datazione al 374/3. A favore di una datazione a ridosso del processo sono invece de Ste. Croix (1953: 47–8); Sealey (1955a: 78–9 n. 74); Thomsen (1964: 217 ss.); Pecorella Longo (1971: 72–3); Harding (1976: 193 n. 54); Wallace (1989a: 483–5); Christ (2007: 67 n. 70). Per la questione degli arretrati e il periodo che avrebbero coperto vd. Thomsen (1964: 206–26); MacDowell (1986: 486; 2009: 176–7); Rhodes (2006: 330); Worthington (2013: 71, che però confonde gli arretrati dell’eisphora con quelli delle trierarchie). Vd. per l’eisphora pp. 50–2.

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loga a quella delle misure di Aristofonte e Androzione,136 e costituirebbe un’ulteriore misura d’emergenza.137 Schaefer identifica, sulla base della somiglianza tra queste misure, un’azione politica circostanziata propria di uno specifico gruppo che comprendeva, oltre ad Aristofonte e a Carete, Androzione, Glaucete, Melanopo, Timocrate, Filippo e Antigene,138 Leptine e i syndikoi della sua legge: Leodamante, Cefisodoto e Dinia.139 Sealey ha tuttavia dimostrato convincentemente che Androzione non era un sottoposto di Aristofonte, ma piuttosto un leader in proprio. Si possono anche rintracciare elementi di frizione tra Androzione e i suoi associati e alcuni membri del team di difesa di Leptine:140 Leptine fu vittima delle confische di Androzione per recuperare gli arretrati dell’eisphora (Dem. 22.60), e Androzione fu perseguito come pubblico debitore in seguito al decreto di Aristofonte di 24.11. Dunque, se davvero esistette negli anni immediatamente successivi alla Guerra Sociale una politica di austerità caratterizzata da misure d’emergenza, questa non fu perseguita da un gruppo omogeneo ma, secondo Sealey,141 da almeno due diversi gruppi, quello di Aristofonte e quello di Androzione. Sealey non mette tuttavia in discussione l’assunto tradizionale che la legge di Leptine sarebbe opera di un singolo gruppo politico, quello di Aristofonte, di cui i syndikoi farebbero parte in toto, e liquida la questione affermando che “doubtless there was friendship [...] between Leodamas, Αristophon, Cephisodotus, Deinias, and presumably Leptines”.142 Pecorella Longo affronta il problema più analiticamente e ammette che i syndikoi di una legge erano eletti dall’Assemblea, e un’elezione non garantisce la composizione omogenea del collegio di difesa. Osserva d’altro canto che, secondo Demostene (§152), tutti i syndikoi avevano già in passato servito come tali e dunque, nel ricoprire più di una volta quell’incarico, commettevano un reato. Correre un rischio simile implica una precisa e comune volontà politica.143 Quest’analisi è semplicistica: a §152 Demostene fa effettivamente riferimento a una legge che impedirebbe di essere eletti syndikoi più di una 136 Sealey (1993: 113). 137 Carlier (1990: 50) parla di accusa contro “il gruppo imperialista” e le sue misure d’emergenza. 138 Questi ultimi colleghi di Androzione nella boule e suoi probabili sostenitori in tribunale. Cfr. Dem. 22.38; Sealey (1955a: 79). 139 Cfr. Sealey (1955a: 78–9 n. 71). 140 Sealey (1955a: 78–81; 1993: 113); Harding (1994: 13ss.). 141 Sealey (1955a: 80; 1993: 113). 142 Sealey (1955a: 79). 143 Pecorella Longo (1971: 66–67).



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volta, la fa leggere dal grammateus (§153), e conclude che i syndikoi stanno infrangendo la legge. La legge tuttavia non è conservata, e gli esempi di personaggi che agirono come synegoroi in più occasioni sono innumerevoli.144 Si può ipotizzare che gli Ateniesi non vigilassero con attenzione sull’attuazione della legge, e soltanto occasionalmente qualcuno la utilizzasse (come sembra suggerire Dem. 25.13) – in questo caso (pace Pecorella Longo) che i syndikoi avessero già in passato servito come tali non ci darebbe alcuna indicazione di una loro comune volontà politica. Ma, se questo fosse il caso, sorprende non trovare accuse simili più frequentemente.145 Inoltre Demostene parla esplicitamente di syndikoi eletti dall’Assemblea. La precisazione potrebbe voler concentrare l’obiettivo sul caso in questione, ma è più probabile che la legge si riferisse esplicitamente a questa categoria, tanto più che è citata solo in questo passaggio, mentre una legge formulata in termini più generali sarebbe servita come arma in contesti in cui gli oratori denigrano i synegoroi avversari. La legge è inoltre letta dal grammateus subito dopo, per cui i giudici avrebbero notato forti discrepanze. Ma anche accettando che la legge si riferisse esplicitamente a syndikoi eletti dall’Assemblea, e dunque soltanto in occasione di contese con altre poleis, della discussione di nuove leggi e di apophaseis inaugurate dall’Areopago, resta il fatto che Iperide fu certamente eletto syndikos dall’Assemblea in almeno due occasioni: per rappresentare la città in una disputa internazionale (Dem. 18.134) e come accusatore pubblico nell’apophasis che condannò Demostene per l’affaire arpalico (Hyp. Dem.). Rubinstein propone che il testo della legge fosse più preciso di quanto affermato da Demostene, e si riferisse esclusivamente a syndikoi eletti dall’Assemblea in difesa di una legge – in questo caso non ci sarebbe alcun reato.146 È strano tuttavia che Demostene dia una parafrasi così fuorviante a ridosso della lettura del grammateus. È forse più probabile che la legge sia qui riassunta da Demostene nella sua interezza, ma non faccia riferimento ai syndikoi eletti per partecipare a cause in tribunale, ma a una magistratura chiamata syndikoi che si occupava di debiti contratti da membri della classe equestre a seguito di prestiti pubblici.147 Questo collegio è discusso da Harp. s.v. σύνδικοι (= Isae. fr. 12 Thalheim), e fu coinvolto nei processi per cui i discorsi Lys. 17, 18 e 19 furono composti. Dovettero essere coinvolti in procedimenti giudiziari relativi a proprietà confiscate, proba144 Demostene stesso (Rubinstein 2000: 51 n. 72: Aeschin. 1.166; Aeschin. 3.202, 51– 52; Dem. 25; Aeschin. 2.14 ecc.), Licurgo, Iperide (Rubinstein 2000: 51 n. 73). 145 Pace Kremmydas 2012: 430–1. 146 Rubinstein (2000: 52). 147 Lys. 16.6–7; vd. Harrison (1971: II, 34–5); Rubinstein (2000: 45).

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bilmente con la funzione di presiederli. Il divieto di reiterare questa carica sarebbe coerente con le norme su gran parte delle magistrature ateniesi. Demostene avrebbe utilizzato una legge relativa a una specifica magistratura, citandola in modo accurato ma ingannevole, sfruttando l’omonimia con i syndikoi eletti dall’Assemblea per dare l’impressione che i difensori della legge si fossero comportati in modo illegittimo, ma senza entrare nel dettaglio. Qualunque sia la ricostruzione corretta, è evidente che la partecipazione comune alla difesa della legge di Leptine non è sufficiente a garantire che i syndikoi fossero membri di una stessa fazione politica, tanto più che la natura e la composizione dei collegi era tutt’altro che lineare.148 Chi attribuisce le misure sopra discusse a un gruppo politico omogeneo sposa un’interpretazione attualizzante della politica ateniese, che identifica fazioni simili a partiti politici, per cui Eubulo è definito il “leader del partito della pace” e Demostene alla fine degli anni ’40 e negli anni ’30 il leader del “partito anti-macedone”.149 A questa lettura se ne è sostituita una più flessibile che, pur accogliendo una qualche organizzazione in gruppi di pressione, fonda le relazioni al loro interno su rapporti familiari, sulla reciprocità e sulla philia.150 Questi gruppi sono talvolta identificati con le eterie,151 e specificamente con eterie gestite da un rhetor influente, che dunque ne avrebbe utilizzati i membri come sostenitori.152 A questi gruppi si riferirebbe Demostene (13.20) quando afferma che ad Atene la politica si gestisce per simmorie: un retore come hegemon e sotto di lui un generale, retori minori, urlatori. La possibilità di appartenere contemporaneamente a più di un gruppo avrebbe permesso in certi contesti la formazione di più ampi schieramenti, che ottenevano così il predominio in Assemblea.153 Le basi su cui questi più ampi schieramenti si sarebbero di volta in volta formati sono dibattute, 148 Esempio celebre di ambasciata dalla composizione politicamente composita è quella inviata a Filippo nel 346 (Harris 1995: 57–639); per le campagne militari, basti pensare alla spedizione siciliana. Cfr. Adcock-Mosley (1975: 155). 149 Glotz-Cohen (1936: 242); Perlman (1967: 167, 174) Cawkwell (1978: 118–119). Simili articolazioni in “partiti” sono tipiche di Beloch (1884: 232–50) e si trovano ancora in lavori recenti come Habicht (2006: p. es. 106–7) e Landucci Gattinoni (2008: 240–49). Contro queste letture vd. ora Luraghi (2014). 150 Sealey (1955a; 1993: 4–5, 271 n. 5, contro Schaefer, Jaeger e Cloché); Rhodes (1986). Cfr. Bicknell (1972) sull’importanza dei rapporti familiari, e Mitchell-Rhodes (1996), Mitchell (1997: 41–72) sulla philia. Contro l’esistenza di qualsiasi organizzazione Jones (1957: 130–131); Finley (1962: 15); Seager (1967: 95). 151 Calhoun (1913); Sartori (1957); Ghinatti (1970); Pecorella Longo (1971). 152 Soprattutto Connor (1971: 27); Rhodes (1986: 138ss.); Mitchell-Rhodes (1996: 11–12). 153 Connor (1971: 134–6); Rhodes (1986: 139); Strauss (1986: 28–31); contra Hansen (1999: 277–87).



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e sebbene anche in questo caso legami familiari e di philia dovettero essere decisivi, non si può negare la possibilità di convergenze ideali e politiche e sostenere, con Sealey, che obiettivo fosse soltanto il potere, e che non esistessero reali differenze di politica.154 Negli anni successivi alla Guerra Sociale è pacifico che il panorama dovette essere largamente influenzato dalla crisi economica155, e si è visto che una politica di austerità fu propria quantomeno di Aristofonte e Androzione. Nel caso della legge di Leptine è dunque probabile che si fosse formata una coalizione di personaggi favorevoli, ma il testo demostenico non garantisce che questi personaggi formassero un gruppo omogeneo raccolto intorno ad Aristofonte. Al contrario le notizie sulle rispettive carriere politiche rendono questa ipotesi improbabile. Innanzitutto va considerata la posizione di Leptine negli anni precedenti alla Guerra Sociale: il suo appoggio all’alleanza con Sparta del 371 è incompatibile con il tentativo immediatamente precedente di Leodamante di sanare i rapporti con Tebe, che fallì e fu seguito dalla rottura definitiva propiziata dall’esortazione di Leptine a non lasciare la Grecia priva di un occhio. L’azione di Leptine in quel contesto è facilmente accostabile alla linea di Callistrato, contro cui Leodamante mostrò in più occasioni un’ostilità insanabile, sia nel tentativo di privare Cabria, all’epoca alleato di Callistrato, degli onori concessigli dopo la battaglia di Nasso (373), sia nell’accusa congiunta contro i due per i fatti di Oropo nel 366/5. La stessa incompatibilità vale anche con Aristofonte, di cui è nota l’attitudine filotebana, in contrasto con la volontà di Leptine di salvare Sparta dallo strapotere tebano. A riprova che una comunanza politica tra Cefisodoto e Aristofonte non dovette esistere, è noto che Cefisodoto, pochi anni dopo il processo a Leptine (nel 349), mosse pesanti accuse a Carete (il cui strettissimo rapporto con Aristofonte è attestato almeno fino al 342/1, cfr. Dem. 8.30.) per i fatti di Olinto.156 Nessuno di questi fatti ha da solo forza conclusiva, ma nel loro complesso, e considerato il particolare statuto dei sostenitori di Leptine, syndikoi eletti dall’Assemblea, suggeriscono un’interpretazione meno organica 154 Sealey stesso ammette convergenze politiche occasionali a prescindere da eventuali inimicizie (1956: 202–203; 1955a: 79–80 e passim). Sugli anni successivi alla Guerra Sociale Burke (2002), pur nella scia di Sealey, rivaluta la possibilità di ragioni ideali e politiche nella formazione degli schieramenti, ma polarizza eccessivamente gli schieramenti come elitisti o anti-élite (cfr. Dusanic 1979). 155 Sealey (1955a); Burke (2002: 167ss). 156 Pecorella Longo (1971: 67 n. 3) nota questa difficoltà e ipotizza che i rapporti tra i due si deteriorarono. Questi contrasti politici furono non solo successivi ma anche precedenti alla data del processo.

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dello schieramento opposto a Demostene. I personaggi implicati mostrano un’influenza e un’esperienza tali da poter essere considerati leader in proprio piuttosto che rhetores sottoposti ad Aristofonte, e la legge di Leptine pare essersi guadagnata un sostegno trasversale all’epoca del processo, garantitole dalla convergenza di vari gruppi politici sulla necessità di sanare le finanze ateniesi. La tesi che una fazione organica imperniata sulla figura di Aristofonte fosse fautrice di una politica d’emergenza improntata ad austerità ha il corollario che Eubulo fosse il principale avversario di questa politica. Eubulo si sarebbe opposto a un “gruppo politico che era stato fino ad allora al governo, e che, persino dopo la conclusione della pace, rimaneva ostinatamente a capo dello stato”.157 L’inimicizia tra Aristofonte ed Eubulo è nota,158 ma non è chiaro se poggiasse su vere ragioni politiche. Sealey nega che al termine della Guerra Sociale Aristofonte si fosse schierato contro la pace, promossa invece da Eubulo, e quindi che le misure economiche di Aristofonte e Androzione (e di Leptine) fossero volte a un rapido recupero di denaro per la ripresa delle ostilità.159 Non pare inoltre che Eubulo sposasse una linea di incondizionato pacifismo:160 sostenne l’ipotesi di una Pace Comune che unisse la Grecia contro Filippo (Dem. 19.10, 304), fu uno dei principali responsabili dell’intervento ateniese in Eubea nel 349/8,161 inaugurò una politica di rafforzamento della flotta e costruì un arsenale.162 Questo non significa, come ipotizzato da Sealey, che la successione nella leadership tra Aristofonte ed Eubulo fosse motivata da semplici ragioni anagrafiche.163 Il successo di Eubulo nel ristabilire le finanze ateniesi fino a 400 talenti annui fu frutto di una politica di respiro ben più ampio delle misure attribuite nelle fonti ad Aristofonte e Androzione.164 Eubulo fu responsabile di una svolta nella gestione delle finanze ateniesi, ma questo non vale a dimostrare che si oppo157 Jaeger (1948: 75); per la prima definizione della politica di Eubulo come contrapposta a quella di Aristofonte vd. Schaefer (1885–1887, I, pp. 197–204); cfr. ancora Carlier (1990: 43–52). Su Eubulo vd. pp. 6–7. 158 Dem. 18.162; 19.291; 21.218; Schol. Dem. 21.218.716 Dilts. 159 Sealey (1955a: 75–7). 160 Momigliano (1975: 237–8); cfr. Sealey (1955a: 75–7); Cawkwell (1963: 52–3); Burke (2002: 174–5). Harris (1996) rafforza questa obiezione mostrando che Eubulo non passò alcuna legge che vietasse l’utilizzo del theorikon per fini militari (pace Burke 2002: 175 n. 52). 161 Figure legate a Eubulo furono di primo piano in quella spedizione: Midia, Focione ed Egesileo; cfr. Cawkwell (1963: 49, n. 21). 162 Vd. pp. 6–7. 163 Sealey (1955a: 75). 164 Cfr. p. 6.



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se alla politica di austerità d’emergenza rappresentata dai provvedimenti di Aristofonte e Androzione (e Leptine), anch’essa votata al risanamento finanziario.165 Al contrario, alcune sue iniziative, quali l’accusa contro Cefisofonte e Merocle (Dem. 19.293) e la minaccia di perseguire lo stesso Aristofonte per non avere consegnato una certa somma dovuta ad Atena (Dem. 21.218), sono analoghe ai provvedimenti di Androzione, Aristofonte e Leptine.166 Un passo della Contro Leptine, §137, conferma che esistesse un’inimicizia personale tra Eubulo e Aristofonte, ma non può essere interpretato come prova dell’opposizione di Eubulo alla legge di Leptine (o alle politiche che questa legge rappresentava), né di un allineamento di Demostene in questa fase alle politiche di Eubulo.167 Eubulo è citato a §137 insieme a Diofanto. Dem. 19.297 cita Diofanto di Sfetto accanto a Callistrato e Aristofonte come uno dei più potenti politici ateniesi, e a 19.198 gli chiede di testimoniare contro Eschine (cfr. Dem. 35.6, Isae. 3.22). Due decreti testimoniano il suo contributo in politica estera (IG II2 106 e 107, onori per lo Spartano Coribo e per i Mitilenesi). Sappiamo poco delle sue politiche, ma Arist. Pol. 1267b18 cita una proposta di organizzazione della manodopera schiavile per effettuare lavori pubblici. Schol. Aeschin. 3.24.65 Dilts associa Diofanto a Eubulo come autore di distribuzioni del theorikon, e su questa base già Beloch lo credette Parteigenosse di Eubulo.168 In realtà il passo non implica necessariamente un legame politico tra i due – Schaefer sostenne al contrario che la partecipazione di Diofanto all’accusa di Demostene contro Eschine indicherebbe che i due non furono mai in buoni rapporti.169 Cawkwell ha sostenuto su altre basi che un legame tra i due dovette esistere, testimoniato anche dal loro accostamento in questa orazione, e che inizialmente Diofanto fosse la figura dominante.170 A prescindere dal rapporto tra i due, il passo demostenico non dimostra la loro comune opposizione alla legge di Leptine, ma soltanto la loro inimicizia personale con particolari membri del collegio di difesa. Vale la pena di ana165 La valutazione delle politiche di Eubulo è stata spesso negativa – si è ritenuto, con Demostene, che le sue misure causarono l’incapacità di Atene di resistere a Filippo. Vd. Schaefer (1885–1887, I, pp. 186, 200, 212), Momigliano (1975: 237–238). Beloch (1912–1927, III/1: 483–486) lo considerò invece un abile amministratore e un solido statista. Cfr. Jaeger 1948: 77–78, Cawkwell (1963) e Oliver (2011) che vede le sue politiche come anticipatrici dell’Atene licurghea. 166 Sealey (1955a: 80); cfr. Schaefer (1885–1887, I, pp. 179–180). Vd. pp. 6–7. 167 Vd. pp. 64–71. 168 Beloch (1884: 180). 169 Schaefer (1885–1887, I, p. 205). 170 Cawkwell (1963: 48, 58), cfr. Burke (2002: 173 n. 40).

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lizzare per esteso l’argomentazione.171 A §137 Demostene esorta i suoi oppositori a non togliere ai benefattori della città ciò che è stato loro accordato. Piuttosto, se ritengono che qualcuno degli esenti non sia meritevole della ricompensa ricevuta, oppure non abbia realmente effettuato i servizi per cui fu premiato, è bene che intentino una graphe nei suoi confronti secondo la legge sostitutiva proposta dall’accusa.172 Segue la promessa che l’accusa promulgherà effettivamente la legge sostitutiva (cfr. §88–95, 98–100), e Demostene esorta ironicamente i membri della difesa a presentarla loro stessi se non credono alla buona fede dell’accusa.173 Quindi Demostene riprende il filo del discorso e menziona Eubulo e Diofanto in una formulazione che ha confuso gli interpreti: ἔστι δ᾽ ἑκάστῳ τις αὐτῶν, ὡς ἔοικεν, ἐχθρός, τῷ μὲν Διόφαντος, τῷ δ᾽ Εὔβουλος, τῷ δ᾽ ἴσως ἄλλος τις. La frase può essere tradotta genericamente con “ciascuno ha, a quanto pare, un nemico, chi Diofanto, chi Eubulo, chi qualcun altro”, ma non è immediatamente chiaro a chi si riferisca ἑκάστῳ, a chi si riferisca τις, e a chi si riferisca, e da cosa sia retto, αὐτῶν.174 È innanzitutto improbabile che αὐτῶν possa avere un riferimento diverso rispetto ad αὐτούς della frase immediatamente precedente (ἢ θέντας αὐτούς, ὅταν πρῶτον γένωνται νομοθέται): deve dunque riferirsi ai membri della difesa, protagonisti dell’argomentazione fin da τούτους τοὺς ἐροῦντας ὑπὲρ τοῦ νόμου all’inizio del paragrafo.175 Gli interpreti sono divisi sulla lettura di ἑκάστῳ, che alcuni riferiscono ai membri del collegio di difesa, altri agli esenti immeritevoli. Il senso dell’affermazione di Demostene, e come vada interpretata, è chiarito subito dopo, a §138: “riflettete […] se vi sta bene togliere apertamente ai vostri benefattori ciò che ciascuno di costoro esita a togliere ai suoi nemici sotto gli occhi di tutti” (σκοπεῖτ᾽ […] εἰ καλῶς ὑμῖν 171 Segnalo che la mia lettura di questo passo è cambiata rispetto a Canevaro (2009: 130–3). 172 Vd. comm. §88[6] sulla legge sostitutiva. 173 Vd. pp. 30–1 su questo passo. 174 H. Wolf: “Sunt autem cuique eorum aliqui inimici, aliis Diophantus, aliis Eubulus, aliis alius quispiam”; Schaefer (1885–1887, I, p. 205): “jeder der steuerfreien hat irgend einen unter den Rednern zum Feinde, der eine Eubulus der andere Diophantos”; J. H. Vince: “But each defender of this law, it seems, has a personal enemy, whether Diophantus or Eubulus or someone else”; Navarre-Orsini: “Chacun des privilégiés a bien, j’imagine, un ennemi! Pour l’un, c’est Diophantos; pour l’autre, Euboulos; pour un troisième, tel ou tel”; Amerio: “Ciascuno di loro, da ciò che risulta, ha nemici personali: chi Diofanto, chi Eubulo, chi altri ancora”; Kremmydas: “Each one of them, apparently, has an enemy, Diophantos or Euboulos or someone else”; Harris: “Everyone of these men probably has some personal enemy: for one it is Diophantus; for another it is Eubulus; for a third person, perhaps, someone else”. 175 Sandys (1890: 100).



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ἔχει, ἃ τούτων ἕκαστος ὀκνεῖ τοὺς ἐχθροὺς ἀφαιρούμενος ὀφθῆναι, ταῦθ᾽ ὑμᾶς τοὺς εὐεργέτας ἀφῃρημένους φαίνεσθαι). Il (mancato) parallelismo, che evidenzia l’assurdità della legge di Leptine, è tra gli Ateniesi che con la legge di Leptine toglierebbero le esenzioni ai loro benefattori, e τούτων ἕκαστος che, con la legge sostitutiva, potrebbero togliere le esenzioni ai loro nemici ma, per vergogna, non osano – se non osano farlo individualmente contro i loro nemici, come possono chiedere che gli Ateniesi lo facciano in blocco contro i loro benfattori? Come nell’ambigua formulazione a §137, ἕκαστος è contrapposto ai nemici (τοὺς ἐχθροὺς), che sono però qui chiaramente identificati con gli esenti a cui si vogliono togliere le rincompense. τούτων ἕκαστος deve dunque riferirsi ai membri del collegio di difesa. Se leggiamo §137 secondo questo schema – come è necessario vista la vicinanza e la connessione logica tra le due frasi, e il contrasto lessicale in entrambe le frasi tra ἕκαστος e ἐχθρός – è chiaro che è ἑκάστῳ ad essere qualificato da αὐτῶν (i difensori della legge).176 Il significato dunque non può che essere “ciascuno dei membri della difesa ha, a quanto pare, un nemico, chi Diofanto, chi Eubulo, chi qualcun altro”. E dunque Diofanto ed Eubulo (al nominativo), sono esempi di nemici personali dei membri del collegio di difesa (al dativo), ai quali secondo Demostene, costoro non oseranno togliere le ricompense con la legge sostitutiva.177 Poiché Demostene sta sostenendo che, se effettivamente esistono esenti immeritevoli, i membri della difesa dovrebbero presentare un’accusa pubblica secondo la legge sostitutiva, il corollario di questa lettura è che Diofanto ed Eubulo siano tra gli esenti che potrebbero essere colpiti da un accusa secondo la legge sostitutiva.178 Non è possibile confermare oltre ogni dubbio se Diofanto ed Eubulo fossero esenti, ma Harp. s.v. Εὔβουλος (cfr. Schol. Aeschin. 2.8.17 Dilts) allude a un discorso di Iperide περὶ τῶν Εὐβούλου δορεῶν, che suggerisce che almeno Eubulo ricevette qualche forma di ricompensa.179 In ogni caso, l’obiettivo di Demostene in questo passo è squalificare la legge di Leptine sostenendo che i suoi difensori non farebbero 176 τις si inserisce tra ἑκάστῳ e αὐτῶν per via della tendenza degli enclitici a gravitare verso l’inizio della frase. 177 Sealey (1955a: 79–80) arriva persino ad affermare che l’ordine in cui Diofanto ed Eubulo sono citati sia speculare all’elenco successivo (§146) dei syndikoi, per cui Leodamante sarebbe nemico di Diofanto e Aristofonte di Eubulo. 178 Come notato già da Reiske: ergo Diophantus et Eubulus repererant immunitatem? G. H. Schaefer osservava: hoc quidem satis manifestum est, homines in numero fuisse τῶν ἀτελῶν. Cfr. Gagarin per litteras in Harris (2008: 64 n. 165). 179 Davies non cita Eubulo in APF tra i membri della classe liturgica (cfr. Burke 2002: 182), ma si noti che Dem. 3.29 sembra includerlo tra i leader che si sono arricchiti smisuratamente grazie alla loro attività politica.

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individualmente ai loro nemici ciò che chiedono agli Ateniesi di fare ai loro benefattori: il punto è citare esempi notissimi di nemici personali dei membri della difesa, come bersagli ipotetici di azioni pubbliche volte a privarli delle loro ricompense. Che i personaggi citati fossero effettivamente esenti è secondario180 – l’essenziale è che fossero ben noti come nemici dei membri della difesa. E, almeno per Eubulo, abbiamo abbondante conferma da altre fonti della sua inimicizia con Aristofonte.181 Eubulo e Diofanto non sono dunque citati, nella Contro Leptine, come alleati di Demostene, Apsefione e Formione, e vista la sua struttura argomentativa, il passo a §137 non implica che un ipotetico gruppo di Eubulo fosse contrario alla legge di Leptine, né che obiettivo di Leptine e dei syndikoi fosse danneggiare lui e Diofanto. La loro menzione è puramente funzionale all’argomentazione, che richiede a questo punto esempi di nemici personali dei membri della difesa che fossero immediatamente riconoscibili come tali. Il passo è un’ulteriore attestazione dell’inimicizia tra Eubulo e Aristofonte (e tra Diofanto e qualcun altro tra i syndikoi), ma non ci dice nulla sulle rispettive posizioni politiche sulla legge di Leptine. Lungi dal mostrare uno scontro tra diversi gruppi politici successivo alla Guerra Sociale, la Contro Leptine mostra invece che una politica economica di austerità e risanamento ottenne a quel tempo un vasto consenso trasversale, coinvolgendo attivamente vari leader, al di là di passate contrapposizioni e inimicizie. La legge di Leptine è un prodotto di questo clima.

180 Gagarin per litteras in Harris (2008: 64 n. 165) nota: “To say that Leptines and his associates have enemies only works if we assume everyone with undeserved exemptions is an enemy of Leptines and his associates”. Ma il punto di Demostene non è che tutti gli esenti immeritevoli saranno perseguiti perché tutti hanno un nemico personale tra i membri della difesa (come ho sostenuto erroneamente anch’io in Canevaro 2009: 130–3). Il punto è che se Leptine e i syndikoi non considerano accettabile togliere le ricompense individualmente ai loro nemici, certo non possono chiedere agli Ateniesi di toglierle in blocco ai loro benefattori. 181 Vd. pp. 37, 42.

6.  Il sistema liturgico Prima di discutere la legge di Leptine è necessario fornire un po’ di retroterra sullo sviluppo, le funzioni e i problemi del sistema liturgico. Le liturgie erano una forma di tassazione che imponeva ai cittadini ateniesi più ricchi (e, per alcune di esse, ai meteci) l’obbligo di finanziare e organizzare servizi pubblici a beneficio della collettività.182 Diversamente dalla tassazione, il sistema liturgico preservava un elemento di volontarismo e agonismo come incentivo per l’espletamento coscienzioso degli obblighi liturgici: molte delle liturgie comportavano qualche forma di competizione, che incentivava una spesa maggiore per superare gli altri liturgisti e ottenere la gratitudine del demos.183 Passi come §19 (“chi possiede meno di quanto è necessario è esentato per necessità ed è escluso dal sobbarcarsi quest’onere”) sembrano indicare che ci fosse un livello minimo di ricchezza che identificava formalmente una classe specifica di liturgisti.184 Le fonti tuttavia si limitano generalmente a rilevare che le sostanze di qualcuno erano sufficienti o insufficienti a espletare una liturgia. La regola probabilmente era che le liturgie andassero ai più ricchi tra coloro che erano disponibili e potevano permettersele.185 Si poteva evitare una liturgia attraverso l’antidosis, cioè affermando che qualcun altro era più ricco: in questo caso chi era soggetto ad antidosis aveva l’opzione di sobbarcarsi la liturgia, oppure doveva scambiare il suo patrimonio con chi lo aveva indicato.186 Il numero di individui nominabili era dunque variabile e indefinito, ma gravitava intorno alle 1200 unità, poi istituzionalizzate nelle

182 Per la bibliografia fondamentale sulle liturgie, divisa per temi, vd. le note seguenti. Per una discussione introduttiva aggiornata vd. Migeotte (2014: 524–9, 283–92 sulle liturgie fuori da Atene). 183 Vd. pp. 77–97 sull’ideologia dell’evergetismo e le sue funzioni anche nel funzionamento del sistema liturgico. Christ (2006) sottolinea gli occasionali tentativi di evitare il peso liturgico, ma il sistema sembra aver avuto successo nell’imporre ai ricchi l’espletamento dei loro doveri civici. Cfr. Liddel (2007: 262–82). 184 Harrison (1971: 235). Ruschenbusch (1985) pone il limite a quattro talenti e mille dracme. 185 Rhodes (1982; 2006: 331). Cfr. Gabrielsen (1994: 45ss.); Christ (2006: 155); Migeotte (2014: 524) nota che i registri fondiari avranno aiutato nell’identificazione di patrimoni appropriati. 186 Davies (1971: XXII); MacDowell (1978: 162–4); Ober (1989: 199); Gabrielsen (1987); Christ (1990; 2006: 143–204). Un altro strumento per evitare una liturgia era la diadikasia.

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simmorie trierarchiche.187 Davies ha stabilito che nel IV secolo chi possedeva meno di tre talenti non espletava alcuna liturgia, mentre chi possedeva più di quattro talenti doveva prima o poi sobbarcarsele.188 C’era una distinzione tra liturgie ordinarie (αἱ ἐγκύκλιοι λειτυργείαι)189 e liturgie straordinarie.190 Le liturgie ordinarie comprendevano i servizi relativi alle feste, che comportavano per il singolo tanto spese personali quanto effettive responsabilità organizzative:191 i coreghi erano incaricati del finanziamento e dell’allestimento dei cori per le grandi feste ateniesi (nelle Grandi Dionisie, nelle Lenee, nelle Targhelie, nelle Panatenee), i ginnasiarchi si occupavano dell’organizzazione e del finanziamento delle corse con le torce (nelle Efestie, nelle Prometie, nelle Panatenee), gli estiatori erano addetti ai banchetti tribali (nelle Grandi Dionisie, nelle Panatenee, nelle Tesmoforie). C’erano poi altri servizi in feste minori o straniere a cui i cittadini ateniesi avevano l’obbligo di sottoporsi.192 Con liturgie straordinarie si intendevano quelle militari: la trierarchia (il mantenimento di una triereme), l’eisphora (in realtà una forma di tassazione diretta per le spese di guerra, non precisamente una liturgia) e la proeisphora (anticipare l’eisphora per un intero raggruppamento contributivo, vd. pp. 51–2). In realtà, se l’eisphora dovette essere per lungo tempo una contribuzione occasionale (vd. p. 50), la trierarchia divenne presto una liturgia annuale, e dunque altrettanto “ordinaria”, ma non era considerata ἐγκύκλιος. A §18 Demostene distingue tra due ordini di liturgie, per i cittadini e per i meteci, come se si trattasse di differenti imposizioni. Esistevano liturgie per i soli meteci, di tipo sacrale, quali la skaphephoria (i meteci erano tenuti a portare nella processione delle Panatenee ciotole piene di offerte), o servizi relativi a culti particolari praticati soltanto dai meteci,193 e altre, quali la trie-

187 Vd. pp. 52–3; cfr. Rhodes (1982: 1–19); Gabrielsen (1994: 178–82); van Wees (2011: 111–12); contra Davies (1981: 26–7), Kron (2011: 129), per cui erano 300. 188 Davies (1971: XXIV e 1981: 28–37). Cfr. Rhodes (1982: 5 e 2006: 331–332); Gabrielsen (1994: 45–53, 176–82); Migeotte (2014: 524). 189 Il termine è attestato in due iscrizioni, IG II2 1147 e SEG 23.78, e derivava probabilmente dai cori circolari (Wilson 2000: 332 n. 22). 190 Cfr. Migeotte (2014: 524). 191 Lys. 21.1–5 cita coregie che variano da 300 a 3000 dracme; IG II3 1 550 col. 1 l. 5 riporta un’eutaxia da 50–100 dracme; cfr. Davies (1971: 21–22; 1981); Pritchard (2015: 34). Per le responsabilità organizzative vd. p. es. Lys 19.58, cfr. Hansen (1999: 110–12), Wilson (2000: 50–108). 192 Trattazioni sistematiche delle liturgie ordinarie si trovano in Davies (1971: XVII– XXXI; 1981); Wilson (2000: 11–108); Makres (1994). Cfr. Migeotte (2014: 524–9). 193 Cfr. Whitehead (1977: 88–89).



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rarchia, riservate ai soli cittadini,194 ma la gran parte delle liturgie ordinarie ricadevano in realtà su entrambe le categorie.195 La distinzione di Demostene è artificiale, e funzionale all’argomentazione a §§18–21 che la legge di Leptine non porterà incrementi nel numero di cittadini passibili di essere selezionati come liturgisti, e toccherà solo i meteci.196 Demostene afferma a §21 che le liturgie erano sessanta o poco più, ma l’obiettivo dell’oratore in quel contesto è minimizzarne il numero. Boeckh sospettò di questa valutazione,197 e Davies ha analizzato minutamente le attestazioni dei servizi liturgici relativi a ciascuna delle feste ateniesi, confermando le perplessità di Boeckh e calcolando un numero minimo (esclusi tutti i casi dubbi) di 97 liturgie in un anno normale, che va incrementato fino a 118 negli anni panatenaici.198 La coregia era la più importante e la più costosa delle liturgie ordinarie: Lys. 21.1 mostra che poteva costare anche mezzo talento, e l’accusato sostiene di aver speso in otto anni 14900 dracme in coregie.199 Tra le liturgie militari, la più prestigiosa e costosa era la trierarchia, che comportava il mantenimento di una trireme della flotta ateniese. Il trierarca era tenuto anche a comandarla al servizio degli strateghi, sebbene gli fosse concesso assumere un sostituto.200 Una trierachia costava all’incirca un talento, una cifra molto esosa (Lys. 21.2 e Lys. 32.24, 27, Dem. 21.155). Il sistema fu in seguito riformato e contemplò la possibilità di sostenere una trierarchia in due,201 e successivamente fu introdotto un sistema di raggruppamenti contributivi chiamati simmorie.202

194 Cfr. Whitehead (1977: 81–103 n. 85); Gabrielsen (1994: 61). Contra Jordan (2001). L’unica possibile eccezione è il Pamfilo di Dem. 21.163 e forse IG II2 1612 ll. 156– 85, su cui MacDowell (1990: 382–3). 195 Cfr. Dem. 10.18 e Lys. 12.20; Whitehead (1977: 80–82); Hansen (1999: 110–11); cfr. Wilson (2000: 28–31) per le Lenee. 196 Cfr. comm. §18[3]. 197 Boeckh (1886: I, p. 538). 198 Davies (1967); Pritchard (2015: 34–9, 44–9). 199 Per il valore simbolico e gli usi discorsivi della coregia vd. Liddel (2007: 264–70; cfr. più analiticamente Wilson 2000). Wilson (2008: 111–14) stima il costo delle Dionisie: verso il 415 a.C. le liturgie contribuivano tra i dieci e i quindici talenti alle Grandi Dionisie (cfr. Pritchard 2015: 40–8). Nel IV secolo contribuivano circa sette talenti e 2000 dracme alle Grandi Panatenee (Pritchard 2015: 28–40) 200 Per una trattazione esaustiva dell’istituto della trierarchia vd. Gabrielsen (1994). Cfr. Morrison, Coates e Rankov (2000: 107–26); Migeotte (2014: 527–9). Per il valore simbolico e il prestigio del servizio trierarchico vd. Liddel (2007: 270–4). 201 Lys. 31.24–26; Dem. 21.154; cfr. Gabrielsen (1994: 173–176). 202 Vd. sotto pp. 51–2. Cfr. Pritchard (2015: 99–113) sui costi della flotta.

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L’eisphora era una tassa diretta – non propriamente una liturgia, ma un contributo militare che si sviluppò fianco a fianco con le liturgie, e con la trierarchia in particolare, e ne condizionò l’organizzazione. È menzionata negli oratori con le liturgie a riprova dello spirito civico dell’accusato (Isae. 7.39–40; Dem. 28.4; Lys. 20.23; 21.3; 19.43), perché era intesa come parte dei doveri civici dei ricchi cittadini e, per una porzione determinata, meteci, il cui espletamento portava loro onore e riconoscimento.203 Van Wees ha mostrato che un’eisphora esisteva già nel VI secolo, ma le modalità della sua riscossione erano diverse dall’eisphora del IV secolo.204 Nella sua incarnazione classica, l’eisphora fu in origine una tassa sporadica imposta occasionalmente sui più ricchi, mentre dal 347/6 era prelevata annualmente per un ammontare di dieci talenti, ferma restando l’eventuale ulteriore imposizione straordinaria.205 La prima attestazione risale al 428, nel contesto delle operazioni a Mitilene (Thuc. 3.19.1), ma già uno dei decreti di Callia vi allude (IG I3 52, ll. b15–19). Questo decreto potrebbe non essere antecedente al 428/7.206 Le informazioni su questa prima fase sono frammentarie – alcuni hanno sostenuto che la tassa fosse calcolata, come dopo il 378/7, applicando un tasso, stabilito di volta in volta dall’Assemblea, al timema, cioè alla valutazione delle sostanze di ogni singolo cittadino facoltoso passibile dell’imposizione; altri hanno ritenuto che la tassazione sulla base del timema sia stata introdotta solo dal 378/7, mentre prima tutti pagavano la stessa cifra (variabile a seconda del totale da raccogliere).207 Non è chiaro neppure quale fosse il numero degli Ateniesi soggetti all’eisphora in questa fase, e le stime degli studiosi sono oscillate tra 6000 e 1000.208 È possibile che il numero variasse a seconda del bisogno.209

203 Cfr. Liddel (2007: 276). Vd. in generale de Ste. Croix (1953), Thomsen (1964), Brun (1983), Picard (2000: 152–6), Christ (2007), Flament (2007: 88–94, 191–2, 202–6, 222–3), Poddighe (2010), Migeotte (2014: 518–24). 204 Cfr. van Wees (2013: 44–56). Era inoltre diffusa in altre poleis, vd. Migeotte (2014: 278–83). 205 IG II3 1 429 ll. 12–13; 505 ll. 14–17; Din. 1.69. Cfr. Thomsen (1964: 238–42); Brun (1983: 54–55); Hansen (1999: 112); Christ (2006: 147). 206 Kallet-Marx (1989: 112–13 n. 84). Rhodes (1994: 193) data il decreto al 434/3, ma ritiene che l’eisphora non fu forse prelevata prima del 428/7. 207 Cfr. de Ste. Croix (1953: 34 n. 20); Thomsen (1964: 183); Davies (1971: 593; 1981: 146); Brun (1983: 9); Rhodes (1994: 193); Christ (2006: 148; 2007: 53–60); Poddighe (2010). 208 Ste. Croix (1953: 33): 6000 più 1000 meteci; Jones (1957: 29): 6000; Davies (1981: 141): 1000–1200. 209 Liddel (2007: 275).



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Nel 378/7 la riscossione dell’eisphora fu riformata, e fu introdotto il sistema delle simmorie, 100 raggruppamenti contributivi (Cleidemus FGrH 323 F 8)210, ognuna probabilmente di circa 15 contribuenti di reddito elevato,211 tra i quali si suddivideva la cifra necessaria. Vari studiosi ritengono che questo sistema fu creato in funzione della proeisphora. La proeisphora comportava che i tre membri più ricchi di ogni simmoria anticipassero l’intero ammontare dell’eisphora, per poi recuperare il denaro dagli altri membri della simmoria.212 Le simmorie sarebbero state create per permettere ai trecento proeispherontes di conoscere con certezza su quali cittadini rifarsi in seguito.213 Christ ha invece sostenuto che le simmorie furono istituite in funzione dell’introduzione di una tassazione basata sulla dichiarazione del timema, la valutazione delle sostanze di un particolare individuo,214 a cui si applicava la percentuale sancita dall’Assemblea. A favore di questa ipotesi è il fatto che Androzione fu incaricato di raccogliere gli arretrati dell’eisphora a partire dall’arcontato di Nausinico (378/7; Dem. 22.44) – con l’istituzione della proeisphora questo compito era dei trecento proeispherontes.215 Dunque è probabile che l’istituzione della proeisphora sia successiva a quella delle simmorie, ma non successiva al 364/3 (Isae. 6.60): Androzione avrà riscosso gli arretrati accumulatisi tra il 378/7 e l’introduzione della proeisphora, che costituivano debiti pubblici. Sembra dunque che dopo il 378/7 circa 1500 individui (circa 15 per 100 simmorie) contribuissero all’eisphora. La cifra va probabilmente alzata, come argomentato da Rhodes, fino a circa 2000. In ogni caso, l’eisphora era pagata da un gruppo più largo rispetto alla classe 210 Philochorus FGrH 328 F 41; Hyp. frr. 102, 149, 152 Jensen. 211 Hyp. fr. 159 Jensen menziona 15 membri per simmoria, che non può far riferimento alle simmorie trierarchiche (vd. sotto; le venti simmorie della legge di Periandro moltiplicate per 15 danno solo 300 membri, ma Dem. 14.16–17 afferma che comprendevano sessanta membri l’una, per un totale di 1200). Deve dunque fare riferimento alle 100 simmorie dell’eisphora, per un totale di almeno 1500 membri (che conferma che le simmorie dell’eisphora avevano più membri di quelle della trierarchia; vd. sotto). Pace Migeotte 2014: 521, 528 che afferma che il numero dei membri delle simmorie dell’eisphora ci sia sconosciuto. Cfr. Jones (1957: 28). Sulla riforma vd. Brun (1983: 28–73), Christ (2007: 63–9), Migeotte (2014: 320–22) 212 Cfr. Wallace (1989a) con bibliografia. 213 Non è chiaro se la proeisphora costituisse una liturgia in senso ordinario (pro Hansen 1999: 110; contra Wallace 1989a; cfr. de Ste. Croix 1953, Brun 1983; Christ 2006). 214 La somma dei timemata disponibili nel 378/9 era, secondo Polyb. 2.62.7, 5750 talenti; nel 354/3, secondo Dem. 14.19, 6000 talenti. Poddighe (2010) ritiene invece che questo sistema fosse in funzione dall’inizio. Cfr. Migeotte (2014: 20–22). 215 Cfr. Thomsen (1964: 206–26); MacDowell (1986: 486); Rhodes (2006: 330); pace Hansen (1999: 113).

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liturgica, ma comunque formato dagli strati più ricchi della società ateniese.216 Si è calcolato che la percentuale del timema di volta in volta prelevata fosse generalmente in eccesso dello 0,25%.217 Meno chiaro è come venisse stabilito di volta in volta il timema di ciascuno, e dunque la cifra da pagare. Dem. 27.7 sembra suggerire che la cifra da pagare fosse negoziata tramite un accordo più o meno formale tra contribuente e simmoria, che lasciava spazio per una certa flessibilità.218 Con la legge di Periandro del 358/7 le trierarchie furono anch’esse organizzate per simmorie:219 20 simmorie di circa 60 cittadini l’una per un totale di 1200 contribuenti.220 Questo sistema trierarchico istituzionalizzò il numero dei liturgisti. La riforma del sistema trierarchico riflette la difficoltà a reclutare abbastanza trierarchi all’epoca della Guerra Sociale. Dem. 47.21 afferma che queste simmorie furono istituite con la legge di Periandro (ὁ δὲ νόμος ὁ τοῦ Περιάνδρου […], καθ᾽ ὃν αἱ συμμορίαι συνετάχθησαν), e dunque che non esistevano in precedenza. Questo suggerisce che le simmorie trierarchiche siano state create ex novo, diverse da quelle dell’eisphora, il che pare confermato dal numero diverso sia di simmorie sia di contribuenti per simmoria.221 Più recentemente vari studiosi hanno sostenuto, con diverse sfumature, l’identità dei due sistemi dal 358/7: Ruschenbusch ritiene che il sistema dei 1200 fosse unico, ma che solo i 300 più ricchi si prendessero carico anche della trierarchia e delle liturgie;222 Mossé accetta questa versione, con la differenza che a suo parere i 1200 si sarebbero accollati sia le liturgie che l’eisphora, mentre solo 300 si sarebbero sottoposti alla trierarchia.223 MacDowell sostiene invece che un numero ristretto si sottoponesse personalmente alla trierarchia, mentre tutti i 1200 membri delle simmorie sostenessero l’eisphora e le spese navali come synteleis dei trierarchi.224 Gabrielsen ha tuttavia dimostrato inequivocabilmente che al funzionamento del sistema trierarchico erano necessari almeno 1200 individui con una fortuna 216 Rhodes (1982: 8). 217 Cfr. de Ste. Croix (1953: 69). 218 Liddel (2007: 276). Cfr. Poddighe (2010), Migeotte (2014: 519–22) 219 Dem. 47.21–22, 44; Dem. 14.16–17; Dem. 18.102–104; Dem. 21.154–155 con Gabrielsen (1994: 182–199). 220 Cfr. Rhodes (1981: 680–1); MacDowell (1986); Gabrielsen (1994: 182–93). 221 F.A. Wolf (1789: CI–CXVI); Boeckh (1840: 178; 1886: I, pp. 609, 615, 618, 647); Thumser (1880: 63); Kahrstedt (1910: 224); de Ste. Croix (1953: 45); Jones (1957: 28); Thomsen (1964: 88–89). 222 Ruschenbusch (1978, 1985). 223 Mossé (1979: 31–42). 224 MacDowell (1986: 440).



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superiore a 3–4 talenti che potessero agire personalmente come trierarchi.225 Rhodes ritiene che passi come §28, che affermano che non tutti coloro che pagavano l’eisphora si dovessero sottoporre anche alle trierarchia (comm. §28[2]), siano più facilmente interpretabili pensando a due distinti sistemi di simmorie, per cui i membri delle simmorie dell’eisphora sarebbero stati non 1200 ma un numero maggiore.226 L’esistenza di due sistemi paralleli chiamati entrambi simmorie non è problematica: la pubblicazione della legge granaria di Agirrio sulla dodekate e la pentekoste di Lemno, Imbro e Sciro stipula che porzioni di 3000 medimni della tassa riscossa siano responsabilità di simmorie di sei individui, responsabili di fronte alla città della consegna del grano (ll. 31–6).227 Questa formulazione mostra che simmoria era un termine generico applicato a qualsiasi tipo di raggruppamento contributivo, e che non postula che i raggruppamenti contributivi siano gli stessi ogni volta che è usato. E infatti, a §23 Demostene propone di creare un ulteriore sistema di simmorie per le liturgie ordinarie – ulteriori, diversi raggruppamenti contributivi per risolvere il problema della mancanza di liturgisti (vd. p. 63). Demostene tentò di riformare il sistema ulteriormente nel 354/3 (Dem. 14), proponendo di allargare il numero dei contribuenti a 2000 e organizzare il prelievo in percentuale alla ricchezza dei singoli contribuenti. La sua riforma ricalcava il modello delle simmorie dell’eisphora, ma la proposta non fu accolta.228 Il suo tentativo mostra tuttavia che nonostante la legge di Periandro il funzionamento del sistema trierarchico era ancora problematico. In seguito, quando allo scoppio della guerra con Filippo (340) si trovò in una posizione di forza, Demostene ottenne di trasferire l’onere completamente o per la parte più consistente ai trecento più ricchi (Dem. 18.102–109; Aeschin. 3.222; Din. 1.42; Hyp. fr. 134 Jensen).229 Le proposte di Demostene sono indicative di un clima in cui il funzionamento del sistema liturgico era in crisi, e gli Ateniesi stavano vagliando varie opzioni di riforma. La guerra e la crisi economica avranno assottigliato il numero dei possibili liturgisti, e ancora maggiormente chi fosse disponibile 225 Gabrielsen (1994: 45–53, 176–82). 226 Rhodes (1982: 5–11). Cfr. Gabrielsen (1994: 182–193), pace Hansen (1999: 112– 15). 227 Vd. per questa legge Stroud (1998); le interpretazioni alternative di Harris (1999) e Faraguna (1999); Jakab (2007), Moreno (2003); Magnetto, Erdas, Carusi (2010). 228 Cfr. Rhodes (1981: 680; 2006: 332). 229 Completamente: Jones (1957: 88); Davies (1971: XXIX); Ruschenbusch (1978: 283). Per la parte più consistente: Gabrielsen (1989: 153–8); Hansen (2003: 172–3). I trecento più ricchi erano identificati come i Trecento dai quali si prelevava la proeisphora (cfr. Gabrielsen 1994: 190–3; Canevaro 2013a: 268 n. 69).

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a svolgere queste incombenze volontariamente. In questo contesto il sistema non era esente da critiche, in particolare per l’attenzione riservata alle liturgie ordinarie: alcuni avranno spinto per dare priorità alle liturgie militari, o per riformarne il funzionamento. Demostene stesso a §26 sostiene che obiettivo delle liturgie ordinarie sia la gratificazione degli spettatori, mentre quello delle liturgie militari sia la salvezza della città; che l’effetto delle liturgie ordinarie sia limitato a un numero ridotto di individui e soltanto a parte del loro tempo (comm. §26[7]). Nella Quarta Olintiaca Demostene (4.36) lamenta ancora che i festival sono ben organizzati e finanziati meglio delle spedizioni navali (cfr. Plut. De glor. Ath. 349a). Licurgo (1.139–40) sostiene che i ricchi non dovrebbero chiedere riconoscenza alla città in cambio di servizi quali le coregie o l’allevamento di cavalli che portano vantaggi e premi (corone) a loro stessi e alle loro famiglie prima che alla città, ma piuttosto per le trierarchie, per la costruzione di mura, o per donazioni a sostegno dello sforzo bellico. In questo modo, come Demostene, dipinge le liturgie ordinarie come inferiori. Arist. Pol. 1309a14–20 sostiene che nelle democrazie sarebbe meglio che si risparmiassero ai ricchi le costose ma inutili coregie e lampadarchiai. Demetrio di Falero afferma che per molte famiglie il tripode del corego vincitore è null’altro che l’ultima libazione delle sue ricchezze esaurite, e un cenotafio per molte famiglie fallite (FGrH 228 F 25).230 Le coregie furono infine sostituite negli ultimi vent’anni del IV secolo dall’agonothesia, che contemplava un magistrato eletto, l’agonothetes, in carica dell’amministrazione e dell’allestimento di tutte le competizioni (agones) delle Dionisie (non è chiaro se anche le Lenee e le Targhelie siano state trasferite sotto il suo controllo contemporaneamente). Il finanziamento di queste competizioni veniva dalla città, ma col tempo gli agonothetai vennero a spendere sempre di più in prima persona, ricevendone in cambio onori e privilegi.231 La legge di Leptine va interpretata nel contesto di questa crisi e di queste discussioni, come un’ulteriore misura volta a risolvere i problemi di reclutamento del sistema liturgico. 230 Vd. Wilson (2000: 264–71). Per il costo delle liturgie per la Grandi Dionisie e per le Panatenee vd. sopra p. 49 n. 199. Pritchard (2015) mostra comunque che la spesa per i festival era di molto inferiore a quella militare. 231 Sull’agonothesia cfr. Goette (2007: 140–3); Latini (2003); Summa (2003); Wilson (2000: 271–3, 307–8); Wilson-Csapo (2012). La sua istituzione è stata generalmente attribuita a Demetrio di Falero, fin da Köhler (1878: 240, cfr. Mikalson 1998: 54–9), ma Wilson e Csapo (2012) sostengono che abbia origini precedenti a Demetrio, e che si sia sviluppata gradualmente, e sia stata infine introdotta formalmente dalla democrazia restaurata dopo il 307. Anche Bayliss (2011: 105) ascrive l’istituzione alla democrazia restaurata, ma come risposta all’abolizione della coregia da parte di Demetrio.

7.  La legge di Leptine e i suoi obiettivi I problemi affrontati dalla legge di Leptine, così come i temi della critica demostenica, offrono uno spaccato del dibattito economico di questi anni. La legge di Leptine fu probabilmente approvata nel 356/5, negli ultimi mesi della Guerra Sociale (vd. pp. 8–12). In questi mesi gli Ateniesi, prostrati finanziariamente e privati dell’impero, approvarono norme per promuovere le relazioni diplomatiche e il commercio come fonte di ricchezza per la città, parte di politiche di medio e lungo periodo volte a rilanciare la supremazia della città, economica e diplomatica piuttosto che militare (vd. pp. 4–7). Al contempo, gli Ateniesi dovevano far fronte alla cronica mancanza di fondi. Le misure di Aristofonte e Androzione, come i processi intentati da Eubulo, erano tentativi di breve termine di risanare le casse pubbliche e garantire il funzionamento delle istituzioni. La legge di Leptine era una misura analoga, ma il suo contributo specifico non è chiaro. Demostene chiede al segretario di leggere la legge a §95, ma il testo non è conservato. È chiaro che la legge aboliva le ateleiai (esenzioni) preesistenti, e rendeva l’ateleia illegale in futuro: già a §2 Demostene cita verbatim le espressioni “nessuno sia esente” e “né sia lecito accordare un’esenzione in futuro”, ripetute frequentemente nel discorso. Non è chiaro tuttavia se si applicasse a ogni forma di esenzione, o soltanto a specifici tipi di ateleia – Demostene, come vedremo, distorce le disposizioni della legge, e dà una rappresentazione ingannevole del suo raggio di applicazione. MacDowell identifica cinque diversi tipi di ateleia esistenti ad Atene:232 1) ateleia dalle liturgie, che si poteva ottenere per un decreto onorifico o automaticamente per aver svolto una liturgia l’anno precedente o una trierarchia nei due anni precedenti (orfani, epikleroi e cleruchi erano automaticamente esenti);233 2) ateleia dal servizio militare, a seguito della nomina a determinate magistrature (Dem. 21.15, 39.16, [Dem.] 59.27); 3) ateleia dall’obbligo di servire come arbitro pubblico in casi privati nel sessantesimo anno di età, se non si era ad Atene o si stava servendo come magistrato ([Arist.] Ath. Pol. 53.5); 4) tutte le proprietà nelle miniere d’argento erano 232 MacDowell (2004: 127–8). Cfr. Henry (1983: 241–3) e Migeotte (2014: 458–67). Sull’ateleia fuori da Atene vd. Knoepfler (2001: 55–60, per la Grecia centrale), Rubinstein (2009), Migeotte (2014: 102–19). 233 Vd. pp. 47–54 per le liturgie e pp. 58–9, comm. §§8[3] e 19[2] e pp. 77–97 per le esenzioni per via delle trierarchie e per quelle onorifiche. Cfr. Lys. 32.24 e Dem. 14.16 per orfani, epikleroi e cleruchi.

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esenti ai fini della valutazione della ricchezza di un individuo sottoposto ad antidosis (Dem. 42.18); 5) i meteci potevano essere esenti dal metoikion.234 Troviamo poi, integrato convincentemente in un’iscrizione (IG II3 1 393 l. 5), oltre che in [Arist.] Ath. Pol. 42.5 e in questa stessa orazione (§60), riferimenti ad ἀτέλεια ἁπάντων o πάντων. Quando ateleia non ha specificazioni fa probabilmente riferimento a questa forma di ateleia totale.235 Demostene non è chiaro, e talvolta si contraddice, su quali di queste esenzioni fossero abolite dalla legge di Leptine. A §29 infatti comincia una sezione del discorso nella quale l’oratore discute una serie di benefattori premiati con l’ateleia. Qui, e in particolare a §§29–40, l’oratore dà l’impressione che la legge abolirà tutte le esenzioni, incluse quelle da tasse portuali e dai dazi commerciali. Il primo esempio è Leucone, il sovrano del Bosforo (comm. §29[5–6]). Il regno di Leucone era una delle principali fonti di approvvigionamento granario per Atene, fornendo secondo Demostene 400000 medimni di grano all’anno (comm. §§31[1], 32[3]). Le sue esenzioni non si limitavano probabilmente alle liturgie, ma includevano tutti i dazi commerciali ed erano dunque parallele a quelle che Leucone aveva accordato agli Ateniesi nei suoi domini.236 A §29 Demostene cita l’espressione chiave della legge (“nessuno dei cittadini, degli isoteleis e degli stranieri sia esente”, vd. comm. §29[2]) e lamenta che non specifica 234 Sui meteci e il metoikion vd. comm. §20[4]. Questa esenzione era normalmente chiamata isoteleia, ma alcune iscrizioni suggeriscono che potesse essere chiamata ateleia (cfr. Henry 1983: 244–5). 235 Cfr. Henry (1983: 241–3), Knopfler (2001: 56 n. 179, 58 n. 193), MacDowell (2004: 127–8). Lambert (2006: 136 n. 99), sulla base di un possibile parallelo in RO 8 (=IK Erythiai and Klazomenai 6) ll. 8–11, ipotizza che ἀτέλεια πάντων non significhi ἀτέλεια πάντων τέλων (da ogni forma di tassa o imposizione) ma piuttosto πάντων χρημάτων (da ogni tassa sulle importazioni e sulle esportazioni). È improbabile che gli Ateniesi potessero impiegare un’espressione come ἀτέλεια πάντων, il cui raggio di applicazione è letteralmente illimitato, per alludere in modo sincopato a un’ἀτέλεια limitata alle sole importazioni e esportazioni (RO 8 deve specificare πάντων χρημάτων per indicare questa limitazione). Si noti inoltre che l’espressione ἀτελεῖς πάντων si trova anche a [Arist.] Ath. Pol. 42.5 in riferimento agli efebi, la cui esenzione non voleva certo garantire loro privilegi commerciali, ma piuttosto ripararli durante l’efebia dagli obblighi liturgici. A §60 Demostene nota che l’ἀτέλεια ἁπάντων era stata concessa ad Archebio ed Eraclide insieme alla prossenia e al titolo di evergeti. Poiché Archebio ed Eraclide erano all’epoca esuli da Bisanzio, è probabile che la loro ateleia non fosse limitata alle tasse sulle importazioni e sulle esportazioni, ma comprendesse quantomeno il metoikion, e presumibilmente le liturgie, nel caso passassero l’esilio ad Atene. 236 Cfr. Schol. Dem. 20.44.113 Dilts; Hagamajer Allen (2003: 236); MacDowell (2004: 128–9); Oliver (2007a: 22–3, 30–7). Engen (2010: 284) sostiene (a torto) che l’esenzione dai dazi commerciali si sarebbe applicata solo se Leucone fosse salpato personalmente alla volta di Atene, ma vd. comm. §31[5].



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da cosa esattamente i cittadini, gli isoteleis e gli stranieri non possono essere esentati. Così Demostene afferma implicitamente che la legge di Leptine abolirà tutte le esenzioni. A §§31–2 riassume poi i benefici accordati da Leucone agli Ateniesi: non solo è la più grande fonte di grano, ma ha accordato un’esenzione da tutte le tasse sulle esportazioni (3.(3)%), sia al Bosforo sia a Teodosia, a tutti i mercanti, a prescindere dalla loro origine e nazionalità, che acquistano grano per venderlo ad Atene. Demostene sostiene che è impensabile che Leucone permetta agli Ateniesi di conservare queste esenzioni se le sue esenzioni ad Atene vengono abolite. L’argomentazione si fonda sull’equiparazione delle esenzioni accordate da Atene con quelle accordate da Leucone, per cui suggerisce che la legge di Leptine abolirà tutte le esenzioni di Leucone, anche quelle sulle tasse portuali, sulle importazioni e sulle esportazioni (comm. §31[5]). La logica economica sfruttata da Demostene è la stessa a cui fa appello Senofonte nei Poroi (3.4) quando suggerisce di onorare i più importanti mercanti stranieri. Gli onori hanno conseguenze di larga portata sul piano commerciale ed economico, di cui gli Ateniesi erano ben coscienti. L’argomentazione demostenica sfrutta queste dinamiche e afferma che la legge di Leptine comporterà la fine di importanti privilegi commerciali.237 L’argomentazione è efficace, ma si fonda su un’interpretazione parziale della legge di Leptine. Davvero la legge aboliva tutte le esenzioni, anche dai dazi e dalle tasse commerciali?238 Demostene mostra chiaramente a §§18–28 che lo scopo della legge era garantire che ci fossero liturgisti sufficienti a espletare le circa cento liturgie annuali. Aveva un obiettivo di breve termine: fronteggiare la scarsità cronica di liturgisti abolendo le esenzioni dalle liturgie. Le esenzioni dalle tasse e dai dazi commerciali sono irrilevanti. E infatti a §127 Demostene cita verbatim un’ulteriore clausola della legge: ὅπως ἂν οἱ πλουσιώτατοι λειτουργῶσι (“affinché i più ricchi si accollino le liturgie”). Proposizioni finali con ὅπως ἂν sono usate frequentemente nelle iscrizioni attiche per chiarire l’obiettivo di una misura (p. es. IG II2 42 ll. 6–7 e 21–2; IG II2 43 ll. 9–10; IG II2 141 ll. 20–1). Questa clausola dunque è coerente col linguaggio delle iscrizioni, e chiarisce che le disposizioni “nessuno dei cittadini, degli isoteleis e degli stranieri sia esente” e “in futuro non sia possibile accordare un’esenzione” si riferivano esclusivamente alle esenzioni dalle liturgie, non a tutte le esenzioni (comm. §127[2]). L’obiettivo era far

237 Sul merito di queste argomentazioni vd. pp. 95–7. 238 Come ipotizzato da MacDowell (2004: 128), Kremmydas (2012: 53).

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sì che i più ricchi tra i 1200 possibili liturgisti si sobbarcassero le liturgie,239 e non aveva nulla a che fare con gli altri tipi di esenzione. Demostene dà l’impressione che tutte le esenzioni di Leucone saranno abolite, ma questa impressione è dunque ingannevole,240 e l’oratore stesso lo ammette a §40, quando suggerisce che con la legge di Leptine chiunque può ora chiedere a Leucone di accollarsi una liturgia e chiamarlo a un’antidosis. Il suggerimento è assurdo – Leucone non viveva ad Atene – ma mostra che persino in questa discussione Demostene deve infine ammettere che la legge si applica solo alle liturgie (comm. §40[1]). Il testo della legge, ricostruito dalle citazioni sparse per il discorso (§§2, 29, 97, 127, 128, 170), si riferiva soltanto alle liturgie: Λεπτίνης εἶπεν· ὅπως ἂν οἱ πλουσιώτατοι λειτουργῶσιν, μηδένα μήτε τῶν πολιτῶν μήτε τῶν ἰσοτελῶν μήτε τῶν ξένων εἶναι ἀτελῆ πλὴν τῶν ἀφ᾽ Ἁρμοδίου καὶ Ἀριστογείτονος, μηδὲ τὸ λοιπὸν ἐξεῖναι δοῦναι. Leptine ha proposto: affinché i più ricchi si accollino le liturgie, nessuno, né dei cittadini né degli isoteli né degli stranieri, sia esente eccetto i discendenti di Armodio e Aristogitone, né sia lecito accordare l’esenzione in futuro.

Qual era dunque il problema che Leptine cercava di risolvere? Quali erano le ragioni della mancanza di liturgisti? Davies ha identificato almeno 97 liturgie annuali negli anni normali, e almeno 118 negli anni panatenaici. Servivano dunque ogni anno circa 100 liturgisti, da selezionare tra i 1200 Ateniesi più ricchi (circa il 4%), con una ricchezza sopra i 3–4 talenti (vd. pp. 47–8). A questi si aggiungevano per alcune liturgie un certo numero (probabilmente non sostanziale) di meteci. Non sembra un’impresa complessa, ma bisogna tenere in considerazione che non tutti questi 1200 possibili liturgisti erano realmente disponibili. P. es. chi serviva da trierarca era automaticamente esente dalle altre liturgie. Atene aveva generalmente più di 300 navi, ma non più di 250 erano attive in un dato anno, e l’esenzione spettava probabilmente al trierarca principale, non a chi contribuiva alla simmorie.241 Dunque ogni anno almeno 200/250 individui erano esenti attraverso l’espletamento 239 Non era dunque una manovra redistributiva che sgravava i poveri (vd. pp. 66–7), pace Burke (2002), perché il peso liturgico era spostato all’interno del 4% più ricco dei cittadini. Cfr. comm. §18[2] sul concetto relativo di penia. 240 Schol. Dem. 20.44.113 Dilts casca nella trappola di Demostene e afferma (correttamente) che Leucone fosse esente sia dalle liturgie sia dai dazi commerciali, ma ritiene per questo (erroneamente) che entrambe le esenzioni fossero abolite dalla legge. Oliver (2007a: 30–1) segue lo scoliasta sulla natura delle esenzioni di Leucone, ma non elabora su quali tra queste esenzioni fossero abolite dalla legge. 241 Gabrielsen (1994: 85–7), Van Wees (2004: 308–10).



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della trierarchia, e altri 400/500 in quanto erano stati trierarchi nei due anni precedenti (contando soltanto un trierarca per nave), in quanto la trierarchia comportava successivamente due anni di esenzione dalle liturgie.242 Inoltre, chi si era sottoposto a una liturgia ordinaria (circa 100 individui), oltre a non poter espletare due liturgie allo stesso tempo,243 era esente per l’anno successivo (comm. §8[3]), e nessuno doveva espletare la stessa liturgia più di una volta. Per certe litugie c’era inoltre un limite inferiore di età, p. es. 40 anni per i coreghi dei cori dei giovani, almeno dal 345 (Aeschin. 1.11).244 In aggiunta, ereditiere (epikleroi), orfani e associazioni erano anch’essi esenti (Dem. 14.16). Se si sommano queste categorie di esentati e si considera che nella difficile situazione economica al termine della Guerra Sociale saranno mancati consistenti numeri di volontari (cfr. comm. §8[3]), è chiara la motivazione di una legge che riformava il servizio liturgico: su circa 1200 possibili liturgisti, fino a 800/900 potevano essere esentati in un dato anno per via delle prestazioni che stavano svolgendo o che avevano svolto in passato, a cui bisognava aggiungere, tra gli altri, orfani, epikleroi e beneficiari di esenzioni onorifiche. Problemi nel trovare abbastanza trierarchi non esenti sono affrontati da Demostene nel discorso Sulle Simmorie,245 nel quale l’oratore propone una riforma del sistema trierarchico che garantisca numeri sufficienti per i bisogni della città. Il problema affrontato da Leptine era dunque serio e reale. La sua legge tentava di affrontarlo con l’abolizione delle esenzioni dalle liturgie. La risposta di Demostene è efficace ma ingannevole. Mentre a §§29–40 cerca di dare l’impressione che la legge di Leptine avesse un raggio di applicazione più vasto di quanto fosse effettivamente il caso (e abolisse anche le esenzioni da tasse e dazi commerciali), a §§18–28 Demostene sostiene che non risolveva neppure il problema per cui era stata proposta: la mancanza di liturgisti. A §§29–40 Demostene esagera le conseguenze della legge; a §§18–28 le dipinge ingannevolmente come irrilevanti. L’argomentazione è superficialmente persuasiva: Demostene affronta in profondità le implicazioni della legge e pare confutarne gli apparenti vantaggi. Primo, rimarca che tutti i cittadini ateniesi sono comunque esenti almeno per metà del tempo (§8), perché non è possibile imporre una liturgia a chi ne 242 Vd. comm. §8[3]. Van Wees (2004: 308 n. 31) osserva di conseguenza che saranno serviti almeno 700–800 trierarchi potenziali. Cfr. comm. §19[2]: l’esenzione di due anni che segue la trierarchia è non solo dalla trierarchia, ma da tutte le liturgie. 243 Inclusa la trierarchia, vd. Gabrielsen (1994: 86). 244 Aeschin. 1.9–11 con Gabrielsen (1994: 85), Wilson (2000: 55–6). 245 Vd. pp. 7, 66, 70 (cfr. Dem. 14.12–18). Vd. Gabrielsen (1994: 83–4) per testimonianze epigrafiche sulla mancanza di trierarchi.

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abbia sostenuta una l’anno precedente. Quindi (§18), rispondendo alla rivendicazione di Leptine che la sua legge distribuisce più equamente l’onere delle liturgie sgravando i poveri, Demostene nota che in ogni caso nessuno è esente dalla trierarchia e dall’eisphora,246 e che accollarsi la trierarchia garantisce comunque l’esenzione dalle liturgie ordinarie. Considerando dunque che i trierarchi sono comunque esentati, e che la legge di Leptine non può costringere a sobbarcarsi una coregia chi non appartenga alla classe liturgica (chi abbia una ricchezza inferiore ai 3–4 talenti), Demostene può minimizzare gli effetti della legge. L’oratore nega che la legge porterà più di cinque nuovi liturgisti persino alle liturgie dei meteci, e conclude (§21) che, anche abbondando, la legge di Leptine non raccoglierà nel complesso più di trenta nuovi liturgisti, un numero risibile se si considera che le liturgie ordinarie coinvolgevano annualmente intorno ai 100 liturgisti,247 mentre il numero totale dei membri della classe liturgica è intorno ai 1200. La legge di Leptine non risolverà dunque il problema della scarsità dei liturgisti. Piuttosto, sarebbe più utile riunire i liturgisti in raggruppamenti contributivi come è accaduto per i trierarchi (comm. §23[2]). Il ragionamento di Demostene, se si accoglie, come accade in genere, la sua lettura della legge, è inattaccabile.248 Ma è possibile che un politico dell’esperienza e statura di Leptine avesse proposto una legge tanto inefficace, raccogliendo un supporto trasversale? L’obiettivo di Leptine era rimediare alla cronica carenza di liturgisti e trasferire il peso liturgico dai più poveri tra i 1200 ai più ricchi. Se Demostene avesse ragione, la legge avrebbe creato forse trenta nuovi liturgisti, sessanta se anche raddoppiassimo la cifra per neutralizzare i pregiudizi di Demostene. La misura farebbe comunque poca differenza e non causerebbe nessun trasferimento del peso liturgico verso i più ricchi tra i 1200, che sarebbero comunque esenti grazie alle trierarchie. L’argomentazione di Demostene si fonda tuttavia su un presupposto che non ha riscontro nelle citazioni della legge, ma solo nelle parole autonome di Demostene: che le esenzioni abolite siano esclusivamente quelle onorifiche. La legge di Leptine disponeva che “nessuno, né dei cittadini né degli isoteli né degli stranieri, sia esente eccetto i discendenti di Armodio e Aristogitone né sia lecito accordare l’esenzione in futuro”. Specificava inoltre che il fine della legge era che i più ricchi si accollassero le liturgie. Ordinava dunque che non si potesse più in futuro accordare l’ateleia, che tutte le esenzioni esistenti 246 In realtà l’esenzione dall’eisphora era permessa, vd. comm. §18[4]. 247 Pace il numero di sessanta dato da Demostene a §21 vd. comm. §21[6] e p. 49. 248 Cfr. p. es. Sandys (1890: XI–XVIII); Schaefer (1885–1887: I, pp. 353, 391); Momigliano (1975: 247–8); Sealey (1993: 126); Badian (2000: 27–8); Burke (2002: 177–9); Rhodes (2006: 332); Worthington (2013: 78–9).



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fossero cancellate, ma non affermava in nessuna delle sue disposizioni che le esenzioni in questione fossero solo quelle onorarie. Al contrario, secondo il dettato della legge, le esenzioni cancellate sono quelle dalle liturgie – ogni tipo di esenzione dalle liturgie. La legge non esclude le esenzioni che risultino dall’espletamento di una liturgia l’anno precedente, o di una trierarchia nei due anni precedenti – queste esenzioni, secondo il dettato della legge, verrebbero anch’esse abolite. Ne risulterebbe, pace Demostene, che i ricchi non sarebbero più sempre esenti dalle liturgie grazie alle trierarchie, ma dovrebbero prendersene carico a prescindere dal fatto che abbiano svolto una trierarchia nei due anni precedenti. Chiunque tra i 1200 fosse selezionato ma si ritenesse più povero di un ex-trierarca (dei due anni precedenti) avrebbe potuto chiamarlo a un’antidosis. Un individuo molto ricco che fosse stato corego l’anno precedente non sarebbe stato automaticamente esente dalle liturgie. Se questa interpretazione è corretta, la legge di Leptine avrebbe avuto esattamente gli effetti che Leptine le attribuiva: avrebbe aggiunto ogni anno al numero dei liturgisti disponibili tra i 400 e i 500 trierarchi, e altri 100 liturgisti, assicurando un numero abbondantemente sufficiente di liturgisti, e che i più ricchi avrebbero sempre svolto le liturgie per primi.249 Demostene non porta argomenti specifici contro questa interpretazione, ma si limita a sopprimere questa possibilità. Le sue parole tuttavia, nel rappresentare l’argomentazione di Leptine, mostrano che queste erano in realtà le conseguenze della legge, e Leptine lo aveva affermato esplicitamente. A §20 Demostene sostiene che non ci siano neppure cinque meteci che diventerebbero liturgisti per effetto della legge. Queste sono le sue parole: Me ne mostri cinque e allora ammetterò di dire delle sciocchezze. Ma poniamo che la faccenda non sia come la dipingo io e che, se la legge è promulgata, ci saranno più di cinque meteci a sostenere le liturgie e nessun cittadino sarà esente per via di una trierarchia. Consideriamo quindi quali vantaggi ci siano per la città se tutti questi individui sostengono le liturgie: sarà allora evidente che questi vantaggi non compensano neanche lontanamente la vergogna che ne verrà alla città.

La sua ammissione per assurdo che “nessun cittadino sarà esente per via di una trierarchia” sembra provenire direttamente dagli argomenti di Leptine, e non ha nulla a che fare col numero di meteci esenti qui discussi, perché i meteci non possono diventare trierarchi. Demostene cambia immediatamente discorso, per occultare la sua ammissione, e discute il disonore che la legge 249 Ma, pace Burke (20012) e Worthington (2013: 78–83), la legge comportava uno spostamento del peso fiscale nell’ambito della classe liturgica, e le classi effettivamente non abbienti non sarebbero state coinvolte vd. pp. 66–7.

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di Leptine causerà alla città, per concludere che ci saranno al più sedici, venti, trenta nuovi liturgisti, non sufficienti a giustificare questa vergogna. Ma è chiaro che, se “nessun cittadino sarà esente per via di una trierarchia”, il numero di liturgisti supplementari ogni anno non sarà 30; sarà almeno 400. Questo è confermato anche da quanto Demostene afferma a §26: secondo l’oratore uno degli argomenti della difesa è che molti tra i ricchi si arricchiscono ulteriormente ἀναπαυομένους, a cui Demostene ribatte che le ricchezze che accumulano sono necessarie agli Ateniesi più in generale (comm. §26[7]), perché permettono loro di sobbarcarsi p. es. le trierarchie. ἀναπαυομένους è riferito qui alle esenzioni. Il verbo ἀναπαύω tuttavia nel medio e nel passivo significa “riposarsi”, “recuperare”, per cui deve riferirsi a una pausa temporanea dalle contribuzioni. Non ha senso riferito alle esenzioni onorifiche, che sono a vita (non sono, cioè, periodi di pausa). L’uso di ἀναπαυομένους nel riportare l’argomentazione di Leptine è un’altra prova che la legge di Leptine intendeva abolire tutte le esenzioni dalle liturgie, incluse quelle temporanee (di uno o due anni) che si ottenevano in seguito all’espletamento di una liturgia (comm. §26[2]). Questo avrebbe avuto conseguenze sostanziali sul funzionamento del sistema liturgico, che Demostene preferisce sopprimere. Le citazioni sparse per il discorso suggeriscono dunque che la legge aboliva tutte le esenzioni dalle liturgie, non solo quelle onorifiche. Demostene tenta di sopprimere questa realtà, per poter sostenere che la legge sarà inefficace, e che non riuscirà a raggiungere gli obiettivi che Leptine si è posto: assicurare un numero sufficiente di liturgisti, e spostare il peso delle liturgie ordinarie dai più poveri ai più ricchi tra i 1200 possibili liturgisti. Sviluppato questo argomento, Demostene può quindi sostenere che i magri benefici che la legge porterà non giustificano il danno alla reputazione della città. Tuttavia, persino mentre sviluppa queste argomentazioni, Demostene deve concedere che l’argomento principe di Leptine è che i trierarchi dei due anni precedenti non saranno più esentati dalle liturgie. Più avanti, quando discute particolari benefattori che verranno danneggiati dalla legge, Demostene utilizza invece la strategia inversa: sostiene (ma non dimostra) che la legge potrebbe avere un’applicazione più vasta di quanto Leptine ammetta, e cancellare anche le esenzioni commerciali, dalle tasse e dai dazi portuali, sulle importazioni e sulle esportazioni. Demostene dunque sviluppa in punti diversi dell’orazione argomentazioni opposte e incompatibili. Le sue argomentazioni contro la legge sono dunque doppiamente ingannevoli, il che non è sorprendente, se si considera che sono sviluppate in un discorso di accusa il cui obiettivo è convincere i



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giudici ad abrogare la legge. Ma i problemi che Leptine tentava di risolvere erano reali. Al termine della Guerra Sociale, con la crisi economica, le spese belliche e la perdita degli alleati, sarà stato difficile per i più (relativamente) poveri tra i 1200 Ateniesi più ricchi trovare le risorse per sobbarcarsi esose liturgie ogni due anni. La ricchezza di alcuni che tradizionalmente avevano fatto parte della classe liturgica sarà anche scesa sotto i tre talenti, e le sostanze di altri saranno state più vicine ai tre che ai quattro talenti richiesti. Poiché i più ricchi erano permanentemente esenti per via delle trierarchie, che si accollavano ogni tre anni, doveva essere difficile trovare un numero sufficiente di Ateniesi che potessero sobbarcarsi le liturgie ordinarie, e il peso di queste liturgie doveva essere diventato insopportabile per molti che in precedenza le sostenevano senza difficoltà. La legge di Leptine, rendendo disponibile anche per le liturgie ordinarie chi espletava in genere le trierarchie, offrì una soluzione a questo problema, costringendo i più ricchi a sobbarcarsi gran parte delle liturgie e sgravando i più poveri tra i 1200. Demostene non nega che ci sia un problema; semplicemente non è d’accordo con la soluzione: a §23 suggerisce che un modo più funzionale di risolvere il problema sarebbe la creazione, anche per le liturgie ordinarie, di raggruppamenti contributivi (symmoriai) sul modello dell’eisphora e delle trierarchie (vd. pp. 51–3). Per quale ragione Demostene si oppone alla soluzione di Leptine? Nelle prossime sezioni si discuteranno le motivazioni dell’oratore nel partecipare all’accusa, e la natura (e la validità) della sua critica alla legge, che si fonda sull’importanza, e su una comprensione sofisticata, dell’economia degli onori di Atene.

8.  La partecipazione di Demostene: interpretazioni Come si è visto, un numero significativo delle più importanti personalità politiche dell’epoca sembra avere sostenuto questa legge (vd. pp. 37–46). Demostene, probabilmente per la prima volta nella sua carriera in un importante processo pubblico, scelse di intervenire personalmente in tribunale (vd. pp. 8–11: 355/4 a.C.). È legittimo domandarsi perché scelse di partecipare all’accusa, contro un team di difesa di così alto profilo e contro una legge che godeva di supporto trasversale. L’atteggiamento, i motivi e le idee politiche di Demostene in questa prima fase della sua carriera sono stati ampiamente dibattuti, e la difficoltà a definirne l’orientamento, prima che l’opposizione a Filippo desse alla sua azione una chiara direzione, è riflessa nella pluralità delle posizioni in proposito.250 È utile fornire una rassegna delle posizioni più influenti sull’orientamento politico di Demostene in questi anni, discuterne i presupposti, e valutarne la coerenza con quanto si può ricavare dai suoi discorsi. I presupposti taciti di queste letture hanno infatti a lungo condizionato l’apprezzamento e la comprensione degli argomenti della Contro Leptine. Sia Beloch sia Schaefer (che sviluppava la ricostruzione di Grote) intesero il personaggio di Demostene monoliticamente, e pur sostenendo che dopo la Guerra Sociale, si fosse creata ad Atene una polarità tra due gruppi capitanati da Aristofonte ed Eubulo, rifiutarono (per ragioni diverse) di ascrivere Demostene a uno di essi.251 Beloch considerò Demostene un fanatico, senza incoerenze nella sua azione politica: le sue idee per Beloch erano irriducibili a quelle di Eubulo, da lui tratteggiato come un accorto e moderno uomo d’affari e abile amministratore.252 Schaefer considerò invece Demostene un “apostolo eroico della libertà”,253 negando qualsiasi virata nella sua azione, diametralmente opposta alle prudenti politiche del pavido Eubulo. Questo schema interpretativo, fortemente influenzato dalle “esigenze antitetiche della politica” del tempo in cui fu formulato254 – da una parte il culto della libertà e dall’altra le ragioni dello Stato Forte – fu poi superato 250 Questa sezione riprende, sviluppa, e in parte modifica gli argomenti di Canevaro (2009: 133). 251 Beloch (1884: 173 ss.; 1912–27: III/1, pp. 498–500); Grote (1846–1856: II, cap. 84ss). Cfr. Momigliano (1955: 225). 252 Beloch (1912–1927: III/1, pp. 483–6); cfr. Jaeger (1948: 77–8). 253 Momigliano (1975: 236). Per i rapporti con Eubulo vd. Schaefer (1885–1887: I, pp. 186–214). 254 Momigliano (1975: 235).



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da letture più flessibili della carriera dell’oratore, per cui la sua azione contro Filippo sarebbe stata preceduta da una fase giovanile in cui Demostene avrebbe seguito istanze diverse. Una lettura fortunata è quella proposta da Schwartz,255 e ripresa da Jaeger,256 per cui Demostene avrebbe in questi anni sostenuto la politica di Eubulo. Questa interpretazione si basa sulla considerazione delle varie misure di emergenza passate in questi anni, e volte a risanare le finanze pubbliche di Atene, come indirizzate a colpire le classi abbienti per rinnovare una politica estera imperialistica. A tali misure, proprie del partito di Aristofonte, Eubulo si sarebbe opposto globalmente, e dunque l’attività logografica di Demostene contro Androzione (Dem. 22; 24) e la sua partecipazione all’accusa contro Leptine sarebbero spie del suo allineamento con Eubulo in un’azione di contrasto al cosiddetto “partito democratico radicale”, prima di distaccarsi per proporre un’energica politica antimacedone. Momigliano contestò questa interpretazione già nel 1931, mostrando forti differenze tra Demostene e Eubulo nella politica estera fin da questi primi anni.257 La teoria che Demostene supportasse le politiche di Eubulo contro il partito di Aristofonte riposa inoltre sull’assunto che le orazioni contro Androzione, Leptine e Timocrate siano parte di un’azione unitaria contro la fazione di Aristofonte, un assunto, come si è visto, ingiustificato. Non c’è inoltre ragione di ritenere che Eubulo si fosse opposto alla legge di Leptine.258 Sealey ha inoltre evidenziato che è possibile che Demostene avesse ragioni anche personali per attaccare Androzione e Timocrate.259 Una convergenza più sfumata tra Demostene ed Eubulo è stata sostenuta più recentemente da una diversa angolazione: Burke ha ritenuto che l’oratore, senza essere alle dirette dipendenze di Eubulo, convergesse con lui sulla necessità di opporsi a politici come Androzione e Aristofonte, che tentavano

255 Schwartz (1893: 30 ss.). 256 Jaeger (1948: 75–89). Questa lettura è nel tempo assurta a vulgata, ed è ripresa ancora da Carlier (1990: 43–57), da Canfora (1974: 48–53) e da Worthington (2013: 89–91). 257 Per Momigliano (1975), Eubulo non poté mai conciliare le esigenze di una politica pacifista con l’incapacità di rinunciare a una politica antitebana. Demostene invece fu nei primi anni sostenitore tanto della pace quanto della neutralità nei confronti di Tebe, mentre fu diffidente verso Sparta. 258 Sealey (1955a; 1956), vd. pp. 37–46. 259 Cfr. la partecipazione di Timocrate ai tentativi di privare Demostene della sua eredità (Dem. 30.7–12) e il suo intervento a sostegno di Midia (Dem. 21.139). Cfr. Sealey (1993: 119–20). Demostene non partecipò tuttavia personalmente ai processi contro Timocrate e Androzione, ma solo come logografo.

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di risanare le casse ateniesi colpendo le classi abbienti.260 Demostene e Eubulo avrebbero rappresentato le élite. Se consideriamo tuttavia nel dettaglio le misure intese da Burke come “anti-élite”,261 la sua ipotesi diventa insostenibile. Burke sostiene che la violenza di Androzione nella riscossione degli arretrati dell’eisphora mostrerebbe la sua ostilità per “men of wealth and position”.262 Sarebbe inoltre significativo che quattro dei sei debitori pubblici perseguiti dalla commissione istituita da Aristofonte fossero membri della classe liturgica (Androzione, Archebio, Lisiteide e Timocrate).263 L’argomento non è convincente: primo, i membri della classe liturgica colpiti dal decreto di Aristofonte sono loro stessi, almeno nelle persone di Androzione e Timocrate, autori di misure “anti-élite”, e non membri dell’élite opposti a qualunque misura che colpisca i più ricchi. Secondo, va considerata rapidamente la riforma delle simmorie trierarchiche proposta nell’orazione Sulle Simmorie (vd. pp. 7, 70): Demostene propose di aumentare i membri delle venti simmorie trierarchiche da 1200 a 2000, per raggiungere, esclusi gli esenti, un numero effettivo di 1200 (Dem. 14.16). Così Demostene sgravava parzialmente i più facoltosi, allargando il bacino di raccolta dei fondi per le trierarchie.264 Gli 800 nuovi membri delle simmorie trierarchiche erano tuttavia per lo più già membri di quelle dell’eisphora,265 e dunque anch’essi tra i cittadini più facoltosi. I bersagli della violenta riscossione “anti-élite” di Androzione sono dunque gli stessi che Demostene colpisce con la sua proposta “pro-élite”.266 Nell’orazione Contro Leptine, non c’è traccia di una polarizzazione tra chi (Leptine e i syndikoi) vorrebbe colpire i più ricchi, e chi (l’accusa) si ergerebbe in loro difesa. L’abolizione delle esenzioni, mentre liberava alcuni tra i ricchi da una piccola parte dei loro oneri, distribuiva quegli oneri

260 Burke (2002). Contra Milns (2000: 209ss.), sulla base del linguaggio politico di Demostene. 261 Burke (2002: 173). 262 Burke (2002: 171–2), cfr. Dem. 22.47–78, 24.160–86. 263 Burke (2002: 173), cfr. Dem. 24.11–13. 264 Burke (2002: 179); cfr. Momigliano (1975: 239); pace Badian (2000: 30). 265 Sulle simmorie vd. pp. 51–3. 266 Non si può dunque sostenere con Worthington (2013: cap. 4) che Demostene cambiò posizione in modo strumentale e all’inizio della sua carriera tentò di sgravare i ricchi imponendo la trierarchia sui poveri, ma più tardi trasferì l’intero perso delle trierarchia sui 300 più ricchi. In entrambi i casi la redistribuzione del peso trierarchico è tra i più ricchi, e i poveri non sono mai implicati.



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su altri ricchi.267 La redistribuzione di Leptine è infatti tutta interna ai 1200 della classe liturgica, circa il 4% della popolazione. Né la legge di Leptine né l’opposizione di Demostene possono essere caratterizzate come popolari o elitiste. Così come non si possono identificare fazioni precise, non si può caratterizzare l’azione di Demostene come organica alle politiche di Eubulo o opposta a queste politiche, come elitista o popolare. C’era in questi anni un consenso trasversale sulla necessità di risanare le finanze ateniesi, e le linee di frattura si formavano pragmaticamente sul merito delle particolari proposte, piuttosto che aprioristicamente in funzione di forti divergenze ideali (p. es. democratici/popolari contro l’élite) e dell’appartenenza a schieramenti specifici (p. es. Eubulo contro Aristofonte). Altri studiosi hanno invece tentato di spiegare le posizioni di Demostene in questi anni non in funzione di scelte ideali, ma come tentativi strumentali di forgiare per sé stesso una carriera politica.268 Secondo queste interpretazioni l’obiettivo di Demostene, dopo aver recuperato parte del suo patrimonio,269 era esclusivamente far breccia nella cerchia dei rhetores più influenti.270 Indicativo sarebbe il fatto che la maggioranza degli esempi di oratoria giudiziaria di interesse politico conservati nel corpus (20, 22, 23, 24) appartengano a questi anni. Badian ne rintraccia la ragione nella volontà (presunta) di diffondere una versione scritta delle orazioni, a testimonianza delle sue abilità oratorie.271 La partecipazione di Demostene al processo contro la legge di Leptine avrebbe dunque ragioni esclusivamente pragmatiche e utilitaristiche. Il contesto forniva a Demostene l’occasione di mettersi in luce:272 l’anno intercorso dalla promulgazione della legge (§144) garantiva che Leptine non corresse rischi in prima persona, e questo proteggeva Demostene dal pericolo di incorrere nell’inimicizia di un rhetor influente (inimicizia che cerca di schivare lungo tutta l’orazione, adottando un tono insolitamente rispettoso, cfr. 267 Così Badian (2000: 30), cfr. Milns (2000: 209 ss), pace Worthington (2013: 78–83) che interpreta l’azione di Demostene come volta ad ottenere un “tax-break for the wealthy”. 268 Cfr. già Pearson (1964: 94–5), per cui ancora al tempo della Prima Filippica, “he was still quite undistinguished as a politician”, e non è saggio cercare “evidence of political allegiance so early”. 269 Cfr. per questa vicenda Cobetto Ghiggia (2007). 270 Cfr. Dem. 4.1 con Badian (2000: 36), Worthington (2013: cap. 4). 271 Usher (1999: 192); Badian (2000: 25–6). A prescindere dal risultato dei processi – si è spesso ritenuto, a torto (vd. pp. 98–100), che Demostene abbia avuto per lo più la peggio; cfr. Cawkwell (1962: 377–8); Burke (2002: 166); Rhodes (2006: 332) 272 Così Usher (1999: 193).

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comm. §13[3]). Senza suscitare pericolosi risentimenti, Demostene poteva confrontarsi con un collegio di difesa composto da uomini politici di prima grandezza, in un processo che ebbe ampia risonanza, e in difesa di una categoria a cui dovettero appartenere non tanto i più ricchi, quanto alcuni dei più importanti cittadini di Atene.273 Demostene aveva l’opportunità di pronunciare un discorso in difesa dei valori fondanti dell’ideologia democratica – la grandezza del passato della città e il valore della philotimia – dando mostra delle sue qualità davanti a un uditorio di grande distinzione. Questa interpretazione ha alcuni meriti: è essenziale tenere in considerazione l’età di Demostene, e la sua volontà di affermarsi tra i rhetores più influenti. D’altro canto, tenere in considerazione l’ambizione di Demostene non giustifica l’assunto che le sue posizioni fossero esclusivamente strumentali, senza riconoscibile coerenza, e indifferenti al benessere della città. Questa immagine del giovane Demostene come un cinico opportunista si trova ancora recentemente in Worthington (2013). Non si vuole qui difendere l’immagine dell’oratore come eroe della libertà. Demostene era un politico, con tutti i vizi dei politici. I criteri imposti da Badian e Worthington, sulla base dei quali giustificano la loro valutazione di Demostene e ne negano in questi primi anni ogni convinzione o spinta ideale, sono tuttavia irrealistici: ogni politico, anche quando lotta per una giusta causa, deve in qualche modo essere convinto che la sua azione sia necessaria per il successo di quella causa, altrimenti lascerebbe la lotta ad altri. La volontà di affermarsi politicamente è un dato di fatto, e non basta a provare che Demostene non avesse forti convincimenti politici e ideali e non agisse al loro servizio. La prova del suo cinismo, o al contrario dei suoi convincimenti ideali, va cercata nella sua azione e nei suoi discorsi, a prescindere dagli elementi di autopromozione, e questi discorsi non giustificano l’interpretazione di Demostene come un cinico opportunista, senza una direzione politica precisa prima che l’avvento di Filippo gli fornisse una causa per cui combattere. Innanzitutto, molti degli argomenti portati da Badian per interpretare l’azione politica di Demostene in questi anni come esclusivamente autopromozionale sono infondati. Che Demostene partecipasse a processi e dibattiti di rilievo non al fine di vincerli, ma per mettersi in evidenza, soprattutto con la pubblicazione dei discorsi, non ha fondamento. Innanzitutto, non è vero che in questi anni Demostene avesse sempre la peggio. Il processo contro la legge di Leptine risultò nell’abrogazione della legge – fu una vittoria di Demostene (vd. pp. 98–100). In secondo luogo, non c’è alcun riferimento 273 Badian (2000: 30); Worthington (2013: 78–84).



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nelle fonti alla pubblicazione dei discorsi di Demostene. I discorsi di Isocrate, prodotti come pamphlet, erano acquistabili dai librai ateniesi (Dion. Hal. Isoc. 18), ma non ci sono notizie analoghe per Demostene, e non c’è ragione interna ai discorsi che giustifichi l’assunto che siano stati rivisti e pubblicati dall’oratore.274 Al contrario, la presenza di discorsi di altri oratori nella collezione e la sticometria suggeriscono che il corpus derivi da un’edizione originale complessiva prodotta poco dopo la morte di Demostene, probabilmente composta a partire dai suoi documenti privati.275 La ragione per cui la maggioranza dei discorsi politici sopravvissuti è di questi anni è proprio l’inesperienza dell’oratore: mentre più tardi sarà stato in grado di improvvisare più frequentemente, nei primi anni avrà prodotto dettagliate versioni scritte. L’idea poi che attaccare una legge che aveva il sostegno trasversale dei politici più influenti di Atene fosse una buona strategia per mettersi in mostra è dubbia. Si basa sull’assunto non solo che Demostene non avesse ideali politici, ma che l’abrogazione della legge di Leptine fosse irrilevante per il suo proponente e i suoi difensori. Demostene non sarebbe dunque l’unico cinico opportunista a caccia di fama; i suoi avversari sarebbero altrettanto cinici, e le misure da loro sostenute solo strumentali all’affermazione del loro potere. Non c’è ragione di credere che questo fosse il caso: Aristofonte p. es. scelse di difendere la legge di Leptine nonostante questo comportasse l’abolizione della sua stessa ateleia. Non si capisce come l’opposizione (vittoriosa) del giovane oratore a una legge sponsorizzata da alcuni dei rhetores più prominenti di Atene potesse renderlo popolare e ingraziargli l’élite. La posizione di Demostene era in realtà potenzialmente impopolare (almeno tra i rhetores più influenti), così come le posizioni che assunse in altri contesti di questi anni. Worthington stesso nota p. es. che la sua posizione a sostegno dell’appello dei democratici rodii nel 351 (Dem. 15) “seemed like political suicide”, perché i Rodii si erano ribellati al tempo della Guerra Sociale, e dunque erano impopolari presso gli Ateniesi. Allo stesso modo, la posizione di Demostene nel discorso Sui Megalopolitani (353/2), in cui sostiene che Sparta, per quanto indebolita, è la maggiore minaccia per Atene, e che gli Ateniesi dovrebbero lasciare Oropo a Tebe, sarà stata provocatoria e impopolare.276 Il proemio di questo discorso si scaglia ferocemente contro gli altri rhetores, sottolineandone l’insipienza e la stupidità (Dem. 16.1–2) – non certo una tattica volta a ingraziarseli. L’azione politica di Demostene 274 Pace Canfora (1974: I, pp. 66–7, 69), Worthington (1991a; 1991b: 425), Tuplin (1998). Vd. Trevett (1996; 2011: 18–22), MacDowell (2009: 7–9). 275 Vd. Canevaro (2013a: 319–29). 276 Worthington (2013: 101–3).

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dunque non pare quella di un demagogo a caccia di facile consenso, che avrebbe evitato temi controversi e posizioni impopolari. Una lettura attenta dei primi discorsi politici di Demostene mostra un chiaro filo conduttore. Demostene in questi anni, pur cosciente dei problemi finanziari di Atene e allineato al consenso sulla necessità di una certa austerità (come predicato da Eubulo, Aristofonte, Androzione e persino da Senofonte), fa suo il compito di ricordare agli Ateniesi la prospettiva di lungo periodo, e le conseguenze di decisioni miopi che, per ottenere vantaggi momentanei, non solo contravvengono all’ideale democratico, ma potranno in futuro essere foriere di problemi di larga portata, in particolare nella politica estera. Un esempio è l’orazione Contro Aristocrate (23), nella quale Demostene attacca un privilegio accordato a Carete, che lo rende intoccabile, come sproporzionato, contrario allo spirito delle leggi, e potenzialmente capace di limitare le possibilità di intervento di Atene nel Chersoneso Tracico. Nella Contro Androzione (22) Demostene si preoccupa che si dia adeguata attenzione alla flotta, da cui dipendono la sicurezza e la forza di Atene, e questa preoccupazione emerge anche dal discorso Sulle simmorie (14.28–30), dove la riforma delle simmorie trierarchiche è intesa non come impulso a nuove imprese militari, ma come arma diplomatica per intimidire il Gran Re. Questo stesso interesse, ancora più pressante, per il finanziamento e il funzionamento della flotta, è al centro della Prima Olintiaca (1). Senza voler cercare una linea eccessivamente organica, sono evidenti le principali preoccupazioni di Demostene: la crisi economica e la necessità di risanare le finanze, sulle quali vigeva un largo consenso, non possono far perdere di vista al demos le conseguenze di lungo periodo delle proprie azioni. Decisioni miopi non soltanto sono contrarie allo spirito di Atene, ma corrono il rischio di limitare pericolosamente le opzioni della città in politica estera, indebolendone la posizione e mettendone in pericolo la sicurezza. Si può distinguere in queste prime istanze dell’oratore una vaga anticipazione delle sue future, più mature politiche: Demostene allo strapotere di Filippo opporrà le armi della diplomazia, finanche la creazione della più grande alleanza di stati greci dall’epoca delle Guerre Persiane, certo un notevole risultato diplomatico. Le argomentazioni della Contro Leptine esprimono istanze analoghe, coerenti con queste preoccupazioni e con questa linea politica, e non c’è ragione di liquidarle come strumentali. È importante invece leggerle come testimonianza dell’intelligenza politica di un giovane, ma già brillante, Demostene.

9.  Gli argomenti di Demostene: legalità e rilevanza La legge di Leptine aboliva le esenzioni dalle liturgie ordinarie, senza eccezioni. Colpiva dunque sia le esenzioni seguite al precedente espletamento di una liturgia, sia quelle onorifiche, accordate a vita a individui distintisi per i servizi resi agli Ateniesi (vd. pp. 55–63). Gli argomenti principali a supporto della legge sono ipotizzabili, a partire dal suo dettato e da quanto affermato da Demostene, come di due tipi: primo, la legge avrebbe risolto il problema della cronica mancanza di liturgisti e sgravato i più poveri tra i membri della classe liturgica (§§18–28); secondo, è giusto abolire le esenzioni onorifiche perché molti ateleis non meritano i loro premi (§§1–2, 5–6, 7, 38, 47, 56–7, 98, 104, 113, 132, 137–9, 164). Il discorso di Demostene fu pronunciato da synegoros dopo quello di Formione (che probabilmente seguì a una breve introduzione di Apsefione). È impossibile ricostruire il contenuto del discorso di Formione,277 se non per i pochi riferimenti di Demostene: Formione affermò che non è giusto togliere le esenzioni a tutti per via dei comportamenti di pochi (§2), discusse alcuni benefattori che avevano servito la città in momenti di crisi drammatiche (§51) e menzionò il decreto di Demofanto (159). La lunghezza della Contro Leptine mostra in ogni caso che Demostene si assunse il compito di pronunciare il discorso principale.278 La discussione delle argomentazioni nella Contro Leptine non può prescindere dal contesto procedurale e istituzionale: quello di una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι, e specificamente una che costituiva parte di una procedura di nomothesia volta a promulgare la legge sostitutiva di Apsefione (vd. pp. 12–32). Le materie che i giudici dovevano prendere in considerazione erano quelle identificate nell’accusa scritta, che determinava i criteri di rilevanza (vd. pp. 27–9 e comm. §24[1]). L’accusa scritta (graphe) formulava l’accusa nei termini della legge di pertinenza – in questo caso avrà dichiarato che la legge di Leptine era μὴ ἐπιτήδειος, e avrà citato la legge per esteso (cfr. Dem. 24.71). Nei casi di γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι e γραφὴ παρανόμων comprendeva anche i testi delle leggi specifiche che la legge o il decreto in questione contraddicevano – queste leggi erano paragegram-

277 Ermogene di Tarso (Meth. 24) discute la struttura e gli argomenti di questo discorso, ma la sua ricostruzione è basata sulle parole di Demostene (cfr. Schaefer 1885–7: I, 397–8; Blass 1893: 267–8; Kremmydas 2012: 42–3). 278 Kremmydas (2012: 43), pace Schaefer (1885–7: I, 387), Pickard-Cambridge (1914: 117–18).

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menoi, allegate alla graphe.279 Demostene doveva dunque spiegare i motivi per cui la legge era μὴ ἐπιτήδειον, e come contraddiceva altre leggi esistenti che Leptine non aveva abrogato preventivamente, come richiesto dalla normativa sulla nomothesia. Questa è la natura dell’argomentazione anche nella Contro Timocrate. Nella Contro Leptine c’è tuttavia un ulteriore elemento da tenere in considerazione: l’accusa era parte di una più ampia procedura di nomothesia volta a promulgare una legge sostitutiva, che era anch’essa stata accolta dai thesmothetai tra le leggi paragegrammenoi nella graphe (§§97–9 e pp. 23–31).280 Dunque la comparazione tra la legge di Leptine e quella sostitutiva, e la promozione di quest’ultima, non erano exo tou pragmatos ([Arist.] Ath. Pol. 67.1), ma parte dei temi rilevanti. Cosa significava mostrare che una legge non era ἐπιτήδειος? La procedura in questione era stata creata al termine del V secolo a seguito dell’intervenuta distinzione tra nomoi e psephismata, ed era riservata ai nomoi, mentre la più antica γραφὴ παρανόμων fu di lì in poi riservata per gli psephismata (vd. p. 12). La diversa terminologia sembra suggerire requisiti probatori diversi, con una concentrazione sulla paranomia (“illegalità”, “contrarietà alle leggi”) più tipica della γραφὴ παρανόμων.281 È chiaro però dalla lettura dei discorsi superstiti che la paranomia era centrale in entrambi i tipi di accusa – Kremmydas nota che mentre il termine ἐπιτήδειος è raro nel discorsi per γραφὴ παρανόμων, il termine παράνομος è diffuso in entrambi i tipi di discorsi.282 Le strategie argomentative sono analoghe in entrambe le azioni.283 Anche i passi delle due procedure erano più o meno gli stessi, e le divideva soltanto una differenza sostantiva: uno psephisma aveva una posizione gerarchica inferiore ai nomoi, e non poteva contraddirli (essere cioè paranomon), mentre una legge poteva essere proposta in contraddizione a uno o più nomoi esistenti, a patto che li si abrogasse, secondo la normativa sulla nomothesia.284 La γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι preservava dunque la coerenza dei nomoi, mentre la γραφὴ παρανόμων proteggeva la gerarchia tra nomoi e psephismata. Per questo le leggi contraddittorie erano allegate alla graphe anche in casi di γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι, e p. es. la Contro

279 Aeschin. 3.200, [Dem.] 58.46, Hyp. Phil. 13 con Harris 2013: 121–2. 280 Questa è l’unica legge letta o citata nella Contro Leptine mancante nella lista di Sundahl (2000: 140–1, 155–7). 281 P. es. Sundahl (2000: 86–7), che però immediatamente sfuma la distinzione. 282 Kremmydas (2012: 48–9); cfr. Quass (1971: 27). 283 Cfr. Wolff (1970: passim), Hansen (1974: 71); Lanni (2010: 238–9). 284 Vd. Canevaro 2015.



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Timocrate dedica una lunga sezione (Dem. 24.34–67) alla discussione delle leggi che la legge di Timocrate contraddice e che non sono state abrogate.285 Il termine ἐπιτήδειος ha il significato letterale di “adatto”, “adeguato”, “appropriato”.286 Kremmydas evidenzia la flessibilità del termine: una legge può essere inappropriata sulla base di criteri etici, ideologici, pragmatici e strettamente legali.287 Sarebbe dunque particolarmente adatto a descrivere la varietà degli argomenti in una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι, a cavallo tra giudiziario (la legge è illegale perché proposta senza seguire le procedure corrette e abrogare le leggi contraddittorie) e deliberativo (la legge non è sympheron per la città).288 Il riconoscimento di questo dualismo, nella γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι come nella γραφὴ παρανόμων, ha dato adito a varie posizioni su quale fosse l’elemento decisivo, e cosa fosse accessorio o irrilevante.289 Wolff ritenne che le questioni legali fossero fondamentali, e gli argomenti extralegali irrilevanti; Hansen che gli argomenti politici fossero da soli sufficienti per la vittoria, senza necessità di provare la paranomia; Yunis distinse strettamente tra argomenti legali e argomenti che lui considera politici, e sostenne che fosse necessario provare tanto l’incostituzionalità quanto la contrarietà della misura agli interessi di Atene.290 Wolff distinse inoltre tre tipi di argomenti legali: su irregolarità procedurali; su contraddizioni esplicite tra il nomos (o lo psephisma) in questione e un particolare nomos esistente (e non abrogato); su principi generali estrapolati logicamente da uno o più nomoi esistenti, con i quali il nomos (o lo psephisma) in questione era in contraddizione.291 285 Pace Lipsius (1905: 387), Wolff (1971: 37–8), Badian (2000: 23 n. 40), che considerano Dem. 24 una γραφὴ παρανόμων. 286 Canevaro (c.d.s. b), Kremmydas (2012: 48–9), Wohl (2010: 293 n. 17). 287 Kremmydas (2012: 48–9). 288 Cfr. Yunis (1988: 369 n. 29), Lanni (2010: 241). Dem. 24.68–70 sembra proporre un’interpretazione di ἐπιτήδειος proprio in funzione di questo dualismo, ma cfr. Rubinstein (2000: 42–3 n. 48): questa è un’interpretazione strumentale di Demostene, non una definizione obiettiva. 289 Che hanno a loro volta alimentato la discussione sull’importanza degli argomenti extra-legali, se cioè gli oratori si attenessero a quanto era formalmente rilevante, cfr. Todd (1993: 59–6), Yunis (2005: 191–208), Lanni (2006: 59–64), contra Rhodes (2004), Harris (2013: 114–36). 290 Wolff (1970: 13.14, 60–4); Hansen (1974: 71–2); Yunis (1988364–70). 291 Wolff (1970: 45–67), che evidenzia l’importanza nel IV secolo della terza categoria. Contra Sundahl (2000; 2009: 493–502) sostiene la primazia delle prime due categorie, perché le leggi lette dal grammateus sono pertinenti a queste categorie. Ma la lettura sarà stata particolarmente necessaria quando si identificava una contraddizione formale; la citazione e discussione dell’oratore sarà invece bastata a derivare logicamente divergenze di principio, e infatti le leggi parafrasate direttamente dall’oratore sono maggiormente utilizzate per questo fine. Lanni (2010) sostiene

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Gran parte degli argomenti della Contro Leptine dipingono, in vari modi e a vari livelli, la legge di Leptine come incoerente con l’ethos consolidato degli Ateniesi, che è definito prima di tutto dalle leggi della città (leggi di Solone), alle quali si conformavano gli antenati e si deve conformare il legislatore.292 L’incoerenza con una particolare legge esistente, con l’intento del legislatore come rivelato da una legge su un tema diverso, con l’ethos della città che riflette ed è riflesso dalle leggi, così come irregolarità procedurali che hanno inficiato le procedure nomotetiche alla base di questa coerenza di fondo delle leggi, sono tutti aspetti di un’unica idea di illegalità (che dunque comprende le tre categorie di argomenti di Wolff e ulteriori argomenti che Wolff considerava irrilevanti). Quest’idea di illegalità può essere riassunta come coerenza con un sistema legale, politico ed etico razionale definito in prima istanza dalle leggi esistenti.293 Questo significa essere ἐπιτήδειος – e in questo senso μὴ ἐπιτήδειον può essere applicato non solo alle leggi, ma anche agli Ateniesi, se non si adeguano nelle loro scelte a questo sistema (vd. comm. §83[3]). Così, sin dall’inizio, Demostene evidenzia che la legge di Leptine contraddice i principi fondamentali alla base delle leggi e dell’ethos di Atene. A §§2–7 mostra che è antidemocratica perché toglie al demos parte delle prerogative che gli appartengono. A §§8–17 definisce la ragione fondamentale della sua “inadeguatezza”: inganna i benefattori, rompe il vincolo della reciprocità e rende gli Ateniesi apistoi (vd. pp. 89–100). Queste caratteristiche dell’ethos ateniese sono definite in primo luogo col riferimento a una legge che vieta di mentire nell’agora, da cui Demostene estrapola che l’ethos degli Ateniesi (come definito dalle leggi) è alieno alla menzogna, e ha una doxa di affidabilità (pistis). Questa estrapolazione è confermata dal riferimento alle azioni degli antenati (§§11–13), ed è identificata come democratica (§§15– 17). Il legislatore, nel passare una legge, deve conformarsi a questo ethos, mentre Leptine chiederebbe agli Ateniesi di rinunciarvi e di conformarsi al suo, alieno a quello della città (§14). L’intera sezione §§29–87, la più lunga e dettagliata, che occupa la parte centrale del discorso (nella quale mancano riferimenti a leggi specifiche, e che dunque potrebbe sembrare irrilevante, o preoccupata con questioni extralegali), è un’elaborazione delle considerainvece (non convincentemente, vd. sotto e Straumann 2016: 233–5) che l’illegalità riguardasse principalmente interferenze con i processi democratici aggiudicatori o legislativi. 292 Mi concentro qui su alcuni passaggi chiave, ma vd. comm. passim per una discussione analitica. 293 Vd. comm. §90[1] e Canevaro (c.d.s. b).



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zioni svolte in questo passo: la lunga discussione dei benefattori evidenzia gli obblighi degli Ateniesi verso di loro, mostra come l’ethos identificato a §§8–17 ha funzionato in passato e ne sottolinea l’importanza (con echi terminologici continui di §§8–17). Il fondamento dell’intera sezione è un principio etico, politico e guiridico derivato in prima istanza dalla legge contro la menzogna nell’agora di §9. La legge di Leptine non è ἐπιτήδειος perché non è coerente con questo principio. Questo principio è poi ancora ribadito nel prosieguo del discorso con riferimenti a leggi specifiche che sembrano affermarlo esplicitamente o da cui può essere estrapolato: a §§95–6 postulando una contraddizione diretta con la legge che prescrive “i privilegi che il popolo ha concesso restino in vigore”; a §§102–3, più alla lontana, estrapolando dalla legge di Solone sulla possibilità di fare testamento che l’obiettivo del legislatore era “rendere l’aiutarsi reciprocamente una gara aprendo a chiunque la possibilità di ricavarne un guadagno”, ulteriore affermazione del principio della reciprocità alla base dell’economia degli onori (qui Demostene accusa Leptine di non aver letto, o di non aver capito, le leggi di Solone). A §§105–19, a ulteriore conferma della centralità del criterio della coerenza col sistema etico-politico come definito dalle leggi, Demostene ribatte a chi userà l’esempio dei Tebani o degli Spartani contro la pratica di accordare onori che gli antenati degli Ateniesi già accordavano onori, e che la decisione deve avvenire coerentemente alle leggi correnti degli Ateniesi, che governano le esenzioni, e non a quelle dei Tebani, degli Spartani, o del tempo andato. A §§120–38 elabora ulteriormente questo tema ribattendo ad alcuni argomenti della difesa, e la citazione di un’altra legge a §135, che punisce chi inganna il popolo, insieme riprende il tema del rifiuto della menzogna tipico dell’ethos ateniese ed estrapolato dalla legge di §9, e mostra l’ipocrisia del demos che inganna i benefattori ma punisce coloro da cui è a sua volta ingannato. A §§138–45 discute ulteriori leggi e istituzioni (quella sui discorsi funebri e le ricompense agli atleti vittoriosi) che confermano ulteriormente l’immagine dell’ethos di Atene su cui è basata l’argomentazione: legge dopo legge, in modo più o meno diretto, per estrapolazione o sulla base dell’intento del legislatore, Demostene conferma questa immagine coerente dello spirito delle leggi e della città, a cui la legge di Leptine non è conforme, non è cioè ἐπιτήδειος. In altri passi Demostene rileva ulteriori contraddizioni tra la legge di Leptine e lo spirito delle leggi, estrapolato da particolari statuti: a §104 Leptine danneggia i benefattori morti, quando la legge sulla kakegoria non permette nemmeno di parlarne male; a §§155–6 rileva una contraddizione (spuria) tra le pene imposte dalla legge di Leptine e il divieto di imporre più di una pena

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per giudizio; a §§158–9 nota che la legge di Leptine impone pene più severe di quella di Draconte, il che è incoerente con i fini del sistema legale, che vede l’omicidio come il crimine peggiore. Persino la perorazione finale, con l’appello a prendere l’abolizione seriamente, si basa sulla legge che punisce chi adultera la moneta: la legge, in quanto non conforme allo spirito delle leggi, le adultera, e di conseguenza chi ne è responsabile andrebbe punito con pene più severe di chi corrompe la moneta. Tutto questo non vuol negare la prominenza di argomenti che riguardano to sympheron nell’orazione – gran parte degli argomenti che ho riassunto affermano anche, in assoluto, che la legge danneggia gli interessi degli Ateniesi.294 Poiché il processo riguarda l’abolizione di una legge, la cui approvazione è propria della funzione deliberativa, questi temi non possono che essere centrali. Sono di fatto più centrali nella Contro Leptine che nella Contro Timocrate. Nella Contro Timocrate troviamo una più lunga sezione concentrata sulle irregolarità procedurali di Timocrate e sulle contraddizioni minute tra la sua legge e una serie di statuti non abrogati.295 Nella Contro Leptine questa dimensione è meno centrale, primo perché la legge era già stata saldamente promulgata e Leptine non era più perseguibile, e secondo perché l’abrogazione della legge era parte di una più vasta procedura deliberativa di nomothesia che sarebbe risultata nella promulgazione della legge sostitutiva. Poiché la legge sostitutiva era inserita nella graphe tra i paragegrammenoi nomoi, la discussione (squisitamente deliberativa) dei rispettivi meriti delle due leggi era centrale e rilevante. Per gli stessi motivi, la discussione delle irregolarità procedurali commesse da Leptine è secondaria ed è confinata a brevi commenti a margine di una rivendicazione della correttezza della procedura seguita dall’accusa nel promulgare la legge sostitutiva (§§88–102, vd. pp. 12–32), che sembra più appropriata a un discorso di difesa in una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι che a uno di accusa.296 E tuttavia, nonostante la prominenza di temi più propriamente deliberativi, questi temi sono costantemente colorati dall’attenzione alla questione della legalità, e declinati, con la citazione di leggi rilevanti, a dimostrazione dell’incoerenza della legge di Leptine (e la coerenza di quella sostitutiva) con lo spirito delle leggi della città, fondamentale a definire, in una corte di giustizia, se uno statuto fosse ἐπιτήδειος.297 294 Vd. Kremmydas (2012: 57–8). 295 Vd. Canevaro (2013a: 77–180) per un’analisi dettagliata di questa sezione. 296 Pace Lanni (2010: 249–52), Kremmydas (2012: 50–2) questa sezione non ha come tema principale le infrazioni di Leptine, a cui Demostene accenna senza convinzione a corollario della difesa della procedura seguita dall’accusa. 297 Cfr. Dem. 23.100–1, che afferma che, in una γραφὴ παρανόμων, dimostrare che una legge è sympheron non è sufficiente.

10.  Evergetismo ed economia degli onori L’argomentazione di Demostene contro la prima linea argomentativa della difesa (la legge risolve il problema della mancanza di liturgisti) rappresenta ingannevolmente il raggio di applicazione della legge di Leptine come ridotto (vd. pp. 55–63). Demostene affronta questi temi di fretta: in un discorso di 167 paragrafi questa discussione ne occupa soltanto undici (§§18–28). È possibile che Formione avesse speso più tempo sul tema, e la brevità della trattazione sarà derivata, certo, parzialmente dalla debolezza degli argomenti di Demostene al riguardo, ma, al contempo, la sofisticazione e l’estensione degli argomenti sull’altro aspetto delle conseguenze della legge di Leptine (la cancellazione delle esenzioni onorifiche: §§1–18, 29–87, 102–44, 154– 67), suggerisce che queste fossero alla base dell’opposizione di Demostene. La discussione delle conseguenze della legge per il sistema evergetico è il tema centrale del discorso, e offre la più estesa e sofisticata trattazione delle motivazioni e dei principi alla base dell’economia degli onori, ad Atene e nelle poleis greche in generale. Questa trattazione merita una discussione dettagliata.298 Già nel primo paragrafo Demostene si scaglia contro gli effetti della legge di Leptine sui beneficiari delle esenzioni onorifiche (ricordando il danno immeritato che ne verrà al figlio di Cabria, vd. comm. §1[6]) e contro l’argomento di Leptine che molti degli onorandi non ne sono degni. A §2 riassume rapidamente l’argomento (già toccato dai suoi synegoroi) che non è giusto togliere i premi a tutti a causa dei comportamenti di pochi. Questo punto è dato per acquisito, ed è subito evidente che le ragioni della sua opposizione sono più profonde, e più radicali. Demostene ritiene che privare il demos della possibilità di accordare a suo piacimento l’ateleia onoraria ai benefattori rappresenti una limitazione fondamentale del suo potere decisionale (comm. §2[8]), che comprometterà tanto la gamma quanto l’efficacia degli strumenti attraverso i quali il demos promuove i propri interessi. La preoccupazione di Demostene qui è parallela alle preoccupazioni di altri discorsi coevi (Dem. 22; 23; 14; 1): decisioni miopi volte esclusivamente a risolvere problemi di breve periodo non solo sacrificano i valori base della democrazia (tra cui il principio della sovranità del demos e quello della reciprocità), 298 La considerazione della trattazione demostenica corregge perciò parzialmente l’idea che, nonostante le diffuse pratiche evergetiche, i Greci non “concettualizzarono” mai l’evergetismo, vd. p. es. Veyne (1978: 141–3); cfr. Zuiderhoek (2009: 6), Colpaert (2014: 182).

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ma creano ostacoli alla sua capacità di manovra (politica e diplomatica).299 Questi ostacoli potranno porre Atene nell’impossibilità di fronteggiare crisi interne e internazionali, mettendone in pericolo la sopravvivenza. L’area d’azione del demos compromessa dalla legge è l’abilità di garantirsi i servizi di cittadini e stranieri attraverso un’economia di servizi volontari alla collettività, e di onori accordati dalla collettività, fondata sulla reciprocità. Il succo dell’argomentazione è espresso già a §5: Demostene ammette (per assurdo) che sia vero che talvolta gli Ateniesi vengano ingannati e accordino onori a individui immeritevoli, ma domanda se sia meglio mantenere la facoltà di accordare l’ateleia, anche a costo di accordarla occasionalmente a chi non la merita, o rinunciare al potere di accordare qualsiasi onore, anche a chi ne è degno. La risposta riassume in una potente formulazione l’importanza degli onori, e della facoltà del demos di accordarli (§§5–6): Perché se tributerete più onori di quanti dovreste, inciterete molti a servirvi, mentre se non accorderete nulla a nessuno, neppure a chi ne è degno, soffocherete in tutti ogni ambizione.

La possibilità per il demos di attirare i servizi dei benefattori è legata alla sua facoltà di accordare onori (timai) in cambio dei servizi, e alla sua reputazione di generosità nel ricambiarli. Il criterio alla base della relazione è quello della reciprocità: i favori, nel privato come nel pubblico, creano obblighi nel ricevente, e le scelte di ciascuno di ricambiare i favori ricevuti, così come di offrire favori in vista di un ritorno reciproco, quando generalizzate, funzionano da collante sociale.300 A spingere i benefattori a offrire i loro servizi ad Atene è la φιλοτιμία, qui tradotto con “ambizione” (nel passo troviamo φιλοτιμεῖσθαι). Questo concetto è alla base dell’economia degli onori come concettualizzata dagli Ateniesi,301 e su di esso si fonda gran parte dell’argomentazione. La parola φιλοτιμία (o derivati) è citata da Demostene a §§5, 10, 41, 69, 82, 103, 155, in ogni sezione del discorso. Sulla φιλοτιμία MacMullen scrisse “no word, understood to its depths, goes farther to explain the Greco-Roman achievement”.302 La sua traduzione letterale, “amore dell’onore”, mostra che il concetto è connesso al conte299 Vd. sopra pp. 68–70 per questo filo conduttore nei primi discorsi di Demostene. 300 Vd. comm. §6[3] per la reciprocità, con bibliografia. Sull’importanza nell’evergetismo vd. Domingo Gygax (2003: 182–3; 2006a: 271–2; 2009: 172). 301 Per il concetto di “economia degli onori” applicato ad Atene vd. Keim (2011), (c.d.s.); in Omero, Scodel (2008: 1–32). Cfr. Miller (1990: 29–34) e Baker (2013: 35–76) per lo stesso concetto nelle saghe nordiche e in Beowulf. Cfr. l’ “economy of esteem” di Brennan e Pettit (2004). 302 MacMullen (1974: 125).



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sto dell’agonismo greco, della competizione e dell’emulazione.303 Identifica tanto la condizione psicologica di chi ricerca attivamente la τιμή, quanto le azioni concrete che portano gli altri ad accordare questa τιμή.304 Questi riconoscimenti sono funzionali alla τιμή stessa, perché la τιμή di un individuo è tanto il suo valore intrinseco quanto il riconoscimento di questo valore da parte della comunità.305 Il concetto di φιλοτιμία fu declinato ad Atene (e nel mondo delle poleis in generale) in un’ideologia civica del premio (nella Contro Leptine δωρεά) come incentivo alla virtù, come testimoniano passi quali quello in questione (cfr. anche §7). Il Pericle di Thuc. 2.46 afferma p. es. che “laddove sono offerti premi più grandi per la virtù, i cittadini sono migliori che altrove”, e Isocrate (9.5) rappresenta l’elogio dell’onorando come essenziale per incoraggiare i giovani a mostrare più φιλοτιμία verso l’ἀρετή, nella consapevolezza che in questo modo saranno elogiati.306 Il premio può essere tanto la semplice ammirazione, la lode, quanto ricompense materiali che possano ergersi a simbolo della raggiunta τιμή.307 La φιλοτιμία, nel contesto dell’ideologia civica delle poleis, venne a significare “patriottismo”, espresso nello svolgimento di servizi per la città, e persino a indicare direttamente questi servizi.308 303 Cfr. Whitehead (1983). 304 ὕβρις similmente definisce tanto uno stato psicologico quanto i suoi effetti: una valutazione sproporzionata del proprio diritto al riconoscimento e alla deferenza degli altri, unita al disprezzo attivo per i diritti e per l’onore altrui. Cfr. Fisher (1992), MacDowell (1976a) e soprattutto Cairns (1996). 305 Nel concetto di τιμή coesiste tanto il senso del valore di un individuo, quanto quello di azioni, parole e simboli esteriori che testimoniano il riconoscimento da parte di altri di questo valore. La coesistenza di questi aspetti non mostra, pace p. es. Dover (1974: 380–5), che non esisteva per l’uomo greco la concezione di una virtù svincolata dalla reputazione che ne deriva. Esprime piuttosto una dinamica universale dell’interazione sociale: questi due aspetti sono strettamente interconnessi in ogni cultura (cfr. l’analisi dell’interazione sociale di Goffman 1967, con i concetti di “demeaneur” e “deference”). Cfr. comm. §2[8], con bibliografia. 306 Vd. Liddel (2007: 166–70 e passim) sulla φιλοτιμία come fattore chiave nelle relazioni tra obblighi civici, libertà individuale e volontarismo. Cfr. Seaford (1994: 194–206), Wilson (2000: 191–2), Cook (2009: 49–50). 307 “Publicity services” della stima raggiunta, secondo il modello di Brennan e Pettit (2005). 308 Sull’uso di φιλοτιμία nel senso di “servizio reso alla collettività” cfr. Lambert (2011: 194), Ferrucci (2013). Sul significato di “patriottismo” vd. Whitehead (1983; 1993). Whitehead ritiene che questo significato si sia sviluppato tra il V e il IV secolo, quando il termine fu incorporato progressivamente nell’ideologia civica. Nel V secolo φιλοτιμία avrebbe significato invece “egoismo”, la volontà di perseguire vantaggi personali a scapito della comunità, p. es. Thuc. 2.65 (connesso ai concetti di guadagno e avidità), Ar. Thesm. 383. Il significato negativo, separato dalla controparte civica, sarebbe sopravvissuto nel IV secolo (p. es. Arist. Eth. Nic. 1125b1–25 con

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In cambio di questi servizi si sarebbero potute ottenere appunto τιμαί accordate dal demos. Un passo della Retorica di Aristotele offre una definizione di questo genere di τιμή e un catalogo di tipiche τιμαί che la polis accordava in cambio di servizi (Arist. Rhet. 1361a 25–39), coerenti con la trattazione di Demostene. La definizione chiarisce in che senso il termine τιμή sia utilizzato da Aristotele: σημεῖον εὐεργετικῆς εὐδοξίας. Qui, cioè, τιμή non indica il valore di un individuo, o il rispetto (in astratto) di cui è fatto oggetto dalla comunità. È piuttosto un riconoscimento materiale, segno tangibile di buona reputazione (σημεῖον [...] εὐδοξίας), più precisamente della reputazione di pubblico benefattore (εὐεργετικῆς). εὐεργετικῆς esplicita il contesto della trattazione: gli onori in questione sono quelli pubblici, offerti dalla collettività come riconoscimento dei benefici portati alla polis, e come incoraggiamento affinché un individuo che ne ha la possibilità scelga di diventare benefattore della città (ὁ δυνάμενος εὐεργετεῖν). Come per Demostene a §§5–6, come per Tucidide (2.46) e Isocrate (9.5), per Aristotele questi onori non servono soltanto a ricompensare i benefattori, ma hanno lo scopo ulteriore di incoraggiare sempre più individui a farsi benefattori della città. Aristotele fa seguire a questa definizione una lista sommaria di onori possibili, che in parte sono gli stessi con cui Senofonte consigliava di attirare i mercanti stranieri (vd. pp. 5–6). Il filosofo cita sacrifici, memoriali in versi o in prosa (in questa categoria rientrano anche le iscrizioni onorifiche, sulle quali vd. pp. 83–6), doni di terra, la proedria, sepolture e cerimonie funebri onorifiche, pasti gratuiti a carico della città (ad Atene nel Pritaneo), e statue. La Contro Leptine cita esplicitamente le statue (§§70, 120) e la sitesis al Pritaneo (il diritto a pranzare e cenare, §120) e i doni di terra (§115). Nella lista di Aristotele manca l’ateleia, ma l’esenzione era uno degli onori che venivano regolarmente conferiti ad Atene (p. es. IG I3 182; 286+625; 653), e Aristotele riconosce al termine del passo che l’attrattiva dei doni ha sia una dimensione puramente onorifica sia una materiale, economica. Allo stesso modo Demostene riconosce in vari passi che l’ateleia ha per l’onorando un valore sia economico sia puramente onorifico. Questa è p. es. la differenza discussa a §41 tra Leucone, che non ha bisogno materialmente dell’esenzione, ma vedrà la sua cancellazione come un affronto, e Epicerde, che invece ne fa effettivamente uso (comm. §41[1–2]). Balot 2001: 28, 55, 138, 154, passim; Dem. 18.257, che distingue tra φιλοτιμία ἰδία e δημοσία). Ferrucci (2013) rileva tuttavia che più che riflettere un chiaro sviluppo cronologico, i diversi usi rispondono ai vari contesti discorsivi, e il termine poteva essere declinato diversamente a seconda del contesto, dell’eccesso di φιλοτιμία, e del tipo di τιμή ricercata.



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I presupposti alla base della critica di Demostene alla legge di Leptine non sono dunque una sua invenzione, creata strumentalmente per ottenere l’abolizione della legge. Sono invece elementi costitutivi dell’ideologia e della pratica dell’evergetismo tipica del funzionamento della polis ateniese (e delle altre poleis). Come indicato da Aristotele, gli onori sono il riconoscimento materiale del comportamento evergetico del benefattore, e al contempo la condizione di questo comportamento, e dunque il fondamento dell’evergetismo.309 Proprio il mantenimento e l’incoraggiamento dell’evergetismo sono centrali nella Contro Leptine, e constituiscono la principale ragione per cui Demostene afferma di opporsi alla legge: qualunque vantaggio essa potrà portare in termini di liturgisti è inferiore al danno che porterà all’economia pubblica degli onori della città, con conseguente perdita di benefattori e servizi. Gli εὐεργήται sono citati già a §11, e l’intera sezione §§29–87 è dedicata a mostrare, attraverso un lungo elenco di benefattori illustri, quale danno in termini di servizi evergetici verrà alla città se gli Ateniesi intaccheranno la loro capacità di premiare la φιλοτιμία. Si è spesso affermato che l’evergetismo sia un fenomeno fondamentalmente ellenistico, e che tra il quarto e il terzo secolo ci sia stato uno slittamento delle finanze pubbliche dalla dipendenza da contribuzioni obbligatorie come le liturgie e l’eisphora (incompatibili con l’evergetismo) a quella da contribuzioni volontarie da parte di ricchi euergetai.310 Se questa ricostruzione fosse giustificata, avremmo nell’argomentazione di Demostene prova della sua prescienza: egli avrebbe osservato e in parte anticipato un importante sviluppo storico. Ma in realtà l’oratore non delinea qui l’agenda di una nuova ideologia pubblica. Al contrario, nel connettere il benessere finanziario, militare, politico (e morale) della città al funzionamento dell’economia degli onori – alla presenza di premi per la φιλοτιμία degli evergeti – si appella a convinzioni radicate nella morale e nell’ideologia pubblica della città. La continuità del discorso pubblico dell’evergetismo (a prescindere da slittamenti nelle pratiche) è facilmente tracciabile dalle generose donazioni 309 Vd. Brélaz (2009) e Coplaert (2014) per rassegne storiografiche sul tema dell’evergetismo nella sua evoluzione come tema di studio. Il termine è coniato da Boulanger (1923: 25). Per definizioni recenti dell’evergetismo vd. Domingo Gygax (1994: 119; 2003: 182–3). 310 P. es. Lauffer (1974: 147–59); Veyne (1990: 10–11, 70–101). Non c’è ragione, nel caso di Atene, di credere con Veyne che il sistema degli onori distinguesse un’élite come classe a parte (p. es. Veyne 1976: 264–71). Contra p. es. Gauthier (1985: 7–10), Domingo Gygax (2006: 269–71), Luraghi (2010: 249–52), Lambert (2011: 202–3). Basta osservare la frequenza di onori per magistrati eletti a sorte per comprendere che il sistema evergetico nell’Atene di IV secolo non era limitato all’élite della città.

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degli aristocratici di quinto secolo (cfr. Plut. Cim. 10), negli onori accordati a famosi politici e generali, passando attraverso l’eisphora e le liturgie,311 fino all’evergetismo ellenistico.312 L’ideologia espressa da Demostene, da Aristotele, da Tucidide, è già presente nell’epigramma inscritto sull’erma dedicata dagli Ateniesi dopo la vittoria di Eione sullo Strimone contro i Persiani, nel 476/5: “Questo gli Ateniesi donarono ai loro comandanti come pagamento / per il loro spirito di servizio e grande valore (ἀντ᾽ εὐεργεσίης καὶ μεγάλης ἀρετῆς) / e in futuro ancora più chi vedrà questo [premio] sceglierà / di soffrire per il bene comune (ἀμφὶ ξυνοῖσι πράγμασι)”.313 Demostene si appella dunque a una morale e a un’ideologia persistente e condivisa.314 Il termine εὐεργέτης è standard nei decreti onorifici per stranieri, che vengono in genere nominati πρόξενος καὶ εὐεργέτης, fin dal quinto secolo.315 Non è tuttavia applicato nelle fonti epigrafiche a un Ateniese prima del terzo secolo.316 Come titolo onorifico formale è dunque probabile che fosse nel V e IV secolo applicato esclusivamente a stranieri (dunque limitatamente a erogazioni straordinarie, non a prestazioni obbligatorie come le liturgie). La Contro Leptine usa il termine a §11 in contrapposizione agli Spartani, in riferimento a stranieri che non sono nemici ma benefattori, e a §§30, 33, nella discussione dei benefici di Leucone. A §23 il termine è tuttavia utilizzato come sinonimo di coloro che εὖ ποιεῖν ἡμᾶς in una discussione delle liturgie, che dunque concerne soprattutto i cittadini. Altri discorsi confermano che il suo raggio di applicazione era già nel IV secolo più vasto di quanto le iscrizioni suggeriscano: Aeschin. 1.132, 140 lo applica ad Armodio e Aristogitone, Aeschin. 3.257–8 a Solone e Aristide, Dem. 19.280 a Epicrate.317 La distinzione stessa tra contribuzioni volontarie e obbligatorie (solo le prime apparentemente tipiche di un evergeta), pace §8 (comm. §8[4]), era sfumata al punto che a §151 Demostene ammette che Dinia, in virtù delle sue litur-

311 Pace Davies (1981: 96). 312 Domingo Gygax (2003; 2006a; ). Cfr. Liddel (2007: 94–98). 313 Sulla presenza di questa ideologia prima della sua comparsa nelle “hortatory clauses” delle iscrizioni cfr. Domingo Gygax (2006a), Lambert (2011: 194–6). Per gli epigrammi delle erme vd. comm. §112[2]. Per la corona ad Alcibiade di Plut. Alc. 33.2 vd. Domingo Gygax (2006b). 314 Seppur dibattuta nei suoi eccessi; cfr. Liddel (2016) e comm. §§23[2], 105[3]. 315 Cfr. Henry (1983: 116–62) per una collezione di tutti gli esempi, e Mack (2016: 38–42). 316 Gauthier (1985: 10, 13–14, 16, 27); Engen (2010: 49). 317 Vd. Kremmydas (2012: 207) sul suo uso in riferimento ad Ateniesi.



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gie, potrebbe legittimamente aspirare all’onore dell’ateleia, e dunque implicitamente riconosce i suoi servizi liturgici come quelli di un εὐεργέτης.318 La nozione che la sopravvivenza dell’evergetismo dipendesse dalla facoltà del demos di premiare la φιλοτιμία dei benefattori era riconosciuta nelle riflessioni tanto degli oratori quanto di Aristotele come fondamentale alla sopravvivenza della città. L’ideologia sottostante queste pratiche era inoltre affermata esplicitamente nei decreti onorifici approvati dal Consiglio e dall’Assemblea, ed era dunque centrale in ogni discussione assembleare, visto l’alto numero di decreti onorifici promulgati. La fonte principale per questi onori sono le iscrizioni, trovate sull’Acropoli e altrove, che riportano un numero impressionante di decreti onorifici. Su 488 decreti ateniesi contati da Hansen per il periodo 403–322 a.C. (dei quali 100 sono molto frammentari, per cui è impossibile conoscerne il contenuto), 288 sono decreti onorifici (o di naturalizzazione).319 Hansen conta ulteriori 68 decreti a cui altre iscrizioni fanno riferimento, di cui 19 sono onorifici.320 A questi vanno aggiunti 74 decreti onorifici citati nelle fonti letterarie.321 I servizi premiati da questi decreti erano di varia natura.322 Quando si tratta di cittadini, le fonti letterarie mostrano una maggioranza di onori accordati per servizi di natura militare (cfr. p. es. §§67–87). Le fonti epigrafiche, tuttavia, presentano un’immagine differente: non abbiamo alcuna iscrizione sicura che onori un Ateniese per servizi di natura militare prima del 323 a.C.323 Alcuni riguardano donazioni di natura finanziaria (p. es. IG II3 1 338; 360; 348), altri il servizio come ambasciatori (pratica evidenziata anche da Dem. 19.31),324 318 Mack (2015: 37–42), p. es., legge dunque troppo nel fatto che il termine non sia applicato nelle iscrizioni agli Ateniesi. 319 Hansen (1987: 110). Lambert (2005: 130 n. 31) ha contato più recentemente circa 800 decreti su pietra conservati per il IV secolo, un numero significativamente superiore a quelli contati da Hansen. In un contributo recente, Liddel (2016) conta tuttavia un totale di circa 290 decreti onorari per cittadini e stranieri, quasi identico a quello di Hansen. Lambert studia i decreti onorifici conservati per gli anni tra il 352/1 e il 322/1 in Lambert (2012: 3–47, 208–14, 401–6). 320 Hansen (1987: 111). 321 Cfr. Liddel (2016), che sta compilando un catalogo di tutti i decreti ateniesi di IV secolo citati nelle fonti letterarie. 322 Cfr. Liddel (2016) per una discussione complessiva di questi servizi. 323 IG II3 1 336 è stato talvolta interpretato come un decreto onorifico per il generale Diotimo, ma la nuova edizione di Lambert mette in dubbio questa ricostruzione (cfr. Liddel 2016: 316 n. 21). Per la relativa rarità di onori per servizi militari vd. Low (2011: 81). 324 Gauthier (1985: 77–104) e Kralli (1999) ritengono che gli onori fossero conferiti a prescindere a chi prestasse servizio come ambasciatore, mentre Liddel (2016) sostiene con buone ragioni che erano probabilmente assegnati per il successo della

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servizi di natura politica (p. es. IG II3 1 306), prestazioni soddisfacenti come magistrati, tanto di individui (p. es. IG II3 1 301; 323; 325; 327; 402; 469) quanto di intere commissioni (IG II3 1 305; 311; 355; 416; 458; 476; 481). Molti decreti erano invece per non Ateniesi (cfr. §§27–87), sovrani stranieri e oscuri cittadini di piccole poleis e persino talvolta intere città. Gli onorandi erano generalmente individui che avevano compiuto servizi per Atene, o i cui servizi Atene aveva interesse a incoraggiare.325 Liddel divide gli onorandi stranieri in sei categorie, quasi tutte testimoniate nella Contro Leptine: partigiani della democrazia dopo le rivoluzioni oligarchiche (§48), autori di contribuzioni finanziarie (come Leucone e Epicerde, §§27–46), stranieri che hanno offerto aiuti di natura militare ad Atene, e stranieri in esilio a causa del loro supporto per Atene (§§51–55), chi garantisce l’approvvigionamento granario della città (come Leucone, §§27–50) e, più tardi, i Macedoni.326 Mentre gli Ateniesi erano premiati generalemente con corone, talvolta con sacrifici e dediche alla divinità, o con l’ateleia, ed eccezionalmente con le megistai timai, che comportavano una statua e la sitesis a vita nel Pritaneo,327 una gamma più vasta di onori era accordata agli stranieri, che comprendeva la cittadinanza,328 la prossenia (in genere accoppiata con il titolo di εὐεργέτης), l’ateleia (di vario tipo), l’asylia (una sorta di inviolabilità, consistente nella protezione da parte di Atene della persona e delle proprietà dell’onorando), l’enktesis (il diritto per un meteco di possedere terra in Attica, comm. §20[1]) e il privilegio di servire in guerra e pagare l’eisphora con i cittadini.329 La pubblicazione di un decreto onorifico rappresentava un privilegio per l’onorando, un monumento al successo di un oratore nel proporlo, la risposta pubblica, improntata a reciprocità, della polis verso chi aveva mostrato grande spirito civico, e la prova dei servizi resi dall’onorando.330 Il fine di queste iscrizioni era inoltre esortare altri a servire la città con la stessa φιλοτιμία dell’onorando, nella consapevolezza che gli Ateniesi onorano chi si comporta con φιλοτιμία. I decreti venivano inscritti con il fine dichiarato missione diplomatica, e che è probabile che gli ambasciatori eccellessero nel presentare le loro missioni come successi. 325 Sugli onori cosiddetti “prolettici” vd. Domingo Gygax (2009). 326 Liddel (2016); cfr. Lambert (2011: 178–82; 2012: 92–183, 383–4), Engen (2010: 103–19). Cfr. West (1995: 238), che isola attività a favore dell’eleutheria ateniese, in aiuto alla flotta o agli alleati, e in supporto al commercio cerealicolo. 327 Vd. Gauthier (1985: 24–8, 92–105) e Kralli (1999). Sugli onori nelle iscrizioni vd. Lambert (2012: 3–47). 328 Osborne (1981–1983); Oliver (2007c) per le concessioni della cittadinanza nel periodo ellenistico. 329 Vd. in generale Engen (2010: 141–81 e 181–221). 330 Liddel (2007: 163–4).



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di ispirare altri a emulare il comportamento dell’onorando.331 Questo intento è esplicitato, dalla metà del IV secolo,332 nelle “hortatory clauses”.333 Un esempio è RO 95, un decreto del 330/29 che onora il mercante di grano Eraclide di Salamina. Lì la “hortatory clause” recita che gli onori vengono accordati e il decreto iscritto “affinché anche altri possano comportarsi con φιλοτιμία, nella consapevolezza che il Consiglio onora e corona chi si comporta con φιλοτιμία”.334 Liddel discute queste “hortatory clauses”, e osserva che secondo il loro dettato l’obiettivo esplicito dei decreti onorifici è 1) incoraggiare la competizione e l’emulazione nel servire la polis; 2) mostrare una precisa immagine del demos; 3) segnalare che la città ha altruisticamente ricambiato (nel rispetto della reciprocità) i servizi ricevuti.335 I decreti onorifici sono dunque segno visibile di un’economia degli onori fondata sulla distribuzione di premi in cambio di servizi alla città. Questo sistema creava una serie di obblighi politici e morali verso la città, fondata sugli esempi di servizi offerti e onori accordati in passato, che dovevano suscitare l’emulazione e la competizione di Ateniesi e stranieri.336 Il dettato di questi decreti mostra dunque che gli effetti che Demostene attribuisce alla pratica di accordare onori nell’incitare la φιλοτιμία dei benefattori erano esplicitamente riconosciuti dalla città. La funzione della pubblicazione delle iscrizioni onorifiche era esortare quanti più benefattori possibile ad agire come l’onorando, con eguale φιλοτιμία, nella consapevolezza della generosità 331 Liddel (2007: 163–4; 2016); Lambert (2011: 193–5, 198; 2012: 96). 332 Il demos pare aver iniziato a iscrivere con regolarità su steli di pietra i decreti onorifici per i cittadini negli anni ’40 del IV secolo. Il primo è un decreto del 347/6 (IG II3 1 301) per un magistrato non identificato. Prima degli anni 340 i decreti onorifici sono solo per gli stranieri, e, come mostrato dalla Contro Leptine, per comandanti militari (e ambasciatori, cfr. Lambert 2004: 86 n. 5). Il demos passava già prima decreti per i prytaneis, ma senza iscriverli (Lambert 2004). Nel V secolo le uniche iscrizioni pertinenti sono gli onori ai figli di Pericle (passati tra il 440 e il 432 come emendamento a un altro decreto; IG I3 49 ll. 16–19) e gli onori ai vincitori di File (SEG 38.45). Cfr. Lambert (2011: 197); Liddel (2007: 161). L’aumento nel numero di decreti onorifici per Ateniesi iscritti su pietra negli anni 340 è forse legato alle nuove politiche successive alla Guerra Sociale, di cui la Contro Leptine è un’espressione. Per possibili ragioni per cui l’ideologia evergetica cominciò a essere formulata esplicitamente nelle “hortatory clauses” solo a partire dagli anni 340 vd. Lambert (2011: 196). 333 Cfr. Larfeld (1902–7: II 763–7 (sui decreti pubblici), 835–6 (su quelli non pubblici). Rhodes con Lewis (1997: 5) considera le “hortatory clauses” come la seconda sezione delle motivazioni del decreto. Per un catalogo di “hortatory clauses” vd. Henry (1996). 334 Lambert (2011: 194). 335 Liddel (2007: 165). 336 Liddel (2007: 160).

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della città.337 Senofonte (3.11) riflette questa ideologia quando sostiene che gli onori incoraggeranno gli stranieri a fare donazioni alla città.338 Demostene esprime lo stesso convincimento a §5, affermando che eccessive ricompense avranno comunque l’effetto positivo di incitare più individui a esercitare φιλοτιμία. A §108 afferma che “la competizione tra i cittadini valorosi, che si sviluppa per il desiderio delle ricompense accordate dal popolo, custodisce la libertà nelle democrazie” (comm. §108[3]). La discussione di Demostene non è tuttavia semplicemente una presentazione asettica della funzione degli onori. L’oratore, con una complessa e potente argomentazione, mostra che l’economia degli onori ha fondamento nei principali convincimenti morali degli Ateniesi. La sua discussione di §§8–17 fornisce una mappa della moralità (pubblica e non solo) degli Ateniesi,339 basata su una discussione delle leggi della città e del comportamento degli antenati, e da essa deriva i principali valori dell’ethos ateniese e le loro relazioni e dipendenze reciproche.340 A questa mappa morale Demostene fa riferimento nel resto del discorso, appellandovisi soprattutto nella sua discussione della lunga serie di benefattori meritevoli (§§29–87). Demostene chiarisce già a §§8–9 che la sua critica alla legge ha una dimensione morale che investe l’ethos della città, come riflesso nelle sue azioni e nelle sue leggi. Se a §§2 e 24 l’oratore evidenzia l’adikia della legge, a §8 la legge è definita né καλόν né ὑμῖν πρέπον. καλόν definisce un’azione come nobile e virtuosa, e il suo contrario è τὸ αἰσχρόν, cio che è “vergognoso”, termine connesso alla dimensione dell’onore, che è applicato a §9 alla legge, e nel prosieguo del discorso al comportamento degli Ateniesi se non la aboliranno (comm. §§8[5], 9[1]). Ma la legge non è soltanto genericamente non καλόν, e dunque αἰσχρόν: non è inoltre appropriata agli Ateniesi (ὑμῖν πρέπον). L’argomentazione di Demostene non si fonda su valori astratti, ma sul carattere degli Ateniesi, come definito dalle leggi e dal comportamento degli antenati. L’ethos degli ateniesi è καλός e non αἰσχρός, e dunque la legge è non solo genericamente vergognosa, ma in contrasto ai caratteri fondamentali dell’identità ateniese. Questo ethos è definito in primo luogo attraverso il riferimento a una legge della città (vd. pp. 75–6), che punisce chi mente e inganna nell’agora (comm. §9[2]). Togliere ai benefattori le loro ricompense equivale a mentire, perché le azioni degli evergeti, in quanto dovute alla loro φιλοτιμία, sono legate agli onori accordati in cambio. Abolire questi onori, e dunque frustrare le aspettative alimentate 337 Lambert (2011: 194). 338 Cfr. sopra pp. 5–6. 339 Sulla relazione tra moralità pubblica e moralità privata vd. comm. §9[1]. 340 ἦθος è utilizzato in questo senso a §13, vd. comm. §13[1].



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nel benefattore, equivale a mentire in una transazione commerciale, esattamente il comportamento sanzionato dalla legge in questione. È inaccettabile che gli Ateniesi in ambito pubblico scelgano di comportarsi in un modo che loro stessi sanzionano in ambito privato. L’ethos ateniese è dunque definito come affidabile e rispettoso delle relazioni di reciprocità. Questo è confermato a §§11–12 dal racconto di un episodio del passato della città: gli Ateniesi, restaurata la democrazia, scelsero di restituire agli Spartani un prestito contratto dai Trenta, per non mancare alla parola data. Con la legge di Leptine gli Ateniesi rifiutano di essere onesti con i benefattori, mentre in passato sceglievano di esserlo persino con i nemici (comm. §11[3]). Questo riferimento all’ethos degli Ateniesi, generosi con i benefattori e affidabili nel mantenere relazioni reciproche stabili, non è un’innovazione di Demostene, che esplicita in una formulazione retoricamente brillante un concetto fondamentale all’economia degli onori, e riconosciuto esplicitamente nelle “hortatory clauses”, che non si limitano generalmente a notare che gli Ateniesi, con gli onori decretati, ricambiano il servizio ricevuto, ma affermano che il decreto iscritto è prova che gli Ateniesi invariabilmente ricambiano i servizi ricevuti, implicando che la loro affidabilità è elemento fondamentale del loro carattere. In RO 95, nell’affermazione che Eraclide è onorato e il decreto inscritto “affinché anche altri possano comportarsi con φιλοτιμία, nella consapevolezza che il Consiglio onora e corona chi si comporta con φιλοτιμία”, lo scambio tra servizio e onore è sublimato in una manifestazione del carattere delle parti: da un lato l’eunoia del benefattore come sua caratteristica tipica e costante nei confronti della città;341 dall’altro la costante disposizione della città a ricambiare i servizi con onori. Osservando la stessa tendenza a generalizzazioni moralizzanti nel linguaggio evergetico dei decreti delle città dell’Asia Minore per Antioco III, Ma osserva che trasformando “individual transactions into shows of character”, la sintassi dello scambio reciproco nell’economia degli onori non può essere letta “too strictly” nel senso che “the cities awarded τιμαί for particular benefactions”. Che gli onori facessero seguito ai benefici dell’evergeta “does not mean that the transaction only concerns a particular concrete benefaction, to the exclusion of the honourer’s and the honorand’s personality: the open, dynamic structure converted the euergetical transaction into ongoing dialogue, the generalizing vocabularies transforme individual acts into paradigmatic manifestations of character”.342

341 Una delle virtù cardinali nel linguaggio dei decreti onorifici, vd. comm. §17[2]. 342 Ma (1999: 189–90).

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Poiché i comportamenti fondamentali alla relazione reciproca tra evergeta e polis erano sublimati in caratteristiche intrinseche del carattere delle due parti, lo scambio reciproco tra servizi e onori non era mai inteso come isolato. Gli onori erano invariabilmente rappresentati come un passaggio in una catena ininterrotta di benefici e favori reciproci tra città e onorando. Rappresentavano cioè una reciprocità aperta: la transazione non era conclusa con il beneficio ricambiato dagli onori, ma gli onori a loro volta vincolavano l’onorando a portare alla città ulteriori benefici, in una catena di reciprocità potenzialmente infinita.343 Un esempio di questa dinamica è IG II3 1 304 per la città di Pellana, in cui leggiamo “affinché la città dei Pellanii continui sempre a essere amichevole e ben disposta nei confronti degli Ateniesi, come in passato”. Il caso degli onori a Spartoco e Perisade (RO 64), i figli di Leucone, sovrano del Bosforo, è emblematico.344 Il decreto afferma: “dal momento che [Spartoco e Perisade] accordano al demos gli stessi benefici che Satiro e Leucone accordarono, ci saranno per Spartoco e Perisade gli stessi benefici che il demos diede a Satiro e Leucone”. Questo decreto è solo un passaggio in una relazione tra la città e la famiglia regnante del Bosforo durata per generazioni. Demostene lo afferma esplicitamente a §30, quanto sostiene che Leucone sia stato benefattore di Atene in modo continuativo. L’oratore fonda la sua argomentazione a proposito di Leucone a §§29–40 su questa base: i benefici che Atene riceve da Leucone si fondano sul riconoscimento di certe caratteristiche intrinseche tanto della stirpe del Bosforo quanto degli Ateniesi (la buona disposizione degli Spartocidi verso Atene; l’affidabilità degli Ateniesi nel ricambiare benefici con onori). Se gli Ateniesi mostrano col loro comportamento che il loro ethos è cambiato, a prescindere da quale sia l’onore abolito, e di quanto uso Leucone ne faccia effettivamente, il fondamento della relazione evergetica ne verrà danneggiato irreversibilmente. Corollario alla centralità del carattere degli Ateniesi per mantenere le relazioni evergetiche esistenti e stimolarne di nuove è l’importanza della fama (δόξα) della città. Le sue azioni hanno un pubblico interno e internazionale, 343 Cfr. Lambert (2011: 195). Per questo gli Ateniesi intendevano questi onori tanto come atti di reciprocità, quanto come atti di altruismo. Non c’è contraddizione tra i due, perché la reciprocità è intesa non come scambio unico e finito, in cui le parti tentano di fornire benefici equivalenti, ma come tentativo continuo di eccedere (altruisticamente) l’altra parte, che crea una catena di reciprocità potenzialmente infinita. In questo senso vanno compresi gli onori “prolettici” identificati da Domingo Gygax (2009). 344 Vd. comm. §31[5]. Domingo Gygax (2009: 180) considera questo un caso di onori “prolettici”, ma vd. Deene (2012).



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e la sua fama determina l’atteggiamento dei possibili benefattori nei suoi confronti. Demostene ne è cosciente, e a §10 nota che abolire le esenzioni macchierebbe irrimediabilmente la fama della città, per la quale gli antenati giunsero anche a sacrificare le loro ricchezze personali, e afferma che “oggi questa legge porta alla città non una buona fama, ma una fama vergognosa, indegna di voi e dei vostri antenati” (comm §10[1–4]). La stessa relazione tra la δόξα della città e la φιλοτιμία dei benefattori è espressa a Dem. 24.91– 5, 210, dove l’oratore afferma che la reputazione della città di avere buone leggi, che vengono imitate all’estero, è causa di φιλοτιμίαι verso gli Ateniesi, e se i giudici permetteranno che le leggi vengano cambiate e rovinate, tra gli effetti negativi ci sarà anché la perdita di questa δόξα e delle relative φιλοτιμίαι. Questa preoccupazione per l’effetto che la legge di Leptine avrà sulla δόξα degli Ateniesi è ancora più tangibile a §§36–37, dove Demostene nota che se gli Ateniesi aboliranno l’esenzione di Leucone, i decreti incisi su stele al Bosforo, al Pireo e presso Ierone resteranno in piedi, testimonianza da un lato dei meriti di Leucone, e dall’altro non più dell’abitudine degli Ateniesi di onorare i benefattori, ma della loro bassezza, e della rottura da parte loro del vincolo reciproco che li legava a Leucone (comm. §36[3]). Allo stesso modo, parlando di Ecfanto di Taso e Archebio di Bisanzio, Demostene afferma (§64): “È giusto dunque lasciare che queste steli restino in vigore per sempre, cosicché, finché questi uomini sono in vita, nessuno di loro riceva da voi un torto; quando poi saranno morti, queste steli saranno testimonianza del carattere della città e si ergeranno per chi voglia essere vostro benefattore a esempio delle ricompense che la città ha distribuito per i benefici ricevuti”. Questi passi mostrano che i decreti onorifici guardavano al passato ma anche al futuro, perché la loro iscrizione si ergeva a testimonianza per il futuro del merito dei benefattori, a garanzia dei loro onori, e a conferma della buona δόξα della città, che onora i benefattori. La memoria dell’onore è utile sia alla città sia al benefattore,345 a patto che entrambi mantengano gli obblighi reciproci insiti nella relazione evergetica. Nell’introdurre a §10 l’importanza della δόξα, Demostene descrive la fama che verrà agli Ateniesi se sceglieranno di non abolire la legge. Questa δόξα è il negativo di quella a cui la città deve aspirare per incoraggiare le relazioni evergetiche, una rappresentazione estrema dei vizi morali che minano alle fondamenta ogni forma di reciprocità. Demostene afferma: “[questa legge] ci procura tre enormi ragioni di vergogna: diamo l’impressione di essere invidiosi, infidi e ingrati” (τρία γὰρ τὰ μέγιστα ὀνείδη κτᾶται, 345 Lambert (2011: 205).

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φθονεροὺς ἀπίστους ἀχαρίστους εἶναι δοκεῖν). La legge è già stata definita αἰσχρόν, vergognosa. Demostene qui esplicita da dove questa vergogna derivi (ὄνειδος è legato ad αἰδώς): quali attributi porti alla δόξα degli Ateniesi (εἶναι δοκεῖν). Gli Ateniesi avranno fama di essere φθονεροὺς ἀπίστους ἀχαρίστους (espresso con forte asindeto che accentua l’importanza del trio). La scelta dei termini è emblematica: φθονερούς, aggettivo generalmente tradotto con “invidiosi”, fa riferimento allo φθόνος, concetto che definisce la sfera emozionale dell’ “invidia”, della “gelosia”, ma talvolta ha significato più vicino a “malizia”.346 Gli Ateniesi acquisiranno una δόξα di φθόνος in quanto parranno invidiosi degli onori ricevuti dai benefattori. L’aggettivo allarga il concetto di “invidia” a includere una disposizione d’animo generalmente anticivica, che nega al pubblico benefattore ciò che gli è dovuto.347 ἀχαρίστους mette l’accento sulla rottura dell’etica della reciprocità (charis) centrale all’ideologia sottostante l’economia degli onori. Demostene aveva esplicitato a §6 che togliere gli onori ai benefattori avrebbe infranto questo ideale, ribaltando il concetto per cui i cittadini devono charis alla città in cambio dei benefici che esserne membro comporta, nel suo opposto: la città ha un dovere di charis verso i suoi benefattori (comm. §[3]). Il concetto è ripreso ancora a §55, 113, 119, confermandone la centralità tra le ragioni dell’opposizione di Demostene alla legge. πίστις è un altro concetto essenziale, e come tale è menzionato ancora a §§22, 28, 36, 66, 120, 124, 164. Il termine, che ha significato concreto di “affidabilità“, è spesso utilizzato nelle fonti in relazione alla “generosità” (come ideale aristocratico), e con forti 346 Vd. Walcott (1978); Cairns (1993: 194–5 e n. 51); Cairns (2003); Fisher (2003: 193–6); Saïd (2003); Roisman (2007: 402–5); Sanders (2014) su questo concetto. Sanders (2014: 89–91) mostra che lo φθόνος è paradigmaticamente associato con la mancanza di gratitudine, ed è quindi opposto alla reciprocità (cfr. Klein 1957/1975). φθόνος in greco è applicabile tanto all’inferiore, geloso di chi gli è superiore, quanto al superiore, geloso di chiunque cerchi di elevarsi e rivaleggiare col suo status. L’invidia dell’inferiore fa appello a un ideale di eguaglianza, mentre l’invidia del superiore è intrinsecamente inegualitaria (Cairns 2003: 239–40). Aristotele nella Politica riconosce esplicitamente queste due dimensioni nella sua analisi dell’eguaglianza come causa della stasis: il desiderio dei poveri di essere uguali ai ricchi è certo dovuto allo φθόνος, ma speculare a questo φθόνος è quello dei ricchi, una malizia unita al disprezzo per chi è inferiore (cfr. Cairns 2003: 240–2, Sanders 2014: 58–78 per l’analisi dei passi rilevanti). 347 Corollario di questo uso è l’argomentazione che lo φθόνος è ingiustificato quando i ricchi usano le loro sostanze per il bene della collettività (cfr. comm. §24[3], [Dem.] 42.22–3, Isae. 6.61 con Cairns 2003: 246–7). Cairns (2003: 245) nota che l’uso di φθόνος in questo senso, di fronte ai giudici popolari, comportava un rifiuto implicito dell’altrettanto corrente interpretazione dello φθόνος come la ragione (negativa) delle imposizioni dei poveri sui ricchi (p. es. Lys. 21.15; Dem. Ep. 3.6, 10, 20, 28).



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connessioni alla distribuzione e circolazione di beni.348 Da ideale aristocratico, il termine è assimilato nell’ideologia democratica, e applicato alla distribuzione di beni (materiali o immateriali) da parte della città ai suoi cittadini: così p. es. Tucidide lo connette alla libertà democratica (Thuc. 3.11.7). La πίστις assicura gli scambi e la reciprocità a ogni livello, è ragione dell’aderenza all’ideale della charis e al contempo ne dipende.349 Demostene, sostenendo che gli Ateniesi avranno fama (δόξα) di essere ἀχαρίστους, sottolinea la rottura dell’ideale di reciprocità implicita nel non ricambiare un servizio con un’adeguata ricompensa, mentre definendoli ἀπίστους, inaffidabili, allude ai dubbi che si diffonderanno sulla loro aderenza all’etica della reciprocità, e al danno che questo porterà nell’offerta di servizi in cambio di onori, e cioè nell’economia degli onori da cui dipende il benessere della città. Definendoli φθονερούς pone l’accento sul fatto che la legge di Leptine rappresenta l’antitesi della reciprocità evergetica: la reazione degli Ateniesi di fronte a un benefattore, se non abrogano la legge, non sarà, come dovrebbe essere, gratitudine, ma invidia.350 Nell’elencare questi termini come attributi della δόξα di Atene, Demostene esplicita il biasimo che verrà alla città, il contrario del buon nome essenziale alla preservazione del sistema evergetico, simboleggiato dalle virtù opposte, che salvaguardano le relazioni reciproche con i benefattori: l’ἦθος degli Ateniesi è ἀψευδὲς καὶ χρηστόν (§13, vd comm. [2]). A §§139–42 l’oratore ricorda agli Ateniesi che mostrarsi invidiosi è il biasimo più terribile, e al contempo il più alieno dall’indole della città. Per rafforzare questa affermazione Demostene procede a sostenere che la città è nota per onorare i benefattori: è l’unica infatti a offrire orazioni funebri ai morti in battaglia e garantisce grandi ricompense ai vincitori negli agoni atletici (§141). Esorta inoltre gli Ateniesi con queste parole: “non private la città, e voi stessi, della buona fama che da sempre possiede”. La buona δόξα della città è la fama di ricambiare i benefici dei benefattori. Così a §66, nel 348 A differenza dell’equivalente romano fides, la connessione di πίστις con la sfera religiosa è tenue, limitata al suo legame con l’istituto del giuramento (cfr. Momigliano 1987: 75–9, Dmitriev 2011: 237–42 per le intersezioni tra fides e πίστις nei rapporti tra Greci e Romani in età ellenistica). 349 Sulla pistis “aristocratica” e “democratica”, la prima essenzialmente improduttiva e la seconda legata a transazioni economiche regolate da leggi e contratti, vd. Faraguna (2012). Per le attestazioni del termine vd. Seidl (1952). Cfr. Vélissaropoulos-Karakostas (2002: 135). Johnstone (2011) studia il concetto di ‘trust’, ma non produce un’analisi concettuale di pistis. 350 Cfr. Fisher (2003, soprattutto 193–200) su φθόνος come un’emozione negativa da attribuire all’avversario, ma rararmente fondamento delle azioni della città. Fisher sostiene che l’espletamento delle liturgie e dei doveri civici da parte dei ricchi avesse l’obiettivo e l’effetto di delegittimare lo φθόνος per le loro fortune.

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discutere i benefici assegnati a chi ha portato ad Atene l’alleanza di intere città, Demostene domanda ai giudici: “E dunque, per Zeus, chi deciderà di farvi del bene, sapendo che se fallirà verrà punito immediatamente dai vostri nemici, mentre se avrà successo riceverà da voi ricompense su cui non potrà fare affidamento?”. L’argomentazione dell’orazione si fonda dunque su una sintassi morale condivisa dagli Ateniesi (e dai Greci in generale), ed espressa nell’ideologia pubblica dell’evergetismo e degli onori. I presupposti di Demostene, una volta esplicitati, saranno parsi al pubblico ovvi, ed è scorretto perciò ritenere i suoi argomenti strumentali. Il sistema evergetico si fondava su questa ideologia, e i valori qui contemplati avranno effettivamente motivato il comportamento dei benefattori: essi avranno offerto i loro servizi alla città per φιλοτιμία, e incentivo al loro comportamento sarà stata effettivamente l’emulazione fondata sulla speranza di ottenere timai, premi per il loro spirito civico, a testimonianza perenne del loro valore. La ragione per cui Atene era il destinatario ideale di questa φιλοτιμία sarà quindi stata effettivamente la sua δόξα relativa a queste relazioni evergetiche: Atene era nota come generosa e affidabile dispensatrice di premi e onori ai suoi benefattori. La sua abilità di ricambiare con liberalità favori e servizi, e l’affidabilità degli onori accordati, era perciò alla base del flusso stesso di questi favori e servizi.351 La legge non solo aboliva onori accordati in passato in cambio di servizi evergetici, ma intaccava la capacità degli Ateniesi di ricambiare questi servizi in futuro. Come affermato da Demostene a §17, ὁ τοίνυν [...] νόμος distrugge τὴν πίστιν [...] τῶν δωρεῶν. Demostene dunque si limita a presentare le conseguenze della legge di Leptine sul delicato sistema evergetico esplicitando l’apparato concettuale su cui si reggeva il sistema. Non si limita a far leva sulla moralità degli Ateniesi, a cui la prospettiva di infrangere il vincolo reciproco centrale al sistema evergetico avrà fatto ribrezzo. Fa anche presente che in un contesto di crisi Atene ha bisogno più che mai di benefattori e alleati, e degli strumenti necessari ad assicurarseli. Mostrarsi indegni dei servizi evergetici ricevuti comprometterà le prospettive future della città. Questi argomenti saranno stati insidiosi proprio perché giustificati, e traccia dei possibili tentativi della difesa di defletterli si trova a §§49–50 e 120–24. A §§49–50 Demostene risponde a un primo (possibile) argomento di Leptine che, a quanto pare, avrebbe affermato che Atene era ben lungi dal necessitare benefattori del tipo descritto da Demostene a §§41–8 (Epicerde, che aiutò gli 351 Demostene aggiunge a §15 che i premi delle democrazie sono superiori proprio per onore e stabilità.



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Ateniesi dopo la sconfitta siciliana, e chi aiutò Atene al tempo dei Quattrocento e dei Trenta). Demostene risponde che l’attuale, presunta, sicurezza di Atene non è garanzia che in futuro non si avrà nuovamente bisogno di benefattori del genere, e come le buone leggi e gli uomini valorosi migliorano le situazioni critiche, così le cattive leggi possono deteriorare una condizione apparentemente felice. La legge di Leptine è dannosa per la città perché, minando alle fondamenta il sistema evergetico, la lascerà sguarnita di benefattori al primo pericolo. A §§120–4 troviamo un’ulteriore obiezione di Leptine all’argomentazione di Demostene, che implicitamente ne accetta la validità e riconosce l’importanza degli onori al mantenimento dell’economia evergetica: Leptine, secondo Demostene, affermerà che la sua legge abolisce, certo, le esenzioni, ma non tocca altri benefici, come le statue e i seggi al Pritaneo, e quindi non intacca seriamente il sistema evergetico. Demostene confuta questa posizione proprio in virtù della sofisticata comprensione del funzionamento del sistema evergetico che ha offerto ai giudici. La chiave della sua risposta è proprio l’importanza della πίστις (e quindi della δόξα) della città: Atene ha così tanti benefattori per la sua fama di generosità nel ricambiare i benefici e la sua affidabilità, per cui i benefattori sanno di poter contare su queste ricompense. Ma una volta rese malsicure alcune delle ricompense, non esistono garanzie neppure per le altre. Se Atene cancellerà alcuni dei premi, a prescindere da quali siano i premi in questione, e dalla loro portata, la sua δόξα ne risentirà, e Atene si mostrerà un partner inaffidabile per quelle transazioni reciproche fondamentali al sistema evergetico. Nell’opposizione alla legge di Leptine, come in gran parte delle posizioni in questi primi anni della carriera di Demostene, convivono considerazioni tanto ideali quanto pratiche. L’oratore mostra che abolire i premi assegnati è contrario a tutto ciò in cui gli Ateniesi credono, e antitetico ai presupposti morali del sistema evergetico, ma al contempo ha chiare le implicazioni pratiche ed economiche di questo sistema, e la loro importanza per il futuro di Atene. La sua argomentazione, di conseguenza, non oppone alle argomentazioni economiche della difesa considerazioni esclusivamente ideali, ma piuttosto argomentazioni fondate tanto sui valori degli Ateniesi quanto su considerazioni economiche alternative e altrettanto valide. A §10 Demostene dà effettivamente l’impressione di contrapporre a considerazioni materiali considerazioni ideali, ma l’impressione è ingannevole. Demostene afferma: “Il punto da considerare non è soltanto se ci stiate rimettendo dei soldi, ma se ci stiate rimettendo la vostra buona reputazione, che vi sta a cuore più del denaro – e stava a cuore più del denaro anche ai vostri antenati”. Il testo pare contrapporre la δόξα χρηστή e le ricchezze materiali, sostenendo la su-

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periorità della δόξα come valore alternativo. Questo contrasto è stabilito in termini perentori, che sembrano confermare una distinzione netta nell’ideologia pubblica ateniese tra ricchezza materiale e non materiale.352 La ragione di questa formulazione va tuttavia cercata nel contesto argomentativo, che vuole contrapporre a una misura volta a raccogliere denaro, in un momento di forti difficoltà finanziarie, considerazioni alternative. Ma postulare questa dicotomia è soltanto una delle strategie di Demostene, e l’oratore complica immediatamente il quadro, rendendo la distinzione tra ricchezza materiale e immateriale più sfumata: sostiene infatti che prova dell’importanza maggiore da attribuire alla δόξα χρηστή è il fatto che gli antenati, quando avevano abbondanza di ricchezze materiali, non badavano ad alcun pericolo nello sforzo continuo di procurare una δόξα χρηστή alla città, e spendevano le loro sostanze ὑπὲρ φιλοτιμίας. Questa associazione della δόξα della città alla φιλοτιμία che gli Ateniesi ne ricavano da cittadini e stranieri non è limitata a questo discorso: cfr. p. es. Dem. 24.91–5, 210, discusso sopra, dove Demostene connette la δόξα della città (dovuta alle buone leggi, che vengono imitate dagli stranieri) alle φιλοτιμίαι verso gli Ateniesi.353 È chiaro tuttavia che in questa formulazione è implicita la traducibilità tra ricchezze materiali e universo morale degli onori. Come gli Ateniesi possono spendere le loro ricchezze per procurarsi onori, così possono accordare onori in cambio di benefici economici. Questa è la posizione di Senofonte nei Poroi (3.4–5) quando afferma, nella discussione di varie misure per aumentare le entrate pubbliche, che i mercanti saranno incentivati ad accorrere ad Atene non solo dal profitto, ma anche dalla possibilità di ottenere onori. Non solo, ma al termine di §10 i termini utlizzati da Demostene per descrivere la fama che deriverà ad Atene dalla legge di Leptine, e che minerà alle fondamenta il sistema evergetico, adombrano l’artificialità della dicotomia tra onori e benefici materiali. La scelta di usare φθονεροὺς ἀπίστους ἀχαρίστους, in particolare gli ultimi due, non allude soltanto agli effetti negativi che non abrogare la legge avrà sulla δόξα degli Ateniesi, e dunque in generale alla reputazione di bassezza che ne ricaveranno. Questi due termini hanno una forte connessione alla sfera delle transazioni economiche e del credito,354 e πίστις (nella sua connessione all’ideale della reciprocità) è utilizzato p. es. da Dem. 36.57 in relazione al banchiere Formione, che ha un credito (una πίστις) tra chi lo conosce maggiore del totale delle sue sostanze.355 Nell’usare questi termini immediata352 Cfr. Kallet (2005) che postula questa dicotomia. 353 Cfr. p. 89; cfr. Dover (1974: 236). 354 Cfr. Millet (1991: 7–8); Faraguna (2012). 355 Cfr. Zaccagnini (2003: 159).



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mente dopo aver sostenuto una divisione tra beni materiali e immateriali, e la superiorità dei secondi, Demostene sfuma ulteriormente i contorni delle due categorie, e annovera tra i beni immateriali che gli Ateniesi perderanno concetti che sono fortemente connessi al benessere finanziario della città. Questa connessione è rinforzata a §11 dall’esempio scelto per illustrare l’ἦθος della città: a simboleggiare la πίστις degli Ateniesi è un episodio in cui scelsero di ripagare un prestito che gli Spartani avevano accordato ai Trenta. E infatti a §13, nel tirare le fila dell’ethos della città che si può ricavare dall’episodio descritto, Demostene dà una versione meno perentoria della distinzione tra interessi materiali e onore, affermando che il carattere della città è “intento non a ciò che è più utile per accumulare ricchezze, ma anche a fare del bene” (οὐ τὸ λυσιτελέστατον πρὸς ἀργύριον σκοποῦν, ἀλλὰ τί καὶ καλὸν πρᾶξαι). L’uso di ἀλλὰ καί a introdurre la dimensione morale mostra che essa non è esclusiva degli interessi materiali. È nella discussione dei meriti degli onorandi stranieri (§§29–66), e dei benefici, spesso finanziari, che la loro φιλοτιμία, suscitata dalla δόξα χρηστή della città, ha procurato agli Ateniesi, che Demostene mostra chiaramente come la contrapposizione tra ricchezza materiale e immateriale sia artificiale, e la δόξα della città e la sua πίστις siano fonti concrete di entrate che contribuiscono alla salute economica di Atene. In questa sezione la sintassi morale del sistema evergetico sviluppata nella prima parte del discorso rivela la sua portata economica, da contrapporre ai limitati orizzonti di austerità della legge di Leptine. Il primo benefattore discusso, e quello discusso più a lungo (§§29–40), è Leucone, il sovrano del Bosforo. Demostene afferma che Leucone fornisce metà del grano importato annualmente da Atene e non impone dazi su questa merce, garantendo ai mercanti ateniesi anche la precedenza in fase di carico (§31). Fa poi notare che se si considera il normale dazio imposto da Leucone sulle esportazioni di grano, si vedrà che gli Ateniesi ricevono da lui un dono annuo di 13000 medimni (§32). A prescindere dalla veridicità delle stime di Demostene (vd. comm. §32[3]), l’importanza del Bosforo per il commercio granario ateniese è chiarissima, e le fonti epigrafiche confermano che Atene conservò gli onori per i sovrani del Bosforo per varie generazioni (comm. §29[5, 7]). Demostene afferma che, ovviamente, qualora Leucone perdesse le sue facilitazioni (cioè l’ateleia), priverebbe a sua volta Atene dei suoi privilegi (§34): non è pensabile che li mantenga dopo essere stato danneggiato. Per questo, Demostene conclude, la legge non solo procurerà danni alla città, ma la priverà anche di vantaggi acquisiti (§35). La scelta di questo primo esempio è emblematica dell’argomentazione, e delle ragioni di Demostene. L’oratore sostiene non soltanto che la legge

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Introduzione

di Leptine danneggerà il sistema evergetico, ma anche che quest’ultimo sia essenziale alla salute economica della città. Demostene sceglie di puntare sul commercio granario per dare agli Ateniesi un’idea delle conseguenze di un sistema evergetico depotenziato e delegittimato per la città. Atene necessitava di costanti importazioni di grano, perché la sua produzione non soddisfaceva il fabbisogno della popolazione (comm. §31[1]). Negli anni dell’impero questo fabbisogno era soddisfatto attraverso il controllo diretto di aree produttrici di grano. Nel IV secolo, con la sconfitta nella Guerra del Peloponneso prima, e nella Guerra Sociale poi, questo non era più possibile. Le testimonianze epigrafiche mostrano che Atene, in linea con i consigli di Senofonte, sempre più utilizzò relazioni reciproche di natura evergetica per garantirsi quelle importazioni granarie (e altre forme di entrate commerciali) che non poteva più assicurarsi con la forza.356 Onori per potentati stranieri e mercanti, che controllavano o commerciavano con aree produttrici di beni di cui Atene necessitava, divennero sempre più diffusi nel IV secolo, in particolare nella seconda metà, dopo la sconfitta nella Guerra Sociale.357 In questi onori, come compreso da Demostene, benefici materiali e immateriali erano integrati, e si rinforzavano a vicenda. Alcuni di questi onori, e l’ateleia è certamente uno di questi, comportavano vantaggi sostanziali per mercanti e potentati stranieri.358 In altri la dimensione del profitto era trascurabile, ma l’onore era di per sé desiderabile, e costituiva un incentivo sufficiente per molti mercanti. Demostene suggerisce, ma senza provarlo e senza insistere troppo, che tutte le esenzioni di Leucone, anche quelle commerciali, saranno abolite dalla legge di Leptine. In realtà la legge aboliva soltanto le esenzioni dalle liturgie, non le altre forme di ateleia. Di conseguenza è probabile che le esenzioni commerciali di Leucone non sarebbero state toccate (vd. pp. 56–9). Questo tuttavia non inficia l’argomentazione e l’analisi di Demostene, che rileva come tutti i benefici e gli onori reciproci tra Atene e i sovrani del Bosforo facciano parte di un collaudato sistema evergetico fondato sulla reciprocità e sull’affidabilità di tutti gli onori. Questo è implicitamente confermato dal decreto proposto da Androzione nel 346/5 (IG II3 1 298 = RO 64) che rinnovava gli onori accordati a Satiro prima e a Leucone poi, per i figli di Leucone, Spartoco e Perisade. Il decreto recitava nella sua moti356 Sull’uso degli onori per stimolare il commercio granario vd. Oliver (2007a: 30–37). 357 Per uno studio complessivo degli onori per servizi di natura commerciale vd. Engen (2010). 358 Su come Leucone si servisse delle sue esenzioni commerciali, e sui vantaggi economici che gli portavano, vd. comm. §31[5].



10.  Evergetismo ed economia degli onori

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vazione: “dal momento che [Spartoco e Perisade] accordano al demos gli stessi benefici che Satiro e Leucone accordarono, ci saranno per Spartoco e Perisade gli stessi benefici che il demos diede a Satiro e Leucone”. Il funzionamento e il rinnovamento, di generazione in generazione, del rapporto tra Atene e gli Spartocidi sono fondati sull’inviolabilità degli onori e dei privilegi accordati da entrambe le parti. Demostene, proprio per via del fondamento morale del sistema evergetico, basato sulla philotimia, sulla pistis e sulla charis, non ha torto ad affermare che “nessuno di certo è convinto che Leucone tollererà che i benefici che gli avete concesso siano aboliti, e allo stesso tempo conserverà intatti quelli che lui ha concesso a voi” (§35). Abolire retroattivamente anche uno solo dei benefici di Leucone, intaccando l’integrità del rapporto reciproco e l’affidabilità di Atene, poteva mettere in pericolo l’intera relazione, a prescindere dal danno economico che ne sarebbe effettivamente derivato per Leucone. Come si è osservato, benefici materiali e immateriali erano integrati nell’economia degli onori, e si rinforzavano e reggevano a vicenda. Non c’è modo di sapere se Leucone avrebbe davvero abolito i privilegi di Atene. La legge di Leptine fu abrogata (vd. pp. 98–100) e i suoi discendenti ebbero tutti i loro onori rinnovati. È possibile che Leucone ottenesse ingenti profitti dalla relazione con Atene, per cui avrebbe comunque scelto di chiudere un occhio. Ma l’analisi politica di Demostene non è per questo meno valida. L’oratore mostra in questo discorso una comprensione sofisticata dei fondamenti, morali ed economici, del sistema evergetico. Non solo, ma pone i giudici di fronte alla realtà della dipendenza di Atene dai benefattori, cittadini o stranieri. In particolare, contro le preoccupazioni contabili di Leptine, Demostene rileva (come Senofonte) che la ripresa di Atene, il suo approvvigionamento granario, la sua stessa sopravvivenza, dipendono, nell’assenza di un impero, dalla capacità di attirare mercanti stranieri. Lo strumento più potente a questo fine era appunto la facoltà del demos di accordare onori, e la doxa e la pistis di Atene che rendevano questi onori ambiti. Attraverso questi onori gli Ateniesi instauravano relazioni reciproche e continuative con mercanti e potentati stranieri che davano alla città quella sicurezza nell’approvvigionamento granario, e nelle entrate dovute al commercio, che era venuta a mancare con la perdita dell’impero. Sabotare gli strumenti con cui Atene si assicurava queste relazioni avrebbe avuto conseguenze economiche terribili per la città, di gran lunga più disastrose della cronica mancanza di liturgisti di cui si preoccupava Leptine.

11.  L’esito del processo Dione Crisostomo (31.128) afferma esplicitamente che l’accusa contro Leptine si concluse con la vittoria del team di accusa e l’abrogazione della legge: “Un certo Leptine propose una legge per cui le esenzioni venivano abolite per chi le deteneva per volontà del popolo, eccetto per i discendenti di Armodio e Aristogitone, e per cui non sarebbe stato lecito in futuro accordare questo beneficio a nessuno. Ebbene? È forse possibile che gli Ateniesi abbiano accettato la legge? No di certo, ma la abrogarono con un’accusa pubblica”. È plausibile che Dione si basi su fonti attendibili oggi non più consultabili,359 ma è altrettanto possibile che la sua notizia sia soltanto un autoschediasma.360 Blass fu il primo a negare l’affidabilità della notizia, osservando l’improbabilità di una vittoria del giovane Demostene contro un team di difesa di forte rilievo, e contro una legge che sarà stata molto popolare.361 Conferma di questa osservazione sarebbe un’iscrizione (IG II2 3040) rinvenuta e pubblicata da Christopher Wordsworth, in seguito andata perduta, e ancora ritrovata e più accuratamente letta alla fine del XIX secolo,362 che testimonia che uno Ctesippo figlio di Cabria ricoprì l’incarico di corego per il coro dei fanciulli con cui la tribù Cecropide conquistò la vittoria. Se questo Ctesippo fosse effettivamente il figlio di Cabria lo stratego, e non piuttosto il padre,363 ne risulterebbe che Ctesippo si assunse una liturgia, il che indicherebbe che la sua esenzione era stata abolita. Era tuttavia possibile sostenere una liturgia anche in modo volontario. Badian liquida questa possibilità affermando che il carattere di Ctesippo rende improbabile un gesto del genere. La debolezza di questo argomento è evidente se si considera che sia Westermann sia Schaefer usarono il carattere di Ctesippo in senso totalmente opposto, per affermare la probabilità che acconsentisse a spendere il suo denaro liberamente.364 È inoltre possibile che l’esenzione di Ctesippo fosse stata abolita 359 Così Westermann (1844: 578); Schaefer (1885–1887: I, p. 215, 373). 360 Cfr. Momigliano (1975: 248, n. 1); Badian (2000: 28). 361 Blass (1893: 239). 362 Cfr. Wordsworth (1855: 141–142); Köhler in CIA II 1263: lapidem frustra quaesivi; Richards (1898: 233) attribuisce il ritrovamento a “Mr. Brown of the American School of Archeology at Athens”. 363 Wordsworth (1855: 141) identificava questo Ctesippo con il figlio di Cabria; così Kremmydas (2012: 59); contra Sandys (1890: XXXI), che ipotizzava che potesse essere il nonno. 364 Badian (2000: 28); Westermann (1844: 578); Schaefer (1885–1887: I, p. 413). Cfr. Sandys (1890: XXXI).



11.  L’esito del processo

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con la procedura istituita dalla legge sostitutiva.365 A minare ulteriormente la rilevanza di questa iscrizione è la datazione di Richards alla prima metà del secolo.366 IG II2 1623 ll. 72–81, che cita una trierarchia di Ctesippo nel 334/3, è ugualmente irrilevante, perché nessuno era esente dalla trierarchia (comm. §§18[4]). Blass sostenne anche che non vi siano testimonianze certe di concessioni di ateleia successive al 355 a.C. 367 Ma il rilievo è incorretto: due iscrizioni, IG II3 1 393 ll. 10–11, datata tra il 350 e il 325, e IG II2 265 ll. 5–6, anteriore al 336–5 ma successiva al discorso, attestano che l’ateleia totale (nel primo caso esplicitamente ἀτέλεια πάντων, nel secondo senza qualificazioni e dunque equivalente a un’ἀτέλεια πάντων, vd. pp. 55–6) era ancora accordata dopo la data del discorso.368 Queste formulazioni, e particolarmente quella esplicita di un’ἀτέλεια πάντων nella prima iscrizione, sarebbero problematiche in un regime in cui l’ateleia dalla liturgie è illegale. Ancora più decisiva è l’iscrizione del 347/6, in onore dei figli di Leucone, Spartoco e Perisade (IG II3 1 298 con comm. §29[7]), che rinnova esplicitamente tutti i benefici accordati a Leucone. Se l’ateleia dalle liturgie ordinarie fosse stata allora illegale, questo decreto, rinnovando esplicitamente tutti i benefici accordati a Leucone, inclusa l’esenzione dalle liturgie, avrebbe infranto la legge.369 Le fonti epigrafiche confermano dunque la testimonianza di Dione Crisostomo.370 La legge di Leptine fu probabilmente abrogata, nonostante il forte impatto che avrebbe potuto avere sul finanziamento del sistema liturgico. Il successo dell’accusa dovette lasciare una forte impressione se Dinarco (1.111), trent’anni dopo, nel contesto di un’accusa a Demostene, riassume i primi anni della carriera dell’oratore richiamando specificamente la collaborazione con Ctesippo e Formione, e cioè l’orazione Contro Leptine. La scelta di citare questa particolare collaborazione è prova che Demostene ottenne dal successo di questa accusa una certa notorietà, che ne lanciò la carriera 365 Così Schaefer (1885–1887: I, pp. 266, 417–19). 366 Richards (1898: 233) cita anche il parere di August Wilhelm. 367 Blass (1893: 239); Momigliano (1975: 248, n. 1), Cawkwell (1962: 377), Badian (2000: 28), Sealey (1993: 127) e Braun 2007: 59 anch’essi ignorano iscrizioni pertinenti nell’affermare che Demostene fu sconfitto. 368 Cfr. Kremmydas (2012: 59–60). Harris (2008: 20–1, n. 17) correttamente cita IG II3 1 393 ll. 10–11, ma il secondo esempio, IG II3 1 316 ll. 25–6, datata tra il 350 e il 325 da Walbank (1990: 442), cita l’esenzione dal metoikion, che la legge di Leptine non aboliva, per cui è irrilevante. 369 Cfr. Schaefer (1885–1887: I, pp. 266, 416–17), Harris (2008: 20–1, n. 17), Kremmydas (2012: 59–60), pace Sandys (1890: XXXI). 370 Weil (1886: 11, n. 1) notava che solo ritrovamenti epigrafici avrebbero potuto dirimere la questione, e così è avvenuto.

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politica. Non sarà un caso che il suo primo discorso assembleare preservato nel corpus, Sulle simmorie (Dem. 14), sia dell’anno successivo, il 354/3 (Dion. Hal. Ad Ammaeum I, 1.4), e si occupi proprio del sistema liturgico, proponendo la riforma delle simmorie trierarchiche (vd. pp. 6, 53–4, 66, 70). La partecipazione del giovane Demostene a un dibattito assembleare di tale importanza sarà stata facilitata dal suo successo l’anno precedente nel processo contro Leptine, con il quale si era affermato come un esperto del sistema liturgico. Nel discorso Contro Leptine Demostene richiamò con successo i valori alla base dell’economia pubblica degli onori, e il loro legame con l’ethos di Atene. Il suo attacco alla legge ne mostrò tanto i limiti pratici quanto l’incompatibilità con lo spirito della città. Da un lato la legge portava vergogna alla città, una fama di ingratitudine incompatibile con la storia e i valori condivisi dagli Ateniesi. Dall’altro minava alle fondamenta la fiducia nelle sue ricompense, la sua pistis e la sua charis, che erano alla base dell’economia pubblica dei servizi e degli onori. Il funzionamento di questo sistema comportava per Atene un ritorno, finanziario e sostanziale, di gran lunga superiore ai benefici immediati della legge di Leptine. Nell’attaccare la legge, Demostene isolò alcuni caratteri essenziali del funzionamento di Atene e di qualsiasi polis: l’importanza dell’evergetismo, dei servizi individuali volontari alla collettività, e il suo motore nella philotimia del benefattore, che può essere sfruttata a vantaggio della città soltanto se quest’ultima mantiene un credibile monopolio degli onori e delle ricompense.

12.  Conspectus siglorum S Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. gr. 2934 A München, Bayerische Staatsbibliothek, Cod. graec. 485 F Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Marc. gr. 416 Y Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. gr. 2935 P Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana plut. 59.9 L Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana conv. Soppr. 136 B München, Bayerische Staatsbibliothek, Cod. graec. 85 Wb Wien, Vind. Phil. gr. 70 (XV sec.)

13.  Edizioni e commenti di rilievo Aldina: Demosthenes, orationes, edd. A. Manuzio e A. Torresano, Venezia 1504 Feliciana: Demosthenis Orationes, ed. Io. Felicianus, Venezia 1543 H. Wolf: Demosthenis oratorum Graeciae principis opera, quae ad nostram aetatem pervenerunt omnia, una cum Ulpiani rhetoris commentariis, e graeco in latinum sermonem conversa, ed. H. Wolf, Basel 1549 Lambinus: Δεμοσθένους λόγοι καὶ προοίμια καὶ ἐπίστολαι, edd. D. Lambin e G. Morel, Paris 1570 Reiske: Oratorum Graecorum quorum princeps est Demosthenes, quae supersunt, ed. J. Reiske, Leipzig 1770 F. A. Wolf: Demosthenis Oratio adversus Leptinem cum scholiis veteribus et commentario perpetuo, ed. F. A. Wolf, Halis Saxonum (Halle) 1789 G. H. Schaefer: Demosthenis quae supersunt e bonis libris a se emendata ed. I. I. Reiske, ed. G. H. Schaefer, London 1822–27 Bekker: Oratores Attici, ed. I. Bekker, Oxford 1823 Baiter-Sauppe: Oratores Attici, edd. J. G. Baiter e H. Sauppe, Zürich 1839–43 Dindorf: Demosthenes. Orationes, ed. W. Dindorf, Oxford 1846–51

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Introduzione

Benseler: Demosthenes Rede gegen Leptines, Griechisch und Deutsch mit kritischen und erklärenden Anmerkungen, ed. G. E. Benseler, Leipzig 1861 Vömel: Demosthenis oratio adversus Leptinem cum argumentis Graece et Latine, ed. J. T. Vömel, Leipzig 1866 Blass: Demosthenes, Orationes, ex rec. G. Dindorfi, ed. F. Blass, Leipzig 1885–9, IV edizione Weil: Les plaidoyers politiques de Démosthène, ed. H. Weil, Paris 1886 Sandys: Δεμοσθένους πρὸς Λεπτίνην, ed. J. E. Sandys, Cambridge 1890 Butcher: Demosthenis Orationes, edd. S. H. Butcher e W. Rennie, Oxford 1903–31 Sykutris: Demosthenes, Orationes, edd. K. Fuhr e I. Sykutris, Leipzig 1914–1937 Navarre-Orsini: Démosthène. Plaidoyers politiques, I, edd. O. Navarre-P. Orsini, Paris 1954 Amerio: M. L. Amerio, Discorsi e Lettere di Demostene. Discorsi in Tribunale, a cura di L. Canfora, vol. II/1, Torino 2000 Dilts: Demosthenis orationes II, ed. M. Dilts, Oxford 2005 Harris: Demosthenes. Speeches 20–22, ed. E. M. Harris, Austin TX 2008 Kremmydas: Commentary on Demosthenes’ Against Leptines, ed. C. Kremmydas, Oxford 2012

14. Papiri 20.15–16 P.Oxy. LVI 3841 = ZPE 94 (1992), pp. 1–3, II sec. 20.28–31, 39, 47, 49 P.Oxy. LVI 3842, II sec. 20.33, 36 P.Oxy. LVI 3843, II sec. ? 20.44 P.Oxy. LVI 3844, I sec. 20.76, 78, 84–91 P. Aberdeen 113 + P.Aberdeen 137 = Lenaerts, Papyris Littéraire grecs 10, Papyrologica Bruxellensia 13 = CQ 1, 1907, p. 263 = Hausman (1981), XXVIII–XXIX, I sec. 20.123, 125 P.Oxy. LVI 3845, V/VI sec. 20.161–162 PSI XI 1204, fine II sec.

15.  Nota testuale Il testo qui presentato è generalmente analogo a quello di Dilts nella sua edizione critica per gli Oxford Classical Texts (e riprodotto con qualche modifica nel commento di Kremmydas). Si rimanda all’apparato critico di Dilts (anch’esso riprodotto da Kremmydas con qualche modifica) per lezioni alternative dei codici, e per correzioni non accolte nel testo. Sono elencati qui tutti i casi in cui il mio testo si discosta da quelli di Dilts e Kremmydas, e questi casi (e ulteriori passaggi dibattuti dal punto di vista testuale) sono discussi per esteso nel commento. §2 ‘μηδὲ τὸ λοιπὸν ἐξεῖναι δοῦναι’, ὑμᾶς τὸ δοῦναι ὑμῖν ἐξεῖναι. Dilts: ‘μηδὲ τὸ λοιπὸν ἐξεῖναι δοῦναι’. ὑμᾶς τὸ δοῦναι ὑμῖν ἐξεῖναι. Kremmydas: ‘μηδὲ τὸ λοιπὸν ἐξεῖναι δοῦναι’ ὑμᾶς τὸ δοῦναι ὑμῖν ἐξεῖναι. §9 τὴν πόλιν τὴν αὐτὴν ἐπιτάξασαν Dilts: τὴν πόλιν αὐτὴν τὴν ἐπιτάξασαν (corr. Hèrtlein) §21 οὐκ εἰσὶ πέντ᾽ ἢ ἕξ. Dilts e Kremmydas: οὐκ εἰσὶ πέντ᾽ ἢ ἕξ. §26 οὔκουν ὁ πολλὰ κεκτημένος, οὗτος, ὅστις ἂν ᾖ, πολλὰ εἰς ταῦτα συντελεῖ; (corr. Major) Dilts: οὐκοῦν ὁ πολλὰ κεκτημένος, οὗτος, ὅστις ἂν ᾖ, πολλὰ εἰς ταῦτα συντελεῖ. (Kremmydas preferisce la congettura di Major ma ha il testo di Dilts) §28 ἀπαλλάξεται Dilts: ἀπηλλάξεται (corr. Cobet) §39 τινὲς ἴσως Dilts: τινές εἰσιν ἴσως §42 πρὸ τῶν τριάκοντα μικρὸν del. Dilts §46 τῷ ποιεῖν εὖ Dilts: τοῦ ποιεῖν εὖ (corr. Dobree)

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Introduzione

§54 τοῖς σκοπουμένοις del. Dilts (con Dobree) (Kremmydas ritiene l’espressione accettabile, ma mantiene l’espunzione nel testo) ἀνάγνωθι δέ μοι καὶ τοῦτο (F Y e Schol Dem. 20.53–136) ἀνάγνωθι καὶ τοῦτο (S A, mal. Dilts) §55 εἰδώς, ἢ παρὼν ἤ τινος εἰδότος διεξιόντος ἀκούσας Dilts: ἰδών, ἢ παρὼν ἤ τινος εἰδότος διεξιόντος ἀκούσας Kremmydas: εἰδώς, [ἢ] παρὼν ἤ τινος εἰδότος διεξιόντος ἀκούσας τοῦ νόμου τούτου τὰς τότε δωρεὰς Dilts (con Dobree): τοῦ νόμου τούτου < τοῦ> τὰς τότε δωρεὰς §56 … οὐ μετὰ ταῦθ᾽ ὕστερον χρόνῳ παμπληθεῖ; Dilts e Kremmydas: οὐ μετὰ ταῦθ᾽ ὕστερον χρόνῳ παμπληθεῖ. §72 μηδεμίαν ποιησαμένους τούτων μνείαν del. Dilts e Kremmydas (con Dobree) §89 οὐδὲν ἔστιν ἡμέτερον καινὸν εὕρημα Dilts (con Felicianus): οὐδὲν ἔστιν καινὸν οὐδ’ ἡμέτερον εὕρημα §93 ταὔτ᾽ ἀναγνῶναι Dilts: ταὐτὰ γνῶναι §94 τούτων τοίνυν τοσούτων ὄντων δικαίων τὸ πλῆθος, οὑτοσὶ μὲν οὐδ᾽ ὁτιοῦν ἐποίησε [Λεπτίνης] Kremmydas: τούτων τοίνυν τοσούτων ὄντων δικαίων τὸ πλῆθος, οὑτοσὶ μὲν οὐδ᾽ ὁτιοῦν ἐποίησε [Λεπτίνης] §104 οὐ λέγεις Kremmydas: οὐ λέγεις ὧν οὐδὲν ἐκείνοις προσῆκεν Dilts (con Dobree): ὧν οὐδὲν ἐκείνοις προσήκει



15.  Nota testuale

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§105 ἐμοὶ δὴ δοκοῦσιν (SAY) Dilts: ἐμοὶ δὲ δοκοῦσιν (F) §111 ταῖς ὀλιγαρχίαις καὶ δεσποτείαις εἰσί (con Kremmydas) codd. τῆς ὀλιγαρχίας καὶ δεσποτείας εἰσί, del. Dilts (con Westermann) §118 καλῶς del. Dilts (om. Tib. Fig. 19.15 Ball, del. van Herwenden) §128 “μηδέν᾽ εἶναι ἀτελῆ” προσέγραψεν “πλὴν τῶν…” Dilts e Kremmydas: “μηδέν᾽ εἶναι ἀτελῆ προσέγραψεν “πλὴν τῶν…” §132 διὰ τοῦθ᾽ ἑτέρους ἀξίους καὶ ἐλευθέρους Dilts: διὰ τοῦθ᾽ ἑτέρους [ἀξίους] καὶ ἐλευθέρους (con Dobree) §140 ὡς ἔπος εἰπεῖν ὀνείδη (SY) Dilts: ὡς ἔπος εἰπεῖν ὅσα ἔστιν ὀνείδη (con F) §141 ἐπὶ τοῖς τελευτήσασι δημοσίᾳ ταφὰς ποιεῖτε καὶ λόγους ἐπιταφίους (con SγρFA) Dilts: ἐπὶ τοῖς τελευτήσασι δημοσίᾳ [καὶ ταῖς ταφαῖς ταῖς δημοσίαις] ποιεῖτε λόγους ἐπιταφίους (SYP) §146 [τῶν ἐκείνῳ τι δοθέντων] Dilts: τῶν ἐκείνῳ τι δοθέντων §166 ὡς ἔστι Kremmydas: ὡς ἔστι (con Weil)

Testo e traduzione

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ΔΗΜΟΣΘΕΝΟΥΣ  ΠΡΟΣ ΛΕΠΤΙΝΗΝ ΠΕΡΙ ΤΗΣ ΑΤΕΛΕΙΑΣ

ΔΗΜΟΣΘΕΝΟΥΣ ΠΡΟΣ ΛΕΠΤΙΝΗΝ ΠΕΡΙ ΤΗΣ ΑΤΕΛΕΙΑΣ [1] Ἄνδρες δικασταί, μάλιστα μὲν εἵνεκα τοῦ νομίζειν συμφέρειν τῇ πόλει λελύσθαι τὸν νόμον, εἶτα καὶ τοῦ παιδὸς εἵνεκα τοῦ Χαβρίου ὡμολόγησα τούτοις, ὡς ἂν οἷός τε ὦ, συνερεῖν. ἔστι δ’ οὐκ ἄδηλον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοῦθ’, ὅτι Λεπτίνης, κἄν τις ἄλλος ὑπὲρ τοῦ νόμου λέγῃ, δίκαιον μὲν οὐδὲν ἐρεῖ περὶ αὐτοῦ, φήσει δ’ ἀναξίους τινὰς ἀνθρώπους εὑρομένους ἀτέλειαν ἐκδεδυκέναι τὰς λειτουργίας, καὶ τούτῳ πλείστῳ χρήσεται τῷ λόγῳ. [2] ἐγὼ δ’ ὅτι μὲν τινῶν κατηγοροῦντα πάντας ἀφαιρεῖσθαι τὴν δωρεὰν τῶν ἀδίκων ἐστίν, ἐάσω· καὶ γὰρ εἴρηται τρόπον τινὰ καὶ ὑφ’ ὑμῶν ἴσως γιγνώσκεται· ἀλλ’ ἐκεῖνα ἂν ἐροίμην ἡδέως αὐτόν, τίνος εἵνεκα, εἰ τὰ μάλιστα μὴ τινὲς ἀλλὰ πάντες ἦσαν ἀνάξιοι, τῶν αὐτῶν ἠξίωσεν ὑμᾶς τε καὶ τούτους. ἐν μὲν γὰρ τῷ γράψαι ‘μηδένα εἶναι ἀτελῆ’, τοὺς ἔχοντας ἀφείλετο τὴν ἀτέλειαν, ἐν δὲ τῷ προσγράψαι ‘μηδὲ τὸ λοιπὸν ἐξεῖναι δοῦναι’, ὑμᾶς τὸ δοῦναι ὑμῖν ἐξεῖναι. οὐ γὰρ ἐκεῖνό γ’ ἔνεστιν εἰπεῖν, ὡς τὸν αὐτὸν τρόπον, ὅνπερ τοὺς ἔχοντας [ἀφείλετο] τὴν δωρεὰν ἀναξίους ἐνόμιζεν, οὕτω καὶ τὸν δῆμον ἀνάξιον ἡγεῖτο κύριον εἶναι τοῦ δοῦναι, ἐάν τῳ βούληται. [3] ἀλλὰ νὴ Δι’ ἐκεῖν’ ἂν ἴσως εἴποι πρὸς ταῦτα, ὅτι διὰ τὸ ῥᾳδίως ἐξαπατᾶσθαι τὸν δῆμον, διὰ τοῦθ’ οὕτως ἔθηκε τὸν νόμον. τί οὖν κωλύει πάντα ἀφῃρῆσθαι καὶ ὅλως τὴν πολιτείαν ὑμᾶς κατὰ τοῦτον τὸν λόγον; οὐ γὰρ ἔστιν ἐφ’ ὅτου τοῦτο οὐ πεπόνθατε τῶν πάντων, ἀλλὰ καὶ ψηφίσματα πολλὰ πολλάκις ἐξαπατηθέντες κεχειροτονήκατε, καὶ συμμάχους ἤδη τινὰς ἥττους ἀντὶ κρειττόνων ἐπείσθητε ἑλέσθαι, καὶ ὅλως ἐν οἶμαι πολλοῖς οἷς πράττετε καὶ τοιοῦτό τι συμβαίνειν ἀνάγκη. [4] ἆρ’ οὖν θησόμεθα νόμον διὰ ταῦτα ‘μηδὲ τὸ λοιπὸν ἐξεῖναι τῇ βουλῇ μηδὲ τῷ δήμῳ μήτε προβουλεύειν μήτε χειροτονεῖν μηδέν;’ ἐγὼ μὲν οὐκ οἶμαι· οὐ γάρ ἐσμεν ἀφαιρεθῆναι δίκαιοι περὶ ὧν ἂν ἐξαπατηθῶμεν, ἀλλὰ διδαχθῆναι πῶς τοῦτο μὴ πεισόμεθα, καὶ θέσθαι νόμον οὐχ ὃς ἀφαιρήσεται τὸ κυρίους ἡμᾶς εἶναι, ἀλλὰ δι’ οὗ τὸν ἐξαπατῶντα τιμωρησόμεθα.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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Demostene Contro Leptine sull’esenzione [1] Signori giudici, è innanzitutto perché ritengo che abrogare la legge sia utile alla città, e in secondo luogo per via del figlio di Cabria, che ho accettato di parlare in favore di costoro al meglio delle mie possibilità. Non è un mistero che Leptine, e chiunque altro parli in difesa della legge, non dirà nulla al riguardo che sia improntato a giustizia, ma sosterrà che alcuni individui si sono sottratti alle liturgie perché hanno ricevuto un’esenzione che non meritano, ed adopererà questo come suo argomento principale. [2] Non mi soffermerò sul fatto che è ingiusto, sulla base di accuse nei confronti di alcuni, privare tutti dei loro benefici, poiché è stato in qualche modo già discusso e con tutta probabilità lo avete già capito. Piuttosto ciò che domanderei davvero a costui è per quale ragione, se anche, nella peggiore delle ipotesi, non alcuni ma tutti fossero indegni, abbia ritenuto che anche voi meritiate i loro stessi provvedimenti. Perché scrivendo “nessuno sia esente” priva dell’esenzione chi ne è beneficiario, ma aggiungendo “né sia lecito accordarla in futuro” priva voi della vostra facoltà di accordarla. Non può certo affermare che, così come riteneva che i detentori del beneficio non lo meritassero, allo stesso modo era convinto che il popolo non meritasse la facoltà di accordarlo a chi vuole. [3] D’altro canto, per Zeus, potrebbe forse ribattere a questi argomenti che ha fatto approvare la legge in questa forma perché il popolo si fa ingannare facilmente. Ma, se seguiamo questo ragionamento, che cosa gli impedisce di togliervi ogni potere e di eliminare del tutto il vostro ordinamento costituzionale? Non c’è infatti un solo ambito della vostra azione politica in cui non siate stati vittime di inganni. Al contrario, nel votare numerosi decreti vi siete spesso lasciati ingannare, e già in passato vi siete fatti convincere e invece di scegliere gli alleati più potenti vi siete schierati con la parte perdente. In generale, vista la mole di questioni di cui vi occupate, credo sia inevitable che certe cose accadano. [4] Ma promulgheremo per questo una legge per cui “non sia lecito in futuro né per il Consiglio deliberare né per l’Assemblea votare alcunché”? Non credo proprio – perché saremo nel giusto non quando ci saremo privati di quei poteri che comportano la possibilità di essere ingannati, ma quando avremo imparato a non prestar fede a questi inganni. Quando avremo promulgato una legge che non ci privi della nostra sovranità, ma con la quale puniremo chi ci inganna.

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ΔΗΜΟΣΘΕΝΟΥΣ  ΠΡΟΣ ΛΕΠΤΙΝΗΝ ΠΕΡΙ ΤΗΣ ΑΤΕΛΕΙΑΣ

[5] Εἰ τοίνυν τις ἐάσας ταῦτα αὐτὸ καθ’ αὑτὸ ἐξετάσειεν, πότερόν ποτε λυσιτελέστερόν ἐστι κυρίους μὲν ὑμᾶς εἶναι τῆς δωρεᾶς, ἐξαπατηθέντας δέ τι καὶ φαύλῳ τινὶ δοῦναι, ἢ διὰ τοῦ παντελῶς ἀκύρους γενέσθαι μηδ’ ἂν ἄξιόν τινα εἰδῆτε ἐξεῖναι τιμῆσαι, εὕροιτ’ ἂν μᾶλλον ἐκεῖνο λυσιτελοῦν. διὰ τί; ὅτι ἐκ μὲν τοῦ πλείονας ἢ προσήκει τιμᾶν πολλοὺς εὖ ποιεῖν προκαλεῖσθ’ ὑμᾶς, ἐκ δὲ τοῦ μηδενὶ μηδέν, μηδ’ ἂν ἄξιος ᾖ, διδόναι, πάντας ἀπείρξετε τοῦ φιλοτιμεῖσθαι. [6] πρὸς δὲ τούτῳ καὶ δι’ ἐκεῖνο, ὅτι οἱ μὲν ἀνάξιόν τινα τιμήσαντες εὐηθείας τινὰ δόξαν ἔχοιεν ἄν, οἱ δὲ τοὺς ἀγαθόν τι ποιοῦντας ἑαυτοὺς μὴ τοῖς ὁμοίοις ἀμειβόμενοι, κακίας. ὅσῳ δὴ κρεῖττον εὐήθη δοκεῖν ἢ πονηρὸν εἶναι, τοσούτῳ λῦσαι τὸν νόμον κάλλιον ἢ θέσθαι. [7] Οὐ τοίνυν ἔμοιγε οὐδ’ ἐκεῖνο εὔλογον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, σκοπουμένῳ φαίνεται, καταμεμφόμενόν τινας ἐπὶ ταῖς ὑπαρχούσαις δωρεαῖς τοὺς χρησίμους ὄντας τῶν τιμῶν ἀποστερεῖν. εἰ γὰρ ὑπαρχουσῶν τούτων φαῦλοι καὶ ἀνάξιοί τινες κατὰ τὸν τούτων λόγον εἰσίν, τί χρὴ προσδοκᾶν ἔσεσθαι τότε, ὅταν παντελῶς μηδὲν πλέον μέλλῃ [μηδὲν] εἶναι τοῖς χρηστοῖς οὖσιν; [8] Ἔτι τοίνυν ὑμᾶς κἀκεῖνο ἐνθυμεῖσθαι δεῖ, ὅτι ἐκ τῶν νῦν ὑπαρχόντων νόμων καὶ πάλαι κυρίων, οὓς οὐδ’ ἂν αὐτὸς οὗτος ἀντείποι μὴ οὐχὶ καλῶς ἔχειν, ἐνιαυτὸν διαλιπὼν ἕκαστος λειτουργεῖ, ὥστε τὸν ἥμισύν ἐστ’ ἀτελὴς τοῦ χρόνου. εἶθ’ ἧς πᾶσι μέτεστι τὸ ἥμισυ καὶ τοῖς μηδ’ ὁτιοῦν ἀγαθὸν πεποιηκόσιν ὑμᾶς, ταύτης τοὺς εὖ ποιήσαντας, ὃ προστεθείκαμεν αὐτοῖς, τοῦτ’ ἀφελώμεθα; μηδαμῶς· οὔτε γὰρ ἄλλως καλὸν οὔθ’ ὑμῖν πρέπον. [9] πῶς γὰρ οὐκ αἰσχρόν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, κατὰ μὲν τὴν ἀγορὰν ἀψευδεῖν νόμον γεγράφθαι, ἐφ’ οἷς οὐδέν ἐστι δημοσίᾳ βλάβος εἴ τις ψεύδεται, ἐν δὲ τῷ κοινῷ μὴ χρῆσθαι τῷ νόμῳ τούτῳ τὴν πόλιν τὴν αὐτὴν ἐπιτάξασαν τοῖς ἰδιώταις, ἀλλὰ τοὺς ἀγαθόν τι πεποιηκότας ἐξαπατῆσαι, καὶ ταῦτ’ οὐ μικρὰν ζημίαν ὀφλήσειν μέλλουσαν; [10] οὐ γὰρ εἰ μὴ χρήματ’ ἀπόλλυτε μόνον σκεπτέον, ἀλλ’ εἰ καὶ δόξαν χρηστήν, περὶ ἧς μᾶλλον σπουδάζετε ἢ περὶ χρημάτων, καὶ οὐ μόνον ὑμεῖς, ἀλλὰ καὶ οἱ πρόγονοι. τεκμήριον δέ· χρήματα μὲν γὰρ πλεῖστά ποτε κτησάμενοι πάνθ’ ὑπὲρ φιλοτιμίας ἀνήλωσαν, ὑπὲρ δὲ δόξης οὐδένα πώποτε κίνδυνον ἐξέστησαν, ἀλλὰ καὶ τὰς ἰδίας οὐσίας προσαναλίσκοντες διετέλουν. νῦν τοίνυν οὗτος ὁ νόμος ταύτην ἀντὶ καλῆς αἰσχρὰν τῇ πόλει περιάπτει, καὶ οὔτε τῶν προγόνων οὔθ’ ὑμῶν ἀξίαν. τρία γὰρ τὰ μέγιστα ὀνείδη κτᾶται, φθονεροὺς ἀπίστους ἀχαρίστους εἶναι δοκεῖν.



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[5] Ora, se uno lasciasse perdere queste questioni e esaminasse la faccenda in sé, si dovrebbe domandare: è più vantaggioso per voi conservare il potere di dispensare premi, pur nell’eventualità di farvi convincere con l’inganno a premiare anche qualche persona dappoco, oppure privarvi del tutto di questo potere e non essere in grado di accordare onori neppure se vi imbattete in qualcuno che ne è degno? Si renderebbe certamente conto che la prima opzione è la più vantaggiosa. Per quale ragione? Perché se tributerete più onori di quanti dovreste, inciterete molti a servirvi, mentre se non accorderete nulla a nessuno, neppure a chi ne è degno, soffocherete in tutti ogni ambizione. [6] Non solo, ma chi ha tributato onori a chi ne è indegno può trarne una reputazione di ingenuità, ma chi non ricompensa adeguatamente i suoi benefattori è tacciato di bassezza. Così come è meglio sembrare ingenui che essere dei miserabili, è più onorevole abrogare questa legge piuttosto che mantenerla in vigore. [7] A ben vedere, Ateniesi, non mi sembra quindi sensato che, per il solo fatto che alcuni di coloro che hanno ricevuto dei premi sono oggetto di critiche, si privi dei suoi onori chi si rende utile alla città. Perché se, seguendo il ragionamento dei miei avversari, tra chi detiene i premi alcuni sono persone dappoco e non li meritano, che cosa ci si dovrà aspettare che accada quando essere buoni cittadini non comporterà alcun vantaggio? [8] Dovete anche tenere in considerazione che in base alle leggi vigenti, leggi che sono in vigore da molto tempo e che neppure costui potrebbe sostenere che non siano eccellenti, ciascuno è sottoposto alle liturgie ad intervalli di un anno, cosicché è esentato per metà del tempo. Se metà di questa esenzione spetta a tutti, anche a coloro che non hanno fatto nulla di buono per voi, toglieremo a chi vi ha servito quell’esenzione aggiuntiva che gli abbiamo accordato? Non sia mai. Non sarebbe onorevole in generale e non si conviene a voi. [9] Non è vergognoso Ateniesi che la città abbia promulgato una legge affinché nessuno dica il falso nel pubblico mercato, quando se qualcuno dice una menzogna nel mercato questo non porta alcun danno alla comunità, ma la stessa città che ha stabilito questa legge per i privati non la rispetti nei pubblici affari, anzi inganni i suoi benefattori, esponendosi in questo modo a una punizione non trascurabile? [10] Il punto da considerare non è soltanto se ci stiate rimettendo dei soldi, ma se ci stiate rimettendo la vostra buona reputazione, che vi sta a cuore più del denaro – e stava a cuore più del denaro anche ai vostri antenati. Ecco la prova: quando possedevano grandissime ricchezze, le spesero tutte per acquistarne prestigio, e per guadagnare fama non indietreggiarono mai di fronte ad alcun pericolo. La perseguivano anche a costo di attingere ai loro patrimoni personali. Ebbene, oggi questa legge porta alla città non una buona fama, ma una fama vergognosa, indegna di voi e dei vostri antenati. Ci procura tre enormi ragioni di vergogna: diamo l’impressione di essere invidiosi, infidi e ingrati.

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[11] Ὅτι τοίνυν οὐδ’ ἐστὶν ὅλως, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοῦ ἤθους τοῦ ὑμετέρου κύριον ποιῆσαι τοιοῦτον νόμον, καὶ τοῦτο πειράσομαι δεῖξαι διὰ βραχέων, ἕν τι τῶν πρότερον πεπραγμένων τῇ πόλει διεξελθών. λέγονται χρήμαθ’ οἱ τριάκοντα δανείσασθαι παρὰ Λακεδαιμονίων ἐπὶ τοὺς ἐν Πειραιεῖ. ἐπειδὴ δ’ ἡ πόλις εἰς ἓν ἦλθεν καὶ τὰ πράγματ’ ἐκεῖνα κατέστη, πρέσβεις πέμψαντες οἱ Λακεδαιμόνιοι τὰ χρήματα ταῦτ’ ἀπῄτουν. [12] λόγων δὲ γιγνομένων καὶ τῶν μὲν τοὺς δανεισαμένους ἀποδοῦναι κελευόντων, τοὺς ἐξ ἄστεως, τῶν δὲ τοῦτο πρῶτον ὑπάρξαι τῆς ὁμονοίας σημεῖον ἀξιούντων, κοινῇ διαλῦσαι τὰ χρήματα, φασὶ τὸν δῆμον ἑλέσθαι συνεισενεγκεῖν αὐτὸν καὶ μετασχεῖν τῆς δαπάνης, ὥστε μὴ λῦσαι τῶν ὡμολογημένων μηδέν. πῶς οὖν οὐ δεινόν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, εἰ τότε μὲν τοῖς ἠδικηκόσιν ὑμᾶς ὑπὲρ τοῦ μὴ ψεύσασθαι τὰ χρήματ’ εἰσφέρειν ἠθελήσατε, νῦν δ’ ἐξὸν ὑμῖν ἄνευ δαπάνης τὰ δίκαια ποιῆσαι τοῖς εὐεργέταις, λύσασι τὸν νόμον, ψεύδεσθαι μᾶλλον αἱρήσεσθε; ἐγὼ μὲν οὐκ ἀξιῶ. [13] Τὸ μὲν τοίνυν τῆς πόλεως ἦθος, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, καὶ ἐπ’ ἄλλων πολλῶν καὶ ἐφ’ ὧν εἶπον ἴδοι τις ἂν τοιοῦτον, ἀψευδὲς καὶ χρηστόν, οὐ τὸ λυσιτελέστατον πρὸς ἀργύριον σκοποῦν, ἀλλὰ τί καὶ καλὸν πρᾶξαι. τὸ δὲ τοῦ θέντος τὸν νόμον, τὰ μὲν ἄλλ’ ἔγωγε οὐκ οἶδα, οὐδὲ λέγω φλαῦρον οὐδὲν οὐδὲ σύνοιδα, ἐκ δὲ τοῦ νόμου σκοπῶν εὑρίσκω πολὺ τούτου κεχωρισμένον. [14] φημὶ τοίνυν ἐγὼ κάλλιον εἶναι τοῦτον ὑμῖν ἀκολουθῆσαι περὶ τοῦ λῦσαι τὸν νόμον ἢ ὑμᾶς τούτῳ περὶ τοῦ θέσθαι, καὶ λυσιτελέστερον εἶναι καὶ ὑμῖν καὶ τούτῳ τὴν πόλιν πεπεικέναι Λεπτίνην ὅμοιον αὐτῇ γενέσθαι δοκεῖν ἢ αὐτὴν ὑπὸ τούτου πεπεῖσθαι ὁμοίαν εἶναι τούτῳ· οὐδὲ γὰρ εἰ πάνυ χρηστός ἐσθ’, ὡς ἐμοῦ γ’ ἕνεκα ἔστω, βελτίων ἐστὶ τῆς πόλεως τὸ ἦθος. [15] νομίζω τοίνυν ὑμᾶς, ὦ ἄνδρες δικασταί, ἄμεινον ἂν περὶ τοῦ παρόντος βουλεύσασθαι, εἰ κἀκεῖνο μάθοιτε, ὅτι ᾧ μόνῳ μείζους εἰσὶν αἱ παρὰ τῶν δήμων δωρεαὶ τῶν παρὰ τῶν ἄλλων πολιτειῶν διδομένων, καὶ τοῦτο ἀφαιρεῖται νῦν τῷ νόμῳ. τῇ μὲν γὰρ χρείᾳ τῇ τῶν εὑρισκομένων τὰς δωρεὰς οἱ τύραννοι καὶ οἱ τὰς ὀλιγαρχίας ἔχοντες μάλιστα δύνανται τιμᾶν· πλούσιον γὰρ ὃν ἂν βούλωνται παραχρῆμ᾽ ἐποίησαν· τῇ δὲ τιμῇ καὶ τῇ βεβαιότητι τὰς παρὰ τῶν δήμων δωρεὰς εὑρήσετε οὔσας βελτίους. [16] τό τε γὰρ μὴ μετ᾽ αἰσχύνης ὡς κολακεύοντα λαμβάνειν, ἀλλ᾽ ἐν ἰσηγορίᾳ δοκοῦντα ἄξιόν τινος εἶναι τιμᾶσθαι τῶν καλῶν ἐστι, τό τε ὑπὸ τῶν ὁμοίων ἑκόντων θαυμάζεσθαι τοῦ παρὰ τοῦ δεσπότου λαμβάνειν ὁτιοῦν κρεῖττον εἶναι δοκεῖ. παρὰ μὲν γὰρ ἐκείνοις μείζων ἐστὶν ὁ τοῦ μέλλοντος φόβος τῆς παρούσης χάριτος, παρὰ δ᾽ ὑμῖν ἀδεῶς ἃ ἂν λάβῃ τις ἔχειν ὑπῆρχε τὸν γοῦν ἄλλον χρόνον.



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[11] Cercherò ora di mostrarvi brevemente, Ateniesi, che porre in vigore una legge del genere non è per nulla degno del vostro carattere, e lo farò raccontandovi di un atto compiuto in passato dalla città. Si racconta che i Trenta si fecero prestare dagli Spartani del denaro da impiegare contro quelli del Pireo. Quando la città tornò unita e la situazione si calmò, gli Spartani inviarono degli ambasciatori a reclamare la restituzione del prestito. [12] Durante il dibattito alcuni chiedevano che fossero i beneficiari del prestito, quelli della città, a rifonderlo, mentre altri sostenevano che saldare il debito insieme costituisse un primo segno di concordia. Dicono che il popolo scelse di contribuire e partecipare alla spesa per non infrangere gli impegni presi. Dunque in passato eravate disposti, pur di non mancare di parola, a pagare il vostro debito con chi aveva commesso un’ingiustizia nei vostri confronti. Non sarebbe terribile se ora, pur avendo la possibilità senza spesa alcuna di fare la cosa giusta nei confronti dei vostri benefattori, di abrogare cioè la legge, sceglieste piuttosto di mancare alla parola data? Non sarebbe giusto, questo è il mio parere. [13] Ora, Ateniesi, da quanto ho detto così come da molti altri episodi si può osservare che il carattere della città è sincero e onesto, intento non a ciò che è più utile per accumulare ricchezze, ma anche a fare del bene. Quanto invece al carattere dell’uomo che ha fatto approvare questa legge, non ne so niente al di fuori di questo contesto, non ho niente di male da dire, né sono a conoscenza di alcunché, ma a giudicare dalla legge il suo carattere mi sembra molto diverso da quello della città. [14] Per questo dico che sarebbe meglio se quest’uomo seguisse voi nell’abrogare la legge, piuttosto che voi lui nel promulgarla, e che sarebbe più utile a voi e a lui se la città persuadesse Leptine ad adeguarsi al suo carattere, piuttosto che il contrario. Perché nemmeno se Leptine fosse una persona assolutamente dabbene – e per quanto mi riguarda sia pure – il suo carattere sarebbe migliore di quello della città. [15] Inoltre ritengo, giudici, che potreste meglio decidere riguardo alle circostanze attuali se comprendeste anche che Leptine abolisce ora con la sua legge l’unica ragione per cui i benefici concessi dalle democrazie sono superiori a quelli concessi dalle altre costituzioni. Quanto infatti al profitto di coloro che ottengono i benefici, i tiranni e i leader delle oligarchie hanno la possibilità di dispensare onori in sommo grado: possono rendere ricco chi vogliono all’istante. Ma quanto all’onore e alla stabilità troverete che i benefici accordati dalle democrazie sono superiori. [16] E questo poiché ricevere benefici senza la vergogna dell’adulazione, ma essere onorati in regime di libertà di parola perché se ne è giudicati degni, questa è cosa onorevole. Inoltre essere oggetto dell’ammirazione volontaria dei propri pari gode di maggiore considerazione di qualsiasi ricompensa ricevuta da un despota. Presso i tiranni infatti la paura del futuro è maggiore del favore di cui si gode nel presente, mentre da voi chi ha ricevuto un beneficio ha potuto conservarlo senza paura, almeno in passato.

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[17] ὁ τοίνυν τὴν πίστιν ἀφαιρῶν τῶν δωρεῶν νόμος, οὗτος, ᾧ μόνῳ κρείττους εἰσὶν αἱ παρ᾽ ὑμῶν δωρεαί, τοῦτ᾽ ἀφαιρεῖται. καίτοι τῶν ἁπασῶν ἧς ἄν τινος πολιτείας τὸ κομίζεσθαι τοὺς εὔνους τοῖς καθεστῶσιν χάριν ἄν ἐξέλῃς, οὐ μικρὰν φυλακὴν αὐτῶν ταύτην ἀφῃρηκὼς ἔσει. [18] τάχα τοίνυν ἴσως ἐκεῖνο λέγειν ἂν ἐπιχειρήσειε Λεπτίνης, ἀπάγων ὑμᾶς ἀπὸ τούτων, ὡς αἱ λειτουργίαι νῦν μὲν εἰς πένητας ἀνθρώπους ἔρχονται, ἐκ δὲ τοῦ νόμου τούτου λειτουργήσουσιν οἱ πλουσιώτατοι. ἔστι δὲ τοῦτο οὑτωσὶ μὲν ἀκοῦσαι λόγον τιν᾽ ἔχον· εἰ δέ τις αὐτὸ ἀκριβῶς ἐξετάσειε, ψεῦδος ἂν φανείη. εἰσὶ γὰρ δήπου παρ᾽ ἡμῖν αἵ τε τῶν μετοίκων λειτουργίαι καὶ αἱ πολιτικαί, ὧν ἑκατέρων ἐστὶ τοῖς εὑρημένοις ἡ ἀτέλεια ἣν οὗτος ἀφαιρεῖται. τῶν γὰρ εἰς τὸν πόλεμον καὶ τὴν σωτηρίαν τῆς πόλεως εἰσφορῶν καὶ τριηραρχιῶν ὀρθῶς καὶ δικαίως οὐδείς ἐστ᾽ ἀτελὴς ἐκ τῶν παλαιῶν νόμων, οὐδ᾽ οὓς οὗτος ἔγραψε, τοὺς ἀφ᾽ Ἁρμοδίου καὶ Ἀριστογείτονος. [19] σκεψώμεθα δὴ τίνας ἡμῖν εἰσποιεῖ χορηγοὺς εἰς ἐκείνας τὰς λειτουργίας, καὶ πόσους, ἐὰν μὴ τούτῳ προσέχωμεν, ἀφήσει. οἱ μὲν τοίνυν πλουσιώτατοι τριηραρχοῦντες ἀεὶ τῶν χορηγιῶν ἀτελεῖς ὑπάρχουσιν, οἱ δ᾽ ἐλάττω τῶν ἱκανῶν κεκτημένοι, τὴν ἀναγκαίαν ἀτέλειαν ἔχοντες, ἔξω τοῦ τέλους εἰσὶ τούτου· οὐκοῦν τούτων μὲν οὐδετέρων οὐδεὶς διὰ τὸν νόμον ἡμῖν προσέσται χορηγός. [20] ἀλλὰ νὴ Δία εἰς τὰς τῶν μετοίκων λειτουργίας εἰσποιεῖ πολλούς. ἀλλ᾽ ἐὰν δείξῃ πέντε, ἐγὼ ληρεῖν ὁμολογῶ. θήσω τοίνυν ἐγὼ μὴ τοιοῦτον εἶναι τοῦτο, ἀλλὰ καὶ τῶν μετοίκων πλείονας ἢ τοσούτους, ἐὰν ὁ νόμος τεθῇ, τοὺς λειτουργοῦντας ἔσεσθαι, καὶ τῶν πολιτῶν μηδένα ἐκ τριηραρχίας ὑπάρξειν ἀτελῆ. σκεψώμεθα δὴ τί τοῦτο τῇ πόλει, ἐὰν ἅπαντες οὗτοι λειτουργῶσιν· φανήσεται γὰρ οὐδὲ πολλοῦ δεῖ τῆς γενησομένης ἄξιον αἰσχύνης. [21] ὅρα δ᾽ οὑτωσί. εἰσὶ τῶν ξένων ἀτελεῖς—δέκα θήσω· καὶ μὰ τοὺς θεούς, ὅπερ εἶπον ἀρτίως, οὐκ οἶμαι πέντε εἶναι. καὶ μὴν τῶν γε πολιτῶν οὐκ εἰσὶ πέντ᾽ ἢ ἕξ. οὐκοῦν ἀμφοτέρων ἑκκαίδεκα. ποιήσωμεν αὐτοὺς εἴκοσιν, εἰ δὲ βούλεσθε, τριάκοντα. πόσοι δή ποτ᾽ εἰσὶν οἱ κατ᾽ ἐνιαυτὸν τὰς ἐγκυκλίους λειτουργίας λειτουργοῦντες, χορηγοὶ καὶ γυμνασίαρχοι καὶ ἑστιάτορες; ἑξήκοντ᾽ ἴσως ἢ μικρῷ πλείους σύμπαντες οὗτοι. [22] ἵν᾽ οὖν τριάκοντ᾽ ἄνθρωποι πλείους παρὰ πάντα τὸν χρόνον λειτουργήσωσιν ἡμῖν, τοὺς ἅπαντας ἀπίστως πρὸς ἡμᾶς αὐτοὺς διαθῶμεν; ἀλλ᾽ ἴσμεν ἐκεῖνο δήπου, ὅτι λειτουργήσουσιν μέν, ἄνπερ ἡ πόλις ᾖ, πολλοὶ καὶ οὐκ ἐπιλείψουσιν, εὖ δὲ ποιεῖν ἡμᾶς οὐδεὶς ἐθελήσει, τοὺς πρότερον ποιήσαντας ἐὰν ἠδικημένους ἴδῃ.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[17] Ebbene, questa legge, distruggendo la fiducia nei benefici ricevuti, distrugge l’unica ragione per cui i vostri benefici sono più preziosi. Certamente, in qualsiasi costituzione, se si elimina la pratica di ricambiare i benefici portati dai sostenitori, si sarà distrutta una salvaguardia non da poco. [18] Ma ancora, Leptine potrebbe forse cercare di affermare, sviandovi da questi problemi, che le liturgie ora gravano sui poveri, mentre grazie alla sua legge se le accolleranno i più ricchi. Questo discorso, ad ascoltarlo così, ha una sua logica. Ma se lo si analizzasse con attenzione, sarebbe chiaro che è una menzogna. È ben noto infatti che ci sono nel nostro ordinamento liturgie per i meteci e liturgie per i cittadini, ed esiste per i meritevoli un’esenzione da entrambe queste categorie, quella che costui sta eliminando. È giusto ed equo infatti che, secondo le antiche leggi, nessuno sia esente dalle imposte straodinarie per la guerra e per la salvezza della città, e dalle trierarchie, neppure quelli che costui ha menzionato nella sua legge, i discendenti di Armodio e Aristogitone. [19] Consideriamo dunque chi sono i coreghi che Leptine rende disponibili per quelle liturgie, e quanti, se non gli diamo retta, dovrà lasciare esenti. Ebbene i più ricchi, fintanto che si sottopongono alle trierarchie, sono sempre esenti dalle coregie, mentre chi possiede meno di quanto è necessario è esentato per necessità ed è escluso dal sobbarcarsi quest’onere: dunque con questa legge non aggiungerete al numero dei coreghi nessun membro di nessuna di queste due categorie. [20] “Ma, per Zeus, aggiungerà molti liturgisti alla lista dei meteci!” Me ne mostri cinque e allora ammetterò di dire delle sciocchezze. Ma poniamo che la faccenda non sia come la dipingo io e che, se la legge è promulgata, ci saranno più di cinque meteci a sostenere le liturgie e nessun cittadino sarà esente per via di una trierarchia. Consideriamo quindi quali vantaggi ci siano per la città se tutti questi individui sostengono le liturgie: sarà allora evidente che questi vantaggi non compensano neanche lontanamente la vergogna che ne verrà alla città. [21] Vedila così: ci sono, poniamo, dieci esenti tra gli stranieri; e, per gli dei, come dicevo poco fa, non credo che ce ne siano cinque. E di cittadini non ce ne sono cinque o sei. Dunque, tra entrambe le categorie, sedici. Facciamo venti; se volete, trenta. Ebbene quanti vengono sottoposti ogni anno alle liturgie ordinarie: coregia, ginnasiarchia e hestiasis? Tra tutti forse sessanta o poco più. [22] Dunque affinché trenta persone in più d’ora in poi si sobbarchino le nostre liturgie facciamo sì che tutti quanti perdano ogni fiducia nei nostri confronti? Ma sappiamo per certo che, finché esisterà la città, molti si sobbarcheranno le liturgie, e i liturgisti non verranno certo a mancare, mentre nessuno vorrà essere nostro benefattore se vede che chi lo è stato in passato è stato trattato ingiustamente.

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[23] εἶεν. εἰ δὲ δὴ τὰ μάλιστα ἐπέλειπον οἱ χορηγεῖν οἷοί τε, πρὸς Διὸς πότερον κρεῖττον ἦν εἰς συντέλειαν ἀγαγεῖν τὰς χορηγίας ὥσπερ τὰς τριηραρχίας, ἢ τοὺς εὐεργέτας ἀφελέσθαι τὰ δοθέντα; ἐγὼ μὲν ἐκεῖνο οἶμαι. νῦν μέν γε τὸν χρόνον, ὃν ἂν τούτων ἕκαστος λειτουργῇ, δίδωσι τὴν ἀνάπαυσιν αὐτοῖς μόνον, μετὰ ταῦτα δ᾽ οὐδὲν ἔλαττον ἕκαστος αὐτῶν ἀναλώσει· τότε δ᾽ ἄν, μικρᾶς συντελείας ἀπὸ τῶν ὑπαρχόντων ἑκάστῳ γιγνομένης, οὐδὲν ἔπασχε δεινὸν οὐδείς, οὐδ᾽ εἰ πάνυ μικρὰ κεκτημένος ἦν. [24] οὕτω τοίνυν τινές, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, σφόδρ᾽ ἔχουσιν ἀλογίστως ὥστ᾽ ἐπιχειροῦσι λέγειν πρὸς μὲν ταῦτ᾽ οὐδέν, ἄλλα δὲ τοιαδί. ὡς ἄρα δεινόν, εἰ ἐν κοινῷ μὲν μηδ᾽ ὁτιοῦν ὑπάρχει τῇ πόλει, ἰδίᾳ δέ τινες πλουτήσουσιν ἀτελείας ἐπειλημμένοι. ἔστι δὲ ταῦτα ἀμφότερα οὐχὶ δίκαιον λέγειν. εἰ μὲν γάρ τις ἔχει πολλὰ μηδὲν ὑμᾶς ἀδικῶν, οὐχὶ δεῖ δήπου τούτῳ βασκαίνειν· εἰ δ᾽ ὑφῃρημένον φήσουσιν ἤ τινα ἄλλον οὐχ ὃν προσήκει τρόπον, εἰσὶ νόμοι καθ᾽ οὓς προσήκει κολάζειν. ὅτε δὲ τοῦτο μὴ ποιοῦσιν, οὐδὲ τὸν λόγον αὐτοῖς τοῦτον λεκτέον. [25] καὶ μὴν περὶ τοῦ γε μὴ εἶναι χρήματα κοινὰ τῇ πόλει, ἐκεῖν᾽ ὑμᾶς δεῖ σκοπεῖν, ὅτι οὐδὲν ἔσεσθ᾽ εὐπορώτεροι, τὰς ἀτελείας ἐὰν ἀφέλησθε· οὐ γὰρ κοινωνεῖ ταῖς δημοσίαις προσόδοις καὶ περιουσίαις ταῦτα τἀναλώματα οὐδέν. χωρὶς δὲ τούτων νυνὶ τῇ πόλει, δυοῖν ἀγαθοῖν, πλούτου καὶ τοῦ πρὸς ἅπαντας πιστεύεσθαι, ἐστὶ τὸ τῆς πίστεως ὑπάρχον. εἰ δέ τις οἴεται δεῖν, ὅτι χρήματ᾽ οὐκ ἔχομεν, μηδὲ δόξαν ἔχειν ἡμᾶς χρηστήν, οὐ καλῶς φρονεῖ. ἐγὼ μὲν γὰρ εὔχομαι τοῖς θεοῖς, μάλιστα μὲν ἡμῖν καὶ χρήματα πολλὰ γενέσθαι, εἰ δὲ μή, τό γε πιστοῖς εἶναι καὶ βεβαίοις δοκεῖν διαμεῖναι. [26] φέρε δὴ καὶ τὰς εὐπορίας, ἃς ἀναπαυομένους τινὰς εὐπορήσειν οὗτοι φήσουσιν, εἰς δέον ὑμῖν γιγνομένας δείξω. ἴστε γὰρ δήπου τοῦθ᾽ ὅτι τῶν τριηραρχιῶν οὐδείς ἐστ᾽ ἀτελὴς οὐδὲ τῶν εἰσφορῶν τῶν εἰς τὸν πόλεμον. οὔκουν ὁ πολλὰ κεκτημένος, οὗτος, ὅστις ἂν ᾖ, πολλὰ εἰς ταῦτα συντελεῖ; πᾶσα ἀνάγκη. καὶ μὴν ὅτι δεῖ τὴν εὐπορίαν εἰς ταῦθ᾽ ὑπάρχειν πλείστην τῇ πόλει, πάντες ἂν ὁμολογήσειαν· παρὰ μὲν γὰρ τὰς ἐπὶ τῶν χορηγιῶν δαπάνας ἡμέρας μέρος μικρὸν ἡ χάρις τοῖς θεωμένοις ἡμῶν, παρὰ δὲ τὰς τῶν εἰς τὸν πόλεμον παρασκευῶν ἀφθονίας πάντα τὸν χρόνον ἡ σωτηρία πάσῃ τῇ πόλει. [27] ὥσθ᾽ ὅσον ἐνθάδ᾽ ἀφίετε, ἐκεῖ κομίζεσθε, καὶ δίδοτε ἐν τιμῆς μέρει ταῦτα ἃ καὶ μὴ λαβοῦσιν ἔστιν ἔχειν τοῖς τοῦ τριηραρχεῖν ἄξια κεκτημένοις. ἀλλὰ μὴν ὅτι τῶν τριηραρχιῶν οὐδείς ἐστ᾽ ἀτελής, οἶμαι μὲν ὑμᾶς εἰδέναι πάντας, ὅμως δὲ καὶ τὸν νόμον ὑμῖν αὐτὸν ἀναγνώσεται. λαβὲ τὸν περὶ τῶν τριηραρχιῶν νόμον καὶ λέγε τοῦτ᾽ αὐτό.



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[23] Bene. Ma se nella peggiore delle ipotesi venissero a mancare candidati in grado di sostenere una coregia, per Zeus, sarebbe meglio organizzare le coregie in raggruppamenti contributivi, come le trierarchie, oppure privare i benefattori di ciò che è stato loro accordato? Io preferisco la prima opzione! Col sistema attuale ciascun liturgista garantisce un po’ respiro agli altri soltanto mentre sostiene la liturgia, ma in seguito ciascuno di loro paga non meno di prima. Ma col mio sistema, se ogni membro dei raggruppamenti contributivi pagasse un piccolo contributo dalle sue sostanze, nessuno ne sarebbe terribilmente danneggiato, neppure se le sue sostanze fossero molto modeste. [24] Ebbene, Ateniesi, alcuni individui si comportano in modo così insensato che non provano nemmeno a controbattere a questi argomenti. Invece, non fanno altro che recriminare che è terribile che nelle casse pubbliche della città non ci sia più niente, mentre alcuni in privato si arricchiranno per via dell’esenzione ottenuta. Ma entrambe queste recriminazioni sono ingiuste: se uno è molto ricco e non vi ha fatto alcun torto, certo non bisogna provare invidia per lui; se d’altro canto si dice in giro che abbia intascato del denaro o che sia diventato ricco con altri mezzi illegali, ci sono leggi attraverso le quali va punito. Ma dal momento che non fanno questo, dovrebbero risparmiarsi certe affermazioni. [25] Quanto poi al fatto che non ci sono soldi nelle casse pubbliche, dovete rendervi conto che l’abolizione delle esenzioni non vi renderà in alcun modo più ricchi: queste spese liturgiche non hanno niente a che fare con le pubbliche entrate e con il surplus. Ma al di là di queste considerazioni, al momento è rimasta alla città, di due qualità, la ricchezza e un’affidabilità riconosciuta da tutti, soltanto la seconda. Se qualcuno ritiene che, dal momento che non abbiamo denaro, non dobbiamo avere neanche una buona reputazione, non sa quello che dice. Io, dal canto mio, prego gli dei innanzitutto che ci giungano molte ricchezze, ma se questo non è possibile che ci conservino almeno la buona reputazione di gente affidabile e seria. [26] Ascoltate ora: vi mostrerò che la ricchezza che secondo costoro alcuni si procureranno, grazie alle interruzioni loro concesse nei loro doveri liturgici, è necessaria anche a voi. Sapete bene infatti che nessuno è esente dalle trierarchie e dalle imposte straordinarie di guerra. E allora non è forse chi è molto ricco, chiunque sia, che si sobbarca la gran parte di questi oneri? Non ha scelta! E certo tutti ammetteranno che per queste necessità la città ha bisogno di ingenti quantitativi di denaro. Dalle spese per le coregie dipende la gratificazione di chi tra noi è spettatore per una frazione di una giornata, mentre dall’abbondanza dei preparativi per la guerra dipenderà per sempre la salvezza della città. [27] Per cui quello che perdete da una parte lo riguadagnate dall’altra, e date a titolo onorifico gli stessi benefici di cui possono godere anche coloro che non sono esentati se possiedono ricchezze che li qualificano per il censo trierarchico. Ma sono certo che tutti voi siete al corrente che nessuno è esente dalle trierarchie; in ogni caso vi farò leggere la legge. Prendi la legge sui trierarchi e leggi la sezione rilevante.

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ΝΟΜΟΣ ἀτελῆ δὲ μηδένα εἶναι τριηραρχίας πλὴν τῶν ἐννέα ἀρχόντων. [28] ὁρᾶθ᾽ ὡς σαφῶς, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, μηδένα εἶναι τριηραρχίας ἀτελῆ διείρηκεν ὁ νόμος πλὴν τῶν ἐννέα ἀρχόντων. οὐκοῦν οἱ μὲν ἐλάττω κεκτημένοι τοῦ τριηραρχίας ἄξι᾽ ἔχειν ἐν ταῖς εἰσφοραῖς συντελοῦσιν εἰς τὸν πόλεμον, οἱ δ᾽ ἐφικνούμενοι τοῦ τριηραρχεῖν εἰς ἀμφότερ᾽ ὑμῖν ὑπάρξουσι χρήσιμοι, καὶ τριηραρχεῖν καὶ εἰσφέρειν. τίν᾽ οὖν ῥᾳστώνην τοῖς πολλοῖς ὁ σός, ὦ Λεπτίνη, ποιεῖ νόμος, εἰ μιᾶς ἢ δυοῖν φυλαῖν ἕνα χορηγὸν καθίστησιν, ὃς ἀνθ᾽ ἑνὸς ἄλλου τοῦτο ἅπαξ ποιήσας ἀπαλλάξεται; ἐγὼ μὲν οὐχ ὁρῶ. τῆς δέ γ᾽ αἰσχύνης ὅλην ἀναπίμπλησι τὴν πόλιν καὶ τῆς ἀπιστίας. οὔκουν ὅτε πολλῷ μείζονα βλάψει τῶν ὠφελειῶν ὧν ἔχει, προσήκει λελύσθαι παρὰ τοῖσδ᾽ αὐτόν; ἔγωγ᾽ ἂν φαίην. [29] ἔτι δ᾽, ὦ ἄνδρες δικασταί, διὰ τὸ γεγράφθαι ἐν τῷ νόμῳ διαρρήδην αὐτοῦ ‘μηδένα μήτε τῶν πολιτῶν μήτε τῶν ἰσοτελῶν μήτε τῶν ξένων εἶναι ἀτελῆ,’ μὴ διῃρῆσθαι δὲ ὅτου ἀτελῆ, χορηγίας ἤ τινος ἄλλου τέλους, ἀλλ᾽ ἁπλῶς ‘ἀτελῆ μηδένα πλὴν τῶν ἀφ᾽ Ἁρμοδίου καὶ Ἀριστογείτονος,’ καὶ ἐν μὲν τῷ ‘μηδένα’ πάντας περιλαμβάνειν τοὺς ἄλλους, ἐν δὲ τῷ ‘τῶν ξένων’ μὴ διορίζειν τῶν οἰκούντων Ἀθήνησιν, ἀφαιρεῖται καὶ Λεύκωνα τὸν ἄρχοντα Βοσπόρου καὶ τοὺς παῖδας αὐτοῦ τὴν δωρεὰν ἣν ὑμεῖς ἔδοτ᾽ αὐτοῖς. [30] ἔστι γὰρ γένει μὲν δήπου ὁ Λεύκων ξένος, τῇ δὲ παρ᾽ ὑμῶν ποιήσει πολίτης· κατ᾽ οὐδέτερον δ᾽ αὐτῷ τὴν ἀτέλειαν ἔστιν ἔχειν ἐκ τούτου τοῦ νόμου. καίτοι τῶν μὲν ἄλλων εὐεργετῶν χρόνον τινα ἕκαστος ἡμῖν χρήσιμον αὑτὸν παρέσχεν, οὗτος δ’, ἂν σκοπῆτε, φανήσεται συνεχῶς ἡμᾶς εὖ ποιῶν, καὶ ταῦθ᾽ ὧν μάλισθ᾽ ἡμῶν ἡ πόλις δεῖται. [31] ἴστε γὰρ δήπου τοῦθ᾽, ὅτι πλείστῳ τῶν πάντων ἀνθρώπων ἡμεῖς ἐπεισάκτῳ σίτῳ χρώμεθα. πρὸς τοίνυν ἅπαντα τὸν ἐκ τῶν ἄλλων ἐμπορίων ἀφικνούμενον ὁ ἐκ τοῦ Πόντου σῖτος εἰσπλέων ἐστίν. εἰκότως· οὐ γὰρ μόνον διὰ τὸ τὸν τόπον τοῦτον σῖτον ἔχειν πλεῖστον τοῦτο γίγνεται, ἀλλὰ διὰ τὸ κύριον ὄντα τὸν Λεύκωνα αὐτοῦ τοῖς ἄγουσιν Ἀθήναζε ἀτέλειαν δεδωκέναι, καὶ κηρύττειν πρώτους γεμίζεσθαι τοὺς ὡς ὑμᾶς πλέοντας. ἔχων γὰρ ἐκεῖνος ἑαυτῷ καὶ τοῖς παισὶ τὴν ἀτέλειαν ἅπασι δέδωκεν ὑμῖν. [32] τοῦτο δ᾽ ἡλίκον ἐστὶ θεωρήσατε. ἐκεῖνος πράττεται τοὺς παρ᾽ αὑτοῦ σῖτον ἐξάγοντας τριακοστήν. αἱ τοίνυν παρ᾽ ἐκείνου δεῦρ᾽ ἀφικνούμεναι σίτου μυριάδες περὶ τετταράκοντα εἰσί· καὶ τοῦτ᾽ ἐκ τῆς παρὰ τοῖς σιτοφύλαξιν ἀπογραφῆς ἄν τις ἴδοι. οὐκοῦν παρὰ μὲν τὰς τριάκοντα μυριάδας μυρίους δίδωσι μεδίμνους ἡμῖν, παρὰ δὲ τὰς δέκα ὡσπερανεὶ τρισχιλίους.



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LEGGE [Nessuno sia esente dalle trierarchie eccetto i nove arconti.] [28] Vedete, Ateniesi, con quanta saggezza la legge sancisce che nessuno sia esente dalla trierarchia eccetto i nove arconti. Di conseguanza, chi possiede al di sotto del censo trierarchico verserà un tributo per la guerra con le contribuzioni straordinarie, mentre chi si qualifica per la trierachia vi sarà utile in entrambi i modi: si sobbarcherà la trierarchia e pagherà le contribuzioni straordinarie. Per cui, Leptine, di che aiuto è la tua legge alla maggior parte dei cittadini, se aggiunge un singolo corego a una o due tribù? E questo corego, dopo aver sostituito un altro cittadino una volta, sarà congedato! Io non vedo alcuna utilità. Al contrario, riempie la città di vergogna e di discredito. Dal momento che i danni portati da questa legge sono molto superiori ai vantaggi, non è forse giusto che questa corte la abolisca? Io direi proprio di sì. [29] Inoltre, giudici, poiché Leptine ha scritto esplicitamente nella legge che “nessuno, né dei cittadini né di coloro il cui trattamento fiscale è identico a quello dei cittadini né degli stranieri, sia esente”, ma non precisa esente da cosa, dalla coregia o da qualche altro prelievo; e poiché ha scritto semplicemente “nessuno sia esente eccetto i discendenti di Armodio e Aristogitone”, e in questo “nessuno” include tutti gli altri, mentre col termine “stranieri” non specifica quelli che abitano ad Atene, per queste ragioni egli priva anche Leucone, signore del Bosforo, e i suoi figli del beneficio che gli avete concesso. [30] Leucone infatti è straniero di origine ma cittadino naturalizzato. Ebbene, secondo entrambe le categorie citate nella legge non ha diritto all’esenzione. Eppure, mentre ciascuno degli altri benefattori si è reso utile in qualche particolare occasione, se ci pensate è evidente che Leucone è nostro benefattore senza soluzione di continuità, e in ciò di cui la nostra città ha più bisogno. [31] Perché siete certamente al corrente che tra tutte le comunità noi siamo quelli che importano più cereali. E inoltre la quantità di cereali che importiamo dal Ponto è pari alla somma delle importazioni che giungono dagli altri empori. È naturale: la ragione è non solo che la zona in questione ha una larghissima produzione di cereali, ma che Leucone, che ne è il signore, ha dato un’esenzione a chi trasporta cereali ad Atene e ha ordinato che chi salpa verso l’Attica sia il primo a caricare. Leucone ha concesso a voi tutti un’esenzione perché ne ha ricevuta una da voi, per sé e per i suoi figli. [32] Considerate qual è il valore di questa esenzione. Leucone applica a chi esporta la sua produzione una tassa di un trentesimo. Ebbene, ci arrivano da lui circa 400.000 medimni (e questa cifra è facile da controllare: basta dare un’occhiata al registro degli ispettori del grano). Dunque per ogni 300.000 medimni ce ne regala 10.000 e per ogni 100.000 ce ne regala 3.000.

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[33] τοσούτου τοίνυν δεῖ ταύτην ἀποστερῆσαι τὴν δωρεὰν τὴν πόλιν, ὥστε προσκατασκευάσας ἐμπόριον Θευδοσίαν, ὅ φασιν οἱ πλέοντες οὐδ᾽ ὁτιοῦν χεῖρον εἶναι τοῦ Βοσπόρου, κἀνταῦθ᾽ ἔδωκε τὴν ἀτέλειαν ἡμῖν. καὶ τὰ μὲν ἄλλα σιωπῶ, πόλλ᾽ ἂν ἔχων εἰπεῖν, ὅσ᾽ εὐεργέτηκεν ὑμᾶς οὗτος ἁνὴρ καὶ αὐτὸς καὶ οἱ πρόγονοι· ἀλλὰ προπέρυσι σιτοδείας παρὰ πᾶσιν ἀνθρώποις γενομένης οὐ μόνον ὑμῖν ἱκανὸν σῖτον ἀπέστειλεν, ἀλλὰ τοσοῦτον ὥστε πεντεκαίδεκα ἀργυρίου τάλαντα, ἃ Καλλισθένης διῴκησε, προσπεριγενέσθαι. [34] τί οὖν οἴεσθε, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοῦτον τὸν τοιοῦτον περὶ ὑμᾶς γεγενημένον, ἐὰν ἀκούσῃ νόμῳ τὴν ἀτέλειαν ὑμᾶς ἀφῃρημένους αὐτὸν καὶ μηδ᾽ ἂν μεταδόξῃ ποτὲ ψηφισαμένους ἐξεῖναι δοῦναι; ἆρ᾽ ἀγνοεῖτε ὅτι ὁ αὐτὸς νόμος οὗτος ἐκεῖνόν τ᾽ ἀφαιρήσεται τὴν ἀτέλειαν, κύριος ἂν γένηται, καὶ ὑμῶν τοὺς παρ᾽ ἐκείνου σιτηγοῦντας; [35] οὐ γὰρ δήπου τοῦτό γε ὑπείληφεν οὐδείς, ὡς ἐκεῖνος ὑπομενεῖ ἑαυτῷ μὲν ἀκύρους εἶναι τὰς παρ᾽ ὑμῶν δωρεάς, ὑμῖν δὲ μένειν τὰς παρ᾽ ἑαυτῷ. οὐκοῦν πρὸς πολλοῖς οἷς ὑμᾶς βλάψειν ὁ νόμος φαίνεται, καὶ προσαφαιρεῖταί τι τῶν ὑπαρχόντων ἤδη. εἶθ᾽ ὑμεῖς ἔτι σκοπεῖτε εἰ χρὴ τοῦτον ἐξαλεῖψαι, καὶ οὐ πάλαι βεβούλευσθε; ἀνάγνωθι λαβὼν αὐτοῖς τὰ ψηφίσματα τὰ περὶ τοῦ Λεύκωνος.

ΨΗΦΙΣΜΑΤΑ [36] ὡς μὲν εἰκότως καὶ δικαίως τετύχηκεν τῆς ἀτελείας παρ᾽ ὑμῶν ὁ Λεύκων, ἀκηκόατ᾽ ἐκ τῶν ψηφισμάτων, ὦ ἄνδρες δικασταί. τούτων δ᾽ ἁπάντων στήλας ἀντιγράφους ἐστήσαθ᾽ ὑμεῖς κἀκεῖνος, τὴν μὲν ἐν Βοσπόρῳ, τὴν δ᾽ ἐν Πειραιεῖ, τὴν δ᾽ ἐφ᾽ Ἱερῷ. σκοπεῖτε δὴ πρὸς ὅσης κακίας ὑπερβολὴν ὑμᾶς ὁ νόμος προάγει, ὃς ἀπιστότερον τὸν δῆμον καθίστησιν ἑνὸς ἀνδρός. [37] μὴ γὰρ οἴεσθ᾽ ὑμῖν ἄλλο τι τὰς στήλας ἑστάναι ταύτας ἢ τούτων πάντων ὧν ἔχετε ἢ δεδώκατε συνθήκας, αἷς ὁ μὲν Λεύκων ἐμμένων φανεῖται καὶ ποιεῖν ἀεί τι προθυμούμενος ὑμᾶς εὖ, ὑμεῖς δ᾽ ἑστώσας ἀκύρους πεποιηκότες, ὃ πολὺ δεινότερον τοῦ καθελεῖν· αὗται γὰρ οὑτωσὶ τοῖς βουλομένοις κατὰ τῆς πόλεως βλασφημεῖν τεκμήριον ὡς ἀληθῆ λέγουσιν ἑστήξουσιν. [38] φέρε, ἐὰν δὲ δὴ πέμψας ὡς ἡμᾶς ὁ Λεύκων ἐρωτᾷ, τί ἔχοντες ἐγκαλέσαι καὶ τί μεμφόμενοι τὴν ἀτέλειαν αὐτὸν ἀφῄρησθε, τί πρὸς θεῶν ἐροῦμεν ἢ τί γράψει ποτε ὁ τὸ ψήφισμα ὑπὲρ ἡμῶν γράφων; ὅτι νὴ Δί᾽ ἦσαν τῶν εὑρημένων τινὲς ἀνάξιοι.



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[33] E la possibilità che privi in ogni caso la città di questa esenzione è così lontana dai suoi pensieri che dopo aver aperto un nuovo emporio a Teodosia, emporio che a detta dei marinai non è per nulla inferiore a quello del Bosforo, ci ha garantito l’esenzione anche lì! E tralascerò i molti altri benefici che quest’uomo e i suoi predecessori vi hanno concesso, anche se potrei citarne molti; ma quando due anni fa’ il mondo intero fu colpito da carestia non solo vi mandò cereali a sufficienza, ma in quantità tale che ne derivammo un profitto aggiuntivo di quindici talenti, che amministrò Callistene. [34] Ebbene, Ateniesi, quale pensate che sarà la reazione di Leucone, che si è comportato in questo modo nei vostri confronti, quando verrà a conoscenza del fatto che lo avete per legge privato dell’esenzione, e che neppure se cambiaste idea vi sarà possibile accordargliela nuovamente per decreto? Come fate a non capire che questa legge, se entra in vigore, con lui priverà dell’esenzione tutti coloro che importano cereali da lui? [35] Perché nessuno di certo è convinto che Leucone tollererà che i benefici che gli avete concesso siano aboliti, e allo stesso tempo conserverà intatti quelli che lui ha concesso a voi. Dunque, al di là dei danni che la legge vi causerà certamente in futuro, vi priva anche di vantaggi già esistenti. E voi ancora riflettete se sia necessario abrogarla? Non avete già deciso molto tempo fa’? Prendi i decreti su Leucone e leggili ai giudici.

DECRETI [36] Avete sentito dai decreti, giudici, che Leucone ha ricevuto da voi l’esenzione giustamente e per ottime ragioni. Di tutti questi decreti sia voi sia lui stesso avete eretto copie su stele, una nel Bosforo, una al Pireo e una presso Ierone. Vi rendete conto a quali livelli di bassezza questa legge vi conduce? Essa rende la nostra democrazia meno affidabile di un regime retto da uomo solo. [37] Non crediate infatti che queste steli siano in piedi a simboleggiare null’altro che accordi vincolanti su tutto ciò che avete ricevuto e concesso, ai quali accordi sarà chiaro a tutti che Leucone si sta attenendo, e sta mostrando di comportarsi sempre con benevolenza nei vostri confronti, mentre voi pur lasciando in piedi le steli le avete rese senza valore, che è molto più terribile che distruggerle: in questo modo infatti si ergeranno a testimonianza che coloro che vogliono insultare la città dicono il vero. [38] Forza, proviamo ad immaginare, se Leucone dovesse mandare un messaggero a domandarci quali rimproveri e quali critiche gli muoviamo, tali da spingerci ad annullare la sua esenzione, che cosa gli risponderemo, per gli dei? Cosa mai scriverà chi redigerà il decreto per voi? Per Zeus, che alcuni degli esenti non ne erano degni.

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[39] ἐὰν οὖν εἴπῃ πρὸς ταῦτα ἐκεῖνος ‘καὶ γὰρ Ἀθηναίων τινὲς ἴσως φαῦλοι, καὶ οὐ διὰ ταῦτ᾽ ἐγὼ τοὺς χρηστοὺς ἀφειλόμην, ἀλλὰ τὸν δῆμον νομίζων χρηστὸν πάντας ἔχειν ἐῶ,’ οὐ δικαιότερ᾽ ἡμῶν ἐρεῖ; ἐμοὶ γοῦν δοκεῖ. παρὰ πᾶσι γὰρ ἀνθρώποις μᾶλλόν ἐστιν ἔθος διὰ τοὺς εὐεργέτας καὶ ἄλλους τινὰς εὖ ποιεῖν τῶν μὴ χρηστῶν ἢ διὰ τοὺς φαύλους τοὺς ὁμολογουμένως ἀξίους χάριτος τὰ δοθέντ᾽ ἀφαιρεῖσθαι. [40] καὶ μὴν οὐδ᾽ ὅπως οὐκ ἀντιδώσει τῷ Λεύκωνί τις, ἂν βούληται, δύναμαι σκοπούμενος εὑρεῖν. χρήματα μὲν γάρ ἐστιν ἀεὶ παρ᾽ ὑμῖν αὐτοῦ, κατὰ δὲ τὸν νόμον τοῦτον, ἐάν τις ἐπ᾽ αὔτ᾽ ἔλθῃ, ἢ στερήσεται τούτων ἢ λειτουργεῖν ἀναγκασθήσεται. ἔστι δ᾽ οὐ τὸ τῆς δαπάνης μέγιστον ἐκείνῳ, ἀλλ᾽ ὅτι τὴν δωρεὰν ὑμᾶς αὐτὸν ἀφῃρῆσθαι νομιεῖ. [41] οὐ τοίνυν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, μὴ Λεύκων ἀδικηθῇ μόνον δεῖ σκοπεῖν, ᾧ φιλοτιμίας ἕνεκα ἡ περὶ τῆς δωρεᾶς σπουδὴ γένοιτ᾽ ἄν, οὐ χρείας, ἀλλὰ καὶ εἴ τις ἄλλος εὖ μὲν ἐποίησεν ὑμᾶς εὖ πράττων, εἰς δέον δὲ νῦν γέγον᾽ αὐτῷ τὸ παρ᾽ ὑμῶν λαβεῖν τότε τὴν ἀτέλειαν. τίς οὖν οὗτός ἐστιν; Ἐπικέρδης ὁ Κυρηναῖος, ὅς, εἴπερ τις ἄλλος τῶν εἰληφότων, δικαίως ἠξιώθη ταύτης τῆς τιμῆς, οὐ τῷ μεγάλα ἢ θαυμάσια ἡλίκα δοῦναι, ἀλλὰ τῷ παρὰ τοιοῦτον καιρὸν ἐν ᾧ καὶ τῶν εὖ πεπονθότων ἔργον ἦν εὑρεῖν ἐθέλοντά τινα ὧν εὐεργέτητο μεμνῆσθαι. [42] οὗτος γὰρ ἁνήρ, ὡς τὸ ψήφισμα τοῦτο δηλοῖ τὸ τότε αὐτῷ γραφέν, τοῖς ἁλοῦσι τότε ἐν Σικελίᾳ τῶν πολιτῶν, ἐν τοιαύτῃ συμφορᾷ καθεστηκόσιν, ἔδωκε μνᾶς ἑκατὸν καὶ τοῦ μὴ τῷ λιμῷ πάντας αὐτοὺς ἀποθανεῖν αἰτιώτατος ἐγένετο. καὶ μετὰ ταῦτα, δοθείσης ἀτελείας αὐτῷ διὰ ταῦτα παρ᾽ ὑμῶν, ὁρῶν ἐν τῷ πολέμῳ πρὸ τῶν τριάκοντα μικρὸν, σπανίζοντα τὸν δῆμον χρημάτων, τάλαντον ἔδωκεν αὐτὸς ἐπαγγειλάμενος. [43] σκέψασθε δὴ πρὸς Διὸς καὶ θεῶν, ἄνδρες Ἀθηναῖοι, πῶς ἂν ἄνθρωπος μᾶλλον φανερὸς γένοιτο εὔνους ὢν ὑμῖν, ἢ πῶς ἧττον ἄξιος ἀδικηθῆναι, ἢ πρῶτον μὲν εἰ παρὼν τῷ τῆς πόλεως ἀτυχήματι μᾶλλον ἕλοιτο τοὺς ἀτυχοῦντας καὶ τὴν παρὰ τούτων χάριν, ἥτις ποτ᾽ ἔμελλεν ἔσεσθαι, ἢ τοὺς ἐν ἐκείνῳ τῷ χρόνῳ κεκρατηκότας καὶ παρ᾽ οἷς ἦν, δεύτερον δ᾽, ἑτέραν χρείαν ἰδών, εἰ φαίνοιτο διδοὺς καὶ μὴ πῶς ἰδίᾳ τὰ ὄντα σώσει προνοούμενος, ἀλλ᾽ ὅπως τῶν ὑμετέρων μηδὲν ἐνδεῶς ἕξει τὸ καθ᾽ αὑτόν.



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[39] E se lui a questo argomento dovesse controbattere: “anche tra gli Ateniesi alcuni forse sono gente dappoco, ma non per questo io ho annullato l’esenzione per le persone per bene; al contrario dal momento che ritengo che il popolo sia in generale per bene, lascio che tutti traggano beneficio dalle esenzioni”, non sarà questa una risposta più giusta della nostra? A me certo sembra di sì. In tutto il mondo infatti è costume che nel ricompensare i benefattori si faccia del bene anche ad altri che non sono brave persone, piuttosto che, per colpa dei mascalzoni, rischiare di annullare ricompense date a chi è unanimemente considerato degno di gratitudine. [40] E inoltre, a ben rifletterci, non riesco a capire come si potrà impedire che qualcuno, se vuole, richieda uno scambio di beni con Leucone. Perché ci sono sempre da noi beni che gli appartengono, e secondo questa legge, se qualcuno volesse metterci le mani, Leucone sarà costretto o a privarsene o a sobbarcarsi una liturgia. Il problema per lui non è tanto il costo, ma piuttosto che riterrà che lo abbiate privato di un privilegio. [41] E inoltre, Ateniesi, non dovete soltanto fare attenzione che Leucone non subisca un’ingiustizia. La sua preoccupazione per il beneficio è più una questione di onore che di bisogno. Ma pensate a chi è stato generoso nei vostri confronti quando le sue sostanze erano prospere ed è ora giunto ad avere bisogno dell’esenzione che voi gli accordaste un tempo. Di chi sto parlando? Di Epicerde di Cirene. Se mai ci fu qualcuno degno di ricevere questo onore, si tratta di lui, non perché abbia portato benefici enormi o strabilianti alla città, ma per le circostanze in cui li ha portati, un momento in cui era un’impresa trovare, anche tra coloro che avevano ricevuto dei benefici, qualcuno che fosse disposto a ricordarli questi benefici. [42] Quest’uomo infatti, come mostra questo decreto scritto all’epoca in suo onore, diede cento mine ai cittadini allora prigionieri in Sicilia e che avevano sofferto tali sfortune, e fu l’unica ragione per cui non morirono tutti di fame. E in seguito, dopo che gli accordaste per questa ragione l’esenzione, quando vide che il popolo durante la guerra – poco prima dei Trenta – era a corto di finanze, donò di sua spontanea volontà un talento. [43] Per Zeus e per tutti gli dei pensateci Ateniesi! Come potrebbe un uomo mostrarsi più sinceramente sollecito nei confronti dei vostri bisogni, o meno degno di subire un’ingiustizia? Innanzitutto, trovatosi testimone della sventura della città, scelse gli sconfitti e la loro riconoscenza, se mai avrebbe avuto modo di manifestarsi, piuttosto che i vincitori del momento, presso i quali si trovava. In secondo luogo, quando vide che la città aveva nuovamente bisogno d’aiuto, mostrò di elargire il suo denaro senza pensare a come mettere in salvo le proprie sostanze, ma soltanto a come assicurarsi, per quanto era nelle sue possibilità, che nessuno di voi fosse nel bisogno.

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[44] τοῦτον μέντοι τὸν τῷ μὲν ἔργῳ παρὰ τοὺς μεγίστους καιροὺς οὑτωσὶ κοινὰ τὰ ὄντα τῷ δήμῳ κεκτημένον, τῷ δὲ ῥήματι καὶ τῇ τιμῇ τὴν ἀτέλειαν ἔχοντα, οὐχὶ τὴν ἀτέλειαν ἀφαιρήσεσθε (οὐδὲ γὰρ οὔσῃ χρώμενος φαίνεται), ἀλλὰ τὸ πιστεύειν ὑμῖν, οὗ τί γένοιτ᾽ ἂν αἴσχιον; τὸ τοίνυν ψήφισμα ὑμῖν αὐτὸ ἀναγνώσεται τὸ τότε ψηφισθὲν τῷ ἀνδρί. καὶ θεωρεῖτε, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, ὅσα ψηφίσματ᾽ ἄκυρα ποιεῖ ὁ νόμος, καὶ ὅσους ἀνθρώπους ἀδικεῖ, καὶ ἐν ὁποίοις καιροῖς χρησίμους ὑμῖν παρασχόντας ἑαυτούς· εὑρήσετε γὰρ τούτους, οὓς ἥκιστα προσῆκεν, ἀδικοῦντα. λέγε.

ΨΗΦΙΣΜΑ [45] τὰς μὲν εὐεργεσίας ἀνθ᾽ ὧν εὕρετο τὴν ἀτέλειαν ὁ Ἐπικέρδης ἀκηκόατ᾽ ἐκ τῶν ψηφισμάτων, ὦ ἄνδρες δικασταί. σκοπεῖτε δὲ μὴ τοῦτο, εἰ μνᾶς ἑκατὸν καὶ πάλιν τάλαντον ἔδωκεν (οὐδὲ γὰρ τοὺς λαβόντας ἔγωγ᾽ ἡγοῦμαι τὸ πλῆθος τῶν χρημάτων θαυμάσαι), ἀλλὰ τὴν προθυμίαν καὶ τὸ αὐτὸν ἐπαγγειλάμενον ποιεῖν καὶ τοὺς καιροὺς ἐν οἷς. [46] πάντες μὲν γάρ εἰσιν ἴσως ἄξιοι χάριν ἀνταπολαμβάνειν οἱ προϋπάρχοντες τῷ ποιεῖν εὖ, μάλιστα δ᾽ οἱ παρὰ τὰς χρείας, ὧν εἷς οὗτος ἁνὴρ ὢν φαίνεται. εἶτ᾽ οὐκ αἰσχυνόμεθ᾽, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοὺς τοῦ τοιούτου παῖδας εἰ μηδεμίαν ποιησάμενοι τούτων μηδενὸς μνείαν ἀφῃρημένοι φανούμεθα τὴν δωρεάν, μηδὲν ἔχοντες ἐγκαλέσαι; [47] οὐ γὰρ εἰ ἕτεροι μὲν ἦσαν οἱ τότε σωθέντες ὑπ᾽ αὐτοῦ καὶ δόντες τὴν ἀτέλειαν, ἕτεροι δ᾽ ὑμεῖς οἱ νῦν ἀφαιρούμενοι, ἀπολύει τοῦτο τὴν αἰσχύνην, ἀλλ᾽ αὐτὸ δὴ τοῦτο καὶ τὸ δεινόν ἐστιν. εἰ γὰρ οἱ μὲν εἰδότες καὶ παθόντες ἄξια τούτων ἐνόμιζον εὖ πάσχειν, ἡμεῖς δ᾽ οἱ λόγῳ ταῦτ᾽ ἀκούοντες ὡς ἀναξίων ἀφαιρησόμεθα, πῶς οὐχ ὑπέρδεινον ποιήσομεν; [48] ὁ αὐτὸς τοίνυν ἐστί μοι λόγος οὗτος καὶ περὶ τῶν τοὺς τετρακοσίους καταλυσάντων, καὶ περὶ τῶν ὅτ᾽ ἔφευγεν ὁ δῆμος χρησίμους αὑτοὺς παρασχόντων· πάντας γὰρ αὐτοὺς ἡγοῦμαι δεινότατ᾽ ἂν παθεῖν, εἴ τι τῶν τότε ψηφισθέντων αὐτοῖς λυθείη.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[44] Ad un uomo che, di fatto, con le sue azioni e nelle circostanze più disperate ha condiviso le proprie sostanze con il popolo in questo modo, e ha ricevuto l’esenzione a puro titolo nominale, come un onore, toglierete non tanto l’esenzione (della quale pare che non si avvalga) ma la fiducia in voi? Cosa c’è di più vergognoso? Ora vi sarà letto il decreto che fu passato all’epoca in onore di quest’uomo. E vi renderete conto, Ateniesi, di quanti decreti questa legge rende privi di valore, a quante persone fa torto, e in che tipo di circostanze questi individui si resero utili: scoprirete che essa tratta ingiustamente proprio coloro che meno se lo meritano. Leggi.

DECRETO [45] Avete ascoltato dai decreti, giudici, per via di quali benefici Epicerde ha ottenuto l’esenzione. Considerate non tanto che ha donato cento mine prima e un talento poi (dubito che persino chi ricevette le donazioni si sia meravigliato per la cifra), ma il suo zelo, il fatto che abbia donato il denaro di sua spontanea volontà e le circostanze in cui l’ha donato. [46] Tutti coloro infatti che prendono l’iniziativa di fare del bene meritano egualmente di riceverne in cambio gratitudine, ma specialmente quelli che si comportano in questo modo nel momento del bisogno. Epicerde appartiene chiaramente a questa categoria. Non ci vergogniamo di mostrare che non abbiamo serbato nessuna memoria dei benefici che ci ha portato, Ateniesi, e che priviamo i figli di un uomo simile della loro ricompensa senza avere nulla di cui accusarli? [47] E il fatto che coloro che all’epoca furono salvati da lui e gli diedero l’esenzione e voi, che ora gliela state togliendo, non siate le stesse persone, questo non lava l’infamia. Anzi, è proprio questo l’aspetto più terribile dell’intera vicenda. Perché se coloro che furono testimoni e beneficiari delle azioni che meritarono questi onori ritennero di essere trattati in modo appropriato, mentre noi che ne ascoltiamo soltanto il racconto abroghiamo queste ricompense come se non le meritassero, non commetteremo forse qualcosa di terribile? [48] E il mio ragionamento è identico anche per gli uomini che abbatterono i Quattrocento, e per quelli che si resero utili quando i democratici erano in esilio: ritengo cioè che tutti costoro riceverebbero il peggiore degli insulti se si abolissero alcuni degli onori che furono allora decretati in loro onore.

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[49] εἰ τοίνυν τις ὑμῶν ἐκεῖνο πέπεισται, πολὺ τοῦ δεηθῆναί τινος τοιούτου νῦν ἀπέχειν τὴν πόλιν, ταῦτα μὲν εὐχέσθω τοῖς θεοῖς, κἀγὼ συνεύχομαι, λογιζέσθω δὲ πρῶτον μὲν ὅτι περὶ νόμου μέλλει φέρειν τὴν ψῆφον ᾧ μὴ λυθέντι δεήσει χρῆσθαι, δεύτερον δ᾽ ὅτι βλάπτουσιν οἱ πονηροὶ νόμοι καὶ τὰς ἀσφαλῶς οἰκεῖν οἰομένας πόλεις. οὐ γὰρ ἂν μετέπιπτε τὰ πράγματ᾽ ἐπ᾽ ἀμφότερα, εἰ μὴ τοὺς μὲν ἐν κινδύνῳ καθεστηκότας καὶ πράξεις χρησταὶ καὶ νόμοι καὶ ἄνδρες χρηστοὶ καὶ πάντ᾽ ἐξητασμέν᾽ ἐπὶ τὸ βέλτιον προῆγε, τοὺς δ᾽ ἐν ἁπάσῃ καθεστάναι δοκοῦντας εὐδαιμονίᾳ πάντα ταῦτ᾽ ἀμελούμενα ὑπέρρει κατὰ μικρόν. [50] τῶν γὰρ ἀνθρώπων οἱ πλεῖστοι κτῶνται μὲν τἀγαθὰ τῷ καλῶς βουλεύεσθαι καὶ μηδενὸς καταφρονεῖν, φυλάττειν δ᾽ οὐκ ἐθέλουσι τοῖς αὐτοῖς τούτοις. ὃ μὴ πάθητε νῦν ὑμεῖς, μηδ᾽ οἴεσθε νόμον τοιοῦτον θέσθαι δεῖν, ὃς καλῶς τε πράττουσαν τὴν πόλιν ἡμῶν πονηρᾶς δόξης ἀναπλήσει, ἐάν τέ τι συμβῇ ποτέ, ἔρημον τῶν ἐθελησόντων ἀγαθόν τι ποιεῖν καταστήσει. [51] οὐ τοίνυν μόνον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοὺς ἰδίᾳ γνόντας εὖ ποιεῖν ὑμᾶς καὶ παρασχόντας χρησίμους αὑτοὺς ἐπὶ τηλικούτων καὶ τοιούτων καιρῶν, οἵων μικρῷ πρότερον Φορμίων διεξελήλυθε κἀγὼ νῦν εἴρηκα, ἄξιόν ἐστιν εὐλαβηθῆναι ἀδικῆσαι, ἀλλὰ καὶ πολλοὺς ἄλλους, οἳ πόλεις ὅλας, τὰς ἑαυτῶν πατρίδας, συμμάχους ὑμῖν ἐπὶ τοῦ πρὸς Λακεδαιμονίους πολέμου παρέσχον, καὶ λέγοντες ἃ συμφέρει τῇ πόλει τῇ ὑμετέρᾳ καὶ πράττοντες· [52] ὧν ἔνιοι διὰ τὴν πρὸς ὑμᾶς εὔνοιαν στέρονται τῆς πατρίδος. ὧν ἐπέρχεταί μοι πρώτους ἐξετάσαι τοὺς ἐκ Κορίνθου φεύγοντας. ἀναγκάζομαι δὲ λέγειν πρὸς ὑμᾶς ταῦtα ἃ παρ᾽ ὑμῶν τῶν πρεσβυτέρων αὐτὸς ἀκήκοα. τὰ μὲν οὖν ἄλλα ὅσα χρησίμους ὑμῖν ἑαυτοὺς ἐκεῖνοι παρέσχον, ἐάσω· ἀλλ᾽ ὅθ᾽ ἡ μεγάλη μάχη πρὸς Λακεδαιμονίους ἐγένετo ἡ ἐν Κορίνθῳ, τῶν ἐν τῇ πόλει βουλευσαμένων μετὰ τὴν μάχην μὴ δέχεσθαι τῷ τείχει τοὺς στρατιώτας, ἀλλὰ πρὸς Λακεδαιμονίους ἐπικηρυκεύεσθαι, [53] ὁρῶντες ἠτυχηκυῖαν τὴν πόλιν καὶ τῆς παρόδου κρατοῦντας Λακεδαιμονίους, οὐχὶ προὔδωκαν οὐδ᾽ ἐβουλεύσαντο ἰδίᾳ περὶ τῆς αὑτῶν σωτηρίας, ἀλλὰ πλησίον ὄντων μεθ᾽ ὅπλων ἁπάντων Πελοποννησίων ἀνέῳξαν τὰς πύλας ὑμῖν βίᾳ τῶν πολλῶν, καὶ μᾶλλον εἵλοντο μεθ᾽ ὑμῶν τῶν τότε στρατευσαμένων, εἴ τι δέοι, πάσχειν ἢ χωρὶς ὑμῶν ἀκινδύνως σεσῶσθαι, καὶ εἰσέφρουν τὸ στράτευμα, καὶ διέσωσαν καὶ ὑμᾶς καὶ τοὺς συμμάχους.



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[49] Ora, se qualcuno di voi è persuaso che la città sia in questo momento ben lungi dall’aver bisogno di un simile benefattore, preghi gli dei che sia vero, e io prego con lui. Ma tenga anche presente in primo luogo che si accinge a dare il suo voto ad una legge che, se non sarà abrogata, dovrà rispettare, e in secondo luogo che le cattive leggi danneggiano anche le città che credono di vivere al sicuro. La situazione politica infatti non cambierebbe per il meglio se buone azioni, buone leggi, uomini valorosi e oculata amministrazione non guidassero in tempi pericolosi la città verso migliori condizioni, né d’altro canto cambierebbe per il peggio se la condizione della città non si deteriorasse a poco a poco per la negligenza di uomini che ritengono di vivere nella prosperità più assoluta. [50] Perché la maggior parte degli uomini raggiungono il benessere prendendo buone decisioni e non disdegnando alcun accorgimento, ma poi non vogliono custodire le loro conquiste con la stessa diligenza. Non commettete oggi lo stesso errore, né crediate che una legge simile debba entrare in vigore! Questa è una legge che porterà alla nostra città, ora che le cose vanno bene, una cattiva reputazione, mentre se mai la situazione volgesse al peggio, la lascerà priva di benefattori. [51] Certamente, Ateniesi, è doveroso avere cura di non trattare ingiustamente non soltanto chi individualmente ha deciso di farvi del bene e rendersi utile in simili, terribili situazioni – circostanze che Formione ha raccontato poco fa e io ho or ora accennato – ma anche a molti altri che vi hanno portato l’alleanza di città intere, le loro patrie, durante la guerra contro gli Spartani, perseguendo il vantaggio della vostra città con le parole e con i fatti. [52] Alcuni di costoro a causa della loro benevolenza nei vostri confronti sono stati privati della loro patria. I primi che mi vengono in mente sono gli esuli corinzi, e li esaminerò per primi. Sono di conseguenza obbligato a parlarvi di fatti che io stesso ho ascoltato dai più anziani tra voi. Dunque, tralascerò tutte le altre circostanze in cui vi furono utili e parlerò di quando ci fu la grande battaglia contro gli Spartani, la battaglia di Corinto. Dopo la battaglia gli abitanti della città decisero di non accogliere i soldati dentro le mura, ma di inviare araldi agli Spartani. [53] Questi uomini, nonostante vedessero la sventura che aveva colpito la nostra città, e che gli Spartani controllavano il passaggio, non ci tradirono né presero decisioni pensando solo alla propria salvezza. Anzi, sebbene tutti i Peloponnesiaci fossere vicini e in armi, vi aprirono le porte contro la decisione della maggioranza e scelsero, se fosse stato necessario, di soffrire con i vostri soldati piuttosto che salvarsi senza correre rischi senza di voi. E lasciarono entrare l’esercito, salvando voi e i vostri alleati.

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[54] ἐπειδὴ δ᾽ ἡ πρὸς Λακεδαιμονίους εἰρήνη μετὰ ταῦτ᾽ ἐγένετο, ἡ ἐπὶ Ἀνταλκίδου, ἀντὶ τῶν ἔργων τούτων ὑπὸ Λακεδαιμονίων ἐξέπεσον. ὑποδεξάμενοι δ᾽ ὑμεῖς αὐτοὺς ἐποιήσατε ἔργον ἀνθρώπων καλῶν κἀγαθῶν· ἐψηφίσασθε γὰρ αὐτοῖς ἅπανθ᾽ ὧν ἐδέοντο. εἶτα ταῦτα νῦν εἰ χρὴ κύρια εἶναι σκοποῦμεν; ἀλλ᾽ ὁ λόγος πρῶτον αἰσχρὸς τοῖς σκοπουμένοις, εἴ τις ἀκούσειεν ὡς Ἀθηναῖοι σκοποῦσιν εἰ χρὴ τοὺς εὐεργέτας ἐᾶν τὰ δοθέντα ἔχειν· πάλαι γὰρ ἐσκέφθαι ταῦτα καὶ ἐγνῶσθαι προσῆκεν. ἀνάγνωθι δέ μοι καὶ τοῦτο τὸ ψήφισμα αὐτοῖς.

ΨΗΦΙΣΜΑ [55] ἃ μὲν ἐψηφίσασθε τοῖς φεύγουσιν δι᾽ ὑμᾶς Κορινθίων ταῦτ᾽ ἐστίν, ὦ ἄνδρες δικασταί. ὅρα δέ, εἴ τις ἐκείνους τοὺς καιροὺς εἰδώς, ἢ παρὼν ἤ τινος εἰδότος διεξιόντος ἀκούσας, ἀκούσαι τοῦ νόμου τούτου τὰς τότε δωρεὰς δοθείσας ἀφαιρουμένου, ὅσην ἂν κακίαν τῶν θεμένων τὸν νόμον καταγνοίη, οἳ παρὰ μὲν τὰς χρείας οὕτω φιλάνθρωποι καὶ πάντα ποιοῦντες, ἐπειδὴ δ᾽ ἐπράξαμεν πάνθ᾽ ὅσ᾽ ἂν εὐξαίμεθα, οὕτως ἀχάριστοι καὶ κακοί, ὥστε τούς τ᾽ ἔχοντας ἀφῃρήμεθα καὶ τὸ λοιπὸν μηδενὶ δοῦναι ταῦτ᾽ ἐξεῖναι νόμον τεθείκαμεν. [56] “νὴ Δί᾽ ἀνάξιοι γάρ τινες τῶν εὑρημένων ταῦτ᾽ ἦσαν”· τουτὶ γὰρ παρὰ πάντ᾽ ἔσται τὸν λόγον αὐτοῖς. ἔπειτ᾽ ἐκεῖν᾽ ἀγνοεῖν φήσομεν, ὅτι τὴν ἀξίαν, ὅταν διδῶμεν, δεῖ σκοπεῖν, οὐ μετὰ ταῦθ᾽ ὕστερον χρόνῳ παμπληθεῖ; τὸ μὲν γὰρ ἐξ ἀρχῆς τι μὴ δοῦναι γνώμῃ χρησαμένων ἔργον ἀνθρώπων ἐστί· τὸ δὲ τοὺς ἔχοντας ἀφαιρεῖσθαι φθονούντων, τοῦτο δ᾽ οὐ δεῖ δοκεῖν ὑμᾶς πεπονθέναι. [57] καὶ μὴν οὐδ᾽ ἐκεῖν᾽ ὀκνήσω περὶ τῆς ἀξίας αὐτῆς πρὸς ὑμᾶς εἰπεῖν. ἐγὼ γὰρ οὐ τὸν αὐτὸν τρόπον νομίζω πόλει τὸν ἄξιον ἐξεταστέον εἶναι καὶ ἰδιώτῃ· οὐδὲ γὰρ περὶ τῶν αὐτῶν ἡ σκέψις. ἰδίᾳ μὲν γὰρ ἕκαστος ἡμῶν σκοπεῖ τίς ἄξιός ἐστιν ἑκάστου κηδεστὴς ἢ τῶν τοιούτων τι γίγνεσθαι, ταῦτα δὲ καὶ νόμοις τισὶ καὶ δόξαις διώρισται· κοινῇ δ᾽ ἡ πόλις καὶ ὁ δῆμος, ὅστις ἂν αὐτὸν εὖ ποιῇ καὶ σῴζῃ, τοῦτο δ᾽ οὐ γένει καὶ δόξῃ ἴδοι τις ἄν, ἀλλ᾽ ἔργῳ. ὅταν μὲν οὖν εὖ πάσχειν δέῃ, τὸν βουλόμενον εὖ ποιεῖν ἡμᾶς ἐάσομεν, ἐπειδὰν δὲ πάθωμεν, τότε τὴν ἀξίαν τοῦ ποιήσαντος σκεψόμεθα; οὐκ ἄρ᾽ ὀρθῶς βουλευσόμεθα.



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[54] In seguito, dopo che la pace con gli Spartani, la pace di Antalcida, fu firmata, questi uomini furono esiliati dagli Spartani per le loro azioni. Voi, nell’accoglierli, vi siete comportati da uomini d’onore: votaste che fosse loro accordato tutto ciò di cui avevano bisogno. Ed ora siamo qui a considerare se questi decreti debbano rimanere in vigore? Ma, per cominciare, la questione in sé è vergognosa per chi la osservi. Pensate se qualcuno dovesse sentire che gli Ateniesi stanno decidendo se si debba lasciare che i benefattori conservino le loro ricompense! Si sarebbe dovuto ragionare su questa questione e si sarebbe dovuta prendere una decisione tempo fa! Leggimi anche questo decreto.

DECRETO [55] Questo, giudici, è ciò che avete votato per i Corinzi in esilio per causa vostra. Pensate! Se chi è informato di questi eventi, o perché era presente o perché ne ha sentito parlare da un testimone oculare, venisse a sapere che questa legge elimina le ricompense concesse all’epoca, di quanta malvagità condannerebbe coloro che l’hanno promulgata! Nel momento del bisogno siamo così benevoli e disposti a tutto, ma una volta che abbiamo ottenuto tutto ciò che speravamo, siamo così ingrati e malvagi da privare delle sue ricompense chi le ha ricevute, e da proporre una legge che non permetterà mai più di ricompensare nessuno! [56] “Ma per Zeus tra coloro che hanno ricevuto l’immunità alcuni non ne erano degni!”, questa sarà la loro risposta ad ogni obiezione. E quindi ammetteremo di ignorare il principio fondamentale che si deve valutare il merito quando si accorda un beneficio, non anni e anni dopo averlo concesso! Perché non accordarlo dal principio è un comportamento da persone di senno, mentre privarne chi ne è in possesso è da persone invidiose, ed è importante che voi non diate l’impressione di provare invidia. [57] E non esiterò a parlarvi della questione del merito. Io ritengo che una città non debba valutare il merito allo stesso modo di un privato cittadino, perché l’esame non riguarda gli stessi aspetti. In privato ciascuno di noi decide chi sia degno di diventare nostro genero o cose del genere, e si decidono queste faccende secondo alcune leggi e opinioni comuni; ma nella sfera pubblica la città e il popolo decidono se qualcuno ha reso un servizio e ha salvato la città o no, e si valutano non la nascita e la fama, ma i fatti. Quando dunque si tratta di ricevere dei benefici, permettiamo a chiunque lo voglia di aiutarci, ma dopo averli ricevuti, allora consideriamo il merito del benefattore? Non è così che ci si comporta.

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[58] ἀλλὰ νὴ Δί᾽ οὗτοι μόνοι τοῦτο πείσονται, καὶ περὶ τούτων μόνων ποιοῦμαι λόγον τοσοῦτον. πολλοῦ γε καὶ δέω. ἀλλὰ πάντας μὲν οὐδ᾽ ἂν ἐγχειρήσαιμι ἐξετάζειν ὅσοι πεποιηκότες ὑμᾶς εὖ διὰ τὸν νόμον, εἰ μὴ λυθήσεται, τὰ δοθέντ᾽ ἀφαιρεθήσονται· ἓν δὲ ἢ δύο δείξας ἔτι ψηφίσματα, ἀπαλλάττομαι τοῦ περὶ τούτων λέγειν. [59] τοῦτο μὲν τοίνυν Θασίους τοὺς μετ᾽ Ἐκφάντου πῶς οὐκ ἀδικήσετε, ἐὰν ἀφαιρῆσθε τὴν ἀτέλειαν, οἳ παραδόντες ὑμῖν Θάσον καὶ τὴν Λακεδαιμονίων φρουρὰν μεθ᾽ ὅπλων ἐκβαλόντες καὶ Θρασύβουλον εἰσαγαγόντες καὶ παρασχόντες φίλην ὑμῖν τὴν αὑτῶν πατρίδα αἴτιοι τοῦ γενέσθαι σύμμαχον τὸν περὶ Θρᾴκην τόπον ὑμῖν ἐγένοντο; [60] τοῦτο δ᾽ Ἀρχέβιον καὶ Ἡρακλείδην, οἳ Βυζάντιον παραδόντες Θρασυβούλῳ κυρίους ὑμᾶς ἐποίησαν τοῦ Ἑλλησπόντου, ὥστε τὴν δεκάτην ἀποδόσθαι καὶ χρημάτων εὐπορήσαντας Λακεδαιμονίους ἀναγκάσαι τοιαύτην, οἵαν ὑμῖν ἐδόκει, ποιήσασθαι τὴν εἰρήνην; ὧν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, μετὰ ταῦτ᾽ ἐκπεσόντων ἐψηφίσασθε ἅπερ, οἶμαι, φεύγουσιν εὐεργέταις δι᾽ ὑμᾶς προσῆκε, προξενίαν, εὐεργεσίαν, ἀτέλειαν ἁπάντων. εἶτα τοὺς δι᾽ ὑμᾶς φεύγοντας καὶ δικαίως τι παρ᾽ ὑμῶν εὑρομένους ἐάσωμεν ἀφαιρεθῆναι ταῦτα, μηδὲν ἔχοντες ἐγκαλέσαι; ἀλλ᾽ αἰσχρὸν ἂν εἴη. [61] μάθοιτε δὲ τοῦτο μάλιστ᾽ ἄν, ἐκείνως εἰ λογίσαισθε πρὸς ὑμᾶς αὐτούς· εἴ τινες νυνὶ τῶν ἐχόντων Πύδναν ἢ Ποτείδαιαν ἤ τι τῶν ἄλλων χωρίων, ἃ Φιλίππῳ μέν ἐστιν ὑπήκοα, ὑμῖν δ᾽ ἐχθρά, τὸν αὐτὸν τρόπον ὅνπερ ἡ Θάσος ἦν τότε καὶ τὸ Βυζάντιον Λακεδαιμονίοις μὲν οἰκεῖα, ὑμῖν δ᾽ ἀλλότρια, παραδώσειν ταῦτ᾽ ἐπαγγείλαιντο, ἂν αὐτοῖς τὰς αὐτὰς δῶτε δωρεὰς ὥσπερ Ἐκφάντῳ τῷ Θασίῳ καὶ Ἀρχεβίῳ τῷ Βυζαντίῳ, [62] καί τινες τούτων ἀντιλέγοιεν αὐτοῖς ταῦτα λέγοντες, ὡς δεινὸν εἴ τινες μόνοι τῶν ἄλλων μετοίκων μὴ χορηγοῖεν, πῶς ποτ᾽ ἂν ἔχοιτε πρὸς τοὺς ταῦτα λέγοντας; ἢ δῆλον ὅτι φωνὴν οὐκ ἂν ἀνάσχοισθε ὡς συκοφαντούντων; οὔκουν αἰσχρὸν εἰ μέλλοντες μὲν εὖ πάσχειν συκοφάντην ἂν τὸν ταῦτα λέγοντα ἡγοῖσθε, ἐπὶ τῷ δ᾽ ἀφελέσθαι τὰς τῶν προτέρων εὐεργετῶν δωρεὰς ταῦτα λεγόντων ἀκούσεσθε. [63] φέρε δὴ κἀκεῖνο ἐξετάσωμεν. οἱ προδόντες τὴν Πύδναν καὶ τἄλλα χωρία τῷ Φιλίππῳ τῷ ποτ᾽ ἐπαρθέντες ἡμᾶς ἠδίκουν; ἢ πᾶσι πρόδηλον τοῦτο, ὅτι ταῖς παρ᾽ ἐκείνου δωρεαῖς, ἃς διὰ ταῦτ᾽ ἔσεσθαι σφίσιν ἡγοῦντο; πότερον οὖν μᾶλλον ἔδει σε, ὦ Λεπτίνη, τοὺς ἐχθρούς, εἰ δύνασαι, πεῖσαι τοὺς ἐπὶ τοῖς πρὸς ἡμᾶς ἀδικήμασι γιγνομένους ἐκείνων εὐεργέτας μὴ τιμᾶν, ἢ θεῖναι νόμον ἡμῖν ὃς τῶν τοῖς ἡμετέροις εὐεργέταις ὑπαρχουσῶν δωρεῶν ἀφαιρεῖταί τι; ἐγὼ μὲν ἐκεῖνο οἶομαι. ἀλλ᾽ ἵνα μὴ πόρρω τοῦ παρόντος γένωμαι, λαβὲ τὰ ψηφίσματα ἃ τοῖς Θασίοις καὶ Βυζαντίοις ἐγράφη. λέγε.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[58] Ma, per Zeus, soltanto i Corinzi subiranno questa ingiustizia, e per loro soltanto la faccio tanto lunga! Assolutamente no! Ma non potrei mai passare in rassegna tutti coloro che vi hanno fatto del bene e per via della legge di Leptine, se non sarà abrogata, saranno privati delle loro ricompense; mostrerò ancora uno o due decreti e poi smetterò di parlarne. [59] Per cominciare, se togliete l’esenzione, non compirete un’ingiustizia nei confronti dei Tasii guidati da Ecfanto? Questi sono gli uomini che vi consegnarono Taso, cacciarono la guarnigione spartana armi in pugno, portarono Trasibulo in città e, consegnandovi l’amicizia della loro patria, furono responsabili dell’alleanza con l’intera area circostante la Tracia. [60] In seconda battuta, pensate ad Archebio ed Eraclide, che consegnarono Bisanzio a Trasibulo e così vi resero padroni dell’Ellesponto, cosicché appaltaste il dazio del dieci per cento e, per via di questa abbondanza di denaro, costringeste gli Spartani a stipulare la pace ai vostri termini. Quando poco dopo, Ateniesi, costoro furono esiliati, decretaste nei loro confronti quanto era a mio parere appropriato per dei benefattori esuli a causa vostra: la prossenia, il titolo ufficiale di benefattori e l’esenzione generale. E dunque lasceremo che costoro, esuli per causa vostra e giustamente da voi ricompensati, siano privati delle loro ricompense, pur non avendo alcuna accusa da muovere nei loro confronti? Sarebbe una vergogna! [61] Potreste comprendere meglio la situazione se assumeste voi stessi questo punto di vista: se uno degli attuali leader di Pidna o Potidea o di qualche altra regione sottomessa a Filippo e a voi nemica, alla stessa maniera in cui Taso e Bisanzio erano allora degli Spartani e non vostre, si offrisse di consegnare la città a condizione che gli garantiate gli stessi benefici che garantiste ad Ecfanto di Taso e ad Archebio di Bisanzio, [62] e alcuni di questi individui obiettassero contro di lui che sarebbe terribile se tra tutti i meteci soltanto alcuni non partecipassero alle liturgie, come reagireste di fronte a chi dicesse simili stupidaggini? Non è ovvio che non sopportereste la loro voce, come fate coi sicofanti? E non sarebbe dunque vergognoso se, accingendovi a ricevere un beneficio, consideraste un sicofante chi dicesse di queste cose, ma d’altro canto prestaste orecchio a chi dice le stesse cose quando in questione è l’annullamento di benefici accordati a benefattori del passato? [63] Adesso esaminiamo quest’altra questione: chi ha consegnato Pidna e le altre regioni a Filippo ha commesso un’ingiustizia nei nostri confronti spinto da cosa? Non è forse chiaro a tutti che è accaduto a causa delle ricompense che contavano di ricevere da lui per questo servizio? Quale corso d’azione avresti dovuto intraprendere dunque, Leptine? Avresti dovuto, se possibile, persuadere i nemici a non tributare onori a chi in virtù delle ingiustizie compiute nei nostri confronti diventa loro benefattore, oppure presentare a noi una legge che priva i nostri benefattori di parte delle ricompense che hanno già ricevuto? La prima possibilità, credo proprio. Ma, per non allontanarmi troppo dal tema in questione, prendi i decreti che furono redatti per Tasii e i Bisanzii. Leggili.

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ΔΗΜΟΣΘΕΝΟΥΣ  ΠΡΟΣ ΛΕΠΤΙΝΗΝ ΠΕΡΙ ΤΗΣ ΑΤΕΛΕΙΑΣ

ΨΗΦΙΣΜΑΤΑ [64] ἠκούσατε μὲν τῶν ψηφισμάτων, ὦ ἄνδρες δικασταί. τούτων δ᾽ ἴσως ἔνιοι τῶν ἀνδρῶν οὐκέτ᾽ εἰσίν. ἀλλὰ τὰ ἔργα τὰ πραχθέντ᾽ ἔστιν, ἐπειδήπερ ἅπαξ ἐπράχθη. προσήκει τοίνυν τὰς στήλας ταύτας κυρίας ἐᾶν τὸν πάντα χρόνον, ἵν᾽, ἕως μὲν ἄν τινες ζῶσι, μηδὲν ὑφ᾽ ὑμῶν ἀδικῶνται, ἐπειδὰν δὲ τελευτήσωσιν, ἐκεῖναι τοῦ τῆς πόλεως ἤθους μνημεῖον ὦσι, καὶ παραδείγματα ἑστῶσι τοῖς βουλομένοις τι ποιεῖν ὑμᾶς ἀγαθόν, ὅσους εὖ ποιήσαντας ἡ πόλις ἀντ᾽ εὖ πεποίηκεν. [65] καὶ μὴν μηδ᾽ ἐκεῖν᾽ ὑμᾶς, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, λανθανέτω, ὅτι τῶν αἰσχίστων ἐστὶν πάντας ἀνθρώπους ἰδεῖν καὶ ἀκοῦσαι τὰς μὲν συμφοράς, αἷς δι᾽ ὑμᾶς ἐχρήσανθ᾽ οἱ ἄνδρες οὗτοι, πάντα τὸν χρόνον κυρίας αὐτοῖς γεγενημένας, τὰς δὲ δωρεάς, ἃς ἀντὶ τούτων ἔλαβον παρ᾽ ὑμῶν, καὶ δὴ λελυμένας. [66] πολὺ γὰρ μᾶλλον ἥρμοττεν τὰ δοθέντα ἐῶντας τῶν ἀτυχημάτων ἀφαιρεῖν ἢ τούτων μενόντων τὰς δωρεὰς ἀφαιρεῖσθαι. φέρε γὰρ πρὸς Διός, τίς ἔστιν ὅστις εὖ ποιεῖν ὑμᾶς βουλήσεται, μέλλων, ἂν μὲν ἀποτύχῃ, παραχρῆμα δίκην δώσειν τοῖς ἐχθροῖς, ἂν δὲ κατορθώσῃ, τὰς χάριτας παρ᾽ ὑμῶν ἀπίστους ἕξειν; [67] πάνυ τοίνυν ἀχθοίμην ἄν, ὦ ἄνδρες δικασταί, εἰ τοῦτο μόνον δόξαιμι δίκαιον κατηγορεῖν τοῦ νόμου, ὅτι πολλοὺς ξένους εὐεργέτας ἀφαιρεῖται τὴν ἀτέλειαν, τῶν δὲ πολιτῶν μηδέν᾽ ἄξιον δοκοίην ἔχειν δεῖξαι τῶν εὑρημένων ταύτην τὴν τιμήν. καὶ γὰρ τἄλλ᾽ ἀγαθὰ εὐξαίμην ἂν ἔγωγε παρ᾽ ἡμῖν εἶναι πλεῖστα, καὶ ἄνδρας ἀρίστους καὶ πλείστους εὐεργέτας τῆς πόλεως πολίτας εἶναι. [68] πρῶτον μὲν τοίνυν Κόνωνα σκοπεῖτε, εἰ ἄρ᾽ ἄξιον, καταμεμψαμένους ἢ τὸν ἄνδρα ἢ τὰ πεπραγμένα, ἄκυρόν τι ποιῆσαι τῶν ἐκείνῳ δοθέντων. οὗτος γάρ, ὡς ὑμῶν τινων ἔστιν ἀκοῦσαι τῶν κατὰ τὴν αὐτὴν ἡλικίαν ὄντων, μετὰ τὴν τοῦ δήμου κάθοδον τὴν ἐκ Πειραιῶς ἀσθενοῦς ἡμῶν τῆς πόλεως οὔσης καὶ ναῦν οὐδεμίαν κεκτημένης, στρατηγῶν βασιλεῖ, παρ᾽ ὑμῶν οὐδ᾽ ἡντινοῦν ἀφορμὴν λαβών, κατεναυμάχησεν Λακεδαιμονίους, καὶ πρότερον τοῖς ἄλλοις ἐπιτάττοντας εἴθισεν ἀκούειν ὑμῶν, καὶ τοὺς ἁρμοστὰς ἐξήλασεν ἐκ τῶν νήσων, καὶ μετὰ ταῦτα δεῦρ᾽ ἐλθὼν ἀνέστησε τὰ τείχη, καὶ πρῶτος πάλιν περὶ τῆς ἡγεμονίας ἐποίησε τῇ πόλει τὸν λόγον πρὸς Λακεδαιμονίους εἶναι. [69] καὶ γάρ τοι μόνῳ τῶν πάντων αὐτῷ τοῦτ᾽ ἐν τῇ στήλῃ γέγραπται· ‘ἐπειδὴ Κόνων’ φησὶν ‘ἠλευθέρωσε τοὺς Ἀθηναίων συμμάχους.’ ἔστι δὲ τοῦτο τὸ γράμμα, ὦ ἄνδρες δικασταί, ἐκείνῳ μὲν φιλοτιμία πρὸς ὑμᾶς αὐτούς, ὑμῖν δὲ πρὸς πάντας τοὺς Ἕλληνας· ὅτου γὰρ ἄν τις παρ᾽ ὑμῶν ἀγαθοῦ τοῖς ἄλλοις αἴτιος γένηται, τούτου τὴν δόξαν τὸ τῆς πόλεως ὄνομα καρποῦται.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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DECRETI [64] Avete ascoltato i decreti, signori giudici. È possibile che alcuni di questi individui non siano più in vita. Ma le loro azioni, una volta compiute, rimangono. È giusto dunque lasciare che queste steli restino in vigore per sempre, cosicché, finché questi uomini sono in vita, nessuno di loro riceva da voi un torto; quando poi saranno morti, queste steli saranno testimonianza del carattere della città e, per chi voglia essere vostro benefattore, si ergeranno ad esempio delle ricompense che la città ha distribuito per i benefici ricevuti. [65] E non dimenticate, Ateniesi, che sarebbe una grande vergogna se tutto il mondo vedesse e sentisse che le sventure che questi uomini soffrirono per voi hanno conservato la loro forza su di loro in eterno, mentre le ricompense che in cambio ricevettero da parte vostra sono state abrogate. [66] Era meglio non toccare ciò che è stato loro concesso e cancellare le loro sventure, piuttosto che lasciare intatte queste ultime e cancellare le loro ricompense. E dunque, per Zeus, chi deciderà di farvi del bene, sapendo che se fallirà verrà punito immediatamente dai vostri nemici, mentre se avrà successo riceverà da voi ricompense su cui non potrà fare affidamento? [67] Ora, signori giudici, mi dispiacerebbe molto se dessi l’impressione di credere che l’unica giusta accusa contro la legge è che priva dell’esenzione molti benefattori stranieri, e sembrassi non aver nessun degno esempio da indicare tra i cittadini detentori di questo onore. Perché, per quanto mi riguarda, pregherei che la città abbia abbondanza di molti beni, e soprattutto che abbia uomini valorosi e numerosi benefattori tra i suoi cittadini. [68] Per prima cosa considerate il caso di Conone, se sia cioè giusto che quest’uomo e le sue imprese siano sminuiti, e che siano rese nulle le ricompense a lui accordate. Quest’uomo infatti, si può ascoltare da coloro tra voi che sono suoi coetanei, dopo il ritorno dei democratici dal Pireo, nonostante la nostra città fosse indebolita e non possedesse una sola nave, come generale al servizio del Gran Re, senza aver ricevuto da parte vostra alcuna risorsa, sconfisse gli Spartani in una battaglia navale e li abituò a obbedirvi, loro che prima davano ordini agli altri, e scacciò gli armosti dalle isole. E in seguito, giunto qui ad Atene, ricostruì le mura e per primo mise la città nuovamente nella posizione di competere con gli Spartani per l’egemonia. [69] E infatti per lui solo tra tutti è stato iscritto questo sulla stele: “Perché Conone – dice – ha liberato gli alleati degli Ateniesi”. Questa iscrizione, signori giudici, è per Conone prova dei servizi che vi ha reso, e della gloria che ne ha derivato, ma per voi prova dei servizi che avete reso ai Greci tutti, e della gloria che i Greci vi hanno tributato: perché per qualsiasi azione valorosa di cui sia stato autore uno di voi nei confronti di altri, il nome della città ne trae gloria.

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ΔΗΜΟΣΘΕΝΟΥΣ  ΠΡΟΣ ΛΕΠΤΙΝΗΝ ΠΕΡΙ ΤΗΣ ΑΤΕΛΕΙΑΣ

[70] διόπερ οὐ μόνον αὐτῷ τὴν ἀτέλειαν ἔδωκαν οἱ τότε, ἀλλὰ καὶ χαλκῆν εἰκόνα, ὥσπερ Ἁρμοδίου καὶ Ἀριστογείτονος, ἔστησαν πρώτου· ἡγοῦντο γὰρ οὐ μικρὰν τυραννίδα καὶ τοῦτον τὴν Λακεδαιμονίων ἀρχὴν καταλύσαντα πεπαυκέναι. ἵν᾽ οὖν μᾶλλον οἷς λέγω προσέχητε, τὰ ψηφίσμαθ᾽ ὑμῖν αὔτ᾽ ἀναγνώσεται τὰ τότε ψηφισθέντα τῷ Κόνωνι. λέγε.

ΨΗΦΙΣΜΑΤΑ [71] οὐ τοίνυν ὑφ᾽ ὑμῶν μόνον ὁ Κόνων, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τότ᾽ ἐτιμήθη πράξας ἃ διεξῆλθον ἐγώ, ἀλλὰ καὶ ὑπ᾽ ἄλλων πολλῶν, οἳ δικαίως ὧν εὐεργέτηντο χάριν ᾤοντο δεῖν ἀποδιδόναι. οὔκουν αἰσχρόν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, εἰ αἱ μὲν παρὰ τοῖς ἄλλοις δωρεαὶ βέβαιοι μένουσιν αὐτῷ, τῆς δὲ παρ᾽ ὑμῶν μόνης τοῦτ᾽ ἀφαιρήσεται; [72] καὶ μὴν οὐδ᾽ ἐκεῖνο καλόν, ζῶντα μὲν αὐτὸν οὕτω τιμᾶν ὥστε τοσούτων ὅσων ἀκηκόατε ἀξιοῦν, ἐπειδὴ δὲ τετελεύτηκεν, μηδεμίαν ποιησαμένους τούτων μνείαν ἀφελέσθαι τι τῶν δοθέντων τότε. πολλὰ μὲν γάρ ἐστιν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τῶν ὑπ᾽ ἐκείνου πραχθέντων ἄξια ἐπαίνου, δι᾽ ἃ πάντα προσήκει μὴ λύειν τὰς ἐπὶ τούτοις δοθείσας δωρεάς, κάλλιστον δὲ πάντων ἡ τῶν τειχῶν ἀνάστασις. [73] γνοίη δ᾽ ἄν τις εἰ παραθείη πῶς Θεμιστοκλῆς, ὁ τῶν καθ᾽ ἑαυτὸν ἁπάντων ἀνδρῶν ἐνδοξότατος, ταὐτὸ τοῦτ᾽ ἐποίησεν. λέγεται τοίνυν ἐκεῖνος, τειχίζειν εἰπὼν τοῖς πολίταις, κἂν ἀφικνῆταί τις ἐκ Λακεδαίμονος, κατέχειν κελεύσας, οἴχεσθαι πρεσβεύων αὐτὸς ὡς τοὺς Λακεδαιμονίους, λόγων δὲ γιγνομένων ἐκεῖ καί τινων ἀπαγγελλόντων ὡς Ἀθηναῖοι τειχίζουσιν, ἀρνεῖσθαι καὶ πρέσβεις πέμπειν σκεψομένους κελεύειν, ἐπειδὴ δ᾽ οὐχ ἧκον οὗτοι, πέμπειν ἑτέρους παραινεῖν. καὶ πάντες ἴσως ἀκηκόατε ὃν τρόπον ἐξαπατῆσαι λέγεται. [74] φημὶ τοίνυν ἐγώ (καὶ πρὸς Διός, ἄνδρες Ἀθηναῖοι, μηδεὶς φθόνῳ τὸ μέλλον ἀκούσῃ, ἀλλ᾽ ἂν ἀληθὲς ᾖ σκοπείτω), ὅσῳ τὸ φανερῶς τοῦ λάθρᾳ κρεῖττον, καὶ τὸ νικῶντας τοῦ παρακρουσαμένους πράττειν ὁτιοῦν ἐντιμότερον, τοσούτῳ κάλλιον Κόνωνα τὰ τείχη στῆσαι Θεμιστοκλέους· ὁ μὲν γὰρ λαθών, ὁ δὲ νικήσας τοὺς κωλύσοντας αὔτ᾽ ἐποίησεν. οὐ τοίνυν ἄξιον τὸν τοιοῦτον ὑφ᾽ ὑμῶν ἀδικηθῆναι, οὐδ᾽ ἔλαττον σχεῖν τῶν ῥητόρων τῶν διδαξόντων ὡς ἀφελέσθαι τι χρὴ τῶν ἐκείνῳ δοθέντων.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[70] Per questo i cittadini all’epoca non solo gli accordarono l’esenzione, ma eressero anche in suo onore, per la prima volta, una statua di bronzo come quelle di Armodio e Aristogitone: ritennero infatti che anche lui, distruggendo la potenza degli Spartani, avesse posto fine ad una grande tirannia. Affinché prestiate maggiore attenzione alle mie affermazioni, vi saranno letti i decreti a suo tempo approvati in onore di Conone. Leggi.

DECRETI [71] E per di più, Ateniesi, Conone non fu onorato soltanto da voi per le imprese che vi ho descritto, ma anche da molti altri, i quali giustamente erano convinti di dover ricambiare i servizi da lui resi. Non è dunque una vergogna, Ateniesi, che le ricompense a lui rese da altri rimangano salde, ed egli sia privato soltanto della vostra? [72] E non è certo una bella cosa che da vivo lo si stimi al punto da ritenerlo degno dei grandi onori che avete ascoltato, mentre ora che è morto, senza serbare alcuna memoria di queste imprese, gli si tolga una delle ricompense che all’epoca gli accordaste. Perché molte delle imprese da lui compiute meritano il nostro plauso, Ateniesi, e per questo è giusto che non si abroghino i doni accordati proprio come ricompensa per queste imprese, la più grande delle quali è l’innalzamento delle mura. [73] Si può comprendere la grandezza di questa impresa se si comparano le azioni di Conone con la maniera in cui Temistocle, il più famoso tra tutti gli uomini del suo tempo, compì questa stessa impresa. Si racconta infatti che quest’ultimo, dopo aver detto ai concittadini di costruire le mura, li esortò, nel caso giungesse uno Spartano, a trattenerlo. Nel frattempo lui andò come ambasciatore dagli Spartani e, una volta lì, durante le trattative, quando alcuni sostenevano che gli Ateniesi stessero costruendo le mura, negava ed esortava gli Spartani a mandare ambasciatori ad indagare, e quando non tornavano, li invitava a mandarne degli altri. E avete tutti probabilmente sentito i racconti di come li abbia ingannati. [74] Ebbene io sostengo (e per Zeus, Ateniesi, nessuno si indigni per quanto dirò, ma valutate se sia la verità) che, come l’agire apertamente è superiore all’agire di nascosto, e raggiungere un obiettivo con la vittoria è più onorevole che raggiungerlo con l’inganno, così la ricostruzione delle mura da parte di Conone è superiore a quella di Temistocle: il secondo non si è fatto scoprire, il primo ce l’ha fatta dopo avere sconfitto chi si opponeva. Non è giusto dunque che una persona simile subisca da voi questa ingiustizia, né che abbia la peggio su quegli oratori che sostengono che lo si debba privare di una delle ricompense che gli sono state accordate.

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[75] εἶεν. ἀλλὰ νὴ Δία τὸν παῖδα τὸν Χαβρίου περιίδωμεν ἀφαιρεθέντα τὴν ἀτέλειαν, ἣν ὁ πατὴρ αὐτῷ δικαίως παρ᾽ ὑμῶν λαβὼν κατέλιπεν. ἀλλ᾽ οὐδένα ἀνθρώπων εὖ φρονοῦντ᾽ οἶμαι ταῦτ᾽ ἂν φῆσαι καλῶς ἔχειν. ἴστε μὲν οὖν ἴσως, καὶ ἄνευ τοῦ παρ᾽ ἐμοῦ λόγου, ὅτι σπουδαῖος Χαβρίας ἦν ἀνήρ, οὐ μὴν κωλύει γ᾽ οὐδὲν κἀμὲ διὰ βραχέων ἐπιμνησθῆναι τῶν πεπραγμένων αὐτῷ. [76] ὃν μὲν οὖν τρόπον ὑμᾶς ἔχων πρὸς ἅπαντας Πελοποννησίους παρετάξατο ἐν Θήβαις, καὶ ὡς Γοργώπαν ἀπέκτεινεν ἐν Αἰγίνῃ, καὶ ὅσα ἐν Κύπρῳ τρόπαια ἔστησεν καὶ μετὰ ταῦτ᾽ ἐν Αἰγύπτῳ, καὶ ὅτι πᾶσαν ἐπελθὼν ὀλίγου δέω λέγειν χώραν οὐδαμοῦ τὸ τῆς πόλεως ὄνομ᾽ οὐδ᾽ αὑτὸν κατῄσχυνεν, οὔτε πάνυ ῥᾴδιον κατὰ τὴν ἀξίαν εἰπεῖν, πολλή τ᾽ αἰσχύνη λέγοντος ἐμοῦ ταῦτ᾽ ἐλάττω φανῆναι τῆς ἐν ἑκάστῳ νῦν περὶ αὐτοῦ δόξης ὑπαρχούσης· ἃ δ᾽ οὐδαμῶς ἂν εἰπὼν οἴομαι μικρὰ ποιῆσαι, ταῦθ᾽ ὑπομνῆσαι πειράσομαι. [77] ἐνίκησεν μὲν τοίνυν Λακεδαιμονίους ναυμαχίᾳ καὶ πεντήκοντα μιᾶς δεούσας ἔλαβεν αἰχμαλώτους τριήρεις, εἷλε δὲ τῶν νήσων τούτων τὰς πολλὰς καὶ παρέδωκεν ὑμῖν καὶ φιλίας ἐποίησεν ἐχθρῶς ἐχούσας πρότερον, τρισχίλια δ᾽ αἰχμάλωτα σώματα δεῦρ᾽ ἤγαγεν, καὶ πλέον ἢ δέκα καὶ ἑκατὸν τάλαντ᾽ ἀπέφηνεν ἀπὸ τῶν πολεμίων. καὶ τούτων πάντων ὑμῶν τινὲς οἱ πρεσβύτατοι μάρτυρές εἰσί μοι. πρὸς δὲ τούτοις ἄλλας τριήρεις πλέον ἢ εἴκοσιν εἷλε, κατὰ μίαν καὶ δύο λαμβάνων, ἃς ἁπάσας εἰς τοὺς ὑμετέρους λιμένας κατήγαγεν. [78] ἑνὶ δὲ κεφαλαίῳ μόνος τῶν πάντων στρατηγῶν οὐ πόλιν, οὐ φρούριον, οὐ ναῦν, οὐ στρατιώτην ἀπώλεσεν οὐδένα ἡγούμενος ὑμῶν, οὐδ᾽ ἔστιν οὐδενὶ τῶν ὑμετέρων ἐχθρῶν τρόπαιον οὐδὲν ἀφ᾽ ὑμῶν τε κἀκείνου, ὑμῖν δ᾽ ἀπὸ πολλῶν πολλὰ ἐκείνου στρατηγοῦντος. ἵνα δὲ μὴ λέγων παραλίπω τι τῶν πεπραγμένων αὐτῷ, ἀναγνώσεται γεγραμμένας ὑμῖν τάς τε ναῦς ὅσας ἔλαβεν καὶ οὗ ἑκάστην, καὶ τῶν πόλεων τὸν ἀριθμὸν καὶ τῶν χρημάτων τὸ πλῆθος, καὶ τῶν τροπαίων οὗ ἕκαστον. λέγε.

ΠΡΑΞΕΙΣ ΧΑΒΡΙΟΥ [79] δοκεῖ τισιν ὑμῶν, ὦ ἄνδρες δικασταί, οὗτος ὃ τοσαύτας πόλεις λαβὼν καὶ τριήρεις τῶν πολεμίων ναυμαχίᾳ νικήσας, καὶ τοσούτων καλῶν αἴτιος ὤν, αἰσχροῦ δ᾽ οὐδενὸς τῇ πόλει, ἄξιος εἶναι ἀποστερηθῆναι τὴν ἀτέλειαν ἣν εὕρετο παρ᾽ ὑμῶν καὶ τῷ υἱεῖ κατέλιπεν; ἐγὼ μὲν οὐκ οἴομαι. καὶ γὰρ ἂν ἄλογον εἴη· μίαν μὲν πόλιν εἰ ἀπώλεσεν ἢ ναῦς δέκα μόνας, περὶ προδοσίας ἂν αὐτὸν εἰσήγγελλον οὗτοι, καὶ εἰ ἑάλω, τὸν ἅπαντ᾽ ἂν ἀπωλώλει χρόνον·



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[75] Ho detto abbastanza su Conone. Ma, per Zeus, dovremmo ignorare che il figlio di Cabria viene privato dell’esenzione che il padre gli passò dopo averla giustamente ricevuta da voi? Ma nessuna persona di senno secondo me potrebbe sostenere che è una buona idea! Con tutta probabilità sapete bene, anche senza che io ne parli, che Cabria era un uomo di grande valore, ma certo niente mi impedisce di ricordarne brevemente le imprese: [76] il modo in cui a Tebe vi schierò contro tutti i Peloponnesiaci, e come uccise Gorgopa ad Egina, e quanti trofei innalzò a Cipro e in seguito in Egitto, e il fatto che, nonostante percorse quasi il mondo intero, mai svilì il nome della città o il suo. Non è per nulla semplice parlarne adeguatamente, e sarebbe una grande vergogna se dalle mie parole queste imprese apparissero inferiori all’opinione che ciascuno oggi ha di lui. Proverò a ricordare quelle imprese che, credo, non potranno essere sminuite dalle mie parole. [77] Cabria sconfisse gli Spartani in una battaglia navale e prese prigioniere 49 triremi, catturò molte delle isole circostanti, le consegnò a voi e le rese, da nemiche che erano in precendenza, vostre alleate, portò qui 3.000 prigionieri e versò al tesoro più di 110 talenti catturati ai nemici. E i più anziani tra voi mi sono testimoni di tutte queste imprese. E per di più catturò oltre venti altre triremi, una o due alla volta, e le portò tutte nei vostri porti. [78] In sostanza lui soltanto tra tutti gli strateghi quando vi ha guidato non ha mai perso nulla, né una città né una fortezza né una nave né un soldato, e nessuno dei vostri nemici ha mai innalzato un trofeo per una vittoria contro di voi e contro di lui, mentre ce ne sono molti, contro molti nemici, da voi innalzati sotto il suo comando. Ma, per non dimenticare nel mio discorso nessuna delle sue imprese, vi sarà letto un elenco delle navi da lui catturate, dove le abbia catturate, il numero delle città, l’ammontare delle ricchezze, e dove ha innalzato ciascun trofeo. Leggi.

IMPRESE DI CABRIA [79] Qualcuno ritiene, signori giudici, che quest’uomo, dopo aver catturato tante città e vinto per mare tante triremi nemiche, dopo essere stato ragione di tante glorie per la città e di nessuna vergogna, meriti di essere privato dell’esenzione che ha ricevuto da voi e ha trasmesso al figlio? Non credo proprio. Non avrebbe alcun senso: se avesse perso una singola città o anche soltanto dieci navi questi individui lo avrebbero accusato di tradimento, e se fosse stato giudicato colpevole sarebbe stato rovinato per sempre.

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[80] ἐπειδὴ δὲ τοὐναντίον ἑπτακαίδεκα μὲν πόλεις εἷλεν, ἑβδομήκοντα δὲ ναῦς ἔλαβεν, τρισχιλίους δ᾽ αἰχμαλώτους, δέκα δὲ καὶ ἑκατὸν τάλαντ᾽ ἀπέφηνεν, τοσαῦτα δ᾽ ἔστησε τρόπαια, τηνικαῦτα δ᾽ οὐκ ἔσται κύρι᾽ αὐτῷ τὰ δοθέντ᾽ ἐπὶ τούτοις; καὶ μήν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, καὶ ζῶν πάνθ᾽ ὑπὲρ ὑμῶν φανήσεται πράξας Χαβρίας, καὶ τὴν τελευτὴν αὐτὴν τοῦ βίου πεποιημένος οὐχ ὑπὲρ ἄλλου τινός, ὥστε δικαίως ἂν οὐ μόνον διὰ τὰ ζῶντι πεπραγμένα φαίνοισθε εὐνοϊκῶς διακείμενοι πρὸς τὸν υἱὸν αὐτοῦ, ἀλλὰ καὶ διὰ ταύτην. [81] ἄξιον τοίνυν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, κἀκεῖνο σκοπεῖν, ὅπως μὴ φανούμεθα φαυλότεροι Χίων περὶ τοὺς εὐεργέτας γεγενημένοι. εἰ γὰρ ἐκεῖνοι μέν, ἐφ᾽ οὓς μεθ᾽ ὅπλων ἦλθεν ἐν ἐχθροῦ τάξει, μηδὲν ὧν ἔδοσαν πρότερον νῦν ἀφῄρηνται, ἀλλὰ τὰς πάλαι χάριτας μείζους τῶν καινῶν ἐγκλημάτων πεποίηνται, ὑμεῖς δέ, ὑπὲρ ὧν ἐπ᾽ ἐκείνους ἐλθὼν ἐτελεύτησεν, ἀντὶ τοῦ διὰ ταῦτ᾽ ἔτι μᾶλλον αὐτὸν τιμᾶν καὶ τῶν ἐπὶ ταῖς πρότερον εὐεργεσίαις τι δοθέντων ἀφῃρημένοι φανήσεσθε, πῶς οὐκ εἰκότως αἰσχύνην ἕξετε; [82] καὶ μὴν καὶ κατ᾽ ἐκεῖνο ἀνάξι᾽ ἂν εἴη πεπονθὼς ὁ παῖς εἴ τῆς δωρεᾶς ἀφαιρεθείη, καθ᾽ ὃ πολλάκις ὑμῶν στρατηγήσαντος Χαβρίου οὐδενὸς πώποθ᾽ υἱὸς ὀρφανὸς δι᾽ ἐκεῖνον ἐγένετο, αὐτὸς δ᾽ ἐν ὀρφανίᾳ τέθραπται διὰ τὴν πρὸς ὑμᾶς φιλοτιμίαν τοῦ πατρός. οὕτω γὰρ ὡς ἀληθῶς ἔμοιγε φαίνεται βεβαίως πως ἐκεῖνος φιλόπολις, ὥστε δοκῶν καὶ ὢν ἀσφαλέστατος στρατηγὸς ἁπάντων, ὑπὲρ μὲν ὑμῶν, ὁπόθ᾽ ἡγοῖτο, ἐχρῆτο τούτῳ, ὑπὲρ αὑτοῦ δέ, ἐπειδὴ τὸ καθ᾽ αὑτὸν ἐτάχθη κινδυνεύειν, παρεῖδε, καὶ μᾶλλον εἵλετο μὴ ζῆν ἢ καταισχῦναι τὰς παρ᾽ ὑμῶν ὑπαρχούσας αὐτῷ τιμάς. [83] εἶθ᾽ ὑπὲρ ὧν ἐκεῖνος ᾤετο δεῖν ἀποθνῄσκειν ἢ νικᾶν, ταῦθ᾽ ἡμεῖς ἀφελώμεθα τὸν υἱὸν αὐτοῦ; καὶ τί φήσομεν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, ὅταν τὰ μὲν τρόπαια ἑστήκῃ δῆλα πᾶσιν ἀνθρώποις, ἃ ὑπὲρ ὑμῶν στρατηγῶν ἐκεῖνος ἔστησε, τῶν δ᾽ ἐπὶ τούτοις δωρεῶν ἀφῃρημένον τι φαίνηται; οὐ σκέψεσθε, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, καὶ λογιεῖσθε, ὅτι νῦν οὐχ ὁ νόμος κρίνεται πότερον ἔστιν ἐπιτήδειος ἢ οὔ, ἀλλ᾽ ὑμεῖς δοκιμάζεσθε εἴτ᾽ ἐπιτήδειοι πάσχειν ἔστε εὖ τὸν λοιπὸν χρόνον εἴτε μή; [84] λαβὲ δὴ καὶ τὸ τῷ Χαβρίᾳ ψήφισμα ψηφισθέν. ὅρα δὴ καὶ σκόπει· δεῖ γὰρ αὐτὸ ἐνταῦθ᾽ εἶναί που. ἐγὼ δ᾽ ἔτι τοῦτ᾽ εἰπεῖν ὑπὲρ Χαβρίου βούλομαι. ὑμεῖς, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τιμῶντές ποτ᾽ Ἰφικράτην, οὐ μόνον αὐτὸν ἐτιμήσατε, ἀλλὰ καὶ δι᾽ ἐκεῖνον Στράβακα καὶ Πολύστρατον· καὶ πάλιν, Τιμοθέῳ διδόντες τὴν δωρεάν, δι᾽ ἐκεῖνον ἐδώκατε καὶ Κλεάρχῳ καί τισιν ἄλλοις πολιτείαν· Χαβρίας δὲ αὐτὸς ἐτιμήθη παρ᾽ ὑμῖν μόνος.



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[80] E invece ha catturato 17 città, si è impadronito di 70 navi, di 3.000 prigionieri, ha versato al tesoro 110 talenti di bottino e innalzato tanti trofei. E dunque le ricompense che ha ricevuto per questi servizi verranno ora revocate? E per di più, Ateniesi, sarà chiaro a tutti che tutto ciò che Cabria ha fatto in vita lo ha fatto a vostro vantaggio, e non è morto per nessun altro, è morto per voi, per cui sarebbe giusto che mostraste la vostra benevolenza nei confronti di suo figlio non solo per ciò che ha fatto in vita, ma anche per come è morto. [81] E inoltre, Ateniesi, dovete tenere conto anche di un altro elemento, affinché non dimostriamo di essere diventati peggiori dei Chii nel modo in cui trattiamo i benefattori. Perché coloro che Cabria attaccò armi in pugno, schierato tra i loro nemici, non gli hanno tolto a quel punto nessuna delle ricompense che gli avevano accordato, ma hanno ritenuto i servizi passati superiori alle offese recenti. E se voi, in difesa dei quali Cabria è morto attaccandoli, invece di onorarlo ancora di più per questo, gli toglierete di fronte a tutti una delle ricompense che gli accordaste per i servizi passati, non sarà questa una meritata vergogna? [82] E inoltre se il figlio di Cabria fosse privato di una delle ricompense subirebbe un torto anche per un’altra ragione: nonostante Cabria sia stato spesso al vostro comando mai nessun figlio si è trovato orfano per causa sua, mentre proprio suo figlio è stato allevato da orfano a causa dell’ambizione del padre di servirvi. Perché io davvero ritengo che Cabria sia stato sotto ogni aspetto così saldamente devoto alla città che, avendo la reputazione di essere, ed essendo davvero, il più prudente degli strateghi, si serviva di questa qualità in vostra difesa ogni volta che era al vostro comando, ma per quanto riguardava la sua sicurezza, quando gli fu assegnata una posizione di pericolo, non si fece alcuno scrupolo, e scelse di perdere la vita piuttosto che macchiare di vergogna gli onori che gli avevate accordato. [83] E dunque vogliamo privare suo figlio di quegli onori per i quali egli ritenne di dover morire o vincere? E come giustificheremo, Ateniesi, il fatto che i trofei che Cabria innalzò da stratego per voi si ergono visibili a tutti gli uomini, mentre è evidente che una delle ricompense per quei trofei è stata cancellata? Non terrete in considerazione, Ateniesi, non rifletterete sul fatto che oggi non si giudica se la legge sia idonea o meno, ma siete voi ad essere sotto esame? Si giudica se siate idonei a ricevere benefici in futuro oppure no. [84] Prendi il decreto votato nei confronti di Cabria. Guarda bene, cerca un po’: dev’essere lì da qualche parte. Voglio dire ancora questo su Cabria: voi, Ateniesi, quando all’epoca onoraste Ificrate, onoraste non soltanto lui, ma anche per suo tramite Strabace e Polistrato; e ancora, quando accordaste la ricompensa a Timoteo, deste la cittadinanza grazie a lui anche a Clearco e ad alcuni altri. Cabria invece lo avete premiato da solo.

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[85] εἰ δὴ τότε, ὅθ᾽ εὑρίσκετο τὴν δωρεάν, ἠξίωσεν ὑμᾶς, ὥσπερ δι᾽ Ἰφικράτην καὶ Τιμόθεον εὖ τινὰς πεποιήκατε, οὕτω καὶ δι᾽ αὑτὸν εὖ ποιῆσαι τούτων τινὰς τῶν εὑρημένων τὴν ἀτέλειαν, οὓς νῦν οὗτοι μεμφόμενοι πάντας ἀφαιρεῖσθαι κελεύουσιν ὁμοίως, οὐκ ἂν ἐδώκατε ταύτην αὐτῷ τὴν χάριν; ἔγωγ᾽ ἡγοῦμαι. [86] εἶθ᾽ οἷς δι᾽ ἐκεῖνον ἂν τότ᾽ ἐδώκατε δωρεάν, διὰ τούτους νῦν αὐτὸν ἐκεῖνον ἀφαιρήσεσθε τὴν ἀτέλειαν; ἀλλ᾽ ἄλογον. οὐδὲ γὰρ ὑμῖν ἁρμόττει δοκεῖν παρὰ μὲν τὰς εὐεργεσίας οὕτω προχείρως ἔχειν ὥστε μὴ μόνον αὐτοὺς τοὺς εὐεργέτας τιμᾶν, ἀλλὰ καὶ τοὺς ἐκείνων φίλους, ἐπειδὰν δὲ χρόνος διέλθῃ βραχύς, καὶ ὅσα αὐτοῖς δεδώκατε, ταῦτ᾽ ἀφαιρεῖσθαι.

ΨΗΦΙΣΜΑΤΑ ΤΩΝ ΧΑΒΡΙΟΥ ΤΙΜΩΝ [87] οὓς μὲν τοίνυν ἀδικήσετε, εἰ μὴ λύσετε τὸν νόμον, πρὸς πολλοῖς ἄλλοις, οὓς ἀκηκόατε, εἰσίν, ὦ ἄνδρες δικασταί. σκοπεῖτε δὴ καὶ λογίσασθ᾽ ἐν ὑμῖν αὐτοῖς, εἴ τινες τούτων τῶν τετελευτηκότων λάβοιεν τρόπῳ τινὶ τοῦ νυνὶ γιγνομένου πράγματος αἴσθησιν, ὡς ἂν εἰκότως ἀγανακτήσειαν. εἰ γὰρ ὧν ἔργῳ πεποίηκεν ἕκαστος αὐτῶν ὑμᾶς εὖ, τούτων ἐκ λόγου κρίσις γίγνεται, καὶ τὰ καλῶς πραχθένθ᾽ ὑπ᾽ ἐκείνων, ἂν ὑφ᾽ ἡμῶν μὴ καλῶς ῥηθῇ τῷ λόγῳ, μάτην τοῖς πονήσασιν εἴργασται, πῶς οὐ δεινὰ πάσχουσιν; [88] ἵνα τοίνυν εἰδῆτε, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, ὅτι ὡς ἀληθῶς ἐπὶ πᾶσι δικαίοις ποιούμεθα τοὺς λόγους πάντας οὓς λέγομεν πρὸς ὑμᾶς, καὶ οὐδὲν ἔσθ᾽ ὅ τι τοῦ παρακρούσασθαι καὶ φενακίσαι λέγεται παρ᾽ ἡμῶν εἵνεκα, ἀναγνώσεται τὸν νόμον ὑμῖν ὃν παρεισφέρομεν γράψαντες ἀντὶ τοῦδε, ὃν οὐκ ἐπιτήδειον εἶναί φαμεν. γνώσεσθε γὰρ ἐκ τούτου πρόνοιάν τινα ἔχοντας ἡμᾶς καὶ ὅπως ὑμεῖς μηδὲν αἰσχρὸν ποιῆσαι δόξετε, καὶ ὅπως, εἴ τινά τις καταμέμφεται τῶν εὑρημένων τὰς δωρεάς, ἂν δίκαιον ᾖ, κρίνας παρ᾽ ὑμῖν ἀφαιρήσεται, καὶ ὅπως, οὓς οὐδεὶς ἂν ἀντείποι μὴ οὐ δεῖν ἔχειν, ἕξουσι τὰ δοθέντα. [89] καὶ τούτων πάντων οὐδὲν ἔστιν ἡμέτερον καινὸν εὕρημα, ἀλλ᾽ ὁ παλαιός, ὃν οὗτος παρέβη, νόμος οὕτω κελεύει νομοθετεῖν, γράφεσθαι μέν, ἄν τίς τινα τῶν ὑπαρχόντων νόμων μὴ καλῶς ἔχειν ἡγῆται, παρεισφέρειν δ᾽ αὐτὸν ἄλλον, ὃν ἂν τιθῇ λύων ἐκεῖνον, ὑμᾶς δ᾽ ἀκούσαντες ἑλέσθαι τὸν κρείττω.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[85] Immaginate se Cabria, quando ricevette la sua ricompensa, avesse domandato che, come avete premiato alcuni grazie a Ificrate e Timoteo, così anche grazie a lui premiaste alcuni di quelli che hanno ottenuto l’esenzione, quelli che ora costoro criticano e vi esortano a privare senza eccezione dei loro premi. Non gli avreste reso questo servizio? Credo proprio di sì. [86] E quindi ora toglierete l’esenzione a Cabria per via di individui ai quali all’epoca, se Cabria ve l’avesso chiesto, avreste accordato una ricompensa? Non ha alcun senso. Non è bene infatti per voi dare l’impressione, coi vostri comportamenti, che quando si tratta di ricevere dei servizi siete pronti a onorare non solo i benefattori ma anche i loro amici, ma poi, quando è trascorso qualche tempo, togliete anche quanto avete accordato.

DECRETI SUGLI ONORI DI CABRIA [87] Questi uomini i cui nomi avete appena ascoltato, signori giudici, e molti altri, sono coloro contro i quali commetterete un’ingiustizia se non abrogherete la legge. E davvero considerate e riflettete da voi su come giustamente si infurierebbero alcuni tra questi individui che sono ormai morti se mai venissero a conoscenza in qualche modo di ciò che sta accadendo in questo momento! Non subiscono infatti una terribile ingiustizia, se si giunge a parole a un giudizio sui servizi che ciascuno di loro vi ha reso nei fatti; se le loro grandi imprese, a meno che noi riusciamo a rendere loro giustizia con i nostri discorsi, sono state compiute invano da chi ne ha sofferto? [88] Ora Ateniesi, affinché siate certi che in tutto ciò che diciamo di fronte a voi ci basiamo davvero su tutti i più giusti principi, e che nulla di quanto è stato da noi affermato è inteso ad ingannarvi o a raggirarvi, vi sarà letta la legge che abbiamo redatto e presentiamo in sostituzione di questa che secondo noi non è adeguata. Capirete da questa legge che l’abbiamo redatta anticipando tre conseguenze: evitare che voi sembriate comportarvi in modo disonorevole; se qualcuno ha da ridire su chi ha ricevuto le ricompense ed è nel giusto, che l’esenzione sia annullata da voi con un giudizio in tribunale; e che coloro ai quali nessuno contesta il diritto alle loro ricompense le conservino. [89] E in tutto ciò non c’è nulla di nuovo né alcuna nostra trovata, ma la vecchia legge, che Leptine ha infranto, fornisce la seguente procedura per legiferare: da una parte, se si ritiene che una delle leggi in vigore non vada bene, si intenta un’accusa pubblica; dall’altra si presenta una legge sostitutiva, una che si possa promulgare se si abroga l’altra. Voi, sentite le due leggi, scegliete la migliore.

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[90] οὐ γὰρ ᾤετο δεῖν ὁ Σόλων, ὁ τοῦτον τὸν τρόπον προστάξας νομοθετεῖν, τοὺς μὲν θεσμοθέτας τοὺς ἐπὶ τοὺς νόμους κληρουμένους δὶς δοκιμασθέντας ἄρχειν, ἔν τε τῇ βουλῇ καὶ παρ᾽ ὑμῖν ἐν τῷ δικαστηρίῳ, τοὺς δὲ νόμους αὐτούς, καθ᾽ οὓς καὶ τούτοις ἄρχειν καὶ πᾶσι τοῖς ἄλλοις πολιτεύεσθαι προσήκει, ἐπὶ καιροῦ τεθέντας, ὅπως ἔτυχον, μὴ δοκιμασθέντας κυρίους εἶναι. [91] καὶ γάρ τοι τότε μέν, τέως τὸν τρόπον τοῦτον ἐνομοθέτουν, τοῖς μὲν ὑπάρχουσι νόμοις ἐχρῶντο, καινοὺς δ᾽ οὐκ ἐτίθεσαν· ἐπειδὴ δὲ τῶν πολιτευομένων τινὲς δυνηθέντες, ὡς ἐγὼ πυνθάνομαι, κατεσκεύασαν αὑτοῖς ἐξεῖναι νομοθετεῖν, ὅταν τις βούληται καὶ ὃν ἂν τύχῃ τρόπον, τοσοῦτοι μὲν οἱ ἐναντίοι σφίσιν αὑτοῖς εἰσὶ νόμοι, ὥστε χειροτονεῖθ᾽ ὑμεῖς τοὺς διαλέξοντας τοὺς ἐναντίους ἐπὶ πάμπολυν ἤδη χρόνον, [92] καὶ τὸ πρᾶγμα οὐδὲν μᾶλλον δύναται πέρας ἔχειν· ψηφισμάτων δ᾽ οὐδ᾽ ὁτιοῦν διαφέρουσιν οἱ νόμοι, ἀλλὰ νεώτεροι οἱ νόμοι, καθ᾽ οὓς τὰ ψηφίσματα δεῖ γράφεσθαι, τῶν ψηφισμάτων αὐτῶν ὑμῖν εἰσίν. ἵν᾽ οὖν μὴ λόγον λέγω μόνον, ἀλλὰ καὶ τὸν νόμον αὐτὸν ὅν φημι δείξω, λαβέ μοι τὸν νόμον καθ᾽ ὃν ἦσαν οἱ πρότερον νομοθέται. λέγε.

ΝΟΜΟΣ [93] συνίεθ᾽ ὃν τρόπον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, ὁ Σόλων τοὺς νόμους ὡς καλῶς κελεύει τιθέναι, πρῶτον μὲν παρ᾽ ὑμῖν, ἐν τοῖς ὀμωμοκόσιν, παρ᾽ οἷσπερ καὶ τἄλλα κυροῦται, ἔπειτα λύοντα τοὺς ἐναντίους, ἵν᾽ εἷς ᾖ περὶ τῶν ὄντων ἑκάστου νόμος, καὶ μὴ τοὺς ἰδιώτας αὐτὸ τοῦτο ταράττῃ καὶ ποιῇ τῶν ἅπαντας εἰδότων τοὺς νόμους ἔλαττον ἔχειν, ἀλλὰ πᾶσιν ᾖ ταὔτ᾽ ἀναγνῶναι καὶ μαθεῖν ἁπλᾶ καὶ σαφῆ τὰ δίκαια. [94] καὶ πρὸ τούτων γ᾽ ἐπέταξεν ἐκθεῖναι πρόσθε τῶν ἐπωνύμων καὶ τῷ γραμματεῖ παραδοῦναι, τοῦτον δ᾽ ἐν ταῖς ἐκκλησίαις ἀναγιγνώσκειν, ἵν᾽ ἕκαστος ὑμῶν ἀκούσας πολλάκις καὶ κατὰ σχολὴν σκεψάμενος, ἃ ἂν ᾖ καὶ δίκαια καὶ συμφέροντα, ταῦτα νομοθετῇ. τούτων τοίνυν τοσούτων ὄντων δικαίων τὸ πλῆθος, οὑτοσὶ μὲν οὐδ᾽ ὁτιοῦν ἐποίησε [Λεπτίνης]· οὐδὲ γὰρ ἂν ὑμεῖς ποτ᾽ ἐπείσθητε, ὡς ἐγὼ νομίζω, θέσθαι τὸν νόμον· ἡμεῖς δ᾽, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, πάντα, καὶ παρεισφέρομεν πολλῷ καὶ κρείττω καὶ δικαιότερον τοῦ τούτου νόμον. γνώσεσθε δ᾽ ἀκούοντες. [95] λαβὲ καὶ λέγε πρῶτον μὲν ἃ τοῦ τούτου νόμου γεγράμμεθα, εἶθ᾽ ἅ φαμεν δεῖν ἀντὶ τούτων τεθῆναι. λέγε.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[90] Perché Solone, l’uomo che ha stabilito questo metodo di legislazione, era convinto che non fosse giusto che i tesmoteti, sorteggiati per custodire le leggi, entrassero in carica dopo essere stati esaminati due volte, una volta in Consiglio e la seconda in tribunale davanti a voi, mentre le leggi stesse, secondo le cui prescrizioni costoro devono esercitare le loro funzioni e tutti gli altri cittadini comportarsi nella sfera pubblica, una volta passate come capita in un momento di urgenza, fossero in vigore senza alcuna verifica. [91] E infatti in passato, finché si legiferava in questo modo, ci si serviva delle leggi esistenti e non se ne promulgavano di nuove; ma ho sentito dire che in seguito, da quando alcuni politicanti accumularono abbastanza potere da stabilire che fosse possibile legiferare quando si vuole e come capita, ci sono così tante leggi contraddittorie tra loro che eleggete ormai da molto tempo dei magistrati appositi per sistemare queste contraddizioni, [92] e per giunta di questo lavoro non se ne vede la fine: non c’è alcuna differenza tra le leggi e i decreti, e al contrario le leggi, secondo le cui prescrizioni bisogna scrivere i decreti, sono da voi più recenti dei decreti stessi. Per non fermarmi dunque soltanto alle parole, ma mostrare la legge di cui sto parlando, prendimi la legge le cui prescrizioni seguiva chi legiferava in passato. Leggi.

LEGGE [93] Vedete, Ateniesi, l’eccellente metodo di legislazione arrangiato da Solone: in primo luogo ci si trova di fronte a voi, quelli hanno prestato giuramento, che avete il potere di confermare anche le altre misure. In secondo luogo si abrogano le leggi contraddittorie, affinché ci sia una sola legge per ogni questione e i privati cittadini non vadano in confusione e non si trovino in condizioni d’inferiorità nei confronti di chi conosce tutte le leggi, ma a tutti sia possibile leggerle e comprendere che il diritto è semplice e chiaro. [94] E prima di tutto ciò, secondo le disposizioni di Solone, i disegni di legge vanno esposti davanti alle statue degli eroi eponimi e consegnati al segretario, che ne dà lettura durante le sessioni dell’Assemblea, affinché ciascuno di voi, ascoltandoli spesso e pensandoci con calma, se sono giusti e utili alla città, li promulghi. Ebbene di tutte queste numerose prescrizioni di legge costui non ne ha rispettata nessuna: mai infatti a mio parere sareste stati persuasi a promulgare una legge simile. Noi invece, Ateniesi, le abbiamo rispettate tutte e presentiamo una legge sostitutiva di gran lunga migliore e più giusta della sua. Ascoltate e giudicate. [95] Prendi e leggi le prescrizioni di questa legge e in seguito quello che secondo noi bisogna passare in sostituzione. Leggi.

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ΝΟΜΟΣ ταῦτα μέν ἐστιν ἃ τοῦ τούτου νόμου διώκομεν ὡς οὐκ ἐπιτήδεια. τὰ δ᾽ ἑξῆς λέγε, ἃ τούτων εἶναι βελτίω φαμέν. προσέχετε, ἄνδρες δικασταί, τούτοις ἀναγιγνωσκομένοις τὸν νοῦν. λέγε.

ΝΟΜΟΣ [96] ἐπίσχες. τοῦτο μέν ἐστιν ἐν τοῖς οὖσι νόμοις κυρίοις ὑπάρχον καλόν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, καὶ σαφές, “τὰς δωρεὰς ὅσας ὁ δῆμος ἔδωκε κυρίας εἶναι”· δίκαιον, ὦ γῆ καὶ θεοί. χρῆν τοίνυν Λεπτίνην μὴ πρότερον τιθέναι τὸν ἑαυτοῦ νόμον πρὶν τοῦτον ἔλυσε γραψάμενος. νῦν δὲ μαρτυρίαν καθ᾽ ἑαυτοῦ καταλείπων ὅτι παρανομεῖ τουτονὶ τὸν νόμον, ὅμως ἐνομοθέτει, καὶ ταῦθ᾽ ἑτέρου κελεύοντος νόμου καὶ κατ᾽ αὐτὸ τοῦτο ἔνοχον εἶναι τῇ γραφῇ, ἐὰν ἐναντίος ᾖ τοῖς πρότερον κειμένοις νόμοις. λαβὲ δ᾽ αὐτὸν τὸν νόμον.

ΝΟΜΟΣ [97] οὔκουν ἐναντίον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τῷ “κυρίας εἶναι τὰς δωρεάς, ὅσας ὁ δῆμος ἔδωκε”, τὸ “μηδέν᾽ εἶναι ἀτελῆ” τούτων οἷς ὁ δῆμος ἔδωκεν; σαφῶς γ᾽ οὑτωσί. ἀλλ᾽ οὐκ ἐν ᾧ νῦν ὅδε ἀντεισφέρει νόμῳ, ἀλλ᾽ ἅ τ᾽ ἐδώκατε, κύρια, καὶ πρόφασις δικαία κατὰ τῶν ἢ παρακρουσαμένων ἢ μετὰ ταῦτ᾽ ἀδικούντων ἢ ὅλως ἀναξίων, δι᾽ ἣν ὃν ἂν ὑμῖν δοκῇ κωλύσετ᾽ ἔχειν τὴν δωρεάν. λέγε τὸν νόμον.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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LEGGE Queste sono le parti di questa legge che impugniamo come dannose per la città. Leggi ora le prescrizioni che affermiamo siano migliori. Prestate attenzione, signori giudici, a ciò che sarà letto.

LEGGE [96] Fermati. Questa, Ateniesi, è una eccellente e semplice disposizione che si trova nelle leggi vigenti: “i privilegi che il popolo ha concesso restino in vigore”. Giusto, per la terra e gli dei! Leptine dunque non avrebbe dovuto promulgare la sua legge prima di intentare una causa e abrogare questa. E invece, pur avendo lasciato questa legge in vigore a testimonianza contro sé stesso che ha agito illegalmente, ciononostante ha legiferato, per di più in spregio al fatto che un’altra legge permette di intentare un’accusa contro una legge che è contraria a quelle esistenti. Prendi la legge.

LEGGE. [97] L’enunciato “nessuno sia esente” tra coloro ai quali il popolo ha concesso questo beneficio, Ateniesi, non contraddice forse la disposizione di legge “i privilegi che il popolo ha concesso restino in vigore”? La contraddice chiaramente. La proposta di legge che Apsefione presenta ora invece in sostituzione non la contraddice. Anzi, le ricompense che avete accordato restano in vigore, e avete una base legittima per intentare un’accusa contro chi ha tramato contro il popolo, ha commesso dei reati dopo aver ricevuto la ricompensa o in generale non ne è degno, attraverso la quale impedirete a chi volete di conservare la sua ricompensa. Leggi la legge.

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ΝΟΜΟΣ [98] ἀκούετ᾽, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, καὶ καταμανθάνετε, ὅτι ἐνταῦθ᾽ ἔνι καὶ τοὺς ἀξίους ἔχειν τὰ δοθέντα καὶ τοὺς μὴ τοιούτους κριθέντας, ἐὰν ἀδίκως τι λάβωσιν, ἀφαιρεθῆναι, καὶ τὸ λοιπὸν ἐφ᾽ ὑμῖν εἶναι πάνθ᾽, ὥσπερ ἐστὶ δίκαιον, καὶ δοῦναι καὶ μή. ὡς μὲν τοίνυν οὐχὶ καλῶς οὗτος ἔχει καὶ δικαίως ὁ νόμος, οὔτ᾽ ἐρεῖν οἴομαι Λεπτίνην οὔτ᾽, ἐὰν λέγῃ, δεῖξαι δυνήσεσθαι· ἃ δὲ πρὸς τοῖς θεσμοθέταις ἔλεγεν, ταῦτ᾽ ἴσως λέγων παράγειν ὑμᾶς ζητήσει. ἔφη γὰρ ἐξαπάτης εἵνεκα παραγεγράφθαι τοῦτον τὸν νόμον, ἐὰν δ᾽ ὃν αὐτὸς ἔθηκεν λυθῇ, τοῦτον οὐ τεθήσεσθαι. [99] ἐγὼ δ᾽, ὅτι μὲν τῇ ὑμετέρᾳ ψήφῳ τοῦ τούτου νόμου λυθέντος τὸν παρεισενεχθέντα κύριον εἶναι σαφῶς ὁ παλαιὸς κελεύει νόμος, καθ᾽ ὃν οἱ θεσμοθέται τοῦτον ὑμῖν παρέγραψαν, ἐάσω, ἵνα μὴ περὶ τούτου τις ἀντιλέγῃ μοι, ἀλλ᾽ ἐπ᾽ ἐκεῖνο εἶμι. ὅταν ταῦτα λέγῃ δήπου, ὁμολογεῖ μὲν εἶναι βελτίω καὶ δικαιότερον τόνδε τὸν νόμον οὗ τέθεικεν αὐτός, ὑπὲρ δὲ τοῦ πῶς τεθήσεται ποιεῖται τὸν λόγον. [100] πρῶτον μὲν τοίνυν εἰσὶν αὐτῷ κατὰ τοῦ παρεισφέροντος πολλοὶ τρόποι, δι᾽ ὧν, ἂν βούληται, θεῖναι τὸν νόμον αὐτὸν ἀναγκάσει. ἔπειτ᾽ ἐγγυώμεθ᾽ ἡμεῖς, ἐγώ, Φορμίων, ἄλλον εἴ τινα βούλεται, θήσειν τὸν νόμον. ἔστι δὲ δήπου νόμος ὑμῖν, ἐάν τις ὑποσχόμενός τι τὸν δῆμον ἢ βουλὴν ἢ δικαστήριον ἐξαπατήσῃ, τὰ ἔσχατα πάσχειν. ἐγγυώμεθα, ὑπισχνούμεθα· οἱ θεσμοθέται ταῦτα γραφόντων, ἐπὶ τούτοις τὸ πρᾶγμα γιγνέσθω. [101] μήθ᾽ ὑμεῖς ποιήσητε μηδὲν ἀνάξιον ὑμῶν αὐτῶν, μήτ’, εἴ τις φαῦλός ἐστι τῶν εὑρημένων τὴν δωρεάν, ἐχέτω, ἀλλ᾽ ἰδίᾳ κατὰ τόνδε κριθήτω τὸν νόμον. εἰ δὲ ταῦτα λόγους καὶ φλυαρίας εἶναι φήσει, ἐκεῖνό γ᾽ οὐ λόγος· αὐτὸς θέτω, καὶ μὴ λεγέτω τοῦτο, ὡς οὐ θήσομεν ἡμεῖς. κάλλιον δὲ δήπου τὸν ὑφ᾽ ὑμῶν κριθέντα καλῶς ἔχειν νόμον εἰσφέρειν ἢ ὃν νῦν ἀφ᾽ αὑτοῦ τίθησιν. [102] ἐμοὶ δ᾽, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, δοκεῖ Λεπτίνης (καί μοι μηδὲν ὀργισθῇς· οὐδὲν γὰρ φλαῦρον ἐρῶ σε) ἢ οὐκ ἀνεγνωκέναι τοὺς Σόλωνος νόμους ἢ οὐ συνιέναι. εἰ γὰρ ὁ μὲν Σόλων ἔθηκεν νόμον ἐξεῖναι δοῦναι τὰ ἑαυτοῦ ᾧ ἄν τις βούληται, ἐὰν μὴ παῖδες ὦσι γνήσιοι, οὐχ ἵν᾽ ἀποστερήσῃ τοὺς ἐγγυτάτω γένει τῆς ἀγχιστείας, ἀλλ᾽ ἵν᾽ εἰς τὸ μέσον καταθεὶς τὴν ὠφέλειαν ἐφάμιλλον ποιήσῃ τὸ ποιεῖν ἀλλήλους εὖ,



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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LEGGE [98] Ascoltate, Ateniesi, e convincetevi che con questa legge i meritevoli conserveranno le ricompense ottenute e chi non è giudicato tale ne verrà privato se le ha ottenute ingiustamente, e in futuro starà a voi, come è giusto, se accordarle o no. Per questo non credo che Leptine sosterrà che questa legge non vada bene e non sia giusta. E se lo sostenesse, non riuscirà a provarlo. Al contrario cercherà forse di ingannarvi con gli stessi argomenti che ha usato di fronte ai tesmoteti. Lì sostenne che questa legge è stata scritta accanto all’altra per ingannarvi, e se la sua legge sarà abrogata questa non verrà promulgata. [99] Affinché nessuno mi attacchi a questo riguardo, non mi soffermerò sull’argomento che la vecchia legge sulla legislazione, secondo le cui disposizioni i tesmoteti hanno scritto su nostra richiesta questa proposta accanto alla sua, chiaramente permette che la legge che abbiamo proposto in sostituzione sia in vigore una volta che la legge precedente è abrogata con il vostro voto. Passo invece al prossimo punto: se Leptine fa simili affermazioni è perché riconosce che la nostra legge è migliore e più giusta di quella che ha promulgato lui, e sposta quindi il discorso su come verrà promulgata. [100] Ebbene, per prima cosa ci sono molti modi per costringere, se vuole, chi ha proposto una legge sostitutiva a promulgarla. In secondo luogo noi, cioè io, Formione e chiunque altro lui voglia, ci impegniamo a promulgarla. C’è per giunta una legge da voi che impone la pena di morte se qualcuno fa promesse ingannevoli in Assemblea, in Consiglio o in tribunale. Ci impegniamo, lo promettiamo solennemente: i tesmoteti lo mettano agli atti e la questione sia rimessa a loro. [101] E voi non fate nulla di indegno di voi stessi, e non lasciate, se uno di quelli che beneficiano dell’esenzione è persona dappoco, che continui a beneficiarne. Venga invece giudicato individualmente secondo questa nostra legge. Se Leptine dirà che queste sono solo parole e sciocchezze, questo non è certo un argomento! La promulghi lui la legge, invece di dire che noi non la promulgheremo! È certamente meglio proporre quella che voi avete ritenuto una buona legge, piuttosto che quella che sta promulgando ora. [102] A me sembra, Ateniesi, che Leptine (e per Zeus non prendertela con me: non dirò niente di male su di te) non abbia letto le leggi di Solone oppure non le capisca. Perché se Solone ha legiferato, se non ci sono figli legittimi, che si possa lasciare le proprie sostanze a chi si vuole, lo ha fatto non per derubarne i parenti più prossimi, ma per rendere l’aiutarsi reciprocamente una gara, aprendo a chiunque la possibilità di ricavarne un guadagno.

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[103] σὺ δὲ τοὐναντίον εἰσενήνοχας μὴ ἐξεῖναι τῷ δήμῳ τῶν αὑτοῦ δοῦναι μηδενὶ μηδέν, πῶς σέ τις φήσει τοὺς Σόλωνος ἀνεγνωκέναι νόμους ἢ συνιέναι; ὃς ἔρημον ποιεῖς τὸν δῆμον τῶν φιλοτιμησομένων, προλέγων καὶ δεικνὺς ὅτι τοῖς ἀγαθόν τι ποιοῦσιν οὐδ᾽ ὁτιοῦν ἔσται πλέον. [104] καὶ μὴν κἀκεῖνος τῶν καλῶς δοκούντων ἔχειν νόμων Σόλωνός ἐστι, μὴ λέγειν κακῶς τὸν τεθνεῶτα, μηδ᾽ ἂν ὑπὸ τῶν ἐκείνου τις ἀκούῃ παίδων αὐτός· σὺ δὲ ποιεῖς, οὐ λέγεις κακῶς τοὺς τετελευτηκότας τῶν εὐεργετῶν, τῷ δεῖνι μεμφόμενος καὶ τὸν δεῖν᾽ ἀνάξιον εἶναι φάσκων, ὧν οὐδὲν ἐκείνοις προσῆκεν. ἆρ᾽ οὐ πολὺ τοῦ Σόλωνος ἀποστατεῖς τῇ γνώμῃ; [105] πάνυ τοίνυν σπουδῇ τις ἀπήγγελλέ μοι περὶ τοῦ μηδενὶ δεῖν μηδὲν διδόναι, μηδ᾽ ἂν ὁτιοῦν πράξῃ, τοιοῦτόν τι λέγειν αὐτοὺς παρεσκευάσθαι, ὡς ἄρ᾽ οἱ Λακεδαιμόνιοι καλῶς πολιτευόμενοι καὶ Θηβαῖοι οὐδενὶ τῶν παρ᾽ ἑαυτοῖς διδόασι τοιαύτην οὐδεμίαν τιμήν· καίτοι καὶ παρ᾽ ἐκείνοις τινές εἰσιν ἴσως ἀγαθοί. ἐμοὶ δὴ δοκοῦσιν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, πάντες οἱ τοιοῦτοι λόγοι παροξυντικοὶ μὲν εἶναι πρὸς τὸ τὰς ἀτελείας ὑμᾶς ἀφελέσθαι πεῖσαι, οὐ μέντοι δίκαιοί γ᾽ οὐδαμῇ. οὐ γὰρ ἀγνοῶ τοῦθ᾽ ὅτι Θηβαῖοι καὶ Λακεδαιμόνιοι καὶ ἡμεῖς οὔτε νόμοις οὔτ᾽ ἔθεσιν χρώμεθα τοῖς αὐτοῖς οὔτε πολιτείᾳ. [106] αὐτὸ γὰρ τοῦτο πρῶτον, ὃ νῦν οὗτοι ποιήσουσιν, ἐὰν ταῦτα λέγωσιν, οὐκ ἔξεστι ποιεῖν παρὰ τοῖς Λακεδαιμονίοις, τὰ τῶν Ἀθηναίων ἐπαινεῖν νόμιμα οὐδὲ τὰ τῶν δείνων, πολλοῦ γε καὶ δεῖ, ἀλλ᾽ ἃ τῇ παρ᾽ ἐκείνοις πολιτείᾳ συμφέρει, ταῦτ᾽ ἐπαινεῖν ἀνάγκη [καὶ ποιεῖν]. εἶτα καὶ Λακεδαιμόνιοι τῶν μὲν τοιούτων ἀφεστᾶσιν, ἄλλαι δέ τινες παρ᾽ ἐκείνοις εἰσὶ τιμαί, ἃς ἀπεύξαιτ᾽ ἂν ἅπας ὁ δῆμος ἐνταυθοῖ γενέσθαι. τίνες οὖν εἰσιν αὗται; [107] τὰς μὲν καθ᾽ ἕκαστον ἐάσω, μίαν δ᾽, ἣ συλλαβοῦσα τὰς ἄλλας ἔχει, δίειμι. ἐπειδάν τις εἰς τὴν καλουμένην γερουσίαν ἐγκριθῇ παρασχὼν αὑτὸν οἷον χρή, δεσπότης ἐστὶ τῶν πολλῶν. ἐκεῖ μὲν γάρ ἐστι τῆς ἀρετῆς ἆθλον τῆς πολιτείας κυρίῳ γενέσθαι μετὰ τῶν ὁμοίων, παρὰ δ᾽ ἡμῖν ταύτης μὲν ὁ δῆμος κύριος, καὶ ἀραὶ καὶ νόμοι καὶ φυλακαὶ ὅπως μηδεὶς ἄλλος κύριος γενήσεται, στέφανοι δὲ καὶ ἀτέλειαι καὶ σιτήσεις καὶ τοιαῦτα ἐστίν, ὧν ἄν τις ἀνὴρ ἀγαθὸς ὢν τύχοι. [108] καὶ ταῦτ᾽ ἀμφότερ᾽ ὀρθῶς ἔχει, καὶ τἀκεῖ καὶ τὰ παρ᾽ ἡμῖν. διὰ τί; ὅτι τὰς μὲν διὰ τῶν ὀλίγων πολιτείας τὸ πάντας ἔχειν ἴσον ἀλλήλοις τοὺς τῶν κοινῶν κυρίους ὁμονοεῖν ποιεῖ, τὴν δὲ τῶν δήμων ἐλευθερίαν ἡ τῶν ἀγαθῶν ἀνδρῶν ἅμιλλα, ἣν ἐπὶ ταῖς παρὰ τοῦ δήμου δωρεαῖς πρὸς ἑαυτοὺς ποιοῦνται, φυλάττει.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[103] Ma visto che tu hai proposto l’esatto contrario, che il popolo non possa donare a nessuno niente di ciò che possiede, come potrà uno affermare che hai letto le leggi di Solone e le hai capite? Tu privi il popolo dei suoi benefattori avvisandoli e mostrando loro che non ci sarà più alcuna ricompensa per chi si comporterà con benevolenza nei suoi confronti. [104] C’è poi un’altra legge ancora di Solone, considerata tra le migliori, che proibisce di parlar male di un morto, neppure se uno sente personalmente i suoi stessi figli parlarne male. Tu fai del male ai benefattori morti, non ti limiti a parlarne male, quando accusi il tale e affermi che il talaltro è indegno delle sue ricompense, accuse che non si meritano. Sei molto lontano dallo spirito di Solone! [105] Ora, mi è stato riportato con la massima serietà che sull’argomento di non dare niente a nessuno, neppure se ha fatto qualcosa di buono, i miei avversari sono pronti a fare un discorso di questo genere: gli Spartani, che hanno una buona costituzione, e i Tebani, non danno simili onori a nessuno dei loro; e ciononostante anche tra loro ci sono con tutta probabilità uomini valorosi. A me pare che discorsi del genere, Ateniesi, abbiano il fine specifico di convincervi a togliere le esenzioni, ma non siano per nulla giusti. Perché certo non ignoro che non abbiamo le stesse leggi e gli stessi costumi dei Tebani e degli Spartani, né la stessa costituzione. [106] E infatti, per cominciare, quello che i miei avversari faranno se useranno queste argomentazioni, lodare cioè le usanze degli Ateniesi o di qualche altra città, non lo si può fare a Sparta, no di certo! È invece obbligatorio lodare soltanto ciò che è utile alla loro comunità. E inoltre gli Spartani, è vero, si guardano bene dall’accordare questo genere di onori, ma hanno onori diversi, che il popolo qui da noi unanimemente deprecherebbe. Quali sono? [107] Eviterò di elencarli uno per uno e mi occuperò di un solo onore che li riassume tutti. Ogniqualvolta un uomo, dopo aver dimostrato di possedere i requisiti necessari, è ammesso nel cosiddetto Consiglio degli Anziani, diventa signore assoluto delle masse. Questo è il premio per il valore, essere signore della comunità insieme a pochi eguali, mentre da noi il popolo è signore della comunità, ed esistono maledizioni, leggi e controlli affinché nessun altro ne diventi signore. Se poi qualcuno si dimostra valoroso ci sono le corone, le esenzioni, i seggi nel Pritaneo e altre simili ricompense. [108] Entrambi questi sistemi sono corretti, tanto il nostro quanto il loro. Perché? Perché l’eguaglianza tra tutti coloro che sono signori della comunità rende i regimi oligarchici concordi, mentre la competizione tra i cittadini valorosi, che si sviluppa per il desiderio delle ricompense accordate dal popolo, custodisce la libertà nelle democrazie.

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[109] καὶ μὴν περὶ τοῦ γε μηδὲ Θηβαίους μηδένα τιμᾶν, ἐκεῖν᾽ ἂν ἔχειν εἰπεῖν ἀληθὲς οἴομαι. μεῖζον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, Θηβαῖοι φρονοῦσιν ἐπ᾽ ὠμότητι καὶ πονηρίᾳ ἢ ὑμεῖς ἐπὶ φιλανθρωπίᾳ καὶ τῷ τὰ δίκαια βούλεσθαι. μήτ᾽ οὖν ἐκεῖνοί ποτε παύσαιντο, εἰ ἄρ᾽ εὔξασθαι δεῖ, τοὺς μὲν ἑαυτοὺς ἀγαθόν τι ποιοῦντας μήτε τιμῶντες μήτε θαυμάζοντες, τοὺς δὲ συγγενεῖς (ἴστε γὰρ ὃν τρόπον Ὀρχομενὸν διέθηκαν) οὕτω μεταχειριζόμενοι, μήθ᾽ ὑμεῖς τἀναντία τούτοις τοὺς μὲν εὐεργέτας τιμῶντες, παρὰ δὲ τῶν πολιτῶν λόγῳ μετὰ τῶν νόμων τὰ δίκαια λαμβάνοντες. [110] ὅλως δ᾽ οἶμαι τότε δεῖν τοὺς ἑτέρων ἐπαινεῖν τρόπους καὶ ἔθη τοῖς ὑμετέροις ἐπιτιμῶντας, ὅταν ᾖ δεῖξαι βέλτιον ἐκείνους πράττοντας ὑμῶν. ὅτε δ᾽ ὑμεῖς, καλῶς ποιοῦντες, καὶ κατὰ τὰς κοινὰς πράξεις καὶ κατὰ τὴν ὁμόνοιαν καὶ κατὰ τἄλλα πάντα ἄμεινον ἐκείνων πράττετε, τοῦ χάριν ἂν τῶν ὑμετέρων αὐτῶν ἐθῶν ὀλιγωροῦντες ἐκεῖνα διώκοιτε; εἰ γὰρ καὶ κατὰ τὸν λογισμὸν ἐκεῖνα φανείη βελτίω, τῆς γε τύχης ἕνεκα ᾗ παρὰ ταῦτ᾽ ἀγαθῇ κέχρησθε, ἐπὶ τούτων ἄξιον μεῖναι. [111] εἰ δὲ δεῖ παρὰ πάντα ταῦτ᾽ εἰπεῖν ὃ δίκαιον ἡγοῦμαι, ἐκεῖν᾽ ἂν ἔγωγ᾽ εἴποιμι. οὐκ ἔστι δίκαιον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοὺς Λακεδαιμονίων νόμους οὐδὲ τοὺς Θηβαίων λέγειν ἐπὶ τῷ τοὺς ἐνθάδε λυμαίνεσθαι, οὐδὲ δι᾽ ὧν μὲν ἐκεῖνοι μεγάλοι ταῖς ὀλιγαρχίαις καὶ δεσποτείαις εἰσί, κἂν ἀποκτεῖναι βούλεσθαι τὸν παρ᾽ ἡμῖν τούτων τι κατασκευάσαντα, διὰ δ᾽ ὧν ὁ παρ᾽ ἡμῖν δῆμος εὐδαίμων, ταῦθ᾽ ὡς ἀνελεῖν δεῖ λεγόντων τινῶν ἐθέλειν ἀκούειν. [112] ἔστι τοίνυν τις πρόχειρος λόγος, ὡς ἄρα καὶ παρ᾽ ἡμῖν ἐπὶ τῶν προγόνων πόλλ᾽ ἀγάθ᾽ εἰργασμένοι τινὲς οὐδενὸς ἠξιοῦντο τοιούτου, ἀλλ᾽ ἀγαπητῶς ἐπιγράμματος ἐν τοῖς Ἑρμαῖς ἔτυχον· καὶ ἴσως τοῦθ᾽ ὑμῖν ἀναγνώσεται τὸ ἐπίγραμμα. ἐγὼ δ᾽ ἡγοῦμαι τοῦτον τὸν λόγον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, κατὰ πόλλ᾽ ἀσύμφορον εἶναι τῇ πόλει λέγεσθαι, πρὸς δὲ καὶ οὐδὲ δίκαιον. [113] εἰ μὲν γὰρ ἀναξίους εἶναί τις φήσει κἀκείνους τιμᾶσθαι, τίς ἄξιος, εἰπάτω, εἰ μήτε τῶν προτέρων μηδεὶς μήτε τῶν ὑστέρων· εἰ δὲ μηδένα φήσει, συναχθεσθείην ἂν ἔγωγε τῇ πόλει, εἰ μηδεὶς ἐν ἅπαντι τῷ χρόνῳ γέγονεν ἄξιος εὖ παθεῖν. καὶ μὴν εἴ γ᾽ ὁμολογῶν ἐκείνους εἶναι σπουδαίους μὴ τετυχηκότας δείξει μηδενός, τῆς πόλεως ὡς ἀχαρίστου δήπου κατηγορεῖ. ἔστι δ᾽ οὐχ οὕτω ταῦτ᾽ ἔχοντα, οὐδ᾽ ὀλίγου δεῖ· ἀλλ᾽ ἐπειδάν τις οἶμαι κακουργῶν ἐπὶ μὴ προσήκοντα πράγματα τοὺς λόγους μεταφέρῃ, δυσχερεῖς ἀνάγκη φαίνεσθαι.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[109] Quanto poi al fatto che neppure i Tebani tributino onori a nessuno, sono convinto, Ateniesi, di dire il vero quando affermo che sono più orgogliosi i Tebani della loro durezza e malvagità che voi della vostra umanità e della vostra giustizia. E dunque, se posso pronunciare una preghiera, possano i Tebani non smettere mai di negare onori e disprezzare i loro benefattori. D’altronde si comportano in questo modo anche con i consanguinei (sapete bene come si sono comportati ad Orcomeno). E voi al contrario non cessate di onorare i vostri benefattori, ottenendo dai vostri concittadini ciò che è giusto con la persuasione e secondo le leggi. [110] Insomma, sono convinto che si debbano lodare gli usi e i costumi degli altri e criticare i vostri solo quando si può dimostrare che gli altri hanno più successo di voi. Ma visto che grazie al cielo voi sia nei pubblici affari sia quanto a concordia interna sia sotto ogni altro aspetto siete più prosperi di loro, per quale ragione dovreste sminuire i vostri costumi e seguire i loro? Perché se anche in astratto i loro costumi vi sembrassero migliori, varrebbe comunque la pena di tenervi i vostri in considerazione della buona sorte che vi è sempre toccata seguendoli. [111] Se poi, a parte tutte queste considerazioni, devo dire ciò che ritengo giusto, dirò questo: non è giusto, Ateniesi, citare le leggi spartane e quelle tebane per infangare le nostre, né che vogliate uccidere chi da noi cerchi di introdurre le istituzioni che rendono grandi quei popoli nelle oligarchie e nelle tirannie, salvo poi essere disposti a prestare orecchio a chi afferma che bisogna distruggere le istituzioni dalle quali dipende la prosperità del nostro popolo. [112] C’è poi un altro argomento a portata di mano: anche da noi, ai tempi dei nostri antenati, alcuni individui prestarono molti servizi alla città ma non chiesero nulla del genere in cambio. Si accontentavano invece con piacere di una iscrizione nel portico di Ermes; e magari vi si leggerà questa iscrizione. Secondo me, Ateniesi, fare questo discorso è da molti punti di vista dannoso per la città, e per di più è ingiusto. [113] Perché se Leptine sosterrà che anche questi individui erano indegni di essere onorati, ci dica per favore chi ne è degno, se non se ne trova uno né allora né oggi! E se sosterrà che nessuno ne è degno, beh, a quel punto proverei pena per la città, se nessuno in tutta la sua storia è stato degno di ricevere una ricompensa. Se d’altro canto ammetterà che quegli uomini furono valorosi, ma mostrerà che non ricevettero alcuna ricompensa, allora di certo starà accusando la città di ingratitudine. Ma le cose non stanno in questo modo, tutt’altro: secondo me al contrario quando mentendo si applicano argomentazioni distorte a una realtà che non vi si accorda, è gioco forza che queste argomentazioni appaiano capziose.

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[114] ὡς δὲ τἀληθές τ᾽ ἔχει καὶ δίκαιόν ἐστι λέγειν, ἐγὼ πρὸς ὑμᾶς ἐρῶ. ἦσαν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, πολλοὶ τῶν πρότερον σπουδαῖοι, καὶ ἡ πόλις ἡμῶν ἐτίμα καὶ τότε τοὺς ἀγαθούς· αἱ μέντοι τιμαὶ καὶ τἄλλα πάντα τὰ μὲν τότ᾽ ἦν ἐπὶ τοῖς τότ᾽ ἔθεσιν, τὰ δὲ νῦν ἐπὶ τοῖς νῦν. πρὸς οὖν τί τοῦτο λέγω; ὅτι φήσαιμ᾽ ἂν ἔγωγ᾽ ἐκείνους οὐκ ἔστιν ὅτου παρὰ τῆς πόλεως οὐ τυχεῖν ὧν ἐβουλήθησαν. [115] τίνι χρώμενος τεκμηρίῳ; ὅτι Λυσιμάχῳ δωρεάν, ἑνὶ τῶν τότε χρησίμων, ἑκατὸν μὲν ἐν Εὐβοίᾳ πλέθρα γῆς πεφυτευμένης ἔδοσαν, ἑκατὸν δὲ ψιλῆς, ἔτι δ᾽ ἀργυρίου μνᾶς ἑκατόν, καὶ τέτταρας τῆς ἡμέρας δραχμάς. καὶ τούτων ψήφισμά ἐστιν Ἀλκιβιάδου, ἐν ᾧ ταῦτα γέγραπται. τότε μὲν γὰρ ἡ πόλις ἡμῶν καὶ γῆς ηὐπόρει καὶ χρημάτων, νῦν δ᾽ εὐπορήσει· δεῖ γὰρ οὕτω λέγειν καὶ μὴ βλασφημεῖν. καίτοι τίν᾽ οὐκ ἂν οἴεσθε νῦν τὸ τρίτον μέρος τούτων ἀντὶ τῆς ἀτελείας ἑλέσθαι; ὅτι τοίνυν ἀληθῆ λέγω, λαβέ μοι τὸ ψήφισμα τουτί.

ΨΗΦΙΣΜΑ [116] ὅτι μὲν τοίνυν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, καὶ τοῖς προγόνοις ὑμῶν ἔθος ἦν τοὺς χρηστοὺς τιμᾶν, δηλοῖ τὸ ψήφισμα τουτί· εἰ δὲ μὴ τοῖς αὐτοῖς οἷσπερ ἡμεῖς νῦν, ἕτερόν τι τοῦτ᾽ ἂν εἴη. εἰ τοίνυν μήτε Λυσίμαχον μήτ᾽ ἄλλον μηδένα μηδὲν εὑρῆσθαι παρὰ τῶν προγόνων ἡμῶν συγχωρήσαιμεν, τί μᾶλλον, οἷς ἔδομεν νῦν ἡμεῖς, διὰ τοῦτο δικαίως ἂν ἀφαιρεθεῖεν; [117] οὐ γὰρ οἱ μὴ δόντες ἃ μὴ ‘δόκει δεινόν εἰσιν οὐδὲν εἰργασμένοι, ἀλλ᾽ οἱ δόντες μέν, πάλιν δ᾽ ὕστερον μηδὲν ἐγκαλοῦντες ἀφαιρούμενοι. εἰ μὲν γάρ τις ἔχει δεῖξαι κἀκείνους ὧν ἔδοσάν τῴ τι, τοῦτ᾽ ἀφῃρημένους, συγχωρῶ καὶ ὑμᾶς ταὐτὸ τοῦτο ποιῆσαι, καίτοι τοῦτό γ᾽ αἰσχρὸν ὁμοίως· εἰ δὲ μηδ᾽ ἂν εἷς ἐν ἅπαντι τῷ χρόνῳ τοῦτ᾽ ἔχοι δεῖξαι γεγονός, τίνος εἵνεκ᾽ ἐφ᾽ ἡμῶν πρώτων καταδειχθῇ τοιοῦτον ἔργον; [118] χρὴ τοίνυν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, κἀκεῖν᾽ ἐνθυμεῖσθαι καὶ ὁρᾶν, ὅτι νῦν ὀμωμοκότες κατὰ τοὺς νόμους δικάσειν ἥκετε, οὐχὶ τοὺς Λακεδαιμονίων οὐδὲ Θηβαίων, οὐδ᾽ οἷς ποτ᾽ ἐχρήσανθ᾽ οἱ πρῶτοι τῶν προγόνων, ἀλλὰ καθ᾽ οὓς ἔλαβον τὰς ἀτελείας οὓς ἀφαιρεῖται νῦν οὗτος τῷ νόμῳ, καὶ περὶ ὧν ἂν νόμοι μὴ ὦσι, γνώμῃ τῇ δικαιοτάτῃ κρινεῖν. καλῶς. τὸ τοίνυν τῆς γνώμης πρὸς ἅπαντ᾽ ἀνενέγκατε τὸν νόμον.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[114] Io vi spiegherò come stanno le cose, dicendo il vero e parlando secondo giustizia. C’erano molti uomini eccellenti tra i nostri antenati, Ateniesi, e la nostra città anche allora onorava i valorosi. E tuttavia gli onori, come ogni altra cosa all’epoca, riflettevano i costumi di allora, mentre quelli attuali riflettono i costumi di oggi. Perché sto dicendo questo? Perché potrei affermare che non c’era nulla che questi uomini non potessero ottenere dalla città se lo desideravano. [115] Che prove ho? A Lisimaco, uno di quelli che all’epoca si resero utili, diedero in dono cento pletri di terra coltivata in Eubea, cento di terra spoglia e ancora cento mine di argento e quattro dracme al giorno. E queste ricompense sono in un decreto di Alcibiade, che le elenca tutte. Perché all’epoca la nostra città era ricca di terre e ricchezze, e tale ritornerà ora (questo bisogna dire, e non parlar male della città). Chi, secondo voi, non sceglierebbe oggi la terza parte di queste ricompense al posto dell’esenzione? Per dimostrare dunque che dico il vero, prendimi questo decreto.

DECRETO [116] Ebbene, Ateniesi, questo decreto è prova che anche i nostri antenati usavano onorare le persone per bene: se le modalità non erano le stesse che seguiamo oggi, questa è un’altra questione. Ora, se anche ammettessimo che Lisimaco e gli altri non ricevettero nulla dai nostri antenati, e allora? Sarebbe giusto per questa ragione privare delle loro ricompense chi è stato ricompensato al giorno d’oggi? [117] Coloro infatti che non diedero ricompense che ritenevano non fosse il caso di dare non hanno fatto nulla di terribile, al contrario di chi prima accorda una ricompensa e poi, senza avere alcuna rimostranza, la abolisce. Se infatti mi si potesse dimostrare che anche i nostri antenati tolsero qualcosa di ciò che avevano elargito, allora acconsentirei che anche voi facciate lo stesso, nonostante questa sia comunque un’azione vergognosa. Ma se nessuno può dimostrarmi che questo sia mai accaduto in tutta la nostra storia, perché una pratica del genere dovrebbe apparire per la prima volta ai giorni nostri? [118] Bisogna che teniate a mente e consideriate anche questo: siete giunti qui, dopo aver prestato giuramento, per giudicare secondo le leggi, non le leggi degli Spartani né dei Tebani, e neppure secondo quelle che utilizzavano i più antichi tra i vostri antenati, ma quelle attraverso le quali ricevettero le esenzioni coloro a cui oggi Leptine le toglie con la sua legge; e su questioni non coperte dalle leggi avete giurato di decidere con il vostro miglior giudizio. Applicate dunque questo tipo di giudizio alla legge in questione in tutto e per tutto.

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[119] ἆρ᾽ οὖν δίκαιον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοὺς εὐεργέτας τιμᾶν; δίκαιον. τί δέ; ὅσ᾽ ἂν δῷ τις ἅπαξ, δίκαιον ἔχειν ἐᾶν; δίκαιον. ταῦτα τοίνυν αὐτοί τε ποιεῖτε, ἵν᾽ εὐορκῆτε, καὶ τοὺς προγόνους ὀργίζεσθε ἂν μή τις φῇ ποιεῖν, καὶ τοὺς τὰ τοιαῦτα λέγοντας παραδείγματα, ὡς ἄρ᾽ ἐκεῖνοι μεγάλα εὖ παθόντες οὐδέν᾽ ἐτίμησαν, καὶ πονηροὺς καὶ ἀπαιδεύτους ἡγεῖσθ᾽ εἶναι, πονηροὺς μὲν διότι καταψεύδονται τῶν προγόνων ὑμῶν ὡς ἀχαρίστων, ἀμαθεῖς δὲ διότι ἐκεῖνο ἀγνοοῦσιν, ὅτι εἰ τὰ μάλιστα ταῦθ᾽ οὕτως εἶχεν, ἀρνεῖσθαι μᾶλλον ἢ λέγειν αὐτοῖς προσῆκεν. [120] οἴομαι τοίνυν καὶ τοῦτον τὸν λόγον Λεπτίνην ἐρεῖν, ὡς τὰς εἰκόνας καὶ τὴν σίτησιν οὐκ ἀφαιρεῖται τῶν εἰληφότων ὁ νόμος, οὐδὲ τῆς πόλεως τὸ τιμᾶν τοὺς ὄντας ἀξίους, ἀλλ᾽ ἔσται χαλκοῦς ἱστάναι καὶ σίτησιν διδόναι καὶ ἄλλο ὅ τι ἂν βούλησθε, πλὴν τούτου. ἐγὼ δ᾽ ὑπὲρ ὧν μὲν τῇ πόλει καταλείπειν φήσει, τοσοῦτο λέγω· ὅταν ὧν ἐδώκατέ τῳ πρότερόν τι, τοῦτ᾽ ἀφέλησθε, καὶ τὰς ὑπολοίπους ἀπίστους ποιήσετε πάσας δωρεάς. τί γὰρ ἔσται πιστότερον τὸ τῆς εἰκόνος καὶ τῆς σιτήσεως ἢ τὸ τῆς ἀτελείας, ἣν πρότερόν τισι δόντες ἀφῃρημένοι φανεῖσθε; [121] ἔτι δ᾽ εἰ μηδὲν ἔμελλε τοῦτ᾽ ἔσεσθαι δυσχερές, οὐδ᾽ ἐκεῖνο καλῶς ἔχειν ἡγοῦμαι, εἰς τοιαύτην ἄγειν ἀνάγκην τὴν πόλιν δι᾽ ἧς ἅπαντας ἐξ ἴσου τῶν αὐτῶν ἀξιώσει τοῖς τὰ μέγιστ᾽ εὐεργετοῦσιν, ἢ μὴ τοῦτο ποιοῦσα χάριν τισὶν οὐκ ἀποδώσει. μεγάλων μὲν οὖν εὐεργεσιῶν οὔθ᾽ ῆμῖν συμφέρει συμβαίνειν πολλάκις καιρόν, οὔτ᾽ ἴσως ῥᾴδιον αἰτίῳ γενέσθαι· [122] μετρίων δὲ καὶ ὧν ἐν εἰρήνῃ τις καὶ πολιτείᾳ δύναιτ᾽ ἂν ἐφικέσθαι, εὐνοίας, δικαιοσύνης, ἐπιμελείας, τῶν τοιούτων, καὶ συμφέρειν ἔμοιγε δοκεῖ καὶ χρῆναι διδόναι τὰς τιμάς. δεῖ τοίνυν μεμερίσθαι καὶ τὰ τῶν δωρεῶν, ἵν᾽ ἧς ἂν ἄξιος ὢν ἕκαστος φαίνηται, ταύτην παρὰ τοῦ δήμου λαμβάνῃ τὴν δωρεάν. [123] ἀλλὰ μὴν ὑπὲρ ὧν γε τοῖς εὑρημένοις τὰς τιμὰς καταλείπειν φήσει, οἱ μὲν ἁπλᾶ πάνυ καὶ δίκαι᾽ ἂν εἴποιεν, πάνθ᾽ ὅσα τῶν αὐτῶν ἕνεκ᾽ αὐτοῖς ἔδοτ᾽ εὐεργεσιῶν ἀξιοῦντες ἔχειν, οἱ δὲ φενακίζειν τὸν ὡς καταλείπεται λέγοντά τι αὐτοῖς. ὁ γὰρ ἄξια τῆς ἀτελείας εὖ πεποιηκέναι δόξας καὶ ταύτην παρ᾽ ὑμῶν λαβὼν τὴν τιμὴν μόνην, ἢ ξένος ἢ καί τις πολίτης, ἐπειδὰν ἀφαιρεθῇ ταύτην, τίν᾽ ἔχει λοιπὴν δωρεάν, Λεπτίνη; οὐδεμίαν δήπου. μὴ τοίνυν διὰ μὲν τοῦ τῶνδε κατηγορεῖν ὡς φαύλων ἐκείνους ἀφαιροῦ, δι᾽ ἃ δ᾽ αὖ καταλείπειν ἐκείνοις φήσεις, τούσδε ὃ μόνον λαβόντες ἔχουσι, τοῦτ᾽ ἀφέλῃ.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[119] È giusto, Ateniesi, onorare i benefattori? È giusto. E poi? È giusto che si permetta che uno conservi qualcosa una volta che gli è stato elargito? È giusto. Agite dunque di conseguenza per rispettare il giuramento, e adiratevi se qualcuno sostiene che i vostri antenati si comportavano diversamente. E ritenete malvagio e ignorante chi porta esempi di casi in cui i vostri antenati, pur ricevendo grandi benefici, non accordarono alcun onore: malvagio perché mente dipingendo i vostri antenati come ingrati, ignorante perché non si rende conto che, se le cose stessero davvero in questo modo, bisognerebbe negarlo piuttosto che affermarlo. [120] Credo poi che Leptine userà anche questo argomento: che la legge non toglierà le statue e i seggi al Pritaneo a chi li ha ricevuti, né toglierà alla città il potere di onorare chi ne è degno. Al contrario, si potranno innalzare statue di bronzo e assegnare seggi al Pritaneo e qualunque altro onore si voglia, eccetto l’esenzione. Sui poteri che affermerà di aver lasciato alla città, io dico questo: nel momento in cui toglierete qualcosa di ciò che avete elargito in precedenza, renderete malsicure anche tutte le altre ricompense. Che cosa ci sarà infatti di più credibile nella ricompensa di una statua o di un seggio nel Pritaneo rispetto all’esenzione, che avrete chiaramente tolto a coloro a cui l’avevate accordata? [121] Ma se anche questa difficoltà non si concretizzasse, non credo che sia bene condurre la città a un punto tale da dover necessariamente trattare tutti come se fossero degni delle stesse ricompense, quelle che spetterebbero ai più grandi benefattori, o in alternativa, se non si vuole agire in questo modo, non mostrare nessuna gratitudine verso alcuni. E in realtà, quando si tratta di grandi servizi, non è nel nostro interesse che ci sia troppo spesso occasione di riceverne, e con tutta probabilità non è nemmeno facile compierne; [122] ma i servizi ordinari, quelli che ci si può porre come obiettivo in tempo di pace e di stabilità costituzionale – lealtà, onestà, zelo e simili virtù – credo siano importanti e che debbano essere ricompensati. È necessario quindi che anche le ricompense siano divise in modo tale che ciascuno riceva dal popolo il tipo di ricompensa di cui si è mostrato senza dubbio degno. [123] Quanto poi alle ricompense che sosterrà di lasciare a chi ha ricevuto degli onori, alcuni potranno molto semplicemente e giustamente rispondere che meritano di conservare tutto quello che è stato loro accordato a ringraziamento dei loro servizi, e altri che li sta prendendo in giro se sostiene di lasciar loro qualcosa. Ci sono infatti individui, stranieri o anche cittadini, che hanno servito la città in modi che sono stati giudicati degni dell’esenzione soltanto, e hanno ricevuto da voi soltanto questo onore. Quando gli si toglie questa ricompensa, cosa rimane per loro, Leptine? Nulla! Per questo, non togliere loro l’esenzione soltanto perché accusi altri di essere persone dappoco, e non privare della loro ricompensa chi ha soltanto questa per via di quanto sosterrai di lasciare ad altri!

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[124] ὡς δ᾽ ἁπλῶς εἰπεῖν, οὐκ, εἰ τῶν πάντων ἀδικήσομέν τινα μείζονα ἢ ἐλάττονα, δεινόν ἐστιν, ἀλλ᾽ εἰ τὰς τιμάς, αἷς ἂν ἀντ᾽ εὖ ποιήσωμέν τινας, ἀπίστους καταστήσομεν· οὐδ᾽ ὁ πλεῖστος ἔμοιγε λόγος περὶ τῆς ἀτελείας ἐστίν, ἀλλ᾽ ὑπὲρ τοῦ πονηρὸν ἔθος τὸν νόμον εἰσάγειν καὶ τοιοῦτον δι᾽ οὗ πάντ᾽ ἄπιστα ὅσ᾽ ὁ δῆμος δίδωσιν ἔσται. [125] ὃν τοίνυν κακουργότατον οἴονται λόγον εὑρηκέναι πρὸς τὸ τὰς ἀτελείας ὑμᾶς ἀφελέσθαι πεῖσαι, βέλτιόν ἐστι προειπεῖν, ἵνα μὴ λάθητ᾽ ἐξαπατηθέντες. ἐροῦσιν ὅτι ταῦθ᾽ ἱερῶν ἐστιν ἅπαντα τἀναλώματα [αἱ χορηγίαι καὶ αἱ γυμνασιαρχίαι]· δεινὸν οὖν, εἰ τῶν ἱερῶν ἀτελής τις ἀφεθήσεται. ἐγὼ δὲ τὸ μέν τινας, οἷς ὁ δῆμος ἔδωκεν, ἀτελεῖς εἶναι τούτων δίκαιον ἡγοῦμαι, ὃ δὲ νῦν οὗτοι ποιήσουσιν, ἐὰν ἄρα ταῦτα λέγωσι, τοῦτ᾽ εἶναι δεινὸν νομίζω. [126] εἰ γὰρ ἃ [κατὰ] μηδέν᾽ ἄλλον ἔχουσι τρόπον δεῖξαι δίκαιον ὑμᾶς ἀφελέσθαι, ταῦτ᾽ ἐπὶ τῷ τῶν θεῶν ὀνόματι ποιεῖν ζητήσουσιν, πῶς οὐκ ἀσεβέστατον ἔργον καὶ δεινότατον πράξουσιν; χρὴ γάρ, ὡς γοῦν ἐμοὶ δοκεῖ, ὅσα τις πράττει τοὺς θεοὺς ἐπιφημίζων, τοιαῦτα φαίνεσθαι οἷα μηδ᾽ ἂν ἐπ᾽ ἀνθρώπου πραχθέντα πονηρὰ φανείη. ὅτι δ᾽ οὐκ ἔστι ταὐτὸν ἱερῶν ἀτέλειαν ἔχειν καὶ λειτουργιῶν, ἀλλ᾽ οὗτοι τὸ τῶν λειτουργιῶν ὄνομ᾽ ἐπὶ τὸ τῶν ἱερῶν μεταφέροντες ἐξαπατᾶν ζητοῦσι, Λεπτίνην ὑμῖν αὐτὸν ἐγὼ παρασχήσομαι μάρτυρα. [127] γράφων γὰρ ἀρχὴν τοῦ νόμου “Λεπτίνης εἶπεν” φησίν, “ὅπως ἂν οἱ πλουσιώτατοι λειτουργῶσιν, ἀτελῆ μηδένα εἶναι πλὴν τῶν ἀφ᾽ Ἁρμοδίου καὶ Ἀριστογείτονος”. καίτοι εἰ ἦν ἱερῶν ἀτέλειαν ἔχειν ταὐτὸ καὶ λειτουργιῶν, τί τοῦτο μαθὼν προσέγραψεν; οὐδὲ γὰρ τούτοις ἀτέλεια τῶν γ᾽ ἱερῶν ἐστιν δεδομένη. ἵνα δ᾽ εἰδῆτε ὅτι ταῦτα τοῦτον ἔχει τὸν τρόπον, λαβέ μοι πρῶτον μὲν τῆς στήλης τὰ ἀντίγραφα, εἶτα τὴν ἀρχὴν τοῦ νόμου τοῦ Λεπτίνου. λέγε.

ἈΝΤΙΓΡΑΦΑ ΣΤΗΛΗΣ [128] ἀκούετε τῶν ἀντιγράφων τῆς στήλης, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, ἀτελεῖς αὐτοὺς εἶναι κελευόντων πλὴν ἱερῶν. λέγε δὴ τὴν ἀρχὴν τοῦ νόμου τοῦ Λεπτίνου.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[124] Per essere chiari, non è trattare ingiustamente alcuni, che siano persone importanti o meno, che è terribile, ma rendere inaffidabili gli onori che accordiamo in cambio dei servizi che ci vengono resi; né il tema principale del mio discorso è l’esenzione, ma il fatto che la legge introduce un costume meschino per colpa del quale le ricompense accordate dal popolo verranno considerate inaffidabili. [125] Passerò ora all’argomentazione più criminale che costoro pensano di aver trovato per persuadervi ad annullare le esenzioni. È meglio che ne parli in anticipo, affinché non vi lasciate ingannare senza rendervene conto. Sosterranno che tutti questi pagamenti [le coregie e le ginnasiarchie] siano per le spese sacrali, e che sarebbe dunque terribile se qualcuno fosse esentato dalle spese sacrali. Personalmente io penso che sia giusto che alcuni, quelli a cui il popolo l’ha concesso, siano esenti da queste spese. Quello che ritengo davvero terribile è ciò che faranno ora questi individui, se useranno questo genere di argomenti. [126] Perché se non riescono a dimostrare in nessun altro modo che sia giusto togliere questa esenzione, e cercano quindi di abolirla nel nome degli dei, non è forse questa un’azione empia e terribile? Secondo me, infatti, quando si fa qualcosa e lo si attribuisce agli dei, bisogna agli occhi di tutti agire in modo tale che le proprie azioni non appaiano meschine neppure se sono compiute per conto di un uomo. Del fatto che un’esenzione dalle spese cultuali e un’esenzione dalle liturgie non siano la stessa cosa, e che al contrario i miei avversari stiano cercando di ingannarvi sostituendo “spese cultuali” alla parola “liturgie”, vi porterò a testimone Leptine stesso. [127] Scrivendolo al principio della sua legge, Leptine dichiara: “Leptine ha proposto: affinché i più ricchi si accollino le liturgie, nessuno sia esente eccetto i discendenti di Armodio e Aristogitone”. Ebbene, se avere un’esenzione dalle liturgie fosse la stessa cosa che averne una dalle spese cultuali, perché avrebbe aggiunto questa frase? Neppure ai discendenti di Armodio e Aristogitone è infatti stata accordata l’esenzione dalle spese cultuali. Perché vi rendiate conto che le cose stanno proprio così, prendimi prima di tutto la copia della stele, poi il principio della legge di Leptine.

COPIA DELLA STELE [128] Avete ascoltato la copia della stele, Ateniesi, che prescrive che costoro siano esenti da tutto eccetto le spese cultuali. Leggi ora l’inizio della legge di Leptine.

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ΔΗΜΟΣΘΕΝΟΥΣ  ΠΡΟΣ ΛΕΠΤΙΝΗΝ ΠΕΡΙ ΤΗΣ ΑΤΕΛΕΙΑΣ

ΝΟΜΟΣ καλῶς· κατάθες. γράψας “ὅπως ἂν οἱ πλουσιώτατοι λειτουργῶσι», «μηδέν᾽ εἶναι ἀτελῆ» προσέγραψεν «πλὴν τῶν ἀφ᾽ Ἁρμοδίου καὶ Ἀριστογείτονος». τίνος εἵνεκα, εἴ γε τὸ τῶν ἱερῶν τέλος ἐστὶ λειτουργεῖν; αὐτὸς γὰρ οὑτωσὶ τἀναντία τῇ στήλῃ γεγραφώς, ἂν τοῦτο λέγῃ, φανήσεται. [129] ἡδέως δ᾽ ἂν ἔγωγ᾽ ἐροίμην Λεπτίνην· τίνος αὐτοῖς τὴν ἀτέλειαν ἢ σὺ νῦν καταλείπειν φήσεις ἢ ἐκείνους τότε δοῦναι, τὰς λειτουργίας ὅταν εἶναι φῇς ἱερῶν; τῶν μὲν γὰρ εἰς τὸν πόλεμον πασῶν εἰσφορῶν καὶ τριηραρχιῶν ἐκ τῶν παλαιῶν νόμων οὐκ εἰσὶν ἀτελεῖς· τῶν δὲ λειτουργιῶν, εἴπερ εἰσὶν ἱερῶν, οὐδ᾽ ἔχουσιν. ἀλλὰ μὴν γέγραπταί γ᾽ ἀτελεῖς αὐτοὺς εἶναι. [130] τίνος; ἢ τοῦ μετοικίου; τοῦτο γὰρ λοιπόν. οὐ δήπου, ἀλλὰ τῶν ἐγκυκλίων λειτουργιῶν, ὡς ἥ τε στήλη δηλοῖ καὶ σὺ προσδιώρισας ἐν τῷ νόμῳ καὶ μαρτυρεῖ πᾶς ὁ πρὸ τοῦ χρόνος γεγονώς, ἐν ᾧ τοσούτῳ τὸ πλῆθος ὄντι οὔτε φυλὴ πώποτ᾽ ἐνεγκεῖν ἐτόλμησεν οὐδεμία οὐδένα τῶν ἀπ᾽ ἐκείνων χορηγόν, οὔτ᾽ ἐνεχθεὶς αὐτοῖς ἄλλος οὐδεὶς ἀντιδοῦναι. οἷς οὐκ ἀκουστέον ἂν ἐναντία τολμᾷ λέγειν. [131] ἔτι τοίνυν ἴσως ἐπισύροντες ἐροῦσιν ὡς Μεγαρεῖς καὶ Μεσσήνιοί τινες εἶναι φάσκοντες, ἔπειτ᾽ ἀτελεῖς εἰσιν, ἁθρόοι παμπληθεῖς ἄνθρωποι, καί τινες ἄλλοι δοῦλοι καὶ μαστιγίαι, Λυκίδας καὶ Διονύσιος, καὶ τοιούτους τινὰς ἐξειλεγμένοι. ὑπὲρ δὴ τούτων ὡδὶ ποιήσαθ᾽ ὅταν ταῦτα λέγωσι· κελεύετ᾽, εἴπερ ἀληθῆ λέγουσι πρὸς ὑμᾶς, τὰ ψηφίσματα ἐν οἷς ἀτελεῖς εἰσιν οὗτοι δεῖξαι. οὐ γάρ ἐστ᾽ οὐδεὶς ἀτελὴς παρ᾽ ὑμῖν ὅτῳ μὴ ψήφισμα ἢ νόμος δέδωκε τὴν ἀτέλειαν. [132] πρόξενοι μέντοι πολλοὶ διὰ τῶν πολιτευομένων γεγόνασι παρ᾽ ὑμῖν τοιοῦτοι, ὧν εἷς ἐστιν ὁ Λυκίδας. ἀλλ᾽ ἕτερον πρόξενόν ἐστ᾽ εἶναι καὶ ἀτέλειαν εὑρῆσθαι. μὴ δὴ παραγόντων ὑμᾶς, μηδ᾽, ὅτι δοῦλος ὢν ὁ Λυκίδας καὶ Διονύσιος καί τις ἴσως ἄλλος διὰ τοὺς μισθοῦ τὰ τοιαῦτα γράφοντας ἑτοίμως πρόξενοι γεγόνασι, διὰ τοῦθ᾽ ἑτέρους ἀξίους καὶ ἐλευθέρους καὶ πολλῶν ἀγαθῶν αἰτίους, ἃς ἔλαβον δικαίως παρ᾽ ὑμῶν δωρεὰς ἀφελέσθαι ζητούντων. [133] πῶς γὰρ οὐχὶ καὶ κατὰ τοῦτο δεινότατ᾽ ἂν πεπονθὼς ὁ Χαβρίας φανείη, εἰ μὴ μόνον ἐξαρκέσει τοῖς τὰ τοιαῦτα πολιτευομένοις τὸν ἐκείνου δοῦλον Λυκίδαν πρόξενον ὑμέτερον πεποιηκέναι, ἀλλ᾽ εἰ καὶ διὰ τοῦτον πάλιν τῶν ἐκείνῳ τι δοθέντων ἀφέλοιντο, καὶ ταῦτ᾽ αἰτίαν λέγοντες ψευδῆ; οὐ γάρ ἐστιν οὔθ᾽ οὗτος οὔτ᾽ ἄλλος οὐδεὶς πρόξενος ὢν ἀτελής, ὅτῳ μὴ διαρρήδην ἀτέλειαν ἔδωκεν ὁ δῆμος. τούτοις δ᾽ οὐ δέδωκεν, οὐδ᾽ ἕξουσιν οὗτοι δεικνύναι, λόγῳ δ᾽ ἂν ἀναισχυντῶσιν, οὐχὶ καλῶς ποιήσουσιν.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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LEGGE Bene, mettila via. Dopo aver scritto “affinché i più ricchi si accollino le liturgie” ha aggiunto “ nessuno sia esente eccetto i discendenti di Armodio e Aristogitone”. Perché mai, se la tassa per le spese cultuali e le liturgie sono la stessa cosa? Se sosterrà questo, infatti, sarà chiaro che ciò che ha scritto è l’opposto di quanto si trova sulla stele. [129] Porrei volentieri questa domanda a Leptine: se affermi che le liturgie fanno parte delle spese cultuali, quelle esenzioni che adesso sosterrai di lasciare ai discendenti dei tirannicidi, quelle che furono loro concesse all’epoca, sono esenzioni da cosa? Perché, secondo le antiche leggi, non sono esenti da nessuna delle imposte straordinarie per le spese di guerra, né dalle trierarchie; e non hanno neppure l’esenzione dalle liturgie, se queste fanno parte delle spese cultuali. Eppure c’è scritto che sono esenti! [130] Da cosa? Dalla tassa dei meteci? È rimasta solo questa. Ma certo che no, sono esenti dalle liturgie periodiche, come mostra la stele, e come mostri tu stesso che hai aggiunto il riferimento ai tirannicidi nella tua legge, e come testimonia quanto è accaduto fino ad ora! In tutti questi lunghi anni nessuna tribù osò mai designare come corego uno dei loro successori, e nessuno, dopo essere stato designato, osò mai chiedere lo scambio dei beni con loro. Se osa dire il contrario, non bisogna ascoltarlo. [131] E ancora, diranno poi forse cambiando discorso che alcuni sostengono di essere Megaresi e Messeni, e sono quindi esentati, un mucchio di gente, e altri sono ladri e farabutti, gente come Licida e Dionisio, e hanno scelto di parlare di individui del genere. Su questi argomenti, se diranno cose del genere, fate così: esortateli, se vi dicono la verità, a mostrarvi i decreti nei quali sono indicate le esenzioni di costoro. Perché non c’è da voi nessuno che sia esente senza che un decreto o una legge gli abbia accordato l’esenzione. [132] È vero, molti personaggi del genere, grazie ad alcuni politicanti, sono diventati vostri prosseni, e tra questi c’è Licida. Ma essere prosseno e aver ricevuto un’esenzione non sono la stessa cosa. Non lasciate che vi ingannino né, per via del fatto che Licida, Dionisio e forse altri ancora da schiavi sono diventati prosseni grazie a chi ha prontamente redatto questo genere di decreti a pagamento, che tolgano a uomini meritevoli, liberi e responsabili di molti beni per la città le ricompense che giustamente ricevettero. [133] E Cabria non subirà davvero un trattamento terribile se a politicanti di tal fatta non basterà soltanto aver nominato un suo schiavo, Licida, vostro prosseno, ma per di più Cabria venisse privato per questa ragione di uno degli onori ricevuti, e il tutto usando come motivazione una menzogna? Perché né costui né nessun altro prosseno è esente a meno che il popolo non gli accordi espressamente l’esenzione. A costoro non è stata accordata, e i difensori della legge non potranno dimostrare il contrario; e se saranno così sfrontati da affermarlo, dovrebbero vergognarsi.

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ΔΗΜΟΣΘΕΝΟΥΣ  ΠΡΟΣ ΛΕΠΤΙΝΗΝ ΠΕΡΙ ΤΗΣ ΑΤΕΛΕΙΑΣ

[134] ὃ τοίνυν μάλιστα πάντων οἶμαι δεῖν ὑμᾶς, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, φυλάξασθαι, τοῦτ᾽ εἰπεῖν ἔτι βούλομαι. εἰ γάρ τις πάνθ᾽ ὅσα Λεπτίνης ἐρεῖ περὶ τοῦ νόμου διδάσκων ὑμᾶς ὡς καλῶς κεῖται, συγχωρήσειεν ἀληθῆ λέγειν αὐτόν, ἕν γ᾽ αἰσχρὸν οὐδ᾽ ἂν εἴ τι γένοιτο ἀναιρεθείη, ὃ συμβήσεται διὰ τοῦ νόμου κυρίου γενομένου τῇ πόλει. τί οὖν τοῦτ᾽ ἔστιν; τὸ δοκεῖν ἐξηπατηκέναι τοὺς ἀγαθόν τι ποιήσαντας. [135] ὅτι μὲν τοίνυν τοῦθ᾽ ἕν τι τῶν αἰσχρῶν ἐστιν πάντας ἂν ἡγοῦμαι φῆσαι, ὅσῳ δ᾽ ὑμῖν αἴσχιον τῶν ἄλλων, ἀκούσατέ μου. ἔστιν ὑμῖν νόμος ἀρχαῖος, τῶν καλῶς δοκούντων ἔχειν, ἄν τις ὑποσχόμενός τι τὸν δῆμον ἐξαπατήσῃ, κρίνειν, κἂν ἁλῷ, θανάτῳ ζημιοῦν. εἶτ᾽ οὐκ αἰσχύνεσθ᾽, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, εἰ ἐφ᾽ ᾧ τοῖς ἄλλοις θάνατον τὴν ζημίαν ἐτάξατε, τοῦτ᾽ αὐτοὶ ποιοῦντες φανήσεσθε; καὶ μὴν πάντα μὲν εὐλαβεῖσθαι δεῖ ποιεῖν τὰ δοκοῦντα καὶ ὄντ᾽ αἰσχρά, μάλιστα δὲ ταῦτ᾽ ἐφ᾽ οἷς τοῖς ἄλλοις χαλεπῶς τις ἔχων ὁρᾶται· οὐδὲ γὰρ ἀμφισβήτησις καταλείπεται τὸ μὴ ταῦτα ποιεῖν ἃ πονηρὰ αὐτὸς ἔκρινεν εἶναι πρότερον. [136] ἔτι τοίνυν ὑμᾶς κἀκεῖνο εὐλαβεῖσθαι δεῖ, ὅπως μηδὲν ὧν ἰδίᾳ φυλάξαισθ᾽ ἄν, τοῦτο δημοσίᾳ ποιοῦντες φανήσεσθε. ὑμῶν τοίνυν οὐδ᾽ ἂν εἷς οὐδὲν ὧν ἰδίᾳ τινὶ δοίη, τοῦτ᾽ ἀφέλοιτο πάλιν, ἀλλ᾽ οὐδ᾽ ἐπιχειρήσειεν ἄν. [137] μὴ τοίνυν μηδὲ δημοσίᾳ τοῦτο ποιήσητε, ἀλλὰ κελεύετε τούτους τοὺς ἐροῦντας ὑπὲρ τοῦ νόμου, εἴ τινα τῶν εὑρημένων τὴν δωρεὰν ἀνάξιον εἶναί φασιν ἢ μὴ πεποιηκότα ἐφ᾽ οἷς εὕρετ᾽ ἔχειν, ἢ ἄλλ᾽ ὁτιοῦν ἐγκαλοῦσίν τινι, γράφεσθαι κατὰ τὸν νόμον ὃν παρεισφέρομεν νῦν ἡμεῖς, ἢ θέντων ἡμῶν, ὥσπερ ἐγγυώμεθα καὶ φαμὲν θήσειν, ἢ θέντας αὐτούς, ὅταν πρῶτον γένωνται νομοθέται. ἔστι δ᾽ ἑκάστῳ τις αὐτῶν, ὡς ἔοικεν, ἐχθρός, τῷ μὲν Διόφαντος, τῷ δ᾽ Εὔβουλος, τῷ δ᾽ ἴσως ἄλλος τις. [138] εἰ δὲ τοῦτο φεύξονται καὶ μὴ ‘θελήσουσι ποιεῖν, σκοπεῖτ᾽, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, εἰ καλῶς ὑμῖν ἔχει, ἃ τούτων ἕκαστος ὀκνεῖ τοὺς ἐχθροὺς ἀφαιρούμενος ὀφθῆναι, ταῦθ᾽ ὑμᾶς τοὺς εὐεργέτας ἀφῃρημένους φαίνεσθαι, καὶ τοὺς εὖ τι πεποιηκότας ὑμᾶς, οἷς οὐδεὶς ἂν ἐγκαλέσαι, νόμῳ τὰ δοθέντ᾽ ἀπολωλεκέναι δι᾽ ὑμῶν ἁθρόους, παρόν, εἴ τις ἄρ᾽ ἐστὶν ἀνάξιος, εἷς ἢ δύο ἢ πλείους, γραφῇ διὰ τούτων ταὐτὸ τοῦτο παθεῖν κατ᾽ ἄνδρα κριθέντας. ἐγὼ μὲν γὰρ οὐχ ὑπολαμβάνω ταῦτα καλῶς ἔχειν οὐδέ γ᾽ ἀξίως ὑμῶν.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[134] Voglio ora parlare ancora, Ateniesi, di un tema sul quale credo dobbiate tenere gli occhi particolarmente aperti. Per assurdo infatti, se anche uno volesse sostenere che tutto quanto Leptine dirà sulla sua legge per spiegarvi che va bene è la verità, non si potrebbe comunque, se succedesse qualcosa, lavare la vergogna che colpirà la città per via dell’approvazione della legge. Di cosa parlo? Della fama di ingannare i vostri benefattori. [135] Ora, sul fatto che questa sia una cosa vergognosa credo che tutti saranno d’accordo, ma ascoltatemi per capire perché è più vergognoso per noi che per gli altri popoli. Esiste presso di voi un’antica legge, di quelle che hanno una grande reputazione, che prescrive che se qualcuno inganna il popolo con le sue promesse debba essere portato in giudizio e, se è trovato colpevole, sia condannato a morte. E allora, Ateniesi, non vi vergognate di fare apertamente ciò per cui decretate per gli altri la pena di morte? E certo tutti quanti dovrebbero evitare di compiere azioni che paiono o sono di fatto disonorevoli, ma specialmente in quelle faccende nelle quali uno si mostra inflessibile con gli altri. Non resta nulla da discutere su questo tema: non si dovrebbe fare ciò che si è in passato ritenuto spregevole. [136] C’è un altro rischio a cui dovete fare attenzione: non fate apertamente nella vita pubblica cose che vi guardereste dal fare in quella privata. Ora, nessuno di voi toglierebbe a qualcuno ciò che gli ha donato in privato, non ci proverebbe nemmeno. [137] Dunque non fatelo nella vita pubblica! Piuttosto, se coloro che parlano in difesa della legge sostengono che qualcuno tra quelli che hanno ricevuto la ricompensa non ne è degno, oppure che non ha fatto davvero ciò per cui l’ha ricevuta, o se hanno altre accuse, permettete loro di intentare un’accusa pubblica secondo la legge che noi stiamo ora presentando in sostituzione, sia che siamo noi a promulgarla, come garantiamo e dichiariamo che faremo, sia che la promulghino loro stessi, alla prima sessione dei nomoteti. Ciascuno di loro ha, a quanto pare, un nemico, chi Diofanto, chi Eubulo, chi qualcun altro. [138] Se eviteranno di intentare un’accusa e non vorranno prendersi la briga, riflettete, Ateniesi, se vi sta bene togliere apertamente ai vostri benefattori ciò che ciascuno di costoro esita a togliere ai suoi nemici sotto gli occhi di tutti. Vi sta bene derubare in blocco delle loro legittime ricompense coloro che vi hanno reso dei servizi, persone contro le quali non c’è nessuna accusa? E questo nonostante sia possibile, se c’è qualcuno che ne è indegno, uno o due o più, che siano giudicati uno ad uno con un’accusa pubblica intentata dai loro nemici e in questo modo subiscano questa stessa sorte. Per questo non ritengo che quella da loro proposta sia una buona soluzione, né che sia degna di voi.

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[139] [Σκοπῶ δὲ καὶ τοῦτο] καὶ μὴν οὐδ᾽ ἐκείνου γ᾽ ἀποστατέον τοῦ λόγου, ὅτι τῆς μὲν ἀξίας, ὅτ᾽ ἐδώκαμεν, ἦν δίκαιον τὴν ἐξέτασιν λαμβάνειν, ὅτε τούτων οὐδεὶς ἀντεῖπεν, μετὰ ταῦτα δ᾽ ἐᾶν, εἴ τι μὴ πεπόνθατε ὑπ᾽ αὐτῶν ὕστερον κακόν. εἰ δ᾽ οὗτοι τοῦτο φήσουσι (δεῖξαι μὲν γὰρ οὐκ ἔχουσιν), δεῖ κεκολασμένους αὐτοὺς παρ᾽ αὐτὰ τἀδικήματα φαίνεσθαι. εἰ δὲ μηδενὸς ὄντος τοιούτου τὸν νόμον ποιήσετε κύριον, δόξετε φθονήσαντες, οὐχὶ πονηροὺς λαβόντες ἀφῃρῆσθαι. [140] ἔστι δὲ πάντα μὲν ὡς ἔπος εἰπεῖν ὀνείδη φευκτέον, τοῦτο δὲ πάντων μάλιστ᾽, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι. διὰ τί; ὅτι παντάπασι φύσεως κακίας σημεῖόν ἐστιν ὁ φθόνος, καὶ οὐκ ἔχει πρόφασιν δι᾽ ἣν ἂν τύχοι συγγνώμης ὁ τοῦτο πεπονθώς. εἶτα καὶ οὐδ᾽ ἔστιν ὄνειδος ὅτου πορρώτερόν ἐστιν ἡμῶν ἡ πόλις ἢ τοῦ φθονερὰ δοκεῖν εἶναι, ἁπάντων ἀπέχουσα τῶν αἰσχρῶν. [141] τεκμήρια δ᾽ ἡλίκα τούτου θεωρήσατε. πρῶτον μὲν μόνοι τῶν πάντων ἀνθρώπων ἐπὶ τοῖς τελευτήσασι δημοσίᾳ ταφὰς ποιεῖτε καὶ λόγους ἐπιταφίους, ἐν οἷς κοσμεῖτε τὰ τῶν ἀγαθῶν ἀνδρῶν ἔργα. καίτοι τοῦτ᾽ ἔστι το ἐπιτήδευμα ζηλούντων ἀρετήν, οὐ τοῖς ἐπὶ ταύτῃ τιμωμένοις φθονούντων. εἶτα μεγίστας δίδοτ᾽ ἐκ παντὸς τοῦ χρόνου δωρεὰς τοῖς τοὺς γυμνικοὺς νικῶσιν ἀγῶνας τοὺς στεφανίτας, καὶ οὐχ, ὅτι τῇ φύσει τούτων ὀλίγοις μέτεστιν, ἐφθονήσατε τοῖς ἔχουσιν, οὐδ᾽ ἐλάττους ἐνείματε τὰς τιμὰς διὰ ταῦτα. πρὸς δὲ τούτοις τοιούτοις οὖσιν οὐδεὶς πώποτε τὴν πόλιν ἡμῶν εὖ ποιῶν δοκεῖ νικῆσαι· τοσαύτας ὑπερβολὰς τῶν δωρεῶν αἷς ἀντ᾽ εὖ ποιεῖ, παρέσχηται. [142] ἔστι τοίνυν πάντα ταῦτ᾽, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, δικαιοσύνης, ἀρετῆς, μεγαλοψυχίας ἐπιδείγματα. μὴ τοίνυν δι᾽ ἃ πάλαι παρὰ πάντα τὸν χρόνον ἡ πόλις εὐδοξεῖ, ταῦτ᾽ ἀνέλητε νῦν· μηδ᾽ ἵνα Λεπτίνης ἰδίᾳ τισίν, οἷς ἀηδῶς ἔχει, ἐπηρεάσῃ, τῆς πόλεως ἀφέλησθε καὶ ὑμῶν αὐτῶν ἣν διὰ παντὸς ἀεὶ τοῦ χρόνου δόξαν κέκτησθε καλήν· μηδ᾽ ὑπολαμβάνετ᾽ εἶναι τὸν ἀγῶνα τόνδε ὑπὲρ ἄλλου τινὸς ἢ τοῦ τῆς πόλεως ἀξιώματος, πότερον αὐτὸ δεῖ σῶν εἶναι καὶ ὅμοιον τῷ προτέρῳ, ἢ μεθεστάναι καὶ λελυμάνθαι. [143] πολλὰ δὲ θαυμάζων Λεπτίνου κατὰ τὸν νόμον, ἓν μάλιστα τεθαύμακα πάντων, εἰ ἐκεῖν᾽ ἠγνόηκεν, ὅτι ὥσπερ ἂν εἴ τις μεγάλας τὰς τιμωρίας τῶν ἀδικημάτων τάττοι, οὐκ ἂν αὐτός γ᾽ ἀδικεῖν παρεσκευάσθαι δόξαι, οὕτως, ἄν τις ἀναιρῇ τὰς τιμὰς τῶν εὐεργεσιῶν, οὐδὲν αὐτὸς ποιεῖν ἀγαθὸν παρεσκευάσθαι δόξει. εἰ μὲν τοίνυν ἠγνόησε ταῦτα (γένοιτο γὰρ ἂν καὶ τοῦτο), αὐτίκα δηλώσει· συγχωρήσεται γὰρ ὑμῖν λῦσαι περὶ ὧν αὐτὸς ἥμαρτεν. εἰ δὲ φανήσεται σπουδάζων καὶ διατεινόμενος κύριον ποιεῖν τὸν νόμον, ἐγὼ μὲν οὐκ ἔχω πῶς ἐπαινέσω, ψέγειν δ᾽ οὐ βούλομαι.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[139] [Tengo anche questo in considerazione] E inoltre non dovremmo ignorare questo argomento: era giusto fare un’indagine sui meriti dei benefattori quando prendemmo la decisione, ma allora nessuno di costoro si oppose. Una volta presa la decisione, a meno che non abbiate subito in seguito da parte loro qualche torto, è giusto lasciare che le ricompense rimangano. E se sosterranno che è accaduto esattamente questo (perché non saranno in grado di portare alcuna prova), bisogna che sia evidente che le persone in questione sono state punite per i loro crimini. Ma se ratificherete la legge senza che sia accaduto niente del genere sembrerà che li abbiate privati delle ricompense per invidia, non perché li abbiate scoperti dei delinquenti. [140] Bisogna evitare in pratica, Ateniesi, ogni ragione di biasimo, ma questa più di tutte. Perché? Perché l’invidia è in generale sintomo di una cattiva natura, e chi ne è vittima non ha nessuna attenuante per cui ne possa essere scusato. E inoltre non c’è biasimo più alieno dalla nostra città, che si astiene da ogni condotta disonorevole, che l’accusa di mostrarci invidiosi. [141] Considerate quante prove esistono di questo. Prima di tutto voi siete i soli, in tutto il mondo, a pronunciare in pubblico discorsi funebri in onore dei morti, nei quali celebrate le imprese di uomini valorosi. E certo questo è un costume che si addice a uomini che ammirano il valore, non a uomini che invidiano chi viene onorato per il suo valore. Inoltre da sempre accordate le più grandi ricompense a chi vince una corona negli agoni ginnici, e nonostante per natura queste corone vadano a pochi, non siete invidiosi di chi ne ha vinta una, né per questa ragione avete tributato loro onori di minore entità. E per di più sembra che nessuno abbia mai superato la nostra città nel concedere benefici: tanta è la mole delle ricompense che ha offerto a chi le rende dei servizi. [142] Ora, Ateniesi, queste sono tutte prove di giustizia, virtù e magnanimità. E dunque non distruggete ora ciò su cui si è fondato da sempre il buon nome della città; non private la città, e voi stessi, della buona fama che da sempre possiede solo perché Leptine possa danneggiare i suoi nemici personali; e non crediate che questo processo riguardi nient’altro che la reputazione della città, se debba restare intatta ed uguale al passato, oppure mutare e deteriorarsi. [143] Molte cose nella legge di Leptine mi hanno sorpreso, ma tra tutte una in particolare mi ha colpito: Leptine ignora il fatto che, così come chi prescrive grandi punizioni per dei crimini non sembra pronto a commettere quei crimini lui stesso, così chi abolisce gli onori accordati in cambio di servizi non sembra essere disponibile a rendere alcun servizio alla città. Se dunque non se n’è reso conto, come è benissimo possibile, lo renderà subito manifesto: sarà d’accordo con voi e acconsentirà ad abrogare questa legge che ha sbagliato a proporre. Se invece si impegnerà ostinatamente perché la legge entri in vigore io non so come potrei elogiarlo, sebbene io non voglia biasimarlo.

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[144] μηδὲν οὖν φιλονίκει, Λεπτίνη, μηδὲ βιάζου τοιοῦτον δι᾽ οὗ μήτ᾽ αὐτὸς δόξεις βελτίων εἶναι μήθ᾽ οἱ πεισθέντες σοι, ἄλλως τε καὶ γεγενημένου σοι τοῦ ἀγῶνος ἀκινδύνου. διὰ γὰρ τὸ τελευτῆσαι Βάθιππον τὸν τουτουὶ πατέρα Ἀψεφίωνος, ὃς αὐτὸν ἔτ᾽ ὄντα ὑπεύθυνον ἐγράψατο, ἐξῆλθον οἱ χρόνοι, καὶ νυνὶ περὶ αὐτοῦ τοῦ νόμου πᾶς ἐστιν ὁ λόγος, τούτῳ δ᾽ οὐδείς ἐστι κίνδυνος. [145] καίτοι καὶ τοῦτ᾽ ἀκούω σε λέγειν, ὡς ἄρα τρεῖς σέ τινες γραψάμενοι πρότεροι τοῦδε οὐκ ἐπεξῆλθον. εἰ μὲν τοίνυν ἐγκαλῶν αὐτοῖς λέγεις ὅτι σε οὐ κατέστησαν εἰς κίνδυνον, φιλοκινδυνότατος πάντων ἀνθρώπων εἶ· εἰ δὲ τεκμήριον ποιῇ τοῦ τὰ δίκαια εἰρηκέναι, λίαν εὔηθες ποιεῖς. τί γὰρ εἵνεκα τούτου βελτίων ἔσθ᾽ ὁ νόμος, εἴ τις ἢ τετελεύτηκε τῶν γραψαμένων πρὶν εἰσελθεῖν, ἢ πεισθεὶς ὑπὸ σοῦ διεγράψατο, ἢ καὶ ὅλως ὑπὸ σοῦ παρεσκευάσθη; ἀλλὰ ταῦτα μὲν οὐδὲ λέγειν καλόν. [146] ᾕρηνται δὲ τῷ νόμῳ σύνδικοι καὶ μάλισθ᾽ οἱ δεινοὶ λέγειν ἄνδρες, Λεωδάμας Ἀχαρνεὺς καὶ Ἀριστοφῶν Ἁζηνιεὺς καὶ Κηφισόδοτος ἐκ Κεραμέων καὶ Δεινίας Ἑρχιεύς. ἃ δὴ πρὸς τούτους ὑπολαμβάνοιτ᾽ ἂν εἰκότως, ἀκούσατε, καὶ σκοπεῖτε ἂν ὑμῖν δίκαια φαίνηται. πρῶτον μὲν πρὸς Λεωδάμαντα. οὗτος ἐγράψατο τὴν Χαβρίου δωρεάν, ἐν ᾗ τοῦτ᾽ ἔνεστιν τὸ τῆς ἀτελείας [τῶν ἐκείνῳ τι δοθέντων], καὶ πρὸς ὑμᾶς εἰσελθὼν ἡττήθη· [147] οἱ νόμοι δ᾽ οὐκ ἐῶσι δὶς πρὸς τὸν αὐτὸν περὶ τῶν αὐτῶν οὔτε δίκας οὔτ᾽ εὐθύνας οὔτε διαδικασίαν οὔτ᾽ ἄλλο τοιοῦτ᾽ οὐδὲν εἶναι. χωρὶς δὲ τούτων ἀτοπώτατον ἂν πάντων συμβαίη, εἰ τότε μὲν τὰ Χαβρίου παρ᾽ ὑμῖν ἔργα μεῖζον ἴσχυε τῶν Λεωδάμαντος λόγων, ἐπειδὴ δὲ ταῦτά τε ὑπάρχει καὶ τὰ τῶν ἄλλων εὐεργετῶν προσγέγονεν, τηνικαῦτα σύμπαντα ταῦτα ἀσθενέστερα τῶν τούτου λόγων γένοιτο. [148] καὶ μὴν πρός γε Ἀριστοφῶντα πολλὰ καὶ δίκαι᾽ ἂν ἔχειν εἰπεῖν οἶμαι. οὗτος εὕρετο τὴν δωρεὰν παρ᾽ ὑμῖν, ἐν ᾗ τοῦτ᾽ ἐνῆν. καὶ οὐ τοῦτ᾽ ἐπιτιμῶ· δεῖ γὰρ ἐφ᾽ ὑμῖν εἶναι διδόναι τὰ ὑμέτερ᾽ αὐτῶν οἷς ἂν βούλησθε. ἀλλ᾽ ἐκεῖνό γ᾽ οὐχὶ δίκαιον εἶναί φημι, τὸ ὅτε μὲν τούτῳ ταῦτ᾽ ἔμελλεν ὑπάρχειν λαβόντι, μηδὲν ἡγεῖσθαι δεινόν, ἐπειδὴ δ᾽ ἑτέροις δέδοται, τηνικαῦτ᾽ ἀγανακτεῖν καὶ πείθειν ὑμᾶς ἀφελέσθαι.



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[144] Dunque, Leptine, non voler vincere a tutti i costi, non forzare l’approvazione di una legge che non migliorerà né la tua reputazione né quella di chi è persuaso da te, tanto più visto che tu non corri alcun rischio in questo processo. Perché, per via della morte di Batippo (il padre del qui presente Apsefione), che intentò un’accusa pubblica nei confronti di Leptine quando era ancora personalmente perseguibile, sono scaduti i termini e ora l’intera discussione riguarda soltanto la legge in sé, mentre per lui non c’è alcun pericolo. [145] E, ciò nonostante, mi giunge all’orecchio che tu sostieni che già tre persone che avevano intentato un’accusa pubblica nei tuoi confronti prima di Apsefione non hanno proseguito. Ora, se li stai criticando quando affermi che furono loro a non farti correre rischi, non c’è nessuno che ami il pericolo più di te! Se invece usi questo come prova che ciò che dici è corretto, allora sei davvero un ingenuo. Per quale ragione il fatto che uno degli accusatori è morto prima di arrivare al processo, oppure, persuaso da te, ha abbandonato l’accusa, o ancora è stato semplicemente subornato, dovrebbe infatti mostrare che la tua legge è migliore? Ma sarebbe bene non dirle nemmeno certe cose! [146] Come avvocati della legge sono stati eletti formidabili oratori, Leodamante di Acarne, Aristofonte di Azenia, Cefisodoto del Ceramico e Dinia di Erchia. Ascoltate alcuni argomenti con cui potreste ragionevolmente replicare a costoro, e considerate se vi sembrano giusti. Prima di tutto Leodamante. Quest’uomo intentò un’accusa pubblica contro la ricompensa di Cabria, che comprende l’esenzione, e giunto di fronte a voi ebbe la peggio: [147] le leggi non permettono che cause private, rendiconti, cause di eredità e simili siano intentati due volte, riguardo alla stessa questione e contro lo stesso uomo. Ma, a parte questo, sarebbe cosa ben bizzarra se all’epoca i meriti di Cabria nei vostri confronti avessero avuto la meglio sulle parole di Leodamante, mentre ora che tali meriti ancora sussistono e in più si sono aggiunti i servizi degli altri benefattori, tutti questi insieme avessero meno peso delle sue parole. [148] Quanto ad Aristofonte poi, ritengo che potrei fare molte giuste affermazioni. Quest’uomo ha ricevuto da voi una ricompensa che comprende l’esenzione. Non lo biasimo per questo: voi dovete infatti avere la possibilità di donare le vostre sostanze a chi volete. Ma ritengo che non sia giusto che all’epoca, quando si trattava di ricevere quelle ricompense per sé, non ci vedesse niente di male, mentre ora che sono state accordate ad altri se la prenda e cerchi di persuadervi ad abolirle.

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[149] καὶ μὴν καὶ Γελάρχῳ πέντε τάλαντ᾽ ἀποδοῦναι γέγραφεν οὗτος ὡς παρασχόντι τοῖς ἐν Πειραιεῖ τοῦ δήμου, καὶ καλῶς ἐποίει. μὴ τοίνυν ἃ μὲν ἦν ἀμάρτυρα, ταῦτ᾽ ἐπὶ τῇ τοῦ δήμου προφάσει διὰ σοῦ δεδόσθω, ὧν δ᾽ αὐτὸς ὁ δῆμος μαρτυρίας ἔστησεν ἐν τοῖς ἱεροῖς ἀναγράψας καὶ πάντες συνίσασιν, ταῦτ᾽ ἀφελέσθαι παραίνει· μηδ᾽ αὑτὸς φαίνου τά τ᾽ ὀφειλόμενα ὡς ἀποδοῦναι δεῖ γράφων, καὶ ἅ τις παρὰ τοῦ δήμου κεκόμισται, ταῦτ᾽ ἀφελέσθαι παραινῶν. [150] καὶ μὴν πρός γε Κηφισόδοτον τοσοῦτ᾽ ἂν εἴποιμι. οὗτός ἐστιν οὐδενὸς ἧττον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τῶν λεγόντων δεινὸς εἰπεῖν. πολὺ τοίνυν κάλλιον τῇ δεινότητι ταύτῃ χρῆσθαι ἐπὶ τὸ τοὺς ἀδικοῦντας ὑμᾶς κολάζειν ἢ τοὺς ἀγαθοῦ τινος αἰτίους ἀδικεῖν. εἰ γὰρ ἀπεχθάνεσθαί τισι δεῖ, τοῖς ἀδικοῦσι τὸν δῆμον, οὐ τοῖς ἀγαθόν τι ποιοῦσιν ἔγωγε νομίζω δεῖν. [151] πρὸς τοίνυν Δεινίαν· οὗτος ἴσως ἐρεῖ τριηραρχίας αὑτοῦ καὶ λειτουργίας. ἐγὼ δ᾽, εἰ πολλοῦ τῇ πόλει Δεινίας ἄξιον αὑτὸν παρέσχηκεν, ὡς ἔμοιγε δοκεῖ νὴ τοὺς θεούς, μᾶλλον ἂν παραινέσαιμι αὑτῷ τινὰ τιμὴν ὑμᾶς ἀξιοῦν δοῦναι ἢ τὰς ἑτέροις πρότερον δοθείσας ἀφελέσθαι κελεύειν· πολὺ γὰρ βελτίονος ἀνδρός ἐστιν ἐφ᾽ οἷς αὐτὸς εὖ πεποίηκεν ἀξιοῦν τιμᾶσθαι ἢ ἐφ᾽ οἷς ἕτεροι ποιήσαντες ἐτιμήθησαν φθονεῖν. [152] ὃ δὲ δὴ μέγιστον ἁπάντων καὶ κοινὸν ὑπάρχει κατὰ πάντων τῶν συνδίκων· τούτων πολλάκις εἷς ἕκαστος πρότερόν τισι πράγμασι σύνδικος γέγονεν. ἔστι δὲ καὶ μάλ᾽ ἔχων νόμος ὑμῖν καλῶς, οὐκ ἐπὶ τούτοις τεθείς, ἀλλ᾽ ἵνα μὴ τὸ πρᾶγμα ὥσπερ ἐργασία τισὶν ᾖ καὶ συκοφαντία, μὴ ἐξεῖναι ὑπὸ τοῦ δήμου χειροτονηθέντα πλέον ἢ ἅπαξ συνδικῆσαι. [153] τοὺς δὴ συνεροῦντας νόμῳ καὶ διδάξοντας ὑμᾶς ὡς ἐπιτήδειός ἐστιν, αὐτοὺς τοῖς ὑπάρχουσι νόμοις δεῖ πειθομένους φαίνεσθαι· εἰ δὲ μή, γελοῖον νόμῳ μὲν συνδικεῖν, νόμον δ᾽ αὐτοὺς παραβαίνειν ἕτερον. ἀνάγνωθι λαβὼν τὸν νόμον αὐτοῖς ὃν λέγω.



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[149] E inoltre fu Aristofonte che presentò un decreto al fine di restituire a Gelarco i cinque talenti che aveva prestato ai democratici del Pireo, e fece bene a proporlo. Ma per questo, visto che una somma del cui prestito non ci sono testimoni è stata restituita con la scusa dei democratici grazie al tuo intervento, non esortare ad abolire quelle ricompense a testimonianza delle quali il popolo stesso ha eretto iscrizioni nei santuari, e di cui tutti sono a conoscenza; non proporre apertamente che si debba restituire ciò che è dovuto mentre esorti a togliere ciò che si è ricevuto dal popolo. [150] Poi c’è Cefisodoto. A lui potrei dire soltanto questo: tra i migliori oratori, Ateniesi, lui non è inferiore a nessuno. Sarebbe dunque molto meglio se si servisse di questa eloquenza per punire chi commette ingiustizie nei vostri confronti, piuttosto che per commettere un’ingiustizia contro chi vi ha portato dei benefici. Perché se deve proprio attirarsi l’odio di qualcuno, io penso che debba essere quello di chi commette ingiustizie nei confronti della città, non di chi le porta dei benefici. [151] E veniamo a Dinia: lui con tutta probabilità parlerà delle sue trierarchie e liturgie. Se Dinia ha mostrato di meritare molto dalla città, e per gli dei ne sono convinto, io lo esorterei a chiedervi di accordargli qualche onore, piuttosto che domandare che i benefici accordati ad altri in passato siano aboliti; è meglio di gran lunga chiedere di essere onorato per quanto si è fatto di buono, piuttosto che essere invidiosi dei servizi per cui altri sono stati onorati. [152] Ma l’argomentazione più decisiva di tutte, e che vale in generale contro tutti i difensori della legge, è questa: ciascuno di loro in passato è stato spesso pubblico difensore in altre cause. Esiste da voi un’ottima legge, promulgata senza che avesse nulla a che fare con costoro, ma affinché questa attività non diventasse per alcuni come un lavoro, un’occupazione per sicofanti. Questa legge prescrive che non si possa essere eletti più di una volta dal popolo pubblici difensori. [153] Chi parla in difesa di una legge e vi spiega perché sia vantaggiosa, bisogna che sia evidente che è ligio alle leggi vigenti; in caso contrario è ridicolo difendere una legge ed infrangerne un’altra. Prendi la legge di cui sto parlando e leggila.

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ΝΟΜΟΣ οὗτος, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, καὶ παλαιός ἐσθ᾽ ὁ νόμος καὶ καλῶς ἔχων, ὃν ἐὰν σωφρονῶσι φυλάξονται παραβαίνειν οὗτοι. [154] ἐγὼ δ᾽ ἔτι μικρὰ πρὸς ὑμᾶς εἰπὼν καταβήσομαι. ἔστι γάρ, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, πάντας μὲν τοὺς νόμους ὑμῖν, ὡς ἐγὼ νομίζω, σπουδαστέον ὡς κάλλιστ᾽ ἔχειν, μάλιστα δὲ τούτους δι᾽ ὧν ἢ μικρὰν ἢ μεγάλην ἔστ᾽ εἶναι τὴν πόλιν. εἰσὶ δ᾽ οὗτοι τίνες; οἵ τε τοῖς ἀγαθόν τι ποιοῦσι τὰς τιμὰς διδόντες καὶ οἱ τοῖς τἀναντία πράττουσι τὰς τιμωρίας. εἰ γὰρ ἅπαντες ὡς ἀληθῶς τὰς ἐν τοῖς νόμοις ζημίας φοβούμενοι τοῦ κακόν τι ποιεῖν ἀποσταῖεν, καὶ πάντες τὰς ἐπὶ ταῖς εὐεργεσίαις δωρεὰς ζηλώσαντες ἃ χρὴ πράττειν προέλοιντο, τί κωλύει μεγίστην εἶναι τὴν πόλιν καὶ πάντας χρηστοὺς καὶ μηδέν᾽ εἶναι πονηρόν; [155] ὁ τοίνυν νόμος οὗτος ὁ Λεπτίνου, οὐ μόνον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοῦτ᾽ ἀδικεῖ, ὅτι τὰς τιμὰς ἀναιρῶν τῶν εὐεργεσιῶν ἀχρεῖον τὴν ἐπιείκειαν τοῖς φιλοτιμεῖσθαι βουλομένοις καθίστησιν, ἀλλ᾽ ὅτι καὶ παρανομίας δόξαν αἰσχίστην τῇ πόλει καταλείπει. ἴστε γὰρ δήπου τοῦθ᾽ ὅτι τῶν τὰ δεινόταθ᾽ ὑμᾶς ἀδικούντων ἓν ἑκάστῳ τίμημα ὑπάρχει διὰ τὸν νόμον, ὃς διαρρήδην λέγει “μηδὲ [ὡς χρὴ] τίμημα ὑπάρχειν ἐπὶ κρίσει πλέον ἢ ἕν, ὁπότερον ἂν τὸ δικαστήριον τιμήσῃ, παθεῖν ἢ ἀποτεῖσαι· ἀμφότερα δὲ μὴ ἐξέστω.” [156] ἀλλ᾽ οὐχ οὗτος ἐχρήσατο τούτῳ τῷ μέτρῳ, ἀλλ᾽ ἐάν τις ἀπαιτήσῃ χάριν ὑμᾶς, “ἄτιμος ἔστω” φησὶ “καὶ ἡ οὐσία δημοσία ἔστω”. δύο τιμήματα ταῦτα. “εἶναι δὲ καὶ ἐνδείξεις καὶ ἀπαγωγάς· ἐὰν δ᾽ ἁλῷ, ἔνοχος ἔστω τῷ νόμῳ ὃς κεῖται, ἐάν τις ὀφείλων ἄρχῃ τῷ δημοσίῳ”. θάνατον λέγει· τοῦτο γάρ ἐστ᾽ ἐπ᾽ ἐκείνῳ τοὐπιτίμιον. οὐκοῦν τρία τιμήματα ταῦτα. πῶς οὖν οὐ σχέτλιον καὶ δεινόν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, εἰ χαλεπώτερον εἶναι παρ᾽ ὑμῖν δόξει χάριν εὖ ποιήσαντ᾽ ἀπαιτεῖν ἢ τὰ δεινότατ᾽ ἐργαζόμενον ληφθῆναι; [157] αἰσχρός, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, καὶ κακῶς ἔχων ὁ νόμος, καὶ ὅμοιος φθόνῳ τινὶ καὶ φιλονικίᾳ καὶ — τὸ λοιπὸν ἐῶ· τοιούτοις δέ τισιν προσέοικεν ὁ γράφων χρῆσθαι. ὑμῖν δ᾽ οὐχὶ πρέπει τὰ τοιαῦτα μιμεῖσθαι, οὐδ᾽ ἀνάξια φαίνεσθαι φρονοῦντας ὑμῶν αὐτῶν. φέρε γὰρ πρὸς Διός, τί μάλιστ᾽ ἂν ἀπευξαίμεθα πάντες, καὶ τί μάλιστ᾽ ἐν ἅπασι διεσπούδασται τοῖς νόμοις; ὅπως μὴ γενήσονται οἱ περὶ ἀλλήλους φόνοι, περὶ ὧν ἐξαίρετος ἡ βουλὴ φύλαξ ἡ ἐν Ἀρείῳ πάγῳ τέτακται.



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LEGGE Questa, Ateniesi, è una legge antica e di grande valore. Se sono saggi, si guarderanno bene dall’infrangerla. [154] Parlerò ancora un poco e poi scenderò dalla tribuna. Secondo me sta a voi, Ateniesi, impegnarvi affinché tutte le leggi siano buone, soprattutto quelle dalle quali dipende la grandezza della città, o la sua decadenza. Quali sono queste leggi? Quelle che accordano onori a chi fa del bene alla città e punizioni a chi fa l’opposto. Perché se tutti temessero davvero le punizioni prescritte nelle leggi e per questo si astenessero davvero dal fare del male, e tutti, per desiderio delle ricompense elargite in cambio dei servizi, scegliessero di fare il loro dovere, che cosa impedirebbe alla città di diventare la più grande di tutte, e ai suoi cittadini di essere tutti onesti e nessuno malvagio? [155] Ora, questa legge di Leptine non solo, Ateniesi, ha il torto, abolendo gli onori accordati in cambio di servizi alla città, di rendere inutile la buona volontà di chi vuole ottenere gloria attraverso il pubblico servizio, ma lascia inoltre alla città la pessima reputazione di infrangere la legge. Perché siete di certo a conoscenza del fatto che per ciascuno dei più seri criminali c’è secondo la legge una certa punizione. La legge dice con chiarezza: “non ci sia più di una pena per giudizio, e il tribunale decida tra le due opzioni: che si subisca una punizione corporale o che si paghi un’ammenda; né sia lecito comminarle entrambe”. [156] Ma lui non ha seguito questa misura. Al contrario, se uno vi chiede una ricompensa, prescrive che “sia privato dei diritti di cittadino e i suoi beni diventino pubblici”. Queste sono due punizioni. “Sia denunciato e condotto davanti al magistrato; qualora lo si condanni sia sottoposto alla legge in vigore per chi ricopre una magistratura pur essendo debitore dell’erario”. Intende la morte: questa infatti è la pena per quel crimine. Dunque le pene sono tre. E dunque, Ateniesi, non è terribile e crudele che da voi sembri più pericoloso richiedere una ricompensa per i servizi resi alla città che essere colto a commettere i crimini più terribili? [157] Vergognosa, mal scritta, Ateniesi, una legge che sa di invidia, di faziosità, di... lasciamo stare: di questi vizi sembra soffrire chi ha scritto la legge. Ma non vi si addice imitare simili attributi, né rivelare che intrattenete pensieri indegni di voi. Su, dunque, che cos’è che deprechiamo di più, per Zeus, che è curato con maggior attenzione in tutte le nostre leggi? Che non ci si uccida tra di noi! In questi casi il Consiglio dell’Areopago è stato appositamente scelto come guardiano.

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[158] ἐν τοίνυν τοῖς περὶ τούτων νόμοις ὁ Δράκων φοβερὸν κατασκευάζων καὶ δεινὸν τό τινα αὐτόχειρα ἄλλον ἄλλου γίγνεσθαι, καὶ γράφων χέρνιβος εἴργεσθαι τὸν ἀνδροφόνον, σπονδῶν, κρατήρων, ἱερῶν, ἀγορᾶς, πάντα τἄλλα διελθὼν οἷς μάλιστ᾽ ἄν τινας ᾤετ᾽ ἐπισχεῖν τοῦ τοιοῦτόν τι ποιεῖν, ὅμως οὐκ ἀφείλετο τὴν τοῦ δικαίου τάξιν, ἀλλ᾽ ἔθηκεν ἐφ᾽ οἷς ἐξεῖναι ἀποκτιννύναι, κἂν οὕτω τις δράσῃ, καθαρὸν διώρισεν εἶναι. εἶτ᾽ ἀποκτεῖναι μὲν δικαίως ἔν γε τοῖς παρ᾽ ὑμῖν νόμοις ἐξέσται, χάριν δ᾽ ἀπαιτεῖν οὔτε δικαίως οὔθ᾽ ὁπωσοῦν διὰ τὸν τούτου νόμον; [159] μηδαμῶς, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι· μὴ βούλεσθε δοκεῖν πλείω πεποιῆσθαι σπουδὴν ὅπως μηδενὶ τῶν εὖ τι ποιούντων ὑμᾶς χάριν ἐξέσται κομίσασθαι ἢ ὅπως μηδεὶς φόνος ἐν τῇ πόλει γενήσεται· ἀλλ᾽ ἀναμνησθέντες τῶν καιρῶν, παρ᾽ οὓς εὖ πεπονθότες εὖ πεποιήκατε τοὺς εὑρομένους, καὶ τῆς Δημοφάντου στήλης περὶ ἧς εἶπε Φορμίων, ἐν ᾗ γέγραπται καὶ ὀμώμοται, ἄν τις ἀμύνων τι πάθῃ τῇ δημοκρατίᾳ, τὰς αὐτὰς δώσειν δωρεὰς ἅσπερ Ἁρμοδίῳ καὶ Ἀριστογείτονι, καταψηφίσασθε τοῦ νόμου. οὐ γὰρ ἔνεστ᾽ εὐορκεῖν, εἰ μὴ τοῦτο ποιήσετε. [160] παρὰ πάντα δὲ ταῦτα ἐκεῖνο ἔτι ἀκούσατέ μου. οὐκ ἔνι τοῦτον ἔχειν καλῶς τὸν νόμον, ὃς περὶ τῶν παρεληλυθότων καὶ τῶν μελλόντων ταὐτὰ λέγει. “μηδέν᾽ εἶναί” φησιν “ἀτελῆ πλὴν τῶν ἀφ᾽ Ἁρμοδίου καὶ Ἀριστογείτονος”. καλῶς. “μηδὲ τὸ λοιπὸν ἐξεῖναι δοῦναι”. μηδ᾽ ἂν τοιοῦτοί τινες γένωνται, Λεπτίνη; εἰ τὰ πρὸ τοῦ κατεμέμφου, τί; μὴ καὶ τὰ μέλλοντα ᾔδεις; [161] ὅτι νὴ Δία πόρρω τοῦ τι τοιοῦτον ἐλπίζειν νῦν ἐσμέν. καὶ εἴημέν γ᾽, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι∙ ἀλλὰ χρή γε ἀνθρώπους ὄντας τοιαῦτα καὶ λέγειν καὶ νομοθετεῖν οἷς μηδεὶς ἂν νεμεσήσαι, καὶ τἀγαθὰ μὲν προσδοκᾶν καὶ τοῖς θεοῖς εὔχεσθαι διδόναι, πάντα δ᾽ ἀνθρώπινα ἡγεῖσθαι. οὐδὲ γὰρ ἂν Λακεδαιμόνιοί ποτ᾽ ἤλπισαν εἰς τοιαῦτα πράγματ᾽ ἀφίξεσθαι, οὐδέ γ᾽ ἴσως Συρακόσιοι, τὸ πάλαι δημοκρατούμενοι καὶ φόρους Καρχηδονίους πραττόμενοι καὶ πάντων τῶν περὶ αὑτοὺς ἄρχοντες καὶ ναυμαχίᾳ νενικηκότες ἡμᾶς, ὑφ᾽ ἑνὸς γραμματέως, ὃς ὑπηρέτης ἦν, ὥς φασι, τυραννήσεσθαι. [162] οὐδέ γ᾽ ὁ νῦν ὢν Διονύσιος ἤλπισεν ἄν ποτ᾽ ἴσως πλοίῳ στρογγύλῳ καὶ στρατιώταις ὀλίγοις Δίωνα ἐλθόντα ἐφ᾽ αὑτὸν ἐκβαλεῖν τὸν τριήρεις πολλὰς καὶ ξένους καὶ πόλεις κεκτημένον. ἀλλ᾽, οἶμαι, τὸ μέλλον ἄδηλον πᾶσιν ἀνθρώποις, καὶ μικροὶ καιροὶ μεγάλων πραγμάτων αἴτιοι γίγνονται. διὸ δεῖ μετριάζειν ἐν ταῖς εὐπραξίαις καὶ προορωμένους τὸ μέλλον φαίνεσθαι.



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[158] E per questo, nelle leggi su questo tema, Dracone rese spaventoso e terribile che qualcuno si macchi dell’omicidio di un altro e prescrisse che l’assassino sia escluso dalle acque lustrali, dalle libagioni, dai crateri di vino, dai contesti sacrali, dall’agora, servendosi di ogni altro accorgimento atto, a suo parere, ad impedire che si commetta questo genere di crimine. E tuttavia non abolì le disposizioni sull’omicidio legittimo, ma dispose in quali circostanze sia lecito uccidere, e cioè determinò che in quelle circostanze, se si commette un omicidio, si rimane incontaminati. Secondo le vostre leggi è dunque lecito uccidere secondo giustizia, ma per via di questa legge non si può, legittimamente o meno, richiedere una ricompensa? [159] No, Ateniesi: non siate disposti a mostrarvi più impegnati a impedire ai vostri benefattori di ricevere una ricompensa, piuttosto che a far sì che non ci sia nessun omicidio nella nostra città! Al contrario, ricordatevi di quando, dopo aver ricevuto un servizio, avete ricompensato chi ora possiede l’esenzione; ricordatevi della stele di Demofanto, di cui ha parlato Formione, sulla quale è stato scritto e giurato che, se accade qualcosa a qualcuno che lotta in difesa della democrazia, gli saranno accordati gli stessi privilegi di Armodio e Aristogitone; e votate contro questa legge! Perché non potrete rispettare il vostro giuramento in nessun altro modo. [160] E in aggiunta a tutto questo, ascoltatemi ancora su questo punto. Questa non può essere una buona legge, in quanto regola allo stesso modo azioni passate e azioni future. Dice: “nessuno sia esentato eccetto i discendenti di Armodio e Aristogitone”. Bene. “... né sia possibile accordare l’esenzione in futuro”. Nemmeno se nascono persone di valore eguale al loro, Leptine? Se criticavi il passato, e allora? Conoscevi anche il futuro? [161] Tu potresti ribattere che oggi, per Zeus, siamo ben lontani dall’aspettarci cose del genere. Speriamo sia così, Ateniesi! Ma, visto che siamo esseri umani, dobbiamo parlare e legiferare in modo tale che nessuno se ne prenda a male: attendiamoci pure il meglio e preghiamo gli dei di concedercelo, ma teniamo presente che ogni cosa è soggetta alla natura umana. Gli Spartani infatti non si aspettavano un tempo di ritrovarsi in questa condizione, né, con tutta probabilità, i Siracusani, che un tempo erano governati democraticamente, avevano imposto un tributo ai Cartaginesi, dominavano tutte le popolazioni confinanti e ci avevano sconfitto in una battaglia navale, si aspettavano di ritrovarsi sotto la tirannide di un segretario, che era stato, come dicono, un loro subalterno. [162] Né il Dionisio dei nostri giorni si sarebbe aspettato che Dione, con una nave mercantile e pochi soldati, lo avrebbe mai attaccato e cacciato, lui, signore di molte triremi, mercenari e città. Ma il futuro è a mio parere inconoscibile per ogni uomo, e piccoli eventi sono causa di grandi rivolgimenti. Per questo bisogna agire con moderazione nel successo e mostrarsi previdenti per il futuro.

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ΔΗΜΟΣΘΕΝΟΥΣ  ΠΡΟΣ ΛΕΠΤΙΝΗΝ ΠΕΡΙ ΤΗΣ ΑΤΕΛΕΙΑΣ

[163] πολλὰ δ᾽ ἄν τις ἔχοι λέγειν ἔτι καὶ διεξιέναι περὶ τοῦ μηδαμῇ μηδὲ καθ᾽ ἓν τοῦτον ἔχειν καλῶς τὸν νόμον μηδὲ συμφέρειν ὑμῖν∙ ἀλλ᾽ ἵν᾽ ἐν κεφαλαίῳ τοῦτο μάθητε κἀγὼ παύσωμαι λέγων, τάδε ποιήσατε∙ σκέψασθε παρ᾽ ἄλληλα καὶ λογίσασθε πρὸς ὑμᾶς αὐτοὺς τί συμβήσεται καταψηφισαμένοις ὑμῖν τοῦ νόμου καὶ τί μή∙ εἶτα φυλάττετε καὶ μέμνησθε ἃ ἃν ὑμῖν ἐξ ἑκατέρου φανῇ, ἵν᾽ ἕλησθε τὰ κρείττω. [164] ἂν μὲν τοίνυν καταψηφίσησθε, ὥσπερ ἡμεῖς κελεύομεν, οἱ μὲν ἄξιοι παρ᾽ ὑμῶν τὰ δίκαια ἕξουσιν, εἰ δέ τις ἔστιν ἀνάξιος, ὡς ἔστω, πρὸς τῷ τὴν δωρεὰν ἀφαιρεθῆναι δίκην ἣν ἂν ὑμῖν δοκῇ δώσει κατὰ τὸν παρεισενηνεγμένον νόμον∙ ἡ δὲ πόλις πιστή, δικαία, πρὸς ἅπαντας ἀψευδὴς φανήσεται. ἐὰν δ᾽ ἀποψηφίσησθε, ὃ μὴ ποιήσαιτε, οἱ μὲν χρηστοὶ διὰ τοὺς φαύλους ἀδικήσονται, οἱ δ᾽ ἀνάξιοι συμφορᾶς ἑτέροις αἴτιοι γενήσονται, δίκην δ᾽ οὐδ᾽ ἡντινοῦν αὐτοὶ δώσουσιν, ἡ δὲ πόλις τἀναντία ὧν εἶπον ἀρτίως, δόξει ἄπιστος, φθονερά, φαύλη παρὰ πᾶσιν εἶναι. [165] οὔκουν ἄξιον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοσαύτην βλασφημίαν ἀντὶ καλῶν καὶ προσηκόντων ὑμῖν ἀγαθῶν ἑλέσθαι. καὶ γὰρ ἕκαστος ὑμῶν ἰδίᾳ μεθέξει τῆς δόξης τῶν κοινῇ γνωσθέντων. οὐ γὰρ ἀγνοεῖ τοῦτ᾽ οὐδεὶς οὔτε τῶν περιεστηκότων οὔτε τῶν ἄλλων, ὅτι ἐν μὲν τῷ δικαστηρίῳ Λεπτίνης πρὸς ἡμᾶς ἀγωνίζεται, ἐν δὲ τῇ τῶν καθημένων ὑμῶν ἑνὸς ἑκάστου γνώμῃ φιλανθρωπία πρὸς φθόνον καὶ δικαιοσύνη πρὸς κακίαν καὶ πάντα τὰ χρηστὰ πρὸς τὰ πονηρότατα ἀντιτάττεται. [166] ὧν τοῖς βελτίοσι πειθόμενοι καὶ κατὰ ταὔθ᾽ ἡμῖν θέμενοι τὴν ψῆφον, αὐτοί τε ἃ προσήκει δόξετ᾽ ἐγνωκέναι, καὶ τῇ πόλει τὰ κράτιστ᾽ ἔσεσθ᾽ ἐψηφισμένοι, κἄν τις ἄρ᾽ ἔλθῃ ποτὲ καιρός, οὐκ ἀπορήσετε τῶν ἐθελησόντων ὑπὲρ ὑμῶν κινδυνεύειν. ὑπὲρ οὖν τούτων ἁπάντων οἶμαι δεῖν ὑμᾶς σπουδάζειν καὶ προσέχειν τὸν νοῦν, ὅπως μὴ βιασθῆτε ἁμαρτάνειν. πολλὰ γὰρ ὑμεῖς, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, πολλάκις οὐκ ἐδιδάχθητε ὡς ἔστι δίκαια, ἀλλ᾽ ἀφῃρέθητε ὑπὸ τῆς τῶν λεγόντων κραυγῆς καὶ βίας καὶ ἀναισχυντίας. ὃ μὴ πάθητε νῦν∙ οὐ γὰρ ἄξιον. [167] ἀλλ᾽ ἃ δίκαια ἐγνώκατε, ταῦτα φυλάξατε καὶ μνημονεύετε, ἕως ἂν ψηφίσησθε, ἵνα εὔορκον θῆσθε τὴν ψῆφον κατὰ τῶν τὰ πονηρὰ συμβουλευόντων. θαυμάζω δ᾽ ἔγωγε, εἰ τοῖς μὲν τὸ νόμισμα διαφθείρουσιν θάνατος παρ᾽ ὑμῖν ἐστιν ἡ ζημία, τοῖς δ᾽ ὅλην τὴν πόλιν κίβδηλον καὶ ἄπιστον ποιοῦσι λόγον δώσετε. οὐ δή πού γ᾽, ὦ Ζεῦ καὶ θεοί. Οὐκ οἶδ’ ὅ τι δεῖ πλείω λέγειν∙ οἶμαι γὰρ ὑμᾶς οὐδὲν ἀγνοεῖν τῶν εἰρημένων.



Demostene  Contro Leptine sull’esenzione

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[163] Si potrebbero dire ancora molte altre cose per spiegarvi in dettaglio che questa non è sotto nessun punto di vista una buona legge, e non è vantaggiosa per voi; ma affinché comprendiate il nocciolo della questione e io possa smettere di parlare, fate così: confrontate le due opzioni, considerate da voi cosa accadrà se voterete contro la legge, e cosa se farete l’opposto; quindi custodite e tenete a mente cosa pensate che accadrà in ciascuno dei due casi per poter scegliere per il meglio. [164] Dunque, se votate contro come noi chiediamo, i meritevoli manterranno le ricompense che sono state loro giustamente accordate, ma se qualcuno ne è indegno (e sia pure), oltre ad essere privato del beneficio, subirà la punizione che vi paia più opportuna, secondo la nuova legge che abbiamo presentato in sostituzione. E la città si mostrerà dinanzi a tutti affidabile, giusta, sincera. Se invece confermate la legge di Leptine – scelta che spero non facciate – i valorosi saranno trattati ingiustamente per colpa di uomini dappoco, gli indegni saranno causa di sventure per gli altri ma non subiranno alcuna punizione personalmente, e la città, contrariamente allo scenario che ho appena descritto, apparirà a tutti infida, invidiosa e meschina. [165] Non è certo degno di voi, Ateniesi, scegliere di avere una cattiva reputazione piuttosto che una dovuta alle ottime virtù che vi sono proprie. Perché ciascuno di voi, in privato, partecipa della reputazione che vi siete procurati deliberando collettivamente. Nessuno infatti, che sia tra gli spettatori o meno, ignora che in tribunale Leptine è il nostro avversario, ma nel giudizio di ciascuno di voi che sedete come giudici l’umanità si oppone all’invidia, la giustizia alla malvagità, e quanto c’è di più nobile a quanto c’è di più miserabile. [166] Se seguirete le migliori tra queste disposizioni e voterete come abbiamo indicato, mostrerete di aver preso la decisione giusta e avrete votato nel modo migliore per la città, e se mai verrà il momento, non mancherete di uomini disposti ad affrontare il pericolo per voi. Per tutti questi motivi credo dunque che voi dobbiate impegnarvi e prestare attenzione, cosicché non siate costretti a commettere un errore. Molto spesso infatti, Ateniesi, non vi è stato spiegato quale sia la scelta giusta, e le vostre scelte vi sono invece state strappate dalle grida, dalla violenza e dall’impudenza degli oratori. Possa non accadervi ora: non sarebbe degno di voi. [167] Al contrario, custodite e ricordate fino al voto quella che avete compreso essere la scelta giusta, per votare in ottemperanza al giuramento contro chi vi consiglia per il peggio. Io dal canto mio mi meraviglio che la pena per coloro che adulterano la moneta da voi sia la morte, mentre darete diritto di parola a chi adultera la città intera e rovina la sua credibilità. No, per Zeus e per tutti gli dei! Non so che altro dire, perché credo non ignoriate nulla di quanto vi è stato detto.

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ΠΡΟΣ ΛΕΠΤΙΝΗΝ ΠΕΡΙ ΤΗΣ ΑΤΕΛΕΙΑΣ: Secondo l’anonimo compilatore del II Argumentum (forse Menandro di Laodicea; Heath 2004: 161–3) il fatto che l’imputato Leptine non fosse più direttamente punibile (vd. comm. §144[3]) giustifica il titolo non convenzionale: la preposizione che precede il nome dell’imputato non è, come solitamente, κατά, ma πρός, che è normalmente utilizzato quando la risoluzione di una disputa, spesso su questioni di proprietà, non implica alcun delitto, né comporta alcuna pena (cfr. Isae. 11.34 εἰ δὲ μήτε πρὸς ἐμὲ μήτε κατ᾽ ἐμοῦ δίκην εἶναί φησι τῷ παιδί). L’azione era dunque indirizzata “verso” Leptine al fine di colpire la sua legge (Sandys 1890: XXII–XXIII; Amerio in Canfora 2000: 431; Kremmydas 2012: 61–2). Il titolo dell’orazione nelle testimonianze più antiche è περὶ τῶν ἀτελειῶν (Dion. Hal. Ad Ammaeum Ι, 4.2; De Demosth. Dict. 14.29; Harp. s.v. Λυσίμαχος 87.14; Plut. Dem. 15.3 e 13.5 nella variante attribuita a Panezio ὑπὲρ τῶν ἀτελειῶν), oppure al singolare περὶ (τῆς) ἀτελείας (Hermog. 308.9; 421.3; 439.20; 441.10 Rabe). Ermogene riporta anche il titolo πρὸς Λεπτίνην (99.4; 160.17; 195.15; 350.23; 383.20 Rabe), di lì in poi diffusissimo. Troviamo i due titoli giustapposti per la prima volta in Fozio (codd. 265, 492a): τὸν περὶ τῶν ἀτελειῶν ἤτοι τὸν πρὸς Λεπτίνην. Nei codici in genere si trovano titoli più brevi, quali: πρὸς Λεπτίνην· περὶ ἀτελείας (L) o περὶ τῆς ἀτελείας πρὸς Λεπτίνην (S). 1–7: Demostene espone le ragioni della sua partecipazione al processo: innanzitutto considera un bene per la città abrogare la legge di Leptine, quindi intende aiutare il figlio di Cabria. Passa poi ad anticipare un argomento di Leptine: molti individui indegni godono dell’esenzione. Demostene trae le conseguenze: per colpa di pochi indegni non soltanto chi è esente perderà l’esenzione, ma il popolo perderà il potere di accordarla. Se anche il popolo è occasionalmente ingannato, questa non è una buona ragione per privarlo di ogni potere. Nel ricompensare i meritevoli è meglio errare per eccesso, mentre la legge di Leptine incoraggia gli Ateniesi a essere cattivi cittadini. 1 [1] Ἄνδρες δικασταί […] συνερεῖν: il proemio è limitato a questa sola proposizione, ed è subito seguito dall’ anticipazione degli argomenti dell’avversario. L’assenza di un vero e proprio esordio fu osservata già dagli antichi commentatori (Schol. Dem. 20.1.1 Dilts; Nicolaus Sophistes, 40.20–41.1 Felten) e giustificata in quanto questo non è il primo discorso dell’accusa (Schol. Dem. 20.1.1 Dilts). Fu pronunciato presumibilmente dopo un breve intervento di Apsefione (come responsabile dell’accusa; ma l’assenza di riferimenti alle sue parole suggerisce che si sia limitato a una breve intro-

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duzione, cfr. Rubinstein 2000: 175 n. 48 e Kremmydas 2012: 39–43; pace Carlier 1990: 49–50), e certamente dopo un discorso di Formione (cfr. §51). Va tuttavia osservato con lo scoliasta che in altri casi, come nella Contro Androzione (Dem. 22), un regolare proemio è comunque presente, nonostante il discorso venga per secondo. Non è comunque infrequente che un’orazione giudiziaria manchi di un vero e proprio proemio (cfr. Dem. 41, 56, Is. 3, 5, 9, 11, Lys. 17 con de Brauw 2007: 192). [2] Ἄνδρες δικασταί: aperture ex abrupto con un’invocazione ai giudici (o agli Ateniesi in assemblea) espressa in vocativo sono rare nell’oratoria attica (Dem. 7.1, 32.1, Isae. 3.1, fr. 16.1 Thalheim, Din. fr. 33.1, 51.1, 53.1 Conomis). Normalmente il vocativo segue un altro elemento della frase, che è così posto in rilievo (p. es. Dem. 24.1: τοῦ μὲν ἀγῶνος, ὦ ἄνδρες δικασταί, τοῦ παρόντος). L’apertura col vocativo vuole probabilmente trasmettere un senso di urgenza (Cooper 1998: I.45.3.3; Kremmydas 2012: 176), e ben si accorda al brevissimo proemio e alla rapida transizione successiva, che introduce gli argomenti di Leptine per poi confutarli. Demostene sceglie in genere la forma di indirizzo in base al tipo di processo: nei discorsi pubblici ἄνδρες Ἀθηναίοι compare 384 volte, contro le 83 di ἄνδρες δικασταί (escludendo i due discorsi contro Aristogitone, forse spurii). Il rapporto è inverso nei discorsi privati: 405 a 121 (escludendo Dem. 51 e i discorsi attribuiti ad Apollodoro). Nelle cause pubbliche l’oratore pone l’accento sul ruolo pubblico dei giudici come cittadini, mentre nei discorsi privati l’accento è sulla loro funzione giudiziaria (cfr. Martin 2006: 78–9). Le occorrenze delle due forme in entrambi i tipi di discorsi forensi mostrano tuttavia che la scelta era condizionata anche da altri fattori, p. es. il contesto dell’indirizzo e l’obiettivo dell’oratore (ricordare ai giudici i loro doveri civici in generale, o piuttosto la loro funzione specifica di giudici). È chiaro comunque che la forma ἄνδρες δικασταί non limita l’indirizzo ai giudici soltanto, con ἄνδρες Ἀθηναίοι riferita al resto dei presenti al processo: entrambe le forme si riferiscono invece normalmente ai giudici soltanto (Martin 2006: 79). La forma ἄνδρες δικασταί è particolarmente frequente quando si richiede ai giudici di considerare una legge, e dunque (visto il tema di questi processi) nei casi di γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θείναι (Dem. 24: 33 occorrenze; Dem. 20: 12) e γραφὴ παρανόμων. Nella traduzione si sceglie di impiegare “giudici” e non “giurati” per tradurre δικασταί. Molti studiosi hanno scelto di usare la seconda opzione perché i giudici ateniesi non erano professionisti, e in virtù del loro numero (occasionalmente fino a 2501 per un processo), accostandoli dunque alle



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giurie britanniche e statunitensi (p. es. Hansen 1991; Osborne 1985a; Gagarin 2008; Canfora 2000 passim). Ma mentre un giurato moderno decide soltanto questioni di fatto, e non questioni di diritto, i δικασταί decidevano questioni di fatto e di diritto. Inoltre il giurato moderno giudica pochissimi casi ed è ignaro di diritto. Al contrario i δικασταί guidicavano decine e decine di casi ogni anno e non c’era un tetto massimo al numero di anni in cui potevano servire come giudici. Per questo acquisivano una conoscenza dettagliata del diritto attico e delle procedure processuali (cfr. Harris in Harris, Leao, Rhodes 2010: 1–7). In aggiunta i δικασταί non avevano obbligo di restare in silenzio durante il processo, ma potevano urlare la loro contrarietà nel caso uno degli oratori non si attenesse alle corrette regole procedurali (sulla funzione positiva del thorybos vd. p. es. Bers 1985; Wallace 2004: 223–7; Balot 2004: 244–6; Saxonhouse 2006: 6–9, 28–30, 85–99, 146–151, 209–211), un compito che in un tribunale moderno è riservato al giudice, e non ai giurati. Per tutte queste ragioni seguo Harris (1994: 136 e n. 13, 2008 passim) e Carey (1997; 2000 passim) e traduco “giudici” (vd. anche Cobetto Ghiggia 1995, 2007, 2012). [3] μάλιστα […] συμφέρειν τῇ πόλει: Demostene chiarisce immediatamente che la ragione fondamentale della sua partecipazione al processo è la volontà di rendersi utile alla città. Questo è un topos ricorrente nelle graphai (p. es. Aeschin. 1.1, Dem. 23.1, 24.2, Lyc. 1.2, 6): accuse pubbliche nelle quali l’accusatore era un volontario che doveva agire mosso da altruismo e spirito di servizio. Le allusioni a ciò che è utile richiamano il tema essenziale dei discorsi deliberativi (cfr. Arist. Rhet. 1358b), che devono concentrarsi sul συμφέρον, e suggeriscono che le accuse pubbliche, e in particolare la γραφὴ παρανόμων e quella contro una legge inadeguata, avessero uno statuto ibrido quanto al loro genere oratorio (cfr. Carey 2000b: 200 sulla permeabilità dei confini tra diversi generi oratori). Si noti inoltre che questa accusa era stata intentata come parte della procedura di nomothesia per promulgare la legge sostitutiva. Sebbene dunque il discorso in questione fosse pronunciato in un contesto giudiziario, la partecipazione di Demostene era parte di una più vasta procedura deliberativa, nella quale lo scopo doveva essere il σύμφερον (vd. pp. 12–32 e 71–6). Sulla scorta di passaggi quali Rhet. ad Alex. 1442b molti studiosi (e.g. Jones 1956: 144–5; Dover 1968: 157; MacDowell 1978: 251; Humphreys 1983: 248, Engels 1989: 21 n. 2, 43; Todd 1993: 94; Christ 1998: 37, 127) hanno sostenuto che giustificare una synegoria soltanto in virtù del proprio spirito civico fosse una tattica rischiosa, in quanto poteva dare adito ad ac-

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cuse di sicofantia (cfr. comm. §62[2]), e che la partecipazione ad azioni pubbliche, in particolare come synegoros (vd. sotto), dovesse perciò essere giustificata in termini di relazioni personali con l’imputato o l’accusatore, o in termini di inimicizie personali (cfr. Lavency 1964: 89; Cohen 1995: 72). Harris (2005: 126–31 e 2013: 61–71) ha tuttavia dimostrato che nonostante l’inimicizia fosse occasionalmente identificata come motivazione di un’accusa, più spesso era negata, o attribuita agli avversari come motivazione illegittima (p. es. Lys. 31. 2, Dem. 18.12–16, 21.7–8, 23.1, 5, 190). E questo è particolarmente vero nelle accuse pubbliche (vd. Kurihara 2003; le eccezioni sono molto rare: p. es. Aeschin. 1.2 e vd. sotto comm. §137[4]): Lyc. 1.6 afferma persino che “è dovere del cittadino giusto non portare accuse pubbliche per via di controversie private che non hanno portato alcun danno alla città, ma di considerare chi infrange la legge un suo nemico personale, e di vedere i crimini che danneggiano la comunità come ragioni pubbliche della sua inimicizia”. Alwine (2015: 55–94, 117–53) mostra inoltre che l’inimicizia non era incoraggiata nelle corti ateniesi come motivazione per andare in tribunale, ed era in genere sfruttata retoricamente per rinforzare l’argomentazione giuridica, piuttosto che a sua sostituzione. Gli oratori normalmente giustificano la loro partecipazione ad accuse pubbliche in termini di spirito di servizio, e passaggi come questo mostrano che era tra i doveri del buon cittadino portare accuse pubbliche (cfr. Liddel 2007: 256–9). Rubinstein (2000: 131–40) mostra che su nove synegoroi non eletti ([Lys.] 6, Lys. 13, 14, 15, 27, Dem. 20, 22, [Dem.] 59, Hyp. Phil.) soltanto tre fanno riferimento a legami personali (Lys. 15, 13, [Dem.] 59), e il synegoros sceglie sempre di non soffermarsi troppo su questi legami. In altri casi la giustificazione è che l’oratore ha informazioni privilegiate sul caso e, ancora, interviene per spirito di servizio. Dem. 20 non fa eccezione (Rubinstein 2000: 138–40), e non c’è ragione di interpretare il riferimento a Ctesippo come un’allusione a una motivazione di ordine personale (vd. sotto). [4] λελύσθαι τὸν νόμον: l’uso di questa espressione nel primo paragrafo chiarisce immediatamente quale sia lo scopo dell’accusa, e quindi la procedura in questione: una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θείναι (come suggerisce anche l’accostamento tra λελύσθαι τὸν νόμον e συμφέρειν τῇ πόλει) intentata al fine di abrogare la legge di Leptine (sulla procedura vd. intr. pp. 12–32). Calabi Limentani (1981) ha sostenuto che la legge di Leptine non fosse stata formalmente approvata, ma fosse stata bloccata dalla γραφή prima dell’approvazione finale. Di conseguenza, se anche Leptine avesse vinto la causa, avrebbe comunque dovuto portare la legge dinnanzi ai nomoteti. Contro



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questa interpretazione va notato l’uso costante di λύειν e θείναι riferiti alla legge: la legge era già stata promulgata e avrebbe dovuto essere abrogata. Inoltre, se la legge non fosse stata ancora formalmente approvata, Leptine sarebbe stato soggetto a conseguenze legali nel caso la γραφή avesse avuto successo, il che è escluso da §144 (cfr. Hansen 1985: 367–71; Kremmydas 2012: 177–8). [5] εἵνεκα: i manoscritti sono in accordo sulla grafia εἵνεκα (una forma originariamente ionica), mentre le iscrizioni attiche mostrano che la grafia attica era ἕνεκα. εἵνεκα si trova quasi esclusivamente in iscrizioni poetiche, con la sola eccezione di IG II2 1156 l. 58 (del 334/3 a.C.; il decreto ha anche due volte ἕνεκα). Vd. Threatte (1980–96: ii.660–6). Le iscrizioni erano linguisticamente più conservatrici, mentre la prosa letteraria e i testi poetici erano più flessibili (cfr. la forma –τωσαν dell’imperativo, diffusissima nei testi letterari ma assente dalle iscrizioni fino al 351, e molto rara tra il 351 e il 323; cfr. Canevaro 2013a: 35 n. 79). [6] τοῦ παιδὸς […] τοῦ Χαβρίου: la partecipazione di Demostene all’accusa è dovuta in seconda battuta al figlio di Cabria. Gli oratori talvolta giustificano la loro azione attraverso il richiamo a relazioni di philia (p. es. Isae. 6.1, [Dem.] 59.1) e come tale questo accenno è stato spesso interpretato (cfr. Blass 1893: 265–6; Sandys 1890 28; Kremmydas 2012: 178–9; MacDowell 2009: 157). La philia nel panorama valoriale greco aveva una funzione di collante sociale, che connetteva non soltanto “amici” in senso moderno, ma parenti stretti e consanguinei, vicini, membri dello stesso demo e persino concittadini (cfr. Millett 1991: 110–4; Konstan 1997: 53–9). Si fondava su un criterio di reciprocità vincolante (charis; cfr. comm. §§6[3] e intr. pp. 75–8), ed era integrata in una concezione ampia di pubblico servizio: rendere servizi ai philoi sul piano individuale ha un effetto positivo sull’intera collettività (cfr. Mitchell 1997: 190; Lanni 2006: 25–7; Herman 1987 discute invece il possibile contrasto tra obblighi di philia al di fuori della comunità e la fedeltà alla polis). L’allusione al figlio di Cabria è però un richiamo a una relazione di philia solo in senso lato: Demostene afferma di sentire la necessità di difendere il figlio di Cabria, un concittadino morto in difesa della patria dopo decenni di onorato servizio, da una patente ingiustizia. E tuttavia l’espressione τοῦ παιδὸς εἵνεκα τοῦ Χαβρίου non suggerisce alcun legame specifico. Nel discorso inoltre il nome del giovane, Ctesippo (PAA s. v. Κτήσιππος [n° 587475]; APF, s. v. Χαβρίας [n° 15086]), non è mai citato, a detta di Ateneo (4.165e–166a; cfr. Plut. Phoc. 7.3–4, Ael. De nat. anim. 3.42) per via dei

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suoi cattivi costumi. Questo è tuttavia inverosimile: Ctesippo all’epoca del processo era probabilmente poco più di un bambino (cfr. Amerio 2000: 450 n. 1). Blass (1893: 266) nota che παῖς negli oratori significa “bambino”, e mai genericamente “figlio” (cfr. Lipsius 1905–15: 909 n. 34), e dubita la testimonianza di Dionisio di Alicarnasso (Ad Ammaeum I, 4.9–10; cfr. Din. 1.111), secondo il quale questa è la prima occasione in cui Demostene prese personalmente la parola in un processo politico (contra Jaeger 1948: 85; Carlier 1994: 49; Sealey 1993: 127; Badian 2000: 27–28; secondo Hansen 1975: 98–99 la prima accusa pubblica a cui Demostene partecipò fu invece il processo contro Cefisodoto del 359; vd. intr. pp. 8–9 n. 31). Secondo Blass Demostene non avrebbe avuto alcun titolo per parlare in vece di un minore. In realtà non è necessario pensare che Demostene fosse il rappresentante legale di Ctesippo, che era soltanto uno degli ateleis, avendo ereditato il privilegio dal padre. Il processo dunque lo coinvolgeva genericamente e non personalmente (e per via della sua età non avrà preso parte all’accusa). Nel discutere Cabria (§§75–87), Demostene allude alla presenza di Ctesippo sul luogo durante il processo, ma le sue parole non indicano partecipazione attiva: Ctesippo è nulla più che un povero orfano. La notizia plutarchea (Dem. 15.3) per cui Demostene desiderava col suo intervento ingraziarsi la famiglia di Cabria in vista di un matrimonio con la sua vedova è un pettegolezzo tardo (così Sealey 1993: 298–9 n. 100; Kremmydas 2012: 179), probabilmente creato incrociando le informazioni di questo discorso con l’accusa di Eschine che Demostene in gioventù, scialacquata la sua eredità, andava a caccia di orfani e delle loro madri (Aeschin. 1.170; Kremmydas nota che, se il pettegolezzo fosse all’epoca già stato in circolazione, Eschine lo avrebbe certamente utilizzato in quel contesto). Se dunque l’allusione a Ctesippo è un richiamo alla philia, essa va intesa come un obbligo vincolante per tutti i cittadini (non solo per Demostene) di ricambiare i servizi che Cabria ha reso alla città (cfr. §§75–87). Nulla più è suggerito dalle parole di Demostene. Nell’economia del discorso dunque l’allusione a Ctesippo nel proemio non ha una funzione alternativa rispetto all’affermazione che abrogare la legge sarà un bene per la città. Entrambe puntano a dipingere Demostene come un cittadino responsabile che agisce per spirito di servizio verso la città. L’allusione a Cabria e Ctesippo ha il fine ulteriore di sfruttare la memoria del generale, e la condizione di orfano di suo figlio. Non si può escludere che Demostene avesse ragioni ulteriori per intervenire in difesa di Ctesippo, in ossequio a un legame di philia più stretto (o politico: sul ruolo della philia nelle fazioni politiche ateniesi vd. p. es. Connor 1971: 40–1, 66–7; Mitchell-Rhodes 1996; Hansen 1991: 283;



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Mitchell 1997: 41–72), ma niente nel discorso incoraggia questa lettura (e nessuna fonte esterna la conferma). [7] τούτοις […] συνερεῖν: Demostene chiarisce la natura del suo intervento, come synegoros e non come accusatore principale. L’oratore faceva parte in questa accusa di un team di accusatori (hipoth. I menziona ulteriori accusatori, ma non è affidabile: vd. Sealey 1993: 126). La pratica di condividere il tempo a disposizione nelle accuse pubbliche (più raramente nelle dikai) con amici, parenti o esperti uomini politici era normale nei tribunali attici (Hyp. Lyc. 20; Andoc. 1.92–5, 133, 150). Questa funzione era chiamata synegoria (p. es. [Dem.] 59.14) e permetteva anche a querelanti relativamente inesperti di servirsi del supporto di altri. Per questo la funzione del synegoros è stata paragonata a quella del moderno avvocato (Bonner 1927). E tuttavia ad Atene una legge, citata in un documento a Dem. 46.26, a quanto pare rendeva illegale pagare un synegoros (il documento è però un’inserzione tarda; la legge è discussa da Rubinstein 2000: 52–8). Ma se anche il documento a Dem. 46.26 fosse un falso, vari passi degli oratori mostrano che essere smascherato come synegoros prezzolato screditava un oratore in modo irreparabile (p. es. Dem. 1.111, Lyc. 1.138, [Dem.] 44.3). Il parallelo più probabile con i moderni avvocati è invece la figura del logographos, che scriveva discorsi per altri (cfr. Lavency 1964). Wolff (1968) ha evidenziato l’obbligo di perorare la propria causa da sé, e con ciò ha ridotto il synegoros a un ruolo marginale di Fürsprecher. Contra Rubinstein (2000; cfr. ante Lavency 1964: 84–95) ha mostrato che le accuse pubbliche di gruppo erano ad Atene la regola piuttosto che l’eccezione (Rubinstein 2000: 58–64), e che i synegoroi si presentavano come veri e propri accusatori, e non come partigiani dell’accusatore pricipale (Rubinstein 2000: 21–22 e passim), che sosteneva il peso legale dell’accusa (e in caso di sconfitta con meno di un quinto dei voti perdeva la capacità legale di intentare una graphe, una phasis o una ephegesis e pagava una multa di 1000 dracme; cfr. Theoph. fr. 4b Szegedy-Maszak con Harris 2006: 406–16). Simile a quella del synegoros è la figura del syndikos (per l’uso dei due termini vd. Lavency 1964: 84 n. 1 e Rubinstein 2000: 43–5; syndikos è più raro), che tuttavia era in genere eletto come rappresentante di un’associazione, un demo, una tribù o l’intera polis (p. es. Dem. 23.206). Nel processo in questione si definiscono appunto syndikoi i difensori della legge di Leptine (§§146 e 152–3), in quanto eletti dall’Assemblea (vd. intr. pp. 13–15). L’uso di synegoros e syndikos non è però sempre preciso (Dem. 24.36; 29.23; 32.12; 34.12; Hyp. Eux. 12; cfr. Rubinstein 2000: 44).

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Il deittico τούτοις era qui probabilmente accompagnato da un gesto verso gli altri accusatori. Apsefione, l’accusatore principale (vd. §§146, 148 e intr. pp. 14, 33, 71), probabilmente pronunciò un discorso brevissimo, e fu seguito da Formione (vd. intr. pp. 33, 71 e §§51, 100, 159) con un discorso più lungo, che toccò temi quali l’ingiustizia della legge di Leptine (§2), le circostanze della Guerra Sociale (§51), l’approvazione della legge alternativa proposta dall’accusa (§100) e il decreto di Demofanto (§159). Kremmydas (2012: 43) osserva che la lunghezza del discorso di Demostene, e i temi da lui trattati, suggeriscono che il suo fosse il discorso più importante. [8] Λεπτίνης […] ἐρεῖ: l’anticipazione degli argomenti degli avversari è frequente negli oratori, ed è stata canonizzata nella figura retorica della prolepsis o anteoccupatio. La fonte principale di simili informazioni erano le fasi preliminari del processo (cfr. già Thalheim 1894: coll. 2050–2051): tanto l’enklema quanto l’anakrisis erano vincolanti per le parti in causa, e all’anakrisis si svolgeva un vero e proprio dibattito. Gli oratori di fronte ai giudici dovevano attenersi in larga parte a quanto anticipato in quella sede (vd. Thür 2007; Faraguna 2007: 21–7; 2008; Harris 2013: 114–36), per cui era facile per un oratore sapere di quali argomentazioni si sarebbe servito l’avversario. Dorjahn (1935) ha avanzato ulteriori ipotesi sulle fonti di informazione disponibili, non più, come ebbe a dire Dover (1968: 169–170), nel campo della giurisprudenza, ma in quello della sociologia. Deve essere stato difficile, in una città come Atene, mantenere segreti (sul gossip ad Atene vd. Ober 1989: 148–52; Hunter 1990: 302; 1994: 96–119; Allen 2000: 142, 169; Gottesman 2014: 13–19 e passim). Inoltre è utile anticipare argomenti che l’avversario non intende usare, poiché nel caso egli non vi risponda, il pubblico avrà l’impressione che si sia ritrovato impotente di fronte alla confutazione. Nel caso invece che decida di improvvisare e ribattere, sarà obbligato a togliere tempo prezioso a quanto preparato. [9] ὡς ἂν οἷός τε ὦ: simili espressioni di modestia (diffuse nell’oratoria attica e di ogni tempo) sono particolarmente appropriate in questo contesto: Demostene era un giovane oratore, probabilmente sconosciuto ai più e questa era la prima accusa pubblica a cui prendeva parte (se crediamo a Dion. Hal. Ad Ammaeum I 4.9–10; cfr. anche Din. 1.111; vd. sopra). Un’allusione ancora più esplicita alla sua giovane età si trova a Dem. 27.2 (ἄπειρον ὄντα παντάπασι πραγμάτων διὰ τὴν ἡλικίαν), quando giovanissimo tentava di recuperare la suà eredità. Per un’allusione analoga vd. Dem. 54.1–2, dove Aristone afferma che un giovane doveva mostrare deferenza in una corte di giustizia.



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[10] τις ἄλλος: il riferimento è ai syndikoi della legge, che la difenderanno insieme a Leptine (cfr. §§146–53), ma Demostene preferisce non soffermarsi qui sulla loro identità. [11] ἀναξίους τινὰς ἀνθρώπους εὑρομένους ἀτέλειαν ἐκδεδυκέναι τὰς λειτουργίας: Demostene dedicherà una lunga sezione a dimostrare che non tutti gli esenti sono indegni, e che ci sono molti benefattori che perderanno la loro meritata esenzione se la legge di Leptine non sarà abrogata (§§7–87). Demostene si sofferma subito sulle esenzioni dalle liturgie (sulle liturgie vd. intr. pp. 47–54), e le citazioni della legge di Leptine a §§127 e 128 sembrano confermare che queste furono le uniche esenzioni abolite dalla legge di Leptine (vd. intr. pp. 55–63). 2 [1] δωρεάν: il singolare è utilizzato 21 volte in questo discorso per indicare l’onore specifico dell’ateleia eliminato dalla legge di Leptine. Più spesso (28 volte) Demostene utilizza il plurale, talvolta per indicare l’insieme delle singole ateleiai per i vari benefattori, talvolta tutti i premi accordati. Mentre il termine δωρεά ha negli oratori sempre significato positivo legato alle ricompense accordate dal popolo, il più generico δῶρον ha invece significato negativo: doni nel senso di “bustarelle”, oggetto di corruzione. Sul significato del termine in relazione all’evergetismo vd. Domingo Gygax (2003: 188–90). I manoscritti sono in disaccordo sulla grafia di questa forma, e oscillano tra δωρεά e δωρειά. Si adotta qui δωρεά, attestato nelle iscrizioni come grafia corrente ad Atene quando il discorso fu composto (vd. Threatte 1980–96: ii. 730). [2] τῶν ἀδίκων: l’uso del genitivo con εἰμί per indicare la natura, i doveri o i costumi di una persona (cfr. Smyth 1920: 315 no. 1305) è frequente in Demostene (p. es. Dem. 8.72) e significa letteralmente “è proprio di coloro che sono ingiusti”. Dunque τῶν ἀδίκων dev’essere in questo contesto maschile e il neutro (pace Kremmydas 2012: 181) è impossibile. La legge di Leptine sarà giudicata dai giudici, e requisito fondamentale perché l’accusa abbia successo è che Demostene ne dimostri l’ingiustizia e la reputazione di ingiustizia che ne verrà ai giudici. L’oratore dunque ripetutamente fa notare che togliere le esenzioni ai benefattori significa commettere un’ingiustizia contro di loro, che si rifletterà sul carattere degli Ateniesi (p. es. §§41, 43, 44, 51, 59, 63). Quella di ingiustizia è soltanto una delle accuse rivolte con-

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tro la legge nel corso dell’orazione: a §9 non abrogare la legge è motivo di vergogna (αἰσχρόν, vd. comm. §9[1]). [3] ἐάσω: Demostene usa spesso la paraleipsis per richiamare l’attenzione dei giudici su un punto di particolare importanza (p. es. Dem. 21.15, 19.145, 182; vd. MacDowell 2009: 406), evitando di accumulare argomenti come in una lista (problema presente invece con τοίνυν; vd. §5[1]) e introducendo un elemento di variatio che al contempo mostra riguardo per i giudici, il cui tempo non deve essere sprecato. [4] εἴρηται: Demostene fa riferimento qui al discorso di Formione (cfr. §§1, 51, 100, 159 con comm. §1[7] e 51[3]), che aveva già toccato il punto dell’ingiustizia della legge di Leptine. Kremmydas (2012: 182) vuole scorgere in τρόπον τινὰ un accenno non lusinghiero alla performance di Formione, ma velate riserve sui suoi coaccusatori non avrebbero certo giovato a Demostene. τρόπον τινὰ va letto insieme alla captatio benevolentiae di καὶ ὑφ’ ὑμῶν ἴσως γιγνώσκεται, e il suo scopo è evidenziare la fiducia di Demostene nei giudici e nel loro discernimento, piuttosto che i suoi dubbi sulla performance di Formione. [5] ἂν ἐροίμην ἡδέως αὐτόν, τίνος εἵνεκα, εἰ τὰ μάλιστα μὴ τινὲς ἀλλὰ πάντες ἦσαν ἀνάξιοι, τῶν αὐτῶν ἠξίωσεν ὑμᾶς τε καὶ τούτους: Demostene fa spesso uso di domande retoriche (p. es. Dem. 21.120, 19.334; vd. MacDowell 2009: 404) alla parte avversaria, spesso unite a un’apostrofe (p. es. Dem. 18.285, 306; vd. MacDowell 2009: 405–6), per dare varietà e vivacità all’argomentazione. Qui combina la domanda a Leptine con l’accettazione provvisoria del suo (presunto) punto di vista (tutti coloro che hanno l’esenzione ne sono indegni), per poi trarne le dovute conseguenze e mostrare che anche in questo caso la legge di Leptine è ingiusta (sull’hypophora, l’accettazione provvisoria, come in un dialogo immaginario, delle posizioni dell’avversario, in Demostene vd. MacDowell 2009: 404–5; cfr. Dem. 18.95, [Dem.] 40.23). Le conseguenze sono espresse nell’interrogativa indiretta “per quale ragione [...] abbia ritenuto che anche voi meritiate i loro stessi provvedimenti”. La reazione a questa interrogativa sarà stata di sorpresa: non è chiaro come Leptine abbia privato gli Ateniesi di qualcosa. Demostene ha così ottenuto la piena attenzione dei giudici, e può procedere a spiegare in che senso gli Ateniesi siano trattati dalle legge di Leptine come chi è indegno dell’ateleia. [6] μηδένα εἶναι ἀτελῆ: sulla formulazione e sul raggio di applicazione della legge di Leptine vd. intr. pp. 55–63. Qui Demostene vuole evidenziare



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che la legge limiterà i poteri del demos, perché impedirà agli Ateniesi di approvare esenzioni in futuro. La frase pone gli effetti della legge in un crescendo: non solo toglierà le esenzioni ai benefattori, ma toglierà agli Ateniesi il potere di accordarle e dunque la loro sovranità. [7] ὑμῖν ἐξεῖναι: H. Wolf e da F. A. Wolf espungono in quanto “ineptus videtur ipse circuitus, qui est in verbis τὸ δοῦναι ὑμῖν ἐξεῖναι, quando simpliciter τὸ δοῦναι potueras dici potestas donandi”. Navarre-Orsini considerano la locuzione una glossa. Si seguono qui Bekker, Blass, Butcher, Sykutris, Kremmydas e Dilts (in cui è tuttavia presente un errore nella punteggiatura: il punto dopo τὸ λοιπὸν ἐξεῖναι δοῦναι, sostituito alla virgola degli altri editori, spezza la doppia reggenza di ἀφείλετο e isola ὑμᾶς τὸ δοῦναι ὑμῖν ἐξεῖναι, che in questo modo non dà senso). Sebbene l’enunciazione sia effettivamente ridondante, risponde a un criterio di simmetria della frase, per cui, così come alla prima citazione della legge segue l’enunciazione della sua conseguenza (“nessuno sia esentato” comporta che i detentori dell’esenzione ne siano privati), alla seconda segue una seconda conseguenza (che non sia lecito in futuro concedere l’esenzione comporta che il popolo non abbia appunto più il potere di concederla). Contribuiscono a confermare la lezione le citazioni del passo in Demetr. De eloc. lib. 51.26 Radermarcher e Hermog. 4.3.36, 110, 122 Rabe. [8] ἀναξίους […] ἀνάξιον: Demostene conclude che la legge di Leptine è testimonianza della sua convinzione che così come gli esenti sono indegni della loro ateleia, il demos è indegno del potere di accordarla. Questa argomentazione è basata su una concezione olistica di τιμή come concetto bidirezionale (altri concetti similmente bidirezionali sono αἰδώς: vd. Cairns 1993; ἄτη, vd. Cairns 2012) che riassume in sé tanto il senso del valore di un individuo, ai suoi occhi come agli occhi altrui, quanto le azioni e le parole con cui questo valore, questo status, viene riconosciuto, due aspetti strettamente interconnessi (cfr. van Wees 1992: 69–77; Cairns 2001, 2002, 2003: passim, 2011: 29–30 e passim; i due aspetti descritti sono equivalenti ai concetti di “demeanour” e “deference” in Goffman 1967). Dunque, se si impedisce agli Ateniesi di accordare onori a un benefattore, oltre a cancellare la possibilità del benefattore di ricevere τιμή, si restringe anche la τιμή stessa degli Ateniesi (l’insieme di prerogative che fanno parte della loro autorappresentazione e della loro percezione da parte degli altri) come dispensatori di onori. Onori accordati come premio per servizi resi alla città sono τιμαί allo stesso modo delle prerogative di un cittadino, come partecipare all’Assemblea e votare l’ateleia a chi si desidera (e il cittadino privato di

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queste prerogative è quindi atimos). Se dunque Leptine giustifica l’abolizione delle esenzioni in ragione dell’indegnità dei beneficiari (ἀνάξιος compare in questo discorso più che in ogni altro, 15 volte), l’abolizione del potere del demos di accordare l’esenzione deve essere giustificata in termini analoghi: il demos è indegno della prerogativa (τιμή) di accordare questo onore. Il ragionamento, in virtù di questo significato olistico di τιμή, dev’essere apparso assolutamente ovvio ai giudici. Una volta stabilito il presupposto implicito della legge, Demostene ha buon gioco a mettere in scena la ritrattazione di Leptine (il demos non è indegno, ma può essere ingannato), per demolire progressivamente ogni nuova formulazione. [9] κύριον εἶναι […] ἐάν τῳ βούληται: si è a lungo dibattuto su quale fosse il luogo della “sovranità” ad Atene, se l’Assemblea, le leggi o i tribunali, e se ci sia stato nel quarto secolo uno spostamento della “sovranità” dall’una agli altri (p. es. Ostwald 1986; Sealey 1987; Ober 1989: 22–3; Hansen 1974; 1991: 150–5, 300–4; Todd 1993: 170, 298–9; Blanshard 2004; Cammack 2012). In realtà ad Atene non esisteva una concezione esclusiva di “sovranità”: all’occhio di un’ateniese non c’era contraddizione nell’affermare che i giudici, le leggi o il demos fossero “sovrani” (κύριοι; cfr. Hansen 1981; 1999: 303; 2010, che tuttavia sostiene che la sovranità risiedesse nel IV secolo nelle corti e non nell’Assemblea, vd. Hansen 1974: 15–18; 1990: 239– 43; contra Harris 2016; sulla sovranità ad Atene come “divided power” vd. Pasquino 2010). Questo passaggio, nonostante si riferisca al potere specifico di accordare l’ateleia, sembra accennare a un concetto più vasto di sovranità con l’uso di κύριον. Questa sovranità, che concerne l’ateleia, è ovviamente attribuita al demos in Assemblea. E tuttavia nella frase precedente Demostene afferma che Leptine priva “voi”, che qui va interpretato come “i giudici”, di questo potere. Gli oratori spesso identificano i giudici con gli Ateniesi in generale (p. es. Dem. 18.1, 19.1, 20.1, 21.1, 22.4, 23.1, 24.6, 25.8, 26.1; cfr. Rhodes 1981: 160; Ostwald 1989: 34–5 n. 131; pace Hansen 1974: 21; 1990: 221 che nega che un’identificazione fosse possibile), e l’indirizzo a “voi” può riferirsi ai giudici nel processo specifico, ai giudici in un processo precedente o agli Ateniesi la cui volontà si esprime nell’Assemblea (cfr. MacDowell 1990: 235, 314). [10] [ἀφείλετο]: il verbo è espunto da Reiske come dittografia dalla linea precedente. La variante νομίζων di F dev’essere correzione di un copista che tenta di aggiustare la sintassi intorno ad ἀφείλετο.



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3 [1] ἀλλὰ νὴ Δι’: Demostene usa frequentemente νή con l’accusativo per introdurre un’affermazione enfatica (MacDowell 2009: 402–3) e talvolta, come qui, un’obiezione immaginaria attribuita all’avversario, che procede poi a demolire (MacDowell 2009: 405). Qui l’oratore sa che Leptine non ammetterà di ritenere gli Ateniesi indegni del potere di accordare l’ateleia, e cercherà una scappatoia (gli Ateniesi vengono spesso ingannati). Dopo avere anticipato l’argomento principe della difesa, Demostene anticipa gli argomenti successivi della sua ritrattazione, dando così l’impressione di coprire ogni possibile argomentazione di Leptine. [2] διὰ τὸ ῥᾳδίως ἐξαπατᾶσθαι τὸν δῆμον: che gli Ateniesi siano vittime degli inganni di abili oratori è richiamato frequentemente negli oratori (p. es. Dem. 8.63, 15.16, 19.29–30, 23.96–7; Aeschin. 3.35; Isoc. 8.10; vd. Kremmydas 2013 per un’analisi della retorica e meccanica dell’inganno). Le fonti confermano inoltre che dovette esistere ad Atene un reato di ἀπάτη τοῦ δήμου (vd. comm. §§100[2]). La concezione per cui decisioni errate devono essere frutto di cattivi consigli da parte degli oratori è tipica della democrazia ateniese ([Xen]. Ath. Pol. 2.17). Si fondava sul principio della saggezza del popolo, articolata in parte sulla naturale superiorità degli Ateniesi, in parte sulla concezione per cui una collettività aggrega in sé la somma di molte intelligenze, sicuramente superiore a quella di qualsiasi singolo (Arist. Pol. 1281a41–b2; Fisher 2003: 182; vd. comm. §14[2]). Infine le istituzioni democratiche hanno un ruolo educativo per il cittadino, che dunque acquisisce competenze sempre più ampie. Dunque gli errori del popolo devono essere frutto di cattivi consigli, dovuti talvolta a semplice insipienza e talvolta a cattiva fede. In tal caso le ragioni di una patente mancanza di patriottismo possono essere venalità o tendenze antidemocratiche (vd. per questa analisi Ober 2000: 135–141; 2008: 110–12; cfr. Hesk 2000: 55). [3] ἔθηκε τὸν νόμον: τίθημι ha, in riferimento a una legge o a un decreto, il significato di “promulgare”, ed è usato di leggi o decreti passati dall’Assemblea o dai nomothetai. Per una proposta si usano in genere γράφειν o εἰσφέρειν. La legge di Leptine era dunque già stata promulgata (vd. comm. §1[4], pace Calabi Limentani 1981). [4] πάντα ἀφῃρῆσθαι καὶ ὅλως τὴν πολιτείαν ὑμᾶς: Demostene intende con πολιτεία l’organizzazione della vita pubblica ateniese in generale, in ogni suo aspetto ((comm. §105[4]), cfr. MacDowell 1990: 283). Qui l’oratore porta l’argomentazione attribuita all’avversario alle estreme conseguen-

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ze: è vero, gli Ateniesi si fanno spesso ingannare (come è esplicitato nella frase seguente), ma se questa è una ragione sufficiente per privarli del potere di accordare l’ateleia, a rigor di logica dovrebbero essere privati di ogni potere; l’intera costituzione ateniese, che si basa sulla sovranità del popolo, dovrebbe essere abolita, perché non c’è ambito della vita pubblica nel quale gli Ateniesi non siano stati ingannati. [5] κεχειροτονήκατε: χειροτονεῖν è usato esclusivamente per votazioni nell’Assemblea, e indica un voto per alzata di mano (cfr. Boegehold 1963; Staveley 1972: 84–5; MacDowell 1975: 70; Hansen 1983: 103–17; 1985: 93–4; Rhodes 2003: 126–7; Canevaro 2013b: 145–6), mentre ψηφίζειν è usato sia per votazioni che implicavano l’uso di ψήφοι (in Assemblea o in un tribunale) sia, metaforicamente, per votazioni per alzata di mano in Assemblea (cfr. Hansen 1983: 103–4). [6] συμμάχους ἤδη τινὰς ἥττους ἀντὶ κρειττόνων: la rappresentazione di Atene schierata coi più deboli, che sceglie gli alleati non in funzione della loro potenza ma del loro bisogno, è frequente nella prosa attica (p. es. Thuc. 6.18, 2; 6.87, 2; [Andoc.] 3.28; Isoc. 4.52–65; Dem. 15.22; sulla rappresentazione stereotipata nella tragedia e nei discorsi funebri del patronato ateniese dei deboli vd. Loraux 1981: 67–8 e Tzanetou 2012: 1–30 e passim; p. es. Aesch. Suppl., Soph. Oed. Col, Eur. Suppl., Heracl., Lys. 2.11–15, Isoc. 4.56, Dem. 60.8, 32). Demostene rappresenta quello che è normalmente un motivo di orgoglio per gli Ateniesi come un esempio degli inganni subiti. D’altro canto, l’oratore qui pretende di seguire il pensiero di Leptine, per poi confutarne la logica, per cui qualunque reazione negativa del pubblico a questo esempio avrebbe difficilmente avuto Demostene come bersaglio, ma avrebbe al contrario contribuito alla rappresentazione di Leptine come egoista e ingrato. [7] καὶ ὅλως […] τι συμβαίνειν ἀνάγκη: Demostene giustifica gli occasionali errori commessi dal demos in ragione della mole di questioni di cui si deve occupare, e implicitamente accusa Leptine di non essere altrettanto indulgente, e di ritenere invece che per quegli errori il demos debba essere privato di ogni potere. Demostene è riuscito a rappresentare la legge di Leptine come prova del carattere antidemocratico del suo proponente, evitando tuttavia qualsiasi attacco frontale, utilizzando la logica piuttosto che l’invettiva (sulla rappresentazione di Leptine e della sua legge come antidemocratici vd. comm. §§11[3]; sull’assenza di attacchi personali vd. comm. §§13[3]).



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ἀνάγκη è qui utilizzato in senso astratto, a indicare “necessità”, l’inevitabilità per gli Ateniesi di qualche errore, vista la mole dei loro doveri. Questo significato è frutto di un’evoluzione: nei testi arcaici ἀνάγκη ha invece il significato concreto di “costrizione”, “giogo”, e fa spesso riferimento alla volontà dei forti imposta sui deboli (p. es. Hom. Il. 16.831, 836). Nel quinto secolo la connotazione astratta del termine, con riferimento al fato, alle leggi di natura (p. es. Eur. Tr. 886, Ar. Nub. 1075; Thuc. 5.105.2) convive con il senso concreto di “costrizione” (p. es Eur. Tr. 754–5, Thuc. 1.75.3). Il concetto è spesso personificato e divinizzato (p. es. Eur. Alc. 962–80, Hdt. 8.111) e diviene oggetto di culto (Dover 1974: 140–1 n. 14). In questo passo il termine rinforza l’argomento che qualche errore da parte degli Ateniesi è fatalmente inevitabile (sugli usi del termine e sulla sua evoluzione cfr. Schreckenberg 1964; Ostwald 1988; Gregory 1991: 89–94). 4 [1] θησόμεθα: Demostene chiude la confutazione dell’argomentazione (teoretica) di Leptine con una domanda retorica che espone un argomento per assurdo: se il fatto che il popolo è spesso ingannato è giustificazione sufficiente per cancellare il potere del demos di accordare l’ateleia, visto che il popolo è ingannato in ogni tipo di questione, non sarebbe dunque giustificato promulgare una legge che tolga al demos ogni potere? Demostene fornisce un’ipotetica formulazione di questa legge, rendendone concreto il funzionamento attraverso il riferimento alla probouleusis e alla cheirotonia. Questa formulazione sarà ovviamente parsa assurda ai giudici, e Demostene propone un’alternativa articolata in due ragionevoli misure: 1) che si creino procedure per insegnare al demos a non farsi ingannare e 2) che si passi una legge che punisca chi inganni il demos. [2] μήτε προβουλεύειν μήτε χειροτονεῖν μηδέν: Demostene propone un equivalente fittizio e assurdo della legge di Leptine. L’ipotesi di impedire al popolo di προβουλεύειν e di χειροτονεῖν equivale alla paralisi del processo decisionale democratico. Esso si articolava in una prima fase probuleumatica, in cui il Consiglio dei 500 prendeva in esame le varie questioni ed emetteva al riguardo un “decreto preliminare” (probouleuma; vd. [Arist.] Ath. Pol. 45.4), e una seconda fase in cui l’Assemblea discuteva i decreti preliminari posti all’ordine del giorno dai pritani ed esprimeva il suo voto (appunto χειροτονεῖν). Regola fondamentale del processo decisionale era il principio meden aprobouleuton: era vietata in Assemblea la discussione di proposte che non fossero state prima esaminate dal Consiglio ([Arist.] Ath. Pol. 45.4; Dem. 22.5; Dem. 24 hypoth. 1). I probouleumata potevano

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essere “effettivi”, cioè elaborati nel dettaglo, oppure “aperti”, che lasciavano all’Assemblea il compito di formulare il decreto (Rhodes 1972: 52–82; cfr. anche de Laix 1973 e Rhodes con Lewis 1997: 11–32). [3] διδαχθῆναι: la prima misura alternativa proposta da Demostene è che il demos sia istruito cosicché non venga persuaso dagli oratori che cercano di ingannarlo. Demostene si riferisce all’istruzione fornita dai buoni oratori, il cui consiglio può evitare al demos terribili errori. La funzione didattica è implicita nel ruolo dell’oratore, che come il poeta si assume l’incarico di consigliare i suoi concittadini e di istruirli (cfr. Dover 1974: 29–30; Yunis 1996: 72–6). In diretta polemica con questo ruolo didattico dell’oratore è l’argomento platonico del Gorgia (presentato da Socrate e parzialmente accettato da Gorgia) che il rhetor non insegna (didaskein), si limita a persuadere (peithesthai) le masse (Pl. Gorg. 454). La figura ideale del buon politico ad Atene è quella di Solone (cfr. comm. §90[1]), che istruì il demos con le sue leggi e la sua poesia. Spesso negli oratori il verbo διδάσκειν è utilizzato senza sottintendere alcun rapporto maestro/allievi, ma piuttosto col significato di “informare” sui fatti, su una legge, su una questione specifica di cui l’oratore ha conoscenza privilegiata (p. es. Isoc. 16.2, 4, Dem. 29.1, Lys. 3.21, 6.35). Spesso, d’altro canto, un rapporto didattico e gerarchico è chiaramente sottinteso (p. es. Dem. 35.49, Lys. 10.15, 13.4, Hyp. Dem. 21–2, Lyc. 1.124; cfr. Lee Too 1995: 200–32 e Ober 1989: 166–70). Demostene, come Licurgo (1.124), non esita in discorsi più tardi a rappresentare la propria azione come quella di un insegnante (e così la rappresenta Hyp. Dem. 21–2), ma qui διδάσκειν è utilizzato al passivo, come a suggerire che l’antidoto agli inganni dei demagoghi è il consiglio di cittadini e oratori di valore, senza un riferimento a sé stesso, probabilente per via della sua giovane età e scarsa esperienza pubblica (ma Pearson 1941: 212–21; North 1952: 26; Perlman 1964: 135; Ober 1989: 166–81; Wolpert 2003: 540; Clarke 2008: 249 n. 14 esagerano la cautela degli oratori nel rappresentarsi come insegnanti e nel mostrare le proprie conoscenze e la propria cultura, vd. Canevaro [c.d.s. c]). [4] τὸ κυρίους ἡμᾶς εἶναι: il riferimento al potere specifico di accordare l’ateleia viene meno e, coerentemente con l’argomento per assurdo, τὸ κυρίους ἡμᾶς εἶναι fa riferimento alla sovranità del demos in generale (vd. comm. §2[9]). [5] θέσθαι νόμον […] δι’ οὗ τὸν ἐξαπατῶντα τιμωρησόμεθα: Demostene stranamente propone come ulteriore misura una legge che punisca chi inganna il demos, e tuttavia questa legge sull’ ἀπάτη τοῦ δήμου esisteva già,



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come Demostene stesso chiarisce a §§100, 136 (vd. comm. §100[2]). Harris (2008: 23 n. 25) suggerisce che la legge a cui Demostene allude qui sia la legge alternativa presentata da Apsefione, Formione e Demostene discussa a §§99–101. Ma questa legge istituiva una valutazione formale in tribunale del merito del singolo onorando, e aboliva le sue esenzioni se ne fosse risultato indegno, ma non puniva chi ingannasse il demos nel proporre queste esenzioni (cfr. comm. §88[6]). 5 [1] τοίνυν: la funzione di τοίνυν è facilitare una transizione e introdurre un nuovo argomento (Denniston 1950: 574–5). La sua frequenza è insolitamente alta in quest’orazione (vd. Kremmydas, 2012: 190–1 e già Blass 1893: 272), il che crea una certa monotonia, attribuita da Kremmydas all’inesperienza di Demostene all’epoca del discorso. [2] λυσιτελέστερόν: il termine, sinonimo di συμφέρον, è più appropriato a un contesto deliberativo, ma l’elemento dell’utilità e del vantaggio è rilevante in una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θείναι, che deve decidere se una legge debba rimanere in vigore (vd. comm. §1[3] e intr. pp. 71–6). [3] κυρίους μὲν ὑμᾶς εἶναι τῆς δωρεᾶς [...] διὰ τοῦ παντελῶς ἀκύρους γενέσθαι μηδ’ ἂν ἄξιόν τιν’ εἰδῆτ’ ἐξεῖναι τιμῆσαι: in questa frase Demostene, fedele al suo proposito di esaminare la questione in sé (αὐτὸ καθ’ αὕτο), riassume in una potente formulazione le suggestioni dei paragrafi precedenti, combinando l’importanza delle δωρεαί al problema della sovranità del demos (κυρίους / παντελῶς ἀκύρους) e al concetto di τιμή. La legge di Leptine pone gli Ateniesi di fronte a un’alternativa: da un lato la possibilità di accordare δωρεαί, che equivale a conservare la sovranità del demos (κυρίους; cfr. comm. §2[9]), dall’altro l’impossibilità di dispensare τιμή ai benefattori, che a sua volta sottintende la limitazione della τιμή del demos (cfr. comm. §2[8]), e risulta dunque nell’eliminazione della sovranità del popolo (παντελῶς ἀκύρους). [4] διὰ τί; l’interrogativa diretta dà vitalità all’argomentazione, creando l’illusione che si stia sviluppando in modo interattivo. ὅτι ἐκ μὲν τοῦ πλείονας […] φιλοτιμεῖσθαι: Demostene introduce qui uno dei concetti chiave del discorso: la φιλοτιμία. Sulla funzione di questo concetto qui e più in generale nell’ideologia pubblica della città vd. intr. pp. 77–96. Dopo avere introdotto il concetto, la cui importanza sarà parsa ovvia ai giudici, Demostene non discute come le ricompense in passato abbiano effettivamente procurato alla città molti benefattori. Non c’è necessità di

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dimostrazione: una volta mostrato che la legge di Leptine, e i suoi presupposti, minano alle fondamenta l’economia pubblica degli onori e spezzano il circolo virtuoso della φιλοτιμία, Demostene è certo di avere in mano un potente argomento contro la legge, che ripeterà e svilupperà lungo tutta l’orazione (la φιλοτιμία è citata esplicitamente a §§5, 10, 41, 69, 82, 103, 155). 6 [1] πρὸς δὲ τούτῳ καὶ δι’ ἐκεῖνο: Demostene introduce un’ulteriore ragione (πρὸς δὲ τούτῳ) per tributare onori, anche a costo di essere occasionalmente ingannati, con una prolessi (καὶ δι’ ἐκεῖνο). [2] εὐηθείας τινὰ δόξαν ἔχοιεν ἄν: l’oratore sfrutta il contrasto tra un senso peggiorativo di εὐήθεια come “ingenuità” che confina nella “stupidità” (cfr. Hdt. 1.60.3, 2.45.1), e un senso etimologico che evidenzia la buona disposizione d’animo dell’εὐήθης, caratterizzato da semplicità, ingenuità. Il passo argomentativo è astuto: lascia aperta la possibilità di interpretare l’εὐήθεια come un tratto caratteriale moderatamente negativo, e tuttavia preferibile alla κακία, mentre in realtà i giudici l’avrebbero vista in ultima analisi positivamente, con l’effetto retorico di rendere l’argomentazione, artificialmente, più convincente di quanto l’oratore stesso dia l’impressione di comprendere. Gli Ateniesi amavano infatti rappresentarsi nel ruolo di difensori dei più deboli, ai limiti dell’ingenuità (vd. comm. §3[6]). Che questo termine avesse nella galassia morale degli Ateniesi una valenza benignamente positiva è mostrato dal commento tucidideo sugli effetti della stasis (Thuc. 3.83.1): τὸ εὔηθες, “che è l’ingrediente principale della nobiltà, divenne oggetto di derisione e scomparve” (cfr. Creed 1973: 229–30). Confermano questa valenza positiva del termine anche gli sforzi di Platone per integrarlo nella sua costellazione di virtù al fianco del coraggio, della giustizia, della temperanza, e contrapposto alla κακοήθεια (Pl. Rep. 401a7–8 con Gaudin 1981). [3] οἱ δὲ τοὺς ἀγαθόν τι ποιοῦντας ἑαυτοὺς μὴ τοῖς ὁμοίοις ἀμειβόμενοι, κακίας: mentre onorare occasionalmente chi non ne è degno comporta il rischio di essere considerati ingenui, venir meno all’obbligo morale di reciprocare i benefici ricevuti è chiaro segno di bassezza morale. Demostene articola ancora una volta la scelta posta di fronte ai giudici all’interno di coordinate morali a loro familiari (vd. intr. pp. 77–96), e abrogare la legge di Leptine diviene l’unica opzione accettabile. L’etica della reciprocità era fondamentale nell’universo morale greco: ogni favore comporta un obbligo vincolante per il ricevente di ricambiare, e la scelta comune di rilanciare nel reciprocare un favore crea un contesto di reciprocità generalizzata che funziona da collante sociale, secondo la definizione di Sahlins di “generalized



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reciprocity” (Sahlins 1972: 193–210; cfr. van Wees 1998; per un approccio alternativo cfr. ora Graeber 2011). A questo ideale di reciprocità erano idealmente improntati sia i rapporti interpersonali (cfr. la legge non scritta che obbliga a ripagare i debiti di Xen. Mem. 4.4.24 con Harris 2006: 54–57) sia quelli tra individuo e polis. Passaggi quali Lyc. 1.133 (e passim) mostrano questa relazione in azione nel contesto (più comune) dell’obbligo dei cittadini di ricambiare i benefici della partecipazione nella polis (cfr. Lys. 31.5 e Liddel 2007: 136–43, passim). Nella Contro Leptine Demostene ribalta questa relazione ed evidenzia l’obbligo speculare degli Ateniesi di reciprocare i benefici ottenuti da cittadini e stranieri (vd. intr. pp. 90–1). Sull’etica della reciprocità nel mondo greco vd. i saggi in Gill, Postlewaite e Seaford (1998); più specificamente nell’oratoria attica Millett (1998) e Fisher (2003); nel discorso funebre di Pericle, Monoson (1994). Kurke (1991; 1999), von Reden (1998), Millet (1998: 231–2) sostengono che questi ideali di reciprocità fossero intrinsecamente aristocratici, ma questa idea è ingiustificata: vd. Fisher (2003: 197). 7 [1] εὔλογον: questo paragrafo conclude la sezione del discorso §§1–7, riassumendo i due punti principali portati contro Leptine: non è giusto che i meritevoli perdano le loro esenzioni per colpa degli indegni, e senza onori verranno a mancare gli incentivi a essere buoni cittadini. L’argomentazione, implicita o esplicita, di Leptine era stata definita in precedenza come “ingiusta” (§2: τῶν ἀδίκων ἐστίν) e “non vantaggiosa” (§5: λυσιτελέστερόν). Qui, a seguito dell’argomentazione svolta, Demostene può definirla irragionevole (οὐδ’ ἐκεῖνο εὔλογον; sulle argomentazioni basate sulla logica in questo discorso vd. Kremmydas 2007). [2] δωρεαῖς […] τῶν τιμῶν: l’uso di δωρεαῖς per chi tra gli esenti è oggetto di accuse e di τῶν τιμῶν per chi si rende utile alla città (τοὺς χρησίμους ὄντας) è deliberato: mentre le eventuali accuse a chi è esente riguardano le loro δωρεαί, i loro premi materiali (vd. §2[1]), ciò di cui chi si rende utile alla città è privato sono le sue τιμαί. Dato il valore bidirezionale di τιμή (vd. comm. §2[8]), al fine di togliere a chi è oggetto di accuse i suoi premi materiali, si privano gli autentici benefattori delle loro τιμαί, cioè tanto dei loro riconoscimenti materiali quanto del senso stesso del loro valore. La formulazione di Demostene è sofisticata, e si muove sapientemente all’interno dell’universo morale del suo pubblico. [3] τοὺς χρησίμους ὄντας […] τοῖς χρηστοῖς: nel riassumere i due punti principali della sua confutazione Demostene sceglie, per definire i bene-

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fattori della città che meritano i loro premi, due termini etimologicamente legati, χρήσιμοι e χρηστοί (da χράομαι, vd. Kremmydas 2012: 193–4), e li contrappone a figure morali negative, i φαῦλοι, che non meritano alcun premio (ἀνάξιοί τινες; vd. sulla rappresentazione del cattivo cittadino ateniese, Christ 2006). Il termine χρήσιμος è tipico dei decreti onorari ateniesi (cfr. Whitehead 1993: 63–4; Veligianni-Terzi 1997: 203, 268, 281; Engen 2010: 123–6). Non ci sono sicure occorrenze prima del 340/39 e del 337 (IG II3 1 413 l. 2, integrato, IG II3 1 430 l. 7; cfr. anche IG II2 145, datato tra il 364/3 e il 359/8, dove il termine è verosimilmente restaurato), ma è possibile che il termine fosse presente già in IG I3 106 ll. 5–6. Nel citarlo Demostene fa riferimento diretto alla lettera delle “motivation clauses” dei decreti che accordavano l’ateleia ai benefattori, o quantomeno ai più recenti tra questi decreti, dando perciò una definizione del benefattore meritevole secondo la terminologia ufficiale ateniese: il benefattore è onorato perché si è reso utile alla città. χρηστός d’altro canto non è mai utilizzato nei decreti, e alcuni studiosi hanno giustificato la sua assenza in ragione del retroterra aristocratico del termine (cfr. l’uso del termine a [Xen.] Ath. Pol. 1.1, Isoc. 3.16; con Whitehead 1993: 63–4; vd. anche Engen 2010: 124–5). Nelle fonti letterarie di quarto secolo tuttavia χρηστός è spesso utilizzato per indicare il buon cittadino, e pare completamente assimilato nell’ideologia democratica (p. es. Andoc. 2.26, Lys. 14.21, Ar. Plou. 900–1, Dem. 21.83, Aeschin. 3.75, Hyp. Phil. 10, Lyk. 18, Eux. 17; cfr. Cagnetta et al. 1977, che però cercano di distinguere tra un significato morale e uno politico del termine, due significati che negli oratori sono invece generalmente intercambiabili: cfr. Whitehead 2000: 67; Whitehead 1993: 63–5). Demostene qui lo usa in questo senso e di fatto equipara i due termini (sfruttando la radice comune), per cui χρήσιμος e χρηστός indicano entrambi un individuo a cui la città riconosce eccellenza morale in virtù dei servizi resi. L’equivalenza tra i due termini non è tuttavia scontata nel linguaggio valoriale ateniese, ma deriva qui dal contesto (una discussione dei premi ai benefattori della città) che fa dipendere l’eccellenza morale di un individuo dal fatto che si renda utile alla città. Altrove i due termini sono invece posti in contrasto: che una persona sia χρήσιμος non è garanzia che sia χρηστός (cfr. Hyp. Phil 10 e Dem. 25.41–2 con Dover 1968: 297–8 e Whitehead 2000: 67–8). [4] κατὰ τὸν τούτων λόγον: Demostene nuovamente (cfr. sopra εὔλογον) pone l’accento sul fatto che la sua confutazione dell’argomento di Leptine segue logicamente dai presupposti stessi usati da Leptine nel formular-



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lo. Reitera poi l’argomento che i premi sono indispensabile incentivo alla φιλοτιμία. 8–17: Demostene fornisce una breve e densa trattazione delle implicazioni morali della scelta dei giudici, definendo un retroterra valoriale comune al suo pubblico che formerà la base delle considerzioni sviluppate nel resto del discorso. Promulgare la legge non è onorevole, non si addice all’ethos degli Ateniesi ed è vergognoso. È vergognoso perché equivale a mentire e ingannare i benefattori della città e perché diffonderà una nozione degli Ateniesi come invidiosi, ingrati e inaffidabili. Attraverso la narrazione di un episodio in cui gli Ateniesi restituirono agli Spartani un prestito da loro accordato ai Trenta, l’oratore mostra che l’ethos della città non corrisponde a questa descrizione. Dunque abrogare la legge di Leptine è l’unica opzione, e dato l’ethos del suo proponente che se ne ricava, è bene che Leptine si adegui all’ethos della città. Inoltre la stabilità è l’unico vantaggio che le ricompense delle democrazie hanno su quelle dei tiranni e delle oligarchie. 8 [1] ἐνθυμεῖσθαι: Demostene richiama l’attenzione dei giudici, prima di sviluppare una nuova argomentazione, attraverso l’uso di questo verbo, frequente nell’oratoria attica (in questo discorso §118, e altrove p. es. Isoc. 8.15, Lys. 10.30, Dem. 21.11). La sua funzione è didattica (cfr. comm. §4[3]), e al contempo richiede uno sforzo attivo di comprensione da parte dei giudici: l’oratore suggerisce un punto di vista e incita i giudici a tenerlo in considerazione. [2] ἐκ τῶν νῦν ὑπαρχόντων νόμων καὶ πάλαι κυρίων, οὓς οὐδ’ ἂν αὐτὸς οὗτος ἀντείποι μὴ οὐχὶ καλῶς ἔχειν: Arist. Rhet. 1375b5–b12 discute la possibilità che una legge non supporti la posizione dell’oratore, e consiglia una serie di possibilità argomentative volte a screditarla. E tuttavia non c’è alcun passaggio negli oratori in cui questi suggerimenti siano messi in pratica. Nella realtà di una corte ateniese criticare le leggi non era un’opzione argomentativa valida, per cui Demostene ha ragione quando sostiene che Leptine non oserà criticare una delle leggi esistenti (ἐκ τῶν νῦν ὑπαρχόντων νόμων). L’uso del plurale per le leggi in vigore (spesso l’aggettivo è κείμενος), prevalente negli oratori, suggerisce una visione organica dell’ordinamento giuridico, fondato sull’azione originaria di un singolo legislatore (vd. comm. §90[1] sulla figura di Solone nel IV secolo). Demostene allude anche all’antichità della legge (senza però in questo caso menzionare Solone), un altro motivo frequente. Le leggi ricavano infatti superiore autorità

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dalla loro antichità, il che suggerisce (cfr. Hansen 1989 e Thomas 1994), un certo conservatorismo giuridico fondato sull’autorità della figura del legislatore. Ma gli oratori non rifuggono dal giustificare questi riferimenti in modo più pratico: “Tutte queste leggi, o giudici, sono vigenti da ormai molto tempo, e spesso hanno dato prova di loro stesse, come leggi per voi vantaggiose, e mai nessuno fino a ora ha parlato contro la loro eccellenza” (Dem. 24.24 sulle leggi sulla nomothesia, non soloniane ma attribuite a Solone). Le leggi più antiche, cioè, sono autorevoli perché gli Ateniesi le hanno a lungo mantenute immutate, il che è prova della loro eccellenza. Non è dunque necessario (pace Hansen, Thomas e Fisher 2001: 126–7) leggere in questi riferimenti una scarsa considerazione per l’abilità legislativa del demos. L’antichità di una legge è prova della sua eccellenza tanto per l’autorità del legislatore quanto per la scelta degli Ateniesi di non modificarla (cfr. Canevaro c.d.s b). Dopo avere incassato la reverenza di Leptine per questa antica legge, Demostene costruisce su di essa la sua successiva argomentazione che dimostra come nel proporre la sua legge Leptine abbia di fatto mostrato disprezzo per le leggi in vigore. [3] ἐνιαυτὸν διαλιπὼν ἕκαστος λειτουργεῖ: la norma per cui a chi ha sostenuto con successo una liturgia non può essere richiesto di sottoporsi a un’altra nell’anno immediatamente successivo è testimoniata anche da [Arist.] Ath. Pol. 56.3 e Dem. 50.9 (per il sistema liturgico in generale vd. intr. pp. 47–54). Una norma analoga sembra garantisse un intervallo di due anni per chi sostenesse una trierarchia (Isae. 7.38; cfr. Lys. 19.29, 21.5, Isae. 5.41; vd. Davies 1981: 16–17, Rhodes 1982: 3; Christ 1990: 149 n. 9, Gabrielsen 1994: 85–7; non è chiaro quando questo intervallo di due anni fu introdotto; Karvounis 1999 sostiene che Dem. 20.8 contraddica Isae. 7.38, ma questo passaggio non discute specificamente la trierarchia, ed è probabile, visto il diverso costo, che l’intervallo dopo le liturgie ordinarie fosse più breve di quello dopo una trierarchia). Era possibile tuttavia per cittadini benestanti e zelanti non valersi di queste esenzioni, e ci sono casi di liturgisti che svolsero lunghe serie di liturgie senza interruzione (p. es. Isae. 7.38 e Lys. 21.1–3, il cui protagonista può vantare una serie di 7 liturgie consecutive: cfr. APF D7 e Davies 1981: 17 n. 6; cfr. anche Dem. 21.13). [4] ὥστε τὸν ἥμισύν ἐστ’ ἀτελὴς τοῦ χρόνου […] ταύτης τοὺς εὖ ποιήσαντας, ὃ προστεθείκαμεν αὐτοῖς, τοῦτ’ ἀφελώμεθα; Demostene nota che ogni Ateniese è automaticamente ἀτελής dalle liturgie per metà del tempo (semplificando parla di tutti gli Ateniesi quando dovrebbe parlare degli Ateniesi di classe liturgica), per cui il vantaggio economico effettivo



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di un’esenzione permanente onorifica è di fatto la metà di quanto i suoi avversari affermino. Questa affermazione implica che le esenzioni abolite da Leptine siano soltanto quelle onorifiche, sulle quali Demostene si concentra, e sostiene che Leptine concentrerà la sua argomentazione. Non è chiaro tuttavia se la legge limitasse l’abolizione dell’ateleia alle esenzioni onorifiche, o se piuttosto abolisse quelle dalle liturgie ordinarie senza chiarire la natura di queste esenzioni. Che l’ateleia riguardasse le liturgie ordinarie è chiaro da §§127–8, ma il testo (qui e altrove) non stabilisce che le esenzioni in questione fossero soltanto quelle onorifiche (vd. intr. pp. 55–63). A prescindere dalla validità dei presupposti di questa argomentazione, va notato come qui l’oratore prima sminuisca la differenza di trattamento economico tra liturgisti ordinari (esenti in virtù delle liturgie dell’anno precedente) e benefattori, e in seguito ingigantisca la differenza nei servizi resi al punto da riferirsi ai liturgisti ordinari come τοῖς μηδ’ ὁτιοῦν ἀγαθὸν πεποιηκόσιν ὑμᾶς. Dipinta la situazione in questi termini, è chiaro che la risposta alla domanda retorica (uno strumento spesso utilizzato da Demostene nel concludere un’argomentazione, a fini di variatio, vd. MacDowell 2009: 404) “toglieremo ai benefattori l’esenzione aggiuntiva che abbiamo loro accordato?” sarà necessariamente μηδαμῶς. Questa è tuttavia una rappresentazione parziale delle implicazioni ideologiche delle pratiche liturgiche: l’oratore distingue nettamente tra benefattori, che svolgono servizi non obbligatori ma dovuti alla loro philotimia, e liturgisti, che si limitano a svolgere normali doveri civici. In realtà, la distinzione tra le due figure era più sfumata, e l’autore di una coregia o di una trierarchia molto liberali, così come di un’insolito numero di liturgie, poteva rappresentare sé stesso in tribunale come un evergeta, al pari di chi avesse donato denaro alla città o svolto altri servizi volontari (vd. Liddel 2007: 262–76). Demostene, in questo stesso discorso, ammette che le numerose liturgie di Dinia sarebbero ragione sufficiente per onorarlo (cfr. §151 e intr. pp. 82–3). [5] οὔτε γὰρ ἄλλως καλὸν οὔθ’ ὑμῖν πρέπον: τὸ καλόν è standard per indicare l’azione virtuosa e nobile, il cui opposto è τὸ αἰσχρόν (vd. Cairns 1993: 243 n. 102, 329–38, 378–9, 420–7, pace Adkins 1960: 43–4), ciò che porta vergogna retrospettiva per le azioni compiute (vd. comm. §9[1]). Il contrasto è esplicitato a §10, quando Demostene afferma che οὗτος ὁ νόμος ταύτην ἀντὶ καλῆς αἰσχρὰν τῇ πόλει περιάπτει. La valutazione della legge di Leptine come non καλόν e dunque αἰσχρόν è supplementare e persino alternativa alla valutazione della sua adikia (§§2, 24 e passim; per δίκαιος e αἰσχρός come basi di valutazioni morali alternative cfr. Soph. El. 558–76,

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1050–1, Or. 194 con Cairns 1993: 243–5): abolire le leggi non solo è ingiusto, non è né nobile né virtuoso. Demostene non soltanto accumula aggettivi negativi contro la legge; ogni aggettivo racchiude in sé motivi specifici per cui la legge va abolita, e dunque aggiunge un’ulteriore accusa. Qui Demostene procederà a dimostrare in che modo la legge è specificamente non καλός, cioè αἰσχρός, introducendo concetti quali charis, pistis, phthonos, che investono l’ethos degli Ateniesi e la doxa che Atene può vantare nel mondo greco. A questi concetti allude qui aggiungendo che la legge non è ὑμῖν πρέπον, “non si addice a voi”: il riferimento è all’ethos degli Ateniesi, rappresentato e discusso a §§10–12. 9 [1] πῶς γὰρ οὐκ αἰσχρόν […] ἐν δὲ τῷ κοινῷ μὴ χρῆσθαι τῷ νόμῳ τούτῳ τὴν πόλιν τὴν αὐτὴν ἐπιτάξασαν τοῖς ἰδιώταις: inizia una nuova argomentazione: esiste una legge che punisce chi mente nell’agora; dal momento che privare qualcuno del suo premio dopo averlo convinto che Atene sia una città che premia i suoi benefattori significa ingannarlo, la città sta di fatto commettendo collettivamente il crimine che ha proibito ai suoi cittadini di compiere nell’agora nelle loro transazioni private (vd. sotto). Se questo crimine, che compiuto da un privato cittadino non porta alcun danno alla collettività, è punito severamente, tanto più severa sarà la punizione (cioè il danno) che ne deriverà per la città intera se il crimine è compiuto dagli Ateniesi collettivamente. Il ragionamento è basato su un parallelo tra sfera privata e sfera pubblica (cfr. δημοσίᾳ, ἐν δὲ τῷ κοινῷ, τοῖς ἰδιώταις), diffuso nelle fonti ateniesi, dove si richiede spesso ai cittadini di adottare nel pubblico gli stessi standard comportamentali adottati nella vita privata (p. es. §136 e Soph. Ant. 661–662; Aeschin. 1.30, 3.78; su privato e pubblico vd. Macé 2014). L’uso di τοῖς ἰδιώταις dunque non definisce una differente classe di individui (i.e. quelli che non si interessano degli affari della città), ma piuttosto i cittadini nell’esercizio di diverse funzioni, non quelle pubbliche di giudici, magistrati o membri attivi dell’Assemblea, ma quelle private di individui che avanzano i loro interessi nella società (cfr. Mossé 1984: 193–200, Rubinstein 1998: 125–43; Kremmydas 2012: 198). Adottare nel pubblico gli standard del privato non è tuttavia sempre la soluzione invocata dagli oratori: cfr. §57, dove Demostene sostiene invece che gli Ateniesi non dovrebbero valutare il merito nei confronti della città allo stesso modo in cui lo valutano nella sfera privata, per esempio quando scelgono un genero (Liddel 2007: 151–5, 211–15, 218–22, 227–8). L’attitudine degli oratori su questo tema, e dunque le aspettative del pubblico, possono apparire volatili e dipendenti dalle specifiche necessità argomentative (Johnstone 1999:



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28–30; Kremmydas 2012: 196). Si possono però forse riassumere in questi termini: gli Ateniesi nella sfera pubblica non devono adottare standard inferiori a quelli utilizzati nella sfera privata; una volta stabilito questo, se gli standard utilizzati nel privato siano sufficienti, o siano invece necessari standard ancora superiori, è questione aperta, che viene affrontata dagli oratori di volta in volta con vari intenti persuasivi. L’ipotetico comportamento degli Ateniesi se non aboliscono la legge di Leptine è definito αἰσχρόν, “vergognoso”, un aggettivo che compare più frequentemente soltanto in Dem. 18 e 19 (cfr. Kremmydas 2012: 196–7), e rappresenta l’opposto di τὸ κάλον (cfr. comm. §8[5]). Demostene ha affermato a §8 che abolire le esenzioni non sia καλόν, e procede qui a spiegare (γάρ) il motivo, perché cioè vada considerato αἰσχρόν. L’aggettivo αἰσχρός è applicato ad azioni che provocano nel loro autore un’emozione di αἰσχύνη, vergogna retrospettiva per ciò che si è compiuto (nonostante l’afferenza alla stessa orbita concettuale di αἰδώς, e la quasi-sinonimia nell’Attico di IV secolo, αἰδώς ha invece in sé anche il senso prospettivo di “vergogna” come compasso morale; cfr. Arist. Eth. Nic. 1128b10–35 con Cairns 1993: 414– 19). Dunque l’uso di questo termine suggerisce che non abrogare la legge di Leptine non soltanto sarà segno di estrema bassezza morale, ma causerà agli Ateniesi eterna vergogna che si concretizzerà nell’effettivo biasimo dei benefattori traditi e di chi assisterà al loro tradimento (cfr. §§34–5 con la vivida rappresentazione dello sdegno di Leucone alla notizia dell’abolizione delle sue esenzioni: la vergogna di Atene ha un’audience internazionale). τὸ αἰσχρόν è dunque un concetto complesso che, come si è visto per τὸ καλόν, non vale in questo discorso da sinonimo di adikos, ma introduce un’ulteriore ragione di biasimo contro la legge di Leptine, che non soltanto è ingiusta, ma anche moralmente riprovevole e sarà dunque motivo di vergogna per gli Ateniesi. [2] κατὰ μὲν τὴν ἀγορὰν ἀψευδεῖν νόμον γεγράφθαι: questa legge è menzionata anche da Hyp. Ath. 14 (cfr. Whitehead 2000: 307–8), e Arpocrazione cita la stessa legge s.v. κατὰ τὴν ἀγορὰν ἀψευδεῖν, dove fa riferimento al passo di Iperide e ai Nomoi di Teofrasto (fr. 20 Szegedy-Maszak). Teofrasto apparentemente inseriva questa norma tra doveri degli agoranomoi, insieme al compito di assicurare che ciò che è venduto nell’agora sia puro e non adulterato (come chiarito da [Arist.] Ath. Pol. 51.1, cfr. Rhodes 1981: 576; cfr. anche Lys. 22.16). [Arist.] Ath. Pol. 51.1 spiega che gli agoranomoi erano dieci, cinque nell’agora di Atene e cinque al Pireo, selezionati per sorteggio ogni anno. In aggiunta al dovere di controllare che le merci vendute

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fossero pure e non adulterate (e dunque che nessuno mentisse nell’agora; sui doveri degli agoranomoi vd. Harrison 1971: 25–7, MacDowell 1978: 157, Rhodes 1981: 575–6, Millett 1990: 172–3, Whitehead 2000: 307–8), abbiamo prova che nel I secolo a.C. gli agoranomoi fissassero anche i prezzi per certi beni di consumo (Bresson 2000: 151–72), e in epoca classica è possibile che vigilassero sull’applicazione di prezzi fissati a monte (Bresson 2000: 183–210). Ai loro compiti nel 320 a.C. si aggiunsero quelli prima assegnati agli astynomoi (vd. IG II2 380, che trasferisce questi poteri). Le funzioni di questa legge sembrano essere pratiche: ingannare e mentire nell’agora costitutiva una minaccia per la sicurezza degli scambi. Alcuni studiosi tuttavia (p. es. de Ste. Croix 1972: 254, 267–84 e 399; Whitehead 2000: 49 e 307–8; Bresson 2008: 17–21; Kremmydas 2012: 197) distinguono tra l’Agora come microcosmo semi-religioso delimitato da horoi e vasche lustrali (cfr. Camp 1986: 48–51), e l’agora come luogo degli scambi commerciali. De Ste. Croix (1972: 399) sostiene che questa legge in origine riguardasse l’Agora come spazio semi-religioso, e che la sua applicazione all’agora in senso lato fu uno sviluppo successivo legato alla moltiplicazione degli scambi, come conseguenza del senso primario (vd. Kremmydas 2012: 197; cfr. anche Whitehead 2000: 308, che è possibilista). Va osservato tuttavia che l’uso che Demostene fa della legge in questo passo esclude che, quantomeno a metà del IV secolo, la legge fosse interpretata come non specificamente (o esclusivamente) connessa con gli scambi commerciali: se la legge avesse riguardato menzogne genericamente pronunciate nello spazio civico e semi-sacrale dell’Agora, come potrebbe Demostene affermare che una menzogna in quello spazio non causa alcun danno per la collettività? Questa affermazione è prova che all’epoca del discorso la legge era interpretata e utilizzata soltanto in relazione a scambi commerciali tra privati, sui quali gli agoranomoi dovevano vigilare. La consonanza tra le preoccupazioni di ordine pratico che giustificavano questa norma e un’ideologia pubblica avversa alla menzogna e all’inganno come anti-civici poteva tuttavia essere sfruttata, come qui, a fini retorici (cfr. Hesk 2000: 163). [3] ἐπιτάξασαν […] ἐξαπατῆσαι: il tema dell’inganno era stato introdotto a §§3–4, dove tuttavia gli Ateniesi erano rappresentati come vittime degli inganni di abili demagoghi (vd. comm. §§3[2]). Demostene lo riprende qui in un contesto diametralmente opposto: la legge di Leptine fa degli Ateniesi degli ingannatori dei loro benefattori. Che il demos possa ingannare i suoi benefattori è qui citato in esplicito contrasto alla legge che vieta di mentire nell’agora, e in implicito contrasto al loro carattere di vittime e non artefici



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di inganni, che sarà esplicitato con la narrazione di un episodio seguito alla caduta dei Trenta a §§11–12 (vd. sotto e Hesk 2000: 40–51). Si segue nel testo la lezione τὴν αὐτὴν prima di ἐπιτάξασαν con Kremmydas e contro Dilts (che segue la correzione di Hèrtlein): αὐτὴν τὴν pone l’accento su τὴν πόλιν, mentre qui l’accento dev’essere posto sull’inganno (cfr. la ripetizione ἐπιτάξασαν – ἐξαπατῆσαι), per cui τὴν αὐτὴν risponde meglio al contesto (cfr. Kremmydas 2008: 198). [4] ζημίαν ὀφλήσειν: Demostene utilizza ζημία (che nel linguaggio giuridico significa “punizione”, “multa”, ma può essere tradotto anche come “danno”) per chiudere il parallelismo del suo argomento a fortiori: c’è una ζημία, cioè una punizione secondo le leggi, per chi mente nell’agora, e poiché mentire nella sfera pubblica (come la città farebbe se mantenesse la legge di Leptine) è peggio che mentire nella sfera privata, di conseguenza la ζημία (in questo caso il danno) se il demos mentirà ai benefattori sarà enorme. Il termine ζημία è applicabile sia alla punizione delle leggi sia al danno che verrà al demos, per cui è perfetto per dare coesione all’argomento a fortiori di Demostene. 10 [1] οὐ γὰρ εἰ μὴ χρήματ’ ἀπόλλυτε μόνον σκεπτέον [..] ὑπὲρ δὲ δόξης οὐδένα πώποτε κίνδυνον ἐξέστησαν: Demostene continua a spiegare perché la legge di Leptine è αἰσχρός. Come si è visto (comm. §8[5]), αἰσχρός coinvolge tanto l’aspetto morale di un’azione (considerato nei paragrafi precedenti con il parallelo pubblico/privato), quanto la vergogna che questa azione porta su chi la compie, e dunque il biasimo che ne seguirà. L’elemento successivo da introdurre nell’argomentazione è dunque la δόξα della città, l’opinione che la città emana di sé stessa (cfr. per il legame tra δόξα e τὸ αἰσχρόν Pl. Ap. 34e–35a), un tema importante nel prosieguo del discorso (cfr. §§25, 142 passim; Kremmydas 2012: 199 rileva come il termine δόξα sia più frequente in questo discorso che in qualsiasi altro discorso demostenico) e frequente in Demostene in generale (p. es. Dem. 24.210, 18.89). Dopo avere introdotto il concetto Demostene ribadisce che legge rende la città, da καλήν, αἰσχρὰν, sottolineando la connessione tra τὸ αἰσχρόν e la δόξα della città. Sull’apparente dicotomia tra la buona fama di Atene e le ricchezze materiali, vd. intr. pp. 93–5. Sull’associazione della δόξα della città alla φιλοτιμία vd. intr. pp. 88–91. [2] ἀλλὰ καὶ οἱ πρόγονοι: il riferimento all’importanza della δόξα, prima di essere riannodato al discorso sul τὸ αἰσχρόν, è rinforzato da un riferimento agli antenati, attraverso una serie di motivi tipici della (ma non limitati alla;

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cfr. Dem. 3.21–9, 9.74; Aeschin. 1.182) retorica epidittica dei discorsi funebri, con un richiamo al loro spregio del pericolo, alla loro φιλοτιμία, al loro disprezzo delle proprie ricchezze di fronte al bisogno della città (cfr. Loraux 1981; Thomas 1989: 196–237; p. es. Th. 2.36.1, Lys. 2.3, Plat. Menex. 237a, Dem. 60.4). Gli oratori spesso accusano il loro pubblico di non mantenere gli stessi standard degli antenati (cfr. p. es. Dem. 3.25–6) e li usano per rinforzare un argomento (p. es. Din. 1.109; Aeschin. 1.182; Dem. 18.98, 23.204; cfr. Jost 1936: 162–243 per una raccolta di esempi, e Hansen 1989: 71–99 e Thomas 1994 per l’uso di questo topos). [3] ἀλλὰ καὶ τὰς ἰδίας οὐσίας προσαναλίσκοντες διετέλουν: affermazioni analoghe sono quelle di Dem. 22.76 e 24.184 (il passo è ripreso nella seconda orazione dalla prima; cfr. §44 dove Epicerde tratta le sue sostanze private come se fossero pubbliche). Quello dello scarso riguardo per le proprie sostanze private di fronte alla necessità della città è un topos negli oratori (vd. Vannier 1988: 127–36; Ober 1989: 230–40), e fa parte del repertorio dei discorsi funebri (p. es. Th. 2.53.2; Dem. 60.2, 18). Dem. 22.76 e 24.184 precisano ulteriormente che Demostene, quando parla di attingere ai patrimoni personali, si riferisce soprattutto all’eisphora (vd. intr. pp. 50–2). Nei passi citati la gloria raggiunta dagli antenati col sacrificio delle proprie sostanze è esemplificata dalla memoria delle grandi imprese, e dai monumenti periclei, quali i Propilei e il Partenone, i portici e gli arsenali. Queste opere, tuttavia, furono finanziate con i tributi della Lega Delio-Attica, e non con il denaro dei cittadini ateniesi (cfr. Meiggs 1963; 1972: 152–153, 512–515; Kallet-Marx 1989). [4] φθονεροὺς ἀπίστους ἀχαρίστους: dopo avere chiarito come la legge di Leptine sia αἰσχρόν anche in virtù dei suoi effetti sulla δόξα della città, Demostene esplicita da dove questa vergogna derivi (ὄνειδος è legato ad αἰδώς), e cioè quali attributi porti alla δόξα degli Ateniesi (εἶναι δοκεῖν). Gli Ateniesi avranno cioè fama di essere φθονεροὺς ἀπίστους ἀχαρίστους. Su questi attributi, vd. intr. pp. 89–92. 11 [1] τοῦ ἤθους τοῦ ὑμετέρου: dopo avere spiegato perché mantenere la legge di Leptine è αἰσχρόν, Demostene esplicita perché non si addica agli Ateniesi (οὔθ’ ὑμῖν πρέπον), cioè al loro carattere, al loro ἦθος (sulla definizione del carattere degli Ateniesi in Tucidide vd. Luginbill 1999; negli oratori del quarto secolo Steinbock 2013: 147–9, 276–81 e passim). L’oratore racconta un episodio che dimostra l’onestà degli Ateniesi, persino in un contesto in cui avrebbero avuto ragione di mancare alla parola data agli



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Spartani (rompendo la πίστις): una volta restaurata la democrazia nel 403 a.C. gli Ateniesi scelsero di ripagare un prestito che gli Spartani avevano accordato ai Trenta (in realtà a “quelli che rimasero in città”, vd. §12[3]). L’esempio evidenzia varie caratteristiche positive dell’ ἦθος degli Ateniesi: la loro onestà – rimasero fedeli alla parola data persino ai loro nemici – e la loro generosità – pagarono collettivamente un debito che era stato contratto dagli oligarchi (vd. Hesk 2000: 41–53). Se dunque l’ἦθος degli Ateniesi è a tal punto improntato alla πίστις e alieno dall’inganno (ἀψευδές, §13) da vincolarli alla charis persino verso i nemici, e così generoso (§13, καὶ χρηστόν, l’opposto di φθονερός) da spingerli ad aiutare persino gli oligarchi, come potranno accettare di privare dei benefattori (non dei nemici) delle loro giuste ricompense? Il significato dell’episodio e le sue implicazioni saranno esplicitate a §§12–13. [2] τοιοῦτον νόμον: dopo aver costruito nei paragrafi precedenti un’immagine completamente negativa delle conseguenze della legge, Demostene può ora alludervi come “una legge del genere”. [3] λέγονται χρήμαθ’ οἱ τριάκοντα δανείσασθαι παρὰ Λακεδαιμονίων ἐπὶ τοὺς ἐν Πειραιεῖ: è in realtà un episodio successivo alla caduta dei Trenta (come suggerito da §12, che riporta l’opinione che “quelli della città” dovessero rifondere il prestito, vd. comm. §12[3]). Isoc. 7.66–8 attribuisce la richiesta del prestito a “quelli che rimasero in città”. Lys. 12.59 è ancora più preciso e addebita il prestito a Fidone e ai Dieci (cfr. Migeotte 1989: 19– 23; 2014: 207–8; sui Dieci, diversi dai Dieci del Pireo, e sugli avvenimenti successivi alla caduta dei Trenta, fino all’amnistia vd. Rhodes 1981: 457–482 ad [Arist.] Ath. Pol. 38–40; Hignett 1952: 285–298, 378–389; Natalicchio 1996; Canfora 2013). Entrambe le orazioni, come Xen. Hell. 2.4.28 e Plut. Lys. 21.2, concordano sull’ammontare del debito: 100 talenti. È interessante comprendere la ragione per cui Demostene attribuisca il prestito ai Trenta piuttosto che a “quelli della città”, visto che la precisione di Isocrate in un’orazione dello stesso anno mostra che l’informazione era nota. L’intento di Demostene era quello di associare la condotta di Leptine ad atteggiamenti oligarchici e filospartani, come confermato dal prosieguo dell’argomentazione, in cui l’instabilità delle ricompense è descritta come caratteristica delle oligarchie, contrapposta alla sicurezza del premio nelle democrazie (cfr. §15; cfr. Perlman 1961: 155). Boerner (1894: 66–7; cfr. Rhodes 1981: 479) notava che le parole dell’Athe­­ naion Politeia sono quasi identiche a quelle di Demostene, e postulava una fonte comune. Entrambi i passi concordano sul fatto che il dibattito sorse in

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Assemblea, in seguito a un’ambasciata degli Spartani sul debito (cfr. Lys. 30.22). Le ragioni della decisione ateniese di restituire il denaro concordano in Demostene e in Isocrate: fondamentale fu la volontà di cementare la rinnovata unità del demos seguita all’amnistia (il me mnesikakein; cfr. Rhodes 1981: 463; Loening 1987; Sordi 1997; Carawan 2002; Wolpert 2002: 27 e passim; Ober 2002; Carawan 2006; Shear 2011: 188–226; Moggi 2012; Carawan 2013; Joyce 2008; 2014; 2015; Gray 2013a: 385–7, 398–401; 2015: 87–9, 216–19, 239–53). Demostene e Isocrate tacciono (Hesk 2000: 42 n. 76) un’altra possibile ragione: il timore della reazione spartana a un rifiuto (come notano Schol. Dem. 20.11.30–32 Dilts; cfr. Isoc. 7.68 con Rhodes 1981: 479, Volonaki 1998: 239). Le parole di Demostene non suggeriscono costrizione. Lys. 30.22 invece contempla la minaccia spartana. Rhodes (1981: 479) propone una motivazione ulteriore: obiettivo della democrazia restaurata era rimarcare la ritrovata indipendenza dalle direttive spartane, già affermata nel rifiuto della proposta di Formisio (sostenuta da Sparta) di restringere la cittadinanza (Lys. 34 apud Dion. Hal. Lys., 32–33;), per cui Atene aveva interesse a estinguere debiti che potessero costituire ragione di ingerenza spartana nella sua politica interna. In ogni caso, il contesto argomentativo giustifica l’assenza di allusioni a motivazioni ulteriori: Demostene vuole porre l’accento sull’unità, la concordia e l’affidabilità degli Ateniesi, anche nei confronti dei loro nemici (cfr. Gray 2015: 177). [4] ἐπειδὴ δ’ ἡ πόλις εἰς ἓν ἦλθεν καὶ τὰ πράγματ’ ἐκεῖνα κατέστη: la formulazione evidenzia tanto la ritrovata unità della città (ἡ πόλις εἰς ἓν ἦλθεν) quanto il ritorno alla normalità della vita pubblica (τὰ πράγματ’ ἐκεῖνα κατέστη) dopo la caduta dei Trenta e la restaurazione democratica. τὰ πράγματα è terminologia standard per indicare la vita pubblica e la sfera del politico, per cui p. es. una rivoluzione era definita νεώτερα πράγματα (vd. Cartledge 2009: 18). ἐπειδὴ δ’ ἡ πόλις εἰς ἓν ἦλθεν potrebbe indicare che la discussione in Assemblea e la decisione di rifondere il prestito abbiano seguito la sconfitta del 401/0 degli oligarchi rifugiatisi a Eleusi, e la reintegrazione di Eleusi nello stato Ateniese (cfr. Xen. Hell. 2. 4.38–43, [Arist.] Ath. Pol. 39–40, con Rhodes 2006: 260, Shear 2011: 181–8; bisogna notare tuttavia che gli esuli di Eleusi conservarono i loro diritti di cittadinanza, e non costituirono formalmente una comunità separata, vd. Shear 2011: 201). E tuttavia la ritrovata unità della città è più centrale in riferimento alla restaurazione democratica del 403, in relazione a “quelli del Pireo” e “quelli della città” (vd. comm. §12[3] e Wolpert 2002: 29–47; Shear 2011: 200–7 e passim): l’oratore allude alla restaurazione della democrazia, senza entrare



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nel dettaglio degli eventi che le seguirono (cfr. Loening 1987: 85, che data la restituzione del prestito prima del reintegro di Eleusi). 12 [1] λόγων δὲ γιγνομένων: il dibattito ebbe luogo in Assemblea (cfr. Lys. 30.22, [Arist.] Ath. Pol. 38–40). [2] τῶν μὲν τοὺς δανεισαμένους ἀποδοῦναι κελευόντων: κελευόντων non implica costrizione, ma va piuttosto inteso come “consigliare”, “incoraggiare” e connesso a ἀξιούντων, “ritenevano” (vd. MacDowell 1989: 257–62; 2009: 46–7 sul suo significato). Demostene rappresenta un dibattito diviso tra due istanze contrapposte: alcuni consigliavano di far pagare “quelli della città”, mentre altri ritenevano che fosse preferibile pagare tutti insieme. [3] τοὺς ἐξ ἄστεως: la formulazione della proposta che soltanto “quelli della città” paghino il debito contraddice parzialmente l’attribuzione del debito ai Trenta di §11: la contrapposizione tra “quelli della città” e “quelli del Pireo” (e “quelli di File”) è successiva alla vittoria di Trasibulo (che iniziò la sua azione militare da File nell’inverno del 404/3) contro gli oligarchi che lo attaccarono a Munichia (Xen. Hell. 2.4.1–7; Diod. 14.5), in seguito alla quale i Trenta furono deposti e rimpiazzati dai Dieci della Città scelti dai Tremila (cfr. Rhodes 2006: 158–60, Wolpert 2002: 29–47; Shear 2011: 201–7 e passim). Non è impossibile che la responsabilità del prestito contratto dai Trenta fosse scaricata su “quelli della città” in generale, ma il linguaggio e le dinamiche della riconciliazione di quegli anni mostrano che tale identificazione era generalmente evitata (cfr. il giuramento di [Arist.] Ath. Pol. 39.6 e Andoc. 1.90, che distingue tra i cittadini in generale, senza isolare “quelli della città”, e i Trenta e gli Undici; Shear 2011: 202–4). Questa incongruenza è chiarita dalla narrazione degli stessi eventi in Isoc. 7.66–8 (un’orazione dello stesso anno della Contro Leptine), dove il prestito è attribuito a “quelli della città” e non ai Trenta, e da Lys. 12.59, molto più vicina agli eventi, che addebita il prestito a Fidone e ai Dieci. Ha la funzione di attribuire alla proposta di Leptine un carattere oligarchico (cfr. §15). [4] τῆς ὁμονοίας: l’importanza della concordia come soluzione alla stasis, e motivo dei democratici per scegliere la riconciliazione piuttosto che vendetta, è motivo costante delle discussioni sulla restaurazione democratica (p. es. Lys. 18.18; Andoc. 1.108, 109; cfr. sull’homonoia Funke 1980: 13–26 e passim e Gray 2015: 39–41 e passim). [5] ὥστε μὴ λῦσαι τῶν ὡμολογημένων μηδέν: questi accordi sono quelli con gli Spartani relativi al prestito, e non l’accordo tra “quelli della città” e

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“quelli del Pireo”, cioè la riconciliazione del 403 (cfr. Kremmydas, 2012: 205–6). Secondo i termini della riconciliazione infatti le due parti avrebbero dovuto pagare i propri debiti separatamente ([Arist.] Ath. Pol. 39.6, 40.3). La generosità (e πίστις) del demos consiste proprio nel ripagare un debito che non era suo compito ripagare. [6] πῶς οὖν οὐ δεινόν […] ψεύδεσθαι μᾶλλον αἱρήσεσθε: Demostene connette ora l’episodio paradigmatico dell’ἦθος ateniese alla situazione corrente: all’epoca decideste, per non mancare alla parola data (ὑπὲρ τοῦ μὴ ψεύσασθαι), di ripagare gli Spartani che avevano commesso ingiustizie nei vostri confronti con ingenti ricchezze; come può questo accordarsi con il mantenimento ora della legge di Leptine, che comporta che manchiate alla parola data (ψεύδεσθαι) non a dei nemici ma a dei benefattori (τοῖς εὐεργέταις), quando potreste evitarlo senza spese? Demostene contrappone qui mentire a non mentire, spendere le proprie sostanze a non spendere nulla, e chi ha commesso ingiustizia contro gli Ateniesi (gli Spartani) ai benefattori degli Ateniesi, con l’effetto di rappresentare la scelta di mantenere la legge di Leptine come folle e ingiustificata. La scelta di togliere l’ateleia ai benefattori è sintetizzata con ψεύδεσθαι: la menzogna e l’inganno (vd. comm. §9[2–3]) erano legati alla dimensione della reciprocità infranta, con relativa perdita di πίστις (cfr. Hesk 2000: 42–3). Demostene sfrutta sapientemente l’universo morale del suo pubblico, ma il suo non è un sofisma: le ramificazioni della scelta di mantenere la legge di Leptine, se si considera seriamente l’universo morale degli Ateniesi, sono reali, e le considerazioni di Demostene saranno sembrate pertinenti e urgenti al suo pubblico. [7] εἰσφέρειν: non sappiamo per certo come gli Ateniesi raccolsero il denaro necessario a ripagare il prestito spartano (Volonaki 1998: 239 suggerisce che il prestito sia stato ripagato a rate; Loening 1987: 87 con una tassa diretta sul reddito di tutti o soltanto dei Tremila; Thomsen 1964: 178–9 con l’eisphora; Walbank 1982: 96 con la vendita di beni confiscati; Kremmydas 2012: 204– 5 specula su una combinazione di queste fonti). L’uso qui di συνεισενεγκεῖν e εἰσφέρειν suggerisce che l’oratore alluda a una tassa diretta una tantum su ogni cittadino e meteco (vd. intr. pp. 50–2 sull’eisphora), una modalità familiare ai giudici. Non è chiaro se Demostene disponga di informazioni specifiche, o si limiti ad alludere a pratiche correnti, che avrebbero dunque reso più vivida l’identificazione dei guidici con gli Ateniesi di mezzo secolo prima e con la loro generosità (si noti anche con Kremmydas 2012: 206 il passaggio repentino alla seconda persona plurale).



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[8] τοῖς εὐεργέταις: gli euergetai sono posti in contrasto agli Spartani, nei confronti dei quali la charis fu rispettata nonostante fossero nemici. Il termine euergetai compare qui per la prima volta nel discorso, ed è più frequente nella Contro Leptine che in qualsiasi altra orazione demostenica (cfr. §§23, 30, 33, 39, e Kremmydas 2012: 207). Sull’importanza di questo termine vd. intr. pp. 80–4. 13 [1] ἦθος: Demostene riassume l’ἦθος degli Ateniesi nell’ἦθος della città, e lo contrappone all’ἦθος di Leptine ricavato dalla sua legge. Il termine ἦθος è qui applicato alla polis (mentre a §11 è applicato agli Ateniesi) come a Isoc. 2.31 (vd. Kremmydas 2012: 13), e un pensiero simile è espresso anche in Plat. Resp. 4.435e–6a, dove Socrate instaura un parallelismo tra le caratteristiche del cittadino e quelle della polis, e 7.548e4–549a6 e dove ἦθος è legato alla politeia timocratica (cfr. Hesk 2000: 43, che però ignora Isoc. 2.31; per le politeiai e gli ἤθη nella Repubblica platonica vd. Bertelli 2006: 362–396). [2] ἦθος […] ἀψευδὲς καὶ χρηστόν, οὐ τὸ λυσιτελέστατον πρὸς ἀργύριον σκοποῦν, ἀλλὰ τί καὶ καλὸν πρᾶξαι: qui l’esempio del prestito spartano è connesso all’apparato concettutale sviluppato nella sezione §§8–14. L’esempio mostra che l’ἦθος della città è ἀψευδὲς καὶ χρηστόν. Questa definizione richiama specularmente la δόξα della città se manterrà la legge di Leptine di §10: ψεύδεσθαι è connesso alla sfera della reciprocità (vd. comm. §12[6]), per cui l’aggettivo ἀψευδές si contrappone alla descrizione degli Ateniesi come ἀχαρίστους (e dunque ἀπίστους per via della charis infranta). Inoltre l’ἦθος degli Ateniesi è χρηστόν, così come χρηστή era a §10 la δόξα che interessa agli Ateniesi più delle ricchezze (e dunque non è φθονερά). Anche questa contrapposizione tra ricchezze e eccellenza (§10) è ripresa qui a §13, vista la scelta di ripagare il prestito agli Spartani, e questa eccellenza è espressa con τί καλόν, che è (vd. intr. pp. 86–7) l’opposto di τὸ αἰσχρόν. Dunque l’esempio mostra che la legge di Leptine non si addice all’ἦθος della città, perché questo ἦθος non è αἰσχρόν, ἀχάριστον, ἄπιστον e φθονερόν, caratteristiche invece della legge di Leptine. La contrapposizione tra eccellenza morale e beni materiali è qui meno perentoria che a §10: la negazione dell’interesse esclusivo degli Ateniesi verso il denaro è seguita dall’affermazione dell’interesse verso l’eccellenza morale, ma connessa da ἀλλὰ καί, che non esclude l’importanza dei beni materiali, ma piuttosto la supplementa (vd. intr. pp. 93–5).

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[3] τὸ δὲ τοῦ θέντος τὸν νόμον, τὰ μὲν ἄλλ’ ἔγωγε οὐκ οἶδα, οὐδὲ λέγω φλαῦρον οὐδὲν οὐδὲ σύνοιδα: queste parole (forse ironiche) paiono tuttavia esprimere una certa cautela verso Leptine (cfr. §§137 e 143–144), nei confronti del quale Demostene sembra rifuggire da attacchi eccessivamente violenti, frequenti invece in altri discorsi (cfr. la diffamazione sistematica dell’orazione Contro Androzione, dello stesso anno, ripresa poi nella Contro Timocrate). Questa cautela, (già notata da Wolf 1789: XXXX–XXXXI), fu considerata da Jaeger (1948: 85–89) conseguenza del tono di “signorile riservatezza” ostentato da Demostene. La sua polemica non diventerebbe mai “astiosa o volgare”, ma si manterrebbe “rigorosamente nei limiti della più corretta forma sociale”. Questa lettura prende a modello i modi di certa aristocrazia e borghesia del primo ’900, ed è anacronistica. Piuttosto l’approccio di Demostene va legato alla particolare situazione: il giovane e inesperto oratore sta fronteggiando illustri uomini politici: Leodamante di Acarne, Cefisodoto del Ceramico, Dinia di Erchia e soprattutto Aristofonte di Azenia (vd. intr. pp. 33–6). La scelta di attaccare una politico dell’importanza di Leptine di Cele deve essere stata favorita dal fatto che il tempo trascorso dalla presentazione della legge aveva superato l’anno, e dunque Leptine non correva rischi in prima persona (vd. §144[3]). Questa lettura utilitaristica del tono di Demostene, che avrebbe colto l’occasione di mettersi in evidenza senza inimicarsi un politico dell’importanza di Leptine, a patto di non eccedere nelle violenza degli attacchi (cfr. Amerio 2000: 434; Usher 1999: 193 194 n. 84; Badian 2000: 28–30), non va tuttavia spinta eccessivamente. Demostene mostra di avere ottimi argomenti contro la legge di Leptine (vd. intr. pp. 77–97). Inoltre, attacchi personali eccessivi contro Leptine sarebbero incoerenti con l’immagine che Demostene cerca di proiettare: quella del cittadino sollecito che si è unito ad Apsefione e Formione nel loro attacco della legge per il bene della città (vd. intr. pp. 64–76 e comm. §1[3, 6]): all’oratore non interessa chi sia Leptine, e quali siano i suoi costumi, ma soltanto la sua legge, quanto questa legge riveli dell’ἦθος del suo autore, e se questo ἦθος sia compatibile con quello della città (cfr. comm. §14[1]). 14 [1] φημὶ τοίνυν ἐγὼ κάλλιον εἶναι τοῦτον ὑμῖν ἀκολουθῆσαι περὶ τοῦ λῦσαι τὸν νόμον […] ἢ αὐτὴν ὑπὸ τούτου πεπεῖσθαι ὁμοίαν εἶναι τούτῳ: Demostene fornisce qui una formulazione riassuntiva della scelta di fronte ai giudici alla luce dei risultati della sua analisi dei valori alla base della legge di Leptine e del carattere degli Ateniesi. È meglio (κάλλιον) che Leptine segua gli Ateniesi nell’abrogare la legge (come dettato dal carattere degli



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Ateniesi) piuttosto che gli Ateniesi seguano Leptine nel promulgarla (che non è κάλλιον, e dunque è αἰσχρόν). Oppure, detto in altri termini, è più utile agli Ateniesi e a Leptine stesso che sia lui ad adeguarsi all’ἦθος della città, piuttosto che l’opposto, che la città si adegui all’ἦθος implicito nella legge di Leptine (cfr. Isoc. 14.22). Dietro questa formulazione c’è l’indiscussa autorità che nella mentalità greca spettava alla figura del legislatore. Tale figura si assumeva l’onere di stabilire la politeia della città, nella quale è rispecchiato, e che concorre a formare, lo spirito della città stessa. Questo ruolo, personificato in figure mitiche e semimitiche come Licurgo, Caronda, Zaleuco, o mitizzate, come Solone, si estendeva alla pratica legislativa quotidiana, per cui il singolo uomo politico che propone e fa approvare una legge si assume il compito di dare una certa immagine della città e dei suoi valori. Aristotele afferma (Pol. 4.1, 1289a12–13) che è necessario cercare quali siano le leggi più adatte alle diverse costituzioni, formulando una concezione armonica della politeia, per cui le singole norme corrispondono al suo spirito generale. Questo principio è anche criterio nella valutazione delle proposte legislative. Aristotele, affermando che “i cittadini devono essere educati in armonia con la costituzione vigente nella loro città” in quanto “sui costumi democratici si regge la democrazia” (Pol. 8.1, 1337a14–17), chiarifica il passaggio logico ulteriore di Demostene: non solo la singola norma deve adattarsi al tenore generale della politeia, per non snaturarne lo spirito, ma è l’indole stessa dell’occasionale legislatore a essere rispecchiata nella norma da lui proposta, per cui una proposta rispondente alla costituzione democratica dev’essere frutto di uno spirito democratico. Perciò, come affermato dallo stesso Demostene (22.64), “chi agisce in nome della città deve imitarne l’indole” (cfr. de Romilly 2005: 214; per la figura del politico in Aristotele vd. Bertelli 2000; vd. anche comm. §§90[1] e 104[1]). [2] οὐδὲ γὰρ εἰ πάνυ χρηστός ἐσθ’ […] βελτίων ἐστὶ τῆς πόλεως τὸ ἦθος: questa formulazione riassume tanto l’alto concetto dell’indole della polis contrapposto all’eventuale pochezza del politico che propone una nuova legge, quanto un più ampio retroterra filosofico. Demostene concede che Leptine possa essere eccellente per virtù (πάνυ χρηστός), ma sostiene che la città nel suo complesso è sempre superiore al singolo. Si tratta dell’argomento che l’unione dei molti produce forza o virtù superiori a quelle di qualunque individuo o gruppo. Arist. Pol. 1281a41–b2 afferma che “i più, ciascuno dei quali non è un uomo buono, possono tuttavia, se presi tutti insieme, essere migliori dei pochi”. Questo argomento, nel filosofo, si presenta quasi

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in forma concessiva – Aristotele cerca di dare giustificazione al governo dei molti, impopolare nella sua tradizione filosofica (cfr. Lane 2013; per la la democrazia in Platone e nella sua scuola vd. Bertelli 2006). In un tribunale ateniese, luogo dell’istituzionalizzazione di tale governo, una simile formulazione diventa invece l’affermazione della superiorità della collettività rispetto al singolo (cfr. Ober 2008: 110–12 2000: 135; 1989: 163–5; vd. anche comm. §3[2]). Una simile affermazione della superiorità dei molti, applicata non al campo della virtù ma a quello della forza, si trova a Dem. 21.140: “unitevi, affinché se individualmente ciascuno di voi è più debole di loro, [...] una volta uniti diventiate più potenti di ciascuno di loro”. Anche in questo caso un’espressione equivalente si trova in un testo filosofico, Plat. Gorg. 488d: la risposta di Socrate alla pretesa di Callicle che chi è più forte sia anche migliore, e dunque debba comandare, è che secondo un criterio di pura forza i più sono superiori ai pochi, e dunque, migliori. Questo argomento della superiorità dei molti si trova in una varietà di testi, da Thuc. 5.98 all’Anonimo di Giamblico (6.3–4 Diels-Kranz) fino a Isocr. 8.134 (cfr. de Romilly 2005: 128–129). [3] ὡς ἐμοῦ γ’ ἕνεκα ἔστω: questa annotazione (forse ancora ironica) è un ulteriore esempio della prudenza di Demostene (cfr. comm. §13[3]). 15 [1] ὅτι ᾧ μόνῳ μείζους εἰσὶν αἱ παρὰ τῶν δήμων δωρεαὶ τῶν παρὰ τῶν ἄλλων πολιτειῶν διδομένων: l’importanza della charis e della pistis è evidenziata infine da una comparazione della democrazia con le altre costituzioni. Un ulteriore confronto tra Atene e i regimi di Sparta e Tebe sarà proposto a §§106–7. In entrambi i casi il paragone verte sulle ricompense ai benefattori, ma investe la natura stessa del regime democratico: l’atteggiamento verso i benefattori definisce la democrazia stessa. Così Demostene non solo mostra che la legge di Leptine va abrogata, ma insinua anche (come già a §11) che Leptine sia un cripto-oligarca, perché la sua legge è tipica di quei regimi. Il prudente e progressivo accostamento dell’ἦθος di Leptine a quello oligarchico è a questo punto compiuto (cfr. Hesk 2000: 50–51). Demostene afferma che caratteristica della democrazia è la stabilità delle ricompense (l’unica ragione per cui le ricompense delle democrazie sono superiori), che le rende superiori a quelle concesse da altri regimi, per definizione instabili e dipendenti dall’arbitrio di chi ha il potere, e non dalla considerazione dei pari.



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[2] τῇ μὲν γὰρ χρείᾳ τῇ τῶν εὑρισκομένων τὰς δωρεὰς οἱ τύραννοι καὶ οἱ τὰς ὀλιγαρχίας ἔχοντες μάλιστα δύνανται τιμᾶν: le “altre costituzioni” sono l’oligarchia e la tirannide. Questo schema tripartito è tipico del pensiero politico greco, e si trova già in Erodoto (3.80–2), e in formulazioni più sofisticate in Aristotele (Pol. 1279a–1280a) e Platone (Rep. 338d). Simili comparazioni sono comuni anche nell’oratoria e nel teatro ateniese (cfr. Dem. 22.51–2, 23.66, 60.25–6, Aeschin. 1.4, Lys. 6.30, Hyp. fr. 15d e Eur. Supp. 444–55), espressione dei convincimenti condivisi dagli Ateniesi sulle varie forme costituzionali. Nel pensiero politico ateniese la forma di governo antitetica a quella ateniese è identificata fino al V secolo con la tirannide (vd. Harris 2006: 3–28 per l’opposizione alla tirannide in Solone; cfr. Raaflaub 2004a: 45–57, 89–102, 203–225; vd. Rosivach 1988 per il V secolo), mentre nel IV secolo, in seguito alle rivoluzioni oligarchiche della fine del V, il “nemico” diventa l’oligarchia, che al contempo assume caratteristiche tipiche della tirannide, alla quale può essere così agevolmente accostata (cfr. Rhodes 2000; 2011; sulle risposte democratiche alle oligarchie del tardo V secolo vd. Shear 2011; per una storia della contrapposizione delle politeiai democratica e oligarchica nel pensiero ateniese vd. Bertelli 1997: 582–601). Così forme estreme di oligarchia antipopolare, come i Trenta, vengono denominate dynasteiai, ‘tirannidi collettive’ (p. es. Thuc. 3.62 e 4.78; cfr. Cartledge 2009: 46, 53 e Sissa 2009: 293 n. 5) e i loro membri despotai, con un termine che denota il padrone di schiavi ed è esteso a indicare il tiranno (Harris 2006: 272–3 e 278–9) e quindi i membri di una dynasteia. Chi vive dunque sotto un simile regime è in una condizione di douleia, “schiavitù” (p. es. Aesch. Pers. 241; Eur. Heracl. 61–2, 113, 197–8, 243–6, 286–7, Eur. Supp. 476–7; Lys. 2.14; Thuc. 1.141.1, Dem. 17.3– 4; Lyc. 1.61; Lys. 31.26, 31–2; Thuc. 8.68.4, Andoc. 2.27; Lys. 12.39, 67, 73, 78, 92– 4, 97; cfr. Cartledge-Edge 2009: 151). Questo è il senso in cui despotes è utilizzato a §11, per indicare sia il tiranno sia i membri di un’oligarchia. Demostene dunque accosta oligarchie e tirannidi come egualmente contrapposte alla democrazia in virtù delle loro caratteristiche: l’arbitrarietà delle decisioni e dei benefici (contrapposta al governo delle leggi vigente ad Atene). Secondo gli Ateniesi un uomo è libero soltanto se vive in una democrazia partecipativa sotto il governo delle leggi, senza nessuno che abbia potere arbitrario di fare leggi o prendere decisioni al di fuori del controllo del popolo. Un buon esempio di questa concezione del potere tirannico (estesa ai leader di un’oligarchia) è Eur. Supp. 444–55, dove il tiranno è descritto come colui che uccide i giovani che minacciano il suo potere, stupra le ragazze e si impossessa di qualunque ricchezza desideri perché può. In un simile regime il volere del

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tiranno e la legge sono la stessa cosa. Dem. 17.3–4 afferma che le vittime di un tiranno sono uccise senza processo, e il tiranno può liberamente comportarsi con hybris verso le loro mogli e figlie (vd. McGlew 1993 sulla figura del tiranno nella cultura politica greca, e Luraghi 2013: 11–24 e 49–72). La presenza di un tiranno o di un’oligarchia, a prescindere dalle loro azioni, crea un clima nemico della libertà basato sulla paura, che influenza le azioni dei singoli senza bisogno di un intervento diretto del despota: la conoscenza che prosperità o rovina dipendono non dalle leggi ma dal capriccio del despota causa servilismo e adulazione (cfr. Hyp. fr. 15d; vd. comm. a §16[1]). Questa concezione della libertà come non-dipendenza, assenza di dominio sull’individuo, non è esclusiva del pensiero ateniese, ma è tipica della tradizione repubblicana, che annovera scrittori come Bruni, Machiavelli, Harrington (cfr. Skinner 1984, 1986, 1998, 2001, 2002a, 2002b, 2003, Pettit 1993, 1997; Viroli 1993, 1999; sulla similitudine con la tradizione ateniese vd. Cartledge-Edge 2009, Edge 2009). La concezione della schiavitù come dipendenza dal capriccio di un individuo che determina un deterioramento dei comportamenti individuali è anch’essa tipica della tradizione repubblicana (cfr. Viroli 2011). Demostene applica queste nozioni alla cultura evergetica e rileva come il despota possa dispensare onori senza seguire alcuna regola o procedura, in qualunque quantità, e quando vuole. Essere onorati dipende dal capriccio arbitrario del despota, che può rendere ricco chiunque in un istante. Per cui, se si guarda al vantaggio materiale di chi riceve la ricompensa, questi regimi sono decisamente superiori alle democrazie. [3] τιμᾶν: il verbo, retto da δύνανται, è espunto da Bake, seguito da Butcher e Sykutris. Weil propone τι δρᾶν, Markland νικᾶν, Heimsoeth ὑπαντᾶν. Navarre-Orsini, pur accogliendo la lezione, considerano con Sandys il verbo corrotto, ma non avanzano nessuna proposta. P.Oxy 56.3841 ha dimostrato che la lezione τιμᾶν non è una corruttela medievale, e dunque deve essere considerata autentica o comunque di tradizione antica (il papiro è datato dall’editore al II secolo d.C.). Il contesto, che riguarda gli onori ai benefattori, rende pressoché certo che il verbo corretto è τιμᾶν. [4] πλούσιον γὰρ ὃν ἂν βούλωνται παραχρῆμ᾽ ἐποίησαν τῇ δὲ τιμῇ καὶ τῇ βεβαιότητι τὰς παρὰ τῶν δήμων δωρεὰς εὑρήσετε οὔσας βελτίους: il tono sentenzioso (cfr. l’aoristo gnomico) qui esprime concetti condivisi dal pubblico. Il vantaggio delle ricompense sotto un tiranno o un’oligarchia è puramente materiale, e concerne quantità e velocità (παραχρῆμα). Per gli ateniesi ricchezze eccessive ottenute come doni o ricompense erano tipiche



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del dispotismo orientale (p. es. Hdt. 6.125, Archil. 19w, Xen. Cyr. 8.1.19) e Macedone (p. es. Diod. 17.16.4; cfr. von. Reden 1995: 85–8, Dalby 1996: 153–4; Brosius 2007: 54–6; Spawforth 2007: 92–3, 107–8; Paterson 2007: 138), che arricchivano arbitrariamente ed eccessivamente per incrementare la dipendenza e il servilismo dei cortigiani. Eccessiva preoccupazione per le ricchezze materiali è tipica nel pensiero ateniese dell’avidità orientale (cfr. Balot 2001:102–8), e gli Ateniesi guardavano con sospetto l’arricchimento eccessivo e repentino (p. es. Dem. 8.66; 18.131, 258; Dem. Ex. 53.3; cfr. Ober 1989: 233–6). Ma il valore di un premio non equivale al suo apporto finanziario. Una ricompensa ha valore anche in relazione alla τιμή che porta al suo beneficiario (vd. Fisher 2003; Liddel 2007 passim e Keim [c.d.s.]). Per questo le ricompense di una democrazia sono superiori perché non dipendono dal volere arbitrario di un despota ma simboleggiano la considerazione di una comunità di pari (temi sviluppati a §16). L’arbitrarietà di un despota è simboleggiata dalla facilità non solo nell’accordare ricompense, ma anche nel toglierle per capriccio. Al contrario, la stabilità delle ricompense delle democrazie le rende superiori. Tuttavia, se l’ateleia è abolita retrospettivamente, le ricompense di Atene diventeranno instabili e dipendenti dal capriccio del demos, e quindi equivalenti a quelle dei despoti. 16 [1] τό τε γὰρ μὴ μετ᾽ αἰσχύνης ὡς κολακεύοντα λαμβάνειν: tipica del servilismo di tirannie e oligarchie è l’adulazione verso il despota per ottenerne doni e vantaggi materiali (p. es. Xen. Hiero, 1.15–16 con la riflessione di un tiranno su come si distinguano adulatori e amici; cfr. [Plat.] Def. 215e: “una relazione sociale con lo scopo di ottenere piacere, senza considerazione per ciò che è buono”; Pl. Gorg. 512d6–8; Ar. Vesp. 682–3; Arist. Pol. 1314a, Rhet. 1371a21–3; Theophr. Char. 2.2.13; vd. Edwards 2010 sul tema nella commedia, e Millet 1989 in generale). La kolakeia è una perversione di un rapporto di charis e philia, che può manifestarsi anche in una democrazia tra individui di diverso livello sociale (cfr. Xen. Mem. 2.9 per la relazione tra Critone e Archedamo, che mostra il confine sottile tra kolakeia e charis; cfr. Fisher 2000; 2008: 194–7). L’adulazione era spesso castigata come indegna di un uomo libero, e aliena dall’ἦθος ateniese (in linea con la morale greca più in generale, vd. Dover 1974: 230). Qui è citata come ragione per cui gli onori delle democrazie sono superiori a quelli di tiranni e oligarchie: mentre la reciprocità ad Atene è produttiva di uno scambio continuo di riconoscenza e servizi volti al bene della collettività, il rapporto tra il kolax e il despotes

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porta al degrado del servitore e alla sua dipendenza, nella ricerca continua di piaceri e ricchezze. La kolakeia diventa anche parte del linguaggio politico democratico in contesti in cui il demos è descritto come tiranno, e gli uomini politici (demagoghi), così come gli alleati alla ricerca di favori, come kolakes del demos (e.g. Arist. Pol. 1292a, Ar. Eq. 47–8, [Xen.] Ath. Pol. 1.18; cfr. Edwards 2010). [2] ἀλλ᾽ ἐν ἰσηγορίᾳ δοκοῦντα ἄξιόν τινος εἶναι τιμᾶσθαι τῶν καλῶν ἐστι: la superiorità delle ricompense delle democrazie è dovuta anche alla partecipazione della collettività alla decisione di onorare il singolo. Isegoria indicava l’eguale diritto di tutti i cittadini a parlare e partecipare alle decisioni pubbliche, rappresentato dalla domanda del presidente dell’Assemblea: “chi vuole parlare all’Assemblea” (Aeschin. 1.27 celebra questa domanda come simbolo dell’isegoria; cfr. Ober 1989: 295–7; cfr. p. es. Dem. 21.124, 60.26; Eur. Supp. 430–42). Concetti connessi erano la parrhesia (talvolta rappresentata negativamente come una versione estrema della libertà di parola; vd. Saxonhouse 2006: 89; Raaflaub 2004a: 224 n. 100; talvolta una liberta di parola sganciata dalla dimensione istituzionale della deliberazione democratica, vd. Raaflaub 2004a: 221–5), isologia e eleutherostomia (vd. Raaflaub 1980: 11–23; 2004: 221–5; Stone 1988: 215–24 per ipotesi sulle differenze tra questi termini e sulla loro evoluzione; Momigliano 1971; Momigliano-Humphreys 1974; Spina 1986; Wallace 2004; Sluiter-Rosen 2004 per discussioni sulla libertà di parola). Il dibattito è aperto sulla data di introduzione dell’isegoria: Lewis (1971), Ostwald (1969: 146–7, 157 n. 2), e Raaflaub (1980: 7–57) la connettono alle riforme di Clistene, mentre Griffith (1966) e Woodhead (1967) a quelle di Efialte. [3] τοῦ παρὰ τοῦ δεσπότου: παρὰ τοῦ δεσπότου qui include sia i tiranni sia i leader delle oligarchie. Il termine era in origine applicato al padrone di schiavi, e indica dunque qui i leader in qualunque regime carattarizzato dalla douleia del popolo (cfr. comm. §15[2]). [4] παρὰ μὲν γὰρ ἐκείνοις μείζων ἐστὶν ὁ τοῦ μέλλοντος φόβος τῆς παρούσης χάριτος: vista l’arbitrarietà del potere nelle tirannidi e nelle oligarchie, phobos, la paura per il futuro, ne è caratteristica fondamentale (tanto per i sudditi quanto per i despoti: p. es. Diod. 9.30, [Arist.] Ath. Pol. 35.4; Soph. OT 584–93; cfr. comm. §15[2]; cfr. anche Luraghi 2013: 11–24 e 49– 72). Ogni ricompensa (charis, che visto il contesto indica qui i premi della kolakeia) può essere abolita dal despota per capriccio. Per questo il vantag-



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gio dei premi delle democrazie, in aggiunta alla maggiore τιμή dovuta alla libera considerazione dei pari, consiste nella loro stabilità (τῇ βεβαιότητι). L’assenza di timore per il futuro, dovuta all’assenza di potere arbitrario e al governo delle leggi (a cui corrisponde la paura delle leggi, vd. Thuc. 2.37), è tipica della democrazia, come espresso (come una critica) dal Cleone tucidideo (Thuc. 3.37.2, con l’uso di ἀδεές come in questo passaggio; su questo passo p. es. Andrews 1994; Saxonhouse 1996: 72–79; Rood 1998: 147–48). 17 [1] ὁ τοίνυν τὴν πίστιν ἀφαιρῶν τῶν δωρεῶν νόμος: la comparazione delle forme costituzionali si conclude con il ritorno al concetto di pistis (cfr. §§8–14). La stabilità dei premi delle democrazie li rende superiori ai doni arbitrari e instabili dei despoti. Ma se l’ateleia verrà abolita, la fiducia (pistis) dei benefattori nella stabilità dei premi di Atene verrà a mancare, e Atene perderà il suo vantaggio su tiranni e oligarchie. [2] τὸ κομίζεσθαι τοὺς εὔνους τοῖς καθεστῶσιν χάριν ἐξέλῃς: l’eunoia, la buona volontà nei confronti del demos, è una delle 10 virtù cardinali del benefattore della città (cfr. Whitehead 1993: 37–76; le altre virtù sono andragathia, arete, dikaiosyne, epimeleia, eusebeia, eutaxia, philotimia, prothymia, sophrosyne). Queste virtù si trovano spesso tra le motivazioni dei decreti onorifici ateniesi (p. es. IG II2 42 l. 5, 196 ll. 12–3, IG II3 1 298 l. 32 per eunoia; cfr. Velligianni Terzi 1997: 285–306; per l’uso di eunoia negli onori per servizi commerciali vd. Engen 2010: 129–31). L’eunoia è citata a §§41 e 52 (cfr. §122) anche in relazione a Epicerde e agli esuli corinzi. L’uso di questo termine caratterizza l’azione dei benefattori come altruistica (cfr. Xen. Por. 3.4), e prova della loro amicizia per Atene. L’espressione εὔνους τοῖς καθεστῶσιν si trova altrove (p. es. Lys. 16.3) a indicare la fedeltà all’ordine costituito, alla costituzione corrente, ma in questo contesto il suo uso indica semplicemente i benefattori della città. 18–28: Demostene discute gli effetti della legge di Leptine sul sistema liturgico, minimizzando il numero degli esenti dovuti alle esenzioni onorifiche tra cittadini e meteci e mostrando che la legge di Leptine non migliorerà il funzionamento del sistema liturgico, e porterà vergogna alla città. L’oratore ribatte ad alcune obiezioni di Leptine e implicitamente ammette che la sua legge potrebbe avere più ampia applicazione, e colpire anche le esenzioni dovute al servizio liturgico degli anni precedenti.

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18 [1] τάχα τοίνυν ἴσως ἐκεῖνο λέγειν ἂν ἐπιχειρήσειε Λεπτίνης, ἀπάγων ὑμᾶς ἀπὸ τούτων: questo era probabilmente uno degli argomenti principali di Leptine, accanto a quello sugli esenti immeritevoli (§7). Demostene lo introduce come un tentativo di sviare l’attenzione dei giudici dal problema fondamentale, che la sua legge è contraria all’ethos e distrugge la pistis di Atene, infrangendo la charis tra demos e benefattori (cfr. intr. pp. 55–63). [2] ὡς αἱ λειτουργίαι νῦν μὲν εἰς πένητας ἀνθρώπους ἔρχονται, ἐκ δὲ τοῦ νόμου τούτου λειτουργήσουσιν οἱ πλουσιώτατοι: sostenere che la legge avrebbe spostato il peso liturgico dai poveri ai ricchi poteva attirare le simpatie dei giudici, che erano in maggioranza cittadini (e anziani, cfr. Arist. Vesp. 230–47, 291–315) che guadagnavano il loro sostentamento attraverso il lavoro manuale (per Jones 1957: 36–7 e Dover (1974: 34–5 erano in maggioranza membri della classe media, ma vd. Rhodes 1981: 691, Markle 1985, Hansen 1991: 185–6, MacDowell 1995: 156–8: erano per lo più cittadini poveri; Todd 1990 offre una discussione delle varie teorie, ma la conclusione che fossero rappresentanti di una classe specifica di agricoltori che costituiva la maggioranza dei cittadini è datata, cfr. Harris-Lewis 2015). La composizione dei collegi di giudici non era molto diversa da quella dell’Assemblea (Ober 1989: 142–4; Hansen 1991: 185–6). La chiave per comprendere l’argomentazione di Leptine è dunque il senso di penetes, che poteva indicare tanto i poveri quanto in generale chi doveva lavorare per sostentarsi (Markle 1985: 267–71; Den Boer 1979: 151–3), mentre mendicanti e indigenti erano definiti ptochoi (cfr. Christesen 2013: 213-15; sull’uso di ptochos vd. Roubineau 2013; Galbois e Rougier-Blanc 2014). Ma i termini plousioi e penetes erano spesso utilizzati in senso relativo, e chiunque poteva essere caratterizzato come penes in contrasto con qualcuno più ricco (Ober 1989: 194–6; cfr. Kremmydas 2012: 216–7). Questo è il senso in cui Leptine utilizza il termine, con al contempo l’obiettivo di suscitare la simpatia dei giudici, non certo tra i plousiotatoi, che avrebbero apprezzato una misura che redistribuisse il carico fiscale verso l’alto. La stessa strategia è utilizzata da Demostene nel descrivere la sua riforma delle simmorie trierarchiche (Dem. 18.102; vd. intr. p. 53), definendo i trierarchi da lui sgravati di parte del peso fiscale (ma comunque molto ricchi) penetes. Ma sia Demostene (a 18.102) sia Leptine, definendo i meno ricchi tra i ricchi penetes per attirare la simpatia dei giudici, sfruttavano un altro uso di penes, che distingueva i plousioi, una minoranza di ricchi caratterizzati da una vita di schole, da un particolare vestiario, da passatempi quali l’atletica, la caccia, l’allevamento dei cavalli, l’amore pederastico (ma l’omosessualità



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non era limitata alle classi abbienti, vd. Fisher 2001: 25–36) e la partecipazione ai symposia, dal resto della popolazione composta da penetes, sinonimo di demos, a prescindere dalle differenze di ricchezza in questa fascia della popolazione (Gabrielsen 1994: 43–73, Pritchard 2004: 212–13, 2010: 2 n. 7, Rosivach 1991). I giudici in questo senso erano penetes, ma la loro penia era molto diversa dalla “penia” di coloro che erano sgravati dalla legge di Leptine. Le liturgie infatti ricadevano su circa 1200 ateniesi con una fortuna di tre talenti o più (vd. intr. pp. 47–8). Dunque la legge di Leptine redistribuiva il peso fiscale all’interno dei 4/5% più ricchi. Per il 95/96%, i veri penetes contrapposti ai plousioi, non c’era alcun cambiamento. L’uso di penetes da parte di Leptine è dunque strumentale, e Demostene nota che la maggioranza dei cittadini e dei giudici è comunque esente dalle liturgie perché troppo povera, e non è toccata dalla legge. Una strategia opposta è rivolgersi ai giudici come se fossero tutti facoltosi e pagassero almeno l’eisphora (p. es. Lys. 28.3–4, 7, Dem. 1.20, 7.35, 23.111, 160, 198 con Ober 1989: 224). Queste strategie tentavano in vari modi di negare la diseguaglianza economica e sociale tra l’oratore e i giudici, dando l’impressione o che l’oratore fosse povero, o che i giudici fossero ricchi. [3] εἰσὶ γὰρ δήπου παρ᾽ ἡμῖν αἵ τε τῶν μετοίκων λειτουργίαι καὶ αἱ πολιτικαί, ὧν ἑκατέρων ἐστὶ τοῖς εὑρημένοις ἡ ἀτέλεια ἣν οὗτος ἀφαιρεῖται: il tentativo di presentare due differenti ordini di liturgie per cittadini e meteci è strumentale (vd. intr. pp. 48–9 sulle liturgie e su questo passo). Demostene vuole anticipare quello che sarà chiaro a §§19–20: poiché i più ricchi tra i cittadini ricevono l’esenzione dalle liturgie ordinarie attraverso l’espletamento della trierarchia, l’esenzione che Leptine vuole abrogare non incrementerà il numero dei cittadini sottoposti alle liturgie ordinarie. Dunque l’unica categoria di liturgisti che aumenterà di numero è quella dei meteci con un’esenzione onorifica. Ma questa argomentazione si fonda su un presupposto che non ha riscontro nelle citazioni della legge di Leptine nel discorso: che le esenzioni abolite dalla legge siano soltanto quelle onorifiche. Se invece la legge di Leptine si riferisse a tutte quante le esenzioni (a §§21 e 23 Demostene sembra ammetterlo indirettamente) il numero dei cittadini sottoposti alle liturgie ordinarie aumenterebbe, perché i trierarchi non sarebbero più esentati (nell’anno della trierarchia e nei due anni successivi, vd. comm. §§8[4] e 19[2]). Questo è suggerito da Demostene indirettamente a §20, e sarà stato il vero obiettivo della legge di Leptine (vd. intr. pp. 55–63).

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[4] τῶν γὰρ εἰς τὸν πόλεμον καὶ τὴν σωτηρίαν τῆς πόλεως εἰσφορῶν καὶ τριηραρχιῶν ὀρθῶς καὶ δικαίως οὐδείς ἐστ᾽ ἀτελὴς ἐκ τῶν παλαιῶν νόμων: Demostene mente (pace p. es. Migeotte 2014: 146): è vero che nessuno eccetto i nove arconti (e probabilmente chi stava servendo come cavaliere, vd. Rhodes 1982: 5 n. 13; Gabrielsen 1994: 90) era esente dalle trierarchie, ma non è vero che nessuno poteva avere un’ateleia dall’eisphora (su cui vd. intr. pp. 50–1). IG II2 141 ll. 29–36, un emendamento agli onori al re di Sidone, decreta che tutti i mercanti sidonii che vivono ad Atene siano esenti dalla tassa dei meteci, dalle coregie e dall’eisphora. Demostene ripete nuovamente a §26 che nessuno è esente da trierarchia e eisphora, ma a §27, appena prima e appena dopo la lettura del testo della legge, l’eisphora scompare. Demostene mente per convincere i giudici che le applicazioni della legge di Leptine fossero limitate, ma evita di ripetere la menzogna quando potrebbe essere facilmente smascherata dalla lettura della legge (vd. comm. §27[2] e Canevaro [c.d.s c]). [5] οὐδ᾽ οὓς οὗτος ἔγραψε, τοὺς ἀφ᾽ Ἁρμοδίου καὶ Ἀριστογείτονος: la legge di Leptine indicava nei discendenti dei tirannicidi Armodio e Aristogitone gli unici che potessero conservare le esenzioni (cfr. §§29, 70, 127, 128, 159, 160). Questo era dovuto all’importanza delle figure dei tirannicidi – i loro onori saranno stati intoccabili. Armodio e Aristogitone, della famiglia dei Gephyraioi, uccisero nel 514 (secondo Tucidide nei pressi del Leokoreion) Ipparco, figlio di Pisistrato e fratello di Ippia (che era succeduto al padre), durante la processione panatenaica (cfr. Hdt. 5.55; Thuc. 1.20, 6.54– 9, [Arist.] Ath. Pol. 18). Furono entrambi uccisi, Armodio immediatamente dalla guardia di Ippia, e Aristogitone dopo l’arresto, e secondo [Arist.] Ath. Pol. 18 dopo essere stato torturato. Jacoby tracciò una distinzione tra la tradizione popolare e “ufficiale”, secondo cui i tirannicidi liberarono Atene, rovesciarono la tirannide e instaurarono l’isonomia (vd. Thuc. 1.20), e la tradizione del genos degli Alcmeonidi (accolta da Erodoto, Tucidide e dalla Ath. Pol.), secondo cui la tirannide continuò dopo la morte di Ipparco e fu abbattuta dagli Alcmeonidi con l’aiuto spartano (Jacoby 1949: 161; cfr. Ehrenberg 1950: 531; Podlecki 1966; Fornara 1968a; 1968b; Murray 1987; Flaig 2004a; 2004b; 2011: 59; cfr. Rhodes 1981: 227–33 per le fonti storiografiche). Thomas ha mostrato che, nonostante la popolarità dei tirannicidi, passi come Ar. Lys. 1150–5 e Dem. 21.143–7 chiariscono che l’Ateniese medio era al corrente del ruolo degli Spartani e degli Alcmeonidi e che Armodio e Aristogitone non avevano messo fine alla tirannide. Queste non erano tradizioni alternative, ma si intrecciarono nel tempo (Thomas 1989:



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238–82; cfr. Azoulay 2014: 27–37; per le fonti vd. Brunnsåker 1971 e Rausch 1999: 40–55). La centralità della tradizione dei tirannicidi nell’orizzonte politico e culturale ateniese (vd. Taylor 1991 e Azoulay 2014: 39–154; vd. Stanton 1990: 119–29 e Worthington 1992: 272 per ulteriore bibliografia) è riscontrabile tanto negli scolia, canzoni conviviali che accompagnavano i simposii e i banchetti (PMG 893–6 Page; cfr. Ar. Ach. 979–80, Vesp. 1225 con Bowra 1961: 391–6, Ostwald 1969: 121–36, Thomas 1989: 258–60, Raaflaub 2003: 65–6), quanto nella commedia e negli oratori (p. es. Hdt. 6.109.3–6, 12.3.2; Ar. Lys. 626–35; Dem. 20.69–70, 19.280–1, 21.170; Aeschin. 1.132, 140; Din. 1.63, 101; Isoc. 8.143 Lyc. 1.46–51; Hyp. Epitaph. 34–9; con Taylor 1991: 93–4 n. 6, 96–7, Raaflaub 2003: 66, Perlman 1961: 164–6). La loro influenza sull’arte ateniese fu enorme (cfr. Taylor 1991). Le prime statue in loro onore furono erette al centro dell’agora alla fine del VI secolo (cfr. Ar. Eccl. 681–3, Lys. 631–4, Paus. 1.8.5; Wycherley 1957: 93–8; Thompson-Wycherley 1972: 155–60, Shear 2001: 687–93; 2011: 275, 278; Azoulay 2014: 39–54). Queste statue furono sostituite da nuove statue nel 477/6, dopo le Guerre Persiane (Azoulay 2014: 55–68), e nessun’altra statua onorifica fu eretta ad Atene fino a quelle di Conone e Evagora dopo la vittoria di Cnido (cfr. comm. §70[1]; Azoulay 2014: 127–9; Shear 2011: 320–1; 2012). Sulla loro storia vd. ora Azoulay (2014). I tirannicidi furono seppelliti in una tomba nel Ceramico (Paus. 1.29.15) e onorati con un culto (Shear 2012), sacrifici annuali effettuati dall’arconte polemarco ([Arist.] Ath. Pol. 58.1, Dem. 19.280; cfr. Clairmont 1983: 14; Kearns 1989: 55, 150; Taylor 1991: 5–9; Shear 2011: 75, 253–5; Parker 1996: 123, 136–7 è scettico); i loro discendenti avevano diritto alla sitesis nel Pritaneo (Ar. Eq. 786 e IG I3 131 ll. 1–9, Isae. 5.46; vd. comm. §120[2]), alla proedria ai festival e all’ateleia (§§127–30, Isae. 5.47; vd. Shear 2007b: 152, 252–3 nn. 23–4). Hyp. Phil. 3 menziona anche una legge che puniva la diffamazione contro i tirannicidi (Whitehead 2000: 52 e Raaflaub 2003: 66). Abbiamo notizia di discendenti dei tirannicidi in pieno IV secolo da Isae. 5: il protagonista Diceogene, prima dell’adozione, e il fratello Armodio (vd. Cobetto Ghiggia 2002: 216–17 n. 381). L’eccezione creata da Leptine era dunque effettiva – è probabile che i discendenti dei tirannicidi si servissero delle loro esenzioni. È inoltre probabile che gli onori si applicassero soltanto ai più anziani membri di sesso maschile delle due famiglie (cfr. IG I3 131 l. 6). 19 [1] σκεψώμεθα δὴ τίνας ἡμῖν εἰσποιεῖ χορηγοὺς εἰς ἐκείνας τὰς λῃτουργίας, καὶ πόσους: χορηγούς è qui utilizzato come sinonimo di

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liturgisti in generale (sulla coregia vd. intr. p. 49). Demostene esorta i giudici a stimare quanti liturgisti aggiuntivi la legge di Leptine procurerà per le circa 100 liturgie ordinarie e argomenta che saranno molto pochi. [2] οἱ μὲν τοίνυν πλουσιώτατοι τριηραρχοῦντες ἀεὶ τῶν χορηγιῶν ἀτελεῖς ὑπάρχουσιν: i trierarchi erano esenti dalle altre liturgie durante il servizio trierarchico (vd. intr. pp. 49, 58–9 e comm. §§8[3]). Dunque, in virtù delle trierarchie, i più ricchi sono comunque esenti dalle liturgie (τῶν χορηγιῶν vd. sopra). Kremmydas (2012: 221) legge ἀεί in connessione con τριηραρχοῦντες: i più ricchi, in quanto svolgono la trierarchia ogni anno (ἀεί), sono esenti dalle altre liturgie, mentre chi non è abbastanza ricco è comunque esente. Dunque la legge di Leptine non toccherà né i cittadini ricchi né quelli poveri, ma soltanto i meteci. Secondo Kremmydas dunque Demostene nasconderebbe che soltanto una parte (un terzo, o meno) dei più ricchi (1200 membri della classe liturgica, vd. intr. pp. 47–8) si sobbarca la trierarchia in un dato anno, e gli altri sono disponibili per altre liturgie. E tuttavia sarebbe certamente parso inverosimile ai giudici affermare che tutti i plousiotatoi (l’intera classe liturgica) si sobbarcassero la trierarchia ogni anno. Gli Ateniesi sapevano bene che la classe liturgica constava di circa 1200 individui, perché 1200 individui erano stati irregimentati dalla legge di Periandro nelle simmorie trierarchiche pochi anni prima (nel 358/7, vd. intr. pp. 52–3). Atene non possedeva abbastanza navi per giustificare l’ineleggibilità di un simile numero di individui, e gli Ateniesi conoscevano bene i numeri della flotta, un tema chiave nei dibattiti assembleari. Per questo, a meno che l’ineleggibilità per le altre liturgie non valesse per tutti i membri delle simmorie trierarchiche che contribuivano in denaro, e non soltanto per i trierarchi effettivi (vd. intr. pp. 58–9), Demostene non poteva certo affermare convincentemente che tutti i 1200 fossero esenti dalle liturgie ordinarie per via delle trierarchie, espletate ogni anno (ἀεί). Ma è impossible che tutti i 1200 membri delle simmorie trierarchiche, e non soltanto i trierarchi effettivi, fossero esenti dalle liturgie, perché non sarebbe rimasto nessuno a espletare le liturgie ordinarie. Inoltre, vista l’esenzione di due anni dopo la trierarchia, sarebbe necessario postulare 3600 membri delle liste trierarchiche (vd. Gabrielsen 1994: 87). Dunque ἀεί non può qualificare τριηραρχοῦντες, altrimenti Demostene starebbe affermando che i 1200 più ricchi si sobbarcano volontariamente la trierarchia ogni anno, senza interruzioni e senza sfruttare le loro esenzioni temporanee. Una simile affermazione (di per sé improbabile) sarebbe incompatibile con i problemi nel trovare abbastanza trierarchi evidenziati



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da Demostene l’anno successivo (354/3) nel discorso Sulle Simmorie, e oggetto anni dopo della sua riforma trierarchica, il cui scopo era costringere i Trecento più ricchi a sobbarcarsi una porzione maggiore del peso trierarchico (Dem. 18.104–8). Sarebbe dunque parsa inverosimile ai giudici, che erano testimoni ogni anno in Assemblea dei problemi a reclutare i trierarchi. Bisogna dunque leggere ἀεί insieme a τῶν χορηγιῶν ἀτελεῖς ὑπάρχουσιν: i 1200 più ricchi, per via della trierarchia, erano sempre esenti. Non perché si sobbarcassero la trierarchia ogni anno (non c’erano abbastanza navi), ma in quanto quando non erano trierarchi erano esenti perché erano stati trierarchi negli ultimi due anni (vd. comm. §§8[3]). Questa è l’interpretazione meno problematica del passo (pace Gabrielsen 1994: 87; Karvounis 1999: 61–2). Così è chiaro come Leptine potesse affermare che era difficile reperire abbastanza liturgisti (p. es. §23), e si spiega l’affermazione di Demostene a §21: “Poniamo che la faccenda non è come la dipingo io e che, se la legge è promulgata, […] nessun cittadino sarà esente per via di una trierarchia”. La regola che chi svolgeva una trierarchia non poteva svolgere un’altra liturgia nello stesso anno non comportava stricto sensu un’esenzione; c’era un limite di una liturgia all’anno. Ma nei due anni successivi i trierarchi erano di fatto esenti da tutte le liturgie. È facile allora comprendere come la gran parte dei più ricchi non fosse mai disponibile per le liturgie ordinarie (vd. intr. pp. 58–9). Demostene sostiene che l’esenzione di due anni dopo la trierarchia non verrà toccata dalla legge di Leptine, che riguarda soltanto le esenzioni onorifiche, ma in realtà (vd. intr. pp. 60–3) il dettato della legge era vago su questo punto, e a §20 l’oratore ammette che la legge di Leptine potrebbe abrogare anche queste esenzioni. [3] οἱ δ᾽ ἐλάττω τῶν ἱκανῶν κεκτημένοι, τὴν ἀναγκαίαν ἀτέλειαν ἔχοντες, ἔξω τοῦ τέλους εἰσὶ τούτου: questa vaga formulazione sembra indicare che ci fosse un livello di ricchezza minimo sotto il quale non poteva essere richiesto a un cittadino di espletare una liturgia. Questo è vero solo in senso lato. Le liturgie erano probabilmente assegnate ai più ricchi tra chi fosse disponibile e potesse permettersele – chi possedeva meno di tre talenti non ne espletava, mentre chi ne possedeva più di quattro doveva prima o poi sobbarcarsele (il numero dei liturgisti era di circa 1200; vd. sulle liturgie intr. pp. 47–54). 20 [1] ἀλλὰ νὴ Δία εἰς τὰς τῶν μετοίκων λῃτουργίας εἰσποιεῖ πολλούς: Demostene presenta qui una possibile obiezione dei suoi avversari, introdot-

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ta dall’enfatico νὴ Δία (vd. MacDowell 2009: 402–3 e 405; Sommerstein 2007: 128–9 e n. 13 sostiene che questo sia un giuramento informale attribuito agli avversari per poi negarne la realtà). Demostene dà per scontato che gli avversari accetteranno i suoi argomenti sui cittadini, e passeranno a discutere i meteci. I meteci erano in genere stranieri liberi residenti ad Atene, ma il termine era applicato anche a categorie che non erano stricto sensu meteci: schiavi liberati, che assumevano uno status simile ma non identico (Whitehead 1977: 16–17, 114–16 e Kazakévich 2008 li assimilano ai meteci, ma vd. Kamen 2011 e Canevaro-Lewis 2014: 97–8 che notano differenze di status), figli illegittimi di cittadini ateniesi (cfr. Dem. 57.53 con Ogden 1996: 156; è probabile che lo status dei nothoi con entrambi i genitori ateniesi fosse di cittadini, vd. MacDowell 1976b; Carey 1995: 416–17 n. 33; Kamen 2013: 62–70) e, sotto regimi con un censo per la cittadinanza, come quello di Demetrio di Falero, ex-cittadini che avevano perso il loro status con l’introduzione del censo (vd. van Wees 2011: 102–3). La condizione di meteco, a cui la legge di Leptine fa riferimento con il termine xenos (straniero; cfr. §29 e comm. §21[1]), comportava vari oneri: il meteco non aveva alcun diritto politico, non poteva partecipare all’Assemblea, essere giudice, magistrato o sacerdote e non partecipava alle distribuzioni nè godeva della gran parte dei vantaggi economici riservati ai cittadini (Kamen 2013: 43–54). Non poteva possedere terra propria, a meno che non gli fosse garantita l’enktesis (vd. Henry 1983: 204–240; Pečírka 1966; Leão 2011) e non poteva ottenere concessioni minerarie senza un’autorizzazione speciale. I matrimoni con i cittadini erano nulli, ed esistevano punizioni per meteci che sposassero donne ateniesi ([Dem.] 59.16). La pena per l’omicidio di un meteco era inferiore, e si poteva in certe circostanze costringere i meteci a testimoniare sotto tortura (Lys. 13.27, 54, 59–61; vd. Thür 1977: 15–25; Harris 1995: 172; Bushala 1968). Avevano l’obbligo di svolgere il servizio militare (in condizione inferiore a quella dei cittadini: cfr. Thuc. 2.13.7; Xen. Poroi. 2.2; Whitehead 1977: 82–86), pagare una tassa annuale, il metoikion, di 12 dracme per gli uomini e di 6 per le donne (Harp., s.v. μετοίκιον) e, se facoltosi, dovevano sottoporsi alle liturgie e all’eisphora, con un regime differente rispetto ai cittadini, per cui dovevano probabilmente contribuire 1/6 del totale (Dem. 22.61; IG II2 44 l. 20; cfr. Christ 2007: 60–63; Whitehead 1977: 78–79 propende per una porzione inferiore, mentre de Ste. Croix 1953: 32 n. 5 per un sesto supplementare all’onere dei cittadini). Van Wees (2011: 101–6) mostra che l’obbligo di pagare 1/6 dell’eisphora totale era teoreticamente proporzionale al numero di meteci, circa 1/6 della popolazione libera adulta (ma di



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fatto erano meno, per cui pagare con i cittadini e non con i meteci era un privilegio). Contro Whitehead (1977: 78–80; cfr. Hansen 1988: 10; 1999: 93), secondo cui i meteci erano più di 1/6 della popolazione, van Wees (2011) sostiene che nel 322 i meteci maschi adulti fossero circa 5000. La popolazione dei meteci era essenziale all’economia ateniese, e si sobbarcava numerose liturgie (vd. Whitehead 1977: 80–2; Wilson 2000: 26–31; Mustafa 2003: 63–94 e passim) – molti meteci erano facoltosi (cfr. Cefalo, il padre di Lisia, Lys. 12; e il banchiere Pasione, padre dell’oratore Apollodoro, dopo la sua liberazione e prima della sua naturalizzazione, Dem. 36.5, 45.85). Per l’integrazione (e l’esclusione) dei meteci nella sfera religiosa vd. Wijma 2014. [2] ἀλλ᾽ ἐὰν δείξῃ πέντε, ἐγὼ ληρεῖν ὁμολογῶ: non sappiamo quanti meteci fossero esenti dalle liturgie ordinarie (o da particolari liturgie ordinarie) per via di decreti onorifici (Wilson 2000: 29 legge questo passo come riferito ai meteci esenti per via di una liturgia dell’anno precedente, ma l’argomentazione qui funziona solo se l’ateleia è qui intesa come esenzione onoraria), ma è inverosimile che fossero solo cinque (o 10 o 15, cfr. §21; pace Migeotte 2014: 458, che accetta queste affermazioni), e contraddetto da Demostene nel prosieguo del discorso, in cui menziona Leucone, Epicerde e gli esuli corinzi, tasii e bisanzii. La maggioranza di costoro, a prescindere dall’ereditarietà delle loro esenzioni (vd. comm. §§46[2], 64[1]), visse probabilmente nello stesso periodo, negli anni ’80 e ’70 del IV secolo. Inoltre le esenzioni agli esuli corinzii, tasii e bisanzii erano esenzioni di gruppo, e quelle citate erano soltanto alcune delle esenzioni accordate in quegli anni (p. es. IG II2 141 ll. 29–36, del 376/5, accorda l’esenzione dalle coregie ai mercanti di Sidone; Engen 2011: 187–92 conta sei iscrizioni di IV secolo con esenzioni per servizi commericiali). Non c’è ragione dunque di credere che ci fossero così pochi meteci esenti all’epoca del processo. Demostene tenta di minimizzare gli effetti della legge, ma le sue cifre sono inverosimili. L’uso stesso di simili cifre in questo passaggio e altrove (§§28, 32–3, 42, 77; cfr. Lys. 32; Dem. 18.234; 27.9–11) è un tentativo di dare ai giudici un’impressione di precisione, e di convincerli della preparazione dell’oratore. Questo uso (certo non ignoto ai politici moderni) di numeri e calcoli per confondere e ingannare il demos è parodiato nella commedia (p. es. Ar. Vesp. 524–724; sull’uso di numeri e sulla pratica di arrotondarli vd. Rubincam 1979a; 1979b; 1979c; 2003). [3] θήσω τοίνυν ἐγὼ μὴ τοιοῦτον εἶναι τοῦτο, ἀλλὰ […] τῶν πολιτῶν μηδένα ἐκ τριηραρχίας ὑπάρξειν ἀτελῆ: Demostene presenta la possibilità che nessuno sia esente per via di una trierarchia come un’assurdità, senza discuterla oltre, e tuttavia vi accenna. La ragione è che la legge di Leptine non

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conteneva alcuna clausola per cui a essere abolite sarebbero state soltanto le esenzioni onorifiche (vd. intr. pp. 60–3). L’intenzione (esplicita o implicita) di Leptine era rendere tutti i componenti della classe liturgica passibili di essere selezionati ogni anno, senza intervallo. Le leggi sulle liturgie prescrivevano semplicemente l’obbligo per i più ricchi di farsi carico delle liturgie, a meno che appunto non si avesse un’esenzione (Rhodes 2006: 331). Abolite le esenzioni, i più ricchi nella classe liturgica sarebbero rimasti sempre in cima alla lista, sgravando i più poveri (relativamente, cfr. comm. §18[2]). Demostene tenta di sopprimere questo fatto. [4] φανήσεται γὰρ οὐδὲ πολλοῦ δεῖ τῆς γενησομένης ἄξιον αἰσχύνης: dopo aver accennato al fatto che nessuno sarà più esente per via della trierarchia, Demostene cambia registro e introduce un’argomentazione etica che ricorda §§8–14 e la discussione dei benefattori a §§31–87: qualunque beneficio economico la legge porterà, non sarà sufficiente a bilanciare la vergogna che ne verrà alla città. Questo riferimento alla vergogna non viene sviluppato, e il paragrafo successivo torna a considerare la possibilità che la legge di Leptine possa avere effetti più ampi di quanto sostenuto dall’oratore. E tuttavia Demostene confuta soltanto la prima delle due concessioni agli avversari: accetta provvisoriamente che più di cinque meteci non saranno più esenti e ne trae le conseguenze. Ma la sua seconda concessione, che nessuno sarà esente per via della trierarchia, scompare senza che Demostene fornisca un’analisi dei suoi effetti sul sistema liturgico. Sarebbe stato impossibile per Demostene sostenere che anche in questo caso soltanto pochi individui si sarebbero aggiunti a coloro che si sobbarcano le liturgie ordinarie. I liturgisti aggiuntivi sarebbero stati infatti centinaia (vd. intr. pp. 58–63). Demostene non può mancare di menzionare questo elemento, ma tenta di sopprimerlo, concentrandosi sulla charis e sulla pistis della città, e sull’importanza delle esenzioni onorifiche per il benessere di Atene. 21 [1] ὅρα δ᾽ οὑτωσί: l’imperativo plurale è trasmesso da A, F, L e dall’Aldina, mentre il singolare è trasmesso da S (che ha il plurale in correzione), Y e O. Dilts e Kremmydas giustamente scelgono il singolare in quanto lectio difficilior. [2] εἰσὶ τῶν ξένων ἀτελεῖς: l’oratore usa xenos, che indica uno straniero a prescindere dal suo status giuridico nella città (Whitehead 1977: 10–11), nel senso di meteco, un uso non isolato: p. es. a Dem. 57.53 un cittadino a rischio di perdere la sua cittadinanza (quindi un residente di Atene) sostiene che se davvero “fosse un figlio illegittimo (nothos) o uno straniero (xenos)”,



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altri avrebbero ereditato le sue proprietà. D’altro canto Demostene a §29 critica Leptine per avere utilizzato xenos nella sua legge per indicare i meteci, senza specificare quelli che abitano ad Atene. Ad Atene un visitatore straniero diventava un meteco, con i relativi diritti e doveri, e il relativo stato giuridico, soltanto dopo essersi registrato in un demo con un cittadino come prostates (Whitehead 1977: 89–92; Todd 1993: 194–9). I visitatori stranieri erano distinti dai meteci in quanto privi di diritti o status giuridico, ma non è chiaro se esistessero regole per la registrazione. Arist. Byz. fr. 38 afferma che un visitatore straniero era definito parepidemos e non pagava tasse per un certo periodo (secondo Kahrstedt 1934: 276 pochi giorni), dopo di che era obbligato a registrarsi come meteco. Arpocrazione (s.v. μετοίκιον) sostiene invece che meteco fosse chi aveva Atene come dimora permanente (Wilamowitz 1887: 233 segue Arpocrazione), ma la sua sembra una descrizione dei meteci, non una norma sul loro status. Secondo Whitehead (1977: 8), sulla base di IG II2 141, lo status di meteco era assunto immediatamente con l’arrivo in Attica, mentre secondo Clerc (1893: 21) il termine era un mese. Un termine di un mese si trova in un trattato tra i Chalei e gli Oenthei (IG IX I2 717), ed è possibile che una regola simile esistesse anche ad Atene, almeno implicitamente: dal momento che il pagamento del metoikion avveniva in 12 rate mensili pagate a fine mese, chi lasciava Atene prima del mese probabilmente non doveva pagare (vd. Gauthier 1972: 121–2, 1988: 28–9). Ma i diritti di meteco potevano comunque essere immediati. [3] καὶ μὰ τοὺς θεούς: μά con l’accusativo di una o più divinità (un giuramento informale) è spesso utilizzato da Demostene (p. es. Dem. 18.13, 19.67, 212) per enfatizzare una dichiarazione al negativo, mentre νή è utilizzato con affermazioni (vd. MacDowell 2009: 403). [4] καὶ μὴν τῶν γε πολιτῶν οὐκ εἰσὶ πέντ᾽ ἢ ἕξ. οὐκοῦν ἀμφοτέρων ἑκκαίδεκα. ποιήσωμεν αὐτοὺς εἴκοσιν, εἰ δὲ βούλεσθε, τριάκοντα: Demostene ha mentito sul numero dei meteci soggetti alle liturgie e ora mente sul numero dei cittadini, dubitando che ce ne siano cinque o sei (pace Migeotte 2014: 458, che accetta queste affermazioni). Ma in questo discorso soltanto l’oratore ne cita quattro (Cabria, la cui esenzione è stata ereditata da Ctesippo, Timoteo, Ificrate e Aristofonte), a cui vanno aggiunti i discendenti dei tirannicidi (sui quali vd. comm. §18[5]). Non solo la somma fornita di 16 esenti, ma anche quella apparentemente gonfiata di 30, sono probabilmente molto basse. L’aggiunta di πλείους ἤ prima di πέντ᾽ ἢ ἕξ, proposta da Weil e accolta da Kremmydas, non è necessaria: che Demostene stia negando che ci siano

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più di cinque o sei cittadini esenti, o che ce ne siano in tutto cinque o sei, l’obiettivo è comunque dare l’impressione (falsa) che i numeri di 20 o 30 liturgisti forniti di seguito siano gonfiati. L’aggiunta di πλείους ἤ non apporta significativi miglioramenti al senso dell’espressione, ed è dunque meglio attenersi alla paradosis. [5] τὰς ἐγκυκλίους λειτουργίας λειτουργοῦντες, χορηγοὶ καὶ γυμνασίαρχοι καὶ ἑστιάτορες: su questi esempi di liturgie ordinarie. vd. intr. pp. 48–9. [6] ἑξήκοντ᾽ ἴσως ἢ μικρῷ πλείους σύμπαντες οὗτοι: Demostene prima fa finta di gonfiare il numero dei meteci e dei cittadini esenti, mentre lo sta in realtà minimizzando, e qui dà un conto delle liturgie ingannevolmente ridotto per convincere i giudici che i vantaggi della legge di Leptine siano trascurabili, e il peso delle liturgie sia in ogni caso minimo. Sul numero delle liturgie vd. intr. pp. 48–9. 22 [1] ἵν᾽ οὖν τριάκοντ᾽ ἄνθρωποι πλείους παρὰ πάντα τὸν χρόνον λειτουργήσωσιν ἡμῖν, τοὺς ἅπαντας ἀπίστως πρὸς ἡμᾶς αὐτοὺς διαθῶμεν; dopo avere descritto i vantaggi della legge di Leptine come trascurabili, l’oratore può compararli con il danno che verrà alla città dall’abolizione delle ateleiai dei benefattori: la perdita della pistis della città, e conseguentemente di molti benefattori (cfr. §§8–14). [2] πλείους: la lezione è del solo codice A, seguito dalla maggioranza degli editori (pace Kremmydas), perché il senso della frase meglio vi si accorda: si tratta di 30 contributori in più per le liturgie, non di 30 contributori o più, perché il fine di Demostene è dimostrare la scarsa utilità del provvedimento. Gli altri codici si allineano su ἢ πλείους e così lo Schol. Dem. 20.22.52 Dilts (pace Sykutris che gli attribuisce la lezione πλείους). La proposta di Naber μὴ πλείους è possibile ma non necessaria. [3] ἀλλ᾽ ἴσμεν ἐκεῖνο δήπου, ὅτι λειτουργήσουσιν μέν, ἄνπερ ἡ πόλις ᾖ, πολλοὶ καὶ οὐκ ἐπιλείψουσιν: questa affermazione ottimistica vuole liquidare il problema alla base della proposta di Leptine: vista la crisi economica, la sconfitta nella Guerra Sociale e la conseguente riduzione dei volontari che non si avvalgono delle esenzioni, era diventato sempre più difficile trovare abbastanza liturgisti che non fossero esenti per qualche ragione (così come abbastanza trierarchi per la flotta, vd. intr. pp. 58–63). Questo ottimismo è però poco credibile, visto il clima di austerità e le difficoltà economiche della città in questi anni, discusse anche da Senofonte nelle Entrate e da Iso-



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crate nel discorso Sulla Pace (ve. intr. pp. 3–7 e Canevaro 2009). E’ significativo che a questa ottimistica affermazione segua un’interessante proposta di riforma del sistema liturgico, “se nella peggiore delle ipotesi venissero a mancare candidati in grado di sostenere una coregia” (§22). Come a §20 (sul numero di esenti e sulla trierarchia), Demostene dipinge possibili obiezioni al suo punto di vista come assurdità, ma comunque le prende in considerazione e vi risponde. E come a §20, a un’analisi attenta risulta chiaro che queste obiezioni non sono assurde; sono probabilmente corrette. Dem. 21.13, dove Demostene ci informa che nel 349/8 la tribù Pandionide non trovò un corego per il ditirambo e lui stesso si fece avanti come volontario, è prova ulteriore che in questi anni le difficoltà a trovare liturgisti erano una realtà (cfr. MacDowell 1990: 236–7, Wilson 2000: 54). 23 [1] εἶεν. εἰ δὲ δὴ τὰ μάλιστα ἐπέλειπον οἱ χορηγεῖν οἷοί τε, πρὸς Διός…: εἶεν marca la transizione tra un argomento e il successivo, ed è spesso seguito da una domanda retorica (vd. Kremmydas 2012: 228). Demostene contempla la possibilità che manchino abbastanza coreghi e presenta una soluzione alternativa, introdotta da πρὸς Διός. πρός col genitivo di una divinità è usato da Demostene per enfatizzare una domanda (p. es. Dem. 18.119, 19.19, 147, 21.98; cfr. MacDowell 2009: 403). [2] κρεῖττον ἦν εἰς συντέλειαν ἀγαγεῖν τὰς χορηγίας ὥσπερ τὰς τριηραρχίας: Demostene propone in questo passaggio di amministrare le liturgie ordinarie allo stesso modo delle trierarchie: con un sistema di simmorie (vd. intr. pp. 61–3 su questa istituzione). I vantaggi di questo sistema sono che mentre l’abolizione dell’esenzione garantisce più liturgisti ma non riduce il peso delle liturgie sui singoli, le simmorie garantirebbero che tutti i liturgisti paghino meno nell’esercizio delle loro funzioni, agevolando così quelli meno facoltosi. Demostene chiama il liturgista meno facoltoso μικρὰ κεκτημένος, suscitando l’identificazione dei giudici. Ma anche il meno facoltoso tra i 1200 liturgisti faceva comunque parte del ca. 4% più ricco della popolazione. Questa proposta di riformare il sistema liturgico non fu mai avanzata formalmente da Demostene, ma questo non la rende assurda o inverosimile. Numerosi passi negli oratori e in Aristotele mostrano infatti che il sistema liturgico era all’epoca oggetto di dibattito, e negli ultimi vent’anni del secolo fu infine abolito (vd. intr. pp. 63–4). 24 [1] εἰ ἐν κοινῷ μὲν μηδ᾽ ὁτιοῦν ὑπάρχει τῇ πόλει: il primo dei due ulteriori argomenti che Demostene confuta, che le casse pubbliche ateniesi sono

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vuote, è introdotto dopo un’accusa agli avversari di ignorare i problemi della legge evidenziati dall’oratore. Demostene, in un discorso d’accusa, non poteva sapere a cosa gli avversari avrebbero ribattuto (ma poteva anticiparlo, vd. comm. §1[8]). Ma l’accusa che i difensori della legge ignorassero i punti fondamentali in favore di elementi secondari o estranei al caso avrà colpito i giudici: il giuramento eliastico (su cui vd. comm. §118[1]) imponeva ai giudici di decidere soltanto sulla base delle accuse espresse nel documento scritto di denuncia (graphe in un’accusa pubblica; cfr. Harris 2013: 114–36), e le parti giuravano di attenersi alle accuse rilevanti, e di non introdurre elementi estranei (di non parlare exo tou pragmatos; [Arist.] Ath. Pol. 67.1 sui casi privati; lo stesso giuramento avveniva anche nelle graphai, cfr. Rhodes 2004: 137; e nei processi per omicidio, cfr. Antiph. 5.11; pace Lanni 2006: 75–114; vd. Harris 2009/10: 327–8). Queste norme erano in genere rispettate (vd. Rhodes 2004; Harris 2013: 126–36). Sulla crisi economica e delle finanze pubbliche seguita alla Guerra Sociale vd. intr. pp. 3–7. [2] ἰδίᾳ δέ τινες πλουτήσουσιν ἀτελείας ἐπειλημμένοι: la relazione tra pubblico e privato è alla base dell’argomento qui attribuito a Leptine (cfr. §§9, 44 e 57). A §44 Demostene loda lo spirito di servizio di Epicerde di Cirene, che trattava le sue sostanze private come se fossero pubbliche, donandole alla città. La confusione tra sostanze private e pubbliche è rappresentata come l’apice dello spirito di euergesia (vd. Vannier 1988: 127–36; Liddel 2007: 211–15, 218–22, 227–8; su privato e pubblico vd. Geuss 2003 e Macé 2012; sull’evergetismo intr. pp. 77–97). Al contrario arricchirsi nel privato mentre le casse pubbliche sono vuote è l’apice dell’egoismo anti-civico (p. es. Lys. 31.6, Dem. 21.203–4, Ar. Plut. 569–70, cfr. Ober 1989: 215–17; Christ 2006: 144). Leptine con questo argomento dipinge dunque gli esenti come l’opposto di euergetai, e dunque immeritevoli di onori. Anche Demostene sfrutta occasionalmente questa strategia nell’attaccare un onorando: Dem. 23.196–210 compara il passato degli antenati, quando le case di Temistocle e Milziade non erano più ricche di quelle di chiunque altro, ma gli edifici pubblici erano magnifici, con il presente, in cui i ricchi costruiscono case enormi e lussuose, ma gli edifici pubblici sono piccoli e mediocri (cfr. Dem. 3.23–32 e 13.21–31; con Canevaro [c.d.s. c]). Queste considerazioni sono sintomo di qualche ansietà sul corretto funzionamento dell’economia degli onori, alle quali Demostene risponde con un’analisi sofisticata degli effetti delle ricompense sulla città (cfr. Liddel 2016, intr. pp. 77–97).



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[3] εἰ μὲν γάρ τις ἔχει πολλὰ μηδὲν ὑμᾶς ἀδικῶν, οὐχὶ δεῖ δήπου τούτῳ βασκαίνειν: Demostene respinge gli argomenti degli avversari come ingiusti (a §18 erano menzogneri) cominciando chiasticamente dal secondo, per poi ribattere al primo a §25. Fa riferimento alla nozione della morale popolare ateniese che la ricchezza fosse biasimabile soltanto se acquisita ingiustamente (p. es. Dem. 23.146, 58.65 con Vannier 1988: 147–66; Ober 1989: 225–6). Questo convincimento è legato al rifiuto dello φθόνος come caratteristica dell’ethos ateniese (vd. intr. pp. 90–1 con Fisher 2003, Cairns 2003, Sanders 2014). Dunque la ricchezza in sé non poteva giustificare lo φθόνος; solo la ricchezza acquisita ingiustamente (cfr. Isae. 6.61; [Dem.] 42.22–3 con Cairns 2003: 246–7), dovuta all’avidità (vd. Balot 2001: 23– 34 sull’avidità in Aristotele, e passim su varie concezioni). In tal caso lo φθόνος (normalmente invidia o malizia), sfumava nella giusta indignazione (vd. Cairns 2003: 146–7). Questa concezione dunque armonizzava in un sistema di reazioni etiche ed emotive giustificabili la possibilità dell’invidia/ indignazione dei poveri verso i ricchi (testimoniata p. es. dai casi di Alcibiade, Thuc. 6.16.2–3, e Cabria, Nep. Chab. 3), connettendola a valutazioni positive e negative della ricchezza legate al suo uso e alla maniera della sua acquisizione. Arricchirsi troppo velocemente p. es. era indizio di avidità e di azioni criminali (Dem. 8.66; 18.131, 258, Dem. Ex. 53.3; cfr. Ober 1989: 233–6), e gli oratori spesso suscitano il risentimento dei giudici facendo riferimento alla ricchezza e all’ostentazione dei loro avversari (p. es. Dem. 36.45; Ep. 3.29–30; 21.133, 158; 42.24; cfr. Ober 1989: 221–6 e Cairns 2003: 247–8), e accusandoli di rubare (p. es. Dem. 45.81). Al contrario comportarsi dignitosamente, con giustizia, e utilizzare la propria ricchezza per il bene della città (cfr. §44 e Dem. 40.24), non deve suscitare indignazione, per cui βασκαίνειν simili individui è invece segno di φθόνος (invidia e malizia; cfr. Cairns 2003; Fisher 2003). βασκαίνειν è appunto legato a φθόνος, e descrive l’ingiusta invidia e la malizia a essa connessa. Nella frase successiva l’oratore esplicita poi che la ricchezza può essere ingiusta se ottenuta rubando o con mezzi illegali (εἰ δ᾽ ὑφῃρημένον φήσουσιν ἤ τινα ἄλλον οὐχ ὃν προσήκει τρόπον), e sottolinea come ci siano azioni apposite per punire simili individui. [4] εἰσὶ νόμοι καθ᾽ οὓς προσήκει κολάζειν: Demostene non entra nel dettaglio dei mezzi per punire chi si arricchisce illegalmente – la loro esistenza sarà stata ben nota ai giudici. Chi avesse compiuto un furto poteva essere soggetto a una dike klopes (vd. Dem. 22.25–7 e 24.113–15 per la gamma di azioni disponibili), e se colto nell’evidenza del crimine (vd. Harris 2006:

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373–90 e Canevaro 2013a: 160) a una apagoge o a una ephegesis (vd. Canevaro 2013a: 159–66 con bibliografia; Cohen 1983, da leggere con la recensione di MacDowell, CR 34/2, pp. 229–31; Pelloso 2008: 33–134). Il furto di fondi pubblici poteva essere punito attraverso una graphe klopes, oppure se i fondi erano sacri attraverso una graphe hierosylias (vd. MacDowell 1978: 147–9; Todd 1993: 283–4). La corruzione poteva invece essere punita nelle euthynai (rendiconti dei magistrati; vd. [Arist.] Ath. Pol. 54.2), con un’eisangelia (vd. comm §79[3]) e con altre accuse (vd. Harris in Canevaro 2013a: 234–5). Se dunque qualcuno si fosse arricchito illegalmente, c’erano vari mezzi per accusarlo e punirlo. Ma dal momento che Leptine e i syndikoi non hanno portato nessuna accusa contro chi ha l’esenzione, discutere della ricchezza di chi è esente è irrilevante all’accusa e ingiustificato. 25 [1] καὶ μὴν περὶ τοῦ γε μὴ εἶναι χρήματα κοινὰ τῇ πόλει, ἐκεῖν᾽ ὑμᾶς δεῖ σκοπεῖν: Demostene ribatte al primo argomento di Leptine, anticipato a §24: le casse della città sono vuote. [2] ὅτι οὐδὲν ἔσεσθ᾽ εὐπορώτεροι, τὰς ἀτελείας ἐὰν ἀφέλησθε· οὐ γὰρ κοινωνεῖ ταῖς δημοσίαις προσόδοις καὶ περιουσίαις ταῦτα τἀναλώματα οὐδέν: con ταῖς δημοσίαις προσόδοις l’oratore fa riferimento alle entrate pubbliche (Aeschin. 2.161, 3.104, Lys. 28.3, e p. es. Dem. 23.110, 27.9, 36.38 per πρόσοδος usato da solo in questo senso), mentre περιουσία significa “abbondanza” (cfr. Dem. 19.55, 21.110, 159, 23.208, [Dem.] 13.2, 59.20, Isoc. 11.15 e Xen. Por. 1.4) e applicato alle finanze indica un surplus. Con questi termini, riferiti alle casse della città e al suo bilancio, Demostene esclude qualunque spesa che, come le liturgie, potesse avere effetti indiretti sulla ricchezza e sul funzionamento delle polis. Il rilievo di Demostene è superficialmente corretto: “queste spese non hanno infatti nulla a che vedere con le pubbliche entrate e con il surplus”. Chi si accollava le liturgie non forniva fondi allo stato, ma svolgeva un servizio pubblico. Se tuttavia dopo la Guerra Sociale Atene aveva difficoltà a trovare liturgisti sufficienti, la legge di Leptine avrebbe contribuito a facilitare il funzionamento di festival e competizioni (vd. intr. pp. 55–63), e quindi, indirettamente, al benessere della città, rendendo gli Ateniesi εὐπορώτεροι. [3] δυοῖν ἀγαθοῖν, πλούτου καὶ τοῦ πρὸς ἅπαντας πιστεύεσθαι, ἐστὶ τὸ τῆς πίστεως ὑπάρχον. […] μηδὲ δόξαν ἔχειν ἡμᾶς χρηστήν: qui l’oratore ritorna a due concetti già rappresentati come centrali a §10: pistis e doxa. Come a §10 Demostene sembra superficialmente contrapporre la fama della



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città, e la fiducia nei suoi confronti, ai beni materiali. E tuttavia (vd. intr. pp. 94–5) tanto la pistis quanto la doxa sono concetti con forte valenza economica, per cui la contrapposizione tra beni materiali e non materiali è sfumata nel momento stesso in cui è enunciata. Qui questa divisione verrà rapidamente ribaltata nei paragrafi successivi, da §28, dove la pistis di Leucone, la sua fiducia nella città e nella stabilità delle sue ricompense, portano alla città un ritorno economico incommensurabile con i pochi vantaggi della legge di Leptine. A §§26–7 l’oratore sostiene che il mantenimento delle esenzioni ha di fatto effetti positivi sulle finanze della città, perché garantisce il funzionamento dell’eisphora e del sistema trierarchico. [4] ἐγὼ μὲν γὰρ εὔχομαι τοῖς θεοῖς, μάλιστα μὲν ἡμῖν καὶ χρήματα πολλὰ γενέσθαι, εἰ δὲ μή, τό γε πιστοῖς εἶναι καὶ βεβαίοις δοκεῖν διαμεῖναι: con questa preghiera Demostene al contempo si difende da accuse di essere disinteressato al benessere finanziario della città (prega che la città abbia molte ricchezze), e fa appello al convincimento che il benessere della città dipenda dalla benevolenza degli dei (cfr. Dover 1974: 174–5 e Aeschin. 3.120, Andoc. 1.98, Dem. 62.54.1). La preghiera agli dei è utilizzata in questo discorso (§§25, 49, 55, 67, 106, 109, 157, 161) per mostrare che Demostene ha davvero a cuore la fortuna della città, e i suoi interessi sono gli stessi dei giudici. La sua inclusione sottolinea la sincerità dell’oratore, mentre gli effetti della preghiera sono in ultima analisi irrilevanti, e ciò che conta è la razionalità di quanto consigliato (cfr. Martin 2009: 243–4). 26 [1] φέρε δὴ καὶ τὰς εὐπορίας […] εἰς δέον ὑμῖν γιγνομένας δείξω: φέρε δή serve a introdurre un nuovo argomento (cfr. §§63, Dem. 21.58, Aeschin. 1.79). Demostene sembra ammettere che alcuni si siano arricchiti con l’esenzione, e spiega che non c’è nulla di male e che la città ne trae essa stessa beneficio. Ma l’uso dell’ottativo futuro εὐπορήσειν mostra che l’oratore non accetta in realtà che alcuni si siano effettivamente arricchiti, e concede questo punto a Leptine strumentalmente, per smascherare la non consequenzialità del suo argomento (cfr. Kremmydas 2012: 235). [2] τὰς εὐπορίας, ἃς ἀναπαυομένους τινὰς εὐπορήσειν οὗτοι φήσουσιν: a §20 Demostene ammette temporaneamente che la legge di Leptine potrebbe togliere ai più ricchi le esenzioni temporanee effetto della trierarchia, ma questa possibilità è subito soppressa, e a §§21–2 il suo calcolo (comunque incorretto) presuppone che la legge riguardi soltanto le esenzioni onorarie (vd. intr. pp. 61–2). Qui tuttavia il ragionamento non funziona se gli esenti in questione sono soltanto quelli con esenzioni onorarie (secondo Demoste-

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ne non più di 30). Come potrebbero le ricchezze da loro accumulate grazie all’ateleia essere indispensabili al funzionamento delle trierarchie e dell’eisphora? 30 individui arricchitisi con le esenzioni non sono certo determinanti nel contesto dei 1200 trierarchi e dei 2000 soggetti all’eisphora (vd. intr. pp. 47–8, 50–3). L’uso di ἀναπαυομένους per indicare gli esenti rivela che non è chi ha un’esenzione onoraria che Demostene ha in mente, ma chi ha diritto a una pausa dal suo servizio liturgico dopo aver svolto una liturgia (vd. intr. p. 62). L’argomento di Leptine sarà stato che il diritto a una pausa dopo una liturgia permette ai ricchi di diventare ancora più ricchi. Demostene ribatte che è proprio questo che permette loro di sobbarcarsi le onerose liturgie militari. Nel ribattere a Leptine, Demostene ammette implicitamente che la sua legge toccherà anche le esenzioni temporanee come effetto di una liturgia compiuta, e non solo quelle onorarie. [3] ἴστε γὰρ δήπου τοῦθ᾽ ὅτι τῶν τριηραρχιῶν οὐδείς ἐστ᾽ ἀτελὴς οὐδὲ τῶν εἰσφορῶν τῶν εἰς τὸν πόλεμον: come a §18, Demostene ribadisce qui che nessuno era esente dalle trierarchie e dall’eisphora, il che non è tuttavia corretto: l’esenzione dall’eisphora era possibile (cfr. comm. §18[4]). Di conseguenza, al paragrafo successivo, nelle vicinanze della lettura della legge in questione, l’eisphora scompare e l’oratore menziona soltanto la trierarchia. Che Demostene affermi che “siete già al corrente del fatto che…” non è prova che gli oratori esitassero a mostrarsi eccessivamente colti e preparati, per non incorrere nel risentimento del demos verso le élite. Queste formule servono piuttosto a suscitare l’assenso dei giudici, utilizzando la loro memoria come fonte di autorità per le proprie affermazioni. Se anche i giudici non avessero ricordato questa legge (e in questo caso la legge non era come Demostene la descrive), avrebbero comunque esitato ad ammettere la propria ignoranza, e presunto che se nessun altro contestava l’oratore, le sue affermazioni saranno state vere (cfr. Dem. 40.53–4 e Arist. Rhet. 1408a32–6 con Hesk 2000: 227–30 e Pelling 2000: 28–31 e 40–1). Queste formule servono a dare autorità ad affermazioni dubbie e talvolta, come qui, false (cfr. Canevaro [c.d.s. c]). [4] τῶν εἰσφορῶν τῶν εἰς τὸν πόλεμον: sull’eisphora vd. intr. pp. 50–2. [5] οὔκουν ὁ πολλὰ κεκτημένος, οὗτος, ὅστις ἂν ᾖ, πόλλα εἰς ταῦτα συντελεῖ; πᾶσα ἀνάγκη: Demostene talvolta esprime avversione a ipotesi radicali di redistribuzione e all’eguaglianza assoluta di sostanze, mostrando contrarietà a confische e misure tipiche dei demagoghi e dei sicofanti (Dem. 8.71). Dem. 14.28 è significativo: “E allora: voi pensate agli altri prepara-



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tivi; quanto al denaro, lasciamolo per ora nelle mani di chi lo possiede – è il miglior forziere per la città!”. La Quarta Filippica (Dem. 10.35–45) auspica una tregua sociale, per cui è bene che si mantenga il theorikon, ma è altrettanto necessario che si offrano ai proprietari garanzie contro confische sistematiche (cfr. Harris 2006: 134–9). Simili posizioni erano comuni ad Atene, e puntavano a evitare stasis e mantenere l’armonia civica, evidenziando che la ricchezza è degna di biasimo solo se ottenuta ingiustamente, mentre in caso contrario se il demos la colpisse sarebbe tacciabile di φθόνος (cfr. comm. §24[3]). Era inoltre tipico dell’ethos ateniese che nessuno dovesse temere per le sue sostanze, essere oggetto dell’invidia del vicino, e che ognuno potesse vivere il suo privato come meglio volesse, senza timore di risentimento (cfr. il Pericle dell’epitaffio tucidideo: Thuc. 2.37.2). Queste posizioni convivevano con strategie retoriche volte a suscitare il risentimento e l’indignazione del demos contro la ricchezza (rappresentata come ingiustamente accumulata), contro l’hybris e il lusso dei ricchi (cfr. Ober 1989: 205–12). Demostene era certo parte dell’élite economica e sociale, ma simili passaggi non sono prova di sue particolari posizioni elitiste, opposte a posizioni più radicalmente popolari (come vogliono p. es. Canfora 1974: 48–50; Burke 2002; cfr. intr. pp. 65–7); al contrario Demostene, a seconda dell’argomentazione sviluppata, sfrutta l’intera gamma di approcci alla ricchezza, spesso evidenziando invece il risentimento e l’indignazione per il lusso e l’arroganza dei ricchi (p. es. Dem. 18.320, 36.45, 21.133, 42.24). A Dem. 21.140 afferma che la ricchezza e il potere di Midia “sono terrificanti per tutti voi altri Ateniesi, che dipendete ognuno delle sue risorse individuali. È per questo che vi unite, perché se individualmente siete più deboli per seguito e ricchezza e tutto il resto, uniti siete più potenti di ciascuno di loro e capaci di porre freno alla loro arroganza”. Dunque, piuttosto che porsi in una posizione conservatrice, qui Demostene utilizza un argomento standard nell’ideologia ateniese: che la ricchezza dei ricchi è incanalata nelle liturgie e serve il benessere della città (sulle liturgie e la philotimia come strumenti per deflettere rivendicazioni dal basso cfr. Ober 1989: 214–17, 227–30 con Cairns 2003: 247–8 e Liddel 2007: 263, 275, 271), ed è dannosa e deve suscitare indignazione soltanto quando ingiustamente ottenuta e utilizzata. Ma dal momento che i ricchi (grazie alle esenzioni) si accollerebbero l’eisphora e le trierarchia, la loro ricchezza è benefica e necessaria. Si accoglie la congettura οὔκουν di Major (accolta da Butcher e Kremmydas), contro οὐκοῦν di Dilts. πᾶσα ἀνάγκη ha più senso se inteso come risposta a una domanda retorica.

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[6] συντελεῖ: il verbo fa riferimento al fatto che a quest’epoca sia la trierarchia che l’eisphora erano amministrate attraverso raggruppamenti contributivi (vd. intr. pp. 51–3). Dunque il ricco contribuiva (συντελεῖ) a una simmoria e non si accollava l’intera liturgia. [7] παρὰ μὲν γὰρ τὰς ἐπὶ τῶν χορηγιῶν δαπάνας […] παρὰ δὲ τὰς τῶν εἰς τὸν πόλεμον παρασκευῶν ἀφθονίας: il contesto richiede che Demostene critichi il sistema liturgico (τῶν χορηγιῶν, come a §19, è usato metonimicamente per indicare tutte le liturgie ordinarie). La sua critica è così articolata: l’obiettivo delle coregie è la gratificazione (ἡ χάρις) degli spettatori, mentre quello delle liturgie militari è la salvezza (ἡ σωτηρία) della città; le liturgie ordinarie riguardano una piccola parte di una giornata (ἡμέρας μέρος μικρόν), mentre quelle militari garantiscono la salvezza della città in perpetuo; infine le liturgie ordinarie riguardano solo parte della cittadinanza, gli spettatori (τοῖς θεωμένοις ἡμῶν), mentre quelle militari proteggono la città tutta (πάσῃ τῇ πόλει; cfr. Kremmydas 2012: 236). C’è disaccordo su quanti fossero gli spettatori nel teatro di Dioniso. Studi recenti hanno sostenuto che prima della ricostruzione di Licurgo negli anni 330 il teatro potesse contenere tra le 5500 e le 7000 persone (vd. Goette 1995 e la sua appendice a Csapo 2007; Dawson 1997: 7 stima 3700), mentre dopo la ricostruzione tra le 14000 e le 17000 (vd. Csapo 2007: 97–100). Le fonti menzionano uno spazio sul lato sud dell’Acropoli, sotto un pioppo, dal quale molti riuscivano comunque ad assistere agli spettacoli (Cratinus fr. 372 Kassel-Austin; Eust. ε 64; vd. Roselli 2011: 72–5), il che è prova che la domanda era superiore alla disponibilità di posti (vd. in generale Roselli 2011; Akrigg-Tordoff 2013: 37–41). Ulteriori spettatori avranno preso parte ai festival dei demi (vd. Whitehead 1986b: 215–20; Wilson 2000: 244–52, 305–7). Ciononostante, è innegabile che le liturgie non avessero un effetto sull’intera cittadinanza. D’altro canto, i loro effetti saranno stati indiretti e di vasta portata, garantendo inclusione e rafforzando lo spirito civico della collettività. La critica di Demostene al sistema liturgico non è isolata (vd. Wilson 2000: 264–71): varie affermazioni negli oratori, così come l’interesse di Aristotele in questa istituzione, mostrano che il sistema liturgico era oggetto di dibattito (p. es. §26, Lyc. 1.139–40, Arist. Pol. 1309a14–20, 1320b2–4, 1321a31–b3; vd. intr. pp. 53–4). 27 [1] καὶ δίδοτε ἐν τιμῆς μέρει ταῦτα ἃ καὶ μὴ λαβοῦσιν ἔστιν ἔχειν τοῖς τοῦ τριηραρχεῖν ἄξια κεκτημένοις: Demostene riprende l’argomento di



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§19, che i ricchi sono comunque esenti per effetto della trierarchia, e afferma che l’ateleia onoraria non è altro che lo stesso privilegio, ma nella forma di una τιμή. Ma l’argomento svolto al paragrafo precedente suggerisce che la legge di Leptine abolisse anche l’esenzione come effetto del servizio trierarchico o liturgico. Come altrove Demostene, nel ribattere a un argomento di Leptine, sembra concedere che la sua legge avesse più ampia applicazione, salvo poi negarlo immediatamente dopo senza giustificazione (cfr. §§19–20 e 26 con intr. pp. 60–3). [2] ἀλλὰ μὴν ὅτι τῶν τριηραρχιῶν οὐδείς ἐστ᾽ ἀτελής, οἶμαι μὲν ὑμᾶς εἰδέναι πάντας: come a §§18 e 26 l’oratore afferma che nessuno è esente dalla trierarchia, ma non c’è qui alcuna menzione dell’eisphora. La ragione è la vicinanza alla lettura da parte del grammateus del testo della legge, che non menzionava l’eisphora, in quanto l’esenzione dall’eisphora era possibile (cfr. comm. §§18[4] e 26[3]). Su οἶμαι μὲν ὑμᾶς εἰδέναι πάντας vd. comm. §26[3]. [3] λαβὲ τὸν περὶ τῶν τριηραρχιῶν νόμον καὶ λέγε τοῦτ᾽ αὐτό: i documenti utilizzati e discussi dagli oratori in tribunale – leggi, dichiarazioni dei testimoni, contratti, liste etc. – non venivano letti da loro: l’oratore doveva domandare al grammateus (segretario) della corte di leggerli. I documenti dovevano essere prodotti già nelle fasi preliminari del processo, all’anakrisis per le accuse pubbliche, alla diaita per quelle private (vd. comm. §98[3]), per poter essere utilizzati durante nella corte. Erano selezionati e trascritti dall’accusa e dalla difesa (in genere accuratamente, vd. Canevaro 2013a: 27–36) da particolari iscrizioni o dagli archivi dei magistrati e dal metroon (vd. Sickinger 1999: 114–38; 2004: 93–109). In seguito all’anakrisis o alla diaita venivano sigillati in un vaso, echinos, il cui sigillo conteneva una descrizione del tipo di azione (SEG 32.329). Si è creduto in passato sulla base di [Arist.] Ath. Pol. 53.2 che queste procedure riguardassero soltanto casi privati (cfr. Bonner 1905: 48; Lämmli 1938: 74–128; MacDowell 1978: 209, 242; Todd 1993: 129; Wallace 2001: 98), ma SEG 32.329 (il sigillo di un echinos che dichiara di contenere i documenti dall’anakrisis per un caso di diamartyria) è prova che i documenti dovevano essere prodotti in anticipo e sigillati anche nelle accuse pubbliche (vd. Boegehold 1982: 4, 1995: 79–81, Soritz-Hadler 1986: 106, Faraguna 2009: 73–4; 2015; Thür 2008: 56–64). L’echinos veniva poi aperto il giorno del processo, e il grammateus ne traeva e leggeva i documenti richiesti (cfr. Canevaro 2013a: 1–3).

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[4] ΝΟΜΟΣ: questo documento è l’unico conservato nell’orazione e le sue parole ricalcano esattamente il commento di Demostene immediatamente successivo, per cui è probabile che sia un’inserzione tarda, come la maggioranza dei documenti negli oratori (eccetto quelli di Dem. 23 e parte di quelli di Dem. 24). Questi documenti (per lo più inaffidabili) furono inseriti in età ellenistica da retori e maestri di scuola, con interessi tra l’educazione retorica e l’antiquarianismo (vd. Canevaro 2013a; per studi precedenti vd. p. es. Drerup 1898, MacDowell 1990: 43–6, Kapparis 1999: 56–60). È probabile che anche i lemmata che introducono i documenti (spesso incoerenti con quanto richiesto, vd. comm. §69[1]) siano aggiunte tarde (vd. Schucht 1892: 11–17; Drerup 1898: 243–7; Canevaro 2013a: 2, 41–7). 28 [1] ὁρᾶθ᾽ ὡς σαφῶς, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, μηδένα εἶναι τριηραρχίας ἀτελῆ διείρηκεν ὁ νόμος πλὴν τῶν ἐννέα ἀρχόντων: dopo la lettura della legge l’eisphora scompare nuovamente, e troviamo solo la trierarchia (cfr. comm. §§18[4] e 26[3]). Citarla qui avrebbe fatto risaltare la sua assenza nella legge letta dal grammateus. Immediatamente dopo, tuttavia, nel trarre le conseguenze, Demostene reintroduce l’eisphora e sostiene che chi è abbastanza ricco si accollerà sia l’eisphora sia la trierarchia, e chi non possiede abbastanza soltanto l’eisphora, presupponendo perciò che non ci sia esenzione dall’eisphora, il che non è supportato dalla legge. L’oratore dunque inganna abilmente i giudici, affermando (falsamente) che nessuno sia esente dall’eisphora e utilizzando una legge sulla trierarchia a falsa riprova della sua affermazione. L’esenzione per i nove arconti era dovuta alla necessità che questi alti ufficiali fossero a disposizione della città a ogni momento, per il corretto funzionamento delle istituzioni ateniesi, e in particolare delle corti che presiedevano. Era perciò essenziale che non lasciassero Atene. [2] οὐκοῦν οἱ μὲν ἐλάττω κεκτημένοι τοῦ τριηραρχίας ἄξι᾽ ἔχειν ἐν ταῖς εἰσφοραῖς συντελοῦσιν εἰς τὸν πόλεμον, οἱ δ᾽ ἐφικνούμενοι τοῦ τριηραρχεῖν εἰς ἀμφότερ᾽ ὑμῖν ὑπάρξουσι χρήσιμοι, καὶ τριηραρχεῖν καὶ εἰσφέρειν: il passo mostra inequivocabilmente che i più ricchi dovettero sostenere sia l’eisphora sia la trierarchia, mentre un certo numero di cittadini era tenuto a sottoporsi all’eisphora senza avere l’obbligo di finanziare anche la flotta. All’epoca entrambe le contribuzioni erano organizzate per simmorie, per cui gli studiosi si sono domandati come potesse esistere una differenziazione nel numero dei cittadini soggetti (vd. intr. pp. 50–3). La legge di Periandro aveva creato 20 simmorie trierarchiche, ognuna di circa



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60 membri, per un totale di 1200 membri, mentre la riforma delle simmorie dell’eisphora del 378/7 aveva istituito 100 simmorie di circa 15 contribuenti (di reddito elevato) l’una. Passi come questo e Dem. 24.92 (“Ma come dunque è necessario provvedere a cose del genere? Stabilendo attraverso decreti e leggi che gli uni paghino le tasse, ordinando che altri ricoprano la trierarchia”) mostrano che i due sistemi rimasero sempre differenti. [3] τίν᾽ οὖν ῥᾳστώνην τοῖς πολλοῖς ὁ σός, ὦ Λεπτίνη, ποιεῖ νόμος: la domanda retorica trae le conclusioni del ragionamento svolto. Nessuno sarà comunque esente dalla trierarchia e dall’eisphora, per cui la legge di Leptine tocca solo le liturgie ordinarie. Basandosi sulle cifre (false) fornite a §§20– 2 Demostene afferma che la legge di Leptine farà pochissima differenza. ῥᾳστώνην τοῖς πολλοῖς è inoltre fuorviante: l’aggiunta di un certo numero di coreghi a quelli passibili di essere selezionati porterà sollievo (momentaneo) a chi dovrebbe altrimenti sobbarcarsi le liturgie, cioè i 1200 membri della classe liturgica. Riferirsi a questi individui come τοῖς πολλοῖς, identificandoli implicitamente con il rimanente 96% di cittadini più poveri è una mossa analoga all’uso di penetes a §18. Demostene, per suscitare la simpatia dei giudici, assimila una sparuta minoranza di ricchi ai “molti”. [4] εἰ μιᾶς ἢ δυοῖν φυλαῖν ἕνα χορηγὸν καθίστησιν, ὃς ἀνθ᾽ ἑνὸς ἄλλου τοῦτο ἅπαξ ποιήσας ἀπαλλάξεται: basandosi sulle cifre fornite a §§20–22 Demostene mostra gli scarsi effetti della legge di Leptine: se soltanto cinque o sei cittadini sono esenti, e non più di 10 o 12, la legge di Leptine garantirà non più di uno o due liturgisti aggiuntivi a ognuna delle 10 tribù, e soltanto per un anno, perché dopo il servizio questi nuovi liturgisti saranno nuovamente esenti per effetto della liturgia appena compiuta (cfr. comm. §§8[3] e 18[3]). Demostene trae le sue conclusioni sulla base di cifre irrealisticamente basse di onorandi esenti, ignora che la legge di Leptine potrebbe in realtà avere effetto anche sulle altre esenzioni (di uno o due anni per effetto delle liturgie compiute), e inoltre sembra affermare che questi nuovi liturgisti serviranno soltanto per un anno, mentre invece serviranno potenzialmente ogni due anni (anche accettando gli argomenti fuorvianti di Demostene sul raggio di applicazione della legge di Leptine). [5] τῆς δέ γ᾽ αἰσχύνης ὅλην ἀναπίμπλησι τὴν πόλιν καὶ τῆς ἀπιστίας: Demostene torna agli effetti della legge sulla pistis della città, e alla vergogna (αἰσχύνη) che porterà agli Ateniesi, temi trattati a §§8–14 e che saranno centrali alla discussione dei benefattori ai §§29–87.

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[6] οὔκουν: P.Oxy. 56.3842 presenta οὔκουν, contro οὐκοῦν dell’intera tradizione (SAFYP) e dello scolio al passo (Schol. Dem. 20.28.71 Dilts), restituendo evidentemente la lezione corretta (οὔκουν in questo caso è posto come primo elemento di una interrogativa diretta retorica; cfr. Pasquali 1934: 273). Non solo, ma la lezione del papiro in questo caso conferma una congettura moderna, quella del Lambinus nell’edizione parigina di Johannes Benenatus del 1570. 29–40: Il primo esempio di benefattore è Leucone, arconte del Bosforo. Il Bosforo è la principale fonte di grano per Atene, che importa circa 400000 medimni annui. Leucone ha concesso ad Atene significativi benefici commerciali – esenzione dai dazi doganali e priorità di carico – in cambio degli onori conferitogli dalla città. Abolire le sue esenzioni porterà alla fine di questi vantaggi, con enormi danni economici per Atene. Demostene immagina le obiezioni di Leucone alle motivazioni della legge, e ipotizza che senza esenzione potrà essere richiesto a Leucone, in quanto cittadino e per via dei suoi beni ad Atene, di sobbarcarsi le liturgie. 29 [1] ἔτι δ᾽, ὦ ἄνδρες δικασταί, διὰ τὸ γεγράφθαι ἐν τῷ νόμῳ διαρρήδην αὐτοῦ: Demostene, prima di discutere vari benefattori chiaramente meritevoli dell’ateleia, per confutare l’affermazione di Leptine che molti non meritano la loro esenzione, critica la vaghezza della formulazione di alcune parti della legge di Leptine. L’accusa che la legge sia imprecisa e malscritta è ripresa a §157. [2] ‘μηδένα μήτε τῶν πολιτῶν μήτε τῶν ἰσοτελῶν μήτε τῶν ξένων εἶναι ἀτελῆ,’ μὴ διῃρῆσθαι δ᾽ ὅτου ἀτελῆ, χορηγίας ἤ τινος ἄλλου τέλους: questa clausola chiave della legge è ripetuta a §§2, 97 e 128. Demostene qui sostiene che la legge non chiarisca esattamente quali esenzioni siano abolite (sulla gamma delle possibili esenzioni vd. intr. pp. 55–7). Ma un’altra clausola chiariva che la legge aboliva solo le esenzioni dalle liturgie ordinarie (vd. §§128 e 130 con intr. pp. 57–8). Demostene qui sostiene che la legge non sia chiara per poter poi in seguito (§§31, 34–5) suggerire (a torto) che Leucone, come effetto della legge, perderà l’esenzione anche dai dazi su importazioni ed esportazioni (vd. intr. pp. 56–7). [3] καὶ ἐν μὲν τῷ ‘μηδένα’ πάντας περιλαμβάνειν τοὺς ἄλλους, ἐν δὲ τῷ ‘τῶν ξένων’ μὴ διορίζειν τῶν οἰκούντων Ἀθήνησιν: la legge, citando cittadini, isoteli e stranieri, specificava μηδένα in modo tale da comprendere chiunque fosse tassabile ad Atene. L’uso di xenos, che comprendeva sia i



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meteci sia gli stranieri non residenti, era accettabile (cfr. comm. §§20[1] e 21[2] sullo status degli stranieri) – la proposizione ὅπως ἂν οἱ πλουσιώτατοι λῃτουργῶσι (§128) chiariva che l’ateleia abolita era quella dalle liturgie ordinarie, e soltanto chi era residente ad Atene si doveva sottoporre alle liturgie (quantomeno per ragioni pratiche). Ma Demostene sottolinea l’uso generico del termine in funzione della discussione di Leucone, uno straniero non residente e tuttavia depositario di ateleia generale. Non è chiaro come il sovrano del Bosforo potesse avvalersi dell’esenzione dalle liturgie – non era residente ad Atene. D’altro canto Demostene ha appena sottolineato la vaghezza della legge anche su quali siano le esenzioni in questione. L’oratore dunque afferma che, per via dell’uso di xenos, Leucone sarà colpito dalla legge, e per via della vaghezza della formulazione potrà perdere anche le sue esenzioni dai dazi commerciali. [4] τῶν ἰσοτελῶν: l’isoteleia era un privilegio che consentiva ai meteci (cfr. comm. §20[1]) di sottoporsi a oneri finanziari identici a quelli dei cittadini, con l’esenzione dal metoikion, il servizio militare e l’eisphora parificati a quelli degli Ateniesi (Harp. s.v. ἰσοτελής καὶ ἰσοτέλεια; IG II3 1 367, II. 19–21; Hansen 1999: 98, 119). [5] καὶ Λεύκωνα: questo paragrafo inaugura la seconda parte dell’orazione (§29–89), nella quale Demostene presenta una galleria di beneficiari delle esenzioni onorifiche, vantandone i meriti e i benefici procurati alla città. Il fine di questo lungo excursus è sensibilizzare i giudici nei confronti di un gruppo scelto di esentati, ribattendo all’argomento che molti ateleis non hanno meriti nei confronti della città. Demostene vuole dimostrare che ci sono numerosi grandi benefattori, e privarli delle loro ricompense sarebbe una grave ingiustizia. Il primo della lista è Leucone I, della dinastia degli Spartocidi, sovrano del Bosforo, una regione del Chersoneso Taurico che si estendeva dalla Crimea orientale a parte del Caucaso settentrionale, dall’altro lato degli stretti (Hind 1994: 476). Il suo regno durò dal 389/8 al 344/3 (Werner 1955, Hind 1994: 476; le date di Diod. 14.93 sono dal 393/2 al 353/2; cfr. Diod. 16.31). Succedette a Satiro I, che regnò dal 433/2 al 389/8, succeduto a Spartoco, il fondatore della dinastia. Satiro espanse il suo dominio all’intera regione, impadronendosi di Nymphaeum e cingendo d’assedio Teodosia, antica colonia milesia (Periplus Ponti Euxini, 51; Steph. Byz. s.v. Θευδοσία). La conquista di quest’ultima fu completata da Leucone (Schol. Dem. 22.33.82 Dilts), che diede alla città il nome della moglie o della sorella. La capitale della dinastia, a cui Demostene allude come Bosforo, dovette in realtà chia-

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marsi Panticapeo (Plin. Nat. Hist. 4.78). I figli di Leucone furono Spartoco (che regnò fino al 342), Perisade (che continuò a regnare fino al 310 e la cui morte condusse a una guerra civile) e Apollonio. Per una storia del regno del Bosforo cfr. Fornasier-Böttger (2002) e Moreno (2007: 146–208); cfr. anche Osborne (1981–3: III/IV, 42) per l’albero genealogico della dinastia. È probabile che i privilegi citati nei paragrafi successivi (l’esenzione dalla Trentesima e la precedenza di attracco per le navi ateniesi giunte per i rifornimenti cerealicoli) fossero già in atto sotto il regno di Satiro, con cui pare (Isoc. 17.57; IG II3 1 298 ll. 13–23) che Atene intrattenesse normalmente (ma non invariabilmente, vd. Burstein 1978: 432–436) ottimi rapporti (vd. Tuplin 1982). [6] τὸν ἄρχοντα Βοσπόρου: nei propri documenti ufficiali gli Spartocidi preferivano denominazioni più umili (p. es. “Perisade e i suoi figli” di CIRB 1, 2, 5), mentre in iscrizioni e documenti del Bosforo compilati da altri (p. es. dediche dall’aristocrazia locale) la titolatura presenta molte varianti della forma “arconte di Bosforo e Teodosia e re dei Sindoi, Toretoi, Dandarioi, Psessoi, Maiotai ecc.” (p. es. CIRB 6, 1037, 1038, 8; vd. Moreno 2007: 170–3). Le differenze erano dovute al fatto che gli Spartocidi si rappresentavano come arconti ai loro soggetti greci (un titolo tipico di varie magistrature), e come re ai soggetti barbari (vd. Rostovzeff 1993: 70–1 e Moreno 2007: 170–3). Moreno (2007: 170–5), sulla base del ritrovamento nel 2000 a Nymphaeum dell’architrave di un’entrata monumentale di stile ionico sulla quale Leucone è definito “arconte di Bosforo e Teodosia e di tutta la Sindike, e dei Toretoi, dei Dandarioi e dei Psessoi” (Sokoloca-Pavlichenko 2002), sostiene che il titolo reale fosse un’innovazione di Leucone (questo spiegherebbe perché più tardi gli Spartocidi furono anche noti come Leuconidi). Demostene sceglie il titolo τὸν ἄρχοντα Βοσπόρου per rappresentare simpateticamente Leucone a un pubblico greco (cfr. Moreno 2007: 255). Altrove, in contesti più ostili (p. es. Aeschin. 3.171, Din. 1.43), gli Spartocidi sono chiamati tiranni (variazioni analoghe nella titolatura p. es. per Dionisio di Siracusa, cfr. Diod. 13.96.4, Xen. Hell. 2.3.5 e IG II2 18 ll. 6–7, 33 ll. 19–20, 105+523 ll. 7–8). [7] καὶ τοὺς παῖδας αὐτοῦ: Spartoco, Perisade e Apollonio. I primi due succedettero a Leucone nel 349/8 e regnarono congiuntamente fino al 344/3, quando Spartoco morì. Perisade regnò fino al 311/10 (secondo Werner 1955: 412–44, cfr. RO 64: 322; contra Osborne 1981–3: III/IV, 41–4; Tuplin 1982: 127–8 è dubbioso). Iscrizioni votive dedicate congiuntamente a Leucone, Spartoco e Perisade (p. es. IG XII 2, 3, SEG 1.34: 774; TOD 163) suggeri-



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scono che Leucone li avesse associati al trono quando era ancora in vita (cfr. Hind 1994: 497, RO 64: 322). IG II3 1 298 (= RO 64) è il decreto con cui gli Ateniesi nel 346 confermarono gli onori di Leucone a Spartoco e Perisade. Il decreto fu proposto da Androzione (cfr. intr. pp. 37–8), e Polieucto, figlio di Timocrate, propose un emendamento aggiungendo Apollonio agli onorandi. Moreno (2007: 173–6) ha tracciato un vero e proprio network di relazioni tra il Bosforo e Atene, forgiato durante i regni di Satiro e Leucone, comprendente Androzione e Agirrio (che propose onori per Spartoco III nel 285/4: IG II3 1 870), nipote di Agirrio di Collito, già amico del figlio di Sopeo, un nobile del Bosforo. In questo network Moreno include anche Demostene, non soltanto per le sue parole su Leucone in questo discorso, ma anche per i legami di suo nonno Gilone con il Bosforo (Gilone comandava la guarnigione ateniese di Nymphaeum quando gli Spartocidi ne assunsero il controllo, e fu condannato a morte per tradimento, pena in seguito trasformata in una multa; sposò anche una donna della nobiltà scitica, cfr. Aeschin. 3.171–2 con Moreno 2007: 166–9, 174–5 e Worthington 2013: 11–14), e per via delle accuse di Din. 1.43 secondo cui l’oratore si sarebbe fatto più tardi corrompere e avrebbe proposto onori per Spartoco e Perisade. Le ragioni commerciali per coltivare buone relazioni con il Bosforo (cfr. comm. §31[1], con Moreno 2007: 146–208; Oliver 2007a: 18–33; Bresson 2015: 292, 301) sono più che sufficienti a giustificare le posizioni di Demostene, senza necessità di postulare amicizie e corruzione. Ma d’altro canto, dati appunto questi stretti rapporti commerciali, non c’è motivo di dubitare dell’esistenza di connessioni personali e commerciali tra importanti personalità ateniesi e gli Spartocidi (cfr. Gabrielsen 2015: 192–5). 30 [1] ἔστι γὰρ γένει μὲν δήπου ὁ Λεύκων ξένος, τῇ δὲ παρ᾽ ὑμῶν ποιήσει πολίτης: il riferimento è allo status di cittadino naturalizzato (vd. Osborne 1981–3: III/IV, 42–4). ποίησις indica generalmente l’adozione (p. es. Isae. 2.15, 7.1, [Dem.] 44.7; vd. Rubinstein 1993; Cobetto Ghiggia 1999), ma è applicato metaforicamente alla naturalizzazione (p. es. [Dem.] 59.13). La concessione della cittadinanza agli stranieri dovette nascere con la definizione dello status di cittadino attraverso l’appartenenza al singolo demo (vd. Osborne 1981–3: III/IV, 139; Manville 1990: 216–41). Il cittadino naturalizzato era definito poietos o demopoietos, con gli stessi diritti di un normale cittadino, eccetto l’accesso all’arcontato e alle cariche sacerdotali (vd. Osborne 1981–3: III/IV, 173–176, Canevaro 2010: 357–62). La procedura si svolgeva in Assemblea e il candidato doveva, a partire dalla metà del V secolo (forse con la riforma di Pericle della cittadinanza: vd. Osborne 1981–3:

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III/IV, 141–145) rispondere a certi requisiti di andragathia verso la città ([Dem.] 59.89; prima i requisiti erano probabilmente inferiori: cfr. la legge solonica di Plut. Sol. 24.4). La cittadinanza era concessa per decreto. Almeno dal 369/8 (terminus ante quem IG II2 103) l’Assemblea votava in due diverse sedute, nella seconda con voto segreto e quorum di 6000 ([Dem.] 59.89–90; Osborne 1981–3: III/IV, 155–168). Ultimo passaggio, dalla fine del IV secolo, era una dokimasia davanti ai thesmothetai, introdotta probabilmente in sostituzione della graphe paranomon, la cui volontarietà non assicurava sufficienti controlli (vd. Osborne 1981–3: III/IV, 164–167; cfr. per la data Rhodes con Lewis 1997: 40). La naturalizzazione era un onore dato a ricompensa dei servizi resi alla città (Osborne 1981–3: III/IV, 142–3), parte di una serie crescente di onori (Osborne 1981–3: III/IV, 147–150; seguiva la proxenia e l’isoteleia, e talvolta precedeva l’ateleia), e spesso accordata a sovrani o potentati stranieri (vd. Osborne 1981–3: III/IV, 187–92). Sono attestate tra il 369/8 e il 323/2 cinquanta concessioni di cittadinanza, che coinvolsero sessantaquattro stranieri (Osborne 1981–3: I, D10–28; 1983: T39–82). [2] καίτοι τῶν μὲν ἄλλων εὐεργετῶν […] φανήσεται συνεχῶς ἡμᾶς εὖ ποιῶν: ragione del primato di Leucone è che mentre gli altri benefattori si sono resi utili in particolari circostanze, e per un tempo limitato, per Leucone servire Atene è chiaramente (φαίνομαι + participio indica un’azione evidente) una politica costante (συνεχῶς; la costanza del comportamento evergetico è evidenziata nei decreti con διατελεί nelle “motivation clauses”, p. es. IG II3 1 337 l. 12; II3 1 367 l. 6; II3 1 358 l. 12). 31 [1] ἴστε γὰρ δήπου τοῦθ᾽, ὅτι πλείστῳ τῶν πάντων ἀνθρώπων ἡμεῖς ἐπεισάκτῳ σίτῳ χρώμεθα: i servizi di Leucone riguardano l’approvigionamento cerealicolo, fondamentale per Atene. Traduco σῖτος con “cereali” – indicava sia il frumento sia l’orzo (Jardé 1925: 1–4). La sua importanza è attestata in una legge soloniana (Plut. Sol. 24.1–2) che, se attendibile, già nel VI secolo vietava l’esportazione di prodotti agricoli, eccetto l’olio (cfr. Moreno 2007: 309–14; Bresson 2015: 402–4). Nel IV secolo, la discussione dell’approvvigionamento cerealicolo era tema fisso nell’agenda di ogni ekklesia kyria ([Arist.] Ath. Pol. 43.4). Dem. 34.37 e 35.50–1 riportano che gli Ateniesi potevano trasportare grano soltanto ad Atene (Bresson 2015: 315–16). Una legge obbligava ogni mercante giunto al Pireo a portare almeno 2/3 del suo carico di grano nell’agora della città, limitando il numero di intermediari che avrebbero gonfiato il prezzo ([Arist.] Ath. Pol. 51.4 con



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Gauthier 1981 e Bresson 2015: 312–14). Un’altra restringeva a 50 phormoi la quantità di grano che i sitopoloi potevano accumulare, e a un obolo il profitto per phormos, per assicurare equa distribuzione e prezzi ragionevoli (Lys. 22.5, 8 con Bresson 2015: 314–15). Senofonte notava le attrattive di Atene per i commercianti, e esortava gli Ateniesi a incentivarne l’arrivo con onori, processi rapidi e migliori alloggi al Pireo (Poroi 3.1–2, 3–5, 12–13; cfr. intr. pp. 5–7). La motivazione era che l’Attica non era autosufficiente (per una rassegna su questo problema vd. Pazdera 2006: 84–96). Si è a lungo ritenuto (sulla base di informazioni frammentarie) che l’Attica potesse sfamare circa 60000–75000 persone, il 20–30% della popolazione, contando per gran parte del suo fabbisogno sulle importazioni (de Ste. Croix 1972: 45–9; cfr. Gernet 1909; Jardé 1925; Gomme 1933: 28ss.; Isager-Hansen 1975: 1ss.; Rhodes 1981: 95–96, 577). Molte delle politiche imperialiste di V secolo tentavano dunque di preservare le vie commerciali dalla Sicilia, dall’Egitto, da Cirene, dalla Tracia e dal Mar Nero, e di controllare politicamente queste aree (vd. p. es. Isager e Hansen 1975: 20–7 e Bresson 2015: 412–13). Moreno (2007: 77–143) ha sostenuto invece che nel V secolo buona parte del fabbisogno della città fosse soddisfatto con lo sfruttamento delle cleruchie e, soprattutto, col controllo dell’Eubea (vd. anche Osborne 1987: 101). Solo nel IV secolo, con la fine dell’impero, si sarebbero intensificati i legami commerciali tra Atene e i sovrani del Bosforo, che sarebbe diventato la fonte cerealicola primaria (Moreno 2007: 144–210; cfr. anche Braund 2007; per le difficoltà dopo la conquista macedone e la perdita del Pireo vd. Oliver 2007a: 15–47). La tesi dell’indipendenza di Atene nel V secolo dal Mar Nero è tuttavia problematica: Fachard (2012: 111–23, 260 n. 133) ha mostrato che l’Eubea non era adatta allo sfruttamento intensivo per nutrire l’Attica, e i calcoli di Moreno sulla redditività delle cleruchie sfruttate intensivamente sono dubbi (vd. Stroud 2010: 16–17, che critica Moreno anche sulla base dell’evidenza archeologica, con Marchiandi 2002; cfr. Bresson 2015: 405–12). Una fonte inestimabile per conoscere la produzione cerealicola ateniese di IV secolo è IG II2 1672, che registra le aparchai: il pagamento delle primizie al santuario di Eleusi per l’anno 329/8. Se si calcola dall’ammontare delle primizie pagate la quantità totale di orzo e frumento prodotto (secondo le proporzioni 1/600 per l’orzo e 1/1200 per il frumento, prescritte da IG I3 78, probabilmente del 416/5; vd. Garnsey 1988, 98–106), si ottiene per l’Attica una produzione di 27062,5 medimni di frumento e di 339925 medimni di orzo, per un totale di 366987,5 (in aggiunta, l’iscrizione preserva anche le aparchai dai territori esteri controllati da Atene, che danno un totale

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di 340475 medimni di orzo, e 120375 di frumento; Bresson 2015: 410–11 ragiona verosimilmente che metà avrà sfamato la popolazione locale, e metà sarà stata importata ad Atene). Qui Demostene afferma che dal Bosforo si importa l’equivalente di tutte le altre importazioni, e a §32 riporta per le importazioni (presumibilmente annuali) dal Bosforo 400000 medimni. Dunque le importazioni totali di cereali sarebbero ammontate a circa 800000 medimni (cfr. Migeotte 2014: 510), approssimativamente il doppio delle cifre della produzione interna, per un totale di circa 1200000 medimni di grano consumati ad Atene ogni anno. Questa cifra è coerente col fabbisogno della popolazione ateniese di IV secolo, calcolata da Hansen (1988: 12; 2006: 56) in 250000 unità: 1250000 medimni (400000 medimni potevano sfamare 80000 unità, vd. Garnsey 1988: 97). A giudicare dunque da IG II2 1672, la produzione interna dell’Attica poteva sfamare il 27% della popolazione (Bresson 2015: 409–10). Questa analisi è stata attaccata negli ultimi decenni: Garnsey (1985: 62– 75, 1988: 120–49) ha sostenuto (sulla base di cifre troppo basse per la popolazione e troppo alte per il rendimento del suolo attico, cfr. Whitby 1998, Oliver 2007a: 15–22) che la produzione ateniese fosse in grado di sostentare il 75% della popolazione verso la metà del IV secolo e tutta la popolazione nel 323/2. Altri, come Gallant (1991: 38–41) e Sallares (1991: 303–9), hanno seguito Garnsey e postulato più alti livelli di autosufficienza per Atene, e Osborne (1987: 44–6, 97–9) ha sostenuto che il territorio dell’Attica di per sé potesse sostentare la sua popolazione, ma nella realtà gli anni in cui gli Ateniesi non dipendevano dalle importazioni erano rari. In funzione di questa analisi Garnsey ritenne che IG II2 1672 si riferisse a un’annata particolarmente povera (cfr. la donazione di grano da Cirene di SEG 9.2 = RO 96 in questi anni), e che sia dubbio se le cifre fornite da Demostene in questa orazione (se attendibili) si riferiscano alle importazioni medie annuali o piuttosto a quelle di un’annata scarsa. Moreno (2007: 13–14) ha negato (vista anche la riforma della perduta legge di Cheremonide, cfr. IG II2 140 con Stroud 1998: 32–7) che le proporzioni di IG I3 78 siano applicabili al 329/8. Negato il valore di IG II2 1672 come fonte, i calcoli sono dipesi principalmente da dubbie valutazioni della terra coltivabile in Attica, e del ritorno di raccolto, con agli estremi Osborne – l’Attica poteva produrre tra il 100 e il 143% del suo fabbisogno – e Moreno – poteva produrre soltanto il 31% (comunque 700.000 medimni, il doppio di quanto si ricava da IG II2 140). In una brillante discussione delle cifre di IG II2 140, Bresson (2015: 405– 12) dimostra, con una comparazione non con stime ipotetiche e arbitrarie, ma con la produzione effettiva dell’Attica nel 1911 e negli anni seguenti,



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che l’annata del 329/8 non fu né povera di raccolto (cfr. Stroud 1998: 35–6) né atipica, ma probabilmente una normale buona annata. L’Attica poteva dunque sfamare solo una percentuale minima dei suoi abitanti (ca. 25–30%), e le parole di Demostene – Atene è la polis che più di tutte dipende dalle importazioni per il suo fabbisogno cerealicolo – sono accurate: Atene era all’epoca la più grande metropoli del Mediterraneo, e non è sorprendente che importasse più cereali. D’altro canto (pace p. es. Whitby 1998: 99), secondo calcoli recenti sulla popolazione e sulla produzione cerealicola in altre comunità (p. es. Bissa 2009: 169–210 e Hansen 2006: 84–91), Atene non era l’unica città greca a non essere autosufficiente e a dipendere dalle importazioni: la stessa situazione, a vari livelli di intensità, era comune quantomeno alla Beozia, a Corinto, a Egina, a Samo, a Megara e a molte poleis dell’Egeo (Bresson 2015: 411–14). [2] πρὸς τοίνυν ἅπαντα τὸν ἐκ τῶν ἄλλων ἐμπορίων ἀφικνούμενον ὁ ἐκ τοῦ Πόντου σῖτος εἰσπλέων ἐστίν: con Ponto gli oratori si riferivano sia all’area del Mar Nero (p. es. [Dem.] 50.6) sia al Regno del Bosforo in particolare (p. es. Isoc. 17.3, Dem. 35.10, Din. 1.43). Isager e Hansen (1975: 18–19, cfr. anche Hansen in Moreno 2007: 33 n. 185) e Garnsey (1985: 74) ritengono che qui Demostene si riferisca alle importazioni dal Mar Nero in generale, mentre al paragrafo successivo i 400000 medimni di Leucone sarebbero la cifra per il suo regno soltanto. Dunque l’importazione totale di cereali di Atene sarebbe superiore a 800000 medimni. Gomme (1933: 32–3) sostiene che l’importazione di cereali fosse circa 1200000 medimni (cfr. anche de Ste. Croix 1972: 46–7; Isager e Hansen 1975: 18–19; Bresson 2000: 278 n. 66). Garnsey al contrario ne deriva che le cifre di Demostene sono inaffidabili. Ma le cifre qui fornite sono probabilmente verosimili (cfr. Gauthier 1981: 24; Gallo 1984: 62ss.; Fantasia 1987: 93 n. 8; Bresson 2015: 404). In primo luogo, la cifra (arrotondata) di 400000 medimni non deve necessariamente rappresentare le importazioni medie annuali, ma piuttosto un’annata particolare (cfr. comm. §32[3]). Il riferimento ai registri dei sitophylakes (che, come molti, ma non tutti, i registri dei magistrati, erano temporanei, e venivano distrutti dopo le euthynai; vd. Davies 1994: 205, Thomas 1989: 53–4, 82–3) suggerisce che 400000 medimni sia la cifra per l’anno corrente (cfr. Oliver 2007a: 20–2). Demostene sostiene che la cifra fosse controllabile, e non c’è ragione di dubitarne (Migeotte 2014: 75). In secondo luogo, il contesto chiarisce che con Ponto Demostene indica il Regno del Bosforo, e dunque, se seguiamo la lettura di Hansen e Garnsey, starebbe qui mentendo senza motivo. 400000 medimni, che siano la metà o poco

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meno delle importazioni, sono comunque una cifra impressionante, e così saranno parsi agli Ateniesi. Vista l’accessibilità dei registri del sitophylakes, mentire avrebbe comportato un rischio non necessario (cfr. Moreno 2007: 33 n. 185; Migeotte 2014: 75). Non si può minimizzare la competenza degli Ateniesi, e in particolare dei rhetores, sul tema dell’approvigionamento granario: Socrate a Xen. Mem. 3.6.13 critica Glaucone perché non sa per quanto tempo il grano cresciuto in Attica manterrà la popolazione, e quanto ne serva in tutto; simili conoscenze sono richieste al retore anche da Anax. Rhet. ad Alex. 1425b e Arist. Rhet. 1359b–1360a (sulla competenza economica e finanziaria dei rhetores vd. Kallet-Marx 1994; Davies 2004). Inoltre la discussione dell’approvvigionamento cerealicolo era uno dei temi fissi di ogni ekklesia kyria, per cui almeno 10 volte all’anno i magistrati (e i sitophylakes in particolare) relazionavano di fronte ad almeno 6000 Ateniesi sullo stato delle importazioni. Le cifre saranno dunque state note se non a tutti i giudici, certamente agli avversari di Demostene. Mentre dunque arrotondare era un’opzione per l’oratore, mentire spudoratamente sarebbe stato un rischio troppo grande e innecessario. Al contrario, citando queste cifre, Demostene, un giovane oratore, ha interesse a mostrare la sua conoscenza e competenza, e minimo interesse a vedere le sue affermazioni messe in discussione. Accettare queste cifre come verosimili non significa tuttavia intenderle come valori assoluti e validi per tutto il IV secolo, da confrontare agevolmente con il calcolo del fabbisogno ateniese (come fatto p. es. da Moreno 2007: 32–3). Queste cifre facevano riferimento a un anno particolare – Demostene incita gli Ateniesi a controllarle nei registri dei sitophylakes (cfr. comm. §32[3]). Inoltre non c’è ragione di credere che tutto il grano importato fosse necessario (gli Ateniesi avevano interesse ad avere un surplus), anche se è improbabile, visti il fabbisogno ateniese e le misure per portare il grano ad Atene, che parte del grano importato potesse a sua volta essere esportato (vd. Bresson 2015: 314–15 e 402–9, pace Whitby 1998: 125–6, Descat 2004: 599 e Oliver 2007a: 21, 23–6). [3] οὐ γὰρ μόνον διὰ τὸ τὸν τόπον τοῦτον σῖτον ἔχειν πλεῖστον τοῦτο γίγνεται: sulla capacità produttiva della Crimea cfr. Koromila (1991: 135) e Moreno (2007: 206–8 e 321). L’area era pianeggiante per l’80% e protetta da una catena montuosa dai freddi delle pianure russe, perfetta per la coltivazione di cereali. Mentre il Chersoneso Taurico era sfruttato intensivamente per la produzione di frutta e per la viticultura, i larghi possedimenti della Crimea, gestiti a latifondo, fungevano da enorme granaio (Zoubar 1993: 28, Saprykin 2001 e 2006, Moreno 2007: 321, Bresson 2015: 413–14).



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[4] ἀλλὰ διὰ τὸ κύριον ὄντα τὸν Λεύκωνα αὐτοῦ τοῖς ἄγουσιν Ἀθήναζε ἀτέλειαν δεδωκέναι, καὶ κηρύττειν πρώτους γεμίζεσθαι τοὺς ὡς ὑμᾶς πλέοντας: le esenzioni accordate da Leucone avranno avuto vari effetti positivi, diretti e indiretti. Innanzitutto l’esenzione dalla tassa portuale avrà reso il commercio con il Bosforo estremamente profittevole per i mercanti ateniesi e residenti ad Atene. Inoltre questa esenzione e i privilegi in fase di carico avranno reso Atene una meta privilegiata per i mercanti da tutto il Mediterraneo che caricassero a Panticapeo e Teodosia, garantendo un flusso costante di grano dal Bosforo ad Atene, essenziale particolarmente in tempi di scarsità, e inoltre avranno garantito notevoli guadagni ad Atene per via del pagamento da parte di questi mercanti, tra le altre tasse, della tassa portuale del 2% al Pireo (vd. sotto; era esente soltanto chi era direttamente alle dipendenze di Leucone). Isoc. 17.57 mostra che talvolta, quando non c’era abbastanza grano, i dinasti del Bosforo constringevano i mercanti non diretti ad Atene ad andarsene a mani vuote (Bresson 2015: 389). Dunque questi privilegi non soltanto garantivano ad Atene un vantaggio essenziale nell’approvvigionamento granario, ma portavano anche importanti entrate alla città, e ingenti guadagni ai suoi mercanti (vd. Oliver 2007a: 22–8; Bresson 2015: 292–3, 368–74). In cambio il Bosforo otteneva un flusso costante di mercanti da Atene e diretti ad Atene, probabilmente il più grande mercato del Mediterraneo, portatori di valuta pregiata e capaci di pagare cifre molto alte, per via degli alti prezzi ad Atene. Gli onori accordati da Atene a Leucone comportavano infine importanti benefici economici (vd. sotto) per il sovrano. [5] ἔχων γὰρ ἐκεῖνος ἑαυτῷ καὶ τοῖς παισὶ τὴν ἀτέλειαν ἅπασι δέδωκεν ὑμῖν: Demostene rileva giustamente che il rapporto di Atene con Leucone era basato su una serie di onori e servizi reciproci, del quale le esenzioni dalle tasse portuali del Bosforo e la priorità di carico per chi era diretto ad Atene erano parte (vd. intr. pp. 56–7, 88–9). Questo rapporto, che era iniziato ai tempi di Satiro (cfr. Engen 2010: 283–5), continuò con i figli di Leucone e oltre (cfr. il dono di 15000 medimni di un altro Spartoco ad Atene nel 285/4, IG II3 1 870). Demostene afferma che l’ateleia di Leucone era ereditaria (cfr. comm. §46[2]); ciononostante gli Ateniesi confermarono gli onori di Leucone ai suoi figli nel 346 con un decreto (IG II3 1 298 = RO 64, a ll. 20–6) che evidenzia proprio la natura reciproca dei servizi e dei benefici (vd. intr. pp. 88–9, 95–7). È dunque ragionevole per Demostene affermare che Leucone onori Atene in quanto Atene onora Leucone. Kremmydas (2012: 250–1) sembra postulare un ordine necessario nei benefici, una priorità dei benefici

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di Leucone che causa la risposta di Atene, ma in realtà la charis tra Atene e i sovrani del Bosforo era completamente circolare (vd. intr. pp. 88–9, 95–7), e Demostene non ha torto nel suggerire che abolire l’esenzione di Leucone metterà in pericolo i privilegi di cui Atene gode nel Bosforo (cfr. §§34–5), causando danni irreversibili all’approvvigionamento granario. Ma di quali esenzioni godeva Leucone ad Atene, e tra queste, quali erano effettivamente minacciate dalla legge di Leptine? Molti studiosi sostengono che Demostene stia accostando qui esenzioni incomparabili: l’ateleia concessa da Leucone era un’esenzione dalle tasse portuali di Panticapeo e Teodosia (vd. comm. §33[1]), mentre quella accordata da Atene era un’esenzione dalle liturgie, per le quali Leucone non avrebbe comunque potuto essere selezionato, in quanto non residente (p. es. Osborne 1981–3: III/IV, T21, pp. 187–192; Gauthier 1985: 156–7; Kremmydas 2012: 249–50, 263–4). Rosivach (2000) osserva che, secondo questa interpretazione, da un punto di vista strettamente economico la relazione tra Leucone e Atene non ha senso. Ma non c’è ragione di pensare che l’ateleia di Leucone fosse limitata alle liturgie. MacDowell (2004: 128–9) osserva che ateleia può riferirsi anche alle esenzioni da varie tasse, tra cui le tasse portuali (vd. intr. pp. 55–7), e questo è il senso in cui Demostene usa il termine in riferimento ai benefici concessi da Leucone agli Ateniesi. L’ateleia è spesso concessa dagli Ateniesi senza specificazione, applicabile a ogni dazio e imposizione (vd. intr. p. 56), e non c’è ragione di credere che l’ateleia di Leucone concernesse esclusivamente le liturgie. Dovette comprendere anche le tasse portuali (cfr. Schol. Dem. 20.44.113 Dilts; Hagamajer Allen 2003: 236; MacDowell 2004: 128–9; Oliver 2007a: 22–3, 30; Engen 2011: 284; Marasco 1988: 162–3 descrive un’ateleia simile a Delo; pace Migeotte 2014: 464), e in particolare la tassa del 2% del Pireo (comm. §32[2]). MacDowell conclude che anche questa esenzione sarà stata inutile per Leucone, perché il sovrano del Bosforo si sarà raramente recato ad Atene per commercio (così anche Migeotte 2014: 464). Oliver (2007a: 22–37) tuttavia offre un quadro più complesso e convincente del commercio granario ateniese: il grano sarà stato trasportato in parte da cittadini e residenti ateniesi, sostenuti da prestiti marittimi, che erano obbligati dalla legge a trasportare ad Atene (comm. §29[1]). Attraverso l’ateleia concessa da Leucone a chi trasportava ad Atene, questi mercanti ottenevano condizioni privilegiate nel Bosforo, che sarà diventato una meta privilegiata, con conseguenti vantaggi per il sovrano (Oliver 2007a: 29, 33). Parte del grano tuttavia sarà stata trasportata da dipendenti di Leucone stesso. Bresson (2000: 148) ha mostrato che per godere di un’esenzione non era necessario commerciare di persona, e i mercanti erano forniti di documenti che identi-



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ficavano il cargo, la sua origine e la sua destinazione. Oliver (2007a: 36–7) ha proposto convincentemente che mercanti al diretto servizio di Leucone che trasportassero grano e altri beni al Pireo e negli altri empori ateniesi potessero identificarsi come tali, e di consequenza fossero esenti da tasse portuali e altre tasse commerciali (pace Engen 2011: 284; Hagemajer Allen 2003: 236 crede invece che l’esenzione si applicasse a chiunque giungesse ad Atene dal Bosforo). La relazione tra Atene e Leucone era dunque improntata a vera reciprocità, e comportava vasti benefici economici per entrambe le parti. Per questo Demostene teme, giustamente, che toccare i privilegi di Leucone metterà in pericolo l’intera relazione. L’unico punto debole del suo ragionamento è tuttavia che, secondo la formulazione della legge, soltanto l’esenzione di Leucone dalle liturgie sarà abolita, e non l’esenzione dalle tasse portuali e commerciali (vd. intr. pp. 57–8, 62–3). Nonostante la vaghezza della legge, Demostene ammette implicitamente a §40 che l’unico vero rischio per Leucone (e l’ipotesi è paradossale) è di essere sottoposto ad antidosis. L’oratore dà l’impressione che tutte le esenzioni di Leucone saranno colpite dalla legge, anche quelle commerciali, ma non insiste su questo punto. E d’altro canto, il principio generale che tutti gli onori concessi da Atene a Leucone e viceversa siano parte di un complesso rapporto reciproco, e che cancellare uno di questi benefici potrà causare una risposta proporzionale da parte di Leucone, è certamente corretto e fondato (vd. intr. pp. 88–9, 95–7). 32 [1] τοῦτο δ᾽ ἡλίκον ἐστὶ θεωρήσατε: Demostene traduce l’esenzione dalla tassa portuale del 3,(3)% in un dono annuo di 13000 medimni, calcolata sulla cifra di 400000 medimni importati. Il calcolo è approssimato (la trentesima sarebbe corrisposta a circa 13333 medimni), ma in questa forma è agevole da memorizzare (cfr. Amerio 2000: 464 n. 21; Kremmydas 2012: 252–3). [2] ἐκεῖνος πράττεται τοὺς παρ᾽ αὑτοῦ σῖτον ἐξάγοντας τριακοστήν: la tassa imposta da Leucone sulle esportazioni cerealicole era del 3,(3)%, più alta di quella di Atene (2%, vd. Isager e Hansen 1975: 27, 51–2; cfr. Migeotte 2014: 248–56, 509–12 per simili tasse nel mondo greco; esistevano tasse commerciali più alte, p. es. la tassa dell’8,(3)% imposta dalla legge di Agirrio, vd. Stroud 1998 con Faraguna 1999, Harris 1999 e i saggi in Magnetto, Erdas, Carusi 2010). Atene non era l’unica città con privilegi commerciali da Leucone: IG XII.2 3 (350 a.C.) ci informa che Mitilene ottenne uno sconto del 50% sulla tassa del 3,(3)%.

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[3] αἱ τοίνυν παρ᾽ ἐκείνου δεῦρ᾽ ἀφικνούμεναι σίτου μυριάδες περὶ τετταράκοντα εἰσί, καὶ τοῦτ᾽ ἐκ τῆς παρὰ τοῖς σιτοφύλαξιν ἀπογραφῆς ἄν τις ἴδοι: Demostene dà una cifra di 400000 medimni importati dal regno del Bosforo (abbastanza per sostentare circa 80000 persone e mantenerne in vita 100000 per un anno, cfr. Garnsey 1988: 97). Questo dato è stato spesso messo in dubbio: secondo Jones (1957: 77–8), Demostene ottenne 400000 dividendo per due gli 800000 medimni delle importazioni totali, una lettura improbabile – Demostene è vago a §31, e preciso qui, dove afferma che il grano importato da Leucone può essere controllato da chiunque nei registri dei sitophylakes (vd. Kremmydas 2012: 248). Garnsey (1985: 74; 1988: 97) considera queste cifre inaffidabili, ma ci sono fonti esterne che possono corroborare, se non la quantità precisa, almeno la sua verosimiglianza (Moreno 2007: 207–8). Strabone (7.4.6) afferma che Atene ricevette da Teodosia sotto Leucone 2100000 medimni di grano. Considerando un periodo probabile di otto anni dall’apertura dell’emporio alla morte di Leucone (comm. §33[1]), questo significherebbe 260000 medimni all’anno, coerenti col totale di 400000 – Teodosia aveva capacità superiore a Panticapeo (comm. §33[1]). Inoltre, quando Filippo catturò Ierone nel 340, catturò l’intera flotta granaria che navigava verso Atene, 180 o 320 navi. Se la capacità media di una nave era 3000 medimni (Moreno 2007: 207 n. 298 per bibliografia), queste navi contenevano almeno 540000 medimni (il grano dall’intera regione del Mar Nero, non soltanto dal Bosforo). Sappiamo inoltre da IG XII.2 3 che Mitilene, una polis più piccola di Atene, importava nel 350 più di 100000 medimni di grano. 400000 medimni non sono inverosimili, tanto più che gli Ateniesi erano in genere ben informati sulle importazioni cerealicole (comm. §31[2]; cfr. Oliver 2007a: 19–20). Non va dubitato inoltre che queste informazioni fossero disponibili nei registri dei sitophylakes, che controllavano i due mercati principali di Atene, l’agora e l’emporio al Pireo – che Demostene li citi testimonia la sua precisione. Nonostante questa apographe dei sitophylakes non sia menzionata altrove, non c’è ragione di dubitare della sua esistenza (Migeotte 2014: 75; Bresson 2015: 404). Quando una nave attraccava al Pireo con un carico di grano, i pentekostologoi imponevano la tassa del 2% e registravano il suo pagamento (Menandro fr. 1052.1, Dem. 21.133, 34.6, [Dem.] 59.27; cfr. Garland 2001: 77; Migeotte 2014: 90–7, 511), ma i loro registri non includevano chi godeva dell’ateleia, e dunque non fornivano dati completi sulle importazioni– per questo Demostene non li cita. Una volta scaricato dalle navi, il grano veniva trasportato all’emporio del Pireo. Una legge ([Arist.] Ath. Pol. 51.3) prescriveva che gli epimeletai tou emporiou assicurassero



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che almeno due terzi del grano raggiungessero l’asty, cioè l’agora di Atene. Ma gli unici a supervisionare l’intera vendita di grano in entrambi i mercati, di Atene e del Pireo, erano i sitophylakes, che controllavano la vendita al dettaglio, e dunque registravano ogni vendita (cfr. Oliver 2007a: 34–5; vd. sotto). La citazione dei registri dei sitophylakes da parte di Demostene è dunque appropriata e prova della sua competenza. Kremmydas (2012: 252) dubita che Demostene li abbia effettivamente consultati e nota che l’oratore manca di richiederne la lettura. Ma questi registri registravano le vendite di grano all’ingrosso all’emporio del Pireo e nell’agora, una per una, per cui la cifra totale delle importazioni dal Bosforo era ricavata dalla somma delle vendite di grano con questa provenienza, non da una semplice voce nel registro. Leggere i registri sarebbe stato inutile, a meno che l’oratore non calcolasse la cifra di 400000 medimni in tempo reale, mentre il grammateus leggeva le vendite una per una – un’operazione che avrebbe richiesto ore. Ma vista l’importanza dell’approvvigionamento granario e la sua centralità nei dibattiti assembleari (vd. comm. §31[2]), non è sorprendente che i rhetores controllassero i registri dei sitophylakes regolarmente. Questi erano registri temporanei (cfr. Davies 1994: 205, Thomas 1989: 53–4, 82–3), e dunque 400000 medimni non è una cifra media, ma quella per l’anno corrente. [4] τοῖς σιτοφύλαξιν: erano inizialmente dieci membri estratti a sorte, cinque ad Atene e cinque al Pireo. Tra i loro incarichi c’era la supervisione dei provvedimenti volti a evitare un aumento artificioso dei prezzi del grano (Bresson 2015: 239–40, 247–8, 314–15, 331), p. es. il divieto per i sitopoloi di accaparrarsi più di 50 phormoi (Lys. 22.5, 16). Evidentemente i sitophylakes avevano anche l’incarico di tenere i registri delle vendite all’ingrosso di grano. Secondo [Arist.] Ath. Pol. 51 loro ulteriori incarichi erano vigilare sulla conformità alle norme di legge del grano non macinato, e assicurarsi che i mugnai vendessero il grano in conformità con il prezzo dell’orzo e che i fornai panificassero secondo i prezzi e i pesi stabiliti (cfr. Harrison 1971: 25–27; Rhodes 1981: 576–79; Bresson 2000: 133–4). Ebbero probabilmente anche potere sanzionatorio simile a quello degli agoranomoi, ma applicato al commercio cerealicolo, per cui potevano infliggere multe, ma avevano l’obbligo di condurre in tribunale il trasgressore che volessero punito con pene più severe (Lys. 22.16). Il loro numero fu incrementato nel IV secolo a 35, venti per Atene e 15 per il Pireo ([Arist.] Ath. Pol., 51, 3; cfr. Harrison 1971: 27, Rhodes 1981: 577–8), ma le loro funzioni rimasero probabilmente immutate (vd. Gauthier 1981: 22–3, pace Stroud 1974: 180–1). Altri magistrati con funzioni legate al commercio granario erano gli epimeletai tou

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emporiou ([Arist.] Ath. Pol. 54.1), gli epimeletai tou sitou (cfr. Stroud 1998: ll. 36–42) e i sitonai (comm. §33[4]). 33 [1] ἐμπόριον Θευδοσίαν: Teodosia era una colonia milesia sulla punta della Crimea (Periplus Ponti Euxini, 51; Steph. Byz., s.v. Θευδοσία). La conquista della città fu cominciata da Satiro, che morì durante l’assedio, e conclusa da Leucone (Schol. Dem. 22.33.82 Dilts), che diede alla città il nome della moglie o della sorella. Leucone concluse la sua conquista intorno al 370 ([Arist.] Oec.1347b3–15; Polyaen. Strat. 5.23; 5.44; 6.9.3; 6.9.4; cfr. Bresson 1993: 166; Hind 1994: 498; Moreno 2007: 176), ma questo passaggio descrive l’apertura dell’emporio come un evento recente, per cui è probabile che Leucone impiegò anni a migliorare le infrastrutture portuali della città, prima di aprirla al commercio poco prima del 355 (cfr. Moreno 2007: 176). Strabone (7.4.6) afferma che Leucone mandò ad Atene 2100000 medimni da Teodosia, cifra che va interpretata come il totale delle esportazioni da Teodosia ad Atene dall’apertura dell’emporio alla sua morte. Kočevalov (1932: 321–3) calcola tra 420000 e 350000 medimni all’anno, datando l’apertura dell’emporio al 355, ma questo significherebbe che Teodosia da sola mandava in media ad Atene più grano di quanto ne veniva esportato dall’intero Regno del Bosforo. Moreno (2007: 207) postula più verosimilmente 260000 medimni all’anno nel corso di otto anni. Non è sorprendente che Teodosia esportasse più grano di Panticapeo: Strabone (7.4.4) afferma che Teodosia era un porto migliore di Panticapeo, e che poteva ospitare 100 navi, contro le 30 di Panticapeo, confermando dunque la simile informazione riportata Demostene, che l’oratore sostiene di avere ottenuto da marinai (rinforzando la sua immagine di politico informato e competente). Teodosia è qui definita emporion, termine con cui si poteva indicare sia una sezione della polis, un mercato distinto dall’agora che si concentrava sul commercio marittimo a lunga distanza (Atene aveva un emporio al Pireo, e similmente Corinto, Rodi, Egina e Panticapeo erano poleis con emporia; cfr. Hansen 1997: 86), sia una comunità che era di per sé un emporio senza essere una polis (cfr. Hansen 1997: 85–6). Bresson (1993: 223–5) similmente distingue tra un significato politico e uno economico (cfr. anche Wilson 1997 per una discussione dell’evoluzione dell’uso del termine, che prima della metà del V secolo indicava qualsiasi comunità con attività commerciali, ma in seguito indicò luoghi e comunità istituzionalmente definite). Hansen (1997: 90) nota che Teodosia era prima della conquista di Leucone una polis a tutti gli effetti, e dopo la conquista, nonostante la sua dipendenza dal regno del Bosforo, diventò un emporio per l’estensione (e la centralità) delle



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sue attività commerciali, ma mantenne caratteristiche tipiche di una polis (cfr. Avram, Hind e Tsetskhladze 2004: 951–2). [2] τοῦ Βοσπόρου: Bosforo, che di solito è riferito agli stretti, è qui e altrove utilizzato per indicare la capitale del regno di Leucone, Panticapeo (cfr. Avram, Hind, e Tsetskhladze 2004: 949–50). [3] προπέρυσι: Dindorf oppone alla paradosis la forma πρωπέρυσι, seguito da Blass, Butcher, Sykutris e Navarre-Orsini. Ripristinano la lezione dei codici Amerio e Dilts (cfr. anche Kühner, II Teil, I, p. 540b), con il conforto di Schol. Dem. 20.33.83 Dilts. Dindorf corregge in quanto πρωπέρυσι è forma tipicamente attica, come si ricava da Phryn. Praeparatio sophistica 105, 9 Borries e Pherecr. 182.1 Kassel-Austin, in cui πρωπέρυσι è richiesto dal metro (cfr. LSJ p. 1494). Ma, come mostrano Plat. Euth. 272b e Lys. 9.4, προπέρυσι è egualmente attestato e dunque va accolta la paradosis. [4] ἀλλὰ προπέρυσι σιτοδείας […] ὥστε πεντεκαίδεκα ἀργυρίου τάλαντα, ἃ Καλλισθένης διῴκησε, προσπεριγενέσθαι: se la data fornita da Dionisio di Alicarnasso (Ad Ammaeum I, 4, 2) è corretta, questa carestia (ed è l’unica testimonianza in merito) avvenne nel 357/6. Leucone spedì un quantitativo di grano sufficiente a sfamare la popolazione e procurò inoltre un guadagno di 15 talenti, amministrati da un certo Callistene. Varie carestie sono attestate nel IV secolo, nel 386/5 (Lys. 22), nel 362/1, e all’inizio degli anni ’20 (cfr. Garnsey 1988: 146–9), e Atene ricevette spesso ingenti quantià di grano (ma è dubbio se fossero donazioni; vd. Bresson 2015: 399–402), p. es. da Psammetico nel 445 (Philoch. FGrH 328 F119, Plut. Per. 37.4), da Arpalo negli anni ’30 del IV secolo (Athen. Deipn. 13.50) e da Cirene all’inizio degli anni ’20. Quest’ultima era una somma di 100000 medimni, parte del rifornimento a varie città greche per un totale di 805000 medimni (SEG 9.2 = RO 96; vd. Bresson 2011). Ci sono varie teorie sulla natura di questa spedizione, sulle modalità del guadagno e sull’identità di Callistene. Andreades (1961: 285) la ritiene una donazione (cfr. Fantasia 1987: 98, n. 27; Bresson 2000: 136–7, 209–10). Francotte (1910: 300 n. 3) la identificò con la cifra fornita da Strabone (7.4.6), per cui Leucone avrebbe inviato (nel 357/6) 2100000 medimni di grano da Teodosia. Contro l’accostamento delle due notizie si sono espressi Kočevalov (1932: 321–323), Hopper (1979: 90ss.), Moreno (2007: 207) e Fantasia (1987: 92–93), che adduce anche una ragione interna al testo: se Leucone avesse effettivamente effettuato un’unica spedizione tanto enorme Demostene ne avrebbe citato l’ammontare. La spedizione dovette essere in

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realtà una vendita, non una donazione – le donazioni sono sempre notate esplicitamente (Fantasia 1987: 98 e n. 29; cfr. Hopper 1979: 90–1). Il guadagno di 15 medimni suggerisce un acquisto diretto da parte della polis, una pratica comune nel settore dell’approvvigionamento granario per fronteggiare le crisi (Bresson 2015: 332–8; pace Fantasia 1987: 98, n. 27). Problema ulteriore è quali mezzi finanziari Atene dispiegò per accollarsi l’acquisto. La soluzione più semplice è pensare ad una cassa amministrata da un sitones, che è in genere identificato con Callistene (Hansen 1975: no. 118; per queste casse vd. Migeotte 2010: 295–358; 2014: 176–87, 579; Bresson 2015: 333– 4). Contra Fantasia (1987: 99) nota che le testimonianze riguardanti questo ufficio per lo più non risalgono oltre il III secolo, mentre quelle di IV (Dem. 18.248 in cui Demostene stesso ricopre la carica all’indomani di Cheronea; IG II3 1 367 ll. 10–12, 60ss. e Dem. 34.39 per la “grande carestia” durante il regno di Alessandro) fanno riferimento a momenti d’emergenza. Fantasia (1987: 104–105; cfr. Migeotte 2014: 579) dunque ipotizza che la spedizione fu organizzata senza che Leucone pretendesse pagamento immediato, proponendo che il credito vantato dai figli di Leucone nei confronti della città, a cui accenna il decreto del 346/5 in loro onore (IG II3 1 298 ll. 53–59), fosse proprio quello contratto in quest’occasione. Tuttavia una carestia nel 357/6, all’epoca della Guerra Sociale, e con le rotte dell’approvvigionamento minacciate dagli alleati in rivolta, è certo un momento d’emergenza, che giustificherebbe l’impiego di una cassa apposita. Questione ulteriore è la modalità del guadagno citato. Se postuliamo una cassa apposita, 15 talenti sarebbero la cifra risparmiata nell’operazione (Hopper 1979: 90ss.; Bresson 2000: 209–11). Questa lettura è spesso supportata con una correzione del testo (suggerita da Hieronimus Wolf e accettata fino a Bekker e Boeckh 1886: I, p. 111, n. c) in “non solo vi ha mandato grano sufficiente, ma a un prezzo tale [ἀλλὰ τοσούτου ὥστε πεντεκαίδεκα ἀργυρίου τάλαντα] che ne avanzarono 15 talenti che amministrò Callistene”. La correzione, innecessaria, è stata abbandonata, ma τοσοῦτον della paradosis ha accentuato nella lettura degli interpreti la contrapposizione tra οὐ μόνον ὑμῖν ἱκανὸν e ἀλλὰ τοσοῦτον (Fantasia 1987: 101): si è pensato a una distribuzione ai cittadini in relazione al primo segmento, mentre il secondo segmento avrebbe riguardato un momento completamente diverso, forse una vendita all’estero (così Fränkel in Boeckh 1886: II, p. 24*, n. 154; cfr. Sandys 1890: 37–38, Gernet 1909: 377, Hasebroek 1928: 254, Isager-Hansen 1975: 22). In realtà è più probabile (vd. Fantasia 1987: 103–104 e già Boeckh 1886: I, p. 111) che il guadagno sia il frutto della vendita ai cittadini,



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rispetto a quanto pagato a Leucone, con l’aggiunta dei costi di trasporto e di immagazzinamento. Ma se l’acquisto fu finanziato da una cassa ad hoc, è dubbio però che Callistene fosse un sitones (cfr. PAA s.v. Καλλισθένης [n° 559815], che lo identifica come tale): il testo non dice che Callistene amministrò quindici talenti destinati all’acquisto del grano, ma piuttosto che amministrò 15 talenti incassati, evidentemente, con la vendita del grano. Questi 15 talenti potrebbero essere stati destinati a uno scopo specifico, non menzionato da Demostene (Fantasia 1987: 108). Fantasia (1987: 107–111) ha proposto che il suo ruolo possa essere collegato all’evoluzione delle casse pubbliche ateniesi, theorikon e stratiotika, beneficiarie delle eccedenze di bilancio (quanto non assegnato con il merismos), nella progressiva ottimizzazione (e specializzazione) dell’amministrazione finanziaria. Insomma, Callistene ricoprirebbe un ruolo analogo, anche se ancora in via di definizione, a quelli di Eubulo e Licurgo (vd. intr. pp. 6–7, 42–3). Se questo fosse il caso, non si dovrebbe necessariamente connettere il Callistene qui citato con il Callistene del titolo di un’orazione dinarchea, la κατὰ Καλλισθένους εἰσαγγελία (citata in Dion. Hal. Din. 10.23; vd. Fantasia 1987: 93–95) – il collegamento è dovuto alla menzione nei frammenti dinarchei del commercio granario, per cui Callistene sarabbe stato sitones in entrambe le occasioni (la seconda dopo il 336; vd. Hansen 1975: no. 118). Più probabile è l’identificazione con il Callistene che propose un decreto di alleanza con un dinasta trace, Cetripori, e con il re dei Peoni e degli Illiri, nel 356 (IG II2 127), e con il proponente di un decreto citato da Dem. 18.37 e 19.86 che ordinava agli abitanti dell’Attica di ripararsi tra le mura di Atene in occasione dell’attacco di Filippo del 346. È probabile che questo Callistene facesse parte dello schieramento antimacedone, per cui nel 335 Alessandro reclamò la sua testa (Plut. Dem. 23; cfr. Wankel 1976: 287). Probabilmente sempre a lui si riferiscono citazioni nei comici e in Licurgo (Timocl. fr. 4, 5 Kassel-Austin; Antiph. fr. 27, 10 Kassel-Austin, Lyc. 5 fr. 2 Conomis). 34 [1] τί οὖν οἴεσθε, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι […] ἐὰν ἀκούσῃ νόμῳ τὴν ἀτέλειαν ὑμᾶς ἀφῃρημένους αὐτὸν; Demostene dipinge vividamente, e chiede agli Ateniesi di immaginare, la reazione di Leucone alla notizia dell’abolizione della sua esenzione, che non potrà essere ripristinata in quanto la legge vieta di accordare l’ateleia in futuro (§160). Leucone inevitabilmente reagirà abolendo le esenzioni accordate agli Ateniesi.

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[2] ἆρ᾽ ἀγνοεῖτε ὅτι ὁ αὐτὸς νόμος οὗτος ἐκεῖνόν τ᾽ ἀφαιρήσεται τὴν ἀτέλειαν, κύριος ἂν γένηται, καὶ ὑμῶν τοὺς παρ᾽ ἐκείνου σιτηγοῦντας; in realtà l’ateleia cancellata dalla legge di Leptine era soltanto quella dalle liturgie, e i benefici economici che Leucone riceveva dalle sue esenzioni commerciali sarebbero rimasti in vigore (vd. comm. §31[4–5]; Demostene nota però con ragione a §29 che la formulazione della legge è vaga, e potrebbe essere fraintesa). Non è dunque scontato che Leucone avrebbe reagito con la completa abolizione di tutte le esenzioni accordate ad Atene. Ma la sua reazione sarà stata fonte di preoccupazione – la legge rendeva instabile una relazione basata sulla fiducia (durata più generazioni, vd. comm. §31[4– 5]) nella stabilità dei benefici reciproci. Demostene dunque drammatizza le conseguenze della legge, ma le sue preoccupazioni sono reali. 35 [1] οὐ γὰρ δήπου τοῦτό γε ὑπείληφεν οὐδείς…: rispondendo alla domanda retorica, Demostene ribadisce che è inverosimile che Leucone tolleri la rottura unilaterale da parte di Atene della relazione reciproca, basata su un bilanciato sistema di onori e benefici, senza reagire. Il parallelismo nella costruzione della frase (e l’uso di μὲν…δέ) evidenzia la reciprocità nella relazione tra Atene e Leucone e, di conseguenza, nella reazione di Leucone. [2] ἐξαλεῖψαι: questo verbo è sinonimo di λῦσαι, ma col significato più concreto di “eradicare”, “distruggere”. È applicato sia a registri temporanei (p. es. Lys. 1.48) sia a leggi e decreti su pietra (vd. Rhodes 2001a: 33–5 e 2001b: 136–9). La distruzione di un decreto, specialmente un decreto onorifico (cfr. il decreto per Eufrone di Sicione distrutto dal regime imposto da Antipatro; vd. Bayliss 2011: 86, 98–103 e Wallace 2013), ne indicava platealmente l’abrogazione (cfr. Thomas 1989: 52, 71). Spesso nuove leggi e decreti richiedevano specificamente di distruggere iscrizioni contententi leggi o decreti contrari al loro dettato (p. es. la legge di Nicofonte: SEG 26.72 ll. 55–6; vd. Sickinger 2008: 107). [3] καὶ οὐ πάλαι βεβούλευσθε; πάλαι con il perfetto medio di βουλεύω indica che la fase della deliberazione dovrebbe già essere conclusa – gli argomenti presentati sono così forti che i giudici dovrebbero già aver deciso. 36 [1] ὡς μὲν εἰκότως καὶ δικαίως τετύχηκεν τῆς ἀτελείας παρ᾽ ὑμῶν ὁ Λεύκων, ἀκηκόατ᾽ ἐκ τῶν ψηφισμάτων: Demostene afferma che i decreti stessi si diffondevano su alcune benemerenze di Leucone. Nel V secolo e per parte del IV i decreti onorifici contenevano solo considerazioni astratte, ma lungo il IV secolo si sviluppò l’abitudine di riassumere al principio (sul



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caso particolare dell’ateleia vd. Henry 1983: 241–61 con esempi) alcune delle benemerenze con una proposizione introdotta da ἐπείδη (Henry 1983: 7–11; cfr. §69; IG II2 17 ll. 276; 109; IG II3 1 298 , 367, 439, II2 400, II3 1 440, 428). Demostene può dunque chiedere al segretario di dare lettura dei decreti onorifici e utilizzare le motivazioni contenute a riprova della veridicità delle sue affermazioni su Leucone. L’oratore non fa riferimento a un decreto, ma a più decreti (τὰ ψηφίσματα τὰ περὶ τοῦ Λεύκωνος). È possibile che Leucone fosse stato onorato più volte, ma è più probabile che il riferimento sia al decreto onorifico per Satiro e a quello per Leucone. Nessuno di questi decreti è conservato epigraficamente, ma è stato ritrovato al Pireo un decreto di Androzione del 347/6, due anni dopo la morte di Leucone, in onore di Spartoco II e Perisade, i suoi figli, con chiari accenni a Satiro I e a Leucone stesso (IG II3 1 298 = RO 64; vd intr. pp. 88, 96–7). In questo decreto gli onori accordati a Spartoco e Perisade non sono enunciati esplicitamente; Androzione propone (ll. 20–4) che tutto ciò che fu decretato per Satiro e Leucone sia valido anche per i suoi figli. Le linee 44–9 stabiliscono che la stele per Spartoco e Perisade sia eretta accanto a quella di Satiro e Leucone, ma ll. 33–6, sull’annuncio delle corone dei figli di Leucone, fanno riferimento esclusivamente al decreto per Leucone (e Satiro dovette essere incoronato secondo il dettato di un suo personale decreto). È dunque probabile che ci fosse un decreto per Satiro e uno ulteriore per Leucone, che rinnovava gli onori di Satiro e fu iscritto sulla stessa stele (Tuplin 1982: 123, Engen 2011: 287). Quando gli onori furono rinnovati per i figli di Leucone, un ulteriore decreto, analogo ai precedenti, fu iscritto su una nuova stele accanto alla precedente. Per questo Demostene chiede la lettura di più decreti: il decreto per Satiro descriveva in dettaglio i privilegi concessi agli Spartocidi, mentre quello per Leucone descriveva le sue benemerenze e rinnovava, senza citarli, tutti gli onori già accordati a Satiro (per le testimonianze sugli onori degli Spartocidi vd. Osborne 1981–3: III/IV, T21 e Engen 2011: 283–5, 286–7, 290–1). [2] τούτων δ᾽ ἁπάντων στήλας ἀντιγράφους ἐστήσαθ᾽ ὑμεῖς κἀκεῖνος, τὴν μὲν ἐν Βοσπόρῳ, τὴν δ᾽ ἐν Πειραιεῖ, τὴν δ᾽ ἐφ᾽ Ἱερῷ: la maggioranza dei decreti onorifici ateniesi era pubblicata sull’acropoli (Liddell 2003), ma particolari decreti venivano pubblicati in luoghi appositi per uno specifico onorando, e per i privilegi a lui accordati (cfr. Oliver 2003). In questo caso la pubblicazione al Pireo aveva ragioni pragmatiche (per l’importanza della visibilità di un’iscrizione vd. Thomas 1989: 51–4). I privilegi a Leucone erano principalmente commerciali (comm. §31[4–5]), per cui il Pireo era il luogo

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ideale. Inoltre le steli erano necessarie per garantire che l’ateleia e gli altri privilegi fossero rispettati, e la loro pubblicazione al Pireo garantiva facile accesso nel caso problemi o dubbi insorgessero sul diritto di un particolare carico all’esenzione dalle tasse portuali (vd. Oliver 2007a: 35–6). IG II3 1 298 = RO 64, il rinnovo degli onori per i figli di Leucone, del 346/5, è stato appunto trovato al Pireo, e a ll. 44–9 prescrive che la stele sia eretta accanto a quella per Satiro e Leucone. IG II3 1 870, la stele con gli onori del 286/5 a Spartoco III, un discendente di Leucone, fu invece eretta sull’Acropoli, ma all’epoca il Pireo era controllato dai Macedoni attraverso la guarnigione di Munichia. Copie dell’iscrizione erano state erette anche al Bosforo (a Panticapeo) e a Ierone. L’erezione di copie di iscrizioni ateniesi in luoghi di particolare rilevanza era una pratica diffusa (p. es. nel V secolo IG I3 16, ll. 44–45, IG I3 37, ll. 40–43, IG I3 40, 61–64 richiedono la pubblicazione fuori da Atene; frammenti di IG I3 1453 sono stati trovati in sette diverse città, e IG I3 1454, 1454bis, e 1454ter sono frammenti di ulteriori decreti ateniesi pubblicati altrove; IG II2 44 ll. 16–18, un’alleanza, deve essere pubblicata in ogni città coinvolta). Gli onori per Satiro e Leucone saranno stati pubblicati nella loro capitale, probabilmente vicino agli onori accordati ad Atene (un importante incentivo per i mercanti a salpare per Atene). E forse copia degli onori accordati da Leucone ad Atene sarà stata anch’essa eretta al Pireo, a informare i mercanti che non avrebbero pagato alcuna tassa nel Bosforo, a patto che trasportassero le merci ad Atene. Ierone era anch’essa locazione ideale, sulla rotta tra il Bosforo e Atene (Gabrielsen 2007: 304; Bresson 2015: 301). Schol. Dem. 20.36.91ab Dilts parla di un tempio a Ierone innalzato dagli Argonauti prima della spedizione in Colchide (cfr. Pind. Pith. 4.203; Ap. 2.531–533; Pol. 4.39, 5–6) sulla costa del Ponto Eusino, tra il Bosforo tracio e Trapezunte (Hdt. 4.87). Per Pindaro il tempio era dedicato a Poseidone, per Apollonio Rodio e il suo scoliasta (Ap. Arg. 2.528–33; Schol. Ap. 2.531–3) ai dodici dei, secondo il Periplus Ponti Euxini, 1 a Zeus Ourios. Pare che il tempio avesse inizialmente un’enfasi sui dodici dei, su Poseidone e su Artemide, mentre al termine dell’età ellenistica diventa stabilmente dedicato a Zeus o Giove Ourios (vd. Moreno 2008, con testimonia). [3] σκοπεῖτε δὴ πρὸς ὅσης κακίας ὑπερβολὴν ὑμᾶς ὁ νόμος προάγει, ὃς ἀπιστότερον τὸν δῆμον καθίστησιν ἑνὸς ἀνδρός: Demostene torna qui alle implicazioni morali del togliere l’esenzione a un benefattore come Leucone. La legge di Leptine obbliga gli Ateniesi a comportarsi con kakia, bassezza (cfr. §6), che implica la rottura della reciprocità che vincola Atene ai



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suoi benefattori (in questo senso il concetto di κακία è parallelo a quello di φθόνος; vd. intr. pp. 89–91). Qui l’affermazione è rafforzata dal riferimento a quanto discusso a §§15–17: l’instabilità delle ricompense è tipica delle tirannidi. Atene paradossalmente si dimostra meno riconoscente di un sovrano, Leucone. Questo riferimento era funzionale a evidenziare la negatività della legge di Leptine, ma è anche l’unico accenno critico a Leucone, un benefattore che è al contempo un potentato straniero, e secondo l’ideologia ateniese un tiranno. Questa nota critica non è ovviamente sviluppata (Leucone deve essere dipinto come meritevole), e Demostene torna immediatamente all’importanza delle steli come simbolo di reciprocità. 37 [1] μὴ γὰρ οἴεσθ᾽ ὑμῖν ἄλλο τι τὰς στήλας ἑστάναι ταύτας ἢ τούτων πάντων ὧν ἔχετε ἢ δεδώκατε συνθήκας: l’uso di συνθήκας non è prova che ci fossero trattati e alleanze tra Leucone e Atene (pace Bengtson 1962: II, pp. 277, no. 306). Il termine indica le condizioni di un accordo o di una transazione, in particolare il contenuto specifico della formulazione verbale (scritta o no) di queste condizioni (vd. Kussmaul 1969: 15–20; Mirhady 2004: 57–8; Carusi 2006: 21; 2010): dipingendo il rapporto di reciprocità e i benefici reciproci tra Leucone e Atene come termini di un accordo o di una transazione tra privati, Demostene rende la violazione di Atene ancora più grave agli occhi dei giudici. Quando una parte non ottempera ai suoi obblighi contrattuali (qui mantenere i privilegi di Leucone), l’altra è sciolta da ogni obbligo. Sebbene questi onori reciproci non costituissero un contratto o un trattato, Demostene dipinge gli obblighi della charis come altrettanto vincolanti, concettualizzando dunque una vera e propria economia degli onori che interseca quella materiale e segue regole analoghe (vd. intr. pp. 77–97). ἑστάναι, qui riferito a συνθήκας, significa “stare in piedi”, “essere eretto”, e funzionerebbe più naturalmente con “decreti”, “iscrizioni”. Viene qui usato con συνθήκας in quanto questi contratti non sono altro, in realtà, che le iscrizioni stesse. Il verbo è ripetuto altre due volte nel paragrafo in riferimento alle iscrizioni – poiché non sono state abbattute, abrogarne i termini equivale a lasciare una testimonianza della reciprocità tradita. [2] αἷς ὁ μὲν Λεύκων ἐμμένων φανεῖται: in contraddizione con §35, qui Demostene sembra suggerire che i benefici di Leucone rimarranno in vigore (Kremmydas 2012: 261). Ma l’uso del futuro col participio presente è qui ambiguo, e piuttosto che alla permanenza degli onori accordati da Leucone, fa riferimento al fatto che, quando gli Ateniesi avranno abolito l’ateleia, tutti nel mondo greco sapranno chi tra Leucone e Atene ha rispettato i termini

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del “contratto” e chi li ha traditi. Il punto è la responsabilità per la rottura delle synthekai, non la permanenenza nel futuro dei benefici accordati da Leucone. [3] καὶ ποιεῖν ἀεί τι προθυμούμενος ὑμᾶς εὖ: cfr. §30 – la continua prothymia di Leucone nei confronti della città è il motivo della sua eccellenza. Questo termine (“buona volontà”, “zelo”, “entusiasmo”) fa parte di una gamma standard di qualità chiave di un onorando (vd. Whitehead 1993: 37– 76 e comm. §17[2]), ed è utilizzata a §45 anche in riferimento a Epicerde. Le sue attestazioni epigrafiche sono rare (cfr. SEG 14.58 ll. 22–4 e 21.336 l. 7 integrate in iscrizioni di IV secolo, e SEG 25.106 ll. 23–4 e IG II2 836 l. 18 successive al 230; cfr. Veligianni-Terzi 1997: 195–8), ma è probabile, date le attestazioni letterarie, che il termine fosse usato nelle iscrizioni già nel IV secolo (cfr. Skard 1931: 28–23 e Whitehead 1993: 74). [4] ὑμεῖς δ᾽ ἑστώσας ἀκύρους πεποιηκότες, ὃ πολὺ δεινότερον τοῦ καθελεῖν: cfr. §35[2]: quando una legge o un decreto venivano abrogati, era comune distruggerne le steli. Qui Demostene sostiene che la legge di Leptine, senza distruggere le steli, le rende prive di valore. Le steli resteranno a memoria dell’infamia degli Ateniesi e della rottura unilaterale dei patti con Leucone. [5] αὗται γὰρ οὑτωσὶ τοῖς βουλομένοις κατὰ τῆς πόλεως βλασφημεῖν τεκμήριον ὡς ἀληθῆ λέγουσιν ἑστήξουσιν: le steli saranno prova (τεκμήριον) che chi biasima la città ha ragione. Come a §§64–5 per gli esuli Bisanzii e Corinzi, la dimensione internazionale degli onori, e la locazione in varie parti del mondo greco delle steli, è per Demostene prova dell’interesse panellenico verso le azioni degli Ateniesi (vd. Bresson 2015: 301). La legge di Leptine non avrà dunque un effetto solo su Atene e su Leucone: tutti sapranno della rottura della reciprocità, e questo comprometterà la doxa sulla pistis della città. 38 [1] φέρε, ἐὰν δὲ δὴ πέμψας ὡς ἡμᾶς ὁ Λεύκων ἐρωτᾷ, τί ἔχοντες ἐγκαλέσαι καὶ τί μεμφόμενοι τὴν ἀτέλειαν αὐτὸν ἀφῄρησθε: gli Ateniesi devono immaginare che Leucone mandi dei messaggeri a domandare ragione della cancellazione della sua ateleia. Il costrutto retorico di introdurre un personaggio rilevante per il caso e presentare un’obiezione come espressa direttamente da lui è noto nella teoria retorica successiva come etopea (Lisia era particolarmente ammirato per questo, vd. Bruss 2013; cfr. in generale Hagen 1996, Morford 1966, Amato-Schamp 2005 per la teorizzazione reto-



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rica successiva). Qui l’immedesimazione è rafforzata non soltanto dall’uso di espressioni come πρὸς θεῶν (usato da Demostene per enfasi in domande e richieste; p. es. Dem. 18.119, 19.19, 147, 21.98 con MacDowell 2009: 403) e νὴ Δία (usato allo stesso modo nelle affermazioni; vd. comm. §3[1]) e di interrogative dirette come a §39, che danno vivacità e immediatezza a questo dialogo ipotetico, ma dalla verosimiglianza del contesto istituzionale dell’intervento di Leucone. L’obiezione del sovrano del Bosforo è contestualizzata citando l’invio di messaggeri che si sarebbero, secondo la normale pratica, rivolti prima al Consiglio e quindi all’Assemblea, esprimendo formalmente le rimostranze di Leucone. Dopo la morte di Leucone, i suoi figli inviarono effettivamente messaggeri e una lettera chiedendo che gli onori e accordi tra Atene e il Bosforo fossero rinnovati, e Atene rispose formalmente attraverso un decreto onorifico, IG II3 1 870 ll. 8ss. (cfr. Dem. 18 per simili scambi diplomatici, nel contesto delle trattative con Filippo). [2] τί πρὸς θεῶν ἐροῦμεν ἢ τί γράψει ποτε ὁ τὸ ψήφισμα ὑπὲρ ἡμῶν γράφων; La precisione istituzionale con cui Demostene evoca le rimostranze di Leucone è accentuata in questa domanda retorica: la prima persona plurale fa riferimento al demos tutto, di cui l’oratore è parte, e la modalità istituzionale per rispondere a Leucone (ἐροῦμεν che corrisponde a εἶπεν usato nei decreti del proponente) è con la redazione di un decreto (γράφειν è usato sia del proponente di un decreto sia di chi lo deve effettivamente redigere) da parte di chi ha il compito di scrivere i decreti (ὁ τὸ ψήφισμα ὑπὲρ ἡμῶν γράφων). Questo era il compito del γραμματεὺς κατὰ πρυτανείαν, un segretario scelto per sorteggio e che non era membro del Consiglio (questa denominazione non si trova mai nelle iscrizioni prima del 363, e in precedenza troviamo il γραμματεὺς τῆς βουλῆς, un membro del Consiglio; vd. Rhodes 1972: 134–8). [3] ὅτι νὴ Δί᾽ ἦσάν τῶν εὑρημένων τινὲς ἀνάξιοι: questa ipotetica risposta è quella che Demostene ha attribuito a Leptine e ai syndikoi come loro argomento principale per abolire l’ateleia, e che ha già ridicolizzato a §1. 39 [1] ἐὰν οὖν εἴπῃ πρὸς ταῦτα ἐκεῖνος ‘καὶ γὰρ Ἀθηναίων τινὲς ἴσως φαῦλοι: questa ipotetica risposta di Leucone è a sua volta quella che Demostene oppone allo stesso argomento a §§1–2: è ingiusto per via di alcuni privare tutti delle esenzioni. L’argomento qui espresso da Leucone è ancora più elaborato: Leucone è cosciente che alcuni Ateniesi non meritano i benefici, ma ritiene che il popolo in generale sia meritevole. Il Leucone di Demostene dunque fa sue le considerazioni dell’oratore a §§5–7: è meglio

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peccare per eccesso con gli onori, perché una fama di ingenuità è migliore di una di malizia e invidia. Demostene dunque attraverso questo scambio immaginario tra Leucone e il demos ripassa i suoi precedenti argomenti, applicandoli al caso specifico del sovrano del Bosforo, mostrandone la rilevanza. Lo stesso avverrà per gli altri benefattori. [2] παρὰ πᾶσι γὰρ ἀνθρώποις μᾶλλόν ἐστιν ἔθος διὰ τοὺς εὐεργέτας καὶ ἄλλους τινὰς εὖ ποιεῖν τῶν μὴ χρηστῶν…: il ragionamento si esplicita in una norma di validità generale, che riprende l’argomento di §§5–7. A §§84–6 l’oratore mostrerà che questo è sempre stato il criterio adottato dagli Ateniesi, che per virtù dei servizi resi da Timoteo e Ificrate alla città onorarono anche personaggi dubbi in ossequio alle loro richieste. 40 [1] καὶ μὴν οὐδ᾽ ὅπως οὐκ ἀντιδώσει τῷ Λεύκωνί τις, ἂν βούληται, δύναμαι σκοπούμενος εὑρεῖν: fino a ora Demostene è stato vago su quali esenzioni di Leucone siano minacciate dalla legge di Leptine, suggerendo che verranno tutte abolite (anche quelle commerciali), il che risulterà nell’abolizione reciproca di tutte le esenzioni che Leucone ha accordato ad Atene. Qui invece implicitamente ammette che la legge di Leptine riguarda solo l’esenzione dalle liturgie (vd. intr. pp. 57–8). Leucone probabilmente non si sobbarcava comunque le liturgie in quanto non residente ad Atene (come suggerito da espressioni come εἶναι δὲ αὐτῶι κα[ὶ ἀτ]έλειαν οἰκο̑ντι Ἀθήνησι in IG II2 109 e ἐ̑να]ι δὲ αὐτῶι καὶ οἰκίας ἔγκτησιγ καὶ ἀτέλ[ειαν αὐτῶι] καὶ τοῖς ἐκγόνοις Ἀθήνησι in IG II2 53), come ammesso implicitamente da Demostene quando ipotizza che si potesse sottoporlo ad antidosis non semplicemente in quanto cittadino non più esente, ma in quanto ci sono sempre ad Atene proprietà che gli appartengono. Non c’è modo di sapere se le sostanze di Leucone ad Atene fossero effettivamente in pericolo, ma si può verosimilamente dubitarne: nessuno era esente dalla trierarchia, e tuttavia non risulta che sia mai stato chiesto a Leucone di essere trierarca per via delle sue proprietà ad Atene. [2] χρήματα μὲν γάρ ἐστιν ἀεὶ παρ᾽ ὑμῖν αὐτοῦ: non sappiamo quali proprietà Leucone possedesse ad Atene. È possibile che avesse denaro depositato in banche ateniesi, che possedesse stabili e terre, o che le ricchezze menzionate da Demostene comprendano anche il grano trasportato e venduto per suo conto ad Atene, che avrebbe potuto essere confiscato per coprire una liturgia (cfr. Kremmydas 2012: 264).



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[3] ἔστι δ᾽ οὐ τὸ τῆς δαπάνης μέγιστον ἐκείνῳ, ἀλλ᾽ ὅτι τὴν δωρεὰν ὑμᾶς αὐτὸν ἀφῃρῆσθαι νομιεῖ: l’enorme ricchezza di Leucone significa che qualsiasi spesa liturgica sarebbe per lui insignificante. Ma l’offesa che la legge gli porterà, il danno alla sua τιμή, è concreto e rilevante. Quest’ultima affermazione di Demostene serve a connettere la sezione su Leucone a quella su Epicerde di Cirene: a §41 afferma infatti che Leucone tiene alle sue esenzioni φιλοτιμίας ἕνεκα, mentre Epicerde ne ha effettivamente bisogno. 41–50: Il secondo esempio di benefattore è Epicerde di Cirene, che donò 100 mine per aiutare i prigionieri ateniesi della spedizione siciliana, e un talento verso la fine della Guerra del Peloponneso. Demostene contrasta le sue azioni con quelle di Leucone: non è qui l’enormità del beneficio che è impressionante, ma il contesto. Quando la città è in difficoltà, i benefattori sono essenziali, e la legge di Leptine, distruggendo la pistis della città, priva Atene dei suoi benefattori. Lo stesso vale per chi assistette Atene contro i Quattrocento o i Trenta. Buone leggi e abbondanti benefattori sono la fortuna della città nelle crisi. 41 [1] φιλοτιμίας ἕνεκα ἡ περὶ τῆς δωρεᾶς σπουδὴ γένοιτ᾽ ἄν, οὐ χρείας: Leucone è ricchissimo e, come affermato a §40, l’esenzione non gli è economicamente indispensabile; è però segno tangibile della sua φιλοτιμία verso la città (ma cfr. comm. §31[5] per i vantaggi economici che Leucone traeva dall’ ateleia). Demostene pone Leucone in contrasto col benefattore successivo, Epicerde di Cirene: per Leucone l’ateleia è una questione di φιλοτιμία e non di χρεία; per Epicerde è l’opposto. [2] εὖ πράττων, εἰς δέον δὲ νῦν γέγον᾽ αὐτῷ: per Epicerde l’esenzione era inizialmente soltanto un riconoscimento della sua φιλοτιμία, come per Leucone, ma si è poi ritrovato in condizioni di necessità – è diventata una questione di χρεία. Passare a Epicerde dopo Leucone è una mossa scaltra: dopo un potentato straniero la cui ateleia garantisce agli Ateniesi un trattamento economico favorevole, Demostene discute un privato che fu benefattore della città quando era ricco, e ora dipende dall’esenzione per la sopravvivenza. Ma l’oratore non proseguirà su questa linea: a §44 affermerà al contrario che Epicerde, come Leucone, non usa la sua esenzione, e l’abolizione avrà l’unico effetto di minare la pistis della città. A §45 infine sosterrà che ad avvalersi dell’esenzione sono ora i suoi figli. Epicerde dovette essere adulto nel 412 (vd. sotto), per cui è improbabile che potesse essere ancora vivo all’epoca del discorso. Kremmydas (2012: 265 e 73) sostiene che Demostene sfrutti

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l’ignoranza dei giudici sulla presente condizione di Epicerde per convincerli che l’abolizione colpisca lui e non gli eredi, con maggiore effetto retorico. MacDowell (2004) ipotizza che Epicerde all’epoca del processo fosse molto anziano e vivesse a Cirene, ma i suoi figli, attivi mercanti, utilizzassero l’esenzione, estesa a tutti i discendenti (l’ateleia senza qualificazioni copriva le tasse sul commercio; vd. intr. pp. 55–6). Ma la discussione qui non dimostra conoscenze privilegiate sulla condizione di Epicerde, e ogni informazione è tratta dal decreto onorifico che sarà letto a §44 – è probabile che Demostene ne sappia tanto quanto i giudici (vd. comm. §42[2] e Canevaro-Rutter 2014). [3] Ἐπικέρδης ὁ Κυρηναῖος: è noto soltanto da questo passo e da IG I3 125 (cfr. comm. §§42[2], 44[2]; PAA s.v. Ἐπικέρδης [n° 393070]). Il nome è appropriato per un mercante (cfr. Kremmydas 2012: 265–6), e ha associazioni cirenaiche (LGPN I; un’attestazione ad Atene: IG II2 11043). Whitehead (1977: 9–10) ipotizza (verosimilmente) che fosse un mercante di grano residente ad Atene quando necessario, e dunque occasionalmente registrato come meteco, ma non ci sono prove conclusive (l’integrazione di IG I3 125 ll. 21–2 pubblicata in IG II2 174 ll. 3–4 [οἰκίας ἔγκτησιν καὶ γε] ῶν Ἀθήνησιν, che confermerebbe questa ipotesi, è improbabile; va integrato invece con Meritt 1970 = Lewis in IG I3 125 = Bielman 1994: 3–4 καὶ [αὐτῶι τυχε̑ν ἄλλων ἀγαθ]ῶν Ἀθήνησιν κ[αθάπερ ἂν αἰτῆται Ἀ]θηναίος; cfr. Pečírka 1966: 39–41, Culasso Gastaldi 2004: 45 n. 27). IG I3 125 l. 2 mostra che Epicerde ottenne il titolo di euergetes (vd. intr. pp. 81–5), generalmente combinato con proxenos (Henry 1983: 116–62; Mack 2015: 38–42), ma manca nell’iscrizione questo secondo titolo (Walbank 1978: 4 n. 7 ipotizza che Epicerde non volesse essere prosseno, o che a Cirene ci fosse già un prosseno; cfr. Culasso Gastaldi 2004: 26 n. 23). Il titolo di euergetes senza la prossenia è raro ma attestato (Henry 1983: 129 n. 82–3, 116 n. 3; sulle sue ragioni vd. Mack 2015: 40–2). [4] οὐ τῷ μεγάλα ἢ θαυμάσια ἡλίκα δοῦναι: Demostene accentua la differenza tra Leucone, il cui contributo ad Atene è economicamente sostanziale, ed Epicerde, il cui contributo non è di per sé enorme (μεγάλα ἢ θαυμάσια ἡλίκα). Spiega poi che il contributo di Epicerde è eccezionale per il contesto, in momenti di grave difficoltà per Atene (rispettivamente il 412 e il 405; vd. comm. §42[2]). Questo contributo, in due donazioni, fu in totale due talenti e quaranta mine, una cifra non trascurabile (cfr. Plut. Mor. 856a, Aeschin. 3.17 e il documento non autentico a Dem. 18.118 con Canevaro 2013a: 286 e n. 129 per le donazioni di Demostene dopo Cheronea nel suo lavoro da sovrintendente delle mura e di responsabile del Teorico, e IG II3 1 367 ll. 11–12:



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3000 dracme; IG II2 729 + 442 ll. 3–4: 1000 dracme), superiore al costo di due trierarchie (Lys. 21.2). Epicerde dovette dunque essere molto ricco. [5] ἀλλὰ τῷ παρὰ τοιοῦτον καιρόν: le circostanze delle donazioni sono esplicitate nel paragrafo successivo, parafrasando il decreto onorifico (richiesto a §44). La prima donazione avvenne nel 412, dopo la catastrofe siciliana. La seconda durante l’arcontato di Alexias (405/4), presumibilmente dopo la sconfitta di Egospotami. Demostene, per mostrare l’eccellenza morale di cui le donazioni sono prova, sottolinea l’eccezionalità del contesto e la condizione disperata di Atene. Contro ogni cautela, Epicerde scelse comunque di servire Atene, sperando in una charis futura che non era chiaro se avrebbe mai avuto occasione di manifestarsi (cfr. §43). Epicerde scelse comunque di confidare nel circolo virtuoso πίστις (di Atene) – φιλοτιμία – χάρις – εὐεργεσία che Demostene ha discusso in dettaglio a §§10–14 (cfr. intr. pp. 77–97) e di cui sta fornendo ora vari esempi. Nel sottolineare il coraggio di Epicerde, Demostene rileva che le condizioni erano tanto disperate che persino chi aveva ricevuto da Atene benefici e onori faticava a ricordarsene. L’oratore mostra dunque una lieve crepa nell’argomentazione morale ed economica che regge questa sezione e l’intero discorso: a §§10– 14 Demostene aveva argomentato che mantenere la πίστις della città garantisca che molti svolgano εὐεργεσίαι motivati dalla φιλοτιμία e fiduciosi nella χάρις di Atene. Abrogare le esenzioni significa dunque rompere questa χάρις annientando la πίστις della città, con conseguenze importanti nel flusso di servizi che la città cesserà di ricevere da privati benefattori. L’intera sezione §§29–67 è dimostrazione di questo principio, e a §49, nel discutere insieme i benefattori della città che la soccorsero al tempo dei Quattrocento e dei Trenta, Demostene ribatte a chi sosterrà che Atene non stia attraversando un’emergenza, che lui prega che la situazione rimanga tale, e che non servano simili benefattori, ma se mai l’emergenza si ripresentasse, l’abolizione dell’ateleia lascerà Atene priva di soccorso. Ma qui Demostene mostra che in condizioni davvero disperate per la città, a prescindere dalla sua πίστις e χάρις, c’è comunque il rischio che persino chi ha ricevuto benefici e favori la diserti. Questa contraddizione nell’argomentazione è cursoria, e l’oratore si volge rapidamente a descrivere i meriti di Epicerde nel dettaglio. Il tentativo di sottolineare le differenze tra i servizi di Epicerde e quelli di Leucone è causa di questa isolata contraddizione. 42 [1] ὡς τὸ ψήφισμα τοῦτο δηλοῖ τὸ τότε αὐτῷ γραφέν: questo decreto (IG I3 125, qui parafrasato) e IG I3 104 (parafrasato in alcuni documenti di

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Dem. 23 e a Dem. 43.57; cfr. Canevaro 2013a: 37–76) sono gli unici documenti di cui conserviamo sia una parafrasi negli oratori sia un testo epigrafico. La fedeltà al testo epigrafico è notevole (vd. Nouhaud 1982: 127–8; sui decreti parafrasati in questo discorso vd. West 1995; sulla fedeltà delle parafrasi degli oratori ai documenti vd. Canevaro 2013a: 27–36). Due frammenti di questo decreto furono scoperti nell’Ottocento e pubblicati poi come IG II2 174, a cui si è aggiunto nel 1969 un ulteriore frammento. Meritt 1970 (riprodotto in larga parte in Bielman 1994: 3–4) è la prima edizione completa, seguita da IG I3 125 (Lewis), più parca di integrazioni. Si possono integrare molte delle lacune sulla base di abbondanti paralleli epigrafici e del testo di Demostene. L’iscrizione è datata all’arcontato di Alexias (405/4), e il nome di Epicerde è conservato (parzialmente) a ll. 11 e 26. L’ammontare della prima donazione non è conservato, mentre la seconda (l. 14) è di un talento. Non si può leggere ateleia, ma δε]δομένης di l. 13 ne suggerisce la presenza (cfr. il testo demostenico). Il decreto del 405/4 accorda una corona d’oro (Henry 1983: 30–1) a Epicerde per il dono di un talento, e ricorda che precedentemente gli era stata accordata l’ateleia (e probabilmente un’altra corona, vd. ll. 23–4 e 28 con MacDowell 2004: 131) per aver donato 100 mine ἐς σω[τηρίαν dei prigionieri Ateniesi τὸς ἐξ Σικελ[ίας. I servizi e gli onori passati e presenti di Epicerde saranno annunciati dall’araldo alle Dionisie della città. Al termine dell’iscrizione scopriamo che un individuo il cui nome comincia con Ἀρχε- propose un’aggiunta al decreto (approvata e iscritta). MacDowell 2004 suggerisce che rendesse l’ateleia ereditaria. Demostene è fedelissimo al dettato del decreto: τοῖς ἁλοῦσι τότ᾽ ἐν Σικελίᾳ τῶν πολιτῶν nel testo corrisponde a τὸς ἁλόντας πολίτ]ας τὸς ἐξ Σικελ[ίας dell’iscrizione. ἔδωκε μνᾶς ἑκατόν (e più avanti ἐπαγγειλάμενος) a αὐ[τὸς γὰρ μνᾶς ἑκατὸν] ἐθελοντὴς ἐς σω[τηρίαν .... 11 ....]ωσιν. τοῦ μὴ τῷ λιμῷ πάντας αὐτοὺς ἀποθανεῖν αἰτιώτατος ἐγένετο corrisponde a καὶ μάλα αἰτ]ίωι γεγενημέν[ωι […] τὸ μὴ ἀποθανε̑ν ἐ]ν̣ τῶι πολέμωι. Infine, δοθείσης ἀτελείας αὐτῷ […] τάλαντον ἔδωκεν αὐτός segue ἀτελείας δε] δομένης ὑπὸ το̑ δ[ήμο .... 10 .... τάλ]αντον ἀργυρίο. [2] τοῖς ἁλοῦσι τότε ἐν Σικελίᾳ τῶν πολιτῶν, ἐν τοιαύτῃ συμφορᾷ καθεστηκόσιν: è il contesto della catastrofe siciliana del 414/3: gli Ateniesi invasero la Sicilia nel 415 con un corpo di spedizione imponente, che comprendeva 134 triremi (100 ateniesi), 5100 opliti (2200 ateniesi), e ulteriori 1330 truppe leggere (si aggiungano 130 navi da rifornimento, i rematori, e ulteriore personale non combattente). Il generale Demostene portò nel 414



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ulteriori 73 navi e 5000 opliti (cfr. Beloch 1912–27: 2, 2, pp. 290–302 e Hornblower 2008: 1061–66). La spedizione è narrata da Tucidide nei libri VI e VII (vd. il commento di Hornblower 2008). Dopo due anni di combattimenti, nel settembre 413, gli Ateniesi sconfitti abbandonarono l’accampamento siracusano e iniziarono la ritirata (i 40000 uomini di Thuc. 7.75 sono probabilmente troppi; vd. Hornblower 2008: 1061–6) sotto attacco da parte dei Siracusani guidati dallo Spartano Gilippo. Demostene e Nicia si separarono: il primo concordò la resa e ottenne garanzie che i suoi 6000 superstiti non sarebbero stati uccisi, né sarebbero stati lasciati morire in prigionia o di fame (Thuc. 7.82.1–3). Nicia non fece accordi (propose di lasciare ostaggi a garanzia del futuro pagamento delle spese di guerra, a un uomo per talento, ma fu rifiutato; Thuc. 7.83), e i suoi uomini furono in larga parte uccisi o catturati e venduti come schiavi da privati cittadini siracusani (Thuc. 7.84– 5). Alcuni si salvarono grazie alla loro conoscenza delle opere di Euripide (Plut. Nic. 20–9). Altri fuggirono e si rifugiarono a Catane – alcuni di questi, come il figlio di Polistrato (Lys. 20.24), organizzarono azioni di guerriglia e raccolsero cinque talenti per riscattare parte dei prigionieri. Ulteriori 1000 o poco più si unirono ai superstiti del gruppo capitanato da Demostene, e furono chiusi nelle cave di pietra siracusane, per un totale di oltre 7000 (7.87), ammassati in poco spazio, afflitti dal caldo e dal freddo, che espletavano le loro funzioni corporali sul posto, e molti si ammalarono. Il sostentamento loro concesso, una cotyle d’acqua e due di grano al giorno, era minimo (metà di quanto spettava agli iloti prigionieri a Pilo; cfr. Thuc. 4.16.1). Dopo circa 70 giorni tutti i prigionieri, eccetto gli Ateniesi e gli alleati sicelioti e italioti (che rimasero nelle cave per otto mesi) furono venduti. Plutarco (Nic. 29.1) e Diodoro Siculo (13.19.4, 33.1) affermano che tutti gli Ateniesi rimasti morirono (Busolt 1885–1904: vol. 3, 2, pp. 1397–9; Hammond 1959: 399; per Ducrey 1999: 78–80 furono venduti come schiavi, cfr. Arnold 1842: 257), ma la loro testimonianza non sembra basata su conoscenze privilegiate – traggono le conseguenze del racconto tucidideo (Filisto FGrHist 556 fr. 53, fonte contemporanea, non menziona il destino dei prigionieri). Le fonti rendono improbabile che la maggioranza dei prigionieri sia morta nelle cave (p. es. l’accordo tra Demostene e Gilippo a Thuc. 7.82.1–3; il trattamento di alcuni prigionieri siracusani a Xen. Hell. 1.2.13–14 e 6.2.35–6; il racconto del figlio di Polistrato a Lys. 20.23–5; cfr. Kelly 1970, Bielman 1994: 3–7, Canevaro-Rutter 2014). Si noti inoltre che Demostene, nel riferirsi τοῖς ἁλοῦσι τότε ἐν Σικελίᾳ τῶν πολιτῶν, modifica il testo di IG I3 125: l’iscrizione ha invece τὸς ἐξ Σικελ[ίας, i prigionieri che tornarono dalla Sicilia.

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[3] ἔδωκε μνᾶς ἑκατὸν καὶ τοῦ μὴ τῷ λιμῷ πάντας αὐτοὺς ἀποθανεῖν αἰτιώτατος ἐγένετο: c’è disaccordo tra gli interpreti sull’uso delle 100 mine. Molti leggono l’iscrizione e questo passo come prova che Epicerde contribuì al riscatto dei prigionieri (cfr. Meritt 1970 e West 1995: 241), ma Pritchett (1991: 272–3) e Kremmydas (2012: 267–70; cfr. anche MacDowell 2004: 131) sostengono invece che le 100 mine furono utilizzate per comprare cibo per i prigionieri, notando che 100 mine non potevano liberarne molti, mentre il πάντας del testo suggerisce che Epicerde evitò la morte di tutti i prigionieri ateniesi. τῷ λιμῷ indicherebbe che la donazione comprò grano sufficiente a tenerli vivi (Kremmydas calcola che 100 mine potessero nutrire 800 prigionieri per un anno a due cotylai al giorno). Ma questa lettura è problematica: 1) πάντας va letto in connessione a μὴ, col significato “non tutti gli Ateniesi morirono di fame”; 2) gran parte delle iscrizioni superstiti indicano il bene donato dal benefattore esplicitamente, soprattutto quando si tratta di grano (Engen 2010: 76–8); 3) ἐς σω[τηρίαν dell’iscrizione, per quanto vago, è spesso utilizzato epigraficamente per indicare un riscatto (cfr. Bielman 1994: 251–3); 4) i soli indizi contro l’uso delle 100 mine per il riscatto (πάντας e τῷ λιμῷ) mancano dall’iscrizione. Demostene non pare avere informazioni privilegiate su Epicerde, e λιμῷ appare anche in Thuc. 7.87.1–2 – le terribili condizioni nelle cave devono essere state proverbiali. Non è dunque saggio caricare le parole di Demostene (particolarmente elementi tanto minuti) di eccessivo significato: la soluzione più economica è che le 100 mine furono usate per il riscatto (vd. Canevaro-Rutter 2014). Le cifre per i riscatti (sulle modalità cfr. Pritchett 1991: 284–90 e Bielman 1994: 233–4, 277–309) in Grecia sono discordanti (fino alle 500 dracme di Diod. 20.84.6 e Liv. 34.50.6, e persino ai tre talenti di Thuc. 3.70.1). La cifra tipo era una mina a persona (Arist. Eth. Nic. 1134b, confermato per la Sicilia nel 387 da Diod. 14.111; cfr. anche SEG 24.254 del 264/3 BC: 120 dracme). Epicerde avrà finanziato il riscatto di circa 100 Ateniesi. [4] πρὸ τῶν τριάκοντα μικρὸν, σπανίζοντα τὸν δῆμον χρημάτων: molti editori (Butcher, Dilts) considerano con Weil l’indicazione cronologica una glossa. Ma non ci sono indizi nel testo che potessero suggerire al lettore tardo la corretta datazione della seconda donazione, né vi si trova accenno in Schol. Dem. 20.42.110 Dilts. La notizia è invece confermata epigraficamente nel decreto onorifico in questione (IG I3 125) datato al 405/4, che pone il versamento di un talento proprio nei mesi precedenti la tirannide dei Trenta. Ma l’iscrizione non era disponibile all’ipotetico glossatore, per cui è bene attenersi alla paradosis (cfr. Kremmidas 2012: 271). Al termine della guerra,



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probabilmente dopo Egospotami, Atene era stremata umanamente e finanziariamente (cfr. Lys. 12.6, 30.22), per cui la donazione di Epicerde dovette essere particolarmente benvenuta. L’indicazione cronologica serve ad accostare l’azione dei benefattori danneggiati dalla legge di Leptine alla resistenza contro i Trenta (a §48 sarà il turno del regime dei Quattrocento): Demostene così dà l’impressione che la legge di Leptine stia dalla parte opposta, quella oligarchica (Perlman 1961: 155; Hesk 2000: 72 n. 46; cfr. Amerio 2000: 439). Demostene introduce (forzatamente) i Trenta anche altrove (cfr. §§11–15). Il fine di queste allusioni è chiarito a §§46–47, dove Demostene afferma che la legge simboleggia la dimenticanza. Non abrogarla significa rinnegare gli antenati vissuti in contesti di emergenza democratica, che onorarono chi servì la democrazia contro e i Quattrocento i Trenta (§48). Questi eventi possono sembrare lontani nel tempo, storie raccontate dai più anziani (§47), ma il rischio di ulteriori rivolgimenti oligarchici è sempre presente (§49), e leggi come quella di Leptine indirizzano la città in quella direzione. [5] αὐτὸς ἐπαγγειλάμενος: espressione frequente nei decreti onorari come alternativa a ἐθελοντής (cfr. IG I3 101 fr. e–g ll. 12, 14; 125 ll. 16–17; SEG 18.153 l. 9, IG II3 1 877 l. 40), e ripresa direttamente dal decreto. Sottolinea la volontarietà della donazione, caratteristica importante dei servizi degni di onori da parte della città (Liddel 2007: 166–70 e passim e intr. pp. 78–81). 43 [1] πρὸς Διὸς καὶ θεῶν: la forma più enfatica di giuramento in Demostene, qui apposta alla domanda retorica che trae le conclusioni dalla descrizione dei servizi di Epicerde. πρός è forma tipica nelle domande retoriche e nelle richieste (MacDowell 2009: 403). [2] παρὼν τῷ τῆς πόλεως ἀτυχήματι […] τὴν παρὰ τούτων χάριν, […] καὶ παρ᾽ οἷς ἦν: Demostene commenta l’eccezionalità delle azioni di Epicerde, che scelse, nonostante le circostanze, di aiutare gli sconfitti, e di sperare in τὴν παρὰ τούτων χάριν, ἥτις ποτ᾽ ἔμελλεν ἔσεσθαι. Torna il tema della charis, nella speranza (e nonostante l’improbabilità) della quale Epicerde scelse di aiutare gli Ateniesi. È dunque spregevole che Atene scelga di mancare ai suoi doveri reciproci. Non è chiaro se παρὼν τῷ τῆς πόλεως ἀτυχήματι indichi la sua presenza a Siracusa, ma successivamente καὶ παρ᾽ οἷς ἦν toglie ogni dubbio: Demostene vuole suggerire che Epicerde era in Sicilia e corse un rischio personale aiutando gli Ateniesi. Demostene non pare tuttavia avere fonti privilegiate su queste vicende, per cui il passo non prova conclusivamente che Epicerde seguì la spedizione, e che era a Siracusa per

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commercio quando donò il denaro (pace Kremmydas 2012: 268). IG I3 125 non dà conferme, ed è prudente dunque sospendere il giudizio (è anche possibile che Epicerde fosse ad Atene e abbia donato le 100 mine da lì). [3] δεύτερον δ᾽, ἑτέραν χρείαν ἰδών: nel ricordare la seconda donazione di Epicerde, e il modo in cui non badò alla salvezza delle sue sostanze, ma soltanto al benessere di Atene (per quanto gli era possibile, τὸ καθ᾽ αὑτόν: accusativo di limitazione, cfr. Dem. 19.119, 25.22), Demostene usa il termine χρεία: così come Epicerde vide la χρεία degli Ateniesi e donò le sue sostanze, gli Ateniesi non dovrebbero ora ignorare la χρεία di Epicerde, a cui l’oratore allude a §41. 44 [1] κοινὰ τὰ ὄντα τῷ δήμῳ κεκτημένον: cfr. i riferimenti a §43 al disinteresse di Epicerde per ἰδίᾳ τὰ ὄντα. Qui Epicerde rese κοινὰ τὰ ὄντα τῷ δήμῳ. La confusione tra pubblico è privato, per cui i beni privati diventano risorsa pubblica, è prova ultima dello spirito di servizio del benefattore, ancora più impressionante se il benefattore è uno straniero (Vannier 1988: 127–36; Liddel 2007: 211–15, 218–22, 227–8). Il confine tra pubblico e privato, spesso piuttosto netto (p. es. Pericle a Thuc. 2.37), è talvolta nell’ideologia ateniese flebile, in riferimento a regole comportamentali (cfr. comm. §9[1]) come nella concezione di bene pubblico e privato (le liturgie sono p. es. beni privati che diventano pubblici; cfr. Liddel 2007: 211–15, 218–22, 227–8; in generale Geuss 2003 e Macé 2012). L’evergetismo e il sistema liturgico si basano appunto su questa zona grigia tra pubblico e privato. [2] τῷ δὲ ῥήματι καὶ τῇ τιμῇ τὴν ἀτέλειαν ἔχοντα, οὐχὶ τὴν ἀτέλειαν ἀφαιρήσεσθε (οὐδὲ γὰρ οὔσῃ χρώμενος φαίνεται): in contraddizione con §41: “ora ha bisogno dell’esenzione da voi concessagli in passato”. È probabile che a quest’epoca Epicerde fosse morto e dell’esenzione si avvalessero i figli (cfr. Schol. Dem.20.41.105 Dilts e comm. §41[1]). Demostene non ha informazioni privilegiate e cambia versione a seconda delle necessità argomentative (vd. comm. §42[3], pace MacDowell 2004). [3] ἀλλὰ τὸ πιστεύειν ὑμῖν, οὗ τί γένοιτ᾽ ἂν αἴσχιον: il caso di Epicerde è collegato ai temi generali enunciati a §10–15: abolire l’ateleia significa rompere un rapporto di charis, e distruggere la pistis della città, macchiandosi quindi di φθόνος (αἴσχιον; vd. intr. pp. 86–93). [4] τὸ τοίνυν ψήφισμα: qui si tratta di un solo decreto, mentre a §45 Demostene afferma invece che si sia data lettura di più decreti. G.H. Schae­ fer ritenne che dopo ΨΗΦΙΣΜΑ sia caduto λέγε καὶ τουτὶ τὸ ψήφισμα.



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ΨΗΦΙΣΜΑ vel sim. Ma poiché il secondo decreto menziona anche le ragioni e la natura delle prime onorificenze, Demostene avrà forse richiesto la lettura solo di quest’ultimo, dando poi per letti entrambi i decreti (cfr. Amerio 2000: 447–448). E infatti la parafrasi a §42 segue strettamente (ed esclusivamente) IG I3 125. 45 [1] οὐδὲ γὰρ τοὺς λαβόντας ἔγωγ᾽ ἡγοῦμαι τὸ πλῆθος τῶν χρημάτων θαυμάσαι: nuovamente (cfr. §41) non è l’entità della donazione che la rende eccezionale, ma le circostanze e la volontarietà del dono (τὸ αὐτὸν ἐπαγγειλάμενον ποιεῖν è ripreso dalla parafrasi del decreto, e utilizzato in IG I3 125, cfr. comm. §42[1]). 46 [1] πάντες μὲν γάρ εἰσιν ἴσως ἄξιοι χάριν ἀνταπολαμβάνειν οἱ προϋπάρχοντες τῷ ποιεῖν εὖ, μάλιστα δ᾽ οἱ παρὰ τὰς χρείας: le circostanze ateniesi erano state definite di χρεία già a §43, mentre a §41 Lecuone prestava servizi alla città per φιλοτιμία e non per χρεία; Epicerde invece è ora in condizione di χρεία lui stesso. Questa sezione richiama continuamente l’apparato concettuale preparato a §11–15: la passata φιλοτιμία di Epicerde (in un momento di χρεία della città) lo rende meritevole (meglio, rende i suoi figli meritevoli) di assistenza nella sua χρεία attuale. Epicerde quindi ha diritto (è ἄξιος) alla χάρις della città. [2] τοὺς τοῦ τοιούτου παῖδας: cfr. comm. §§41[1] e 44[2] – Demostene si contraddice. Qui sostiene che la χρεία sia dei figli di Epicerde. Schol. Dem. 20.41.105 Dilts ipotizza che i figli di Epicerde si fossero trasferiti ad Atene, diventando meteci, e di conseguenza necessitassero ora dell’esenzione dalle tasse e dalle liturgie. MacDowell (2004: 132–3) sostiene invece che fossero mercanti corciresi, che necessitavano dell’esenzione per risparmiare su dazi e tasse commerciali. È più probabile che Demostene non conoscesse le attuali condizioni di Epicerde e dei suoi figli, e questo spiegherebbe perché non si soffermi maggiormente su questo punto (Kremmydas 2012: 276 nota la cursorietà dell’osservazione). L’ateleia onoraria non era però automaticamente ereditaria (vd. MacDowell 2004: 132 che discute IG II2 52 ll. 2–3), e l’ereditarietà era anzi molto rara (vd. Henry 1983: 241–6 e i casi dei figli di Leucone a §§29, 31 e IG II3 1 298 = RO 64; di Ctesippo figlio di Cabria a §§1, 75). IG I3 125 non menziona l’ereditarietà, ma al termine dell’iscrizione scopriamo che un’aggiunta al decreto fu proposta da qualcuno il cui nome comincia con Ἀρχε- (MacDowell 2004: 132–3). Forse l’emendamento aggiunse l’ereditarietà, per cui la lettura del decreto a §44 avrà giustificato le

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affermazioni di Demostene, ma è strano che l’oratore non vi alluda esplicitamente nella parafrasi a §42. È dunque altrettanto possibile che Demostene stia qui leggermente distorcendo i fatti a fini retorici. [3] εἰ μηδεμίαν ποιησάμενοι τούτων μηδενὸς μνείαν […] μηδὲν ἔχοντες ἐγκαλέσαι: Epicerde (o i suoi figli) ha diritto alla χάρις della città, alla sua assistenza nella χρεία, a meno che lui o i suoi figli abbiano rotto il rapporto fiduciario. Leptine, secondo Demostene, sostiene che molti beneficiari dell’ateleia non la meritino. L’oratore lo nega, e ribadisce che né Leucone (§38: τί ἔχοντες ἐγκαλέσαι), né ora Epicerde, né i successivi benefattori (cfr. §§60 e 117) siano degni di biasimo. La legge alternativa proposta da Demostene e da Formione istituisce una valutazione in tribunale delle azioni degli esentati, che stabilisca se siano diventati indegni dell’onore (cfr. comm. §88[6]). In assenza di una rottura della charis, cancellare le esenzioni accordate a chi ne ha diritto in virtù dei passati servizi è un segno vergognoso di dimenticanza. 47 [1] οὐ γὰρ εἰ ἕτεροι μὲν ἦσαν οἱ τότε σωθέντες ὑπ᾽ αὐτοῦ […] ἕτεροι δ᾽ ὑμεῖς οἱ νῦν ἀφαιρούμενοι, ἀπολύει τοῦτο τὴν αἰσχύνην: il demos trascende gli individui che a ogni dato momento lo compongono. La manifestazione estrema di questo principio è la scelta della democrazia restaurata nel 403 di ripagare un debito contratto dagli oligarchi con gli Spartani per combattere i democratici (comm. §11[3]). A §11 il rispetto della continuità di Atene e del suo demos simboleggia l’ethos della città che ripaga i suoi debiti a prescindere dalle mutevoli circostanze. Come a §11, discostarsi da questo ethos è vergognoso (τὴν αἰσχύνην). [2] εἰ γὰρ οἱ μὲν εἰδότες καὶ παθόντες ἄξια τούτων ἐνόμιζον εὖ πάσχειν…: οἱ μὲν εἰδότες καὶ παθόντες è il soggetto tanto di ἐνόμιζον quanto di εὖ πάσχειν (pace Kremmydas 2012: 277, non c’è cambio di soggetto, per cui il soggetto di εὖ πάσχειν non può essere Epicerde e gli altri benefattori). ἄξια, visto l’ordine della frase, è meglio inteso come oggetto di εἰδότες καὶ παθόντες: chi ha assistito ed è stato beneficiario delle azioni che hanno meritato l’ateleia (τούτων, che si riferisce alla ricompensa discussa appena prima) ritenne (ἐνόμιζον) di essere trattato in modo appropriato (εὖ πάσχειν). La lezione οἱ μὲν εἰδότες καὶ παθόντες qui accolta è quella dei codici principali e i participi accostati di tempo verbale diverso non sono problematici – il participio perfetto è simile a un presente, con il senso di “conoscendo” (pace Navarre-Orsini che cercano di risolvere questo presunto problema con la congettura ἵδοντες, che tenta di eguagliare i tempi verbali ed evitare la va-



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riatio). La lezione παρόντες di A ed F (sub linea) è parzialmente tautologica, il che potrebbe aver causato una correzione in παθόντες. Si segue dunque la lezione παθόντες, riportata da S e dalla maggioranza della tradizione, ma dubitativamente. Ulteriore ragione per conservare gli onori invariati è che chi assegnò l’ateleia fu testimone delle azioni dei benefattori, decidendo sulla base dei fatti, mentre chi ora vuole abolire l’ateleia non era presente, per cui abolisce l’ateleia non sulla base di fatti, ma per sentito dire (οἱ λόγῳ ταῦτ᾽ ἀκούοντες). L’argomentazione si basa sulla contrapposizione tra ergon e logos, utilizzata ossessivamente nell’epitaffio pericleo di Thuc. 2.35–46 (2.35.1; 40.2; 41.2; 41.4; 42.2; 43.1; 43.2), tanto che Oddone Longo (2000: 56) ritenne che Tucidide stesse riproducendo un vezzo del Pericle storico. La ripresa da parte di Demostene di stilemi tucididei non stupisce se è vera la notizia di Luciano (Adv. Indoct. 4) che l’oratore copiò otto volte Tucidide, imparandolo a memoria (se falsa, la notizia evidenzia che anche i commentatori antichi notavano influenze tucididee; cfr. Carlier 1990: 32). 48 [1] ὁ αὐτὸς τοίνυν ἐστί μοι λόγος οὗτος: troviamo qui due categorie di benefattori contemporanei di Epicerde: coloro che abbatterono i Quattrocento e coloro che aiutarono i democratici in esilio durante il governo del Trenta. La menzione di queste categorie è cursoria, senza particolari sulle loro benemerenze e sui loro onori. Il punto è assimilarle a Epicerde, allargando il numero di benefattori che subiranno un’ingiustizia a causa della legge di Leptine. Secondo Kremmydas (2012: 278) Epicerde ha in comune con queste categorie anche il fatto di essere uno straniero. La menzione di coloro che abbatterono i Quattrocento sembra riferirsi generalmente ad Ateniesi e non specificamente agli stranieri (sebbene gli assassini di Frinico fossero stranieri appartenenti ai περίπολοι impiegati dai Quattrocento; Thuc. 8.92). Il riferimento a coloro “che si resero utili quando i democratici erano in esilio” al tempo dei Trenta pare invece suggerire che queste due categorie siano state scelte perché composte per lo più da stranieri come Epicerde. ὁ αὐτὸς τοίνυν ἐστί μοι λόγος οὗτος fa esplicito riferimento all’argomento del paragrafo precedente. Sandys (1890: 47) ritenne che il riferimento qui sia cursorio perché queste categorie erano state già trattate da Formione, ma non è chiaro se questi benefattori avessero davvero ricevuto l’ateleia (vd. sotto), per cui la menzione cursoria potrebbe essere dovuta al fatto che l’esempio era in realtà incorretto. Demostene in questo discorso menziona spesso cursoriamente i regimi oligarchici (p. es, §§11–13, 42), per assimilare implictamente la legge di Leptine alle azioni degli oligarchi.

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[2] καὶ περὶ τῶν τοὺς τετρακοσίους καταλυσάντων: il rivolgimento oligarchico dei Quattocento avvenne nel 411. Le fonti principali sono Thuc. 8.47–98 e [Arist.] Ath. Pol. 29–33 (cfr. Diod. 13.38, Lys. 12.65–67, Lys. 13.71–2, Lyc. 1.112). Fu attuato in seguito alla disfatta siciliana da personaggi legati alle eterie oligarchiche, guidati da Pisandro, Teramene e Frinico, e con Antifonte sullo sfondo. Il programma, propagandato come un ritorno alla costituzione degli antenati (vd. Hansen 1989: 88–89, Osborne 2003 e Shear 2011: 19–69; Canevaro 2015), comportava la rinuncia alla democrazia in funzione della pace con Sparta. L’abolizione della democrazia avvenne in una seduta irregolare dell’Assemblea che affidò il governo a un Consiglio di Quattrocento, che durò soltanto quattro mesi, dopodiché, dopo un ulteriore rivolgimento (e l’omicidio di Frinico), Teramene diede pieni diritti politici alla classe oplitica (nominalmente 5000 cittadini; Harris 1990 sostiene che questo passaggio non fu un rivolgimento, ma la prevista transizione alla costituzione predisposta dai Quattrocento). Anche questo regime durò pochi mesi prima che fosse ripristinata la democrazia (cfr. Gomme-Andrewes-Dover 1981: 212–240; Rhodes 1981: 362–423; Harris 1990; Hansen 1999: 41; Shear 2011: 19–69). Un’iscrizione del 409, IG I3 102 (= ML 85; cfr. Osborne 1981–3: I, 28– 30; 1982: 16–21), onora vari personaggi legati all’assassinio di Frinico. L’onorando principale è Trasibulo, probabilmente Trasibulo di Calidone (Lys. 13.71–2 e Lyc. 1.112). Questi fu responsabile diretto dell’omicidio, e per questo ottenne la cittadinanza ateniese (IG I3 102 ll. 15–16 e Lys. 13.71–2) e una corona annunciata alle Dionisie. Altri benefattori, tra cui Agorato (Lys. 12.71–2 nota che Agorato non ricevette la cittadinanza, e non prese direttamente parte all’assassinio), Conone, Simone, Filino, ricevettero il diritto a possedere terra (ἔγκτεσι]ν integrato verosimilmente a ll. 30–1) e casa (οἰκίας). Un emendamento si occupa di Apollodoro di Megara, che secondo Lyc. 1.112 partecipò con Trasibulo all’omicidio, ma secondo Lys. 12.71–2 non prese materialmente parte, pur essendo presente. Questi non furono certamente gli unici decreti onorifici passati dopo la restaurazione democratica, ma si noti che tra gli onori accordati agli assassini (tutti stranieri) non c’è l’ateleia. È possibile che la menzione cursoria, senza lettura di decreti, sia dovuta al fatto che in realtà questi onorandi non ottennero l’ateleia. [3] καὶ περὶ τῶν ὅτ᾽ ἔφευγεν ὁ δῆμος χρησίμους αὑτοὺς παρασχόντων: dopo la resa di Atene nel 404, i Trenta presero il potere allo scopo apparente di restaurare le leggi, e instaurarono invece una tirannide sanguinaria (fonti principali sono Xen. Hell. 2.3–4, [Arist.] Ath. Pol. 34–41, Lys. 12 e 13; vd.



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Hignett 1952, cap. 11 e app. 13–14; Krentz 1982; Natalicchio 1996; Shear 2011: 166–87; Canfora 2013, e comm. §§11–13 per ulteriore bibliografia). Dopo l’esecuzione di Teramene in seguito al disaccordo con Crizia (Xen. Hell. 2. 3.13–56, Diod. 14.4.3–5.4), i Trenta espulsero dal centro urbano chi non facesse parte dei tremila cittadini (secondo il nuovo censo). Così molti Ateniesi trovarono rifugio all’estero, e in particolare a Calcide, Megara e in Elide, mentre altri furono accolti pubblicamente ad Argo, Tebe e Corinto (Dem. 15.22–3, Xen. Hell. 2.4, Diod. 14.32.4; Lys. 12.52, 13.44, Aeschin. 2.148, Plut. Lis. 27, 5–7). Nell’inverno del 404/3 i democratici cominciarono a combattere i Trenta, e settanta uomini guidati da Trasibulo varcarono il confine dalla Beozia e occuparono File. Cresciuti fino a 700 uomini, attaccarono il campo dei Trenta e vinsero una battaglia (Xen. Hell. 2.4.1–7, Diod. 14.5.5–6, 32–33); quindi attaccarono il Pireo e conquistarono Munichia (sulla distinzione tra “quelli di File”, “quelli della città” e “quelli del Pireo” vd. IG II2 10 = RO 4, e comm. §12[3]). In seguito i Trenta attaccarono i democratici (il cui numero cresceva) ma furono sconfitti (Crizia fu ucciso in combattimento) e deposti, sostituiti da dieci magistrati non più disponibili a trattative dei Trenta (sui Dieci, diversi dai Dieci del Pireo, e sugli avvenimenti successivi alla caduta dei Trenta, fino all’amnistia, vd. Rhodes 1981: 457–482 ad [Arist.] Ath. Pol. 38–40; Cloché 1915; Hignett 1952: 285–298, 378–389; Natalicchio 1996; cfr. comm. §11[4]). Nell’estate del 403 la democrazia fu restaurata e agli oligarchi fu consentito di rifugiarsi a Eleusi. καὶ περὶ τῶν ὅτ᾽ ἔφευγεν ὁ δῆμος χρησίμους αὑτοὺς παρασχόντων si riferisce a quegli stranieri di Calcide, di Megara, dell’Elide, di Argo, di Tebe e di Corinto che ospitarono gli esuli democratici, e agli altri stranieri che aiutarono i democratici. Varie fonti menzionano onori per stranieri dopo la restaurazione: Trasibulo propose che coloro che si erano schierati con i democratici, a File, a Munichia o al Pireo, diventassero cittadini, ma Archino fece abolire il decreto con una graphe paranomon ([Arist.] Ath. Pol. 40.2, [Plut.] X Or. 835f–836a, P.Oxy. 15.1800, fr. 6–7; Aeschin. 3.195). Archino passò un decreto che assegnò agli uomini di File una corona d’ulivo e una somma di denaro (Aeschin. 3.187–90; cfr. Hesp. 10, 1941, 284—95 no. 78). IG II2 10 = RO 4 riporta un ulteriore decreto onorifico, che Osborne (1981– 3: II, 33–5) attribuisce a Trasibulo (cfr. anche RO 4, p. 26, pace Krentz 1980: 298–306) e che va datato al 401/400, contenente tre liste, di chi discese da File, chi combatté a Munichia, e chi si schierarò col demos al Pireo. Gli onori per le tre categorie sono dibattuti: secondo Whitehead (1984: 8–10) a tutti fu data la cittadinanza (questo sarebbe il decreto attaccato da Archino con una graphe paranomon); secondo Krentz (1980: 298–306; 1986: 201–

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4) e Harding (1987: 176–82) l’onore concesso a tutti quanti era l’isoteleia (promessa dopo Munichia a tutti gli stranieri che si unissero alla lotta; cfr. Xen. Hell. 2.4.25); secondo Kremmydas (2012: 279), viste certe differenze col decreto di Archino (Aeschin. 3.187–90), questo potrebbe certo essere il decreto di Trasibulo, ma è possibile (cfr. RO 4, p. 25) che sia un decreto ancora diverso – né la proposta originale di Trasibulo né il decreto di Archino, ma un successivo, più moderato, decreto di Trasibulo. Osborne (1981–3: II, 32–42) distingue invece tre categorie, chi discese da File, chi combatté a Munichia, e chi si schierò col demos al Pireo, e assegna la cittadinanza alla prima categoria, e l’isoteleia (come promesso dopo Munichia) alle altre due. Il decreto, secondo la ricostruzione di Osborne, coinvolgeva circa 960 persone, non più di 90 delle quali ‘discesero da File’. Si noti che non c’è traccia nelle fonti che questi decreti assegnassero l’ateleia (l’ateleia per 960 individui sarebbe costata cifre considerevoli). Come per coloro che abbatterono i Quattrocento, questo riferimento è dunque cursorio, perché probabilmente i decreti rilevanti non accordavano alcuna ateleia. 49 [1] εὐχέσθω τοῖς θεοῖς, κἀγὼ συνεύχομαι: dopo aver richiamato alla memoria dei giudici l’importanza dei benefattori nei momenti più critici della storia ateniese (e cancellare l’ateleia scoraggerà simili benefattori in futuro), Demostene contempla la possibilità che tra i giudici qualcuno lo accusi di esagerare, perché situazioni tanto critiche è improbabile che si ripresentino. Nell’anticipare gli argomenti degli avversari (p. es. §§1–7, 102, 134 e comm. §1[8]; sul suo uso dell’hypophora vd. MacDowell 2009: 404–5), Demostene li confuta spesso con una forte affermativa (cfr. l’uso di ἀλλά e νὴ Δία; p. es. Dem. 18.24, 21.98, 148–9). Qui l’obiezione è dei giudici stessi, e Demostene prima si allinea alla loro opinione, ma trasformandola in un auspicio, una preghiera (εὐχέσθω τοῖς θεοῖς; cfr. §§25, 55, 67, 106, 109, 157, 162 con comm. e Martin 2009: 243–4); quindi si unisce a loro nel pregare che le circostanze siano tanto rosee quanto auspicato (κἀγὼ συνεύχομαι). Questa è contemporaneamente una captatio benevolentiae, un segnale che Demostene ha a cuore il benessere della città (cfr. Martin 2009: 243), e un appello agli dei in funzione apotropaica: i giudici sono troppo ottimisti, e dare il successo per scontato, nel pensiero greco, è considerato pericoloso (vd. Dover 1974: 269–71). Dopo essersi allineato così ai giudici (al contempo rilevando che soltanto gli dei possono garantire il benessere che i giudici danno per scontato), l’oratore afferma che bisogna affiancare alla preghiere ragionamenti seri e improntati a prudenza.



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[2] ὅτι περὶ νόμου μέλλει φέρειν τὴν ψῆφον ᾧ μὴ λυθέντι δεήσει χρῆσθαι: se la legge non è abrogata, e quindi è formalmente in vigore, i giudici dovranno usarla: il giuramento eliastico impone ai giudici di votare secondo il dettato delle leggi (p. es. Aeschin. 3.6; Antiph. 5.7; vd. comm. §118[1]). La considerazione del “più corretto ragionamento giuridico” (Dem. 23.96, 57.63) era permessa esclusivamente in assenza di leggi rilevanti (vd. Harris 2013: 104–14, pace p. es. Mirhady 2007; cfr. comm. §§8[2] e 118[1]). Demostene evidenzia la forza vincolante della legge una volta in vigore (sull’integrazione di nuove leggi, correttamente promulgate, tra le “leggi di Solone” vd. Canevaro [c.d.s. b]). [3] ὅτι βλάπτουσιν οἱ πονηροὶ νόμοι […] πόλεις: una cattiva legge non solo ha effetti negativi sulle decisioni dei giudici; cattive leggi possono distruggere la città. Simili affermazioni sono particolarmente comuni nei due discorsi di accusa contro leggi (Dem. 20 e 24), e si basano su una concezione delle leggi della città come un sistema coerente che rispecchia l’ethos unitario della città (cfr. §§11–12 e 102–4 sull’ethos della città), che fu in origine stabilito da Solone ed è replicato e perpetuato ogniqualvolta una nuova legge è passata seguendo le corrette procedure (vd. Canevaro [c.d.s. b]). Dunque le cattive leggi non contraddicono semplicemente altre leggi, ma tutte le leggi e il loro spirito (cfr. Dem. 24.1, 5, 38, 61, 66). Per questo una cattiva legge può distruggere l’intera città e il suo ordinamento (cfr. §167 e Dem. 24.91,155–6, 212–3), e può essere definita da Diodoro a Dem. 24.152 ἀνομία. [4] καὶ τὰς ἀσφαλῶς οἰκεῖν οἰομένας πόλεις: οἰομένας pone ancora l’accento sul fatto che il benessere della città non è assicurato, e spesso una città ritiene di essere prospera ma è in realtà sul punto di collassare. Così come le ipotetiche considerazioni ottimistiche dei giudici sono ridimensionate a preghiere, la constatazione della sicurezza della città è ridimensionata a impressione, che potrebbe rivelarsi falsa. Il verbo οἰκεῖν (usato intransitivamente) è standard nell’indicare la condizione e l’amministrazione di una città (p. es. Plat. Rep. 423a, 462d, 543a, 547c, 557a, 599d; Leg. 502a; cfr. Thuc. 2.37.1 con Harris 2006: 29–39). [5] οὐ γὰρ ἂν μετέπιπτε τὰ πράγματ᾽ ἐπ᾽ ἀμφότερα: μεταπίπτω è usato comunemente per rivolgimenti politici, sia costituzionali, sia delle fortune della città, in questioni interne come in politica estera (cfr. p. es. Th. 8.68, Lys. 20.14). Qui, nonostante il riferimento sembri limitato alle fortune della città, alla sua prosperità, poiché il rivolgimento avverrebbe attraverso il

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passaggio di cattive (o buone) leggi, dobbiamo intenderlo potenzialmente come un rivolgimento costituzionale che porterà con sé conseguenze nefaste (o positive) per la polis. [6] καὶ πράξεις χρησταὶ καὶ νόμοι καὶ ἄνδρες χρηστοὶ καὶ πάντ᾽ ἐξητασμέν᾽: la considerazione attenta di questi elementi è fondamentale per determinare se una città incontrerà una metabole positiva o negativa. Nel pensiero politico greco le cause dei rivolgimenti costituzionali sono un interesse privilegiato (cfr. il libro V della Politica aristotelica, col lungo elenco di possibili cause di rivolgimenti costituzionali, e il libro quinto della Repubblica platonica, con la discussione della degenerazione progressiva delle costituzioni). Per una discussione delle varie teorie sulla metabole politeion cfr. in particolare Bertelli (1989, 1994, 2006). Qui Demostene non fa riferimento a una teoria specifica. Elenca piuttosto gli elementi principali che causano cambiamenti radicali in meglio e in peggio secondo il suo schema argomentativo, ma al contempo sotto forma di gnome universalmente vera. Le πράξεις χρησταί compiute da ἄνδρες χρηστοί sono fondamentali per il benessere della città, e gli onori accordati ai benefattori ne garantiscono l’abbondanza. Le leggi, che non vanno corrotte, pena la rovina della città, sono quelle che garantiscono l’economia degli onori qui descritta. Con πάντ᾽ ἐξητασμένα Demostene si riferisce probabilmente in modo vago all’attenzione richiesta al demos affinché nessuna legge o iniziativa distrugga questo circolo virtuoso di buone leggi, buone azioni e benefattori, e nello specifico allude alla necessità che i giudici esaminino attentamente la legge di Leptine, perché la rovina della città avviene per piccoli passi. [7] ὑπέρρει κατὰ μικρόν: è difficile per Demostene sostenere che la legge di Leptine distruggerà in un istante le fortune della città e abbatterà la sua costituzione. Tuttavia, con l’utilizzo di ὑπέρρει κατὰ μικρόν (cfr. questo verbo a Plat. Rep. 424d, Leg. 672d, Dem. 19.228), l’oratore ricorda ai giudici che il deterioramento dell’ordinamento della città è un processo graduale, nel quale ogni passo è egualmente importante e ogni errore porta la città più vicina al disastro. Arist. Pol. 1303a condivide la preoccupazione di Demostene, e nel contesto di un lungo elenco di possibili cause di rivolgimenti costituzionali afferma che talvolta grandi cambiamenti costituzionali avvengono quando si ignora una piccola modifica alle istituzioni. 50 [1] φυλάττειν δ᾽ οὐκ ἐθέλουσι τοῖς αὐτοῖς τούτοις: il confronto tra la difficoltà di acquisire benessere e quella di conservarlo è comune in Demostene, che tuttavia pare avere idee discordanti sul tema: Dem. 1.23, come



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qui, sostiene che sia spesso più difficile conservare il benessere che acquisirlo, ma Dem. 2.26 afferma l’opposto. La forza del confronto sta nel tono gnomico, ma la sostanza può essere liberamente declinata a seconda delle necessità argomentative. [2] ὃ μὴ πάθητε νῦν ὑμεῖς, μηδ᾽ οἴεσθε νόμον τοιοῦτον θέσθαι δεῖν, […] ἐάν τέ τι συμβῇ ποτέ, ἔρημον τῶν ἐθελησόντων ἀγαθόν τι ποιεῖν καταστήσει: la sezione si chiude ritornando ancora agli effetti pratici della legge di Leptine, che porteranno nel lungo periodo alla rovina della città, privandola di benefattori. 51–66: Demostene discute alcuni benefattori che portarono ad Atene l’alleanza di intere città. Tutti gli esempi riguardano il periodo della Guerra di Corinto: i dissidenti corinzi che aprirono le porte dopo la battaglia di Nemea, i dissidenti e poi esuli tasi e quelli bisanzii. Simili benefattori vanno valutati all’epoca dei fatti, e non in seguito, e giudicati esclusivamente sulla base delle loro azioni. Se qualcuno compiesse ora azioni simili contro Filippo e consegnasse Pidna e Potidea ad Atene, nessuno esiterebbe a ricompensarlo. Gli onori e le iscrizioni che ne sono memoriali devono essere eterni e inamovibili, come le imprese dei benefattori e le sventure che ne ricavarono. 51 [1] οὐ τοίνυν μόνον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοὺς ἰδίᾳ γνόντας εὖ ποιεῖν ὑμᾶς…: la nuova serie di benefattori è introdotta in contrasto a Leucone e Epicerde, benefattori individuali (come Epicerde era stato introdotto in contrasto a Leucone). I benefattori qui discussi hanno invece agito collettivamente e portato ad Atene l’alleanza di intere città. Ma il contrasto è meno marcato di quanto qui suggerito: gli esempi di §§47–8 già riguardavano servizi resi da una pluralità di individui (contro i Quattrocento e i Trenta) e onori assegnati collettivamente. La pertinenza alla politica estera accomuna gli esempi seguenti. [2] ἐπὶ τηλικούτων καὶ τοιούτων καιρῶν: l’espressione ribadisce che le azioni di Epicerde e di chi aiutò Atene contro i Quattrocento e i Trenta sono meritevoli (cfr. §§41–7) non per l’enormità dei servizi, ma per il loro contesto. [3] οἵων μικρῷ πρότερον Φορμίων διεξελήλυθε κἀγὼ νῦν εἴρηκα: il nome di Formione appare qui per la prima volta (cfr. poi §§100, 159). Demostene ha ristretto la sua discussione a Leucone ed Epicerde perché Formione ha già parlato abbondantemente di benefattori individuali (e la

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trattazione di Formione potrebbe spiegare l’apparente oscurità della scelta di Epicerde). Già a §2 Demostene mostrò di conoscere i contenuti del discorso di Formione, e di aver tentato col suo discorso di coprire temi che Formione aveva trascurato, o che necessitavano di ripetizione. Queste sparute allusioni sono gli unici indizi per ricostruire la suddivisione degli argomenti tra i synegoroi dell’accusa (vd. comm. §1[7] sulla synegoria; Lavency 1964: 79–95, Rubinstein 2000: 131–47 e Kremmydas 2008: 42–3 sulla divisione dei compiti tra synegoroi). [3] ἀλλὰ καὶ πολλοὺς ἄλλους, οἳ πόλεις ὅλας, τὰς ἑαυτῶν πατρίδας, συμμάχους ὑμῖν […] παρέσχον: Demostene dipinge come benefattori, alla stregua di Leucone o Epicerde, i responsabili delle frequenti staseis che colpirono molte poleis nel V e IV secolo (studiate abbondantemente da Platone e Aristotele, vd. Bertelli 1990). In un contesto polarizzato tra poleis alleate di Atene o filoateniesi e poleis alleate di Sparta o filospartane (vd. sotto), i protagonisti di rivolgimenti e conflitti interni spesso anche violenti (cfr. la stasis di Corcira in Thuc. 3.70–85) sono dipinti come benefattori spinti dalla φιλοτιμία verso Atene. Ma la realtà storica resiste qualsiasi schematizzazione: sebbene spesso fazioni filopopolari avessero tendenze filoateniesi e fazioni oligarchiche avessero tendenze filospartane (sui benefici dell’alleanza con Atene per il demos di molte città vd. soprattutto de Ste. Croix 1954 sul V secolo), talvolta l’allineamento era opposto, e la convenienza e il contesto politico condizionavano gli schieramenti e le alleanze (p. es. de Romilly 1966; Bradeen 1960; Brock 2009). Gli episodi di stasis, per quanto sfruttati da Atene o Sparta, e per quanto le parti coinvolte sfruttassero Atene o Sparta per prevalere, originavano spesso da problemi e diseguaglianze interni alla struttura socioeconomica delle varie poleis. I due studi classici sulla stasis sono Lintott (1982) e Gehrke (1985; cfr. anche de Ste. Croix 1981). Per altri approcci recenti vd. Berent (1998), Fisher (2000), Price (2001), Hansen-Nielsen (2004: 124–30), van Wees (2008) e Gray (2015). [4] ἐπὶ τοῦ πρὸς Λακεδαιμονίους πολέμου: espressione vaga, che può corrispondere, nella periodizzazione corrente, a varie guerre: alla Guerra del Peloponneso come definita da Tucidide, alla precedente guerra con gli Spartani degli anni ’40 del V secolo, alla Guerra di Corinto (395–387) o a confronti successivi. Si trova anche altrove negli oratori, e non si riferisce a una indefinita guerra che abbracciò quasi un secolo (che includa tutti i confronti con gli Spartani fino alla disfatta spartana di Leuttra contro i Tebani), ma piuttosto a particolari guerre, chiare dal contesto (Dem. 22.15: τὸν τελευταῖον γὰρ ἴστε τὸν πρὸς Λακεδαιμονίους πόλεμον; Dem. 9.51: τοῦ τότε πρὸς



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Λακεδαιμονίους πολέμου; [Dem.] 59.35: ὁ καιρὸς δ’ ἐν ᾧ ἐπολεμεῖθ’ ὑμεῖς πρὸς Λακεδαιμονίους τὸν ὕστερον πόλεμον). Qui Demostene non precisa il contesto, ma tutti gli esempi citati nei paragrafi successivi (§§52–5, 59, 60) si riferiscono agli anni ’90 e ’80 del IV secolo, e cioè a episodi della cosiddetta Guerra di Corinto. Nonostante le relazioni tra Atene e Sparta si fossero rilassate dopo Leuttra (cfr. §161), nella memoria degli Ateniesi (che non seguiva la periodizzazione tucididea e dei moderni manuali, cfr. Kremmydas 2008: 284–5) gran parte del periodo più glorioso della storia della città era marcato da guerre contro Sparta, spesso menzionate negli oratori (Pearson 1941: 227–8; in generale su Sparta negli oratori vd. Tigerstedt 1965: 179–206; Nouhaud 1982: 86–7, 151–2, 156, 183–6; Fisher 1994: 355–6). [5] λέγοντες ἃ συμφέρει τῇ πόλει τῇ ὑμετέρᾳ καὶ πράττοντες: l’allusione ai servizi dei benefattori discussi di seguito segue la fraseologia dei decreti onorifici (vd. intr. ppp. 81–6 e Veligianni Terzi 1997: 213–17, 264–5, 282–3 per la formula). 52 [1] ἀναγκάζομαι δὲ λέγειν πρὸς ὑμᾶς ταῦτα ἃ παρ᾽ ὑμῶν τῶν πρεσβυτέρων αὐτὸς ἀκήκοα: per giustificare la sua scelta di parlare di eventi precedenti la sua nascita, a cui alcuni dei giudici avranno assistito o preso parte, l’oratore afferma di essere obbligato dalle circostanze (cfr. Aeschin. 1.37, Andoc. 1.49, Isae. 5.13, Lys. 8.2), e insieme dichiara che sua fonte sono proprio i più anziani tra i concittadini (semplificando, παρ᾽ ὑμῶν, “tra i giudici”; cfr. Aeschin. 2.75–8, 3.191, Dem. 4.24, 19.249, 277, Din. 1.25, Lys. 19.45; Lyc. 1.90). Così Demostene si pone al riparo da accuse di arroganza (per il comportamento appropriato per un giovane oratore vd. Anax. Rhet. ad Alex. 1437a–b; Xen. Mem. 3.6.1; Lys. 16.20 con Edwards and Usher 1985: 257, Kremmydas 2008: 285–6). Ma l’umiltà dell’oratore in questi casi non va sopravvalutata. Pearson (1941: 217–8) p. es. sostiene che attribuire la conoscenza storica agli anziani evita che l’oratore appaia come “a scholar or [...] a particularly diligent student”; Ober (1989: 181) che “allusions to the memory of the older citizens or of one’s own ancestors allowed the orator to avoid assuming the role of an educated man instructing his inferiors” (cfr. Clarke 2008: 249 n. 14; Worthington 1994: 113–4; Wolpert 2003: 540). Ma questa strategia non è dovuta alla necessità di sopprimere la propria conoscenza storica, che non era certo malvista; serve piuttosto a richiamare almeno alcuni tra i giudici a un ruolo attivo di supporto all’argomento; la stessa strategia è utilizzata quando gli oratori si servono della formula “voi tutti siete al corrente…” (cfr. comm. §26[3]). Ritenere inoltre

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queste allusioni puramente prudenziali significa presumere che siano false, che cioè l’oratore tragga le sue informazioni da fonti letterarie che non vuole dichiarare. Ma solo raramente si possono identificare fonti storiografiche dietro agli esempi storici degli oratori (solo a Lys. 2.48–53 e [Dem.] 59.97– 103), mentre gli studiosi hanno riconosciuto che fonti privilegiate erano le tradizioni orali (Thomas 1989: 201–2 e passim; Steinbock 2012: 70–84 e passim). Non soltanto gli oratori, ma gli storici stessi dichiarano di ricavare le loro informazioni dai racconti orali di chi era presente (p. es. Hdt.1.20, 2.52, Thuc. 1.20.1, 1.73.2). Non c’è dunque ragione di dubitare dell’onestà di Demostene sulle sue fonti. Sebbene qualche cautela, dovuta alla giovane età, è riscontrabile nel discorso, questi passaggi non vanno letti come prova che un’eccessiva conoscenza storica fosse considerata elitaria e andasse dunque mascherata di fronte ai giudici (vd. Canevaro [c.d.s c]). [2] ὅθ᾽ ἡ μεγάλη μάχη πρὸς Λακεδαιμονίους ἐγένεto ἡ ἐν Κορίνθῳ …: questi eventi risalgono alla battaglia di Nemea del luglio del 394 (Hamilton 1972, Seager 1994: 102; Pascual 2009: 77 n. 2), secondo le fonti la più grande mai combattuta tra forze greche (e giustamente definita qui μεγάλη). La fonte principale è Xen. Hell. 4.2.16–23; cfr. Diod. 14.83.1–2; Eforo (FGrH 324 F47), Plat. Men. 245e, Andoc. 3.22, Lys. 3.45, IG II2 5222 = RO 7 (una lista di cavalieri caduti nella battaglia) e Schol. Dem. 20.52.130 Dilts che cita come fonte anche Hyp. fr. 96 Jensen, dalla Contro Dionda. Parti di questo discorso sono state riscoperte nel palinsesto di Archimede, e citano la battaglia (Carey, Edwards et al. 2008: 176v, ll. 11–18; Horváth 2014: 152–3) come esempio di vittoria spartana che sarà dimenticata, al contrario delle Termopili, in quanto simbolo dell’avarizia dei Lacedemoni. In questa fase della Guerra di Corinto (Seager 1994 per una sintesi) obiettivo dell’alleanza tra Atene, Tebe, Argo e Corinto era portare la guerra quanto più vicina possibile alla Laconia, come richiesto dal leader corinzio della fazione antispartana Timolao (che questa fazione fosse anche democratica è dubbio: vd. Perlman 1964: 68–69). Ritardi permisero alle truppe spartane di guadagnare Sicione quando quelle dell’alleanza erano ancora a Nemea, e qui si svolse dunque la battaglia, descritta da Senofonte come il trionfo dell’organizzazione spartana contro l’indisciplina tebana. Demostene si concentra sul seguito, senza prestare troppa attenzione al suo esito (cfr. l’uso di τοὺς στρατιώτας dove Senofonte usa οἱ ἡττώμενοι). Senofonte invece è frettoloso riguardo al seguito (Xen. 4.2.23), e menziona soltanto che i Corinzi non lasciarono entrare in città i fuggitivi che tornarono dunque all’accampamento, senza accennare all’iniziativa di una minoranza di aprire le



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porte. Demostene invece adombra un dibattito tra i Corinzi (τῶν ἐν τῇ πόλει βουλευσαμένων; cfr. §53 βίᾳ τῶν πολλῶν) sull’opportunità di aprire le porte. Sia Demostene sia Senofonte costruiscono una cronologia compressa, e non si contraddicono su nessun punto essenziale; non è chiaro quanto tempo sia passato tra la battaglia, la deliberazione dei Corinzi di non ammettere gli Ateniesi e l’apertura delle porte da parte di alcuni dissidenti (Nouhaud 1982: 325). Se tuttavia Demostene si serve qui di fonti orali attendibili, e vista la corrispondenza di massima con Senofonte sulla tempistica, il tutto dev’essere avvenuto rapidamente, probabilmente nello stesso giorno della battaglia (cfr. Kremmydas 2008: 287). La fazione filospartana responsabile del diniego era probabilmente quella dei proprietari terrieri, in quanto Xen. Hell. 4.4.1–7 (cfr. Diod. 14.86; [Andoc.] 3.26) tra le sue cause cita che i campi corinzi, tra quelli dell’alleanza antispartana, erano gli unici a essere stati devastati (Perlman 1964: 69–70). Nel 387, in seguito alla pace di Antalcida, la fazione di Filolao fu esiliata e si rifugiò ad Atene, e le parole di Demostene (cfr. § 54) sono confermate da Senofonte (Hell. 5.1, 34), anche se in termini più favorevoli ai Lacedemoni, che si sarebbero limitati a fare qualche pressione, mentre la decisione degli esuli di lasciare la città sarebbe stata spontanea (vd. Hamilton 1972 e Gehrke 1985: 83–7 su questi anni). 53 [1] ὁρῶντες ἠτυχηκυῖαν τὴν πόλιν: come già a §43, la sconfitta di Atene è definita eufemisticamente “sventura” – l’oratore evita di ricordare esplicitamente agli Ateniesi i loro insuccessi. [2] τῆς παρόδου κρατοῦντας Λακεδαιμονίους: parodos è riferito genericamente alle vie di fuga degli Ateniesi dopo la battaglia, che erano controllate dagli Spartani. Se dunque i dissidenti non avessero aperto le porte, gli Ateniesi sarebbero stati bloccati. Non è necessario cercare maggiore precisione geografica nelle parole di Demostene – l’espressione potrebbe più precisamente riferirsi al passaggio a ovest di Corinto tra la città e il porto di Lechaion, difeso dalle lunghe mura, ma è improbabile che gli Spartani fossero così rapidamente riusciti a controllare questa sezione delle fortificazioni (Salmon 1984: 352–3, a meno che Demostene non faccia confusione con gli eventi del 393 narrati da Xen. Hell. 4.4.6–14, cfr. Kremmydas 2008: 387–8). [3] οὐχὶ προὔδωκαν οὐδ᾽ ἐβουλεύσαντο ἰδίᾳ περὶ τῆς αὑτῶν σωτηρίας: οὐχὶ προὔδωκαν è significativo in questo contesto: la scelta di una minoranza di dissidenti di aprire le porte, contro la decisione della maggioranza (βίᾳ τῶν πολλῶν), è rappresentata come scelta di non tradire gli Ateniesi (non aprire

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le porte sarebbe stato tradimento in quanto Atene e Corinto erano alleate). A §§59–60 invece, quando i benefattori in questione hanno aperto le porte e consegnato (cioè tradito) le loro città agli Ateniesi, il verbo impiegato è il neutrale παραδίδωμι, a deflettere ogni accusa che il loro gesto fosse prodosia, ‘tradimento’. Come Epicerde (cfr. §43), gli esuli corinzi non badarono alla loro salvezza individuale, nonostante le circostanze, ma aiutarono gli Ateniesi a prescindere dalle loro sventure. Non è chiaro se le porte furono aperte contro la decisione della maggioranza, o se la decisione precedente fu rivista successivamente (cfr. Hamilton 1972: 25–6, Salmon 1984: 353). Senofonte ignora l’episodio. [4] ἀλλὰ πλησίον ὄντων μεθ᾽ ὅπλων ἁπάντων Πελοποννησίων: Demostene esagera nel rappresentare l’armata nemica come composta da tutti i Peloponnesiaci (prima aveva menzionato soltanto gli Spartani) – tra i Peloponnesiaci almeno Argo era alleata di Atene. Tra gli alleati di Sparta c’erano tuttavia numerose città peloponnesiache: Senofonte (Hell. 4.2.16) menziona Elide, Sicione, Epidauro, Troizen, Ermione, Halieis e molte altre. [5] βίᾳ τῶν πολλῶν: Demostene sembra elogiare i dissidenti corinzi per aver ignorato la decisione della maggioranza e avere forzato la mano (espressioni simili a βίᾳ τῶν πολλῶν sono spesso negative: p. es. Isoc. 10.32, Xen. Hell. 3.1.21), un’azione non democratica (Kremmydas 2008: 288–9). D’altro canto i Corinzi erano alleati di Atene. Abbandonare gli Ateniesi dopo la sconfitta e cercare un accordo con gli Spartani senza curarsi degli alleati sarebbe dunque stato tradimento. I dissidenti dunque, dal punto di vista ateniese, forzarono la città a fare la cosa giusta, e la loro opposizione al tradimento della maggioranza è presentata da Demostene come prova del loro coraggio, che merita dunque di essere ricompensato. 54 [1] ἐπειδὴ δ᾽ ἡ πρὸς Λακεδαιμονίους εἰρήνη μετὰ ταῦτ᾽ ἐγένετο, ἡ ἐπὶ Ἀνταλκίδου…: la Pace di Antalcida, detta anche Pace del Re (Xen. Hell. 5.1.31, 34; Diod. 14.110.2–4; cfr. Isoc. 8.16) pose fine alla Guerra di Corinto. Fu preparata da Tiribazo una volta ritornato a Sardi nel 388, negoziata da Antalcida a Susa, alla corte di Artaserse, e stipulata a Sardi nel 387 dai rappresentanti delle parti in causa (Xen. Hell. 5.1.31). Il Gran Re offrì alleanza a tutti coloro che ne avessero accettato i termini e promise di combattere chi li rifiutasse. Il giuramento avvenne a Sparta nel 386. I termini dell’accordo comportavano la sottomissione al Gran Re di tutti i Greci d’Asia, con Clazomene e Cipro, mentre le altre città, eccetto Lemno, Imbro e



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Sciro che sarebbero rimaste ad Atene, vennero dichiarate libere. Gli Spartani svolsero negli anni successivi, come alleati del Gran Re, il ruolo di prostatai, guardiani della pace, conservando quindi l’egemonia (Seager 1974; Sinclair 1978; Cawkwell 1981; Badian 1991; sul concetto di koine eirene Momigliano 1966; Canfora 1991). Demostene, nel passare dalla battaglia di Nemea alla pace di Antalcida, ignora i sette anni durante i quali i dissidenti corinzi controllarono la città, e sostiene che furono esiliati a seguito delle loro azioni dopo la battaglia di Nemea. Ma in questi sette anni il partito proateniese a Corinto si macchiò di atrocità (cfr. il massacro del 392: al festival delle Euclee attaccò i sostenitori degli Spartani e molti membri delle classi abbienti furono uccisi in modo sacrilego; Xen. Hell. 4.4.2–5) che dovettero causare il loro esilio dopo la pace di Antalcida. D’altro canto non va dubitato che le loro posizioni proateniesi siano state fattore fondamentale per il loro esilio – in seguito alla pace Corinto si alleò nuovamente con Sparta (Xen. Hell. 5.1.36; sulla stasis corinzia dopo Nemea, e nel periodo 395–386, vd. Hamilton 1972 e Gehrke 1985: 83–7) [2] ὑποδεξάμενοι δ᾽ ὑμεῖς αὐτοὺς ἐποιήσατε ἔργον ἀνθρώπων καλῶν κἀγαθῶν: l’eccellenza degli Ateniesi è espressa attraverso la locuzione ἀνθρώπων καλῶν κἀγαθῶν, che nell’etica greca rappresenta la perfezione morale, e in un contesto cittadino la perfetta virtù civica (sulle origini e lo sviluppo del concetto vd. Wankel 1961; Donlan 1973; Dover 1974: 41–5; Adkins 1960: 236, 336–7; Bourriot 1995 con le critiche di Cairns, CR 47 [1997] 74–6; Roscalla 2004). Gli Ateniesi dimostrano la loro kalokagathia accogliendo gli esuli corinzi, che aiutarono i soldati ateniesi dopo Nemea. Gli Ateniesi consideravano la propensione a schierarsi dalla parte dei più deboli un elemento fondamentale del loro ethos (cfr. Thuc. 6.18, 2; 6.87, 2; Andoc. 3.28; Isoc. 4.52–65; Dem. 15.22; Aesch. Suppl., Soph. Oed. Col., Eur. Suppl, Heracl., Lys. 2.11–15, Isoc. 4.56, Dem. 60.8, 32 con comm. §3[6]). Atene accolse esuli filoateniesi da varie città: i Plateesi nel 427 (Thuc. 3.55 con Canevaro 2010) e nel 375 (Xen. Hell. 6.3.1), i Tebani nel 386 (Plut. Pelop. 6), i Mantineesi (IG II2 33 ll. 7–8), i Tessali (IG II2 545 ll. 8–15) e i Tasi e i Bisanzii (§§58–61). Gli esuli così accolti sarebbero diventati importanti strumenti politici al prossimo rivolgimento costituzionale nelle loro rispettive città (cfr. Kremmydas 2012: 290). [3] τοῖς σκοπουμένοις: Dobree espunge questa locuzione come glossa, seguito da Butcher e Dilts. Sykutris la mantiene, ma la indica in apparato come probabilmente da espungere (cfr. Vömel 1866: 75). Weil propone τοῖς

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οὑτωσὶ σκοπουμένοις (cfr. §18: ἔστι δὲ τοῦτο οὑτωσὶ μὲν ἀκοῦσαι). La locuzione non è incongrua, è conservata coerentemente da tutta la tradizione manoscritta e, come notato da Kremmydas (2008: 291), richiama σκοποῦμεν del periodo precedente. È più prudente dunque conservarla. [4] πάλαι γὰρ ἐσκέφθαι ταῦτα καὶ ἐγνῶσθαι προσῆκεν: Demostene sostiene ancora che il momento appropriato per valutare i meriti di un benefattore sia all’epoca dei fatti, non anni dopo, da parte di chi non era presente (cfr. §§49 e 56). 55 [1] ἃ μὲν ἐψηφίσασθε τοῖς φεύγουσιν δι᾽ ὑμᾶς Κορινθίων ταῦτ᾽ ἐστίν: diversamente da Leucone, Epicerde e in seguito dai Tasi e dai Bisanzii, da Conone e da Cabria, Demostene non riassume gli onori specifici accordati agli esuli corinizi. Si limita a richiedere la lettura del decreto, che presumibilmente discuteva le loro azioni e menzionava l’ateleia. [2] εἴ τις ἐκείνους τοὺς καιροὺς εἰδώς, ἢ παρὼν ἤ τινος εἰδότος διεξιόντος ἀκούσας: εἰδώς si trova solo in A e in P in correzione. La lezione ἰδών dei codici SFYPa non dà senso – creerebbe un cortocircuito per cui Demostene si rivolgerebbe a chi tra gli Ateniesi ha visto “perché era presente o perché ne ha sentito parlare da un testimone oculare” (pace Dilts). Per questo Blass, che accoglie ἰδών, espunge ἢ παρὼν, legando così ἰδών a ἤ τινος εἰδότος διεξιόντος ἀκούσας (pace Kremmydas 2008: 291). Butcher espunge ἢ παρὼν ma accoglie εἰδώς, scelta a questo punto non necessaria. Si segue Sykutris e Navarre-Orsini e si opta per εἰδώς di APc senza espungere. Kremmydas (2008: 291) vuole espunge ἢ prima di παρὼν, il che, se si accoglie εἰδώς, è innecessario. [3] ὅσην ἂν κακίαν τῶν θεμένων τὸν νόμον καταγνοίη: il plurale τῶν θεμένων τὸν νόμον indica che il biasimo non ricadrà soltanto sul proponente della legge, Leptine, ma sugli Ateniesi tutti, che l’hanno promulgata. [4] οἳ παρὰ μὲν τὰς χρείας οὕτω φιλάνθρωποι καὶ πάντα ποιοῦντες, ἐπειδὴ… οὕτως ἀχάριστοι καὶ κακοί: la terminolgia è la stessa usata a §§8–16 e in seguito (ἀχάριστοι καὶ κακοί) per richiamare le implicazioni morali della legge. Con χρεία Demostene allude a §§41–50, dove ha mostrato come nei momenti di estrema necessità la città può sopravvivere soltanto grazie ai benefattori. Qui mette in evidenza l’ipocrisia di essere disposti a tutto nella necessità, e rimangiarsi la parola data quando l’emergenza è terminata. Altrove ha chiarito che essere ἀχάριστοι nel lungo periodo porta all’assenza di benefattori nei contesti di χρεία.



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[5] ὥστε τούς τ᾽ ἔχοντας ἀφῃρήμεθα καὶ τὸ λοιπὸν μηδενὶ δοῦναι ταῦτ᾽ ἐξεῖναι νόμον τεθείκαμεν: la parafrasi del dettato della legge (cfr. §2) pone in risalto che queste considerazioni sono direttamente rilevanti per la scelta di abrogare la legge. 56 [1] “νὴ Δί᾽ ἀνάξιοι γάρ τινες τῶν εὑρημένων ταῦτ᾽ ἦσαν”· τουτὶ γὰρ παρὰ πάντ᾽ ἔσται τὸν λόγον αὐτοῖς: a §1 questo era presentato come l’argomento principale della difesa. L’impressione che questo sia l’unico argomento di Leptine e dei suoi synegoroi è rafforzata dalla ripetizione. Il νὴ Δία enfatico all’inizio dell’obiezione (cfr. MacDowell 2009: 402–3 e 405) dà un tono quasi ridicolo all’affermazione dei difensori della legge. [2] ὅτι τὴν ἀξίαν, ὅταν διδῶμεν, δεῖ σκοπεῖν, οὐ μετὰ ταῦθ᾽ ὕστερον χρόνῳ παμπληθεῖ: come a §§49 e 54, per Demostene il merito va valutato quando si ricevono i benefici, non anni dopo. [3] τὸ μὲν γὰρ ἐξ ἀρχῆς τι μὴ δοῦναι γνώμῃ χρησαμένων ἔργον ἀνθρώπων ἐστί· τὸ δὲ τοὺς ἔχοντας ἀφαιρεῖσθαι φθονούντων: con questa sentenza gnomica Demostene spiega perché i meriti dei benefattori vadano valutati all’epoca delle loro azioni. Come già affermato a §§8–16 (cfr. intr. pp. 86–92), togliere le ricompense assegnate può essere interpretato come φθόνος, ed è importante che la città non abbia questa doxa, che minerebbe la sua pistis, e la lascerebbe priva di benefattori. Al contrario decidere di non accordare una ricompensa dopo aver valutato, all’epoca dei fatti, i meriti di un benefattore fa parte delle normali prerogative del demos. La γνώμη (cfr. §§118 e 165) qui è il “giudizio”, l’intelligenza nel valutare opzioni (cfr. Thuc. 2.65.8 sulla γνώμη di Pericle; vd. Yunis 1996: 73), la buona decisione presa da una corte o dall’assemblea (cfr. Andoc. 1.140, Dem. 21.108) attaverso riflessione e deliberazione (vd. De Romilly 1962: xviii–xxii sulla contrapposizione tra γνώμη e ὀργή). 57 [1] ἐγὼ γὰρ οὐ τὸν αὐτὸν τρόπον νομίζω πόλει τὸν ἄξιον ἐξεταστέον εἶναι καὶ ἰδιώτῃ: diversamente da §9 (cfr. §§102–3, 136), Demostene sostiene qui che standard differenti vadano applicati nel pubblico e nel privato (cfr. comm. §10[3]). [2] οὐδὲ γὰρ περὶ τῶν αὐτῶν ἡ σκέψις: la contrapposizione tra pubblico e privato è applicata a §9 agli standard comportamentali degli Ateniesi, a §44 ai beni dei benefattori. Qui è sfruttata per descrivere i corretti standard di valutazione quando si assegna un onore. Il retroterra, il carattere, la vita del

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benefattore sono irrilevanti in questo caso. L’unico criterio sono le azioni (ἔργῳ) del benefattore nei confronti della città (ὅστις ἂν αὐτὸν εὖ ποιῇ καὶ σῴζῃ). Altri criteri, la nascita o la fama (τοῦτο δ᾽ οὐ γένει καὶ δόξῃ ἴδοι τις ἄν) sono ignorati quando la città riceve un servizio (Atene accetta servizi da chiunque sia disponibile), e quindi non vanno presi in considerazione nell’accordare ricompense. Questo ragionamento, col suo rifiuto di considerare l’oscurità o la povertà di un benefattore, avrà risuonato nella coscienza democratica dei giudici (cfr. Thuc. 2.37.1: “ma quanto alla reputazione di ognuno, il prestigio di cui possa godere chi si sia affermato in qualche campo non lo si raggiunge in base allo status sociale di origine, ma in virtù del merito; e poi, d’altra parte, quanto all’impedimento costituito dalla povertà, per nessuno che abbia le capacità di operare nell’interesse dello Stato è di ostacolo la modestia del rango sociale”). [3] ἰδίᾳ μὲν γὰρ ἕκαστος ἡμῶν σκοπεῖ κηδεστὴς ἢ τῶν τοιούτων τι γίγνεσθαι, ταῦτα δὲ καὶ νόμοις τισὶ καὶ δόξαις διώριστα: la scelta di questo esempio di pratica privata è oculata: la scelta di un genero (κηδεστής) dipendeva da considerazioni utilitaristiche, come il retroterra familiare (γένει) e la ricchezza (sul matrimonio in Grecia vd. Cox 1998 e Vérilhac-Vial 1998). Era guidata da opinioni e da consuetudini (νόμοις τισὶ καὶ δόξαις) radicate nel pubblico, ovvie senza necessità di spiegazioni, e al contempo antitetiche all’ethos democratico. La scelta di un marito per una figlia (i giudici erano maschi adulti) dipendeva dalla valutazione se un candidato fosse “degno”, il che rende il parallelo con l’argomentazione di Leptine che gli ateleis non sono degni dei loro onori semplice e diretto. Questa facile analogia dà modo a Demostene di associare le affermazioni di Leptine sugli ateleis a considerazioni tipiche di un contesto privato e utilitaristico, legato alla ricchezza e alla classe sociale, che non corrisponde agli ideali democratici che guidano il demos nella vita pubblica. [4] νόμοις: νόμος qui non significa “legge scritta”, ma “consuetudine”. Sui significati di νόμος vd. Ostwald (1969), Garner (1987: 19–26), Todd-Millett (1990: 11–12), Harris (2006: 44–61). 58 [1] ἀλλὰ νὴ Δί᾽ οὗτοι μόνοι τοῦτο πείσονται, καὶ περὶ τούτων μόνων ποιοῦμαι λόγον τοσοῦτον: per un’obiezione, attribuita qui a un ipotetico giudice, introdotta da νὴ Δία enfatico vd. comm. §3[1] e MacDowell 2009: 402–3 e 405.



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[2] πολλοῦ γε καὶ δέω. ἀλλὰ πάντας μὲν οὐδ᾽ ἂν ἐγχειρήσαιμι ἐξετάζειν…: con un’estesa paraleipsis Demostene dà l’impressione che ci siano un’infinità di esempi rilevanti che non ha tempo di discutere, per cui ne userà soltanto due (i decreti saranno letti dal grammateus a §63), sufficienti a provare che la legge di Leptine non investirà soltanto i Corinzi. πολλοῦ γε καὶ δέω è tipico di Demostene (p. es. Dem. 5.24, [Dem.] 13.30; cfr. anche la forma impersonale a §§21, 106, Dem. 9.19, 10.3, 13.28, 14.39, 18.47, 300, 308, 19.100, 138, 158, 307, 21.71, 123, 23.31, 34, 165, 25.84, 29.40, 42.25); qui è contrapposto a μόνοι e μόνων dell’ipotetica obiezione (vd. Kremmydas 2008: 294). 59 [1] τοῦτο μὲν τοίνυν Θασίους τοὺς μετ᾽ Ἐκφάντου πῶς οὐκ ἀδικήσετε […] καὶ Θρασύβουλον εἰσαγαγόντες: la storia delle relazioni tra Taso e Atene, e dell’intermittente controllo Ateniese sull’isola e sulla sua peraia tracica, abbondante in oro, legname, grano e vino, e dunque assai importante per gli interessi ateniesi (vd Isaac 1986: 1–51), comincia al termine delle Guerre Persiane, quando Taso entra nella Lega Delio-Attica. L’isola si ribellò nel 465, ma fu sottomessa da Atene, presumibilmente nel 463 (Thuc. 1.101–3; per la datazione della rivolta vd. Badian 1993: 6–7). Nel 411 Taso si ribellò nuovamente, e la storia di queste ribellioni è collegata a frequenti staseis interne (Xen. Hell. 1.4.9, Diod. 13.72.1–2: nel 407 la fazione filoateniese ottiene nuovamente il controllo dell’isola, per perderlo con la sconfitta ateniese del 404; sulle successive staseis vd. Gehrke 1985: 159–64). Gli eventi a cui Demostene fa riferimento sono quelli della campagna di Trasibulo di Stiria, l’eroe di File (PAA s.v. Θρασύβουλος n. 517010), nell’Egeo settentrionale all’inizio del 390 (Beloch 1912–27: vol. 3, 1, p. 90, Seager 1994: 114, e Buckler 2003: 159 sulla datazione; per opinioni discordanti cfr. Cawkwell 1976: 274 ss.; pace Sandys 1890: 55–6, che data questi eventi al 409), nel corso della quale Atene recuperò Taso. In seguito alla morte di Conone (vd. Buck 1998: 109–110; Asmonti 2014: 174–9), gli Ateniesi si volsero a Trasibulo (avversario di Conone; vd. Seager 1967; Strauss 1984; Buck 1998: 95–115) l’unico generale superstite che avesse ottenuto vittorie significative (Buck 1998: 114). Trasibulo fu messo a capo di una flotta di quaranta navi con cui fece vela per Rodi, che non necessitava però di alcun aiuto (Xen. Hell. 4.8.25). Si diresse quindi verso l’Ellesponto, dove “pensò di fare qualcosa di buono per la città” (Xen. Hell 4.8.26). Questo passo identifica alcune imprese di Trasibulo in questa campagna (anche Diod. 14.94.2 è generico; per la campagna in generale vd. Seager 1967; Cawkwell 1976; Strauss 1984: 45–46; Buck 1998: 115–118): conquistò Taso con l’aiuto del-

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la fazione democratica locale, guidata da Ecfanto. Ecfanto ci è noto solo da un’iscrizione, IG II2 33, che accorda agli esuli tasii l’ateleia, e nomina accanto a Ecfanto anche un Nausinico che non è menzionato da Demostene. Questa è probabilmente l’iscrizione citata a §63. Per una datazione del decreto al 385, proprio in questo contesto, vd. Perlman (1958: 188, n. 4) e Chamoux (1959), mentre Pouilloux (1954) pensa che Ecfanto sia andato in esilio nel 404/3 e data il decreto a quell’epoca; Gerolymatos (1987) sostiene che Ecfanto fu esiliato nel 404/3, ottenendo la prossenia di Atene, e sia ritornato in seguito alla liberazione di Taso dalla guarnigione spartana, a opera di una nuova generazione di democratici, nel 390/89, per essere nuovamente cacciato con loro nel 385. Osborne (1981–3: II, 48–57) ha postdatato il decreto al 375, nell’ambito del recupero di Taso a opera di Cabria verso il 375. Un altro decreto probabilmente congruente con la situazione richiamata da Demostene è Agora Inv. I 7534, datato da Walbank (1995) al 385 o al 375. [2] οἳ παραδόντες ὑμῖν Θάσον: παραδίδωμι (“consegnare”), invece del più ovvio προδίδωμι (“tradire”), utilizzato nelle fonti storiografiche (cfr. Diod. 13.66.6, Xen. Hell. 1.3.1), evita di gettare qualsiasi ombra sulle azioni dei dissidenti Tasii e Bisanzii (cfr. §§60–1). L’uso di questo verbo è deliberato (cfr. §53, dove non aprire le porte di Corinto è invece un tradimento) – quando a §63 Demostene parla di chi ha consegnato Pidna a Filippo, troviamo invece οἱ προδόντες τὴν Πύδναν καὶ τἄλλα χωρία τῷ Φιλίππῳ. [3] καὶ τὴν Λακεδαιμονίων φρουρὰν μεθ᾽ ὅπλων ἐκβαλόντες: dopo la Guerra del Peloponneso Sparta consolidò la sua posizione imperiale attraverso la creazione di guarnigioni nei territori da lei controllati (Aeschin. 2.77, Dem. 18.96 sulla guarnigione ad Atene; Xen. Hell. 4.3.15 sulla guarnigione a Orcomeno; 2.2.5 su quella a Mitilene; Din. 1.39, Xen. Hell. 5.2.25–31 e Diod. 15.20.2 su quella a Tebe), con a capo armosti spartani (vd. Bockisch 1965, Cartledge 1987: 92–3; Cuscunà 2007). Queste guarnigioni diventarono il simbolo dell’oppressione spartana, per cui è utile per Demostene menzionare che Ecfanto e i dissidenti tasii riuscirono a espellere quella che controllava la loro isola: così li dipinge non soltanto come amici di Atene, ma come liberatori della loro patria. [4] καὶ παρασχόντες φίλην ὑμῖν τὴν αὑτῶν πατρίδα αἴτιοι τοῦ γενέσθαι σύμμαχον τὸν περὶ Θρᾴκην τόπον ὑμῖν ἐγένοντο: che la mediazione dei Tasii portò a un’alleanza con una regione della Tracia è confermato da Xen. Hell. 4.8.2, che parla della mediazione tra Amedoco e Seute che sfociò nell’alleanza dei due dinasti e con Atene. Ma Demostene semplifica (Krem-



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mydas 2012: 296): l’alleanza di Taso (e di Bisanzio) avrà certo facilitato il controllo di vasta parte della Tracia (che va però datato a uno specifico momento nel 390, cfr. Xen. Hell. 4.8.26–7). Ma il controllo della regione, così come quello di Taso e Bisanzio, sarà stato effetto della pressione militare di Trasibulo, piuttosto che delle azioni di Ecfanto e dei democratici tasii. 60 [1] τοῦτο δ᾽ Ἀρχέβιον καὶ Ἡρακλείδην, οἳ Βυζάντιον παραδόντες Θρασυβούλῳ: Bisanzio fu nel V secolo parte della Lega Delio-Attica (Thuc. 2.9.4; si rivoltò una prima volta intorno al 440: Thuc. 1.115), ma come Taso, in seguito a una stasis, si ribellò nel 411 (Thuc. 8.80). Nel 408 gli Ateniesi, guidati da Alcibiade, recuperarono la città, che fu loro consegnata durante un assedio (Xen. Hell. 1.3.2–22, Diod. 13.64.3, 66.4–67.7), ma con la sconfitta del 404 la città fu nuovamente persa. L’importanza di Bisanzio era legata alla sua posizione sulla rotta del grano, che controllava l’accesso al Mar Nero e al Bosforo (vd. comm. §31[1]). Per mantenere questa rotta sicura le fonti attestano per il V secolo l’esistenza “Guardiani dell’Ellesponto”, navi Ateniesi stanziate a pattugliare le acque degli stretti, decidere quali navi potessero passare, e assicurare la sicurezza dei trasporti di grano (IG I3 61, ll. 32–41 con Reed 2003: 48; Moreno 2007: 166; Gabrielsen 2007: 291–2, 304). Demostene afferma che il controllo di Bisanzio rese gli Ateniesi padroni dell’Ellesponto. Gli eventi a cui Demostene fa riferimento seguirono immediatamente quelli del paragrafo precedente: dopo essersi impadronito di Taso, Trasibulo veleggiò per Bisanzio e ne prese il controllo nel 390 (Xen. Hell. 4.8.27). Atene poté così rinsaldare i rapporti commerciali con gli Spartocidi, iniziati verso la fine della Guerra del Peloponneso ma probabilmente interrotti dopo la sconfitta ateniese (cfr. Burke 1990: 6; Moreno 2007: 302). La città fu consegnata dalla fazione democratica, guidata da Archebio, citato come benefattore anche a Dem. 23.189, ed Eraclide, forse lo stesso Eraclide di un frammento di iscrizione attica, probabilmente un decreto onorifico: IG I3 227. Foucart (1888) e Stockton (1959: 74–9) identificano questo Eraclide con quello citato da Demostene, mentre Kohler (1892: 68–78), Wade-Gery (1958: 207–8), Walbank (1982), Rhodes (2006: 113–14, 115), Knoepfler (2001: 57) e Kremmydas (2012: 296–7) ritengono che il decreto si riferisca a Eraclide di Clazomene, soprannominato basileus per via dei suoi rapporti con il Gran Re, e che vada datato al 424/3 (ma vd. Stolper 1983: 223–36, che mostra sulla base di materiale babilonese che questa datazione è impossibile; cfr. Lewis 1992: 422 n. 132). Vari argomenti sono stati portati tuttavia a supporto di una datazione di IV secolo (tanto dell’iscrizione quanto del

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decreto; Wade-Gery ritenne l’iscrizione una reiscrizione di un decreto di V secolo), soprattutto da Funke (1980: 64 n. 52), Harris (1999) e Culasso Gastaldi (2004: 35–55), per cui l’identificazione dell’Eraclide dell’iscrizione con quello di Demostene è ancora la più probabile. Il decreto andrebbe datato tra il 389 e il 386, ed è possibile che sia quello letto dal grammateus a §63, in quanto l. 21 assegna a Eraclide l’ateleia. Archebio e Eraclide e i loro seguaci consegnarono la città a Trasibulo, che fu accolto dalla popolazione con entusiasmo (Xen. Hell. 4.8.27). La tappa successiva dovette essere Calcedone e in totale Trasibulo dovette ottenere alleanze con almeno una dozzina di città dell’Egeo settentrionale (Cawkwell 1976: 270; Strauss 1984: 45). Il suo obiettivo dovette essere il ripristino dell’impero ateniese (Cawkwell 1976: 270–271; Buck 1998: 117), cfr. le misure economiche imposte nell’area: alla decima appaltata ai Bisanzii di §60 va aggiunto il tributo del 5% imposto a Taso e Clazomene (IG II2 24). La campagna di Trasibulo terminò nell’estate del 389, quando Trasibulo fu ucciso dagli abitanti di Aspendo in un’incursione notturna nel suo campo (Xen. Hell. 4.8.21; Diod. 14.94, 99; cfr. Buck 1998: 118). Indebolito dalla perdita di venti navi a in una tempesta (Diod. 14.94.3), si stava probabilmente dirigendo verso Rodi, dove inaspettatamente i filospartani avevano avuto la meglio (Diod. 14.99.4; cfr. Seager 1967: 110) [2] ὥστε τὴν δεκάτην ἀποδόσθαι: la dekate era una tassa del 10% su tutti i traffici negli stretti, in entrata e in uscita, introdotta da Alcibiade nel 410 con la fondazione di Crisopoli (Xen. Hell. 1.1.22; vd. Harris 1999; Gabrielsen 2007: 293, 310). Xen. Hell. 4.8.27 conferma che fu reintrodotta nel 390/89 da Trasibulo. Xen. Hell. 5.1.28 tuttavia attesta che nel 387 l’area del Bosforo era controllata da Antalcida, per cui Atene non poté riscuoterla per molto (cfr. Stroud 1998: 83), e certamente non dopo la Pace di Antalcida. Fu poi reintrodotta molto più tardi, nel 220, dai Bisanzii stessi (Pol. 4.46.6, 52.5). Ad Atene la tassa era appaltata al miglior offerente, che si occupava di riscuoterla e consegnava al tesoro ateniese la cifra pattuita (vd. Gabrielsen 2007: 293–7 e passim; sul funzionamento di queste tasse vd. Andoc. 1.133–4, sulla tassa del Pireo, e [Arist.] Ath. Pol. 47.2 con Vélissaropoulos 1980: 214–15 e in generale Migeotte 2015: 248–64, 452–8– 509–12). [3] Λακεδαιμονίους ἀναγκάσαι τοιαύτην, οἵαν ὑμῖν ἐδόκει, ποιήσασθαι τὴν εἰρήνην: Agirrio di Collito sostitutì Trasibulo senza ottenere risultati di rilievo (Xen. Hell 4.8.31). Nel frattempo la Persia, allarmata dal risorgente impero ateniese, fece accordi con Sparta e fornì ai Lacedemoni una flotta con cui veleggiarono per l’Ellesponto e conseguirono, per mano di



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Antalcida, un’importante vittoria (Xen. Hell. 5.1.6–7). In questo contesto gli Ateniesi accettarono la Pace del Re, rinunciando alle rinnovate velleità imperialistiche e alle conquiste degli anni precedenti, e acconsentendo agli stessi termini che avevano rifiutato nel 392 (Vince 1983: 553–5; Buck 1998: 119). L’affermazione di Demostene che gli Spartani furono obbligati ad acconsentire a condizioni più vantaggiose per gli Ateniesi (§60) non ha fondamento, ma è strumentale ad accentuare l’importanza dell’aiuto degli esuli Tasi e Bisanzii e a rappresentare Atene come vincente (vd. Nouhaud 1982: 326–8). Demostene tace la resa ai Persiani delle città dell’Asia Minore, che altrove è invece sottolineata (p. es. Isoc. 12.106, Dem. 23.140) in funzione antispartana. [4] μετὰ ταῦτ᾽ ἐκπεσόντων ἐψηφίσασθε ἅπερ, οἶμαι, φεύγουσιν εὐεργέταις δι᾽ ὑμᾶς προσῆκε, προξενίαν, εὐεργεσίαν, ἀτέλειαν ἁπάντων: gli onori definiti qui come “appropriati” sono quelli tipicamente assegnati ai benefattori stranieri (Osborne 1981–3: III/IV, 147–150). προξενία e εὐεργεσία si trovano normalmente insieme nei decreti onorifici (Henry 1983: 116–62; Mack 2015: 38–42; il titolo di euergetes è anch’esso fino al III secolo riservato agli stranieri, vd. Gauthier 1985: 10, 13–14, 16, 27; Engen 2010: 49; Mack 2015: 39–41 e intr. pp. 82–3). Se il titolo di euergetes era tuttavia semplicemente onorifico, quello di proxenos comportava compiti per lo straniero che entrava in una sostenuta relazione di charis con la città (Engen 2010: 47–53), e doveva rappresentare nella sua città di origine gli interessi di Atene, e proteggere gli interessi dei residenti e dei mercanti ateniesi (sulla prossenia vd. Osborne 1981–3: III/IV, 142–143; Herman 1987: passim e particolarmente 132–42, Culasso Gastaldi 2004, Engen 2010: 146– 55, Mack 2015; cfr. Gschnitzer 1974; Walbank 1978; Marek 1984; Gauthier 1985: 131–50). La prossenia è stata interpretata come una evoluzione e istituzionalizzazione della xenia tra aristocratici, diventata in epoca classica e ellenistica centrale nella diplomazia tra città e nelle relazioni estere (cfr. Herman 1987: 130–42 e Mitchell 1997: 28–31, 35–7). Henry (1983: 245–6, cfr. Kremmydas 2012: 300) sostiene che, vista la rarità dell’espressione ἀτέλειαν ἁπάντων (attestata solo in IG II3 1 393, ll. 4–5; cfr. [Arist.] Ath. Pol. 42.5), e il fatto che nell’iscrizione superstite per i Tasii (IG II2 33) troviamo l’espressione τ[ὴν ἀτέλει]αν καθά[περ Μ]αν[τ]ινε[ῦ] σιν [ἦν (cfr. gli onori per Eraclide di IG I3 227, dove troviamo ἀ]τέλειαν καθάπ[ερ…), l’esenzione in questione sia soltanto dal metoikion, e non da ogni contribuzione (intr. pp. 55–6 sull’ἀτέλεια ἁπάντων). MacDowell (2004: 128) osserva invece che ateleia senza qualifica indicava probabil-

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mente un’ἀτέλεια ἁπάντων (cfr. Migeotte 2014: 464). Qui, senza informazioni sull’ateleia dei Mantineesi, sulla base della quale è definita quella dei Tasi e di chiunque altro sia menzionato nel decreto per Eraclide, è difficile stabilire da cosa gli esuli tasii e bisanzii fossero esentati (vd. Knoepfler 2001: 57–8), ed era presumibilmente impossibile stabilirlo per i giudici, per cui Demostene, data anche la confusione sull’ateleia abolita da Leptine (intr. pp. 55–63), può citare questi decreti senza timore di smentita. Le esenzioni qui citate sono probabilmente le più importanti, e non una lista esaustiva: IG II2 33 è molto frammentario, e si legge che fu accordata l’ateleia, ma IG I3 227 ha anche γῆς ἔγκτησιν e probabilmente οἰκίας. [5] μηδὲν ἔχοντες ἐγκαλέσαι; ἀλλ᾽ αἰσχρὸν ἂν εἴἐη: come chiarito a §46, la rottura del rapporto fiduciario del benefattore con la città è l’unica ragione per cui i benefici possono essere aboliti, altrimenti l’abolizione dell’ateleia è vergognosa (αἰσχρόν). 61 [1] μάθοιτε δὲ τοῦτο μάλιστ᾽ ἄν, ἐκείνως εἰ λογίσαισθε πρὸς ὑμᾶς αὐτούς: l’importanza dei benefattori tasii e bisanzii è evidenziata con un paragone attualizzante: Demostene chiede ai giudici di immaginare una situazione analoga con protagonisti dissidenti di Pidna e Potidea e dei territori vicini (presumibilmente Anfipoli). La brillante analogia spinge i giudici a calarsi nei panni di chi onorò gli esuli corinzi e tasi, e a testare gli argomenti di Leptine se applicati a un tema che sta ora a cuore degli Ateniesi. [2] εἴ τινες νυνὶ τῶν ἐχόντων Πύδναν ἢ Ποτείδαιαν ἤ τι τῶν ἄλλων χωρίων, ἃ Φιλίππῳ μέν ἐστιν ὑπήκοα…: sono questi i primi rapporti di Atene con il nuovo sovrano macedone, Filippo, succeduto al fratello Perdicca nel 360/59 (Diod. 16.2.1–3; cfr. Griffith 1979: 208–29: estate 359; Hatzopoulos 1982: autunno 360; Hammond 1989: 137, n. 1 rivaluta l’opinione di Griffith). Giustino (7.5.6–10) pare affermare che Filippo prima fu reggente per conto di Aminta, il figlio di Perdicca, ma non è considerato affidabile (Ellis 1971 e Griffith 1979: 208–209, 702–703). Questa è la prima menzione in un discorso demostenico di Filippo, che non è ancora rappresentato come il nemico principale di Atene – questo tema sarà introdotto qualche anno dopo con le Olintiache e le Filippiche. Demostene considera qui Filippo, come i suoi predecessori, soltanto un potentato locale (cfr. Dem. 23 passim), ma il suo controllo di Pidna e Potidea è visto come un problema centrale per la politica estera ateniese. Filippo all’inizio del suo regno dovette fronteggiare, oltre alle fragili frontiere minacciate da Illiri e Peoni, vari pretendenti al trono, tra i quali Pausania, sostenuto da un re tracio, e Argeo,



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sostenuto dagli Ateniesi. Filippo comprò la neutralità di Cotys, il re tracio, indebolendo le pretese di Pausania. Tentò inoltre di instaurare buoni rapporti con Atene ritirando la guarnigione insediata da Perdicca ad Anfipoli (Diod. 16.3.3–6). Anfipoli era diventata un’ossessione ateniese: fondata da Atene nel 437/6 a cavallo dello Strimone (Thuc. 1.100, 4.102; Diod. 12.35), fonte essenziale di legname e metalli preziosi (Thuc. 4.105, 108), era poi caduta in mani spartane nel 424 a opera di Brasida (Thuc. 4.105–106) e da allora, con l’eccezione dei primissimi anni del IV secolo, campagne per riprenderne il controllo si erano succedute senza successo (vi si erano cimentati Ificrate e Timoteo; vd. Graham 1964: 199–206; Cawkwell 1978: 69–76; Harris 1995: 42–43). Nonostante il gesto conciliante di Filippo, gli Ateniesi sostennero Argeo fino allo sbarco a Metone, ma non lo seguirono nell’interno, e Argeo fu sconfitto a Ege (Diod. 16.3.3–6; Momigliano 1987: 42; Cawkwell 1978: 29–30; Ellis 1994: 730–731; Heskel 1996). Filippo continuò a corteggiare Atene, per avere agio di fronteggiare Illiri e Peoni, e inviò un’ambasceria con cui promise di abbandonare ogni velleità su Anfipoli in cambio della pace. Fu probabilmente in questo contesto, se mai avvenne, che il Consiglio intraprese trattative segrete con Filippo secondo cui Filippo avrebbe aiutato Atene ad impadronirsi di Anfipoli in cambio di Pidna. Demostene anni dopo allude a simili accordi (2.6–7; cfr. 23.116; 7.27; Teopompo FGrH 115 F30), ma de Ste. Croix (1963) ha osservato che questi accordi, se mai vi furono, dovettero essere informali, in quanto l’approvazione dell’Assemblea era obbligatoria per i trattati (cfr. Rhodes 1972: 42). Sconfitti gli avversari che premevano alle frontiere (Diod. 16.4.2–7), Filippo assediò Anfipoli e la conquistò nel 357 (Diod. 16.8.2–3; cfr. Heskel 1997: 38–122), convincendo gli Ateniesi, occupati nella Guerra Sociale e nella riconquista dell’Eubea, a non sostenere la lega Calcidica con la promessa di consegnare loro la città (cfr. Momigliano 1987: 46–47). La consegna non avvenne, e Filippo marciò successivamente su Pidna, un possedimento ateniese, e ne prese il controllo nel 356 (Diod. 16.8.3–4; Tod 158). Nel frattempo Atene e Olinto avevano finalmente siglato un’alleanza, ma fu facile per Filippo ottenere la neutralità della seconda e attraversarne il territorio alla volta di Potidea, altro possedimento ateniese, promettendo a Olinto il possesso di Potidea dopo la conquista (Diod. 16.8.3–5; Dem. 2.7; 6.20; 23.107, 116). Questa volta il re macedone fu di parola. L’ultimo possedimento ateniese nell’area, Metone, fu conquistato da Filippo nel 354 (Diod. 16.8.5–6; Iust. 7.6.13–14; cfr. Griffith 1979: 255; Harris 1995: 44).

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62 [1] καί τινες τούτων ἀντιλέγοιεν αὐτοῖς ταῦτα λέγοντες, ὡς δεινὸν εἴ τινες μόνοι τῶν ἄλλων μετοίκων μὴ χορηγοῖεν: nel riassumere l’obiezione di Leptine Demostene semplifica: 1) presuppone che tutti gli esuli corizi, tasi e bisanzii fossero meteci ad Atene, il che è improbabile, visto l’intervallo di più di trent’anni tra il conferimento degli onori e il processo alla legge di Leptine (inoltre, la proxenia di alcuni di loro implica che sarebbero un giorno tornati a casa); 2) assume che tutti gli esuli corinzi, tasi e bisanzii avessero ricchezze sufficienti (ad Atene!) per svolgere la coregia (soltanto i più ricchi tra i meteci svolgevano le liturgie, vd. Whitehead 1977: 80–1). Ma Demostene attribuisce queste semplificazioni agli avversari, per cui le imprecisioni contribuiscono a mostrare quanto sia rozzo e indiscriminato il ragionamento di Leptine. [2] ὡς συκοφαντούντων: l’accusa di essere un sicofante (sulle varie etimologie proposte vd. Lofberg 1917: VII; Christ 1998: 49) è frequente nell’oratoria forense. Il sicofante è normalmente descritto come chi ottiene un guadagno avvalendosi del diritto di intentare azioni giudiziarie – quello di sicofante sarebbe stato un vero e proprio mestiere (Lofberg 1917: 18–19, 73–85). I guadagni sarebbero derivati non tanto dalle dikai (Lofberg 1917: 46–47), ma da azioni pubbliche, principalmente la phasis e l’apographe, che garantivano un ritorno economico per l’accusatore vincente (cfr. Rubinstein 2000: 199). Gran parte dei guadagni sarebbe anche risultata da ricatti: molti avranno offerto pagamenti per evitare un’azione giudiziaria. Questa ricostruzione è stata contestata da Osborne (1990), secondo cui raramente phaseis o procedimenti analoghi portavano un guadagno all’accusatore. Inoltre, la taccia di sicofante è generalmente rivolta ad accusatori dei quali si stigmatizza la troppa facilità nell’intentare cause e le abilità oratorie, il che è incompatibile con l’assunto che gran parte dei loro guadagni derivassero dal rinunciare a portare un’accusa. Per Osborne il sicofante era una figura funzionale e positiva per la democrazia. Contra Harvey (1990) mostra che i sicofanti utilizzavano davvero il ricatto e la minaccia di intentare cause per guadagnare denaro (Harvey 1990: 111 n. 27 elenca 34 casi) e dimostra che l’interpretazione tradizionale è corretta (cfr. MacDowell 2009: 304 n. 40; Harris 2013: 62–3). Il sicofante era l’esatto opposto dell’ideale ho boulomenos, l’accusatore mosso dalla sua coscienza civica. Christ (1998: 48–117) osserva che troviamo due diversi registri nell’uso di questa etichetta, uno con forti connotazione sociali (il sicofante è un membro delle masse che usava le corti per guadagno, p. es. [Xen.], Ath. Pol. 1.14), e un altro, quello dell’oratoria, nel quale le connotazioni sociali erano



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abbandonate e il sicofante era il prototipo del cattivo cittadino, e l’etichetta poteva dunque comprendere i comportamenti più svariati, tra cui anche attitudini anti-democratiche e anti-ateniesi (Christ 1998: 49–50, 94–96). È in questo senso che qui chi si opponga agli onori a ipotetici benefattori che riconsegnassero ad Atene le città conquistate da Filippo è descritto come un sicofante (cfr. Ober 1989: 170–4). [3] οὔκουν αἰσχρὸν εἰ…: già a §57 usare standard diversi quando si ricevono servizi e, anni dopo, nel valutare se meritavano di essere premiati era giudicato inaccettabile. Qui, dopo l’analogia attualizzante, Demostene richiama i giudici al dovere di essere coerenti e valutare gli onori assegnati un tempo tenendo in considerazione le circostanze dell’epoca – mancare di coerenza è αἰσχρόν (cfr. §§8–9, 60). 63 [1] οἱ προδόντες τὴν Πύδναν καὶ τἄλλα χωρία τῷ Φιλίππῳ τῷ ποτ᾽ ἐπαρθέντες ἡμᾶς ἠδίκουν: il suo parallelo continua e Demostene immagina le ragioni che spinsero alcune fazioni a Pidna, Potidea e altrove a favorire Filippo. La terminologia è interessante: il parallelo è ancora coi dissedenti tasi, bisanzii e corinzi che non tradirono Atene (οὐχὶ προὔδωκαν, §53), e dunque consegnarono le loro città agli Ateniesi (troviamo sempre παραδίδωμι a §59–60). Nonostante il parallelo tra Corinzi, Bisanzii e Tasi, e gli abitanti di Pidna e Potidea (si notino δωρεαῖς, εὐεργέτας, τιμᾶν, vd. sotto), Demostene suggerisce sottilmente una differenza: nel caso di Pidna e Potidea usa οἱ προδόντες τὴν Πύδναν […] τῷ Φιλίππῳ – quando la vittima è Atene, è tradimento, non consegna. Inoltre, mentre non aprire Corinto ad Atene sarebbe stato tradimento (οὐχὶ προὔδωκαν, §53), qui consegnare Pidna a Filippo è un’ingiustizia contro Atene (ἡμᾶς ἠδίκουν). Malgrado il parallelo, Demostene sta pur sempre parlando a giudici ateniesi, e la sua prospettiva (anche morale) è atenocentrica. [2] ταῖς παρ᾽ ἐκείνου δωρεαῖς […] ἐκείνων εὐεργέτας μὴ τιμᾶν […] τοῖς ἡμετέροις εὐεργέταις ὑπαρχουσῶν δωρεῶν ἀφαιρεῖταί τι: per Demostene la ragione per cui Pidna e Potidea si sono consegnate è il desiderio di ricompense (δωρεαῖς). δωρεά qui è significativo – lo stesso termine è utilizzato ripetutamente per le ricompense accordate ai benefattori di Atene (cfr. §2). Filippo, per garantirsi i servizi dei cittadini di Pidna e Potidea, ha usato gli stessi strumenti che Atene utilizzò in passato con i Tasi, i Bisanzii, i Corinzi e molti altri. La legge di Leptine, minaccia, impedirà agli Ateniesi di competere con Filippo nell’accaparrarsi benefattori. Leptine dunque, invece

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di abolire i premi per i benefattori di Atene, dovrebbe impedire a Filippo di onorare chi lo serve, privandolo così di benefattori. Il vocabolario qui è lo stesso per Filippo e per Atene, ma i riferimenti (atenocentrici) alla prodosia e all’adikia di chi aiutò il re macedone danno alle azioni di Filippo e dei suoi benfattori una sfumatura negativa: l’espressione τῷ ποτ᾽ ἐπαρθέντες sembra alludere alla corruzione, piuttosto che alla salutare economia degli onori descritta per Atene (cfr. Hdt. 7.38: ἐπαερθείς τε τοῖσι δωρήμασι). La terminologia stessa impiegata in modo innocuo per Atene (δωρεαί, εὐεργέται, τιμᾶν), è spesso utilizzata ambiguamente in riferimento a episodi di corruzione (cfr. Harvey 1985: 78–9, 82–3). Nel tracciare il parallelo tra Filippo e Atene, Demostene accusa dunque Filippo di utilizzare sistematicamente la variante immorale delle ricompense, la corruzione, come strumento di potere. Il tema del successo di Filippo attraverso la corruzione è paradigmatico nell’oratoria demostenica, in particolare nel discorso Sulla Corona (Dem. 18.294–296), con la sua lista dei traditori della Grecia. Per Demostene questi individui, da ogni città, “per la personale e ignobile avidità di guadagno trascuravano gli interessi collettivi” (Dem. 18.295). La corruzione dunque sarebbe la vera causa della fine della libertà greca (Cawkwell 1996; cfr. Harvey 1985: 99–100 sull’uso strumentale di questa spiegazione). Questa lettura divenne tanto convenzionale che, nonostante il tentativo di Polibio (18.14, cfr. Cuniberti 2006: 97–98) di portare un’interpretazione alternativa dell’azione politica dell’oratore, fu riproposta continuamente, da Cicerone (Att. 1.16.12), da Orazio (Odes 3.16), da Giovenale (12.47). Cawkwell (1996: 101–103) nota che il tema manca dalle prime orazioni riguardanti Filippo (p. es. a Dem. 2.5–6 la ragione dei suoi successi è l’inganno, e nella prima Filippica a Dem. 4.35, Pidna, Potidea e Metone cadono per il ritardo nei soccorsi). Soltanto nella seconda Filippica (Dem. 6.34) del 344 troviamo un breve accenno alla corruzione, tema poi centrale l’anno successivo nell’accusa a Eschine (Dem. 19.145–146; cfr. anche Hyp. Dem. 15). Questo passo rivela la presenza precoce del tema della corruzione. [3] λαβὲ τὰ ψηφίσμαθ᾽ ἃ τοῖς Θασίοις καὶ Βυζαντίοις ἐγράφη: Demostene chiede infine al grammateus di leggere i decreti per i Corinzi, i Tasi e i Bisanzii. È possibile che tra i vari decreti letti a questo punto ci fossero IG II2 33 e IG I3 227. 64 [1] τούτων δ᾽ ἴσως ἔνιοι τῶν ἀνδρῶν οὐκέτ᾽ εἰσίν, ἀλλὰ τὰ ἔργα τὰ πραχθέντ᾽ ἔστιν, ἐπειδήπερ ἅπαξ ἐπράχθη. προσήκει τοίνυν τὰς στήλας



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ταύτας κυρίας ἐᾶν τὸν πάντα χρόνον: diversamente dal caso di Epicerde (comm. §46[2]), e da quello di Ctesippo (comm. §1[6]), Demostene qui non sostiene che le esenzioni siano ereditarie, e ammette che gli onorandi, dopo quasi quarant’anni dai fatti, potrebbero non essere più in vita. Questa ammissione segue immediatamente alla lettura dei decreti – la vicinanza avrà costretto Demostene a essere preciso e ammettere questo punto – ma diventa occasione per un argomento ulteriore: poiché le azioni dei benefattori restano (nella memoria di tutti i Greci: al paragrafo successivo Demostene menzionerà la pubblicità nelle città di origine della loro disgrazia), così dovrebbero restare le steli con i loro onori. L’uso di κυρίας sembra riferirsi agli onori in sé, ma poiché l’argomento abbraccia anche benefattori ormai defunti, κυρίας è legato a τὰς στήλας, i monumenti stessi, che dovranno restare a memoria (μνημεῖον), e non semplicemente alle ricompense. Alla permanennza della memoria delle azioni dei benefattori deve corrispondere quella della memoria dei loro onori. Leptine obietterà (§§120–4) che l’abolizione delle esenzioni non comporta la distruzione delle steli, e l’ateleia è raramente accordata da sola. Demostene mostra tuttavia che abolire anche uno solo degli onori intaccherà la doxa e la pistis di Atene, e renderà tutti gli onori della città inaffidabili. [2] ἵν᾽, ἕως μὲν ἄν τινες ζῶσι, μηδὲν ὑφ᾽ ὑμῶν ἀδικῶνται: il primo obiettivo delle steli è garantire che le prerogative degli onorandi, quando sono in vita, non siano violate. Le iscrizioni erano talvolta pubblicate in luoghi in cui potessero essere lette quando necessario, che avessero a che fare con la loro implementazione (sul valore documentario delle iscrizioni vd. Heuß 1934: 252–7; cfr. Thomas 1989: 48–54), ed erano dunque testi di riferimento nella pratica quotidiana (p. es. l’iscrizione per gli Spartocidi al Pireo sarà servita da riferimento nel caso sorgessero dubbi sulla loro ateleia, vd. comm. §31[5]; cfr. Liddel 2003 sui luoghi di pubblicazione delle iscrizioni). [3] ἐπειδὰν δὲ τελευτήσωσιν, ἐκεῖναι τοῦ τῆς πόλεως ἤθους μνημεῖον ὦσι, καὶ παραδείγματα ἑστῶσι τοῖς βουλομένοις τι ποιεῖν ὑμᾶς ἀγαθόν, ὅσους εὖ ποιήσαντας ἡ πόλις ἀντ᾽ εὖ πεποίηκεν: l’iscrizione degli onori ha una funzione ulteriore, connessa alla città e alla sua reputazione, e non solo ai benefattori, alle loro azioni e alle ricompense. Queste iscrizioni erano monumenti alla volontà collettiva degli Ateniesi e alla qualità delle loro deliberazioni (Luraghi 2010: 247–8 e intr. p. 85), manifestazioni concrete e monumentalizzate dell’ethos della polis, testimonianze del suo comportamento e della sua storia (intr. pp. 83–6). Qui Demostene pone l’accento su

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una specifica caratteristica dell’ethos della città di cui queste iscrizioni sono testimonianza: la charis (cfr. §§11–14 con intr. pp. 78–80, 89–92). 65 [1] ὅτι τῶν αἰσχίστων ἐστὶν πάντας ἀνθρώπους ἰδεῖν καὶ ἀκοῦσαι τὰς μὲν συμφοράς…: Demostene dà l’impressione che l’esilio e le sventure degli esuli corinzi, tasi e bisanzii siano permanenti (cfr. comm. §§60, 62). Se questo è il caso, tutto il mondo è al corrente delle loro sventure. La stessa pubblicità che le iscrizioni ateniesi al paragrafo precedente garantiscono alla charis di Atene è postulata per l’esilio e le sventure degli esuli. È probabile infatti che esilio, confische e punizioni contro questi esuli fossero iscritte nelle loro città di origine, con abbondanza di motivazioni che ne rendessero pubblica la disgrazia (cfr. Dem. 9.42, Din. 2.24–5, RO 83, I.Ilion 25, SEG 34.758, ll. 31–41 con Gray 2015: 109–59). Le sventure dei dissidenti espulsi sono dunque note al mondo intero, perché i decreti di espulsione (e le relative iscrizioni) non sono certo stati abrogati (dunque τὰς συμφοράς sono κυρίας, aggettivo che marca la validità dei provvedimenti ufficiali che stabiliscono la loro sventura). Poiché queste sventure sono dovute ai servizi per Atene, sarà vergognoso (τῶν αἰσχίστων) se i provvedimenti contro di loro saranno validi, ma le ricompense di Atene verranno abrogate. 66 [1] πολὺ γὰρ μᾶλλον ἥρμοττεν τὰ δοθέντα ἐῶντας τῶν ἀτυχημάτων ἀφαιρεῖν…: come a §63, Demostene evidenzia l’assurdità della legge di Leptine mostrando le ragioni degli onori, e le conseguenze della loro abolizione (terribili e ingiuste). Suggerire quindi che Leptine, invece di toccare le esenzioni, dovrebbe occuparsi delle ingiustizie, siano esse gli onori (o la corruzione) utilizzati da Filippo, o le sventure di chi ha servito Atene. Ne risulta che, visto che non si possono cancellare quelle sventure (o impedire a Filippo di corrompere), è ancora più assurdo abolire l’unico strumento di Atene per ricompensare chi è stato colpito da sventura (o per competere con Filippo). [2] φέρε γὰρ πρὸς Διός: πρός col genitivo di una divinità accentua spesso in Demostene domande o richieste (MacDowell 2009: 403). [3] τίς ἔστιν ὅστις εὖ ποιεῖν ὑμᾶς βουλήσεται: riassunto del senso degli esempi: molti benefattori hanno subito nelle loro patrie sventure a causa dei loro servizi ad Atene. Nessuno in futuro correrà simili rischi sapendo che mentre le sventure saranno eterne, le ricompense di Atene sono inaffidabili e hanno una scadenza. Atene si ritroverà priva di benefattori (cfr. §49).



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67–87 Demostene si preoccupa che i giudici possano farsi l’impressione che nessun Ateniese è stato degno dell’esenzione. Discute quindi Conone, la sua vittoria di Cnido e la ricostruzione delle mura di Atene, per Demostene superiore alla costruzione delle mura da parte di Temistocle. Il secondo benefattore è Cabria – dopo una discussione delle sue imprese, Demostene parla della sua recente morte a Chio, e della sorte di suo figlio, orfano per via dell’abnegazione del padre nei confronti della città. La sezione si chiude con un appello agli Ateniesi affinché non rendano vane le imprese dei benefattori discussi. 67 [1] τῶν δὲ πολιτῶν μηδέν᾽ ἄξιον δοκοίην ἔχειν δεῖξαι τῶν εὑρημένων ταύτην τὴν τιμήν: inizia la sezione sui cittadini ateniesi meritevoli delle ricompense (§67–87), categoria esemplificata da Conone e Cabria. Anche questa discussione è volta a dimostrare che l’accusa che gli ateleis non meritano le loro ricompense è ingiustificata. Fondamentale al benessere della città è che i cittadini se ne facciano benefattori, per cui Demostene si affretta a negare di essersi concentrato sugli stranieri per mancanza di Ateniesi. Secondo Kremmydas (2012: 307–8), Demostene era davvero preoccupato che i giudici considerassero la mancanza di cittadini dalla sua discussione oltraggiosa – un’ammissione implicita che l’accusa di Leptine era, almeno parzialmente, corretta. Demostene discute soltanto due cittadini ateleis, e questa sezione è molto più breve di quella sugli stranieri. La menzione di Conone e Cabria, con l’elogio delle loro imprese, sarà stata forse sufficiente a mostrare l’assurdità dell’accusa di Leptine ed è possibile che Formione avesse già trattato altri cittadini esenti. D’altro canto, (vd. §§19–21 con comm. e intr. pp. 83–5), i cittadini esentati per effetto di decreti onorifici non erano probabilmente molti, e le testimonianze epigrafiche sembrano suggerire che nel IV secolo gli Ateniesi onorassero i loro concittadini principalmente con corone. La concentrazione sugli stranieri è comunque giustificata dalla preoccupazione di Demostene per l’importanza degli evergeti stranieri per il benessere economico della città, dopo la perdita dell’impero (vd. intr. pp. 3–7, 93–7). [2] καὶ γὰρ τἄλλ᾽ ἀγαθὰ […] πλεῖστα: questo è un riferimento alle ricchezze della città, alla disponibilità di denaro e risorse – Demostene non è indifferente alla difficile situazione finanziaria dopo la Guerra Sociale, e Leptine e i suoi alleati non sono gli unici a preoccuparsi. Ma queste preoccupazioni non possono oscurare il fatto che il benessere della città è assicurato non soltanto dalle ricchezze materiali, ma anche dalla disponibilità di uomini va-

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lorosi e di benefattori. La legge di Leptine, tentando di assicurare maggiori risorse materiali, mette a rischio la disponibilità di quelle umane. 68 [1] πρῶτον μὲν τοίνυν Κόνωνα σκοπεῖτε: Conone (PAA s.v. Κόνων [n° 581759]; vd. Asmonti 2015) fu uno dei protagonisti degli anni successivi alla Guerra del Peloponneso, famoso ad Atene per tutto il IV secolo tanto per le sue imprese quanto per la carriera politica del figlio Timoteo dopo la sua morte. È il politico ateniese più citato negli oratori (soprattutto da Isocrate) dopo Solone (Nouhaud 1982: 333–8). Fu probabilmente generale durante l’assedio di Andro già nel 407 (Buck 1998: 41–42 n. 128; Asmonti 2015: 48–9), e sostituì Alcibiade dopo la battaglia di Nozio (Xen. Hell. 1.5.18–20; vd. Asmonti 2015: 39–44; questo segnò forse la sua rivalità con Trasibulo di Stiria, all’epoca seguace di Alcibiade: Beloch 1884: 118ss.; Strauss 1984: 42ss.; Buck 1998: 46). Nel 406, dopo un’oscura battaglia nei pressi del porto di Mitilene, Conone, in inferiorità numerica, fu bloccato dal navarco spartano Callicratida (Xen. Hell. 1.6.15–23; Diod. 13.77.1–79.7; Asmonti 2015: 74–6). Gli Ateniesi mandarono 110 navi (Xen. Hell. 1.6.24) in suo soccorso e sconfissero gli Spartani alle Arginuse. Conone fu probabilmente generale anche alla battaglia di Egospotami del 405/4, al cui disastro sfuggì con nove o dieci navi (Xen. Hell. 2.1.25–2, 3; Diod. 13.106.1–6; Asmonti 2015: 88–93). Si rifugiò a Cipro, dall’amico Evagora di Salamina (Asmonti 2015: 104–16 per i loro rapporti). Nel 397 Farnabazo convinse il Gran Re Artaserse a combattere i Peloponnesiaci per mare, allestì una flotta fenicio-cipriota di 300 triremi, e assegnò il comando a Conone (Ctesia, Persica, FGrH 688 F30; Nep. Con. 2–4; Diod. 14.39; Plut. Artax. 21.1–4; Hornblower 1994: 66ss. e Asmonti 2015: 116–31). Conone (con Farnabazo) sconfisse la flotta spartana, comandata dal navarco Pisandro, a Cnido nel 394 (Xen. Hell. 4.3, 10–12; Din. 1.75; Nep. Con. 4.4; Diod. 14.83.4–7; Iust. 6.3; Dem. 22.72; Dem. 24.180; cfr. Asmonti 2015: 150–4). È questa la vittoria cui Demostene accenna, rappresentata come la grande rivincita di Atene (tace invece della carriera precedente, con le sconfitte degli ultimi anni della Guerra del Peloponneso). Dopo la vittoria, Conone liberò varie isole e città dal controllo Spartano (Asmonti 2015: 155–62) e fu ricompensato con vari onori (comm. §71[1]). Con l’oro fornitogli da Farnabazo innalzò nuovamente le mura di Atene (comm. §72[3]) e fece riprendere la sua monetazione d’argento (Ar. Eccl. 815–822; per la sua permanenza ad Atene nel 393/2, vd. Sealey 1956: 182– 183; Strauss 1984: 39–40; Besso Mussino 1999; Asmonti 2015: 162–6). Ma la ripresa dell’imperialismo ateniese spaventò la Persia (Xen. Hell. 4.8.16)



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che nel 392, col satrapo Tiribazo, prese accordi con Antalcida dopo che una delegazione ateniese (accompagnata da delegazioni tebane, corinzie e argive) guidata da Conone rifiutò a Sardi i termini di una pace che avrebbe lasciato le città della Ionia in mano persiana (Xen. Hell. 4.8, 12–17; Diod. 14.85.4; cfr. Asmonti 2015: 166–73). Conone fu imprigionato da Tiribazo e non tornò mai più ad Atene. Fu forse rilasciato quando Tiribazo fu sostituito da Struta, fieramente anti-spartano. La sua meta fu probabilmente Cipro, dall’amico Evagora (sulla morte di Conone vd. Buck 1998: 109–110; Asmonti 2015: 174–9). Il rapporto tra Conone e Evagora è evidenziato da Isocrate (9.52–7), che attribuisce a Evagora parte del merito per la vittoria di Cnido. Il passo di Isocrate e quello di Demostene sono le trattazioni più estese negli oratori delle imprese di Conone, e sono totalmente indipendenti (Demostene è guidato dal testo dei decreti, mentre Isocrate mette in risalto il ruolo di Evagora; cfr. Nouhaud 1982: 128–9, 336–7, Kremmydas 2012: 309; pace Navarre-Orsini 1954: 80). [2] ὡς ὑμῶν τινων ἔστιν ἀκοῦσαι τῶν κατὰ τὴν αὐτὴν ἡλικίαν ὄντων: cfr. §52; Demostene fa appello alla memoria dei più anziani tra i giudici, a testimonianza della veridicità delle sue affermazioni (vd. §52[1] e Canevaro [c.d.s. c]). [3] ἀσθενοῦς ἡμῶν τῆς πόλεως οὔσης καὶ ναῦν οὐδεμίαν κεκτημένης: Lys. 30.22 ci informa che al termine della guerra tanto le mura quanto gli arsenali erano distrutti (cfr. Strauss 1987: passim e in particolare pp. 42–69, Burke 1990 e Asmonti 2015: 96–9). Ma il trattato di pace del 404 lasciava agli Ateniesi dodici navi da guerra (Xen. Hell. 2.2.20; [Andoc.] 3.12; secondo Diod. 13.107.4 le triremi erano solo dieci). Inoltre, secondo Hell. Oxy. 2.1, gli Ateniesi inviarono armi e rematori a Conone, e ambasciatori al re di Persia (pace παρ᾽ ὑμῶν οὐδ᾽ ἡντινοῦν ἀφορμὴν λαβών). Demostene oscura questi fatti per dare l’impressione che la vittoria di Conone sia stata un’impresa individuale, che Conone servì la città senza che la città potesse fornire alcun aiuto. [4] στρατηγῶν βασιλεῖ: che Conone comandasse una flotta fenicia, da ammiraglio del Gran Re, è menzionato velocemente, in due parole. Demostene tenta di rappresentare Cnido come una vittoria individuale di Conone per il bene di Atene, e di oscurare il ruolo di Artaserse e di Farnabazo. [5] κατεναυμάχησεν Λακεδαιμονίους […] καὶ πρῶτος πάλιν περὶ τῆς ἡγεμονίας ἐποίησε τῇ πόλει τὸν λόγον πρὸς Λακεδαιμονίους εἶναι: κατεναυμάχησεν descrive la vittoria di Conone come totale (anche Diod.

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14.81.5 e Isoc. 9.56, 12.105 lo usano per Cnido; Din. 1.75 lo usa per Cabria, Diod. 11.57 e [Andoc.] 3.5 per Temistocle a Salamina). La seconda parte del paragrafo si concentra sugli effetti della battaglia – un progressivo sgretolamento dell’egemonia spartana. Le città da cui Conone in seguito alla battaglia espulse gli armosti spartani (Xen. Hell. 4.8.1) sono elencate da Diod. 14.84, 3–5, 97: Cos, Nisiro, Teo, Chio, Eritre, Efeso, Mitilene e Samo (vd. Amonti 2015: 157–9). Secondo Demostene alla battaglia seguì un’inversione dei ruoli tra Spartani e Ateniesi: gli Spartani avevano mantenuto l’egemonia, dato ordini (τοῖς ἄλλοις ἐπιτάττοντας) e imposto guarnigioni e armosti (vd. comm. §59[3]); dovettero abituarsi a prendere ordini dagli Ateniesi. Nonostante l’esagerazione (gli Spartani rimasero la potenza dominante fino a Leuttra, e gli Ateniesi non acquistarono l’egemonia in seguito a una vittoria persiana), la vittoria di Conone indebolì Sparta e permise ad Atene di rinnovare le sue ambizioni egemoniche, cfr. la lettura di Isoc. 4.154, 5.63–4, 9.56, Din. 1.76 e Diod. 14.39.3 (vd. per varie interpretazioni Seager 1967: 95–115; Cawkwell 1976: 270–7; Cargill 1981: 7–13; Strauss 1984; Badian 1995: 79–105; Harding 1995; Asmonti 2015: 162–74). La stessa prospettiva è offerta dall’iscrizione onorifica per Evagora di Salamina del 394/3 (RO 11 = IG II2 20; vd. comm. §70[1]), che a ll. 15–17 pare affermare che Evagora combatté da greco al servizio dei Greci. Una prospettiva alternativa, panellenica, che vede Cnido come imbarazzante in quanto vittoria dei Persiani sui Greci, è quella di Isoc. 4.119 e Lys. 2.58–9 (cfr. Todd 2007: 159–60). Demostene dà per scontato che uno degli obiettivi più desiderabili per la città fosse l’egemonia sui Greci (cfr. Isoc. 15.299–301), come nel V secolo (per Tucidide vd. p. es. Wickersham 1994: 31–80; Canfora 1992; 2011: 166–94), un tema corrente persino nel contesto della lotta con Filippo (Dem. 10.6, 15.17, 18.65; pace Kremmydas 2012: 159). Demostene, come tipico nelle fonti ateniesi, accosta la liberazione di città e isole dalla tirannia spartana (§72) alla prospettiva dell’egemonia ateniese senza scorgere contraddizioni. Sulla relazione tra autonomia, eleutheria e hegemonia vd. p. es. Raaflaub (2004a: 118–203). [6] ἀνέστησε τὰ τείχη: vd. comm. §§72–4. 69 [1] ‘ἐπειδὴ Κόνων’ φησὶν ‘ἠλευθέρωσε τοὺς Ἀθηναίων συμμάχους.’: questa formula proviene dalle motivazioni successive al prescritto del decreto in onore di Conone citato a §70 (sugli onori a Conone vd. Gauthier 1985: 93–7), cfr. ἐπειδή, caratteristico di questa sezione nel IV secolo (e successivamente; Henry 1983: 7–11). Secondo West (1995: 244) una copia del de-



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creto era iscritta alla base della statua del generale tra le due ali della Stoa di Zeus Eleutherios (comm. §70[1]). Thumser (1892: 140) nota che Demostene sembra accennare a più decreti – forse c’era un secondo decreto relativo alla statua. La formulazione di §70 tuttavia non allude a più decreti, ma ai vari premi decretati per Conone, e il lemma ΨΗΦΙΣΜΑΤΑ è un’aggiunta tarda, dovuta alla mancata comprensione di τὰ τότε ψηφισθέντα τῷ Κόνωνι (sui lemmata vd. comm. §27[4]). IG II2 20 = RO 11 (comm. §70[1]), che accorda vari onori e una statua a Evagora (onorato insieme a Conone), pare a ll. 20–1 prescrivere che il decreto vada iscritto vicino alla statua di Zeus Eleutherios (agalma nel IV secolo è usato esclusivamente di immagini divine, vd. RO 11: p. 54), e cioè contestualmente alla statua di Evagora. Per analogia, è probabile che il decreto per Conone prescrivesse un’iscrizione contestualmente alla statua di Conone. La scelta di citare l’espressione, “perché Conone liberò gli alleati degli Ateniesi” accentua l’unicità delle sue imprese. Lo stesso concetto è espresso da Din. 1.14: Κόνωνος υἱεῖ τοῦ τοὺς Ἕλληνας ἐλευθερώσαντος. La formulazione del decreto (citata da Demostene) è però idiosincratica: la formulazione di Din. 1.14 è tradizionale e fa riferimento alla “libertà dei Greci”, concetto tipico della propaganda di questi anni (vd. Dmitriev 2011: 15–111 con bibliografia); il decreto invece menziona specificamente gli alleati degli Ateniesi. Non è chiaro se si tratti degli alleati prima della sconfitta del 404, soggiogati dagli Spartani (che a loro volta proclamarono di averli liberati dal giogo ateniese), o i nuovi alleati ottenuti in seguito alla vittoria di Conone. La formulazione dà per scontata una rinnovata spinta egemonica di Atene, e che la liberazione delle città greche corrisponda al loro ritorno nell’orbita ateniese. Con Kremmydas mantengo Κόνων (pace Blass): se non era nel decreto (p. es. IG I3 125), Demostene lo avrà aggiunto nella sua parafrasi per chiarire il soggetto. [2] ὅτου γὰρ ἄν τις παρ᾽ ὑμῶν ἀγαθοῦ τοῖς ἄλλοις αἴτιος γένηται, τούτου τὴν δόξαν τὸ τῆς πόλεως ὄνομα καρποῦται: Conone ottenne gloria panellenica (per una prospettiva panellenica differente Isoc. 4.119, Lys. 2.58–9 con comm. §68[5]), che si riflette su Atene. Cfr. Dem. 22.72–4 per la gloria che i riconoscimenti delle altre città portano ad Atene. 70 [1] ἀλλὰ καὶ χαλκῆν εἰκόνα, ὥσπερ Ἁρμοδίου καὶ Ἀριστογείτονος, ἔστησαν πρώτου: questa statua fu eretta accanto a quella di Evagora di Salamina (Isoc. 9.56–7 e Paus. 1.3.2–3; cfr. Lewis-Stroud 1979, RO 11 = IG

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II2 20 = Funke 1983: 152–61 che accorda vari onori e una statua a Evagora, e menziona Conone a l. 27). Questo onore era stato riservato in precedenza solo ai tirannicidi (cfr. comm. §18[5]), le cui statue erano situate nella parte settentrionale dell’agora, tra la pista e la via Panateneaica (Paus. 1.8.4–6; Arr. Anab. 3.6.8 con Vanderpool 1974: 308–9; Val. Max. 2.10.ext.1; Thompson e Wycherley 1972: 157–8, Shear 2011: 28, 102; Azoulay 2014: 127–9). Le statue di Evagora e Conone (cui fu aggiunta una del figlio di Conone, Timoteo, cfr. Paus. 1.3.2 e Aeschin. 3.243 con Ma 2013: 104) furono erette tra le ali della Stoa di Zeus, probabilmente a nord della fondazione circolare della statua del dio (Isoc. 9.56–7, Paus. 1.3.2–3, Nep. Tim. 2–3 con Thompson 1937: 36–9, 68, Shear 2011: 276; cfr. Wycherley 1957: 213; Oliver 2007b; Krumeich e Witschel 2009: 178 e Ma 2013: 104 e 118). Questa è chiamata da Isocrate statua di Zeus Soter e da Pausania di Zeus Eleuterio, ma entrambi fanno riferimento alla stessa statua di Zeus (a cui venivano attribuiti entrambi i nomi; Shear 2011: 276; Ma 2013: 119–20; pace Kremmydas 2012: 313). La posizione metteva le statue di Conone e Evagora in relazione spaziale con quelle dei tirannicidi, visibili dalla Stoa di Zeus (Shear 2011: 276), suggerendo dunque una lettura della vittoria di Cnido come una liberazione dalla tirannia spartana. Questa lettura era rinforzata dalla prossimità alla Stoa di Zeus, divinità connessa alla guerra, al patriottismo e alla libertà (Zeus Eleuterio appunto): Conone aveva frustrato il tentativo spartano, al termine della Guerra del Peloponneso, di esercitare un’egemonia (una tirannia) sui Greci (cfr. RO 11 = IG II2 20 ll. 15–17) e su Atene (cfr. Oliver 2007b, Ma 2013: 119–20). Il significato attribuito da Demostene alla vittoria di Cnido è dunque già esplicito, e monumentalizzato, negli onori a Conone e Evagora. Demostene non fa altro che riprendere la retorica ufficiale e consolidata, poi espressa direttamente dalla lettura del decreto per Conone. Questa statua non era l’unica ad Atene, e Paus. 1.24.3 (confermato dal ritrovamento delle basi sull’Acropoli: IG II² 3774) testimonia che ulteriori statue di Conone e Timoteo furono erette in seguito sull’Acropoli (Habicht 1985: 63). Conone fu onorato con una statua, da erigere dovunque volesse, anche a Eritre (RO 8 = IK Erythrai und Klazomenai 6; cfr. Ma 2006). Questa pratica, come parte dei massimi onori (megistai timai) tributati ad Atene, divenne comune dopo Conone, con statue attestate p. es. per Cabria, Timoteo, Ificrate, Licurgo, Demostene, Callia di Sfetto (cfr. Thompson e Wycherley 1972: 155–8; Wycherley 1978: 74–5; Camp 1986: 163, 181; Worthington 1986; von den Hoff 2009; Ma 2013: 98–106 e passim). Negli anni dell’accusa contro Leptine Demostene (Dem. 23.196–210; cfr. Dem. 3.23–32, 13.21–31) lamenta che questo onore era accordato troppo facil-



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mente (ma vd. Osborne 1981–3: 1, 166–8: dalla documentazione epigrafica pare invece molto raro). Per le statue onorifiche in generale dal IV secolo al I d.C. vd. Ma (2013). [2] ἡγοῦντο γὰρ οὐ μικρὰν τυραννίδα καὶ τοῦτον τὴν Λακεδαιμονίων ἀρχὴν καταλύσαντα πεπαυκέναι: il riferimento ai tirannicidi (Thuc. 1.20 e 6.53–9 con comm. §18[5]) prepara la descrizione dell’egemonia spartana come una tirannia, descrizione già implicita negli onori stessi a Conone (vd. sopra). Il linguaggio della schiavitù e della tirannia viene applicato al potere imperiale di una città dapprima nel V secolo in riferimento ad Atene, ma diventa presto applicabile a qualunque relazione egemonica (de Romilly 1947: 125–8, Raaflaub 2003, Kallet 2003, Brock 2013: 123–6; vd. comm. §69[1] per un’egemonia analoga descritta come “eleutheria degli alleati”). [3] τὰ τότε ψηφισθέντα τῷ Κόνωνι […] ΨΗΦΙΣΜΑΤΑ: τὰ ψηφισθέντα fa riferimento ai vari onori approvati per Conone (tra cui la statua e l’ateleia), e non a più decreti. Il lemma ΨΗΦΙΣΜΑΤΑ deriva probabilmente dall’incomprensione del significato di ψηφισθέντα (comm. §69[1]). 71 [1] οὐ τοίνυν ὑφ᾽ ὑμῶν μόνον ὁ Κόνων, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τότ᾽ ἐτιμήθη πράξας ἃ διεξῆλθον ἐγώ, ἀλλὰ καὶ ὑπ᾽ ἄλλων πολλῶν: Conone ricevette onori per la liberazione, dopo Cnido, di varie isole e città dagli Spartani (vd. comm. §68[1]). Fu insignito del titolo di prosseno (vd. comm. §§60[4]) ed euergetes a Eritre nel 394 (IK Erythrai und Klazomenai 6 = RO 8) e gli furono erette statue a Samo, a Efeso (Paus. 6.3.16), e a Eritre (RO 8 ll. 13–14). [2] οὔκουν αἰσχρόν […] εἰ αἱ μὲν παρὰ τοῖς ἄλλοις δωρεαὶ βέβαιοι μένουσιν αὐτῷ: la dimensione panellenica della fama di Conone, e gli onori che Conone ha ricevuto altrove (e che non sono stati abrogati), recano biasimo ad Atene di fronte all’intero mondo Greco: tutti saranno al corrente che mentre le altre città rispettano la memoria di Conone, la sua stessa madrepatria si dimostra ingrata. Demostene reintroduce così il tema della vergogna (vd. comm. §9[1]). 72 [1] ζῶντα μὲν […] ἐπειδὴ δὲ τετελεύτηκεν: che adottare standard differenti quando i benefattori sono in vita e dopo la loro morte sia inaccettabile è tema ricorrente (§§46–47, 54, 62–4): Demostene afferma a §47 che è assurdo che gli Ateniesi oggi giudichino indegne di ricompense azioni che gli Ateniesi dell’epoca decisero di premiare, e a §54 che il tempo opportuno per

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decidere queste faccende era all’epoca, non successivamente. Qui afferma che, se quando Conone era in vita si decise di ricompensarlo, l’unica ragione per cui gli Ateniesi potrebbero ora abrogare le ricompense è la dimenticanza delle sue azioni. [2] μηδεμίαν ποιησαμένους τούτων μνείαν: Dobree espunge questa espressione (cfr. Dilts, Kremmydas 2012: 315): un copista l’avrebbe ripresa da §46 per via della somiglianza tra ἀφελέσθαι τι τῶν δοθέντων τότε e ἀφῃρημένοι φανούμεθα τὴν δωρεάν di §46. Kremmydas nota che non è chiaro a cosa τούτων faccia qui riferimento. Ma non serve un riferimento esplicito per rendere evidente che τούτων richiama le imprese di Conone, descritte nei paragrafi circostanti. Si mantiene l’espressione nel testo in quanto grammaticalmente corretta, appropriata, e conservata in tutta la paradosis. Il riferimento alla dimenticanza è funzionale alla descrizione dell’abrogazione dell’ateleia di Conone come vergognosa. [3] κάλλιστον δὲ πάντων ἡ τῶν τειχῶν ἀνάστασις: dopo la vittoriosa campagna nell’Egeo (primavera 393), Farnabazo permise a Conone di tornare ad Atene con denaro sufficiente alla ricostruzione delle mura, il cui abbattimento era segno tangibile della sottomissione a Sparta (Xen. Hell. 4.8.8–10; Diod. 14.85; vd. Asmonti 2015: 159–66). Per Demostene, restituendo alla città le sue difese, Conone di fatto liberò Atene e la ricostituì come potenza nello scacchiere greco, dopo aver ridimensionato il potere spartano a Cnido – una vittoria che era intesa ad Atene come ateniese più che persiana. Sebbene la vittoria di Conone e l’oro persiano furono determinanti per ricostruire le mura, gli Ateniesi cominciarono questa ricostruzione prima dell’arrivo di Conone nel 393: la prima delle iscrizioni di IG II2 1656–7 (RO 9; Maier 1959: n° 1–2 e Funke 1983) è datata all’ultimo mese del 395/4 e registra già attività di ricostruzione (Conwell 2008: 109–17). Sulle mura di Conone vd. Wycherley (1978: 19) e Conwell (2008: 109–32). 73 [1] γνοίη δ᾽ ἄν τις εἰ παραθείη πῶς Θεμιστοκλῆς, ὁ τῶν καθ᾽ ἑαυτὸν ἁπάντων ἀνδρῶν ἐνδοξότατος, ταὐτὸ τοῦτ᾽ ἐποίησεν: personaggi come Clistene, Pericle ed Efialte non assursero mai a paradigmi della democrazia, mentre altri erano riferimenti fissi nel IV secolo. Uno di questi è Temistocle, il cui ruolo nella battaglia di Salamina è decisivo nella definizione della figura del leader ateniese ideale (Lys. 2.42; Isoc. 12.51–52), che non domanda nulla in cambio dei servizi resi alla città (Aeschin. 3.181, 259) e non cede all’egoismo e alla corruzione (Nouhaud 1982: 166–169, 170–177, 218–219; Hesk 2000: 46–47). Il suo ruolo nella costruzione delle mura è citato più



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raramente (cfr. p. es. Andoc. 3.38, Din. 4.37), ma Lisia (12.63) lo paragona a Teramene: quest’ultimo privò gli Ateniesi di ogni difesa (con l’inganno!), mentre Temistocle assicurò la loro sicurezza costruendo proprio quelle mura che Teramene avrebbe abbattuto. Il coinvolgimento di Temistocle coi Persiani è normalmente ignorato (con poche eccezioni: [Aeschin.] Epist. 3.2; Dem. 23.205; Isoc. 4.154 cita i doni che Temistocle ricevette dai Persiani, nonostante li avesse sconfitti, proprio per accentuare la differenza con Conone, che invece aiutò i Persiani e in cambio fu da loro ucciso, cfr. comm. §68[1]). La comparazione di Conone e Temistocle (§§72–74) è volta qui a dipingere Conone come il più grande generale Ateniese. Demostene introduce Temistocle con una lode, ὁ τῶν καθ᾽ ἑαυτὸν ἁπάντων ἀνδρῶν ἐνδοξότατος, la descrizione più iperbolica del generale negli oratori (cfr. Aeschin. 2.9). Questa lode è funzionale al paragone: se Temistocle è il più grande generale ateniese, e Demostene può dimostrare che le azioni di Conone sono ancora più meritevoli, Conone è dunque il più grande eroe che Atene abbia mai avuto. [2] λέγεται τοίνυν ἐκεῖνος, τειχίζειν εἰπὼν τοῖς πολίταις: la narrazione degli espedienti di Temistocle per ricostruire le mura è breve ma coerente con quanto riportato da Tucidide (1.89–93; cfr. Diod. 11.39.1–40.4, Plut. Them. 19ss., Lys. 12.63–4). Questa storia era probabilmente nota a ogni Ateniese, e non serve postulare che Demostene utilizzi fonti storiografiche (pace Kremmydas 2012: 316; vd. Canevaro [c.d.s. c]). La concordanza con Tucidide e le altre versioni (cfr. Podlecki 1975: 89–92 per gli attidografi) deriva probabilmente da una versione standard ateniese, conosciuta e trasmessa oralmente e che influenza anche le fonti storiografiche. Sulle mura di Temistocle vd. Wycherley (1978: 11–15). Sull’esistenza di mura prima di Temistocle vd. Weir (1995). [3] καὶ πάντες ἴσως ἀκηκόατε ὃν τρόπον ἐξαπατῆσαι λέγεται: l’appello alla conoscenza del pubblico è tipico, e coinvolgendo i giudici nel ricordo di particolari eventi li utilizza a conferma della veridicità della narrazione, come fonte di autorità (vd. comm. §§4[3] e Canevaro [c.d.s. c]). Qui la memoria dei giudici è utilizzata a garanzia di un’affermazione problematica: che Temistocle abbia avuto successo grazie all’inganno. Il tema dell’inganno è introdotto con ἐξαπατῆσαι, un verbo con connotazioni fortemente negative che Lisia, nel passaggio citato sopra (12.63), riserva per Teramene (né questo termine è applicato a Temistocle altrove). Qui ἐξαπατῆσαι adombra

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l’argomentazione del paragrafo successivo, che cioè proprio l’uso dell’inganno renda Temistocle inferiore a Conone. 74 [1] φημὶ τοίνυν ἐγώ […] ὅσῳ τὸ φανερῶς τοῦ λάθρᾳ κρεῖττον […] τοσούτῳ κάλλιον Κόνωνα τὰ τείχη στῆσαι Θεμιστοκλέους: la superiorità di Conone è dovuta al fatto che Conone ha agito apertamente (φανερῶς) in seguito alla vittoria (νικῶντας), mentre Temistocle ha agito di nascosto (λάθρᾳ) e con l’inganno (παρακρουσαμένους). La conclusione sarà parsa inizialmente paradossale (sul paragone Podlecki 1975: 84–5), ma è costruita sulla ben nota avversione degli Ateniesi all’inganno, carattere determinante del loro ethos (comm. §9[2–3], Hesk 2000: 45–9). Demostene sfrutta una nozione di senso comune per rendere accettabile la sua conclusione che Conone è superiore a Temistocle. [2] καὶ πρὸς Διός, ἄνδρες Ἀθηναῖοι, μηδεὶς φθόνῳ τὸ μέλλον ἀκούσῃ, ἀλλ᾽ ἂν ἀληθὲς ᾖ σκοπείτω: Demostene (facendo leva su una nozione di senso comune) chiede ai giudici di accettare una rappresentazione parzialmente negativa di Temistocle, per il suo uso spregiudicato dell’inganno. Con questa espressione Demostene deflette la critica potenziale di parlare con invidia e malizia (φθόνῳ) e chiede agli Ateniesi di esaminare quanto già sanno di Temistocle. L’ambivalenza di Temistocle non è infatti una sua invenzione, ma è testimoniata soprattutto nella storiografia (Missiou 1992: 178–182), e poggia appunto su una generica riprovazione per l’inganno utilizzato come arma politica. Plutarco afferma che Temistocle fu soprannominato “Odisseo” (De Her. Mal. 869ss.). La stessa esaltazione del personaggio in Tucidide (Thuc. 1.138, 3) è fondata sulla categoria della metis, di cui l’inganno è una caratteristica (vd. Detienne-Vernant 1999: passim e 243–244 su Temistocle). Erodoto fornisce un’ampia esemplificazione delle sue abilità di raggiro nel racconto della battaglia di Salamina (Hdt. 8.57–75; cfr.. Thuc. 1.137 sullo ‘stratagemma’ usato da Temistocle per sfuggire agli Ateniesi mentre naviga da Argo verso la Persia). La legittimità della comparazione (e della critica) di Demostene è dunque insita nell’immagine stessa di Temistocle – il paragone dunque non sminuisce la grandezza di Temistocle, radicata nei giudici, ma al contrario poggia sul suo riconosciuto valore la grandezza di Conone. [3] οὐ τοίνυν ἄξιον τὸν τοιοῦτον ὑφ᾽ ὑμῶν ἀδικηθῆναι, οὐδ᾽ ἔλαττον σχεῖν: stabilita la grandezza di Conone, Demostene conclude affermando che è inaccettabile che un uomo simile subisca un’ingiustizia, e rappresenta la decisione sulla legge di Leptine come una contesa tra Conone e quei



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politici (τῶν ῥητόρων; termine peggiorativo che compare solo qui in questo discorso, su cui vd. Hansen 1983b: 151–80; Ober 1989: 104–26, 156–91; Hesk 2000: 202–42; Christ 2006: 128–41) che vogliono privarlo delle sue ricompense. Naturalmente né Leptine né i suoi alleati avrebbero osato sostenere che Conone non meritasse le sue ricompense, ma Demostene costruisce un’argomentazione che li pone in diretta contrapposizione col grande stratego. Non è chiaro se l’ateleia di Conone tuttavia fosse ereditaria (in caso contrario gli onori a Conone erano terminati con la sua morte). Il testo del decreto non è conservato, ma il fatto stesso che il decreto sia letto dal grammateus suggerisce che l’oratore non avrebbe discusso Conone se la sua ateleia non fosse stata ereditaria – la lettura del decreto lo avrebbe smascherato. 75 [1] εἶεν. ἀλλὰ νὴ Δία τὸν παῖδα τὸν Χαβρίου περιίδωμεν ἀφαιρεθέντα τὴν ἀτέλειαν, ἣν ὁ πατὴρ αὐτῷ δικαίως παρ᾽ ὑμῶν λαβὼν κατέλιπεν: il brusco passaggio al benefattore successivo è strano in un discorso generalmente ricco di transizioni. Qui la menzione improvvisa del figlio di Cabria giustifica la scelta, come se l’oratore decidesse infine, dopo la lunga serie di benefattori, di tornare al primo menzionato nel discorso: Cabria (comm. §1[6]). εἶεν, che conclude improvvisamente la discussione di Conone, con νὴ Δία enfatico, seguito dall’affermazione che i giudici conoscono già il valore di Cabria, dà l’impressione che davvero il generale non necessiti di presentazioni. Ctesippo collega la discussione all’inizio del discorso, ma scompare immediatamente, e il soggetto diventa Cabria stesso. [2] ὅτι σπουδαῖος Χαβρίας ἦν ἀνήρ: Cabria (LGPN, II, s.v. Χαβρίας [n° 2]), di Aixone, figlio di Ctesippo (cfr. IG XIV 1222 con Davies 1971: 560), è il personaggio principale tra i benefattori cittadini trattati da Demostene. Segue immediatamente Conone (come anche a Dem. 22.72 = Dem. 24.180) e la sua figura è certo più di attualità, vista la sua morte recente nella battaglia di Chio. Compare per la prima volta nelle fonti alla fine degli anni ’90 del IV secolo. Sostituì Ificrate a capo del fronte ateniese negli scontri contro gli Spartani sotto Corinto. Diod. 14.92.2 data questi fatti al 393/2, ma una datazione al 390/89 è più probabile (Xen. Hell. 4.8.34; cfr. Cartledge 1987: 360–368; Bianco 2000: 48). Un decreto di alleanza tra Atene e il re trace Seute del 390/89 (IG II2 21 ll. 2, 21–22) riporta il suo nome e attesta la sua partecipazione alla campagna di Trasibulo (vd. comm. §59[1]; cfr. Bianco 2000: 49–50). Dopo la morte di Trasibulo lo scontro con gli Spartani si concentrò nei pressi di Egina (Xen. Hell. 5.1.1–13). Lo stratego Panfilo aveva

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occupato varie postazioni di terra, mentre il navarco Teleutia (e in seguito Ierace) aveva allontanato una flottiglia di dieci triremi ateniesi. Dopodiché si era allontanato lasciando sul luogo dodici triremi comandate da Gorgopa. Cabria uccise l’armosta spartano in un’imboscata (Xen. Hell. 5.1.10–12), rendendo quelle acque sicure per le navi ateniesi (Xen. Hell. 5.1.13). È questo l’episodio a cui accenna Demostene a §76. In seguito veleggiò per Cipro (Xen. Hell. 5.1.10) con 800 peltasti e dieci triremi, in soccorso di Evagora nella sua guerra per l’indipendenza dalla Persia, un altro episodio citato a §76. Sappiamo poco del periodo successivo, ma è probabile che Cabria abbia avuto successo a Cipro. Grazie a questa impresa infatti acquisì una fama tale da procurargli i successivi incarichi internazionali (Bianco 2000: 52). Diod. 15.29 (anche Nep. Chab. 2–3) cita in questa fase un primo comando in Egitto (precedente a quello degli anni ’60). Le attività antipersiane di Cabria dovettero continuare se Diod. 15.29.3 riferisce di lamentele del satrapo Farnabazo, che invocò una spedizione ateniese, guidata da Ificrate, contro Cabria (la data di Diodoro è il 377/6, ma è probabile che questi eventi siano avvenuti prima, se nel 379/8 Cabria era in Beozia come stratego ateniese: vd. Bianco 2000: 52–53). All’inizio del 378 (Cawkwell 1973: 47–60; Cartledge 1987: 136–138, 157–159), in seguito a un raid spartano (Xen. Hell. 5.4.20–24; Diod. 15.29.5–7), Cabria, Timoteo e Callistrato divennero strateghi e furono inviati contro i Peloponnesiaci, guidati da Agesilao (Xen. Hell. 5.4.38; Diod. 15.32.2; Plut. Ages. 26.7–9; Mor. 214A; Polyaen. 2.1.7, 18, 20). Cabria comandava 5000 peltasti, 200 cavalieri e un manipolo di Tebani. Quando Agesilao inviò le prime truppe contro la sua postazione, gli uomini di Cabria attesero il nemico sprezzanti, con le lance ritte e gli scudi appoggiati alle ginocchia. L’episodio è il primo citato a §76, e fu proprio nella posizione in cui attese gli Spartani che Cabria, nella statua dedicatagli dopo la vittoria di Nasso, volle essere rappresentato (Arist. Rhet. 1411b6; Diod. 15.33.4, Nep. Chab. 1.3; per varie ricostruzioni della posizione di Cabria vd. Burnett-Edmonson 1961: in ginocchio; Anderson 1963 e Buckler 1972: in piedi a riposo; cfr. Dillon 2006: 102, 107). In seguito, secondo Diod. 15.30.3–5, Cabria si scontrò con gli Spartani a Istiea e a Oreo, in Eubea, devastò la regione, lasciò una guarnigione, e veleggiò per le Cicladi, dove assicurò l’alleanza di Pepareto e Sciato (per la datazione vd. Bianco 2000: 57). Nel 376 ottenne la sua più grande vittoria (§79). Una flotta spartana guidata dal navarco Pollis incrociava in una posizione pericolosa per il commercio granario ateniese (cfr. Dreher 1995: 41–96; Tuplin 1993: 159; Stroud 1998: 119–120; Rutishauser 2012: 160) e gli Ateniesi incaricarono Cabria di affrontarla. Cabria assediò Nasso (sullo statuto di



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Nasso a quest’epoca vd. Cargill 1981: 37–38) e fu attaccato da Pollis. La battaglia si risolse in una grande vittoria grazie all’intervento dell’ala guidata personalmente da Cabria (Xen. Hell. 5.4.61; Diod. 15.34.3ss.; Plut. Phoc. 6.7–7.2; Polyaen. 3.11.2, 11). Diodoro ricorda che Cabria dopo la battaglia avrebbe potuto facilmente annientare l’intera flotta spartana, ma memore delle Arginuse, preferì raccogliere i naufraghi e garantire le esequie ai caduti. Il riferimento di §79 alle isole riconquistate ad Atene deve riferirsi al periodo prima e dopo la battaglia (comm. §77[3]; Plut. Phoc. 6), quando Cabria portò ad Atene molte alleanze, e collezionò innumerevoli onorificenze (Bianco 2000: 58–60; cfr. sulla campagna nelle Cicladi Rutishauser 2012: 158–62). Negli anni successivi Cabria soggiornò ad Atene, ma a poco a poco si attirò lo sfavore del popolo per via della sua vita sfarzosa (Theop. FGrH 115 F 105; Nep. Chab. 3). Intrecciò relazioni con Callistrato di Afidna (PAA s.v. Καλλίστρατος [n° 561575]; Sealey 1956; Bearzot 1979), e più tardi con Ificrate. Fu inoltre assolto nel processo intentato contro di lui e Callistrato per l’affare di Oropo (Xen. Hell. 7.4.1; Dem. 21.64; Diog. Laert. 3.23–24) e riacquistò il suo prestigio con un’importante vittoria a Ceo. La spedizione in Egitto cui accenna §78 è probabilmente successiva (Bianco 2000: 65 n. 78 la data al 362): fu incaricato da re egiziano Taco di guidare la flotta contro i Persiani (Diod. 15.90–93; Plut. Ages. 37; Dem. 14.31). Sulla sua morte vd. comm. §80[2] (per la sua carriera vd. Pritchett 1974: 72–77; Lengauer 1979: 118ss.; Bianco 2000). 76 [1] ὃν μὲν οὖν τρόπον ὑμᾶς ἔχων πρὸς ἅπαντας Πελοποννησίους παρετάξατο ἐν Θήβαις, […] οὐδαμοῦ τὸ τῆς πόλεως ὄνομ᾽ οὐδ᾽ αὑτὸν κατῄσχυνεν: per il contesto di queste imprese vd. comm. §75[2]. Nel discutere il confronto tra Cabria e Agesilao sotto Tebe Demostene sceglie di rappresentare gli Spartani come “tutti i Peloponnesiaci” (c’erano 2500 Spartani e 15500 alleati Peloponnesiaci; Diod. 15.31.2), e fa riferimento ai soldati guidati da Cabria come ὑμᾶς, identificandoli con i giudici in quanto cittadini, nonostante fossero probabilmente mercenari. Demostene nota inoltre l’enorme estensione geografica delle attività del generale, per contrastare il numero delle attività e delle imprese con il fatto che Cabria mai portò vergogna ad Atene. Come per Conone, le sue attività fuori da Atene portano gloria alla città (cfr. comm. §69[1]). [2] οὔτε πάνυ ῥᾴδιον κατὰ τὴν ἀξίαν εἰπεῖν, πολλή τ᾽ αἰσχύνη λέγοντος ἐμοῦ ταῦτ᾽ ἐλάττω φανῆναι τῆς ἐν ἑκάστῳ νῦν περὶ αὐτοῦ δόξης ὑπαρχούσης: prima di entrare nel dettaglio, Demostene si schermisce e la-

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menta la sua inadeguatezza, secondo uno schema retorico che al contempo esalta l’oggetto della descrizione come superiore alle capacità dell’oratore di rendergli giustizia, e mostra l’umiltà dell’oratore. Questo topos, noto come ‘topos dell’inesprimibile’ (Unsagbarkeitstopos) è diffusissimo nella letteratura greca (p. es. Thuc. 2.35.1). La sua prima apparizione è Hom. Il. 2.488– 92, al principio del Catalogo delle Navi, dove il poeta chiede l’assistenza delle muse in quanto non sarebbe in grado di elencare la moltitudine degli Achei neanche se avesse dieci lingue e dieci bocche, una voce indistruttibile e un cuore di bronzo (cfr. Lausberg 1990: 436–7; Kühlmann 1973: 113 con n. 63; Bakker 1997: 54–5). Per la diffusione di questo topos nella letteratura europea vd. Curtius (1992: 180–2). 77 [1] ἐνίκησεν μὲν τοίνυν Λακεδαιμονίους ναυμαχίᾳ: la più grande impresa di Cabria, la vittoria di Nasso contro gli Spartani guidati dal navarco Pollis (Xen. Hell. 5.4.61; Diod. 15.34.3ss.; Plut. Phoc. 6.7–7.2; Polyaen. 3.11.2, 11), è qui ricordata senza citarne il nome, dato il contesto della menzione (una lista delle imprese dello stratego), e la sua fama (è invece citata per esteso a Aeschin. 3.243, Din. 1.75, Dem. 23.198). Si svolse nel 376 (comm. §75[2]): gli Spartani (con 60 triremi; Xen. Hell. 5.4.61, che però, in cattiva fede, riunisce in una menzione cursoria la difesa dei convogli granari e la battaglia vera e propria; Tuplin 1993: 159; Rutishauser 2012: 160) tentarono di bloccare l’approvvigionamento granario ateniese (Dreher 1995: 41–96; Tuplin 1993: 159; Stroud 1998: 119–120; Rutishauser 2012: 160), ma Cabria alla guida di una flotta ateniese di 83 triremi (Diod. 15.34–5; cifra compatibile con IG II2 1604, il registro degli arsenali del 379/8, che parla di 100 triremi pronte all’azione; cfr. Rutishauser 2012: 160 n. 139) prima scortò i trasporti granari, e quindi assediò Nasso, dove fu attaccato da Pollis. La sua fu la prima vera vittoria ateniese contro gli Spartani dai tempi della Guerra del Peloponneso (la vittoria di Cnido era stata una vittoria persiana; Diod. 15.34–5 quindi considera la vittoria di Nasso superiore a quella di Cnido, un’opinione che non troviamo però negli oratori). Dopo la battaglia (e la successiva spedizione nelle Cicladi, vd. comm. §75[2] e sotto) una statua di Cabria fu eretta nell’agora (Aeschin. 3.243, Arist. Rhet. 1411b6–7, Nep. Chab. 1.3; vd. comm. §70[1]). Gli Ateniesi gli tributarono anche una corona d’oro (che Cabria dedicò sull’Acropoli; Dem. 24.180) e altri onori, tra cui l’ateleia (sul decreto cfr. comm. §§84–6). Frammenti della base della statua riportano ulteriori corone e onori tributati a Cabria da varie fonti (il demos dei Mitilenesi, Diotimo e gli equipaggi di stanza a Syros, i soldati di Abido ecc.; cfr. Burnett-Edmonson 1961, Shear 2007a: 110–11).



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[2] καὶ πεντήκοντα μιᾶς δεούσας ἔλαβεν αἰχμαλώτους τριήρεις: secondo Diodoro (15.35.2) le navi catturate col loro equipaggio furono otto, e quelle distrutte 24. Secondo lo scolio a Ael. Arist. Panath. 173.16 (3.282 Dindorf) Cabria distrusse 49 navi, ma ne catturò soltanto due. Il numero di 49 navi catturate qui è probabilmente un’esagerazione, se si considera che IG II2 1606 e 1607, gli inventari degli arsenali del 374/3 e del 373/2 (cfr. Gabrielsen 1994: 293 n. 10), registrano cinque navi catturate da Cabria (1606 ll. 78–9, 82–3, 1607 ll. 20–1, 114–15, 145–6 registrano anche otto navi catturate da Timoteo, presumibilmente con la vittoria di Alizia). Nonostante le steli siano incomplete, è improbabile che le navi catturate e che entrarono a far parte della flotta ateniese fossero 49 – la flotta peloponnesiaca (Demostene parla di navi spartane per maggiore effetto) era composta secondo Xen. Hell. 5.4.61 da 60 triremi. D’altro canto, viste le cinque navi registrate in IG II2 1606 e 1607, è impossibile che le navi catturate fossero soltanto due, come indicato dallo scolio a Ael. Arist. Panath. 173.16 (3.282 Dindorf). Se 49 è un’esagerazione (cfr. Nouhaud 1982: 340), bisogna giustificarne la presenza, vista la lettura di una lista di imprese di Cabria nella forma di documento a §78. Questa lista non è conservata nei manoscritti, ma Demostene sembra attenersi alle cifre lì fornite: in questo paragrafo le navi catturate a Nasso sono 49 e quelle catturate altrove più di 20, e a §80, nel riassumere il documento, il totale è 70, perfettamente corrispondente. Secondo Amerio (2000: 486–487 n. 75) la lista proveniva da una memoria dettagliata delle imprese di Cabria presentata a supporto della domanda di onori dopo la battaglia di Nasso. Per West (1995: 244) proviene dalla sezione del decreto per Cabria successiva al prescritto (vd. comm. §69[1]). Il decreto tuttavia è letto dal grammateus a §§84–6, per cui il documento letto qui non può essere lo stesso. Inoltre che il numero di navi catturate sia incorretto fa dubitare che il documento in questione sia collegato alla procedura che onorò Cabria dopo Nasso: IG II2 1606 e 1607 dimostrano che il numero effettivo delle navi catturate era disponibile. È probabile dunque che la lista, che conteneva anche il bottino catturato, le città conquistate ecc., non fosse un documento ufficiale, ma un resoconto compilato da Demostene, simile a quello presentato a Dem. 21.130 (una lista dei crimini di Midia). Demostene compilò questa lista e la incluse tra i documenti che il grammateus avrebbe dovuto leggere durante il processo al fine di ammantare il suo resoconto di ufficialità, ma la lista non era accurata, e sfruttava probabilmente il fatto che la vittoria di Nasso avesse all’epoca già assunto contorni iperbolici nella memoria degli Ateniesi. Non è un caso che in questo stesso paragrafo l’oratore

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faccia appello alla memoria dei più anziani tra i giudici come ulteriore fonte d’autorità per le sue affermazioni. [3] εἷλε δὲ τῶν νήσων τούτων τὰς πολλὰς καὶ παρέδωκεν ὑμῖν καὶ φιλίας ἐποίησεν ἐχθρῶς ἐχούσας πρότερον: Demostene menziona le isole che Cabria rese alleate di Atene (per παρέδωκεν vd. comm. §§59[2], 60[1]). A §80, dopo la lettura della lista, esplicita questa menzione e afferma che Cabria portò ad Atene 17 città. Nella parte anteriore del decreto di Aristotele (il prospetto della Seconda Lega Delio-Attica: RO 22 = IG II2 43) troviamo gli alleati che nel 377 erano già diventati membri della lega: Chio, Bisanzio, Rodi, Mitilene (citati anche da Diod. 15.28.3, che aggiunge “alcune altre isole”) e Metimna di Lesbo. Più sotto, in una mano diversa (probabilmente perché diventarono membri successivamente), leggiamo tra gli altri Perinto, Pepareto, Skiathos, Maroneia, Dione, Athenai Diades di Eubea, e Paro. Sul lato sinistro della stele abbiamo ulteriori nomi di isole, che dovettero entrare ancora più tardi: Andro, Tenos, Mykonos, le tre restanti poleis di Ceo (Ioulis, Karthaia, e Koressos) e Sifno (vd. RO 22; Accame 1941; Cargill 1981; Rutishauser 2012: 158–9). È probabile (Accame 1941: 99–104; cfr. Cargill 1981: 41–2 e 61–4; Cawkwell 1981: 45; Sealey 1993: 61) che le città nella parte anteriore della stele si fossero unite alla lega prima della Battaglia di Nasso, mentre quelle sul lato sinistro entrarono dopo la battaglia. Tra le città unitesi nel contesto della battaglia, nel 378, Pepareto, Skiathos, e “altre isole che erano state soggette agli Spartani” (cfr. Diod. 15.30.5) furono acquisite da Cabria prima di Nasso (Rutishauser 2012: 163), mentre altre furono acquisite per effetto della sua vittoria, come suggerito dal fatto che Cabria mandò Focione a cercare fondi nelle isole circostanti (Plut. Phoc. 6). Queste sarebbero le 17 città a cui allude Demostene. Ulteriori città (tra cui varie della Tracia) si unirono in seguito a un’ulteriore spedizione di Timoteo nel 375 (Diod. 15.47.1–2; Xen. Hell. 6.2.12–13; ma Baron 2006 attribuisce tutte le città sul lato sinistro della stele, che sarebbero state iscritte nel 373, a questa spedizione; cfr. Pistorius 1913: 39, Woodhead 1957: 370; contra Rutishauser 2012: 161–4, Burnett-Edmonson 1961: 82–3, che correttamente attribuiscono varie città sul lato sinistro all’azione di Cabria). Alcuni degli onori e delle corone ricordati sulla base della statua di Cabria gli saranno forse stati tributati durante le sue spedizioni per recuperare ad Atene vari alleati (Burnett-Edmonson 1961: 91; vd. sopra). [4] τρισχίλια δ᾽ αἰχμάλωτα σώματα δεῦρ᾽ ἤγαγεν, καὶ πλέον ἢ δέκα καὶ ἑκατὸν τάλαντ᾽ ἀπέφηνεν ἀπὸ τῶν πολεμίων: αἰχμάλωτα σώματα è un hapax negli oratori (ma cfr. Diod. 13.57.6, 20.23.1) dovuto al contrasto con



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αἰχμαλώτους τριήρεις (Kremmydas 2012: 324). Non c’è modo di sapere se queste cifre siano affidabili, e Diodoro e Senofonte non sono d’aiuto. Non è chiaro inoltre se il profitto per lo stato (ἀπέφηνεν indica il pagamento di denaro che è proprietà dello stato) includesse i proventi della vendita dei 3000 prigionieri. Pritchett (1991: 500 n. 770) e Kremmydas (2012: 323–4) lo ritengono improbabile, perché significherebbe che i prigionieri furono venduti o riscattati a meno di 2 mine l’uno (a una mina l’uno, i proventi sarebbero stati di 60 talenti, a 2 mine l’uno 120 talenti), un prezzo da loro considerato troppo basso. In realtà, una mina a persona era il riscatto tipico nel IV secolo (Arist. Eth. Nic. 1134b, confermato per la Sicilia nel 387 da Diod. 14.111; cfr. SEG 24.254 del 264/3 BC: 120 dracme; vd. comm. §42[3] e CanevaroRutter 2015), qui probabile visti i larghi numeri di prigionieri da riscattare (3000). Questo non significa necessariamente che la cifra di oltre 110 talenti includa il riscatto dei prigionieri, né che queste cifre siano affidabili, ma non c’è ragione di escludere pregiudizialmente che il riscatto dei prigionieri sia incluso nei guadagni totali di 110 talenti (così Brun 1983: 160–1). [5] καὶ τούτων πάντων ὑμῶν τινὲς οἱ πρεσβύτατοι μάρτυρές εἰσί μοι: Demostene si appella nuovamente alla memoria dei più anziani per fornire più autorità alle sue parole (cfr. comm. §52[1]). [6] πρὸς δὲ τούτοις ἄλλας τριήρεις πλέον ἢ εἴκοσιν εἷλε, κατὰ μίαν καὶ δύο λαμβάνων: queste triremi furono presumibilmente catturate da Cabria in azioni minori da lui guidate, ma il passaggio non permette di identificare i contesti. 78 [1] ἑνὶ δὲ κεφαλαίῳ μόνος τῶν πάντων στρατηγῶν οὐ πόλιν, οὐ φρούριον, οὐ ναῦν, οὐ στρατιώτην ἀπώλεσεν οὐδένα ἡγούμενος ὑμῶν: è altamente improbabile che un generale, in una lunga carriera, non abbia mai perso un uomo (cfr. Nouhaud 1982: 340). Demostene sfrutterà queste affermazioni iperboliche per affermare che mentre gli Ateniesi mai persero un figlio per colpa di Cabria, Ctesippo ha perso il padre, e ora rischia di perdere l’ateleia (§82). Ma Diodoro ci informa che Cabria perse 18 triremi a Nasso (Diod. 15.35.2). [2] οὐδ᾽ ἔστιν οὐδενὶ τῶν ὑμετέρων ἐχθρῶν τρόπαιον οὐδὲν ἀφ᾽ ὑμῶν τε κἀκείνου, ὑμῖν δ᾽ ἀπὸ πολλῶν πολλὰ ἐκείνου στρατηγοῦντος: i Greci innalzavano un trofeo, dopo una vittoria, sul sito della battaglia. Il termine è talvolta utilizzato anche per dediche consacrate dopo una vittoria nella città vincitrice o in un santuario panellenico. I tropaia erano generalmente

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composti da aste incrociate e vestite in completa armatura oplitica, innalzate utilizzando armi e bottino catturato al nemico. Tropaia permanenti furono eretti per commemorare vittorie sui Persiani, mentre il primo tropaion a commemorare una vittoria tra Greci sembra essere stato quello della battaglia di Leuttra (cfr. Munn 1997: 84–6; in generale Pritchett 1974: 272–5; West 1969: 11–13; Sage 1996: 100–4). Questa menzione dei trofei indica concretamente le sconfitte (nessuna) e le vittorie (numerosissime) di Cabria. Demostene annuncia successivamente che nella lista delle imprese saranno indicati tutti i trofei innalzati da Cabria e dove sono innalzati. Non serve postulare che Demostene avesse trovato la lista dei trofei in un documento pubblico. È più probabile che la lista sia ricavata dalle vittorie (note, e indicate nei decreti onorifici) di Cabria (cfr. Kremmydas 2012: 325). [3] ΠΡΑΞΕΙΣ ΧΑΒΡΙΟΥ: il lemma è probabilmente un’aggiunta tarda, e non ha valore documentario (cfr. comm. §69[1]). Sul documento letto qui dal grammateus vd. comm. §77[2]. 79 [1] δοκεῖ τισὶν ὑμῶν, ὦ ἄνδρες δικασταί, οὗτος [...] τοσούτων καλῶν αἴτιος ὤν, αἰσχροῦ δ᾽ οὐδενὸς τῇ πόλει…: chi è causa di successi per la città (τοσούτων καλῶν αἴτιος) merita di essere onorato. La lista è testimonianza dei meriti di Cabria, e Demostene ribadisce che Cabria non portò mai vergogna ad Atene, concetto ripreso da §76. Visti i meriti di Cabria, Demostene può domandare retoricamente ai giudici se Cabria debba essere privato dell’ateleia. La risposta, elaborata di seguito, è che sarebbe irrazionale (sugli argomenti fondati sul logos vd. Kremmydas 2007). Demostene qui afferma esplicitamente che gli onori a Cabria erano ereditari (vd. comm §46[2] sull’ereditarietà degli onori). Visti i riferimenti a Ctesippo, non c’è ragione di dubitarne (il decreto stesso è letto pochi paragrafi dopo). Il riferimento a Ctesippo è funzionale agli argomenti di §§80 e 82. [2] μίαν μὲν πόλιν εἰ ἀπώλεσεν ἢ ναῦς δέκα μόνας, περὶ προδοσίας ἂν αὐτὸν εἰσήγγελλον οὗτοι, καὶ εἰ ἑάλω, τὸν ἅπαντ᾽ ἂν ἀπωλώλει χρόνον: a riprova dell’irrazionalità della legge di Leptine, l’oratore sostiene, sulla base della lista delle imprese di Cabria (una specie di rendiconto postumo), che se il generale avesse commesso qualche irregolarità o avesse avuto qualche insuccesso, i syndikoi della legge lo avrebbero accusato di tradimento quando era in vita. Così Demostene riduce la legge di Leptine ad attacco personale postumo contro Cabria, perché la sua carriera specchiata non diede mai occasione di accusarlo quando era in vita. In realtà, Cabria subì almeno



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un processo, dopo il fallimento di Oropo (Dem. 21.74; vd. comm. §75[2]: fu assolto). Hansen (1975: 62 n. 36) legge in questo passo la prova che Cabria non subì mai un processo per eisangelia, ma Kremmydas (2012: 326) nota giustamente che qui Demostene è nel mezzo di argomento ipotetico. Quest’affermazione è probabilmente inaffidabile: Demostene sostiene che Cabria non perse dieci navi in tutta la sua carriera, ma Diodoro (15.35.2) ci informa che ne perse 18 soltanto a Nasso. L’argomentazione di Demostene è basata inoltre sulla premessa non dimostrata che l’obiettivo della legge di Leptine sia privare Cabria delle sue ricompense. Leptine e i syndikoi della legge (οὗτοι) sono dunque rappresentati come nemici personali di Cabria, che se avessero avuto una scusa per portare un’accusa l’avrebbero fatto quando era in vita; che non l’abbiano portata è prova che Cabria è irreprensibile. La stessa accusa di agire per inimicizia verso il generale è mossa più tardi individualmente a uno dei syndikoi, Leodamante, che portò una graphe paranomon contro il decreto che onorò Cabria con l’ateleia e altri onori ed ebbe la peggio (§§146–7), e utilizzerebbe ora la legge di Leptine come un’occasione di rivincita. Ma non c’è ragione di pensare che Cabria fosse un particolare bersaglio della legge. Sulle vere ragioni (economiche) della legge vd. intr. pp. 55–63. Ciononostante, l’argomentazione demostenica è potente – la figura di Cabria ha un’importanza strategica chiave nella confutazione retorica dell’utilità della legge di Leptine, il che giustifica la sua menzione a §1. [3] περὶ προδοσίας ἂν αὐτὸν εἰσήγγελλον οὗτοι: le due varietà principali di eisangelia erano quelle al Consiglio e all’Assemblea (Hansen 1975: 21–8; 1979–80: 93–5; Rhodes 1979: 105ss. accetta la divisione, ma minimizza l’aspetto procedurale, e considera una convenzione che le denunce contro magistrati andassero al Consiglio; Harp. s.v. εἰσαγγελία menziona due ulteriori varietà: l’eisangelia al collegio degli Arbitri contro un Arbitro accusato di malversazione, cfr. [Arist.] Ath. Pol. 53.6, Todd 1993: 128ss.; e quella all’arconte per il maltrattamento di un orfano, che è però chiamata da [Arist.] Ath. Pol. 56.6 graphe e da Isae. 11.6, 15, 31, 32, 35 talvolta graphe talvolta eisangelia, vd. MacDowell 1978: 94). L’eisangelia, rispetto ad altre accuse pubbliche, aveva il vantaggio per l’accusa (Poll. 8.52–3, Harp. s.v. εἰσαγγελία) di comportare soltanto una multa di 1000 dracme in caso di sconfitta senza raggiungere un quinto dei voti, ma non la perdita del diritto a intentare accuse pubbliche (come era il caso in altre accuse pubbliche; vd. Harris 2006: 406–16). Wyse 1904: 330, Körte 1923: 231, Colin 1946: 121– 2, Harrison 1971: 52–3, Hansen 1975: 39–31 hanno sostenuto che la multa

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di 1000 dracme sia stata introdotta nella seconda metà del IV secolo, ma prima del 330 (ma Dem. 18.250, usato a supporto di questa datazione, non prova che ci fosse una penale nel 330; vd. Rubinstein 2000: 116: il terminus ante quem è Teofrasto). In precedenza l’eisangelia sarebbe stata un’opzione ancora più conveniente per l’accusa (Hyp. Lyc. 12, Isae. 3.46–7 affermano che non c’è alcun rischio per chi intenta un’eisangelia). L’eisangelia era però ristretta a crimini specifici (Hansen 1979–80: 91–3, Harris 2013: 44, 118–9, 167, 233–4; pace Sealey 1981: 125–34, Rhodes 1979: 103–14). Quella al Consiglio ([Arist.] Ath. Pol. 45.2) poteva avvenire a ogni seduta, diretta contro magistrati che non svolgessero i loro incarichi secondo le leggi. Un primo voto avveniva nel Consiglio, e in caso di condanna si votava se la pena dovesse essere inferiore o superiore a 500 dracme. Nel primo caso il Consiglio applicava la pena autonomamente (Dem. 47.42–3), a meno che il magistrato non facesse appello al tribunale popolare ([Arist.] Ath. Pol. 45.2), mentre se la pena era superiore alle 500 dracme il caso veniva trasmesso (passando per i tesmoteti: [Arist.] Ath. Pol. 59.4) al tribunale popolare (Canevaro 2013a: 152–4). Una legge passata da Timocrate e citata a Dem. 24.63 (il documento è probabilmente autentico: Canevaro 2013a: 151–7) stabiliva che se dopo una condanna del Consiglio con incarcerazione precauzionale il segretario della pritania mancava di passare la katagnosis ai Tesmoteti, gli Undici avrebbero dovuto portare il caso a processo entro trenta giorni (su questo tipo di eisangelia vd. Hansen 1975: 25–8, 112–20, Rhodes in Hansen 1979–80: 93–5, Canevaro 2013a: 152–4). L’eisangelia all’Assemblea consisteva in una denuncia in qualsiasi seduta dell’ekklesia, seguita da un giudizio nel tribunale popolare. Questa eisangelia copriva anch’essa crimini specifici: Hyp. Eux. 7–8 fornisce una lista dal nomos eisangeltikos, a cui vanno aggiunte alcune sottocategorie fornite dai Nomoi di Teofrasto (Lex. Cant. s.v. εἰσαγγελία e Poll. 8.52). Le categorie coperte erano: 1) rovesciare la democrazia, 2) tradimento, 3) farsi corrompere e parlare pubblicamente (in Assemblea, in Consiglio o in un contesto istituzionale) contro gli interessi del popolo. Queste categorie non erano propriamente definite – la legge forniva una lista di casi possibili (Harris 2013: 233–41): rovesciare la democrazia significava p. es. cospirare per il suo rovesciamento o formare un hetairikon, un club di cospiratori; tradimento significava tra le altre cose consegnare al nemico una città alleata, una nave, forze di fanteria o forze navali (Hyp. Eux. 8). Lex. Cant. menziona il tradimento di un territorio alleato, di navi e di forze di fanteria, o trasferirsi presso il nemico, combattere nel suo esercito e accettare doni dal nemico. Poll. 8.52 menziona chi va dal nemico senza essere inviato dalla città, e chi



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tradisce un forte, navi o una forza militare (vd. Hansen 1975: 12–14). Dem. 49.67 menziona ingannare il demos (vd. comm. §100[1]). La legge dunque copriva il tradimento in generale, e invece di definirne le caratteristiche menzionava possibili casi di tradimento (Harris 2013: 234–5). La vaghezza della categoria di prodosia rendeva questa procedura adatta per attacchi politici, e nel IV secolo gli oratori spesso lamentano il suo uso eccessivo, in particolare contro i generali (cfr. Dem. 4.47, 13.5, Hyp. Eux. 2–3). Demostene può per questo sostenere che se i nemici di Cabria avessero avuto veri motivi di biasimo, avrebbero intentato un’eisangelia per tradimento (περὶ προδοσίας, dunque all’Assemblea). D’altro canto l’accusa doveva dimostrare che il caso specifico era effettivamente una sottospecie dei crimini menzionati nella legge, e interpretazioni innovative di prodosia risultavano generalmente in sconfitte (p. es. la Contro Leocrate, con cui il potente Licurgo accusò un mercante di tradimento per aver lasciato Atene dopo Cheronea, fallendo; vd. Harris 2013: 233–41; cfr. Azoulay 2011). 80 [1] ἑπτακαίδεκα μὲν πόλεις εἷλεν: l’unica cifra che Demostene non avesse già citato a §77 (vd. comm. §77[2–3]). [2] καὶ τὴν τελευτὴν αὐτὴν τοῦ βίου πεποιημένος οὐχ ὑπὲρ ἄλλου τινός: la morte di Cabria è accostata alle sue imprese come ulteriore motivo di riconoscenza. Cabria morì nel 357/6, nella battaglia di Chio (Cawkwell 1962, con Beloch 1912–27: 3, 2, pp. 258ss.: primavera del 356; Schweigert 1939: 12–17, Sealey 1955b: 114: estate-autunno 357), il primo capitolo, chiusosi con una sconfitta, della Guerra Sociale. Questo passo è l’unica testimonianza quasi contemporanea. Demostene, qui e a §§146–147, tenta di rappresentare la legge di Leptine come una misura anticabriana, il che indica che questa poteva essere una strategia vincente all’epoca del processo. È quindi probabile che la memoria di Cabria avesse grande valore simbolico (Bearzot 1990: 97). È però strano che la morte del generale sia ridotta, a soli due anni dai fatti, a un breve accenno, senza svolgersi in un vero e proprio epitaffio – Demostene stesso a §141 vanta l’epitaffio come istituto che simboleggia la venerazione ateniese per i morti per la patria. Demostene si concentra su imprese lontane nel tempo (387–376). È possibile che negli ultimi anni la distanza tra il generale e il popolo si fosse accentuata (Theop. FGrH 115 F 105; Nep. Chabr. 3) per via di alcuni insuccessi, e Cabria si fosse estraniato dalla città (Bearzot 1990: 98). La sconfitta di Chio doveva inoltre ancora bruciare nel ricordo dei cittadini (Bearzot 1990: 100–1). Ciononostante c’è in questo passo un chiaro intento polemico, che rivendica l’eroismo cabriano contro i suoi denigratori

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(§82). A §80 Demostene afferma persino che “non è morto per nessun altro che per voi”, in probabile polemica con coloro che accentuavano l’estraneità dello stratego nei confronti della città. Le ragioni di queste reticenze e polemiche dovettero essere non solo momenti di tensione tra Cabria e il demos, come il trattato con Chersoblepte rigettato dall’Assemblea (Dem. 23.171–172; un’orazione molto meno filocabriana), ma la modalità stessa della morte di Cabria. Demostene fornisce solo informazioni marginali, p. es. che i Chii non revocarono a Cabria i suoi onori. Quanto al suo comportamento, Demostene afferma soltanto che Cabria, di solito molto prudente quando alla guida di altri, trascurò la prudenza quando gli fu assegnata una posizione di pericolo, e preferì la morte alla vergogna. L’elogio è significativo (Bearzot 1990: 99), tanto più alla luce del racconto di Plutarco (Phoc. 6.2–3) che, pur in un contesto positivo, definisce Cabria lento più che prudente, e la sua azione a Chio non tanto sprezzante del pericolo quanto intempestiva e temeraria. Forse in polemica con questa versione dei fatti (che Plutarco avrà ricavato da fonti di IV secolo), Demostene sembra sostenere che Cabria fu schierato da altri in posizione pericolosa (cfr. §82 e l’uso del passivo), insinuando una volontà di eliminarlo da parte degli strateghi, e mette la sua prudenza quando alla guida di altri in contrapposizione al suo sprezzo del pericolo a Chio. Plutarco non ci informa sulla sua posizione ufficiale, ma insinua che l’azione di Cabria sia stata colpevole in ogni caso. Nepote (Chabr. 4) esplicita la versione demostenica, affermando che Cabria non aveva posizioni di comando, sebbene la sua autorità sulle truppe fosse maggiore di quella degli strateghi (Cawkwell 1962: 38–9 n. 23; Hansen 1975: 62; Sealey 1993: 104). Cabria (con la sua trireme) avrebbe tentato con successo di forzare l’entrata nel porto di Chio, ma il resto della flotta non l’avrebbe seguito, per cui, rimasto isolato, avrebbe avuto la peggio. Diodoro (16.7.34) afferma invece che la flotta fosse guidata dagli strateghi Carete e Cabria, dei quali Carete si sarebbe incaricato delle operazioni di terra, e Cabria delle operazioni marittime (Schweigert 1939: 12–17; Peake 1997; Develin 1989: 275). Dunque la sconfitta sarebbe stata sua responsabilità. IG II2 124 = RO 48, un trattato tra Atene e Caristo (e le altre città dell’Eubea) datato alla fine del 358/7 o all’inizio del 357/6, riporta tra i generali che prestarono giuramento anche Cabria, primo della lista, il cui nome è però in rasura, seguito da un nome illeggibile ma che inizia con Χα-. Ci sono varie ipotesi sulla cronologia relativa dell’iscrizione e della battaglia di Chio, e sulla ragione della rasura. Un’ipotesi (Schweigert 1939: 12–17; Peake 1997; cfr. anche Develin 1989: 275; e Hamel 1998: 154–5) è che l’iscrizione dati



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al 357/6 dopo la battaglia di Chio, per cui Cabria non poté giurare perché morì durante quella battaglia. Se questo è il caso, il secondo nome dev’essere Carete. Chi segue questa cronologia sostiene che Cabria fosse generale all’epoca della battaglia di Chio. Tuttavia se la battaglia di Chio è datata, come più probabile, dopo l’iscrizione del trattato, la rasura potrebbe essere dovuta al fatto che Cabria era stato deposto da generale in seguito al fallimento dei negoziati con Chersoblepte (Dem. 23.171–2; cfr. Tod 153; Hansen 1975: 62). Kahrstedt (1954: 28 n. 80) sostiene che il nome di Cabria sia stato iscritto per sbaglio al posto di Carete, e sia stato cancellato di conseguenza. Cawkwell (1962: 38–9 n. 23) ipotizza che il secondo nome non sia Carete, ma ancora Cabria, che fu iscritto due volte per errore e quindi cancellato la prima. L’assenza di Carete sarebbe giustificata dalla sua missione in Tracia per negoziare con Chersoblepte (questo trattato venne infine ratificato: cfr. Dem. 23.163–78, IG II2 126 = RO 47): Carete non era ad Atene e non poté dunque giurare. Se questo fosse il caso, resterebbe aperto il problema della datazione del giuramento sul trattato, e dunque del ruolo di Cabria a Chio: se il giuramento avvenne all’inizio del 357/6, la presenza di Cabria sarebbe prova del suo ruolo di stratego a Chio; se avvenne alla fine del 358/7, Cabria potrebbe comunque non essere stato rieletto (dopo il fallimento in Tracia) per il 357/6, e dunque essere stato soltanto un trierarca a Chio. Né l’iscrizione né Nepote, Diodoro e Plutarco sono conclusivi. Il passo in questione è dunque l’unica fonte quasi contemporanea che supporti una particolare versione: che Cabria a Chio fosse sotto il comando di altri (cfr. comm. §82[6]). L’insistenza sul fatto che nessuno mai morì, e nessuna nave fu mai persa, sotto il comando di Cabria sarebbe paradossale se solo un paio d’anni prima la sconfitta di Chio fosse avvenuta sotto il suo comando. Vista la testimonianza di Demostene è dunque probabile che Cabria non fosse stratego a Chio (pace Bearzot 1990). In ogni caso la pluralità di versioni nella storiografia più tarda, insieme alla reticenza e alla polemica in Demostene, sono segno che Cabria, dopo la sua morte, fu al centro di una vivace negoziazione nella memoria della città. [3] φαίνοισθε εὐνοϊκῶς διακείμενοι πρὸς τὸν υἱὸν αὐτοῦ, ἀλλὰ καὶ διὰ ταύτην: i meriti e la morte di Cabria provano che suo figlio Ctesippo merita di conservare l’ateleia accordata a Cabria e ai suoi eredi. Il dovere della città nei confronti dell’orfano Ctesippo non è dovuto soltanto alle imprese del padre: la morte di Cabria in battaglia identifica Ctesippo come un orfano di guerra (e Ctesippo non aveva probabilmente raggiunto la maggiore età, vd. comm. §1[6]). Gli orfani erano ricordati negli epitaphioi logoi, e la città si

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occupava della loro educazione e forniva loro una completa tenuta oplitica al raggiungimento della maggiore età (vd. comm. §141[1]; Aeschin. 3.154; Thuc. 2.46.1; Arist. Pol. 1268a; Dem. 60.32; Plat. Menex. 248e; SEG 28.46 = Stroud 1971; Hyp. Epitaph. 27 con Herrman 2009: 96). 81 [1] ὅπως μὴ φανούμεθα φαυλότεροι Χίων περὶ τοὺς εὐεργέτας γεγενημένοι: μηδὲν ὧν ἔδοσαν πρότερον νῦν ἀφῄρηνται: la morte di Cabria è sfruttata per paragonare gli Ateniesi e i Chii: Cabria fu onorato in passato dai Chii (non sappiamo quando, ma varie isole onorarono Cabria dopo la Battaglia di Nasso; vd. comm. §77[1]), e nonostante fosse schierato contro di loro a Chio, nessuno tentò di privare Cabria delle sua ricompense. Demostene evidenzia, con la descrizione della partecipazione di Cabria nella battaglia come un’azione esplicitamente contro i Chii (ἐφ᾽ οὓς μεθ᾽ ὅπλων ἦλθεν ἐν ἐχθροῦ τάξει), le loro forti ragioni di inimicizia nei suoi confronti. Il tema è ancora quello della reciprocità (vd. intr. pp. 77–83, 85–93): i Chii avevano scuse più che sufficienti per abolire ogni onore accordato a Cabria. Se non l’hanno fatto non è tanto perché le ricompense sono concesse una volta e per sempre (pace Kremmydas 2012: 330), ma perché, nell’economia pubblica dei benefici e degli onori, hanno ritenuto che Cabria fosse ancora ‘in credito’, a prescindere dalle sue azioni a Chio (ἀλλὰ τὰς πάλαι χάριτας μείζους τῶν καινῶν ἐγκλημάτων πεποίηνται), visti i grandi servizi resi in passato. Ma se Cabria è considerato in credito da stranieri contro i quali ha combattuto, che gli Ateniesi, ai quali ha reso in passato servizi ancora maggiori e combattendo per i quali è morto, lo privino di una delle sue ricompense è un’infrazione estrema degli obblighi di reciprocità. Gli Ateniesi dunque dimostreranno di essere peggiori dei Chii nel modo in cui trattano i benefattori. Visto l’orgoglio e il senso di superiorità degli Ateniesi, sfruttato spesso dagli oratori (cfr. Dem. 15.22, 19.214, Ex. 45.4 con Ober 1989: 81), questo sarà parso inaccettabile ai giudici. [2] ὑμεῖς δέ, ὑπὲρ ὧν ἐπ᾽ ἐκείνους ἐλθὼν ἐτελεύτησεν, ἀντὶ τοῦ διὰ ταῦτ᾽ ἔτι μᾶλλον αὐτὸν τιμᾶν [...] πῶς οὐκ εἰκότως αἰσχύνην ἕξετε; Il tema della reciprocità comporta una lettura persino della morte di Cabria come servizio alla città, che richiede onori ancora maggiori come ricompensa (διὰ ταῦτ᾽ ἔτι μᾶλλον αὐτὸν τιμᾶν). L’infrazione degli obblighi di porterà invece vergogna alla città (vd. intr. pp. 89–92 e comm. §§65[1], 71[2]). 82 [1] εἴ τῆς δωρεᾶς ἀφαιρεθείη: l’integrazione di τι di Dobree è probabilmente corretta, per analogia con simili occorrenze (§§35, 63) e per



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necessità sintattica (ἀφαιρούμαι normalmente vuole un accusativum rei, vd. LSJ sv. ἀφαιρέω, II; pace Kremmydas 2012: p. 330 ἀφαιρούμαι τινά τινος è costruzione rara). Non sappiamo quali altre ricompense, a parte l’ateleia, fossero ereditarie per Ctesippo, ma è possibile che Demostene stia facendo genericamente riferimento a “una delle ricompense” accordate a Cabria, non esplicitamente a quelle ereditate da Ctesippo. [2] καθ᾽ ὃ πολλάκις ὑμῶν στρατηγήσαντος Χαβρίου οὐδενὸς πώποθ᾽ υἱὸς ὀρφανὸς δι᾽ ἐκεῖνον ἐγένετο: la descrizione iperbolica delle imprese di Cabria (cfr. comm. §§78–9) è qui posta in relazione ai doveri degli Ateniesi verso suo figlio: Cabria non rese mai nessun Ateniese orfano (cfr. Kremmydas 2012: 330: è probabilmente un topos del buon generale; p. es. Plut. Per. 38, dove Pericle se ne vanta), ma suo figlio è ora orfano perché Cabria è morto al servizio degli Ateniesi. [3] αὐτὸς δ᾽ ἐν ὀρφανίᾳ τέθραπται διὰ τὴν πρὸς ὑμᾶς φιλοτιμίαν τοῦ πατρός: si può intendere l’espressione sia nel senso che Ctesippo sarebbe cresciuto, durante gli anni della vita di Cabria, come un orfano per via degli incarichi militari del padre, sia nel senso che dopo la morte del padre avvenuta pochi anni prima sarebbe rimasto orfano. È probabile che Ctesippo all’epoca del processo fosse poco più di un bambino (cfr. comm. §1[6]) e l’espressione va probabilmente intesa nel secondo senso. Così Demostene sottolinea sia l’obbligo degli Ateniesi verso un orfano di guerra, sia la φιλοτιμία di Cabria, giustificazione dei suoi onori (vd. intr. pp. 78–80 su questo concetto). [4] οὕτω γὰρ ὡς ἀληθῶς ἔμοιγε φαίνεται βεβαίως πως ἐκεῖνος φιλόπολις: φιλόπολις è termine universalmente positivo nel vocabolario politico dell’epoca, che indica patriottismo e devozione alla città (p. es. Thuc. 2.60.5, 6.92.2, 6.92.4, Dem. 24.127, Ar. Plut. 796, 900, 901, Din. 4.31, Lyc. 1.43, Xen. Ages. 7.1). Se effettivamente Cabria era una figura la cui memoria era all’epoca contrastata (comm. §80[2]), e visti i dubbi sulla sua devozione alla città negli ultimi anni della sua vita, l’uso di questo aggettivo va inteso come un tentativo dell’oratore di prevenire e contrastare qualunque dubbio nei giudici che questo giudizio corrispondesse al vero. [5] ὥστε δοκῶν καὶ ὢν ἀσφαλέστατος στρατηγὸς ἁπάντων, ὑπὲρ μὲν ὑμῶν, ὁπόθ᾽ ἡγοῖτο, ἐχρῆτο τούτῳ: la prudenza di Cabria divenne proverbiale, e fu occasionalmente criticata: cfr. Plut. Phoc. 2–3 (riflettendo probabilmente fonti più vicine ai fatti), che definisce Cabria lento piuttosto che prudente. Qui Demostene sfrutta questa caratteristica e sostiene che la sua

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prudenza fosse dovuta alla volontà di difendere le vite degli Ateniesi; la battaglia di Chio è prova che Cabria era prudente esclusivamente con le vite dei suoi uomini, ma non con la sua, che sacrificò volentieri per la città. Plut. Phoc. 2–3 rispecchia una tradizione negativa e giudica le azioni di Cabria a Chio non tanto coraggiose, quanto intempestive e temerarie. [6] ὑπὲρ αὑτοῦ δέ, ἐπειδὴ τὸ καθ᾽ αὑτὸν ἐτάχθη κινδυνεύειν, παρεῖδε, καὶ μᾶλλον εἵλετο μὴ ζῆν ἢ καταισχῦναι τὰς παρ᾽ ὑμῶν ὑπαρχούσας αὐτῷ τιμάς: Cabria non mostrò alcuna prudenza quando la sua vita era in pericolo perché la morte è opzione migliore di una vita nella vergogna. Demostene qui declina al caso di Cabria un concetto comune nella morale greca. Una delle sue espressioni più famose è Soph. Aiax 479–80 (vd. Cairns 1993: 231): “le opzioni per un uomo sono due: una vita con onore o una morte onorevole” (ἀλλ᾽ ἢ καλῶς ζῆν ἢ καλῶς τεθνηκέναι / τὸν εὐγενῆ χρή). Cfr. Soph. El. 989 e Tr. 721–2; vd. Finglass 2007: 410, 2011: 277; Knox 1964: 41). Sul concetto della “bella morte” vd. Vernant (1989: 41–79). La vergogna qui è quella che sarebbe venuta a Cabria e agli onori a lui accordati dalla città, e di conseguenza alla città stessa, se egli fosse sopravvissuto alla sconfitta di Atene. La morte di Cabria è posta in relazione ai valori chiave su cui si basa l’accusa di Demostene: il patriottismo e lo scambio continuo di charis implicito nell’economia pubblica degli onori, per cui nel ricevere dalla città una ricompensa pubblica per i suoi servizi, Cabria si è trovato implicitamente impegnato a servire ancora la città, e a non portarle alcuna vergogna (αἰσχύνη). Su ἐπειδὴ τὸ καθ᾽ αὑτὸν ἐτάχθη κινδυνεύειν, con la costruzione al passivo che pare rimarcare che Cabria a Chio fu posto in una posizione di pericolo da altri, liberandolo da ogni responsabilità, vd. comm. §80[2]. 83 [1] εἶθ᾽ ὑπὲρ ὧν ἐκεῖνος ᾤετο δεῖν ἀποθνῄσκειν ἢ νικᾶν, ταῦθ᾽ ἡμεῖς ἀφελώμεθα τὸν υἱὸν αὐτοῦ; Demostene pone gli onori di Cabria al centro dell’azione: sono la ragione per cui Cabria ha agito come ha agito, per cui ha combattuto e vinto e infine è morto per la città. Questa spiegazione delle motivazioni del generale non è sorprendente – applica al caso specifico (come già ai casi di Leucone, Epicerde, gli esuli tasii e corinzi e Conone; p. es. §61) le nozioni etiche sviluppate nel discorso e in particolare a §§8–14, largamente condivise dagli Ateniesi: Cabria agì mosso da φιλοτιμία, e le ricompense e gli onori hanno a loro volta vincolato il generale in uno scambio continuo di charis che lo ha spinto a ulteriori servizi e imprese (vd. intr. pp. 77–97).



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[2] καὶ τί φήσομεν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, ὅταν τὰ μὲν τρόπαια ἑστήκῃ δῆλα πᾶσιν ἀνθρώποις...: la violazione della charis sarà evidente a tutto il mondo greco, così come evidenti sono i meriti di Cabria, simboleggiati dai trofei che innalzò con le sue vittorie (comm. §78[2]). Cfr. comm. §§37[5] e 64[3]: Demostene fa presente ai giudici che la vergogna, se abrogheranno l’ateleia, sarà chiara e pubblica. Dopo il tema della charis, della φιλοτιμία e dell’economia degli onori, Demostene torna quindi a quello della doxa di Atene (vd. intr. pp. 88–92). [3] ὅτι νῦν οὐχ ὁ νόμος κρίνεται πότερον ἔστιν ἐπιτήδειος ἢ οὔ, ἀλλ᾽ ὑμεῖς δοκιμάζεσθε εἴτ᾽ ἐπιτήδειοι πάσχειν ἔστε εὖ τὸν λοιπὸν χρόνον εἴτε μή: l’argomentazione continua secondo le linee sviluppate a §§8–14: se Atene avrà fama di non ricompensare i suoi benefattori, o di privarli in seguito delle loro ricompense, nessuno avrà più fiducia (il nesso implicito qui è il tema della pistis, vd. intr. pp. 90–3) nella città e la città rimarrà senza benefattori. Nel riassumere, l’oratore rovescia la situazione processuale e sostiene che non è la legge di Leptine a essere sotto processo per stabilire se è ἐπιτήδειος (l’accusa pubblica è una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θείναι; vd. intr. pp. 12–32), ma gli Ateniesi, per stabilire se siano ἐπιτήδειοι di ricevere i servizi dei benefattori. L’aggettivo ἐπιτήδειος è particolarmente adatto a questo rovesciamento, in quanto significa ‘adatto’, ‘adeguato’ (sul significato vd. Canevaro [c.d.s. b], Kremmydas 2012: 48–9, Wohl 2010: 293 n. 17; cfr. pp. 71–6). Per stabilire che i giudici sono loro stessi sotto processo, Demostene utilizza ulteriore linguaggio giuridico: δοκιμάζεσθε allude alla dokimasia, una procedura preliminare di fronte al Consiglio e ai tribunali che valutava ogni anno le credenziali e l’adeguatezza dei magistrati prima che entrassero in carica (e di altre categorie, come i nuovi cittadini, i retori, i veterani e gli orfani), durante la quale chiunque poteva prendere la parola e obiettare (vd. comm. §90[3]). 84 [1] λαβὲ δὴ καὶ τὸ τῷ Χαβρίᾳ ψήφισμα ψηφισθέν. ὅρα δὴ καὶ σκόπει· δεῖ γὰρ αὐτὸ ἐνταῦθ᾽ εἶναί που: i documenti del processo erano sigillati dopo l’anakrisis o la diaita nell’echinos (vd. comm. §27[3]) I documenti si saranno trovati nell’echinos in disordine, rendendo difficile per il grammateus trovare il documento giusto, tanto più che il disordine era probabilmente frequente già nelle fasi preliminari, quando i documenti erano presentati per la prima volta, cfr. il ritratto dello “spudorato” di Teofrasto (Char. 9 con Diggle 2005: 258–62), che si presenta con manciate di documenti nascoste tra le falde della tunica, e altri confusamente nelle sue mani.

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Il passo (cfr. anche Dem. 18.218–21, 21.107–8) va letto come un tentativo di dare maggiore spontaneità al discorso (cfr. Drerup 1898: 248): contando sui tempi tecnici per trovare un particolare documento, Demostene domanda al grammateus di leggere il decreto che accordò l’ateleia a Cabria, ma poi aggiunge un argomento ulteriore (vd. sotto), nell’attesa che il documento sia trovato. Questa scenetta processuale è simulata già nel copione scritto per il processo, che Demostene avrà studiato e riprodotto in tribunale. L’interpretazione alternativa, che l’oratore abbia riaggiustato in seguito il discorso per allinearlo con quanto accaduto durante il processo (cfr. Kremmydas 2012: 334) è improbabile: non c’è inoltre ragione per credere che questo discorso, come la maggioranza dei discorsi assembleari o giudiziari di Demostene, sia stato rivisto dopo il processo, né che sia stato pubblicato dall’oratore (vd. Trevett 1996; 2011: 18–22; MacDowell 2009: 7–9). [2] Ἰφικράτην: Ificrate (PAA, IX, s.v. Ἰφικράτης [n° 542925]; cfr. anche Davies [APF], pp. 249–50) fu uno dei politici più in vista nell’Atene della prima metà del IV secolo. Figlio di un calzolaio (Plut. Mor. 187a) di Ramnunte (Aeschin. 1.157), la sua prima menzione risale al 393, quando lo troviamo alla guida di mercenari contro gli Spartani (per Develin 1989: 211 era generale, ma la giovane età, vent’anni, suggerisce che fosse semplicemente un comandante; cfr. Iust. Epit. 6.5.2 e Xen. Hell. 4.5.13 con Parke 1933: 51–2). Nel 390 annientò una mora spartana di 600 uomini (Xen. Hell. 4.5.11–18; Diod. 14.91.2), la sua azione più famosa e più citata dagli oratori (Aeschin. 3.243, [Dem.] 13.22, Dem. 23.198, Din. 1.75). Ottenne per questo grandi onori, tra cui una statua bronzea (datata da alcuni invece al 371, seguendo Dion. Hal. Lys. 12.5, ma vd. Gauthier 1985: 97–8, 177–80; un’altra statua dovette essere dedicata sull’Acropoli, vd. Paus. 1.24.7 e Shear 2007a: 110 n. 77) e la sitesis, il diritto ad avere pasti regolari nel Pritaneo a carico della città (Aeschin. 3.243; Dem. 23.130; per Osborne 1981–3: I, 167 questo è il primo esempio di statua e sitesis accordate insieme, cfr. §120, una pratica non attestata nelle iscrizioni prima del 314/13, in IG II2 450b, dopo gli interventi legislativi in materia degli anni 334–30; cfr. Henry 1983: 275–8; Schol. Dem. 21.62.200 Dilts sembra confermare che Ificrate fu il primo a ricevere la sitesis con una statua; sulla presenza della sitesis negli onori a Evagora di IG II2 20 vd. Lewis-Stroud 1979). Questo sarà il contesto degli onori a cui Demostene allude, e i personaggi onorati con lui, sebbene poco noti, possono essere ricondotti al suo ruolo di comandante mercenario: Strabace è forse il mercenario citato da Teodette in Arist. Rhet. 1399b, naturalizzato con Caridemo; un Polistrato è citato da Dem. 4.23 insieme a



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Ificrate e Cabria come comandante mercenario durante la Guerra di Corinto. Harp. s.v. Πολύστρατος ci informa che Didimo (fr. 1 Pearson-Stephens) non trovava conferma di un Polistrato a Corinto, e suggeriva che potesse essere Πολύτροπος, citato da Xen. Hell. 4.5.12. Ma Arpocrazione rigetta questa ipotesi. Ificrate fu poi mandato nell’Ellesponto, sconfisse Anaxibio (Xen. Hell. 4.8.34–9) e bloccò gli Spartani ad Abido, ma Antalcida intervenì e restaurò l’egemonia spartana nell’area (Xen. Hell. 5.1.25–8). Dopo la pace di Antalcida, Ificrate divenne un mercenario al servizio del re tracio Cotys, e sposò sua sorella (Dem. 23.129, 132; non sua figlia, pace Nep. Iphic. 3 e Ath. 4.131a–f; cfr. le discussioni di Davies [APF] pp. 249–250 e Kremmydas 2012: 335). Ificrate fu adottato da Aminta III per il suo ruolo nel riportarlo sul trono (Aeschin. 2.28–9), e partecipò alla campagna in Egitto del 374/3 (cfr. Diod. 15.41–3, per cui il suo disaccordo con Farnabazo contribuì al fallimento della campagna). Dopo il suo ritorno ad Atene, e un’alleanza matrimoniale con Timoteo (suo figlio Menesteo sposò la figlia di Timoteo, [Dem.] 49.66, cfr. Harris 1988: 51–2, Kallet 1983: 244–8), fu generale in varie occasioni, comandando una flotta a Corcira nel 373 (Xen. Hell. 6.2.13–39) e una spedizione contro Epaminonda nel 370/69 (Xen. Hell. 6.5.49–52). Dopo una fallita campagna ad Anfipoli nel 368, Ificrate fu deposto e rimpiazzato da Timoteo, e per timore di un processo fuggì e offrì i suoi servizi nuovamente a Cotys, tradendo Atene (Dem. 23.149 con Harris 1989: 264–71; pace Kallet 1983: 244–8). Ificrate, con Timoteo, fu nuovamente al comando delle forze ateniesi alla Battaglia di Embata del 356 (Diod. 16.21.1–4). Fu in seguito processato per tradimento con Timoteo (probabilmente assolto; cfr. Hansen 1975: 100, Hamel 1998: 155). La datazione del processo è dibattuta, ma Cawkwell ha portato buoni argomenti per il 354 (Cawkwell 1962: 45–9, con Schaefer 1885–87, I, p. 415, cfr. Sealey 1993: 112; contra Sealey 1955a: 74, 1955b: 115–16 e Hansen 1975: 101 che sostengono il 356/5) . Era già morto quando la Contro Aristocrate fu pronunciata nel 353/2 (per la sua carriera vd. Pritchett 1974: 62–72 e 117–25, Bianco 1997). Ificrate fu celebre per l’introduzione di un nuovo scudo, la pelta, più piccolo e maneggevole, e di lance più lunghe. Le sue nuove truppe, i peltasti, erano più manovrabili (Parke 1933: 50–7; Pritchett 1985: 58–9 n. 173; Lendon 2005: 93–8; Horn­ blower 2002: 195; Hunt 2007: 119–21). [3] Τιμοθέῳ διδόντες τὴν δωρεάν: Timoteo (LGPN, II, s.v. Τιμόθεος [n° 32]) è uno dei più importanti politici ateniesi della prima metà del IV secolo. Figlio di Conone (comm. §68[1]) e fervente imperialista, ebbe una carriera

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costellata di successi; dopo l’elezione a generale nel 378/7 (Diod. 15.29.7) circumnavigò il Peloponneso e fece varie conquiste nello Ionio (Diod. 15.36.5ss., Isoc. 15.109: Acarnania, Cefallenia, Molossia); conquistò poi Corcira e sconfisse gli Spartani ad Alizia in Acarnania nel 375 (Xen. Hell. 5.4.63–66; Diod. 15.36.5; Nep., Timoth. 1–2; Polyaen. 3.4–17). Queste sono le imprese più spesso ricordate dagli oratori (p. es. Dem. 23.198, Din. 1.75), e come ricompensa gli Ateniesi gli votarono vari onori e una statua (eretta accanto a quella del padre: Paus. 1.24.3; Aeschin. 3.243; Nep. Timoth. 2.3; vd. comm. §70[1]). Fu un personaggio controverso, spesso odiato per la sua arroganza, e subì vari processi, di uno dei quali ci è noto il discorso di accusa di Apollodoro, il figlio del banchiere Pasione, conservato tra le opere di Demostene ([Dem.] 49; vd. Harris 1988). Il più famoso di questi processi gli fu intentato da Ificrate e Cabria nel 373 ([Dem.] 49.10), per avere ritardato gli aiuti a una spedizione a Corcira. Non fu condannato (Hansen 1975: 91; Hamel 1998: 123–4, 129), ma perse il comando e lasciò Atene. Fu poi al servizio del Gran Re in Egitto ([Dem.] 49.9, 23), ma negli anni ’60 del IV secolo tornò nelle grazie degli Ateniesi, conquistò Samo col satrapo ribelle Ariobarzane e combatté Cotys e Epaminonda, collaborando anche con Agesilao (Isoc. 15.111; Dem. 23.150; Nep. Timoth. 1). Subì in questo periodo l’accusa da Apollodoro, che reclamava un vecchio debito, probabilmente tra il 369 e il 366 ([Dem.] 49; cfr. Dem. 36.53; sulla datazione vd. Harris 2006: 355–64, MacDowell 2009: 105–6; contra Schaefer 1858: 139–43, Trevett 1992: 35–6, Scafuro 2011: 359–62 che la datano al 362/1). Dopo aver sostituito Ificrate nel 364/3, non riuscì a riconquistare Anfipoli. Fu un altro processo a essergli fatale: la causa intentata da Aristofonte e Carete contro Timoteo e Ificrate (vd. sopra): Timoteo fu condannato a una multa di 100 talenti e non potendo pagare si ritirò a Calcide dove morì poco dopo (Diod. 16.21.4, Isoc. 15.100, 129, Nep. Timoth. 3.4–5; Plut. Mor. 605; cfr. Hansen 1975: 101; Hamel 1998: 155). Il Clearco che grazie a Timoteo ricevette la cittadinanza ateniese è stato identificato da Reiske con il tiranno di Eraclea Pontica (363/352), vissuto a lungo ad Atene, allievo di Platone e Isocrate (Diod. 16.36.3; Memnone, FGrH 433 F 1.1) e amico di Timoteo (Isocr. Ep. 7.12). Possiamo inoltre identificare un altro esempio: il Menelao di IG II2 110 = RO 38 delle cui benemerenze, tra cui aiuti finanziari e la partecipazione alle azioni militari contro Calcide e Anfipoli, gli Ateniesi furono informati da Timoteo (ll. 6–11). [4] Χαβρίας δ᾽ αὐτὸς ἐτιμήθη παρ᾽ ὑμῖν μόνος: c’è un’apparente contraddizione con §132–133, dove Demostene afferma che Licida, schiavo di



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Cabria, ottenne la prossenia. Ma è possibile che questo provvedimento sia stato indipendente dalla concessione dell’ateleia a Cabria. 85 [1] εἰ δὴ τότε, ὅθ᾽ εὑρίσκετο τὴν δωρεάν, ἠξίωσεν ὑμᾶς...: dopo aver ricordato Ificrate e Timoteo, e chi fu onorato per causa loro, Demostene ragiona: le loro imprese furono giudicate sufficienti a giustificare non solo le loro enormi ricompense (a entrambi furono erette statue nell’agora), ma anche onori ulteriori per individui meno meritevoli da loro indicati. Così le imprese di Cabria sono superiori alle ricompense che ha ricevuto e gli Ateniesi non hanno esaurito il loro debito. Se Cabria avesse voluto, avrebbe all’epoca facilmente ottenuto che chiunque fosse onorato, a prescindere dai suoi meriti, per effetto della riconoscenza degli Ateniesi nei suoi confronti. Questa è dunque l’ipotesi paradossale di Demostene: l’argomento principe di Leptine è che molti degli esenti non sono meritevoli (cfr. §§1, 7); ma se Cabria quando ottenne le sue ricompense avesse richiesto (come Ificrate e Timoteo) che questi stessi individui non meritevoli fossero onorati, gli Ateniesi avrebbero assentito, come favore al generale in cambio dei servizi da lui resi. Demostene conclude che è assurdo che ora Cabria perda l’esenzione perché alcuni degli esenti non sono meritevoli, quando se avesse voluto avrebbe potuto all’epoca delle sue imprese ottenere per loro l’esenzione sulla base dei suoi meriti. Il paradosso è costruito sulla reciprocità tra Cabria e la città, che non si esaurì con le sue ricompense, e non si è esaurita con la sua morte. 86 [1] ἀλλ᾽ ἄλογον: cfr. §76 per la scelta di abolire l’ateleia come irragionevole e irrazionale. [2] οὐδὲ γὰρ ὑμῖν ἁρμόττει δοκεῖν [...] προχείρως ἔχειν ὥστε [...] ἀλλὰ καὶ τοὺς ἐκείνων φίλους, ἐπειδὰν δὲ χρόνος διέλθῃ βραχύς, καὶ ὅσα αὐτοῖς δεδώκατε, ταῦτ᾽ ἀφαιρεῖσθαι: come a §§57 e 62, Demostene sostiene che nel ricevere servizi e nel discutere di revocare le ricompense per quegli stessi servizi bisogna mantenere gli stessi standard. Qui l’accusa è che gli Ateniesi fossero pronti a onorare opportunisticamente non soltanto Cabria ma persino i suoi amici quando si trattava di convincerlo a servire la città, ma ora, soltanto pochi anni dopo (ἐπειδὰν δὲ χρόνος διέλθῃ βραχύς fa riferimento al fatto che Cabria è morto due anni prima), non hanno scrupoli a rimangiarsi la parola data. δοκεῖν fa inoltre riferimento alla doxa della città (vd. intr. pp. 88–92): le azioni degli Ateniesi saranno note a tutti, con

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conseguenze sul comportamento dei benefattori, che non si fideranno più della città. [3] ΨΗΦΙΣΜΑΤΑ ΤΩΝ ΧΑΒΡΙΟΥ ΤΙΜΩΝ: il lemma fu probabilmente inserito in seguito a marcare un documento mancante nel testo (cfr. comm. §§27[4], 69[1]). A §84 Demostene fa riferimento a un solo decreto (τὸ τῷ Χαβρίᾳ ψήφισμα), e il plurale è probabilmente utilizzato in analogia ai lemmata di §§35, 63, 70 (cfr. Kremmydas 2012: 339). Il decreto qui letto dal grammateus dovette essere quello che concedeva l’ateleia a Cabria, probabilmente lo stesso che decretava anche l’erezione di una statua nell’agora, dopo la vittoria di Nasso (cfr. comm. §77[3]; sugli onori di Cabria in generale vd. Gauthier 1985: 99–103). 87 [1] οὓς μὲν τοίνυν ἀδικήσετε, εἰ μὴ λύσετε τὸν νόμον, πρὸς πολλοῖς ἄλλοις, οὓς ἀκηκόατε, εἰσίν, ὦ ἄνδρες δικασταί: questo paragrafo marca la conclusione della discussione dei benefattori ateniesi e dell’intera sezione sui benefattori che subiranno un’ingiustizia se la legge di Leptine resterà in vigore (§§29–87). Demostene riassume l’argomentazione affermando che sono coloro di cui gli Ateniesi hanno appena ascoltato le imprese (il soggetto è οὓς ἀκηκόατε con attrazione del relativo determinata dall’oggetto οὓς [...] ἀδικήσετε), e molti altri che non ha citato, che subiranno un’ingiustizia. Non è chiaro se ci fossero molti altri Ateniesi esenti per un’ateleia onorifica (vd. comm. §67[1]), ma certamente Demostene avrebbe potuto trovare altri esempi – menzionandone l’esistenza amplifica la sua affermazione. [2] σκοπεῖτε δὴ […] εἴ τινες τούτων τῶν τετελευτηκότων λάβοιεν τρόπῳ τινὶ τοῦ νυνὶ γιγνομένου πράγματος αἴσθησιν, ὡς ἂν εἰκότως ἀγανακτήσειαν: la maggioranza dei benefattori citati erano morti (nonostante l’oratore cerchi di oscurarlo a §§41, 44). Demostene può quindi sfruttare qui un’immagine comune negli oratori: il giudizio negativo dei morti verso i vivi, (p. es. Lys. 12.99–100; Dem. 19.66, 23.210, Isoc. 9.2, 14.61, 19.42; Lyc. 1.136; Hyp. Epitaph. 46). Questa immagine era legata alla credenza diffusa che i morti potessero vedere e giudicare i vivi (cfr. Dover 1974: 243–6). Negli oratori l’idea è normalmente espressa con la protasi di un periodo ipotetico della possibilità (εἴ τινες λάβοιεν αἴσθησιν) – per alcuni studiosi un segno evidente che questa idea era nel IV secolo “riddled with doubts” (Mikalson 1983: 79). Ma negli oratori, piuttosto che una coerente posizione agnostica, sono riscontrabili due posizioni: da un lato p. es. Hyp. Epitaph. 46 dà per scontato che i morti percepiscano, e che questa credenza sia condivisa tra il pubblico (εἰ δ᾽ ἔστιν αἴσθησις ἐν Ἅιδου καὶ ἐπιμέλεια



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παρὰ τοῦ δαιμονίου, ὥσπερ ὑπολαμβάνομεν; questa è la credenza ripresa p. es. da Pl. Leg. 926e9–927a8); dall’altro p. es. Aeschin. 1.14 dà per scontato che dopo la morte non ci sia percezione (τελευτήσαντα δὲ αὐτόν, ἡνίκα ὁ μὲν εὐεργετούμενος οὐκ αἰσθάνεται ὧν εὖ πάσχει; vd. Currie 2005: 31–40 su questo dualismo; cfr. Adkins 1970: 66–74). Nel mezzo ci sono varie forme di agnosticismo e formulazioni dubitative della prima posizione. Qui Demostene assume una posizione agnostica, e esprime dubbi sull’effettiva percezione dei morti non soltanto con l’uso del periodo ipotetico della possibilità, ma anche con l’espressione τρόπῳ τινί che qualifica λάβοιεν αἴσθησιν come possibilità remota. Questo non toglie alcuna forza alla sua immagine: se i grandi benefattori di Atene, da morti, fossero al corrente che le loro ricompense sono in pericolo, è chiaro quale sarebbe la loro reazione, e se ne siano effettivamente al corrente è secondario. [3] εἰ γὰρ ὧν ἔργῳ πεποίηκεν ἕκαστος αὐτῶν ὑμᾶς εὖ, τούτων ἐκ λόγου κρίσις γίγνεται: ancora la contrapposizione tra logos e ergon (cfr. §§47, 104) e al contempo il topos dell’inespressibile (comm. §76[2]): l’oratore afferma che i benefattori della città saranno vittime di ingiustizia: il valore delle loro imprese (ἔργῳ) sarà valutato sulla base del loro racconto (ἐκ λόγου), mentre le imprese dei benefattori vanno giudicate all’epoca dei fatti. Dunque il riconoscimento del loro merito dipenderà esclusivamente dall’abilità oratoria di chi cerca di abrogare la legge di Leptine: se Demostene e i suoi alleati avranno la peggio, le imprese dei benefattori saranno invano. Nel concludere la sezione dunque Demostene non soltanto fa dipendere il riconoscimento dei loro meriti dall’esito del processo, ma al contempo si scusa se il suo elogio non è adeguato al loro valore. 88–104: L’oratore discute le norme della nomothesia, mostrando di aver seguito le corrette procedure. Sostiene poi che Leptine abbia promulgato una legge che contraddice tanto la lettera di una legge vigente, quanto lo spirito delle leggi di Solone. 88 [1] ἵνα τοίνυν εἰδῆτε, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, ὅτι ὡς ἀληθῶς ἐπὶ πᾶσι δικαίοις ποιούμεθα τοὺς λόγους πάντας οὓς λέγομεν πρὸς ὑμᾶς: la captatio benevolentiae apre una complessa discussione sulle corrette procedure per approvare e abrogare le leggi (che Leptine non ha rispettato, e Demostene sta invece rispettando; vd. intr. pp. 12–32). Kremmydas (2012: 341) attribuisce la posizione della discussione al centro del discorso, e la sua brevità (§§88–101), alla debolezza dell’argomentazione. Ma l’argomentazione qui

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pare fondata: la legge sostitutiva è presentata correttamente, e quella citata a §§95–6 almeno superficialmente contraddice la legge di Leptine (vd. comm. §96[2]). La brevità sarà dovuta piuttosto al fatto che il discorso di Demostene non è l’arringa principale, e Formione avrà già toccato queste questioni. Le conseguenze economiche della legge di Leptine, e il danno alla fama di Atene, erano questioni più spinose, e sono il tema chiave dell’orazione (vd. intr. pp. 77–97). [2] καὶ οὐδὲν ἔσθ᾽ ὅ τι τοῦ παρακρούσασθαι καὶ φενακίσαι λέγεται παρ᾽ ἡμῶν εἵνεκα: coerentemente con la ripetuta condanna dell’inganno (cfr. §§3, 9), Demostene rassicura i giudici che nulla di quanto dirà è volto a ingannarli. La sezione si preoccupa di mostrare che le procedure seguite dall’accusa, e la presentazione di una legge sostitutiva, sono regolari, e che Apsefione, Formione e Demostene stesso intendono davvero promulgare la loro legge. Queste proteste di onestà rispondono ad accuse portate da Leptine (§100 con intr. pp. 25–30) all’anakrisis. [3] ἀναγνώσεται τὸν νόμον ὑμῖν ὃν παρεισφέρομεν γράψαντες ἀντὶ τοῦδε, ὃν οὐκ ἐπιτήδειον εἶναί φαμεν: sull’interpretazione di questa frase vd. intr. pp. 13–16. [4] γνώσεσθε γὰρ ἐκ τούτου πρόνοιάν τινα ἔχοντας ἡμᾶς: Demostene attribuisce una delle caratteristiche fondamentali del buon politico, l’abilità di prevedere le conseguenze future (pronoia) di certe decisioni per il bene della polis, all’intero team dell’accusa. La legge sostitutiva è appunto improntata a pronoia, e tre proposizioni finali consecutive esplicitano le conseguenze che deriveranno dalla legge sostitutiva: la città non acquisirà una fama vergognosa, chi non merita la sua ricompensa ne verrà privato, e chi la merita la potrà mantenere. Pronoia si trova oltre 150 volte nel corpus della letteratura greca di V e IV secolo e indica la capacità (nel presente) di prevedere le conseguenze future delle proprie azioni (Harris 2013: 183). È spesso menzionata come dote essenziale del buon politico: p. es. Tucidide (2.65.6) la attribuisce a Pericle (Kallet-Marx 1993: 117–20), e a 1.138 rappresenta Temistocle come un uomo “capace di prevedere con eguale chiarezza il bene e il male nascosto nel futuro”. È anche caratteristica di Odisseo nell’Aiace sofocleo (Scodel 2005: 137) e l’incapacità di prevedere le consueguenze delle sue azioni è alla radice della rovina di Creone nell’Antigone (Cairns 2013: 11–40; 2014: 23). Demostene evidenzia questa caratteristica nel discorso Sulla Corona, attribuendola alla sua azione politica contro Filippo. A Dem. 18.246 fornisce



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una descrizione precisa delle doti dell’uomo di stato: “Riflettete a fondo, Ateniesi, per cosa un rhetor sia responsabile. Non avanzo alcuna scusa. Quali sono queste attività? Rendersi conto dei problemi non appena cominciano a materializzarsi, anticiparne le conseguenze, e avvisare gli altri. Questo è quello che ho fatto”. Cfr. Pack3 2496 = P.Hibeh 1.15 ll. 70ss. per questa abilità nella costruzione della persona del buon generale e politico in un esercizio retorico di III secolo (cfr. Kremmydas 2013: 156–9 e Canevaro [c.d.s. a]). [5] ὅπως ὑμεῖς μηδὲν αἰσχρὸν ποιῆσαι δόξετε: la prima conseguenza della legge sostitutiva è che, al contrario la legge di Leptine, non porterà alla città una fama vergognosa (cfr. §§9, 20 con intr. pp. 86, 88–91). [6] ὅπως, εἴ τινά τις καταμέμφεται τῶν εὑρημένων τὰς δωρεάς, ἂν δίκαιον ᾖ, κρίνας παρ᾽ ὑμῖν ἀφαιρήσεται: la seconda conseguenza entra nel merito del dettato della legge sostitutiva, che prevede un giudizio in tribunale su chi è accusato di non meritare le ricompense. Mentre la legge di Leptine toglie indiscriminatamente a tutti l’ateleia, la legge sostitutiva prevede una valutazione ad hoc in tribunale se si ritiene che un onorando sia immeritevole (§137 – γράφεσθαι κατὰ τὸν νόμον ὃν παρεισφέρομεν νῦν ἡμεῖς – mostra che si sarebbe trattato di una graphe portata da un volontario, ho boulomenos). Demostene parla genericamente di τὰς δωρεάς, e l’applicazione della legge sostitutiva non è limitata all’ateleia neppure a §§97–8 e 137, per cui è possibile che fosse applicabile a qualunque ricompensa, non soltanto all’ateleia (ma manca una citazione verbatim della legge che possa confermarlo). Kremmydas (2012: 344) commenta che la legge sostitutiva non crea nulla che una graphe paranomon non fornisse già: la possibilità di portare un’accusa pubblica per illegalità contro un decreto onorifico (p. es. il caso della Contro Dionda di Iperide; cfr. Hansen 1974: 62–5). Cita poi come esempio di procedura analoga [Dem.] 59.90–1, dove Apollodoro afferma che anche dopo che uno straniero è naturalizzato, la cittadinanza può essere revocata con un’accusa pubblica κατ᾽ αὐτοῦ, contro di lui. Ma Apollodoro è impreciso: il passo chiarisce che si tratta di una semplice graphe paranomon (παρανόμων γραφὴν ἐποίησε κατ᾽ αὐτοῦ τῷ βουλομένῳ Ἀθηναίων), portata dunque contro il proponente del decreto, non contro il naturalizzando (cfr. Kapparis 1999: 370). Con la legge sostitutiva invece l’accusa sarebbe stata intentata direttamente contro l’onorando: εἴ τινά τις καταμέμφεται τῶν εὑρημένων τὰς δωρεάς sembra alludere a questo; così anche καὶ πρόφασις δικαία κατὰ τῶν ἢ παρακρουσαμένων ἢ μετὰ ταῦτ᾽ ἀδικούντων di §§97–8; a §§137–8 Demostene afferma che se qualcuno è immeritevole, l’opzione

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migliore è γράφεσθαι κατὰ τὸν νόμον ὃν παρεισφέρομεν νῦν ἡμεῖς, e che ognuno degli esenti ha almeno un nemico personale (vd. intr. pp. 43–6) che si preoccuperà di accusarlo. A §164 aggiunge che questa accusa pubblica dà ai giudici il potere di decretare pene ulteriori per l’onorando immeritevole, in aggiunta alla cancellazione dell’onore (possibilità non contemplata dalla graphe paranomon). La legge sostitutiva dunque non riproduceva la graphe paranomon; introduceva una nuova procedura che comportava la possibilità di portare in ogni momento (anche a distanza di decenni) una graphe contro l’onorando stesso o i suoi eredi, con la motivazione che l’onorando o il suo erede non meritava (più) le ricompense. Sarà stata formulata in questi termini: se un onorando o uno dei suoi eredi hanno tramato contro il popolo, hanno commesso dei reati dopo aver ricevuto la ricompensa o in generale non sono degni dei loro premi (cfr. §97), sia possibile per chi vuole tra gli Ateniesi intentare un’accusa pubblica (γράφεσθαι) contro di loro in quanto immeritevoli, e se condannati perdano le loro ricompense; si possano inoltre proporre pene aggiuntive (cfr. §164). Non sappiamo se questa legge sia mai stata approvata, ma la valutazione degli onori in tribunale era una concreta possibilità: un’iscrizione, IG II2 398, mostra che tra la fine degli anni 320 e l’inizio dei 310 le procedure di naturalizzazione furono riformate e venne aggiunta la ratifica in tribunale (ll. b3–6; non è chiaro se questa innovazione sia stata introdotta dall’oligarchia imposta da Antipatro o dalla democrazia restaurata dal decreto di Poliperconte; vd. Rhodes con Lewis 1997: 23, Engen 2010: 411–12; Canevaro 2013c: 60–1). [7] ὅπως, οὓς οὐδεὶς ἂν ἀντείποι μὴ οὐ δεῖν ἔχειν, ἕξουσι τὰ δοθέντα: la terza conseguenza è che chi è meritevole, e che nessuno accusa, manterrà la ricompensa. In questo modo la città eviterà di compiere ingiustizie contro i suoi benefattori. 89 [1] οὐδὲν ἔσtιν ἡμέτερον καινὸν εὕρημα: si segue la lezione di AF con Kremmydas. Fox (seguito da Butcher) emenda οὐδὲν ἔσθ’ ἡμέτερον οὐδὲ καινὸν εὕρημα e Felicianus (seguito da Dilts) emenda οὐδὲν ἔστιν καινὸν οὐδ’ ἡμέτερον εὕρημα, ma la lezione di AF rende perfettamente il senso richiesto dal contesto, senza richiedere emendazioni. [2] ἀλλ᾽ ὁ παλαιός, ὃν οὗτος παρέβη, νόμος οὕτω κελεύει νομοθετεῖν: sul παλαιός νόμος, la legge sulla nomothesia, vd. intr. pp. 17–19.



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[3] γράφεσθαι μέν […] παρεισφέρειν δ᾽ αὐτὸν ἄλλον, ὃν ἂν τιθῇ λύων ἐκεῖνον, ὑμᾶς δ᾽ ἀκούσαντας ἑλέσθαι τὸν κρείττω: sulla corretta interpretazione di questa frase e le fasi della procedura che descrive vd intr. pp. 23–5 e 25–31. 90 [1] οὐ γὰρ ᾤετο δεῖν ὁ Σόλων: l’attribuzione di una legge a Solone serve solitamente a metterne in risalto l’autorità e l’antichità (p. es. Aeschin. 1.183, 3.175, Dem. 18.6, 24.103, 142 con Hansen 1989: 81). La lista delle istituzioni che nel IV secolo erano attribuite a Solone è impressionante: oltre a istituire la procedura della nomothesia, Solone istituì un consiglio di Quattrocento ([Arist.] Ath. Pol. 8.4) e il tribunale popolare ([Arist.] Ath. Pol. 9.1; Arist. Pol. 2.1274a3–5), sancì la differenza tra nomoi e psephismata (Hyp. Athen. 22) e la selezione per sorteggio per le cariche pubbliche ([Arist.] Ath. Pol. 8.1), stabilì che i magistrati prestassero servizio senza paga (Isoc. 7.24–25) e che il loro potere nei confronti dei cittadini fosse limitato dal diritto di appellarsi al tribunale popolare ([Arist.] Ath. Pol. 9.1), istituì le graphai (Arist. Ath. Pol. 9.1; Dem. 22.25–30) e la graphe nomon me epitedeion theinai, introdusse l’eisangelia all’Areopago per katalysis tou demou, impose a tutti i cittadini di schierarsi in caso di stasis e stabilì norme per gli oratori in assemblea (Aeschin. 1.22–32; Dem. 22.30–32). Attribuire le leggi a un unico legislatore è tipico della tendenza greca a identificare un inventore originario, un protos euretes (Hansen 1989: 82; Thomas 1994: 124). Schreiner (1913: 12–60) sostenne che il riferimento a Solone fosse un’abbreviazione per intendere il codice delle leggi come ripubblicato nel decennio 410–399 (cfr. Clinton 1982; Rhodes 1991). Oratori e giudici sarebbero stati coscienti che il riferimento era fittizio e indicava semplicemente le leggi in vigore. Ruschenbusch (1966) sostenne invece che si riferisca generalmente negli storici e negli oratori a leggi effettivamente conservate nel IV secolo sugli originali axones solonici. Hansen ha tuttavia argomentato (1989: 79–80) che questo sia il caso soltanto per leggi di diritto privato, criminale, e più raramente sull’amministrazione della giustizia. È evidente che leggi come quella sulla nomothesia non erano presenti negli axones, in quanto risalgono all’epoca della restaurazione della democrazia nel 403. Ruschenbusch (1966: 103–123) cataloga queste leggi come false, ambigue o inservibili (falsches, zweifelhaftes, unbrauchbares; “Unusable, doubtful, spurious” in Rhodes-Leão 2015). Altra questione è, tuttavia, se gli Ateniesi di IV secolo credessero che queste leggi fossero davvero soloniane, e che funzione avesse l’appello a Solone. Per Hansen (1989: 80–82), gli oratori si aspettavano che i giudici credessero nell’origine soloniana – prova sa-

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rebbero passi come questo dove gli oratori richiamano le intenzioni di Solone, o reclamano la coerenza interna della sua legislazione (cfr. §§102–103). Per Thomas (1994), questi appelli sono spia di attitudini reazionarie alla legislazione – nostalgia e ricerca di legittimità non più fornita dalle istituzioni correnti. Per Rhodes-Leão (2015: 6) gli Ateniesi sapevano distinguere tra leggi autenticamente di Solone, e leggi “soloniane”. La funzione di Solone nell’ideologia e nelle argomentazioni giuridiche di IV secolo è tuttavia più complessa. Gli Ateniesi nel IV secolo non sottoscrivevano a una visione conservatrice delle leggi, che avrebbe contraddetto le istituzioni della nomothesia che davano a ogni Ateniese la possibilità di introdurre nuove leggi (Canevaro [c.d.s. b]). Queste procedure furono seguite costantemente lungo il IV secolo (Hansen 1978; 1979), ma gli oratori non criticano mai le leggi come confuse, incoerenti o illegittime (cfr. Aeschin. 3.37–40 con Carey 1996: 44, Harris 2013: 206–7). Piuttosto, gli Ateniesi ritenevano che le loro leggi formassero un insieme coerente e razionale (Johnstone 1999: 28–9; Sickinger 2008; Wohl 2010: 287–92; Canevaro 2013b: 158–60; Canevaro [c.d.s. b]), salvaguardato dalle procedure di nomothesia, che imponevano di evitare contraddizioni e di abrogare norme incoerenti. Questa coerenza era predicata sulla figura del legislatore originario, Solone, e derivava dalla sua razionalità, conservata e riprodotta attenendosi alle norme della nomothesia (cfr. Canevaro [c.d.s. b]). Gli Ateniesi erano coscienti di innovazioni e stratificazioni legislative (vd. p. es. Aeschin. 1.177–8 e 33–4 con Canevaro [c.d.s. b]), ma grazie alla nomothesia le leggi restavano un sistema coerente e razionale, caratterizzato da un ethos unitario (Johnstone 1999: 29; Canevaro [c.d.s. b]). Per questa ragione gli oratori possono utilizzare altre leggi (come qui la legge sulla dokimasia dei tesmoteti) per chiarificare il significato di una legge in casi di “open texture” (Harris 2013: 213–73, particolarmente 270–1), appellandosi all’intento del legislatore (p. es. Hyp. Athen. 13–22; Dem. 18.6, 22.8–11, 25, 30, 36.27, 58.11; Lyc. 1.9; Lys. 31.27; Isae. 2.13), in genere Solone stesso. Poiché per un Ateniese le leggi erano tra loro coerenti e improntate a eguali intenzioni ed ethos, l’ethos imposto originariamente da Solone, esse erano leggi di Solone a prescindere da chi le avesse composte. Queste allusioni all’intento del legislatore non sono dunque puramente retoriche e ingannevoli, e non costituiscono argomenti extra-giuridici (pace p. es. Hillgruber 1988: 107–19, Thomas 1994: 124). Sono argomenti squisitamente giuridici che tentano di guidare l’interpretazione delle leggi sulla base della razionalità e coerenza dell’ordinamento. Offrono la possibilità di interpretazioni non letterali, sulla base di altre leggi (Johnstone 1999: 25–33). La figura del legislatore è dunque una



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figura fittizia, ma ancorata a una figura storica e alla sua azione legislativa, replicata attraverso le procedure di nomothesia. [2] ὁ τοῦτον τὸν τρόπον προστάξας νομοθετεῖν: le norme sulla nomothesia in vigore nel IV secolo non risalivano a Solone. Furono probabilmente create dai nomothetai eletti nel 403 (Canevaro-Harris 2012: 110–16; Canevaro 2015) dopo la restaurazione democratica. Questi nomoteti, da distinguere da quelli di IV secolo, introdussero anche la distinzione tra nomoi e psephismata (Harrison 1955: 26; Hansen 1991: 164; Kremmydas 2012: 24; Canevaro 2015). [3] τοὺς μὲν θεσμοθέτας τοὺς ἐπὶ τοὺς νόμους κληρουμένους: la dokimasia nel IV secolo si svolgeva in due passaggi per tutti i magistrati (vd. sotto): che Demostene si concentri sui tesmoteti è funzionale al suo argomento. I tesmoteti erano selezionati per sorteggio, come notato esplicitamente da Demostene (κληρουμένους), e affiancavano gli Arconti Eponimo, Polemarco e Re a formare il collegio degli arconti (vd. Rhodes 1981: 661–8; 697–706). Presiedevano (individualmente) a gran parte delle procedure giudiziarie. Avevano responsabilità su graphai, eisangelia, apophasis e probole, graphe paranomon e nomon me epitedeion theinai, su accuse contro proedroi e epistatai, dokimasiai di magistrati e di chi era stato rifiutato dal suo demo come cittadino, dei casi trasmessi alle corti dal Consiglio e di alcuni casi privati ([Arist.] Ath. Pol. 59.1–7). Gestivano inoltre il funzionamento del sistema delle corti nel suo complesso, designavano i giorni nei quali sarebbero state in seduta e le assegnavano ai magistrati competenti; erano in carica, coi tre arconti e il segretario del loro collegio, dell’assegnazione dei giudici alle corti (su cui vd. [Arist.] Ath. Pol. 59.7, 63–6, con Dow 1939, Rhodes 1981: 668, 697–717). Avevano dunque giurisdizione sull’ordinamento giudiziario e sull’applicazione delle leggi in generale, e questa è la ragione per cui Demostene può descriverli come τοὺς ἐπὶ τοὺς νόμους e connettere il loro ruolo a quello delle leggi stesse. Dal momento che i casi di γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι erano accolti e presieduti da uno dei tesmoteti, Demostene avrà potuto indicare fisicamente il magistrato in questione mentre discuteva il suo ruolo. [4] δὶς δοκιμασθέντας ἄρχειν, ἔν τε τῇ βουλῇ καὶ παρ᾽ ὑμῖν ἐν τῷ δικαστηρίῳ: la dokimasia controllava preliminarmente i magistrati sorteggiati o eletti, ed era utilizzata anche per i nuovi cittadini ([Arist.] Ath. Pol. 42; Robertson 2000), per chiunque parlasse in Assemblea (Aeschin. 1.28– 32; cfr. MacDowell 2005), per veterani e orfani che richiedevano supporto

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finanziario ([Arist.] Ath. Pol. 49.4; Lys. 24). Nella dokimasia dei magistrati, i candidati venivano giudicati non sulle competenze (Lys. 26.9), ma sulla condotta, le convinzioni politiche, e i requisiti formali delle cariche: avere almeno trent’anni (Hansen 1980a: 167–9) e l’appartenenza a una delle prime tre classi soloniane. Quest’ultima norma nel IV secolo era ignorata (Hansen 1999: 227). L’esame si svolgeva un tempo soltanto di fronte al Consiglio, ma nel IV secolo avveniva in due tempi ([Arist.] Ath. Pol. 55.2, 45.3 con Hansen 1999: 218–20): davanti al Consiglio e davanti al Tribunale. I candidati rispondevano a domande sul loro nome, sul demo di origine, sull’appartenenza a una fratria, se praticassero i culti famigliari, se trattassero adeguatamente i genitori e se avessero svolto il servizio militare. Dovevano produrre testimoni delle loro affermazioni. Dopodiché chiunque poteva pronunciarsi contro il candidato, che doveva rispondere immediatamente alle accuse. Seguiva il voto, in Consiglio per alzata di mano, in Tribunale a scrutinio segreto ([Arist.] Ath. Pol. 55.4; vd. Hansen 1980a; 1999: 321–4). L’unica conseguenza di un verdetto negativo era l’impossibilità per il candidato di insediarsi in carica (apodokimasia; cfr. [Arist.] Ath. Pol. 45.3; 55.4), mentre se durante l’esame veniva alla luce un reato, questo non era perseguito a meno che qualcuno non intentasse un’accusa a quel riguardo. Ogni anno il Consiglio svolgeva non meno di 509 dokimasiai e le corti almeno 700 (sulla valutazione dei magistrati nel mondo greco vd. Fröhlich 2004; sulle dokimasiai Feyel 2009). [5] τοὺς δὲ νόμους αὐτούς [...] ἐπὶ καιροῦ τεθέντας, ὅπως ἔτυχον, μὴ δοκιμασθέντας κυρίους εἶναι: caratteristica fondamentale delle corrette procedure legislative sono vari passaggi volti a evitare che nuove leggi siano promulgate di fretta e senza adeguata discussione (cfr. Timocrate che a Dem. 24.24–6 è accusato di non avere rispettato i tempi corretti; vd. Canevaro 2013b: 144–7; [c.d.s. b]). Questi passaggi, e la pubblicità delle proposte (vd. §94 e Dem. 24.26), garantivano tempo e informazioni sufficienti per deliberare sulle nuove leggi. La razionalità di queste misure è confermata dalla discussione della dokimasia dei tesmoteti, sulla base dell’intento del legislatore (vd. sopra). Che i magistrati in carica delle corti, e dunque in carica di applicare le leggi, siano scrutinati due volte mostra quanto Solone tenesse alle leggi e alla loro corretta applicazione. È dunque inconcepibile che abbia imposto meno controlli sull’approvazione delle leggi stesse. Il bersaglio del ragionamento è la presunta modalità di legislazione dei politici dell’epoca (§§91–2), che ignorano le corrette procedure.



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91 [1] καὶ γάρ τοι τότε μέν, τέως τὸν τρόπον τοῦτον ἐνομοθέτουν, τοῖς μὲν ὑπάρχουσι νόμοις ἐχρῶντο, καινοὺς δ᾽ οὐκ ἐτίθεσαν: dopo aver descritto brevemente il παλαιός νόμος (la legge sulla nomothesia, vd. intr. pp. 17–19), Demostene divide in modo fittizio le pratiche legislative di Atene in due fasi: una in cui questa legge era rispettata, e una successiva in cui i politici hanno trovato il modo di ignorarne le procedure. Queste due fasi contrapposte sono definite in modo vago, senza agganci precisi alla realtà storica (τότε μέν – ἐπειδὴ δὲ, ὡς ἐγὼ πυνθάνομαι). Per entrambi i periodi l’oratore fornisce una descrizione delle conseguenze pratiche per le leggi della città. Le descrizioni sono costruite retoricamente come opposti assoluti, e non rispondono alla realtà delle pratiche legislative ateniesi. Le fonti confutano la descrizione della situazione caotica all’epoca dell’orazione (vd. sotto), e la rappresentazione di un tempo in cui gli Ateniesi si servivano delle leggi esistenti senza promulgarne di nuove è altrettanto fittizia, contraltare delle pratiche attuali. In realtà gli Ateniesi approvarono nuove leggi lungo tutto il IV secolo (p. es. SEG 26.72; Stroud 1998; Agora Excavations, inv. no. I 7495; IG II2 140; IG II3 1 429), e la procedura stessa descritta a §§88–9 (e più in dettaglio a §§93–4) contempla l’abrogazione di una legge e la promulgazione di una legge sostitutiva. Le parole di Demostene dunque non descrivono la realtà delle pratiche legislative ateniesi, nel passato o nel presente. Vari studiosi le hanno tuttavia interpretate come spia di conservatorismo legislativo, quasi reazionario o “spartano” in contrasto con le procedure della nomothesia (Hansen 1989; Thomas 1994; Wohl 2010: 287–92). Conferma di questa ideologia sarebbe Dem. 24.142, dove l’oratore descrive con ammirazione una legge locrese secondo la quale le leggi dovevano essere presentate con un cappio intorno al collo, cappio che sarebbe stato stretto nel caso la proposta fosse stata respinta. Questa interpretazione si regge tuttavia su una lettura troppo letterale di questi passaggi, che ignora il contesto argomentativo. Queste descrizioni non vogliono fungere da modello per il presente ateniese; vengono semplicemente contrapposte a un presente in cui il problema non è che i politici legiferino, ma piuttosto le modalità della loro legislazione: non seguono le corrette procedure (vd. sotto). Forniscono cioè un contraltare estremo alle pratiche corrotte, a dimostrare che altrove (nel tempo e nello spazio) pratiche diametralmente opposte sono state adottate con successo (la stessa strategia è impiegata a §§105–11). Non vogliono suggerire l’adozione di queste pratiche estreme (non legiferare del tutto). L’obiettivo è più modesto: convincere gli Ateniesi che è importante promulgare nuove leggi con più attenzione e seguendo le corrette procedure (vd. Canevaro [c.d.s. b]).

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[2] ἐπειδὴ δὲ τῶν πολιτευομένων τινὲς δυνηθέντες, ὡς ἐγὼ πυνθάνομαι, κατεσκεύασαν αὑτοῖς ἐξεῖναι νομοθετεῖν: come la descrizione di un passato indefinito in cui non si legiferava è fittizia, così è anche quella delle pratiche presenti (la cui origine è altrettanto indefinita temporalmente: ἐπειδὴ δὲ [...] ὡς ἐγὼ πυνθάνομαι): Hansen (1978; 1979) ha mostrato che quasi tutti i nomoi nel IV secolo furono correttamente promulgati dai nomoteti, e le accuse stesse contro Timocrate e contro la legge di Leptine mostrano che il controllo ulteriore della γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι funzionava ed era regolarmente utilizzato. Pace MacDowell (1975), la descrizione di queste pratiche non corrisponde a nuove norme sulla legislazione. Non è null’altro che la descrizione di infrazioni procedurali e delle loro conseguenze. Timocrate a Dem. 24 è biasimato per le stesse ragioni: “he failed to comply with a παλαίος νόμος which requires action at a specified time, advance publicity for the new proposal, concurrent repeal of any law with which the new proposal conflicts” (Rhodes 1984: 56). La descrizione di queste infrazioni è tuttavia più calzante per Timocrate che per Leptine: Demostene mostra chiaramente a Dem. 24.24–9 che Timocrate non ha rispettato i tempi corretti per legiferare, e non ha dato adeguata pubblicità alla sua proposta, mentre le sue accuse contro Leptine sono vaghe e non documentate (a §94 Demostene afferma tenuamente che “di tutte queste numerose prescrizioni di legge costui non ne ha rispettata nessuna: mai infatti a mio parere sareste stati persuasi a promulgare una legge simile”). Ma l’evocazione di questo scenario legislativo da incubo e la sua associazione, per quanto vaga, con Leptine, sarà stata emotivamente efficace sui giudici, tanto più che la cattiva legislazione è spesso dipinta come ragione della rovina della città (p. es. Dem. 24.91, 155–6, 212–13, Aeschin. 1.179, 3.37). Il linguaggio qui utilizzato nel descrivere le pratiche dei politici (τῶν πολιτευομένων; vd. Hansen 1983b: 151–80, Mossé 1984: 193–200) è coerente con quello usato per descrivere gli abusi di Timocrate: δυνηθέντες richiama gli abusi di chi ha potere (cfr. Dem. 24.135); κατεσκεύασαν fa riferimento a complotti anche a Dem. 24.16, 27 (vd. Kremmydas 2012: 348, che rileva queste corrispondenze). [3] ὅταν τις βούληται καὶ ὃν ἂν τύχῃ τρόπον: lo scenario negativo qui descritto è articolato intorno all’infrazione di principi e regole fondamentali della nomothesia. La prima infrazione riguarda i tempi e le modalità di legislazione. La loro importanza è sottolineata anche altrove, p. es. a Dem. 24.17–18, dove l’oratore afferma che “nelle leggi vigenti presso di noi sono state fissate nel dettaglio e in modo sicuro tutte quante le procedure relative alle leggi che si intendono presentare. Innanzitutto è riportato per iscritto



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il periodo di tempo in cui è concesso legiferare; in secondo luogo neppure allora è dato di fare ciò come meglio pare a ciascuno, ma si dispone in primo luogo di esporre le leggi proposte davanti alle statue degli eroi eponimi per chi voglia esaminarle…”. A Dem. 24.24–6, dopo la lettura della legge (il documento a Dem. 24.20–3 è un falso, vd. Canevaro 2013a: 94–102; 2013b: 150–6) queste regole sono discusse nel dettaglio: dopo che l’Assemblea ha permesso la presentazione di nuove leggi, le proposte di legge devono essere esposte di fronte al monumento degli Eroi Eponimi (Dem. 24.25, §94), e il grammateus deve leggerle a ogni Assemblea (§94) finché non vengono nominati i nomoteti nella terza Assemblea dopo quella in cui le nuove proposte furono permesse (§92, Dem. 24.35; vd. Canevaro 2013b: 143–50). L’importanza di queste regole è evidenziata a Dem. 24.25: queste norme esistono “affinché chi lo desidera possa prendere visione [delle nuove proposte] e, qualora vi scopra qualcosa di svantaggioso per voi, lo possa segnalare e abbia agio di contrastarle”. A §94 Demostene ribadisce che queste norme esistono “affinché ciascuno di voi, ascoltando spesso [le proposte] e pensandoci con calma, se sono giuste e utili alla città, le promulghi”. [4] τοσοῦτοι μὲν οἱ ἐναντίοι σφίσιν αὑτοῖς εἰσὶ νόμοι: l’importanza di rispettare i tempi corretti e le modalità prescritte è legata al fatto che in caso contrario l’ordinamento si riempirebbe di norme contraddittorie. Le procedure della nomothesia hanno come obiettivo fondamentale conservare la coerenza delle leggi (comm. §90[1]). L’abrogazione di leggi contrastanti è obbligatoria (§§88, 93–4, Dem. 24.32–4). Demostene spiega ripetutamente per quale ragione la coerenza delle leggi sia importante. A Dem. 24.35 afferma che “se infatti ci fossero due leggi opposte, e dei contendenti venissero a processo di fronte a voi o riguardo ad affari pubblici o riguardo ad affari privati, ciascuno dei due riterrebbe giusto vincere adducendo un legge diversa, né sarebbe certo possibile decidere a favore di entrambi; e come si potrebbe? Né si riuscirebbe a rispettare il giuramento decidendo per uno solo dei due: la decisione andrebbe infatti contro la legge opposta, ugualmente in vigore” (ragioni simili sono portate a §93). Dunque, nel suo scenario legislativo da incubo, Demostene rappresenta il proliferare di leggi contraddittorie come effetto fondamentale del mancato rispetto dei tempi e delle modalità corrette (vd. Canevaro [c.d.s. b]). [5] ὥστε χειροτονεῖθ᾽ ὑμεῖς τοὺς διαλέξοντας τοὺς ἐναντίους ἐπὶ πάμπολυν ἤδη χρόνον: l’unica altra allusione a una simile procedura è Aeschin. 3.38– 40, che tuttavia assegna ai tesmoteti il compito di vigilare sulla coerenza delle leggi e di presentare le leggi contraddittorie al popolo una volta l’anno.

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Non sappiamo quando questa procedura sia stata introdotta, e quale sia la relazione tra la modalità qui descritta, con l’elezione (ὑμεῖς sono gli Ateniesi in Assemblea, non i giudici) di magistrati addetti a vigilare sulla coerenza delle leggi, e quella descritta nel 330 da Eschine. MacDowell (1975: 66, 72; cfr. Rhodes 1984: 60) ritenne che la procedura qui descritta si sia evoluta in quella di Aeschin. 3.38–40, mentre Hansen (1985: 355–6) ha ipotizzato che i magistrati eletti qui citati fossero assistenti dei tesmoteti che svolgevano anche la funzione di relatori delle leggi di fronte ai nomoteti. Qui l’esistenza di questa procedura è portata come prova che la situazione legislativa era così deteriorata da richiedere magistrati che vigilassero sulla coerenza delle leggi. Aeschin. 3.38–40 sostiene al contrario che l’esistenza di due leggi contraddittorie è impossibile proprio in virtù di questa procedura. 92 [1] ψηφισμάτων δ᾽ οὐδ᾽ ὁτιοῦν διαφέρουσιν οἱ νόμοι, ἀλλὰ νεώτεροι οἱ νόμοι, καθ᾽ οὓς τὰ ψηφίσματα δεῖ γράφεσθαι, τῶν ψηφισμάτων αὐτῶν ὑμῖν εἰσίν: la distinzione netta tra nomoi e psephismata era parte delle riforme introdotte dai nomoteti eletti nel 403 con la restaurazione della democrazia (Canevaro-Harris 2012: 110–16; Canevaro 2015). Nel V secolo non esisteva questa distinzione, e i due termini erano utilizzati in modo quasi indifferente – l’unica lieve differenza è che con nomos ci si riferiva per lo più al contenuto della legge, mentre psephisma era legato al procedimento decisionale, come naturale per la derivazione da psephos, il sassolino utilizzato per le votazioni (Dover 1955: 18; Quass 1971: 23–4; Hansen 1978: 316; 1983a: 162–163; sul significato di nomos vd. Ostwald 1969; de Romilly 2005: 13–27; Hölkeskamp 2002; Harris 2006: 41–61). Nel IV secolo, dopo i rivolgimenti della fine del V (vd. Clinton 1982, Rhodes 1991, con Canevaro-Harris 2012: 110–16 su Andoc. 1.83–4, e Canevaro 2015 per una nuova ricostruzione) e la revisione delle leggi, con la conseguente formulazione della nuova procedura di legislazione, nomos venne a indicare una norma generale di durata illimitata, e psephisma una norma particolare che esaurisce la sua funzione una volta attuata (Hansen 1978; 1979; Canevaro 2015). Psephismata erano anche i trattati interstatali, persino quelli che si dichiaravano eterni (IG II2 6–7, 23–25; IG II2 97 = Tod 127), in linea con la distinzione aristotelica (Arist. Pol. 1298a 4–5) tra leggi e decisioni riguardanti guerra, pace e alleanze (vd. Canevaro 2014: 286–7). Andoc. 1.85–89 discute alcune delle leggi passate dai nomoteti del 403, che riguardano la definizione di nomos. Una di queste ordina che i magistrati non possano fare uso di leggi non scritte (agraphoi nomoi), rifiutando così la consuetudine come fonte del diritto (Canevaro 2015; il termine nomos nell’uso comune



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aveva entrambi i significati: vd. de Romilly 2005: 25–26; Ostwald 1969: 20–55). La seconda legge ordina che “nessun psephisma, né del Consiglio né dell’Assemblea, possa avere più autorità di un nomos”, istituendo una gerarchia tra nomoi e psephismata. Una legge ulteriore ordina che “non sia permesso promulgare un nomos che riguardi un singolo cittadino, a meno che non sia applicabile a tutti gli Ateniesi” (Andoc. 1.89; cfr. anche Dem. 23.86, 218; 24.18, 59, 116, 188; 46.2; i documenti ad Andoc. 1.87 e Dem. 24. 59 danno due diverse versioni di un’eccezione a questa regola, ma sono falsi e non c’era alcuna eccezione; vd. Canevaro-Harris 2012: 117–19, Canevaro 2013a: 145–150). Questa norma impone che le leggi abbiano portata generale, mentre manca un accenno alla necessità che la legge sia illimitata nel tempo. Questa caratteristica tuttavia, oltre a essere generalmente rispettata nelle fonti del periodo (Hansen 1978; 1979), è implicata dalla legge di Diocle (Dem. 24.42; vd. Canevaro 2013a: 121–7) e affermata chiaramente in Plat. Def., 415b: “nomos è una decisione su questioni riguardanti la polis presa dalla maggioranza [...]. Psephisma una decisione di durata limitata”). Un’altra norma spesso citata ordina che i decreti possano entrare in vigore solo se conformi alle leggi (p. es. Dem. 23.86; vd. Quass 1971; Lepri Sorge 1979; Hansen 1978). Queste norme istituzionalizzarono nella distinzione tra nomos e psephisma un elemento tradizionale della concezione ateniese della legge e del governo: la separazione tra legge (promulgata attraverso procedure speciali) e normale amministrazione (prerogativa dell’Assemblea), che risaliva alla legislazione di Solone (cfr. Canevaro 2015). Nello scenario da incubo di Demostene i politici non seguono le procedure e legiferano senza rispettare i tempi e le modalità appropriate, con due effetti: norme contraddittorie proliferano (la coerenza delle leggi è infranta) e la distinzione tra nomoi e psephismata non è rispettata (la divisione tra legislazione e amministrazione è infranta e la legge secondo la quale i decreti devono essere redatti in conformità con le leggi è ignorata, in quanto le leggi cambiano più spesso dei decreti). Questa descrizione è costruita come negazione assoluta dei principi incarnati nelle istituzioni della nomothesia. [2] λαβέ μοι τὸν νόμον καθ᾽ ὃν ἦσαν οἱ πρότερον νομοθέται: questa legge è la normativa generale sulla nomothesia, e οἱ πρότερον νομοθέται fa riferimento all’antichità della legge, così come παλαιός νόμος a §89 (intr. pp. 17–20). οἱ πρότερον νομοθέται non sono i nomoteti in carica di promulgare le nuove leggi, quelli citati a §137 e nell’enactment clause dei nomoi di IV secolo (p. es. IG II3 1 429 l. 6: δεδόχθαι τοῖς νομοθέταις). Sono invece contrapposti ai politici di §91 che ignorano e aggirano le vecchie norme: questi

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νομοθέται di un tempo sono coloro che proponevano nuove leggi secondo le corrette procedure. νομοθέτης era spesso applicato sia a coloro che valutavano le nuove leggi, sia a chi le proponeva (p. es. Dem. 24.103, 113, 152; cfr. IOrop 297 = IG II3 1 348 con Lambert 2004: 106 and 109 n. 84). 93 [1] συνίεθ᾽ ὃν τρόπον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, ὁ Σόλων τοὺς νόμους ὡς καλῶς κελεύει τιθέναι [...] ἔπειτα λύοντα τοὺς ἐναντίους: dopo la lettura della legge da parte del segretario, Demostene torna a riassumere le prescrizioni del παλαιὸς νόμος, della normativa sulla nomothesia, coerentemente con l’argomentazione svolta a §§89–92. Per un’analisi della sua parafrasi e della procedura vd. intr. pp. 19–23. [2] ἵν᾽ εἷς ᾖ περὶ τῶν ὄντων ἑκάστου νόμος: Demostene esplicita la ragione dell’obbligo di abrogare le leggi contraddittorie, indugiando su un aspetto essenziale dell’ideologia della legislazione ateniese, su cui era basata, e che supportava, la procedura stessa della nomothesia: la coerenza delle leggi, predicata sull’origine soloniana e conservata attraverso il rispetto delle procedure di legislazione (cfr. §§49, 90; sull’importanza della coerenza vd. Sickinger 2008; Canevaro 2013b: 158–60; 2015; [c.d.s. b]). Qui l’importanza che ci sia una sola legge a regolare ogni questione è argomentata sulla base della necessità che le leggi siano semplici e accessibili a tutti, anche ai non esperti; a Dem. 24.34–5 le leggi contraddittorie vanno abrogate “prima di tutto affinché vi sia dato di decretare ciò che è giusto in conformità alla pietas. Se infatti ci fossero due leggi opposte, e dei contendenti venissero a processo di fronte a voi o riguardo ad affari pubblici o riguardo ad affari privati, ciascuno dei due riterrebbe giusto vincere adducendo un legge diversa, né sarebbe certo possibile decidere a favore di entrambi; e come si potrebbe? Né si riuscirebbe a rispettare il giuramento decidendo per uno solo dei due: la decisione andrebbe infatti contro la legge opposta, ugualmente in vigore”. Nel descrivere Nicomaco, l’epitome del cattivo (e illegittimo) legislatore, Lisia (30.3) dichiara che “arrivammo al punto che ricevevamo le leggi direttamente dalle sue mani, e le parti in tribunale producevano leggi opposte, e entrambe sostenevano di averle ricevute da Nicomaco”. Queste affermazioni riflettono ed elaborano un’ideologia della corretta legislazione che è alla base delle procedure della nomothesia, e in esse è istituzionalizzata. [3] καὶ μὴ τοὺς ἰδιώτας αὐτὸ τοῦτο ταράττῃ καὶ ποιῇ τῶν ἅπαντας εἰδότων τοὺς νόμους ἔλαττον ἔχειν, ἀλλὰ πᾶσιν ᾖ ταὔτ᾽ ἀναγνῶναι καὶ μαθεῖν ἁπλᾶ καὶ σαφῆ τὰ δίκαια: qui Demostene connette la coerenza delle leggi (affinché i privati possano facilmente trovare le leggi corrette e non



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essere ingannati) al tema del largo accesso alle corti e alla diffidenza contro retori e sofisti. Gli Ateniesi vedevano negativamente la competenza, l’abilità e l’educazione retorica (Ober 1989: 179). Questa attitudine è stata definita da Hesk come “retorica dell’anti-retorica” (Hesk 1999 e 2000: 202–41; cfr. Dover 1974: 25–6; Ober 1989: 170–4). Spesso accusatore e accusato in tribunale rappresentano sé stessi come inesperti di contese giudiziarie (ἰδιώται) e i loro avversari come abili retori e sofisti. Qui la descrizione di chi conosce tutte le leggi (τῶν ἅπαντας εἰδότων τοὺς νόμους) non implica che gli Ateniesi non ritenessero necessario conoscere le leggi della città (cfr. Harris 2010: 1–3 e Canevaro [c.d.s. c]). Al contrario, spesso gli oratori sembrano aspettarsi che i giudici conoscano già la legge in discussione (p. es. Dem. 37.18). L’espressione fa piuttosto riferimento a coloro che sono eccessivamente esperti (in particolare in come sfruttare e aggirare la legge) e usano la loro competenza giuridica per ingannare i giudici e danneggiare i concittadini più inesperti (l’espressione è analoga a τῶν πολιτευομένων di §91 e τῶν ῥητόρων di §74). In assenza di leggi contraddittorie, e se la legislazione segue le corrette procedure, non c’è necessità di una conoscenza speciale per comprendere le leggi, che sono chiare a tutti. Demostene specifica i requisiti di una buona legge a Dem. 24.64: “Credo che tutti voi concordiate che una legge che sia onesta e destinata a giovare al popolo in primo luogo debba essere scritta in modo semplice e a tutti comprensibile, e non letta da uno in un senso e da un altro in un altro senso”. Passaggi come questo danno per scontato che la maggioranza dei cittadini ateniesi fosse in grado di consultare e leggere le leggi. Esse erano disponibili spesso come iscrizioni, e negli archivi connessi agli uffici dei vari magistrati (soprattutto nel Metroon; vd. Sickinger 1999, Pébarthe 2006: 113–242, Faraguna 2009; 2015), accessibili a tutti. L’alfabetizzazione, o quantomeno la capacità di leggere, era largamente diffusa ad Atene (vd. Hedrick 1994: 162–6; Thomas 1989: 30–1; 1992: 155–6; Pébarthe 2006: 33–112; pace p. es. Harris 1989: 65–115). 94 [1] καὶ πρὸ τούτων γ᾽ ἐπέταξεν ἐκθεῖναι πρόσθε τῶν ἐπωνύμων: la norma per cui tutte le nuove proposte andavano scritte ed esposte sul monumento degli Eroi Eponimi nell’agora è riportata tra le prescrizioni della legge sulla nomothesia anche a Dem. 24.18 e 25, dove l’oratore aggiunge (non è chiaro se citando verbatim il testo della legge) ἵν᾽ ὁ βουλόμενος σκέψηται. Questa espressione (nella variante σκοπεῖν τῶι βουλομένωι trovata a Dem. 24.18) appare formulaicamente nelle fonti, anche epigrafiche (cfr. IG II2 487), e ne sono state evidenziate le implicazioni democratiche (è

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però sempre riferita a record temporanei; vd. Hedrick 2000a; 2000b: 331–3; Canevaro 2013c: 73–4). Il monumento degli Eroi Eponimi si trovava di fronte al Metroon, nell’angolo sud-occidentale dell’agora di Atene (costruito intorno al 430; vd. Shear 1970, Thompson-Wycherley 1972: 38–41; per la sua importanza vd. Shear 2007a: 96, 101 e 274–80), ed esponeva una serie di statue degli eroi fondatori ed eponimi delle dieci tribù clisteniche. Fungeva da bacheca pubblica della democrazia: su di esso erano esposte proposte di legge e decreti, comunicazioni relative alle tribù, liste di coscrizione, e comunicazioni di azioni giudiziarie imminenti (Camp 1986: 99; Lewis 1996: 6; Pébarthe 2006: 184, 320). [2] καὶ τῷ γραμματεῖ παραδοῦναι, τοῦτον δ᾽ ἐν ταῖς ἐκκλησίαις ἀναγιγνώσκειν: il requisito che le proposte di legge siano lette a ogni Assemblea (tra quella in cui la presentazione di nuove proposte è autorizzata e quella in cui si nominano i nomoteti; vd. Dem. 24.24–6 con Canevaro 2013b: 143–50) non è menzionato nel riassunto a Dem. 24.18–36, dove si menziona soltanto l’esposizione delle proposte davanti al monumento degli Eroi Eponimi. Dem. 24.25 tuttavia chiarisce che soltanto alla terza Assemblea dopo quella in cui si autorizzavano le nuove proposte i nomoteti potevano essere nominati, e che qui si prescriva che la lettura si svolga πολλάκις conferma questo numero (Canevaro 2013b: 154–5; 2013a: 99–101). Din. 1.42, sulla legge trierarchica di Demostene, afferma che l’oratore μετέγραφε καὶ μετεσκεύαζε τὸν νόμον καθ᾽ ἑκάστην ἐκκλησίαν, confermando dunque le molteplici letture in Assemblea (c’erano quattro Assemblee per pritania, vd. Harris 2006: 81–120, pace Hansen 1987). Il grammateus che leggeva le nuove proposte non è lo stesso che legge i documenti in tribunale (comm. §27[3]), ma quello citato a [Arist.] Ath. Pol. 54.5, noto nelle iscrizioni come grammateus tei boulei kai toi demoi (e.g. IG II2 1740; cfr. Rhodes 1981: 604–5). È da distinguere dal grammateus tes boules (prima del 363/2) o grammateus kata prytaneian (dopo questa data; vd. Rhodes 1972: 134–8 e 126–7) il cui compito era pubblicare le risoluzioni del Consiglio e dell’Assemblea. [3] ἵν᾽ ἕκαστος ὑμῶν ἀκούσας πολλάκις καὶ κατὰ σχολὴν σκεψάμενος, ἃν ᾖ καὶ δίκαια καὶ συμφέροντα, ταῦτα νομοθετῇ: l’insistenza sulla ripetuta ed effettiva pubblicità delle nuove proposte è connessa alla necessità di un’attenta deliberazione sui loro meriti (ἃν ᾖ καὶ δίκαια καὶ συμφέροντα) prima dell’approvazione. Le leggi, vista la loro importanza, non devono essere promulgate in fretta e senza adeguata riflessione, come sottolineato



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anche a §90 col paragone con la selezione dei tesmoteti (Canevaro [c.d.s. b]; vd. Dem. 24.18–32 per una descrizione delle modalità e delle conseguenze dell’approvazione frettolosa di una legge). [4] τούτων τοίνυν τοσούτων ὄντων δικαίων τὸ πλῆθος, οὑτοσὶ μὲν οὐδ᾽ ὁτιοῦν ἐποίησε [Λεπτίνης]: pace Dobree e Kremmydas (2012: 356) τῶν davanti a δικαίων è possibile ma non necessario – l’espressione senza articolo è grammaticalmente corretta, rende il senso abbondantemente chiaro ed è preservata da tutta la paradosis. Parimenti, l’espunzione di δικαίων proposta da Cobet è arbitraria, ed è naturale che Demostene scelga di sottolineare ancora la giustizia delle prescrizioni discusse, a conferma delle ragioni della loro esistenza esplorate qui e a §93. Dilts e Cobet espungono Λεπτίνης come glossa inserita a margine a chiarificare οὑτοσί. Kremmydas (2012: 356) nota correttamente che Λεπτίνης è insolitamente lontano dal deittico οὑτοσί, il che confermerebbe che il nome sia una glossa inserita per chiarificare il soggetto. Kremmydas conserva invece Λεπτίνης ma lo traspone prima del deittico, in quanto “rhetorically effective”. A prescindere dalla validità di questa ragione (soggettiva), la trasposizione richiede una spiegazione meccanica tanto quanto l’espunzione. Mentre tuttavia la ragione meccanica per l’espunzione (una glossa a margine) è verosimile e convincente, non è chiaro cosa possa avere causato la trasposizione. E inoltre, come notato da Trevett (Rec. Kremmydas 2012, BMCR 2013.04.02), μέν non è idiomatico posizionato dopo Λεπτίνης οὑτοσί, ma dovrebbe trovarsi piuttosto in mezzo a queste due parole. Si espunge con Cobet e Dilts Λεπτίνης – è l’opzione più plausibile. [5] οὐδὲ γὰρ ἂν ὑμεῖς ποτ᾽ ἐπείσθητε, ὡς ἐγὼ νομίζω, θέσθαι τὸν νόμον: mentre Dem. 24.18–32 discute per esteso tutte le infrazioni procedurali di Timocrate, qui l’oratore accusa Leptine soltanto rapidamente di avere infranto la legge, e l’unica prova portata a sostegno è che gli Ateniesi non avrebbero mai acconsentito all’approvazione di una simile legge se non fossero stati ingannati e privati del tempo per deliberare. Demostene ha descritto la legge come disastrosa, e queste affermazioni hanno lo scopo di smarcare gli Ateniesi (che l’hanno approvata) da ogni responsabilità. Mancano veri argomenti e prove a conferma delle infrazioni procedurali e sostantive di Leptine (pace Lanni 2010: 249–53). Kremmydas (2012: 355) pensa che Formione avesse già discusso questi aspetti. Sarà stato probabilmente un fattore anche il fatto che la legge di Leptine era stata passata correttamente dai nomoteti, e nessuna infrazione era dimostrabile (a parte l’esistenza di una legge contraddittoria non abrogata, cfr. §§95–7). Questo spiegherebbe la

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vaghezza delle accuse contro Leptine in questi paragrafi, in contrasto con la documentata precisione di Dem. 24.18–32. Nonostante le abbozzate accuse contro Leptine, la vera ragione di questa descrizione delle procedure della nomothesia è mostrare che Apsefione, Formione e Demostene hanno rispettato tutti i passaggi procedurali (vd. intr. p. 17 n. 59). [6] ἡμεῖς δ᾽, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, πάντα, καὶ παρεισφέρομεν πολλῷ καὶ κρείττω καὶ δικαιότερον τοῦ τούτου νόμον: prima di discutere, nell’ordine, una delle prescrizioni della legge di Leptine, una legge in vigore che la contraddice, e la legge sostitutiva proposta da Apsefione, Demostene ribadisce ancora che lui, Apsefione e Formione hanno rispettato le corrette procedure. Questa affermazione, rispecchiando (in una specie di “ring composition”) l’inizio di §88, termina la discussione delle procedure della nomothesia. Segue la discussione della contraddizione tra la legge di Leptine e una legge esistente. 95 [1] λαβὲ καὶ λέγε πρῶτον μὲν ἃ τοῦ τούτου νόμου γεγράμμεθα, εἶθ᾽ ἅ φαμεν δεῖν ἀντὶ τούτων τεθῆναι. λέγε: dopo la legge sulla nomothesia, il primo documento letto dal grammateus riporta alcune prescrizioni della legge di Leptine, quelle che l’accusa aveva specificamente menzionato nella graphe (tanto l’accusa pubblica in sé, quanto il documento scritto che la iniziava, vd. comm. §24[1]) portata contro la legge come non epitedeion. La prescrizione citata come fondamentalmente non epitedeion e illegale sarà stata “nessuno sia esente” (cfr. § 97), e la legge vigente letta al termine di questo paragrafo, almeno a prima vista, la contraddice. [2] τὰ δ᾽ ἑξῆς λέγε, ἃ τούτων εἶναι βελτίω φαμέν. προσέχετε, ἄνδρες δικασταί, τούτοις ἀναγιγνωσκομένοις τὸν νοῦν. λέγε: la seconda legge letta dal grammateus al termine di questo paragrafo è una legge vigente che contraddice la legge di Leptine, ma che Leptine ha mancato di abrogare secondo le prescrizioni della nomothesia (citate nuovamente a §97). 96 [1] τοῦτο μέν ἐστιν ἐν τοῖς οὖσι νόμοις κυρίοις ὑπάρχον...: Demostene afferma, prima di citare e commentare una prescrizione specifica della legge appena letta, che questa legge è tra quelle attualmente in vigore. Sostiene poi che questa prescrizione contraddica il dettato della legge di Leptine, e avrebbe dovuto essere abrogata prima di approvare la nuova legge (la legge non è citata per la sua autorità e antichità, e a supporto della legge sostitutiva, ma a conferma che la legge di Leptine non è stata presentata in ottemperanza ai requisiti della nomothesia; pace Kremmydas 2012: 358). La legge



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in questione, per essere letta dal grammateus, deve essere stata citata già all’anakrisis e sigillata nell’echinos (comm. §§27[3]). Viste le parole di §95, dove Demostene afferma che la graphe è stata portata contro le prescrizioni lette dal segretario poco dopo (ἃ τοῦ τούτου νόμου γεγράμμεθα), è probabile che fosse inclusa anche nella graphe scritta (cfr. comm. §24[1]) a conferma formale dell’illegalità della legge di Leptine (in casi di graphe paranomon e nomon me epitedeion theinai le leggi contraddittorie erano incluse nel documento di accusa; cfr. [Dem.] 58.46 con Harris 2013: 121). [2] “τὰς δωρεὰς ὅσας ὁ δῆμος ἔδωκε κυρίας εἶναι”: questa è l’unica menzione di questa legge, e non è chiaro se la prescrizione avesse effettivamente il proposito attribuitole da Demostene: affermare in assoluto (e in perpetuo) la validità delle ricompense accordate dal popolo. Se ne può dubitare – un qualunque decreto onorifico poteva essere abrogato da una graphe paranomon, da un altro decreto, o da una legge contraria (come quella di Leptine). Decontestualizzata, tuttavia, questa prescrizione contraddice la legge di Leptine, per cui sarà stata una buona base per l’accusa, e l’argomento qui svolto è superficialmente convincente. Schaefer (1885: 397), Sandys (1890: 76) e Kremmydas (2012: 358–9) hanno avanzato l’ipotesi verosimile che il contesto della promulgazione di questa legge sia la restaurazione democratica del 403: la legge aboliva gli onori accordati dai Trenta, ma confermava quelli decretati dalla democrazia. Parziali conferme di questa ipotesi sono Andoc. 1.88 e Dem. 24.57–8 (l’autenticità del documento a Dem. 24.56 è dubbia, cfr. Canevaro 2013a: 142–5), che discutono e citano una legge che afferma che “le sentenze e gli arbitrati condotti secondo le leggi in regime democratico siano validi”, che “le leggi siano applicate dall’arcontato di Euclide” e inoltre che gli atti compiuti sotto i Trenta siano privi di validità. Questa legge era formulata in un linguaggio affine a quello della prescrizione qui citata: τὰς μὲν δίκας […] καὶ τὰς διαίτας ἐποιήσατε κυρίας εἶναι, ὁπόσαι ἐν δημοκρατουμένῃ τῇ πόλει ἐγένοντο (Andoc. 1.88; cfr. anche τὰ πραχθέντ’ ἐπ’ ἐκείνων μὴ κύρι’ εἶναι di Dem. 24.57). [3] ὦ γῆ καὶ θεοί: la frequenza delle invocazioni cresce progressivamente nel periodo tra Antifonte e Demostene (cfr. Kühnlein 1882: 60–3), e il loro numero è considerevole in Demostene (p. es. Dem. 18.139, 19.287, 23.61; cfr. Aeschin. 3.137). Il fenomeno va connesso a una progressiva convergenza del linguaggio dell’oratoria col linguaggio colloquiale, confermata dal numero di invocazioni quando gli oratori riproducono una conversazione (cfr. Bers 1997: 139–40; Martin 2009: 277 n. 1).

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[4] νῦν δὲ μαρτυρίαν καθ᾽ ἑαυτοῦ: poiché la legge citata contraddice quella di Leptine, quest’ultimo avrebbe dovuto abrogarla prima di far approvare la sua. Dunque il fatto stesso che questa legge sia ancora in vigore è testimonianza (μαρτυρίαν) che Leptine ha agito illegalmente. [5] καὶ ταῦθ᾽ ἑτέρου κελεύοντος νόμου καὶ κατ᾽ αὐτὸ τοῦτο ἔνοχον εἶναι τῇ γραφῇ, ἐὰν ἐναντίος ᾖ τοῖς πρότερον κειμένοις νόμοις: quest’ “altra legge” che Demostene fa leggere al segretario non è altro che la prescrizione della legge sulla nomothesia che permette di portare una graphe nomon me epitedeion theinai se una legge è promulgata senza seguire le corrette procedure. Si riferisce dunque al secondo uso della graphe nomon me epitedeion theinai (vd. intr. pp. 16, 23, 31–2). Questa prescrizione è discussa anche a Dem. 24.32–4 (Canevaro 2013b: 147–9). Il termine nomos può essere usato indifferentemente per un’intera legge o per specifiche prescrizioni di una legge (Hansen 1985: 358). 97 [1] οὔκουν ἐναντίον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τῷ “κυρίας εἶναι τὰς δωρειάς, ὅσας ὁ δῆμος ἔδωκε”, τὸ “μηδέν᾽ εἶναι ἀτελῆ” τούτων οἷς ὁ δῆμος ἔδωκεν; La contraddizione è apparente, ma non è chiaro se la legge contraddittoria avesse portata generale (comm. §92[2]). [2] ἀλλ᾽ οὐκ ἐν ᾧ νῦν ὅδε ἀντεισφέρει νόμῳ: Demostene cita infine la legge sostitutiva. Il deittico ὅδε sarà stato accompagnato da un gesto in direzione del suo proponente. A §100 Demostene afferma che lui e Formione garantiranno che questa legge giunga effettivamente di fronte ai nomoteti, il che suggerisce che il proponente fosse Apsefione, che aveva anche formalmente portato la γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι. Apsefione ἀντεισφέρει la sua legge: la propone in contrasto a quella di Leptine. Questo verbo è usato soltanto qui, mentre altrove (§§88, 89, 94, 100, 137) Demostene opta per παρεισφέρω (cfr. Kremmydas 2012: 359). Il presente (pace Kremmydas 2012: 359) non vuole dare ai giudici l’impressione che l’approvazione della legge avverrà come effetto del loro voto; indica semplicemente che Apsefione è in questo momento nel bel mezzo della procedura per proporre una legge (nomothesia), che impone, come sottolineato a §§89 e 93, di abrogare le leggi contraddittorie prima di promulgare una nuova legge. [3] ἀλλ᾽ ἅ τ᾽ ἐδώκατε, κύρια: il primo vantaggio della legge sostitutiva è che è coerente con quella citata a §96, che impone che κυρίας εἶναι τὰς δωρεάς, ὅσας ὁ δῆμος ἔδωκε. Demostene usa le stesse parole della legge, per sottolineare la coerenza della legge sostitutiva con questo statuto.



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[4] καὶ πρόφασις δικαία κατὰ τῶν ἢ παρακρουσαμένων ἢ μετὰ ταῦτ᾽ ἀδικούντων ἢ ὅλως ἀναξίων: Demostene riconosce che alcuni benefattori potrebbero aver tramato contro il popolo, aver infranto la legge dopo aver ricevuto la ricompensa o semplicemente non esserne degni. La legge sostitutiva fornisce una giusta base per portare un’accusa contro di loro (πρόφασις δικαία; sulle modalità di questa accusa cfr. comm. §88[6]). Che il popolo possa essere ingannato da chi trama contro la città (παρακρουσαμένων) era stato menzionato come un possibile argomento dei difensori della legge a §§3–4 (cfr. §137). 98 [1] αὶ τὸ λοιπὸν ἐφ᾽ ὑμῖν εἶναι πάνθ᾽, ὥσπερ ἐστὶ δίκαιον, καὶ δοῦναι καὶ μή: dopo la lettura della legge sostitutiva, Demostene esorta i giudici a considerarla con attenzione (καταμανθάνετε) e afferma che la lettura conferma quanto affermato al paragrafo precedente. Introduce poi un ulteriore elemento in favore della legge sostitutiva, riprendendo il tema della sovranità del popolo, limitata dalla legge di Leptine (cfr. §§3–4): la legge sostitutiva non intacca i poteri del demos. [2] ὡς μὲν τοίνυν οὐχὶ καλῶς οὗτος ἔχει καὶ δικαίως ὁ νόμος, οὔτ᾽ ἐρεῖν οἴομαι Λεπτίνην οὔτ᾽, ἐὰν λέγῃ, δεῖξαι δυνήσεσθαι: Leptine si concentrerà su questioni concernenti l’effettiva promulgazione della legge sostitutiva perché non ha alcun argomento per dimostrare che questa legge non sia migliore della sua. Questo argomento è sviluppato a §99. [3] ἃ δὲ πρὸς τοῖς θεσμοθέταις ἔλεγεν, ταῦτ᾽ ἴσως λέγων παράγειν ὑμᾶς ζητήσει: Demostene anticipa alcuni argomenti della difesa (che la legge sostitutiva è un inganno), e li descrive come loro stessi un tentativo di ingannare i giudici. È esplicito sulla fonte delle sue informazioni su questi argomenti: l’anakrisis, le fasi preliminari del processo (cfr. Thür 2008), che nelle accuse pubbliche avvenivano di fronte a uno dei tesmoteti (vd. comm. §1[6]). In dikai e graphai, una volta che il magistrato accettava l’accusa, una data era stabilita per la discussione preliminare, che assumeva tre modalità, la diaita (di fronte a un arbitro pubblico che formulava un verdetto non vincolante) nelle dikai, la prodikasia (di fronte all’Arconte Re) nei casi di omicidio, e l’anakrisis (di fronte a uno dei tesmoteti o un arconte) nelle accuse pubbliche. Queste procedure funzionavano in modo pressoché analogo: non era il magistrato a fare domande, l’accusa e la difesa si interrogavano a vicenda (Isae. 10.2, 6.12 con Lämmli 1938: 83; cfr. Wolff 1961, 1965: 2519ss.; Thür 1977: 76; 2005: 156; Todd 1993: 127), per cui questo passaggio è stato definito “dialettico” (Thür 1977: 156, 313; 2005: 152). Una legge

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ordinava a entrambe le parti di rispondere a ogni domanda (Dem. 46.9–10, Isae. 6.12 con Thür 2008: 55). Soltanto i documenti presentati in questa fase potevano essere utilizzati di fronte ai giudici (vd. comm. §27[3]). [4] ἔφη γὰρ ἐξαπάτης εἵνεκα παραγεγράφθαι τοῦτον τὸν νόμον, ἐὰν δ᾽ ὃν αὐτὸς ἔθηκεν λυθῇ, τοῦτον οὐ τεθήσεσθαι: sulla sostanza delle obiezioni di Leptine all’anakrisis vd. intr. pp. 25–30. 99 [1] ἐγὼ δ᾽, ὅτι μὲν [...], ἐάσω, ἵνα μὴ περὶ τούτου τις ἀντιλέγῃ μοι, ἀλλ᾽ ἐπ᾽ ἐκεῖν᾽ εἶμι: un lungo periodo transizione, con una paraleipsis, che introduce una nuova argomentazione: persino Leptine e i syndikoi sembrano essere consapevoli della superiorità della legge sostitutiva. Sul significato di questa paraleipsis e per un’analisi di questo passo vd. intr. pp. 29–31. [2] ὅτι μὲν τῇ ὑμετέρᾳ ψήφῳ τοῦ τούτου νόμου λυθέντος τὸν παρεισενεχθέντα κύριον εἶναι σαφῶς ὁ παλαιὸς κελεύει νόμος, καθ᾽ ὃν οἱ θεσμοθέται τοῦτον ὑμῖν παρέγραψαν: su καθ᾽ ὃν οἱ θεσμοθέται τοῦτον ὑμῖν παρέγραψαν vd. intr. pp. 26–7. Per un’analisi della sintassi e del significato di questa espressione, e sulla procedura che riassume, vd. intr. pp. 25–31, p. 30 in particular. [3] ὅταν ταῦτα λέγῃ δήπου, ὁμολογεῖ μὲν εἶναι βελτίω καὶ δικαιότερον τόνδε τὸν νόμον οὗ τέθεικεν αὐτός, ὑπὲρ δὲ τοῦ πῶς τεθήσεται ποιεῖται τὸν λόγον: la transizione risulta nell’argomento che l’insistenza stessa sul fatto che Apsefione non promulgherà la legge sostitutiva è prova che Leptine considera la sua promulgazione auspicabile, perché questa legge è superiore alla sua. Come a §96, le azioni di Leptine sono portate a testimonianza contro di lui. 100 [1] πρῶτον μὲν τοίνυν εἰσὶν αὐτῷ κατὰ τοῦ παρεισφέροντος πολλοὶ τρόποι, δι᾽ ὧν, ἂν βούληται, θεῖναι τὸν νόμον αὐτὸν ἀναγκάσει: Demostene accenna a vari modi per costringere il proponente di una legge a promulgarla davanti ai nomoteti (θεῖναι τὸν νόμον), senza entrare nel dettaglio. Menziona anche la possibilità di un’accusa per avere ingannato il demos (vd. sotto). Con κατὰ τοῦ παρεισφέροντος fa riferimento ad Apsefione, proponente formale della legge (cfr. Dem. 24.25: πότερον εἰσοιστέος ἐστὶ νόμος καινὸς ἢ δοκοῦσιν ἀρκεῖν οἱ κείμενοι). Nel rispetto delle procedure della nomothesia (cfr. §§89–94), prima di esporre la legge di fronte agli Eroi Eponimi, Apsefione avrà vinto un voto in Assemblea che permetteva la presentazione di nuove proposte (Canevaro 2013b: 143–50). Che qualche



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passaggio in Assemblea fosse effettivamente avvenuto è chiaro dall’elezione dei syndikoi della legge di Leptine, anch’essa prescritta dalle norme sulla nomothesia (Dem. 24.36 e §146). Secondo queste norme, alla terza Assemblea dopo il voto originario (Dem. 24.25; §92), il demos doveva discutere la nomina dei nomoteti – i pritani avranno inserito questo punto in agenda automaticamente. Una volta nominati i nomoteti, i proponenti delle nuove leggi si dovevano presentare di fronte a loro per promulgare le proposte. Dunque una volta che la procedura era messa in moto, se i proponenti abrogavano le leggi contraddittorie, i passaggi successivi sarebbero seguiti quasi automaticamente. D’altro canto i proponenti avrebbero forse potuto non presentarsi di fronte ai nomoteti – per questo Demostene promette e garantisce qui e a §137 che lui e Formione promulgheranno la legge alla prima sessione dei nomoteti. Poiché la procedura di legislazione era già stata pubblicamente iniziata in Assemblea, l’affermazione di Demostene che il demos aveva mille modi di costringere il proponente a promulgare la legge sostitutiva sembra giustificata: l’Assemblea avrà potuto sanzionare la mancata promulgazione con una probole, forzare la promulgazione con un decreto ad hoc o iniziare un’eisangelia contro il proponente (vd. sotto). [2] ἔστι δὲ δήπου νόμος ὑμῖν, ἐάν τις ὑποσχόμενός τι τὸν δῆμον ἢ βουλὴν ἢ δικαστήριον ἐξαπατήσῃ, τὰ ἔσχατα πάσχειν: varie fonti confermano l’esistenza di un reato di ἀπάτη τοῦ δήμου, ma la gamma di procedure per perseguirlo non è chiara. Si è ritenuto che Milziade fosse stato condannato per questo (Hdt. 6.136.1; vd. Harrison 1971: 5, 60; Hansen 1975: 69; MacDowell 1978: 179; Rhodes 1979: 105), ma Hesk (2000: 51–2) nota giustamente che il passo indica la ragione per cui, secondo Erodoto, Milziade fu condannato, e non necessariamente il crimine e la procedura. Senofonte, discutendo la condanna dei generali vincitori delle Arginuse (1.7.35), menziona la possibilità di probolai in Assemblea contro chi inganna il popolo. La disponibilità di questa procedura è confermata da [Arist.] Ath. Pol. 43.5: nella prima Assemblea della sesta pritania era possibile portare probolai contro sicofanti e contro chi non aveva mantenuto una promessa fatta al demos. Le probolai, disponibili anche per crimini relativi ai festival (Dem. 21.7–11, 175 con Harris 2010: 79–80 e Harris in Canevaro 2013a: 211–23), portavano a un voto di censura in Assemblea senza conseguenze giudiziarie (Harris 2010: 79–80; Christ 1992: 339), in seguito al quale l’accusatore poteva, separatamente, portare un’azione guidiziaria. Dem. 49.67 cita invece un crimine di ἀπάτη τοῦ δήμου (l’espressione è simile a questo passo) perseguibile con una eisangelia iniziata in Assemblea e conclusa da un giudizio in

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tribunale (comm. §79[2]), che poteva portare a una condanna a morte. Vista l’espressione τὰ ἔσχατα πάσχειν, è più probabile che Demostene faccia qui riferimento a un’eisangelia (cfr. §135; pace Hansen 1975: 14, Hesk 2000: 55–6). Non è però chiaro se l’eisangelia fosse applicabile all’ ἀπάτη τοῦ δήμου in virtù di una prescrizione facente parte del nomos eisangeltikos discusso a Hyp. Eux. 7–8 (forse incluso sotto la voce: farsi corrompere e parlare pubblicamente, in Assemblea, in Consiglio o in un contesto istituzionale, contro gli interessi del popolo; forse una voce ulteriore, cfr. Hansen 1975: 14, Rhodes 1979: 107) o in virtù di un’altra legge. In ogni caso, non c’è ragione di dubitare che questa procedura fosse disponibile contro Apsefione, Demostene e Formione se non avessero promulgato la legge (Kremmydas 2012: 354–5 osserva che il Consiglio e i tribunali non sono menzionati altrove come luoghi in cui ingannare il demos è reato, ma l’espressione τὸν δῆμον ἐξηπάτησαν sarà stata intesa in riferimento al demos in tutte le sue manifestazioni). [3] οἱ θεσμοθέται ταῦτα γραφόντων, ἐπὶ τούτοις τὸ πρᾶγμα γιγνέσθω: probole ed eisangelia saranno state disponibili non soltanto contro Apsefione, ma anche contro Demostene e Formione, viste le loro affermazioni in questo contesto, e la richiesta che i tesmoteti registrino queste promesse. Non è chiaro a che titolo i tesmoteti avrebbero registrato la promessa, e Kremmydas (2012: 365) giustamente osserva che non stava ai tesmoteti iniziare un’azione giudiziaria. Tuttavia, vista la natura dell’accusa, parte della procedura di nomothesia, non è difficile immaginare che i tesmoteti abbiano infine registrato sulla graphe, sul documento scritto d’accusa, insieme col risultato del processo (come facevano normalmente, vd. Faraguna 2015), anche che la legge sostitutiva doveva ora essere promulgata davanti ai nomoteti. Questa informazione, scritta in un documento ufficiale conservato dai tesmoteti nel loro archivio (vd. comm. §93[4]), sarebbe stata utilizzabile in Assemblea e in tribunale contro Demostene e Formione, se avessero mancato di promulgare la legge. Inoltre, sebbene i tesmoteti non avessero la facoltà di iniziare una causa, c’era tra le loro prerogative quella di relazionare in Assemblea su particolari questioni (p. es. Aeschin. 3.38–40 assegna ai tesmoteti il compito di identificare le leggi contraddittorie, esporne il testo e presentarle al demos una volta l’anno). Se avessero informato il Consiglio o l’Assemblea circa la promessa non mantenuta di Demostene e Formione, è probabile che la discussione successiva sarebbe risultata in una probole o in un’eisangelia.



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101 [1] εἴ τις φαῦλός ἐστι τῶν εὑρημένων τὴν δωρεάν, ἐχέτω, ἀλλ᾽ ἰδίᾳ κατὰ τόνδε κριθήτω τὸν νόμον: riprende la discussione degli effetti della legge sostitutiva, già menzionati a §98. [2] εἰ δὲ ταῦτα λόγους καὶ φλυαρίας εἶναι φήσει, ἐκεῖνό γ᾽ οὐ λόγος· αὐτὸς θέτω, καὶ μὴ λεγέτω τοῦτο, ὡς οὐ θήσομεν ἡμεῖς: l’oratore riprende l’argomento di §99, e come a §99 fa notare che l’insistenza di Leptine sul fatto che l’accusa non promulgherà la legge sostitutiva è un’ammissione della sua superiorità. Ironicamente, conclude che poiché Leptine è un tale sostenitore della legge sostitutiva, dovrebbe promulgarla lui stesso (ritroviamo questo argomento a §137). Con questa affermazione, Demostene dà per scontato che il risultato del processo sarà in suo favore e che la legge sostitutiva sarà considerata anche dai giudici superiore. 102 [1] ἐμοὶ δ᾽, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, δοκεῖ Λεπτίνης […] ἢ οὐκ ἀνεγνωκέναι τοὺς Σόλωνος νόμους ἢ οὐ συνιέναι: quest’accusa, seppure mitigata dalla parentetica (vd. sotto), è seria. Conoscere le leggi della città era dovere fondamentale del cittadino ateniese (vd. Aeschin. 1.39 con Harris 1994: 135–136, 2010: 1–3; Canevaro [c.d.s. c]), e ignorarle era considerato vergognoso (una competenza sofistica era invece vista negativamente, vd. comm. §93[3]). Le leggi della città sono poi qui descritte esplicitamente come leggi di Solone, e le leggi discusse sono probabilmente effettivamente soloniane (vd. sotto e §104), per cui la vergogna di non conoscerne i contenuti (o di non comprenderne il senso) è accentuata, in quanto le leggi di Solone (così come la sua poesia, vd. Cairns 2014) erano parte del bagaglio culturale fondamentale di ogni ateniese. Demostene discute due leggi soloniane, ne spiega intenzioni e spirito e ne estrapola lo spirito delle leggi della città in generale, coerenti tra loro e con l’intento di Solone (cfr. comm. §90[1]). [2] καί μοι μηδὲν ὀργισθῇς· οὐδὲν γὰρ φλαῦρον ἐρῶ σε: parentesi vagamente ironica (cfr. Rubinstein 2000: 138–9 e n. 41), a sottolineare che i commenti riferiti a Leptine non vogliono essere attacchi personali (Demostene è attento a non attaccare Leptine frontalmente, per via della materia del processo e della sua età; vd. comm. §§13[3], 143[3]). [3] εἰ γὰρ ὁ μὲν Σόλων ἔθηκεν νόμον ἐξεῖναι δοῦναι τὰ ἑαυτοῦ ᾧ ἄν τις βούληται, ἐὰν μὴ παῖδες ὦσι γνήσιοι: la legge che istituì la facoltà per il kyrios di un oikos di disporre per via testamentaria dei suoi beni dovette risalire effettivamente a Solone (F 49a, 50b Ruschenbusch 1966: 86–87;

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Ferrucci 2007: 144), per cui qui Demostene fa riferimento a un’autentica legge soloniana. Questa facoltà di scegliere il proprio successore era limitata al caso in cui non ci fossero eredi legittimi (Harrison 1968: 150; MacDowell 1978: 100; Griffith-Williams 2013: 4). Un testamento redatto da chi avesse figli legittimi sarebbe valso solo se i figli fossero morti prima del raggiungimento della maggiore età (Dem. 46.24). Testimonianza più dettagliata delle prescrizioni e degli intenti di questa legge è Plut. Sol. 21.3: “[Solone] acquistò reputazione anche per la legge sui testamenti. Prima infatti non era lecito fare testamento, ma i beni e l’organizzazione domestica dovevano restare nell’ambito della famiglia del morto; egli invece, permettendo di dare i propri beni a chiunque si voglia, in assenza di figli, valutò l’amicizia più della parentela e l’affetto più dei vincoli naturali, e rese i beni proprietà dei possessori”. Plutarco evidenzia l’emancipazione dell’oikos dal controllo del gruppo gentilizio, in favore del diritto autonomo del singolo capofamiglia. La potestà del capofamiglia valeva tanto contro il gruppo gentilizio allargato, la cui capacità di intervento era stata già limitata attraverso il criterio dell’ἀγχιστεία, quanto contro l’invadenza di coloro che sulla base di questo principio si ritrovavano primi nell’ordine di successione. A questo criterio meccanico se ne sostituisce uno fondato sull’amicizia e sull’affetto, e dunque indirettamente sul merito. Demostene fa leva su questa caratteristica nel rivendicare, sempre alla luce della coerenza pretesa della legislazione solonica, la necessità di garantire nell’ambito pubblico la possibilità di premiare amici e benefattori, libertà che Solone ha tutelato in ambito privato (su testamento e successione vd. Gernet 1920; Harrison 1968: 122–62; Biscardi 1982: 122–127; Maffi 1991; Cobetto Ghiggia 1999: 3–12; Gagliardi 2002; Ferrucci 2007: 141–147). [4] ἀλλ᾽ ἵν᾽ εἰς τὸ μέσον καταθεὶς τὴν ὠφέλειαν ἐφάμιλλον ποιήσῃ τὸ ποιεῖν ἀλλήλους εὖ: Demostene passa ora all’intento della legge soloniana (comm. §90[1] sulla funzione di questa strategia). Poiché le leggi sono coerenti tra loro e con l’originale intento del legislatore, è inaccettabile che Leptine abbia promulgato una legge il cui intento ed effetti contraddicono quelli di una legge di Solone. Dunque alla legge discussa a §96, le cui prescrizioni erano direttamente violate dalla legge di Leptine, Demostene aggiunge qui altre due leggi (cfr. §104) il cui spirito, e non la lettera, è contraddetto dalla legge di Leptine. Qui l’intento del legislatore, secondo Demostene, era di suscitare nella sfera privata una sana competizione nel fornire favori e benefici al prossimo. È significativo che l’oratore dipinga questa legge come un tentativo di ingegneria sociale, volto a condizionare e cambiare i comporta-



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menti individuali (Demostene dunque non sottoscriveva a una visione della legge ateniese come volta semplicemente a portare le contese in tribunale, e non a determinare i comportamenti dei cittadini, come proposto p. es. da Osborne 1985a; Cohen 1995; Ober 1989; cfr. §154[2]). Il modello sociale qui attribuito alle intenzioni di Solone è uno di altruismo e concordia, ma incentivato dal guadagno individuale: una visione pragmatica che sembra porsi a metà strada tra l’Atene egoistica e conflittuale dipinta da Christ (2006; 2012) e quella altruistica e pacificata raffigurata da Hermann (2006). 103 [1] σὺ δὲ τοὐναντίον εἰσενήνοχας μὴ ἐξεῖναι τῷ δήμῳ τῶν αὑτοῦ δοῦναι μηδενὶ μηδέν: la legge tecnicamente impediva di accordare soltanto l’ateleia, non tutte le ricompense. Nell’estenderne l’applicazione Demostene, più che mentire, dà per scontati gli argomenti della prima parte dell’orazione: la legge limita la sovranità del popolo perché il demos viene spesso ingannato, ma su questa base si potrebbe privarlo di ogni potere (§§3–5); mina alle fondamenta la pistis della città, per cui nell’abolire l’ateleia priva di valore le altre ricompense, sulla cui permanenza nessuno potrà più confidare (§§11–17). [2] πῶς σέ τις φήσει τοὺς Σόλωνος ἀνεγνωκέναι νόμους ἢ συνιέναι; Viste le contraddizioni tra lo spirito della legge di Leptine e quello della legge soloniana, la conclusione è che Leptine non abbia compreso la sostanza della legge di Solone. L’insinuazione del paragrafo precedente, di cui Demostene si scusava, qui è ripetuta come conclusione obbligata basata sui fatti. [3] ὃς ἔρημον ποιεῖς τὸν δῆμον τῶν φιλοτιμησομένων, προλέγων καὶ δεικνὺς ὅτι τοῖς ἀγαθόν τι ποιοῦσιν οὐδ᾽ ὁτιοῦν ἔσται πλέον: l’esistenza stessa della legge segnalerà che la città non accorda più premi, col risultato (cfr. §§11–17, 25, 29–87 passim) di privarla dei benefattori, particolarmente necessari quando Atene si troverà in difficoltà. ἔρημον instaura nuovamente un parallelo con la sfera privata, dove la possibilità di scegliere a chi trasmettere il patrimonio garantisce agli anziani qualcuno che si prenda cura di loro (Isae. 6.65) e all’oikos di non restare abbandonato (Isae. 2.15; cfr. Kremmydas 2012: 269). Così come la sana competizione per l’eredità ha effetti positivi sia sulla vita degli anziani sia sulla coesione sociale, così una sana economia degli onori, a cui l’oratore allude con il riferimento τῶν φιλοτιμησομένων, garantirà alla città servizi essenziali (vd. intr. pp. 77–97, pp. 78–80 in particolare).

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104 [1] καὶ μὴν κἀκεῖνος τῶν καλῶς δοκούντων ἔχειν νόμων Σόλωνός ἐστι, μὴ λέγειν κακῶς τὸν τεθνεῶτα: anche questa legge serve a dimostrare che lo spirito della legge di Leptine differisce da quello della legislazione soloniana. È anch’essa probabilmente un’autentica legge soloniana (F32b, Ruschenbusch 1966: 79). Plut. Sol. 21.1–2 e Dem. 40.49 fanno riferimento a questo stesso caso di una normativa più generale per cui chi fosse oggetto di diffamazione poteva intentare una dike kakegorias, procedura disponibile solo in caso di particolari maldicenze, che comprendevano, secondo la testimonianza di Lys. 10.6–9 (cfr. Carey 1997: 233), l’accusa di essere un assassino, di picchiare i genitori, di avere gettato lo scudo. Una legge successiva aggiunse la diffamazione di Armodio e Aristogitone (MacDowell 1978: 126–7; vd. comm. §18[5]). Era inoltre proibito svilire il lavoro di qualcuno nell’agora (ma Dem. 57.30 è poco chiaro) e, evidentemente, parlar male dei morti. Dimostrare la verità dell’accusa era difesa sufficiente in sede giudiziaria (Dem. 23.50; Lys. 10.30), e la condanna comportava una multa di 500 dracme da versare all’accusatore (Lys. 10.12; Isoc. 20.3; vd. MacDowell 1978: 126–129; Todd 1993: 103, 259, 269; Modrzejewski 1998: 159–163; Carey 1997: 233). [2] σὺ δὲ ποιεῖς, οὐ λέγεις κακῶς τοὺς τετελευτηκότας τῶν εὐεργετῶν: Kremmydas aggiunge μόνον tra οὐ e λέγεις per maggior enfasi. Ma il testo non pare corrotto, e la contrapposizione erga / logoi (comm. §§47[2] e 87[3]) in asindeto è efficace: la legge vieta di diffamare i morti semplicemente a parole, ma le parole diffamatorie di Leptine hanno un effetto pratico, in quanto portano ai benefattori morti un danno materiale con l’abolizione dei loro onori. Dunque Leptine sta facendo materialmente del male ai morti. Sandys (1890: 83) cita come parallelo per il forte asindeto e la contrapposizione erga / logoi Dem. 21.183: ἐὰν δὲ ποιῇ, μὴ λέγῃ (cfr. Trevett, rec. Kremmydas 2012, BMCR 2013.04.02). [3] ἆρ᾽ οὐ πολὺ τοῦ Σόλωνος ἀποστατεῖς τῇ γνώμῃ; La sezione si conclude con un’efficace e rapida domanda retorica rivolta direttamente a Leptine, che esplicita il senso della citazione delle due leggi soloniane: lo spirito di Solone è quello della città, e le sue leggi, coerenti tra loro in spirito e fini, determinano l’ethos (qui la gnome) delle leggi della città. Mostrando che il suo spirito è diverso da quello di Solone, Leptine ha mostrato di essere un legislatore inadeguato (cfr. comm. §90[1]). A Dem. 24.103, 106 l’oratore accusa Timocrate di essere un legislatore molto diverso da Solone, e questo genere di accusa è equivalente a definire l’avversario come un cattivo e indegno legislatore (cfr. Dem. 24.103: Dem. 24.106).



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105–119: Gli avversari porteranno l’esempio degli Spartani e dei Tebani per mostrare che è accettabile non accordare ricompense. Ma gli Spartani accordano ricompense, tipiche però di un’oligarchia – e i Tebani non sono un modello da imitare. Demostene confuta l’argomento che gli antenati non accordassero onori con l’esempio di Lisimaco, figlio di Aristide. Gli Ateniesi hanno giurato di giudicare non secondo le leggi dei Tebani, degli Spartani o degli antenati, ma secondo quelle vigenti, che prescrivono di onorare i benefattori. 105 [1] πάνυ τοίνυν σπουδῇ τις ἀπήγγελλέ μοι: a §§105–16 Demostene confuta preventivamente probabili argomenti degli avversari (cfr. §1[8]). Qui le informazioni non provengono dall’anakrisis, ma da notizie riportate oralmente (vd. Lewis 1996: 125–53, Gottesman 2014: 13–19 sulla circolazione delle informazioni). L’origine orale delle informazioni implicitamente dà un’immagine di Atene come “face-to-face society” in cui tutti conoscevano tutti. Mentre in poleis di piccole e medie dimensioni questa era una realtà (cfr. Hansen 2006: 139), ad Atene questa era una finzione retorica (cfr. Osborne 1985b: 64–5, Ober 1989: 31–3, Cohen 2000: 104–29; pace p. es. Finley 1973: 17–18; 1983: 28–9, 82; Thomas 1989: 82; Cohen 1991: 155–6; Hunter 1994: 96–116). [2] περὶ τοῦ μηδενὶ δεῖν μηδὲν διδόναι, μηδ᾽ ἂν ὁτιοῦν πράξῃ, τοιοῦτόν τι λέγειν αὐτοὺς παρεσκευάσθαι: può sembrare sorprendente che Leptine e i syndikoi (αὐτοὺς) potessero sostenere che non bisognasse accordare onori tout court, quando la legge di Leptine aboliva solo l’ateleia. Tuttavia, critiche alla frequenza e liberalità degli onori ateniesi, in contrasto alle più austere pratiche antiche (o straniere), sono frequenti negli oratori, anche in Demostene (p. es. Dem. 23.196–210, 3.23–32 e 13.21–31 con Canevaro [c.d.s. c] e comm. §24[2]), e vanno interpretate come sintomo di una certa ansietà per il funzionamento dell’economia degli onori. Ma si contestava l’uso eccessivo di onori, non il loro uso in assoluto (vd. §§112–15, Liddel 2016). [3] ὡς ἄρ᾽ οἱ Λακεδαιμόνιοι καλῶς πολιτευόμενοι καὶ Θηβαῖοι οὐδενὶ τῶν παρ᾽ ἑαυτοῖς διδόασι τοιαύτην οὐδεμίαν τιμήν: Leptine potrà sostenere che in realtà cittadine diverse da Atene non si onorino i benefattori. Gli esempi sono Sparta e Tebe, che Demostene confuta con l’argomento della diversità dei regimi, e dunque della coerenza delle norme in materia di benefici con il regime relativo, nel caso di Sparta; della intrinseca crudeltà dei Tebani nel caso di Tebe. La scelta degli Spartani e dei Tebani rifletteva forse

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le preferenze in politica estera dei syndikoi, schieratisi in passato con gli Spartani e i Tebani (Canevaro 2009, intr. pp. 33–42; cfr. Kremmydas 2012: 370–1). Il confronto con questi modelli stranieri illumina gli orizzonti politici degli Ateniesi, che si dovettero almeno moderatamente interessare alle soluzioni costituzionali delle città rivali (cfr. Dem. 24.139 e Lyc. 1.128), e sulle cui concezioni gli oratori facevano leva (Lewis 1996: 46–50). Per utilizzare costituzioni straniere come modello, era necessaio poterle elogiare senza che il demos ne fosse irritato: qui gli Spartani sono καλῶς πολιτευόμενοι (cfr. Lyc. 1.128: ἐκ πόλεως εὐνομουμένης), considerazione attribuita ai syndikoi che pare condivisa da Demostene (cfr. §108). Ma l’elogio di Sparta era solitamente condizionale, e non si esprimevano preferenze per Sparta contro Atene (Fisher 1994). Nel paragrafo successivo, a prescindere dall’ammissione che Sparta possa essere ben governata, l’oratore afferma l’estraneità delle sue istituzioni ai valori ateniesi, e implicitamente fornisce un giudizio di valore: la possibilità stessa ad Atene di elogiare Sparta è indicazione della superiorità Ateniese. L’equanimità di Demostene verso le istituzioni spartane (cfr. §108) è dunque alternata al confronto con le istituzioni e i valori ateniesi, volto a sfruttare l’idea della superiorità ateniese per screditare gli argomenti di Leptine. L’affermazione attribuita a Leptine, che a Sparta non esistevano benefici, è falsa: p. es. godevano dell’ateleia i padri di quattro figli (Arist. Pol. 1270b4), il discendente dell’uccisore di Epaminonda a Mantinea (Plut. Ag. 35), i combattenti di Decelea (Hdt. 9.73); anche per Tebe c’è testimonianza di esenzioni (cfr. IG VII 2407 = RO 43, IG VII 2408; CIG 1565; cfr. per l’ateleia nella Grecia centrale Knoepfler 2001: 55–60). [4] οὐ γὰρ ἀγνοῶ τοῦθ᾽ ὅτι Θηβαῖοι καὶ Λακεδαιμόνιοι καὶ ἡμεῖς οὔτε νόμοις οὔτ᾽ ἔθεσιν χρώμεθα τοῖς αὐτοῖς οὔτε πολιτείᾳ: i nomoi e gli ethe (tradizioni e costumi) compongono insieme lo spirito e la costituzione (politeia) della città, e dunque politeia è citata per riassumere i due termini (ma talvolta l’ethos è contrapposto alle leggi, cfr. Aeschin. 1.179 e 3.37). Il termine politeia (Antiph. 3.2.1; Thuc. 2.37; Pl. Resp. 8.562a; Aeschin. 1.5; Arist. Pol. 1279a) è definito da Platone come κατάστασις τῶν ἀρχῶν καὶ ἀρχόντων (“l’instaurazione delle magistrature e dei magistrati”, Pl. Leg. 6.751a), e da Aristotele come τῶν τὴν πόλιν οἰκούντων [...] τάξις τις (“una certa organizzazione di chi vive nella città”, Arist. Pol. 1274b34). Può avere vari significati, e principalmente indica l’insieme dei cittadini e i loro diritti (p. es. Hdt. 9.34.1; Thuc. 6.104.2, [Arist.] Ath. Pol. 54.3) oppure l’ordinamento, costituzionale e sociale, di una polis (p. es. Thuc. 2.37.2, Dem. 18.87,



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19.184; sul termine vd. Bordes 1982, Schofield 2006: 35–50, Harte-Lane 2013: 1–12, passim). Demostene sembra sottoscrivere a un certo relativismo costituzionale: qui e a §108 le differenze tra Atene, Sparta e Tebe vengono giustificate in virtù delle rispettive politeiai, e dunque diverse istituzioni sono appropriate a diverse città, ma se vengono trasferite ad Atene sarebbero contrarie allo spirito delle leggi e ai costumi ateniesi. Tuttavia, nei due paragrafi successivi, Demostene procede a squalificare le istituzioni di Sparta (e a §109 quelle di Tebe) con argomenti tipici della critica democratica alle oligarchie – questo relativismo è strumentale, e non mette in discussione la superiorità ateniese (in Isocrate invece la scelta delle costituzioni è variabile e subordinata a considerazioni etiche, per cui il relativismo è effettivo, vd. Morgan 2003: 183–202). Come le informazioni sugli onori a Sparta e a Tebe sono incorrette, così è l’idea qui suggerita che il regime tebano fosse incommensurabile a quello ateniese: dal 378 Tebe era governata da un regime democratico (vd. Buckler 1980: 15–45, Buck 1994: 78–80, Robinson 2011: 53–61). 106 [1] ὃ νῦν οὗτοι ποιήσουσιν, ἐὰν ταῦτα λέγωσιν, οὐκ ἔξεστι ποιεῖν παρὰ τοῖς Λακεδαιμονίοις, τὰ τῶν Ἀθηναίων ἐπαινεῖν νόμιμα οὐδὲ τὰ τῶν δείνων: l’impressione di relativismo costituzionale è immediatamente ribaltata con questo riferimento alla parrhesia, la libertà di dire ciò che si desidera, valore fondamentale della democrazia ateniese (comm. §16[2]; cfr. Dem. 9.3, [Dem.] 10.66, Eur. Ion 670–5, Suppl., 438–441; Hdt. 5.78). Leptine e i syndikoi criticano le istituzioni ateniesi ed elogiano quelle spartane, una libertà che è concessa ad Atene e non a Sparta. Il pubblico avrà reagito con disgusto alla mancanza di parrhesia a Sparta, e rilevato che i valori su cui si fondano le istituzioni spartane sono incompatibili con quelli ateniesi, ed esecrabili per gli Ateniesi. Il relativismo costituzionale del paragrafo precedente diventa strumentale alla dimostrazione della superiorità ateniese. Similmente, la descrizione dell’onore di essere ammesso nella gerousia al paragrafo successivo marca la costituzione spartana come oligarchica, suscitando la disapprovazione del pubblico. Cfr. §16, dove l’oratore afferma espressamente la superiorità delle democrazie sulle oligarchie proprio in virtù dell’isegoria, della libertà di parola (comm. §16[2]). A §108 Demostene torna a mostrare una certa equanimità verso le istituzioni spartane, ma nel frattempo la disapprovazione del pubblico era già stata suscitata. [2] ἀλλ᾽ ἃ τῇ παρ᾽ ἐκείνοις πολιτείᾳ συμφέρει, ταῦτ᾽ ἐπαινεῖν ἀνάγκη: a Sparta è lecito parlare soltanto nell’interesse della costituzione lì vigente.

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Se Leptine e i syndikoi davvero ritengono le pratiche spartane degne di imitazione, dovrebbero fare lo stesso, e proporre leggi coerenti con la politeia ateniese. [3] [καὶ ποιεῖν]: si espunge con Hirschig (1850: 333) e con tutti gli editori. Il ragionamento è incentrato sulla dialettica interna alle oligarchie: gli unici discorsi ivi permessi sono quelli di elogio della loro politeia. Questa è effettivamente una specificità delle oligarchie rispetto alla democrazia ateniese. ποιεῖν introdurrebbe un’ulteriore specificazione: bisogna anche fare esclusivamente ciò che è vantaggioso per il regime. Qui tuttavia la specificità non sussiste: anche ad Atene è obbligatorio perseguire il vantaggio della città. [4] εἶτα καὶ Λακεδαιμόνιοι τῶν μὲν τοιούτων ἀφεστᾶσιν: Demostene accoglie l’affermazione di Leptine che l’ateleia e questo genere di onori non esistono a Sparta, ma porta esempi di altri onori. Se Leptine avesse effettivamente fatto queste affermazioni, avrebbe avuto torto (comm. §105[3]). Che Demostene non lo attacchi per questo mostra che persino in un politico del suo calibro la conoscenza del dettaglio delle istituzioni di altre città era limitata (ma la descrizione della gerousia è accurata, vd. sotto). 107 [1] ἐπειδάν τις εἰς τὴν καλουμένην γερουσίαν ἐγκριθῇ παρασχὼν αὑτὸν οἷον χρή, δεσπότης ἐστὶ τῶν πολλῶν: la gerousia è citata raramente negli oratori (Isoc. 12.154, Aeschin. 1.180). Che l’ammissione nella gerousia fosse un titolo d’onore è confermato da Xen. Lac. Pol. 10.3, Arist. Pol. 1270b24 e da Plut. Lyc. 26.2. La gerousia era composta da 28 geronti di età superiore ai sessant’anni (Plut. Lyc. 26; Ages. 4.3; più i due re), eletti a vita (Arist. Pol. 1270b38–1271a1; Plut. Ages. 4.3), col potere di infliggere multe, atimia, e di vita e di morte sui cittadini (Plut. Lyc. 26.6–11). Giudicavano anche le cause di omicidio (Arist. Pol. 1275b12; vd. Forrest 1968: 46–50, Jones 1967: 17–19, de Ste. Croix 1972: 126–34, David 1991: 15–36; Schulz 2011: 167–88). Secondo Aristotele la gerousia rappresentava l’elemento oligarchico ed era limitata dal potere degli efori; aveva potere probuleumatico (come il Consiglio ad Atene) e i suoi membri erano eletti per acclamazione (Arist. Pol. 1265b37ss., 1271a; per un’analisi di questa istituzione vd. Cartledge 2001b: 9–78 passim; 2003: 64–66; Giannakopoulos 2008; Kennell 2010: 109–11; Schulz 2011). [2] ἐκεῖ μὲν γάρ ἐστι τῆς ἀρετῆς ἆθλον τῆς πολιτείας κυρίῳ γενέσθαι μετὰ τῶν ὁμοίων: questa formulazione, che sembra riecheggiata in Arist. Pol. 1270b (οἱ δὲ καλοὶ κἀγαθοὶ διὰ τὴν γερουσίαν, ἆθλον γὰρ ἡ ἀρχὴ αὕτη



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τῆς ἀρετῆς ἐστιν), avrà suscitato la disapprovazione del pubblico per le istituzioni spartane. Ad Atene infatti il titolo di kyrios è attribuito esclusivamente al demos nelle sue varie funzioni istituzionali (vd. comm. §2[9]), mentre qui è applicato ai membri della gerousia (a loro fa riferimento l’espressione μετὰ τῶν ὁμοίων). Mentre ad Atene la sovranità è del popolo (παρὰ δ᾽ ἡμῖν ταύτης μὲν ὁ δῆμος κύριος), e nessuno ha sovranità sugli Ateniesi, a Sparta un gruppo di cittadini è onorato con la sovranità su tutti gli altri. Se dunque i geronti sono sovrani sul resto dei cittadini (τῶν πολλῶν), essi sono despotai, tiranni (il termine indica il padrone di schiavi, ed è esteso a indicare il tiranno: vd. Harris 2006: 272–3 e 278–9), e il resto degli Spartani vive in douleia, schiavitù (vd. comm. §15[2]). Queste scelte terminologiche marcano giudizi di valore (espliciti a §§15–16). Negli oratori il termine despotes è utilizzato soltanto in riferimento a tiranni stranieri (Filippo: Dem. 1.4; il Gran Re: Aeschin. 3.132) e a oligarchi (cfr. Isoc. 7.65, 8.107 sugli Spartani stessi), mentre ad Atene è attribuito esclusivamente al demos (Dem. 3.30, [Dem.] 13.31). [3] καὶ ἀραὶ καὶ νόμοι καὶ φυλακαὶ ὅπως μηδεὶς ἄλλος κύριος γενήσεται, στέφανοι δὲ καὶ ἀτέλειαι καὶ σιτήσεις καὶ τοιαῦτα ἐστίν: Atene ha numerosi deterrenti per impedire a chiunque di acquisire sovranità sul demos, e accorda onori che non comportano cessione di sovranità all’onorando. Gli esempi di deterrenti sono le arai, maledizioni rituali (Burkert 1985: 73–5), leggi e controlli a tutela del popolo. Al principio di ogni Assemblea venivano pronunciate maledizioni rituali contro i traditori, i nemici della città, i corrotti e i fraudolenti. Non conserviamo le esatte parole, ma Dem. 18.282, 23.97 e Din. 1.47, 2.16 testimoniano che erano rivolte contro chi si macchiava di corruzione o tentava di ingannare il popolo. Ar. Thesm. 331–351 fa una parodia di queste imprecazioni rituali, da cui si ricava che erano preghiere rivolte agli dei olimpici, pitici e delii; le maledizioni erano rivolte verso chi tramasse contro il popolo, negoziasse con i Persiani contro la città (Isoc. 4.157) o tentasse di farsi tiranno. Si richiedeva agli dei la distruzione del traditore e della sua famiglia (Din. 2.16). È probabile che all’epoca del discorso la formula fosse stata modificata (Rhodes 1972:36–37; Rubinstein 2007). Demostene fa anche riferimento a leggi e generici magistrati, garanzie contro la tirannia. Come guardiani l’oratore potrebbe riferirsi genericamente ai magistrati, ma anche a giudici e bouleuti. I loro giuramenti imponevano rispettivamente che un bouleuta non potesse imprigionare un cittadino, a meno di prodosia della città o di complotto per distruggere il demos (Dem. 24.144), e i giudici sono definiti guardiani delle leggi a Dem. 24.37. Quanto alle leggi antitiranniche, a §159 è menzionato un decreto di Demofanto che

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onora l’uccisore di chi tenta di installarsi come tiranno. Andoc. 1.96 introduce una legge di Solone scritta su una stele davanti al Bouleuterion in cui si dichiara nemico della città chiunque cospiri per distruggere la democrazia, e si dà libero mandato di ucciderlo impunemente, e il decreto di Demofanto è ancora discusso a Lyc. 1.124–6 e datato al periodo immediatamente successivo ai Trenta (sulla relazione tra queste leggi vd. Canevaro-Harris 2012: 124–5; Andoc. 1.97 ha un documento che vuole essere il decreto di Demofanto, ma è un falso, cfr. Canevaro-Harris 2012: 119–24; contra Sommerstein 2014, ma vd. Harris 2015). Una ulteriore legge antitirannica, passata nel 337/6 da Eucrate, è conservata su una stele trovata nell’agorà (IG II3 1 320 = RO 79). Per una sintesi della legislazione antitirannica ateniese vd. Ostwald (1955), Giorgini (1993: 159–164), Bertelli (1994), Teegarden (2013; 2014). Garantire ai benefattori potere sul popolo, come avviene a Sparta, non è accettabile, per cui gli Ateniesi accordavano onori diversi (qui elencati): corone onorarie avevano larga diffusione, testimoniata dal discorso Sulla Corona, dai beneficiari citati a Dem. 18.114 e da varie testimonianze epigrafiche. Un altro genere di corona onoraria era votata in onore del Consiglio al termine dell’anno di insediamento, ricevuta anche da Androzione (e attaccata in Dem. 22). Altro onore qui citato è l’ateleia, e il seggio nel Pritaneo. Un posto a vita nel Pritaneo per i pasti (Cic. De Orat. 2.232; Dem. 19.330) era riservato ai discendenti dei tirannicidi, ai sacerdoti dei misteri eleusini, ai generali vittoriosi, ai vincitori nelle feste panelleniche. Un posto temporaneo era riservato anche agli ambasciatori stranieri e a quelli ateniesi da poco tornati in città (vd. Miller 1978; Lambert 2004 e 2011; Liddel 2016). 108 [1] καὶ ταῦτ᾽ ἀμφότερ᾽ ὀρθῶς ἔχει, καὶ τἀκεῖ καὶ τὰ παρ᾽ ἡμῖν: Demostene chiude la discussione di Sparta affettando, in “ring composition” (cfr. §105), la sua equanimità verso di essa. C’è nuovamente un’impressione di relativismo costituzionale, ma in realtà l’oratore sta semplicemente affermando che gli onori accordati nelle due città sono coerenti con le loro rispettive costituzioni, secondo il principio che ogni legge deve corrispondere all’ethos e alla politeia della città. [2] ὅτι τὰς μὲν διὰ τῶν ὀλίγων πολιτείας τὸ πάντας ἔχειν ἴσον ἀλλήλοις τοὺς τῶν κοινῶν κυρίους ὁμονοεῖν ποιεῖ: qui caratteristica dell’oligarchia spartana è la concordia attraverso l’uguaglianza di coloro che detengono il potere. Gli Ateniesi invece avrebbero conseguito la libertà attraverso la competizione. Apparentemente Demostene attribuisce il buon governo delle



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due polis a principi differenti: la libertà per Atene e l’eguaglianza per Sparta. In realtà le due città crearono connotazioni particolari per questi valori, che concorrevano insieme a comporre due diverse ideologie politiche. L’eguaglianza fu elemento fondante di entrambe le costituzioni: aritmetica (seppur con sfumature: Cartledge 2001b: 72–73) per Atene, geometrica o proporzionale per Sparta (cfr. Harvey 1965; Raaflaub 1996; Cartledge 2001b: 68–78). La terminologia stessa era differente (Cartledge 2001b: 72–75; Raaflaub 2004b: 53): per Atene si utilizza in genere isotes, una uguaglianza di base indiscriminata tra i cittadini, per Sparta è homoiotes, più che effettiva eguaglianza, comunanza di nascita, educazione, “similitudine” all’interno della propria classe di cittadini. Questa diversa concezione è caratteristica della società spartana, per la sua stessa struttura antiegualitaria (cfr. Plut. Mor. 228c–d; Cartledge 2001b: 74). Dunque il concetto di eguaglianza vi si forma in opposizione al corrispondente valore democratico, come riedizione di un principio che non poteva essere accolto come era stato formulato ad Atene, e innestato sul diverso valore aristocratico della “similitudine”, l’eguaglianza relativa all’interno di una classe dominante, fondata sulla condivisione di uno schema valoriale oltre che sulla discendenza genetica. Demostene non contraddice questa ricostruzione – con ἔχειν ἴσον, il riferimento è all’eguaglianza interna alla classe dominante, e più specificamente dell’eguaglianza nelle ricompense tra i geronti attraverso un identico status di “signori della comunità”. L’avere “identiche” ricompense comporta non l’essere, alla base, “identici” in senso assoluto, ma l’essere homoioi (§ 107), parte di una élite. Questa rappresentazione di Sparta come egualitaria al livello degli Spartiati è tuttavia un costrutto ideologico, contrapposto a una realtà di forti differenze tra gli Spartiati stessi, sia nel potere politico sia, ancora più marcatamente, nella ricchezza (Cartledge 1996: 180–1, Hodkinson 1983: 243–4, 2000 passim). [3] τὴν δὲ τῶν δήμων ἐλευθερίαν ἡ τῶν ἀγαθῶν ἀνδρῶν ἅμιλλα, ἣν ἐπὶ ταῖς παρὰ τοῦ δήμου δωρεαῖς πρὸς αὑτοὺς ποιοῦνται, φυλάττει: all’eguaglianza spartana Demostene contrappone la competizione come caposaldo della democrazia, in linea con un’illustre tradizione. Protagora, nell’omonimo dialogo platonico (Plat. Prot. 327), afferma che la competizione può generare ammirazione ed emulazione (cfr. §139), sviluppando le potenzialità dei cittadini, per cui in un’ipotetica città democratica composta da soli suonatori di flauto adeguatamente addestrati (e in questo consiste l’isotes democratica) non sarebbero i buoni suonatori oggetto di invidia e gelosia, ma si criticherebbero i cattivi suonatori. Troviamo questa metafora

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dei flautisti già in Erodoto (Hdt. 6.60), che mostra il caso opposto di una città oligarchica dove si diventa flautisti per diritto di nascita, e l’uguaglianza è intesa come stabilità di posizione sociale, corrispondenza nei riconoscimenti (da una simile situazione Demostene fa qui derivare la concordia). Una simile contrapposizione si applica anche all’eleutheria dei cittadini: mentre ad Atene la libertà, il non essere schiavi (né stranieri), corrisponde al pieno godimento dei diritti di cittadinanza, a Sparta il concetto di eleutheria si conforma all’ideale aristocratico: ne gode chi è eleutherios (non eleutheros) – chi è libero dal bisogno di lavorare e si può dedicare a un’educazione liberale, al servizio della comunità, all’addestramento militare, alla politica (Raaflaub 1983; 2004a: 243–247; 2004b: 42). Questa interpretazione della libertà come risultato della competizione era tipica del pensiero democratico (p. es. Ober 1989: 259–61, Sinclair 1988: 188–90, Forsdyke 1999, Christ 2006: 155–7 sostengono che fosse una rielaborazione democratica di valori competitivi tipici dell’aristocrazia). Al contempo il tema della competizione (e dell’emulazione) era particolarmente rilevante in una discussione dell’economia degli onori: il concetto di philotimia alla base del sistema implicava una gara continua per offrire servizi al demos e averne in cambio onori e riconoscimenti (intr. pp. 78–80, 84–6). Così la competizione democratica non soltanto, come affermato da Demostene, salvaguardava la democrazia, ma costituiva una forma di redistribuzione della ricchezza a favore del demos che contribuiva all’equilibrio della città (cfr. Ober 1989: 226–33, 240–7; Carey 2000: 35–6; Cairns 2003: 247–8). 109 [1] καὶ μὴν περὶ τοῦ γε μηδὲ Θηβαίους μηδένα τιμᾶν: nel caso dei Tebani Demostene accetta l’assunto che non accordassero onori (a torto, vd. comm. §105[3]) e lo interpreta come prova ulteriore della loro disumanità, sfruttando diffusi pregiudizi antitebani. [2] μεῖζον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, Θηβαῖοι φρονοῦσιν ἐπ᾽ ὠμότητι καὶ πονηρίᾳ ἢ ὑμεῖς ἐπὶ φιλανθρωπίᾳ καὶ τῷ τὰ δίκαια βούλεσθαι: Tebe è dipinta come anti-Atene, che sottoscrive a valori opposti e ripugnanti. Questa immagine è diffusa nelle fonti ateniesi – le lotte per l’egemonia della prima metà del IV secolo avranno promosso questo stereotipo (Nouhaud 1982: 90–l), che è però frequente già nel V (vd. per la tragedia Zeitlin 1990). Il peccato originale dei Tebani era la scelta di schierarsi dalla parte del barbaro durante le Guerre Persiane (vd. Steinbock 2013: 100–54; inimicizia proiettata nel mito con la storia del rifiuto tebano di seppellire i Sette, e



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l’intervento ateniese, vd. Steinbock 2013: 155, 210). L’immagine negativa dei Tebani è dunque parte della memoria collettiva degli Ateniesi (p. es. Dem. 1.26, 14.33–4, Isoc. 8.17). Erano considerati dagli Ateniesi rozzi, duri, senza umanità. La omotes qui richiama un attributo tipico dei barbari, che riflette il medismo dei Tebani (Diod. 13.22.2, 58.2). La omotes tebana è contrapposta alla philanthropia ateniese (vd. Christ 2013: 209; cfr. Dem. 18.231 con le pretese di philanthropia di Filippo che oscurano la sua reale omotes). La philanthropia è attributo tipico della città che rappresenta sé stessa come paladina dai deboli (cfr. §§3, 6, 54–5, 165, Dem. 16.9, 18.5, 21.48–50, 23.156, 24.24; Isoc. 4.38–9; vd. Dover 1974: 201–5, De Romilly 1979: 37–52, 127–44 e Christ 2013 per il concetto in epoca classica, in particolare negli oratori, Gray 2013 per l’età ellenistica; Holton [c.d.s.] per riflessioni ellenistiche sulla philanthropia ateniese). Passi come Dem. 24.51–2 e Arist. Poet. 1453a2–6 mostrano che la philanthropia era intesa come riguardo, gentilezza e favore indipendente dal diritto effettivo (secondo giustizia, merito o onore) del beneficiario di ricevere un trattamento di favore (vd. Konstan 2005: 22–4). La poneria tebana (malvagità, iniquità) è contrapposta allo spirito di giustizia delle deliberazioni ateniesi. Dem. 18.43 e 5.15 definisce i Tebani ἀναισθήτους, 18.35 lancia loro accuse di ἀναλγησία e βαρύτης (vd. Wankel 1976: 303). Un’immagine più positiva si afferma con le lotte contro Filippo II, fondata sulla memoria dell’opposizione dei Tebani alla volontà spartana di distruggere Atene al termine della Guerra del Peloponneso (Steinbock 2013: 211–79). [3] τοὺς δὲ συγγενεῖς (ἴστε γὰρ ὃν τρόπον Ὀρχομενὸν διέθηκαν) οὕτω μεταχειριζόμενοι: la crudeltà di non onorare i benefattori è esemplificata dal trattamento degli abitanti di Orcomeno, ma l’esempio non è appropriato, perché non si tratta di benefattori. Ma, secondo Demostene, se i Tebani sono disposti a uccidere i loro consanguinei, a fortiori bisogna aspettarsi che non onorino i loro benefattori. Nel 364 i Tebani, dopo un tentativo oligarchico di esuli tebani che agirono da Orcomeno, distrussero l’antica rivale, uccisero gli uomini e vendettero come schiavi donne e bambini (Diod. 15.79.3–6; Paus. 9.1533 con Buckler 1980: 182–4). Il riferimento alla syngeneia è giustificato dall’idea di un unico ethnos beotico, non unito tuttavia in una singola polis (sebbene le città beotiche furono a tratti unite in una confederazione guidata da Tebe; vd. Buck 1994: 106–10, Buckler 1980: 15–45). Le relazioni erano tese, e gli oratori spesso evidenziano le prevaricazioni tebane verso gli alleati (p. es. Isoc. 12.94, 14.8; vd. Sordi 2002: 309–22).

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[4] μήθ᾽ ὑμεῖς τἀναντία τούτοις τοὺς μὲν εὐεργέτας τιμῶντες, παρὰ δὲ τῶν πολιτῶν λόγῳ μετὰ τῶν νόμων τὰ δίκαια λαμβάνοντες: il metodo ateniese per ottenere servizi è caratterizzato dalla persuasione e dalla normale deliberazione democratica (παρὰ δὲ τῶν πολιτῶν λόγῳ), secondo le prescrizioni delle leggi (μετὰ τῶν νόμων): si accordano onori come premio per i servizi ricevuti, spingendo cittadini e stranieri all’emulazione, in una gara per fornire più servizi alla città (intr. pp. 77–97). 110 [1] ὅλως δ᾽ οἶμαι τότε δεῖν τοὺς ἑτέρων ἐπαινεῖν τρόπους καὶ ἔθη τοῖς ὑμετέροις ἐπιτιμῶντας, ὅταν ᾖ δεῖξαι βέλτιον ἐκείνους πράττοντας ὑμῶν: l’equanimità di questo principio è solo apparente: Demostene era cosciente che i giudici non avrebbero mai ammesso che altre poleis fossero più potenti, meglio amministrate, o avessero più successo di Atene. Nota inoltre, aggiungendo τοῖς ὑμετέροις ἐπιτιμῶντας, che l’elogio dei costumi e delle istituzioni di altre città, nel contesto di una proposta di riforma, è implicitamente un biasimo dei costumi e delle istituzioni ateniesi, che va giustificato mostrando che Atene sta fallendo. Demostene lo può negare recisamente. [2] ὅτε δ᾽ ὑμεῖς [...] καὶ κατὰ τὰς κοινὰς πράξεις καὶ κατὰ τὴν ὁμόνοιαν καὶ κατὰ τἄλλα πάντα ἄμεινον ἐκείνων πράττετε...: Demostene non porta prove a sostegno della sua affermazione, contando sull’orgoglio ateniese e contemporaneamente lusingando i giudici (ὑμεῖς: la frase è tutta nella 2a pers. plur.). La menzione dell’homonoia (concordia), insieme agli affari pubblici e a indefiniti τἄλλα πάντα dà un’idea di eccellenza in ogni campo. L’affermazione di Demostene è difficile da confermare o confutare, e tuttavia Ober (2008: 39–79) ha tentato una misurazione dell’eccellenza ateniese comparata alle altre poleis (cfr. Mann, Gnomon 82, 2010, 334–339). Cfr. affermazioni simili (e lo stesso riferimento alla fortuna) in Lys. 30.18, pronunciata solo 5 anni dopo la sconfitta ateniese nella Guerra del Peloponneso. [3] εἰ γὰρ καὶ κατὰ τὸν λογισμὸν ἐκεῖνα φανείη βελτίω, τῆς γε τύχης ἕνεκα ᾗ παρὰ ταῦτ᾽ ἀγαθῇ κέχρησθε, ἐπὶ τούτων ἄξιον μεῖναι: Demostene ha confutato ai paragrafi precedenti il ragionamento dei difensori della legge (sulla superiorità di costumi e istituzioni straniere). Qui ipotizza, per assurdo, che il loro ragionamento (τὸν λογισμόν) sia accettabile, e sostiene che anche in questo caso gli Ateniesi non dovrebbero cambiare le loro istituzioni, perché hanno sempre avuto successo seguendo i loro costumi. Prima questo successo è oggettivato con l’espressione κατὰ τὰς κοινὰς πράξεις καὶ κατὰ τὴν ὁμόνοιαν καὶ κατὰ τἄλλα πάντα; qui è innalzato a risultato dell’azione soprannaturale di tyche, della fortuna, che secondo radicati convinci-



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menti ateniesi proteggeva la città (p. es. Dem. 2.1; a Lys. 30.18 i costumi aviti il cui rispetto assicura il favore di tyche sono quelli sacrificali; ἀγαθή τύχη era divinizzata e venerata ad Atene, almeno dalla seconda metà del IV secolo, cfr. IG II3 1 378; IG II2 1195 + Agora 1.5825 + 1.6630; IG II2 1496; IG II3 1 445; Agora 21.G9; cfr. Tracy 1994, Mikalson 1998: 62–3). 111 [1] οὐκ ἔστι δίκαιον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοὺς Λακεδαιμονίων νόμους οὐδὲ τοὺς Θηβαίων λέγειν ἐπὶ τῷ τοὺς ἐνθάδε λυμαίνεσθαι: a §§88–104 Demostene argomentava che la legge di Leptine contraddice le leggi esistenti, e dunque rovina la coerenza e lo spirito dell’ordinamento. A §§105 sosteneva che la difesa userà le leggi di Sparta e Tebe in difesa della legge di Leptine. Qui riassume, e chiude, la sezione, affermando che la discussione delle leggi straniere ha lo scopo di rovinare quelle di Atene. Così le intenzioni della difesa vengono rappresentate come antidemocratiche e oligarchiche (cfr. Dem. 24.92, 95, 102, 107, 210 su Timocrate). [2] οὐδὲ δι᾽ ὧν μὲν ἐκεῖνοι μεγάλοι ταῖς ὀλιγαρχίαις καὶ δεσποτείαις εἰσί: la lezione dei codici, τῆς ὀλιγαρχίας καὶ δεσποτείας εἰσί, è problematica, e fu espunta già dal Lambino (1570) e da Hieronymus Wolf (1572). Con Westermann (1851–1852) si espunge spesso anche εἰσί per evitare lo iato. L’unico tentativo di conservazione è venuto da Blass (che chiama a testimone dell’originarietà dell’espressione Schol. Dem. 20.111.259 Dilts: θέλει εἰπεῖν ὅτι ‘εἴ τις τὰ τῶν Λακεδαιμονίων ἄγοι ἐνταῦθα ἔθη δι’ ὧν ἐκεῖνοι τὴν ὀλιγαρχίαν συνέχουσιν, ἀποκτενεῖτε αὐτόν’). Blass aggiunge all’inizio μετά per correggere la grammatica. La concordia della paradosis e il senso del periodo, che discute della grandezza di queste città in relazione alle loro costituzioni (ad Atene si uccide chi propone di seguire le loro istituzioni proprio perché non sono democratiche) consigliano di mantenere l’espressione (cfr. Kremmydas 2012: 381–2; per despoteia applicato a governi oligarchici vd. comm. §§15[2], 107[2], con Isoc. 7.65, 8.107, dove gli Spartani sono chiamati despotai; pace Trevett, rec. Kremmydas 2012, BMCR 2013.04.02). Con Kremmydas si integra ταῖς ὀλιγαρχίαις καὶ δεσποτείαις (superiore grammaticalmente all’integrazione di Blass). [3] κἂν ἀποκτεῖναι βούλεσθαι τὸν παρ᾽ ἡμῖν τούτων τι κατασκευάσαντα: l’uccisione di chi volesse distruggere la democrazia era prevista dal nomos eisangeltikos (vd. comm. §79[3]) e dalle leggi antitiranniche (vd. comm. §§107[3], 159[2]).

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112 [1] καὶ παρ᾽ ἡμῖν ἐπὶ τῶν προγόνων πόλλ᾽ ἀγάθ᾽ εἰργασμένοι τινὲς οὐδενὸς ἠξιοῦντο τοιούτου, ἀλλ᾽ ἀγαπητῶς ἐπιγράμματος ἐν τοῖς Ἑρμαῖς ἔτυχον: questa schema argomentativo, attribuito a Leptine, si trova altrove in Demostene stesso (Dem. 23.196–203, 3.23–32 e 13.21–31 con comm. §24[2]; Canevaro [c.d.s. c]), e Eschine (3.177–189, la versione più estesa). Questo passaggio si concentra maggiormente sui benefici di ordine economico – la presunta argomentazione di Leptine sottilinea che la sua legge non abolisce le ricompense più specificamente onorifiche, quali le statue e i seggi al Pritaneo (§120), ma soltanto l’esenzione dalle liturgie. Dunque l’obiezione qui non è contro le onorificenze formali (come l’iscrizione nel portico di Ermes, vd. sotto). Demostene risponde innanzitutto che sempre ci furono ad Atene uomini valorosi e sempre meritarono ricompense (cita il caso di Lisimaco: §115), quindi afferma che le ricompense, una volta concesse, devono essere sicure e non possono essere abolite se non per gravi motivi. A §119 sintetizza l’argomentazione: chi afferma che gli antichi benefattori non ricevettero ricompense è allo stesso tempo malvagio e stupido: malvagio perché dà dei padri un ritratto negativo e menzognero, dipingendoli come ingrati; stupido in quanto non si rende conto che se davvero le cose fossero andate in questo modo, sarebbe meglio nasconderlo. [2] ἐν τοῖς Ἑρμαῖς ἔτυχον:, Arpocrazione (s.v. Ἑρμαῖ) afferma che c’era una concentrazione di Erme nella zona nord-occidentale dell’Agorà, tra la Stoa Poikile e quella del Re, fatto confermato dal gran numero di frammenti di Erme rinvenuti in quest’area (Thompson and Wycherley 1972: 94 su una Stoa delle Erme in quest’area; cfr. Fredal 2006: 136–8; su quest’area vd. Travlos 1988: 25, Beschi 1994: 505–6). È probabile che la riqualificazione dell’area con l’installazione delle prime Erme risalga all’epoca di Cimone. Il demos concesse a Cimone di erigere delle Erme a memoria della sua vittoria di Eione del 475 a.C. (Plut. Cim. 7.4; cfr. Diod. 11.60.2, Hdt. 7.107, Thuc. 1.98.1, con Di Cesare 2001: 31 e passim). Su queste Erme furono iscritti tre epigrammi (vd. sotto). Eschine (3.183) menziona una Stoa delle Erme nell’agora, e dati archeologici e letterari suggeriscono che si trovasse vicino all’hypparcheion, appunto nell’area delle Erme, all’angolo nord-occidentale. Il luogo preciso non è stato identificato con certezza, nonostante gli scavi americani (Longo 2007: 135–6). È stata identificata con la Stoa di Zeus, con quella del Re (Robertson 1999), e, da ultimo, per ragioni topografiche e cronologiche (i.e. la datazione ad età cimoniana della ceramica lì rinvenuta), con l’edificio in genere identificato come Stoa Poikile (Di Cesare 2001; 2002; cfr. Beschi 1994: 506, Matthaiou in Camp 2001: 26, Monaco 2004).



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La Stoa Poikile fu fatta dipingere in età cimoniana, ma il Peisianatte a cui è legata potrebbe essere non il cognato di Cimone, ma un Alcmeonide vissuto a cavallo tra VI e V secolo. Conferma potrebbe essere uno scolio a Elio Aristide (Tett. Hyp. Milt. 13–16) che menziona l’esistenza della Stoa Poikile già sotto l’arcontato di Fenippo (490/89 a.C.; vd. Di Cesare 2002, Longo 2007: 136–7). Se questo fosse il caso, la Stoa Poikile andrebbe situata altrove, in un’area dell’agora non ancora scavata (a est di quest’area), e l’edificio in questione (che si trova nell’area delle Erme citata da Arpocrazione ed è ricco di cercamica di età cimoniana) potrebbe essere identificato con la Stoa delle Erme. [3] καὶ ἴσως τοῦθ᾽ ὑμῖν ἀναγνώσεται το ἐπίγραμμα: Aeschin. 3.183–5 fa riferimento a tre steli nell’area delle Erme con epigrammi dedicati a coloro che sotto la guida di Cimone sconfissero i Persiani allo Strimone e conquistarono il porto di Eione nel 470 (cfr. Plut. Cim. 7; la battaglia ci è nota da Hdt. 7.107; Thuc. 1.98; Diod. 11.60.1–2; Plut. Cim. 1–2; cfr. Petrovic 2010: 214–15, Wycherley 1957: nos. 296–313). Gli epigrammi non menzionavano il nome di Cimone (il terzo menzionava l’eroe Menesteo come comandante, Shear 2011: 255, 305). Un epigramma è citato nell’ intr. p. 82. [4] ἀσύμφορον εἶναι τῇ πόλει λέγεσθαι, πρὸς δὲ καὶ οὐδὲ δίκαιον: nel contesto a cavallo tra giudiziario e deliberativo di una γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι (intr. pp. 71–6), un argomento né utile né giusto dev’essere irrilevante per i giudici. Demostene procede a mostrare che questo argomento non è valido. 113 [1] εἰ μὲν γὰρ ἀναξίους εἶναί τις φήσει κἀκείνους τιμᾶσθαι, τίς ἄξιος...: per Demostene l’argomentazione di Leptine che nessuno nei tempi antichi veniva onorato può avere tre implicazioni, tutte inaccettabili: 1) gli eroi del passato non erano degni di ricompense, nel qual caso Demostene ha buon gioco a chiedere chi dunque ne sarebbe degno; 2) nessuno è mai stato degno, nel qual caso Demostene lamenta la sorte di una città priva di benefattori; 3) gli eroi del passato meritavano di essere ricompensati, ma la città mancò di onorarli, e si macchiò di ingratitudine. Le tre opzioni sono formulate sapientemente per dimostrare che l’argomento di Leptine, comunque sia interpretato, ha conseguenze inaccettabili. [2] τῆς πόλεως ὡς ἀχαρίστου δήπου κατηγορεῖ: a Aeschin. 3.182 (che sviluppa l’argomento qui attribuito a Leptine), che la città possa essere stata ingrata è negato recisamente (cfr. Kremmydas 2012: 384): gli epigrammi

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delle Erme dimostrano per lui che i benefattori erano onorati, ma non con le stravaganti ricompense dei suoi giorni. [3] ἀλλ᾽ ἐπειδάν τις οἶμαι κακουργῶν ἐπὶ μὴ προσήκοντα πράγματα τοὺς λόγους μεταφέρῃ, δυσχερεῖς ἀνάγκη φαίνεσθαι: Demostene conclude che certi argomenti, che distorcono la realtà, rendono coloro che li utilizzano malvagi e odiosi (δυσχερεῖς). In realtà (cfr. Kremmydas 2012: 384–5) è Demostene che ha qui distorto l’argomento della difesa. 114 [1] ὡς δὲ τἀληθές τ᾽ ἔχει καὶ δίκαιόν ἐστι λέγειν: mentre l’argomento di Leptine era descritto come ἀσύμφορον [...] καὶ οὐδὲ δίκαιον, quello di Demostene è vero e δίκαιον. [2] ἦσαν [...] πολλοὶ τῶν πρότερον σπουδαῖοι […] αἱ μέντοι τιμαὶ καὶ τἄλλα πάντα τὰ μὲν τότ᾽ ἦν ἐπὶ τοῖς τότ᾽ ἔθεσιν, τὰ δὲ νῦν ἐπὶ τοῖς νῦν: Demostene afferma risolutamente che nel passato c’erano benefattori degni di ricompense, e giustifica la differenza nelle ricompense con l’evoluzione dei costumi della città. Come le ricompense accordate a Sparta sono coerenti con i costumi spartani (cfr. §§105, 107), così le ricompense accordate in passato ad Atene erano coerenti con i costumi dell’epoca. Questa spiegazione è eminentemente ragionevole, e mostra una notevole coscienza storica sull’evoluzione delle istituzioni. Questo approccio è usato da Demostene oltre vent’anni dopo nel rispondere alle accuse di Eschine (3.182–5): è scorretto paragonare i politici del presente con i grandi del passato, e i morti con i vivi (Dem. 18.318–5). Lui stesso tuttavia sfrutta analoghi anacronismi nel discorso d’accusa contro il decreto onorifico per Caridemo (Dem. 23.196– 203; cfr. Dem. 3.23–32, 13.21–31). 115 [1] ὅτι Λυσιμάχῳ δωρεάν, […] καὶ τέτταρας τῆς ἡμέρας δραχμάς: Demostene allude al figlio di Aristide il Giusto (Harp. s.v. Λυσίμαχος; cfr. PAA XX s.v. Λυσίμαχος n° 616305; APF 1695 III). Tuttavia Lisimaco non fu onorato per i suoi meriti personali, ma per via del padre morto in povertà (Plut. Arist. 27, 2; APF 1695). Appunto per questo Schol. Dem. 20.115.273 Dilts considera l’argomento demostenico specioso. Tuttavia, il parallelo con Ctesippo (cfr. Kremmydas 2012: 387), onorato per i meriti di Cabria, sarà balzato agli occhi dei giudici (ma Lisimaco, secondo Demostene, ottenne gli onori personalmente, non li ereditò dal padre, che invece non fu mai personalmente onorato: a Dem. 23.209 Aristide serve come esempio di benefattore che non ricevette ricompense). Il fatto che Aristide non sia citato espressamente è prova che l’identità di Lisimaco era nota a qualunque Ate-



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niese. Lisimaco è anche un personaggio del Lachete platonico (Plat. Lach. 179c), ed è descritto negativamente da Plat. Men. 94a. L’autore del decreto onorifico per Lisimaco fu, secondo Demostene, un certo Alcibiade, identificato da Navarre e Orsini con il generale Alcibiade (il decreto sarebbe stato passato nel 415, sulla scia dell’entusiasmo per l’imminente partenza di Alcibiade per la Sicilia). Plut. Arist. 6.2 afferma invece che la ricompensa fu accordata a Lisimaco e alle figlie di Aristide dopo la morte del Aristide, che avvenne intorno al 467 (onori alle figlie di Aristide sono inverosimili, probabilmente un’invenzione tarda, vd. Davies 1971: 50–1). L’Alcibiade in questione è forse il nonno del più famoso Alcibiade, attivo in quegli anni (Davies 1971: 50–2 e APF 597). Tuttavia negli anni ’60 del V secolo l’Eubea (con l’eccezione di Caristo) non era controllata da Atene (fu conquistata nel 446, Thuc. 1.114), per cui è difficile che gli Ateniesi potessero assegnare a Lisimaco terra euboica. L’informazione demostenica sarà però derivata dal decreto, che è letto dal grammateus. Questo pone dubbi sulla genuinità del decreto, acuiti dall’enormità delle ricompense: 200 pletri corrispondevano a circa 186000 metri quadrati, che avrebbero reso Lisimaco uno dei più ricchi tra gli Ateniesi (Alcibiade possedeva meno di 300 pletri: [Plat]. Alc. 1 123c); in aggiunta gli sarebbero state accordate 100 mine e 4 dracme al giorno. Simili doni sarebbero coerenti con le storie tarde sulla povertà di Aristide, che sono tuttavia dubbie: le fonti platoniche dipingono Lisimaco come un affluente aristocratico. Davies (1971: 50–2; cfr. anche Kremmydas 2012: 386–7) ha convincentemente sostenuto che il decreto fosse un falso di IV secolo, parte di un gruppo di falsi documentari riguardanti figure ed eventi importanti del passato ateniese, di cui probabilmente faceva parte il decreto di Temistocle che Eschine, secondo Dem. 19.303, citò in Assemblea nel 348 (Hignett 1963: 459, Buckler 1989: 116, Johansson 2001: 74; non è chiaro se questo decreto fosse lo stesso dell’iscrizione di Trezene, Jameson 1960, 1962; questo decreto, pace p. es. Hammond 1982, Anderson 1989, è probabilmente anch’esso un falso: l’iscrizione è di III secolo e non ateniese, vd. Dow 1962, Robertson 1982; il contenuto deriva probabilmnte da un falso di IV secolo o successivo: vd. Habicht 1961, Pritchett 1962, Johansson 2001). Per una discussione di questi falsi documentari ateniesi di IV secolo vd. Habicht (1961) e Davies (1996). Tuttavia, se anche il decreto non era un originale di V secolo, questo non significa che Demostene stesse coscientemente cercando di ingannare i giudici. È possibile che l’oratore, come il suo pubblico, considerasse il decreto autentico.

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[2] τότε μὲν γὰρ ἡ πόλις ἡμῶν καὶ γῆς ηὐπόρει καὶ χρημάτων, νῦν δ᾽ εὐπορήσει· δεῖ γὰρ οὕτω λέγειν καὶ μὴ βλασφημεῖν: Demostene allude alla crisi economica seguita alla sconfitta nella Guerra Sociale (intr. pp. 3–7, Canevaro 2009), per via della quale le sostanze ateniesi non sono paragonabili alle ricchezze della città nel V secolo. Questo riferimento è immediatamente diffuso attraverso un auspicio di futuro benessere per la città, un “eufemismo”: la futura fortuna della città è affermata come un dato di fatto, in quanto parole di buon auspicio avranno effetti positivi (εὐφημεῖν; cfr. Dem. 25.101), mentre parole di cattivo auspicio avranno effetti negativi (appunto, βλασφημεῖν). Questi termini, e l’obbligo di εὐφημεῖν, pertengono particolarmente all’ambito rituale, ma sono qui applicati alle affermazioni dell’oratore in tribunale (Carey 1999; Dowden 2007: 323; Kremmydas 2012: 387–8). 116 [1] ὅτι μὲν τοίνυν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, καὶ τοῖς προγόνοις ὑμῶν ἔθος ἦν τοὺς χρηστοὺς τιμᾶν, δηλοῖ τὸ ψήφισμα τουτί: il testo del decreto (autentico o no) provava le affermazioni di Demostene sulle ricompense dagli antenati. Dunque l’oratore ha dimostrato che l’argomento di Leptine non ha fondamento, e ora ribadisce che le ricompense di un tempo erano diverse da quelle attuali, e quindi irrilevanti. Ciò che conta è che gli antenati onoravano i loro benefattori. [2] εἰ τοίνυν μήτε Λυσίμαχον μήτ᾽ ἄλλον μηδένα μηδὲν εὑρῆσθαι παρὰ τῶν προγόνων ἡμῶν συγχωρήσαιμεν, τί μᾶλλον...: Demostene contempla (per assurdo) la possibilità che gli antenati non onorassero i benefattori, per dimostrare che anche in quel caso abolire ricompense già accordate sarebbe inaccettabile. Contemplare questa possibilità non indica che l’argomento precedente fosse debole; è una strategia per introdurre un ulteriore argomento contro la legge di Leptine (cfr. §99 e intr. pp. 29–30). 117 [1] εἰ μὲν γάρ τις ἔχει δεῖξαι κἀκείνους ὧν ἔδοσάν τῴ τι, τοῦτ᾽ ἀφῃρημένους: se anche si potesse dimostrare che gli antenati non accordavano ricompense, questo sarebbe un precedente a sostegno della scelta di smettere di accordare ricompense, ma non giustificherebbe l’abolizione delle ricompense già accordate. La legge di Leptine non si limita a vietare di conferire l’ateleia in futuro; priva i benefattori delle ricompense già ricevute. [2] γραφὴ νόμον μὴ ἐπιτήδειον θεῖναι: la correzione di Wolff (cfr. S καὶ τοιοῦτό γ᾽ αἰσχρὸν ὁμοίως, ScAFY καίτοι τό γ᾽ αἰσχρὸν ὁμοίως), accolta da



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Butcher, Dilts e Kremmydas, è grammaticalmente più corretta, e le varianti dei manoscritti sono spiegabili come frutto di errori meccanici a partire da questa lezione. L’idea che gli Ateniesi debbano avere a modello gli antenati (cfr. comm. §10[2]) è così forte da spingere Demostene, per assurdo, ad accettare di abolire ricompense già accordate, a patto che si dimostri che così si faceva in passato. Ma Demostene ribadisce che questo comportamento sarebbe vergognoso. Mostra così ossequio assoluto alla memoria degli antenati (deflettendo ogni accusa di rinnegare i loro costumi) ma contemporaneamente critica la possibilità di cancellare gli onori concessi, in quanto ha mostrato ai paragrafi precedenti che gli antenati in realtà ricompensavano generosamente i loro benefattori. Procederà immediatamente a negare che abbiano mai cancellato onori già concessi. 118 [1] ὅτι νῦν ὀμωμοκότες κατὰ τοὺς νόμους δικάσειν ἥκετε: i giudici giuravano prima di tutto di votare secondo il dettato delle leggi (questa è la norma del giuramento citata più spesso negli oratori, p. es. Aeschin. 3.6; Antiph. 5.7; cfr. Canevaro 2013a: 175 n. 288 per una lista completa, con Harris 2013: 101–37). Qui dunque ὀμωμοκότες fa riferimento inequivocabilmente ai giudici (come a §93, vd. intr. pp. 20–2). Il giuramento eliastico era prestato ogni anno da 6000 volontari (cittadini adulti) sopra i 30 anni che si presentavano come giudici per i tribunali popolari. Avveniva, secondo Polluce (8.122), Arpocrazione (s.v. Ἀρδηττός), Esichio (s.v. Ἀρδήττους Latte) e il lessico Suda (s.v. Ἀρδηττής), sul colle Ardetto (così chiamato dal nome di un eroe attico), vicino al demo di Agrile Basso e al fiume Illisso (ai suoi piedi si trovava in epoca più tarda lo Stadio Panatenaico, Boegehold 1995: 186–187). A queste indicazioni topografiche (accolte p. es. da Lipsius 1905–1915: 151, Kahrstedt 1936: 67) non sono state mosse obiezioni fino a Ostwald (1986: 160). Ryan (1994: 127–8), interpretando Esichio piuttosto liberamente, propone il Liceo come luogo alternativo. Arpocrazione aggiunge che Teofrasto, nelle Leggi, attesta che a un certo punto (presumibilmente dopo il 322 a.C) “questo costume” fu abolito. Non è chiaro se si riferisca al giuramento in toto oppure alla sua ubicazione sul colle Ardetto (cfr. Boegehold 1995: 41 n. 61). Il giuramento è fatto risalire dalla tradizione a Solone (Dem. 24.148), in linea con la tendenza di IV sec. di attribuire a Solone tutto ciò che riguarda il tribunale popolare (Hansen 1989, comm. §90[1]). Gli accenni degli oratori sono innumerevoli (per limitarsi ai demosioi demostenici, p. es. Dem. 18.2, 249; 19.1, 132, 134, 161, 239, 297; 20.118, 119, 159, 167; 21.24, 177, 211–12; 22.39, 46; 23.96, 101;

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24.35, 148–50, 175, 191; vd. Harris 2013: 253–7; Canevaro 2013a: 175–6 nn. 288–90; Sommerstein-Bayliss 2012: 69–80). Se ne ricava che il giuramento era composto da quattro punti fondamentali (Harris 2013: 102): 1) i giurati devono votare secondo le leggi e i decreti degli Ateniesi, 2) devono prestare eguale attenzione tanto all’accusatore quanto all’imputato, 3) devono votare secondo la gnome dikaiotate su materie al cui riguardo non ci sia alcuna legge, e senza favore o ostilità (vd. sotto), e 4) devono limitarsi nel giudicare agli elementi attinenti il caso in questione. Dem. 24. 149–51 ha un documento che sostiene di riportare il giuramento, ma è opera di compilatori tardi (vd. Canevaro 2013a: 173–80; Sommerstein-Bayliss 2012: 70–80 ammettono che il documento sia una compilazione tarda, ma cercano di salvare alcune disposizioni non attestate altrove). Il giuramento era prestato in nome di Zeus, Demetra e Apollo (Poll. 8.122 e Schol. Aeschin. 1.114.252 Dilts, che cita Dinarco; vd. Canevaro 2013a: 180, Sommerstein-Bayliss 2012: 72, 164, Fränkel 1878: 460). Non va sottovalutata, nel considerare la forza vincolante del giuramento, la componente religiosa per cui, nonostante il voto fosse segreto, il trasgressore era soggetto alla punizione divina (Lyc. 1.79, 146). Su questo aspetto della religiosità greca, e sull’efficacia dei giuramenti cfr. Dover (1974: 248–51), Sommerstein-Bayliss (2012: 323–7), Hansen (2015a: 24–69). [2] οὐχὶ τοὺς Λακεδαιμονίων οὐδὲ Θηβαίων, οὐδ᾽ οἷς ποτ᾽ ἐχρήσανθ᾽ οἱ πρῶτοι τῶν προγόνων: nel riassumere le obiezioni contro gli argomenti della difesa di §§105–17, Demostene le rinforza ancorandole al dettato del giuramento eliastico. [3] ἀλλὰ καθ᾽ οὓς ἔλαβον τὰς ἀτελείας οὓς ἀφαιρεῖται νῦν οὗτος τῷ νόμῳ: non è chiaro a quali leggi Demostene si riferisca, e se esistessero leggi specifiche che permettevano e regolavano l’ateleia (se tali leggi esistevano, è strano che l’oratore non le abbia citate tra quelle che Leptine avrebbe dovuto abrogare prima di promulgare la sua). Questa espressione potrebbe riferirsi genericamente alle leggi che salvaguardavano gli onori per i benefattori, come quella di §96. [4] καὶ περὶ ὧν ἂν νόμοι μὴ ὦσι, γνώμῃ τῇ δικαιοτάτῃ κρινεῖν: il significato del giuramento è piuttosto chiaro (Fränkel 1878: 460 ne ha persino immaginato la forma). C’è però dibattito sul criterio della gnome dikaiotate. Qui come nella Contro Beoto (Dem. 39.39–40) si afferma che i giudici debbano giudicare secondo questo criterio solo in caso di lacuna legislativa (così Poll. 8.122). Nella Contro Aristocrate (Dem. 23.96–97) e nella Contro



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Eubulide (Dem. 57.63) pare invece che quello della gnome dikaiotate funga da criterio a sé. Ritenere che il testo originario non comprendesse alcun accenno alle lacune legislative (e questa fosse un’interpretazione dell’oratore) fa gioco a una lettura agonistica e politica del processo attico, per cui l’aspetto giuridico sarebbe secondario, e primari sarebbero altri elementi, soprattutto le benemerenze dei personaggi implicati (il tribunale sarebbe dunque un’arena politica e il processo una gara di onori; vd. Ober 1989, Cohen 1995: 61ss.; più moderata è Lanni 2006; obiezioni consistenti in Harris 2005). Harris (2013: 104–14) ha invece dimostrato con forti argomenti che l’accenno alle lacune legislative era presente nel testo del giuramento. Appellarsi alla gnome dikaiotate sarebbe dunque congruente con le disposizioni moderne in caso di lacuna legislativa, nel qual caso tra i criteri adottati per il giudizio c’è anche l’equità (cfr. Bin-Pitruzzella 2004: 275 ss.; per le modalità di applicazione nell’ordinamento italiano cfr. Comoglio-Ferri-Taruffo 2006: 618ss.). L’espressione significa “deliberazione secondo giustizia”, e cioè “il più corretto ragionamento giuridico”, che prenda in considerazione i precedenti, l’intento del legislatore ecc. (vd. Pelloso [c.d.s.]; per altre interpretazioni p. es. Biscardi 1970: 219–32; Christ 1998: 195; Mirhady 2007). [5] καλῶς: si rifiuta l’espunzione di Hirschig (1850: 333) e Herwerden (1875: 136), accolta da Amerio e Dilts. L’argomento principe a favore dell’espunzione è che l’avverbio potrebbe esprimere l’approvazione del copista per l’appello alla gnome dikaiotate. Ma questa non è l’unica occorrenza di καλῶς isolato nel corpus demostenico (cfr. Dem. 14.3, 20.160, 23.55, 25.73, 39.15), e in generale καλῶς si trova in argomentazioni complesse con la funzione di snodo logico, che insieme ricapitola e approva gli argomenti già esposti e introduce un ulteriore passaggio del ragionamento. Questo passaggio è coerente con questa funzione. Inoltre nell’orazione si ritrova un’altra occorrenza di καλῶς in posizione isolata, a §160, dove l’avverbio funge da snodo quando Demostene riporta due piccoli brani della legge di Leptine, caso non esattamente identico ma assimilabile, e in cui è improbabile che un copista abbia potuto mostrare approvazione per i passaggi della legge di Leptine. [6] τὸ τοίνυν τῆς γνώμης πρὸς ἅπαντ᾽ ἀνενέγκατε τὸν νόμον: Demostene sfrutta il dettato del giuramento eliastico per incitare una valutazione complessiva della legge di Leptine, ma il senso di gnome dikaiotate qui sfruttato non è quello del giuramento (vd. Carey 1996: 37 per varie strategie di lettura di questa espressione negli oratori).

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119 [1] ἆρ᾽ οὖν δίκαιον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοὺς εὐεργέτας τιμᾶν; δίκαιον: in una serie di domande successive rivolte ai giudici, seguite da brevi risposte, Demostene riassume gli snodi fondamentali del caso contro la legge di Leptine. Che sia giusto onorare i benefattori è stato dimostrato con la lista di benefattori (§§29–87), e con vari riferimenti al funzionamento dell’economia degli onori (p. es. §§9–17). [2] τί δέ; ὅσ᾽ ἂν δῷ τις ἅπαξ, δίκαιον ἔχειν ἐᾶν; δίκαιον: la vergogna insita nel togliere gli onori già accordati è stata spesso menzionata (p. es. §86; vd. intr. pp. 86, 89–90). A §§14–15 la stabilità dei premi è ragione fondamentale della superiorità degli onori delle democrazie rispetto a quelli delle oligarchie e delle tirannidi. [3] ταῦτα τοίνυν αὐτοί τε ποιεῖτε, ἵν᾽ εὐορκῆτε: il giuramento eliastico impone ai giudici, secondo il ragionamento di Demostene, di usare la loro gnome dikaiotate. Demostene li ha guidati nel ragionamento, e ha ribadito con l’uso insistito di δίκαιον che abrogare la legge è giusto. Dunque per rispettare il giuramento i giudici devono votare contro la legge di Leptine. Si può aggiungere che il giuramento impone di votare seguendo il dettato delle leggi, e Demostene ha argomentato che la legge di Leptine è illegale, e va dunque abrogata, altrimenti i giudici infrangerebbero il giuramento. [4] καὶ τοὺς προγόνους ὀργίζεσθε ἂν μή τις φῇ ποιεῖν: la giusta reazione ad affermazioni che infangano la memoria degli antenati è l’orge, la rabbia. In questo discorso questo è l’unico appello alla rabbia, e in generale l’orge dei giudici è invocata principalmente nei discorsi pubblici in cui i crimini contestati sono pericolosi per tutta la collettività (Rubinstein 2004; sull’indignazione Cairns 2003). [5] πονηροὺς μὲν διότι καταψεύδονται τῶν προγόνων ὑμῶν ὡς ἀχαρίστων: Demostene ha dimostrato a §§115–16 che non è vero che gli antenati non onoravano i benefattori. Di conseguenza chi lo afferma sta mentendo ed è mosso dall’intento di infangarne la memoria. [6] ἀμαθεῖς δὲ διότι ἐκεῖνο ἀγνοοῦσιν, ὅτι εἰ τὰ μάλιστα ταῦθ᾽ οὕτως εἶχεν, ἀρνεῖσθαι μᾶλλον ἢ λέγειν αὐτοῖς προσῆκεν: poiché non onorare i benefattori è vergognoso (p. es. §116), se gli antenati effettivamente si fossero comportati in questo modo, bisognerebbe cercare di nasconderlo. Così, dando per scontata la volontà di ogni Ateniese di fare il bene della città, Demostene rileva come far notare le vergogne degli antenati sia sintomo di stupidità, perché è meglio nascondere ciò che è ragione di vergogna (cfr. §146).



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120–130: Leptine affermerà che la sua legge toglie solo le esenzioni, non gli altri onori, ma tutti gli onori saranno svuotati se la città diventerà inaffidabile. È bene mantenere una gradazione di onori, commisurati a meriti diversi. La difesa sosterrà anche che le spese per le coregie sono doveri sacrali, da cui nessuno dovrebbe essere esente. Ma questo argomento è infondato: i tirannicidi sono esclusi dalla legge di Leptine, ma non sono esenti dalle spese sacrali. Dunque Leptine stesso, nel redigere la legge, era cosciente che le liturgie non sono spese sacrali. 120 [1] ὡς τὰς εἰκόνας καὶ τὴν σίτησιν οὐκ ἀφαιρεῖται τῶν εἰληφότων ὁ νόμος: οὐδὲ τῆς πόλεως τὸ τιμᾶν τοὺς ὄντας ἀξίους: Leptine potrà affermare che la sua legge abroga soltanto (e impedisce che si accordino) le esenzioni, ma non ha effetto su altri benefici quali statue (come per Conone, Timoteo, Cabria e Ificrate; vd. §§69–70 con comm. e Lyc. 1.51) e seggi nel Pritaneo (comm. §§18[5], 84[2]), che potranno ancora essere accordati. Demostene risponde agli argomenti di Leptine (ci sono altri premi; si potrà ancora onorare i meritevoli) in ordine invertito nei paragrafi successivi (qui e a §121–2 dà due risposte alla seconda obiezione; a §123 risponde alla prima). Sulla facoltà di onorare i benefattori, Demostene nota che nell’eliminare le esenzioni accordate in passato si rendono malsicuri gli altri benefici: ricevere qualsiasi onorificenza, dopo questo precedente, perderebbe valore, perché il mantenimento del premio dipenderebbe dall’umore della città (§§9–17 per la pistis e la stabilità dei premi, cfr. §§10, 17, 22, 25, 36, con intr. pp. 92–3). Inoltre, ed è l’obiezione più brillante, i benefici non hanno tutti lo stesso valore, ma si adattano a diversi tipi di benefattore. I seggi nel Pritaneo, e le statue, sono concessi in ragione di meriti eccezionali che è possibile conseguire soltanto in contesti di crisi. L’abolizione delle onorificenze intermedie potrebbe avere due effetti opposti: far sì che si onorino tutti coloro che si sono in qualche modo resi utili alla polis con le stesse, altissime onorificenze, parificando meriti molto diversi; oppure portare a una situazione in cui nessuno è più degno di onori. Se le massime onorificenze continuassero a essere assegnate solo ai grandi benefattori in tempi di crisi, niente spetterebbe agli autori di servizi ordinari, seppur onorevoli, nei periodi di pace. La risposta alla seconda probabile affermazione di Leptine (gli antichi benefattori non perderanno in blocco i loro premi), è legata alla prima: innanzitutto è giusto in assoluto che chi ha ricevuto una ricompensa possa confidarvi senza timore, in secondo luogo soltanto i grandi benefattori detengono premi come una statua o un seggio nel Pritaneo, mentre i benefattori ordinari saranno privati di tutto. Ed è su questi benefattori che si regge la pratica democratica.

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[2] ἀλλ᾽ ἔσται χαλκοῦς ἱστάναι καὶ σίτησιν διδόναι καὶ ἄλλο ὅ τι ἂν βούλησθε, πλὴν τούτου: sulle statue vd. comm. §§69–70. La sitesis comportava il diritto a vita di pranzare e cenare nel Pritaneo (o, talvolta, a un singolo pasto; vd. Miller 1978 sul Pritaneo). Questo privilegio fu assegnato ai discendenti dei tirannicidi (comm. §18[5]; ma per alcuni studiosi Ificrate fu il primo a ottenerlo, vd. comm. §84[2]). Era accordato anche ad alcuni sacerdoti, ai pritani in carica, ad atleti vittoriosi e generali. Henry (1983: 275) mostra che la sitesis è rara prima del 314 (vd. in generale Miller 1978: 4–11, Osborne 1981). 121 [1] ἔτι δ᾽ εἰ μηδὲν ἔμελλε τοῦτ᾽ ἔσεσθαι δυσχερές: Demostene contempla la possibilità che l’argomento precedente sia incorretto, ma soltanto per fornire un ulteriore argomento valido in ogni caso (cfr. §§99 e 116; queste apparenti concessioni sono strumentali e servono da transizione). [2] οὐδ᾽ ἐκεῖνο καλῶς ἔχειν ἡγοῦμαι, εἰς τοιαύτην ἄγειν ἀνάγκην τὴν πόλιν δι᾽ ἧς ἅπαντας ἐξ ἴσου τῶν αὐτῶν ἀξιώσει τοῖς τὰ μέγιστ᾽ εὐεργετοῦσιν: la seconda risposta all’argomento di Leptine che si potrà ancora onorare i meritevoli è che non tutti sono egualmente meritevoli: i benefici hanno valori diversi, e si adattano a diversi tipi di benefattore (vd. comm. §120[1]). I risultati disastrosi di accordare premi uguali per meriti diversi sono sottolineati anche da Aristotele (Pol. 1257a40), che nota come una simile pratica potrebbe incitare i più meritevoli alla rivoluzione, e provocare stasis. L’argomentazione di Demostene è intuitivamente corretta, ma l’ateleia, l’unica ricompensa cancellata dalla legge di Leptine, non è l’unico premio alternativo alle massime ricompense (statue e sitesis): esistevano altri onori, p. es. la prossenia (comm. §60[4]) e l’isoteleia (comm. §29[4]) per gli stranieri, e le corone per i cittadini (intr. p. 84). Inoltre Demostene dà nuovamente per scontato che la legge di Leptine riguardi solo l’ateleia onorifica (intr. pp. 55–63). [3] ἢ μὴ τοῦτο ποιοῦσα χάριν τισὶν οὐκ ἀποδώσει. μεγάλων μὲν οὖν εὐεργεσιῶν οὔθ᾽ ὑμῖν συμφέρει συμβαίνειν πολλάκις καιρόν, οὔτ᾽ ἴσως ῥᾴδιον αἰτίῳ γενέσθαι: se onorare tutti, a prescindere dai meriti diversi, con le stesse ricompense non è accettabile, l’unica alternativa è premiare soltanto chi merita le massime onorificenze. Demostene distingue tra momenti di grande pericolo e necessità, e servizi più moderati (μετρίων δέ), che possono essere offerti anche in tempo di pace e stabilità istituzionale (ἐν εἰρήνῃ [...] καὶ πολιτείᾳ). Se soltanto i massimi onori sono disponibili, questi sarebbero al di fuori della portata di molti che non avrebbero alcun incen-



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tivo a servire la città. E l’occasione di meritare i massimi onori sorgerebbe anche per chi ne è capace soltanto in momenti di grande crisi. I giudici non si augurano certamente che tali crisi siano frequenti, per cui se si cancellano le ricompense inferiori (ma la legge cancellava soltanto l’ateleia) il risultato è che per gran parte dei cittadini e degli stranieri, e per gran parte del tempo, non ci sarà motivo di rendersi utili alla città. L’economia degli onori ne verrebbe minata alle fondamenta. Il ragionamento di Demostene è corretto, ma trascura che l’ateleia è utile soltanto ai membri della classe liturgica, o ai mercanti che utilizzano il porto e i mercati di Atene, e che esistono altri premi, come le corone (cfr. intr. pp. 55–7, 83–5), lasciati intatti dalla legge di Leptine. 122 [1] μετρίων δὲ καὶ ὧν ἂν ἐν εἰρήνῃ τις καὶ πολιτείᾳ δύναιτ᾽ ἂν ἐφικέσθαι: la pace e la stabilità costituzionale sono il contrario delle crisi citate al paragrafo precedente: molti dei benefattori citati hanno servito la città in tempo di guerra (Cabria, Conone, Epicerde, §§41, 65, 78) e stasis (p. es. chi restaurò la democrazia e abbatté i Quattrocento, §48). [2] εὐνοίας, δικαιοσύνης, ἐπιμελείας, τῶν τοιούτων: queste qualità, alla base dei servizi moderati (εὐεργεσιῶν [...] μετρίων), non sono scelte a caso. Due sono citate ripetutamente come tipiche dei grandi benfattori discussi (p. es. §§52, 80, 142, 165), e tutte si trovano nelle motivazioni dei decreti onorifici, parte di una serie di virtù cardinali dei benefattori (comm. §17[2]). Per eunoia vd. comm. §17[2]. Dikaiosyne può essere ben tradotta come “onestà” (Whitehead 1993: 67–8; Veligianni-Terzi 1997: 222). Per epimeleia vd. Veligianni-Terzi (1997: 222–3), Whitehead (1993: 68–9). Demostene dunque afferma che per effetto della legge le qualità fondamentali all’economia degli onori non saranno più premiate. 123 [1] ἀλλὰ μὴν ὑπὲρ ὧν γε τοῖς εὑρημένοις τὰς τιμὰς καταλείπειν φήσει: la risposta alla seconda probabile affermazione di Leptine (gli antichi benefattori non perderanno in blocco i loro premi), è legata alla prima, e considera due categorie di onorandi, coloro per cui l’ateleia è una tra varie ricompesense, e chi ha ricevuto soltanto l’ateleia: sui primi, Demostene afferma che è giusto in assoluto che chi ha ricevuto una ricompensa possa confidarvi senza timore (cfr. §§11, 15–17, 36, 119). Sui secondi, osserva che la legge li priverà di ogni premio. [2] ὁ γὰρ ἄξια τῆς ἀτελείας εὖ πεποιηκέναι δόξας καὶ ταύτην παρ᾽ ὑμῶν λαβὼν τὴν τιμὴν μόνην, [...] ἐπειδὰν ἀφαιρεθῇ ταύτην, τίν᾽ ἔχει λοιπὴν

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δωρεάν: in realtà la documentazione epigrafica mostra che l’ateleia era generalmente accordata con altri onori, per cui i casi di benefattori che avrebbero perso la loro unica ricompensa come effetto della legge sarebbero stati pochissimi (intr. pp. 83–5, Osborne 1981–3: III/IV, 187–192, Henry 1983: 241–9, Engen 2011: 187–8). [3] μὴ τοίνυν διὰ μὲν τοῦ τῶνδε κατηγορεῖν ὡς φαύλων ἐκείνους ἀφαιροῦ, δι᾽ ἃ δ᾽ αὖ καταλείπειν ἐκείνοις φήσεις [...] τοῦτ᾽ ἀφέλῃ: l’esortazione a Leptine chiude la confutazione di questa argomentazione. Mentre la seconda esortazione riprende il ragionamento appena svolto, ed esorta Leptine a non privare chi ha soltanto l’ateleia dell’unico suo onore in ragione del fatto che altri hanno multiple ricompense, la prima esortazione riprende un motivo sviluppato ripetutamente: non è giusto per colpa di alcuni immeritevoli privare tutti dei loro onori (cfr. §§1, 7, 56, 84–6). 124 [1] ὡς δ᾽ ἁπλῶς εἰπεῖν: con l’infinito assoluto l’oratore chiude l’argomentazione, riprendendo, come elemento fondamentale, il tema della pistis. [2] οὐκ, εἰ τῶν πάντων ἀδικήσομέν τινα μείζονα ἢ ἐλάττονα, δεινόν ἐστιν. [...] οὐδ᾽ ὁ πλεῖστος ἔμοιγε λόγος περὶ τῆς ἀτελείας ἐστίν: il punto debole dell’argomentazione di Demostene è che la legge di Leptine in realtà investe soltanto l’ateleia, e non tutti gli onori. Poiché l’ateleia era concessa raramente da sola (comm. §123[2]), Leptine ha parzialmente ragione ad affermare che gran parte dei benefattori conserveranno altri onori. Ma Demostene allarga la portata del suo argomento ad abbracciare il tema della pistis e le conseguenze che abolire anche un solo onore avrà sull’economia degli onori (intr. pp. 88–93). [3] ἀλλ᾽ εἰ τὰς τιμάς, αἷς ἂν ἀντ᾽ εὖ ποιήσωμέν τινας, ἀπίστους καταστήσομεν· [...] ἀλλ᾽ ὑπὲρ τοῦ πονηρὸν ἔθος τὸν νόμον εἰσάγειν καὶ τοιοῦτον δι᾽ οὗ πάντ᾽ ἄπισθ᾽ ὅσ᾽ ὁ δῆμος δίδωσιν ἔσται: il punto fondamentale è l’effetto della legge sull’ethos e la pistis della città (cfr. §§9–14 e passim). Che il demos sia considerato apistos è inaccettabile non soltanto da un punto di vista etico, ma per le conseguenze sulla capacità della città di attrarre servizi: poiché il sistema evergetico si fonda sulla doxa e sulla pistis di Atene, intaccare questa pistis avrà conseguenze disastrose (intr. pp. 90–3). 125 [1] ὃν τοίνυν κακουργότατον οἴονται λόγον εὑρηκέναι πρὸς τὸ τὰς ἀτελείας ὑμᾶς ἀφελέσθαι πεῖσαι: Demostene introduce un’ulteriore argomentazione della difesa, e immediatamente la qualifica come κακουργότατον



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(cfr. §113, anche lì sugli argomenti della difesa), che richiama la figura del kakourgos, il criminale per eccellenza (l’apagoge e l’endeixis potevano essere utilizzate contro i kakourgoi, e le categorie incluse erano ladri, cacciatori di schiavi e chi rubava i vestiti, vd. Harris 2006: 292, Canevaro 2013a: 168 e comm. §24[4]). Kakourgos spesso indicava il criminale in generale (Hansen 1976: 47), e qui è connesso con l’uso strumentale e menzognero di argomenti religiosi (l’aggettivo è talvolta usato contro i sofisti: Aeschin. 3.200, Dem. 22.4, 23.88, [Dem.] 35.39; cfr. Kremmydas 2012: 396). [2] βέλτιόν ἐστι προειπεῖν, ἵνα μὴ λάθητ᾽ ἐξαπατηθέντες: l’impressione che l’argomento di Leptine sia sofistico è rinforzata dal riferimento all’inganno (vd. comm. §3[2] con Hesk 2000: 202–42, Kremmydas 2013). [3] ἐροῦσιν ὅτι ταῦθ᾽ ἱερῶν ἐστιν ἅπαντα τἀναλώματα [...]· δεινὸν οὖν, εἰ τῶν ἱερῶν ἀτελής τις ἀφεθήσεται: qui Demostene confuta lungamente un argomento di Leptine particolarmente insidioso, perché chiama in causa la dimensione religiosa. Il dettaglio di questa confutazione ne sottolinea l’importanza, e rende probabile che sia stato effettivamente portato all’anakrisis (pace Kremmydas 2012: 397; cfr. comm. §1[8] sull’anteoccupatio). Non è chiarissimo cosa Leptine avesse sostenuto, ma il termine chiave sarà stato ἱερά: la difesa avrà sottolineato che vista la connessione tra le spese coregiche e i festival per gli dei (Dioniso, Atena ecc.), le spese per le liturgie ordinarie (soprattutto coregia, gymnasiarchia, hestiasis) fossero spese sacrali dalle quali nessuno doveva essere esente (cfr. Migeotte 2014: 458–9). L’argomentazione di Leptine e la risposta di Demostene si reggono sull’ambiguità del termine ἱερά, che può indicare qualunque attività, luogo o oggetto che ha a che fare direttamente con una divinità: un temenos, offerte agli dei, rituali, sacrifici (cfr. Chadwick 1994: 15–61). Martin (2009: 244–6) e Kremmydas (2012: 397) sostengono che Leptine fosse stato volutamente ambiguo nell’utilizzare l’espressione ἀναλώματα ἱερῶν (per renderla applicabile alle coregie), mentre Demostene avrebbe ristretto indebitamente il significato dell’espressione a ἱερά τέλη (§28, tasse per spese sacrali pagate da un gruppo particolare di cittadini: vd. Schlaifer 1940: 236, Parker 1996: 125, 169; cfr. IG I3 130), per affermare che le coregie non sono in realtà ἱερά. ἀναλώματα ἱερῶν non corrisponderebbe esattamente a ἱερά τέλη, ma piuttosto le seconde sarebbero una categoria delle prime. È indubbio che Demostene tenti qui di restringere il significato di ἱερά, ma il suo tentativo di definire il termine (pace Kremmydas 2012: 397) è una risposta alla manipolazione del suo significato da parte di Leptine. Il tentativo di Leptine di allargare il significato di ἱερά a comprendere anche le liturgie non è isolato:

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Demostene stesso a Dem. 21.16, 33 e passim (Martin 2009: 24–6; Liddel 2007: 304–5) cerca di rappresentare il suo status di corego come sacro e inviolabile (e dunque ogni interferenza come asebeia), ma non pare che la coregia fosse concepita come sacrale, e i coreghi che discutono i loro servizi passati menzionano le loro spese e il loro spirito di servizio, ma mai descrivono la coregia come un servizio agli dei (con l’eccezione, appunto, di Dem. 21; Martin 2009: 26). Inoltre la comune distinzione tra ἱερά e ὅσια (vd. Maffi 1982, Connor 1988, Parker 1996: 123 n. 9, Bremmer 1998: 24–1), in particolare in relazione all’amministrazione delle finanze, mostra che ἱερά erano tesori, tasse e spese direttamente connesse a un santuario, a un rito o a una divinità, mentre l’ambito sacrale in senso più lato, e nelle sue intersezioni con il pubblico e il civile, era definito come ὅσιος (per la distinzione tra terra sacra e terra pubblica vd. Papazarkadas 2011: 1–16 e passim, Rousset 2013). Non è dunque ovvio che sia Demostene a forzare il significato di ἀναλώματα ἱερῶν: sebbene l’ambiguità dell’aggettivo invitasse manipolazioni, la posizione dell’oratore sembra quella più largamente attestata nelle fonti, e quella di Leptine (come quella di Dem. 21) sembra essere forzata. Inoltre (vd. sotto) nel sostenere che è sbagliato che ci siano esenzioni dagli ἀναλώματα ἱερῶν, Leptine esplicitamente caratterizza queste spese come quelle da cui normalmente gli Ateniesi considerano inaccettabile che si sia esenti. Queste considerazioni valgono per le ἱερά τέλη, non per le liturgie. [4] [αἱ χορηγίαι καὶ αἱ γυμνασιαρχίαι]: l’espunzione è di F. A. Wolf, seguito da Blass, Butcher, Sykutris, Amerio, Dilts e Kremmydas. Dindorf (cum uncis secondo Blass) e Navarre-Orsini conservano l’espressione. La precisazione non è del tutto superflua se Demostene vuole distinguere le liturgie ordinarie dalle contribuzioni religiose, tanto più che già a §21 si trova una simile precisazione. Piuttosto è strano che in questo caso non sia citata l’hestiasis. Si espunge con la maggioranza degli editori, seppur dubitativamente. [5] ἐγὼ δὲ τὸ μέν τινας, οἷς ὁ δῆμος ἔδωκεν, ἀτελεῖς εἶναι τούτων δίκαιον ἡγοῦμαι: prima di confutare per esteso le basi stesse dell’argomentazione di Leptine, Demostene afferma che per lui qualunque esenzione, persino dalle spese cultuali, è legittima se concessa dal demos. Cfr. la difesa della piena sovranità del demos in tutta l’orazione, in particolare a §§3–4. [6] ὃ δὲ νῦν οὗτοι ποιήσουσιν, ἐὰν ἄρα ταῦτα λέγωσι, τοῦτ᾽ εἶναι δεινὸν νομίζω: all’affermazione di Leptine che è terribile (δεινόν) che qualcuno sia esente dalle spese sacrali, Demostene ribatte che ciò che è davvero terribile è sfruttare argomentazioni religiose per ingannare i giudici.



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126 [1] χρὴ γάρ, ὡς γοῦν ἐμοὶ δοκεῖ, ὅσα τις πράττει τοὺς θεοὺς ἐπιφημίζων, τοιαῦτα φαίνεσθαι οἷα μηδ᾽ ἂν ἐπ᾽ ἀνθρώπου πραχθέντα πονηρὰ φανείη: l’argomentazione di Leptine è anche tacciata di empietà. La ragione è espressa in una gnome generale: azioni che non possono essere giustificate sul piano umano, non dovrebbero essere giustificate sul piano divino (e dunque gli dei non vanno usati come pretesto per azioni vergognose, vd. Dover 1974: 80). Questa affermazione dà per scontato che ogni altro argomento di Leptine sia stato confutato e che quello religioso sia l’unico rimasto (Martin 2009: 246), e lo squalifica (prima ancora di confutarlo) sulla base dell’identità tra giustizia umana e giustizia divina. Con questa mossa l’unico argomento propriamente religioso dell’orazione è escluso come ridondante (Martin 2009: 244–7). L’idea che giustizia umana e giustizia divina siano due facce della stessa medaglia è comune nella letteratura ateniese di età classica, e raramente si riconoscevano contraddizioni tra le leggi della città e quelle degli dei (Harris 2006: 44–61). [2] ὅτι δ᾽ οὐκ ἔστι ταὐτὸν ἱερῶν ἀτέλειαν ἔχειν καὶ λειτουργιῶν, ἀλλ᾽ οὗτοι τὸ τῶν λειτουργιῶν ὄνομ᾽ ἐπὶ τὸ τῶν ἱερῶν μεταφέροντες ἐξαπατᾶν ζητοῦσι: Demostene espone chiaramente l’inganno di Leptine (cfr. §125), che confonde leitourgiai con hiera – due concetti separati (vd. comm. §125[3]). L’oratore procede quindi a utilizzare la formulazione della legge di Leptine come prova che Leptine è ben cosciente di questo fatto. 127 [1] γράφων γὰρ ἀρχὴν τοῦ νόμου “Λεπτίνης εἶπεν”: queste sono informazioni preziose sulla disposizione delle prescrizioni nella legge di Leptine: Demostene afferma che il testo citato in seguito era posto al principio della legge. Λεπτίνης εἶπεν, formula standard che indica il proponente di leggi e decreti (p. es. IG II2 106 l. 6: Διόφαντος εἶπεν), conferma questa informazione e mostra che l’oratore sta citando verbatim: il testo citato sarà seguito immediatamente al prescritto. [2] ὅπως ἂν οἱ πλουσιώτατοι λειτουργῶσιν: mentre le altre parti della legge qui citate sono citate anche altrove nel discorso (§§2, 29, 128), questa proposizione finale è menzionata qui per la prima volta, e ripetuta al paragrafo successivo, immediatamente dopo che la lettura del grammateus. È dunque improbabile che questa proposizione finale non fosse parte della legge (le due citazioni sono identiche). Proposizioni finali con ὅπως ἄν sono frequenti nelle iscrizioni attiche (p. es. IG II2 42 ll. 6–7 e 21–2; IG II2 43 ll. 9–10; IG II2 141 ll. 20–1). La proposizione (pace MacDowell 2004: 128; cfr. Kremmydas 2012: 53), avrà limitato, nonostante quanto affermato da De-

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mostene sulle esenzioni di Leucone (intr. pp. 57–8 e comm. §29[2]), il raggio d’azione della legge alle esenzioni dalle liturgie (ma non esclusivamente alle esenzioni onorifiche, vd. intr. pp. 60–3). Questo è confermato a §130. [3] καίτοι εἰ ἦν ἱερῶν ἀτέλειαν ἔχειν ταὐτὸ καὶ λειτουργιῶν, τί τοῦτο μαθὼν προσέγραψεν; Come a §29, Demostene sostiene che le azioni di Leptine testimonino contro di lui (cfr. Dem. 24.62–4, dove si discute una precedente legge di Timocrate che contraddice quella sotto accusa). Porre l’accento sulle contraddizioni dell’avversario, e mostrarne il torto attraverso le sue parole e azioni, è strumento potentissimo per squalificarne le posizioni. Qui Demostene dimostra che le liturgie ordinarie non sono spese cultuali attraverso il testo stesso della legge di Leptine, che abolisce tutte le esenzioni eccetto quelle dei discendenti dei tirannicidi. Demostene dà lettura dei decreti in onore di Armodio e Aristogitone, secondo cui i loro discendenti sono esentati da ogni contributo, eccettuate proprio le spese sacrali (πλὴν ἱερῶν). Di qui l’inferenza: se, come afferma Leptine, le liturgie ordinarie sono spese sacrali, perché Leptine specifica che la legge non si applica a loro? I tirannicidi non sarebbero comunque stati esenti dalle liturgie. Se Leptine non stesse mentendo (fosse cioè a conoscenza che le liturgie sono hiera: μαθὼν), non avrebbe avuto ragione di specificare che la legge non si applica ai discendenti dei tirannicidi. L’argomento di Demostene è convincente (pace Kremmydas 2012: 399, vd. comm. §125[3]). Quello successivo, che se i tirannicidi non sono esenti dalle liturgie, non hanno di fatto alcuna esenzione, è invece specioso (comm. §129[2]). [4] ἈΝΤΙΓΡΑΦΑ ΣΤΗΛΗΣ: il lemma è un’inserzione tarda (Canevaro 2013a: 2 n. 4; Schucht 1892: 11–17 sui lemmata), ripreso da λαβέ μοι πρῶτον μὲν τῆς στήλης τὰ ἀντίγραφα poco prima. La stele in questione avrà contenuto i decreti in onore dei tirannicidi, uno dei quali è conservato in IG I3 131, e accorda ai loro discendenti la sitesis nel Pritaneo (vd. comm. §18[5] per gli onori ai tirannicidi). 128 [1] ἀτελεῖς αὐτοὺς εἶναι κελευόντων πλὴν ἱερῶν: l’informazione che i tirannicidi erano esentati da tutto πλὴν ἱερῶν non compare in nessun’altra fonte, ma la vicinanza alla lettura del grammateus, e il fatto che l’argomentazione demostenica si regga su questo dettaglio, rendono la presenza di questa prescrizione nei decreti pressoché certa. Un’eccezione analoga non è attestata altrove nelle fonti attiche, ma spesso decreti onorifici che accordano l’ateleia specificano quali siano le spese da cui l’onorando è esente (p. es. IG II2 48, 61: metoikion). Simili eccezioni sono attestate in altre poleis:



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un’iscrizione caria (Sinuri 8) specifica che un’ateleia esclude l’apomoira, una da Teos esclude lo iatrikos (Teos 39), una dalla Macedonia (SEG 47.940 da Potidea/Cassandrea) specifica che l’onorando è esente da ogni tassa πλὴν ὅσα ἐπ’ ἐμπορίαι. [2] καλῶς· κατάθες. γράψας “ὅπως ἂν οἱ πλουσιώτατοι λειτουργῶσι”, “μηδέν᾽ εἶναι ἀτελῆ” προσέγραψεν “πλὴν τῶν ἀφ᾽ Ἁρμοδίου καὶ Ἀριστογείτονος”: nessuna di queste citazioni dalla legge appare qui per la prima volta (cfr. §§2, 29, 127). Demostene chiede al segretario di rileggere il principio della legge, per rinfrescare la memoria dei giudici, quindi lo interrompe, suscitando un’impressione di immediatezza e improvvisazione (cfr. Kremmydas 2012: 400) e ripete le espressioni che mostrano la contraddizione nell’argomento di Leptine (comm. §127[3]). [3] τίνος ἕνεκα, εἴ γε τὸ τῶν ἱερῶν τέλος ἐστὶ λειτουργεῖν; ἱερῶν diventa ἱερῶν τέλος. Martin (2009: 244–6) e Kremmydas (2012: 397) sostengono che questa sottile variazione sia la chiave dell’argomento di Demostene, e sia illegittima. Demostene effettivamente cerca di definire ἱερῶν (termine vago) come ἱερῶν τέλος (spese cultuali) ma la forzatura di Leptine, che identifica le liturgie come ἱερῶν, è maggiore, e l’argomento di Demostene è convincente (vd. comm. §§125[3], 127[3]). 129 [1] τίνος αὐτοῖς τὴν ἀτέλειαν ἢ σὺ νῦν καταλείπειν φήσεις ἢ ἐκείνους τότε δοῦναι, τὰς λειτουργίας ὅταν εἶναι φῇς ἱερῶν; Leptine si contraddice da solo, e il suo argomento è assurdo: se i tirannicidi non sono esenti dalle liturgie, da cos’altro sono esenti? L’oratore afferma che non esistono altre esenzioni, e dunque chi redasse il decreto in loro onore, se Leptine ha ragione, accordò loro esenzioni inesistenti, il che è impossibile (vd. comm. §18[5] sui tirannicidi). [2] τῶν μὲν γὰρ εἰς τὸν πόλεμον πασῶν εἰσφορῶν καὶ τριηραρχιῶν ἐκ τῶν παλαιῶν νόμων οὐκ εἰσὶν ἀτελεῖς: questo secondo argomento è debole. Demostene elenca l’eisphora e la trierarchie come le uniche esenzioni possibili se si escludono le liturgie in quanto spese cultuali, e tuttavia 1) pace Demostene (§§18, 26) non è vero che le esenzioni dall’eisphora erano illegali (comm. §§18[4], 27[2]; 2) se, come pare, i tirannicidi ricevettero un’esenzione senza qualificazione, cioè un’ ἀτέλεια ἁπάντων, le liturgie, l’eisphora e le trierarchie non erano le uniche esenzioni possibili: l’ateleia avrà compreso p. es. i dazi commerciali e portuali (intr. pp. 55–6 e comm. §31[5]); 3) non è chiaro quando i tirannicidi e i loro discendenti ricevettero

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l’esenzione, né quando la legge menzionata da Demostene che impediva l’esenzione dalla trierarchia sia stata approvata (comm. §18[4]). Dunque che la legge impedisca le esenzioni dalle trierarchie non prova che l’ateleia concessa ai tirannicidi fosse inutile se non comprendeva le liturgie. Demostene deflette questa obiezione sostenendo che queste norme vengono ἐκ τῶν παλαιῶν νόμων, ma si è visto p. es. a §89 che i riferimenti all’antichità delle leggi sono strumentali. Il primo argomento di Demostene contro l’equiparazione delle liturgie e delle spese cultuali (§§127–8) è convincente; quest’ultimo è specioso. 130 [1] τίνος; ἢ τοῦ μετοικίου; Dopo aver sostenuto che non esiste altra esenzione possibile, Demostene retoricamente domanda da che cosa sarebbero dunque esenti i tirannicidi, e suggerisce, con ironia, la tassa dei meteci. Il pagamento di questa tassa da parte dei tirannicidi è assurdo perché essa era obbligatoria per gli stranieri residenti in Attica (cfr. comm. §§20[1], 21[2] sul metoikion), mentre i tirannicidi erano simboli dell’identità ateniese. [2] ἀλλὰ τῶν ἐγκυκλίων λειτουργιῶν: concludendo l’argomentazione, Demostene afferma che l’esenzione dei tirannicidi è dalle liturgie ordinarie, che non sono ta hiera (sul significato di ἐγκύκλιοι λειτυργείαι vd. intr. p. 48; esempi a §21). [3] ὡς ἥ τε στήλη δηλοῖ καὶ σὺ προσδιώρισας ἐν τῷ νόμῳ: προσδιώρισας si riferisce all’aggiunta della prescrizione che esclude i tirannicidi dagli effetti della legge di Leptine, e non alla presenza nella legge di un riferimento specifico alle ἐγκύκλιοι λειτυργείαι. Kremmydas (2012: 401) obietta giustamente contro Schaefer (1885: 354 n. i, 392 n. ii) che questo non può essere un riferimento alle ἐγκύκλιοι λειτυργείαι, ma sostiene poi con Weil (1886: 72–3) e Sandys (1890: 96) che si riferisca all’espressione ὅπως ἂν οἱ πλουσιώτατοι λειτουργῶσι di §128. Ma qui Demostene sta discutendo il caso specifico delle esenzioni dei tirannicidi, come mostrato dal rimando alle steli e alla pratica di non nominarli per le liturgie, e non al raggio d’azione della legge di Leptine in generale. Il riferimento è semplicemente all’eccezione per i tirannicidi nella legge di Leptine (aggiunta alla legge: προσ-), che con le steli onorifiche e le pratiche del passato (elencate con effetto cumulativo) prova che l’argomento di Leptine è incorretto. [4] καὶ μαρτυρεῖ πᾶς ὁ πρὸ τοῦ χρόνος γεγονώς, ἐν ᾧ [...] οὔτε φυλὴ πώποτ᾽ ἐνεγκεῖν ἐτόλμησεν οὐδεμία οὐδένα τῶν ἀπ᾽ ἐκείνων χορηγόν, οὔτ᾽ ἐνεχθεὶς αὐτοῖς ἄλλος οὐδεὶς ἀντιδοῦναι: a riprova ulteriore che la



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sua interpretazione (contro Leptine) delle esenzioni dei tirannicidi, e dell’eccezione di ta hiera, è corretta, Demostene osserva che questa è l’interpretazione che ne è sempre stata data, e che nessuno dei loro discendenti è mai stato nominato per una liturgia, o proposto per un’antidosis. Ogni tribù doveva nominare i responsabili per le varie liturgie, per cui i leader della tribù stilavano una lista ([Arist.] Ath. Pol. 56.3 con Wilson 2000: 50–6). I discendenti dei tirannicidi non sono mai stati inclusi in nessuna di queste liste. Se chi era nominato riteneva che ci fossero cittadini più ricchi e adatti, poteva indicarli per la liturgia, o alternativamente fare scambio di proprietà, un procedura chiamata antidosis (intr. p. 47). Nessuno degli eredi dei tirannicidi era mai stato nominato per una antidosis. Queste circostanze sono prova che l’interpretazione di Demostene – che i tirannicidi erano esenti dalle liturgie ordinarie, e che queste non equivalevano a ta hiera – era quella corrente ad Atene, e che Leptine avanza un’interpretazione nuova e scorretta dell’esenzione. L’uso di precedenti, per mostrare che una particolare interpretazione dell’open texture di una legge è corretta e corrente, è frequente. Lanni (1999: 41–51, 2004 e 2006: 118–28) sostiene che i precedenti avessero funzione esclusivamente retorica e non fossero vincolanti. Harris (2009–10; 2013: 175–273, in particolare 246–73) mostra al contrario che avevano la funzione fondamentale di guidare l’interpretazione della legge e garantire che le corti dessero giudizi di volta in volta coerenti. 131–138: La difesa sosterrà che ci sono farabutti con l’esenzione, ma costoro hanno solo la prossenia. Inoltre è ingiusto che un uomo come Cabria sia privato delle sue esenzioni per via dei demeriti di individui come il suo schiavo Licida. La legge di Leptine porterà agli Ateniesi la vergogna dell’ipocrisia, perché ad Atene chi inganna il popolo è punito con la morte, e il popolo con questa legge inganna i benefattori. Bisogna approvare la legge sostitutiva, che permetterà a chiunque di portare un’accusa contro chi è giudicato immeritevole. 131 [1] ἔτι τοίνυν ἴσως ἐπισύροντες ἐροῦσιν [...] καὶ τοιούτους τινὰς ἐξειλεγμένοι: Demostene introduce un’ulteriore possibile argomentazione della difesa, che riprende il tema già affrontato che molti dei benefattori non sono meritevoli (cfr. §§1, 7, 57). A §§30–87 l’oratore presenta una lunga lista di onorandi meritevoli, mentre qui dà alcuni esempi di onorandi immeritevoli. Che l’argomentazione di Leptine sia inaccettabile è anticipato dal participio ἐπισύροντες, da ἐπισύρω, “evadere”, “cambiare discorso”.

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[2] ὡς Μεγαρεῖς καὶ Μεσσήνιοί τινες εἶναι φάσκοντες, ἔπειτ᾽ ἀτελεῖς εἰσιν, ἁθρόοι παμπληθεῖς ἄνθρωποι: Leptine sosterrebbe che moltitudini di stranieri