Dalla relazione di cura alla relazione di prossimità
 978 - 88 - 207 - 4107 - 5 [PDF]

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PROFILI

Biòtopi Progetto Editoriale di Educazione Inclusiva diretto da Marina Santi e Roberta Caldin 3

Dalla relazione di cura alla relazione di prossimità L’approccio delle capability alle persone con disabilità a cura di Mario Biggeri e Nicolò Bellanca

Liguori Editore

Comitato scientifico: Andrea Canevaro, Serenella Besio, Mario Biggeri, Fabio Bocci, Edoardo Boncinelli, Luciano Carrino, Walter O. Kohan, Elias E. Kourkoutas, Raffaella Semeraro, Maura Striano, Lorella Terzi. I volumi pubblicati in questa collana sono preventivamente sottoposti a una procedura di “peer rewiew”

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, fatte salve le eccezioni di legge, è vietata senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2010 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Dicembre 2010 Stampato in Italia da OGL - Napoli Biggeri, Mario (a cura di): Dalla relazione di cura alla relazione di prossimità. L’approccio delle capability alle persone con disabilità/Mario Biggeri, Nicolò Bellanca (a cura di) Biòtipi Napoli : Liguori, 2010 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 4107 - 5 1. Politiche sociali 2. Salute e società I. Titolo

II. Collana III. Serie

Ristampe: —————————————————————————————————————————— 20 19 18 17 16 15 14 13 12 11 10 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 La carta utilizzata per la stampa di questo volume è inalterabile, priva di acidi, a PH neutro, conforme alle norme UNI EN ISO 9706 ∞, realizzata con materie prime fibrose vergini provenienti da piantagioni rinnovabili e prodotti ausiliari assolutamente naturali, non inquinanti e totalmente biodegradabili. (FSC, PEFC, ISO 14001, Paper Profile, EMAS).

Indice

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Al lettore

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Capitolo primo Le teorie della disabilità: una reinterpretazione attraverso l’approccio delle capability di Amartya Sen di Mario Biggeri, Jean-François Trani e Parul Bakhshi 1. Introduzione, p. 3; 2. Ripensare la disabilità attraverso l’approccio delle capability, p. 7; 3. L’approccio delle capability come framework per l’analisi e le implicazioni di policy, p. 12; 4. Conclusioni, p. 20; Appendice: Un richiamo di alcuni concetti dell’approccio delle capability, p. 21; Riferimenti bibliografici p. 23.

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Capitolo secondo La disabilità nell’approccio delle capability di Nicolò Bellanca, Mario Biggeri e Francesca Marchetta 1. Introduzione, p. 29; 2. Le basi dell’eguale dignità, p. 29; 3. Verso una ridefinizione della disabilità, p. 36; 4. La disabilità, approccio delle capability e intreccio di adattamento ed exattamento, p. 44; 4.1. La disabilità e l’approccio delle capability, p. 44; 4.2. La disabilità quale intreccio di adattamento ed exattamento, p. 54; 5. Il Modello TAOPE, p. 56; 5.1. Il modello, p. 56; 5.2. Tra adattamento e exattamento, p. 58; 5.3. Una prima operazionalizzazione, p. 62; 6. Capability esterne e team-agency, p. 64; 7. Conclusioni, p. 68; Appendice 1: Le informazioni per il Modello TAOPE, p. 69; Appendice 2: Come rendere più robusta l’indagine applicata del well-being di una persona con disabilità, p. 70; Riferimenti bibliografici, p. 73.

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Capitolo terzo Dalle capability esterne alle capability collettive di Nicolò Bellanca e Mario Biggeri 1. Introduzione: Kitty e Sandra, p. 79; 2. La relazione di cura poggia sulla human obligation?, p. 81; 3. Cooperare con i “momo”, p. 88; 4. Dalle capability esterne a quelle collettive, p. 95; 5. Le condizioni dell’affermarsi delle capability collettive, p. 103; 6. Dall’azione collettiva alla team-agency, p. 110; 7. Conclusioni, p. 111.

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INDICE

Capitolo quarto Strumenti per le policy sulle disabilità di Nicolò Bellanca, Mario Biggeri e Francesca Marchetta 1. Introduzione, p. 115; 2. Il principio di diversità non dominata e la risorsa decisiva, p. 115; 3. Il criterio delle massime potenzialità personali, p. 121; 3.1. Un siciliano a Firenze, p. 121; 3.2. Eliminare i deficit prioritari alla salute, p. 122; 3.3. Massimizzare le potenzialità personali negli interventi socio-sanitari, p. 127; 4. I dilemmi della policy e il principio della chiusura del circuito, p. 131; 5. Sull’approccio ICF: aspetti positivi, limiti e relazioni con l’approccio delle capability, p. 140; 6. Dal modello ICF a nuove metodologie di misurazione nello spazio delle capability, p. 148; 7. La creazione di idealtipi per un matching efficace, p. 154; 8. Conclusioni, p. 156; Appendice: La valutazione dei progetti: come superare il selection bias, p. 158; Riferimenti bibliografici, p. 161.

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Capitolo quinto Sulle politiche per le persone con disabilità: il progetto di vita e la strategia a mosaico di Mario Biggeri, Nicolò Bellanca, Lapo Tanzj e Sara Bonfanti 1. Introduzione, p. 165; 2. Il progetto di vita e la consulenza alla pari, p. 166; 3. La strategia a mosaico come strumento operativo, p. 169; 4. Un’ipotesi concreta: il progetto di vita nel sistema organizzativo della Regione Toscana, p. 174; 4.1. Il sistema informativo: il portale della Regione Toscana, p. 179; 4.2. La cartella elettronica, p. 183; 4.3. L’osservatorio sulle disabilità, p. 183; 5. Conclusioni, p. 185; Riferimenti bibliografici, p. 186.

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Gli Autori

Con affetto, riconoscenza e ammirazione dedichiamo il nostro lavoro a Nanda e Sade, Annibale e Lorenzo, Rita e Alice, Massimo e Giampiero: alle loro capability di lottare e progettare, piangere e sorridere, stare accanto, dare e ricevere forza e emozioni. Una dedica va anche a coloro che ancora non sono riuscite/i a realizzarsi nella vulnerabilità, perché trovino le circostanze e l’energia positiva per “fiorire”.

Al lettore Il titolo del volume è volutamente ambiguo. La “relazione di cura” può infatti indicare il curing, che è il curare per guarire, il protocollo medico impersonale; ma può evocare altresì il caring, che è la reciproca premura, il farsi della cura mediante la “relazione di prossimità” o attenzione umana tra le persone. Passare dal cure al care, in riferimento alle persone con disabilità, è stato il senso ultimo dell’itinerario di ricerca che presentiamo. Nel percorrere questo itinerario siamo stati orientati da un preciso approccio teorico: quello delle capability, elaborato principalmente da Amartya Sen. Non ci siamo limitati a recepire le formulazioni più consolidate di tale approccio. Nella prima parte del volume sulla scorta dei nostri problemi, formatisi dentro l’esperienza delle persone con disabilità e delle loro associazioni, abbiamo rielaborato ed esteso vari aspetti di quella teoria. Nella seconda parte del volume abbiamo provato a renderla operativamente applicabile e in grado di fornire indicazioni di policy. Spetterà al lettore giudicare il nostro tentativo. Questo studio è uno dei prodotti della ricerca, svoltasi tra il 2008 ed il 2009, “Ripensare le politiche sulla disabilità in Toscana attraverso l’approccio delle capability di Amartya Sen: from cure to care”. L’indagine è stata condotta dal laboratorio ARCO (Action-Research for CO-development) del PIN dell’Università di Firenze grazie al contributo dell’Assessorato per le Politiche Sociali e lo Sport, in collaborazione con l’Istituto Degli Innocenti. Oltre all’Assessorato e all’Istituto, desideriamo ringraziare le numerose vivaci realtà dell’associazionismo toscano e le tante persone con disabilità con cui abbiamo avuto la fortuna di confrontarci, nonché le Società della salute, l’Azienda Regionale Sanitaria, i funzionari e i consulenti della Regione che ci hanno sostenuto in vari modi. Tra gli studiosi che hanno dialogato con noi, ricordiamo con gratitudine Anou Bakhshi, Rita Barbuto, Luigino Bruni, Giovanni Canitano, Giovanna Ceccatelli-Gurrieri, Enrica Chiappero-Martinetti, Cristina Devecchi, Marisa Horna, Carlo Francescutti, Lucilla Frattura, Giampiero Griffo, Renato Libanora, Stefano Mariani, Vincenzo Mauro, Sebastian Muscovich, Stefano Redini, Antonio Sereni ed Enrico Testi. Tra gli operatori e le persone che hanno dialogato con noi, ricordiamo con gratitudine Marco Becattini, Anna

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PREFAZIONE

Maria Bertazzoni, Sunil Deepak, Andrea Del Bianco, Lorenzo Dini, Andrea Francalanci, Jayanth Kumar, Alessandra Maggi, Silvia Notaro, Patrizio Nocentini, Francesca Ortali, Nanda Pratellesi, Annibale Raineri, Gianni Salvadori, Massimo Toschi, Mauro Soli e Luigi Valdré. Un grazie particolare va a Roberta Caldin e Marina Santi, che ci hanno accolto in questa Collana, e agli anonimi referee che ci hanno generosamente rivolto critiche e suggerimenti.

Capitolo primo Le teorie della disabilità: una reinterpretazione attraverso l’approccio delle capability di Amartya Sen di Mario Biggeri, Jean-François Trani e Parul Bakhshi

1. Introduzione Un’ampia letteratura sottolinea l’importanza della partecipazione sociale per le persone con disabilità in termini di interazione tra la persona e un dato contesto invalidante o stimolante.1,2 Particolare attenzione è stata quindi posta all’analisi e al cambiamento dell’ambiente, sia esso fisico, sociale, politico o istituzionale per consentire la partecipazione dei diversamente abili.3 I programmi e le politiche di sviluppo – insieme ai loro fondamenti concettuali – mirano a rafforzare la partecipazione e l’empowerment dei gruppi marginalizzati come quello dei disabili anche se, nella maggior parte dei casi, tendono a semplificare eccessivamente tematiche complesse. Benché esista 1

In molti paesi in via di sviluppo – a causa di credenze e pratiche sociali, culturali e religiose – i disabili vivono ‘nascosti’ fin da bambini per le menomazioni di carattere fisico o mentale con la conseguenza di non avere così accesso all’istruzione. Alcuni ricercatori hanno mostrato come, anche nei paesi sviluppati, i bambini diversamente abili subiscono una limitazione alla propria capacità di partecipazione maggiore di quella solitamente sperimentata dai loro pari (Hermann, Aeschleman e Svanum; 1995) e che i bambini con disturbi mentali e disabilità intellettuali presentano risultati inferiori a quelli dei bambini con menomazioni fisiche o sensoriali in termini di partecipazione (Law, Finkelman, Hurley, Rosenbaum, King, King and Hanna, 2004; Longmuir, Bar-Or, 2000). 2 Alcuni studi mostrano ad esempio che la fornitura di assistenza a scuola in forma troppo individuale può costituire una barriera alla partecipazione perché riduce le opportunità dello studente di interagire con gli insegnanti e i pari e diventa un ostacolo all’autonomia (Giangreco, Edelman, Luiselli, MacFarland, 1997; Mihaylov, Jarvis, Colver and Bryony, 2004; Pivik, Mccomas and Lafamme, 2002; Skar e Tamm, 2001). 3 Si vedano tra gli altri Forsyth, Colver, Alvanides, Woolley, and Lowe, 2007; Hammal; Jarvis and Colver, 2004; Heah, Case, McGuire and Law, 2007; Law and Dunn, 1993; Law, Haight, Milroy, Willms, Stewart, and Rosenbaum, 1999; Welsh, Jarvis, Hammal, and Colver, 2006.

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un diffuso consenso relativamente agli scopi perseguiti da tali programmi, molto spesso gli obiettivi ideali rimangono lontani dai bisogni degli individui. In conseguenza di ciò, i gruppi vulnerabili, tra cui quello delle persone con disabilità, sono esclusi dal processo non appena cessano di rappresentare il focus centrale delle attività implementate. In letteratura e nell’analisi empirica è noto che tre dei più rilevanti modelli impiegati in questo ambito di studi – il modello individuale o medico, il modello sociale e il modello ICF4 della Organizzazione Mondiale della Sanità – conducono ad implicazioni di policy che sono spesso differenti, quando non apertamente contrastanti (Terzi 2004; Trani e Bakhshi, 2008). In effetti, la struttura concettuale impiegata per l’identificazione di ciò che la disabilità comporta e il modo in cui vengono concepite le misurazioni hanno conseguenze notevoli sulla stima dei tassi di prevalenza, sulle attività di policy making e sul lavoro di ricerca. In questo capitolo viene presentato un framework concettuale basato sull’approccio delle capability che mira ad aiutare i policy maker a formulare interventi e a colmare la distanza tra ricerca, implementazione delle politiche e attività di valutazione. L’approccio delle capability trova le sue radici nei lavori dei primi anni Ottanta del premio Nobel per l’economia Amartya Sen, per il quale la povertà/deprivazione è indicata dall’assenza di possibilità nel raggiungere un livello soddisfacente nei vari aspetti della vita5. Questo approccio rappresenta uno dei contributi teorici più rilevanti ad una nuova impostazione delle teorie e delle politiche di sviluppo perché considera quest’ultimo come un processo di ampliamento delle possibilità di scelta dei soggetti. Tale approccio restituisce dignità alla persona attraverso la centralità dell’essere umano. Infatti le risorse, come il reddito e i beni, rimangono importanti ma sono considerate strumenti per generare i funzionamenti (ovvero i risultati raggiunti) e le capability (ovvero le libertà di conseguire). L’insieme delle capability è composto dall’insieme di opportunità/capacità della persona (per ulteriori approfondimenti sui concetti di base si veda l’appendice al termine del capitolo).6 4

International Classification of Functioning, Disability and Health. Alcuni aspetti dell’approccio delle capability possono essere ritrovati in importanti scritti di studiosi del passato come Aristotele, Adam Smith, John Stuart Mill e Karl Marx (cfr. Nussbaum 2003b; Sen 1993; 1999), ma l’approccio nella sua presente forma ha visto come pioniere l’economista e filosofo Amartya Sen (Sen 1980; 1984; 1985b; 1985a; 1987; 1992; 1993; 1995; Drèze and Sen 2002) e, più recentemente, anche Martha Nussbaum (Nussbaum 1995; 2000; 2002a; 2003b, 2006). 6 L’approccio delle capability sta alla base del concetto di sviluppo umano definito dall’UNDP come un processo di ampliamento delle possibilità di scelta umane. Lo sviluppo umano 5

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L’idea che sta alla base dell’approccio delle capability è che gli assetti sociali dovrebbero tendere ad espandere le capability delle persone, ossia la loro libertà di promuovere o raggiungere i beings e doings a cui essi stessi danno valore. Una condizione essenziale perché si possa parlare di progresso, sviluppo o riduzione della povertà è che le persone abbiano maggiori libertà (intese come opportunità). In altre parole, lo sviluppo può essere visto come un processo di espansione delle libertà di cui le persone possono effettivamente godere (Sen 1999). L’approccio delle capability ritiene che focalizzare l’attenzione sulla libertà sia un modo più accurato di costruire quello a cui le persone danno effettivamente importanza. Utilizzare tale approccio significa allargare lo spazio informativo su cui basare le decisioni, includendo gli aspetti non materiali, come la dignità, il rispetto verso se stessi e gli altri, l’amore e le attenzioni (intese come care). L’implicazione di policy più rilevante contenuta in tale approccio risiede nel fatto che gli assetti sociali dovrebbero tendere ad espandere le capability delle persone e le potenzialità umane sia a livello individuale che per la società nel suo complesso (ossia la loro libertà di promuovere o raggiungere ‘beings, doings e becomings’ di valore). Questo modello di analisi si concentra sul concetto di vulnerabilità, adottando una prospettiva inclusiva e di empowerment. Esso riesamina l’interazione tra l’individuo e i modelli sociali di disabilità poiché riconosce la diversità umana, non segrega i gruppi vulnerabili e guarda alle condizioni di vulnerabilità come ad un fenomeno multidimensionale e dinamico, che implica diversi tipi di limitazioni alla capability di ciascuno per raggiungere i vari funzionamenti a cui il soggetto in condizioni di vulnerabilità assegna valore (Sen 1992, 1999). In estrema sintesi si può sostenere che l’approccio delle capability consente di superare il dilemma delle differenze: esso, infatti, si focalizza sulle specificità della situazione e dei bisogni del singolo, senza imprigionarlo/la con un’etichetta immutabile. Come ha scritto Sen, le persone con disabilità possono avere bisogno di diversi tipi e quantità di input di capability (risorse fornite attraverso specifiche politiche, mutamenti di norme sociali, infrastrutture, e così via) per ottenere lo stesso livello di benessere (Sen, 1999; Mitra, 2006). Inoltre, “La persona con disabilità attraverso un approccio di teoria della giustizia orientato alle capability – sia che la disabilità provenga da problemi fisici, mentali o restrizioni imposte dalla società – riceve immee sostenibile si basa su quattro pilastri: eguaglianza, sostenibilità, partecipazione, produttività (Griffin, Knight, 1990; UNDP, 1995).

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diate attenzioni con politiche sociali che non avrebbe avuto attraverso altri approcci da quello utilitarista alla teoria della giustizia sociale di Ralws, e all’economia del benessere basata sulla ricchezza” (Sen 2009, 23-24). Ad esempio se in economia pubblica si pone l’attenzione che una persona con disabilità ha meno abilità/possibilità nel guadagnare del reddito, poca attenzione viene posta nella difficoltà a valle nel convertire il reddito nei funzionamenti della vita (Sen 2009, 24). L’obiettivo della logica seniana di eguagliare le capability fondamentali di partecipare alla vita sociale implica l’introduzione di politiche pubbliche di welfare legate al ‘bisogno’ e non al reddito in relazione a particolari funzionamenti e per questo il punto cruciale di policy è di individuare le tipologie di prestazioni meritevoli anche con finanziamento misto pubblico privato (Petretto, 2008, pp. 17-20) (cfr. cap. 5). Se attribuire allo sviluppo un volto umano significa inevitabilmente espandere le opportunità e le libertà positive, la teoria della giustizia rappresenta il fondamento dell’azione politica nello spazio informativo delle capability: si ritiene, quindi, che le politiche pubbliche debbano fornire la base sociale per il conseguimento delle capability individuali (Nussbaum, 2000, p. 81). Questo è soprattutto il caso in cui le menomazioni sono prevenibili, o quello in cui la disabilità è frutto di una costruzione sociale (Baylies, 2002). Poiché l’efficacia e la desiderabilità di alcune politiche sono connesse all’espansione delle capability umane e legate ad un sistema di valori, l’adozione dell’approccio delle capability contribuisce anche a modificare il focus sugli obiettivi delle politiche e sui processi. Queste considerazioni rappresentano un punto di partenza cruciale per un mutamento delle modalità di implementazione delle politiche ma, allo stesso tempo, anche dei metodi di analisi. Quindi, affinché possa prodursi un significativo cambiamento nelle politiche, è necessario che si realizzi un radicale mutamento del modo in cui vengono raccolte le informazioni, effettuate le misurazioni ed elaborate le analisi relativamente al tema della disabilità. Emerge allora la necessità sia di disporre di dati ulteriori rispetto ai tassi di prevalenza che di prendere in considerazione aspetti più complessi: i funzionamenti e la partecipazione, l’agency e i valori individuali e collettivi. Inoltre diventa necessario spostare l’attenzione verso le capability anche e soprattutto nelle procedure di valutazione in modo da favorire al contempo la formazione di un progetto/percorso di vita. In questa direzione è importante la complementarietà tra l’ICF e l’approccio delle capability, che dovrebbe dar luogo ad uno spazio in cui possano essere messi a punto strumenti specifici e propri dei vari contesti. È inoltre evidente che per rendere operativa questa impostazione teorica è necessario testare i risultati nella

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valutazione delle azioni dei programmi per cercare di migliorarne l’impatto, tenendo conto dei bisogni dei beneficiari e delle loro famiglie. Gli obiettivi specifici di questo capitolo consistono nel rivisitare gli attuali modelli sulla disabilità e nel proporre un nuovo framework dotato di implicazioni di policy. Benché i risultati di questo lavoro possano essere generalizzati, noi ci proponiamo di applicare il framework presentato alle tematiche riguardanti la disabilità, nel tentativo di rendere operativo l’approccio stesso. Nel prossimo paragrafo riconsideriamo i modelli individuale e sociale e il framework ICF attraverso la lente dell’approccio delle capability. Nel terzo presentiamo un abbozzo di disegno delle policy basato sull’approccio delle capability, sottolineando gli aspetti dinamici e quali tipi di informazioni occorre raccogliere in un sondaggio pensato per l’elaborazione di una politica che si ispiri a tale approccio. Nell’ultimo sintetizziamo i punti principali di questo lavoro e delineiamo i successivi passi da compiere.

2. Ripensare la disabilità attraverso l’approccio delle capability È ben noto, sia in letteratura che nell’analisi empirica, che i tre più rilevanti modelli utilizzati nell’ambito della disabilità – quello individuale o medico, il modello sociale e il modello ICF elaborato dalla OMS – hanno spesso implicazioni di policy diverse e persino contrastanti (Terzi 2004; Trani e Bakhshi, 2008). In effetti, il framework concettuale su cui si basa l’identificazione di ciò che la disabilità comporta e la costruzione degli strumenti di misurazione si ripercuotono sulle stime di prevalenza, sul policy making, sulla ricerca e operativamente sulla valutazione dei casi. In questa sezione presentiamo i diversi modelli e sosteniamo che l’approccio delle capability offre un nuovo modo di concepire la disabilità. Questo sembra essere maggiormente in linea con le esigenze del policy making, in quanto, in un certo senso, ristruttura e combina i modelli illustrati. Quello delle capability è un approccio olistico, capace di considerare tutte le dimensioni/domini del benessere individuale, superando così l’ottica ristretta della menomazione e delle condizioni invalidanti. Il modello individuale o medico è basato sul concetto di disabilità inteso come divergenza rispetto ad una normalità fisica. In questa prospettiva, la disabilità è una condizione biologica intrinseca all’individuo che riduce la sua qualità di vita e la sua partecipazione alla società, rispetto ad un funzionamento umano “nella norma” (Pfeiffer, 2001; Amundson, 2000; Marks,

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1999). In questo modello la misurazione della prevalenza è basata sulla valutazione del numero di persone che si trovano all’interno di una serie di classi di menomazioni, considerate come limitazioni nella condizione di salute in una gamma di funzionamenti di base e di apparati fisici. Le persone con disabilità ricadono in modo netto all’interno di poche categorie chiaramente definite: i sordi, i ciechi, i paraplegici e i malati mentali, tutti concepiti come soggetti devianti dalla norma. Le stime di prevalenza saranno verosimilmente poco attendibili: nelle indagini censuarie e nei sondaggi basati sulle dichiarazioni dell’intervistato, le domande percepite da quest’ultimo come stigmatizzanti generano, infatti, riluttanza nelle risposte o una tendenza a sminuire le proprie difficoltà. La ricerca tenderà dunque a focalizzarsi sugli svantaggi sociali subiti dall’individuo come risultato della sua menomazione. Infine, le politiche mireranno a compensare le restrizioni presentate in alcune attività piuttosto che a riflettere sulle barriere che impediscono una piena partecipazione. Questo modello, dunque, presenta numerose implicazioni negative in quanto predice la disabilità dei disabili nella società. Il modello sociale è basato su un paradigma molto diverso. Rifiuta decisamente l’idea di limite alla salute considerata come menomazione e pensa la persona come diversamente abile. Questa visione, promossa dai movimenti dei disabili, tende a concentrarsi sulle barriere che esistono all’interno del contesto sociale, impedendo ad una certa persona di raggiungere lo stesso livello di funzionamenti di una persona non disabile. In questa prospettiva, è la società che deve essere ridisegnata affinché prenda in considerazione i bisogni dei soggetti con disabilità (Olivier, 1996). I fautori del modello sociale ritengono che le limitazioni fisiche diventano disabilità perché la società non è attrezzata per accogliere la differenza nei funzionamenti umani. Inserire il tema della disabilità in tutte le politiche pubbliche rappresenta, in quest’ottica, un modo progressivo e sostenibile di ridisegnare la società al fine di includere i disabili. Il modello sociale contiene delle implicazioni quando si tratta di misurare la prevalenza, fare ricerca e definire le policy. Le domande basate su questo modello non riguarderanno solo la menomazione – la condizione biologica individuale o le differenze nei funzionamenti umani – ma si concentreranno altresì sull’identificazione delle barriere all’interno del contesto sociale che creano la situazione invalidante. I policy makers devono quindi affrontare le restrizioni causate dall’organizzazione sociale promuovendo, attraverso la legge e la sua implementazione, la partecipazione sociale al fine di assicurare uguali diritti e opportunità. In entrambi i modelli la disabilità è intesa come una condizione diversa

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da quello che è considerato un “normale” stato di salute. Tuttavia, secondo un altro approccio, questa normale o perfetta situazione di salute potrebbe essere un ideale che la maggior parte delle persone non sperimentano. In un continuum di stati di salute, ogni individuo presenta alcune deficienze in certe dimensioni dei funzionamenti. Il modello ICF è basato su tale assunto (WHO, 2001). Se la disabilità presenta numerose dimensioni o livelli, l’ICF è composto da vari ambiti di attività e partecipazione che corrispondono al corpo, alla persona e alla persona nella società. Esso guarda alla disabilità come ad una combinazione di questi diversi tipi di fattori che influenzano l’ambiente in cui le persone con disabilità crescono. “In the ICF, the term functioning refers to all the body functions, activities and participation, while disability is similarly an umbrella term for impairments, activity limitations and participation restrictions” (WHO, 2001). Questo sistema contempla la valutazione di due tipi di fattori: i fattori ambientali, che includono l’ambiente fisico e sociale e l’impatto dei comportamenti; i fattori personali, che corrispondono alla personalità e agli attributi caratteristici di un individuo. Questa prospettiva è basata sull’assunzione che il funzionamento è un’importante misura dei risultati, indipendentemente dalle sue determinanti. Quindi, l’utilizzo dell’ICF per la misurazione dei tassi di prevalenza in un’indagine basata sulla popolazione implica un approccio diverso alla misurazione della disabilità. L’ICF consiste in una scala di riferimento: i suoi codici nell’ambito delle dimensioni/domini richiedono l’utilizzo di indicatori di qualità, che identifichino la presenza e registrino la gravità del problema nel funzionamento su una scala costituita da cinque punti (ovvero: nessuna, leggera, moderata, grave e completa menomazione). Per trarre tutti i vantaggi propri di tale codificazione, tuttavia, occorre raccogliere informazioni relative all’attività o alla partecipazione, all’utilizzo dell’assistenza personale e della tecnologia di supporto in quantità tale e di natura così dettagliata da poter assegnare i codici delle dimensioni/domini e valutare così i cinque livelli di difficoltà, sia nell’ambiente attuale sia in uno standardizzato. Nessuno dei set di domande oggi predisposto o raccomandato dalle organizzazioni internazionali copre l’intero range di informazioni necessarie ad accertare tutti gli indicatori di qualità dell’ICF. La complessità della disabilità come fenomeno sociale conduce a vari modi di rendere operativi i concetti e ad un’estesa gamma di tipi di domande che possono essere utilizzate o create (Altman, 2001). La ricerca che utilizza l’ICF identificherà una varietà di situazioni invalidanti connesse ad una combinazione di limitazioni nel compimento delle attività e di mancanza di partecipazione ed effettuerà un’analisi delle cause dell’esclusione, della disuguaglianza e della povertà (Zaidi e Burchardt, 2005). I confronti tra

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paesi basati sull’ICF sono limitati dalla diversità culturale e dai differenti modi in cui è concepita la disabilità (Baylies, 2002; Groce, 2006; Miles, 2001). Occorre sottolineare che il modello ICF non consente nessun tipo di partecipazione e di riflessione pubblica in quanto è attualmente utilizzato per elaborare uno strumento normativo atto a misurare la disabilità in qualsiasi genere di contesto sociale e culturale. Questo è infatti l’obiettivo del Washington Group on Disability Statistics che ha preparato un insieme di domande basate sull’ICF che devono essere tradotte nelle varie lingue ed utilizzate nelle indagini censuarie o in altri sondaggi condotti su scala nazionale per permettere confronti internazionali. Riassumiamo. L’approccio delle capability offre un framework teorico generale per gli studi sulla disabilità che racchiude in sé il modello sociale (Burchardt, 2004, Mitra, 2006, Terzi, 2005). Questo approccio colloca la definizione di disabilità all’interno del più ampio spettro dello sviluppo umano e del rafforzamento delle libertà. Questo modello, concentrandosi sui “beings and doings that an individual has reason to value”, sposta il focus dalle specificità della situazione della disabilità (nel caso dell’ICF le funzioni corporee, le attività e la partecipazione) alla ricerca dell’uguaglianza in termini di possibilità e scelte. In questo senso, quindi, questo approccio è connesso ad una teoria di giustizia (Sen, 2006; Nussbaum, 2006). L’approccio di Amartya Sen allo sviluppo umano fornisce una visione più approfondita delle tematiche legate alla disabilità poiché propone di considerare non ciò che una persona effettivamente fa (ovvero i suoi funzionamenti) ma la gamma di possibilità/opportunità (il set di capability) tra cui poi sceglierà un funzionamento specifico (Sen, 1999). Il fatto che ogni individuo sia chiamato ad accertare il livello di difficoltà con cui si deve misurare in ogni dimensione consente di valutare la sua situazione in modo esaustivo e olistico. Ciò è anche dovuto alla circostanza che, mentre alcune capability hanno valore in sé, altre hanno una rilevanza strumentale. Questo approccio è in grado di prendere in considerazione tutta l’ampia gamma di esperienze di disabilità, superando la limitata ottica basata sulla tipizzazione delle menomazioni. La prospettiva dell’approccio delle capability riesce insomma a tener conto dell’azione reciproca svolta dalle caratteristiche individuali e dalle restrizioni sociali, proponendosi di misurare i risultati in termini di espansione delle opportunità di scelta e quindi delle libertà delle persone. Restringere la definizione alle risorse meramente quantitative (es. reddito o istituzionali) significherebbe ignorare le dinamiche che esistono tra la persona e la comunità (Bakhshi et al., 2006). Infine, va rimarcato che anche la Convenzione sui diritti delle persone diversamente abili (del dicembre 2006) nell’articolo preliminare (e)

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sottolinea come “disability is an evolving concept and that disability results from the interaction between persons with impairments and attitudinal and environmental barriers that hinders their full and effective participation in society on an equal basis with others”.7 Esistono evidenti somiglianze tra questi diversi approcci alla disabilità: tutti, infatti, enfatizzano l’importanza delle relazioni tra l’individuo e la collettività. All’interno della prospettiva dello sviluppo umano, per concepire la definizione di disabilità occorre considerare i seguenti aspetti: le potenzialità personali; le possibilità di “essere” ciò che questa persona desidera; le sue vulnerabilità; il rischio misurato come probabilità di cadere ad un livello inferiore di benessere; le opportunità offerte dall’ambiente in cui il soggetto vive; il ruolo di agency dell’individuo o delle comunità, ossia il grado in cui la persona o il gruppo si considerano protagonisti e decision maker nella propria vita (Bakhshi and al., 2006). Il seguente schema (Figura 1a) cerca di sintetizzare alcuni aspetti rilevanti degli approcci fin qui richiamati. Come analizzeremo in dettaglio nel quarto capitolo, l’ICF, combinando i fattori individuali e sociali, definisce l’ambiente in cui la persona vive e fornisce di fatto ed essenzialmente delle linee guida valide per la raccolta e la classificazione delle informazioni, oltre a fornire le basi per la valutazione funzionale. È perciò evidente che ai differenti approcci si possono collegare differenti applicazioni come riportato (Figura 1b).

Menomazioni individuali Struttura della società Interazione tra individuo e società Concetto di Functioning Dimensione collettiva della disabilità

Medical model

Social model

ICF/ WHO

UNconvention

Capability Approach

X

X X

X X X

X X X

X X

X

X X Come barriera

X X Come barriera o facilitatore X Capability set X Agency

X Come barriera

Opportunità/ Potenzialità Aspetti decisionali

Figura 1a - Concetti inclusi nelle definizioni

7

http://www.un.org/disabilities/default.asp?id=260

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Medical model

Social model

ICF/ WHO

UNconvention

Capability Approach

Applicazioni teoriche

X

X

X

X

X

Valutazione welfare/benefici

X

X

Comparabilità tra paesi

X

X

Lobbying/ società civile/ DPOs

X

X

X

Framework per definire le policy

X

X

X

Raccolta dati

X

X

X

Valutazione di impatto

X

X

X

Figura 1b - Principali applicazioni

3. L’approccio delle capability come framework per l’analisi e le implicazioni di policy In questo paragrafo, partendo dall’analisi di un processo di espansione/riduzione delle capability a livello individuale, presentiamo un framework generale per il disegno di politiche implementabili a diversi livelli e finalizzate ad espandere le capability verso le quali le persone attribuiscono valore. A livello individuale le dinamiche in termini di processo sono ben catturate dalla nozione di evolving capabilities/capacities presentata nella figura 2.8 Questo framework, rispetto alla letteratura (Robeyns 2003), è reso dinamico dalla presenza di due tipologie di feed back loops oltre che dall’introduzione del concetto di capability potenziali o P-capability. La persona con disabilità è collocata al centro di un sistema (seguendo la nuova teoria sociale e quella ecologica; Bronfenbrenner 1995, 1998) con cui interagisce e ottiene l’accesso alle risorse grazie alla famiglia (o i diretti caregiver), alla scuola/comunità e agli enti regionali e statali (sistemi micro, meso e macro). Questi fattori di conversione sono connessi a quelli di tipo materiale, come gli attivi, le infrastrutture, i beni, il reddito e i servizi che possono agevolare oppure ostacolare il godimento di una certa capability appartenente all’insieme delle capability individuali. I fattori di conversione sono altresì connessi a fattori immateriali come le capacità dell’individuo e le norme sociali, le identità, il raziocinio, la reciprocità, la fede, e così via.

8

Analogamente per i bambini si veda Ballet et al. (2010).

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Figura 3 - Il framework dell’approccio delle capability.

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Figura 7 - Relazioni tra titolarità e capability.

per semplicità le abbiamo collocate in un solo punto di accesso. In secondo luogo il circuito, pur riproducendosi con la stessa forma, cambia i propri contenuti, in quanto ogni snodo interviene sugli altri e li modifica; questo cambiamento a sua volta modifica i contenuti delle titolarità e delle capability esterne (anche qui, a rigore, le modifiche possono “uscire” ovunque, anche se le abbiamo raffigurate in un punto specifico).

7. Conclusioni Alice Sturiale, una bambina fiorentina colpita da atrofia muscolare spinale, è scomparsa a dodici anni, lasciandoci un libro (1996) di poesie e riflessioni tradotto in molte lingue. Rivolgendosi ad una delle migliori amiche, scriveva: È facile partire senza un motore: basta avere voglia e saperlo fare. Quando il mio motore era in folle

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mi hai fatto spuntare le ali, piano piano, senza farti notare … Queste poche righe colgono che la disabilità è, assieme, limite e occasione, sofferenza e adattamento creativo. E che, per agire proattivamente su di essa, le relazioni interpersonali dirette e la team-agency svolgono una funzione cruciale. Le P-capability e la E-capability appaiono pertanto le categorie fondamentali del modello analitico che abbiamo proposto.

Appendice 1. Le informazioni per il Modello TAOPE In questa appendice presentiamo, prescindendo dalle Titolarità, le aree informative necessarie per il modello TAOPE. Esso prescinde da qualsiasi lista ex ante di capability, riferendosi unicamente ad alcune sfere dell’esperienza fenomenologica della persona. In maniera volutamente esemplificativa esploriamo delle possibili domande relative alle sfere del movimento fisico all’esterno dell’abitazione. LE A-CAPABILITY Parlaci delle tue capacità, quando esse si possono esprimere (con l’ausilio di supporti e equipaggiamenti, o meno) nelle circostanze più favorevoli. Puoi muoverti all’esterno dell’abitazione nelle circostanze più favorevoli? LE O-CAPABILITY Parlaci delle tue opportunità di essere o di fare nelle ultime quattro settimane. Potresti muoverti all’esterno dell’abitazione se volessi farlo? LE P-CAPABILITY Parlaci dei tuoi progetti a lungo termine. Potrai muoverti all’esterno dell’abitazione? LE E-CAPABILITY Parlaci delle tue relazioni di prossimità nelle ultime quattro settimane. Chi ti è vicino quando decidi di muoverti all’esterno dell’abitazione?

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Appendice 2. Come rendere più robusta l’indagine applicata del well-being di una persona con disabilità Occorre approntare e verificare in itinere una procedura d’indagine “robusta”, ossia tale da corroborare i principali risultati, sia quando un ricercatore lascia il posto ad un altro, sia quando un mix di tecniche quali-quantitative viene in parte modificato nella propria composizione. Poiché l’approccio va applicato ai soggetti con disabilità potremmo chiederci fino a quale “tipo” di disabilità esso è percorribile. Si tratta tuttavia, a nostro avviso, di una falsa domanda. Anziché ragionare su steccati fissati ex ante, la sfida sta nell’elaborare ed implementare un approccio estendibile sempre di più, ed in cui il criterio della “robustezza” ci aiuta a stabilire in quali circostanze e per quali soggetti esso funziona adeguatamente. Una nostra procedura, qui solamente abbozzata, prende le mosse dall’individuazione di un metodo che orienti la scelta delle tecniche d’indagine. È il metodo a permetterci di elaborare un criterio di “robustezza”, ed è rispetto ai canoni stabiliti dal metodo che verificheremo, o falsificheremo, gli esiti dell’indagine di campo. Si tratta di un metodo che per un verso attinge al framework delle capability, e per l’altro al variegato patrimonio teorico e clinico della psicoanalisi. Sul primo fronte, i concetti che maggiormente utilizza sono le titolarità e le E-capability. Come abbiamo visto, le titolarità derivano dal potere de facto e dal potere de jure di un soggetto: nel caso della persona con disabilità, l’una forma di potere nasce dall’influenza che quel soggetto ha – con le esigenze, talvolta molto impegnative, che scaturiscono dalla propria stessa esistenza – su coloro che lo circondano; mentre l’altra forma si lega principalmente ai suoi diritti giuridici. Le Ecapability, dal canto loro, derivano dai rapporti diretti che la persona vulnerabile intrattiene. Quel che ci occorre è uno strumento analitico che consenta di visualizzare le determinanti di entrambi gli aspetti, associando ad esse un ranking di rilevanza. Al riguardo sono stati avanzati vari tentativi, tra i quali spicca, a nostro avviso, quello della Fondazione Zancan (2002, 2004, 2005). Senza entrare nei dettagli, esso prima disegna una mappa dei soggetti che hanno interesse (affettivo, contestuale, giuridico) alla vita della persona in esame e delle risorse (attuali o potenziali) che quei soggetti muovono; costruisce quindi una scala di valutazione che attribuisce un punteggio a ciascuno dei soggetti. Nella sua semplicità, è uno strumento efficace per la maniera organizzata e trasparente con cui esplicita il giudizio interpretativo del ricercatore: tale giudizio può essere messo alla prova,

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ed eventualmente rivisto, allorché la mappa si traduce nell’applicazione di tecniche d’indagine. Passiamo al versante del metodo ispirato alla riflessione e alla pratica psicoanalitica. Desideriamo enfatizzare tre specifici contributi. 1) La critica del concetto di “dipendenza” nei rapporti con persone vulnerabili. Nella dinamica della costituzione della personalità, la nozione di “dipendenza” – sulla base della quale, tradizionalmente, si nega l’agency del disabile e del minore – viene, in psicoanalisi, sostituita con quella di “attaccamento” (Bowlby 1969-7380). Mentre la dipendenza evoca un legame passivo con la madre e con l’ambiente, nella prospettiva dell’attaccamento il soggetto stabilisce con la madre, quale prototipo di tutti gli ulteriori legami, uno scambio attivo che è, assieme, corporeo, cognitivo e affettivo. Non va, pertanto, inibita la capacità del bambino di chiedere l’aiuto degli altri e di considerare essenziale la loro presenza. Spingere il bambino (e/o il disabile) a forme di pseudo-autonomia che lo stacchino dalle dinamiche formative dell’attaccamento e lo spingano a contare solo su sé stesso, equivale a isolarlo dal contesto sociale (Bettelheim 1967). 2) L’allestimento di un setting in cui l’analista possa giocare la propria esperienza con la persona vulnerabile. Nella terapia analitica, il setting è una situazione protetta e controllata in cui un soggetto si abbandona ai tormenti della nevrosi. In esso una regola fondamentale è che il soggetto deve comunicare all’analista, senza filtrarlo criticamente, tutto ciò che gli viene in mente. Mentre tale regola vale per il flusso di coscienza dell’adulto, centrato sul linguaggio verbale, per il bambino (o, aggiungiamo noi, per la persona con disabilità) Melanie Klein suggerisce il ricorso alla tecnica del gioco spontaneo, realizzato nella stanza di consultazione. Le azioni del bambino vengono assimilate alle libere associazioni dell’adulto e interpretate come simbolizzazione di contenuti dell’inconscio: mentre i processi mentali dei bambini e degli adulti sono i medesimi, cambiano le modalità espressive (Klein 1932). Donald Winnicott si spinge ancora oltre: poiché ogni processo comunicativo prevede dinamiche di coinvolgimento affettivo che rendono mobili i confini tra sé e l’altro, egli considera «il rapporto psicoterapeutico come una esperienza di gioco condiviso dove i bambini manipolano delle cose, gli adulti combinano delle parole. L’analista non assiste dal di fuori interpretando ma si immerge nel gioco. Un esempio di questo convergere su di una espressione comune è dato dalla tecnica dello scarabocchio (squiggle game) dove terapeuta e bambino intervengono a turno, come credono, sullo stesso disegno. [Nella compenetrazione delle esperienze emerge] quella zona intermedia, dove i confini psichici precostituiti si fondono […]. Denominata “spazio transazionale”, accoglie i processi che infrangono le barriere tra il dentro e il fuori, tra il me e il non-me» (Vegetti Finzi 1986, 342). 3) Il doppio livello interpretativo, per attenuare

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l’arbitrio del singolo analista. Il significato dell’interpretazione viene costruito nel corso del lavoro analitico, non gli preesiste. Per ridurre la presenza ineliminabile di aspetti arbitrari, occorre individuare parametri che assicurino al terapeuta di procedere correttamente. Uno di essi, che qui ci interessa richiamare, è il doppio sguardo: in contesti analitici particolarmente difficili, come la terapia familiare o di gruppo, il terapeuta si appoggia sul controllo, esterno al setting, di un altro terapeuta; il combaciare, o meno, della doppia interpretazione diventa un modo per verificarne la pertinenza. Questi tre contributi permettono, presi assieme, di porre ciò che chiamiamo un metodo interpretativo del doppio livello: attaccamento/distacco; gioco spontaneo/gioco condiviso; sguardo interno/sguardo esterno. Il ricercatore entra nel campo esperienziale del disabile e/o del bambino per sperimentarne le dinamiche di attaccamento e di distacco; lo fa sia mediante giochi spontanei, sia con giochi che lo chiamano in causa; infine, lo fa sempre sotto lo sguardo esterno di un altro ricercatore. Giungiamo al terzo snodo della nostra argomentazione: le tecniche quali-quantitative da impiegare nell’indagine di campo sul well-being delle persone vulnerabili. Qui non discutiamo quali tecniche privilegiare, rimandando a nostri precedenti lavori (per tutti: Biggeri e Anich, 2009). Rimarchiamo piuttosto che il mix di tecniche selezionate emerge – deve emergere – sulla scorta dei criteri posti dal metodo delle titolarità e delle E-capability, nonché dal metodo interpretativo del doppio livello. Una tecnica che non si renda utile rispetto alla mappatura e alla scala di valutazione offerte dal primo metodo, oppure rispetto alle dinamiche fornite dal setting del secondo metodo, va scartata. Poi, ovviamente, vale la direzione inversa: se una tecnica così scelta funziona male, essa costringe a ridiscutere i metodi. Nell’un caso come nell’altro, abbiamo un circuito virtuoso che controlla l’indagine e la migliora. Rimane un ultimo passaggio, riguardante l’applicazione delle tecniche che sono state selezionate. Come mostra la Figura 8, i ricercatori possono procedere lungo quattro direttrici tra loro complementari: I) creare setting d’indagine paralleli, testando più volte le stesse tecniche con gli stessi soggetti; II) replicare i medesimi setting a breve distanza di tempo; III) immergersi in situazioni transizionali (alla Winnicott) in cui intervistatore e intervistato sperimentano assieme; IV) creare setting con figure-ponte, ossia con persone che possono dare (parzialmente, tendenziosamente ma significativamente) voce ai senza voce43. 43

Ci ripromettiamo di dedicare alle figure-ponte una discussione in una prossima occasione.

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In breve, l’intero ragionamento è così sintetizzabile: sorretti da un metodo che rimanda a precise premesse teoriche (del capability approach e di alcune varianti della psicoanalisi), gettiamo un “doppio sguardo” (interno/esterno) più volte, in tempi differenti, in giochi sia osservati che partecipati, anche con persone con elevati nessi di prossimità. La nostra scommessa euristica è che questo intero protocollo manifesti requisiti di “robustezza”. !;+5+>9;;9+ =?=5;@8?=A 9+ >9;;9+%:B@6@C?;?=D

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Figura 8 - Come rendere più robusta l’indagine applicata del well-being di una persona con disabilità o di un minore.

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Veca S. (2002), La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull’idea di giustizia, Feltrinelli, Milano. Vegetti Finzi S. (1986), Storia della psicoanalisi, Mondadori, Milano, 1990. Welch S. P. (2002), “Applying the capabilities approach in examining disability, poverty, and gender”. Welch S. P. (2007), “Applications of a capability approach to disability and the international classification of functioning, disability and health (ICF) in social work practice”, Journal of social work in disability & rehabilitation, 6(1-2): 217-232. WHO/OSM (2001), “International Classification of functioning, disability and health”, Ginevra, World Health OrganizationICF. Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute, Edizioni Erickson, Spini di Gardolo (TN), 2002. Wright G. H. von (1980), Libertà e determinazione, Pratiche editrice, Parma, 1984.

Capitolo terzo Dalle capability esterne alle capability collettive di Nicolò Bellanca e Mario Biggeri 1

1. Introduzione: Kitty e Sandra Nel 1963 «Kitty Genovese, tornando a casa dal lavoro, venne assalita mentre percorreva la breve distanza tra la sua automobile e l’edificio in cui viveva, nel quartiere di Queens a New York. Erano le prime ore del mattino. Il suo aggressore la pugnalò, ma fuggì quando le grida della donna provocarono una reazione da parte dei vicini. Alcuni accesero le luci di casa e sembra che qualcuno abbia gridato da una finestra, ma questo fu tutto o quasi. Tornata la calma, l’assalitore riprese la sua aggressione. Di nuovo la vittima, troppo debole per allontanarsi, implorò aiuto, e di nuovo l’aggressore si spaventò e scappò. L’aiuto però non venne. L’aggressore ritornò, e questa volta uccise la donna. Quasi quaranta vicini di Kitty si erano resi ben conto della gravità dell’aggressione, che durò oltre mezz’ora. Eppure non una sola persona si incaricò di chiamare la polizia se non dopo che la donna era già morta» (Moghaddam 1998, 210). «I commentatori, scandalizzati, fecero notare che sarebbe bastato che solo uno dei trentotto testimoni chiamasse la polizia. Ma è proprio questo il problema. Chiamare la polizia sarebbe costato qualcosa al singolo individuo, che poi avrebbe dovuto testimoniare esponendosi alla vendetta dei complici dell’assassino. Ognuna delle trentotto persone forse sarebbe stata disposta a sopportare questo costo per salvare la vita di Kitty, ma preferiva che fosse qualcun altro a chiamare la polizia. Così nessuno fece nulla. Se ci fosse stato un solo testimone, e se avesse saputo di essere il solo testimone, molto probabilmente sarebbe intervenuto» (Easterly 2006, 276-277). La vicenda di Kitty non differisce molto da quella di una persona con disabilità grave, che chiamiamo Sandra. Anche Sandra ha bisogno di aiuto. Anche per lei è in palio, oltreché il benessere, la sopravvivenza. Anche San1

La stesura è frutto di una elaborazione comune dei due autori. È attribuibile, nella sua stesura, ai due autori per i §§ 1, 4, 6 e 7; a Bellanca per i §§ 2, 3 e 5.

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dra sta sotto lo sguardo di tanti osservatori. E anche per lei, più il gruppo è ampio e anonimo, più facile è l’eventualità per la quale ciascuno attende che qualcun altro si assuma la responsabilità e l’onere del “prendersi cura” (care). Siamo alle prese con il cosiddetto dilemma del cooperatore o del bene pubblico2 (Lichbach 1996). Esso riconosce che, entro un gruppo, la cooperazione universale sarebbe razionalmente preferita da ognuno alla non-cooperazione universale (tutti stiamo meglio se l’assassino è arrestato o se Sandra viene assistita); nondimeno, indipendentemente dal numero degli altri giocatori che cooperano, ogni giocatore guadagna di più se evita di cooperare (ciascuno risparmia le seccature e i pericoli dell’avvisare la polizia, oppure l’impegno costante e assorbente della cura di Sandra); inoltre, il guadagno che si riceve non cooperando è tanto maggiore quanto più ampio è il numero di altri che cooperano (se tanti si muovono contro i criminali, la mia sicurezza aumenta sempre più; se tanti assistono le persone come Sandra, posso vivere come se i disabili non esistessero). In breve, il dilemma afferma che nessuno partecipa ad un’azione collettiva a cui ciascuno avrebbe interesse che tutti partecipassero; ma se nessun membro del gruppo è portato a cooperare, allora il gruppo in quanto tale non fa nulla per promuovere lo scopo che tutti i suoi membri condividono. In altre parole, in questo capitolo ci chiediamo e cerchiamo di sciogliere un quesito a nostro avviso centrale negli studi sulla disabilità: cosa possa spingere una collettività umana a cooperare, non per finanziare/fornire un bene pubblico, bensì per finanziare e offrire una “relazione di cura” (care) privata a persone con disabilità estremamente gravi, le quali non sono in grado di garantire “reciprocità” in termini di partecipazione attiva alla vita sociale o economica. Questo esercizio teorico passa necessariamente attraverso concetti ancora poco impiegati nell’approccio delle capability e in un’ottica dinamica potenzialmente interagenti: le E-capability o capability esterne e le capability collettive. 2 Mentre il “bene privato” gode di una perfetta divisibilità delle unità di output da consumare, per il “bene pubblico” l’indivisibilità si presenta possibile e desiderabile: è possibile, in quanto appare difficile o costoso escludere qualcuno dal godimento dei benefici del bene; ed è desiderabile, in quanto la fruizione del bene da parte di un soggetto nulla sottrae alla fruizione da parte degli altri. Si pensi, per ricorrere ad un esempio scolastico, all’illuminazione stradale fornita dai lampioni del Comune. Una volta attivato un lampione, tutti coloro che transitano in quella strada possono usufruirne: come potrebbe il gestore dell’illuminazione stradale ottenere un pagamento da ogni pedone che passa? Dovrebbe ricorrere a mezzi di natura extramercantile: ad esempio, dotarsi di vigili con i quali intercettare ciascun cittadino per riscuotere il pedaggio. Inoltre il consumo di un soggetto non altera la possibilità di consumo di un altro: se dieci pedoni fruiscono dell’illuminazione, ciò non riduce il beneficio che un undicesimo passante può ottenere dal lampione.

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2. La relazione di cura poggia sulla human obligation? In questa ottica i casi di Kitty e Sandra, pur entrambi drammatici, presentano una cruciale differenza economica. Kitty muore perché nel quartiere Queens manca la sicurezza, che qualsiasi cittadino riconosce e reclama (se può, senza pagarla) come un bene pubblico. Sandra invece muore perché manca chi si prenda cura di lei, ma l’assistenza alle persone con disabilità gravi – quelle che non si muovono da sole, o che non ragionano, o che non stanno “disciplinate”: quelle che chiamiamo i “Momo”3 – non è concepita da molti, specialmente in alcune società, come un bene pubblico da incrementare; casomai, come un “male pubblico” da minimizzare. Quelli come Sandra non saranno mai “cittadini attivi”, né tantomeno “lavoratori produttivi”: non riusciranno quindi a far fruttare l’investimento collettivo che li riguarda. Sono soggetti che provocano una “perdita secca”, che, in alcuni luoghi e tempi della storia umana, venivano, com’è noto, soppressi in fasce. Sono altresì soggetti scomodi: il loro disagio può spesso diventare il nostro disagio; la loro vulnerabilità ci ricorda la nostra. Il malato terminale o il vecchio non autosufficiente possono più agevolmente essere relegati in posti separati, perché tutti sanno che moriranno presto. Piuttosto Sandra può vivere decenni, diventando donna matura e poi donna anziana, con difficoltà che molto probabilmente non diminuiranno nel tempo. Quando Kitty muore per l’inadempienza di parecchi testimoni, i cittadini s’interrogano su come avrebbero agito se fossero stati sulla scena del delitto perché s’immedesimano nella sorte della ragazza. Quando Sandra muore per l’inadempienza di tutti, pochi si domandano quali risposte si sarebbero potute e dovute dare, perché pochi accettano d’immedesimarsi nella sorte della ragazza. Ma non basta. Come abbiamo ricordato, di solito l’azione collettiva affiora più facilmente entro gruppi piccoli. Il caso di Sandra rappresenta una tra le eccezioni. Per rendercene conto, iniziamo dal caso standard. Immaginiamo un bene pubblico e dieci potenziali contribuenti. Ciascuna unità del bene fornisce 10 euro di benefici sia a chi la finanzia, sia, dato il requisito d’indivisibilità del bene, a quelli che non la finanziano. Se ogni unità del bene richiede 15 euro di contributo, il guadagno netto della partecipazione di un solo soggetto è –5 (10–15) euro, mentre il guadagno netto dell’astensione degli altri nove soggetti è pari a 10 euro per ciascuno. Indipendentemente da quanti soggetti contribuiscono, chi si astiene rispar3

È opportuno sottolineare che nel romanzo omonimo di Michael Ende, da cui il nome è preso in prestito, Momo è una “diversa”, perché percepita dalla popolazione circostante come una “strana bambina”.

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mia 5 euro e quindi s’avvantaggia. Se tutti i dieci soggetti sono nella stessa situazione, a nessuno conviene contribuire, il bene pubblico non viene prodotto e il benessere collettivo non migliora. Se invece tutti partecipassero al finanziamento, ognuno guadagnerebbe 85 euro derivanti dai 100 euro di benefici espressi dalle dieci unità di bene pubblico, meno i 15 euro del proprio versamento. La razionalità collettiva suggerisce a tutti di collaborare, mentre la razionalità individuale valuta più economica la defezione. In questo primo scenario il bene pubblico è finanziato e prodotto unità per unità; tante più unità vengono fornite, tanto sarà maggiore il guadagno per gli utenti (che paghino e, ancor più, se evitano di pagare). Passiamo ad un secondo scenario. Stavolta il bene pubblico esiste in una sola unità e quella unità genera un livello individuale fisso di benessere, indipendentemente da quanti membri compongono il gruppo degli utenti e da quanti contribuiscono a finanziare il bene. Consideriamo ad esempio il caso fittizio di un’invasione aliena volta a distruggere gli abitanti della Terra. Non importa se il pianeta ha mille o mille milioni di persone: costoro sanno che la posta in palio non cambia – è la vita di ciascuno – e che dovranno sconfiggere gli alieni alleandosi. La differenza di fondo tra i due scenari può essere espressa così: «La dimensione del gruppo non è importante nel caso in cui il passaggio da pochi a molti individui non comporta un cambiamento degli incentivi» (Bicchieri 1993, 250).4 La “relazione di cura” verso i soggetti non reciprocanti come Sandra va, a nostro avviso, interpretata come un bene pubblico di questo tipo. Infatti, in primo luogo, la posta in palio è unica e invariante: i “Momo” vanno salvati/assistiti e, per farlo, occorre un quantum prestabilito per ciascuno (che cambia in ogni società, 4 Ciò, peraltro, vale in astratto, ossia sorvolando sui costi di transizione organizzativi. Immaginiamo che, davanti alla minaccia aliena, la Terra sia organizzata in due sole nazioni tra loro nemiche. Entrambe sanno che sconfiggeranno gli alieni alleandosi, mentre soccomberanno affrontandoli separatamente. È facile ritenere che una risposta coordinata non sarà difficile da raggiungere. Immaginiamo invece, in una diversa situazione, che le nazioni terrestri siano duecento. Non cambia per ognuna di loro la posta in palio: la vita dei suoi abitanti. Ognuna vuole quindi impegnarsi. Ma perfino la tragedia incombente non può eliminare gli ostacoli al coordinamento: tanti soggetti debbono accettare regole comuni, rinunciando a diffidenze, resistenze e tentazioni di patteggiamento. Ciò può avvenire, ma richiede tempo; e il ritardo potrebbe comportare la sconfitta di tutti. Se aggiungiamo allo scenario difficoltà ulteriori del tutto generali, quali un’informazione incompleta che rende imprecisi i termini della risposta adeguata all’attacco alieno, o un’incertezza rispetto alle effettive intenzioni del nemico, aumenta la probabilità che alcune nazioni adottino un atteggiamento di aspetta-eguarda, mentre altre cerchino un accordo separato con gli invasori. Se infine la tecnologia di offerta del bene pubblico indica che l’alleanza minima in grado di vincere è composta, poniamo, dalle sole nazioni più ricche, tutte le altre possono essere indotte a defezionare, favorendo così la penetrazione e la vittoria dei nemici (Sandler 1997, XIV-XV).

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ma che, qui ed ora, è un dato). In secondo luogo, il numero dei “Momo” è, in un dato momento, noto; quindi basta moltiplicare per esso il quantum deliberato per ciascuno. L’analogia con il caso dell’invasione aliena appare assai pertinente. Gli alieni, come i “Momo”, sono un problema da rimuovere. Non è un problema graduabile o suddivisibile: o gli alieni vengono respinti – o i “Momo” vengono assistiti nei loro spazi recintati –, oppure la società degli “uomini normali” non potrà riprodursi. D’altro canto, anche i benefici della risposta non sono graduabili: se gli alieni/“Momo” sono cacciati/assistiti, allora il vantaggio per ciascun abitante è pari al 100 per cento, mai ad una qualche frazione. Ciò vale prescindendo dal numero degli abitanti: quindi stavolta il formarsi della cooperazione non risulta più agevole per un gruppo piccolo, poiché la posta in palio rimane pari all’unità all’aumentare della dimensione del gruppo. Insomma, di fronte a tali serie difficoltà, come può un gruppo che si ritiene “umano” cooperare con/per i “Momo”? È questo, come detto, il quesito teorico che affrontiamo in questo e nei successivi paragrafi. Fin dagli anni ’70, Amartya Sen si distacca dalla teoria delle preferenze auto-interessate (self-regarding), secondo le quali la mia scelta avviene nell’indifferenza così verso i risultati ottenuti da altri, come verso il processo che genera tali esiti. Egli pone al centro dell’analisi le preferenze sociali, le quali sono etero-interessate (other-regarding), nel senso che la mia valutazione di un’alternativa dipende da come quell’alternativa è valutata da altri, e sensibili al processo che si percorre (process-regarding), nel senso che la mia valutazione di un’alternativa è condizionale al modo in cui si verifica. Peraltro, questa mossa critica gli appare insufficiente, poiché le preferenze sociali, prese da sole, non richiedono un allontanamento dal principio della massimizzazione del benessere individuale: quando scelgo, posso aggiungere, tra gli argomenti della mia consueta funzione di utilità, «la simpatia [che] si riferisce ad una situazione in cui il benessere di una persona viene influenzato dalla posizione degli altri (per esempio, cado in depressione alla vista della miseria)» (Sen 1982, 61). Se effettuo un’azione onerosa motivata dalla simpatia, traggo l’utilità personale anche dal benessere altrui e quindi esercito una forma più sofisticata di selfishness. Piuttosto, per Sen è solamente con il concetto di obbligazione che viene spezzato lo «stretto legame fra benessere individuale (con o senza simpatia) e scelta dell’azione (per esempio agisco per aiutare a rimuovere la miseria anche se, personalmente, non ne sono colpito)» (ibid.). L’obbligazione – a cui sono impegnato da una norma morale, cioè da una prescrizione che regola le mie azioni sociali – è un autentico comportamento altruistico: sostengo un costo per procurare un beneficio a qualcun altro.

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L’atteggiamento verso le persone con le disabilità più gravi può venire interpretato sulla scorta della coppia appena richiamata di categorie. Nessun homo oeconomicus è direttamente interessato a migliorare la condizione dei “Momo”, poiché essi non sono in grado di fornirgli beni o servizi che convertano il suo intervento in uno scambio vantaggioso. Può tuttavia accadere che alcuni membri della collettività si sentano peggio davanti a persone vulnerabili abbandonate: costoro opereranno, in termini di simpatia, per evitare il ridursi della propria utilità. E può altresì succedere che alcuni nutrano l’imperativo etico secondo cui i più deboli vanno aiutati: costoro agiranno in nome dell’human obligation (si veda anche Nussbaum 2006). Il denominatore comune ad entrambe le risposte sta nell’idea – dal significato inequivocabile, pur se spesso espressa con un linguaggio edulcorato e “politicamente corretto” – che il disabile va assistito perché non tolleriamo (chi per simpatia, chi per i valori in cui crede) che qualcuno affoghi solo perché non sa o non può nuotare. La persona con disabilità grave costituisce insomma un “problema sociale”, da affrontare con benevolenza filantropico-caritativa, tanto per colui che si sente a disagio, quanto per colui che si sente in dovere. La posizione di Sen può essere riformulata in termini positivi, declinando la disabilità come una opportunità sociale5. Don Lorenzo Milani annota: «Oggi arriva la salvezza nella nostra parrocchia, una famiglia con sei bambini, tutti handicappati». E Madre Teresa di Calcutta, parlando di malati terminali contagiosi, aggiunge: «Non chiamateli problemi, bensì doni». Al riguardo Luigino Bruni evoca il concetto di carisma, quale sguardo nuovo col quale la ferita dell’altro viene vista come risorsa. «Luisa de Marillac, Francesco di Sales, Giovanna di Chantal, e poi Don Bosco, Giovanni Battista Scalabrini, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Don Calabria, Francesca Cabrini, Don Milani ricevettero occhi per vedere nei poveri, nei derelitti, nei ragazzi di strada, negli immigrati, nei malati, persino nei deformati [sic], qualcosa di grande e di bello per cui valse la pena di spendere la loro vita e quella delle centinaia di migliaia di persone che li seguirono, attratti e ispirati da quei carismi. […] Il carismatico innova, vede bisogni insoddisfatti, individua nuovi poveri, apre nuove strade alla solidarietà, spinge più avanti la frontiera dell’umano e della civiltà. Poi arriva l’istituzione (lo Stato, per esempio), che imita l’innovatore, fa sua l’innovazione, e la fa diventare normale, istituzionalizzandola» (Bruni 2007, 181 e 185, parentesi quadre e corsivo aggiunti). Il carismatico civile costruisce nuove comunità, analogamente a come il carismatico imprenditore schumpeteriano costruisce nuove 5

Queste riflessioni rientreranno in parte nel concetto di agency, da Sen allargato rispetto alle definizioni standard.

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imprese. Quando egli fronteggia i casi più ostici – assistendo i disabili più gravi, i vecchi non autosufficienti o i malati terminali –, sembra poterlo fare solamente per ragioni altruistiche, ovvero appunto invocando, con Sen, qualche human obligation. E tuttavia a noi appare insoddisfacente giustificare la “relazione di cura” (intesa come care) verso i più vulnerabili solo in termini di altruismo. Infatti, come abbiamo ricordato nel Capitolo secondo, la ridotta rilevanza dei comportamenti altruistici risiede nel loro carattere incondizionale, mentre l’intera evidenza empirica, traibile (tra l’altro) dall’economia sperimentale, mostra una sostanziale proporzione di comportamenti condizionali, che cioè tengono in considerazione le mosse degli altri giocatori o le aspettative su di esse. Il tema teorico che intendiamo porre – e che è cruciale proprio nell’analisi delle persone con disabilità gravi – riguarda la possibilità di eliminare del tutto la categoria di “altruismo”. La tassonomia della Figura 1 individua il connotato peculiare che l’altruismo richiede: per beneficare altri, esso comporta un onere per sé stessi. Iniziamo considerando una situazione denominabile di weak altruism (richiamato in figura con mutualismo): in essa l’individuo focale agisce così da ridurre il proprio fitness (o capacità di adattamento) rispetto a quello degli altri membri del suo gruppo, ma procurando anche un beneficio a ciascuno nel gruppo, incluso sé stesso.6

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