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Italian Pages 166 [90] Year 2005
e 2005, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2005
Giovanni Jervis
CONTRO IL RELATIVISMO
OEditori Llterza
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
It is therefore worth while to search out the bonds between opinion and knowledge
Finito di stampare nell'aprile 2005 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-7640-3 ISBN 88-420-7640-6
John Locke
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio Gilberto Corbellini, Guido Crainz, Carlo Ginzburg, Mario Miegge, Michele Salvati, Antonio Semerari, che hanno letto il manoscritto nella versione non definitiva segnalandomi varie carenze e dandomi una serie di indicazioni preziose.
CONTRO IL RELATIVISMO
Capitolo 1 I DENTI DELLA SIGNORA ARISTOTELE, ERNESTO DE MARTINO E L'APPARIZIONE DI UN SANTO
Vari decenni or sono Bertrand Russell si divertì a scrivere un breve testo polemico: non pretendeva di essere alta filosofia ma era spiritoso e sensato. Si chiamava qualcosa come Piccola rassegna di spazzatura intellettuale, ossia, nell'originale, An outline of intellectual rubbishl . Pubblicandolo, sapeva di esporsi di fronte ai suoi nemici: infatti sosteneva — nientemeno! — che la spazzatura intellettuale esiste. Forse poteva permetterselo perché era Bertrand Russell: ma già a quell'epoca occorreva un certo coraggio. Per alcuni anni gli studenti furono particolarmente divertiti da uno degli esempi di quel testo: Aristotele diceva Russell — sosteneva che le donne hanno meno denti degli uomini. Così, parlando con i suoi allievi Russell amava aggiungere che il filosofo greco avrebbe fatto meglio a chiedere, gentilmente, alla sua signora di venire a sedersi per un momento vicino alla sua scrivania con la bocca spalancata. Qui l'intelligenza è nascosta sotto la frivolezza: ovviamente il bersaglio non è la filosofia antica. Invece, la critica si rivolge a chiunque non voglia capire che il modo più semplice per evitare di dire sciocchezze — e soprattutto di ripeterne — consiste nel 3
provare, almeno qualche volta, a fare verifiche in proprio. Peraltro, bisogna ammetterlo, verificare talora è difficile, perché in certi casi può non bastare la comune diffidenza dell'uomo della strada: non si apprendono in un giorno né il metodo sperimentale né le valutazioni di probabilità. Altre volte, invece, l'andare a controllare risulta abbastanza facile e quella che manca è la voglia. O meglio, manca la disposizione culturale e mentale: Bertrand Russell lo sapeva, e a questo miravano le sue frecciate. Oggi, poi, in molti casi non è neanche necessario muoversi da casa perché montagne di dati utili per sconfiggere le leggende metropolitane sono a portata di Google, ossia di pochi click del mouse: però, viene da chiedersi, persino fra gli studenti universitari quanti lo sanno? Quanti ne fanno tesoro? Se devo dar retta alla mia esperienza di docente, non moltissimi; ed è un peccato perché questo tipo di pigrizia segna — probabilmente — un regresso. Negli anni precedenti il 1968-69, e cioè prima che la loro intelligenza cominciasse a essere fiaccata dai diplomi facili e dall'università di massa, gli studenti italiani che avevano voglia di andare a contare i denti di Aristotele e della sua signora erano — io credo — abbastanza numerosi. Così almeno mi pare di ricordare: ma su cose del genere è facile sbagliarsi, e ancora più facile è cedere alla tentazione di lodare i tempi andati. Però il periodo che precedette l'esplodere, in Italia, del benessere economico (e poi delle rivolte studentesche) fu epoca di interessanti fermenti culturali, segnata dagli ultimi residui delle speranze dell'antifascismo e da una certa fiducia in sé del pensiero laico. Personalmente ci ripenso con 4
gratitudine. È nel ricordo di quell'epoca che vorrei iniziare il mio libro. Negli ultimi mesi del 1958 incontrai l'etnologo e storico delle religioni Ernesto De Martino, che cercava uno psichiatra con cui andare in Puglia a studiare i tarantolati. Avendo letto un paio dei suoi scritti ne discussi con lui, e decise di prendermi con sé. Se ne parlo qui, è solo perché negli anni in cui lavorai con De Martino il problema dei denti di Aristotele (che è poi il problema generale delle verifiche) mi si ripresentò a un livello di complessità enormemente maggiore, a cui vorrei introdurre il lettore. Prima, però, devo spiegare il senso dell'insegnamento di De Martino, perché ha a che fare col tema di questo libro. Il suo merito principale, di cui gli fui subito grato, fu di cercare un equilibrio fra due esigenze ugualmente valide, ma contrastanti. La prima esigenza lo portava a un atteggiamento di rispetto se non di simpatia verso i miti e le ritualità, e in particolare verso quel mondo magico-religioso che in tutte le terre del nostro pianeta edifica valori culturali e conferisce significato al vivere. Questo era il suo mestiere, ed era anche la sua passione. L'esigenza opposta lo radicava nella cultura scettica, laica e razionalista dell'Occidente. Su un piano più personale, poi, la divisione era altrettanto presente: da un lato egli era affascinato dall'irrazionale (era anche un po' superstizioso, e incline a credere in una qualche efficacia dei poteri magici), mentre dal lato opposto era un consapevole illuminista. Se dunque per certi versi avvertiva un senso di sincera partecipazione verso i tentativi di arricchire la realtà con una qualche forma di mistero e di trascendenza, per
altri versi non dimenticava mai di definirsi, quale era di fatto, fermamente ateo. De Martino era un meridionalista e un socialista, credeva nell'emancipazione delle masse, e riteneva di doversi battere per il superamento della subordinazione, anche psicologica, dei miserabili e degli oppressi di tutti i paesi. Eppure, al tempo stesso, era consapevole del fatto che nel corso della graduale sparizione delle culture preletterate sotto la marcia trionfante della plastica e della Coca-Cola qualcosa di prezioso sarebbe andato perduto. Chi gli fu vicino non poté che restare affascinato dalla sua capacità di cercare chiarezza fuori dagli schemi. Negli ultimi anni della sua vita si distaccò dall'idealismo del periodo giovanile, quando aveva subito l'influenza di Benedetto Croce; ammirava Marcel Mauss, alle cui idee doveva molte delle proprie, e Antonio Gramsci, mentre diffidava di Mircea Eliade (al quale però nelle discussioni si riferiva spesso) e dichiarava scarsa simpatia nei confronti di Nietzsche, di Heidegger e dei loro nipotini ideologici. In più, era un uomo simpatico e spesso divertente. A quell'epoca De Martino era meno noto di oggi e non sempre apprezzato in ambito accademico. I motivi per cui a quarant'anni dalla morte il suo nome è più spesso ricordato sono, peraltro, complessi. Probabilmente, le idee di De Martino ci aiutano a non perdere l'orientamento negli incontri fra i popoli, in primo luogo per merito del suo concetto di «etnocentrismo critico». Qualsiasi studioso, egli diceva, se incontra culture lontane non dovrebbe illudersi di poter rinunziare alla propria collocazione storica e culturale: salvo, peraltro, essere capace di esercitare un distanziamento critico anche nei confronti della propria cultura. In pratica, De Martino
teneva ben fermi due principi strettamente legati fra loro: «sapere qual è la propria collocazione» e «saper fare — anche tecnicamente — la propria parte», quindi non illudendosi di fare la parte degli altri. Egli non credeva in quella «negazione del ruolo» che di lì a pochi anni sarebbe stata uno degli slogan preferiti dagli studenti. Per analoghi motivi, è probabile che non avrebbe approvato neppure il relativismo multiculturalistico che alcuni difendono come fosse la linea «politicamente corretta» nei confronti delle culture non-europee. A riprova di questo, fra le citazioni possibili si può richiamare un brano dalle sue note preparatorie al libro sulle apocalissi culturali: Non si può porre la propria civiltà accanto alle altre, e tutte considerarle come prospettive alla pari ... Non si vince così il 'provincialismo' culturale: si deve dialogare col mondo, ma la propria parte bisogna conoscerla bene, altrimenti si rischia di cadere in un enorme pettegolezzo, in un chiacchierare ambiguo e sciocco, in un camaleontismo che simula l'apertura e la varietà di interessi, ma che è soltanto la maschera di una abdicazione senza limiti2. Allorché studiammo, nell'estate del 1959, il tarantismo pugliese, ci si presentarono alcuni problemi di interpretazione. Si può ricordare qui che il tarantismo, o tarantolismo, è una tradizione magico-religiosa molto antica, che consiste essenzialmente in un rito di possessione. Una persona è indicata come tarantata quando soffre di un disagio che non si sa spiegare; si decide così che è stata morsa da un ragno, e che la cura deve consistere nel farle ascoltare delle musiche ritmate, appunto le tarantelle. La riprova del fatto che si tratta di «avvelenamento da ragno» (e al tempo stesso, alquanto ambiguamente, di «possessione da ragno») consiste nel7
l'effetto della musica, perché la persona pare cadere in trance e inizia a danzare. In piedi al centro di uno spazio, con indosso una veste bianca, lo sguardo nel vuoto, vibra e si scuote, assecondando come può la musica, così come danza e vibra il ragno sulla sua tela. Dopo molte ore cade spossata, ma il rito può ripetersi per vari giorni di seguito, e si suppone che solo in questa maniera «sfoghi» la possessione, o sfoghi ciò che è una sorta di influenzamento, ovvero (e senza una distinzione netta) elimini col sudore il veleno. In una parte dei casi si può presumere che il contadino o la contadina fossero stati morsi da un ragno reale: difficilmente dalla tarantola, o ragno-lupo, impressionante e poco velenoso, ma piuttosto dalla piccola malmignatta, ossia il Latrodectus tredecim-guttatus, abbastanza comune in quella zona come in varie altre regioni d'Italia e portatore di un veleno neurotossico che può dare disturbi della durata di vari giorni. Peraltro De Martino era consapevole del fatto che questa ipotesi zoo-tossicologica non cambiava in modo sostanziale il carattere culturale del fenomeno. Quando andammo in Puglia, e più precisamente nell'altopiano salentino, la tradizione rituale del tarantismo stava rapidamente scomparendo. Eppure ci accadde ancora di vederne alcuni casi nei paesi, con tre o quattro suonatori chiamati per la bisogna, e la tarantata che danzava da sola per ore e ore in cucina al ritmo un po' ossessionante delle tarantelle ripetute centinaia di volte, o più tipicamente nel cortile di casa, in mezzo a una piccola cerchia dí parenti e vicini. Il fenomeno era poco noto persino fra le popolazioni della zona. Ai suoi margini, quella tradizione era stata poi parzialmente cristianizzata, indebolita e resa pubblica, per cui ogni anno in occasione della mietitura alcune persone, presun-
te tarantate, si prostravano agitandosi in modo teatrale sotto l'altare della chiesa principale di Galatina, ovviamente senza musica né suonatori: e qui però la manifestazione devozionale presentava un interesse relativamente scarso e somigliava a quanto tuttora accade in non pochi santuari del nostro Meridione3. Gli aspetti da capire erano molti, ma c'era un quesito, per quanto un po' rozzo, che non poteva essere ignorato: funziona? Era suggestivo — forse troppo suggestivo — rispondere subito di sì. Veniva fatto di pensare, e seguendo precisamente le teorie di De Martino, che il tarantismo permettesse di rappresentare in maniera socialmente accettata il disagio, inserendolo in un ciclo di eventi ritualizzati. Il trattamento coreutico-musicale, in altre parole, appariva una prassi strutturante. La ripetizione rituale forniva ordine al disordine, senso a un piccolo settore di mistero fra quelli innumerevoli dell'esistenza, idee e immagini di catarsi al singolo e alla comunità; e pareva anche indicare un decorso, un arco di eventi risolutivi, una via prevista di uscita. Eravamo incoraggiati dal bisogno di capire, desiderosi di non mostrare false superiorità nei confronti di quei contadini schivi ma cordiali. Più ancora, eravamo empaticamente inclini a metterci, almeno per un momento, nei loro panni, disponibili a discutere i nostri pregiudizi, e forse persino sedotti dalla speranza di trovare, nel rito del tarantismo, qualche suggerimento che ci permettesse di cogliere aspetti segreti di problemi universali. Eravamo tentati dall'idea che nel tarantismo fosse nascosto un valore da riscoprire. In modo più larvato, poi, non ignoravamo l'ipotesi più spontanea e però, forse, più ingenua: cioè che il tarantismo, inteso come rito e come cura, fosse efficace.
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Di quest'ultima ipotesi si potevano poi dare due versioni, una più prudente e l'altra meno. In primo luogo se ne poteva dare una versione soft, cautamente limitativa, formulata come segue. La tradizione del tarantismo era efficace perché parte integrante di una cultura contadina dove erano ancora vitali radici pre-cristiane, una cultura ancora non toccata dalla civiltà delle macchine: però, come cura e come rito, non avrebbe avuto senso applicarla a chi apparteneva a una cultura laica e post-industriale. Oppure se ne poteva dare una versione hard, vagamente misticheggiante, e che oggi verrebbe chiamata New Age. Secondo quest'ultima versione, la cura consistente nella musica e nella danza sarebbe stata efficace per chiunque: e dunque anche per noi, alienati abitanti delle grandi città, che avremmo dovuto mettere in discussione i riti moderni della psichiatria per scegliere un tipo di trattamento diverso e più istintivo. Forse con attività del genere, cioè con la danza e la trance e al suono delle antiche tarantelle, avremmo potuto vantaggiosamente far defluire le nostre inibizioni e sciogliere i nodi dei nostri problemi... (Devo dire però, a onore del buon senso di tutti, che né De Martino né alcuno dei suoi collaboratori prese mai sul serio quest'ultima ipotesi.) Certo non potevamo liquidare ciò che vedevamo come pura superstizione. Come si può intuire, la parola superstizione era tabù per De Martino e per chi lavorava con lui, così come la parola folklore; eppure ci rimaneva un dubbio sui meriti reali di quelle tradizioni salentine, un dubbio che si rifaceva alla vecchia idea di Marx sulle religioni come oppio dei popoli. Il tarantismo aveva probabilmente contribuito a mantenere gli equilibri sociali di quei luoghi, insieme ad altre fedi e ad altri riti: ma era lecito chiedersi se per caso imprigio-
nasse le persone in schemi estranei all'evolvere della storia e ostili all'ingresso di nuove idee. Ne discussi con De Martino. Egli però era assai più convinto di me che il tentativo di conferire un senso alla vita mediante il trascendimento magico-religioso arricchisse i gruppi etnici così come i singoli, rendendoli protagonisti di cultura ed elevandoli al di sopra di un'inconsapevole dipendenza da eventi naturali come le malattie. Io ammiravo la profondità e l'intelligenza del grande antropologo, imparavo e riflettevo. Ma non ero sempre convintissimo di tutte le sue idee. Non poteva darsi invece, insistevo, che gli abitanti del Salento, attraverso i secoli, non fossero stati per nulla aiutati dalla presenza del mito della taranta, e cioè non ne fossero stati incoraggiati né a curare in modo ragionevole il loro benessere fisico e psichico (o almeno, in un modo un po' più ragionevole), né a liberarsi dall'umiliazione dell'analfabetismo, né ad affrancarsi dal potere fino a ieri egemone dei feudatari e dei parroci delle campagne? Questo dubbio si riferiva a un semplice quesito clinico. Prendendo per ipotesi il caso di due contadine salentine della stessa età, dello stesso ambiente, ugualmente semi-analfabete, e ugualmente affette da disturbi nevrasteniformi di tipo ansioso, e supponendo che, come poteva accadere, una di esse venisse inserita per motivi del tutto casuali nella ritualità del tarantismo (per esempio, per l'influenza di una zia un po' fattucchiera) e l'altra no, ebbene, dopo alcuni anni quale delle due sarebbe stata meglio, quale più equilibrata, più attiva, più a proprio agio con le inevitabili contraddizioni della propria vita? Chiaramente, De Martino tendeva a pensare che il tarantismo avrebbe aiutato la prima mentre l'assenza di tarantismo avrebbe ostacolato la seconda; io invece, fresco di studi di psichiatria e gio-
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vanilmente incline alle semplificazioni del positivismo, propendevo per l'ipotesi opposta. A quell'epoca mi mancavano però gli strumenti per far valere la mia tesi. In seguito ci ho ripensato spesso. Fra il '57 e il '60 venivo invitato alla concretezza, e però forse anche alla sbrigatività, dall'esperienza che mi stavo facendo presso la clinica neuropsichiatrica dell'Università di Roma, dove approdavano non pochi casi di giovani — per lo più donne — con problemi di suggestionabilità e provenienti dalle campagne più povere del Meridione. Soggetti sofferenti di disturbi nevrasteniformi, e talora di disturbi depressivi, avevano inserito le loro ansie nelle razionalizzazioni magiche tradizionali (la spiegazione più comune era la fattura) ma, anziché sentirsi meglio e più tranquilli per quel loro modo di intendere il disagio, sembravano esser caduti prigionieri di preoccupazioni ossessionanti, strutturate in credenze sempre meno realistiche a mano a mano che passava il tempo, in qualche caso fino al delirio. Qualcosa di simile sembrava ripresentarsi nelle situazioni che studiammo con De Martino. Le tarantate del Salento ci apparivano prigioniere così del rito come del loro ruolo al centro di esso: e infatti pareva che non ne uscissero mai definitivamente. Periodicamente il disturbo si ripresentava, e quindi venivano chiamati i suonatori senza che apparentemente le cose migliorassero da un anno all'altro. Così, da parte nostra era legittimo concluderne che i rischi di cronicizzazione del disturbo — un disturbo intriso di vera e autentica sofferenza — venissero accentuati da quelle stesse provvidenze «terapeutiche» tradizionali che ormai facevano parte integrante del quadro clinico. O al contrario — mi chiedevo talora — quello che io chiamavo «quadro clinico» era solo un'etichetta, medi-
calizzante e forse ottusa, con la quale rifiutavo di cogliere il valore di ciò che avevo sotto gli occhi? E forse, dunque, io non ero in grado di capire il problema perché ormai avevo una tunnel vision, nel senso che gli studi di medicina e i libri di psichiatria mi avevano fornito paraocchi ideologici, ai quali mi ero talmente abituato da non avvertirne più la presenza? L'educazione scientifica aveva amputato sensibilità e immaginazione fino al punto di impedirmi quello sguardo poetico che sarebbe stato necessario nel contatto con í tarantolati? Affascinato dal contingente e dal materiale, ero divenuto incapace di vedere il perenne e lo spirituale? Cercai di non chiudermi al dubbio; mi interrogai sui limiti inerenti ai miei studi, ne parlai con altri e una volta anche con un apertissimo teologo. E però qui De Martino, col suo etnocentrismo critico, in un certo senso stava dalla mia parte: mi aiutava, cioè, a non eludere né la mia collocazione di medico, né i miei strumenti d'indagine. Beninteso, diffidente come egli era — e a ragione — nei confronti della prassi medica corrente, si limitava a incoraggiarmi ad apprezzare la qualità umana e la sofferenza di quel vivere, e anche a capire gli sforzi di trascendimento che si esprimevano nelle tradizioni contadine del Meridione; e mi prendeva un po' in giro perché — diceva — i miei antenati mi riportavano più verso la Valle d'Aosta che verso la Puglia. Tuttavia, pur smussando le mie ingenuità giovanili, non mi incoraggiava affatto a rinunziare al mio punto di vista. Erede come egli era della tradizione illuminista partenopea, in modo bonario e con battute dissacranti esortava chiunque gli stesse intorno a fare il proprio lavoro seriamente, magari discutendo e ridiscutendo ogni cosa, ma anche diffidando delle seduzioni dell'eclettismo e — so-
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Tuttavia in molte situazioni, e non solo a quell'epoca nia anche oggi, è difficile trovare l'atteggiamento mentale «giusto» su temi del genere, o almeno un modo di porsi che sia più equilibrato di altri. A guardar bene, questo tipo di difficoltà dovrebbe inquietare più sovente il corso dei nostri pensieri. L'esigenza di uno «sguardo giusto», infatti, ci viene riproposta continua-
mente leggendo i giornali e nelle vicende, anche poco rilevanti, della vita di tutti i giorni. Nella fase iniziale si tratta ancora di qualcosa di banale: il separare un evento dal resoconto di un evento. Se una contadina dell'Appennino ritorna agitatissima dal suo campo dicendo di essere stata assalita da una pantera, i giornali meno seri titolano «Contadina assalita da una pantera»; quelli più seri invece non nascondono ai lettori che il fatto è un altro, non che la contadina sia stata assalita della belva ma che essa riferisce di essere stata assalita. Altre volte il problema è meno innocente. Se, nei giorni in cui la stampa parla dell'eccessivo costo dei libri di testo, due studenti vengono fermati per spaccio di Ecstasy e affermano che avevano bisogno dei soldi per comprarsi i libri, il pubblicare titoli come «Spacciano droga per comprarsi i libri di testo» è un atto giornalistico che, nella sua irresponsabilità, ignora le più elementari considerazioni sull'interesse di quegli studenti ad adottare, per difendersi dall'accusa di spaccio, un atteggiamento vittimistico. Ora, il confondere i fatti con gli atteggiamenti sui fatti è caratteristico di chi partecipa a quelle ideologie relativistiche secondo le quali i fatti contano poco e gli atteggiamenti, invece, moltissimo. Di qui, un'altra considerazione. Come accade quando ci si pone nella logica del discorso scientifico, si rimane pur sempre all'interno di valutazioni di probabilità. Non era impossibile che la contadina fosse stata assalita dalla pantera: solo, era poco probabile e altre spiegazioni erano più verosimili. A questo proposito Bertrand Russell diceva che non si può dimostrare che non c'è, lassù negli spazi siderali, una teiera d'argento che percorre un'orbita intorno al sole: solo, lo si può ritenere molto poco probabile. Tre secoli fa, in Europa, mol-
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prattutto — tenendosi alla larga dalle scorciatoie dell'irrazionalismo. Anche per l'influsso dell'insegnamento demartiniano non credetti mai che fosse valida la proposta ideologica che si diffuse come un'epidemia fra i giovani negli anni Sessanta e Settanta, suggestiva ma terribilmente semplificatrice: la proposta, cioè, di rivalutare il magico e l'irrazionale per cancellare alla radice, in un solo gesto, sia l'ideale del progresso sociale sia il metodo della scienza. Mi aveva attratto invece, fin dai primi anni Sessanta, la lucidità di Italo Calvino, il quale prendeva le distanze dagli aspetti risucchianti di ciò che chiamava, un po' scherzosamente, «la dimensione mistico-limacciosa». E naturalmente per chiunque, anche per Calvino, la spontaneità dei sentimenti rimaneva qualcosa da non soffocare: ma, pur essendo necessaria nella vita interpersonale e ancor più in quella privata, quando fosse assolutizzata finiva per ostacolare qualsiasi indagine. In molti casi, come per il tarantismo, la posizione ideale dello studioso si trovava a dover conciliare, ancora una volta, il calore estemporaneo di una piena partecipazione affettiva con una più fredda e meno rapida riflessione critica. Questo principio si applicava del resto altrettanto bene al rapporto psicoterapico e psicoanalitico.
te migliaia di persone erano convinte che il tocco del re guarisse i bambini dalla scrofola, e non si può escludere che in qualche caso la guarigione accadesse davvero. Va aggiunto subito questo, però: se il bambino guariva, si può ritenere estremamente improbabile che fosse merito del re. E allora vale la pena di essere chiari. L'affermare «chissà, ma cosa ne sappiamo, forse i bambini toccati dal re poi guarivano!» è un atteggiamento assai comune ma vacuo, se non frivolo, ed è un omaggio all'ignoranza e alla pigrizia intellettuale. Non c'è nulla di verosimile ín quell'ipotesi. (Si può ricordare qui che la scrofola è una visibile e concreta infezione tubercolare — un tempo assai diffusa — e non un fatto isterico; e contrariamente a quanto amano credere le persone che sperano di guarire il cancro mediante la meditazione e le tisane, la verità è che la suggestione e i meccanismi psicosomatici hanno effetti assai limitati sul decorso delle malattie più gravi.) Altre volte, tuttavia, le nostre valutazioni si fanno più difficili. Di fronte alla testimonianza di un miracolo (il tale, ammalato di cancro, è andato a Lourdes e ne è tornato guarito), o ascoltando dalla sua viva voce la storia di una persona che ha assistito a un fatto soprannaturale (l'apparizione di un santo, poniamo, o della Madonna), la prima tentazione è di assumere un atteggiamento che unisce la meraviglia alla perplessità: ma anche al rispetto. Adottiamo senza fatica un modo di collocarci che tiene conto del naturale sentimento dell'insufficienza umana di fronte a qualsiasi cosa sembri inspiegabile. Entra in gioco, quasi automaticamente, una sorta di sospensione del giudizio, una vaga attesa non priva dí qualche speranza. Siamo quindi indotti a non approfondire l'indagine
rifugiandoci in stereotipi, per esempio ripetendo un mantra che sembra fatto apposta per sottometterci alle mitologie dell'inconoscibile: vi sono più cose in cielo e in terra di quanto comprenda la mente umana. (Qualcuno ha però sostenuto che è vero il contrario: la mente umana tende a immaginare più cose di quante ne esistano4.) E oltretutto, con quella nostra prudenza ci siamo collocati on the safe side agli occhi degli altri, siamo sulla riva più sicura: ci definiamo come persone riservate, modeste, attente, non presuntuose, non arroganti, aperte ai valori spirituali. Siamo in attesa e in ascolto. Ci asteniamo dal giudicare; ma forse anche da ogni tentativo di approfondire l'indagine. L'invito che oggi riceviamo pressantemente dai mezzi di comunicazione di massa, di rispettare le altre religioni e in particolare quelle non cristiane, sembra dare per scontata la presenza di un'insofferenza primaria, di un fastidio, di un'ostilità istintiva, verso le religioni altrui. Ma quest'ostilità verso le fedi degli altri esiste davvero? De Martino pensava di no, e credo che avesse ragione. Eppure, a un primo esame sembrerebbe di sì: guardando alla storia del mondo, la disponibilità al dialogo fra le persone di diversa fede non è mai stata spiccata. Esaminando un millennio di storia sia del Medio Oriente sia dell'Europa, non si può certo concluderne che le tre grandi religioni monoteiste abbiano contribuito alla convivenza fra i popoli. Anche volendo dimenticare le crociate e le stragi che precedettero l'idea laica di tolleranza e per venire ai fatti più recenti, qualsiasi persona sensata si è chiesta se la guerra civile che per decenni ha insanguinato l'Irlanda non si sarebbe ricomposta assai prima, e con meno morti, qualora non si fossero mobi-
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litati gli apparati dogmatici e intimidatori di due religioni contrapposte; e se per caso gli ebrei e gli arabi non avrebbero già trovato il modo di accordarsi qualora non fossero stati ricattati precisamente dagli individui più religiosi, e cioè da chi nell'uno come nell'altro campo è convinto di fare soltanto la volontà di Dio. (L'idea che i fondamentalisti più folli e i fanatici più feroci vadano considerati come un gruppo a parte rispetto alla maggioranza dei fedeli, quasi non fossero animati da autentici sentimenti di fede, somiglia all'ipocrisia di chi sostiene che i teppisti degli stadi non sono realmente appassionati di calcio.) Non tutto, nelle religioni, è apparato ecclesiastico, e non tutto è fanatismo: esistono forme tranquille e non dogmatiche di religiosità personale. Ci si può chiedere, quindi, se sia vero che esiste una diffidenza spontanea verso le fedi altrui. In realtà, non è difficile constatare che la reazione più immediata di chiunque, nel trovarsi di fronte alla semplice religiosità di altre persone, consiste in un atteggiamento di disponibile interesse. L'anelito verso la trascendenza sembra avere qualcosa in comune con i moti di tenerezza verso i bambini, che sono simili in tutte le culture. Osservando una persona inginocchiata devotamente in preghiera, la sera, sul pavimento delle propria stanza, o un fedele all'interno del suo luogo di culto, e perfino qualcuno immerso in una trance estatica, noi avvertiamo un tipo di emozione che è presente, con poche varianti, in tutti gli esseri umani. Questa emozione non induce affatto sentimenti di estraneità. Esiste qualcosa di universale nello smarrimento dell'animo di fronte alla violenza della natura, nei tentativi spontanei di mitigare l'angoscia del domani mediante voti e scongiuri, nell'umanissimo bisogno di rivolgersi al cielo, nei momenti terribili dell'esisten-
za, per cercare ispirazione e risposte. È difficile immaginare che questo debba condurre, di per sé, all'intolleranza. Le difficoltà di convivenza fra i popoli sembrano nascere da altri meccanismi. La simpatia per la semplice religiosità di chiunque non esclude che, nel concreto, le forme storiche delle religioni contribuiscano a devastare il mondo: a questo punto ci si può chiedere quanto incidano i poteri eccessivi degli apparati ecclesiastici e la tendenza dei fedeli a eccedere nell'ubbidienza. Questo tema, naturalmente, non è nuovo e rischia di sollecitare considerazioni scontate. In una lettera alla figlia decenne, Richard Dawkins ebbe a scrivere che oltre a esserci, a disposizione di ciascuno, tante buone ragioni per costruire conoscenze ben fondate, vi sono anche tre cattive ragioni per acquisire credenze: esse si chiamano «tradizione», «autorità» e «rivelazione»5. E invero fra le più naturali follie della nostra mente sembra vi sia la tendenza a credere che i principi-guida del comportamento debbano venirci dai grandi interpreti della volontà del cielo invece che da tante persone più prossime a noi. Queste ultime, nella maggioranza dei casi, sarebbero state sufficienti a fornirci gli strumenti per vivere: un papà con i piedi per terra, una mamma amorevole e sensata, uno zio che per caso ha viaggiato per il mondo, una maestra di scuola che ci ha insegnato un po' di storia e di geografia e incoraggiato a leggere libri illustrati di divulgazione scientifica. La plasmabilità del nostro cervello prima dell'età adulta può anche essere utilizzata per ottenere risultati sensazionali e, purtroppo, definitivi: ma bisogna che venga rinforzata da più specifici condizionamenti dottrinari. Se a tre anni crediamo fermamente in Babbo Natale questo non comporta, con tutta evidenza, nes-
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suna conseguenza negativa: ogni bambino è capace di uscire senza aiuti particolari dal mondo delle fate pur mantenendo negli anni successivi una sanissima, divertita tenerezza nei confronti di tutte le evasioni fantastiche. (Un lato fanciullesco e la capacità di giocare con l'immaginario, probabilmente, sono parte intrinseca della migliore sanità mentale di tutti, adulti compresi.) Ma quando da tempo è finita l'infanzia con tutti i suoi Babbi Natale e stiamo già affrontando il difficile passaggio all'età adulta, se per caso accogliamo come parte importante della nostra visione del mondo altre credenze del tutto inverosimili come la verginità di Maria, la transustanziazione, l'idea che il papa sia infallibile quando parla ex cathedra, e magari anche la speranza che Padre Pio ci possa proteggere dal cielo se usciamo sbronzi dalla discoteca, è probabile che qualcosa si sia modificato per sempre nel nostro esame della realtà. (L'idea che la grande tradizione del cristianesimo debba ridursi a credenze del genere non trova, per fortuna, unanimi consensi.) Si può ricordare qui che il reverendo Charles Lutwidge Dodgson, il quale era un sincero uomo di chiesa e — a quanto pare — assiduo lettore di Pascal6, quando assumeva lo pseudonimo di Lewis Carroll lasciava trasparire qualche ambivalenza circa i modi in cui si costruiscono le fedi.
gina. «Quando avevo la tua età, io lo facevo per mezz'ora al giorno. A volte mi è capitato di riuscire a credere a ben sei cose impossibili prima di colazione»'.
«Adesso sarò io a dare a te qualcosa in cui credere. La mia età è esattamente di centouno anni, cinque mesi e un giorno.» «A questo non posso credere!» disse Alice. «Non puoi?» disse la Regina in tono di compatimento. «Prova ancora: fai un respiro profondo, e chiudi gli occhi.» Alice rise. «È inutile provare,» disse: «non si può credere a cose impossibili.» «Oserei dire che non ti sei molto esercitata,» disse la Re-
Padri e madri, zii, nonni e maestri (i maestri delle nostre scuole laiche, beninteso) ben di rado ce la farebbero da soli, senza appoggi esterni, a plasmare la mente dei piccoli fino a condurli non soltanto sui binari della fede, ma anche, con un itinerario più preciso, dalla stazione di partenza della credulità a quella di arrivo del dogmatismo. Ce ne possiamo rallegrare, e uno dei meriti dello scampato pericolo è forse attribuibile a qualcosa di abbastanza semplice: nel corso dei nostri anni più verdi, noi tutti abbiamo conosciuto da vicino le brave persone che ci hanno educati, e abbiamo avuto tutto il tempo per accorgerci dell'umanissima modestia della loro statura. Fin da quando eravamo giovani la loro influenza è stata temperata dal senso critico di cui — è facile constatarlo tutti i bambini sono naturalmente dotati. Altre volte, però, questo non accade. Nei casi il cui esito, purtroppo, è meno felice, il senso critico dei bambini è stato, giorno dopo giorno, ridotto al minimo e la loro mente stipata di dogmi teologici che hanno pochissimo a che fare con le loro esperienze di vita. In genere per ottenere questo risultato non bastano i genitori. Le discutibili tradizioni a cui si riferisce criticamente Dawkins — le Tradizioni, potremmo dire, prese in assoluto e in generale così come l'Autorità presa altrettanto in generale (e magari la Rivelazione) — per essere stabilmente assimilate richiedono l'intervento di persone carismatiche. O per meglio dire, occorrono persone di cui possiamo ingigantire l'immagine. La dipendenza mitizzante da figure poco accessibili, perché distanti dalla quotidianità ordinaria, sembra giocare un ruolo chiave
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in tutte le operazioni nelle quali un individuo è condotto a rinunziare gradatamente alle proprie capacità di discernimento. Occorre dunque concludere che esiste all'interno della mente umana, presa in generale, una universale predisposizione a sottomettersi alla protezione di figure guida? Sigmund Freud attribuiva questo bisogno alla ricerca inconscia di un padre, ed è ben possibile che sia così: ma — verrebbe da chiedersi — allora perché tanti adulti, uomini e donne, visto che questa volta il padre se lo possono scegliere, si accontentano di personaggi così discutibili? Nessuno dispone di risposte veramente esaurienti. La più normale tendenza ad adottare leggende antiche e moderne, sia nostrane che esotiche, potrebbe anche avere una spiegazione molto semplice: ognuno ci ritrova parti di sé. Ma questo affettuoso potere di cattura dei miti, anche i più distanti da noi, sembra trascinare con sé un fattore perverso, la tendenza a prendere per buone tutte le loro suggestioni fino a sospendere l'esercizio della critica. (E naturalmente ci si può chiedere: De Martino avrebbe condiviso questa idea? Probabilmente no, l'avrebbe trovata troppo severa verso le speranze umane, e poco sensibile al bisogno di trascendenza.) Appare facile e immediatamente accettabile, comunque, allargare le braccia, sorridere, e affermare che fedi e religioni sono intoccabili non soltanto perché così si dice — contribuiscono a rendere più buone le persone, ma anche perché i miracoli potrebbero sempre essere dietro l'angolo. Non si rischia nulla nel dimostrarsi aperti all'impossibile, e in quasi tutti gli ambienti ci si fa bella figura. Nella vita quotidiana noi stiamo attenti a non esporci con opinioni dissacranti, e se poi lo fac-
ciamo ci mettiamo una quota di autoironia sperando di farci perdonare l'eccesso di distruttività. Infatti, perché mai essere giudicati cinici e materialisti? Ce ne guardiamo bene. Rischieremmo, se lo facessimo, che qualcuno ci attribuisse un animo non buono: mentre in pratica abbiamo un gran bisogno sia di amici e parenti, sia di quelle persone benpensanti e autorevoli, e magari credenti, il cui sguardo simpatizzante ci è prezioso. La compiacenza ideologica, ossia l'opportunismo delle idee, è il modo migliore per ingraziarsi i potenti, anche se questo può implicare una rinuncia al diritto di esprimere le proprie opinioni e perfino — con l'andare del tempo — una perdita della capacità di elaborarle. Ovunque prevale la pressione degli altri e di ciò che abbiamo intorno: lo si vede persino in esempi banali. L'adulto occidentale che, comodamente seduto sul divano del proprio salotto in mezzo a mille oggetti rassicuranti, sorride divertito di fronte ai trucchi del prestigiatore che roteando le dita nell'aria fa magicamente apparire monetine e sigarette accese, trovandosi invece in un tempio dell'Oriente è convinto di assistere a eventi paranormali di fronte a un venerabile santone dotato di barba bianca che con gesti molto simili a quelli del prestigiatore (e magari un po' di sussiego in più, aiutato dall'ambiente) esibisce trucchi sensazionali frutto di abilità lungamente apprese. «E poi, quando mi ha toccato con la mano ho sentito una incredibile energia che mi percorreva tutto» è il tipo di testimonianza più comune. Eppure, casi come questo non dovrebbero incoraggiare i pochissimi positivisti ancora in circolazione, inclini a credere che sia sempre facile demistificare gli inganni degli stregoni: in realtà no, non è per nulla facile. Spesso non è agevole applicare spiegazioni ragionevoli a eventi straordinari. Non è facile, cioè, elaborare spie-
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gazioni che utilizzando gli strumenti della logica, della psicologia e delle scienze sociali respingano ai margini, fino ad annullarla, l'ipotesi che Dio e il diavolo si contendano realmente l'anima dei singoli come quella dei popoli, e che i prodigi celesti e le guarigioni miracolose, gli spiriti dei trapassati e i maghi capaci di librarsi nell'aria esistano davvero e siano qui fra noi. Per spiegare a fondo le illusioni degli uomini e gli errori della mente bisogna possedere conoscenze scientifiche non alla portata di tutti. E infine, ammettiamolo, un minimo di speranza nel soprannaturale rimane vivo anche nel1' animo più laico. Un episodio di cui, credo, non discussi mai a fondo con De Martino, occorse una sera dell'estate del '59 in Puglia nel corso delle nostre ricerche. Parlando con due anziani contadini, credo analfabeti, del loro rapporto con un certo santo di cui non ho più ricordato il nome, essi ci fecero capire quanto stretto fosse il rapporto fra la loro credenza religiosa e la vita di tutti i giorni. Dissero che interpellavano quel santo nella preghiera, e che egli li ispirava nella vita quotidiana. (Fin qui però noi, pur sinceramente interessati, non ne fummo particolarmente colpiti: e se fossimo stati al giorno d'oggi avremmo pensato che anche il presidente degli Stati Uniti si consulta, a quanto riferisce, quasi quotidianamente con Dio ricevendone buonissimi consigli.) I due contadini dissero però qualcosa di più. In tempi recenti, affermarono, il santo era apparso loro in visione, una bella sera, nella loro casa, e precisamente vicino al letto. Non solo non dormivano affatto, precisarono, ma non erano neppure andati a coricarsi. Non erano ammalati, naturalmente, non avevano bevuto, stavano bene come ora, e così via. Erano ben svegli, e lo vedevano come ora vedevano me. L'apparizione era durata, dissero, vari minuti.
Varie ipotesi. 1) I contadini mentivano. Ora, questo è possibile ma poco probabile, almeno dando a «menzogna» il significato abituale. È certo che quell'apparizione era omogenea al loro mondo culturale e non li aveva sorpresi, tanto che non ne parlavano neppure come di un evento straordinario: il santo faceva parte del loro mondo soggettivo, del loro modo di concepire la realtà. Quel modo poteva essere ingenuo, ma era sincero. Inoltre, almeno apparentemente, essi non intendevano stupirci né tanto meno prenderci in giro. 2) Avevano avuto un'allucinazione. Anche questo è poco probabile. Un'allucinazione visiva è un disturbo importante, che comporta alterazioni del funzionamento cerebrale alquanto rilevanti, e in genere non compare se non quando vi siano disturbi dello stato di coscienza. Noi avremmo avuto altri indizi dí un eventuale disturbo psichico di quella portata. E poi, perché il santo era apparso a tutti e due? 3) Il problema riguardava la registrazione degli eventi, e soprattutto la loro rievocazione e rielaborazione a breve e a lungo termine: cioè la memoria. E qui si aprivano alcuni quesiti, a cui a quell'epoca né io né altri saremmo stati in grado di rispondere con esattezza. (Il rapporto fra suggestione e memoria, e il tema dei falsi ricordi, è stato chiarito in sede scientifica solo negli ultimi anni del Novecento.) Oggi infatti sappiamo che è possibile e perfino facile, e in assenza di disturbi psichici, ricordare nei dettagli e in perfetta buona fede episodi mai avvenuti. Centinaia di migliaia di persone, appartenenti al mondo quotidiano della modernità, affermano oggi di essere state rapite da alieni su dischi volanti, oppure ricordano eventi relativi a esistenze anteriori alla loro nascita8.
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Ancora una volta, però, ci trovavamo di fronte a un problema più generale. Non può darsi che, all'interno di questo nostro mondo complesso, tecnologico, postindustriale, noi siamo troppo inclini ad affermare, un po' qualunquisticamente, «tutto è possibile»? E se invece alcune cose fossero più possibili di altre? Fino a che punto, allora, avremmo bisogno non di ispirazioni e di spontaneità intuitiva, e neppure di atteggiamenti di tolleranza generica verso l'universo degli eventi, quanto invece di conoscenze dettagliate e attendibili, di dati e di cifre, e anche di libri, forse i più utili per cominciare a capire un po' meglio cosa succede intorno a noi e non fare troppi errori? Vorrei concludere un capitolo ormai troppo pieno di note personali con un ricordo di parecchi anni fa. Chi mi fece riflettere nuovamente su quest'ultimo tema, cioè sul tema dei libri e dello studio, due anni dopo la fine prematura della collaborazione con De Martino (il grande antropologo morì di cancro nel 1965), fu Franco Basaglia a Gorizia, dove da Roma mi ero trasferito con tutta la famiglia nel 1966, attratto dal suo coraggioso progetto di trasformazione del vecchio ospedale psichiatrico di quella città. Come si può immaginare, nella gestione quotidiana di quell'esperienza dí riforma istituzionale, che per molti aspetti era realmente all'avanguardia e si attirava più ostilità che appoggi (Basaglia era a quell'epoca uno sconosciuto), ad ogni piè sospinto affrontavamo scelte importanti, per cui fra noi non mancavano mai le discussioni. Dal momento che i decreti ministeriali imponevano di organizzare corsi di aggiornamento per i nostri infermieri, io mi offrii di condurre dei gruppi per aiutare il personale non diplomato — bravissimi friulani, ma di non grande cultura a capire qualcosa di più dei disturbi psichici, delle di-
namiche psicologiche, e anche dell'utilità e dei limiti dei trattamenti con psicofarmaci. Ma Basaglia era ostile all'idea. Sosteneva che gli infermieri avrebbero tratto le migliori risorse da se stessi così com'erano, se la loro spontanea umanità non fosse stata complicata da discutibili nozioni: quelle brave persone, diceva Basaglia, avrebbero scavato nelle loro più autentiche capacità relazionali qualora si fossero rapportate direttamente ai ricoverati e alle loro famiglie senza schemi scientistici né idee mediche in testa, né particolari conoscenze di psicologia o di psicoanalisi. Meno masticavano di psichiatria e discipline affini, insomma, meglio era. Ne discutemmo e ognuno rimase della sua opinione: io però intesi la sua posizione, che mi sforzai di comprendere, come un avvertimento circa i limiti troppo rigidi di una impostazione, la mia, evidentemente influenzata da sogni illuministi. Non condividevo la sua idea ma non fui affatto sicuro che la ragione fosse tutta dalla mia parte. Col passare dei mesi, però, quando il corso si tenne i miei dubbi diminuirono. Malgrado molti limiti, il rapporto con gli infermieri si rivelava una esperienza positiva. Era umano e vivo il tentativo, sia pure poco sistematico, di aiutarli con discussioni, lezioni e seminari: e forse quel tirocinio di idee forniva loro, insieme a qualche nozione in più, anche qualche maggiore strumento critico con cui proporsi all'interno dell'ospedale. Del resto, anche volendo limitarsi a un criterio di rendimento, capii che avrebbero lavorato con più intelligente attenzione se si fossero sentiti non già ubbidienti esecutori di ordini ma tecnici consapevoli di quello che andavano facendo. Da allora mi feci guidare da pensieri del genere in altri progetti di ricerca e di insegnamento, attraverso gli anni e fino ad oggi. 77
Capitolo 2 UNO SGUARDO D'INSIEME SUL RELATIVISMO
Il relativismo contemporaneo è molte cose insieme. Non è solo una interpretazione del nostro momento storico, come nel post-modernismo di Lyotard, né solo una teoria filosofico-letteraria, come nel decostruzionismo di Derrida, né solo una critica alla conoscenza scientifica, come nell'anarchismo epistemologico di Feyerabend, e neppure soltanto una forma di umanesimo ironico, come nei garbati scritti di Rorty. È, probabilmente, qualcosa di più dí tutte queste teorie: è una ideologia e un modo di pensare. Malgrado le sue dispersioni, il relativismo è un atteggiamento non privo di compattezza, coerente nel suo modo di avvicinare la realtà, capace di esercitare il suo influsso su discipline specialistiche disparate come sulla vita quotidiana di tutti noi, e attivo persino sulle scelte politiche da cui dipende il nostro futuro. Non è banale, spesso non è stupido, ha aiutato molte persone a riflettere; e se è vero che i suoi eccessi offendono il buon senso, le sue radici meritano attenzione. Come introdurre un tema che ha tante facce? Per esempio entrando in medias res. Alla maniera delle aperture teatrali, si può immaginare un dialogo, o confronto-scontro, fra un relativista e un anti-relativista. 29
Un dialogo Questo dialogo può dipanarsi in vari modi, ma cercheremo di riprodurne le caratteristiche più tipiche traendo spunto dalle pagine di un romanzo contemporaneo'. Lo scenario descritto nel libro è il seguente. In una stanza di università siede il titolare della cattedra, un letterato intelligente e aggiornato, «di sinistra», certamente amato dagli studenti, un uomo che nel romanzo viene descritto come cinquantenne, per l'occasione circondato da alcuni allievi che pendono dalle sue labbra: è il relativista (REL.). Noi potremmo anche chiamarlo, però semplificando le cose, il soggettivista. Davanti a lui siede uno studente ventiquattrenne dal curriculum irregolare, appassionato di informatica, che per qualche motivo è stato incaricato di intervistare il professore: è il realista, o meglio l'empirista (EMP.). Potremmo anche chiamarlo, ma il termine è brutto, l'oggettivista. Il dialogo, qui liberamente modificato rispetto alla narrazione originaria, li ha gradatamente portati all'aggressività. È ormai chiaro che l'intervista è andata a farsi benedire. REL. Così lei si occupa di super-autostrade informatiche, eh? E quante baraccopoli di povera gente dovranno essere spianate dalle sue ruspe per far passare queste super-autostrade? EMP. Scusi? Forse non mi sono spiegato. Si tratta di una metafora! Quelle autostrade sono virtuali, è ovvio che non sono una cosa che occupa spazio. REL. (sarcastico) Ma guarda! Non l'avevo capito. Però sa, il fatto che sia una metafora non mi dice poi molto. Tutto è metafora, caro mio. Se io prendo in mano un oggetto (lo mostra, è una penna) e dico «penna», anche questa è una metafora. Il linguaggio è metafora. Le metafore sono il nostro
modo di costruire la realtà, ci sono mille e mille metafore che abitano la nostra mente e ci permettono di pensare. EMP. Comunque, guardi, quella che ho usato io era in fondo una cattiva metafora. Forse non è il caso... REL. Ah, interessante, adesso le autostrade informatiche non sono più autostrade. Ci sono metafore buone e metafore cattive? Alcune le prendiamo e altre le lasciamo? Crede che sia possibile? Davvero? (ride). In questo caso, allora, chi ha deciso che le autostrade informatiche sono una cattiva metafora? Chi decide ciò che buono e ciò che è cattivo? EMP. (pausa) In questo caso, scusi, lo decido io. REL. Sta scherzando? Allora lo posso decidere anch'io, lo può decidere chiunque, se è questo che intende. Siamo alle solite, diventiamo tutti giudici, e alla fine vince chi strilla più forte. Si tratta sempre di giudizi e, se ci pensa bene, questa è la matrice dell'intolleranza. Non sarebbe meglio cominciare col giudicare un po' meno? EMP. Senta professore, mettiamo le cose in chiaro. Io ho letto il suo libro. L'ho vista alla televisione. Ho personalmente raccolto una lista delle sue credenziali in preparazione del nostro incontro. Quello che posso dire, con tutto il rispetto, è che lei non è qualificato per avere un'opinione su questioni tecniche. REL. (mostra una finta confusione, poi ride verso i propri allievi) Oh, scusi tanto, non avevo capito che prima di parlare bisognasse dimostrare di avere i diplomi in regola! EMP. A me questo pare chiaro, invece; anche se lei sa benissimo che non è questione di diplomi o di altri pezzi di carta. Se lei è ignorante su un certo argomento, allora la sua opinione è del tutto priva di valore. Se io sono ammalato, non chiamo l'idraulico per avere un parere. Lui si guarderà bene dal darmelo, ma se lo facesse io non lo starei neanche a sentire. Allo stesso modo, se io ho dei problemi con Internet cerco il consiglio di qualcuno che se ne intende; le altre persone mi farebbero solo perdere del tempo. REL. (rivolgendosi agli allievi) E strano, ma tutti i tecnocrati sembrano essere in favore di Internet. 21
EMP. Non vorrei sembrarle fastidioso, o pedante, ma lei ha appena fatto una affermazione che è dimostrabilmente falsa. In primo luogo le potrei citare vari libri di grandi esperti di Internet che sono critici proprio verso questa realtà. In secondo luogo lei usa il termine «tecnocrate» per squalificarmi. Se quella parola ha un senso io non sono affatto un tecnocrate, contrariamente a ciò che lei vuole suggerire. Sono solo un ragazzo che ogni tanto scende alla libreria sotto casa a comprarsi un manuale, e che negli ultimi anni ha passato moltissime ore in rete. REL. E infatti, il punto che lei non vuole capire è un altro. Lei si trova a essere, le piaccia o no, un sacerdote della tecnica moderna, e la tecnica è violenza. Anche l'informatica è violenza. Se prima ho parlato di ruspe non era per caso. Purtroppo, il mondo si sta mettendo tutto intero nelle mani di persone come lei, che manipolano le informazioni e domani ci diranno cosa dobbiamo pensare. Mi dica un po': ci sono molte donne, fra le persone che si occupano di informatica? EMP. (spiazzato) No, poche. REL. E si è mai chiesto perché? Il fatto è che la logica che voi usate è l'espressione massima del pensiero tecnico-manipolante dell'Occidente. Ed è una logica maschile. È una logica fallica e maschilista. Capisce cosa intendo quando dico fallica? Intendo innamorata del proprio potere, orgogliosamente insensibile, discriminante, autocentrata, autistica, ficcante, magari anche crudele... EMP. (riprendendosi) Oh dio, nientemeno. Davvero? Francamente, credo che le sarebbe piuttosto difficile dimostrarlo. Mi scusi se sono poco gentile, ma lei sta dicendo delle genericità su cose che non conosce. Ed è chiaro che cerca il consenso dei suoi allievi, che di informatica ne sanno quanto lei, cioè, temo, nulla o quasi nulla. Io credo, con tutto il rispetto, che lei non dovrebbe dire certe cose: lei non dovrebbe provare a intimidirmi con degli argomenti generici ai quali né io né nessun altro potremo mai rispondere. Sono le sue frasi che mi sembrano una forma di violenza. REL. Non dovrei dire certe cose, eh? Bene, ecco che è già
arrivata la censura. Marciamo a grandi passi verso la polizia del pensiero. È proibito dire che l'informatica è fallica? EMP. Nessuno proibisce alle persone di parlare. Però sarebbe interessante che lei incontrasse un'altra persona la quale, sapendone di informatica quanto ne sa lei, sostiene che, al contrario, l'informatica è anti-fallica. Sarebbe divertente! A quel punto risulterebbe chiaro che tutto il gioco consiste nel tentativo di rendere credibili delle opinioni, che però sono alquanto particolari perché non hanno fondamento da nessuna parte. Forse a quel punto vi rendereste conto che manipolate aria fritta. Ora, il dire «L'informatica è fallica», e qui io vorrei spiegarmi molto bene, non è affatto come dire «Il nostro materiale genetico è disposto a doppia elica»: la prima affermazione non è affatto dimostrabile e la seconda invece lo è. Una bella differenza! E allora, arrivati a questo punto, si renda conto, come faccio a discutere con lei? Io preferirei discutere con una persona che sostiene che la luna è fatta di formaggio: non sarebbe facile neanche lì, è vero, perché non è facile trovare gli argomenti giusti con chi è molto lontano dalla realtà, però ci potrei provare. Qualche buon argomento mi verrebbe fuori anche sul tema della luna e del formaggio. Ma se lei mi dice che l'informatica è da respingere perché è fallica come si fa? Non le si può rispondere nulla. E allora, veramente, seguendo il suo modo di ragionare tutto diventa possibile. Qui poi è ovvio che nessuno le proibisce nulla, lei può dire quello che vuole. Giustamente, nella nostra società c'è la massima tolleranza per qualsiasi opinione; se le piace uscire per la strada gridando «Due più due fa cinque! Due più due fa cinque!» nessuno glielo impedirà, e probabilmente nessuno le darà neppure fastidio. In più, magari lei incontra qualcuno che dice che due più due fa sei, e vi fate compagnia. Solo, vede, io credo che esista una differenza percepibile fra le cose vere e le cose false, e fra le cose sensate e le sciocchezze. Io le sciocchezze non le condanno, solo me ne disinteresso. Chiedo il diritto di non prenderle in considerazione. Preferisco andare al cinema a vedermi un film comico. REL. Ma cerchi di capirmi almeno una volta! Non può 33
ché non dicano mai nulla, ma veramente a me non pareva di stare pontificando...
darsi che le sue sciocchezze non siano affatto le mie? Diciamo così, ognuno ama le proprie sciocchezze. Le va bene? Non le sembro tollerante? Ma a parte gli scherzi è davvero una questione politica, perché io sono un democratico e un pluralista, e lei invece è un dogmatico e un totalitario. Ci pensi bene: lei taglia corto, evade dal rapporto, dice che certe posizioni non le interessano e che le fanno solo perdere tempo. Ma si rende conto, allora, che rifiuta il principio del dialogo? Lei rifiuta di confrontarsi, e a questo punto sono ío che non so più cosa dirle, perché lei si pone fuori da quella che è la premessa per qualsiasi convivenza. Dice che preferisce andare al cinema. Bravo! Va tutto solo a chiudersi in un luogo buio, e direi che anche questo ha un suo significato, no? Però, prima che se ne vada, io una richiesta ce l'avrei da farle. Io voglio sapere «da dove» lei dice tutto questo che mi sta dicendo. Come direbbe Lacan, da dove parla la sua parola? Parla a partire dall'Olimpo dei nuovi dei della scienza? Forse sì, o per lo meno così lei ritiene. Lei non lo sa, ma la sua è una nuova mitologia, come per la mitologia degli antichi greci. Si tratta solo di narrazioni. E nelle loro narrazioni, voglio dire in quelle dei greci di duemila anni fa, c'era più verità che nelle sue di oggi. Ma preferirei non divagare e andiamo pure al concreto. Mi dica per favore, cosa fa suo padre? EMP. (sorpreso e per la prima volta un po' intimidito) Mio padre? Insegna matematica nei licei. REL. Vede? Lei è un borghese privilegiato, e per questo se ne sta qui a parlare con me. È questo suo essere casualmente il figlio di un piccolo intellettuale, e non è la bontà dei suoi argomenti, ciò che dà forza al suo modo di ragionare. Quello che lei presenta come fosse la verità è solo una questione di ambiente di famiglia. È da lì che lei parla, e non dall'alto del monte della verità. Questo le permette di pontificare con me che ho la pazienza di ascoltarla. EMP. (guarda per terra, verso le proprie scarpe da ginnastica, poi guarda il professore, seduto dietro la sua cattedra) Non so cosa ne pensano le altre persone presenti e mi chiedo per-
Lasciando da parte il professore e lo studente possiamo provare a sintetizzare, per ora un po' alla buona, quali sono le due posizioni generali di cui li avevamo eletti rappresentanti. I relativisti partono da un'ipotesi: i fatti di per sé non ci dicono nulla di preciso perché conta solo il modo di vederli; in altre parole, valgono le interpretazioni che noi ne diamo. I più radicali fra loro, vicini all'idealismo filosofico, sostengono addirittura che un fatto qualsiasi (un'eclisse, una gazzella che corre, un sasso che cade) non esiste indipendentemente da come lo recepiamo nella coscienza. Se noi diciamo che il fatto è là, essi affermano, è solo perché prima stava nella nostra mente. Nell'insieme, i relativisti tendono a valorizzare tutte le convinzioni soggettive e le credenze, anche quelle che appaiono più marginali, perché — dicono — non esiste una unità di misura esterna alle credenze stesse, atta a valutarne la fondatezza. Per quanto concerne le scienze esatte, sono convinti che le leggi di natura (per esempio: E=Mc2 ) non siano nelle cose, ossia nella natura, ma nella nostra testa; e che cioè siano nostre descrizioni, le quali possono variare a seconda dei tempi e delle culture. Il relativista, infatti, è portato a credere che le conoscenze siano soltanto modi concordati di vedere le cose e, al limite, siano soltanto opinioni; di conseguenza, ha scarsa fiducia
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(E così via. È chiaro che i due non si intenderanno mai.) Le due posizioni in sintesi
in concetti come «prova» e «verifica». È, insomma, un possibilista estremo; oltre che, naturalmente, uno scettico. Per le scienze umane, il ragionamento è molto simile. Il relativista ritiene che non esista alcun criterio per affermare che taluni assetti sociali — o taluni stili comportamentali — siano migliori di altri. Pochissimo incline a esprimere giudizi su popoli o su persone, il relativista non ama credere che vi siano intere collettività poco istruite, per esempio perché afflitte da analfabetismo, e neppure parla mai di persone ignoranti. A suo parere, invece, esistono solo tante culture, tutte di uguale dignità, alcune delle quali assai diverse da quella occidentale, così come esistono tanti individui alcuni dei quali seguono valori differenti dai nostri nella loro vita quotidiana. In quest'ottica nessuno è migliore di nessun altro, nessuno realmente svantaggiato, nessuno mai realmente diminuito nelle proprie caratteristiche di persona. Dunque l'idea è questa: abitualmente ci vediamo diversi solo perché abbiamo punti di vista diversi. Coerentemente a questo principio ultra-egualitarista, molti relativisti ritengono che sia sbagliato parlare di minorazioni, ossia di handicap, per esempio una mano amputata, due gambe paralizzate, la cecità, la sordità, una intelligenza inferiore alla norma; e negano che si possa parlare di soggetti minorati, o disabili o handicappati. Quelle sono persone, invece, «diversamente abili», ovvero abili se considerate da un altro punto di vista. (L'idea ha avuto molto successo ovunque, ma soprattutto negli Stati Uniti.) Fra le giustificazioni a questo tipo di filosofia ve n'è una particolarmente semplice, sostenuta in genere dai giovani, che suona come segue. Se noi finalmente capissimo che tutti gli stili di vita esistenti al mondo han-
no lo stesso valore, se ci convincessimo che non esistono idee giuste e idee sbagliate ma solo punti di vista differenti, e se un bel giorno ci rendessimo conto che tutti gli esseri umani, anche quelli con l'etichetta di pazzi o di minorati, sono realmente uguali e che quelle etichette sono false, finalmente regnerebbe l'armonia. Fine delle discriminazioni, niente più intolleranza e neppure invidia. (Però — si potrebbe obbiettare — non può darsi che questa teoria sia solo una variante della proposta del Dodo? E cioè: facciamo un gioco in cui ognuno ha vinto e tutti devono essere premiati. E poi, come si sa, il Dodo ci teneva ad aggiungere un codicillo: il gioco l'ho inventato io ma i premi li deve fornire Alice2.) Naturalmente il problema non può essere risolto con una battuta. Va aggiunto che le posizioni relativiste, oltre a non essere affatto banali e neppure sempre sciocche, si raggruppano in scuole e correnti identificate mediante etichette come post-modernismo, costruttivismo, decostruzionismo, multiculturalismo, ermeneuticismo, e così via. I confini fra queste scuole sono assai fluidi. Malgrado una certa complicatezza delle teorie filosofiche il relativista è capace, in genere, di esprimere la sua posizione in termini concisi, e non di rado le sue parole seducono per semplicità ed eleganza. Dal lato opposto della barricata troviamo, su una posizione anti-relativista, il realista, o meglio l'empirista, forse il meno raffinato dei due ma certamente il più concreto, al quale accade di dover fare discorsi un po' pedanti. Egli ricorda anzitutto che gli antichi greci avevano già chiara la distinzione fra opinione (doxa) e conoscenza (epistème). Il realista spiega che la velocità della luce era sicuramente di 300.000 km/sec anche prima
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gomenti efficaci: ma questo non significa che siano tutti validi.
che la misurassimo e che la realtà naturale esisteva, con le sue regolarità e le sue leggi, molto prima di venire osservata dall'uomo. Anzi, sostiene che se gli abitanti di un lontano pianeta volessero costruire aerei e razzi dovrebbero essere giunti per proprio conto alle stesse identiche formule che noi troviamo scritte nei nostri libri di fisica. Inoltre fa osservare che concetti come «prova» e «verifica» sono talmente validi da costituire il fondamento della vita pratica di tutti noi, relativisti compresi, per esempio quando dobbiamo capire dov'è il guasto in una radio che non funziona o quando decidiamo se votare o no a favore di un primo ministro che ci ha raccontato delle frottole alla televisione. Su queste premesse, egli dà più ascolto al parere degli esperti e delle persone istruite che a quello di chi non si è documentato e non dispone di un buon livello di istruzione. Inoltre, sul terreno della vita collettiva, non pensa affatto che tutte le società siano uguali ed è anzi convinto che alcune siano migliori di altre, per cui ritiene che il liberalismo in economia, l'indipendenza della magistratura, la democrazia parlamentare, una netta separazione fra lo Stato e le Chiese e la promozione delle scienze garantiscano, nell'insieme, assetti sociali superiori a tutti gli altri finora escogitati dall'uomo. Infine, è convinto che sia giusto e necessario distinguere comportamenti più sani e normali da altri meno sani e meno normali. Questo modo dí vedere le cose presenta l'inconveniente di apparire rigido, selettivo se non discriminante, poco tollerante e anche un po' terra-terra: ma nell'insieme, come risulterà più chiaro da varie argomentazioni in questo libro, ciò che il realista sostiene è più fondato, e più giusto e vero, di ciò che sostiene il relativista. Ciò non toglie che, come accadeva nel dialogo riportato più sopra, il relativista possa disporre di ar-
Nell'esaminare le posizioni in gioco, il cui ventaglio è ampio soprattutto dal lato dei relativisti, si può rischiare di perdere di vista il fatto che siamo in presenza di due atteggiamenti elementari verso la realtà. Non si tratta, in pratica, solo di due filosofie ma anche di due mentalità, di due modi di pensare; o meglio, e ancora più radicalmente, di due modi spontanei di percepire le persone e le cose. Per capire in che senso questo possa essere vero, si può cominciare col prendere il classico esempio di Frege. Di fronte al desiderio di sapere in che senso la Stella della sera è altra cosa dalla Stella del mattino, noi possiamo interrogare in primo luogo chi è incline (magari senza saperlo) a un modo di pensare relativistico, e poi chi, in modo altrettanto inconsapevole, ha una mentalità opposta, anti-relativista, ovvero, se vogliamo, «oggettivista». Una persona incline al relativismo direbbe che non è appropriato affermare che si tratta della stessa stella in ore differenti. Infatti osserva che da sempre noi chiamiamo «stella», per convenzione e accordo unanime, un particolare punto luminoso che vediamo nel cielo notturno; secoli fa pensavamo che si trattasse di un buco nel velluto della volta celeste e oggi invece interpretiamo quella luce dicendo che a volte è un pianeta, altre volte un sole lontanissimo. Ma questo cosa cambia? È evidente che le varie spiegazioni del fenomeno non alterano ciò che per chiunque è il senso della parola «stella». Ossia, «stella» è una piccola luce nella volta celeste.
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Il relativismo come mentalità
Ora, la caratteristica della prima delle due stelle è che si tratta di una luce che vediamo accendersi nel corso dell'imbrunire. Sarebbe assurdo sostenere che quella sembra la Stella della sera: invece, è la Stella della sera. Così, parallelamente, è la Stella del mattino il punto luminosissimo che compare in cielo poco prima dell'alba. Al contrario l'antí-relativista, o realista, o anti-soggettivista che dir si voglia, centrato com'è sull'oggetto esaminato invece che sulla situazione del soggetto esaminante, liquiderebbe la questione affermando che le due stelle appaiono diverse ma non sono diverse: sono la stessa stella e cioè il pianeta Venere. Un secondo caso. Alcuni anni fa si sono diffusi, in Occidente, vari allarmi legati allo sviluppo tecnologico: i mezzi di comunicazione di massa hanno fornito a questi allarmi una cassa di risonanza, in genere senza chiedersi quanto fossero giustificati, e la maggioranza del pubblico li ha trattati come pericoli reali. Esempi: i bambini che vivono vicino agli elettrodotti si ammalano di leucemia; le vaccinazioni causano l'autismo; i ripetitori della telefonia cellulare emettono onde molto pericolose. Timori come questi non sono stati affatto ignorati: hanno perfino dato luogo a ricerche scientifiche accurate e che sono durate anni costando, come nel caso degli elettrodotti, milioni di dollari: la loro conclusione è che si tratta di allarmi senza fondamento3. Gli anti-relativisti ne hanno preso atto, magari cercando di documentarsi sui vari aspetti dei problemi in gioco. Gli individui di mentalità relativista invece, che sono meno inclini a documentarsi — ed è naturale, poiché non ritengono che i «fatti» parlino da soli — ma in compenso sono i più inclini alle polemiche, sostengono che: a) se quelle ricerche sono dette scientifiche ciò non costituisce un argomento valido; b) per quanto riguarda gli elet-
trodotti alcuni studiosi sono rimasti col dubbio che possano causare un minimo aumento statistico dei casi di leucemie infantili, e quindi, anche se il rischio è comunque molto piccolo e forse inesistente, ce n'è abbastanza per non costruire case e scuole vicino alle linee ad alta tensione perché le precauzioni non sono mai troppe, e lo stesso vale per molti altri problemi, compreso quello dei rischi dell'ingegneria genetica; c) l'opinione pubblica non può mai avere del tutto torto perché la gente comune percepisce i pericoli che incombono sulla propria pelle. Vediamo ora un terzo e ultimo caso, che riguarda l'etica civile. Secondo un aneddoto, Alessandro Manzoni fu chiamato un bel giorno a dirimere una lite fra due uomini che si accapigliavano per una questione di interessi. Decise di interrogarli separatamente e, sentiti gli argomenti del primo, disse: «Lei ha ragione». Sentito il secondo, però, prima rimase pensoso poi concluse: «Anche lei ha ragione». A questo punto si interpose una terza persona: «Ma come è possibile che abbiano ragione tutti e due?». E Manzoni: «Ha ragione anche lei». Un Manzoni relativista, dunque? Può darsi. Ed è giusto avere un po' di simpatia nei suoi confronti, soprattutto se immaginiamo che non avrebbe voluto essere trascinato in quella situazione. Qualcuno, però, lo prenderebbe a modello. Il relativista dí oggi sarebbe favorevolmente interessato da questo episodio, forse fino al punto di elevarlo al rango di apologo filosofico; o addirittura ne farebbe una parabola etica lodando la tolleranza, l'apertura, il senso cristiano di accettazione verso tutto ciò che è umano, tipici del Manzoni. Ma qui il dissenso dell'anti-relativista sarebbe marcato. Egli avrebbe qualcosa da ridire sulla tendenza del nostro sommo romanziere a non prende-
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re posizione, e soprattutto sulla nostra eventuale tentazione di trarne un modello di comportamento. L'anti-relativista farebbe osservare che nel tessuto civile intorno a noi, per esempio in Italia, sono riconoscibili due opposte condotte riguardanti problemi che grosso modo — sono simili a quello che dovette affrontare Manzoni: la prima condotta (anti-relativista) è probabilmente virtuosa, la seconda (relativista) quando arriva all'eccesso può anche essere considerata spregevole. Il primo tipo di condotta, dunque, caratterizza quell'individuo che non si sottrae alle incombenze inerenti al suo ruolo (magari incombenze temporanee, come l'esser chiamati a dirimere una lite) e si impegna cercando dati e fatti, valutando le cose nel modo più equanime possibile, quindi pronunziandosi sapendo che se loro non possono avere tutti ugualmente ragione, così lui non può accontentare tutti. Insomma, prende posizione. Aderiscono a questa mentalità coloro — funzionari, agenti dell'ordine, magistrati, giornalisti, e anche professori universitari — che ritengono abbia un senso la locuzione «responsabilità civica», e un senso forte. Tutte queste persone sono convinte che una buona democrazia sia fondata su un principio di neutralità: leggi, regolamenti e procedure decisionali sono uguali per tutti. Ritengono, quindi, che sia importante sforzarsi di esprimere giudizi coerenti, fattuali, non personalistici e neppure, se possibile, discrezionali. Altrimenti ritengono che ne nascano — sempre — favoritismi e ingiustizie. Il secondo tipo di condotta incarna uno stile opposto, e ci aiuta a comprendere come il relativismo possa essere più un abito mentale che un orientamento consapevole. È molto comune, infatti, lo stile di ragionamento di chi fa leva sul presupposto che tutti quanti abbiano i loro bravi motivi per fare quello che fanno, per
cui il pretendere di valutare le azioni altrui diventerebbe una rischiosa intrusione. Si parte dunque da un «cosa ne sappiamo, in fondo?» e si passa attraverso «tutti hanno le loro ragioni» osservando infine che «ciascuno ha i suoi problemi» e — naturalmente — «tutti hanno i loro interessi». Ed ecco discenderne una regola di comportamento: non giudicare, non prendere posizione. Eventualmente, quindi, scegliere una linea blanda, assecondante, comunque mai rischiare troppo. Arrivati a questo punto, è già pronta una collana di formule relativizzanti che gli italiani conoscono bene: «ogni regola ha le sue eccezioni», «bisogna valutare caso per caso», «non smuovere le acque», «ognuno si faccia gli affari suoi», «il mio parere? qui lo dico e qui lo nego», e perfino (la formula suprema, secondo Ennio Flaiano) «tengo famiglia». Quest'atteggiamento generale ha un nome: disimpegno morale. E quando prevale nel tessuto civile di una nazione, è probabile che contribuisca a impedirne lo sviluppo4.
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L'orientamento mentale che chiamiamo relativista ha dunque varie facce; e peraltro ha anche una sua coerenza. La sua chiave di volta riguarda l'atteggiamento verso la scienza. Il relativista non crede nella scienza, o almeno ne diffida fortemente, e questo significa molte cose. In primo luogo svaluta le verifiche sistematiche, i dati sperimentali, le statistiche, le misure, i modelli, le valutazioni di probabilità: cioè esattamente tutto ciò che costituisce la scienza. Per estensione, poi, ritiene giustificato porre sotto accusa tutto ciò che si presenta con pretese di oggettività e universalità. E questo implica qualcosa di ancora più ampio: il relativista dubita che si possano trovare criteri universalmente validi per separare la verità dalla menzogna, ciò che è funzionale
da ciò che è disfunzionale, la giustizia dal torto, e anche il sano dal patologico. In rapporto a questo, ecco l'amore per le particolarità, per le eccezioni, per i fenomeni sui generis, per le verità locali e settoriali. In pratica, quindi, multiculturalismo, localismo e antiglobalismo sembrano essere anch'essi costituenti intrinseci, primari, della mentalità relativista. Per esempio, se relativismo significa (fra l'altro) non credere nel valore planetario, universale, dei principi giuridici fondamentali, una conseguenza significativa consiste nel non ritenere che le iniziative di politica estera dei governi debbano sottostare alle regole del diritto internazionale. Solo a volte, dunque, il tema unificante sembra riferirsi alle modalità del conoscere, secondo la formula: le conoscenze sono opinioni, e tutte le opinioni si equivalgono. Altre volte invece, benché in modo meno palese, il vero tema unificante del relativismo appare comportamentale: ognuno faccia tutto ciò che vuole, poiché nessuno ha l'autorità di giudicarlo.
Il relativismo si è diffuso in Europa e in America nella seconda metà del Novecento, ottenendo il suo massimo successo negli ultimi due decenni del secolo. (Nei primi anni del nuovo millennio, peraltro, alcuni segnali fanno ritenere che possa essere iniziato il suo declino; secondo Maurizio Ferraris vi sono validi motivi per ritenere che questo indirizzo di idee stia tramontando nelle nebbie dello spiritualismo5.) Il successo complessivo del relativismo è stato e resta tuttora notevolissimo, tanto da autorizzare alcuni autori a designare il nostro periodo storico come l'età del relativismo, o come l'era del post-modernismo: ana-
logamente, dunque, al modo in cui si parla correntemente di un'età moderna, o di un'era dell'illuminismo6. Ed è proprio rispetto all'illuminismo che il relativismo si è posto in aperta antitesi. Non dovrebbe essere necessario ricordarlo, ma dall'illuminismo si svilupparono in Inghilterra, in America e nella Francia del Settecento, sia le forme della democrazia moderna, sia la scienza e la tecnica quali oggi le conosciamo. Fu un orientamento di pensiero caratterizzato da un solido laicismo, dalla certezza che esistesse, attraverso popoli e culture, una struttura universale della ragione umana, da vivissime speranze di progresso tecnico-scientifico, e dalla convinzione che fosse giusto (e dall'illusione che fosse facile) che i popoli si liberassero dall'ignoranza e dalle superstizioni così come dall'inutile oppressione di governi bigotti e dispotici. Nei paesi anglosassoni le idee illuministe si legarono all'impostazione empiristica di pensatori moderati come John Locke e alle forme di dissenso coltivate dal protestantesimo puritano. In Francia l'illuminismo ebbe caratteristiche più radicali e dopo la Rivoluzione si trovò a dover difendere per oltre un secolo la democrazia laica dall'ostilità della Chiesa cattolica. In Italia, malgrado emergessero grandi figure di illuministi come quelle di Beccaria, di Verri e di Cattaneo, i nuovi ideali razionali e progressisti non estesero la propria influenza al di là di limitati ambienti della borghesia urbana e non ebbero, in pratica, alcun effetto sul costituirsi della cultura politica post-unitaria: con le conseguenze che ancora oggi è agevole constatare. Ma l'illuminismo dovette affrontare anche un'altra ostilità, assai forte benché non organizzata: quella del movimento romantico. Il romanticismo si espresse per tutto l'Ottocento nelle passioni variamente esaltate dal-
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Le ascendenze storiche del relativismo
la poesia e dalle arti, nelle retoriche della spontaneità e dei sentimenti, in una inclinazione all'orrido e al patologico, e però anche in forme importanti di critica antiborghese: con dissacrazioni spesso intelligenti, spiritose e acute. (Romanzieri come Jane Austen e Gustave Flaubert trassero dalla critica romantica gli spunti per esaminare il proprio mondo sociale.) Verso se stessi e verso í propri tenebrosi entusiasmi, peraltro, va osservato che i romantici furono del tutto carenti di senso dell'umorismo. Il movimento romantico si espresse nei suoi modi più tipici all'interno dei gruppi e cenacoli del marginalismo bohémien e avanguardistico, nella fascinazione per l'Oriente, per i popoli primitivi, per la magia e per lo spiritismo, nell'adesione a mitologie popolari a carattere barbarico, e — in particolare in Germania — in alcuni aspetti non irrilevanti del pensiero politico nazionalista. Negli ultimi decenni dell'Ottocento il movimento romantico estese la propria influenza sul pubblico colto e semi-colto, si disperse in correnti, e cessò di essere identificato come tale. Nei primissimi anni del Novecento l'influente rivista britannica «New Age», di orientamento spiritualista e aperta alle scienze occulte, contribuì a promuovere le idee di Nietzsche e di Bergson; filosofi e medici che pure non sarebbe appropriato definire «romantici» sostennero idee anti-moderniste e anti-razionaliste. Prima della Grande Guerra un autorevole industriale ed economista, Walter Rathenau, e un filosofo, Ludwig Klages, sostennero che lo sviluppo tecnico degradava sia l'ambiente sia l'individuo; dopo il 1918 Oswald Spengler diffuse con immenso successo l'idea che l'Occidente era ormai in pieno declino e sarebbe andato incontro alla propria dissoluzione qualora non avesse ritrovato antichi valori di autorità, di san-
gue e di destino; nel 1927 René Guénon ribadì con più forza un concetto analogo, in un'argomentazione che coniugava spiritualismo, esoterismo, e profonde convinzioni reazionarie (fra l'altro, Guénon si convertì all'Islam); per tutti gli anni Venti e Trenta, la credenza in forze magiche e in cosmologie fantastiche si diffuse nella cultura europea e americana attraverso singolari figure di avventurieri e occultisti come Helena Blavatsky, Annie Besant, George Gurdjieff, Peter Ouspensky, Jiddu Krishnamurti, e riformatori culturali anti-razionalisti come Rudolf Steiner. Il principale teorico italiano dell'estrema destra, Julius Evola, influenzato anch'egli dallo spiritualismo occultistico, fu anti-modernista, fortemente ostile alla scienza, e aderì a una concezione metafisica della storia'. Il relativismo attuale, soprattutto nei suoi risvolti più inclini all'irrazionalismo, ha ereditato una parte di questi spunti ideologici. In opposizione alle idee che ci provengono dall'illuminismo, il relativismo diffida della razionalità umana e in particolare ne teme gli esiti pratici. Come accadeva ai loro ascendenti romantici, i relativisti negano valore al concetto di progresso, non amano la scienza e detestano la tecnica, e non sono affatto certi della superiorità dei regimi democratici moderni su quelle società premoderne che ancora oggi sono caratterizzate, in varie parti del mondo, da autoritarismi tribali e da costumi feudali. Per un'analoga impostazione, il relativismo rivolge un occhio indulgente verso tutte le forme di religiosità legate a immediatezze emozionali e non rigidamente istituzionalizzate (entrando quindi in conflitto con le grandi Chiese, come quella cattolica), forme di religiosità i cui aspetti meno razionali esso considera, talora, l'espressione di un destino spirituale cui tende-
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Gli aspetti più cauti del relativismo filosofico meritano di essere difesi; ma i suoi eccessi sono talora irritanti. Sul piano filosofico e metodologico, il relativismo trae le più estreme conseguenze dal tramonto del positivismo, cioè dal fallimento dell'illusione, ancora viva fino agli anni Trenta del Novecento, che fosse possibile formulare spiegazioni oggettive, perfettamente aderenti alla realtà e persino conclusive di tutti gli aspetti del mondo fisico come di quello sociale. All'interno della filosofia contemporanea è facile identificare due aree di pensie-
ro, legate ai problemi del sapere scientifico, che hanno dato un importante contributo all'ideologia relativista. La prima di queste aree di pensiero, che fa sentire il suo peso soprattutto nell'Europa continentale, è nel segno dell'influenza di Nietzsche e di Heidegger. Al suo centro sta il concetto di ermeneutica, cioè della disciplina che da due secoli si occupa di interpretazione. Vale la pena di spendere qualche parola per chiarirne il significato. Nata dai problemi di lettura e di uso devozionale dei testi biblici, l'ermeneutica si è occupata, fin dall'Ottocento, anche di testi poetici e letterari e dell'interpretazione di leggi e testi giuridici. È stato naturale, in seguito, ritenere che l'interpretazione psicoanalitica dei sogni, in quanto «testi» simil-narrativi non rigidamente decodificabili, vada vista anch'essa come un tipico problema di ermeneutica. E non c'è dubbio che sia così. In tutti questi casi l'ermeneutica persegue un particolare progetto di conoscenza: ha per oggetto qualcosa che è fluido, complesso, e non riducibile a dati misurabili. L'ermeneutica si occupa di tutte le situazioni in cui un testo (oggettivo) non è separabile dal suo «vissuto» esperienziale (soggettivo). Per esempio, nella lettura di un sonetto del Foscolo da parte di una persona dotata di sensibilità poetica, oppure nella meditazione su una epistola di san Paolo da parte di un monaco nella sua cella, l'ermeneutica coglie la propria essenza in locuzioni come «risonanza affettiva», «libertà interpretativa», «evocazione e creatività d'immagini», «incontro ideale fra intenzione dell'autore e intenzione del lettore». È difficile ignorare l'importanza, l'autonomia e anche la particolarissima dignità umana di questa dimensione della vita culturale. Tutto questo resta vero anche se emerge, prepoten-
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rebbe la specie umana attraverso i millenni. La corrente oggi detta New Age raccoglie quest'ultimo tipo di orientamento, il quale assume un più netto carattere fideistico all'interno del vasto ambito delle tendenze relativiste. Negli ultimi due decenni del Novecento il relativismo ha esercitato un'influenza straordinariamente forte e perfino egemonica sulla filosofia, sulla critica letteraria, e su una parte delle scienze sociali; inoltre ha inciso in modo significativo sulla politica, sulle arti, sulle idee del femminismo. Molti intellettuali, e segnatamente quelli di formazione umanistica, sono stati conquistati da questo tipo di orientamento, spesso identificato con il post-modernismo. All'opposto però, e durante lo stesso periodo, l'orientamento relativista ha esercitato una influenza praticamente nulla sulle scienze esatte, sulle ricerche di economia e di scienze del comportamento, sulle scienze cognitive in generale e sulla psicologia scientifica in particolare. La tradizionale scissione fra «le due culture» (quella umanistica e quella scientifica) anziché attenuarsi ne è stata approfondita. Alcune note sul relativismo filosofico
te, un rischio: ed è quello di trasformare il testo in un pretesto. Se i testi di un'opera letteraria, o la registrazione di un sogno o di una massima filosofica, o la narrazione di un ricordo o di una favola, o perfino la sfocata fotografia di un lontano pianeta, diventano ogni volta il pretesto per le nostre fantasie e quindi per esercitare la nostra onnipotenza mentale, non solo il concetto di realtà perde di senso ma anche il concetto stesso di interpretazione ne viene svuotato. Può darsi che un dato testo contenesse un messaggio, magari cifrato, ma se ci abbandoniamo alla più selvaggia spontaneità interpretativa il risultato è che non ce ne accorgiamo neppure. Né vale l'illusione che un accordo interpersonale costituisca, di per sé, fattore di verifica. Infatti se due o più persone si trovano d'accordo circa un'interpretazione qualsiasi, noi possiamo eventualmente ricavare da questa concordanza molti insegnamenti interessanti sui meccanismi dei processi decisionali e sulla psicodinamica degli incontri consensuali, ma il fatto che esista un consenso non ci fornisce alcuna prova che quell'interpretazione sia sensata, e neppure — purtroppo — che sia minimamente intelligente. Particolarmente discutibile, però, è l'idea che anche gli eventi storici e sociali offrano l'occasione pertinente per un compito di tipo ermeneutico. Verrebbe spontaneo ritenere che la «lettura» di un piccolo evento sociale a cui assistiamo, come quello di due persone che litigano in mezzo alla strada, o lo studio di un grande evento storico come una rivoluzione, siano anch'essi un problema interpretativo, e proprio nel senso dell'ermeneutica. Ma questo è contestabile. Gli eventi sociali e storici possono essere interpretati in vari modi, però una loro corretta lettura dovrebbe tenere conto soprattutto di dati oggettivi: per esempio, per i piccoli eventi sociali,
di registrazioni e di dati sperimentali; per quelli storici di dati d'archivio. Qui l'aspetto interpretativo è in ogni caso subordinato alla ricerca dell'obbiettività. Inoltre l'utilizzazione di esperienze individuali («cosa ricorda?», «cosa vide?», «cosa avvertì in quel momento?») rischia di essere sopravvalutata nel nome di un rispetto sentimentale per la soggettività, e può diventare fonte di grossi errori. Per capire cosa accadde nella battaglia di Waterloo è meglio non chiederlo a Fabrizio del Dongo... Ora, la tendenza dell'area filosofica relativista è appunto di estendere l'uso del concetto di ermeneutica fino ad applicarlo non solo agli eventi storici e sociali ma, potenzialmente, a tutte le forme di conoscenza. In Hans-Georg Gadamer noi troviamo un interesse schiettamente umanistico per l'esperienza del conoscere ma anche una netta ripugnanza per le scienze naturali, tanto che nel pensiero dí questo filosofo l'ermeneutica si propone con molta chiarezza al posto dell'epistemologias. L'ambito post-nietzscheiano del relativismo, di derivazione ermeneuticista, comprende varie correnti non sempre ben catalogabili. La più importante, o almeno la più nota, è rappresentata da alcuni filosofi parigini, come Jean-Frangois Lyotard, con la sua teoria del post-modernismo, e Jacques Derrida, con il post-strutturalismo o decostruzionismo di cui è stato proponente9. I filosofi italiani del «pensiero debole», fra i quali va ricordato Gianni Vattimo, si sono collocati su posizioni simili. La seconda di queste aree di pensiero, presente soprattutto nella cultura anglosassone, concerne la filosofia della scienza e porta a conseguenze estreme la critica alle illusioni del positivismo. In parte si tratta dell'analisi di come procede il ragionamento scientifico in generale. Uno dei punti sui quali quest'analisi fa leva, è
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che non risulta ín nessun caso agevole accordarsi su quale sia l'essenza di alcuni concetti-base. Per esempio è tutt'altro che scontato il significato esatto di locuzioni come «ipotesi scientifica» e «spiegazione scientifica». In parte, anche, si tratta di qualcosa di più concreto, ossia dell'analisi sociale (ed eventualmente politica) del mondo degli scienziati, della loro cultura e mentalità, magari dei loro finanziamenti, e delle motivazioni che ne indirizzano ricerche e idee. Di contro all'oggettivismo ingenuo che fu la debolezza dei positivisti, la filosofia e la sociologia della scienza hanno dimostrato che importanti fattori di precarietà fanno parte del mondo della ricerca. Sia quando vogliamo analizzare la logica del ragionamento scientifico, sia quando esaminiamo la concretezza della vita degli scienziati, scopriamo che le formulazioni descrittive della realtà, a cui essi giungono, dipendono non solo dalla forza di dati verificabili ma anche da scelte, da accordi, da consensi, da convenzioni, perfino da costrutti metaforici. In questo senso la posizione dei relativisti non è che l'estremizzazione di una tematica più generale: per cui, semplificando un po' le cose, si potrebbe dire che mentre tutti i filosofi e sociologi della scienza sanno bene che esiste una quota ineliminabile di convenzionalità nella spiegazione scientifica, i relativisti tendono a sostenere che la scienza è solo una questione di convenzioni. A parere di Thomas Kuhn (sostanzialmente un relativista, anche se di solito non classificato come tale) quelli che gli scienziati considerano «fatti» esistono di volta in volta solo all'interno di un particolare paradigma scientifico, cioè all'interno di un modo particolare di percepire la realtà: ma i paradigmi cambiano nel tempo e, sempre seguendo Kuhn, il fatto di utilizzare
un paradigma piuttosto che un altro non è l'esito di una procedura razionale10. Nelle argomentazioni di Nelson Goodman i due enunciati «il sole ruota intorno alla terra» (concezione tolemaica) e quello opposto «il sole non si muove, è la terra che ruota» (concezione copernicana) sono ambedue corretti, perché ciascuno è relativo a un proprio contesto culturale". Su posizioni ancora più drastiche i filosofi francesi. A giudizio di Lyotard, la modalità propria di conoscenza del mondo di oggi, un mondo eclettico che viene definito post-moderno, segna la fine delle certezze conoscitive, dunque delle epistemologie, e quindi dell'epistemologia scientifica. Il mondo attuale è visto come caratterizzato dalla perdita di credibilità di tutte le «grandi narrazioni». Nella prospettiva di Lyotard la scienza, essendo la più tipica fra le grandi narrazioni, ha ormai perduto la sua autolegittimazione tradizionale ed è ridotta a essere una delle possibili ideologie.
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Il relativismo come ideologia Forse l'essenza del relativismo non andrebbe cercata nelle opere di quei filosofi a cui vengono accreditate le sue più tipiche formulazioni. La principale presenza storica, e anche sociale, di questa corrente di pensiero potrebbe non riguardare l'ambito della cultura primaria, elaborata dagli intellettuali e dagli esperti nelle discipline umanistiche (filosofi, critici letterari, ecc.), ma invece un ambito alquanto diverso. Il relativismo è dominante nella cultura secondaria, non caratterizzata dalla produzione di idee ma dal loro consumo. Una cultura, dunque, disposta a interessarsi con entusiasmo alle nuove vedute ma non altrettanto in grado di esercitare uno sguardo critico su di esse; una cultura accettan-
te, curiosa e sincera nelle sue curiosità, ma incline alla feticizzazione delle novità e facile preda di stereotipi e di sentito-dire. In sintesi, l'orientamento relativistico sembra avere ottenuto il suo più importante successo, e avere esercitato la sua massima influenza sociale (e, come vedremo, politica) non già in ambito specialistico ma nella grande massa della popolazione occidentale di medio livello di istruzione. Non a caso le idee del relativismo si presentano, agli occhi di chi vuole indagarne la natura, prevalentemente in forma fluida, come una somma di pareri orientati su ipotesi assai generali. Di rado noi riusciamo a trovare qualcosa che possa somigliare a una teoria relativistica coerente e compiuta. Questo rende difficile attaccare il relativismo: il bersaglio è sfuggente, mal codificato e anche un po' impersonale. Da parte nostra può risultare arbitrario, dunque, pretendere di esaminare criticamente questo o quell'autore identificabile con nome e cognome, o prendersela con un libro determinato, o con un articolo ritenuto serio e perciò emblematico di tutta la tendenza: il relativismo non ha un centro (e del resto, come capiremo subito, non vuole averlo) e non è mai in un luogo preciso. Gli esempi più tipici e chiari di relativismo non sono codificati in singole opere: al contrario, li troviamo spalmati in luoghi secondari, in articoli di quotidiani, in interviste, in dissertazioni marginali. Sono ovunque intorno a noi. E questo conferma un fatto: il relativismo non è una filosofia. È una ideologia diffusa. Incidentalmente, si può ricordare che il termine «ideologia» viene comunemente usato per designare insiemi di idee a carattere semi-codificato. Se vengono confrontate con le mentalità e con le rappresentazioni sociali", le ideologie hanno carattere più strutturato. Se
confrontate, all'opposto, con le teorie vere e proprie (cioè formulate come tali) e con i manifesti programmatici, le ideologie sono più fluide e hanno confini meno netti. Dopo Karl Marx e Karl Mannheim, che hanno scritto pagine classiche sull'argomento", ne percepiamo il carattere apologetico. In altre parole, nella lezione di questi autori le ideologie sono orientamenti che, presi abitualmente per scontati, non lo sono affatto; sono modi di rappresentare la realtà che vengono spacciati per naturali, ovvi e universali quando invece hanno una funzione difensiva. Le ideologie non amano le sottigliezze, ma soprattutto tendono a giustificare un assetto sociale dandone per implicita una certa lettura. In tutte le ideologie c'è qualcosa di sbrigativo e liquidatorio: osservati attraverso la finestra dell'ideologia tutti i gatti hanno lo stesso colore. Non a caso nel linguaggio corrente siamo soliti usare il termine con una connotazione peggiorativa: l'ideologia nazista, l'ideologia comunista, le ideologie nazionaliste, eurocentriche, razziste e intolleranti.
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L'ideologia relativista, però, non sembra intollerante: fa anzi della tolleranza la sua bandiera. E non sembra dogmatica: al contrario. Se il dogmatismo è la convinzione che esista una sola verità, il relativismo sostiene che vi sono infinite verità, o che la verità non è in nessun luogo. Se le ideologie tradizionali aspiravano a diventare sistema coerente di pensiero, il relativismo fa della frammentazione il proprio programma; se quelle cercavano oggettività, fatti e dimostrazioni, il relativismo nega che esista l'oggettività, non crede nella forza dei fatti, e ritiene che le dimostrazioni potranno sempre essere annullate da contro-dimostrazioni. Le ideologie
tradizionali tranciavano giudizi ma il relativismo non ama giudicare, e forse neppure ama scegliere. A chi vorrebbe, all'interno delle contraddizioni del mondo di oggi, identificare un problema qualsiasi con la speranza di venirne a capo, il relativista rivolge una domanda. Dice: «Ebbene, perché pretendi di collocarti fuori da quel problema? Forse tu ne fai parte!». O anche, e più radicalmente, a chi vorrebbe separare, come impongono la logica tradizionale e il buon senso, un soggetto che compie l'azione da un oggetto dell'azione stessa (il cane mangia la pappa; tu mi tieni nei tuoi pensieri; io ricordo un sogno, ecc.) i relativisti rispondono che la separazione fra soggetto e oggetto è metodologicamente discutibile. Spesso fanno appello a una parolina magica: complessità. Contestualismi, circolarità, retroazioni, paradossi, sono gli strumenti di cui si servono per cercare di dimostrare la loro raffinatezza di metodologi. Una conseguenza di questa raffinatezza è che i relativisti sono costretti ad applicare il relativismo anche a se stessi. Questo rischierebbe di metterli in difficoltà, ma i relativisti non si spaventano. Che vi sia un problema, peraltro, è evidente: se nessuna teoria è realmente fondata nulla va preso troppo sul serio, ed essi sono costretti a non prendersi troppo sul serio neppure quando predicano il relativismo. Però questa sfida viene serenamente accettata. Come risultato, i seguaci del relativismo tendono a esprimersi in modo asistematico, leggero, soggettivistico, e perfino usando argomentazioni non ben strutturate. Non si tratta sempre di una superficialità involontaria: può essere una superficialità voluta. È palese il loro desiderio di non incorrere nello stesso rimprovero rivolto agli altri, e cioè di credere nella sistematicità, nella pesantezza, nell'oggettività, nel carat-
tere solido delle documentazioni. Di qui una tendenza, osservata criticamente da Gabriele Lolli, ad abbandonarsi alle «parole in libertà», ossia a un modo di esprimersi che, pur pretendendo di nascondere messaggi di chissà quale valore, di fatto è — dice Lolli — «peggio delle associazioni libere». Questa varietà di spontaneismo verbale può forse contribuire a spiegare come mai parecchi relativisti, soprattutto se hanno la qualifica di filosofi, tendano a fare discorsi così scuciti da essere incomprensibili. Ossia, per continuare a utilizzare le osservazioni di Lolli, «il problema dell'autoriferimento è inevitabile per ogni relativismo (ma) se i relativisti dicono sinceramente di applicare anche a se stessi il relativismo, E...] quello che si ascolta è solo un racconto di quello che i relativisti hanno il ghiribizzo di dire»14. Il relativista non crede nella solidità delle competenze professionali — o meglio, non crede nelle competenze — e non crede nella scienza o la tratta come se fosse un mondo perverso. Oppure, ritiene che scienza e poesia si possano coniugare fra loro, e sempre con la speranza che la seconda provveda a rimediare ai guai della prima. Così, mescolando fantasia poetica e rappresentazione del reale, è facile trastullarsi con il genere di deliri descrittivi che negli anni Venti piacevano a D.H. Lawrence. «Cos'è la luna? — si chiedeva Lawrence in Fantasia of the Unconscious, nel 1922 — È essa un mondo freddo e morto? Certo che no! È un globo di sostanza dinamica, come il radium o il fosforo, coagulato intorno a un vivido polo di energia.» (Ma non tutti erano d'accordo e Aldous Huxley aveva buon gioco nel far notare che la luna può essere percepita o secondo un criterio empirico, e allora è una grande sfera rocciosa, o secondo una sensibilità al numinoso, e allora è una dea, ma non può
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essere una mescolanza delle due cose, per cui affermare che è fatta di radium non ha alcun senso1- 5.) Il relativista preferisce l'intuizione alla logica e l'estetica all'etica: considera il mondo e le avventure umane come un deposito di idee equivalenti e inesauribili, un'affascinante biblioteca di Babele che non ha né inizio né fine, un arcobaleno di cui è impossibile scomporre gli infiniti colori. Egli è — apparentemente — accettante, ma al tempo stesso poco amico di tutto ciò che abitualmente viene dato per solido, sensato e comprovato. Le formule che usa sono facilmente assimilabili da parte di qualsiasi persona intelligente, anche se poco istruita. Anzi, a molti giovani fa piacere sposare le convinzioni dei relativisti (secondo i quali, ricordiamolo, i «cosiddetti» dati e fatti di per sé contano poco o nulla) per concluderne che lo spendere tempo a studiare la matematica, la fisica o la fisiologia umana è superfluo se non nocivo. Nella stessa prospettiva sembrerebbe superfluo esaminare sistematicamente le realtà sociali, con tutta la fatica che ciò comporta: inchieste, questionari, statistiche, e così via. E senza dubbio può essere più piacevole, e soprattutto più facile, per chi abbraccia il relativismo prediligere le grandi sintesi a scapito delle minute analisi e anteporre un rifiuto liquidatorio della cultura occidentale al tentativo di capirne le correnti storiche. Così, è gradevole avere una visione globalistica (ossia «olistica»), oltre che spiritualista, della persona umana: assai più gradevole e veloce di quanto non sia l'immergersi nello studio inevitabilmente scompositivo, e oggi alquanto tecnico, dei suoi molteplici aspetti biologici, psicologici, sociali. Non è difficile percepire un limite nel modo di porsi del relativismo: la facilità, o meglio la sbrigatività. 5R
Nelle sue forme più strettamente legate al mondo giovanile e alle controculture, il relativismo è anti-sistema, anti-razionalista, incline a preferire la magia alla scienza, e disposto a esaltare i comportamenti marginali e perfino l'uso di droghe come libere forme di espressione personale. In modo particolare nel caso dei giovani e delle loro culture, ma anche più in generale, si può osservare che il concetto di responsabilità non è congeniale al relativismo. Il relativista è ostile a tutte le posizioni «forti», specie se istituzionalizzate: però sembra non prendere mai in esame la forza, e anche l'aggressività, della propria posizione. Se è vero che predica di lasciar fiorire i cento fiori delle culture e delle opinioni, in pratica ha le sue preferenze, talora persino faziose, e in ogni caso tende a considerare se stesso come un fiore migliore degli altri. Il relativismo, ideologia poco serena, vive delle proprie polemiche e i suoi bersagli sono tutti da una parte sola: il nemico del relativismo è, in sostanza, la razionalità occidentale. Il relativista, dunque, ama aprire nuove possibilità, ama interrogare, obbiettare, ironizzare, e anche mascherare il proprio pensiero dietro i paradossi. Non si prende l'incarico di formulare una teoria coerente, e meno che mai sistematica. Non giudica e non si espone. La sua è una posizione «di debole responsabilità»'6. Ma proprio in questo è una posizione efficace. Ciò che caratterizza l'ideologia relativista è una sfiducia nell'idea di oggettività, ma questo atteggiamento conduce, intenzionalmente o meno, ad attribuire un ruolo eccessivo alla soggettività. Se l'attività spiazzante e scettica del relativista svaluta l'universo degli oggetti, con le sue leggi, questo significa che l'atteggiamento dí chi è spiazzante e scettico ne viene potenziato. La forza 59
della realtà verrà ignorata: rimane il pieno potere del soggetto giudicante. Più in generale, esiste qui un invito all'autolegittimazione di qualsiasi atteggiamento verso il mondo: e non importa quanto realistico, ossia pertinente al mondo stesso. Si ha dunque una posizione che è antitetica a quella del ricercatore scientifico. Il lavoro di quest'ultimo consiste nel disciplinare (potremmo dire: nel riportare a terra) i voli possibili della propria intelligenza, piegandola alle verifiche sperimentali. Le idiosincrasie personali, le sviste e gli errori vengono pazientemente stanati, e ogni acquisizione conoscitiva è sottoposta a estenuanti controlli, nella consapevolezza che potrebbero sempre emergere nuovi dati di cui bisognerà tenere conto per modificare le teorie precedenti. Un atteggiamento di umiltà caratterizza il suo desiderio di comprendere i meccanismi della natura. Nel relativismo accade l'opposto. Gli atteggiamenti mentali, privi come sono di verifiche nella realtà (per i relativisti, la realtà non verifica nulla) acquistano autonomia. Gli atteggiamenti vengono valutati di per sé, o per come si presentano: e in pratica, accade che quasi sempre siano valutati utilizzando criteri moralistici. Ne nasce, come è facile vedere, una discutibile forma di psicologismo. Progetti, propositi, intendimenti, principi ispiratori, sono soppesati indipendentemente dai risultati che producono; per i relativisti, ostili come sono a qualsiasi criterio di oggettività, conta l'intenzione. Di qui nasce l'idea che non sia colpa di singole persone bene intenzionate se poi, per mille motivi, accadono imprevisti, e magari sciagure. Come osserva Giovanni Sartori, a questo punto ci troviamo di fronte a un modo di pensare di tipo religioso. Chi decide di sintonizzare le proprie azioni su
principi «nobili» o «superiori» (o su quella che ritiene sia la volontà di Dio) non tiene in considerazione gli insuccessi, e neppure i disastri: persevera senza deflettere anche nei casi in cui la sua fede produce lutti e distruzioni17. Qualcosa di simile, purtroppo, accade su un terreno più laico quando singoli comportamenti sono valutati non per quello che producono ma sulla base di un accreditamento della moralità e buona volontà del loro autore. Due esempi. Se un ministro della Repubblica, decisissimo a combattere la diffusione delle droghe, fa approvare una legge fortemente repressiva ma poco duttile che produce esiti negativi, tutti i commentatori di impostazione ideologica conservatrice e inclini al relativismo (e cioè, in pratica, poco inclini alle verifiche) saranno dalla sua parte perché loderanno la sua virtuosa risolutezza. Quanto poi agli effetti pratici della sua legge, sosterranno che si tratta di eventi sociali complessi valutabili in mille modi da tanti esperti di scuole scientifiche contrastanti, per cui nulla è sicuro né definitivo. Il secondo esempio, per quanto diverso, risponde alla stessa logica. Prendiamo il macchinista di un treno che si distrae ignorando una luce rossa e provoca un deragliamento con molti feriti. I commentatori di impostazione ideologica «democratica» (e, naturalmente, relativisti anch'essi) sosterranno che ogni evento ha tante cause, mai una sola: quell'uomo magari era in servizio da molte ore, aveva un salario mediocre, e in ogni caso si trattava dí una brava persona, padre di famiglia, sensibile ai temi sociali, incapace di volere il male, e così via. In conclusione, appellandosi alla comprensione psicologica e alla mobilitazione umanitaria, anche questi relativisti faranno leva sulla complessità dei contesti e
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sul moltiplicarsi delle concause, cercando attenuanti e puntando all'assoluzione del ferroviere. (Forse non dovrebbe essere necessario, a questo punto, rispondere a una possibile obbiezione. A proposito del macchinista distratto, infatti, ci si potrebbe chiedere: non è forse umano e giusto analizzare l'incidente in una luce di tolleranza? Ebbene, sarà pure umano: ma non è detto che sia interamente giusto. Infatti con questo tipo di indulgenza si rischia di perdere di vista il principio della responsabilità individuale, che è uno dei cardini della società in cui viviamo. Il macchinista si era assunto il compito di adempiere a tutti gli atti necessari per condurre felicemente il treno con i suoi passeggeri, e se in un momento di questo itinerario ha commesso un atto sbagliato, è responsabile anche di questo. Egli è quindi chiamato a rendere conto della propria distrazione sia alla collettività sia alle singole vittime, le quali hanno qualche diritto di chiedere che sia punito. E le vittime, in genere, sono anche le prime a desiderare che nulla del genere abbia a ripetersi, e quindi a pretendere che appropriate sanzioni, magari severe, contribuiscano a far sì che la prossima generazione di macchinisti sia più consapevole del significato del proprio lavoro.) I principi dell'oggettività della legge e della certezza della pena, pur essendo a fondamento della cultura giuridica moderna, hanno poche possibilità di trovare ascolto nella mentalità del relativista. In sintesi, e seguendo la nota distinzione di Max Weber, possiamo ben dire che il relativista propone un'etica delle inten18 zioni al posto di un'etica della responsabilità . La tendenza a svalutare, relativisticamente e soggettivisticamente, l'universo delle verifiche e il mondo delA7
le cose (potremmo dire: l'universo delle oggettività) ha ulteriori e più discutibili risvolti. Chi abbraccia l'etica dell'intenzione evita, un po' pavidamente, di farsi carico delle conseguenze dei propri atti: ma utilizza anche una sorta di seduzione. Infatti sa bene che le intenzioni sono sempre presunte, mai realmente accertabili, e conta sul fatto che è impossibile, nella pratica, tracciare la linea che separi la sincerità dalla malafede. Così, il relativista afferma sempre, veramente sempre, di essere in buona fede e di sentimenti retti e puri: e dà per scontato che questa sia l'unica cosa che importa. Insiste sul valore della sua soggettività e vuole essere creduto sulla fiducia. «Io sono del tutto sereno», è ciò che viene ripetuto da chiunque sia indiziato di gravi errori o seri reati, quando faccia affidamento sul relativismo del suo pubblico. Come siano andati realmente i fatti diventa un problema marginale. Non basta. L'ottenere con facilità un accreditamento di buona fede permette di procedere più oltre. In molti casi il relativista esprime orgoglio, talora protervia: egli può anche esibire una maniera «forte» di proporsi, e ciò accade quando coniughi la propria soggettività con l'idea tradizionale di volontà. In questo caso l'universo delle cose è preso ancora una volta, ma anzi in modo più accentuato, come un magma passivo, amorfo, svalutato, privo di esigenze proprie. Ne viene aperta la strada a un individualistico egotismo; un egotismo che assume facilmente le caratteristiche della volontà di potenza. In questa logica si suppone che il mondo resti in attesa, perché il suo destino è di venir plasmato da chi giganteggia imponendosi sull'opacità degli oggetti. Tutti sono invitati ad ammirare chi si distingue dalla massa perché osa stagliarsi in una posizione eroica.
Ma un atteggiamento del genere può suscitare qualche sospetto, e per un ottimo motivo: ha un ruolo centrale nell'ideologia dell'estrema destra. Il progetto autoritario, del resto, è la tentazione naturale di chi confida in un trionfo della soggettività; l'idea che la realtà degli oggetti, presa in generale, sia «una costruzione sociale»19, non può che piacere ai gruppi che si propongono un fine totalitario. Anche rimanendo fermi al terreno della quotidianità e magari all'atmosfera del salotto borghese, non soltanto il relativismo è la sola posizione filosofica che non viene mai messa in discussione dai relativisti, ma sembra che il relativista come singolo individuo, e soprattutto come filosofo, ci tenga a essere sempre un passo più avanti dei suoi interlocutori. Egli ama far credere che la saggezza stia nelle domande, non negli eventuali tentativi di risposta. Questo tipo di teorizzatore si fa incoraggiare, nel suo atteggiamento critico-destrutturante (o, come si usa dire, «decostruttivo»), da una motivazione psicologica che non è affatto distruttiva, e neppure sciocca: il risultato dell'intera operazione è autopromozionale e definisce un ruolo maieutico non privo di fascino. A volte gli è facile presentare la propria intelligenza come superiore alle altre; altre volte invece, qualora non desideri far leva sulla razionalità, utilizza un esibito «non sapere» e un «tutto accettare» per far capire di essere l'ultimo e il migliore deí saggi. Se le certezze sono tutte deboli, se ogni senso della realtà è debole, se la ragione è debole (Carlo Augusto Viano prese una volta in giro i «debolisti»2°), e se magari anche l'io è debole, allora sembra che qualcosa di forte venga pur sempre implicitamente salvato: un ruolo di guida. Se nulla è certo e tutto è in frantumi, il relativista come 64
persona rimane l'unica guida nell'incertezza, l'arbitro nella frammentazione che egli stesso ha promosso. E davvero, si potrebbe concluderne, se tutto ciò che era certo si è ormai «sciolto nell'aria» non resta che affidarsi ai santoni21. Nel concreto della vita sociale, del resto, i relativisti non hanno ritegno nel coltivare questa immagine. Difficilmente, poi, incontrano obbiezioni: è abbastanza raro che venga messo in discussione il loro diritto di porsi come guru intellettuali post-moderni. Come guide, del resto, capita che svolgano con qualche efficacia la loro funzione; noti personaggi — relativisti di successo — che predicavano un io debole, una volta conosciuti da vicino dimostravano di averne uno piuttosto forte22. A guardar bene — lo si può dire? — la presunzione dei relativisti non conosce limiti. Essi danno per scontato che, se la realtà esterna è soltanto un'opinione, ebbene, loro, in compenso, devono essere ben reali. Su temi come questi rischiamo tutti di scivolare nell'assurdo ma l'ipotesi opposta, e cioè che siano loro a non esistere, è legittimamente argomentabile sulla base delle loro stesse premesse. Se nulla è realmente tangibile, infatti, perché dovremmo essere proprio noi a fare eccezione? Non dovremmo essere molto tangibili neppure noi stessi. Vi sono stati autori i quali, coerenti nell'abbracciare l'ipotesi di un'evanescenza totale delle certezze abituali, hanno trovato lecito immaginare che la vita sia un sogno. Nel 1635 è questa l'ipotesi che Calderón de la Barca fa esprimere al principe Sigismondo quando, chiuso in una cella, si chiede se perfino il re non svolga le sue funzioni all'interno di un'illusione. Trionfale sul suo trono, anch'egli si inganna, sta solo sognando di essere il re: «Sudía el Rey que es Rey, y vive / Con este engafio mandando, / Disponiendo y gobernando...».
Il relativismo come risposta alle delusioni del progresso
Troveremo a varie riprese lo stesso tema in versioni più elaborate. Pochi anni dopo Calderón de la Barca col suo La vita è sogno, infatti, era arrivato Cartesio, proponendo l'ipotesi di un demone produttore di un'universale illusione, deceptor summe potens, summe callidus. Ma Cartesio, come sanno perfino gli scolaretti, riteneva fosse possibile sconfiggere il demone mediante il cogito al fine di salvare l'essenza dell'io pensante. Peraltro la logica del suo ragionamento è tutt'altro che inattaccabile: l'obbiezione più elementare riguarda proprio il sogno ed è stata esposta in modo convincente da un 23 filosofo dello scetticismo, Richard Popkin . A smentire Cartesio, infatti, capita a tutti noi di vivere sogni in cui siamo convintissimi di essere attivi e reali in mezzo a scenari inesistenti; a volte agiamo perfino drammi onirici in cui siamo altre persone. Altri hanno continuato a riflettere su questo tema. Due secoli dopo Cartesio — a riabilitare l'idea di Calderón de la Barca — troviamo nel secondo libro di Alice l'immortale bambina che scorge il Re Rosso il quale, addormentato sotto un albero, la sta sognando. La vicenda è nota: Alice viene subito avvertita da Tweedledum che deve stare bene attenta a non svegliare il Re, perché in tal caso lei svanirebbe all'istante24. Ma Alice non sa e lo apprende invece il lettore — che l'intero scenario con le sue avventure, al cui interno sta anche il Re Rosso, è soltanto il sogno di un'altra Alice, e cioè di Alice Liddell, l'amichetta di Lewis Carroll, la quale sta dormendo e alla quale il geniale narratore ha prestato le proprie fantasie. E naturalmente a questo punto è possibile una regressione all'infinito, perché Lewis Carroll stesso, e noi con lui, potremmo essere il sogno di un essere superiore, e così via.
Il relativismo moderno non nasce soltanto dalle mode intellettuali. È frutto, con ogni evidenza, delle grandi delusioni del Ventesimo secolo. In primo luogo la delusione della tecnica, con l'emergere dell'incubo atomico (1945-65) e poi con l'affacciarsi del rischio ecologico. Quando, a suo tempo, gli umanisti di tutti i paesi manifestarono una netta ostilità nei confronti degli scienziati nucleari la loro diffidenza non fu priva di giustificazioni: detto brutalmente, all'epoca della guerra fredda rischiavamo veramente dí saltare tutti per aria. Sembra più difficile, però, accettare che oggi sia fondata l'inimicizia popolare verso biologi ed esperti di ingegneria genetica. Comunque è rimasta, e anzi si è accentuata, una quota di paranoia collettiva nei confronti delle diavolerie di chi, lontano dalla vita delle persone semplici e ben protetto all'interno di misteriosi laboratori, ha la protervia di andare a manipolare gli aspetti più intimi della realtà. In secondo luogo, però, si può supporre che la fine dei grandi sogni di giustizia sociale abbia rappresentato una delusione ancora maggiore. Il principale crollo della speranza di poter costruire storiche alternative politico-sociali è avvenuto negli anni Ottanta col graduale fallimento e poi l'implosione degli Stati europei a economia socialista. La sostanziale scomparsa dell'utopia marxista dalla scena del dibattito politico si è poi associata alla scoperta, assai amara, del costo finanziario insostenibile di quegli apparati assistenziali socialdemocratici che per alcuni anni avevano promesso garanzie di benessere «dalla culla alla tomba». In Africa come in Asia e nelle Americhe, un solo
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meccanismo di sviluppo si è rivelato capace di funzionare davvero, e quindi dí garantire a miliardi di persone (basta sommare l'India alla Cina) per la prima volta nella loro storia la libertà fondamentale di non morire di fame e persino un accesso alle variegate licenze del consumismo. In pratica, ovunque è rimasta padrona assoluta del campo l'iniziativa liberal-capitalista con il suo accompagnamento, forse ineliminabile, di sperequazioni e di spietatezze. La progressiva diminuzione della percentuale della popolazione mondiale che vive con meno di un dollaro al giorno non ha impedito che la differenza di reddito fra i più ricchi e i più poveri aumentasse invece di decrescere. Le delusioni di uno sviluppo caratterizzato da aspetti preoccupanti, a partire dal consumismo più sfrenato e passando ber la carenza di fonti rinnovabili di energia fino alle minacce del riscaldamento globale, hanno sospinto vasti strati dell'opinione pubblica a investire in un ventaglio di proposte culturali apparentemente alternative, tutte caratterizzate da una sfiducia nella razionalità tecnico-scientifica. Vi si sono aggiunte le accuse di insensibilità morale ai paesi più ricchi. Soprattutto a partire dall'epoca dei bombardamenti sul Vietnam del Nord, nel 1964-65, la tendenza statunitense a intervenire militarmente sul territorio di paesi sovrani, e sempre con esiti negativi, ha sospinto i pacifisti di tutto il mondo su posizioni genericamente antioccidentali. Negli anni più recenti la sfida islamica ha ulteriormente contribuito a incoraggiare tutti coloro che da più di un secolo lamentano, in parte compiacendosene, il tramonto della civiltà euro-americana. È quindi comprensibile se oggi si accentua, in Europa e negli Stati Uniti, la nostalgia di società più semplici ed eventualmente più autoritarie. Non dovrebbe stu68
pire che tante persone accarezzino progetti che ripercorrono modelli utopistici, come la tentazione di fuggire dal mondo delle macchine per andare a cercare da qualche parte, per esemplo verso campagne intatte e monti favolosi (ammesso, naturalmente, che esistano), modi di vivere più naturali allo scopo di verificare, in compagnia di pochi e ben scelti amici, se sia ancora oggi possibile fondare l'esistenza umana su antiche saggezze. Non tutti si rendono conto che si tratta di illusioni, il cui carattere regressivo e talora francamente ingenuo dovrebbe essere evidente. Resta però un problema: è ben possibile che la cultura occidentale, amareggiata dai propri errori, fatichi a ritrovare un suo centro. Ma forse non lo desidera neppure, se è vero che essa abbandona l'unico centro possibile, che è anche la sua massima conquista: cioè la tradizione contraddittoria sì, e anche discutibile, ma per fortuna ancora identificabile e vitale, dell'illuminismo con le sue idee laiche e il suo appello alla universale capacità delle persone di ragionare con la propria testa. Relativismo e cultura di massa Sul piano sociologico e del costume, infine, bisogna tenere conto delle trasformazioni della cultura dí massa a partire dagli anni Sessanta. Circa quest'ultimo tema, le osservazioni da fare sarebbero più d'una. La principale è forse questa. Fino agli anni Sessanta del Novecento l'analisi delle società borghesi non era stata né banale né sommaria. Essa aveva fatto tesoro delle idee di grandi sociologi e filosofi: non solo di Karl Marx ma soprattutto di Max Weber, in parte anche di Pareto e di Durkheim, e dopo il '45 del 69
pensiero di una serie di osservatori del costume come Charles Wright Mills, Max Horkheimer e Theodor Adorno. Libri come L'élite del potere e Minima moralia, nei lunghi anni del secondo dopoguerra avevano rappresentato gli aspetti migliori e più lucidi dell'auto-osservazione critica della borghesia25. Fino alla prima metà degli anni Sessanta, dunque, la denuncia dei limiti della razionalità illuminista non fu esercitata soltanto da chi credeva nelle fantasie romantiche, né solo dai nostalgici delle forme autoritarie del potere: al contrario, fu attiva e vigile l'intelligenza di chi si muoveva all'interno di quella stessa razionalità per far leva sulle sue componenti autocritiche. In seguito però, tutto è cambiato ed è iniziata un'evoluzione culturale che ha portato alla situazione attuale. Nella seconda metà degli anni Sessanta l'attacco alle magagne del modo di vivere capitalista, che fino ad allora era stato prerogativa di minoranze istruite, è divenuto parte della cultura di massa. Nel corso di questo processo di popolarizzazione (e, se il termine non è troppo pesante, di volgarizzazione) delle critiche borghesi alla borghesia, le minoranze istruite rimasero spiazzate dal venir poste anch'esse sotto accusa dai giovani, che rimproveravano loro di essere parte delle élites. Intorno al 1968 gli intellettuali progressisti e marxisti si difesero in modo piuttosto debole, non opponendosi come avrebbero dovuto al dilagare di formule sbrigative e di parole d'ordine eccessivamente semplificanti. Anche chi scrive vi ebbe la sua parte di colpa. Insieme alle nuove critiche, intanto, riemergevano vecchie utopie. Piacque molto Herbert Marcuse non già nelle sue analisi, che erano intelligenti, ma quando preconizzava la fine del lavoro e l'avvento di una socialità narcisistico-estetizzante; né fu molto ascoltato chi
faceva cautamente notare il carattere regressivo della sua posizione26. In Occidente erano arrivati la libertà sessuale e il benessere economico, e non si trattava più di battersi contro le forme rozze dell'oppressione autoritaria, né di rivendicare la pura e semplice sopravvivenza quotidiana: eppure i giovani non amavano affatto il futuro che veniva loro prospettato. Le loro proteste erano spesso intelligenti, rivelatrici, piacevolmente dissacranti, suscitavano simpatia e facevano pensare; ma l'estremismo degli slogan pareva non trovare confini. La denuncia, non infondata, delle ipocrisie della vita ordinaria — famiglia, insegnanti, regole, ossequi confluiva in un attacco generalizzante alla modernità nel suo insieme. La critica alla razionalità illuminista sembrava fare tutt'uno con l'accusa di ogni nefandezza d'animo rivolta ai capitalisti e ai manager delle grandi corporations. Venivano presi a bersaglio, con l'intenzione di demolirli, tutti i modelli dell'intelligenza operativa, mirante all'efficacia: ed è vero che l'idea di razionalità strumentale era stata già criticata da Max Weber, però gli studenti non lo sapevano. Questo processo di invenzione e demolizione finiva col riabilitare un altro territorio culturale: veniva riproposto, in sostanza, lo stesso ambito ideologico della tradizione romantica. Si proclamavano desideri, follie, sragioni, eccessi, utopie. Nel quinquennio fra il 1968 e il '73 la rivolta contro il sistema esaltava se stessa, talora sentendosi onnipotente nel calore delle manifestazioni di strada e altre volte invece, sulla scia di droghe, meditazioni, guru e soggiorni in India, lasciando che riemergessero vecchie mitologie irrazionaliste. Subito dopo il '68 si diffusero in milioni di copie i libri di Carlos Castaneda (A scuola dallo stregone, e altri) e il loro sensazionale successo mise in luce l'evoluzione culturale dei
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nuovi lettori: piaceva l'idea di un apprendimento iniziatico a carattere un po' barbarico, anti-intellettuale e non alieno da qualche complicità con le droghe psichedeliche. A difesa delle nuove narrazioni esoteriche va detto che si trattava di opere meno demenziali di quelle degli occultisti degli anni Venti e Trenta, ricordati più sopra; eppure l'assoluta mediocrità delle pagine di Castaneda saltava agli occhi di chiunque avesse conservato un minimo di senso critico. A moltitudini di giovani sembrava facile, con o senza l'aiuto di Castaneda, navigare nell'eccezionale. Viceversa restava sullo sfondo, sfocata, la realtà della vita di tutti i giorni nel nostro mondo di città e campagne, di fabbriche e di scuole dell'Occidente, con i suoi concreti problemi; si riteneva che fornisse dati non essenziali. Non è detto che negli anni successivi le cose siano molto migliorate, almeno dal punto di vista dell'accesso al realismo. La caduta delle speranze politiche fu già presente negli aspetti più disperati del settarismo rivoluzionario degli anni Settanta; dieci anni più tardi, il collasso delle società socialiste contribuì al clima di rabbia, e questa volta anche di delusione. Molti cominciarono a pensare che il futuro non fosse più modificabile, e non stupisce che questo abbia comportato l'emergere di tratti di cinismo. Il «nulla funziona» sembra si sia legato, e proprio intorno a quell'epoca, all'idea diffusa che «qualsiasi cosa funziona», anything goes. Da allora, l'integrazione delle classi subalterne nel progetto dell'economia imprenditoriale e l'unificazione dei consumi hanno contribuito al disincanto: da un lato, si è avuta la corsa alla spesa e alle ricreazioni del tempo libero; dall'altro, uno scontento incapace di trovare le parole per esprimersi. Se nel '68 i giovani parlavano moltissimo, e spesso in modo brillante, vent'anni dopo sembravano 72
divenuti affetti da qualche difficoltà a esprimersi. Il disagio giovanile si scopriva privo di idee strutturanti. Con un effetto da «rompete le righe» a partire dagli anni Ottanta e Novanta ognuno si è ritrovato libero di scegliersi il suo spicchio di credenze e di tics comportamentali. Una sola cosa era divenuta certa e chiara: da quel momento in poi chiunque aveva diritto alla sua porzione di miti e di leggende, e nessuno aveva il diritto di sindacare la sua scelta. Come per gli «Swatch» da polso e per i telefoni cellulari anche i modelli di pensiero e gli slogan, filtrati dall'alta cultura fin verso i medi e bassi livelli di istruzione, erano diventati intercambiabili, numerosi, irritanti, indispensabili. La cultura popolare e di massa (un tempo avvicinata alla «cultura operaia e contadina») adottando gradatamente i gusti della borghesia ha visto accorciarsi la distanza che ancora la separava dal midcult di Dwight MacDonald: cioè da quella media cultura che ama i «sentito dire» intellettuali, è vagamente pretenziosa, e si nutre del tipo dí banalità che Gustave Flaubert si era divertito a raccogliere in Bouvard et P écuchet27 . L'assenza di una cultura scientifica ha favorito, in particolare in Italia, l'assimilazione di un orientamento relativistico degradato, consistente nel ritenere che tutte le idee, anche le meno verosimili, si equivalgano e abbiano identico diritto a una propria nicchia di credibilità. Il relativismo come forma di qualunquismo ideologico sembra essere stato uno dei modi in cui si è risolta, negli ultimi due decenni, la cultura del malumore. Imbrigliate le culture politiche di opposizione, diminuite drasticamente le speranze di cambiare il mondo, quella che ne ha fatto le spese è stata l'idea di progresso.
Capitolo 3 DALL'ANTROPOLOGIA CULTURALE ALL'ANTIPSICHIATRIA. IL RELATIVISMO CULTURALE E I SUOI LIMITI
Relativismo contro universalismo Con parole misurate, nel 1871 uno dei padri dell'etnologia, Edward B. Tylor, spiegò cos'è una cultura. «La cultura, o civiltà [...i è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società»'. I relativisti hanno molte ragioni dalla loro parte quando sostengono che tutti i popoli meritano il nostro rispetto per i modi in cui sono legati alle proprie tradizioni. Il dibattito corrente, infatti, non riguarda tanto gli orientamenti di principio dei relativisti quanto le posizioni più estreme, cioè i casi in cui le loro idee si prestano all'accusa di essere diventate dogmatiche. Si può tuttavia sostenere che l'impianto stesso del relativismo culturale, cioè il suo orientamento di fondo, è più fragile di quel che sembri a un esame superficiale. Circa lo spinoso problema del confronto fra le culture, il relativista prende le mosse da una considerazione che, nella sua genericità, è facile condividere. Esiste un principio di indubbio spessore etico che suona come segue: ogni cultura umana ha, oltre che un proprio 75
equilibrio, i propri valori; ed è giusto che vengano rispettati. Storicamente, questo principio si lega alle idee di tolleranza che si fecero strada nel Seicento e Settecento a partire dalle idee della Riforma protestante e dalle prime formulazioni moderne di un'etica laica. L'immagine dell'autonomia e dignità dei popoli della terra è una conquista centrale, oltre che relativamente recente, del pensiero della modernità: in quest'ottica non soltanto tutti gli esseri umani sono fondamentalmente uguali, ma soprattutto hanno gli stessi diritti. Già prima della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, del 1789, e poi nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, l'idea del carattere universale della dignità della persona, figlia del pensiero illuminista, è vista come il fondamento della democrazia. Ma è anche il primo e più forte baluardo contro il pregiudizio etnico; ne derivano formulazioni molteplici e sensate. La più semplice si riferisce al diritto all'ascolto. Gli stranieri portatori di costumi insoliti sembrano ragionare in modo diverso da noi, ma hanno diritto di parola e forse meritano, almeno una volta, la stessa attenzione che diamo al nostro vicino di casa quando pensiamo che abbia qualcosa da raccontarci. E allora, conoscendoli più da vicino, scopriamo che quegli stranieri hanno una mente non dissimile dalla nostra e spesso condividono con noi talune preoccupazioni. Ci potrebbero raccontare cose inattese: a volte scopriamo che culture lontane ospitano straordinarie tradizioni di pensiero e grandi capacità di sguardo critico. Nel 1721 le Lettres Persanes di Montesquieu mostrarono agli intellettuali europei come i costumi di corte potessero apparire irrazionali agli occhi di colti viaggiatori provenienti dall'Oriente; i primi tentativi di ca-
pire la vita di popoli lontani rilevavano come i bisogni fondamentali — cibo, riparo, cura dei figli — siano ovunque gli stessi; e se oggi chiediamo a un imprenditore come sono i suoi operai, che vediamo affaccendati nei capannoni e che provengono dai più svariati paesi extraeuropei, la risposta più comune è: «sono tutte persone diverse una dall'altra, ci sono individui onesti e altri un po' meno, quelli che capiscono subito e quelli che fanno fatica a imparare, ma alla fine tutti lavorano e ragionano esattamente come noi». E per quanto riguarda la storia del mondo, persino i lettori di medio livello di istruzione sono in grado di constatare, attraverso racconti e romanzi ben tradotti, che i testi della letteratura classica giapponese, scritti molti secoli fa, parlano di gelosie, passioni e ambizioni che sono straordinariamente simili a quelle documentate dalle grandi narrative occidentali. La scoperta della sostanziale unità psicologica della specie umana sta dunque alla base del relativismo culturale? Ebbene, e questo potrà sorprendere, bisogna rispondere di no. È importante sottolineare, fin dall'inizio del nostro esame del problema, che il relativismo culturale, pur essendo un discendente del pensiero della modernità, si dissocia in modo sostanziale da questa tradizione. I relativisti, in altre parole, non si riallacciano all'universalismo, figlio del pensiero laico dell'epoca dei Lumi: al contrario, hanno un'idea particolaristica e romantica dei popoli e dei paesi. Non credono che i modi di ragionare siano ovunque gli stessi: preferiscono ritenere che differiscano, e molto, a seconda delle culture. Per loro, la forza delle diversità prevale sui diritti dell'eguaglianza. Non mancano le testimonianze di questa posizione. Scrive l'antropologo Francesco Remotti, alla voce «Re-
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La scuola antropologico-culturale statunitense nasce dalle idee di uno dei padri dell'etnologia, Franz Boas, che fu docente negli Stati Uniti nei primi decenni del Novecento. Glí scritti e l'insegnamento di Boas ebbero meriti non piccoli, perché contribuirono a liberare lo studio delle società umane dalle strettoie di un orientamento evoluzionistico ingenuo. In precedenza, l'ideologia del periodo coloniale e gli schematismi etnocentrici, nel classificare i paesi extraeuropei a seconda del loro grado di arretratezza, avevano ostacolato lo studio
delle singole culture. Fu merito di Boas, uno studioso cauto e concreto, il contribuire a correggere questa tendenza restituendo dignità alle popolazioni più lontane dal mondo occidentale. I suoi allievi, peraltro, furono meno cauti quando si incaricarono di radicalizzare la sua impostazione. Fra questi una singolare figura di attivista intellettuale, Ruth Benedict, iniziò nel 1922 a collaborare con Boas. Influenzata dalle idee di Nietzsche, anticonformista, antirazzista, pioniera del movimento lesbico, inserita nella migliore cultura newyorkese, la Benedict fu per molti anni una figura di spicco più per la sua militanza e per l'intelligente incisività del suo pensiero che per le sue scoperte. Le sue idee esercitarono una forte influenza su un'altra antropologa di quindici anni più giovane, sua allieva e amica, che assurse rapidamente a una grande notorietà: Margaret Mead. Quest'ultima sposò un inglese di notevole fascino personale, nonché dall'ingegno brillante e dagli interessi poliedrici, Gregory Bateson, spesso considerato uno dei teorici dell'orientamento relativistico in generale, e con lui ebbe una intensa collaborazione intellettuale. L'enorme successo degli scritti della Benedict e della Mead negli anni Venti e Trenta non fu dovuto al rigore delle loro indagini ma alla loro passione ideologica. Un binomio di idee era destinato a incontrare il favore del pubblico: in primo luogo l'idealizzazione rousseauiana e romantica delle comunità preletterate, e in secondo luogo la convinzione che la mente dell'uomo fosse libera da influenze biologiche e venisse interamente plasmata, fin dall'infanzia, da fattori storici e ambientali. Una esaltazione di ottimismo riformatore ispirava questa doppia teoria: in primo luogo sembrava giusto ispirarsi alla felicità dei primitivi per tornare, anche
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lativismo culturale» della Enciclopedia delle Scienze Sociali 2: Alla base del relativismo vi è una profonda diffidenza nei confronti dell'universalità di strutture psichiche o mentali di ordine naturale — che accomunerebbero tutti gli uomini. Il relativismo non nega che esistano strutture del genere; ritiene tuttavia che esse rappresentino una componente per così dire minoritaria dell'organizzazione umana: più importante appare invece la dimensione culturale, con la sua inevitabile variabilità, per cui ciò che contraddistingue l'uomo nella sua vera essenza sarebbe proprio questa variabilità, anziché l'uniformità di leggi o strutture naturali.
Questa convinzione dei relativisti ha un difetto: è mal motivabile. Si fa forte delle idee di una corrente particolare degli studi etnologici, quella dell'antropologia culturale americana, che ebbe il suo periodo d'oro fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del Novecento. È vero che l'antropologia culturale ci ha arricchiti di un lascito importante di idee: però le sue teorie erano basate su dati ormai in gran parte superati. L'antropologia culturale americana e la sua eredità
in Occidente, ad abitudini di vita più semplici e spontanee; in secondo luogo sembrava certo che, essendo l'animo umano perfettamente modellabile dall'ambiente, sarebbe bastata una riforma dei metodi educativi per dare luogo a società migliori. Neí quattro decenni centrali del Novecento non soltanto questa scuola particolare del pensiero etnologico e antropologico ma una intera opinione pubblica si convinse, in Europa e in America, del primato assoluto dei fattori storico-culturali a scapito dí quelli biologici e naturali. Lo stile di personalità e tutte le possibili caratteristiche cognitive e comportamentali di ogni individuo venivano attribuite, pur senza mai averne solide prove, a elementi «appresi»; così, non cessava la tendenza a fantasticare che esistessero, nel mondo, fondamentali differenze nella strutturazione psichica dei popoli. Venne proposto di identificare ogni gruppo etnico, separandolo dagli altri, a seconda di caratteristiche psicologiche altrettanto suggestive quanto immaginarie: Edward Sapir considerava gli eschimesi estroversi e gli indiani introversi, e Ruth Benedict sosteneva che i Dobuani sono paranoici, gli indiani Zuffi apollinei (i suoi preferiti: a suo avviso una società quasi perfetta), i Plains dionisiaci e i Kwakiutl, invece, megalomani. Oggi queste sciocchezze fanno sorridere, ma all'epoca erano prese sul serio. L'idea di base era sempre quella, e cioè che in ogni cultura gli individui sentono e pensano in modo diverso, cioè sentono e pensano relativamente a quella cultura: ma la grande novità consisteva nel suggerire correttivi alla società occidentale. Le teorie di Sigmund Freud, che ebbero un notevole successo fra gli intellettuali nel periodo fra le due guerre mondiali, parevano dimostrare che le esperienze
infantili determinassero la psiche adulta, e facevano fiorire proposte educative anticonformiste e antirepressive. Anche il pensiero di Karl Marx, secondo il quale i modi di produzione dei beni plasmano il modo di pensare, non mancò di esercitare la sua influenza, in particolare durante gli anni Trenta, contribuendo all'idea più generale che fossero i modi di vita a determinare le disposizioni, buone o cattive, della mente di chiunque. Andava nella stessa direzione la scuola comportamentista, che dominò la psicologia sperimentale dagli anni Venti a tutti gli anni Cinquanta: questa sosteneva che il cervello è una tabula rasa, al punto da suggerire che un bambino preso a caso potrebbe sviluppare qualsiasi talento desiderato dai suoi educatori. In sintesi, attraverso una molteplicità di approcci il riformismo sociale esaltava l'ipotesi centrale del culturalismo: cioè che non vi fosse nulla di costante, e soprattutto nulla di rigido, nella mente delle persone. La cultura era tutto, la biologia non contava nulla, e ogni miglioramento delle attitudini diventava possibile con accorgimenti opportuni. Furono in particolare Ruth Benedict e Margaret Mead a insistere sulla modificabilità della natura umana, ma erano numerosi gli antropologi che ritenevano non si dovesse parlare di caratteristiche psicologiche in generale, cioè comuni a tutti gli individui. Nulla di costante neppure nelle cure materne elementari, né addirittura nelle emozioni: Margaret Mead e Gregory Bateson si ingegnarono a sostenere che le emozioni, contrariamente a quello che aveva pensato Charles Darwin, non sono l'espressione naturale del substrato biologico della mente ma nascono anch'esse all'interno delle convenzioni culturali e quindi andrebbero studiate come un aspetto della infinita variabilità dei modi di espri-
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mersi. Altri antropologi si collocarono sulla stessa li3 nea . Leggendo oggi le opere dei primi antropologi culturalisti si constata una singolare mescolanza di osservazioni «sul campo», e di voli teorici dominati da un ingenuo idealismo. A volte si ha l'impressione di essere di fronte a teorie che non nascono dall'osservazione ma sono confezionate per sedurre il pubblico; talora il disprezzo per la realtà è così patente da sfiorare i confini della frode. È questo il caso della più celebre fra tutte le pubblicazioni culturalistiche, il libro Coming of Age in Samoa, di Margaret Mead, pubblicato nel 1928 e presto divenuto un best seller 4 . La Mead era stata a Samoa, in Oceania, per alcuni mesi, e nel suo libro descriveva una cultura tollerante, rilassata, addirittura idilliaca, caratterizzata da un'incredibile gentilezza d'animo e da una generalizzata libertà dei costumi sessuali. La scarsezza della documentazione e l'evidente partigianeria ideologica dell'autrice misero vari studiosi sull'avviso (Sapir fu uno dei meno convinti): ma fu solo nel 1983 che venne resa pubblica, con una documentazione ineccepibile, la falsità dí tutto ciò che aveva raccontato la Mead. L'etnologo neozelandese Derek Freeman, dopo aver passato sei anni a Samoa, pubblicò un libro in cui dimostrava che la società samoana era una delle più violente del mondo, ed era caratterizzata da costumi particolarmente repressivi nell'ambito della vita sessuale'. Egli non si limitò a documentare che nella società samoana degli anni Sessanta le gravi aggressioni fisiche erano una volta e mezzo più frequenti che negli Stati Uniti e quasi cinque volte più frequenti che in Australia, e la percentuale di stupri doppia che negli Stati Uniti e venti volte maggiore che in Gran Bretagna, ma si premurò di trovare anche la documentazione relativa al
periodo in cui la Mead era stata a Samoa, quando i casi di violenza sessuale furono particolarmente comuni e le trasgressioni alla morale sessuale tradizionale venivano punite anche con la morte. Fu evidente che la Mead, forse perché era ancora molto giovane ed era stata trascinata dai suoi entusiasmi relativistici, aveva confuso le sue fantasie con ciò che aveva avuto sotto gli occhi. Il «caso Freeman» suscitò enormi polemiche, tuttora non interamente sopite; dal 1983 a oggi, però, non soltanto la documentazione di Freeman non è mai stata confutata, ma nuove acquisizioni scientifiche hanno dimostrato, più in generale, l'inconsistenza delle tesi care agli antropologi culturali americani. E veramente, ci si trova di fronte a qualcosa di non intieramente spiegato: come mai, e non soltanto nel caso della Mead, una così sistematica deformazione dello sguardo? Come fu possibile che l'ideologia relativista, il culturalismo, e più in generale l'anti-biologismo, prendessero piede fino a negare i più semplici dati della realtà? Qualsiasi antropologo privo di paraocchi, che si fosse seduto per un pomeriggio in uno spiazzo fra le capanne di un villaggio tropicale a osservare i giochi dei bambini, avrebbe visto ciò che anche oggi un qualsiasi viaggiatore occidentale può constatare, magari con sorpresa: e cioè che la mimica, gli scherzi, le risa e i pianti, il «far finta», il provocare e il sedurre, le manifestazioni di rabbia e quelle di dolore dei piccoli fra i tre e i sei-sette anni che interagiscono liberamente fra loro sono estremamente simili in tutte le latitudini e in tutte le culture. Così, qualsiasi madre con più di due figli avrebbe potuto dire agli psicologi culturalisti ciò che le madri hanno sempre saputo, e cioè che non è vero che tutto dipende dall'ambiente o dall'educazione, perché fratelli (e sorelle) trattati in modo identico dagli stessi genitori manifestano
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fin dai primi mesi dopo la nascita comportamenti diversissimi e palesemente legati a fattori innati. Quando nel 1972 Paul Ekman pubblicò i risultati delle sue ricerche sull'universalità delle manifestazioni emozionali, dimostrando che le espressioni del volto umano, oltre a essere sempre le stesse, sono riconosciute nel loro significato in tutte le culture, i suoi dati fecero sensazione: ma ci si può chiedere come fosse possibile che, prima di lui, nessun antropologo moderno avesse notato il fatto che, quando si incontrano due persone che non hanno alcuna lingua in comune, la mimica facciale spontanea costituisce un codice comunicativo del tutto privo di equivoci6. La formula biologico = cattivo, culturale = buono non ha alcun fondamento, ma venne data universalmente per valida nel periodo dagli anni Venti fino agli anni Settanta, e tuttora ne persistono i residui in taluni ambienti. I motivi di questa deformazione ideologica furono, probabilmente, più d'uno. Il principale fattore di errore consistette nell'incapacità di superare un'immagine pre-darwiniana della natura umana, imbevuta di idealismo e di spiritualismo. Il desiderio dei culturalisti era, ancora una volta, quello manifestato dagli oppositori di Darwin: allontanare il più nettamente possibile la mente umana, nobilitata nella cultura, da quella animale, legata agli istinti. L'importante era che la prima mantenesse una qualche evidente superiorità: doveva necessariamente esistere un salto inequivocabile, uno scalino nettissimo — mai esaminato con attenzione, però, sempre dato per scontato — fra l'uomo e l'animale. Secondo alcuni si trattava ovviamente del linguaggio, secondo altri era altrettanto evidentemente «la coscienza» a fare la differenza (qualsiasi cosa ciò significasse), altri parlavano del senso di
colpa, o dell'uso delle mani, o della fabbricazione di strumenti, o della trasmissione di informazioni apprese, e così via: ogni volta liquidando il problema con l'affermazione che la grande differenza fra uomo e scimpanzé (o altre specie) era lì, era una sola e stava sotto gli occhi di tutti. Ma se queste ingenue certezze erano ancora compatibili con le conoscenze scientifiche del 1950, mezzo secolo dopo erano diventate insostenibili: oggi possiamo ben dire che ogni anno si aggiungono nuovi dati, i quali ci dimostrano che le differenze biologiche fra la specie umana e quelle animali sono, sorprendentemente, piuttosto piccole, e nessuna di esse veramente netta. In realtà, íl desiderio di una differenza categoriale, o ontologica, nascondeva la richiesta di una garanzia di carattere metafisico. In questo senso il culturalismo potrebbe essere visto come l'estremo tentativo di salvare l'illusione che l'uomo sia caratterizzato dal possesso di un'entità spirituale negata agli animali: un'entità o diffusa nel corpo, o nascosta nel cervello, o aleggiante fra le persone intente a creare cultura. Da sempre la credenza nell'anima, eventualmente laicizzata ad uso degli umanisti, si è legata a un discorso esortativo: bisogna combattere contro le idee materialiste perché si basano sull'egoismo e predicano la sopraffazione. Ancora in anni recenti, particolari eventi storici hanno incoraggiato questo tipo di appelli. La fine della seconda guerra mondiale, svelando gli orrori di una tecnologia al servizio dello sterminio, segnò un netto incremento delle polemiche antimaterialiste: il nazismo aveva dimostrato fin dove poteva arrivare la teoria dei diritti del più forte. Su questa base lo sdegno dei democratici di tutto il mondo favorì il diffondersi di idee
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antirazziste ingenue, secondo la sciocca formula biologismo = razzismo. A sostenere le illusioni culturaliste persistevano vecchie nozioni di biologia, secondo le quali gli aspetti istintuali della natura umana sarebbero esclusivamente orientati all'insensibilità e alla prepotenza, mentre la cooperazione e l'altruismo nascerebbero soltanto dalla coscienza e dalla civiltà. Che questo stereotipo fosse falso, lo aveva intuito già Darwin un secolo prima, ma bisogna ammettere che è stato necessario attendere gli ultimi decenni del Novecento per capire quanto fosse falso. Gli studi sui fondamenti della cooperazione — sia animale sia umana — hanno dimostrato in modo esauriente che le forme più complesse di dedizione e di compassione si sviluppano non già contro le disposizioni «biologiche» e «istintuali» (ingenuamente credute asociali) dell'individuo, ma a partire da bisogni innati, biologicamente fondati, di socialità, solidarietà e reciprocità. Da alcuni anni sappiamo molto bene che sia l'autoaffermazione (e competitività) da un lato, sia la socialità e la disponibilità a sacrificarsi dall'altro, coesistono con pari dignità in ciascuno di noi. Tutte queste disposizioni naturali, nessuna in partenza migliore e nessuna peggiore, sono necessarie per sopravvivere e sono le premesse per lo sviluppo di qualsiasi società. E naturalmente, come sempre, le disposizioni comportamentali e affettive (egoiste o generose che siano) anche se assumono le forme imposte da costumi e culture non sono mai soltanto culturali così come, del resto, non sono mai soltanto istintuali. Infine, non si può non menzionare il fatto che gli argomenti impiegati dai culturalisti contro gli studiosi interessati ai temi biologici furono inquinati con sorprendente frequenza da episodi di disonestà intellettuale.
Un atteggiamento affine alla particolare passione che aveva indotto Margaret Mead a inventare una Samoa inesistente fece sì che venissero attaccati con eccessiva veemenza biologi e studiosi darwiniani del comportamento come Wilson e Dawkins negli anni Settanta, e nei decenni successivi altri scienziati non relativisti e di orientamento materialista. Le accuse di determinismo, di riduzionismo e di meccanicismo si basarono frequentemente su riassunti falsi delle loro posizioni, e perfino su citazioni inventate. Fra gli altri casi, Steven Pinker ha fatto osservare che una frase sintetica (e anche un po' provocatoria, ma non scorretta) scritta da Richard Dawkins, in cui riferendosi alla teoria dell'evoluzione dice che i nostri geni «ci crearono, nella mente e nel corpo», fu citata per ben cinque volte in pubblicazioni diverse allo scopo di confutarla, ma alterata come segue: «I nostri geni ci controllano, nella mente e nel corpo», una sciocchezza che non era mai stata pronunziata da nessuno'.
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Dall'antropologia culturale all'antipsichiatria Il relativismo degli antropologi culturali americani, per quanto fosse condizionato dalle proprie ingenuità, condusse ad aperture teoriche nuove, alcune delle quali non prive di interesse. Fra l'altro, portò ad approfondire l'osservazione che se è vero che ogni cultura codifica di volta in volta ciò che si fa e ciò che non si fa, essa definisce anche in senso più generale ciò che è normale e ciò che non lo è. Abbiamo visto che Ruth Benedict non si trattenne dal classificare certe popolazioni utilizzando criteri psicopatologici (culture megalomani, paranoidi, ecc.); nel 1934 essa gettò anche le basi per una va-
rietà particolare di relativismo normativo, quello che difende l'opinabilità del concetto di disturbo mentale8. Bisogna dire che l'antropologa newyorkese si tenne su una linea prudente, ma già a quell'epoca vi fu chi semplificò, estremizzandola, la sua posizione. Il relativismo culturale, spesso associato a una lettura parziale delle idee di Freud e di Jung, venne utilizzato nei circoli intellettuali europei degli anni Venti e Trenta per sostenere che la locuzione «disturbo psichico» non indica affatto la presenza di una disfunzione intrinseca all'individuo, ma significa soltanto che alcune persone presunte sane hanno espresso un giudizio squalificante su altre presunte malate. Nelle conversazioni degli ambienti letterari di quegli anni era corrente un dubbio relativistico non del tutto infondato, ma più suggestivo in teoria che verificabile nella pratica: ciò che è considerato folle in un ambiente potrebbe essere considerato normale in un altro. Era stato determinante per il nascere di questa prospettiva l'anticonformismo delle avanguardie artistiche, e quindi il fascino della tradizione romantica: negli anni Venti i surrealisti parigini si erano compiaciuti di esaltare la sregolazione della mente attraverso le droghe e la «scrittura automatica» e avevano attaccato la psichiatria e gli psichiatri negando loro ogni legittimità. Nel corso dei decenni successivi varie correnti di pensiero contribuirono a dare forma a un movimento di opinione che crebbe gradatamente fino a esplodere in una improvvisa fortuna di pubblico negli anni Sessanta e Settanta: l'antipsichiatria. La corrente ideologica che fornì le basi generali all'antipsichiatria fu sempre il relativismo: sia quel particolare relativismo normativo che la scuola antropologico-culturale aveva reso popolare in Occidente («la normalità non esiste in generale»), sia un relativismo più fi-
losofico, secondo il quale l'idea di oggettività scientifica non ha fondamento ed è particolarmente priva di valore per quanto concerne lo studio della mente. Alcune critiche alla psichiatria vennero da particolari scuole di impronta psicoanalitica. Gli sviluppi americani delle teorie psicodinamiche incoraggiarono l'ipotesi che la natura umana fosse sempre fondamentalmente buona e sana, e che il problema del disagio psichico andasse affrontato non già facendo riferimento all'idea di disfunzione, e meno che mai a quello di malattia, bensì in termini «umanistici», ossia considerando le sofferenze mentali come una fatica transitoria sulla via della realizzazione di sé. Il principale esponente della scuola psicoterapica detta umanistica fu Abraham Maslow, amico e per qualche tempo allievo di Ruth Benedict ed egli stesso interessato a ricerche etnologiche. Un'altra importante corrente di ricerca contribuì alla nascita delle teorie antipsichiatriche: la sociologia della devianza. Già negli anni Quaranta Edwin Lemert aveva proposto una importante variazione alla teoria parsonsiana del controllo sociale, descrivendo processi sociali che «producono devianza». Di qui la «teoria dell'etichettamento», secondo la quale il fatto di percepire un individuo come deviante, per esempio etichettandolo come «soggetto antisociale», contribuisce a indurre in lui un comportamento conforme all'etichetta. Ne nacquero negli anni Cinquanta e Sessanta posizioni più radicali. A parere di Howard Becker, per esempio, in Outsiders (1963) il deviante è semplicemente colui al quale l'etichetta di deviante è stata applicata con successo9. In realtà il discorso di Becker era più articolato, ma lui stesso si faceva prendere la mano dal proprio radicalismo e agli altri veniva fin troppo facile riassumere le sue idee in uno slogan. Giunti a questo punto, era
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spontaneo trovare giustificazioni anche per criticare l'etichettamento dei pazienti psichiatrici. L'idea era pertinente, e tuttavia ne furono tratte generalizzazioni eccessive. Il limite di quelle teorie avrebbe dovuto essere evidente. Non veniva ricordato il fatto che esistono, in qualsiasi ambiente, guasti comportamentali e sofferenze mentali di competenza anche psicologica e medica, e quindi non esclusivamente riducibili a variabili sociologiche. Si tendeva a ignorare che i disturbi psichici esistono come tali, cioè come disfunzioni intrinseche alla mente umana, indipendentemente dal loro etichettamento. Come chiunque può leggere oggi in qualsiasi testo di psichiatria, le osservazioni provenienti dai medici di tutto il mondo confermano che nelle loro manifestazioni di base i disturbi mentali presentano aspetti costanti e sono quasi altrettanto universali, attraverso le culture, di quanto lo siano le malattie somatiche. L'antipsichiatria fu dunque influenzata da varie correnti ideologiche, ma va tenuto presente che non sarebbe esistita al di fuori del clima della controcultura degli anni Sessanta. Le sue tesi più radicali consistettero nella convinzione che la follia non esiste, e nella rivendicazione del diritto di non porre limiti alla spontaneità. Negli ambienti «alternativi», durante gli anni della contestazione giovanile, il fatto di estrinsecare i propri bisogni in modi ritenuti folli e devianti venne considerato una forma di ricerca meritevole di pieno rispetto; questo atteggiamento incoraggiò l'esplorazione di stati alterati della mente mediante sostanze chimiche, e favorì indirettamente la diffusione delle tossicodipendenze. I principali esponenti dell'antipsichiatria furono, in Gran Bretagna, Ronald Laing e David Cooper e negli
Stati Uniti Thomas Szasz; in Italia, Franco Basaglia assunse nette posizioni antipsichiatriche negli anni Settanta. Va peraltro segnalato che, con l'eccezione di David Cooper, tutti gli antipsichiatri espressero la loro contrarietà a essere identificati con questa etichetta. È anche importante riconoscere che i loro contributi teorici non furono sempre spregevoli: in particolare Ronald Laing, malgrado in certi scritti cedesse apertamente a derive irrazionalistiche, fu autore di pagine veramente notevoli sia da un punto dí vista letterario che per la loro penetrazione psicologica. Le idee relativistiche dell'antipsichiatria si inserirono peraltro in un fenomeno sostanzialmente diverso: cioè in un processo di rinnovamento organizzativo dell'assistenza psichiatrica che, iniziatosi in Gran Bretagna, si estese a tutti i paesi dell'Occidente negli anni Sessanta e Settanta. Al centro di questa evoluzione vi fu il tentativo di combattere l'abbandono dei pazienti psichiatrici all'interno di reparti per cronici, e la sistematica chiusura dei grandi manicomi. Il rinnovamento psichiatrico (la «nuova psichiatria») degli anni Sessanta e Settanta nacque e si sviluppò sulla base di premesse marcatamente differenti da quelle antipsichiatriche, e del tutto prive di accenti relativistici. Di fatto la «nuova psichiatria», a differenza dell'antipsichiatria, fu promossa in Europa e in America sulla base di una piena consapevolezza delle sue premesse scientifiche e seguendo un programma di tecnicizzazione delle terapie e di razionalizzazione delle strutture assistenziali. La spinta decisiva per la sua nascita fu data dall'invenzione, nel corso degli anni Cinquanta, dei moderni psicofarmaci di sintesi: neurolettici, tranquillanti e antidepressivi. Questi farmaci resero accessibili al dialogo i pazienti gravi prevenendo l'agitazione degli psi-
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cotici e riducendo allucinazioni e deliri; nel giro di pochi anni l'aspetto clinico della follia cambiò radicalmente. Tre ordini di fattori si trovarono a convergere in questa trasformazione: gli psicofarmaci con i loro effetti; una maggiore consapevolezza del carattere psicologicamente degradante delle istituzioni tradizionali di ricovero; il loro costo divenuto insostenibile per gli enti pubblici. Vi si aggiunse un quarto fattore, cioè un'accresciuta attenzione, negli ambienti politici progressisti, per gli aspetti sociali della psichiatria e in particolare per lo svantaggio delle classi sociali subordinate nell'accedere a trattamenti adeguati10. Vennero promulgate nuove leggi per abolire i vecchi istituti manicomiali e rifondare la psichiatria pubblica su strutture più agili e non basate sulla degenza: la prima legge fu britannica e voluta dai laburisti, nel 1959, e la seconda statunitense, promossa da Kennedy, nel 1963. Negli anni Sessanta e Settanta la ristrutturazione dell'assistenza psichiatrica procedette quasi ovunque a passi molto rapidi, peraltro con qualche vuoto assistenziale legato alla tendenza a risparmiare denaro chiudendo i manicomi senza apprestare subito altre strutture più adeguate. In Italia il processo si avviò con ritardi e travagli e per ottenere una nuova legge psichiatrica, peraltro formulata in modo discutibile, fu necessario attendere fino al 1978. Già nella seconda metà degli anni Sessanta non erano mancate le occasioni di contrapposizione e perfino di lite personale fra i sostenitori di una riforma dell'assistenza e i sostenitori dell'antipsichiatria. Sul primo dei due versanti si erano realizzate, sia in Italia sia all'estero, varie esperienze significative. Nel nostro paese la principale fu, prima del 1969-70, quella della Comunità terapeutica di Gorizia, promossa da Franco Basaglia.
L'impostazione era essenzialmente anti-autoritaria ma non aveva nulla di antipsichiatrico. Con un atteggiamento che oggi non può che essere considerato sensato, í concetti di diagnosi, di cura e di guarigione non venivano messi in discussione e in tutti i padiglioni dell'ospedale veniva fatto largo uso di tranquillanti, di sedativi e di altri psicofarmaci; inoltre, se era certamente importante che le camicie di forza fossero state abolite e che buona parte dei reparti fossero open doors, rimaneva ineliminabile il problema della custodia e tutti ne erano ben consapevoli. Nessuno di coloro che lavoravano a Gorizia si illudeva che, in quel momento oppure in futuro, nuove forme di rapporto umano potessero curare alla radice le sofferenze tipiche dei disturbi psichici; e malgrado che, come sempre, l'ospedale psichiatrico raccogliesse molti marginali e molti poveri, nessuno sosteneva che la marginalità e la povertà fossero la causa delle malattie mentali. Negli stessi anni, Ronald Laing dirigeva a Londra la comunità antipsichiatrica di Kingsley Hall: non vi si parlava di diagnosi né di cure con psicofarmaci, e gli ospiti venivano aiutati a vivere le loro esperienze di disagio col massimo di libertà, nell'ipotesi che il viaggio nella follia, se compiuto senza ostacoli e fino alla sua risoluzione naturale, potesse rivelarsi una straordinaria esperienza maturativa. La gestione di Kingsley Hall si rivelò molto difficile e non dette nessuno dei risultati sperati. In seguito, negli anni Settanta, il rapporto fra idee ( moderate e razionali) di rinnovamento e idee (radicali e romantiche) di tipo alternativo divenne più confuso, e non tutti gli psichiatri che fino ad allora avevano mantenuto una buona chiarezza di idee seppero resistere alla tentazione di assecondare il diffondersi di miti anti-
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psichiatrici. Vi si associavano idee politiche estremistiche: in riunioni internazionali sul problema degli istituti dí ricovero cominciarono a manifestarsi, fin dal 197172, idee favorevoli a movimenti violenti per la distruzione dei manicomi e delle carceri; intellettuali francesi su posizioni relativiste, come Félix Guattari (autore con Gilles Deleuze di un libro di taglio antipsichiatrico, L'anti-Edipo), sostennero posizioni favorevoli alle Brigate Rosse. Di fatto, dopo il 1970 le idee antipsichiatriche furono accolte con un entusiasmo assai maggiore dal pubblico non competente che dagli specialisti del settore. Gli slogan relativisti, per quanto popolari, incisero solo marginalmente sull'attività di nuove leve di giovani medici entusiasti e ben preparati, e di amministratori intraprendenti e con i piedi per terra. Fra il 1974 e il '76, varie voci e iniziative si levarono a riproporre un uso sensato della psichiatria e a denunciare i danni provocati dalle mitologie antipsichiatriche". La consapevolezza della presenza di importanti aspetti sociali, e anche politici, intorno al tema della sofferenza mentale incoraggiò ricerche e dibattiti che avevano ben poco a che fare con l'antipsichiatria; vennero organizzate strutture assistenziali più efficaci e legate a forme di gestione democratica; si impose lo sforzo di aumentare le risorse a disposizione degli assistiti meno abbienti; nacquero nuove aperture di credito verso la scienza medica e psicologica. Ad opporsi a questa evoluzione verso la concretezza e il realismo persisteva nella massa degli studenti e in molte persone di cultura umanistica un'impostazione contraria a qualsiasi prospettiva scientifica in tema di problemi umani. Per molti giovani, la psicologia e la psicoanalisi potevano acquistare credibilità solo a condi-
zione di venir separate dalle prospettive mediche e biologiche, in una dimensione che non doveva aver nulla a che spartire con statistiche, farmaci, esperimenti e laboratori. In quegli anni il settarismo si coniugava con la retorica libertaria: ancora intorno al 1977-78 continuavano a ottenere un considerevole ascolto gli antipsichiatrí inclini a ripetere che la psichiatria moderna, con tutti i suoi problemi, non andava studiata perché l'unico problema consisteva nel battersi per la libertà dei ricoverati e per l'abolizione pura e semplice di tutte le istituzioni pubbliche di ricovero. Non mancarono, nei confronti di chi non condivideva questa linea, attacchi personalistici simili nel tono e nei metodi a quelli che negli Stati Uniti, proprio negli stessi anni, intendevano colpire le posizioni di biologi come Wilson e Dawkins (se ne è fatta menzione più sopra). L'antipsichiatria divenne in tal modo una battaglia di retroguardia. Sia le demagogie della «lotta antimanicomiale», sia altre linee di pensiero altrettanto semplicistiche cominciarono a perdere credibilità verso la fine degli anni Settanta; in seguito l'antipsichiatria esaurì rapidamente la sua influenza culturale sia in Italia sia all'estero e scomparve definitivamente dalla scena. Peraltro una parte dell'opinione pubblica si mantenne affezionata alle proprie convinzioni relativistiche e rimase con il rimpianto di un'antipsichiatria immaginaria.
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Esiste una natura umana? Un nuovo naturalismo Alcuni fatti sono elementari, eppure hanno tardato a essere riconosciuti. I modi di guardarsi negli occhi degli amanti e le tenerezze verso i lattanti sono sorprendentemente simili in ogni cultura; per quanto ogni tradi-
zione abbia il suo modo di gestire i sensi di colpa o il desiderio di vendetta questi sentimenti sono, con ogni evidenza, universali; nei villaggi più sperduti, malgrado tutte le possibili razionalizzazioni magico-religiose i più gravi disturbi psichici vengono riconosciuti come malattie; ovunque troviamo strutture sociali comprendenti sacerdoti, capi, guerrieri, donne capaci di preparare pozioni, istituzioni per il controllo della devianza. Per quanto concerne le scelte di coppia, accade in ogni cultura che i maschi tendano a sposare donne più giovani di loro e le donne a preferire mariti di più elevata condizione socialeu. In tutto il mondo le strutture della cooperazione e dell'altruismo rispondono a due principali sistemi motivazionali, il primo legato alla sessualità e alla riproduzione, il secondo alle aspettative di reciprocità; da questi emergono giochi relazionali complessi ma dotati di caratteristiche universali, che costituiscono la matrice primaria delle istituzioni societarie". In parte si tratta dí acquisizioni relativamente recenti e peraltro ormai abbastanza note a quella parte del pubblico che si interessa ai temi della scienza. La principale componente di indirizzo delle nuove indagini è data dalla rivalutazione della prospettiva darwiniana. Come molti sanno, ad aprire la strada vi furono, negli anni Sessanta, gli studi degli etologi, sia pure all'epoca ancora relativamente rozzi, circa i comportamenti specie-specifici, animali e anche umani; poi, nel 1975, l'improvvisa notorietà della Sociobiologia di Wilson, forse superiore al valore dell'opera, e subito dopo, nel 1976, Il gene egoista di Dawkins; in seguito, la grande stagione dei biologi evoluzionisti (W.D. Hamilton, R. Trivers, J. Maynard -Smith) e gli effetti delle ricerche di Axelrod sul «dilemma del prigioniero» (1979-80); infine, i contributi più complessi della teoria dei giochi con le inda-
gini sulla struttura dei processi decisionali. Su quest'ultimo tema molte persone di buona cultura conoscono i nomi di uno psicologo e di un economista, Tversky e Kahneman, che negli anni Novanta sono diventati emblematici dei nuovi orientamenti, anche se pochi hanno letto i loro scritti, comparsi su riviste specialistiche. Poco dopo è divenuta quasi altrettanto nota la coppia formata da due psicologi e antropologi californiani, John Tooby e Leda Cosmides; molti lettori curiosi si sono informati sulle nuove acquisizioni scientifiche attraverso i libri di un filosofo, Daniel Dennett. Pochi in Italia sanno che una italiana, Cristina Bicchieri (che insegna a Filadelfia), è un'autorità per quanto concerne lo studio dei fondamenti della socialità e delle radici naturali dell'altruismo: più numerosi sono coloro a cui gli articoli di Massimo Piattelli Palmarini hanno aperto la mente e svecchiato le idee. Altri sí sono appassionati sui libri che parlano degli scimpanzé e delle loro affinità con la specie umana; ai margini, i lettori meno amici delle astrazioni si sono posti qualche dubbio sul modo tradizionale di impostare il problema corpo-mente partendo dagli affascinanti casi neurologici di Oliver Sacks". La rivincita del naturalismo ha solide basi e molte facce. Fra l'altro, una maggiore sensibilità naturalistica riguarda anche il grande pubblico: tutti percepiamo l'immenso mondo vivente «non umano» come più vicino a noi che cinquant'anni or sono. Tuttavia è scarsamente diffusa la percezione della rapidità con cui si vanno affermando nuove acquisizioni nel campo delle neuroscienze, delle scienze cognitive, della genetica, dell'intelligenza artificiale, e degli studi sul comportamento. Per quanto concerne il comportamento sociale, già all'inizio del Ventunesimo secolo il panorama delle no-
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stre conoscenze era totalmente rivoluzionato rispetto a come appariva all'inizio degli anni Settanta. Non mancano, come è ovvio, le controversie. Peraltro non vi è motivo di trovarsi in disaccordo su un punto: le differenze fra le culture esistono, sono importanti, e dipendono essenzialmente da fattori storici e in parte anche geograficiu. Non dipendono da fattori biologici; o ne dipendono poco. Questo, per quanto concerne le differenze fra i popoli, o fra le mentalità collettive e i costumi. Tuttavia esistono fattori unificanti che limitano le divaricazioni fra le culture, il principale dei quali è dato dal modo stesso in cui è fabbricato il nostro cervello. Quest'organo straordinario, contrariamente a ciò che esso stesso ci induce a credere, non è né onnipotente né totipotente: funziona in un certo modo e, sia pure con variazioni molto piccole, è praticamente identico per tutta la specie umana. Vuoi per tradizione, vuoi per una razionalizzazione spontanea, noi siamo soliti unificare una parte delle sue funzioni — quelle che percepiamo introspettivamente — così da farne un'entità virtuale alla quale attribuiamo una sorta di compattezza: come è noto l'abbiamo chiamata «mente», «psiche» e anche «anima». Eppure le ricerche moderne ci dicono che queste funzioni, oltre a essere mal separabili da tutto il resto della nostra vita biologica, non sono affatto unitarie. La mente di cui ogni giorno disponiamo non è una semplice macchina per apprendere e neppure era una tabula rasa al momento della nostra nascita: al contrario possiede caratteristiche, limiti e struttura. Si può richiamare qui una metafora coniata da Tooby e Cosmides (v. supra) che oggi si trova anche nei libri divulgativi, e cioè quella del «coltellino svizzero». Il suggerimento è che tutte le nostre facoltà mentali, comprese le più evolute 9R
e astratte, siano come strumenti, due lame, un giravite, forbicine, e che questi strumenti siano utili a fare mille cose ma non tutte, poiché ciascuno di essi ha i suoi impieghi e i suoi limiti. In pratica, se noi ragioniamo e prendiamo decisioni, magari complesse, magari intelligenti ed efficaci, questo non avviene perché riusciamo ad adeguarci alle astratte virtù della Dea ragione, e neppure perché aderiamo alle convenzioni della cultura: invece, ci arrangiamo a ottenere buoni risultati razionali, con mille verifiche e correzioni, a partire dal fatto che spontaneamente pensiamo in certi modi, in modi preferenziali e tendenziosi, ma anche un po' zoppicanti, che dipendono da come è strutturata la grande macchina umida che sta nascosta nella nostra scatola cranica. (Per riferirci ai limiti più tipici del nostro modo spontaneo di pensare, correntemente immaginiamo rapporti di causa-effetto dove ci sono solo rapporti di contiguità, preferiamo le conferme alle verifiche quando ci costruiamo convinzioni, generalizziamo in modo impulsivo, troviamo enormi difficoltà a ragionare in termini di probabilità — e infatti compriamo i biglietti delle lotterie —, modifichiamo spavaldamente i nostri ricordi, e così via.) Non solo i pensieri ma anche le emozioni e tutti i comportamenti, semplici o complessi, individuali o sociali, risentono dei limiti costitutivi di una serie di strutture mentali che sono, in fondo, tutto ciò di cui disponiamo. Queste strutture sono indirizzate a certi risultati, non sono necessariamente ottimali, condizionano le nostre possibilità e sono, con piccole variazioni individuali, le stesse per tutti. Non esiste, perciò, una mente, o psiche, in astratto, e ancor meno esiste una razionalità in generale: esistono invece le molte capacità operative QQ
Altri dati biologici sono elementari: per esempio, ogni individuo è biologicamente diverso da ogni altro. Peraltro le differenze genetiche fra un qualsiasi individuo e l'altro all'interno di una popolazione naturale sono più marcate che le differenze genetiche fra una popolazione e l'altra: su questo tema molti in Italia hanno una certa familiarità con le ricerche e i libri di Luigi Luca Cavalli-Sforza. Ma soprattutto, il modo di comportarsi, ragionare e sentire di ogni singolo esemplare della specie umana è molto più uniforme di quanto possa sembrare in base ai differenti colori della pelle, alle fogge del vestiario, alle fedi divergenti ed eterogenee. Gli studiosi di oggi non si stancano di ripetere che natura e cultura non sono, come invece si dava per scontato in passato, due mondi diversi né tanto meno due categorie contrapposte: in ciascuno di noi la predisposizione genetica e l'influenza dell'ambiente sono aspetti non sempre separabili di una sintesi dinamica che, dal momento in cui veniamo al mondo (e anche prima), definisce le caratteristiche fisiche e psicologiche di ogni singolo essere umano. Per rifarci a un avvertimento sovente ripetuto, nessuna caratteristica della mente e del comportamento origina «solo dai cromosomi» o «solo dall'ambiente». Questa prospettiva, affermatasi nel corso degli ultimi quarant'anni, ha rafforzato l'idea che tutti gli umani, in quanto portatori della stessa costituzione mentale, abbiano gli stessi bisogni. Ma se questo è vero, è giustificato ritenere che abbiano anche gli stessi diritti.
Qui bisogna dedicare qualche riga a una precisazione. Un aspetto non privo di risvolti politici è che l'eguaglianza di bisogni e diritti vale anche per talune categorie di persone considerate da sempre diverse e inferiori. Le donne, pur avendo un cervello che funziona in modo leggermente differente da quello maschile, non hanno nessuna caratteristica naturale, biologica, che le renda psicologicamente inferiori agli uomini. Non si può immaginare criterio più valido di quello scientifico per capire se i due sessi meritano lo stesso accreditamento di autonomia, e peraltro una prova della parità naturale di uomini e donne ci viene dal fatto che nei pochi paesi in cui realmente non esiste una significativa discriminazione sessuale (in pratica, probabilmente, solo quelli scandinavi) la possibilità per una donna di diventare primo ministro o direttore di un'azienda è la stessa che per un uomo. Analogamente, la ricerca moderna ha permesso di capire che esistono, oltre a quella fra maschi e femmine, altre diversità che non sono inferiorità. Così come in anni passati vi erano stati pedagogisti che sostenevano che le donne sono meno adatte degli uomini agli studi superiori, ancora negli anni Cinquanta del Novecento esistevano, in alcuni paesi europei, insegnanti che trattavano i mancini come viziosi da rieducare, e tuttora sono numerosi coloro che compiono un identico errore nei confronti degli omosessuali. Viziosi anch'essi, secondo molti: quando invece, e ormai lo sappiamo senza equivoci, la diversità degli omosessuali — uomini e donne — rispetto alla maggioranza è dovuta a una serie di meccanismi prevalentemente neurologici di tipo non molto diverso da quelli che determinano altre varianti, come il mancinismo, e senza che questo comporti alcun
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di una specie animale evoluta, la nostra, dotata di un 16 cervello straordinario ma pieno di particolarità . Naturalismo e identità minoritarie
Molti troveranno che tutto questo è tranquillizzante. Vi sono però altri esiti delle ricerche sulla natura umana che sollevano interrogativi inquietanti. Una conclusione, per esempio, sembra confermata: il problema della tolleranza reciproca fra gruppi e popoli è meno facilmente risolvibile di quanto pensassero gli illuministi del Settecento. Può darsi che questo non ci faccia piacere, ma le radici dell'intolleranza sociale sono legate a fattori naturali. Il tema non è nuovo: la tendenza spontanea a definire se stessi all'interno di un gruppo solidale (ingroup) per differenza rispetto a coloro che ne sono fuo-
ri (out-group) fu identificata nel 1906 da William Sumner. Il percepire che da un lato ci siamo noi e dall'altro gli altri è ineliminabile, e tutto fa ritenere che faccia parte della strutturazione più basilare della nostra mente. Alcuni decenni or sono gli studi — ormai classici — della psicologia sociale sulle dinamiche del pregiudizio, come quelli di Henri Tajfel, e in seguito, negli ultimi anni, l'indagine circa i fondamenti della socialità in una prospettiva evoluzionistica neo-darwiniana, hanno confermato la presenza di costanti universali nel modo di stabilire solidarietà di gruppoi 8. Un naturale atteggiamento «tribale» è constatabile in molti fenomeni che sono tutti i giorni sotto i nostri occhi, a partire dai ricorrenti regionalismi e campanili-. smi, la cui virulenza talora ci sorprende, fino alle moderne fazioni che, contrapponendosi fra loro su un terreno simbolico, costituiscono l'universo del tifo calcistico di cui si nutre gran parte della cultura popolare in paesi come l'Italia. Da Max Weber e Sigmund Freud fino a oggi, sono innumerevoli gli studiosi che si sono occupati di questo tipo di gruppalità primordiale. La diffidenza verso i gruppi estranei è un atteggiamento continuamente risorgente. Nella sua forma più semplice ha una funzione adattiva perché per migliaia di anni il trattare gli sconosciuti con cautela è stato un modo per sopravvivere. E anzi, ce lo insegnano concordi gli psicologi sociali, la tendenza a considerare gli stranieri proiettando su di essi una immagine di diversità è inscindibile dal sentimento di appartenenza. Evidentemente il bisogno di appartenere è universale, ma l'idea di appartenere alla specie umana è astratta e non può venire spontaneamente percepita come significativa: solo all'interno di collettività più ristrette possiamo sentirci naturalmente uniti. Più al di fuori della cerchia li-
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aspetto di inferiorità per quanto concerne la possibilità di rispondere a obblighi morali e di assumere incarichi nel consorzio civile. (Curiosamente, anche l'incidenza degli omosessuali — maschi e femmine — sembra essere più o meno la stessa dei mancini: intorno al 10% in tutte le culture''.) Eppure sono numerose le persone che, senza neppure porsi il problema di un minimo di aggiornamento scientifico, sostengono che le coppie stabili dello stesso sesso sono costituite da soggetti malati, o peggio viziosi, e le ritengono immeritevoli delle stesse tutele giuridiche delle coppie eterosessuali. In tutti questi casi la scoperta della naturalità di talune differenze fra gli individui, come quelle riguardanti il sesso biologico e i comportamenti sessuali preferenziali, è fattore di progresso e di tolleranza. I nuovi orientamenti dimostrano quanto sia pericoloso, e anche poco morale, attribuire a scelte personali o a variazioni di costume ciò che invece va attribuito a differenze biologiche casuali e del tutto neutrali. Tribalismi e neo-tribalismi alla sbarra
mitata delle parentele esiste infatti un'area, talora non molto più vasta, costituita da amici, sodali e padrini e da tutti gli individui che sappiamo avere le nostre stesse convinzioni e che parlano come'noi. Essi ci faranno capire, nel modo stesso di rivolgersi a noi, che siamo persone degne, valide e affidabili. Nessuno può fare a meno di una solida definizione di sé a meno di rischiare seri problemi psichici, e solo chi ci vede e ci parla ci può dire chi siamo realmente: un rispecchiamento collettivo è necessario per costruire un'immagine adeguata della propria persona. Qui una definizione per differenza è però inevitabile: in pratica, possiamo dire che noi («noialtri», come si dice colloquialmente) siamo così, e che quindi ci riconosciamo fra noi come affini, proprio perché riteniamo che altre persone abbiano caratteristiche diverse. In parte, del resto, si tratta di un tema logico: se diciamo che in famiglia abbiamo le mani grandi è solo perché identifichiamo famiglie con le mani piccole. Ma è per motivi assai più complessi che abbiamo bisogno di un gruppo, o di una collettività omogenea e non troppo vasta, che ci protegga e ci dia forza di identità: questa esigenza comporta pur sempre il segnare un confine, oltre il quale stanno le persone che non consideriamo del tutto simili. Verosimilmente, nessuna predica moralistica e nessuna esortazione alla tolleranza riusciranno mai a eliminare la presenza di questa dinamica psicologica. Inoltre, il legittimo bisogno di costruire e difendere un sentimento di fierezza per la propria identità è inscindibile dal bisogno di credere che gli altri, quelli di fuori, siano in qualche modo inferiori a noi, un po' meno «giusti», un po' meno validi. Non necessariamente spregevoli fino in fondo, forse, ma inferiori certamente sì, e forse anche potenzialmente ostili: una qualche pre-
disposizione alla belligeranza sembra connaturata al sentimento stesso dell'identità di gruppo. Vi sono dunque motivi ben radicati se vediamo riemergere costantemente un fenomeno multiforme ma netto, quello che Tommaso Padoa-Schioppa ha chiamato il «neo tribalismo etnico-culturale»19.
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Nuove possibilità di intesa Eppure esiste oggi un fattore storico nuovo, che fonda impreviste ricchezze di dialogo e permette singolarissime capacità di intesa fra persone appartenenti a popoli e culture diverse. A controbilanciare la tendenza ricorrente a chiudersi in raggruppamenti settari, localistici, o familistico-tribali, il mondo informatizzato della tarda modernità propone un universalismo inedito, su cui Anthony Giddens ha scritto pagine di particolare chiarezza20. Il nostro tempo, con la sua tecnologia, impone una rottura dei confini che separano le collettività tradizionali: e questo è certamente un bene oltre che una straordinaria novità storica. La globalizzazione implicita nelle comunicazioni istantanee e nella generalizzazione delle regole dell'economia liberale esige che sia possibile dare fiducia a persone che non abbiamo mai visto e che vivono a migliaia di chilometri di distanza. È qualcosa che accade in varie circostanze: per esempio quando acquistiamo un biglietto, o un libro, o un disco, digitando cifre e lettere sul nostro computer; o quando eventualmente stabiliamo, per la stessa via, accordi commerciali impegnativi; oppure anche, più banalmente, quando partiamo per un viaggio aereo intercontinentale, sicuri che piloti e tecnici siano persone istruite e affidabili anche se non sappiamo assolutamente nulla di loro e neppure quale ne sia la nazionalità o il colore
della pelle. Chiunque invii oggi un messaggio, via posta elettronica, a un qualsiasi ufficio di città lontanissime, di Helsinki o di Singapore, di Auckland o di Seattle, sa di poter contare su un tipo di attenzione e di collaborazione che è più rapida e affidabile di quella che mediamente può attendersi bussando alla porta del vicino di casa. Come per i piloti e i tecnici del nostro aereo, noi possiamo ragionevolmente prevedere che troveremo lo stesso tipo di razionalità entrando nell'ospedale di qualsiasi paese moderno o componendo su qualche telefono un numero di codice, anche se in quel momento ci troviamo in mezzo alla savana: ai quattro punti cardinali esistono milioni di persone che condividono un linguaggio di base (e una lingua di base, l'inglese), che dispongono di una serie di conoscenze tecniche, e che prendono sul serio il proprio lavoro dando ovunque lo stesso significato a parole come «scrupolosità» e «esattezza». Qui l' accuracy si lega a uno «spirito di veridicità» che risale, come ha mostrato Bernard Williams, alla cultura dell'illuminismo21. Gli aspetti formali di questo tipo di relazioni non saranno sufficienti, beninteso, a saturare tutte le nostre esigenze di rapporti umani, ma possono costituire le premesse per dialoghi più personali: nulla esclude che nascano relazioni più calde con gruppi e singoli cresciuti in luoghi e contesti assai lontani da quelli della nostra famiglia. E però occorre insistere su un punto. Affinché vi siano buone possibilità di intesa in quel vasto ambito che denominiamo, non impropriamente, «il mondo civile», è necessario che vi sia un'adesione generalizzata (o almeno maggioritaria) a condotte di coscienziosità e imparzialità. Questo non accade ovunque, ma accade quasi ovunque in modo crescente. Dove esista un buon li106
vello di istruzione, dove si sia più aperti alla cultura scientifica, e quando si sia stabilmente interiorizzata un'etica della responsabilità individuale, accade che queste «strategie della fiducia»22 fra persone appartenenti a continenti diversi riescano a funzionare così bene da prevalere sui solidarismi «tribali» tradizionali e sui sistemi localistici e clientelari. Le nuove forme della cooperazione fra estranei sono rese possibili, da un lato, sul terreno oggettivo, dalle reti informatiche e dalla mondializzazione dei beni ad alta tecnologia, e da un altro lato, sul terreno soggettivo e psicologico, da razionali ma semplicissime regole di lealtà e dalla presenza di particolari strutture di dialogo, o relazionali, concernenti le valutazioni di rischio e le aspettative di reciprocità. Il peso del passato Sarebbe un errore sottovalutare il peso dei localismi e settarismi che continuamente tendono a ripresentarsi. Alcune influenze ci giungono direttamente dal passato. Già guardando alla storia remota delle culture, e fino alla preistoria, notiamo che agli occhi degli appartenenti a comunità «primitive» (o meglio preletterate) gli stranieri, i non appartenenti al «noi» tribale, non sono neppure considerati esseri umani. Per i greci dell'età di Pericle, i barbari avevano la connotazione di una incompleta umanità, e tuttora il termine «barbarie», correntemente usato sui giornali a proposito degli attacchi terroristici, contiene una connotazione antropologica sprezzante. Nei primi secoli dell'età moderna e fino a tutto l'Ottocento, l'espansione planetaria delle potenze europee non ebbe ritegno di far leva su una presunzione di radicale diversità nei confronti dei popoli non europei. 107
L'etnocentrismo del periodo coloniale (1500-1800) ebbe peraltro caratteristiche particolari, che ci aiutano a capire alcuni problemi attuali. L'espansionismo dell'Occidente trasse forza da un gruppo di religioni, quelle cristiane, che insistevano sulla dipendenza da un'autorità paterna e provvidenziale. Con la parziale eccezione del periodo napoleonico, ciò che dalle nazioni colonizzatrici arrivava ai popoli sottomessi non era l'ideale della democrazia laica, né era il principio universale dei diritti dell'uomo, né tanto meno l'idea dell'autodeterminazione delle genti. Il messaggio che veniva dalla metropoli non consisteva, né poteva consistere, in un modello di eguaglianza antropologica planetaria, bensì in un principio del tutto opposto: venivano sottolineate le differenze etniche. Anche nel momento in cui si rivolgeva all'opinione pubblica europea, l'ideologia del colonialismo ebbe tutto l'interesse a descrivere le mentalità dei popoli d'oltremare come estremamente distanti dal costume occidentale. Nell'Ottocento, una quota di romantica meraviglia colorava il modo in cui venivano dipinte le singolarità degli ottentotti, i poteri misteriosi dei fachiri indiani, l'apparente assuefazione delle masse cinesi ai supplizi più crudeli. L'idea di un'inferiorità ontologica dei popoli lontani era inscindibile dalla convinzione che il mondo presentasse un caleidoscopio di mentalità altrettanto affascinanti quanto incredibilmente differenti fra loro. Nessun universalismo era possibile in quella logica. Tuttora esistono tracce evidenti di quella impostazione. Ci si può chiedere quanto l'idea ottocentesca di una eterogeneità radicale non solo dei costumi, ma anche delle menti, cioè dei modi di ragionare, sia persistita in Occidente fino a tempi recenti, condizionando il modo in cui vengono correntemente immaginate le mo108
tivazioni psicologiche dei popoli sottomessi. Tuttora, infatti, di fronte alle loro efferatezze e, come si suole dire, ai loro atti di barbarie, sembra ovvio chiedersi quanto distante dalla mentalità occidentale possa essere il loro modo di pensare: un modo che riprendendo la parola greca noi chiamiamo appunto, con singolare facilità, barbaro. Forse, però, potremmo provare a esaminare il problema da una prospettiva del tutto diversa: ovvero potremmo chiederci — magari rimanendo nel dubbio, non è necessario rispondere subito di sì — se per caso anche noi reagiremmo con la loro stessa disperazione, e magari con analoghe forme di terrorismo, qualora la nostra terra venisse invasa e la nostra vita quotidiana umiliata da forze straniere tecnologicamente superiori e dotate di risorse apparentemente illimitate. Dopo la fine del periodo coloniale, e in pratica dopo la seconda guerra mondiale, avvennero alcune revisioni di cui sono figlie le preoccupazioni di oggi. Nel Ventesimo secolo lo sviluppo del pensiero democratico, la crisi dei grandi imperi coloniali e lo studio etnografico delle culture preletterate furono tra i fattori che contribuirono a un'autocritica dell'arroganza occidentale. Apparve chiaro che l'etnocentrismo, oltre a essere di per sé una forma di incomprensione, è l'anticamera dell'intolleranza; il nazismo dimostrò di essere l'esacerbazione, mostruosa ma coerente, di un'insensibilità etnica di cui tutto l'Occidente era stato colpevole. La crisi della presunzione europeistica, già affacciatasi nella prima metà del secolo e poi vivacemente sentita negli anni della decolonizzazione (i due decenni Cinquanta-Sessanta), si è trovata in tempi recenti a riemergere con drammaticità. Sono sotto gli occhi di tutti i motivi per cui la battaglia contro i pregiudizi etnici è un tema scottante. Nuovi flussi migratori verso í paesi ricchi e l'emergere 109
di grandi conflitti nazionalistici e religiosi rischiano di esacerbare i pregiudizi già esistenti.
In questa situazione, l'orientamento dei relativisti seduce per la semplicità del suo messaggio. Il tema è noto, come sono ben note le polemiche che trascina. Con qualche ingenuità, molte persone credono che se un bel giorno venisse abbandonata ogni presunzione di superiorità occidentale, e se quindi non si giudicassero in alcun modo gli immigrati accettando di accoglierli in tutta Europa così come sono, con le loro religioni e i loro costumi, molti problemi verrebbero risolti. È giusto sospettare, però, che il quadro di questo idillio non sia realistico: i progetti di integrazione delle minoranze hanno ovviamente un senso, ma la prospettiva di una comunità multiculturale ne ha molto meno. Qui non è solo questione della convivenza di mentalità e di costumi, temi cari ai relativisti, perché esistono anche gruppi portatori di programmi esplicitamente illiberali e antiegualitari: in sintesi, il problema potrebbe essere più politico che etnico. Fa riflettere ancora oggi quanto è accaduto in Germania nel 1932 e in Algeria nel 1991, dove elezioni democratiche furono vinte da partiti perfettamente legali — i nazisti nel primo caso, i fondamentalisti islamici nel secondo — che nel nome di un programma totalitario si proponevano di abolire, e per sempre, ogni ordinamento democratico. (In Algeria il risultato delle elezioni venne annullato dal governo: una scelta discussa ma coraggiosa, basata sulla considerazione che non vi è nulla di democratico nell'accettare che approfittino del gioco della democrazia coloro che intendono cancellarla.)
Non tutti i progetti sociali possono coesistere con facilità: o perché alcuni di essi non intendono affatto coesistere con gli altri e hanno pretese totalitarie, come nei due casi appena visti, oppure perché esistono orientamenti ideologici che ostacolano in maniere meno drastiche, e tuttavia significative, la circolazione delle idee. Importanti problemi nascono dal fatto che siamo costretti a cooperare con persone che non attribuiscono a tutti gli esseri umani la stessa dignità: nel vasto mondo non mancano, come tutti sanno, i progetti orientati a negare l'egualitarismo universalistico che fonda, invece, le società laiche. Per esempio, appartengono non a una sola ma a varie religioni coloro che negano la piena eguaglianza dei diritti delle donne affidando loro ruoli subordinati, negano dignità agli omosessuali, si battono affinché la mente dei bambini venga plasmata da particolari credenze teologiche fin dall'inizio della scuola materna, e denigrano i non credenti riuscendo a far credere che si tratta dí persone poco morali. Fanno parte di questa stessa ottica discriminatrice i programmi integralisti che negano la necessità di una chiara separazione fra vita civile e vita religiosa e impongono particolari principi di teologia morale all'interno della sfera pubblica, per esempio nella ricerca scientifica, o all'interno della sfera privata, per esempio nelle abitudini sessuali. Queste forme di anti-egualitarismo tradizionalistico e di integralismo religioso, presenti sia all'interno dell'area occidentale — sono ben visibili in Italia — sia al suo esterno, non sono soltanto fonte di immediate ingiustizie, ma conducono anche a forme di chiusura mentale. Non deve stupire se le troviamo correntemente associate a programmi politici miopi, incapaci di dare pieno sviluppo sia alla democrazia sia alle risorse umane. Alcune fra le maggiori difficoltà che i paesi occidentali de-
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Un multiculturalismo con la coscienza sporca
vono oggi affrontare non nascono dalle idee dei nuovi immigrati non cristiani ma dalla persistenza, all'interno delle popolazioni di tradizione cristiana, di pervasive ideologie e pregiudizi, di paraocchi e di ristrettezze psicologiche: ed è percepibile una certa omogeneità di atteggiamento fra le tendenze che si oppongono in questo modo a un pieno sviluppo della democrazia. Così persistono, e proprio in casa nostra, atteggiamenti di sospetto nei confronti di cifre e grafici, mentalità familistiche e clientelari legate a tradizioni provinciali, diffusi pregiudizi antimeritocratici, e — soprattutto — una più generale tendenza a mescolare in modo confusivo gli obblighi imposti da determinate religioni con le più neutrali disposizioni di legge atte a disciplinare la convivenza fra le persone. Vi è un aspetto di urgenza in questa problematica. I prossimi sviluppi della biologia e della genetica imporranno tempestive regolamentazioni mediante leggi sensibili alle nuove possibilità di ricerca e di cura; lo sviluppo dell'elettronica creerà nuove richieste di trasparenza, ma anche nuove delicate garanzie di riservatezza; in tutto il mondo occidentale i padri e le madri senza un partner chiederanno maggiore protezione sociale e le coppie omosessuali esigeranno con forza crescente un riconoscimento giuridico; si imporrà una più razionale valorizzazione dei talenti spontaneamente emergenti fra i giovani, sulla base della constatazione che ovunque esiste una sola materia prima che conti veramente: il cervello. Nei prossimi anni accadranno certamente molte cose, ma non tutte imprevedibili: saranno destinati al declino i paesi incapaci di fornire ai propri cittadini una solida base di educazione scientifica, vi sarà ovunque un problema di lievitazione di alcuni costi, come quelli medico-chirurgici, e in tutta Europa dovremo
fare i conti con dure necessità di contenimento di taluni flussi di immigrazione, in particolare per quanto riguarda i gruppi meno disposti ad assimilarsi nella cultura occidentale. Non sempre le pubbliche opinioni hanno una buona percezione delle prospettive e dei rischi: per esempio se è pur vero che gli attentati potranno divenire devastanti, attualmente la probabilità statistica, per un qualsiasi abitante preso a caso dell'Occidente, di morire per un atto terroristico è molto inferiore a quella di rimanere casualmente vittima di un incidente stradale. Al contrario, tutti gli epidemiologi ritengono che sarà piuttosto elevato il rischio di gravissime pandemie influenzali, come quella della Spagnola del 1918. Il dialogo fra persone che condividono forme di intelligenza laica è rapidamente destinato a essere uno strumento indispensabile per capire le trasformazioni in atto nel mondo; una politica orientata sulle previsioni sociali sta diventando vitale per la sopravvivenza delle nazioni23 . In questo ambito gli appelli moraleggianti serviranno a poco, e così pure l'attaccamento ai miti e riti dí singole chiese o di singole culture: il pretendere di conferire valore assoluto a tradizioni locali e nazionali renderà difficile capire cosa accade in un mondo che, nelle sue zone più prospere e più colte, si orienta ormai decisamente su istanze universalistiche.
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Soprattutto se si definiscono come credenti, ma anche se qualificano se stessi come laici, gli europei di orientamento relativistico, e sono numerosi, esortano a considerare con indulgenza i progetti di vita provenienti dai paesi extraeuropei (per esempio quelli islamici) anche nei casi in cui questi ultimi appaiono scarsamente tolleranti e discriminano in maniera pesante sia
le donne, sia gli omosessuali, sia i non credenti. Ma è una indulgenza che maschera una complicità. Analoghe chiusure mentali ci provengono dalle nostre tradizioni: in alcune zone dell'Occidente — l'Italia fa testo — sopravvivono atteggiamenti angusti. Anche da noi, infatti, vi sono chiese che condannano le minoranze sessuali e impongono arcaiche definizioni della vita morale. Analogamente, sul piano del costume può accadere che gli atti (esibiti) di devozione siano accettati come una solida prova delle qualità personali, e che le testimonianze dei miracoli vengano date per buone su tutti i telegiornali. Di fatto, in Europa e in America vi sono zone geografiche nelle quali i non credenti se la sentono di esprimere le loro idee solo mettendo le mani avanti con mille cautele. Nuove strane solidarietà percorrono il mondo: gli apparati ecclesiastici delle varie confessioni si preoccupano meno di discutere di teologia che di squalificare i loro nemici comuni, i razionalisti e gli atei. I sacerdoti, da sempre competenti in formule ireniche, oggi fanno leva sulla moda del multiculturalismo per invitare i popoli a rispettare in ogni caso le religioni. Ma è legittimo sospettare che attraverso l'accettazione aprioristica di tutte le credenze altrui passi il progetto di rendere inattaccabili le proprie. Queste persone, dunque, palesemente si prodigano, raccomandando la tolleranza verso le diversità: ma sembra che abbiano una certa difficoltà a liberarsi di un atteggiamento paternalistico. Compiono infatti una doppia operazione: prima trasformano le differenze fra persone e popoli in uno zoo di costumi, accentuando più del giusto le diversità antropologiche; poi vorrebbero sostenere che tutte le diversità hanno uguale valore agli occhi di chi, come loro, si colloca in una posizione di religiosa benignità. L'esibizione pubblica della propria 114
tolleranza verso le idee degli altri è allora funzionale alla creazione di una immagine idealizzata del proprio carisma caritativo: accade, insomma, qualcosa di simile a quando il mettere in piazza la propria fragilità serve a nascondere l'ostinazione di una politica autocratica. In questo modo il relativismo culturale, legandosi a idee di fede e di tolleranza, passa sotto silenzio la presenza di programmi antidemocratici anche se questi ultimi sono — in realtà — l'unico problema importante: sia i programmi altrui, ovviamente, sia anche i propri. In conclusione, il multiculturalismo relativista concede ampio spazio alla crescita dei settarismi. Paradossalmente, esso incoraggia e giustifica l'anti-relativismo dei fanatici e dei dogmatici dí tutte le religioni. Questo non ci dovrebbe meravigliare: le più accese convinzioni di fede hanno in comune con il relativismo l'appello alla soggettività e il disprezzo per la realtà empirica. Il relativismo culturale alla prova dei fatti E dunque, il pluralismo delle posizioni è un bene prezioso, però il culto indiscriminato delle pluralità ha odore di qualunquismo. Purtroppo il relativismo si trova a giustificare, magari contro le proprie migliori intenzioni, chiusure e fanatismi. In questa stessa logica, l'idea di tolleranza è alibi alla mancata denuncia degli assolutismi. Come ricorda Terry Eagleton in Le illusioni del postmodernismo, in questo campo «l'opinione che la pluralità sia di per sé un bene è vuotamente for24 malistica e di una astoricità allarmante» . Ma si possono identificare subito altri due limiti del relativismo culturale. Il primo limite è metodologico, ed era stato già chiarito vari decenni or sono sia da Roger Caillois, sia da Er115
nesto De Martino con la sua idea di «etnocentrismo critico» (ne abbiamo visto alcuni aspetti nel primo capitolo). Il quesito è semplice: possiamo noi spogliarci della nostra identità di europei, di persone cresciute in un certo ambiente, con certi valori, con una cultura, nel momento in cui ci troviamo — per esempio — in un villaggio tropicale lontano da aeroporti e strade asfaltate? Non sarebbe forse un atteggiamento velleitario, falso, e perfino ipocrita se in quell'occasione cercassimo di spogliarci della nostra identità culturale? Sarebbe invece più onesto se, anziché pretendere di mimetizzarci o di renderci neutrali, cosa impossibile, noi ci presentassimo per quello che siamo: più ancora, sarebbe importante che in ogni nostro atto noi sapessimo quello che realmente siamo. Nel male, ovviamente, date tutte le protervie di privilegiati cittadini della metropoli, quali noi resteremo in ogni caso; ma anche nel bene, poiché un qualche vantaggio ci può derivare dall'essere beneficiari di un'eredità culturale particolarmente ricca. E così, nel nostro tentativo di capire il meglio possibile, e col massimo rispetto, un qualsiasi paese con le sue tradizioni, sarebbe assurdo rinunciare a utilizzare gli strumenti che la nostra civiltà ha messo a nostra disposizione: a cominciare dalle statistiche finanziarie e demografiche e dalle foto dei satelliti, per arrivare ai minuti dati di archivio, ai libri correnti di storia e di geografia, alle osservazioni degli etnologi che ci hanno preceduti, e magari anche agli strumenti della psicologia occidentale. Si può dire qualcosa di più: questo bagaglio di nozioni e idee ci regala non solo gli strumenti per operare, ma anche quelli per riflettere sulle nostre stesse azioni. La modernità è dentro di noi con i suoi spunti critici e autocritici, tanto che non si vede come sia possibile spogliarsi della sua eredità, della sua matrice storico-cultu-
rale. Come ci ricorda Danno Zolo, «è la stessa nozione di modernità ad avere profonde radici nella tradizione filosofico-politica ed etica occidentale: essa è impensabile senza un riferimento alla tradizione liberale, al suo individualismo, al razionalismo etico della sua antropologia, alla sua idea di progresso, e, non ultimo, al suo agnosticismo religioso»25 . Il secondo limite riguarda qualcosa di più specifico, il relativismo etico. Il concetto di relativismo etico concerne l'ipotesi che non vi sia nulla di universale nei principi della morale. Ciò che è vietato in una cultura, si suggerisce, potrebbe essere raccomandato in un'altra. Peraltro, questa ipotesi è, di fatto, discutibile e forse insostenibile; ma esiste un problema preliminare, che concerne il valore che ciascuno di noi intende dare ai più elementari principi che ci guidano nella vita quotidiana. Ognuno di noi possiede non soltanto idee e nozioni ma ha anche introiettato certi valori morali: ebbene, è possibile relativizzarli? È possibile metterli in discussione? Alcune volte questo è relativamente facile, altre volte più difficile. Per esempio, possiamo dare valore alla monogamia ma non ci è troppo difficile accettare che in alcune culture sia ammessa la poligamia; possiamo essere contro la pena di morte ma prendiamo atto, sia pure a malincuore, che in molti paesi le sia favorevole la schiacciante maggioranza della popolazione; e così via. Non ci è difficile concludere, in casi come questi, che ogni tradizione ha í propri equilibri• non ce la sentiremmo di salire in cattedra con una bacchetta in mano per invitare gli altri ad adeguarsi alle nostre idee. Altre volte, invece, è più arduo porsi altrettanto serenamente in una prospettiva relativistica. Questo vale, per esempio, quando si prenda in esame la condizione femminile. Se ci informiamo per capire in cosa consiste
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la mutilazione genitale, ritualmente imposta a tutte le bambine in alcune zone dell'Africa, e ci documentiamo sulle sue gravi conseguenze in termini di salute fisica, e talora perfino di sopravvivenza, qualcosa si ribella in noi. Ma la mutilazione genitale è solo un tema saliente fra i tanti: la violenza sulle donne è un problema enormemente più vasto. Secondo gli Human Development Reports pubblicati dalle Nazioni Unite, ogni anno circa quattro milioni di donne e bambine, appartenenti quasi esclusivamente al mondo non occidentale, sono totalmente private della libertà e dei loro più elementari diritti: o per motivi di schiavitù domestica, o per nozze forzate, o perché costrette alla prostituzione. Ora, questo problema non può essere facilmente assimilato ad altri, per esempio a quello della malnutrizione infantile: se i genitori sono poverissimi, è probabile che neanche i loro figli mangino abbastanza. Invece l'oppressione della donna, con i suoi sorprendenti e molteplici aspetti sadici, ha caratteristiche tali per cui ci si presenta, per così dire, come un in più di violenza nel costume quotidiano: potremmo dire che è il prodotto «puro» di culture arretrate. E allora, se accettiamo di dare peso alle convinzioni che sono parte integrante della nostra stessa sensibilità morale, non possiamo che riflettere su ciò che ci muove nella nostra passione per le cose del mondo: e cioè l'adesione a un insieme di valori che per noi è inscindibile dalla storia dell'Occidente. Ma fin qui la nostra argomentazione rimane ancora fragile. Il fatto è che alcuni valori non sono neppure occidentali, sono universali. Nessun adulto, in nessuna parte del mondo, neanche la più sperduta, preferisce le carestie alla possibilità di costituire riserve di cibo, le malattie alla salute, una breve vita di stenti alla longe-
vità, e neppure l'analfabetismo dei figli alla possibilità di mandarli a scuola. Alcuni modi di vita e alcune tradizioni sembrano più capaci di garantire gli scopi di sopravvivenza, sicurezza ed elementare benessere che gli abitanti di ogni angolo della terra spontaneamente desiderano per sé e per i propri figli; altre strutture sociali sembrano dare meno garanzie. E soprattutto a proposito delle zone geografiche più distanti dalla modernità che la retorica relativista esprime le sue posizioni meno sostenibili. Contrariamente a ciò che predicano miti duri a morire, le culture preletterate non sono affatto contraddistinte da un rapporto armonico con la natura, e meno che mai dalla serenità del vivere: al contrario, le risorse naturali vi sono sfruttate peggio di quanto sarebbe possibile pur con gli strumenti locali, e una vita breve e brutale è dominata dalle malattie, dalla sottonutrizione, dalla mancanza di informazioni elementari. Non è sempre questione di culture diverse: è impossibile non chiedersi se le culture più lontane dal benessere occidentale non siano, anzitutto, culture oppresse. Il vecchio discorso marxista, per quanto fosse errato nelle sue ipotesi strategiche, coglieva una verità. L'analisi di classe era un buon antidoto contro la melassa delle buone intenzioni, contro le retoriche romantiche della socialità comunitaria (la società-Gemeinschaft, che piaceva molto ai nazisti), contro i tradizionali appelli dei conservatori alle armonie solidaristiche. Si occupava, infatti, di rapporti di potere. Se anche oggi noi volessimo riferirci, non irragionevolmente, alle analisi sulle differenze di potere all'interno di un qualsiasi tessuto sociale, avremmo un motivo in più per diffidare dell'ipotesi che la miseria di certe popolazioni, per esempio dell'Africa subsahariana, sia dovuta a remote colpe co-
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loniali e al persistere di culture ancestrali. Si scopre invece che la loro condizione è legata, tra gli altri fattori, a un problema banale ma non trascurabile: in quei paesi hanno accesso ai vertici dello Stato individui che rappresentano interessi ai margini della legalità e a cui non importa nulla del progresso del paese. Anche queste, infatti, sono brutali questioni di rapporti di potere. Ora, il potere è anche mentale, e l'oppressione dei potenti può arrivare molto lontano, fino all'interno della mente degli ultimi diseredati. Si può supporre, per esempio, che gli strumenti cognitivi propri delle popolazioni devastate dalla povertà non sarebbero molto diversi dai nostri se le condizioni di vita fossero più favorevoli ed esistessero scuole decenti. Non avere mai avuto un'alimentazione adeguata, esser stati privati del diritto di imparare a leggere, disporre di limitatissime conoscenze sul reale, credere nella presenza pervasiva della magia, sono fattori che possono lasciare, verosimilmente, un'impronta negativa sulle risorse mentali con cui vengono affrontati problemi urgenti perfino nelle comunità più sperdute, come la difesa dalla malaria e dall'Aids, la gestione dei diritti di irrigazione dei campi o l'elezione dei capi-villaggio. Ma anche al di fuori dell'area delle comunità preletterate, o «primitive», sembra lecito osservare che le differenze culturali fra popoli e nazioni possono comprendere importanti dislivelli di cultura nel senso del livello di istruzione. Chi ha viaggiato in paesi come la Malesia e l'Indonesia, dove vivono minoranze cinesi, non può non avere osservato la straordinaria cura che esse rivolgono all'educazione dei bambini e dei giovani, e l'ottimo livello di istruzione degli adulti: cosa che certamente contribuisce alla prosperità e all'ascesa sociale di quelle comunità, peraltro discriminate dalle leggi degli
Stati che le ospitano e spesso addirittura perseguitate. E così, analogamente, qualsiasi viaggiatore curioso e perfino i giornalisti che condannano le terribili durezze imposte dai governi israeliani nei territori occupati non possono che essere colpiti dal livello di istruzione di quel paese, dall'eccellenza dell'insegnamento universitario, dagli istituti di ricerca di livello mondiale, dalla passione diffusa per l'arte, il teatro, la musica e i libri: mentre per converso, con tutta la simpatia che possono suscitare i paesi arabi, è necessario dire con franchezza che essi sono, al confronto, un deserto culturale. Non solo lo sviluppo delle singole nazioni, ma anche gran parte della possibilità che popoli diversi convivano dipenderanno nel prossimo futuro da fattori (quantitativi) di livello di istruzione altrettanto e forse più nettamente che da fattori (qualitativi) di tradizioni e di costumi. Il livello di istruzione, però, dipende dalle differenze qualitative delle tradizioni culturali? Non interamente, è ovvio. Molte cose dipendono, per esemplo, dagli atteggiamenti dei governi. Lo possiamo constatare, oltre che nel modo più evidente esaminando la politica scolastica in Italia, anche in altre parti del mondo. Particolarmente nelle zone dominate dalla miseria e dalla corruzione può accadere che il persistere dell'analfabetismo abbia responsabili identificabili per nome e cognome. Tutte queste considerazioni conducono a un'unica conclusione: alla prova della realtà, si scopre che la teoria relativista dell'equivalenza fra le culture non ha il minimo fondamento.
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Perché non possiamo non dirci occidentali È evidente, in sintesi, che i principi del relativismo culturale devono essere rivisti. Eppure essi vengono talora
invocati per difendere, almeno a parole, le nazioni più deboli. Viene dato per scontato che il relativismo, come orientamento di massima, favorisca il rispetto per l'autonomia dei popoli e dei governi; in pratica si pensa ingenuamente che, traducendosi nella formula rispettosa «ogni paese è valido per sé» l'ottica relativista risponda a un principio di non intervento. Così, per una opposta simmetria, si dà talora per scontato che il voler sostenere la supremazia di una data cultura, come quella occidentale, sospinga i rappresentanti di quest'ultima a prevaricare, magari con le armi, sui diritti degli altri popoli. Sono teoremi; ma se si osserva quello che accade è facile constatare che le cose non vanno esattamente in questo modo. Nel corso del Ventesimo secolo, ogni volta che si trattava di giustificare il mantenimento di situazioni di esclusione e oppressione il relativismo culturale è stato utilizzato più di ogni altra ideologia. Da molti decenni ormai, neppure il più retrivo difensore della tradizione colonialista sostiene che i popoli subordinati debbano abbandonare le loro tradizioni religiose e i loro costumi per abbracciare quelli dell'Occidente: al contrario, la teoria invocata per giustificare lo status quo è quella relativista, secondo la quale ogni cultura della terra sopravvive nel modo migliore quando rimane fedele alle proprie tradizioni. Questo è, ovviamente, un invito all'immobilità. Ma ciò che non sempre viene percepito è che se una cultura rimane fedele a tradizioni retrive, è sempre nell'interesse dei più forti. Gli esempi potrebbero essere numerosi. E qui il lettore perdonerà chi scrive se si lascerà andare a qualche piccola esasperazione polemica. La monarchia saudita discrimina le donne fino al punto di
proibire loro di guidare l'automobile, pratica la decapitazione in pubblico e ignora i più elementari principi della democrazia? Affar loro, si dice: è la loro cultura tradizionale, che come tutte le culture tradizionali va rispettata, e in ogni caso si sa bene che essa non ha nulla a che fare con la contabilità dei petrodollari, a cui pensa la famiglia reale. In una zona delle Ande il denaro e il potere sono in mano ai bianchi, e gli indios sono in miseria? Questo accade, si dice, perché la cultura india ha le sue particolarità, fra cui quella di essere poco incline alle iniziative commerciali. Alcune tribù di nativi nordamericani svendono agli speculatori le loro risorse boschive e minerarie? Non è il caso di intervenire, perché si rischierebbe di limitare ulteriormente le autonomie tribali. In India esistono tradizioni di fede che giustificano crudelissime discriminazioni di casta e umiliano le donne? Le religioni vanno rispettate perché riguardano la sfera spirituale. E quest'ultimo principio viene fatto valere anche quando si tratta di salvaguardare il potere stesso delle grandi istituzioni ecclesiastiche: il principio «le religioni riguardano un ambito superiore, quindi non vanno toccate» è correntemente dato per buono in Italia quando la Chiesa cattolica fa approvare leggi dello Stato che discriminano le coppie omosessuali, proibiscono a tutti gli studiosi (anche non cattolici) di dedicarsi a importanti settori della ricerca biologica, e limitano l'accesso dei cittadini alle terapie oggi disponibili contro la sterilità e le malattie genetiche. L'atteggiamento del relativismo culturale porta a costituire aree culturali protette, a tutelare ambiti ideologici che non possano venir messi in discussione. Questa sembra essere la premessa ideale per abbandonare a se stesse le sacche di arretratezza. Il relativismo, infatti, non implica l'integrazione ma la separazione, di cui è si-
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nonimo il vocabolo apartheid: l'idea, detta molto in breve, è che ognuno rimanga al suo posto. Nel Sud Africa al tempo della discriminazione istituzionalizzata contro gli africani di pelle nera, le teorie degli antropologi culturalisti vennero correntemente utilizzate per giustificare la politica segregazionista del governo e le carenze della politica sanitaria nelle zone indigene. A qualcuno sembrava perfino democratico che, nel nome del rispetto per le tradizioni «diverse», i sudafricani non bianchi, pur lavorando in fabbrica e in miniera, una volta tornati a casa se la cavassero con le risorse degli antenati. Tuttora la tendenza a radicalizzare le differenze fra le culture si rivela funzionale ad alcuni progetti politici. Se poniamo attenzione alla propaganda dell'estrema destra xenofoba, centrata sul tema della supremazia bianca e religiosamente attaccata ai valori della tradizione, ci colpisce la coerenza di quella linea: i gruppi xenofobi non desiderano nessuna commistione etnica, nessun contatto fra le culture, nessuna interferenza fra mentalità che, essi ritengono, sono troppo diverse per poter convivere. L'estrema destra, insomma, è coerente nel trarre tutte le conclusioni dal relativismo culturale. In una prospettiva opposta, non è difficile vedere come un orientamento anti-relativistico, ben saldo nella consapevolezza del carattere universale dei principi della democrazia, possa avere le carte in regole per premere con mezzi legittimi e pacifici sui governi autoritari di certi paesi al fine di invitarli al rispetto dei diritti umani. Oggi è soprattutto l'Unione Europea a essere consapevole di questa responsabilità, attraverso una politica di aiuti e prestiti, ma si deve ricordare che proprio le vicende del Sud Africa sono state l'esempio migliore di come la coalizione di tutti i paesi occidentali, premen124
do nel nome dell'egualitarismo e dei diritti dell'uomo su quella grande nazione mediante una politica di interdizioni commerciali, sia stata determinante nell'estinguere, nel 1990, la politica razzista dell'apartheid. È inoltre significativo che il più importante evento di politica imperiale degli ultimi decenni, cioè l'invasione dell'Iraq del 2003-4, non sia nato da teorie né universalistiche né ami-relativistiche, né tanto meno dalla tradizione del pensiero laico. Ben diversamente, questa tragica avventura bellica è avvenuta per iniziativa e volontà di un presidente degli Statí Uniti portatore di precise convinzioni di fede: George W. Bush è sicuro che il suo paese sia stato incaricato di una missione divina, disprezza gli organismi che promuovono iniziative internazionali, ignora i principi di separazione fra il governo e le credenze religiose su cui si basa la sua stessa Costituzione, ritiene sia bene abbondare nell'uso della pena di morte, ed è un cristiano born again che trova naturale sposare fra loro l'ideale della guerra «giusta» con l'antica mistica della guerra santa. L'interpretazione, talora proposta in Europa, secondo cui gli aspetti più discutibili della politica estera statunitense sarebbero il prodotto estremo del razionalismo tecnico-scientifico e delle idee dell'illuminismo può essere difesa solo ignorando la storia dell'Occidente e arrendendosi a una quota di banale paranoia antiamericana. Varie considerazioni non irragionevoli, in conclusione, ci spingono ad affermare qualcosa di rischioso, e cioè che i criteri etici con cui, in Occidente, osserviamo il mondo, non possono essere annullati da un relativismo che mette tutti i punti di vista sullo stesso piano. Di più: se affermiamo che ovunque il saper leggere è meglio che l'essere analfabeti, che in qualsiasi paese della terra il liberalismo in economia e le forme della demo125
crazia assicurano la difesa dalle carestie molto meglio di quanto lo facciano le dittature, e che in nessun angolo del nostro pianeta dovrebbe esistere il diritto di imporre una fede religiosa maggioritaria come ispiratrice di leggi e sentenze, noi implicitamente prendiamo partito per una tradizione culturale ben precisa, che amiamo e riconosciamo come nostra. Abbiamo qualche buona ragione per riaffermare il valore della tradizione laica, progressista e razionale che si è sviluppata in alcuni paesi dell'Occidente nel corso degli ultimi quattro secoli. Si tratta di un orientamento di idee che negli ultimi cento anni ha finito per coinvolgere, malgrado tragici errori, tutto il resto del pianeta e quindi non solo le terre lontane che conoscevano a stento l'esistenza delle ferrovie ma altresì una penisola, la nostra, che dal Seicento a tutto l'Ottocento era stata appena lambita dagli sviluppi del pensiero della modernità e la cui popolazione era 26 per 1'80% analfabeta ancora dopo l'Unità d'Italia .
Capitolo 4 ASPETTI ETICI E POLITICI. IL RELATIVISMO E IL CONSENSO DISINFORMATO
Chi ha avuto la pazienza di leggere i primi tre capitoli può capire perché esistano seri motivi per rimettere in discussione il modo corrente di presentarsi degli orientamenti relativistici. A guardar bene, infatti, l'edificio del relativismo non poggia su un atteggiamento di rispetto per le opinioni altrui: non vi troviamo il tradizionale «lasciate che crescano i cento fiori», né il tentativo virtuoso di contrastare il dogmatismo dei fanatici nel nome delle infinite sfaccettature della libertà di pensiero. Invece, a suo fondamento c'è qualcos'altro, che è più criticabile: il tentativo di non tenere conto dei fatti, di evadere dal realismo. Non sempre i relativisti sembrano rendersi conto di quali conseguenze comporti l'esaltare il significato delle opinioni svalutando quello delle conoscenze, il credere molto nelle intenzioni e pochissimo nelle verifiche, il privilegiare l'immaginario e attaccare la razionalità. Quello che è certo, è che con singolare frequenza essi si trovano a rivendicare i diritti della propria soggettività. In questo modo si trovano, paradossalmente, a incoraggiare quei dogmatici che oggi si oppongono al relativismo non già nel nome della realtà tangibile, ma nel nome di soggettive convinzioni di fede. 127
crazia assicurano la difesa dalle carestie molto meglio di quanto lo facciano le dittature, e che in nessun angolo del nostro pianeta dovrebbe esistere il diritto di imporre una fede religiosa maggioritaria come ispiratrice di leggi e sentenze, noi implicitamente prendiamo partito per una tradizione culturale ben precisa, che amiamo e riconosciamo come nostra. Abbiamo qualche buona ragione per riaffermare il valore della tradizione laica, progressista e razionale che si è sviluppata in alcuni paesi dell'Occidente nel corso degli ultimi quattro secoli. Si tratta di un orientamento di idee che negli ultimi cento anni ha finito per coinvolgere, malgrado tragici errori, tutto il resto del pianeta e quindi non solo le terre lontane che conoscevano a stento l'esistenza delle ferrovie ma altresì una penisola, la nostra, che dal Seicento a tutto l'Ottocento era stata appena lambita dagli sviluppi del pensiero della modernità e la cui popolazione era 26 per 1'80% analfabeta ancora dopo l'Unità d'Italia .
Capitolo 4 ASPETTI ETICI E POLITICI. IL RELATIVISMO E IL CONSENSO DISINFORMATO
Chi ha avuto la pazienza di leggere i primi tre capitoli può capire perché esistano seri motivi per rimettere in discussione il modo corrente di presentarsi degli orientamenti relativistici. A guardar bene, infatti, l'edificio del relativismo non poggia su un atteggiamento di rispetto per le opinioni altrui: non vi troviamo il tradizionale «lasciate che crescano i cento fiori», né il tentativo virtuoso di contrastare il dogmatismo dei fanatici nel nome delle infinite sfaccettature della libertà di pensiero. Invece, a suo fondamento c'è qualcos'altro, che è più criticabile: il tentativo di non tenere conto dei fatti, di evadere dal realismo. Non sempre i relativisti sembrano rendersi conto di quali conseguenze comporti l'esaltare il significato delle opinioni svalutando quello delle conoscenze, il credere molto nelle intenzioni e pochissimo nelle verifiche, il privilegiare l'immaginario e attaccare la razionalità. Quello che è certo, è che con singolare frequenza essi si trovano a rivendicare i diritti della propria soggettività. In questo modo si trovano, paradossalmente, a incoraggiare quei dogmatici che oggi si oppongono al relativismo non già nel nome della realtà tangibile, ma nel nome di soggettive convinzioni di fede. 127
Nella pratica, i difensori delle mille opinioni non sono portatori di un messaggio di serenità: al contrario il loro modo di proporsi è spiccatamente polemico. Osserviamo qualcosa di sprezzantemente liquidatorio nelle loro battaglie contro la concretezza operativa, contro le conquiste scientifiche, contro l'idea di progresso. Il relativismo, infatti, è una ideologia che non ha al suo centro la parola «pluralismo», ma piuttosto la parola «soggettivismo». Nei suoi aspetti conoscitivi, è un'anti-epistemologia scettica di derivazione ermeneutica orientata a una critica radicale nei confronti del pensiero della modernità. Nei suoi aspetti di comportamento, è la richiesta di una illimitata libertà di azione. A prima vista tutto sembrava tranquillo: il relativismo come paradiso dei punti di vista, come territorio felicemente anarchico delle molteplicità interpretative. Però non erano mai stati felici i rapporti con un territorio confinante, quello delle conoscenze. L'antipatia dei relativisti verso il mondo della ricerca si estende al rifiuto di capire gli argomenti degli economisti e dei demografi, così come si traduce in un'ostilità verso misure, modelli, e valutazioni di probabilità, per diventare poi un moto di vero fastidio quando il discorso concerne le indagini sulla natura umana e sulle motivazioni che spingono uomini e donne a pensare e ad agire. Esistono motivi identificabili che spiegano quest'ultimo atteggiamento, e si rifanno a vecchi problemi, al contrasto fra due storiche concezioni dell'intelletto che qui vale la pena di richiamare schematicamente. La più importante di queste concezioni, poco compatibile con il relativismo, nasce da Bacone e sostiene che la nostra mente è incline a commettere errori se viene lasciata alla sua spontaneità, per cui le idee vanno disciplinate da verifiche sui fatti, e in sostanza dalle cau-
tele del metodo scientifico. (Va osservato che Francis Bacon usa un linguaggio particolarmente incisivo: difende la necessità di «trascinare la mente verso terra», poiché, a costo di affrontare «inquietudine e confusione», dice, occorre farla scendere dalle altezze della speculazione pura, cioè dalla «serena tranquillità della saggezza astratta»'.) In questa tradizione, che è quella dell'empirismo, a partire da Bacone e Locke fino a John Stuart Mill, e da Darwin e Freud fino alla scienza dei nostri giorni, il realismo è tutto; la realtà materiale è fondamento della conoscenza. Qui l'atteggiamento che la coscienza umana sceglie di assumere verso il mondo naturale in generale — e verso i fenomeni biologici in particolare — consiste in uno sguardo indagatore, dissacrante e analitico, che si traduce in misure e manipolazioni. La seconda concezione invece, omogenea al relativismo, è legata all'esaltazione dei diritti primari della mente e si riallaccia sia, per un lato, all'idealismo filosofico di Hegel e di Fichte sia, per altri versi, alle retoriche della spontaneità coltivate dall'ideologia romantica. Qui l'atteggiamento che la coscienza umana sceglie di assumere verso il mondo naturale in generale — e verso i fenomeni biologici in particolare — consiste in uno sguardo contemplativo, sacralizzante e sintetico, che trasforma in entità le grandi astrazioni, come «la vita».
Ne derivano due opposte concezioni etiche, che ricalcano gli indirizzi delle divergenti filosofie. Da un lato, dunque, esistono gli aspetti complessi di un'etica fondata sull'empirismo, dove si ritiene che i comportamenti, per quanto possano rispondere a indi-
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I richiami etici del relativismo
rizzi generali, debbano essere regolati «dal basso», come direbbe Bacone, cioè debbano sottoporsi all'esame di realtà. (L'utilitarismo di Bentham, malgrado gli aspetti ingenui del suo oggettivismo, è un esempio di etica anti-relativista.) In quest'ottica i comportamenti sono valutati per ciò che concretamente producono: se, per esempio, producono miseria, sofferenza e morte sono comportamenti cattivi, indipendentemente dalla buona fede e dai nobili pensieri di chi li ha commessi. Ma i comportamenti possono anche essere fonte dí conoscenza e di benessere, soprattutto se riescono a basarsi su forme intelligenti di cooperazione. E allora, quando si tratti di costruire una buona collaborazione sociale, l'appello più tipico suona come segue: noi abbiamo i nostri problemi e i problemi sono questi, mettiamoci insieme, aiutiamoci a risolverli. Dal lato opposto esiste l'etica che fa perno sul soggetto anziché sull'oggetto. Si parte dall'interiorità, e vi si rimane legati. Qui si raccomanda che i comportamenti rispondano a istanze ideali ed esigenze spirituali: a intuizioni e sentimenti, ma anche a ispirazioni religiose. Poiché non esiste etica senza generalizzazioni normative il riferimento è alle tradizioni dei popoli, ai miti, ai simboli, ai riti, magari alle leggende; ma anche alla voce delle emozioni e alle retoriche della spontaneità. Fra coloro che aderiscono a questo tipo di ideologia, i più istruiti sanno bene che l'orizzonte è immenso, planetario, e insistono sulla varietà delle culture e delle fedi, pur raccomandando che ciascuno presti ascolto alla propria fede; í più ignoranti sono invece ristretti, senza loro colpa, da un orizzonte limitato e si fanatizzano nei localismi. La molteplicità è garantita dall'idea stessa del relativismo, ma la tendenza di base è sempre uguale: si parte dai desideri invece che dalle necessità, dalle astra1 2(1
zioni invece che dai dati concreti, dalle idee della tradizione invece che da quelle dell'innovazione. Si preferisce camminare guardando verso il cielo invece che dove si stanno mettendo i piedi, e questo permette da un lato un'infinità di divagazioni e deviazioni, e da un altro lato l'inseguimento di sicurezze metafisiche. L'appello che ne nasce è chiaro quanto l'altro, visto poco più sopra, ma di segno opposto e suona come segue: noi teniamo molto ai nostri principi e i principi sono questi, mettiamoci insieme, aiutiamoci a esprimerli. Ogni volta che, come accade ai relativisti, non si creda nella forza dei fatti e meno che mai nel valore delle verifiche, l'unico fondamento possibile per il costituirsi di un'etica è fornito dal secondo tipo di appelli. Come abbiamo visto in un altro capitolo, la logica dei relativisti conduce al moralismo delle intenzioni, e non vi può trovare spazio l'etica delle responsabilità. I relativisti, dunque, assumono — paradossalmente una posizione assoluta: rifiutano inchieste e controlli. Rifiutano poi con particolare aggressività i laboratori dei neurobiologi e le indagini sui meccanismi delle scelte: non amano che la natura umana sia vista in un'ottica materialista. Preferiscono una concezione privilegiata della persona, qualcosa che permetta loro di veleggiare nel mare dei sentimenti nobili. Qui il buonismo esibito si vale di strumenti polemici lungamente collaudati, che non appartengono solo all'armamentario tradizionale delle religioni ma attingono anche alla morale diffusa: i relativisti ripetono che il meccanicismo dei biologi è una bruttissima cosa e che bisognerebbe credere in entità che, alquanto vagamente, sono chiamate i valori dello spirito. Dove mai rischia di finire l'umanità, ci dicono, se consideriamo gli uomini come scim121
mie evolute? Se fanatici scienziati si ostinano a studiare l'economia dei comportamenti allo stesso modo in cui studierebbero gli equilibri di un formicaio, non ci stanno forse invitando ad abbandonare valori, ideali, aneliti di trascendimento? Possiamo noi rinunciare a credere nell'importanza di questa dimensione non ignobile dell'umano, che unisce l'etica alla cultura? Procedendo sulla spinta di argomenti dí questo genere è evidente che i relativisti si sentono vincitori: la loro retorica è efficace, la loro immagine della natura umana è molto gratificante per tutti e, in più, la morale comune li aiuta. Avranno sempre il vento in poppa. Eppure dovrebbe essere ovvio che nessuno sta manovrando per svilire quelli che sono, di fatto, gli aspetti migliori della disponibilità umana. Si può discutere finché si vuole sulla terminologia corrente (per esempio «i valori» non significa quasi nulla, sarebbe meglio chiarire quali valori) ma non vi dovrebbero essere dubbi sulla sostanza. E la sostanza è che le forme della socialità in generale, e in particolare quegli sviluppi della socialità che noi tutti abbiamo a cuore, non nascono soltanto dal confluire degli egoismi individuali ma anche da motivazioni particolari, che possiamo benissimo chiamare «nobili» senza dovercene vergognare, e che comprendono categorie come l'altruismo, i sentimenti di solidarietà, e la disponibilità a sacrificare molte cose materiali e perfino la propria vita per progetti ideali. Se è vero, infatti, che le società di oggi sono tanto più prospere quanto più incoraggiano iniziativa individuale e concorrenza, è altrettanto vero che non vi sarà né sviluppo né benessere se non sono sufficientemente diffusi, in tutta la popolazione, ben identificabili valori come la lealtà reciproca, il senso di responsabilità, l'amore per l'esattezza, il desiderio di progetti comuni. Il pro119
blema, dunque, non consiste nel credere o meno nella presenza di istanze di questo genere all'interno dell'animo umano. Le esigenze che possiamo benissimo chiamare «superiori» (come l'attitudine alla cooperazione e perfino all'altruismo) albergano in noi da molti e molti millenni, sono state da sempre utilizzate nel cammino dell'umanità e, benché sia merito della civiltà averle sviluppate in modi particolari, derivano da potenzialità di cui tutti disponiamo fin da quando veniamo al mondo. Ma tutte queste virtù — senso di responsabilità, dedizione, e così via — non sono affatto semplici e, soprattutto, non scendono dal cielo ogni volta che siano invocate. Sono molto complesse e le loro componenti di base sono eterogenee e non tutte evidenti. In ogni caso dobbiamo decidere se ci interessa soffermarci a studiarle con un po' di pazienza (e magari un po' di fatica) oppure se, al contrario, ci accontentiamo di genericità e di esortazioni. Per esempio, prendendo le mosse dall'ipotesi che amiamo e difendiamo l'altruismo, è probabile che il predicare «siate altruisti!» serva a poco o a nulla. Ci serve qualcos'altro: dovremmo chiederci che cosa favorisca abitualmente l'articolarsi dei moti più generosi del nostro animo, portandoci ai comportamenti altruistici, e cosa invece li ostacoli; ovvero, più asciuttamente, quali siano gli ingredienti motivazionali da cui emergono quelli che, con un termine poco elegante, si usa oggi chiamare comportamenti prosociali. È quindi giusto che riflettiamo su cosa dobbiamo capire preliminarmente, se vogliamo che convincimenti e atteggiamenti virtuosi, e non viziosi, si estendano nel mondo. Per procedere su questa via è necessario studiare metodicamente la realtà fuori di noi e quella dentro di noi: in pratica, quindi, dobbiamo sapere come funzionano le motivazioni umane e le interazioni possibili fra gli indi-
vidui, e quindi valerci delle conoscenze scientifiche (oggi assai articolate e interessanti) e degli strumenti di indagine (oggi assai sofisticati ed efficaci) forniti da biologi, psicologi, sociologi, e in misura crescente anche da economisti. Pretendere di farne a meno sarebbe come buttarsi in acqua senza saper nuotare, o voler conquistare un paese senza neppure saperlo trovare sulla carta geografica. I relativisti, però, dal momento che non credono nella scienza, né nelle cautele di metodo e neppure nelle conoscenze empiriche generalizzabili, sono dí tutt'altro parere. Poiché vivono nell'universo delle convinzioni e non delle documentazioni, è giocoforza che ripongano fiducia in altre cose. Amano le parole d'ordine e le scorciatoie operative; si muovono in un mondo di denunce morali, di perorazioni, agitazioni polemiche, campagne di stampa, mobilitazioni degli animi, prediche, rimproveri, esortazioni e catastrofismi. È inevitabile che i loro argomenti profumino di virtù e si nutrano di indignazioni. E infatti, di virtù e indignazioni è intessuta la loro etica. La retorica del relativismo In sintesi, è ben difficile che i relativisti producano dati e informazioni utili, e raramente riescono a proporre idee che ci aiutino a capire il mondo: piuttosto, insistono sull'importanza dei modi personali di atteggiarsi e prediligono le idee generali anche se queste non sono del tutto nuove. Ossia, per riprendere una battuta un po' cattiva di Walter Runciman, oscillano fra l'essere attitude merchants, mercanti di atteggiamenti, e l'essere platitude merchants, mercanti di banalità2. Per la verità, l'ideologia del relativismo non è l'unica responsabile del i 2/I
modo vacuo con cui i problemi etici vengono correntemente affrontati sulla grande stampa e in una parte dei libri rivolti al pubblico. (Vi concorre, come è evidente, la furbizia dei demagoghi.) Esiste un abuso di termini moraleggianti e di dichiarazioni enfatiche come «noi crediamo nei valori», «l'uomo è il fine supremo», «nessuna esperienza vera è più possibile nel mondo della tecnica», «la modernità uccide le prospettive spirituali», «difendiamo la vita!», «la morte è sacra» (o la nascita, o la sofferenza umana, o la fede, ecc. ecc.). Espressioni così generiche da risultare prive di senso vengono prese come il punto di partenza per dissertazioni il cui rapporto con la realtà si perde del tutto. Non vale la pena di soffermarsi sugli esempi peggiori, dei quali sono colpevoli i giornalisti. Prendiamo invece i migliori: ma anche qui ci renderemo conto, purtroppo, che nella maggior parte dei casi abbiamo a che fare con un tipo di esortatività che, se a prima vista può fare buona impressione, esaminata da vicino ha scarso significato. Esistono letterati, filosofi e sociologi né incolti né stupidi che invocano una riforma degli atteggiamenti e auspicano una sorta di conversione psicologica, sostenendo — con un po' di presunzione, bisogna dire — che l'umanità intera avrebbe assoluta necessità di ascoltare il loro appello, proprio il loro appello, se vuole uscire dai guai in cui si sta cacciando. Naturalmente si tratta sempre di appelli ostili alla scienza e al progresso tecnico. Per esempio, nell'ambito di un tipico articolo in cui un umanista italiano attacca la scienza (quivi liquidata con la dizione «il fondamentalismo scientista») si leggono enunciati come il seguente: «È in questo quadro che dobbiamo pensare alla costruzione di una nuova moralità, integralmente umana, se posso esprimermi così, fuori da ogni mino1 g5
rità verso una 'natura' disciplinante, tutta al di fuori di noi. La natura è storia, e la storia siamo noi. C'è una rivoluzione etica nel nostro futuro — una specie di rivoluzione copernicana dell'io morale»3. Che dire? In un certo senso sono belle dichiarazioni! (A parte la teoria di Copernico, naturalmente, il cui significato va in senso opposto alla logica di quell'articolo: ma forse si tratta di una svista.) La buona fede dell'autore è evidente e noi ne prendiamo atto, per cui siamo in attesa di vedere come sarà la rivoluzione etica che ci promette: anche se non è proprio chiarissimo di cosa stia parlando. Altre volte la perorazione è più radicale, e magari più comprensibile. Un intellettuale francese generalmente stimato, Serge Latouche, intervistato da un docente italiano di antropologia culturale, Marco Aime, esprime un parere sui mali del mondo e fa una proposta: occorre riabilitare il dono, forse fino al punto da sostituire il dono al commercio. (Da domani, verrebbe subito da chiedersi, tutti buoni?) Analogamente ad altri che appartengono al suo stesso schieramento ideologico egli denuncia apertamente come nefaste e orribili sia la «razionalità scientifica» sia la «logica mercantile». La sua opinione sui guai del mondo è drastica e si riassume in enunciati che hanno, per una volta, il pregio della chiarezza, come per esempio questa frase: «Sia lo sviluppo, sia la globalizzazione sono 'macchine' per affamare i popoli». Di qui la proposta di combattere contro lo sviluppo inteso nel senso più generale: in sostanza, l'idea è che sia necessario opporsi alla produttività. Occorre una svolta di 180 gradi: bisogna tornare indietro. Ecco le sue parole: «Per salvare il pianeta e assicurare un futuro accettabile per i nostri figli, non bisogna soltanto moderare le tendenze attuali, bisogna decisamente usci'n A
re dallo sviluppo e dall'economicismo, come bisogna uscire dall'agricoltura produttivista, che ne è parte integrante, per smetterla con le mucche pazze e le aberrazioni transgeniche». Così dice Latouche. Ebbene, in che modo arrivare a un simile traguardo? Non lavorando sulla realtà, a quanto pare, ma attraverso un'opera di bonifica interiore. E da svolgere come, concretamente? Qui il nostro intellettuale, dal momento che non ha alcuna fiducia nella razionalità né in alcuna forma di realismo operativo, non ha dubbi: occorre ricorrere all'immaginario. Ascoltiamolo. «Prima di tutto bisogna decolonizzare e deconomicizzare [sic, in corsivo nel testo] il nostro immaginario. Questa è la parola d'ordine: il desiderio della gente è da sempre quello di stare bene, avere il necessario, vivere in armonia con tutto il resto. Come farlo? Per esempio riscoprendo l'importanza del dono. Il dono crea e rafforza i legami sociali, il commercio invece li rende sterili e impersonali»4. Possiamo permetterci il lusso di non soffermarci su questo genere di teorie. Prendiamo invece l'unico punto in cui il discorso di Latouche approda a un minimo di concretezza: «riscoprire» il dono. L'idea è seducente, e si presta a considerazioni che valgono anche per altre proposte di autori di varie nazionalità. Queste persone ci dicono come dobbiamo comportarci. Le loro proposte sono, come tutti sanno, numerosissime, ma per quanto diverse fra loro hanno sempre qualcosa in comune: l'appello preliminare a una sorta di conversione. Per esempio: bisogna riscoprire la sobrietà nella vita quotidiana ed evitare i lussi superflui, bisogna tornare alla terra, bisogna riabilitare l'autorità dei padri e la devozione di figli, bisogna inventare nuovi giochi del Dodo in cui tutti sono vincitori (v. il cap. 2, ma è uno scher137
zo), bisogna prendere esempio dalla vita felice dei pigmei cacciatori e raccoglitori, bisogna riportare in auge le posate di legno (piacevano a Heidegger), oppure bisogna praticare il politeismo perché i monoteismi sono stati la sciagura dell'Occidente. O anche, naturalmente, bisogna essere buoni e donare. E così via. Esiste, come è ovvio, un problema di attendibilità teorica di tutte queste idee: magari sono belle proposte ma non è facile capire dove stiano i loro fondamenti. Alcune, viene da osservare, sembrano veramente sciocche. Però un altro problema è più importante: sono proposte efficaci? Possiamo chiederci se il fatto di ripetere, a voce e per scritto, in interviste e in apparizioni televisive, questo tipo di incitamenti (i tanti «bisogna») sortisca un effetto qualsiasi. Sembra lecito dubitare che questo modo dí auspicare svolte morali e nuove abitudini abbia qualche probabilità di produrre cambiamenti nelle persone e possa realmente indurre azioni che modificano la realtà sociale. Ci si domanda che cosa mai speri di ottenere chi si accalora in perorazioni del genere, sempre troppo astratte, spesso imperscrutabilmente fumose, in ogni caso ben distanti dal poter avere un'incisività qualsiasi. È evidente che, finita la perorazione, tutto rimane esattamente come prima. (Lo scenario è sempre lo stesso: il conferenziere raccoglie le sue carte, si alza, riceve i complimenti di varie persone, intasca la busta con l'onorario, e si va a casa. Ognuno ha fatto la sua parte.) Eppure un effetto esiste, e ben percepibile. Esortazioni e perorazioni non servono a nulla nel concreto, ma contribuiscono in modo potente a creare un clima culturale che si nutre proprio di questo. Guardando in certe ore la televisione abbiamo l'impressione di vivere in un universo fatto di intenti, bei pensieri, autopresentazioni virtuose, sdegni scarsamente articolati, indigna-
zioni del tutto prive di capacità analitiche. Si tratta di un tessuto di discorsi che allontana dalla realtà e scoraggia le ricerche di qualsiasi tipo. Va osservato, peraltro, che l'idea particolarissima di riabilitare il dono, propugnata da Latouche, sembrerebbe meno generica delle altre. Vale la pena di occuparsene brevemente, perché anche qui non è tutt'oro quel che riluce. A prima vista, tutto bene. Se una persona qualsiasi esprime questa sua convinzione ci sentiamo trasportati in un clima amichevole. La vogliamo come amica, perché è un po' come se dicesse, magari con una sfumatura di candore, che d'ora in poi tutti devono farsi più spesso dei regali. In pratica, non andremmo volentieri a cena con uno sconosciuto che per prima cosa ci spiegasse che non crede affatto nelle virtù del donare ed è contrario a fare sorprese per gli onomastici e a dare balocchi ai bambini per Natale; al contrario, siamo catturati da chi porta scritto «donare è bello!» sulla maglietta o sul bavero della giacca. In conclusione, chi dichiara che occorre riabilitare il dono può darsi che non lo faccia apposta, ma di certo è un eccellente propagandista di se stesso. Si presenta bene, molto bene. Nella fattispecie, siamo quasi tentati di perdonarlo se poi dice un cumulo di sciocchezze. Forse è ciò a cui realmente puntava. La retorica del donare si presta però a considerazioni più serie, le quali giungono a conclusioni che possono deludere la nostra fiducia nei buoni sentimenti. Il tema rimane opaco se ci si limita a ripetere che il dono è una bella cosa: è meglio esaminare la funzione del dono e del donare sia nelle comunità più semplici, sia nel nostro mondo così fittamente intessuto di macchinosità urbane. Da quando, molti anni fa, Marcel Mauss scrisse un bel saggio sull'argomento, le nostre conoscenze si
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sono fatte più articolate. Tuttavia per capire dove sta il problema possiamo anche cominciare con l'esaminare empiricamente, caso per caso, in quali circostanze (a parte gli obblighi domestici inerenti a feste o compleanni) noi facciamo o riceviamo doni di qualche importanza. Allora è agevole constatare che i doni non sono casuali traboccamenti di generosità ma sono orientati a varie finalità: a) a consolare una persona cara, quando la vediamo fragile e in difficoltà; e qui il dono, più che un bene, è un simbolo o un gesto: come il porgere un fiore; b) a fare la pace se si è litigato, ed è questa la storia del grande mazzo di rose rosse alla fidanzata; c) a sdebitarsi, e quindi a liquidare pendenze morali, come quando mandiamo un libro antico all'amico dentista che ci ha ricevuti di domenica; d) ad abbellire e ingigantire la nostra stessa immagine di fronte agli altri e a creare nel beneficiato — poniamo, un uomo politico — un sentimento di gratitudine e di obbligazione, per cui contiamo sul fatto che presto o tardi egli si dovrà sdebitare nei nostri confronti. Nelle società animali il donare oggetti e il fornire servizi (come il pulire il pelo o procurare cibo) assolve a funzioni identificabili, perché vale a definire le gerarchie, è utile a sedurre, e crea aspettative di reciprocità. La vita degli esseri umani risponde spesso a riti simili. Per esempio, nelle società preletterate il coprire di doni cospicui il capo di una tribù vicina serve a metterlo in una condizione di inferiorità psicologica, e se un patriarca fa un grosso dono a un giovane guerriero lo lega a sé, così come un regalo a una graziosa vergine le rende più difficile rifiutare í propri favori. Di fatto, il dono non è innocente neppure nella nostra vita quotidiana: se improvvisamente il marito regala un brillante alla moglie può anche essere che lo faccia perché non sa come
altrimenti dirle che l'ama moltissimo, ma è più probabile che intenda rafforzare un legame coniugale che traballa, e può persino darsi che per qualche motivo egli abbia un po' di coscienza sporca e voglia rimettere le cose a posto, dato che ha i mezzi per farlo, con questo costoso espediente. Dobbiamo allora considerare la pratica del dono come qualcosa di negativo? Nemmeno per sogno: così come accade per la divisione del lavoro e per il commercio, il dono svolge una sua funzione sociale. Ha la sua precisa nicchia comportamentale, e guai se non ci fosse. Va aggiunto però che si tratta di una funzione che spesso è ambigua. La transazione commerciale, infatti, è più paritaria che non il dono e lascia tutti psicologicamente più liberi. Per esempio, dopo aver concluso un affare importante con reciproca soddisfazione di fronte al notaio, se i due ipotetici contraenti vorranno donare il 2% del loro guadagno alle opere di carità per sentirsi moralmente più sereni, questa è, palesemente, un'altra questione; e così, analogamente, accantonato il loro business alla fine della giornata, liberissimamente e a cuor leggero, senza essere vincolati da obbligazioni di riconoscenza o attese di restituzione, i due potranno passare la serata gratificandosi a vicenda con effusioni e baci, ed è ovvio che lo faranno senza ombra di malintesi. Un tema come l'elogio (retorico) del dono vale a illustrare una problematica più ampia. Le buone parole, oltre a servire a poco, travisano la natura dei fenomeni sociali. Che senso ha raccomandare — e lo fa Latouche — un tipo di società in cui la pratica virtuosa del dono si dovrà estendere a mano a mano, forse al punto da rendere marginale quella del commercio? Non ha nessun senso, e questa idea ci allontana drammaticamente dalla comprensione degli eventi. Viene perfino da chieder-
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si se non ci sia di mezzo una semivolontaria presa in giro nei confronti dei babbei: eppure è facile cascarci, e non sempre risulta evidente l'assurdità di discorsi del genere. Siamo di nuovo al problema delle prediche, e qui è utile richiamarsi a un'ultima serie di osservazioni empiriche. Nell'educazione dei bambini è normale che quando sono molto piccoli venga utilizzata la loro naturale propensione alla dicotomia «buono-cattivo» per insegnare in termini semplici e un po' manichei cosa fare e cosa non fare. Quando crescono, però, è giusto che si introducano le sfumature e li si aiuti a ragionare con la loro testa. Qui è ben noto l'errore dei genitori che pensano di basarsi su sermoni e pistolotti esortativi: se i figli acquisiranno solide abitudini di comportamento morale sarà per un motivo, e cioè perché avranno visto che in famiglia ci si comporta moralmente. In più, eventualmente, avranno constatato che la moralità può essere perfino pagante. Se invece gli adulti predicano che le leggi vanno rispettate ma per primi non rispettano le leggi, i figli non avranno alcun dubbio su come regolarsi, e inoltre avranno imparato a cosa serve la doppiezza. Lo stesso vale per l'educazione degli adulti; gli psicologi sociali insegnano che per far cambiare idea a un gruppo di persone i discorsi non servono a nulla ed è molto meglio farle pensare, parlare, agire, partecipare. Chi si occupa professionalmente di adolescenti difficili sa che le prediche creano solo irritazione: invece bisogna rimboccarsi le maniche, stare con loro, partecipare ai loro problemi, magari esercitare la disciplina con durezza ma sempre dimostrando di essere giusti e imparziali. Sono loro stessi a chiedere queste cose, e hanno ragione. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Eppure, se ci guardiamo intorno ed estendiamo il
nostro sguardo al di là di problemi ancora abbastanza semplici, come quello della gestione dei bambini, per prendere invece in esame la società intorno a noi con i suoi problemi di moralità e di devianza, e con i suoi raggruppamenti, movimenti e partiti, ci rendiamo conto del fatto che, accanto ad analisi concrete e a programmi fattivi, è presente un modo vecchio e inefficace di affrontare le questioni più scottanti. Anche in campo economico e politico-sociale le esortazioni spicciole, come l'invito «riabilitate i doni e fatevi più regali» oppure «vivete sobriamente e limitate i consumi superflui» (due raccomandazioni, sia detto incidentalmente, incompatibili fra loro) non hanno mai cambiato granché le cose. Così, forse, neanche hanno cambiato le cose le esortazioni più magniloquenti. In compenso l'atmosfera generale creata da tutti questi discorsi esercita un influsso sul dibattito politico: inibisce le critiche e paralizza i controlli. In sostanza, può pesare negativamente sulla vita di una nazione sia l'eccesso di esortazioni moraleggianti sia ciò che è l'inevitabile complemento di questo eccesso, ovvero il difetto di analisi e l'assenza di programmi. Non sono davvero cose nuove. Un atteggiamento in politica è sempre stato quello che sceglie la retorica, dove vengono utilizzate nobili vaghezze e ci si appella a grandi principi. Questo tentativo di convincimento degli animi non mira a far ragionare ma fa leva sulla persuasione e chiede fiducia. Ama indignazioni e mobilitazioni, motti, slogan, stemmi e bandiere, ed è incline a sottovalutare il senso critico delle masse e a sopravvalutare le capacità intellettuali dei grandi personaggi. (Quando non c'era la televisione, faceva anche affidamento sulle adunate oceaniche.) Chiede a tutti volontà, impegno, aneliti prorompenti, e però manca di indiriz-
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zi realistici. Soprattutto chiede consenso, e alla fine pretende ubbidienza. Fondamentalmente, si tratta di un atteggiamento autoritario. Lo troviamo in quasi tutte le Chiese e in molti movimenti politici. Un altro e opposto atteggiamento, invece, ha le caratteristiche anti-relativistiche già delineate: è il modo di porsi di chi esamina con cura ciò che accade nelle persone e fra le persone, ascoltando e interagendo, e non disdegnando di usare i metodi degli scienziati. Anche nella politica, è un modo di procedere che si basa sull'inchiesta, fa leva sul senso critico degli individui, valorizza le competenze. In primo luogo cerca di esaminare i problemi da risolvere (per esempio la disoccupazione, una economia stagnante, la criminalità); poi elabora i propri programmi e li espone in modo comprensibile; infine, chiede l'adesione di chi è d'accordo. E evidente che, questa volta, si tratta di un modo di procedere non autoritario. Lo troviamo in una parte dei movimenti politici presenti nell'universo della modernità, e vi convergono gli indirizzi economici e gli equilibri sociali di molti fra i paesi oggi più prosperi, dalla Svezia all'Australia, dall'Olanda alla California. Ma l'evoluzione delle culture non è lineare. A ostacolare questa tendenza alla civiltà e alla concretezza, da un paio di decenni intervengono i relativisti. Come sempre, oltre a non amare la modernità fanno leva sull'ipotesi che tutte le conoscenze siano incerte e provvisorie. In pratica, però, si trovano a favorire certezze di altro tipo. Poiché, essi sostengono, verifiche fattuali e indagini sistematiche (come quelle scientifiche) non forniscono alcun dato utile, e quindi neppure forniscono indicazioni programmatiche, non c'è che una soluzione: occorre seguire altre parole d'ordine. Occorrono indicazioni che non emergano dallo studio della realtà mate-
riale. È quindi inevitabile, secondo la loro ottica, rivolgersi alle generalizzazioni morali e cercare direttive a carattere spirituale. Riemerge però il problema centrale: in questo modo si introducono nuove forme di potere. Infatti, poiché un rischio ben percepito dai relativisti è quello di una eccessiva frammentazione dei pareri e delle posizioni, ecco che intervengono, a raccogliere le opinioni e a mettere ordine nelle truppe disperse, le proposte dei personaggi carismatici. Questi si occupano di garantire l'unanimità richiesta, ma il loro modo di esortare è divenuto un esercizio di dominio. Vi sono molti e buoni motivi per cui questo non dovrebbe piacerci. Possiamo chiederci: che fare? Se — come crediamo occorre una educazione al realismo, non è il caso di ricorrere a esortazioni ulteriori. In che modo, allora, mettere al riparo il futuro dei nostri figli dalla retorica spicciola dei moralisti così come dalla demagogia su vasta scala? Come reintrodurre nella dialettica sociale un po' più di principio di realtà? Ed ecco una risposta che non è per nulla nuova e potrebbe anche essere ragionevole, nella sua banalità: in molti casi sarebbe sufficiente avere frequentato buone scuole. Scuole, cioè, che siano riuscite a educarci con pazienza, un anno dopo l'altro e per molti anni, fino a dare pieno sviluppo a quel senso critico di cui ciascuno di noi è dotato, così da utilizzarlo nella passione per le verifiche e nella pratica sistematica della ricerca.
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Il consenso informato e i suoi insegnamenti Alcuni aspetti politici del relativismo erano già emersi nel capitolo precedente, in rapporto al tema della con-
vivenza fra le culture. Si può ora dire qualcosa circa la possibile relazione fra l'ideologia relativista e l'idea di consenso. Il termine «consenso disinformato», che è stato escogitato per dare un titolo a questo capitolo, ha un significato che può essere facilmente intuito; vale però la pena di esaminarne le implicazioni. L'idea opposta, di «consenso informato», aveva acquistato importanza durante gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, come evoluzione della formula «validazione consensuale» usata da tempo in campo sindacale e coniata da uno psichiatra, Harry Stack Sullivan. Rispetto alla validazione consensuale, il consenso informato intende sottolineare l'idea, forse banale, che un consenso è valido solo se si conoscono tutti i termini della questione. Un consenso sulla fiducia può andare benissimo nell'ambito della vita privata, dove l'abbandonarsi alle proposte di una persona cara è in molti casi una virtù, ma non funziona nella vita sociale e meno ancora in quella politica. La raccomandazione più semplice riguarda l'opportunità di leggere lo smallprint, le clausole in caratteri piccolissimi, prima di approvare alcunché. Qui la cautela si riferisce non tanto alla probabilità di un inganno saltuario quanto al rischio di doversi difendere da un intero stile di rapporti interpersonali. È dunque per motivi tutt'altro che occasionali che occorre diffidare dell'invito rivolto agli ingenui: «non ti preoccupare, non hai bisogno di capire, ci penso io, fidati di me» (seguito magari da un: «firma qui sotto»). La trappola di un simile invito identifica un costume, o forse una intera cultura, dove più che di paternalismo è legittimo parlare di padrinaggio, e qualche volta di pianificazione della malafede. Negli anni Settanta il tema emerse e venne elabora-
to con qualche attenzione per quanto riguarda i diritti del malato5. Vennero subito posti in luce alcuni sottotemi, di cui molti rilevarono già all'epoca l'importanza più generale, cioè anche fuori dall'ambito delle cure e degli ospedali. La questione sembrava addirittura investire i diritti politici. I sottotemi emersi dal dibattito possono venire elencati come segue: a) esistono alcune decisioni riguardanti la vita e la morte che riguardano il singolo individuo interessato e nessun altro (per esempio, riguardano il malato e non i suoi parenti); b) è fondamentale che si dia spazio al massimo di informazioni possibile affinché una persona o un gruppo possano prendere posizione su questioni che riguardano il benessere individuale e collettivo; c) le conoscenze scientifiche vanno tenute separate dalle opinioni e dalle fedi; d) esistono anche problemi scientifici e tecnici talmente complessi da non poter essere valutati da chi non abbia un buon livello di istruzione. Nella situazione attuale si può essere avviati a esaminare cosa si nasconde dietro il tema generale del consenso scegliendo, come già negli anni Settanta, di prendere le mosse dall'esame di alcuni problemi che emergono nella pratica medica. Da alcuni decenni, in tutto il mondo civile non si ritiene più che una persona malata debba essere espropriata della capacità di decidere: al contrario, è fondamentale che conosca le proprie condizioni cliniche. Come obbiezione, viene fatto osservare che non sempre questo principio è valido, perché, per esempio, nel caso di bambini piccoli e di malati di mente una simile trasparenza può non essere possibile: eppure anche i piccoli pazienti nell'imminenza di un intervento chirurgico sono resi molto più sereni dal capire, magari con l'aiuto di giochi e burattini, cosa accade in ospe-
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dale, in cosa consisterà l'intervento, cosa avverrà nei giorni successivi. Per quanto riguarda poi le persone con disturbi psichici, la possibilità di comprendere e oggettivare il proprio disturbo è, quasi sempre, parte dell'itinerario di guarigione. Nel caso di adulti affetti da malattie gravi, i migliori medici e chirurghi si dimostrano persone disposte a parlare, ad ascoltare, a spiegare con calma, e a cercare di mettere a fuoco con il paziente i problemi clinici per prendere insieme le decisioni opportune: del resto la necessità di una collaborazione consapevole ai trattamenti è ormai divenuta essenziale in moltissimi casi di malattie e infermità, e in modo tipico nelle più comuni affezioni gravi, cioè le cardiopatie e i tumori. In occasione delle tipiche patologie moderne l'esser motivati a rendersi responsabili di un programma di prevenzione si fonde con la necessità di una cooperazione consapevole a terapie che, quasi sempre, durano anni. La più frequente causa di morte in Occidente, quella da malattie cardiovascolari, è anche la più prevenibile mediante l'eliminazione del fumo, l'esercizio fisico e una dieta povera di grassi, ma è proprio in questo campo che l'educazione alla salute fa leva sul tentativo di aiutare le persone a rendersi responsabili di se stesse, evitando la fuga nei fatalismi e negli scongiuri. Un atteggiamento attivo del paziente è ormai fondamentale non solo per la prevenzione ma anche per la cura di qualsiasi malattia. Nei casi, poi, in cui la prognosi sia infausta, è quasi sempre più opportuno, oltre che più etico, che la persona interessata ne sia informata. Si suppone che essa abbia il diritto, fra l'altro, di prepararsi come meglio può all'evento finale e che debba essere libera di prendere per tempo tutte le decisioni che crede. Quest'as-
sunzione di un ruolo consapevole nella gestione degli ultimi periodi della vita si lega, nei paesi più civili, a frequenti disposizioni orientate al rifiuto dell'accanimento terapeutico e, in un numero crescente di casi, ad un uso ragionevole del suicidio assistito. Nell'ora del trapasso, chi vi si era preparato lo accetta molto più serenamente di chi era stato costretto, mediante una umiliante strategia di menzogne, a ignorarne il significato il più a lungo possibile. Non mancano gli ostacoli, e sono anch'essi degni di nota. Talora il compito di medici e psicologi è reso difficile dal basso livello di istruzione del malato e della sua famiglia. Spesso emerge nettissimo il contrasto fra la cultura laica della modernità, tutta orientata all'aderenza alla realtà e alla responsabilizzazione individuale, e la presenza, invece, di una mentalità pre-moderna nella quale prevale la tendenza a non volersi confrontare con i dati biologici e dove l'idea della responsabilità personale viene sostanzialmente elusa. Di quest'ultimo orientamento fa parte l'abitudine di espropriare il malato, o la malata, del suo diritto di essere al corrente di come stanno le cose. Spesso l'infantilizzazione della persona inferma cerca giustificazione in un atteggiamento esplicitamente relativistico. «Cosa ne sappiamo?» viene detto, «tutto è possibile, il futuro non appartiene ai medici ma è nelle mani di Dio», per cui chi soffre viene invitato a rifugiarsi nel torpore delle illusioni e a delegare ad altri l'intera gestione di sé. (Ed è interessante osservare che il fatto di non essere informati, il non sapere cosa avviene, e il non avere possibilità di scelte personali, produce in molti casi un'angoscia che è tanto maggiore quanto più nella stanza dell'infermo vige, giorno dopo giorno, la congiura del silenzio.)
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Il fatto che da alcuni decenni i temi etici relativi alla salute siano diventati oggetto di grandi dibattiti è anzitutto un successo della cultura della modernità. Ne fa parte il diritto di difendere con fermezza le decisioni relative alla sfera intima — la sessualità, la riproduzione, la morte — dalla intrusione di interdetti autoritari derivanti da concezioni integralistiche della religione. Va sottolineato, peraltro, che la tendenza a restituire a malati e invalidi il diritto alla consapevolezza, e la piena dignità delle loro scelte, non implica che qualsiasi paziente possa entrare nel merito di questioni specialistiche allo scopo di decidere, per esempio, se sia preferibile usare una tecnica chirurgica oppure un'altra. Da un lato, senza dubbio, può essere fondamentale che un grave cardiopatico sia messo in condizione di decidere liberamente se accettare oppure no un intervento chirurgico che ha solo il 60% di probabilità di guarirlo: da un altro lato, però, è evidente che in condizioni ordinarie nessun chirurgo gli chiederebbe di scegliere gli strumenti del tavolo operatorio. L'atteggiamento di realismo che conferisce al malato piena dignità, lasciandogli ampi spazi per le decisioni più rilevanti, coincide con un modo di vedere che altrettanto realisticamente separa l'universo pubblico delle conoscenze (anche delle conoscenze tecniche) da quello privato delle opinioni e delle fedi. Ora, il tema dell'efficacia e dei vantaggi differenziali dei vari farmaci è parte integrante, appunto, dell'universo delle conoscenze, e dipende da ricerche scientifiche di non facile accesso al profano, così come è di competenza scientifica il verificare mediante una serie di metodiche se i cosiddetti rimedi alternativi abbiano o meno una qualsiasi efficacia (in genere non l'hanno). Qui vi può essere un legittimo margine di decisionalità per quanto riguarda
il piacere di curare il proprio raffreddore con pillole omeopatiche, con tisane cinesi oppure con il vino caldo: ma le opinioni e le simpatie idiosincrasiche per questo o quel ramo della medicina popolare non dovrebbero entrare in gioco quando si tratta di stabilire se i preparati omeopatici (o qualsivoglia pozione escogitata dal guaritore di turno) siano in grado di influire oppure no su malattie di qualche rilevanza come una infezione batterica acuta, l'Aids, uno scompenso cardiaco o il cancro. Ciò non toglie che in altri campi la libertà delle scelte si riveli infinitamente maggiore. Esiste un'area esistenziale appartenente alla vita strettamente privata, che non è meno complessa né meno dignitosa di quella delle conoscenze pubbliche e dove hanno liberissimo spazio le opinioni e le fedi individuali. Di fronte alla sofferenza corporea e nel pensiero della fine dell'esistenza, è giusto che i pazienti e i loro familiari siano pienamente liberi di elaborare come meglio credono le loro ansie, le loro concezioni della vita e della morte, e i modi con cui intendono gestire i propri aneliti di trascendenza. Esiste un mondo interiore fatto di paure e di speranze dove ha pieno significato il rispetto per le tradizioni e dove — questa volta — la scienza non ha particolari motivi per intervenire. Qui, nell'ambito dell'interiorità e dei sentimenti più intimi, le conoscenze pubbliche e le tecnologie dovrebbero parlare con voce sommessa, o tacere del tutto. Ciò vale a maggior ragione per situazioni particolari: spesso accade che immigrati provenienti da culture lontane dall'Occidente debbano essere aiutati in modo cauto e rispettoso, e anche con molta pazienza, a mediare fra le loro credenze e l'universo degli ospedali e dei laboratori in cui si trovano a passare giorni difficili.
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Peraltro un pieno rispetto per il mondo interiore delle persone, e in particolare per gli smarrimenti delle persone più fragili, non implica che si possano mettere sullo stesso piano i farmaci moderni e i rimedi degli stregoni. Eppure l'ideologia relativista è incline precisamente a quest'ultimo tipo di errore. Essa ha una pesante responsabilità nel trasmettere al pubblico l'idea, confusionaria ed errata, che la scelta di un metodo o l'altro di trattamento sia questione non già di conoscenze ma di opinioni e perfino di fedi e di culture. Le più semplici problematiche etiche relative alla pratica medica, come quelle ora tratteggiate, ci aiutano a capire — più in generale — cosa può significare «informazione» quando si parla di scelte consensuali. Vi emergono varie esigenze di chiarezza: per esempio, ci si può chiedere in quale modo si possano configurare le più opportune distinzioni fra conoscenza e opinione. Oppure, appare necessaria qualche chiarificazione sulla differenza che esiste fra la sfera pubblica, dove valgono regole e conoscenze tendenzialmente generalizzabili — anche se espresse, talora, in termini specialistici e la sfera del privato, dove ognuno è assai più libero di regolarsi secondo le proprie convinzioni. Come è noto, la mancata separazione fra sfera pubblica e sfera privata è tipica degli integralismi religiosi, il cui carattere inquisitivo tende a non distinguere la norma di fede, dove si esamina la disposizione a peccare, dalla norma secolare, dove vengono prese in esame, invece, le infrazioni e i reati. Tuttavia un analogo tipo di confusione sembra caratterizzare l'ideologia relativista. Infatti essa nega il carattere universale delle conoscenze mentre esalta le credenze più soggettivamente personali trasformandole in valori non negoziabili. Più concretamente, il relativismo non distingue i «saperi locali» (in
Su un punto specifico però bisogna ritornare, perché ci introduce a un problema politico spinoso, che è quello delle competenze specialistiche. Abbiamo visto che la verifica dell'effettivo potere di preparati come quelli omeopatici non può essere lasciata alle convinzioni soggettive dei malati e dei loro familiari, ma questo principio va ribadito. Un minimo di conoscenza delle leggi fisiche che governano le diluizioni e una serie di indagini sistematiche sul terreno clinico fanno seriamente dubitare che i preparati omeopatici possano avere effetti terapeutici qualsiasi, mentre le ricerche psicologiche moderne sulla formazione di credenze e sui meccanismi di autoinganno dimostrano che la possibilità di commettere errori per quanto concerne la valutazione soggettiva, impressionistica, dell'efficacia dei rimedi assunti allo scopo di curare le proprie malattie è molto maggiore
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cui crede) dai «saperi generali» (in cui non crede), né distingue gli interdetti emananti da convinzioni di fede (che privilegia) da quelli che derivano, invece, da accordi di comportamento a carattere razionale, dei quali vede soltanto i difetti. In questo modo il relativismo favorisce una confusione più vasta fra gli investimenti immaginari e le informazioni, con un tendenziale privilegiamento dei primi e una complementare svalutazione delle seconde. In particolare nel campo dell'etica medica e delle questioni relative alla procreazione e alla morte, gli orientamenti relativistici, incapaci come sono di orientarsi sul realismo e di mettere a fuoco soluzioni sensate, rendono estremamente confuse tutte le problematiche in gioco. Il problema degli specialismi e il consenso disinformato
di quanto appaia alla luce del semplice buon senso, e può condurre a convincimenti personali radicatissimi e appassionati ma del tutto privi di fondamento. Di qui nasce il problema se sia giusto prevedere il rimborso, da parte dei servizi sanitari, del prezzo di farmacia dei preparati omeopatici, dal momento che questo rimborso è chiesto da una parte consistente della popolazione, ma è concordemente ritenuto privo di giustificazioni da parte dei farmacologi e della quasi totalità degli uomini di scienza. Considerazioni molto simili, benché più complesse, riguardano l'adozione di cibi, tessuti e farmaci derivanti da organismi geneticamente modificati (Ogm) e, in un campo del tutto diverso, la decisione eventuale di costruire centrali elettriche a energia nucleare. Le difficoltà teoriche e in qualche caso le caratteristiche di estrema complessità di molte competenze specialistiche toccano un punto delicato in ambito politico. La questione non è nuova, perché è legata al problema tradizionale dei limiti di potere dei cittadini chiamati al voto. Si tratta infatti di stabilire fino a che punto le convinzioni soggettive di milioni di persone e le idee píù largamente diffuse nell'opinione pubblica possano essere investite di potere decisionale nei casi in cui siano coinvolti aspetti tecnici, la cui valutazione comporterebbe, in realtà, non solo un buon livello di istruzione ma addirittura, in alcuni casi, il possesso di conoscenze specializzate. Non vi è alcun serio motivo per sostenere che l'opinione pubblica debba avere sempre l'ultima parola: la democrazia moderna non è solo fatta di elezioni. Una buona democrazia è composta, come tutti sanno, non solo di periodiche consultazioni popolari ma anche di una serie di istituti i cui limiti si compensano l'un l'altro
e che si controllano a vicenda: il decentramento delle amministrazioni con forme di democrazia locale, un esecutivo stabile, una magistratura indipendente con una Suprema Corte, un apparato efficiente e incorruttibile di funzionari statali, una netta separazione fra lo Stato e le Chiese. (E forse uno degli ingredienti della democrazia è anche l'educazione, nel senso più generale del termine: l'idea è persino un po' vecchia, ma è pur vero che i cittadini sembrano essere tanto più in grado di ragionare con la propria testa quanto più hanno un decente livello di istruzione.) Un problema serio nasce però nel momento in cui gli orientamenti relativisti si diffondono fino al punto di rafforzare in modo significativo alcune fra le meno giustificabili rivendicazioni di massa. Nel criticare la scienza e ogni pretesa di oggettività, i relativisti si allineano a richieste (per esempio a favore dell'omeopatia gratuita, o per l'abolizione delle centrali nucleari) che risentono della pressione dei ceti più incolti, e in pratica di coloro che non leggono né libri né giornali. Secondo i dati raccolti da Tullio De Mauro, il 5% della popolazione adulta italiana non riesce nemmeno a leggere il primo e píù semplice dei cinque questionari elaborati secondo i criteri Ocse, composto di frasi estremamente elementari (tipo «il gatto mangia la pappa») ed è quindi analfabeta, mentre il 33 % non comprende le domande del questionario di difficoltà subito successiva; in base a questo e ad altri dati sembra ragionevole ritenere che il 38% della popolazione adulta del nostro paese sia da considerarsi analfabeta o semianalfabeta6. Ma anche prendendo l'insieme di coloro che sono capaci di leggere e scrivere abbastanza fluidamente, si può supporre che i prevalenti interessi quotidiani di queste persone non includano necessariamente il desi-
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derio di farsi spiegare, prima di andare a votare in un referendum antinucleare, che differenza vi sia fra una bomba atomica e una pila atomica. Così, in modo analogo, ci si può chiedere quale percentuale della popolazione in possesso di una laurea eviti di interrogarsi su una serie di altre questioni piuttosto semplici eppure correntemente eluse: quante molecole di sostanza chimica attiva si trovano in una pillola omeopatica (una, nessuna o centomila)? gli scienziati più competenti ritengono probabile che i ripetitori della telefonia mobile irraggino a distanza influssi nefasti? finora si sono mai registrati, nel mondo, danni alla salute causati dagli Ogm? Sia i movimenti di opinione più allarmisti, sia i manipolatori di informazioni televisive inclini a usare la demagogia per fini populistici, approfittano della mancanza di cultura scientifica per mobilitare il consenso di milioni di persone. Qui si viene invitati non già a un consenso informato ma a un consenso disinformato. Eppure esiste una qualche consapevolezza del pericolo, soprattutto fra í politici di professione. Oggi, forse, nessun governante di un paese civile che sia animato da sentimenti sinceramente democratici, e forse nessun leader dell'opposizione che abbia un reale senso di responsabilità, accetterebbe di buon grado di sottoporre a referendum popolare la decisione di costruire o meno centrali elettriche a energia nucleare o di rimborsare i preparati omeopatici; e neppure sottoporrebbe a voto referendario la decisione di ammettere o meno la coltivazione e l'uso di vegetali geneticamente modificati. Le conoscenze tecniche in campo economico, ecologico, biologico e fisico che sono necessarie per esprimere una valutazione consapevole circa i vantaggi e gli svantaggi di decisioni come quelle relative agli Ogm e 156
alle centrali nucleari richiedono, per lo meno, la volontà di passare alcune ore in compagnia di libri di non facilissima lettura. In pratica, quindi, accade che una parte cospicua della popolazione, non interessata a cogliere la difficoltà e complessità di questi temi, rischi di cadere preda dei manipolatori dell'opinione politica. La democrazia ha varie componenti, e i suoi vantaggi emergono dall'interazione di istituzioni di consultazione, di deliberazione e di controllo: soltanto i populisti, i quali amano il proprio potere assai più che le istituzioni democratiche, ritengono che la volontà della maggioranza abbia carattere di investitura plenipotenziaria nei loro confronti. È evidente che occorre temere l'abuso dei referendum. In qualche caso è tuttavia possibile organizzare una consultazione sensata e abbastanza ampia su temi complessi. A quanto riferisce Anthony Giddens, per esempio, anni fa il governo svedese istituì in tutto il paese corsi informativi gratuiti a partecipazione volontaria della durata di un giorno, aventi per oggetto i problemi relativi alle scelte di politica energetica; tutti coloro che avevano partecipato al corso potevano poi inviare il loro parere al governo, che si impegnava a tenerne conto'. Altrove non mancano, purtroppo, orientamenti di tutt'altro significato, dove le illusioni populiste e la demagogia possono contare su potenti alleati: in pratica, i demagoghi fanno affidamento sia sul basso livello di istruzione di una parte cospicua della popolazione, sia sull'ideologia scettica della media cultura. Ora, non è chi non veda come questa tendenza possa riguardare decisioni strategiche di ben più ampia portata che non quelle che concernono l'omeopatia o gli Ogm. Gli orientamenti relativisti, infatti, non soltanto convalida1 57
no le richieste di chi vuole l'omeopatia a carico dello Stato e la cancellazione dell'energia nucleare, ma anche incoraggiano chi si basa su fanatismi di fede, anziché su informazioni di realtà, ogni volta che si accendono le grandi battaglie elettorali. Nelle più recenti elezioni presidenziali statunitensi è emerso l'enorme peso numerico di coloro che preferiscono non tenere in alcuna considerazione i più semplici dati informativi per regolarsi invece sulla base di opzioni moralistiche e religiose del tutto generali. Se questa tendenza regressiva si estenderà nei prossimi anni, diventerà sempre più facile organizzare deleghe disinformate. Non è irragionevole pensare che ne possano nascere, anche su un piano internazionale, situazioni minacciose per la democrazia. Limitandoci, infine, a un ambito più modesto e dai confini più circoscritti, è comunque probabile che in un paese come l'Italia rimangano ancora aperte varie possibilità. Il progresso verso un maggiore benessere e una più matura coscienza civile potrà dipendere non soltanto da un miglioramento del sistema scolastico e da un deciso innalzamento del livello medio di istruzione, ma anche dalla consapevolezza dei danni finora prodotti da tutti coloro che negano la differenza fra le opinioni e le conoscenze.
NOTE
Capitolo 1 B. Russell, Unpopular Essays, Unwin Hyman, London 1950. E. De Martino, La fine del Mondo, Einaudi, Torino 1977, p. 281. E. De Martino, La terra del rimorso, il Saggiatore, Milano 1961. 4 G. Toraldo di Francia, Un universo troppo semplice, Feltrinelli, Milano 1990. R. Dawkins, Il cappellano del diavolo, trad. it., Cortina, Milano 2004, cap. 7 (ed. or. 2003). 6 M. Gardner, TheAnnotatedAlice , Penguin, London 1960-2001, p. 212. L. Carroll, Alice di là dallo specchio, cap. 5 (ed. or. 1871). 8 Per una bibliografia: R.J. McNally, Rememberi ng Trauma, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2003. Si veda anche: G. Mazzoni, Si può credere a un testimone?, il Mulino, Bologna 2003. 2
Capitolo 2 ' N. Stephenson, Cryptonomicon, Arrow Books (Random House), New York 1999, pp. 82 sgg. L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, cap. 3 (ed. or. 1865). La documentazione può essere agevolmente ottenuta su Internet. Si vedano: www.mcw.edu/gcrc/cop/powerlines-cancer-FAQ/ toc.html; www.cdc.gov/nip/vacsafe/concerns/autism/default.htm; www.info.supereva.it/comore/campiem.html. 4 Il concetto di disimpegno morale è stato messo a punto da Albert Bandura in Social Foundations of Thought and Action, PrenticeHall, Englewood Cliffs 1986. 2
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M. Ferraris, Postmoderno, atto terzo, in «Il Sole 24 Ore», 18 luglio 2004, p. 33. 6 J.E Harris, Against Relativi sm , Open Court, LaSalle (III.) 1992. Il saggio di Harris è una buona critica al relativismo filosofico; su questo tema si vedano anche gli scritti di Raymond Boudon, in particolare Le due sociologie della conoscenza scientifica, in R. Boudon, E. Di Nuoscio, C.L. Hamlin, Spiegazione scientifica e relativismo culturale, Luiss University Press, Roma 2004. Per una cronaca dell'occultismo a cavallo dei due secoli: P. Washington, Madame Blavatsky's Baboon, Schocken Books, New York 1993; sull'occultismo in Gran Bretagna: A. Owen, The Place of Enchantment, University of Chicago Press, Chicago 2004; sull'occultismo in Germania: C. Treitel, Science for the Soul, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 2004; su Evola: E Cassata, A destra del fascismo, Bollati Boringhieri, Torino 2003. H.-G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it., Bompiani, Milano 1983 (ed. or. 1960). 9 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, trad. it., Feltrinelli, Milano 1981 (ed. or. 1979); J. Derrida, La scrittura e la differenza, trad. it., Einaudi, Torino 1971 (ed. or. 1967). '° T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it., Einaudi, Torino 1969 (ed. or. 1962). " N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1988 (ed. or. 1978). R.M. Farr, S. Moscovici, Rappresentazioni sociali, trad. it., il Mulino, Bologna 1989 (ed. or. 1984). 13 K. Marx, F. Engels, L'ideologia tedesca (1845-46), trad. it., Editori Riuniti, Roma 1958; K. Mannheim, Ideologia e utopia, trad. it., il Mulino, Bologna 1957 (ed. or. 1929). G. Lolli, Beffe, scienziati e stregoni, il Mulino, Bologna 1998, pp. 154 e 178. A. Huxley, Meditation on the Moon, in Music at Night, Chatto & Windus, London 1931. F. Erspamer, «La Rivista dei Libri», 7-8, XIV, 2004, pp. 8-12. G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo ed estranei, Rizzoli, Milano 2000, p. 165. M. Weber, La politica come professione, trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 2001 (ed. or. 1919). P.L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, 5
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trad. it., il Mulino, Bologna 1969 (ed. or. 1966). Questo libro va segnalato perché espone in termini chiari una delle posizioni più ragionevoli fra tutte quelle relativiste. C.A. Viano, Va' pensiero, Einaudi, Torino 1985. 20
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M. Berman, All That is Solid Melts into Air, Penguin, London
1982. G. Jervis, Considerazioni sull'io debole, in «La società degli individui», 1, I, 1998. R.H. Popkin, A. Stroll, Il dovere del dubbio, trad. it., il Saggiatore, Milano 2004, pp. 268 sgg. (ed or. 2002). L. Carroll, Alice di là dallo specchio, cap. 4 (ed. or. 1871). C. Wright Mills, L'élite del potere, trad. it., Feltrinelli, Milano 1966 (ed. or. 1956); T.W. Adorno, Minima moralia, trad. it., Einaudi, Torino 1954 (ed. or. 1951). G. Jervis, Prefazione all'edizione italiana di H. Marcuse, Eros e Civiltà, Einaudi, Torino 1964. A difesa di Marcuse va ricordato che nel corso del principale evento controculturale di quegli anni, il convegno Dialettica della liberazione, tenutosi a Londra nell'estate del 1967 per iniziativa degli antipsichiatri britannici, egli prese le distanze dal suo stesso pubblico assumendo una posizione antispontaneista. D. MacDonald, Masscult e Midcult, trad. it., Bompiani, Milano 1969 (ed. or. 1960). 22
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Capitolo 3 ' E.B. Tylor, Primitive Culture, trad. it. parziale in P. Rossi (a cura di), Il concetto di cultura, Einaudi, Torino 1970, p. 6 (ed. or. 1871). F. Remotti, Relativismo culturale, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. VII, Roma 1997. Una teoria relativistica delle emozioni è sostenuta da Clifford Geertz in Interpretazione di culture, trad. it., il Mulino, Bologna 1987 (ed. or. 1973). Di questo autore è ancora da rilevare, più di dieci anni dopo, la pertinace difesa teoretica del relativismo in antropologia: C. Geertz, Anti-anti-relativism, in «Amen Anthropologist», 86 (2), pp. 263-277, 1984. M. Mead, Adolescenza in Samoa, trad. it., Giunti-Barbera, Firenze 1980 (ed. or. 1928). D. Freeman, Margaret Mead and Samoa: the Making and Unmaking of an Anthropological Myth, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1983. e coll., Emotion in the Human Face, Pergamon, New 72 . an Yor6k P1.9Ekm S. Pinker, The Blank Slate, Viking (Penguin Books), New York 2002, p. 114. R. Benedict, Anthropology and the Abnormal, in «Journal of Ge2
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neral Psychiatry», 10 (2), 1934, pp. 59-82. 161
9 H. Becker, Outsiders: saggi di sociologia della devianza, trad. it., Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987 (ed. or. 1963). 1° A.B. Hollingshead, F.C. Redlich, Classi sociali e malattie mentali, trad. it., Einaudi, Torino 1965 (ed. or. 1958). n Jervis, Manuale Critico di Psichiatria, Feltrinelli, Milano 1975; Il mito dell'antipsichiatria, in «Quaderni Piacentini», 60-61, 1976; L'ideologia della droga, in «Quaderni Piacentini», 58-59, 1976. 12 D. Buss, Sex Differences in Human Mate Preferences: Evolutionary Hypotheses Tested in 37 Cultures, in «Behavioral and Brain Sciences», 12, 1989, pp. 1-49. 13 Per una bibliografia introduttiva si rinvia a G. Jervis, Individualismo e cooperazione, Laterza, Roma-Bari 20032 , capp. 6 e 7. Una brillante analisi delle strutture sociali che emergono in modo naturale dall'interazione con estranei è in P. Seabright, The Company of Strangers, Princeton University Press, Princeton 2004. 14 E.O. Wilson, Sociobiologia: la nuova sintesi, trad. it., Zanichelli, Bologna 1979 (ed. or. 1975); R. Dawkins, Il gene egoista, trad. it., Mondadori, Milano 1989 (ed. or. 1976); R. Axelrod, Giochi di reciprocità, trad. it., Feltrinelli, Milano 1985 (ed. or. 1984); J. Tooby, L. Cosmides, The Psychological Foundations of Culture, in J. Barkow, L. Cosmides, J. Tooby, The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford University Press, Oxford 1992; J. Tooby, L. Cosmides, Think Again, in L. Betzig (a cura di), Human Nature: a Criticai Reader, Oxford University Press, Oxford 1997; C. Bicchieri, Azione collettiva e razionalità sociale, trad. it., Feltrinelli, Milano 1998 (ed. or. 1993). 15 J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, trad. it., Einaudi, Torino 1998 (ed. or. 1997). 16 Buoni libri introduttivi su tutta questa tematica si aggiungono periodicamente sugli scaffali delle librerie, a partire da quello ormai classico di S. Pinker, Come funziona la mente, trad. it., Mondadori, Milano 2002 (ed. or. 1997). 17 American Psychological Association Statement on Sexual Orientation, July 1994. Si veda: www.apa.org/pi/lgbpolicy/orient.html. 18 Per una introduzione e una bibliografia ragionata si possono segnalare, oltre ai testi già citati, C. Badcock, Evolutionary Psychology, a Criticai Introduction, Polity Press, Cambridge 2000; Pinker, The Blank Siate cit. 19 «Corriere della Sera», 14 ottobre 2004, editoriale, p. 1. 20 A. Giddens, Le conseguenze della modernità, trad. it., il Mulino, Bologna 1994 (ed. or. 1990); Id., Modernity and Self-Identity, Stanford University Press, Stanford 1991. 21 B. Williams, Genealogia della verità, trad. it., Fazi, Roma 2005 (ed. or. 2002).
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D. Gambetta (a cura di), Le strategie della fiducia, trad. it., Einaudi, Torino 1989 (ed. or. 1988). Si veda anche la nota 13. 23 Per un interessante (e isolato) tentativo di programma sociale orientato sulle previsioni si veda A. Giddens (a cura di), The Progressive Manifesto, Polity Press, Cambridge 2003. 24 T. Eagleton, Le illusioni del postmodernismo, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1998 (ed. or. 1996). 25 D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari 20053 , p. 108. Va peraltro rilevato che la posizione di Zolo è anti-universalista. Una lucida sintesi di questa problematica è in G. Pasquino, Le ipocrisie del relativismo di sinistra, in «Il Sole 24 Ore», 6 febbraio 2005, p. 37. 26 T. De Mauro, F. Erbani, La cultura degli italiani, Laterza, Roma-Bari 20054 , p. 123. 22
Capitolo 4 E Bacon, Novum Organon, Aphorismi de Interpretatione Naturae et Regno Hominis, Liber I, 124 (ed. or. 1620). 2 W.G. Runciman, L'animale sociale, trad. it., il Mulino, Bologna 2004, p. 64 (ed. or. 1998). A. Schiavone, Le regole della vita in Europa, in «la Repubblica», 9 ottobre 2004, p. 17. 4 S. Latouche, M. Aime, Basta con le mucche pazze, in «L'Indice», 10, 2004, p. 33. 5 G. Jervis (a cura di), I diritti del malato, Feltrinelli, Milano 1975. 6 T. De Mauro, F. Erbani, La cultura degli italiani, Laterza, RomaBari 20054 , pp. 22 e 157. 7 A. Giddens, La terza via, trad. it., il Saggiatore, Milano 2001, p. 80 (ed. or. 1998).
INDICE
Ringraziamenti
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1. I denti della signora Aristotele, Ernesto De Martino e l'apparizione di un santo
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2. Uno sguardo d'insieme sul relativismo
29
Un dialogo, p. 30 - Le due posizioni in sintesi, p. 35 - Il relativismo come mentalità, p. 39 - Le ascendenze storiche del relativismo, p. 44 - Alcune note sul relativismo filosofico, p. 48 - Il relativismo come ideologia, p. 53 - Il relativismo come risposta alle delusioni del progresso, p. 67 - Relativismo e cultura di massa, p. 69
3. Dall'antropologia culturale all'antipsichiatria. Il relativismo culturale e i suoi limiti Relativismo contro universalismo, p. 75 - L'antropologia culturale americana e la sua eredità, p. 78 Dall'antropologia culturale all'antipsichiatria, p. 87 - Esiste una natura umana? Un nuovo naturalismo, p. 95 - Naturalismo e identità minoritarie, p. 100 Tribalismi e neo-tribalismi alla sbarra, p. 102 - Nuove possibilità di intesa, p. 105 - Il peso del passato, p. 107 - Un multiculturalismo con la coscienza sporca, p. 110 - Il relativismo culturale alla prova dei fatti, p. 115 - Perché non possiamo non dirci occidentali, p. 121 _
165
75
4. Aspetti etici e politici. Il relativismo e il consenso disinformato
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I richiami etici del relativismo, p. 129 - La retorica del relativismo, p. 134 - Il consenso informato e i suoi insegnamenti, p. 145 - Il problema degli specialismi e il consenso disinformato, p. 153
Note
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