Consigli a un giovane scrittore: narrativa, cinema, teatro, radio 8806140426, 9788806140427 [PDF]


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Consigli a un giovane scrittore: narrativa, cinema, teatro, radio
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Zitiervorschau

Einaudi Tascabili. Stile libero Un libro che aiuta lo scrittore apprendista a evitare false partenze, e aiuta tutti a leggere un romanzo o guardare un film con l'occhio di chi ha già imparato a scriverli. Quali sono le leggi nascoste che suscitano la -naturalezza- dell'emozione estetica? Come si costruisce un dialogo? Quali effetti crea l'uso della prima o della terza persona? Come si muove la macchina da presa? Qual è la lingua del palcoscenico? Come si fa una sceneggiatura? Con la semplicità e la passione con cui un artigiano spiega al giovane di bottega i segreti del mestiere Cerami scrive una guida all'arte del raccontare, valendosi della sua esperienza di scrittore, drammaturgo, sceneggiatore e perfino gag-man. Quando raccontiamo una storia - usando la penna o la macchina da presa, oppure oralmente e a gesti - siamo presi dentro un sistema di regole di cui non sempre siamo consapevoli. Pensiamo di essere liberi di raccontare seguendo il ritmo della nostra ispirazione e ci ritroviamo invece dentro una rete di convenzioni e di stili che limitano la nostra libertà e finiscono con l'imporre la loro legge. Il libro di Cerami parte dall'esplorazione di queste regole e offre gli strumenti per non subirle in modo passivo. É una lunga e divertita escursione nei regni della scrittura. Cerami ci fa entrare nella -cucina- creativa di grandi scrittori, registi e attori comici - da Tolstoj a Hitchcock, dalla Mansfield a Petrohni - dove si compie la trasformazione della materia prima in un prodotto finito: e ci introduce a tecniche, meccanismi, trucchi, ingredienti e dosi con cui gli artisti lavorano per dare forma alle proprie fantasie e immagini. Vincenzo Cerami (Roma 1940) si è rivelato con il romanzo Un borghese piccolo piccolo. Della sua opera narrativa Einaudi ha anche pubblicato due libri di racconti: L'ipocrita e La gente. Come drammaturgo ha realizzato tra l'altro, per la musica di Nicola Piovani, Le cantate del fiore e del buffo. Il signor Novecento. Canti di scena e La casa al mare. Come sceneggiatore ha scritto film con Gianni Amelio. Marco Bellocchio. Giuseppe Bertolucci, Sergio Cittì. Assieme a Roberto Benigni ha scritto:Il piccolo diavolo,

Johnny Stecchino. Il mostro. Copertina di Tullio Tullio Pencoli e Pierluigi Cerri. ISBN 8888-0606-1404214042-6

Vincenzo Cerami Consigli a un giovane scrittore Narrativa, cinema, teatro, radio

A Aisha e Matteo

Per cominciare Se non fosse troppo ovvio comincerei cosi: una volta nelle scuole di calcio era vietato «tirare di punta» e nelle scuole di tennis cacciavano via gli allievi che rinviando la palla piegavano il polso. In realtà solo i grandi calciatori fanno gol con la punta del piede e tennisti di qualità piazzano un colpo micidiale con una svirgolata del polso. Questo per dire che l'artista fa come gli pare. Nel dare i miei consigli sul modo di scrivere storie (da leggere, da vedere al cinema o a teatro, da ascoltare alla radio), mi comporto come quell'allenatore cattivo che non ama troppo gli svolazzi, che vuole stare con i piedi per terra. Se non fosse un concetto piuttosto stagionato tirerei in ballo Picasso il quale, pur dipingendo meravigliosi occhi e nasi alla rinfusa, sapeva perfettamente disegnare una casetta con tanto di alberelli in fila, nuvole bianche, la cuccia per il cane e una bella staccionata tutt'intorno. Mai svelerei la mia speranza più segreta: che un giovane, una volta letto il libro e imparato forse una serie di cose, dimentichi tutto e cominci a scrivere andandosene con disinvoltura per la tangente. Le regole, in arte, vengono in un secondo momento, si scoprono dopo averle applicate. Questo libro esce da una cartella di vecchi fogli, di appunti sparsi che ho raccolto in alcuni anni di chiacchiere nelle scuole e nelle università. Mette in bell'ordine delle certezze conquistate sul campo a forza di sbagliare. Il caso, e solo il caso, ha voluto che nella mia vi-

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ta non abbia fatto che scrivere, inventare storie con tutti i linguaggi possibili. Ho scritto una quindicina di commedie, una quarantina di film, una decina di libri e qualche radiodramma. Ho scritto bene ? Ho scritto male ? Uno sciocco direbbe che l'ardua sentenza spetta ai posteri. Mi perdoni il lettore questa lungaggine iniziale nella quale devo accennare alla mia attività. Lo faccio con lo spirito di chi mostra la carta d'identità all'ufficio postale per ottenere la fiducia dell'impiegato. E vero, il caso ha scelto per me. Da ragazzino ho avuto come insegnante di lettere Pier Paolo Pasolini. Seguendolo in tutto il cammino, frequentando da vicino il suo tavolo di lavoro, ho potuto scoprire il fascino di tuffarmi in questo e in quel linguaggio. Vedevo il mio ex professore scrivere versi, saggi, romanzi e poi sceneggiature e tragedie; e infine l'ho visto diventare regista e polemista sui giornali. Qua e là l'ho anche aiutato. Nei film con Totò sono stato assistente alla regia, per il testo di Teorema aiuto sceneggiatore (stavo imparando). Dico questo solo per spiegare come ho fatto a incontrare i vari linguaggi. La passione di scrivere la vivo tra quattro mura e si esaurisce tutta nel piacere di raccontare, senz'altro scopo che dar soddisfazione alla mia curiosità per le azioni degli uomini. Ho paura di chiedermi qua! è - se c'è - il comune denominatore di tutte le cose che faccio. Non mi chiedo né perché né cosa scrivo. Tante volte spero che «scrivere» sia la risposta a tutte le domande. Qual è la mia poetica ? Scrivere. Sono saltato dal dramma alla commedia, dalla tragedia alla comicità. Ho lavorato con Pasolini, ma anche con Benigni, da solo e, per il teatro musicale, con il compositore Nicola Piovani. Più di una volta sono entrato nelle tenebre di Bellocchio, altre nell'abbacinante mondo picaresco di Sergio Cittì. Ho fatto teatro in Italia e in Francia, ho scritto un romanzo in versi. Ho toccato con mano il talento di Totò e ho descritto

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6 pezzi del nostro presente insieme con il bravissimo Gianni Amelio. Ho scritto un romanzo storico, racconti corti e lunghi, ho trasportato letteratura in cinema e viceversa. Ho inventato per la radio e per più di un anno ho fatto perfino il gag-man negli Usa. Insomma son passato attraverso tante cucine e qualche pentola ho imparato a scoperchiarla. Dietro la parola «consigli» potrebbe nascondersi un trucco, come dire che il libro prende a pretesto la forma del manuale per proporre una precisa quanto parziale concezione del lavoro artistico. Se è cosi non l'ho fatto apposta. Questi miei consigli sono solo consigli e per niente campati in aria. Possono essere, in qualche punto, discutibili, da prendere con le pinze, da richiedere approfondimento, ma è certo che quanto state per leggere l'ho imparato facendo il mio quotidiano lavoro di scrittore. Dopo aver letto con attenzione il libro si possono evitare già all'inizio gli errori più ricorrenti. Non pretendo di insegnare a diventare né grandi né piccoli scrittori. Non è certamente questa la prima pubblicazione che tratta l'argomento dei linguaggi creativi, anche se in Italia la tradizione è piuttosto scarsa. In molti paesi la scrittura viene insegnata nelle università da narratori e poeti. Qui da noi è scoperta recente. Sono usciti libri che parlano della scrittura letteraria o della sceneggiatura cinematografica, altri che studiano la drammaturgia teatrale, ma una visione generale che ponga sotto lo stesso ombrello i diversi modi di scrivere non mi è mai passata per le mani. E se penso che i linguaggi creativi (tranne molta poesia) hanno come dato comune la narrazione, appare francamente singolare che non siano mai state confrontate tra loro tutte le scritture, precisando peculiarità, analogie e differenze. È singolare soprattutto in un'epoca nella quale ogni giorno assistiamo alle contaminazioni dei generi e dei linguaggi, alla nascita di forme sincretiche della comunicazione, alle sovrapposizioni stilistiche, all'interattività elettronica, ecc.

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Forse è definitivamente tramontata l'immagine dello scrittore triste e solitario che da dietro la sua pesante scrivania parla al mondo intingendo il pennino nel calamaio. Già gli scrittori della mia generazione (penso a Peter Handke o a Ian McEwan, ma sono tanti) da molti anni scrivono su più tavoli. Qui un libro, là un film, o una pièce teatrale o un poema, e ancora un reportage, un manualetto, un documentario filmato, una poesia, un'opera musicale, una canzone, una discettazione politica, una preghiera, un saggio critico, una cronaca sportiva. La vita oggi si capisce meglio se ci si può parlare utilizzando i linguaggi a 360 gradi, dal gergo più stretto ed esclusivo alla comunicazione internazionale, scegliendo una volta le immagini, un'altra la parola parlata e un'altra ancora la parola scritta o la parola cantata. Nuovi saperi giungono dai quattro angoli della Terra e quindi nuove forme espressive. Non ho voluto fin qui nominare una frase che a molti fa storcere il naso: scrivere per professione, per fare un lavoro come un altro. La fiction è ancora il prodotto principe, sia nell'editoria che nel cinema e nella televisione. Non c'è tecnologia in grado di inventare e scrivere una storia. Un computer è capace di trasformare l'immagine di una scopa in quella del Grand Hotel, ma la ragione per la quale una scopa diventa un albergo deve uscire dalla testa di un narratore. Il cosiddetto mercato delle idee (o del talento) cresce a vista d'occhio, fino al punto che negli Usa uno sceneggiatore bravo guadagna più del regista e spesso più delle stesse vedettes. Ciò dimostra quanto sia importante un copione e come sia difficile scriverlo. Basta pensare che una sceneggiatura mobilita investimenti di molti miliardi di lire. Un giovane il quale creda di essere portato per questo «mestiere», solo scrivendo potrà scoprire se ha talento e magari se è un vero artista. E solo scrivendo che egli potrà scegliere cosa fare e cosa non fare. Ha lo stesso diritto di esistenza chi scrive per tutti e chi scrive

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8 per pochi, anche se i tutti e i pochi cambiano spesso di posto. Charles Dickens fu scrittore di tutti e contemporaneamente di pochi, raffinatissimi palati. Lo stesso si può dire per i grandi Billy Wilder e Alfred Hitchcock, per Molière e Giuseppe Verdi. All'aspirante scrittore a cui sono indirizzati questi miei umili consigli chiedo innanzi tutto di cominciare subito a smuovere la fantasia, a farla vivere, ad allenarsi a pensare. L'immaginazione prefigura e per questo è un'attività intellettuale, perché si interroga su tutto e mira al futuro. Immaginare ciò che non esiste è immaginare qualcosa che potrebbe accadere. Raccontare è in qualche modo porre domande difficili al mondo, questioni che tuttavia non aspettano una risposta. Perché una vicenda si svolge in un modo e non in un altro ? Perché si scelgono quei protagonisti e non altri ? Fino a che punto siamo noi i padroni del nostro destino ? Ma le risposte che arrivano sono altrettanti interrogativi, accendono solo una fioca luce nel buio e nel silenzio della nostra vita più nascosta. In quella macchia slavata finiscono per specchiarsi le zone insondabili del nostro presente, l'unico tempo in cui siamo concretamente vivi. La scrittura viene subito dopo. Ho pensato di dare a questo libro una sorta di movimento in avanti, come una carrellata cinematografica che vada dalla visione di insieme al particolare. Inizierò inquadrando da lontano le forme generali della narrazione, la trama e le modalità del racconto (letterario, cinematografico, radiofonico e teatrale). Poi, avvicinandomi, cercherò di mettere a fuoco la singola scena per vedere come è costruita. Infine stringerò l'obiettivo sulla microdrammaturgia del dialogo per scoprirne tutti i segreti o per lo meno i più importanti. In chiusura qualche cenno sul genere comico il quale, pur obbedendo a molte regole del racconto drammatico, fa capitolo a sé, si situa in uno spazio bidimensionale che chiama lo scrittore a un diverso atteggiamento narrativo.

Da lontano La costruzione del racconto Il linguaggio dei sensi. Evocare. E la chiave di ogni linguaggio artistico. La sua origine latina ci aiuta a capire di che cosa si tratta. La parola è composta da ex (fuori) e da vocare (chiamare): «trarre, attirare fuori, richiamare». Lo scrittore traduce in un linguaggio compreso da molti quanto è possibile portar fuori dalla fantasia; ricostruisce artificiosamente, usando le parole, un universo che ha regole e logiche differenti rispetto a ciò che succede nella realtà. E come se egli raccontasse, con tutte le sue vaghezze e suggestioni segrete, un sogno. Richiama alla mente e poi trascrive, e questo è il suo primo atto. Evocare vuol dire spostare un «oggetto» da un luogo a un altro. Non è del tutto sbagliato pensare agli spiriti evocati dall'aldilà. L'aldilà nel nostro caso è lo spazio della fantasia, il fumoso riquadro in cui si vagheggiano storie, si inventano personaggi, situazioni più o meno improbabili, e dove si diventa spesso protagonisti di sogni a occhi aperti. E il più realistico dei palcoscenici, anche se vediamo noi stessi volare, o uccidere, o morire. In quello spazio lo scrittore crede a tutto ciò che succede. Un altro vocabolo fondamentale per chi voglia scrivere su più tavoli è linguaggio. Lo scrittore ha un'idea tutta sua del linguaggio, perché lo associa solo ai processi creativi. Se dico: «Quella è una casa», do una semplice informazione. Se invece dico: «Là dentro mangio, dormo, cresco i miei figli e ogni tanto piango», evoco

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la casa con un tono di voce un po' accorato. Lascio indovinare qualcosa: insieme a un'informazione trasmetto un'emozione. Allo scrittore fa comodo riferirsi al seguente schema: una lingua serve a «comunicare» e un linguaggio serve a «esprimere». Qual è la differenza? Comunicare significa trasmettere informazioni; esprimere significa trasmettere emozioni. Naturalmente le cose sono un po' più complicate perché non poche informazioni vengono trasmesse solo attraverso il filtro delle emozioni e non poche emozioni, per essere espresse, hanno bisogno di un certo numero di informazioni. Di fatto una lingua ha sempre una grammatica; e un linguaggio, per la polivalenza, la vaghezza e l'intraducibilità dei suoi messaggi, non ce l'ha mai. Il linguaggio è un sistema chiuso di segni che può dar vita a forme espressive. E come vedremo, almeno per quanto riguarda lo scrittore (che deve possedere la capacità d'uso di quei segni), ogni linguaggio è riferibile o a uno solo o a più sensi dell'uomo. I sensi, si sa, sono cinque (udito, vista, tatto, olfatto, gusto). Lo scrittore, a differenza del cuoco (che domina il gusto, i diversi sapori e odori della cucina), a differenza del musicista (che ordina le note) o del pittore (che mescola i colori), manipola solo parole scritte quando fa letteratura, scritte per essere recitate quando fa radio, teatro o cinema. Evocare vuol dire quindi restituire la parvenza di verità della nostra fantasia all'interno di un preciso linguaggio, cioè di peculiari convenzioni. E per far questo è necessario conoscere a fondo il sistema di segni con il quale dobbiamo lavorare. I segni parlano. Se osserviamo un fico maturo in cima al suo albero, stagliato contro un bel tramonto che arrossa il Partenone lontano, ci rendiamo conto di contemplare il più mediterraneo dei panorami. Se poi stacchiamo il fico

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dal ramo e lo posiamo sopra un cesto con frutta varia, esso cambia di segno: pur rimanendo fico entra in una sorta di competizione con gli altri frutti, risulta più o meno appetitoso ed è comunque inserito in un contesto diverso (una diversa enciclopedia). Se facciamo un passo indietro e scopriamo che il cesto è su un tavolo, su cui stanno anche un pesce, un fagiano morto, un bicchiere di vino e una mezza pagnotta di pane poggiata su un tagliere di legno antico, l'intero cesto della frutta cambia di segno: ci viene il sospetto di trovarci davanti alla vetrina di un bel negozio di alimentari oppure di fronte a una composizione dalla quale un certo pittore trae una suggestiva natura morta. Quel fico quando stava sull'albero e tra le dita di chi l'ha staccato riempiva l'intero spazio visivo, ora è solo uno dei tanti elementi che formano l'immagine complessiva. Se prima si presentava con la sua pancia gonfia e la carnosità della buccia lattiginosa (dove alcune fragili spaccature lasciavano indovinare una polpa rossiccia e zuccherina), adesso è una piccola cifra che invia appena un vago sapore di terra mediterranea all'interno di un più vasto concerto di note. Una volta, quindi, ci siamo avvicinati al frutto, un'altra ci siamo allontanati. Se invertiamo l'ordine delle inquadrature vedremo prima il tavolo, poi il cesto e finalmente il fico isolato. Ecco quindi la buccia verde, spessa e sensuale, ecco la polpa mielosa. Aver invertito la sequenza delle immagini per concentrarsi alla fine sulla squisitezza del fico maturo modifica non poco i segnali inviati dal quadro generale: l'appetibilità di quel fico si trasferisce su tutta la frutta del cesto, che abbiamo visto da una certa distanza. Non solo: il fico risulterà l'elemento principe, la stimma finale di tutto il quadro. Questo breve esempio è tutto visivo. Lo spostamento da un luogo ad un altro ci ha semplicemente portato da uno spazio a un altro, da un'enciclopedia a un'altra: da un albero a un cesto, da un cesto a un tavolo. Si può comprendere il senso di tali spostamenti solo attraverso l'organo della vista. Schematicamente si è visto co-

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me una successione di immagini rispetto ad un'altra decida la fisionomia dell'evocazione. Evocare comporta quindi un prima e un dopo, cioè un «discorso» (in questo caso usando le immagini al posto delle parole), il quale per essere sviluppato si servirà della «drammaturgia», di un modo cioè di «far parlare» i segni. Il linguaggio della vista : il cinema. Per costruire un «discorso evocativo» utilizzando soltanto le immagini ci serviamo degli strumenti del linguaggio visivo: un linguaggio che basa la sua peculiarità sui movimenti dello sguardo (da vicinissimo a lontanissimo). Il cinema è, come sappiamo, un «salto tecnologico» della fotografia. All'inizio esibiva la magia delle immagini in movimento con spirito quasi circense, per meravigliare gli spettatori i quali si vedevano venire addosso un treno in corsa o si sentivano mancare il fiato nell'illusione di essere seduti su una vettura delle montagne russe. Poi, visto il successo di questo nuovo mezzo espressivo, qualcuno pensò bene di provare a raccontare una storiellina. Nella sala buia e silenziosa si accendeva lo schermo sul quale comparivano personaggi più o meno buffi che agivano secondo una breve logica narrativa. Pensiamo, ad esempio, alle comiche. Bene, l'unico organo che gli spettatori mettevano in funzione era la vista. Il cinematografo sembrava un linguaggio inventato per sordomuti. I non udenti e gli udenti seduti in sala potevano decifrare in egual misura ciò che succedeva sul telone. Il cinema muto ha creato grandi capolavori artistici e spettacolari. Nessuno può affermare che l'avvento del suono e del colore sul grande schermo abbia coinciso con un accrescimento espressivo di quest'arte. I film di Buster Keaton o di Charles Chaplin, ancora oggi quasi tutti di insuperabile bellezza, dimostrano che il cinema è rimasto, nella sua sostanza, un linguaggio esclusivamente

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14 visivo. La parola e i colori (e più tardi ancora gli effetti speciali) non hanno aumentato le potenzialità evocative del cinema. Le hanno semmai diminuite facendo somigliare sempre di più le immagini dello schermo a quelle della realtà. I film in bianco e nero chiedevano allo spettatore, con un salto fantastico (attraverso un processo appunto evocativo), di trasferire l'infinita gamma dei grigi proiettati sullo schermo nei singoli colori del paesaggio evocato. Il vero film a colori, insomma, era quello colorato di grigi che andavano dal bianco «sparato» al nero buio. Lo spettatore accettava la convenzione secondo la quale un certo grigio evocava l'azzurro del mare, un altro grigio l'azzurro del cielo e un altro ancora il verde dei prati. Nella distanza tra i grigi e i colori del «referente» reale si giocava tutta la potenzialità dell'evocazione. Nella distanza, cioè, tra ciò che si vede e ciò che si immagina si inseriscono gli strumenti dell'espressività artistica. Da questa osservazione se ne ricava un'altra: quanto più un linguaggio è tecnologicamente povero, tanto più prepotenti e articolati si fanno i processi evocativi. Il cinema muto, rivolgendosi esclusivamente all'organo della vista, per poter «indirettamente» trasmettere anche ciò che non si ascolta, non si annusa, non si gusta e non si tocca, deve articolare non poco il suo linguaggio, deve cioè spremere al massimo le sue possibilità di evocazione affinché attraverso il «discorso visivo» arrivino allo spettatore anche suoni, odori, colori, parole, pensieri, eccetera. Il cinema con l'avvento del sonoro prima e del colore dopo, che fecero somigliare sempre di più le immagini della fantasia a quelle dello schermo, ha cercato di rinforzare le sue capacità ipnotiche (prima affidate all'evocazione) ricorrendo ancora una volta alla sua originaria forza tecnologica: ecco il Cinemascope, il Panavision, il Dolby-stereo, addirittura la tridimensionalità, e soprattutto gli effetti speciali, prima realizzati con pellicola poi attraverso l'elettronica. Un tempo,

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per ottenere l'effetto del paesaggio che scorre veloce oltre il finestrino di un treno, dove i personaggi stanno parlando fra loro, veniva proiettata su uno schermo dello studio una lunga panoramica della campagna precedentemente ripresa. Oggi, grazie all'elettronica, gli attori recitano davanti a un panno nero su cui, in laboratorio, verranno inserite le immagini più adatte. Non solo, il computer permette di mutare le notti in giorno e viceversa, di cambiare colore ai palazzi e di trasformare la laguna di Venezia in un prato verdeggiante, come si è visto nella pubblicità. La tecnologia cinematografica tende a dilatare i nostri sensi, ci fa vedere ciò che non si può vedere a occhio nudo, isola i suoni e li moltiplica, fa volare il nostro sguardo con la velocità della luce e lo fa cadere in punti inimmaginabili. Sorvola un'intera città e si infila in una bomboniera trasformando i cioccolatini in grattacieli. Un portone chiuso in Dolby-stereo fa tremare le poltrone della platea. Prima di arrivare sullo schermo il frastuono di un carro armato comincia a esplodere in sala, alle spalle del pubblico. E di nuovo il circo, lo spettatore siede al centro di un suggestivo bombardamento di effetti visivi e sonori. Non trasferisce tutte le immagini nel proprio immaginario dopo averle fantasticamente elaborate, ma entra in quel linguaggio subendone parassitariamente il fascino tecnologico. In Biade Runner, sicuramente il più bel film tecnologico di questi anni, il regista Ridley Scott ha sentito il bisogno di «invecchiare» e di «sporcare» gli oggetti tecnologici che compaiono sullo schermo per renderli quotidiani, familiari come lo è un frullatore o un vecchio televisore in bianco e nero. Lo spettatore ha cosi la sensazione di ritrovarsi a casa sua, malgrado sia immerso in un'epoca e in un luogo inventati. Non esiste più nulla di «irraccontabile», di irrappresentabile in cinema, non c'è più nulla da indovinare. Nel teatro antico veniva definito osceno tutto quanto accadeva fuori scena. Ciò che non si vedeva veniva evocato, filtrato e raccontato dai personaggi. Nei film concepiti

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16 solo per épater les bourgeois attraverso le magie elettroniche, l'evocazione dell'osceno non ha più senso. Dilatare il vero fino a renderlo falso, questo sembra essere il compito della tecnologia odierna. In passato, quando gran parte degli effetti dipendevano solo dalla macchina da presa, l'obiettivo era l'inverso: cercare di rendere credibile l'incredibile. Non è improbabile che questa ricerca di una verità più vera del vero sia dettata dalla necessità di proporre immagini ancora più autentiche di quelle della cronaca televisiva. Il piccolo schermo mostra in diretta l'attentato mortale a un Capo di Stato. Il cinema sembra non poter fare altro che riproporre l'avvenimento con decine di inquadrature perfette, crudissime e dettagliate: da un braccio che si stacca dal corpo andando a sbattere contro la vetrina di un negozio, agli spruzzi di sangue che investono in pieno la macchina da presa. Sono immagini che diventano fantastiche perché troppo realistiche. E poiché esse dettano uno stile ecco che il film rischia fatalmente di essere tutto fantastico per troppo realismo. Paradossalmente è il «troppo realismo» introdotto dalla tecnologia a mettere in crisi un linguaggio giovane come quello del cinema. E ciò fa si che la maggior parte dei film prodotti alla fine del primo centenario dalla nascita di quest'arte, specie negli Usa, patria del mercato mondiale, raccontino coattamente quasi sempre realtà «improbabili», nella costrizione di dover narrare realisticamente elaborazioni già stravolte nella fantasia. Le poetiche, in questo modo, vengono ridotte in sostanza a una sola, vagamente iperrealistica, più o meno fantascientifica, anche quando si tratta di storie quotidiane. Un linguaggio, se vuole mantenere intatte tutte le potenzialità artistiche, deve salvaguardare le sue capacità evocative. Alla base c'è l'equazione secondo la quale quanto più un linguaggio è povero di mezzi tanto più densa e ricca è la sua forza evocativa (quindi artistica). Se il cinema è l'arte più tecnologicamente ricca, la

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letteratura è senz'altro la più povera. Oggi lo schermo si giova delle immagini, del suono, dei colori, dei costumi, della scenografia, della realtà fotografata, di personaggi che agiscono. Nel film si vedono le notti e i giorni, i tramonti e le albe, e le epoche che passano. Nella letteratura, la quale si serve soltanto di una penna e di un foglio di carta, tutto ciò che ci circonda, che vediamo fino alla linea dell'orizzonte, deve essere evocato. Lo scrittore, attraverso la parola scritta, deve far immaginare volti, anime, colori, odori, luoghi, luci, atmosfere, eccetera. La scrittura letteraria, cioè, non rinvia a nessun altro linguaggio che a se stessa. La sceneggiatura è un linguaggio di mediazione finalizzato al linguaggio visivo; la letteratura è un linguaggio autonomo, che contiene in sé le convenzioni per una totale evocazione. Tanta povertà di mezzi rende quest'arte più ricca, più sofisticata. Il lettore, rispetto al pubblico della sala, immagina di più. Se la quota evocativa nella letteratura è 5 e nel cinema è 1, nella radio sarà, ad esempio, 4, nel teatro 3, nella televisione (date le dimensioni dello schermo) 2. Ciò non significa che un romanzo è sempre meglio di un film o di una commedia: voglio solo schematicamente suggerire un indice di intensità d'evocazione che corrisponde fatalmente a precise potenzialità immaginative e artistiche. I l linguaggio dell'udito: la radio. Il cinema, dove il suono è in un certo senso optional, è linguaggio per immagini, che può essere decifrato soltanto attraverso l'organo della vista. Ora fermiamoci un momento a riflettere sul linguaggio radiofonico. Il pubblico della radio è formato di «ascoltatori». Vale a dire che se ci chiudiamo in una stanza buia e ascoltiamo un radiodramma, siamo in grado di immaginare perfettamente tutto quanto ci viene raccontato. Stiamo comodamente seduti, con gli occhi chiusi e le orecchie tese. Dopo un attimo, una volta entrati nelle atmosfere evo-

LA COSTRUZIONE DEL RACCONTO

18 cate dai suoni, dai rumori, dalla musica e dalle voci, abbiamo l'impressione di assistere da vicinissimo a una vicenda popolata di ambienti e di personaggi. Immaginiamo anche i colori, le luci e gli odori della scena. Ci figuriamo i corpi e le facce dei protagonisti, i loro abiti, le loro case, i loro sentimenti più o meno contraddittori. E tutto questo usando solo l'organo dell'udito. Il linguaggio radiofonico sembra inventato per i non vedenti. La radio non può giovarsi dell'aiuto delle immagini, deve saper evocare il luogo di riferimento (la storia che viene raccontata) solo attraverso i suoni. Gli strumenti tecnologici necessari sono un microfono e un altoparlante. A questo punto ci siamo accorti che i vari linguaggi evocativi sono collegati ai nostri organi sensitivi: il cinema alla vista, la radio all'udito... Come ho già detto anche la cucina è un linguaggio (ispirato all'organo del gusto). Un cuoco è meglio di un altro perché sa meglio evocare i sapori, perché conosce e utilizza perfettamente questo linguaggio. Recentemente perfino il senso del tatto ha trovato il suo spazio linguistico. Pensiamo alla realtà virtuale dentro la quale si può viaggiare indossando una tuta e un casco. La tuta, grazie ad una serie di congegni meccanici ed elettronici, offre una gamma di sensazioni tattili in rapporto alle immagini proiettate nel visore interno del casco. Cosi se «il viaggiatore» crede di nuotare sente addosso la sensazione di bagnato; se crede di camminare sulla neve fa fatica a sollevare i piedi; se crede di baciare una bella donna ha la sensazione di labbra calde e morbide che si posano sulle sue, eccetera. Ma a noi interessano i linguaggi che adopera uno scrittore. E la radio, nella sua parte creativa, nei programmi di fiction, necessita di qualcuno che inventi i testi. I testi per la radio, naturalmente, debbono essere funzionali al linguaggio che, come ho detto, è fonico. Quindi chi scrive non può mai dimenticare che ogni

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parola scritta diventerà più tardi un suono. La pagina dovrà essere divisa in due parti, verticalmente: a sinistra si annoteranno i suoni non verbali e a destra il parlato (dialoghi, pensieri, voci narranti). Nella parte sinistra, quella della descrizione dei suoni, si misura la «radiofonicità» del copione. Quante più annotazioni ci saranno tanto più lo scrittore dimostrerà di usare bene il mezzo. Quindi nel momento stesso di concepire una storia radiofonica sarebbe bene cercare idee che meglio utilizzino i suoni. Questi hanno, come le immagini, una profondità che va sfruttata fino in fondo: voci e rumori possono essere vicinissimi al microfono o lontanissimi, poco distanti e molto distanti. Se si vuol raccontare, radiofonicamente, che «siamo» in un esterno, è bene situare la scena là dove è possibile ambientarla con effetti sonori: in un parco si udranno lo scroscio delle fontane e il cinguettio di uccellini lontani; in una periferia si possono percepire appena appena i suoni di un circo; nella strada fa da tappeto sonoro il rumore del traffico, eccetera. Per gli interni una televisione accesa in un'altra stanza, il bollire di una macchinetta del caffè, il tintinnare dei bicchieri, il suono di ambulanze e motorini che passano in strada, un temporale, eccetera, sono meglio del silenzio. Scrivere una scena nel vuoto produce poche suggestioni (evocazioni). Vanno utilizzate voci assonnate, raffreddate, ubriache... Un breve esempio: SCENA I - APPARTAMENTO DI MARIO E GIOVANNA Squilla, vicinissimo, il telefono. Un attimo dopo qualcuno alza l'apparecchio. GIOVANNA {forte) Pronto, chi è ?

LA COSTRUZIONE DEL RACCONTO

20 È una voce giovanile, ài una persona sicura di sé. Una breve pausa. Poi la voce di un uomo, ascoltata nella cornetta: è esitante, quasi spaventata. Da lontano giunge la voce di Mario, allegra. Giovanna cambia di colpo tono, balbetta. ANTONIO {al telefono) Sono io, Antonio! MARIO

Chi è? GIOVANNA

E... è... Sandra... (altelefono , forte) Ciao Sandra, ma che sorpresa!... SCENA 2 - STRADA TRAFFICATA Traffico stradale. I tacchi di Giovanna pestano veloci il marciapiede. GIOVANNA {furiosa) Sto facendo tardi, per favore... ANTONIO (appena ansimante) Fermati Giovanna, un attimo solo... GIOVANNA (con voce strozzata) Te l'ho detto, dimentica tutto, non ce la faccio più.

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Queste due brevi scene danno inizio ad una vicenda segnata da una menzogna. Giovanna sta ingannando Mario. Ancora non sappiamo chi sia Mario (il marito, il convivente, un amico, ecc.) né chi sia Antonio (il marito, un amico, l'amante, ecc.) Di fatto lei al telefono ha mentito a Mario e l'ascoltatore scoprirà più tardi perché. Ma ciò che ora interessa è vedere come sono state «ambientate» le due scene. Sottolineo in corsivo i momenti fonici. Nella prima suona un telefono: siamo in un interno. E poiché suona vicino al microfono (a volume alto) immaginiamo che Giovanna, rispondendo, sia vicina a noi ascoltatori. La voce «.distorta» (nella cornetta) di Antonio è esitante, quasi spaventata: perché ? Giovanna non fa in tempo a rispondere che giunge da lontano la voce «pulita» di un altro uomo: è Mario che chiede chi c'è al telefono. Giovanna cambia di colpo tono, balbetta anche lei, mentre finge di parlare con un'amica, Sandra. La seconda scena si svolge all'esterno: rumori del traffico. E scena in movimento: ; tacchi di Giovanna pestano il marciapiede ; la voce di Antonio è affannata. Naturalmente se una storia è ambientata nell'altro secolo, al posto delle automobili passeranno sulla strada acciottolata le carrozze e poco lontano si udranno le voci di un mercatino. Per gli esterni ci sarà un trionfo di campane, musica di concerti bandistici nei parchi, il vociare degli ippodromi; e per gli interni si sentiranno il fruscio delle vesti, l'allegria delle feste da ballo, il battito di bastoni sul pavimento, gli scampanellii per chiamare la servitù e lo schioppettio della legna nei caminetti. Come vedete si tratta di elementi esclusivamente sonori. Utilizzando i suoni lo scrittore dovrà ricreare artificialmente un intero universo nel quale si possa «indovinare» anche ciò che non si ascolta: gli ambienti, l'età, l'aspetto e i caratteri dei personaggi; gli odori; le sensazioni inespresse dei protagonisti; un clima e cosi via. I suoni radiofonici si possono usare in due modi diversi: o come «effetti sonori» (rumori vicini: passi,

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22 sbattere di porte, automobili che partono o frenano, eccetera) o come «evocazione d'ambiente» (rumori lontani). Il passaggio da una scena all'altra è sempre segnato da un cambiamento di luogo, che va aiutato con una mutazione di suoni. E bene sapere che non tutti i rumori sono riproducibili o immediatamente riconoscibili. Basta pensare che il fruscio di un pacchetto di caramelle vuoto accartocciato è identico al frastuono di una fitta pioggia sulla strada. Il principio narrativo che deve guidare il «racconto» radiofonico, l'ho già accennato, si basa, come per le immagini, sulla maggiore e minore vicinanza al mezzo espressivo (in cinema all'obiettivo, in radio al microfono). Prendiamo un'orchestra che sta accordando gli strumenti in un teatro: se è registrata da vicino l'ascoltatore crede di trovarsi nei pressi del palcoscenico; se è registrata da lontano, è seduto in un palco o in una poltrona delle ultime file. Due personaggi che parlano in un teatro, lontani dall'orchestra, dovranno bisbigliare per dare l'idea che non sono soli: se parlano sottovoce è perché non vogliono essere ascoltati o non vogliono disturbare i vicini. La voce accanto al microfono equivale a un primo piano cinematografico, l'ascoltatore è vicino all'attore. Un assassino entra furtivo in una stanza facendo scricchiolare la porta: se il rumore della porta è vicino, l'ascoltatore ha l'impressione di entrare nella stanza con l'assassino; se lo scricchiolio è lontano, l'ascoltatore è accanto alla vittima atterrita. Nel primo caso si ha una «immagine sonora oggettiva» (udita oggettivamente dall'ascoltatore), nel secondo caso si ha una «immagine sonora soggettiva» (ascoltata dalla vittima). In genere nel primo caso l'ascoltatore sa già chi è l'assassino, nel secondo sta per scoprirlo insieme alla vittima. I pensieri dei personaggi sono sempre recitati vicinissimo al microfono e sono scritti con sintassi differente dal resto, come gli «a parte» teatrali: ammiccanti, smaccatamente sinceri, lessicalmente spiazzanti. Devono far capire che nessuno può ascoltarli, anche se sono gridati.

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Uno scrittore che viene chiamato a comporre un radiodramma non può fare a meno di conoscere tutte le possibilità che il linguaggio radiofonico gli offre. Egli sa che scrive non per essere letto in silenzio, né per essere recitato in palcoscenico. Il suo pubblico è «non vedente». Lo scrittore si rivolge al solo organo dell'udito e non per questo deve rinunciare a una storia complessa come quella di un romanzo o di una commedia. Non c'è teoricamente nulla che gli impedisca di raccontare tutto ciò che vuole e nei modi che preferisce. E sarà certamente più efficace se saprà sfruttare al meglio le convenzioni radiofoniche. Sul piano narrativo un radiodramma ricorre spesso ai flashback, a brevi sotto-racconti interni in cui si narrano episodi avvenuti nel passato. In genere le voci del passato hanno un suono appena riverberato, al limite dell'irrealtà. Oppure sono bene incastonate dentro una sorta di parentesi musicale. Ma si possono trovare anche altre soluzioni. Faccio un esempio di flashback radiofonico: il ticchettio di una macchina da scrivere, un reo si confessa davanti al commissario e al dattilografo. Comincia a raccontare, la sua voce lentamente si dissolve insieme al rumore della macchina da scrivere. Siamo di colpo in un altro luogo, con altri personaggi, in una situazione drammatica: si svolge la scena «già accaduta», implicitamente raccontata dall'uomo. Sul chiudersi dell'episodio passato ecco ritornare, fonicamente in crescendo, il ticchettio della macchina da scrivere. Siamo tornati al presente. Spesso è il radiodramma stesso che suggerisce i modi più efficaci di raccontare brevi episodi del passato. Bisogna scegliere i più suggestivi e originali. I l linguaggio della fantasia: il sesto senso. A questo punto, prima di entrare a fondo nelle convenzioni del linguaggio letterario e cinematografico, non posso fare a meno di accennare a una questione

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24 molto complessa dal punto di vista teorico e fin qui appena sfiorata. Mi riferisco allo «spazio mentale» dentro cui inventiamo e costruiamo (facciamo accadere) le nostre storie. È il regno che potremmo chiamare del «sesto senso», dell'intuizione. La sua definizione è argomento per filosofi, psicologi e antropologi, ma gli scrittori, più umilmente, lo trattano come fosse un semplice luogo delle fantasie, spesso localizzato dalle parti della testa, un po' dentro e un po' fuori, un po' nella memoria e un po' nella vita. Per uno scrittore «inventare» somiglia molto a ricordare qualcosa che non è mai accaduto o che è accaduto in parte. Egli è convinto che qualsiasi racconto è una bugia o che comunque diventerà una bugia quando si sarà scelto un linguaggio per narrarlo. Egli sa che riferire un avvenimento vuol dire evocarlo. Perfino il reo confesso stravolge i fatti senza accorgersene, «romanza» episodi veramente accaduti. Il cronista più rigoroso non racconta ma ricostruisce artificialmente: sceglie, taglia i dettagli, omette, stringe, sintetizza, incolla, interpreta, procede per ellissi, fa collegamenti, ricava pensieri dalle azioni, descrive con pochi tratti, ecc. E comunque mentre scrive (o parla), pur consultando il suo calepino, ricorda e ricompone i pezzi di ciò che ricorda. Ma c'è un passaggio ulteriore che allontana ancora di più la verità vera (o quella viva della fantasia): è la scrittura. Un fatto viene prima ricostruito (sintetizzato) nello spazio mentale o nella memoria e poi ancora ricostruito (sintetizzato) nelle convenzioni del linguaggio che si intende utilizzare. La materia originale, sia essa un fatto vero o un fatto inventato, non può non essere che pre-testuale, solo un punto di partenza per mettere in scena sempre e comunque una\ fiction. Durante la elaborazione del racconto saranno le stesse convenzioni del linguaggio scelto a condizionare forme e contenuti narrativi. Nello «spazio mentale» di uno scrittore fiction e realtà sono esattamente la stessa cosa: una contamina l'altra e in-

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sieme finiscono per assumere il simulacro di qualcosa che potrebbe anche essere accaduto. Il pensiero, attualizzandosi nella scrittura, deve fare i conti con le convenzioni del linguaggio e con lo stile. Mettiamo per ipotesi che volessimo ripercorrere la storia di un uomo terribile come Adolf Hitler. La raccontiamo dall'adolescenza alla presa del potere? Dalla presa del potere alla disfatta? Scegliamo solo un episodio significativo ? Narriamo tutta la sua vicenda dagli inizi alla morte ? Il problema più importante è decidere se il dittatore sarà il protagonista assoluto: sarà «visto» da un altro (o altri personaggi) oppure sarà raccontato oggettivamente ? Nel primo caso verrà fuori un personaggio «filtrato» attraverso una precisa (e quindi parziale) esperienza; nel secondo egli risulterà cosi come realmente è stato, nella sua verità storica. Esaminiamo adesso questa seconda eventualità. Al di là della «autenticità» dei fatti che racconteremo, da un punto di vista strettamente narrativo siamo costretti a sciogliere un nodo molto difficile: riusciremo a rappresentare bene un personaggio cosi «negativo»? O meglio: riusciremo a renderlo in tutta la sua negatività ? Nella nostra testa egli è la quintessenza della malvagità e del cinismo, ma poi, passando alla scrittura riusciremo a «restituirlo» cosi come lo immaginiamo? Sicuramente no, a meno di non renderlo «incredibile», falso, forzato. Non ci riusciremo perché nel momento in cui dobbiamo approfondire il personaggio anche per cercare le ragioni più o meno oscure della sua violenza - finiamo fatalmente per trovargli una, seppur aberrante, giustificazione. E, senza volerlo, faremo di Hitler un eroe, un sublime dannato, grande come un demone dell'apocalisse, una vittima di se stesso, carismatico com'è carismatico il male. Penso, ad esempio, al Riccardo in di Shakespeare, allo spietato duca di Gloucester, il quale riesce a salire sul trono d'Inghilterra dopo aver fatto assassinare mezza corte reale. La sete di potere acceca quest'uomo infelice (è nato stor-

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pio e claudicante) e quando alla fine il conte di Richmond giungerà a liberare il paese dall'usurpatore, questi, nel momento di morire, acquisterà la sua dimensione tragica ed eroica. Riccardo è un uomo reso cinico dalla natura, un «mostro» suo malgrado. La sua malvagità è in qualche modo legittimata dalla sua infelicità. Come potremmo noi, oggi, senza falsare smaccatamente la storia, trovare la spiegazione delle atrocità naziste nella contorta personalità di Hitler ? Ogni tentativo di collegamento tra il carattere del dittatore e gli avvenimenti della storia è destinato al ridicolo. Uno scrittore (di letteratura, di cinema, di teatro, ecc.) non può fare a meno di andare nel fondo dei personaggi, di pescare nelle loro contraddizioni, nella loro essenza segreta. Là dentro si muovono forze creaturali capaci di rendere un uomo libero o schiavo di se stesso. Ma in tutti e due i casi egli è innocente. Come può uno scrittore lavorare con un personaggio senza un briciolo di luce ? Un Hitler tutto nero, insensatamente malvagio, rischia di diventare una caricatura, un burattino, la maschera del cattivo: niente di più schematico. Julien Sorel (protagonista di Il rosso e il nero), personaggio arrivista e assassino, è amato da Stendhal malgrado sia «negativo»: lo scrittore ne descrive con pietas il desiderio frustrato di adeguarsi alla morale della Restaurazione francese. Se volessimo dunque raccontare la malvagità di Hitler, sia come uomo che come dittatore, senza «salvarlo» in qualche modo, saremmo costretti a farne un ritratto bugiardo. Quindi è meglio trovare un'altra strada, una maniera «trasversale» di raccontare il personaggio. Magari, come avevo accennato, cercando un altro protagonista e lasciare che sia lui a farlo. L'esempio ci mostra chiaramente quanta distanza ci sia tra le intenzioni, chiarissime, e i risultati diversi a cui le convenzioni del linguaggio ci possono condurre. Lo scrittore lavora con materiali che, in rapporto all'idea iniziale, viva nell'astrazione della fantasia, sono limitati. E proprio entro questi confini linguistici devono inserirsi e svilupparsi tutte le sue capacità evocative.

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Già la necessità di un conflitto, indispensabile a ogni drammaturgia, rende impossibile la rappresentazione della felicità pura. La felicità coincide sempre con il superamento di un conflitto. Prendiamo una qualsiasi storia d'amore. Anzi, prendiamo la coppia più felice del mondo: i due si amano al di là dell'immaginabile, si stimano, si rispettano, sono fedeli e incantati uno dall'altra, stanno bene in salute e sono circondati solo dalla bellezza. Nulla può farli smettere di sorridere. Il loro racconto non sarebbe altro che la descrizione di un'estasi, una successione di quadri idilliaci che presenta e ripete sempre la stessa realtà di fondo: che i due sono felici. L'importante è non fare intervenire neanche una zanzara, perché essa porterà fatalmente con sé il germe del male. Ma d'altronde, per poter raffigurare la felicità, è necessario mostrare che l'infelicità esiste. Si può descrivere il piacere del bere solo dopo aver mostrato le angustie della sete. La drammaturgia inizia il giorno in cui il diavolo offre la mela a Eva. Dunque per raccontare il Bene non si può fare a meno di raccontare il Male. Non conosco storie d'amore senza strazio: dalle Affinità elettive ad Anna Karenina, da Carmen a Lolita, da Jane Eyre a Love story, da Casa di bambola alla Lettera scarlatta, da Madame Bovary a Paolo e Virginia, da Teresa Raquin alla Signorina Giulia. La fine è lieta - nei rari casi in cui l'amore trionfa - proprio perché la storia non è stata lieta affatto. Paradossalmente si può raccontare solo il male, sempre che resti viva l'idea del bene. D'altra parte il bene è un mito, una sorta di immagine fissa, statica; il male invece «cammina», compare e scompare, è insidioso, talvolta necessario, e veste molti abiti, può iniziare con un dolorino al fianco e finire nella tragedia. Ma può anche affacciarsi con un dramma tenebroso e dissolversi perché attaccato da ogni parte. Il piccolo e sfumato cerchio dentro cui uno scrittore inventa le sue storie non ha confini. Là dentro egli

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28 vede il tutto da lontano o il dettaglio da vicino, o il tutto da vicino, in un lampo, e il dettaglio da lontano, dal più innaturale punto di vista. Egli si focalizza su una singola situazione, inquadra un solo volto, oppure fa scorrere velocemente tutti i possibili racconti per trovare quello giusto. Può reinventare l'intero pianeta e altri pianeti, può fissare a lungo la prima ruga che affiora sul viso di una donna. In una parola usa il sesto senso, che sa vedere ogni cosa in tutte le sue dimensioni, in tutti i suoi spessori: psicologici, ideologici, religiosi, politici, sociologici, patologici, eccetera. Nessun linguaggio è in grado di restituire nella sua complessità ed interezza il sistema di segni che forma l'immaginario umano. I linguaggi artistici, nella povertà dei loro mezzi, tentando di riprodurlo, creano una sorta di mitologia del reale, nella quale vanno a specchiarsi le cose segrete e rimosse del vivere. La primissima idea di un lavoro creativo (di un romanzo, di un film, di una commedia, ecc.) è appena una luce che si accende, per un attimo, sull'opera d'incanto già compiuta. E una prefigurazione. Da quel momento lo sforzo dello scrittore sarà quello di trovare tutti gli elementi in grado di ricreare quell'immagine perfetta, scolpita nella memoria ma troppo lontana per poterla ricostruire in ogni parte. Il suo sarà un lento avvicinarsi a quella intuizione mitica, assoluta (forse anche sbagliata). In quella intuizione sta il novanta per cento di tutta l'attività creativa di un artista. Se si potessero sommare assieme i momenti di creazione pura che uno scrittore (grande quanto si voglia) sperimenta in tutta la sua esistenza, non si arriverebbe neanche a cinque minuti. Tutto il resto è machine, lavoro quotidiano, falegnameria, talvolta perfino routine. E bene che l'apprendista scrittore entri in quest'ordine di idee e lasci dentro lo zainetto della scuola l'edificante idea dell'artista che crea in preda a perenne ispirazione. Se c'è qualcosa di casuale in un'opera è l'illuminazione iniziale. Da quel momento, come ho detto,

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dopo aver trovato un filo rosso narrativo e stilistico, il lavoro si fa sempre meno accidentale. Mi viene in mente un libriccino bellissimo scritto da Federigo Tozzi nel 1915 e intitolato Bestie. L'ho riletto alcuni anni fa con 10 spirito di una spia che fotografa di nascosto le armi del nemico. Ho cercato di carpirne il segreto narrativo, ecco a quale conclusione sono arrivato. Bestie è una raccolta di 68 raccontini nei quali, a un certo punto, ma spesso alla fine, compare l'immagine inattesa di un animale. In molti si son chiesti quale rapporto ci sia tra queste bestie e il contenuto delle storie. Gli animali infatti sembrano apparire gratuitamente, senza nessun legame con la trama. I critici hanno parlato di vincolo casuale, di casualità voluta: il mistero del gratuito sarebbe la proiezione di un'inspiegabilità dei fatti umani da parte dello scrittore. Tali incomprensibili apparizioni ci dovrebbero dire lo stato d'animo di un escluso, di un poeta «invaso da un senso di estraneità tra se stesso e gli altri». L'animale, per Tozzi, sarebbe «l'altro», che lui non capisce e di cui non saprebbe giustificare la presenza. Questa spiegazione non mi convinceva e comunque non rispondeva alla seguente domanda: «D'accordo, ma perché qua una lumaca e là un asino e non viceversa ?» Per cercare la risposta ho abbandonato la mia postazione e mi sono avventurato all'interno del testo portando con me qualche strumentazione narratologica e ho scoperto che non è vero che non ci sia nessun rapporto tra le apparizioni delle bestie e il racconto. Al contrario, la relazione è di assoluta identificazione: 11 narratore è di volta in volta gli animali che alla fine compaiono. Essi si oggettivano, illuminati da una luce improvvisa, un lampo della coscienza. E come se una bestiola, a un certo momento della vita, a un tratto, si trovasse davanti a uno specchio e si domandasse: «Chi è costui ?» Ma proprio in quell'istante lo specchio diventa il narratore, che vede l'animale che lo guarda. Leggiamo ad esempio il secondo racconto: lo scrit-

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30 tore immagina di trovarsi in un tinaio, in un luogo cioè pieno di vecchi barili, travi e legni. Vede una tavola di sorbo e si ostina a volerne ricavare un tagliere. Raccoglie una sega e si mette al lavoro, ma l'impresa risulta difficile: i denti non ce la fanno a scalfire il legno. Li arrota, passa alla lima, ma niente. Allora afferra un'accetta... insomma egli si muove in mezzo a tanto legno come un tarlo, ruminando e seminando segatura. Si fa largo nell'oscuro tinaio per trovarsi poi davanti al naso, all'improvviso, in fondo a un buco a spirale, bianco e spaventato, proprio un tarlo. Se stesso. Questo tipo di procedimento Tozzi ha adottato nella stesura dei suoi raccontini, in maniera più o meno evidente. Nel quinto episodio, alla fine del quale compare una lumaca, il narratore deambula, quasi strisciando, solo e senza amicizie per le vie di Siena. Fa la strada più corta possibile, si muove rasente i muri, all'altezza delle pietre. Un panorama tutto visto dal basso, con gli occhi - si direbbe - di quella lumaca che nella conclusione egli scorgerà nascosta e riparata sotto la cannella della cucina. Il contrario succede nel primo racconto, quello dell'allodola: i panorami sono come visti dall'alto, «Dio mio, tutte queste case! » Mi fermo qui con la descrizione dei racconti e concludo. La bestia è sempre un punto di partenza e non un punto di arrivo. Gli animali sono per lo scrittore un dato pre-testuale per liberare letterariamente ciò che gli sta prigioniero dentro l'anima e comporre il ritratto di un personaggio «romanzesco». A mio avviso è un errore considerare quest'opera di Tozzi come un diario, disarticolato e discontinuo. Si è spesso ricorsi al frammento lirico per classificare questi racconti, ma non è cosi. Il procedimento utilizzato dallo scrittore è specifico del narratore e del narratore realista. Il progetto narrativo di Bestie mi sembra lampante. Il filo rosso che attraversa la segreta drammaturgia della raccolta, che lega il prima e il poi, esiste ed è da individuare nei movimenti della bestia. Naturalmente non si può dimenticare che gli animali sono esseri dalla logica

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enigmatica, stravagante preistoria di ogni uomo. Tozzi «entra» nell'animale, assume i suoi occhi, le sue movenze e trova subito uno stato d'animo, un'angolazione dello sguardo altrettanto enigmatica, uno stile. Il resoconto del mio piccolo viaggio tra le bestie di Federigo Tozzi vuole soprattutto suggerire un sistema per scoprire i segreti di uno scrittore e quindi per aumentare le nostre conoscenze della macchina narrativa. Uno studente chiese a Thomas Eliot quale fosse il suo metodo di lavoro. Il grande poeta e critico gli rispose: «Il metodo consiste nel prendere in esame una poesia piuttosto nota... nell'analizzarla verso perverso e ne II'estrarre, spremere, filtrare, pigiare ogni goccia del suo significato. Si potrebbe definire il metodo dello spremilimoni». I segni della realtà: Vextratesto. Ma torniamo a noi. Quando dobbiamo scrivere una storia che abbiamo in mente, riraccontarla nel linguaggio che abbiamo scelto, conviene costruire, pezzetto per pezzetto, su una invisibile lavagna, la realtà mitica che la ispira, che sta dietro, e che nella nostra fantasia è pluridimensionale. Il referente mitico è ciò che mette in contatto lo scrittore con chi legge, lo sceneggiatore con il pubblico in sala; è l'elemento di comunicazione, fatto di ambienti e personaggi riconoscibili, di una lingua parlata da tutti: è materiale che appartiene alla cultura di un'epoca, alla contemporaneità, e che ha già al suo interno una sua costellazione di segni. Tutti questi dati impliciti (e necessari) formano l'extratesto, ciò che non c'è bisogno di spiegare o raccontare in quanto parte del sapere comune. Faccio un esempio: un siciliano con la scoppola e la lupara - figura che tutti subito identifichiamo come caricatura del picciotto mafioso - è un segno che non ha bisogno d'artifici: esso è già ben radicato nella memoria dello spettatore, al di là del testo. E quand'anche volessimo contraddire quel segno raccontando che si trat-

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32 ta di un innocente cacciatore, saremmo comunque costretti a tener conto che di primo acchito quell'uomo è stato scambiato per un picciotto. E fintanto che gli elementi extratestuali rimangono vivi nel pubblico continuano a «raccontare»: quando scompaiono dalla realtà finiscono per diventare muti. Non è un caso che molte commedie italiane di stagione, varcate le frontiere, non fanno più ridere: la sovrabbondanza di segni extratestuali rende incomprensibile ogni allusione: una satira sul signor Bossi o un ammiccamento al dottor Buttigliene fanno sorridere solo chi conosce Bossi e Buttigliene: già a Chiasso ogni ironia cade nel vuoto. Uno dei problemi più delicati dello scrittore è proprio il lavoro sull'extratestualità, cioè sulla fragilità dei segni impliciti. Per capire meglio la questione basta pensare a un romanzo storico o a un film in costume: qui lo scrittore rischia di meno, i segni della contemporaneità si riducono considerevolmente. Il pubblico cinematografico americano, ad esempio, non è disposto ad accettare Marion Brando nelle vesti di un personaggio della Spagna d'oggi, ma lo accetta volentieri nel ruolo di Antonio durante l'epoca di Giulio Cesare. La distanza storica spoglia l'attore di tutti i suoi connotati contemporanei, compresa la lingua che parla. Viene più volentieri accettato Giulio Cesare che parla in inglese piuttosto che Marion Brando in castigliano. Una parte di extratestualità è sempre e comunque presente in ogni testo, perché insita nella comunicazione stessa: in certi atteggiamenti, nei modi di dire e di fare sono impliciti alcuni dati della cultura da tutti conosciuti e condivisi. Il saluto con il pugno chiuso, ad esempio, non ha bisogno di spiegazioni. Ma un lettore che fra duecento anni incontrerà in un romanzo questo strano modo di salutarsi non potrà risalire immediatamente all'origine del gesto. Avrà bisogno di una nota a pie di pagina che spieghi la radice culturale di quel saluto. In fondo i filologi di oggi non fanno altro che tentare di ricostruire l'apparato extratestuale na-

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scosto dietro i contenuti e le forme retoriche e allegoriche dei libri antichi. L'ideale per uno scrittore è riuscire ad essere nello stesso tempo attuale e universale. E per far questo deve lavorare con segni il più possibile duraturi. Al contrario, come abbiamo visto per le commediole italiane, un uso abbondante di rimandi extratestuali rende l'opera troppo effimera, decifrabile solo a caldo. Non poco cinema della Nouvelle vague, cosi ricco del lessico allora contemporaneo, oggi risulta indecifrabile alle nuove generazioni. Per extratestualità va intesa anche l'urgenza di un'opera. Per urgenza intendo la necessità politica, ideologica, etica di un testo. Quando un artista è moralmente obbligato a denunciare la situazione tragica o un dato preoccupante della realtà obiettiva nella quale vive, si trova a dover conciliare questa urgenza con la vocazione dell'arte, la quale cerca le proprie espressioni al di sotto e al di là dei fenomeni sociali. Non può esistere un'opera anti-qualcosa se non pretestualmente. Le cose più belle di Leonardo Sciascia sembrano puntare l'indice contro la società mafiosa e invece si abbandonano al sentimento geometrico della verità e del mistero, dove l'enigma del potere (e le sue metafore) assumono una centralità più solida rispetto alla denuncia. L'arte non sempre è più alta nelle nazioni con maggiori urgenze sociali e politiche. Dove regna una dittatura l'artista, impegnato come cittadino, non può fare a meno di cercare la libertà. Ma un prezzo lo deve pur pagare. La comicità che costituzionalmente tiene fuori da sé ogni dimensione sociale è autorizzata ad agire più liberamente rispetto alle urgenze. E non è un caso, come vedremo più avanti, che la comicità si esprime meglio nelle società dal potere fortemente centralizzato. L'impegno, insomma, appartenendo alla sfera della moralità civile, è materiale extratestuale e va quindi gestito con estrema cautela per non correre gravi rischi,

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34 i più pesanti dei quali sono la retorica e la «riduzione» dei problemi. Con questo non voglio affatto dire che lo scrittore deve essere agnostico, cieco e sordo. Tutt'altro, deve soltanto non lasciarsi accecare e assordare dai problemi sociali, andare più alla radice dei fenomeni. Kafka è riuscito come nessun altro a raccontarci l'alienazione dell'uomo contemporaneo senza mai usare questo termine. Immaginare fuori dal linguaggio. Non sempre l'idea prefigura una storia o una situazione immediatamente propizia a una drammaturgia. Qualche volta è solo un sapore, un accostamento di colori, un sentimento lancinante, un clima vago, oppure l'abbozzo di uno stile. Sempre però essa contiene, più o meno espresso, un conflitto. E sarà proprio questo conflitto a dar vita a una drammaturgia: non esiste drammaturgia senza conflitto, e viceversa. L'idea di una storia può essere concepita o già all'interno delle convenzioni di un linguaggio, o nell'astrazione dello «spazio mentale». Può venirci cioè l'idea direttamente per un film o per un romanzo già immaginata nel linguaggio visivo o letterario, oppure possiamo avere l'idea di una bella storia (che presupponiamo avvenire nella realtà) e poi passare a svilupparla in un preciso linguaggio. I film che presentano qualche difficoltà ad essere riassunti oralmente, affascinanti per personaggi, immagini, fotografia, costumi, scenografie, come ad esempio quelli di Federico Fellini, sono stati senz'altro concepiti con spirito «visionario», tutto figurativo. Sono idee che prima di cercare un conflitto, una storia, scavano nelle emozioni, trasfigurano i ricordi, gli stati d'animo. Fellini usava la sceneggiatura come un calepino dove sono solo appuntate le scene. Cambiava molto durante le riprese e soprattutto in fase di edizione: nel doppiaggio modificava quasi completamente (spesso radicalmente) il dialogo. Gli importava talmente poco del-

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la drammaturgia che agli attori, qualche volta, invece di far dire le battute chiedeva di snocciolare numeri: più tardi avrebbe trovato le parole adatte. Le conflittualità arrivavano quasi da sole, e avevano sempre a che fare con una visione da mascarade della realtà, stravolta, filtrata dalla memoria, immaginifica. Era più un pittore che un narratore, creava straordinari affreschi su una sottile linea narrativa. Non è un caso che i suoi film, cosi poco psicologici, somiglino ai fumetti o alle opere comiche. Lo stesso discorso vale per tutti i testi teatrali fortemente vincolati alle convenzioni del palcoscenico: è evidente che in questo caso il drammaturgo trova l'idea muovendo la fantasia dentro uno spazio a tre pareti. Faccio l'esempio personale di un'idea concepita pensando alla realtà e di un'altra tutta cinematografica. Parlo del film di Gianni Amelio, Colpire al cuore, e del film scritto con Roberto Benigni, Il mostro. Nel primo caso si tratta di un'opera sul terrorismo realizzata durante gli anni di piombo: Amelio ed io ci siamo guardati intorno e abbiamo inventato la storia di un giovane moralista che consuma una sua sorda vendetta ai danni del padre denunciandolo alla polizia per una presunta attività terroristica. Nel secondo caso l'idea vive sul gioco di malintesi provocato dal diverso sguardo di due macchine da presa: quello obiettivo del film e quello parziale, «bugiardo» dei poliziotti che spiano di nascosto un uomo sospettato di essere maniaco sessuale e assassino. Qui la drammaturgia fonda i suoi presupposti proprio sul linguaggio cinematografico: è un'idea nata per lo schermo. Quando lo scrittore, trovata l'idea, passa al lavoro di costruzione narrativa, alle singole situazioni, al dettaglio, per non restare soffocato dalla meccanicità del linguggio recupera la tridimensionalità, immagina liberamente la storia nel più vasto spazio mentale, lontano da ogni convenzione linguistica. Solo nel momento di trovare le soluzioni drammaturgiche si porrà il problema della migliore trasposizione possibile; quando si comincia a elaborare il racconto punto per punto, è indispensabile andare nel chiuso delle convenzio-

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36 ni (dello schermo, del palcoscenico, della pagina scritta o del microfono) e trovare le sintesi narrative più opportune. Se abbiamo un'idea subito «perfetta» per un film, tutta concepita sul piano visivo, il processo creativo in fase di costruzione del racconto conserverà fatalmente la sua radice cinematografica. Lo sceneggiatore, senza quasi accorgersene, cercherà tra le immagini quelle più felicemente trasferibili sullo schermo. L'evocazione è sempre il passaggio dalla supposta pluridimensionalità del referente (della realtà immaginata nello spazio mentale) alla tridimensionalità del teatro, alla bidimensionalità del cinema o del fumetto, alla unidimensionalità della letteratura o della radiofonia. Le convenzioni e gli artifici dei linguaggi sono infatti inventati per restituire la pluridimensionalità originaria nella quale abbiamo immaginato il racconto. La teoria che presiede ad argomenti siffatti è ben più vasta e articolata dello schema sbrigativo che fin qui ho delineato. Tuttavia, allo scrittore utente di tutti i linguaggi che prevedono l'uso della parola, questo abbozzo sommario può essere ugualmente utile; se non altro perché mette l'accento sul fatto più importante della scrittura. Chi scrive dovrebbe da un lato avere una profonda conoscenza e coscienza dei diversi linguaggi e dall'altro non dimenticare mai di evocare le dimensioni che ogni linguaggio costituzionalmente esclude. Egli deve «far vedere» con la radio; «far udire» con il cinema (muto); «far udire e far vedere» con la letteratura, cioè con le parole senza suoni, scritte e non recitate. La coscienza linguistica. Non tutti i film sono «cinema», non tutti i romanzi sono «letteratura», non tutti i testi teatrali sono «teatro» e cosi via. Un materiale filmato nella casua-

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lità è difficilmente cinema, cosi come non basta raccontare per iscritto come abbiamo trascorso le feste natalizie per dire che stiamo facendo letteratura. Per distinguere uno scritto «cartaceo» da uno letterario, un filmato qualsiasi dal cinema, bisogna vedere come sono state utilizzate le convenzioni del linguaggio e le loro potenzialità evocative. In poche parole ci dobbiamo chiedere se l'autore ha lavorato conoscendo a fondo il mezzo espressivo che ha usato. In un racconto riuscito ci accorgiamo che il narratore ha saputo evitare molte trappole, tra le quali le più temibili sono la «piattezza» narrativa e la trascuratezza stilistica. Chi ha un po'di fiuto sente quando la scrittura «sfugge» al narratore, quando procede in modo sfilacciato, in balia di se stessa. Se non c'è consapevolezza degli artifizi, se non c'è gioco, né ironia (distanza critica), il materiale risulta amorfo, lettera morta. Nel romanzo non è certo il bello scrivere a fare letteratura. E nel cinema quasi mai la bella fotografia fa un film. Molti giovani che iniziano a scrivere non conoscono ancora il linguaggio che usano, guidano la macchina narrativa senza patente e spesso sono convinti che la letteratura, il cinema vengano da soli, semplicemente scrivendo. Ma non è cosi. L'esempio di Hitler mostra chiaramente che lo scrittore - anche scaltro - deve costantemente fare attenzione perché la scrittura non sempre lo porta dove lui vuole andare. Anzi tra narratore e materia narrativa si instaura una sorta di competizione che sempre, alla fine, ha un vincitore. Se ci illudiamo di descrivere un Hitler cattivo e alla fine ci rendiamo conto che - senza volerlo - è venuto fuori buono, significa che lo scrittore ha perso la partita. Un giovane alle prime armi non sospetta nemmeno di dover ingaggiare una lotta «contro» la propria scrittura. Egli non possiede ancora una sufficiente coscienza linguistica; non ha ancora familiarizzato con le convenzioni del linguaggio e resta vittima della scrittura, la quale gli chiede soluzioni narrative e stilistiche che non sa im-

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38 mediatamente trovare. E quando sente di «andare in barca», l'istinto lo porta a regredire nelle proprie esperienze personali, perché crede di «restituirle» bene, perché sono ricche di sentimenti autenticamente vissuti, perché popolate di luoghi e personaggi sperimentati e cristallini, apparentemente facili da descrivere. In una parola egli, non sapendo trarre dal linguaggio le idee, non sapendo suonare lo strumento della scrittura, trova sicurezza nell'autobiografia. L'atteggiamento è sbagliato perché la prima cosa che uno scrittore deve imparare è «uscire da sé» e assumere i panni di personaggi diversissimi e lontanissimi da lui. Solo in questo modo potrà trovare un lessico e una lingua per ogni personaggio. Altrimenti, come spesso succede, si utilizza una sola lingua, la propria e la si mette in bocca a uomini, donne e bambini, indistintamente. Senza contare che non esiste forma narrativa con più rischi di piattezza narrativa dell'autobiografia. L'autobiografia è in assoluto il genere letterario più difficile da affrontare. Lo scrittore deve imparare a lavorare «contro natura». Non deve cioè «adagiarsi» sulla propria lingua, sulle proprie esperienze, perché oltre tutto rischia lo scarso controllo della drammaturgia, calato com'è in un racconto che spinge fatalmente a una struttura narrativa di tipo cronologico: m'è successo questo, poi m'è successo quest'altro e quest'altro ancora. Per creare un minimo di distanza con i personaggi sarebbe bene esercitarsi a lungo a scrivere in terza persona. Cioè, invece di «Ricordo mia nonna, era bellissima, si chiamava Teresa...» sarebbe opportuno scrivere: «Teresa era una donna bellissima, e aveva una struggente passione per suo nipote...» L'atteggiamento distaccato che pretende la terza persona è in ogni caso assolutamente necessario se ci si dedica alla elaborazione di radiodrammi, al cinema o al teatro: lo scrittore è costretto a «identificarsi» con personaggi diversi tra loro e in forte conflitto, ognuno con il proprio lessico, il proprio mondo culturale, il proprio passato (background).

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Prima e terza persona. Cerchiamo di individuare quali sono le caratteristiche di queste due modalità di scrittura e quali le differenze per quanto riguarda la drammaturgia. '* Partiamo dal dato più importante (e anche più occulto). Mi riferisco alla sintassi e al tono di voce del narratore. La scrittura, infatti, mima sempre la voce di qualcuno. E il personaggio che ha quella voce è sempre e comunque il protagonista della vicenda che essa narra, anche se, come nel caso della terza persona, non si vede. Egli è il protagonista immobile, nascosto, e ci sta raccontando, indirettamente, com'è fatto, secondo lui, il mondo. Il tono del suo parlare, la scelta del taglio narrativo, il tipo di descrizione che utilizza per presentare un ambiente o un personaggio, lo stile che adotta, la vicenda che propone al lettore, connotano una precisa personalità, offrono un punto di vista. Il lettore stabilisce con lui un rapporto silenzioso, inespresso, ma con uno spirito debole, di chi ancora non sa e vuol sapere. E anche nei racconti in prima persona non bisogna confondere lo scrittore con l'io narrante: quest'ultimo è sempre un personaggio inventato. Anche nei casi più conclamati di autobiografia, la distanza tra chi scrive e l'io che racconta è sempre incolmabile. E questo perché, appunto, siamo all'interno di un linguaggio dalle cui convenzioni non è possibile prescindere. Le convenzioni creano una realtà altra rispetto alla presunta verità dei fatti narrati. Chi scrive lo sa e affida la propria «verità» al tono di voce, allo stile, ai lapsus, alle modalità narrative, alle divagazioni, eccetera. Lo scrittore e il narrante sono sempre personaggi diversi, senza contare poi che, a parte la più fedele delle autobiografie, quasi mai autore e personaggio sono la stessa persona. Dunque colui che si siede al tavolo per scrivere una storia ha subito una grande questione da risolvere: de-

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40 ve decidere di chi sarà la voce che parla. Tranne una qualche scelta stravagante, le possibilità sono soltanto due: la prima e la terza persona. Vale a dire un io che racconta una vicenda di cui è stato protagonista (o testimone); oppure un io neutro, impersonale, che si limita a riferire fatti accaduti ad altri. Da un punto di vista narrativo i due modelli propongono testi radicalmente differenti. Nel primo caso il narratore non potrà raccontare se non ciò che ha vissuto o visto personalmente, o gli è stato riferito: la narrazione segue il percorso del protagonista, cosi come lui dice di aver vissuto la vicenda. Nel caso della terza persona, invece, il narratore è onnipresente e onnisciente. Egli è sempre là, in ogni situazione e conosce vita morte e miracoli di ogni personaggio. E demiurgo e tessitore, può decidere di saltabeccare da una situazione all'altra con libertà. Andrà bene come esempio un tipico romanzo dell'Ottocento come il grande affresco corale de / miserabili. E evidente che nel caso della prima persona il mondo rappresentato, essendo frutto di una «soggettiva», non possa non proporre che una visione relativa, faziosa, stravolta della realtà, filtrata attraverso il personaggio che «parla», tanto precisa quanto limitata dalla sua personalità. Viene subito in mente l'ininterrotta soggettiva di La coscienza di Zeno di Italo Svevo, dove il mondo esiste solo nello sguardo interiore disturbato e patologico del protagonista. Al contrario nella terza persona il mondo appare come un dato di fatto, con i connotati dell'oggettività. L'invisibile narratore imbastisce la trama, sceglie di passare da un personaggio all'altro nei momenti che giudica opportuni, e cosi facendo disegna un universo dalla logica prestabilita. L'ordine con il quale allinea la sequenza dei capitoli è speculare a una visione del mondo. Una stessa storia, infatti, può essere raccontata in maniera diversa, seguendo un diverso percorso. Ognuno di questi tracciati corrisponde a un diverso punto di vista in merito al destino degli uomini. Non solo, lo

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scrittore in terza persona, possedendo il dono dell'ubiquità, nello spazio e nel tempo, nei sentimenti e nei pensieri, nel cuore e nella testa di tutti i personaggi, organizza il materiale narrativo fino a portarlo implacabilmente al finale voluto, dove anche le ambiguità sono una scelta a tavolino. La sua è la figura del classico drammaturgo, egli imposta e mette in scena i conflitti in gioco. Il suo riferimento fisso, il punto d'appoggio della trama è sempre il lettore, a lui rivela i segreti, segreti che al momento opportuno svela anche ai personaggi che agiscono nella storia. Insomma lo scrittore che opera in terza persona ha il vantaggio di poter orchestrare sentimenti inconfessabili e rivelazioni tra fraintendimenti e menzogne, di organizzare al millimetro i colpi di scena. L'uso della terza persona era il più congeniale all'Ottocento perché allora non esisteva scrittore che non avesse un'idea precisa, sistematica e ideologica del mondo. La dinamica dei conflitti si svolgeva sotto una costellazione di valori consolidati, in uno zodiaco di riferimento pedagogico identificabile senza malintesi anche se non sempre accettato. Lo scrittore era il Vate, il suo tavolo da lavoro stava al centro di un universo nel quale Bene e Male, buoni e cattivi, giudizi e pregiudizi occupavano posti stabiliti. In letteratura dietro a ogni visione del mondo non c'è solo lo scrittore, ma uno stile. La Commedia umana di Balzac è il tentativo di una rappresentazione completa dell'epoca che va dall'ultima Rivoluzione a Luigi Filippo. A ispirarne la scrittura è un'attenta quanto accorata analisi storica, politica e filosofica della realtà francese del xix secolo. La letteratura fu per il grande scrittore uno strumento di indagine storica. Le parti in cui Balzac ha diviso la sua immensa opera stanno ad indicare la sua vocazione all'affresco sociale. Egli usa il termine «studi» {Studi dei costumi, Studi filosofici, Studi analitici) per titolare i tre nuclei narrativi databili tra il 1829 e il 1847. Le scene della vita campagnola o cittadina, della vita politica o

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militare forniscono al lettore un quadro complessivo e straordinario della società del tempo. Ma quasi tutto il romanzo ottocentesco (che riprende e approfondisce lo spirito documentario e la indagine critica dei costumi della narrativa del Settecento) inserisce la singola vicenda dentro la più vasta cornice della storia. Da Stendhal, che descrive i conflitti dell'individuo con la società, a Tolstoj, a Zola, a Dickens, a Verga, a Cechov... che disegnano centinaia di personaggi culturalmente condizionati e resi vittime dalla comunità civile. Gli uomini si illudono di vivere fino in fondo nella libertà, ma sono mossi dall'alto sopra una piccola scacchiera senza averne alcuna coscienza. Il desiderio di varcare questa invisibile, impossibile, metafisica barriera è narrato nei romanzi avventurosi di Melville o di Stevenson, o negli scritti di Gogol' e Poe, sempre inquieti e misteriosi. La terza persona con cui è scritta la maggior parte dei romanzi è la più adatta per evidenziare il contrasto tra l'obiettività della storia e le illusioni del singolo individuo. Il Novecento invece è fortemente segnato da romanzi scritti in prima persona. Questa forma si adatta alla descrizione di personaggi che nel mondo si sono smarriti. L'individuo, in crisi d'identità, descrive un universo visto in soggettiva. Il mondo non esiste più nella sua forma unanimemente riconosciuta, ma è il riflesso, la proiezione di una soggettività contraddittoria. Sigmund Freud, con la scoperta dell'inconscio, e l'industrializzazione, con i nuovi modi di produzione, hanno mandato in frantumi ogni immagine totalizzante e autoritaria del mondo. Il personaggio di un racconto in prima persona non agisce solo secondo logiche culturali ma è abbandonato a se stesso, determinato dal proprio inconscio. Più tardi, al tempo dell'eco/e du régard (corrente letteraria francese degli anni Cinquanta e Sessanta che elimina ogni psicologia dai personaggi: Alain Robbe-Grillet ne fu il padre) e di Samuel Beckett, per intenderci, la prima persona è stata estremizzata, fino ad annullarsi: la voce narrante registra la

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realtà come una semplice somma di oggetti e di persone. La drammaturgia viene sostituita dalla reiterazione, da una visione parassitaria, casuale del mondo. E l'epoca in cui, in teatro, la parola conosce la sua più grave crisi: la gestualità tenta di riempire il vuoto che le parole sembrano fatalmente aver creato. La sincronia ha avuto la meglio sulla diacronia, vale a dire che il tempo è un tutto presente e che i fatti non sono più portatori di senso: ciò che li origina è destinato a rimanere nell'oscurità. La metonimia. Da un punto di vista poetico, sia la prima che la terza persona presentano vantaggi e svantaggi in egual misura. Ho voluto soltanto mostrare le differenze tecniche più vistose tra le due forme di scrittura. Manca un'ultima precisazione, ma è abbastanza significativa, e introduce un altrotermine da tenere a mente. Alludo alla metonimia. E una figura retorica (designazione di una «cosa» qualsiasi con il nome di un'altra «cosa» che sia legata alla prima in un rapporto di reciproca dipendenza: nella frase «bevi un bicchierino» si nomina il contenente al posto del contenuto), ma in narratologia ha un percorso particolare: le due «cose» compaiono a distanza di luogo e di tempo e il procedimento retorico è volutamente mascherato. La metonimia narrativa è come una miccia che si accende e che esploderà più tardi, è un segnale che promette uno sviluppo. Un piccolo episodio che sembra esaurirsi nel momento ma che in seguito darà origine a un risvolto della narrazione è appunto una metonimia. E opportuno ricorrere ad alcuni esempi: se in una storia, a un certo punto, compare una boccia di veleno, possiamo star sicuri che più avanti risalterà fuori; se un bambino vede di nascosto il padre che infila una rivoltella in un cassetto, senza ombra di dubbio arriverà il mo-

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44 mento in cui il bambino prenderà in mano quella rivoltella. Il fazzoletto di Desdemona darà origine a più di una metonimia; all'inizio della Tosca il cattivo Scarpia raccoglie il ventaglio della marchesa Attavanti nella chiesa di Sant'Andrea della Valle dove il pittore Cavaradossi sta lavorando, e prima di mostrarlo a Tosca, innamorata dell'artista, dice in un a parte: «Per ridurre un geloso allo sbaraglio / Jago ebbe un fazzoletto e io un ventaglio! » Un presago sospetto si insinuerà nel seno di Tosca. Poi verrà fuori il paniere vuoto lasciato nella cappella dal fuggiasco Angelotti, e questo oggetto darà a Scarpia la certezza di una complicità tra l'evaso e il pittore: una serie di piccoli banali incidenti serve ai librettisti Illica e Giacosa per portare avanti la trama. Grazie a questi semplici meccanismi metonimici lo scrittore crea una forte situazione drammatica e ci racconta i rapporti che legano un personaggio all'altro. In qualche minuto, presenti tutti i protagonisti della vicenda, il dramma è impostato. Pochi racconti sono altrettanto prepotentemente metonimici come quelli del melodramma. E questo perché il racconto musicale ha bisogno di una griglia semplice e forte sulla quale impiantare la musica con le sue commoventi varianti melodiche. I temi musicali, che ritornano a ricordo di emozioni già descritte, sono anch'essi metonimie, legano il momento al tutto. Ci sono quindi racconti più metonimici di altri. Il racconto giallo, ad esempio, cosi ricco di indizi seminati qua e là, è fortemente metonimico: nella prima parte vengono - come si dice in gergo - tese molte molle, che scattano tutte via via nella seconda parte. Ora, nei racconti biografici o picareschi o on the road o di viaggio, l'uso della metonimia è molto più debole. La narrazione ha un'andatura episodica, con poche possibilità di «ritorni». Nella prima persona, proprio perché lo scrittore non abbandona mai il suo eroe, si trova nell'impossibilità di seminare indizi a sua insaputa. A meno che il suddetto eroe non sia qualcuno che per mestiere (dunque un poliziotto o un investigatore in

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senso lato) va a caccia di indizi lasciati da altri, cercando di decifrarli insieme al lettore, in generale il racconto in prima persona non ha vocazione metonimica. Fìnta terza persona. Esiste una terza possibilità, un'altra modalità di scrittura che chiameremo discorso libero indiretto. Di che cosa si tratta? Di una finta terza persona. O meglio di una terza persona che però sceglie come partito preso di non abbandonare mai il suo eroe. E una terza persona che agisce come una prima persona. Il narratore scrive si: « Teresa era una donna bellissima, e aveva una struggente passione per suo nipote...», poi però segue Teresa passo passo e qualora debba descrivere il nipote lo fa in presenza di lei e usando il lessico della protagonista. Lo scrittore fa sua la lingua del personaggio principale e la utilizza per esprimere pensieri e raccontare azioni e rapporti. Regredisce insomma nel personaggio e rappresenta la realtà cosi come lui la vede. Il narratore, pur restando apparentemente fuori dai personaggi, rinuncia alla piena obiettività seguendo uno solo di loro e portandolo in giro per il racconto: registra soltanto le situazioni che il protagonista vive direttamente. Egli sceglie cosi un punto di vista dal sapore obiettivo, ma interno alla narrazione: parlerà attraverso il parlante. Inquadriamo per un momento un soldato che finalmente torna a casa da una lunga e sanguinosa guerra. Lo vediamo di spalle appoggiato al finestrino del treno. Oltre il vetro scorre la campagna e la voce dello scrittore la descrive. In un racconto in terza persona pura ciò che si vede fuori è obiettivo e prescinde dal personaggio: la campagna ha i segni di una natura ignara e tranquilla, muta testimone delle crudeli ingiustizie della storia millenaria. Nel libero indiretto invece ciò che si vede fuori altro non è che la proiezione psicologica del soldato. Se questi è triste e stanco, de-

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46 presso o in lutto, su prati e casolari cadrà probabilmente una pioggia stanca e triste, e il cielo sarà implacabilmente grigio. Se, al contrario, il giovane palpita dalla voglia di ricominciare a vivere, l'erba e gli alberi saranno fioriti e i contadini lavoreranno i campi, allegri e sorridenti, e i colori saranno più brillanti. La realtà rappresentata è quella del personaggio. Cosi se lo scrittore deve delineare un ambiente lo farà attraverso lo sguardo del protagonista. E evidente che prima di ogni altra cosa si calerà completamente nei panni dell'eroe scelto. Lo deve conoscere alla perfezione, sia da un punto di vista sociologico che psicologico e caratteriale. Ma resta formalmente voce narrante, neutrale rispetto al protagonista: tutto quanto appare e vive nel racconto sembrerà per forza di cose oggettivo. Le descrizioni, i pensieri di questo o quell'altro personaggio, le divagazioni narrative risulteranno come indipendenti dal protagonista. Ma non è cosi, nella finta terza persona tutto - compresi gli altri personaggi - è proiezione della soggettività dell'eroe: il lettore però non se ne accorge, benché la narrazione abbia un'andatura quasi da prima persona, con una sola voce che invade un po' tutto. Nel libero indiretto, infatti, non può esistere altro che il punto di vista di un personaggio, e solo di quello. Che cos'è una pseudo-soggettiva? Il termine appartiene al linguaggio del cinema: è una sorta di figura sintattica dell'arte visiva. La illustro in poche parole. Osserviamo sullo schermo il viso di qualcuno stravolto dall'emozione che guarda davanti a sé, verso il pubblico. Nella inquadratura non sappiamo ancora cosa questa persona stia guardando: la macchina da presa (cioè lo sguardo dello spettatore) fissa, oggettivamente, uno volto: questa inquadratura si chiama infatti oggettiva. Sparisce quel viso e compare un'altra inquadratura in cui si vede un elefante spiccare il volo. La convenzione cinematografica vuole che l'elefante sia l'oggetto guardato dal personaggio di prima. Questo piano si chiama soggettiva. È infatti il soggetto dell'inqua-

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dratura precedente che guarda l'elefante. Il pubblico, dato che gli elefanti non volano, si pone queste due domande: l'elefante vola davvero? il personaggio ha le traveggole? La risposta ce la offre la terza inquadratura. Se questa mostra contemporaneamente la persona di schiena e l'elefante in volo, torna a essere oggettiva, cioè non vista da altri personaggi ma direttamente dal pubblico, come se questo si trovasse là, alle spalle del personaggio, nella posizione della macchina da presa. In tal caso il personaggio sta vedendo un elefante che «effettivamente» vola. Se invece viene inquadrato l'elefante che pascola tranquillamente, il pubblico non ha dubbi: il personaggio ha avuto un'allucinazione. Invertiamo l'ordine della sequenza, vediamo cioè per prima cosa l'elefante che vola: 1) un elefante si alza in volo: oggettiva 2) una persona lo vede e sobbalza: pseudo-soggettiva (nella stessa inquadratura ci sono sia il soggetto che guarda che l'oggetto guardato). Conclusione: sta oggettivamente avvenendo qualcosa di straordinario. Se poi vogliamo rinforzare questo effetto basta inserire nell'inquadratura alcuni passanti che scappano spaventati. Azzardiamo il seguente schema: 1) la scena si compone di due inquadrature: a) la persona vede... b) ... l'elefante che vola. E un brano narrativo in prima persona '. 2) La scena racconta l'accadimento eccezionale di un elefante che vola davanti allo sbalordimento del protagonista e in mezzo alla paura dei passanti. E un 1 Sono stati girati film tutti in soggettiva di un personaggio (in prima persona), come A Womanin theLake (1946), di Robert Montgomery, tratto da un romanzo di Raymond Chandler. La macchina da presa si identifica con Io sguardo de! protagonista, il famoso detective Philip Marlowe, il quale si vede una sola volta perché riflesso in uno specchio. Anche la prima parte di Dark Passage (1947), regista Delmer Daves, e raccontato attraverso lo sguardo del protagonista: Humphrey Bogart nel ruolo di un uxoricida che, evaso dal carcere, cambia i connotati della faccia con un'operazione di chirurgia plastica.

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48 racconto in terza persona, dove il protagonista vede le stesse cose che vedono gli altri personaggi. 3) La scena si svolge in tre inquadrature: a) si vede un personaggio che vede... b) un elefante che vola; c) il pubblico poi vede il personaggio che vede un elefante che vola. Si rimane con un dubbio: ci si trova davanti a un fatto portentoso oppure il protagonista ha le traveggole ? E la scena di un film narrato in stile libero indiretto. Vi farò più avanti l'esempio di un film girato con questa tecnica: si tratta di Vertigo di Alfred Hitchcock. Nel racconto letterario in finta terza persona avviene qualcosa di analogo: la vicenda è tutta narrata con inquadrature pseudo-soggettive. Ciò che avviene intorno al protagonista è ambiguamente per metà oggettivo e per metà soggettivo. Il protagonista vive all'interno di un mondo lessicale diverso da quello dello scrittore il quale, per dargli vita deve «mimetizzarsi» in lui. Il lessico che lo scrittore assume come proprio appartiene invero al personaggio. Ecco perché descrizioni, divagazioni e pensieri non possono essere espressi se non attraverso la matrice stilistica e lessicale del protagonista. E gli altri personaggi non parlano «oggettivamente», ma come il protagonista li ascolta. Per capire bene questo concetto basta pensare a quando riferiamo ciò che qualcuno ci ha detto il giorno prima: con il nostro lessico cerchiamo di ricostruire il discorso di qualcuno che in realtà ha un lessico tutto diverso. Se ad esempio vogliamo riferire gli insulti con cui un automobilista meridionale ci ha aggredito, mimiamo il suo atteggiamento e usiamo, storpiandole, le nostre parole come fossero di quell'altro. Ne vien fuori una lingua che per metà è nostra e per metà dell'aggressore. Il pensiero di un personaggio descritto in stile indiretto sarà il risultato di un pastiche, dove la lingua dello scrittore si camuffa in modo da sembrare quella del pensante. Questo stile di scrittura, che, come ho più volte detto, tende ad escludere il lessico dell'autore (e quindi il

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suo mondo culturale), implica un atteggiamento «democratico» nei confronti del mondo, significa calarsi nell'altro, comprenderne tutte le ragioni, la vita, i sentimenti. L'ideologia o comunque la centralità di un sistema di pensieri (come nella terza persona ottocentesca) trovano qui un terreno poco fertile, in quanto il quadro sociale nel quale agiscono i personaggi è disegnato da loro stessi. Manca un riferimento esterno. Ho fin qui parlato di racconti con un solo protagonista. Ma il libero indiretto può essere utilizzato anche in storie corali, con più protagonisti. Allora il problema che si pone è questo: chi avrà la responsabilità dell'unità lessicale? Quale sarà la lingua «soggettiva» della scrittura? Il discorso libero indiretto può essere usato come successione (e/o alternanza) di «punti di vista» nell'arco della narrazione. La scrittura dei Promessi sposi, in una convenzionale lingua del Seicento, muta stile con i personaggi in gioco nei diversi episodi. L'autore modifica i materiali linguistici facendone di volta in volta un uso mimetico. E decide quando «staccare» da una scena e in quale andare. In questo caso, però, la voce che fa da connettivo, che si inserisce tra un portatore di lessico e l'altro, si propone come la lingua neutra della terza persona classica, la quale prende toni di cronista super partes. Naturalmente quanto più presenti saranno questi interventi «esterni» tanto più la vicenda si caratterizzerà come «racconto esemplare»: l'ombra di un destino lontano e invisibile incombe sui protagonisti. Nei Malavoglia, scritto in libero indiretto, i protagonisti sono pescatori di Acitrezza. Verga non assume mai uno sguardo esterno a quel mondo, veste i panni dei suoi personaggi, indossa la loro personalità e si guarda intorno. In questo modo ogni personaggio vive solo come visto da un altro. E nessuno di loro (come anche il lettore) ha cognizione dell'esterno, del contesto obiettivo nel quale è calato quell'universo di poveri pe-

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50 scatori che consumano da sempre un'esistenza cruda. Verga non interviene mai con un giudizio morale o affettivo, ma utilizzando una sintassi «mimetica» accetta con loro il destino. Torniamo per un momento al caso di un solo protagonista per un'ultima annotazione. Succede spesso che lo scrittore per qualche momento venga meno al suo impegno di non allontanarsi dal protagonista. Ma quando lo fa è sicuramente per andare in un luogo in cui, comunque, del protagonista si parla. La sua assenza fisica viene sostituita da una presenza implicita. Insomma egli continua ad essere protagonista anche quando non c'è. Una tale trasgressione è sempre lecita perché formalmente la scrittura è in terza persona. Ma perché non si infranga il tono di «soggettività obiettiva» di tutto il contesto, è necessario che il protagonista sia sempre in qualche modo partecipe. Ma attenzione al tono della scrittura: se il lessico e lo stile restano invariati si può supporre che il protagonista (che di quel lessico e di quello stile è portatore) nella scena in cui non c'è sia idealmente presente. È lui infatti che in qualche modo tira le fila, visto che la voce narrante è la stessa di prima, cioè la sua. Se invece la voce cambia tono, stile e ritmo, il lettore ha la netta impressione di un brusco passaggio alla terza persona pura. In questo caso egli è di fronte a un colpo di scena, o, più precisamente, a un'immagine «oggettiva» della realtà, che contraddice la soggettività fin li vigente. Il libero indiretto viene tradito proprio in quel punto della storia. Il narratore ha come tolto la parola al protagonista e si è sostituito a lui nella narrazione. Torniamo a Teresa e a suo nipote. Il giovane descrive la nonna a qualcuno. Nel quadro successivo la nonna si occupa dell'orto parlando con il giardiniere. Se nella terza situazione e nella quarta lo scrittore continua a «stare» con Teresa, allora anche il primo quadro apparterrà a questo gruppo di scene e il racconto

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prefigura la donna come protagonista. Se invece nel terzo e nel quarto quadro lo scrittore ritorna al nipote, sarà lui il portatore lessicale della storia e quindi il protagonista. Nel caso in cui, invece, c'è alternanza apparentemente casuale di scene (una volta con la nonna, una volta con il nipote o con tutti due insieme) e a un certo punto un terzo personaggio, magari il giardiniere, litiga con la moglie in casa sua per ragioni estranee ai protagonisti, il lettore prenderà ideale «contatto» con il narratore (con colui che sceglie i quadri) e il racconto avrà la forma della terza persona pura. Colpo di scena. Un aspirante scrittore, leggendo un libro «in terza», dovrebbe provare a capire se si trova o no davanti a un testo scritto in indiretto libero. E un esercizio che lo abitua a leggere libri e film con occhi diversi, da falegname della scrittura. Scoprirebbe che dietro al succedersi dei capitoli e delle scene è sempre nascosta una macchina narrativa più o meno sofisticata. Se cominciasse a chiedersi come ha fatto (tecnicamente) lo scrittore a creare un particolare effetto drammatico, si allenerebbe ad acquisire quella indispensabile coscienza linguistica di cui ho parlato. Ad esempio ci accorgiamo che un colpo di scena, cioè il ribaltamento repentino di una vicenda, si può ottenere passando bruscamente alla terza persona pura in un racconto che fino a quel punto si presentava in libero indiretto. Lo scrittore, infatti, non abbandonando mai il protagonista, ha fatto credere (ha creato l'illusione a quest'ultimo e al lettore) che quanto fin li accaduto è la realtà delle cose. D'improvviso egli, «staccandosi» dal protagonista e andando a «vedere» obiettivamente la verità dei fatti, rivela un'altra realtà, del tutto inaspettata, quella autentica. Autentica perché, come ho già detto, il racconto in terza persona (dove lo scrittore non si nasconde dietro al personaggio) si svol-

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52 ge sempre in una realtà oggettiva. In questo caso il colpo di scena si verifica grazie a un tradimento stilistico: lo scrittore interviene pesantemente nella storia e, per la prima volta, decide di distrarre gli occhi dalla sua «creatura». Dunque il colpo di scena si basa su una rivelazione e la rivelazione è sempre un dato oggettivo che sorprende il protagonista (e il lettore che è stato sempre con lui). Qualcosa è avvenuto o avviene lontano dal personaggio, a sua insaputa. Vale a dire che il mondo apparso fino a quel momento come coerente e conseguente rivela un'alterità, una possibilità non prevista che getta una luce nuova su tutta la costruzione, la contraddice nel suo fondamento. Come dire: la realtà non si esaurisce nell'apparente. Dietro ogni proiezione psicologica si muove una verità segreta e nascosta al protagonista che può di colpo irrompere nel suo chiuso universo: su un orizzonte tutto visto in soggettiva la realtà oggettiva è sempre in agguato e può da un momento all'altro irrompere con tutta la sua violenza. Un colpo di scena tende a ribaltare i ruoli dei diversi personaggi in gioco. Chi ad esempio sembrava cattivo si rivela buono e viceversa. E logico che ogni rivelazione si nutra di una precedente «reticenza». Il momento in cui avviene la rivelazione lo sceglie il narratore. Questo significa che prima, per comodità narrativa, egli «sapeva ma non diceva». Del colpo di scena faccio un esempio cinematografico, tratto da un film di Hitchcock che molti conoscono: Vertigo (La donna che visse due volte), ispirato al romanzo D'entre les morts di Pierre Boileau e Thomas Narcejac. Si vedrà come il colpo di scena avviene grazie a un secco passaggio dal libero indiretto (racconto in pseudo-soggettiva) alla terza persona classica. Riassumendo velocemente la trama cercherò di svelarvi l'artifizio del colpo di scena. Chiedo solo al lettore, per facilitarmi il compito, di identificare la macchina da presa con la penna dello scrittore. Dunque la

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macchina da presa «sta addosso» a Scottie (James Stewart), un ex poliziotto che soffre di vertigini perché tempo prima, durante un inseguimento sui tetti, un suo collega, per salvarlo da una brutta situazione, è caduto nel vuoto e ha perso la vita. Il povero Scottie, rimasto traumatizzato e preda di un terribile senso di colpa, ha lasciato il distintivo e fa vita da pensionato. Ma è rimasto prigioniero di un inguaribile horror vacui, di un'angosciosa fobia del vuoto. Un bel giorno, un vecchio, ricco amico «che non vede da secoli», tal Gavin Elster, lo manda a chiamare. La macchina da presa va con lui in casa dell'amico. Questi incarica l'ex poliziotto di sorvegliare la moglie Madeleine (una magnifica, indimenticabile Kim Novak) che da qualche tempo è misteriosamente attratta dal suicidio. La donna, in preda a strambe fissazioni, crede di essere vittima delle malie di una bisavola vissuta nel secolo scorso. Scottie accetta: i due si stringono la mano, e quando l'ex poliziotto esce, esce con lui anche la macchina da presa. Se questa fosse rimasta in casa di Elster ci saremmo trovati in un racconto in terza persona e l'obiettivo ci avrebbe svelato l'arcano. Ma siccome, per il momento, è Scottie con le sue vertigini ad essere inquadrato, nelle scene successive vedremo i pedinamenti del mite ex poliziotto, sempre a discreta distanza dall'elegantissima Madeleine. La donna, nel suo etereo vagabondare per la città, finisce in un museo e si ferma davanti al ritratto di una signora dell'Ottocento. Si ferma a fissarlo a lungo. La macchina da presa inquadra la donna in soggettiva e in pseudo-soggettiva. Il pubblico vede che Scottie vede che Madeleine vede pendere dal collo della signora del ritratto un prezioso, scintillante pendaglio. La macchina da presa fotografa, come visto dal pedinatore, il pendaglio che sta al collo di Madeleine: è lo stesso del quadro. Questo dettaglio, attenzione, ha la funzione narrativa di una metonimia: è cioè un indizio che darà i suoi frutti più avanti. Dunque Madeleine è sempre vista attraverso gli oc-

LA COSTRUZIONE DEL RACCONTO 54 chi dell'ex poliziotto, secondo i modi del libero indiretto. Dopo qualche scena la vaghezza di lei, il non riuscire a conoscerla per quello che realmente è, il doverne osservare solo le movenze e la bellezza avvolgono il personaggio in un clima di grande fascinazione. E il pubblico non si meraviglia affatto quando Scottie comincia a innamorarsi. Il pubblico stesso si innamora con lui della donna. Più tardi avverrà il «contatto», quando lui la salva dall'annegamento dopo che lei in un irresistibile impulso suicida si è gettata nell'acqua del fiume. Per fortuna la banchina è bassa e Scottie si tuffa senza accusare i sintomi della vertigine. Ma un brutto giorno la bellissima donna sfugge all'ex poliziotto e corre verso una chiesuola bianca. La macchina da presa non va con lei, resta ad osservare l'angoscia di lui. Ma dopo un attimo di smarrimento, l'uomo la rincorre e entra in chiesa. Lei sale precipitosamente la scala che porta verso la sommità del campanile. Lui prova a salire qualche gradino, ma, ahi noi!, ecco riaffiorare il vecchio male: le vertigini. Non ce la fa: tutto vortica intorno a lui, la testa gli gira a mille. La macchina da presa gli sta sempre «addosso», come ha sempre fatto dall'inizio del film. E li per vedere se Scottie riuscirà a salvare la donna. Purtroppo il poveretto resta pateticamente paralizzato sulla scala. E nel bel mezzo dei giramenti di testa vede, oltre un'arcata del campanile, il corpo di Madeleine che precipita inesorabilmente nel vuoto. Finisce qui la prima parte. Nella seconda il nostro amato James Stewart è veramente ridotto male. I funerali della donna avvengono durante la sua degenza in clinica e chiudono una brutta vicenda in cui lui, l'ex poliziotto, ha fatto solo da impotente testimone. E se egli già viveva con il senso di colpa per la morte del collega, ora le sue condizioni mentali sono spaventosamente peggiorate. Non si rassegna. Ora gira per la città, in balia di se stesso, nella pazza quanto vana ricerca della sua Madeleine.

55 DA LONTANO Ecco che un giorno, deambulando insensatamente per i marciapiedi, vede una ragazza, Judy Barton (è sempre lei, la stupenda Kim Novak): resta di sasso, la somiglianza con la donna suicida è sorprendente, benché Judy appaia più volgare, terrigna, le labbra accese da un rossetto forte, i fianchi ben tondi, l'abito dozzinale. Scottie riesce ad avvicinarla e, sempre in preda al delirio, se ne innamora. La macchina da presa continua a stare con lui, e con lui sale nel piccolo e squallido appartamentino di Judy, nel centro della città. I due si soffermano un momento, lei sembra turbata: quell'uomo forse le piace. Lui resta pochi istanti, poi si dirige verso la porta e se ne va. Ma attenzione: per la prima volta in tutto il film la macchina da presa, incuriosita più da lei che da lui, rimane nell'appartamento. La porta si chiude e la macchina da presa resta là e lentamente si gira per osservare le mosse di Judy. La sorprende in un'espressione improvvisamente cupa, preoccupata e insieme innamorata. Con movimenti quasi clandestini l'obiettivo si avvicina alla ragazza mentre questa apre uno scrigno. Attenzione un'altra volta perché sta per scattare il secondo termine della metonimia seminata all'inizio del film: tra le dita di Judy compare un pendaglio che scintilla alla luce proveniente dalla finestra. E la prova oggettiva: Judy e Madeleine sono la stessa persona. Lo spettatore rimane di stucco: eppure l'ha vista volare giù dal campanile. E dopo un momento si chiede: com'è possibile, chi era allora la donna precipitata dal campanile? Hitchcock ce lo dice subito. Ho nominato il regista perché in effetti ora è proprio lui a prendere in mano il filo del racconto: la storia infatti, da questo momento, prende smaccatamente la forma della terza persona. La vicenda passa direttamente nelle mani del narratore: finora la macchina da presa non aveva fatto altro che seguire passo passo il protagonista. E cosa fa il regista ? Si avvicina al volto di Kim Novak, come a voler entrare nella sua testa, nella sua memoria, e fa partire il flashback della morte: mostra di nuovo, cioè, la scena della tragedia, cosi come lei la ricorda.

LA COSTRUZIONE DEL RACCONTO 56 Dunque: Madeleine corre verso la chiesa. Scottie, dopo un momento di incredulità, si precipita per cercare di fermarla. Lei sale le scale che portano in cima al campanile. Anche lui sale le scale, ma le vertigini lo bloccano. Ecco però che la macchina da presa non si ferma accanto all'ex poliziotto. Sale su in cima per fotografare il suicidio della donna (e per la rivelazione del mistero). Si ferma a debita distanza, per inquadrare una scena sorprendente: sulla terrazza, ad aspettare la ragazza c'è l'amico di Scottie, il ricco Gavin Elster. Questi tiene immobilizzata una donna che indossa lo stesso abito di Madeleine e mentre Kim Novak raggiunge la terrazza, l'uomo spinge di sotto la sua vittima, che vola con un urlo nel vuoto. La terza persona ci racconta insomma come sono andate realmente le cose. Judy era l'amante di Elster, il quale aveva trovato il modo per liberarsi della moglie (che ovviamente Scottie non aveva mai conosciuto). Judy aveva preso i panni della vera consorte di Elster perché Scottie, impossibilitato dalla sua malattia a seguirla fin sopra al campanile, potesse essere il testimone del suicidio della povera moglie dell'amico. Risolto l'enigma, grazie al passaggio dal libero indiretto (realtà soggettiva delle cose) alla terza persona (realtà oggettiva), il regista da questo momento è autorizzato a «portare» la macchina da presa dove vuole, accanto a Judy o a Scottie, secondo le esigenze del racconto che ora si muove non più su un protagonista soltanto, ma su due. La nuova domanda che a questo punto il pubblico si pone è: quando James Stewart si accorgerà dell'inganno, e come ? Questo esempio ci mostra che una drammaturgia si basa su un gioco di segreti e rivelazioni che ha come punto fermo il lettore (o il pubblico). E una partita a tre le cui coordinate sono in mano al narratore. Le rivelazioni sono possibili quando il lettore possiede un numero maggiore di informazioni rispetto ai singoli personaggi. La metonimia del medaglione ha rivelato al pubblico che Madeleine e Judy sono la stessa perso-

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na, ma Scottie ancora non lo sa: il pubblico è in possesso di un'informazione che il protagonista ignora. E il pubblico viene anche a sapere che lei è stata complice di un assassinio. Ho detto che non c'è drammaturgia senza conflitti. Bene, il colpo di scena, rompendo un equilibrio, avvia la soluzione del conflitto. Nel finale di Capitan Fracassa (il famoso romanzo di Théophile Gautier), quando il protagonista Sigognac duella con il Duca, l'antagonista che gli ha rapito la sua innamorata Isabella, si scopre che il suo acerrimo nemico altri non è che il fratello dell'amata. A questo punto ogni conflittualità si dissolve e con essa la storia. In questo caso il colpo di scena, addirittura una agnizione, cancella un'inimicizia che ha tenuto in piedi l'intera vicenda. Qui Gautier risolve il problema ricorrendo alla figura del deus ex machina: il padre del Duca e di Isabella entra in scena all'improvviso e blocca sul più bello i duellanti rivelando la verità. Deus ex machina. Il deus ex machina è un intervento provvidenziale che giunge dall'esterno, non metonimico, cioè non preparato. Costituisce un «trauma» narrativo, un'irruzione strumentale, funzionale. Questa figura compare in molti racconti, ma in genere non giunge a risolvere il finale. Interviene nella narrazione con discrezione e sempre per far conoscere un pezzo di verità a un qualche personaggio; dà un'informazione utile al racconto, e scompare. In questo caso più che di colpo di scena si deve parlare di piccola rivelazione, relativa a uno solo o a più personaggi, oppure diretta al lettore. Faccio un esempio. Nella Morte di Ivan ll'ic, lo straordinario racconto di Tolstoj (ritornerò più avanti su questo testo per metterne in controluce la macchina narrativa e mostrare quanta «falegnameria» c'è dietro a una storia) a un certo punto un personaggio mai visto prima, il co-

LA COSTRUZIONE DEL RACCONTO 58 gnato del protagonista, entra in casa di Ivan, rivela ai congiunti che il padrone di casa è «oggettivamente» malato e se ne va sparendo definitivamente dal libro. Da quel momento si modifica il rapporto tra Ivan, la moglie e i figli. Il cognato, personaggio del tutto irrilevante nel dramma di Ivan e della sua famiglia, è tuttavia l'artefice di un importante snodo narrativo. Un bravo scrittore sa usare bene la tecnica narrativa, le metonimie e ogni pretestualità funzionale, ma sa anche «nasconderli». Il suo più grande sforzo è proprio quello di sviare il lettore, di confondergli le idee, di creare falsi percorsi, di sbiadire lo schema: in due parole di mascherare la struttura narrativa. Un intero episodio può svolgersi ed esaurirsi là, magari scritto semplicemente per delineare un carattere. In verità esso può nascondere una metonimia, un tirante che più tardi, inaspettatamente, scatterà. E il caso dei cosiddetti tormentoni, che compaiono nel genere comico. Il personaggio scivola su una buccia di banana e va comicamente a gambe all'aria: la situazione (gag) finisce là. Lo spettatore non ci pensa più. Qualche tempo dopo, però, inaspettatamente, il comico s'imbatte sul marciapiede in un'altra buccia di banana: ecco allora che ritorna di colpo nello spettatore l'immagine della prima caduta, ormai sepolta nella memoria. Il personaggio scivola di nuovo esattamente nello stesso modo. E chiaro, a questo punto, che ci sarà una terza buccia di banana, ma è anche chiaro che questa volta le cose andranno diversamente: l'ultima gag concluderà il disegno comico. Il personaggio, con un bel sorriso tra le labbra, salta mirabilmente la buccia di banana, ma finisce con la faccia contro un palo della luce di cui non si era accorto. L'equilibrio perduto. E importante imparare dunque a uscire da sé; a far propri lessici che non ci appartengono, a inventare per-

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sonaggi lontani da noi; a cercare le impalcature più adatte alle nostre idee; a organizzare una drammaturgia; a governare i conflitti e a nascondere «i trucchi del mestiere», eccetera eccetera. E si è visto come un racconto di tipo biografico o cronologico o picaresco comporti delle difficoltà nella disseminazione delle metonimie. Con ciò, ripeto, non voglio «diminuire» questo genere narrativo che ha una tradizione straordinariamente nobile. Trovo tuttavia necessario che un giovane che voglia imparare l'arte della narrazione (non solo letteraria) debba cimentarsi con storie e scritture apparentemente distanti dal suo mondo, con spirito quasi professionale. Sono convinto che saper fare le cose che non si vogliono fare aiuta a fare bene quelle che si vogliono fare. Una storia è composta di personaggi, di ambienti, di oggetti e di un tempo durante il quale si svolge. E al contrario di quanto i più pensano, non è vero che un autore fa sempre la stessa opera, anzi, ogni opera vuole un suo autore. Il narratore deve adattare la propria scrittura all'idea che intende sviluppare. Se poi queste idee pretendono tutte lo stesso stile, come talvolta succede, è un'altra questione. Ci sono narratori che scrivono allo stesso modo i loro libri e narratori che di volta in volta cambiano pelle. Per comodità chiamiamo scrittori i primi e narratori i secondi. Ma non è di questo che ora voglio parlare. La premessa è per introdurvi, fin dove è possibile, nell'universo delle strutture narrative, nei modi di costruire una vicenda partendo dal principio che ogni storia, essendo popolata di specifici personaggi, ambienti, oggetti, eccetera, richiede particolari stili e modalità narrative. Insomma proveremo adesso un volo d'uccello sulla costruzione di un racconto, al di là del personale stile di scrittura che ha ognuno di noi. Mentre nella letteratura la «storia» (il plot) può non essere decisiva per la qualità dell'opera, nelle altre arti che implicano una scrittura essa ne è il fondamento. Se uno scrittore intende lavorare anche per il cinema,

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60 il teatro o la radio, non può fare a meno di mettere in piedi strutture narrative «forti». Le morfologie narrative (o più esattamente le loro molteplici varianti) sono tante. Parto dal principio che ogni idea deve avere uno sviluppo narrativo suo proprio, originale. Le opere cosiddette «di genere» (avventura, giallo, commedia brillante, favola, eccetera) con il tempo hanno finito per creare una serie di «luoghi deputati», di appuntamenti fissi che ritornano sempre. Nel giallo è quasi d'obbligo la scena del delitto, lo sviluppo delle indagini e la punizione del colpevole. La favola racconta un viaggio nel meraviglioso alla ricerca della felicità perduta. L'avventura vuole sempre scene d'azione con scontro mortale tra protagonista e antagonista. La commedia brillante è immancabilmente una goffa e incongrua storia d'amore, con tanto di bacio finale. E vero che nel momento in cui studiamo il modo di sviluppare una storia finiamo quasi sempre per ritrovarci in un genere che preesiste all'idea, e quindi con una serie di morfologie già pronte, ma è anche vero che uno scrittore vorrebbe scrivere qualcosa di mai scritto prima. E qui cominciano le insidie: spesso costruendo il plot non ci si accorge di aver imboccato binari già mille volte utilizzati. Vale a dire che procedendo secondo la logica narrativa più semplice, più naturale, si crede di dominare la materia e se ne è invece fortemente condizionati. Anche in questo caso vale l'esempio di Hitler: si vuol scrivere una cosa ma una struttura narrativa sbagliata (o meglio, subita) ti porta a scriverne un'altra. Premesso A vien logico B, e B ci porta subito a c, quindi D arriva implacabile. Tutto sembra facile e poi invece si realizza di aver copiato un'opera già fatta e digerita. Per questo lo scrittore deve sempre diffidare della prima idea che gli salta in testa: è forse la più giusta, ma è anche la più facile, e sicuramente è vecchia. Ecco allora che se si vuol tradire quello schema, uscire da una morfologia che le prime idee parassitaria-

6o DA LONTANO mente propongono, ci si accorge che le strade alternative non sono altrettanto agevoli. E inizia un lavoro paziente e minuzioso di «scalettatura». (La scaletta, croce degli scrittori - ma soprattutto degli sceneggiatori è la successione delle scene che costituisce il «filo rosso» della drammaturgia). Si inizia a «mischiare le carte» e a modificare situazioni topiche con varianti inedite e inaspettate. La solidità della storia vacilla ogni volta che dimentichiamo di inseguire la dinamica dei conflitti. Si potrà divagare quanto si vuole a condizione di non tradire i principi basilari della drammaturgica. Infatti se è vero, come è vero, che non devono mancare i conflitti, il racconto non potrà essere che la storia di uno scontro (o di un mancato scontro). Di conseguenza è necessario stabilire e definire le forze in campo, il livello del contrasto, tempi e modi della contesa, e la risoluzione del conflitto. Ognuno di questi grandi passaggi è fatalmente corredato da passaggi minori (dove compaiono personaggi minori) che servono per una efficace installazione del problema di fondo, cioè dei conflitti in contrapposizione. Provo a suggerire uno schema molto semplice, di quattro punti, i quattro punti cardine di ogni drammaturgia: a) impostazione del conflitto b) lotta tra gli elementi in conflitto c) crisi del conflitto (eventuale colpo di scena o risvolto della storia) d) risoluzione del conflitto. E evidente che la conflittualità non è necessariamente drammatica e non si svolge necessariamente tra due o più personaggi. Molte bellissime storie raccontano, per esempio, il conflitto tra un personaggio e il mondo che lo circonda, come nelle vicende di impiegati frustrati o di gente di provincia o come in tutte le storie claustrali (dentro carceri, manicomi, caserme, conventi, ecc.). La metamorfosi di Franz Kafka racconta la morte di un giovane (Gregorio Samsa), un mo-

LA COSTRUZIONE DEL RACCONTO destissimo impiegato, che si incarna in un insetto, cioè nella metafora di se stesso. Egli vive in un ufficio grigio, tra gente grigia e in una famiglia grigia come un insetto, come l'insetto nel quale l'ambiente lo trasforma realmente prima di ucciderlo. Spesso i conflitti con la realtà circostante sono rappresentati attraverso il racconto di una sorta di «deformazione professionale» del protagonista: questi è all'inizio perfettamente identificato nell'ambiente, poi lentamente se ne affranca (un po' o del tutto, di sua iniziativa o costretto dalle circostanze) e trova (o non trova) se stesso. Il film La convenazione di Francis Ford Coppola è la storia di un esperto in intercettazioni sonore che passa la vita ad ascoltare nell'ombra e a vendere i segreti di chi ha qualcosa da nascondere. La pellicola finisce con il protagonista che smonta pezzo a pezzo il proprio appartamento, sicuro che, da qualche parte, qualcuno ha nascosto un microfono: egli viene completamente divorato dal suo ambiente, vi impazzisce dentro. E il violento giustiziere non è forse un poliziotto troppo zelante? L'ambiente, di cui è una propaggine, continua a vivere in lui. Ma torniamo allo schema di prima e allarghiamolo un po' secondo la logica più elementare. Tanto basta per intravedere da lontano una possibile fabula, cioè un ordine «naturale», cronologico dei fatti (da non confondere con la trama, la quale è invece un ordine «artificiale» dei fatti, come la scaletta), la fabula più scontata, quasi archetipa: a) stabilire il conflitto in gioco b) creare i «portatori» del conflitto: protagonista e antagonista c) per precisare protagonista e antagonista (i due termini del conflitto) corredare l'uno e l'altro di personaggi minori che facciano emergere in entrambi i valori che dovranno contrapporsi: il buono regala una bambola a una bambina; il cattivo, da tutt'altra parte, recide un orecchio a un vecchietto. Bambina e vec-

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chietto sono personaggi minori che possono essere riutilizzati d) le due forze del conflitto sono una di fronte all'altra. Scatta il corto circuito e) i valori dell'uno vogliono imporsi su quelli dell'altro. E/o viceversa f) sta per vincere l'antagonista... g)... ma vince l'altro. A ben pensarci questo schema si adatta a un numero considerevole di storie, le quali, nonostante le epoche, gli ambienti e i generi, ripropongono una fabula che in qualche modo somiglia al percorso di un essere umano che passa dall'età adolescenziale a quella adulta. L'irrompere di una conflittualità, d'altra parte, crea uno squilibrio, speculare a quello di un adolescente che entra nel mondo degli adulti: ciò che dal punto di vista temporale viene dopo il trauma è il naturale tentativo di ristabilire un equilibrio. I racconti sono viaggi dentro un conflitto. E alla fine del viaggio nulla è più come prima. Da Pinocchio a Alice nel paese delle meraviglie, da Delitto e castigo a Lo sceicco bianco, da Don Chisciotte a Zelig l'avventura coinvolge personaggi che non sanno più vestire i loro panni e ne cercano altri. Il tesoro di molte storie, per il quale in molti si scannano, è meta di lunghi, dolorosi viaggi verso la ricchezza (che per tanti è sinonimo di felicità). La struttura narrativa profonda di gran parte delle storie inventate vede contrapposti uno di fronte all'altro un soggetto protagonista e uno antagonista che si contendono un bene prezioso. Vedremo poi come «il bene più prezioso» sia in realtà il superamento di una frustrazione. Ogni racconto prevede all'inizio la descrizione di un valore vitale inserito in un universo senza colpe. Il protagonista è il possessore di questo valore (un tesoro, l'innamorata, un figlio, un cane, la sua beata incoscienza...). Egli, malgrado le angustie della vita, è pacifico come un bambino, il mondo intorno è

LA COSTRUZIONE DEL RACCONTO 64 pieno di promesse e tutto sommato gli sorride. Il narratore ha tutto l'interesse a far si che il lettore si affezioni al protagonista, la cui felicità deve però essere saldamente vincolata al possesso di quel bene. Ma ecco che sopraggiunge il trauma: l'antagonista, direttamente o indirettamente, gli sottrae o gli distrugge l'oggetto della «felicità», compiendo la più grande ingiustizia pensabile. Nel caso in cui il bene venga sottratto all'eroe la storia verterà sulla riconquista dell'oggetto rubato. Nel caso in cui il bene viene «ucciso», la vicenda prenderà i connotati della vendetta. In entrambe le situazioni, comunque, il protagonista sarà mosso dall'oscuro desiderio di ristabilire un equilibrio perduto. La sua aggressività verrà utilizzata come strategia di rapporto con la realtà: vincere la battaglia significherà superare l'esame per poter sopravvivere nella dura vita degli adulti. Egli dovrà accettare di vivere nel peccato originale. Esempio di una struttura. In questa prospettiva l'apprendista scrittore può divertirsi a ripensare ai romanzi letti e ai film visti, con spirito artigianale, come il falegname che cerca di capire quale colla ha usato un collega. Si accorgerà che tutti i racconti, certamente con andatura e modalità diversissime, e mille varianti, seguono questa traccia sotterranea. Naturalmente il «bene prezioso» non è sempre immediatamente visibile, come non subito decifrabili possono risultare le tappe dell'ideale viaggio. Gli stessi valori che caratterizzano il conflitto possono essere impliciti, travestiti o metaforizzati. Se egli riesce a mettere a fuoco i termini del conflitto reale che muove i protagonisti e li insegue lungo il racconto, è nelle migliori condizioni per sbirciare nel laboratorio segreto dello scrittore con la esse maiuscola.

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Propongo adesso un esercizio. Se avete voglia e tempo provate a scrivere un racconto sulla base del seguente canovaccio. 1. Scegliete e descrivete nel suo ambiente un personaggio che sarà protagonista della storia: un soldato, un principe, una ragazzina povera, un contadino, un aviatore, ecc. 2. Immaginate il bene più prezioso (per lui) e descrivete il piacere che prova il protagonista nel possederlo e i benefici che ne trae, anche indiretti. Può essere un cane, un congiunto, un amuleto, un tesoro, l'amore, un aeroplano, un cappotto, ecc. 3. Raccontate come gli viene portato via: rapinato, rubato, sottratto con l'inganno, ecc. 4. Descrivete il dolore del protagonista, la sua disperazione: piange, s'ammutolisce, diventa cattivo, non dorme, fa brutti sogni, ecc. 5. Fatelo incontrare con qualcuno che conosce la terribile crudeltà dell'antagonista. E una persona che è stata ferita in uno scontro proprio con lui. Il vostro eroe lo cura e quello, quando finalmente può parlare, crea la leggenda negativa dell'antagonista: il nuovo amico (o amica) cerca di dissuadere il protagonista dall'andare a recuperare il suo bene o vuol trattenerlo perché se n'è innamorato, ecc. 6. Il protagonista parte comunque per l'avventura: non può farne a meno. Ma dovrà attraversare luoghi pericolosi: una foresta, una città violenta, un borgo insidioso, un mare tempestoso. 7. Inventate «storie esemplari» che avvengono durante il viaggio: brutti incontri in una locanda, nella strada notturna, con una setta misteriosa, nella suburra, in una grotta, ecc. 8. Finalmente il protagonista giunge alla meta, ma l'antagonista non c'è. Descrivete l'ambiente in cui quest'ultimo vive in modo da far capire che tipo è: una stamberga sporca, una bicocca vicino al cimitero, un castello fatato, una lurida pensione, ecc.

LA COSTRUZIONE DEL RACCONTO

66 9. Fate arrivare all'improvviso l'antagonista. Descrivetelo: è grasso e sporco, è coperto di croste, è biondo e bellissimo, è un gigante, un nano, un essere primitivo, il capo di una terribile banda di criminali, ecc. 10. Narrate lo scontro tra i due: il protagonista soccombe e il suo corpo malridotto viene gettato via: in un burrone, in una scarpata, nel fiume, nella discarica dei rifiuti, in un cortilaccio. Oppure viene legato, incatenato, ecc. 11. L'eroe sta per morire ma giunge provvidenziale l'aiuto di quel nuovo amico che ha tentato di dissuaderlo dal partire. Questi ripaga il suo debito curandogli a sua volta le ferite. E forse anche rivelandogli alcune debolezze dell'antagonista. 12. Il protagonista è guarito e si prepara ad affrontare di nuovo il nemico. Viaggio verso la resa dei conti. 13. La resa dei conti. Secondo duello: questa volta il protagonista vince e si riprende il suo bene prezioso. 14. Finalissimo anticlimax (brusco cambiamento di tono e atmosfera): finisce il dramma e torna per un momento l'allegria. Magari in compagnia del nuovo amico: un'amicizia che durerà per sempre. Questa è solo la traccia per una esercitazione, all'interno si possono inserire varianti con tutta libertà. Se poi, una volta conclusa la prima stesura, si prova a riscrivere daccapo il raccontino, verranno in mente dei miglioramenti, si troveranno soluzioni più originali rispetto a quelle suggerite dal canovaccio. Risulteranno di molto diminuite le preoccupazioni narrative e ci si potrà finalmente lasciar andare, liberare la fantasia nelle descrizioni dei personaggi, degli ambienti, delle situazioni. La griglia narrativa sarà in grado di sostenere qualsiasi invenzione, anche linguistica, perché comunque c'è una storia, un forte punto d'appoggio. Pur rovesciando valori, ruoli e atmosfere sarete certi di operare su un terreno solido.

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La fine all'inizio. Quando un narratore alle prime armi immagina una storia, se la vede passare nella testa secondo il naturale corso del tempo: succede questo, poi quest'altro, poi quest'altro ancora. Egli cioè pensa in termini di fabula. E vero che nella vita le cose si succedono a questo modo, senza un disegno prestabilito, senza un destino. Ma quanto viene raccontato dentro le convenzioni del linguaggio è una scelta degli episodi più significativi di una vita (o di una parte di essa); e non solo: questi episodi non sono necessariamente ordinati secondo cronologia. In cinema, ad esempio, non è raro l'uso del flashback, cioè di sequenze che narrano episodi avvenuti in precedenza. In narrativa il flashback si chiama retrospezione o analessi, ha un'articolazione complessa ed è figura narratologica di primaria importanza: interi capitoli, se non addirittura interi romanzi, sono il racconto di episodi già vissuti dai protagonisti (recuperi analettici). La trama è la ricostruzione «artificiale» (per mezzo di artifici) di una vicenda supposta realmente e linearmente accaduta. Il racconto di Vertigo poteva cominciare anche cosi: un signore vuole liberarsi della moglie e assume un ex poliziotto sofferente di vertigini, eccetera. In questo modo, addio suspense. Non solo, ma sapere in partenza che la bella Kim Novak non è altro che una volgare criminale, amante dell'amico di Scottie, toglierebbe alla ragazza ogni fascino e svuoterebbe la storia della sua magia. Proviamo adesso, alla luce di quanto abbiamo visto fin qui, la veloce analisi del racconto bellissimo di Tolstoj: La morte di Ivan Il'ic. E un esercizio utile per comprovare che dietro una bella storia c'è sempre un sapientissimo lavoro di costruzione e che per un narratore conoscere bene i «ferri del mestiere» è condizione non sufficiente ma senz'altro necessaria. Federico Garcfa Lorca, considerato all'epoca l'artista più ispi-

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68 rato, a proposito della sua poesia dichiarò: «Se è vero che sono poeta per grazia di Dio - o del demonio - lo sono anche per merito della tecnica e dell'esfuerzo, e perché so con certezza che cos'è una poesia». Faccio un brevissimo riassunto del racconto di Tolstoj. Siamo in Russia, anno 1882. Ivan ha 45 anni, è stato da poco promosso consigliere di corte d'appello. Il salto di qualità nella gerarchia del suo ufficio e nel prestigio di cui gode presso gli amici lo ha reso euforico. La sua vita intima, interiore è inesistente, occupata com'è dai rituali della professione, della società e della famiglia. Sta mettendo su la nuova casa quando, scivolando dalla scala, si fa male a un fianco. Li per li non dà troppo peso alla cosa. Ma quel dolore, giorno dopo giorno, si fa più acuto, fino a costringerlo a letto. Durante la malattia Ivan si rende lentamente e implacabilmente conto che sta andando diritto verso la morte. La moglie e i figli credono che quel malanno sia solo un suo capriccio, quasi un dispetto fatto a loro. E questo fatto acuisce il senso di tremenda solitudine di Ivan, il quale finisce per affezionarsi all'ultimo degli uomini, al suo servo Gerasim che fino a quel momento ha sempre ignorato. Il suo è un viaggio nella coscienza e resta agghiacciato quando scopre di aver trascorso la vita in un vuoto sordo e buio di valori. La morte, all'ultimo momento, per risarcire tanta sofferenza, gli regala un lampo di luce. Il duello contro la morte finisce con la morte, ma senza un vincitore. - È finita! - disse qualcuno su di lui. Egli senti quelle parole e le ripetè nel suo animo. «E finita la morte, - disse a se stesso. - Non c 'è pili». Aspirò l'aria, a metà del respiro sì fermò, si distese e mori Questa è la fabula. Vediamo adesso la trama. Il primo, determinante artificio narrativo di Tolstoj è far cominciare il racconto dalla fine: prende l'ultima scena e la mette all'inizio. Il primo capitolo infatti si apre nel palazzo di giustizia dove il giudice Pètr Ivanovic annuncia: «Signori! Ivan Il'ic è morto». Poi, subito, Tolstoj presenta l'ambiente in cui il «cadavere»

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ha trascorso gran parte della vita: da questa descrizione si capisce perfettamente chi era Ivan: un giudice arrivista e meschino come gli altri. E per costoro infatti la vera notizia non è tanto la morte del collega quanto la liberazione di una poltrona di prestigio: chi ha un cognato da trasferire, chi spera finalmente nella promozione, eccetera. Ivan viene dunque presentato in modo «indiretto». Più tardi il lettore entrerà nella casa del defunto insieme con Pètr Ivanovic. La scena è scontata: cordoglio, pianti, gramaglie. Fatta la visita il giudice risale in carrozza e, visto che è ancora presto, si fa portare a casa di un amico dove si sta giocando a carte. Finisce il primo capitolo. Dal secondo capitolo ha inizio la biografia del protagonista (analessi): La passata storia della vita di Ivan Il'ic era delle piti semplici e comuni, e delle più terribili. Lo spostamento temporale del primo capitolo - che nella successione degù' avvenimenti dovrebbe essere posto per ultimo - stende sul resto della narrazione «cronologica» - dell'agonia di Ivan, il drappo nero e pesante di un destino certo, matematico: la morte. All'inizio del racconto compare un personaggio che ha le stesse caratteristiche del protagonista: è quel Pètr Ivanovic, amico di studi di Ivan e giudice egli stesso, che va a far doverosa visita alla salma. Tolstoj sceglie cosi gli occhi attraverso i quali descrivere le esequie del defunto. Una scelta, come vedremo, attenta e importante. Con questi occhi il lettore osserverà il cadavere e la casa nella quale Ivan viveva, conoscerà la vedova e Gerasim, il servo. Comincia il secondo capitolo: scompare per sempre dal libro Pètr Ivanovic e compare il vero protagonista, con gli occhi aperti: è Ivan Il'ic «resuscitato». Il lettore segue le vicende di un uomo che di li a poco morirà «sicuramente», che anzi ha già visto giacere con le membra rigide nella bara. E un'informazione che solo lui possiede. Quando Ivan, ancora in buona salute, al colmo del-

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70 la felicità per i successi della carriera e per la nuova casa, dice: «Mi sembra d'avere 15 anni di meno», il lettore prova un sentimento di pietà, e quanto più il protagonista è felice tanto più cupa appare la sua gioia. Chi non avesse letto il primo capitolo - se cioè il racconto fosse stato «montato» secondo logica cronologica - non disgiungerebbe l'essere (Ivan in rapporto al proprio destino) dall'apparire (Ivan in rapporto alle sue «azioni»): l'esultanza di Ivan Il'ic non gli ispirerebbe alcuna pena. Ponendo in testa al racconto l'epilogo della storia Tolstoj fa si che il lettore riconosca in ogni «azione» del protagonista una vanità. E Ivan, nella sua esistenza quotidiana, si comporta come una persona altolocata, fa carriera, gozzoviglia... insomma «tutto va bene», se non si tiene conto di un comico ruzzolone giù dalla scala e del conseguente piccolo livido su un fianco: ecco, scatta la metonimia. Il quarto capitolo comincia cosi: « Tutti erano in buona salute». Da principio egli è dentro una bara, poi, con il passare delle pagine, «vive» una vita che nasconde a lui la morte. Ivan, malgrado il dolorino al fianco, è ancora lontano dalla verità del lettore. Con il tema della salute posto subito all'inizio del quarto capitolo, su quella verità si apre un primo squarcio. Mano a mano che la narrazione procede Ivan passa dal livello dell'essere a quello dell'apparire: apparirà sempre più moribondo, conoscerà sempre di più ciò che già noi sappiamo, apparirà sempre di più quello che è. E quando egli prende coscienza che per la sua malattia dovrà morire, il racconto desta nel lettore una nuova curiosità: come reagirà Ivan Il'ic a questa certezza assoluta, come morirà, con quale giudizio di se stesso ? Il lettore sa - informato sempre dal primo capitolo - che negli ultimi tre giorni «ha gridato senza tregua». Ma perché ha gridato ? E morto senza essere capace di rassegnarsi ? Ha gridato per i dolori atroci al fianco ? Non solo non grida per questi motivi, morirà senza paura, vedendo, nel fondo del sacco buio in cui è pre-

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cipitato, un chiarore. Dall'istante in cui le informazioni del lettore e di Ivan coincidono, lo spostamento temporale dell'inizio esaurisce la sua funzione: il racconto procede nella naturale successione dei fatti, ridimensionando ogni potere divinatorio di chi legge. La narrazione (dal secondo capitolo in poi) è divisa in due blocchi, di cui il primo ha una cronologia più distesa, il secondo una più serrata. Si racconta come la vita è bella e come è vana; e poi come la morte è brutta se la vita è stata vana. La seconda parte «cronologica» - quella più serrata distante dal primo capitolo, è temporalmente ad esso più vicina, precede di poco il rito funebre. Qui, verso il finale, emergono e maturano i semi narrativi (le metonimie) del primo capitolo, in cui Pètr Ivanovic è protagonista assoluto. Pètr, vivo e non malato, è vittima della sua vanità del vivere, come Ivan è vivo e non malato nella prima parte della narrazione «cronologica». Pètr Ivanovic mostra soltanto a questo punto la propria funzione narrativa: si svelano in maniera inequivocabile le ragioni oscure della sua presenza iniziale, del suo comportamento «ambiguo». Rivediamolo nel primo capitolo. Va a rendere omaggio alla salma di un amico, si turba: nell'espressione del cadavere sente «come un rimprovero o monito ai vivi»; ha paura di se stesso; quel monito gli sembra fuori luogo o che almeno non lo riguarda, eccetera. La figlia del defunto, daW «aria cupa, decisa, quasi irata», saluta Pètr Ivanovic come se ce l'avesse con lui, come se lo ritenesse colpevole di qualcosa; il ragazzo, figlio di Ivan, si fa scuro, lo guarda tra il severo e il vergognoso: la gioventù lo accusa. Perché egli sente «inconsciamente» una colpa? Ora lo sappiamo: perché è uguale a Ivan da vivo. E in tutto - anche nell'età - simile al defunto, sono stati studenti assieme, il loro posto di lavoro è lo stesso, entrambi amano il whist (il gioco delle carte), entrambi tengono molto alla casa (Pètr abita, invidiato, al di là del fiume), ecc. Ma all'interno di questo «cadavere vivente» vive la coscienza.

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72 A sottolineare questa vita soffocata dentro l'anima di Pètr c'è la testimonianza di un altro personaggio: Schwarz (le mani dietro la schiena che giocherellano con il cilindro). Anche lui magistrato, un morto ambulante, senza un barlume, una traccia di vitalità. L'unica paura che ha è di perdere l'appuntamento per la partita di whist. Pètr, nonostante tutto, è diverso da lui. Vedremo qua! è la funzione narrativa di questa «diversità», cosa ci promette. Due cose fanno star meglio Ivan: la regressione all'infanzia (il piccolo Vanja, le prugne secche, ecc.) e il servo Gerasim, che ha pietà di lui, che gli riconosce il diritto di essere trattato come un bambino. Ma d'improvviso, all'inizio del capitolo quinto, si presenta in casa di Ivan, come messaggero divino, il cognato (si pensi al cognato di Pètr che aspetta il trasferimento). L'arrivo di questo personaggio è come la comparizione di un teste in un'aula di tribunale, un pretesto letterario, il deus ex machina cui ho già fatto cenno. Il cognato arriva, ricorda al lettore che «oggettivamente» Ivan Il'ic è un uomo quasi morto. Poi sparisce dalle pagine per non ricomparire mai più. In realtà egli non viene chiamato in causa per ricordare qualcosa al lettore, ma per rivelare la verità, che il lettore conosce, a tutti i personaggi del racconto e in modo particolare ai membri della famiglia; comunica, semmai, al lettore che questa morte non può più essere nascosta a nessuno. Tutti, tranne Gerasim, reagiscono di fronte a questa terribile fatalità con l'inganno, con lo stesso abito menzognero di Pètr Ivanovic davanti al cadavere: rifiutano a se stessi come al malato la realtà della morte. Insieme formano una congrega, organizzano quasi una congiura contro di lui. Ivan Il'ic non è più solo vittima di se stesso, ma anche della menzogna che lo circonda e che lo ha sempre circondato senza che se ne avvedesse. Ha inizio un processo nuovo nell'animo di Ivan: la catarsi, che passa attraverso il rifiuto dei rituali fami-

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liari. Quand'è che gli altri (la moglie, i medici, ecc.) lo riconoscono veramente malato? Quando è diverso dal solito, quando dissacra i valori comuni. E lui che vuole essere malato, è sciocco, si comporta in modo assurdo; poggiare i piedi sulle spalle del servo di cucina è una sciocchezza insensata. Gli indizi con i quali è stato presentato Pètr Ivanovic nel primo capitolo, ora che il racconto volge al termine, fanno supporre che sia presente in lui il seme della catarsi. Ha un barlume di coscienza, un chiaro quanto vago sentimento di colpa, è degno del rifiuto dei figli... e degli oggetti (lo sgabello che gli si ribella sotto il sedere): è un sosia di Ivan, che la luce in fondo al sacco l'ha vista. La luce che alla fine vince la morte proviene da una fiammella sempre accesa che fa appena riconoscere le cose nell'oscurità della vita incosciente. Solo cosi si spiega la presenza (e la funzione narrativa) di un personaggio cinico come Schwarz. Egli sicuramente morrà senza accettare la morte, con un grido di disperazione. Egli è la menzogna fino in fondo, senza complessi e senza remore. La morte di Ivan Il'ic è anche la storia del destino di Pètr Ivanovic. Probabilmente quando la partita di whist sarà finita ed egli tornerà a casa, nell'appartamento al di là del fiume che i colleghi gli invidiano, si sentirà male. Il lettore che ignora questo straordinario racconto dovrebbe procurarselo - ne esistono anche ottime edizioni economiche, come quella classica di Tommaso Landolfi pubblicata nella Bur; ben curato è anche il volumetto dei Grandi libri Garzanti - per goderselo prima e per studiarlo dopo, alla luce di quanto detto fin qui. Dovrebbe essere abbastanza chiaro, a questo punto, con quanta maestria «laboratoriale» Tolstoj ha organizzato il lavoro drammaturgico del racconto e condotto il suo invisibile, muto discorso con ilkttore. Egli non lo dimentica neanche per un istante. E su di lui che misura ogni passaggio, giocando sulle «informazioni» che nei momenti giusti passano dai personaggi al lettore e da un personaggio all'altro. Da un lato egli si lascia andare con il

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74 protagonista, vive dal di dentro il suo percorso psicologico, dall'altro governa millimetricamente la dinamica narrativa calibrata sul lettore. Lo scrittore che si trova a elaborare una scaletta è con questo spirito che deve provare a farlo: stando con un occhio sui personaggi e con l'altro sul lettore o sul pubblico del cinema, del teatro e della radio.

Da vicino La costruzione di una scena Scrittore e personaggi Fin qui abbiamo osservato il lavoro di uno scrittore nella fase in cui organizza la drammaturgia di un racconto in relazione al linguaggio che intende utilizzare. Non affronto per il momento il linguaggio teatrale: preferisco farlo quando mi addentrerò nei meandri del dialogo. Ora facciamo qualche passo avanti e isoliamo una singola scena la quale, al pari dell'intero racconto, si costruisce a sua volta su meccanismi drammaturgici. Non si tratta più di costruire una storia ma un segmento di essa. Anche in questo caso lo scopo è di creare attesa, distribuendo metonimie (che non sempre sono meccaniche, nell'esemplare racconto di Tolstoj tutto avviene infatti dentro un'anima), dando vita a climi ches promettono risvolti e sorprese, eccetera. E necessaria a questo punto una ulteriore precisazione sul rapporto tra il narratore e la sua opera. Si è visto che al momento di cominciare a scrivere abbiamo dovuto scegliere tra la prima persona, la terza e il discorso libero indiretto. Nel caso del cinema, la scelta si riduce a queste due ultime possibilità. Ma va fatta anche un altro tipo di scelta, che riguarda la posizione dell'autore nei confronti dei personaggi e in modo particolare del protagonista. Per posizione intendo la distanza culturale, psicologica e sociale che separa il narratore dal protagonista (dai protagonisti).

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Le posizioni sono tre: a) lo scrittore è superiore al personaggio b) lo scrittore è a livello del personaggio c) lo scrittore è inferiore al personaggio. Passiamo velocemente in rassegna le tre posizioni mettendo a fuoco vantaggi e rischi di ognuna di esse. a) Lo scrittore è superiore al personaggio. Il narratore conosce il personaggio fin nei più oscuri e profondi recessi dell'animo. Prevede ogni sua mossa, indovina ogni sua reazione. Il personaggio sarà quindi sempre conseguente al suo carattere, anzi ne rappresenterà il paradigma. E questo potrebbe essere il suo limite, perché rischia di agire come una maschera, come prototipo di una categoria di personaggi che si somigliano e che possiedono un repertorio comportamentale che lo scrittore conosce in tutte le sue variazioni. La narrazione tende cosi a prendere un tono ironico, e talvolta beffardo o divertito. Mi vengono in mente gli strozzini, i bottegai, le mezze maniche, i vili borghesucci di Dickens. Ma anche le figure di Gogol' o gli impiegatini di Cechov. O lo stesso Ivan Il'ic. Questi sono esempi altissimi, ma non poche volte gli scrittori minori, nel cercare di evitare «la figurina» hanno imboccato la strada del patetismo o del sentimentalismo. La caricatura è la massima degenerazione di una posizione come questa: il personaggio non esiste praticamente più, non agisce se non in obbedienza ad uno schema che gli preesiste. Conoscere un personaggio non vuol dire affatto «dominarlo», prevederlo nelle sue mosse. Noi tutti conosciamo noi stessi, ma quante volte ci sorprendiamo a fare qualcosa che mai pensavamo di fare ? La scelta di porsi al di sopra dei personaggi richiede nello scrittore lo sforzo di cercare una qualche irripetibilità, originalità, unicità nel carattere scelto. Senza dimenticare che nel trattare personaggi tecnicamente inferiori al narratore entriamo fatalmente in quel genere di racconti (di cui ho già parlato) dove i personaggi sono in conflitto con il loro

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78 ambiente. La storia di un piccolo uomo, per esempio, è in realtà il racconto di un ambiente oppressivo, che rimpicciolisce gli uomini. b) Lo scrittore si pone allo stesso livello del personaggio. La tendenza spontanea è una identificazione (anche lessicale) con il protagonista. Non pochi sono quindi i dati misteriosi che ne vengono fuori. Il narratore, nel far agire la sua creatura, si pone di volta in volta il problema della sua coerenza, di una riconoscibilità. Infatti la domanda che torna spesso è la seguente: «Ma lui agirebbe cosi, direbbe una frase come questa?» E ogni risposta trovata è un ulteriore moto di avvicinamento al personaggio, nel quale si rischia continuamente di perdersi, di rappresentarlo con contraddizioni che lo rendono imprecisato, evanescente, incomprensibile. Di qui la particolare attenzione nella definizione del suo lessico: esso non è dato in partenza (come nel caso precedente), ma si costruisce sulle situazioni drammaturgiche. Anzi, alcune di queste sono costruite apposta per definire il personaggio, per inquadrarlo nel suo lessico, nel suo carattere, nella sua cultura, nel suo ambiente. Una conflittualità, per essere messa in scena, ha bisogno che siano ben definiti i termini che la scatenano, e quanto più nel protagonista risultano autentiche le ragioni della sua conflittualità, tanto più efficace sarà il racconto. Ma per far questo, appunto, è necessario un ritratto complesso e coerente. La qual cosa richiede a sua volta, da parte dello scrittore, una distanza critica. Il rischio più evidente che si corre è di «appiattirsi» sul personaggio. E ciò avviene quando il lessico dello scrittore coincide pedissequamente con quello del protagonista. Egli finisce per smarrirsi in uno spazio senza confini, trova difficoltà a inquadrare la storia dentro un destino che non è il suo. E il caso, ad esempio, dell'autobiografia pura e semplice, scritta con spirito incontrollatamente diaristico, sul filo della memoria. La narrazione in questo secondo caso ha quasi sem-

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pre come sbocco narrativo finale (esplicito o implicito) proprio la definizione del personaggio. Poiché lo sforzo principale dello scrittore è metterlo a fuoco, la drammaturgia diventa il resoconto di un tale sforzo. La storia si chiude in quel certo modo solo perché il personaggio è fatto in quel certo modo. Come dire che il personaggio determina fortemente la storia e che una storia sta in piedi a condizione che il personaggio sia fatto in un certo modo. Vertigo, dove la fobia del vuoto di James Stewart costituisce la sua peculiarità, è la storia di una paura. E il racconto è possibile a condizione che Scottie non sia in grado di salire le scale del campanile. L'inganno di Kim Novak, inoltre, pone davanti allo sguardo dell'ex poliziotto un mondo illusorio, del tutto falso, come visto da qualcuno che ha perso il senso delle prospettive. Scottie, benché sofferente di vertigini, è un personaggio allo stesso livello del narratore (e quindi dello spettatore), che vi si identifica senza sforzi e verso il quale non esprime mai giudizi che possano distanziarlo. L'intreccio del film sta in piedi grazie solo alla particolarità del personaggio. Ma mentre in Vertigo questa particolarità è data in partenza (è il background di Scottie, la sua «malattia»), in gran parte delle opere è costruita invece nel corso della narrazione. Un po' come in un'inchiesta poliziesca: Io spettatore (o il lettore) è chiamato egli stesso a raccogliere via via una serie di indizi . Nel suo racconto Lo straniero Albert Camus sceglie di porsi sullo stesso piano del protagonista, Meursault, un modesto impiegato di Algeri: è questi che narra la vicenda. E un personaggio smarrito, cinico, stanco. La realtà che gli sta intorno è sbiadita, inafferrabile, e in questa inconsistenza egli compie un delitto accanendosi inspiegabilmente sul cadavere. Viene condannato alla ghigliottina e in attesa della morte, non credendo neanche in Dio, si prepara ad^accettare l'ultima insensatezza della sua esistenza. E un esempio di come una trama si ponga al totale servizio del perso-

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80 naggio. Un personaggio difficile e indecifrabile che si chiude a tutto tondo solo nel finale, quando si compie il suo destino. Nella parità tra narratore e personaggio, vista la necessaria complessità di quest'ultimo, le storie sono spesso il racconto di una personalità. c) Vediamo il caso in cui il narratore è inferiore al personaggio. Lo scrittore si sceglie un protagonista che conosce poco e che non può conoscere a fondo perché gli è del tutto estraneo. Questa inferiorità non è necessariamente intellettuale o sociale o psicologica, non è di rango insomma. In genere si tratta di personaggi stravaganti, sorprendenti, come molte figure di fiaba: maghi, fate, streghe, draghi. Ma possono anche essere personaggi monomaniaci, come scienziati, poeti, barboni, pazzi. Il più delle volte, però, sono figure la cui personalità, nella vicenda, non è determinante. Al contrario del caso precedente, qui il personaggio si mette al servizio della storia. Il naturalista esperto di minerali che conduce una spedizione nelle viscere della Terra alla ricerca di una pietra preziosa, trasmette al lettore le emozioni che provoca un paesaggio meraviglioso, mai visto prima. Farà da filtro tra questo paesaggio e il lettore. Solo lui infatti, esperto come è, potrà svelarci gli occulti segreti di tanta bellezza. Il rischio che corre un personaggio cosi concepito è di essere una tinca, come si dice in gergo. E un termine con il quale conviene familiarizzare perché, nel costruire una storia, il narratore si imbatte spesso in personaggi tinca. Probabilmente il termine deriva direttamente dal pesce e sta a indicare un tipo inespressivo, imbambolato come un pesce. Quando compare nella narrazione un personaggio la prima cosa che uno scrittore si deve chiedere è se non sia per caso una tinca, qualcuno cioè messo li al puro servizio della storia, senza una sua personalità, senza un carattere preciso. Molte apparizioni con funzione di deus ex machina sono, ad esempio, tinche. Lo è in qualche modo anche il co-

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gnato di Ivan Il'ic, che arriva in casa, dà un'informazione e se ne va senza più tornare. Nota bene: non bisogna confondere un personaggio secondario con la tinca. Questa ha un evidente scopo strumentale: è importante perché «porta avanti» la trama, ma è una figura estranea che serve a raccontare gli altri e non ci dice nulla di sé. Un personaggio «non utile alla vicenda», che compare cioè per poco tempo e una sola volta senza altro scopo se non di rendere espressiva una situazione, è secondario. Egli diventa tinca se è indispensabile per un risvolto narrativo. Drammaturgia della scena Se leggiamo un testo in modo particolare, saltando di sana pianta pensieri, dialoghi e flashback (ce ne possono essere tanti in una pagina, magari di poche righe) rimangono solo i movimenti, le azioni e le descrizioni. E se li studiamo con un po' di attenzione, ci accorgiamo che essi corrispondono ognuno a una precisa visuale: sono immagini viste da tutte le distanze, da vicinissimo a lontanissimo. Con una matita potremmo sottolineare questi segmenti. Essi ci situano fisicamente in una situazione e ci portano da un luogo ad un altro, a evidenziare i gesti e gli sguardi dei personaggi. Sono immagini oggettive e soggettive. E questo anche nei racconti scritti secoli e secoli prima dell'invenzione del cinema. Propongo qui un breve brano in prosa, tratto da un racconto (La piccola istitutrice) di Katherine Mansfield (1888-1923): a ogni cambio d'immagine inserisco due barrette. Ma quando il battello si fermòIle lei sali sul ponte con la cesta degli abiti in una mano, la coperta e l'ombrello nell'altraIl un vento freddo, strano, le passò a volo sotto il cappello. A Izò gli occhiIlverso gli alberi e i pennoni della nave, neri contro un cielo verde e scintillante,Ile li riabbassòIl verso il pontile scuro dove si attardavano in atte-

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sa bizzarre figure imbacuccate:Il si mosse in avanti col resto del gregge sonnolento i cui componenti sapevano tutti dove andare e cosa fareIl tranne lei: ed ebbe paura. Descriviamo adesso ognuna di queste inquadrature: 1. Ma quando il battello si fermò: è un'immagine oggettiva dell'imbarcazione che attracca, vista dal lettore e da una distanza discreta. 2. e lei sali sul ponte con la cesta degli abiti in una mano, la coperta e l'ombrello nell'altra: è immagine sempre oggettiva, ma questa volta siamo più vicini al battello, perché vediamo chiaramente la cesta degli abiti, la coperta e l'ombrello. 3. un vento freddo, strano, le passò a volo sotto il cappello. Alzagli occhi: è un'inquadratura oggettiva molto vicina al volto del personaggio. 4. verso gli alberi e i pennoni della nave, neri contro un cielo verde e scintillante: è immagine soggettiva, vista cioè dal personaggio. La distanza è quella che va dal ponte alla cima dei pennoni. 5. e li riabbassò: oggettiva identica all'inquadratura numero 3: immagine del volto del personaggio. 6. verso il pontile scuro dove si attardavano in attesa bizzarre figure imbacuccate: soggettiva da una distanza che va dal ponte al pontile. 7. si mosse in avanti col resto del gregge sonnolento i cui componenti sapevano tutti dove andare e cosa fare: oggettiva a distanza tale da poter inquadrare «il gregge». 8. tranne lei : ed ebbe paura: oggettiva. Immagine del volto della protagonista, per cogliere l'espressione della paura. Faccio un altro esempio, dove addirittura l'inquadratura di un dettaglio chiude una situazione e ne apre un'altra operando un passaggio di tempo. L'esempio è tratto dal Canto di Natale di Dickens. Qualcuno si presenta, con un dono tra le mani, davanti alla porta chiusa dell'ufficio^ di Scrooge, un vecchio bottegaio avaro e terribile. E infreddolito e tremebondo. Si annuncia, come si usava nella Londra di quell'epoca, con una canzoncina natalizia.

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...si chinò al buco della serratura di Scrooge per deliziarlo con un canto natalizio : ma al primo suono di Dio ti benedica, buon signore! Nulla mai ti turbi il cuore! Scrooge afferrò il regalo con tanta furia che il poveretto fuggi via terrorizzato, lasciando il buco della serratura alla nebbia e al gelo a lui più congeniali. Infine giunse l'ora di chiudere l'ufficio contabile. Scrooge si alzò dalla sedia a malincuore, tacito segnale per l'impiegato che attendeva nello sgabuzzino, il quale spense subito la candela e si mise il berretto. AI gesto repentino e brutale di Scrooge che mette in fuga lo sventurato, segue il ritmo lentissimo e stanco della chiusura dell'ufficio. Nel frattempo s'è fatta sera. Tra i due momenti resta memorabile l'inquadratura della serratura, eternamente immobile alla nebbia e al gelo, che segna il passaggio da una scena a un'altra. I piani del cinema. Abbiamo parlato di inquadrature, vediamo allora un po' più da vicino come è fatto il cinema. I brani della Mansfield e di Dickens che abbiamo citato ci riconducono fatalmente alla tecnica cinematografica, la quale, essendo linguaggio di immagini, fa dello sguardo un uso narrativo. Nel cinema ogni distanza dello sguardo (la macchina da presa) da personaggi o cose è rigorosamente codificata. Non solo, ne sono precisati anche tutti i movimenti. Vediamo in che modo. Cominciamo con il movimento che va da vicinissimo a lontanissimo inquadrando una persona ferma. i. DETT. (Dettaglio) Unav mosca si posa sulla falda del cappello o su un naso. È un'inquadratura che enfatizza un particolare (come una pistola nella fondina, una sigaretta nel portacenere, il pendaglio sul collo di Kim Novak in Vertigo, ecc. ecc.) In genere sono inquadrature fortemente

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84 metonimiche. Un portafoglio caduto dalla tasca «promette» un «accidente» futuro. 2. PPP (Primissimo piano) L'inquadratura è fissa su un volto, i capelli e il mento sono esclusi dall'immagine. Il personaggio è immobile. I segnali principali provengono dagli occhi. Quindi è un'inquadratura che interroga l'animo del personaggio, ne va a scavare i sentimenti, la reazione a uno stimolo, i pensieri. Nei film di una volta è da questo piano che prendevano avvio i flashback: come se la macchina da presa penetrasse nel cervello per andare a fotografare un ricordo. Il PPP andava lentamente in dissolvenza (svaniva) e si incontrava con le immagini provenienti dal passato, sempre più a fuoco (dissolvenza incrociata). Anche questa è un'inquadratura enfatica, ma trattandosi di un volto acquista connotati drammatici, forte tensione emotiva. Un esempio classico è rappresentato dal pistolero che sta per estrarre l'arma. 3. PP (Primo piano) Il taglio contempla l'intero volto, il collo e l'inizio delle spalle. E l'inquadratura principe del linguaggio cinematografico. Le possibilità di movimento del personaggio sono rallentate, ancora limitate. Il suo sguardo resta la fonte principale dei segnali. Il taglio non è necessariamente drammatico, ma sottolinea comunque un momento privato del personaggio. La macchina da presa va in primo piano per registrare una reazione o sottolineare un discorso. I dialoghi serrati, drammatici, avvengono quasi sempre in PP mentre quelli «mondani» sono ripresi da una certa distanza, tranne ad andare in PP quando una battuta «colpisce» qualcuno. 4. MPP (Mezzo primo piano) L'inquadratura taglia il personaggio fin quasi alla vita. Da questo piano in poi si aggiungono le informazioni che provengono dall'ambiente, mentre perde progressivamente importanza l'espressione del viso. Dallo sguardo su uno stato d'animo si passa allo sguardo su un modo di essere, di vestirsi e di muoversi. Si affacciano i primi connotati di carattere «sociale». Si po-

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ne il problema del rapporto tra personaggio e ambiente. E nel suo mondo? E decpntestualizzato, cioè in un ambiente non suo, ostile ? E in un luogo che gli è superiore o inferiore ? In questo taglio il personaggio racconta se stesso anche attraverso il corpo, benché il volto occupi ancora una parte consistente dell'inquadratura. 5. PA (Piano americano) E un piano particolare, poco più distante del precedente. Il personaggio è ripreso fino alle ginocchia: si decifra ancora l'espressione del volto e si allarga ulteriormente il fondo. 6. FI (Figura intera) Il personaggio appare in tutta la sua statura. Il corpo racconta di lui più di quanto possa fare l'espressione del viso. E la realtà che lo circonda è ampiamente presente. Questa inquadratura è, insieme al PP, molto utilizzata: permette di seguire e decifrare un'azione continuando a cogliere i riflessi del personaggio. 7. PR (Piano ravvicinato) Non è molto differente dalla FI, anzi, talvolta può fare un passo avanti e accostarsi al PA e al MPP: si chiama cosi l'inquadratura che riesce a contenere anche più personaggi, visti da distanza, appunto, ravvicinata, in modo da riconoscerne l'identità. 8. TOTALE Il totale è un piano largo che inquadra tutto l'ambiente possibile, ma soltanto luoghi chiusi (interni): una stanza, un ufficio, una sala da ballo, l'interno di una chiesa, eccetera. Il personaggio è piuttosto lontano dalla macchina da presa, ed è riconoscibile solo dai suoi dati esteriori: dall'abito, dalla tonaca, dal costume, ecc. Un'azione che si svolga nel totale viene chiamata master. Un regista, prima di girare, studia la scena. Stabilisce l'ordine delle riprese. Spesso decide di girare tutta la scena con una sola inquadratura e questa non può che essere un totale. Poi sposta la macchina da presa e si avvicina: ora rigira tutto ma per piccoli segmenti con piani diversi. In moviola, cioè nella fase di mon-

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86 taggio delle immagini, il master viene utilizzato come matrice, come punto di riferimento dell'intera scena e non necessariamente montato. 9. CL (Campo lungo) L'inquadratura riguarda ambienti esterni. La macchina da presa guarda da lontano. E equivalente al taglio precedente, ma il fondo si apre verso l'orizzonte. Il personaggio è identificabile dai suoi elementi esteriori: dal suo cavallo bianco, dall'auto rossa, dagli abiti, dal modo particolare di camminare, ecc. La funzione tecnica e narrativa è la stessa del totale. 10. CLL (Campo lunghissimo) Anche questa è un'inquadratura esterna, puntata su un panorama nel quale è indistinguibile o del tutto assente il personaggio. Per avere un'idea basta pensare all'inizio di certi film western dove lontanissimo, minuscolo in mezzo alla prateria, avanza qualcuno a cavallo, magari fischiando. Nella stessa inquadratura, in PP, si staglia, irto e assetato, un cactus. / movimenti dello sguardo. Un'inquadratura corrisponde, come abbiamo visto, a un preciso sguardo: da vicinissimo a lontanissimo. La macchina da presa è lo stesso spettatore che guarda. Questi può restare fermo e girare di qua e di là, su e giù, la testa, può avvicinarsi e allontanarsi e può, volendo, abbassarsi e arrampicarsi da qualche parte (per «vedere dall'alto»). I movimenti sono dunque di tre tipi: a) panoramici; b) di avvicinamento e allontanamento (carrello); c) verticali (dolly). A questi vanno aggiunti i movimenti combinati: l'insieme di due o di tutti e tre i movimenti. Esaminiamo velocemente queste inquadrature. a) PAN. (Panoramica) La macchina da presa è ferma in un punto preciso e si gira verso destra o verso sinistra, e/o verticalmente. La

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qua! cosa può avvenire mantenendo fissa la dimensione del taglio o modificandola attraverso lo zoom (è una lente capace di allargarsi o stringersi, di ampliare cioè l'inquadratura o rimpicciolirla). Cosi, se lo sguardo della macchina da presa vuol seguire il personaggio che si allontana, sarà obbligato ad allargare l'obiettivo. Al contrario se il personaggio si avvicina. Insomma lo sguardo, fisso in un punto, segue i movimenti del personaggio. b) CARR. (Carrello) L'inquadratura si muove su ideali binari: indietro, avanti e lateralmente (ad accompagnare un movimento). Sono tre i movimenti del carrello: 1. CARR. A PRECEDERE: quando l'inquadratura indietreggia precedendo il personaggio che viene avanti. 2. CARR. A SEGUIRE: quando l'inquadratura insegue il personaggio che si allontana. 3. CARR. PARALLELO: quando l'inquadratura accompagna lateralmente, di profilo, il personaggio. Se i movimenti del personaggio sono troppo veloci (ad esempio quando corre, o è al volante di un'auto o in groppa a un cavallo) la macchina da presa viene posta su una jeep. In questo caso il movimento viene chiamato CAMERA-CARR., ma da un punto di vista narrativo equivale a un carrello. c) DOLLY E un'apparecchiatura che esegue tutti i movimenti, compreso quello verticale. Solo con questo mezzo lo sguardo della macchina da presa può sollevarsi in alto e scendere in basso. E come se lo spettatore fosse su una sorta di ascensore. Il dolly è attrezzo mobile su tre ruote fornito di una piccola gru snodabile su cui è piazzata la macchina da presa. La gru gira anche su se stessa per 360 gradi e può combinare PAN. e CARR.: panoramica e carrello insieme. A cui si può aggiungere contemporaneamente il movimento verticale. Spesso un'intera scena è girata senza stacchi, con un'unica inquadratura. Il dolly, in questo caso, consente, coordinando opportunamente i movimenti dei perso-

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8? naggi e della macchina da presa, tutti i possibili tagli. Una scena girata in questo modo si chiama piano sequenza. Adesso riprendiamo il brano del racconto della Mansfield e proviamo a dividerlo in inquadrature: 1. Ma quando il battello si fermò: PAN. IN CL (Panoramica in campo lungo). 2. e lei sali sul ponte con la cesta degli abiti in una mano, la coperta e l'ombrello nell'altra: FI (Figura intera). 3. un vento freddo, strano, le passò a volo sotto il cappello. Alzò gli occhi: CARR. A PRECEDERE IN MPP (Carrello a precedere in mezzo primo piano). 4. verso gli alberi e i pennoni della nave, neri contro un cielo verde, scintillante: PAN. VERSO L'ALTO IN CL (Panoramica verso l'alto in campo lungo). 5. e li riabbassò: PP (Primo piano). 6. verso il pontile scuro dove si attardavano in attesa bizzarre figure imbacuccate: PR (Piano ravvicinato). 7. si mosse in avanti col resto del gregge sonnolento i cui componenti sapevano tutti dove andare e cosa fare: CARR. A PRECEDERE IN PR (Carrello a precedere in piano ravvicinato). 8. tranne lei: ed ebbe paura: PP (Il personaggio è in primo piano). La convenzionalità tecnica del linguaggio cinematografico opera una distinzione tra lo sguardo reale e quello della macchina da presa. Anche nel cinema, come nella letteratura, il passaggio dall'immaginazione all'immagine concreta comporta una serie di «scarti». Lo sguardo cinematografico in una scena non può saltare di qua e di là rispetto a un'ideale linea di demarcazione (la linea detta della parallasse). Faccio un esempio. Un uomo ha mezza faccia dipinta di nero e mezza faccia dipinta di bianco. Cammina lungo una strada. Passando davanti alla macchina da presa da sinistra verso destra ci mostra il profilo bianco. Ora noi vogliamo scoprire l'altro lato del suo volto e a questo fine la logica reale suggerirebbe di spostare la macchina dalla parte opposta: in questa seconda inquadratura però il

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personaggio, che continua a camminare nella stessa direzione, si trova a passare davanti alla macchina da presa da destra a sinistra. Ora proiettiamo le due immagini sullo schermo: nella prima, quando si vede la faccia bianca, l'uomo entra nell'inquadratura da sinistra ed esce a destra; nella successiva, quando si vede il lato dipinto di nero, entra da destra ed esce a sinistra, dando l'impressione di tornare indietro. Un chiarissimo esempio della diversità di prospettiva tra la realtà e il linguaggio della finzione è la ripresa televisiva di una partita di calcio: le partite di calcio vengono sempre inquadrate da un lato solo del campo. Se la telecamera si spostasse sulla linea opposta lo spettatore vedrebbe d'improvviso che la squadra di destra è passata a sinistra e viceversa. II regista che dirige la recitazione dà indicazioni diverse a seconda dell'inquadratura: se è un PPP l'attore deve rimanere immobile e recitare a fior di labbra, se invece è una FI quella stessa battuta deve essere detta in un altro modo, con maggiore naturalezza. In un TOTALE la spontaneità dovrà invece essere recitata, ricostruita artificialmente, ampliando appena i gesti. Dico questo per ricordare ancora una volta che in ogni linguaggio la naturalezza è un'impressione, deve essere «finta» per risultare vera. Un narratore deve «possedere» il linguaggio e conoscere talmente bene i suoi personaggi da poterli immaginare in qualsiasi situazione e in tempi diversi, non rispettando necessariamente l'ordine dei fatti e delle emozioni. Non sempre infatti egli «scrive» seguendo il filo narrativo, succede spesso che sia condizionato da particolari stati d'animo oppure che senta la necessità di affrontare un nodo importante della storia anche se non ha ancora delineato tutto il contesto. Nel cinema non si può fare a meno di saltabeccare da una scena all'altra. Quante volte un regista è costretto a girare negli stessi giorni la scena iniziale e quella finale del suo film ? Il piano di lavorazione infatti stabi-

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90 lisce la successione delle scene sulla base degli ambienti. Una volta che la troupe si è piazzata, per esempio, in casa del protagonista, in quel set vanno girate tutte le scene previste, compresa eventualmente quella finale. Drammaturgia della scena (2). Ma torniamo al racconto di una scena singola. Intanto diamole dei confini: c'è una certa situazione che si svolge in un'unità di tempo, in un singolo ambiente. Nella maggior parte dei casi un cambiamento di scena comporta anche un cambiamento di tempo. Se si vuole infatti raccontare la contemporaneità di due azioni bisogna servirsi dell'artificio adatto, come per esempio del cosiddetto montaggio parallelo: il narratore salta continuamente da una situazione all'altra. Quando non si sottolinea una contemporaneità di situazioni, la convenzione vuole che le due scene si svolgano in tempi diversi. Può succedere che due azioni successive ma lontane nel tempo avvengano nello stesso ambiente: si tratta di un passaggio di tempo interno che va in qualche modo segnalato: passando per esempio dal giorno alla notte e viceversa, o con una dissolvenza interna, oppure con opportuni movimenti di macchina che sorprendano i personaggi in una situazione tutta diversa da quella precedente, e magari con un altro abito addosso. Un racconto è, naturalmente, la somma delle scene. Quindi ognuna di queste ha da un lato il compito di «portare avanti la storia» e dall'altro la necessità di vivere in tutta la sua autonomia espressiva, come se si svolgesse fuori da ogni destino. Questo vuol dire che dentro ogni scena è sempre nascosta una metonimia, una parte al puro servizio del tutto: questa parte occulta è la ragione per la quale l'azione si svolge in quel luogo, con quei personaggi e in quel momento. Ogni scena, a parte la prima, si carica dei segni seminati nelle scene precedenti e a sua volta deposita nel racconto altri segni che serviranno in seguito. Un tale aspetto del-

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la scena, di cui è a conoscenza soltanto il narratore, è fondamentale perché offre al lettore (o al pubblico) la possibilità di una lettura in chiave dell'azione descritta. Il lettore infatti non sa dove il racconto va a parare (cosa che il narratore invece sa perfettamente) ma ha fin li seguito un percorso che gli permette di inquadrare e decifrare i comportamenti dei personaggi. Finita la scena egli si sarà arricchito di nuove «informazioni» e avrà soprattutto «registrato», «metabolizzato» inconsapevolmente una nuova metonimia. E quest'ultima è presente in quanto, appunto, lo scrittore conosce già il finale della storia. Lo spettatore, in Vertigo, nel vedere il gioiello di Madeleine in casa della rediviva Kim Novak, si vedrà chiarire un mistero (chiudere una metonimia, di tipo meccanico) ma gliene si presenterà un altro (impostazione di un'altra metonimia, non meccanica): «Come mai le due donne sono la stessa persona? Quando se ne accorgerà l'ex poliziotto?» Quindi ogni scena vive del presente ma da qualche parte nasconde un piccolo seme del futuro ignoto ai personaggi e al lettore. Ora passiamo all'altra anima della scena. A quella che dà l'impressione della spontaneità, della naturalezza, del succedersi casuale della vita. Ogni «senno del poi» che possiede lo scrittore deve essere ben nascosto. Una drammaturgia impostata con sapienza (una scaletta ben fatta) riesce ad alleggerire la singola scena di ogni responsabilità informativa. Azione e dialoghi si svolgeranno nella pura casualità, legati tra loro in una logica tutta presente, quasi accidentale. Una scena risulterà tanto più efficace quanto pili apparirà divagatola, perfino gratuita. Pili tardi parlerò del dialogo e sarà quella l'occasione propizia per approfondire l'argomento. Fatte queste premesse andiamo a vedere la scena più da vicino. Ci accorgiamo che è una somma di inquadrature, come abbiamo visto nel brano in prosa della Mansfield. Se numerassimo le inquadrature e accanto ad ogni

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92 numero scrivessimo succintamente quali sono i segnali principali che quell'inquadratura invia al lettore, arrivati alla fine scopriremmo di avere un piccolo racconto, cioè una piccola drammaturgia. Andando avanti con l'esercizio si può provare a modificare l'ordine delle inquadrature: fatalmente la scena cambia di ritmo e di senso. Faccio un esempio: se apriamo una scena con il PR (Piano ravvicinato) di un confessionale dove è inginocchiato un bambino e poi passiamo al PP (Primo piano) del bambino che piange, il risultato sarà: «siamo in una chiesa Il e un bambino piange confessando i suoi peccati». Se, al contrario, la scena l'apriamo con il volto in lacrime di un bambino (pp) e poi vediamo il confessionale in cui è inginocchiato (PR), l'effetto è: «un bambino piange, chi sa perché, Il perché sta confessando i suoi peccati». Sono due impostazioni diverse della scena: nel secondo caso il pianto misterioso del bambino non ha altri segni se non il pianto stesso, in pochi secondi lo spettatore dà a quelle lacrime il valore di una tragedia che ovviamente va stingendosi quando subito dopo capisce o intuisce la ragione di quel dolore. Il narratore decide in rapporto al peso e al significato che vuol dare alle lacrime del piccolo interprete. La singola scena va costruita con lo stesso procedimento dell'intero racconto. Si individua un eventuale conflitto, si organizza il suo sviluppo e si trova un finale. Bisogna fare molta attenzione agli attacchi e agli stacchi. In cinema, quando l'ultima inquadratura di una scena è un PP quasi mai l'inizio della successiva è di nuovo un PP. Questo per non disorientare lo spettatore il quale potrebbe pensare di trovarsi ancora nell'ambiente precedente. Nella maggior parte dei casi il passaggio da una scena all'altra avviene diversificando molto l'ultima inquadratura di una scena dalla seguente, E allora conviene passare da un PP a un CL, da un TOTALE a un PP, e cosi via. Non è una lezione di regia questa: si tratta di nozioni fondamentali che proprio uno sceneggiatore - ma anche il nostro apprendista narratore - deve avere a portata di mano.

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Nel momento di entrare nel merito di una singola scena, il narratore deve scalettarla in obbedienza alle due esigenze di cui ho parlato: da un lato occultamente informare e dall'altro trasmettere emozioni. La sceneggiatura. Occupiamoci adesso esclusivamente del cinema, ma tenendo presente, come abbiamo detto, che molte leggi generali della narrazione sono comuni agli altri linguaggi. Il narratore (che in cinema si chiama sceneggiatore) ha il compito di stendere il copione, di scrivere cioè il film ma con il linguaggio della lingua scritta: le immagini e i personaggi li deve «suggerire» con le parole. Si tratta di una scrittura particolare che non vive autonomamente ma in funzione dello schermo. Il copione (o sceneggiatura) serve al produttore per trovare soldi, attori e regista; serve all'organizzazione per poter stabilire un piano di lavorazione; serve al regista per girare il film; serve agli attori per studiare il personaggio, eccetera. Come si vede tutto parte dalla sceneggiatura. Vediamo allora cosa bisogna fare per scrivere un copione. Dico subito che, al contrario di come si fa per la letteratura, ci si siede a tavolino quando tutte le idee sono ormai chiare. Si comincia a scrivere solo quando si hanno a disposizione i materiali necessari, accumulati durante il lungo lavoro preparatorio. Questo lavoro passa necessariamente attraverso varie fasi, che iniziano con l'idea e terminano, appunto, con il copione definitivo. In mezzo si svolge una vera e propria opera di costruzione. Seguiamo il tutto punto per punto.

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94 a) L'idea, U soggetto Purtroppo è proprio il primo scoglio il più arduo. In cinema quando un'idea è bella e precisa il film può essere considerato teoricamente «fatto». Mentre il tragitto della scrittura è in qualche modo codificato da una serie di tecniche, l'idea nasce dal nulla. Solo l'esperienza può essere di qualche aiuto, ma in genere trovare un'idea è un fatto più o meno casuale: spesso lo stimolo lo offre un fatto di cronaca, un altro film, un attore, un'esperienza personale, una riflessione, una lettura, un'intuizione, una sensazione, una poetica, ecc. Molte idee vengono direttamente ai registi, o ai produttori, o agli attori stessi. Diciamo che l'idea richiede un talento particolare, e può accendersi nella mente anche di chi non sa cosa sia un copione. L'idea si spiega meglio a voce, perché ogni volta si arricchisce di qualche dettaglio utile, di espressioni suggestive. Succede un po' come con le barzellette: è sempre meglio raccontarle, con le pause e i tempi giusti. Provate invece a scriverla una barzelletta: si congela, si formalizza, perde ritmo. Ma purtroppo l'idea va scritta, perché deve «girare» per uffici, deve andare nelle mani di un regista. L'idea scritta si chiama soggetto. E poiché un buon soggetto, sul quale vengono mobilitate tante forze e investiti tanti soldi, è «merce» molto rara, è facilmente vendibile. Si tratta di poche pagine (dalle tre alle dieci), che devono però avere un sapore particolare, essere piene di rimandi profondi, indiretti, di possibili invenzioni, di echi. Si può scrivere in tempo presente («E la storia di un ex poliziotto che soffre di vertigini. Un giorno gli telefona un amico che gli chiede...») oppure in tempo passato («Scottie era un poliziotto scettico, che aveva perso fiducia in se stesso perché aveva sulla coscienza la morte di un collega. Soffriva di vertigini proprio a causa di quell'incidente. »). La scelta è libera: dipende per lo più dal tipo di idea. Il presen-

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te si adatta meglio ai film d'azione, fortemente ritmati e pieni di immagini da evocare con velocità. Il passato si adatta meglio a storie d'atmosfera, con uno sfondo sentimentale. Siccome il soggetto deve raggiungere il massimo della sintesi, nel primo caso un racconto a macchie, saltellante è il più adatto («Scattano le indagini e dopo un po' la polizia lo incastra. Piove, è notte. Lui non se l'aspetta, e mentre gli stringono le manette ai polsi cerca la verità negli occhi di lei, che scappa, scappa nella notte inzuppandosi la faccia di pioggia e di lacrime... Dunque è stata lei a fare la spia. Perché?») Nell'eventualità, invece, di un'idea più «pensosa», più «interiore», il tempo passato aiuta a saltare molti passaggi, a operare grandi ellissi («Cosi, piano piano, finirono per stancarsi uno dell'altra e, arrivato l'inverno, già non si amavano più. Finché un bel giorno comparve nella villa una giovane scrittrice americana, Sarah Orne Jewett, ospite del marchese: teneva per le briglie il suo cavallo zoppo...») La difficoltà principale sta nel dare una misura ai fatti raccontati. L'errore più comune è dilungarsi troppo in una singola situazione, creando quello che in gergo si chiama effetto uomo Michelin: cioè un raccontino squilibrato come lo sproporzionato pupazzo della famosa fabbrica di pneumatici, con la testa piccola e le gambe gigantesche. Si dice che un'idea è buona quando la si può raccontare con dieci parole. Forse sono poche, ma il principio è giusto. Si può stare comunque certi che brevi tratti sono sufficienti a proporre un conflitto centrale e un corollario di dinamiche drammaturgiche. In un'idea non compaiono mai i possibili significati metaforici della storia, questi vanno semmai intuiti. Un'idea è fatta di due o tre punti forti, immersi in una vaga aria densa di evocazioni e di climi. Provate a ricordare in pochi secondi il film più bello che avete visto ultimamente: bene, quella è l'idea del film. Un'ultima annotazione sull'invenzione della storia è necessaria. E anche questa volta si impone il riferi-

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96 mento alla letteratura. In cinema, come appunto in narrativa, possiamo dividere le storie in due categorie: romanzo e racconto. La questione è annosa e ha più volte tirato a cimento molti studiosi. E falso, infatti, e troppo facile dire che un romanzo è lungo e un racconto è breve. Vi suggerisco una visione «funzionale» del problema, che può tornare utile quando si scrive. Diciamo subito che il racconto è basato su una idea forte e il romanzo su una idea debole. Cosa vuol dire ? Parto da un esempio: voglio raccontare una storia d'amore tra un uomo e un portachiavi (come ha fatto Ferreri). Questa è un'idea forte, totalizzante. Già ad intuito capiamo che la vicenda propone una misura narrativa che non permette lunghe divagazioni (risulterebbero fatalmente incongrue) se non spostando altrove il nucleo narrativo e tradendo cosi l'ispirazione iniziale: il singolare innamoramento si configura come pretesto per le divagazioni e la storia non è più quella di partenza. Se invece mi tengo fermo sul punto, non voglio raccontare altro che una forte passione per un portachiavi, sono costretto a stare il più possibile vicino a questa idea. E cosi scrivo una storia, diciamo, monotematica. La conseguenza logica è una sorta di unità di tempo (che non vuol dire brevità di tempo), giacché i lunghi passaggi temporali implicano non poche divagazioni. Per concludere: un racconto si muove intorno a un'idea forte e non fa del tempo un uso narrativo significante. Il romanzo, al contrario, articola una serie di temi intorno alla conflittualità centrale. Non ha un punto egemone capace di catalizzare l'intera narrazione. Il romanzo richiede un certo numero di divagazioni, di variazioni e di mutazioni che spesso, per essere ben raccontate, necessitano di passaggi di tempo. Sono solo questi infatti che possono narrare la lenta trasformazione di un personaggio. In due parole: nel romanzo il tempo ha funzione narrativa, nel racconto no. Come si vede c'è una differenza che non riguarda la lunghezza del testo.

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Detto questo, quando ci viene un'idea dobbiamo chiederci se è più adatta a un racconto o a un romanzo; se cioè i passaggi di tempo sono indispensabili alla storia. Questo perché, nei nostri linguaggi, il passaggio del tempo è una convenzione particolare: al contrario di quanto succede nella vita, in un linguaggio evocativo il tempo può essere cancellato. Il tempo che passa va raccontato opportunamente quando serve. Se invece è un problema che non viene affrontato, il lettore inquadra la vicenda dentro una cronologia logica e non temporale, dentro cioè un tempo convenzionale. Certamente, come ho detto, il fattore cronologico deve avere la sua valenza quando si racconta la trasformazione di un personaggio. Se a un certo punto della storia narriamo, anche con due sole inquadrature, che un uomo passa dieci anni in galera, quando egli tornerà libero non ritroverà più le persone com'erano prima. In questo caso si tratta di una storia la cui drammaturgia non può non tener conto dei passaggi di tempo. Uno scrittore deve chiedersi se la sua idea è un romanzo o un racconto soprattutto per decidere quanto respiro dare alla storia, se gli conviene stare addosso a un tema o dar più spazio ai personaggi e alle loro contraddizioni. b) Prima scaletta Nella prima fase di costruzione del racconto l'attenzione è tutta per la struttura drammaturgica. Non è in gioco la fase evocativa, ci si deve concentrare sull'ossatura portante la quale è composta di pochi punti saldi. E un lavoro sullo schema e vede in gioco solo gli ambienti e i personaggi più importanti. Ciò che comunque non va mai dimenticato è che il linguaggio del cinema esprime un modo di essere soprattutto attraverso un modo di fare. Vale a dire che bisogna immaginare e scrivere in termini visivi. Dopo aver a lungo «fantasticato» nei dintorni della

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98 storia, dopo essersi eventualmente documentati (anche figurativamente), giunge il momento di fissare gli snodi principali della vicenda. Questi vanno appuntati e corredati di note, chiose e idee passibili di sviluppo. Ne verrà fuori una scaletta di sei, sette punti: sono i luoghi deputati della storia, gli appuntamenti drammaturgicamente certi. Non è importante in questa fase dettagliare tutto. E soprattutto si deve sempre essere pronti a fare delle sostituzioni, delle inversioni perché la storia, in questa fase, può fortemente cambiare disegno e diventare un'altra. Può succedere che la seconda sia meglio della prima. Dei sei o sette punti che dobbiamo mettere in ordine, l'ultimo è di gran lunga il più difficile. Attenzione però che non coincide con il finalissime L'ultimo punto chiude la drammaturgia, non la storia. In genere coincide con il pre-finale (Es.: la morte dell'antagonista). L'ultimo punto ha la responsabilità di tutta la vicenda: è la situazione che chiude il cerchio dell'intera storia. Quanti copioni hanno un finale fiacco! L'errore che spesso si fa quando si cerca un finale è di restare impigliati nelle ultime scene del film. Invece la soluzione della storia va preparata molto prima, la metonimia che fa scattare il finale è spesso nascosta nelle prime scene: ed è proprio questo tirante invisibile che, dopo aver attraversato silenziosamente il film, esplode nel finale. Sarà la vertigine iniziale di Scottie, presto dimenticata, a far scattare tutte le molle della storia. Inizio e finale sono legati tra loro, fanno da parentesi dentro cui succedono le cose. Quindi attenzione al primo e all'ultimo punto. Di certo è bene non cominciare a scrivere una sceneggiatura fintanto che non si avrà a disposizione il miglior finale possibile. Il lavoro sul finale condizionerà l'intera scaletta, che sarà in continuo movimento fino a che i conti non tornano.

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c) Seconda scaletta (Scalettone) Durante questa elaborazione spuntano fuori, fatalmente, altri punti che servono a rendere credibili, coerenti e sensati i punti principali. Si affacciano i personaggi secondari i quali, per il momento, son li solo in funzione del racconto e utilizzati come puri meccanismi. Ma questi ultimi punti ne suggeriscono altri e tutti con il compito di tracciare un passaggio efficace da un nodo cardine all'altro. Lo spirito con cui si lavora alla scaletta mi fa pensare a quando si avvitano i dadi nei bulloni di una ruota: li stringiamo solo quando sono tutti infilati. Alla fine si avrà una seconda scaletta con decine di punti. Ognuno di questi si configura come una scena singola o un piccolo gruppo di scene (es. : una lite in famiglia o un giro in città). Vi mostro adesso, a titolo d'esempio, i primi punti della scaletta di Cesare Zavattini per il film di De Sica, Umberto D. Corteo dei vecchi pensionati in via Nazionale. Presentazione di Umberto e del suo cane. La Celere scioglie il corteo perché fatto senza permesso : nei pressi del Viminale. Umberto si rifugia durante il fuggifuggi in un portone con un altro vecchio. Il vecchio, uditi i suoi guai, gli consiglia un posto dove si ottengono piccoli prestiti. Umberto va alla casa piccoli prestiti e ottiene seimila lire. Vorrebbe di più cedendo anche l'orologio perché lui ha ventimila lire di debito con la padrona di casa. Ma non ci riesce. E una scaletta di lavoro, molti dati sono impliciti, precisi solo nella testa di Zavattini. Quel che notiamo

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100 soprattutto è l'elencazione dei fatti. Dei due vecchi e del cane non sappiamo assolutamente nulla: in questa fase non sono la principale preoccupazione. Ma andiamo avanti. Abbiamo di fronte la scaletta più o meno completa del film. Ogni scena si svolge in un ambiente interno o in uno esterno (la casa, la città) e in un'ora particolare (alba, mattino, tramonto, notte). A questo punto si numerano le scene secondo l'ordine stabilito e si indicano luogo e momento della giornata in cui la scena si svolge. Poi, con pochi capoversi, si descrive l'azione. Ne verrà fuori ciò che gli sceneggiatori chiamano scalettone. Lo scalettone, oltre ad essere utile allo sceneggiatore, è materiale che va in lettura al produttore. Ed è scritto in questo modo per una ragione ben precisa: la produzione, contando ambienti e personaggi, calcolando le settimane di lavorazione e le altre spese, può farsi un'idea dei costi. Non poche volte per contratto lo sceneggiatore è tenuto a consegnare uno scalettone prima del copione. d) Trattamento Una volta finito lo scalettone e verificato che la storia, da un punto di vista drammaturgico, funziona bene; che ogni scena è indispensabile; che il film non è né troppo lungo né troppo corto; che nessun passaggio è «scontato» e nessun personaggio è tinca; che tutto è chiaro, coerente e non prevedibile... è il momento di entrare in un altro ordine di idee. Ci si può finalmente abbandonare all'evocazione. Lo sceneggiatore fa un passo avanti per avvicinarsi ai luoghi, ai personaggi e alle situazioni, al di là della fredda struttura narrativa. La fase del trattamento è l'unico momento letterario di tutta la scrittura di un film. Che cos'è un trattamento? E il racconto in prosa dell'intera storia, scena dopo scena. Ha una lunghezza che varia dalle sessanta alle ottanta pagine dattiloscritte. Qui il narratore deve per un momento abbandonare il linguaggio del ci-

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nema (d'altra parte lo scalettone già propone tutto un universo «visivo») e calarsi nella vicenda e nei personaggi come se fossero reali. Egli può perfino prendersi la libertà di scrivere i loro pensieri e i loro sentimenti nelle varie situazioni. Può accennare qualche battuta fondamentale e dare indirettamente il senso di un dialogo. Faccio un esempio: «La madre lo guarda senza battere ciglio, ma il suo cuore è a pezzi. Vorrebbe chiudere forte gli occhi e svegliarsi. Il ragazzo prova a dire qualcosa, balbetta. Lei allora gli chiede semplicemente: Come va? - E lui: - Male! - La donna si avvicina alla finestra: non può piangere, non deve piangere. Ecc.». In questo brano lo sceneggiatore fa qualcosa di poco cinematografico: racconta ciò che non si vede. Il ragazzo balbetta qualcosa che si potrà ascoltare solo in sceneggiatura. Quelle due battute rapide forse nel film non saranno mai pronunciate, ma non importa: chi scrive ha bisogno di entrare nell'anima dei personaggi. Questo perché fino alla fase del trattamento egli ha pensato soltanto alla macchina narrativa. Ora, avvicinandosi alla sceneggiatura (e quindi ai dialoghi) lo scrittore ha bisogno di «assumere» il lessico, lo spirito e il carattere di ogni personaggio. Alcuni sceneggiatori preferiscono scrivere a parte le loro biografie, le loro storie passate, il loro background sociale e psicologico, anche se non serviranno al film. Ma è un modo (che consiglio ai giovani) per costruire a fondo un personaggio con tutte le sue sfaccettature. Solo cosi si può andare più lontano, proiettarsi oltre l'apparire per avvicinarsi di più all'essere. D'altronde, in una scena forte, non si potrà mai far perno sulle contraddizioni di un personaggio (che lo rendono «vero», «credibile», «vivo») se non lo si conosce fino al limite dell'inconscio. Nella stesura del trattamento non bisogna aver paura di lasciarsi andare, di abbandonarsi alla scrittura. E le stesse descrizioni, che debbono essere fulminee e sempre proiezione d'un personaggio o di una situazione, hanno il compito di portare suggestioni e ulteriore spessore: gli

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oggetti (la natura, i luoghi, ecc.) debbono essere complici della scena e dare l'impressione di una congiura. Sono li o per assecondare un sentimento o per contrastarlo «ironicamente» (con distanza critica). Questo lavoro, oltre ad aprire spazi all'evocazione, ha il compito - come ho già accennato - di nascondere le metonimie, la funzionalità necessaria di alcune sequenze, e di coprire con i comportamenti e con una mano di «intonaco», la griglia narrativa. Non c'è infatti niente di peggio che «leggere» la struttura sottostante: verrebbero vanificate le sorprese, andrebbe dissolta la suspense, e i personaggi risulterebbero burattini in mano al narratore, «agiti» e non «agenti». La scrittura del trattamento, non dissimile da quella di alcuni racconti come La piccola istitutrice della Mansfield, nel succedersi delle frasi e dei capoversi, propone già una sequenza di massima delle inquadrature. Ciò è ovvio perché una drammaturgia interna ad una scena si ottiene proprio ordinando i piani: cioè avvicinandoci o allontanandoci dalle cose, organizzando una precisa gerarchia delle immagini. Non importa se poi, in fase di sceneggiatura, quell'ordine verrà rivoluzionato: è fondamentale che il trattamento funzioni autonomamente, si proponga come unità indipendente. Anche perché è con queste pagine che il produttore potrà cominciare ad investire il suo danaro: opzionerà il cast artistico, cercherà finanziamenti nel nostro paese e all'estero, prevenderà il film alle televisioni, eccetera. Quindi è necessario che il trattamento si presenti come un'opera compiuta, un film scritto sulla carta. Anche il trattamento può usare il tempo passato, distanziando la storia e inserendola subito nel già accaduto. Le ragioni sono le stesse che ispirano la scrittura del soggetto. Solo che qui la sensazione di avere a che fare con una vicenda realmente avvenuta aiuta ad accettare meglio gli eventuali passaggi difficili, meno credibili. Per tale ragione suggerisco a uno sceneggiatore questo tempo verbale.

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e) Dal romanzo al film Prima di passare all'ultima tappa del lungo lavoro di sceneggiatura, non posso fare a meno di accennare alla trasposizione cinematografica di un testo letterario. E una circostanza che capita spesso. Da un romanzo dobbiamo tirar fuori un film. Vediamo qual è il procedimento più opportuno. Il libro va letto innanzi tutto con ingenuità, con spirito libero, godendone tutti gli aspetti. Servirà a «prendere contatto» con quanto il romanzo non racconta, con quanto ci emoziona o ci diverte. Assorbiremo un numero altissimo di segni non codificabili. Fatto questo, lasciamo il libro e cominciamo a fantasticare liberamente dentro quel mondo per noi nuovo, e forse in apparenza anche distante. Fatalmente ci ritroviamo qualcosa che ha a che fare con noi, e quindi con la contemporaneità. Approfondiamo questi dati e, tornati al libro, cerchiamone i sintomi più evidenti. Sappiamo, perché stiamo facendo cinema e non letteratura, che dobbiamo spostare la storia da un linguaggio ad un altro linguaggio, e cioè da una costellazione di convenzioni ad un'altra. Quindi è normale essere costretti a «tradire» nella lettera quel testo. Ciò che si può tentare di fare è di non tradirlo invece nello spirito. E l'unico modo per farlo è, appunto, prendere «contatto» con la zona profonda dell'opera. Solo a questo punto entriamo in una «mentalità» cinematografica. Allora consideriamo il romanzo come un trattamento, un testo evocativo in cui è ben nascosta la griglia narrativa. E cominciamo il lavoro inverso a quello fin qui descritto: dal libro ricaviamo uno scalettone e da questo risaliamo al soggetto. Lo scopo è di ripercorrere le strade dello scrittore, ma con mentalità «da laboratorio». Seguiamo queste modalità: sfogliamo il libro dalla prima pagina e ogni volta che il racconto passa da un ambiente ad un altro tracciamo una linea a matita e nu-

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ineriamo. Bisogna tener presente che ci sono libri con pochi ambienti: in tal caso si traccia la linea o sui passaggi di tempo o sui cambiamenti forti di situazione. Quindi si prende un foglio e, in corrispondenza di ogni numero, si riassume il più brevemente possibile ciò che succede in ogni scena, facendo attenzione a «cogliere» le metonimie (sia quelle meccaniche che le altre). Per il momento è consigliabile trascurare le psicologie e restare sui fatti. Alla fine avremo la scaletta del romanzo. Mettiamo ora da parte il libro e concentriamoci sulla scaletta. Ci accorgeremo che è un materiale cinematograficamente scombinato, con scene lunghissime, con troppi pensieri e flashback. E soprattutto sembra un film chilometrico. Il linguaggio letterario non c'è più, quindi manca il «collante», la sostanza espressiva. Avremo davanti una trama secca e povera di senso se non torniamo con la mente al romanzo. Pensando infatti al romanzo (nella sua essenzialità astratta, nel suo «spirito»), cominceremo a cercare in questa scaletta sei, sette punti drammaturgici fondamentali. Inquadriamo ora un possibile soggetto cinematografico (che si può appuntare su un foglio), concepito cioè nel linguaggio del cinema. Da questo momento ci comporteremo come di fronte al progetto di un film a soggetto (inventato da noi). Si torna alla scaletta tenendo presente che il libro è sempre li a proporci situazioni e a ispirare nuove soluzioni narrative. Finché si arriva alla fase del trattamento, ma in questo caso ci si può fermare allo scalettone, dal momento che la profondità dei personaggi è il libro stesso a fornircela. Dallo scalettone si passa successivamente alla sceneggiatura. Della complessa questione dei dialoghi parlerò più avanti; ciò che qui va detto è che i dialoghi eventualmente presenti nel libro non possono essere trasferiti di sana pianta. Le ragioni si intuiscono facilmente. La principale di queste è che nel romanzo essi sono scritti letterariamente, senza una faccia visibile

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che li recita. I dialoghi del romanzo, inoltre, hanno una lingua strettamente connessa allo stile di scrittura, a questo si rapportano e non ad altro. f) Sceneggiatura Quando avremo anche «appuntato» i dialoghi di ogni scena potremo finalmente metterci a tavolino e scrivere la sceneggiatura. Ricordate il copione radiofonico ? Il procedimento è simile, solo che a sinistra della pagina, invece di indicare «ciò che si ascolta», bisogna descrivere «ciò che si vede». La parte destra è occupata dai dialoghi. A sinistra il testo è composto di paragrafi, ognuno dei quali corrisponde idealmente a una inquadratura. Negli Usa, fino ad alcuni anni fa, questi venivano preceduti dalla precisa indicazione del taglio (PP, CARR., CL, ecc.). Oggi si usa sempre più spesso lo story board, cioè il film inquadratura dopo inquadratura, disegnate in successione come in un fumetto. E un metodo molto utile per le varie fasi di lavorazione del film, è di innegabile suggestione e inoltre permette di risparmiare sul tempo che il regista impiega a cercare la posizione della macchina da presa. Molti chiamano questi vari paragrafi didascalie. In questa parola è espressa la funzione della colonna di sinistra, che deve essere appunto didascalica, tecnica, molto sintetica. La lunghezza di ogni paragrafo deve in un certo senso corrispondere alla durata dell'inquadratura. La descrizione di un'espressione non può dilungarsi troppo se poi diventerà un'immagine di pochi secondi. Un solo aggettivo, .giusto, basta a evocare uno stato d'animo complesso. E l'unico modo che lo sceneggiatore ha per suggerire un ritmo. Descrizioni lente e ricercate rallentano la scena: naturalmente vanno benissimo se è proprio questo lo scopo. E soprattutto importante lasciare intorno ad ogni inquadratura un'aria sfumata nella quale regista e attori possano trovare spazio inventivo. Non bisogna dimenticare infatti

LA COSTRUZIONE DI UNA SCENA

che mentre lo sceneggiatore lavora nell'assoluta libertà della fantasia, un regista è di fronte a un materiale concreto, che non sempre può plasmare come desidera. Egli dovrà fare virtù dei pregi e anche dei difetti degli attori e degli ambienti. E sbaglierebbe se si impuntasse a ricercare l'esattezza della pagina scritta. Anzi, il difficile compito di «inverare» la fantasia, di rendere tutto «carne», lo costringe a entrare in competizione con le pagine scritte. E un grande regista sa benissimo che ogni modifica della sceneggiatura (anche interna a un personaggio) comporta una serie di piccoli aggiustamenti nelle scene che precedono e che seguono. Succede qualche volta che lo sceneggiatore (che d'istinto poco si fida del regista e degli attori), per essere sicuro di un risultato espressivo, pecchi di « troppa chiarezza» insistendo su un particolare. Solo il regista può verificare se alcuni segnali rischiano di essere ripetuti: lavorando con gli attori e in ambienti concreti, alcuni particolari immaginati si trasformano. Ricordo un episodio accaduto durante la lavorazione di un film di Marco Bellocchio, intitolato Salto nel vuoto, alla cui sceneggiatura ho collaborato. E la storia di un fratello e di una sorella della buona borghesia, non più giovani, conviventi ed entrambi non sposati. Per evidenziare la frigidità e la ritualità del loro rapporto, avevamo «messo» nella loro casa una cameriera col suo bambino, innamorati uno dell'altro: la felicità di queste due creature doveva «evidenziare» l'infelicità delle altre due. Sulla carta avevamo costruito una serie di scene «affettuose» tra madre e figlio. Ma Bellocchio sul set ebbe una bellissima idea: la madre e il piccolo giocano allegramente sul divano, lui mastica una gomma americana (non prevista in sceneggiatura). Il chewing-gum passa da una bocca all'altra. Il caso vuole che il ragazzino, tirando con i denti, formi con la gomma, indietreggiando, un lungo filo. Madre e figlio si guardano divertiti negli occhi, con amore tenerissimo. Quando quelle immagini vennero proiettate sul grande schermo, il giudizio fu unanime e istantaneo: l'inquadratura, da sola, raccontava già tutto. Altre sce-

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ne «sull'argomento» avrebbero indebolito, annacquato, quell'immagine cosi precisa e ineffabile, cosi emozionante. La macchina da presa aveva trovato una sintesi che mai si sarebbe potuta inventare scrivendo la sceneggiatura. Per mostrare come appaiono le pagine di un copione cinematografico propongo qui sotto le prime scene della sceneggiatura di Umberto D. Scena i STRADA CENTRALE DI ROMA - EST. GIORNO Un corteo ordinato e pacifico percorre una strada centrale. Il corteo è composto soprattutto di vecchi e vecchissimi. Ce ne sono dei curvi, degli zoppicanti, di quelli che faticano a seguire il corteo e fanno delle brevi corsettine per stare a fianco degli altri. Quelli di testa hanno dei grandi cartelli sui quali è scritto: Abbiamo lavorato tutta la vita. Anche i vecchi devono mangiare. Giustizia per i pensionati. Siamo i paria della Nazione. Aumentate le pensioni. La gente ai lati della strada guarda indifferente questo corteo. Qualcuno sorride. Qualche guardia segue e sorveglia con discrezione i dimostranti.

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108 Un autobus sopraggiunge da Piazza Venezia, con un grande strombettio obbliga il corteo a un rapido scompaginamento. L'autobus prosegue portandosi dietro una scia di proteste del corteo che si ricompone in fretta. Il corteo svolta per una via laterale. Scena 2 VIA LATERALE - EST. GIORNO Il corteo sta dirigendosi verso una piazzetta. Là in fondo appare un nugolo di guardie su camionette che sbarrano la strada. Il corteo prosegue in silenzio. ABBAIAMENTO DEL BAMBINO

Un bambino dal marciapiede abbaia verso un cane che un vecchio sui sessantanni - Umberto D. (un vecchietto molto simpatico, sempre un po'imbarazzato, vestito modestamente ma con dignità) tiene al guinzaglio. STROMBETTIO DELL'AUTOBUS IMPRECAZIONI, GRIDA DEI DIMOSTRANTI

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Il cane risponde abbaiando e cercando di svincolarsi dal guinzaglio per : contro il bambiABBAIAMENTO DEL CANE

Il bambino sul marciapiede gli cammina a fianco continuando ad aizzarlo con abbaiamenti. Il vecchio a disagio per l'abbaiamento del cane, guarda i suoi vicini di corteo con l'aria di chi vuole domandare scusa: poiché il cane continua ad abbaiare, Umberto D. minaccia di inseguire il bambino, batte i piedi. Il bambino scappa via mentre... ... tutti i dimostranti cominciano a scandire in coro le loro proteste. CORO PROTESTE: Au-mento'. Au-men-tol Au-mento'. Au-men-tol Pen-sio-ni! Pen-sio-ni! Il vecchio si associa anche lui al coro dei dimostranti dopo un attimo di esitazione come a prendere coraggio, mostrando cosi la sua timidezza.

Scena 3 PIAZZETTA - EST. GIORNO Il corteo si blocca nella piazzetta. Un commissario con alcune guardie va incontro al corteo facendo segno che si fermi. Il corteo si ferma. IL COMMISSARIO: Dovete sciogliervi, non avete il permesso . Alle spalle del commissario stanno arrivando a passo d'uomo alcune jeep. I dimostranti circondano il commissario gridando le loro proteste. VOCI DEI DIMOSTRANTI: Vogliamo essere ascoltati. Siamo cittadini che pagano le tasse. Moriamo di fame. Siamo stanchi di aspettare... I primi investono le guardie mentre dal fondo si odono le voci di quelli che spingono. voci: Avanti'. Avanti! Avanti! II commissario e le guardie sono travolti dai dimostranti. Allora le jeep suonano le sirene, e con lo scappamento aperto cominciano a fare evoluzioni a destra e a sinistra.

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I vecchi si spaventano e fuggono in tutte le direzioni. SIRENE DELLE JEEP - FRAGORI DEGLI SCAPPAMENTI

- SIBILI DEI FISCHIETTI DELLA POLIZIA - URLA, GRIDA. I vecchi sono inseguiti dalle guardie e dalle jeep. Qualche vecchio attraversa la piazzetta con una velocità sorprendente. Altri vecchi schizzano via davanti alle jeep come ranocchi. Parecchi si rifugiano nei portoni o nei negozi. Umberto D., col cane al guinzaglio che abbaia, corre più forte degli altri. Entra anche lui in un portone precedendo altri due vecchi. Il lettore può provare a indicare con la matita il piano corrispondente ad ogni didascalia, tenendo presente che si tratta di scene di massa, vale a dire con parecchi campi larghi. Il film è del '52, oggi probabilmente le stesse scene verrebbero girate in altro modo (e quindi scritte in altro modo). Chi ne avesse voglia, tanto per esercitarsi, potrebbe riscriverle, «giocandole» magari più sui dettagli che nelle panoramiche. A destra della pagina Zavattini ha indicato ciò che compare nella colonna sonora: effetti (cioè rumori) e dialoghi. All'epoca si segnalavano anche gli «attacchi» e gli «stacchi» della musica di commento. Questa consuetudine è scomparsa: nelle moderne sceneggiature sono scritti solo i dialoghi. D'altra parte gli effetti sono

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ovvii e la musica è sempre meglio concepirla^ e misurarla al millimetro una volta montato il film. È lo stile del regista a determinare gli interventi musicali. Un'ultima annotazione: quando si commenta un dialogo, non è necessario mettere la didascalia a ogni battuta. Basta un'indicazione iniziale sullo stato d'animo dei personaggi e le opportune sottolineature quando essi hanno una reazione (ridono, piangono, si muovono, ecc.) Il tipo di sceneggiatura, a due colonne come quella di Zavattini, è chiamata all'italiana. E prevede che al termine di ogni scena si cambi pagina. Questo perché l'organizzatore del film, senza usare le forbici, possa staccare dal copione le singole scene ed infilarle nelle relative cartelle, sulle quali è segnato l'ambiente in cui esse si svolgono. La sceneggiatura all'italiana ha in genere una lunghezza che va dalle 160 alle 200 pagine dattiloscritte, in rapporto al ritmo narrativo: i copioni di film molto parlati richiedono meno pagine perché una pagina dialogata ha nel film una durata maggiore rispetto a una muta. Gli americani e i francesi, invece di dividere il foglio verticalmente scrivono le didascalie a pagina piena, il dialogo viene centrato e le scene si susseguono senza soluzione di continuità, anche nella stessa pagina. Quindi la lunghezza dei loro copioni viene quasi dimezzata, e le pagine sono tra le 90 e le 120 circa. Vediamo quali sono i materiali che ha sul tavolo lo sceneggiatore prima di cominciare a scrivere il copione. Innanzi tutto lo scalettone definitivo e/o il trattamento. In realtà, in questa fase, egli conosce le scene a menadito: consulta quei fogli solo per verificare di non dimenticare qualche dettaglio importante. Ma ciò che lo preoccupa, perché lo sperimenta solo ora per la prima volta nella costruzione di questo castello che sarà il film, è il dialogo, cioè la colonna di destra. Su alcuni fogli lo sceneggiatore ha già una prima stesura dei dialoghi, deve ora farli fermentare dentro una scena.

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Ogni singola, minima battuta, deve diventare «cinema». Quindi è vero che la sua principale preoccupazione è la colonna di destra, ma essa può funzionare bene solo se «resa viva» da quella di sinistra, cioè dalle immagini. Per esempio se vuole che una battuta riveli allusioni, ammiccamenti, provocazioni, menzogne, turbamenti deve farla accusare al personaggio che l'ascolta, deve cioè prevedere e mettere in didascalia la sua reazione: è questi infatti che offre la chiave di lettura di ogni battuta. In cinema sono fondamentali i piani d'ascolto: le inquadrature di chi ascolta le parole pronunciate da altri. Se un giorno, camminando per la strada, ci fermassimo a guardare un marito e una moglie che litigano sul marciapiede e li ascoltassimo, capiremmo solo quanto si dicono esplicitamente. Ciò che invece si comunicano realmente non lo afferreremmo mai: il loro è un metalinguaggio, un discorso riferito ad un universo a noi sconosciuto dove le parole hanno perso il significato letterale. In una scena cinematografica (ma anche teatrale) succede spessissimo il contrario. Lo spettatore conosce (perché suggerito a lui dalla drammaturgia) ciò che potrebbero dirsi direttamente i personaggi, senza nascondersi dietro le parole, e ascolta incuriosito le loro reticenze, le loro ipocrisie, le loro generosità, i loro timori, le loro menzogne, le loro sordità, ecc. ecc. E come se quella moglie e quel marito che litigano per strada noi li conoscessimo nella loro intimità, e decifrassimo tutto quanto non si dicono a chiare lettere. E con tali premesse che lo sceneggiatore ha scritto in fogli sparsi i dialoghi. Ora però, suggerendo le espressioni della faccia, i movimenti, i balbettii e i tremori dei personaggi, non fa che «dire» allo spettatore: «Questa battuta ha provocato un dolore, quest'altra non è stata colta nella sua insidia, quest'altra ancora è una bugia».

Il dialogo. L'universo del dialogo, di cui il teatro è il cuore, ha una complessità e un'oscurità disarmanti, che inducono lo scrittore, nel momento in cui deve far parlare qualcuno, a regredire nella propria autobiografia, sia quella reale che quella mitizzata. Nelle pieghe della voce di un personaggio c'è, in «falsetto», la voce di chi scrive. Per riuscire a dare verità alle parole di un personaggio che ci è molto distante bisognerebbe entrare profondamente in una personalità che non si trova in natura ma si muove come un fantasma dentro di noi. Nessun essere umano che compare in un libro, in un film o in una commedia, esiste nella realtà. A renderlo coerente e credibile sono le sintesi operate dallo scrittore. E queste sono possibili a condizione che l'autore sappia incarnare una figura che egli conosce fantasticamente, che sta già nel suo immaginario. Un certo temperamento schizoide è sempre presente in uno scrittore. Egli, fintanto che il personaggio agisce in silenzio, riesce a tenersi lontano da lui e dalla sua coscienza, ma quando giunge il momento di fargli aprire bocca si trova costretto a portare allo scoperto il suo modo di sentirsi nella vita, il suo modo di raccontare se stesso. E solo parlando che un personaggio ci dice, spesso involontariamente, le sue verità. E perché una verità risulti tale è necessario che prendano risalto le menzogne fra le quali egli agisce e si esprime con naturalez-

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za. Quelle menzogne separano il personaggio dallo scrittore: se cosi non fosse lo scrittore, al pari del parlante, non avrebbe coscienza del mondo nel quale è calato e renderebbe il personaggio simile a se stesso; tuttavia egli, per esprimere compiutamente il sentimento della gabbia senza sbarre di una realtà bugiarda, va a pescarlo dentro di sé, nella propria biografia più segreta. Un sentimento che trasferisce, dopo averlo opportunamente travestito, al personaggio. Solo cosi quest'ultimo può sottrarsi a uno sguardo moralistico, puntato su di lui dall'alto. Calarsi in qualcuno e farlo parlare vuol dire assumere, insieme al suo lessico, le sue ragioni e le sue contraddizioni; quanto di menzognero contengono le sue parole trova riscontro nelle incertezze e negli smarrimenti dello stesso scrittore. Le bugie hanno espressioni che vanno al di là del loro contenuto. In un addio pronunciato dal protagonista si nasconde, da qualche parte, un qualche sconosciuto addio dello scrittore. Nell'Idiota Dostoevskij rivive la sua terribile esperienza di condannato a morte attraverso le parole del principe Myskin. Ciò che più parla nelle parole è il silenzio. E, come vedremo più avanti, in teatro il silenzio viene raccontato attraverso il monologo. Osserviamo la nostra vita. Se ognuno di noi contasse il tempo in cui parla con gli altri nel corso di una giornata si accorgerebbe che si tratta di minuti e non di ore. Supponiamo, con molta generosità, di concentrare in un'ora il nostro «parlato» di un intero giorno, a disposizione del silenzio ce ne restano ventitré. Se otto le passiamo dormendo, per ben quindici ore non usiamo la parola. Passiamo insomma il novanta per cento della nostra vita senza dire una parola, chiusi in noi stessi. Ma quante cose succedono in quel silenzio. Quasi tutto. Agiamo, prendiamo decisioni, pensiamo. Ma facciamo anche cose di cui neanche ci accorgiamo. Per esempio custodiamo le paure, teniamo a freno l'ira, fantastichiamo, giudichiamo, ci lasciamo turbare, controlliamo le emozioni o le cerchiamo, siamo scontenti o contenti, rimuoviamo le angosce, me-

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tabolizziamo le cattive notizie, ci accettiamo, ci rifiutiamo, eccetera. Dentro il silenzio diventiamo più bambini oppure ci confessiamo l'inconfessabile, parliamo con Dio, non ci vergognamo dei nostri impulsi, non siamo terrorizzati dai tabù, desideriamo ciò che gli altri ci vietano, ci vien voglia di uccidere, di fare all'amore, di scappare. E tutto questo avviene quando siamo seduti nel vagone della metropolitana, mentre attraversiamo una strada, prendendo un caffè al bar, nelle sale d'aspetto, davanti allo specchio con il pettine in mano, accendendoci una sigaretta. La nostra immensa vita silenziosa e sommersa non scompare d'incanto quando usiamo la parola. Parlare è sempre un po' balbettare, ha in sé qualcosa di repressivo, di formalizzato e contempla sempre, nascostamente, una frustrazione, in quanto la complessità del silenzio (nel quale trascorre gran parte della esistenza) non passa attraverso la lingua parlata. La parola detta a un altro prende come sistema di riferimento un codice condiviso, che si richiama a una cultura, a modelli di comportamento da tutti riconosciuti. In quell'ora in cui parliamo troviamo i punti d'appoggio nello ius, nella legge degli uomini in comunità, mentre in tutte le altre ore del giorno (e della notte, visto che sognamo) ci lasciamo anarchicamente governare dal fas, cioè da leggi metafisiche, antropologiche o religiose. Uno scrittore non può fare a meno di attingere a questa zona muta dei suoi personaggi. In fondo il suo mestiere è proprio questo: far emergere in superficie quanto gli uomini rimuovono. Il suo sembrerebbe quasi un ruolo terapeutico. L'umanità racconta i suoi segreti solo attraverso l'arte. Basta adesso con i massimi sistemi e torniamo ai «trucchi del mestiere». Butto giù il più brutto dialogo possibile (mi ispiro a un film che purtroppo ho visto) per indicare subito quello che non bisogna fare. Il film inizia cosi: un uomo e una donna stanno di fronte, al di qua e al di là di un tavolino.

n6 DA VICINISSIMO LUI . Tu non puoi parlarmi cosi Maria ...io sono tuo marito da sei anni e lavoro dalla mattina alla sera alla Stando per un milione al mese! LEI . Invece ti parlo cosi, Giovanni, perché stiamo poco insieme visto che anch'io lavoro, ma all'ltalsider... e poi ti dimentichi di nostra figlia Teresa... LUI: Ma lei va a scuola, fa la quinta elementare... ecc. E evidente che i due personaggi stanno passando informazioni al pubblico. Sanno bene di essere marito e moglie, di chiamarsi Maria e Giovanni, di avere una figlia di nome Teresa che fa la quinta elementare e di lavorare uno alla Standa e l'altra all'ltalsider: non hanno bisogno di dirselo. Non è un dialogo ma un a parte, o meglio: un a parte travestito da dialogo. L'esempio mette a fuoco un problema che è sempre presente in un dialogo: chiarire e spiegare nel modo più invisibile. Tanto che possiamo considerare valida l'equazione: meno informazioni ci sono tanto più il dialogo è efficace. L'autore della goffa lite dei coniugi ha fatto l'errore di mettere subito in conflitto due personaggi di cui lo spettatore non sa proprio nulla. E una situazione identica all'esempio che ho fatto prima, dei due che litigano per strada. Non è certamente vietato cominciare un film con due persone che parlano, ma a condizione di non sovraccaricare il dialogo con l'extratesto (con quanto non fa parte del testo). Bisogna trovare il coraggio di rimandare a dopo le informazioni. Qui oltretutto si tratta di dati elementari (riguardanti la parentela fra i personaggi, il loro lavoro, l'età, ecc.) che possono essere trasmessi a piccole dosi e in momenti diversi. Molto più spesso lo scrittore ha necessità chiarificatrici ben più complesse, legate alle reticenze e alle bugie dei personaggi. Lo spettatore è in grado di capire tutto solo se è stato preventivamente fornito di un certo numero di informazioni. Vediamo allora in quali scene si corre di più il rischio di un dialogo strumentale. Continuo a esprimermi in termini cinematografici, ma il discorso si allarga anche agli altri linguaggi.

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"118 Come abbiamo visto in ogni film ci sono alcune scene «forti», in corrispondenza dei nuclei narrativi più importanti. Sono le scene madri. Ognuna di queste è preceduta da una serie di, chiamiamole cosi, scene figlie, che servono a prepararla. E perché la scena madre sia pienamente espressa (con zero informazioni), nelle scene figlie bisogna seminare alcuni indizi, sospetti, metonimie e piccole rivelazioni (informazioni al pubblico) che hanno una funzione narrativa. Queste scene corrono il rischio di rivelare smaccatamente il loro ruolo informativo, di servizio. Sempre per familiarizzare con il gergo di chi scrive, si dicono appunto telefonate le scene o le situazioni spudoratamente strumentali. Ad esempio tutte le volte che qualcuno toglie i bossoli a una pistola (in una scena figlia) l'arma finirà fatalmente nelle mani di qualcun altro che la crede carica (nella scena madre). Nel dialogo può succedere la stessa cosa: se qualcuno implora un altro di non andare in un certo posto, è certo che quello ci andrà. In questo caso il dialogo «serve» e se si vede che «serve» non è mai bello. Bisogna impedire che il pubblico pensi: «guarda che combinazione ! » In situazione. La bravura di un «dialoghista» (in Francia è persona diversa dallo sceneggiatore) si misura soprattutto nel lavoro preparatorio di una scena dialogata. Affinché due personaggi possano parlare fra di loro devono prima essere messi nella situazione di farlo. Vale a dire che bisogna in precedenza preparare bene il terreno, proprio come si fa quando si semina. Per comprendere che cosa sia un dialogo drammaturgico basta analizzare il suo opposto: il dialogo dottrinale. Due chiacchiere tra Platone e Socrate verteranno sicuramente su problemi che li riguardano solo come rappresentanti del genere umano. Difficile im-

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maginare che due personalità di quel calibro si intrattengano sulle corna dell'uno e l'ulcera dell'altro. In realtà sono due tinche che fanno parlare il loro pensiero, le loro filosofie e non le loro intimità. Non c'è bisogno che i due siano «messi in situazione», perché il lettore non sarà mai incuriosito dal loro rapporto personale, se ne sta li a bearsi della loro intelligenza e degli alti contenuti dei discorsi. Ho detto «discorsi» non a caso, perché i dialoghi dottrinali non sono mai battibecchi («botta e risposta») ma veri e propri brani articolati letterariamente. Il Don Giovanni di Molière pone problemi di messa in scena (è l'opera più criptica del grande drammaturgo) proprio perché in conflitto sono chiamate due filosofie: l'idealismo di Don Giovanni e il pragmatismo di Sganarello. Lo spettatore è perennemente indeciso se «identificarsi» con il loro pensiero o con le persone. E poiché le azioni dei protagonisti sono mosse quasi esclusivamente dal lavorio intellettuale, i «fatti» risultano alla prima lettura paradigmatici, procedono cioè in funzione di una tesi. Si tratta in ogni caso, per il Don Giovanni di Molière, di un capolavoro assoluto, la cui teatralità è giocata su un piano non realistico e la cui coerenza drammaturgica passa attraverso il pensiero. Tutto il teatro cosiddetto scritto, concepito lontano dal palcoscenico e dove lo stile di scrittura è autoreferenziale (vive autonomamente rispetto ai personaggi), fa del pensiero e della letteratura il suo assunto principale. Basta pensare a Eliot, a Pasolini, ai dialoghi di Pavese. Ma occupiamoci del dialogo drammaturgico. Da quanto ho appena detto si intuisce che esso, al contrario degli scambi filosofici tra Socrate e Platone, racconta le anime, la loro singolarità, i loro silenzi. I personaggi che parlano hanno la responsabilità delle loro parole, non esprimono il pensiero dell'autore. La consuetudine scorrettissima di attribuire a uno scrittore frasi pronunciate da un suo personaggio ha provocato nei secoli clamorosi fraintendimenti. Non si può met-

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tere in calce alla frase « Fate astinenza questa notte e vi sarà più facile la prossima» il nome di Shakespeare (che l'ha scritta) quando è Amleto che la pronuncia. Prima di mettere uno di fronte all'altro due personaggi lo scrittore deve «preparare l'ambiente» (non intendo il luogo, ma la tensione, l'atmosfera). Se, per ipotesi, un insegnante chiedesse ai suoi studenti di abbozzare un dialogo tra due amici, bisognerebbe subito rispondere che è impossibile. E questo perché sul dialogo verrebbe a pesare la responsabilità di «raccontare un antefatto noto ai protagonisti». D'altra parte cosa possono dirsi di interessante due persone se non fanno riferimento a qualcosa che è successo e che li ha in qualche modo coinvolti ? E di ciò che è avvenuto il lettore va informato se lo si vuole mettere in condizione di cogliere il senso di ciò che si dice. Gli studenti avrebbero troppo e niente da scrivere, andrebbero, come si dice, in barca, cioè di qua e di là senza una meta precisa. Ogni dialogo si riferisce più o meno direttamente a un contenzioso. Non basta: entrambi i personaggi debbono essere protagonisti di quel contenzioso, altrimenti uno ha la funzione di tinca, di qualcuno cioè che è solo tutt 'orecchi. L'insegnante dovrebbe piuttosto assegnare quest'altro compito: «dati due personaggi, impostate un antefatto in virtù del quale, una volta che i due sono uno di fronte all'altro, non c'è bisogno che parlino perché il lettore già sa cosa si direbbero». E infatti questa la situazione ideale per scrivere un buon dialogo: il lettore sa cosa hanno da dirsi i due e lo scrittore, a questo punto, è libero di divagare a piacimento, di «prenderla alla larga», di far parlare apparentemente d'altro. Una madre scopre di nascosto che il figlio si droga. Il figlio sa che lei lo sa. Lei gli prepara la colazione e comincia a parlare. Sarebbe troppo semplice e banale: cane cane - gatto gatto (è una frase di gergo - dal significato intuibile - che indica la duplicazione di un dato già fornito, il ritorno pleonastico di un segnale), che gli dicesse subito: «Ho scoperto che ti droghi! » Il

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lettore è informato di tutto, anche che il ragazzo si è accorto di essere stato smascherato. Se parlano d'altro, se lei gli racconta, che so, una birichinata che ha fatto da ragazzina, il lettore si incuriosisce, si chiede quali sono le sue intenzioni, in che modo entrerà in argomento, e anche, contemporaneamente, se il ragazzo, prima o dopo, rivelerà di sapere che lei è al corrente del dramma. I personaggi raccontano se stessi, il loro modo «particolare» di essere al mondo. Un personaggio si può tratteggiare nella sua essenza ineffabile solo nell'incontro con gli altri, quando parla. In una situazione come questa il dialogo è totalmente libero, non ha informazioni da «far passare» ma solo emozioni. Uno scrittore, dicendo di meno (non informando), dice di più. La vita silenziosa dei personaggi emerge nelle titubanze, nelle insicurezze, nelle paure, perché in gioco ci sono temi quali la maternità, la solitudine, il senso di colpa, la speranza della salvezza, ecc. Tutta materia tratta dalla vastissima, segreta «enciclopedia del silenzio» che forma gran parte delle nostre vite. La «messa in situazione» dei personaggi risulta più facile quando è forte il loro contrasto, al di là dei caratteri. Se inquadriamo un padrone e un servo, la dinamica del loro rapporto si nutre di una forte extratestualità. E di per sé una «situazione», basta far posare una mosca sul naso di uno dei due che già possono parlare. Lo stesso vale per un medico e il suo paziente, il re e il suo buffone, il cavaliere e il suo scudiero, il comico e la spalla, la guardia e il ladro, ecc. Un'altra «situazione» è la decontestualizzazione: naufraghi su un'isola, gli incontri nella suburra di un re travestito, un barbone al ristorante, un diavolo in paradiso, ecc. Alcune scuole di teatro, specialmente in Francia, fanno un lavoro particolare e interessante con gli attori. Questi, durante le prove, passano lunghe ore a «ricercare» il proprio personaggio. Dopo averlo studiato attraverso una ricca documentazione, salgono sulla pedana e provano piano piano a farlo esistere. Ricordo

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un'esercitazione in cui un'attrice doveva ricoprire il ruolo di una cameriera che lavorava presso una grande villa. L'esercizio consisteva nel bere una tazzina di caffè. Il regista le disse che era sola in giardino, dopo una mattinata di lavoro: doveva uscire e bersi beatamente il suo caffè. Lei esegui: si gettò su una poltrona di vimini e, stanca e scosciata, succhiò lentamente il suo caffè. A questo punto il regista fece entrare in scena l'attore che ricopriva il ruolo del giardiniere, con la zappa in mano. La donna non batté ciglio. Allontanatosi il giardiniere, fece il suo ingresso una elegantissima e austera signora, la padrona della villa. La cameriera saltò subito in piedi e smise di bere. Poi giunse il padrone, un bell'uomo. La cameriera sorseggiò il caffè in modo diverso: con finezza quasi ostentata, civettuola. Insomma, davanti alla cameriera sfilarono i ventisei personaggi della commedia: l'attrice si esercitò a trovare ventisei modi diversi di comportarsi, con una situazione di base sempre uguale. Nella commedia non era previsto che la cameriera prendesse un caffè, tuttavia quell'esercizio era utile all'attrice per capire «chi era» e per costruirsi, in relazione con gli altri personaggi, un background, un piccolo passato, una memoria personale. Ogni attore «improvvisava» un comportamento, un modo di essere e di muoversi che modificava leggermente a seconda di chi gli capitava davanti. Si chiamavano esercizi di fantasia corale. Era un lavoro che aiutava l'attore ad «uscire da sé» per assumere i panni di qualcun altro. Un lavoro molto somigliante a quello dello scrittore. Un attore che resta troppo distante dal personaggio tende d'istinto alla caricatura, a imitare un cliché. Quando infine vidi lo spettacolo rimasi estremamente colpito dall'infinità di segni che dal palcoscenico si trasferivano alla platea, tutto «parlava», ogni gesto aveva una densità quasi iperreale, e non raccontava meno del testo e della voce che lo recitava. Un testo teatrale non scritto «a tavolino» ma ideato sulla misura di una compagnia, tiene conto del fat-

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to che un dato attore e una data attrice possono «raccontare» molte cose con la loro vis, con la loro immagine, con il talento. E un teatro immediatamente finalizzato alla rappresentazione, il cui copione è una prima stesura o addirittura un canovaccio. Molière, Goldoni, Shakespeare, Pirandello, De Filippo, ecc. hanno scritto per e sugli attori. Rossini ritoccava continuamente le sue opere e cambiava le arie a seconda dei cantanti. Il copione scritto alla fine delle prove con gli attori ha il dono di essere sperimentato, verificato sul palcoscenico. Ma se viene «letto» a freddo, da un estraneo, non svela subito la sua efficacia. Lo spirito letterario con cui necessariamente ci si accosta al testo non fa emergere la funzionalità di alcune sintesi narrative tutte teatrali e il ritmo con cui si incrociano le battute. I battibecchi, per esempio, che meglio si creano in scena con gli attori, risultano sempre più brevi nella recitazione che nella lettura. Non sono poche le commedie costruite su una compagnia che alla prima lettura risultano ostiche se non addirittura irrappresentabili, ma poi, non appena gli attori salgono sul palcoscenico e le recitano, tutto appare improvvisamente e magicamente chiaro. Il dialogo nel teatro o nel cinema (arti entrambe visive) non vive soltanto sulle parole. Queste cambiano di senso se vengono pronunciate con un atteggiamento o con un altro, muovendosi, gesticolando o rimanendo fermi. E lo scrittore non può non tenere conto di tutta una gamma di possibilità che prescinde dalle parole scritte. Dialogo in teatro. Mettiamo a fuoco, adesso, le differenze tra dialogo teatrale e dialogo cinematografico. Intanto cerchiamo di capire quali sono le convenzioni principali del linguaggio teatrale.

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124 Il palcoscenico è tridimensionale, composto di tre pareti. E nel caso di un ambiente interno la quarta parete, quella che deve alzarsi davanti al pubblico, è ideale, non c'è. Le proporzioni dei luoghi evocati sono anch'esse ideali: una campagna è troppo piccola, un salotto è troppo grande. Dentro quelle tre pareti infatti il pubblico accetta di «vedere» sia una prateria ampia fino all'orizzonte, sia la botteguccia di un calzolaio. La platea inizia a pochi metri dal palcoscenico e finisce a notevole distanza. Non può né avvicinarsi né allontanarsi dai personaggi (come invece avviene nel cinema, nella letteratura e alla radio). Il piano è sempre un totale. Gli attori non possono urlare per farsi sentire dagli spettatori delle ultime file (risulterebbero stonati per quelli delle prime) né possono esprimersi a fior di labbra. Debbono ignorare la presenza del pubblico e nello stesso tempo recitare il più possibile a suo favore (con la faccia rivolta alla platea). Data inoltre la dimensione dello spazio, per rendere visibili i loro gesti essi devono ampliarli in maniera ostentata. Si stringeranno la mano tenendosi a una certa distanza e sottolineando bene il movimento. Se un personaggio deve risultare pallido, vista la lontananza dal pubblico e l'intensità delle luci, l'attore ha bisogno d'imbiancarsi esageratamente il volto. Negli ultimi anni, grazie alla tecnologia - che permette di nascondere un piccolo microfono tra i capelli o negli abiti degli attori - il linguaggio del teatro ha trovato la possibilità di utilizzare meglio il bisbiglio, la parola che si ferma sulle labbra, il suono del fiato e dei sospiri. In Italia questa tecnica è stata perfettamente utilizzata da Carmelo Bene. Certo si tratta di un teatro particolare, che può rinunciare impunemente alla perdita delle profondità foniche, visto che la fonte sonora è una soltanto, quella degli altoparlanti diretti verso la platea. La distanza dell'attore dal proscenio non viene più segnalata dalla lontananza della voce, e un eventuale abbassamento del volume sonoro non indica una distanza dal proscenio ma un calo di voce. Il sen-

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so della distanza può essere offerto solo dalla vicinanza o meno della voce al microfono. Ma poiché questo è fisso, attaccato al bavero, l'effetto non si può ottenere. La sorgente sonora (gli altoparlanti) è bloccata in un punto distante dalla bocca dell'attore che si muove sul palcoscenico. Non solo, ma è impossibile alternare la voce naturale con quella «microfonata» perché sono di materia molto diversa e inconciliabili. Tuttavia l'uso del microfono nel teatro di prosa fa sentire il pubblico più vicino ai personaggi. Ma siccome i testi scritti fino a oggi hanno una impostazione retorica basata sulla voce naturale, la scelta del microfono comporta fatalmente uno stravolgimento dei segni. Per questo un drammaturgo contemporaneo ha bisogno di sapere in partenza se la sua pièce sarà recitata con l'amplificazione. La scenografia, in teatro, è un'evocazione smaccatamente incredibile: una piazza disegnata su un telone, un cavallo di cartapesta, nuvole appese, giardini invisibili, una casa ridotta a una semplice sedia, ecc. Nessun altro linguaggio è altrettanto «innaturale». Cose e persone vsono sproporzionate, gli spazi una pura invenzione. E logico che anche il «parlato», in tanto cartone, sia di cartone: un po' «gonfio», talvolta stentoreo, compiaciuto, architettonico. E quando è basso è enfaticamente basso. Il dialogo teatrale è in sintonia con queste convenzioni cosi estrème. Il drammaturgo deve essere capace di scrivere una battuta che risulti urlata senza che l'attore sia costretto ad urlarla. Lo stesso vale per un dialogo sussurrato: gli spettatori dell'ultima fila non debbono perdere nemmeno un apostrofo. Certamente la tecnica di recitazione aiuta ad ottenere questi risultati, ma il tono della voce è implicito nella battuta. Per esempio un a parte, per quanto recitato a voce alta, sembrerà sempre bisbigliato. E gli a parte hanno uno stile estraneo a quello della commedia: è ammiccante, complice, sfacciato. Alcuni anni fa mi è capitato di andare a vedere una commedia che avevo scritto. Il regista si era innamo-

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126 rato di una battuta sul teatro che io avevo inserito all'interno di una conversazione quasi mondana; l'ha ritagliata, l'ha messa in bocca al protagonista e gliel'ha fatta recitare in proscenio con un faro addosso. Ebbi un colpo al cuore. La costruzione retorica della battuta non era concepita perché fosse «sparata» in quel modo sul pubblico. Mi sembrò incongrua, ridicola e perfino banale. Molti registi, purtroppo, senza rendersene conto, spostando un'azione o decontestualizzando una battuta, stravolgono tutto. Quante volte ho visto scempiare Pirandello, specie nelle sue parti stupendamente ironiche: un controluce e addio ironia, cioè addio finesse. Un regista deve saper leggere i testi e scavarne i segreti, deve cercare di spiegarsi le ragioni che hanno indotto l'autore a costruire in un certo modo una scena, se non vuole rischiare di perdere l'effetto voluto originariamente. Il drammaturgo ha infatti speso la maggior parte del suo lavoro a dare un ordine preciso ad azioni e dialoghi, collegando le prime ai secondi secondo una logica che non sempre è immediatamente decifrabile nel testo finito. Il gioco di appoggi retorici o enfatici e di rimandi allusivi presenti nel dialogo è teso con sapienza a «raccontare indirettamente» i personaggi e i loro rapporti interpersonali. Un regista, prima di prendere qualsiasi iniziativa, deve «prendere contatto» con questa parte invisibile, eppure narrativamente operante del testo. Poniamoci ora una questione. Se nascondiamo un registratore sotto il tavolino di un bar, trascriviamo i discorsi di tre amici e poi li mettiamo in scena recitati da tre attori cosi come sono stati pronunciati, è teatro questo o no ? Si potrebbe rispondere: «dipende da quello che si son detti ! » Questo è pur vero, ma ciò che rende difficilmente «teatrabile» quel dialogo a tre è il contesto, il fatto che manca la platea, il pubblico dell'ultima fila. I tre hanno chiacchierato sapendo che nessuno li ascoltava, senza alcuna «teatralità». Quelle battute infatti, se recitate in teatro, cioè ad alta voce da atto-

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ri, cambiano completamente di segno: i tre personaggi darebbero l'impressione di litigare piuttosto che parlare e comunque ogni frase prenderebbe un'enfasi incongrua, ridicola. Se vogliamo, invece, restituire quella conversazione come si è svolta, bisogna riscriverla tutta secondo le convenzioni del teatro. Il vero si può riprodurre solo con il falso. Quando si apre il sipario su una qualsiasi scenografia non c'è spettatore che non si accorga del cartone, delle luci artificiali, dell'inverosimiglianza della scena. Entra un attore, in costume, che là dentro si muove con naturalezza. Poi entra un secondo attore che dà una cattiva notizia all'altro, il quale sobbalza. Pochi momenti, insomma, e davanti agli occhi del pubblico tutto «s'invera»: quella realtà di cartone diventa il simulacro di una realtà possibile e coerente. Lo scrittore di teatro lavora su questo piano e azioni e parole (salvo che per una precisa scelta poetica) non devono mai rompere l'incantesimo. Anche perché su quell'incantesimo egli imposta la drammaturgia. La «credibilità» delle scene si basa sempre su una coerenza stilistica. La pattumiera in cui vivono i famosi personaggi di Beckett in Finale di partita è una realtà normale in quel contesto. Ed è proprio la normalità (benché «altra») a far scattare i meccanismi drammatici e a fare di Hamm un demone. In teatro il dialogo è di gran lunga più presente delle azioni, la gran parte delle quali, spesso, avviene fuori scena. La ragione è facilmente intuibile: da un lato c'è una oggettiva difficoltà a renderle teatralmente credibili e dall'altro, in un contesto linguistico cosi fortemente evocativo, il racconto d'un fatto accaduto fuori scena ha una «teatralità» (e quindi una verità) ancora più efficace. La drammaturgia si conforma a queste caratteristiche e cerca di «far passare» attraverso le parole recitate tutto quanto nel cinema e nella narrativa è materia di background, di flashback e di passaggi di tempo.

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128 Non è un caso che il teatro tenda naturalmente alle unità di luogo (un ambiente per ogni atto), anche se è del tutto lecito inventare situazioni complicate, bizzarre e insolite. Teoricamente sul palcoscenico, date le possibili stilizzazioni degli ambienti, è legittima anche una storia con mille sfondi diversi. Di fatto nella maggior parte dei testi teatrali pubblicati il numero degli ambienti si conta sulle dita di una sola mano. Naturalmente anche in teatro esiste il problema delle tinche e delle informazioni al pubblico. Ma all'interno del «parlato» teatrale, cosi abbondante e complesso, le informazioni si possono nascondere molto meglio. Basta ad esempio chiosarle con lunghe e acute divagazioni. Nel primo atto dell'Amleto, mentre lo spettro del re deambula senza pace nei dintorni del castello di Elsinore, Orazio racconta l'antefatto (informa), ma immergendolo in un discorso scorato e denso di sinistri presagi: paragona quei brutti giorni del regno con quelli che hanno preceduto la morte di Giulio Cesare. Parla di Fortebraccio, telefonando il finale, nel quale appunto il principe di Norimberga arriva per sedere sul trono che era del defunto Amleto. Le informazioni finiscono cosi per essere «assorbite» da una retorica che le rende «naturali» e suggestive. (Approfitto dell'esempio per ribadire quanto ho già detto, e cioè che la metonimia del finale è spesso seminata all'inizio: i brutti presentimenti di Orazio si avverano). La retorica teatrale, cosi ampia e divagatoria, appunto «di cartone» come il fondale, nata per una platea e una galleria, è per sua natura poco «quotidiana». E anche quando la quotidianità viene messa in scena appare dilatata, un po' sopra le righe e ogni più piccola, casalinga riflessione acquista automaticamente un peso metaforico che non sempre è voluto. Penso al famoso monologo della caffettiera in Questi fantasmi di Eduardo De Filippo. Una vicenda, in teatro, non sfugge a un destino che la vuole trasformare in paradigma. Ogni storia, cioè,

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diventa (anche se è raffinatissima e profonda) variazione «esemplare» su un tema (raffinatissimo e profondo). Lo stesso modo di parlare dei personaggi, sempre tendente all'alto, è costruito con una sintassi particolare: prosa e poesia possono convivere nello stesso testo e il passaggio da una all'altra avviene con armonia, senza alterazioni di stile. Quante anastrofi («Quando, mostrando le belle gambe bianche, pedalavi»), iperbati («Ritroverò le tue, senza dubbio aspre, labbra») o inconsueti giri di frase sono presenti nei testi teatrali anche moderni. Cito il finale di una battuta del personaggio chiamato Toti, nel terzo atto di Pensaci, Giacomino! di Pirandello (lo riporto dall'edizione nei Grandi libri Garzanti). Basta un'occhiata per rendersi conto che la sintassi ha un senso esclusivamente teatrale: il cinema non l'accetterebbe e forse neanche la narrativa. Non so - non so ancora - non voglio sapere chi sia la tua fidanzata. Sarà - se l'hai scelta tu - sarà una giovane per bene. Ma pensa che non è possibile che tu abbia trovato di meglio, Giacomino, della madre di questo bambino. Non ti parlo dell'agiatezza soltanto, bada! Ma tu hai ora la tua famiglia, in cui non ci sono di più che io, ancora per poco, io che non conto per nulla. Che fastidio vi dò, io? Sono come il padre di tutti; e posso anche, se tu vuoi, per la vostra pace, posso anche andarmene. Ma dimmi, com 'è stato? che cos'è accaduto? come ti si è voltato cosi tutt'a un tratto il cervello? (lo prende per le braccia) Figliolo mio... dimmelo, dimmelo. In un romanzo lo scrittore ha la possibilità di «far pensare» il personaggio e di descriverlo nelle reazioni agli stimoli che gli vengono dall'esterno. Anzi, descrizioni e pensieri formano gran parte della sostanza narrativa. Nel cinema un primo piano racconta molte cose: l'espressione degli occhi di un attore può smentire una battuta, rivelare una bugia, un sentimento controverso o un rapimento dello spirito. Nel teatro questo è impossibile. La descrizione di un sentimento, di uno stato d'animo viene demandata esclusivamente al-

LA COSTRUZIONE DEL DIALOGO I130 la parola recitata. Un dialogo teatrale deve esplicitare ciò che negli altri linguaggi è l'implicito, il segreto, il non detto. La parola teatrale non può non contenere anche i ragionamenti, gli arzigogoli della nostra mente. E necessario quindi stabilire subito, fin dalla prima frase dell'opera, un codice retorico che contempli la possibilità attraverso il parlato di esprimere anche il pensiero. Di qui le divagazioni interne alle battute, le chiose; di qui il tono alto. Nella Commedia dell'Arte, dove i personaggi sono maschere codificate che non hanno bisogno di essere raccontate nella loro interiorità, il dialogo è più diretto e sciolto, spesso schioppettante. Il corrispondente «pensiero» in questo caso è già ben noto al pubblico e lo si può dare per scontato. Guardiamo ora come le battute si legano fra loro (enchainement) e soprattutto qual è il meccanismo con cui vengono suggeriti i rapporti profondi tra i personaggi. Per spiegarmi meglio parto al solito da un esempio. A una scrivania è seduto un uomo che chiamiamo A. Davanti a lui, in piedi, c'è un altro uomo, B. Il primo pronuncia una frase, l'altro replica. Ecco le battute: A: «Cretino, sei licenziato! » B: «Finalmente, non ce la facevo più! » Adesso togliamo B e al suo posto mettiamo un altro uomo, c. Questi replica in modo diverso. Vediamo la scena: A: «Cretino, sei licenziato!» c: «Pezzente, vai al diavolo! » Le due reazioni ci dicono che le personalità di B e di c sono differenti. Andiamo a vedere dov'è questa differenza e quali caratteri suggeriscono le due repliche. Cominciamo da B: se facciamo bene attenzione ci accorgiamo che la sua battuta si appoggia su: «sei licenziato! » Infatti risponde: «Finalmente, non ce la facevo più ! » c invece appoggia la risposta su: «Cretino...» Infatti risponde: «Pezzente...» Cosa se ne deduce? Che B non è affatto colpito dall'insulto, non gli dà peso (probabilmente è abituato

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a farsi maltrattare), e accoglie il licenziamento come una liberazione. Quel che offende c è invece proprio l'insulto. Infatti reagisce con un altro insulto («Pezzente...») E facile adesso immaginarsi i due impiegati: il primo remissivo, paziente, che ha mandato giù rospi su rospi; il secondo orgoglioso, sprezzante, sicuro di sé. Le due semplici battute raccontano un licenziamento e contemporaneamente disegnano un ritratto. Se andassimo avanti con il dialogo potremmo tracciare un invisibile filo rosso capace di narrare il tipo di rapporto che lega i due personaggi. Tale filo rosso si ottiene trovando (o creando), in ogni battuta, il punto in cui si appoggerà la replica. Un dialogo risulta scorrevole solo a questa condizione. Chi parla lega il suo argomento alla battuta appena ascoltata, altrimenti ci sarebbe un dialogo fatto a blocchetti, una successione di piccoli monologhi vagamente agganciati uno all'altro. Mostro il più banale e automatico degli enchai'nements per vedere meglio il congegno. Indicherò in corsivo la parte di dialogo «incatenata». MARIO: Quello che hai fatto ieri sera non me l'aspettavo. MARIA: Che ho fatto di tanto scandaloso ? Sono stata me stessa e basta, senza ipocrisie, senza peli sulla lingua. MARIO: Sei stata una pazza! Avevi bevuto e hai tirato fuori la parte peggiore di te. MARIA: E allora rassegnati perché in quella parte riconosco tutta me stessa. Sono stanca di farti da giullare, di dire sempre si! MARIO: Se c'è qualcuno che è stanco... MARIA: ... sei tu! MARIO: Esattamente! MARIA: Hai visto che ti do ragione? [Cioè: «che ti dico sempre si?»] Ci si può divertire, cosi come semplice esercizio, a tracciare il «filo rosso» del dialogo di un film o di una

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commedia. Consiglio di prendere due matite di diverso colore, con una si sottolinea il punto su cui il personaggio si appoggia per la replica e con l'altra il punto a cui l'interlocutore, a sua volta, si aggancerà. Naturalmente tutto risulterà più agevole nei dialoghi rapidi, a «botta e risposta». Quelli più articolati richiedono uno sforzo in più perché i punti d'appoggio non sono cosi meccanici come nell'esempio che ho fatto: non vengono ripetute singole parole o brevi frasi, ma ci si aggancia estendendo o rifiutando un concetto espresso dall'altro personaggio. Alcuni raffinati dialoghisti (un nome su tutti: Marivaux) vanno a pescare i punti d'appoggio un po' più lontano, ottenendo cosi un dialogo fortemente ironico e allusivo, dove i personaggi parlano quasi per sottintesi, come se entrambi avessero coscienza della propria retorica e la usassero con arguzia. Colui che replica va a «pizzicare» quel punto del discorso che più torna utile alla sua risposta. Il lettore, dopo un po', ha l'impressione che i due parlino quasi in codice e che invece di dirsi le cose che si dicono si stiano vicendevolmente lanciando messaggi occulti. Tutti i bravi attori hanno in testa una parola chiave, ne sono quasi ossessionati: intenzione. Quando studiano le battute del loro personaggio si chiedono giustamente «quale intenzione abbia quella particolare frase»: non ciò che vuol dire, ma ciò che non dice. Essi si rendono conto che ogni battuta cambia di senso a seconda di come viene recitata. In realtà il loro lavoro ha una istintiva natura drammaturgica: essi cercano, più o meno inconsapevolmente, i punti d'appoggio sui quali lo scrittore ha tirato il filo di tutto il dialogo. Una volta messo a fuoco questo filo, il dialogo acquisterà improvvisamente senso compiuto e l'attore avrà anche scoperto insieme l'intenzionalità della battuta e il carattere del personaggio. Lo scrittore di teatro che ha la fortuna di poter lavorare in una compagnia, deve fare molta attenzione a

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non lasciarsi troppo condizionare dalla personalità degli attori. Sbaglierebbe se si mettesse a totale servizio delle doti di questo o di quell'altro interprete. Il mondo interiore dello scrittore, la sua particolare fantasia sono ben diversi da quelli degli attori. Qualche anno fa, a Parigi, mi è capitato di dover ideare e scrivere una commedia sulla misura di una compagnia di ventisette attori. Me ne stavo al tavolo accostato alla pedana mentre il regista organizzava davanti ai miei occhi una serie di esercitazioni e improvvisazioni. Un lavoro di mesi. Quegli artisti offrivano al mio immaginario materiali preziosi. Una folta popolazione di personaggi si muoveva davanti a me in modo slegato e casuale. Partendo da quella anarchia dovevo riuscire a tracciare una linea diritta e coerente. Gli attori, pur essendo tanti e diversi, sembravano paradossalmente tutti uguali. Insieme formavano uno strano consorzio umano che mi appariva nevrotico e disarticolato, a caccia di una identità impossibile. La messe di segni che arrivava dalla personalità del gruppo soffocava l'espressività del singolo. Era come assistere a un documentario su una comunità marginale, dove ogni esemplare, per sopravvivere, obbediva a un qualche atavico modello di vita. Uno solo di loro mi faceva fantasticare meglio e con maggiore ricchezza di suggestioni. Mi bastava portarne uno alla volta, mentalmente, lontano dal gruppo per sottrarlo al vuoto e dargli una verità. Nel costruire una «nostra» storia i rischi che correvamo, il regista, la compagnia e io, erano due, e gravissimi. Vediamoli uno alla volta. a) Primo rischio. Ho parlato prima del silenzio, che è la principale fonte dell'espressione artistica. Il silenzio non è di tutti ma di ognuno. Ci sono tanti silenzi quanti noi siamo. Nel momento in cui pretendiamo di accomunarli, di legarli uno all'altro, cambiamo automaticamente punto di vista: il nostro sguardo passa dalle interiorità silenziose alle interrelazioni più o meno sociali tra le persone. Estremizzando il concetto: si passa dalla contemplazione di un'anima all'approccio sociologico. E lo

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134 scrittore che assume totalmente quest'ultimo tipo di visuale non può evitare di comporre un testo paradigmatico, ideologico, moralistico. Un esempio ce lo hanno dato molte opere (soprattutto cinematografiche) firmate da artisti di sinistra che hanno privilegiato il sociale rispetto all'oscurità dell'individuo. I personaggi agivano al servizio di un preconcetto, seppure ipoteticamente non sbagliato. Rinunciavano a se stessi per rappresentarsi vittime di una logica superiore. Lavorare avendo davanti ventisette attori che volevano essere ventisette protagonisti richiedeva in me uno sforzo disumano per non inquadrare la commedia nel genere «sociale», dove il gruppo conta più dell'individuo. Niente di meno spontaneo per uno scrittore. Al contrario: l'unica condizione per «raccontare» (non schematicamente) anche un gruppo, una coralità, è sempre quella di partire dalla individualità e dall'originalità dei singoli. D'altra parte nel far parlare tanti personaggi diversi in maniera convincente lo scrittore deve mettere di fronte personalità portatrici di verità, di verità intime, personalissime. Un dialogo si può definire tale solo quando sono una di fronte all'altra due verità che, in quanto tali, si equivalgono. L'ideale è infatti un dialogo in cui lo spettatore dà ragione al primo che parla e vede in difficoltà colui che si prepara a rispondere. Poi però, non appena quest'ultimo replica, la verità passa dalla sua parte. E via di seguito. In questo modo lo spettatore partecipa creativamente al dialogo, viene continuamente chiamato in causa. Diversamente, se un personaggio ha tutte le ragioni e l'altro tutti i torti, lo spettatore si schiera con «il buono» e non si muove da li: invece di partecipare allo scontro lo subisce, presenzia a una noiosa, «tincosa» lezioncina. In quel mio lavoro con tutti quegli attori imposti dalla circostanza (una compagnia numerosissima) trovavo difficoltà a mettere in scena ognuna delle verità in conflitto. Avrei avuto bisogno di scrivere una commedia di dieci ore per poter raccontare il silenzio di ogni personaggio. b) Secondo rischio. Per quanto ampie possano esse-

135 DA VICINISSIMO re le capacità d'improvvisazione di un attore, egli non uscirà mai dal proprio lessico (orale e gestuale). Quando forza un po' la sua immaginazione imita personaggi che appartengono a una precisa visione del mondo, la sua. E poiché, in genere, gli attori son quasi tutti di origine piccolo o medio borghese, la loro fantasia s'infrange contro il muro della propria cultura piccolo o medio borghese. E ogni volta che essi tentano di rappresentare un'altra cultura tendono alla caricatura o, nei casi migliori, scavalcano le difficoltà varcando la soglia del favolistico, del metafisico, dell'assurdo. Quando infatti la cultura piccolo-borghese - subita (non governata) dagli attori e dallo scrittore - tenta di superare il realismo, di uscire da sé, s'imbatte fatalmente nel crepuscolarismo o nello stravolgimento regressivo della realtà. Il fenomeno è dovuto all'egocentrismo di una cultura che rifiuta ogni alterità, che ha di sé un'immagine totalizzante. Lo scrittore, al contrario, ha bisogno di inventare anche personaggi che siano fuori da quella cultura, che parlino e agiscano secondo logiche diverse. Se cosi non fosse i racconti si mangerebbero tutti la coda, non potrebbero assumere uno sguardo «distante» e l'esistenza dei personaggi si consumerebbe in un mondo senza specchi. A proposito sempre del film di Bellocchio Salto nel vuoto, ricordo le angosce del regista che non riusciva a trovare in Italia un attore che avesse la fotogenia di un giudice dell'alta borghesia, austero e a suo modo marcito dentro la sua cultura. All'ultimo scelse un borghese francese, Michel Piccoli. Lo stesso problema ebbe Gianni Amelio con il suo Colpire al cuore: per il ruolo di un ligio (e anche qui severo) professore universitario, andò a prendere l'attore, Jean-Louis Trintignant, sempre a Parigi. La ragione delle difficoltà a trovare in Italia un attore di cinema (cioè fotogenico, che «regga» un primo piano) in grado di interpretare un personaggio alto borghese è di natura storico-culturale: da un lato la borghesia italiana si propone senza una vera

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136 tradizione visiva e spesso con un'immagine bonaria e cialtrona, sempre pronta a tradire i propri principi e a regredire nella piccola borghesia; dall'altro, quasi mai un figlio dell'alta borghesia si dà al mestiere dell'attore. D'altronde in cinema (dove l'espressione degli occhi racconta verità che appartengono alla persona dell'attore) non è facile, come in teatro, assumere i panni di un personaggio di cui non si ha, culturalmente, la più pallida idea. Nella mia esperienza con il Théàtre àu Campagnol, che all'epoca appunto costruiva drammaturgia sulla base delle improvvisazioni degli attori, sono stati questi gli ostacoli più pesanti da superare. La sera tornavo nel mio studio con la testa piena di idee che però non riuscivano a stare insieme, unite sotto lo stesso tetto. Alla fine decisi di salutare tutti e di mettermi per mio conto a «immaginare» - pur nella suggestione di quanto avevo visto e appuntato durante le performance degli attori - in tutta libertà, inventando personaggi che nessuno aveva improvvisato e cercando di renderli vivi mettendoli in situazione in modo da farli essere ciò che con la semplice recitazione non sarebbero mai diventati. Questo è stato il mio tentativo, e ancora oggi non posso dire di essere riuscito appieno nell'impresa. Forse un nuovo allestimento della pièce mi offrirebbe la necessaria distanza critica per verificare se il testo è riuscito a conquistare una sua autonomia rispetto al materiale extratestuale offertomi dal lavoro degli attori. Il monologo. Ho già accennato alla funzione del monologo teatrale. Vale la pena soffermarsi ancora su questo tema. Nella maggior parte dei casi il monologo segna il momento drammaturgico del pre-finale; esso coincide con la risoluzione del conflitto: il protagonista, di colpo, «capisce tutto», inquadra il proprio destino (o quello

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di altri). A questo punto si stabilisce la parità d'informazioni tra protagonista e pubblico in sala. Il monologo classico, di basso profilo, è quello della cosiddetta spiega finale dei gialli. Trovato il colpevole, giunge il momento della confessione o della rivelazione dei fatti da parte del detective, o del flashback in cui si sciolgono tutti i nodi. Ma è un errore ritenere che una tale figura drammaturgica appartenga solo al genere poliziesco. La resa dei conti, che quasi sempre si accompagna a un monologo, appartiene alla maggior parte delle narrazioni. Cos'altro è un monologo se non un pensiero ? Il poliziotto che spiega le modalità di un delitto mette in ordine una serie di indizi per arrivare ad una verità indiscutibile, capace di «inchiodare» i colpevoli. Il pensiero dà senso ai fatti, i quali, fino al momento in cui la mente non si esprime, si sono svolti secondo una logica misteriosa. Il pensiero riesce a incatenare i diversi momenti della vicenda perché sa andare a fondo, sa, appunto, leggere nel silenzio, intuire le oscure motivazioni che stanno dietro a tante nostre azioni. Non sempre il monologo è monopolio del protagonista. Anche un antagonista è portatore di una verità che a un certo punto può «spiattellare» con tutte le sue contraddizioni. Egli, però, al contrario del protagonista che «parla» solo verso il finale o alle soglie di un importante risvolto della vicenda, rivela il suo pensiero in qualsiasi momento (ma sempre prima del protagonista). Il pensiero è fondamentale in letteratura. Non esiste praticamente racconto o romanzo che non descriva quanto succede nella mente dei personaggi. In teatro invece bisogna ricorrere al monologo, un momento topico della drammaturgia. Nel monologo retorica e tono di voce hanno un altro stile giacché è come un «parlare a se stessi», con un «accoramento» e una «sincerità» che mai fino a quel momento il parlante ha avuto modo di sperimentare. In teatro, poi, è più che mai lecito (appartiene alla convenzione) far esprimere un pen-

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138 siero ad alta voce, faccia al pubblico. Mai può succedere che un altro personaggio, magari nascosto dietro un divano, ascolti un monologo. E questo perché il monologo viene recepito dal pubblico come pensiero muto, quindi «inascoltabile» dagli altri personaggi. E se questi sono presenti al pensoso monologare del protagonista, si astrarranno o si metteranno in disparte. Nessuno degli attori potrà mai dire a un altro personaggio: «Ho sentito Mario che diceva a se stesso di essere un cretino! » Il silenzio trova nei monologhi teatrali una via d'uscita «ufficiale», e mentre emerge a segmenti e a frammenti nei dialoghi, qui prende tutta la scena e si racconta. Il dialogo in cinema. Se il parlato del palcoscenico si sviluppa al centro di un simulacro della realtà tutto di cartone, stilizzato ed evocativo, nel cinema si svolge tra fondali fortemente connotati come reali. Il décor cinematografico, anche quando è ricostruzione artificiale di un ambiente, viene allestito secondo il principio della «massima verità possibile». Il polistirolo e gli altri materiali utilizzati sono sempre lavorati per dare l'impressione di «vissuto», di «sporco», di reale. Alle spalle dei personaggi che parlano si vedono le strade, i palazzi, passano le automobili, i pedoni. Gli effetti sonori entrano dalle finestre e dalle porte aperte, risuonano le ambulanze e le macchine della polizia; i personaggi parlano nelle metropolitane, in macchina, negli uffici... Lo spettatore della sala cinematografica, pur restando seduto in poltrona, ha la possibilità di avvicinarsi moltissimo alle immagini e di allontanarsi all'infinito. Il primo piano di un personaggio è un volto grande decine di metri quadrati. Se proviamo a girare gli occhi verso il buio della platea mentre sullo schermo c'è l'inquadratura di un primo piano, ci accorgiamo che a ogni sbattere di palpebre dell'attore la sala s'illumi-

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na e si spegne. L'effetto è provocato dal biancore delle pupille. Si può immaginare la «potenza» che quell'immagine ha in sé. L'attore in primo piano non può parlare aprendo troppo la bocca (per non mostrare le tonsille o le eventuali otturazioni dentarie), non può agitarsi troppo (uscirebbe dall'inquadratura), non può appunto battere le palpebre (perché apparirebbe vittima di un tic). Ma soprattutto non può recitare sopra le righe, cioè teatralmente: l'espressione del suo viso e degli occhi «racconta» più delle parole. Anzi, le parole servono a far «parlare» lo sguardo, a far emergere il silenzio che si nasconde dietro agli occhi. Il cinema, ricordiamolo, è puro linguaggio di immagini e la parola recitata è utilizzata per dar forza a un'immagine e non il contrario, come avviene in teatro. Per valorizzare le proprietà del linguaggio cinematografico il dialogo va considerato in questo senso e scritto in coerenza col fondale. Se i palazzi, le auto, le case, i viali sono veri, il modo di parlare dei personaggi deve essere altrettanto vero, altrettanto quotidiano. E un dialogo quello del cinema che in gergo si dice buttato via. E quanto più i concetti si fanno alti, tanto più le frasi vanno sintatticamente «sporcate», come inventate al momento e possibilmente pronunciate a bassa voce. La differenza con il dialogo teatrale sta soprattutto in questo tono basso e nella rapidità degli scambi verbali. Rari sono i monologhi visto che la convenzione del cinema non contempla il pensiero recitato. Questo semmai può presentarsi sotto forma di voce fuori campo (voce off), di un parlato cioè che si sovrappone a immagini mute. I monologhi sono sempre recitati davanti ad altri personaggi, che ascoltano; e quando sono lunghi o prolissi vengono dispregiativamente chiamati monologhesse. Quindi attenzione ai lunghi discorsi e alle tirate, nel cinema non trovano il terreno fertile. Il momento della scrittura dei dialoghi, in cinema, precede immediatamente quello della sceneggiatura. Si scrivono nel momento di impostare la drammaturgia

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140 della singola scena. Lo scrittore prefigura mentalmente la sequenza e recita dentro di sé le battute di ogni personaggio. Il lavoro risulterà più agile di quanto si crede se saranno state preparate a dovere le premesse, se cioè il dialogo sarà messo in situazione. A quel punto chi scrive non ha bisogno di chiedersi cosa si debbono dire gli attori ma come.

Far ridere. Un capitolo a parte lo dedico alla comicità. Ne parlo in coda perché la sua drammaturgia, pur rispettando le regole di fondo che strutturano un racconto (evocazione, ideazione, trama, messa in situazione, struttura e modalità del dialogo, ecc.) si pone su un piano diverso rispetto a quella delle altre narrazioni. Definendo alcune sue caratteristiche si capirà meglio quale atteggiamento assumere nella scrittura della comicità. I riferimenti che farò saranno soprattutto cinematografici, anche perché la comicità ha trovato nel grande schermo il suo habitat naturale: giochi verbali, gesti, ruzzoloni, gag, inseguimenti, tormentoni, ecc. nel cinema hanno tempi e spazi illimitati. Intanto mettiamo a fuoco la profonda differenza tra comicità e commedia. Il linguaggio della comicità è più vicino al fumetto che alla commedia: la dimensione a cui rinuncia premeditatamente è la profondità. I personaggi di un'opera comica sono totalmente privi di psicologia e agiscono fuori da ogni impianto sociologico, ideologico e naturalistico. E impossibile risalire da un film comico alla cultura dell'epoca in cui è stato girato se non a livello semplicemente lessicale e ambientale. La logica che ispira la comicità è pura geometria, gioco sospeso nel nulla che non vuol dire nulla. La sua poetica è quella petroliniana dei «salamini», della sciocchezza, dello

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sberleffo fine a se stesso. Non punta mai il dito per accusare qualcuno; e quando si diverte alle spalle di un personaggio austero e impettito lo fa per divertimento, per scatenare la risata. L'unico obiettivo che la comicità persegue è far ridere. Ma perché tutto questo avvenga è necessaria la presenza di una maschera, cioè di un comico di grande talento. La ragione per la quale le opere autenticamente comiche sono rare sta nel ristrettissimo numero di comici che un'epoca mette a disposizione della scrittura. Mentre la commedia (brillante) può giovarsi dell'interpretazione di normali attori più o meno dotati, la comicità non può esistere senza quell'essere particolarissimo che è il comico. Un testo scritto sulla misura di un comico è totalmente inadatto ad un altro comico. Vale a dire che non può esistere un copione comico di partenza se non come materiale pre-testuale per le esibizioni e le improvvisazioni dell'attore. Un esempio lampante sono i film di Totò: griglie narrative piuttosto pretestuose ma che offrivano al grande attore napoletano la possibilità di scatenare la sua vis comica. Nella maggior parte dei casi si trattava di film che incollavano uno sketch dopo l'altro, situazioni propizie per far scattare la comicità. Personalmente considero la comicità la più alta espressione dell'arte. I suoi tripli salti mortali nel nulla, la sua proposta di un universo dalla vitalità tutta fisica, la creaturalità intrinseca di personaggi i cui bisogni si fermano al primo livello (amore, fame, sete) e i cui sogni si bruciano istante dopo istante nell'esistenza spicciola, mi appaiono come la quintessenza del sublime. I comici non sono nevrotici (o lo sono irrimediabilmente), non inseguono utopie, non moraleggiano. Non possiedono altri valori se non la vita che ogni giorno improvvisano. Non nutrono rancori, accettano allegramente il loro destino anche se provano ogni tanto, sempre per divertimento, a vestire panni non loro. La loro sessualità si esaurisce in un bacio. Nelle opere comiche non muore mai nessuno e se la tragedia deve proprio accadere, si può star cer-

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M3 ti che il funerale si trasformerà in un teatrino per le più grasse e liberatorie risate. Un comico è senza background, non si sa da dove venga né dove vada, e cosa voglia, non ha né moglie né figli, al massimo si porta dietro un cane. Le donne neanche lo vedono, nei poliziotti scatena l'atavico istinto predatore dell'uomo, è disoccupato in eterna ricerca di occupazione. La sua vita di piccole rapine ha foggiato il suo corpo, che ha imparato a correre veloce, a snodarsi, a piegarsi in quattro, a fare la spaccata, a rotolarsi giù per le discese, a nascondersi alle spalle dello stesso inseguitore. Un personaggio del genere non può muoversi in una realtà complessa, appesantita dalla storia e dalla cultura: di queste, in un'opera comica, rimangono abiti svuotati dai corpi, divise, livree, toghe. Buster Keaton era un comico, Cary Grant un attore da commedia brillante. La commedia non cerca ossessivamente la risata, si accontenta di far sorridere e di appassionare il pubblico a una storia. Lo scrittore ha la possibilità di «entrare nell'anima» del protagonista e di «muoverlo» psicologicamente, come in un normale film drammatico. Lo fa reagire attraverso una vasta gamma di espressioni. Nella comicità, invece, il protagonista non sorride quasi mai, e quando piange lo fa buffamente. Le sue corde sentimentali si contano sulle dita di una mano, come appunto i suoi bisogni elementari. Di conseguenza la drammaturgia non può costruirsi sulla forza della contraddizione e della complessità. Né può contare sulla mobilità delle coscienze. Il comico ha una maschera quasi sempre uguale a se stessa, ed è lo specchio di un'anima sempre uguale a se stessa. L'opera comica si svolge su una superficie, su uno spazio solo bidimensionale, dove risvolti narrativi, sorprese, colpi di scena e situazioni drammaturgiche sono di natura puramente geometrica e matematica, costruiti non su pensieri profondi e risvolti di un'anima, ma su un disegno tutto metonimico, fatto di

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azioni, di «ritorni», di fulminee spinte istintive e di fitti giochi di parole fini a se stessi. Sono meccanismi che si succedono, si sovrappongono e si incrociano allo scopo di creare il più alto numero di situazioni comiche possibili (gag). Nella comicità, per le ragioni che ho fin qui elencato, c'è poco spazio per i primi piani (per il racconto di un'anima). I movimenti del corpo contano molto più degli sguardi, e mentre i primi sono innumerevoli e sorprendenti, i secondi hanno un repertorio limitatissimo. In cinema la comicità vuole molte figure intere, campi ravvicinati e soprattutto totali. Non solo, nulla è più dannoso all'opera comica che la semioscurità, il controluce, i forti contrasti luminosi. Provate a pensare al volto di Totò per metà nel buio e per metà alla luce: un'immagine tutt'altro che comica, anzi, i lineamenti deformati (penso al suo mento storto) manderebbero segnali opposti, inquietanti. Lo stesso vale per il volto di Petrolini, di Benigni o dei fratelli Marx. Se proprio un primo piano si pone, deve essere illuminato con una diffusa, una luce piena e gaia. Non è un caso che nei film comici le notti siano rare: l'oscurità è sempre un po' drammatica. La drammaturgia geometrica della comicità fa del ritmo la sua forza principale. Per ritmo non intendo «velocità», ma tempi matematici affinché una gag possa esprimersi al meglio. Faccio un esempio tratto da II mostro di Benigni. C'è nel film un'inquadratura in cui l'attore, per sfuggire a un inseguitore, girato l'angolo della strada non trova di meglio che arrampicarsi velocemente lungo la parete di un palazzo e nascondersi attaccandosi come un ragno sotto l'impiantito di un balconcino. Non è passato neanche un attimo ed ecco che una ignara signora, uscita per innaffiare un vaso di fiori, si china mostrando involontariamente al malcapitato il suo «didietro». La macchina da presa all'inizio inquadra il mezzo primo piano del poveretto che, con la lingua di fuori per la fatica, avvinghiato al balconcino, solleva lo

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M5 sguardo. L'obiettivo si sposta lentamente (in pseudosoggettiva) verso le natiche dell'innocente signora fino ad inquadrarle in pieno. Bene, se questa panoramica è «troppo veloce», lo spettatore non fa in tempo a realizzare la situazione, a decifrare gli spazi, e quando «capisce» è troppo tardi, la gag viene sporcata dall'informazione: il tempo che il pubblico impiega per capire di che si tratta va a prendere il posto del tempo destinato alla risata. Se, al contrario, la panoramica è troppo lenta, la gag viene troppo enfatizzata e quando la macchina da presa si ferma sul sedere della signora la gag si è già tutta consumata nell'attesa di un evento previsto. Come si vede, anche nel caso della microdrammaturgia di una situazione, gli strumenti di lavoro fondamentali sono geometria e cronometro. Il colapasta. Ora facciamo un passo indietro e vediamo cosa si nasconde nel fondo della comicità, qual è il suo cuore nascosto. Mi pare evidente che essa nasca da uno squilibrio incolmabile, da una incongruità, da un contrasto (conflitto) senza soluzione. Prendiamo ad esempio l'immagine di un oggetto che evochi il massimo della quotidianità: un colapasta. È un oggetto che ci fa pensare ai maccheroni, agli spaghetti, al lavandino di cucina, al mestolo, all'acqua calda, all'odore di cipolla; a un ambiente in cui non si sta in giacca e cravatta, fumoso, impataccato di grasso; il colapasta è legato alla vita più intima, al «volgare» piacere di un bel piatto succulento; è più vicino, insomma, alle tentazioni della gola che a quelle del cuore o dell'anima. Mettiamo questo colapasta nel luogo più lontano possibile dal suo ambiente naturale, dalla quotidianità, più lontano possibile dal peccato di gola, dalle debolezze, dalle tentazioni. Immaginiamo, come in un'inquadratura cinematografica o in una foto, un colapasta posato anche male, frettolosamente, sopra l'altare di una chiesa. Sta li, zoppo,

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sui paramenti sacri, tra l'ostensorio e il leggio dove è posto il Messale. Forse l'immagine non ci fa scoppiare dal ridere, ma certamente contiene qualcosa di comico. Noi osserviamo comunque ciò che resta di un episodio che è stato certamente comico. Infatti ci domandiamo in quale assurda maniera sia potuto finire su un altare quel colapasta. L'effetto vagamente comico di questa immagine nasce senz'altro dal forte contrasto: un sistema organico di segni (l'altare, con il suo «lessico» di oggetti sacri) è stato «violentato» da un oggetto estraneo, appartenente ad un altro universo, anzi ad un universo quasi opposto. L'altare è diventato ridicolo, s'è sporcato di quotidianità, tanto che ci sentiamo autorizzati a pensare che il colapasta è stato lasciato li per caso dalla perpetua o dal sacrestano o da un parroco godereccio. Quel che viene messo in crisi è un mondo ordinato, con i suoi valori codificati, le sue gerarchie riconoscibili: una crisi che coinvolge tutti gli elementi in gioco portandoli da un contesto sacro a uno comico. Viene rotto un ordine culturale. Basta quindi creare le condizioni di un «rigetto», di una idiosincrasia per ottenere un effetto comico? Le cose stanno in un modo leggermente più complicato. Osserviamo un barbone che cammina in un parco cittadino: niente di più normale e di poco comico. Facciamolo entrare in un ristorante di lusso e sedere a un tavolo. La situazione sembrerebbe buona per la comicità: l'atto del mangiare di per sé non rappresenta una convenzione, ma nel ristorante di lusso bisogna farlo in un certo modo, conviene avere un vestito che sia all'altezza e soldi in tasca; bisogna sapersi comportare con eleganza e buona educazione. Il barbone che entra nel ristorante di lusso, privo com'è di tutto sarà come una cellula impazzita dentro un corpo sano. Alla situazione, che presenta le caratteristiche della comicità, manca tuttavia qualcosa. Il barbone non mette in crisi l'ambiente, perché continua ad essere lo stesso «mor-

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M7 to di fame» che camminava nel parco; se succhia rumorosamente il brodo dal cucchiaio non scandalizza gli altri commensali i quali semmai si infuriano con il proprietario del ristorante che ha fatto entrare nel locale un poveraccio. Ma se, per caso, il barbone, prima di entrare nel locale si è fornito di un abito decente e di un modo di fare da «signore», nessuno si accorge di lui. E quando, succhiando dal cucchiaio, fa voltare tutti, lo scandalo esplode all'interno di un mondo codificato e regolato dalle leggi del galateo. I clienti non se la prendono con il proprietario ma con quel borghese zoticone e maleducato, si sentono coinvolti in prima persona, sentono offeso quel privilegio di cui il barbone travestito non sa godere. Fateci caso, i grandi comici sono quasi sempre vestiti come dei grandi signori. Charlot portava frac, bastoncino e bombetta, Totò quasi lo stesso, Oliver Hardy gioca sempre con la sua cravatta. Solo che sono abiti incongrui: giacca troppo stretta, pantaloni troppo corti, camicie dai colletti arricciati, ecc. Spessissimo basta una divisa a fare l'eleganza: un nuovo ricco, purché vestito (anche se male) da vecchio ricco, può tranquillamente sedere alla tavola dei Vip. Cosa vuol dire questo? Che il comico è un «diverso» che anela al conformismo. Ma non ce la fa. Il segreto della sua comicità sta proprio in questo desiderio di somigliare alla gente onesta e buona, di mimetizzarsi nella normalità, di diventare come gli altri invisibile in virtù di comportamenti perfettamente ritualizzati. Il più noto (e tra i più comici) romanzo picaresco è intitolato La vida de Lazarillo de^ Tormes, scritto da un anonimo e pubblicato nel 1554. E in prima persona: Lazarillo stesso racconta la sua vita interamente consumata a cucire il pranzo con la cena. Alla fine, quando il ragazzo diventa adulto, capisce che la soluzione di tutti i problemi è animane a los buenos, cioè somigliare alle persone dabbene. Ci riesce, ma a condizione di far finta di non vedere che la sua giovane sposa, già domestica nella canonica della chiesa di San Salvatore, continua a far l'amore di nascosto con l'arciprete.

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Come sappiamo la tragedia è attica e la comicità è latina. Semplificando, la tragedia appartiene agli stati democratici e la comicità a quelli dal potere forte, centralizzato. In democrazia il cittadino è chiamato a scegliere tra valori diversi, in contralto tra di loro e talvolta qualitativamente equivalenti. E lui a decidere ciò che è bene e ciò che è male, è lui che deve scoprire quanto di cattivo c'è nel buono e viceversa. Le sue scelte di fondo gli richiedono responsabilità personali non sempre facili da assumere. Solo il fato (il cielo) è più forte di lui, perché capace di condizionare e dettare i suoi gesti. L'errore è spesso una fatalità. Di qui la tragedia. Al contrario, in una società dal potere forte, le scelte individuali sono molto ridotte, i comportamenti standardizzati, i modelli forniti dall'alto. Su leggi scritte e non scritte si trova l'elenco di tutto ciò che è cattivo e di tutto ciò che è buono: chi trasgredisce viene esplicitamente o tacitamente emarginato, la gerarchia sociale a piramide è un'indicazione di percorso che conduce al bene. Di conseguenza i comportamenti tendono a trovare uno standard rassicurante e si moltiplicano uguali nelle varie fasce della società. Allora ecco che militari, preti, commercianti, signorotti, madamigelle, impiegati, poliziotti, politici in doppiopetto, eccetera si adeguano ad un canone comportamentale ben preciso, fino a diventare vere e proprie caricature. Il comico, che lavora con il senso comune, al contrario di quel che viene da pensare, non descrive il disagio di una esistenza prestabilita, incanalata in una ritualità inconsapevole, ma disegna un personaggio che non riesce, suo malgrado, ad essere all'altezza dei modelli imposti, a confondersi nel mondo dei «normali». Egli è, paradossalmente, reazionario. Non vuole trasgredire le norme, le vuole assumere. E se alla fine prende un aspetto eversivo è perché, senza volerlo, mette gli spettatori di fronte a uno specchio, si fa complice della loro vitalità repressa. Il comico è il «beato» di Sandro Penna: beato perché diverso essendo egli diverso (ma guai a chi è diverso essendo egli comune).

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150 Il destino volle che Petrolini facesse rima con Mussolini dentro il gran librone nero del fascismo. Una rima che fu spesso baciata nella forma e cacofonica nella sostanza: il princeps di Predappio voleva distruggere la Roma dei quartierini popolari per costruire una metropoli mondiale; lo scaciatissimo e spigoloso comico (che tanto somigliava al famoso Teoli, il burattinaio di Palazzo Fiano, creatore della maschera di Cassandrino), raccontava invece ancora le gesta di una plebe rustica, disincantata e canterina. Mentre picconi e badili radevano al suolo Borgo Pio o spianavano lo stradone dei Fori Imperiali, Petrolini, respirando il fango secco e il fumo dei palcoscenici di varietà, metteva in scena (sempre nel rispetto dell'orbace di Starace) la romanità più casereccia di Belli e di Trilussa, se non addirittura dei burini di Marino, di Genzano o di Frascati. Affermava Petrolini stesso dopo aver consultato a fondo Tagore, l'orario delle Ferrovie, la Tavola Pitagorica e l'Annuario dei telefoni: «Nel periodo della musoneria italiana in cui un buon attore non era considerato tale se non si prestava alle parti lacrimose, io passai come un buffone distinto. Mi venivano a sentire per esclamare Quant'è scemo'. » Eppure, più comico di Petrolini si muore. E il sale della comicità, com'è noto, è la scemenza. Tra lui e Mussolini non si sa chi ne abbia dette di più. E certo, però, che quelle del nasuto attore avevano il potere di far piegare in due una persona per il troppo ridere. Quanto più Roma si copriva di fasci littori, tanto più il guitto di piazza Guglielmo Pepe o dei caffè-concerto (di second'ordine con consumazione obbligatoria), faceva sbellicare dalle risa il numeroso pubblico accorso. E mischiati alla popolaglia chiassosa della platea si potevano sorprendere critici raffinatissimi, intellettuali liberi e appartati, scrittori di grande ingegno come Aldous Huxley che nel 1930 scrisse: «Quando su Roma scende la notte non vado a vedere il Colosseo al chiaro di luna, ma vado ad ammirare Ettore Petrolini illu-

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minato dai riflettori. Con tutto il rispetto per i romantici girovaghi, contemplatori di illustri memorie, stimo di aver speso la mia serata meglio di loro». Mentre l'Italia era arditamente decisa a diventare un Impero con la I maiuscola, lo smorfioso Petrolini esibiva sulle pedane, davanti all'ignaro e affamato popolo della penisola, le sue moine furbe e maliziose, dicendo solo scemenze, raccontando barzellette e parodiando sciattamente il severo mondo che incombeva su quegli spettacolini da quattro soldi, con tanto di grancassa e di parata all'entrata del Varietà. «Fu una vita selvaggia disse Petrolini, - allegra e guitta, e un'educazione a tutti i trucchi e tutti i funambolismi davanti al pubblico». Le inaudite amenità di Petrolini, date con tanto talento di voce e di gesti in pasto alle sale stracolme e affamate d'allegria, diventavano poesia sublime del nulla. Quelle idiozie, lette sulla carta, senza la voce dell'autore, rimangono finissime idiozie. D'altra parte Petrolini amava nella stessa misura scrivere e recitare: il fitto gioco di rime, ritornelli, refrain, recitativi, parlar cantando è pieno di invenzioni letterarie, talvolta di ispirazione futurista, altre volte di reinvenzione ironica, quasi pudica, di motivi e topoi popolari quali fiori, stornelli, serenate, ninne-nanne, filastrocche, ballatelle, cacce, novellette, siparietti, nonsense, sproloqui... Sulla carta, insomma, se da un lato si rivela meglio la macchina comica organizzata a tavolino da Petrolini, dall'altro si accusa un forte imbarazzo per tante demenziali corbellerie. Se cosi non fosse, se nei testi scritti si scoprissero chi sa quali reconditi significati, dolori, oscuri rimandi metaforici, non si potrebbe più parlare di artista comico, ma di sottile umorista. Petrolini, tuttavia fu anche umorista, ambiguo e ammiccante. Un esempio è il breve scritto che figura in una pubblicazione dedicata al dittatore, dove è difficile capire se scherza o dice sul serio: «Dare un giudizio, un pensiero su Benito Mussolini non è cosa facile - sei sempre piccolo di fronte a tanta grandezza - ad ogni modo invio questi due miei pensieri: Mussolini è un genio che

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impone l'ammirazione e il rispetto. Mussolini è il sole d'Italia - il sole d'oggi - che illumina, riscalda, crea e distrugge». Impossibile decidere se qué\'impone e quel distrugge abbiano un doppio senso e se l'intera dichiarazione sia o no una presa in giro. Di certo, comunque, ufficialmente Petrolini non era antifascista. Da un lato di Mussolini faceva, in Nerone, la caricatura, dall'altro si sperticava in servili, lirici elogi. Diceva di sé sul palcoscenico: «Son un uom dei più cretini/sono Petrolini [...] Ma poiché non sono niente/sono un respingente». La verità è che Petrolini fu un grandissimo comico, una maschera che si è mossa con leggerezza in una epoca dove tutti parlavano a voce alta. Petrolini, come ogni comico purosangue, non voleva far pensare, voleva far ridere tutti, indistintamente, fascisti e antifascisti, Gastone e Mustafà, fruttivendoli e poeti. Mori a 52 anni, era il 1936. Vedendo il sacerdote entrare con l'olio santo tra le mani nella sua camera da letto, esclamò: «Adesso si che sono fritto! » Poche settimane prima l'ammalato aveva fatto un sogno burlesco. Cosi lo raccontò a un amico, con un filo di voce, sdraiato sul suo letto: «Ho sognato che m'è entrato un ladro, e m'ha puntato contro una pistola, gridando: se ti muovi sei morto! Lo so, gli ho risposto, me lo sta dicendo da un pezzo anche il dottore». Sono episodi che fanno parte della leggenda, diventati quasi barzellette: Petrolini ha fatto ridere anche andando all'altro mondo, figuriamoci se si tirava indietro davanti all'arcigna Roma di quei tempi di marmo. Anzi salamelecchi e salamini. I tanti personaggi incarnati da Petrolini, tutti con la stessa faccia spigolosa e lo stesso corpo storto, erano figure che si incontravano per strada, nelle osterie e nei salotti: dal cerusico trombone, all'uomo amorale e cocainomane; dal Cesare Augusto di ritorno dalle corse alle Capannelle, al solito sconosciuto Giggier bullo, noto solo al commissariato. Ognuno di loro corrispondeva a un modello di comportamento da tutti conosciu-

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to. Possiamo ipotizzare che la risata nasca dal fatto che la macchina comica ci svela per un momento quanto siano ridicoli il conformismo e l'automaticità delle azioni. Molta della sua forza si basa infatti sul luogo comune, sul cliché comportamentale e verbale. Il cliché è un pre-testo drammaturgico importante per l'esplosione di una gag, è una «forma» conosciuta dal pubblico e sfruttata dall'attore per creare una sorpresa. Il baciamano di un comico è sempre una buona occasione per scatenare una risata e, nello stesso tempo, per mettere in ridicolo quel gesto galante e rituale. Mi viene in mente l'atteggiamento di Napoleone di fronte ai generali che gli portavano le brutte notizie dal fronte. Quelli arrivavano in alta uniforme, si mettevano sull'attenti con espressione di circostanza e scolpivano con la voce rotta dall'emozione la brutta notizia. Napoleone, cui quel genere di messaggi non piaceva affatto, prima di farli parlare pretendeva che si mettessero comodamente seduti. Li vedeva piegarsi a fatica sulla sedia, trafficare goffamente con la sciabola in un gran tintinnare di medaglie. E quando finalmente aprivano bocca, avevano perso tutta la loro immagine stentorea: la notizia veniva fuori lo stesso, ma senza l'indigeribile condimento del tono tragico. La gag. Famosa è l'inquadratura di Charlot che, visto di spalle, scuote forte tutto il corpo. Il pubblico è sicuro che stia disperatamente piangendo perché nella scena precedente egli è stato lasciato dalla sua donna. Piano piano Charlot si gira e il pubblico scopre che non sta piangendo affatto, anzi sta agitando uno shaker per prepararsi un buon cocktail. Questa scenetta rivela due dati importanti della drammaturgia comica. Primo: la gag, come in una inquadratura drammatica, prende forza dalla scena precedente (che fa da metonimia) grazie alla quale il pubblico non può non essere convinto che

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154 Charlot stia piangendo. Secondo e più sottile dato: il pubblico, per qualche istante, «l'ha visto piangere»; il sentimento che ha provato resta comunque memorizzato in lui e il personaggio si è automaticamente caricato di umanità. L'esigenza di umanizzare - senza cedere al realismo - una maschera è essenziale per far avere al personaggio la solidarietà del pubblico. E questo lo scrittore deve ottenerlo «alle spalle» del comico, che mai, se non caricaturalmente, può recitare un pianto vero, un'emozione vera. La maschera del comico gioca su questi doppi effetti, emozione e risata. Ma commuove senza mutare, senza diventare un altro personaggio, senza assumere una psicologia. Un altro esempio di pianto comico è quello di Pulcinella, il suo lamento è un ululato gutturale: l'attore fa vorticare la lingua tra le labbra ottenendo un suono liquido e gracchiante insieme, che imita un pianto straziante. Il suono è accompagnato da una gestualità che rende il personaggio goffo, e si ride di questo modo di piangere. Egli sta soffrendo, ma secondo convenzioni bidimensionali, superficiali. Siccome è personaggio esteriore piange «esteriormente». Di fatto però, drammaturgicamente, piange. Il personaggio comico «non esiste» autonomamente, non ha un suo contesto culturale e inconscio. Totò è il meno napoletano degli attori napoletani e non ha complessi. Egli vive solo quando si guarda intorno a caccia di vita e quando è decontestualizzato. E personaggio nel momento in cui entra in conflitto con un universo. Se un comico piange lo fa sempre come un bambino che ha preso uno schiaffo. Ora osserviamo i meccanismi della comicità. Questi mirano tutti alla gag, a suscitare l'esplosione della risata. Gag è un termine inglese che vuol dire «improvvisare» alcune battute durante la recitazione allo scopo di coprire un vuoto di memoria. La gag è quindi legata all'arte dell'improvvisare e comporta qualcosa di inaspettato. Possiamo immaginare come «suoni» comica l'introduzione repentina di una facezia estemporanea

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dentro un testo drammatico. Le goffe intrusioni dell'attore nel testo di uno scrittore son diventate, appunto, gag. La gag è l'inserimento di elementi linguistici incongrui, estranei in un testo che non li prevede. Un'opera di comicità pura non è altro che una lunga serie di gag in coincidenza delle quali lo spettatore abbandona di colpo il sorriso per scoppiare in una risata piena e incontrollabile. Ma una gag deve essere preparata da metonimie. Queste vanno disseminate nel racconto tenendo presente che uno spettacolo comico non può sostenere intervalli troppo lunghi tra le gag. Il problema più difficile da risolvere non è tanto trovare una gag quanto riuscire a prepararla senza annoiare. Spesso la preparazione di una bella gag prevede un'architettura drammaturgica complicata, che condiziona non poco il logico svolgimento del racconto. La difficoltà aumenta se pensiamo che la gag a cui si mira non deve rivelare il suo «piano», la sua strategia. Insomma lo spettatore non deve mai sospettare che ciò che vede servirà più tardi a una gag. Quindi, insieme alle metonimie, vanno disseminate anche le false piste. Lo spettatore si aspetta una gag e invece ne arriva un' altra, ancora più clamorosa. Faccio un esempio. Due signori, uno grosso e uno piccolo, stanno in piedi, visti di spalle. Una sola sedia. Quello piccolo sfila via la sedia da dietro il sedere dell'altro, che si siede e capitombola a terra. Quante volte l'abbiamo fatto anche noi, da ragazzi! E una gag classica, semplicissima, meccanica. Il genio di Charlie Chaplin la cambia in questo modo: Charlot, velocissimamente, sfila la sedia da sotto il sedere dell'uomo grosso e cattivo e si accomoda. L'ignaro fa per sedersi nel vuoto, ma Charlot all'ultimo momento ci ripensa e mentre l'uomo comincia ad abbassarsi, lui fa in tempo a rialzarsi, a rimettere la sedia sotto il sedere dell'altro e a fargli un bel sorriso. Tutto regolare, non è successo niente: nessun ruzzolone come nella vecchia gag. La risata del pubblico è sicura, pronta e intrattenibile.

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156 Non si ride più per un capitombolo, ma per un capitombolo mancato. La vecchia gag sopravvive nella nuova, però solo come memoria, come metonimia extratestuale, per far meglio funzionare il nuovo meccanismo. Quando tutti ci aspettiamo che quello caschi per terra, ecco che Charlot ci prende di sorpresa e rimette le cose a posto. In prima lettura sembrerebbe una specie di contro-gag, di rovescio della medaglia. Ma non è solo questo: rimettere la sedia al suo posto un attimo prima che l'omaccione piombi a terra, ci racconta tutta una vita, un modo di essere a questo mondo, il suo, di Charlot, e di quell'altro, l'uomo minaccioso e prepotente. Quel ripensamento improvviso e spaventato ci racconta una tentazione irresistibile di Charlot che resta insoddisfatta: sedersi comodamente e punire nel contempo, facendolo volare per terra, l'uomo grande e grosso. Un sogno che rimane imprigionato dentro l'anima del personaggio per paura delle bastonate. Per inventare e costruire tecnicamente le sue gag, Chaplin si riferisce spesso non ad un meccanismo puro, astratto, ma a un moto interno del personaggio: la situazione comica scaturisce da un sentimento, la gag diventa la rappresentazione mimica di uno stato d'animo. Quando Chaplin si concentrava per trovare situazioni comiche si immergeva fino in fondo in Charlot, si immaginava il mondo che Charlot vedeva e in quella prospettiva, cercava elementi comici possibili. La gag classica fatta da Charlot, si trasforma e diventa la gag di una gag che non funziona: un raddoppio di risate. Il Circo è un film esemplare in questo senso, quasi un teorema della comicità. È una storia d'amore, che fa anche da connettivo, da pretesto per mostrare le peripezie di Charlot al circo. Che cos'è un circo e chi è Charlot ? Un circo è la casa degli acrobati e dei clown. Charlot è un clown e un acrobata. Solo che quelli saltano e fanno ridere per professione mentre Charlot salta e fa ridere suo malgrado.

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«L'escogitar del disperato non ha mai fine», si diceva un tempo. Quando U pubblico del circo scopre la comicità (involontaria) di Charlot, le vecchie carabattole comiche dei clown diventano il tiro a segno di pomodori e uova marce. Tutti gridano: «Andatevene! Vogliamo l'omino buffo! » L'incessante susseguirsi delle situazioni comiche ha quasi sempre come base chimica, come contrasto, lo scontro tra la comicità codificata dei clown e quella « naturale» di Charlot. Le disgrazie da cui è continuamente inseguito, le piccole sfortune che non lo lasciano mai (il verme nella mela rubata), gli oggetti che sempre gli si rivoltano contro, rompono tutti gli schemi. La comicità cambia e il pubblico applaude al piva incongruo degli esseri umani. Nel conflitto tra realtà codificata e libertà Chaplin trova la chiave più adatta per esprimere il proprio talento. Le fughe, le zuccate, gli equilibrismi, le tristezze, le capriole di Charlot, proprio perché avvengono in mezzo ai saltimbanchi e ai buffoni di professione, mettono bene in risalto i mezzi del più grande gag-man di tutti i tempi. Esistono diversi tipi di gag: meccanica, narrativa, psicologica, a tormentone. La meccanica l'ho descritta: è incidentale, nasce e muore in un momento (la buccia di banana, il tombino aperto vicino al marciapiede, ecc.); non è essenziale alla narrazione, la si può mettere e togliere senza problemi. La gag narrativa, al contrario, è indispensabile al proseguimento del racconto (la tasca bucata da cui cade il portafoglio e, più tardi, il cameriere del ristorante, impaziente e con il conto in mano). In un film che ho scritto con Roberto Benigni, Johnny Stecchino, la gag del finto tremore della mano del protagonista che tenta di imbrogliare l'assicuratore, ritornerà inaspettatamente nel finale, quando il comico, portato in una villa siciliana per incontrare un ministro mafioso, si rivede davanti il funzionario dell'assicurazione. E la stessa «assicurazione», grazie all'ambiguità del termine, formerà materia di un'altra gag, allorché il ministro chiede al protagonista che gli

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158 dia l'assicurazione che non farà il suo nome al processo che vede Johnny imputato. Di questo secondo meccanismo, chiamato delia «sposa e della vacca» parlerò fra poco. La gag psicologica è la contro-gag della sedia di Chaplin. Vale a dire che essa, mentre fa ridere, «racconta» uno stato d'animo. Un altro esempio è quello del comico deluso in amore il quale, assorbito dai suoi tetri pensieri, sbaglia porta e invece di uscire di casa si infila nell'armadio. Del tormentone ho già detto in precedenza: è il ritorno di una stessa gag per due volte, mentre nella terza compare la variante inaspettata. Per escogitare una gag lo scrittore deve prima inventare la situazione propizia. Questa può essere, ad esempio, un luogo o un incontro dove si generano dei fraintendimenti. Se il comico sbaglia piano e invece di entrare nel salottino di un bordello si siede nella sala d'aspetto di un dentista, la situazione è subito comica. Basta la reazione del personaggio nel!'ascoltare le urla feroci dei pazienti o nel vedere un cliente del medico uscire con la faccia gonfia e gli occhi di fuori. Un altro espediante utile alla comicità è presentare una conversazione che riguarda qualcuno che sta per arrivare, descriverlo con certe caratteristiche e farlo comparire infine con modi o atteggiamenti che lo rendono del tutto diverso. In una commedia teatrale che scrissi alcuni anni fa utilizzai questo meccanismo per il personaggio di un ambasciatore. Gli spettatori non smisero di ridere per tutta la scena. Il padrone di casa racconta ai suoi ospiti che sta per entrare un vecchio amico, un ambasciatore tutto d'un pezzo, colto ed elegante, il quale purtroppo, a causa di un brutto esaurimento nervoso, è stato ricoverato in una clinica psichiatrica. Ora è perfettamente guarito, ritornato al suo splendore di un tempo. Finalmente l'ambasciatore fa il suo ingresso. Si presenta zuppo come un pulcino, con le scarpe in mano, i pantaloni tirati su fino al ginocchio e senza calzini. La sua macchina si è semplicemente impantanata

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fuori del cancello e uscendo lui è scivolato nel fango. Un incidente che può capitare a tutti. A tutti tranne che a lui. Infatti, da quel momento, qualsiasi cosa egli dica, sembra frutto della pazzia. E il meccanismo del «ditegli sempre di si». Su questa «ambiguità» non solo la comicità è più facile, ma il personaggio acquista un suo spessore «filosofico» perché le sue parole sembrano sempre allusive, metaforiche, insinuanti, anche quando chiedono un bicchier d'acqua. «La sposa e la vacca (o cavalla)» è la situazione in cui uno parla di sua moglie e l'altro pensa che stia parlando della vacca. Su questo fraintendimento di base, ogni battuta è una risata, perché solo il pubblico ha in mano la chiave per capire correttamente a cosa si riferiscono i due. In Ilpiccolo diavolo di Benigni una scena esilarante è quella del diavoletto che capita in una tavolata di prelati. Il meccanismo della sposa e della vacca è basato sull'ambivalenza della parola «possedere». I prelati l'intendono in senso biblico, sessuale, il piccolo diavolo in senso diabolico: per lui possedere significa «entrare in qualcuno». Su questa ambiguità si basa la comicità della scena. In Tu mi turbi Benigni chiede soldi a un direttore di banca. Quello gli chiede se li vuole investiti e Benigni crede che il direttore, invece di dargli i contanti, voglia consegnargli la somma equivalente in vestiti. Un'altra situazione molto sfruttata sono gli inseguimenti, ricchi di gag meccaniche e tormentoni. Memorabile la fuga di Buster Keaton inseguito perfino dalle pietre che gli rotolano dietro. Poiché quasi tutto è stato sperimentato l'unica cosa da fare per la comicità d'oggi è studiare l'oggettistica contemporanea: bisogna cioè guardarsi intorno e scoprire quali sono gli «oggetti» (gru moderne, montacarichi elettrici, fax, computer, cassonetti, elicotteri, videogiochi, ecc.) mai sfruttati nelle gag e inventarne qualcuna. Le «cose» sono quasi sempre protagoniste delle opere comiche, dalla cassetta di Arpagone alle macchine

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160 impazzite di Stan Laurei e Oliver Hardy o dello stesso Chaplin. Chi non ricorda l'infernale aggeggio che serviva il pasto a Charlot, operaio alla catena di montaggio di Tempi moderni ? Gli oggetti sono, insieme con i bambini dispettosi, i peggiori nemici del comico. Non fanno altro che rivoltarglisi contro, come avessero un'anima, come fossero veri e propri personaggi. O meglio come se il comico fosse anch'egli un oggetto, e tra oggetti se la intendono o litigano, fanno a pugni. Tanto è vero che alcuni comici in fuga, nel nascondersi, per passare inosservati, si fissano illudendosi di prendere la forma di qualcosa di inanimato: chi fa l'albero, chi un pupazzo meccanico delle giostre. Situazioni comiche sono anche la visita del dottore, i travestimenti, i pericoli, il tribunale, le feste signorili, i ristoranti di lusso, la chiesa, le fughe dal carcere, le sale da ballo, gli esami, eccetera. Sproloqui e nonsense, pur vivendo di vita propria, hanno spesso bisogno, se non proprio di una forte situazione drammaturgica, almeno di una spalla. Vediamo un attimo di che si tratta. La spalla in francese si dice faire valoir, far valere, mettere il comico nelle condizioni di poter esprimere superbamente le sue caratteristiche. E un personaggio dal ruolo apparentemente ingrato perché vive al servizio di un altro. Ma non è sempre cosi. Dipende dalla rigidità o meno della caratterizzazione. Se il personaggio è troppo schematico si trasforma in tinca, se invece entra nel gioco con la sua personalità può in qualche occasione «rubare la scena» al comico, come faceva il grande Peppino De Filippo con Totò. Una buona spalla moltiplica l'effetto comico perché fa ridere anche lui e nello stesso momento offre al protagonista la possibilità di dare il meglio di sé. Oliver Hardy una volta è comico, un'altra spalla. Una invenzione, anche verbale, prima di arrivare al pubblico passa attraverso la reazione e l'espressione degli occhi della spalla. Egli fa da «filtro», offre l'imme-

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diata chiave di lettura dell'azione e delle parole del comico. Se il comico, perché malaccorto, spiaccica involontariamente una padella sulla faccia della spalla, sarà l'espressione immobile, paziente e desolata di quest'ultimo a scatenare la risata. Il grande successo di Mike Bongiorno all'epoca di Lascia o raddoppia è dovuto a una spalla invisibile che faceva da contraltare «colto» alle scempiaggini del presentatore: il notaio. La sua voce veniva dal nulla con il tono di chi punta il dito. E Bongiorno, sistematicamente, rendeva omaggio all'autorità. Drammaturgia del comico. La drammaturgia comica, come abbiamo visto, è finalizzata ad inanellare con perizia le diverse gag. Ma non può farlo prescindendo dalle caratteristiche dell'attore comico. Lo scrittore che si appresta a lavorare con la comicità ha subito un problema importante da risolvere: trovare il giusto equilibrio tra narrazione e talento dell'attore. Se si dà troppo peso alla prima, l'attore si sente addosso un abito troppo stretto, si trova nell'obbligo di sacrificare le sue invenzioni per mettersi al servizio della vicenda. Se si dà troppo spazio alle performance del comico, il racconto diventa una semplice sequela di sketch slegati fra loro. In questo caso, oltre tutto, il comico si porta l'opera sulle spalle: il pubblico, non seguendo a fondo i risvolti di una storia, si concentra sull'abilità dell'attore il quale è costretto a fare i salti mortali per mantenere sempre allo stesso livello l'ilarità degli spettatori. La soluzione migliore è mettere il pubblico nelle condizioni di «seguire» una vicenda interessante di per sé e di accogliere le situazioni comiche come un «in più», un regalo. L'attore è cosi svincolato dall'obbligo di far ridere a tutti i costi e senza tregua e può meglio articolare il suo personaggio. Quindi è necessaria una griglia narrativa semplice e forte, ma dalle maglie larghe, per

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162 dare al comico la possibilità di variazioni estemporanee. Ricordo la mia esperienza con Totò in Uccellacci e uccellini di Pasolini, dove facevo l'assistente alla regia. Passavo molto tempo con lui nella roulotte a suggerirgli i dialoghi (dopo una vita passata sotto i riflettori non ci vedeva quasi più). Leggevo dal copione scandendo forte e bene le parole e lui le ripeteva tra sé una per una. Poi però, quando recitava la battuta intera, a voce alta, pronunciava una frase tutta diversa. All'inizio lo correggevo e lui mi faceva si con la testa. Poi, nel riprovare, ne dava un'altra versione ancora. Ne parlai con il regista e si decise di lasciarlo libero di inventare durante le prove di memoria. Ci avrebbe pensato Pasolini durante le riprese a ristabilire il testo originale. Ma non fu cosi. Totò a ogni ciak cambiava sempre qualcosa. Vedevo che il regista spesso non lo interrompeva. In verità Totò non faceva che girare intorno alle frasi per cercare di mettere in bocca al proprio personaggio la battuta più vicina alla sua maschera. Pasolini lo interrompeva poco perché l'attore, pur rigirando la frase, spesso modificandola nei toni, salvava puntualmente tutti i contenuti «informativi» e le metonimie. Ciò significa che nel momento di lasciarsi andare all'improvvisazione non dimenticava neanche per un istante il filo del racconto. Sapeva perfettamente tutto ciò che era successo fino a quel punto e che cosa sarebbe successo nel seguito. I suoi interventi creativi erano diretti alla forma verbale e lasciavano intatta la sostanza narrativa. L'idea di partenza per un'opera comica non va concepita «comicamente». Lo scrittore non deve cioè pensare subito a una storia che, da sola, faccia ridere. Non esistono storie comiche perché nessuna drammaturgia sta in piedi senza conflittualità drammatiche. Se provassimo mentalmente a raccontarci tutti i film di Chaplin, di Keaton e perfino dei fratelli Marx, ci accorgeremmo che si tratta di storie spesso addirittura terribili. Fame, solitudine, sfortuna, delusioni e scoramenti

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sono i protagonisti assoluti. All'inizio bisogna pensare «seriamente», in tutte le dimensioni che lo spazio mentale offre. Il passaggio alla comicità avviene immediatamente quando proviamo a immaginare fisicamente il nostro buffo personaggio alle prese con quel dramma. Dramma che deve restare intatto anche quando «giriamo tutto» in ridere. La risata la troveremo solo se il comico vive drammaticamente la situazione. Mai si vedrà un comico ridere perché si è accorto del ridicolo in cui è cascato. Una legge ferrea ma non scritta vuole che se ride il personaggio non ride il pubblico. I due livelli di coscienza della situazione debbono restare sempre separati e distinti. Ricordo ciò che mi raccontò una volta un attore drammatico che aveva appena cominciato a recitare in teatro YAnfitrione di Plauto. Nella prima parte aveva il ruolo di Giove, incarnato in Anfitrione, che seduce Alcmena, l'ignara moglie di quest'ultimo. Consumato il divino amplesso il re degli dèi sparisce e, nella seconda parte, arriva il vero Anfitrione di ritorno dalla guerra: comincia il gioco degli equivoci e dei bisticci verbali («sposa e vacca»). Il mio amico, che in fondo ha sempre sognato di fare l'attore comico, mi confessò che quando recitava «comicamente» Giove nei panni di Anfitrione nessuno rideva mai in sala. Ma non appena recitava drammaticamente il vero Anfitrione (perché drammaticamente Plauto ha scritto la seconda parte) in platea esplodevano grandi e continue risate. Non riusciva a capire perché. La risposta è semplice: non è mai la recitazione da sola che fa ridere. Quando non c'è la situazione rimangono solo le «smorfie». La prima parte della commedia di Plauto è preparatoria della seconda (semina delle metonimie) e si regge sul gioco cinico di Giove che vuole mettere incinta l'innocente Alcmena. Una situazione non proprio comica. La seconda parte, al contrario, quanto più è recitata drammaticamente tanto più risulterà comica, e questo perché i protagonisti (che

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l63 non sanno ciò che gli spettatori sanno) impazziscono nel chiedersi per quale ragione l'altro stia spudoratamente mentendo. La «messa in situazione» può far svolgere un ruolo comico a un attore drammatico. L'importante è che reciti in modo drammatico fino in fondo. Questa comicità, chiamata di situazione, è già tutta impostata nella scrittura. Tutte le commedie di Georges Feydeau sono di situazione. E mentre per un comico puro la situazione non deve essere troppo vincolante (toglierebbe spazio ai suoi guizzi e ai suoi scherzi verbali e fisici), in questi testi l'attore non può derogare dall'impostazione seria della scena. Guai se provasse a «giocare» con le battute: farebbe fatalmente cane cane gatto gatto. Alla comicità della situazione aggiungerebbe quella della recitazione e il risultato sarebbe l'annullamento dell'una e dell'altra. Non si può raccontare una barzelletta ridendo. Fino all'avvento della televisione, i comici si formavano nei chiassosi palcoscenici del varietà. Da un po' di anni li troviamo nel piccolo schermo. Ma se riflettiamo un momento i migliori di questi, anche se sono ripresi dalle telecamere, si son fatti le ossa in studi affollati di pubblico in carne e ossa. La comicità non è ferma, fissa, chiusa in un repertorio. L'attore la cura quotidianamente, l'aggiorna, ma soprattutto la calibra sul pubblico. Quindi un vero comico non sarà mai al meglio in un teatro vuoto. Senza le immediate reazioni di una platea non può trovare i ritmi, costruire i suoi «ritorni» (tormentoni), creare complicità e climi, confermare a se stesso alcune certezze, ecc. Le sue potenzialità rimangono lettera morta. Il genere di teatro più congeniale ad un comico puro è quello in cui si può prendere molte libertà. O sono commedie scritte ad hoc oppure monologhi diretti al pubblico. In entrambi i casi il drammaturgo scrive sulla misura del comico. Questi, poi, sul palcoscenico, quando è di fronte agli spettatori e nei punti previsti,

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«improvviserà» i suoi pezzi. In verità anche questi «pezzi improvvisati» sono scritti, ma con una retorica che dia l'impressione dell'invenzione istantanea. Il pubblico si sente premiato quando crede di stimolare la fantasia del comico. Certamente l'attore può modificare molto lo spettacolo, ma ricorrendo sempre a gag, battute e azioni che tiene di riserva. Osserviamo un po' più da vicino questo aspetto del comico ritenuto magico dal pubblico, l'improvvisazione. Improvvisare a teatro. Stando alla testimonianza di chi ha avuto la fortuna di vederlo in teatro, il Totò che noi conosciamo, quello del cinema, non vale un decimo rispetto al comico caricato a molla sulle tavole del palcoscenico. Si racconta che, al momento del bis, prima di rientrare in scena, dicesse agli attrezzisti: «Adesso li faccio ridere con la A! » Entrava, improvvisava un paio dei suoi irresistibili lazzi e ritornava dietro le quinte mentre la sala si sganasciava a bocca spalancata: «Ab! Ah! Ah! » Prima del secondo bis prometteva ancora: «Adesso li faccio ridere con la I! » Infatti, la platea: «Ih! Ih! Ih! » Al terzo bis era la volta della U. Entrava in scena di sbieco come un burattino di legno, snodato, e si arrampicava su per il sipario come uno scoiattolo. E gli spettatori: «Uh, Uh, Uh! » Le risate con la A, con la I e con la U hanno sostanza ben diversa le une dalle altre: sono le reazioni emotive a tre differenti espressioni della comicità, o meglio a tre gag di natura diversa. In genere la risata con la A esplode al terzo ritorno di un tormentone o nella «chiusa» di un movimento comico a lunga durata con esplosione finale. La risata con la U è fulminante, quasi sempre provocata da una gag inattesa, da una caduta improvvisa, da una battuta a sorpresa. Quella con la I, invece, è più legata all'umorismo, alla finezza verbale o alla gag «buttata via», regalata ai pochi: arriva sem-

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l65 pre con un attimo di ritardo e si espande nella sala per contagio, perché chi non ha capito subito l'arguzia la decifra attraverso lo scompisciarsi degli altri. L'improvvisazione va considerata una «figura» della comicità, alla stessa stregua della gag o della «messa in situazione». E una finzione. Provo a dire qualcosa di più su questo meccanismo di falsa spontaneità, di apparente illuminazione sorprendente e gratuita dell'attore. Invero dietro all'improvvisazione si organizza una vera e propria retorica della comicità i cui meccanismi, comunque, non garantiscono il risultato se il comico non possiede quel talento irripetibile e naturale che gli fa dare tempi e ritmi millimetrici al parlato e ai gesti. Ogni improvvisazione è sempre ben preparata e trova i suoi punti d'appoggio nelle metonimie precedentemente seminate; e niente è inutile: una battuta che sembra morire là verrà fatalmente ripescata, ma in una luce ancora più comica. Ogni segmento della recitazione mira a una botta finale. Questi colpi sono gli appuntamenti che il comico dà a se stesso; egli sa esattamente dove deve andare a finire il suo discorso. Il tragitto è il raggiungimento e il superamento delle varie tappe comiche: gli intervalli creano il clima, costruiscono la risata e sono riempiti da un tono che tiene in allegria lo spettatore. L'atteggiamento del comico che parla al pubblico è simile a quello di un ragazzino che ha sentito parlar male del mondo ma che ancora non ha conosciuto sulla propria pelle i dolori. Il suo non-dolore offre al pubblico un'idea meno grama della vita. Di qui il sapore demistificatorio e anche dissacrante della comicità. Di qui il luogo comune, non del tutto peregrino, secondo il quale la comicità non prende nulla sul serio. L'improvvisazione reale è possibile, ma solo in minima parte, quando il comico modifica i suoi piani in funzione del pubblico specifico di uno spettacolo. Una platea di ragazzi è una cosa, una platea di militari un'altra, di un collegio femminile un'altra ancora. La platea del Nord è diversa da quella del Sud. E siccome la co-

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micità si nutre molto di extratestualità, cioè delle cose che accadono fuori del teatro negli stessi giorni dello spettacolo, il pubblico non è mai lo stesso, non riflette ovunque la stessa attualità. Per questo il comico, mentre recita, misurando le reazioni di chi ha davanti, modifica la forma e spesso la scaletta dello spettacolo. Dove c'è più «sordità» le battute saranno «portate», caricate o sostituite con altre di riserva. Dove invece c'è una particolare sensibilità vengono «buttate via», come qualcosa in più, un regalo per stare bene insieme. Anche il numero degli spettatori modifica la recitazione di un comico. Quante più persone siedono in sala tanto più ritmato e veloce sarà lo spettacolo. La stessa sintassi cambia forma. Alcuni anni fa Roberto Benigni girava l'Italia con uno dei suoi indimenticabili TuttoBenigni. Era quasi alla fine di una lunga tournée. Lo spettacolo, dopo tante repliche, aveva raggiunto la perfezione: garantiva quasi due ore di risate continue. Un bel giorno Benigni accettò di recitare alla Festa nazionale dell'Unità. Sali sul palcoscenico e si vide davanti una folla spropositata, che arrivava fino allo svincolo autostradale. Vedeva migliaia di teste nella nebbiolina accesa sotto i lampioni lontani. Ebbe un tuffo al cuore che gli fece perdere la sensibilità della pelle e dei muscoli. Malgrado lo spavento cominciò a recitare come aveva sempre fatto (o almeno cosi credeva), sbracciandosi e rimbalzando sulla pedana un po' più del solito. Il successo fu straordinario, memorabile. Ma quando finalmente Benigni, dopo i bis, usci di scena, si rese conto che lo spettacolo non era durato più di un'ora. Non aveva tagliato neanche una battuta eppure, senza accorgersene, era arrivato quasi a dimezzare la durata dell'esibizione. Evidentemente aveva recitato a un ritmo forsennato, trinciando le battute e abbreviando le frasi. Niente virgole e punti e virgola, era andato avanti a colpi di punti e a capo. Invece del fioretto aveva usato il cannone. Ogni serata, in misura diversa, richiede e implica da parte del comico la capacità di creare un tono. Sarà poi

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l67 questo tono che detterà la forma dell'improvvisazione. Eduardo De Filippo diceva che l'attore deve sempre guardare con un occhio il pubblico e gli deve porgere una sola mano, altrimenti «... tira giù! » Vale a dire che il comico recita e nello stesso tempo studia il pubblico per regolarsi, per eventualmente modificarsi. E vale a dire anche che non deve rincorrere le risate, la cui ingordigia fa perdere all'attore ogni controllo drammaturgico. Il vero segreto della comicità sta infatti nel nascondere la volontà di suscitare l'ilarità. La costruzione di una bella battuta destinata a far scoppiare dal ridere è vicina al calcolo matematico o a quel genere raffinatissimo di letteratura aforistica, che pure è parente della matematica. L'attore comico molto raramente, tranne in qualche sporadico stato di grazia, potrà improvvisare seduta stante un monologo. Ciò che più spesso succede è che, in certe condizioni e in uno stato d'animo particolare, cerchi nel proprio repertorio, durante la recitazione, una situazione comica già sperimentata e la riproponga inventando sull'istante solo la parte preparatoria. Perché, ripeto, tutto si gioca sulla preparazione. Nessun grande comico rischia di «bucare» una risata. L'improvvisazione si impara sul palcoscenico ma si scrive a casa. E la somma finale di tanti piccoli ingredienti messi in ordine con talento, conoscenza della macchina comica e corrispondenza amorosa con i «sensi» del pubblico. Lo scrittore non può imporre il proprio lessico al comico, ma deve saper suggerire temi, situazioni e costruzioni drammaturgiche che aiutino il suo talento a rendere al massimo. Il cinema e il teatro sono i luoghi più congeniali alla comicità, seguiti dalla radio. Solo al senso della vista sono rivolte le gag d'azione, gli snodamenti del corpo e le espressioni del viso. All'udito vengono indirizzate le gag di battuta, dove il suono della voce, il lamento, la pausa, l'ammiccamento, l'urlaccio ne formano la sostanza espressiva principale. In letteratura

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la comicità è più ardua. Difficilmente si vede qualcuno scoppiare dal ridere mentre sfoglia le pagine di un libro. Una frase è comica per ciò che dice e per come è detta. Alla comicità scritta mancano le immagini e una voce che reciti dando toni, pause e intenzioni. Più adatto alla letteratura è l'umorismo, che è sempre di battuta. La gag letteraria ha sapori tutti suoi: è migliore quando è metalinguistica, aforistica, epigrammatica, satirica; quando è un gioco raffinato e argutissimo di parole. Tuttavia, per condurre bene questo gioco, è necessaria una particolare attenzione «microdrammaturgica» nella costruzione delle frasi. Ogni battuta ha una parola (o un sintagma) chiave che va in coda. Per esempio: Nerone aveva cominciato a sospettare di tutti e a condannare qualcuno a morte. «Puoi uccidere un'infinità di persone - gli disse Seneca. - Ma per quanti ne farai ammazzare, non potrai mai sopprimere il tuo successore». (Panckoucke) Se rileggiamo con attenzione questa battuta di Seneca scopriamo che è ad effetto, costruita in modo che finisca con una gag. La suspense dura fino alla sorprendente parola «successore». Ben altro l'effetto se fosse stata scritta in quest'altro modo: «Puoi uccidere un 'infinità di persone - gli disse Seneca - ma per quanti ne farai ammazzare, il tuo successore non potrai mai sopprimerlo». La differenza sintattica è minima, ma quella espressiva è notevole: la frase originale è più cattiva, più secca, più amara. La seconda ha invece un tono alquanto «notarile». Un altro esempio lo traggo dal Calendario di Wilson lo Svitato di Mark Twain: Non sarebbe affatto meglio se tutti la pensassero allo stesso modo;è dalla differenza di opinioni che nascono le corse dei cavalli. Se anticipiamo «le corse dei cavalli» girando la frase, la battuta non è più tale, perde il suo spirito.

LA COMICITÀ

l69 Approfitto del tono allegro di queste arguzie per prendere commiato dal lettore. Con qualche esitazione perché temo di aver dimenticato chissà quante cose. Per non parlare della frustrante convinzione che ogni singolo tema da me toccato meriterebbe un maggiore approfondimento, forse anche un saggio a parte (se non ne esistono già). Sarei comunque contento se qualche lettore un po' pignolo, nel cercare di prendermi in castagna in qualche passo di questa mia divagazione, potesse ulteriormente approfondire la materia. Gli studiosi specialisti di narratologia siano buoni e perdonino le approssimazioni a cui spesso ho dovuto ricorrere per non uscire dal tono colloquiale con cui ho messo giù questi appunti. Agli altri lettori spero che la mia panoramica sulla bottega delle diverse scritture faccia venire in mente che anche il più raffinato dei cuochi, quando fa un soffritto, nella padella mette olio e cipolla.

Indice

p. 3 Per cominciare Da lontano. La costruzione del racconto 9 II linguaggio dei sensi io I segni parlano 12 II linguaggio della vista: il cinema 16 II linguaggio dell'udito: la radio 22 II linguaggio della fantasia: il sesto senso 30 I segni della realtà: l'extratesto 33 Immaginare fuori dal linguaggio 3; La coscienza linguistica 38 Prima e terza persona 42 La metonimia 44 Finta terza persona 50 Colpo di scena 56 Deus ex machina 57 L'equilibrio perduto 63 Esempio di una struttura 66 La fine all'inizio Da vicino. La costruzione di una scena 75 Scrittore e personaggi 80 Drammaturgia della scena 82 I piani del cinema 85 I movimenti dello sguardo 89 Drammaturgia della scena (2) 92 La sceneggiatura

INDICE Dei vicinissimo. La costruzione del dialogo Il dialogo In situazione Dialogo in teatro Il monologo Il dialogo in cinema La comicità I-'ar ridere Il colapasta La gag Drammaturgia del comico