Cocaina Pitigrilli Dino Segre Z [PDF]

Pitigrilli Cocaina Ad Amalia Guglielminetti, istrice di velluto 1 Nel collegio dei Barnabiti aveva imparato il latin

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Pitigrilli Cocaina

Ad Amalia Guglielminetti, istrice di velluto

1

Nel collegio dei Barnabiti aveva imparato il latino, a servir messa e a giurare il falso. Tre cose di cui si può aver bisogno da un momento all’altro. Ma uscendo dal collegio le dimenticò tutte e tre. Studiò medicina per alcuni anni; ma all’esame di patologia speciale chirurgica gli dissero: “Non posso permetterle di dare l’esame con la caramella all’occhio. O si toglie la caramella, o non dà l’esame.” “Ebbene, io non dò l’esame” rispose Tito alzandosi. E rinunziò alla laurea. Masticava della chawing-gum che uno zio d’America gli mandava come anticipo sull’eredità, e fumava sigarette comuni. Quando una donna lo colpiva, egli ne scriveva il nome sopra un taccuino, mettendola in colonna, per turno, dopo quelle che gli erano piaciute prima di lei; e appena era stufo dell’amante in corso, consultava l’elenco: adesso viene Luisella. E andava da Luisella:

“Ora tocca a voi: e fate presto, perché dopo di voi c’è Mariuccia che aspetta.” Quando incontrava Mariuccia le diceva: “Non tocca ancora a te. Prima c’è Luisella.” Non avendo baffi, si tirava, per vezzo, i sopraccigli. “Perché si tira sempre i sopraccigli?” gli domandò un giorno una signorina. “Ognuno” rispose Tito “si tira i peli che ha, a seconda della sua età e del suo sesso.” Quella signorina lo credette molto spiritoso e lo amò. Era una vicina di casa, quella signorina, e aveva vent’anni. Sono cose che succedono a tutti i giovani d’ambo i sessi quando hanno finiti i diciannove e non sono ancora entrati nei ventuno. Ma, oltrepassata quell’età, ci si volta indietro a fissarla con rimpianto, come un’èra favolosa che non abbiamo sufficientemente goduta. Si chiamava Maddalena, e sebbene frequentasse una scuola di stenodattilografia era una ragazza onesta. La madre integerrima, quando la domenica andavano

a passeggio, sembrava far usbergo del proprio petto alla ventenne verginità della figliola; il padre, uno di quegli uomini all’antica che contano ancora a scudi e marenghi, tutte le sere, col sigaro spento fra le dita e gli occhiali sulla fronte, l’attendeva al ritorno, e se ritardava di dieci minuti apriva contro Maddalena un’istruttoria, brandendo nell’aria, come una spada, il centenario orologio a retrocarica. Egli sapeva che le fanciulle cominciano con un ritardo di cinque minuti e finiscono con i ritardi di quindici giorni e anche più. Tutta la morale sessuale non tende, in fondo, che a scongiurare, nelle fanciulle, il pericolo dei ritardi. I principi morali di quel padre e di quella madre non si piegavano. Un giorno che Maddalena fu vista scambiare qualche bacio con Tito, lo studente in medicina e vicino di casa, proruppero dal petto gagliardo della madre, espandendosi ed echeggiando per la scala, tutte le più pittoresche ingiurie suggerite dalla zoologia comparata; poi passò ai termini medico-legali (degenerato, irresponsabile, satiro): e quando ebbe esaurito il repertorio e i polmoni, afferrò per un braccio la fanciulla e la scaraventò in casa. Il

giorno dopo Maddalena entrava in un riformatorio per ragazze cadute o pericolanti, dove rimase dieci mesi, cioè fino alla maggior età, perché la madre, povera sì ma onesta, e il padre, povero sì ma incensurabile, non potevano permettere che la figlia prendesse una cattiva strada. Nel Regio Riformatorio il contatto con le compagne pervertite era neutralizzato dalla visita quotidiana di certe pie e aristocratiche signore, che con la presenza, la parola e l'esempio dovevano indicare alle corrigende il pergolato fiorito della virtù. Ma quelle signore incartapecorite e barbute, senza mammelle e senza ovaia, producevano il benefico effetto di gettare l'allarme fra le corrigende e di far orientare la loro esitante fantasia verso i paradisi del vizio. Grave errore è affidare a donne brutte e ripulsive il caleidoscopio della virtù. I riformatori femminili dovrebbero, mediante equo compenso, invitare le più sfavillanti cocottes a visitare le recluse e a dar loro a intendere d'essere divenute così belle, attraenti e tentatrici per aver praticato la modestia e la castità. Le vecchie e pie e brutte e aristocratiche e barbute signore potrebbero invece essere utilmente impiegate

per mostrare alle corrigende a quali disastri conducono la dissolutezza e il libertinaggio. Le compagne anziane insegnarono a Maddalena tutte le arti della galanteria, dal procurato aborto al furto all'entolage. Fece il corso teorico-preparatorio alla prostituzione; e quando uscì per tornare al tetto paterno, perdonò ai cari genitori la severa ed eccessiva misura correzionale che circa un anno prima avevano (per il suo bene) preso contro di lei. I genitori, in cambio, le perdonarono il fallo giovanile, ma le spiegarono che la loro onestà non poteva adattarsi a nessuna transazione col buon costume. Poco tempo dopo il suo ritorno, Maddalena prese a chiamarsi Maud, perché era divenuta l'amante di un grande industriale e di un prete molto ricco. I suoi genitori, poveri sì ma onesti, non le intralciarono la carriera, tanto più che la madre era autorizzata ad andare ogni giorno a prendere notizie della sua salute e gli avanzi della cucina.

Il padre, dicendo no, non posso accettare, accettava anche i biglietti di banca, si serviva dei sigari dell’industriale e dei liquori del prete, dal cui mantello aveva saputo far uscire un magnifico tight da indossare nelle grandi occasioni e per andar a far visita alla figliola. E poiché costei smetteva le scarpe e le calze ancora nuove, il padre si incaricava di venderle a buone condizioni, dividendo poi, naturalmente, i proventi in due parti uguali: una per sé e l’altra per la moglie. Tito, quando seppe che Maddalena era stata rinchiusa nel riformatorio, si gettò per disperazione sul treno di Francia, e dopo diciotto ore arrivò a Parigi. Aveva in tasca pochi biglietti da cento e nessuna commendatizia. Tutti gli uomini che hanno fatto una grande strada sono partiti senza lettere di raccomandazione. Andò subito da un tipografo a ordinare cento biglietti da visita, che gli consegnarono in giornata. Doct. prof. Tito Arnaudi Doct. prof. Tito Arnaudi Doct. prof. Tito Arnaudi...

Lesse tutti i biglietti a uno a uno. Quando giunse al centesimo si convinse di essere veramente dottore e professore; per convincere gli altri bisogna anzitutto persuadere noi. Il primo cartoncino lo mandò a quel pedante che, ingiungendogli di posare il monocolo, gli aveva impedito di laurearsi. A che servono le lauree se un biglietto da visita dice quanto un diploma? Sull’asfalto di un boulevard dove si aggirava in preda alla malinconia dei primi giorni, guardando in alto come per cercare il punto più adatto ad attaccare una corda per impiccarsi, incontrò un amico di collegio. “ Mi ricordo perfettamente di te. Studiavi le date della storia come i numeri del telefono: incoronazione di Carlo Magno: otto zero zero; scoperta dell’America: quattordici nove due. Ed è molto che sei qui? Dove mangi?” “Ai Diners de Paris” rispose l’altro. “Vieni anche tu. Ci si sta bene.” “Tu ci sei tutti i giorni?” chiese Tito. “Tutti i giorni.”

“Ma ci vuole una bella costanza per andar sempre alla stessa trattoria!” “No” rispose l’altro. “Basta fare come faccio io.” “E tu che cosa fai?” “Il cameriere.” Tito Arnaudi andò a mangiare ai Diners de Paris, “Come si fa” egli domandò all’amico cameriere “a trovare un’amante in questo paese?” “Si ferma una donna e le si offre una bibita; lei accetta: le offri un pranzo; non lo rifiuta: le offri un posto nel tuo letto, e se non ha impegni con altri viene a letto con te.” Il giorno dopo Tito Arnaudi si avvicinava a una signorina e le offriva una bibita, un pranzo e le dava un appuntamento per il domani davanti a un teatro. “Prenderò i biglietti.” “Prendeteli.” “Non mancherete?”

“Non mancherò.” “Davvero?” “Sans blague!” La signorina era bella. Aveva detto di essere mannequin presso un gran sarto del quartiere dell’Opéra. Elegante, vivace, decorativa, aveva tutti i requisiti per riuscire l’amante ideale. All’estero non si può vivere senza un’amante. Chi non riesce a farsi un’amante, dopo un mese è costretto a rimpatriare. Quella era la donna che ti fa dimenticare la patria, mutare residenza, e rinnegare nazionalità. Appena un uomo solo arriva in un paese straniero, prova un senso desolante di solitudine. Il pensiero ritorna insistente al paesaggio, alle strade, ai muri che lasciammo. Ma se s’incontra una donna pronta a concedersi, essa costituisce subito per noi un nuovo mondo, una nuova patria; la sua tenerezza, sincera o simulata, forma, intorno a noi, come una capsula protettiva. È una specie di extraterritorialità, una specie di diritto d’asilo. La donna è per l’esule un pezzo della sua terra in terra straniera. Il commissariato per l’emigrazione dovrebbe istituire

alle frontiere un servizio di donne da distribuire agli emigranti solitari. Tito fu esultante. Aveva trovato la donna e l’avrebbe rivista il giorno dopo. Con quella certezza nel cuore o piuttosto sulle labbra - se lo ripeteva ogni poco — cominciò a girare per Parigi guardando le vetrine. Parigi gli piaceva. La donna è un prisma di cristallo attraverso il quale si debbono guardare le cose per trovarle belle. Tre giorni dopo il cameriere domandava a Tito: “Ti sei fatto un’amante?” “Non me ne parlare!” rispondeva Tito. “Per una donna incontrata in un caffè avevo preso due biglietti per la Pie qui chante. Mezz’ora prima che cominci lo spettacolo mi trovo davanti al teatro ad attenderla, com’era inteso. Alle nove la signorina non c’era ancora. I due biglietti mi costavano cinquanta franchi virgola settanta. Andar da solo? Ti pare? Quel posto vuoto vicino a me mi avrebbe amareggiato lo spettacolo. Non andarci? Quei due biglietti in tasca mi avrebbero arrestato la circolazione del sangue. Allora mi metto sulla porta del teatro per adescare coloro che erano ancora sprovvisti di biglietto.

“Un vecchio signore con moglie e binoccolo al quale li offro, me li paga senza discutere e mi porge cinque franchi di mancia. Mi aveva preso per uno speculatore. “Io non li accetto. “L’altro crede che io non m’accontenti di cinque franchi e me ne offre dieci. Io allora, in quel cattivo francese che gargarizzo, li rifiuto col gesto magnifico di Curio Dentato che respinge i doni dei Sanniti. L’altro me ne porge venti digrignando la dentiera e dicendo che io sono un ladro.” “E tu?” domandò l’amico cameriere. “E io mi sono risentito.” “Gli hai tirato sul muso i suoi venti franchi?” “Ti pare? Fossero stati cinque o dieci! Ma venti!... Li ho messi in tasca.” Ma ormai i primi giorni erano trascorsi e Tito si era ambientato. La donna acciuffata per un momento gli aveva fatto dimenticare Maddalena. E ora che l’aveva dimenticata non se ne ricordava più. Stupido, ma vero.

Le donne sono nel nostro cuore come i manifesti murali. Per nascondere il primo ne appiccichi un secondo che te lo copre completamente. Forse, lì per lì, quando la pasta è ancora molle e la carta è ancora umida, attraverso il secondo continui a intravvedere vagamente, per trasparenza, le macchie di colore del primo. Ma poco dopo non ne hai più traccia. Quando poi si stacca il più recente, vengono via insieme tutti e due, lasciando la tua memoria e il tuo cuore nudi come un muro. Tutte le sere, appena il cameriere era libero, conduceva Tito in giro per Parigi. “È andando in giro per la città che si trovano gli impieghi” diceva il cameriere “non certo rivolgendosi ai mediatori e alle agenzie. Se vuoi fare il cameriere con me, ti trovo un posto. Non è un mestiere difficile. Basta essere gentili col cliente. Quando sei in cucina puoi sputare nel piatto: ma il piatto va presentato con un premuroso sorriso e un elastico inchino. Ogni lavoratore ha bisogno, ogni tanto, di provare a se stesso di non essere un servo o, per lo meno, di avere una qualunque superiorità sulla persona servita. L’ultimo impiegato di concetto d’un

ufficio, soverchiato da una gerarchia lunghissima, si sfoga sul primo impiegato d’ordine; il più miserabile degli uscieri, per avere la sensazione di non essere il più umile degli umili, maltratta il fattorino; il fattorino ingiuria il pubblico. Il più straccione degli uomini maltratta il bimbo che gli viene fra i piedi; il bimbo maltratta il cane. La vita è tutta una scala di vigliaccherie; abbiamo bisogno di pensare che c’è ancora qualcuno sotto di noi, più debole di noi. Il cameriere sputa nel piatto del cliente per illudersi di umiliare chi umilia lui dandogli del tu e lasciandogli la mancia. Forse a te, ancora imbevuto di pregiudizi, ripugna l’idea di servire, ma tutti serviamo; serve anche il presidente di corte di cassazione; serve anche la grande cortigiana che percepisce cinquemila franchi per lasciarsi slacciare i nastri della camicia; serve anche l’uomo di borsa che con una telefonata fa entrare nelle sue tasche mezzo milione. Anche l’artista, anche il medico, anche l’arcivescovo servono. Vuoi venire con me? Io in pochi giorni ti insegno a tenere otto piatti colmi con la sinistra e dodici con la destra, e ti metto in grado di ripetere, pensando ad altro, il nome di venticinque vivande diverse.”

Tito rispose: “No, grazie. Quando ho voglia di sputare, sputo per terra.” Tito alloggiava in un piccolo albergo di Montmartre, dove la scala, per metà occupata dall’ascensore ad aria compressa, era così ripida e stretta che, per portare i bauli alle camere superiori, si era costretti a sollevarli con corde dal di fuori del caseggiato, facendoli entrare per la finestra. Vi si respirava quell’odore di saponetta, tabacco, sudore femminile, cuoio militare, essenze odorose ordinarie di cui sono sature le maisons closes per borse modeste. L’edificio era così alto e sottile, che le camere dell’ultimo piano vibravano come gli indici di un apparecchio sismografico: bastava che qualcuno nella strada sottostante bestemmiasse con un po’ di gagliardia, perché il letto di Tito, a trenta metri dalla crosta terrestre, avesse un sussulto. Quasi ogni notte la questura vi faceva qualche visita e qualche operazione. Di clienti stabili non c’erano che lui e un misterioso uomo sulla cinquantina, privo

d’una gamba, che aveva rimpiazzata con un grossolano e rumoroso arto di legno. Costui aveva i lineamenti del mediatore di bestiame, e il colore adusto del nostromo di veliero. Nessuno sapeva che mestiere facesse. Il proprietario dell’hôtel diceva: Tutto ciò che mi risulta è questo: che ogni cinque giorni mi paga con sollecitudine e puntualità. Alle quattro del mattino si sentiva invariabilmente il suo arto di legno arrancare su per le scale. Tutti gli altri erano clienti di passaggio che venivano a due a due e non si trattenevano mai più di mezz’ora. Tito ormai si era abituato a udire quattro o cinque volte per notte, dall’ima e dall’altra parte della sua stanza, nelle due camere attigue, il susseguirsi dei soliti rumori che accompagnano la compravendita d’amore: una porta che si apre, l’interruttore della luce che scatta, passi lenti per la camera, una voce di uomo, una voce di donna, schioccare di baci, respiro affannoso animalescamente ritmato, risciacquio, voce di uomo, voce di donna, l’interruttore che gira, la porta che si chiude, per riaprire, poco dopo, la serie degli identici e identicamente coordinati rumori.

“L’amore” egli pensava “come è sempre simile a se stesso! L’amore che si dona ha sempre le medesime parole; l’amore che si vende ha sempre le medesime formule!” “Di che paese sei?” “Di Toulouse.” “Ti chiami?” “Margot.” “È da tanto tempo che fai la vita?” “Un anno.” “Non hai malattie?” “Ti pare?” “Allora spogliati.” Nell’altra stanza, dalla parte opposta, un altro uomo, con un’altra donna, ma il medesimo discorso: “Come ti chiami?” “Louise.” “Di Parigi?” “Di Lyon.” “È da molto che...” “Otto mesi.” “Sei sana?”

“Non sono mai stata a letto, da sola.” “Tògliti la camicia.” Nelle porte chiuse a chiave e comunicanti fra la sua camera e le due adiacenti, ignoti curiosi avevano praticato alcuni fori in alto e in basso, per tutte le stature, che mani pratiche avevano turato con effimere pillole di carta masticata. Le voci delle coppie fortuite e provvisorie che venivano a fare la noce, e il risciacquio successivo, nei primi tempi lo avevano eccitato così morbosamente da indurlo a passare lunghe ore della notte con l’occhio all’osservatorio, a bar-busseggiare nella stanza attigua. Ma lo spettacolo era sempre lo stesso. Anche le forme più viziose, le manovre di contrabbando, le pratiche eccezionali erano sempre le stesse. Ogni maschio credeva di far qualcosa di nuovo, qualcosa di stravagante, e non faceva altro che ripetere con un’altra donna, o con la stessa, il gesto che un altro mezz’ora prima aveva compiuto credendo di recare chissà quale rara innovazione nella cerimonia dell’animalità.

Una sera vide entrare un giovane giapponese con una sgualdrinella giapponese che egli, Tito, aveva già incontrato sui boulevards. Il giovane giapponese e la giovine connazionale si scambiarono alcune frasi iniziali mentre il maschio si toglieva la giubba. Agli orecchi di Tito giunsero nette le espressioni della lingua orientale, tutta sillabe quasi indipendenti, staccate l’una dall’altra, come il ticchettio d’un tasto telegrafico. Il maschio parlava pacato, con un velato sorriso sulla bocca enigmatica. “Che cosa si diranno?” pensò Tito. E si rispose: “Lui le domanderà se è da molto tempo che fa la geisha, e lei risponderà che sono pochi mesi, e che è nata a Yokohama, e che si chiama Haru o primavera, oppure Umé, fior di ciliegio...” Montmartre, questa mammella che ha la fortuna di proteggere il cervello della Francia, come disse Rodolphe Salis, il padre dei giornali umoristici parigini, Montmartre, o semplicemente la Butte, quest’altura dominata dal Mulino della Gaiette, sottolineata dai boulevards esterni e inchiodata dalla piazza Pigalle e dalla piazza Clichy come da due

grandi borchie, Montmartre, la moderna Babilonia, l’Antiochia elettrizzata, la piccola Bagdad, il sogno del nottambulismo cosmopolita, l’angolo abbacinante, assordante, stupefacente a cui si rivolge il sogno dei blasés di tutto il globo, dove alle più esperte concessionarie d’amore che esistano al mondo vengono a gettare il fazzoletto anche coloro che non hanno più nulla da soffiarsi, Montmartre la Sfinge, la Circe, la Medusa venale dai molti veleni e dagli innumerevoli filtri, attrae il viaggiatore con un fascino che oltrepassa lo spazio. Le commedie, i romanzi, i giornali soffiano in tutti i continenti il profumo di Montmartre: profumo libresco, letterario, teatrale, giornalistico, a cui ogni artista ha aggiunto la sua molecola. Montmartre manda lontano in tutte le direzioni il suo scintillio di illustri calvizie, di granducali scollature, di gemme regali, di sparati principeschi, di denti aguzzi d'insaziabili divoratrici. Ognuno di noi, da lontano, si è immaginato un Montmartre fittizio, adagiato nell’impalcatura di alcuni nomi di strade, di moulins, di tabarins o di restaurants notturni. E quando arriviamo a Montmartre proviamo una delusione che non sempre si osa confessare per non

aver l’aria di atteggiarci a persone vissute. Ma in fondo ognuno di noi ha detto: “È tutto qui?” “E tutto qui?” domandò Tito Arnaudi all’amico cameriere dopo che ebbero visitato i ritrovi più celebri e caratteristici. “Ti confesso che mi paiono assai più interessanti il Quartiere Latino e Montparnasse; qui la gente finge di divertirsi; là finge di meditare; fra gli uni e gli altri preferisco i falsi contemplativi, perché sono meno rumorosi.” Tito aveva trovato una fonte di guadagno. “Te l’avevo detto” gli rispose l’amico cameriere, quando gliel'annunciò. “Te l’avevo detto che il guadagno si trova girando per Parigi.” “Sì” replicò Tito “hai ragione. Ma girando per Parigi ho trovato del guadagno a New-York.” “Spiegami la sciarada.” “Un mio zio d’America...” “Esistono dunque gli zii d’America?”

“... direttore di un grandissimo giornale del mattino mi ha risposto con un cablogramma che avrebbe pubblicato assai volentieri gli articoli che io gli offrivo. Era la generosità di mio zio e i vantaggi del cambio, io posso farmi un piccolo reddito mensile non disprezzabile. Il primo articolo che scriverò sarà sulla cocaina e sui cocainomani.” E il cameriere lo aveva appunto guidato a Montmartre in cerca dei covi ove s’annidano gli adoratori della captivante coco. “Qui?” domandò Tito sulla soglia del caffè. “Qui” rispose l’amico spingendolo. Il caffè aveva, al di fuori, un aspetto triste. In genere i caffè parigini sono tristi al di fuori: nelle porte e nelle finestre a vetro c’è troppo poco vetro e troppo legno. E quel po’ di luce che potrebbe entrare è trattenuta in parte da grandi lettere in smalto col nome delle bibite e il prezzo dei veleni. Mentre stavano per varcare la soglia, furono raggiunti dall’uomo dalla gamba di legno, che si fece indietro d’un passo per lasciarli passare.

“Costui abita nel mio albergo” disse Tito “e non si sa che mestiere faccia.” “Un mestiere?” rispose l’amico. “Un commercio molto lucroso. Vedrai. Il suo commercio è tutto nella gamba di legno. “Farà il mendicante” disse Tito. “Macché!” “Una gamba di legno non si può sfruttare che così.” “Tu credi? La sfrutta molto meglio. Ma non aver fretta. Te ne persuaderai tra poco.” Il padrone del locale era oltre il banco, e serviva grandi bicchieri di birra a un gruppo di chauffeurs d’automobili pubbliche odorosi di cattivo tabacco e di impermeabile bagnato. Dietro di lui, sopra piani di cristallo scintillavano gaiamente bottiglie di liquori collegate da ghirlande di bandierine, che la parete di lucidi specchi rimandava, raddoppiate, nello specchio di fronte. Sullo zinco un grande acquario di forma sferica ospitava le evoluzioni flessuose di alcuni spleenetici

pesci rossi che per le aberrazioni dei raggi luminosi e il sommarsi di luce naturale e luce artificiale, acquistavano gli aspetti bizzarri di draghi cinesi. “C'è della gente” disse Tito bevendo, al banco, un bicchiere di Porto “che per una goccia di pioggia deve mettersi a letto con i dolori, mentre i pesci che passano tutta la vita nell’acqua non sanno che cosa siano i reumi.” Una risata metallica, stridula, squillante come un vassoio pieno di bicchieri urtato di colpo, echeggiò. “Vai di là, stupida!” gridò il padrone. E la ragazza dall’occhio vitreo e dal viso pallido che aveva riso indietreggiò di due o tre passi come colpita alla gola, ed entrò fra le tende rossastre che chiudevano l’ingresso all’altra stanza. “Pas de pétard ici” soggiunse il padrone in argot; e avendo compreso che Tito era straniero, tradusse: “pas de bruit.” “Dice a me?” s’impermalì Tito. “A la môme” specificò il padrone: “à la poule...”

Quando gli chauffeurs furono usciti, l’amico di Tito sussurrò qualche parola al padrone, il quale, per tutta risposta, sollevò le tende di velluto rossastro, inchinandosi: “A votre service!” Tito e l’amico passarono come si entra nei musei di riproduzioni anatomiche in cera, per soli uomini dai diciotto anni in su. Il loro ingresso fu accolto con una certa diffidenza. Una luce giallognola, stagnante, incombeva sui tavolini coperti di tappeti verdi, come quelli che s’usano per i giochi di carte e per gli esami d’università. La stanza non era vasta: un divano girava all’intorno, otto tavolini, un pianoforte, qualche giornale sporco di dita e di liquori, uno specchio rigato da punte di diamante. Tito prima delle persone osservò l’ambiente: avrebbe dovuto fare il contrario, seguendo il naturale impulso di curiosità, ma per non destare ingiusti sospetti e per farsi credere esperto dei misteri dell’alcaloide, si sedette con disinvoltura sul divano, accanto all’amico.

E prese un giornale. Tre donne lo guardavano con un senso di sospetto e si biascicarono qualche giudizio, che Tito non intese. Ma la ragazza che poco prima di là, vicino al banco, aveva commentato con una risata rumorosa una sua frase, si volse alle altre e proclamò accennando al nuovo venuto: “Pas bête le type!” Tito esaminò le donne a una a una e notò che tutte e quattro vestivano abiti di taglio corretto e di stoffa delicata, ma sciupati, vecchi, stanchi per pieghe da trascuratezza: il bianco dell'organdi era ingiallito, le guarnizioni di cuoio screpolate, la seta strincata, la cintura ritorta, le scarpe non logore ma deformate dall’andatura negletta; il collo dell’una non era scrupolosamente lavato, e le unghie terse, ma non deterse, presentavano un ripugnante contrasto di smalto roseo e di nero sudiciume. Le donne, sedute luna accanto all’altra, aderenti, come dormono gli uccelli nelle gabbie numerose, compresse fianco contro fianco come per scaldarsi, appoggiavano i piedi alla sbarra metallica orizzontale del tavolino: una di esse puntava i tacchi sullo stesso sedile ripiegando le gambe lungo le cosce, come un

coltello a serramanico chiuso, e appoggiavano il mento sulle ginocchia. Avevano tutte e quattro un che di vitreo nello sguardo: la bocca esangue crudelmente arrossata dal minio viveva di vita artificiale sul pallore del volto. Quelle quattro donne taciturne (o rese taciturne dall’ingresso dei due sconosciuti?) sembravano attendere la condanna da un’invisibile corte che stesse per apparire da un momento all’altro, attraverso le tende: lo sguardo d’una di esse, la meno intorpidita, si volgeva infatti tratto tratto a quella parte, da cui però non entrava nessuno. Sotto il grande specchio due uomini magri giocavano meccanicamente ai dadi, con l'indifferenza svogliata di vecchi impiegati messi a scrivere in un polveroso ufficio, e stipendiati non per il lavoro che fanno ma per il tempo che impiegano. L’un dessi aveva sollevato il bavero sopra un foulard destinato a sostituire il solino e la cravatta mancanti. Dell’altro giocatore, Tito vedeva le spalle e la nuca: sulla nuca scendevano i capelli trascurati, che nel mezzo si incrociavano come a formare un embrionale codino, ma a una mossa fatta per osservare i nuovi venuti,

Tito poté vederlo in viso. Era una di quelle brutte facce che si incontrano solamente nei giorni di sciopero generale. Una faccia lunga, magra, quasi devastata da un’erosione; era come quella testa di bue, scarnita, che gli architetti chiamano bucranio. La ragazza che aveva fatto sentire la sua voce si alzò per andar a parlare a uno dei due giocatori: piegandosi sulla spalla di lui gli accarezzò con la gota l’orecchio: ma il maschio continuò imperterrito a giocare. Allora ella gli sollevò la giubba, gli trasse dalla tasca posteriore dei calzoni il portasigarette, e tornando fra le amiche con una sigaretta accesa, alzò una gamba fino al livello della spalla e la lasciò ricadere con monellesca spavalderia sul piano del tavolino, fra un tintinnio di bicchieri. “Vi diverte?” domandò volgendosi a Tito che non aveva ancora parlato “c’è poca allegria qua dentro.” “M’accorgo. Ce n’è di più alla morgue!” rispose Tito. “Vacci, allora!” ringhiò la donna offesa. Ma l’uomo che giocava ai dadi si volse di scatto e l’ammonì:

“Christine!” L’amico di Tito Arnaudi suppose: “Probabilmente ci hanno preso per due questurini o per qualcosa che molto s’avvicina.” Tito rise, e si volse alla donna meno taciturna: “Le vostre amiche e il signore che gioca debbono essersi fatta una strana opinione di noi. Ho l'impressione che siano un po' imbarazzati tutti quanti. Ma non siamo ciò che temete. Io sono un giornalista, e questo è un mio collega. Niente di pericoloso, come vedete.” “Giornalisti?” intervenne una delle tre donne silenziose. “E che venite a fare?” “Ciò che si va a fare di solito in un caffè.” “E perché avete scelto questo piuttosto che un caffè qualunque dei grandi boulevards di dove si vedono passare le grues e i trottins?” “Perché questo mi è più utile, per ciò che io cerco...”

“E che cosa cercate?” “La coco!” I due giocatori riposero i dadi e s'avvicinarono a Tito. Un d'essi prese una sedia, vi si sedette a cavalcioni col petto appoggiato alla spalliera, e traendo da un taschino del panciotto una piccola scatola d’argento, la porse a Tito, aperta. Le quattro donne si precipitarono su di lui. “Ah, canaglia!” “Vilain monstre!” “Sale bête!” “Egoista!” “E diceva di non averne più." “E ci faceva morire di desiderio!” Una d'esse allungò il pollice e l'indice, congiunti a cerchio, sulla scatola, ma l’uomo con un colpo della mano irrigidita come una lama l’allontanò,

ringhiando: “Mani a casa!” Le donne non si chetarono. “La polvere!” “La droga!" “La coco!” Con le nari dilatate e l'occhio acceso si protendevano avide, anelanti sulla scatoletta di polvere bianca, come i naufraghi si contendono un angolo di scialuppa. Tito Arnaudi considerò quell’insieme di corpi confusi e aggrovigliati da uno stesso desiderio, intorno a una scatolina di metallo, come i quattro elementi autonomi di un unico mostro attorcentisi avidi intorno a una piccola preda misteriosa, che dalla vile brutalità farmaceutica si elevava a dignità di simbolo. Tito guardò ma non vide altro che mani rattratte, come intormentite dal dolore, mani dalle dita ossute, pallide, adunche, che si chiudevano a pugno, fino a configgere le unghie nelle palme per soffocare un urlo o per attutire un desiderio, o per dare diversa foggia al dolore, o per localizzare altrove il martirio.

Le mani dei cocainomani non si dimenticano. Sembra che vivano d’una loro vita, si preparino a morire prima delle altre parti, siano sempre nell’imminenza di una convulsione a stento contenuta. Gli occhi ora animati dal tormento dell’attesa, e ora illanguiditi dalla spaventosa malinconia data dalla mancanza della droga, hanno una luce sinistra, un che di morente, di agonizzante, di morto, mentre le nari si dilatano mostruosamente per aspirare qua e là nell’aria ipotetiche molecole vaganti di cocaina dispersa. Prima che Tito avesse avuto il tempo di servirsi, le quattro donne tuffarono le proprie dita nella scatola, e religiosamente sottoponendo l’altra mano aperta a guisa di piatto, s’allontanarono verso le pareti, come il cane che ha rubato un osso e se lo va a divorare in un angolo remoto. Ogni poco, nel portare alle nari dilatate e aspiranti la polvere preziosa, si guardavano intorno con diffidenza. L’uomo avaro fino alla pazzia, la donna avida di gioielli fino al delirio, non idolatrano i loro tesori

come il cocainomane la sua polvere. Per lui quella sostanza bianca, scintillante, amarognola è qualcosa di sacro: la chiama con i nomi più cari, più teneri, più dolci; le parla come si parla a un’amante che riconquistammo quando credevamo d’averla irreparabilmente perduta: la scatoletta della droga è sacra come una reliquia, ed egli la ritiene degna d’un ostensorio, di un altare, di un piccolo tempio. Se la pone sul tavolino e la guarda, la chiama, l’accarezza, vi posa sopra la guancia, se la preme sulla gola, sul cuore. Una delle donne, appena ebbe aspirato la sua presa di polvere, si precipitò sull’uomo che l’aveva offerta, e mentre questi si preparava a portare alle proprie nari i residui della scatola, gli ghermì la mano e tenendola salda fra le sue, se la portò al viso, e aspirò, fremendo. L’uomo, con una stratta vivace, si liberò e aspirò voluttuosamente il resto. Allora la donna gli prese il capo fra le palme (oh, quelle dita esangui incurvate come artigli su quei capelli neri!) e con le labbra bagnate, vibranti, palpitanti gli si gettò sopra la bocca e gli leccò ghiottamente il labbro superiore, gli

introdusse la lingua nelle nari, per raccoglierne le poche briciole trattenute sull’orifizio. “Mi soffochi!” mugolava l’uomo col capo arrovesciato all’indietro, tenendosi con le braccia distese alla spalliera: le vene della gola erano gonfie, l’osso ioide saliva e scendeva per i movimenti sconnessi di deglutizione. La donna sembrava una piccola belva che prima di divorare assaporasse il profumo della carne non ancora incisa; sembrava un leggiadro vampiro; sembrava che le sue labbra aderissero saldamente al viso dell’uomo per la forza pneumatica della bocca aspirante. Quando si staccò, gli occhi erano velati come quelli d’un gatto al quale si aprano delicatamente le palpebre mentre dorme; e nella bocca aperta (le labbra non si ricongiungevano, come paralizzate) i denti ridevano, come i denti dei morti, sulla maschera muta. La donna barcollò e andò a sedersi sullo sgabello del pianoforte, e lasciò cadere la testa sull'avambraccio e

l'avambraccio sulla tastiera. Dallo stromento uscì un tonfo sonoro. Il giovane, che s’era posto a cavalcioni sulla sedia e aveva offerto la cocaina a Tito, si alzò come si scende da una bicicletta e fece qualche passo per la stanza. La giubba nera sulle sue spalle scarne sembrava disposta sopra la gruccia degli armadi: le gambe incurvate a cerchio, erano come i gambi delle ciliegie abbinate. Lamico di costui, un giovane biondastro, malaticcio e palliduccio, prese posto sulla sedia lasciata libera e si volse a Tito. “Cosicché le mômes” gli disse “non vi hanno nemmeno lasciato assaporare una presa di droga. Quelle ragazze sono feroci. Mi rincresce di non averne da offrirvi, ma fra poco verrà lo zoppo.” “Lo zoppo?” “Non lo conoscete?” “Ma sì” intervenne l’amico cameriere. “Quel tale che alloggia nel tuo hôtel” “Ebbene, costui viene sempre verso quest'ora. Non esce mai prima delle cinque o delle cinque e mezzo.

In certi calendari, in quelli un po' più istruttivi, è scritto: il sole si leva alle 5,45',27”: il sole tramonta alle 6,9',12”... Ebbene si direbbe che lo zoppo osservi il calendario per uscire. Appena il sole è sceso, lo vedete per le vie di Montmartre camminare lentamente, come chi non ha mèta né affari urgenti, radendo i muri come per timore d'essere schiacciato dagli autobus; talvolta s'incontra con facce strane, entra in un bar, in un bistrot, o semplicemente in un portone, e poi escono come due persone che non si conoscono, prima l'uno e poi l'altro. ” “Ma poc’anzi, quando io sono entrato, lo zoppo era di là, al banco” disse Tito. “Lo so. Ma non aveva ancora la droga. Doveva trovarsi con uno studente in farmacia. Fra poco sarà qui. “Eccolo!” annunziò l’uomo dalle gambe a picciuolo di ciliegia. Le quattro donne gli balzarono incontro come per aggredirlo. “In là, sciacalli!” minacciò lo zoppo. “Calmatevi, altrimenti non tiro fuori nulla.” “Cinque grammi a me!” sibilò una ragazza.

“Io ne voglio otto!” gemette l’altra. “È atroce, atroce, atroce!” smaniò un’altra ancora, salendo gradatamente di tono. “Prima a me, prima a me che ti ho pagato in anticipo ieri.” L’uomo dalla gamba di legno, prima di metter fuori la mercanzia, posò lo sguardo su Tito e disse, con aria di saluto: “Oh, il settantuno!” “Vi siete conosciuti al penitenziario?” domandò l’amico. “È il numero della mia camera.” Una delle quattro donne posò la mano su una spalla dell’uomo scheletrito: “T'as du pèze?” “Non ho un soldo!” dichiarò reciso l’amante. “Tanto peggio!” ella risolse. “Bilancerò il mio braccialetto.”

“I denari alla mano!” impose, con tono scherzevole ma autoritario e deciso lo zoppo. “Prima i denari e poi il paradiso.” La ragazza che ne aveva chiesto cinque grammi trasse dalla borsa un biglietto da cinquanta franchi. “Dammene venticinque di resto.” “Non ho spiccioli.” “Allora tieni i cinquanta, e invece di cinque grammi dammene dieci.” Il mercante intascò il biglietto, cacciò una mano nella fenditura laterale dei calzoni, e ne trasse una piccola scatoletta rotonda: la parte superiore della gamba di legno quella che ospitava il moncone, era anche un ben fornito e insospettabile magazzeno. “Si direbbe che s’è fatto amputare la gamba a questo scopo” commentò Tito Arnaudi. “Quanto mi dai per questo braccialetto d’oro?” declamò la donna facendolo girare intorno all’indice

teso, sotto il naso del mercante. “C'est du toc!” rispose lo zoppo. “È oro di Napoli.” “Sarai tu di Napoli, ladro!” inveì la donna. “Se vuoi denari invece del braccialetto, ti pagherò domani.” “Anticipato, sempre. Posticipato mai” troncò l’uomo. E porgendo una scatoletta a Tito: “Quattro grammi, venti franchi.” Tito prese la scatola, diede venti franchi, e lesse: L'Universelle idole! Poi si volse alla donna che avrebbe sacrificato il braccialetto. “Permettete?” chiese porgendogliela. “Per me?” “Ve l’offro.” La ragazza non esitò: e con le mani bianchissime e scarne afferrò la mano di Tito e la scatoletta che egli le donava e tenendo il tutto tenacemente baciò le mani e la scatola con un impeto vorace.

“Ah, la piccola, la bella, la cara polvere, il paradiso della mia vita, il mio amore, la mia luce!...” gemette poi sollevandola all’altezza della propria fronte, come in un rito sacro si solleva una reliquia o un simbolo. E con una forcina dei capelli lacerò la listerella di carta incollata intorno, sulla commessura, e sollevò il coperchio delicatamente. Poi andò a un tavolino lontano, si inginocchiò per terra, pose sul marmo il pacco inebriante, trasse dalla borsa una piccola scatolina di tartaruga e una minuscola spatola bianca, come quella che usano gli speziali per suddividere nelle cartine le polveri. E con infinita delicatezza, trattenendo il respiro, travasò la droga dalla rozza scatoletta di cartone in quella, più degna, di tartaruga. Quando la prima fu vuota, la capovolse sulla palma, tamburellò sul fondo con la punta delle unghie dure, e si portò la palma alle nari, aspirando. E sempre con le stesse cautele, scosse in senso orizzontale la scatola bella per livellare la polvere, voltandosi tratto tratto, felinamente sospettosa. E come si trattasse di radium, ne sollevò con mille accorgimenti un pizzico e lo recò al naso. Il petto,

aspirando, si gonfiò e gli occhi si socchiusero con ispirato languore; ne prese un altro pizzico, lo spinse nella narice, otturandola col pollice, e quel poco che rimase fra l’unghia e la carne lo succhiò, conficcando gli incisivi nel letto ungueale. Tito s’era vantato, con l’uomo scarno, del suo amore per la droga. Fra gente viziosa c’è da vergognarsi di non avere il vizio. Nelle prigioni, chi deve rispondere di un lieve reato, ne esagera la gravità per non sembrar da meno degli altri. Tito Arnaudi, che non aveva mai sentito l’odore di quella polverina, giurò di non poterne fare a meno. E quando la donna gli impose di servirsi, si servì. La polverella bianca, entrandogli nel naso, gli diede un senso di freschezza aromatica, come se gli si volatilizzassero in gola olii essenziali di timo e cedrina. Qualche particella, passando dalle nari alla retrobocca, gli diede un lieve bruciore in fondo alla gola, e un senso d’amaro sulla lingua. "Ancora?”

E Tito ne aspirò un’altra presa. Poi tacque. Si chiuse in una specie di meditazione. Ah, ecco, ecco, un senso di freddo al naso, una paralisi nel centro della faccia; il naso è insensibile, non esiste più. L’uomo dalla gamba-magazzeno continuava a intascar denari e a tirar fuori scatolette, le altre donne aspiravano, in silenzio; i due uomini si fecero portare del liquore e in un piccolo bicchiere rovesciarono una scatola intera. “Perché non raspirate?” domandò l’amico di Tito. E l’interrogato rispose reclinando indietro il capo per mostrare il setto nasale corroso da un’ulcera. “La coco?” domandò Tito. “La coco” rispose il giovine. “Comincia con una crosticina pruriginosa, che s’ingrossa a poco a poco, poi si fa un’ulcera che distrugge la parte cartilaginea del setto: fortunatamente non arriva mai all’osso.” “E i medici?” “Rieri à faire!" “Possibile?”

“Sì. Rinunziare alla cocaina. Ma io preferisco rinunziare al setto nasale.” Tito sorrise. L’uomo dall’ulcera rise. Rise smodatamente, freneticamente. Le quattro donne, l’altro uomo e Tito fecero coro. Tito si toccò istintivamente il naso. Ora gli pareva di non averlo più, ma che nello stesso tempo, pur non esistendo più, fosse molto pesante. Il nulla che pesa. E tornò a ridere. Anche gli altri risero. “Arrivederci, signori!” disse il mercante come per andarsene. “Ah, non ancora!” gridò Tito, trattenendolo per il bastone tondo dell’arto artificiale. “Rimani con noi a bere un bicchiere.” Il mercante si sedette vicino a Tito, allungò la gamba di legno sotto un tavolino, e ritrasse l’altra.

“Ci guadagni di più che a chiedere la carità” disse il giovine scheletrico e giallo. “Sì” ammise il venditore di veleni “ma non credere che mendicare sia un brutto mestiere! Tutto dipende dal luogo dove si apre l'esercizio. Si guadagna dappertutto, questo è vero, ma ci sono i posti dove si guadagna di più. Sulle porte dei postriboli, per esempio, si fanno affaroni! Non come davanti alle chiese, questo no. Ma c'è già da star bene. Io andavo preferibilmente sulle porte delle chiese. Per la strada, sui boulevards, sulle porte dei caffè, passa la folla con la sua media percentuale di furbi e di sciocchi; sui gradini della chiesa la percentuale è più forte: sono quasi tutti sciocchi; il novanta per cento; non puoi sbagliare. In chiesa vanno anche i farabutti, è vero: anzi dirò che sono la maggioranza: ma uscendo o entrando dalla casa, dal pied-à-terre di Dio, non vogliono lasciarsi vedere empi, prima di fare o dopo di aver fatto giuramento di pietà.” L'uomo bevve, posò il bicchiere e ringraziò. Come fu sulla soglia una donna si fece vendere ancora una scatola.

“Arrivederci alla compagnia!” Egli speculava sull’effetto della propria partenza. Infatti, come se scomparisse il loro salvatore, le altre donne gli furono intorno, e gli chiesero altri denari. Anche Tito ne comperò una scatoletta, l'aperse, fiutò. “A che cosa conduce il giornalismo! ” disse l'amico cameriere. “Per fare gli studi sui cocainomani devi cocainizzarti anche tu...” “Che vuoi?” rispose Tito. “Potrebbe succedermi di peggio. Pitagora, viaggiando presso gli Egiziani, fu costretto a farsi circoncidere per essere ammesso ai loro misteri...” “E in che giornale scrivi?” gli domandò confidenzialmente l'uomo pallido. “In un giornale d'America” rispose Tito. “E tu” domandò Tito “che mestiere fai?” “Niente” rispose l'uomo pallido con grande naturalezza “lavora Christine per me. Se potessi lavorare senza grande fatica come fa Christine, lavorerei io per lei. Ma poiché non posso...”

L’amico di Tito non seppe celare un’ombra di meraviglia per la sfacciataggine con cui quel tale dichiarava la sua professione d'alphonse. “Il borghese” disse costui accennando al cameriere “il borghese vostro amico è stupefatto. Ma che c’è di strano? Io e Christine lavoravamo in una fabbrica dove c’erano cinquecento donne. Erano tutte votate alla tisi o per lo meno all’anemia. Il padrone della fabbrica le sfruttava. Io, non potendole far venire via tutte, ho fatto venir via Christine. Ora la sfrutto io. Non so perché io debbo essere più spregevole di quell’industriale che ne sfrutta cinquecento per volta. Tanto più che il lavoro che fa ora è molto meno faticoso, più igienico, più redditizio. Dicono che sporchi la coscienza. Ma che importa? Pur che non sporchi le mani.” “Che ora è?” chiese Tito per andarsene. “Io non ho orologio. L’uomo ha accorciato i giorni inventando gli orologi e gli anni inventando i calendari: io non ho né orologio né calendario.” “Il mio calendario io ce l’ho qui” disse Christine, facendo un gesto impudico.

“E non sbaglia mai” aggiunse il suo amante ridendo. Tito si volse all’amico e gli disse sottovoce: “Le prime cose che distrugge la cocaina sono la volontà e il pudore.” “Ma che pudore c’è ancora da distruggere” celiò il cameriere “in questa gente? Sono peggio che le donne per bene!”

2

L'articolo sui fanatici della cocaina aveva avuto un grande successo. Il direttore del giornale americano, prima ancora che l’articolo fosse apparso nelle colonne di centro della pagina sensazionale, aveva fatto pervenire telegraficamente cento dollari al nipote. Cento dollari volevano dire mille franchi, volevano dire la convinzione di essere un grande giornalista. Con questa convinzione nell’epigastro (è nell’epigastro che sono localizzati la superbia, la presunzione e l’orgoglio), per prima cosa si infilò in un’automobile, corse al piccolo e tenebroso alberguccio di Montmartre, pagò, raccolse la propria roba e si fece portare all’Hôtel Napoléon, in piazza Vendôme, uno dei più eleganti alberghi della città, insediandosi in una camera del quarto piano, verso l’interno, senza riscaldamento. Nel pomeriggio stesso si presentò al direttore di un grande quotidiano di fortissima tiratura: L'Attimo fuggente. Era costui un uomo assai elegante. Solamente i vecchi professori di scuola tecnica non riescono a capire che si può al tempo stesso aver dell’ingegno e vestire con ricercatezza. Al dito gli scintillava un grosso rubino che era come un piccolo fanale. Come uno di quei piccoli fanali che i romanzieri paragonano a grossi rubini. “Sì, conosco vostro zio” gli disse il direttore dondolandosi in senso longitudinale e trasversale sulla poltrona a movimento cardanico, come la coscienza d'un direttore di giornale che deve sempre essere diritta, qualunque posizione prenda la barca. “E se voi siete un temperamento giornalistico come vostro zio” aggiunse passandosi e ripassandosi un tagliacarte d'avorio sulla coscia come per affilarlo “farete una grande carriera. E in Italia dove lavoravate?” “Al Corriere della Sera.” “Ed eravate?” “Redattore capo.” “Siete laureato?”

“Legge e medicina.” “E quali idee avete in politica?” “Non ne ho.” “Bene. Per sostenere con forza persuasiva un'opinione bisogna non averne. Ma la difficoltà è questa” aggiunse il direttore del giornale piantando le forbici in un quotidiano inglese “che la mia redazione è al completo, e non saprei davvero quale lavoro affidarvi. Comunque io terrò presente il vostro nome, e appena mi potrete servire vi manderò a chiamare. Dove abitate?” Tito, calcolando sull'effetto sensazionale della risposta, lasciò cadere le parole con una studiata solennità. “All'Hôtel Napoléon.” Il direttore che aveva già premuto il bottone per farlo accompagnare alla porta dall'usciere, e aveva preso la penna per scrivere su un taccuino l'indirizzo, posò penna e taccuino, mandò via l'usciere e propose a Tito: “Vi assumo in prova per un mese, con millecinquecento franchi di stipendio. Domani è il primo. Cominciamo da domani. Venendo in redazione fatevi subito vedere da me. Vi presenterò ai vostri colleghi. Arrivederci.” E premette di nuovo il bottone. Quella sera Tito andò a mangiare chez Poccardi e si prese una poltrona d'orchestra alla boîte à Fursy, ove imparò anche l’ultima canzonetta. E fischiettandola rientrò, anzi, entrò all'hôtel. All'hôtel Napoléon. Al Napoléon hôtel. "Ricordati che tu abiti all’Hôtel Napoléon. Al quarto piano, senza riscaldamento, camera interna, tutto questo è vero, ma è anche vero che abiti al...” All’Hôtel Napoléon.

Quando fu in camera disfece le valigie, dispose sul lavabo gli stromenti per lisciarsi, lavarsi, depilarsi, allargò nei cassetti le camicie, i calzoni, i gilets, e appese alle grucce dell'armoire à glace le giubbe. In quella camera c’era persino il telefono. "Che peccato” pensò "non dover telefonare a qualcuno! Possedere l’apparecchio e non sapere a chi telefonare. È triste. Eppure, perché non ho da telefonare non è ancora una ragione sufficiente perché io non me ne serva.” E così pensando prese il microfono e chiese un numero qualunque, il primo che gli venne in mente. Non ebbe molto da attendere. Una voce femminile echeggiò. "Siete voi?” domandò Tito. "Come? La signora... Ah, benissimo è proprio a voi che volevo parlare. Badate che vostro marito sa tutto. Non posso dirvi di più. Non insistete. E vi basti saper questo: vostro marito sa tutto. Ma no, no; non domandatemi di più. Vi dico di no. Non sono Giacomino... Ebbene sì. Poiché l’avete indovinato... sono Giacomino. Buona notte.” E riattaccò al gancio. "Chissà mai chi è Giacomino” pensò poi sorridendo fra sé. "E chissà chi è costei.” Ma improvvisamente Tito si oscurò. "Poverina, le ho fatto un triste scherzo” pensò, sinceramente pentito. "Le farò passare una brutta notte... Le creerò forse dei guai. Ora la richiamo al telefono e l’avverto che... Ma non so più il numero. Tanto peggio, o tanto meglio. Forse le ho fatto del bene.” E tornò a ridere. Nello spogliarsi posò sul tavolino l’orologio, i denari e una scatoletta d’oro. L’aperse. Era quasi vuota: negli intervalli fra le tre parti dello spettacolo ne

aveva aspirati alcuni grammi, per festeggiare la sua entrata nel grande quotidiano l'Attimo fuggente. Ne rimaneva ancora poco più d’un grammo. Tito se lo versò sul dorso della mano e aspirò voluttuosamente. Trasse dalla valigia le ultime cose che rimanevano: il pijama, una Bibbia, un revolver. S’infilò il pijama e posò sul comodino la Bibbia. “Dicono che questo libro deve rimanere sul tavolino di ogni uomo onesto” mormorò. “Io non l’ho mai letto, ma è sempre sul comodino.” Quando fu a letto si raccolse le coperte fin sulla bocca, e spense il lume. La cocaina gli mandava fino in fondo ai polmoni il suo fresco aroma volatilizzato. Ma che freddo ai piedi, in questo albergo!” brontolò raggomitolandosi. Sopra il cuscino egli sentiva con l’orecchio il battito del proprio cuore. “Il mio cuore prende la corsa. Corre dietro al naso che mi è scappato via. Farò una grande ascensione in quel giornale. Fra un anno sarò direttore. Poi sposerò la figlia d’un ministro. E sarò deputato. Deputato a palazzo Borbone. E di là dirò: E credimi, Alcibiade, che è meglio aver che fare con uno di questi giovincelli non restii che con queste etère di Atene...” Perché poi gli tornava alla mente una frase del Convivio platonico che aveva trovato chissà come, chissà quando, nei lontani anni del liceo? E che freddo alle gambe! Il cuore si calmò. Ma la fantasia continuava a turbinare. Il suo cervello era come una festa carnevalesca in un manicomio: gli occhi chiusi vedevano buio: un buio azzurro in cui s'accendevano, esplodevano fredde scintille. Ognuna di esse si divideva in metà, e da ogni metà se ne formavano altre che si suddividevano alla lor volta per cariocinesi: una di queste scintille si allargò a filamenti, palpitò con movimenti ameboidi, invase tutto il suo campo visivo, inondò tutto il buio. I suoi occhi chiusi furono pieni di luce.

E in questa luce si delineò un cerchio mobile, elastico, che si foggiò a quadrato, poi a rettangolo, poi a parallelepipedo: un parallelepipedo nero, con un lato, due lati, tre lati d'oro: un libro: la Bibbia! "La genesi... Che buffone quel buon Dio, che grande umorista quel buon Dio!...” pensava Tito, mentre il cuore picchiava forte nel letto risonante come una cassa armonica. "Che buffone, che umorista quel buon Dio!...” Dio disse: sia la luce sia il cielo sia l'erba siano gli alberi sia il sole siano le stelle per quando non c’è il gas sia il gas per quando non ci sono le stelle siano i rettili siano gli uccelli siano gli animali da cortile siano le bestie feroci per le ménageries sia l’uomo maschio sia l’uomo femmina... E poi a questi due ultimi consigliò di far figli, autorizzandoli a signoreggiare sui pesci del mare, sugli uccelli dell’aria, sulle bestie che camminano sopra la terra. Bastò che egli dicesse: siano le stelle, siano i coccodrilli, siano le galline faraone, siano i serpenti a sonagli, sia la foca monaca e il porcospino, perché automaticamente questi animali sorgessero belli e fatti al solo udire il proprio nome. Se è così, non fece molta fatica a creare il mondo. Eppure quel lazzarone il settimo giorno sentì il bisogno di riposarsi. Che farceur quel buon Dio! Sarà vero che è stato lui a fabbricare quel ben di Dio che sono le acque per irrigare le erbe, le erbe per riempire le bestie, le bestie per riempire l’uomo, la donna per farsi mantenere dall uomo, il serpente per dar delle noie a tutti e due, i tartufi da affettare sulle aragoste, il

sole per far asciugare la biancheria, le stelle per illuminare i poeti, la luna per farci sopra le canzonette napoletane. Ma mi pare strano che le cose siano sorte dal nulla al solo sentirsi nominare. Io credo che il padre eterno amasse i giochi di società e che avesse combinato tutto prima, che da buon prestidigitatore avesse le scatole a doppio fondo e i bicchieri preparati, e che nei sei giorni della sua tournée creatrice abbia fatto l’americanata di creare il tutto dal nulla per impressionare i borghesi. Ma c’era sotto il trucco. Per dare la vita all’uomo gli alitò nelle nari un fiato vitale. Io non credo che abbia fatto questo per dargli la vita, ma per mettergli in bocca alcuni tipi artisticamente assortiti di bacilli. Infatti Adamo visse solo 930 anni, mentre avrebbe potuto vivere molto di più. Aveva cominciato con un gesto magnifico, il buon Dio. Creare le stelle dalle orbite immense, il sole dalla luce eterna, innumerevoli specie di piante e di bestie. Non aveva badato a spese. Ma per confezionare la donna fece la spilorceria di sottrarre una costola ad Adamo. Che umorista quel padre eterno! Egli sapeva per esperienza che quando si legge è vietato fumare si sente un desiderio feroce di accendere la sigaretta. Pentitosi dei soverchi doni concessi ad Adamo e consorte, volle ritoglierli senza fare una sporca figura, e ricorse al serpente, suggerendogli quell’abile mascalzonata della mela, che tutti conosciamo. Il serpente era d’accordo con Dio. Tutto combinato. Frutto di quel frutto fu questo: che gli occhi di Adamo e quelli di Eva si apersero e conobbero che erano ignudi; onde cucirono insieme un completo su misura di foglie di fico. Ma come potevano accorgersi d’essere ignudi se non si erano mai visti vestiti?

Il mattino dopo il Signore andò a far visita ad Adamo, il quale, sempre cavaliere, diede subito la colpa alla moglie. Dio, lievemente vigliacco, fece pagar cara la mela, inventando i vomiti della gravidanza e le doglie del parto. Le donne che hanno l’utero retroflesso sanno dunque chi ringraziare, poiché Dio disse: partorirai con dolore; la terra produrrà spine; tu mangerai pane col sudore della tua fronte e di quella del tuo panettiere, e lo pagherai caro, perché il cambio con l’America è tremendo. Poi li scacciò dall’Eden, sulla cui soglia mise un picchetto di questurini dalla spada fiammeggiante, ai quali diede il nome di Cherubini. Insomma il matrimonio fra Adamo ed Eva fu infelice, come tutti i matrimoni combinati. Ma ciò che mi ripugna è vedere quel buon Dio che fa l’indiano. È onniveggente, onnisciente, è lui che combina tutte le complicazioni peggiori, e poi se ne va da Adamo a domandargli con ipocrita ingenuità: “Che hai fatto della mela?” E va da Caino e gli domanda: “Che hai fatto di tuo fratello?” Se io fossi stato al posto di Caino gli avrei tirato un pugno in un occhio. L'occhio di Dio. L'occhio di Dio che tutto vede... e tutto sente. E forse sente pure le mie bestemmie. Ed è anche capace di fulminarmi. Ma che freddo ai piedi! Tuttavia, se dovessi morire ora, ne sarei quasi contento. Uccidermi, no. Ma morire dolcemente, sì. Uscire dalla vita come si esce dal bagno. Che bella cosa, morire! Sono felici solamente i cadaveri in decomposizione; e più la decomposizione è avanzata e tanto maggiore è la loro felicità. E se non dovessi morire, almeno rimanere qui, inerte, come un minerale, senza volontà, senza iniziative, senza ribellioni; lasciare che tutto si muova come vuole intorno a me; lasciare che tutto crolli, e non sollevare un dito; fare come le donne oneste d’una volta, che invecchiavano, imbruttivano, si

disfacevano senza imbiaccarsi, senza incinabrarsi il viso. Ma che stravagante effetto mi fa la cocaina! Freddo ai piedi, fuochi artificiali nel cervello, una cascata di stupidaggini, il cuore che batte come una macchina da cucire, e il sereno adattamento all’idea dell’inerzia. Eppure mi piacerebbe rimanere a letto due giorni, tre giorni, fin che venissero i camerieri a bussare; e poi verrebbe il padrone; e poi la polizia; e io non risponderei a nessuno, mi lascerei scuotere, mi lascerei portar via, dove vogliono, come vogliono... che strano effetto mi fa la cocaina, la coco, l’incantevole coco!... Il cuore continuava a battere forte; e per opera sua tremava, subordinatamente, tutto il corpo; vibrava, tremava, trepidava come un’automobile ferma, col motore acceso. Ma l’azione esaltatrice e deprimente della droga cominciava a scemare. Tito tornava in sé. E s’addormentò. Si svegliò che il sole era già alto. Ma Tito non se ne accorse perché il sole è sempre alto lo stesso a Parigi: così alto che non lo si vede mai. Alle dieci doveva essere al giornale. Il direttore, piantandogli negli occhi i suoi inflessibili baffi da domatore, gli aveva detto: Si faccia vedere da me. “Bisognerà dunque che mi faccia vedere con la barba fresca.” In piedi, davanti allo specchio, Tito si passava il rasoio di sicurezza sulla magra gota insaponata, pensando: “Che noia la vita! Che cosa inutile! Alzarsi tutte le mattine, mettersi le scarpe, farsi la barba, vedere della gente, parlare, guardare le lancette dell'orologio che tornano instancabilmente negli stessi punti ove le abbiamo viste milioni di volte. Mangiare. Mangiare dei pezzi di cadavere; mangiare dei frutti morti; anzi, peggio, alterati dalla cottura; staccare i frutti così belli, per farli passare, sconciandoli, attraverso il nostro corpo. Ingoiare cose morte, attendendo di divenire cose morte anche noi. Creare cose nuove, per usarle e quindi distruggerle, affinché dalla loro distruzione sorgano altre

novità. Tutto ciò che ci circonda è morto: qua e là c'è qualche saggio di vita, ma tutto il resto è morto: la lana del mio abito è morta, la perla che adorna la gola di una donna giovane è la bara di un verme... Dover sorridere alle donne; sforzarci di essere un po' differenti dalla maggioranza degli uomini. E tuttavia anche noi che cerchiamo d'essere diversi dagli altri e facciamo ampi giri per non battere la strada maestra, finiamo col trovarci dove arrivano i mediocri, percorrendo la strada principale. La vita è un arco da A a B. Non è una linea retta, tranne che per i nati morti o per i cretini di nascita. Per gli uomini un po' intelligenti l'incurvatura è leggiera; per gli intelligentissimi l'incurvatura è massima: per i semplici è quasi rettilineare: essi arrivano a B per una curva blanda. I cerebrali, gli eccentrici, i bizzarri, che cercano novità, pimenti, atteggiamenti fuor del normale, giungono più adagio, ma fatalmente anch’essi a quel punto verso il quale si dirige senz’altro, senza esitare, la piccola gente. Fra il semplice e l’eccentrico non v’è che una differenza nell’ampiezza dell’arco. Chi ha deriso il matrimonio, essendo assetato di libertà e di avventura, finirà un giorno con l’invidiare chi ha sùbito preso moglie e combinato dei figli; chi si è fatta una vita smagliante d’imprevisti, alternata di miseria e di ricchezza, di superfluità e di fame, un bel giorno rimpiangerà di non essersi imbarcato in una carriera governativa. Credo che in fondo la grande attrice invidi la buona moglie che lava i suoi marmocchi e li sculaccia; credo che il grande uomo politico che foggia la storia, rimpianga di non aver fatto il maestro di campagna o il capostazione. “Veramente perfetta è la mediocrità. Perfetto è il ragioniere che si fa la barba un giorno sì e l’altro no; viaggia in seconda; aspira al purgatorio; gli basta una dote di cinquantamila lire, abita al terzo piano, fu sottufficiale, porta i polsini staccati dalla camicia, e ai polsini ha bottoni d’argento dorato. “Sia lodata la mediocrità! “E allora perché io vado a prender posto in un giornale con la segreta speranza di riuscire qualcuno? Macché! In fondo non spero nulla. Io non ho ideali. Ho però una barba durissima, e questa lama non taglia più. Ma ora basta. Mi sono grattugiato abbastanza. Il direttore dell'Attimo fuggente non dovrà abbracciarmi e baciarmi, io spero. Io sarò un impiegato, un

umilissimo impiegato. Non chiederò mai i mezzi per divenire l’idolo delle folle. La folla ama chi la diverte e chi la serve. Ma per divertirla bisogna amarla. Io non amo nessuno, e tanto meno la folla, perché le folle, le masse sono come le donne: tradiscono coloro che le amano.” Tito si curvò sul lavabo e si risciacquò il volto. La sensazione di freddo gli rischiarò le idee. "Che pessimismo imbecille è il mio! Imbecille e bugiardo. Io voglio riuscire. E riuscirò.” Scese svelto le scale, e quando fu sulla soglia mandò un boy, fiammante nella divisa rossa attillata come la maglia d'un acrobata, a prendere un taxi. Il direttore l'Attimo fuggente era in sala d’armi a tirar di scherma col critico teatrale. Ma fra tre quarti d’ora sarebbe rientrato in studio. Tito Arnaudi frattanto si era tolto il soprabito e aveva posato il cappello. È questo l’atto iniziale che segna la presa di possesso d’un ufficio. "Voi siete il nuovo redattore?” gli venne incontro con la destra protesa un signore in nero (abito e capelli) tutto linee diritte (scriminatura, piega dei calzoni, taglio della bocca, squadratura delle spalle) che sembrava fatto col tiralinee e l’inchiostro di China. "Io sono Ménier, il segretario di redazione. Volete favorire?” E lo precedette attraverso tre sale immense, tappezzate di stoffe e di marmi e arredate di scrivanie leggiere e di poltrone enormi: quelle poltrone soffici, che aderiscono carezzevoli a tutte le sinuosità e a tutte le prominenze del corpo. La differenza di calibro fra esili scrivanie e ospitali poltrone era un giusto riconoscimento della superfluità del lavoro dinanzi ai diritti dell’ozio o dell’accidia. Attraversate le tre sale sopra un lungo segmento di tappeto orientale, si trovarono davanti al bar americano. Il barman, dai magnanimi lombi avvolti nella tela bianca come un antico sacerdote egizio che avesse infilato, per distrazione, un nero giubbettino da spagnuolo contemporaneo, era assorto nel preparare bibite

complicatissime per tre o quattro redattori che stavano seduti, o meglio, arrampicati come vedette di coffa, sopra altissimi e snellissimi sgabelli. "Due cocktails” ordinò il segretario di redazione. Il barman, con la precisione compunta di un chimico inteso a erudite esercitazioni di laboratorio, versò tre liquori diversi in una specie di grossa provetta di vetro, la colmò di ghiaccio pesto, lasciò cadere da tre boccette diverse alcune gocce di chissà che cosa, fece manovrare nella provetta un agitatore; poi impresse in un mezzo limone gli orli di due bicchieri e li tuffò nello zucchero, che aderì agli orli come brina, e versò la miscela nei bicchieri. L’uomo dai tratti neri e geometrici, forbito, austero, solenne come il funerale di un milionario, sogguardava l’italiano per rilevare sulla sua faccia la meraviglia davanti a un così catastrofico intruglio. I francesi, e i parigini specialmente, quando hanno a che fare con un italiano, credono di svelargli chissà quali insospettati orizzonti, e si aspettano sempre che egli stupisca come i selvaggi d’America quando Cristoforo Colombo mostrò loro l’accendisigaro o la scatola di pastiglie Valda. Persino le cocottes parigine, quando si spogliano davanti a un italiano, s’aspettano che egli si cacci le mani nei capelli, nel vedere che le donne non sono fatte come gli uomini. Tito pensava: “Ma anche al mio paese il cocktail si prepara così. Se tu avessi bevuto tutti i cocktails che ho ingoiato io, a quest’ora avresti il delirium tremens.” “Vi presento il dottor ***, incaricato della politica tedesca; il professor ***, nostro redattore per la parte russa. Il signor ***, cronista di medicina.” E, accennando a Tito: “Il signor Titò Arnodì.” “Tito Arnaudi” pronunziò l’interessato. “Titò Arnodì, nuovo redattore.”

I tre signori di cui Tito aveva solo percepito le desinenze (... ein per il tedesco,... off per il russo e... ier per il medico) balzarono dai loro sgabelli a stringere la mano del nuovo collega. “E ora vi conduco al vostro studio” gli disse il segretario di redazione. “E intanto vi presenterò un vostro connazionale, l’incaricato della politica italiana. C'est un charmant garçon.” Tito posò sullo zinco il bicchiere, strinse la mano del tedesco, del russo e dello scienziato, i quali s’arrampicarono di nuovo sui loro sgabelliosservatorio. Oltre il bar s’apriva un’altra sala, con due biliardi: e oltre la sala dei biliardi il restaurant dell'Attimo fuggente per i redattori e per i loro amici. Infilarono un corridoio: tre o quattro uscieri si alzarono e si sedettero sul loro passaggio; sembrava il corridoio di un albergo: porte di qua e di là: non mancavano che le scarpe a fianco degli usci, e i calzoni appesi al gancio dello stipite. Passando davanti alle porte, si sentiva, di là, il ticchettio di macchine da scrivere, tutte accordate sul medesimo tono, squilli di campanelli, trillare di apparecchi telefonici e di voci femminili. Il segretario bussò a una porta. “Entrez!” risposero di dentro. Sopra una dormeuse fiorivano variopinti cuscini; e sopra i cuscini, giaceva un uomo. Una gamba scese dolcemente a terra, e su quella gamba si drizzò Pietro Nocera. “Oh, Tito Arnaudi?” “To’, Pietro Nocera!” “Tu a Parigi?” “Da un mese.” “E tu?” “Da un anno. Sei di passaggio?” “Macché!” “Resti a Parigi?” “Meglio: rimango in questo giornale.”

E prima che Pietro Nocera si riavesse dalla stupefacente sorpresa, il segretario aggiunse: “Prenderete posto nello studio attiguo. Farò aprire la porta comunicante, cosicché per parlare non avrete nemmeno da uscire nel corridoio.” “E come mai sei qui?” “Ti racconterò. E tu?” “Anch'io ti racconterò.” “Sei impegnato per colazione?” “Affatto.” “C'è il restaurant qua dentro.” “L'ho visto.” “Dunque resti a colazione con me.” “Se ti rendi conto della gravità delle tue parole.” “Esattamente.” “Allora accetto.” “Ti farò mangiare delle ostriche che conservano il profumo dell'oceano." Il segretario di redazione uscì per lasciare ai due amici ritrovatisi l’espansione di tutti i gas sentimentali. Pietro Nocera telefonò al bar: “Due Túrin.” E volgendosi a Tito: “Ti offro il vermouth per il color locale. Siediti qui, in faccia a me, che ti guardi. Sei un po’ mutato nella conciatura della pelle, ma il tipo di fanciullo

t’è rimasto. E come mai sei venuto a Parigi? E quella tua vecchia zia?” “Non parliamo di porcherie a tavola.” “E anche tu ti sei dato al giornalismo?” “Come vedi.” “E in che modo?” “È semplice: faccio il giornalista come farei l’operatore cinematografico, o il capociurma su un veliero o il prestidigitatore.” “Hai ragione” approvò Pietro Nocera. “Ci si rifugia nel giornalismo come ci si rifugia nel teatro dopo aver fatto i mestieri più disparati e disperati: il prete, il dentista, l’agente d'assicurazione; alcuni si innamorano del giornalismo perché ne hanno visto di lontano i lati più luminosi o i più fortunati rappresentanti, come a teatro s'innamorano del mestiere del comico perché hanno visto applaudire quello che faceva Otello. E hanno detto: farò anch’io Otello. “Invece faranno il servo che non parla. “Quanti servi che non parlano ci sono nel giornalismo! “Noi non siamo esseri che vivono nella vita. Noi siamo sul margine della vita; dobbiamo sostenere un'opinione che non abbiamo, e imporla al pubblico; trattare questioni che non conosciamo, e volgarizzarle per la platea; noi non possiamo avere un'idea nostra; dobbiamo avere quella del direttore del giornale: ma nemmeno il direttore del massimo giornale ha il diritto di pensare col suo cervello, perché quando è chiamato dal consiglio d'amministrazione deve soffocare la sua opinione, quando ce l'ha, e sostenere quella degli azionisti... “Ma poi, sapessi come è miserabile il retroscena di questo grande palcoscenico! Tu hai visto molte sale, molti tappeti, molte lampade: il bar, la sala di scherma, il ristoratore; ma non conosci ancora gli uomini: che

ambiente tenorile! Quanti gigioni vocalizzano presuntuosamente per queste sale, e quanti megalomani si vantano di successi mai ottenuti! “Chi è fuori di questo ambiente crede che il giornalista sia un essere privilegiato, perché i teatri gli concedono la poltrona, i ministri gli danno la precedenza sui prefetti e sui senatori che fanno anticamera, i grandi artisti gli dànno del tu. Ma il pubblico ignora che tutta questa gente, nel suo intimo, lo disprezza, benché in apparenza gli faccia atti di cordialità: dall'usciere dell'ospedale che informa il cronista sull'investimento tranviario, al presidente della Repubblica che concede un colloquio al resocontista parlamentare, tutti quanti pensano sul giornalista le cose peggiori. E lo trattano bene perché hanno paura del grande ricatto o della piccola vigliaccheria; gli concedono volentieri tutte le informazioni che chiede, e talvolta gliele danno già scritte o gliele dettano testualmente, perché conoscendone la spaventosa ignoranza, temono che egli attribuisca loro chissà quali bestialità. Il grande musicista o l'autore drammatico in voga, o il comico più applaudito trattano, è vero, con familiarità il critico del giornale: ma essi sanno perfettamente che cos’è il critico: è un individuo che dai 18 ai 25 anni, è entrato come reporter in una gazzetta, come ci sono entrato io, come ci sei entrato tu, come si sarebbe dato al commercio dell'olio di fegato di merluzzo o alla contabilità di un circo equestre. La vita giornalistica lo mise a contatto di letterati, comici, pittori, scultori, musicisti. Col lungo strofinio contro di essi, è rimasto nella sua memoria un frasario non molto esteso, ma più che sufficiente a scrivere una colonna di diffamazioni sulla schiena di un uomo di genio o di elogi apologetici sulla fronte di un cretino. "Con ciò non intendo dire che il giornalismo sia una macchina tipografica messa al servizio dell'irresponsabilità e dell'incompetenza: in ogni redazione ci sono due o tre intelligenti, due o tre galantuomini, e qualche volta uno o due che hanno al tempo stesso cervello e coscienza. "In questo caravanserraglio dove ti sei rifugiato da un quarto d'ora, troverai alcune persone ammirevoli: il direttore, il redattore capo, il critico teatrale, critico severissimo e commediografo...” "Applaudito?”

"Mai; il capo stenografo, il redattore tedesco. Ma gli altri... Gente superficiale che ha nel cervello un sommario catalogo di libri mai letti, e che parla parla parla a frammenti, a frasi fatte, disordinatamente, che a sentirli ti pare di avere fra mano un fascio di ritagli di giornali, e di leggere una frase qua e l'altra là, senza un filo ideale che le unisca. Ci sono altri che non parlano mai. Eppure sembrano dei pensatori, perché camminano a testa bassa, come ipnotizzati dall'asfalto; guardano ogni sputo credendo di trovare un diamante: li diresti assorti in oscuri enigmi, ma non pensano niente: sono come i cavalli delle vetture pubbliche fermi all'angolo della strada, che sembrano pietrificati da tremendi problemi, mentre nel loro cervello non c'è nulla di nulla. Credo però che in questo giornale ti troverai bene. Tutti quanti, qui dentro, sono un po' malati di à-quoi-bonnisme, di un meneinfi-schismo, e non succede ciò che si verifica altrove, che gli arrivati disprezzano gli arrivisti, come le signore che hanno trovato marito si beffano delle signorine che se lo stanno cercando." Mentre Pietro Nocera parlava, Tito osservava lo studio. Una grande finestra dai vetri smerigliati, scrivania con qualche giornale spiegato, disordinati fogli di carta, e un lungo paio di forbici sbadiglianti, calamaio, gomma liquida, una lampada accesa, un portacenere con molte capocchie di cerini: parevano minuscoli teschi mescolati a piccoli stinchi in un civettuolo ossario (un po' di cocaina era ancora nel cervello di Tito); apparecchio telefonico, ritagli di giornali incollati a una parete, un esile scaffale con qualche libro gettato là. Più che lo scaffale posto al servizio dei libri, sembrava che i libri fossero messi per far piacere allo scaffale. “Il tuo studio è identico a questo” disse Pietro Nocera. “Sono tutti precisi, come le cabine d'un transatlantico." Qualcuno bussò alla porta: un fattorino entrò. “Fate salire” disse Pietro al fattorino; e volgendosi a Tito: “È una mia amante provvisoria. Vai di là, a prendere possesso dei tuoi appartamenti. Fra un'ora ti chiamo.” “Ma come? Tu ricevi le donne nel tuo studio?” “E dove vuoi che le riceva, provinciale? Nel tuo?”

Tito uscì. La donna entrò.

3

Esiste una specie di massoneria dei cocainomani. Si riconoscono fra loro a certi indizi che solamente essi rilevano: hanno le loro logge, più democratiche o più aristocratiche, non conta, perché essi si guidano a vicenda da una loggia all'altra, dai cabarets di Montmartre ai villini della Porte Maillot, dalle boîtes à étudiants del Quartier latino alle taverne di Montparnasse. Tito Arnaudi conobbe in pochi mesi i caffè legati quasi alla storia e alla leggenda, i teatrini della Butte Sacrée, gli spacci di liquori, le sale sotterranee che dalle cinque della sera fino all’alba echeggiano di ottoni ritmanti le danze lascive; frequentò tutti questi luoghi semitollerati e semiclandestini, punti di convegno dei cocainomani i quali formano il cinquanta per cento degli habitués. Conobbe quel piccolo mondo che brulica intorno all’Università: piccole donnette che dai quindici ai trentacinque anni fanno la romantica professione di amiche di studenti; piccole amiche poco ingombranti, che s’accontentano d’una mezza camera, d’un mezzo letto, d’un pasto il giorno: si attaccano a uno studente per il capriccio sentimentale d’un’ora, ma l’ora passa, il capriccio perdura, si prolunga, si trasforma, e intanto passa un anno, passano due, passa la prima giovinezza e l’amica rimane, quasi fedele, quasi innamorata; e poi il giovine si laurea e la lascia; e lei piange, forse sul serio, si dispera forse sinceramente, e si attacca, per consolarsi, a un altro giovane più giovane di quello che è partito, più giovane di lei, e lo accompagnerà, regolandone la saggezza e le follie, per tutti i corsi universitari, attraverso varie camere d’affitto, nuove per lui, non più nuove per lei, attraverso i caffè dove si gioca a carambola e a jacquet, attraverso ai tanti bouillons Chartier, dove per cinque franchi hanno l’illusione completa d’aver pranzato in due. E un giorno uno studente in farmacia offrirà all’amico, per bravata, un po’ di polverina bianca, sottratta al laboratorio universitario; l’altro accetterà, per ischerzo, o per snobismo, non per piacere, poiché la prima presa è sempre sgradevole; e poi non potrà più farne a meno, e scenderà, con la mente avvolta come in un velo, attraverso tutte le degradazioni, verso la miseria. La compagna che lo segue per le varie camere d’affitto, i bar e i

bouillons, comincerà anche lei, sorridendo come si fa con la prima cipria, e poi... E poi queste piccole donne si avvicinano, si incontrano, si richiamano, si riconoscono, si comprendono fra di loro: le vediamo a due, a tre, nei bar, all’ora dell’aperitivo, agitarsi con inquietudine, fiutare intorno, come foxterriers, ed entrare a due, a tre nei lavabos, nelle cabine del telefono, e uscirne qualche minuto dopo con l’occhio più brillante, la faccia più serena, più vivaci nelle mosse, più gaie, più garrule, più belle. Nel lavabo, nella cabina del telefono, si sono scambiate la cocaina. Esse sono ancora al primo stadio dell’intossicazione; hanno ancora un po’ di ritegno; non confessano il loro vizio se non si sono persuase che colei che riceve la confessione è essa pure una renifleuse; si avvelenano ancora di nascosto, pudicamente, vergognosamente: fra alcuni mesi vedremo quelle stesse posare ostentatamente la scatoletta sul tavolino del bar, come si ostenterebbe un portasigarette con la corona ducale. Nei loro occhi c’è qualcosa di algido, di spento: è spenta la volontà. Eppure, se la volontà esistesse ancora, a che potrebbe servire? Ad allontanarle dallo stupefacente? No, no, lo stupefacente è necessario ormai: non la privazione, ma il semplice pensiero della privazione le agita, le sconvolge, le esaspera: allora ti prendono la mano e se la premono sul loro cuore a cui un esiguo seno fa da cassa armonica. “Senti come batte forte! Come urta rapidamente... poi rallenta... sembra che si arresti... riprende.” “Le mie notti” vi raccontano “sono agitate da brividi tremendi; l’insonnia mi attanaglia: non avere la droga è atroce, ma è più atroce il pensiero di non saper come procurarsela.” E allora si affrontano, per averne, i mezzi più rovinosi: raramente i più disonesti, perché per compiere un atto disonesto ci vuole dell'energia. Si cominciano a sopprimere le spese inutili, poi quelle necessarie, si cede l’appartamento per affittare una camera ammobiliata, si lascia questa per la soffitta, si vendono le pellicce e i gioielli a prezzi irrisori; poi i vestiti; poi il

corpo. E si venderà il corpo fino al giorno che sarà così sciupato da non trovar più il compratore: anche la civetteria se ne va: e se ne va il senso della nettezza, sebbene in quegli ambienti la civetteria e la nettezza siano condizioni di vita. Ed è per questo che si possono incontrare, vestite modestamente, miseramente, certe donne che alcuni mesi prima lanciavano la moda a Auteuil e a Longchamp. “E la pelliccia?” “Cinquanta grammi di coco.” “E i braccialetti d’oro?” “Una scatoletta grossa così, che era tutta bicarbonato di sodio e fenacetina...” E la donna ride gelidamente, per non piangere, per non provare a piangere, poiché forse non saprebbe nemmeno più in che modo si piange. Fra questi esseri mezzo donna e mezzo fantasma passa il mercante con le tasche piene di scatoline di cartone di varia etichetta: rossa, verde, gialla; ogni colore è il segno segreto di una miscela più o meno disonesta. Egli non vende cocaina pura: la droga occupa nella miscela una piccola parte; tutto il resto è acido borico o lattosio o carbonato di magnesia. Il mercante sa che all'intossicata basta una polvere bianca che sembri approssimativamente cocaina; pur ch’essa abbia qualcosa da fiutare, non fa l'analisi di ciò che fiuta; negli ultimi stadi dell'intossicazione non distinguerebbe la cocaina dallo zucchero: e nei primi stadi più che la droga l'interessa la cerimonia; l'interessa il modo di prenderla: col pennino d'oro? Con un nettaunghie d'avorio? Con una piccola pala d'osso tolta a una saliera? Con l'unghia del mignolo coltivata apposta? E così il mercante si arricchisce in pochi mesi. Con un etto di cocaina compera per diecimila lire di gioielli, e quando le clienti gli offrono le scatolette vuote, egli le riprende pagandole in ragione di un soldo ogni dieci.

Il direttore dell'Attimo fuggente apprezzò subito i meriti di Tito. Infatti otto giorni dopo averlo assunto in servizio, dava una telefonata all'amministratore. E quando Tito si presentò per ritirare lo stipendio, si vide porgere cinquecento franchi in più. “Che cosa vuol dire questo?” domandò Tito al direttore. “Vuol dire che siete un ragazzo d'ingegno.” “Non me lo avevate mai detto.” “Io non lo dico. Lo dimostro.” Gli usò ogni riguardo, dispensandolo dai servizi noiosi. “Volete andar voi a ‘resocontare' questo congresso?” “No” rispose Tito. “Perché?” “Non mi ci diverto. I congressi sono un insieme di persone che discutono sul modo di condurre la discussione, e concludono col mandare un telegramma di omaggio al ministro.” “Avete ragione. Incaricherò un vostro collega.” Anche il redattore capo comprese che Tito era un uomo leale, e gli propose di darsi del tu. Si dettero del tu. Il redattore capo non era un personaggio importante nel giornale, sebbene il suo titolo “redattore capo” facesse pensare a chissà quali altezze nella gerarchia giornalistica; ma in fondo era un brav'uomo sottomesso a tutti. La nostra società crea di questi contrasti consolatori, di queste amene antinomie: il cavallo, dopo averlo fatto sgobbare come l’ultimo dei proletari, lo chiamano il nobile animale; le deformazioni della spina

dorsale, le ipertrofie delle ossa, il cretinismo, le mostruosità fisiche son dette giocondamente “scherzi” di natura; le case di malattia recano il nome di case di salute; gli stabilimenti dove si va a morire son detti sanatori; e al frate, dopo averlo condannato a non aver figli e a non far nessun esercizio per averne, dànno il nome di padre. Pietro Nocera, l’amico italiano, assisteva con grande cordialità Tito Arnaudi, e nei primi mesi che era al giornale, lo iniziò amorevolmente a tutti i servizi giornalistici. “Verrà presto il giorno che tu mi volgerai la spalle” gli disse Tito Arnaudi. “Fin che per il posto e lo stipendio io ti sono inferiore, mi aiuti e mi proteggi, e dici ai colleghi che ho del talento; ma appena il mio stipendio, indice approssimativo del valore, sarà pari al tuo, sosterrai che sono un cretino. Del resto ciò è perfettamente umano. Anche il Padre Eterno, dopo aver fatto ad Adamo una buona posizione nel Paradiso Terrestre, se ne pentì, e inventò subito un pretesto qualunque per rovinarlo.” “Tu hai di nuovo preso della cocaina!” affermò con tono di lieve rimprovero Pietro Nocera. “Quando fai paragoni biblici, hai qualche grammo di polverina nel naso." “Non divaghiamo” riprese Tito Arnaudi. “Tu mi abbandonerai.” “Ma no, amico mio” continuò Pietro Nocera appoggiandosi alla spalliera di un molle divano del Café Richelieu. “Tu non hai ancora capito che io non ho i piccoli stupidi difetti degli altri uomini. Io non invidio né te, né il direttore del giornale, né il presidente della repubblica, né il salumaio Fé-lix Potin che è il primo salumaio di Parigi. Io lavoro perché è necessario avere in tasca duemila franchi ogni mese; ma il lavoro non voglio nobilitarlo né con l’entusiasmo, né con l’invidia, né con l’emulazione. La vita non è che una breve anticamera che facciamo prima di entrare nel nulla. Chi pensa a lavorare nelle anticamere? Si chiacchiera, si guardano i quadri appesi alle pareti, attendendo il nostro turno. Ma lavorare! Non c’è scopo, se quando saremo introdotti di là non vedremo più nulla. E io non comprendo come tutta questa gente si agiti, si abbaruffi e discuta. Quello fa l’eroe, questo sfida il popolo, quell’altro fa il gradasso; uno espone idee, un altro demolisce sistemi, un terzo capovolge valori. Ma a quale scopo? Quando

pensi che il trionfatore che oggi tiene in pugno le folle, domani entra in un caffè, beve in un bicchiere mal lavato, inghiotte due o tre bacilli non più lunghi d’un millesimo di millimetro, e se ne va al creatore! Tornando a te, se io un giorno dovessi dire a qualcuno che sei un cretino, bisognerebbe che ritenessi intelligenti quegli altri. Invece vedo intorno a me solamente della gente che si mostra diversa da quella che è, espone idee che non ha, manifesta convinzioni che non sono le sue, fa dei bei gesti e dice delle belle frasi per nascondere qualche deficienza o qualche inferiorità. Chi d’inverno non porta il soprabito dicendo che è più igienico, se avesse una bella pelliccia la indosserebbe anche a letto; chi fa il misantropo, il solitario, nove volte su dieci è un tale a cui nessuno vuol andare insieme; chi tace sistematicamente e cerca di mostrarsi chiuso in una filosofica riflessione dubitativa, non è un cerebrale crocifisso dalla scepsi, ma un fantoccio che ha nel cervello il vuoto pneumatico. Quando qualcuno mi dice che è afflitto dal tae-dium vitae e che è stanco di tutto, che il mondo gli fa schifo, che la felicità è nella morte, io comincerò a credergli solamente quando si sarà sparato un buon colpo di rivoltella e gli avranno fatto la sepoltura. Ma fin che non ha un metro cubo di terra sul ventre, io credo ancora che reciti la commedia del pessimismo...” Durante la divagazione di Pietro Nocera, Tito Arnaudi guardava attraverso i vetri del caffè il boulevard affollatissimo: un agente munito di bastone bianco regolava la circolazione delle automobili e dei pedoni, fra lo stordimento confuso delle voci indecifrabili e degli innumerevoli suoni. E intanto Arnaudi pensava: “Queste cose me le hai già dette il primo giorno che ci siamo incontrati; nella prima mezz’ora che un uomo ti parla, ti dice le cose più interessanti che sa: in seguito o si ripeterà, o farà delle variazioni sullo stesso tema.” “Che cosa pensi?” domandò Pietro. “Penso che sei un amico sincero. Ma il redattore capo non viene. Che se ne sia scordato?” E come succede nelle commedie, Tito non aveva ancor finito di dire: non verrà più, che la persona attesa apparve.

Il redattore capo era una di quelle buone persone che, quando ti entra un corpo estraneo nell’occhio, ti danno preziosi consigli per farlo uscire (si soffi il naso, guardi in su, cammini a ritroso, estragga una radice quadrata). Aveva quarant’anni: l’età più spaventosa della vita. Il vecchio non fa pena, perché è già vecchio; il morto non fa pena, perché è già morto: fa pena colui che s’avvicina alla vecchiaia, colui che s’avvicina alla morte. Quarant’anni! Sulle piazze dei pubblici divertimenti, durante le feste popolari, in certi baracconi emozionanti, vediamo veicoli lanciati su rotaie in una salita ripida, a cui succede una discesa, e poi un’altra salita: al vertice della salita, anzi, a un metro prima del vertice, il veicolo che ha speso nell’ascesa tutta l’energia acquisita nella discesa, rallenta esitando, come se il vertice fosse insuperabile, come se lo atterrisse lo slancio nel precipizio. L’uomo sui quarant'anni si trova in quell’attimo di incertezza, di trepidazione: la sua corsa rallenta il vertice, la discesa che non vede, ma indovina, di là, lo paralizza. Il redattore capo aveva quarant'anni. “Detesto i tabarins” disse vuotando il quarto bicchierino di cognac. “Tutta questa gente che danza nei sotterranei per tormentarsi a vicenda le terminazioni nervose e crede di procurare un divertimento a se stessa, non s’accorge, nella sua frenesia, di essere un sistema di strumenti passivi nelle mani della natura, che fornisce loro l’eccitamento della danza per riprodurre la specie. ” E vuotò un altro bicchierino. “Rido per educazione” riprese poco dopo. “Rido per tentar di nascondere la mia malinconia. E poiché col riso non riesco a nasconderla né a me né agli altri, allora bevo, per nasconderla almeno a me stesso: bevo per far scomparire le rughe dell’anima; ma le rughe dell’anima non si cancellano; si possono spianare per un momento, come le rughe del volto che le signore si spianano col massage facial: scompaiono per un’ora, ma poi tornano a incavarsi più profonde.” E tornò a bere.

“A furia di vivere nelle tipografie dei giornali, mi sono abituato a leggere alla rovescia, a vedere le cose capovolte. Tristissimo dono! Grazie a questo, ho perso la fiducia nella lealtà d’un amico che m’era caro, grazie a questo ho compreso che la donna che fingeva d’amarmi mi disprezzava e mi tradiva. “E ora, bevo. “Bevo e mi rovino. Lo so. Mi rovino ma vedo roseo. A me basta veder roseo. E allora, nell'osservare il mondo, ho l’impressione che sia veramente come gli ottimisti vorrebbero farmi credere che fosse.” "E quando non hai bevuto?” gli domandò Tito. "Quando non ho bevuto... Facciamo una parentesi: i credenti, i mistici, quando gettano il loro sguardo sul mondo, non vedono delle donne belle e provocanti, non vedono degli uomini gaudenti: vedono degli scheletri, vedono teschi dalle occhiaie fonde, mandibole senza lingua, denti senza gengive, teste ignobilmente calve, piedi che sembrano composti di dadi imperfetti, lunghissime mani che sembrano bocchini di pipa infilati. Io invece, quando guardo gli uomini, vedo delle colonne vertebrali, dei midolli spinali da cui partono ramificazioni di nervi.” "Questo per gli uomini” disse Tito. "Ma le donne?” "Le donne? Degli uteri vaganti. Niente di più. Vedo degli uteri vaganti e degli uomini che li inseguono, ipnotizzati, parlando disordinatamente di gloria, di ideali, di umanità... "E così, bevo!” Attraverso i vetri velati dal fumo si vedevano due correnti di popolo dense e ininterrotte. Il vociare della moltitudine, il brouhaha, il trepestio, l’ondulazione della folla suggeriva alla fantasia l’idea d’un colore: color bitume, mescolato al giallo grigio, uniforme, su cui tratto tratto il grido d’un camelot, la risata trillante di un gavroche, la voce garrente di una donna mettessero macchie di rosso, zampilli di bianco, sprazzi di viola, parabole d’argento, getti di gridellino, guizzi di verde, geroglifici di giallo, saette d’azzurro. In mezzo a quella plumbea monotonia, balenavano, sguisciavano agili, elastiche gambe di donne; e tutte lunghe, sottili, svelte, muscolose,

rosee e avvolte dalla seta come da una spirale di filo, che girasse intorno ai polpacci e alle caviglie come la rigatura dei dischi di grammofono. La venere moderna non ha più le molli grazie paffute che cercavano (con le mani) i nostri nonni: la venere d’oggi deve far pensare all’androginea girl d’una troupe di ginnasti inglesi. “E così, bevo” continuò il sorridente per educazione. “Mi rimarrebbe forse l’amore. Ma ho capito finalmente che cos’è l’amore. È un avvelenamento dolcissimo che mi proviene dalla donna che mi piace. Dopo qualche tempo, tutto quel veleno che ho sorbito mi rende immunizzato, e allora non mi fa più alcun effetto il veleno che da lei continua a pervenirmi. “Una volta avevo ancora l’ebbrezza di vedermi di fronte gli avversari, e cercavo di combatterli: ma ora che sono redattore capo del giornale, ora che sono un ‘arrivato’, sono anche un ‘finito’. E la gioia della lotta mi manca anzitutto perché non ho più nemici, e poi perché, se ne avessi, non mi darei il disturbo di lottare. Ho capito che i nemici sono necessari, per andare avanti. L’opposizione è indispensabile per far carriera. Fin dall’origine della nostra vita embrionale noi avremmo dovuto comprendere questa elementare verità: gli spermatozoi hanno bisogno della corrente contraria per poter nuotare verso l’ovaia.” “Questo è un paradosso” disse Tito. “Io non enuncio mai paradossi” replicò il redattore capo “perché il più delle volte non sono che sciocchezze ben presentate. Sostengo che i nemici sono utilissimi, quando però si sappiano abilmente manovrare. In medicina, e tu che sei medico queste cose puoi insegnarle a me, in medicina non si usano forse i bacilli per combattere le malattie che essi provocano? Tutta la sieroterapia è basata sullo sfruttamento, a nostro vantaggio, dei nostri nemici. La sanguisuga non è un parassita dell’uomo? Eppure, nelle mani del medico diventa una cosa utilissima. “L'inimicizia è una forza; negativa, contraria; ma è sempre una forza; e tutte le forze sono sfruttabili dall’uomo.” “Che ne dici?”

Pietro Nocera rispose: “Dico che un ingegno come il tuo...” E Tito continuò: “... è un peccato che si rovini con l’alcool.” Il redattore capo si rivolse a Tito: “Tu mi fai pensare a coloro che dicono: è stupido credere all’influenza del numero diciassette; il diciassette è un numero come gli altri; il tredici porta sfortuna, è vero; ma il diciassette, no. Tu, Arnaudi, fai così. Ti uccidi con la cocaina, e ti pare insensato che io mi ammazzi con l’acool. E non capisci che se tu e io andiamo d’accordo è perché c’è fra di noi un’affinità di veleni, i quali alla loro volta hanno creato un’affinità di idee. “Tu e io abbiamo la medesima mentis, che in fondo è quella di Pietro Nocera. Noi tre andiamo perfettamente d’accordo, perché siamo tutti e tre accordati sulla medesima nota. Siamo semplicemente gli uomini del nostro tempo; non già tre tipi eccezionali che si sono avvicinati per formare un triangolo singolare. Forse sbaglio quando dico che i veleni ci hanno fatti divenire così: o piuttosto è il nostro ‘essere così’ che ci fa affogare eroicamente nei nostri soavissimi veleni? Comunque sia, mi ritengo felice d’avvelenarmi. E sarebbe insensato non farlo, visto che ciò mi dà un po’ di gioia. Se basta mezzo litro d’alcool a distruggere la malinconia, a trasformare, davanti ai miei occhi, questo sudicio mondo, e se per avere mezzo litro d’alcool non debbo far altro che premere un bottone elettrico, perché dovrei privarmene? Se ciò fosse doloroso, lo capirei; per sottrarsi a tutti i dolori provocati dall’amore, basterebbe sottoporsi a una operazione chirurgica: ma ciò è doloroso; e un’operazione chirurgica è sempre una grande incognita; invece l’alcool me lo regolo da me; è uno strumento che uso verso me stesso, con le mie mani. Io lo so perfettamente che mi si disapprova; ma tuttavia continuo a bere, perché questi cinque o sei bicchierini mi dànno il benessere e per opera loro le offese mi sembrano cortesie, i dolori si mutano, se non in gioie, per lo meno in indifferenza, e io sono trasportato al di là della realtà delle cose, e le vedo con quella prospettiva alterata che costituisce il fondamento dell’ironia. Che cosa c’è di più bello che passare vicino al prossimo senza riconoscere nessuno, e vivere in una specie di ebbrezza incosciente? Gli imbecilli dicono che io mi

rovino; secondo me sono imbecilli coloro che conservano quella cosa inutile e spregevole che è l’esistenza. Anche il direttore del nostro giornale, che ha un’intelligenza così lucida, certe volte mi fa sedere amorevolmente davanti a sé, e cercando di attenuare, con la dolcezza della voce, la fierezza dei suoi baffi alla va-t-en-guerre, mi consiglia di non bere più. Ma, poveretto, se solamente quando ho bevuto io divento servizievole, docile, malleabile! Quando ho bevuto potrebbe ordinarmi di dar la cera ai pavimenti e io lo farei.” Una signora magra e pallida, tutta vestita di nero, entrò, si guardò intorno e sedette a un tavolino. “De quoi écrire et un Grand Marnier.” Il cameriere le portò il liquore e l’occorrente per scrivere. “La signora TerGregorianz” disse Pietro Nocera accennando alla bella sopraggiunta. “È un’armena, che abita alla Porta Maillot, ed è famosa per le sue messe bianche." La signora aveva un cappello di velo nero attraverso il quale riluceva l’ondulata capigliatura nerissima: di sopra una tempia le scendeva un uccello del paradiso, nero, che le accarezzava il collo incurvandosi sulla gola fin sotto il mento. Sembrava che il viso fosse incorniciato da un morbido, voluttuoso punto interrogativo capovolto. Quando la signora ebbe finito di scrivere, chiamò un ragazzetto tutto verde e oro, smaltato e lucente e gallonato e gli diede la lettera: il ragazzo portò la mano destra, verticalmente, con la palma in fuori, al berrettino cilindrico, verde, senza visiera, immobilizzato per isbieco da un soggolo nero. E uscì sul boulevard. Lo si vide sgattaiolare in mezzo agli autobus. “Permettete, signora, che vi presenti i miei amici?” le domandò Pietro Nocera avvicinandosi, e invitandola a prender posto al loro tavolino. La signora lo guardò attraverso il punto interrogativo e sorrise: aveva il volto pallido e la bocca sottile, rettilineare, come se fosse stata incisa con un colpo di scalpello. Per sorridere l'allungò, la distese di un centimetro per parte, senza incurvarla. Il redattore capo era stato, per servizi giornalistici, in Armenia. Fra la bella signora armena e lui si stabilì subito una doppia corrente di cordialità. La

signora rievocò le usanze del suo paese, il martirio della sua gente, il colore delle sue montagne, la sensualità delle donne di laggiù. E mentre fra i due guizzavano le fredde fiammelle della rievocazione, Tito Arnaudi mormorò a Pietro Nocera, in italiano: “Che meravigliosi occhi oblunghi!” “Prova a dirglielo” rispose Nocera “e vedrai che si mette subito a farli funzionare. È la donna di cui ti parlavo ieri. Quella che ha nella sua stanza una magnifica bara di ebano, imbottita di piume e rivestita di damasco antico.” “Ed è vero che..” “Domandale.” “Addirittura!” “È una donna a cui si può fare questa domanda.” E rivolgendosi a lei: “Non è vero, signora, che voi avete un feretro di legno nerissimo e...” “È vero” ella confermò. “E che...” azzardò Tito. “E che me ne servo per l’amore? Certamente! È comodo, è delizioso. Quando morrò mi ci rinchiuderanno per sempre, e io ritroverò in quella bara tutti i ricordi più dolci della mia vita...” “Ah, se è per questo...” ammise Tito. “E non solo per questo;” aggiunse la signora. “C’è un altro vantaggio, a esser presa nella bara; che dopo rimango sola, tutta sola: e l'uomo è costretto ad andarsene; l'uomo, dopo, mi fa schifo: scusatemi: l'uomo, dopo, fa sempre schifo; perché o segue il suo impulso di maschio saziato e si alza frettolosamente come dalla poltrona del dentista; oppure, per educazione, per delicatezza, rimane lì, vicino a me: e allora mi ripugna perché in lui c’è

qualcosa che non è più maschio, in lui, come dire? c’è qualcosa, scusatemi, di bagnato...” E riprese l’argomento interrotto. “Chi è ora il suo amante?” domandò Tito. “Un pittore” rispose Nocera. “Ma una donna come quella ne ha sempre sotto mano cinque o sei di ricambio.” La notte dopo Tito Arnaudi e Pietro Nocera erano invitati nella villa della signora Kalantan Ter-Gregorianz, biancheggiante fra l’Étoile e la Porte Maillot, fra i Campi Elisi e il Bois, in quella zona mondana che costituisce il quartiere aristocratico della cocaina. Nelle ville sontuose dove si radunano i vari tout Paris (il tout Paris politico, il tout Paris mondano, il tout Paris artistico) si notano riunioni regolarmente organizzate per godere insieme della gioconda ebbrezza che dona la droga. Sono ventate d’intossicazione collettiva. I giovani frequentatori del turf e delle prove generali, gli impuberi o appena appena puberi gentiluomini che si credono in obbligo d’avere sulla scrivania l’ultimo poema lanciato sul mercato librario, e nel letto l’ultima adolescente lanciata nella galanteria; i giovani parigini che si fanno disegnare i pija-mas dai pittori della Vie Parisienne e si nutrono d’uccelli tropicali congelati, fanno entrare, fra i piccoli e i grandi argomenti di conversazione qui pullulent autour de nos tasses de thè, come diceva Sully Prudhomme, i veleni alla moda, le esaltazioni stravaganti, l'eteromania, la cloratomania e la polvere bianca boliviana che dà le allucinazioni. E allora stabiliscono di comune accordo di farne la prova. Si crea così, da un giorno all'altro, nella casa d una famiglia normale, un covo di cocainomani; uomini e donne si invitano reciprocamente alle "partite di cocaina” come ci si invita a pranzo. In certe famiglie il contagio si estende dai nipoti di quindici anni al nonno di settanta: la cocainomania a due, la tossicomania coniugale è frequente; se essa non recasse l’impotenza al maschio e la frigidità alla femmina, credo che il neonato da queste coppie cercherebbe subito la polverina bianca, come fa il figlio dei morfinomani al quale bisogna, per prima cosa, iniettare la morfina. L’alcoolista ha ancora la forza di giudicare il proprio male e di consigliare a chi ne è indenne di astenersi dal liquido

veleno. Il cocainomane invece ama fare dei proseliti: ogni vittima della droga, anziché costituire un tangibile ammonimento, è un centro di contagio.

4

La villa della signora Kalantan Ter-Gregorianz era tutta bianca come un ossario, e rotonda come un antico tempietto greco: sul suo fianco si stendeva un piccolo giardino triangolare, sempre verde, che era come una foglia attaccata a un fiore nuziale. Si sarebbe detta la garçonnière di una fata che ancora non figura nelle favole in circolazione, ma che si dovrebbe introdurre: Fata Libertina. Tito Arnaudi e Pietro Nocera vi giunsero di notte, in un’automobile pubblica, aperta. Dalla luna perfettamente rotonda si svolgeva una nube nastriforme, che pareva un braccio reggente una lucerna; qua e là, per il cielo, palpitavano disordinatamente mazzolini di stelle come limatura di platino lanciata con un soffio lassù. Nel nero del giardino, sotto la luna, biancheggiarono, fra il pergolato e le siepi di evonimo, gli smaltati rettangoli delle camicie, incorniciati dai frak. L’aria era insaporata dal profumo della notte, questa sempre giovine e bellissima cocotte. I due uomini in frak scesero. Il vestibolo era una rievocazione romana: alle pareti, affreschi mitologici su fondo vermiglio, come quelli di Pompei, che le pudibonde indeflorabili signorine inglesi giudicano shoking. Temperatura di tepidarium. I due italiani consegnarono i cappelli a cilindro e s’inoltrarono, preceduti da un servo, più gallonato d’un ammiraglio turco, per un corridoio semicircolare come quelli dei teatri, ed entrarono in una gran sala. Era la sala dei pinguini. Sopra grandi specchi giranti intorno alle pareti erano dipinti paesaggi polari: nevi sconfinate, blocchi di ghiaccio, icebergs giganteschi, che facevano da piattaforma a comizi di pinguini. E poiché di dipinto non c’era che la parte più bassa degli specchi, quella superiore, nuda, rifletteva all’infinito i paesaggi dello specchio di fronte.

I pinguini sembravano anch’essi gentiluomini in frak, con le mani dietro il dorso. Un vasto tappeto a geroglifici bianchi verdi e azzurri teneva tutta la larghezza della sala. Sopra i divani semicircolari, pelli di tigri e cuscini di broccato. Nessuna lampada, nessuna finestra: ma un soffitto di vetri celesti da cui trapelava una luce nebbiosa di invisibili ma indovinabili lampadine colorate. "Ammiravamo l’antro della maga” disse Tito andando incontro a Kalantan, la quale entrava porgendo una mano a lui e l’altra al compagno. "Siamo i primi. È troppo presto?” "Affatto. Bisogna bene che qualcuno sia il primo.” Il servo aveva appena lasciato ricadere la pelle villosa come un manto regale, che faceva da portiera, quando tornò a sollevarla, annunziando tre titoli e tre nomi. Entrarono tre signori. Uno era alto, magro, sbarbato: capelli bianchissimi: due favoriti, bianchissimi, da cercopiteco gli formavano una faccia austera di maitre d'hôtel. La signora lo presentò: “Il professor Cassiopea, direttore d’osservatorio; possiede il più potente cannocchiale del mondo.” Inchini. E presentò i due italiani. “Il dottor Chiaro di luna; il professor Où fleurit l’oranger: redattori d’un quotidiano parigino.” Inchini.

Insieme con l'astronomo erano entrati altri due gentiluomini. “Il pittore Triple sec.” Biondo, giovine, magro, tre volte secco. Inchini. “Il dottor Pancreas, della facoltà di medicina.” Inchini, strette di mano. I cinque signori a un cenno della padrona di casa si avviarono verso un divano: i due italiani furono invitati a precedere i tre francesi. Il divano era così soffice ed elastico che, una volta seduti, le ginocchia si trovavano all'altezza delle spalle. Per non assumere atteggiamenti antiestetici non c'era di meglio che alzarsi oppure sdraiarsi per lungo. Il servo annunciò altri invitati. Un ricco industriale, un antiquario che ha, fra la sua clientela, alcuni re spodestati; una donna bionda, di età indefinibile fra i trenta e i sessanta, una cocotte di recente distillazione, altri uomini, altre donne. Una di queste comunicò che il signor ***, dovendo recitare una tragedia di Corneille sarebbe giunto più tardi. Un vecchio signore fece le scuse d'un suo collega che aveva lasciato Parigi per eseguire un'operazione chirurgica a Marsiglia. Il pittore comprese subito a che cosa corrispondeva l'operazione chirurgica di Marsiglia. Il chirurgo, Venerabile d'una importante loggia massonica, non era mai libero il giovedì. Vennero poi altri invitati: presentazioni, inchini; nessuna sorpresa nel ritrovarsi. Quattro servi portarono un centinaio di cuscini di tutte le tinte, a grandi macchie accecanti e li ammucchiarono intorno alle signore che s’erano sedute sui divani. Nel grande cerchio della sala, nel fondo, si formò un più

piccolo cerchio: era un insieme di uomini, donne, cuscini, spalle rosee di donne, capigliature di donne, fili di fumo di sigarette: la luce piovente dall'alto tingeva di roseo e d'azzurro ogni cosa, facendo verdastre e violette le ombre. Una grande compostezza negli atteggiamenti dava una certa nobiltà a quel promiscuo uso di cuscini, a quell'incrociarsi di gambe, a quell’aderire a fianco a fianco di austere marsine senili, e di femminili tuniche rivelatrici. Kalantan, la bella signora armena, era inguainata d'ombra: il vestito grigio molto scuro a riflessi verdognoli e bluastri aderiva alle forme come una maglia: non guarnizioni, non cuciture che premessero la seta sulle parti cave del corpo: sembrava una nudità bronzea; a vederla pareva una statua di basalto, ma a toccarla doveva avere la mollezza adesiva del vampiro; fra il vestito e la pelle, nemmeno una camicia di foulard; intorno alla vita un cordone verde, annodato sul ventre, e dai cappi terminanti in due grossi smeraldi. Calze verdi: scarpine di raso verde, le unghie smaltate di verde. Una specie di botola si aprì. Dal suolo emerse un giovane pallido, dal viso di fanciulla, che reggeva in una mano un violino e nell'altra l’archetto. La signora gli fece un cenno e il giovine scomparve. La botola si chiuse. Attraverso l’impiantito - e solamente allora si intuì la leggerezza del sottile pavimento - si levò una musica carezzevole e lenta che sembrava giungere da abissali profondità. “Non è la prima volta che vi vedo” disse il pittore Triple Sec a un suo vicino: “ieri mattina al Grand Palais voi avete detto che un mio quadro è pieno di sublime falsità. La vostra frase mi ha colpito.” “Ma come?” domandò il signore dalla faccia austera di maitre d’hôtel e dai favoriti bianchi da cercopiteco. “Eravate vicino al vostro quadro?” “Si capisce” sorrise una donna dalla capigliatura metallicamente bionda. “Davanti al quadro c’è sempre l’autore, come dietro al carro funebre ci sono sempre i parenti del defunto. Per dir male del quadro e del morto è consigliabile tirarsi un po’ in là.”

“E voi amate il falso in arte?” domandò il pittore. ASTRONOMO: Certamente; solo nel falso è il bello: le deformazioni pazzesche, i contorcimenti allucinatori, i contrasti esasperanti sono gli unici mezzi con cui l’artista riesce a darmi qualche emozione. Ne abbiamo abbastanza del vero, dell’umano, del verosimile: io vorrei che un artista riuscisse a procurarmi l’illusione di camminare sulle strade della città, pavimentate di stelle, avendo in testa un paio di galoches, con cui diguazzare, col capo, nelle pozzanghere del firmamento, mentre la pioggia o la luce mi investono dal sotto in su. Invece di ammirare i fiori delle piante vorrei giungere a seppellire i fiori e sciogliere al vento le radici; invece dei prodotti, le cause; invece delle conseguenze, le origini: sono molto più interessanti le radici delle margherite che le corolle. CHIRURGO: Per un astronomo come voi è un po’ forte tutto ciò. ASTRONOMO: Gli astronomi non sono che poeti mancati, perché invece di tentare l’esame e la deformazione delle qualità, si cimentano nell’esame preciso delle quantità, il che è imbecille. Kalantan, LA bella SIGNORA ARMENA: Eppure siete tenuti in gran conto... ASTRONOMO: Sì, perché abbiamo dei cannocchiali giganteschi, scriviamo numeri di trenta cifre, calcoliamo a sestilioni e a minuti quarti e scriviamo formule indecifrabili. Ma in realtà, a che cosa serve misurare la distanza delle stelle? KALANTAN, la BELLA SIGNORA ARMENA: Se almeno sbagliaste le misure e le previsioni! Ma avete raggravante dell’esattezza! Entrò un signore dalla faccia di cornuto cronico, che dopo i cerimoniali d’uso si sedette per terra e s’addormentò col cuscino fra le gambe come fanno gli emigranti con la valigia. Kalantan, la bella signora armena: Dorme sempre. Cocotte ritirata dagli affari: E chi è? Kalantan, la bella SIGNORA armena: Un grande commerciante.

Tito Arnaudi: E come può accudire ai suoi affari? Kalantan: Ha un socio. Chirurgo: Chissà come lo spolpa! Kalantan: No. Il socio è l'amante di sua moglie, e la moglie, tenendo un occhio sull’azienda, gli impedisce, per lo meno nell’azienda, di far porcherie. Si rise un po’ per compiacenza e un po’ per malvagità. Un servo portò sopra un grande vassoio d’argento una ventina di coppe da champagne, colme di frutti, e passò da ogni convitato. Un altro servo distribuì a ciascuno un cucchiaino d’oro. “Macedonia di frutti” spiegò Pietro Nocera a Tito Arnaudi portando alla bocca una fragola imbrillantata di minuti cristalli di ghiaccio e imbevuta di champagne e di etere. Il profumo dell’etere si era già diffuso per tutta la sala: la parte esterna delle coppe era smerigliata dal vapore ambientale congelato. Un terzo servo passò con un piccolo cubo d’argento, bucherellato su una faccia, con cui sparse su ogni coppa una polvere bianca, che cadendo nel liquido si sciolse. Il violinista invisibile lanciava lamenti nostalgici come un trovatore imprigionato per reati d’amore nel sotterraneo d’una torre. La luce fioca e tremolante, i tappeti soffici, i cuscini molli, le pareti circolari, gli uomini nerovestiti e le signore quasi taciturne davano un aspetto di solennità alla cerimonia pagana: fra le gambe incrociate alla maniera turca gli uomini tenevano la coppa, snervante sorgente di allucinazioni, assaporando con lentezza pacata l’intelligente mescolanza alcoolizzata di frutti afri e di frutti dolcissimi. Sopra un treppiede più alto d’un uomo, entro un vaso cinese di yuè, un gran fascio di garofani violetti e di rose nere (sembravano abili lavori in ferro battuto), carnalmente profumati di ambra grigia, gettavano un grido di pittoresca impurità.

Le note del violino invisibile erano come gocce di rugiada scivolanti lungo la seta tirata da un ragno nel sole. TITO Arnaudi: E quel tipo di cornuto convalescente chi è? PIETRO NocerA: È un antiquario. Quello e gli altri due dalla faccia di sentimentali incurabili sono tre ex amanti della padrona di casa. Sono chiamati la galleria delle mummie, perché la vulcanica amante li ha, dal lato dell’amore, resi letteralmente inservibili. Sembra che una volta, a tal proposito, la signora abbia detto: che mi importa se un uomo, dopo aver servito a me, non serve più alle altre donne? Tito Arnaudi: Sciocchezze. Tu credi che l’abuso possa condurre... CHIRURGO: E come no? Guardate la tartaruga. Vive cento anni ma fa all’amore una sola volta l’anno. PITTORE: Non invidio la tartaruga. Per me c’è una sola cosa peggiore dell’abuso. Chirurgo: Ed è? PITTORE: L’astinenza. L’UOMO CHE DORME SEMPRE, svegliandosi: Ho sentito parlare di me: avete detto che io sono becco: becco, sgualdrina... Parole! È tutto questione di parole. Il becco è ridicolo perché esiste la parola che lo determina. Sarebbe anche ridicola la donna ingannata se esistesse una parola come becco. La donna infedele è una sgualdrina. L’uomo infedele non è altro che un uomo infedele, solamente perché non s’è ancora coniato il maschile di sgualdrina. Del resto che mi importa? Io passo il mio tempo fra il sonno e il sogno: quando ho la morfina nelle vene, sogno; quando non l’ho, dormo.

E si riaddormentò. Tito Arnaudi: Ma perché dorme sempre? Chirurgo: Morfina. La portiera s’alzò: due servi entrarono tenendo sollevate le due parti, per aprire il passaggio ai due danzatori. “Danse polynésienne!” annunziò il ballerino afferrando la compagna alla vita. Il violinista attaccò una musica selvaggia. Ma nessuno vi badò. Il chirurgo aveva tratto dal taschino del panciotto bianco una scatoletta d’oro e aveva aspirato un grosso pizzico di cocaina, e un servo, al cenno di Kalantan, la bella signora armena, aveva versato nelle coppe altro etere e altro champagne. La signora armena si inginocchiò davanti a una coppa posata a terra e bevve come se fosse l’acqua bionda d’un lago. Tito Arnaudi, mentr’ella beveva, avvicinò il viso alla sua nera capigliatura, che aveva un profumo eccitante di muschio come l’inchiostro di China. I danzatori si ritirarono, e i servi riapparvero con piccole tazze bianche come quelle in cui gli arabi prendono il caffè. “Fragole al cloroformio” spiegò un’esile signora dalla parrucca verde. “Chi è?” chiese Tito. “Un’etèra di recentissima distillazione. La si direbbe nata e vissuta presso una corte imperiale; invece l’anno scorso era ancora cameriera d’un commissario di polizia: queste donne offrono i più impressionanti fenomeni di mimetismo del mondo animale: l’anno scorso avevano ancora i piedi sporchi, e ora ti porgono la mano arcuata, e s’offendono se non

gliela baci. L’anno scorso non sapevano se i numeri si leggono da sinistra a destra o viceversa, e ora ti parlano delle azioni della ferrovia dal Senegai a Zanzibar attraverso il lago Tanganika, e discutono sull’ultimo premio Goncourt e sulle pitture di Cézanne.” Un volo di farfalle irruppe avido di libertà e spaurito, nella sala; alcune andarono ad abbattersi negli specchi: altre si diedero alle più assurde evoluzioni fra i convitati. Erano scintillanti come stoffe intessute di metallo e di porpora, di oro e di vetro, d’argento e di ghiaccio, di aria e di rame: volavano disperate di qua e di là, posandosi capovolte sul soffitto luminoso, o palpitando sul suolo: una si posò sul risvolto d’amoerro d’una marsina, con le ali spiegate e gli occhi immensi stupefatti. Poi si staccò, volteggiò indecisa fra la capigliatura rossa d’una signora e una coppa, e poi cadde asfissiata dalle emanazioni dell’etere e del cloroformio, nella coppa di champagne, coprendola con le ali allargate, come una patena su un calice. Le altre si posarono sui fiori. “Me le manda un mio amico dal Brasile. Sono le più belle farfalle del mondo. Ogni piroscafo che proviene da Rio de Janeiro me ne porta una piccola gabbia. Vorrei avere meravigliose belve a cui far divorare in un’arena i miei servi, per il vostro svago: ma purtroppo, come fauna esotica, non posso offrirvi che delle farfalle.” “È una bella canaglia” disse Tito a Nocera “questa signora. Se al suo paese sono tutte così, comincio a dar ragione ai curdi e ad approvare le stragi degli armeni.” “E vi offro lo spettacolo della morte delle farfalle. Muoiono ubriacate da veleni delicatissimi e dai profumi. Le farfalle soffrono al profumo come le gemme. Lo sapete che le gemme soffrono ai profumi? È una morte invidiabile, perché le farfalle conservano tutta la bellezza che avevano in vita. Le vedete trafitte da uno spillo, negli insettari, e sembrano vive, per quel pulviscolo variopinto. Quando io sarò morta verrete tutti voi a incipriarmi e a dipingermi, come s’io dovessi mostrarmi a una prova generale alla

Comédie.” “Povere bestie!” disse il sentimentale incurabile. “Basta!” lo ammonì l’armena. “Del resto io credo che la mia casa sia una tomba ben degna di una farfalla. Una casa” aggiunse sorridendo “dove persone illustri come voi vengono a uccidersi a poco a poco.” “E la vostra bara dov'è?” domandò Tito. “Non vorrete” rispose Kalantan “che io la faccia portare in processione intorno a voi, secondo l’usanza conviviale degli egizi.” “E perché no?” disse Tito. “Non c’è nessuno, fra noi, che abbia orrore della morte.” “Io poi ho una certa dimestichezza con i feretri” narrò il pittore scheletrito. “Ai tempi della bohème, nei giorni più tragici, avevo ottenuto di andare a dormire sopra un mucchio di paglia, in una fabbrica di feretri, vicino alla dogana di Bercy. La prima notte non presi sonno: avevo un bell’i-maginare e ripetere a me stesso che quelle casse erano destinate alla spedizione di frutta o di biancheria intima per signora, ma la forma singolare mi smentiva. La seconda notte dormii a intervalli. La terza dormii benissimo. Ma se gli incubi non mi agitavano più, mi si infiltrava nelle ossa l’umidità del suolo, e nella pelle mi entravano i bruscoli di paglia. “Una sera avevano preparato una bara superba per un vescovo che doveva prendervi stabile dimora il giorno dopo. Era un capolavoro per decorazioni e confort. Aveva in fondo un cuscino per appoggiarvi i vescovili piedi e un guanciale per adagiarvi il vescovile cranio. Non ci mancava che il vescovile cadavere. “C’era persino una specie di porta-ombrelli per infilarci l'alpenstock pastorale. “Che un artista vivo debba dormire sulla paglia, e un morto debba decomporsi in un feretro così comodo, è ingiusto” pensavo. “E quando fui sicuro che il guardiano era a letto, mi ci coricai. “In quella bara da vescovo stavo da papa.

“Il giorno dopo la portarono via. Ma tutte le sere ce n’era una di lusso. Non bella così, questo no. Come quella ce n’e-ra solamente una ogni morte di vescovo. Erano persin troppo lussuose per un proletario del colore come me. Vi confesso che è un po’ scomodo, nei primi tempi, cambiar letto, cambiar feretro tutte le sere. Ma poi ci si abitua benissimo, e non si darebbe un feretro in cambio del letto del Re Sole che si conserva a Versailles. “Per due mesi dormii in quella fabbrica. Ma un bel giorno giunsero serie rimostranze. Qualcuno protestò perché i feretri erano già stati adoperati.” “Chi protestava? Il morto?” “I suoi parenti.” “Che stupidi! Quando uno è morto, anche se la cassa è di seconda mano...” osservò l’armena. “Ma la pietà” fece notare l’astronomo “la pietà dei parenti, il culto dei defunti...” “Non c’entra la pietà dei parenti” chiarì il pittore. “Il fabbricante non mi lasciò più dormire nel suo magazzeno, non perché i clienti avessero protestato in nome della religione dei morti, ma perché i parenti dei morti coglievano l’occasione per chiedere una riduzione sulla lacrimata fattura.” I danzatori rientrarono annunziando: “Danza andalusa.” “E dopo d’allora dove andavate a dormire?” Echeggiò un secco suono di nacchere. “Cominciai a vendere qualche tela e m’affittai una soffitta. Da allora il mio successo si delineò. Ricordi tu - si volse alla donna dai capelli gialli - quali ricevimenti offrivo nella mia boîte, lassù, sulla Butte? Avevo persino la posateria d’argento.”

“Ricordo” affermò la donna dalle chiome arroventate “la tua posateria d’argento: su una forchetta era scritto restaurant Duval, e su un cucchiaino buffet della stazione.” “Ma questo - spiegò il pittore - era un pensiero delicato per voi; io volevo dare ai miei ospiti la sensazione precisa di trovarsi in un ritrovo elegantissimo.” “Io allora frequentavo il Liceo Voltaire” rammentò un signore che non aveva ancora parlato. “No, il Liceo Louis-le-Grand” corresse il pittore. “Macché! Il liceo Voltaire.” “Vi dico di no. Il liceo Louis-le-Grand.” “Ha ragione il pittore Triple-Sec” confermò un amico del signore. “Tu hai frequentato il liceo Louis-le-Grand.” Il chirurgo si volse a Tito: “È già a un bel punto! Perdita della memoria.” “Cocaina?” domandò Tito. “Morfina” rispose il chirurgo. Quel signore rimase con la bocca aperta e gli occhi fissi, come magnetizzato da un particolare qualunque del tappeto. Trasse dalla tasca interna della marsina un astuccio metallico e si piantò un ago nella coscia, attraverso la stoffa; e qualche minuto dopo gridò, illuminandosi: “Ma sì, avete ragione voi. Io ho fatto tutti i corsi al liceo Louis-le-Grand, ed ero compagno di classe di Ivan il Terribile e di Scipione l’Africano.” Le farfalle stordite dall’etere svolacchiavano di qua e di là e piombavano agonizzanti per la sala. Una di esse restò schiacciata sotto i piedi dei danzatori. Un altra, incurvatasi

sopra una rosa come per specchiarsi in una goccia di rugiada, morì illanguidita nel civettuolo atteggiamento. Un’altra, dalle ali bianchissime, posatasi sull’orlo d’un portacenere sembrava intenta a cospargersi d’umiltà prima di morire. La signora armena intinse il mignolo in una coppa e lasciò cadere una goccia sulla testa della bestiola che cadde riversa, fulminata. “No, no, Kalantan! È una stupida crudeltà!” gridò la donna bionda come se le avessero trafitto le mani con uno spillone. “È una stupida crudeltà. Sei cattiva e insensata, Kalantan!” La voce della donna aveva un suono legnoso, aspro, come se nella gola le fosse rimasta dell’acqua che, parlando, gorgogliasse. Gli occhi vitrei, le dita rattratte, quasi volessero stringere alle braccia qualcuno... Il violino agonizzava. La donna esaltata ricadde all’indietro, presa da una crisi di esasperazione. L’armena strappò dalle mani del chirurgo la scatoletta della cocaina, riempì le narici della donna fremente che continuava a sibilare con la fronte corrugata e gli occhi esterrefatti: Cattiva, cattiva! Tito Arnaudi s’alzò, s’avvicinò alla botola accostata: attraverso l’apertura non si vedeva né il violinista né lo strumento; solo il biancicore dell’archetto balenava or sì or no. “Ritorna in sé” disse Kalantan, la bella signora armena, restituendo la scatoletta d’oro. Il veleno la guariva, per il momento: la fronte si spianò, le dita si distesero, gli occhi assunsero un’espressione quasi serena. “Sei buona, mia piccola Kalantan!” mormorò. “Perdonami.” E si mise a piangere. Kalantan la prese sotto le ascelle umide e nude, come se fosse una bimba, e la mise a sedere accanto a lei.

“Povera scimmia! Hai il visino sciupacchiato! Non piangere più, e, sopratutto, non ridere!” Conosceva bene, Kalantan, queste crisi. Sapeva che al pianto seguiva un rictus convulso, più atroce della disperazione. Un riso fatto di singulti: quella donna rideva o piangeva con tutta la persona: una bocca livida, contratta in una smorfia: una gaiezza atterrita, un'ilarità lugubre, come se i suoi occhi vedessero un cadavere vestito da pagliaccio giocare con una lucertola una feroce pantomima. L'uomo che dorme sempre continuava a dormire. L’astronomo aveva spiccato dal mazzo una rosa, l’aveva immersa nell'etere e l'aspirava voluttuosamente, guardandola con occhi estatici. La sua gamba sinistra, allungata per terra, trepidava rapidamente come per un fenomeno elettromagnetico. La galleria delle mummie taceva; l'un d'essi, dopo essersi punto con la siringa di Pravaz non aveva più avuto la forza di riporla, essendo stato subito inchiodato dalla stupefacente beatitudine. Il chirurgo, per far credere, in un residuo di dignità, che la sua mente avesse ancora qualche trasparenza, si mise a parlare di pittura. “Un che di norvegese io scorgo in Van Dongen: secondo me usa troppi toni caldi e troppa biacca; ma nella posizione dei piani manca di stereoscopicità. Che ne dite?” “Dico, illustre dottore” rispose 1’artista “che l'ultimo metodo di cura dell’arteriosclerosi mi pare buono: innestare nell’orecchio del malato il rene di un cavallo, e fargli negli occhi delle inalazioni di vetriolo caldo; io consiglierei però di praticare, fra la prima e la seconda vertebra, un’iniezione di clorato di potassa e ipecacuana.” “Ma che bestialità dite?” esplose il chirurgo. “Volevo sdebitarmi di quelle che avete detto voi parlando di pittura.” E il pittore si alzò. “La danza del Bengala” annunziò il danzatore. Un tur-

bante di seta bianca gli avvolgeva la fronte ed era fermato da un grosso brillante da cui partiva una voluminosa aigrette. La donna completamente nuda e depilata, aveva in testa un camauro d'oro che le scendeva in due falde lungo le gote per accentuare la linea ovale. Il giallore bronzeo e l'umidore lu-streggiante della carne vibravano, fremevano nelle mosse feline: il corpo aveva le trepidazioni molleggianti alternate a insidiose e brevi perplessità, come un giovine giaguaro che esiti e balzi: negli occhi segnati vastamente di antimonio brillava un torbido languore copiato; la pelle esalava un ambiguo ma fortissimo profumo di zafferano, sandalo, belzui-no; sulla faccia brunastra a riflessi verdognoli il nitore della dentatura appariva come un tagliacarte d'avorio trattenuto fra le labbra aperte; e le braccia flessibili si contorcevano, si avvolgevano, s'introflettevano elasticamente, aderivano al collo, scivolavano lungo i fianchi, serpeggiavano sul ventre, si rivoltavano arditamente come due serpenti, la cui testa era simulata dalle dita distese e raccolte, e adorne di due luminose calcedonie fascinatrici e fredde come due occhi magnetizzanti. Il corpo del giovine giaguaro si dibatteva disperatamente fra le spire, e il riso smaltato si torceva nella smorfia preagonica. Quell'agonia piena di spasmodico e arido erotismo evocava miracolosamente tutti i favolosi misteri della jungla, assai meglio che una interminabile conferenza sull'India, con proiezioni. Rapito dalle gambe della danzatrice, Tito disse: “Guarda che malleoli svelti! Ciò che mi eccita di più nella donna è il malleolo. Il seno, i fianchi, il sesso esaltano appena appena i seminaristi.” La musica si estinse: la danzatrice scomparve. Fu aperto un rettangolo del soffitto di cristallo per far uscire l'aria avvelenata; attraverso lo spiracolo entrò la pungente uzza mattutina e irruppe l'indaco dal cielo sereno. Un uccello dal giardino gorgheggiò una frase breve, gioconda, ironica e concisa come un epigramma.

I dormienti ebbero una scossa: Kalantan, la bella signora armena, riversa su un tappeto, con la bocca fra le mani, mugolò: “Chiudete!” Si chiuse. Di svegli o quasi sereni non c’erano che Tito Arnaudi e il pittore. “Ho molta stima della vostra arte” disse Tito “e sono lieto che il pubblico vi segua.” “Non è il pubblico che segue noi” rispose il pittore “ma siamo noi che inconsciamente seguiamo il pubblico, benché in apparenza sia il contrario. Non siete mai stato nei baracconi dove le pulci ammaestrate tirano piccoli carri d’alluminio? Sembra che la pulce tiri il carro, vero? Ma in realtà è il carro che, trovandosi in piano inclinato, spinge innanzi, nella sua discesa, la pulce. Io non avrei mai creduto di pervenire un giorno a ritrarre presidenti di repubbliche e sovrani asiatici. Credevo di rimanere per tutta la vita caricaturista di giornali umoristici o illustratore di magazines o pittore di cabarets; e per questo mi sono appiccicato il ridicolo pseudonimo Triple sec. Ma lo pseudonimo, lo sapete, è come il tatuaggio: te lo fai dapprima con leggerezza, e poi devi tenertelo per tutta la vita. Io ho moltissimi amici fra i giornalisti, e se ho percorso del cammino, debbo esser riconoscente anche a loro, perché mi hanno fatto della réclame. Il merito non basta, se non gli si unisce la réclame.” “Lo so” rispose Tito che cominciava a veder deformarsi le linee delle cose. “La réclame è necessaria. Se Gesù Cristo è divenuto celebre, può dir grazie agli apostoli, i suoi dodici grandi agenti di pubblicità.” Pietro Nocera che aveva sentito nominare Gesù Cristo, raccolse le proprie forze e s’avvicinò a Tito: “Quando tiri in ballo la storia sacra hai nel cervello più cocaina che materia grigia. Siediti.”

E con una spinta più energica che dolce lo fece piombare silenziosamente, come un mollume, fra due mucchi di cuscini. Un ventilatore invisibile si mise a ronronnare. L’astrono-mo si guardò intorno perplesso come per domandarsi se quel rumore fosse una sua allucinazione uditiva: ma l'uomo che dorme sempre, svegliatosi in quell’istante, gli disse, accennando al ronzio uniforme: “Queste farfalle avrebbero fatto meglio a rimanersene a casa loro, sull’Orenoco.” Il pittore s’inginocchiò vicino a Tito. “E sono anche stato molto aiutato dalle donne” disse. “Le donne facilitano grandemente i successi. Quando non sapete cavarvela in un’impresa difficile, rivolgetevi a una donna.” “Lo so” rispose Tito biascicando le parole, e saltando delle sillabe, e passando dal tono più basso al falsetto più stridulo “lo so: dai reati di alto tradimento in cui le etere internazionali servono a strappare ai generali avversari i piani di guerra, a risalire su su fino a Eva che fece da intermediaria fra il serpente e l’uomo, la donna in tutti i tempi è sempre riuscita benissimo nelle più sporche azioni. E non mi meraviglio che abbia anche aiutato a far trionfare un cane di pittore come voi! ” L’artista non reagì. Non ne avrebbe avuto la forza. D’altra parte la cocaina gli dava, oltre all’euforia, un senso di largo ottimismo, una speciale ricettività alle offese, che, giungendo ai suoi occhi, si trasformavano in cortesi lusinghe. Sorrise. In quella sala tutte le cose avevano assunto un aspetto e una significazione fantasmagorica: la voce dava suoni non umani; la luce, generata da varie sorgenti e da molteplici riflessi contrapposti, aveva la liquida trasparente ondulazione che ha la luce negli acquari: la linea retta s'incurva; alla fissità delle cose sottentra

un'incerta fluttuazione, un vago tremolio che anima d'un respiro gli oggetti immobili; e tutti quegli uomini dalle mosse flaccide e lente che si arrovesciavano, si abbiosciavano, si torcevano per terra, in mezzo a cuscini multicolori, a capigliature sciolte, a madide nudità, a calici infranti, erano come la fauna degli acquari, a cui il liquido ambientale attenua, addolcisce ogni atto e rallenta ogni ritmo. Il tappeto verdognolo e umido di liquori versati, era come un limaccioso fondo oceanico, in cui i cuscini facevano da conchiglie, e le snodate capigliature femminili erano come filamentosi ciuffi di bisso o come favoleggiate vegetazioni di abissali paesaggi. E la musica continuava esasperata ed esasperante - era una malinconica zibeba zingaresca - creata da un violinista cieco che non s'accorgeva di suonare davanti a un pubblico di cadaveri. Nessuno parlava più. Tratto tratto qualche rumore sinistro: l'urto d'un coltello su un marmo anatomico; qualche voce lamentevole, appena appena afferrabile: nella sala qualcuno agonizzava? Le tende villose che facevano da portiera palpitavano celando chissà quali minacciosi misteri; l'impiantito leggiero separante la sala dalla sottostante, sembrava mosso da un respiro lento e ritmato dai suoni bassi che lo deprimevano e dalle note acute che lo sollevavano. Se in quel momento, per una ragione incidentale qualsiasi, la luce si fosse spenta, tutte quelle persone sarebbero impazzite, e al ritorno della luce, sui grandi specchi avrebbe forse rosseggiato qualche spruzzo di sangue. Kalantan era distesa per terra, con la faccia, il seno, il ventre, le cosce, i ginocchi, il collo di un piede sul tappeto. L'altro piede era appoggiato, disteso, sulla caviglia opposta. La positura della donna era perfettamente simmetrica, come se fosse stata composta da un artista amante delle stilizzazioni equilibrate. Le caviglie snelle e gli agili polpacci lussureggiavano d’una squisita grazia tendinea e d’una salda vigoria muscolare: a stringerli con la mano, quei polpacci dovevano cricchiare come il pane fresco. Tito, sdraiato vicino a lei, con la faccia contro le sue gambe, ebbe gli occhi inondati di verde: il verde serico iridato delle calze. L’angolo visuale eccessivamente ottuso, prodotto dalla vicinanza dei suoi occhi all’oggetto di

seta e di carne, alterava fantasticamente l’imagine: quella cosa lucida, smeraldina, soffusa d’un alone, tiepida, emanante profumo di donna, era una dolce ciclopica collina ove l’atmosfera avesse odor di carne giovine. La donna era annegata in un sonno quasi catalettico. Tito le sollevò la veste smarritamente, con dita incerte, adagio adagio, per assaporare la progressiva rivelazione, fino a metà della coscia; le calze erano tenute da una catenella di platino e perle, chiusa da una fibbia fregiata di segni armeni. Lievemente, religiosamente come se sbucciasse una mandorla, come se scoprisse una reliquia, ripiegò su se stessa la calza, la sfilzò fino a metà del polpaccio, e contemplò l’incavatura soave del poplite - nella donna sono assai più eccitanti le incavature che le convessità! limitata da due tendini esili come cantini. Era una magnifica coppa. Un calice di champagne ancora intatto stava umilmente in piedi, lì vicino: ai bordi, un po’ di spuma disfatta: dal fondo salivano rare bollicine che sparivano alla superficie. Tito lo prese con dita tremanti per lo stelo smilzo e versò il biondo contenuto in quella soave incavatura: non una goccia se ne disperse: la donna non vibrò: il poplite era vasto come una bocca aperta. “Kalantan!” gemette Tito. Su quella bocca di carne bianca, Tito si curvò con la sua bocca inaridita dalla febbre, e sorbì a occhi chiusi. “Kalantan!” Sembrava di bere a una magnolia. “Kalantan! Bella, meravigliosa Kalantan!” Non un brivido scosse la donna, nemmeno quando Tito, depresso dallo stordimento, cadde su di lei, con la gola sulla sua carne, mugolando: “Kalantan!” Qualcuno tornò ad aprire un rettangolo d’invetriata. Era quasi giorno: dal cielo di assenzio sgocciolava esausto il brillio delle ultime stelle ritardatarie.

Una tromba d’automobile squillò la diana sull’Avenue des Champs Elisées. Oggi all’Aurora non bastano più i suoi due cavalli Lampo e Faetonte: per annunziare il giorno le occorrono gli ottanta cavalli scivolanti sui soffici pneumatici di una lunga torpedo che guida lei stessa con le “rosee dita”, fatte assai più rosee dagli smalti di una sapiente manicure.

5

“Kalantan... Kalantan... Kalantan...” ripeteva a se stesso Tito Arnaudi fra lo stordimento e il sonno, mentre l’automobile della signora armena, dalla villa bianca come un ossario e rotonda come un tempietto greco, lo portava attraverso piazza della Concordia e Rue Royal, verso il suo albergo in Place Vendôme. In quell’ora mattutina, Parigi era popolata di gente avviata al lavoro: impiegati della banlieue dalle scarpe ancora troppo lucide, diretti alle stazioni di San Lazzaro, d’Orléans e degli Invalidi; operaie dalla faccia lavata di fresco; tutta gente frettolosa come se volesse precorrere il giro del sole. Davanti a chez Maxim's un cane e un povero frugavano senza rivalità in un mucchio di gusci d’ostriche e cocce di limone. “Kalantan... Kalantan... Kalantan...” mormorava con le labbra nascoste nel bavero sollevato fino al naso, mentre l’automobile svoltava nell’aria grigia e fresca di Rue Saint-Honoré “Kalantan, soave nome per un’amante serena; non per una femmina avvelenata e avvelenante... Kalantan... Kalantan, nome lento che si pronunzia senza muovere la bocca, come ce lo si dicesse con l’anima; nome fatto per essere ripetuto mille volte lentamente, sulla fronte di una donna pallida e pura... Kalantan, nome che ha gli stessi suoni di quel verso di Dante Gabriele Rossetti: o mano mansueta in man d'amante... Kalantan... In man d'amante... Kalantan... Kalantan.” L’automobile s’arrestò dolcemente come se fosse stato fermato da un soffio. Il boy dell’Hôtel Napoléon aperse lo sportello. Tito, scendendo, cacciò cinquanta franchi in mano allo chaffeur. Questi rifiutò. “Accettateli; ve li offre un sentimentale; lo so: in man d'amante. Sono un sentimentale. Faccio schifo. Ma accettateli lo stesso.”

Il meccanico li intascò dignitosamente e scivolò via, con uno squillo di tromba canzonatorio. C’erano due lettere per Tito. Una proveniente dall’Italia, l’altra dalla direzione del suo giornale. Lesse prima quest’ultima. Era del direttore: Domattina, alle quattro, in boulevard Arago, sarà ghigliottinato Marius Amphossy, il( martellatore di istitutrici’, della Giamaica. Fatemi un articolo di colore. Due colonne. Da sette anni non avevamo più avuto esecuzioni in Francia. Il nuovo Presidente ha messo in disuso la grazia per i condannati a morte. Conto su di voi. L'articolo dev’essere in tipografia alle sei del mattino. Alle otto usciamo con un’edizione straordinaria. Saluti... Appallottolò la lettera e aprì l’altra: Amico. ho ricevuto la tua cartolina. Come sei buono! Ti ricordi ancora di Maddalena? Ma non sono più Maddalena? Sono Maud. Dopo dieci mesi di riformatorio sono uscita e ho incontrato vari uomini, fra cui un régisseur di caffè-concerto, il quale, avendo compreso che le mie gambe potevano portarmi lontano, mi insegnò la danza e mi fece scritturare dai maggiori va-riétés d'Italia. Fra un mese verrò a Parigi, al ‘Petit Casino’. Mi vedrai volentieri? Maud. Al liftman che lo aveva issato fino al quarto piano, Tito ordinò un decotto di tiglio con qualche goccia napoleonica di fiori d’arancio. Il cameriere che gli recò la bevanda richiesta, dovette bussare tre volte prima d’entrare, perché Tito era a letto, e dormiva.

Quando si svegliò il decotto aveva perso ottanta gradi di calore; le gocce di fiori d’arancio s’erano volatilizzate e l’orologio aveva tutti gli organi irremovibilmente fermi. Campanello. Cameriere. “Che ora è?” “Le quattro del mattino.” “Avete detto?” “Le quattro del mattino, signore.” “Di che giorno?” “Giovedì.” “E a che ora sono tornato a casa?” “Alle sette del mattino.” “Di che giorno?” “Mercoledì.” “E oggi che giorno è?” “Giovedì.” “Che ora?” “Le quattro del mattino.” “Dunque ho dormito...” “Dalle otto di ieri alle quattro di oggi.” “Con un totale di...”

“Venti ore.” “È molto.” “Si son dati dei casi più gravi del vostro, signore. Posso portar via il vassoio? Vedo che il tiglio ha fatto bene al signore.” “Perché?” “Ha dormito.” “Ma non l’ho nemmeno assaggiato.” “Non è necessario. Specialità della casa.” “Sta bene. Portate via quella specialità.” Il vassoio, seguito a un passo di distanza dal cameriere, uscì. “A quest’ora” pensò Tito rileggendo senza scomporsi la lettera del direttore “io dovrei essere in boulevard Arago a veder tagliare la testa al signor Marius Amphossy. Ma è proprio indispensabile che io ci vada? L’articolo bisogna scriverlo, lo ammetto. Ma andarci... Com’era bella la signora armena!... Kalantan... Nome che sembra una campana in lontananza... La campana che suona l’agonia di Marius Amphossy, il martellatore della Giamaica specializzatosi in istitutrici. E se anche ci andassi, che cosa vedrei in questa tremenda oscurità? Eppure è necessario scrivere qualche cosa. L’edizione straordinaria per la decapitazione di... Alle sei il manoscritto dev’essere in tipografia...” Così pensando era sceso dal letto e s’era lasciato piombare con una parte del corpo sulla sedia e l’altra sulla scrivania. Grandi fogli di carta d’un biancore spettrale attendevano i suoi segni. Sembrava un suicida che si preparasse a vergare le ultime volontà. “Non ho mai capito” pensò “perché le condanne a morte le eseguiscano sempre di buon mattino. Disturbare così presto il boia, il prete, il

condannato che dormirebbero tanto volentieri. Non sarebbe più indicata l’ora dell’aperitivo?” E scrisse: L’ESECUZIONE CAPITALE DI MARIUS AMPHOSSY IL MARTELLATORE DI ISTITUTRICI, DELLA GIAMAICA E invece di cominciare la cronaca della triste cerimonia si mise a riflettere: “Che cosa atroce è fare il giornalista in estate, quando i deputati sono in vacanza, le compagnie di prosa vanno in provincia, la Corte d’Assisi è chiusa! Non si sa come riempire il giornale. E allora il direttore vi ordina due colonne su un fatterello di nessuna importanza, come questo. Eppure in Italia sarebbe peggio. Laggiù quando c’è scarsità di materia si secernono lunghi articoli sulla morte di Giovanni Orth, sull’intelligenza delle formiche, sul parto trigemino (specialità calabrese), sulla peste in Manciuria, sugli scherzi del fulmine, sul furto della collana (America del nord): discutono sull’abitabilità di Marte, sull’età della Terra, e sul vero nome di D’Annunzio (D’Annunzio o Rapagnetta?); o descrivono la pesca di un ‘enorme cetaceo’ anche se è un pescecane o un pescesega. Nei giornali si crede che tutti i pesci un po’ grossi siano cetacei. Cretini!” L’orologio segnava le quattro e un quarto. Rilesse il titolo. Ma le idee non germinavano. Erano chiuse, inerti, compresse come in una scatola di prodotti alimentari. Paragone gastronomico: che nausea alle quattro del mattino, dopo venti ore di sonno! Le idee erano chiuse come in una scatola di cocaina, come in quella leggiadra, seducente scatoletta metallica che se ne stava lì, sotto i suoi occhi, vicino al calamaio - oh, satanica complicità della cocaina e dell’inchiostro! - a tentarlo. Egli sapeva che sotto l’azione della cocaina le idee accar-

tocciate si aprono, si spiegano, si distendono come le foglie secche del tè sotto l’acqua bollente. Fiutò. Scrisse. Scrisse una pagina, due pagine, tre pagine ininterrottamente, senza esitare, senza correggere, senza distrarsi. La sua fantasia vedeva la scena spaventevole: vecchie reminiscenze di cronache d’esecuzioni capitali si intrecciavano a ironici e pietosi commenti: la lama sinistra del tremendo ordigno che scintilla nella mattina livida e piovigginosa; i rari passanti che si fermano a osservare il lavoro preparatorio del carnefice e dei suoi aiutanti; il carcere grigio, solenne d’una solennità mortuaria; i soldati della guardia repubblicana che formano il tragico quadrato intorno al patibolo. Quando i sette signori in nero entrarono nella cella, Marius Amphossy dormiva d’un sonno profondo. Fino alla sera prima aveva ancora creduto nella grazia. La vista di quei signori in redingote e cappello a cilindro non gli lasciò più speranza. "Marius Amphossy” declamò uno dei signori in nero "abbiate coraggio! La domanda di grazia è stata respinta. L’ora di espiare le vostre colpe è suonata. Siate forte.” “Sarò forte” rispose con una risata beffarda il cinico condannato. Dietro al Procuratore della Repubblica stavano il direttore delle carceri e l’avvocato difensore. Gli altri signori non sapevano dissimulare l’intensa emozione. L’orologio delle carceri batté, lugubre, le quattro. Il signore che aveva parlato, lesse un decreto. Quando ebbe finito, i due aiutanti del boia presero in mezzo il condannato. Gli altri fecero largo, schierandosi a destra e a sinistra in due ali. Marius Amphossy camminava con passo fermo e sicuro.

Guardò con un sorriso ironico il gruppo di noi giornalisti che osservavamo la tragica scena da un angolo buio del freddo e vasto corridoio, fiancheggiato di celle: dallo spiraglio di ogni uscio due occhi atterriti - altri condannati? o sciagurati che attendono la stessa condanna? - fissavano magnetizzati. Il boia aprì il corteo per il lungo e rettilineo corridoio. Dietro di lui il condannato e i due aiutanti. Poi il difensore, il direttore delle carceri, gli altri funzionari, i giornalisti. Scendiamo alcuni scalini, percorriamo una galleria. Il suono dei nostri passi echeggia in quel sepolcrale silenzio immenso. Entriamo in una sala. Un prete, col crocifisso in mano, e sopra un tavolino bottiglie di champagne e di liquori. Il prete abbracciò il condannato, mentre un carceriere gli versava dello champagne. Il condannato chiese una sigaretta. Gliela diedero accesa. I due aiutanti tagliarono il colletto della camicia e gli tosarono sommariamente la nuca; poi gli afferrarono le braccia e gliele legarono dietro la schiena. Il corteo si muove. A un tratto, nel discendere le scale, Amphossy ebbe un attimo d'incertezza: le gambe gli si indebolirono, e sarebbe caduto se gli aiutanti non fossero stati pronti a tenerlo sotto le ascelle e a sorreggerlo. Il cortile del carcere spalanca sull'orrendo corteo le innumeri pupille dei finestrini. Attraversiamo il cortile.

Fuori della porta, nella mattinata gelida, sta fermo un carrozzone con due cavalli bianchi. È il panie à salade. Pongono una scaletta. Il morituro sale col boia, i due assistenti e l'avvocato. Cento metri più in là l'ordigno spaventoso attende la sua preda. I cavalli trottano leggeri e tranquilli, con un’incosciente indifferenza, come condurrebbero una sposa. Una scossa: il carrozzone si ferma. I due assistenti aprono gli sportelli e calano la scaletta. Il boia salta giù dalla vettura. Marius Amphossy scende atterrito. Il suo avvocato rimane immobile, cristallizzato, come se non riuscisse a svellersi dal suo posto. Gli assistenti avevano preso il disgraziato e lo portavano di peso sotto le ascelle; nel girare intorno alla vettura, egli vide una vasta piazza deserta; intorno scintillavano armi e uniformi; i soldati della guardia repubblicana trassero le sciabole dai foderi. I borghesi si levarono il cappello. Il condannato era pallido, spettrale. La bocca, contorta in uno spasimo folle, sembrava tentar invano di chiedere pietà agli uomini, al giorno nascente, alla vita che egli si vedeva intorno. Ma vedeva ancora qualche cosa quel disgraziato? No, no, i suoi occhi non vedevano più nulla, pur essendo fissi, immobili, verso quella macchina bruna che si ergeva fra il fogliame degli alberi del boulevard: un ordigno alto e snello; tre travi, due diritte e una trasversale. Due gocce di sudore gli colarono lungo le tempie giù per le gote: il mento era tutto imperlato di madore: spalancò la bocca come per urlare, ma la voce non uscì. È giunto ai piedi del patibolo: la sua vita ora si misura a secondi; nella grande piazza non una voce, non il mormorio d’una foglia, non un frullo d’ali; anche la pioggerella fine sembra che cada più silenziosamente, più religiosamente.

Salì senza muovere le gambe: sembrava che la morte lo avesse già ghermito e lo sollevasse, lo elevasse sugli altri uomini, infatti non camminava. I piedi, già morti, strisciavano sul suolo, come quelle scatole di latta che i monelli si tirano dietro con uno spago. Le mani legate sulla schiena si contrassero spasmodicamente; il petto si gonfiò come per scoppiare; il collo s’inturgidì. La mannaia luccicava; un buco rotondo stava lì aperto, pronto ad aprirsi di più per lasciar passare la testa, per poi richiudersi saldamente sul collo. Al di là, il paniere che avrebbe ricevuto, fra qualche secondo, il capo mozzo. Fece uno sforzo spasmodico per indietreggiare davanti alla visione terrificante della macchina. Ma non poté trarsi indietro; allora inarcò il petto, puntando il capo, come per far leva contro chissà quale sostegno: nell’aria vibrava un crudele sbigottimento. Ma gli aiutanti del carnefice, risoluti, gli piegano con violenza il capo e con uno sgambetto lo fanno cadere come un corpo inerte sulla bascule. Il boia gli caccia la testa sotto la lunetta: la lunetta cade, e lo stringe inesorabile come una mano di ferro. È un attimo: un attimo feroce: un attimo che non finisce più. Quell’uomo buttato sulla bascule, con le mani legate sul dorso e la testa immobilizzata sotto quella tanaglia guarda il paniere che gli si apre come un baratro sotto gli occhi esterrefatti. Un colpo secco. Un tonfo. La testa rotola, proiettando nella caduta un fiotto semicircolare di sangue. Giustizia è fatta. Noi, giornalisti, otteniamo d’avvicinarci. Il corpo viene posato in una bara d’abete: la testa ha ancora gli occhi aperti, la lingua spinta in fuori si muove leggermente, facendo uscir dalla bocca una schiuma verdognola. Anche la testa, afferrata per i capelli da un aiutante, è cacciata nella cassa, la quale su un camion fila agli istituti di fisiologia.

La piazza comincia a illuminarsi di sole: la guardia repubblicana s’allontana, mentre il carnefice e gli aiutanti smontano l’apparecchio crudele. All’istituto di fisiologia dove ci siamo recati pochi minuti dopo l’esecuzione, ci assicurarono che il cuore pulsava ancora e che nella retina si notavano non dubbi segni di vita. Oh, leggi umane spietate, oh, studiosi del diritto, forse che... Ma l’articolo di Tito Arnaudi non riempiva due colonne: allora fece lunghi e tolstoiani commenti sul diritto di giudicare, sulla potestà di uccidere; e poiché nemmeno questo bastava ancora, fece precedere il suo racconto da alcune divagazioni sulla ghigliottina. Rammentò le ultime parole di Luigi XVI, obeso e grifagno, che esclamò: Français, je meurs innocent de tout; ricordò Maria Antonietta, incanutita in una notte, che avendo urtato il boia, gli disse gentilmente: Pardon, monsieur! Accennò a Elisabetta, la sorella di Luigi XVI che, essendosi denudate le spalle quando già era rovesciata sotto la lama, supplicò pudicamente di ricoprirla; evocò il vecchio Bailly che batteva i denti sotto la pioggia di novembre: Tu tremi! gli disse qualcuno. "È il freddo” egli rispose. E parlò ancora di Carlotta Corday, rossa di pudore anch'essa per le spalle denudate; Danton (mostrerai la mia testa al popolo: essa ne è degna); Desmoulins che incaricò il boia di portare una ciocca alla madre; Adam Lux, che baciò Carlotta Corday prima di morire; Jourdan Coupe-Tête che salì sul palco con un ramoscello di lilla fra le labbra... Ma non essendoci ancora le due colonne prescritte, rifece la storia dei delitti di Marius Amphossy, il tremendo martellatore d'istitutrici, della Giamaica. Parlò della Giamaica e del suo rhum; spiegò perché il governo non avesse concesso l'estradizione, sebbene il diritto internazionale... Si soffermò sulle lacune del diritto internazionale. Descrisse la figura del carnefice: fece una breve intervista con questo truculento personaggio, il quale dopo tutto è un buon uomo; ma i tempi sono duri, tutto è caro, e bisogna pur vivere... Spiegò il funzionamento della ghigliottina, aggiunse qualche nota di colore sullo stato d'animo del condannato. Narrò come con

un abile stratagemma egli, unico fra i giornalisti parigini, riuscì a introdursi nella cella qualche ora prima dell'esecuzione. “Ma perché uccideste tutte quelle istitutrici?" domandai al martellatore. “Mi erano antipatiche” rispose sorridendo con grande naturalezza. “Se è lecito uccidere l'uomo che ha attentato alla tua vita, o ha goduta tua moglie, o è entrato in casa tua per rubare, perché non dev'essere lecito uccidere l'uomo che ti è antipatico? L'essere antipatico non è la migliore di tutte le ragioni?" Non sembrando poi sufficientemente descritto il contegno dell’infelice di fronte alla mannaia, lo colorì con le supreme parole del condannato: “Sono innocente! Davanti a Dio e agli uomini giuro che io non ho martellato le ventisette istitutrici." Ma questa frase era troppo retorica. Cancellò e scrisse: “Ho ucciso le ventisette istitutrici e sono contento. Se dovessi rinascere ricomincerei." Ma poi capì che davanti a un contegno così cinico del morituro, la folla avrebbe urlato di sdegno. E in questo caso egli avrebbe dovuto rifare alcuni punti del suo racconto. Cancellò di nuovo le parole del condannato e le sostituì con queste altre: “Mamma, mamma, salvami tu.” Ma la testa cadde sotto la mannaia perché la madre era nella Giamaica, e non sentiva: in un bel cimitero della Gia-maica, fiorito di ananas. L'orologio di Tito segnava le sei. Aveva riempito di fitta scrittura trenta cartelle. Non rilesse. Chiuse i fogli in una busta, scrisse sopra: Urgente. In tipografia subito, e premette il campanello.

“Cameriere, fate portare al mio giornale, di corsa: un taxi, se occorre.” E mentre il cameriere usciva, egli balzò sul letto, lasciando cadere sul tappeto prima un sandalo e poi l’altro. Le lenzuola erano ancora tiepide. Sei ore dopo il telefono lo svegliava con un trillo. “Su. Sono io” sbadigliò Tito. “Disgraziato! Sono il vostro direttore.” “Oh, buon giorno, direttore.” “Voi mi rovinate il giornale. L’esecuzione di quel miserabile non è avvenuta.” “Bene, direttore.” “È stato graziato all’ultimo momento.” “Benissimo, direttore.” “Ma come? Il vostro resoconto...” “Basta non pubblicarlo.” “Ma se l’abbiamo messo in prima pagina.” “Si toglie, direttore.” “È da quattro ore che il giornale si vende per Parigi.” “Ah, sì? Che ora è?” “Mezzogiorno.” “Curioso! E che male c’è? È stato graziato dal presidente della Repubblica stamattina alle tre? Ma non ha niente di meglio a fare, alle tre del mattino, il presidente della Repubblica? Del resto noi siamo a posto, egregio signor

direttore, davanti alla nostra coscienza e davanti all’opinione pubblica. Il nostro dovere giornalistico l’abbiamo compiuto fino allo scrupolo, fino al sacrificio; non sarebbe una buona ragione, per lo stupido incidente della grazia presidenziale, che noi dovessimo privare i lettori di un così interessante racconto. L’esecuzione capitale, secondo le moderne scuole del diritto penale, più che il compito di punire, ha quello di dare l’esempio: noi raccontando la cosa come se fosse avvenuta, abbiamo fatto il nostro dovere di giornalisti, coscienti della funzione sociale che ha la stampa quotidiana.” Nessuno rispose dall'altra estremità del filo telefonico. Tito continuò ancora a parlare imperturbabile, senza accorgersi che il direttore del giornale aveva lasciato l’apparecchio. Nella piazza sottostante gli strilloni lanciavano fino alle sue orecchie, situate al quarto piano dell’Hôtel Napoléon, il nome della gazzetta, uscita in edizione straordinaria, con tutti i particolari dell’esecuzione capitale di Marius Amphossy, il martellatore di istitutrici, della Giamaica. La signora Kalantan Ter-Gregorianz aveva un marito proprietario di inesauribili pozzi di petrolio. "Ti presento il dottor Tito Arnaudi.” "Rimarrete a pranzo con noi” disse il marito. Il marito, nonostante il petrolio delle sue miniere, era calvo; ma sebbene fosse ricco, era giovane. Non amava affatto Parigi e amava poco la moglie; ma tanto l'una quanto l’altra gli piacevano a intermittenze; ogni due o tre mesi interrompeva le sue peregrinazioni fra città straniere e donne diverse, per soffermarsi sui vizi di Parigi e su quelli della consorte. Ma la bella signora armena non poteva piacergli in modo costante, perché troppo snella, troppo nervosa. A lui piacevano solamente le donne grasse. Più erano grasse e più lo attraevano. In amore obbediva alla famosa legge fisica: l'attrazione è proporzionale alla massa.

La moglie lo attraeva come refrigerio. "Domani mia moglie e io partiamo per Deauville. Amate il mare? Fissiamo anche un piccolo appartamento per voi.” Tito accettò. Il giorno seguente, non avendo ottenuto dal direttore un mese di licenza, se lo prendeva, e partiva, con i coniugi Ter-Gregorianz, per la fashionable città di mare. I due uomini andavano perfettamente d’accordo nel dir male dei Turchi (Tito se ne infischiava) e nell elogiare il regime vegetariano (se ne infischiava l’armeno). Giocavano al bridge e a carambola, facevano lunghe corse in automobile lungo il mare, ascoltando la voce delle onde, che discorrono in esametri e pentametri, mentre Tito, talvolta più sentimentale d’un Pierrot, diceva, con Verlaine, che la mer est plus belle que les cathédrales; passavano la notte al baccarà e nuotavano. Nuotava Tito. Il consorte, no. Ma Tito lo mise in grado, se non di partecipare alla traversata della Manica, per lo meno di salvarsi in un naufragio. Ciò che non riusciva a insegnargli, probabilmente per la snellezza eccessiva del discepolo, era a fare il morto. Tito lo reggeva sulle sue braccia, ordinandogli di affondare il cocuzzolo a quattro dita sotto il livello dell’acqua, e di rimanere rigido con le braccia aperte. Gli enunciava il principio di Archimede, secondo il quale un corpo immerso in un liquido... Ma appena Tito lo abbandonava, l’armeno si sommergeva del tutto. “Come vanno le lezioni?” sorrideva la signora Kalantan ogni mattina, quando essi rientravano in pijama di spugna all'hôtel. “Nuoto già sott’acqua, faccio dodici metri il minuto, ma quanto a fare il morto, non ci riesco.”

Un giorno il signor Ter-Gregorianz volle nuotar da solo, in un’insenatura tranquilla. Ma un’ondata infida lo travolse, lo inghiottì. Provò a gridare, ma l’acqua gli entrò in bocca: si videro uscir dall’acqua due piedi invocanti aiuto e poi più nulla. “Ebbene?” domandò la signora venendo, con le mani mascolinamente in tasca, incontro a Tito che rientrava solo all'hôtel. “Mio marito ha imparato a fare il morto?” Tito rispose: “Sì.” Lo seppellirono a Parigi, nel cimitero armeno gregoriano. All’accompagnamento furono ammirati tutti gli amanti passati della moglie: e anche gli amanti futuri. Fra questi spiccava, in prima fila, Tito. In che modo Tito sia divenuto l’amante della signora armena il lettore può trovarlo ampiamente narrato in qualunque altro romanzo: raccomando in particolar modo quelli che proiettano per ordine tutte le fasi dell’innamoramento, e finiscono con irreprensibile pudicizia nell’istante preciso in cui lui e lei, dopo essersi fatti trecento pagine sterilizzate di smorfie inconcludenti, si danno il primo bacio veramente sostenuto. Io credo che sia invece questo il punto in cui il romanzo anziché finire, deve cominciare. E poiché noi siamo giunti a pagina 981 e la protagonista (che non è l’armena, bensì l’italiana) non è ancora apparsa, facciamola entrare una buona volta. 1

Il numero di pagina 98 si riferisce alla prima edizione del 1921.

6

Maud, danzatrice in marsina, arrivò a Parigi con un piccolo cane rosso e otto bauli. Indossava un tailleur grigio chiaro, dai polsi guarniti di pelo di scimmia, fluente e molle come la barba di Leonardo da Vinci. Maud, danzatrice in marsina, scese all'Hôtel Na-poléon, perché Tito non solo si era recato ad attenderla alla stazione, ma le aveva anche fissato due camere, un salotto e un gabinetto da bagno al suo albergo. Certi cani impagliati imitano perfettamente il cane vivo. Il cane di Maud imitava perfettamente il cane impagliato: ad accarezzarlo c’era da temere di piantarsi un pelo in un dito: gli occhi nascosti sotto una frangia rivelavano darvinistica-mente l’inutilità del guardare causata dall’abitudine di essere tirato da un’altra volontà e da un guinzaglio. Era piccolo, quasi tascabile, graziosamente stupido; in seguito a un attento esame si poteva anche stabilire da che parte fosse la testa e da che parte fosse la coda: personificava la beauté de la laideur. “Come si chiama?” domandò Tito “il tuo cane?” Maud atteggiò le labbra violentemente rosse a piccolo cerchio con un piccolo buco (sembrava una mezza ciliegia senz’osso), e fece uscire un fischio sostenuto, corrispondente pressapoco a un sol. “Si chiama così.” “Bel nome!” S’era portata dall’Italia anche una cameriera, pratica di abiti, di pettinature e di uomini in visita, che rispondeva, quando ne aveva voglia, al nome di Pierina.

Pierina, non essendo mai stata a Parigi, si meravigliò di tutto ciò che vedeva. La sua padrona, Maud, arrivava lei pure per la prima volta a Parigi; ma non si meravigliò di nulla... Tito vide subito in quella donna l’embrione dell’avventuriera internazionale, transoceanica, acclimatabile alle pelli maschili di tutte le razze. Che nella danzatrice Maud non si riconoscesse più la Maddalena di due anni prima, onesta frequentatrice di una corrotta scuola di stenodattilografia; che nella creatura elegante ed elettromagnetica non si riconoscesse più la buona fanciulla borghese abitante a un quarto piano con balcone verso il cortile, è così intuitivo che non mi pare il caso di dirlo. Tutte le grandi attrici, danzatrici, cortigiane scendono da un quarto piano e se si sbinoccolasse nel loro passato, si troverebbero delle gioconde insalate per la nutrizione fisica, i romanzi di Ponson du Terrail per la nutrizione spirituale, e un semicupio di zinco per detergere il corpo fidiaco o canovico, predestinato ad amori principeschi e a libidini imperiali. Come in ogni sguattero di birreria c’è un possibile proprietario di Grand-Hotel, così in ogni ragazza di quarto piano, che educa la salvia e rinnova l’acqua ai canarini, esiste, allo stato potenziale, una bella Otero o una Cléo de Mérode. Tito ebbe la delicatezza di non chiederle notizie dei suoi genitori. Ricordava la madre integerrima, che, squadrandola dall’alto delle sue intrepide mammelle, le faceva corsi accelerati di morale; ricordava il padre integerrimo, che contava ancora a scudi e (quando li aveva) a marenghi, e brandiva nell’aria il centenario orologio a retrocarica, come se tirasse di scherma, ogni volta che la figlia rientrava in casa con qualche minuto di ritardo. Ricordava la casa, povera sì ma onesta, ricca però di quegli oggetti ornamentali che le lotterie di beneficenza, fognature del cattivo gusto, fanno circolare di casa in casa, fin che trovano una casa come quella di Maddalena e ci rimangono. Ma il giorno che Maddalena diventa Maud, passano a una nuova lotteria di beneficenza.

Non poterono quindi, Tito e Maud, abbandonarsi a quel-l'onanismo mnemonico che è il rievocare e il commuoversi rievocando. Maud era, per Tito, nient’altro che una creatura in cui notava qualche punto di contatto con una fanciulla quasi brutta, quasi sciocca, incontrata due anni prima su un balcone. Oggi quella donna usava guanti di canguro e parole difficili come idiosincrasia, euritmia e tetragono, e diceva cattiveria con l'accento sull'i e separa con l’accento sull'e, come insegnano i pedanti e i vocabolari. Maud rideva di Maddalena come di una sua amica lontana. Il suo passato confessabile cominciava, ormai, dal primo giorno che..., insomma dalla prima volta che... “Accadde così” spiegò a Tito mentre la cameriera, di là, disfaceva le valigie. “Accadde così” e intanto guardava la colonna Vendôme sormontata da Napoleone in bronzo, mentre Tito, appoggiato alla finestra, volgeva le spalle alla piazza. “Accadde che un giorno d’estate io ero sola in casa; la mamma affittava una camera a un impiegato di banca; faceva caldo: io avevo dei desideri che mi davano una specie di ebullizione al sangue, una specie di evaporazione a tutta la pelle. Eravamo in casa noi soli: la mamma poteva entrare, avendo la chiave: quel giovine cominciò a baciarmi, poi mi spinse con le spalle contro la porta, e mi prese in piedi, così, senza strepiti, come si trafigge una farfalla stupefatta dal sole.” “Ma quell’uomo ti piaceva? Lo amavi?” “No” rispose Maud, fissando la colonna Vendôme che vibrava in liquide trasparenze di porfido nel sole. “No. In quel momento desideravo. Quell’uomo non sapevo nemmeno chi fosse: non mi piaceva: ma era un uomo: desideravo; ed egli aveva l’occorrente per soddisfarmi. Quando si seppe la cosa, successero delle tragedie. Non ho mai capito perché. Perché in quel momento - agosto, figùrati! - io avevo desiderato un uomo, ho poi dovuto sopportare gli strilli di mia madre, gli insulti di mio padre, la maledizione di tutti e due.” “E quell’uomo?”

“Mai più visto. Prima di concedermi a lui, mi ero rifiutata a due o tre uomini che mi amavano.” “Fate sempre così. Vi rifiutate agli uomini che vi amano, per darvi un giorno a un uomo che non vi merita.” “Meritare? E che c’entra? Io non mi sono data, noi donne non ci diamo mai in premio, non ci diamo mai per compensare chissà quali meriti. Ci diamo perché abbiamo bisogno di darci...” “Signorina!” era la voce della cameriera che la chiamava dall’altra stanza. “Nel baule grande, c’è la...” “Permetti?” disse Maud staccandosi da Tito. Questi, rimasto solo, s’appoggiò al davanzale, col viso fra i gomiti e le dita intrecciate sulla nuca, osservando e seguendo, senza muovere la faccia, le automobili che entravano nella grande piazza grigia per Rue de la Paix e ne uscivano per Rue Castiglione facendo sull’asfalto il rumore delle forbici che tagliano la seta. E pensava: “Che donna intelligente! Con quale disinvoltura, con quale purezza ha raccontato come accadde la prima volta! Faceva caldo, c’era un uomo a mia disposizione, ero eccitata, desideravo, mi sono concessa senza gridare, senza fingere... “Le altre donne ti dicono: ho trovato un vigliacco: io ero una bambina, non sapevo nulla, non capivo nulla: ha abusato di me... “Oppure: mi fece bere non so che cosa. Mi addormentai. Quando mi svegliai da un sonno profondo... “Oppure: mia madre era morente: non avevamo i denari per le medicine, per il medico, per la cassa da morto: e allora mi sono concessa a un uomo ricco...

“E aggiungono: ah, se sapessi, che senso di nausea, di odio per quell’uomo, e di rivolta contro me stessa!... “Invece questa deliziosissima Maud parla della prima volta come rammenterebbe la prima comunione, se meritasse discorrerne. Non dà alcuna importanza a quell’episodio fisico, a quell’incidente epidermico, a quell’innocuo, semplice, silenzioso avvenimento intorno al quale hanno strillato in tutti i tempi i poeti, i moralisti, i giudici; quel fatterello nervoso che, in nome del buon costume, ha provocato feroci ingiustizie e imbecilli marmellate filosofiche: quel naturalissimo avvicinamento di due corpi, che sembra tanto differente secondo che avviene prima o dopo della scarrozzata al Municipio; che è considerato onesto se è compiuto in un letto e turpe se è compiuto in un altro. “Maud narra con bella semplicità quella che chiamano colpa. E con la semplicità del suo racconto, esce candida e pura dal pantano della morale putrefatta. “L’erronea valutazione di quel gesto - il contatto di due corpi - non ha servito ad altro che a generare dei delitti. Il giorno che il concedersi di una fanciulla non sarà più considerato vergognoso, quel giorno l’aborto e l’infanticidio non esisteranno più, perché il figlio cesserà d’essere il frutto della colpa: quel giorno non ci sarà più bisogno di nasconderlo. “Gli ebrei lapidavano la fanciulla che si era concessa prima del matrimonio. Il popolo stesso la uccideva. Forse fra coloro che le scagliavano i sassi c’era anche l’individuo che l’aveva sedotta. Oggi la si obbliga ad abortire. Se si viene a sapere che ha abortito la si condanna. Se non abortisce deve uccidere il neonato. Se non lo uccide, vengono espulsi di casa lei e suo figlio. “Io vorrei che in ogni caso di procurato aborto o di infanticidio non si punisse la ragazza che ha abortito o ucciso, ma si tagliasse la testa a suo padre, a sua madre, ai suoi fratelli maggiori, ai suoi vicini di casa e a tutti coloro che con i pettegolezzi, gli apprezzamenti, i pregiudizi, l’educazione le hanno fatto credere che il rimanere incinta senza darne il preavviso al sindaco sia un delitto. Avremmo finalmente la soddisfazione di vedere per

la strada le ragazze-madri riverite come gli arcivescovi e i re. E sarebbe più che giusto. La fanciulla che mette al mondo un figlio è l’unica madre ammirevole. Essa è la Volontaria della Maternità. Il merito delle altre, delle sposate, dov’è? Sanno che il fabbricare un figlio, o il promettere di fabbricarlo, crea loro una posizione: la famiglia. Sanno che qualcuno le assisterà dai primi vomiti, fino a quaranta giorni dopo che tutti gli ingredienti saranno tornati al loro posto. Sanno che una levatrice, un chirurgo, la madre, la suocera, il marito, la balia si prodigheranno per addolcire la fatica del parto, del puerperio e dell’allattamento: sanno che il ‘lieto evento’ sarà festeggiato come una beatificazione. “Invece la ragazza che resta incinta non può contare su nulla di tutto questo. Anzi! Il maschio le volgerà le spalle, i suoi genitori la copriranno di disprezzo e di ingiurie; dovrà, da sola, provvedere alla creatura; sa che il figlio un giorno si rivolterà contro di lei, rimproverandola d’averne fatto un bastardo. “E tuttavia ella affronta tutto questo, per il suo amore, per il suo nobilissimo istinto! Questa, solamente questa è la vera madre! Le altre sono le bottegaie della maternità. Le altre non hanno alcun merito, se le confrontiamo con queste. Le altre fanno il figlio, con tutte le garanzie! Sono come chi scendesse con baldanza sul terreno, sapendo che l’avversa-rio sparerà con proiettili di carta masticata.” Erano le cinque. La piazza si andava affollando gradata-mente. È questa l'ora più bella di Parigi: de cinq à sept. Dicono che i parigini sono animali notturni. Io direi crepuscolari. “Scusami” disse Maud ritornando e posandogli un braccio nudo intorno al collo. “Quella Pierina prepara miracolosamente i bauli ma non sa vuotarli. Io invece...” “Non sai né vuotarli né riempirli. E poi? Quando hai lasciato casa tua?” “Ma ciò t'interessa? Ho conosciuto due o tre uomini che furono molto gentili con me: un magistrato che non poteva soffrire i preti; un prete che

diceva male della magistratura; un proprietario di camere ammobiliate a ore, che diceva bene tanto dei preti quanto dei magistrati, perché gli uni e gli altri erano i suoi migliori clienti. Poi mi sono messa a danzare: ho viaggiato per l’Italia. A Napoli ho conosciuto un americano, nipote del proprietario del teatro Metropolitan di New York.” “Io avrò già incontrato nella mia vita venticinque americani d’ambo i sessi che si dicono nipoti del proprietario del Metropolitan. I fratelli e le sorelle di quell’uomo debbono essere d’una fecondità catastrofica. In America fabbricano in serie anche i figli.” “Ma quello era veramente il nipote di...” “Lo credo, lo credo. È una specialità degli americani all’estero quella d’avere uno zio proprietario di teatro. I russi che s’incontrano fuori della Russia si dicono amici di Massimo Gorki. Gli spagnuoli, danno del tu ai fratelli Quintero; i norvegesi sono stati tenuti al fonte battesimale da Ibsen...” Un cameriere e un facchino entrarono ossequiosamente (i camerieri d’albergo sono i nostri ossequiosi nemici) per smontare il letto e portarne via la lettiera. “Mi bastano il pagliericcio e due materassa;” spiegò Maud all’amico “vi stendo sopra tappeti e scialli turchi e una pelliccia di chinchilla che mi son portata dall’Italia.” “Vieni a pranzo con me?” domandò Tito intascando l’orologio. “Grazie, ma sono stanca. Mi farò portare qualcosa in camera. Se tu vuoi andare, vai pure. Quando ci vediamo?” “Domani.” “E non stasera?” “Rientrerò tardi.” “A domani, allora.” “Dovrai vedere i tuoi impresari. Le rappresentazioni quando cominciano?”

“Tra tre giorni.” “Nelle ore di libertà ti chaperonnerò per Parigi...” Maud, nel tendergli la mano, abbandonò il capo all’indie-tro, e Tito la baciò sulla fontanella della gola. Poi passò nella sua stanza. Mentre era in piedi dinanzi all’armadio a specchio, indeciso fra un abito nero e un abito grigio, gli portarono un dispaccio pneumatico. Allora, fra i due abiti, si decise per lo smoking, poiché il dispaccio pneumatico lo chiamava a casa di Kalantan, la bella armena che si sentiva troppo triste e troppo sola. L’automobile della signora attendeva, come al solito, alla porta dell'hôtel. Tito salì. Fece fermare poco dopo, davanti a una fioraia di Rue de Rivoli che gli puntò allo smoking una gardenia, e risalì in automobile. La gardenia custodiva, fra i delicatissimi petali intangibili, il languido profumo della Còte d’Azur. Fluivano per l’aria onde continue che non registrano gli apparecchi dei laboratori di fìsica, ma che son raccolte dai nostri nervi quando si passa, sull'imbrunire, fra le ombre dei Campi Elisi: onde di amore e di adulterio. Qua e là coppie di amanti che ritornano. Di dove? Forse dai caffè, forse dai tea rooms, forse dalle gallerie d'arte del Grand Palais, forse dalle rive della Senna. Ma c'è nella loro andatura, nella loro faccia, nell'atmosfera che li avvolge un che di languidamente estenuato. Coppie d'amanti... Amanti. Amanti. La più bella parola che esista nel mondo. Amanti.

L'automobile diresse la sua corsa sulle impronte rettilinee segnate sull’asfalto umidiccio da migliaia d'altre automobili. Laggiù, in fondo, l'arco di Trionfo si frastagliava bianco nella notte. Le lampade ad arco sfriggolavano d'azzurro. Infilò il giardino. Le foglie sgocciolanti accarezzarono la vettura lasciando delle stille sulla vernice della macchina, lucida come lacca giapponese. Un servo andò ad annunziare a Kalantan che era arrivato il signore. Quando un uomo non è più, per i domestici, il signor Ar-naudi, ma il signore, semplicemente, vuol dire che è in forma ufficiale riconosciuto l'unico, o per lo meno il principale amante della padrona. “Puoi ritirarti, Csaky'' disse la bella armena entrando, prima ancora di porgere le mani all'ospite. Csaky si mise sull'attenti e uscì maestosamente, con grande scintillio e scricchiolio di gambali. Kalantan si gettò fra le braccia dell'amante, premendosi tutta, languida, sul suo petto. Egli prima di parlare la strinse con le sue mani, in una carezza trepidante, scorrente lungo i lombi, le reni, le spalle, le vertebre. Il corpo della donna si inarcò all’indietro come un serpe tormentato. Sopra la pelle non aveva altro che un peplo greco chiuso su una spalla da un cammeo verde, in cui concorrevano molli pieghe: le gambe nude, le braccia nude, i piedi in leggieri sandali di raphia, i capelli sciolti dietro le spalle e legati da un nastro semplicemente, graziosamente, modestamente come quelli d’una bimba che ha bisogno di correre. In fondo al peplo, intorno alla balza, a guisa di bordo, girava una greca a larghi punti di lana, tinta con estratti vegetali e cocciniglia. Avvelenata finora di morbosità e di artificio, ella oggi sentiva, nell'amore puro, il bisogno di risalire alla remota semplicità mitologica d’una veste

ellenica. Gliel’aveva tagliata quel Raymond Duncan, metà mercante e metà sognatore, nel quale i vent’anni di soggiorno a Parigi non hanno ancora mutato l'accento americano. È il fratello di Isadora Duncan, la grande danzatrice classica che ogni tanto va sulla tomba dei propri figli, abbigliata di veli e di collane, a versare le sue lacrime di madre, e ad elevare a Dio le preghiere e le gambe. Raymond Duncan ha fondato nel Quartier Latino, presso la chiesa di SaintGermain-des-Prés, un monastero dalla regola strana e dagli strani offici. Egli e i suoi seguaci portano i capelli lunghi, la clamide, i sandali, e in quell'abbigliamento affrontano, ora indrappellati e ora da soli, i commenti ironici dei boulevards, dove li chiamano, con un'ombra d'irriverenza, les hommes nature. È la divisa, essi dicono, che si deve indossare per compiere il lungo viaggio alla ricerca dell'ideale. Il monastero non nasconde cerimonie segrete, ma apre su Rue Jacob grandi invetriate, attraverso le quali si vedono fanciulle sane e fiorenti, distendere tappeti e dipanare, sulle braccia nude fino alle ascelle, bionde matasse di lana. Dai telai che rammentano la frettolosa impazienza della pialla, scendono stoffe dipinte, tele grezze, lane brune come i vestimenti dei pastori. Lungo gli stipiti reggenti un architettura alla maniera greca primitiva, pendono grappoli di gomitoli di lana, che sembrano frutti giganti maturati per festeggiare Vertunno, Proserpina e Pomona. Dense trecce di lana gialla, intrecciate come capigliature di lontanissime mitologie, scendono lungo il telaio, sul quale una fanciulla, gettando la spola, fa guizzare i muscoli delle braccia e delle gambe ignude. Un’Andromaca “sembra” in déshabillé. In quel monastero senza croci, senza idoli e senza altari, la signora Kalantan Ter-Gregorianz aveva trovato ciò che non avevano saputo offrirle i grandi sarti di Rue de la Paix: cioè una veste lenta e semplice, in armonia con quell’amore puro e primitivo, che, dopo tanti anni di ambiguità eccitanti e

di complicazioni morbose, di ipnosi chimiche e di esaltazioni fittizie, era riuscita finalmente a trovare fra le braccia di Tito, il giovine italiano, dalla faccia pallida e dagli occhi inumiditi d’azzurro. Fino a poche settimane innanzi, Kalantan aveva avuto amanti strani che stranamente intendevano l’amore. Si era concessa durante le ebbrezze della morfina e della musica; era giaciuta, fra l’amore e la morte, sotto uomini violenti, in una bara; aveva cercato le complicazioni più folli e le più tremende esaltazioni cerebrali. Sono 5682 anni (calendario ebraico) che la donna si fa prendere nel modo solito e tradizionale. Kalantan TerGregorianz studiava disperatamente qualche forma nuova. Ma più correva verso il piacere artificioso e stravagante, e più sentiva d’allontanarsi dalla voluttà. Finalmente Tito, Tito che ella aveva conosciuto in una notte di orgia, durante una di quelle messe bianche che l’avevano resa celebre in tutta Parigi, finalmente Tito aveva portato la sua giovinezza semplice, come si offre, con le due palme nude, un magnifico frutto. Tito, il giovine cocainomane, al quale la cocaina dava una eccezionale giocondità. “Sei ancora in tempo !” gli diceva Kalantan. “Io conosco quella polvere spaventosa, micidiale. Non sei ancora giunto alla fase delle tremende depressioni, della malinconia indi-struggibile. Tu ora sorridi, quando hai quella polvere nel sangue. Sei al primo stadio in cui si ridiventa fanciulli.” Gli parlava come a un bimbo; e avevano la stessa età. La cocaina compie il crudele prodigio di deformare il Tempo. Csaky, il maggiordomo, aveva apparecchiato un leggiero tavolinetto rotondo di diametro così breve, che le bocche dei due commensali potevano, dal di sopra, agevolmente congiungersi. “Csaky!” disse semplicemente la signora.

E Csaky portò in tavola un piatto d’argento con grandi losanghe di un pesce roseo, alternate a dischi d’ananas color acquamarina. In una caraffa semplice come quella dell’acqua viveva, respirava lo champagne. Portare in tavola lo champagne nella sua bottiglia, con la sua etichetta, è come offrire un dono lasciando appiccicato il prezzo di vendita. Un gatto siamese venne a strofinarsi voluttuosamente contro le gambe di Tito. Kalantan allungò il braccio nudo di sopra la tavola, e con lievissime dita accarezzò i capelli dell’amante, scendendo lungo una guancia pallida. La carezza era così soave che pareva quella d’un fantasma. E Tito più che un soave godimento ne ebbe un soave brivido. Da quando l’armena si era innamorata di Tito non aveva più voluto vedere nessuno degli antichi amici. Il lutto al marito era un ottimo pretesto all’isolamento volontario. Non più le orge in cui aliavano la follia dei veleni e la musica di Strawinsky e gli smalti delle farfalle del Rio delle Amazzoni. Ora amava l’amore puro come una mano senza anelli, semplice come una chioma disciolta. Si offriva a Tito senza profumi e senza cipria, come usciva dal bagno: nella sua offerta non v’era che un profumo di carne un po’ selvaggia, non più occidentale e non ancora asiatica. Nell’epidermide serbava un vago sentore di sale, come se fosse imbevuta dell’aria che soffia lungo le miniere di salgemma del suo remoto paese. Kalantan! Nome lento e cupo e vasto come il vento che anima le gole del Caucaso. Kalantan! Contro le sue ginocchia egli sentiva il tepore nudo delle ginocchia di Kalantan. Il giovane allungò, di sotto il tavolino una mano, e accarezzò una

cosa rotonda, liscia, morbida, tiepidamente fresca come il muso di un bimbo. Il maggiordomo tornò varie volte. Dopo il caffè caffeiniz-zato e i liquori, non tornò più. A una parete della piccola stanza, smaltata come una cabina di transatlantico, era addossato un parallelepipedo basso, largo, profondo, fatto di tre o quattro materassa sovrapposte, celate da un grande tappeto. Era la takhta, quella specie di altare della pigrizia femminile asiatica, su cui le donne orientali passano il loro inutile tempo a gambe incrociate, sgranocchiando dolciumi e rievocando decrepite leggende. “E hanno ragione!” disse Tito raggiungendo Kalantan che vi si era accoccolata fra due cuscini. “A che vale agitarsi? Noi siamo come quei bimbi che trascinano faticosamente un carrello su per una salita, per provare poi l’insulso refrigerio della discesa. Tu dici, Kalantan, che io sono allo stadio giocondo dell’avvelenamento. Tu credi ch’io rida. Ma l’ho già superato quel punto. Io sono sempre triste. Nell’azzurro del sogno non credo più. C’è una malattia, l'acianoble-psia, per cui non si vede un certo colore: il turchino. Io sono malato di una specie di acianoblepsia spirituale. Non vedo più il turchino nella vita! Picccola mia, il gran danno della cocaina non si riduce, come credono gli igienisti, a indebolire i polmoni, a turbare il cuore. Il danno principale è di natura puramente psichica. La cocaina sdoppia la personalità: fa una tremenda opera disgregatrice, elettrolitica quasi, della coscienza. In ogni uomo intelligente io credo che vivano due uomini di idee opposte, di gusti antitetici; e credo che sia artista l’uomo nel quale questi due individui sono cosi nettamente distinti che l’uno può fare la critica dell’altro, e suggerirgli rimedi e coltivarne i vizi, se sono belli, e coltivarne le virtù, se non sono noiose. Per opera della cocaina, lo sdoppiamento della personalità avviene come un’esplosione di repugnanze; i due individui che sono entro di me si criticano, si corrodono in modo che ne risulta l’odio di me contro me stesso. E allora si comincia a vedere l’inutilità del tutto: io sento il mio cuore che batte: a che scopo? Per spingere il sangue ai polmoni: a che scopo? Per caricarlo di ossigeno: a che scopo? Affinché con l’ossigeno vada a bruciare i tessuti, per ritornare ai polmoni a liberarsi dei materiali di combustione. E poi? E poi continua così,

anche quando io dormo, anche quando io cammino, anche quando io sono fra le tue braccia, anche quando il mio pensiero è assente. Dimmi, dimmi tu, Kalantan, a che scopo il mio cuore batte? Sapessi quante volte io sono tentato di mandargli un piccolo messaggero di piombo, a dirgli: Fermati subito: dovrai fermarti un giorno, da te, naturalmente: non darti la pena di battere fino allora.” “Fanciullo!” disse Kalantan. E invece di opporre quelle solite parole che dicono le donne per consolarci, invece d'aprire la cassetta dei soccorsi d’urgenza del buon senso, per applicargli sulla fronte gli impacchi della tenerezza verbale, invece di dimostrargli che aveva torto, lo confortò col più dolce cordiale, runico che ci solleva veramente, che distrugge le funebri costruzioni della fantasia. Non usò altra parola che questa: “Fanciullo!” Ma nel sussurrarla a denti chiusi, lo ghermì alle guance, si lasciò cadere all'indietro sui cuscini, e facendolo ripiegare con la faccia sul suo bianchissimo petto, gli suggellò la bocca amara con un seno.

7

L’articolo di Tito Arnaudi sull’esecuzione capitale non avvenuta ebbe un successo sensazionale. Il giornale fu esaurito in poche ore: i rivenditori della provincia telegrafarono per avere spedizioni supplementari; dell’edizione straordinaria si fecero tre tirature. Tutti gli altri quotidiani parigini, i quali avevano dato la notizia della grazia presidenziale, furono enfoncés, mentre l'Attimo fuggente si fece in poche ore la fama del giornale meglio informato della Francia. Una feroce polemica si accese fra l'Attimo fuggente e il T. S. F. il quale ultimo sosteneva che le istituzioni della Repubblica dovevano essere conservate in piena luce: e protestava con tutta la sua voce contro la falsa notizia della grazia presidenziale comunicata dal Ministero ai quotidiani, affinché questi non potessero mandare sul posto i reporters. Proclamava, in altre parole, che le esecuzioni capitali debbono essere conosciute e viste a occhio nudo da tutti i cittadini, e non nascoste sotto false notizie di commutazione di pena. Altri giornali, per scusare il proprio servizio d’informazione che quel giorno si era mostrato insufficiente, sostennero che essi erano informati dell’avvenuta esecuzione, ma che per un senso di umanità, e per il nobile fine di elevare gli animi, non avevano fatto il resoconto della tremenda cerimonia. E quando, due giorni dopo, il Ministro Guardasigilli comunicò ai giornali che Marius Amphossy era stato veramente graziato, più nessuno ci volle credere, perché la descrizione dell'Attimo fuggente era stata ricca di quei particolari, che non si possono tradurre se non sono presi dalla realtà. Al racconto di Tito Arnaudi per poco non credette persino il boia. * Siete un così meraviglioso mistificatore” disse il direttore dell'Attimo fuggente a Tito "che vi voglio togliere dalla cronaca per affidarvi la politica interna. Più tardi passerete alla politica estera. Però, dovete farmi un favore.”

"Volentieri.” "Il nostro corrispondente da Bordeaux è morto, e prima che ne abbiamo trovato un altro, è necessario che lo sostituiate voi per due o tre giorni.” "Ma io non sono mai stato a Bordeaux.” "Non importa: al mattino voi date un’occhiata ai quotidiani locali e ci telefonate le notizie che credete possano interessare il nostro giornale.” Il giorno dopo, Tito Arnaudi era a Bordeaux, irritatissimo di aver dovuto lasciare a Parigi le sue due amanti: l’armena dai molteplici vizi e Maud, la danzatrice in marsina. Per prima cosa comperò tre o quattro giornali, andò al telefono e chiese la comunicazione con Parigi: l'Attimo fuggente. "Un’intera famiglia avvelenata dai funghi” lesse in terza pagina: e, con la bocca all’apparecchio, gli occhi sul giornale e il cervello rivolto all’armena e a Maud, le sue due amanti impareggiabili, cominciò a dettare, allo stenografo, che alla distanza di ottocento chilometri scriveva docilmente, pe-destremente. Era tutta una storia raccapricciante d’una modesta famiglia borghese, che per festeggiare le nozze d’oro dei nonni, si era radunata intorno a un superbo fritto di funghi raccolti da persone inesperte, e che a un tratto era stata colta da crudeli dolori; e quando già i nonni, i figli, i nipoti ni, la balia di uno dei nipotini stavano per rendere la bell’anima a Dio... Ma la notizia finiva con l’elogio di certi prodotti sott’olio (garantiti all’esame di tecnici), d’una nota fabbrica di Bordeaux. La storia dell’avvelenamento non era che un abile annunzio réclame. Tito restò interdetto. Aveva telefonato al suo giornale un annunzio di pubblicità, scambiandolo con un fatto di cronaca.

“Ebbene?” incalzò lo stenografo parigino dall’altra estremità del filo. “Che cosa è successo? Perché vi siete interrotto?” La dignità di Tito non gli consentiva di confessare l’abbaglio. E allora telefonò: “Nonostante le sollecite cure dei medici, nessuno poté essere salvato.” “Quanti morti dunque?” riepilogò lo stenografo. E Tito, deciso: “Ventuno.” Nell’edizione del pomeriggio VAttimo fuggente dava con un titolo su tre colonne, una notizia che nessun altro giornale poteva vantarsi d’avere. “Nozze d’oro tragiche a Bordeaux. Ventun morti per funghi velenosi. Le indagini dell’autorità. Suicidio collettivo o delitto?” Tito Arnaudi si sarebbe trovato assai bene a Bordeaux, se il ricordo e il desiderio delle due donne non gli avessero dato una implacabile agitazione. Bordeaux è una città che - a sentire i bordolesi - non ha niente da invidiare alla Capitale: persino le signore eleganti vi parlano l'argot parigino: a Bordeaux il famoso vino di Bordeaux è tenuto in poco conto, e nessuno fa uso della mostarda bordolese di fama mondiale, ma l’Oceano Atlantico manda il suo profumo d’infinito, e le carnose ostriche di Arcachon. Non gli mandava però Maud, e non gli mandava Kalan-tan, la vedova armena dai molti vizi e dai molti pozzi di petrolio. Il servizio giornalistico da Bordeaux è faticoso non per l’eccesso di materia, ma per la scarsità. Mai un fatto importante. Mai uno scandalo. Non un bel delitto. Non un uomo illustre che crepi! Il direttore gli aveva telegrafato: “Vostro servizio insufficiente. Comunicate notizie sensazionali”.

“Ma se di sensazionale non accade nulla!” si dibatteva a denti stretti il povero Tito con la bocca all’apparecchio, voltando e rivoltando i giornali scoloriti e aridi per cercarvi qualcosa. “Il direttore” comunicò lo stenografo “vi prega, per mezzo mio, di trasmettere molte notizie: notizie del massimo interesse.” “Ah sì?” urlò Tito. “Allora scrivete: ‘Un grande fabbricante di salsicce della Francia meridionale, di cui non possiamo ancora dare il nome, avendo saputo che dagli illeciti amori di sua moglie con un pastore valdese erano nati due figli adulterini, uccise moglie e figli, e per nascondere il delitto li tritò minutamente, di notte, nella fabbrica solitaria, e ne riempì centinaia di salsicce che diffuse per tutta la Francia. Domani saremo in grado di fornire più ampî particolari.” Ma il domani in tutta la Francia il prezzo delle carni lavorate diminuì rovinosamente. Più nessuno mangiò salsicce: i pizzicagnoli non ritirarono più le salsicce in arrivo, e sospesero le ordinazioni e i pagamenti. Un fabbricante di Tolosa, che per la sua incorreggibile onestà faceva magri affari, da quel giorno non vendè più nulla e vedendosi alla vigilia del fallimento, si suicidò con un colpo di rivoltella al cuore. Il maggior azionista dell'Attimo fuggente, grande esporta tore di carni lavorate, radunò il consiglio d'amministrazione del giornale, imponendo che il direttore fosse destituito. Tutti i consumatori di salsicce vollero conoscere la marca di fabbrica delle salsicce criminose. Tutti i salumai rovinati reclamarono il nome del fabbricante assassino che nelle salsicce aveva messo carne di donna e di bimbi al posto della carne d'asino. Il direttore dell'Attimo fuggente richiamò a Parigi Tito Arnaudi. Tito Arnaudi arrivò col primo treno.

“Sono rovinato!” guaì il direttore “vogliono che io pubblichi il nome del fabbricante.” “E voi pubblicatelo” rispose Tito. “E che nome invento?” “Non c’è bisogno d'inventario. A Tolosa un grande fabbricante di salumi si è suicidato: facciamo conto che sia lui; la sua tragica fine è una confessione. Si chiama Tommaso Salmâtre.” Il direttore, radioso di felicità, brillò di luce propria. Nell'edizione della sera dell'Attimo fuggente nereggiava il nome onorato del suicida Tommaso Salmâtre. E la situazione fu salva. Poiché i salami di costui non avevano marchio di fabbrica, a nessuno risultò d'averne mangiato: il consiglio d'amministrazione riconfermò in carica il direttore, il quale però dovette impegnarsi a passare alla vedova di Tommaso Salmâtre una pensione vitalizia, e a provvedere all'avvenire e agli studi dei nove figlioletti innocenti. Tito non fu più mandato a Bordeaux. Poté così tornare alle braccia della bella armena e a quelle della non meno bella italiana, sua vicina di camera al Napoléon Hôtel. Aveva cominciato ad amare Maud il giorno del suo arrivo a Parigi. “Giorno” è un'espressione ancora troppo vaga. L'inizio e la fine d'un amore si possono determinare con precisione astronomica, in ore, minuti primi e minuti secondi. Il suo amore era cominciato nell’istante in cui Maud, appoggiata al davanzale della finestra (la colonna Vendôme vibrava in liquida trasparenza di porfido) gli aveva raccontato come s’era concessa la prima volta: “Lo conoscevo appena appena. Era un uomo qualunque. Ma io desideravo appunto un uomo qualunque. Estate, figù-rati! Un pomeriggio d’estate. Mi

prese in piedi, contro una porta, senza strepito, come si trafigge una farfalla.” E per quell’oscura inspiegabile reazione prodotta entro di noi dal sapere come ella si è concessa a un altro. Tito sentì una vaga ebullizione per tutto il suo essere. Noi siamo gelosi anche della donna che non amiamo ancora. L’aveva conosciuta che era semplicemente Maddalena, scolorita figura di fanciulla, predestinata agli amori guardinghi di un contabile meticoloso e neomaltusiano, oppure alle imprudenti aggressioni d’un metallurgico prolifico, manesco e tesserato. Era una creatura purissima: il Regio Riformatorio non aveva ancora fatto di lei una prostituta. Si lavava i guanti con la benzina, sul balcone, gettava i soldi ai suonatori peripatetici, nel cortile, affinché ripetessero all’infinito l’ultima canzone. Dalle cucine dei primi piani saliva il profumo della carne cotta nel marsala e dello zucchero alla vaniglia, bruciato. Maud era suggellata e intatta come una capsula sul ramo. Faceva la prima colazione stando in piedi, contro una persiana, con la tazza in una mano e i grissini nell’altra. Mangiava le ciliege sul balcone e proiettava i noccioli sui balconi dei vicini. Quando colpiva un vetro, scappava in casa garrendo. Ed ora non era più la capsula incontaminata: Tito ritrovava in lei un fiore (oh, lasciatemi fare un paragone floreale: i paragoni floreali e ornitologici sono così emollienti, così lassativi!) ritrovava in lei un fiore che passando da un occhiello a un’alcova e a un hotel meublé, recava le impronte digitali di troppi maschi. Ciò bastò a far sorgere in lui la perturbatrice gelosia del passato, il dolore di non essere stato il primo, di non essere stato l'unico, l'odio per gli uomini che l’avevano avuta, e l’odio per lei che si era offerta, l’odio per il tempo

che aveva cristallizzato la realtà, l’odio per la realtà che non poteva mutarsi, ma più ancora per il tempo in cui egli non poteva risalire. Non poter tornare indietro nel tempo! È questa la più struggente delle angoscie, se vorremmo il miracolo per raggiungere la giovinezza o la verginità della donna che abbiamo cominciato ad amare quando era già matura o manomessa. E allora ci si aggrappa con le due mani al tempo che fugge, come all'ultima vettura d’un direttissimo in corsa. Si divora il resto della strada, si giura di percorrerla tutta: non potendo riscattare il passato, cerchiamo almeno l'assicurarci l'avvenire. Tuttavia sappiamo che un avvenire di dieci anni, che tutto il rimanente di una vita non vale i pochi mesi di giovinezza che ha donato a un altro. Le fotografie del suo passato ci rivelano che non era bella, che non era raffinata, che non era seducente come oggi: eppure è quella, quella delle vecchie fotografie, quella anteriore alle vecchie fotografie che noi vorremmo. L'amante (l'amante innamorato) dell'attrice più celebre e più bella, vorrebbe tornare ai tempi in cui era una semplice generichetta, viaggiante di teatrino in teatrino, con un piccolo baule, con la macchina da cucire e con la sua inosservata verginità. Tito s'innamorò di Maud quel giorno di tarda primavera o di prima estate, mentre lei, a una finestra dell'Hôtel Na-poléon, guardando le automobili scorrenti col fruscio d'un'unghia sulla seta, fra Rue Castiglione e Rue de la Paix, gli confidava la sua piccola storia. E quando, poco dopo, la lasciò fra i bauli aperti, per correre alla villa di Kalantan, la bella signora armena, forse si sarebbe accorto di amare Maud, se non avesse dovuto scendere in Rue de Rivoli, per farsi appuntare allo smoking una pallida gardenia che recava ancora fra i petali intangibili il languido profumo della Côte d'Azur. Il suo amore nacque sbocciò e crebbe, perché egli non s’era soffermato a contemplarlo. Un montanaro sloveno mi disse che i piccoli funghi appena

schiusi conviene raccoglierli come sono, perché non crescerebbero più, dopo che li abbiamo guardati. Inutile tornare il giorno dopo sperando di ritrovarli adulti. Anche l’amore, se lo osservi sul nascere, si arresta. Talvolta la terra lo riassorbe. Tito non stette ad osservarlo, perché aveva dovuto correre alla piccola villa bianca come un ossario e rotonda come un tempietto ellenico, dove lo aspettava Kalantan, tutta nuda sotto il peplo, e tutta fremente sotto la quasi casta nudità. Quella notte, dopo un pasto delicato, ma rapido come i pranzi serviti nei buffets delle stazioni, Kalantan s’era accovacciata sul parallelepipedo di tappeti, ascoltando Tito che, a gambe incrociate, accanto a lei, le narrava la sua malinconia. Kalantan lo ascoltava docilmente, sdraiata con la faccia contro le proprie ginocchia, in quel tenero atteggiamento di volersi bene che prendono i gatti e le donne. Poi erano passati di là, nella camera da letto di Kalantan. Quando, il mattino dopo, l’automobile della signora riportava il signore all’Hôtel, il signore era sfinito: Kalantan quella notte gli si era prodigata con una febbre delirante. “Vedi” gli aveva confidato quasi arrossendo “io stanotte, in questi giorni ti desidero più pazzamente, perché... Ascol tami: ti spiego: in certi giorni, in certi giorni in cui siamo più arroventate dal desiderio, non possiamo saziarlo, perché sono quelli appunto i giorni... Oh, come è difficile spiegarsi! Perdonami. Balbetto come una stupida. Rammenti Margherita Gauthier, la Signora dalle Camelie, che s’ornava di camelie bianche tutti i giorni, ma per due o tre giorni di seguito, ogni mese, si mostrava con un fiore rosso al seno o fra i capelli? Voleva dire che in quei giorni... Ebbene io non dovrei mai fregiarmi di camelie rosse. È la morfina che mi ha resa così.

"Margherita Gauthier stanotte non ti riceverebbe nella sua alcova. Io posso riceverti. Sono questi i giorni dell’amore più terribile, più vero.” Così gli aveva detto la tenebrosa signora armena, esasperata di desiderio inesauribile. Tito ritornava al suo albergo sfinito come un convalescente il primo giorno che cammina all’aperto: l’eccesso di amore aveva ucciso in lui il maschio. E tuttavia quando entrò nella camera di Maud che si stava abbottonando sul polso esile i guanti di canguro, provò un vago turbamento. “Come hai dormito, piccina?” “Benissimo. E tu?” “Io ho passato la notte al club” rispose Tito. Maud non era nulla per lui. Non l’amava. Non si amavano. Non trasparivano gli indizi d’un legame futuro. Eppure Tito non ebbe il coraggio di confessarle d’essere stato dalla sua amante, sembrandogli di confessarle un’infedeltà. In questo modo, per questa sciocca, inutile, ma istintiva, spontanea bugia, Tito s’accorse per la prima volta di voler bene, di voler molto bene alla piccola Maud.

8

Maud, danzatrice in marsina, ebbe un mediocre successo al Petit Casino. Fu applaudita come Ta-lan-ki, ammaestrato-re di cani pechinesi miopi e pigri, come Kerry, il boxeur negro, come il sedicente irlandese Sibémol, comico musicale, che passeggiando sulle mani, picchiava con i piedi sopra una tastiera di campanelli. Fu chiamata due volte alla ribalta. Concesse un bis. Ne avrebbe regalato un secondo, se il pubblico che pagava di meno non l’avesse tacitamente esonerata. S’impegnò tuttavia per un mese; per il mese seguente fu scritturata come prima ballerina in una rivista delle Folies Montmartroises. Il suo mediocre successo parigino non la sgomentò, perché non pretendeva di portare un nuovo fascio di luce nella Ville Lumière. La sua arte non aveva nulla di originale; di danzatrici in marsina, come lei, se viste a decine: la musica era la musica di Parigi che, importata in Italia, era tornata, per mezzo suo, alla città d’origine; la sua bellezza non era così affascinante da attrarre l’attenzione della metropoli incontentabile. Perciò la sera del suo debutto ritornò all’albergo senza sfiducia e senza malinconia, avendo raccolto esattamente gli anemici allori che s’aspettava. Dello stesso parere non era però Tito Arnaudi, redattore dell'Attimo fuggente. L’ammaestratore di cani pechinesi, un cinese che faceva anche il commercio dell’oppio e della cocaina, gli aveva venduto una scatoletta di polvere, che egli si era affrettato a dissuggellare. E sotto l’azione inebriante le danze di Maud gli parevano rivelazioni d’un’arte nuova; l’estrinsecazione dell’energia universale; il bello sintetizzato dal movimento; il divino regolato dal ritmo. In vedetta su una poltrona di prima fila, l’aveva applaudita violentemente al suo apparire: ma l’applauso di Tito, rimanendo isolato, non ebbe altra eco che qualche scoppio insolente di facile ilarità.

La nera marsina di Maud luccicava, ai suoi occhi, di bagliori azzurri come se fosse una stoffa intessuta di fosforo. La esaltazione allucinatoria della cocaina gli faceva apparire la fluente capigliatura di Maud come un intrico di fili metallici incandescenti. La musica gli sembrava venire da invisibili lontananze, e il fondale del palcoscenico viveva, ai suoi occhi, come un paesaggio animato dal sole e investito dal vento. Appena le poté parlare, le disse: “Con le tue danze tu riveli mondi ignoti, meraviglie inesplorate. ” E glielo ripeté più tardi, quando salivano nella camera di lei, al Napoléon Hotel. E glielo ripeté varie volte in quella notte, mentre dalla finestra aperta giungeva sui loro corpi nudi, evaporanti, l’u-midità azzurra che sgocciolava dal cielo sulla metropoli insonne. Il giorno dopo Tito doveva partire per Bordeaux. Vi si fermava otto giorni e ritornava a Parigi. Dopo un colloquio col direttore del suo giornale, drammatico e risolutivo come una scena di Bernstein, ritornava all'Hôtel Napoléon, e trovava Maud a letto con uno sconosciuto. “Quaranta!” disse lo sconosciuto, sedendosi sul letto e guardando Tito senza tremare e senza coprirsi pudicamente il seno. “Che significa questo numero?” domandò Maud. “È il quarantesimo marito.” “Non è mio marito.” “Chi è?”

“Il mio amante.” “Allora, settantasei!” Tito aveva sùbito riconosciuto lo sconosciuto. Era Kerry, il boxeur negro. Sono tipi che una volta visti, non si dimenticano più. Era galvanizzato da una pelle così compatta e così lucida che avrebbe fatto rimbalzare le palle blindate d’un revolver. Inutile dunque sparare. Tito uscì dalla stanza con molta dignità, protestando contro le serrature degli alberghi che non si chiudono mai dall’interno. Si cambiò d’abito, mise una fresca cravatta viola sopra un abito color sabbia, e s’incamminò a piedi verso la villa di Ka-lantan, la bella signora armena, che sembrava un tempietto greco, trasportato chissà per quale errore storico, sull’Avenue des Champs Elisées. Non voglio fare l’elogio della bigamia, ma bisogna ammettere che fra quelle due donne Tito vivesse in equilibrio perfetto. Non amava né Maud né Kalantan, ma credeva di amarle tutte e due. Quando l’una lo faceva soffrire, Tito trovava il conforto sul seno dell’altra. Appena l’altra lo ingannava, egli ritrovava nella prima la purezza e la fedeltà. Se Maud rimaneva fedele per troppo tempo, egli, non sentendo più l’azione vivificatrice della gelosia, cominciava a disarmarla, e s’avvicinava a Kalantan. Ma appena Maud accennava ad attaccarsi a un altro maschio, la sua gelosia ribolliva; e allora lasciava Kalantan per avvolgersi con tutta la sua passione intorno a Maud. E finché la sua passione bastava a trattenerla lontano da altri uomini di passaggio, le costruiva intorno una corazza d’amore: ma appena vedeva che altri uomini vincevano la sua resistenza, correva da Kalantan a dimenticare, sulla takhta, il parallelepipedo di tappeti turchi e di cuscini. Quella povera Maud guadagnava, al Petit Casino, ogni giorno, la quinta parte di ciò che spendeva per vivere.

Ma alcuni signori molto ricchi le davano, in denaro liquido, dieci volte ciò che spendeva. Si domanda: “Quanto guadagnava Maud? E quanto spendeva? Quanto percepiva da quei ricchi signori? Che figuraccia ci faceva quel mezzo mantenuto di Tito?” Sono problemi che non si risolvono con le tavole dei logaritmi, ma con metodi molto più semplici. Basta fare come faceva Tito: si bussa alla porta di Maud. Se lei risponde: “non si può”, si dice pardon e non si ritorna che tre ore dopo. Oh, quante volte l’indulgentissimo, pazientissimo Tito dovette attendere tre ore prima d’entrare! Ma egli ingannava l’attesa recandosi con una tenera cravatta viola sull’abito color sabbia, alla casa della signora armena, la quale era sempre disposta a consolarlo, perché tutti i giorni poteva ornare di camelie bianche la propria capigliatura profumata di muschio. Quando tornava nella camera di Maud, e arrischiava qualche timido rimprovero, ella rispondeva, abbracciandolo, e facendo pesare tutto il proprio corpo sul suo petto: “Ma non dire così, amor mio! Ora sono tutta tua. Gli altri uomini, anche quello che è andato via mezz’ora fa, costituiscono il passato. E il passato non ci appartiene. Vieni, vieni, facciamo la pace!” Due uomini che vogliono fare la pace, vanno a pranzo insieme. Un uomo e una donna, vanno a letto. Tito e Maud quasi tutti i giorni facevano la pace, per dimenticare il passato prossimo e remoto. Anche in casa di Kalantan c'era un passato.

Questo passato si trovava nella camera nuziale, divenuta, per un incidente natatorio, camera vedovile. Ed era costituito da un cofano antico, in velluto e stagno sbalzato, egregio saggio dell’arte caucasica. “Che cosa c’è lì dentro?” aveva domandato una sera Tito, disfacendo il nodo della tenera cravatta viola. “Te lo dirò un giorno” aveva promesso Kalantan, lasciando cadere uno scarpino di stoffa laminata d’oro. “Quel giorno non può essere oggi?” insisté Tito levandosi la giubba color sabbia. “Non ancora!” sentenziò Kalantan slacciandosi la cintura. “E perché?” insisté Tito sbottonandosi il gilé. “Perché oggi ho cose molto più importanti a dirti” scherzò Kalantan facendo schioccare sulla coscia la verde giarrettiera.” “E che cosa devi dirmi?” “Che in questo letto così vasto io corro il rischio di perdermi, se non vieni subito a raggiungermi. Non caricare l’orologio. Posalo.” “E se si ferma?” “Appunto! Aspetta a caricarlo quando si sarà fermato.” E così Tito non poté conoscere il contenuto di quel cofano di stagno sbalzato, raro saggio dell'arte caucasica, che costituiva il passato di Kalantan. Maud, la danzatrice italiana, conobbe un impiegato di prefettura, altissimo di grado e piccolissimo di persona, che teneva il petto in fuori e la testa indietro, e sembrava un cucchiaino visto di profilo.

Era addetto alla Polizia dei Costumi. Fu presentata anche a un giovine chirurgo aspirante a una libera docenza della Sorbona, e autore d’una pregevolissima opera di medicina operatoria e di terapia chirurgica. Il giovine chirurgo che visitò la bella danzatrice, non dal punto di vista scientifico, ma semplicemente en amateur, l'assicurò che aveva tutto perfettamente a posto e magnificamente conformato. Anzi pronosticò che sarebbe divenuta, con qualche buona volontà, anzi con qualche imprudenza, un’ottima madre di famiglia. Ma le danze e la maternità non riescono facilmente a mettersi d’accordo. L’alto impiegato di prefettura che sembrava un cucchiaino visto di profilo, essendo amantissimo della propria quiete, la pregava vivamente di non rimanere incinta. Ma lei lo tranquillizzava dicendogli che, in qualunque caso, avrebbe avuto sotto mano un giovine chirurgo, autore d’un trattato di medicina operatoria e di terapia chirurgica. Nessuno avrebbe detto che quel dottorino biondo, tipo oleografico di trovatore, dagli occhi malinconicamente rassegnati di puerpera, era capace di operare laparotomie, togliere cancri e asportare ovaie. Era così bravino, invece! Si era poi specializzato in un’operazione che si fa con una certa frequenza a Vienna, a Berlino, a Parigi e che si comincia anche a praticare in Italia. Un’operazioncina che il chirurgo dagli occhi dolci di puerpera faceva, senza assistente, in un’ora, compresa la sterilizzazione dei ferri e delle proprie mani. E per questa piccola operazioncella, s’accontentava di diecimila franchi. Nel caso di Maud, s’accontentò del doppio, perché sapeva che i suoi onorari gli sarebbero stati pagati dall'alto impiegato di prefettura, amante di Maud e della quiete; il quale, per non disturbare i propri figli sonnec-chianti nell'azzurrità tranquilla del futuro, avrebbe anche sborsato qualche biglietto da mille in più.

Raramente in vita sua quel degnissimo funzionario fu così felice come quando, avendo supplicato ancora una volta Maud, la danzatrice, di non rimanere incinta, si sentì rispondere che mediante l'intervento del giovine chirurgo, ormai non c'era più nulla da temere. Il giovine chirurgo si accontentò della piccola somma, di alcuni collaudi personali e della riconoscente protezione dell’influentissimo funzionario di prefettura, particolarmente addetto alla Polizia dei Costumi. Ma quando Tito seppe che la sua Maud, per vendere l’amore senza farsi deteriorare la delicata mercanzia da un’inopportuna maternità, si era stoicamente sottoposta ai ferri chirurgici, si sentì mancare, come se i ferri del giovine chirurgo, anziché estirpare le ovaie a Maud, avessero estirpato il cuore a lui. I suoi non lontani studi di fisiologia gli avevano lasciato qualche ricordo. Per due anni Tito aveva frequentato una clinica ginecologica e aveva seguito con vero strazio la sorte di certe donne che, dovendo per ragioni patologiche essere operate come si era fatta operare Maud, alle fonti della vita, al nucleo della femminilità, non erano mai più state donne. Egli sapeva quale essenziale importanza abbiano in tutta l'economia funzionale della donna le ghiandole a secrezione interna, che quel delinquente le aveva tolto per rubarle qualche biglietto da mille. Rammentava certe creature giovanissime le quali, lasciando la clinica per tornare alla loro casa, avevano perso nella voce, nel sorriso, nella grazia, a uno a uno tutti i segni della femminilità. Qualcosa di rauco sopravveniva nella loro voce, qualcosa di severo nello sguardo, qualcosa di asessuale, di ermafroditico, di precocemente vecchio nella loro faccia che si copriva mascolinamente di pelurie, nel corpo che si avviava alla pinguedine. Tito previde tutto questo in Maud. “Povera, povera Maud!” le disse con un pianto sotto pressione in gola.

E poiché Maud non capiva, ed egli non si sentiva il coraggio di spiegarle il terribile dramma ghiandolare, non seppe far altro che cadere in ginocchio, come nei romanzi d’appendice gridando disperatamente: “Maud! Che cos’hai fatto, che cos’hai fatto, Maud!” Maud lo pregò di asciugare le lacrime e di andarsene, perché stava per giungere l’altissimo funzionario il quale, da quando lei s’era sottoposta alla piccola operazione, aveva reso molto più frequenti le sue visite. Prima però di staccarsi da Tito, gli chiese: “Perché hai pianto?” Ed egli: “Fingevo.” “Ma se avevi gli occhi pieni di lacrime!” E Tito: “Noi, passionali, quando fingiamo di piangere, piangiamo sul serio.” Non aveva il coraggio di rivelarle la spaventosa verità. Il chirurgo giovane ma valoroso fu proposto per la legion d'onore. Tito per alcuni giorni girò come un folle per Parigi, e ricordando ogni tanto d'essere redattore dell'Attimo fuggente, fece qualche rapida visita al giornale, per vedere se ci fosse bisogno di lui. Flaccido come un cadavere in avanzata putrefazione che camminasse ancora, si trascinò fino alla sala dei cronisti. Era pallido come se gli avessero messo la faccia a macerare nell'ammoniaca pura.

Nella sala dei cronisti trovò l'uomo che non si sa chi sia, il quale gli venne incontro con la destra protesa e un cordiale sorriso diffuso per tutta la persona. L'uomo che non si sa chi sia è un personaggio circolante in ogni redazione di giornale: nessuno sa dire che cosa ci faccia, né perché sia tollerato, ma tutti, dall'usciere al direttore, lo salutano con varie gradazioni di deferenza. Non è un redattore, non è stipendiato, non ha incarichi speciali; e tuttavia si siede a qualunque scrivania, adopera il telefono, tiene il cappello in capo, legge i giornali, si serve della carta intestata, e dà ordini agli uscieri. L'uomo che non si sa chi sia gli disse subito: “Tu fai una vita troppo sregolata, caro Arnaudi! Non è vero, Nocera?” NOCERA: Tu ti fai rovinare da quelle due donne, mio caro Tito. Redattore capo: Dovresti prendere moglie. TITO: Crepa! Redattore capo: Una moglie devota che sappia ogni tanto trovare le paroline opportune a consolarti dei dispiaceri che ti danno le tue amanti. Nocera: Se vuoi ti aiutiamo noi a cercarla. TITO: In fondo avete ragione. Io dovrei rifugiarmi nel matrimonio come in una castrazione. L'uomo che non si sa chi sia: Ci si deve sposare solamente per cambiar genere di noia. REDATTORE CAPO: Dovresti sposare una vedova. Per me la vedova è l’ideale di donna. Ma non la tua vedova armena; una vedovella a cui si siano già calmati i primi appetiti. Io ne avrei una sotto mano.

Tito: Non è facile indovinare i miei gusti. Io, se dovessi prendere moglie, la vorrei fornita di quell’intelligenza stupida, di quell’addomesticabilità minchiona delle foche: quanto al fisico... NOCERA: Grassa o magra? TITO: Che non fosse né troppo amazzonia né troppo callipigia. Redattore capo: Io conosco una vedovella molto carina e ricca. Vedova, eh? Una donna d’occasione, una donna di seconda mano. Ma è come nuova. È rimasta vedova dopo sei mesi di funzionamento. Del resto io credo che con le donne si dovrebbe fare come usava Brummel con i propri abiti: cominciava col farli indossare, quand’erano nuovi, dal proprio servo. Questa poi è molto virtuosa, e così economa che, finito l’anno di lutto, ha fatto mettere nella naftalina le gramaglie, dicendo: Serviranno per il secondo marito. NOCERA: Io ti consiglierei di sposare una prostituta. Non una prostituta di strada, intendiamoci! Ma una di quelle che prendono non meno di duecento lire per consulto. I fatti hanno sempre dimostrato che riescono mogli modello. Se tu sposi una signorina di buona famiglia, che ti porta in dote qualche cartella di rendita e un pezzo di membrana non lacerata del tutto, si crederà in diritto di tenerti per tutta la vita ai suoi piedi, in atto di adorarla. Se invece sposi una prostituta, essa ti porterà in dote un alloggio ammobiliato, fornito di tutti quei perfezionamenti che il lungo uso ha suggerito. Avrà un cospicuo cofanetto di gioielli e una buona dose di quattrini saggiamente risparmiati. Il redattore capo: Le prostitute non risparmiano. NOCERA: Ti dico io che sono econome, quasi avare. Al maschio fanno gettar via mille franchi per una cosa inutile come una corbeille, ma se loro, le prostitute, ricevono una lettera dal francobollo intatto, lo staccano delicatamente e lo adoperano alla prima occasione.

TITO: Questo lo fanno anche le donne oneste. Quattro soldi, se li deve spendere una donna sono quattro soldi, ma cento lire che l’uomo spende per lei valgono meno, ai suoi occhi, di un biglietto del tram. I più gravi casi di spilorceria li ho sempre notati fra le donne. Vai avanti. NOCERA: La prostituta che tu sposi avrà dei denari che tu non sarai in obbligo di distribuire, per dignità, ai poveri della parrocchia. Lì per lì sarai forse tentato di farlo ma, all’atto di farlo, ti svaporerà la tentazione; il denaro sporca le mani quando è in piccola quantità, quando è in grande quantità le lava: fortunatamente sui biglietti di banca non c’è altra firma che quella del Direttore Generale e del Cassiere Principale, e chi paga una donna non aggiunge la sua firma a quelle due: dunque la tua dignità è salva. Essendosi guadagnati i suoi denari con qualche dolce fatica, ella capirà che anche i tuoi sono degni di qualche riguardo: cosa che non capisce la signorina di famiglia. Tua moglie poi, se sposi quella che io ti raccomando, ha conosciuto tutte le gioie effimere del lusso, ha soddisfatto tutti i suoi più pazzeschi capricci; la villa sul lago di Lucerna, o il yacht a Nizza, o l’automobile a doppia carrozzeria non le faranno più gola. Avrà una squisita nostalgia di semplicità cincinnatesca. Invece di confessarti ogni giorno: Sai, caro, che cosa dovresti comperarmi? ti consiglierà: Non fare spese inutili, amore! Tanto la signorina di eccellente famiglia quanto la cortigiana ti faranno indubbiamente becco. Ma c’è differenza nei modi: la signorina ti ingannerà in una forma chiassosa, pirotecnica, richiamando sulla tua infelicità, se non la tua attenzione, certamente quella di tutti gli altri. Avendo poca pratica di uomini, le sembrerà che quell’imbecille del suo amante (perché s’innamorerà immancabilmente di un imbecille) sia un uomo superiore. E se costui le dirà che tu sei uno stupido qualunque, lei gli crederà sulla parola e lo aiuterà a metterti in ridicolo presso gli amici comuni.

La prostituta invece ti ingannerà elegantemente, con metodo, con parsimonia, con stile, con tatto, con onestà. Saprà fare un bilancio scrupolosamente preciso e sereno fra i tuoi meriti e quelli di lui, poiché ella conosce gli uomini, mentre la moglie reclutata fra le vergini signorine di famiglia, di uomini non ne conosce che due: te e l’altro. La signorina che ti fa becco riderà della condizione in cui t’ha posto, perché le parrà una condizione curiosa, singolare, eccezionale. La prostituta non riderà, sapendo che ciò è naturale, normale, consuetudinario. La signorina pretenderà che tu aiuti il suo amante: che gli impresti dei denari a fondo perduto, che lo sostenga nelle difficoltà. La prostituta non ti obbligherà a questo, essendo abituata a ricevere i denari dagli uomini, e non a darne. Tua moglie non sarà ricevuta nella buona società; non avrai così il disgusto di dover fare conoscenze e restituire visite, e insudiciarti negli ambienti delle persone per bene. Inviterai a casa tua solamente uomini simpatici e spregiudicati come noi che non ti porteremo nei discorsi musoneria e sussiego, perché con un’ex prostituta non c’è da mettere le mutandine impermeabili alle parole: nello stesso tempo non si arriverà mai alla volgarità, perché quella prostituta è, dopo tutto, diventata tua moglie. Quella donna non si rifiuterà mai ai tuoi desideri. Tito: Nessuna moglie si rifiuta. L’uomo CHE NON SI SA CHI SIA: Pare a te: ma ci sono delle mogli che hanno il coraggio di dire al marito: no, caro, stanotte, no. NOCERA: Non si rifiuterà col pretesto che è stanca, perché potresti risponderle: Ma come? Tu che ricevevi venti maschi al giorno?

Se poi si lasciasse cogliere dai desideri nel momento preciso in cui tu fossi stanco, potresti risponderle: Ma dopo la tua movimentata e laboriosa carriera non ne hai ancora abbastanza? Tu potrai prodigarti a quante amanti vorrai. E se lei farà qualche protesta le chiuderai la bocca, dicendole il primo nome di battesimo maschile che ti passerà per il capo. La signorina di famiglia non si darà mai il disturbo di nascondere il proprio malumore, il proprio spleen, e ti farà sopportare i suoi scatti di nervi, e nel concedersi ti dimostrerà la sua indifferenza o il suo disgusto. La prostituta, abituata a concedersi sempre con una simulazione di sorriso e di godimento, procederà con te come col più ragguardevole dei suoi avventori, e ti darà l'illusione completa dell’impazienza del desiderio e del piacere, anche se quel giorno le fossero morti di febbre gialla suo padre e sua madre. Saprà conservarsi bella fino a età avanzata perché, essendo la bellezza la condizione essenziale del suo mestiere, ne avrà imparati tutti i segreti. Può darsi che un giorno le accada come ai comici ritirati dalle scene che cedono alla smania di ritornarci o, per lo meno, di fare qualche recita straordinaria. Ebbene, nessuno se ne meraviglierà, nessuno ti disprezzerà. In fondo è il suo antico mestiere. La prima notte di matrimonio proverai forse un’impressione strana. Non avrai la sensazione di essere a letto con una sposa, ma con una donna che ti ha fermato per via. E ciò non ti pare delizioso? Non avrai la noia di combattere contro le serrature di sicurezza di una vergine. Comodità tutt'altro che disprezzabile! Ma se tu fossi tanto stupido da desiderare una moglie vergine, credi, amico mio, che nella prostituta troverai anche questo: poiché solamente le prostitute - e non le vergini - sanno, volendo, darti l’illusione completa della verginità. TITO: Hai ragione, amico mio.

NOCERA: La prima cosa che devi fare è lasciare quelle due donne. Non vederle più. TITO: Non le vedrò più. “Lo giuri?” “Lo giuro.” Il campanello del telefono squillò. “Chiedono del signor Tito Arnaudi.” Tito andò al telefono e disse: “Sì, amore, sono io. A casa tua? Fra mezz’ora? Anche prima . “Chi è?” domandò Nocera. “L’armena” rispose Tito. E uscì.

9

Arrivò un po’ in ritardo alla villa di Kalantan, avendo incontrato all’ingresso d’una stazione metropolitana quel certo cameriere suo antico compagno di collegio, che studiava le date di storia come i numeri del telefono (pace di Cam-poformio: diciassette nove sette) e lo aveva guidato per i caffè di Montmartre quando egli faceva gli studî d’ambiente sulla cocaina. “Torno in Italia” disse l’amico allargando le braccia munite di valige. “Sono stufo di Parigi, sono stufo di servire, sono stufo di guadagnare denari a un franco o poco più per volta. Sono nauseato del vaginume che mi circonda e che mi asfissia. Se rimango qui ancora un po’, vado a buttarmi nelle Senna: e la Senna è un fiume per metà composto con l’acqua dei bidè di prostitute ufficiali e clandestine.” “Vai in Italia a cercare un fiume più pulito? Forse lo troverai, perché in Italia le donne si lavano di meno.” “Vado a farmi frate. Presso Torino c’è un convento dove accolgono chiunque si presenti. È una specie di Légion Etrangère mistica.” “Ma tu sai fare il frate?” “Non credo che sia difficile.” “E hai fede?” “No.” “Hai vocazione?” “No.” “E allora?”

“C'è un piccolo giardino, le celle sono ben esposte, si lavora poco, la regola non è pesante, la dieta è igienica, ci sono molti libri, non si esce mai, nemmeno dopo morti perché hanno il cimitero in casa. Comodissimo.” Tito lo guardò perplesso. Poi gli disse: ‘‘Tu hai avuto qualche amore infelice. La tua amante ti ingannava con suo marito?” L'aspirante-frate abbassò gli occhi e sollevando con gesto sconsolato le valigie rispose: “Può darsi. Ti manderò le indicazioni per venirmi a trovare in convento, se dovrai passare da quelle parti. Addio.” E infilò di corsa, con la testa innanzi, la scalinata del métro. Il cofano di velluto e stagno, complicatissimo saggio dell'arte caucasica, che costituiva il passato di Kalantan Ter-Gregorianz, era pieno di monete d'oro. Sembrava il favoloso tesoro nascosto nel sottosuolo delle scomparse città. Quando Kalantan gli rispose: “è pieno di monete d'oro”, Tito rise come a una bella celia, e disse: “Bambina! Queste cose succedono soltanto nei romanzi fantastici e nei films tedeschi.” Allora Kalantan gli narrò la sua storia: “Mio marito era molto ricco. Possedeva inesauribili pozzi di nafta e le più famose pescherie di tutta la Persia.” “Lo so.” “Ed era nato con una spaventosa noia di vivere. Si direbbe che fosse venuto al mondo con tutta l'antica esperienza asiatica diffusa per il sangue. Più nulla lo tentava, più nulla lo divertiva. Indifferente alla casa e alla famiglia, in camera sua aveva fatto attaccare i cartelli che si vedono nelle stanze degli alberghi, col prezzo del blanchissage, della colazione

servita in sala o servita in camera, e con l’ammonimento ai signori che partono coi treni della sera, di lasciare la stanza prima delle due del pomeriggio. “Il suo sogno era viaggiare, ma viaggiava pochissimo. Era una specie di paralitico assetato di lontananze. I suoi più lunghi viaggi erano ParigiBerlino, Parigi-Londra, Parigi-Bruxelles. Dopo un mese d’assenza, tornava a casa. “Gli piacevano le cocottes. Credo che le più celebri grues siano passate attraverso la sua interpretazione. “Ma avrebbe voluto averle sempre a portata di mano, tutte insieme, in una casa portatile, come una carovana di zingari, diretta con i criteri d’un maître d’hôtel parigino. “Io gli piacevo a lunghi intervalli. Nei primi tempi del nostro matrimonio mi voleva molto bene, quantunque avessi un difetto: quello d’essere moglie. “Per illudersi ch’io non fossi sua moglie, mi pagava. Ogni volta che lo ricevevo nel mio letto, lasciava cadere in quel cofano di stagno e velluto alcune monete d’oro. Egli diceva di nobilitare così la funzione della moglie facendola assurgere a dignità di cortigiana.” “E non hanno mai cercato di scassinarlo, quel cofano?” “Ho servi fedeli, e nessuno sospetta che là dentro vi sia dell’oro.” “Conterrà qualche centinaio di migliaia di franchi.” “Forse mezzo milione.” Tito s’avvicinò alla console e provò a soppesarlo; la fatica gli gonfiò le vene della fronte e del collo. “Povero caro!” disse Kalantan, facendolo sedere sulla dormeuse accanto a lei; e baciandogli il viso subitamente impallidito, cominciò ad accarezzargli le mani.

“Vedi, Kalantan, quel cofano costituisce il tuo passato che mi addolora immensamente, perché ne sono geloso. Vorrei averti avuta io per il primo. Ognuna di quelle monete è il segno dei fremiti, del piacere che tu hai dato a un altro.” “Ma che importa?” stupì Kalantan baciandolo sugli occhi velatamente cattivi. “Il mio vero padrone sei tu. Mio marito non è stato che un usufruttuario. I miei amanti? Non li ricordo, perché non ho mai goduto come fra le tue braccia. Del resto, il passato è passato, e non ci appartiene!” Tito ritrasse le mani dalle mani della donna. Il passato non ci appartiene. La medesima frase di Maud. Queste due donne venute, l'una dalla pianura del Po, l’altra dalle gole del Caucaso, queste due donne, prodotti di due differenti civiltà, usavano le medesime parole per confortarlo. Oh, aveva ragione l’amico cameriere che andava a chiudersi in un convento, allorché riassumeva il suo disgusto in una frase: “Sono stufo di tutto questo vaginume!” E Tito era ormai irritato contro Kalantan, la ricchissima armena, a cui sorrideva, in fondo, d’essere trattata come una prostituta. Una vaga, latente nostalgia del postribolo c’è, dal più al meno, in tutte le donne! Quel giorno Tito non poté essere tenero con l’armena. “Tornerò domani” si scusò. “Ma oggi no. Oggi sono triste. Lasciami andare.” E andò a trovare Maud.

Ma se alcune settimane innanzi egli poteva ancora dimenticare fra le braccia di Kalantan le infedeltà di Maud, o nel letto di Maud il passato di Kalantan, ora il suo duplice amore ingigantito lo premeva come fra due forze eguali e contrarie. Non ignorava più nulla del passato di Kalantan: le finzioni di vendita d’amore al marito; le orge bianche nel salone dei pinguini: le febbri scatenate dagli eccitanti, i languori insinuati dagli stupefacenti; il possesso entro la bara, la primitiva nostalgia del postribolo, seguita dalla nostalgia di purezza, la quale altro non era che nausea per eccessiva e aberrata sensualità; nausea di natura cerebrale, che la morfina aveva trasformato in delirio casto. Non ignorava più nulla del passato e del presente di Maud. Sapeva come e a chi s'era concessa la prima volta: sapeva a chi s'era venduta in Italia e a Parigi: l'aveva vista a letto col negro dalla pelle di pachiderma unto di brillantina; aveva visto il funzionario di prefettura scendere dall'ascensore con gli occhietti gonfi e lucidi di libidine; sapeva che il giovine chirurgo l'aveva mutilata alle fonti della vita e dell'amore, anticipando la sua menopausa, abbreviando la sua giovinezza. Conosceva gli alberghi discreti, le garçonnières, dove andava a noleggiarsi; ogni arrondissement di Parigi ospitava un cliente di Maud. Maud e Kalantan erano creature diverse appartenenti a due diverse civiltà, ma s’incontravano nel non comprendere la sua angosciosa gelosia. Tutte e due, con accenti diversi, ma con la stessa incoscienza nello sguardo gli avevano detto: il passato non ci appartiene. Maud e Kalantan, femmine dissimili, che pure egli amava con la medesima follia, perché tutt'e due, l'una con la gelosia del presente, l’altra con la gelosia del passato, l'incatenavano. Maud aveva nella pelle il profumo del timo delle sue montagne verdi. Kalantan aveva nella pelle il gusto del sale.

Erano giovani tutt’e due; eppure in tutt’e due trasudava qualcosa di vecchio, di diversamente vecchio. Maud, insaziata di sensualità, cercava, nell’amore, forme ignote, eccitamenti strani, vizî morbosi. Kalantan, nauseata di morbosità stravaganti, cercava nell’amore di Tito qualcosa di puro, di semplice, di primitivo. Due generi di vecchiezza in quelle due femmine giovani. L'una aveva attraversato le forme complicatissime del vizio per cercare la semplicità degli amplessi senza finzioni; l’altra aveva percorso le scale dell’amore semplice, per salire in cerca del vizio. Due strade opposte, percorse col medesimo anelito, segno di due differenti ma ugualmente dinamiche personalità. Tito era indeciso fra queste due donne, fra queste due passioni. Non sapeva da quale farsi ardere. Egli si trovava intra due fuochi distanti e moventi... Ah, quel Dante Alighieri! è riuscito a farsi citare anche da me. Come l’ideatore del sottotacco di gomma ha accumulato milioni, e l’inventore della lastrina metallica, che a premerla con un dito emette la voce sgradevole del ranocchio isterico, s’è creata una vita comoda e indipendente, così Tito, con le sue stravaganze giornalistiche, acquistò una posizione stabile nell'Attimo fuggente. Gli aumentarono lo stipendio, con la proibizione però di scrivere una parola. “Voi sareste capace di annunziare che il Papa si è fatto circoncidere per sposare Sarah Bernhardt!” gli disse il direttore. “Se volete che rimaniamo amici, prendetevi lo stipendio, venite al giornale, giocate a carambola sul mio biliardo, frequentate il bar, tirate di scherma con i miei fioretti, servitevi dei miei sigari e delle mie dattilografe, ma non scrivete una cartella, nemmeno se ve lo ordino io!”

Tito non aveva dunque altro disturbo che presentarsi una volta il mese all'amministrazione, firmare una ricevuta, ricevere una busta piena di biglietti della Banque de France. Impiegava il suo tempo nelle passeggiate mattutine solitarie per i quartieri eccentrici di Parigi; passava talvolta anche due o tre giorni in casa di Kalantan, dove avevano preparato una camera per “il signore”; poi abbandonava Kalantan per una settimana durante la quale aderiva interamente a Maud; altre volte lasciava trascorrere qualche giorno senza farsi vedere né da Maud né da Kalantan. E ritornava nei caffè semiclandestini di Montmartre e di Montparnasse, in quegli ambienti equivoci di professori di biliardo o di poker, maestri d’arte muta, promotori d’avventure d’amore a prezzi popolari, referendari della polizia, prosseneti esordienti, fameliche sgualdrinelle nutrite a sandwichs d’acciuga e a croissants intinti nel caffè. Il mercante zoppo gli vendette sei tubi di vetro pieni di eccellente cocaina di Mannheim. Ed egli andò in giro per Parigi con i tubi in tasca come i bimbi che dormono con tutti i giocattoli sotto il guanciale. Cercò le vie più modeste della Villette e di Belleville, dai muri tappezzati di manifesti teatrali sinistri: La figlia del bastardo, il segreto del boia, la vendetta dell’impiccato. Infilò le avenues del Cimitero del Père Lachaise, tutto pulito, pettinato, ordinato come un campionario; risalì verso gli ammazzatoi, dove vide entrare montoni mansueti e vitelli restii. “Ma almeno nessuno parla loro di patria!” pensò. Un povero cane sfinito di stanchezza e di sete trotterellava dietro un carro leggiero, che, a giudicare dalla polvere, doveva venir di lontano. Il contadino che lo guidava avrebbe potuto farlo salire nel carro quasi vuoto, invece di farlo soffrire così! “Ma i contadini” pensò Tito “appartengono a una razza inferiore: sono peggio dei negri; i loro atti sono guidati dal più putrido egoismo, dalla più inutile crudeltà e dall’ignoranza più testarda. Io sarei felice che tutti gli anni la grandine distruggesse il frumento, la crittogama rovinasse le vigne e infierisse un’implacabile moria del bestiame.

“I contadini non si meritano altro.” Una lunga colonna di bimbe vestite di bianco e di nudo che camminavano ciaramellando verso il Parc des Buttes Chaumont, gli diedero una commozione quasi liquida. Si mise a seguirle. In ognuna di esse gli pareva di vedere già qualcosa di definitivo: visini di soubrette d’operetta; sguardi gaiamente torbidi di future perturbatrici di sistemi nervosi: facce pienotte di madri di famiglia che fra un parto e l’altro troveranno il modo di riuscire simpatiche a qualche signore serio. Tutte bianche, tutte vestite allo stesso modo, quasi identiche nelle proporzioni eppure in esse sonnecchiano già, in embrione, la cortigiana, l’artista, la donna comune, la femmina superiore. Recano in sé i piccoli ovini da cui nasceranno forse grandi uomini o grandi delinquenti: recano in sé le cellule atipiche d’un cancro o i bacilli della tisi... Qualcuna di esse diverrà un’altra Maud, un’altra Kalantan, per scatenare la disperazione in qualche piccolo Tito Arnaudi che in questo momento si starà cacciando le dita nel naso in chissà quale angolo del mondo! Quella deambulazione zigzagante gli dava la beatitudine apatica dei vagabondi. La vita del vagabondo ha pure le sue dolcezze: non esser schiavi dell’ora, della mèta, dei convegni; non camminare secondo direzioni prestabilite. Passare il tempo fra un’udienza in Corte d’Assise e una lezione all’Università, su una panca di giardino pubblico o sul parapetto d’un fiume: intervenire a un’asta pubblica, fermarsi a guardare i carri troppo pesanti che non riescono a liberarsi dalle rotaie; visitare i cadaveri alla Morgue, veder allontanarsi i malinconici treni della sera, interrogare i muratori, ascoltare i boniments degli strilloni, sfogliare i vecchi libri sui bancherottoli dei pacifici quais, appisolarsi sui velluti verdi dei musei, gettare tozzi di pane agli orsi pazienti e minchioni e a quegli enormi fanciulli che sono gli elefanti del Jardin des Plantes. Talvolta nel vano d’una strada o sullo schermo bianco del marciapiede gli si proiettava l’imagine di Maud. Per sfuggire alla visione entrava allora in un caffè o in una confetteria. “Quando vedo una vecchia signora mangiare dei pasticcini, mi sembrano sprecati.”

Tutto lo irritava, a scintille. Ma sotto un certo aspetto viveva in una specie di benessere che da qualche tempo s'era infiltrato in lui a poco a poco, senza che se ne accorgesse. La cocaina che nei primi tempi dell'avvelenamento gli aveva prodotto una inquietudine sensuale, un'esaltazione erotica quasi insaziabile (non bastavano due amanti a placarlo), aveva cominciato ad abbassare la fiamma della sua sensualità. Passavano i giorni senza che egli desiderasse di vedere le smilze caviglie di Maud, di aspirare il profumo muschiato d'inchiostro di China esalante dai capelli di Kalantan. Se qualche volta il pensiero ritornava alla morbidissima takhta sui cui tappeti la bella armena s'accovacciava nel voluttuoso atto di auto-adorazione; se il suo ricordo lo riconduceva a Maud, donna assetata di vizio e di novità, Tito le considerava come esseri lontani dalla sua vita, sentendosi come un sopravvissuto. La sua sensualità era una fiammella prossima a estinguersi. Ma ogni tanto, un fiotto di gelosia improvvisa aveva l'azione comburente, vivificatrice dell'ossigeno. Si raffigurava Maud fra le braccia d’un altro, in una casa sperduta in chissà quale dei venti arrondissements. E la gelosia subitanea risvegliava subitamente il suo desiderio. E allora tornava a casa, a cercare Maud, e la trovava (quando la trovava), sempre disposta a concedersi con tutto il corpo vibrante, e con le labbra divinamente umide. “Cocaina!” le diceva Tito nello smarrimento. “Cocaina! Tu non sei Maud, tu sei Cocaina, il mio veleno necessario. Io ti fuggo, giurando di non vederti mai più, ma poi ritorno fatalmente a te, perché mi sei necessaria come un veleno che mi salva e mi uccide. “Io ti fuggo perché sento nella tua pelle le impronte di altri maschi. “Le sento, le vedo, come si vedono le impronte delle dita sulle gardenie. “Io ti fuggo perché non sei tutta mia: perché mi esaspera questo dividerti con altri. A volte tu mi fai orrore, eppure ritorno a te, unica donna che mi piaccia, unica donna che io possa veramente amare.”

Ed ella, seduta sul grande letto disfatto, ascoltava con un sorriso sereno e quasi assente le parole arroventate con cui Tito cercava di bruciarle le mani. E avendo le mani occupate, perché Tito se le premeva sulla bocca, ella, distratta, si divertiva a raccogliere dal suolo, con la punta delle dita dei piedi, le forcelle di tartaruga. Cocaina aveva i piedi prensili come le scimmie, gli anna-miti e il venti per cento dei criminali. La gelosia è il sentimento per cui un uomo, essendo stato ricevuto nel letto di una donna, si crede in diritto di tornarci solamente lui. Nessun uomo vuole ammettere che questa è una prepotente assurdità. Ogni donna ne ha invece la chiara e immediata intuizione. E le pare cosa tanto grottesca, che vede l’inutilità di ogni dimostrazione. Una donna intelligente lascia che l’uomo si rotoli nella propria gelosia, poich’ella sa per istinto che nulla lo guarisce del suo male. Tuttavia un giorno Cocaina spiegò a Tito: “Io non sono ricca: come danzatrice valgo poco: non so iniziare un commercio o creare un’industria. Bisogna bene accettare il denaro che mi offrono e le condizioni che mi impongono.” E Tito, davanti a quell’aperta confessione, si mise a piangere come un ombrello bagnato e chiuso. Per consolarlo, in altre circostanze ella lo avrebbe invitato a spogliarsi e venire a letto: ma poiché erano appunto a letto, gli propose: “Vestiti e usciamo.” Mezz’ora dopo erano alla stazione degli Invalidi, di dove parte il treno per Versailles.

Parigi cominciava a pesare insopportabilmente sul cuore di Tito. Gli pareva che ogni via l’avesse vista passare in automobile con un altro uomo, diretta chissà dove: ogni restaurant aveva offerto un tavolino riservato o un gabinetto particolare a lei e a un altro: chissà chi! La sua camera al Napoléon Hôtel aveva accolto, condotti da lei, chissà quanti clienti. Persino nel suo spogliatoio, al Petit Casino ella aveva concesso campioncini semigratuiti d’amore. Da qualche tempo Tito s’era lasciato ghermire dalla mania di cercare sfondi nuovi alla loro tenerezza, ambienti in cui ella non fosse stata mai con altri: cercare atteggiamenti nuovi di piacere, che ella non avesse ancora sperimentato con alcuno. Da quella donna voleva avere qualcosa che non avesse ancor dato ad altri: anche una piccola cosa; una parola che nessuno avesse ancora sentito, una camicia che vedesse lui per il primo; un restaurant ove entrasse per la prima volta. Un giorno l’aveva fatta salire in una navicella di quella ruota smisurata, che ora hanno demolito e che si vedeva in tutte le cartoline di Parigi; e quando erano giunti al punto più alto del giro, l’aveva posseduta sopra una panca, a quell’altezza vertiginosa. “Qui almeno” si compiaceva segretamente “non l’ha avuta nessuno!” Ma appena furono a terra, ella disse con infantile candore: “L’altra volta che ci venni, mi parve che girasse più adagio.” Tito riuscì a scovare una piccola trattoria fatta di quattro o cinque pergole, e frequentata da pittorelli, studenti e trot-tins, e ve l’aveva condotta, per dare alla sua persona uno sfondo che non gli evocasse i fantasmi temuti. Quando però furono sulla soglia, ella si guardò intorno come ritrovandosi: “Non andiamo da quella parte, Tito. Di là c’è la cucina, e dalla strada sale un caprifoglio che dà l’emicrania col suo profumo.”

Ma dove non era stata quella donna? Dove non l’avevano ancora condotta? E quando giunsero a Versailles, fra i giardini brillanti per le tinte mordorées gettate dall’autunno, in quello splendore malinconico e gaio, cantato da Musset e da Verlaine, la semplice, ingenua, infantile Cocaina, che in fondo era sempre Maud, che in fondo era sempre Maddalena, gli confessò: “Vedi? Sotto questa pianticella di lillà, due o tre mesi or sono mi hanno scoperto il primo capello bianco.” Da allora Tito non ritentò l’esperimento. Una volta avrebbe ancora potuto correre alla casa di Kalantan a uccidere la gelosia sopra la soffice, ospitale takhta asiatica; ma ora non più. Non più le fughe e i vagabondaggi: ora Cocaina gli era necessaria per non impazzire. “Se tu guadagnassi mille franchi per sera” le domandò ritornando a Parigi “mille franchi per sera, ma con le tue danze, ti adatteresti a congedare tutti quegli uomini che...” “Che mi pagano? Certo! E non sarei più di nessuno. Sarei solamente più tua! Ma ti pare possibile? È un sogno! Non lo vedi, Tito, che io danzo come un ferro da stirare?” Tito rispose: “Ho un meraviglioso disegno: vedrai!” Poiché il direttore dell'Attimo fuggente era nell’Alvernia per la campagna elettorale, e il redattore capo doveva subire una piccola operazioncina a un pollice, nessuno poté impedire a Tito di passare in tipografia un voluminoso manoscritto che comparve in seconda pagina, con un titolo enorme. Quella sera all'Alhambra si facevano cinquemila franchi d’incasso, e Maud, la grande beauté italienne, danzatrice in marsina, era salutata, al suo apparire, come colei che l'Attimo fuggente, uno dei più ascoltati giornali della capitale, chiamava la creatura elettrizzante, Tersicore rediviva. Secondo quell’articolo lunghissimo Maud si elevava, con le sue gambe, alle più vertiginose altitudini filosofiche, facendo poi precipitare lo spettatore

negli abissi dell’assoluto. La metafisica della sua danza era l’estrinsecazione dell’eterno e dell’infinito... Il pubblico deluso, alla fine delle sue danze non protestò. Abituato alla più bluffistica impudenza della réclame, s’accontentò di commentare: “Ci vuole del toupet!” Le persone meno educate conclusero: “Ci vuole del culot!” Ma tutti quanti risero. Risero anche gli impresari; risero anche gli altri giornali della Capitale; rise persino Maud. Una sola persona non rise: il direttore dell'Attimo fuggente, il quale tornato a Parigi il giorno dopo, mandò subito a chiamare Tito, l’autore dell’articolo. Questi era nell’anticamera dello studio direttoriale, quando un triplice squillo di campanello lo svegliò. Non occorreva essere un filosofo della musica per riconoscere l’ira scatenata in quei tre squilli. Entrando nello studio vide un gran paio di baffi sospesi su una grande scrivania. Il direttore era abbrutito. Parlò calmo, compassato, come quando in seguito a un dolore terribile si è consumata tutta l’iracondia contenuta nella cistifellea. Pensate, per averne un’idea, a un povero padre la cui unica figlia sia fuggita con un saltimbanco, abbia fatto un marmocchio, lo abbia strangolato, sia stata in carcere, ne sia uscita, e dopo sei mesi di malavita ritorni al tetto paterno. Il povero padre ha avuto tutto il tempo di maledirla, disprezzarla, odiarla, esecrarla. E quando lei torna, esaurite le provviste di disperazione e di rancore, può parlarle calmo, quasi dolce. Così parlò, con le lacrime agli occhiali, lo sventurato direttore.

“Voi mi avete rovinato il giornale” gemette lento, a bassa voce. “Mi avete messo in ridicolo davanti alla stampa parigina.” Tito, in piedi, teneva gli occhi bassi e le mani incrociate sul ventre come la fanciulla sedotta e disonorata al cospetto del genitore canuto. “Il colpo è stato troppo forte” continuò l’affranto direttore esprimendosi in italiano per apparire ancora più tenero “il mio dolore è troppo atroce perché io possa imprecare o maledire. Le perdono. Ma non mi venga mai più fra i piedi né vivo né morto. Mi dia la mano, se vuole. Se vuole le permetto anche di abbracciarmi. Qui ho due biglietti di poltrona per l'Opéra Comique. Glieli offro di cuore. Di più non posso fare.” E ricadde boccheggiante sulla poltrona. Quando riprese i sensi, Tito Arnaudi non c’era più. Era sul lastrico.

10

Da parecchio tempo Tito non aveva più riso. Quella sciagura lo fece ridere. Aveva perso l’impiego: gli mancava la forza di cercarne un altro, e i denari rimastigli bastavano appena per una settimana. Per realizzare forti economie comperò da un antiquario di Rue Saint Honoré due urne cinerarie sferiche e iridescenti come bolle di sapone, e un ostensorio d’argento dorato proveniente da qualche chiesetta di montagna distrutta o sconsacrata, sul quale il tempo e i vapori d’incenso avevano compiuto un’intelligente opera di brunitura. L’ostia sacra era stata sostituita con un’ostia farmaceutica, intorno alla quale i raggi d’argento dorato conservavano però il medesimo mistico brillio. Salito nella sua camera al Napoléon Hotel, tolse dall’ostensorio l’ostia farmaceutica, che profanava integralmente quella sacra cosa, e vi sostituì la fotografia di Cocaina, completamente nuda. Aperse un cassetto per posarvi le urne cinerarie e ne trasse una boccetta di Avatar, il profumo di Cocaina. In potenza evocatrice i profumi superano la musica stessa. Applicò alla boccetta il vaporizzatore e inondò tutta l’aria della stanza come per offrire un sacrificio pagano degno del-l'imagine. Cocaina entrò all’improvviso mentr’egli, immobile, contemplava le linee della sua nudità, in atto di muta venerazione; ella non disse nulla, ma fu così commossa, che, buttato l’ombrellino rosso sul letto, abbandonò la faccia contro il collo di Tito, e gli versò tutte le sue lacrime più calde sulla cravatta di maglia verde, a grandi trasversali bleu.

Sapeste come si profumano le lacrime, scorrendo su un fresco viso di donna, e come si profumano le cravatte quando le donne ci piangono su! Tito ne ebbe la cravatta intrisa e l’anima più leggiera. Anche Cocaina aveva l’anima leggiera e luminosa come una mantiglia andalusa. “Il tuo articolo sulle mie danze ha dato buoni risultati.” “Lo so” rispose Tito con un sorriso acidosalso. “Ho avuto or ora un colloquio con un grande impresario americano. Fra otto giorni partiamo per Buenos Ayres. Il tuo giornale ti permetterà d’accompagnarmi?” “Me lo permette” rispose con semplicità. “Ti concede sei mesi?” “Anche dodici. E le condizioni?” “Ottime.” E corse a dame l'annuncio alla cameriera, che rispondeva qualche volta con arroganza, al nome di Pierina. Quando Csaky, il maggiordomo, annunziò che il signor Arnaudi (non disse più “il signore”) chiedeva della signora, Kalantan non se ne meravigliò. Conosceva i lunghi e i brevi periodi di malinconia e di misantropia: sapeva come fosse variabile il suo umore, e sentiva che una consuetudine, se non una fatalità, lo riconduceva a lei. Parve però stranamente diverso: nella sua tenerezza tralu-ceva qualcosa di voluto e di falso, e nell’amore non metteva più tutto il suo abbandono. “La tua camera è come la lasciasti” gli disse Kalantan accarezzandogli i capelli. “E anche il mio amore è immutato.” Infatti quella sera stessa Tito sentì che la bella amante armena, satura di vizî, si concedeva a lui con la medesima ansia di semplicità. E il mattino dopo, svegliandosi nel letto di palissandro, riconobbe i medesimi mobili e le medesime stampe, e rivide la

livrea di Csaky, il maggiordomo decorativo e solenne, che domandava al “signore” se volesse il tè russo o il tè verde o il tè cingalese. “Lo voglio nella camera della signora.” E passò nella stanza di Kalantan, che dormiva ancora, con le mani e le ginocchia raccolte contro il viso, tutta chiusa in se stessa, come dormono, di notte, le magnolie. Più tardi si vestì lentamente, annodò con cura la cravatta di maglia verde a trasversali blu, profumata dalle lacrime di Cocaina, e andò al Napoléon Hotel a prendere un po' di corredo. “Ritorna presto” raccomandò Kalantan. “Mezz’ora!” calcolò Tito. E mezz’ora dopo, infatti, l’automobile della signora Ter-Gregorianz rientrava in giardino con due grandi valigie gialle. Le notti di Tito furono agitate: la sera prendeva forti dosi di cloralio per domare l’insonnia prodotta dalla droga da cui non sapeva staccarsi. Ma dall’indomabile insonnia e dall’inutile narcosi nasceva una esaltazione allucinatoria: passava lunghe ore in una veglia in cui gli pareva di sognare, e in uno stato di sonno che gli dava la sensazione d’essere desto. Il trovarsi in quella villa bianca come un ossario, ospite e amante d’una creatura di asiatiche rapsodie, ossequiato gelidamente dai nervi come un usurpatore: quell’insieme di apparenze orientali, radunato nel cuore di Parigi, per comporre intorno a lui un ambiente di leggenda caucasica, e il pensiero di Maud, della sua Cocaina, distante da lui cinque minuti d’automobile, e che pure gli pareva un esserino lontano lontano, evanescente e sperduto... tutto questo formava nel suo cervello un musicale variopinto alveare il cui ronzio era tratto tratto squarciato agli epigrammi ironico-sentimentali di un uccello innamorato, nel giardino. All'hôtel gli consegnarono una lettera dell’amico fraticello che tutte le sere pregava anche per lui, e trovò Cocaina intenta a provare una parure di

carezzevole lingerie in crespo di China mauve agrémentée di fini pieghettature d’organdi. “Lo sai, Tito, che ingrosso?” annunziò ridendo Cocaina. “Lo so.” E come lo sapeva! Lo aveva previsto. Era quello il primo segno della decadenza. La crudele mutilazione a cui s’era sottoposta cominciava ora, un anno dopo, a confermare con le prove il detto del Virchow: “La donna è appunto donna solo per la sua ghiandola generatrice”. Tutta la grazia femminile, la dolcezza della linea, la morbidezza delle membra, lo sviluppo dei seni, la delicatezza della pelurie, la fluente abbondanza delle chiome, la musicale sottigliezza della voce dipendono da quella ghiandola. Estirpiamo l'ovaio e vedremo la linea armonica mutarsi in obesità, la voce divenire maschia, la vivacità dello spirito degenerare in perdita di memoria, la tenerezza cedere all’ipocondria e all’irritabilità, la bocca ombreggiarsi di peli e lo sguardo farsi torvo. E dopo qualche anno avremo dinanzi a noi la virago, in tutta la sua odiosa ibridità. E tuttavia Tito era tanto innamorato di quella donna, da affrettare, col desiderio, il giorno che sarebbe divenuta così brutta. “Non sarà più desiderata da nessuno - pensava - e rimarrà tutta, finalmente, tutta per me! E avrò l’unica gioia che io sogno: di essere il suo ultimo amante.” E quando ella lo pregò di toccar con mano che ingrossava davvero, la strinse con tale violenza contro il suo petto che ella gridò: “Bada che mi sciupi il plissé d'organdi.” Il cane si mise ad abbaiare in sua difesa. Ma Tito non vedeva altro che quel principio di pinguedine, di deformazione, che segnava l'inizio del ritorno di Maud verso di lui. Era il primo barlume di speranza che s’apriva in quella specie di irredentismo amoroso.

Csaky, il maggiordomo della casa Ter-Gregorianz, lo osservò con rispettosi occhi di avvelenatore. “La signora è uscita. La camera del signore è pronta.” Tutti i giorni, a pomeriggio inoltrato, Kalantan si recava in un istituto fisicoterapico a fare cure illusorie per un fantastico male, e ritornava dopo il tramonto, con qualche fiore alla cintura, e faceva per prima cosa una visita alla camera di Tito, senza interrogare i servi, per godere la sorpresa. Quando non c’era, pensava: “Verrà domani”. E rientrava nella sua camera, per farsi spogliare da Sonia, una cameriera vieux temps. Una sera Csaky le disse: “Il signore ha dovuto partire improvvisamente per l’Italia.” “Ha lasciato lettere?” “No, padrona.” “L’hai condotto alla stazione?” “No, padrona. Al suo hôtel” “Le sue valigie sono di là?” “È partito con le valigie, padrona. Ma ha lasciato alcuni abiti.” “Sta bene. Puoi andare.” Posò i fiori, si sfibbiò la cintura, si levò il cappello, abbandonò il velo sul cofano di velluto e di stagno, quel cofano che costituiva “il suo passato”. Quel cofano che radunava le memorie dei brividi offerti a un altro uomo: quel cofano pieno delle monete, con cui suo marito la pagava, per illudersi che fosse qualcosa di meglio che una moglie: una cortigiana.

Quel cofano che aveva fatto soffrire così crudelmente quel povero Tito, da indurlo a tentarne le borchie, a frugarne i segreti, e a vuotare il contenuto entro le due valigie gialle, fra i fazzoletti e le cravatte, fra i guanti d’antilope e i pija-mas di foulard. Kalantan, incapace come tutte le donne di capire la gelosia, e sopratutto la gelosia del passato, sorrise con benevolenza entro di sé, ripensando alla disperazione di Tito quando ella, per rasserenarlo, gli diceva: “Bambino, il passato non ci appartiene!” Non ci appartiene più quando ce lo rubano, per portarlo entro due gialle valigie verso la lontana America del Sud. Appena il piroscafo uscì dalla rada, Maud cominciò a civettare con alcuni passeggeri di varia stirpe. E poiché il mare, per tutta la traversata fu orribile, Tito non uscì quasi mai dalla sua cabina. Qualcuno gli disse che per vincere il mal di mare non bisognava prendere cibo. E Tito digiunò. Altri gli consigliarono di mangiare. E Tito mangiò. Una signora quasi vecchia e molto pia gli diede qualche goccia antisterica di Santa Maria Novella. Tito bevve l’acqua antisterica. Un rastaquero che tornava nella Pampa gli prescrisse delle acciughe. Tito provò le acciughe. Un altro gli consigliò di mettersi supino.

Tito si mise supino. Un terzo giurò che si deve stare bocconi. Tito stette bocconi. Ma non c’era nulla che lo guarisse. Mandò a chiamare il medico di bordo. “Dottore, che cosa si fa quando si ha il mal di mare?” “Si vomita.” Quel medico era uno scettico e un indifferente, come tutti i mercanti a clientela variabile. Sui ponti di passeggiata la sfringuellante Maud scintillava fra passeggeri delle più strane nazionalità. Un diplomatico boliviano le domandò se Tito non si disperasse per le sue infedeltà continue, ed ella rispose che in materia di infedeltà il cuore degli uomini è come le scarpe di vernice. Tutto dipende dalla prima volta. Se non si spaccano la prima volta non si spaccano più. Fu anche vista scomparire in qualche cabina di prima classe, ma poiché ciò non interessava altri che Tito, il quale più che del proprio cuore si occupava del proprio stomaco, è inutile che ci soffermiamo su tali innocenti porcheriole per uso transatlantico. Quando passarono l’Equatore, Maud danzò, e ricevette molti applausi e molti doni. Tito, in cabina, stava bocconi sul letto, mangiando acciughe intinte nell’acqua antisterica di Santa Maria Novella. E la luna, sul mare, era come un fiammifero acceso dietro un piattino di porcellana. Un tenore vagneriano, biondo come un cammello, che aveva cantato en todos los grandes teatros de Europa y de America, una sera di burrasca, premendosi con impeto melodrammatico le due mani sul corazon, le mormorò che accanto a lei avrebbe passato toda la vida sull’oceano, perché

jamás como en esta noche, el perfume del mar me ha parecido tan dulce. Un giorno il rastaquero della Pampa, vedendo che le sue premure per quel povero Tito erano vane (continuava ad avere il sueño agitado, la lengua suda y pastosa y el color paji-zo), provò a occuparsi di Maud. Il rastaquero le parve più degno di considerazione di quanto non fosse il tenore vagneriano, il quale le aveva già dichiarato apertamente che in vita sua non gli era mai passato per la cabeza di dare un centavo a una mujer, perché anzi las mujeres ritenevano un grande honor il concedergli un capricho, o, come dicono a Parigi, un béguin. Maud aveva superato da un pezzo lo stadio dei béguins e dei caprichos. Il rastaquero, per chi non ne avesse mai veduti, era il tipo del villan rifatto, quello che con un eufemismo si chiama cortesemente il gentilhomme campagnard. Teneva il cospicuo portafogli nella tasca interna del gilè, quasi contro la pelle, e usava mutande di tela con fettuccia finale, da avvolgersi a cinque giri intorno alla caviglia. Gli occhi divergevano come le tabelle stradali indicanti le opposte direzioni per due paesi diversi. Se non fosse stato così ricco poteva impiegarsi come sorvegliante in un grande magazzeno, perché con quegli occhi sembrava che guardasse da tutte le parti. Poiché la cabina di costui era vicina al salone di musica, Maud poté andar a danzare esclusivamente per lui, al suono di un valzer lento, che sembrava giungere da un’isola lontana. In segno di riconoscenza, il rastaquero le permise di scegliere entro il portafogli sepolto nella tasca interna del gilè, quasi contro la pelle, un piccolo ricordo di viaggio. Gentilezza per gentilezza, gratitudine per gratitudine, anche Maud gli permise di introdurre la mano fra la sua tunica e la pelle, per prendere ciò che volesse. Dalla sala di musica giungevano le note del valzer lento, mentre la nave filava diritto verso sud-ovest, con l'immutata velocità di sedici miglia.

Alcune ore dopo, quando il rastaquero tornava a letto, da solo, trovava fra le coltri una forcina da capelli, che conservava tutto il profumo di Maud, tutto lo squisito profumo di quella sua carezzevole lingerie violacea in crespo di China agrémentée di fini pieghettature d’organdi. Tito sapeva, intuiva che Cocaina stava facendo visite istruttive per le varie cabine del piroscafo. Ma ora provava una sensazione di gelosia indolora. Spieghiamoci: la gelosia fermentava, ma senza produrre le inquietudini parigine. Era come una puleggia scarrucolata che girasse regolarmente senza animare l’ingranaggio doloroso e passionale. Quando si ha un male fisico, anche se è un semplice mal di mare, i dolori morali non si sentono più. Vorrei creare una nuova terapia: curare le malattie dell’anima per mezzo delle malattie del corpo. Curare il rimorso con inoculazioni di influenza. Curare la gelosia con i bacilli della malaria. Guarire l’amore con iniezioni di spirochete. Credo che la medicina dell’avvenire dovrà dirigersi verso questi orizzonti. Il piroscafo fece uno scalo a Rio de Janeiro. Appena Tito si sentì sulla terra ferma voleva proseguire per Buenos Ayres in treno. Ma quando seppe che Cocaina avrebbe proseguito per mare, si adattò a ridiscendere nella fossa dei leoni, da cui uscì dopo altri cinque giorni di nausea a diciotto miglia all’ora. Erano giunti a Buenos Ayres. Non descriveremo lo sbarco, né lo spettacolo imponente dell’Avenida de Mayo. Tutti coloro che sono stati a Buenos Ayres se ne ricordano, e se c’è qualche miserabile che ancora non c’è stato, se ne vergogni e ci vada subito. E non descriveremo nemmeno il passabile successo di Maud. La sua bellezza andava declinando: ma i riflettori elettrici dei grandi Variétés e i sortilegi delle ciprie, delle matite e del carminio facevano di lei una creatura ancora desiderabile.

Dopo aver danzato alcuni mesi a Buenos Ayres, andò, seguita da Tito, Pierina e il cane, a Montevideo. Montevideo tre mesi. Rosario quindici giorni. Bahia Bianca: proposte matrimoniali d’un fabbricante di vernici. Fray Bentos: amore vulcanico da parte del direttore d’u-na grande fabbrica di estratto di carne. Un anno dopo il loro sbarco sul suolo americano, Maud, danzatrice in marsina, faceva un contratto vantaggioso col Casino di Mare del Piata, la spiaggia elegantissima, una fra le più lussuose stazioni climatiche dell’America del Sud. Il mezzo milione sottratto ai cari ricordi di famiglia della signora Kalantan Ter-Gregorianz era quasi esaurito. La salute di Tito declinava. Quel peregrinare di albergo in albergo, di città in città, constatando che qua e là, come funghi spuntavano sulla strada di Cocaina innamorati e amanti, gli indebolì progressivamente i nervi e gli impoverì il sangue. Era venuto in America con la speranza che i buoni contratti teatrali e i denari da lui guadagnati nell’opera di purificazione del passato di Kalantan, gli assicurassero l’esclusività del corpo di Cocaina. Ma il rastaquero conosciuto sul piroscafo, quella faccia oleosa di gentilhomme campagnard, li aveva seguiti nelle varie città col suo portafogli improsciuga-bile, e la sua libidine di gagliardo ripopolatore. Cocaina distribuiva le sue effusioni a titolo oneroso e a titolo gratuito: conscia oramai della precipitosa decadenza, si affannava a cercare il piacere senza perdere un giorno, senza rinunciare a un’occasione. E si era anche concessa a uomini che s’erano mostrati indegni della sua prodigalità.

“Tu offri il piacere, ed essi non te ne sono riconoscenti.” “E credi che io” rise beffarda “ogni volta che mi concedo a uno di costoro, aspiri alla sua stima o alla sua gratitudine? Gratitudine per che cosa? Io non mi concedo per fare un piacere a lui, ma per il mio piacere o per il denaro che può darmi. Che m’importa di ciò che può dire, se in quei cinque minuti durante i quali io sentivo il peso del suo corpo avvolgersi al mio, ho provato la tensione della libidine? Stima... ri-conoscenza... Illuso! Se speri di incatenarmi con questi argomenti, ti consiglio di cercarne altri.” “La tua bellezza è in liquidazione” le disse delirando Tito, che l'aveva già inutilmente minacciata d’abbandonarla. “Sei vecchia: nonostante i tuoi ventiquattro anni ne dimostri molti di più. Io ti amo perché sono saldato alla tua pelle, perché un’affinità elettiva mi lega a te, indipendentemente dalla bellezza. Sei vecchia. Potrai ancora interessare qualcuno che sarà attratto a te dal piacere bestiale di possederti, ma non dal tuo fascino: ti cercherà perché hai organi di femmina, non perché tu sia bella o giovine. Il tuo fascino posso sentirlo io solo che ricordo la tua tramontata bellezza. “Sei quasi un cadavere di donna. Potrai ancora trarre in inganno qualche miope, grazie alle tue ciprie e alle tue tinture: ma poi ti rifiuteranno come un biglietto male falsificato. Hai davanti a te la prospettiva di cinque o sei maschi, al massimo: di qualche avventura, tutt’al più. “Ebbene, Cocaina, se non vuoi che io ti sfugga per sempre, rinunzia a quelle poche avventure. Io ti sarò devoto per tutta la tua vita; quando più nessuno ti guarderà, ci sarò ancora io ad amarti, a dirti che sei bella, a illuderti d’essere ancora piacente. “Ti offro tutta un’esistenza. “Ma in cambio di quest’offerta ti chiedo, durante l’agonia della tua bellezza, quella fedeltà che tu non mi hai mai saputo concedere. “Pensa che ti si avvicina lo spettro della solitudine. Pensa al tempo in cui sarai ridotta a passare le tue notti da sola, gelida e vecchia, e nello svegliarti nel tuo letto ti vedrai le carni gialle che nessuno desidererà più.

“Anche allora io mi sentirò di amarti, se tu oggi respingi quegli uomini che ti cercano.” Cocaina lo ascoltò fissandolo con occhi aridi, e rispose: “L’idea della rinunzia mi spaventa.” “Ma ti rendi conto di ciò che ti offro in cambio?” “Sì. E preferisco trovarmi sola, abbandonata, domani, e per sempre, piuttosto che rinunziare al mio piacere stanotte. Lo spettro della solitudine è meno spaventoso che la realtà immediata della rinuncia.” “Disgraziata! ma hai fatto l’inventario di ciò che ti resta? Non lo sai che tutte le mattine ti devi strappare i peli intorno alle labbra? Non te la vedi la pelle del collo flaccida e sovrabbondante come la pelle del collo dei tacchini?” “Sì. Ma l’avventura mi tenta ancora.” “Pensa che domani sarai vecchia.” “Anche tu, dopo domani.” “Pagando, potrò avere donne giovani, belle, fresche.” “Anch’io, pagando, potrò offrirmi dei maschi gagliardi.” “È diverso” ribatté Tito. “Io ho sempre pagato. l'uomo paga sempre, anche quando ha ventanni; anche quando sembra che la donna gli si dia per amore. Tu invece che ti sei sempre venduta, t’accorgerai della triste novità del comperare. Saprai quanto è lugubre pagare l’amore.” “È una cosa che non ho ancora provata. Chissà che non abbia il suo lato piacevole. Vedremo. Ora lasciami andare, perché sono le nove. Il mio numero di danze al Casino è per le dieci e un quarto. Addio.” Finito lo spettacolo, i pochi posti rimasti liberi intorno alle tavole della roulette furono rumorosamente assaliti, mentre il capo dei croupiers gridava, dall’alto del suo stato maggiore: “Un peu de silence, s'il vous plaît.”

Tito girò intorno alle quattro tavole: tipi di etère intercontinentali, di uomini che-non-si-sa-come-vivano, di signore d’una certa età e di età incerta, di mères encore aimables, di vergini nude, con qualche piccola parte coperta, di donne radioattive, che s’erano fatta una fronte vasta, bianca, sorretta da due sopracciglia corrugate, cioè la faccia della donna crudele: le prime che si son viste erano carine: ma poi son divenute comuni come gli stereotipatissimi cani-lupo, e i braccialetti d’oro a serpente. Uomini calmi, compassati. Chasseurs premurosi che raccattavano i gettoni caduti e spazzolavano dal panno verde la cenere delle sigarette. Giocatrici leggiadre, emarginanti con diligenza burocratica tutti i numeri usciti, perché le serie si ripetono. Coloro che credono a queste ripetizioni della sorte, sono come chi pretende di applicare alle amanti future l’esperienza fatta con le donne passate. Al gioco e nella vita perdono invariabilmente. E Tito non trovava un posto. “Basterebbe” egli pensava “che a una qualunque di queste persone venisse un colpo apoplettico. Lascerebbero subito tre posti almeno: il morto se ne andrebbe, e due vicini porterebbero via il cadavere. La gente ha maggior pietà per i morti che per i vivi”. “Trente et un: rouge impair et passe!” Una vecchia che aveva perso tutto non si muoveva. Non perdere il posto, almeno. “Egoista come una tenia!” disse forte Tito. Un signore che era seduto davanti a lui si volse: “Arnaudi?” Era un antichissimo amico d’infanzia.

Che piaga tremenda gli amici d’infanzia! Perché hai avuto la disgrazia d’incontrarli quando ti mancava il lume della ragione, li devi sopportare per tutta la vita, in qualunque parte del mondo li incontri! “Perdo questi mille pesos” disse l’amico mostrandogli due o tre torri di gettoni “e poi usciamo.” La sala da gioco, col suo rumore indefinito, con le sue irradiazioni di oscure correnti, rammentava a Tito quei disegni dei trattati di fisica sperimentale, rappresentanti la limatura di ferro che si dispone sulle caiamite secondo certe linee di forza. Sentiva nell’aria, sopra i luminosi tappeti verdi, quelle linee di forza, e capiva come ci sia della gente che vive e muore di gioco. Il gioco non è che una condensazione dell’esistenza: la vita non è che un quarto d’ora alla roulette; gli arrivati sono quelli che vincono; e per vincere basta che il signore che è alla tua destra ti distragga, che la signora di sinistra ti impedisca di puntare dove vorresti tu: basta che la tua sedia sia vicina ai numeri bassi quando escono i numeri bassi; basta che tu raccolga nell’aria una voce, un numero, soffiato da una voce anonima, e che tu lo punti. Il gioco non è gioia di vincere, ma emozione di vivere intensamente. È la follia di affidare il proprio destino a certi numeri che sono come i cascami del calcolo, i detriti della matematica. Passare dal lavoro onesto alle bizzarrie del gioco è come lasciare la scienza per provare l’empirismo. Chi ha vinto con l'empirismo di un decotto o di una martingale, difficilmente ritorna alle iniezioni sottocutanee e ai prudenti commerci. "E di solito vinci?” gli domandò l’amico. “Stasera non ho giocato, ma perdo sempre” rispose Tito. “Giocano per vincere solamente le vecchie cocottes in ritiro.” I due amici si lasciarono.

Tito prese la via che conduceva all’albergo. Era notte. Sotto le palme, lungo la passeggiata a mare, le panche in ferro erano occupate da coppie d’amanti, silenziose come insetti in amore: ogni tanto i fari di automobili fuggenti proiettavano fasci di luce, su cui rimbalzavano suoni di risate, in corsa. Gli passò accanto una comitiva di signorine sudorifere, giovanotti irresistibili, ufficiali. Come in tutte le brigate dove c’e qualche signorina intellettuale e qualche elegante imbecille, parlavano di spiritismo e di teosofia. Le signorine incastonavano nel loro linguaggio spagnuolo qualche parola portoghese. In Italia adornano il linguaggio di parole francesi; in Francia di parole inglesi; nella Roma di Orazio le intellettuali usavano parole greche. Paese che vai, basbleuismo che trovi. Udendo lo scricchiolio della ghiaia sotto i suoi piedi, il portiere in redingote gli aperse la porta: nel vestibolo un marmocchio lottava, a suon di strilli, con la flemmatica nurse. Egli entrò nell’ascensore, e tre piani dell’albergo scesero sotto di lui. Quando fu nella propria camera si aggirò sui taciturni tappeti come un amente. Una zanzara ronzava per la stanza, posandosi or qua or là con quelle sue lunghissime gambe di signorina consunta dalla clorosi. Volò intorno alla testa di Tito, e gli si posò su una mano. Era di quelle che dànno la malaria. Con l’altra mano Tito la schiacciò. Ma poi rifletté, oscurandosi: “In quale inferiorità tremenda si trova l’uomo di fronte all’insetto! L’insetto, per uccidere l’uomo, non ha da far altro che pungerlo, l’uomo, per uccidere l’insetto, è obbligato a schiacciarlo”. Maud non tornava ancora. Tito si sedette sul letto, e posò lo sguardo sullo svegliarino: lo caricò, lo posò: sotto la lampada del letto era inchiodato un cartellino: Tito lo lesse,

limandosi nervosamente le unghie: Le prix de la chambre sera augmenté dans le cas où il ne sera pris au moins un des repas principaux à l’Hôtel. The price of this room will be augmented if one of the principal meals (lunch or dinner) is not taken in the hotel. Der Zimmerpreis erfährt Erhöhung wenn keine der beiden Hauptmahlzeiten (Lunch oder Diner) in Hotel eigenommen werden. Dal vano dell'ascensore venne un rumore di pulegge e di contrappesi. “È qui" disse Tito. Invece l'ascensore si fermò al piano di sotto. Attese ancora un istante con la speranza che si fosse fermato per lasciare lì sotto qualcuno, e che riprendesse l'ascesa per portare la sua Maud fino a lui. Ma invece udì il veicolo scendere dolcemente, spostando il volume dell'aria nel vano, col gemito d'un pneumatico che si sgonfia. Attraversò la stanza e aprì la finestra. In lontananza fluttuava nella notte, come per vapori di fosforo, la luminosità incerta di chissà quale città, come se fosse rispecchiata in un cristallo convesso: il cielo. Tito guardò le costellazioni dell'emisfero antartico: gruppi di stelle, limature di stelle, detriti di stelle, ingenue combinazioni d'oreficeria primitiva: si sentì piovere sulla faccia accaldata il blu della notte: cercò nel cielo due costellazioni di cui gli avevano parlato quand’era fanciullo: la Croce del Sud e l'Idra; ma ebbe l’impressione che il cielo di quell'altra parte del mondo fosse disordinato arbitrariamente come il suo cielo. Lungo il mare un gran viale sfoggiava i globi delle lampade ad arco, a distanze eguali, sul fondo cupo dell’acqua: sembravano gli hublots luminosi

d’una gran nave che viaggiasse lentamente con tutte le luci. L’aria portava, or sì or no, incerti accordi d’una musica lontana, proveniente da qualche villa: pareva che non la brezza recasse la musica, ma la musica conducesse a lui, nella notte afosa, qualche soffio di brezza. Sotto il folto di neri e grandi alberi, punteggiature di lumi avevano lo scintillio carbonico d’un fermaglio di strass in una capigliatura inquieta. Tito espose le mani fuori dalla finestra, come si fa in ferrovia, d’agosto, per chiedere alla velocità un refrigerio apparente. Contò i piani sotto di sé. Una quarantina di metri dal suolo. Sull’estuario correva un canotto a benzina, con delle chitarre e delle sigarette accese. Tito alzò gli occhi per vedere se, di fronte, non fumasse il Vesuvio. Ma la sua Cocaina non tornava ancora. Chiuse la finestra, toccò la chiave del ventilatore posto sul comodino e cominciò a spogliarsi lentamente. “Non sei ancora a letto?” disse Maud entrando d’improvviso col cappello in una mano e passandosi le dita dell’altra mano sulla fronte. “Come vedi...” rispose Tito freddamente, annodandosi intorno alle reni il cordone del pijama. “Che hai?” domandò Cocaina leggendo sulla faccia dell'amante le ragioni del malumore. “Dove sei stata finora?” “Ci siamo! Dove vuoi che io sia stata?” “È ciò che ti domando.” “Ho fatto un giro, in automobile.”

“Con chi?” “Con Arguedos.” “Lo studente?” “Sì.” “In automobile? Ma se avesse i denari per andare in automobile si prenderebbe un letto in un sanatorio!” “Che ne sai tu?” protestò la donna. La pelle delle donne reagisce subito alle scottature fatte al loro amante. “E dove prende un’automobile quell’infelice?” insistè Tito. “Se non gliel’hai prestata tu, se la sarà fatta imprestare da qualcun altro.” “Nessuno gli lascerebbe fra le mani un allacciascarpe.” “L’avrà affittata.” “Con i denari di chi?” “Con i miei. Tu credi che nessuno gli faccia credito? Gli ho fatto credito io. Gli ho imprestato mille pesos.” “E a che titolo?” “D’amicizia.” “Non te li restituirà mai più.” “Lo so.” “Allora è un dono...” “Chiamalo come vuoi.” E così dicendo, aprì la porta comunicante con la sua camera e scomparve, urtando con gli anelli contro lo stipite.

Tito, freddo, calmo, dolorosamente ostile, ritornò alla finestra, per chiedere all’infinito quel conforto che l'immen-sità della notte non nega a chi sa chiederglielo con dolorosa eloquenza. E bevendo a bocca aperta un soffio d’aria e d’azzurro (un grammofono cantava chissà dove) pensò, ridendo crudelmente entro di sé: “Una volta andava a letto con gli uomini per riceverne dei denari. Oggi per andare a letto con gli uomini li paga. Se un giorno fosse così atrocemente imbruttita da non trovar più un maschio, andrebbe sulle porte dei penitenziari ad attendere il primo evaso famelico che si gettasse, in mancanza di meglio, su di lei. “Ma non potrei mai ottenere la sua fedeltà.” Il grammofono vicino non cantò più. Un usignuolo teneva desto l’assonnato giardino d’una villa. Un violino invisibile agonizzava in un'altra villa. Il violino e l’usignuolo non si vedevano ma si narravano a vicenda la loro malinconia. Sembravano lo stesso usignuolo, lo stesso violino, che s’udivano, di notte, a Parigi, dalla villa di Kalantan, bianca come un ossario. Come è uniforme il mondo! E se fra quella villa di Parigi e questo albergo sud-americano non si stendesse l’oceano, la strada sarebbe popolata, qua e là, di usignoli e di violini come quelli! Il grammofono riattaccò. Avevano cambiato disco. Riattaccò per coprire gli altri suoni col suo batracico gargarismo. Il grammofono è il ranocchio di turno in quel grande pantano che è una grande città.

Quella notte Tito non dormì. Sentì trillare i campanelli: una volta per il cameriere: due volte per la cameriera: tre volte per il facchino... Intese rumori di passi sul tappeto nastriforme del corridoio. Udì salire dall’estuario il gemito d’una sirena in arrivo (che tristezza!) o in partenza (che delusione!). Accese la luce: camera d’albergo: numero della stanza e avvertenza: prezzi: la direzione non si ritiene responsabile dei valori non consegnati all’ufficio. Spense. Ebbe l’illusione d’addormentarsi, ma non dormì. Gli pareva d’essere appoggiato col dorso a una balaustra altissima, che a un tratto si staccasse e lo lasciasse cadere riverso, nel vuoto. Ma a metà del volo si svegliava con le braccia aperte e distese. Nell’armadio in stile Luigi XV un tarlo batteva il suo monotono richiamo. Tito rammentò che al suo paese chiamano quell’insetto l’orologio della morte, perché credono che il suo rumore sia il segno precursore dell’agonia. Invece è l’amore. È un duello amoroso: è la parola di richiamo che i due sessi producono battendo della testa nel legno della loro garçonnière. "E gli uomini li uccidono perché sono dei parassiti” pensava Tito. “E forse che l’uomo non è il più spaventevole fenomeno di parassitismo animale e vegetale? “Maud, Cocaina! “Cocaina, piccola donna tremenda e necessaria; veleno mortale e vivificatore: piccola donna a cui sono attaccato come un parassita, come il diplozoon paradoxum.” Gli tornavano alla memoria cose dimenticate, nozioni lontane, ricordi della sua adolescenza.

“Come il diplozoon paradoxum: un animaletto che quando ha trovato un compagno dell’altro sesso, gli si attacca con una ventosa vasta quanto tutto il corpo. “E rimangono uniti per sempre. “Per sempre. Espressione che usano tutti gli amanti. Sogno che realizzano solamente quei piccoli essermi perduti nei libri di parassitologia. “Io e Maud ci siamo attaccati con una reciproca ventosa...” Così vaneggiava Tito, mentre il verme nel legno continuava a battere il suo richiamo amoroso. Tito preferiva pensare che fosse l’orologio della morte. “Tutto è morte intorno a noi. Noi viviamo a spese del-l’humus, cioè della morte. Anche le idee viventi, moderne, precorritrici, vivono per opera d’un humus di idee defunte. “Vivere, che noia! Vedere gli uomini... Come sarebbe bella la vita se non ci fossero gli uomini! Vedere gli uccelli in piena libertà di riprodursi; le foreste invadere le città; le erbe crescere sui tavolini dei caffè; le galline far le ova e covarle sugli altari delle cattedrali abbandonate; i funghi crescere sulle pergamene delle biblioteche; i fulmini cadere sui talami deserti... l’uomo ha assegnato persino una direzione ai fulmini! “Oh, vedere finalmente, per i giardini pubblici, i cavalli mangiare i violaciocchi e correre in libertà!” Il cancello dell’ascensore, sbattuto con malgarbo, lo svegliò. Si pose una mano sul cuore. “Il cuore, i polmoni, il sangue... Sono stufo di sapere che il mio corpo è un laboratorio destinato a rinnovare e nutrire il mio protoplasma. Io non sono altro che fosforo azoto idrogeno ossigeno e carbonio. Sono stufo di guardarmi, di vedermi dall’alto, come se avessi gli occhi fuori di me stesso.

E sono stufo di amare cioè di consumare il mio fosforo azoto idrogeno ossigeno carbonio”. Per tutta la notte Tito fu ossessionato da questi vaneggiamenti. Batterono le ore a un campanile, a una scuola, a una stazione. Poi un gallo cantò, un altro rispose, un terzo interloquì. Come si ripetono e si imitano i galli e gli orologi e gli usignuoli e i grammofoni e i violini! Si voltò e rivoltò sopra le lenzuola. Mise la testa ai piedi del letto e fece scendere una gamba da una parte e l’altra dall’altra. Toccò il ventilatore, guardò l’ora, fermò il ventilatore, si vesti. Premette due volte. Venne una cameriera. Premette quattro volte: entrò il portiere. All’una ordinò di preparargli i bauli. Solo i suoi. Quelli della signora, no. All’altro diede l’ordine di fissare una cabina sul primo piroscafo che partisse per l’Europa. "Per oggi sarà un po’ difficile” azzardò il prudentissimo portiere. "Tuttavia posso telefonare a Buenos Ayres.” "Quando tutte le cabine d’un transatlantico sono vendute” rispose Tito "un portiere di grande albergo riesce sempre a trovarne ancora una, ed è la più bella di tutto il transatlantico.” Alcune ore dopo, verso mezzogiorno, quando Cocaina entrò, senza bussare, dalla sua camera in quella di Tito, trovò una signora anglosassone arrivata allora allora, che si stava insaponando l’abbondante grasso del pletorico viso. Maud fece qualche scusa timida alla protesta della meravigliata signora, e chiamò un cameriere. "Il caballero ha lasciato l'hôtel mezz’ora fa.” Maud non rispose.

"Ma poiché” aggiunse il cameriere tremendamente psicologo “il piroscafo non parte che sul tramonto, se la signora vuole che io vada a chiamarlo, prendendo un’automobile, entro otto ore glielo riporto qui.” “Portatemi” rispose Maud “delle tartine di burro.” Il cameriere fece per uscire. Maud lo richiamò: “E del miele.”

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Il mare era calmo. A bordo conobbe subito, prima ancora d’uscire dall'estuario, un illustre scienziato ungherese poliglotta che sputava, parlando, come fanno, per difendersi, le cavallette, i bruchi irritati e le portinaie. Si dedicava a importanti studi sulla psicologia della donna dei vari popoli in rapporto al peso dei suoi organi. Donna tedesca: cuore, un chilogramma; cervello, 825 grammi; statura, 1,70... Austriaca: cuore, 950; cervello, 850; capelli, 65 centimetri. Nordamericana: milza... Conobbe poi una spagnuola di Grenada, che per errore era entrata nella sua cabina. Quell’errore costò a Tito duecento pesos, che la spagnuola si fece versare all’atto della consegna. “Hanno un bel fegato queste spagnuole!” disse Tito allo scienziato ungherese. “Due chili circa” rispose l’erudito. Costui aveva, come i re delle favole, due figlie che si rassomigliavano moltissimo: erano certamente figlie della stessa madre. L’una grassoccia, rubiconda, florida; l’altra, più piccola, più minuta, più fine: c’era però in tutte e due il medesimo tipo: si rassomigliavano come un’arancia e un mandarino.

Tito le sbucciò tutte e due. Fece la solita vita di bordo: calcolare l’altezza approssimativa della nave; interrogare gli ufficiali sulla longitudine e sulla latitudine, sul telegrafo di macchina e sulla bussola: contemplare le nubi scarmigliate dal vento; accordare il proprio orologio su quelli del comando; insegnare i rimedi contro la nausea; stare sopra coperta, su una lunga sedia di giunco, a lasciarsi vellicare il viso dal vento profumato come una carezza fatta con timidi capelli; molestare con domande stupide il radiotelegrafista; ascoltare storie di naufragi mai avvenute; farsi preparare dal barman complicatissimi cocktails. Toccando il Brasile, cercò le farfalle che volavano nella sala di Kalantan, la bella armena, nel villino ai Campi Elisi; passando l’equatore partecipò alla solita festa e si mise in tasca un turacciolo per ricordo; sulla costa senegalese scese per qualche ora a vedere i postriboli delle negre, a cielo scoperto. Da un mercante cileno che esponeva a poppa la sua loquace mercanzia di pappagalli poliglotti, scimmie onaniste, bengalini e cardellini dal gilè fantasia, Tito, nei primi giorni di viaggio, si comperò una scimmia. Negli ultimi giorni gliela restituì, a titolo di dono. Il negoziante cileno l’accettò a titolo di favore. Tutti quelli che si comperano una scimmia nei primi giorni di viaggio, la restituiscono prima di sbarcare. Si parla di scimmie che hanno fatto, in questo modo, dieci volte la traversata. Una signorina olandese, figlia d’un grande fabbricante di marmellate, che aveva viaggiato molto, gli narrò d'aver visto a Porto Said un’egiziana subire l’estremo oltraggio (come dicono i moralisti) da un asino. “Sono appunto gli asini” confermò Tito “quelli che hanno maggior fortuna con le donne.” “Ma quello” delucidò la narratrice “non era un asino metaforico. Era un asino con quattro zampe." “E dove? In un prato?” “No: in un baraccone. Si pagava una sterlina per assistere al sacrificio.”

“E la sterlina” chiese Tito alla figlia del marmellataio olandese “a chi si dava?” “Alla donna.” “Io l’avrei data all’asino.” Gli presentarono qualche signora onesta, con cui fece i soliti discorsi educati che seguono le presentazioni. “Ma come, signora, ha già un figlio così alto?” “Oh, mi sono sposata che ero ancora una bimba.” Anche la signorina olandese lo ricevette per isbaglio nella sua cabina, e non gli fece far molta fatica per passare la linea dell’equatore. Ella era così navigata, che in letto zufolava, dando a Tito la sensazione imbarazzante di giacere con un uomo, sebbene fosse tutta calda, levigata e tornita come una lampadina elettrica. Anche la signora onesta che aveva già un ragazzo così alto scese nella fossa comune delle sue amanti passate. Mangiava con appetito, sebbene il dolore d'aver lasciato Maud gli mettesse una vaga inquietudine. Certe persone quando hanno un dolore morale non mangiano. Il dolore morale lo sentono nell'intestino. Tito quando soffriva per amore mangiava benissimo. Scendeva spesso nella sala delle macchine a contemplare, fra lo strepito assordante dei congegni, i fochisti, nudi, bronzei, atletici. Quei meravigliosi maschi che fanno venire l'acquolina in bocca alle vergini. Conobbe anche una signora che, sapendolo giornalista, e quindi qualcosa di molto vicino alla letteratura, gli chiese un motto da incidere sulla fibbia della giarrettiera. A bordo non si fa anticamera nel cuore delle donne: nei

viaggi di quaranta giorni o di due mesi, forse; ma in quelli di quindici giorni, mai. Gli tornavano alla memoria le cupe giornate parigine, il solitario vagabondaggio lungo gli ammazzatoi, verso il catalogato cimitero del Père Lachaise, quando i suoi sensi depressi gli permettevano di imaginare Maud passeggiante ignuda per la casa d’un altro, senza soffrirne. E ora invece sentiva fluire una così bramosa virilità. Era l’eccitamento del mare. L’odore dell’infinito è un perfido afrodisiaco. Una sera sedeva nel fumoir davanti a una signora: le gambe di costei, chiuse nelle calze di seta grigio-perla, avevano il brillio dei pesci appena pescati. “Che cosa fate?” domandò la signora. “Sto pregando” rispose Tito. “Mi pare che guardiate le mie gambe!” protestò la signora facendogli l’oeil en coulisses. “Noi atei preghiamo così.” Quella sera Tito andò a pregare nella cabina di quelle gambe. Il mare era calmo. Tutti sanno che un uomo e una donna, non uniti dal vincolo matrimoniale, sono minacciati di lunghe seccature se vengono sorpresi a bordo in atteggiamenti sospetti. Ebbene questa non è che una raffinatissima trovata delle Compagnie di Navigazione, le quali non lesinano mai i divertimenti e le attrazioni ai passeggeri di riguardo; e dopo l’orchestrina di tzigani (i caricaturisti della musica), la biblioteca, la Santa Messa, il giornale quotidiano con le ultime notizie (quelle ricevute prima della partenza), la palestra ginnastica, hanno escogitato la punizione del contrabbando amoroso, allo scopo di renderlo

più stuzzicante per i passeggeri della classe di gran lusso, di prima classe, e, anche, con qualche mancia, di seconda. Di terza, no. È troppo immorale. Arresto immediato. “Voi fate la corte a tutte le donne” gli disse il suo vicino di tavola, un rabbino di Varsavia che tornava dall’America con una chanteuse delicata come un ireos e con molti denari raccolti per la causa sionista. “Sì” rispose Tito. “Per gli ufficiali il duello è una mancanza; ma è una mancanza più grave se non si battono. Così succede nella galanteria; se esprimi a una donna i tuoi desideri, l’offendi; ma l’offendi di più se non la desideri.” “Dovete aver avuto molte donne, voi” gli disse il rabbino di Varsavia. “Credo che le conosciate molto bene!” “Ho avuto delle amanti” ammise Tito modestamente. “Ma il credere che chi ha avuto molte donne sia profondo in psicologia femminile è un errore, come credere che un guardiano di museo possa fare della critica d’arte. Del resto che cosa ci vuole per conquistare una donna? Nulla. Basta lasciarsi conquistare. L’uomo non sceglie mai. Egli crede di scegliere, ma invece è scelto. L’uomo che fa la corte a una donna, non cerca d’acciuffarla, ma si mette semplicemente nella condizione di essere acciuffato. Ne volete una prova? Osservate nelle specie animali. È quasi sempre più bello il maschio che la femmina. Che significa? Che è il maschio quello che deve essere scelto. La femmina non è cercata: infatti non ha bisogno di farsi bella: il maschio sì: guardate l’uccello del paradiso com’è sfolgorante; sua moglie com’è miserabile!” “È vero!” riconobbe il rabbino, tirandosi i baffi proiettati orizzontalmente come per indicare i punti cardinali. “Ma la cosa più difficile non è conquistare la donna, è lasciarla.” “Errore!” ribatté Tito. “L’uomo non lascia la donna, ma si mette nelle condizioni di essere lasciato. Se però ci sono casi eccezionali in cui il maschio vuol rompere le catene, c’è un mezzo infallibile, per ritrarsi

elegantemente; ed è questo: dire alla donna, con tono minaccioso, a bruciapelo: ‘So tutto!” “Tutto che cosa?” si meravigliò il rabbino. “La donna più innocente, credete a me, ha sempre, nel suo passato prossimo o remoto, qualche colpa che può essere quel tutto a cui alludete voi.” Due signorine inglesi, sedute di fronte, ascoltavano ammutolite, col naso a becco di flauto, sbarrando gli occhi come le giovenche al passaggio d’un treno-express. Il rabbino di Varsavia era un uomo simpaticissimo. Rise alla caricatura della Bibbia che Tito gli fece in uno di quei suoi periodi di esaltazione cocainica, e gli spiegò che i denari raccolti in America servivano a ricostruire il regno di Israele in Palestina, per ricondurvi gli Ebrei dispersi per il mondo. “E anche voi andrete a stare in Palestina?” domandò Tito. “Io no;” rispose il rabbino “io sto troppo bene a Varsavia.” “Ma le persecuzioni, i pogrom...” “Storie! ” rispose ridendo il rabbino. “Sono voci che mettiamo in circolazione noi, ebrei polacchi. Facciamo credere che in Polonia gli ebrei stiano male, per non lasciarne venire altri.” In ventidue giorni di viaggio Tito placò dieci volte, con cinque donne diverse, i suoi sensi eccitati dal sole, dall’odore del mare calmo, dall’erotismo che viaggia in tutti i transatlantici, dall’uterinità di cui sono impregnati gli ottoni, le tappezzerie, i pavimenti dei ponti, le sale vaste e i lunghi corridoi. Placò i sensi; e placando i sensi uccise quasi il ricordo di Maud che a ogni giro di elica si faceva più lontana. L’amore (attrazione erotica) diminuisce, come la forza di gravità, proporzionatamente al quadrato della distanza. Quando furono vicini a terra, Tito rimpianse di dover lasciare la signorina olandese dalle curve perfette e dolci come le marmellate di suo padre; la

signora onesta che aveva già un figlio alto così, perché si era sposata bambina; le due figlie del professore, simili e dissimili tra loro come un mandarino e un’arancia; la signora dalle gambe luminose alla ricerca d’un motto; l’amante di quel pince sans rire ebreo, il rabbino di Varsavia, delicata come un ireos, ma stupida come il fiore del sambuco... Rimpianse tutte queste donne che non avrebbe visto mai più. E non rimpiangeva Cocaina, la sua Cocaina, che non voleva mai più incontrare nella sua vita, Cocaina, che a quest’ora si dibatteva artificiosamente fra le braccia di quel ra-staquero plurimilionario che a spremergli il muso doveva secernere olio di ricino, o sul torace a carena dello studente Arguedos, che cercava invano un posto semi-gratuito in un sanatorio. Ma appena fu sul treno che lo portava a Torino, del ricordo della traversata non gli rimase altro che qualche sigaretta offertagli da un prodigo passeggero e un po' di rossore tropicale sulla pelle. E il pensiero corse a Cocaina, la piccola Cocaina lasciata dall'altra parte dell’Atlantico: la sua Cocaina dal profumo che non trovò mai più sulla pelle di nessuna donna: la sua Cocaina, sulla cui epidermide le essenze odorose reagivano prodigiosamente come su nessun’altra pelle femminile: Cocaina, Maud, femmina da cui si fugge e a cui si ritorna, donna-veleno che si odia e si ama, poiché è al tempo stesso la rovina e l’esaltazione, la sofferenza e l’ebbrezza, la morte più deliziosa e la vita più terribile. Rivide a Torino, culla del Risorgimento e custode della Santa Sindone, le solite facce, le solite cose. Centinaia di rondoni continuavano, sul crepuscolo, ad arruffare e dipanare la disordinata matassa dei loro voli, intorno alle torri del Palazzo Madama; rivide le solite persone salire sul solito tram, alla solita fermata, alla solita ora. Trovò qualche amico, qualche donna che, a pensarci bene, era stata sua. Noi talvolta incontriamo quella che fu nostra amante per un’ora o per un mese, e quasi non rammentiamo d’averle dedicato la cerimonia solenne che celebrava

l’asino laborioso con l’egiziana di Porto Said, l’importantissima cerimonia che dovrebbe automaticamente scattare nel nostro ricordo. Quel gesto ebbe dunque così poca importanza! Più nulla è rimasto in noi della sua carne, della sua elettricità, del suo respiro. Nulla! Appena compiuto quel gesto ci siamo rimessi a parlare, mentre ella si ricomponeva le vesti, di cose estranee e indifferenti. Quella funzione non aveva dunque lasciato in noi un sapore più forte di quello che ci lascia in bocca una sigaretta dopo che l’abbiamo buttata nel piattino. Eppure se veniamo a sapere che la nostra amante in corso, l’amante d’oggi, è appartenuta non fosse che per cinque minuti a un altro, ne proviamo, anche alla distanza di anni, uno strazio insostenibile. L’atto che ella ha subito da altri ci sembra una contaminazione indelebile: ci pare che il suo sangue sia inquinato, che la sua carne sia stata decomposta, manomessa, adulterata irreparabilmente da quell’atto, da quell’atto medesimo che noi non ricordiamo quasi più d’aver compiuto con la donna che passa sul marciapiede, accanto a noi. La gelosia è una febbre che ha origine in una stupida, infondata esaltazione del nostro cervello irriflessivo. La gelosia è un fenomeno di autosuggestione. La tua amante è andata a letto con Ipsilon. Tu odii Ipsilon, odii lei; hai sempre innanzi agli occhi lo spettro della tua amante e di Ipsilon allacciati ell'atto che ti sgomenta. Eppure anche tu, una volta, hai ingannato la tua amante per fare, nel letto della signora Zeta, ciò che Ipsilon ha fatto nel letto della tua amante. Ebbene, che è rimasto della signora Zeta, nella tua pelle, nella tua anima? Niente. Niente di più di quello che le carezze di Ipsilon possono aver lasciato nella carne della tua donna. Fenomeno autosuggestivo, dunque. Ne vuoi una prova? Se quell’individuo non lo vedi, te lo immagini odioso, ripugnante, ripulsivo e senti che, se lo incontrassi, lo uccideresti.

Ma se hai occasione di vederne la fotografia, cominci a capire che lo puoi guardare senza orrore. Se poi te lo presentassero di persona, credi a me, gli andresti incontro con un cordiale sorriso sulle labbra, lo guarderesti negli occhi senza fremere, e se poi fossi giunto al mio grado di perfezione, saresti anche capace di dargli cordialmente un colpetto giocondo sulla pancia, dicendogli: Bravo giovanotto! Col ragionamento, con l’educazione, si giungerà, in un non lontano avvenire, a far capire agli uomini l’infondatezza della gelosia. Verrà il giorno che i nostri diletti pargoli (i cornuti di domani) saranno preparati a essere becchi e non ne soffriranno più, perché avremo fatto loro delle iniezioni di buon senso, delle vaccinazioni anticornutiche. La gelosia di Tito era più tremenda ora che non vedeva i maschi di quanto non fosse venti giorni prima, quando se li trovava a portata di piede, in atto di fiutare nell’aria l’odore delle ultime scintille elettriche che scatenava invisibilmente il corpo di Maud. Una donna girovaga gli si offerse per venti lire. “Non è caro. Non pago nemmeno la mano d’opera. Andiamo. Però ti lasci profumare tutta.” La venditrice di sensazioni lo seguì nella camera di Tito e si lasciò cospargere di Avatar, il profumo di Maud. Provò molte donne tariffate. Erano belle, erano giovani, erano esperte. Ma non erano Cocaina! Versò il profumo di Cocaina, il deliziosissimo Avatar, sulla loro pelle, ma esso generava un odore diverso da quello che produceva sulla pelle di lei. Ogni pelle di donna interpreta a modo suo i profumi, come ogni artista interpreta a modo suo la musica.

Provò a esaurire i sensi, a smascolinizzarsi, passando dal letto di una donna al letto d’un’altra, ma quando la carne era come morta a qualunque stimolo, una sola cosa lo eccitava ancora; il ricordo, il desiderio di Maud. Ne aveva già fatto l’esperienza a Parigi, quando reduce dalle follie della insaziabile Kalantan, ritrovava in se stesso nuove sorgenti di piacere alla vista del corpo di Maud. Andò in giro per i quartieri eccentrici di Torino, come faceva nei giorni di squallore a Parigi. Ma camminando si sentiva già gravare sulle gambe il peso del corpo. È il primo segno della vecchiezza. È l'età in cui gli uomini cominciano a vestirsi di marron. In un dimenticato settore d’una valigia rivide quella certa cravatta di maglia verde, a grandi trasversali blu, e se la mise un mattino per andare a trovare l'amico fraticello, nel convento che era una specie di Legione Straniera per le vittime di fallimenti sentimentali. Un raggio di sole fece rivivere sulla cravatta un morto effluvio di Avatar. Sapeste come si profumano le lacrime scorrendo su un fresco viso di donna, e come si profumano le cravatte quando le donne ci piangono su! Nell’orto del convento svolavano, radendo il suolo, le rondini, e poi si libravano nell’aria, come per forbirsi il becco nelle nuvole. Un povero frate gettava minuzzoli di pane ai passeri poveri come lui. Nel portico scorrevano ondate di silenzio. L’amico fraticello gli venne incontro con le maniche protese, e lo salutò fratello in Cristo. Poi gli disse: “Sì, sono contento.” E gli consigliò di entrare in convento anche lui. “Ma non è cosa facile...” “Facilissima! Tu sei massone?” “No.”

“Ebbene, è come entrare in una loggia massonica.” Gli disse che il Buon Pastore fu felice di ritrovare la pecorella smarrita. “Lo so” rispose Tito. “Perché se non la ritrovava, ne aveva una di meno da mungere e da tosare.” Visitarono la sua cella, la biblioteca, il laboratorio d’un vecchio frate che studiava con amore i coleotteri e le farfalle. Lo guidò nella chiesa: “Mi rincresce” disse il fraticello a Tito “che non posso offrirti il vermouth, come quando ero cameriere a Parigi. Ma se posso offrirti una messa...” “Sta bene” accettò Tito. Vada per la messa. “La vuoi semplice o cantata?” “Com’è più presto fatto?” “È lo stesso.” “Se la canti tu...” “S’intende.” “Allora, cantata.” E ascoltò la messa. “Vuoi anche la benedizione?” “No, grazie. Sto benissimo così.” Passeggiarono lentamente sotto il portico e visitarono il refettorio. “Come si mangia?”

“A table d'hôte. Mangiano alla carta solo i malati.” Il fraticello gli spiegò che bisogna amare Cristo perché si è sacrificato per l’Umanità. E Tito gli rispose che i topi e i conigli immolati nei laboratori di fisiologia per provare i rimedi nuovi, a beneficio dell’umanità, sono altrettanti Gesù Cristo. Inorridito il fraticello lo supplicò di non bestemmiare, e gli spiegò che il topo non salva nessuno, mentre Gesù Cristo ha redento gli uomini. “Allora un pompiere che muore per salvare un uomo è più ammirevole di Cristo: perché c’è maggior merito a immolarsi per salvarne uno solo, che per salvarne miliardi e miliardi.” Il frate non fu convinto (o ne era già convinto prima), e non trovò di meglio che insistere perché anche Tito prendesse gli ordini minori. E usò parole così persuasive, che l’altro accomiatandosi non osò dargli del pazzo, ma gli promise: “Interrogherò la mia coscienza.” Rispose cioè come le signore che volendo uscire da un negozio senza comperare, dicono: “Ripasserò con mio marito.” Per due o tre sere andò in un caffè di via Po, familiare alla sua vita di studente, e rivide il poeta dialettale consumatore di caffè amaro, e il vecchio pittore specializzatosi nei paesaggi di Marte e nei fiori fantastici di Saturno, perciò non sapeva ritrarre la flora e la campagna dei nostri paesi. Tutti artisti, costoro. La gente è prodiga di certificati. Quando un tale è riuscito a mettere insieme un po' di terra e a farne uscire un naso, è consacrato artista: basta che un altro abbia quattro libri e un microscopio per essere uno scienziato. Ma fortunatamente, con la stessa facilità con cui crea le glorie, le demolisce. Gli dissero che Pietro Nocera, collega in giornalismo a Parigi, era lui pure a Torino. Infatti qualche giorno dopo lo incontrò.

“Sì, l’ho saputo” gli rispose Nocera “che hai fatto il colpo del mezzo milione. Ma non me ne sono affatto meravigliato. Non c'è da stupire che un uomo rubi. Io mi meraviglio che un uomo non rubi. Poiché in ogni uomo esiste allo stato latente, potenziale, un ladro, non faccio nessuna differenza fra chi ha rubato e chi deve ancora rubare.” “È stata l’occasione” si scusò Tito. “Per il passato ero sempre stato onesto.” ‘‘Lo so. Il mio amico Marco Romperti dice che l’onestà non è che furberia a lunga scadenza. E ora che cosa fai?” “Vivo in una camera ammobiliata: ho ancora qualche soldo da parte. Quando non ne avrò più mi ammazzerò o andrò a farmi frate.” “Ti avvicini alla fede?” “No. La religione mi fa pensare a quelle grandi società, appoggiate dal governo, per lo sfruttamento di miniere che nessuno ha mai visto. Le altre religioni le fanno un po’ di guerra, ma non troppo apertamente, affinché non si scopra che anch’esse sono fondate su miniere inesistenti. Ma poiché presidente onorario è il Padre Eterno, tutti quanti le prendono sul serio. Anch’io, forse, un giorno ne prenderò una sul serio, tanto più che non ho nulla da perdere nella fallita speculazione. E tu che cos’hai fatto a Parigi da quando ci siamo lasciati? E perché sei tornato in Italia?” “Mi ero innamorato di una donna volgaruccia, che mi piaceva per alcuni suoi difetti; ma ne aveva troppi: e alcuni non mi piacevano; cercai di raffinarla col consiglio, con letture ortopediche e ricostituenti; ma pretendere di raffinare una donna con le buone parole, è come concimare con zucchero un castagno, per fargli produrre marrons glacés. “Per reazione mi sono poi innamorato di una donna superiore: nobiltà all’esame chimico: aristocrazia antichissima: ed era anche bella. Ma ho constatato che in ogni donna, superiore o inferiore, si trovano sempre questi quattro ingredienti: nobiltà, donna comune, prostituta e serva. Variano le dosi, ma le sostanze sono sempre le stesse. Nella donna su-

periore troverai novantatre parti di nobiltà, ma le altre sette... “E purtroppo quelle sette particelle non sanno nasconderle. Le senti parlare da gran signore; ogni loro pensiero è vasto e puro ed eccelso come l’arcobaleno: fanno le schizzinose davanti alle piccole miserie della vita: quando sono con un uomo, le vetture pubbliche e le automobili di piazza sembrano troppo volgari per il loro soffice peso: ma quando sono sole, se ne vanno economicamente in tram: se le accompagni in un tearoom, la mancia che tu lasci al cameriere, anche se è superiore al prezzo totale delle bibite, ai loro occhi generosi è sempre troppo scarsa. Ma se vanno da sole lasciano nel piattino ciò che tu non oseresti gettare a un suonatore d’organetto. Se a te succede di perdere il portafogli, ridono; e ti insultano se te ne mostri preoccupato; ma quando esse debbono comperare una fettuccia per le scarpe, negoziano ostinatamente per venti centesimi, come a una riunione di plenipotenziari. ” “Lo so” lo trattenne Tito. “Queste cose potrei insegnarle a te. Ma tali difetti, quando li trovi nelle donne superiori, riescono simpatici, perché sono gli abissi corrispondenti alle loro vertiginose altezze. Ti prego di concludere.” “E così ho lasciato quella donna e Parigi, e sono tornato a Torino. Faccio il mediatore di terreni. Vuoi comperarti qualche metro di prato?” “Al cimitero, forse. Ma più tardi. E qui hai un’amante?” “Sì” rispose Nocera. “Una donnina qualunque, molto semplice, al di fuori, nel vestire, e negli atti: ma sotto i modi modesti ha un tesoro di semplicità delicate, e sotto gli abiti sobrii ha una biancheria intima raffinatissima.” Tito rivide in un attimo la lingerie di crespo di China mauve, agrémentée di fini pieghettature d’organdi. “È come le case mussulmane” proseguì Nocera “che di fuori sono insignificanti, quadrate, bianche di calcina: ma all’interno rivelano meraviglie di mosaici, giardini e fontane.” “Non tornerai a Parigi?” “No, Tito, come non ci tornerai nemmeno tu. Tu, io, il tuo amico cameriere e frate, la tua Maud, la tua... come si chiama?... Calomelan...”

“Kalantan.” “... siamo tutti guidati da un medesimo destino: siamo come i cani agonizzanti che vanno a nascondersi sotto i letti, sotto le tavole: siamo come i gatti inselvatichiti, vagabondi, che tornano alla loro casa per morire. Siamo gli uomini d’u-na società in decomposizione: tu, io, il tuo amico cameriere, o per una ragione o per l’altra, lasciamo Parigi, le grandi strade, le grandi apparenze, perché siamo vicini alla morte dei nostri desiderî: non aver più desiderî, non aver più curiosità equivale a morire. La tua signora armena, se ben ricordo ciò che mi narravi di lei, compì rapidamente il ciclo dei vizî per accoccolarsi nell’amore puro, nel delirio casto, come ti esprimevi tu. La tua Maud percorse la scalinata disadorna degli amori puri, in cerca di vizio, e per chiedere tutto il rendimento amoroso che possono dare gli organi, uccise gli organi stessi dell’amore. La nostra vita è un incalzare di idee; il tuo amico cameriere, che era un ateo, è divenuto d’improvviso un mistico.” “Macché! Ha la veste del mistico, ma se ne ride! ” “Meglio! Per il suo bisogno di rinunciare a qualche cosa ha accettato una clausura senz’aver fede, come chi si rassegni a una condanna che non merita. La nostra vita d’oggi è un precipitare di passioni: tu sei stato a lungo indeciso fra due donne, e per intensità di sentimento ne hai amate due in una volta. “Mi dici che Maud è quasi vecchia; e anche lei s’è lanciata volontariamente nella corsa verso la fine. “Tutti noi ci uccidiamo, in modo diverso, e moriamo anche se il cuore continua a battere. Rammenti ciò che diceva quel buon uomo, quel simpatico redattore capo, quell’al-coolista per sistema, metodo e convinzione più che per vizio? Ma come, non ricordi ciò che diceva al caffè Richelieu il giorno che ti abbiamo presentato alla signora armena? Diceva: Ter me le donne sono uteri vaganti, dietro i quali gli uomini corrono parlando di gloria e di ideali. Per non vedere questa brutalità, io, alcoolista per convinzione, bevo! E mi uccido.’ Tutti ci uccidiamo. Tutti noi, uomini del nostro tempo. E la cocaina dilagante è un simbolo dell’avvelenamento a cui tutti soggiacciamo. La cocaina non è il cloridra-to

di cocaina: è la dolce morte volontaria che ognuno di noi, con voce diversa e con differenti parole richiama! “Io abito qui, al secondo piano. Quando vuoi venirmi a trovare... Addio.” Tito riprese da solo la strada e s’avviò verso casa. Ritrovò in un baule le urne funerarie e l’ostensorio. Le urne erano sferiche e iridescenti come bolle di sapone, e l’ostensorio racchiudeva la fotografia del corpo nudo di Maud. Tolse la fotografia e se la mise in tasca, per averla sempre con sé. E tornò a uscire. Rientrò dopo pochi minuti o poche ore, con una decisione ferma, irremovibile: farsi frate; andare anch’egli nel convento che raccoglie i falliti spirituali. “Mi dedicherò allo studio delle farfalle e dei coleotteri, come faceva quel vecchio frate: un insetto è più elegante delle più eleganti signore; c'è più sfarzo in una scatola di cerambici e di cicindele che nelle vetrine dei gioiellieri parigini: ai balli d’ambasciata ho visto delle stonature: sulle ali degli insetti, mai! “Mi occuperò dell'orto: assisterò al prodigio del seme che germoglia, ed esce col suo tenero sorriso verde dalla terra. “È meraviglioso come il mistero dell’amore, e si compie senza vigliaccheria. “Mi lascerò crescere una gran barba. “Un’immensa barba. “Una fluentissima barba che sarà il quartier generale di tutte le mie farfalle e di tutti i miei coleotteri. Non userò più la cocaina, nemmeno per farmi cavare i denti.

“Domani a quest’ora busserò alla porta. Posdomani avrò già i sandali: tutto non ancora; ma qualcosa avrò già: il cordone, probabilmente. Ai soldati dànno per prima cosa il cucchiaio e la gamella. “E fra otto giorni mi sembrerà di aver sempre fatto il frate.” “Si può?” Era la padrona di casa che gli recava un radiotelegramma. Ti telegrafo da bordo del Caronia, sono diretta a Genova ma mi fermerò otto giorni a Dakar per danzare palazzo governatore ti prego venirmi incontro a Dakar ti amo. Cocaina. Tito prese un foglio di carta e scrisse: Maud Fabrège, danseuse, piroscafo Caronia; linea Buenos Ayres - Genova. Parto col primo piroscafo per Dakar ti desidero infinitamente. Tito. E corse all'ufficio telegrafico.

12

“Si vede ancora Genova” gli disse un suo vicino di tavola, offrendogli il binoccolo prismatico a dodici ingrandimenti. “Fra mezz’ora saremo in alto mare. Dove andate?” “A Dakar.” “E io a Teresina.” “Chi è Teresina?” “È una città brasiliana. Sono proprietario d’una gran fabbrica di essenze alimentari di mia invenzione.” “A che cosa servono?” “È una novità che lancerò in tutto il mondo fra sei mesi. Una cosa sbalorditiva. Voi sapete che ci sono le essenze di fiori per preparare acque da toeletta: rosa, verbena, garofano; e gli estratti di frutto: lampone, cedro, mandarino, per fabbricare sciroppi. Ma il frutto e il fiore non c’entrano: sono sintesi chimiche, estratti dal catrame. Ebbene, io ho inventato speciali essenze che versate sul pane o sulla farina, dànno loro il gusto di certi cibi: l’illusione è completa: avrete così l’estratto di costolette alla milanese con patatine, il roast-beaf sanguinante con tartufi, il pollo arrosto con contorno di asparagi. Bastano poche gocce.” Il mare non era calmo come durante l'ultimo viaggio. “Se permettete mi ritiro in cabina” impallidì umilmente Tito, premendosi un pugno sulla regione iliaca, come Meleagro morente. “Queste cose non vi interessano?” s’offese il chimico di Teresina.

“Dopo che ho mangiato mi fa nausea sentir parlare di cibi. Io sono come quegli uomini che appena hanno avuto una donna, si voltano dall’altra parte.” “Quali uomini?” “Tutti.” E senza indugiarsi in altre spiegazioni scese nella sua cabina, e non ne uscì che otto giorni dopo, per sbarcare sull’aromatica costa senegalese. Dakar. Intorno allo sbarcatoio, tra la folla dei facchini negri brillavano i candidi baracani arabi e le chiare divise degli ufficiali europei, sulla cui faccia luminosa il casco di sughero stendeva un’ombra nera come una bautta. Cocaina? Non c’è. Si sarebbe subito riconosciuto la sua linea bianca, aureolata dal disco scintillante dell’ombrellino. Dopo le formalità di sbarco, infilò la via che s’apriva diritta davanti a lui: a sinistra il villaggio berbero: a destra l’europeo: nel fondo s’elevava nel cielo rosso un minareto sorgente da una specie d’oasi. Soldati senegalesi, europei vestiti di kaki, bazar di tipo arabo: sottufficiali stracarichi di galloni, uomini pacifici, neri, di età indecifrabile, che seduti sulle stuoie di foglia, davanti al tukul, fumavano imperturbabilmente nel narghilé. Due negri vennero incontro a Tito offrendogli per pochi soldi, in un francese impressionante (una specie di francese come lo parlano i calabresi che non lo sanno) di lucidargli le scarpe e fargli la barba. Tito rifiutò. Dopo alcuni passi vide un uomo decentemente vestito, che subiva, su una sedia, le vessazioni simultanee di un barbiere e di un lustrascarpe. Femmine berbere dalle lunghe mammelle gettate dietro le spalle per placare la fame e l’impazienza dei negri figlioli

infilati in una fascia. E i marmocchi succhiavano il latte al seno, anzi, alla schiena materna, con la medesima assente indifferenza con cui i loro padri, accovacciati sulle stuoie, fumavano nel narghilé. Un ragazzino di quattro o cinque anni, nudo come una fontana, gli si attaccò ai calzoni: “Mossié, moà avoàr belle mère dormir avec vous, dis francs.” Tito cercò di spicciarlo. “Mossié, moà avoàr très belle soeur sept ans, dormir avec vous vingt francs .” A liberarlo dall’importuno ragazzino giunse un provvidenziale europeo, proprietario d’una confortevole casa da tè, fornita di berbere giovanissime: la più vecchia, sedici anni: egli spiegò che le berbere sono le più emozionanti donne del mondo, perché hanno il sangue bollente, si radono tutte le mattine col rasoio a mezzaluna e si cospargono d’acqua di rose. "Dopo che avrete avuto una berbera” disse il prosseneta "le altre donne non vi piaceranno più.” "In questo caso è un’imprudenza abituarsi, visto che di berbere non c’è abbondanza al mio paese. Volete piuttosto indicarmi il migliore albergo della città?” "Eccolo: Hotel République Française. Così non combiniamo niente? Il signore si sarebbe trovato bene. In ogni caso qua c'è il mio biglietto di visita. In qualunque momento voglia onorarmi...” Tito prese la carta, nella sua insistenza il prosseneta era stato così gentile, che Tito non gli poteva rispondere un no reciso. E s’accommiatò come quindici giorni innanzi s’era separato dall’amico fraticello, bramoso di ricondurlo a Dio. “Ci penserò.” Il portiere poliglotta sentenziò che miss Maud Fabrège onorava infatti della sua presenza l'hôtel e occupava le camere 9 e 17.

Tito calcolò: nove e diciassette ventisei: diviso due, tredici. Porta fortuna. “Amore mio, giungi in un pessimo momento. Fra un'ora debbo essere al circolo degli ufficiali per un ricevimento in mio onore: e non riesco a far aderire il rosso alle labbra: fa così caldo in questo paese! Pierina, nel baule piatto ci son delle calze più fini ancora: non vedi come sono pesanti? Queste servono per pattinare sul ghiaccio: non importa: dammi quelle che vuoi, ma fai presto.” Mentre Pierina inginocchiata davanti a lei le sfilzava e le infilzava le calze, ella guardava Tito. “Vedo che stai bene. Non mi hai ancora dato un bacio. Te ne darò al ritorno tanti tanti: ma ora no; questo rosso non riesco a farlo attaccare; sono imbruttita molto?” “Affatto.” “Non vuoi dirlo, ma lo so. Eppure guarda, su quel tavolino c’è un telegramma.” Tito prese il telegramma. “Leggi forte.” Tito lesse: “Barbamus Falabios Tagiko Ramungo Bombay 200.000 Viagaros Wolff. E domandò:” “È esperanto?” “No. Tu non conosci il dizionario delle abbreviazioni telegrafiche: è un libro che si usa in commercio: il mittente del telegramma è un ricco mercante di tappeti di Bombay, e si chiama Wolff. E quel Barbamus Falabios eccetera vuol dire che se io vado subito da lui (Falabios vuol dire ho bisogno urgente), pagherà la mia Ramungo, cioè la mia preziosa e delicata mercanzia duecentomila franchi, più le spese di andata e ritorno.”

“E tu che cosa gli hai risposto?” "Che la Ramungo si ritira dal commercio. Poveretto, ne soffrirà, perché mi ama, ma io non posso più sopportare né lui né gli altri uomini: Punico che io ami ancora un poco sei tu: ti voglio bene come a un fratello, come a un figlio; e mando al diavolo tutti i Barbamus Falabios del mondo. Ho rinunziato a quello, che sarebbe stato disposto a venir a vivere con me in Italia: mi aveva detto: da Bombay visitiamo la Persia, l’Arabia, la Siria, la costa settentrionale dell’Africa, e poi andiamo in Italia: è il viaggio che fanno, al ritorno, le rondini. Perché è anche poeta il mio mercante. Ora sono le quattro. Alle sei e mezzo io ritorno all'hôtel: pranziamo insieme. Dopo vado a danzare al consolato francese. Verrai anche tu. Arrivederci.” Tito la vide attraversare la strada rovente di polvere e di sole, con un’ondulazione dei fianchi troppo molli. “Pierina, credi che mediante una tua forte raccomandazione potrei farmi preparare un bagno?” “Venivo appunto a prendere ordini” rispose un cameriere, quasi parigino. “Ma occorre un po’ di tempo, signore.” “Affinché si riscaldi?” “Affinché si raffreddi.” Quando il blocco di ghiaccio fu sciolto, Tito s’allungò nella vasca e ci rimase un’ora. Poi si rivestì adagio adagio adagio, succhiando ogni tanto una bibita verdastra, ghiacciata. Maud Fabrège, danseuse, tornava carica di caldo e di rose. Il salone dei concerti al palazzo del governatore aveva per soffitto il cielo azzurro, ricco di stelle, come se le avessero rastrellate da tutto il firmamento, per radunarle in quel piccolo rettangolo. Quando giunse Tito quasi inosservato, il pubblico degli

invitati era già a posto: ufficiali europei così affumicati dal sole che, se non fossero stati contraddistinti dalla divisa di kaki gallonata d’oro, si sarebbero confusi con gli indigeni: i notabili solennemente avvolti nei bianchi baracani: qualcuno aveva il turbante di seta, i gambali cinghiati, il pugnale inoffensivo nella fascia bianca. Le braccia nude delle signore, di cui qualcuna velata, scendevano sulla seta sontuosamente drappeggiata e frusciante. Da tutti quegli uomini e quelle donne emanava, saliva, irrompeva verso l’alto un calore pesante, come se la terra volesse restituire al cielo l’energia termica ricevuta. Sotto il piccolo palco circondato di flabelli e di palme, si dimenava un’orchestrina di negri suonatori di violoncello, diretti da un maestro quasi bianco, in smoking quasi di moda. I camerieri del governatore, giravano in qua e in là recando, su vassoi tintinnanti, gelati in liquefazione. Il calore del tropico e l’ambiente coloniale sono molto più simpatici a vedersi nell’imitazione che ne fanno a Parigi, nei sotterranei tabarins notturni. Tito consultò il programma: e come prima di Maud dovevano prodursi un prestidigitatore inglese, un magnetizzatore egiziano e una chanteuse tedesca, uscì nella strada. Nella piazzetta buia e deserta del mercato fermentavano frutti e legumi putrefatti. In un caffè dove ordinò un tè ghiacciato trovò un giornale di Marsiglia. Accanto a lui un sergente senegalese, carico di medaglie e di aurei geroglifici, aspettava che il suo absinthe fosse tutto passato: un soldato francese, tipo del giovanotto meneinfi-schista dei boulevards, entra con elastica disinvoltura e si siede. Il sergente senegalese si alza e lo ammonisce: “Porquoi ti pas saluer moi?” E il soldato parigino, gettando uno sguardo di disprezzo al negro gallonato:

“Foutez moi la paix, vieux con!” “Et ça? Et ça?” protestò il sottufficiale senegalese accennando ai gradi che gli fregiavano la manica. “Ça? Ça c'est de la merde de pigeon!” rispose il parigino. E ordinò un bool di birra. Il sottufficiale dai molti gradi e dalle molte medaglie non seppe che cosa rispondere, e tornò al tavolino dove l'absinthe era tutto passato. E lo bevve con austerità tropicale. Tito uscì nella strada. Da una specie di capanna sgorgava un suono di chitarre e di nacchere, che accompagnavano il canto di una divetta spagnuola: Dónde vas con mantón de Manila? Dónde vas con vestido chinés? Una specie di régisseur lo invitò con oleosa premura a entrare nel variété. Lo spettacolo era cominciato appena allora. Un ragazzo gli vendette delle arance. Tutto in Africa ha sapore di cosa cotta, bruciata: i fiori hanno il profumo degli esemplari disseccati nell’erbario; la carne delle donne sa di lesso; e quando si morde un frutto, si sente nella bocca il caldo, dolciastro sapore delle confitures. Rifece la strada, rientrò nella sala dei concerti al palazzo del governatore. La chanteuse tedesca, bionda come lo zabaglione, cantava, sulla musica della Vedova Allegra i versi melanconici di Alfredo de Musset: ... Quand je mourrai, plantez un saule au cimetière.

Il pubblico delle intellettuali signore indigene applaudì con molto sudore e molto entusiasmo. E venne il turno di Maud. Tito non l’aveva mai vista così bella. Si contorceva in una danza nuova, ritmata dall’urto dei tacchi di legno sul palco armonico: tutto il corpo sembrava disarticolato, e le braccia molli, quasi senz’ossa, s’elevavano verso il cielo, verso quel rettangolo di cielo africano su cui tutte le stelle del mondo s’erano radunate a contemplarla: oh, quelle braccia di Maud, miracolosamente nude, come si alzavano, si stiravano, si allungavano verso le stelle! Ella è una cosa molle, elastica, che s’incurva a destra, a sinistra, in avanti, con la flessibilità d’un giglio che abbia un fiore così pesante da reclinare fino a terra il corpo stordito dal profumo. Sul petto e sulle braccia e intorno alle caviglie brillano gocce di sudore, e dai capelli sciolti cadono le rose e le forcine: ella sorride mostrando tutti i denti bianchissimi, e due grandi occhi stupefatti d’uccello di rapina. Dalle labbra sgocciola, col sudore, il rosso della pittura: sembrano gocce di sangue: le macchie nere delle ascelle brillano come non hanno mai brillato nemmeno nelle notti di spasimo. E la danzatrice continua a ondeggiare, a flettersi di qua e di là, come uno stelo di giglio investito dall’uragano. Le contorsioni del serpente si alternano alle pigre flessuosità amorose del felino: nel suo sguardo lampeggia all’improvviso una luce cattiva, che si dissipa per cedere a un sorriso pieno di dolcezza carezzevole. Passano nel suo sguardo la libidine, il capriccio, la crudeltà, il delitto. Tito rammentava d’aver visto una danza come quella, in una lontanissima notte parigina, durante una messa bianca, nella villa di Kalantan, ai Campi Elisi. Come tutto si rinnova, come tutto ritorna! Cocaina si inginocchia, s’arrovescia indietro, a ponte, come per offrire il sesso alla platea. Si oscura, risollevandosi, e ride.

Una collera improvvisa l’assale: batte rabbiosamente i tacchi e si rivolta come se fosse trafitta da qualcosa d'immondo: e poi s’accovaccia, si rialza, si contorce, sorride al cielo: s'immobilizza in una breve pausa, fissando le stelle come crocifissa dalla meraviglia: e poi piomba come corpo inerte, e non si alza che per ringraziare e sorridere a tutta quella gente che applaude con mani nere e con grida incomprensibili. Tito non vide altro che delle unghie violette su centinaia di mani brune, che si agitavano. Nella strada, una fila di automobili di decrepito modello. Uscirono i baracani, i turbanti, le braccia nude, le divise kaki, i suonatori, il prestidigitatore egiziano, con una specie di moglie che si portava sotto le braccia le cassette degli strumenti; la biondissima canterina tedesca in un gruppo di ufficiali famelici; e per ultima Maud, tutta sola. L’arsura s’era dissipata: dal mare veniva una brezza rugiadosa. Tito prese per la vita la sua Cocaina, e s’avviarono verso un punto bianco, la moschea, incastonata in una specie di oasi dove cominciano due infinite carovaniere. Camminavano nella notte e nella solitudine (avevano lasciato indietro le ultime capanne) con la leggerezza di due adolescenti, che fanno la prima passeggiata la sera che si sono dichiarati il loro amore. Ma su di essi incombeva una fatalità di agonia. “Ho lasciato Buenos Ayres per tornare in Italia, e ho danzato stasera per l’ultima volta: non sono più bella: ho qualche soldo da parte: mi ritirerò nella mia casa, in quel quarto piano verso il cortile dove gli odori delle ricche cucine mi hanno messo il desiderio frenetico dell’agiatezza. Ricordi? Forse troverò ancora qualche uomo a cui non dispiacerò: forse morrò in solitudine: io mi trovo, nella vita, a un bivio come questo: due grandi strade che vanno verso chissà quali parti dell’Africa: credo che qualunque delle due io sce-gliessi, mi condurrebbe a morire bruciata o vicino o lontano.”

Così disse la donna, sconsolatamente. Tito però non aveva mai creduto alla sfiducia degli uomini e delle donne. Tutti siamo ottimisti in fondo. C’è della gente che cerca “un amore sincero” nelle quarte pagine dei giornali. A misura che il tempo passa, si sviluppa in noi una facoltà di compensazione, affine a quella che nei ciechi sviluppa gli organi del tatto e dell’udito. Invecchiando sorge entro di noi una virtù di accomodamento. Gli artisti che ai primi capelli grigi si ritengono finiti, quando avranno la barba bianca si crederanno ancora giovani. Le donne che a trentanni si rassegnano sinceramente a rimaner zitelle, a trentacinque sperano di nuovo di trovar marito. Alle primissime rughe invisibili dicono: “Sono brutta: più nessun uomo mi guarda!”. Ma dieci anni dopo hanno la certezza di poter destare ancora incendiarie passioni. Essere l’ultimo amante di una donna è impossibile, poiché per quanto sia vecchia, per quanto sia brutta, s’illude di trovare ancora un maschio dopo di te. Ma Cocaina continuò: “T’ho pregato di venirmi incontro a Dakar, per fare insieme l’ultimo tratto del mio viaggio di ritorno. La lettera in cui mi parlavi della tua vita torinese così triste e così sola, mi ha fatto molta pena. Parlavi di morire. Anch’io sarei disposta a morire.” Cocaina diceva queste parole con tono pacato, dimesso, lasciando un braccio molle abbandonato nella mano bollente di Tito. Camminavano alla ventura, all’aperto: le immensità deserte sono più difficili che gli intricatissimi labirinti. Una pattuglia di soldati, uscenti dall’oscurità, si fermò. “Badate” disse il caporale in un francese abbastanza pulito “che fra poco deve passare il grande espresso dell’Africa Occidentale, e voi siete vicinissimi ai binari. È un treno che gioca delle sorprese: arriva addosso senza farsi sentire, perché in questa solitudine non c’è nessuna parete che raccolga e tramandi i rumori.”

"Grazie” rispose Tito. “Pas du tout, mon prince. Bonne nuit à la dame.” E la pattuglia scomparve. Tito quella sera aveva visto Cocaina bella come non era mai stata, e desiderabile come non era mai apparsa. Quella sua bellezza rinnovata gli aveva dato anziché una gioia, un nuovo dolore. Egli sentiva che per essere l’ultimo suo amante avrebbe dovuto attendere ancora molto tempo prima che la distruzione fosse completa. Cocaina si vedeva brutta: Cocaina si sentiva vecchia: ma non lo era ancora abbastanza per non piacere più. Tito non poteva ancora aver la gioia di essere l’ultimo. L’ultimo! Domani le avrebbero offerto un nuovo ricevimento in casa del Capo della dogana: per giovedì sera era invitata al consolato inglese: per sabato era attesa nella villa d’un ricco mercante indigeno. Domani o dopo domani, in quella colonia d’europei nauseati dalla carne odorosa di selvaggio delle negre, il profumo nordico di Maud avrebbe scatenato qualche curiosità. Tito era certo che i propositi di rinunzia espressi poc’anzi da Maud si sarebbero dissipati al primo sorriso d’un galante europeo. Questo sentiva Tito. Ma Cocaina, ormai malata nella volontà e stanca nei nervi, era come una cosa inerte, che si sarebbe comunque lasciata plasmare da una volontà di poco più forte. “Hai detto che saresti disposta a morire” mormorò Tito. “Hai detto che ti senti una donna finita, che non hai più nulla innanzi a te. Anch’io sono un cadavere che cammina. An-ch'io non ho altra strada che quella della morte. “Se io ti proponessi di morire stanotte, con me, accetteresti?” Cocaina attese un attimo. Una stella attraversò l’orizzonte: la donna si volse di scatto come se fosse stata toccata da qualcuno: gli occhi di Tito brillavano come quando era ubriaco di quella droga bianca che gli vendeva il mercante zoppo del caffè di Montmartre.

“Saresti disposta a morire?” “Anche subito?” “Anche subito.” “Ebbene io ti propongo la più bella delle morti: quella che dà la più pazza emozione: fra poco, qui, su questi binari deve passare il treno celerissimo dell’Africa Occidentale; è un treno che corre da giorni e giorni, e correrà per molti giorni ancora, e va ciecamente, senza vedere dove corre, senza vedere ciò che travolge: i macchinisti s’addormentano sui freni, e vanno vanno sulla strada rettilinea, giorno e notte...” “Vorresti farti schiacciare dal treno?” “Sì.” “Ma non t’accorgi, Tito, che tu non parli come una persona di questo mondo, ma usi le parole dei romanzi? Tu sei esaltato.” “Sì. L’esaltazione, l’ebbrezza non sono altro che una mano che ci porge il destino, una spinta che ci dà quando la nostra volontà è insufficiente. La notte africana, il tuo sudore, la tua voce, tutto questo mi esalta: e anche la tua sfiducia nella vita mi incoraggia a morire. Pensa, come è eccitante abbatterci qui, su questi binari infiniti, con le guance sull’acciaio freddo: sentire per un’ultima volta l’adesione dei nostri corpi frementi di paura. Ogni lume che ci parrà di vedere in lontananza, ogni rumore che ci parrà di udire, ci darà una pazzia lunga come l’eternità. E finalmente nella stretta dei nostri corpi, che sarà la più emozionante di tutta la nostra vita, sentiamo lo sferragliare del treno; vediamo la sua ombra avvicinarsi: ci facciamo piccoli come cani battuti; ma la cosa nera ci è sopra, ci travolge, ci stritola, mescola insieme per sempre il nostro sangue. “Pensa che né tu né io ormai abbiamo più nulla a ricevere dalla vita. Siamo stanchi. Siamo come morti. Vieni qui che ti baci ancora per un’ultima volta.”

E dicendo con infinita passione queste parole, Tito allacciò Maud con le due braccia e la costrinse, quasi svenuta, a inginocchiarsi, a sedere, a sdraiarsi per terra. Il cielo era una conca perfetta: se ne vedeva il bordo esattamente circolare come quando si è in pieno oceano: Cocaina era pallida: la fronte madida di sudore, gli occhi meravigliosamente dilatati come se vedesse sopra di sé la faccia della morte. Era la faccia di Tito che, supino sopra di lei, la baciava con veemenza epilettica sulla bocca, sulla gola, sugli occhi. Sotto la schiena di lei, la rotaia infinita si stendeva come una lama. Quella cosa di ferro piatta e prominente le spezzava le reni poiché ella vi era appoggiata con tutto il suo corpo, e col corpo di Tito abbattuto su di lei. “Cocaina!” gemeva Tito senza lasciar di baciarle le gote, senza cessar di morderle la bocca. “Cocaina, sono gli ultimi minuti. Dimmi ancora che mi ami.” “Ti amo!” gemette con voce d’agonia la donna. “Ti voglio!” rantolò Tito soffocandola con la pressione della propria bocca sulla gola e serrandola con le braccia come per ucciderla. “Ti voglio! Voglio morire mentre ti prendo per un’ultima volta. Voglio essere il tuo ultimo amante.” “Sì” ella gridò. “Prendimi!” Tito con mani tremanti le lacerò le vesti leggiere, la denudò completamente, e quando la vide tutta nuda, cominciò a baciarla di qua, di là, pazzamente, su tutto il corpo, sul seno, sugli occhi, nelle ascelle, strappandone con i denti ciuffi di peli, e succhiandole la carne sudata e sanguinante per i suoi morsi. “Prendimi!” ella rantolò ancora. Per un attimo i due corpi furono attaccati, compenetrati in uno solo. Ella si vide sulla faccia il volto congestionato e anelante di Tito, incorniciato dalle

stelle e dall'azzurro; si sentì schiacciare fra la dura rotaia d’acciaio e il peso anelante del maschio, che in quell’ultima sofferenza metteva l’ardore di tutta la sua vita e la frenesia di tutta la sua passione. Il morituro soffriva come non aveva mai sofferto, perché era quella l’ultima volta. Lei vibrava come non aveva mai vibrato, perché non aveva mai provato un eccitante più prodigioso della morte. Il viso del maschio era una contrattura unica di muscoli: la bocca era impastata di schiuma: gli occhi erano lucidi come lo smalto e il suo ritmo era così violento come se non con i suoi sensi la prendesse, ma stesse trafiggendola con un coltello. Ma a un tratto gemette lentamente: si fermò; le contratture si distesero, la fronte si spianò, gli occhi persero la luce spaventevole, e tutti i muscoli si rilassarono. Allentando la stretta delle braccia crudeli, si alzò. Cocaina era ancora distesa nel medesimo atteggiamento. Non v’era nulla d’impudico nella sua nudità inerte, in quella notte immensa, sotto la purezza delle stelle, sotto l’alcova azzurra dell’infinito. Ma il suo amante, l’ultimo amante, lanciò lo sguardo verso il sud, vide un’ombra nera avanzare sulle rotaie lucide. Allora prese sulle due braccia la donna nuda e la posò sull’erba secca, a qualche passo di distanza dai binari. Il grande espresso dell’Africa Occidentale apparve, passò, disparve, sollevando con la gran massa d’aria qualche lembo della lacerata lingerie mauve agrémentée di piccole pieghettature d’organdi. Cocaina aprì gli occhi, e vide la nera sbuffante ghirlanda dei lumi correre nella notte e scomparire, lasciando dietro di sé le lucide infinite sbarre d’acciaio. Il treno stritolava le sue stesse scintille.

Senza più dire una parola, Tito l’aiutò a rivestirsi, a comporre con spilli le vesti lacerate, e ripresero la strada verso la città, verso l’albergo. Si baciarono ancora una volta sulla soglia della stanza di lei. Il pomeriggio del domani, mentre Maud beveva un liquefatto gelato di banana a un nuovo ricevimento in suo onore, Tito s’imbarcava su un piroscafo diretto a Genova. Nel momento della partenza, quando le eliche cominciavano a cantare la romanza melanconica e gaia degli addii, Tito, cacciando la mano in una tasca dell’abito da viaggio, trovò un biglietto di visita. “Chi è costui? Dove ho incontrato costui?” E poi rammentò. Era quell’europeo che, poco dopo lo sbarco, gli aveva fatto l’elogio delle donne berbere e gli aveva dichiarato di tenerne a sua disposizione alcune, la più vecchia delle quali aveva sedici anni. Tito rilesse il biglietto sorridendo. E pensò: “Se ricorrevo a costui, i miei propositi di suicidio sarebbero scomparsi. “La mia gelosia, anche quest’ultima volta, era prodotta dalla lunga astinenza, dal radunato desiderio.” E rammentò che la notte innanzi, quando tornava con Cocaina all’albergo, dopo averla posseduta sulla rotaia ferroviaria, si era sentito molto più sereno. Aveva pensato che il domani forse ella si sarebbe data ad altri, e non ne aveva sofferto. Dakar era già quasi lontana. Tito, in piedi a poppa, rievocava i tempi in cui correva da Kalantan, a soffocare nella sua carne la gelosia ispiratagli da Maud. Fin da allora egli sapeva che la gelosia è un fenomeno fisico, ghiandolare. Sapeva che vuotando quelle ghiandole la gelosia scompariva.

Eppure certe volte, troppe volte se ne era dimenticato. Ora i suoi sensi erano tranquilli, perché la notte innanzi, sotto il soffio della brezza e sotto l'alito della morte, aveva disperso su quella sbarra d’acciaio infinita, tutta la sua gelosia. Ma ora? Ora che il piroscafo s’allontanava, ora che il tempo, il profumo eccitante del mare, il ricordo, l’erotismo di cui sono pieni i corridoi, le sale, le cabine dei transatlantici avrebbero fatto rinascere il suo desiderio e la sua gelosia; ora, dopo aver fremuto, come non mai, sulla carne di Maud, ora che l’aveva vista rinascere a nuova bellezza, ora che l’aveva vista danzare meravigliosamente, ora che Cocaina gli piaceva come non gli era mai piaciuta, come avrebbe fatto a vivere? E ora che aveva provato a morire con lei, come avrebbe trovato il coraggio di affrontare la morte da solo? Guardò ancora verso Dakar. Non si vedeva più. La nave era in mezzo all’oceano, e il firmamento le stava sopra, capovolto, con il bordo esattamente circolare all’intorno, come l’aveva visto la sera prima, capovolto sopra di sé, sopra la fronte di Cocaina, più sbiancata d’un cadavere, sopra il loro ultimo amplesso. E ripeté al mare il dolce nome: “Cocaina!” Cocaina, pallida come la polvere che inebria e uccide: Cocaina, donna passiva, irresponsabile come una cosa, come un pizzico di veleno, che non cerca nessuno, ma che se è assorbito uccide: Cocaina, essere inerte, che aveva accettato di morire quando Tito gliel’aveva proposto, e si era adattata a vivere quando Tito non aveva più voluto morire: Cocaina, che si era data a tutti coloro che l'avevano presa, e non s’era rifiutata a nessuno, perché è una fatica il rifiutarsi: Cocaina, donna materiata di bianco, squisito veleno: il veleno del nostro tempo, quello che insinua la dolcissima morte.

Tito ebbe la fortuna di trovare anche questa volta un mare agitatissimo, che lo costrinse a rimanere nella sua cabina fino a Genova. E poiché, quando un disgraziato sta male è meglio lasciarlo solo, prego il lettore di uscire un momento dalla cabina tanto più che debbo dirgli una cosa. La cosa è questa. Il Grande Espresso dell’Africa Occidentale che io ho fatto passare a Dakar non esiste. Ma io non ne ho colpa. A me faceva comodo che ci fosse. E giacché siamo in via di confidenze, confesserò che il Napoléon Hôtel di Place Vendôme, dove alloggiarono per vari mesi Tito e Maud, l’ho inventato io. Avrei potuto far avvenire l'azione all’Hôtel Bristol o allo stereotipatissimo e snobistico Hôtel Ritz; ma io non voglio fare la réclame agli alberghi, anche perché gli albergatori non hanno bisogno della mia réclame. E rientriamo pure nella cabina di Tito, che sta preparando le valigie, perché il porto di Genova è in vista.

13

Come Tito aveva previsto, dopo alcuni giorni dal distacco fu assalito dal ricordo di Cocaina. Ogni poco si fermava per la strada, e con abili manovre per non essere sorpreso, traeva di tasca la fotografia di Cocaina tutta nuda e se la guardava. "Sei di nuovo a Torino?” gli domandò Nocera. "Come vedi.” “E che cosa sei venuto a fare?” "A morire.” “E non potevi morire là?” "Non ho potuto.” "Hai ragione, fa troppo caldo al Senegai. Si fa meno fatica a vivere.”

Nocera scherzava su questo punto perché non credeva ai propositi suicidi di Tito. Ne aveva parlato troppo. Chi è risoluto a uccidersi, tace per non mettere il suo prossimo nelle condizioni di impedirgli il gesto o di prevenirlo. Chi vuol uccidersi si ammazza senza darne il preavviso. Un giorno aveva detto: “Ho provato tutto nella vita: l’amore, il gioco, gli eccitanti, gli ipnotici, il lavoro, l’ozio, il furto; ho visto donne di tutte le razze, e uomini d’ogni colore. Una cosa non conosco ancora: la morte. Voglio assaggiarla.” Pietro Nocera sentendo in tali parole più l’amore per le frasi che una convinzione determinata e irrevocabile, gli aveva risposto: “Non fare il tragico, Tito! Non parlare di morire. La vita è una farsa, una pochade.” “Lo so, Nocera. Ma poiché io non mi ci diverto, me ne vado prima che finisca la rappresentazione.”

“Sul tuo lenzuolo funebre ci sono allumacature letterarie” avvertì Nocera. “Tu non ti ucciderai. Ne discuti con troppa insistenza; fra le tue stesse parole tu cerchi un gancio al quale attaccarti per dimostrare a te medesimo che hai torto. Ciò che mi dici tende a una sola cosa: a provocare per parte mia un'obiezione, a cui risponderesti trionfalmente: ‘È giusto ciò che mi dici: mi hai persuaso; non mi ammazzo più'. Io invece, caro Tito, ti rispondo: ma sì, fai bene: ucciditi pure.” “Bravo, Nocera! Volevo appunto da te una parola incoraggiante. La sola cosa che mi lascia perplesso è il genere di morte che debbo scegliere. Asfissiarmi con una fuga di gas? È troppo lento. Non è cortesia lasciar fare alla morte una lunga anticamera, quando siamo noi a invitarla: non la si può far entrare per la scala di servizio, ma deve irrompere dalla porta principale, di colpo. L'ideale sarebbe morire in pieno oceano. È la morte più bella. Essere in un salone di prima classe, in una notte fantasmagorica, in una di quelle feste oceaniche, febbricitanti di musica, di azzurro, di lontananze e di velocità. Essere in mezzo alle signore miliardarie scollatissime, non vestite che di nastri e di diamanti: signore belle, radiose, che per l'occasione si sono caricate di gioielli e alleggerite di

anni. Uomini in marsina che combinano affari fra un continente e l’altro. Brindisi, champagne, orchestra che suona un ragh-time, una danzatrice che fa roteare le sue forme intemazionali su un palco avvolto di palme e inghirlandato di lampade. Brusio cosmopolita: cinesi, negri, mulatti, mercanti, viveurs, diplomatici, cocottes che cambiano continente per alzare le tariffe o per rinverginire. Tutta gente convocata dalla sorte, dalla fatalità, su quel piroscafo, con pretesti differenti, ma con un medesimo scopo: la morte. “A un tratto, un urto; migliaia di esistenze che gridano: qualche colpo di rivoltella: e l’acqua entra, avvolge tutti, sommerge tutti, soffoca le voci, fa galleggiare le tavole e gonfiarsi i tappeti; spegne tutte le luci. E rapidamente si affonda, si è sepolti sotto un velo, sotto una charmeuse di acqua azzurra, mentre hai ancora negli orecchi le misure del ragh-time che ti fanno da deliziosissima marcia funebre. Io credo che potrei morire quasi senza dibattermi: mentre gli altri si contorcono fra le onde delirando, io mi sentirei ancora, se non di accendere una sigaretta, certamente di masticare con flemma un pezzo di chawing-gum.

“Ma che vuoi, caro Nocera? Io non posso scegliere questo genere di morte perché soffro il mal di mare. “Bisogna quindi che rinunci a questa morte, ma credi che sarebbe elegante avere la sepoltura nell’oceano, senza l’umi-liazione dell’imballaggio nel feretro, e il seppellimento nella terra, in quella cosa sporca che è l'humus! “Sarai tu, Nocera, che t’incaricherai del mio cadavere. Voglio essere cremato.” “Che sciocchezza!” “Lo so. Jean Moréas disse: voglio essere cremato appunto perché ciò è cretino.” “Per conto mio” commentò Nocera “m’importa pochissimo che mi gettino in una palude o mi tumulino nell’abbazia di Westminster.” “A me invece” replicò Tito “sorride l’idea di turlupinare quelle otto schiere d’insetti sotterranei che facevano già conto di banchettare sul mio cadavere. Essere divorati dopo morti è ripugnante. Da vivi no. Vedi l’ostrica, che è mangiata viva, quale nobile animale! Ti incaricherai dunque della

mia cremazione: è uno spettacolo interessante: non hai mai visto? Il corpo sembra ancora vivo, si alza, si contorce, s’inginocchia, contrae le braccia, prende atteggiamenti comicamente osceni.” “Non è vero.” “Quando vedrai cremare me te ne convincerai e mi darai ragione. Ma non divaghiamo. Consigliami dunque un bel genere di morte.” “Gèttati dal quinto piano.” “È facile cadere su un balcone altrui.” “Bùttati sotto un treno.” “L’ho già provato una volta. Non mi piace. E poi, con questi ritardi...” Pietro Nocera perse la pazienza: “Non so che cosa consigliarti. Quando si è così difficili non si chiedono consigli, e non ci si ammazza. Si vive.”

Si mise allora a pensarci da solo, e dopo lunghe riflessioni concluse: “Se ingoio un potente veleno o se mi sparo cinque colpi di rivoltella, sono troppo sicuro di morire. Io invece vorrei scegliere un mezzo che mi concedesse qualche via di scampo o, per essere più esatti, un genere di violenza contro me stesso, che permettesse al destino, se il destino esiste, e se è contrario alla mia morte, di salvarmi. Se io mangio alcune compresse di sublimato, muoio di certo: e il destino non può opporsi: la sorte non può essere diversa. Se mi butto dall’alto d’un campanile mi spacco il cranio sul selciato e la sorte, il caso, il Padre Eterno non possono trattenermi per aria. “Io voglio lasciare al caso la possibilità di salvarmi, se il caso vuole che io mi salvi.” Faceva queste considerazioni camminando verso l’ospe-dale. Lesse alcune indicazioni, entrò in una porta, si rivolse a

un usciere, respirò l'odor di pulito e di acido fenico, salì qualche scala, infilò un corridoio. La dottoressa che cercava gli venne incontro con mani maschie, e un camicione da laboratorio che serbava intatta la grazia femminile della leggiadra studiosa. Erano stati compagni d’Università: avevano lavorato sul medesimo marmo anatomico, avevano fatto insieme le stessa strada per recarsi da una clinica all'altra. E vi fu anche un breve periodo in cui Tito amò vagamente la signorina: questa in un periodo diverso amò Tito, ma d’un amore leggiero, fatto di celia più che di sentimento. Le circostanze non favorirono la reciproca confessione. Quando Tito lasciò l'Università, le promise che si sarebbero riveduti. Da Parigi le mandò una cartolina con la torre Eiffel, che ella ricambiò con la veduta del Palazzo Carignano (opera del Juvara) e con una domanda: “Che cosa fa di bello?” domanda a cui egli non rispose. “Sì, Arnaudi, avremmo potuto dare un altro indirizzo alla nostra vita. Ricordo che un mattino d'inverno ci recavamo insieme alla clinica dermosifilopatica. Lei

mi aveva detto, con una certa timidezza commovente, alcune parole gentili. Faceva freddo: gli alberi del viale erano spogli e ramificati come i bronchi dei testi anatomici. A un tratto lei entrò in una tabaccheria: io aspettai fuori. Quando ritorna pensavo e promettevo - gli dirò che gli voglio bene. Ma lei uscì imprecando contro lo Stato, o il tabacco, o la tabaccaia, e il nostro discorso deviò. E la clinica dermosifilopatica era vicina. Entrammo e non se ne parlò più.” “Sarei stato più felice!” confessò tristemente Tito. “Tutta la nostra esistenza può dipendere dal salire su un tram piuttosto che su un altro, dall'entrare in una tabaccheria, dall'u-scire di casa un minuto prima o un minuto dopo.” Tito aggiunse che coloro ai quali fu necessario cambiar mestiere o mutar genere di studî, rimpiangono inconsolabilniente i libri o gli strumenti lasciati: è come per il primo amore: non si dimentica mai, perché sembra l’unico degno.

Le narrò come la sua vita fosse amareggiata dalla nostalgia del microscopio, delle auscultazioni, delle provette, delle analisi, delle reazioni. E le chiese di visitare i laboratori, le sale operatorie, gli apparecchi. “Sono molto lieta d’accontentarvi. Cominciamo dalle corsie?” Uscirono dal laboratorio, attraversarono un atrio bianco, dalle grandi finestre di vetro smerigliato. Monache taciturne. Odor di cucina e di disinfettanti. Passarono fra le doppie lunghissime file di letti bianchi, uguali, contraddistinti da cartellini. S’avvicinarono ai casi più tipici, alle forme più strane. Quante malattie diverse fra quei letti tutti eguali; quali differenti destini in quelle corsie simmetriche e uniformi! La signorina guidava Tito di qua e di là, soffermandosi sui malati più interessanti, a spiegargli gli ultimi metodi diagnostici e le nuove cure. Nella sezione chirurgica odorosa di iodoformio una suora incoraggiava un malato delirante: “Pensa” gli diceva “che hai già una gamba in paradiso, e che presto andrai a raggiungerlo.”

Passarono in un’altra sala. Altri letti, altre corsie. Monache silenziose, camici bianchi, finestre altissime dai vetri smerigliati. Nella sala mortuaria, su un letticciuolo basso giaceva il cadavere d’un colonnello, con le medaglie e la spada. Vicino al capo, sul cuscino, il suo berretto. “Il cappello sul letto porta sfortuna” avvertì sorridendo Tito. “Quale disgrazia può toccargli ora che è morto?” “Di risuscitare.” Entrarono nell’anfiteatro. Tito s’era seduto alcuni anni addietro su quei banchi semicircolari. “Ci mettevamo sempre a questo posto” disse la signorina. “Ricorda? Io qua e lei alla mia destra.” Salirono un piano, visitarono altre sale, fecero funzionare alcuni apparecchi, e rientrarono nel laboratorio.

In una vetrina grandi barattoli di vetro, pieni di alcool giallo, ognuno dei quali conteneva un feto umano: feti di tre mesi, quattro, cinque, sei, sette, otto: alcuni col cordone ombelicale attorcigliato come un ricciolo, altri con un sorriso ironico, altri con un'espressione di scherno. Ma tutti con una faccia gaia, e con un atteggiamento canzonatore delle mani, come se facessero gli sberleffi alla vita che non è riuscita ad acciuffarli. La sala attigua ospitava grandi vetrine piene di tubetti, messi in piedi, con una candida capigliatura settecentesca di cotone idrofilo a guisa di tappo. “Sono colture di bacilli?” “Sì” rispose la signorina. “Difterite, polmonite, malaria, tifo...” e intanto accennava ai vari tubi, ognuno dei quali recava un biglietto. Mentre gli parlava della colorazione dei bacilli per le preparazioni microscopiche, passò un uomo dai piedi enormi uscenti dal camice bianco. “Dottore” disse la signorina staccandosi da Tito che rimase solo davanti ai tubi delle culture di bacilli.

“Hanno telefonato dall'istituto di anatomia: chiedono un cadavere di donna, possibilmente giovane.” “Per il momento non ho nulla” rispose il medico dopo un breve raccoglimento “ma per stasera al più tardi spero che se ne faccia uno. Di donna, ha detto? Ho ciò che occorre. Risponda al professore che stasera spero di mandarglielo.” E passò nell'altra stanza. Tito aveva approfittato del momentaneo distacco della signorina per impadronirsi d'uno di quei tubetti di vetro, e cacciarlo abilmente in una tasca interna della giubba. Si trattenne ancora qualche poco, ascoltando distratto e impaziente le spiegazioni della leggiadra guida. E quando poté uscire, filò in fretta verso casa, accarezzando dal di fuori della giubba il tubo di coltura. “Tifo! Tifo! Bacilli di tifo. Io bevo tutto questo. Vado incontro alla morte. Al genere di morte che io cerco.

Se il destino vorrà salvarmi mi metterà fra le mani d’un medico capace di guarirmi.” Agitò la sostanza liquida e mucillaginosa, la versò tutta in un bicchiere, e bevve. Aveva gusto salmastro e acidulo. “Non sono cattive bibite le colture di bacilli.” E vi bevve dietro un bicchierino di chartreuse. Tolse dal portafogli la fotografia di Cocaina tutta nuda, la guardò, la ripose. Allargò sulla scrivania un foglio bianco e scrisse: “Mi uccido perché mi fa schifo vivere. Ogni uomo intelligente, giunto ai ventotto anni, dovrebbe fare altrettanto. “Alla mia sepoltura non voglio preti. Ma poiché i preti non servono al morto, bensì ai vivi, se ci saranno i preti, voglio anche un rabbino e un pastore valdese. Io ho molta simpatia per i sacerdoti di tutte le religioni, perché o sono in buona fede, e allora li ritengo degni di ammirazione; o sono in malafede, e

in questo caso sono ammirevoli come tutti gli abili mistificatori. “Voglio essere messo nella bara in pijama verde, con le mani in tasca. “Esigo di essere cremato. “Delle mie ceneri si riempiranno le due urne cinerarie sferiche e variopinte: una la terrà per mio ricordo Pietro Noce-ra; l’altra la mia Maud Fabrège. “A Pietro Nocera lascio anche tutti i miei libri e i miei abiti. Al mio amico frate lascio l’ostensorio d’argento dorato. A Maud Fabrège (Maddalena Panardi) i miei pochi gioielli. “I denari li lascio alla Società Protettrice degli Animali”. Fece la firma, appose la data, chiuse in una busta così larga che richiese doppia dose di saliva, e scrisse sopra: Mio testamento da aprirsi appena sarò morto.

E per espellere la malinconia uscì di casa, guardandosi a destra e a sinistra per non andar a morire sotto un tram. Si cacciò nel naso qualche pizzico di pallida droga ed entrò in un cinematografo. Ma non vide nulla. “Quando dissi a mia madre che soffrivo per un dente, me lo fece estrarre: quando mi lagnai per un foruncolo me lo schiacciò: quando le confessai che soffrivo per una donna mi diede dello stupido. Poco dopo la mia venuta al mondo mio padre mandò a chiamare un prete: poiché mio padre mandò a chiamare quel prete piuttosto che un altro, dovetti onorare un dio piuttosto che un suo concorrente: quando cambiai religione, mi diedero del rinnegato perché non volli più servirmi da quel prete dal quale si serviva mio padre. Da ragazzo mi hanno insegnato l’educazione: l’educazione non è altro che mentire: fingere di ignorare la cosa che all’altro rincresce che noi sappiamo: sorridere alla persona a cui sputeremmo volentieri in un occhio: dire grazie quando vorremmo dire crepa. Alcuni anni dopo mi sono ribellato all’educazione, e allora ho sbandierato la gioia della sincerità. Più tardi ancora ho capito che dalla sincerità non mi proveniva che del danno. E

così sono tornato a mentire. Tanto valeva seguire subito gli insegnamenti primitivi. Dapprima mi avevano detto che la vox populi, l’opinione pubblica, è veritiera: in certi casi che mi toccarono da vicino ho fatto indagini per conto mio e ho scoperto che l’opinione pubblica errava: ma poi ho approfondito le indagini e ho dovuto ammettere che l’opinione pubblica aveva ragione. Quando tutti quanti dicono che Tizio è un ladro e Tizia è una sgualdrina, non lo credi: per un anno o due giuri sulla loro purezza: ma dopo il terzo anno che li conosci, t’accorgi che in lui c’è molta disonestà e in lei molta sgualdrineria. Tanto valeva credere subito alla vox populi. A vent’anni mi hanno detto di giurare fedeltà al Re, individuo che fa il Re perché lo faceva suo padre e prima di lui l’aveva fatto suo nonno. Ho giurato perché mi hanno costretto. Se non mi costringevano non giuravo. E dopo mi hanno mandato ad ammazzare della gente che io non conoscevo, e che era vestita pressapoco come me. Un giorno mi dissero: ‘Vedi? Quello è un tuo nemico. Spàragli’. Io sparo. Non lo colpisco: lui spara a me. Mi fa una ferita. Non so perchè mi hanno detto che quella è una gloriosa ferita”.

E intanto la cinematografia si svolgeva: agli atti succedevano gli intervalli, gli spettatori si rinnovavano, e Tito rimaneva immobile sulla sua poltrona a fantasticare. Aveva fiutato tutta la cocaina della scatola. Un inserviente venne ad avvertirlo che aveva già visto tre volte lo spettacolo, e lo invitava a uscire. Per la strada continuò a fantasticare sulle cose più sconnesse e lontane: pensò che ormai aveva ventotto anni, l’età tragica degli amanti maschi: non si ha più il vigore dell’amante giovane e non si ha ancora il denaro dell’amante vecchio. Pensò che la donna, che quando ti ama farebbe qualunque sacrificio, quando non ti ama più è capace di farti qualunque male per uno sfogo della sua bestialità, è capace di creare calunnie, ordire congiure, farsi complice di insidie ai tuoi danni. Rise degli ideali: in ogni più nobile aspirazione c’è il riflesso metallico del denaro. Sentì rinascere vecchie emozioni scomparse; non c’è amore senza gelosia: solo le donne e i ruffiani sostengono il contrario. Studiò nuove forme di suicidio: gettarsi dalla seconda galleria di un teatro a capofitto sulle poltrone. Le donne che si concedono a chicchessia, il giorno che non amano più l’uomo che le ama, gli si rifiutano: il giorno che si concedono a te

fanno cadere dall’alto la concessione del loro corpo: ma quando tu rimproveri loro di essersi concesse a un altro, ti rispondono che quel contatto è un incidente di nessuna importanza. Girò per i caffè frequentati da commercianti. “Non ho mai capito come si possa vivere sul commercio, cioè vendere a cento ciò che a me costa dieci: tutte le volte che ho dovuto vendere, ho dato per dieci ciò che mi costava centocinquanta.” Stabilì che, se fosse nato un’altra volta, avrebbe fatto il vagabondo o l'accattone. I denari valgono in quanto li puoi spendere. Se devi lavorare ti manca il tempo di spendere i danari guadagnati. Bisogna nascere ricchi o rubare. Che co-s’è uccidere un uomo? In cinque minuti hai il tempo di premeditare, eseguire, pentirti e dimenticare. Che cos’è un’operazione dolorosa (per l’altro) che non dura più di trenta secondi, in confronto della felicità di tutta la mia vita? Ogni tanto si ricordava di essere vicino alla morte. I bacilli avevano già cominciato la loro opera benefica. Sentiva di uscire dalla vita stanco e annoiato come

dal letto di una cortigiana, e si compiaceva di essersi sempre annoiato: beati quelli che s’annoiano, perché usciranno senza rimpianti. E poiché il lievito di tutta la sua vita era stata la donna, il pensiero sconnesso ritornava invariabilmente a lei. “Voi almanaccate” pensava “su quali possano essere le ragioni psicologiche, fisiologiche, patologiche, degenerative per cui la vostra amante vi inganna. Ma una donna si dà, il più delle volte, solamente perché ha un bel paio di giarrettiere da far ammirare.” Rievocò, ma senza dolore, alcuni squarci della sua vita di amante. Cocaina, la sua Cocaina lontana gli dava l’esaltazio-ne d’un’ora: dopo averla posseduta, sentiva una frenesia di creazione, un entusiasmo di vivere: ma un’ora dopo sottentrava la prostrazione, il taedium vitae, la gelosia, il timore di perderla, l’abbattimento inguaribile. Quella donna e quella polvere gli avevano dato i medesimi fenomeni d’un avvelenamento che doveva trascinarlo verso la fine. Se non avesse incontrato quella donna, a quest’ora farebbe il medico,

guarderebbe in un microscopio, senza vedere nulla: o vedendo tutto: gli occhi ciechi di un poeta come Omero o come Milton vedono di più che i presuntuosi stromenti di precisione. Gli apparve alla fantasia l'imagine di Cocaina, invecchiata, imbruttita, ma abilmente dipinta. La mia infelicità proviene da un tubetto di carminio per le labbra, una matita azzurra e una scatola di cipria. Ebbe un vago pentimento di non aver accolto l’invito dell’amico fraticello. L’ascetismo, sia che l’individuo non desideri, come l’eunuco, o non desideri più, come San Francesco d’Assisi, è segno di scarsa vitalità. Io ora potrei essere un mistico. Il misticismo non è che virilità in liquidazione: sperma andato a male. “Ma perché faccio queste riflessioni fantastiche? Io debbo avere un po’ di febbre” disse poi fra sé e sé tastandosi il polso, mentre si dirigeva verso casa. In un cassetto trovò un termometro: se lo mise sotto l’ascella: trentanove. Posò il termometro, si levò una scarpa, poi l'altra, poi il resto e si mise a letto.

La malattia si manifestava con sintomi di angina; febbre, debolezza generale... Ma come, angina? Ho ingoiato bacilli di tifo. Sarà dunque un tifo anomalo. Riepilogò il suo programma di morte: “Voglio lasciare al destino la più ampia libertà di uccidermi o di salvarmi: agirò come un malato qualunque: chiamerò il medico, dichiarerò i sintomi, seguirò la cura. Se il destino vorrà ch'io viva, mi farà vivere. Io non mi opporrò. Se vorrà ch’io muoia, non farò opposizioni alla morte, più di quante non ne faccia un malato comune. Non dirò in che modo mi sono prodotto il male. Se il destino vuole che il medico lo capisca, lo capirà da sé”. Dormì parecchie ore d'un sonno agitato, febbricitante. Quando si svegliò vide al suo capezzale Pietro Nocera, la padrona di casa e Maud. Maud, che era arrivata poche ore prima dal Senegai, aveva sùbito cercato di lui. Alla vista della donna, un vago desiderio di vivere si ridestò in Tito. Ricordando che per il tifo si pongono

sul ventre vesciche di ghiaccio, chiese una vescica di ghiaccio, in attesa del medico. “Gli faccio uno zabaglione, signor Nocera?” “Sì” approvò Nocera. “No” s’oppose il malato, rammentando che nel tifo è prescritta la dieta assoluta. Digiuno e ghiaccio sul ventre. Ghiaccio sul ventre e digiuno. “C’è il medico” annunziò Maud che era andata ad aprire. Entrò il famoso professor Libani, giovine scienziato modernissimo, dai capelli d’oro, dagli occhiali d’oro, con molta oreficeria sbandata sulla pancia e nelle dita. Si sedette: allargò sul malato il suo occhio clinico: tastò il polso, tirò giù le lenzuola, tirò su la camicia, palpò, auscultò, guardò, e si sedette di nuovo per tradurre in parole umili il responso della Scienza. A Tito, appena lo scienziato aperse la bocca, parve di veder uscire una parola: tifo. Invece lo studioso sentenziò:

“Lei beve latte di capra.” “Nossignore.” “Sì. Lei beve latte di capra.” “Impossibile, dottore.” “Che ne sa lei? Lei beve ciò che le dà il lattivendolo.” “Il lattivendolo non mi dà nulla perché io detesto il latte, quella schifosa secrezione di ghiandole. Ne ho bevuto da bimbo, fino all’età di dieci mesi, perché non mi davano altro. Ma appena ho avuto il lume della ragione...” “Non importa” ammise gravemente il medico. “Lei ha...” E Tito s’attese nuovamente di sentire la tremenda parola: tifo. “Lei ha una setticemia da coli, cioè un’infezione del sangue." “È grave?” impallidì Maud.

“No” incoraggiò il medico. “E la cura è questa: anzitutto gettiamo via la vescica: poi facciamo dei clisteri ad alta pressione per sbarazzare l’intestino.” “Clisteri di che cosa?” s’intromise la padrona di casa. “Parecchi litri di siero fisiologico, cioè acqua e sale. Quando la febbre è in remissione, ossia quando è bassa, può mangiar tutto ciò che vuole.” Tito spalancò gli occhi smisuratamente. “Ma come?” pensò. “Il tifo produce delle piaghe nell’intestino. Per non irritare, per non lacerare queste piaghe prescrivono il digiuno. Costui invece mi autorizza a mangiare, e mi ordina dei clisteri ad alta pressione, che mi gonfieranno l'intestino come un pneumatico. Ma non importa. Io non voglio intralciare l’opera del caso: il caso mi ha messo fra le mani d’un medico che sbaglia malattia, stabilisce una cura opposta a quella che forse mi salverebbe. Mangerò, farò i clisteri, scoppierò.” Tuttavia azzardò un’ipotesi. “Scusi, dottore, non potrebbe essere tifo?”

“Lo escludo nel modo più assoluto. Mancano i sintomi generali del tifo: cefalea, torpore, dolori diffusi per le ossa; la milza è appena palpabile, non c’è la roseola sul ventre, il polso è troppo frequente in rapporto alla temperatura. Lei sa che nel tifo il polso è inversamente proporzionale alla temperatura; invece lei ha 39 di febbre e 100 pulsazioni. Ma se vuole essere sicuro, facciamo la sierodiagnosi. Oggi ritorno con l’occorrente.” Si risciacquò le mani, se le asciugò gravemente, e uscì molto ossequiato. In anticamera Nocera, Maud e la padrona gli parlarono ancora sottovoce, e ritornarono al letto del malato per domandargli che cosa voleva per prima cosa: mangiare o... “È lo stesso” si rassegnò Tito il quale, conoscendo la natura vera del suo male, sapeva che tanto l'una cosa quanto l’altra gli sarebbero state fatali. “Allora facciamo l’operazione idraulica” disse Nocera “mentre la signora ti prepara una bistecca alla milanese larga così.”

“Bene!” accettò con stoicismo il malato. E stette bocconi, con ferma sottomissione, a ricevere quei due litri d’acqua che irrompevano chiassosamente nei suoi visceri delicatissimi. Il civettuolo tubo di gomma pendulo da una parete gli rammentò il narghilé che aveva visto fumare dai ricchi negri, a Dakar, seduti sulla stuoia, davanti alla capanna. “Adesso voltati e siediti” decise Nocera “chè devi mangiare.” Il condannato si voltò, sedette e prese con le sue mani la bistecca, come Socrate aveva preso la cicuta dalle mani del servo degli Undici. Quando l’ebbe tutta mandata giù, si sdraiò su un fianco, e a occhi chiusi ne imaginò il viaggio: ora ha percorso l’esofago, varca il cardias, entra nello stomaco, è festeggiata dai succhi gastrici, è un po’ malmenata dai movimenti peristaltici, esce dal piloro, infila il duodeno, passa nel digiuno, gira e rigira per l’ileo. Se il mio è un ileo-tifo, chissà quanti bacilli ci trova! Oh, eccoci al colon ascendente: il cieco: il cieco con la sua appendice vermiforme: attenti a questo passaggio a livello: c’è pericolo dell’appendicite: andiamo avanti:

il colon trasverso, il colon discendente. A Buenos Ayres ho visto un teatro che si chiamava Colon... Ma è possibile che la mia bistecca sia già qui? Essa ha trovato nel viaggio alcune figure dal grazioso nome signorinesco, che le hanno mutato fisionomia: la bile, la tripsina, la stea-psina, l'amilopsina. E i bacilli, tutti quei cari bacilli in umido che scodinzolavano nel tubo e che io ho bevuto, chissà come l'hanno accolta? Se la saranno mangiata loro. Se è così non mi rovina più le budella indebolite. A quest’ora dovrei essere morto. Perché non muoio? “Calmati, càlmati, amore!” lo scongiurò Maud vedendolo così agitato. La leggiera febbre gli dava il medesimo vaneggiamento in cui il suo cervello si era dibattuto la prima volta che, nell’hô-tel di Place Vendôme, si era inebriato di cocaina. E anche ora pensava: “No, Dio non è un grande umorista. È un piccolo, miserabile umorista. Ha la mentalità d’un agrimensore. Per uccidere le moltitudini si serve delle guerre e delle epidemie. Non ha nemmeno il senso della bella ingiustizia! Le uniche bizzarrie che gli ho visto combinare sono i borseggi in chiesa, mentre il

borseggiato pregava: ma non ha mai una trovata grandiosa. Se fossi al suo posto io vorrei eliminare a un tratto la forza di gravità. L'uomo proverebbe a buttare un mozzicone e il suo mozzicone gli rimarrebbe in mano. Proverebbe a scendere una scala, e si vedrebbe costretto a inginocchiarsi, con la testa all'ingiù, e a tirarsi con le mami giù dagli scalini, facendo maggior fatica per scendere che per arrampicarsi. Oppure accelererei la forza centrifuga della Terra. Invece di farle compiere un giro in ventiquattro ore, glielo farei compiere in un’ora. E tutto sarebbe proiettato all’intorno, a distanze immense, in un catastrofico disordine. Pagode giapponesi lanciate sui ghiacciai del monte Bianco, minareti mussulmani che andrebbero a intingersi come biscotti nel cratere del Vesuvio, la piramide di Cheope sbalestrata in piazza della Concordia. Dio non è un artista. Per uccidere gli uomini ricorre a sicari infinitamente piccoli che non si sa nemmeno se siano vegetali o animali. Che mente limitata, quel Padre Eterno! E quale mancanza di dignità!” “Calmati, calmati, amore!” continuava a scongiurarlo teneramente la sua amante. “Ha la febbre. Se gli facessimo, dottore, un’iniezione di morfina?”

“Non occorre. Ora ci occupiamo della sierodiagnosi. Con questo sistema” lo scienziato spiegò mentre gli legava due lacci al braccio per fargli gonfiare là vena “avremo la certezza che non si tratta di tifo. Io, del resto, ne sono già più che persuaso; manca il gonfiore della milza, e manca la roseola...” E Tito, che qualche frase raccoglieva ancora, e nonostante la febbre aveva brevi lampi di lucidità, a sentir nominare la roseola disse: “Manca la roseola ma ci sono i bacilli. Chissà quanti miliardi ne ho mangiati!” Quando la vena fu gonfia, vi piantò l’ago di una siringa di Pravaz, ne estrasse il sangue che poi versò in un tubo sterile. E se lo portò via. Ritornò il giorno dopo (Tito aveva dormito benissimo) annunziando che la sierodiagnosi era stata negativa per i vari tifi, paratifo A e paratifo B. “Siamo quindi tranquilli su questo punto: non è tifo. Per maggior sicurezza, possiamo, se vogliamo, fare

l’analisi delle urine, la così detta diazoreazione di Ehrlich.” “Facciamo la diazoreazione.” “La faremo. Intanto continui a mangiare e a insistere sui clisteri.” Tito si credeva ancora sotto l'azione allucinatoria della cocaina: era certo d’avere una malattia che si cura lasciando nella massima tranquillità l'organismo, e tuttavia, sebbene lo straziassero con quei getti d’acqua e lo costringessero a mangiare, non moriva. Anzi stava meglio. Faceva esattamente il contrario di ciò che nel tifo prescrive la scienza, e non peggiorava. “Anche la diazoreazione è negativa” proclamò trionfalmente il medico alla sua quarta visita. “D’altronde avevamo escluso subito il tifo. Ho poi il piacere di notare un sensibile miglioramento.” Sì disse Maud. “È agitato al mattino e alla sera. Nel pomeriggio è calmo.”

Si direbbe interloquì Tito “che i microbi facciano il sonno pomeridiano.” “La febbre però rimane.” Se ne andrà promise il medico infilandosi il soprabito. Quando fu uscito, Nocera disse a Maud: “Io non vedo un progresso. Mi pare che stia sempre come il primo giorno.” “Consultiamo un altro medico?” “Io direi.” Tito non si oppose. Se gli avessero proposto di chiamare un elettricista o di bere del vetriolo, avrebbe accondisceso. Venne un nuovo medico. Era il tipo del vecchio diagnostico, del medico serio. Costui rimase in piedi vicino al letto, con le braccia conserte sopra la pancia, come se fosse appoggiato a un davanzale. Tastò il polso, guardò la lingua, l’orologio, il termometro, fece i soliti esorcismi. “Chi è il loro medico?”

Nocera disse un nome. Il dottore fece una smorfia che sintetizzava il suo giudizio. “E che cos’ha detto?” “Infezione del sangue. Setticemia da coli.” “Macché!” rise il medico serio. “Questo signore è malato di...” L’infermo vide formarsi sulle labbra del medico serio una parola breve: tifo. Invece disse: “È malato di febbre mediterranea.” “Come dice?” “Febbre di Malta.” “È una cosa grave?” “No. In questa malattia la sieroterapia fa dei prodigi. Si cura col vaccino di Wright. Ma bisogna agire

subito. Cominciamo col sospendere la cura fatta finora. Io intanto esco, prendo il vaccino, e ritorno. Fra un’ora sono qui.” Questo medico serio leggeva le riviste di medicina e si innamorava dei metodi ultimi. Sei mesi prima gli era morto di febbre mediterranea un cliente, e da allora non vedeva che febbre mediterranea in tutti i malati. “È semplice” spiegò a Tito. “Io le inietto nel sangue alcuni miliardi di bacilli attenuati: vede questa provetta? Ce ne sono tre miliardi.” L'infermo tenne il contegno d’un martire. Si lasciò iniettare i bacilli, senza mostrare la minima emozione né sulla faccia né sulla parte dove entrava Pago. Disse semplicemente: “Dottore, ella mi ha iniettato i bacilli della febbre di Malta.” “Sì.” “Se, per una ipotesi, io non avessi quel male, ella me lo avrebbe prodotto.”

“Si capisce.” “Cosicché se lei avesse sbagliato diagnosi, e io fossi malato, per esempio, di tifo, dopo la sua iniezione, avrei due malattie.” “Certamente. Ma lei non ha il tifo.” “Lo so, lo so” aggiunse premurosamente l'infermo “facevo un semplice caso. Un caso ameno.” Ora Tito sapeva d’avere nel corpo non più una, ma due malattie: tifo e febbre di Malta. “Di una delle due” pensava “morrò.” La febbre che era discesa, risalì di qualche linea. Tito accusò dolori forti per tutto il corpo. “Non è nulla” disse il medico serio. “Quando siamo in presenza della febbre di Malta, il vaccino di Wright dà precisamente di queste reazioni. Tutto ciò è regolarissimo, e dimostra alla luce della scienza che la mia diagnosi era giusta. Non mi rimane che trarne ottimi auspici.”

Maud e Nocera non erano molto persuasi né della prima ne della seconda cura. Come ha sbagliato il primo medico, può aver sbagliato il secondo.” Il primo trova una malattia: fa le reazioni: le reazioni danno ragione a lui. Il secondo ne trova un altra: fa le reazioni: e anche a lui le reazioni danno ragione. Io direi di chiamare un terzo medico. E ricorrerei senz’altro al più celebre medico della città. Prima di sera entrava nella camera di Tito il celeberrimo professore; l’infallibile: il luminare della medicina; il gero-fante della scienza. Strinse dignitosamente la mano agli altri due medici e disse: “Tifo! Lo capirebbe un dentista!” “Impossibile!” escluse il primo medico. “Avete fatto la sierodiagnosi del Vidal?”

“Quante volte?” “Una.” “Non basta” sentenziò il luminare. “Fatela una seconda volta.” Tito trovava finalmente il medico mandato dal destino a salvarlo. Si lasciò di nuovo estrarre il sangue dalla vena. Questa volta la sierodiagnosi era positiva: “1:100”. “Dunque è tifo?” domandò Tito. “Tifo” approvarono tutti e tre. E Tito pensò: “Finora non mi guarivano perché non avevano conosciuto il mio male. Ora che l’hanno capito, mi prescriveranno la cura precisa. E guarirò". “Non più mangiare!” disse il medico celeberrimo. E Tito pensò: “Lo sapevo bene io che col tifo non si man-gia”. “Non più enteroclismi!”

E Tito si compiacque segretamente: “Lo sapevo che l’intestino va lasciato tranquillo”. Infatti il luminare si volse agli altri due: “Se si fa un enteroclisma lo si ammazza! Questo lo capirebbe anche una levatrice!” “Eppure me ne hanno fatti ventiquattro e non sono morto” pensò Tito. “E sembravano le cascate del Niagara.” “Per calmare la febbre faremo dei bagni gelati. Hanno capito?” “Sissignore” risposero Maud, Nocera e la padrona di casa. “Dopo il bagno lo rimetterete a letto. Domattina torneremo noi.” E uscirono. L’infermo si sentiva rinascere alla vita. Non è strano che una cura sia inefficace quando si sbaglia malattia: ma quando la diagnosi è esatta... E in questo caso la

diagnosi era esattissima: egli sapeva d’aver bevuto tutto un tubo di coltura su cui era scritto: “Tifo”. Eppure non riusciva a spiegarsi come quelle bistecche e quel “laticlavio” di due litri quotidiani, come lo chiamava Maud, non l’avessero ammazzato per espresso. Fra le mani dei tre medici si sentiva come lanciato per i piedi da tre acrobati sospesi al soffitto d’un circo, e gli pareva di fare turbinosi giri, in lunghi voli, e di esser sempre acciuffato per un puro caso. Dalla sua meditazione lo trassero l’amico e l’amica, che lo cacciarono dolcemente nell’acqua gelata del bagno. “È tremendo! ” ruggiva Tito dibattendosi e facendo scricchiolare i denti come due pietre focaie. Abbi pazienza, caro!” “Abbi pazienza, amore!”

“Ancora un minuto!” supplicava la padrona con l'orologio in mano. “Ti toglierà la febbre” diceva Nocera. “Ti farà guarire” gemeva Maud. “Resto secco qua dentro” ringhiava il bagnante. Lo asciugarono sommariamente e lo portarono livido come un annegato, nel letto. “Ora ti riscalderai, amore!” Ma invece di scaldarsi aveva più freddo nel letto che nel bagno, e si sentiva un dolore puntorio al costato destro. E tossì. Tornò a tossire. Poi sputò sangue. Il primo medico, giunto appena l’avevano tolto dal bagno, disse che quel dolore puntorio al costato non era altro che un dolore intercostale.

Il medico illustre, il luminare della scienza, rassicurò tutti: “Non è nulla. Si tratta di un ascesso osseo del tifo. Lo capirebbe anche un medico militare.” Tito invece capì d’essersi presa nel bagno una polmonite fulminante. Maud uscì per richiamare i medici, che ai primi sputi si erano ecclissati. E Tito si vide dinanzi un prete, nero e solenne, che gli parlava con voce trasumanata. “Chi lo ha mandato a chiamare?” domandò il paziente. “Nessuno” mentì la padrona di casa. “I preti sentono odor di morituro” disse Tito con uno spago di voce. “Sono come quelle mosche che posano le ova nelle narici degli agonizzanti. Ma giacché è qui, rimanga pure.” Il sacerdote gli mostrò un crocifisso, gli fece dire, sotto la sua direzione, una preghiera.

“Senta, reverendo” gemette Tito “in quel cassetto c'è una scatola: nella scatola c'è una fotografia. Me la porti qua.'' Il prete portò la scatola. Tito ne levò la fotografia di Cocaina, tutta nuda. “Per distruggerla, spero!" ammonì il prete con gli occhi balenanti. “No. Per vederla un’ultima volta” sospirò Tito con occhi sereni. “Ma in questo istante supremo, intorno al suo letto c'è Iddio!” minacciò il suo ministro. “Bene! La vedrà anche lui.” “E ora vi confesserete” impose il sacerdote, strappandogli quella cosa oscena e chiudendola nelle pagine del breviario. “Confessarmi? È necessaria questa limonata magnesiaca dell'anima?” “Non bestemmi, disgraziato!”

“E allora vattene, imbecille!” E si piegò su un fianco, volgendo al prete quella parte dove gli avevano iniettati tre miliardi di bacilli attenuati (vaccino di Wright). Il prete uscì. Quando fu a metà della scala aperse il breviario arrossendo. Entrò con Nocera una zia di Tito, una carogna che vedeva raramente. In tutte le famiglie c'è almeno una zia carogna. Anche nella mia. Era felice che Tito morisse. E tuttavia piangeva a lacrime accese. “Se piangi” le disse Tito “vuol dire che debbo guarire: se io stessi per andarmene tu rideresti dalla felicità.” Un uomo portò tre bombe d’ossigeno. “Tre? E perché tre?” domandò la zia carogna, una di quelle zie carogne che ci sono in tutte le famiglie, anche nella mia. “Perché ne ha comperate tre? E se

non ne consumasse che due? E se mai, quella che non consuma, il farmacista se la riprende?” “Sì.” “E restituisce i denari?” “Senti, Nocera” gridò con l'ultimo fiato che gli rimaneva, il povero Tito. “Portami via quella porcheria di donna, se no mi vendico: le faccio lo scherzo di non crepare.” Entrò il gerofante della scienza. “Andiamo meglio?” domandò il medico illustre prendendo il polso di Tito. “Andiamo meglio?” “Sì. Andiamo.” E spirò. Nocera, Maud, la padrona di casa s'inginocchiarono intorno al letto, con la fronte sulle coltri come nelle stampe che rappresentano la morte di Anita Garibaldi o di Camillo Benso conte di Cavour.

Ed ecco in che modo, avendo ingerito bacilli di tifo ed essendo curato per setticemia prima, e febbre di Malta poi, si può guarire. Ma se si fa per il tifo la cura classica del tifo, si può morire di polmonite fulminante.

14

All’apertura del testamento fatta da Pietro Nocera non assistette che Maud, con gli occhi rossi di pianto. Tito aveva scritto chiaramente: “Mi uccido”. E si era ucciso per lei. Era la prima volta che Maud sentiva del rimorso. “Se io fossi stata più fedele o se gli avessi dato l’apparenza della fedeltà, a quest’ora...” “Ma non ci pensi, signorina” l’incoraggiò Nocera. “Il rimorso è la cosa più inutile. Piuttosto vada a casa sua, a dormire. Provvederò io ai funerali.” Maud baciò ancora una volta la fronte di Tito, si mise un po’ di rosso sulle labbra e andò a casa sua, nella sua stanza di fanciulla, verso il cortile, alla quale i piani sottostanti mandavano un buon odore di erudita cucina signorile.

Il padre le domandò, col rispetto che si deve al dolore, se nel corredo del morto non ci fosse un soprabito da mezza stagione. Alla casa del defunto vennero il medico necroscopo, che se ne andò subito, e un prete che si trattenne mezz’ora. “Il mio povero amico era ateo” obiettò Nocera. “Non è necessario che il morto fosse credente” dichiarò il prete. “Basta che lo siano quelli che restano.” “Io veramente...” “Lei no, ma...” Insomma quanto viene a costare?” Ogni prete venticinque lire.” “Perché il paesaggio si presenti bene, quanti preti ci vorranno?” “Otto, almeno.”

“Fa duecento lire.” “Più le suore.” “Quanto costano?” “Due lire l'una, con le candele usate: tre lire con le candele vergini.” “E ce ne vogliono?” “Un centinaio.” “Fa duecento lire.” “Ma non con le candele vergini.” “Poiché le debbono accendere, mi pare che se anche son già state accese...” “Bisogna aggiungere cinquanta lire per i tappeti da mettere alla porta.” “Necessari?” “Indispensabili. E la messa e la benedizione.”

“Facciamo un prezzo cumulativo? Proprio il ristretto.” “Messa, benedizione, tappeti, cento lire. Preti e monache a parte.” “Sta bene.” “Mi vuol dare un anticipo per le prime spese?” “Bastano duecento?” “Sì.” “Pensa lei a tutto?” “A tutto. Per domani sera alle quattro?” “Alle quattro, reverendo. Ma come possono celebrare la messa alle quattro del pomeriggio se l’ostia va presa a digiuno?” “Abbiamo il digiunatore di turno.” Venne poi l’agente della Compagnia delle Pompe Funebri a discutere sul carro e sulla bardatura dei cavalli. Nocera telefonò alla società per la Cremazione, ricevette un impiegato, e introdusse

anche un tale che era al tempo stesso professore e maestro. “Io sono il primo clarino della premiata banda Musica in testa, e posso farle dei prezzi di favore. Abbiamo uno scelto repertorio di marce funebri: Gounod, Donizetti, Wagner, Petrella, Grieg e Chopin. Disponiamo di una bandiera consumata, in cui non si legge ciò che c’è scritto: sembra la bandiera di una casa benefica, beneficata dal povero defunto. Ogni suonatore ha il suo berretto, e, con un piccolo supplemento, anche la spada.” "Quanto viene a costare con la spada?” "Duecento lire.” "Siamo d’accordo. A domani.” "Ha scelto i pezzi?” "Che pezzi?” "Di musica.” "Scelga lei. I più belli che ha in negozio.”

Portarono la cassa. Nocera tirò fuori il pijama di seta verde e si fece aiutare a vestire il morto. Poi lo misero nella cassa. "Chiudiamo subito?” "Chiudiamo pure, se non c’è da aggiungere altro.” Il carro era già fermo davanti alla porta. I necrofori calarono la cassa e la infilarono con eleganza e precisione, e il corteo si mise in moto. I balconi erano pieni di curiosi e sulle porte cianciavano le bottegaie. Apriva il corteo un necroforo dai baffi tagliati all’americana. Poi veniva la banda, composta di: un ottavino, otto flauti, due cornette, due tromboni, batteria e triangolo, due bombardini, un basso. Seguivano le monache vestite di verde. Sembravano insalata che camminasse.

Poi venivano i preti salmodiando. Otto ce n'erano. Ma uno era zoppo. Il carro funebre, molto riverito e incoronato di crisantemi fluenti e molli come penne di struzzo. Cavalli in stiffelius. Maud, con i veli neri. Nocera. Il padre di Maud, con un soprabito del morto che gli stava benissimo. Molte donne. Molti uomini. Gente che Nocera non aveva mai visto. Qualche vecchia popolana si fece, al passaggio del carro, il segno della croce. Un ragazzo sopra una bicicletta, procedeva accanto alla banda, tenendo una coscia sulla sella, le due gambe dalla stessa parte, e spingendosi con un piede. Due cani che si facevano vicendevoli sopraluoghi continuarono. “È la sorella del morto” disse qualcuno del seguito accennando a Maud.

“La moglie.” L'amante.” “È passabile.” “Ha un bel...” “E dei bei...” “È vecchia.” “Non credo. Trentacinque.” “Anche di più.” “Che cosa fa?” “Fa la...” “Oh, l'ha sempre fatto.” “E lui?” “Chiudeva un occhio.” “E apriva la borsa.”

“Ma lo faceva con eleganza.” “Tutti se ne accorgevano.” “È anche stato in prigione.” “Cambiali false.” “E di che cosa è morto?” “Tisico.” “Sifilide.” “Davvero?” “E di quella buona.” “Americana.” “L’avrà attaccata anche a lei.” “È lei che gliel’ha data.” “Davvero?” “Lo sanno tutti.”

“Conosco il medico che li curava tutti e due.” “Che roba!” La banda, le monache, il clero, il carro, il corteo s’erano fermati. I necrofori tolsero il feretro, lo portarono in chiesa: poi lo riportarono fuori, lo introdussero di nuovo. E nuovamente in marcia. Adagio, adagio. Troppo adagio. Il funerale dovrebbe essere fatto a benzina: il morto in automobile e il corteo in motocicletta. Le monache in motocicletta, i suonatori in motocicletta, i parenti inconsolabili per l'immatura perdita in motocicletta. Nocera si volse indietro. La gente era diminuita ma ce n’era ancora molta. Qualunque povero diavolo che non abbia mai avuto un prestito di due lire o una parola di conforto in vita, è condotto al cimitero da una falange di persone premurose. Il maestrucolo elementare riceve l’elogio

funebre dal provveditore agli studi; l’avvocato di pretura ha l’estremo addio dal presidente dell’ordine; il mediconzolo condotto è rimpianto come una vera perdita per la scienza. Colui che si vedeva, da solo, leggere la gazzetta sulla derelitta panca municipale, sarà accompagnato all’“estrema dimora” da qualche centinaio di intimi, in “mesto e ordinato corteo”. L’uomo vivo è sempre qualcosa di ambiguo e di insidioso: può nuocere, tradire, mutar opinioni, rifare il suo testamento. Il morto invece è qualcosa di definitivo. Il feretro è sempre seguito dai nemici intimi del morto: il marito, dall’amante della moglie: l’uomo ucciso in duello, dal suo avversario: il debitore dai creditori. E i passanti si scoprono. E il corteo tira innanzi. “Chi fa pena è lei.” “Si consolerà.” “Non sùbito.”

“Quando ne troverà un altro.” “L’avrà già sotto mano.” “Più di uno.” “Gli uomini s’attaccano a qualunque roba.” “Quelle donne lì, poi.” “Con quella faccia dipinta.” “E i denti finti.” “E la parrucca.” “E il mestiere che fa.” “Che lavoro fa?” “Lavori per uomo.” Il cimitero era vicino. Il forno crematorio alzava la sua bianca ciminiera. Varcarono i cancelli, si diressero verso il forno. “Alt.”

Fuori il feretro! Silenzio. Discorso d’un signore che nessuno aveva mai visto prima d’allora. Altri che debbono parlare? Nessuno. Due inservienti presero la cassa, entrarono in una sala bianca, la posarono su un carrello, che scivolò via. L’incaricato della Società Crematoria avvertì che gli intimi del morto potevano assistere. Maud rimase nella cappella a pregare, e Nocera si pose davanti alla gran lente, da cui avrebbe visto il corpo dell’amico divorato dalle fiamme. “Ci vorrà un’ora” disse l’incaricato. Nocera gli diede venti lire: “Che sia ben cotto.” “Lasci fare a me.” Nocera non vedeva nulla. Improvvisamente il cadavere, nudo, entrò. Ma le fiamme non

1’investirono; eppure si muoveva, si contraeva, si contorceva. “È vero” pensava Nocera con la faccia contro la lente “che si alza, s’inginocchia, si contrae, si accartoccia, prende atteggiamenti osceni. Aveva ragione Tito. Peccato che non sia qui a vedere. Si divertirebbe. Porta la mano alla fronte, come se facesse il saluto militare. Si preme i due pugni sugli occhi, come i feti. Che sia un ritorno?” Il cadavere cambiava colore, si assottigliava, s’anneriva, si consumava, si carbonizzava, s’inceneriva. Finita l’operazione, tirarono fuori il carrello, e con una cazzuola d’argento raccolsero le ceneri. Nocera aveva portato le due urne sferiche, iridescenti: le fece riempire tutte e due. Alcuni frammenti d’ossa furono rinchiusi in un’urna regolamentare di terra rossiccia e tumulate in una parete piena di piccole lapidi. Si mise un’urna in una tasca, l’altra nell’altra e offerse il braccio a Maud. Si erano squagliati tutti.

“E ora dove andiamo?” domandò Nocera aiutandola a salire in una vettura pubblica ferma davanti al camposanto. “Dovrei andare dalla sarta per gli abiti da lutto.” “Deve starvi bene il nero.” “Lo spero. Ma non il nero opaco. Mi sta bene il nero lucido. Io me li ordino di nero lucido, così non fanno lutto.” Il vetturino filava verso la città, senza aver ricevuto indirizzi. “Io non ho fame” disse Nocera. “Io non potrei toccar cibo” disse Maud. Nocera sospirò. Maud sospirò. “Mah!” “Eppure non si può digiunare per un mese. Andiamo al restaurant?” “Io non mangio.”

“Neanch’io.” “Un po’ di brodo.” “Un ovo.” Nocera lanciò al vetturino il nome d’un ristoratore, e Maud pensò che sarebbe stato il caso di piangere un po’. E pianse un po’, mentre il taciturno Nocera rievocava lo spettacolo dantesco del cadavere al forno. E così arrivarono al ristoratore senz’accorgersene. Tutta la gerarchia dei camerieri si precipitò a offrir sedie e a prender gli abiti. Maud non aveva fame. Il cibo le rimaneva lì. A Nocera non andava giù. Ma mangiarono ugualmente. Pagò: centottanta lire. Non è caro perché c’erano i liquori per far andar giù l’aragosta e le pernici tartufate. “Che tristezza tornare a casa! ” “Se andassimo a teatro?”

“Mi pare un sacrilegio.” “Oh, non per divertirci. Per non pensare al nostro dolore.” “Che cosa danno?” “Le Pillole d’Ercole” “È molto sporco?” “Sì.” Finito lo spettacolo, Nocera l’accompagnò in vettura fino casa, le aprì il portone e le diede a scegliere una delle sue urne. “È lo stesso” diss'ella prendendone una qualunque. Mai divisione di eredità si compì più pacificamente. Nocera mise in tasca l'altra urna e risalì in carrozza. Come le parve squallida, povera donna, quella sua casa modesta, ora che s’era abituata ai grandi alberghi delle metropoli, e alle ville eleganti dei cresi moderni!

Era tornata da alcune settimane a Torino, dopo aver danzato l'ultima sua danza sotto il cielo senegalese, e un po’ di febbre africana le era rimasta nel sangue. Era tornata a Torino per ritirarsi dalla vita, per suggellarsi in quella camera povera in cui era vissuta da fanciulla. Trovò vecchie cartoline illustrate, scatole vuote di confetti, romanzi squinternati e acefali, quaderni ingialliti di stenografia, stoffe di camicette, nastri sbiaditi. Ritrovò nella propria memoria antichi ricordi: il punto preciso dove Tito le aveva dato i primi baci, la porta contro la quale un pomeriggio d’agosto, quando tutti i suoi desiderî bollivano, era stata presa, in piedi, come si trafigge una farfalla, da un uomo di cui non sapeva nemmeno il nome. Le parve quasi dolce, maliconicamente dolce, nascondersi per sempre in quella camera, a vivere e morire di ricordi. Vi si chiudeva col rimorso di non essere stata fedele a Tito e di non avergli per lo meno dato l’illusione della fedeltà. Ma ora gli offriva la devozione infinita, l’esclusività eterna. Tito sarebbe stato il suo ultimo amante, come chiedeva Lui.

Distese sul letto la pelliccia di chinchilla, preparò, in un angolo della stanza, una soffice cuccia per il piccolo cane vivo, che imitava perfettamente il cane impagliato, ed era inconsolabile per la partenza di Pierina, l’enciclopedica cameriera, che aveva ricevuto un’illimitata licenza. La stanza era piena di bauli che recavano sui fianchi e sui coperchi nomi di piroscafi e di alberghi. Le pellicce e i mantelli spandevano effluvi di Avatar. Sopra un tavolinetto che faceva da scrivania, vicino alla finestra, pose un ritratto di Tito, e, su un pizzo antico, l’urna cineraria, sferica e iridescente, piena d’una polvere grigia. Quella polvere grigia era Tito. Una gamba? La testa e un braccio? Due cosce e il collo? Chissà quali parti le erano toccate nella divisione! E ora come tutto aveva perso la sua forma in quella polvere grigiagiallognola che sembrava cipria rachel! “In mezzo a questi ricordi” pensava “posso prepararmi a morire.” Nocera pagò i medici, il farmacista, la Compagnia delle Pompe Funebri, e si recò alla parrocchia.

“Quant’è dunque?” Il conto era già preparato e quietanzato. Sborsò senza chiedere una riduzione, sebbene fra gli otto preti (venticinque lire l’uno) ce ne fosse uno zoppo. Pagò altre persone che si erano disturbate per la sepoltura. Chissà perché, quando un individuo muore, deve mobilitare tanta gente! Verrà il giorno che i cadaveri si getteranno nei canali come i gatti morti. Eseguì le supreme volontà del defunto, mandò qualche biglietto di ringraziamento, raccolse le ultime cose nella stanza di Tito. Sotto il letto c’era ancora un paio di scarpe. Ah, le scarpe dei morti, quale spettacolo angoscioso! Quelle cose nere che conservano la forma di ciò che non esiste più! A Parigi Pietro Nocera non aveva mai avuto occasione d’avvicinare Maud: se l’avesse vista, in mezzo alle parigine elettrizzanti, gli si sarebbe rivelata in tutta la sua povertà di provinciale italiana.

Appena la vide a Torino, si sentì avvolto dal suo fascino di grande viaggiatrice, squisitamente parigina. La sua devozione per l’amante infermo lo commosse: e dalla commozione alla concupiscenza c’è la distanza che separa queste due parole nei vocabolari. Un mattino “tre giorni dopo la sepoltura” Maddalena faceva la colazione di caffè e latte sul balcone, verso il cortile, quando le recarono una lettera. Ella la lesse una sola volta, e scrisse a lapis, sul primo foglio che le venne fra mano. “Caro Nocera. Voi non mi amate. Credete di amarmi. Non scrivetemi più come oggi. Io non sarò né vostra né di altri, mai! Tito deve essere il mio ultimo amante.” Il giorno dopo le consegnarono una nuova lettera di Nocera che le diceva il desiderio di baciare il suo corpo magnifico. Ella andò a consultare lo specchio che le rifletteva tutta la persona, e rispose:

“Caro Nocera. Il mio corpo è sciupato. Non posso più amare e non voglio più lasciarmi amare. Il mio ultimo amante sarà il povero Tito, a cui rimango fedele per l’eternità.” Il giorno appresso attese un’altra lettera, che non venne. Attese due giorni, tre giorni, con un’inquietudine epidermica. Perché Nocera non insisteva? “Una lettera per te, Maddalena.” “Grazie, papà.” Era un’ultima lettera appassionata di Nocera che la supplicava di recarsi a casa sua, in una via quasi poetica d’un quartiere tranquillo. Le diceva d'amarla, di desiderarla, d'aver bisogno di lei, della sua carne, del suo profumo. Maddalena restò pensosa qualche istante, poi prese un cartoncino e una busta, e scrisse con calma e con un sorriso primaverile: “Verrò a casa tua, alle quattro. Baciami.”

Cercò un foglio di carta assorbente. Non c'era. Si guardò intorno. Non c'era nemmeno della sabbia. Ma sotto i suoi occhi brillava, adagiata su un pizzo antico, una sfera di vetro, madreperlacea e iridescente, piena d'una polvere grigia-giallognola come cipria rachel. Maddalena la sollevò con dita leggiere, la versò sulla lettera fresca d’inchiostro, fece scorrere la polvere sulle parole, e incurvando il cartoncino, la versò di nuovo nell'urna. Chiuse il messaggio nella busta, la fece consegnare al fattorino, e rimase pensosa per un momento breve come una pausa musicale. Si morse il labbro di sotto per renderlo tumido, lo asciugò su quello superiore, e poi passò su tutti e due, lentamente, sapientemente, la matita di carminio. Scelse in un mazzo di chiavi una chiavetta piccola, quella che apriva il baule piatto, da cabina. Si sentiva l'anima leggiera e luminosa come una mantiglia andalusa. Improvvisò a bocca chiusa una canzone, e inginocchiata davanti a innumerevoli paia di calze,

cercò le più sottili, quelle che lasciano la carne più nuda. Rapallo, Maggio 1921