Arminio Nobile e la misura del cielo: ovvero Le disavventure di un astronomo napoletano [1 ed.] 978-88-470-2639-1, 978-88-470-2640-7 [PDF]

La scienza è un’esaltante avventura che è costume raccontare attraverso le gesta dei grandi. Esiste però un’altra storia

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Italian Pages 208 [213] Year 2012

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Table of contents :
Front Matter....Pages I-XIII
Introduzione....Pages 1-8
La storia sullo sfondo....Pages 9-25
Antonio Nobile: Padre e scienziato....Pages 27-38
Giuseppa Guacci: Mamma o non mamma....Pages 39-56
La giostra dei personaggi nel crepuscolo dei Borbone....Pages 57-74
Infanzia e giovinezza di un aspirante genio....Pages 75-84
L’occasione mancata: L’eclissi del 1870....Pages 85-103
La sfida della longitudine per un artista della misura....Pages 105-112
Sognando sistemi planetari informazione....Pages 113-120
Abbagliato dall’aberrazione....Pages 121-132
La variazione della latitudine: Ultima chance ....Pages 133-155
Lo scippo e labeffa....Pages 157-168
In cauda venenum....Pages 169-176
Back Matter....Pages 177-208
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Arminio Nobile e la misura del cielo: ovvero Le disavventure di un astronomo napoletano [1 ed.]
 978-88-470-2639-1, 978-88-470-2640-7 [PDF]

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Massimo Capaccioli, Silvia Galano

Arminio Nobile e la misura del cielo ovvero Le disavventure di un astronomo napoletano

~ Springer

Massimo Capaccioli Silvia Galano

Dipartimento di Scienze Fisiche Università di Napoli "Federico II''

Collana i blu - pagine di scienza ideata e curata da Marina Forlizzi ISSN 2239-7477

IJ

FSC www.fsc.org

MISTO Carta da fonti gestite in maniera responsabile

FSC· C00728?

e-ISSN 2239-7663 Questo libro è stampato su carta FSC amica delle foreste. Il 10go FSC identifica prodotti che contengono carta proveniente da foreste gestite secondo rigorosi standard ambientali, economici e sociali definiti dal Forest Stewardship Counci!

ISBN 978-88-470-2639-1 DOI 10.1007/978-88-470-2640-7

ISBN 978-88-470-2640-7 (eBook)

© Springer-Verlag Italia, 2012

Quest'opera è protetta dalla legge sul diritto d'autore e la sua riproduzione anche parziale è ammessa esclusivamente nei limiti della stessa. Tutti i diritti, in particolare i diritti di traduzione, ristampa, riutilizzo di illustrazioni, recitazione, trasmissione radiotelevisiva, riproduzione su microfilm o altri supporti, inclusione in database o software, adattamento elettronico, o con altri mezzi oggi conosciuti o sviluppati in futuro, rimangono riservati. Sono esclusi brevi stralci utilizzati a fini didattici e materiale fornito ad uso esclusivo dell'acquirente dell'opera per utilizzazione su computer. I permessi di riproduzione devono essere autorizzati da Springer e possono essere richiesti attraverso RightsLink (Copyright Clearance Center). La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Le fotocopie per uso personale possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dalla legge, mentre quelle per finalità di carattere professionale, economico o commerciale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. L'utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali, marchi registrati, ecc., anche se non specificatamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi e regolamenti. Le informazioni contenute nel libro sono da ritenersi veritiere ed esatte al momento della pubblicazione; tuttavia, gli autori, i curatori e l'editore declinano ogni responsabilità legale per qualsiasi involontario errore od omissione. L'editore non può quindi fornire alcuna garanzia circa i contenuti dell'opera. Coordinamento editoriale: Maria Cristina Acocella Progetto grafico: Ikona s.r.l., Milano Impaginazione: CompoMat s.r.l., Configni (RI) Stampa: GECA Industrie Grafiche, Cesano Boscone (MI)

Stampato in Italia Springer-Verlag Italia S.r.l., Via Decembrio 28, 1-20137 Milano Springer fa parte di Springer Science + Business Media (www.springer.com)

Prefazione Questo libro racconta, in modo vivo e avvincente, la vita e l'avventura scientifica di Arminio Nobile, astronomo nell'Osservatorio di Capodimonte a Napoli. Figlio d'arte, Arminio nacque tra le mura della Specola nel momento di massimo splendore del regno di Ferdinando II di Borbone e morì quasi al volger dell'Ottocento, dopo un' esistenza difficile e avara di soddisfazioni, interamente dedicata alla ricerca. Fu insieme amante del nuovo sul fronte degli strumenti per l'osservazione e delle metodiche di misura e tenace conservatore quanto a tematiche di ricerca. Avrebbe potuto avviarsi, in compagnia di Angelo Secchi e di Pietro Tacchini, sul sentiero della nascente astrofisica, la nuova scienza del cielo sbocciata in Italia già nel primo decennio dopo l'Unità, ma preferì invece concentrarsi su misure di astronomia classica, orientando se stesso e la sua Specola su un binario senza un grande futuro. Tuttavia, nonostante un carattere testardo che gli impediva di farsi una ragione dei suoi errori e a dispetto di una strumentazione assolutamente inadeguata ai progetti su cui si era impegnato, arrivò vicinissimo a scoprire le oscillazioni di breve periodo dei poli terrestri. Anzi, fu il primo ad accorgersi del fenomeno ma, al termine di un'esistenza costellata da insuccessi e da qualche brutta figura, non ebbe la forza di credere sino in fondo a ciò che i suoi artigianali dispositivi gli indicavano, e così perse la priorità a vantaggio di un collega tedesco, meglio equipaggiato e ben inserito nel contesto internazionale. Qualche volta però il tempo è galantuomo; e così, a distanza di oltre un secolo, una «tarda giustizia» riabilita Arminio, e gli restituisce quella gloria che i contemporanei non seppero o non vollero riconoscergli. Questa bella monografia, svolta con linguaggio agile e con rigore scientifico attraverso il mutevole scenario di un Mezzogiorno in divenire politico, sociale e culturale, giunge in un momento particolarmente significativo per l'astronomia a Napoli, in Italia e in Europa. Nell'anno 2012 ricorre infatti il duecentesimo anniversario della fondazione dell'Osservatorio di Capodimonte, iniziato per grazia e volontà di Gioacchino Murat. Nel novembre del 1812, mentre il re soldato cavalcava a fianco di Napoleone in Russia pensando a come cavarsi d'impaccio, la sua regina, sorella dell'Imperatore dei France-

VI

Prefazione

si, posava la prima pietra di una Specola che per la prima volta in Italia era stata progettata per la funzione, e non semplicemente ricavata dal riadattamento di una preesistente struttura. L'Osservatorio, completato da Giuseppe Piazzi per ordine di Ferdinando I di Borbone, che era stato rimesso sul trono di Napoli dal Congresso di Vienna, venne inaugurato nel 1819. Aveva una dotazione strumentale di prim'ordine e per alcuni decenni fu all'avanguardia nello studio dei corpi minori del Sistema Solare e successivamente nelle indagini geodetiche. Gravemente decaduto a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, oggi è una delle strutture su cui si regge e si articola l'Istituto Nazionale di Astrofisica, INAF, l'ente che in Italia coordina le attività di ricerca e sviluppo nell'ambito dell'astronomia da terra e dallo spazio. E proprio quest'anno l'INAF inaugurerà il telescopio VST, acronimo di VLT Survey Telescope, voluto dall'Osservatorio di Capodimonte e realizzato in partenariato con l'Osservatorio Europeo Australe, ESO. Lo strumento di nuova tecnologia, frutto dell'inventiva e delle capacità industriali del nostro Paese, svetta già sulla cima del Cerro Paranal in Cile, gomito a gomito con il più grande telescopio del mondo, e da qualche mese produce spettacolari immagini di grandi aree di cielo alla ricerca di fenomeni rari o sconosciuti e di esotici ingredienti del cosmo, come la materia e l'energia oscure. A sua volta l'ESO, che ospita e gestisce il VST nel suo prestigioso osservatorio sulle Ande cilene, compie quest' anno mezzo secolo di vita. Questa organizzazione internazionale, che era nata per consentire agli astronomi europei un accesso al cielo australe, rappresenta oggi un punto di riferimento nel pianeta in quanto gestisce alcuni dei più grandi telescopi del mondo, come il VLT, costituito da quattro riflettori con specchio primario di 8,4 metri, e il sistema di antenne per l'astronomia millimetrica chiamato Alma, attualmente in fase di completamento nel deserto di Atacama. Mentre gli astronomi di tutto il mondo utilizzano queste facility per accumulare conoscenza dei fenomeni celesti, alla ricerca delle radici fisiche del nostro mondo, l'ESO già programma la realizzazione di un telescopio gigantesco, l'E-ELT, tanto grande da superare in altezza la torre di Pisa e tanto potente da snidare i pianeti di taglia terrestre attorno ad altri Soli e cogliere la luce delle prime stelle nate dopo il Big Bang. L'Italia non è tra i soci fondatori dell'ESO. Entrò nell' organizzazione esattamente trent'anni fa, grazie all'impegno di alcuni lungimiranti colleghi tra cui Franco Pacini, di cui piangiamo la recente scomparsa,

Prefazione

guadagnandosi prontamente una buona reputazione. Oggi gli Italiani hanno un ruolo preminente nell'ESO, così come l'astronomia ha un ruolo di punta nel panorama delle scienze in Italia: un primato certificato dal Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca e soprattutto reso visibile, quasi tangibile, dai tanti successi conseguiti dai nostri ricercatori sul piano degli studi teorici e su quello delle osservazioni, guardando al cielo da terra e dallo spazio, sfruttando gli archivi informatici e ogni risorsa disponibile, con quell'ingegno e quella capacità di adattarsi che è tipica della nostra gente e che riluce soprattutto nei momenti - com' è questo - molto difficili. Doti che aveva anche Arminio Nobile, un astronomo italiano di un certo livello che - mi piace ripeterlo - era giusto ripescare dall'oblio anche come segno di attenzione del Paese verso i propri figli. Giovanni Fabrizio Bignami

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Prefazione È la Napoli irrequieta e romantica della prima metà dell'Ottocento che fa da sfondo, in questo libro, al racconto di una esistenza - quella dell' astronomo Arminio Nobile - singolare e appartata nello stesso tempo, che si dipana poi negli anni più composti, ma non meno controversi dell'Italia unita. Qualcuno, rincorrendo improbabili primati di una dinastia visibilmente incapace, al contrario, di porre il proprio Regno nella viva corrente di una modernità che circolava allora impetuosa nella parte migliore dell'Europa, potrà sorprendersi di questa irrequietudine. All' opposto, chi fissa troppo lo sguardo sui momenti più significativi, e certo politicamente e moralmente più alti, di questa stessa irrequietudine - il 1799 da un lato, il 1848 dall'altro potrà stupirsi di quanta vitalità, di quanta voglia di cambiamento, persino di rivoluzione, circolasse in quei decenni nelle vene di una città che si immagina come una delle capitali, periferica certo, ma pur sempre capitale della Restaurazione europea. Ed ecco che queste pagine ci restituiscono volti e spazi in qualche modo dimenticati. Dimenticati dalla storia, troppo pronta a vedere nel Risorgimento nazionale un processo il cui epicentro si stabilizza nell'area centro-settentrionale della penisola, tra Milano e Torino, e si volge poi a una annessione, allo stesso tempo condiscendente e inconsapevole, del resto del Paese. Dimenticati dalla memoria, troppo spesso disposta a concedere l'onore, e persino l'affettuosità del ricordo ai "vinti" di quell' epoca, lasciando che l'oblio si porti via "vincitori" le cui sofferenze private, i cui smarrimenti pubblici hanno tante volte l'aria dimessa e suggestiva della sconfitta. Né vale opporre i nomi di Luigi Settembrini e di Francesco De Sanctis, o la successiva pietas storiografica di Benedetto Croce, perché anche la loro operosità memoriale è, oggi, travolta da una dimenticanza collettiva che, in un implacabile cortocircuito, dalla narrazione nazionale discende alla coscienza cittadina, e dalla coscienza cittadina risale al racconto della nazione e di come e perché essa si fece. Napoli scrisse, invece, nella prima metà dell'Ottocento uno dei capitoli più commoventi e importanti della sua lunga storia, e i suoi spazi, le sue strade, i suoi palazzi, in quel perimetro non grande ma neppur troppo ristretto che chiamiamo il centro antico, all'interno del quale si svolge ancora ai nostri giorni una parte rilevante della vita urbana e particolarmente

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Prefazione

della sua vita intellettuale, si animarono di esistenze libere e generose come quelle di Antonio Nobile e di Giuseppina Guacci che fanno da prologo - essendone i genitori - alle «disavventure di un astronomo napoletano» . Di Giuseppina, soprattutto, i due autori, prima di seguire, appunto, le traversie del suo ostinato figliuolo, sembrano innamorarsi. Ed è giusto che sia così perché al fascino della vita romanticamente breve di questa donna, poetessa appassionata e non spregevole, intellettuale di una curiosità fine e vorace, patriota incrollabile e protagonista del Quarantotto napoletano, si potrebbe difficilmente resistere. È lei, del resto, in un' opera rimasta inedita fino alla fine degli anni '70 del Novecento, che è memoria - come recita il sottotitolo - dei costumi napoletani del 1837 ed è storia - lo dice il titolo - del colera che afflisse Napoli quell'anno, a regalarci una descrizione della città e dei suoi luoghi che non è solo viva rappresentazione degli spazi di cui prima si diceva, ma aiuta a capire quale indignazione, quale ansia di mutamento, di redenzione muovesse quel patriottismo napoletano e meridionale di cui Giuseppina Guacci e, nella più prudente dimensione del suo carattere e del suo mestiere, Antonio Nobile furono parte. «Spesso la notte e il sole - racconta Giuseppina con voce che sembra travestirla in una eduardiana Filumena - ci passano indifferenti, né per la smisurata altezza delle mura e per la strettezza delle mura, rado vi penetra raggio di luce o mai». Fu l'Unità all' altezza di quell' ansia? Domanda banalmente impegnativa, di quelle che per rispondervi dovresti aver compreso tutto e bene del Risorgimento nazionale e del ruolo che vi ebbe il Mezzogiorno e che qui trova, tuttavia, una risposta, raffinata e misurata come è tutto questo libro, nel racconto della sorte che attende, nel 1877, una «vecchia ciabatta», uno strumento di misurazione astronomica il cui nome - si apprende - è Cerchio di Reichenbach. Figlio d'arte - il padre era stato professore di matematica all'Università e direttore in seconda della Specola di Capodimonte - Arminio Nobile, l'eroe del libro, ha bisogno di questo strumento nel momento in cui decide di andare a fondo in una delle questioni che maggiormente lo intrigano nel suo lavoro di ricerca: la variazione della latitudine. Il Cerchio di Reichenbach è - come egli stesso ricorda «un pezzo storico», costruito negli anni '20 per servire le osservazioni di Carlo Brioschi e ormai inutilizzabile. Ma scarseggiano le risorse economiche e Arminio Nobile con ostinazione, andando perfino

Prefazione

contro i saggi consigli di un'autorità indiscussa come Schiaparelli, si applica al rimettere in servizio quell'arnese da museo. Ad aiutare Nobile nel lavoro improbo di ripristino del Cerchio di Reichenbach è un meccanico di origini francesi, Ottavio Heurtaux, che dopo essere venuto in Italia negli anni '60 era rientrato in patria per combattere la guerra contro i Prussiani e si ritrovava ora, nel 1877, nuovamente a Napoli. La sua giovanissima fine, qualche tempo più tardi, a quarantasei anni, suggerisce a Nobile parole che suonano quasi come un riconoscimento della propria stessa condizione e del proprio destino: «Si spense, pianto solo da taluno che lo comprendeva». Heurtaux aveva sogni e un avvenire ideale, come Arminio, come i tanti che quei sogni e quell'avvenire avevano affidato all'Italia diversa che doveva nascere dopo l'età del Risorgimento. Arminio riesce, dunque, a farcela e prende cosÌ inizio una campagna di osservazioni e di misurazioni che aggiunge, per il contesto in cui si svolge, un ulteriore colore di solitaria eroicità all'impresa. «L'osservazione vera e propria iniziava dopo il crepuscolo, col primo buio [... l. Nobile, intabarrato per difendersi dal freddo e dall'umido della notte e armato di una fioca lampada portatile a spirito che emanava una luce rossa per non ferire gli occhi ormai adattati al buio, consultava le carte su cui aveva appuntato l'elenco delle stelle da osservare e l'ora presunta del loro transito», raccontano gli autori in una pagina che si legge facilmente come pagina autobiografica per eccellenza, tributo a un mestiere che per essere certamente assai mutato nelle condizioni, per dir cosÌ tecniche, in cui si svolge, non ha perso nulla del fascino di una indagine febbrile, dietro cui spesso si cela la falsa speranza o la delusione. Nella delusione individuale che toccò Arminio negli anni successivi si mescolano - come sempre accade - le ingiurie della fortuna e l'invidia degli uomini. Raccontandola, in questo libro, si percepisce, tuttavia, il senso di una delusione collettiva, che si conclude con la morte, ma che viene preceduta da quella fine forse ancor più straziante che è il silenzio, soggettivo e comune, quando generazioni che hanno combattuto e hanno visto l'oggetto della loro battaglia conquistarsi e immediatamente trasformarsi in qualcosa di diverso e distante, decidono di ammutolirsi anticipando, con il loro tacere, l'uscita di scena che dovrebbe, inevitabilmente, attenderli. Luigi Mascilli Migliorini

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Indice

Prefazione di Giovanni F. Bignami Prefazione di Luigi Mascilli Migliorini

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Introduzione La storia sullo sfondo Antonio Nobile: padre e scienziato Giuseppa Guacci: mamma o non mamma La giostra dei personaggi nel crepuscolo dei Borbone Infanzia e giovinezza di un aspirante genio L'occasione mancata: l'eclissi del 1870 La sfida della longitudine per un artista della misura Sognando sistemi planetari in formazione Abbagliato dall'aberrazione La variazione della latitudine: ultima chance Lo scippo e la beffa In cauda venenum

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Bibliografia Indice dei nomi Indice dei luoghi

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Introduzione 12 agosto 1838, un giorno qualunque di un'estate mite. Le rilevazioni meteorologiche eseguite alla Reale Specola di Capodimonte e diligentemente annotate dagli astronomi l riferiscono di un cielo sereno, di un sole appena tiepido e di una persistente calma di vento, e le cronache raccontano di una città finalmente in pace dopo anni segnati da sciagure, tumulti, catastrofi naturali, e soprattutto dal colera. Il 12 ottobre 1835 l'alta valle del Crati, il fiume che scende dalla Sila e bagna Cosenza, era stata sconvolta da violente scosse sismiche. Pochi furono i morti, ma le devastazioni tanto gravi da segnare il definitivo declino di un territorio già di per sé poverissimo. Il 25 aprile dell'anno successivo la terra era ritornata a tremare ripetutamente nel versante ionico della Calabria settentrionale. Questa volta i morti si contarono a centinaia sui monti, dove si erano aperte vere e proprie voragini, ma anche sulla costa, per effetto di un maremoto che aveva travolto le imbarcazioni inseguendo la gente terrorizzata sin dentro le case 2 . La sommaria opera di soccorso disposta dall' amministrazione borbonica su un territorio accidentato e troppo lontano dal ventre pulsante del Paese s'interruppe del tutto all'arrivo del colera. Il morbo feroce, subdolo e misterioso, aveva svernato ai confini del Regno, e con l'arrivo della stagione calda si era ride stato lanciando un primo ferale attacco alle popolazioni delle Due Sicilie 3 . La pandemia veniva da lontano, dal cuore dell' Asia dove aveva fatto la sua prima comparsa nel 1817 colpendo l'India, poi il Tibet e infine, una a una, le comunità lungo la via carovaniera per l'Occidente. In Europa era arrivata una decina d'anni dopo al seguito dei soldati russi di ritorno dalla vittoriosa campagna contro lo Shah di Persia per il possesso del Caucaso. Se pur simile in alcune manifestazioni Cfr. [203], pago 322. Si veda [188], di cui è disponibile una ristampa curata da E. Zinzi [189], con tre incisioni che mostrano drammatiche scene del maremoto. 3 La Storia del cho/era in Napoli [84] è narrata con efficacia da Giuseppina Guacci Nobile in un manoscritto rimasto inedito sino al 1978, e poi stampato a Napoli a cura di Carolina Fiore Nobile. l

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ad altre patologie note, il colera era del tutto sconosciuto al Vecchio Continenté. Il morbo aveva presto avviato un inarrestabile, tortuoso cammino di morte: prima la Polonia, poi l'Ungheria, la Germania, l'Inghilterra, la Spagna, la Francia, e persino le Americhe, dove il contagio approdò per la via del mare. Nel 1835 aggredì l'Italia centrosettentrionale e di lì penetrò nel Regno delle Due Sicilie, a dispetto di un improvvisato cordone sanitario, diffondendosi rapidamente nelle Puglie. L'epidemia si accanì dove più densa era la popolazione e quindi peggiori le condizioni igieniche, e fu tanto grave da far passare in secondo piano un altro episodio sismico. Questa volta a essere colpita fu la Basilicata meridionale. Il 20 novembre 1836 la terra tremò così forte da farsi sentire anche a Napoli, con grande panico ma danni limitati. Manco a dirlo, i soccorsi furono lenti e scarsi, e vennero ostacolati, oltre che dal colera, da violenti acquazzoni che scatenarono un gran numero di frane. Il morbo si manifestò a Napoli già nell'ottobre del 1836. Il primo segno fu la morte di un doganiere del porto. Ferdinando II volle che venissero prese subito drastiche misure per controllare la diffusione del contagio, tra cui la creazione di veri e propri lazzaretti per i vivi. Quanto ai morti, ordinò che, qualunque fosse la causa del decesso, avrebbero dovuto essere sepolti lontano dall'abitato, in fosse comuni coperte di calce. L'incipiente rigido inverno venne in aiuto alle misure di contenimento adottate nella totale ignoranza delle cause. Ma al ritorno del caldo il colera riprese con rinnovato vigore, colpendo principalmente i quartieri popolari della città, autentici formicai umani, con almeno cento casi al giorno, quasi tutti fatali. Erano per lo più i poveracci ad ammalarsi e a morire, ma nessuno poteva dirsi davvero al sicuro, tanto che ci furono anche vittime illustri, tra cui Giacomo Leopardi s. Il termine colera, dal greco XOÀry = bile, era già stato usato da Ippocrate per indicare una patologia gastrointestinale relativamente simile nei sintomi a quella che colpì più volte l'Europa nell'Ottocento, e Napoli anche nel secondo Novecento, ma affatto diversa nelle cause. Il vibrio cho/erae fu individuato dall'italiano Filippo Pacini nel 1854 e in seguito isolato dal tedesco Robert Kock. I primi vaccini contro questa grave malattia videro la luce alla fine dell'Ottocento. 5 All'epoca il poeta era ospite del suo grande amico Antonio Ranieri in una casa di via del Pero. I due, insieme a Paolina, sorella di Antonio, erano rientrati a Napoli da pochi mesi dopo un lungo soggiorno a Torre del Greco per fuggire al colera. Fu un errore. Giacomo, reso fragile dalle molte infermità, venne probabilmente infettato da una fetta d'anguria acquistata a un chiosco nella vicina via Toledo, dove amava recarsi quasi quotidianamente 4

Introduzione

Il colera impazzava e, proprio come era capitato due secoli prima per la peste di manzoniana memoria, la paura accese nella mente delle plebi il convincimento che l'epidemia fosse opera di misteriosi untori, mossi forse dal proposito di controllare l'espansione demografica delle classi più povere. Ci fu chi, come i carbonari, cercò di cavalcare l'ottusa e violenta reazione del popolo ignorante a vantaggio dei propri disegni. Nella capitale, ma anche in Sicilia, si accesero tumulti che degenerarono in vere e proprie sommosse, con linciaggi di massa e dure azioni repressive del governo. Bisognava vendicarsi e al contempo ingraziarsi Domine Iddio con esibizioni di esasperata religiosità, volte a esorcizzare il male e a farlo possibilmente ricadere sui detestati untori e sui loro mandanti. In fondo, se San Gennaro era stato capace di fermare la lava del Vesuvio nel 1631, avrebbe potuto ripetere il miracolo di proteggere i suoi devoti: ragionavano i napoletani seguendo una logica surrogatoria che è da sempre il grande male di una mentalità meridionale in bilico tra razionalismo e fatalismo. Come se non bastasse, il rallentamento degli scambi commerciali prodotto dai vari cordoni sanitari che strangolavano l'Europa generò una grave crisi economica. Sembrava che l'incubo non dovesse più finire e invece, nel 1838, la malattia perse di vigore e, per cosÌ dire, si ibernò. Si sarebbe nuovamente risvegliata con inaudita violenza una ventina d'anni dopo, alla fine della Guerra di Crimea, importata dal contingente italiano guidato da La Marmora, e ancora dopo la Terza Guerra d'Indipendenza, poi nel 1883 e persino negli anni '70 del Novecento, causando nuova paura, qualche vittima e molto imbarazzo nei gestori della cosa pubblica. Questo excursus di sciagure ci riporta all'alba felice del 12 agosto 1838. La piccola comunità appollaiata sulla Collina di Miradois era tutta in subbuglio. Maria Giuseppina Guacci, moglie di Antonio Nobile, astronomo in seconda alla Specola, stava per partorire il primo figlio. Il lieto evento andava in scena nell'alloggio assegnato alla coppia nella Vìlla della Riccia, l'antico ed elegante fabbricato situato a poche decine di metri dagli uffici e dalle cupole del Reale Osservatorio, già dimora di nobili famiglie.

per soddisfare la sua golosità. Spirò tra grandi sofferenze all'imbrunire del 14 giugno 1837: un brutto giorno per l'umanità.

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Possiamo solo immaginare l'arrivo di una levatrice nel cuor della notte, l'andirivieni delle donne, la curiosità dei ragazzi delle famiglie della Riccia, svegliati dal trambusto, e l'ansia di Antonio, marito non più giovanissimo, cui non potevano sfuggire i pericoli del parto. Giuseppina era al termine di una gravidanza difficile, forse preceduta da un aborto che aveva gettato nella disperazione la giovane donna 6 . E poi, era ancora fresca la memoria della scomparsa di Maria Cristina di Savoia, la pia sovrana tanto amata dal popolo minuto e dalla stessa Giuseppina, che due anni prima aveva perduto la vita nel dare alla luce il principino Francesco, futuro e ultimo re della breve dinastia dei Borbone di Napoli: una tragedia che il sanguigno Ferdinando II aveva presto esorcizzato ripigliando moglie in meno di un anno, ma che aveva lasciato uno strascico di dolore collettivo tra la gente. Panni puliti, acqua calda, grida della partoriente, sciamar di donne affaccendate a replicare un rituale antichissimo, quello del travaglio e del parto, che solo da pochi decenni ha ceduto il passo a pratiche mediche moderne in cliniche adeguatamente attrezzate. Non è da escludere che anche Almerinda Farina, la moglie polemica e frustrata di Ernesto Capocci, direttore dell'Osservatorio, sebbene in aperto contrasto con Giuseppina per non più sanabili questioni personali, avesse tuttavia voluto essere della partita. La solidarietà femminile si rinnova puntualmente davanti al cruento mistero del parto, soprattutto per chi è già da tempo madre e sa bene come affrontare le diverse fasi del travaglio. Nessuno, nemmeno la fertile penna di Giuseppina, ci ha raccontato dove fosse Antonio durante la lunga veglia, né che cosa facesse. Innamoratissimo della moglie, c'è da credere che abbia passato la notte insonne, forse all'aperto per non intralciare le operazioni, magari sforzandosi di leggere qualcosa alla prima luce del sole nel bel giardino soprelevato antistante l'ingresso della Villa. Oppure sarà rimasto nel suo ufficio, in un'ala dell'edificio monumentale della Specola, cercando di allontanare l'ansia con il lavoro. Comunque, prima del parto egli raggiunse la sua sposa per confortarla e condividere con lei il momento della nascita del loro primogenito? Un gesto inusuale C'è il sospetto, alimentato da alcuni versi della Guacci ma non documentato, che la giovane avesse avuto una precedente interruzione di gravidanza. Cfr. [12], pagg. 78-79. 7 Cfr. [186], p. 103.

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Introduzione

per quei tempi: ma i Nobile non erano davvero gente comune, come avremo modo di vedere. Alle otto del mattino i lamenti di Giuseppina si placarono, e il cortile della Riccia si riempì del grido liberatorio di un neonato, un maschio. Nel pomeriggio del giorno successivo Antonio si recò in carrozza all'ufficio anagrafico di Napoli per registrare il figlio. L'atto di nascita, che è conservato presso gli uffici dell'anagrafe del Comune di Napoli e che testimonia tutta la meticolosità della burocrazia borbonica e palesa il rito del riconoscimento de visu del sesso del neonato, recita: «L'anno mille ottocento trentasei8 il dì tredici del mese di Agosto alle ore quattordici avanti di Noi [... ] è comparso Don Antonio Nobile, Nativo di Campobasso, di anni quarantuno, Astronomo, domiciliato nella Specola a Capodimonte il quale ci ha presentato un maschio secondo che abbiamo ocularmente riconosciuto, ed ha dichiarato che Costesso è nato da lui dichiarante da Donna Maria Giuseppa Guacci, di Napoli, di anni ventotto sua moglie legittima con esso domiciliata nel giorno dodici del mese suddetto dell' anno corrente alle ore otto d'Italia nella Casa di propria abitazione sita come sopra. Lo stesso ci ha inoltre dichiarato di dare al medesimo i nomi di Arminio Arturo Alfonso Nobile». Perché questi nomi così poco "napoletani"? La domanda non è puramente accademica. Chiariamo subito che, per quanto ci è dato conoscere, essi non hanno nulla a che vedere coi nomi di familiari particolarmente cari, come per esempio i nonni: quello materno si chiamava Giovanni, e Francesco quello paterno. Verosimilmente - ed è questo l'aspetto interessante - essi furono motivati dai gusti letterari e dall'ideologia dei genitori, due intellettuali fortemente impegnati sui fronti della cultura e del sociale. Probabilmente alla scelta non fu estraneo nemmeno il desiderio più o meno conscio di imitare le scelte stravaganti e snob del direttore Capocci e di sua moglie Almerinda, che avevano battezzato i loro numerosi figli con i nomi desunti da opere della letteratura italiana e straniera in voga a quel Questa data è probabilmente il frutto di un errore del copista. Se è vero infatti che la nascita del nostro Arminio è fissata con assoluta precisione dal suo Atto di Nascita, è altrettanto vero che dai successivi documenti si evince una data consistentemente diversa. Da due dei tre passaporti rilasciati al Nobile, e dai necrologi scritti in suo ricordo da L. Pinto [166] e F. Contarino [47] si deduce che egli nacque nel 1838, mentre l'ultimo passaporto fa intendere che questa data debba essere anticipata di un anno. Attenendoci a quanto riportato dalla maggior parte dei documenti raccolti, abbiamo ritenuto di poter considerare come più probabile per l'anno della sua nascita il 1838.

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tempo nella Napoli colta. Così, è plausibile che i Nobile abbiano scelto Arminio ispirandosi all'eroe germanico dell'omonima tragedia di Ippolito Pindemonte ricca di echi alfieriani, shakespeariani e ossianici, pubblicata nel 1804 e ristampata a Napoli nel 1830 per i tipi della vedova Amule; o al personaggio del melodramma per musica in due atti, Arminio ossia l'eroe germano, di Stefano Pavesi, Dalmiro Tindario e Gaetano Gioja, scritto nel 1821 per il Teatro della Comune di Bologna e stampato presso Annesio Nobili. Lo stesso genere di soggetti che piaceva ai Capo cci, tanto da far scegliere loro per due dei figli i nomi di Dermino e Oscar, personaggi strappalacrime delle Poesie di Ossian, figlio di Fingal, antico poeta celtico, pubblicate a Napoli dalla Stamperia Francese nel 1827. La scelta di Arturo potrebbe essere stata invece suggerita dal nome dell'eroe maschile dei Puritani di Bellini, l'intrepido spasimante di Donna Elvira. L'opera venne composta a Parigi e lì rappresentata per la prima volta nel 1834, riscuotendo grande successo. Per onorare un contratto con il San Carlo di Napoli, Bellini aveva preparato una versione del suo romantico melodramma emendata per la censura borbonica e adattata alle esigenze di quel teatro e alle caratteristiche vocali della sua prima donna, la divina Maria Malibran. La partitura raggiunse la capitale borbonica con ritardo per via del colera che rallentava le comunicazioni tra Francia e Italia: un ottimo pretesto per i gestori del San Carlo che navigavano in cattive acque e colsero la scusa per evitarsi l'onere di mettere in scena il lavoro. Tuttavia il libretto circolava tra i salotti colti, ed è verosimile che sia capitato tra le mani dei coniugi Nobile, appassionati cultori del melodramma. Se così fosse - ma non ne abbiamo le prove - la figura di Arturo non avrebbe potuto lasciare indifferente la pasionaria Giuseppina. Più difficile è risalire alle ragioni per la scelta di Alfonso, il più napoletano dei tre nomi: la nostra fantasia non riesce a spingersi oltre l'ovvia associazione con i re aragonesi che fecero grande Napoli nel Quattrocento. Il giovane Arminio sembrava essere nato proprio sotto una buona stella: da una famiglia unita, colta e socialmente molto impegnata, in un ambiente elitario, in un contesto tranquillo, e in un paese che pareva intenzionato ad ammodernarsi rapidamente sotto la guida di un sovrano ancora aperto alle novità nel campo delle scienze, della tecnologia, dell' economia e persino del sociale 9 . Furono invece pro9

Cfr. I. Cecere, Scienza e tecnologia in età borbonica, per "exempla", in [45], pagg. 255-275.

Introduzione

prio queste iniziali fortune a congegnare la trappola, non solo psicologica, entro la quale si sarebbe consumata la sfortunata esistenza di un uomo che volle disperatamente essere grande come il mondo che lo circondava, senza però riuscirci, beffato dalla propria ansia di successo che finì per esporlo al ridicolo, e dalla sorte che lo rese così sfiduciato da non fargli riconoscere una grande scoperta quando finalmente questa gli passò tra le mani. Nessun uomo può essere raccontato prescindendo dal contesto nel quale è cresciuto, si è formato e ha operato. Arminio Nobile non fa eccezione, anzi «mai forse l'ambiente e l'atavismo esercitarono sul carattere e l'educazione dell'uomo tanta influenza, quanta ne esercitarono sul nostro collega illimitato ambiente di quell'Osservatorio ed i genitori, che furono l'astronomo Antonio Nobile e la poetessa Maria Giuseppina Guacci, nella cui casa convenivano gli uomini più dotti e i più ardenti di amor patrio che accoglieva questa città durante tutta l'adolescenza di Arminio»10. Non è nostra intenzione approfondire la storia di Napoli, né quella dell'Osservatorio di Capodimonte, teatro della vita di Arminio, perché è già stato fatto altrove ll . Qui ci limiteremo a riassumere le vicende, maggiori e minori, che fanno da sfondo alla nostra narrazione di un' avventura scientifica, descrivere i luoghi, delineare gli antefatti e tracciare i caratteri delle figure dei comprimari e di qualche comparsa. Nel tessere il racconto abbiamo fatto spesso ricorso a citazioni nell'intento di rendere, attraverso le parole dei nostri attori ma anche di coevi narratori, l'atmosfera e il tono del tempo. Per questo motivo abbiamo ricopiato fedelmente i testi, senza alterarli o ammodernarli in alcuna parte. Ci auguriamo che il lettore possa trarre da questo slalom un piacere maggiore della fatica che indubbiamente questi inserimenti comportano alla lettura. Questo racconto prende spunto dalla tesi con cui uno degli autori (Silvia Galano) si è laureato in astrofisica e scienze dello spazio all'Università di Napoli Federico II. Nella stesura di questo lavoro ci siamo avvalsi dei generosi contributi di molti che pazientemente ci hanno assecondato, assistito e soccorso con la loro competenza e col loro tempo. In particolare desideriamo ringraziare Giovanni Covone, co-relatore con l'altro degli autori (Massimo Capaccioli) alla tesi lO

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Cfr. [166], pago 138. Per esempio, [21].

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di laurea; Emilia Olostro Cirella e Ileana Chinnici, cultrici della storia delle scienze nel Mezzogiorno e custodi di preziose memorie; il Capitano di Vascello Vincenzo Massimo Di Marco; il Prof. Marco Gemignani e il Capitano di Corvetta Massimiliano Mezzani; i bibliotecari degli Osservatori di Palermo, Brera, Arcetri, e di C6rdoba in Argentina, del Dipartimento di scienze fisiche dell'Università Federico II, del Conservatorio di musica San Pietro a Majella, dell' Accademia Pontaniana, della Società nazionale di scienze lettere e arti in Napoli, dell' Accademia di scienze lettere e belle arti degli Zelanti e dei Dafnici di Arcireale e dell'Ufficio storico della Marina Militare. Un ricordo particolare va al professor Santi Mancuso, studioso garbato e competente. Aveva iniziato il percorso con noi ma ormai non potrà leggere queste pagine.

la storia sullo sfondo Alla fine del Settecento «il bel paese di Napoli [che da sempre l a mille cupidità era segno» l venne investito dal riverbero dei sommovimenti che andavano sconvolgendo la vecchia Europa, da quando un popolo imbestialito dalla fame e sapientemente manovrato dalla borghesia aveva preso d'assalto la fortezza della Bastiglia a Parigi. Lontano dai teatri delle rivoluzioni e delle guerre ingaggiate dalla Francia per difendere e diffondere gli ideali di libertà, eguaglianza e fraternità, il Meridione d'Italia avrebbe forse potuto rimanere fuori dalle contese. Ma l'esecuzione capitale di Maria Antonietta, sorella della regina di Napoli, fatta salire sulla ghigliottina il 16 ottobre del 1793, aveva sconvolto la corte, acuendo l'astio nei confronti dei simpatizzanti delle idee liberali e giacobine. E quando Napoleone aveva avviato la sua avventura italiana, trampolino di lancio della straordinaria parabola imperiale, Ferdinando IV, re di Napoli, aveva maldestramente e fiaccamente tentato di opporvisi. Sobillato dalla vendicativa moglie "tedescà' e dagli interessati consiglieri inglesi, l'imbelle Borbone aveva persino arrischiato un' occupazione di Roma nella pretesa di essere lui a restaurare la sovranità papale schiacciata dalla Repubblica romana filo-francese. Decisamente troppo per permettergli di rimanere al sicuro nei suoi riparati domini, così lontani da Parigi e dai campi di battaglia delle guerre napoleoniche, e tuttavia così strategici nel Mediterraneo. Fiutato il pericolo, il "Re Nasone" decise di fuggire a Palermo con la famiglia, la corte e il tesoro della corona, mettendo il mare e la flotta inglese tra sé e le baldanzose truppe francesi che ormai si ammassavano al confine settentrionale del Regno. Per evitare il peggio e scongiurare un sanguinoso scontro tra l'esercito del generale Championnet e la plebe napoletana, orfana di un re padre e padrone dispensatore di "feste e farinà: la nobiltà e l'intellighenzia di ispirazione giacobina presero le redini della situazione proclamando la repubblica. I lazzari provarono a opporsi per odio ai Francesi, ma i cannoni di Castel Sant'Elmo in mano ai rivoltosi decisero la partita. Così, nei l

Cfr. [84], pago 5.

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primi giorni di un freddo gennaio sbocciava, un po'per caso e frettolosamente, la straordinaria, utopica ed effimera esperienza di una repubblica improbabile, un esperimento di governo fondato, com' è spesso accaduto nel Belpaese, sull'ideologia e sulla forza, entrambe però di matrice straniera, e destinato a una rapida, cruenta e ingloriosa fine: perché la plebe non intende l'ideologia e una società senza una nutrita classe media non ha sufficiente forza. Risalendo dalle Calabrie con le sue bande di Sanfedisti, il cardinale Ruffo riprese in giugno la città e la riconsegnò al re. E venne il tempo delle vendette. Già dall' estate del 1799 il meglio della cultura napoletana e della nobiltà illuminata fu mandato al patibolo o costretto alla fuga. Fu una decisione improvvida ancor prima che efferata potremmo dire parafrasando Talleyrand - perché quando si setaccia il meglio, ciò che rimane sul fondo è il peggio. Pochi riuscirono a mettersi in salvo lasciando il paese, e meno ancora furono quelli graziati da un sovrano succube della sua regina e del livido ammiraglio Nelson. La restaurazione monarchica durò sei anni, durante i quali Ferdinando continuò a tramare contro Napoleone, finché questi, esaltato dalla folgorante vittoria di Austerlitz e stanco dei continui voltafaccia del Borbone, decise di farla finita con lui e di impadronirsi del Regno di Napoli; e così fece. All' avvicinarsi delle armate del generale Massèna, che era un grande guerriero ma anche un uomo di dubbia moralità e di metodi spicci, Ferdinando non tentò nemmeno di opporsi e fuggì nuovamente alla volta di Palermo per la via del mare. Sarebbe rimasto nell'isola quasi dieci anni protetto dal favore degli Inglesi, interessati a mantenere il controllo del Mediterraneo e ad assicurarsi lo zolfo delle miniere siciliane per le loro acciaierie, riscaldato dall'amore della bella duchessa di Floridia, Lucia Migliaccio, che avrebbe poi sposato morganaticamente nel 1814 alla morte dell'arcigna Maria Carolina, dopo una lunga relazione sentimentale. Proseguendo nella politica di "napoleonizzazione" dell'Europa, l'imperatore dei Francesi impose sul trono di Napoli il fratello maggiore. Giuseppe Bonaparte regnò sul Mezzogiorno continentale poco più di due anni, dal marzo del 1806 al luglio del 1808. Poi, quasi calcando le orme di Carlo III che cinquant'anni prima aveva lasciato Napoli per ragioni di successione dinastica, mosse alla volta di Madrid per occupare il trono di Spagna, ancora una volta su mandato e per conto dell'imperiale fratello le cui armate avevano occupato il

La storia sullo sfondo

paese. Una mossa infausta, però: dopo pochi anni sarebbe stato deposto e costretto alla fuga dagli Spagnoli in rivolta. Con la partenza di Giuseppe il regno di Napoli "di qua dal faro"2 perdeva uno straordinario e lungimirante amministratore. Gli erano bastati due anni, pur difficili per via delle rivolte nelle periferie del paese, del brigantaggio istigato dai Borbone e delle resistenze dei carbonari in concorrenza con i Francesi, per abolire la feudalità, avviare una riforma dell'amministrazione pubblica, della giustizia, e dell'università, metter mano a un programma di opere pubbliche indispensabili ad ammodernare la capitale e istituirvi, sull' esempio della Francia, centri di cultura e ricerca come l'Orto botanico a via Foria e il Conservatorio di musica a San Pietro a Majella. Insomma, Giuseppe aveva portato nel profondo Sud dell'Italia una ventata della nuova Europa. A succedergli Napoleone scelse Gioacchino Murat, brillante e fedelissimo comandante della sua cavalleria che tra l'altro era anche suo cognato: otto anni prima, quando era ormai primo console e padrone della Francia, gli aveva strappato il consenso a prendere in moglie la sorella Carolina. Gioacchino Napoleone, come volle chiamarsi, era di bell' aspetto, coraggioso sino alla temerarietà, impulsivo, generoso, di temperamento istrioni co e di scarsa avvedutezza e, forse anche per questo, si fece subito benvolere dai napoletani 3 . Mentre l'esiliato Borbone considerava la presenza del francese a Napoli come la conseguenza di una pura e semplice occupazione militare da cui prima o poi liberarsi, Murat, homo novus venuto da una famiglia di locandieri della Francia meridionale, si persuase di poter diventare il capostipite di una dinastia di sovrani del Mezzogiorno d'Italia e in seguito addirittura dell'Italia tutta. Certo non gli bastava l'idea di fare "il gallo sulla munnezzà', come si diceva e ancora si dice a Napoli. Voleva un regno all'altezza delle sue sconfinate ambizioni e perciò si diede gran da fare per emulare l'imperiale cognato come amministrare della cosa pubblica e promotore di progresso. Tra le altre cose, istituì fin da subito il Corpo degli ingegneri di ponti e strade e successivamente la relativa Scuola di applicazione sul modello dell'École d'application des ponts et chaussées riorga"Di qua e di là dal faro" (di Messina) era un'espressione quasi gergale per identificare la parte peninsulare del regno dalla Sicilia. 3 Si veda [67].

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nizzata da Napoleone nel 1804. Avviò anche importanti lavori pubblici, come l'apertura del corso Napoleone che saltando l'impervio e degradato vallone della Sanità, ventre della Napoli fuori le mura, collegava via Toledo con Capodimonte e con la Reggia borbonica dove il re francese aveva preso alloggio sin dall'arrivo a Napoli, e, cosa che più interessa la nostra storia, autorizzò l'edificazione di un moderno e prestigioso stabilimento astronomico proprio a fianco della sua regale dimora, sul costone meridionale della collina di Capodimonte, in località Miradois. L'astronomia veniva nuovamente coltivata a Napoli da pochi decenni soltant0 4 . Durante la lunga stagione del Vìcereame spagnolo l'interesse per le scienze, e in particolare per quelle del cielo, s'era andato assopendo per via della totale disattenzione del potere verso la cultura in genere e per effetto dell'azione soffocante di una capillare censura religiosa. A fine Seicento la grande stagione dei Francesco Maurolico, Bernardino Telesio, Luigi Lilio, Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Niccolò Della Porta e Giovanni Fontana, era solo un ricordo, da rinovellare sotto voce per evitare sanzioni come quelle comminate ai novatores per compiacere la chiesa di Roma 5 . E il nuovo metodo scientifico di Galilei, Cartesio e Newton aveva trovato pochi e timidi cultori. Ma all'arrivo di Carlo di Borbone, nel 1734, le cose presero a cambiare rapidamente. Con lui il Mezzogiorno, da oltre due secoli assoggettato allo straniero, diventò inopinatamente uno stato indipendente, il Regno di Napoli, che il nuovo sovrano, espressione della più alta nobiltà europea, intese fin da subito conformare alla grandezza della propria casa. Con questo fine mise subito mano a un gran numero di riforme, tra cui anche quella dell'università. Era ora. L'ateneo napoletano versava in pessime condizioni. Le materie insegnate erano vecchie e stantie, i professori scadenti e negligenti, le pratiche didattiche ai limiti del ridicolo. Tra le nuove discipline il re volle inserire anche l'astronomia, ma senza particolari slanci. Probabilmente pensava che, tra tante cose da cambiare e finanziare, le scienze del cielo non dovessero avere la priorità. Senza strumenti di alcun genere, se non quelli portati a Napoli dagli Inglesi per il loro piacere e non di rado messi generosamente a disposizione dei napoletani, la nostra 4

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Cfr. [21], pagg. 33-85. Ivi, pago 42.

La storia sullo sfondo

scienza fece ben pochi progressi, sino all' entrata in scena di Giuseppe Cassella. Questi avviò una lunga battaglia per far sÌ che anche a Napoli, come già a Palermo per opera di Piazzi, si realizzasse una Specola astronomica. Il suo interlocutore era Ferdinando IV, il figlio che Carlo aveva posto giovinetto sul trono napoletano nel momento in cui, morto il fratello Filippo V di Spagna, aveva lasciato Napoli per Madrid. Ferdinando, figura controversa di monarca i cui demeriti sono stati ingigantiti in numero e qualità da una stampa poco benevola, acconsentì alla supplica del Cassella. Ma il progetto di un Osservatorio ospitato nel Palazzo dei regi studi, l'attuale Museo archeologico, non venne mai portato a termine. Cassella tornò alla carica nel 1807 con Giuseppe Bonaparte, sicuramente più sensibile del Borbone alle istanze scientifiche, e ottenne di poter disporre del soppresso Monastero di San Gaudioso a Capo Napoli, insieme a un finanziamento per acquistare strumenti. Fu una vittoria di Pirro per il tenace astronomo sannita. Finalmente l'agognato Osservatorio c'era, e tuttavia non poteva funzionare al meglio perché annegato nella città. Nel 1808, anno dell'alternanza sul trono di Napoli tra Giuseppe e Gioacchino, il povero Cassella morì, stroncato da un malanno contratto durante l'osservazione notturna di una grande cometa nei mesi freddi. Senza di lui la Specola a San Gaudioso in buona sostanza cessò di funzionare. Poteva essere la fine di un esperimento mal riuscito. Fu invece il prodromo di una serie di eventi che condussero alla realizzazione dell'Osservatorio astronomico di Capodimonte, come diremo tra breve. Dopo la morte "biancà' del Cassella, vittima del lavoro, serviva un nuovo direttore per la Specola di San Gaudioso. A Murat venne segnalato il rampollo di un'ottima famiglia di Terra di lavoro imparentata con la nobiltà romana, Federico Zuccari, che era professore di matematica alla Nunziatella. Bisognava farne un buon astronomo. Per questa ragione il re lo comandò a Milano, presso l'Osservatorio di Brera, perché apprendesse il mestiere dal direttore Barnaba Oriani, che tra gli altri suoi titoli di merito poteva vantarsi di godere della stima di Napoleoné. Come ogni ufficiale d'artiglieria, Napoleone aveva qualche conoscenza di matematica. Attratto dalle scienze, si circondò per tutta la vita di studiosi, a cominciare dalla campagna di Egitto, dimostrando sempre per loro un grandissimo rispetto.

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Rientrato a Napoli con l'incarico di professore di astronomia all'Università e di direttore dell'Osservatorio di San Gaudioso, Zuccari, che nello stage a Brera aveva assaporato il gusto di lavorare in un istituto moderno ed efficiente, cominciò subito a incalzare il sovrano con la richiesta di una nuova Specola. La ragioni contingenti erano tecniche: la debolezza del suolo a Capo Napoli che rendeva instabili gli strumenti, l'orizzonte limitato dagli edifici circostanti, e un'atmosfera contaminata dai mi asmi e dalle luci della città. Tuttavia possiamo immaginare che ben altre e più alte argomentazioni fossero quelle porte al re per indudo ad aprire i cordoni della borsa: argomentazioni di natura scientifica ma anche capaci di sollecitare la vanità del Murat e di attizzare l'inconfessabile competizione con il grande cognato. Chissà, forse non furono troppo diverse da quelle 7 con cui nel 1821, nelle Effemeridi Letterarie di Roma, si introduce abilmente la descrizione della nuova Specola eretta a Capodimonte: Era ben giusto che il paese il quale aveva dato i natali ad un Flavio Gioja, scopritore all'Europa dell'uso della bussola e versatissimo nelle cose celesti, ad un Giovanni Battista dalla Porta, cui devesi la prima idea de'cannocchiali, ad un Luigi Lilio, che il primo di è il progetto della riforma del calendario adottata dal Pontefice Gregorio XIII, e a tanti altri sommi fisici che si occuparono particolarmente di cose astronomiche, presentasse infine un magnifico Osservatorio di Astronomia eretto dai fondamenti nelle vicinanze della capitale, fornito abbondantemente di preziosi ed utili istromenti, e diretto dal celebratissimo Astronomo, dallo scopritore di Cerere, il Padre Piazzi. L'Astronomia di fatto come tutte le altre scienze fondate sull'osservazione ha bisogno indispensabile di mezzi e di comodi da osservare. I suoi progressi, dai quali trae tanti vantaggi l'umana società, non possono ottenersi per altra via che per quella della osservazione la più diligente, e la più costante, sostenuta da tutti i presidj che il prefezionamento [sic l delle arti pone in nostro potere, e discussa coll'analisi la più sublime in tutte le sue relazioni. La gran macchina dell'universo, di cui l'astronomo indaga le parti, i movimenti, le masse, e le distanze, vuolsi ravvicinare alla brevità dei nostri sguardi, ed 7

Cfr. [198], pago 171.

La storia sullo sfondo

esaminare diligentemente in ogni sua parte per comprenderne l'ordine, la composizione, la reciproca dipendenza. Ecco perché nelle più colte città di Europa, e fino in America, nell'Indie, al Capo di Buona Speranza si sono stabiliti in breve tempo luoghi e mezzi da osservare la bella ed immensa volta del cielo; ed ecco perché gli uomini che riuniscono curiosità a perspicacia consagrano i loro studj e il loro tempo a contemplare i movimenti e le forme de' corpi celesti. Ora certamente non si legge più nel cielo il destino degli umani individui, o dei popoli: non si consultano più le stelle per conoscere e prevedere gli eventi umani, la buona o la cattiva fortuna degli uomini: non è più una vana astrologia l'oggetto degli studj e delle ricerche dei dotti astronomi d'oggidì. Il loro scopo se non è tanto lusinghiero, è certamente più solido, più reale, e più corrispondente ai fatti: tal è la cognizione delle forme, dei movimenti, delle distanze, delle azioni e reazioni, che le diverse parti di questa gran macchina dell'universo presentano tra di loro; cognizione che non solo soddisfa all'innata curiosità dell'uomo, cui l'Autore della natura Os sublime dedit, celumque videre Jussit, et erectos ad sidera tollere vulnus (Ovid. Metam. Lib. 2 v 85.),

ma che giova moltissimo agli usi della vita, spargendo una vivissima luce sulla geografia, sulla nautica, sulla successione del tempo, e sull' apparizione di quegli innocenti fenomeni, che tanto spaventavano in altri tempi. Pagine interessanti e istruttive, di incredibile modernità. Dopo un appello all' orgoglio nazionale con l'elenco delle vecchie glorie scientifiche, in vero poche, dubbie e comunque lontane nel tempo, si fa esplicito riferimento alle motivazioni ideali che spingono l'uomo a studiare il cielo, ma anche ai grandi vantaggi che la conoscenza della natura comporta. Bisogna dire che il Secolo dei lumi non era trascorso invano! Murat cedette alle insistenze del giovane astronomo. Zuccari aveva individuato nella collina di Capodimonte il sito adatto a erigervi l'Osservatorio, e il sovrano ordinò che venisse acquistato il terreno

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e i manufatti che su di esso sorgevan0 8 . Mise anche a disposizione i fondi per avviare la costruzione dell' edificio della Specola, che per la prima volta in Italia nasceva ex novo come una fabbrica espressamente progettata per la funzione che avrebbe dovuto avere, invece di essere ricavata dal riattamento di una precedente struttura, come a Bologna, Padova, Brera e Palermo. Tuttavia Murat non poté assistere alla posa della prima pietra. La cerimonia, con tanto di seppellimento di una manciata di medaglie commemorative, venne celebrata il4 novembre del 1812 alla presenza della sola regina. Pur contro voglia, il re soldato era al fianco del bellicoso cognato di cui voleva recuperare il favore dopo qualche screzio, per condividere con lui le fatiche e le sconfitte della disastrosa campagna di Russia. Gioacchino, che si era perso l'inizio, non vide neppure la conclusione dell'opera avviata a Capodimonte grazie al suo favore. Nel maggio del 1815, dopo la sconfitta militare patita a Tolentino, nelle Marche, a opera degli Austriaci, fu costretto ad abbandonare precipitosamente il paese. Ma non si diede per vinto. Con un editto pubblicato a Rimini quand' era già in fuga, provò a sollevare gli italiani sventolando la bandiera della libertà e dell'unità nazionale. Tardivo ripensamento o gesto disperato? Comunque fosse, era troppo tardi; la storia aveva ormai voltato pagina dopo la definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo, e nulla avrebbe più potuto essere come prima. Gioacchino provò a rientrare con alcuni fedelissimi nel Regno di Napoli, convinto che il suo buon governo gli avesse guadagnato la riconoscenza dei lazzari, ma, spinto da una tempesta sulle coste della Calabria tirrenica, venne catturato proprio da quel popolino su cui tanto contava, consegnato ai Borbonici, e fucilato nel piazzale della fortezza di Pizzo Calabro. "Mirate al cuore e risparmiate la faccia"9, pare abbia gridato ordinando lui stesso al plotone d'esecuzione di fare fuoco, in un ultimo sprezzante gesto di coraggio e vanità. E mentre moriva, il generale Vito Nunziante, che lo aveva catturato, veniva nominato marchese dal Borbone: così va il mondo! Era ill3 ottobre 1815. Tre giorni dopo la nave da battaglia inglese HMS Northumberland, che trasferiva Napoleone in una sperduta isola del Pacifico avrebbe gettato l'ancora nel porticciolo di Sant'Elena. Era la fine di una stagione di gloria, di sogni, di ambigui8

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I dettagli sono contenuti in [200], pagg. 70-71. Cfr. [103], pago 520.

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tà e di sangue, cominciata con una rivoluzione fatta dal popolo "per conto terzi". L'Europa si avviava alla restaurazione dei vecchi assetti, per scardinare i quali ci sarebbero voluti ancora gloria, sogni, ambiguità e tanto, tanto sangue, secondo un vichiano circolo della storia che pare non volersi spezzare mai. Nelle sue Memorie Napoleone avrebbe commentato cinicamente che il focoso ma poco riflessivo cognato era morto per riconquistare con 250 uomini un trono che aveva perso quando di soldati ne aveva ottantamila. Forse, dettando queste righe Napoleone pensava anche a sé, e al suo breve e catastrofico ritorno di cento giorni sul palcoscenico della storia: una rappresentazione fulminea, esaltante e insieme tragica, al termine della quale l'Europa sarebbe piombata negli anni grigi della Restaurazione, in mano agli Asburgo a Sud, agli Zar a Est, e agli Inglesi un po'ovunque nel mondo. Ma è proprio quando la luce è poca che i lampi si vedono meglio; e di lampi libertari il resto dell'Ottocento sarebbe stato pieno. Mentre i vincitori facevano e disfacevano i troni del Vecchio Mondo sotto l'esperta regia del principe di Metternich, a Capodimonte i lavori per la Specola s'erano fermati, per effetto dei gravi accadimenti ma anche per il truffaldino comportamento dell'impresario e del contabile della ditta appaltatrice, secondo un copione che non cambia mai. L'edificio neo classico concepito dall'architetto Stefano Gasse per ospitare gli uffici e gli strumenti d'osservazione era rimasto incompleto, a dispetto degli sforzi di Zuccari, probabilmente troppo debole per gestire una situazione diventata difficile. I cannocchiali ordinati alla rinomata ditta di Georg von Reichenbach a Monaco di Baviera, tra cui un cerchio meridiano di cui avremo modo di parlare a lungo, erano arrivati a Napoli proprio nel momento del massimo trambusto politico, accompagnati dal costruttore e dal celebre astronomo barone von Zach nelle vesti di consulente. Ma non fu possibile installarli, anche per via della precipitosa fuga dalla città dei due esperti, spaventati dai tumulti. Gli strumenti vennero immagazzinati provvisoriamente in un deposito della Reale Biblioteca e in misura minore parcheggiati a San Gaudioso, senza però essere usati. E, colmo della malasorte, nel dicembre del 1817 Federico Zuccari morì, «men carico di anni che di onorificenze», come recita un suo necrologio lO • Poteva essere la fine dell'impresa. Paradossalmente fu prolO

Cfr. [26], pago 372.

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prio il vecchio re Nasone, rozzo e ignorante com'era, a farsi carico di rilanciarla e completarla, donando a Napoli un superbo Osservatorio sulla collina di Miradois. Appena rimesso sul trono di Napoli dal Congresso di Vìenna, l' anziano sovrano aveva subito assestato un mediatico colpo di spugna al passato. Aveva ribattezzato il suo regno, che da allora si sarebbe chiamato delle Due Sicilie anche per riconoscenza verso l'isola che lo aveva ospitato e protetto per un decennio di «occupazione militare» Il dei territori continentali, e aveva conseguentemente "rinumerato" se stesso in Ferdinando L Ma la damnatio memoriae nei confronti degli odiati usurpatori francesi si limitò non di rado a gesti simbolici e a qualche proclama. Ferdinando ebbe l'intelligenza pragmatica di comprendere che non sarebbe stato più possibile tornare indietro del tutto, e invece che combattere a testa bassa contro ciò che i sovrani d'Oltralpe avevano realizzato, decise di trame profitto per sé. È in questa logica che nell8I7, dopo una lunga istruttoria su costi e benefici, fece riaprire il cantiere di Capodimonte al fine di completarne i lavori. Forse nella sua decisione influì anche una certa, se pur casuale, familiarità con l'astronomia: non una propensione culturale allo studio del cielo, com' era per alcuni nobili, in particolare in Sicilia - si pensi, per esempio, al Principe di Salina, lo straordinario personaggio del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa - ma il fatto che per un decennio aveva vissuto a Palermo proprio in quel Palazzo dei Normanni sui cui tetti Giuseppe Piazzi aveva eretto una magnifica Specola. Da lì, nella notte del primo dell'anno del1801, l'astronomo valtellinese, lavorando in totale indipendenza, aveva scoperto l'asteroide Cerere, guadagnandosi imperitura fama. Chissà, forse durante il lungo esilio siciliano il re ebbe modo di salire sino all'Osservatorio per gettar l'occhio sui cannocchiali e per conversare con il suo illustre astronomo. È plausibile che tra i due vi fosse qualche forma di consuetudine visto che, dopo aver preso la decisione di completare lo stabilimento astronomico di Capodimonte, Ferdinando si rivolse proprio al Piazzi comandandogli di lasciare Palermo e i suoi studi per occuparsi della fabbrica sulla colA pago 61 di [206], troviamo il seguente provvedimento: «18172. SEM. Conferma della concessione de'fondi fatta in tempo della occupazione militare per la costruzione della specula a Miradois. d. 23 lug.».

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lina di Miradois con il nuovo titolo di Direttore degli Osservatori del Regno. A malincuore l'astronomo obbedì e partì alla volta di Napoli dopo aver consegnato la sua amata Specola palermitana nelle mani del nuovo direttore Niccolò Cacciatore. "E se io vo, chi resta? E se io resto, chi va?", avrà pensato di sé passeggiando sulla tolda del veliero che lo portava al suo nuovo impegno, tanto da scriverlo esplicitamente all'amico Oriani l2 : «Questa Specola è opera mia [... ]. Se io l'abbandono, tutto è perduto, e forse perduta per sempre (non avendo essa gettate qui ancora profonde radici) l'astronomia in Sicilia. Per altra parte, il Re mi ha sempre distinto, onorato, beneficato. Ve ne dirò un solo tratto che mai si cancellerà dall'animo mio. Allorché all'impensata venne qui da Napoli, quanti erano in palazzo si fecero sloggiare, e lo stesso Vìceré. lo solo conservai le mie stanze, per espresso ordine suo in iscritto. Sarebbe egli quindi lodevole che sagrificassi tutti questi riflessi ai miei privati comodi e soddisfazioni?». Giunto nella capitale nell'autunno del 1817, Piazzi mise subito mano all'opera assegnatagli dal re, cercando di conciliare le esigenze della scienza con quelle di chi voleva soltanto un bel monumento. Compito arduo, come si capisce da questo accorato passaggio di un' altra lettera all' Oriani, che fa grande onore allo scienziato valtellinese e un po'meno ai maggiorenti napoletani: «Molto però mi duole che finora il lavoro consista principalmente in bugne, imposte, triglifi, cornicioni, ecc., di travertino, onde rivestire l'edifizio. Ma senza di ciò io sarei lapidato. I Napolitani sono persuasi che una pomposa e ricca fabbrica, cui si dia il nome di Specola astronomica, sia tutto ciò che demanda la Scienza» 13. Alla fine la testarda operosità del Piazzi ebbe la meglio sulle velleitarie pretese estetiche e anche sulle difficoltà economiche, che egli superò semplificando il progetto e riducendo i decori. Due anni dopo il suo sbarco a Napoli l'Osservatorio era pronto per la solenne inaugurazione: splendido manufatto, ben equipaggiato, collocato in una felicissima posizione, entro un parco di sei ettari, a due passi dalla Reggia, isolato sì, come si conviene a un Osservatorio, ma nel contempo ben collegato al centro della città dalla nuova arteria realizzata da Murat. 12

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Cfr. [165]. Lettera a Oriani del 24 dicembre 1802, pago 67. Ivi, pago 154. Lettera a Oriani del 22 aprile 1818.

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È utile che ci si soffermi per un momento a considerare lo stabilimento scientifico e le sue pertinenze, per familiarizzarci con i luoghi che faranno da sfondo a quasi tutta la nostra storia. All'uopo ci serviremo di una gustosa descrizione tratta da una Guida di Napoli del 1821:

Dalla bella valletta de'Ponti rossi per una strada aperta nel 1809 si sale alla collina di Capodimonte, che domina gran parte di Napoli. La bellezza del sito invitò il re Carlo Borbone a fabbricarvi un palazzo, per lo quale fu impiegato l'architetto Medrano di Palermo [... l. Questo palazzo per la difficoltà dell' accesso, per la mancanza dell'acqua e per altri inconvenienti era stato abbandonato, e se n'era fatto una specie di museo, che conteneva preziosissimi oggetti i quali oggi son passati nel Museo Borbonico. Ma coll' essersi aperte due magnifiche strade, che vi conducono, presentemente è frequentato dalla Corte. [... l Sulla parte della collina di Capodimonte, detta con nome spagnuolo Miratodos e corrottamente Miradois, per la sua bella ed estesa veduta, è posto l'Osservatorio. [... l È posto in luogo isolato, lontano da ogni strepito, elevato di 80 tese 14 sul livello del mare, con un orizzonte quasi del tutto libero, essendo per poco impedito a libeccio 15 dal castello di S. Elmo. Si sale per una magnifica gradinata ad una piazza sostenuta da solide mura cinte da un fossato. In mezzo di essa sorge l'Osservatorio, cui dà l'ingresso un vestibolo con sei colonne doriche di marmo. Segue un atrio coperto con due ali di colonne, dal quale si sale incontro alla torre verso settentrione. A dritta si va alle stanze per comodo degli astronomi, e ad una delle ali dell'Osservatorio, la quale contiene una sala per gli strumenti meridiani, ed una torre per le osservazioni. A sinistra dell'atrio si passa ad una galleria per gli strumenti mobili con altra stanza per uso degli astronomi, e dalla galleria all'ala sinistra dell'Osservatorio, che contiene la stanza meridiana e la torre con pilastro isolato. Sulla torre settentrionale è la macchina equatoriale, e sulle altre due i circoli ripetitori. Nella stanza meridiana tra le due colonne orientali si vede lo strumento de'passaggi, e tra le occidentali il cerchio La tesa è una unità di misura utilizzata in Italia prima dell'introduzione del sistema metrico, equivalente a una apertura di braccia, tese per l'appunto. 15 Sud -Ovest.

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La storia sullo sfondo

meridiano. Poco lungi dall'Osservatorio è l'abitazione per le famiglie degli astronomi. 16 Ancor più dettagliata è la descrizione dei fatti e dei manufatti contenuta nelle Effemeridi Letterarie di Roma di cui abbiamo già trascritto una parte. Si tratta di una sorta di recensione del Ragguaglio [164], l' opuscoletto nel quale Piazzi aveva scandito le regole per l'organizzazione e la gestione dell'Osservatorio. Riportiamo solo la parte relativa al corredo strumentale della Specola: Gli stromenti astronomici che arricchiscono questo nobile osservatorio sono molti e pregevolissimi, lavorati nella maggior parte dal Signor Reichenbach di Monaco, che si recò espressamente in Napoli per dar loro convenevole collocamento. Tali sono due cerchi ripetitori ad asse fisso e di tre piedi di diametro; un cerchio meridiano di tre piedi di diametro; un cannocchiale meridiano di 7 piedi di foco; uno stromento equatoriale di tre piedi; un cannocchiale acromatico con lente oggettiva di pollici 7,5, montato su di macchina parallattica, sospinta con ben combinato oriuolo secondo il diurno movimento degli astri; finalmente un pendolo lavorato per quanto sembra su i principj di quelli a scappamento libero del Cumming. Havvi inoltre uno specchio Herscelliano di 20 piedi di foco, che acquistossi in Berlino; un altro minore acquistato in Modena dal Signor Amici; come pure un cannocchiale acromatico del Benchi commesso a Parigi assieme con un cronometro di Breguet. Delle macchine che seco portò da Milano il Signor Zuccari non rimane presentemente all'Osservatorio che un pendolo di Arnold. Si fa sperare che ne saranno acquistate delle altre in appresso, come pure una quantità di libri che possono esser utili all'Osservatorio. E così nulla rimarrà più a desiderarsi per l'utilità di questo nuovo e nobile stabilimento scientifico; il di cui piano d'organizzazione e d'interna polizia approvato dal Governo legge si in fine del Ragguaglio; ed è tale da far concepire le più belle speranze sui progressi della scienza. l ?

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Cfr. [77], pago 99. Cfr. [198], pago 171.

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Oggi l'Osservatorio di Capodimonte è un istituto di ricerca moderno e in alcuni settori all'avanguardia nel mondo. Nondimeno conserva praticamente intatti i manufatti cui le precedenti descrizioni fanno riferimento, così come molti degli antichi strumenti, raccolti in un pregevole museo. Guerre, occupazioni, rivolte di popolo, e un paio di decenni di autentico decadimento a valle della Seconda Guerra Mondiale, non hanno intaccato significativamente lo straordinario impianto dell'Istituto cui una generosa natura modellata dall'uomo, con il Vesuvio, il golfo e il colle di Sant'Elmo, fa degna cornice. Ora come allora il visitatore della Specola raggiunge l'entrata Nord del parco attraverso la pittoresca viuzza di Sant' Antonio a Capodimonte lastricata di piperno, timoroso allora per via dell'isolamento e del buio, oggi per la microcriminalità alimentata dalla prossimità con il degradato quartiere della Sanità. In due secoli di vita della Specola, il parco si è arricchito di qualche edificio e qualche cupola, senza perdere il suo carattere misto di zona di rispetto per l'Istituto e di risorsa agricola, ieri assegnata a mezzadri per sostenere l'economia dell'Osservatorio e ora polmone verde per la città. Completata l'opera, il coscienzioso Piazzi affidò ad uno stringato Ragguaglio le regole per organizzare e gestire la Specola: un manualetto di 27 pagine dense di precetti che a noi sembrano più degni di un collegio religioso che di un ente di ricerca. Il vecchio astronomo si preoccupò anche di individuare e di proporre al sovrano la squadra cui affidare lo stabilimento. Il problema più grosso riguardava il direttore. Con la morte di Zuccari, non c'era nessuno in tutto il regno che avesse statura ed esperienza almeno sufficienti. Piazzi si consigliò con Oriani, che gli propose un ingegnere milanese, Carlo Brioschi, abile «nel maneggiare, nel verificare gli strumenti e nel rivelarne subito i pregi e i difetti, ma [... ] di poche parole e mediocre scrittore»18. Quello che per Ori ani poteva essere un limite, per il taciturno e laborioso teatino suonò come un grande pregio, tanto da fargli preferire il roccioso milanese a un elegante e forbito fiorentino, padre Giovanni Inghirami, che pure s'era candidato al posto. Brioschi accettò l'incarico e nel giugno del 1819 giunse a Napoli per prender servizio, preceduto dalla fama che le sue audaci ascensioni in pallone gli avevano procurato l9 . 18 19

Cfr. [165], pago 163. Lettera di Oriani a Piazzi del 15 luglio 1818. Cfr. [21], pago 130.

La storia sullo sfondo

Con il consenso del sovrano, cui di fatto spettavano le nomine, Piazzi gli affiancò Ernesto Capocci in qualità di astronomo in seconda, con un salario annuo di 50 ducati, giusto la metà di quanto assicurato al direttore, e come assistente il molisano Antonio Nobile, col soldo di 25 ducati. Completavano l'organico il tecnico Augusto Aenhelt (40 ducati), che Zuccari s'era portato da Milano e che doveva essere davvero benvoluto da Piazzi se il suo salario eguagliava quasi quello dell'astronomo in seconda, e un custode (9 ducati). Stipendi da fame, se si pensa che un ducato del Regno delle Due Sicilie aveva all'incirca la capacità di acquisto che oggi hanno 50 euro. Tuttavia, dal direttore al custode potevano tutti valersi di un alloggio di servizio alla Specola e, presumibilmente, di un orto e di un pollaio, gestiti personalmente o affidati alle cure dei coloni ospiti del comprensorio. Il re aveva infatti disposto che i terreni del grande parco venissero coltivati da due famiglie di mezzadri, i cui discendenti ancora vivono all'Osservatorio, come forma di finanziamento in natura per l'ordinaria gestione dell'Istituto. Erano tempi in cui gli astronomi dovevano arrangiarsi per vivere e far vivere le loro ricerche, anche vendendo calendari e almanacchi. Oggi non si riesce a fare nemmeno questo! Una curiosità. Da una lettera del presidente della Commissione della Pubblica Istruzione del Regno delle Due Sicilie, datata 3 gennaio 1816, apprendiamo che al «tempo della passata occupazione militare»2o era stato dato incarico al pittore tedesco Rudolf Suhrland di preparare una serie di ritratti di «uomini illustri o nativi de Regno, o che avessero renduto distinti servigi a questo paese, i quali dovevano esporsi nella gran sala appartenente all'Osservatorio di Miradois» 21. L'operazione finì male. Furono realizzati solo i ritratti di von Zach e del Reichenbach, che inizialmente non vennero nemmeno pagati per mancanza di fondi. Ma non basta. Lo stesso Gasse, poco prima della morte, dovette costatare che le grandi tele non avrebbero potuto essere collocate adeguatamente in una sala circolare e dovevano trovare un'altra sistemazione. Alla fine, Suhrland venne parzialmente liquidato e il progetto accantonato. I ritratti già eseguiti scomparvero non si sa come né dove. Archivio di Stato di Napoli, Ministero dell'Interno, Inv. I, f. 905. Archivio di Stato di Napoli, Ministero dell'Interno, Inv. I, f. 905, lettera di R. Suhrland al Segretario di Stato.

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Ernesto Capocci, astronomo in seconda con funzioni di vice-direttore, era un ventunenne di belle speranze. Aveva bazzicato l'Osservatorio fin da ragazzino. Ce l'aveva portato lo zio materno, Federico Zuccari, dopo averlo sottratto al "natio borgo selvaggio': la pur bella cittadina di Sora, persa però sull' Appennino ai confini settentrionali del Regno. Zuccari era consapevole della brillante intelligenza del nipote e perciò si era preoccupato della sua educazione scientifica. Quando Piazzi arrivò a Napoli, vide il giovanotto all'opera come osservatore e soprattutto calcolatore di orbite cometarie, e ne rimase ben impressionato. Ernesto era il miglior prodotto di una scuola di astronomia napoletana appena nata, e il navigato teatino, che era stato consigliato da Oriani di valorizzare le capacità locali, scelse il facondo e ambizioso ciociaro, così diverso da lui, per un incarico prestigioso: la vice-direzione della Specola. Subito sotto a Capocci pose Antonio Nobile, padre di Arminio, creando così una gerarchia che avrà non poco peso nella nostra storia. Non abbiamo trovato alcun documento che ci permetta di individuare quali fossero gli alloggi del direttore e dei suoi astronomi all'interno della Villa della Riccia. Indirettamente apprendiamo che Brioschi poteva disporre di un ampio appartamento. Capo cci aveva, com'è ovvio, un quartiere più piccolo, che avrebbe poi diviso con la moglie Almerinda Farina. Lo spazio a disposizione di Antonio Nobile, terzo nella "nomenclaturà' dell'Osservatorio e per di più scapolo, doveva essere minimale: sufficiente per lui ma inadeguato a ospitare una famiglia. E anche questo elemento avrà parte importante nella nostra storia. C'è un ultimo personaggio che dobbiamo introdurre prima di immergerci nel racconto delle vite dei genitori di Arminio. Si tratta dell' alunno Leopoldo Del Re. Gli alunni erano figure create da Piazzi, una sorta di praticanti «ammessi quando sien già dotti nelle matematiche, almeno sino al calcolo infinitesimale, e nelle meccaniche. Ogni due anni son sottoposti a sperimenti di studi, e chi vi si dimostra più valoroso è premiato d'una medaglia d'oro»22. Potremmo forse paragonarli ai nostri post -doc, giovani precari mal pagati, sfruttati e ricattati da una società egoista e ottusa che non ha amore per i propri figli e per il proprio futuro. Innamorato delle sue montagne e provetto scalatore, come scienziato Del Re fu una figura poco significativa. 22

Cfr. [63], pagg. 727-728.

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Ma proprio questa sua opaca neutralità ne avrebbe fatto lo strumento di una vendetta incrociata: quella di Capocci nei confronti di Nobile e poi quella di Ferdinando II nei confronti di Capocci.

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Antonio Nobile: padre e scienziato Antonio Nobile, padre di Arminio, era nato l nel mese di novembre dell'anno 1794 «di onesti parenti»2 nella «cospicua e antica città di Campobasso» 3, un centro vivace e relativamente ricco a 700 metri di quota su un' altura dell' Appennino sannita, tra il massiccio del Matese e il mare Adriatico, già feudo dei Gonzaga e dei Carafa, e poi città modello per designazione carolina. Antonio rimase a Campobasso sino a vent' anni, compiendovi tutti i giovanili studi, come si diceva allora per indicare il cursus scolastico pre-universitario, piuttosto vago. Sebbene lontano dal cuore pulsante del Regno, il giovane poté comunque avvertire il vento di cambiamento che spirava dalla Napoli dei re francesi; tra le tante trasformazioni, i napoleonidi avevano elevato la sua città a capitale della nuova Provincia del Molise e Campobasso, e avviato una radicale ristrutturazione urbanistica del centro storico. È in questa comunità periferica, dove la capacità di indirizzo e l'educazione erano totalmente in mano alla chiesa e dove il nuovo spesso arrivava quando altrove era ormai diventato vecchio, che prese corpo in lui e si rafforzò una rigida coscienza cattolica e liberale, una fede neo guelfa che in seguito sarebbe maturata in un sentimento esplicitamente antiborbonico. In piena restaurazione dell' ancien régime, Antonio si trasferì dal suo gelido Molise all'assolata Napoli per avviarsi agli studi di medicina. Portava con sé l'immagine dei suoi monti, l'odore salubre dei boschi, i sapori forti di una regione aspra e genuina, pochi soldi visto che la famiglia non era ricca, e una bronchite cronica, contratta a 15 anni durante un inverno particolarmente rigido, che non lo avrebbe più abbandonato; uno dei tanti malanni che insieme alle disgrazie familiari e politiche avrebbero avvelenato la sua non lunga vita. Antonio rimase profondamente legato alla sua terra, dove ritornò ogni Non conosciamo il giorno esatto della nascita di Antonio. Non ve n'è traccia negli elogi scritti in suo onore, né è stato possibile reperire l'atto di nascita perché il Comune di Campobasso non conserva più alcun documento dell'epoca. 2 Cfr. [5], pago 133. 3 Cfr. [6], pago 325. l

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qual volta gli fu possibile per rivedere parenti e amici, e per far conoscere loro la sua sposa, Giuseppina Guacci. A sua volta il Molise lo ha accolto tra i figli migliori, come dimostra la presenza del suo nome in tutti gli elenchi di uomini illustri di quel territorio; e il Municipio di Campobasso ha intitolato alla memoria dell' astronomo una strada del capoluogo. Cosa lo spinse verso la medicina? Più che una sua scelta fu probabilmente il volere del padre, visto che ben presto Antonio abbandonò il progetto originale per dedicarsi con profitto alla matematica e all'astronomia. A farlo cadere da cavallo sulla via di Damasco furono le lezioni di Filippo Guidi, decano della Facoltà di fisica e matematica nella Regia Università degli studi di Napoli. Erano i primi mesi del 1818. L'anziano docente, che aveva avuto un passato rivoluzionario - aveva partecipato attivamente alla Repubblica Partenopea pagandon e poi il fio con l'esilio - prese a benvolere il giovane montanaro, alto, asciutto, di poche parole e di molte capacità. Si sarebbe ricordato di lui dieci anni dopo, quando, impossibilitato da una malattia a tenere il suo corso di algebra alla Regia Università, lo avrebbe affidato proprio al suo ormai maturo allievo. 111819 fu un anno davvero fortunato per Antonio, che ottenne il suo primo lavoro vincendo, per concorso, la cattedra di geometria nel Reale Collegio medico-cerusico; l'avrebbe mantenuta per i successivi 18 anni, fino all'abolizione della cattedra stessa4 . Intanto, la sua frequentazione della Specola di Capodimonte gli aveva permesso di farsi notare dal Piazzi, che era a caccia di personale autoctono di qualità per far decollare il neonato stabilimento scientifico. Era stato l'amico Oriani a raccomandargli di ricorrere a elementi locali, magari ancora grezzi ma interessati a rimanere a Napoli e a formare nel tempo una scuola, piuttosto che a ingegni d'importazione, già maturi ma volatili. CosÌ, nel 1819 Antonio entrò anche a far parte, con l'incarico di assistente, della piccola squadra degli «impiegati» della Reale Specola di Capodimonte, come venivano indicati gli astronomi dell'Osservatorio nei documenti ufficiali del tempo. Il posto comportava un modesto stipendio e l'uso di un alloggio di servizio, insieme a regole e compiti precisi, scanditi nel Ragguaglio del Reale Osservatorio di Napoli eretto sulla Collina di Capodimonte [164] e soprattutto nel Reale 4

Cfr. [156], pago 16.

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Rescritto del 21 dicembre 18195 : .. .1'Astronomo in secondo e l'Assistente dipenderanno immediatamente dell' Astronomo direttore in ciò che riguarda osservazioni, calcoli, assistenza allo stabilimento, e tutt'altro che vi abbia rapporto. Dal tramontare del sole fin dopo mezzodì, faranno la loro dimora nella Specola, e nel dopo pranzo rimarranno in libertà, qualora bensì per circostanze particolari non convenga, che continuino a dimorarvi. Oltre a ciò potrà il Direttore permettere a ciascuno di essi di assentarsi per un giorno ogni settimana, purché la notte ritornino all'Osservatorio. Sarà loro dovere d'istruire quei giovani, che dal Direttore saranno ammessi come alunni. Soddisfatte le ordinarie incombenze, potranno occuparsi di quelle osservazioni e calcoli, che loro piaceranno, e il Direttore potrà accordare ai medesimi l'uso degli stromenti, dei quali potranno aver bisogno, quando abbiano acquistata l'attitudine a ben maneggiarli. Del locale che sarà loro assegnato per abitazione, non potranno disporre che per proprio uso. 6 Regole durissime, come già si è osservato, quasi arresti domiciliari, che Antonio poteva spezzare con una certa frequenza grazie all'impegno didattico che lo chiamava in città per lezioni ed esami. Il suo più giovane e aggressivo collega, il ben nato Ernesto Capocci di Belmonte, non aveva invece questa opportunità. Nonostante i reiterati tentativi, non era riuscito a ottenere una cattedra universitaria, a dispetto di una crescente fama scientifica e degli apprezzamenti per le sue qualità di letterat0 7 . Per evadere dalla routine dell'Osservatorio e dagli obblighi di una famiglia che andava facendosi sempre più numerosa8 , e per partecipare, come desiderava, alla vita culturale della città, Capo cci poteva contare solo sulla comprensione del direttore Brioschi, che però non venne mai meno. A quel che c'è dato di capire, Brioschi era un efficienti sta intelligente, pragmatico e per nulla ideologico, un buon capo e un ottimo collega. Archivio di Stato di Napoli, Ministero dell'Interno, Inv. I, f. 903. Cfr [164], pagg. 24-25. 7 Cfr. [21]. 8 Capocci aveva sposato Almerinda nei primi anni anni Venti dell'Ottocento. Dal matrimonio nacquero cinque figli tra il 1825 e il 1833: Stenore, Dermino, Oscar, Teucro ed Euriso. Successivamente nacque Ulrico, presumibilmente morto nell'infanzia in quanto dopo il 1837 di lui non v'è più traccia. 5 6

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In ogni modo la vita di Antonio, di Ernesto e degli altri astronomi della Specola non scorreva certo coi ritmi frenetici caratteristici di un moderno istituto di ricerca. Tutto si svolgeva su tempi lunghi per la mancanza di quelle facility che oggi ci garantiscono una grande efficienza, a spese, spesso, di una ridotta capacità di concentrazione. Basterà pensare ai calcoli, che noi consegniamo a macchine velocissime e precise ma che all' epoca erano affidati alla pazienza e alla diligenza degli astronomi. Calcoli spesso complessi, come la risoluzione dei sistemi di equazioni per la determinazione degli elementi d'orbita delle comete, che era la specialità di Nobile e Capocci9 . Essi richiedevano mesi di duro lavoro e di verifiche scrupolose per minimizzare la possibilità d'errore. La lentezza delle procedure di riduzione dei dati, poi, rendeva inutile un' esasperata efficienza nell'uso degli strumenti d'osservazione che - è bene ricordare - il direttore metteva a disposizione degli astronomi a suo insindacabile giudizio, una volta che questi avessero assolto tutti i compiti loro assegnati. Ricerca libera, dunque, ma nel tempo libero! Tutto ciò dà ragione della scarsità di pubblicazioni al di là dei contributi all' Almanacco della Specola. Le prime pubblicazioni di Antonio Nobile risalgono al periodo 1828-1830. Si tratta di una Memoria sul peso specifico dei liquidi, e sull' Idrometria, e di un Saggio sulla determinazione della progressione dell' estivo calore diurno in Napoli lO • Benché non avesse carattere innovativo, né portasse contributi di qualche rilievo alla conoscenza, il primo di questi lavori bastò a far ottenere al suo autore un prestigio so riconoscimento, la nomina di socio corrispondente dell'Istituto d'Incoraggiamento alle scienze naturali, economiche e tecnologiche ll . Verosimilmente la qualità degli accademici non era poi tanto alta da imporre stringenti requisiti ai curricula dei nuovi Per lo studio di una cometa, nel 1824, Capocci era stato elogiato dal famoso barone von Zach che lo aveva definito l' Hencke de l' Italie: un paragone prestigioso con il più celebre studioso di comete del tempo. lO I due lavori vennero pubblicati in [111] e [112]. 11 Fondata nel 1806 per volere di Giuseppe Bonaparte sulla falsariga delle analoghe istituzioni francesi, il suo nome completo era Regal Società d'Incoraggiamento alle scienze naturali, ma nello stesso periodo venne conosciuta anche come Società d'Incoraggiamento per le scienze e le arti utili. L'istituzione nasceva con due scopi principali: raccogliere l'eredità dell'ormai soppressa Reale Accademia delle scienze e belle-lettere di Napoli e promuovere e indirizzare, sotto la guida dello Stato, gli studi teorici verso innovazioni utili per la società. Dell'Istituto d'Incoraggiamento entrarono a far parte i più importanti intellettuali e scienziati del tempo. Sopravvissuto al ritorno dei Borboni, restò attivo fino al 1937 nonostante una progressiva perdita di prestigio e di ruolo. 9

Antonio Nobile: padre e scienziato

soci, a riprova della condizione di relativa mediocrità dello stato delle scienze della natura a Napoli e nel Regno l2 , in particolare dopo le stragi di cervelli del 1799. Lo stesso Nobile se ne rendeva ben conto. La sua sete di conoscenza e il desiderio di tenersi al passo con le ricerche prodotte nel resto d'Italia e d'Europa gli facevano desiderare ogni giorno di più di poter uscire dal ristretto ambiente napoletano, poco stimolante e scientificamente arretrato. Sarebbe stato magnifico - pensava - poter visitare le grandi capitali del sapere, Parigi in testa, ascoltare le lezioni di quei sommi ingegni di cui a Napoli arrivavano solo gli scritti, spesso con ritardo per via della censura, sperimentare altri modelli di organizzazione sociale, vedere facce diverse, monumenti di cui aveva solo letto, panorami differenti da quelli consueti, fenomeni come le aurore boreali che accadono solo in certi luoghi: insomma confrontarsi con il mondo. Così, nell' aprile del 1831 si fece coraggio e presentò al ministro dell'Interno una supplica 13 per chiedere che gli fosse permesso di effettuare un viaggio d'istruzione all'estero. Da un anno sul trono di Napoli sedeva un giovane re, Ferdinando II delle Due Sicilie, sul quale si appuntavano le speranze dei progressisti meridionali. Forse, nell'azzardare la sua richiesta, Nobile fece assegnamento sull'aria nuova che spirava da Largo di Palazzo, ben diversa da quella stagnante dei tempi del vecchio Ferdinando I e del breve regno del figlio Francesco I, riformatore pentito che aveva abdicato al governo del suo popolo per una vita dissoluta ma senza sorrisi a causa della costante paura di attentati. Ferdinando II pareva di un'altra pasta. Per esempio, in un proclama aveva ammesso motu proprio di sapere che nella giustizia vi erano «piaghe profonde che meritano curarsi» e che il suo popolo s'attendeva da lui «qualche alleviamento dei pesi ai quali per le passate vertigini è stato sottoposto» 14. Niente male, per un Borbone. Ed effettivamente le sue prime mosse furono improntate a una bonifica del malcostume imperante a corte e nel governo, a una riorganizzazione dell' esercito, a una riduzione delle spese della politica - come diremmo oggi - incluse le sue personali, e a una tessitura di alleanze tese a ridurre l'ingerenza e le pretese degli Austriaci. Questo ottimo avvio venne celebrato dagli intellettuali, tra cui anche Giusep12 13 14

Cfr. [30]. Archivio di Stato di Napoli, Ministero dell'Interno, Inv. I, f. 904. Cfr. [49], pagg. 19-27.

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pina Guacci. Ma, come ebbe a scrivere con sarcasmo il Settembrini, «ogni giovane a vent'anni è buono, come ogni fanciulla a quindici è bella» 15. Effettivamente Ferdinando era salito al trono ventenne e sarebbe rimasto "buono" al più per tre lustri, per poi diventare, a ragione o torto, il "Re Bombà' e la «negazione di Dio eretta a sistema di governo» 16. Prima di decidere in merito alla richiesta del Nobile, il Ministero, sempre misurato nello spendere e attento alle conseguenze politiche dell' esposizione di un giovane, in particolare un intellettuale, alle idee liberali che andavano maturando Oltralpe, volle sondare l'opinione del direttore dell'Osservatorio. Brioschi si dichiarò favorevole, ma raccomandò umilmente - com'era opportuno fare dovendosi rapportare con il temutissimo ministro dell'Interno - che «la durata del permesso venisse limitata ad un anno, perché non avessero troppo a lungo a cadere su de'suoi collaboratori quelle incombenze che gli aspettano alla Specola» 17. Sulla scorta di questo parere, il ministro deliberò un congedo di dodici mesi, durante i quali l'astronomo avrebbe continuato a ricevere il suo stipendio di assistente della Specola e di docente universitario con cui far fronte alle spese di viaggio. Dobbiamo ammettere che il provvedimento dimostrava una notevole apertura mentale da parte dell'amministrazione borbonica, in linea con la politica degli stage formativi all' estero per scienziati e tecnici avviata da Carlo III. Giusto un anno prima, proprio a Parigi, dove Antonio intendeva spendere la gran parte del suo "sabbatico", la borghesia aveva costretto alla fuga il reazionario Carlo X per sostituirlo con un re costituzionale designato dal popolo: una scintilla che avrebbe acceso un violento incendio in Belgio e una manciata di fiammate, presto spente, nel Centro-Nord dell'Italia. Evidentemente Ferdinando II non si rendeva ancora ben conto dei pericoli di un contagio o più probabilmente non temeva ancora i «pennaroli» 18. N elluglio del 1831 Antonio lasciò Napoli per il suo grand tour alla rovescia attraverso mezza Europa. Di questo lungo viaggio ci ha Cfr. [193], pago 23. Cfr. [80], pago 9. 17 Archivio di Stato di Napoli, Ministero dell'Interno, Inv. I, f. 904. 18 Cfr. [21],pag.175. 15 16

Antonio Nobile: padre e scienziato

lasciato egli stesso un laconico resoconto in una Relazione sul viaggio d'istruzione all' estero presentata da Antonio Nobile al Ministro dell' Interno per giustificare la durata del suddetto viaggio, di quattro mesi eccedente il previsto permesso reale 19 , dove dice di aver visitato «i principali osservatori e stabilimenti scientifici della Francia, dei Paesi-Bassi, della Prussia renana, e dopo essersi fermato molti mesi in Parigi per conoscere col fatto l'insegnamento scientifico di questa gran Capitale si è portato in Inghilterra, in Irlanda e infine attraversando la Svizzera e l'Italia nel giorno Il di questo mese di Dicembre [dell'anno 1832] si è recato in Napoli». Non possediamo altre informazioni dirette sul viaggio e neppure un epistolario da cui dedurle. Forse le lettere che Nobile inviò dall' estero sono andate perdute, oppure il Nostro non aveva nessuno a cui scriverle, diversamente, per esempio, da Capocci che, quando partì per il suo Grand Tour di cui diremo poi, aveva già una moglie con cui comunicava regolarmente raccontando le accadimenti e sensazioni 2o . Possiamo solo immaginare, per analogia con simili esperienze documentate da viaggiatori più loquaci, le difficoltà di un itinerario lungo migliaia di chilometri, attraverso varie nazioni, viaggiando per mare e in carrozza, con ogni genere di condizione meteorologica e con poca sicurezza personale, dovendosi arrangiare a cercare ogni volta un alloggio sufficientemente economico, ad accudire a sé e alle proprie cose, a gestire e proteggere la propria scorta di denaro, a comunicare in lingue o dialetti sconosciuti. Come ogni uomo colto, Nobile parlava bene il francese, ma non sappiamo quali altre lingue comprendesse. C'erano poi circostanze eccezionali, come una guerra o un'epidemia, che facilmente potevano interferire con il piano di viaggio, costringendo a soste forzate, a deviazioni o a repentini arretramenti. In questo come in altri pellegrinaggi scientifici, un importante aiuto era qualche lettera credenziale da usare come grimaldello per ottenere udienza nei salotti, nelle accademie e presso qualche illustre personaggio. Erano recommendation letters procurate dalla rete dei napoletani disseminati nelle diverse capitali d'Europa: nobili, diplomatici, ma anche esuli politici come Macedonio Melloni - che però Archivio di Stato di Napoli, Ministero dell'Interno, Inv. I, f. 904. M. Capaccioli, E. Olostro Cirella, I guai di un gran tour scientifico. L'epistolario dei coniugi Capo cci, in preparazione.

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Nobile avrebbe incontrato solo in seguito, all'arrivo del fisico a Napoli, diventandone grande amico ed estimatore. È in questo modo che, grazie ai buoni uffici di Paolo Ruffo di Bagnara, Principe di Castelcicala, Antonio ebbe la possibilità di avvicinare a Parigi il barone Alexander von Humboldt, già mitica figura di esploratore e scienziato enciclopedico, la cui fama sarebbe stata in seguito consacrata dal monumentale Progetto di una descrizione fisica del cosmo, più noto come Cosmos. Nobile fu ammesso a udienza, col preavviso di un giorno, all'Hotel d'Angleterre, in Rue de Colombier, dove von Humboldt aveva preso alloggio, per essere poi accompagnato dal sessantenne barone all' Accademia delle scienze. Era il modo migliore per farsi rapidamente accettare come uditore in quella esclusiva istituzione21 . A tutti questi problemi, sconosciuti al viaggiatore di oggi che dispone di trasporti veloci, di telefoni cellulari, carte di credito, banche, alberghi e servizi di ogni genere, dobbiamo aggiungere il fatto che Antonio non godeva di buona salute, e che gli strapazzi lo prostravano in modo serio. Ciò nonostante, egli si trattenne lontano da Napoli più di quanto avesse programmato e fosse stato autorizzato dal Ministero, nella consapevolezza tra l'altro di star pericolosamente disobbedendo. Questo può solo significare che il riservato molisano si fosse trovato splendidamente nelle vesti di voyageur. Forse, traversando l'Europa, egli aveva finalmente liberato il «vulcano»che ardeva in lui sotto «l'apparenza impassibile» 22. Con la sua relazione-supplica Nobile sperava di far cambiare parere al Ministero che, per via dell'ingiustificata assenza di quattro mesi oltre i termini concessi, lo aveva sospeso dagli impieghi alla Specola e all'Università, congelandogli anche lo stipendio. Un provvedimento duro, cui di certo non furono estranei né Brioschi, indispettito per l'indisciplina del suo astronomo, né Capocci, stanco di dover continuare a rimpiazzare il collega nei suoi doveri istituzionali mentre questi se ne stava bel bello in missione: lavori spesso noiosi e ripetitivi, come rilevare i dati meteorologici o tenere in ordine e ricaricare gli orologi a pendolo. È facile immaginare il malumore del poliedrico vice-direttore per il tempo che questi ulteriori obblighi sottraevano ai suoi hobby preferiti, la letteratura e la divulgazione scientifica, e la Cfr. [156J,pag.17. Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Varie 67/182. Di seguito abbrevieremo Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze con la sigla BNCF.

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crescente irritazione per i continui rimbrotti della moglie Almerinda che - non ne dubitiamo - gli rinfacciava la troppa generosità verso il Nobile, il quale per di più era un sottoposto. Sentimenti negativi che incideranno sui futuri rapporti tra Ernesto e Antonio, e soprattutto tra le loro mogli, Almerinda e Giuseppina. Per fortuna la supplica ebbe gli effetti sperati - un altro segnale di buona disposizione dell'amministrazione borbonica verso i suoi scienziati, destinata a durare poco, però. Nobile poté riscuotere le mensilità arretrate del suo salario e riprendere la sua attività all'interno dell'Osservatorio e all'Università. Aveva corso un bel rischio, per ingenuità o forse per incoscienza o per testardaggine. Di certo a questo austero provinciale non facevano difetto né il coraggio né il rigore ideologico. Nel 1833 morì Carlo Brioschi, appena cinquantunenne ma minato nel fisico dalle conseguenze di un grave incidente occorsogli durante un'ascensione con un pallone aerostatico. Questo lutto fu la causa di una piccola rivoluzione tra il personale della Specola. Bisognava ristrutturare l'organico. Nel Consiglio di stato del 17 ottobre Sua maestà Ferdinando II dispose che Ernesto Capocci venisse elevato a direttore dell'Osservatorio, «che l'assistente D. Antonio Nobile passasse alla piazza di Astronomo in 2 do »23, e che Leopoldo Del Re fosse promosso da alunno ad assistente. Questo provvedimento - una vera e propria progressione verticale collettiva - faceva fare a ognuno dei tre astronomi un salto di carriera, assicurando loro un soldo maggiore 24 e un alloggio più grande. Finì invece per innescare una sequela di eventi meschini e di faide, del genere di quelli che non di rado accompagnano una convivenza gomito a gomito in piccoli ambienti chiusi. La promozione caricò Antonio di maggiori responsabilità all'interno dell'Osservatorio, cui si aggiunsero gli incarichi affidatigli dalla Reale Accademia di Scienze. La sua vita da scapolo scorreva tra le attività di ricerca e di servizio alla Specola, le lezioni universitarie, le letture e, quando poteva trovare una carrozza per scendere in città nei Archivio di Stato di Napoli, Ministero dell'Interno, Inv. I, f. 904. Così avrebbe scritto in seguito Almerinda al marito lontano e freneticamente in carriera: «Stiamocene sicuri col tuo soldicciuolo che non ci aspettavamo affatto tre anni fa, e che ci sarebbe sembrato un gran che il solo poterlo sperare. Attendiamo unicamente all'educazione dei nostri figliuoli a cui cominciano a non bastare le mie scarsissime femminee cognizioni». Cfr. [73], pago 116, lettera di Almerinda del 21 marzo 1837.

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pomeriggi liberi, qualche apparizione nei salotti della Napoli colta. Qui si potevano incontrare uomini e donne interessanti, impegnati nelle lettere, nell'arte, nelle scienze e nella politica, intavolare discussioni, ascoltare musicisti, poeti e viaggiatori, e confrontarsi sui temi del sociale. Fu in uno di questi salotti, quello dello storico e patriota Carlo Troya, che Antonio conobbe Giuseppina Guacci, una giovane poetessa che nel 1835 sarebbe diventata sua moglie. Per le esigenze private, dell'alloggio, dell'abbigliamento e del cibo, il nostro astronomo, mentre era ancora single, si avvaleva dei servigi di un domestico che, a quanto è dato intendere da una lettera di Brioschi 25 , viveva con lui all'Osservatorio. Doveva trattarsi di una sorta di fringe benefits, visto che nella medesima lettera si elencano due domestici per il direttore e altri due per il suo vice. È possibile che anche le contadine del comprensorio svolgessero per lui quei lavori che Antonio non sapeva o voleva fare, comunque nei limiti nei quali il magro stipendio glielo consentiva. La sua abitazione, un trilocale di circa 80 metri quadrati complessivi al pian terreno della Villa della Riccia, doveva essere davvero malconcia. Lo testimonia il piano di spese dell'Osservatorio per l'anno 1828, redatto dal Brioschi26 per segnalare l'urgenza di lavori di ampliamento e di manutenzione agli alloggi degli astronomi, da troppo tempo trascurati per mancanza di fondi, nel quale si legge: Abitazione a pianterreno per L'assistente Sig.r D. Antonio Nobile Devesi scantinare la prima stanza di palni 30. per 15. alta 18. farci la lamia, diverse porzioni di fabbrica che potranno occorrere a pavimento di lastrico od altro - 80. Per molti accomodi da farsi nelle altre due stanze terranee - 20.Nella detta prima stanza devesi fare il pavimento di rigiole sulla indicata lamia ed una intelaiatura di palmi 15. per 18. con biporta; accomodare le altre due ed i due pezzi d'opera, aprire un vano d'ingresso, dipingere le mura e tingere dette bip orte a pezzi d'opera - 50. Si devono fare i pavimenti di rigiole nelle altre due stanze di Archivio di Stato di Napoli, Ministero dell'Interno, Inv. I, f. 904. Lettera di Brioschi al ministro segretario di stato degli affari interni del 26 luglio 1828. 26 Archivio di Stato di Napoli, Ministero dell'Interno, Inv. I, f. 904. 25

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palmi 18. per 38. uniti, diversi accomodi a ferramenti ne'pezzi d'opera e telai, dipintura e tinture. Due anni dopo, in una relazione al ministro dell'Interno, Brioschi aveva ribadito la necessità di risistemare le abitazioni della Specola, compresa quella del Nobile, ma anche questa volta la richiesta era caduta nel nulla per l'indisponibilità di risorse economiche. Chissà se finalmente nel 1833, al momento del cambio di timoniere alla Specola, almeno qualche intervento fosse stato fatto. Ce lo auguriamo, vista la precedente descrizione sullo stato dei pavimenti, dei muri e degli infissi. È possibile però che questo già non importasse più all'astronomo molisano il quale in seguito alla promozione contava di potersi trasferire nell'alloggio del vice-direttore Capocci, più grande e in miglior arnese. Speranza vana perché, appena insediatosi alla direzione della Specola di Capodimonte, Capocci aveva occupato l'appartamento riservato al direttore senza tuttavia liberare quello dell'astronomo in 2do . In questo modo Nobile doveva restare nel quartierino che spettava all'assistente, e che avrebbe dovuto lasciare al povero Del Re. Insomma, la redistribuzione degli spazi abitativi all'interno dell'Osservatorio aveva finito per giovare soltanto a Capocci, il quale aveva più che triplicato la superficie a sua disposizione, lasciando i colleghi a bocca asciutta. Il rampante neo-direttore era troppo intelligente per non accorgersi della prepotenza che stava facendo a Nobile, ma - noi pensiamo - in cuor suo si sentiva legittimato dal fatto di avere già una moglie e numerosi figli, le «legioni almerindiane»27, mentre il nostro Antonio era ancora celibe. E forse Almerinda, nata bene 28 , ambiziosa e frustrata nelle sue velleità artistiche e di bella donna29 , Espressione tra il velenoso e l'invidioso coniata da Giuseppina Guacci. Da una lettera alla sorella Bettina. Archivio storico dell'Osservatorio astronomico di Capodimonte, fondo Guacci, busta l, cartella 2, foglio 24. 28 Era figlia di un Consigliere di Stato. 29 Delle frustrazioni di Almerinda abbiamo ampia documentazione nella corrispondenza che la donna scambiò con il marito Ernesto in occasione del lungo viaggio che questi fece in Francia nel 1837. Capocci doveva esserne perfettamente conscio e probabilmente sentirsene in parte responsabile, come si capisce dalle parole che dedicò alla moglie nel suo romanzo Il Primo Viceré di Napoli [22]: «Almerinda, che per raro sacrificio di amore, ha saputo piegare un ingegno atto ad altissime cose alle cure modeste della famiglia, meno ambiziosa di ottenere nome tra le Muse che tra le madri italiane, questo libro, frutto di ozii a lei sola dovuti, offre l'autore». Dichiarazioni di circostanza, perché tra i due ormai l'amore era morto tanto che Almerinda aveva preso a frequentare un altro uomo più giovane nel mentre che Ernesto se ne stava in Francia.

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premeva sul marito perché le garantisse migliori condizioni di vita. Ma nessuno dei due aveva fatto i conti col destino, che proprio allora aveva fatto incontrare ad Antonio la donna della sua vita. E che donna! Giuseppa GuacCÌ.

Giuseppa Guacci: mamma o non mamma Maria Giuseppina era nata a Napoli il 20 giugno 18071, primogenita di Giovanni Guacci e Saveria Tagliaferri. La famiglia viveva modestamente al numero 45 di via Sergente Maggiore, una traversa di via Toledo dal lato dei Quartieri spagnoli, sostenendosi con gli introiti che il lavoro di architetto di papà Giovanni le assicurava 2 • Il contesto era dei più popolari: un reticolato di viuzze lastricate di piperno tra alte mura di pietra annerite dal fuoco del vulcano prima e poi dal tempo, brulicante della più varia umanità, dove di notte regnava un buio complice di molti misfatti e di giorno il sole stentava a penetrare, lasciando campo libero all'umido dell'aria e delle cose, che diventava afa d'estate e cagione di malattie polmonari d'inverno. Il vasto quartiere era stato edificato nella prima metà del Cinquecento lungo le ultime pendici del colle di Sant'Elmo da Don Pedro di Toledo, l'arcigno viceré di Napoli, per conto dell'imperatore Carlo V, con l'intento di accasermare le truppe destinate a tenere a bada la turbolenta e volubile plebe cittadina e gli scalpitanti baroni. Lo stesso Don Pedro, tanto spietato nella difesa della fede quanto infaticabile nell' opera di trasformazione urbanistica, di espansione e di fortificazione della sua capitale, aveva promosso anche la costruzione di quella via che tuttora porta il suo nome e che delimita il confine Riguardo la data di nascita vi sono pareri discordanti anche tra gli stessi contemporanei, che collocarono l'evento tra il 1806 e il 1808. A pago 199 di [12], Anna Balzerano riferisce che a seguito di accurate ricerche «nei registri dei nati nel secolo passato, nella Parrocchia di S. Anna di Palazzo, Maria Giuseppa Guacci risulta nata il 20 giugno 1807». L'atto di morte della Guacci riporta invece che i testimoni «han dichiarato che nel giorno venticinque del mese di [... ] anno corrente [1848] ad ore venti è morta nella propria casa Donna Maria Giuseppa Guacci di Napoli di anni trentasei», da cui si deduce che dovrebbe essere nata nel 1812. Ritroveremo la medesima incongruenza nell'atto di nascita del figlio Arminio. Non ci resta che prendere per buona la data riportata dalla Balzerano. 2 Secondo alcune fonti Giovanni Guacci faceva il tipografo e la figlia Giuseppina collaborava con lui nella stamperia (si vedano ad esempio: [186], pago 278, oppure [12], pago 17). In una breve autobiografia [88], Giuseppina ricorda quando lei stessa aiutava come copista il padre «architetto». Forse fu proprio il termine "copistà' a generare la falsa convinzione che l'attività di famiglia riguardasse una tipografia. In effetti Giovanni fu architetto, sia pur di modesto livello. A supporto vi è l'atto di morte, nel quale si legge che era «di professione architetto», e la sua partecipazione, forse solo come imprenditore, a lavori importanti quali il restauro del Teatro San Carlo (Cfr. [100], pago 14). l

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orientale dei Quartieri con una lunga fila di dimore patrizie: palazzi il cui splendore pare quasi voler negare la dura realtà del retro stante microcosmo, secondo quella logica dei contrasti forti che a Napoli è regola. Col passar degli anni, del centralissimo ma malfamato quartiere s'erano impadroniti i piccoli borghesi e gli artigiani che vivevano in una singolare simbiosi con guappi, contrabbandieri e prostitute. In questo limbo a un tempo operoso, sordido e criminale, dove la legge si mostrava di rado con fugaci e violente incursioni, non ci si aspettava che una ragazza potesse coltivare molte ambizioni al di là del matrimonio o che avesse altre occasioni oltre quelle che può offrire un bel corpo. Giuseppina dimostrò invece, sin dalla più tenera età, uno spiccato interesse per i libri e manifestò esplicitamente il desiderio di studiare. Ma le condizioni economiche e culturali della sua famiglia non le permettevano di dedicarsi liberamente alla sua passione. Il padre riteneva che le donne dovessero occuparsi primariamente delle faccende domestiche e dei figli. Senza il suo appoggio Giuseppina fu costretta a studiare da autodidatta, quasi di nascosto, mentre aiutava Giovanni come copista. Lo avrebbe raccontato lei stessa in una lettera a monsignor Carlo Emanuele Muzzarelli: «[mio padre, fatto] di quella buona pasta antica, la quale ora del tutto è perduta, nulla pose mente alla educazione delle sue figliole, sicuro che potesse essere assai ad esse il saper fare e di cucina, l'intendere ottimamente all' economia della casa: ed in specialità di me volea fare una buona massaia. E veramente mi avrebbe fatto felice. Ma la fortuna che mi si apparecchiava di perseguitarmi, volle altrimenti. Fra gli otto e i nove anni io, non leggendo che i cosÌ detti libretti per musica, incomincia ad accozzar sillabe e rime» 3. Letture senza alcun progetto didattico: Metastasio, ma soprattutto testi di canzoni e libretti di melodrammi più o meno noti. E fu cosÌ che la ragazzina dei Quartieri scoprì la sua voglia di esprimere in versi l'intensa passione che l'animava, e da crisalide diventò farfalla. Tra l'altro, «Peppina, come era chiamata e come essa stessa si firmava [... ] era anche bella», scrive Anna Balzerano; «di statura media, aveva capelli castani, ravvivati da qualche riflesso dorato, divisi sulla fronte da due bande, che le incorniciavano l'ovale del volto, raccogliendosi sulla nuca e discendendo a boccole sulle spalle. I suoi lineamenti erano precisi e delicati, i suoi 3

Cfr. [88], pagg. 214-218.

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occhi dolci si accendevano spesso di repentina luce e ne illuminavano tutto il volto, sorridendo quando anche la bocca restava ferma, chiusa» 4. C'è il sospetto che questi giudizi risentano del profondo affetto della biografa per Emilia Nobile, nipote di Giuseppina e ispiratrice del ricordo della nonna, e dunque esaltino oltre il vero lo charme della poetessa. Ma Emilia non aveva avuto in sorte di conoscere sua nonna, che era morta ben prima che lei nascesse, dunque la sua testimonianza era di seconda mano. Egualmente di seconda mano ma più equilibrato e credibile ci pare il ritratto che della Guacci fa Luigia Codemo di Gesterbrandt, appoggiandosi a un ricordo trasmessole dalla madre, coetanea di Giuseppina e anche lei letterata e discreta poetessa: Bella non potea dirsi, ma piacente e più nel sorriso tutto suo: un certo sollevar grazioso della bocca ad un angolo e uno scintillar di bei denti [... ] visto e non visto, dacché, contegnosa per natura, facea grazia a ridere, ma in quel lampo la determinava gli animi alla simpatia, la avvinceva i cuori. 5 Bella o non bella, la giovane Guacci doveva piacere davvero molto, e di certo era ricercata dai coetanei di ambo i sessi e di ogni censo che, come lei, ambivano a un mondo migliore ed esprimevano queste loro ansie attraverso l'arte, la musica e la poesia6 . A vent'anni la magnetica pasionaria dei Quartieri rubava tempo al sonno per leggere il suo amato Dante e comporre i primi versi, elementari e decisamente enfatici. La sua condizione, che era già difficile a confronto di quella di suoi amici della buona borghesia napoletana e della nobiltà illuminata, diventò quasi drammatica con la morte del padre, nel 1829. Giuseppina era la primogenita, e dovette farsi carico della conduzione dell'azienda di famiglia e del mantenimento della madre, vecchia e malata, e dei tre fratelli, Francesco, Carlo ed Elisabetta, la più piccina che tutti chiamavano Bettina: «lo poveretta che priva del mio povero babbo - avrebbe ricordato poi in una lettera Cfr. [12], pago 19. Estratto da [65], pago 7. 6 La Balzerano testimonia l'esistenza di tre dipinti della Guacci che la rappresentano in età matura: un olio (cm 54 x 76) che mostra Giuseppina in piedi, un ritratto (cm 36 x 47) «fatto in punta di penna», e un altro grande pressappoco quanto una cartolina. 4

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all'amica Irene Ricciardi, anche lei scrittrice e anche lei impegnata sui fronti politico e sociale - mi sono trovata sola come in una spelonca di ladri, imperocché dalla morte sua procede per così dire il mio esordio nel teatro del mondo. Mio padre morendo a me raccomandava i miei fratelli, la sorella e la mamma, come colei che era la maggiore e la più svegliata dei suoi figli. Ora vedete in che stato io mi dovetti trovare!» 7. Così, la stagione in cui una donna di solito sboccia alla vita fu invece per Giuseppina un passaggio triste e difficile. La nuova condizione di capofamiglia le toglieva tempo ed energie fisiche e psichi che, e la teneva lontana dai suoi amatissimi studi: Quante volte mentre tento di raccogliere la mente e scrivere alcun che sento chiamarmi per tale o tal altro meschino esercizio [... ] arroge 8 1'aver più che mai bisogno di studio e il dover essere nel medesimo punto massaia, verseggiatrice e consigliera. 9 E ancora: Oh come vorrei stendermi sull'erba molle e rugiadosa [... ] e non udrei certo questo frastuono di fabbri che mi rompe i pensieri imponendoli in tanto disordine, che m'è d'uopo di molta forza di richiamarli alloro uffizio. [... ] Aggiungete a questo lo sconvolgimento dei nostri affari, il vedersi abbandonare dai parenti, dagli amici più stretti, il dover inchinar il capo a tale che forse avrei sdegnato di schiacciare d'un mio piede, e non per me, mia cara, non per me, ma per la sola mia famiglia, per la memoria di mio padre. 10 Oltre alle difficoltà economiche che la tormentavano e alla ripulsa per un lavoro cui era del tutto inadatta, Giuseppina mal sopportava di essere penalizzata, come persona e come intellettuale, rispetto ai maschi. Essa viveva addirittura con fastidio e rammarico il suo essere donna, sino al punto di dichiarare all'amica Irene che avrebbe preferito nascere uomo: «oh come sentirei la vita se fossi uomo! Raccolta BNCF, Varie 67/180, lettera scritta a Irene in occasione della morte della madre dell'amica. Voce poetica antiquata che ha il significato di aggiungi. 9 BNCF, Varie 68/41. lO Cfr. [65], pago 7, lettera a Irene Ricciardi. 7

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in questa gonna spesso malamente resisto agli impeti dell' anima mia, or che sarebbe se potessi vestire un paio di calzoni!» 11 . Dover indossare una gonna implicava infatti gravi condizionamenti, come il non poter fare liberamente visita a un'amica o uscire da sola, magari per frequentare quei salotti della Napoli intellettuale che le avevano spalancato la porta. Lo spiega lei stessa nei suoi scritti, come quando racconta in una lettera alla solita Irene Ricciardi che una sera, mentre lei e la sorella Bettina rientravano più tardi del solito da una visita fatta proprio all'amica, che abitava a pochi isolati di distanza, avevano dovuto correre nell' oscurità, spaventate dall'incontro con dei soldati ubriachi. Giunte finalmente a casa sane e salve, s'erano sentite affibbiare l'epiteto di donne vagabonde 12 da un amico di famiglia chiamato in soccorso dalla madre: un'intollerabile beffa dopo il danno! E altrove quasi gridava la sua disperazione a Isabella Coppola di Canzano, duchessa di Campochiaro, donna colta e politicamente impegnata e anche lei amica e protettrice della Guacci, che s'era lamentata di un appuntamento mancato da Giuseppina: «ma Dio mio, non vogliono persuadersi che io non posso uscire, che ho bisogno di accompagnatori, che questo maledetto paese è la tomba delle donne» 13. La nobildonna, che da tempo aveva preso a benvolerla, le aveva mandato la carrozza, come faceva spesso per consentirle di muoversi in città, ma la giovane non aveva potuto servirsene perché impedita da problemi familiari. Insomma, Giuseppina soffriva enormemente la sua condizione di femmina in una società costruita a misura dei maschi 14 , senza tuttavia rinnegarla. Era una donna graziosa, seducente e seduttiva, capace di provare amore e passione per gli uomini, come dimostrano alcune lettere che ella si scambiò con il conte Ranieri, l'amico di Leopardi 15. Di più: per anni ebbe un'appassionata relazione con un uomo, che però la deluse al punto di farle gridare «Ma come sanno fingere questi cani!» 16: una accusa senza appello al «degenerato» sesso maschile. BNCF, Varie 68/67. Cfr. [186], pagg. 281-282. BNCF, Varie 68/24. 13 BNCF, Varie 68/61. 14 La Guacci si angustiava di non poter fare ciò che agli uomini era consentito e di non poter godere delle medesime libertà, condividendo così, senza forse nemmeno conoscerle, le prime esperienze di femminismo sbocciate nel Nord dell'Europa e negli Stati Uniti. 15 Cfr. [12], pago 24. 16 Cfr. [65], pago 8. 11

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La Guacci aveva appena vent'anni quando venne notata da Basilio Puoti, e la sua vita, non ancora sconvolta dalle disgrazie familiari, subì una svolta foriera di straordinari sviluppi. L'anziano maestro riconobbe in lei un' «allieva dalle molte liete speranze», la incoraggiò a proseguire gli studi e la ammise alla prestigio sa ma discussa scuola purista che egli stesso aveva fondato e nella quale insegnava la lingua e la letteratura italiana, insieme ai classici greci e latini. Era una scuola avversa a tutte le espressioni del romanticismo, escluso Manzoni perché simbolo dell'italianità, dove il culto di una lingua pura era la metafora di quella unità nazionale da molti sognata e da alcuni perseguita, anche a rischio della vita. La frequentavano allievi destinati poi a diventare illustri, come Luigi Settembrini e Francesco De Sanctis. L'ammissione alla scuola del Puoti diede nuovo vigore all'impegno letterario di Giuseppina, e il favore del maestro, vero guru di una parte degli intellettuali meridionali, le spianò la strada per stabilire nuovi contatti e accrescere la sua notorietà come poetessa impegnata. Così, nel 1832, mentre il nostro astronomo se ne stava a Parigi ad abbeverarsi di scienza, del tutto inconsapevole degli exploit della sua futura sposa, questa pubblicò la sua prima opera, Rime, con grande gioia del Puoti che l'aveva fortemente sostenuta. Egli stesso ne fece una recensione nel Giornale arcadico di scienze, lettere, ed arti, sciorinando espressioni di stima e lodi quasi sperticate in una lingua che facciamo fatica a riconoscere come "purà': In un tempo, quando raro si vede venire il luce e prose e versi che veramente meritino questo nome, mi rendo certo che un libro di elette poesie dovrà tornare assai grato a tutti i gentili spiriti d'Italia. Il qual libro non ha mestieri di esser letto, per procacciarsi favore: ché il nome della valorosa donna, che il compose, a tutti a già noto, e da tutti è riverito e pregiato. E giuste e meritate sono le lodi, che a lei dettero, e danno tutto dì, i più dotti italiani, e quanti sono tra noi che hanno in pregio gli ornati costumi, il valore, e la modestia. [... ] Perocché (e sia lontana dalle parole l'invidia) tra'nobili ingegni, che ora fioriscono in Italia, ci ha alcuno che nell'altezza e nobiltà de'concetti agguagliar può la nostra Giuseppina; alcun altro a lei non è disuguale per l'eleganza e la leggiadria dello stile; altri molto è da pregiare per saper rivestire di vaghissimi versi la pietà e l'amore; ma, o

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ch'io m'inganno, o sol pochi hanno, come lei, tanta ricchezza di pensieri, tanta soavità e tanta bellezza di verso [... l. Ma come non furono un vano ed inutil presente le rime degli eccellenti lirici de'passati tempi, neppur queste non saranno, le quali per altezza di concetti e per leggiadria di stile da quelle fanno ritratto [... l. Né, cosi dicendo, ho a temere che l'essere io stato guida negli studi a questa egregia donna e l'amor come di padre che le porto non mi abbiano a far velo alla mente: ché quanti la conoscono, tutti le fanno onore, tutti l'ammiranoY Leggendo queste righe verrebbe quasi da credere che l'anziano letterato si fosse invaghito della giovane allieva, al punto da sentirsi obbligato a dichiarare il suo «amor come di padre»: excusatio non petita di un Pigmalione o sinceri sentimenti di un maestro compiaciuto dell' opera sua? Con le Rime la Guacci acquistò una popolarità straordinaria come poetessa e letterata in genere 18 , tanto da far dire poi a Settembrini che essa stava alle donne come Leopardi agli uomini 19 . Naturalmente, questa affermazione non stabilisce l'equazione, per noi blasfema, "Guacci uguale a Leopardi': ma fissa solo il primato della nostra poetessa su tutte le altre del suo tempo. Più equilibrato e realista, Francesco De Sanctis la giudicava «ingegno eminente sugli altri, che se fosse vissuta in ambiente migliore, con altra educazione, forse avrebCfr. [170], pagg. 225-259. Ecco quel che, a pago 317, scriveva il Giornale arcadico di scienze, lettere, ed arti [184] a proposito delle Rime di Maria Giuseppa Guacci: «l buoni versi in confronto de'mediocri e de'pessimi sono cosi pochi, che quando alcun illustre si toglie dalla schiera volgare per dispiegare un volo più alto, è debito di giustizia l' onorarlo di bella e meritata lode. Il perché noi non sappiamo ammirare abbastanza la poetessa napolitana Maria Giuseppa Guacci, che nel fior degli anni non solo occupa un distinto seggio nel nostro parnaso, ma emula anzi e vince non pochi di coloro, che hanno nome di eleganti e distinti poeti. Una indefessa lettura de' classici, senza divenire pedante, un beneinteso amore della lingua e dello stile, molto affetto, pensieri o sempre nuovi, o almeno che sembrano tali, abbondanza di fantasia, dignità di espressione, armonia di numero, e felicita di rime, sono le molte doti che formano della nostra poetessa uno de'più belli ornamenti del sesso gentile. E che sieno giusti questi nostri elogi, basta leggere i varii giornali, che ne hanno parlato: basta chiederlo alla patria, che si gloria di esserle madre: basta scorrere queste pagine, poche di numero, molte per le belle cose, di che son piene. E perché il vero risponda alle nostre parole, offriamo ai letterati italiani un sonetto, cui ha dato argomento la primavera, ed una canzone intitolata alle donne sebezie, dove alla lingua ed allo stile rispondono la nobiltà delle frasi, e la dignità de'concetti». 19 Cfr. [194], voI. III, pago 373.

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be prodotto ben altro» 20. Insomma, il grande critico della letteratura italiana la valutava come una donna con grandi possibilità ma nei fatti poetessa minore. Eppure, Giuseppina era ormai un personaggio nazionale. La sua fama poggiava su una vasta rete di estimatori delle sue qualità artistiche e di ammiratori e seguaci dell'indomita passione politica e della profonda tensione sociale che l'animava. L'elenco dei suoi amici e dei conoscenti influenti sarebbe lungo, e comunque è già stato fatto con garbo dalla Balzerano nella sua pregevole biografia della Guacci. Basterà allora un cenno all'amica del cuore, Irene Ricciardi. Irene era nata a Napoli nel 1802 da Luisa Granito, marchesa di Castellabate, donna pia e apprezzata poetessa, e dal conte Francesco Ricciardi, già ministro della Giustizia sotto Murat e poi durante la breve parentesi della repubblica costituzionale del 1820: una famiglia nobile ma aperta alle istanze di innovazione e modernizzazione che agitavano l'upper-middle class napoletana moderatamente liberale. Un esempio per tutti. La contessina era sorella maggiore di quel Giuseppe, patriota mazziniano di idee radicali, che proprio nel 1832 aveva fondato la rivista quadrimestrale Il progresso delle scienze delle lettere e delle arti. Nato nel 1808, il suo nome completo era Giovanni Napoleone, con un evidente omaggio a Murat. Giovane elegante e ribelle, crebbe in un ambiente cosmopolita, stimolante e progressista. Dopo l'Unità d'Italia divenne deputato dell'ala sinistra del Parlamento e non perse mai la sua vena contestatrice e laica, al punto da indire a Napoli un "anticoncilio" in occasione del primo Concilio ecumenico Vaticano, l'assemblea plenaria di tutti i vescovi della Chiesa romana nella quale Pio IX fece passare il dogma dell'infallibilità del papa. Nel 1833 Giuseppe venne arrestato e successivamente esiliato, ma il Progresso, cui collaborarono grandi personalità della cultura meridionale come il matematico Saverio Baldacchini, l'economista pugliese Luigi Blasch e Luca de Samuele Cagnazzi, il grande vecchio dell'Università di Altamura, sopravvisse per 15 anni, sino al 1847, promuovendo soprattutto gli argomenti di scienza e tecnologia già cari ai riformisti della prima metà del Settecento capeggiati da Celestino Galiani. La famiglia Ricciardi abitava nel palazzo Gravina, alla salita di Monteoliveto: una splendida dimora cinquecentesca costruita da Don 20

Cfr. [66], pago 69.

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Ferrante Orsini non lontana dal monastero di Santa Chiara e che oggi è sede della facoltà di architettura dell'Università di Napoli. Lì Giuseppina era di casa, coccolata dalla marchesa e apprezzata da «don Francesco, uomo di legge, politico disinteressato e sereno»21. Qualche volta prendeva parte alle tenzoni poetiche che i fratelli Ricciardi organizzavano con i loro coetanei: una "accademià' che d'estate si trasferiva dal palazzo di città alla villa di vacanza del conte sulla collina dei Camaldoli, per vivere e far rivivere, in contraddizione con l'ideologia liberale e modernista dei partecipanti, qualche momento dell' Arcadia. Per Giuseppina era l'occasione per godere di una compagnia eletta e dell'aria profumata e salubre dei boschi, così diversa da quella stagnante e maleodorante dei Quartieri. Nonostante la differenza d'età, di censo e soprattutto di stato sociale, Irene e Giuseppina diventarono grandi amiche, e presero a confidarsi reciprocamente i più intimi pensieri: «a voi mia cara io non posso nascondere nulla perché vi considero un' altra me stessa» 22, scriveva Giuseppina all'amica. Per il resto della loro vita si sarebbero scambiate innumerevoli lettere 23 sugli argomenti più vari: questioni di carattere personale, temi politici, opinioni sui libri letti, confidenze su amici e conoscenti. Esse ci regalano preziosi frammenti della vita delle due amiche insieme a uno spaccato della società napoletana. Ed è grazie alle confidenze fatte a Irene che sappiamo, con autentica dovizia di particolari, come la Guacci visse la nascita del rapporto con Antonio Nobile, sbocciato nel salotto che Carlo Troya teneva a Napoli. Figlio di un illustre medico pugliese, Troya era un personaggio in città. La sua famiglia aveva mostrato fedeltà a re Ferdinando IV seguendolo nell' esilio siciliano tanto che Carlo, che aveva avviato gli studi al Collegio dei Cinesi, poi Università Orientale di Napoli, li aveva conclusi laureandosi in legge a Palermo. Faceva l'intendente in Basilicata quando venne coinvolto nella rivolta carbonara del '20-'21. L'effimera stagione costituzionale ebbe vita breve. Ferdinando chiese l'intervento degli Austriaci. L'esercito napoletano guidato da Guglielmo Pepe fu sconfitto e vennero ancora una volta restaurate le regole dell' ancien régime. Carlo fu esiliato per un paio d'anni. Rien21

Cfr. [12], pago 26.

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BNCF, Varie, 67/174.

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Cfr. [207] e [186].

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trato in patria nel 1824, decise di allentare l'impegno politico per dedicarsi agli studi storici, in particolare al Medioevo. Era un modo per parlare di patria e libertà correndo minori rischi. Attorno a Troya si raccolsero nel suo salotto numerosi intellettuali napoletani, tra cui Nobile, che frequentava volentieri questi incontri perché condivideva l'ideale neoguelfo del padrone di casa, e la Guacci, che era ormai entrata nel giro "buono". L'astronomo restò subito colpito dalla giovane e appassionata poetessa, arrivando prestissimo a dichiararsi. Ancora una volta il riservato e ormai maturo molisano ci stupisce, e forse stupì se stesso, per l'audacia del gesto. Giuseppina invece non ricambiò subito i sentimenti di Antonio, pur apprezzandolo per la vasta cultura e per quell' esperienza di globe trotter presumibilmente sfoggiata ad arte per far colpo su di lei. Il rispetto e l'ammirazione non le bastavano. Voleva l'amore, e si chiedeva, scrivendo a Irene, «come si potrebbe decidere della pace e della felicità, della vita insomma, solo col sostegno della stima? Né io ho mai saputo ingannare persona, né sarei tanto vile di comprare la mia felicità calcolando, seppure la felicità fosse nel mangiare e nel dormire bene [... ] io senza ondeggiare un momento preferirei un uomo povero che amassi, anche al più potente della terra per il quale avessi stima e ammirazione»24. La giovane era ben consapevole che un matrimonio con uno scienziato e docente universitario di una certa notorietà avrebbe potuto migliorare le sue precarie condizioni economiche e semplificare la gestione della vita pubblica, ma temeva fortemente che sposandosi avrebbe perso quell'indipendenza cui teneva moltissimo. E a fronte di che cosa, si chiedeva, «affidare un potere illimitato ad un uomo senza speranza di riscatto; lasciare questo mio povero nome che ho conservato con tanta gelosia, vestirne un altro al suono del quale il mio nome non balza, adoperarmi un carico di doveri senza un intero abbandono ... chi? lo? E perché? Chi mi costringe?» 25. Ne faceva quasi una questione di principio. Tuttavia Antonio "il testardo" non si arrese. I sentimenti che nutriva per Giuseppina erano tanto forti da spingerlo, nonostante tutto, a insistere in un pressante 24 25

BNCF, Varie, 67/180. BNCF, Varie, 67/180.

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corteggiamento. Prese anche a frequentare il salotto letterario che la Guacci ormai da tempo teneva nella casa di via San Liborio, dando modo alla donna di approfondire la sua conoscenza. Le riunioni erano dette "sabatine" perché si svolgevano il sabato pomeriggio, quando la Guacci non doveva lavorare come copista. Per qualche ora la vecchia via dei Quartieri, di giorno regno degli scugnizzi, degli artigiani, delle schiamazzanti popolane e di qualche guappo, vedeva un andirivieni di intellettuali e di personaggi pubblici protetti dal salvacondotto di essere amici di Giuseppina: tra gli altri il generale Mariano d'Ajala, l'abate Gaspare Selvaggi, uomo dotto e di sentimenti liberali, i fratelli Carlo e Alessandro Poerio, poeti e patrioti di nobile famiglia calabrese cui Giuseppina era particolarmente legata, il conte Francesco Ricciardi con la figlia Irene, Isabella Coppola duchessa di Capochiaro che la proteggeva, Carlo Troya, il lucano Luigi Settembrini, pupillo del Puoti, Paolo Emilio Imbriani, Antonio Ranieri, e talvolta, forse, Giacomo Leopardi. Lo sostiene il Settembrini nelle sue Lezioni di Letteratura Italiana [194], ma la notizia, sebbene verosimile, non ha altri riscontri. Certa è invece la visita al salotto Guacci da parte di Giuseppe Giusti, ma più tardi, quando ormai le sabatine si tenevano nella nuova casa a Capodimonte. Nel 1844 il trentacinquenne poeta e patriota toscano scese a Napoli con la madre per tentare di distrarsi dalla sua cronica ipocondria. Non essendo persona gradita alla polizia borbonica, la sua associazione ai Nobile finì per aggiungere un'altra tessera al mosaico di sospetti che si andava montando per molti degli inquilini di Villa della Riccia. Ormai il Ministero dell'Interno reputava l'Osservatorio un pericoloso covo di sovversivi, e forse con buona ragione. Ma di questo diremo più avanti. Che succedeva nelle sabatine? Più o meno quel che capita anche oggi in un caffè letterario: chiacchiere, conversazioni a tema, discussioni, qualche pasticcino e una tazza di caffè o un bicchierino di rosolio, con la parsimonia che le modeste condizioni economiche della Guacci richiedevano. Gli autori di nuove opere, per lo più in poesia, le leggevano in anteprima, e i fortunati che s'erano procurati un nuovo libro, magari di quelli scivolati tra le maglie della censura, lo esibivano agli intervenuti. E poi chiacchiere, pettegolezzi, un po' di business, politica, complimenti, bugie, e perché no, qualche avance. Le riunioni non finivano mai tardi. Era pericoloso tornare a casa col

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buio, ed era sconveniente per una single ospitare uomini in casa propria dopo il tramonto. A essere "galeotte" furono proprio le sabatine. Per quell' «amor, ch'a nullo amato amar perdona», la stima che la Guacci nutriva per «Stronomia»26 - è cosÌ che Giuseppina aveva affettuosamente soprannominato Antonio - a poco a poco si trasformò in un sentimento più profondo: quanto più ne vo distinguendo e considerando il costume tanto più mi prometto un lieto avvenire [... ]10 vedo spessissimo ed è sempre più tenero e più sollecito del piacere mio. 27 Un primo cedimento, che di lì a poco diventò autentica frana: so di essere veramente amata da un uomo che all'apparenza è impassibile, ma egli è un vulcano qualora si faccia vicino. Quanto ci inganniamo nel giudicare gli aspetti! [... ] egli mi intende a meraviglia e spesso mi ripete amiamoci Peppina mia, che oltre al solo amore tutto è fallace in questo mondo. 28 Fu cosÌ che nel 1835 un'ormai innamoratissima Giuseppina Guacci accettò di sposare don Antonio Nobile, di 13 anni più vecchio, alquanto malandato nel fisico, ma assolutamente cotto della sua Peppina 29 . Dopo il matrimonio la sposa si trasferì dai Quartieri spagnoli, dove era nata e aveva sempre vissuto, all'Osservatorio di Capodimonte dove il marito abitava, in una casa a 150 metri sul livello del mare, «nel palazzo detto della Riccia, primo piano nobile»30, con un panorama da mozzare il fiato e nel mezzo di un vasto parco verde. Il primo piano nobile era in effetti il piano terra del palazzo dove si apre l'ingresso della villa sul piazzale della Riccia. E qui ritorna il problema dell'alloggio. Antonio e Giuseppina avevano rinviato di alcuni mesi il matrimonio nella speranza che la famiglia Capocci liberasse il quartierino destinato al vice-direttore. Ma Cfr. [186], pago 285. BNCF, Varie, 67/183. 28 BNCF, Varie, 67/182. 29 La data del matrimonio è desunta da un manoscritto di Carolina Fiore. Archivio strorico dell'Osservatorio astronomico di Capodimonte, fondo Guacci, busta 3, cartella 13, foglio l. 30 Cfr. [156], pago 15. 26

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questo trasloco non veniva, né venne nei due anni successivi, quando i Nobile si avviavano ad avere dei figli. Ormai esasperato dal perdurare dell'abuso, Antonio lo denunciò al ministro degli Interni con una lettera datata 5 novembre 1837, nella quale chiedeva:

1°Che il Sig. Capocci goda semplicemente del quarto una volta abitato dal Sig. Brioschi; 2° Che il supp. te come astronomo in seconda occupi quello che ritenevagli dal Sig. Capocci rilasciando la sua attuale abitazione al Sig. Del Re; 3° Che eseguite le amplificazioni, o secondo l'arbitrio ed equo progetto del Sig. Brioschi, o secondo un altro egualmente giusto, se ne facciano quindi eque distribuzioni: e come l'attuaI Direttore ha in questa faccenda mostrato di non curare che i suoi interessi, di ordinare che l'Architetto o altra persona venga indipendentemente incaricata di proporre all'E. V.le riferite distribuzioni. 31 Il tono di questa lettera, con l'esplicita accusa di comportamento scorretto rivolta senza mezzi termini al direttore Capocci, accrebbe di sicuro il livello del contrasto fra i due astronomi. L'animosità tra i due pupilli di Piazzi doveva avere però radici più antiche e si era già concretizzata con un atto di grave inimicizia. Nel 1836, allorché il neodirettore Capocci aveva lasciato Napoli per recarsi all' estero, la direzione dell'Osservatorio di Napoli era stata affidata a Leopoldo Del Re invece che ad Antonio, benché il primo fosse solo assistente e il secondo astronomo in seconda, ossia vice-direttore. Una grossa mortificazione per Nobile, che l'anno dopo si sarebbe dunque vendicato, o semplicemente sfogato, accusando il suo capo di aver commesso un abuso. Chiaramente nella polemica entrarono anche le mogli. Almerinda, la cui figura scompariva nei confronti dell' ormai celebre Guacci, si sfogava reclamando con il marito il suo ruolo di madre e di bella donna: Chi gli bacia di qua, chi di là, chi mi fa un augurio, e chi un altro - scriveva al marito parlando dei figli - , ed io stessa ci guadagno quel che più lusinga una donna; da vecchia che sono divento ragazza, che tutti esclamano tanto figliola, tanti figli!!32 31 32

Archivio di Stato di Napoli, Ministero dell'Interno, Inv. I, f. 904. Cfr. [73], pago 115. Lettera di Almerinda del 21 marzo 1837.

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Possiamo solo immaginare quanto le rodesse il via vai di personalità che il sabato facevano visita a casa Nobile, in adorazione di Giuseppina, sciamando poi per l'Osservatorio, il "suo" Osservatorio pensava forse - visto che era il marito a dirigerlo. Ovviamente i Capocci non venivano invitati a queste riunioni, a dispetto delle velleità letterarie di Ernesto e della sua posizione di capo della struttura. Per parte sua la signora Nobile non amava nessuno dei due e si vendicava dei loro sgarbi screditandoli coi suoi amici: Oh, se sapeste, mia buona Irene, se sapeste e se vedeste quello che vedo io! Son giunta a tale che tengo pazza furiosa Almerinda [... ], ma il Capo cci, mia cara, è una voragine oscurissima, dalla quale spesso si levano gradevoli odori, ma Dio guardi chi volesse conoscere il fondo. Il suo cuore è come l'Università degli studi di Napoli, la quale ha una gran bella apparenza, ma non ha professori né studenti, ad arroge a questa ha la pubblica istruzione, che è nido di assassini, ond' escono tutti i delitti del mondo. 33 I toni esasperati di questa lettera, frutto del carattere emotivo e passionale di Giuseppina, non dipingono la realtà delle cose. Capocci era ben diverso dall'orco malvagio descritto dalla Guacci: era intelligente, fantasioso, creativo, dotato di leadership e animato da un sincero sentimento liberale, di cui avrebbe pagato il fio insieme ai suoi numerosi figlioli subito dopo i moti del '48 che li videro protagonisti. Era però vittima delle frustrazioni della moglie, che era arrivata a tradirlo con un uomo più giovane, e di una certa dose di ambizione che gli faceva sentire il morso della gelosia nei confronti di Antonio. Come ricorderete, nell'anno accademico 1830-1831 Filippo Guidi era stato colto da grave infermità e Nobile aveva sostituito l'anziano maestro nell'insegnamento dell'algebra alla Regia Università degli Studi. L'anno successivo, sempre per volere del Guidi, la supplenza si trasformò per Antonio in incarico ad interim, e nel 1836 in un posto di professore di ruolo. Ma una cattedra universitaria era proprio ciò che mancava a Capocci: la desiderava ardentemente ritenendo addirittura di meritarla senza concors0 34 . Nello scontro tra i due galli 33

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Cfr. [65], pago lO. Cfr. [21], pago 142.

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nell'angusto pollaio di Capodimonte questa volta era toccato al Nobile di segnare un punto. Mentre Antonio era impegnato nelle sue ricerche e nel lavoro di docente che tanto amava, Giuseppina leggeva e scriveva senza sosta, mantenendo ancor più stretti legami coi suoi amici: Antonio Ranieri, Giacomo Leopardi, il politico e letterato Bruto Fabbricatore, lo scrittore Luigi Fornaciari, i fratelli Alessandro e Carlo Poerio. Alcuni di loro già manifestavano sentimenti liberali e unitari che ne avrebbero fatto dei protagonisti del Risorgimento. D'altronde, nemmeno le idee anti-borboniche e liberali della Guacci erano un segreto. I suoi orientamenti politici trasparivano chiaramente già dalle Rime che, come ella stessa avrebbe detto nella prefazione alla seconda edizione, «erano tutte intese allo scopo di celebrare la virtù e di riscaldare nei petti degli Italiani e delle Italiane quei nobili sensi che più generosa, più nobile e più lieta rendono la vita e che soli potranno durevolmente mutare in meglio le sorti della Patria comune» [86]. Purtroppo le amicizie, le idee e l'impegno politico di Giuseppina qualche anno dopo sarebbero costati cari ad Antonio. Come abbiamo detto, i Nobile avevano continuato il rito delle sabatine nella nuova casa a Capodimonte. Gli ospiti dovevano sobbarcarsi un piccolo viaggio in carrozza sino alla collina di Miradois valicando il vallone della Sanità sul bel ponte costruito dai Francesi a ridosso della basilica "do'Munacone", ma venivano ripagati con un fantastico cocktail di emozioni, tra cielo, terra, mare, fuoco, poesia, politica, storia, con una vista quasi a volo d'uccello della città di Napoli raccolta nell'abbraccio della collina di Sant'Elmo a dritta e del Vesuvio fumante a manca, e bordata dall'azzurro d'un mare su cui, giusto a Sud, pareva galleggiare la massiccia silhouette di Capri. Sul balcone di Villa della Riccia prospiciente la città gli intellettuali si trasformavano in bambini meravigliati e facevano a gara a indicare questo o quel riferimento: la cupola del Duomo e il campanile del Carmine, con la piazza che trasudava vita nelle ore di mercato e morte quando il sovrano vi faceva erigere il patibolo, poi Santa Chiara con lo splendido chiostro e, nascosto dal Maschio Angioino, appena un po'di Castel dell'Ovo. All'imbrunire, poi, Antonio li conduceva all'Osservatorio e mostrava loro qualche oggetto celeste attraverso uno dei tanti strumenti di cui la Specola disponeva. Sollecitata dal marito, Giuseppina stessa aveva preso ad apprezzare il firmamento

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tanto da collocare lo scrittoio «dove poteva vedersi il cielo [... ] puro e stellato»35 e scrivere alla luce della luna. All'impegno letterario e politico la Guacci aggiunse presto anche quello sociale. Come abbiamo detto all'avvio di questa storia, nell'autunno del 1836 il colera aveva aggredito una prima volta Napoli riaccendendosi violentissimo nella successiva primavera. Chi poteva, lasciava la città per ridurre le probabilità di contagio, o comunque cercava di stare alla larga dai focolai della malattia. Ma non Giuseppina. La fragile donna, forse incinta36 , si prodigò per portare conforto ai malati e ai bisognosi, recandosi più volte di persona nei quartieri colpiti dalla malattia. Degli orrori cui assistette in quei frange n ti diede lei stessa testimonianza nella Storia del cholera e di alcuni costumi napoletani del 1837: pagine strazianti che descrivono senza mezzi termini lo stato di assoluta miseria e di degrado in cui versava la plebe napoletana e in particolare gli abitanti dei cosiddetti bassi: Spesso la notte e il sole ci passano indifferenti, né per la smisurata altezza delle mura e per la strettezza, rado vi penetra raggio di luce o mai. Non è da dire la condizione di quella gente, condannata in siffatte caverne dannata, mezza selvaggia, della vita non ne discerne gli agi ma ignora medesimamente una meno abbandonata miseria, come separata dal rimanente de' cittadini, è ricoperta di tutta ruggine antica. Con più ferocia gli uomini, più audacia le donne. [... ] Quasi sempre (orrendo a dirsi) entro un unico letto riposano tra la madre e il padre, cinque o sei fanciullini mentre sul capo loro gocciola l'umidità di una grotta e diverse fetide bestiole girano loro dattorno. [... ] I cibi vilissimi che la fame rende loro saporosi sono esempio di misera sofferenza e si alimentano alcuni solo una volta in tutto il giorno e molte volte non hanno di ché. Ravvolti in laceri cenci, scalzi, scorati ed abborrenti insieme d'ogni nettezza, tengon forse l'ultimo grado di quella scala che dalla civiltà discende alle barbarie [... ]. Però era nella mente degli uomini accorti che messo là il cholera non se ne sarebCfr. [65], pago lO. Come già accennato, è possibile che Giuseppina abbia avuto una prima gravidanza che non riuscì a portare a termine.

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be uscito che col cadavere dell'ultimo abitante; ed ivi cadevano come foglie i poverelli. 37 La congiuntura e il contesto non potevano lasciare indifferente uno spirito come quello della Guacci. Poco poteva contro il flagello del colera abbattutosi su una società già piagata dalla miseria, e per questo soffriva nella mente e nel corpo, come accade agli animi esasperatamente sensibili. Un eccesso di emotività che Giuseppina, per via genetica o per contagio, avrebbe trasmesso al figlio Arminio. Questi, come s'è detto, nacque nel 1838, seguito quattro anni dopo da una femminuccia, Emilia. A poco prima del parto risale una lettera alla Ricciardi in cui una Giuseppina stanca e affaticata dal «fardellino» che portava in grembo descrive il profondo rapporto instaurato si con il marito dopo le nozze e le premure di Antonio nei suoi riguardi. Righe piene d'amore dalle quali risalta la forza del legame tra i due: ... non era altri al mio fianco che mio marito, il quale in questi ultimi giorni della mia fatica è il mio solo consolatore, il mio sostegno, il mio compagno indivisibile, il mio amico il mio tutto. Egli non mi abbandona di un sol passo, va seguendo i miei desideri, [... l io non ho altri in questa solitudine, egli non ha che me nel mondo [... l. Se non lo avessi ad eterno compagno lo sceglierei mille volte, per lui le mie sofferenze mi tornano care, per lui mi piace d'esser madre ... Com' è dolce avere una persona cui l'anima s'abbandoni! lo non credevo che il matrimonio ravvivasse a tal modo l'amore, che se ben vi ricorda io vi diceva non essere ebbra, non innamoratissima innanzi che io sposassi; bene, mi diceva contenta della scelta, ora davvero sono innamorata. 38 In un' epoca in cui l'istruzione elementare era molto carente, la prima educazione di Arminio ed Emilia venne affidata prevalentemente alle cure della madre. Giuseppina ne fece motivo per estendere i suoi interesse all' ambito pedagogico. L'obiettivo di questa donna instancabile era il riscatto dall'ignoranza e dall'analfabetismo delle classi più povere e in generale delle donne, discriminate da una società maschilista. In particolare, la Guacci si impegnò a preparare testi utili per 37

Cfr. [84], pagg. 20-2I.

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l'insegnamento ai bambini come un Alfabeto, Le seconde letture, e alcune guide per l'istruzione dei fanciulli dai 9 ai 12 anni, e a favorire l'istituzione di Società degli asili infantili. Il progetto era impegnativo e rischioso ma, grazie al sostegno delle sue amiche più facoltose che l'aiutarono anche finanziariamente, andò a buon fine. La neonata Società, di cui la duchessa di Campochiaro era presidentessa e la Guacci segretaria, diede presto buoni frutti, portando all'istituzione di presìdi per l'infanzia nei quartieri più poveri della città. Nel 1843, l'associazione ottenne che il Consiglio provinciale di Napoli riconoscesse la necessità di aprire in città degli asili infantili pubblici al fine di provvedere all' educazione morale e intellettuale delle classi infime del popolo. Conquiste sociali senza precedenti per Napoli 39 , cui si aggiunse anche la creazione di una scuola per le madri, voluta ancora una volta dalla Guacci. Per recuperare tutti quei bambini che non frequentavano gli istituti scolastici, Giuseppina aveva pensato di poter formare le madri in modo che queste potessero a loro volta educare i loro figli a casa. A questo punto, sopraffatti dall'ammirazione per questa straordinaria donna, viene da domandarsi dove e come potesse trovare il tempo per riversare sui figli tutto quel paziente amore, di cui certo non era priva, che è l'humus per una crescita serena ed equilibrata. Madre di certo affettuosa ma forse troppo assente e distratta dagli altri suoi impegni, la Guacci continuava a portare avanti le sue mille attività culturali, componendo versi e accumulando riconoscimenti, adulata e contesa dai salotti, coinvolta in iniziative politiche e sociali, e sempre più logorata dalla fatica e arsa dalla passione. Nel 1839 pubblicò una seconda edizione delle Rime, e venne accolta come socia onoraria nell'antica Accademia di scienze lettere e arti degli Zelanti di Acireale; poco dopo diventò socia corrispondente dell'Accademia di Valle tiberina toscana. Travolto dal frenetico attivismo della moglie, Antonio Nobile faceva diligentemente l'astronomo e il professore, contento di rimanere all' ombra della sua Peppina che tanto amava e ammirava.

A riconoscimento dell'impegno che la Guacci spese nell'educazione dei bambini, il Comune di Napoli le ha intitolato una scuola elementare. Si tratta del Plesso Scolastico Guacci Nobile, 31 a Direzione Didattica, in via Ciccone 19.

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La giostra dei personaggi nel crepuscolo dei Borbone Intanto l'Osservatorio, passato nelle mani di Capocci che pure aveva ottime entrature nei Ministeri e a Corte, stentava a decollare. Oltre ai soldi occorrevano nuove idee, strumenti moderni, e più stretti collegamenti con la scienza europea. Così il nuovo direttore si convinse a ripetere l'esperienza del suo astronomo in seconda. Espletata la burocrazia e consegnata la Specola nelle mani di Del Re scavalcando, come si disse, il nostro Antonio, nel 1836 si mise in viaggio per Parigi. Doveva essere la prima e fondamentale tappa di un tour all'estero da cui contava di ricavare conoscenze e vantaggi per sé e informazioni per migliorare la dotazione strumentale e il livello delle ricerche nella sua Specola. Fu un successo sul piano professionale ma un disastro su quello personale, perché «acquistare l'amicizia de'Poisson, Arago, Libri, Bernard ecc. per un napoletano, che val quanto dire per uno che naturalmente non deve valer nulla, è cosa ardua, ed io ci son riuscito, ma ci è voluto del tempo: vorrei far vedere a costoro come son ben veduto e stimato! I napoletani stessi che tornano spero che lo diranno», poteva scrivere orgogliosamente ad Almerinda da Parigi 1 • Forse Capocci sperava di tacitare così una moglie ormai furibonda per il prolungarsi della sua assenza da casa, schiacciata dalle difficoltà economiche e dalla gestione di sei figlioli in tempo di colera 2 e preoccupata che il marito, il suo «astronome, romancier, inventeur de nouvelles découvertes en tout genre» 3 , potesCfr. [73], pago 119. Lettera di Ernesto del 23 marzo 1837. Ecco come Almerinda sfogava la sua paura col marito, al sicuro a Parigi: «Per ora Stenore sta benissimo, ma or l'uno or l'altro de'cinque altri [nostri figli] hanno de'forti sciglimenti, orribile eredità che ha lasciato a tutti il morbo, ed io sto sempre ne'transiti di morte, giacché ogni giorno ci sono otto dieci morti di colera sempre. Teucro e Dermino stamane sono andati molto meglio; tu non puoi credere che ci voglia a regolare i fanciulli di questi difficilissimi tempi; per tenerli digiuni più che si può, loro ho promesso un'uscita a ciuchi, ma pure uscir sola con tutti loro quando si tratta di uscir così, o andar con gente antipatica ed incapace, come suoI essere tutta la gente antipatica, la sola con cui potrei andar senza rimorsi, è cosa tanto dura e penosa!», Ivi, pago 243, lettera di Almerinda del 14 settembre 1837. 3 Ivi, pago 4. Lettera di Almerinda del26 ottobre 1836. l

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se perdere la testa per qualche donna più giovane e bella. Almerinda non si fidava di lui, e lo reputava quasi uno sconsiderato visionario: Ma è possibile che non ci dirai nulla di positivo ancora del romanzo, della veste di naufrago, né delle altre tue cose? Per fare le belle cose ci vuoI tempo, ma non più di quello che ne concede l'umana vita. Del resto tu puoi dar tempo al tempo, che non perdi il tuo tempo. Potresti scegliere fra le belle donne e noI fai, perché non ti piace. Felice te che puoi fare il piacer tuo! M'hai lasciata a Napoli, mi desidereresti a Parigi! ma mi troverai a Bruxelles, o pure a Londra forse [... ]. Povera me! Ho quarant'anni ormai! A Parigi non ci è mare, ed il mio debut non può esser più che in quello, e mi ci dovrei buttar con tutti i panni all'età mia, altro che débuter come autrice. Oh! se un miglior destino m'avesse guidata, forse che avrei potuto esserlo, né per questo avrei anticipato il carnevale come la tua Ermafrodito George Sand. Ma il mio destino bestiale m'ha fatta una bestia, ed eccomici fino a che muoio e sia presto. 4 Il romanzo è quel Primo viceré di Napoli [22] con il quale Capocci contava di diventare un famoso scrittore, e che effettivamente vide la luce nel 1836 anche in francese. La veste da naufrago è invece un'invenzione con cui il Nostro calcolava di arricchirsi. Entrambe pie illusioni che sgomentavano la più concreta Almerinda, come l'idea di far quattrini a paIate con il business del gas da città sulle orme di un sedicente imprenditore francese. «Tu sei pazzo, pazzo, pazzissimo», incalzava la donna, forse non senza ragione ma anche per esorcizzare i rimorsi che la rodevano per via di una relazione extraconiugale con un certo Gennarino, di cui poco sappiamo e che il marito le rinfacciava velatamente nelle sue lettere. Per Ernesto il soggiorno francese non fu soltanto feste, politica, affari, divagazioni letterarie e qualche meno nobile distrazione. Oltre a raccogliere notizie preziose e stabilire utili relazioni a vantaggio del suo lavoro di astronomo e di direttore, fece la conoscenza di Macedonio Melloni, un fisico di riconosciuto valore che aveva dovuto lasciare la sua città, Parma, e riparare in Francia per sfuggire all'accusa 4

Ibidem. Lettera del 13 gennaio 1837.

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di sedizione. Nel 1830, inaugurando il suo corso all'Università, aveva manifestato pubblicamente il suo compiacimento per la deposizione di Carlo X dal trono di Francia. La cosa non era piaciuta a Maria Luisa d' Asburgo-Lorena. La figlia dell'imperatore d'Austria Francesco I, che Napoleone aveva sposato sperando così, ma vanamente, di consolidare una dinastia, non vedeva con favore le teste calde dei liberali, tanto impertinenti quanto pericolosi. Durante l'esilio Oltralpe Macedonio aveva concretizzato i suoi studi sul calore radiante, diventando una celebrità scientifica. Insieme al primo ministro Nicola Santangelo, Capocci cercò di convincere Ferdinando II, anch' egli a Parigi per una visita di stato, che Melloni poteva essere la persona ideale per dirigere un istituto dedicato allo studio del Vesuvio e dei suoi fenomeni. E così fu, a riprova di una certa apertura mentale del Borbone, disposto ad accettare in casa sua un ribelle dotato però di grandi qualità e a finanziare uno stabilimento scientifico su un tema di assoluta novità. Una volta rientrato a Napoli, quasi contro voglia e dopo aver sperperato nel viaggio tutta la dote della moglie Almerinda che non glielo avrebbe più perdonato, un Capocci pieno di idee mise mano alla sua Specola. Potendo contare sul favore del Santangelo, uomo corrotto ma riformatore intelligente e pieno di curiosità, si fece assegnare i fondi per un radicale rinnovamento della strumentazione e per espandere il personale di ricerca. Così Antonio si ritrovò al fianco nuovi giovani e rampanti colleghi, come Annibale De Gasparis, destinato a futura gloria per le sue scoperte di ben lO pianetini, e il danese Christian Peters che, dopo la fuga da Napoli nel '48, sarebbe poi diventato direttore di un Osservatorio a Clinton, nello Stato di NewYork. Nei momenti liberi dalle cure della scienza, della gestione e della politica, l'eclettico direttore si dedicava a coltivare la sua passione per la scrittura, collaborando alle migliori testate giornalistiche delle Due Sicilie con articoli di divulgazione scientifica, nella profonda convinzione che fosse dovere sociale del ricercatore diffondere le nuove scoperte tra la gente. Sebbene di nobile famiglia - era imparentato con il ramo romano dei Belmonte - Capocci manifestava, a parole e nei fatti, sinceri sentimenti liberali e progressisti. Ed è con questi sentimenti che egli educò i figli avuti da Almerinda, sei baldi giovanottelli. Così li descriveva la madre in una lettera al marito mentre questi soggiornava in Francia, cercando di convincere quest'ultimo a chiamare

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a sé tutta la famiglia. Stenore si fa così bel giovine! Oscarre è tanto simpatico! Teucro è bello e simpatico! Dermino con quei suoi capelli d'oro che gli giungono a mezza vita, tutto robusto, tutto florido, tutto vigore, sembra un putto di Tiziano! Euriso è carissimo e simpatico pure, e fra gli altri sembra bello anch'esso! Ulrico poi, a parere di tutti, si può dipingere: le più vaghe forme! occhi, boccuccia, nasino, corpicciuolo, un vero amorino, con tutt'i capelli d'oro, sciolti in minutissime e bizzarrissime anella! Ernesto mio, t'assicuro che avere sei figli come gli abbiamo noi è una vera superbia. Il cielo ce li conservi!5 Stenore, il più vecchio, era nato nel 1825, e dunque era un tredicenne quando nacque Arminio, mentre Ulrico, di cui null'altro sappiamo, forse aveva appena qualche anno più del Nostro. Presumibilmente morì in giovane età, e quindi non ci è possibile dire se fu compagno di giochi di Arminio. Gli altri, ben più grandi di lui, avevano ormai altri interessi quando il piccolo Nobile cercava qualcuno da rincorrere nei prati della Specola. A questo punto ci pare utile fare una piccola divagazione. Di certo avrete fatto caso ai nomi dei ragazzi Capocci6 , decisamente eccentrici. Come per Arminio Arturo Alfonso, essi sono il frutto della totale immersione dei genitori nel mondo della letteratura, della poesia e della musica. Stenore si chiamava come un personaggio di Plutarco, Dermino e Oscar come i due eroi delle Poesie di Ossian, figlio di Fingal, antico poeta celtico [30], stampate a Napoli nel 1827. Teucro e Euriso sono nomi greci. Il primo appartiene a un eroe della mitologia, fratellastro di Aiace. Il secondo era venuto di moda grazie a Merope, una tragedia di Scipione Maffei stampata a Firenze nel 1823 dalla Cfr. [73], pago 115. Lettera di Almerinda del 21 marzo 1837. Sei maschi destinati tutti, a parte il più piccolo di cui come detto nulla sappiamo, a una buona carriera in campi molto diversi tra loro, a riprova della poliedricità e dell'apertura mentale della famiglia Capocci. Stenore fu impiegato di Real Casa a Firenze e compositore di canzoni patriottiche. Dermino divenne consigliere delegato alla Prefettura di Pisa. Oscar fu professore di architettura all'Università di Napoli e primo progettista della Stazione Zoologica di Napoli. Teucro fu forse l'unico a seguire in qualche modo le orme paterne. Ingegno precoce - calcolò giovanissimo l'orbita di una cometa - fu direttore dell'Ufficio pesi e misure di Napoli; sarebbe morto tragicamente di propria mano. Euriso si diede all'arte diventando un discreto pittore di soggetti sociali.

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Stamperia granducale. Anche Ulrico è un nome comune a personaggi di diverse opere letterarie in circolazione nella Napoli del tempo: protagonista di un melodramma di Piero Torregiani [204], era anche il personaggio nato dalla penna di Tommaso Grossi che gli intitolò una raccolta di novelle, Ulrico e Lidia [82]. Insomma, sin dal battesimo i giovanotti di casa Capocci parevano destinati a un avvenire di gloria. E gloria ebbero i primi quattro quando presero parte attiva alla prima guerra d'indipendenza accorrendo volontari alla difesa di Venezia. Anche con loro e coi loro successi doveva confrontarsi il più giovane Arminio, che per di più era figlio di un dipendente del loro babbo: un dipendente che non si sentiva tale ma che di fatto era stato emarginato. E sì, perché ormai Antonio, partito quasi alla pari di Capocci, aveva perso il passo anche rispetto ai colleghi più giovani, e partecipava sempre di meno al governo della Specola. Dotato di un buon senso fisico, più che agli oggetti, il molisano s'era orientato allo studio dei fenomeni, anticipando in qualche modo la metodologia che di lì ad alcuni anni avrebbe fatto nascere una nuova scienza del cielo, l'astrofisica. In particolare, aveva preso a occuparsi di stelle cadenti. Era un buon argomento d'indagine: qualche decennio dopo avrebbe reso celebre Virginio Schiaparelli per la scoperta che queste spettacolari apparizioni sono collegate ai detriti lasciati dalle comete nelle loro orbite eliocentriche. In questo ambito aveva iniziato a collaborare con il padre gesuita Francesco De Vico, allora professore di astronomia al Collegio Romano. Lo testimoniano alcune lettere 7 scritte dai due per prendere accordi su osservazioni da farsi contemporaneamente nelle due Specole di Napoli e Roma, che avrebbero successivamente condotto alla determinazione della differenza di longitudine tra le due città. Il relativo lavoro, intitolato Sur la détermination de la difference en longitude de Rome et de Naples au moyen d' observations d' etoiles filantes [113], che Antonio pubblicò nel 1841 sui Comptes rendus de l'Acadèmie des Sciences, testimonia tra l'altro l'ottima conoscenza che Nobile aveva del francese, che certamente trasmise anche ai figli, e in particolare ad Arminio il quale, come vedremo, parlerà correntemente anche il tedesco. Anche se all'Osservatorio disponeva ormai di pochi interlocutori, Antonio era invece in grande familiarità con il miglior fisico italia7

Cfr. [156], pagg. 21-22.

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no, Macedonio Melloni. Grazie ai buoni uffici del principe di Metternich e alle lettere di raccomandazione di François Arago, autorevole direttore dell' Osservatorio di Parigi, e di Alexander von Humboldt, Melloni aveva potuto finalmente avere i salvacondotti necessari, e nel 1839 era arrivato a Napoli per mettere mano alla realizzazione di un Osservatorio meteorologico sulle pendici del Vesuvio. Di quattro anni più giovane di Nobile, il parmense notò subito le qualità scientifiche e umane del Nostro, che più d'ogni altro alla Specola aveva dimestichezza con la fisica, e strinse con lui una duratura e sincera amicizia. I due si frequentavano spesso, si scambiavano opinioni scientifiche e giudizi sul governo e sulla società, ed entrambi sarebbero stati colpiti con durezza dalla purga borbonica dopo i moti del '48. Ma anche questa preziosa amicizia non era destinata a durare. Nel 1854, quando il colera assalì nuovamente Napoli, Melloni, che abitando in periferia doveva attraversare tutta la città a piedi per andare dal suo tipografo, ne venne contagiato e morì. L'Accademia delle scienze di Napoli, di cui il fisico era socio, affidò all'amico Antonio, anch'egli socio, la commemorazione dell'illustre collega. Nobile ne ricavò un vero e proprio saggio sulle conoscenze del tempo in fatto di teoria del calore e del magnetismo 8 . Nel 1845, in occasione del VII Congresso degli scienziati italiani che si svolse a Napoli, Antonio venne chiamato a far parte della commissione incaricata di vagliare le credenziali di coloro che aspiravano a parteciparve: segno di una buona reputazione, almeno entro i confini del Regno delle Due Sicilie, ma anche di un diminuito conflitto con Capocci che, nella sua qualità di organizzatore dell'evento, avrebbe potuto facilmente mettergli i bastoni tra le ruote e tagliarlo fuori dal giro. Sarebbe stato un vero peccato non esserci, perché il congresso napoletano andò ben al di là di una semplice assemblea di scienziati, segnando un vero e proprio punto di svolta nella storia del nostro Paese. Una breve digressione ci farà capire il perché. L'Elogio storico di Macedonia Melloni recitato nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli [114] è suddiviso in due parti. Nella prima Nobile ricorda l'amico tracciandone una

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sentita e commovente biografia; nella seconda ripercorre i lavori e i successi di Melloni descrivendo in dettaglio i suoi esperimenti, gli strumenti e le teorie scientifiche. Ne risulta un accurato sunto delle conoscenze del tempo relative all' elettromagnetismo e al calore. 9 Il Diario del settimo congresso degli scienziati italiani in Napoli [70] contiene l'elenco di tutti coloro che presero parte al Congresso. A pago 5 troviamo il nome di Antonio Nobile quale membro della «Deputazione per l'ammissione deli scienziati».

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La prima di queste adunanze si era tenuta nel 1839 a Pisa per iniziativa di Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino e di Musignano e nipote di Napoleone. Grazie alla sua fama di naturalista questi era stato invitato a simili raduni regionali in Svizzera e Germania, che dovettero piacergli tanto da indurlo a farsi promotore di un'iniziativa analoga anche in Italia. Era una bella sfida cercar di riunire in una sola assemblea studiosi provenienti dall'arcipelago degli Stati in cui la Penisola era frammentata. I problemi erano logistici, organizzativi e soprattutto politici. Re, principi, il papa stesso e i relativi governi e organi di polizia, non vedevano di buon occhio il fatto che gli scienziati si considerassero parte di un'unica "famiglia italianà: Questa identificazione in un'ideale unità non piaceva ai sovrani di casa nostra e nemmeno alle potenze straniere che per un motivo o per l'altro avevano interessi nel Bel Paese, tanto che spesso, con sconfortante ipocrisia, si preferiva il sinonimo di Ausonia per cercar di ricondurre il pericoloso nome d'Italia a una pura espressione geografica, come aveva preteso che fosse il principe di Metternich a Vìenna. Un altro inciso, per commentare un piccolo fatto che però ci riguarda da vicino. In occasione della solenne adunanza dei cultori delle scienze naturali in Pisa, Giovanni Adorni, già compagno del Melloni durante i moti di Parma del '31, dedicò un'epistola in versi: Oh tu, d'Italia nostra inclita figlia, Di Partenope onor, novello esempio Di quanto può, se al vero e al bello intende, Femmineo spirto, lO che egli fece precedere da una citazione della stessa Guacci: Noi abbiamo forte necessità di una poesia tra illirico e il didascalico. Ed ottimi all'uopo sarebbero gl'inni alla memoria de'grand'uomini, inni celebratori di famose scoperte o di trovati peregrini, acconci all'intendimento popolare; versi dichiaratori di cose geografiche, botaniche, anzi di tutte le scienze fisiche, nelle quali è un tesoro inesauribile di supreme bellezze, di vergini comparazioni e nobilissime. l! lO

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Cfr. [4], pagg. 413-419. Ibidem.

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Si capisce da queste righe, che riecheggiano in prosa il tema dei Sepolcri, quanto fosse grande la fama della Guacci anche fuori di Napoli e quanta influenza doveva aver avuto nella formazione del suo pensiero sociale la vicinanza con il suo «Stronomia». Lo riconosce lo stesso Adorni, il quale gorgheggia: E tu [Giuseppina] potesti Veder quanto di ciel l'occhio mortale Percorse, e udir de le celesti sfere La suprema armonia: scorta amorosa Avesti lui, che di pudico ardore A tue virtudi e al tuo bel cor s'accese. 12 Fu durante la VI Adunanza tenutasi a Milano nel 1844 che i congressisti proposero Napoli come sede della successiva. Ferdinando II recalcitrava ma, dopo molte insistenze degli intellettuali meridionali appoggiati dal Santangelo e a seguito dell'intervento diretto di un istrionico Bonaparte che fece una spettacolare comparsa a Napoli, pur a malincuore concesse la sua autorizzazione a che Napoli fosse sede della VII Adunanza. I preparativi per l'evento furono laboriosi e complicati dal conflitto tra due opposte esigenze: promozione e sicurezza. Da un lato il re voleva che Napoli si mostrasse agli ospiti stranieri sotto la migliore luce possibile, e ciò richiese frettolosi maquillage e la demarcazione delle aree off-limits per gli ospiti. Dall'altro Ferdinando esigeva che i congressisti, potenziali portatori di idee rivoluzionarie e liberali, fossero tenuti sotto stretto controllo di polizia. Il governo borbonico, impensierito dai venti di rivolta che spiravano in Europa e dalle brezze secessioniste che alitavano in patria, soprattutto "di là dal faro", stava sempre più virando verso un regime poliziesco, dove nessuno poteva davvero sentirsi tranquillo dai birri, dalle spie e dai delatori. All' avvicinarsi della VII Adunanza il numero di coloro che in ogni angolo del Regno delle Due Sicilie manifestavano il loro interesse a partecipare prese a crescere vertiginosamente. Per arginare la marea il Santangelo si vide costretto a istituire una commissione che vigilasse sui titoli degli aspiranti. A farne parte vennero chiamati trenta professori e accademici tra i quali, appunto, il nostro Antonio, che 12

Ibidem.

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avrebbe poi preso parte anche ai lavori dell' Adunanza in veste di studioso, presentando alcune delle sue ricerche e intervenendo nella discussione. La manifestazione ebbe grande successo e un'importante conseguenza: gli intellettuali meridionali compresero che, per riagganciare l'Europa, bisognava spezzare le catene di un governo conservatore, illiberale, centralista e clericale. Il fiume della storia era a un' altra drammatica svolta. Cominciava ad accorgersene anche Ferdinando II, al punto che il consenso ad aprire le porte della sua capitale a molti personaggi intellettualmente e politicamente scomodi fu uno dei suoi ultimi atti di sovrano illuminato. Ai confini del suo regno, che egli non aveva voluto espandere accettando una candidatura a re d'Italia - confini che, egli amava dire, erano segnati su tre lati dall'acqua e su un lato dall'acqua santa - si stava preparando la tempesta che avrebbe travolto la sua discendenza e la fortuna stessa dei Borbone di Napoli nella storia. Fino a quel momento era stato sostanzialmente un buon re, attaccato sì all'antico assetto sociale e convinto di dovere solo a Dio la sua corona, sin troppo favorevole al clero e chiuso in una politica protezionistica alla Colbert che isolava il paese, ma anche preparato, clemente, a suo modo aperto alle novità, instancabile lavoratore. Durante il suo regno Napoli inanellò molti primati in campo tecnologico, il Banco divenne uno dei più fiorenti istituti di credito d'Europa, e l'arte, da decenni in mano agli stranieri, Tedeschi e Francesi in testa, tornò ad avere espressioni autoctone. Volle rompere la pesante tutela inglese spostando il baricentro delle alleanze su Parigi, e questo fu un grave errore strategico. Londra intendeva mantenere a tutti i costi il controllo del Mediterraneo e l'accesso alle miniere di zolfo siciliane, e per questo era disposta a tutto: prima la diffamazione 13 , poi il sostegno alla conquista militare del Regno delle Due Sicilie da parte di un utopico guerriero per conto di un raffinato stratega, primo ministro di un re coraggioso. Ma, prima che ciò accadesse, la parabola di Ferdinando doveva passare per le forche caudine del '48 e per l'impietosa esibizione del degrado morale, culturale ed economico di una società rurale irredenta. Il primo ministro inglese Lord Palmerston, imbastendo un caso sopra alcune notizie fornitegli da William Gladstone, parlò del governo di Ferdinando II come della «negazione di Dio». Non è chiaro se le informazioni fossero genuine oppure esagerate ad arte per screditare il Borbone.

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Terminata l'Adunanza, il clima nel Regno delle Due Sicilie piombò in un crescente buio. La polizia di stato strinse la sorveglianza sui soggetti a rischio, che con coraggio e poca avvedutezza avevano mostrato di essere in aperta opposizione al sovrano. Sulla lista nera c'era anche la Guacci, che se ne lamentò in una lettera dell' ottobre del 1847 a Luigi Fornaciari: Mio degno ed affettuoso amico, ho tardato a rispondervi perché noi altri siamo custoditi come monacelle, le nostre lettere tutte vengono aperte dalla sbirraglia e le affettive parole che vorremmo dire solo agli amici, vanno per le bocche di una masnada di cagnotti; or dunque, in questo caso innanzi che contaminare gli scritti o mettere i ceppi ad ogni parola che sfugge dalla penna, noi pochissimi ci eleggiamo di tacere finché una sicura occasione non ci dia agio di scrivere ai nostri amici che vogliamo loro tutto quel gran bene di prima. 14 Era una strana pretesa, quella di Giuseppina, di non essere perseguitata per aver fatto notoriamente di casa sua un vero e proprio covo di ribelli mazziniani. Che così fosse ne avrebbe dato testimonianza Vincenzo Flauti, ormai sotto i Savoia, elencando i meriti politici dei soci dell' Accademia di scienze fisiche di Napoli di cui l'illustre matematico era segretario perpetuo, con il fine di dimostrare quanto dovesse loro la Patria e contrastare così la Terza interpellanza del Deputato Ricciardi, sullo scioglimento della Società Reale. «Antonio Nobile scriveva - basta solo dire, che in casa sua radunavasi la Giovine Italia» 15. Finalmente arrivò il 1848, l'anno che nell'immaginario collettivo segna una svolta nell'assetto sociale e istituzionale dell'Europa. Era stato preceduto da una generalizzata crisi congiunturale che aveva caricato il cannone delle rivolte popolari di un esplosivo particolarmente potente: la fame coniugata a un inverno particolarmente freddo. Già il 12 gennaio scoppiarono in Sicilia i primi disordini, indirizzati alla secessione dell'isola, che aprirono la strada a una diffusa insurrezione del popolo contro il governo. La situazione politica precipitò anche nella capitale, e il 27 gennaio il re fu costretto ab torto 14 15

BNCF, Varie, 17/105. Cfr. [75], pago 38.

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collo a costituire un gabinetto con il compito di redigere la costituzione. Era la seconda volta che i Napoletani ci provavano; la prima, nel 1821, era finita molto male. La costituzione venne ufficialmente comunicata al popolo due giorni dopo e promulgata l'Il febbraio. Prevedeva, tra le altre cose, l'istituzione di una camera elettiva, composta da 164 deputati, della quale entrò a far parte anche Capocci come rappresentante del distretto di Sora, dove era nato. Verso la fine di marzo giunse a Napoli la notizia della rivolta scoppiata a Milano, che in cinque giorni aveva costretto gli Austriaci alla fuga. Mossi più da un ideale che da una valutazione oggettiva del reale, i liberali napoletani pretesero a gran voce che il governo dichiarasse guerra all' Austria. La richiesta divenne ancora più pressante dopo la decisione di Carlo Alberto di aprire le ostilità contro il poderoso esercito asburgico, nell' errato convincimento di poter contare sull'aiuto francese. Spuntava l'alba del 23 marzo. Nel mentre, era giunta a Napoli la principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso, una ricca e irrequieta nobildonna, con l'intento di reclutare dei volontari da inviare in Lombardia a sostegno degli insorti: prodromo di un episodio minore di questa prima, sfortunata guerra d'indipendenza, che fu tuttavia foriero di importanti conseguenze per i personaggi della nostra storia. Infatti, per via dei suoi intrecci con le vicende personali della Guacci Nobile e dei Capocci, la piccola spedizione dei napoletani in Lombardia segnò il futuro di entrambe le famiglie. Sempre attenta alle vicende politiche, Giuseppina non poteva certo restare in disparte a osservare il corso degli eventi. Soffriva già per il male che di lì a pochi mesi l'avrebbe portata via. Ciò nonostante lasciò per qualche giorno l'abitazione di Capodimonte e si stabilì nella casa materna in via Sergente Maggiore per istituire un comitato Pro Crociati napoletani con lo scopo di raccogliere fondi a sostegno dell'iniziativa della Belgiojoso 16. Tra i volontari del contingente messo insieme dalla nobildonna e partito il 30 marzo a bordo del vapore Virgilio, c'erano i primi due figli di Capocci: Stenore e Dermino. «Su corriamo in Lombardia» era il motto che divenne il titolo di una canzone patriottica di Stenore 17 : per una sorte beffarda, cento anni dopo Cfr. [12], pago 174. Nel testo della canzone, la cui partitura è conservata al Conservatorio G. Verdi di Milano, leggiamo: «Se ti chiede lo straniero / Sei di Roma o di Milano / Sei di Napoli o toscano, Ita-

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sarebbe diventato il motto di milioni di disperati emigranti in cerca di una nuova vita al Nord. Un terzo figlio, Oscar, salpò per seguire i fratelli pochi giorni dopo, e un quarto, Teucro, li raggiunse assieme al primo contingente ufficiale inviato da Napoli al comando di Guglielmo Pepe. Il Regno delle Due Sicilie era infatti inopinatamente entrato in guerra con l'Austria. La spedizione delle truppe di terra, e persino di una forza navale nell'alto Adriatico, erano state disposte da Carlo Troya, l'amico dei Nobile che il 3 aprile Ferdinando aveva nominato primo ministro, dopo le dimissioni del mazziniano Saliceti. Ma la ventata di libertà durò ben poco. Quando, il 15 maggio, la plebe napoletana insorse nuovamente, fu in favore del re. Forte dell' appoggio ottenuto dai suoi «amatissimi figli» e adirato con i liberali che avevano voluto forzargli la mano, Ferdinando ritirò le truppe e la flotta dal fronte di guerra, sciolse il governo Troya, nominò in sua vece il superconservatore principe di Cariati, e si preparò a reprimere sul nascere ogni tentativo d'insurrezione. Restituendo il pieno potere alla monarchia, i tumulti del 15 maggio aprirono la strada alle successive ritorsioni del Borbone nei confronti degli avversari interni. Mentre i fratelli Capocci continuavano a combattere nel Nord, coprendosi di gloria 18, in casa Nobile l'aria si fece pesante. Giuseppina aveva partecipato ai moti liberali esponendosi in prima persona. Era lecito immaginare che il re non l'avrebbe lasciata impunita, né era da escludersi che la scure del Borbone cadesse anche sull'amatissimo marito. Ma nel novembre del' 48, mentre la Toscana e Roma erano in subbuglio e Carlo Alberto, dopo aver stipulato una tregua con Radetzky, si leccava le ferite e si preparava alla zampata finale che però lo avrebbe travolto dopo la "fataI Novarà', Giuseppina Nobile Guacci si spense, stroncata dal male, consumata dalla passione, angosciata dalla morte dei suoi amici, tra i quali Alessandro Poerio, il giovane poeta caduto nella difesa di Venezia. Giuseppina aveva appena quarantuno anni. Scomparve di scena prima di conoscere quale prezzo avrebbe pagato il marito per il suo patriottismo. A piangerla non fu solo la famiglia. La perdita di una personalità cosÌ grande e carismatica venne intesa nell'Italia tutta lian rispondi io son». Cfr. [21], pago 145.

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quasi come simbolo del fallimento dei moti unitari. Risuonarono apologetiche commemorazioni nelle austere sale delle Accademie e fioccarono le poesie scritte dagli amici per tramandarne il ricordo, come il bel componimento di Giuseppe Campagna A Maria Giuseppina Guacci [19] o come il melenso Elogio di Maria Giuseppina Guacci Nobile letto da Michele Baldacchini all'Accademia Pontaniana [10]: Morte ebbe invidia al suo stato. Già da qualche tempo pareva le si fosse affievolita la voce, ma quel che parea cosa lievissima, era cosa in sé di terribili conseguenze. Il male l'assaliva in quelle dilicate vie, in quegli organi tanto gelosi della respirazione e della voce. Forse la fatica del recitar versi in pubbliche adunanze, in che ella oltremodo si accaldava, accrebbe o generò quel malore, che la rapiva alla famiglia, agli amici, alla Italia. [... ] E nel novembre di quell'anno quarantotto, che sarà nelle storie di tutta Europa famoso, quella voce si spense che avea cantato i nostri dolori, e che noi confidavamo che avrebbe un giorno cantato l'ultimo trionfo delle armi italiane sullo straniero. [... ] E tu, Napoli mia, sieno qualunque le angustie sofferte, e che t'apparecchi forse a soffrire, non creder mai che abbi a piegar il collo all' antico giogo di servitù. A preservarti dal quale estremo de'mali, che pur ti minacciano i tristi, gioverà rammentare (e tu fa di non obbliarlo giammai) che tu desti cuna ad una valorosa, nel petto della quale tre potentissime fiamme si accolsero (le quali ne consumarono innanzi tempo la vita) tre potentissime fiamme, dico: l'arte, l'Italia, e la libertà. 19 Viene da pensare, leggendo queste righe, che con gente simile fare l'Italia non doveva essere impresa facile, o almeno divertente! Scomparsa la sua amata Giuseppina, Antonio si trovò a doversi occupare da solo dell' educazione dei figli, mentre il suo futuro appariva sempre più incerto per via delle rappresaglie messe in atto dal re. Il colpo arrivò il 30 novembre del 1849 con una lettera del Rettore dell'Università degli studi di Napoli: con un regio decreto dello stesso mese, il sovrano lo aveva destituito dal ruolo di docente di matematica, privandolo non solo del lavoro ma anche della pensione. Gli era Cfr. [10], letto all'Accademia Pontaniana durante l'adunanza del 28 gennaio 1849, pagg. 355-356.

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tuttavia concesso di rimanere in servizio alla Specola, conservando il diritto all' alloggio. Andò anche peggio al direttore dell'Osservatorio di Capodimonte che, per così dire, i guai se li volle cercare esponendosi ancor più di quanto non avesse già fatto durante i primi gloriosi mesi del 1848. Cominciò sottoscrivendo un documento in cui il Borbone veniva aspramente criticato per la brutale repressione messa in atto contro i dissidenti, e due anni dopo si rifiutò apertamente di firmare una petizione, ispirata dallo stesso re, che chiedeva l'abolizione della costituzione. Un bel gesto che gli costò molto caro. Per la aperta e continua insubordinazione Ferdinando II ne ordinò l'allontanamento dall'Osservatorio, lasciandolo di fatto senza lavoro e senza casa. Capo cci, insieme ai figli Oscar ed Euriso, dovette trasferirsi dalla bella dimora della Specola a un modesto alloggio in via S. Liborio, vicino a dove era cresciuta Giuseppina Guacci, e assoggettarsi a un serrato controllo di polizia. Gli altri suoi tre figli, che non erano rientrati nel Regno alla fine della campagna militare del' 48, vennero dichiarati esuli perpetui. Il successore alla direzione della Specola avrebbe dovuto essere Antonio Nobile, data la sua posizione all'interno dell'Istituto, ma ovviamente il re non lo consentì. La carica venne invece offerta a De Gasparis che, pur avendo preso parte ai moti liberali, era nelle grazie del sovrano perché nel 1849, dopo aver scoperto il suo primo asteroide 20 , lo aveva battezzato Igea Borbonica in onore di Ferdinando. Ma De Gasparis rifiutò la nomina, probabilmente per rispetto al suo maestro Capocci che tra l'altro era stato il suggeritore della felice mossa di captatio benevolentiae. La direzione del prestigio so stabilimento scientifico venne allora consegnata nelle mani incerte di Leopoldo Del Re, allora solo assistente, il quale accettò anche se gli vennero negati i benefici economici della promozione. Con il volgere della metà del secolo per Nobile iniziò un periodo estremamente duro e difficile. Sebbene non avesse più alcuna prospettiva di carriera, continuò a portare avanti i suoi studi con l'impegno di sempre, spinto dalla sua sete di conoscenza: una passione che condivideva con l'amico Melloni, anche lui vittima delle purghe borIn totale De Gasparis ne scoprì 9, il primo dei quali in un'epoca in cui se ne conoscevano solo altri quattro, guadagnandosi per questo la medaglia d'oro della Royal Astronomical Society ndiSSI.

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boniche. Soffriva nell'animo per la mancanza della moglie e pativa nel corpo per l'aggravarsi dei suoi antichi malanni. Oltre allo studio, era solo l'amore per i figli a recargli qualche conforto. Proseguì l'opera di Giuseppina provvedendo alla loro istruzione e trasmettendogli i valori della famiglia, della patria e della cultura. In cambio ne ricavò un affetto profondo. Sia Arminio che Emilia furono fonte di soddisfazioni per il padre al quale, una volta cresciuti, offrirono sostegno morale ed economico. Passarono gli anni, sempre più grigi per il Regno delle Due Sicilie. Vittorio Emanuele, succeduto sul trono dei Savoia dopo la disfatta di Novara e l'abdicazione del padre Carlo Alberto, si preparava - non sappiamo dire con quanta consapevolezza - a diventare re dell'Italia tutta, affidandosi per la politica estera all'ingegno sottile del conte di Cavour. Ferdinando II invece si chiudeva sempre di più entro le mura del suo regno, ormai sordo a ogni istanza di libertà. Erano lontani gli anni in cui il Borbone, colto, preparato, bigotto e profondamente consapevole del proprio ruolo, aveva rappresentato la speranza dei liberali meridionali. La sua immagine era stata offuscata dal bombardamento di Messina che aveva causato centinaia di morti innocenti, infangata dalle calunnie architettate dagli Inglesi, e incrinata dalle critiche aspre dei migliori intelletti: «nel giardino d'Europa, la gente muore di vera fame»21, accusava Settembrini additando forse il più grave dei problemi del Sud, la miseria morale e materiale delle campagna in mano a pochi latifondisti e il degrado delle plebi urbane. I primati tecnologici, per lo più senza conseguenze per lo sviluppo del paese, e le aperture fatte ai Francesi per barcamenarsi in Europa, non bastavano più. Nel Regno, alle paure per gli onnipresenti birri, si aggiungevano quelle per una nuova epidemia di colera esplosa nel 1854, per le bizzarrie del Vesuvio che nel 1855 si era svegliato producendo uno spettacolare fiume di lava, e per i consueti terremoti, come quello disastroso del 1857 con epicentro a Montemurro, in Basilicata. Due anni dopo Ferdinando II uscì di scena, forse ucciso da una setticemia. Non ancora sessantenne, il corpulento sovrano, nato a Palermo durante l'esilio del nonno, si spegneva in quella Reggia di Caserta fatta costruire dal suo bisnonno Carlo come simbolo di regalità e che ancora oggi stupisce il visitatore per il suo ineguagliato splendore. 21

Cfr. [195], pago 77.

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Era la fine annunciata per i Borbone di Napoli. Il giovane ed elegante Francesco II, primogenito di Ferdinando e fresco sposo di Maria Sofia di Baviera, sorella dell'ineffabile imperatrice Sissi, non era adatto ad arginare la voglia di libertà e d'Italia dei suoi sudditi, e cosÌ mille Camicie Rosse bastarono a impossessarsi di un grande regno, ricco, potente e ben armato. Non accadeva dai tempi della Conquista delle Americhe che un pugno di uomini avesse ragione di un'intera armata. È ben vero che i Garibaldini erano guidati da un generale straordinario e magnetico, e che essi vennero appoggiati dalla marina inglese e da un ampio ed eterogeneo spettro di forze interne al Regno delle Due Sicilie. Ma tutto questo forse non sarebbe bastato se Ferdinando fosse stato ancora in sella a guidare il suo esercito. Dopo una guerra -lampo, il 7 settembre 1860 Garibaldi entrò trio n falmente a Napoli come dittatore e, affacciatosi al balcone del Palazzo Doria d'Angri, a due passi da dove era cresciuta Giuseppina Guacci, proclamò l'annessione del Mezzogiorno al nuovo Regno d'Italia. Il giovane Borbone s'era rifugiato a Gaeta, in vista del confine con lo Stato pontificio, dove si apprestava a organizzare una disperata reazione. Resisteva anche la piazzaforte di Messina, al comando del generale Gennaro Fergola, padre di Emanuele, uno dei giovani e brillanti astronomi in servizio a Capodimonte. La campagna militare per la conquista del Regno delle Due Sicilie non era ancora finita. Un forte esercito di borbonici, svizzeri e bavaresi s'era ricompattato a Capua agli ordini di Giosuè Ritucci: buoni soldati, ben armati, con bravi ufficiali ma con uno stato maggiore non all' altezza dell' avversario. Le truppe del dittatore Garibaldi, molto inferiori in numero e male equipaggiate, potevano contare invece sulle capacità di comando di uomini come Nino Bixio e il marchese Giacomo Medici, e soprattutto sul carisma e sul genio militare dell'Eroe dei due mondi. Il primo d'ottobre, dopo giorni di scaramucce preparatorie, i Borbonici presero l'iniziativa e traversarono il fiume Volturno su più linee puntando su Caserta. Se avessero sfondato, Napoli sarebbe stata riconquistata in un baleno e forse la spedizione dei Mille si sarebbe trasformata in un tragico insuccesso. Possiamo immaginare l'ansietà di chi in città aveva ormai creduto o addirittura investito nel cambiamento, e si trovava a rischio di una repentina restaurazione, con la prospettiva di vendette ed esemplari punizioni. Ma Garibaldi fu capace di un altro miracolo. Alla fine le truppe di "Francischiello" dovettero ritirarsi. Sebbene con un

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egual numero di perdite di vite umane e addirittura la metà dei feriti, erano state battute dalla determinazione delle Camicie Rosse. Era il segnale che Cavour attendeva per togliersi la maschera di neutralità e spingere il suo re, in attesa ad Ancona, a marciare su Napoli alla testa dell' esercito «per far mettere giudizio a Garibaldi e gettare a mare quel nido di repubblicani rossi e demagoghi socialisti» [27]. Il conservatore Cavour temeva un "effetto Garibaldi", una diffusione incontrollata del contagio repubblicano, libertario e anticlericale nel resto dello Stivale. Ma venne sconfessato dal gesto magnanimo del generale che nel celebre incontro di Teano consegnò le sue conquiste a Vittorio Emanuele, chiamandolo «Re d'Italia». Poi partì per Caprera chiedendo per sé un sacco di legumi secchi e un rotolo di pesce salato. Altri tempi e altri uomini. Lo stesso Ritucci, lo sconfitto del Volturno, avrebbe in seguito rinunciato a un grado elevato nell' esercito sabaudo sostenendo che un uomo giura una sola volta nella vita, e lui aveva già giurato fedeltà al Borbone. Evidentemente quel trasformismo di cui saremmo diventati maestri non era ancora una prassi. Con il crollo della dinastia dei Borbone di Napoli, la situazione migliorò in breve tempo per tutti i personaggi della nostra storia meno che per un incolpevole Leopoldo Del Re. Come altri lealisti, venne licenziato senza appello e addirittura con la perdita della pensione. Antonio Nobile, invece, diventato nel frattempo ministro nel governo provvisorio con un atto di Francesco De Sanctis 22, con sua grande soddisfazione venne nominato professore emerito della Reale Università degli studi di Napoli. Anche Capocci ottenne giustizia: gli venne restituita la direzione della Specola e assegnata quella cattedra universitaria che per lungo tempo aveva rincorso senza successo. In seguito, sia lui che De Gasparis sarebbero diventati senatori del nuovo Parlamento italiano. Dopo anni di buio era tornato il sereno per quelli che avevano osato contrastare o semplicemente contestare il Borbone. L'entusiasmo del redivivo Capocci traspare dalle parole con le quali nel 1861, in Gli Atti Governativi per le Province Napoletane [81] contengono il decreto di riordino dell'Università di Napoli. L'insegnamento venne ripartito in sei facoltà: teologia, filosofia e lettere, giurisprudenza, scienze matematiche, scienze naturali e medicina. Nel decreto c'è anche l'elenco completo di tutti i docenti nominati, tra cui Annibale De Gasparis per astronomia, Emmanuele Fergola per !'introduzione al calcolo sublime, Remigio Del Grosso per la meccanica applicata.

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qualità di presidente annuale della Pontaniana, aprì l'anno accademico con una prolusione in onore di Vittorio Emanuele di Savoia: L'argomento, di che ci occupiamo in questa solenne adunanza, sarà riputato da chicchesia il più grande il più maraviglioso di quanti ne può offrire la storia del nostro popolo, e forse ancora la storia di tutti i popoli del mondo; quando si consideri il miracoloso risorgimento, che in sì breve tempo solleva l'Italia dal fondo di tante secolari miserie al fastigio di gloria e di potenza cui ella è giunta. L'Italia, questa madre della civiltà, era testé separata e divisa, ed appariva quasi spenta, in guisa che lo straniero osava con oltraggiosa commiserazione appellarla Terra de'morti. Ma lo spinto vivificatore non aveva abbandonato il nobile corpo. Al primo grido di risorgimento, l'Italia sempre maestosa anche nelle sventure innalza il capo dalla polvere in cui giaceva, stringe la destra che a lei tende la sua sorella, la Francia, e combatte per la sua libertà, per la nazionale indipendenza: e vince e trionfa di tutti gli ostacoli, e già sta per incoronarsi di nuovo regina al paro delle altre grandi potenze dominatrici del mondo. 23 Quantunque sostanzialmente escluso dal giro delle ricompense e degli onori, Antonio, pago del ritrovato posto di professore, riprese a insegnare e a studiare con rinnovato impegno, intralciato ma non ancora impedito dalle precarie condizioni di salute. L'ultima sua memoria a stampa risale al 1862, quando ormai era già gravemente malato. Passò meno di un anno e, il2 agosto 1863, si spense tra le braccia del figlio. Pochi mesi dopo sarebbe morto anche il suo collega e rivale, Ernesto Capocci. Con loro si chiudeva un'epoca che aveva visto nascere e crescere l'Osservatorio sulla collina di Maradois. L'istituto, consegnato nelle mani di un astronomo esperto e già famoso, Annibale De Gasparis, era pronto ad accogliere Arminio, figlio d'arte, con tutte le sue speranze e con tutti i suoi desideri di rivincita.

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Cfr. [23], pagg. 9-10.

Infanzia e giovinezza di un aspirante genio I primi anni di Arminio erano trascorsi sotto uno straordinario bombardamento di stimoli e di esperienze che ne avrebbero in seguito condizionato comportamenti e ambizioni, finendo per rovinargli l'esistenza. Era un bambino vivace, sensibile e vitale, che viveva in un contesto privilegiato, entro una grande isola verde protetta dal mondo esterno, con spazi ampi e sicuri, adattissimi ai giochi infantili che egli condivideva con gli altri ragazzi dell'Osservatorio, figli del personale scientifico e tecnico e dei coloni cui era affidata la cura del comprensorio. Era la madre a provvedere all'educazione sua e di Emilia, la sorella nata nel 1842. Un'enorme fortuna e una chance che Giuseppina non aveva avuto. Nessuno meglio di lei poteva sapere quanto fosse difficile acquisire anche soltanto gli elementi di una formazione di base, e di certo si prodigò per dare ai propri figli la migliore preparazione. Fu questa esperienza di madre-maestra a sensibilizzare la Guacci al problema dell'analfabetismo imperante nel Regno delle Due Sicilie, spingendola a intraprendere la campagna contro l'ignoranza e l'incultura delle classi più povere. Arminio ed Emilia crebbero dunque in un ambiente stimolante. Casa Nobile-Guacci era frequentata dai maggiori intellettuali dell' epoca, «il fiore della dottrina e del patriottismo» l, fra cui molti allievi del Puoti, sostenitori, come la stessa Giuseppina, della lingua pura. È altamente probabile, quindi, che in famiglia si parlasse un buon italiano, a differenza di quanto avveniva nella maggioranza delle case napoletane. Probabilmente i due ragazzi vennero iniziati anche alle lingue straniere, oltre al solito latino. Come ogni uomo colto dell'Ottocento, Antonio conosceva il francese e forse, durante il suo viaggio d'istruzione all'estero, aveva appreso anche il tedesco e l'inglese. Ma non tutto nella vita di Arminio era come in una bella favola. Il fanciullo doveva far fronte all'invasione dei suoi spazi da parte di estranei, i pochi austeri colleghi di Antonio e soprattutto i tanti amici colti e influenti di Giuseppina, che ossequiavano la madre riempienl

Cfr. [102], pago 3, letta all'Accademia Pontaniana.

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do il suo piccolo cuore di gelosia; sopportare le continue assenze di lei, distratta dai suoi ruoli di vate e patriota, e fare i conti coi lunghi silenzi del padre; impegnarsi al massimo nei compiti assegnatigli per non deludere i genitori; lottare coi timori che lo assalivano quando nel buio della cameretta, dopo che il lume a petrolio era stato spento, gli capitava di carpire brandelli di conversazione dei genitori sui controlli dei birri, o sulle prepotenze dei Capo cci; sostenere il quotidiano confronto coi figli del direttore, più grandi e pieni di interessi per faccende come la politica e l'arte, che cominciavano a parlare di guerra e anche di ragazze; esorcizzare le paure che in lui suscitavano le riunioni segrete di babbo e mamma con gente strana che parlottava con una voce bassa e complice. E paura sarebbe stata una parola chiave nella vita di Arminio, insieme a orgoglio, ambizione e rivincita per se stesso e per il padre. L'infanzia dei piccoli Nobile finÌ bruscamente con gli avvenimenti del 1848 che portarono nella loro casa numerosi e tristi cambiamenti: prima di tutto i moti che agitarono Napoli e tutto il Mezzogiorno. Arminio si trovò personalmente coinvolto nella sommossa del 15 maggio, quando rimase bloccato nelle barricate al Largo della Carità assieme al padre. Il ricordo di quegli eventi gli sarebbe rimasto tanto fortemente impresso nella mente che in seguito ne avrebbe parlato spesso ai familiari e agli amici. Suo figlio Vittorio raccontò a sua volta questa storia alla moglie Carolina Fiore, che la riportò nel suo libro: «nella mattina del 15 maggio Antonio col piccolo Arminio di dieci anni (forse lo conduceva a visitare la nonna Guacci che allora abitava alla Via Speranzella) si trovò coinvolto nelle barricate al Largo della Carità, mentre su a Capodimonte giungeva la notizia dei disordini e l'eco delle cannonate e Giuseppina aspettava trepidante da una parte il ritorno dei suoi cari e dall' altra l'esito della lotta» 2 . Di questa forte esperienza parlò anche il matematico lucano Domenico Montesano nel necrologio che pronunciò all' Accademia Pontaniana3 per la morte di Arminio: Cfr. [156], pago 25. La Pontaniana è la più antica accademia italiana. La data della sua fondazione è incerta. Convenzionalmente essa è fissata intorno al 1443, quando alcuni studiosi napoletani presero a riunirsi regolarmente per discutere e scambiarsi opinioni e riflessioni su argomenti che spaziavano nei più diversi campi del sapere. Tra alterne vicende la Pontaniana è sopravvissuta fino ai nostri giorni e pubblica regolarmente, negli Atti della Accademia e nei Quaderni, il rapporto dell'attività scientifica dei soci e degli studiosi da essi presentati.

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Così Arminio Nobile vide il padre destituito dal governo borbonico, cosÌ appena decenne, nella memoranda giornata del 15 Maggio 1848, lo accompagnò per le vie di Napoli, mentre nella Specola di Capodimonte la madre tra le angosce e le ansie degli affetti domestici e dell'amor di patria seguiva i suoi cari col cuore palpitante di timore e di speranza. 4 Dobbiamo immaginarcelo, questo bambino, sballottato di qua e di là da una folla rabbiosa, in mezzo agli spari, alle grida concitate, ai gemiti dei feriti, spintonato da ogni parte, soffocato dall' odore agro del fumo degli spari misto a quello del sangue e del sudore, incapace di comprendere perché gli adulti si comportassero in modo così violento. Il padre cercava di proteggerlo, di guidarlo al riparo, ma Arminio era quasi paralizzato dalla paura. E poi la vergogna per non essere stato all'altezza del coraggio dei fratelli Capocci, di cui tutti tessevano gli elogi che a breve quattro di loro avrebbero mostrato di ben meritare. Pochi mesi dopo, a questo indelebile spavento si sarebbe aggiunto un dolore immenso. La madre, forse ammalata di «mal sottile»come allora si chiamava la tubercolosi s, morì tra il cordoglio dei suoi amici e ammiratori, e i due fratellini Nobile, ancora in tenera età, persero quello che fino ad allora era stato il punto di riferimento principale della loro esistenza. Ma non bastava: a peggiorare la situazione arrivò la destituzione del padre dall'incarico di docente di matematica dell'Università di Napoli. Di punto in bianco si ritrovarono orfani e quasi ridotti sul lastrico: decisamente troppo per dei fanciulli ancora impreparati a soffrire e a combattere. Con la morte di Giuseppina, la responsabilità dell' educazione dei figli ricadde interamente su Antonio che vi si dedicò con non minor impegno di quanto avesse fatto la moglie, e con più tempo a disposizione. Fu lui a iniziare il figlio alle scienze, trasmettendo gli la passione per la matematica e l'astronomia. È probabile che di quando in quando gli permettesse di accompagnarlo durante il suo lavoro all'Osservatorio. Prese comunque a insegnargli le basi del mestiere di astronomo e a fornirgli gli strumenti che qualche anno dopo avrebbero consentito ad Arminio di prestare servizio come volontario alla Specola e di guadagnarsi il suo primo anche se misero stipendio. 4

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Cfr. [102], pago 2. Cfr. [68], pago 280.

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Di questo servizio "pre-ruolo" è data testimonianza in una lettera del 1856 con la quale il direttore Leopoldo Del Re comunicava al giovane la concessione da parte del governo di un mensile di 3 ducati, pari a circa 150 euro, come compenso per i servizi forniti volontariamente all'Osservatorio 6 . Non è escluso che tutto ciò fosse un escamotage inventato da Del Re, che era un brav'uomo, per soccorrere una famiglia di amici in difficoltà economiche. Il crescente interesse per le materie scientifiche convinse Arminio a iscriversi alla prestigio sa Scuola d'applicazione degli ingegneri di Ponti e Strade, creata una quarantina d'anni prima da Murat con l'intento di formare scienziati-artisti da impegnare nell'ambito dell' architettura civile. La scuola, da cui discende l'attuale facoltà d'ingegneria dell'Università degli studi di Napoli Federico II, in origine accettava appena dodici allievi all'anno. Nell'arco di un triennio essi venivano esposti a materie come fisica, chimica, costruzioni, scienze d'applicazione al mestiere, geometria descrittiva e stereotomia, meccanica applicata, architettura civile e disegno. I quattro migliori avevano accesso al Corpo degli ingegneri, mentre gli altri potevano fregiarsi del titolo di architetti. Arminio si guadagnò quello di ingegnere, che in seguito si sarebbe speso per ottenere un posto come astronomo a Capodimonte. Oltre all'interesse per le scienze, il giovane aveva ereditato dal padre quel profondo amore per la comune patria italiana che Antonio aveva condiviso con la sua adorata compagna Giuseppina. Fu proprio l'acceso patriottismo, insieme forse a un inconsapevole desiderio di imitare i fasti militari dei "leggendari" fratelli Capocci, a spingere Arminio a iscriversi, il 23 luglio 1860, nelle liste della Guardia Nazionale Provvisoria, sezione San Carlo all' Arena di cui facevano parte l'Osservatorio e casa Nobile. La Guardia era stata istituita da pochi giorni, dopo l'Atto Sovrano del 25 giugno 1860 con il quale Francesco II aveva concesso la costituzione al popolo. La notizia di questo gesto di Arminio, apparentemente sorprendente visto il suo orientamento antiborbonico, è riportata da Carolina Fiore ed è confermata dall'atto ufficiale custodito alla Società napoletana di storia patria. In effetti, il nuovo re Francesco II, «facendosi meno borbonico dei borbonici» 7, aveva dato, fin dall'ascesa al trono l'anno pri6 7

Cfr. [156], pago 35. Cfr. [78], pago 148.

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ma, una svolta drammatica alla politica assolutista ferdinandea, riavviando il processo liberale arrestatosi nel 1849. Forse fu questo vento nuovo a sedurre Arminio e a convincerlo a prestar servizio in un corpo ripulito dai lealisti accaniti e finalizzato soprattutto a mantenere l'ordine pubblico, minacciato dai briganti, e il rispetto della neonata costituzione. Di certo fu questo vento nuovo a minare irreversibilmente i fondamenti del potere borbonico accelerandone il definitivo tramonto. Colmo dell'ironia, poi, Arminio si era appena imparentato con un leale suddito borbonico. Giusto un mese prima, varcata la soglia dei 18 anni, Emilia era andata in sposa a Salvatore Carbonelli, Barone di Letino. Di lui sappiamo che era un nobile legato al governo borbonico del quale era sostenitore, seppure non tra i più ferventi, e che aveva prestato giuramento di fedeltà al sovrano. Per questa ragione, quando a settembre del '60 "Francischiello" lasciò Napoli per Gaeta, i coniugi Carbonelli lo seguirono. Il giovane barone entrò addirittura a far parte del nuovo governo come ministro delle Finanze. Di certo l'evento non venne festeggiato né dal suocero né dal cognato! Nonostante il sentire politico del Carbonelli fosse decisamente ortogonale a quello di casa Nobile, Antonio aveva acconsentito a concedergli la mano di Emilia. Evidentemente riteneva che il futuro genero fosse comunque degno di stima e un buon partito per la figlia in quei duri frangenti. Arminio era invece assai meno incline ad assolvere il cognato, come si arguisce dal mite rimprovero rivoltogli dal padre in una lettera: Tu hai torto di prendere sul serio gli scherzi di tuo cognato. Egli celia sempre; e quantunque la sua maniera di pensare non si accorda del tutto con la nostra, tuttavia bisogna compatirlo e non ricorrere a risposte offensive. Tu ed io dobbiamo pensare che ci è parente e ci ama, e dippiù i suoi errori dipendono da eccessiva esaltazione di buon cuore. 8 Santificato il nuovo Regno d'Italia con la caduta della fortezza di Gaeta e la fuga a Roma dell'ultimo Borbone, per Napoli cominciarono tempi duri, segnati da un radicale cambio di poteri e di attori. Il lavoro scarseggiava. Con il suo titolo d'ingegnere in tasca, nel gennaio 8

Cfr. [156], pago 28. Lettera del 2 aprile 1861, inviata da Antonio al figlio.

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del 1861 Arminio si decise a lasciare la città per entrare, con il grado di sottotenente, nella sezione complementare per gli ingegneri della Scuola d'applicazione d'artiglieria e genio di Torino. La decisione era stata dettata da necessità economiche e da mancanza di prospettiva. Alla Specola non c'erano posti disponibili, nemmeno per un alunno, e Arminio non poteva continuare a gravare sulle spalle del padre. Antonio, infatti, era sempre più male in arnese dal punto di vista della salute e restava ancora senza quel lavoro di docente con il quale in passato aveva arrotondato lo stipendio di astronomo, e che gli era stato tolto da oltre dieci anni. Non c'era altra possibilità che emigrare. Arminio, come avrebbero fatto cento anni dopo milioni di Meridionali per sopravvivere, caricò le sue poche cose in valigia e partì per il Nord. Era un giovane energico, di statura media (intorno a 5 piedi, circa un metro e 65 centimetri), con capelli tra il biondo e il castano così come la barba, su una faccia tondeggiante: insomma, nulla di particolare dal punto di vista fisico. I documenti che lo descrivon0 9 riportano l'assenza di segni particolari. Anche gli occhi, che potremmo immaginare ardenti come quelli della mamma, erano di un banale castano, ma incorniciati da folte sopracciglia. Questo anonimo giovanotto lasciava una terra ferita da una guerra fratricida, saccheggiata dal vincitore e insanguinata da briganti che spesso interpretavano il malcontento delle masse rurali. Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore; qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie, lO avrebbe scritto quarant'anni dopo Francesco Saverio Nitti, per sottolineare questo aspetto peculiare della cosiddetta "questione meridionale", una delle conseguenze meno fortunate dell'unificazione del nostro Paese. Qualcuno ha anche fatto distinzione tra brigante, inteso come malvivente che si procura le risorse depredando gli altri, e brigantaggio, cui viene attribuito un connotato ideologico: insomma, Tre passaporti rilasciati ad Arminio e l'Atto di nomina nella Guardia N azionale Provvisoria, custoditi nella cartella «Carte Guacci» della Società napoletana di storia patria. lO Cfr. [110], pago 44. 9

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brigante come bandito e brigantaggio come guerriglia, con i guerilleros meridionali manovrati dai filoborbonici ricoveratisi nello Stato pontificio. Quale che sia la verità, la nuova Italia, ancora assai poco coesa, non poteva tollerare alcuna forma di resistenza e si oppose al brigantaggio con "un mezzo eccezionale e temporaneo di difesà: proclamando lo stato d'assedio nelle province meridionali. Fu la famigerata legge Pica, voluta dalla Destra storica e promossa dall'abruzzese Giuseppe Pica, che in nome del diritto consentì abusi e delitti d'ogni genere. La gente del Sud, avvezza ai padroni, partecipò marginalmente a questa strana lotta di potere che si concluse intorno al 1870 con la vittoria dello Stato. Eppure il malcontento dilagava, soprattutto nelle campagne dove la mancata distribuzione delle terre, l'aumentata pressione fiscale e una coscrizione obbligatoria che toglieva forze giovani al lavoro avevano amplificato il disagio sociale. Nel Sud sconfitto e umiliato la vita era diventata ancor più difficile e pericolosa che al tempo di Francischiello. Nobile ne era consapevole, e per questo fantasticava di mettere radici al Nord. E invece il suo soggiorno torinese finì per essere assai breve. La nostalgia di Napoli, la stessa che avrebbero poi cantato alcune magnifiche canzoni, si fece sentire subito. Ma fu soprattutto la preoccupazione per le condizioni del padre, sempre più precarie, che lo spinse a dare le dimissioni volontarie dall'esercito nel dicembre del 1861, dopo meno di un anno dal suo arruolamento. Nel frattempo, in vista del ritorno a casa, Arminio aveva avviato tutte le pratiche per poter essere assunto nel corpo del Genio navale di Napoli, di cui entrò presto a far parte. La grande svolta nella sua vita giunse nel 1863. Antonio si era aggravato e nel mezzo dell' estate si spense, «lasciando il vivo desiderio di lui in quelli che sopravvivono» 11. La sua morte liberò un posto nell' organico dell' Osservatorio di Capodimonte. Arminio aveva tutti i titoli e le entrature giuste per essere assunto come alunno. E così fu. Si trattava di un sogno a lungo accarezzato, che finalmente, sia pur per tragiche ragioni, si stava realizzando: un ritorno a casa, nei luoghi dell'infanzia, ma con un ruolo da uomo. Forse a suo favore giocarono anche i meriti acquisiti dal padre perseguitato. Di certo questa successione non suonò strana ad alcuno visto che era costuIl

Cfr. [6], pago 327.

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me, anche negli Osservatori, privilegiare nelle assunzioni i figli d'arte. È interessante notare che la barra della Specola era nuovamente nelle

mani di Capocci, il "nemico" dei Nobile, il quale evidentemente non si oppose all'operazione. Forse i tanti riconoscimenti ricevuti dopo la caduta dei Borbone lo avevano ormai ammansito o, più probabilmente, era desideroso di riparare a qualche torto fatto ai Nobile nei lunghi anni di convivenza alla Specola. La nomina di Arminio ad alunno dell'Osservatorio comportò la rinuncia alla carriera militare e alla sicurezza economica che essa offriva. Il nuovo stipendio non era tale da garantirgli una vita dignitosa e men che meno agiata, per cui fece domanda per concorrere alla cattedra di disegno geometrico e di geometria descrittiva dell'Istituto tecnico di Napoli 12 che ottenne il primo di dicembre del 1863. Insomma Arminio iniziò la carriera di astronomo insieme a quella di docente, seguendo così le orme paterne. Non passò nemmeno un anno e un nuovo lutto, la morte di Ernesto Capocci, rese necessario un secondo riordino del personale dell'Osservatorio. Con regio decreto del 6 marzo 1864 Annibale De Gasparis, ormai scienziato di fama internazionale, assunse la direzione dello stabilimento scientifico; Emanuele Fergola venne nominato suo secondo, e Arminio Nobile promosso assistente assieme a Faustino Brioschi, figlio del primo direttore. Le cose parevano finalmente mettersi bene. Arminio si indirizzò subito verso le misure di posizioni stellari, da cui non si sarebbe significativamente discostato per tutto il resto della vita. In pratica non aveva altra scelta. La strumentazione in dotazione all'Osservatorio di Capodimonte era obsoleta e del tutto inadeguata a condurre ricerche d'avanguardia nei campi che si andavano delineando come i più promettenti, primo fra tutti quello fondato sull'analisi dei colori nella luce dei corpi celesti, la spettroscopia. Durante i primi anni Nobile non produsse alcunché di scientificamente rilevante. L'unico lavoro pubblicato prima del 1870 nel quale compare il suo nome è una breve nota di De Gasparis del 1866 [51], inserita nei Rendiconti della Reale Accademia delle scienze e contenente alcune osservazioni della cometa di Tempel. Fu solo Quello stesso che oggi si chiama Istituto tecnico Gian Battista Della Porta e che ha sede in via Poria. Venne fondato poco dopo l'unità d'Italia per volere dell'Istituto d'Incoraggiamento, e per molti anni fu il solo Istituto tecnico presente a Napoli. Durante la Seconda Guerra Mondiale la sua biblioteca venne incendiata e molti documenti andarono distrutti, inclusi quelli riguardanti Arminio Nobile.

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Infanzia e giovinezza di un aspirante genio

a partire dal 1869 che il Nostro si buttò a capofitto nella ricerca con l'intento di sfondare quanto prima. È possibile che a frenare il suo impegno fosse stata l'attività di docente che svolgeva parallelamente a quella di astronomo. L'insegnamento era impegnativo e lo assorbiva quasi totalmente. Arminio fu professore di geometria descrittiva con disegno e di disegno geometrico all'Istituto tecnico di Napoli dal 1863 fino al 1868, anno in cui venne nominato professore reggente di geometria descrittiva con disegno. Il lavoro di educatore non doveva dispiacergli affatto, tanto che negli anni accettò di tenere vari corsi a titolo gratuito per i suoi allievi. Nel 1868 s'impegnò a insegnare matematica agli studenti del primo e secondo anno, e nel 1869 tenne il corso di calcolo differenziale e integrale per quelli del terzo e quarto anno. L'impegno profuso ebbe riscontro nell' eccellente preparazione dei suoi allievi che si rivelarono i più qualificati di tutti i diplomati negli istituti del Regno 13 , come venne riconosciuto dal Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. «Per i buoni risultati da lui ottenuti nell'insegnamento a lui affidato» 14 nel 1869 gli venne assegnato un premio di lire 500, equivalente a circa 2200 euro. E appena due anni dopo avrebbe ricevuto un nuovo attestato di apprezzamento da parte dello stesso Consiglio per i brillanti risultati conseguiti dai suoi studenti negli esami di licenza. Mentre Nobile si adoperava per costruirsi un' esistenza di docente e di ricercatore, covando nell'animo l'ambizione di emergere ai livelli dei suoi genitori e dell'ambiente in cui era cresciuto, la nuova Italia cercava di cementare l'unità territoriale, conquistata militarmente e fortemente voluta dalla minoranza degli intellettuali, e non da tutti, di un paese nel quale quasi 1'80% dei cittadini era analfabeta, percentuale che toccava il 90% nel Mezzogiorno rurale. Pochi e scelti erano stati gli operai e i contadini che avevano condiviso gli ideali di Mazzini e gli eroici slanci di Garibaldi. L'operazione di "fare gli Italiani" si presentava dunque quanto mai ardua anche perché Cavour, il grande «statista di uno stato che non c'era», come ebbe a dire di lui Giovanni Spadolini, si era spento nel 1861, a unità quasi raggiunta. Mancavano all'appello soltanto il Veneto e Roma. Di lì a Cfr. [156], pagg. 36-37. Ibidem. Lettera del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione ad Arminio Nobile del 21 ottobre 1869.

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breve ci avrebbe pensato Vittorio Emanuele, assistito da una fortunata svolta della storia: l'improvvisa entrata in scena di una nuova potenza egemone in Europa. Nel 1866 "il re galantuomo" si sarebbe alleato coi prussiani per strappare il Veneto all' Austria, riuscendo ci grazie alle vittorie altrui in una guerra lampo che numeriamo come terza della nostra indipendenza. E quattro anni dopo avrebbe sfruttato abilmente il K.O. della Francia, sconfitta a Sedan e sotto assedio, per occupare Roma, conquistando all'Italia la sua capitale naturale e relegando il Pontefice in Vaticano. La Penisola era ormai uno stato, con una grande storia alle spalle, una religione comune e una stessa lingua. Ma per renderlo moderno, autorevole e stabile, bisognava realizzare strade, ferrovie, innumerevoli opere pubbliche, costruire scuole, riordinare le università, combattere l'analfabetismo, organizzare le poste, il fisco, la sanità, e le forze armate, omogeneizzare le leggi e i sistemi di pesi e misure, fronteggiare le malattie endemiche, sanare il deficit dello stato, combattere la delinquenza comune e il brigantaggio ideologico, ammodernare l'agricoltura e costruire un nuovo sistema industriale, creare una coscienza nazionale condivisa, riscrivendo la storia passata e recente stando attenti a privilegiare gli elementi di unità. Tutto questo mantenendosi in equilibrio in un'Europa in movimento, con esecutivi di breve vita in un Parlamento burrascoso, badando alle vendette austriache e alle gelosie francesi, agli anatemi papali e alle esplosioni di rabbia delle masse di miserabili che si stavano organizzando per avviare inconsapevolmente, spinti più dalla fame che dalle idee, l'epopea delle moderne lotte di classe. Ma poco di tutto questo fragore di armi e di grida di popolo si sentiva nella turris eburnea di Capodimonte. Pur tra gli stenti, gli astronomi portavano avanti il loro lavoro con relativa flemma, spettatori, dal loro privilegiato balcone aperto sulla città, di mutamenti cui ormai non davano più nemmeno il supporto teorico. La gloriosa stagione dei Capo cci, di Antonio Nobile e Giuseppina Guacci - per far solo qualche nome - era finita. Al più, alla Specola si faceva qualche ricerca, badando a sopravvivere e aspettando tempi migliori. E l'occasione arrivò puntuale nel 1870.

L'occasione mancata: l'eclissi del 1870 L'anno 1870 fu molto importante per gli astronomi italiani per via di un fenomeno celeste inconsueto, di quelli che non è facile vedere nell'arco di una vita intera senza doversi spostare per intercettarli: un'eclissi totale di Sole. Intorno a mezzogiorno del 22 dicembre il disco nero della Luna nuova si sarebbe parato per un paio di minuti davanti a quello del Sole, oscurandone completamente la luce. Sin qui nulla di straordinario ma - e questo è il fatto che ci interessa - l'eclissi sarebbe stata visibile anche dalla Sicilia occidentale e meridionale l . Per apprezzare l'eccezionalità dell' evento e storicizzarne l'importanza, una piccola digressione sul tema delle eclissi ci tornerà utile. Cominciamo col dire che, diversamente dall' opinione corrente, le eclissi - non conta se di Sole o di Luna - sono fenomeni tutt'altro che rari. Ogni 18 anni circa, all'interno di quel ciclo di Saros 2 scoperto dai sacerdoti Caldei oltre due millenni prima della nascita di Cristo e propagandato in Grecia da Metone di Atene nel V secolo a.c., avvengono ben 29 eclissi di Luna e addirittura 41 di Sole, molte meno di quante se ne avrebbero se le orbite geocentriche dei due astri Oltre alla Sicilia, la fascia di totalità interessò l'Atlantico orientale, il Sud del Portogallo e della Spagna, l'Algeria, la Grecia, la Bulgaria e l'Ucraina. 2 Il periodo di Saros ("ripetizione") è il minimo comune multiplo dei periodi dei due fenomeni che debbono accadere assieme perché si produca un'eclissi. Il primo è la congiunzione (o l'opposizione) di Sole e Luna, che dipende dal mese lunare F L . Ogni 29 giorni circa, per l'effetto combinato dei moti di rivoluzione della Terra e della Luna, la nostra stella e il suo satellite ritornano alla minima distanza angolare, e allora sono detti in congiunzione (o alla massima distanza angolare, e allora sono detti in opposizione). Non si tratta però di allineamenti perfetti per via del fatto che le orbite apparenti di Sole e Luna sono leggermente inclinate l'una sull'altra. Diventano tali solo quando la congiunzione (opposizione) corrisponde a un passaggio della Luna ai nodi dell' orbita geocentrica, cioè a uno dei due punti dove l'orbita lunare interseca quella apparente del Sole, che chiamiamo eclittica. Questi passaggi sono modulati dal mese sinodico Fs, che non ha la stessa durata del mese lunare per via della precessione. Sia ts il minimo comune multiplo dei due intervalli di tempo, ossia ts = m X FL = n X Fs, dove m e n sono numeri interi. Agli istanti t e t + ts Sole e Luna assumeranno la medesima posizione in cielo, e dunque se a t sono allineati e generano una eclissi, lo saranno anche a t + t s e causeranno ancora un'eclissi. In altre parole, la sequenza delle eclissi di Sole e Luna si ripete identicamente (o quasi) a ogni periodo di Saros ts. l

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fossero complanari3 , ma comunque davvero tante a confronto con la nostra esperienza. Altro che accadimenti rari! La spiegazione dell'apparente contraddizione tra la frequenza stimata e quella "percepità' da ognuno di noi sta nel fatto che il verificarsi del fenomeno non ne garantisce l'osservabilità da un dato luogo della terra. Ciò è particolarmente vero per le eclissi totali di Sole, che sono visibili esclusivamente dal ristretto corridoio segnato dal cammino, alla velocità di un jet militare, della piccola ombra che la Luna proietta sulla Terra, quando lo fa e non si limita alla penombra di un' eclissi parziale. Occorre trovarsi all'interno di questa "striscia di totalità': una corsia lunga anche migliaia di chilometri ma larga al più 250, per poter godere dello spettacolo che da sempre affascina e spaventa uomini e animali: la repentina scomparsa dell'ultimo brandello di Sole, quando l'astro è ormai ridotto a un "anello di diamanti", e la simultanea apparizione del cielo stellato nel cuore del giorno, in un silenzio agghiacciante della natura rotto soltanto dal sibilo di un vento levato si improvvisamente. E poi il ritorno della luce abbagliante del Sole, con gli uccelli che ripigliano a cantare e gli uomini a respirare dopo il grande, ancestrale terrore del buio eterno, incontrollabile anche per chi, come noi, sa di che si tratta. Insomma, un' esperienza bellissima ed emozionante e una condizione unica per "studiare il Sole senza Sole", ma riservata solo a quelli che si trovano entro la striscia di totalità. Ecco perché l'occasione che nel 1870 si sarebbe presentata agli astronomi italiani non era da perdere. Essi avrebbero potuto osservare la tenue e all'epoca ancora misteriosa corona che circonda il Sole, resa visibile dal temporaneo oscuramento dello sfolgorante disco della stella, senza doversi spostare in qualche lontano paese con armi e bagagli, sopportando i rischi e gli ingenti costi di una trasferta i cui esiti potevano essere banalmente vanificati dal cattivo tempo. Era stata proprio l'impossibilità di reperire i fondi necessari che solo due anni prima aveva impedito agli Italiani di organizzare una loro spedizione scientifica in India per l'eclissi totale del 18 agosto del 1868. Il colpo di grazia alla speranza di farsi finanziare dal governo era stato assestato da una lettera sul quotidiano La Nazione a firma proprio di un astronomo influente, il pisano Giovanni Battista DonaL'orbita della Luna ha un'inclinazione di ~ 5° sull'eclittica, che è l'orbita apparente annua del Sole dove per l'appunto avvengono le eclissi.

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ti, successore del grande ottico Giovanni Battista Amici nella direzione della Specola di Firenze. Dopo aver sottolineato che gli strumenti degli Osservatori italiani erano vecchi, malandati e del tutto privi degli equipaggiamenti per osservazioni fotografiche e spettroscopiche, con abile gestione della retorica Donati si domandava «se si dovesse andare in paesi tanto lontani, e spendere una somma che non potrebbe mai esser piccola, per poi prendere parte soltanto ad osservazioni che non sono considerate come le più importanti» 4. Una resa incondizionata? No di certo - concludeva - solo un rinvio, perché «il 22 dicembre 1870 accadrà una altra eclissi totale di sole, che sarà visibile dall'Italia, e precisamente lungo una zona dell' estrema Sicilia. Non vi è da temere che le osservazioni che si faranno dell' eclissi del prossimo agosto, non siano per lasciare un campo aperto e vastissimo ad ulteriori investigazioni da farsi in occasione dell' eclissi del 1870; e perciò gli astronomi italiani non mancheranno di fare per tempo al R. Governo le proposte opportune, per potere allora con onore e con vantaggio della scienza prendere parte alle osservazioni di quel fenomeno che sarà visibile da casa nostra» 5. Al governo post-unitario, impegnato a integrare i tanti frammenti d'Italia e anche per questo poco propenso a investire nelle scienze "dure e pure", eccezion fatta per la matematica che costava poco e che per questo poté avere uno straordinario sviluppo in Italia già nella seconda metà dell'Ottocento, la proposta dilatoria e sensata di Donati bastò per serrare definitivamente i cordoni della borsa. Non fu nemmeno concesso, a chi ne fece richiesta, di aggregarsi ad altre spedizioni perché «non vi erano quattrini» 6, come lapidariamente rispose l'allora ministro della Pubblica istruzione, Emilio Broglio, all' istanza di Pietro Tacchini che ambiva a unirsi alla spedizione dei Francesi. Tacchini era coetaneo di Arminio. Nato nel marzo del 1838 a Modena, si era laureato in ingegneria, proprio come il collega napoletano, per poi perfezionarsi in astronomia a Padova con Giovanni Santini. Dopo aver diretto giovanissimo la Specola della sua città, dietro interessamento di Schiaparelli era stato mandato a Palermo con la posizione di primo astronomo aggiunto ma con l'incarico ufficioso di guidare l'Osservatorio di Piazzi che continuava a disporre di 4

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L'articolo è in parte riportato anche in [42], pago 24. Ibidem. Cfr. [201], pago 18. Lettera di Tacchini a Secchi del 13 giugno 1868.

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un'ottima strumentazione. Formalmente, il direttore rimaneva Gaetano Cacciatore, che era figlio d'arte 7 , ma Tacchini ne era l'elemento propulsore. Fu un ottimo investimento. In breve tempo il modenese si sarebbe guadagnato un ruolo di primo piano tra i fondatori di una nuova scienza del cielo, l'astrofisica, nata dall' applicazione del rivoluzionario paradigma dell'unità fisica del cosmo 8 . Lo ritroveremo nella nostra storia nei panni meno nobili di avversario e concorrente del nostro Arminio. L'avvedutezza di Donati, a prima vista cosÌ diversa dall' esuberante entusiasmo di Tacchini, era funzionale alla tutela di un progetto che gli stava particolarmente a cuore. Cicero pro domo sua, il toscano ambiva a trasferire le osservazioni dalla torretta di via Romana, affogata dentro la città di Firenze, a un nuovo complesso da costruirsi sulla collina di Arcetri secondo dettami moderni: uno stabilimento in grado di competere con quelli delle grandi nazioni della Vecchia Europa e del Nuovo Mondo. L'astronomo era prossimo a realizzare il suo sogno e, mors tua vita mea, temeva che l'impiego di risorse in una spedizione in India avrebbe potuto interferire negativamente con il suo progetto. Le cose andarono proprio come aveva sperato. Nel 1872 venne inaugurato ad Arcetri, a un passo dalla villa dove Galilei aveva speso agli arresti domiciliari i suoi ultimi anni, un Osservatorio destinato a un grande futuro. Donati tuttavia non riuscì a godere a lungo della sua realizzazione. L'anno seguente, durante un soggiorno a Vìenna, venne contagiato dal colera e morÌ. Nel 1869 ci fu un'altra eclissi totale di Sole, questa volta visibile nel Nord America, ma per gli Italiani le cose non cambiarono. A nessuno fu concesso di prendere parte alle osservazioni, in linea con la scelta politica di concentrare tutti gli sforzi nell'allestimento della spedizione in Sicilia per l'eclissi del 1870. Questa si presentava come l'occasione per il riscatto di un'intera comunità. Non bisognava lasciarsela sfuggire visto che già troppe erano andate sprecate, non senza critiche da parte inglese e francese. Ci si doveva organizzare per tempo, cercando di raccogliere e coordinare le diverse particelle in cui era sbriciolata l'astronomia della nuova Italia, erede della preSuo padre era quel Niccolò Cacciatore cui Piazzi aveva consegnato la sua Specola quando, in obbedienza al re, aveva dovuto lasciare Palermo e recarsi a Napoli per sovraintendere al completamento della fabbrica di Capodimonte. 8 Si rimanda in proposito a [76] e [41]. 7

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cedente frammentazione in stati e microstati, ciascuno con la propria Specola. Tacchini fremeva: «appena avremo inteso i risultati di questa Eclissi, penso di inoltrare subito al Governo un rapporto apposito, affinché non si arrivi al Dicembre 70 per far poi la figura che abbiamo fatto ora»9, scriveva da Palermo al gesuita Angelo Secchi. Secchi era un astronomo molto influente. Appena trentenne, aveva dovuto lasciare il Collegio Romano in conseguenza dei moti del ,48 per rifugiarsi nel Nord d'America. Oltreoceano aveva fatto esperienza con le nuove tecnologie d'osservazione dei corpi celesti basate sulla scomposizione cromatica della luce, appassionandosene, cosicché, rientrato a Roma e nominato direttore della Specola posta sopra Sant'Ignazio, la Chiesa del suo Ordine, aveva avviato un imponente e fortunato programma di spettroscopia stellare, diventando punto di riferimento per gli astronomi di tutto il mondo. Finalmente la ruota dell'astronomia, di per sé poco lubrificata e ulteriormente frenata dalle economie di un'Italia impegnata principalmente a consolidare il nuovo assetto politico e sociale, riprese a girare. Giovanni Battista Donati tenne lealmente fede al suo impegno. Spalleggiato da Gaetano Cacciatore dietro il quale premeva Tacchini, convinse il ministro della Pubblica istruzione Angelo Bargoni ad appoggiare in Parlamento una richiesta di stanziamento di fondi per l'eclissi del '70. 1129 maggio 1869 la questione venne portata all'attenzione dell'aula. Bargoni perorò la causa degli astronomi. La Camera ricorda che nel 1868 un' eclissi completa di sole, che dovette venire studiata specialmente nell'India, chiamò l'attenzione dei dotti di tutto il mondo. L'Italia sola non prese parte a quella spedizione scientifica, e non mancarono perciò i poco benevoli commenti degli stranieri contro di noi. Nel prossimo anno 1870, e precisamente nel 23 dicembre, avremo un'altra eclissi completa di sole, la quale sarà visibile in tutta Italia, e precisamente in Sicilia. Non c'è dunque tempo da perdere questa volta, perché l'Italia si mostri degna cultrice della scienza, e possa fare, per usare una parola espressiva, ancorché un po'famigliare, gli onori di casa agli ospiti illustri che verranno senza dubbio a studiare quel grandioso fenomeno da noi. Ma, perché l'accoglienza riesca degna di noi e di loro, è necessa9

Cfr. [201], pago 19. Lettera di Tacchini a Secchi del 13 giugno 1868.

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rio che l'Italia abbia in tempo utile preparato tutto il suo armamentario scientifico, e si trovi provveduta di quanto è necessario per potere degnamente figurare nella grande palestra che si aprirà in quella occasione. Per conseguenza, sarebbe impossibile il ritardare maggiormente e la costituzione di un'apposita Commissione scientifica, e il mettere a disposizione di essa la somma necessaria per potere incominciare gli studi, e per fare gli apparecchi scientifici che possono essere più indispensabili allo scopo. lO L'accorato intervento del ministro, un avvocato cremonese sensibile alle istanze della cultura e della scienza, sortì l'effetto di far approvare l'assegnazione di 30.000 lire 11 , una somma equivalente a circa I25-mila euro di oggi, che sarebbe stata gestita da un'apposita commissione. A farne parte vennero chiamati i direttori degli Osservatori astronomici di Padova, Palermo, Firenze, Napoli e Milano, rispettivamente Giovanni Santini, che per età e autorevolezza fu nominato presidente, Gaetano Cacciatore, vice-presidente in quanto "padrone di casà', Giovan Battista Donati, Annibale De Gasparis, e Giovanni Vìrginio Schiaparelli, il più giovane, che avrebbe svolto le funzioni di segretario. Schiaparelli aveva solo 35 anni. Dobbiamo familiarizzarci con lui perché a breve entrerà di prepotenza nella nostra storia con il ruolo di interlocutore privilegiato del Nobile [201]. Era nato il 14 marzo del 1835 a Savigliano, un piccolo comune della pianura piemontese conosciuto per aver dato i natali al romantico patriota e rivoluzionario Santorre di Santarosa, l'eroe di Navarrino. A soli 19 anni si era laureato in ingegneria per poi muovere a Berlino da Johann Franz Hencke e successivamente a San Pietroburgo, presso l'Osservatorio di Pulkovo diretto da Otto Struve, con l'idea di imparare l'astronomia nelle migliori scuole del Continente. Rientrato a casa dopo l'annessione sabauda della Lombardia, era stato nominato secondo astronomo a Brera e nel 1862, a soli 27 anni, direttore del prestigio so stabilimento scientifico. Nel 1877 sarebbe diventato famoso per la teoria sull'associazione tra comete e stelle cadenti, e poi addirittura celebre nel mondo per la scoperta dei canali di Marte, punto di partenza dell'epopea scientifica di un altro visionario, l'americano Percival lO 11

Camera dei Deputati, tornata del 29 maggio 1869 [160]. Si vedano i relativi rapporti del Parlamento in [160] e [101].

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Lowell, grande cacciatore di alieni. Fu uno studioso di prim' ordine, attento, profondo, creativo, integerrimo anche intellettualmente, misurato nei modi, abile amministratore e navigato interlocutore dei potenti 12. In vecchiaia si dedicò con passione alla storia dell' astronomia, conseguendo anche in questo campo brillanti risultati. La prima seduta della commissione per l'eclisse si tenne il 22 settembre 1869 a Firenze, allora capitale d'Italia, nell'Aula del R. Museo di fisica e storia naturale. Si trattava di decidere il luogo in cui si sarebbero svolte le osservazioni, gli strumenti da usare e quali astronomi coinvolgere nella spedizione. Tacchini venne incaricato della scelta del sito 13 . A valle di accurate valutazioni e di scrupolosi sopralluoghi, il modenese suggerì di utilizzare due stazioni, una sul versante orientale e l'altra su quello occidentale dell'isola, rispettivamente ad Augusta, cittadina in provincia di Siracusa, e a Betlemme, una collinetta vicina al centro abitato di Terranova, l'odierna Gela. La proposta realizzava un buon compromesso tra due opposte esigenze: ridurre il rischio di condizioni meteorologiche avverse, niente affatto improbabili nel mese di dicembre, utilizzando più di un punto d'osservazione, e mantenere al contempo sotto controllo i costi. Come dire che due è il doppio di uno ma resta comunque un numero piccolo! Quanto al programma scientifico, la commissione convenne di concentrare gli sforzi sullo studio morfologico e spettroscopico della corona solare. Questa tenue e caldissima struttura che avvolge la nostra stella, dove la densità è di un miliardesimo di milligrammo per centimetro cubo (come sarebbe l'acqua di un unico bicchiere distribuita su mille miliardi di bicchieri) e dove la temperatura è di un milione di gradi eppure, data la rarefazione, vi si morirebbe di freddo, dove il temperamento del Sole, apparentemente bonaccione, si manifesta coi segni più forti e dove i campi magnetici sorreggono spettacolari ed effimeri archi di plasma estesi per centinaia di migliaia di chilometri, di norma non si vede perché sovrastata dalla luce solare diffusa dall'atmosfera della Terra. Ma quando la Luna si para davanti al disco abbagliante, di cui per un fortunato accidente ha circa lo stesso diametro angolare, si interrompe il torrente di fotoni che investono l'atmosfera diffondendosi ovunque a creare l'azzurro del cielo 14 12 13 14

Cfr. [157]. Cfr. [42]. La diffusione è più efficace nel blu che nel rosso.

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e cala una notte artificiale, su cui la tenue luminosità della corona ha finalmente il sopravvento. È l'attimo fuggente nel quale è possibile studiare la sua forma e le sue proprietà. Proprio le due eclissi totali della fine degli anni '60 dell'Ottocento, quelle da cui gli Italiani si erano per così dire autoesclusi, avevano segnato una svolta negli studi della corona per via dell'utilizzo della spettroscopia, una tecnica di indagine che da pochissimi anni era entrata nella pratica astronomica. In questo modo, durante l'eclissi del '69 visibile dagli Stati Uniti, venne scoperta una riga verde mai osservata prima in sorgenti terrestri, che fece pensare all' esistenza nella corona di uno sconosciuto elemento chimico: nella realtà solo un atomo di ferro cui sono stati strappati 12 elettroni, ma di tutto questo gli astronomi del tempo non sapevano nulla 15. Il coronium svettava sulla punta di un iceberg di curiosità scientifiche crescenti per la nuova chimica e la nuova fisica che i corpi celesti potevano consegnarci. Con questo spirito la comunità internazionale si preparava all' eclissi del '70. Ci sarebbero stati tutti, Inglesi e Francesi in testa, ma anche schiere di dilettanti e di astrofili come il principe di Lampedusa, il Gattopardo, insieme al fedele padre Pirrone. Con queste premesse, nessuno dubitava che nella spedizione siciliana si dovessero privilegiare le osservazioni spettroscopiche della corona, mentre non c'era intesa sull'opportunità di prendere anche delle fotografie. La tecnica astro fotografica, che era alle sue prime armi ovunque, per gli astronomi della neonata Italia rappresentava un'assoluta novità. Alcuni erano bramosi di sperimentarla, altri si domandavano se il gioco valesse la candela. In effetti, assicurarsi materiali e apparecchiature significava intaccare sensibilmente il budget a scapito di altre attività, senza contare il fatto che il Sole sarebbe stato basso sull'orizzonte e quindi con un'immagine molto deformata dalla rifrazione atmosferica. Alla fine, però, soprattutto per l'insistenza di Secchi che nel suo esilio statunitense aveva compreso i meriti della fotografia, la commissione la incluse nel programma. Bisognava anche stabilire quali strumenti sarebbero stati impiegati nell'impresa. Era chiaro che non se ne potevano comprare di nuovi: il costo di due rifrattori di media grandezza con montatura equatoriale, uno ciascuno per i due siti d'osservazione, avrebbe superato da solo l'intero ammontare del finanziamento. Si convenne di usa15

Cfr. [13].

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re alcuni dei telescopi già in possesso dei vari Osservatori italiani 16 cercando, ove possibile, di aggiornarli e adattarli alla funzione. De Gasparis mise a disposizione il rifrattore Fraunhofer da otto pollici dell'Osservatorio napoletano, per il quale venne deciso l'acquisto di una montatura equatoriale del costo di ben 8.000 lire, più di un quarto del budget. Questa generosità lasciava adito al sospetto che il direttore di Capodimonte stesse semplicemente utilizzando l'occasione per farsi finanziare il recupero, decisamente oneroso, di uno strumento ormai obsoleto. Un ultimo delicato compito restava alla commissione presieduta da Santini: selezionare gli astronomi che avrebbero preso parte alla spedizione e assegnare loro gli incarichi. Per Capodimonte la scelta cadde su Arminio Nobile, cui fu affidato il compito di eseguire osservazioni spettroscopiche della corona assieme a Giuseppe Lorenzoni, pupillo di Santini e professore di astronomia e geodesia all'Università di Padova. Era la chance che il Nostro aspettava da tempo. Per la prima volta dal suo rientro all'Osservatorio in qualità di astronomo avrebbe avuto l'opportunità di cimentarsi in un campo d'indagine all'avanguardia nel mondo, la spettroscopia: una tecnica che era ancora del tutto sconosciuta a Napoli. Sperava di poter fare qualche importante scoperta, ma anche di crearsi un giro di amici con i quali poter poi collaborare, uscendo dal ghetto napoletano. In un'epoca nella quale gli scambi tra scienziati erano prevalentemente epistolari e quindi lenti, la concentrazione in uno stesso luogo di astronomi provenienti da ogni parte d'Italia offriva un'opportunità unica di discutere, confrontarsi, scambiarsi idee, formulare progetti e gettare le basi per cooperazioni future. Arminio provò a sfruttare l'occasione, ma con poca fortuna. Sebbene ammesso nel ristretto club dei fondatori della prestigio sa Società degli spettroscopisti italiani, la prima associazione di astrofisica creata nel mondo [43], egli non riuscì a costruirsi in tutto l'arco della spedizione siciliana quella buona reputazione cui ambiva, a dispetto delle sue qualità scientifiche, dell'impegno profuso nel lavoro e degli ottimi risultati ottenuti, bersagliato dalla mala sorte, limitato da un carattere difficile, e forse ostacolato dalle gelosie professionali dei colleghi, Tacchini in testa. Fu proprio l'infaticabile Tacchini ad assumersi l'onere di coordinare le delegazioni di astronomi dei diversi Osservatori e di predi16

Cfr. [42], pagg. 51-54.

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sporre un piano operativo per la spedizione nell'isola di tutti gli strumenti. Viaggiò per mesi tra le varie sedi, approdando anche a Napoli dove incontrò Nobile, con il quale prese diversi accordi. Per il trasferimento in Sicilia venne stabilito che Arminio e gli strumenti napoletani si sarebbero serviti di un piroscafo da guerra, il Plebiscito, messo a disposizione della spedizione scientifica dalla Regia Marina. Si trattava dell' ex mercantile britannico Panther, varato a Glasgow nel 1856 e acquisito come nave da trasporto di seconda classe a ruote dalla Regia Marina al momento della sua creazione, nel marzo del 1861. Un vascello glorioso perché era stato utilizzato anche da Garibaldi per spostare le truppe durante la spedizione dei Mille [14]. Gli accordi tra Nobile e Tacchini non riguardarono soltanto la 10gistica per la spedizione siciliana, ma anche un progetto per la determinazione accurata della differenza di longitudine tra gli Osservatori di Napoli e Palermo utilizzando il telegrafo, il cui filo dal 1852 raggiungeva ormai la costa dell'isola correndo sul fondo dello Stretto di Messina. È noto che delle due coordinate geografiche di un punto sulla (idealizzata) sfera terrestre, la latitudine, ossia la distanza angolare da uno dei Poli terrestri, è direttamente misurabile con tecniche astronomiche, mentre la longitudine, che è la distanza angolare del meridiano del luogo da quello fondamentale (di riferimento), non lo è affatto. Il telegrafo, sviluppato in America da Samuel Morse intorno agli anni' 40, facilitava enormemente il difficile esercizio che da secoli vedeva impegnati astronomi e cartografi. Per meglio intendere la questione, consideriamo due luoghi della terra, A e B, da cui misureremo il passaggio in meridiano di una medesima stella. Questa raggiungerà la sua massima altezza sull' orizzonte o, come si dice in gergo, culminerà nella località A all'istante t A e in B a t B. La differenza t B - t A rappresenta la cercata differenza di longitudine tra A e B a condizione che gli orologi usati nei due siti siano perfettamente sincronizzati, cioè segnino a ogni istante la medesima ora. La faccenda è concettualmente banale. Ma come si può fare in pratica? Lasciando da parte le sofisticate considerazioni che, soppesando proprio questo problema, hanno guidato Einstein alla formulazione della relatività speciale, la soluzione più ovvia è di far ricorso a un unico cronometro, trasferendolo da un sito all'altro. Potrebbe sembrare impraticabile e invece è proprio la strategia adottata dai marinai per quasi due secoli, sino al primo Novecento. Una nave imbarca un orologio che è sincronizzato con il porto di partenza e co-

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sì, ovunque vada, porta seco il tempo di quella località. È esattamente quello che facciamo anche noi, per esempio quando voliamo da Roma a New York senza rimettere l'orologio sul fuso della Grande Mela, cosicché ci ritroviamo con uno sfasamento di 6 ore, pari, molto rozzamente, alla differenza di longitudine tra i due luoghi. Il guaio è che, sino alla seconda metà del Secolo dei lumi, gli orologi erano a pendolo e mal sopportavano i viaggi, soprattutto per mare, per cui bisognava costruirne di acconci, capaci di non perdere il ritmo né con gli scossoni del vascello né per via di mutamenti di pressione o di temperatura dell'aria 17 . Ci voleva un cronometro concepito e costruito ad hoc. A questo compito si dedicò un orologiaio inglese, John Harrison, il quale dopo alcuni insuccessi riuscì a costruirne un esemplare tanto insensibile alle avverse condizioni della navigazione da perdere solo 5 secondi in un viaggio di due mesi dall'Inghilterra alla Giamaica. L'artigiano vinse il premio messo in palio dall' Ammiragliato britannico, che tuttavia lo truffò versandogli solo la metà della somma in palio. Ma grazie a lui i marinai presero a conoscere la loro posizione con grande precisione l8 , con incalcolabili vantaggi per l'efficienza e la sicurezza dei viaggi per mare. Esiste però anche un altro modo per accordare due orologi tra loro distanti senza ricorrere al trasferimento di uno di essi da un luogo all'altro. Basterà disporre di un segnale accessibile simultaneamente ai due osservatori in A e B. Ai tempi di Harrison gli astronomi avevano suggerito di adoperare a questo scopo le eclissi dei satelliti principali di Giove, i cosiddetti astri medicei: un'idea buona ma poco pratica, soprattutto in mare, e quindi accantonata a vantaggio di un cronometro. Non è semplice apprezzare con precisione il momento della scomparsa di un debole puntino dietro il disco del pianeta, che è esso stesso poco più di un puntino, meno che mai cercando di restare in piedi sulla tolda di un vascello in balia delle onde. Il telegrafo, invece, con la sua capacità di spedire un segnale mirato alla velocità della luce, era proprio quello che serviva per sincronizzare due osservatori connessi via cavo, tenendo conto naturalmente di tutti i "ritardi" introdotti, per esempio, dalla velocità della luce, grandissima ma finita. Tacchini e Nobile si erano proposti Le variazioni termiche, per esempio, possono alterare la lunghezza del pendolo e modificarne il periodo caratteristico. 18 Per un approfondimento si veda [196].

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di utilizzare questo strumento per collegare geograficamente i loro Osservatori. I due avevano preso accordi per svolgere le osservazioni nel 1869, lasciando poi al Nobile il compito di elaborare i dati e stilare una relazione. Per Arminio questa ricerca aveva un sapore speciale perché lo riportava indietro negli anni, a quando giovanetto osservava il padre impegnato in un analogo esercizio con l'Osservatorio del Collegio romano. I risultati vennero pubblicati solo cinque anni dopo, nel 1874, in un'appendice dei Rendiconti dell'Accademia di scienze di Napoli con il titolo di Determinazione telegrafica della differenza di longitudine fra gli Osservatori di Napoli e Palermo [154], perché - come scrivevano gli autori medesimi - il lavoro di osservazione era stato «smisuratamente più lungo di quello che potevamo sperare» 19. Le operazioni necessarie ad approntare gli strumenti avevano richiesto tutta l'estate del' 69 per essere completate. Poi ci s'era messo il cattivo tempo, che aveva tagliato significativamente il numero di notti utili per le osservazioni: «dal 12 Ottobre allo Febbraio non si sono potute avere che 5 serate in cui il tempo era bello nelle due città» 20. Nobile era intenzionato a far le cose per bene ma, oltre a un dispettoso Giove pluvio, doveva fare i conti con strumenti modesti se non inadeguati. Lo documenta una delle lettere che scambiò con Cacciatore nell' estate del 1869 riguardo ai dettagli delle trasmissioni telegrafiche 21 . Nobile scriveva di alcune prove effettuate per verificare l'intensità dei segnali inviati dal telegrafo, documentando il fatto che le battute trasmesse da Palermo a Napoli, di cui esibiva le registrazioni su carta, fossero decisamente più deboli di quelle che lui mandava in Sicilia. Non abbiamo la risposta di Cacciatore. Cronologicamente, la lettera successiva del Nobile è datata 2 dicembre 1869, quando ormai le misure erano state avviate. Sia pur con toni di grande deferenza, l'astronomo napoletano appare deciso a giustificarsi di un'accusa mossagli dal direttore della Specola palermitana, e chiama addirittura in causa anche il suo direttore: Cfr. [154], pago l. Ibidem. 21 L'archivio dell'Osservatorio di Palermo conserva in tutto 12 lettere scritte dal Nobile a Gaetano Cacciatore tra il 1869 e il 1873. Archivio storico dell'Osservatorio astronomico di Palermo, Fondo Gaetano Cacciatore, Cart. 85, fasc. 14. 19

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La sua bella lettera che testé abbiamo letta insieme col Cav. De Gasparis, ha prodotto in me una penosa impressione, perché il suo rimprovero è fatto così compitamente, da imbarazzarmi [... ]. Il Cav. De Gasparis le risponderà da parte sua, quanto a me le dico questo; che cioè ho avuto una vivace discussione col nostro ufficiale telegrafico, nella quale disputa egli sosteneva non essere tutta roba del suo collega, io lo misi al silenzio non ammettendo quanto egli diceva. Che se poi nella lettera al Prof. Tacchini, mi sono espresso in modo da ingenerare nella S.L. quel sospetto, ne sono do lentissimo e le chiedo scusa del non volontario errore. 22 Ignoriamo le ragioni del richiamo, ma possiamo azzardare che riguardasse qualche avventata rimostranza di Arminio, forse relativa alla sua insoddisfazione per il livello di collaborazione offerto da Tacchini: un primo segno di uno screzio destinato a crescere. Comunque, al di là delle ipotesi cui ci costringe, il documento è interessante anche perché mette in luce un lato del carattere del Nobile che risulterà ancor più evidente nell' epistolario con Schiaparelli. Ogni qual volta, come in questa, si sentirà accusato sul piano personale o professionale, il nostro reagirà sempre con fermezza abbandonando la prosa formale e molto rispettosa delle sue lettere professionali per ribattere puntigliosamente alle critiche. Ma torniamo alla preparazione della spedizione per l'eclissi siciliana. A ridosso della partenza per l'isola, le cose per Arminio cominciarono a prendere una brutta piega a causa di vicende lontanissime da lui e da Napoli. Da alcuni anni, mentre l'Inghilterra continuava l'opera di consolidamento del suo vasto impero planetario e l'Austria, ridimensionata dalla batosta di Sadowa e dalla perdita del Veneto, si concentrava sullo scacchiere balcanico, la Francia dell'imperatore Napoleone III e la Prussia del cancelliere Otto von Bismarck, newcomer tra i grandi del mondo, si stavano giocando la partita della supremazia sull'Europa. Nel luglio del 1870 la tensione tra i due Paesi sfociò in una guerra sanguinosa che in un solo anno avrebbe determinato un sostanziale riassetto dei poteri e dei regimi nel Vecchio Mondo. In un'Europa in fiamme, con l'esercito prussiano alle Archivio storico dell'Osservatorio astronomico di Palermo, Fondo Gaetano Cacciatore, Cart. 85, fase. 14. Lettera di Nobile a Cacciatore del2 dicembre 1869.

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porte di Parigi, gli strumenti che i Napoletani contavano di mandare in Sicilia e che intanto erano stati spediti all' estero per essere rimessi a nuovo, parte in Francia e parte in Germania, non poterono essere consegnati in tempo utile. Toccò a Nobile informare del problema il direttore dell'Osservatorio di Palermo: E prima d'ogni altra cosa debbo dirle esser molto difficile che io possa far la parte assegnatami; cioè l'osservazione dello Spettro della Corona poiché, causa la guerra, l'apparato di Zollner che il Merz avrebbe dovuto mandare da qualche tempo, non è venuto e probabilmente non verrà per ora. Nemmeno posso portare il Refrattore di 7 pollici perché i suoi cerchi che si mandarono a dividere al Steinheil a Parigi sono rimasti assediati in quella città. [... ] il Cav. De Gasparis ha disposto che io porti il refrattore di Merz di 5 pollici che è discretamente buono. La mia parte adunque sarà la misura micrometrica di talune delle protuberanze (dico talune pel tempo brevissimo che vi è) e tutto quello che si può fare senza spettroscopio, ed a questo oggetto domani andrò a Roma a parlare al Secchi di questa faccenda. 23 Era un bel guaio, che costringeva il Nostro a una soluzione di ripiego, ben lontana dal prestigio so progetto iniziale. Fortunatamente, l'annunciata visita al Collegio Romano diede qualche frutto, cosicché Arminio poté comunque mettere in programma alcune osservazioni con uno «spettroscopio combinato occasionalmente ed in tempo brevissimo mercé un prisma gentilmente prestatomi dal P. Secchi»24. Nobile era giunto a Roma il 16 ottobre del 1870 con un treno che da pochi anni collegava la Città eterna a Napoli arrancando per la tortuosa via di Cassino. Meno di un mese prima, la mattina del 20 settembre, le truppe del generale "sardo,,25 Raffaele Cadorna, inviate in tutta fretta dal primo ministro sabaudo Giovanni Lanza, un conservatore illuminato, avevano occupato la Città eterna passando da una breccia aperta dall'artiglieria sulle mura della città all'altezza di Porta Pia, dove «la sola immagine enorme della Madonna, che le sorArchivio storico dell'Osservatorio astronomico di Palermo, Fondo Gaetano Cacciatore, Cart. 85, fase. 14. Lettera di Nobile a Cacciatore del 15 ottobre 1870. 24 Cfr. [115], pago 31. 25 Termine usato dal Cardinale Segretario di stato Giacomo Antonelli per indicare gli odiati Italiani. 23

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ge dietro, era rimasta intatta»26. Vittorio Emanuele aveva potuto assestare il colpo perché la severa sconfitta patita dai Francesi a Sedan per mano dei Prussiani in quella stessa guerra che aveva messo nei guai Nobile con la questione degli strumenti, aveva spazzato via dalla scena il più potente protettore del papa, l'Imperatore Napoleone III. Gli zuavi che difendevano la città, per lo più volontari francesi, belgi e olandesi, si erano battuti bene ma senza accanimento, come aveva ordinato il Papa, ed erano stati sopraffatti dai più numerosi piemontesi. Sconvolto per l'affronto patito nonostante il suo «non possumus», Pio IX s'era rifugiato in Vaticano da dove avrebbe sparato la sua ultima cartuccia, il decreto Non expedit per intimare ai cattolici di disertare la vita pubblica della nuova Italia. Ma ormai il gioco era fatto. Dopo un decennio di infruttuosi tentativi da parte di un indomito Garibaldi, di sangue versato inutilmente, di trame internazionali dall'una e dall'altra parte, di veti francesi e di strizzatine d'occhio inglesi, Roma era entrata a far parte dell'Italia e nel giro di un anno ne sarebbe diventata la capitale. Crollava un regno temporale durato quasi due millenni. Al papa restava ormai solo il potere sulle anime, che avrebbe comunque saputo far fruttare per bene nei decenni a venire anche per più terreni interessi. Mentre Nobile traversava Roma in carrozza per andare da Piazzi a Sant'Ignazio, nell'aria si sentiva ancora un vago odore di polvere di rovine e di cannone e soprattutto si avvertiva lo smarrimento degli abitanti che, passata l'euforia, dovevano fare i conti con i nuovi padroni. Capocci o la Guacci ci avrebbero tramandato di certo questa esperienza forte attraverso lettere e racconti, un po' come fece De Amicis con la presa di Porta Pia cui partecipò come soldato e che si affrettò a narrare. Ma non Arminio, che in quei momenti non aveva altro pensiero che rimettere in piedi la sua attrezzatura per ben figurare nella grande spedizione che stava per cominciare. E giunse l'ora. Il Plebiscito approdò a Palermo il 25 novembre e due giorni dopo salpò alla volta di Augusta e Terranova per lasciare in ciascuna stazione astronomi ed equipaggiamenti. Mancava poco meno di un mese all'ora X, un tempo più che sufficiente per prepararsi a dovere, montando e provando tutte le apparecchiature. Nobile era stato assegnato alla stazione di Terranova con il gruppo di giovani astronomi di cui faceva parte Lorenzoni, l'ingegnere 26

Cfr. [50], pago 43.

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Diamilla-Miiller e Tacchini. Quest'ultimo scriveva quasi quotidianamente al suo direttore, che si trovava ad Augusta con gli altri big, Secchi, Denza e Donati, per tenerlo al corrente di quanto avveniva nell'accampamento 27 . Nelle sue lettere Tacchini faceva spesso cenno anche a Nobile per sottolinearne senza mezzi termini la totale inesperienza nel campo della spettroscopia, mostrandosi addirittura dubbioso e preoccupato circa l'effettiva capacità del collega napoletano di contribuire al successo dell'impresa: Nobile, poi, non so cosa abbia in mente di fare, perché a sentirlo egli vuoI fare un mondo di cose, ma credo che non conchiuderà nulla: infatti egli diceva con tutti che lui non avrebbe impiegato che due sole ore a montare l'equatoriale: intanto noi jeri facevamo o, per meglio dire, potevamo fare osservazioni e lui invece era ancora occupato per montare la macchina e non ha finito nemmeno oggi. Insomma a dirglieLa in confidenza, mi pare un poco parabolan028 : e capisco anche che l'impegno dei signori di Napoli non fu altro che quello di aver denari per accomodarsi la macchina che non è venuta: del resto non si sono occupati per niente della cosa dell' eclissi, perché il Nobile ne sa proprio pOCO. 29

Parole forti e gravi insinuazioni che molto probabilmente risentono della rivalità tra i due giovani "galletti" e dei precedenti attriti sulla questione della longitudine. Tacchini sapeva bene che l'Osservatorio di Napoli non aveva nessuna tradizione in campo spettroscopico. Dunque, non poteva aspettarsi che Nobile fosse un esperto di questa tecnica. La sua critica era puramente strumentale. Il fatto poi che Arminio stesse impiegando molto tempo per montare l'equatoriale veniva letto come una riprova della sua inesperienza, mentre è più probabile che fosse la conseguenza della grande cura, se non addirittura della pignoleria, che questi usava nel maneggiare le apparecchiature e i dati. Lo dimostra il fatto che nel corso di tutta la sua carriera scientifica Arminio sarebbe tornato più e più volte a riesaminare problemi già affrontati al fine di migliorare l'affidabilità dei suoi risultati. 27

Il carteggio completo Tacchini-Cacciatore è stato pubblicato integralmente a cura di

I. Chinnici in [42]. 28 29

Ciarlatano. Cfr. [42], pago 117. Lettera di Tacchini a Cacciatore del 6 dicembre 1870.

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Questo atteggiamento poteva farlo apparire insicuro e impreparato, soprattutto agli occhi di chi non lo conosceva bene o era in competizione con lui e intendeva screditarlo. E infatti, smentendo la catastrofica profezia di Tacchini, Nobile riuscì a mettere insieme il suo equatoriale Merz da 140 mm in tempo utile, ma si trovò a dover affrontare una serie di inattese difficoltà che rischiavano di compromettere le osservazioni. In particolare, il meccanismo a orologeria dell' equatoriale era difettoso e per usarlo occorreva forzarlo leggermente. Ci vollero lunghe ore di esercitazione per far sì che Augusto Wìtting, un sottotenente della Regia Marina che era stato assegnato all'astronomo napoletano per aiutarlo durante la fase convulsa dell' eclissi, prendesse dimestichezza con i problemi dello strumento, come annotò lo stesso Nobile: «Per poter ottenere che il cercatore e il cannocchiale andassero d'accordo, durante i giorni precedenti l'ecclisse, lunghi esercizi sono stati fatti col signor Wìtting [... ]. Tali esercizi erano tanto più necessari in quanto che il meccanismo di orologeria dell'Equatoriale non funzionando a dovere, conveniva continuamente aiutarlo con una pressione data col manubrio AR del refrattore» 30. Facendo valere più la virtù che la fortuna, il 22 dicembre, durante i due minuti circa di totalità, Nobile riuscì a osservare una caratteristica brillante nello spettro coronale, una riga d'emissione a l.447 Kirchoff. Nonostante i grossi errori imputabili allo spettroscopio utilizzato, la stima della posizione della riga 31 venne confermata dal barnabita napoletano Francesco Denza che faceva parte della squadra di Terranova. Un buon risultato, viste le premesse, anche se la misura in sé non aggiungeva nulla di nuovo a quanto già si conosceva della corona solare, limitandosi a confermare la scoperta fatta l'anno precedente dall'astronomo americano Charles Young. Se non altro comprovava però che il "chiacchierone" Nobile le cose le sapeva fare, e bene. Oltre a una maniacale pignoleria per la misura esatta, Arminio possedeva anche una certa creatività scientifica e un notevole spirito d'iniziativa, che lo avevano portato a fare un'autentica scoperta. PriCfr. [115], pagg. 31-32. Si tratta di un'emissione dell'elio ionizzato una volta alla lunghezza d'onda di À 5876 Angstrom, già osservata da Fraunhofer nello spettro del Sole e da lui indicata come D3. Nobile l'aveva misurata nella scala empirica e poco stabile introdotta dal tedesco Gustav Kirchhoff.

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ma della totalità, aveva puntato lo strumento «sui cuspidi prodotti dalla Luna sul Sole» 32 , dove aveva potuto notare la presenza di tre righe d'emissione riconducibili all' idrogeno. Al procedere dell' eclissi verso la totalità, le righe in vicinanza delle cuspidi aumentavano in numero e passavano «di nere in lucide» 33, ossia dall' assorbimento all'emissione. Lo stesso fenomeno si era riprodotto dopo la totalità ma in ordine inverso, con le righe che da brillanti erano diventate nere in vicinanza delle cuspidi. L'osservazione era di notevole interesse perché dimostrava come fosse possibile effettuare studi spettro scopici delle parti esterne del Sole anche durante le eclissi parziali, ben più frequenti di quelle totali. Dopo pochi minuti di frenetica attività, tornata la luce del Sole, gli astronomi, stremati dalla tensione, cominciarono subito a smantellare le attrezzature. Non c'era il tempo per rientrare in famiglia per Natale, ma nessuno voleva rimanere inutilmente lontano da casa. La spedizione siciliana era stata un successo. Tuttavia i risultati tardarono ad apparire. I rapporti per il ministro dell'istruzione, redatti dai partecipanti all' impresa e raccolti in un unico volume, vennero pubblicati a Palermo nel 1872, ben due anni dopo l'evento astronomico! Arminio fece diligentemente il gioco di squadra ma, una volta tornato a Napoli, prese anche un'iniziativa autonoma: riportò il suo lavoro in una nota che sottopose all' Accademia Pontaniana per la pubblicazione nei Rendiconti. Come era ed è ancora prassi per i contributi degli esterni, il manoscritto venne esaminato da tre soci ordinari, Luigi Palmieri, Emanuele Fergola e Annibale De Gasparis, i quali lo approvarono sottolineando l'originalità dei risultati ottenuti: si trattava del primo lavoro scientifico pubblicato dal Nobile. Nonostante avesse preso la precauzione di darne subito notizia sui Rendiconti, che erano abbastanza letti anche fuori d'Italia, la scoperta delle righe spettrali visibili durante un' eclissi parziale non ebbe la diffusione che avrebbe meritato data l'importanza per i possibili studi cui apriva la strada. Eccettuato il riconoscimento nell'ambito della Pontaniana, solo Secchi ne fece menzione in un articolo sull'Astronomische Nachrichten [191]. Il fenomeno venne riscoperto durante l'eclissi del 12 dicembre 1871 che interessò il Sud-Est asiatico e l'Australia settentrionale, e stavolta gli venne data «molta e giusta 32 33

Cfr. [115], pag 32. Ibidem.

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importanza nelle [... ] relazioni che i giornali già vanno pubblicando delle osservazioni di quest'ultimo eclissi, nelle quali accennandosi al fenomeno in parola, non vien fatta menzione dell' Astronomo di Napoli» 34. Il suo ruolo era stato semplicemente ignorato, ma lì per lì Arminio non ne fece un dramma. Era ancora giovane e ben conscio del proprio valore. Probabilmente pensava di poter avere altre possibilità per affermarsi come astronomo. Comunque la ferita, mai rimarginatasi del tutto, si sarebbe riaperta molti anni dopo in conseguenza della perdita di paternità della sua scoperta più importante, quella delle variazioni a corto periodo della latitudine.

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Cfr. [53], pago 18.

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la sfida della longitudine per un artista della misura Con la presentazione della sua memoria alla Pontaniana, Nobile chiuse definitivamente con le eclissi di Sole. Non sarebbe mai più ritornato sull'argomento; non ci si era divertito e non ci aveva ricavato nulla, salvo l'onore di essere tra i fondatori della Società degli spettroscopistio Ma egli non capì o non volle capire quanto questa nuova scienza fosse la vera frontiera dell'astronomia. Riprese invece l'elaborazione delle misure di longitudine avviate con Tacchini nel 1869. Tra calcoli e verifiche passarono oltre due anni, durante i quali fu impegnato anche in altre importanti faccende, come insegnare matematica e fisica con grande impegno e mettere su famiglia. La lentezza con la quale procedeva la riduzione dei dati astrometrici raccolti nel 1869 dovette irritare il direttore della Specola palermitana, forse sobillato dal solito Tacchini, tanto che nel 1873 Arminio si sentì in dovere di scrivergli per rassicurarlo: «il lavoro delle longitudini con Palermo è quasi al suo termine e mi sto ora, finiti i calcoli, occupando della relazione» 1. Passarono ancora sei mesi e quando la relazione vide finalmente la luce, l'estroso napoletano si era già impegnato in una più ampia collaborazione per la determinazione, sempre mediante l'uso del telegrafo, delle differenze di longitudine tra gli Osservatori astronomici di Napoli, Padova e Milano, e di questi con l'Ufficio Idrografico di Genova. Del team facevano parte il piemontese Giovanni Celoria, pupillo di Schiaparelli e suo futuro successore nella direzione di Brera, e il trevigiano Giuseppe Lorenzoni, già compagno di Nobile alla stazione di Terranova. Le misure presero appena due settimane di un sereno mese di luglio del 1874: un lampo, se paragonato al tempo richiesto dalla successiva elaborazione dei dati e dalla stesura del lavoro, che venne pubblicato quasi dieci anni dopo, nel 1883 2 • Nobile utilizzò uno struArchivio storico dell'Osservatorio astronomico di Palermo, Fondo Gaetano Cacciatore, Cart. 85, fasc. 14. Lettera di Nobile a Cacciatore del 12 ottobre 1873. 2 Il lavoro sulle Operazioni eseguite nell' anno 1875 negli osservatori astronomici di Milano, Napoli e Padova in corrispondenza coll'ufficio idrografico della R. Marina per determinare le differenze di longitudine fra Genova, Milano, Napoli e Padova [153] compendia i resoconti degli astronomi del team. Le attività svolte dal Reale Ufficio Idrografico di Genova furono presentate separatamente a cura dello stesso Ufficio Idrografico. l

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mento costruito dall'inglese Thomas Cooke, che gli era stato fornito dall'Ufficio Idrografico. In base agli accordi presi, ognuno dei partecipanti al progetto doveva stendere una relazione sulle operazioni di propria competenza. Raccolte a Milano, queste sarebbero servite a Celoria per tirare le conclusioni. Arminio lavorò ai suoi dati fino a poco dopo il febbraio del 1879. È di questo periodo una lettera con la quale egli informava il direttore dell'Osservatorio di Milano dei progressi fatti, mettendo le mani avanti sulla qualità dei risultati. «Tra due mesi avrò finito la mia parte della longitudine Capodimonte-Milano-Padova-Genova - scriveva - la quale del resto lascia a desiderare pel pessimo sistema di livellazione dello strumento che vide anche il Prof. Celoria. Finito questo lavoro, chi scriverà le singole parti per dedurre i risultati finali? se Ella crede le manderò la mia parte a Milano appena l'avrò terminata» 3. I due mesi divennero sei senza che null'altro accadesse. C'è da credere che Schiaparelli fosse fremente e furente di fronte alla flemma del napoletano, che a lui pareva prendersela comoda e che invece si stava arrovellando su come migliorare la qualità dei suoi numeri. Nell'agosto Arminio si premurò di tranquillizzarlo promettendogli una pronta consegna: «A giorni avrà le mie carte sulle longitudini, lavoro che è stato irto di difficoltà e che è lontano dall' essere soddisfacente. Manderò una copia di esso a Lorenzoni ed una a Magnaghi [dell'Ufficio Idrografico], perché mi mandino l'equivalente»4. La corrispondenza tra Nobile e Schiaparelli, cui attingeremo da qui in poi a piene mani, ci consente di seguire i progressi fatti dal napoletano e insieme di cogliere alcune peculiarità del suo carattere, tra cui una certa facilità a promettere senza poi riuscire a rispettare le scadenze; principalmente per eccesso di zelo, ma i suoi interlocutori non lo sapevano: «Sto redigendo il lavoro della longitudine, del quale poi se ne faranno tre copie che spedirò a Milano, a Genova ed a Padova. Sarà cosa di altri 15 giorni per aver tutto pronto»5. Arminio non era solo in ritardo; era soprattutto scontento del suo lavoro, che gli appariva «lontano dall' essere soddisfacente»per l'inadeguatezza delle apparecchiature. Carenze che alimentavano la sua fobia per gli errori strumentali. Per tutta la vita, testardamente, avrebbe cercato 3 4

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Cfr. [18], pago 53. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 21 febbraio 1879. Ibidem. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 23 agosto 1879. Ivi, pago 56. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 25 agosto 1879.

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ogni modo per controllarli agendo sulle macchine e sulle procedure di acquisizione senza badare a spese di tempo e di risorse e senza farsi spaventare dalle difficoltà metodo logiche, rischiando di apparire ai collaboratori come uno sfaticato ritardatario. Nell' ottobre ritornò sulla questione strumentale insistendo sulla excusatio non petita: «La giustifica del bestiale lavoro {scusi l'espressione, ma scorrendo quelle pagine me la passerà} che ho dovuto fare, sta nell'avvertenza preliminare dove parlo delle livellazioni dello strumento Cooke che anche il Prof. Celoria ebbe occasione di non ammirare sotto questo punto di veduta. E con tutto quel lavoro, io non posso dare grandissima fiducia ai miei risultati. Ma voglio augurarmi che le medie accomoderanno se non tutto, almeno molto»6. Nobile si riferisce a una relazione inviata anni prima a Celoria nella quale, con la consueta meticolosa pedanteria, aveva illustrato al collega difetti e carenze dello strumento di Cooke insieme ai rimedi da lui adottati. La pecca più grave sembrava riguardare l'apparato di livellazione: un sistema che era stato ideato dal pavese Giovanni Battista Magnaghi, già valoroso militare, cartografo e inventore, e soprattutto direttore dell'Istituto idrografico della Marina da lui stesso fondato nel 1874. In fede alla grande onestà con cui agiva e a una scarsa capacità di relazionarsi con gli altri, Arminio non si era affatto preoccupato che la sua critica potesse urtare la suscettibilità di un potente come Magnaghi, convinto com'era di stare affermando semplicemente il vero. Schiaparelli, che caratterialmente era di tutt'altra pasta, replicò cercando di ricondurlo alla ragione: primo di molti tentativi protratti nell'arco di due decenni. Cominciò con il fargli notare che altre potevano essere state le cause d'errore. Alluse, per esempio, alla fretta con cui era stato approntato lo strumento di Cooke e al poco tempo che il napoletano aveva avuto a disposizione per impratichirsene. Poi colpì di fioretto. Senza contestare le critiche al sistema livellazione ideato da Magnaghi, notò che a Genova, dove era stato impiegato uno strumento dalle medesime caratteristiche di quello inviato a Napoli, non si erano riscontrati tutti i problemi evidenziati dal Nobile: Relativamente alle incertezze della livellazione, quasi vi sarebbe da rallegrarsene, considerando a quali ingegnosi spedienti 6

Ivi, pago 58. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 16 ottobre 1879.

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e nuovi ripieghi dal desiderio di rimediarvi è stato condotto il di lei sempre fertile ingegno [... l. Una sola cosa per questa parte vorrei sottomettere alla sua ponderazione; cioè se non convenga redigere l'articolo concernente le livellazioni in modo da non fare carico soltanto alla natura dell'istrumento se non si è raggiunta tutta la precisione desiderabile. Egli è certo infatti, che a Genova, dove si lavorò con uno strumento perfettamente uguale, si ebbero ottimi risultamenti per questa parte. [... l Se io mi permetto queste osservazioni, gli è perché abbiamo fra i collaboratori della presente operazione il Com. Magnaghi, il quale insieme al celebre Cooke si può chiamare l'inventore di questa forma di strumenti dei passaggi: ed è certamente impossibile stampare nella Relazione dell' osservazione un paragrafo tendente ad esprimere l'opinione, che quella forma è sbagliata e non ha alcun pregio. Noi dunque la preghiamo di mutare le prime di quel paragrafo, scrivendolo in modo da salvare la suscettibilità di tutti? Quanta diplomazia, e insieme quanta sottile ironia! Tutto al fine di non offendere la suscettibilità del Magnaghi, che non solo aveva progettato la nuova livella per lo strumento di Cooke, ma aveva prestato tutta l'apparecchiatura all'Osservatorio di Capodimonte che non ne aveva di migliori. Alla fine Arminio cedette e, sebbene a malincuore, acconsentì a modificare la sua relazione conferendole toni meno polemici. Ma la questione non finì lì. Poteva accettare di nascondere le colpe di un altro, ma non era disposto a tenere per sé le allusioni a una sua presunta incapacità di usare correttamente lo strumento di Cooke. Anche se Schiaparelli aveva accortamente parlato di mancanza di pratica, non di imperizia, il nostro permaloso astronomo aveva avvertito la sottolineatura come un'offesa cui doveva subito ribattere: Niuno più di me sente la necessità di lunga conoscenza dello strumento col quale si lavora, ma in questo caso, come va gl'inconvenienti da me segnalati e dei quali fu privo l'istrumento l'anno appresso, sparivano e le determinazioni di tempi vennero di per sé buone e senza quell'artificiosità che ho dovuto 7

Ivi, pago 61. Lettera di Schiaparelli al Nobile del 23 novembre 1879.

La sfida della longitudine per un artista della misura

introdurre pel calcolo del 1875? E voglio dirle fra le altre cose questa; che lo strumento era cosÌ squilibrato che dovetti mettere presso l'obiettivo una cravatta di piombo del peso di più di mezzo kilogramma. [... ] Dunque, pur ammettendo che se avessi avuto lo strumento Cooke un mese prima, avrei fatto meglio, non posso accagionarmi di tutto il male. Questo, ripeto, lo dico a lei, ma ammetto perfettamente che nulla ne deve trasparire al pubblico. 8 Ubi major, minor cessat: il Nostro già percepiva il coetaneo SchiapareHi come un superiore degno di rispetto e di obbedienza. La diatriba sulle qualità dello strumento si chiuse con la pubblicazione della relazione ufficiale sulla longitudine, ma in cuor suo Arminio continuò a pensare di essere stato abbindolato. Senza il riferimento ai difetti del Cooke, la mediocre qualità dei suoi risultati non gli rendeva onore. Dunque - rimuginava nella sua tana di Capodimonte - la sua immagine di ricercatore attento e accurato era stata offuscata da volgari ragioni di opportunità politica. In una lettera indirizzata a Schiaparelli nel 1893, dopo che aveva preso qualche altro sonoro schiaffo dalla vita e dai colleghi, sarebbe tornato nuovamente sulla vicenda, lamentando i danni subiti:

Nel Decembre 1890 il mio capo [De Gasparis] mi fece premura perché concorressi al premio reale. Sulle prime mi rifiutai, sapendomi mal veduto da Lei e dal generale Ferrero per disgraziate piccolezze nelle quali forse entrò una mano estranea, e per quella malaugurata longitudine in cui io avevo fatto le mie riserve sullo strumento ed Ella me le fece togliere (lettera che conservo) pur facendomi molti complimenti sul mio calcolo (altra lettera che serbo).9 È palese come ancora a distanza di tanti anni non fosse riuscito ad

accettare l'idea di aver dovuto tacere la verità. Limpegno crescente nella ricerca non lo aveva tuttavia distolto dal suo lavoro di docente, che lo gratificava moralmente ed economicamente. Nel 1871 la sua posizione scolastica fu stabilizzata. A seguito dell'introduzione di un nuovo ordinamento, venne nominato professore titolare di matematiche. In quello stesso periodo ebbe 8

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Ivi, pago 62. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 25 novembre 1875. Ivi, pago 120. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 9 giugno 1893.

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l'occasione di conoscere Emma, figlia di un collega dell'Istituto tecnico dove insegnava, il professor Oscar Von Sommer, la quale di lì a poco sarebbe diventata sua moglie. Di lei non abbiamo molte notizie. Carolina Fiore ci dice che era istruita. Conosceva bene il francese e il tedesco, lingue che avrebbe poi insegnato ai figli. Emma e Arminio si sposarono nell' «anno milleottocentosettantadue il dì ventitre del mese di Maggio alle ore dieci antimeridiane» lO e, come si deduce da uno dei tre passaporti del Nobile sopravvissuti al tempo, nel mese di agosto andarono in viaggio di nozze a Norimberga. Visto il cognome della sposa, verrebbe da pensare che i due giovani abbiano fatto visita a qualche parente tedesco. Alla stessa maniera di Giuseppina e Antonio, essi presero dimora a Capodimonte, ma non sappiamo se il matrimonio fece guadagnare loro un alloggio più grande di quello che Arminio già occupava alla Specola. Auguriamocelo, visto che dall'unione sarebbero nati sette figli: Mario nel 1873, Vittorio nel 1875, Oscar, morto pochi mesi dopo la nascita, Gisella di cui conosciamo solo l'anno di morte, il 1948, Arduino nel 1880, Riccardo di cui non abbiamo altre informazioni salvo che fu un esperto di sanscrito, ed Emilia, docente di filosofia e bibliotecaria alla Nazionale di Napoli, che venne al mondo nel 1888 e morì nel 1963 dopo una vita spesa a promuovere l'immagine della sua famiglia. Con il matrimonio e con l'arrivo dei primi figli, le necessità economiche del Nobile crebbero. Lo stipendio che riceveva come astronomo non gli bastava più. Provò a chiedere un aumento ma De Gasparis non glielo concesse, trincerandosi dietro la scarsità di fondi. Il netto rifiuto indusse Arminio a considerare l'ipotesi di lasciare Napoli, e nel febbraio del 1875 scrisse a Schiaparelli per chiedere il suo autorevole appoggio: Motivi gravissimi, non ultimo dei quali è un inesplicabile osteggiamento alla mia posizione finanziaria nella Specola, mi fanno pensare di andar via. Riuniti che io abbia i miei scarsi titoli scientifici e mandatili a Gould a C6rdoba nell'America Meridionale per vedere se egli potesse offrirmi una posizione tollerabile, potrei io contare sopra una sua raccomandazione per entrare poscia in trattative? Se io, dopo quattro o cinque anni nei quali ho avuto le più chiare dimostrazioni che la mia attualO

Atto di matrimonio tra Arminio Nobile ed Emma Von Sommer.

La sfida della longitudine per un artista della misura

le posizione non si vuoI migliorare, mi sono risoluto a tentar questa [via], creda pure che la cosa diviene insostenibileY Benjamin Apthorp Gould, cui fa riferimento Arminio nella sua lettera, era un personaggio di prim'ordine dell'astronomia mondiale. Statunitense, si era laureato a Harvard specializzandosi poi in Germania con CarI Friedrich Gauss: una formazione di gran classe che Gould avrebbe saputo mettere a buon frutto. Nel 1849 aveva fondato l'Astronomical Journal, prestigio sa rivista di settore che da allora ha continuato a essere pubblicata ininterrottamente, con l'unica eccezione degli anni della guerra civile americana. Pioniere delle misure di longitudine mediante l'uso del telegrafo, nel 1868 Gould si era trasferito in Argentina per coordinare la costruzione di un Osservatorio astronomico a C6rdoba, ai piedi delle Sierras Chi ca s, divenendone primo direttore. In quegli anni l'Argentina, con le sue sconfinate pampas e le illimitate risorse di cibo e di materie prime, era uno degli eldorado americani verso cui puntava la massa degli Italiani che avevano dato avvio alla "grande emigrazione': A varcare l'Atlantico non erano solo contadini affamati e analfabeti, oppure più o meno raccomandabili rappresentanti delle plebi urbane, ma anche dissidenti, avventurieri, sognatori, e persino scienziati, attratti dalle opportunità offerte dal Nuovo Mondo. Anche Arminio era sospinto dal bisogno e attirato dalla possibilità di continuare il proprio lavoro di astronomo in un ambiente fecondo, con la guida di un grande esperto. Possiamo immaginare quanto dovesse costargli la sola idea di dover lasciare la sua città e soprattutto l'Osservatorio dove era nato e vissuto e che trasudava dei ricordi dei suoi cari. Ma, frustrato nel lavoro e schiacciato dalle preoccupazioni economiche, il nostro emotivo astronomo non riusciva più a reggere la situazione creatasi a Capodimonte. Senza alcuna speranza di miglioramento non gli rimaneva altra scelta che cercare lavoro all' estero, o almeno far credere che lo stava facendo. Puntò in alto, rivolgendosi a un padrino importante che potesse autorevolmente appoggiare la sua domanda di un impiego presso Gould. Non possediamo la risposta di Schiaparelli alla richiesta di raccomandazione, e quindi ignoriamo se questi abbia in qualche modo contriIl

Cfr. [18], pago 39. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 27 febbraio 1875.

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buito a far cambiare idea al Nobile, che alla fine decise di restare a Napoli. Non sappiamo nemmeno se Arminio avesse davvero contattato Gould, perché né a Napoli né a C6rdoba è rimasta traccia di una corrispondenza tra i due. In seguito Nobile collaborò con l'Osservatorio argentino, in particolare con l'astronomo statunitense John Malcom Thome, per eseguire un programma di osservazioni contemporanee nei due siti, pubblicate in due lavori [155, 146] apparsi nel 1893 e nel 1894. È probabile che almeno in occasione di queste attività Arminio abbia scambiato qualche lettera con Thome o con Gould per prendere accordi e trasmettere dati. Ancora una volta non ve n'è traccia, per cui non ci è noto in quale periodo Nobile allacciò i primi contatti con l'Argentina. Forse successe quando egli meditava di andarsene da Napoli, ma non possiamo nemmeno escludere che la ricerca di un lavoro a C6rdoba sia stata più che altro un bluff messo in atto per dare maggior peso alla richiesta di aumento dello stipendio, o un test per verificare il grado di apprezzamento del direttore nei confronti suoi e del suo lavoro di ricerca. Arminio aveva continuamente bisogno di conferme, come dimostrano le sue lettere al paziente Schiaparelli. In mancanza di riscontri oggettivi, possiamo solo azzardare delle ipotesi sui motivi che convinsero Arminio a rimanere a Capodimonte. Forse fu il conseguimento, nel gennaio del 1879, della libera docenza in geodesia e astronomia teoretica nell'Università di Napoli. Questa promozione gli permetteva di tenere dei corsi presso l'Università, benché ancora non fosse ufficialmente titolare di una cattedra. L'insegnamento universitario potrebbe aver contribuito a risollevare, almeno in parte, le finanze della famiglia Nobile, e a spegnerne definitivamente le velleità migratorie.

Sognando sistemi planetari in formazione Mentre ancora valutava o minacciava di lasciare Napoli, Nobile aveva iniziato a studiare i sistemi di stelle multiple. Queste ricerche lo impegnarono per alcuni anni e produssero diverse memorie 1 pubblicate tra il 1875 e il 1877 nei Rendiconti della Reale Accademia delle scienze. L'obiettivo era di stabilire se questi sistemi fossero formati da stelle solo apparentemente vicine tra loro oppure da oggetti fisicamente legati l'uno all'altro. Era un problema ormai classico. Di stelle doppie s'era interessato già Galilei, che aveva pensato di poter usare coppie di astri vicini in cielo per visualizzare gli effetti della parallasse. Il ragionamento del pisano era il seguente: se due stelle quasi allineate con l'osservatore si trovano a distanze diverse, la rivoluzione della Terra attorno al Sole deve influire maggiormente sulla posizione apparente di quella più prossima a noi, con la conseguenza che la separazione tra i due oggetti varierà con la periodicità di un anno. Sarebbe stato l'experimentum crucis per validare la visione copernicana di cui egli era paladino e sbaragliare definitivamente la cosmologia geocentrica di Aristotele e Tolomeo. Ma Galileo non disponeva di una strumentazione adeguata allo scopo. Fu necessario attendere oltre un secolo e mezzo prima che William Herschel ripigliasse in mano la questione con mezzi ben più potenti del "perspicillum" galileiano: un riflettore da 7 piedi di focale e 200 ingrandimenti, con montatura newtoniana, equipaggiato con un preciso micrometro a fil02. Alla fine del Settecento l'astronomo anglo-tedesco avviò un sistematico programma di monitoraggio della separazione di coppie di stelle scelte tra quelle le cui componenti presentavano notevoli diffe!lavori in questione sono: [116], [117], [118], [121], [119]. Il micrometro proietta sul piano focale del cannocchiale due o più fili, alcuni fissi e altri mobili, che servono a misurare la separazione angolare di due sorgenti celesti. Nella sua versione più semplice funziona così: un filo serve ad allineare il micrometro con le due sorgenti mediante una rotazione attorno all'asse ottico. Gli altri due fili, perpendicolari al primo e mobili, vengono posti dall'astronomo che osserva sopra alle due immagini. Si legge poi la loro distanza lineare che, nota la scala del telescopio, si traduce in misura di angolo.

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renze di luminosità, nel convincimento che questa condizione implicasse significative differenze di distanza. Ormai l'eliocentrismo aveva vinto la sua battaglia, ma la parallasse non era stata ancora misurata. Nemmeno Herschel ci riuscì; la partita si sarebbe chiusa una volta per tutte 40 anni dopo grazie a Friedrich Wilhelm Bessel in Germania e Otto Struve in Russia. Fece però una straordinaria scoperta. In molti casi le componenti dei suoi sistemi binari non mostravano spostamenti periodici sincroni al moto di rivoluzione terrestre, bensì veri e propri moti orbitali di un astro attorno all'altro, come c'era da aspettarsi per un sistema fisico di "due punti materiali" obbedienti alla meccanica di Newton e alla sua legge di gravitazione. Insomma, le medesime regole che governano i moti planetari nel Sistema Solare parevano valere anche per coppie di stelle tra loro vicine, sperse nell'immensità della Via Lattea. Era la dimostrazione della universalità delle leggi della natura, che condannava definitivamente il dualismo della cosmologia aristotelica 3 a vantaggio di una visione unitaria del cosmo: un altro schiaffo all'idea della centralità del mondo e quindi dell'uomo, con ovvie implicazioni sul piano religioso. Ed eravamo solo all'inizio di un percorso che ancor oggi non si è chiuso. Va detto, per chiarezza, che l'osservazione delle stelle cosiddette doppie è una faccenda precedente a Herschel. La maggior parte degli storici dell'astronomia è concorde nell'affermare che furono Benedetto Castelli, allievo di Galilei, e il gesuita ferrarese Giovanni Battista Riccioli i primi a riportare, l'uno indipendentemente dall'altro, la duplicità di una stella, il primo nel 1617 e il secondo circa trent'anni dopo. Si trattava dello sdoppiamento di Mizar, l'astro mediano della barra del Grande Carro, che quando veniva osservato con strumenti di buona risoluzione mostrava due componenti stellari distinte. Altri sistemi doppi di questo genere vennero scoperti nei decenni successivi, per esempio da Christiaan Huygens all'Osservatorio di Parigi. Ma nessuno prima di Herschel aveva osservato il reciproco moto orbitale di due stelle, sebbene già nella prima metà del Settecento l'idea di una gravitazione universale avesse ormai preso piede anche nei Paesi nemici dell'Inghilterra e quindi poco inclini ad accettare le teorie di un inglese. Emblematico di questa fortuna di Newton è il frontespizio del La cosmologia classica distingue il mondo sublunare, imperfetto e corruttibile, da quello celeste, dove le Parche non hanno effetto. Anche le leggi del moto e i costituenti elementari dei due mondi sono diversi.

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Teoria motuum planetarum et cometarum di Leonardo Eulero, stampato a Berlino nel 1744, dove sono rappresentati gli infiniti mondi in tutto simili, gravitazionalmente, «a questo in cui vivemo et vegetamo noi», per dirla con le profetiche parole di Filoteo, personaggio del De l'infinito, universo e mondi di Giordano Bruno. Si tratta esattamente dello stesso grappolo di sistemi solari raffigurati nel frontespizio del coevo Atlas coelestis di un altro protestante, Johann Gabriel Doppelmayr, ma anche nell'affresco che decora la biblioteca matematica del collegio dei gesuiti a Praga, il famoso Clementinum 4 , a dimostrazione della trasversalità della nuova cosmologia nata dalle ceneri del geocentrismo aristotelico-tolemaico. Nobile entrò in questo business delle doppie con la consueta irruenza, deciso a usare la sua abilità di accurato sperimentatore con l'intenzione di scoprire qualche nuova verità scientifica. Mentre nel resto del mondo gli astronomi classici continuavano a fare misure astrometriche di sistemi binari per ricavare il primo e più importante dei parametri stellari, la massa, applicando il nuovo paradigma dell'universalità delle leggi fisiche, Arminio si concentrò sui sistemi multipli. Era una buona idea, che dimostra una discreta inventiva. In effetti, il napoletano riuscì in breve tempo a individuare alcuni tripletti fisici, ossia sistemi di astri tra loro prossimi in cielo i cui moti relativi dimostravano l'esistenza di una mutua interazione gravitazionale, e volle trarre subito dalle sue poche osservazioni una conclusione sensazionale. Lasciamo alle parole di De Gasparis, Fergola, e Fortunato Padula, influente matematico napoletano, la spiegazione del ragionamento che condusse il nostro frettoloso astronomo ad affermare di aver trovato dei sistemi solari in formazione:

I sistemi tripli esaminati dal Nobile han richiamato la sua attenzione più de binarii [... ]. Egli trova, nel caso che essi siano composti di una stella centrale, relativamente grande, e di due satelliti, che se il sistema è fisico, i due satelliti si muovono nello stesso senso. Quando egli incontra un sistema nel quale i satelliti si muovono in senso opposto, dall'esame de'moti propri risulta che uno dei presunti satelliti è una stella indipendente. Questo fatto, secondo il Nobile, è non solo una conferma della ipotesi di Laplace sulla formazione del Sistema solare, e degli 4

Cfr. [20], pagg. 411-425; [28], pagg. 9-21.

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analoghi, ma anche dell'altra ipotesi che i sistemi di stelle multipli formati da una stella principale e di secondarie, non siano che stelle intorno alle quali si aggirano pianeti tuttora incandescenti, che dopo miriadi di anni potranno divenire pianeti oscuri come la nostra terra. 5 Il volo pindarico del nostro Arminio poggiava dunque su un'ipotesi cosmogonica di Pierre-Simon de Laplace. Alla fine del Settecento l'eclettico genio francese aveva consegnato a un trattato semi-divulgativo, l'Exposition du système du monde, l'enunciazione di una teoria sulla formazione del Sistema Solare. Lo schema era simile a quello proposto sessant'anni prima da Immanuel Kant. Una nebulosa primordiale debolmente rotante collassa sotto il proprio peso concentrando la massa al centro per dar vita a una stella. Ora, ognuno sa che quando un corpo rotante si contrae, la sua velocità di rotazione aumenta. Dunque, al procedere del collasso la nebulosa deve assumere l'aspetto di un disco schiacciato dalla rotazione. Ecco spiegato perché tutti i pianeti del Sistema Solare, oltre ad avere orbite quasi complanari, rivolgono attorno al Sole nel medesimo verso: si sono formati a loro volta per collasso gravitazionale a partire da un unico disco rapidamente rotante, passando da una fase iniziale caldissima a una più fredda per mancanza di sorgenti proprie di caloré. Queste ultime caratteristiche del modello laplaciano avevano impressionato Nobile. Egli aveva notato che in alcuni sistemi multipli gli astri di minore luminosità ruotavano nel medesimo verso attorno all'oggetto più brillante, proprio come previsto dal francese per i pianeti ancora caldi in orbita attorno alloro Sole. Gli oggetti che aveva osservato potevano essere i proto-pianeti di sistemi stellari in formazione? Frettolosamente Arminio concluse di sì, e pensò bene di scriverlo. Col senno di poi sappiamo che l'intuizione non era fondata, ma all' epoca dovette apparire abbastanza plausibile tanto che anche De Gasparis, Fergola e Padula, scienziati qualificati, accettarono il lavoro di Nobile per la pubblicazione negli Atti dell' Accademia di scienze fisiche e matematiche. Cfr. [57], pago 206. Nelle sue grandilineela teoria di Kant-Laplace è ritenuta ancora valida per quanto riguarda le caratteristiche generali del Sistema Solare e la nascita del Sole. Diversi sono invece i meccanismi invocati oggi per formazione dei pianeti, che si pensa siano nati dalla coalescenza di frammenti detti planetesimi.

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Se l'ipotesi avanzata dal Nostro si fosse rivelata esatta, la scoperta sarebbe stata epocale, da Nobel diremmo oggi; e tuttavia Arminio lasciò cadere la cosa senza indagare ulteriormente e senza dare al suo risultato la pubblicità che, volendo ci credere, meritava. Egli sapeva scrivere in francese e in più era membro della Società astronomica tedesca 7 , per cui, se avesse voluto, avrebbe avuto tutti i mezzi necessari a promuovere il suo lavoro nel mondo. Preferì invece seppellirlo sulle pagine di una rivista locale. Avrebbe fatto così anche dopo, al tempo delle scoperta della Polo dia, con ben più gravi danni. Si potrebbe pensare che non volesse rischiare di mettere in gioco la sua reputazione puntando su una congettura azzardata. Anche in quest'ottica, però, avrebbe potuto e dovuto investigare ulteriormente la questione, per esempio aumentando il suo campione statistico con nuove osservazioni. Nobile, invece, abbandonò questo promettente filone di ricerca gettandosi nello studio di un nuovo metodo d'osservazione che gli consentisse di ridurre gli errori legati alle posizioni stellari: una decisione che dimostra come egli si sentisse sicuro solo entro gli stretti confini dell'astronomia di posizione. Non era la prima volta che davaforfait di fronte a tematiche e metodiche d'avanguardia. Nel 1870, grazie all' eclissi, aveva avuto l'occasione di confrontarsi con la spettroscopia, e ora gli si prospettava l'opportunità di studiare la formazione planetaria. Ma Arminio non seppe o non volle sfruttarle, e restò legato alla "vecchià' astronomia di posizione. La sua mentalità era più vicina a quella di Ipparco che agli astronomi-astrofisici che di lì a pochi anni avrebbero rivoluzionato la conoscenza dell'universo. Ciò che più di ogni altra cosa motivava le riflessioni di Arminio era la ricerca di nuovi e ingegnosi sistemi, strumentali o metodologici, che gli consentissero di ridurre le cause d'errore nelle osservazioni. La precisione era il suo chiodo fisso, il suo tratto distintivo di astronomo. E così gli venne un'idea: Se il cannocchiale montato parallatticamente [cioè con uno dei due assi di rotazione parallelo all'asse della Terra] ha una macchina capace di accelerare o ritardare il movimento di questo, rispetto al moto diurno della sfera celeste, egli è chiaro che una Era sì socio, ma non dei più puntuali con i pagamenti, come apprendiamo da un richiamo di Schiaparelli. Cfr. [18], pago 31. Lettera di Schiaparelli a Nobile del 13 dicembre 1869.

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stella si muoverà nel campo con la velocità differenza, moto diurno - moto strumentale, e se questa velocità differenza può essere misurata si avrà il tempo intercetto fra due passaggi di una stella a due dati fili, moltiplicato per un fattore che può essere assai maggiore dell'unità. Invece se si hanno le due componenti di una doppia, la differenza dei tempi siderei dei loro passaggi ad un filo perpendicolare al moto diurno sarà la differenza delle loro ascensioni rette, moltiplicata per un fattore analogo al sopraddetto. 8 In linea di principio lo stratagemma era semplice anche se di difficile realizzazione: trasformare una misura angolare in una differenza di tempi di transito, opportunamente dilatata da un rallentamento del moto orario con il quale un cannocchiale insegue la rotazione della volta celeste. Nobile non si lasciò scoraggiare dalle difficoltà e, dopo aver adattato ai suoi scopi uno strumento dell'Osservatorio, ovviamente con il consenso del direttore, si mise all' opera per verificare la validità della sua idea. Eseguì una serie di misure di separazione con metodi diversi, in modo da poterle poi confrontare tra loro, e nel febbraio del 1875 sottopose i risultati al giudizio di Schiaparelli: «Ella riceverà, fra pochissimi giorni una mia prima serie di misure di angoli di posizione di stelle multiple. [... lla prego di considerare le misure che le invierò, non come un lavoro a sé, ma come l'avanguardia di una serie di misure di angoli e distanze. La sua opinione sul metodo da me seguito e sui risultati mi sarebbe gratissima e tanto poi, se Ella, mettendo da parte ogni considerazione personale, mi facesse una critica» 9. Questa lettera è la prima, tra quelle ancora esistenti, in cui Arminio chiede esplicitamente l'opinione del direttore di Brera sulle sue ricerche, cosa che in seguito sarebbe accaduta sempre più spesso. Confidando nella competenza, nella serietà, ma anche nella pazienza del milanese, per quasi due decenni non si sarebbe fatto scrupolo di utilizzarlo come referee personale delle sue idee, poi come confidente delle sue frustrazioni, e infine come bersaglio delle sue aspre rimostranze. La risposta non si fece attendere troppo. Schiaparelli si disse interessato alla questione ma inadatto a esprimere un parere, visto che nel 8

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Cfr. [117], pago 171. Cfr. [18], pago 37. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 5 febbraio 1875.

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campo delle posizioni stellari egli era «ancora nello stadio dell'apprendere» lO. Per questo motivo avrebbe chiesto un parere a Ercole Dembowski, «l'uomo più competente in questa materia, che oggi esista» 11 . Il barone Dembowski era un autentico personaggio. Figlio di un generale di Napoleone di origine polacca e di una bellissima patriota italiana, disperatamente corteggiata dal Foscolo e da Stendhal, era stato valoroso ufficiale della marina austriaca. Nel 1843 aveva lasciato il servizio per stabilirsi a Napoli. Appassionatosi all' astronomia, s'era costruito una Specola a San Giorgio a Cremano e aveva iniziato una collaborazione con l'Osservatorio di Capodimonte. È probabile dunque che Arminio lo avesse incontrato in occasione di qualche visita al padre Antonio. Nel 1860 Dembowski si era trasferito a Gallarate. Anche lì aveva allestito una Specola, avviandovi un programma sistematico di studio delle stelle doppie e guadagnandosi una discreta fama come instancabile e accurato osservatore. Non sappiamo se il barone-astrofilo sia stato effettivamente contattato da Schiaparelli, o dallo stesso Nobile, perché desse un parere sulla questione cui il milanese non aveva voluto dare risposta. Ad Arminio era bastato l'interesse larvatamente ventilato dal suo mentore per convincerlo a proseguire nei suoi esperimenti. Forse sarebbe andato avanti egualmente, ma l'idea che un grande e famoso astronomo apprezzasse la sua idea gli era di sprone. Apportò diverse e ingegnose modifiche al suo cannocchiale per dotarlo di un meccanismo a orologeria che consentisse di impartirgli una velocità programmata. Dovette però riconoscere che, nonostante gli sforzi, gli strumenti che aveva non gli avrebbero mai permesso di provare la superiorità del suo metodo: Nelle condizioni in cui le osservazioni sono state fatte, non si può da parte mia pretendere ad altro che ad indicare la possibilità della cosa, ma riuscirà di leggi eri evidente che usando macchine di orologeria più poderose e perfette e mezzi ottici non cosÌ scarsi come quelli che fornisce un refrattore di 5 pollici di apertura, si dovrà pervenire ad una precisione che potrà rivalizzare di esattezza con i risultati fotografici ... 12 lO

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Ivi, pago 38. Lettera di Schiaparelli a Nobile dell'8 febbraio 1875. Ibidem. Lettera di Schiaparelli a Nobile dell'8 febbraio 1875. Cfr. [117], pago 171.

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A temperare ulteriormente gli entusiasmi arrivò la costatazione che il metodo non era in realtà così nuovo come egli credeva. Anni prima, in alcune pubblicazioni De Gasparis aveva proposto di effettuare le misure proprio alla maniera pensata dal Nobile, che candidamente lo confessa: «L'idea che informa in queste pagine non è del tutto nuova, quantunque quando mi si affacciò alla mente io non sapessi che altri prima di me ne avesse avuta una analoga. Primo a proporla è stato il Prof. De Gasparis e si possono riscontrare nei numeri 1177 e 1201 A.N.B due sue lettere che contengono in fondo il medesimo principio che poi a me mercé il cronografo è riuscito di porre, almeno parzialmente, ad effetto» 14. È quanto meno singolare che avesse dovuto scoprire a posteriori di aver ideato una cosa già pubblicata dal suo direttore. Evidentemente i due non si parlavano spesso, e Arminio preferiva il consiglio di Schiaparelli a quello di De Gasparis. Da parte sua quest'ultimo sembrava dare il via libera alle proposte del suo astronomo senza ponderarle troppo, magari solo per levarselo di torno. Le ricerche sui sistemi stellari multipli chiesero molto tempo e un grande lavoro senza portare a nessuna scoperta di rilievo. Con i mezzi a sua disposizione Arminio non poteva sperare di fare meglio e, forse proprio per questo, decise di abbandonare del tutto la partita. Due nuovi progetti si erano intanto affacciati al suo orizzonte: riguardavano la latitudine e l'aberrazione. Vi si dedicò completamente per il resto della sua vita, ricavandone soltanto frustrazione e delusioni enormi.

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Astronomische Nachrichten, rivista astronomica fondata da H.C. Schumacher nel 1821. Cfr. [117], pago 171.

Abbagliato dall'aberrazione Le idee di Arminio sull'aberrazione non videro mai la luce in alcun lavoro, ma furono oggetto di un lungo e acceso dibattito con Schiaparelli tra il 1879 e il 1882. Il confronto avvenne per via epistolare e, grazie al direttore di Brera che conservò molte delle lettere scambiate con il collega napoletano, possiamo ricostruire il pensiero del Nostro su quest' argomento e seguirne l'evoluzione temporale. La prima lettera in cui Nobile affrontò la questione è del 23 agosto 1879: Profittando della sua bontà per le mie fantasticherie astronomiche le accludo l'esposizione di una idea che mi è venuta per disperazione di non potere coi dati presenti, avere una soluzione del problema del moto del Sole nello spazio, la quale non era appoggiata da ipotesi. Il Prof. De Gasparis sa che io la espongo prima a Lei, prima di ogni pubblicità. Potrebbe essere una scioccheria, ma io non vedo il punto debole, se c'è, epperò ricorro al suo acume per escogitarlo. Anche il Prof. Battaglini ne sa qualcosa ma è da Lei che desidero un verdetto. l Nobile aveva già da tempo eletto Schiaparelli a consigliere, ma mai fino ad allora tra i due si era instaurato un dibattito tanto acceso e serrato come fu quello sulle «fantasticherie» in merito all'aberrazione. Quest'ultima è un fenomeno atteso nella meccanica di Newton qualora si pensi alla luce come a un flusso di particelle che si muovono con velocità finita 2 . Poiché il moto dell' osservatore si combina con quello delle particelle di luce (secondo la celebre regola del parallelogrammo), la direzione di una stella apparirà tanto più diversa da quella puramente geometrica, cioè da quella lungo cui l'astro effettivamente si trova e dalla quale provengono i raggi luminosi, quanto maggiore è la componente della velocità dell'osservatore perpendicolare ai raggi stessi3 . Il fenomeno, chiamato aberrazione stellare, Cfr. [18], pago 53. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 23 agosto 1879. Il fenomeno diventa complicato da intendere nell'ambito della teoria ondulatoria della luce, propugnata da Huygens, che invece spiega bene altri fenomeni come !'interferenza e la diffrazione. 3 Le affermazioni contenute nel testo sembrano in contraddizione con il postulato della relatività ristretta riguardante l'invariabilità della velocità della luce nel vuoto, ma non è l

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può sembrare una di quelle stranezze di cui il mondo degli astri è pieno, riservata alla comprensione degli specialisti e del tutto avulsa dal nostro quotidiano. Niente di più sbagliato. Quando per esempio camminiamo spediti inclinando l'ombrello per intercettare la pioggia in modo da non bagnarci, applichiamo in modo empirico il medesimo principio che vale per l'aberrazione. La pioggia fa la funzione della luce. In assenza di vento essa dovrebbe cadere perpendicolarmente. Muovendoci lesti, noi le andiamo incontro facendo sÌ che ci appaia precipitare obliquamente. La stessa ragione per cui le gocce di pioggia rigano di sbieco i vetri dei finestrini del treno. L'aberrazione stellare venne misurata per la prima volta nel 1728 dall'inglese James Bradley, che diventò tanto famoso da guadagnarsi la successione a Edmund Halley nella prestigio sa carica di Royal Astronomer, ossia di direttore dell'Osservatorio Reale di Greenwich. Bradley riuscì a dimostrare che nell'arco di un anno una stella della costellazione del Drago che lui aveva scelto di osservare descriveva nel cielo una minuscola ellisse come conseguenza del moto di rivoluzione della Terra. In affetti egli misurò soltanto la variazione di altezza dell'astro in meridiano, cioè la proiezione del moto ellittico nella direzione Nord-Sud, ma era quanto bastava per validare la cosmologia eliocentrica e la meccanica di Newton, che insieme prevedevano il fenomen0 4 . Non solo, ma l'aberrazione sembrava confermare la natura corpuscolare della luce: un altro successo della "fisica inglese" sui sostenitori, per lo più franco-olandesi, della visione ondulatoria5 . Ci sembra utile notare, prima di ritornare alle elucubrazioni del Nobile, che l'aberrazione di una stella è un fenomeno direttamente osservabile e misurabile se e solo se almeno uno dei due vettori velocità, quello del raggio di luce o quello del moto dell'osservatore, così. In relatività ciò che non deve cambiare è il modulo della velocità della luce nel vuoto, ma la direzione continua a dipendere dal moto dell' osservatore. 4 Sia l'aberrazione che la parallasse fanno sì che nell'arco di un anno ogni stella appaia descrivere un'ellisse centrata sulla posizione vera, con asse maggiore parallelo all'eclittica e asse minore tanto più piccolo quanto maggiore è la distanza del corpo celeste dal polo dell'eclittica. Le due ellissi differiscono però per due proprietà fondamentali: l'asse maggiore dell' ellisse di aberrazione è di lunghezza fissa, quello della parallasse è invece inversamente proporzionale alla distanza dell'astro dall'osservatore. Inoltre, i due fenomeni sono sfasati di 90°. È questa proprietà che aveva consentito a Bradley di distinguere l'oscillazione di parallesse, troppo piccola per essere misurata comunque, da quella di aberrazione. 5 Il dualismo onda-particella era destinato a durare sino alla nascita, negli anni '20, della meccanica quantistica.

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cambiano la loro direzione nel tempo, come accade, per esempio al vettore velocità della Terra che nel moto annuo ruota complessivamente di 360 0 • Se nessuno dei due vettori varia la propria direzione, l'aberrazione c'è ma non si può vedere con misure differenziali. Ora, l'osservatore terrestre si muove nello spazio non solo per effetto della rivoluzione della Terra attorno al Sole, ma anche in conseguenza dei moti di rotazione diurna del pianeta, che è poca cosa rispetto alla velocità orbitale, e di traslazione del Sole, con tutto il codazzo di corpi minori, all'interno della Via Lattea, che è invece tutt'altro che trascurabile (Nobile poteva solo immaginarlo, ma non lo sapeva ancora). Ciascuno di questi moti contribuisce all'aberrazione totale della luce che risulta dunque composta da aberrazione diurna, aberrazione annua e da quella che Nobile chiamò 3 a aberrazione. Quest'ultima non cambia su tempi scala estremamente lunghi perché la direzione della velocità del Sole nel suo moto galattico ruota di un angolo giro in oltre 200 milioni d'anni! Dunque, così come il trucco, la 3a aberrazione c'è ma non si vede. Arminio era invece convinto che fosse possibile misurare l'aberrazione totale di una stella e pertanto, sottraendogli gli effetti di quella diurna e annua calcolabili a parte, ricavare la componente imputabile al solo moto d'insieme del Sistema Solare. Insomma, il Nostro pensava di poter fare ciò che nemmeno oggi riesce bene: stimare direzione e velocità del Sole nel suo peregrinare entro la Galassia, che al tempo coincideva con l'universo stesso. A questo scopo concepì una strategia osservativa relativamente semplice. Tutto ciò che gli serviva era una «mira terrestre» situata il più possibile lontana dal cannocchiale per diminuire gli errori di parallasse. Essendo immobile rispetto alla Terra e quindi rispetto al cannocchiale, questa mira non sarebbe stata affetta da alcuna aberrazione. I raggi aberrati provenienti da una stella avrebbero potuto essere confrontati con quelli non aberrati della mira al fine di misurare l'entità del fenomeno. La prima versione dello strumento ideato dal Nobile per effettuare le misure di aberrazione consisteva di un cannocchiale con due obiettivi. Il primo, di forma anulare, doveva far passare inalterata la porzione centrale del fascio di luce entrante per consentirgli di essere intercettata dal secondo. Gli obiettivi dovevano essere registrati in modo da produrre immagini sovrapposte della mira terrestre nel medesimo punto del fuoco del cannocchiale. Con una stella, invece, i due obiettivi avrebbero prodotto due immagini distinte, nessuna del-

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le quali coincidente con l'immagine della mira, e ciò perché - pensava Arminio - all'interno del cannocchiale si sarebbero manifestati gli effetti dell'aberrazione da cui sono affetti i raggi provenienti dalla stella. Le distanze tra le diverse immagini, dipendenti dagli ingrandimenti dei due obiettivi, avrebbero fornito, secondo lui, una misura, benché non diretta, dell'aberrazione da cui era affetta la luce della stella. Nobile riconobbe presto gli errori di questo progetto e modificò lo schema dello strumento complicandolo non poco. L'idea di fondo, comunque, restò sostanzialmente invariata: i raggi aberrati avrebbero dovuto seguire percorsi ottici diversi rispetto a quelli emessi dalla mira terrestre e non aberrati. Solo due giorni dopo la lettera in cui esponeva la sua idea sull' aberrazione, Arminio ne spedì altre due a Schiaparelli sul medesimo tema, più una cartolina. Evidentemente non stava nella pelle per l'eccitazione e intendeva farlo sapere. Nella prima, spedita al mattino del 25 agosto, si legge: «De Gasparis ha messo a mia disposizione una sommetta per fare un esperimento preliminare sulla mia idea dell'aberrazione. Ma io non mi muoverò a nulla se prima non ho la sua opinione» 6. Una bella dimostrazione di credito da parte del direttore, disposto a investire nell'impresa, e una testimonianza di grande stima di Arminio nei confronti di Schiaparelli, cui chiedeva un esplicito "ok" prima di partire con il lavoro. Forse un gesto di piaggeria? Riteniamo di no. Il fatto è che il nostro "aspirante genio" non si sentiva per niente sicuro e continuava a rimuginare sulla sua idea in cerca di una falla. E infatti, già la sera del medesimo 25 agosto scrisse nuovamente a Schiaparelli per informarlo di aver avuto il sospetto di un errore: «un dubbio mi è venuto» 7, confessava. Ma da Milano non veniva alcun segno. Arminio non lo sapeva, ma in quei giorni Schiaparelli si trovava ai Bagni d'Oropa, vicino Biella, per curarsi, e non aveva modo o voglia di rispondere al petulante napoletano. Intanto il tarlo del dubbio continuava a scavare sinché, dopo tre settimane di ripensamenti continui, Nobile si risolse a scrivere nuovamente al direttore di Brera per confessargli di avere preso un granchio. Possiamo solo immaginare quanto dovette costargli ammettere, «dopo freddo esa6 7

Cfr. [18], pago 56. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 25 agosto 1879. Ibidem. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 25 agosto 1879 Sera.

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me, di aver molto torto nelle idee che le esposi sull'aberrazione della luce, epperò la prego di non tenerne conto» 8. Questo outing spontaneo convinse il pragmatico direttore di Brera che finalmente Nobile aveva capito di essersi infilato in un vicolo cieco. Missione compiuta - pensò ingenuamente - persuaso di essersi liberato di una grande scocciatura e di un assillante scocciatore. E per evitare ritorni di fiamma da parte di Arminio, invece che chiudere la questione con un bel "però io te lo avevo detto", scelse la consueta linea morbida, complimentandosi addirittura con lui per l'ingegno mostrato nell'affrontare la questione. Tirò in ballo addirittura Galileo, e fece male: ... ella mi dice d'aver già riconosciuto la causa per cui il procedimento è, in pratica, impossibile ad eseguire. È però un errore assai ingegnoso questo suo, un errore che fa onore a chi è stato in grado d'inventarlo. Anche la teoria del flusso e del riflusso spiegato da Galileo nel dialogo dei massimi Sistemi è un errore, ma questo errore mi pare abbia richiesto assai più ingegno inventivo che non le teorie (ritenute per vere da molti) di Newton e di Laplace, ed è una cosa delle più meravigliose che sieno uscite dalla penna di quell'uomo singolare. 9 Parole fin troppo lusinghiere per essere vere, che si rivelarono un boomerang. Invece che quietare Nobile, ormai incapace di cogliere la sottile ironia del suo interlocutore, finirono per incoraggiarlo a perseverare. Quando aveva riconosciuto l'errore, egli aveva inteso riferirsi al metodo proposto per determinare la 3a aberrazione e non alla questione se questa grandezza potesse essere misurata o no. Lungi dal rassegnarsi, aveva già ripreso in mano il problema, anzi non l'aveva mai abbandonato, nella disperata ricerca di una soluzione strumentale vincente. Così, il 26 novembre inviò al povero Schiaparelli il progetto di un nuovo strumento: un cannocchiale preceduto da un cilindro le cui pareti interne avrebbero dovuto essere totalmente specchiate. Anzi, i progetti erano addirittura due, il secondo dei quali ancor più complicato del primo. Il napoletano ammetteva candidamente di non avere mai mollato la presa: «non essendo per mia natura molto diverso 8

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Ivi, pago 57. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 25 agosto 1879. Ibidem. Lettera di Schiaparelli a Nobile dell' Il ottobre 1879.

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da un monomaniaco, io non ho più abbandonata l'idea di avere uno strumento che mi desse l'aberrazione» lO. Proviamo ad immaginare la stizza del milanese. "Che mai avrò fatto di male?", avrà pensato rassegnandosi a leggere la nuova pensata dell'indomito Arminio. Nella foga di misurare l'aberrazione, questi si era ancora una volta concentrato sulla parte strumentale. Facendo mostra di un'incredibile pazienza, Schiaparelli reagì subito, forse nella speranza di arrestare sul nascere questo rigurgito di follia. Nella sua risposta, datata 29 novembre - solo quattro giorni dopo quella inviatagli da Nobile, giusto il tempo di scriverla, se si pensa alla lentezza delle poste di allora -, insisteva sul problema di fondo, l'impossibilità di misurare un fenomeno dovuto a fattori del tutto indipendenti dallo strumento usato: Il cannocchiale forzatamente ignora tutto quello che detti raggi (od onde) hanno subito prima di entrare nell'obiettivo. [... ] Non credo adunque che sia possibile una combinazione strumentale (cannocchiale, prismi, specchi, ecc.) capace di indagare la storia del fascio luminoso nelle sue fasi anteriori al suo ingresso nell'istrumento. Ogni raggio di luce stellare entra nell'istrumento già carico di tutte le aberrazioni, la direzione del suo moto relativo a noi è diversa da quella che avrebbe se non ci fossero i tali e tali movimenti del corpo lucente e dell'istrumento: la prima possiamo constatarla e vederla direttamente, l'altra non si può che dedurre da un'analisi dei fenomeni che accompagnano il raggio luminoso nella sua strada fra il corpo lucente e l'obiettivo. Di una tale analisi possiamo incaricarci noi, ma non l'istrumento. l1 Schiaparelli sperava di aver messo la parola fine alla questione, ma Nobile era tutt'altro che deciso a gettare la spugna. L'obiezione mossagli non riusciva a convincerlo dell'infondatezza della sua ipotesi di lavoro. La discussione tra i due astronomi raggiunse un punto di stallo. Nonostante tutto, il tono delle lettere che i due si scambiavano era ancora pacato. Sebbene ormai convinto di avere a che fare con un visionario ostinato, il milanese si esprimeva sempre con estremo tatto: lO 11

Ivi, pago 63. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 25 novembre 1879. Ivi, pago 67. Lettera di Schiaparelli a Nobile del29 novembre 1879.

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Forse son troppo vecchio ed ho la testa troppo dura per piegarmi a vedere le cose in un modo diverso da quello che prima mi è stato consueto. [... ] lo mi vergogno quasi di dover continuare a far professione di ignoranza in cose che ad altri pajono evidenti, ma non posso fare altro. Non posso dire che intendo quando appunto non intendo. Spero che questo non le impedirà di ripicchiare più forte e chi sa che il proverbio Gutta Cavat Lapidem non abbia a verificarsi anche questa volta. 12 Ma scherzava col fuoco. All'inizio dell'anno seguente Arminio, sempre più ottusamente convinto di avere ragione, decise di raccogliere le sue riflessioni in una memoria con cui intendeva partecipare a un concorso bandito dalla Accademia dei Lincei. Tra i soci che avrebbero dovuto valutare i lavori in gara venne scelto proprio Schiaparelli, che si trovò così nella scomoda posizione di dover emettere un giudizio ufficiale sul lavoro del Nobile. Ancora una volta provò a scansare l'ostacolo e, per evitare di dover bocciare l'astronomo napoletano senza mezzi termini, nel gennaio del 1880 si rivolse al collega De Gasparis pregandolo di convincere Arminio a ritirarsi dal concorso. Il tono è ben diverso da quello mellifluo usato in precedenza: duro, ma non senza un tratto quasi d'affetto nei confronti del Nostro. Ne esce un quadro quanto mai realistico: Il vostro Nobile con quel suo vero ed irrequieto ingegno tenta volentieri a sollevarsi in alto fra le sublimità della scienza e la cosa è degna di lode, ma qualche volta gli accade di perdere di sotto i piedi il saldo terreno dei principj. [... ] secondo me dimostra solo che le sue idee circa l'aberrazione delle fisse hanno bisogno di essere rettificate. [... ] Il nostro Prof. è vittima di una atroce illusione. [... ] lo sperava di non aver più nulla da fare in questo negozio ma ecco che jeri l'altro ricevo dai Lincei il MS. di Nobile colla preghiera di esaminarlo. Finché si tratta di [?] personale io potevo velare sotto forme più o men cortesi il mio pensiero, ma ora ciò diventa impossibile. [... ] Quando dunque (come sarò certamente costretto a fare) sulle Memorie in questione si esprimerà una condanna, le gravi conseguenze di questa domanderanno che si metta da banda ogni riguardo e 12

Ivi, pagg. 69-70. Lettera di Schiaparelli a Nobile del 9 dicembre 1879.

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si esponga tutta la verità a giustificazione del pronunciato. Ecco il punto a cui condurrà sé e me il Prof. Nobile se vorrà mantenere la sua memoria al concorso. Egli uscirà dall'affare con poco onore, ed io col massimo dispiacere di avergli fatto dispiacere. 13 De Gasparis riconobbe le enormi difficoltà che avrebbe richiesto la costruzione dell'apparato strumentale del Nobile: difficoltà che, di fatto, rendevano lo strumento irrealizzabile. Non si mostrò però altrettanto convinto dell'inconsistenza dei ragionamenti di Arminio, tanto che scrisse di non aver «saputo riconoscere alcuna fallacia nella serie delle osservazioni che l'apparecchio deve compiere per raggiungere lo SCOpO»14. Decise comunque di seguire il consiglio di Schiaparelli. Ma come procedere? Dopo aver appoggiato il suo astronomo, era in difficoltà a chiedergli di fare un passo indietro. Come dirgli che il lavoro sull'aberrazione era sbagliato e andava ritirato, senza provocarne la suscettibilità? De Gasparis sapeva benissimo che Arminio non avrebbe digerito un ordine perentorio, che pure egli aveva facoltà di dare e, forse anche in ricordo dell'antica amicizia che lo legava ai genitori, non intendeva apparire troppo brusco e autoritario. Bisognava trovare un escamotage. Il 5 febbraio scrisse nuovamente a Schiaparelli per concordare con lui una strategia che potesse salvare capre e cavoli. Sarebbe bastato che la commissione rigettasse il lavoro per l'impossibilità di fare le misure, con una formula del tipo: La commissione, d'accordo con l'autore, avendo riconosciuto presentarsi difficoltà insuperabili per fare le osservazioni nel modo proposto, messa in disparte la quistione di principio, non comprende il lavoro del Nobile fra quanti presentati per l'astronomia nell' attuale concorso. 15 Ormai spossato da un ping pong senza senso, Schiaparelli decise di darci un taglio facendone una «quistione di principio». Scrisse un'ultima volta al Nobile, stavolta mettendo in copia De Gasparis, ed entrò nel dettaglio della configurazione strumentale per concludere che «l'apparato non dice nulla rispetto all' aberrazione» 16. For13 14 15

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Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,

pago pago pago pago

77. 78. 79. 80.

Lettera di Lettera di Lettera di Lettera di

Schiaparelli a De Gasparis del 24 gennaio 1880. De Gasparis a Schiaparelli del 30 gennaio 1880. De Gasparis a Schiaparelli dels febbraio 1880. Schiaparelli al Nobile del febbraio 1880.

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se obbligato per la prima volta a riflettere davvero sul problema, De Gasparis finì per ammettere di essersi ingannato nell'aver ritenuto plausibile il ragionamento del Nobile. Chiunque, in queste condizioni, avrebbe gettato la spugna, ma non Arminio, che rimase fermo nel suo convincimento. Peggio! Scrisse a Schiaparelli di essere disposto a raggiungerlo a Roma, in occasione di una delle sedute dei Lincei, onde poter discutere da vicino le obiezioni che erano state mosse al suo strumento. Un incubo! Una volta compreso l'errore, a De Gasparis restò l'arduo ma ineludibile compito di convincere il suo astronomo a ritirarsi dal concorso. Fortunatamente per lui, fu lo stesso Arminio a venirgli incontro e a fornirgli un motivo plausibile. Questi infatti, continuando a rimuginare sul suo strumento nel tentativo di rispondere alle obiezioni di Schiaparelli, aveva trovato una falla per ovviare alla quale aveva deciso di apportare delle modifiche al suo progetto. De Gasparis colse la palla al balzò e sostenne che le correzioni erano state apportate troppo tardi, dopo la consegna del lavoro ai Lincei, e che pertanto la commissione esaminatrice non ne avrebbe potuto tener conto. Stando così le cose, avrebbero dovuto bocciare il lavoro, ed era quindi consigliabile ritirarlo dal concorso. Al Nobile non restò altro da fare che seguire il consiglio. Consapevole di aver perso una battaglia ma deciso a vincere la guerra, Arminio continuò l'assalto epistolare a Schiaparelli che venne ulteriormente subissato di lettere. Il napoletano non riusciva a capacitarsi di come il pur bravo direttore di Brera non capisse l'assoluta genialità della sua proposta osservativa. Finalmente, nel giugno del 1881 credette di aver trovato la prova che cercava, che si affrettò a riportare a Schiaparelli. Gli scrisse di aver esaminato alcune osservazioni effettuate a Greenwich e di avervi riscontrato delle differenze tra quelle dirette e quelle prese dopo aver fatto riflettere i raggi in entrata nel cannocchiale. Eureka, aveva pensato: la differenza è dovuta all'aberrazione, che può dunque essere rilevata strumentalmente. Ma era ancora una volta in errore. Come gli fece notare Schiaparelli nella sua risposta, datata 22 giugno, sarebbe stato decisamente più verosimile immaginare che la discrepanza osservata dipendesse dallo strumento e non dal fenomeno in sé. Passò ancora un anno, e alla fine Nobile si decise a riconoscere che la sua ricerca era stata un errore. Era la seconda resa. Pur disperatamente aggrappato all'idea che la 3a aberrazione fosse in qualche

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modo misurabile, aveva dovuto ammettere anche a se stesso che non era possibile costruire la macchina perfetta per inchiodare il fenomeno. «Questo dubbio che io le ho esposto - scrisse a Schiaparelli - non significa che una fatalità di me assai più forte, non m'incateni a quelle matte ricerche ottico-astronomiche che Ella conosce. lo forse vorrei distaccarmene, perché ora vedo chiara l'immensa difficoltà ma non ne ho la forza. Ciò mi ha fatto male in carriera qui a Napoli e me ne farà ancora dippiù, mi fa mettere in caricatura, m'impedisce di produrre altre cose di facile compilazione, ma non posso distaccarmene» 17. Se paragonata alla "follià' che lo legava alle sue «matte ricerche ottico-astrometriche», ci appare quanto meno singolare la razionalità con cui Nobile analizza le ripercussioni che la sua ostinazione aveva avuto sulla sua carriera e sulla sua credibilità. Sapeva bene che se avesse avuto successo, se fosse stato capace di misurare la velocità con cui il Sistema Solare si muove nello spazio, il suo nome sarebbe entrato di diritto nelle pagine della storia dell'astronomia. Forse è proprio la rinuncia a questo sogno di gloria che Arminio non era disposto a fare. Ammettere di avere sbagliato a sciupare tanto tempo e tante energie per inseguire un miraggio lo avrebbe messo di fronte al fatto che, dopo 17 anni di duro lavoro come astronomo, non era riuscito a ottenere alcun riconoscimento. Vedendo la situazione da questo punto di vista, appare più che comprensibile la reazione che avrebbe avuto anni dopo allorché anche i meriti delle sue ricerche sulla latitudine sarebbero stati messi in dubbio. Mentre affondava nelle sabbie mobili dell'aberrazione, Arminio traeva un po' d'ossigeno dalla sua attività di docente. Alla fine di gennaio del 1879 era stato chiamato a far parte di una commissione incaricata di valutare i titoli di un professore che aveva fatto domanda per ottenere la libera docenza in geodesia. Venne così a sapere che presso l'Università di Roma era stato bandito un concorso per un posto di professore straordinario di geodesia. L'occasione era ghiotta, in particolare dal punto di vista economico. Una sua vittoria gli avrebbe permesso di entrare a pieno titolo nel mondo universitario, ma più di ogni altra cosa, visto il carattere dell'uomo e le recenti disgrazie scientifiche, avrebbe rappresentato un ulteriore attestato dei suoi meriti come didatta. Questo era l'aspetto della faccenda che più 17

Ivi, pago 107. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 7 aprile 1882.

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allettava Nobile. Ma c'era anche un rovescio della medaglia. Accettare una cattedra a Roma avrebbe comportato la rinuncia dell'impiego a Capodimonte e per lui, che si era sempre considerato prima di tutto astronomo, il sacrificio appariva inaccettabile. Aveva già provato a lasciare Napoli molti anni prima, quand'era poco più che un ragazzo, ma dopo pochi mesi aveva fatto rapidamente ritorno nella sua città con la speranza di un lavoro alla Specola dov' era nato, entro quel parco di 6 ettari che custodiva tutti i suoi ricordi. Che fare? Persuaso che la vittoria fosse alla sua portata, ritenne suo dovere concorrere per ricavare una personale soddisfazione e anche un titolo da spendere in seguito. Ma, in nome della grande onestà e dell'ingenuità che lo caratterizzavano, valutò la possibilità di dichiarare apertamente nella domanda che intendeva concorrere solo ad honorem, ossia che in caso di successo non avrebbe accettato il posto. Follia pura, giustificabile esclusivamente con lo stato di totale appannamento del nostro povero astronomo. Si rendeva conto lui stesso, nei momenti di maggior lucidità, che se avesse giocato la sua mossa in questo modo, non foss'altro che per risparmiare tempo la commissione non lo avrebbe nemmeno preso in considerazione, cosicché si determinò a scriverne a Schiaparelli, che in quel periodo considerava ancora suo mento re, per un consiglio: ... ho saputo che è bandito un concorso per i titoli alla cattedra (di professore straordinario) di geodesia dell'Università di Roma. Ora sebbene a me non converrebbe di abbandonare l'osservatorio di Capodimonte nemmeno per un posto di professore ordinario nell'Università di Roma perché io principalmente fo l'astronomo (o almeno vorrei farlo) e non la macchina a lezioni, pure mi piacerebbe concorrere ad honorem. [... ] Or naturalmente, io nel mandare i miei titoli, direi che concorro ad honorem, perché altrimenti sarebbe un inganno, e d'altra parte mi si dice che con questa mia dichiarazione, la commissione non terrebbe conto di me per non perder tempo. Ecco il perché io sto perplesso sul da fare, eppure mi piacerebbe di aver quel titolo che altro non sarebbe la mia nomina, qualora la conseguissi. 18 18

Ivi, pago 52. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 21 febbraio 1879.

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Non possediamo la risposta di Schiaparelli, né sappiamo se alla fine Nobile concretizzò davvero l'intenzione di palesare la sua volontà di concorrere solo ad honorem alla cattedra romana. Partecipò al concorso e risultò primo vincitore, come gli venne comunicato con lettera del 16 dicembre 1879. E, come era nelle sue intenzioni fin dal principio, rinunciò all'incarico, rendendo ovviamente felice il secondo classificato, ma non la commissione! Anche questo era un modo per farsi dei nemici nel mondo accademico. Oltre a un positivo risvolto psicologico, il successo nel concorso romano ebbe comunque il merito di favorire l'ingresso a pieno titolo del Nobile all'Università di Napoli. Arminio venne scelto per sostituire il professor Federico Schiavoni nell'insegnamento della geodesia teoretica e nella direzione del relativo Gabinetto. Gli venne anche offerto di tenere un corso speciale di geodesia presso la Scuola di applicazione per ingegneri, proprio là dove si era formato. Piccole soddisfazioni in un mare di frustrazioni! Mantenne questi insegnamenti dal 1879 al 1890. Nel 1888 venne nominato nella commissione per l'ammissione di 40 ingegneri al Catasto. Insomma, la nomea di scienziato testardo e ottuso, che il Nostro si era purtroppo guadagnato inseguendo la chimera di una grande scoperta, pareva non avere effetto sulla sua reputazione a Napoli.

La variazione della latitudine: ultima chance Arminio era nel pieno delle sue ricerche sull'aberrazione quando gli si parò dinanzi una nuova sfida, la misura accurata della latitudine. Abbiamo già parlato di questa coordinata astronomica là dove le peripezie scientifiche del nostro astronomo ci avevano portato a considerare la questione dell' altra, la longitudine l . Dicemmo allora che la sua determinazione è più facile perché non implica una misura di tempo. La latitudine è infatti un semplice angolo, quello tra il Polo celeste Nord e 1'orizzonte astronomico del luogo dove si trova l'osservatore, che è uguale al complemento a 90 gradi dell'angolo tra il Polo e lo Zenit. A beneficio di coloro che lo avessero dimenticato, il Polo è quel punto dove 1'asse della rotazione diurna della Terra intercetta la sfera celeste. Lo Zenit è definito invece dalla verticale, cioè dalla direzione che assume il filo a piombo per rispondere alla risultante di tutte le componenti della forza di gravità 2 e alla reazione centrifuga prodotta dalla rotazione diurna. Insomma, potrebbe sembrare che tutto quanto serve per una misura di latitudine sia un buon goniometro e un po' di pazienza, ma nella pratica la faccenda è tutt'altro che semplice se si vuole che il risultato sia accurato. Ecco perché, in ogni epoca, astronomi di prim'ordine si sono cimentati in questo esercizio, raggiungendo via via precisioni leggendarie. Questo genere di lavori ha colpito così tanto l'immaginario collettivo che ancora oggi l'espressione "precisione astronomicà' è sinonimo di accuratezza estrema. La misura della latitudine del sito di Capodimonte fu uno dei primi impegni scientifici di Brioschi subito dopo il suo arrivo all'OsserPer individuare un punto sulla sfera celeste bastano due angoli, per esempio la longitudine e la latitudine. La terza coordinata necessaria a collocarlo nello spazio è la distanza che, a differenza delle altre due coordinate angolari, è molto difficile da conoscere. 2 Il campo di gravità in un punto della superficie terrestre si può scomporre in una componente principale che attribuiamo a un'ideale Terra a simmetria sferica, cui si sommano termini via via meno significativi che scaturiscono da una classificazione delle deviazioni dalla sfericità: per esempio, un termine di schiacciamento polare, che è secondo per importanza, e un altro, usualmente piccolo, che tiene conto di variazioni locali della densità di materia, dovuti a grandi depositi di liquidi leggeri o concentrazioni di materiali pesanti, come sacche di idrocarburi o masse ferrose ma anche enormi quantità di neve sui monti e di ghiaccio ai poli, che tra l'altro possono variare stagionalmente. l

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vatorio di Napoli nel 1821. Il neo-direttore fece un ottimo lavoro, dati i tempi e gli strumenti che aveva. Giusto cinquanta anni dopo, quando Emanuele Fergola ripeté la misura, trovò un risultato che differiva dal precedente di circa un secondo d'arco: un angolo piccolissimo, soltanto un tremilaseicentesimo di un novantesimo di angolo retto, ma tutt'altro che trascurabile per un astrometrista dell'Ottocento 3 . Come spiegare la discrepanza? Si poteva pensare ai soliti errori strumentali o a quelli eventualmente commessi nella riduzione dei dati - sbagli veri e propri oppure le conseguenze dell'avere ignorato o sottovalutato qualche correzione - ma anche alla manifestazione di autentici fenomeni fisici come il cambiamento, nell' arco di mezzo secolo, della direzione della verticale del luogo per effetto di una dislocazione di masse sotterranee, da imputare per esempio al Vesuvio, o addirittura una deriva, periodica o secolare, del Polo. Una breve digressione ci permetterà di comprendere meglio la questione. L'asse di rotazione della Terra è soggetto a molti e complicati moti che ne alterano, anche notevolmente, la direzione nello spazio. Il primo e più famoso è chiamato precessione degli equinozi. Venne scoperto alla fine del II secolo a. C. da Ipparco di Nicea, uno dei più grandi astronomi dell'antichità classica. Nell'arco di tempo di 26-mila anni circa l'asse del moto diurno descrive un moto conico attorno alla direzione perpendicolare al piano orbitale della Terra, con una ampiezza notevole, pari a circa mezzo angolo retto. Questo fenomeno ha implicazioni macroscopiche che interessano la nostra stessa vita: sposta la posizione dei Poli celesti rispetto alle stelle - un fatto che sta progressivamente declassando la Polare dal ruolo di puntatore del Nord - e accorcia, seppur di poco, la durata dell' anno solare rispetto a quello siderale, causando uno scivolamento dello Zodiaco relativamente alle stagioni, in barba agli astrologi. Tutto questo succede perché la Terra è assimilabile a una sfera schiacciata ai poli e il suo asse di rotazione è fortemente inclinato rispetto alla direzione in cui "tirà' il Sole. Insomma, il nostro pianeta è nella medesima situazione di una trottola che, quando ruota obliquamente, precede per effetto della gravità terrestre. La Terra però, diversamente dalla trottola, non Mentre in epoca pre-telescopica la massima risoluzione raggiungibile nell'osservazione dei corpi celesti era quella dell'occhio, dell'ordine di un primo d'arco, con gli strumenti dell'Ottocento si riuscì a fare quasi mille volte meglio grazie a ottiche di precisione e a sofisticati goniometri di grandi dimensioni, suddivisi in modo accurato e capaci di compensare le dilatazioni termiche.

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perde via via giri per attrito aumentando l'inclinazione sulla verticale fino ad accasciarsi. Essa mantiene stabile la velocità di rotazione diurna e continua imperterrita a ripetere, con lenta ma regolare periodicità, il cono di precessione prodotto dalla marea solare. C'è anche la Luna che vuole la sua parte nel gioco. La precessione dell'asse terrestre dovuta all'azione gravitazionale del nostro satellite è di modesta ampiezza, una ventina di secondi d'arco soltanto, e ha un ciclo di soli 18,6 anni. Si presenta come una piccola modulazione della precessione. Per questo motivo venne scoperta soltanto nella prima metà del Settecento dal solito Bradley, che impiegò vent'anni a capirla, durante i quali non ne fece parola con nessuno. Se riflettete sul fatto che l'eclittica non è un piano perfettamente invariabile, che la durata del giorno cresce nel tempo, se pur lentissimamente, e che nella partita pretendono di entrare anche i pianeti maggiori del Sistema Solare, producendo minuscoli ma non trascurabili effetti, vi renderete conto che la vita dell'asse attorno al quale la Terra ruota quotidianamente è tutt'altro che semplice: la sua direzione varia in cielo in modo molto complicato. Ma non varia rispetto alla Terra stessa che - potremmo dire invertendo i ruoli - segue i capricci del proprio asse. Insomma, nessuno dei fenomeni che abbiamo descritto altera la latitudine geografica dei luoghi. Ma esiste un modo per far sì che l'asse di rotazione cambi anche rispetto a un riferimento solidale con la Terra, ossia che ciascun polo migri rispetto al suolo? La risposta è affermativa. Lo scoprì alla metà del Settecento Leonardo Eulero, un matematico e fisico svizzero che all' epoca lavorava a Berlino nell' Accademia di Federico il Grande di Prussia, che lo aveva sottratto alla corte di San Pietroburgo. Eulero modellò la Terra come un corpo rigido cui diede la forma di uno sferoide oblato, quella che assume un'ellisse quando è fatta ruotare attorno al proprio asse minore, e poi si domandò che cosa sarebbe successo se un corpo siffatto si fosse trovato a un certo istante a ruotare attorno a un asse leggermente discosto da quello di simmetria. Applicando la meccanica di Newton si accorse che, anche in assenza di forze esterne (condizione che i meccanici chiamano di "rotato re libero"), l'asse istantaneo non restava solidale al corpo, bensì descriveva un moto conico attorno all'asse di figura con un periodo che, per la Terra, era un po'più piccolo di una anno. L'ampiezza, però, non era prevedibile. Tutto ciò che la teoria poteva dire in proposito è che doveva essere molto piccola e indurre di conseguenza minuscole

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variazioni alla latitudine. Quanto ai motivi che possono innescare il fenomeno, basta pensare che la Terra è un corpo in gran parte fluido, con masse in movimento che possono "trascinare" seco l'asse di rotazione. Estremizzando, si può dire che ognuno di noi, quando si muove, contribuisce a inclinare l'asse seppur infinitesimamente. Torniamo alla questione sollevata dalla differenza tra la misura della latitudine di Capodimonte effettuata da Brioschi nel 1821 e quella del 1870 di Fergola. Quest'ultimo si era convinto che si trattasse della firma di un vero e proprio moto del Polo. L'ipotesi era stuzzicante perché portava con sé interessanti conseguenze, tutte da investigare. Non era nemmeno un'idea del tutto nuova. Cinquanta anni prima lo stesso Brioschi, andando contro corrente, s'era posto il problema se la latitudine potesse cambiare, periodicamente o con continuità, es' era impegnato a verificarlo monitorando le altezze sull'orizzonte di due stelle, la Polare e aVìr, meglio nota come Spica, al passaggio in meridiano in differenti periodi dell'anno. Era così giunto alla conclusione che «le differenze tra le latitudini competenti ai varj periodi sono così piccole da non doverne far caso, e che quindi possiamo continuare a riguardare la latitudine come invariabile» 4. Nessuna oscillazione sincrona alla rivoluzione terrestre, dunque. Quanto alle derive a carattere secolare, non aveva escluso che potessero esserci, ma non era riuscito a verificarlo per la mancanza di precedenti determinazioni accurate con cui confrontarsi. Dopo di lui, altri avevano iniziato a dubitare dell'invariabilità della latitudine. Per esempio, nel 1848, poco prima di lasciare Capodimonte per sfuggire alle ire borboniche, il tedesco Christian Peters aveva accennato alla questione nelle sue Recherches sur la parallaxe des étoiles fixes [163]. Nobile era invece di tutt'altro avviso. Non credeva al fenomeno se non per gli effetti, che comunque reputava minimi, causati alla verticale da alterazioni del campo gravitazionale locale. Tuttavia nella scienza non basta credere, bisogna dimostrare. Le prove sino ad allora raccolte erano inconcludenti, e non poteva bastare un semplice riesame dei lavori già fatti. Servivano nuove misure particolarmente affidabili. Era una sfida tecnologica di quelle che tanto piacevano al Nostro. Decise di accettarla senza riserve, tuffandosi in un'avventura che sembrava tagliata apposta su di lui. Correva l'anno 1874. Con una 4

Cfr. [16], voI. I, parte II, pago 167.

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credibilità scientifica ancora sostanzialmente integra, Arminio poteva persino sperare in un appoggio dalla direzione del suo istituto. La cosa singolare è che, a ben guardare, la natura fisica dell'eventuale variazione della latitudine gli importava relativamente. Piuttosto, era persuaso che in prospettiva questa ricerca avrebbe favorito l'acquisto di un telescopio di precisione di cui Napoli non disponeva, assicurandogli finalmente uno strumento adatto agli studi cui stava pensando, probabilmente inerenti alla questione dell'aberrazione che lo assillava. Oltretutto, la conoscenza precisa della latitudine gli occorreva per valutare la bontà di un sistema che lui stesso aveva progettato per contenere le flessioni strumentali: Avendo io in animo di annullare (nei limiti del possibile) la flessione in esso strumento per la via sperimentale in vista di osservazioni che aveva in animo di fare e che esigono che si abbia molta sicurezza di non essere indotti in errori sensibili, diveniva per me di capitale importanza di assicurarmi della latitudine o della latitudine attuale. 5 Una volta entrato nell'arena, il primo problema che dovette affrontare fu di individuare lo strumento più adatto tra quelli disponibili in Osservatorio. L'idea di procurarsene uno nuovo, che pur gli frullava in testa, non era per il momento praticabile: soldi non ce n'erano nemmeno per cose più urgenti. Arminio dovette accontentarsi del vecchio Cerchio di Reichenbach, acquistato al tempo di Murat e ormai "fuori servizio': Il lettore ricorderà che il costruttore George Friederich von Reichenbach lo aveva personalmente portato a Napoli senza avere però il tempo di montarlo per via dei disordini che l'avevano costretto a una precipitosa fuga dalla città. Dopo 58 anni di onorato servizio, l'elegante apparecchio era ormai degno di un museo. Arminio lo sapeva bene ma, con la consueta testardaggine, non intendeva mollare la presa. Impiegò due anni per completare il progetto delle modifiche che secondo lui avrebbero dovuto rendere il Reichenbach nuovamente utilizzabile, e nel 1876 spedì i disegni alla rinomata ditta di strumenti scientifici fondata ad Amburgo da Johann Georg Repsold, chiedendo un giudizio di fattibilità e un'offerta. «Ma il Repsold non volle toccare un pezzo storico 5

Cfr. [126], pago 5.

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- avrebbe raccontato poi Nobile nella sua memoria su Il cerchio meridiano di Reichenbach-Heurteaux del R. Osservatorio di Capodimonte [134] - proponendo invece di fare uno strumento nuovo, proposta che non era il caso di accettare e che non fu accettata». Erano in molti a pensarla come Repsold. Schiaparelli, sollecitato da Nobile, sentenziò che «presentemente le determinazioni assolute son diventate un affare così complicato e richiedono tanti sussjdi e tanta precisione nelle letture, e tanto lavoro e tanta solidità dell'istrumento, che l'idea di adattarvi una delle vecchie ciabatte spaventerebbe uno meno coraggioso ed industre di Lei. Parlo per esperienza, avendo anch'io sacrificato i migliori anni della mia vita e fatto molte migliaia di osservazioni nella speranza di tirar partito da una tale ciabatta; e commesso così una stoltezza, della quale oggi posso pentirmi, ma che non posso più riparare» 6. Un parere davvero poco incoraggiante. In seguito le critiche al Reichenbach sarebbero arrivate perfino a mezzo della stampa quotidiana, come si ricava da un successivo commento di Arminio: «Questa pubblicazione vale anche a rispondere con fatti e non più con articoli di giornale a chi, erigendosi a giudice degli astronomi Italiani ed ignorandone i lavori, fa scrivere sui giornali di Roma, sentenze olimpiche e notizie ordinariamente erronee. Lo strumento in queste pagine descritto e che da 8 anni è stato base di parecchie pubblicazioni {che naturalmente lo scrittore ignora} è uno di quelli che l'inspiratore dei detti articoli vorrebbe condannare a far parte di un Museo insieme col grande Cerchio Meridiano di Repsold impiantato nel 1873!»7. Non sappiamo chi firmò l'articolo né quale ne fosse il contenuto ma, vista la reazione del Nostro, possiamo immaginare che vi avesse letto un esplicito attacco personale. Il fatto è che continuavano a non esserci soldi per dar corso al suggerimento di Repsold, né c'era la volontà di De Gasparis di indirizzare risorse in questo settore di ricerca, come Arminio aveva sperato. La vecchia «ciabatta»era il solo strumento al momento disponibile: prendere o lasciare. Visto e considerato che Nobile non intendeva dar retta nemmeno ai saggi consigli del direttore di Brera, che pur aveva eletto a consulente personale, non gli rimase che applicare il suo ingegno e la sua caparbietà alla modifica del cerchio meridiano. 6 7

Cfr. [18], pago 42. Lettera di Schiaparelli a Nobile del 18 settembre 1877. Cfr. [134], pago 230.

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Gli serviva un supporto tecnico e in questo, una volta tanto, ebbe fortuna. Venne autorizzato a usare l'officina dell'Osservatorio, dove un abile meccanico di origini francesi, che era ritornato a Napoli proprio nel 1877, Ottavio Heurtaux, accettò di aiutarlo nell'impresa tecnologica. Di lui ci parla lo stesso Arminio in una breve biografia posta in nota al lavoro in cui descrive la ristrutturazione del cerchio meridiano: Ottavio Heurtaux, nato a Parigi il 1839, venne in Italia la prima volta il 1864. Partì il 1870 per la famosa guerra [tra Francesi e Prussiani]. Ritornò il 1877 e lavorò fino al 1883. Verso la fine di quest'anno fu assalito dalla malattia che poi lo condusse alla tomba, ed andò peggiorando fino ai principii dell'Aprile 1884. In quell' epoca fu dai medici ritenuto incurabile senza speranza alcuna. Ma il Prof. Pettoruto tolse il difficilissimo assunto di curarlo e mercé le sue cure l'ammalato, pel quale era quistione di giorni di vita, ristabilito in salute, partiva solo per Parigi. Quivi forse il clima e forse più il cambiamento di regime lo uccisero dopo un'anno e mezzo. 8 Null'altro sappiamo di questo personaggio, che per Nobile non fu semplicemente un prezioso assistente ma soprattutto un grande e stimato amico, come si evince dalle parole con cui lo ricorda: Heurtaux, che per l'abilità meccanica, per la dottrina estesissima generale e tecnica, per la incorruttibile onestà e per lo zelo scientifico, avrebbe meritato fama e posizione sociale molto diverse da quelle che ebbe. Lo Heurtaux, morto a 46 anni senza avere avuto mai un momento buono, viveva in un'avvenire ideale, sognato. lo conosco i suoi sogni, dei quali fino ad una certa epoca sono stato partecipe. Egli non poteva e non potette destar simpatia nel comune degli uomini, imponeva la stima per l'intelligenza e pel carattere, ma ebbe sempre la sorte avversa, finché dopo due anni di lotta contro una malattia invincibile, si spense, pianto solo da taluno che lo comprendeva. 9 Vien da credere che Arminio, vergando queste righe, pensasse anche a sé. Oltre all'età, lui e il francese dovevano avere caratteri molto si8

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Ivi, pago 229. Ivi, pagg. 229-230.

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mili. Condivisero l'impegno e l'amore per il lavoro, il rigore morale, i sogni e le speranze per il futuro, e anche una sorte avversa. Intanto il tempo passava. Tra un'elucubrazione e l'altra su come misurare la 3a aberrazione, e tra una lettera e l'altra indirizzata a Schiaparelli, vittima rassegnata della grafomania di Nobile, questi si dedicò a rimettere in linea il Reichenbach per adattarlo alle sue esigenze. Fu un lavoro «matto e disperatissimo», per dirla con Leopardi. Sembrava quasi che per Arminio il mondo al di fuori dei confini di Capodimonte e dell'astronomia non contasse, con le sole eccezioni della famiglia e dell'insegnamento a scuola. Diversamente dai genitori, attivi nel sociale, impegnati politicamente, poliedrici cultori di lettere e scienze, Arminio, che di tutto ciò era stato testimone e vittima nell'infanzia, viveva una vita anecoide, monocromatica, degna di missionario asceta. Mai nelle numerose e lunghe lettere che ci sono rimaste troviamo un accenno ad altro che non siano considerazioni scientifiche at large. Erano morti tutti i personaggi del Risorgimento: il conte di Cavour già nel 1861, deluso e amareggiato, Giuseppe Mazzini nel 1872 e l'anno dopo Alessandro Manzoni, padre della lingua unitaria al quale Verdi, che lo chiamava il Santo, aveva dedicato una splendida Messa da requiem, e poi Vittorio Emanuele II nel 1878, e l'eroe dei due mondi nel volontario esilio a Caprera nel 1882. Ma Arminio non ne parla. Nel 1859 era apparsa la prima edizione di un' opera Sull' origine delle specie per mezzo della selezione naturale o la preservazione delle razze favorite nella lotta per la vita del naturalista inglese Charles Darwin, destinata a rivoluzionare ancora una volta il pensiero scientifico occidentale, dopo il De rivolutionibus orbium coelestium di Copernico e il Sidereus nuncius di Galilei. Ma Arminio non la commenta. In Italia la Sinistra storica di Agostino Depretis, al governo dal 1876, faceva approvare la legge Coppino che rendeva gratuita e obbligatoria l'istruzione elementare, e allargava il suffragio elettorale a due milioni di cittadini. Ma Arminio non da segno di interessarsene. Verdi celebrava con la prima dell' Aida l'apertura del Canale di Suez, una titanica impresa che rilanciava il Mediterraneo come via d'acqua per l'Oriente, ma Arminio non ne fa cenno alcuno. Egli vive una crociata e sembra non avere tempo e testa per null' altro. I lavori sul Reichenbach continuarono anche dopo l'avvio delle prime osservazioni, nel 1882. Passarono due anni e Heurtaux fu co-

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stretto a dare forfait per gravi ragioni di salute. Venne sostituito da Pasquale Moreno, suo allievo e nuovo meccanico dell'Osservatorio, bravo quanto il maestro 10 . Alla fine, i risultati del radicale intervento sullo strumento furono addirittura superiori alle aspettative. Nobile, che era stato l'artefice principale, ne andava giustamente fiero, chiamandolo addirittura "figlio" in una lettera al collega padovano Lorenzoni: «Avrei voluto avere il piacere di rivederla qui col Prof. Schiaparelli e far loro vedere mio figlio {Il Cerchio Reichenbach trasformato}» 11 . Lo strumento, completo di tutte le modifiche volute dal Nobile e descritto nella sua memoria pubblicata nel 1888, è quello esposto nel Museo dell'Osservatorio di Capodimonte. La maggior parte dei pezzi che lo compongono risalgono al periodo 1877-1888. Infatti, «dello antico strumento i pezzi conservati sono: i cuscinetti, l'asse di rotazione, il cerchio diviso, i due tronchi {modificati} e gli oculari. Tutto il resto è nuovo, compreso l'obiettivo che è del Merz» 12. Dalle minuziose pagine lasciateci proprio da Arminio possiamo ricostruire la routine delle osservazioni al cerchio meridiano. Il telescopio si trovava, in condominio con un altro, nella sala meridiana nell'ala sinistra dell'edificio monumentale 13 «lunga m. 8.65 (IO verticale) e larga m. 4.70 (meridiano). Non solamente in origine fu costruita troppo stretta nel senso del meridiano, ma fu improvvidamente disposta per due strumenti meridiani e difatti essa è occupata anche dallo strumento dei passaggi. Le aperture meridiane sono larghe m. 0.30 e sono troppo strette. Questi gravi inconvenienti datano dal 1818 e la spesa a rimediarvi sarebbe piuttosto rilevante. Uno strumento importante deve star solo» 14. Il lavoro iniziava quasi sempre ben prima dell'imbrunire. Bisognava preparare il Reichenbach, provarlo, assicurarsi che ogni sottosistema fosse in buone condizioni e, se del caso, effettuare lavori di manutenzione straordinaria o anche vere e proprie riparazioni, che avvenivano nell'officina dell'Osservatorio. Prima di ogni turno si predisponevano le "mire terrestri': traguardi ben fermi a terra che Cfr. [15], pagg. 95-96. Archivio storico dell'Osservatorio astronomico di Arcetri, fondo Lorenzoni. Lettera di Nobile a Lorenzoni del 3D ottobre 1883. 12 Cfr. [134], pago 231. 13 Si veda [77], pago 99. 14 Cfr. [l34], pago 232. IO

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venivano costantemente osservati allo scopo di verificare se e in che misura le variazioni meteorologiche avessero modificato la risposta dello strumento. Gli accorgimenti non erano mai troppi, come vedremo, soprattutto per scongiurare gli effetti dei cambiamenti di temperatura, naturali o causati dagli stessi operatori. Si doveva poi riempire di mercurio la vasca posta in una buca sotto il cannocchiale, che serviva per trovare con precisione la verticale. Disponendosi secondo un piano perfettamente orizzontale, la superficie del metallo allo stato liquido offriva all'astronomo uno specchio ideale la cui perpendicolare era proprio la direzione cercata. Per individuarla era sufficiente mandarvi un fascio di luce e pretendere che si riflettesse su se stesso. Il mercurio, elemento costosissimo, andava filtrato almeno una volta al mese tramite un «pannolino» 15 in modo da eliminare le eventuali impurità accumulatesi col tempo e mantenere alta la qualità della superficie riflettente. Un'operazione rischiosa. Oggi i pericoli dell' esposizione ai vapori di mercurio sono ben noti, ma all' epoca era prassi lavorare a contatto con questo metallo senza prendere alcuna precauzione. Già gli antichi, pur conoscendone le proprietà venefiche, consideravano l' hydrargyrum un farmaco efficacissimo! Mitridate, l'inquieto re del Ponto, lo metteva nel cocktail di sostanze letali che assumeva in piccole dosi per "vaccinarsi" contro gli avvelenamenti. Nel Rinascimento veniva largamente impiegato dai medici per curare alcune patologie di sventurati pazienti, come la sifilide. E persino Napoleone - si dice - venne ucciso da una dose eccessiva di cloruro di mercurio, assunto per calmare quei dolori al ventre che lo affliggevano da anni e che gli avevano fatto assumere la caratteristica posa con una mano all'altezza dello stomaco. Fu solo durante l'Ottocento che in Inghilterra si avviarono studi sistematici sui danni provocati dal mercurio. Bisognava capire perché la categoria dei cappellai, che di questo elemento facevano largo uso per lavorare il feltro, mostrassero un alto tasso di neuropatologie. Forse non a caso Lewis Carroll concepì la figura del Cappellaio matto, insieme ad altri personaggi più o meno strani che popolano le pagine di Alice nel paese delle meraviglie. Insomma, il nostro Arminio non sapeva di star maneggiando una "bomba chimicà: Chissà che invece la prolungata esposizione a questo veleno non abbia avuto 15

Ivi, pago 239.

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conseguenze sulla sua salute e sul suo equilibrio psichico. L'ipotesi, per altro solo azzardata, spiegherebbe però molte cose. Ma torniamo alle operazioni che il nostro scrupoloso astronomo eseguiva, sera dopo sera, per le sue ricerche sulla latitudine. A questo fine è conveniente riacquistare familiarità con semplici concetti di astronomia sferica. Ognuno sa che nel corso della notte la volta stellata appare ruotare intorno ai poli celesti. Dunque, in ogni luogo della Terra esclusi i poli stessi, l'altezza di ciascuna stella rispetto all'orizzonte cresce sino a toccare un massimo e poi cala. Il luogo dei punti dove le stelle raggiungono la loro massima altezza, H:nax' è il meridiano, grosso modo coincidente con la linea immaginaria che si ottiene proiettando sulla volta celeste il meridiano terrestre passante per la posizione dell'osservatore1 6 . Ciò che Arminio intendeva misurare era l'altezza massima raggiunta da alcune ben selezionate stelle al fine di verificare se il valore di H:nax fosse o meno costante nel tempo. Insomma, egli doveva osservarle al passaggio in meridiano, cosa nient'affatto semplice dal momento che questa linea è puramente immaginaria. Per riuscirci aveva progettato un sofisticato obiettivo nel quale aveva posizionato dei fili sottilissimi, per lo più bava di ragno, di cui alcuni mobili, in modo che formassero una griglia di riferimento nel campo del suo Reichenbach. Grazie a questo accorgimento poteva seguire il cammino della stella, segnandone alcune posizioni con gli incroci dei fili, per individuare con precisione il momento del massimo. L'osservazione vera e propria iniziava dopo il crepuscolo, col primo buio. Bisognava innanzi tutto trovare il "punto zero" del cerchio graduato posto lateralmente al telescopio, ossia determinare la lettura dell'angolo corrispondente alla direzione dello Zenit data dalla superficie del mercurio di cui s'è detto. Nobile, intabarrato per difendersi dal freddo e dall'umido della notte e armato di una fioca lampada portatile a spirito che emanava una luce rossa 1? per non ferire gli occhi ormai adattati al buio, consultava le carte su cui aveva appuntato l'elenco delle stelle da osservare e l'ora presunta del 10Più correttamente, il meridiano è quel circolo massimo che contiene i Poli e lo Zenit. Altre lampade erano posizionate alle colonne di sostegno dello strumento. La loro luce veniva direzionata grazie a degli specchi per evitare dispersioni di calore nell'ambiente. Anche la disposizione di queste lampade venne modificata da Arminio per rendere la luce men invasiva possibile rispetto al campo del cannocchiale e contemporaneamente utile a illuminare la sala.

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ro transito, ricavata da appositi cataloghi, ne sceglieva una, metteva il telescopio più o meno all'altezza che questa avrebbe dovuto avere in meridiano e attendeva pazientemente che l'astro facesse capolino nel campo dello strumento. Da quel momento aveva a disposizione pochissimi importanti minuti per inseguire la preda aggiustando via via lo strumento in modo che il centro del campo visivo del Reichenbach coincidesse con la stella quando questa fosse stata in meridiano. Conclusa la delicatissima operazione, che richiedeva prontezza e sangue freddo, Arminio leggeva il valore segnato sul cerchio graduato dell'asse di elevazione, che in seguito avrebbe confrontato con quello dello Zenit per ottenere l'agognata latitudine. Erano momenti carichi di tensione; bisognava essere certi di non commettere errori e non ci si poteva concedere distrazione alcuna. Il più piccolo sbaglio, e talvolta anche il solo sospetto che qualcosa non fosse andato per il verso giusto, poteva costringere l'astronomo a rigettare un'osservazione, rimandando tutto alla sera successiva, tempo permettendo. Le misure si susseguivano una dopo l'altra, intervallate dai controlli: bisognava accertarsi che le variazioni di temperatura e umidità, o qualche altro accidente, non avessero modificato il setup strumentale. Alla fine del turno, che di solito durava alcune ore, l'astronomo, stanco e insonnolito, raccolte le sue carte si avventurava nel buio verso casa per concedersi qualche ora di riposo. Notti e notti di lavoro, e lunghi giorni di conti e verifiche. Ma finalmente, dopo tante fatiche e tante aspre e ingenerose critiche, venne il tempo della mietitura. Nel 1883 Nobile diede alle stampe la Terza determinazione della latitudine geografica del R. Osservatorio di Capodimonte. Con esame delle osservazioni fatte il 1820 da Carlo Brioschi [126]. Il titolo del lavoro conteneva un esplicito riferimento al fatto che questa misura seguiva due precedenti determinazioni, e che la prima, quella di Brioschi, era stata completamente rivista dall'autore. Arminio aveva elaborato i suoi dati con una procedura innovativa che teneva conto anche delle flessioni subite dal cannocchiale al variare dell'inclinazione. L'approccio richiedeva formule decisamente più complicate di quelle usate da Brioschi, ma il Nostro non era tipo da scoraggiarsi per così poco. Voleva un risultato al di sopra di ogni sospetto da poter confrontare alle precedenti misure. Il valore che alla fine ottenne e pubblicò era compatibile con quello di Fergola, e dunque lasciava intendere che la latitudine di Capodimonte non fosse cambiata negli ultimi Il anni. Come volevasi dimostrare

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pensò - , e per completare il lavoro si concentrò sulle misure di Brioschi per ricalcolare la latitudine del 1821. Vediamo perché. Nei Commentarj astronomici della Specola Reale di Napoli [l6] pubblicati nel 1824, Brioschi aveva illustrato il metodo seguito per ridurre le sue osservazioni a un'unica data 18 , l'inizio del 1820. Ovviamente, i valori delle costanti della precessione, della nutazione e dell'aberrazione 19 , ossia dei fenomeni che alterano la posizione delle stelle, erano quelli riportati nei cataloghi del tempo. Negli oltre cinquant'anni trascorsi dalle ricerche di Brioschi, tali valori avevano subito diversi aggiornamenti. Usando quelli "moderni" per rifare i conti, Nobile verificò che «tutte le distanze zenitali osservate dal Brioschi erano minori delle vere per l'' all'incirca e che quindi la sua latitudine è superiore alla vera per 1"» 20. Forte del fatto che la sua misura era uguale a quella precedente di Fergola, Arminio si convinse che Brioschi, di cui comunque lodava l'abilità, avesse sovrastimato la latitudine di circa un secondo d'arco in conseguenze di qualche errore: Quale possa essere stata la causa di questo errore, è ben difficile di indagare. Un movimento del cerchio diviso, che del resto era letto con quattro nonii a 90° spiegherebbe il fenomeno che potrebbe essere prodotto dallo stringimento della morsa dei piccoli movimenti in altezza. Potrebbe anche darsi che si dovesse attribuire la cosa ad un valore erroneo delle divisioni della livella stessa che invece di essere attaccata al cerchio, lo era all'asse verticale dello strumento (altra causa di errore), ma pare più probabile che possa dipendere da errori della divisione del cerchio diviso dei due strumenti. Nel paragonare le distanze zenitali meridionali con le settentrionali questi errori dalle due parti del Zenit si compensano, ma da un alto solo no. 21 Per lui la conclusione non poteva essere che una, «la invariabilità della latitudine dentro gli attuali limiti di precisione delle osservazioPoiché i sistemi di riferimento astronomici e le posizioni stesse delle stelle cambiano nel tempo, è consuetudine ridurre un'osservazione astrometrica a una data convenzionale fissa. 19 La costante di aberrazione è la lunghezza del semiasse dell' ellisse di aberrazione, ossia dell' ellisse che ogni stella descrive annualmente attorno alla "posizione verà' per effetto della combinazione della velocità dei raggi luminosi con quella della Terra nella sua orbita. 20 Cfr. [126], pago 65. 21 Ibidem. 18

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ni»22, in contrasto con l'opinione dell'autorevole collega Fergola, già in odore di direzione. Sarebbe stata d'uopo un po' di prudenza. Ma per il nostro Parsifal valeva la regola del magis amica veritas, anche a costo di doversi fare un nemico potente. Fu invece fortunato, perché Fergola, uomo di animo nobilissimo, non gli portò rancore né per il merito della faccenda né per i modi spicci. Arminio si precipitò a comunicare il suo risultato a Schiaparelli, e lo presentò alla fine di marzo del 1883 alla riunione della Società degli spettroscopisti italiani che quell' anno si teneva a Padova. «Si deduce da ciò che la latitudine non è sensibilmente variata in 63 anni. A meno che io non sia zimbello di colossali errori di calcolo che non mi pare di aver commesso - sentenziava - mi pare che questo risultato è degno di esserle comunicato»23. Una gran fretta di arrivare a una conclusione eclatante. Gli era bastato un primo run osservativo di qualche mese, sia pure al termine di un estenuante calvario tecnologico, per convincerlo che la latitudine non subisse alcuna variazione secolare. Il guaio è che, oltre a pensarlo, decise di sbandierare la sua opinione ai quattro venti. Di lì a poco tempo avrebbe fatto giusto il contrario, mostrando sin troppa cautela in una circostanza in cui un po' più di audacia gli avrebbe giovato. Ma così va il mondo! Fergola non si fece impressionare dal fermo pronunciamento di Nobile. Meno istintivo del più giovane e sanguigno collega, riteneva che la questione dovesse essere approfondita con una vasta campagna d'osservazione condotta in diversi Osservatori; e fu proprio questa proposta che presentò, già nell' ottobre del 1883, all' Europiiische Gradmessung, l'organizzazione dei geodeti europei che di lì a 4 anni sarebbe confluita nell' AGI, 1'Associazione Geodetica Internazionale. Ma il tarlo del dubbio doveva rodere anche il Nostro, visto che, invece di chiudere il capitolo latitudine dopo la sua decisa uscita "conservatrice': continuò a fare misure con il fedele Reichenbach, avviandosi sulla via di Damasco di una completa conversione. Dopo un solo anno, infatti, sarebbe stato già pronto a rivedere in parte la sua posizione e ad ammettere, nelle Ricerche numeriche sulla latitudine del R. Osservatorio di Capodimonte. Parte I Risultato delle Osservazioni del 1884 ed esame dei risultati altre località [128], la possibilità che la latitudine potesse cambiare nel corso dell'anno. Non una variazione 22

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Ivi, pago 66. Cfr. [18], pago 112. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 13 maggio 1883.

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secolare dunque, ma un'oscillazione di corto periodo, legata al moto di rivoluzione della Terra o alle stagioni o a qualche altro accidente non significativo dal punto di vista della meccanica dei corpi celesti. Comunque una variazione che andava verificata, quantificata e interpretata. Com'era arrivato a questo risultato? Il dubbio che lo aveva spinto a ripetere le misure era di natura ben diversa da quello che angustiava Fergola. Nulla che riguardasse la geodesia o l'astronomia, ma solo la metodologia delle osservazioni. Durante la campagna del 1883 Nobile aveva notato che qualche causa ignota contribuiva ad aumentare la distanza zenitale delle stelle, e l'effetto era maggiore per quelle più prossime allo Zenit. «Dall' esame di questi numeri si vede che lo strumento o altra causa ignota allontana le stelle dal Zenit dalle due parti di esso per stelle ad esso punto molto vicine» 24. La questione lo incuriosì non poco. Dopo aver ponderato a lungo si convinse che il fenomeno potesse essere imputabile alla posizione tenuta dall'astronomo nel momento dell'osservazione. Bisogna ricordare che all'epoca il "rivelatore" era direttamente l'occhio umano, la cui interfaccia con il telescopio dipendeva dalla postura assunta guardando nell'oculare. È per cercare conferme a questo sospetto che nel 1884 si rimise al lavoro. Selezionò due coppie di stelle con distanze zenitali piccole, in modo da poter controllare la flessione del telescopio come aveva fatto nel precedente lavoro. Queste furono oggetto della prima serie di osservazioni effettuate tra maggio e giugno. La loro latitudine venne misurata due volte ogni sera, variando la posizione del corpo in modo da avere il viso rivolto alternativamente verso sud (f.s.) e verso nord (f.n.). «La riduzione di queste osservazioni [... ] mostra appunto la verità del fenomeno sospettato» 25, dovette concludere. In particolare, osservando una stella a sud (nord) dello Zenit in posizione f.s. (f.n), la distanza zenitale risultava maggiore della vera e viceversa. Lastronomo ipotizzò che gli errori legati a quella che definì «torsione dell'occhio» 26 si comportassero allo stesso modo di quelli dovuti alla flessione. Osservando due stelle in meridiano a distanze zenitali Cfr. [128], pago 8. Ibidem. 26 Ibidem. Nobile immaginava che le diverse posizioni assunte dall'astronomo durante l'osservazione provocassero diverse "torsioni" degli occhi da cui dipendevano gli effetti fisiologici che stava studiando.

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molto simili ma opposte rispetto allo Zenit, l'astronomo avrebbe misurato per una delle due una distanza zenitale più grande del vero di una quantità ignota mentre per l'altra la distanza dallo Zenit avrebbe dovuto essere minore del vero della stessa quantità. Calcolando la distanza zenitale "verà' come media delle due distanze osservate, gli errori dovuti alla torsione dell'occhio si sarebbero annullati a vicenda. Poiché le stelle osservate a maggio non presentavano distanze zenitali che potessero ritenersi sufficientemente vicine tra loro, Nobile ipotizzò che la discrepanza tra i valori della latitudine ricavati variando la posizione dell'osservatore fosse in gran parte imputabile al fatto che, nel mediare le distanze, gli errori fisiologici non si fossero compensati a dovere. Tuttavia, il campione di due sole coppie di stelle era troppo esiguo per trarre conclusioni forti, per cui Arminio decise di effettuare una nuova serie di osservazioni alla maniera di quelle di maggio-giugno ma considerando un numero maggiore di coppie. Da questa seconda campagna, che si svolse tra la fine di giugno e il luglio del 1884, ottenne un valore di latitudine sensibilmente diverso da quello ricavato prima. «Si trova quindi sulla latitudine di Maggio un aumento di 0:'77 il quale non è conciliabile con gli errori probabili trovati» 27 , sentenziò. Ancora una volta le ragioni della discrepanza potevano essere varie. Tra queste rientravano i soliti errori accidentali e quelli legati al differente assetto strumentale usato nelle due sessioni: considerazione che fornì ad Arminio una valida motivazione per portare avanti le indagini. Voleva essere certo di cosa stesse misurando. Nel mese di ottobre dello stesso anno imbastì una terza serie di osservazioni, trovando che la latitudine relativa al mese d'ottobre differiva di 0:'43 rispetto a luglio e di l :'20 rispetto a maggio. Con questi dati alla mano non se la sentì più di escludere la possibilità di essersi imbattuto nelle variazioni a periodo annuale previste teoricamente da Eulero. Ma, invece di saltare sulla sedia e dar fiato alle trombe, questa volta Arminio decise di andare coi piedi di piombo. Voleva essere ultra certo che la periodicità che aveva trovato non dipendesse da qualche causa derrore. Fare le pulci alle misure era il suo pane, il mestiere che conosceva meglio e che gli dava le maggiori soddisfazioni. Riconsiderando il procedimento utilizzato si domandò se 27

Ivi, pago 89.

La variazione della latitudine: ultima chance

la scelta del catalogo da cui aveva ricavato le declinazioni delle sue stelle potesse avere avuto qualche responsabilità. Rifece i conti con altri cataloghi arrivando a stabilire che «non una sola delle diverse autorità fallisce alla legge alla quale soddisfa il [catalogo di posizioni stellari] Berliner-Yahrbuch, epperò si può concludere con più probabilità che la latitudine abbia variato e nel senso indicato» 28 . Sempre in cerca di conferme, riesaminò le osservazioni di Brioschi e di Fergola prestando attenzione alloro andamento nel tempo. Prese anche in considerazione le serie temporali pubblicate dagli Osservatori di Milano, Pulkowo, Greenwich e Oxford. I dati di Brioschi e quelli di Pulkowo sembravano effettivamente confermare che la latitudine a maggio avesse assunto un valore leggermente inferiore a quello nel resto dell'anno, con un grado di attendibilità, però, troppo modesto per lenire i dubbi di Arminio. Quelli di Fergola risultarono invece inutilizzabili perché concentrati in una finestra temporale troppo stretta. Nobile si rivolse allora alle osservazioni pubblicate da Brera. Si trattava di più serie ottenute alla Specola milanese da Celoria nel 1871 e da Michele Rajna tra il 1879 e il 1881. Le prime mostravano che la latitudine aumentava leggermente nella seconda metà dell'anno, mentre quelle di Rajna suggerivano una leggera diminuzione del valore della latitudine a maggio. Purtroppo nessuna delle serie esaminate forniva la certezza che la latitudine variasse ciclicamente nel corso dell'anno con un minimo in maggio. Ben più interessante si rivelò l'analisi delle misure di declinazione 29 della Polare effettuate a Greenwich. Gli Inglesi avevano seguito regolarmente la stella con un cerchio meridiano, sia in culminazione inferiore che superiore. Erano disponibili dati relativi agli ultimi 21 anni. Riunendoli tutti Nobile tracciò le curve dell'andamento della posizione dell'astro in culminazione superiore e inferiore nel corso del tempo: L'esame di queste curve per quanto incomplete fa vedere che un minimo della latitudine di Greenwich ha luogo nei mesi di Decembre e Gennaio e che un massimo (sebbene meno chiaro che Ivi, pago 120. La declinazione è l'angolo che un punto della sfera celeste forma con l'equatore, ovvero il complemento a 90 gradi della distanza del punto dal Polo.

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il minimo) ha luogo nei mesi centrali. Lescursione fra il minimo ed il massimo va fino a 2:'5, ma non essendo le osservazioni ripartite con uniformità in tutti i mesi dell'anno, le curve qui non sono quelle che sarebbero se le osservazioni fossero state istituite ad hoc. 30 Escludendo le serie incomplete e mediando le altre, Nobile ridusse le curve a una sola trasformando la declinazione in una misura di latitudine. Il risultato fu che la latitudine di Greenwich aveva presentato «un massimo fra Luglio ed Agosto, ed un minimo fra Gennaio e Decembre, un massimo parziale a Febbraio ed un minimo analogo a Maggio»31. La brillante conferma spinse Nobile a continuare il test sui dati di Oxford e Washington, che purtroppo diedero risposte contraddittorie e indebolirono la sua fiducia sulla realtà del fenomeno di variazione a corto periodo della latitudine. Per esempio, relativamente ai dati di Oxford Arminio dovette constatare che «le stelle delle quali ho potuto riunire le osservazioni sono state 22. Di queste stelle, 17 danno un minimo di declinazione nei mesi autunnali, e quindi il massimo di latitudine, mentre altre quattro fanno eccezione» 32. Invece che a dissolverli, il grande lavoro di scrutinio dei dati raccolti nel mondo aveva aumentato i dubbi di Arminio: Emerge da quanto ho potuto qui riunire che la probabilità che a Napoli, a Milano, a Greenwich, ad Oxford ed a Washington la direzione della gravità abbia un periodo annuo. Nulla poi emerge da Parigi e da Pulkowa. Avremmo a Napoli ed a Milano un minimo verso il mese di Maggio, a Greenwich fra Decembre e Gennaio. Ad Oxford vi sarebbe un massimo nei mesi autunnali ed a Washington un minimo verso la fine dell'anno. Ma del resto, le sole osservazioni di Napoli essendo fatte ad hoc (ed anche in parte) ogni giudizio deve essere riserbato. 33 Nessuna certezza, dunque, ma solo la «probabilità» 34 che la latitudine presentasse delle variazioni a periodo annuale. Nemmeno le mi30

31 32 33

34

Cfr. [128], pago 128. Ivi, pago 133. Ivi, pago 140. Ivi, pago 161. Ibidem.

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sure fatte a Napoli potevano dirsi al di sopra di ogni sospetto. Erano state eseguite in tre periodi distinti variando ogni volta l'assetto strumentale, e pertanto mancavano di omogeneità. Inoltre, siccome il diavolo prima fa le pentole e poi ci mette i coperchi, restava in agguato il consueto dubbio. I dati del Nobile coprivano solo un anno. Dunque, anche se reali, le variazioni osservate avrebbero potuto essere frutto di un accidentale variazione della direzione della verticale, causata dai più volte citati fenomeni geologici locali, piuttosto che dal moto annuo del Polo previsto da Eulero. La finestra temporale era ben più ampia per i dati degli altri Osservatori, e questo era insieme un bene e un male. Un bene per escludere l'ipotesi di effetti estemporanei sulla verticale, ma anche un male perché in un arco di tempo lungo era assai probabile che le osservazioni fossero state fatte da mani diverse e con strumenti differenti o modificati nel corso degli anni. Ragioni capaci di introdurre sui dati modulazioni spurie e casuali, come in qualche caso pareva di vedere. Insomma, a detta dello stesso Nobile, tutte le osservazioni esaminate, incluse in qualche modo le proprie, presentavano il grosso inconveniente di non essere state programmate con l'intento di monitorare l'andamento della latitudine, per cui «ogni giudizio deve essere riserbato» 35 . A tutto ciò bisognava aggiungere che i valori della latitudine, e delle relative variazioni, ricavati sulla base delle declinazioni contenute nei cataloghi stellari, facevano parte di un circolo vizioso. Le declinazioni, infatti, erano state ricavate assumendo costante il valore della latitudine, ed erano da considerarsi perciò errate se si ammetteva che la latitudine potesse variare come previsto da Eulero. Sulla base di queste considerazioni, Nobile concluse la sua pubblicazione evidenziando la necessità d'istituire in diversi Osservatori una campagna di monitoraggio della latitudine fatta camme il faut: Quello che vi è da fare è ora in diversi punti della terra o di accumulare osservazioni di mese in mese della stessa stella per tutto l'anno per quanto è possibile e di farle con tutta la possibile cura, ovvero anche di eseguire frequenti determinazioni di latitudine per le quali quanto a metodo oso raccomandare il mio a tutti gli osservatori provveduti di cerchio meridiano e precipuamente poi a quelli che volessero adoperarlo, raccomando la 35

Ibidem.

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mobilitazione del cerchio diviso, [... ]. Qualunque ipotesi è prematura nel fenomeno in discorso. 36 Da parte sua s'impegnò a proseguire le indagini lasciando «al tempo, al lavoro continuo ed al bando di ogni dogma, la risposta finale su questo ordine di leggi della natura»3? L'appello non ebbe alcuna conseguenza negli ambienti astronomici, forse per via delle molte incertezze e dei dubbi che pendevano su questa ricerca e sul suo autore. Al lavoro del Nobile resta comunque il merito di essere stato il primo in cui veniva dichiarata la possibilità che le variazioni della latitudine previste da Eulero potessero essere misurabili sperimentalmente. Per far meglio, Arminio aveva bisogno di uno strumento moderno da sostituire al Reichenbach che già tanto aveva dato, e si decise a tornare alla carica con il direttore, chiedendogli di acquistare un nuovo equatoriale per la Specola di Capodimonte. Questa volta la richiesta si poggiava su un risultato particolarmente promettente. Ma, come già in precedenza, De Gasparis non si fece commuovere. Neppure Nobile era disposto a cedere senza combattere. Convinto della necessità d'investire in nuovi strumenti, si rivolse direttamente al Reale Istituto d'Incoraggiamento per promuovere «un voto di quel consesso al ministero» 38. E nella speranza di dare maggior peso alla proposta, scrisse anche al solito Schiaparelli per chiederne l'appoggio e per sfogarsi. Era ormai convinto che nell'ambiente scientifico di Napoli si fosse instaurata una generale ostilità nei suoi riguardi: un malanimo più o meno palese, che coinvolgeva anche il suo direttore. «Per mettere in chiaro bene le cose, le dirò che in tale affare il De Gasparis si mantiene in una posizione assolutamente inerte; egli si astiene di prendere parte alla cosa dicendo di credere inutili gli strumenti di forza ottica» 39. Schiaparelli non poté che mostrarsi incredulo di fronte a questa accusa visto che, nella relazione sullo stato dell'Osservatorio inviata al Ministero, De Gasparis aveva scritto nero su bianco di essere a favore dell'acquisto di un nuovo equatoriale. La risposta di Arminio fu brutalmente esplicita: «Il Prof. De Gasparis non vuole un'Equatoriale sebbene abbia stampato di volerIo e non è questo un modo di dire, ma egli me lo dice sul muso ben chiaramen36 37

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Ibidem. Ivi, pago 4. Cfr. [18] pago 112. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 17 maggio 1884. Ivi, pago 113. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 17 maggio 1884.

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te. Gli altri qui non si preoccupano di queste inezie. Ciò nondimeno io ho iniziato le mie pratiche ed andrò avanti a qualunque costo» 40. I rapporti di Nobile con De Gasparis dovettero inasprirsi sempre più, al punto che, proprio come aveva fatto il padre Antonio che si era rivolto al ministero per la questione dell'appartamento puntando il dito contro Capo cci, Arminio scrisse a Schiaparelli accusando il suo direttore né più né meno che di mobbing: Il Sig. Prof. Schiaparelli ha ricevuti nel corso del 1884 due memorie dal Nobile. La prima sulla latitudine di Capodimonte e la seconda sopra i Orionis. A pago 111 del Jahrgang 20 della A.G. si trova l'elenco dei lavori del R. Osservatorio di Capodimonte mandato dal Cav. De Gasparis. In questo elenco che riguarda il 1883 e 1884, i lavori del Nobile non sono menzionati. Ne tragga il lettore la conseguenza. 41 I veri motivi di questa ruggine ci sono ignoti. Forse, ad allontanare i due potrebbe aver contribuito la faccenda dell'aberrazione, che aveva messo in cattiva luce Nobile e di riflesso gettato discredito sulla Specola napoletana. Fatto sta che Arminio era ormai fermamente convinto che la sua vita fosse «una continua lotta contro tutto e tutti» 42. Un complesso di persecuzione che in lui si univa a una cocciutaggine ai limiti dell' ottusità. Sordo alle critiche, restava più che mai determinato a portare avanti le sue idee, anche se per farlo avrebbe dovuto seguitare a usare la sua «vecchia ciabatta». Decise di procedere modificando la strategia. Avrebbe raccolto dati durante tutto il corso dell'anno senza variare la configurazione strumentale né la procedura di acquisizione in modo da ottenere osservazioni omogenee e uniformemente distribuite nel tempo. Contava di poter fugare i dubbi emersi dall'analisi dei dati del 1884. Il proposito era buono, ma, parafrasando Oscar Wilde, Nobile era capace di resistere a tutto meno che alla tentazione di un miglioramento tecnologico o metodo logico. Non tenne fede al programma e nel corso del 1885 modificò più volte la procedura di acquisizione replicando così le fonti di dubbio sull'attendibilità dei risultati. Inoltre, contava di poter osservare per quattro sere al mese le stelle che aveva selezionato, 40

41 42

Ivi, pago ll4. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 28 maggio 1884. Ivi, pago ll5. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 21 luglio 1885. Ivi, pagg. 112-ll3. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 17 maggio 1884.

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ma non gli fu sempre possibile farlo per ragioni anche meteorologiche. Ciò potrebbe aver contribuito a generare altri errori. Prese comunque tutte le possibili precauzioni. Le misure astronomiche vennero intervallate con osservazioni "nadiriali", indispensabili a determinare la direzione dello Zenit. Arminio la ricavava di volta in volta come media di tre o quattro puntate indipendenti, avendo cura di leggere la posizione del Nadir43 con più di un microscopio per puntata. Nella sua memoria sono riportati i valori delle osservazioni nadiriali medie «al solo scopo di far vedere come è necessario tener dietro attentamente a questo elemento, il quale, a causa delle variazioni della temperatura strumentale, non si può assumere pressoché costante, che nelle serate calme di estate» 44. La posizione del Nadir non era il solo parametro che poteva cambiare durante il corso di una serata d'osservazione. Le correzioni di rifrazione, per esempio, erano tutt'altro che costanti dato che dipendevano dall'evoluzione delle condizioni meteorologiche. Per scansare il pericolo delle sovracorrezioni, Nobile preferiva ricavare una condizione meteorologica media per la serata per poi applicarla a tutti i dati. Alla base della scelta c'era la considerazione che di rado un turno superava le quattro ore. Arminio riteneva che in questo lasso di tempo di una notte giudicata buona, temperatura e umidità cambiassero poco nella sala d'osservazione. Mancandoci il dettaglio, non possiamo verificare se questo convincimento fosse fondato, ma ne dubitiamo. Il fatto è che le osservazioni effettuate dopo il tramonto trovavano la sala del Reichenbach compresa tra due sorgenti di calore molto diverse, il piazzale antistante l'Osservatorio che, disposto a Sud, aveva raggiunto temperature elevate per la costante esposizione al Sole, e il più fresco versante opposto dell'edificio, riparato da una fitta vegetazione. Lo strumento si trovava dunque nel mezzo di un notevole gradiente termico, con tutte le conseguenze che ne derivavano per la costante d'aberrazione. Finalmente, nel marzo del 1888, Nobile si decise a sottoporre i risultati all'Accademia Pontaniana che, dopo il consueto scrutinio da parte di una commissione di soci, accettò di pubblicare la seconda parte delle Ricerche numeriche sulla latitudine del R. Osservatorio di Capodimonte [133]. Il lavoro mostrava l'evidenza che anche nel mag43 44

È il punto della sfera celeste opposto allo Zenit. Cfr. [133], pagg.115-116.

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gio del 1885 la latitudine aveva assunto un valore minore che nel resto dell'anno, concordemente a quanto trovato in precedenza. Ma nemmeno questa volta Nobile potette affermare con certezza che la variazione misurata non fosse imputabile a errori accidentali. Non gli rimaneva che fare un nuovo appello i colleghi di ogni nazione affinché «gli esperimenti da lui iniziati, siano ripetuti altrove» 45. Nel medesimo anno Arminio presentò alla Società degli spettroscopisti italiani un riepilogo dei suoi studi sulla latitudine per la pubblicazione nelle Memorie. Dalla lettura di questo lavoro si coglie il forte conflitto interiore tra l'astronomo prudente e coscienzioso e l'uomo ormai bramoso del successo. In apertura il Nostro si lascia andare, proclamando di avere una certa confidenza sulla realtà del fenomeno: «La conclusione è qui che anche col dubbio strumentale del quale è parola nella memoria originale la latitudine a maggio è minore che in altre epoche dell' anno» 46. È l'Arminio che fa onore al suo nome, che in sassone è quello di un dio del cielo, Wodan, "principio di forzà'. Ma già poche pagine dopo, nel trarre le conclusioni, diventa Arminio "l'incerto" e si rimangia lo slancio, per ribadire quanto aveva affermato nella memoria originale, cioè che «se tale fenomeno è reale, esso non corrisponde alla verità per le ragioni sviluppate nel n. 7 del 2° capitolo della 3a memoria» 47. Fu una specie di fioco canto del cigno, anche se Arminio non se ne rendeva ancora conto.

45 46 47

Ivi, pago 180. Cfr. [135], pago 164. Cfr. [l33], pago 165.

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lo scippo e la beffa La seconda parte delle Ricerche numeriche sulla latitudine del R. Osservatorio di Capodimonte apparve nel marzo del 1888 all'interno degli Atti dell' Accademia Pontaniana, con il suo carico di dubbi. La partita sembrava ancora aperta. Ma dopo soli tre mesi, inopinatamente, apparve sulla scena un altro giocatore, Karl Friedrich Kiistner, e fu subito game aver. Senza titubanza alcuna l'astronomo tedesco comunicò di avere scoperto che la latitudine di Berlino era variata nel corso dell'anno [93]. Kiistner s'era imbattuto per puro caso nel fenomeno mentre cercava di determinare la costante di aberrazione. La sorte aveva voluto che per questa ricerca egli utilizzasse misure astrometriche effettuate in luoghi diversi: negli Osservatori di Berlino e Gotha in Germania e di Pulkowo in Russia. I valori ricavati per la costante di aberrazione con le diverse serie di dati erano fortemente discordanti tra loro, ma si riconciliavano ammettendo una periodicità annuale della latitudine. Il lavoro di Kiistner attirò subito l'attenzione della comunità internazionale, e in particolare di quella di lingua tedesca [17]. Friedrich Robert Helmert, direttore dell'Istituto geodetico di Berlino e da un anno professore di geodesia avanzata all'Università, si attivò in prima persona per verificare i risultati del collega e connazionale, mentre la Commissione permanente dell' AGI, riunitasi quello stesso anno a Salisburgo, decise di avviare già dal gennaio 1889 un programma di sistematico monitoraggio della latitudine in vari Osservatori tedeschi. Quod non fecerunt Neapolitani, fecerunt Alemanni, verrebbe da scrivere sotto una moderna statua di Pasquino. Kiistner, a differenza di Nobile, era riuscito a scatenare un vero e proprio terremoto scientifico attorno alla questione della latitudine. La ragione è che, oltre a esibire grande fiducia nella bontà delle sue misure, aveva comunicato bene la sua scoperta, consegnandola a riviste con diffusione internazionale come il Bollettino dell'Osservatorio di Berlino [93] e l'Astronomische Nachrichten [94]. E poi, com' è naturale per uno nato in Sassonia, aveva scritto in tedesco, ormai lingua franca della cultura occidentale grazie alla straordinaria fioritura, nella Mitteleuropa, di prodigiosi ingegni in ogni campo del sapere. In questo modo aveva potuto raggiungere un pubblico molto più ampio e attento di quello del Nobile, il quale scriveva invece in

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italiano e pubblicava negli Atti del Reale Istituto d'Incoraggiamento e dell'Accademia Pontaniana. I contributi dell'astronomo napoletano, sconosciuti, illeggibili ai più e comunque reputati inaffidabili per ammissione dello stesso autore, non vennero dunque nemmeno menzionati nel programma dell' AGI e neppure nel lavoro con il quale l'anno successivo Helmert confermò i risultati di Kiistner. A parziale risarcimento furono invece citati in una recensione [171] nel Bulletin Astronomique dell' Osservatorio di Parigi. L'autore era un matematico e meccanico celeste, Jean Charles Rodolphe Radau, fondatore dello stesso Bulletin e collaboratore permanente del Revue des deux Mondes, un mensile di grande apertura culturale. Com'è che Radau conosceva Arminio e i suoi studi? L'arcano è presto spiegato: il Nostro gli aveva inviato personalmente una copia delle sue memorie l . Non è nemmeno da escludere, poi, che al francese facesse piacere sminuire il successo scientifico di un rappresentante dell' odiata razza germanica che solo 18 anni prima aveva umiliato il suo paese. In ogni caso, la prima citazione nella recensione di Radau fu per la conclusione cui il tedesco era giunto: «M. Kiistner ne voit d' autre explication plausible de cette anomalie que l'hypothèse d'une variation de la latitude. Il lui semble démontré que la latitude de Berlin a été, au printemps 1884, de O", 20 plus forte qu'au printemps suivant»2. Solo poche righe dopo, però, venivano nominati i pionieristici contributi di Brioschi, di Fergola, e soprattutto di Nobile, sottolineando le permanenti incertezze sull'attendibilità del fenomeno: Les conclusions de M. Nobile sont cependant très réservées. Il fait remarquer que sa méthode laisse encore pIace à des doutes sur la vraie grandeur de la variation soupconnée, parce que les déclinaisons des étoiles employée peuvent ètre affectées d'erreurs provenant de la variabilité des latitudes où elles ont été déterminées. Il est don c possible que les maxima et les minima apparents qui se déduisent des observations ne cOlncident pas avec les véritables. 3 Quanto alla priorità della scoperta, Radau non si espresse, limitandosi a riportare, all'inizio della sua recensione, il titolo e le date di pubCfr. [156], pago 45. Cfr. [171], pago 542. 3 Ivi, pago 545. l

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blicazione dei lavori, cosicché ognuno potesse farsi la propria opinione. La faccenda della paternità di un ritrovato scientifico è spesso una questione di lana caprina, e il caso delle variazioni di corto periodo della latitudine non fa eccezione. Cronologicamente, i lavori di Nobile vengono prima del discovery paper di Kiistner, ma l'escursione della latitudine che essi riportano è di molto superiore a quella misurata poi dal tedesco, al punto che i due dati sono tra loro incompatibili. Insomma, Arminio aveva intravisto l'esistenza del fenomeno, non era riuscito ad averne certezza e aveva completamente toppato la misura. E in più era napoletano, e questo rendeva meno probabile un suo ripescaggio nel palmarès dei contributori alla conoscenza fisica del mondo. Alla luce delle successive conferme, anche quantitative, del lavoro di Kiistner, molti presero a chiedersi quale fosse la ragione che aveva portato Nobile a stimare una variazione della latitudine così esageratamente grande. Doveva trattarsi di una causa difficile da riconoscere visto che Nobile stesso non ne aveva intuito l'esistenza o ne aveva sotto stimato gli effetti. Ancora nel 1905 Helmert «non riusciva a spiegarsi le forti variazioni di latitudine trovate dal Nobile, e sapendo la cura posta dal nostro astronomo, non volendo metter dubbi su quei risultati, ebbe a manifestare il dubbio, che vi potessero essere a Napoli notevoli movimenti locali, dovuti alla natura vulcanica della regione, e capaci di alterare i risultati» 4. A raccontare le perplessità del collega tedesco è Luigi Carnera, che all'epoca lavorava a Heidelberg come assistente di Max Wolf. Molto dopo, nel 1932, l'astronomo originario di una Trieste ancora irredenta divenne direttore dell'Osservatorio di Capodimonte. Fu l'occasione per riprendere le confidenze di Helmert e approfondire il discorso sulla latitudine e sui lavori del Nobile. Dopo attenta analisi, egli dovette ammettere che «molte, e starei per dire quasi tutte le principali cause di errori non sfuggirono però al Nobile, che cercò affannosamente porvi riparo con variazioni di metodi, ed espedienti alle volte geniali»5. Una volta assolto con formula piena l'antico collega, "glorià' del suo Osservatorio, Carnera si industriò a cercare la ragione delle forti escursioni di latitudine misurate da Nobile, individuando4 Cfr. [25], pago 88. s Ivi, pago 97.

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la nella rifrazione atmosferica. Ognuno sa che un raggio luminoso subisce una deviazione quando passa da un mezzo a un altro con diverso indice di rifrazione. È per questo motivo che, per esempio, un cucchiaino parzialmente immerso in un bicchiere d'acqua ci appare spezzato. Immaginiamo adesso di aggiungere all'acqua dell'esempio un qualche fluido che ne modifichi l'indice di rifrazione senza alterarne trasparenza e colore. L'apparente "piegaturà' del cucchiaino cambierà di conseguenza. Ecco allora il punto: «basta pensare alla sala meridiana in muratura, con fessure meridiane di appena alcuni decimetri di larghezza, e con diversità di temperatura fra lesterno e l'interno, che da una normale differenza di 2° circa saliva alle volte fino ai 5°; basta riflettere alla diversità che presentava l'esterno costituito a sud da un piazzale di materiale concreto, battuto da mane a sera dai raggi del sole, mentre quello a nord analogo, ma meno esteso, era in gran parte protetto dal Sole dell'edificio stesso. Se a tutto ciò si aggiungono poi ancora le frequenti e rapide variazioni del punto zenitale, che nel corso di sole due ore supera alle volte i 2", bastando un semplice cambiamento di direzione di vento per veder interrotta la graduale e regolare variazione, per immaginare quali e quante cause dovessero intervenire ad alterare i risultati delle osservazioni» 6. La spiegazione fornita da Carnera appare ben più plausibile di quella di Helmert. Ma perché mai Nobile aveva trascurato una così importante fonte derrore per le sue osservazioni? Come ogni bravo astronomo, non ignorava gli effetti dei gradienti termici sulle osservazioni. Lo dimostra il fatto che, per evitare alle lampade adoperate per illuminare la sala di scaldare l'aria circostante e provocare delle turbolenze, le aveva spostate a una distanza considerevole dallo strumento direzionandone la luce verso i punti d'interesse con l'ausilio di specchi e lenti. Perché allora una così clamorosa svista? Carnera indicò nel metodo scelto per la riduzione dati la causa che impedì ad Arminio di accorgersi degli effetti della rifrazione. Lo abbiamo già visto. Invece che seguire l'andamento meteorologico della nottata, Nobile, timoroso delle sovracorrezioni, utilizzava valori medi, perdendosi così tutti gli effetti differenziali. In conclusione, il Nostro dedicò la massima cura nell'approntare il suo strumento, valutando con attenzione ogni dettaglio anche relativamente alla sala che lo ospitava. Nonostante ciò, una causa ester6

Ibidem.

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na, molto probabilmente la rifrazione, modulò le sue osservazioni e forse rese palese una variabilità annua della latitudine che Arminio non avrebbe mai potuto altrimenti rilevare con i mezzi a sua disposizione. «Il cerchio meridiano di Reichenbach dava quanto poteva sentenziò Carnera - ma non era in grado di svelare variazioni effettive dell'ordine di appena di uno o due decimi di secondo di arco»7. Insomma, Nobile fu vittima di un sottile e perfido tranello della sorte, un miraggio prodotto dall'amplificazione spuria di un fenomeno reale. Tornando in medias res, viene da chiederci con quale animo Arminio accolse la notizia del lavoro di Kiistner, e quali furono le sue immediate reazioni. Probabilmente, e in qualche modo sorprendentemente, queste non si manifestarono sotto forma dei consueti sfoghi epistolari, perché non ne abbiamo traccia. Da bravo stacanovista, il napoletano decise di portare avanti i suoi studi anche a tempo scaduto e con armi decisamente spuntate rispetto a quelle dei concorrenti, ormai diventati numerosi. Tra il 1890 e il 1891, pubblicò due memorie che nel loro complesso costituiscono l'ultima parte delle Ricerche Numeriche sulla latitudine di Capodimonte. Nell'agosto del 1890, all'interno degli Atti dell'Accademia Pontaniana, apparve la prima [137]. Conteneva i dati raccolti tra il 1886 e il 1888, e i valori della latitudine che se ne deducevano. A gennaio dell'anno seguente venne data alle stampe l'analisi di questi dati e dei relativi risultati [140]. La scelta di due pubblicazioni separate fu dettata dalla concomitanza del premio reale bandito proprio in quel periodo. Proprio nell'anno in cui in Germania partiva la campagna di misure di latitudine promossa dall' AGI, in Italia l'Accademia dei Lincei stabilì che il Premio intitolato a Sua Maestà Umberto I fosse riservato all'astronomia. Concorsero in tre. Il primo, Michele Rajna, era stato un allievo di Giovanni Schiaparelli a Brera e dunque aveva un buon "padrino"; in seguito, dopo aver rifiutato una cattedra a Palermo per non lasciare Milano, sarebbe stato promosso professore di astronomia dell'Università di Bologna e, visto che le due cariche venivano insieme, anche direttore dell'Osservatorio. Il secondo concorrente era il giovane aquilano Filippo Angelitti, che all' epoca lavorava ancora a Capodimonte; sarebbe poi diventato professore di astronomia e direttore della Specola di Palermo. L'ultimo era Arminio Nobile. Seb7

Ivi, pago 88.

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bene inizialmente contrario a mettersi in gioco, alla fine aveva deciso di concorrere con le sue memorie sulla latitudine spinto dal Fergola, il bravo e generoso vice-direttore dell'Osservatorio che evidentemente non gli portava rancore. Se ci pensate, Arminio andava a gara presentando un risultato che all'inizio lo aveva visto sostenere, proprio contro il parere di Fergola, che la latitudine fosse invariabile. Finalmente c'erano tutte le premesse per un successo. Ma bisognava scendere dall'Aventino e farsi avanti; e così fu. Il primo di giugno del 1890 Nobile lesse all'Accademia Pontaniana una nota Sopra una rivendicazione di proprietà scientifica [138] nella quale reclamava per sé e per l'Italia tutta la priorità della scoperta: «Consigliato da autorevoli uomini, espongo alle S.V un frammento di storia scientifica contemporanea, col quale intendo di provare che qui in Italia siamo stati i primi a mettere innanzi una idea, che può produrre conseguenze importanti» 8. Un incipit davvero bello, carico di patriottico orgoglio. Ma appena più avanti il Nostro cambiava tono. Dopo aver snocciolato la cronologia delle sue pubblicazioni sul tema, con pochissimo tatto e contraddicendo la premessa sul sostegno di «illustri uomini», decideva di levarsi qualche sasso dalla scarpa e di appuntarsi da solo una medaglia di grande esploratore del cielo: I soli incoraggiamenti che io abbia avuti per proseguire questi lavori mi sono venuti dall'estero. Solo all'estero, massimamente in Francia ed in America si è messa attenzione a quello che io facevo e anche il prof. Holden, direttore dell'Osservatorio di Mount -Hamilton in California mi fece sapere che aderiva all'invito che io facevo nelle mie prefazioni agli astronomi, di occuparsi di questa quistione. Mi auguro che sia stato in conseguenza dei miei inviti che nella fine del 1888 quattro osservatori tedeschi, cioè quelli di Strasburgo, Berlino, Praga e Potsdam si misero di accordo per studiare contemporaneamente il fenomeno. Delle osservazioni germaniche ora il prof. Helmert, direttore dell'Istituto geodetico a Berlino, ha testé pubblicato nel N. o 2963 dell' Astronomische N achrichten i primi risultati. La latitudine nel 1889 ha colà variato, e variato di circa 0",6. L'Helmert fa un caldo appello a tutti gli astronomi di occuparsi 8

Cfr. [138], pago 151.

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di questo argomento che egli ritiene capitale e non cita (quantunque li conosca) i lavori qui fatti ed incominciati da 7 anni. Comunque sia, a noi preme di stabilire che da noi è partita la prima notizia fondata su numeri sulla variazione annua della latitudine ed è, oltre l'influenza dei consigli avuti, anche l'amor proprio nazionale che mi ha spinto a questa relazione. 9 Arminio era profondamente risentito che i suoi lavori fossero stati per lo più ignorati, all'estero come in patria. Ad amareggiarlo ulteriormente c'era la consapevolezza che, mentre l'appello lanciato da Helmert era bastato a promuovere una campagna d'osservazione della latitudine in seno all' AGI, le sue sollecitazioni non avevano sortito alcun effetto. Il fatto è che lui stesso s'era sempre mostrato poco convinto dei suoi risultati. Anche Radau, nella sua recensione, non aveva potuto evitare di sottolineare che le conclusioni del Nobile erano quanto meno incerte. Diversamente dalla vicenda dell'aberrazione, nella quale il Nostro aveva rischiato e lottato per affermare la sua idea a ogni costo - ed era stato un errore -, nella vicenda della latitudine si era mostrato sin troppo cauto. A frenarlo era stato probabilmente il timore che, se avesse nuovamente sbagliato, la sua credibilità sarebbe andata definitivamente in frantumi. La sorte l'aveva beffato alla grande, facendone prima uno spaccone e poi un pavido. Fatto sta che fu lo stesso Arminio a gettare sin troppe ombre sul suo risultato, compromettendone la credibilità. Incertezza dunque, ma anche ignoranza della reale portata della scoperta. Leggendo i lavori del Nobile non si ricava l'impressione che la variabilità della latitudine fosse per lui «una idea, che può produrre conseguenze importanti», quanto piuttosto un risultato di valenza principalmente metrologica, una sfida per esperti osservatori. Lo spazio che egli dedica a esaminare il significato astronomico del fenomeno e le sue possibili conseguenze è praticamente nullo, se paragonato alle decine di pagine scritte sulle fonti d'errore e sui metodi per eliminarle. Per tutti questi motivi, aveva adottato un basso profilo editoriale per i suoi lavori sulla latitudine, affidandosi a un palcoscenico locale. La sua era stata una scelta e non una costrizione. Arminio aveva ac9

Ivi, pago 152.

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cesso alle riviste internazionali, su cui non si peritava di pubblicare anche piccole cose. Per esempio, allorché nell' esaminare le declinazioni stellari di diversi cataloghi si accorse di alcuni dati errati relativi alla stella 74 Cygni, scrisse in proposito due articoletti [129, 131] e li inviò all'Astronomische Nachrichten, che all'epoca era il giornale di riferimento. Se avesse creduto maggiormente nei risultati sulla latitudine, avrebbe potuto provare a sottoporre un articolo a questa stessa rivista, dandogli una visibilità certamente superiore a quella che poté ricevere dalle pagine delle Memorie di Società "locali", come l'Istituto d'Incoraggiamento e l'Accademia Pontaniana. Finalmente l'Accademia dei Lincei si decise a nominare una commissione di tre membri incaricata di valutare i lavori dei concorrenti al premio: due milanesi, Virginio Schiaparelli, il pen friend di sempre, il suo fedele secondo, Giovanni Celoria, e un napoletano, Emanuele Fergola. Sì, proprio colui che aveva spinto Arminio a partecipare alla competizione. Che si poteva desiderare di più? Sembrava cosa fatta per Nobile, e invece la vicenda prese ben presto una brutta piega. Forse c'era da aspettarselo. A ben vedere, la commissione era composta da due milanesi e da un napoletano per giudicare due napoletani e un milanese. Lo scrutinio si trascinò per più di un anno. Alla fine Schiaparelli suggerì di dividere il premio in tre parti uguali, argomentando che i lavori di Angelitti, Nobile e Rajna «sono molto pregevoli, non tanto differenti per grado di merito da giustificare la concessione di tutto il premio ad uno solo di essi, neppure sembra [?]l' esclusione di uno dei tre» 10. La questione era estremamente delicata. Già una volta Schiaparelli aveva negato al Nobile il premio dei Lincei e adesso si ritrovava nella scomoda posizione di dovergli sottrarre una vittoria piena cui tra l'altro il Nostro aveva già fatto la bocca. Per questo motivo scrisse a Fergola pregandolo di essere lui il relatore dei lavori di Nobile e Angelitti: Questa conclusione [... ] dovrà essere giustificata con una Relazione al cospetto dell' Accademia; Celoria ed io la preghiamo caldamente di prendere sopra di sé questo incarico. Vi sono a ciò due motivi [... ]. L'altra ragione (ed è la principale) sta pel collega in [questione] il quale non è superiore di grado a talulO

Cfr. [18], pago 117. Lettera di Schiaparelli a Pergola del 19 maggio 1892.

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no dei concorrenti 11, potrebbe ricusare il mandato; in quanto a me devo dire che già due volte ho fatto il Relatore al medesimo individuo. 12 Il pur paziente direttore di Brera non ne poteva davvero più ed era altresì certo che lo sgarbo avrebbe provocato una valanga di rimostranze epistolari. Fergola dovette consentire alla richiesta e, come era già successo anni prima a De Gasparis, si ritrovò a dover stroncare le speranze del Nobile dopo averle alimentate. La sua posizione risultava ancor più delicata di quella di Schiaparelli: aveva esplicitamente incoraggiato Nobile a concorrere, insistendo per convincerlo. Contemporaneamente aveva spinto anche Angelitti a prendere parte al premio, tra l'altro con un lavoro suggerito dal Nobile medesimo. Angelitti era riluttante a gareggiare contro il suo maestro, ma alla fine anche lui aveva ceduto agli incoraggiamenti di Fergola. Sebbene privo di chance poteva ricavarci un buon giudizio da spendere come titolo in seguito. Tutta la storia venne poi riassunta da Arminio in una successiva lettera a Schiaparelli: Nel Decembre 1890 il mio capo mi fece premura perché concorressi al premio reale. Sulle prime mi rifiutai [... l. Ma le insistenze la vinsero anche sulla mia considerazione che non ero più un giovane. Furono fatte insistenze anche all' Angelitti e questi anche mandò con ripugnanza i suoi lavori dicendo che vi era io, le cui orme egli aveva seguito. Ma gli si disse che una lode sempre l'avrebbe avutaY Sembrava che Fergola avesse congegnato le cose in modo da assicurare a Nobile la vittoria e ad Angelitti un riconoscimento professionale; o almeno questa era l'impressione che aveva avuto Arminio. Tutto ciò, ovviamente, non fece che accrescere le sue aspettative e di conseguenza ingigantire la successiva delusione. Questa giunse solo nel 1893. Salomonicamente, l'Accademia stabilì di sospendere il premio rimandandone l'assegnazione a un nuovo concorso. Il premio reale era nato con lo scopo di promuovere un 11 12

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Celoria aveva lo stesso grado di Nobile. Cfr. [18], pago 117. Lettera di Schiaparelli a Pergola del 19 maggio 1892. Ivi, pago 120. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 9 giugno 1893.

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ricercatore che si fosse distinto per i suoi alti meriti - si disse - e dunque il dividerlo sarebbe stato contrario allo spirito con cui era stato istituito. Per Arminio fu un colpo durissimo, una sorta di amarissimo déjà vue. Ancora una volta aveva avuto la dimostrazione dello scarso valore che si attribuiva alle sue ricerche. Dovette anche sentirsi tradito da Fergola, se non addirittura beffato, e decisamente «solo contro tutti» . Anche i rapporti con Schiaparelli, già difficili, si ruppero definitivamente. Le ultime lettere indirizzate al direttore di Brera sono cariche di risentimento e amarezza. Il tono è ben diverso da quello di profondo rispetto, quasi di ammirata dipendenza, che si respira nelle numerose pagine scritte per anni con bella calligrafia: lettere cui Nobile affidava i dubbi, le poche e spesso infondate certezze e le richieste di consigli. Stavolta non era disposto a farsi da parte silenziosamente. In un certo senso, non aveva più nulla da perdere. Così decise di sfogarsi liberamente con il potente Schiaparelli, che ai suoi occhi era il principale artefice della bocciatura: Siccome Ella non ha nel campo scientifico da invidiare qualche cosa ad alcuno, desidero che sappia la mia idea sul brevetto officiale d'insufficienza datomi dal Senatore Brioschi sul rapporto della commissione dei Lincei. [... ] Premetto anche che sono convinto che presto o tardi (più facilmente dopo morto), mi si farà giustizia nel senso che si dirà che mercé i miei lavori, con uno strumento che mi sono fatto io (con Hertaux), l'Italia è stata la prima (1885) ad accertare una variazione a corto periodo della latitudine e che si dirà pure essere dopo ciò l'autore stato officialmente chiamato insufficiente. Ma per ora è anche vero che sono distrutto, non tanto pel denaro di che la mia povera famiglia avea tanto bisogno, ma per le conseguenze a perdita di vista che questo fatto produrrà in seguito (Se seguito ci sarà).14 Più oltre, dopo aver elencato brevemente i suoi lavori sulla latitudine, Nobile si lasciava andare a uno scatto d'orgoglio: Di questi lavori Ella ha potuto leggere recensioni stampate e serbo moltissime lettere dall' estero, ma in Italia profondo silenzio fino a poche fredde parole nell' Annuario del 1892. Ed è 14

Ivi, pago 119. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 9 giugno 1893.

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curioso che mentre per l'estero vi era la difficoltà della lingua (poco conosciuta), in Italia esse memorie non sono state lette. Ciò si dimostra cosÌ: 1° Uno dei membri della commissione ha detto pubblicamente a Roma le parole Oh! i lavori di Nobile non vanno. (Nulla era ancora pubblicato in Germania a quell'epoca) 1887 088. 2° Il prof. Fergola mi disse che mi si faceva l'appunto (da uno della commissione) di non aver collegato le diverse determinazioni con coppie comuni come fanno i Tedeschi. Risposi aprendo la memoria (Ricerche ecc. Parte II pp. 38-40 § 15 dove quel principio è enunziato trattato e stampato prima dei Tedeschi).15 E, nel concludere la lettera, aggiungeva tristemente che «dopo una vita di lavoro nelle diverse parti dell'astronomia sono attaccato pubblicamente d'insufficienza. Noto che il premio è stato dato per una riduzione dal Tedesco e per un'eclisse 16 , mentre che chi ha trattato una quistione nuova è coverto di fango. Le ho scritto per farle sapere le mie idee. Nulla chieggo, la tarda giustizia verrà, e mi troverà o vecchio o polvere» 17. La risposta non si fece attendere troppo. Schiaparelli cercò di portare il collega alla ragione. Provò a fargli vedere le cose con maggior distacco, per dimostrargli che nessuno aveva interesse a "perseguitarlo" o a sminuire il suo lavoro: Nel 1884 io le scrissi di non poterle credere senza dimostrazioni: lo richiedo a lei, ad Archimede, a Laplace e a cento altri. Questo non è un insulto né una ingiuria. Anche a me molti non credono nelle cose che ho detto e stampato: né io me ne offendo! Il vero scienziato sopporta la contraddizione e si studia di vincerla con dimostrazioni le più evidenti e salde che può dare. Se queste non bastano si appelli al giudizio imparziale dei posteri e continui la sua strada. Non vorrà Ella poi pretendere che i suoi lavori siano perfetti e non diano luogo ad osservazioni critiche. lo questo non pretendo dai miei. Pubblico, e delle critiche che mi si fanno, faccio un Ivi, pago 120. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 9 giugno 1893. Nobile si riferisce a Celoria, proprio uno dei suoi commissari, che nel 1879 era stato premiato dai Lincei per un lavoro su un'eclisse, Sopra alcuni eclissi di sole antichi e su quello

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di Agatocle in particolare. 17

Cfr. [18], pago 120. Lettera di Nobile a Schiaparelli del 9 giugno 1893.

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profitto se giuste, se ingiuste le dimentico. Son certissimo che fra qualche mese a mente più fredda considererà con maggior equità e non farà più l'ingiustizia di credere che io voglio perseguitarla. Non ho perseguitato mai nessuno, e non voglio cominciare adesso!18 Ma ci voleva ben altro per calmare Nobile. Questi aveva cercato più volte di mostrare il suo valore di scienziato, senza successo. In nome dell'astronomia aveva sacrificato anche la sua carriera didattica, e all'età di 55 anni si ritrovava a essere considerato niente di più che un ricercatore mediocre e senza speranza di riscatto. E poiché, come recita il proverbio, "piove sempre sul bagnato", oltre alle delusioni e alle amarezze per il fallimento della sua carriera scientifica Nobile dovette contemporaneamente far fronte a indicibili pene e preoccupazioni per i suoi cari. Al dolore per la morte del figlio Oscar, venuto a mancare pochi mesi dopo la nascita, si aggiunse infatti la gestione della malattia nervosa che a 14 anni d'età aveva colpito Mario, il primogenito, rendendolo invalido e dipendente dall'aiuto dei familiari. Sembrava davvero che una «sorte avversa» si fosse accanita sull'astronomo napoletano: una sorte che aveva in serbo ancora un feroce colpo di coda, una nuova e cocente umiliazione. A infliggerla con sottile perfidia fu Ernesto Cesàro.

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Ivi, pago 121. Lettera di Schiaparelli a Nobile dell' Il giugno 1893.

In cauda venenum

Di vent'anni più giovane di Nobile, Cesàro era un brillante matematico di origine napoletana che aveva raggiunto l'insegnamento universitario relativamente tardi, attraverso un percorso tortuoso che lo aveva portato lontano da casa. Nel 1886 era rientrato in Italia dal Belgio per ricoprire l'insegnamento di analisi algebrica presso l'Università di Palermo, pur senza avere ancora conseguito la laurea, che gli sarebbe stata conferita ad honorem solo l'anno successivo, a testimonianza della grande considerazione per le sue qualità scientifiche. Ma Cesàro desiderava poter tornare a Napoli e per questo aveva fatto un primo infruttuoso tentativo. Finalmente, nel 1891 ottenne l'agognato trasferimento nella sua città in qualità di professore di calcolo infinitesimale. Fu così che il matematico poté iniziare a frequentare con una certa assiduità l'Accademia di scienze fisiche e matematiche dove da sempre erano di casa gli astronomi di Capodimonte. E qui ebbe modo di incontrare Nobile. Tra i due fu presto guerra fredda, per motivi che diremo poi. Cesàro, che evidentemente aveva accumulato un grande astio nei confronti del futuro consocio astronomo, appena se ne presentò l'occasione assestò la sua zampata, con una rapidità degna di ben altra causa e con una ferocia davvero poco "accademica'. Il pretesto furono alcune Riflessioni sulla variazione a corto periodo della latitudine [143], che Arminio espose all' Accademia in occasione dell' adunanza del primo aprile 1893. La sorte, beffarda, non avrebbe potuto scegliere data migliore per uno scherzo come quello che stava maturando per l'incauto astronomo. L'intendimento del lavoro era di ricondurre la misura della variazione della latitudine «ad un problema di differenza di longitudine con vantaggi grandi, e qualche svantaggio che non compensa quello che si acquista» l. Si trattava di individuare dove, in un fissato parallelo, si verifica la maggiore variazione di longitudine a seguito di un piccolo spostamento angolare del polo. Nobile sviluppò un modello geometrico elementare arrivando al risultato per il tramite di due l

Cfr. [143], pago 104.

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passaggi il primo dei quali formalmente scorretto. Una svista che gli costò cara. Cesàro, che assisteva alla lettura della memoria, si accorse subito degli errori contenuti nell' esercizio di trigonometria sferica confezionato dall'astronomo. Avrebbe potuto prendere sotto braccio il collega e spiegargli dove aveva sbagliato, guadagnandosene la gratitudine. Raccolse invece l'insieme delle sue critiche in una nota che egli stesso lesse all' Accademia il primo di agosto, chiedendo che fosse pubblicata nei Rendiconti. Il giudizio che dava era spietato nel merito e sproporzionato nei modi. Forte della sua padronanza della matematica, aveva fatto letteralmente a pezzi il ragionamento del Nobile, infierendo su di lui con compiaciuto sadismo. La stessa Accademia dovette chiedergli di ammorbidire i termini prima di poter approvarne la sua nota per la pubblicazione: Il Socio Cesàro legge una Nota dal titolo: Su talune erronee riflessioni del Prof Arminio Nobile - Osservazioni - e chiede che sia inserita nel fascicolo del Rendiconto. Il Presidente e parecchi soci pregano il Collega Cesàro di modificare o di sopprimere qualche espressione. Il socio Cesàro non consente ed insiste a che si voti per la inserzione della sua Nota nei termini precisi in cui l'ha letta. L'Accademia, dopo che il Presidente e parecchi soci dichiarano di non trattarsi del contenuto scientifico, ma della sola forma, a voti unanimi nega l'inserzione di quella Nota. 2 Dobbiamo pensare che avesse usato termini davvero molto pesanti riguardo anche la persona di Nobile visto che, nel verbale della stessa adunanza in cui l'Accademia respingeva la nota, si precisava che, «poiché nella precedente tornata fu rimesso alla Presidenza l'accettare per i Rendiconti le note presentate dai soci durante le vacanze, l'Accademia delibera che la Presidenza, d'ora in avanti, senza convocare straordinariamente la stessa Accademia, sia autorizzata non permettere la stampa di alcuna Nota che contenga parole, le quali possano offendere qualsiasi persona, socio oppur no»3. Poteva bastare, ma non per Cesàro che era determinato ad andare sino in fondo. Il giorno dopo scrisse a Giuseppe Peano, l'eccentrico 2

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Cfr. [180], pago 178. Ibidem.

In coudo venenum

e geniale direttore della Rivista di Matematica, chiedendogli di pubblicare la sua critica al Nobile nella versione originale. Dopo due settimane Peano, per nulla impressionato dall'asprezza dei giudizi, che travalicavano la normale dialettica scientifica, gli rispose di inviare la recensione «che sarà stampata con la massima rapidità. Sarebbe desiderabile che non risulti che essa non fu accettata dall' Accademia». L'unica preoccupazione dell'illustre matematico torinese era quella di non coinvolgere nella diatriba l'establishment delle scienza napoletana che già si era espresso. Pubblicò dunque la nota di Cesàro e successivamente, con salomonica neutralità, anche una risposta inviatagli da Nobile. I due interventi sulle pagine della Rivista di Matematica finirono per attizzare ancor più la polemica, che riprese vivacissima all'interno dell'Accademia napoletana. Nella seduta del 21 ottobre, immediatamente successiva a quella del primo agosto dove il caso era scoppiato, sia Nobile che Cesàro chiesero di prendere la parola per rispondere all'avversario, ma furono invitati a rimandare i loro interventi alla seduta del 28 ottobre [183]. Saggiamente, il presidente prendeva tempo per cercar di comporre in modo civile la controversia che imbarazzava un ambiente più avvezzo a stoccate col fioretto che alle falciate di un'ascia bipenne brandita da un Cesàro con gli occhi iniettati di sangue. Fece quanto poté, ma alla fine dovette accettare che la corrida avesse luogo e che i suoi esiti venissero fedelmente riportati nei Rendiconti dell' Accademia, che così recitano: Il socio Cesàro domanda la parola, e dice ch'egli, ossequente alla deliberazione presa dall' Accademia nella tornata lO agosto p. p., ha rifatto la nota che allora vi lesse, sopprimendo ogni parola alquanto vivace ed ampliandone la parte scientifica. Legge, quindi, la citata nota, che ha per titolo: Critica delle riflessioni del Pro! A. Nobile sulle variazioni a corto periodo della latitudine. E poiché per la medesima nota nessun socio chiede la votazione, la s'intende approvata per essere inserita nei Rendiconti, in conformità di quanto prescrive l'art. 21 del Regolamento. Il socio Nobile dichiara che in una prossima adunanza leggerà una sua nota in risposta a quella presentata dal collega Cesàro. Per quanto epurate dai termini più vivaci, le argomentazioni di Cesàro non risuonarono meno pungenti. Il matematico esaminò e smontò punto per punto il contenuto dei primi due paragrafi della nota

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originale del nostro sventurato astronomo. Non proseguì oltre perché ritenne che quanto aveva già detto fosse più che sufficiente a far cadere anche il contenuto dei paragrafi seguenti, dichiarando senza mezzi termini che Nobile aveva dato una prova di scarsa conoscenza della matematica: ... non so astenermi - dichiarò - dall'esprimere il parere che ben altre teorie di Analisi e Meccanica occorrerebbe, forse, mettere in gioco per istudiare con serietà gli effetti dello spostamento dell'asse di rotazione della terra nelle determinazioni della longitudine, e che quando si voglia, per evitare certe difficoltà, ridurre il problema a quel grado di pressocché infantile semplicità che gli attribuisce l'autore, non si ha più il diritto di trame deduzioni gravi ed assolute come quella che termina il paragrafo 3. [... ] non è probabile che i geodeti vogliano seguire i consigli di chi li esorta a fondare le loro osservazioni sopra una base matematica ridicola e falsa [29]. Povero Arminio, accusato di incompetenza e superficialità proprio in quella disciplina, la matematica, nella quale a quel tempo ancora si formavano gli astronomi. Ma non bastava. Diversamente dai Cartaginesi che - annota Livio - a Canne smisero di combattere perché stanchi di uccidere, Cesàro, come Maramaldo, volle infierire su un "uomo morto': concludendo sarcasticamente con una citazione del poeta satirico siciliano Giovanni Meli: Pure termino senza speranza alcuna che la mia critica valga a correggere un avversario (stavo per dire scientifico) che nun àvi drittu, è comu la lasagna, - e cci aviti a concedirti pri forza - chi l'acqua asciuca e chi lu suli vagna [29]. Nella successiva adunanza del 18 novembre Nobile presentò una Risposta alla critica fatta dal socio Cesaro alla nota intitolata: «Riflessioni sulla variazione a corto periodo della latitudine» [144], portando a sostegno della sua tesi alcune esperienze numeriche in accordo con le previsioni teoriche enunciate: I numeri dunque controllano pienamente i miei risultati e negano quelli del Cesàro [... ]. In questi esempi ed in due altri che ho pronti per chi li voglia avere, nulla si verifica di quanto il

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socio Cesàro ha annunziato, ma le mie deduzioni sono pienamente confermate dai numeri come ognuno che ha solo nozioni di trigonometria, può assicurarsene. La risposta di Arminio ovviamente non convinse Cesàro, che degli sviluppi algebrici di Nobile contestava il metodo e non il merito. Il matematico ritenne tuttavia inutile proseguire oltre, lasciando intendere che continuare la discussione con un personaggio come Nobile sarebbe stato uno spreco di tempo: Finita la lettura, il socio Cesàro dice che la replica del Nobile lascia intatta in ogni punto la sua critica, onde egli non ha ragioni per continuare la disputa. Soggiunge che non ha mai ritirato alcuna delle sue critiche, e che per longitudine egli non intese altro che la coordinata À. L'Accademia accetta per i Rendiconti la risposta del socio Nobile, e dichiara chiusa la controversia scientifica [182]. Perché tanto accanimento nei confronti del nostro astronomo? Potrebbero aver giocato un ruolo non da poco delle questioni di carattere "politico" più che accademico [24]. Nella prima metà del 1892 i due avevano presentato la loro candidatura per la nomina a socio ordinario residente per la sezione di Scienze matematiche dell' Accademia, proprio l'arena dei "fatti di sangue" che abbiamo ricordato. Si discusse a lungo su quale fosse il candidato più meritevole per l'unico posto disponibile. Cesàro aveva dalla sua un curriculum invidiabile con cui Nobile non poteva competere. Arminio poteva vantare però molti lavori pubblicati negli atti dell' Accademia, della quale da tempo era un habitué. Grazie a una lettera4 inviata a Cesàro dall' amico e collega Pasquale Del Pezzo, professore di geometria a Napoli, possiamo avere un'idea dello scontro, ancora una volta molto poco edificante, che sulla questione si giocò all'interno dell'Accademia: Caro Cesàro, oggi all' Accademia erano 12 e a proposta Fergola Battaglini volevano rifare la votazione tra te e l'ing. Nobile. A stento Pinto e Capelli sono riusciti a far differire la votazione al "Fondo Cesàro" della biblioteca del dipartimento di matematica R. Caccioppoli dell'Università di Napoli Federico II.

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3 Dic. Se si fosse fatta oggi tu avevi solo 4 voti, l'ing. Nobile 8. La battaglia è stata aspra piena di male parole. Adesso pensano di farvi entrare tutti e due. T'informi perché informi gli amici e ti regoli. 5 Come preannunciato dal Del Pezzo, alla fine l'Accademia raggiunse una soluzione di compromesso, ammettendo come soci ambedue i concorrenti, prima il matematico, nominato socio ordinario residente il3 dicembre del 1992, e sette giorni dopo l'astronomo. Evidentemente gli «amici»avevano lavorato bene da entrambe le barricate! Ma Cesàro se l'era legata al dito. Una seconda ragione di scontro potrebbe esser stata una disputa che tempo prima aveva opposto il matematico alla componente astronomica dell'Università. Forti del prestigio internazionale di De Gasparis, pluridecorato per i suoi successi nello studio degli asteroidi e senatore del Regno, gli astronomi napoletani erano in grado di influire sulle scelte interne all' Ateneo. Sfruttando questa posizione di forza avevano tentato di favorire una promozione a professore straordinario di un interno, Gabriele Torrelli, a discapito del Cesàro che, come abbiamo detto, ambiva trasferirsi da Palermo a Napoli. Lo scontro non coinvolse direttamente Nobile; tuttavia potrebbe aver contribuito a generare nel matematico un'ostilità di base verso gli astronomi napoletani in genere, che avrebbe poi riversato sul Nobile, suo avversario per il posto in Accademia. Ciò che è certo è che la controversia ebbe conseguenze devastanti per Arminio. Le critiche del Cesàro finirono per distruggere quasi del tutto la sua credibilità scientifica e ne rallentarono ulteriormente la carriera di docente. Nel 1891 , con decreto ministeri aIe dell' Il luglio, era stato promosso professore straordinario di geodesia; nello stesso periodo era stato anche chiamato a sostituire nel corso di matematiche superiori per l'anno accademico 1890-1891 il professor Giuseppe Battaglini, influente accademico e fondatore di una prestigio sa rivista di settore. Ma per la nomina a professore ordinario dovete attendere altri sei anni. Sicuramente gli insuccessi professionali e la dura aggressione del Cesàro non gli avevano giovato. Continuò comunque a portare avanti le sue ricerche astronomiche e geodetiche senza allontanarsi dai suoi temi favoriti. Ma i lavori pubblicati dopo il 1893, Lettera di Del Pezzo al Cesàro del 26 novembre 1892. "Fondo Cesàro': biblioteca del dipartimento di matematica R. Caccioppoli dell'Università di Napoli Federico II.

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In coudo venenum

che riguardano per lo più misure di ascensioni rette e osservazioni della costante di aberrazione, non contengono nulla che potesse risollevare la sua reputazione scientifica. Arminio era ormai troppo demoralizzato per trovare la forza fisica e morale di investire in un nuovo campo di ricerca. Senza contare che una nuova tragedia familiare si abbatté su di lui in quegli anni: un altro dei suoi figli, Arduino, venne colpito nel 1895 da nefrite incurabile. Il ragazzo aveva 15 anni e si preparava a intraprendere la carriera militare quando la malattia stroncò sul nascere tutti i suoi progetti. Per il padre fu un altro duro colpo, dopo quello per la malattia di Mario che lo tormentava da anni. Nonostante le pene, gli insuccessi e le preoccupazioni che lo angustiavano, Arminio venne distratto dalla sua sconfinata passione per l'astronomia solo dal sopraggiungere della morte. L'ultimo lavoro che pubblicò come Appunti sul moto del Sole fra le stelle [152] porta la data dell'll maggio 1897. Il peregrinare della nostra stella dentro la Via Lattea era ancora il suo pallino. Poco più di un mese dopo, il15 giugno 1897, il nostro sfortunato eroe si spense in seguito a un attacco di angina pectoris sopraggiunto a causa forse di una polmonite. Venne sepolto nel cimitero di Poggioreale, nel Recinto denominato Quadrato degli uomini illustri. Sulla sua lapide si legge:

QUI RIPOSANO INSIEME ANTONIO NOBILE E ARMINIO SUO FIGLIO ASTRONOMI INSIGNI UOMINI SENZA MACCHIA NELL' ARDENTE CULTO DELLA PATRIA COME NEL VINCOLO FAMILIARE CONGIUNTI A MARIA GIUSEPPINA GUACCI SPOSA E MADRE La notizia della scomparsa di Arminio Nobile venne diffusa nella comunità astronomica per via di un breve necrologio [7] pubblicato sull' Astronomical Journal. Una ben più pomposa commemorazione [166], di pugno di Luigi Pinto, venne letta alla Reale Accademia di scienze di Napoli in ricordo del socio scomparso. Arminio Nobile

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Arminio Nobile e la misura del cielo

era vissuto «senza avere avuto mai un momento buono» [134]6. Ben pochi tra quanti lo incrociarono non finirono prima o poi per scontrarsi con lui. «Egli non poteva e non potette destar simpatia nel comune degli uomini» [134]. Solo quanti fecero parte della sua ristretta cerchia di amici furono testimoni della generosità, della dedizione al lavoro e alla famiglia, dell'onestà e dei nobili ideali che animavano questo "figlio d'arte': Con la morte di Arminio la sua famiglia perse il diritto all' alloggio che aveva occupato fino ad allora nella Specola e venne a trovarsi in grosse difficoltà economiche. Fu il secondogenito, Vittorio, che all' età di 22 anni prese su di sé la responsabilità di capofamiglia. Scelse anche di seguire le orme paterne dedicandosi all'astronomia e alla matematica. Proprio come Arminio, anche Vittorio avrebbe prestato servizio nella Specola napoletana e avrebbe ricoperto il ruolo di docente presso l'Università degli studi di Napoli con migliore fortuna del padre, vincendo tra l'altro nel 1931 quel Premio reale per l'astronomia che Arminio aveva invano inseguito. Ci piace immaginare - ma non sappiamo se sia davvero successo così - che nel ritirarlo Vittorio abbia pensato: «Papà, questo riconoscimento è per te» .

La frase, scritta dal Nobile, si riferisce ad Ottavio Heurtaux ma si adatta perfettamente a descrivere anche la situazione del suo autore.

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Indice dei nomi Adorni Giovanni, 63, 64 Aenhelt Augusto, 23 Amici Giovanni Battista, 21, 87 AngelittiFilippo, 161, 164, 165 Antonelli Giacomo, 98 Arago François Jean Dominique,57,62 Archimede, 167 Aristotele, 113 Baldacchini Michele, 69 Baldacchini Saverio, 46 Balzerano Anna, 39-41,46 Bargoni Angelo, 89 Battaglini Giuseppe, 121, 173, 174 Bellini Vincenzo, 6 Benso Camillo, 71, 73, 83,140 Besse Friedrich Wilhelm, 114 Bixio Nino, 72 Blasch Luigi, 46 Bonaparte Carlo Luciano, 63, 64 Bonaparte Carolina, Il Bonaparte Giuseppe, lO, Il, 13, 30 Bonaparte Napoleone, 9-13, 16, 1~59,63, 119, 142 Bonaparte Napoleone III, 97, 99 Borbone Carlo III, lO, 12, 13, 20,32,71 Borbone Carlo X, 32, 59 Borbone Ferdinando I vedi Borbone Ferdinando IV,

176 Borbone Ferdinando II, 2, 4, 25,31,32,35,59,64, 65,68,70-72 Borbone Ferdinando IV, 9-11, 13,16,18,31,47 Borbone Francesco I, 31 Borbone Francesco II, 4,72,73, 78,79,82 Bradley James, 122, 135 Brioschi Carlo, 22, 24, 29, 32, 34-37, 51, 133, 136, 144,145,149,158,166 Brioschi Faustino, 82 Bruno Giordano, 12, 115 Cacciatore Gaetano, 88-90, 96 Cacciatore Niccòlo, 19, 88 Cadorna Raffaele, 98 Campagna Giuseppe, 69 Campanella Tommaso, 12 Capelli Alfredo, 173 Capocci Dermino, 6, 29, 57, 60, 67 Capocci Ernesto, 4, 5, 23-25, 29,30,33-35,37,5052,57-62,67,70,73, 74,76,82,99,153 Capocci Euriso, 29, 60, 70 Capocci Oscar, 6, 29, 60, 68, 70 Capo cci Oscarre vedi Capo cci Oscar,176 Capocci Stenore, 29, 57, 60, 67 CapocciTeucro, 29, 57,60, 68

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Indice dei nomi

Capocci Ulrico, 29, 60 Carbonelli Salvatore, barone di Letino, 79 Carnera Luigi, 159-161 Carrol Lewis, 142 Cartesio Renato vedi Descartes René, 176 Cassella Giuseppe, 13 Castelli Benedetto, 114 CeloriaGiovanni, 105-107, 149, 164, 167 Cesàro Ernesto, 168-174 Championnet Jean Étienne, 9 Codemo Luigia di Gesterbrandt, 41 Colbert Jean-Baptiste, 65 Cooke Thomas, 106, 108 Copernico Niccolò, 140 Coppola Isabella di Canzano, duchessa di Campochiaro, 43, 49, 56 Cumming Alexander, 21 d'Ajala Mariano, 49 d'Asburgo Carlo V, 39 d' Asburgo-Lorena Francesco I, 59 d'Asburgo-Lorena Maria Antonietta,9 d'Asburgo-Lorena Maria Carolina, lO d' Asburgo-Lorena Maria Luisa, 59 Darwin Charles, 140 De Amicis Edmondo, 99 De Gasparis Annibale, 59, 70, 73,74,82,90,93,97, 98,102,109,110,115, 116,120,121,124,127-

129,138,152,153,165, 174 de Laplace Pierre-Simon, 116 de Samuele Cagnazzi Luca, 46 De Sanctis Francesco, 44, 45, 73 de Talleyrand-Périgord CharlesMaurice, lO de Toledo y Zuiiiga Pedro AIvarez, viceré di N apoli, 39 De Vico Francesco, 61 Del Grosso Remigio, 73 Del Pezzo Pasquale, 173, 174 Del Re Leopoldo, 24, 35, 37, 51,57,70,73,78 Della Marmora Alfonso Ferrero,3 della Porta Giovanni Battista, 14 Della Porta Niccolò, 12 Dembowski Ercole, 119 Denza Maria Francesco, 100, 101 Depretis Agostino, 140 Descartes René, 12 di Baviera Elisabetta, 72 di Baviera Maria Sofia, 72 Diamilla-Muller Demetrio Emilio,100 Donati Giovanni Battista, 8790, 100 Doppelmayr Johann Gabriel, 115 Emilio Broglio, 87 Eulero Leonardo, 115, 135, 148, 151, 152 Fabbricatore Bruto, 53

Indice dei nomi

Farina Almerinda, 4, 5, 24, 29, 35,37,51,52,57-59 Fergola Emanuele, 72, 73, 82, 102,115,116,134,136, 144-147,149,158,162, 164-167, 173 Fergola Emmanuele vedi Fergola Emanuele, 176 Fergola Gennaro, 72 Fiore Carolina, 50, 76, 78, 110 Fontana Giovanni, 12 Fornaciari Luigi, 53, 66 Galiani Celestino, 46 Galilei Galileo, 12, 88, 113, 114, 125, 140 Garibaldi Giuseppe, 72, 73, 83, 94,99 Gasse Stefano, 17, 23 Gauss Carl Friedrich, 111 Gioja Flavio, 14 Gioja Gaetano, 6 Giusti Giuseppe, 49 Gladstone William, 65 Gould Benjamin Apthorp, 110112 Granito Luisa, marchesa di Castellabate, 46 Grossi Tommaso, 61 Guacci Carlo, 41 Guacci Elisabetta, 37, 41, 43 Guacci Francesco, 41 Guacci Giovanni, 5, 39, 40 Guidi Filippo, 28, 52 Halley Edmund, 122 Harrison John, 95 Helmert Friedrich Robert, 157160, 162, 163

Hencke Johann Franz, 90 Herschel William, 113, 114 Hertaux Ottavio vedi Heurtaux Ottavio,176 Heurtaux Ottavio, 139, 140, 166, 176 Holden Edward Singleton, 162 Huygens Christiaan, 114, 121 Imbriani Paolo Emilio, 49 Inghirami Giovanni, 22 Ipparco di Nicea, 117, 134 Ippocrate, 2 Kant Immanuel, 116 Kirchhoff Gustav, 101 Kock Robert, 2 Lanza Giovanni, 98 Laplace Pierre-Simon, marchese di Laplace, 125 Leopardi Giacomo, 2, 43, 49, 53 Lilio Luigi, 12, 14 Lorenzoni Giuseppe, 93, 99, 105, 106,141 Lowell Percival, 91 Maffei Scipione, 60 Magnaghi Giovan Battista, ammiraglio, 106-108 Malibran Maria, 6 Manzoni Alessandro, 44, 140 Masséna André, generale, lO Maurolico Francesco, 12 Mazzini Giuseppe, 83, 140 Medici Giacomo, marchese, 72 Medrano Giovanni Antonio, 20 Meli Giovanni, 172

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Indice dei nomi

Melloni Macedonio, 33, 58, 59, 62,63,70 Merz Georg, 98 Metone di Atene, 85 Migliaccio Lucia, duchessa di Floridia, lO Montesano Domenico, 76 Moreno Pasquale, 140 Morse Samuel, 94 Murat Gioacchino, Il, 13-16, 19,46,78, 137 Muzzarelli Carlo Emanuele, 40 Nelson Horatio, lO Newton Isaac, 12, 125 Nitti Francesco Saverio, 80 Nobile Arduino, 110, 175 Nobile Emilia, (figlia di Arminio), 41,110 Nobile Emilia, (sorella di Arminio), 55, 71, 75, 79 Nobile Francesco, 5 Nobile Gisella, 110 Nobile Mario, 110, 168, 175 Nobile Oscar, 110, 168 Nobile Riccardo, 110 Nobili Annesio, 6 Nunziante Vito, generale, 16 Oriani Barnaba, 13, 19,22,24, 28 Orsini Ferrante, 47 Pacini Filippo, 2 Padula Fortunato, 115, 116 Palmerstone Henry John, 65 Palmieri Luigi, 102 Papa Gregorio XIII, 14 Papa Pio IX, 46, 99

Pavesi Stefano, 6 PeanoGiuseppe, 170, 171 Pepe Guglielmo, 47,68 Peters Christian, 59, 136 Piazzi Giuseppe, 13, 14, 18, 19, 21-24,28,51,88,99 Pica Giuseppe, 81 Pindemonte Ippolito, 6 Pinto Luigi, 173, 175 Poerio Alessandro, 49, 53, 68 Poerio Carlo, 49, 53 Poisson Siméon-Denis, 57 Puoti Basilio, 44, 49, 75 Radau Jean Charles Rodolphe, 158, 163 Radetzky Josef, 68 Rajna Michele, 149, 161 Rajola Gennaro, 58 Ranieri Antonio, 2, 43, 49, 53 Ranieri Paolina, 2 Repsold Johann Georg, 137, 138 Ricciardi Francesco, 46, 49 Ricciardi Giuseppe Napoleone, 46 Ricciardi Irene, 42, 43, 46-49, 52,55 Riccioli Giovanni Battista, 114 Ritucci Giosuè, 72, 73 Ruffo Paolo di Bagnara Principe di Castelcicala, 34 Saliceti Aurelio, 68 Santangelo Nicola, 59, 64 Santini Giovanni, 87, 90, 93 Santorre Annibale Derossi, signore di Santarosa, 90

Indice dei nomi

Savoia Carlo Alberto, 67, 68, 71 Savoia Maria Cristina, 4 Savoia Umberto I, 161 Savoia Vittorio Emanuele, 71, 73,74,84,99 Savoia Vittorio Emanuele II, 140 Schiaparelli Giovanni Virginio, 61,87,90,97,105-112, 118-121,124-132,138, 140,141,146,152,153, 161,164-167 Schiavoni Federico, 132 Schumacher Heinrich Christian, 120 Secchi Angelo, 89, 92, 98, 100, 102 Selvaggi Gaspare, 49 Settembrini Luigi, 32, 44, 45, 49, 71 Spadolini Giovanni, 83 Spinelli Gennaro di Cariati, 68 Struve Otto, 90, 114 Suhrland Rudolf, 23 Tacchini Pietro, 87-89, 91, 9395,97,100,101,105 Tagliaferri Saveria, 39 Telesio Bernardino, 12 Thome John Malcom, 112 Tindaro Dalmiro, 6 Tolomeo, 113 Tomasi Giuseppe di Lampedusa, 18,92 Torregiani Piero, 61

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Torrelli Gabriele, 174 Trivulzio Cristina di Belgiojoso, 67 Troya Carlo, 36, 47-49, 68 von Bismarck Otto, 97 von Humboldt Alexander, 34, 62 von Metternich -Wìnneburg -Beilstein Klemens Wenzel Nepomuk Lothar, principe di Metternich-Wìnneburg, 17,62,63 von Reichenbach Georg, 17, 21, 23 von Reichenbach George Friederich,137 Von Sommer Emma, 110 Von Sommer Oscar, 110 von Wìttelsbach Elisabetta vedi di Baviera Elisabetta,176 von Wìttelsbach Maria Sofia vedi di Baviera Maria Sofia, 176 von Zach Franz Xaver, 17,23, 30 Wìlde Oscar, 153 Wìtting Augusto, 101 WolfMax,159 Young Charles, 101 Zuccari,23 Zuccari Federico, 13-15, 17,21, 22,24

Indice dei luoghi Amburgo, 137 Ancona, 73 Arcetri,88 Augusta, 91, 99, 100 Austerlitz, lO Bastiglia, 9 Berlino, 21, 90, 115, 135, 157, 162 Betlemme, 91 Biella, 124 Bologna, 16, 161 Brera, 13, 14, 16,90, 105, 149, 161 Bruxelles, 58 C6rdoba, 110, 112 Camaldoli,47 Campobasso, 5, 27, 28 Canne, 172 Capo di Buona Speranza, 15 Capo Napoli, 13, 14 Capodimonte, 12, 14, 15, 18, 20,22,49,53,67,76, 84,112,133,136,144 Caprera, 73, 140 Capri,53 Caserta, 72 Castel dell'Ovo, 53 Castello Sant'Elmo, 9, 20, 53 Chiesa di Sant'Ignazio, 89, 99 Clinton,59 Colle di Sant'Elmo, 22, 39 Collina di Miradois, 3 Cosenza, l

Crimea, 3 Firenze, 90 Gaeta, 72, 79 Gallarate, 119 Gela, 91 Genova, 106, 107 Glasgow, 94 Gotha, 157 Greenwich, 149, 150 Heidelberg, 159 Hotel d'Angleterre, 34 Largo della Carità, 76 Largo di Palazzo, 31 Londra, 58 Madrid, lO, 13 Maschio Angioino, 53 Messina, 71, 72 Milano, 13,21,23, 64, 67, 90, 105,106,124,149,150, 161 Miradois, 12, 18-20,23,53,74 Modena, 21, 87 Monaco, 21 Monaco di Baviera, 17 Monastero di San Gaudioso, 13, 14,17 Monastero di Santa Chiara, 47, 53 Montemurro, 71 Monteoliveto, 46 Mount -Hamilton, 162

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Indice dei luoghi

Museo archeologico di Napoli,13 Museo Borbonico, 20 Norimberga, 110 Novara, 71 Nunziatella, 13 Oropa, 124 Oxford, 149, 150 Padova, 16, 90, 93, 105, 106, 146 Palazzo dei Normanni, 18 Palazzo dei regi studi, 13 Palazzo Doria d'Angri, 72 Palazzo Gravina, 46 Palermo, 9, 10, 13, 16, 18, 20, 47,71,87-90,94,96, 98,99,102,105,161, 169,174 Parigi, 6, 9,21,31-34,44,5759,62,65,98,114,139, 150, 158 Parma, 58, 63 Parrocchia di S. Anna di Palazzo, 39 Pisa, 60, 63 Pizzo Calabro, 16 Poggioreale, 175 Ponti rossi, 20 Porta Pia, 98, 99 Potsdam, 162 Praga, 115, 162 Pulkovo,90 Pulkowa, 150 Pulkowo, 149, 157 Quartieri spagnoli, 39-41,47, 49,50

Reale Museo di fisica e storia naturale di Firenze, 91 Reggia di Caserta, 71 Rimini,16 Rione Sanità, 12,22, 53 Roma, 9, 61, 68, 79, 84, 89, 98, 99,129-131,138,167 Rue de Colombier, 34 Ruffo Fabrizio Dionigi dei duchi di Baranello e Bagnara, cardinale, lO Sadowa,97 Salisburgo, 157 San Carlo all' Arena, 78 San Giorgio a Cremano, 119 San Pietroburgo, 90, 135 Sant'Elena, 16 Savignano, 90 Sedan, 84,99 Sierras Chicas, 111 Sila, l Siracusa, 91 Sora, 24 Strasburgo, 162 Stretto di Messina, 94 Teano, 73 Terranova, 91,99, 105 Tolentino, 16 Torino,80 Torre del Greco, 2 Trieste, 159 Valle del Crati, l Via del Pero, 2 Via di Cassino, 98 Via San Liborio, 49, 70 Via sant' Antonio, 22

Indice dei luoghi

Via Sergente Maggiore, 39, 67 Via Speranzella, 76 Via Toledo, 2, 12, 39 Vienna,63

Villa della Riccia, 3-5, 24, 36, 49,50,53 Washington,150 Waterloo, 16

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i blu - pagine di scienza

Volumi pubblicati R. Lucchetti Passione per Trilli. Alcune idee dalla matematica M.R. Menzio Tigri e Teoremi. Scrivere teatro e scienza C Bartocci, R. Betti, A. Guerraggio, R. Lucchetti (a cura di) Vite matematiche. Protagonisti del '900 da Hilbert a Wiles S. Sandrelli, D. Gouthier, R. Ghattas (a cura di) Tutti i numeri sono uguali a cinque R. Buonanno Il cielo sopra Roma. I luoghi dell' astronomia Cv. Vìshveshwara Buchi neri nel mio bagno di schiuma ovvero L'enigma di Einstein G.O. Longo Il senso e la narrazione S. Arroyo Il bizzarro mondo dei quanti D. Gouthier, F. Manzoli Il solito Albert e la piccola Dolly. La scienza dei bambini e dei ragazzi V. Marchis Storie di cose semplici D. Munari novepernove. Sudoku: segreti e strategie di gioco J. Tautz Il ronzio delle api M. Abate (a cura di) Perché Nobel? P. Gritzmann, R. Brandenberg Alla ricerca della via più breve p. Magionami Gli anni della Luna. 1950-1972: l'epoca d'oro della corsa allo spazio E. Cristiani Chiamalo x! Ovvero Cosa fanno i matematici? p. Greco L'astronarrante. La Luna nella scienza e nella letteratura italiana p. Fré Il fascino oscuro dell' inflazione. Alla scoperta della storia dell' Universo R.W. Hartel, A.K. Hartel Sai cosa mangi?La scienza nel cibo L. Monaco Watertrips. Itinerari acquatici ai tempi della crisi idrica A. Adamo Pianeti tra le note. Appunti di un astronomo divulgatore C Tuniz, R. Gillespie, C Jones I lettori di ossa P.M. Biava Il cancro e la ricerca del senso perduto G.O. Longo Il gesuita che disegnò la Cina. La vita e le opere di Martino Martini R. Buonanno La fine dei cieli di cristallo. L'astronomia al bivio del' 600 R. Piazza La materia dei sogni. Sbirciatina su un mondo di cose soffici (lettore compreso) N. Bonifati Et voilà i robot! Etica ed estetica nell' era delle macchine A. Bonasera Quale energia per il futuro? Tutela ambientale e risorse F. Foresta Martin, G. Calcara Per una storia della geofisica italiana. La nascita dell' Istituto Nazionale di Geofisica (1936) e la figura di Antonino Lo Surdo

P. Magionami Quei temerari sulle macchine volanti. Piccola storia del volo e dei suoi avventurosi interpreti G.E Giudice Odissea nello zeptospazio. Viaggio nella fisica dell'LHC P. Greco L'universo a dondolo. La scienza nell'opera di Gianni Rodari C. Ciliberto, R. Lucchetti (a cura di) Un mondo di idee. La matematica ovunque A. Teti PsychoTech - Il punto di non ritorno. La tecnologia che controlla la mente R. Guzzi La strana storia della luce e del colore D. Schiffer Attraverso il microscopio. Neuroscienze e basi del ragionamento clinico L. Castellani, G.A. Fomaro Teletrasporto. Dalla fantascienza alla realtà E Alinovi GAMESTART! Strumenti per comprendere i videogiochi M. Ackmann MERCURY 13. La vera storia di tredici donne e del sogno di volare nello spazio R. Di Lorenzo Cassandra non era un'idiota. Il destino è prevedibile A. De Angelis L'enigma dei raggi cosmici. Le più grandi energie dell' universo W. Gatti Sanità e Web. Come Internet ha cambiato il modo di essere medico e malato in Italia n. Gòmez Cadenas L'ambientalista nucleare. Alternative al cambiamento climatico M. Capaccioli, S. Galano Arminio Nobile e la misura del cielo ovvero Le disavventure di un astronomo napoletano

Di prossima pubblicazione N. Bonifati, G.O. Longo Homo Immortalis. Una vita (quasi) infinita EY. De Blasio Aria, acqua, terra e fuoco - Volume I. Terremoti, frane ed eruzioni vulcaniche EV. De Blasio Aria, acqua, terra e fuoco - Volume II. Uragani, alluvioni, tsunami e asteroidi L. Boi Pensare l'impossibile. Dialogo infinito tra arte e scienza