Dove eravate tutti 9788807018602 [PDF]


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Table of contents :
FINE DELLA MAGIA......Page 7
Edizione straordinaria......Page 8
Ultima fermata del furgoncino azzurro......Page 10
Il 1993......Page 12
L’equilibrio delle correnti......Page 15
Mago delle Frittate va in pensione......Page 18
Risvolti giuridici del fatto e carattere del reo......Page 21
Catalogo delle Ragazze Sbagliate......Page 23
Con-vostra-zia-in-Germania......Page 25
Gli insetti sociali tornano a casa......Page 28
I padri......Page 32
Giudicare......Page 34
Il processo......Page 37
Mentre Harry Potter diventava grande......Page 42
Il processo 2......Page 48
STORIA DEGLI ANNI SENZA NOME......Page 53
FALDONE I......Page 54
Ipotesi per una tesi......Page 55
La giornaliera luce delle gazzette......Page 59
L’amore liquido nel 2005......Page 66
FALDONE II......Page 78
Cronologia universal-personale......Page 79
TUTTI A BERLINO......Page 80
Senza precedenti......Page 81
Marangoni è un eroe......Page 84
Proust su Facebook......Page 88
Antiquario, becchino, cacciatore, sciamano......Page 91
Lo smaltimento dei ricordi......Page 94
Gli ingranaggi della nostalgia......Page 98
La nostra vita in trasferta......Page 99
Il rumore della coscienza......Page 104
Come 36 milioni di cuccioli appena nati......Page 108
Fantascienza......Page 110
Il 2010......Page 113
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Sommario FINE DELLA MAGIA ........................................................................................................................ 7 Edizione straordinaria ......................................................................................................................... 8 Ultima fermata del furgoncino azzurro............................................................................................... 10 Il 1993 ............................................................................................................................................... 12 L’equilibrio delle correnti .................................................................................................................. 15 Mago delle Frittate va in pensione ..................................................................................................... 18 Risvolti giuridici del fatto e carattere del reo ..................................................................................... 21 Catalogo delle Ragazze Sbagliate ...................................................................................................... 23 Con-vostra-zia-in-Germania .............................................................................................................. 25 Gli insetti sociali tornano a casa ........................................................................................................ 28 I padri ................................................................................................................................................ 32 Giudicare ........................................................................................................................................... 34 Il processo ......................................................................................................................................... 37 Mentre Harry Potter diventava grande............................................................................................... 42 Il processo 2....................................................................................................................................... 48 STORIA DEGLI ANNI SENZA NOME ............................................................................................ 53 FALDONE I ...................................................................................................................................... 54 Ipotesi per una tesi ............................................................................................................................. 55 La giornaliera luce delle gazzette ....................................................................................................... 59 L’amore liquido nel 2005 ................................................................................................................... 66 FALDONE II ..................................................................................................................................... 78 Cronologia universal-personale ......................................................................................................... 79 TUTTI A BERLINO .......................................................................................................................... 80 Senza precedenti ................................................................................................................................ 81 Marangoni è un eroe .......................................................................................................................... 84 Proust su Facebook ............................................................................................................................ 88 Antiquario, becchino, cacciatore, sciamano ....................................................................................... 91 Lo smaltimento dei ricordi ................................................................................................................. 94 Gli ingranaggi della nostalgia ........................................................................................................... 98 La nostra vita in trasferta................................................................................................................... 99 Il rumore della coscienza ..................................................................................................................104 Come 36 milioni di cuccioli appena nati ...........................................................................................108 Fantascienza .....................................................................................................................................110 Il 2010 ..............................................................................................................................................113 Nota dell’autore ................................................................................................................................115 Indice ........................................................................................... Errore. Il segnalibro non è definito.

Paolo Di Paolo

DOVE ERAVATE TUTTI

Feltrinelli

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nella collana “I Narratori” settembre 2011 ISBN edizione cartacea: 9788807018602

Le illustrazioni contenute nei capitoli Mentre Harry Potter diventava grande e L’amore liquido nel 2005 e il disegno del furgoncino azzurro sono dell’autore.

per Scirocco “quale vita in St. John’s Wood”

Arrivano. Da ogni lato, da ogni fonte ci raggiungono, goccia a goccia riempiono le ore, si precisano. Nessuno le urla per strada, ma tutti i minuti sono edizioni straordinarie, dicono gli schermi muti dei televisori nelle vetrine, nei bar, i trilli di cellulari inesauribili. Arrivano, le notizie – e di solito sono cattive. La città è sveglia da poco, c’è da farsi largo per salire sugli autobus. L’oroscopo, su piccoli schermi, mette già in guardia i Gemelli dalla Luna stressante. Come una nave ferma al porto da sempre – le stive sordide, i passeggeri di terza classe che si affacciano, che dormono sui lati – la stazione quasi scintilla nella luce di settembre. Appena fuori, la somma di piccoli mercati personali e abusivi è un suq mediorientale. Le pistole giocattolo sparano bolle di sapone, tutti hanno fretta e le scacciano come mosche davanti agli occhi nell’aria ancora estiva. Per un attimo non ricordi più se le vacanze sono finite o stanno per cominciare, ma gli zaini gonfi ondeggiano sulle spalle degli studenti, che erano spariti e adesso sono tornati. Afferrano al volo i giornali gratuiti. Poi, per distrazione o per scelta, li lasciano cadere. Tra poco sotto i piedi ci sarà un tappeto di parole consumate – l’impronta delle scarpe su titoli che non dicono niente di nuovo. Rimasti a metà: “a rischio 480”, “disagi per”, “lo stupido gioco di attraversare i binari”, “prove del Dna”. Altre notizie arrivano, sono arrivate. Così in fretta da fare meno paura. Un maremoto, più tardi, colpirà le Isole Samoa e io lo saprò mezz’ora dopo. Non molto altro, ma saprò. Voltiamo pagina. È successo anche questo, e questo, e questo. Muore Napoleone, è il 5 maggio 1821, la notizia impiega due mesi a raggiungere Milano. Alessandro Manzoni è in una bottega di libraio, è estate. Si sente svenire. L’autobus inchioda. L’autista lancia un insulto fuori dal finestrino, i passeggeri in piedi si riassestano e adesso anche loro sono in grado di prendersela con qualcuno. Per trenta secondi molti hanno interrotto conversazioni al telefono che sono altrettanti telegiornali della loro vita privata. Chi sta intorno, già al corrente di lavandini otturati e interminabili liste d’attesa per una stupida ecografia, ora aspetta il seguito: con storie anche più avventurose, magari con liti. La donna grassa con accento dell’Est dice: ho chiamato signora, ho chiesto se va bene andare a stirare i panni domenica, sabato impegnata, faccio pubblico a Raidue, signora ha detto mi va benissimo Meri, finisco di fare le lavatrici così gli altri panni sono asciutti. Un ragazzino che sembra uno spillo interpella ridendo l’amico: Turco, ma quindi fammi capire, alla fine ci sei riuscito a baciarla? Scendo, sono in ritardo. Quasi stordito da questo ronzio, mi metto a correre. E corro, corro, con i piedi un po’ larghi, la tracolla che scivola di continuo, le idee in confusione. I platani non hanno ancora perso le foglie, stringono la strada come le pareti di un tunnel. Forse è la volta buona per vedermi assegnare una tesi di Storia contemporanea come si deve: questo martedì di fine settembre di fine decennio – le Isole Samoa tra qualche ora inondate, l’ennesimo attentato in Iraq, tutte le altre notizie terribili che arrivano, continuano ad arrivare e però non ci frenano, ci lasciano correre. Finché non riguardano noi.

Parte prima

FINE DELLA MAGIA I popoli, come gl’individui, nel pendio della loro decadenza diventano nervosi, vaporosi, sentimentali. FRANCESCO DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana

Edizione straordinaria Dopo una primissima e parziale ricostruzione, il fatto non suonava neanche troppo grave. Insegnante fresco di pensione passa una mattina davanti alla sua vecchia scuola per qualche ragione burocratica o pura nostalgia (questo è difficile chiarirlo), e per errore – una manovra azzardata, una distrazione – sfiora le ginocchia di un suo ex studente che in quel momento attraversa, iPod nelle orecchie, la strada. Uno stupido, banalissimo incidente: tre righe in cronaca o nemmeno quelle. Ma il dettaglio più imprevisto e più assurdo è che l’insegnante fresco di pensione si chiama Mario Tramontana. Mio padre. “Vorrei sapere perché entrava alla terza ora! Come sempre, tra l’altro,” avrebbe sbraitato, subito in cerca di attenuanti. Convinto che se Thomas della quinta B fosse stato per una volta – per una volta: quella volta – puntuale, non sarebbe successo niente. E però questo Thomas entrava alla terza ora, papà passava da quelle parti – forse un po’ sovrappensiero? – e insomma, ecco. L’importante è che il ragazzo non si sia fatto niente, abbiamo detto a pranzo, quando dal protagonista ci è stata raccontata la vicenda, con il tono di chi può archiviarla in fretta e senza traumi. L’importante è questo, abbiamo ripetuto io e mia madre, con appena un po’ di convinzione in meno. Mentre Anita, lei no, lei è saltata su con grande allarme. “Tu sei veramente un pazzo.” Papà, e con lui anche mamma e io, stavamo per apprendere con sconcerto che Anita frequentava, già da tempo e in gran segreto, Marangoni Thomas della attuale quinta B. O almeno credeva di frequentare, aspirava a. Lì per lì ci saremmo limitati a dedurre che questo Thomas le era tutt’altro che indifferente. Insomma, papà non aveva investito un suo ex studente qualunque: aveva investito Marangoni Thomas. “E come sta?” “Non si è fatto niente. Figurati.” Anita si alza di scatto e sparisce in camera sua. Ripeto io, con più distacco, la domanda: “Seriamente, come sta? Si è fatto male?”. Mamma adesso tace. Guarda nel vuoto, o forse fissa la macchia di umido all’angolo del soffitto. È già alle spalle un’altra estate buona per ridare il bianco. Ma niente, si rimanda sempre. E i mobili? La credenza e i servizi di bicchieri che contiene hanno seguito giorno per giorno il sequestro Moro. “Non si è fatto niente.” “Ma i genitori?” “Due idioti.” “I genitori, dico, l’hanno saputo?” “Sì, li hanno chiamati, è venuta la madre, ha detto le solite cose.” “Che vuol dire ‘Ha detto le solite cose’?” “Che non ho mai capito suo figlio. Che l’ho perseguitato. Che ci mancava solo questa.” “Tu avevi qualcosa contro Marangoni Thomas, fammi capire.” “Ma che dici.” “Contro i suoi genitori.” “No. La madre ha aggiunto che ho messo a repentaglio il futuro di suo figlio.” “Che gli hai fatto?” “Ma niente, per la storia delle gambe.” “Che c’entrano le gambe.” “Gioca a pallone.” “Va bene, ma che c’entrano. Quindi si è fatto male.”

“Secondo me, no.” “Che vuol dire ‘secondo me’?” Marangoni Thomas, avremmo saputo, aveva riportato una contusione, non seria, al ginocchio destro. L’indomani mattina, sulla cronaca romana del “Messaggero”, non avremmo voluto leggere e invece avremmo letto che: Davanti all’istituto tecnico ... un ex professore ha investito due studenti. È successo martedì mattina: i ragazzi stavano attraversando quando sono stati urtati dall’auto. Uno è rimasto contuso, l’altro non ha riportato lesioni. L’ipotesi di polizia e carabinieri è quella di un gesto volontario dell’insegnante, forse esasperato dagli studenti. L’uomo è stato deferito in stato di libertà alla Procura di Roma per lesioni personali aggravate dolose. Le cose erano evidentemente più gravi di come papà le aveva riferite. Lui si era difeso, all’istante, dicendo che la ricostruzione del giornale era stata fatta sulla base di chiacchiere dei genitori o di qualche bidella pettegola. Che tutto era molto più semplice e di nessun conto. Una tempesta in un bicchiere d’acqua. Invece, si vedeva, era preoccupato (ti trema la palpebra dell’occhio destro, papà), più della sera prima. Come se il trafiletto sul “Messaggero” lo avesse spinto a prendere coscienza di ciò che doveva avere vissuto come in trance. Si poteva buttarla sul ridere? Se fosse stato un gioco, uno scherzo. Ma c’era da concludere che nella testa di mio padre Mario Tramontana, dopo un trentennio di onorato servizio, qualcosa doveva essersi incrinato, inceppato. Qualcosa non da poco: qualcosa da definire, in breve, come il suo equilibrio psichico. Fino a quel momento, potevamo giurarlo, del tutto stabile. Ma adesso? Era andata così. Mattina di fine settembre, martedì. Papà si sveglia di buon’ora. Ha un appuntamento alle nove. Dall’appuntamento alle nove viene deluso. Gonfio di nervosismo, guida a strappi verso casa, passando davanti alla sua scuola. L’anno scolastico è cominciato da poco. Ma per la prima volta dopo un milione di campanelle, non per lui. Marangoni Thomas e il suo socio si trovano a un passo dall’ingresso. Li riconosce. Lo riconoscono. Marangoni spalanca la bocca in un sorriso strano. L’altro fa, dall’orlo del marciapiede: “Bella, professo’!”. Ciondolano. Marangoni ride. Poi quasi urla: “Come va da pensionato?”. E ride di nuovo. Ammicca al socio. Lì pare che, attraversando, Marangoni abbia alzato il dito medio verso il suo ex professore. E che il suo ex professore, per stizza, abbia spinto sull’acceleratore, forse solo con l’intenzione di spaventarlo eccetera. Marangoni ha bestemmiato. E tutto quel che segue.

Ultima fermata del furgoncino azzurro Quindici anni dopo le premesse del governo Berlusconi I, nel pieno del governo Berlusconi IV, come se non bastasse, nonno stava morendo. Nell’autunno del 1993 un ictus gli aveva risparmiato di assistere con lucidità all’ingloriosa disgregazione del Partito socialista italiano, nelle cui file aveva militato per anni, e a tutto ciò che sarebbe venuto dopo. Poco prima di ammalarsi, un pomeriggio aveva sorpreso suo nipote, cioè me, intento a sfogliare “l’Unità”. Forse riuscì a vederci un segno di precoce definizione della mia coscienza politica. Disse soltanto: “Tuo padre lo sa?”. Il nipote decenne fu costretto a confessare di avere acquistato quel nobile giornale di sinistra solo perché all’epoca allegava videocassette e figurine. E adesso moriva. Per quindici lunghissimi anni, scampato il pericolo, era rimasto vivo e quasi immobile. Vigile, ma poco partecipe di ciò che gli accadeva intorno. Silenzioso fino quasi al mutismo. Cinquemila giorni tutti uguali, spesi davanti a una finestra, senza guardare. Ogni tanto – era passata un’ora o un minuto? – scostava la tendina con la mano sinistra (la destra era spenta, inerte lungo il fianco) quasi per accertarsi che il mondo, fuori, continuasse a esistere. Il pranzo a mezzogiorno in punto, la cena alle sette e mezzo. Le scatole di medicinali in perfetto ordine su un tavolino del soggiorno – compresse, bustine, fiale. Orari, dosaggi: la posologia della sopravvivenza. Adesso c’è il suo affanno che riempie tutte le stanze, è fiato che si assottiglia e diventa rantolo, si confonde con il gorgoglio del respiratore artificiale. Ogni tanto pare spezzarsi: in un accenno di singhiozzo, o in un suono secco come lo scoppio di una polla d’acqua, però più forte. È impossibile distrarsi da questo – la fatica di chi esce dalla vita. È freddo, è il cuore della notte, passeranno pochi istanti e questa cosa che deve accadere accadrà. Invece non accade, non adesso. Allora i piedi e le gambe dei vivi ballano nervosamente, cominciano a formicolare. Qualcuno, riavendosi dal torpore, si stropiccia gli occhi come un bambino e prova a mettere a fuoco il quadrante della pendola. Che ora insolita – le 3 e 45 del mattino – perché le luci nelle stanze siano accese, perché si sparga nel corridoio l’odore di caffè. C’è da aspettare. Il suono del respiro arriva dalla camera da letto con un effetto ipnotico, copre le poche parole che è possibile dire – pratiche, spicce. Quando di nuovo si interrompe, il silenzio (dura pochissimo) è feroce e paralizza. Ma non è la morte, non ancora. Allora passano altri giorni e notti uguali, la tensione si allenta un poco, come se questo esserci a metà potesse durare, stabilizzarsi, e la vita attorno assecondarlo. Anche sempre. Le immagini del televisore ammutolito sembrano un allarme. Non è sempre, niente lo è. Così quella cosa è accaduta ed è l’unico istante che non ricordo. Come se si fosse cancellato subito, o fosse stato impossibile trattenerlo. La morte dei nonni capita a tutti. Poi cos’era? Un diverso spostamento d’aria, il silenzio che non si è interrotto – riprendi, respiro, riprendi! Il silenzio che diventa lungo. La tensione muscolare irrigidisce i gesti di mio padre. Non voleva vedere, non voleva più entrare. Nonna che dice: coprite gli specchi. L’ora segnata sul certificato di morte dice che è finita la lunga storia di un uomo nato l’ultimo

anno della Prima guerra mondiale. Correvo da qualche parte, non so bene dove, ma via, da qualcosa che all’improvviso mi batteva sulle tempie. Mi pare di avere pianto. È stato quando ho avuto quest’immagine negli occhi, questa cosa che credevo di non ricordare più. Il furgoncino azzurro. Si stava parecchio stretti nell’abitacolo. Compressi al punto da dover cambiare forma. C’era un odore fuligginoso, e c’era la sua giacca ruvida. Come si fa a raccontare quanto fosse ruvida, se non si è una guancia? Nonno dava gas al motore, che scoppiava come gli ultimi tre fuochi d’artificio di uno spettacolo estivo. Il carico del furgoncino era imprevedibile: mattoni, fascine di legna, ortaggi. Soprattutto, ortaggi da distribuire alle nuore. Una volta, una grossa scatola di cartone contenente una nidiata di pulcini. Veniva un po’ da ridere e un po’ da vergognarci, a noi nipoti, quando era nonno a portarci a scuola. Che avrebbero pensato, tutti i nostri compagni di classe, tutte le maestre, di quell’assurdo furgoncino? Pensavo che mi ridesse dietro anche la mia preferita della scuola e del mondo. Invece, un giorno che restavamo di pomeriggio, mi ero sentito dire: “Ma una volta mi ci fai salire?”. “Dove?” “Su quella strana macchina-piccolo camion.” “Dove?” “Su quella cosa spaziale con cui arrivi a scuola.” Avevo sentito bene? Aveva detto “spaziale”. Ripetilo, fammi sentire bene. “Ti piace quel furgoncino?” le ho chiesto con stupore. “Ecco, com’è che si dice. Furgoncino!” Era bellissima. Ripeteva “furgoncino” con le labbra a cuore, come fosse una parola esotica appresa in quel preciso istante. Sapere che Scirocco apprezzava il furgoncino azzurro, mi aveva reso più che felice. Invincibile. Ma c’era un problema: eravamo nel 1993. Nonno si era da poco sentito male. Il furgoncino era immobile sul vialetto di casa, già da qualche settimana. “Impossibile.” Lei ha fatto subito il muso. Ha detto solo: “Va bene, grazie lo stesso”. Mi avrebbe, giorni dopo, fatto recapitare una striscia di carta a quadretti con scritto in stampatello PENSAVO DI POTER ESSERE AMMESSA, CIAO. Avevo, per così poco, perso la stima di Scirocco? Ah, il 1993. Terribile. Io, la mia famiglia, l’Italia non saremmo stati più gli stessi.

Il 1993 L’estate di quell’anno fu l’ultima della mia vita incosciente. All’improvviso un uomo senza volto entrò nei miei sogni. Aveva un sacchetto di plastica stretto al collo con un laccio. Si parlava di suicidi in carcere, scandali politici, bombe che esplodevano a Roma, a Firenze, a Milano, agguati di mafia. Prima del ’93 non ho memoria di niente, o mi sembra di non averla, che è lo stesso. Ma forse sì, una domenica di luglio del ’92: quando la mafia uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Ero nel giardino dei nonni, mi dondolavo su un’altalena rudimentale. La televisione accesa in cucina mandava immagini strane. Che succede? Avevo nove anni. Poi, basta. Il ’93 era cominciato con l’arresto di Totò Riina, il capo di Cosa Nostra. È l’ora di pranzo, il telegiornale sta dando la notizia. Nonna deve avere preparato una minestra di patate, la riconosco dall’odore: un po’ dolce, forse triste. Tra poco saprò che da grande ho deciso di fare il prestigiatore, o qualcosa del genere. Ma che anno incredibile è stato. La storia del Mostro di Firenze, le monete lanciate contro Bettino Craxi, le sue dimissioni. Laura Pausini vince Sanremo Giovani con La solitudine. Sapevo tutte le parole a memoria, e questo fece impressione quasi a chiunque. Poi è cominciata l’estate: con la storia di un’americana, Lorena Bobbit, che aveva evirato il marito. All’epoca avevamo una maestra di sinistra. Ci parlava della guerra in Bosnia, ma anche dell’era felice che avevamo davanti, con Bill Clinton presidente degli Stati Uniti d’America. Ci coinvolse nella scelta del nome da dare a un parco pubblico, dalle nostre parti. Io dissi che avrei voluto chiamarlo, per esempio, Walt Disney o, per esempio, Snoopy. Ma Italo, che cretinata è, disse lei. Dopo una piccola pausa, come se avesse dimenticato qualcosa di fondamentale, Maestra aggiunse: non hai un briciolo di senso civico. Divoravo fumetti e cartoni animati, la cosa mi offese moltissimo. Il parco alla fine fu chiamato Giovanni Falcone. Per Natale, Maestra propose la realizzazione di un plastico dell’Italia. Fui scelto per disegnarne la sagoma su una tavola di legno. Il corpo della nazione era cartapesta dipinta. Milano era rappresentata da un Duomo di cartone in miniatura, Venezia da una gondola, Roma dal Colosseo e così via. Di fronte a genitori e nonni, l’ultimo giorno prima delle vacanze, fui sempre io a leggere (c’era chi non sopportava più il mio protagonismo) un testo edificante sull’unità del paese. L’ideologo della Lega Nord aveva parlato nelle settimane precedenti di un’Italia da dividere in tre: Repubblica federale del Nord, Etruria, Sud. Maestra ripeteva: “Questi signori vogliono fare a pezzi il nostro paese, noi non dobbiamo permetterlo, vero bambini?”. Avevo l’immagine della nostra tavola di legno ridotta in trucioli. Di quella stessa stagione ricordo anche che si parlò della morte del grande regista Federico Fellini e dell’entrata in politica dell’imprenditore milanese Silvio Berlusconi. Il famoso giornalista Indro Montanelli lasciò la direzione del suo giornale per incompatibilità con l’editore, ormai politico, Berlusconi. Già per il mio esame di licenza elementare, l’imprenditore, editore, ormai politico, era presidente del Consiglio. Da allora, ogni cosa appare più chiara. Da allora, ricordo tutto. C’è, tra l’altro, un momento della vita privata che ebbe un impatto superiore a quello di qualunque evento pubblico. Fu la festa di compleanno in cui per l’ultima volta vidi la bambina detta Scirocco. Da lì in avanti, le nostre strade scolastiche si sarebbero infelicemente divise. Io non lo so più cosa significa essere innamorati da bambini. Se è una cosa vera, se è una cosa possibile. Però poteva accadere che una strana elettricità abitasse i nostri piccoli corpi: qualcosa come

un’euforia interna. Fuori, si alzava una nebbiolina che copriva le cose e ci impediva di vederle per quello che erano. Infatti, resta di quel pomeriggio di novembre ’93 un colore azzurro intenso – azzurrissimo, avrei detto allora, per amore dei superlativi – che coincide con l’intero salotto della festa, con la luce di quel salotto. Un mangianastri in bilico su una seggiola vibrava, per il volume troppo alto di una canzone che diceva Hanno ucciso l’Uomo Ragno, chi sia stato non si sa. Poi il resto non lo so, io guardavo Scirocco. Un tavolo tondo, accostato alla finestra per lasciare spazio ai balli, era ricoperto da vassoi con pizzette, ciotole di patatine, piccoli panini al latte con burro e prosciutto, bottiglie di aranciata Fanta e di Coca-Cola. Ritorna un ronzio. Tiritere senza senso, “Specchio riflesso, buttati nel cesso”, il gioco della bottiglia. Bacio no!, allontana da me questo calice. Per baciare, avrei aspettato ancora, avevo troppa paura. Verso le sette e qualcosa, lo sapevamo, avrebbe cominciato a suonare il campanello. Speriamo che questa non sia mia madre, speravamo tutti: la figura migliore la faceva chi andava via per ultimo. Invece mamma arrivò, prima in assoluto fra le mamme e molto prima delle sette. Questo fu davvero deludente. Ma doveva essere successo qualcosa, mi venne da pensare, e in effetti era successo. Nel cuore del pomeriggio, nonno aveva avuto l’ictus. In momenti simili, gli adulti cominciavano a muoversi attorno a noi in modo imprevedibile e un po’ illogico: con passi che sembravano di una danza veloce e scoordinata, con mani che chiudevano in fretta i cappotti, a strattoni; con sguardi che riuscivano a concentrarsi su di noi solo per brevissimi istanti e orecchie sorde alle nostre domande. Ma nonno adesso dov’è?, se oggi a pranzo era lì con noi, e poi si era seduto nella sua poltrona (i nonni avevano poltrone personali). Se la mattina ci aveva accompagnato a scuola con il suo furgoncino azzurro. Eh, mamma, mi dici dov’è? dove l’hanno portato? Niente. Poi, passavano quindici anni. Qualcosa era cambiato, dal 1993. Molte, moltissime cose, forse troppe, erano rimaste le stesse. Io non ero più in quinta elementare, tanto per cominciare. Avevo avuto il tempo di dimenticare abiti indossati, oggetti, domeniche pomeriggio che per qualche oscura ragione avevano formato il mio carattere. Eppure, alzando gli occhi, guardandomi intorno, da cosa era possibile dedurre di non essere ancora nel cuore del terribile ’93? Adesso, con la morte di nonno, a maggior ragione, sembrava di essere risospinti indietro: nella voragine del passato. L’Italia aveva tutta l’aria di essersi addormentata in quell’anno. Nonno fermo, la nazione pure. La corruzione. La mafia. La Lega. Silvio Berlusconi al centro della scena politica, ora come allora. E sì che nel frattempo parecchie di quelle esperienze che, come si dice, contano, c’erano state. Ho undici anni. È il mio esame di quinta elementare. Sto per cominciare una penosa esibizione musicale: Yesterday con una pianola. Sudo freddo. Mi blocco. Sol-Fa-Fa. Sento gli occhi di tutti addosso. Al governo c’è Berlusconi. Sono maggiorenne, finalmente tutto può cambiare, o forse niente. Sdraiato sulla spiaggia di Sabaudia, la mia testa è sulle gambe di una ragazza, è già notte fonda, è da poco estate, forse ci prendiamo un malanno. Al governo c’è Berlusconi. È un pomeriggio di dicembre, la signora-commissario mi dice: torniamo alla scuola guida.

Faccio per prendere una strada, però è quella sbagliata. Ma che fa, va contromano?, chiede stizzita la signora-commissario. Penso di essermi giocato la patente. Al governo c’è Berlusconi. La prima volta? l’esame di maturità? la visita di leva (un attimo prima che fosse abolita)? la laurea cosiddetta triennale? Governi Berlusconi II, III, IV. Mi sento costretto a concludere che niente di decisivo nella mia vita fin qui è accaduto senza che ci fosse, da qualche parte, Silvio Berlusconi. Questa non è una cosa bella, né brutta. È una cosa vera. Potrà sembrare strano, ma l’Italia prima di lui, o senza di lui, per me non è mai esistita. La giovinezza di una generazione ha coinciso con lui. E non c’è più tempo. Il primo bacio, ricordo di averlo dato alla fine degli anni novanta, sotto un governo Prodi. Ma per il resto, Berlusconi: quando ho compiuto diciott’anni, per esempio, e così i venti e i venticinque. Per una fittissima serie di micro-eventi, scoperte, cose che faceva molto bene o molto male imparare. I governi di sinistra, durante la mia vita cosciente, cadevano così in fretta da non lasciare il tempo di fare esperienze significative. La vita privata restava la stessa all’inizio e alla fine delle legislature.

L’equilibrio delle correnti Ogni giorno accade un infinito numero di cose. La gran parte accade altrove, lontano da noi, senza che noi lo sappiamo. Con uno sforzo immenso di immaginazione, forse uno spreco, è possibile ipotizzare la somma dei fatti che riempiono lo spazio di ventiquattr’ore sul pianeta Terra. Dico tutto, tutto: nelle singole vite di ciascun essere vivente – animali come noi, e perfino piante, rami che da qualche parte si spezzano. Mio padre che investe con l’auto Marangoni Thomas della quinta B. Ma soprattutto: il numero delle tazzine che vanno in frantumi sui pavimenti di altrettante cucine, il numero degli amori che si consumano oppure stanno cominciando, le conseguenti urla e i conseguenti baci. Poi, semplicemente: il numero dei nati e dei morti, di qualunque specie, sulla terra e nel mare. E anche i pezzi di prato appena tagliato, le case costruite, i pieni di benzina, gli aerei in volo. Niente di tutto questo diventa storia. Perciò mi piace. E poi ancora, più lontano. Prendiamo un giorno a caso. Per esempio, il 24 marzo del 2000. Compivo diciassette anni, era un venerdì. Un gigantesco iceberg con superficie pari a quella dell’Abruzzo si staccava dalla Ross Ice Shelf, in Antartide, e se ne andava alla deriva insidiando le rotte di navigazione. Qualcuno ricorda di averlo saputo? Dovesse mai accadere che il riscaldamento globale stravolga sul serio le nostre piccole, insignificanti vite, si può stare certi che prima o poi salterà fuori uno storico pronto a dire: ma il 24 marzo del 2000 si può sapere dove diavolo eravate? (A una festa di compleanno, signore.) La questione dell’iceberg già la diceva lunga, ma voi avete fatto finta di niente. Gli storici fanno sempre così: vanno a cercare le cause di ciò che è accaduto quando è troppo facile vederle. In realtà, spesso tutto è molto più complicato di come loro lo raccontano. Spesso, i fatti tra cui vanno stabilendo connessioni, di connessioni non ne hanno affatto. O magari non così dirette. Gli storici trascurano, nelle loro valutazioni, i mal di stomaco, il vento, gli sbalzi d’umore, le decisioni improvvise, le previsioni del tempo, i sogni e parecchie altre cose. Perfino l’amore, a volte. Sembra che tutto accada su un piano di battaglia: frecce, frecce, frecce. Tutti ne abbiamo disegnate, ai tempi di scuola, quando il pomeriggio prima dell’interrogazione stava per finire e il pennarello correva sul quaderno. Da una cosa discendeva sempre un’altra: poteva trattarsi delle fasi della Guerra dei Trent’anni o del magone di Napoleone a Waterloo, non cambiava molto. Causa → Conseguenza. La vita che c’è in mezzo, sparisce. Giusto a dieci anni dalla storia della Ross Ice Shelf, i giornali avrebbero raccontato di un nuovo, enorme iceberg alla deriva al largo dell’Antartide. B9B: “Una montagna immacolata delle dimensioni del Lussemburgo che contiene circa un quinto dell’acqua consumata in un anno in tutto il mondo”. Il rischio è che alteri l’equilibrio delle correnti. È colpa del surriscaldamento globale?, chiedono i cronisti. Mah, rispondono gli esperti, nessun evento è unicamente collegabile ai cambiamenti climatici. “La deglaciazione ha motivazioni complesse.” Mi sono messo a pensare alle motivazioni complesse che precedono qualunque evento. L’iceberg che si stacca dall’Antartide. Mio padre che investe Marangoni Thomas. Mi sono messo a pensare ai dieci anni che separano la storia della Ross Ice Shelf e quella del B9B. A come passano dieci anni in Antartide – con tutto quel silenzio. Uno pensa: cosa potrà mai accadere, da quelle parti. E invece una serie inarrestabile e muta di micro-cambiamenti produce esiti sproporzionati. Le cose, a quel punto, non possono che spezzarsi. E l’equilibrio delle correnti, per forza, si altera. Questo era successo in Antartide e anche dentro casa mia.

Dovrei laurearmi in Storia contemporanea. Se credessi appena un po’ in ciò che faccio, potrei dire che: queste sono le cause, freccia, e questi gli effetti. Mio padre è andato in pensione, freccia, ha investito Marangoni Thomas. Mio nonno aveva novant’anni, freccia, è morto. Invece troppe cose sfuggono. Prive di motivazioni logiche, restano cieche e inaccessibili a me, agli storici e a tutti. Era il primo esame di Storia contemporanea, l’esame base. Mi fu chiesto di parlare della campagna d’Etiopia. Con questa guerra, devo aver detto, Benito Mussolini voleva dare uno sfogo alla vocazione imperiale del fascismo. Così avevo studiato. Poi ho aggiunto che erano i primi di ottobre del 1935. Ho nominato il Negus e la Resistenza etiope. Allora il professore ha detto: sì, d’accordo, ma chi l’ha vinta questa guerra? Sono rimasto in silenzio per almeno venticinque secondi, che in quelle circostanze sono un tempo biblico e feroce. Lui quindi ha ripetuto: allora, chi l’ha vinta? Avrei potuto dirgli che non avevo capito la domanda. Ma era così cristallina. Eppure giuro, non riuscivo a ricordarmi la risposta. Non la sapevo più, o non l’avevo mai saputa. Com’era possibile che mi fosse sfuggito il dato più importante? Mi dispiace, posso darle solo 21. Ma si figuri, ho pensato. Va bene 21?, ha chiesto lui, già disinteressato all’ipotesi che si trattasse di uno stupido vuoto di memoria, niente di grave, succede, un istante ancora e avrei saputo rispondere. Ma in realtà no, non avrei saputo. Ricordavo soltanto che l’Etiopia, “povera di risorse naturali e poco adatta agli insediamenti agricoli”, non era stata un grande affare per l’Italia fascista. Perciò vincere, chi aveva vinto? Tra l’altro, fra i volontari di quell’impresa, mio nonno diciottenne c’era. Non sapevo niente lo stesso. Le cose stanno così. Ho scelto storia perché mi è mancato il coraggio. Avevo pensato, negli anni del liceo, che il massimo per me sarebbe stato occuparmi di filosofia. Meglio ancora, di letteratura. Alla fine, ho scelto – così mi pareva – la più seria tra le materie non serie. Mi sembrava, tra tutte, anche per le sue zone incredibilmente grigie e pedanti, la più austera, la meno aerea. Posso dirlo? La più maschile tra le materie femminili. Non avrei avuto il coraggio, quando sarebbe stato il momento, di confessare che mi ero laureato su un poeta vivente, sconosciuto come poche altre entità sulla Terra, o sulle cose in sé, sui motori immobili, sul pensiero che pensa sé stesso. Ritenevo che una tesi sui limiti e le contraddizioni dello sviluppo negli anni della recessione 1963-1964 o sullo stalinismo in Bulgaria sarebbe suonata, alle orecchie degli altri, quantomeno dignitosa. Non certo all’altezza di una su questioni come lo stato della materia chiamato plasma o brodo primordiale, sulla mappa dei geni umani o sulle benemerite nuove prospettive di cura per qualche terribile patologia. Ma almeno. E poi, un’altra cosa. Mi piaceva quest’idea: il distacco dello storico. Una qualità che avrei voluto, che vorrei avere nella vita. Mi piacerebbe sempre riconoscere le forze in campo, nelle vicende che mi toccano. Distinguere, tra conflitti interiori, guerre lampo e guerre d’usura, insurrezioni e rivoluzioni. Monitorare le svolte e le crisi, con l’aria gelida di chi sa parlare di milioni di morti senza esserne turbato. Da dopo e dall’alto. Uno storico parla così. Tutto quello che ho studiato in questi anni si riduce, se provo a concentrarmi, a un grumo colloso come un cucchiaio di miele. Date, alleanze, ascese al trono, trattati di pace. Studiare storia,

pensavo sempre, è ricordare tempi e luoghi in cui non siamo mai stati. Ma come si può ricordare senza avere ricordi? “Mi parli, per favore, dell’incoronazione di Carlo Magno.” “Deve proprio scusarmi, ma non ero presente.” “Mi parli della Firenze medicea, allora.” “Non sono capitato neanche lì.” “Senta, mi faccia un quadro della situazione nazionale dopo la sconfitta.” “Vorrei, ma qui l’unico sconfitto sono io.”

“Non potresti essere più precisa?” “C’era questo debito, te l’ho detto. Era una famiglia che viveva oltre le possibilità. Si mettevano in mostra.” “Ma come era venuto fuori il debito?” “Non me lo ricordo. Lo sai quanti anni sono passati? Fatto sta che lui, per mettere a posto le cose, è partito. Aveva saputo che arruolavano giovani volontari in Africa, per fare i ponti, le strade. Si era presentato che aveva appena diciassette anni. L’hanno rimandato indietro e poi è partito l’anno dopo. Spediva i soldi a casa, le cose andavano meglio. Poi si è ammalato.” “Di cosa?” “Aspetta. Come si dice? La pleure...” “Pleurite.” “Sì, la pleure. I suoi compagni facevano anche la sua parte. Alla famiglia tenne tutto nascosto. Ma poi, una volta tornato, lo tennero nascosto loro, chiuso in casa, perché era magro da fare spavento, non sembrava più lui...” “E poi?” “E poi niente.”

Mago delle Frittate va in pensione In cucina, questo padre prepara la cena. Cucinare non gli piace. Gli sembra di buttare il tempo, anche adesso, con tutto il tempo che ha da buttare. L’unica cosa che ha imparato a fare bene sono le frittate. Sono semplici e veloci, è facile farne tante diverse. Ora taglia a piccole strisce una mozzarella. Ogni striscia, poi, la taglia a cubetti. Mago delle Frittate, si scherzava di lui, quando in questa casa ancora si scherzava, quando lui diceva: non preoccupatevi, stasera penso a tutto io, e la cucina si svuotava con un rumore allegro. Basta che non la fai esplodere, papà. Adesso, questa cosa di cucinare gli sembra una piccola, crudele ma indispensabile idiozia. So che pensa esattamente in questi termini dell’uovo mentre con una forchetta lo sbatte, e del sale mettendone troppo. L’attesa che compete a questo padre è la più inutile delle attese. La più insensata. Non pensa quasi più, non ne ha voglia, che possa ricomporsi qualcosa. Eppure basterebbe che una mattina, al risveglio, tutto tornasse a caricarsi di senso. L’odore di dopobarba e di sudore delle camicie indossate due giorni di seguito come un segno di vita quando era vivo. Era il tempo di scuola, scorreva uniforme ma avventuroso sempre, rispondendo a un calendario diverso, che non è quello di tutti. I mesi seguivano un altro ordine: settembre era l’inizio, con quella luce ancora estiva e fresca, e giugno la fine, con quasi quella stessa luce. Papà – Papà, gli direi, se sapessi parlargli. Ma ti ricordi per quante volte è stato il tuo primo giorno di scuola e anche il nostro? Mi tornano in mente tutti i tuoi gilet. Per molti anni dev’essergli sembrato che, se non invecchiavano quelle facce dietro ai banchi, poteva non invecchiare anche lui. Se quelli erano sempre così giovani, così bambini, pure quando fumavano in cortile oppure pomiciavano nei bagni, quando li vedeva impuntarsi su questioni che non erano mai di vita o di morte, ma per loro in quell’istante sì, pure in tutti quei momenti, quando arrivava la primavera e le ragazze cominciavano a spogliarsi, mostrando seni che facevano inghiottire troppa saliva, così belli e assoluti che non era il caso di guardarli; pure se pensavano sempre di essere già grandi, mio padre Mario Tramontana li sapeva invece così incredibilmente giovani e quasi poteva illudersi di restarlo anche lui. Aveva cominciato smilzo e non ancora trentenne. Aveva cominciato, diceva sempre, quando era stupido. Adesso non lo sa più il numero degli studenti che ha avuto, la somma dei pomeriggi di scrutinio, il totale delle incazzature con i genitori presuntuosi, con i loro figli lavativi, con i colleghi. Era un’insopportabile seccatura qualunque faccenda che in altre ere della vita lo avrebbe perfino divertito. Per esempio: un temporale a novembre, con questi che cominciavano a commentare il rumore dei tuoni, oppure un innocente nevischio che per loro poteva diventare, diceva, la manifestazione del Divino (riportarli su una terzina o sulla Guerra di Crimea era un’impresa). E ancora, per esempio: tenere in ordine il registro, preparare la programmazione a settembre e le relazioni conclusive a giugno. Una volta si divertiva a variare, a impostare progetti che regolarmente finivano in niente, ma era così bello pensare quest’anno faccio una cosa diversa, sennò gli sembrava di ripetere sempre e solo Carlo V e gli stessi canti della Divina Commedia, risaputi come proverbi. Era in grado di gestire con sollecitudine mal di pancia veri o simulati, “Oddio professo’, mi sento male”, conati di vomito, dolori mestruali, giornate in cui non andava di fare niente a loro e nemmeno a lui. Non gli sembrava di bruciare ore quando si metteva, con loro, a parlare di qualcosa che

li aveva colpiti, che li turbava: le ragioni ufficiali di una sospensione; uno che, in un’altra classe, si era ammazzato correndo come un pazzo in motorino; un fatto di cronaca qualsiasi; una questione generica come l’esistenza di Dio rispetto alla quantità di male nel mondo. Difficile dire di preciso quando, ma dev’esserci stato un momento in cui tutto – la scuola, quelle facce, il valore dell’insegnamento – ha cominciato a sbiadire nella sua testa. Sul colletto della sua giacca scura c’è forfora mista a polvere di gesso. L’espressione che ha nelle foto di fine anno – quelle con la classe al completo, scattate il penultimo giorno – è sempre un po’ accigliata. Non è per il sole. Mi sembra di vederti entrare in classe, sederti, cominciare a parlare fissando un punto qualunque della parete di fronte. Le carte geografiche non si sono accorte che il mondo è cambiato. Ma qui in effetti cos’è che cambia – fogli di giornale gialli usati come tende, banchi che sembrano rosicchiati dai topi. Appesa al muro, tra i cartelloni con le formule di fisica e chimica scritte a pennarello, la pubblicità di un modello in mutande e sotto SEI BELLISSIMO. Molte ragazze non usano più i vecchi zaini, hanno borse da donna, ampie. Le tengono sul banco o sulle ginocchia, “sennò si rovinano”. Tutto questo serve ancora a qualcosa?, devi esserti trovato a pensare, senza volerlo, ripetendo controvoglia le cause della Prima guerra mondiale, davanti a sbadigli enormi, sguardi vuoti, bocche intente a masticare per ore gomme americane, cellulari che si illuminano continuamente sotto i banchi (ma si può sapere chi diavolo vi scrive a quest’ora se siete tutti qui). Arrivano al tuo orecchio frasi che prima non sentivi, i commenti stupidi, le idiozie (gli alunni vedono le prime reazioni e picchiano duro se la cosa funziona), senti di non avere la forza di interromperti e dire adesso basta, per favore fatela finita, perché ti scopriresti ancora più indifeso e più solo, isolato come davanti a un plotone d’esecuzione. E non c’è niente, non c’è un pensiero che possa salvarti, qualcosa fuori da quell’aula a cui aggrapparti. Non è soltanto stanchezza. Evitate feste a sorpresa per la pensione, aveva borbottato per tempo in sala professori. Si era quasi vantato, a tavola con noi, di quel tono burbero. Comunque, in linea di massima, nessuno aveva in mente di organizzare niente. Allora proprio adesso, adesso che era fuori, adesso che si sentiva oppresso da una ridicola nostalgia per ciò che aveva lasciato e che pure da ultimo gli aveva fatto così male, forse adesso qualcosa cominciava a capire. Il rancore non si scioglieva, però lasciava aperto qualche spazio di lucidità. Erano come bagliori, rivelazioni minime e necessarie. Ed era questo, forse: quanto più si avvicinava la fine dei suoi anni di lavoro, tanto più doveva avere sentito che non c’era niente dopo. Non si trattava delle giornate da riempire, che pure sarebbero venute – eccole –, ma dell’impossibilità di capire che cosa fosse stata, infine, la sua vita. Qual era il risultato delle ore di lezione, delle interrogazioni, delle sfuriate, delle tenerezze? Che cosa aveva prodotto, non in loro, gli studenti: non era questo il punto (e tanto li stava dimenticando, li avrebbe dimenticati tutti). Che cosa tutto questo aveva prodotto in lui. Sapeva ancora, poteva ricordarlo, perché aveva scelto il mestiere di insegnante. C’è, in un luogo sicuro della sua memoria che è diventato nostro, la casa in cui è cresciuto. Più precisamente una stanza di quella casa, dove aveva capito, in un pomeriggio degli anni di università, che avrebbe fatto il professore. Gli sembrava l’evoluzione più naturale e opportuna non tanto, o non solo, dei suoi studi, ma della sua ricerca intellettuale, priva com’era di ambizioni accademiche,

giornalistiche, letterarie. I libri, la storia – e qualcuno a cui, con cui, parlarne. Basta. Il tempo per leggere, appuntare due righe su un quaderno, scrivere anche qualcosa di compiuto, se capitava, ma solo come un completamento o una conferma del pensare, dell’avere pensato. Ogni tanto sentiva il bisogno di vedere, fermate su carta, le linee del movimento del suo pensiero, i segni di come, negli anni, si era esteso, precisato, in qualche tratto perfino chiarito. E poi, in questo, riusciva a misurare, con una vertigine, la distanza che lo separava dalle origini di sé. Papà – Perché hai lasciato i volumi di Storia del socialismo italiano sull’ultimo scaffale della libreria? Ci vuole una sedia, per arrivarci. Aveva studiato. Aveva appreso un numero sterminato di cose che suo padre, mio nonno, non sapeva e nemmeno immaginava che si potessero sapere. Si chiamava riscatto, questo? Ma da cosa, esattamente? dalla fame, dai geloni, dai giorni di sciopero in cantiere, dalla terribile, immane fatica del lavoro fisico – ovvero, dalla vita toccata a suo padre? A questo punto non lo sapeva più, e per anni non se l’era più chiesto. Perché poi la scuola non era un massimo sistema. In realtà, era una somma di minimi sistemi. Il minimo sistema-aula, per cominciare. I venticinque minimi sistemi delle vite di quelli che la popolavano. Il programma ministeriale che doveva giorno per giorno essere tradotto dalla sua voce in una serie di notizie, nozioni, suggestioni se necessario, comprensibili a giovani esseri umani infinitamente diversi tra loro per interessi, storia privata, qualità. La scuola era qualcosa che si attaccava alla pelle. Era, per lui, un abito: lo indossi, ci ingrassi e ci invecchi dentro, ma non ti chiedi più che cosa, quel giorno, ti avesse spinto ad acquistarlo. Questa cosa qui, questo titolo – professor Tramontana –, che senso aveva avuto? Se, per esempio, una volta riuscito a fissare un appuntamento con una piccola casa editrice per la questione del suo libro (adesso poteva, voleva permettersi un libro anche lui: aveva aspettato una vita!), regolarmente si sentiva rispondere: sa, la situazione dell’editoria in questo momento è complicata, capiamo il valore del testo, tuttavia sarebbe necessario un suo contributo per la pubblicazione... Allora, eccola la risposta. Che senso aveva avuto? Nessuno. I professori di scuola in Italia contavano meno di zero. La verità era questa, e non era un problema di stipendi miseri, non solo. Essere professori non era più un merito. Dava un’aria da camicie sgualcite (a un uomo, poi!), da lavoro di ripiego, di seconda fila. Dava un’aria di permanente sfortuna. Non produceva potere, autorità, autorevolezza. Quell’esercito di gente eccentrica e immalinconita che si muoveva in autobus o guidava utilitarie ammaccate – la classe insegnante – nella maggioranza dei casi discuteva con alunni e genitori non da un gradino più in alto ma nemmeno più da pari a pari. Questo forse sì, questo era davvero cambiato negli ultimi anni. Nelle ore di ricevimento, raccontava mio padre, piombavano genitori prevenuti e arroganti – “No, senta, scusi, forse non ci siamo capiti, ma mio figlio” – e poi finiva che in classe lui, l’animale, si sentiva inattaccabile nella sua condotta disgraziata. Il disprezzo dei genitori. Alcuni sembrano provare gusto, diceva, a umiliarti davanti ai figli.

Risvolti giuridici del fatto e carattere del reo Papà era stato denunciato dai carabinieri all’autorità giudiziaria per il reato di lesioni personali, ex articolo 582 del codice penale. Il pubblico ministero avrebbe fatto il resto: iscrizione notizia di reato, richiesta di emissione del decreto di citazione a giudizio eccetera. Nello specifico articolo 582 c.p., “chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni”. Non avevo mai avuto a che fare neppure da lontano con la severità sintattica del codice penale. Lui continuava a minimizzare, nelle sempre più rare interruzioni del suo stato di mutismo. “Ma per favore! Ma per favore!” Quanto a noi, a me, non riuscivamo a toglierci dalla testa la seguente frase: reclusione da tre mesi a tre anni. Non c’era niente da ridere. Piuttosto vivevamo, vivevo, una strana sospensione emotiva. Una paralisi del pensiero che mi consentiva la sola, idiota speranza che tutto questo non avesse rapporti con la realtà. Puntavo i piedi. Mi ribellavo. No-non-può-essere-così. No-non-puòessere-vero. Sarei stato meno sconcertato se nel cuore della notte due finanzieri ci avessero svegliato per una perquisizione, se con furia avessero fatto volare i compiti in classe dalla scrivania di papà, in cerca di carte che attestassero le sue trame di corruttore o corrotto. Avremmo potuto urlare: vi state sbagliando. Qui, no. Mio padre! L’ipotesi che potesse passare anche solo tre mesi in prigione mi atterriva. Da certe zone dell’esistenza – quella che si direbbe la vita tranquilla dei più – è possibile prospettare catastrofi di vario genere, fisiche, sentimentali, economiche, ma risulta davvero impossibile prefigurare di potere un giorno avere a che fare – come si dice? – con la giustizia. Sì, certo, liti condominiali, testimonianze, multe. Non oltre. Si trattava di lesioni volontarie? C’era la lontana possibilità che passassero per colpose? In questo caso, si sarebbe potuto risolvere con una pena pecuniaria. Ma non era difficile immaginare che Marangoni Thomas e genitori si sarebbero mostrati piuttosto agguerriti. E allora? Un avvocato amico di amici (non avevamo un avvocato) ci aprì per un attimo l’orizzonte appellandosi agli articoli 133 del codice penale e agli articoli 53 e seguenti della legge 689/1991 sulla depenalizzazione. Il giudice avrebbe valutato la natura del fatto criminoso (ma dove eravamo finiti, papà, io, l’intera famiglia Tramontana? in quale giallo dozzinale?), la modalità dell’azione, i motivi a delinquere. Il carattere del reo. La condotta e la vita del reo antecedenti al reato. Sul carattere (ma per carattere, di preciso, cosa si intende?) del reo, a questo punto non avrei saputo più cosa dire. Sulla condotta e la vita del reo antecedenti al reato, avrei potuto giurare. Però poi, all’improvviso, ho pensato che di quella condotta e di quella vita mi mancava un lungo tratto. Non c’ero stato per parecchio tempo, nella vita di mio padre. Era questo un pensiero raro, rarissimo, eppure in grado di lasciarmi sgomento. A lungo, nella vita di mio padre, io non ero stato né un sogno né un’ipotesi remota. Nemmeno un presagio. A lungo, non ero stato niente. E da quando ho cominciato a esserci, quante cose ho ignorato? Quante non ho neppure visto, captato. È possibile intervistare il proprio padre? Dopo e oltre le domande cieche dell’infanzia, dico; oltre quelle con cui lo abbiamo sfinito, i “perché”, “quanto manca”, “quando arriviamo”. Chiedergli com’è diventato quello che è. Se è mai stato male, male dentro, senza vedere via d’uscita – lui all’apparenza così impermeabile a tutto. Com’è stata la sua adolescenza (ci è stato tramandato, anche per via di nonni, qualcosa – in forma di piccola

leggenda domestica – sulla sua infanzia, ma troppo resta opaco, di lì in avanti). Hai avuto paura del futuro? Com’eri quando eri innamorato? Come ti vestivi? Come parlavi con i tuoi compagni di scuola? Se azzardo lo sforzo di una sovrimpressione – sensazioni della mia vita adolescente a un’ipotesi di te in quel periodo – mi ritraggo spaventato. Eppure devono essere passati nella tua maglietta un vento estivo e un desiderio anche miei, un giorno che mi somigliavi senza saperlo. Nessuno di noi pensava seriamente che papà fosse impazzito. Era una bomba a orologeria e non lo sapevamo? Anche nei momenti più conflittuali del rapporto con i genitori, c’è un limite al male che riusciamo a pensare di loro. Tuttavia, troppe cose non tornavano. Fino a questi eventi inattesi, oltretutto, il legame con mio padre non mi si era mai presentato come un vero problema. Solo adesso cominciavo a domandarmi se invece lo fosse stato, e a mia insaputa. Avevo mai guardato negli occhi mio padre per un tempo superiore a venti secondi? Mettiamo le cose in chiaro. Non è possibile stabilire, neanche tramite indagine storica, l’istante in cui si è interrotto tra noi il contatto fisico. Ci sarà stata, c’è stata (lo certificano le fotografie), l’epoca in cui mi teneva in braccio. Ma forse è durata fino a quando ho imparato a camminare. Non credo mi abbia mai tenuto per mano. Né deve avermi mai fatto carezze. Ricordo, più tardi, anche violente ma amichevoli pacche sulle spalle. Ricordo, di un po’ prima, una cosa come un buffetto sulla testa, che scompigliava i capelli. Soprattutto c’era il suo sguardo scuro, che invadeva i viali e mi seguiva anche lontano da casa. Senza avere mai davvero alzato la voce, e mai le mani, deve avermi educato a forza di questo sguardo severo, in grado di estendersi fino a coprire distanze notevoli. Per dire, potevo essere in gita scolastica – facciamo una città tedesca, un alberghetto senza pretese, l’unico canale della televisione italiana trasmette Raffaella Carrà, come si fosse incantato a quarant’anni prima. Tre maschi diciassettenni si sono appena fatti la doccia serale, il minuscolo bagno mezzo allagato è gonfio di vapore e tossine di cibi digeriti male. Sono nudi. Fanno i cretini. Nell’esatto momento in cui uno di loro, io, ha aggiunto la sua alle già numerose idiozie pronunciate, in quell’esatto momento lo sguardo del padre ha invaso la stanza. Mi sono infilato di corsa le mutande, ma proprio di corsa, e ho taciuto. Nessuno se n’è accorto. Ma la mia voce, già mentre scandivo le prime sillabe di quella scempiaggine (qualcosa sulle ipotesi di rimorchio serale, qualche sconcezza), si stava trasformando – e mi graffiava le orecchie – in un ruggito, o in un raglio. Come a Pinocchio, quando diventa asino. Lo sguardo mi seguiva dappertutto. Non che guidasse le mie scelte, ma molto spesso le disapprovava. Ho l’impressione che abbia ritardato lo scoccare del primo bacio, per esempio. O il mio ingresso nel corpo di una ragazza. Rendeva i miei gesti meno disinvolti, sempre un po’ ingessati, rendeva più spessa la mia forma-guscio. Questo spirito moralistico, allo sguardo, lo attribuivo io? Fatto sta che – in virtù del primo comandamento (“essere seri”) – la vita sentimentale, dalle elementari in poi, ne ha parecchio risentito. Dov’erano le ragazze serie? Quelle che avvicinavo – lo sguardo era molto chiaro in proposito – erano sempre quelle sbagliate. Ce n’è un intero catalogo, che lo sguardo userebbe a testimonianza della mia assoluta, disperante mancanza di serietà.

Catalogo delle Ragazze Sbagliate In una specie di sogno, quasi un incubo da sveglio, le Ragazze Sbagliate sono riunite intorno allo stesso tavolo. Mostrano una fastidiosa confidenza reciproca. E parlano, parlano. Con quell’aria eccitata e tesa delle conversazioni tra donne – se ci sono uomini attorno fingono di ignorarli, quando in realtà, con segreti e speciali radar, ne intercettano qualunque reazione, fosse pure un sopracciglio che si inarca –, esattamente con quell’aria lì, le Ragazze Sbagliate discutono a voce troppo alta. “Sbagliate noi? E lui sarebbe il Giusto? Ma per chi? È davvero intollerabile il livello di falsità a cui sanno arrivare gli uomini!” “Sempre loro i perfetti, gli innocenti, i puri!” “Io non ho parole,” dice una del gruppo, che però parla in continuazione. Nessuna sembra volersi sottrarre al racconto-sfogo. C’è perfino quella del primo bacio: me ne accorgo quando sento rievocare la mia esitante risposta alle labbra protese di lei. “E quanto ci voleva! Sembrava che dovesse fare una promessa matrimoniale, e che cavolo.” “Ecco, brava,” le fa eco quella con i capelli castani appena tagliati, “a me a volte mi faceva venire i nervi, in pubblico non mi voleva baciare mai. Non che in privato baciasse benissimo, ma...” “Tu non hai idea,” adesso è il turno di quella con gli occhi distanti dal naso, “tu non hai idea di quanto ho dovuto aspettare io, prima che arrivasse una vera e propria dichiarazione, una dichiarazione come si deve. Ci girava intorno. Sondava il terreno. Cercava conferme per evitarsi il rischio del due di picche. Che alla fine, per punizione, gli ho rifilato comunque.” Già. Estate, panchina, lei che si inumidisce continuamente le labbra, lui che lo interpreta come un’esortazione, lo sguardo gli si impiglia all’attaccatura dei seni di lei (ha appena notato una serie di minuscole, eccitanti smagliature, sembrano serpentelli fosforescenti), cerca di tenere il filo del discorso, ma lo perde, tutto finisce con lei che dice “la nostra è un’amicizia un po’ speciale”. Seguono molte parole, ma lui non le ascolta più. E adesso smette, adesso smetto di ascoltare anche quelle del sogno a occhi aperti, perché i racconti delle Ragazze Sbagliate cominciano a sovrapporsi, a diventare un ronzio in cui è difficile distinguere chi dice cosa. Se da Annalisa o da Mara proviene la requisitoria, chi è che rivendica quell’attenzione negata, chi pronuncia il proprio sdegno per il giorno che “ti rendi conto? Io ero lì, sul letto, accanto a lui, e lui a un certo punto si è addormentato!” Poi, fra le tante, c’è una questione ricorrente che nessuna rinuncia ad affrontare: la presunta incapacità di lui di farle sentire protette. Dunque ai loro occhi mancava qualcosa – deducevo dalle comuni rivendicazioni – ed era soprattutto questo: saper scegliere, saper guidare. Essere risoluto. Dare sicurezza. Ma allora le donne è questo che chiedono, ma allora sanno aspettare, mi dico, avere pazienza, fare finta di non vedere, e non importa se dimentichi gli anniversari, se non baci alla perfezione, se la notte russi come un trattore, o comunque tutto questo importa molto meno, se sentono che ci sei, che sei esattamente lì e non altrove, quando sei con loro, e quando c’è bisogno sai stringerle, anche forte, anche fortissimo, dicendo ti prego non muoverti, restiamo tutta la vita così. Comunque no, le Ragazze Sbagliate non hanno torto. Ho afferrato sempre troppo tardi, di solito quando era già finita, il senso della storia, quasi-storia, con ciascuna di loro. Ah, ecco, mi veniva da pensare, avrei dovuto fare esattamente quel gesto per farla felice. Per esempio: sono seduto in macchina con Mara, i vetri si stanno appannando, a occhio e croce si è fatta l’una del mattino, abbiamo parlato a lungo, senza sapere bene cosa dire, girando intorno alle cose. Mara ha cominciato a raccontare: di quella volta che si è lasciata baciare da un amico. Era ubriaca. E lui è stato così violento, dice. Di che fine avessero fatto le amiche che non vedeva più. Le parole prendono forma da uno strano

rancore – tutte traditrici e tutte stronze, a sentire lei: anche Daniela, te la ricordi, sembrava buona e cara, poi si è infilata in storie schifose, ha pure abortito, s’è presa un sacco di botte dal suo ragazzo. Più Mara aggiungeva dettagli, più io mettevo a fuoco la fisionomia di lei. Tra tutte quelle stronze, lei la regina. “Si è fatto tardi.” “Sei già stanco?” “No, è che domani...” “Quindi ti annoio.” “No, è che domani...” La Regina resta in silenzio, guarda fisso davanti a sé, poi si volta, mi soffia sul naso un po’ del suo alito dolciastro, mentre dice: “Stanca sono io, lo sai, perché io e te parliamo soltanto”. “...” “Io vorrei fare anche qualcosa che non sia parlare.” “Cioè?” “Che stupido sei.” Ma come, penso, ti ho già inviato la bellezza di quattro o cinque sms maliziosi per dirti che ti avevo sognata anche se non era vero, tu ti sei spinta a dirmi che sì, facevo bene a prenotare una stanza da qualche parte perché avevi voglia di farlo e casa non è mai libera, poi ci hai ripensato, e poi ancora sei tornata alla carica, ci siamo spogliati una volta che tua madre non c’era, ci siamo stretti nudi così per un po’, allora ti ho spinto la mano dove volevo che andasse, ma tu l’hai spostata dicendo “eh, no”. Fai pace con il cervello, Regina. Ma Regina – adesso lo so – voleva solo essere baciata. A Regina bastava che, senza spogliarmi, mi accostassi al suo viso, lo prendessi fra le mani e la baciassi. Quale branca del sapere potrà mai dare conto del desiderio umano, spiegarlo, dirci come e perché quello altrui è spesso tanto distante dal nostro? Due corpi sono vicinissimi, si toccano, ma le loro attese restano lontane. A lei bastava il bacio, ma tu hai cercato di andare oltre. A lui bastava vederti ogni sabato, ma tu insistevi che così era poco, che era niente. Comunque, una speranza resiste. Da qualche parte c’è, deve esserci – la ragazza non compresa nel catalogo. Non sapendo dove immaginarla, la proietto in tempi remotissimi, in altre ere o dentro un presente improbabile. È la giovane quasi nascosta a un passo da Lorenzo de’ Medici, indossa una veste smeraldo, i ricci sbucano da sotto la cuffia. È la ragazza nuda che tra poco si sveglia in una stanza piena di luce, mancano cent’anni al giorno in cui nascerà davvero. È un poster appeso in camera – il bagliore del suo successo planetario. Scirocco fan club.

Con-vostra-zia-in-Germania Emergevano nuovi particolari. Tra le motivazioni complesse delle vicende familiari, ce n’erano di sotterranee e segrete. Stava venendo fuori che i conti con Marangoni papà li aveva aperti da tempo. L’ultimo anno di scuola era stato un inferno. Una guerra. Marangoni Thomas e il suo socio. Loro sapevano bene che la pensione era imminente, dice, che tra un anno sarei stato altrove. Papà ha cominciato a parlare! Così, all’improvviso. Un’ombra di fine pomeriggio gli divide il viso a metà e un riflesso lucida la stempiatura. Questa certezza della pensione, dice, li rendeva più sfrontati, più cattivi. Vincenti. Eccoli che si lanciano l’ennesima occhiata di intesa. Da un istante all’altro, lui potrebbe esplodere e cominciare a urlare come un isterico. Quando accadeva, quando cedeva alla rabbia e si sfogava gridando, dice, aveva l’impressione che lo compatissero. Lui era là, seduto a battere i pugni sulla cattedra, rosso in volto, sudato, sfinito, davanti al loro silenzio ebete. Non capivano. A tutti pareva una reazione eccessiva, da squilibrato. Per che cosa poi? C’erano sempre, da qualche parte dell’aula, due o tre sguardi comprensivi. Sembravano dire, con gli occhi sgranati, “professore, su, che immagine sta dando di sé”. L’anno prima della pensione non fai più paura, fai pena. Ma sì, puoi pure provare a farli bocciare, tanto quello che perde sei tu. Bastava che tardasse cinque minuti al cambio dell’ora per trovare la classe nel caos. Dice che li pescava alle prese con sceneggiate demenziali, la parodia di trasmissioni televisive. Sulla lavagna c’era la scritta ENTRO DICEMBRE FRANCESCA DOVRÀ SCEGLIERE L’UOMO DELLA SUA VITA. Marangoni eccolo là, inginocchiato davanti a Francesca Iannucci con una scopa in mano a ripetere, come un disco incantato, a voce sempre più chiara – deve farsi sentire, vuole che si senta –, Francesca ti ho portato questo omaggio, così scopi meglio. Una volta hanno inscenato un finto sequestro. Una sedia al centro dell’aula. Quello seduto ha la faccia completamente coperta da una sciarpa rossa. Tre suoi compagni incappucciati, in piedi dietro di lui, fingono di minacciarlo con un phon, lo strattonano, l’ostaggio piega la testa in avanti, si sforza di non ridere, “scusi professore, ma dobbiamo annunciare le condizioni per il rilascio”. Quello che intanto filma con il cellulare sghignazza dicendo: direttamente da Al Jazeera, le immagini del sequestro di Cappuccetto rosso, Al Qaeda chiede come riscatto la consegna di venti ragazze vergini. “Andate a posto, fatela finita.” “Professo’, mamma mia, nun se po’ mai scherza’.” Una volta, dice, si divertiva. Dice che fino a qualche anno fa li accompagnava in gita, veniva a sapere tutto, faceva la voce grossa, in realtà sorrideva: di quello che s’era svegliato con il dentifricio sul sedere, di quello addormentato sul pullman con la bocca aperta in cui avevano infilato un fazzoletto. Di come i maschi andavano bussando, in albergo, alla porta delle ragazze, tirandosi giù le mutande o armati di lacca e accendino per spaventarle con le fiammate. Gli piacevano, anche nei giorni qualunque, molte cose. L’eroismo e la complicità dei bidelli. I momenti in cui tutto sembrava un’impresa collettiva, un piccolo titanico sforzo comune. Poi, gli zaini lanciati in aria. Però Marangoni e soci l’ultimo anno avevano superato ogni misura. È da settembre che fate i deficienti. Frasi stupide dette in coro durante la lezione, all’improvviso. Gli occhiali da sole in classe. Il suono di un bongo per tutta l’ora di storia. Mentre interroga alla cattedra, li vede alle ultime file che provocano le ragazze, fingono di accoppiarsi tra maschi sedendosi uno sulle gambe dell’altro.

“Mo’ sclera, mo’ sclera.” Marangoni dirige, i due o tre colleghi eseguono. Impossibile capire come sia accaduto, ma uno l’ha trovato che da un momento all’altro era rimasto in mutande coperto solo da un accappatoio. La mattina in cui ha pensato seriamente che avrebbe potuto ucciderli stava spiegando, senza nessun trasporto, Alfieri. Cita le opere su cui non potrà soffermarsi, dice di un insieme di epigrammi, sonetti e prose intitolato Misogallo e immediatamente arriva dal fondo dell’aula un prevedibile, stridulo chicchirichì. Nessuna sorpresa. Fa finta di niente. Prosegue. Quello che non si aspetta, qualche minuto dopo, è un eccitato conto alla rovescia. Dieci, nove, otto, sette, sei... Sul finale, in cinque si alzano di scatto, si accovacciano in cerchio tra le file di banchi, uno già li filma con il cellulare: signori, la battaglia dei galli! – ed eccoli là che tentano di restare in equilibrio mentre inclinano la testa in avanti, con la mano chiusa a becco davanti alle labbra. Ma soprattutto, ridono. C’era altro. Anita e io eravamo stati tenuti all’oscuro di un biglietto che, diversi mesi prima del reato commesso da papà, era stato infilato nella nostra cassetta delle lettere. IL PROFESSOR MARIO TRAMONTANA IN GITA SI È FATTO L’INSEGNANTE DI SOSTEGNO – all’inizio preso come una bravata, a tavola io e vostra madre ci abbiamo riso su, dice papà, guarda come sono diventati balordi i ragazzi di oggi. Anche mamma ha sorriso, sì. (Può darsi che questo sia un ricordo inesatto.) Non avremmo voluto sapere, ma abbiamo saputo, che le cose non erano esattamente come per anni ci erano sembrate. L’era dei sospetti era cominciata molto prima dell’istante in cui ce ne siamo resi conto. A volte, i padri e le madri riescono a nascondere ciò che non va. La famiglia, dicevano sempre quando era sereno, la famiglia prima di tutto, è la cosa più importante. Dovevamo crederci? Ma come facevamo, se dentro c’era questa storia di non detti, di segreti, di sbuffi per noia e per cattività. Se dentro c’era quest’aria pesante o elettrica. (I piatti, i panni, i suoceri. Non capivamo le battute sui parenti. Cadevamo dal pero quando a tavola si commentava con sprezzo una scelta o una frase di zii e cugini. Ma come? E la famiglia? La famiglia siamo noi quattro e basta. Ah, ecco.) Lui non ha mai ammesso. Non ha mai risposto. C’è stato qualche breve, brusco interrogatorio davanti a tutti. Come se mamma avesse aspettato di vedere suo marito già colpevole di un reato accertato, prima di potergli attribuire in pubblico altri capi d’accusa. Scattava all’improvviso, magari lavando i piatti. Erano allusioni a voce alta: meglio che non parli. Lui si limitava a dire: dai retta alle idiozie scritte da due deficienti che ce l’hanno a morte con me. Bene. Nient’altro. Per una sera o due lei si è rifiutata di preparargli la cena. In sostanza, aveva deciso da subito, da quasi subito, che era vero. Cioè, che papà, se non era andato a letto con questa collega, ci era andato molto vicino. E comunque – prima e sopra tutto il resto – l’idea di vivere, lei casalinga, con un uomo in pensione a casa tutto il giorno doveva averla messa parecchio in allarme. Doveva averla spaventata, resa più suscettibile. Noi da che parte stavamo? Anita diceva di non volerne sapere niente, che non erano affari suoi, che dovevano risolverla tra loro. Non era tanto l’ipotesi che fosse vero – che quella cosa lì fosse vera (non riuscivamo a nominarla) – a sconcertarci, ma che mamma, con tanta rabbia testarda, la giudicasse tale. Come faceva a essere così sicura? La fiducia tra loro si era sgretolata tanto in fretta? Mentre lei cominciava a ripetere, come una litania a mezza bocca, che sarebbe andata via per un po’ (“Ma dove?” “Non lo so.” “Mamma, non esagerare.” “Non esagero.” “Ma dove vuoi andare?” “Con vostra zia in Germania.” “In Germania!” “Eh, in Germania.” “In Germania dove?” “Berlino. Sono vent’anni che è caduto il Muro. Fanno un sacco di cose.” “Ma non potevamo andarci tutti? È una

vita che ti parlo di Berlino!”), che in questo momento proprio non ce la faceva a restare, che avremmo dovuto capire, qualcosa che fino a quel punto era rimasto quieto nella nostra testa ha cominciato a muoversi. Qualcosa come l’idea che dalla parte del torto, comunque, ci fosse lei. Perché sentite, era impossibile. Nostro padre. Nostro padre a letto con una collega durante una gita. La trama del più scontato dei romanzi rosa. Qui ci siamo resi conto, alla buon’ora, che avevamo costretto i nostri genitori nella categoria in cui stanno gli angeli, le suore, le donne brutte. La categoria degli asessuati. Eppure, era perfino capitato che, senza volerlo, li sentissimo gemere e soffiare, la domenica pomeriggio, quando il volume della televisione in camera loro era troppo basso. Ma niente, non era bastato questo a renderli del tutto umani, del tutto fragili e soggetti a quella forma di desiderio non più innocente che, anno dopo anno, staccava via anche noi dall’infanzia. Così, era francamente impossibile – non c’è altro termine – accettare che potessero tradirsi. Per cosa, poi? Per quella cosa tanto stupida e straordinaria che è scopare? Quella cosa non li riguardava, non era del loro regno, benché facessero (lo facevano ancora?) l’amore. E che restassero nei film e nei romanzi, le corna. Basta, per favore! Che c’entravano, con la realtà? Che c’entravano con noi. Allora questa storia che mamma sosteneva vera era in realtà impossibile perché inaccettabile, inaccettabile perché sconveniente, sconveniente perché segno di infinita debolezza, che un padre si fosse chiuso in camera con una collega più giovane. E quel padre. Nostro padre. Niente era chiaro, a questo punto, se non la somma di ragioni che l’avevano spinto all’aggressione ai danni di Marangoni Thomas. Con-vostra-zia-in-Germania, giorno dopo giorno, da ipotesi di minaccia astratta assumeva contorni sempre più concreti. Le vacanze di solito si facevano a luglio e duravano una settimana. Che c’entrava quindi Berlino? Cos’era? Una ripicca? Un segno brusco di indipendenza? Forse l’aveva coltivato a lungo nella mente – un viaggio. Un viaggio suo. E adesso stava diventando a tutti gli effetti non solo un luogo fisico, rintracciabile su qualunque cartina geografica e su Google Map. Da un momento all’altro era diventato qualcosa di tangibile: i biglietti aerei Roma-Berlino sul cassettone dell’ingresso. E la seguente frase di mamma: “Cocchi, io per un po’ sto via”.

“La prima volta che venne a casa fu un disastro, si mise a ridere.” “Un disastro per una semplice risata?” “Papà, da buon siciliano, aveva abituato noi tre figlie femmine a salutarlo la sera baciandogli la mano.” “...” “Che fai, adesso ridi pure tu?” “Mi sembra una pretesa assurda.” “Fu quello che pensò anche lui, evidentemente. Entrò in casa, nella sua divisa da militare, insieme a me – eravamo di ritorno da una passeggiata. Lui salutò mio padre, io gli baciai la mano. Fu qui che si mise a ridere. La sera papà mi prese in disparte, disse: per me puoi continuare a vedere questo ragazzo, ma avvertilo che se deve ridere di quello che facciamo in questa casa, la prossima volta resta fuori.”

Gli insetti sociali tornano a casa Per un numero non trascurabile di pomeriggi, Marangoni Thomas è diventato Silvia, Romina, oppure Priscilla. A volte, tutt’e tre insieme. “Papà, io esco con”, e seguiva un nome femminile. Nello specifico, sarebbe stato molto facile verificare l’esistenza di Priscilla (“Ma che nome è Priscilla?” “Papà, guarda che è un nome diffuso”). Se non fosse stato per lei, Anita e Thomas non si sarebbero incontrati. Tutto è nato da una coincidenza, come sempre: infelice per Priscilla (essere trascinata dai genitori al mare a Nettuno); felice per Anita, messa al corrente della presenza, in quello stesso lido, di Thomas dell’attuale quinta B. Se papà e mamma avessero conosciuto il contenuto delle telefonate di cui contestavano la durata, si sarebbero chiesti: ma cos’è successo ad Anita? È questa la stessa Anita di un anno o di tre mesi fa? che tornava a casa rabbuiata e gonfia di rancore perché in classe c’era chi la chiamava Anita Tuta. Anita Tuta, avremo mai l’onore di vederti vestita da donna? Indossava tute acetate, felpe, alternate a maglioni di lana, su pantaloni di tuta. Il più delle volte portava legati i capelli chiari, biondo cenere, con un elastico. Una volta, ero lì a pregarla, distrattamente: “Sciogliti i capelli, cambia la montatura degli occhiali... vuoi che ti chiamino Ugly Betty come quella del telefilm?, ce la stai mettendo tutta eh, se è questo che vuoi. Poi, mica sei brutta”. Da un certo punto in avanti, non è servito più. La presenza in casa di una sorella adolescente non è stata mai un problema. Ha prodotto un lieve imbarazzo, indirettamente, solo quando Priscilla Perugini, ormai a tutti gli effetti quasi-donna, si è aggiunta al gruppo di lavoro per una tesina di biologia. Per l’incontro, come capogruppo era stata scelta Anita, forse tenuto conto delle sue antiche passioni di entomologa. Se non ero stato turbato, in ordine cronologico, dal primo reggiseno appeso in bagno, dal primo assorbente visto circolare, ripiegato in una strana plastichina violetta; dalla prima occasione in cui Anita, come da auspicio dei suoi coetanei maschi, si era vestita da donna; da certe frasi lette su un numero di “Topgirl” (“Tu così seria leggi certe cose?” “Me l’hanno prestato!”) – Che cos’è il prepuzio? È vero che se lui si eccita e poi non fa l’amore sta male? Che cos’è il priapismo? Se il pene non è perfettamente dritto ma è un po’ curvo... –, se tutto questo non aveva avuto il potere di turbarmi, Priscilla Perugini invece sì. D’altra parte, eccola che fa il suo ingresso con indosso una maglietta grigia a righe nere e l’aria accaldata di chi ha fatto di tutto per non arrivare in ritardo ma non ci è riuscita. Priscillaaa, la accolgono le altre, sempre la solita. Sorride, la solita Priscilla, e ha un sorriso così timido, così compreso, quando le dicono: ti sei intrattenuta col tuo spasimante, e io penso, ma che strana capacità di sopravvivenza possono avere le parole. Spasimante. Priscilla si siede, si passa il lucidalabbra con estrema compunzione. Sembra in grado di connettersi solo a tratti con il mondo circostante, come una radio in galleria. Ha una pelle per niente lucida, Priscilla, a differenza delle sue coetanee dalle fronti unte, ha una carnagione tesa e fresca, anche adesso che sono circa le tre meno venti del pomeriggio. Una fitta di desiderio quasi mi stordisce. Ma come sono ridicole queste ipotesi di amore lolitesco, mi dico, e però non smetto di pensare a un’intervista con Priscilla Perugini sulla vita intima della medesima. Possibile che già mi appartengano le fantasie morbose dei vecchi? Queste quattro, invece di fare la ricerca di scienze, perdono tempo. Cominciano a scherzare. Silvia è quasi sdraiata sul tavolo e fa la deficiente da almeno un quarto d’ora, perché si è annoiata e poi ha un fratello piccolo che considera sfigato mentre i fratelli grandi delle sue amiche le fanno curiosità, e anche se non sono bellissimi non importa. Prende confidenza in fretta, maschera la timidezza con modi un po’ sguaiati, da sbruffona. “Italooo, te la posso chiede- una cosa? Ma te, per caso, sei fidanzato?”

Dalla cucina mi fingo seccato, invece la domanda è una lusinga. Rispondo, per darmi un tono, che è una cosa complicata. “Sì o no?” mi incalza Silvietta. Anita la frena: “Dai, lascialo perde-”. Allora spiego che, dopo una serie di ragazze sbagliate, ero convinto di avere trovato finalmente quella giusta ma. “Ce lo dici come si chiama?” “Ma che vi importa.” “E dai.” (Perché tutti chiedono sempre il nome?) “Ma quindi stavate insieme?” “No, ma come se.” “Ma quindi vi siete lasciati?” “No, è lei che...” “Quindi in pratica ti ha lasciato lei?” “Non proprio. Una sera sono uscito da casa sua, ero ancora davanti al portone, lei è salita in macchina con un altro. Poi, di punto in bianco, non rispondeva più ai messaggi, alle mail, al telefono, a niente.” “Cos’era successo?” “Non lo so, io ho continuato a cercarla, le ho scritto anche delle lettere vere e proprie, ma niente, è come scomparsa.” “Ma quindi le hai fatto del male?” “No. Non mi pare.” “L’hai tradita?” “No.” “Magari con il pensiero.” “Con il pensiero!” “Allora ti ha tradito lei?” “Non credo.” “Pensaci bene, se le hai fatto qualcosa di brutto, magari non te ne sei accorto.” “Tu secondo me il motivo lo sai,” ha detto a questo punto Priscilla Perugini, rimasta muta per tutto l’interrogatorio. “Una ragazza non scompare all’improvviso come se niente fosse, se non le hai fatto del male. Ma poi non è neanche questione di ragazza, dico proprio una persona in generale, ecco, una persona in generale non scompare dalla vita di un’altra se non le è stato fatto del male.” Priscilla ha parlato tutto d’un fiato, con uno strano rancore nella voce. “Scusa, non volevo offenderti, ma secondo me tu lo sai perché lei è scomparsa, anche se non vuoi dirlo.” È inevitabile che dopo qualche minuto venga fuori la storia di Thomas. Anita la osservo da lontano, fa la vaga. Le chiedono: ma lui come sta, che dice. Lei risponde: che deve dire, e sorride. Insistono. Lei dice: l’ho sentito, non è tanto il dolore alla gamba, quanto lo spavento che si è preso. Ha inizio un nuovo interrogatorio. “Ma con tuo padre cos’era successo di preciso?” “Non lo so.” “E lui che dice?” “Lui chi.” “Lui Thomas.” “Che deve dire, dice che non se l’aspettava.” Poi aggiunge: “Io non so cosa gli è preso, a mio padre”. E nel preciso istante in cui lo dice, comincia a piangere. Non me ne accorgo subito, ma vedo

che le si fanno attorno rapidamente e le ripetono in coro: “Non fare così”. Mi alzo, resto sulla porta tra cucina e salotto, sento il respiro in affanno di Anita e penso: forse dovrei dire qualcosa. Lei si calma piuttosto in fretta – le parole sono ancora un po’ spezzate dal pianto, “Tho-mas-di-ce-che-mio-pa-dre-èuno-stron-zo”. Qui c’è come un singhiozzo. Tira su col naso, aggiunge: “Un-pez-zo-di-mer-da”. Lo dice quasi come se suo padre non fosse più suo padre. Come se in virtù di una rivelazione evangelica – l’immagine di Mario Tramontana che Marangoni Thomas le ha offerto come una nuova verità – si fosse prodotto in lei un cambiamento radicale. “Thomas ha detto che è stata una persecuzione, che ce l’aveva sempre e solo con lui, qualunque cosa accadesse, volava una mosca e lui urlava: Marangoni! Non è bello, non è facile cazzo, sentirsi dare del deficiente tutto l’anno. Cosa ho fatto di male, cosa, dice Thomas. Entrava in classe, c’era aria pesante, è normale dopo tre o quattro ore di lezione, o la cappa di sudore dopo educazione fisica, è normale, diceva: aprite le finestre, e poi: Marangoni, ma che hai mangiato? Ecco, non era più possibile sopportare. E vabbe’, poi quella cosa.” Anita si ferma. “Quella cosa” non riesce a dirla. “‘Quella cosa’ quale?” Priscilla fa finta di non sapere, o forse non sa davvero, distratta com’è. Quella cosa che, in forma di diceria maliziosa, ha fatto il giro della scuola. Un professore vecchio, una collega giovane. Un albergo, una gita. “Ma tu ci credi?” “Credo a cosa.” “Che tuo padre...” Anita non risponde. “Guardate che la ricerca non la facciamo più, se continuiamo a prendercela tanto comoda,” interviene Romina, la più saggia del gruppo. Povera Anita. Come si fa a mandare giù l’ipotesi che il proprio padre sia un essere spregevole, quando l’ipotesi è formulata dal ragazzo di cui si è innamorati? La testa di Anita è un luogo acquatico: qualcosa galleggia in superficie e si muove con l’aria svagata delle papere di plastica nelle vasche da bagno. Altro, invece, è ancorato giù. Però si vede, perché la testa di Anita è un luogo trasparente. A galla sta uno stretto novero di passioni, riassunte anche nel suo profilo virtuale: il computer, Internet, stare in mezzo alla gente, viaggiare. Le capita ogni tanto di pensare intensamente a una fuga. Ma su Facebook ha scritto che il suo sogno nel cassetto è: essere felice. E non è sicura che essere felici, si possa esserlo lontano. Poi, al fondo della sua testa, come conchiglie o stelle marine, stanno alcune ostinate convinzioni. Per esempio, che la gente tende a essere falsa. Potrebbe esserlo anche Thomas? Come se ne esce? Da bambina, si era appassionata agli insetti. Mentre si metteva a osservare da vicino le mosche e i loro impenetrabili occhi rossi, le sfumature alari e le zampette irrequiete, le urlavamo dietro: che orrore! Lei sfidava il nostro disgusto e, appena undicenne, si piantava lì a spiegarci per filo e per segno storie precise e abbastanza schifose di insetti-stecco, lombrichi e millepiedi, denti feroci di coleotteri africani. Oppure, cose strane come voli e accoppiamenti acrobatici, ali frangiate, orecchie sulle zampe anteriori dei grilli, metamorfosi di libellule anisottere e di bruchi in farfalle velenose. Quando, con la serietà di una piccola studiosa occhialuta, prendeva a raccontare l’incredibile architettura dei nidi di vespa o l’eroica sopravvivenza delle formiche-serbatoio, era divertente starla a sentire. Sfogliava davanti al mio naso l’ultimo volumetto illustrato e mi interrogava, interrogandosi. Mi piaceva la storia di una particolare famiglia di coleotteri che, nel corso dell’evoluzione, ha perso le ali o ha smesso di usarle. Carabidi. Che razza di senso ha questa evoluzione che non rende migliori, metteva il broncio Anita, che senso ha smettere di usare le ali. Si alterava, la mia piccola sorella, contro le incongruenze della genetica. Nei Carabidi le ali sono assenti o, se ci sono, sono inutili. Anita trovava colpevole, da parte dei coleotteri, avere trascurato il volo.

Cari coleotteri, non vi facevo così stupidi, perché mai legarsi alla terra quando potevate guardarla dall’alto? È proprio vero che quando le cose belle le hai a portata di mano, quando le hai sempre, te le dimentichi. Come i giorni che arrivava un giocattolo nuovo: per settimane non avevi occhi che per quello, stavi lì a cullartelo ore, il resto non contava più. Poi, per caso, un pomeriggio inciampavi nella vecchia, balorda bambola di sempre, quante ne avete passate insieme tu e lei, e ti arrivava una stretta al cuore – ma come ho fatto a lasciarti sola tutto questo tempo. Gli insetti, sostiene Anita, ci somigliano. Sono allegri, curiosi. Sono generosi. Sono perfidi. Cambiano, invecchiano, hanno paura. Alcuni di loro hanno una strana luce dentro. Una luce che si vede da fuori, e serve a niente. O semplicemente a dire: vieni a cercarmi, sono qui. Quelli cosiddetti “sociali” – formiche, vespe, api – a volte perdono la strada di casa. Poi però sanno ritrovarla: ricordano sassi, rami. Gli restano impressi nella mente come un numero civico. E possiedono una strana forma di olfatto che li riavvicina ai parenti, se necessario. Come una spinta automatica, perché forse è giusto così.

I padri Casa senza mamma. Il primo segnale sono mutande e calzini che straripano dalla cesta dei panni sporchi. Calzini, soprattutto. Una famiglia di millepiedi, dice Anita. Il secondo segnale è la sciatteria triste del frigorifero. Le vaschette dei salumi opache. Una busta di carta troppo umida, da cui spuntano vecchi, inservibili gambi di sedano. Yogurt in scadenza. Soltanto la confezione del burro e qualche scatola di medicinale riescono a mantenere un minimo di compostezza. I frigoriferi non mentono mai. Dietro al loro intermittente ronzio si nascondono la fretta e il disordine, le manie, perfino qualche ossessione. La salute del corpo e quella finanziaria. Lo stato dei formaggi non li allarma: sono tolleranti, hanno un olfatto sbadato come quello degli uomini soli. Intanto, i piatti sporchi di due giorni chiedono aiuto dal lavandino. Papà non sembra dare peso a quest’assenza, non adesso. O finge di ignorarla. Ma qui le cose non promettono niente di buono. Se fosse un anno come un altro, questo padre avrebbe da raccontare la sua milionesima giornata da professore di scuola. Sempre con quel tono un po’ insofferente, severo, minaccioso: come una prova di forza. Oggi, invece, non ha da raccontare niente. Eppure, se gli chiedessi com’è andata, a fine giornata, dopo un primo borbottio di malumore, questo padre qualcosa potrebbe dire. Per esempio, che è infinitamente triste la casa di mattina, questa casa quando è vuota e non arriva mai mezzogiorno. Questa casa che lui sente invecchiare. Finora non ci aveva fatto caso: invecchiamo noi ma anche le case, basta passare da una stanza all’altra e scoprire troppo spesso qualcosa che non va, piccoli segnali dello sfascio imminente, crepe, macchie, porte che non chiudono, piastrelle scollate. Dai tubi dell’acqua, a volte, arriva un suono strano, lungo e disperato come un rantolo. Ma il padre non lo dice, nessuno chiede niente a nessuno e questo silenzio è di tipo spesso: allarme generale. Già da bambino, sapevo riconoscere i silenzi di mio padre. C’erano quelli della concentrazione, quando passava ore a riempire di segni rossi i compiti dei suoi studenti. C’erano quelli della lettura e della scrittura, erano silenzi che sembravano quieti e sereni, ma era comunque pericoloso interromperli. C’erano i silenzi quando guardava il telegiornale delle otto, quelli però li interrompeva lui stesso, commentava le notizie: avete visto, era come dicevo io. Erano silenzi intermittenti. Poi, c’erano i silenzi quando non voleva rispondere, mamma gli chiedeva: e tu che dici, ma lui restava zitto. C’erano i silenzi quando era arrabbiato per cose di scuola, allora era meglio non chiedere niente, perché tanto dopo un po’ cominciava a raccontare lui, sbraitava contro il preside oppure contro quel deficiente, diceva, che boccio di sicuro: l’ho deciso il primo giorno di scuola. C’erano i silenzi di quando era arrabbiato con me e allora tremavano i vetri anche se tutto taceva. Sono nuovi, questi silenzi della pensione. E i silenzi di quando Anita esce, torna tardi e non si sa mai con chi è uscita. Ma quanti padri è stato mio padre. A volte, ho immaginato il suo viso, il suo corpo, in altre storie ed ere. Padre-cacciatore appena sceso dagli alberi di una foresta dell’Africa. Un padre quasi ancora scimmia. Padre-Abramo che alza il braccio pronto a uccidere un povero Isacco-me. Dio lo fermerà? Padre in toga che spiega per filo e per segno tutti i doveri. Ha uno sguardo distante sulle mie guance senza barba. Padre in guerra, i movimenti impacciati dall’armatura che scintilla. Fa fatica a chinarsi verso di me. Gli occhi si intravedono dietro una grata. Papà fa il rumore di una scatola di latta. Padre mercante e maestro – gli sbuffi delle maniche non intralciano il suo lavoro da orologiaio. Va ammirato in silenzio. Padre in parrucca e padre col panciotto. Un padre-della-patria con orologio da taschino e baffi come manubri.

I padri come questo non hanno appreso la lingua dei sentimenti. I padri baciano poco. Hanno, a volte, pance enormi e gambe sottili. Provano ad avvicinare i figli ma non sanno qual è il verso giusto. Insegnano come si va in bicicletta. Oppure non insegnano niente, perdono autorità e si arrendono davanti ai giochi elettronici. Chiedono di poter imparare dai figli come si manda una mail. Guardano la tv, ripetono le stesse frasi. Non sanno quasi niente delle figlie. Alcuni con gli occhi le indagano e le proteggono. Punivano, mandando i figli a letto senza cena. Sono puniti: a cena i figli non ci sono mai. Si lasciano chiamare per nome. Sanno di sembrare belli e lucenti come le loro macchine nuove, se restano giovani e ricchi. Ma non sanno parlare d’amore. Forse, non devono.

Giudicare Con noi, papà non ha mai parlato di sesso. Papà non ha mai parlato, proprio mai, di Dio. Papà non ha mai parlato di politica. Mai seriamente. Ha commentato, questo sì, ha detto la sua, in modo a volte ruvido, a volte approssimativo, un po’ qualunquista. Ictus di nonno, discesa in campo di Berlusconi, silenzi paterni → Compromissione della mia coscienza politica (in tenera, fragilissima fase di formazione). Se nonno veniva neutralizzato dall’ictus e mio padre lasciava sull’ultimo scaffale della sua libreria, irraggiungibili, i volumi di Storia del socialismo italiano, a chi potevo affidarmi? Restavo – è evidente – in balìa di me stesso. Al massimo, della maestra di sinistra. Come avrei voluto che fosse tutto più facile! Sarebbe bastato poco perché io diventassi qualcosa, qualcosa di preciso anche politicamente. Ma c’è stato il 1993. Sui banchi di liceo, divorato da una strana inquietudine, ho chiesto lumi a chiunque, anche a qualche pagina di Gramsci. Non si può dire che non abbia cercato, però mi confondevo. Fresco di foglio rosa e di certificato elettorale, nel 2001 non ho votato per Berlusconi. Che ha vinto. Cinque anni dopo non ho votato per Berlusconi, che ha perso. Due anni dopo, era di nuovo al governo. E intanto papà, a tavola, anno dopo anno, sosteneva posizioni che suonavano a tutti gli effetti berlusconiane. La sensazione era che le parole di Berlusconi echeggiassero sempre più spesso quelle di mio padre. Certo, Berlusconi sapeva come abbellirle, come renderle più leggere, anche più spiritose. Ma la sostanza era quella. Individualista, autoritario, imprenditoriale. Lievemente xenofobo, indebitamente moralista. Riassumendo: un nonno operaio, già arruolato nella campagna d’Etiopia, socialista, che scriveva lettere all’“Avanti!”. Un padre giovane che acquista i volumi di Storia del socialismo italiano, ligio a una staffetta emotiva e intellettuale insieme. Un padre adulto, professore di scuola, che ricorda bene il volto di Nenni e vota Craxi. Infine, un padre sessantenne che presta a Berlusconi la sua visione del mondo. E io? Eccomi qua, pronto a ereditare niente. Poi, per carità, ero andato regolarmente a catechismo. Benché a matita sui banchi delle medie scrivessi W LUTERO, per un periodo ero stato chierichetto (a un certo punto anche capo-chierichetto, se è per questo). Un sabato pomeriggio, ma proprio uno soltanto, avevo messo piede all’oratorio per vedere cosa facevano quelli dell’Azione cattolica. Le chitarre andavano che era una meraviglia. Il risultato era un po’ metallico e monocorde, ma tutto sommato allegro. Va detto inoltre che sono stato per tempo istruito a non alzarmi da tavola prima della fine di pranzi o cene, a sbadigliare con la mano davanti alla bocca, a impegnarmi a scuola, con sempre molta ansia da prestazione, a non saltare mai le lezioni se non per gravi ragioni di salute. A rifarmi il letto l’ho già detto? A non perdere troppo tempo, a non svegliarmi tardi la mattina. Tutto come si deve. E il valore supremo, il valore della famiglia e della serietà, ha aleggiato senza sosta sulle nostre teste. La piccola o enorme (ancora non verificata) contraddizione nella quale poteva essere incorso il depositario del valore supremo, ovvero papà, quale effetto produceva sul valore stesso? Lo disintegrava? lo rendeva inservibile e ridicolo? Giudicare è troppo facile. Alzare il dito indice e puntarlo sull’incoerenza, cioè contro le debolezze umane, era così chiaramente la prima, primissima cosa da fare, che anticipava qualunque altro pensiero. Ma bisognava intanto chiedersi: il valore restava un valore anche se il depositario l’aveva infranto? Questo valore era un valore? Aveva un senso, per me? Avrei dovuto custodirlo io, a questo punto, facendomi carico di questa staffetta-patata bollente? Ancora. La colpa accertata (Marangoni Thomas) e quella non accertata (l’insegnante di sostegno) ci autorizzavano a giudicare impietosamente papà? L’istinto, nei giorni più irritati, ci portava

a essergli ostili. A sentire come una possibilità di riscatto dai giudizi negativi, più o meno espliciti, che avevamo ricevuto da lui, il poter diventare suoi giudici. Imputato papà, si sieda. Tra i capi d’accusa che avevo sotto mano, avrei potuto cominciare dal suo mostrarsi freddo come il vento del nostro cognome. Dall’eccesso di chiusure emotive. Alla rinfusa, avrei potuto aggiungere che le sue frasi, sempre più di frequente, suonano come sentenze. Il disordine triste della sua utilitaria. A volte, signori della corte, fa rumore con la bocca quando mangia. Si lascia invadere e abbattere dal malumore, che poi tutto invade e abbatte. La difesa si impunta. Sostiene che alcuni capi vanno immediatamente stralciati. Attengono al naturale e incolpevole processo di invecchiamento dell’imputato. Il signor figlio non capisce, dicono: saprà bene quando toccherà a lui. La signora figlia, nel frattempo, è tutta concentrata sull’assoluta illegittimità dei giudizi formulati dal signor padre su Marangoni Thomas. Quanto a me, i tratti più spessi del carattere paterno mi spaventano: ogni giorno che passa sembra marcarli di più. A volte, nei miei scatti, nelle insofferenze, li riconosco anche miei. E li temo. Però pensare che sia riuscito a chiudersi in camera con una collega giovane, questo no. Questo è troppo. Pensare che ricevesse messaggi da lei. Che, proprio mentre diventava più imperfetto dentro casa, sapesse diventare un altro, e perfezionarsi, fuori. Avrei dovuto, per accettare l’ipotesi che mia madre sembrava non considerare del tutto assurda, inserire papà in una sceneggiatura fin troppo prevedibile. La prevedibilità un po’ oscena del sessantenne in cerca di sesso extraconiugale. La prevedibilità di un paese in preda a uno strano prurito, a una fregola. Solo un paese? Qui e dappertutto. Possibile che, sotto una coltre moralistica, fossero tutti così impegnati in camera da letto? Compreso mio padre? Questi invecchiano, hanno la forfora sulle giacche, pance che tendono camicie bianche, stirate dalle colf se sono ricchi; la stempiatura, l’alito un po’ pesante, però fanno sesso. Tra un’inaugurazione e una riunione di condominio, tra un appuntamento in banca e un viaggio in aereo, trovano il tempo. Non sono calciatori, non sono divi, non sono rampolli titolati. Sono i Bill Clinton dei ministeri e dei consigli comunali. Sono senescenti e inappetibili. Fanno telefonate hard, frequentano transessuali. Si fanno massaggiare con particolare cura nei centri sportivi. Rischiano infarti e ictus. Hanno il fiato corto. Sono padri. A casa, hanno figli. Anche piccoli. E mogli, anche belle. Dalle quali, di solito, tornano.

“C’era un sindacalista che io proprio non sopportavo. Non lo digerivo.” “Ti ricordi il nome?” “Aspetta.” “Non lo sopportavi perché?” “Aspetta.” “Non fa niente, non importa se non ti viene in mente.” “Lama.” “Luciano Lama.” “Luciano Lama, sì. Guardavo sempre il suo cappotto, quando appariva in televisione.”

“Il suo cappotto?” “Il suo cappotto bello, lucido – mentre parlava di scioperi. Quando tuo padre tornava dal cantiere a metà mattina gli andavo incontro sul vialetto. Avete scioperato di nuovo? Faceva sì con la testa. Ero furiosa. Gli chiedevo: oggi lo sai che mangiamo a pranzo? Lo sciopero mangiamo. Dillo, a Lama. Anche oggi io e i tuoi figli mangiamo lo sciopero.”

Il processo Sulla legittimità di una catilinaria da me pronunciata ai danni di mio padre, i signori della corte avrebbero avuto parecchio da obiettare. Ma a ribellarsi con più stizza sarebbe stato lo stesso imputato, con argomenti tutt’altro che cavillosi. L’avvocato l’avrebbe lasciato fare? o avrebbe invece frenato il suo assistito, ritenendo indecorosa l’imprevista faida familiare? C’era un’immagine che si presentava di continuo ai miei occhi, come un invito a desistere dalle intenzioni polemiche. Quanto più scivolavo nell’umore da barricata e quanto più mi sentivo carico nei panni del rivoltoso, tanto più quest’immagine si affrettava a schiacciarmi. Era mio padre, con un’espressione triste. Sorpresa non so più quando. Lui è in piedi, è in cucina. Sicuro di essere solo, non visto. Apro la porta. Indossa una camicia azzurra, gli sta un po’ larga. È impegnato in un gesto meccanico, qualcosa come girare il sugo di pomodoro. Guarda nel vuoto e muove il cucchiaio di legno. Gli occhi sono assenti, vuoti. Ma è la bocca – la sua linea sghemba, una specie di ferita storta – a colpirmi, a farmi male. Come un segno di disarmo e di resa incondizionata. Sono qui, sono un padre quasi vecchio, dice la maschera mogia. Poi non so, ma pare che riassuma, che dica, anche senza parole, tutta una somma di preoccupazioni e sforzi. Tutto ciò che comunque, negli anni, aveva fatto: per noi. Allora capita che venga in mente il gesto più impraticabile e assurdo. Abbracciarlo. Ma sono istanti. Per il resto torna, come uno strappo, la volontà di recriminare. Di alzarsi in piedi, e dare inizio all’assalto. Per esempio, così. Ma è soltanto un’ipotesi. “...mi aspettavo che un giorno, portandomi da qualche parte, non so, in bicicletta, mettiamo una mattina d’estate (non vai a caccia, né a pesca, e direi che è meglio così, ma insomma qualunque occasione andava bene), mi aspettavo che tu cominciassi un discorso, un discorso per me – qualcosa come, Italo ascolta, papà deve dirti alcune cose eccetera, e che fosse un discorso anche un po’ impacciato però necessario. Le parole si sarebbero spezzate, all’inizio, ma poi avrebbero cominciato a correre.” “Ma di cosa volevi che ti parlassi? E tu, mi hai mai davvero chiesto qualcosa?” “Forse no. Ma aspettavo.” “Comodo, aspettare.” “Speravo che prima o poi mi dicessi: guarda che sei libero di fare il deficiente, ogni tanto. Che me lo facessi capire. Invece mi incenerivi con lo sguardo. Mi sembrava di doverti nascondere tutto. Perfino il fatto di parlare al telefono con una ragazza. Erano cose cretine, stupide perdite di tempo, no? – le telefonate con i compagni di scuola. Le cene, con i compagni di scuola. Mandare una cartolina dal mare a una piccola innamorata. L’ho fatto di nascosto, per paura del tuo giudizio. Serietà! Serietà!” “Esageri.” “Forse, ma è andata così. Avrei voluto vivere con più leggerezza, intanto. E con te, no, non dico che mi è mancato il contatto fisico, che importa, però sentirti parlare di più, questo sì, mi è mancato. Per esempio, avrei voluto sapere se credi in Dio, e se sì come ci credi. Perché, per esempio, mi mandavi a messa. E perché io non lo so ancora, se credo in Dio; e non so nemmeno come ci credo, quando, qualche volta, ci credo. Avrei voluto sapere perché non hai mai tirato giù da quegli scaffali troppo in alto la Storia del socialismo italiano per dirmi, Italo guarda qua. Li hai comprati perché nonno era socialista, no? Poi te ne sei dimenticato. Avrei voluto che mi consegnassi qualcosa, papà: una minuscola oppure schiacciante eredità politica, una cosa qualunque da raccogliere o da contestare. È stata colpa del ’93? È stata colpa del disincanto? E adesso, la somma di due disincanti che risultati dà? Mi sono distratto per un po’, poi ho saputo che Berlusconi pensava ciò che pensavi tu. Ma da quando?

E soprattutto, che diavolo c’entrava con te? Che c’entrava con noi. Con tutti. Lo so, ho fatto il cretino anche troppe volte, l’anti-berlusconiano a prescindere, a tavola facevo quello ossessionato, un po’ per gioco, un po’ per provocarti, però...” “Però niente. Avevo fiducia nella tua intelligenza.” “Sei proprio sicuro?” “Sono quindici, anzi vent’anni che si parla solo di lui, in Italia. E anche tu – anche tu! – hai finito per accodarti al coro di questa ossessione collettiva. Sei ridicolo. Non ti pare un po’ infantile lo schema Berlusconi-pifferaio magico? Le cose sono più complesse, Italo. Svegliati.” Aveva detto “pifferaio”? Aveva detto “infantile”? Per un attimo, ho riconsiderato come da fuori, da lontano, la mia visione storico-politica dei fatti italiani successivi al 1993. Sembrava, in effetti, una favola per bambini. Oppure un fumetto.

C’era una volta un pezzo di legno, e questo potevo essere io. C’era un omino di burro, e questo poteva essere Berlusconi. E c’era il Paese dei Balocchi, da qualche parte. Poi, mi mettevo a pensare. Nato alle battute finali del governo Fanfani V, a ridosso del governo Craxi I, ho passato l’infanzia sotto i governi Craxi II, Fanfani VI, Goria, De Mita, Andreotti VI, Andreotti VII. Ma questi, allora, per me erano soltanto nomi. Ero così preso dal mio essere bambino! Una volta portata a termine l’impresa, prossimo a scoprire primissimi peli sotto l’ombelico, alla fine di un governo tecnico affidato a Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, compariva Berlusconi. Le facce verdi e tristi dei vecchi politici stavano nei telegiornali e nelle vignette di Forattini. Fine della Prima repubblica. Ma c’era appunto stata la Prima repubblica, e con lei i partiti, la Dc, le mazzette e le cose buone che già si dicevano nei libri. Bastava essere nati dieci anni dopo di me per non saperne più niente. Per essere ostaggio di un’idea di politica che coincideva perfettamente con l’esistenza al mondo di Silvio Berlusconi. Che insomma era quella cosa lì, e basta. Le cene cominciavano nel modo consueto, con il tintinnio delle posate, con un chiacchiericcio sottile e svagato. Oppure nel silenzio. Se il televisore era acceso, lui c’era. Appariva. Sorrideva. Si imbufaliva. Stringeva le mandibole, mostrando un’espressione nervosa e uno strano colorito terreo. Se il televisore era spento, sarebbe arrivato un istante in cui, senza rimedio, qualcosa o qualcuno avrebbe evocato la sua presenza. Anche solo per una battuta, senza indignazione: una stupidissima battuta stanca e svogliata. Era il capo e la coda di ogni discorso, l’infinita colla che teneva insieme le nostre parole. “Zia, te lo dice uno che non ha mai votato per lui!” “Nonno, non è così, io non dico che è tutta colpa di Berlusconi, ma...” “Sentite, io non sono berlusconiano, sia chiaro, però certe cose bisogna pure che qualcuno le dica, una volta tanto.” “Io sarei contenta se morisse.” “Questo è troppo, adesso non esagerare.” Se ne parlava ai matrimoni e alle nozze d’argento, in spiaggia sotto l’ombrellone e alle cene fra ex compagni di classe. Avremmo scoperto di essere stati in quinta elementare con futuri coordinatori di un circolo di Forza Italia. Ci saremmo ritrovati una sera, a casa di uno di noi, ipnotizzati dai dibattiti televisivi condotti da Bruno Vespa. Cosa eravamo diventati? C’era stato un tempo in cui eravamo in grado di dividerci: ma erano sciocchi furori liceali. Usavamo termini presi in prestito da una storiografia già troppo invecchiata. Fascista (fascista-berlusconiano)! Comunista! Era stato, Berlusconi, un valido motivo per aggregarsi a un gruppo. Poi, non più. Poi, all’improvviso, erano sparite le differenze. O forse, non eravamo più in grado di riconoscerle. Vestiti allo stesso modo, cresciuti pressappoco allo stesso modo. A casa dei nonni, con il televisore acceso su Italia 1. Quanto potevano durare le convinzioni categoriche dell’adolescenza? Una volta dismessi giacconi, kefiah al collo, slip verde militare, cosa sarebbe rimasto? Valerio Torriero urlava forte nel megafono, le mattine di assemblea studentesca. Credeva, credevamo. Si sentiva nell’aula magna la vibrazione che produce un’idea condivisa, non importa quanto rozza o confusa. “Adesso ci hanno rotto le palle!” “Ha ragione Valerio, io credo che dobbiamo dire basta, non si può più andare avanti così.” “Restiamo in assemblea permanente.” Entravo in ritardo e non capivo mai su cosa in particolare avesse ragione Torriero, però tendevo ad ammirarlo. Lui e le sue debolezze – il fatto che alle undici e un quarto, cascasse il mondo, scartava pizza bianca e masticando seguitava a parlare con le labbra unte. Un capo politico, ecco cos’era. Ecco

la distanza tra Torriero – la sinistra – e Marcotulli, senza elettori, che a ricreazione diceva: le ragazze di sinistra non si lavano, di solito fanno schifo. Lui sapeva discutere di macchine, di locali giusti. Poi concludeva: questa sinistra porta allo sfascio il paese. (Più tardi, l’avrei ritrovato su Facebook, iscritto ai gruppi FUORI I ROM DALL’ITALIA e AMANTI DELLO SCHIAFFO SUL SEDERE DURANTE LA PECORINA.) Ma Marcotulli aveva fatto la cresima, Torriero no. L’adolescenza, un giorno, finiva. Non ci eravamo svegliati vecchi, meno impetuosi sì. E va bene, è normale. Anche un po’ arresi, però. Avevamo fatto l’amore, dato esami, lasciato indietro qualche ambizione spropositata e cretina. Le cose potevano andare via leggere o disperate. Non c’era il tempo di accorgersi (sarebbe bastato un minuto di concentrazione) che in realtà non avevamo creduto mai a niente. Mai a niente fino in fondo. Era stato un bene, non avere sperimentato la cecità pura e violenta dell’ideologia? Forse. Intanto eccoci lì, sul divano di uno di noi, si è fatta quasi mezzanotte, Bruno Vespa si sfrega le mani, il busto appena inclinato in avanti, un sorriso ambiguo. Nessuno ha voglia di parlare, c’è chi sbadiglia, ascoltiamo senza ascoltare. Ma cosa ci è successo – così inermi, convinti di niente.

Mentre Harry Potter diventava grande Un’aria molle e grigia quasi nasconde il punto in cui viale dell’Università incrocia viale delle Scienze. Poi, davanti alle colonne massicce dell’ingresso, mi investe la solita nostalgia, senza nessuna ragione precisa, nessuna ragione seria. Ogni tempo passato – per il solo fatto di essere, appunto, passato – riesce a provocarmi un turbamento eccessivo. Perché, poi? Sarà che studio storia? È davvero molto stupido, devo concludere, mentre da lontano metto a fuoco piccole processioni di parenti. Da vicino, si sente rumore ritmato di tacchi sull’asfalto. I tailleur scuri sono la divisa delle zie. Il sudore della breve marcia verso la sala delle lauree impasta la cipria sulle guance. Chi non è mai stato qui si riconosce dall’impaccio con cui prende confidenza con i luoghi. Deferente e spaesato, domanda, si informa. “Bello, eh,” aggiunge poi, senza motivo e con un sorriso quasi ebete. I parenti parlano dei professori come fossero dèi, li scrutano ma non danno nell’occhio. “Ma è lui?” chiedono, e nel frattempo se ne fanno un’idea. Cercano di intuirne umore e inclinazioni: non sembra cattivo, comunque non lo sarà con mio figlio. I padri sono lì che fumano, fuori; le madri invece non si allontanano un istante e parlano, parlano. L’ansia è un terremoto che quasi scuote lo sterno. Proprio quando i figli, stretti nelle spalle, cominciano a parlare – con una voce chiara che non sembra loro – (le ragazze si ravviano dietro l’orecchio, di continuo, una ciocca di capelli; i ragazzi sfregano il palmo della mano sui pantaloni), i padri e le madri, le zie e i nonni non seguono più. Si perdono. Afferrano qualche parola (il più delle volte si tratta di un avverbio) e poi niente, poi basta. L’ammirazione li ha già invasi: di qualunque cosa stiano parlando (e in effetti, precisamente, di cosa? e perché?), figli e nipoti ora appartengono a uno spazio assoluto e lontano, nei pressi della santità. “E tu, quando ti laurei?” mi chiede con gentilezza la madre di Martina, che sta per discutere una tesi su Pasolini. Intorno, c’è un entusiasmo un po’ sciocco e gratuito. “Spero prima dell’estate prossima.” “Sei un po’ in ritardo.” “Un po’.” “In cosa ti laurei?” “Storia.” “Cosa in particolare?” “Storia contemporanea. Non so ancora bene.” “No, figurati. Lo capisco. Sono cose delicate.” Ma in effetti in cosa mi sto laureando?, mi chiedo. In cosa ci stiamo laureando tutti. Per la sua festa, Martina ha scelto un piccolo pezzo di parco pubblico e quindici amici. Birra, vino, pane e porchetta. Chiacchiere e scherzi, a piccoli gruppi, mentre il vento alza la polvere. Ogni tanto c’è da stropicciarsi gli occhi, come bambini. “Scusa se non ti ho salutato subito, ero distratta,” dice una ragazza grossa a un amico, mentre lo abbraccia. Dopo un po’, qualcuno intona Guccini e De Gregori. Li osservo, non conosco le parole. Da quale epoca siamo usciti? Ma allora, a volte, siamo proprio come le caricature. Siamo proprio come dicono che sono gli studenti di Lettere: con il mito dei cantautori di sinistra, con il mito del Sessantotto. Hanno, alcuni di noi, dormito nei sacchi a pelo delle occupazioni, si sono iscritti a Lotta comunista per poi pentirsene, quando chiamavano a tutte le ore per l’invito all’ennesima assemblea sul marxismo. Erano finiti, alcuni, dentro la macchina del tempo, quando si sono svegliati con le ossa a pezzi dopo una notte passata sul pavimento dell’Aula II – addosso un senso di sporco e di stanchezza da stare quasi male. Si sono, alcuni di noi, trascinati dietro quelli che arrivavano dal Sud con i pantaloni stirati e i

capelli con la riga a destra; hanno aspettato di vederglieli crescere in disordine e che avessero altre divise, prima di sentirli amici. Hanno, alcuni di noi, guardato con sarcasmo e un lieve disprezzo quelli che scendevano le scale di Giurisprudenza in giacca e cravatta, in realtà sapendo che il mondo era più loro che nostro. Anche se nei megafoni urlavano il contrario. Urlavano cose che non ricordano più. Perché poi si cresceva. I gruppi si scioglievano, “Scusate, io stasera non vengo, tra pochi giorni ho un esame, non ce la faccio proprio”, ma come, un esame? ma se fino a qualche mese fa non te ne fregava niente, “Eh, lo so, sto troppo indietro però”, il tempo cominciava a passare in un modo diverso e strano, a correre, quella zona anagrafica che si chiamava vent’anni era così spaziosa, c’era posto per tutto, ma adesso le cose cambiavano. E il sogno del teatro? Via, insieme al buio delle salette da due soldi e alle finte attrici gamberone che si davano un tono, accompagnate da uomini-armadio cocainomani e matti. Adesso capitava di essere presi dal panico, facendo il conto degli esami che restavano prima di poter chiedere una tesi qualunque (“Ma di quante pagine dev’essere?”). Quasi lo stesso panico per un preservativo che si rompeva: c’era, per qualche giorno o tre settimane, da sentirsi morire. Qualcuno si era già ritirato per tempo, qualcuno aveva lasciato i libri di storia per andare a prendersi una laurea breve in Fisioterapia. Sorelle e cugini, fidanzate di amici si laureavano in Medicina. Per loro, era cominciata la vita seria. Per altri, senza università, erano arrivati i bambini, anche non volendoli troppo, e ciò era terribile e meraviglioso, non lasciava il tempo di pensare. Una settimana di ferie, la domenica da giugno a settembre ai cancelli di Ostia. La vita, ovvero allattare, pulire i rigurgiti dai maglioni con l’angoscia negli occhi. Passare lo straccio e fare la spesa, la fila alla posta, aspettare lui che torna stanchissimo, “Scusa, mi ero addormentata”, lui non dice quasi niente, un piatto di pastasciutta è la cosa migliore, bolle l’acqua ed è pronto. Questi, invece, cantano Guccini. Per qualche ora dimenticano dubbi e disagi. Abbiamo venticinque anni, siamo giovani. Hanno smesso da un po’ di comprare i giornali. Tanto su Internet si trova tutto. Una volta compravano “il manifesto” e lo leggevano da cima a fondo. Adesso hanno meno curiosità, meno convinzioni. Parlare di Berlusconi, no, “basta, vi prego”, che altro c’è da dire, soltanto una battuta, se capita, rassegnata, quasi benevola. Come sul papa. Claudio rutta e bestemmia, però nessuno ride. Martina propone di cantare ancora qualcosa di De André. Continuano a snobbare la musica commerciale e la televisione, ma è una posa in cui hanno quasi smesso di credere. L’Italia non esiste. Esiste solo quando dicono “in Italia”, per dire qualcosa che altrove va meglio che qui. Due ragazze si alzano da terra, dicono: noi andiamo a fare pipì, si allontanano in cerca del cespuglio giusto. C’è chi ancora, per una ventina di minuti, riesce a scaldarsi intorno a certi testi studiati per l’ultimo esame di Storia contemporanea. Oppure dell’ultimo romanzo letto. “Voi che ne pensate della Solitudine dei numeri primi?” “Ha venduto una valanga di copie. Non è male, io l’ho letto in pochissimo tempo, tipo tre giorni.” “Vi posso dire una cosa? Mi sono appassionata alla saga di Harry Potter. Non ci crederete, e pure io avevo un sacco di pregiudizi, poi però ho cominciato e non ho più smesso...” “Io ho visto solo i film, nemmeno tutti.” “Guarda, con i libri non c’è neanche paragone. Non pensare che siano libri per bambini, sono scritti fitti fitti, anche con termini tipo, che ne so, ‘roteanti’ o ‘eludere’.” “Capirai,” sbotta Claudio. “Guarda, te lo giuro,” ribadisce Martina, “anch’io all’inizio ero diffidente, ma la cosa mi ha letteralmente travolto. È un’atmosfera che cattura, le magie non sono mai assurde, e non so se lo sai, l’ambientazione è contemporanea.” “Cioè?”

“Cioè tutta la storia è ambientata ai giorni nostri, comincia nel 1981. E, per dire, Harry Potter è nato nell’80.” “Quindi,” si rianima Claudio, “fammi capire, Harry Potter sarebbe un nostro coetaneo?” “Esatto.” Martina si sta divertendo, gesticola e racconta di babbani, ovvero persone comuni senza magia, animali fantastici, il binario 9 e 3/4 da cui parte l’Espresso per Hogwarts. “Poi senti, i nomi dei personaggi sono una meraviglia. Albus Silente. Lord Voldemort. Petunia Dursley. Hermione Granger...” “A me, me piace quella che fa Hermione nel film.” “Ma è piccola!” “Seh, piccola! Ormai sarà maggiorenne. Non si rischia l’arresto.” “Sapete a che pensavo? Che dev’essere strano crescere dentro un film.” “Che vuoi dire?” “Voglio dire che lei, e pure quello che fa Harry Potter, insomma tutti quanti, quando hanno cominciato avevano dieci, undici anni. Con quelle facce tenere da bambini. Guardali adesso. Hanno vent’anni, sono cresciuti dentro i film che hanno fatto. Invece di guardare l’album delle fotografie, per sapere com’erano infilano il dvd giusto e possono ricordare. Come si muovevano, che voce avevano. Che strano effetto poteva fare un bacio sul set senza averlo mai dato nella vita fuori. I peli sotto le ascelle. Il corpo che cambia. I desideri nuovi...” “Tu non sei tanto normale, eh.” “Martina, mi sa che laurearti non ti ha fatto bene.” “Quanto siete insensibili!” ride lei. “Non sarebbe piaciuto anche a voi avere due vite, mentre diventavate grandi? Una magica e l’altra normale. E quando non vi piaceva una, sapevate che c’era l’altra. Che nell’altra avevate gli stessi anni, la stessa faccia, ma pure un sacco di poteri magici, che ne so, il Giratempo, se vi fosse servita un’ora in più per ripassare prima dei compiti in classe, il Mantello dell’invisibilità...” “Ah, questo sì, mi sarei accampato negli spogliatoi femminili a vita!” “Capite? Dal 2001 questi hanno fatto praticamente un film all’anno...” “Eh, pensa i soldi!” “Ma no, dicevo dal 2001 per dire, con tutte le cose orrende che sono capitate in questi dieci anni, loro hanno avuto comunque il loro spazio magico...” E noi? Avevamo perso la nostra magia? Martina continua a sorridere, non è chiaro a questo punto se sia seria, se giochi, oppure sia un po’ brilla. “Ma che vino era?” chiede Claudio ad alta voce, “questa è proprio andata!” Qualcuno, tra le risate, pensa “oddio, dieci anni”, lo pensa a voce alta, Martina guarda me e guarda intorno, dice: “Ma a voi non sembra strano che sia già finito un decennio? Non sembra neanche che sia passato”. Dico sì, dico “quando saremo vecchi e diremo la frase che dicono i vecchi – ai miei tempi –, intenderemo proprio questi...”. “Italo, tu sei già vecchio.” Martina parte in quarta, è su di giri: “Oh, lo facciamo un gioco? vi va? Aiutiamo Italo per la tesi”. Anche chi era lontano si avvicina incuriosito. “La tesi?” “Italo farà una tesi sul primo decennio del nuovo secolo.” “Oddio.”

“Italo, ma è vero? Ma sei sicuro?” “Ma con chi ti laurei? Vabbe’ che conosco chi si è laureato su Amici di Maria De Filippi...” Martina adesso cerca un quaderno nello zaino, si mette in ginocchio, con la schiena dritta, alza l’indice e quasi con solennità spiega cosa ha in mente. “Se io dico gli anni dal 2000 a oggi, gli anni...” “...gli anni zero!” “Eh, anni zero, anni duemila, anni-senza-nome, chiamateli come vi pare. Se io dico questi dieci anni, che parole vi vengono in mente? Potete dire oggetti, personaggi, tutto quello che volete...” “...nomi cose città animali!” “Più o meno. Ognuno deve dire una parola e andiamo avanti finché non riempiamo il foglio. Chi comincia?” “Tu.”

Il processo 2 “Ma dai, ci date la colpa di tutto. Colpa nostra se c’è Berlusconi. Colpa nostra se la classe politica è come è. Dite che abbiamo avuto lavori facili e gratificanti, una vita tutto sommato in discesa. Vi lamentate di tutto. Restate sotto questo tetto e vi lamentate.” “Papà, adesso sei tu che semplifichi. ‘Sotto questo tetto’, come dici tu, non è divertente restare.” “Non lo so se semplifico, ma lamentarsi è troppo comodo. Hai avuto sempre l’aria del creativo, quello che non voleva porsi il problema di un lavoro sicuro. Il ripugnante posto fisso! Insegnare a scuola, poi, non ne parliamo...” A questo punto avrei dovuto dire: papà, ecco, a proposito di questo, nell’ultimo anno le cose sono cambiate. A lungo ti ho guardato come l’esempio della vita che non avrei mai scelto. Ho sempre tenacemente pensato che non avrei mai fatto il professore di scuola. Che non volevo quella routine. Non volevo saperne di gessi e di lavagne. Nella mia testa si sono dati il cambio i progetti più esagerati. Più idioti. Ho trascorso pomeriggi di esaltazione, immaginando lo scintillio di una vita piena che sarebbe stata mia. Poi, lentamente, si è aperta come una crepa. La terra dell’ambizione cominciava a sbriciolarsi sotto i miei piedi. Cosa stava accadendo? Non lo so di preciso. So che arrivava, in forma di presagio triste, una storia futura di me, senza luce. Non scintillava niente. Ridevo in faccia al me stesso che di nascosto ti aveva riso in faccia. Il mio sogno di felicità non coincideva con il tuo – con il vostro ideale di vita. La cosa che più desideravo poteva sembrarvi niente. Scegli una facoltà che dia qualche garanzia, poi per conto tuo coltivi la tua passione, un giorno capirai. Dov’era adesso la forza per disprezzare ancora questo buonsenso? Com’è che funziona la spedizione nella vita adulta? La tabella di marcia, quante docce fredde prevede? e dolori, rinunce, e quante stelle si spengono? VOGLIO FARE IL PROFESSORE VOGLIO FARE IL PROFESSORE VOGLIO FARE IL PROFESSORE VOGLIO FARE IL PROFESSORE VOGLIO FARE IL PROFESSORE VOGLIO FARE IL PROFESSORE VOGLIO FARE IL PROFESSORE VOGLIO FARE IL PROFESSORE VOGLIO FARE IL PROFESSORE VOGLIO FARE IL PROFESSORE VOGLIO FARE IL PROFESSORE VOGLIO FARE IL PROFESSORE “Papà, se fare il professore poi significa arrivare...” “Arrivare a cosa.” “Niente, niente.” “A cosa.” “Al punto a cui sei arrivato tu.” “Mmm. E quale sarebbe questo punto?” “Il punto di investire un tuo ex alunno. Renditi conto.” “Non cominciare con questo discorso. Non si è fatto niente.” “Non è questo. Solo essere arrivato a tanto dovrebbe farti pensare. Hai perso la testa. Non è una cosa che può passare inosservata. Non è una cosa trascurabile. Di fronte al proprio padre che perde la testa, un figlio può rimanere impassibile? Non voglio indagare le ragioni per cui te la sei presa con Marangoni Thomas...” “Lascia stare.” “Non lascio stare niente. Marangoni può essere il peggiore studente sulla faccia della Terra e questo non giustificherebbe comunque quello che hai fatto.” “Lascia stare.” “Marangoni potrebbe essere anche uno schifo assoluto, un assassino...”

“Ma Marangoni non è uno schifo assoluto, non è un assassino.” “Vedi? Lo ammetti anche tu. Mi fa piacere.” “Marangoni è preferibile solo a una malattia. È un piccolo Bin Laden.” “Adesso sei andato oltre. Posso farti un’ultima domanda?” “Lascia stare.” “La mattina del – come vogliamo chiamarlo – dell’incidente, sì, chiamiamolo incidente, tu eri stato in quella casa editrice?” “Questo cosa c’entra.” “C’entra. La stai prendendo troppo a cuore, quella cosa.” “Non deve riguardarti.” “Papà, ci sono editori anche decenti che a prezzi non esagerati te lo pubblicano nel giro di un mese.” “Io non ho nessuna intenzione di pagare per pubblicare.” “Guarda che non c’è niente di male.” “Non insistere. Non sono disposto a pagare, per pubblicare.” “Ma la situazione dell’editoria è difficile, dovresti saperlo. Si investe su libri che abbiano potenzialità commerciali forti.” “Ma come parli.” “Voglio dire che sperare di farsi pubblicare un saggio storico senza pagare, non avendo una posizione di qualche tipo, è illusorio.” “Ma che dici.” “Papà. A me sembra che tu ti sia solo intestardito. Quanto pensi che possa vendere il tuo libro? Se arriva a cento, duecento copie sarebbe già un trionfo...” “Parli senza sapere.” “Ascolta. Ti stai distruggendo le giornate e il fegato per stare dietro a questa cosa. Potresti risolverla nel modo più semplice ma per orgoglio non vuoi.” “Stammi a sentire. Quella disgraziata mattina avevo un appuntamento con – mi avevano detto così – un consulente editoriale. Mi vedo arrivare davanti uno che ha l’età tua. Mi sorride. Un sorriso strano. Poi esce dalla stanza e torna dopo un po’. Cerimonioso e serio comincia a spiegarmi le cose che hai appena detto anche tu. Ripete almeno quattro o cinque volte l’espressione ‘in questo momento’: in questo momento la situazione dell’editoria, in questo momento la sua proposta, in questo momento qualcos’altro. A un certo punto gli dico: guardi che io posso tranquillamente aspettare che passi, questo momento. Posso aspettare il 2011, il 2012, il 2013. Mi guarda come se avesse visto un marziano. Poi dice: mi scusi. Esce di nuovo e torna dopo due minuti.” “Con chi andava a consultarsi?” “Cosa vuoi che ne sappia. Fatto sta che si mette a parlarmi dell’imprevedibilità delle tendenze del mercato di qui a qualche anno. Se lei però fosse intanto disposto a rimettere mano al suo lavoro, propone. Rimettere mano al mio lavoro?, gli chiedo. E lui: sì, rimettere mano, con il nostro aiuto. Io non voglio nessun aiuto. E lui: per aiuto intendo assistenza, anche emotiva, come dire, psicologica. Sto benissimo, gli dico, sto benissimo e non ho proprio bisogno di nessuna assistenza...” “Poi infatti esci di lì e investi Marangoni. Non dovevi prendertela.” “Non me la sono presa.” “Cosa pensi di fare?” “Non lo so. Ma a pagamento, sia chiaro, io non pubblico.” Il tema del libro di mio padre era un autentico mistero. Ogni tanto avevo dubbi perfino sul fatto che si trattasse di un saggio di argomento storico. C’era un periodo in cui si chiudeva in camera a scrivere per ore.

Un viaggio a Parigi aveva avuto come pretesto una sua non meglio definita “ricerca”. Anita era molto piccola. Era giugno, credo. Nuvole viola e nere stazionavano sui tetti grigi della città. Acquazzoni improvvisi ci costringevano a ripararci in fretta sotto qualche tettoia o a ordinare l’ennesima cioccolata calda in un caffè. Una famiglia! La frutta sbucciata di sera tardi nel lettone della stanza d’albergo. Gli scherzi e le sorprese. Poi, il giorno prima di partire papà si era impuntato che bisognava andare a vedere un grande cimitero, che lui voleva vedere queste tombe di gente famosissima e importante nella storia dell’umanità e faceva dei nomi che non avevamo mai sentito. Ma papà, piove! E lui diceva non importa, prenderemo un ombrello, questa cosa bisogna farla. Però poi abbiamo sbagliato a scendere dalla metro, siamo scesi due o tre fermate prima e siamo arrivati stanchi e fradici, con mamma che faceva finta di essere contrariata pure lei, e invece rideva, alla fine siamo entrati nel cimitero, lui aveva una piccola mappa e cercava questi nomi famosi. Intanto pioveva a dirotto, ma lui, davanti a certe tombe, sembrava che non volesse più muoversi, sembrava quasi che dovesse pregare. Mi lagnavo, volevo andare via. In realtà lo osservavo con uno spirito, uno sguardo che ora potrei definire ammirato. Era mio padre. Fermo immobile sotto la pioggia, come un albero o un soldato. Come un lampione. Un faro. “Hai una pensione che ti consente di spendere qualche centinaio di euro per una pubblicazione, mi pare. Puoi permettertelo.” “Non è una questione economica. Dovresti averlo capito.” “Non farne una malattia.” “Non ne faccio una malattia. Ma poi, posso dire una cosa io?” “Sì.” “Tu non dovresti occuparti d’altro?” “A cosa stai pensando?” “Al fatto che non sei in grado di scrivere una tesi.” “La cosa non ti riguarda.” “Non mi riguarda? Vale lo stesso per la storia del mio libro, allora. Sono già – dimmi se sbaglio – sette o otto mesi che sei fermo con la tesi.” “Richiede molta documentazione.” “No, non è questo. È che ti ostini a fare cose senza logica. Sei sempre stato così.” “Adesso che vuoi dire.” “Voglio dire che la logica non è mai stata una tua dote, se di dote si tratta. Questo, fin da bambino. Negli anni abbiamo assistito con stupore ad alcune prove della carenza in questione. Se da A a B si poteva arrivare per via logica, tu sceglievi il percorso più illogico. Che magari era anche il più complicato. Non eri un bambino facile, tu.” “Bene. Solo adesso vengono fuori certe cose.” “Avevi strane manie. Eri di una pigrizia senza precedenti. Tu non camminavi, non correvi: ti trascinavi! Catalogavi cacche: di cane, di cavallo, di mucca. Avevi periodi di fissazioni. I documentari di storia! Abbiamo speso una fortuna in videocassette. Avresti rinunciato a qualunque cosa – partite a carte, passeggiate, gelati – pur di stare su un divano avvolto su te stesso.” “Vorrei capire che c’entra tutto questo con la mia tesi di laurea.” “C’entra. Posso dirlo? In fondo hai sempre fatto soltanto quello che volevi. Quello che ti andava. Spesso, la cosa più illogica tra quelle illogiche. La meno seria tra le cose non serie.” “La mia tesi sarebbe questo?” “Be’ senti, non mi pare proprio un progetto razionale. Credo di non essere il solo a pensarla così.”

Per riuscire a farmi assegnare la tesi, in effetti, ho dovuto combattere. Sono tornato almeno sei volte dal professore, con tutta l’intenzione di superare le sue perplessità. Dovevo farcela. Dopo il primo, fallimentare incontro, terminato con un vago “senta, facciamo una cosa, riparliamone più avanti”, mi sono presentato direttamente con uno schema di lavoro. C’erano anche una serie di frecce. La stanza era invasa da una luce grigia, quella tipica delle presidenze e degli studi dentistici. “Scusi, professore, io avrei pensato...” “Guardi, se è ancora convinto della tesi su Berlusconi, glielo dico subito, non perdiamo tempo.” “Ma non sarebbe esattamente una tesi su Berlusconi. Ma su un’idea di politica, sull’Italia di questi anni.” “L’Italia di questi anni.” “L’Italia di questi anni, sì.” “Senta.” “Mi dica.” “Mi vede?” “Sì, certo.” “Mi guardi bene.” “...” “Il prossimo sarà il mio ultimo anno accademico.” Pausa. “Sa cosa vuol dire questo? Che sto per compiere settant’anni. Che faccio corsi di Storia contemporanea da almeno trenta.” Pausa. “Vede? Questo pensiero – settant’anni eccetera –, questa posizione se vuole, offre una particolare prospettiva. Aiuta a capire molte cose.” “Lo immagino.” “No, lei non può immaginarlo. Mi dica, quanti anni ha, ventisette, ventotto?” “Ventisei.” “Ecco. Figuriamoci se può immaginare. Lo so che cosa sta pensando, che sono vecchio, che faccio discorsi da vecchio. La saggezza eccetera.” “...” “Gliela faccio breve. La sua idea di tesi su Berlusconi è velleitaria e anche un po’ sciocca. Lo sa? Tesi di laurea ne esistono in sostanza di due tipi. Quelle intelligenti – lo studente ha chiaro in testa il suo percorso, procede da sé, ci vediamo alla discussione – e quelle-per-laurearsi. Sono inutili entrambi, intendiamoci. Lei rischia di non fare una tesi intelligente e nemmeno una tesi-per-laurearsi. Non so se mi spiego.” “Sì.” “Bene. Ora guardi, voglio aiutarla. Quanto le ho dato all’esame base di Storia contemporanea?” “...” “Non ricorda? Lei allora, da bravo, va al ricevimento del mio assistente, gli dice che ha parlato con me e trovate una soluzione, lui si occupa anche un po’ di sociologia, storia del costume, trovate una cosa carina da fare. Arrivederci, mi stia bene, auguri.”

Assistente era uno con cui si poteva parlare. Era facile intercettarlo davanti ai distributori automatici di caffè e merende, in corridoio, che conversava sempre di buon umore, gesticolando parecchio, di fatti appena accaduti, del saggio da aggiungere al programma per ottenere due crediti in più. Nella malinconica categoria degli assistenti universitari, aveva tutta l’aria di rappresentare un’eccezione. Non aveva particolari stempiature, né quel tono sempre scostante o indispettito che subito l’avrebbe reso assimilabile ai suoi colleghi. Sembrava, intanto, dotato di una vita privata; e sembrava perfino leggero: con il suo corpo tonico, le sue camicie a quadri o le polo, i jeans chiari e un po’ stretti. Piaceva. A femmine e maschi, quasi indistintamente. Piaceva che si rendesse disponibile e

che rispondesse alle mail. Piaceva che non fosse inutilmente ostile. Da ultimo, sembrava sotto assedio. L’ordinario riversava su di lui un’infinità di incombenze e di studenti allo sbando. Le tesi di laurea triennale, di cui il vecchio professore non aveva più intenzione di occuparsi, schiacciavano Assistente, che pure riusciva a sopravvivere a pomeriggi di ricevimento lunghi come pranzi di matrimonio. E poi, il telefonino non gli dava tregua. Si scusava, interrompendo di continuo le indicazioni bibliografiche che forniva in automatico, ma con un’espressione sempre meno partecipe. C’era una novità. La sua candidatura nelle liste del Partito democratico in vista delle elezioni europee. Si sarebbe rivelata un fallimento, ma il suo sguardo stava già cambiando. Difficile dire in cosa fosse diverso ma, sì, era diverso. Era lo sguardo di uno che ha sempre fretta, che è costretto a cogliere all’istante l’essenziale, cioè l’utile, e tutto ciò che non rientra in questa categoria rifiuta oppure ignora. Era uno sguardo distratto, disancorato, lievemente in allarme. Era già lo sguardo di un politico. “Papà, non sono stato fortunato e lo sai.” “Con le ragazze proprio no, hai ragione. Hai sempre scelto quelle più sbagliate.” “Prima o poi troverò quella giusta. Da qualche parte dovrà pur essere, no?” “Vedremo.” “E comunque stavo dicendo che non sono stato fortunato con la tesi. L’ordinario che va in pensione, l’assistente che si candida nel Pd...” “Ma come funziona? Lui si candida e non segue più gli studenti?” “Li segue, diciamo così, da lontano. Una campagna elettorale è impegnativa.” “Aveva almeno approvato la tua proposta? Seriamente.” “Mi porti qualche pagina, mi ha detto.” “E tu gliel’hai portata, qualche pagina?”

Parte seconda

STORIA DEGLI ANNI SENZA NOME Ricordo i giornali, che morivano come immense falene! RAY BRADBURY, Fahrenheit 451

FALDONE I

Ipotesi per una tesi Può funzionare, come primo capitolo, Il villaggio globale e le sue tensioni? Suona già sentito. Oppure: Gli odori delle case in Occidente, tra XX e XXI secolo. Dovrebbe trattarsi proprio di un inventario degli odori, puzze e profumi, che sono nostri al punto da non riconoscerli più. Panni appena stesi in camera da letto (case senza balcone). Cane fradicio dopo una passeggiata sotto la pioggia (case senza giardino). Cene riscaldate al microonde. Carni e pesci panati mentre si scongelano. Odore di piedi nelle camere da letto di figli adolescenti. Eccetera. Catalogo delle paure? Un tempo erano la notte, il giudizio di Dio, le streghe, la peste. I barbari. Nell’ultimo decennio ancora la peste – aviaria, suina –, il terrorismo, l’atomica, i terremoti, gli tsunami. Gli stranieri. Forse, invece, bisognerebbe cominciare dalla magia dei numeri. Dall’elettricità che produceva in noi l’idea di questo numero, 2000. Un anno vale un altro, e la conta del tempo è un pasticcio che fanno gli esseri umani, però il fascino di questo passaggio era davvero irresistibile. Il 31 dicembre 1999 i giornali di tutto il pianeta erano carichi di pronostici e speranze. L’Onu aveva decretato quello che stava per cominciare, il decennio della pace e della non violenza. Era stato accoltellato George Harrison. In Olanda, come una novità assoluta, andava in onda il primo Grande fratello televisivo. Si discuteva di un possibile collasso universale dei computer, messi in crisi dai due zeri, il Millennium bug. Si temevano atti terroristici. NEW YORK – ...la città sarà messa in stato d’assedio. New York vivrà ore di tensione e di paura. Due milioni di persone sono previste stasera a Times Square – più che in ogni altro luogo al mondo – e almeno un miliardo di telespettatori di tutto il pianeta seguirà la discesa della palla luminosa, che segnerà il trapasso del secolo e del millennio. E sono proprio questi aspetti quantitativi e simbolici che potrebbero attrarre il terrorismo internazionale, che a Manhattan, nel febbraio 1993, fece tremare le torri gemelle del World Trade Center, uccidendo sei persone e ferendone più di mille. Sfogliare vecchi giornali dà la sensazione di toccare con mano il muro che ci divide dal futuro. Le cose avvenute vengono registrate e in un modo o nell’altro neutralizzate. Quelle che stanno per avvenire sono invece lì, dall’altra parte di un muro: immaginate, desiderate o temute. Accadranno. Le nostre previsioni non hanno alcun peso. Per raccontare davvero il passato, si dovrebbe azzerare ogni volta la competenza del dopo, il senno di poi. Bisognerebbe poter sprofondare nella cecità, nell’incapacità di prevedere il futuro della notte di ogni possibile Millennium bug e di tutte le notti.

Pagina uno della tesi potrebbe cominciare: con la regina Elisabetta sotto la cupola del Millennium Dome. Frastornata, dà un bacio al principe consorte, finge di cantare Auld Lang Syne, tenendo per mano il primo ministro Tony Blair con papa Giovanni Paolo II che si affaccia a mezzanotte e saluta il mondo, il riflesso dei fuochi d’artificio fa di un bianco elettrico la sua veste bianca con Italo Tramontana, sedici anni, che finalmente non passa il Capodanno in casa dei nonni (erano capodanni semplici e caldi di stufa accesa, senza sorprese, con nonno che voleva mangiare presto, eravamo già al dolce quando il presidente della Repubblica diceva buon anno; poi un lungo ciondolarsi – e mezzanotte non arrivava mai. 23 e 59: i botti impazzivano, facevano tremare i vetri, nonno bestemmiava e rideva, io alzavo il volume del piccolo vecchio televisore in salotto fino a sentire rimbombare le voci dentro e trasformarsi in uno strano ronzio metallico, dieci, nove, otto, sette, sei...). Ma per il 2000, anche senza essere maggiorenni, si poteva uscire: serata da Merli, compagno di

classe. Ha casa libera, la madre dice solo “mi raccomando non fate danni”, prima di scomparire insieme al più recente fidanzato. Merli eccolo là, alto e segaligno, indaffarato ai fornelli. “Non pensavo che sapessi cucinare.” “Infatti non so cucinare.” Però spiega che la nonna gli ha svelato i segreti della pasta col tonno. “Merli, ti prego, la pasta col tonno non ha mai avuto segreti. Per nessuno.” Arriva a tavola molto scotta, comunque mangiabile; per il secondo, molti hanno portato misteriosi vassoi avvolti nella carta stagnola. Ne emergono fritture, cotechino e lenticchie, insalate. “Il vassoio con le lenticchie non entra nel microonde. Le mangiamo così?” Nessuno reagisce, le lenticchie sono gelide e collose, ma l’attenzione è spostata altrove: all’improvvisa sparizione di Merli, che un attimo fa era qui, e invece adesso, a occhio e croce, dovrebbe essere chiuso in camera con Giada e Federica, sparite anche loro. Ma cosa sta succedendo? L’aveva detto Merli: il 2000 va festeggiato come si deve. Intanto qui si sta gonfiando una curiosa bolla di malizia, afrodisiaca. Ci si guarda strano. È come se una gioia primaverile in questa notte d’inverno si comunicasse da un corpo all’altro – dai corpi delle ragazze, stasera vestiti a festa, chi l’avrebbe mai immaginato di intuire un tanga sotto il vestito di Chiara; e sembra quasi bello, stasera, Matteo, pensa Silvia, stasera che si è lasciato la barba un po’ lunga, o forse sono io che ho già bevuto troppo. Allora chi è venuto in coppia si infila in qualche anfratto, altri restano a parlare seduti sulle scale, ridono, si versano ancora da bere, chi fuma va fuori, in giardino, così capita che anche Italo metta il naso fuori, Dora gli dice vieni a farmi compagnia un attimo qui, il cielo è di un blu fuligginoso, resta sparso sulle campagne il fumo dei petardi, fa freddo, Federica la si sente ridere, con un bicchiere di vino rosso in mano ride sempre più lontano e quasi non si tiene più in piedi, è il mondo che stasera gira troppo o sono io, non c’è vento, dice Federica, e ride e il suo piccolo corpo è come scosso da un riso che diventa tosse, singhiozzo, mentre Dora dice a Italo vieni qui, avvicinati, ci pensi che stasera comincia il 2000, ci pensi. Italo si avvicina, dice eccomi, e questa parola nel freddo degli ultimi venti minuti prima di mezzanotte è uno sbuffo di vapore a un paio di centimetri dal naso di Dora, che butta la sigaretta lontano, infila le mani nelle tasche dei jeans stretti. “Senti Italo, ma tu che sogni hai per il 2000?” “Sogni, mah...” “Io vorrei che le cose fossero un po’ diverse, mi basterebbe che fossero diverse appena un po’ da come sono state finora.” “Ma non ti fanno paura le cose diverse? Le cose quando cambiano.” Dora non risponde, sta in silenzio, poi chiede un giuramento. “Promettimi però che non ridi.” “Prometto.” “Guarda che dico sul serio.” “Anch’io.” “Allora senti, mi giuri che quando saremo grandi, se a venticinque anni, se a trenta, non avremo trovato l’anima gemella, noi due andremo a vivere insieme?” Italo pensa che anche Dora non sia lucida, stasera – in quest’ultima sera del 1999, in quest’ultima sera degli anni novanta, in quest’ultima sera di secolo e di millennio, come si fa a essere lucidi? “Guarda che non ho bevuto,” dice Dora. “Io e te a vivere insieme?” “Sì, se saremo ancora soli sì.” Italo a questo punto non sa se questa è una cosa tenera o una cosa triste. Di sicuro, non è una dichiarazione o forse in parte lo è, forse bisogna dire cose tenere e tristi in una sera come questa. Dora adesso si avvicina, Italo riesce a sentire il calore che proviene dal suo corpo, all’improvviso accoglie la spinta lieve del seno di lei, ed è un abbraccio, poi un bacio rapido: solo labbra su labbra, per una

frazione di minuto non quantificabile. “Adesso dimentica tutto questo, per favore,” dice Dora, e si allontana, ma Italo non la sente, sono le 23 e 59 e intorno esplodono la felicità e il rumore di tutto, ma è strano, perché Italo, mentre la regina Elisabetta finge di cantare sotto il Millennium Dome, mentre il papa si affaccia su piazza San Pietro, mentre i computer del mondo si preparano a riconoscere le cifre nuove e temono il Millennium bug, mentre tutto questo e molto altro accade, Italo al centro di un cortile buio è lontano dalla bestemmia allegra di suo nonno, dalle voci che urlano in casa Merli, dai brindisi di auguri, per un istante è lontano proprio da tutto. Allora si domanda chissà cosa comincia adesso, chissà perché Dora ha detto quello che ha detto. Poi pensa soltanto: abbiamo sedici anni, ed è il 2000.

La giornaliera luce delle gazzette Oppure, potrei parlare della crisi dei giornali. Non c’è stato un solo giorno di questo decennio in cui non li abbia avuti per le mani. L’odore di inchiostro si spargeva nello zaino di scuola, macchiava le copertine bianche dei manuali. “Hai una specie di segno nero sul viso!” “Io?” I giornali sono stati una preghiera. Non era una questione di informazione, non solo. A volte, sfogliando un quotidiano, le notizie le sapevo già tutte, oppure le dimenticavo e non me ne importava niente. Era, soprattutto, una questione di carta piegata bene. Una questione di mattina presto. Per ogni giorno della mia vita cosciente, dall’autunno del terribile 1993, c’è stato un giornale. C’è stata, perfino al tempo in cui capivo troppo poco, almeno una pagina tirata via, c’è stato un ritaglio. Stipavo tutto in un armadietto di bambù che non voleva stare chiuso. Poi si spalancava all’improvviso e a quel punto il suo alito di inchiostro invadeva la mia camera. I giornali stavano schiacciati uno sull’altro, in disordine, necessari e ciechi. I giornali di oggi non sanno niente di domani. Eppure, uno accanto all’altro, come piccole tessere di verità o di ignoranza, di approssimazione (alla verità assoluta, all’ignoranza assoluta), di bugie da smentire dopodomani, di profezie sbagliate, fanno il mosaico in perenne rovina della storia. Ho conservato prime pagine come cimeli e reliquie. Quando dubitavo dell’esistenza del passato, quando stringevo i denti e mi dicevo non esiste, il passato non esiste, quelle pagine dicevano ma sì che esiste, scemo, è scritto qui. Tutto sta a riattivare la connessione tra i fatti del mondo e i fatti tuoi. Dovresti tracciare una cronologia universal-personale. Guarda intensamente questa pagina, questo titolo. Questa piccola pubblicità. Le previsioni del tempo. A questo punto, prova a ricordare. Dov’eri tu. Dove eravamo tutti.

E nel giro di un decennio sarebbe cambiato tutto. Più che nel mondo, in noi. Eravamo quelli che ancora – nel dicembre 1999 – raccoglievano quindicimila lire a testa per i regali di compleanno e per le gite. Studiavano i modelli atomici di cloro, potassio e calcio (adesso, non ne ricordano niente). Scrivevano i compiti sul diario (si leggevano a fatica tra scarabocchi e sciocchezze intorno), dicevano apotema e cateto, preparavano l’autogestione e sapevano cosa fossero, in algebra, i radicali. Copiavano. Cerca nei passi della Vita nuova tutte le espressioni che si riferiscono a Beatrice. (Ma quante cose abbiamo smesso di fare.) Certe mattine uscivano alle 11.10. Tiziano Ferro cantava Rosso relativo. Possibile che solo dieci anni dopo avessero, i maschi, già tanti capelli in meno? Lo spazio di tovaglia bianca intorno al piatto coperto di briciole e palline di pane, l’aria del ristorante carica di elettricità, come prima di un temporale, per tutto quel parlare di novità e trasformazioni. Tiziano Ferro cantava Sere nere. Cene tra ex compagni di classe da cui si deduce l’assoluta imprevedibilità dei destini individuali. E tu saresti diventato questo? Compilatore di curriculum a vuoto, personal trainer, ostetrica, praticante avvocato, cassiera di supermercato, estetista, rappresentante di scope elettriche. Oppure, più semplicemente ancora, studente fuori corso. Studente a vita. Poteva capitare di alzare la testa dalle pagine di un libro sottolineato riga per riga, in modo da non capire più cosa fosse davvero importante, tutto, anzi niente, poteva capitare di guardarsi intorno e toh, sono ancora nella solita stanza della mia infanzia, che ci faccio qui, dov’è l’uscita? Non la vedo, e ancora spuntano poster, pupazzi, diari, cose che non voglio più vedere, con madri che sono le stesse ma più vecchie di

allora, che lavano i calzini, stirano, chiedono se resti a cena, a che ora torni, quanti esami pensi di dare in questa sessione, quando pensi di finire, come se finire significasse qualcosa, come se portasse davvero a qualcosa. A volte, arrivavano all’improvviso le sette di sera, come un vento o un terremoto. I libri tutti aperti sulla scrivania ma la testa vuota. Che avessimo dormito? Sul vecchio Nokia 3310 non c’è niente. Gettandosi di schiena sul letto si chiudono gli occhi, e per un minuto o due viene da stringersi da soli, per sentire cosa farebbe, di noi, un corpo innamorato.

11 settembre 2001, le quattro del pomeriggio. La scuola non è ancora cominciata. Abbiamo quasi tutti, da poco, compiuto diciott’anni. Squilla il telefono. “Italo, scusa, ti chiamavo per...” “Rossella, ciao. Ma hai visto che è successo?” “Ti chiamavo per chiederti una cosa di latino, stavo finendo...” “No, scusa, ma hai visto cosa è successo?” “...in realtà è una cosa semplice, credo, ma non mi è chiaro se ai versi 950-951...”

“Ma hai visto che è successo?” “...iustam va con litem, no? Veram va con causam, quindi naturam è...” “Mi sa che non hai saputo.” “...quindi pensavo: ‘Se non che la natura rivolge un’accusa legittima’...” “Rossella, mi ascolti, ma hai saputo?” “Oddio, cosa? Ma che per caso non era da tradurre? Convinta che...” “Sì, era da tradurre.” “Ah, meno male. Ma quindi secondo te...” “Rossella, New York...” “New York? Sei stato a New York quest’estate?” “Rossella.” “Sì.” “Vaffanculo. E accendi la televisione.”

Ero su un autobus, fine settembre, sabato mattina verso scuola. Ho fissato il suo nome sulla prima pagina. Mi sono chiesto dove fosse stata per tutto questo tempo. Il pomeriggio ho letto a voce alta l’intero lunghissimo articolo, a mia madre.

Dieci anni prima del 2003 era il 1993 e avevo dieci anni. Adesso, dell’anno dei venti, non ricordo niente, se non la morte di Alberto Sordi, l’immagine di Saddam Hussein impiccato e la mia visita di leva. Con la psicologa che mi commentava in faccia risposte date a una sfilza interminabile di domande. La stanza era carica d’ombra – eppure, fino a un attimo prima, viale delle Milizie sfavillava. Era di maggio, si preparava un’estate ferocemente calda. Dunque, ricapitoliamo, pensavo, per non fare il soldato sarebbe necessario: avere paura dei ragni; soffrire di vertigini; avere o avere avuto incubi ricorrenti; pensare o avere pensato al suicidio (almeno una volta nella vita, almeno nel corso di una lontana e disperata domenica pomeriggio).

Allora Italo, hai una vita sentimentale stabile? sei fidanzato?, domandava intanto la psicologa, quasi imbronciata, hai rapporti sessuali? Ma signora psicologa, che domande, neanche i preti le chiedono più certe cose, e comunque, mi vede, ho diciannove anni, non lo so nemmeno io perché sono qui, mio padre ha detto che dovevo togliermi di torno ’sta cosa dell’anno di leva, meglio perderlo adesso piuttosto che avere problemi con il lavoro – quale lavoro?, gli ho chiesto, e poi scusa, c’è pure la guerra in Iraq, dico io; insomma, si era impuntato, mi ha letteralmente impedito di fare il rinvio, tra l’altro non dovevano abolirlo?, l’anno di leva, dico. Comunque no, in effetti non ho una vita sentimentale stabile, però mi dica lei cosa lo è – stabile – su questa terra. Non so se posso aggiungere che, quanto ai sogni, ce n’è uno che spesso torna, sulla soglia del sonno, proprio un attimo prima di addormentarmi del tutto, sento che il letto non mi sostiene più, arriva una vertigine, una fitta allo stomaco e mi vedo precipitare nel vuoto. Però non urlo, o non mi pare, perlomeno. Poi sì, per tutta l’infanzia ho creduto che ci fosse un ragno sulla spalliera di quello stesso letto, ma un ragno enorme, una cosa larga e pelosa che mi spaventava a morte. Almeno quanto il sangue, quando lo vedo sgorgare da un dito o dal naso, sarà che mi impressiono per poco. Non so se questo può bastare. A un certo punto, l’interrogatorio finiva. La psicologa diceva: “Per me è tutto, vada pure”. Allora mi ritrovavo in piedi davanti a una schiera di orinatoi, costretto a riempire una provetta. Un’impresa. “Vuoi un po’ della mia?” chiedeva perciò comprensivo chi mi urinava accanto, “ci stai mettendo una vita.” “Perché no,” rispondevo con voce che quasi tremava per imbarazzo. Allora l’altro sporgeva il sesso e diceva: “Come vuoi, però calcola che ogni tanto mi faccio le canne, non so se la cosa può essere un problema”. “Forse sì, lasciamo stare, grazie lo stesso, magari ce la faccio da solo.” “Come vuoi,” ripeteva quello ridendo, e si riabbottonava i pantaloni. Sarei stato esonerato per problemi alla vista. Il 29 luglio 2004 la Camera dei Deputati avrebbe approvato a larghissima maggioranza l’abolizione del servizio militare obbligatorio di leva a partire dall’anno successivo. “Hai visto?” dico a mio padre. “Ho visto cosa.” “Hanno abolito la leva obbligatoria. Se mi avessi lasciato fare il rinvio, come tutti, per motivi di studio...” “Ma che ti importa. Tanto, ero sicuro che finivi riformato.”

L’unica cosa che potevo davvero capire delle guerre lontane di questo decennio e di tutti, erano fotografie. Non immagini di soldati al fronte, avvolti dalla polvere; né di luci strane e gigantesche nuvole di fumo sopra una città qualunque dell’Iraq. Né fino in fondo potevo capire racconti di boati, pareti che si sbriciolano, articoli anche troppo pensosi. Capivo invece piccole fotografie di stanze da letto. Cappelli con visiera, lampade alogene, poster alle pareti. Libri, tazze-ricordo, file di cd. Stanze simili alla mia, ma lontane. E disabitate.

La grande impressione la fece il vento, il giorno dei funerali. Un vento di aprile inclemente e vittorioso, che faceva volare le vesti rosso porpora dei cardinali, li costringeva a tenersi i copricapo con le mani. E sfogliava, sfogliava le pagine di una Bibbia aperta sulla bara di legno semplice.

L’amore liquido nel 2005 “[...] La razionalità liquido-moderna raccomanda mantelline leggere e aborre le gabbie di ferro. Negli impegni duraturi la razionalità liquido-moderna ravvisa oppressione; nel rapporto stabile, una dipendenza incapacitante. Quella razionalità nega il diritto a vincoli e legami, spaziali o temporali che siano.” EPOCA NUMERO UNO Lui non la conosce, lei conosce lui. A lei, un amico comune ha parlato di lui. EPOCA NUMERO DUE Si sono già incontrati due o tre volte, sta per diventare un’abitudine trovarsi in cima alle scale di marmo bianco della facoltà di Lettere. Siamo alla fine dell’autunno, a lei piace rabbrividire nell’aria fredda e opaca del mattino e tirarsi sul mento una leggera sciarpa scura. Lui la guarda salire in fretta le scale con le sue gambe sottili di gru. EPOCA NUMERO TRE Si scrivono lunghissime mail, dettagliate, precise, composte come epistole del Settecento. Lui è letteralmente sconvolto dall’eleganza di lei. Lei gli fornisce, di sé, notizie minime, vaghe. Cita Saffo. Spedisce alle 7.36 di mattina mail in cui può capitare che parli senza motivo di lirica trobadorica. Gli lascia il numero di telefono dopo cinque mesi di scambio epistolare. Mi verrai a trovare?, domanda finalmente. L’EPOCA NUMERO QUATTRO, la più intensa, si può definire fitta di incontri pomeridiani in casa di lei – i genitori sempre, misteriosamente, altrove: alcune loro tracce facevano pensare a presenze altere, comunque di prestigio, che il tempo e la vecchiaia avevano rese distanti, se non del tutto aliene a quello spazio domestico. Lui li immaginava sempre in viaggio, lei non li nominava mai. C’erano – oltre al sospetto, abbastanza stupido, che Livia Spina avesse natali nobili – un infinito numero di ragioni per sentirsi, in presenza di lei, in soggezione. Le sue competenze linguistiche, tanto per cominciare: negli anni aveva riempito di cartoline dall’Europa un’intera bacheca di sughero, e gli scaffali di romanzi in inglese, francese, tedesco, spagnolo. Allora lui chiedeva: “Mi dici per favore come cominciano in tedesco Le affinità elettive?”. Lei rispondeva: “Eduard – so nennen wir einen reichen Baron”, e lui la trovava bellissima, così concentrata in quella pronuncia. Che strana cosa dev’essere una dichiarazione d’amore in tedesco, pensava, allora le chiedeva: “Scusa, com’è che si dice ‘l’ora più bella di un pomeriggio di aprile’”, e lei: “Die schönste Stunde eines Aprilnachmittags”. Lui provava a ripetere, poi diceva: “Ora posso baciarti?”. Ecco cosa dovevamo fare nella vita: imparare lingue. Nient’altro ha senso quanto questo, e non per leggere libri, che è l’ultima cosa, ma per parlare con più gente possibile, e farla ridere, stupire, innamorare. Ricordarsi di noi. A volte, lui era sorpreso di provare per lei una strana forma di invidia: ne immaginava moltiplicate le occasioni esistenziali, quasi che a ogni lingua dovessero corrispondere una e più possibili vite. Da ultimo, tuttavia, lei continuava a progettare viaggi che non avrebbe fatto. Aveva rinunciato all’Andalusia, diceva che sarebbe partita con alcune amiche, poi: “Non so, ci devo pensare, ho addosso

una strana stanchezza”. Quanto a Parigi, invece, avrebbe dovuto tornarci di sicuro, dopo essere passata per Ginevra. A Parigi per forza, parlava di questo giovane linguista con cui progettava una ricerca in comune. “Se vuoi, ti faccio vedere una sua foto.” Apriva il portatile senza aspettare la risposta di lui, cercava una cartella con scritto FOTO VARIE, puntava l’icona chiamata André, e due secondi dopo appariva, come una macchia di luce, il ritratto del linguista da giovane, in giardino, bianco e sorridente – l’aria di un ragazzone francese il cui fascino, con gli anni, non potrà che aumentare. Ne ha trentasei. A quaranta sarà bellissimo. Spina, da uno così, potrebbe facilmente essere soggiogata: tipica allieva che si innamora del professore mentre lui le corregge i compiti, lo aspetta agli angoli delle scale, lo desidera e si consuma d’amore. Lei, per intanto, precisa che con lui si tratta solo di un lavoro di ricerca, a metà tra glottologia e storia delle lingue. Certo, la storia delle vostre lingue, pensava lui. Insomma, sarebbe partita. Non era chiaro quando; ospite di un’amica in rue Linné, non lontano dal Jardin des Plantes. “Poi ti do l’indirizzo, però tu ricordamelo.” Stringendosi in un golfino nero già indossato troppe volte, sosteneva di nuovo che partire, proprio in questo momento, era tutt’altro che una cattiva idea, anzi: sarebbe tornata più positiva, avrebbe trovato le situazioni più mature. “Compreso te,” aggiungeva rivolta a lui, “che intanto continuerai a crescere un po’, magari a soffrire, farai l’amore con qualcun’altra, va bene anche questo. Dopo, sarai diverso. E io, in effetti, avevo già deciso di aspettare: aspettare, forse, di vederti come quel giorno alla stazione, quando ti ho incontrato per la prima volta e di te non sapevo niente, quindi solo immaginavo; vederti un po’ più uomo, più ambizioso, più vivo, forse un po’ più tu.” “Vuoi che ti preparo un tè? o, se preferisci, una tisana.” La piccola cucina, affacciata su una piazza con mercato, diventava un guscio caldo e buio invaso da vapore di menta, cannella o bergamotto. La prima cosa che gli viene in mente di quella casa è in effetti la poca luce. “Spina, per favore, apri queste tende! Fuori è ancora giorno, ancora per poco.” Invece, erano sempre stanze con finestre cieche, con sipari, zanzariere, persiane accostate, come per un lutto che non finiva. Ma da cosa vuoi proteggerti Spina?, si domandava lui entrando in bagno. Erano le tre del pomeriggio e doveva accendere la luce. Era lì ad accertarsi di essere pronto per fare l’amore: sempre pronto, però non accadeva mai. Di solito, lei lo congedava ignorando erezioni storiche, che pure aveva intravisto. Tutt’al più, capitava che lei gli dicesse: “Stenditi con la testa sulle mie gambe”. Restavano vestiti. Lei gli accarezzava la fronte come a un figlio, allora lui si ribellava: “Hai solo un anno in più di me, o due, quanti sono, ma insomma si può sapere perché devi fare sempre la mamma?”. “Io non faccio mica la mamma,” rispondeva lei, “io non faccio la mamma, piccolo mio.” “Allora non dire mai più ‘piccolo mio’, per favore! Dimmi qualcos’altro, dimmi qualcosa che mi faccia sentire un uomo, per favore, ogni tanto.” Lei, all’istante, si irrigidiva. Lui sentiva sotto la nuca i muscoli delle gambe di lei già tesi,

alzava la testa e pensava: vedrai che adesso si è offesa, mi ci gioco tutto. Lei stava in silenzio solo per poco, poi diceva: “Andiamo in cucina, c’è del tiramisù. L’ho fatto io”. Qualche volta si baciavano. Però sembrava che le labbra di lei scivolassero dalle sue per troppa saliva, sempre troppo presto. Di sicuro era un’impressione: erano belle labbra sottili tra l’altro, ma come sdrucciolevoli. In ogni caso, pensava lui, sono sulla strada giusta. Una volta lei gli ha regalato uno shampoo contro la caduta dei capelli. A che mi serve, ha pensato lui allora, non è un bel gesto. Adesso ha capito. “Nella tesi di laurea che un giorno scriverò, Spina, ho intenzione di fare insieme lo storico contemporaneo e lo scrittore.” “Cioè?” “Cioè capire come la storia pubblica incrocia quella privata.” “Non è mica una cosa nuova, piccolo mio, è quello che fanno i romanzieri, di solito. Da sempre.” “Dici?” “Dico sì. E non sarebbe una tesi di laurea, ma un racconto, un romanzo.” “Comunque voglio provarci, voglio che sia la storia di questi anni, questi ultimi anni della mia vita e della vita del mondo, e che questa storia arrivi fino a te.” “Ma io non voglio.” “Dimmi perché.” “Perché mi dà fastidio finire dentro una cosa scritta.” “Io lo pensavo come un gesto gentile. E se io fossi un altro? Se questa cosa fosse scritta da un altro?” “Sarebbe uguale. Non voglio stare in un racconto, e neanche in un romanzo o in una tesi, basta.” “Eppure c’è chi darebbe oro.” “Non esagerare.” “...se eri Lesbia e io Catullo.” “Smettila.” “...non ti dispiaceva finire in una cosa scritta.” “Io sono Livia, tu sei Italo. Non me ne importa niente di finire nelle cose scritte.” “Mi hai fatto passare la voglia di scrivere.” “Io voglio semmai che la mia vita sia toccata – dalle persone che mi stanno a cuore; non studiata. Per farne un racconto, un romanzo, o una tesi poi. Scrivi pure della tua vita, se credi. Non della mia però.” “Sei crudele.” “Tu sei crudele, chi scrive è crudele. Chi mette su carta la vita altrui. Non ti sembra una violazione bell’e buona? Un affronto all’intimità.” “Ma ai livelli più alti e sublimi, è letteratura.” “No. È cannibalismo.” “Non esagerare tu, adesso.” “Io non voglio pensare che i libri che ho amato sono fatti di vita vera, vita rubata a qualcuno, perché sennò mi fanno schifo.” “Livia, per favore.”

“Mi hai chiamato Livia.” “Non ti capisco.” “Fai male a non capire. Allora. Facciamo l’ipotesi che io prenda una lettera, una delle tue lettere a me, quella per esempio che dice Spina, ci sono alcune cose di cui voglio parlarti. Ci siamo lasciati un attimo fa, sono su un autobus e sto tornando a casa. L’autobus sale su via Nazionale, fa un po’ di fatica, è pieno di gente a quest’ora, sono riuscito a sedermi e un signore a un certo punto mi ha detto: lei non fa una buona pubblicità al suo bel giornale di sinistra. Io ho chiesto perché. Lui ha risposto: perché poteva cedermi il posto. Ho abbassato gli occhi e non ho detto niente, avrei potuto insultarlo, ma non sono stato capace, invece ho pensato che aveva ragione e che io avevo torto, dovevo alzarmi e cedergli il posto, invece sfogliavo il giornale e guardavo fuori. C’è una vetrina di Intimissimi che ogni volta mi precipita in un disagio che non so spiegare. La perfezione di quei corpi seminudi e mutilati che ruotano nella luce fredda. I pizzi, le trasparenze. Esistono i corpi giusti per tutto questo? Me lo domando ogni volta. Comunque, tornando al vecchio, la sua voce roca e severa mi aveva umiliato. Sarebbe bastato questo, un episodio idiota come questo, fino a un attimo prima di te (di te nella mia vita, voglio dire) per ripiombare nella nausea di tutto, nel solito pozzo di tristezza infinita. Non so se ti ricordi, una volta mi hai detto che avevi deciso di curarmi, di accudirmi. Curarmi da cosa?, ti ho chiesto. Curare da niente, hai risposto, curare come si cura un giardino. Ero rimasto un po’ offeso, non volevo che qualcuno si sentisse in dovere di curarmi, non volevo essere uno da curare...” “Dove vuoi arrivare?” “All’ipotesi che io mi metta a scrivere un racconto su un ragazzo che a un certo punto della sua vita ha avuto bisogno di essere salvato da una ragazza, perché era precipitato in un pozzo di tristezza infinita, perché cercava tenerezza nelle frittate e bisognava che la cercasse invece altrove. Se poi aggiungessi che questo ragazzo ha una serie sostanziosa di paure, che difficilmente si lascia toccare dagli altri, che da solo si infila in complicazioni inutili eccetera? E potrei, volendo, dire il colore dei suoi occhi, la forma delle labbra, come sono fatte le sue mani... Saresti contento?” “Contento di cosa?” “Del racconto su questo ragazzo.” “Lasciamo perdere.” “Vedi?” “Cosa devo vedere?” “Com’è crudele mettersi a scrivere della vita degli altri.” “Non hai capito niente.” “Sei tu che non hai capito. Che quando una persona si avvicina a un’altra, se si avvicina sul serio, racconta molte cose di sé che non ha raccontato mai a nessuno. Altre gliele lascia vedere. Quando esce dalla doccia senza infilarsi l’accappatoio. Quando dice mi fa male qui, ma secondo te che cosa ho. Quando mostra uno strano segno sul polpaccio e spiega che storia c’è dietro. Oppure un minuscolo difetto anatomico di cui si vergogna a morte. Ma non è niente, dice l’altra persona, che nel frattempo ha già visto molte altre cose mai mostrate. Però questi si chiamano segreti, sono le cose segrete che uno affida all’altro senza pensarci troppo: l’odore della pelle, il modo come fa l’amore, quella volta che è scoppiato a piangere e poi ha chiesto scusa mille volte in un’ora. Per tutto il tempo che si vogliono bene, due persone hanno in ostaggio molte cose l’una dell’altra. Molte cose che non sono oggetti. Molte cose che non è giusto mettere nelle cose scritte. Lo capisci?” Squilla il telefono. Lei va a rispondere. Torna dopo trenta secondi. Gli sorride e con un po’ di fretta nella voce,

senza una ragione evidente dice: “Mi sa che devi andare, vero? Ti chiamo un taxi, se vuoi”. Il taxi non si vede. Forse è il caso di richiamarlo. Dall’altra parte della strada, dopo appena un minuto, c’è una figurina sottile che sembra Spina. È lei. È scesa a buttare la spazzatura. Come riesce a essere elegante, anche con il sacchetto della spazzatura! Non è da tutti. All’improvviso lui la perde di vista, come fosse stata inghiottita dal buio. Poi si accorge che è salita su una macchina, una grossa macchina nera ferma davanti al cancello, chissà da quanto. Aprendo la portiera, si illumina brevemente la sagoma dell’uomo al volante. Non è suo padre: troppo giovane. Non è suo fratello: lei non ha fratelli. In ogni caso, lo sta baciando. La sagoma al volante mette in moto. La macchina corre via. A pochi passi da lì, sulla piazza del mercato, c’è ancora qualche traccia del commercio mattutino. Buste di carta, arance marce, foglie d’insalata. Un cane triste perlustra alla luce di un lampione, un vecchio si ferma a guardarlo.

Dappertutto, comunque, c’era gente innamorata. Le cose potevano andare male quanto volevano. Poteva venire giù anche molta pioggia, poteva essere lunedì o il primo giorno di lavoro dopo le vacanze. Potevano crescere l’inflazione, il debito pubblico, il tasso di disoccupazione. Potevano esserci ingorghi per le strade, il solito traffico infernale, manifestazioni contro il governo – e, lontano, l’ennesimo kamikaze che esplodeva in un posto pieno di polvere o nel cuore di una grande città. Poteva, nel giro di ventiquattr’ore, accadere tutto questo e molto altro. Eppure – intorno, dappertutto – c’era gente innamorata. Per le strade della città, negli androni dei palazzi, sugli autobus e in metropolitana, sulle scale mobili, negli uffici, nei cortili delle scuole, continuavano a spuntare esseri umani che, a due a due, si tenevano per mano e si baciavano. Sembrava un’invasione capillare, pacifica e infinita. Capitava però di notarla, quasi fosse un’ingiustizia, nei giorni carichi di malumore.

Chelsea Clinton non era più così inguardabile ed era pronta a sposare un banchiere. I capelli sulla testa del principe William, erede al trono d’Inghilterra, si diradavano a vista d’occhio. La stella di Britney Spears non brillava più come un tempo, mentre la cantante Amy Winehouse e l’attrice Lindsay Lohan entravano e uscivano dalle cliniche di disintossicazione. L’ereditiera Paris Hilton – famosa per un interminabile video pornografico, A night in Paris, e per quegli occhi sgranati e matti – stava perdendo smalto. Perfino Zac Efron, pure adorato e braccato da orde di ragazzine occidentali, vedeva spuntare all’orizzonte, pronti a fargli ombra, i nati negli anni novanta.

Ecco che cosa scompare. Così bisognerà dire a un figlio: un giorno tutto questo esisteva. Oggetti, sì, ti sto parlando di oggetti – per esempio, cose come: mangianastri walkman videocassette floppy disk cabine telefoniche cellulari con antenna telefoni a disco modem 56K televisori con tubo catodico polaroid diapositive macchine per scrivere un motorino che si chiamava Ciao Avevano questi nomi. Ci sembravano nuove, vivevano. Sembrava che potessero durare. E invece scomparivano: come i gettoni telefonici, i giradischi, i taxi gialli, i jukebox nei bar. Come scompariranno i fax, le pagine gialle, forse un giorno i francobolli. Non accadeva all’improvviso: qualcosa di ostinato e segreto le trascinava via. Si estinguevano: lentamente, come grandi specie di pesci o gli orsi polari. Ma forse, in questo decennio senza nome, meno lentamente del solito. Allora, per esempio, poteva accadere che su una piazza qualunque di una grande città, un pomeriggio d’inverno, tuo padre giovane, non ancora padre, si mettesse in cerca di un nastro per registrare la propria voce. Non sempre voleva abituarsi alle novità della tecnologia: tieni in conto, di tuo padre, anche la pigrizia; e che poteva legarsi con la stessa stupida facilità agli oggetti e ai suoni: come lo scatto metallico quando premeva i tasti, come il brusio del nastro che si riavvolgeva. Per caso avete audiocassette vergini?, era costretto a chiedere al negoziante. Il negoziante era alto, aveva i capelli grigi. A tuo padre sembra che indossasse un camice bianco, ma forse questo è un ricordo sbagliato. Comunque andò che il negoziante, mentre lo scrutava, rispose a tuo padre giovane: signore, non ne abbiamo più, quelle cassette sono fuori commercio, mi dispiace. Allora tuo padre, uscito dal negozio, si fermava in un punto qualunque della piazza e non sapeva più dove andare. Immobile, come colpito da un fulmine o un’apparizione. Non aveva più niente a che fare con la città, con il vento, con il rumore e i movimenti della gente. Era come stordito dal pensiero di quella scomparsa. audiocassette – su cui una volta, pensava, registravamo canzoni per fidanzate e feste di compleanno, lezioni di storia, paradigmi di verbi latini da lasciare impressi nella testa, di notte. Con cui riascoltavamo favole, da ragazzini, corsi di lingue straniere – e le nostre stesse voci: e ci sembrava impossibile che avessero proprio quel suono, che così sgraziate dovessero arrivare all’orecchio degli altri, nel mondo. Capitava che i nastri si inceppassero, stracciati dai denti dello stesso strumento che avrebbe dovuto accudirli; dunque perdevamo anche ciò che non avremmo voluto perdere – ma va sempre così, con le audiocassette, con la vita. Mentre il vento gonfiava sacchetti di plastica e faceva volare fogli di giornale, tuo padre giovane finalmente attraversava la piazza. Cominciava a piovere, gocce robuste, bolle d’acqua che scoppiavano sui baveri dei cappotti. Lui pensava che da qualche parte, nei sotterranei della città o agli ultimi piani dei grattacieli, c’era qualcuno che segretamente congiurava: contro la resistenza delle cose. Qualcuno decideva che il tempo di qualcosa – un oggetto, uno strumento, un luogo – era finito, il

tempo delle lampade a olio, dei dischi, delle cabine telefoniche; oppure delle audiocassette. Perciò questo qualcuno domandava: quante ne restano ancora? La risposta era: circa cinquecento milioni, cinquecento milioni di audiocassette sparse per il pianeta: sugli scaffali di vecchie botteghe, dentro magazzini dismessi, bagagliai di auto passate di moda, camere di bambini cresciuti, case delle nonne, archivi di collezionisti e di cantanti fuori dal giro. Bene, da oggi non ne produrremo più. Qualche ritardatario andrà ancora cercandole, senza successo, sicuramente le rimpiangerà, ma non importa: il mondo è pieno di nostalgici, lasciamo che si estinguano, come dinosauri o mammut per una pioggia di comete. Lasciamo le cose al loro destino, soltanto così il mondo cambia. Tuo padre cercava quel nastro per lasciarti la sua voce com’era, come un’eredità precaria su un piccolo nastro lucido, marroncino e fragile.

A: Assistente Da: Italo Tramontana Oggetto: tesi Gentile dottore, come forse ricorderà, il professore mi ha consigliato di rivolgermi a lei per concordare il tema della mia tesi di laurea magistrale in Storia contemporanea. Devo confessarle che il professore ha molte perplessità sul tema – provo a riassumerlo con una formula generica – “Berlusconi”. Alcune recenti pubblicazioni, tuttavia, mi spingono a insistere su questa via. La manifestazione più compiuta della politica nell’era post-moderna, nella quale sono tramontati i grandi sistemi ideologici, non merita finalmente di essere storicizzata? Mi perdoni se entro nel campo personalissimo delle mie visioni, se non addirittura delle mie allucinazioni. Mi creda, mi è sembrato di averla davanti agli occhi: una nave da crociera. Il pensiero mi ha accompagnato fino a notte e non mi ha ancora lasciato: l’Italia, per vent’anni, è stata una nave da crociera. Non le pare? Con i campi da golf, le balere, le discoteche, le piscine, il cinema, il piano-bar. La vacanza dev’essere cominciata con una cosa che, per età, non riesco a ricordare per memoria diretta. Ne hanno mandati in onda alcuni passaggi l’altra sera. Si chiamava Colpo grosso, lo trasmettevano su Italia 7, gestione Fininvest. Era un quiz con un signore del Nord, paffuto e con i baffi, Umberto Smaila. C’era una quantità incredibile di ragazze, che poi restavano in topless o proprio nude. Sostiene Smaila che dopo tanti anni parecchia gente ancora lo ringrazia: “Lo sa, io vedevo Colpo grosso con mio nonno. Ero un ragazzino, allora. Mio nonno diceva: vediamoci Colpo grosso, non lo diciamo a nessuno.” Sostiene Smaila che una volta il Capo lo medagliò al valore: “Caro Smaila, abbiamo fatto un risultato straordinario, lei non immagina che ascolti l’altra sera”. Di fronte a Colpo grosso, mi creda, sono rimasto come un piccolo moralista attonito. So cosa sta pensando: che è vecchia, che è un luogo comune questa storia della televisione commerciale che ha involgarito il paese. Però mi creda, ho avuto la certezza che quelle ragazze scenografiche fossero testimonianza di una passione – la passione – che il Capo ha da sempre. Non c’entrano con le tarde stanchezze, non è la questione della libido senile per cui è finito sui giornali di mezzo mondo, con le ragazze sulle sue ginocchia, oppure nude in giro per le sue ville, i compleanni delle diciottenni. Era abbastanza impressionante: si vedeva proprio tutto, erano lucide, erano senza bollino rosso. Erano gli anni ottanta. Saliti sulla nave da crociera, abbiamo preso il largo. Diretti dove? Era impossibile capirlo. Ma siamo rimasti a bordo per vent’anni. Le vacanze erano finite, veniva da piangere a tutti, come in una pubblicità. Però qualcuno deve aver detto che si poteva restare. Si poteva non scendere più. Lui avrebbe continuato a intrattenere, a sorridere, a cantare. Un giorno, quando sembrava che tutto sarebbe durato così per sempre, il Capo sarebbe sceso. Sembrava solo un po’ stanco, un po’ più nervoso. Passerà, si diceva. È più forte di tutti, di tutto. Ogni sera si davano feste che somigliavano a Colpo grosso, feste per tenerlo su di morale. Niente. L’aria era cambiata. Sulla nave da crociera, le luci erano rimaste accese. E attivi i campi da golf, le balere, le discoteche, le piscine, il cinema, il piano-bar. Ma c’era come un senso di smarrimento. Un’ansia strana si sarebbe comunicata di passeggero in passeggero. L’equipaggio non era in grado di fornire alcuna indicazione. Le luci restavano accese, notte dopo notte. Ma i campi da golf, le balere, le discoteche, le piscine, il cinema, il piano-bar sembravano più tristi e cominciavano a svuotarsi. Le feste c’erano ancora, ma come svogliate. A muoversi – in modo scomposto e con le camicie sudate e le pance e i sorrisi un po’ ebeti – erano ormai quasi solo alcuni vecchi amici del Capo. I passeggeri, loro cominciavano ad annoiarsi. Si sarebbe udita a breve una prima, solitaria voce di protesta: “Voglio scendere”. Trascurabile.

Fino a che i “voglio scendere” sarebbero diventati un frastuono, una maggioranza a tutti gli effetti. Voglio scendere voglio scendere voglio scendere voglio scendere voglio scendere voglio scendere. La nave da crociera era ormai un circo vuoto. Era rimasto a bordo solo un drappello di ostinati, come statue di sale. Da terra, era tutto diverso. L’enorme circo galleggiante aveva un’aria così malinconica, così stolida. I comunisti rimasti a terra da sempre andavano a caccia di ex passeggeri per interrogarli. Volevano sapere i dettagli dell’imprevista fine del viaggio. C’era chi si fermava a rispondere, ma quasi con fastidio. Parole spicce, imprecise, sbrigative. Dopo qualche settimana, ex passeggeri non se ne trovavano più. Dov’erano finiti? “Chi, io? Ma lei sta scherzando. Se insiste, la querelo!” Sulla nave non c’era stato nessuno. La maggioranza, la stragrande maggioranza degli italiani non era mai salita a bordo. Anzi, puntava il dito. Recriminava, con parole feroci. Ai pochi nostalgici era riservata, sulle prime, un’alzata di spalle. Poi, una tirata moralistica. Poi: “Non è accettabile che si facciano pubblicamente certi discorsi, è apologia di, e come tale va bandita”. La storia del Capo era già un capitolo sui manuali di storia. Al governo sarebbero andati i difensori della democrazia, quelli della responsabilità nazionale. Ma non solo erano ordinari, per biografia, proposte, tono di voce, perfino mimica facciale. Non c’era niente da raccontare di loro, del loro passato. Non c’erano dettagli da romanzare su navi da crociera, televisioni, tacchi, doppiopetti, barzellette, lampi di genio, capelli, passioni, conquiste di varia natura. Non c’erano da raccontare le nuotate, la ginnastica, il trucco. Immaginare i passi nelle stanze di case enormi, lo sguardo dietro la tenda, le ore di solitudine. Non c’era da raccontare più niente. Una volta uscito di scena il Capo, non ci sarebbe stato più romanzo. Il romanzo, per vent’anni, era stato lui. Il grande romanzo che nessuno scrittore italiano era riuscito a scrivere. Il più brillante, il più avventuroso, il più imprevedibile, ingombrante e originale romanzo che si potesse immaginare. Il più inutile, come tutti i grandi romanzi. Il più pericoloso. Com’è che si chiamava, la sua biografia? Una storia italiana. L’Italia sarebbe rimasta senza storie. Le luci sulla nave da crociera si erano spente. Uscendo di scena, il Capo avrebbe portato via con sé molte, moltissime cose. Anche la mia giovinezza.

FALDONE II

Cronologia universal-personale

Parte terza

TUTTI A BERLINO Come sanno i computer, il passato non è che accumulazione di dati, ai quali attingere soltanto quando lo richiede il calcolo del presente. JOHN UPDIKE, Villaggi

Senza precedenti Le cose in Germania – ci avrebbe scritto in una breve mail, con poco riguardo per la punteggiatura – andavano bene, non c’era di che preoccuparsi per lei. Si stava rilassando. Questo stacco da tutto le avrebbe fatto bene, diceva, in assoluto. Non faceva cenno a un’ipotesi, neppure vaga, per la data di ritorno. E – questo ci sembrava davvero sconcertante – non pareva troppo agitata per le conseguenze della sua assenza. Non sembrava, cioè, preoccupata per noi. Sì, certo, faceva domande: le tipiche domande materne. Ma possibile che non riuscisse a immaginare la confusione in cui, partendo, aveva precipitato la vita domestica di noi Tramontana? Oppure, la ignorava volutamente. Per una moglie-madre non dev’essere difficile avere piena coscienza del vuoto immane che lascia in una casa priva di colf. Ma forse era proprio questo il punto: fingendo di non tenere conto delle conseguenze pratiche della sua assenza, sapeva che le avremmo soppesate – perciò sofferte – meglio. In effetti, era come se una serie di meccanismi magici e segreti che per oltre due decenni ci avevano permesso di trovare mutande e calzini puliti nei cassetti, camicie stirate nell’armadio, generi alimentari nel frigorifero, piatti caldi sulla tavola anche a orari impervi, ecco, era come se questi meccanismi si fossero all’improvviso inceppati. Dovevano, tra l’altro, essere gli stessi che determinavano il lavaggio dei piatti e la stenditura dei panni, il fabbisogno idrico della vegetazione sul balcone, la sparizione settimanale della polvere da mobili e davanzali. C’era altro. C’era da scoprire dove mamma custodisse generi anche di prima necessità. C’era da ingegnarsi con i detersivi, recuperare pezzi di casa distribuiti in giro: una giacca in tintoria, una cornice rotta dal vetraio. Anche soltanto fare la spesa somigliava a un problema di matematica, tentando di ricostruire le promozioni a cui lei si affidava, il latte della tale raccolta punti – esperienza d’anni di abnegazione alla cultura del risparmio. Ma come faceva un singolo corpo di donna a concentrare in sé questa articolata, complessa e tanto incisiva somma di azioni? Questo sì, era un vero mistero. Tanto più a giudicare da come si era tutto, in sua assenza, complicato. Le operazioni che avevamo presupposto semplici, se non naturali, adesso apparivano titaniche. La prassi casalinga che non avevamo mai appreso sembrava una scienza incomprensibile, il rito di un culto iniziatico. Le madri non dovrebbero mai andare via. Il loro compito è restare. In tanti anni non ci aveva mai attraversato il dubbio di essere cresciuti comodi, pigri e in fondo egoisti. Con fastidio avremmo accolto sporadiche chiamate all’ordine o momenti di assoluta ostilità e mutismo. “Possibile che nessuno in questa casa faccia mai niente?” Già. I sederi di piombo, avrebbe definito il problema di tanto in tanto, con rabbia. Ma il giorno dopo sembrava averlo dimenticato e i soliti, magici meccanismi di pranzi e calzini filavano alla perfezione. Giudicavamo la sua partenza innaturale, se non assurda. Era, nella nostra vita familiare, un fatto che un telegiornale avrebbe definito “senza precedenti”. Ma d’altra parte non era allo stesso modo senza precedenti il gesto inconcepibile di papà? Avremmo dovuto rassegnarci in fretta ad accettare il nuovo e pericolante stato delle cose. Il problema era che volevamo capire. E questo sì, sembrava davvero impossibile. Quando i genitori discutono, quando urlano di continuo, quando devi uscire con gli amici oppure andartene in piscina, cercare l’unico luogo al riparo dalle loro grida, significa che l’esplosione c’è stata, che una piccola guerra senza sangue è iniziata. Ma qui no. Qui, nessuna esplosione. Eppure vetri e pareti hanno tremato lo stesso, anche se nessuno ha mai alzato troppo la voce. Avremmo dovuto ripensare mamma e papà non come un’entità unica – in sostanza, erano stati questo: un’entità unica

senza passato – ma come mamma più papà. Oppure: papà più mamma meno mamma, e viceversa. O forse, semplicemente: Mario. A capo. Lucia. Qualcuno si è mai davvero fermato a pensare chi fosse questa Lucia, senza papà accanto? Chi fosse stata, prima, sì, ma anche durante. I suoi desideri individuali, di persona singola. I suoi desideri non familiari. Le sue rinunce, le sue sconfitte. Qualcosa che per un po’ l’ha portata lontano. Beceri maschilisti che siamo, non abbiamo mai avuto il coraggio di immaginare un interesse, anche solo uno sguardo, di mamma per un uomo diverso da papà. Poteva non amarlo più, certo, non amarlo più come un tempo, ma doveva, era tenuta a fermarsi lì. Zero sogni. Già è sconvolgente solo il fatto, stupido e ovvio quanto si vuole, che sia stata ragazza. Le fotografie parlano chiaro. Ragazza! E questa ragazza ventiseienne (ha una camicetta bianca, qui; è Ferragosto), obiettivamente desiderabile. Immortalata da mio padre-ragazzo con la stessa ossessiva tenerezza verso l’essere amato di cui mi sarei scoperto capace anch’io. La fotografa di continuo, e dev’essere stato nel giro di nemmeno mezz’ora: su una panchina, su un molo, mentre mangia un panino, lo sbriciola e le si affollano ai piedi i piccioni di una piazza italiana qualunque. Lei ha quel sorriso delle ragazze innamorate dentro le fotografie dei fidanzati: sanno di piacere, fingono di schermirsi. Dai, amore basta! E invece no, non basta mai. Devo rapirti anche con questo scatto. È ragazza. Ha un’espressione così distesa e anche un po’ infantile che non mi pare di averle mai sorpreso, mai. L’Italia è invasa dalle Fiat 127. Loro due – mio padre e mia madre, prima di esserlo – progettano vacanze, passano pomeriggi al mare già all’inizio di giugno, partecipano a battesimi e cresime di parenti piccoli. Fanno l’amore. Mio padre è pieno di capelli. Fa espressioni splendenti e perfino, volutamente, cretine. Solari. Da questa zona della loro vita prima di noi, quando pure tentiamo di accostarla, veniamo ricacciati indietro. Alla larga! È cosa troppo intima e troppo loro, quell’essere stati – si può dire così? – felici. Devono avere pensato che quel giorno di agosto del 1981 potesse non finire mai, con la polo a righe sottili aperta sul petto peloso (si intravede una catenina d’oro), mio padre; e la sua donna con un abito nero, leggero, due delfini bianchi disegnati sopra. Il punto dove comincia il seno è una promessa dolce. Il viso del padre è già diverso nel febbraio 1983 – più quadrato. Appesantito. I tratti si sono riempiti. C’è meno gioco, nelle sue espressioni. Meno felicità? Però progettavano e facevano ancora vacanze estive. Poi, con i figli, saranno arrivati giorni di nuovo felici. Diversamente felici. Quando Anita, come un cucciolo di cane, è addormentata sul sedere di mamma, nel cerchio d’ombra di un ombrellone a fiori. Questa stupida, ostinata archeologia di noi stessi spinge a conclusioni affrettate. La cattiveria delle fotografie non aiuta: invita a pensare che acquistando qualcosa (anche solo anni, sicurezze), altro abbiamo comunque perso. È disarmante. Che ci fai vestito a festa su uno scoglio, così lontano dall’essere mio padre? Eri molto più felice di ora? Oppure eri solo un altro te stesso, che con quello di oggi c’entra poco? Forse niente.

“Non potresti essere più precisa?”

Glielo chiede ogni volta. Glielo ha chiesto ogni volta, quasi ogni sera che ha cenato con lei. Quando c’era ancora il padre, immobile davanti alla finestra, gli sembrava strano chiedere a lei di lui. L’uomo di cui parlavano era lì, ma non interveniva, non aggiungeva dettagli, non li smentiva. Ogni tanto si voltava lentamente e sorrideva. Era un sorriso indecifrabile. Li stava prendendo in giro? Quale che fosse il senso di quel sorriso, era il segno che lui ascoltava, che c’era, che forse la sua memoria non era persa, resisteva – ma muta, non traducibile in parole. Allora la moglie – il grembiule stinto, le mani piccole, forti, macchiate dagli anni, le vene in rilievo, i milioni di rughe, solchi, canyon, come di un pianeta arido, qualche pelo bianco, più lungo, sul mento, uno zampillo improvviso –, questa moglie diventava l’estensione sonora di una memoria altrui. Quanto fedele? quanto imparziale? se poi le date non tornavano, se lei chiedeva al figlio “te lo ricordi, no?” e il figlio avrebbe dovuto rispondere: no, non ero nato, come faccio a ricordarmi mamma, e invece diceva sì, mi ricordo, e lei continuava, a muovere i personaggi di questo inaffidabile teatro, a farli dialogare con battute di un copione che ogni settimana cambiava un po’ – il margine di libera improvvisazione all’ennesima replica. Perché non riusciva a essere più precisa di così, non riusciva a essere precisa se non sugli istanti – sempre gli stessi – a cui comunque tornava, dopo qualunque giro di parole vago, correndo gli anni, perdendo mesi e fatti enormi, tornava ancora una volta lì, a quel microscopico pezzo di dialogo da niente, inattendibile, eterno.

Marangoni è un eroe Dice papà: hanno telefonato i genitori di Marangoni. Dice che alla cornetta c’era questa voce del tutto imprevista, la voce della madre di Marangoni. Con un tono acido, dice, mi ha comunicato: volevo informarla che Thomas sta meglio, magari non le interessa saperlo, dati i rapporti che aveva con lui, rapporti non proprio facili diciamo, ma per fortuna Thomas potrà continuare a giocare nonostante questo, chiamiamolo pure così, incidente. Lei forse non immagina lo choc che abbiamo vissuto. L’autentico terrore rispetto all’ipotesi che il futuro di nostro figlio potesse essere compromesso. Senza lasciarmi dire neanche mezza parola, continua papà, la madre di Marangoni è andata avanti per un quarto d’ora, come un fiume in piena: io non so esattamente perché lei nel corso di questi anni abbia preso di mira mio figlio, magari c’è una ragione precisa che non voglio nemmeno indagare, tra l’altro non servirebbe a molto, a questo punto. Però senta, voglio essere sincera con lei. Lei ha un’età e un ruolo per cui dovrebbe essere a tutti gli effetti un modello. Io non mi sento autorizzata a mettere bocca – e d’altronde non l’ho mai fatto – sui suoi metodi di insegnamento, magari lei è uno straordinario professore di italiano e storia, non lo metto in dubbio. Però senta, al di là dell’incidente, mi lasci dire che nei confronti di Thomas lei è andato oltre. Starei per dire che si è trattato di una piccola persecuzione. E non lo dico perché sono la madre, lo dico perché da persona adulta ho il dovere di difendere e proteggere chi è più giovane e fragile. Ma lei ha idea dell’espressione affranta, con cui Thomas tornava da scuola? Era distrutto. Io, conclude papà, ho idea di com’ero distrutto io. Poi aggiunge che la madre di Marangoni, come una cosa da niente, alla fine della lunga tirata sugli adulti che hanno il dovere di essere autentici modelli per i più giovani, ha domandato: e lo sa, professore, chi ci ha dato la più grande lezione di maturità in tutta questa vicenda? Chi. Thomas. La più grande lezione di maturità in tutta questa vicenda ce l’ha data Thomas. L’altro giorno è riuscito a toccare di nuovo il pallone. Non sa com’era felice. Finalmente ha ricominciato a sorridere. È venuto da me, e mi ha detto: mamma, io penso che non sia il caso di andare avanti con gli avvocati, penso che sia il caso di lasciar perdere tutto, è meglio così. Gli ho chiesto: vuoi che mamma e papà ritirino la denuncia e la richiesta di risarcimento, vuoi questo? E Thomas ha risposto: sì. Capisce? Si rende conto? Questo ragazzo! Succo della telefonata: la vicenda giudiziaria poteva concludersi senza traumi, con una conciliazione tra le parti. Sia fatta la volontà di Thomas. Eppure, papà non sembrava soddisfatto. Tutt’altro. La telefonata l’aveva parecchio innervosito. “Adesso devo pure veder passare Marangoni per eroe! Un piccolo padre della patria e della carità. Disgraziato. Ma io lo so perché è andata così, lo so perfettamente. Anche i piccoli Marangoni hanno rimorsi di coscienza.” A cosa mio padre si riferisse di preciso, non era chiaro. Ma non sembrava trattarsi di un’affermazione generica, accompagnata com’era da un’eloquente alzata di sopracciglia. “Eh, caro Marangoni. Basta guardarti in faccia.” Di fronte a uscite simili, sentivo il dovere di ribellarmi. E non per prendere le parti di Marangoni. Per non avallare con il mio silenzio le grevi allusioni di papà-Lombroso. “Che c’entra la faccia.” “C’entra, c’entra.” “Ma ti pare che si possa giudicare una persona dalla faccia?” “Sì.”

“Mortifichi la tua intelligenza.” “Ah, be’.” “Ma poi scusa, che faccia ha Marangoni?” Dalla descrizione paterna, obiettivamente, emergevano i tratti di un giovane, inceccepibile stereotipo. Non era fin troppo prevedibile che il Marangoni di turno portasse berretto con visiera anche durante le lezioni? Poi: ha un piercing appena sopra il sopracciglio sinistro. Sopracciglia molto curate, s’intende. Gli incisivi larghi, diciamo da coniglio. Gli occhi, di un colore indecifrabile, sul grigio, sono sempre un po’ cerchiati. Le canne? Il poco sonno? Palpebre a mezz’asta, almeno durante le lezioni di italiano e storia. Porta al collo una catenina d’oro. Ha un tatuaggio sul braccio sinistro, ma non si capisce cos’è di preciso, una strana cosa alata che spunta dalla manica della T-shirt. Vogliamo parlare degli sbadigli enormi? del modo osceno in cui mastica la gomma americana? Lasciamo perdere. Però pensavo: se chiedessi ad Anita di descrivermelo lei, il ragazzo Thomas, non otterrei una versione diametralmente opposta a quella di papà? Tutte le caratteristiche da lui assunte come negative, sarebbero riscattate dagli occhi benevoli e innamorati di mia sorella. Dove sta la verità su qualcuno? È il risultato delle interpretazioni altrui, così contraddittorie, approssimative, falsate da stati d’animo, umori, pregiudizi? Forse sta altrove: presente ma infinitamente lontana e imprendibile, come la linea dell’orizzonte. Ogni giorno ci troviamo a parlare di persone che abbiamo intorno, come se fossimo al corrente di tutto ciò che le riguarda. È la zona minima di quelli che chiamiamo i Conosciuti. Si allarga lentamente, anno dopo anno, acquista nuovi membri, mentre perde quelli meno affiatati e qualificati. È qui che le nostre relazioni esistono, si complicano, si sfilacciano, invecchiano. Ma il mondo è soprattutto, o soltanto, questo: gente che non conosciamo. Ci passa accanto, ci sfiora, non ne sentiamo il bisogno. E i Conosciuti, anche loro, vengono da lì, dal mondo oscuro. A volte ci tornano, o non si sono mai mossi. Perché i Conosciuti sono sempre conosciuti-a-metà, conosciuti-un-po’, conosciutimale. Ci hanno nascosto, a volte senza volerlo, ampie porzioni del loro passato, che pure ci avrebbero fornito indizi decisivi. Hanno – in uno scatto d’ira, in camera da letto, mentre piangevano – illuminato una zona di sé che non sospettavamo e che mandava in frantumi ogni nostra certezza. Se per Mario Tramontana la persona indiscutibilmente peggiore del mondo era Marangoni Thomas, per Anita, al contrario – se non la migliore – era la più importante. Ma per un padre dev’essere quasi impossibile accettare che tra miliardi di esseri umani la propria figlia finisca per scegliere quello che lui considera il più inaffidabile e infame. Quanto alla figlia, non dev’essere facile accettare che il proprio padre consideri il ragazzo che lei ama uno zero assoluto. E che abbia tentato di investirlo. Come se non bastasse, il ragazzo in questione non ha nessuna stima dell’illustre padre di lei. Capita spesso? L’illustre padre, intanto, non si era accorto di avere lasciato in vista sulla scrivania una serie di carte che non deponevano a favore della sua coerenza. C’era, prima di tutto, una specie di volantino con scritto La rivista “Nuovi Scrittori” & Il Gomitolo editore indicono

SELEZIONE OPERE POESIA NARRATIVA

SAGGISTICA

Periodicamente Il Gomitolo editore organizza selezioni di opere letterarie. Per partecipare è sufficiente inviare una raccolta poetica (minimo 30 poesie), un romanzo, una raccolta di racconti o un saggio (minimo 30 pagine). Le opere dovranno essere inviate in una copia, allegando nome, cognome, indirizzo e recapito telefonico dell’autore. Gli autori delle opere selezionate riceveranno una proposta di pubblicazione entro 30 giorni dalla ricezione del materiale. Questo era semplicemente il segno che, nonostante tutto, non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla sua ossessione. Ma ciò che non prevedevo era il testo del foglio successivo: Risultati Selezione Opere Inedite (Proposta di pubblicazione)

Gentile Maria Tramontana (Legga con attenzione),

in relazione alla Sua partecipazione alla Selezione Opere Inedite, Le comunichiamo che Il Gomitolo editore ha deciso di proporre per la pubblicazione la sua opera. In relazione al libro da Lei proposto, Il Gomitolo editore ha dimostrato interesse e disponibilità alla pubblicazione nelle seguenti modalità: • Un contratto di edizione della durata di 12 mesi a partire dalla pubblicazione del libro, scaduti i quali l’autore ritorna in possesso dei diritti di utilizzazione economica dell’opera. • L’acquisto da parte dell’autore di sole 70 copie. • Il prezzo di copertina viene indicato in relazione alle pagine che il libro svilupperà. Il prezzo di copertina previsto per la sua opera è pari a 12,00 euro, che moltiplicato per le 70 copie acquistate dall’autore, costituiscono un importo complessivo pari a 840,00 euro. • L’importo può essere saldato in una unica soluzione o in più soluzioni mensili fino ad un massimo di 10 mesi. Dunque, anche solo 7 copie al mese. • L’opera potrà contenere dopo la nostra impaginazione fino ad un massimo di 64 pagine più copertina a colori. • La pubblicazione per la prima edizione del volume è di 150 copie. E tutto questo, che segno era? Che mio padre aveva seguito il mio consiglio. La cosa avrebbe dovuto farmi piacere. Tutt’altro. Ero scosso. Se insistevo con la soluzione dell’editoria a pagamento, era proprio sapendo che lui non l’avrebbe mai presa in considerazione. Per principio. E invece. Invece dovevo concludere che non solo aveva cambiato idea, ma teneva sulla scrivania la patetica proposta di pagare 840 euro per vedere stampate 150 copie, i cui due terzi sarebbero finiti sugli scaffali di casa sua. E poi: era diventato, nell’intestazione della lettera, Maria Tramontana. Doveva incassare perfino questa mortificazione? Non sapevo cosa fare. Se avessi mosso qualche obiezione, avrebbe chiesto chi mi dava il diritto di rovistare fra le sue cose. Nessuno, in effetti. Ma forse, invece, aveva lasciato in vista il contratto

proprio per mostrarmi i frutti del bel consiglio che gli avevo dato. Per mostrarmi l’onore che gli avevo fatto a spingerlo nelle spire dei finti editori. Per mostrarmi come, grazie ai miei suggerimenti, era diventato Maria.

Proust su Facebook Assediato dal senso di colpa, mi ero messo a cercare informazioni sulla casa editrice a cui mio padre aveva spedito la sua misteriosa proposta. C’era di tutto. C’era il solenne sito ufficiale, che vantava presidenti onorari di indiscusso prestigio letterario, recensioni sulle principali testate nazionali, commosse e autocelebrative testimonianze di autori dal grande avvenire. C’era la valanga di titoli pubblicati nel corso degli anni e c’erano i nomi degli autori: ciascuno con il suo blog, la sua nicchia virtuale pressoché invisibile. Poi – nemmeno troppo in là tra i risultati di Google – era segnalata una pagina Facebook che radunava i feroci e battaglieri oppositori dell’editore Il Gomitolo. Cos’era successo? Sembrerà molto stupido, ma solo in quell’istante – spinto da una curiosità patetica – ho sentito l’esigenza di avere a che fare con Facebook. D’altra parte, incrementare di una unità lo spaventoso numero di iscritti alla comunità virtuale era l’unico modo per accedere alle contumelie in questione. L’operazione è stata semplice e rapida. In un istante, ho avuto il mio “profilo” senza amici. Alla fine del pomeriggio, erano già dieci. Tre colleghi d’università, due Ragazze Sbagliate, quattro ex compagni di liceo e un ex, molto ex, chierichetto che mostrava, oltre ai segni dell’età, quelli di un’evidente riconversione. Esponeva una sua foto a torso nudo – un asciugamano bianco attorno alla vita, un altro avvolto in testa e un’espressione da deficiente. Ma ora contava che capissi qualcosa in più sull’esercito degli autori scontenti. Il proclama in cima alla pagina diceva: “Il Gomitolo pubblica indiscriminatamente qualunque cosa, intasca milioni di euro e non distribuisce adeguatamente. Sempre più scrittori esordienti stanno cadendo nella rete. Prima di firmare un contratto con loro, informatevi bene! La strada sarà in salita, ma cercate altrove”. Più di trecento persone, eccole là: con le loro fotine opache e finte, pronte a firmare qualunque petizione contro il perverso meccanismo editoriale che aveva inghiottito il loro talento. Ma c’era anche chi si era salvato: fiutando l’inganno per tempo, aveva stracciato il contratto. “Io mi sono tirata indietro, ma sono sorella di uno che ha accettato.” “Io ci sono cascato quattro anni fa, ora aiuto i giovani a non cascarci.” “In un mese questi tizi hanno pubblicato sessanta esordienti! Ma vi rendete conto?” “A me hanno chiesto duemila euro!” “Io ho dovuto portare di persona i miei libri nelle librerie. Rendetevi conto.” Papà – Ero pieno di rimorsi. L’avevo spinto, proprio io, sulla strada di ulteriori frustrazioni. Avevo lasciato che sparisse nella folla degli autori turlupinati! Lui. Ma ciò da cui ero davvero impressionato era la quantità di persone che scrivevano. Che si trattasse di un’epidemia? Forse, a notte fonda, nel cuore delle città – bastava tendere le orecchie – si riusciva a sentire come un rumore di pioggia. Era la somma dei ticchettii sulle tastiere dei portatili: di chi – spogliandosi finalmente della vita diurna di assicuratore, dentista, avvocato, bidello, barista – indossava i panni di scrittore. Quasi che le parole dei giorni, le parole di sempre, quelle che bastava dire e non scrivere, dire come si dice buongiorno, dove andiamo stasera, ti amo, devo dirti una cosa di me, si fossero – sotto la pelle di migliaia di persone – incistate. E cercassero a forza un’altra via, un’altra pronuncia: lo spazio bianco e professionale di un file di Word. Adesso non accettavo più l’idea che mio padre pubblicasse di tasca sua. Era una cosa disonorevole? Forse no. E tuttavia non mi piaceva, non mi sembrava giusta: per lui, per nessuno. Avrebbe fatto meglio a portare il suo libro in una tipografia, a fotocopiarlo. Ma quella farsa no, volevo evitargliela. Dovevo, evitargliela.

È stato mentre scorrevo, meditando, l’ennesimo commento amareggiato – “Questi del Gomitolo uccidono la creatività delle persone che vogliono sognare” – che ho avuto come un’apparizione. Una delle tante, insignificanti fotine era la foto di un bambino. Che ci faceva lì, un bambino? E per di più, un bambino dall’aria per me familiare. La risposta stava nel nome. Dado Cardini. Ovvero Cardini Edoardo. Scuola elementare Carlo Pisacane, anni scolastici 1989-1994. Dado Cardini non era più un bambino da molto tempo, eppure nel profilo Facebook esponeva una fotografia risalente ai suoi dieci anni. Avrei scoperto che la sua scelta passatista non era, su Facebook, un caso isolato. Ma cosa generava la mia incredulità? Il fatto di avere incrociato nel modo più inatteso possibile – senza, quindi, cercarlo – il bambino Cardini diventato nel frattempo mio coetaneo? o piuttosto il fatto che Cardini non-più-bambino facesse insospettabilmente parte dell’esercito degli autori insoddisfatti? Salvo che siano rimasti nostri vicini di casa o amici del cuore, dei compagni delle elementari è facile perdere le tracce. Molto più che per i compagni delle superiori o di università. Quanto alla scuola media, occupa un interstizio talmente evanescente che ci sembra di averla frequentata sotto ipnosi. Ma c’è un tale abisso tra le elementari e tutto quanto avviene dopo che riconoscere un qualunque legame tra il Dado Cardini decenne e quello attuale risultava quasi impossibile. Questi ex bambini ed ex bambine adesso sulle loro bacheche discutevano di diete e giornate da panico, appuntavano aforismi un po’ stucchevoli, facevano finta di corteggiarsi. O forse si corteggiavano davvero. Erano stati a Berkeley, leggevano Fabio Volo o Sophie Kinsella. Qualche cretino, alla voce “orientamento politico”, scriveva Partito nazionale fascista. C’erano foto di loro con linguacce e occhi sgranati, in palestra, in vacanza, su piste da ballo, a feste di addio al nubilato. “Se insisti e resisti, raggiungi e conquisti.” “Don’t try to understand me. Try to understand yourself.” “Si impara fino alla bara.” Supersekka era rimasta tale. Chiara non era così bella come ci era sembrata, ma allora gli ormoni erano inaffidabili e pazzi. Non c’era un indizio – nel viso rotondo e punteggiato di lentiggini che continuava a sorridermi dallo schermo – di ciò che il mio piccolo, vecchio compagno di classe era diventato. La cosa più impressionante era la sua attuale magrezza. In molte delle fotografie recenti Cardini compariva in costume da bagno. Poi c’erano cortili, ristoranti, qualche riconoscibile città europea. Era fan di Doctor House e di Dan Brown. Aveva fatto il liceo scientifico e poi si era iscritto a Lettere, indirizzo spettacolo. Appuntava cose spiritose (“Quale legge fisica regola il fatto che quando sei fidanzato ti capitano le peggio figaccione che ti rompono e quando sei single so’ tutte morte?”), ma anche frasi pensose (“L’importante non è ciò che è accaduto, ma ciò che accadrà”). Era così naturale che fosse cresciuto! Ma avendolo io per tutto questo tempo lasciato lì, nella sua foto da bambino, mi stupiva verificare il suo stato di giovane adulto. Ci mancava solo che scrivesse poesie e che non fosse intenzionato a pagare per pubblicarle. Appunto. Ci mancava solo che avesse – sembrava così – una nutrita schiera di amicizie femminili. Era tutto un pullulare di ciao chicca, di ’notte tesora mia. Ci mancava solo che una delle sue attuali amicizie femminili fosse quella più imprevedibile, impensabile, assurda. Scirocco. Mi stava impazzendo il cuore? C’era una microscopica fotografia dell’odierna Scirocco con accanto una frase qualunque che devo avere subito rimosso. Apprendevo in quell’istante che la cosa minuscola con il cerchietto e il grembiule bianco che adoravo aveva acquistato sembianze di ragazza. Ho cliccato sul suo nome. Veniva fuori una pagina praticamente bianca con la sua foto ingrandita e questi occhi verdi e grandi. C’era scritto che Scirocco condivideva solo con i suoi amici alcune informazioni. E poi c’era scritto: “Aggiungi agli amici”.

Antiquario, becchino, cacciatore, sciamano Non c’è stato nessun miracolo. Di solito va così. Passa mezza giornata e ti arriva la comunicazione che la persona in questione “ha accettato la tua richiesta di amicizia”. Fine. Ora puoi accedere alla sua bacheca, al suo album fotografico. Come bambini: vuoi essere mia amica? Su uno dei soliti foglietti aveva scritto, all’inizio-inizio, NO. Mi sono domandato se Scirocco stavolta avesse accettato sapendo chi fossi – ricordandolo, ricordandomi – o piuttosto si fosse limitata a cliccare sul SÌ con un gesto automatico e freddo. Ma aveva davvero importanza? Se fosse rimasta sorpresa, non lo avrebbe dimostrato scrivendomi due righe? Avrebbe scritto almeno ciao, da quanto tempo. Invece, niente. Oppure si aspettava lei qualcosa da me? La sua pagina aveva un’aria trascurata: come una stanza rimasta vuota troppo a lungo. C’era – su tutto, come una boa luminosa – questa frase: “Città in cui vivi: Berlino”. È ridicolo: Berlino. È bellissimo. C’era un inventario essenziale delle sue preferenze in fatto di film, di libri, di musica. Poco altro. Mi piaceva che amasse i romanzi di Virginia Woolf. Poi, si dichiarava tifosa della Roma, fan dell’uvetta, del pollo con i peperoni, della pasta zucchine e gamberetti e della Domenica sportiva. Da così pochi indizi, come si poteva comporre anche la più vaga delle mappe di lei? Di ciò che era diventata, di ciò che adesso era. So di lei bambina: una collezione di boules. Adesso penso con tenerezza ai piccoli mondi sotto vetro che custodiva: incorruttibili e incantati, pronti a improvvise tempeste di neve. Un bambolotto grande come una mano: Mio. Un carnevale in cui si era vestita da pizza. Un altro, in cui si era vestita da pulcino. Io c’ero. Milioni di pomeriggi in piscina. La fossetta sulle guance quando sorride. Era divertente il modo in cui cercava le cose. Era divertente come le diceva. Però il mio occhio che adesso guarda non è forse un po’ miope e un po’ infedele, come l’occhio di ogni storico? Il Remoto fa lo scherzo di apparire Vicinissimo. Ma si tratta, appunto, di uno scherzo, un difetto di prospettiva. Mi ero sforzato di fare i conti – negli anni di università – con la fedeltà ai documenti, con la necessità di verificare le fonti e di scontare fino in fondo i limiti di quella che si definisce oggettività storica. “Dove non vi sono documenti non vi può essere dunque storia.” Solo adesso però mi sembrava di capire davvero. C’era questo dolore strano di non avere tra le mani oggetti reali da analizzare, nulla che si potesse smontare, ricostruire, semplicemente toccare. Possibile che da una sensazione simile fossi abitato solo adesso – una volta messo di fronte al paesaggio notturno del passato di qualcuno in particolare, del passato di lei – e non quando riempivo fogli di schemi sulla strage di San Bartolomeo e sull’assassinio di Enrico IV? Possibile che ci volesse, da qualche parte, una ragazza – quella ragazza – per arrivare alla conclusione che la storia è un’operazione tutta mentale? Rincorri nei documenti, sempre che tu ne abbia a disposizione, qualcosa che (solo di questo sei certo) non esiste più. Al buio e nella polvere, sei un antiquario, un becchino, un vampiro in preda alla febbre, vivi di cose morte, speri come Orfeo o come un angelo di rianimarle. Ti vesti da cacciatore, da sciamano, vedi una luce piccola di scintilla là in fondo e subito la perdi. La testa è colma di immagini: però come fai a dirle vere? Le minuscole verità probabili che ricavi correggono poco e male gli enormi falsi di cui ti eri fidato. Lo straccio corre ad asciugare la macchia d’olio ma quella si allarga, si allarga, e intanto il pavimento la assorbe. Chiedi notizie al presente, e lui è lì – intollerabilmente solo –, pronto a non spiegare niente, e tuttavia ancora meno comprensibile se non gli accosti la notte di ciò che lo precede. “Il raffronto tra i tempi ha senso solo a condizione che il presente non venga ricostruito come l’unico avvenire possibile del passato.” Già. L’ideale sarebbe scomparire, esistere senza essere visti,

sorprendere la realtà senza metterle paura, come l’occhio di un impressionista fa con la luce del pomeriggio, come l’occhio di Dio fa con tutto. Sapere qualunque cosa allo stato nascente, grezza e infinitamente pura, senza storia. Vediamo. Studi storia, però la tesi con cui dovresti laurearti non funziona, sembra fatta d’aria. Tuo padre ha investito un suo ex alunno. Tua madre si è assentata dal paesaggio delle certezze domestiche. Il catalogo delle Ragazze Sbagliate (la prova del fallimento di ogni tua credibilità agli occhi paterni) è fermo, mentre il calendario della biologia e degli impegni della vita adulta accelera. Senti di avere perso la magia, proprio adesso che serviva. Proprio adesso che l’unica cosa utile era tornare mago. Essere di nuovo il piccolo prestigiatore con giacchetta luccicante, baffi disegnati, bastone nero con pomo bianco e le illusioni nelle mani. Il piccolo mago sudaticcio e felice del Carnevale 1993. Capita di scivolare in una solenne e fitta matassa di complicazioni, dove una sembra il prolungamento dell’altra; cercare bandolo e via di uscita e restare tuttavia impigliati. E invece di spremere le meningi e la propria forza di volontà, come la mosca nella ragnatela, decidere di restare lì, a fare niente, inerti – pupazzi di pezza con la testa caduta in avanti. Oppure, scegliere la prima cosa stupida, dannosa no, ma nemmeno seria, nemmeno del tutto responsabile, purché in grado di portarci lontano da noi. Una sbronza. Un bacio alla persona sbagliata, o qualcosa in più. Una lettera che non andava scritta. Una fuga. Più semplicemente, un viaggio. “A me non sembra serio.” “Non avevo dubbi.” Papà si affretta a rubricare come la “meno seria tra le cose non serie” la mia inattesa decisione di partire per Berlino. “Cosa vai a fare, vorrei capire.” “Niente di preciso.” “Appunto.” Non contempla l’ipotesi che si possa partire solo per partire. Per i viaggi fatti negli anni, gli avevo sempre fornito motivazioni che non risultassero turistiche o, peggio, vacanziere. “Ho bisogno di qualche giorno di stacco.” “Parli come tua madre.” “Vado lì anche per lei.” Rimane in silenzio. La risposta lo lascia perplesso. Che sia del tutto inattesa, dubito. Però non aggiunge niente, recita distrazione. Papà – Dovresti dirlo che vuoi che vada, che non ti dispiace.

Lo smaltimento dei ricordi La prima cosa che so di Berlino è Curry 36, Mehringdamm. Il migliore della città, dice la piccola guida – con la grande insegna rossa, i tavolini alti per mangiare in piedi, la tenda di plastica trasparente che non ripara dal freddo. Dicono che sia affollato a ogni ora, anche di mattina presto. Il currywürst lascia sulla lingua un sapore dolciastro e la testa pesante dopo mezz’ora. Il cielo cambia veloce come un capriccio. Una ragazza tira via in fretta vecchi dischi da una bancarella, comincia a piovere. Ma le finestre qui non hanno tende? Si vede tutto, da questi rettangoli. Si vedono salotti, stanze da bagno, corpi che si muovono in biancheria intima. Da queste parti non hanno paura delle finestre. Un padre e un figlio guardano fuori, all’ultimo piano di un albergo. Il vento, come previsto, sembra ostile alla mappa che adesso apro, cercando inutilmente di orientarmi. È il vento di novembre, soffia dalla Siberia, ti spinge, fa fremere i platani lungo la strada. Vediamo: se non sbaglio sono a Kreuzberg. Per raggiungere Alexanderplatz – l’unico nome che mi suoni appena un po’ familiare – la via più semplice è la metropolitana. Fisso il reticolo colorato come un geroglifico. Scendere a Stadtmitte? Sì. Poi, cambiare. Quattro o cinque fermate e sarei lì. Ma perché proprio lì? Un indirizzo vale l’altro in una città sconosciuta. Stranezza di viaggiare soli! Ci sediamo nei caffè dopo avere camminato per ore, senza una ragione precisa e senza avere contato i chilometri. Non sopportiamo che i camerieri ci dicano “grazie” in italiano. Ma da cosa si vede? Sarebbe bello mimetizzarsi, non essere stranieri mai a niente – penso, mentre Berlino diventa una strana colla grigia, la somma di infinite tinte di grigio, grigio chiarissimo, pelo di coniglio, vetro, cenere, piombo, granito, grigio quasi nero. Tutto, cielo, acqua, palazzi, asfalto delle strade, tutto sembra rivestito di una polvere fumosa. Berlino è una città in scala di grigi. Svettano di continuo le gru, come alberi accanto a scheletri di palazzi. È tutto un gioco di vuoti e pieni, vedi edifici dall’aspetto tanto massiccio da apparire minacciosi e immani slarghi senza niente. Biciclette e cani, ragazze che mangiano mele. Piazze enormi come questa, dove sembra impossibile trovare un punto di riferimento. Non è nemmeno una piazza, è un enorme spazio geometrico imperniato sull’altissima torre della televisione, come una trottola ferma. A questo punto è naturale che mi chieda se ha senso essere qui. Se ha senso pensare, sperare di trovarla qui. Se è lecito ostinarsi a volere che qualcuno rientri nella nostra vita, quando troppo tempo fa, senza nessuna catastrofe, ne è uscito. Dove sei, Scirocco? A questo punto, forse starei per chiamare comunque mia madre, la chiamerei, proprio a questo punto, anche se lei non fosse qui, senza avere niente di importante da dirle. Come un bambino triste mi stringo nel cappotto, sotto una pioggia leggera che sembra polvere. “Mamma.” “Sì.” “Come stai?” “Bene, bene, e tu?” “Sono a Berlino anch’io.” “Ma cosa stai dicendo?” Di quanti luoghi e ore dispone un figlio, per parlare a sua madre? In giardino – sta arrivando l’estate, prendiamo il sole come se fosse una spiaggia, una spiaggia tutta verde, le rose sono fiorite, i suoi capelli hanno i boccoli, mi tiene una mano sulla spalla. Sto tornando da scuola e mi hanno ferito, posso raccontartelo? Ho pianto così tanto. È arrivato il 1989, non mi ero accorto, ho tantissimi capelli,

coprono tutta la fronte, e occhiali enormi, finalmente mi tengo a galla. Devi impegnarti di più, non brilli più, mi rimproveri, la maestra dice che così non va. Rispondo che non è vero, non può essere vero, io mi impegno sempre, mi impegno tanto. E poi un pomeriggio: dice padre Luigi che dici troppe parolacce, è davvero così? La mattina, mentre guida per portarmi a scuola, leggo il giornale a voce alta per lei, commentiamo, a volte mi scaldo, dev’essere passata la metà degli anni novanta nel frattempo. Poi piego il giornale con cura e lo infilo nello zaino. Corro da lei mentre sta stirando, le ripeto la lezione, questa cosa difficile me la spieghi? Lei spiega ma io non ascolto, non ho pazienza, dico che ho capito e non è vero. Mi piace leggere romanzi per lei, mentre cuce in giardino. Mamma Penelope, chi aspetti? È durato a lungo il tempo degli stropicciamenti, di confidenza felice tra corpi – prendersi in braccio a vicenda anche quando per me l’età era già passata. Darsi un appuntamento ad Alexanderplatz non ha senso, servono almeno tre telefonate per il punto preciso. Il vento amplifica il rumore della città – i tram, la folla che scorre lungo i chioschi di frutta, la folla che esce ed entra dagli imbocchi della metropolitana. L’odore di farina e burro arriva a folate dalle panetterie. Il grigio, in certi punti di cielo, si è fatto più livido – la torre della televisione pare lo infilzi. Fra tutti i luoghi in cui tu e io potevamo parlare, ti pare che doveva essere qui. Mamma avanza verso di me con un cappotto verde scuro che non le avevo mai visto e un sorriso strano che mescola l’imbarazzo all’ironia. Per me o per sé stessa? Per tutti e due, madre e figlio, sugli sgabelli di un bar, Alexanderplatz, Berlino. Dice, lo so che non è una cosa da me – prendere e andarmene, così, per una settimana, nessuno me l’ha mai chiesto ma era da molto che avrei voluto fare un viaggio. Lo dice senza che io le chieda niente ed è già infinitamente strano che parli di sé, che mi parli di sé. Non ha il tono di chi si giustifica, sta spiegando un suo piccolo, gigantesco senso di colpa; poi dice, certo non è normale che prendi e vieni a Berlino anche tu. Le rispondo che tanto è un periodo così assurdo, una cosa assurda in più o in meno chi la vede. Ma esattamente cosa sei venuto a fare? Esattamente niente, le rispondo, sono qui per prendere questo tè insieme in questo pomeriggio di novembre, proprio qui, proprio a Berlino. Volevo vedere la città, anzi il primo a vederla dovevo essere io, sono anni che dico Berlino: uno che studia storia come fa a non passare da queste parti? Poi magari è qui anche una bambina che da bambino adoravo. Una somma di cose da niente oppure nessuna di queste. Mamma chiede: tuo padre cosa ha detto? Finalmente l’ha nominato, adesso il discorso prende tutt’altra piega, mi aspetto che cominci a parlarmi di lui, di loro. Invece, senza un motivo apparente, prende a parlarmi di me. Perché poi, dice, in tante cose, un miliardo, tu sei come lui, nemmeno te ne accorgi in quante. Potrei dire anno dopo anno e invece mese dopo mese la sera a tavola ti guardo e penso ecco, gli somiglia sempre di più. La cosa può essere divertente e terribile. Dice che è un po’ come quando lui e lei stavano insieme, erano i primi tempi, uno era sicuro di sapere già tutto dell’altro e invece non era così: passavano i mesi e veniva fuori un’altra cosa, poi ancora un’altra, non pensavi se fosse bella o brutta, almeno lì per lì, ma soltanto: ah, c’è anche questa. Ah, c’è anche questa, pensa mamma quando resto in silenzio e guardo basso tutta la cena. Ah, c’è anche questa: quando ho quell’aria di chi ha capito tutto, la faccia da essere superiore. Quando si entra in camera mia e sembra che sia esplosa una bomba, oppure in bagno dopo la doccia e sembra un’alluvione. Ma anche un modo di pensare, Italo, un certo modo di pensare. Solo, tuo padre è più razionale, molto più concreto di te. Ma quanto al dare una mano in casa, per esempio, lì non c’è proprio nessuna differenza, nessuno dei due muove mai un dito senza che venga richiesto. Vediamo ora che è in pensione, ma secondo me non cambia nulla. Se non in peggio. Niente mi suonava del tutto nuovo. Le cose che andava dicendo nell’ultimo periodo potevano

essere anche più pungenti di queste, carta vetrata. Potevano arrivare come sberle, con la stessa durezza, la stessa ingiustizia. Il più delle volte mi sembravano generiche, supponenti, ciniche. Il più delle volte erano vere. Entrava nelle zone a lei più aliene, quelle su cui mi pareva di avere il pieno controllo, là dove potevo sicuramente smentirla. Macché: sembrava che i giorni, i mesi si alternassero solo per darle, a un certo punto, ragione. Le enormi certezze che le opponevo mentalmente, al chiuso della mia stanza, senza avere mai la forza di contraddirla apertamente, cadevano all’improvviso con un tonfo, come alberi tagliati. Franavano su strade e case, portandosi dietro nel crollo tanta beata ingenuità. Era convinta che, una volta accumulata più esperienza – almeno la quantità che aveva accumulato lei –, non avrei avuto mezzo dubbio sulla sensatezza delle sue affermazioni. D’altra parte, erano così spaventosamente logiche! Non mi era ancora abbastanza chiaro quanto fosse stato dannoso non averle dato ascolto su centinaia di questioni pratiche? Non mi ero forse già abbastanza pentito di non avere seguito i suoi consigli su scelte scolastiche, esami universitari, frequentazioni ambigue, ragazze, abitudini igieniche, eccessi alimentari, ore di sonno, attività motoria, valutazioni etiche e politiche? Sì, sì e sì. Mi era chiaro ed ero pentito. Ma come poteva somigliare a suo padre l’essere umano che aveva mostrato nel tempo tale sventatezza e immaturità? Questo non mi tornava. E però doveva tornarmi per forza, adesso che per l’appunto sventatezza e immaturità avevano fatto regredire papà a un mio pari. È ricominciata con gocce piccole, quasi di brina, poi sempre più fitte, pronte a un acquazzone violento e compatto. La pioggia batte forte sull’asfalto, scroscia, fa una schiuma trasparente, che diventa blu e gialla per via di fari e lampioni. Il rumore non conosce soste, non cede, cola nella città insieme al buio. Si ha l’impressione che piogge come questa – tanto verticali e decise – possano durare giorni, settimane, non avere fine. Mamma non pare allarmata, si domanda piuttosto dove andare a cena. Non sembra più un problema, né una stranezza, il nostro essere in questa città, tutti e due senza un motivo preciso oppure per lo stesso motivo, senza sapere che cosa dire. La guardo: sembra distratta, scollata da sé, lontana, lontanissima dal suo indirizzo di sempre – il nostro – come se l’avesse dimenticato. Come se, in fretta e furia, avesse fatto in tempo a dimenticare parecchie altre cose, smaltire montagne di ricordi, neutralizzare il potere di legami e doveri familiari per vivere, libera e intontita, l’inizio di una sua stagione diversa. C’è stato un tempo in cui era lei a perdere tempo con gli album delle fotografie. Subito le portava a sviluppare e subito le metteva in ordine, incollate su enormi album dalle pagine spesse. Le didascalie le scriveva precise, fermavano date e luoghi con perizia certosina, a volte con qualche buffoneria. C’erano torte millefoglie uguali di anno in anno, nonni che celebravano compleanni di età per noi indefinibili e comunque lontane come altri pianeti. Un nugolo di nipoti si assiepava alle loro spalle. Stipati, sorridevamo – un pezzo di faccia o di braccio di qualcuno regolarmente tagliato fuori. Una volta finito il giro dei battesimi, delle prime comunioni, delle cresime di tutti i cugini (lo scadenzario del nostro intermittente cattolicesimo), i flash si spegnevano nelle secche di adolescenze per niente fotogeniche. Restano – i quindici, i sedici, i diciassette anni – documentati solo per via del giorno che li sanciva. Millefoglie o mimosa davanti, sul tavolo; e noi dietro, con occhi da pesci lessi. La storia di ogni famiglia dopo l’invenzione della fotografia sta in questa documentazione lacunosa. Più sensibile a infanzie e cerimonie, a brevetti di nuoto, recite di Natale, saggi di danza, vacanze, che ai giorni da niente. Di divani rifoderati e nuove carte sulle pareti, di mobili che scomparivano, scatole di giocattoli chiuse in cantina o in soffitta, si sa alla lontana o come in un gioco di enigmistica. Cerca le differenze tra salotto 1992 e salotto 1986. A giudicare da queste fonti, siamo stati come immersi in un lago di ore felici. Un’infanzia da privilegiati: questo di sicuro. Ma poi, tutto era sempre davvero così disteso, così luminoso, così chiaro? Dentro la coppia che loro, mamma e papà, continuavano a essere, per esempio; e nel rapporto tra loro e noi, per esempio. Non è questione di sfuriate, no, o di ceffoni che ogni tanto volavano e lasciavano la

pelle a scottare. Ma anche, per esempio, del giorno in cui mamma ha smesso di occuparsi delle fotografie. Nessuno se n’è accorto, lì per lì; nessuno ha fatto caso a un evento così silenzioso e sconvolgente. Un archivio che resta senza l’unico archivista. Questa piccola opera di dedizione alle memorie domestiche si dirada e si interrompe sempre, una volta cresciuti i figli? E se invece il progressivo disinteresse di mamma per le fotografie avesse voluto dire altro? Forse, semplicemente, testimoniava a chiare lettere il suo non esistere solo per noi. Non esistiamo mai solo per qualcosa o per qualcuno, allentiamo la presa e non possiamo che distrarci – in modo continuo, involontario e spietato, anche dalle cose, dalle persone che amiamo.

Gli ingranaggi della nostalgia Adesso che ho tutto a disposizione, come il Coniglio di Alice mi ripeto che è tardi: il tempo è una coperta corta e la città sfugge da ogni parte. L’impresa è capire dove fermare lo sguardo, l’impresa è anche soltanto capire. Ogni passo aggiunge confusione a confusione: non si può dire che sia bella, eppure è bella questa città dal calendario sfasato, pronta a cambiarti davanti agli occhi. A volte è novembre del 2009, poi giri l’angolo ed è il novembre di vent’anni prima. Qui, per esempio, è febbraio 1945, le macerie sono ancora tra i piedi, l’aviazione statunitense potrebbe essere passata sulle nostre teste un attimo fa. Qui invece sono gli anni venti, c’è un semaforo rimasto esattamente com’era allora, ma forse è una copia perfetta. I sacchi di sabbia e di cemento, i mattoni accatastati, le gru e i caterpillar hanno un’aria di perenne minaccia e di novità. Qui siamo nel cuore del regno prussiano, questa chiesa che si chiama Gedächtniskirche, ovvero chiesa-del-ricordo, lo dice chiaro e tondo. Fa pensare ai baffi bianchi di Guglielmo il Grande (Berlino è anche una storia di baffi, baffetti, baffoni), fa pensare a venditori di giornali agli angoli delle strade e a zie che, in certe case borghesi, svettavano come fate. Poi accade che la chiesa più prussiana di tutte, come una matrioska, contenga un’altra chiesa dove, avvolto da una luce azzurrina, scivoli oltre metà Novecento. Potsdamer Platz un attimo fa era tutta un viavai di tram a cavalli, con le file ai chioschi di salsicce e adesso è diventata New York, tutta vetro, acciaio e cemento. Le epoche si confondono con gli abiti smessi e venduti ai mercatini, hanno gli stessi colori chiari e tristi delle case basse nella zona est. Ragazzi in uniforme da sentinelle si fanno fotografare con intere famiglie di turisti al Checkpoint Charlie, oppure davanti a residui di un muro che sembra di cartone. La storia qui è simulata, come giocando a Risiko: sul tabellone non hanno mai smesso di essere pronte l’armata russa e quella americana. Passano frotte di giovani tra le colonne doriche della Porta di Brandeburgo e sembra un’anticaglia fragile piovuta lì per errore, se sposti l’occhio verso i blocchi di cemento dell’angoscioso labirinto che ricorda i morti della Shoah. Ma gli orologi a Berlino che ora segnano? Inciampi di continuo nelle lapidi e nelle targhe, i fantasmi si assiepano anche alle fermate dei taxi, corri sotto la pioggia e due chilometri a piedi sono almeno trent’anni. C’è uno strano silenzio su Rosenthaler Strasse, Anne Frank continua a sorridere da una grande fotografia, il bianco e nero non porta rancore ai colori squillanti dei manifesti e dei graffiti metropolitani intorno. Al Lichtblick Kino, con la porticina di legno vecchio, mandano i film di Antonioni fino a notte fonda. Poeti e disegnatori non invecchiano mai, hanno capelli ricci e parlano fitto nei pub, mentre la birra brilla al riflesso delle candele. Sulla Unter den Linden le foglie appuntite scivolano dai tigli a gruppi di tre o quattro, nell’aria fredda e gaia in questa sera di novembre. I cani si accorgono di tutto ma non hanno memoria di guerre calde e fredde, i piccoli cani nervosi delle signore perbene dicono qualcosa ai cani grossi e tristi dei punkabbestia, e nemmeno loro ricordano niente, come i bambini che corrono e urlano sotto il palazzo del Reichstag. Il freddo si infila in fretta sotto i pantaloni, brucia le labbra e il dorso delle mani. Time only can lead you on, dice la canzone che manda la radio di un taxi. There’s a wild wind blowing down the corner of my street... c’è un vento selvaggio che soffia all’angolo della mia strada... una guerra fredda è in arrivo, l’ho sentito alla radio... il tempo è arrivato come strisciando... il tempo è una pistola carica... Il tassista a tratti copre la musica borbottando qualcosa al telefonino, forse è russo, è di malumore, guida a scatti. Costeggiamo un fiume color carta stagnola, lui dice qualcosa in tedesco, io faccio finta di avere capito, mi giro inutilmente la mappa della città tra le mani. Ma dove sono segnati tutti i confini, mi chiedo, le frontiere, i ponti, i muri, dove sono segnate le cose che non si vedono o non ci sono più?

La nostra vita in trasferta Dentro questo novembre straniero, tutto diventa pazzo e romanzesco. L’asse Roma-Berlino si rinsalda per vie imprevedibili e ridicole. Un sms di Anita annuncia: THOMAS È IN GITA CON LA SUA CLASSE A BERLINO! Non è chiaro che cosa si aspetti, glielo chiedo: CHE NOTIZIA È? Ma nell’istante stesso in cui lo comunico a mia madre mi rendo conto che sì, in effetti è una notizia: mezza famiglia Tramontana è a Berlino, i guai cominciano con Marangoni e adesso il caso vuole che sia a Berlino anche lui. Tutto ha l’aria di una trasferta organizzata. A me piacerebbe vedere da vicino questo Thomas. A lei piacerebbe vedere da vicino l’insegnante del famoso biglietto, se c’è, se esiste. Ma non ci diciamo niente. Incrociamo lo sguardo più a lungo del solito e questo chiarisce che madre e figlio, adesso, sono disposti a sancire ogni alleanza, a essere complici in qualunque stupida impresa. “Anita lo sa di sicuro in quale albergo alloggiano,” dice mamma. “Sì, ma che ti importa, cos’hai in mente di fare?” “Niente, niente, così.” “Non starai mica pensando di piombare lì,” le dico, ma in realtà lo sto chiedendo a me. “Ti pare, ci prenderebbero per matti.” “È su Tempelhofer Ufer,” dice Anita al telefono, “un ostello della gioventù, l’ho saputo da un’amica di Thomas, lui non mi rivolge più la parola, non risponde nemmeno ai messaggi.” “Ma tu vai ancora dietro a questo Thomas? Secondo me dovresti farti delle domande,” le dice mamma. E poi: “Fai bene lo spelling dell’indirizzo, per favore”. Non siamo tanto normali, mamma, appostati su Tempelhofer Ufer come due guardoni o due spie. Magari c’è un collega di papà che conosco, dice lei, mi avvicino, gli dico che eravamo da queste parti, cose così. Sì, certo, sai che bella figura. Ma che ci importa, Italo, che ci importa, una volta io e tuo padre eravamo in giro per le strade di Vienna, ci siamo sentiti chiamare e indovina chi era? Il nostro parroco! Le cose capitano, Italo, possono capitare, non stare a pensarci troppo. Mamma, un conto è salutare il parroco a Vienna, un conto avvicinarsi a una scolaresca in gita a Berlino senza sapere cosa dire. Tra l’altro, questi saranno già usciti e noi rischiamo di passare qui tutta la mattina. Ma ti pare che escono prima delle nove? Avranno fatto le ore piccole. Le porte a vetri dell’ostello finalmente scorrono. Sulla strada si affaccia guardandosi intorno un uomo giovane, alto, giacca a vento rossa e nuvola di ricci. Mamma non fa in tempo a dire “è quello di educazione fisica” che lui fa un cenno e ci viene incontro. Signora!, esclama, con tutti i convenevoli che seguono: suo marito come sta, cosa ci fa a Berlino anche lei, già, le coincidenze, uscivo per le sigarette, i ragazzi ancora non sono pronti, avevo detto otto e mezzo ma figuriamoci, la vera destinazione delle gite scolastiche sono le camere degli alberghi. Eccola la mandria, poi dice, vedendoli arrivare alla spicciolata, hanno un sonno che se li porta. Alcuni sembrano proprio rannicchiati nelle giacche a vento come sotto le coperte fino a un attimo prima. Stamattina li portiamo allo stadio, hanno insistito tanto, hanno detto: mica si può andare via da Berlino senza aver visto lo stadio dove l’Italia ha vinto i Mondiali. Mia madre resta perplessa, chiede: fanno visite guidate allo stadio? Sì, risponde il professore, strano ma vero, io insegno educazione fisica, le pare che potevo dire di no? Ma perché non venite con noi, ci fate compagnia. Se non avete altro da fare, ovviamente. Oddio, ma forse non è il caso, dopo quello che è successo, no?, domandiamo quasi in coro. Ci risponde un sorriso ironico e gentile.

Nessuno ci presenta a nessuno, siamo intrusi eppure non diamo nell’occhio, la quinta B sembra presa da tutto tranne che da noi. L’Olympiastadion è deserto, fa impressione questo vuoto – il rettangolo di prato verde è l’unica cosa che stacca sul grigio, come un tappeto fosforescente. Siamonoi-siamo-noi-i-campioni-dell’Italia-siamo-noi. È tutto un cantare festoso, i flash impazziscono, qualcuno perfino si impegna a filmare: i compagni di classe salutano l’occhio della telecamera e si sbracciano come i passanti nei servizi del telegiornale. Dopo un po’ l’elettricità si spegne, il piccolo drappello di tifosi si acquieta sugli spalti, ormai ha smesso di seguire questa memorabile partita senza giocatori, adesso contano solo le chiacchiere e i morsi della fame. Da lontano arriva l’ultima onda sonora della città, attutita – come un fischio debole, il vento che preme contro una finestra chiusa. Poi, da qualche parte, c’è sempre qualcuno che resta in disparte. Il solitario. L’emarginato che mangia patatine e fissa il vuoto dal suo piccolo scranno. Ha un’aria insieme nobile, altera e sfigata. È piccolo, la carnagione scura, la fronte bassa. Muscoloso forse, ma non attraente. Sta lì, il mondo potrebbe precipitare da un momento all’altro, tutti sentirebbero il primo tremolio, l’annuncio della scossa più forte, ma lui no, lui resterebbe impassibile e disconnesso da tutto. Gli altri lo snobbano da un tempo così remoto che lui ha smesso di prenderli in considerazione: cancellati dal suo orizzonte percettivo. Non so esattamente dire come sia accaduto, ma è accaduto che nella generale distrazione – ciascuno preso da panini, chiacchiere, baci; mia madre tutta intenta a discutere con una coetanea, la vicepreside, di emicranie e futuro dei figli incerto –, è accaduto che io, raggiunto il solitario, gli abbia detto: scusa. E dopo la parola scusa, anche qualcosa come: posso farti una domanda? Non ha risposto. Ha alzato le spalle. Intendeva: se proprio devi. Adesso il muro di imbarazzo è insormontabile, mi sento senza rimedio inopportuno e goffo. Qui ventiseienne confuso cerca contatto con diciottenne sconosciuto e taciturno. E invece, imprevedibilmente, è lui a rivolgermi la parola. “Ma tu sei il figlio di Tramontana?” “Sì.” “Ah, infatti mi pareva.” Non sorride, non chiede perché sono qui, non chiede niente e non c’è un’espressione del viso che lasci intendere cosa sta pensando. Ironia? Sprezzo? Indifferenza? Il ragazzo-sfinge resta immobile e distante. Mi sento comunque in difetto e il disagio aumenta. Domando come si chiama. Risponde solo: Colacchi. In fretta, a mezza bocca, senza aggiungere il nome, senza aggiungere niente. Ah, Colacchi! Sì, gli dico di averlo sentito nominare da mio padre. “Non credo,” mi gela. E infatti non è vero, mio padre non ha mai nominato nessun Colacchi, non ho mai sentito parlare di lui, né lui deve aver mai sentito parlare di me. E invece: “Parlava sempre di te”, dice, e questa volta sorride. È un ghigno? “Di me?” “E di chi sennò.” Parla, Colacchi! Di’ qualcosa in più, ti prego, dammi qualche dettaglio. Come si interagisce con te? Qual è la chiave? Tento con l’ironia: “Spero che dicesse bene”. “Anche troppo.” Una ragazza lo chiama, Colacchi!, avanza verso di noi e chiede se può mangiare due patatine. Colacchi si limita a un cenno di assenso e la ragazza dice grazie. “Piacere, Valentina,” fa rivolta a me, e stende la mano. “Disturbo?” Si siede, ha un’aria buffa e curiosa. Vuole sapere di cosa stiamo parlando, poi dice: “Sì, è vero, parlava spesso di te, dice che scrivi bene, che sei bravo”. Sono sorpreso. Non mi sono mai piaciuti gli insegnanti che in classe raccontano dei figli. Perciò

taglio corto, chiedendo se quello – quello con il berretto, quello lì – è Thomas Marangoni. Sì, risponde Valentina, sì. E da qui è un fiume in piena: considera, dice, calcola che Thomas quella volta è andato oltre, cioè hanno esagerato tutti e due, però – e viene fuori l’esistenza di quella volta di cui io non so niente. Quella volta, in gita a Parigi, aprile, l’ora libera, il Moulin Rouge, noi ragazze eravamo un po’ schifate da certe vetrine, i completini sadomaso e tutto il resto, i ragazzi fanno i deficienti, Thomas dice entramo rega’, smettila gli diciamo in coro, sei scemo, lui dice e dai, se divertimo, però lo seguono solo in due, un sexy shop su boulevard de Clichy, passano cinque minuti, ne passano dieci, questi non escono più, inghiottiti dal sexy shop, l’appuntamento con i professori è tra poco ma questi non escono, li chiamiamo sul cellulare, niente, non rispondono, né Thomas né gli altri, adesso è un casino, andiamo all’appuntamento, lì per lì nessuno si accorge, poi tuo padre dice: e Marangoni? Gli raccontiamo la cosa, va su tutte le furie, torniamo lì davanti, proviamo a chiamarli di nuovo ma i cellulari fanno irraggiungibile, tuo padre è fuori di sé, è costretto a entrare nel sexy shop, a noi ci viene da ridere, li ripesca non so in che modo e succede la fine del mondo. Dicono che erano entrati per scherzare, che poi una tipa col caschetto nero, mezza svestita, ha detto “massage?” e loro hanno detto sì, ma così, per scherzare, li ha fatti scendere al piano sotto, dentro una cameretta, e niente, te lo puoi immaginare. “Cola’, diglielo tu.” Qui Colacchi sembra aver ripreso le forze, dice che alla fine hanno dovuto raccontare tutto per forza perché erano rimasti senza soldi ed è stata fatta una colletta per aiutarli gli ultimi giorni, poi la sera hanno detto a noi maschi com’era andata di preciso, la luce soffusa, la carta a fiori, un odore nauseante di violette e borotalco, lo specchio un po’ annerito. La tipa col caschetto nero ha detto che dovevano spogliarsi e loro non capivano spogliarsi quanto, questa intanto entrava e usciva, ha fatto cenno di togliere anche le mutande, poi ha fatto domande in inglese, where are you from, Italy, good! E poi ha detto you have a big dick, Thomas ridendo ha risposto normal, normal, ma lei non ha sorriso, si è dimenata un po’, ha detto che potevano guardare e non toccare, a meno che non aggiungevano cento euro e allora il seno sì, si poteva toccare, grosso com’era, Thomas ha detto rega’, dividemo, questa intanto entrava e usciva, e insomma niente, hanno toccato ma giusto tre secondi per uno, lei si è dimenata ancora un po’, ha fatto capire che con altri cento si poteva vedere anche sotto, e però niente, hanno finito i soldi e buonanotte. Avrei saputo a questo punto di una sfuriata terribile di mio padre, con urla epocali, il divieto di uscire per le rimanenti sere, le conseguenti proteste degli innocenti, i conciliaboli infiniti nelle camere durante la stessa lunghissima notte in cui poi di mio padre e dell’insegnante di sostegno si sarebbero perse, per qualche ora, le tracce. Il vento stava girando a favore di Thomas, che non avrebbe esitato a far rimbalzare di voce in voce la vendicativa illazione. La mattina dopo, sul pullman verso Eurodisney – impossibile annullare causa soldi già versati – papà avrebbe preso il microfono per una tirata moralistica senza precedenti, davanti a una platea disfatta dal sonno e dal malumore. Il microfono tra l’altro gracchiava, costringendo parecchi a riaprire gli occhi di tanto in tanto, qualora fossero riusciti una buona volta a chiuderli. E insomma papà avrebbe detto, com’era giusto che fosse, che Thomas e soci avevano superato il limite, non era solo un’azione da cui si deduceva la loro assoluta mancanza di serietà, ma peggio: era inqualificabile, bruciare i soldi dei genitori, costringere al prestito i pur pietosi compagni di classe e soprattutto – un’ora libera si spende in un postribolo? Postribolo. Forse avrebbe potuto scegliere un sinonimo più efficace, ma il concetto era chiaro e sembrava avallato dagli assensi delle più sveglie e più scandalizzate studentesse. Una delle quali – seduta praticamente accanto all’autista per evitare, senza successo, la nausea – avrebbe commentato, approfittando di una pausa dell’orazione: chissà cosa direbbe Anita.

Anita? Anita chi? Anita-sua-figlia. Mia figlia, avrebbe risposto seriamente papà, mia figlia che volete che dica? Sarebbe sgomenta. È stata educata in un certo modo. Ma poi, mia figlia! Direi che tutte voi dovreste essere come minimo scandalizzate. Sì, professore, ma sua figlia forse di più. Dopo una serie di insopportabili chiarificazioni, Mario Tramontana avrebbe avuto di fronte l’evidenza. Sua figlia frequentava Marangoni Thomas. Era la certificazione del suo fallimento come padre? Era, intanto, un fatto sconvolgente di per sé. E come non bastasse Marangoni di suo, Marangoni in quanto tale, adesso c’era da aggiungere quest’ultima vergognosa impresa. Era guerra aperta. Marangoni, naturalmente all’ultima fila anche sul pullman, gli occhi coperti dalla visiera, avrebbe rilanciato, sfidando mio padre a motivare la sua eclissi nel cuore della notte in compagnia della collega. Pare che papà non l’abbia degnato di risposta. Pare che la collega si sia limitata ad alzare gli occhi al cielo, invocando il trasferimento per l’anno seguente. Colacchi e Valentina da che parte stavano? Raccontandomi velocemente fatti che ignoravo, sembravano non avere deciso chi difendere. Per definizione, non è opportuno che un alunno si spertichi troppo per il suo insegnante. Ma d’altra parte una delle poche cose sicure è che – questo Valentina lo stava sillabando, con l’assenso mimico di Colacchi – un padre come fa ad accettare che eccetera. A me, aggiungeva Valentina, farebbe troppo schifo. E comunque, se fossi tua sorella, per una cosa del genere io lo avrei lasciato all’istante. Stavo per sapere che a Marangoni, nonostante tutto, una seconda possibilità era stata offerta. Un autentico armistizio: papà gli aveva assicurato che non avrebbe preso provvedimenti, né avrebbe reso note ai suoi genitori le sue sconvenienti avventure parigine. Valentina e Colacchi raccontano questo con tono neutrale, lasciano intendere dagli sguardi parecchia perplessità. L’armistizio era disinteressato? Andava rubricato come un gesto di generosità e maturità del docente nei confronti dello sventato Marangoni, oppure c’era dell’altro? Che il silenzio di mio padre mirasse a ottenere il cessate il fuoco da parte di Thomas, la fine delle sue allusioni e illazioni, questo non si poteva escludere. Tutto era troppo complicato. Tanto più che il biglietto – il famoso biglietto IL PROFESSOR MARIO TRAMONTANA IN GITA SI È FATTO L’INSEGNANTE DI SOSTEGNO – Marangoni l’avrebbe comunque, a tradimento, recapitato. La visita allo stadio sta per finire, Valentina si allontana chiamata da un’amica. Riparte qualche coro da tifosi, ma adesso più spento. Colacchi si alza, infila lo zaino sulle spalle. Arriva vento freddo sugli spalti, un tratto di cielo si è fatto improvvisamente rosso. Cerco lo sguardo di mia madre, lei il mio. Ma cosa siamo venuti a fare qui, ci diciamo senza dircelo. Sento che vorrebbe chiedermi subito: cosa ti hanno detto, cosa hai saputo. Sento che vorrei risponderle: niente, non ho saputo niente. Colacchi, da un gradino più in alto, si volta, scende verso di me, dice: “Comunque”. Fa una pausa. “Comunque?” gli chiedo. “Comunque io certe lezioni di tuo padre me le ricordo.”

Le scatole di medicine sono cresciute di numero. I nomi vengono da una lingua impronunciabile. Natecal. Pantorc. Triatec. Lasix. Sintrom. Le giornate sono faticose per niente e lunghe. I nipoti passano veloci come ombre, senza lasciare il tempo di ricordare e dire il nome. Le caviglie e i piedi sono lividi. È inutile chiederle di essere più precisa, non sente quasi più. Interpreta le domande dal movimento delle labbra e dal suono più scandito che riesce ad afferrare. Il figlio adesso aspetta che lei cominci a raccontare, senza chiederle niente. Aspetta, perché prima o poi qualcosa arriva. Di solito è qualcosa che sa già. Di solito corrisponde ad Africa, baciamano, Luciano Lama, sciopero. Ogni tanto si aggiungono Mussolini, allarme aereo, bombardamenti. Confonde i pontificati e le epoche. Giovanni XXIII è morto due anni fa. Il papa di adesso com’è che si chiama? La storia d’Italia e la sua stanno dentro un minuto. Per orientarsi, dice: quando lavoravo da. Il figlio stende sulla tavola la tovaglia lisa per i troppi lavaggi. Un buco, una macchia che non va via. L’uomo che era sempre alla finestra non c’è più, però lei gli parla ancora. Il figlio la guarda e in silenzio le dice non pensarci, non pensarci, adesso racconta.

Il rumore della coscienza “No, Anita, con Marangoni non abbiamo parlato.” “Ma non vuole più sentirmi!” “Forse è la cosa migliore.” “E perché?” “Forse ti mancano dei pezzi.” “Quali.” “Certe cose che ha fatto. Lasciamo perdere.” “Dici del biglietto?” “Per esempio.” “Ma quella è una bravata.” “Una delle tante.” “Lui è fatto così, io all’inizio gliel’ho detto di non scriverlo.” “Sapevi del biglietto?” “Sì.” “E hai fatto finta di niente?” “Sì.” “Brava.” “Ma lui mi ha spiegato...” “Ti ha spiegato cosa?” “...che papà...” “Che papà...?” “Papà quella sera in gita.” “Non potevi dirgli di lasciar perdere?” “Ci ho provato.” “E poi senti, a parte il fatto che potrebbe non essere vero, anzi al novantanove virgola novantanove per cento non è vero, forse Marangoni...” “Non chiamarlo così.” “Forse Marangoni dovrebbe spiegarti perché poi ha ritirato la denuncia e tutto. Pensi che sia un segno di generosità da parte sua, di perdono?” “Non lo so.” “Mi sa che non sai troppe cose.” “Se ti riferisci alla cosa di Parigi, la so, l’ho saputa.” “Forse doveva bastarti.” “Mi ha chiesto scusa, e poi non è successo niente.” “Dovrebbe farti schifo.” “L’ho perdonato.” “Eccone un’altra! Paladina del perdono cristiano!” “Italo.” “Sì.” “E mamma?” “Mamma, niente.” “Torna?” “Sì.” “Quella di sostegno c’era?” “Ha cambiato scuola.”

“Che vuol dire?” “Niente, vuol dire che l’hanno assegnata in un’altra scuola e quindi in gita a Berlino non c’era.” “Ma l’hanno trasferita o si è fatta trasferire?” “Non lo so, non ha importanza.” “...ma secondo te è per quella storia?” “Anita, no, smettila, non c’entra niente.” “E adesso?” “Adesso cosa.” “Adesso tutto torna come prima?” Da dopo e dall’alto. Sull’aereo che ci stava riportando in Italia sembrava possibile prendere le distanze da tutto. Storicizzare. Ma era un attimo, poi tutto tornava a confondersi. Guardavo di continuo fuori dal finestrino, non sapendo più cosa dire a mia madre. Avrei voluto dirle: mamma, ma insomma chi è Anita? Perché, sapendo certe cose, resta con Marangoni? È giusto non fare niente, non impedirglielo? E papà, chi è papà? Papà-tuo marito. Papà-mio padre. Papà-professore. Papàpensionato. (Papà, perfino, costruttore di giocattoli: sai, mi è tornato all’improvviso, in un posto tanto lontano da casa, un ricordo che avevo perso, un manubrio fatto con il fil di ferro, fissato a una canna di bambù – una macchina a metà, dovevi immaginarti tutto.) E poi io, chi sono? Quando non mi vedi. E tu, chi sei? Quando l’aereo toccherà terra, ripiomberemo dentro la nostra vita di prima? con tutte le abitudini, gli errori, i silenzi? La nostra vita di prima, con qualcosa in meno? Berlino non aveva aggiunto molto, né a lei né a me. Dovevamo concludere che il viaggio era stato completamente inutile? E tutte le cose lasciate in sospeso o in disordine prima di partire? Pesco finalmente dallo zaino il volume che ho trascinato fin qui come un peso. Sorrido. Comincio. “Vi è un intimo nesso fra le origini del socialismo italiano e il Risorgimento. Più in generale, il movimento socialista, come espressione politica dei lavoratori, operai e contadini, nel suo lento e faticoso processo e nelle sue varie espressioni, anche quelle più embrionali, si collega intimamente alla storia nazionale fin dal momento della formazione dello stato unitario.” “Ma che ti sei portato dietro? La Bibbia?” domanda mia madre. Le mostro la copertina. “Storia del socialismo italiano, volume primo. Dove l’hai trovato?” “A casa.” “Ma tu sei matto. Piuttosto, quella ragazza che dovevi incontrare l’hai più incontrata?” “No.” Era bastato entrare in un minuscolo Internet café, lercio, stipato di immigrati, prendere quel po’ di coraggio che bastava a darle notizia del mio transito berlinese: so che sei qui, se ti va potremmo vederci. Nelle quarantotto ore utili, nessuna risposta. C’era invece una mail sbrigativa di Assistente. Si scusava per il ritardo: ci ho pensato, guardi, ma non conviene. Berlusconi, gli anni zero. Troppo vicini. Ma perché non la grandezza e i limiti del XX Congresso del Pcus? la Cina negli anni del decollo economico ’58-59? lo stalinismo in Bulgaria? Allora niente, nessun gioco di prestigio era riuscito. Perciò, a questo punto, l’unica piccola cosa confortante a cui pensare era che mamma e papà, in linea di massima, avrebbero continuato a vivere insieme. Si poteva buttare al vento un tale patrimonio di anni? Un matrimonio! Non ci fossero altre ragioni valide, dovrebbero semplicemente imporsi, messi insieme, sommati l’uno all’altro, il 1980 del loro matrimonio, la bellezza di restare insieme nel 1981, la naturalezza di tutto nel 1982, la fedeltà e la gioia del 1983, i progetti del 1984, le soddisfazioni e i sacrifici del 1985, il coraggio e la pazienza del 1986, e così la quasi assoluta certezza di festeggiare insieme il 31 dicembre 1987, di tenere a freno le impazienze del 1988, di ridimensionare le ansie del

1989, la necessità di ridipingere le pareti nel 1990, sentirsi in tempo per un altro figlio nel 1991, averlo nel 1992, essere felici nel 1993, nel 1994 e nel 1995, progettare un viaggio nel 1996, farlo nel 1997, superare un problema di salute nel 1998, e semplicemente, superare: il 1999, il 2000, il 2001, il 2002, il 2003, il 2004, il 2005, il 2006, il 2007, il 2008, il 2009 quasi arrivato alla fine. E tutte le cose che sono cambiate – la pettinatura, la forma del viso, l’intensità del sentimento, gli abiti, il mondo intorno; tutte le cose che avete deciso di non dirvi, quelle a cui non avete fatto più caso, la stranezza di essere vivi, i giorni qualunque. Le insondabili ragioni che vi hanno permesso di essere qui, di esistere, di ricevere amore. Le insondabili ragioni che ci hanno permesso di essere qui, di esistere, di ricevere amore. I vostri nonni, i vostri genitori, la memoria, le case, la polvere, tutto così povero, disperato, infinitamente tenace; i nostri nonni degli anni duemila che hanno fatto la guerra e adesso curano i gerani sui davanzali, comprano abeti finti dai cinesi per Natale. Oppure le badanti li tengono stretti rasente i muri, quando il vento soffia forte. Importa davvero qualcosa ciò che, in tutto questo, è stato sbagliato, ingiusto, impreciso, impuro? Contano forse qualcosa – la porta che ha sbattuto, il vetro in frantumi, la durezza delle parole, gli invisibili esercizi di egoismo, le liti e le bugie, ciò che da una parte e dall’altra ci siamo nascosti? Quanto vi abbiamo maltrattato, persone che amiamo? Le cose cambiano o solo peggiorano? Tutti abbiamo qualcosa da farci perdonare. Il mondo sarebbe per noi irriconoscibile se mancassero sei, sette persone. Solo sei, sette, sui miliardi che siamo. Senza le insofferenze che generano, senza il semplice e inspiegabile fatto che ci vivono accanto. Non potresti abbassare la voce? Non potresti vedere le cose in modo meno ottuso? Non potresti semplicemente capire, smettere di ripetermi le stesse cose sempre, smettere di far pesare i tuoi sforzi? Non potresti smettere di cucinare questo piatto in questo modo? Non potresti evitare di farmi sentire così a disagio, di cercare di capire cosa penso, di mettere il naso nelle mie cose? di ostentare indifferenza quando vuoi punirmi? Non ti è possibile fare piano quando ti svegli, lasciare meno in disordine, sospendere una buona volta la tua distribuzione di verità sul mondo? Non potresti chiedermi più spesso com’è andata la giornata e forzarmi appena se rispondo soltanto “bene”? Non potresti lasciarmi in pace quando capisci che ho bisogno di stare in pace? Non potresti provare ad avvicinarti e capire cosa mi prende senza chiederlo? Però ti prego: non abbassare troppo la voce, sennò queste stanze sembrano vuote. Guarda le cose in modo che a me sembri ottuso, è piacevole contraddirti. Fai pesare i tuoi sforzi, mi permetti di far pesare i miei. Cucina ancora così, metti tanto aglio, va bene, fammi sentire a disagio, cerca di capire cosa penso, metti il naso nelle mie cose. E per favore, ostenta indifferenza, quando vuoi punirmi. Fai pure rumore, quando ti svegli e lascia tutto in disordine: continuo a riconoscerti in questo. Distribuisci verità sul mondo, a volte le raccolgo anche se non lo dico. Magari devono passare anni, ma alcune le faccio mie. Non chiedermi com’è andata la giornata. Non lasciarmi in pace.

Sono stati insieme al cimitero. Hanno spazzato intorno alla tomba, hanno sistemato i fiori freschi e un lumino nuovo. Poi si sono fermati a fare colazione in un bar. La madre sembra felice di questa nuova abitudine. Il figlio vorrebbe dirle che sta provando a scrivere un libro, ma ci sono troppi buchi. Alle brutte dovrà inventare, o piuttosto buttare via tutto. Un libro! Come si fa a raccontare una vita lunga novant’anni avendo in mano la storia di un pugno di giorni? E neanche di giorni: ore. Colpa sua, avrebbe potuto chiedere prima. Quando era in tempo.

Adesso c’è un’aria quasi da neve che alla madre non piace. Le riporta inverni disgraziati e lunghi. Via, via.

Come 36 milioni di cuccioli appena nati Questa ragazza arriva con un cappello bianco. All’altezza della tempia c’è un piccolo fiore di lana. I capelli castani, ricci, scendono appena oltre le spalle, un po’ le coprono il viso. Questa ragazza sorride e due solchi-fossette le segnano, a fondo e a metà, le guance – adesso, come da bambina. Ha labbra cicciute e occhi grandi. Il tempo cambia colore ai tuoi occhi ragazza, non è chiaro se siano verdi, verde erba, verde foresta, verde quando-sta-per-diventare-autunno; se ci si avvicina, all’improvviso però opalescenti. Chiusa dentro un giaccone che le cancella le forme, si muove come un piccolo soldato intirizzito. Batte le mani guantate due volte, per un applauso al niente. Il freddo pare le metta allegria. Siamo a quindici metri che invece sono quindici anni. Mi avvicino, dico ciao, lei lo ripete e dopo un po’ fa brrr ridendo, cerca i fazzoletti nelle tasche, non li trova, si sfila un guanto, lo tiene tra i denti, seguita a cercare senza successo. Tieni, le dico. Sorride di nuovo, ho il naso congelato dice, poi se lo soffia forte. A questo punto uno dei due dovrebbe proprio dire qualcosa, qualcosa che accorci gli anni: sul tempo che fa (si usa quando non si hanno parole), qualcosa sul tempo che è passato (anche questo si usa quando non si hanno parole), una frase qualunque, come stanno i tuoi, una cosa di cui non ti importa molto, vedi ancora qualcuno di quelli che venivano a scuola con noi, invece le dico: e il tuo cane come sta? Il bastardino arrivato una volta alla festa per un tuo compleanno, tua madre e tuo padre li avevi persi di vista, non ricordo bene se ti eri messa a piangere, forse sì, avevi chiesto a tua nonna dov’erano finiti, loro dopo un po’ sono riapparsi dal nulla con questo cucciolo già cresciuto, tutto a macchie bianche e nere, gracilino, tu eri pazza di gioia, non ti tenevi più dall’euforia, chiamiamolo Poldo, il giorno dopo hai detto: sono rimasta sveglia tutta la notte a guardarlo. Il cane sta così e così, è invecchiato, povero! È passato un mucchio di tempo anche per lui, risponde. Poi aggiunge una frase malinconica, tra sconosciuti non bisognerebbe dirsi frasi malinconiche, eppure lei dice: uno fa sempre troppo poco. La guardo come a dire: questo cosa c’entra. C’entra, risponde con gli occhi, e dice: portarlo più volte al parco, per esempio, farlo giocare di più, accarezzarlo di più. La interrompo bruscamente perché vedo avvicinarsi il 170. Facciamo una passeggiata in centro? È stipato, ci scaviamo una nicchia e così adesso siamo troppo vicini, in piedi uno davanti all’altra, ancorati a un sostegno. Un ragazzo robusto, muovendosi, mi spinge a tre centimetri dal naso di Scirocco. La distanza, più o meno, da dove cominciano i baci. Pensavi che fossi a Berlino e invece ero qui, divertente. Sì. Berlino era un progetto ma poi è sfumato, dice, però è rimasta la scritta lì prima ancora della partenza, come se dovessi farmi coraggio da sola – “Città in cui vivi: Berlino”. Invece no, tanta distanza da ciò che amo qui, mi sa che non sono capace di metterla. Posso non ascoltarti più?, mi verrebbe da dirle mentre il 170 è già scivolato nella conca di Bocca della Verità. Sembra che qui cominci Disneyland, uno strano, misterioso parco a tema storico – epoche che si sovrappongono, le quinte di un film in costume. Italo, dice Scirocco, ma te lo ricordi quando volevo salire sul furgoncino di tuo nonno? Esiste ancora quel furgoncino? Le rispondo no, che nonno nel ’93 si era ammalato, il furgoncino è rimasto per un po’ sul vialetto e poi via, sparito. Ma tuo nonno come sta? Mio nonno è morto, le dico, e lei diventa subito triste. Quasi tutti i giorni mi chiedo come farò, dice. Come farai cosa. Come farò quando – e chiude la frase così. La domanda che non posso farle è quella più importante. Sapere dov’è stata in tutto questo tempo. Sarebbe un lunghissimo questionario di domande stupide: la cronologia universale ha un tale bisogno di unirsi a quella sua personale! Hai portato l’apparecchio ai denti? Hai vinto molte gare di nuoto? Sei stata molto corteggiata? Mi piaci ancora. Quali libri hai amato? Hai fatto molti viaggi? Qual è la musica che ascolti? Mi piaci tanto. Non ci siamo visti per quasi seimila giorni, mi sono perso di te più o meno centoquarantamila ore, se vuoi faccio il conto dei minuti.

Coraggio, di’ una cosa stupida, mi dico. La dico: da bambino ero un po’ fissato con te. Ti spiavo, ti guardavo più che potevo. Lei sorride: quand’ero piccola e leggevo – sempre immedesimandomi troppo nella protagonista – i romanzi di Louisa May Alcott, non tanto Piccole donne, quanto Un lungo, fatale inseguimento d’amore o La collina delle zie o Una ragazza fuori moda, pensavo spesso (ero davvero piccola e forse già un po’ strana) “chissà se già conosco il bambino che un giorno sarà mio marito, chissà se lo incrocio sempre senza sapere che è lui”, e ogni bambino che vedevo, mi dicevo “è lui, oppure è lui, oppure è lui”. Giuro che facevo sempre questo giochetto. Siamo scesi dal 170 e su via Petroselli potrebbe cominciare un’ipotetica mappa di noi. Strade che abbiamo percorso. Piazze dove ti ho incontrato. Ogni piccolo racconto di lei potrebbe trasformarsi in un ponte, in un tratto di fiume, in una riva. Le zone che chiamerò Della gelosia vedremo di evitarle con cura. Intanto seguitiamo a camminare e lei non sa che mi sto facendo un film. Adesso sta raccontando una storia triste, non riesco tanto a seguirla ma mi piace come la racconta. L’unica magia di questo decennio che finisce mi sembra il fatto che è tornata, riemersa da ciò che precede il terribile ’93. Viene dritta dritta dall’infanzia, dalla mia e dalla sua. Dal punto in cui per me finiva. C’entriamo ancora qualcosa con quel tempo? C’entriamo qualcosa con il nostro passato? con i quaderni su cui abbiamo imparato a scrivere eccetera, le mattine, i fumetti e tutto, tutto? Esiste un confine oltre il quale le cose spariscono e non conviene più cercarle? Mi piacerebbe buttare all’aria tutte le supposizioni, smentirle una per una, scoprire che lei non è come la immaginavo, trovarla diversa da qualunque ipotesi, più interessante e più viva di qualunque ipotesi. Sapere cose che preferirei non sapere e vedere cose che preferirei non vedere. Vorrei raccontarle di mio padre, di mia madre, di Anita e di Marangoni, di tutti, dov’erano e dove sono, di come le cose vanno e di come andavano, di quando ero un prestigiatore e di adesso che nessuna magia mi riesce. Mi piacerebbe dirle: se gli anni senza nome devo raccontarli a qualcuno, voglio raccontarli a te. “Freddo, eh? Posso chiederti una cosa? Ti piacciono ancora le boules? Le collezioni ancora?”

Fantascienza Conoscere qualcuno! Chiedere il numero di telefono, l’indirizzo, individuare nel vasto pianeta lo spazio di un’abitazione – tale città, tale provincia, tale strada, tale numero civico, tale interno, tale piano. Non è già straordinario? Cominciare a immaginare gli spazi mai visti, le stanze: è dal soggiorno che mi hai scritto quel messaggio? Sei uscita sul balcone per parlarmi? Cosa vedi da lì? E tutto il resto – anche le piastrelle del bagno, lo specchio che usi per truccarti. La più consumata, indifferente abitudine acquista ai nostri occhi una patina esotica e scintillante. Mi piace immaginarti anche solo che stai sul letto con le gambe incrociate a pensare cosa dovresti fare e non fai. Al quarto o quinto incontro con qualcuno, il paesaggio della nostra vita è già mutato. L’impressione è di sapere a sufficienza: ci è bastata la foga di un racconto anche troppo concitato, esploso all’improvviso una sera mentre era già ora di salutarsi. Ci è bastato chiedere “dove hai comprato quel bracciale, quando?”, per ridurre l’oggetto del nostro desiderio a un essere tutto a portata di mano. Invece finiamo per scoprire – quando risulta più inutile – che il nostro interlocutore (a questo punto saremmo lì lì per interromperlo e avvicinare le labbra alle sue) è polverizzato nello spazio e nel tempo, è una sequenza di eventi oscuri. Averla conosciuta da bambina serviva realmente a qualcosa? Aggiungeva, precisava, chiariva? Quanto più giudicavo un eccellente punto di partenza l’esserci frequentati in quel tempo decisivo di ogni esistenza, tanto più mi risultava stupefacente e inspiegabile ogni dettaglio che, del suo presente, via via mi forniva. Intanto, gli orologi e le sveglie cominciavano a impazzire, le lancette a correre in modo esagerato – ma non dovevamo stare insieme due ore? Sì, due ore. E sono già passate? Quando uno fa ritorno da una voragine di tempo, non puoi lamentarti se mette in subbuglio la cronologia. È un mistero già che mi abbia tollerato fin qui. Non è chiaro se sia realmente curiosa di me e perché mi assecondi. Per ora, non fa molte domande. Non su di me. Ti va di accompagnarmi in piscina? chiede e non aspetta la risposta. Comincio alle tre e venti. Eccola allora perfettamente a suo agio, a infilare braccioli in quella luce vaporosa e grigia. I bambini ridono, i bambini si disperano, i bambini disobbediscono ma lei resiste. Una volta che tutti sono in acqua, scomposti e pazzi, entra lei come una matita. Li chiama per nome, li riprende, li incoraggia. Corregge le bracciate con occhi che da qui – schiacciato tra le mamme in tuta, dentro una condensa calda che sa di cloro – riesco a vedere, severi e materni. “Radu, Raduuu,” si sbraccia una di loro, forse rumena, o moldava. “Raduuu, tieniti alla corsia!” Le madri a volte hanno più paura dei figli, che nel frattempo sono diventati pesci. Dice Scirocco che le piscine dei quartieri alti hanno bambini che si chiamano Alberto e Dharma e spariscono nei mesi della settimana bianca, tate e tati filippini che li aspettano a bordo vasca, alcuni perfino in divisa. Hanno baby-sitter e nonne veloci. Le piscine degli altri quartieri hanno bambini che si chiamano Sueth e Youssef, Chau Fang e Alexandru, non mancano quasi mai e restano più che possono, anche fino alla fine di giugno. Non hanno tate, a volte fanno tutto da soli e aspettano mezz’ora qualcuno che venga a prenderli, buoni e muti all’ingresso. A volte ti fanno ridere, con gli occhi a mandorla e il romanesco. Maestra, oggi abbiamo imparato l’inno d’Italia. Dai allora, fammi sentire Chau Fang. Sull’elmo di Scipio poi Chau Fang si inceppa. Dice che sa indicare dov’è l’Italia su una cartina geografica. Quante Italie servono per fare la Cina? Nell’acqua, risoluta e sicura, la vedono e la vedo infinitamente adulta. Non lo è. Fuori, a poco a poco, scopro smisurate paure e crolli che possono lasciarla – come chi dei suoi bambini tema di andare a fondo o non veda più la madre sugli spalti – per minuti a piangere senza respiro. Si lascia sfuggire di incubi in cui muoiono cani e qualcuno la pedina per chiudere i conti. Mi rivela interminabili mesi in cui il pensiero di morire la lasciava atterrita e immobile. Ma dove mi stai portando? Mi sento trascinare in

un sottomondo d’acqua, nel quale aiuta gli altri a stare a galla e però ogni tanto affoga lei. Oppure, condotto per mano attraverso una città capovolta. I piedi restano fissi o scivoliamo via? Quanti rischi si corrono abitando qui? Se la mia si sveglia con il canto del gallo, la sua città sottosopra è popolata di gufi. Lei spinge le letture fino a notte altissima, frequenta con disinvoltura le tre del mattino – quando tutti i rumori sono spenti e il fiume non si distingue più dal buio. Buongiorno Scirocco, ben svegliata, qui il mondo ha già fatto un bel tratto di giro al sole. Già è passato mezzogiorno. Si alza all’ora delle attrici, prova a svegliarsi con la nuca contro la parete della cucina, mentre guarda due telegiornali di seguito. Poi pranza, sale sulla Twingo e attraversa la città da un capo all’altro – università, biblioteche, piscine – come una tassista senza passeggeri. Ascolta canzoni italiane e telefonate surreali di tifosi sulle radio sportive. Passo le giornate a chiedermi di lei. Come viene fuori una ragazza così, come viene fuori una persona – il modo come tiene disordinati i cassetti e come abbina gli abiti. Da quale albero genealogico folto o rinsecchito, da quale caos o quiete familiare attorno. Come muove le mani e come dice sì, con una esse spessa, che fa uno strano sibilo. Quando ha imparato a truccarsi – con tutta quella concentrazione, il viso allungato e quel picchiettio di gesti veloci. Ha detto con un po’ di orgoglio che le sue compagne di classe le chiedevano come faceva a essere tanto brava. La straordinaria abilità nel parcheggiare. Le indecifrabili ambizioni che alimenta. La grafia rotonda e ondivaga – il maiuscolo dà il cambio al minuscolo di continuo, le a hanno una strana coda. E tutto ciò che comincia a disarmarmi, a irritarmi. Le sue risposte all’improvviso brusche, perfino dure – il linguaggio di sempre si rompe come un vetro, diventa per un attimo brutale. L’ironia è acre e brucia le cose intorno. È imprevedibile e testarda come il vento con cui la chiamo – che alza la polvere, entra nelle case, fa cambiare l’umore, scatena tempeste. Ecco, le cose che non mi aspettavo e quelle che non saprò mai. Tutte, tutte le cose che dovrebbero impedire di idealizzare chiunque e tuttavia, di fatto, non lo impediscono. E il pomeriggio in cui torna a casa dopo la prima mattina di scuola, il rosso sulle guance per una frase che l’ha imbarazzata, i bigliettini di un compagno di classe innamorato, i ragazzi a cui piaceva che ha dimenticato, quelli che non ha dimenticato e che piacevano a lei, le città in cui ha viaggiato, alzandosi presto per vedere tutto, quando era impazzita per la matematica, la festa per lo scudetto della Roma, Francesco Totti, quando ancora non sapeva dire la erre, i sensi di colpa per un’amicizia finita male, qualcosa che la faceva sentire sporca, il panico, il soffitto che sembrava crollare, la luce spenta, la sera prima di un’operazione, le partite viste con suo nonno, i sogni che ha trascritto su un’agenda, eventuali sicure bugie. Ma basta, basta – con questo passato: se c’è da fare i conti con lei adesso. A che ora posso chiamarti? Non è che sveglio qualcuno? Il cane non possiamo portarlo al parco? Ma ti pare che devi sostenere le posizioni dell’Italia dei Valori? Non sarebbe meglio occuparsi di un problema alla volta? Tu sempre alle tre devi andare a dormire? Ho l’impressione che nel discorso ci sia una sfumatura che non cogli, non riesci a cogliere. Non rispondere male però. Vuoi sempre avere ragione. Ti è passata questa febbre? È già il quarto giorno, sono preoccupato. In quale guaio meraviglioso mi sto cacciando? Dichiaro di essere allergico ai romanzi di fantascienza. Solo per lei faccio un’eccezione. Se non è fantascienza averla ripescata da un’altra epoca per farla riapparire qui, cos’altro lo è? Non è fantascienza la semplice ipotesi di avere qualcuno nel proprio futuro? Immaginarlo, dico. Volerlo. Il futuro e quella persona. Con, quella persona. Un azzardo irrazionale e infinitamente pericoloso. Sto correndo troppo. Le navicelle spaziali. Che poi arrivano, esistono. I robot. I marziani. La neve in una città in cui non nevica mai.

Il 2010 Ma sì, era arrivata. Cielo-con-neve-che-scende sembrava un coperchio grigio posato sui tetti – tra poco lo tirano via, come il tendone di un circo. Adesso smette, vedrai. Macché: fiocchi lunghi e spessi seguitavano a sbattere sulle auto in sosta, a scivolare sui parabrezza. Una patina prima trasparente e poi azzurra ha ricoperto i cortili. Sotto il peso imprevisto i rami hanno scricchiolato e si sono schiantati bloccando le strade. Disperso il primo stupore, è stato un piccolo inferno bianco: automobili e scooter si arrendono nella città che si incarta. Sulla Laurentina al chilometro ventuno un uomo ha perso il controllo della sua Punto ed è morto in un frontale. La gente congela sulle banchine delle stazioni, i treni non si vedono. I centralini dei taxi sono in tilt dalle prime ore del mattino. La neve dopo ventiquattro anni è un concerto di clacson. C’è da spargere il sale per le strade. Pare che allo zoo le scimmie si siano rintanate fra i trucioli di paglia, sconvolte. Scirocco, sveglia! Guarda quanto ci ha messo la neve a tornare – quasi la nostra età. Quel giorno di febbraio, dice mamma, Roma era irriconoscibile. Avevano chiuso la Salaria e la Colombo già nelle prime ore del mattino. Gli autobus avevano bisogno di catene, da non crederci. Erano i giorni in cui cominciava il maxiprocesso per mafia nell’aula bunker del tribunale di Palermo. Al governo c’era Bettino Craxi. Da qualche parte, dice, devono esserci le foto. Con te che sei un puntino blu, infagottato, in tutto quel bianco. Era tanta, eh. Alta così. Anita, appena rientrata da scuola, è ancora elettrica. Spiega tutta soddisfatta che la neve ha fatto saltare una verifica. Troppa agitazione generale, la professoressa si è arresa. Poi ringrazia l’invenzione dei telefonini: “Valerio mi ha fatto una foto bellissima”. Valerio? Quando, nel primo pomeriggio, questa neve del 2010 ha iniziato a sparire, lasciando cumuli sudici ai bordi delle strade, macchie sui giardini, pellicole sulle automobili, la città non sembrava niente affatto lavata. Pareva solo stordita e in allarme. La mano invisibile che l’aveva scossa come una boule ora la rideponeva sullo scaffale. Papà apparecchia la tavola con gesti bruschi. I tovaglioli sempre un po’ obliqui, le posate sembrano cadute dal soffitto. E per fortuna che parlano di surriscaldamento globale, commenta senza sorridere. Poi accende il televisore. La neve romana non ha fermato le notizie. “Costruttori finiti in carcere con l’accusa di corruzione.” “Feste in un centro sportivo con escort e massaggiatrici per il capo della Protezione civile.” Chiama Scirocco. Ho ancora un po’ sonno, dice, mia madre mi ha svegliata stamattina presto: vieni a vedere, nevica! Sembrava una magia. Ho fatto qualche fotografia con il cellulare dalla finestra della cucina. Te le mando. Eccole – impronte umane sul cortile come un arabesco, i manifesti elettorali più gonfi e ambigui. Intanto una stupida pioggia sottile archivia l’evento. L’acqua della pasta ancora non bolle, papà è sparito nel suo studio. “Gare di appalto per il G8 truccate.” “Serate a tema con ragazze spagnole, brasiliane, africane.” Il ronzio delle notizie è squarciato all’improvviso da un grido di dolore: “Aaaah!”. È la voce di papà, dall’altra stanza. Mi precipito a soccorrerlo mentre mamma ripete a voce bassa: che succede, che succede. E lui è lì, ferito da niente, a scuotere lo schermo del computer come dovesse rianimarlo. “Niente, niente, non c’è più niente da fare.” “Ma che è successo?”

“Non lo so, è un disastro, un disastro, ho perso tutto. Vorrei sapere cosa gli è preso: sarà questa maledetta neve che ha congelato i cavi, non lo so, ma a un certo punto era tutto bloccato, non rispondeva più e poi niente.” Gli faccio cenno di scostarsi con la sedia. Muovo il mouse. Spengo, aspetto che riparta. “Vedi? Funziona.” “Funziona, ma il file l’ha inghiottito.” “L’acqua,” interviene mamma. “Che c’entra l’acqua?” “L’acqua sul fuoco.” Corre di là. “È andata tutta sui fornelli!” ci avverte. Ma siamo troppo presi dalla catastrofe tecnologica che secondo papà è irreversibile. “Che file era?” “Il, file.” “Ma l’avevi salvato, no?” “Non lo so.” Non chiedo altro, clicco un po’ a caso, apro cartelle, lo tranquillizzo ma si spazientisce di più. Gli spiego che si può recuperare, che da qualche parte sarà, il suo file. A mezza bocca dice che dovrebbe chiamarsi qualcosa come Immagino la nascita di mio padre il 10 aprile 1918.doc. Non ascolta, si fida per tre minuti, poi interviene lui, mi sottrae il mouse, lo batte con violenza sul tappetino – “La freccia! Dov’è la freccia, non vedo più la freccia!” “Eccola, papà, eccola” –, muove ciecamente il cursore facendogli fare giri immensi sullo schermo prima di ulteriori, isolati clic che non aprono niente. Se non sono amati, i computer non amano. Si mettono sul piede di guerra. “Adesso andiamo a pranzo, dai, poi ci riproviamo.” Non mi ascolta. Sembra non ricordare più l’autorevolezza che pure mi riconosceva ai tempi della sua iniziazione a Word. Salvava i file con titoli lunghissimi. Continua a farlo. Lamentava regolarmente che non c’erano più, nella cartella Documenti. “Chi me li ha tolti?” “Nessuno, eccoli.” Picchiava forte sui tasti come su una vecchia Olivetti. “Piano, papà.” “E a questo punto cosa devo fare?” Erano operazioni più facili di una ricerca su Google. Gli parevano impossibili. Riusciva a stare attento per pochissimo, ma entro quei limiti, non più insegnante, aveva lui l’aria dell’allievo diligente e smarrito. Adesso invece vuole sbrigarsela da sé. Concentrato e solo, prosegue il corpo a corpo con la macchina ostile. Difficile dire come finirà, mentre la pasta si incolla sul piatto. Resto sulla soglia e lo osservo di spalle, chino sullo schermo come per confidargli un segreto. Forza, papà. Il telegiornale nel frattempo racconta la neve di Roma, senza troppa enfasi. C’è stata, c’è stata, la città ha retto, dice il sindaco, ma eravamo pronti. “E adesso voltiamo pagina.” Seduto a tavola con mia madre e con Anita, guardo fuori: la pioggia ha smesso di cadere, il cielo è basso e cupo. “Si è sciolta, vero?” domando. “Sì.” Scirocco se ne sarà accorta? Arriva un suo messaggio: La neve? Già scomparsa. Perché le cose belle non riusciamo a fermarle? Seduta in cucina, la nuca contro la parete, starà ascoltando le stesse orribili notizie. “Pil, nel 2009 caduta del 5 per cento.” Però lei pensa alle cose che scompaiono. La neve, gli oggetti, i giorni. Anche i file importanti, a volte. Si distrae, ogni tanto gli occhi si chiudono. Cerca di restare sveglia, Scirocco. Cerca di restare.

Nota dell’autore Questo romanzo – scritto tra i primi mesi del 2009 e i primi mesi del 2011 – ha preso le mosse da una notizia di cronaca. Un professore esasperato investe con l’auto due studenti: da mite insegnante a indagato per lesioni plurime aggravate. Al di là dello spunto, tutto il resto – compresi nomi, luoghi e casuali coincidenze con la vicenda reale – è naturalmente frutto di immaginazione. Nella “Storia degli anni senza nome” ha trovato spazio una riflessione sullo studio della storia e più precisamente sulla “dimensione esistenziale del lavoro di storico”, alimentata da un bel saggio di Antonella Tarpino che porta proprio questo sottotitolo: Sentimenti del passato. La dimensione esistenziale del lavoro di storico (La Nuova Italia 1997). Il capitolo “Antiquario, becchino, cacciatore, sciamano” molto deve e ha rubato a quel lavoro. La lettura di Hayden White – Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione (Carocci 2006) – ha chiarito, quasi a posteriori, diverse questioni. Mentre lavoravo al romanzo, la scrivania si affollava via via di oggetti, carte, ritagli, libri altrui. Tento – a parole – di darne come una fotografia. Il fumetto ispirato a Pinocchio riporta esattamente le parole pronunciate dall’Omino di burro nel libro di Carlo Collodi. La parentela tra l’Omino e Silvio Berlusconi è stata istituita da Alfonso Berardinelli in un suo saggio, Nel paese dei balocchi. La politica vista da chi non la fa (Donzelli 2001). La giornaliera luce delle gazzette è un verso – ironico – della Palinodia al marchese Gino Capponi composta nel 1835 da Giacomo Leopardi, acceso contestatore della “filosofia de’ giornali”. Il capitolo “L’amore liquido nel 2005” si apre con una citazione dal saggio di Zygmunt Bauman Amore liquido (Laterza 2003, traduzione di Sergio Minucci). Nella parte berlinese, le zie “che svettavano come fate” vengono dall’Infanzia berlinese intorno al Millenovecento di Walter Benjamin (Einaudi, traduzione di Enrico Ganni). “Atterrito come 36 milioni di cuccioli appena nati” è un’espressione che Arthur Rimbaud utilizza in una lettera del 1871 rievocando l’incontro con una ragazza dagli occhi violetti. La cita Henry Miller nella prima parte di Il tempo degli assassini (SugarCo 1966, traduzione di Giacomo Debenedetti). La frase “Esiste un confine oltre il quale le cose spariscono e non conviene più cercarle?” è, senza punto interrogativo, un verso di una poesia di Leonardo Sinisgalli, Goethe e Schopenhauer (Mosche in bottiglia, Mondadori 1975). La canzone che chiude il capitolo “Gli ingranaggi della nostalgia” è Life in Technicolor II (2009) dei Coldplay. C’è infine una circostanza che precede la stesura di questo romanzo. Si tratta della morte dell’artista americano Robert Rauschenberg, il 12 maggio 2008. La suggestione dell’evento, e di un articolo commemorativo in particolare, ha profondamente agito in me e alimentato riflessioni, esperimenti, scrittura. Ricordando le opere di Rauschenberg esposte alla Biennale di Venezia del 1964, Franco Cordelli ha scritto: Erano belle in quanto disordinate, cioè apparentemente disordinate. [...] C’era ancora una cornice, ma in essa c’erano quegli oggetti, ivi buttati alla rinfusa, o secondo un prestabilito e indecifrabile piano. [...] Il “combine painting” di Rauschenberg era una specie di diario. Appunti presi non già con una penna o una semplice matita, ma con le mani, con i pennelli, con la spatola – a volte prima scritti poi cancellati. Appunti “scritti” attraverso l’accumulo degli oggetti: le cose di tutti i giorni. I fumetti, le bottiglie di Coca-Cola, le fotografie, le serigrafie. [...] In Rauschenberg c’era il sentimento dell’abbandono, il sentimento del deserto, la solitudine di oggi, fissata in quei poveri-lustri oggetti, e il

desiderio di ieri, il desiderio dell’infanzia. (Biennale 1964, l’altra bellezza, “Corriere della Sera”, 14 maggio 2008) Sono grato ad Antonio Tabucchi, per molte ragioni legate anche alla storia di questo libro e per la bellissima fotografia di André Kertész suggerita per la copertina. Ad Alberto Rollo e a Giovanna Salvia. A Simone Nebbia. A Michela Monferrini, per come ha arricchito questo romanzo, con il suo sguardo.