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Italian Pages 64 [57] Year 2011
Proprietà letteraria riservata
In copertina: Giorgione, I tre filosofi, 1507 ca., Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Traduzione di Francesca Garofoli 2006 Di Renzo Editore Viale Manzoni 59 00185 Roma Te!. 06 77 20 90 20 Fax 06 70 45 00 99 E-mail: [email protected] Internet: http://www.direnzo.it «>
Daniel C. Dennett
Dove nascono le idee
Di Renzo Editore
All'ombra di un mito e di strane idee
Ho molti ricordi avventurosi della mia infanzia, ma nessuno che in qualche modo potesse far presagire una mia inclinazione segreta per la scienza. Nessuna figura rappresentativa che mi abbia incoraggiato su quella via e nessuna epifania che mi abbia rivelato anzitempo le gioie e i misteri della scienza, almeno non prima dell'età scolare. Tuttavia, fu per me una magtiifica sorpresa l'apprendere, intorno ai dodici o tredici anni, che non tutti i pensieri segreti e inesprimibili della mia infanzia dovevano rimanere tali. Alcuni di essi potevano esser chiamati "filosofia" e persone dall'aria intelligente e competente discutevano di quei miei stessi pensieri in pubblico. Mi piaceva concentrare la mia attenzione solitaria su certi argomenti ineffabili, forse non troppo eccitanti da raccontare, ma dotati di un'aura di segreta consapevolezza. Stando a quanto dicevano gli insegnanti del Camp Mowglis, nel New Hampshire, poteva darsi che fossi un filosofo o, comunque, sembrava che mi riuscisse bene farlo. La mia famiglia non osteggiò l'idea. I miei genitori erano entrambi figli di medici, ma avevano scelto come ambito di studio le discipline classiche. Mia madre studiò al Carleton College, in Minnesota, dove rimase fino alla laurea e fin quando non decise che era giunto il momento di scoprire il mondo. Non essendo mai uscita dal Midwest e conoscendo solo la sua madrelingua, scelse come lavoro l'insegnamento dell'inglese all'American Community School di Beirut, in Libano, dove conobbe mio padre - Daniel C. Dennett Jr. - anch'egli inse-
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gnante, ma all'American University di Beirut, e dottorando di storia islamica ad Harvard. Suo padre - il primo Daniel C. Dennett della famiglia- era il classico medico generico di provincia a Winchester, nel Massachusetts, alla periferia di Boston; luogo dove ho trascorso la maggior parte della mia infanzia. Così, io sarei Daniel C. Dennett III, ma visto che non amo i numeri romani, ho preferito mantenere il nome di battesimo senza ulteriori specifiche, anche se mi rendo conto che un Daniel C. Dennett figlio di uno "junior" genera una certa confus10ne. La carriera accademica di mio padre si interruppe con la sua morte prematura, dopo un piacevole inizio segnato dalla pubblicazione di un libro più volte ristampato, dal titolo Pirenne and Muhammed, che - con mia somma meraviglia-ritrovai come testo per un programma di storia che intrapresi da studente universitario. Il suo primo incarico fu alla Clark University ma, quando scoppiò la seconda guerra mondiale, mise a disposizione dell'Office ofStrategic Service (OSS, oggi CIA) la sua profonda conoscenza del Medio Oriente e della lingua araba, proponendosi come agente segreto di stanza a Beirut. Ed è a Beirut che sono nato io, nel 1942. Lì ho trascorso i primi cinque anni di vita, in compagnia della mia famiglia e di una gazzella di nome Babar, che mi era stata regalata da un capo beduino, amico di mio padre. Gran parte dei ricordi avventurosi di cui parlavo poc'anzi risalgono proprio a questo periodo, quando mi muovevo con disinvoltura tra lingue e culture diverse: la mia babysitter era una giovane ragazza armena, mentre il nostro autista era un giovane libanese; all'asilo, poi, si parlava soltanto arabo e francese. Credo di aver apprezzato veramente la ricchezza e la varietà di quei luoghi solo quando dovetti abbandonarli, nel 1947, giacché quell'anno mio padre morì in un incidente ae-
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reo, durante una missione in Etiopia. Così, mia madre, le mie due sorelle ed io ci trasferimmo da Beirut a Winchester, dove crebbi all'ombra di un padre divenuto, nella memoria di tutti, quasi leggendario. Ammetto che, pur dovendo fare i conti con la memoria di un padre come il mio, ero comunque più fortunato di molti miei amici e compagni di scuola che, in quanto figli di eminenti e famosi professori di Harvard o del MIT, erano costretti a pagare una sorta di tributo, in termini di fatica e impegno, per rendersi degni delle attenzioni paterne. Rabbrividisco al solo pensiero di cosa sarebbe stato di me, se fossi venuto meno alle aspettative di mio padre, sebbene in sua absentia erano i suoi amici e la mia famiglia a fame le veci. In quel periodo, mi sentivo guidato - lo ammetto - da una forte presunzione: ero convinto che nella vita avrei primeggiato e che mi sarebbero bastati pochi valori-guida, ma essenziali, dinanzi ai quali avrei dovuto mettermi alla prova. Era opinione comune, in famiglia, che avrei frequentato Harvard e che sarei diventato docente di una qualche disciplina classica. Il fatto che fin dall'età di cinque anni fossi affascinato dal costruire oggetti, smontarli e ripararli non bastò certo a sollevare la questione se avessi voluto diventare ingegnere; una prospettiva, questa, per la mia cerchia, tanto remota quanto quella di diventare domatore di leoni. Avrei potuto fare l'artista- pittore, scultore o musicista - ma l'ingegnere mai! Intorno ai tredici anni, scoprii il jazz e cominciai a prendere lezioni di piano e a comprare spartiti di musica jazz e popolare sui quali esercitarmi. Sognavo già di essere un musicista professionista, mi vedevo in qualche locale fumoso a suonare canzoni melodiose e sofisticate, con accanto una donna tipo Michelle Pfeiffer che mi occhieggiava languidamente. Adesso, che ho più di sessant'anni, nelle mie fantasie c'è Doris Day, al posto di Michelle Pfeiffer.
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Una delle più belle esperienze musicali che ho avuto, forse l'ultima prima di capire che non avrei fatto della musica la mia vera vocazione, risale a una notte del 1961, quando con il mio amico e compagno di università Ronald Brown andammo in un locale di Parigi - Le Chat Qui Pèche - noto per le sue improvvisazioni jazz. Alle tre del mattino cominciò una jam session e io mi ritrovai a suonare con Ronald e Chet Baker! A dire il vero io suonai soltanto un brano e molto timidamente, mentre Ron andò avanti con Chet fino all'alba. Nella mia memoria quella serata è diventata il simbolo di ciò che avrei voluto che fosse, allora, la mia vita da artista; ma i sogni a volte mutano orizzonte: un anno dopo Ronald era morto e io avevo scoperto l'intelligenza artificiale. Al mio primo anno presso la Winchester High School frequentai due semestri indimenticabili di storia antica-tenuti da due interni, Catherine Laguardia e Michael Greenebaum, della Harvard School of Education - che portai a termine con una tesina su Platone, la cui copertina ritraeva Il pensatore di Rodin. Un'esperienza indimenticabile, soprattutto perché mi costò non poca fatica capire il materiale al quale attinsi per la tesina. Ma, cosa ben più importante, adesso sapevo che volevo diventare a mia volta insegnante - e non posso che ringraziare Laguardia e Greenebaum per l'ispirazione datami - restava solo da decidere cosa avrei insegnato. Trascorsi gli ultimi due anni di scuola superiore alla Phillips Exeter Academy, perché i vecchi amici di papà persuasero mia madre che un tale percorso era obbligato per il figlio di Daniel C. Dennett Jr. A questi amici ormai scomparsi debbo tutta la mia gratitudine, perché mi ritrovai nel bel mezzo di un'operosa fucina di pensiero, dove l'editore del giornale accademico percepiva sovvenzioni maggiori di quelle del capitano della squadra di calcio e i ragazzi leggevano libri che non facevano parte delle letture assegnate. Fu li che imparai a scrivere con la mia Olivetti Lettera 32 Qa stessa di Michael
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Greenebaum!), che sfornava centinaia di pagine, nessuna delle quali, però, era ancora filosofia. Tanto per deludere le aspettative della mia famiglia, ma anche per altre ragioni, schivai Harvard, preferendole la Wesleyan University, dove approdai con ottimi punteggi in matematica e inglese, giacché ad Exeter avevo avuto insegnanti eccellenti. In verità, non avrei voluto proseguire sulla strada del calcolo, ma fui forzato a scegliere il corso di matematica superiore, perché qualcuno si era fatto l'idea, sbagliata, che fossi una sorta di prodigio matematico. Così m'imbarcai in qualcosa di strano chiamato "Argomenti di matematica moderna" e insegnato da un giovane docente del Dipartimento di matematica di Princeton: il logico Henry E. Kyburg, al suo primo incarico. Poiché io e uno specializzando del Dipartimento di matematica eravamo gli unici studenti del corso, Henry ci chiese e ottenne il nostro permesso per trasformarlo in un seminario di logica matematica. Fu allora che scoprii la Mathematical Logie di Quine, le opere di Kleene, Ramsey e il Tractatus di Wittgenstein. Non c'è male per un primo corso di logica ad uso di un diciassettenne! Se fossi stato un prodigio matematico, come annunciato, tutto ciò avrebbe avuto, senza dubbio, un senso pedagogico; invece iniziai subito ad annaspare e a sentirmi a rischio annegamento. Ecco dunque che il mio anno da matricola si era trasformato in una sfida più grande di quanto mi aspettassi. Una sera, mentre vagavo nella biblioteca di matematica, esplorando scaffali in cerca di chissà quale indizio, la mia attenzione fu catturata dal libro Da un punto di vista logico (19 53) di Quine. La mattina dopo avevo ultimato la prima lettura (perché molte altre ne seguirono) di quel libro e avevo preso la decisione di trasferirmi ad Harvard, dove insegnava l'autore.
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Primi passi contro corrente
Willard van Onnan Quine, scomparso nel 2000, era senz'altro una persona molto interessante, ma quanto alle idee espresse nel suo libro sentivo che aveva torto.Non potevo ancora dire esattamente come e perché, ma ne ero abbastanza sicuro. Così decisi, come solo una matricola può avere l'ardire di fare, che dovevo confrontarmi direttamente con lui e vedere cosa avrei potuto apprendere da lui ... e cosa avrei potuto insegnargli io! Una lettura delle Meditazioni metafisiche di Cartesio, al mio primo corso di filosofia, tenuto da Louis Mink, mi convinse che avevo scoperto cosa insegnare: restringendo considerevolmente il campo dei miei interessi, era la filosofia del pensiero e del linguaggio a polarizzare la mia curiosità. Quando arrivai ad Harvard, nell'autunno del 1960, il primo corso al quale mi iscrissi fu quello di filosofia del linguaggio di Quine, che aveva come testo principale il suo ultimo libro, Parola e oggetto. Tempistica perfetta. Seguii con grande entusiasmo il corso, contento soprattutto di confrontarmi con gli studenti della mia classe, che erano molto bravi, proprio come avevo sperato che fossero gli studenti di Harvard. Tra di loro rammento David Lewis, Tom Nagel, Saul Kripke, Gil Harman, Margaret Wilson, Michael Slote, David Lyons: una classe davvero stimolante. Quando arrivò il momento dell'esame finale ero preparatissimo: conoscevo quasi a memoria ogni libro letto e avevo ottenuto il massimo dei voti in tutti gli scritti presentati. Sapevo più del dovuto e mi ero spinto, nelle
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mie considerazioni filosofiche, ben al di là dei problemi posti, forse troppo al di là per trovare risposte certe. Ciononostante, come voto finale del corso, non ottenni il massimo. L'assistente di Quine, Dagfinn F ollesdal, che conosceva la mia preparazione, si dimostrò partecipe del mio dispiacere, tanto che, due anni dopo, quando gli chiesi di farmi da supervisore per la tesi di laurea, accettò senza riserve. Avevo ripreso un vecchio scritto - "Quine e il linguaggio ordinario" - risalente ai miei esordi ad Harvard, per farne la mia dissertazione di laurea, ma non volevo che fosse Quine il mio relatore, perché probabilmente si sarebbe impegnato nel dimostrare l'erroneità delle mie idee prima ancora che terminassi di scrivere l'intera tesi. Gli avevo comunque chiesto - dicendo che mi occorrevano solo per completare la bibliografia - quali fossero i più accreditati "antiquiniani": avevo bisogno di tutti gli alleati possibili. Così, fu proprio lui a consigliarmi le Syntactic Structures di Chomsky, il primo degli scritti di Lotfi Zadeh sulla "logica fuzzy" e le Ricerche filosofiche di Wittgenstein; libri che divorai nell'estate del 1962, durante la mia luna di miele, mentre lavoravo come istruttore di tennis e di vela (mia moglie, Susan, faceva l'istruttrice di nuoto) in un villaggio per famiglie della Buzzards Bay. Il mio ultimo anno (1962-63) ad Harvard fu davvero eccitante, ma non privo di preoccupazioni: adesso ero un uomo sposato, di appena venti anni, e dovevo ancora completare il mio progetto quadriennale teso a confutare le tesi di Quine, i cui pensieri erano certamente interessanti, ma a mio dire sbagliati. Lontano dai divertimenti e dalle distrazioni della vita studentesca, nella Eliot House, lavorai con un'intensità che di rado ho avuto modo di sperimentare nuovamente nella mia vita. Ero completamente calato nel mio intento: inseguire una preziosa preda attraverso i meandri della complessità, immaginando già quali sarebbero state le mie risposte ad alcune delle sue domande. Stavo costruendo un edificio immenso, sul
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quale Dagfinn esprimeva solo di rado, e con molta cortesia, qualche dubbio. Non si può dire che fossi fuori dal suo controllo, ma di certo non sarei tornato indietro. La tesi fu dattiloscritta in tre copie e consegnata, dopo di che mi misi ad aspettare con ansia il giorno in cui Quine e il giovane Charles Parsons, i miei esaminatori, mi avrebbero convocato. Quine si presentò con circa una mezza dozzina di pagine fitte di commenti, davanti alle quali mi convinsi che sarei diventato un filosofo. All'epoca ero anche aspirante scultore e avevo esposto alcune delle mie opere a Boston e Cambridge. Quine ne aveva viste alcune e non mancava di esprimersi positivamente sulle mie opere ogni volta che mi incontrava, tanto che alla fine mi era venuto il dubbio che stesse cercando di mandarmi un messaggio: era forse meglio che mi dedicassi alla scultura, piuttosto che alla filosofia? Tuttavia, ogni mio dubbio cadde in occasione del nostro confronto sulla tesi di laurea, quando Quine rispose alle mie argomentazioni con la serietà che si dedicherebbe a un collega, riconoscendo alcuni punti cruciali del mio lavoro e offrendo interessanti controargomentazioni agli altri. Parsons, invece, era dalla mia almeno su una delle tante questioni da me sollevate, non ricordo di che si trattasse, ma avevo la sensazione che facesse di tutto per mettere Davide contro Golia. C'è da dire che, sebbene a muovermi verso Harvard fosse stato il desiderio di smentire Quine, da lui ho comunque avuto talune lezioni di vita e di mestiere alle quali sono rimasto legato lungo tutto il mio percorso professionale: l'idea che la conoscenza, e di conseguenza la filosofia, devono essere trattate alla stregua di processi naturali, giacché non sono inoculate nelle nostre menti da qualche regno soprarinaturale, è sua. E se la conoscenza è un processo naturale allora può essere scientificamente studiata. Non c'è nulla di magico nella scatola cranica, "nessun fantasma
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nella macchina'', per usare un'espressione cara a Ryle. Quando parliamo di intelligenza descriviamo un comportamento, o una propensione verso un comportamento, e non l'esercizio di una mente disincarnata. Come nascano queste propensioni è una domanda empirica, alla quale si può rispondere osservando l'ingegneria, ovvero come l'attività meccanica degli "stupidi" neuroni può confluire in un tessuto di attività che effettivamente produca conoscenza. Per tutta la vita ho sempre cercato di conciliare o di trovare una soluzione conciliatoria tra l'assoluta mancanza di motivo e di forma, il vuoto cosmico, da cui è nato e si è sviluppato l'universo ed entità pregne di significato come il pensiero, l'intenzione o i principi dell'etica. Ma nel farlo non ho mai dimenticato la lezione di Quine, prima, e di Ryle, dopo: bisogna parlar semplice, fare una filosofia scientificamente informata. Nessuna frase di Quine o di Ryle è mai sciocca o di troppo, ma il loro parlare è rivolto al pubblico dei non specialisti. L'occasione dell'incontro e del confronto con Quine fu dunque molto stimolante: forse - pensai in quel momento sarei diventato un vero filosofo, anche se piuttosto diverso da quelli che vedevo in tomo a me.Non condividevo, infatti, i gusti della maggior parte dei miei compagni.
Avevo letto The Concept o/Mind di Gilbert Ryle durante un seminario con Rogers Albritton, e mi era sembrato uno dei pochi libri di filosofia contemporanea degno di nota. Un altro era The Piace of Reason in Ethics, di Stephen Toulmin, che aveva vanificato, con il suo valore, qualsiasi precedente lettura inerente l'etica. Onestamente, non riuscivo a capire perché gli altri trovassero Ryle poco persuasivo: per me rappresentava una lettura nuova e di grande spessore, a dispetto di qualche sua affermazione esagerata e dalle tracce mistificanti. In breve decisi che lo studio del pensiero di Ryle sarebbe stato il passo logico e successivo della mia educazione, così
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feci domanda per entrare a Oxford, dove volevo conseguire quella che è conosciuta come la più difficile specializzazione in filosofia. Burton Dreben tentò di dissuadermi: ora che anche Austin era morto, mi assicurò, non c'era realmente nessuno, a Oxford, con cui avrei potuto studiare. Feci domanda anche a Berkeley, sebbene adesso non riesca a ricordarne il motivo. Mi erano piaciute molto anche le dissertazioni tenute ad Harvard da Barry Stroud, lo ammiravo, ma non credo che avessi alcuna intenzione di lavorare con lui. Inoltre Harvard aveva la saggia regola di non ammettere i propri laureati. Venni rifiutato anche da tutti e tre i college di Oxford ai quali avevo fatto domanda. A quei tempi, l'ammissione universitaria non era aperta e io mi ero rivolto, a conti fatti, ai tre dei college più popolari tra gli accademici di Rhodes e Marshall: il Balliol College, il Magdalen College e la Oxford University. Si trattava di università già sovraccariche di americani in possesso di borse di studio e non disponevano di una stanza per me, anche se avessi pagato con la modesta eredità lasciatami da Daniel C. Dennett Senior, morto qualche anno prima. Ma proprio quando stavo per mandare un deposito a Berkeley, per prenotare un appartamento matrimoniale in vista della scadenza autunnale, ricevetti, all'improvviso, una lettera dal preside dell'Hertford College di Oxford, che mi informava del fatto che erano disposti ad ammettermi alla specializzazione in filosofia. Non avendo inviata alcuna domanda all'Hertford, di cui in effetti non avevo mai sentito parlare, sospettai che qualcuno che conosceva la mia delusione mi stesse facendo uno scherzo di cattivo gusto. Tuttavia, cercando l'Hertford College nel bollettino universitario di Oxford, ebbi conferma della sua esistenza. Così accettai. Dopotutto, non importava in quale college di Oxford mi trovassi, avrei comunque chiesto a Ryle, Ayer o Kneale di farmi da supervisori. Anni dopo, Ryle mi confessò di essere stato lui a inoltrare la mia domanda a Hertford: disse che era stato nel comitato di ammissione di
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Magdalen e che aveva letto la lettera di raccomandazioni che Quine aveva mandato per sostenere la mia ammissione. Magdalen tuttavia non aveva posto, così lui aveva inoltrato la domanda, con una piccola nota, a un suo amico a Hertford. Dunque, dovevo a entrambi i miei mentori- Ryle e Quine - più di quanto immaginassi.
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Verso una teoria dell'intenzionalità
Così, nell'estate del 1963, mia moglie e io ci recammo a Oxford, con l'idea di dedicarci entrambi alla filosofia del pensiero. Ma prima ancora di farmi notare tra le grandi menti di Oxford, divenni noto al circondario come "quello che è arrivato con uno scalpello e un blocco di marmo al seguito" (con i quali peraltro realizzai la scultura di un uomo che legge). Dividevo il mio tempo libero tra la lettura, la scultura e qualche jam session nei locali jazz di Oxford, dove suonavo il piano. Il mio padrone di casa si ricorda ancora di me come "il ragazzo che ha portato il primo frisbee in Gran Bretagna e ne ha lanciato la moda al Worcester College". Copiunque, quando arrivai a Oxford, mi portavo dietro anche un bel carico di questioni filosofiche irrisolte che speravo di poter risolvere proprio confrontandomi con i grandi nomi della filosofia. Durante il corso di epistemologia che avevo seguito ad Harvard, sotto la guida di Roderick Firth, avevo avuto una sorta di illuminazione, a dire il vero piuttosto ovvia per me, ma accolta con ostilità da tutti quelli a cui ne avevo parlato: che cos'è che ci induce a pensare una cosa rossa come rossa, ossia come un'essenza dotata di proprietà "intrinseche"? L'esperienza soggettiva del colore, per esempio, non possiede la chiave di queste proprietà intrinseche, giacché esse possono cambiare, in linea di principio, senza che vi sia alcun cambiamento soggettivo. Come la mettiamo con la soggettività, laddove le proprietà sono, per così dire, funzionali, relazionali?
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Lo stesso si può dire, suppongo, per ogni proprietà che abbia a che fare con un contenuto. Questo tipo di riflessione, peraltro, era in sintonia- anche se non lo implicava necessariamente - con quanto detto da Ryle. Eppure, quando arrivai a Oxford, scoprii che le mie idee erano tanto estranee ai nuovi colleghi quanto lo erano a quelli di Harvard. Ma con questo ero già andato oltre il culmine e il declino del linguaggio filosofico ordinario. Grazie a quel deplorevole fenomeno che è la isterési filosofica (gli studenti tendono a saltare sul carro delle mode, finché non vanno a sbattere contro qualcosa), Oxford rappresentava ancora la totale dominanza della filosofia anglofona: una sorta di Mecca brulicante di pellegrini-aspiranti studiosi, provenienti per lo più dalle colonie e decisi a vestire i panni di quella moda, e di associazioni per studenti laureati, come la Voltaire Society e la Ockham Society. Ricordo di aver preso parte a uno dei loro incontri e, nel bel mezzo di una discussione sul libro di G.E.M Anscombe, lntention, saltò fuori il problema di come definire il tentativo di una persona di sollevare un braccio, se addormentato. All'epoca non sapevo nulla del sistema nervoso, ma mi sembrava ovvio che dovesse accadere qualcosa, nel cervello, che in qualche modo equivalesse al tentativo di sollevare un braccio. Poteva pertanto essere illuminante il parere della scienza. Tuttavia, la mia proposta venne accolta da sguardi increduli: cosa mai poteva insegnare la scienza alla filosofia? Si trattava di una questione di definizione filosofica, non di un problema scientifico sui nervi o cose simili.
In tutti gli incontri che seguirono, non potei fare a meno di constatare come i miei colleghi filosofi fossero addirittura compiaciuti della loro ignoranza in merito al cervello e alla psicologia. Dal canto mio, invece, ero più interessato a capire, sempre in qualità di filosofo, come il cervello supportasse o
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connaturasse la mente. Chiesi pertanto a un amico, studente di medicina a Oxford, come fosse fatto il cervello e lui si mise a disegnare neuroni, dendriti e assoni; tutti termini a me sconosciuti. Eppure, mi fu immediatamente chiaro come il neurone, con i suoi molteplici input e il suo output ramificato e modificabile, fosse l'unità base di una rete, nata e accresciutasi tramite processo evolutivo. Certo non ero il primo e non sarei stato l'ultimo a maturare una simile idea, che andava configurandosi nella mia mente sempre più come il mezzo - se non l'unico mezzo - per disfarsi di qualsiasi altro intermediario, erudito, prete o homunculus che fosse, anticamente deputato a manipolare e classificare le idee o le rappresentazioni mentali. Guidato da questa intuizione, potevo ora esaminare la possibilità di una teoria "centralizzata" dell'intenzionalità (così com'era suggerita, sebbene ancora in fieri, nello scritto pionieristico di Charles Taylor The Explanation o/ Behaviour), pensandola come quella che sarebbe diventata la teoria funzionalista (e poi telefunzionalista) del contenuto, nella quale annoverare Brentano, Husserl e Quine a un livello subpersonale ~a distinzione personale/ subpersonale era una mia innovazione, sebbene mutuata da Ryle). Per dare sostanza a questa mia teoria, tuttavia, avevo bisogno di saperne di più sul cervello, così andai a studiare alla Radcliffe Science Library, dedicando ai libri di scienze molte più energie che non a leggere articoli o testi filosofici. Nel frattempo, cominciai anche a interessarmi di computer e intelligenza artificiale, dopo aver letto uno scritto di John Lucas che sosteneva, grazie al contributo del teorema di Godei, l'impossibilità di paragonare l'uomo alla macchina e di simulare al computer il pensiero umano. Non sapevo ancora nulla di computer, ma ero certo che Lucas aveva torto. Sono sempre stato un pensatore spietato: quando ero giovane ce l'avevo con Cartesio, poi con Quine e ora con Lucas. Ma questo
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è ciò che fanno i filosofi: trovano un bersaglio bene in vista e pensano: "vediamo se riesco a dimostrare che sbaglia!" Poi andai da Ryle, che era il mio supervisore, a dirgli che probabilmente non sarei riuscito a conseguire la specializzazione in filosofia, per la quale avrei dovuto fare una modesta tesi e sostenere tre esami molto duri, nello spazio di poche settimane. A dire il vero, scrivere la tesi - per un compilatore incallito come me - sarebbe stato un vero piacere, ma ero certo che non avrei potuto prepararmi adeguatamente per gli esami. Così, gli dissi che mi sarei presentato per il dottorato in letteratura- che prevedeva soltanto una tesina scritta-promettendo di recarmi in seguito a Berkeley per ultimare il dottorato in filosofia. Con mia somma gioia e sorpresa, Ryle disse che, sevolevo, potevo pure prendermi la specializzazione in letteratura come premio di consolazione, ma lui era comunque disposto a raccomandarmi per il dottorato in filosofia, anche qualora mi fossi presentato soltanto con la tesi scritta. Con questo incoraggiamento, mi gettai nuovamente nella filosofia, ma i giorni dell'ispirazione si accompagnavano a settimane e mesi di confusione, disperazione e incertezza. Molto del mio tormento aveva un nome: Hilary Putnam che, con il suoMinds andMachines (1960), mi aveva letteralmente sconvolto, al punto da indurmi a costruirci sopra la mia dissertazione di dottorato; salvo poi ricevere, dalla mia talpa ad Harvard, in anticipo sulla pubblicazione, una copia della seconda dissertazione di Putnam sull'argomento -Robots. Machines or Artifìcially Created Life? (rimasto inedito fino al 1967)-che mandava all'aria tutto il lavoro fin lì fatto. Avevo appena iniziato a ricostruire il mio personale edificio teorico sulla dissertazione di Putnam numero due, che mi fu inviata, come per incanto, una copia della dissertazione numero tre: 1be Menta! Life ofSome Machines. Ero di nuovo in balia delle onde. L'aver capito le tesi di Putnam quasi quanto
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lui non era sufficiente ad andare oltre la sua visione; io stavo tentando di dare un'inclinazione diversa all'argomento dell'intenzionalità, ma non mi era ancora del tutto chiaro come avrei potuto fare. Ogni volta che mi ritrovavo in un vicolo cieco, prendevo l'ombrello e me ne andavo, depresso, a fare una lunga passeggiata nel parco, lungo il fiume Cherwell. Dopo poche ore passate a vagabondare qua e là, borbottando e chiedendomi se dovessi tornare alla scultura, venivo colto da un'intuizione e, di corsa, tornavo alla mia fedele Olivetti per riprendere da dove avevo lasciato. Era diventata un'ottima soluzione, anche se rischiosa: uscire a passeggiare e sperare in un'illuminazione prima di cena. Ryle era l'altro pilastro teorico della mia tesi di dottorato.
In un certo senso, all'epoca, era lui che dettava le tendenze filosofiche a Oxford, sia come editore della rivista Mind, sia come procacciatore di impieghi all'interno del mondo anglofono. Ma, allo stesso tempo, era un tipo fuori dalle righe, poco incline alle mode ftlosofiche. Disapprovava la ben nota inclinazione di Oxford a surclassare qualsiasi sistema ftlosofico le fosse estraneo e, se del caso, vi si opponeva apertamente.Non si è mai tirato indietro: anche quando tentavo di provocarlo, opponendomi alle sue idee, invece di ribattere alle mie critiche, era incline ad accettare molti dei miei contributi, assumendo l'atteggiamento di colui che discute di argomenti che non lo riguardano personalmente e spingendomi addirittura a pensare quali miglioramenti avremmo potuto apportare a quanto restava. Era disorientante. Tuttavia, pur riconoscendogli il ruolo di incoraggiatore e sostenitore delle altrui idee, avevo l'impressione di non aver appreso da lui alcuna ftlosofia. Ma mi sbagliavo: poco prima della presentazione della mia tesi, confrontandola con una precedente bozza, mi accorsi, con grande stupore, che l'influenza di Ryle era ben visibile in ogni pagina. Come aveva fatto? Trattasi di osmosi o ipnosi? Comunque, da questa esperienza, ricavai una prova esplicita
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della forza dei metodi indiretti in filosofia: raramente, parlando con qualcuno, si riesce a fargli adottare all'istante le nostre premesse o il nostro modo di ragionare. Talvolta, conviene lavorarlo ai fianchi, attraverso immagini, esempi e incoraggiamenti che scardinano le sue abitudini mentali. Quando si trattò di discutere la tesi, ebbi come esaminatori A.J. Ayer e il cattedratico londinese di neuro-anatomia J.Z. Young (presenza alquanto insolita per una discussione filosofica, ma motivata dalla mia insistenza a farcire la tesi con inferenze sull'anatomia e il funzionamento del cervello). Anche Young era stato colpito dai meccanismi evolutivi della rete neuronale, tanto da scriverci un libro, e condivideva quindi i miei interessi, se non filosofici, scientifici, trovando la questione interessante sebbene ancora impenetrabile. Ayer rimase silenzioso. Temevo non avesse letto la tesi e invece, come scoprii più tardi, si sentiva soltanto a disagio dinanzi alle troppo entusiastiche incursioni nella filosofia del suo amico Young. Per più di una settimana aspettai sulle spine il responso, prima di ricevere un'affettuosa comunicazione di Ryle che mi annunciava la decisione degli esaminatori: promosso. Avendo ottenuto il dottorato in filosofia, in quello storico maggio '65, a poche settimane dal mio ventitreesimo compleanno, non avevo più bisogno di andare a Berkeley, così spedii due lettere: la prima alla University of California di lrvine, dove A.I. Melden stava predisponendo un dipartimento di filosofia in un campus nuovo di zecca, per comunicare che accettavo l'incarico di assistente; e la seconda alla University of California di Berkeley, per avvertire che avevo trovato un'altra collocazione. Non ebbi il coraggio di dichiarare che avevo accettato un posto in un altro campus della stessa famiglia, perché temevo che ci fosse un regolamento interno che proibisse questo genere di cose.
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Ecco dunque com'erano i gloriosi tempi delle università americane, quando ancora esisteva un mercato del lavoro e si poteva contare su due offerte, altrettanto solide, senza far nulla di più che un colloquio e una visitina al campus! A dire il vero, Melden mi aveva anche chiesto un curriculum vitae da allegare alla lettera di accettazione - giusto una formalità- e io avevo dovuto girare tutta Oxford per trovare qualcuno che sapesse dirmi come scriverlo. L'Università di lrvine si prospettava essere il luogo ideale per imparare un po' di filosofia: dopotutto, a parte la mia laurea, non avevo una vera formazione filosofica alle spalle. Credo di essere stato un po' come Quine, che prese il suo dottorato in filosofia ad Harvard, nominalmente con Whitehead ma, nei fatti- come mi raccontò un giorno - studiando quasi interamente da autodidatta. Iniziò la sua carriera, dopo aver fatto a stento dei corsi di filosofia. lo non ero mai stato un vero studente e ora mi ritrovavo addirittura a fare il professore, con tanto di studenti al seguito: una prospettiva da far tremare le vene ai polsi! Ero terrorizzato al pensiero che i miei corsisti potessero scoprire la verità e smascherarmi come un impostore. Ero l'unico assistente di Melden per le classi del primo anno e lui mi aveva affidato tutto il programma esclusa l'etica, che aveva tenuto per sé. Avrebbero dovuto affiancarmi il talentuoso EJ. Lemmon per la logica, ma morì di infarto prima ancora di prendere possesso del suo alloggio. lo insegnavo epistemologia antica, medioevale e moderna, insieme alla metafisica, e al mio secondo anno tenni un seminario sull'intenzionalità, rifacendomi ai testi di Anscombe e Taylor. Mi gettai nello studio di Aristotele, Agostino, Anselmo, Kant e qualche altro filosofo, anticipando di poco le conoscenze dei miei ardimentosi ma non troppo sofisticati allievi. Arrossisco al solo pensiero di cosa devo aver insegnato loro, anche se, probabilmente, la mia genuina eccitazione, davanti a questi testi per me nuovi di zecca, deve aver compensa-
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to il mio atteggiamento un po' ingenuo e la mia poca conoscenza dell'argomento. Poi arrivò il momento di pubblicare qualcosa. Provai con gli articoli e misi mano al mio primo libro. Il capitolo d'apertura lo mandai a una dozzina di giornali e ricevetti una dozzina di rifiuti. Tra l'una e l'altra risposta continuavo a revisionarlo. Alla fine, Wilfrid Sellars, editore della rivistaPhilosophical Topics, si disse disposto a pubblicarmelo, facendomi notare però un paio di punti non del tutto chiari. Ci lavorai una settimana e glielo rimandai, per sentirmi dire che adesso che era chiaro dove volessi andare a parare, l'articolo non era più pub blicabile! Dopo aver ricevuto qualche altro rifiuto, abbandonai il capitolo scritto e mi diedi a fare altri progetti, ma senza grande successo. Mi andavo convincendo che forse non ero portato per fare il filosofo. Poi, un giomo,Julian Feldman, ricercatore nell'ambito di un progetto sull'intelligenza artificiale dell'UCI (University of California di Irvine), irruppe nel mio ufficio con una copia della nota dissertazione di Hubert Dreyfus, "Alchemy and Artificial Intelligence". "Che devo farne? L'ho già letta e posso dirti di essermi trovato in disaccordo quasi su tutto". "Allora scrivi la tua versione e pubblicala!" mi disse Feldman. Perché no? Così stilai la mia confutazione, "Machine Traces and Protocol Statements", che fu prontamente pubblicata dal Behavioral Science nel 1968 (anno della mia prima pubblicazione). Fu in questo modo che ebbe inizio la mia carriera di fùosofo ed esperto di intelligenza artificiale (I.A.). L'argomento mi interessava già dai tempi della pionieristica antologia di Alan Ross Anderson, Minds andMachines, e a lrvine avevo trovato un piccolo team di ricercatori di I.A. che mi avevano invitato a unirmi a loro. Poi venne in città, per una serie di conferenze, Allen N ewell, esperto di psicologia cognitiva e di computer science, ed ebbi occasione di parlare con lui. Ne fui catturato.
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Ci furono anche altri colleghi di lrvine, in particolare lo psicobiologo James McGaugh, che - colpiti dalle mie conoscenze e dal mio interesse per le teorie dell'apprendimento e per i sistemi neurali- furono ben lieti di mettermi a parte delle loro ricerche e dei loro problemi. Ma anche alcuni miei colleghi filosofi mi furono d'aiuto nell'indirizzare i miei interessi. J oe (Karel) Lambert, ad esempio, un accanito difensore del comportamentismo di matrice skinneriana, che prima di dedicarsi alla logica era stato psicologo sperimentale, diede grande impulso alle mie conoscenze fino ad allora soltanto superficiali, costringendomi a ficcare il naso nella letteratura sperimentale, e non solo nel "manifesto" di Skinner e dei suoi proseliti.
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L'avventura dell'intelligenza artificiale e delle scienze cognitive
Nell'estate del 1967 inviai una versione riveduta e corretta della mia dissertazione alla famosa collana della Routledge & Kegan Paul, ovvero la Biblioteca internazionale della filosofia e del metodo scientifico. Tale collana, con le sue copertine rosse foderate di giallo, includeva molti dei miei testi "sacri" di filosofia: il Tractatus di Wittgenstein, Philosophy and Scientifìc Realism di J .J .C. Smart e Science, Perception and Reality di Wilfrid Sellars, tanto per citarne alcuni. Trascorse un anno senza che il nuovo editore- Ted Honderich, che aveva preso il posto di A.J. Ayer - mi avesse ancora dato alcuni risposta e io, per tutto quel tempo, non osai forzare la mano chiedendone una. Tuttavia, durante. una mia breve permanenza a Oxford, nell'autunno del '68, ne approfittai per spedire una timida richiesta a Honderich, il quale, accortosi che il mio manoscritto era stato completamente dimenticato, lo lesse di persona e a stretto giro di posta mi comunicò la sua decisione di pubblicarlo, salvo alcune modifiche alle quali avrei lavorato quell'autunno stesso da Oxford. Mi sembrava di aver raggiunto il paradiso, ma non potevo parlarne con i miei colleghi, perché mi rendevo conto che il mio modo di trattare i temi abituali della filosofia era troppo eccentrico, troppo inusuale per affrontarlo agevolmente in una conversazione. Di solito, quando qualcuno ti chiede a cosa stai lavorando, non puoi braccarlo in un angolo e parlar-
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gli per un paio d'ore dei tuoi progetti. E non sarei mai riuscito a spiegare gli intenti del mio libro in meno di un paio d'ore. Dopo tutto, i miei precedenti tentativi per pubblicare il primo capitolo di quello stesso libro si erano dimostrati inefficaci, proprio perché l'argomento si prestava a fraintendimenti. Persino alcuni tra i migliori filosofi non avevano capito dove volessi andare a parare. Così mi ritrovavo a fare la parte del filosofo solitario e un po' strano, mentre le mie ore più felici trascorrevano parlando con gli esperti di intelligenza artificiale o di psicobiologia, piuttosto che con i colleghi di filosofia. A dispetto della mia indubbia discendenza filosofica, in quanto studente di Quine e di Ryle, mi sentivo un outsider, un cavallo sul quale, probabilmente, nessuno avrebbe mai scomc messo. L'accettazione del manoscritto da parte di Honderich e il suo successivo invito a scrivere un altro saggio, dedicato al libero arbitrio ("Mechanism and Responsibility", nel quale introducevo i concetti di "atteggiamento intenzionale" e di "sistema intenzionale"), mi diedero nuova fiducia, motivandomi a diventare più assertivo con i miei colleghi - già vigorosi e a volte persino combattivi - del dipartimento di filosofia. Per atteggiamento intenzionale intendo una strategia interpretativa, che ci permette di analizzare il flusso degli eventi scomponendolo in agenti e nelle loro azioni e reazioni (razionali). Tali persone-agenti in genere fanno qualcosa perché spinti da uno o più motivi, pertanto le loro azioni possono essere previste - ovviamente fino a un certo punto - se cataloghiamo i loro motivi, le loro credenze e i loro desideri. Dato un certo numero e tipo di motivi, credenze e desideri, è possibile calcolare quale sarà il corso dell'azione più razionale per ogni singolo agente. La maggior parte del comportamento umano razionale abituale è noioso, proprio perché prevedibile, ma è questo prototipo di fondo che ci consente poi di dare un sen-
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so, retrospettivamente, a qualche stravaganza o di anticipare le conseguenze di un gesto imprevisto. Nell'esaminare il comportamento di un oggetto o di una persona possiamo tenere conto di tre tipi di atteggiamento. Innanzitutto l'atteggiamento progettuale, che si fonda appunto sul progetto secondo cui agisce quel determinato oggetto. Facciamo un esempio: se sfidiamo a scacchi un computer, conoscerne il programma (ovvero il progetto) può aiutarci nell'anticiparne le mosse. Ci si affida pertanto, nel fare una previsione, solo ed esclusivamente al progetto funzionale del sistema, senza che la struttura fisica o la condizione interna del sistema stesso abbiano una qualche rilevanza ai fini della nostra indagine.
C'è poi l'atteggiamento fisico, la previsione del quale si basa sullo stato fisico dell'oggetto, compatibilmente con le leggi dinatura: un ramo carico di neve è prevedibile che si spezzi. Se poi invece, nella nostra previsione, vogliamo tenere conto della disposizione razionale del sistema, ne valuteremo allora l'atteggiamento intenzionale, ovvero stabiliamo che quel dato sistema detiene talune informazioni e agisce secondo determinati scopi, che lo inducono a optare per l'azione più ragionevole stando agli antefatti.
Le recenti conferme della scienza e il rapido potere acquisito nella determinazione delle cause ed effetti di molti fenomeni a noi circostanti hanno indotto talune persone a temere un predominio del meccanicismo, ovvero della spiegazione meccanico-causale sempre e a qualunque costo. Ad alcuni filosofi sembra più che reale il rischio che il meccanicismo sostituisca e scalzi le spiegazioni di tipo finalistico. Soprattutto nell'ambito dell'umano ci si chiede quale e quanto spazio resterà per i desideri, le intenzioni o le credenze. Hospers, ad esempio, è del parere che i fattori causali di un comportamento esentano la persona dalla responsabilità insita in quel dato comportamento.
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È mia opinione che si tratti di un'estremizzazione del pericolo. Lungi da me il negare l'egemonia del meccanicismo, ma non credo che una spiegazione meccanicistica possa prendere il posto di una intenzionale: siamo infatti dinnanzi a due differenti prospettive interpretative. E se è possibile che gli errori di una determinata spiegazione intenzionale siano resi palesi da una lettura meccanicistica, non è tuttavia possibile che questa soppianti la natura della spiegazione intenzionale. L'atteggiamento intenzionale non è una strategia unicamente cognitiva, anche gli storici e gli antropologi se ne avvalgono, nel tentativo di spiegare l'evoluzione culturale. Tali teorici considerano la cultura una sorta di mercato formato da beni (culturali), di proprietà delle singole persone, che ne dispongono saggiamente o stupidamente. Le persone custodiscono gelosamente le loro tradizioni perché sono la loro moneta di scambio culturale con i propri simili. Ora, alcuni articoli culturali hanno maggior mercato, perché di utilità diffusa e condivisa, altri ne hanno meno. Ci sarà dunque un mercato competitivo dove gli agenti "comprano" e contemporaneamente "vendono" merci culturali. Se si fa aventi, all'interno di una cultura, un nuovo modo di costruire case o di coltivare i campi, ciò accade perché le persone percepiscono e si trovano concordi sui vantaggi della novità. Sulla base di questo modello, le persone sono descritte come se avessero una razionalità autonoma: se priviamo un uomo dei suoi beni, avrà comunque la sua razionalità e i suoi desideri ancora informi. Se lo equipaggiamo di beni, aumenterà il suo potere e complicherà i suoi desideri. È così che funziona la pubblicità: se la Coca Cola prolifera nel mondo è perché qualcuno ha fatto un accurato calcolo costi-benefici. Una simile prospettiva può naturalmente spiegare molti aspetti dell'evoluzione culturale e biologica, ma non è obbligatoria e nemmeno esaustiva.
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Quella che vorrei invece proporre è una diversa applicazione dell'atteggiamento intenzionale, ovvero l'opinione sul meme di Richard Dawkins che riconosce, alle entità culturali, la possibilità di evolvere secondo regimi selettivi, giacché gli stessi oggetti culturali beneficiano del loro adattamento. Quando l'argomento sono i costi e i benefici, abbiamo bisogno di chiederci: "Cui bono?" Un beneficio di per sé non è esplicativo, anzi: preso da solo è una sorta di mistero. Se osserviamo una formica che si arrampica su un filo d'erba e ci chiediamo "perché lo fa?", "qual è la sua funzione adattativa?", ci stiamo facendo la domanda sbagliata. Facendo ciò la formica non accumula alcun bene. Ma allora è solo una coincidenza? Esattamente. Una coincidenza! Il suo cervello è stato invaso da una coincidenza, quella di un gruppo di parassiti che hanno bisogno di entrare nell'intestino delle pecore per riprodursi e che quindi portano le formiche sui fili d'erba per aumentare le possibilità di essere ingeriti da una pecora. Il beneficio, pertanto, non è calcolabile in virtù dei progetti riproduttivi della formica, del parassita o della pecora, ma in base ai progetti riproduttivi della coincidenza. Allorché esposi per la prima volta il concetto di "atteggiamento intenzionale", nel corso di un seminario su Knowledge and Beliefdi Hintikka, ero con Joe Lambert, Gordon Brittan, Stan Munsat e Jack Vickers. Ricordo che tutti mi aggredirono, eccetto Vickers, che aveva capito che ero sulla strada giusta e mi incoraggiò ad andare avanti. Ma ci fu un altro episodio di scontro diretto, durante una lettura di Psychological Explanation diJerry Fodor: terrorizzammo gli studenti attaccandoci l'un l'altro, lanciandoci accuse di inconsistenza e stupidità, scadendo persino nell'insulto vero e proprio. Sebbene non avessimo dato un buon esempio, nei fatti eravamo legati da un grande rispetto reciproco e da amicizia, non c'era vero rancore tra di noi, piuttosto ci piaceva surriscaldare l'atmosfera facendo un po' di buona filosofia.
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Con la pubblicazione di Contenuto e coscienza, nel 1969, la University of California di Irvine (UCI) mi propose un avanzamento di ruolo e mi chiese se avevo delle preferenze circa la persona che avrebbe dovuto valutare il mio nuovo scritto. Risposi subito "Quine", perché dovevo sapere se gli piaceva o meno e perché era la mia unica opportunità per obbligarlo a leggere il mio libro. Fu dunque lui il primo lettore di Contenuto e coscienza - a parte il sottoscritto e l'editore - e gli piacque, nonostante vi fossero alcune imbarazzanti sviste (qualche nome scritto male o travisato). Riguardandolo ora, a distanza di un terzo di secolo, sono dell'idea che i miei curiosi metodi pagarono bene, perché il libro ebbe fortuna. Mi aiutò a farmi una posizione, che è rimasta stabile e feconda negli anni. Da allora, ho felicemente continuato a produrre strane idee, via via aggiustando il tiro, ma rimanendo fedele alle origini: io sono il risultato di un incrocio tra Quine e Ryle, con l'aggiunta di un po' di scienze cognitive. Dopo Contenuto e coscienza cominciai ad essere piuttosto richiesto come relatore, ma in sei anni all'UCI non ho mai tenuto una conferenza in California. Il primo invito mi giunse da Princeton, nel dicembre del 1970, dove presentai i "sistemi intenzionali" a una temibile platea, che annoverava nomi del calibro di Alonzo Church, Donald Davidson, Dick Rorty, David Lewis, Tom N agel e altri.L'argomento piacque e la discussione fu buona. Fu allora che decisi che dovevo spostamù verso est, per entrare nel vivo dell'azione. Susan e io passammo l'estate nel Maine e a Natale, durante una visita ai parenti che vivevano nei pressi di Boston, ne approfittammo per comprare una fattoria a Blue Hill. La Tufts University di Medford mi aveva fatto un'offerta mesi addietro, nel 1971, eio decisi di accettare. Non mene sono mai pentito: per oltre trent'anni Hugo Bedau ha fatto della Tufts un'istituzione di grande qualità, leale, incoraggiante, priva di partiti e fazioni. A giudicare inoltre dalle perenni lamentele dei col-
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leghi, in carica presso altri dipartimenti di filosofia, riconosco che mi sono state risparmiate migliaia di ore dedicate a inutili discussioni interne, che ho potuto invece impiegare per scrivere un bel po' di libri. Peraltro, insegnando in un dipartimento che non prevedeva un programma di laurea, potevo anche esentarmi dal duro lavoro necessario per portare avanti studenti a volte mediocri, perché persino nei migliori corsi di laurea ci sono tesisti inesperti o problematici. Dal 1986 mi ero venuto a trovare nell'invidiabile posizione di dover discutere di filosofia (ma solo quando ne avevo voglia) con i colleghi o i ricercatori del Center for Cognitive Studies; tutta gente che non necessitava certo del mio sostegno, come Kathleen Akins, Nick Humphrey, Evan Thompson, Alva Noe, Chris Westbury e Chris Viger. Il Center for Cognitive Studies è la controproposta che la Tufts mi fece, quando l'Università di Pittsburgh mi offrì la direzione del dipartimento che era di Wilfrid Sellars, prossimo al pensionamento. In aggiunta alla possibilità di nominare annualmente un collaboratore/ studente di mia scelta, la Tufts mi diede anche un insegnamento, un assistente e un budget amministrativo che sostituiva il mio personale indotto al budget di dipartimento. Tutto questo mi risarciva di quell'unica cosa alla quale il denaro non può supplire, non importa quanto tu sia ricco: il tempo. Durante gli anni Settanta, rafforzai le mie conoscenze in materia di intelligenza artificiale e psicologia e scrissi un gran numero di saggi che ritenevo di sicuro interesse, se riuniti in un libro. Dovevo solo trovarmi un editore e con tale proposito feci visita a Harry e Betty Stanton: una coppia davvero incantevole che aveva fondato una nuova casa editrice, la Bradford Books. Harry era un veterano dell'editoria, aveva lavorato per etichette di grosso calibro e ora aveva deciso di pubblicare per proprio conto libri di alta qualità, che uscivano belli e
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fatti direttamente dalla sua casa nel Vermont. Lui e sua moglie si erano specializzati in quel settore che sarebbe poi diventato noto come "scienza cognitiva" e durante una visita al MIT, parlando con Noam Chomsky e Ned Block, Harry aveva fatto il mio nome come quello di persona da tenere d'occhio. Mi piaceva il piglio degli Stanton e pertanto gli spedii la raccolta di saggi che mi ero proposto di riunire in un unico libro, chiedendogli tuttavia la pubblicazione simultanea sia della versione economica che di quella rilegata e la possibilità di decidere io il prezzo dell'edizione economica. Sono stato sempre contrario ai prezzi oltraggiosi delle pubblicazioni universitarie e volevo pertanto che gli studenti potessero avere i miei libri pagando una cifra ragionevole. Ero così determinato nella mia idea che mi dissi disposto a pagare di tasca mia, con i diritti sul venduto, le prime tremila copie (più di quanto un libro di filosofia abbia mai venduto). Gli Stanton presero tempo, si consultarono e alla fine accettarono. Poiché Harry non voleva turbare la sua avventura editoriale con un clamoroso buco nell'acqua, decise di mettere in piedi- con l'aiuto di Edward Gorey- una campagna pubblicitaria e, quando Brainstorms uscì, nel 1978, riscosse subito l'attenzione di tutti i cultori di scienze cognitive. Ben presto gli Stanton si trovarono a dover fronteggiare il numero di coloro che volevano diventare autori della Bradford Books, ma sopraggiunse la malattia di Harry. Anche se tenuto sotto controllo, il cancro lo costrinse ad abbandonare il suo sogno di fare della Bradford un'etichetta forte. Il MIT ne acquistò il marchio lasciando però a Harry e Betty la direzione. Per decenni i due coniugi hanno continuato a dettare le tendenze editoriali delle scienze cognitive, soprattutto in ambito fùosofico. Il lato fortunato della vicenda fu che, ben presto, il mio nome cominciò a circolare tra i ricercatori del settore; li sco-
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prii volenterosi, e addirittura entusiasti, di scambiare informazioni con me e, nel corso degli anni, ho potuto accumulare, direttamente dalla voce dei più preparati, nozioni di lin.guistica, intelligenza artificiale, psicologia, neuroscienze e biologia dell'evoluzione. Si aspettavano che, in quanto filosofo, fossi carente di informazioni riguardanti i loro settori specifici, così, quel poco che sapevo generalmente bastava a sorprenderli e a incoraggiarli nel considerarmi un interlocutore. Ciò di cui mi avvidi subito era che gli scienziati, sebbene inizialmente restii o indifferenti alla filosofia, si lasciavano poi trasportare volentieri nell'ambito delle "grandi questioni della vita'', cercando a volte di contribuirvi con qualche loro opinione personale. Se solo un filosofo, dalla mentalità aperta, si fosse dedicato ad approfondire le loro visioni - prendendole sul serio e trascurandone gli aspetti inessenziali (come le incomprensioni terminologiche e qualche infelice trasposizione) - queste avrebbero ampliato l'orizzonte delle loro cognizioni filosofiche. Inoltre - e ritengo necessario sottolineare questo aspetto - è mia opinione che le idee partorite dalla scienza siano per loro stessa natura più belle, maggiormente piacevoli da contemplare, rispetto alle tante idee che s'incontrano nei periodici di filosofia. Noi filosofi vaghiamo, da un lato, tra la ristrettezza e l'ottusità di taluni pensieri rosicchiati e, dall'altro, tra visioni grandiose, ma imperfette. D'altronde, il fatto che gli scienziati possano dimostrare piuttosto velocemente la correttezza o meno delle loro ipotesi rende queste ultime più solide e penetranti di quelle filosofiche. Così la mia visione circa il ruolo del filosofo si è andata gradualmente ridisegnando, con l'intento di fornire basi teoriche e chiarimenti concettuali che siano valutabili, empirici e scientifici. Questo era anche l'obiettivo di Quine, ovviamente, anche se lui non ha avuto molte possibilità di raggiungerlo.
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Nel biennio 1979-80, mi recai al Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences di Palo Alto, per unirmi a un gruppo di altre cinque persone, che lavorava con J ohn McCarthy sull'intelligenza artificiale e la filosofia. Difficilmente si sarebbero potuti scegliere quattro ricercatori di I.A. più abituati alla filosofia di quelli presenti (McCarthy, Patrick Hayes, Zenon Pylyshyn e Robert Moore), o due filosofi più abituati all'l.A. di quanto lo fossero John Haugeland e il sottoscritto e, proprio per questo, spesso, quando parlavamo, finivamo per capirci soltanto tra noi. Fu solo sul finire di questa esperienza che compresi veramente i limiti e i pericoli della comunicazione interdisciplinare. Ancora oggi mi sento torcere le budella quando qualche filosofo si getta a capofitto in una disputa interdisciplinare adottando termini che vanno benissimo tra filosofi, ma che suonano senza dubbio confusi e irritanti alle orecchie dei non addetti ai lavori. Quell'anno lavorai molto anche a una dissertazione fùosofica che avevo iniziato l'anno precedente a Bristol, dove mi ero recato con Steve Stich - in qualità di borsista Fulbright per partecipare a un gruppo di filosofia e psicologia guidato da Andrew Woodfield. Stich e io avevamo deciso di dedicarci alla stesura di uno scritto comune, riguardante le questioni de re e de dieta e il problema delle attitudini proposizionali. Poiché strada facendo non ci trovammo concordi su come sviluppare l'argomentazione - c'erano troppe conclusioni scollegate e supposizioni dubbie per mantenere a galla l'impresa - finimmo per scegliere vie separate, anche se parallele. Così, mi ritrovai a fare e disfare, costruire e ricostruire, spostandomi sempre più lontano nel tentativo di trovare un terreno che non fosse troppo scivoloso per starci in piedi. Fu un lavoro durissimo: credo il lavoro più duro che abbia mai fatto. Alla fine optai per la versione che
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venne pubblicata col titolo di Beyond Belief, che sollevava talune questioni inerenti le attitudini proposizionali collettive alle quali non era mai stata data una risposta adeguata. Oggi saprei scegliere una strada migliore per affrontare l'argomento, ispirandomi in parte al lavoro di Ruth Millikan, ma dedicarmi alla comunità filosofica non è più una delle mie priorità assolute. Chiarire la confusione dei filosofi (e dei filosofi soltanto) mi sembra meno importante che chiarire la confusione filosofica di coloro che lavorano nelle scienze cognitive. Al momento sto lavorando con alcuni esperti di robotica, intenti a fornire i robot di quei concetti che gli assicurino la capacità di riconoscere le cose e di interagirvi in modo intelligente, ovvero la versione reale di quello che i filosofi hanno erroneamente denominato "modalità de re", confondendola con fantasie di vario genere. Sarà interessante vedere se per questa strada potremo aggirare le paludi filosofiche. Non ho paura di dichiararmi quale estremo difensore della coscienza robotica. Una volta, provocatoriamente, ma senza allontanarmi poi tanto dal vero, ho persino sostenuto che anche i termostati hanno delle credenze sul mondo. E nel dirlo, mi riferivo ovviamente più a cosa costituisce una "credenza", che non a uno stato interiore del termostato. Capisco che lo iato esistente tra termostato e filosofo vi sembra insormontabile, ma se facciamo riferimento all'idea evolutiva di Darwin possiamo arrivare dall'organismo più semplice a quello più evoluto. Il Darwinismo ci fornisce una prospettiva per vedere come il pensiero, lo scopo e l'intenzione possano sopravvivere anche in un mondo intrinsecamente insignificante e privo d'intenzione. All'inizio, non c'era alcun progetto. Nulla era stato progettato. Nulla aveva uno scopo. È la vita che dà vita a cause e scopi. Per spiegarmi meglio prendiamo l'esempio di] ohnny, che ha cinque anni e dice: "Papà è medico". Ciò significa che egli crede che suo padre è un medico? Ma lui non possiede il con-
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cetto di cosa sia un medico. Non conosce la differenza tra un ciarlatano e un medico laureato. È solo una frase che sa di pronunciare e che sa essere vera, ma non sa veramente cosa sia. Ebbene questa è una credenza, ma non ha alcuna attitudine particolarmente propositiva. Su una scala evolutiva è al di sopra del termostato e al di sotto del filosofo. Durante l'anno trascorso a Palo Alto venne a farmi visita Douglas Hofstadter, che aveva appena pubblicato il suo Godei Escher e Bach e aveva recensito - con grandi elogi - il mio Brainstorms sulla New York Review ofBooks. Era venuto fin lì per propormi di collaborare a un'antologia di scritti riguardanti l'intelligenza, ma di varia provenienza: fantascienza, filosofia, scienza e così via. Inizialmente ero riluttante, ma lui insistette e debbo essergliene grato perché il volume che ne risultò, L'Io della mente, fu un grande successo e cambiò la mia vita. Hofstadter è tra i pensatori più profondi e creativi che abbia mai incontrato: ama le grandi domande filosofiche, ma è generalmente infastidito dal modo in cui i filosofi le affrontano. Talune sue osservazioni critiche sul lavoro filosofico sono infondate, ma non tutte, e persino io ho scoperto che non sempre credevo veramente alle desolanti obiezioni che gli opponevo in difesa di alcune delle nostre tradizioni. Mi accorsi che le dispute filosofiche mi interessavano sempre di meno, mentre tutto ciò che sembrava destinato ad aggirare i vicoli ciechi della filosofia mi attraeva sempre di più. Ero consapevole che se avessi voltato le spalle ai nodi cruciali della filosofia, le persone che ancora vi si dedicavano avrebbero fatto altrettanto con me, ma era un destino che mi sentivo preparato ad accettare. Con un po' di fortuna, sarei stato in grado di obbligarli a fare il mio gioco. Fu Hofstadter a farmi conoscere Richard Dawkins, alimentando la mia curiosità per la teoria dell'evoluzione. Quali seducenti modelli! Quali prospettive! Capaci di portarti, con
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passo sicuro, direttamente dalle molecole al significato! Da lungo tempo mi ero appassionato alla teoria darwiniana, ma adesso iniziavo ad approfondire l'argomento, consumando avidamente gli scritti di George Williams, John Maynard Smith, William Hamilton, Robert Trivers e altri. Fu così che mi accorsi che Stephen Jay Gould, un lontano cugino di Doug Hofstadter, che mi aveva iniziato alla teoria dell'evoluzione di Darwin, ne era in realtà un accanito avversatore. Durante un suo seminario su evoluzione e cognizione, tenutosi ad Harvard, trovai i motivi del suo dissenso da Darwin così contorti da dovergli chiedere, in diverse occasioni private, di farne un'esposizione più imparziale. Ma fu del tutto inutile. Mi vidi costretto ad abbandonare il suo seminario, pur conservando con lui rapporti amichevoli. Più tardi lo invitai, insieme a Dawkins, a intervenire ai seminari sulla filosofia e l'evoluzione che avevo organizzato alla Tufts. Tuttavia i miei studenti, essendosi preparati a fondo, furono meno accomodanti di quelli di Harvard e subissarono Gould di domande. Lui si offese e interruppe bruscamente la lezione, lasciandoli attoniti e con la preoccupazione di aver fatto qualcosa di male, ma li rincuorai: non ero mai stato tanto orgoglioso dei miei studenti. In seguito, sebbene Gould e io intrattenessimo ancora rapporti cordiali, un muro di silenzio s'interpose fra noi. A partire dalla metà degli anni Ottanta, la mia attenzione si divise tra biologia evolutiva e scienze cognitive e, poiché trovavo ambedue le discipline più affascinanti e produttive nonché filosoficamente più illuminanti - rispetto alla gran parte degli studi filosofici, mi ritrovai a collaborare con persone dedite ad altri campi del sapere. Avevo già iniziato a lavorare con il neuropsicologo Marcel Kinsbourne, unendomi a lui durante le visite ai malati ospedalizzati, nell'intento di osservare dal vivo quelle patologie che ritenevo illuminanti per aggiornare la mia teoria della coscienza. Di lì a poco, insieme allo psicologo Nick Humphrey e al linguista Ray Jackendoff, for-
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mammo un gruppo che s'incontrava regolarmente per discutere di coscienza. Pur provenendo da quattro campi differenti, dotati di diversi metodi, stili e aspirazioni, creammo comunque un buon gruppo. Non avrei mai potuto scrivere Consciousness Explained senza il loro aiuto e tantomeno L'idea pericolosa di Darwin, senza l'aiuto di evoluzionisti come Richard Dawkins, David Haig, Emst Mayr, E.O. Wilson e Steve Pinker. Entrambi sono, per certi versi, libri di filosofia, che però aspirano a dare un contributo alla scienza, difendendo specifiche teorie empiriche sulla coscienza e l'evoluzione. La maggior parte delle mie energie, nell'arco dell'ultima decade, è stata dedicata al raggiungimento di questi sviluppi teorici, al fianco di persone provenienti dalle più diverse discipline, piuttosto che al fianco di filosofi. In entrambi i libri adottavo una strategia comunicativa che avevo discusso per anni con amici come Stevan Harnad, fondatore ed editore di Behavioral and Brain Sciences, ovvero esporre gli argomenti nel modo più esaustivo e interdisciplinare possibile. , Quando gli specialisti parlano tra loro, a qualunque disciplina essi appartengano, il peggior passo falso che possano commettere è spiegarsi minuziosamente: sarebbe offensivo. Allora finiscono per comportarsi nel modo diametralmente opposto, ovvero danno poche spiegazioni, col risultato che, mentre si stupiscono l'un l'altro, tendono a parlarsi addosso, specialmente nei contesti interdisciplinari. Il rimedio, secondo me, stava nel rivolgersi ai novizi, piuttosto che "far finta di ascoltarsi" tra colleghi. In questo modo, il livello elementare della spiegazione è giustificato senza essere offensivo, mentre gli specialisti possono, senza alcun imbarazzo, beneficiare comunque di una discussione teorica. I miei libri sono scritti per il proverbiale "pubblico istruito non specializzato" e molti lettori, in effetti, riescono a seguire,
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sia pure con un ragionevole sforzo, le mie argomentazioni; ma loro non rappresentano il mio vero obiettivo. In verità io scrivo per i miei colleghi, specialisti in filosofia, scienze cognitive, biologia evolutiva e altri campi. Uso termini che essi possono facilmente comprendere e credo che solo pochi filosofi, tra loro, non condividano questa strategia. Alcuni hanno ancora l'impressione che se non devono faticare per leggere un libro, non vale la pena leggerlo. Sospetto che questo sia il loro modo di dichiararsi professionisti: c'è qualcosa che loro possono fare, ma che gli inesperti non possono fare. Ricordo che quando usò Consdousness Explained, qualcuno disse, riferendosi al titolo, che avrei dovuto piuttosto intitolarlo Explained Away. In effetti, lo scopo primario del mio scritto era far piazza pulita di taluni presupposti, a mio dire errati, della coscienza. Gran parte del libro era dedicata ali'esposizione dell'idea di "Teatro Cartesiano" e alla sua confutazione. Per Teatro Cartesiano intendo un posto nel cervello dove siamo coscienti di qualsiasi cosa della quale siamo coscienti. Ma se c'è un teatro nel pensiero, deve esserci qualcuno nel teatro che lo osserva, ovvero uno spettatore disincarnato. E se c'è qualcuno che lo osserva, questi deve avere un po' di teatro dentro di sé, mentre osserva, e questo suo teatro nel teatro deve avere un altro osservatore, e così via in un infinito regresso verso l'assurdità. La nostra eredità culturale e filosofica ci ha convito che siamo spettatori di noi stessi, come se potessimo starcene seduti nell'oscurità a guardare, non visti, ciò che il nostro corpo (al pari di un estraneo) fa. Anche se, come credo, non c'è nulla che assomigli a un intelletto o una personalità nel cervello di un filosofo o di un lettore del Guardian, il fantasma nella macchina rimane seccante da esorcizzare. Come possiamo dirci intelligenti, se non abbiamo un essere intelligente dentro di noi? Ma il pensiero non è una proprietà intrinseca come la temperatura o il colore ros-
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so. Bene, allora come può il cervello estrarre determinati significati dalle cose? In quale momento possiamo parlare di coscienza? Queste sono le domande alle quali le scienze cognitive stanno cercando di dare una risposta, cercando di ridurre la rappresentazione interna e coloro che sperimentano la suddetta rappresentazione a delle macchine. Un computer può farlo. La grande intuizione di Turing fu proprio questa: ridurre la macchina semantica a macchina sintattica. I nostri cervelli non sono nulla di più che macchine sintattiche, che tuttavia estraggono significati dal mondo circostante, ovvero lavorano come macchine semantiche. Siamo in presenza di un paradosso, ma non di un mistero, come molti vorrebbero farci credere. Non credo nei mister~ sono soltanto problemi che non sappiamo ancora come avvicinare. Se pensiamo di aver trovato un mistero, probabilmente abbiamo soltanto frainteso il problema. Quel che è certo è che la coscienza è meno misteriosa di quanto si pensi: essa si sviluppa da ciò che fa il cervello - ovvero come macchina sintattica - e non da ciò di cui è fatta. Da questo punto di vista, sono convinto che il robot cosciente non sia un ossimoro: forse lo era, ma non lo sarà ancora per molto. Turing, 50 anni fa, diceva che ci sarebbero voluti 50 anni per avere un robot cosciente. Sbagliava, ma forse non di molto.
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La coscienza, il linguaggio e le pompe d'intuizione
Le pompe d'intuizione sono degli esperimenti di pensiero, come la caverna di Platone, il diavoletto di Cartesio, il contratto sociale di Hobbes o gli imperativi categorici di Kant. Esercizi d'immaginazione, che indirizzano il modo di affrontare un problema. È questa la vera storia della filosofia: molti colleghi lo hanno dimenticato, ma gran parte delle idee filosofiche sono pompe d'intuizione. Ho coniato questo termine in occasione della "Chinese room" di John Searle: dissi che non era un argomento vero e proprio, ma una pompa d'intuizione, un racconto che invece di arrivare a una conclusione "pompava" un'intuizione. L'idea di considerare la coscienza come una macchina virtuale, ad esempio, è una pompa d'intuizione e ci stanno lavorando gli studiosi di intelligenza artificiale. Credo che tra le idee più suggestive, nate dall'intelligenza artificiale, ci sia il "Pandemonio" di Oliver Selfridge. Si trattava di un programma costituito da un gruppo di demoni semi-indipendenti (pan-demonium) che, quando nasceva un problema, saltellavano di qua e di là dicendo: "Io! Io! Io lo so fare!" Ne nasceva una breve schermaglia e quello che fra loro avrebbe vinto avrebbe anche affrontato il problema. Se non ci riusciva, gli altri potevano catturarlo. In un certo senso, è stato il primo programma connessionista, nonché il primo modello evolutivo, perché i modelli con-
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nessionisti sono fondamentalmente evolutivi, giacché seguono nel tempo le evoluzioni delle forze di connessione. Accadono molte cose in parallelo e, da un punto di vista calvinista, si potrebbe pensare a una perdita di tempo, perché i vari demoni lavorano separatamente sui loro piccoli progetti, costruiscono e disfano tutti la stessa cosa con grande dispendio di energia, ma è un buon modo per aumentare la competizione. Sul modello di Oliver Selfridge si sono avuti anche altri programmi, come il Jumbo di Douglas Hofstadter o i modelli del fisico Stephen Wolfram, ma rispondono tutti alla logica del lavoro in parallelo. In questo campo non esistono modelli piramidali o burocratici, perché la Natura non opera delegando a un direttore e da lui a un vice-direttore e così via. Quando la Natura progetta un sistema, lo fa sul modello del "più siamo, meglio è'~. Se immaginiamo il cervello come una pletora di agenti semi-indipendenti che agiscono in modo solo parzialmente organizzato, attraverso numerosi "spreca-azioni", allora anche la coscienza comincia ad avere un senso differente. Sono fiducioso che così come evolve la tecnologia evolveremo anche noi. Se i computer cambiano, cambierà anche il nostro approccio filosofico nello studiare il cervello. Tornando indietro nel tempo, credo che la miglior metafora usata per descrivere l'attività del cervello sia stata quella della scrittura: le cose che accadono nel cervello sono come dei segnali, dei messaggi approvati. Ne consegue che la memoria è un deposito di cose scritte. Tuttavia, si tratta di una metafora ormai sorpassata, perché quello che a me oggi interessa sapere è come si sviluppa la possibilità di parlare prima che io sappia che sto parlando. È quello che fanno abitualmente i bambini, e anche molti adulti, visto che c'è una grande differenza tra il parlare e il parlare autocosciente. Credo che il salto qualitativo, nel modo di intendere il cervello, sia stato compiuto con l'idea della computazione di
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base, così come venne formulata dai matematici John von Neumann e Alan Turing. Fu allora che, per la prima volta, venne presa in considerazione l'ipotesi di eliminare l'intermediario, l'homunculo, ossia quella sorta di pannello di controllo interno che processa le informazioni (la coscienza come centralino telefonico). Per essere sinceri, ci aveva già provato David Hume, con una teoria sulle impressioni e sulle idee attraverso la quale come disse un mio studente - si potevano portare le idee a pensare in maniera autonoma. Hume aveva inteso che il pensatore costituiva un vicolo cieco, per questo aveva pensato di inserire piccoli legami di valenza tra le idee, in modo che ognuna di esse potesse richiamare le altre autonomamente. Pessimo espediente, ma ottimo proposito. Oggi sappiamo che l'unico mezzo per liberarsi dell'intermediario è il computer. Proprio in questo periodo sto lavorando a un progetto per sbarazzarmi del "Central Meaner", il peggiore fra gli homunculi, perché è quello che genera il significato. Dando uno sguardo alle attuali teorie psicolinguistiche, mi sono reso conto che ci sono teorie su come le persone capiscono il linguaggio, su come lo decifrano, su come lo accettano ... ma non c'è molta letteratura su come le persone generano il linguaggio. Le teorie esistenti sono ancora tutte legate all'idea di un Central Meaner (o di un Concettualizzatore, come lo chiama Levelt), mentre secondo me bisognerebbe adottare, anche in questo caso, un modello Pandemonio, in cui ci sono tanti pezzettini di linguaggio, molti dei quali inappropriati, e, attraverso una battaglia per processi paralleli, uno di essi vince sugli altri. Proprio in questo momento, mentre parliamo di queste cose, tutti i miei demonietti si stanno sfidando per avere l'ultima parola!
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Il mio modo di dire "mente"
Da quando mi sono "laureato" filosofo, ho sempre cercato un possibile punto di contatto tra prospettiva scientifica (quella delle neuroscienze, delle scienze cognitive, dell'intelligenza artificiale, ecc.) e prospettiva filosofica. Da un decennio circa, infatti, nel mondo anglosassone, sono questi i due orientamenti disciplinari prevalenti nell'affrontare il problema mente-corpo. Si è creata una sorta di spaccatura tra coloro che si dedicano allo studio della "macchina" e coloro che discettano di entità metafisiche. Apparentemente, non sembra esserci possibilità di contatto alcuno, ma forse è solo una mancanza di volontà a venirsi incontro e ad ascoltarsi vicendevolmente. Ora, a parer mio, un possibile punto di contatto, nonché la via regia per capire la mente altrui, è rappresentato dal linguaggio, più semplicemente dal parlare. Invece di gettarci a capofitto in quella terra incognita che circonda il "cosa è la mente", potremmo concentrarci su un elemento più pratico e materiale: le parole usate per parlare di "mente", come "desiderio", "credenza", "volontà", "coscienza", etc. Per la precisione, non mi interessa sapere a quale tipo di entità mentale corrisponda una "credenza", preferisco studiare quale ruolo pratico gioca in una conversazione: la ragione per cui usiamo quella parola e non la sua natura di per sé. Apro un breve inciso solo per sottolineare che, come la teoria dell'evoluzione ci insegna, il linguaggio (inteso in senso lato come parola e gesto) e la sua comprensione sono priorita-
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ri, se vogliamo in qualche modo anticipare il comportamento di un nostro simile o di un animale. Lungo il corso naturale della storia abbiamo avuto numerose prove del fatto che chi fallisce nell'anticipare il comportamento altrui sovente soccombe. Pur non sapendo nulla di ciò che accade nella mente di un cane affamato, io posso comunque anticipare cosa quel cane farà se gli offro del cibo. La nostra abilità nel predire comportamenti non è il risultato di una capacità a guardare nella mente altrui. Di certo però, quel mondo virtuale che è una credenza o un desiderio ci diventa comprensibile solo se siamo capaci di predire e interpretare il comportamento gli uni degli altri. Di qui, il già citato atteggiamento intenzionale come strategia predittiva ed esplicativa di tutti gli stati "intenzionali" di un sistema. Qualcuno ha detto che il mio è un approccio a metà strada tra il funzionalismo e il comportamentismo. Lo prendo per buono, avendo in gioventù praticato ambedue le strade, ma preferisco dichiararmi naturalista, quantomeno nei metodi. Del comportamentismo skinneriano, peraltro, non condivido uno dei principi cardine, ovvero l'idea che le persone non sono agenti moralmente responsabili. Diciamo che, in generale, non amo coloro che usano la filosofia per difendere una qualche verità a priori o per mettersi un gradino più in alto degli altri nella comprensione delle cose. Già Quine, nel suo articolo "Two Dogmas of Empiricism" (1954), aveva dimostrato che i filosofi non hanno alcun accesso privilegiato alla conoscenza. Per tornare all'atteggiamento intenzionale, non mi stancherò mai di ripetere che non è un modo per "entrare" nella mente dell'altro: ci limitiamo a pianificare, virtualmente e sulla base di pregressi comportamenti, una mappa dei suoi desideri
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e opinioni, proprio come un geografo traccia le linee di longitudine e latitudine sul globo terrestre. La questione se quei desideri esistano realmente e dove siano collocati non si pone proprio. L'assunto di base dal quale partiamo è assolutamente darwiniano: gli animali (persone incluse) mostrano, per necessità legate alla sopravvivenza, ciò che serve loro e non c'è quindi bisogno di scavare all'interno. Mi rendo conto che per molte persone parlare della mente e come parlare di sesso: qualcosa di imbarazzante, indefinito, inappropriato. "Ovvio che esiste", ti dicono, "ma perché dobbiamo parlarne?" E invece dobbiamo. Quasi tutti preferiscono parlare del cervello (che, dopotutto, è la mente) e vorrebbero che per parlare degli altri si potesse fare a meno di quelle volgari e caotiche conversazioni mentalistiche. Ancor meno piace parlare di coscienza e credo di saperne la ragione: la coscienza sembra essere l'ultimo bastione inespugnabile di occulte proprietà, di epifenomeni, di taluni stati soggettivi non misurabili ... in breve, è quella parte della mente che sarebbe meglio lasciare ai filosofi! Ebbene, credo che tra la via analitica dello scomporre la mente in tutte le sue componenti neurali e quella puramente filosofica del fame un'entità metafisica, si possa trovare una via di mezzo. Il miglior modo per indagare la coscienza è lasciare da parte tutte le considerazioni su cosa essa potrebbe essere, che inevitabilmente ci spingerebbero a deviazioni metafisiche. Partiamo piuttosto da come la coscienza si esplica, ovvero dal linguaggio.
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Il problema dell'Io
Nel 1978 pubblicai un breve saggio intitolato "Dove sono?'', nel quale ipotizzavo una visione fantascientifica del rapporto cervello-mente-corpo. Nello specifico, mi chiedevo cosa sarebbe accaduto se il mio cervello fosse stato fisicamente separato dal mio corpo e posto in comunicazione con esso tramite ricetrasmettitori. Il primo problema che mi ponevo era di collocazione spaziale: dove si trovava esattamente il mio lo? Con il mio cervello o con il mio corpo? Ponendo le due entità a confronto, sarebbe stato più giusto dire che ero nei miei occhi, che osservavano il mio cervello, o nel mio cervello, osservato dai miei occhi? Sebbene come molti ritenessi il cervello, o qualche posto nel cervello, la sede dei miei pensieri, nel dire sono "qui", mi riusciva difficile localizzare quel "qui" nella mia scatola cranica. E volendo andare ancora oltre: che cosa accadrebbe se non avessi più un solo cervello, ma due? E se questo secondo clone del mio cervello, addestrato a pensare proprio come l'originale venisse collegato a un altro corpo? Quale dei due corpi sarebbe me? Ovvio che mi sono divertito a esasperare possibilità per il momento soltanto immaginarie - come frutto dell'immaginazione erano il dottor Jekill e mister Hyde - mal' effetto voluto di questo gioco era quello di far vacillare l'assoluta convinzione che esista una supremazia del cervello sul corpo nel decidere cosa e chi sia l'Io, così come la salda determinazione se-
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condo cui io non sono il mio corpo, bensì il proprietario del nuo corpo. Torniamo per un istante a monte della questione. Paul V aléry sosteneva che la mente ha per compito di produrre futuro. Di fatto, prerogativa della mente, essenziale alla sopravvivenza dell'animale uomo, è l'anticipazione. L'intera esperienza umana - come ho sottolineato nel mio L'idea pericolosa di Darwin - nasce dall'accumulo di progetti: anticipazioni e pianificazioni via via riscritte, le nuove sulle vecchie, senza mai cancellare nulla. Un espediente ben noto anche nell'ambito delle mutazioni genetiche, dove i geni non vengono eliminati, ma semplicemente disattivati. Ora, per quanto complesse possano sembrarci le strategie e le capacità anticipatrici umane, non sono queste a renderci così diversi da una pianta o da animali meno evoluti, anch'essi dotati della capacità, sebbene automatica e non consapevole, di anticipare in una certa misura gli eventi esterni. Direi piuttosto che la differenza sostanziale è quella che passa tra il "sentire" e la mera sensibilità. La sensibilità non necessita di coscienza: l'indicatore del carburante di un auto, le piante o la pellicola fotografica sono dotati di sensibilità, senza per questo definirsi oggetti consapevoli. Gli animali cosiddetti "superiori" - fra i quali annoveriamo l'uomo - sono invece capaci di una facoltà di sensibilità senziente, ovvero del "sentire". Non è impresa facile definire il "sentire": diciamo in termini per il momento piuttosto vaghi c~e esso è costituito dalla sensibilità più un misterioso fattore X, che ci permette di tradurre quello che è il mero messaggio organico-sensoriale in qualcosa di più o, in altre parole, che ci consente di acquisire consapevolezza del nostro essere sensibili. Dove e come localizzare questo fattore X è ben altra questione, ma personalmente propendo per una visione funzionalista della mente,
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ovvero rintracciare la natura della mente, non tanto in ciò di cui è fatta, ma in ciò che fa o può fare. La forma, il materiale o la struttura di un oggetto sono soltanto secondari, rispetto al fatto che esso sia compatibile con il suo ruolo funzionale. Peraltro l'idea della "doppia traduzione" - ovvero del messaggio sensoriale che entra e viene trasformato prima in impulsi nervosi e poi, in qualche modo e in qualche posto, in coscienza - è fuorviante; come lo era appunto la ghiandola pineale di Cartesio, luogo fisico non ben precisato atto a creare qualcosa di non-fisico: il pensiero cosciente. Perché fuorviante? Perché genera, appunto, la falsa illusione della supremazia del cervello sul resto del corpo, inteso come mero recettore di impulsi o unità espletante azioni. La tentazione è forte, tanto che alcuni teorici tutt'oggi insistono sul fatto che un occhio senza cervello non ha esperienze visive consapevoli, ed è pertanto nel cervello che deve maturare il fattore X del sentire ... Per taluni è meglio sostenere ipotesi simili piuttosto che dover riconoscere il primato degli impulsi nervosi ed equiparare, così, l'essere umano a un centralino senza telefonista o a una nave senza capitano. Ma mi sono già dilungato su questa prospettiva parlando del Teatro Cartesiano. D'altronde ci sono cose alle quali si rinuncia davvero malvolentieri: se in un trapianto di cuore preferiremmo essere i riceventi, in un ipotetico trapianto di cervello sono certo che vorremmo essere tutti donatori. La tentazione del dualismo cartesiano è talmente pervasiva che diventa estremamente difficile ricondurre mente e corpo alla loro originaria unità funzionale. Eppure, credo che riusciremo a capire le funzioni del cervello solo quando smetteremo di considerarlo come il comandante della nave, funzione che peraltro ha cominciato ad as-
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solvere in epoca evolutivamente piuttosto recente, e riconosceremo anche al corpo parte di quella capacità anticipatrice che guida le nostre decisioni. Anche Nietzsche, nel suo Così parlò Zaratustra, aveva individuato e preconizzato l'importanza del corpo: "Dietro i tuoi pensieri e sentimenti sta un possente sovrano ... Abita nel tuo corpo. È il tuo corpo. Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza".
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Dove nasce il pensiero
Quando ci poniamo, come poc'anz~ il problema della natura della coscienza, vien da sé che la domanda "da dove nasce la coscienza?" scalza qualsiasi altra argomentazione logica. Nicholas Humphrey - psicologo e autore di un autorevole articolo pubblicato su Nature's Psychologist - ipotizzava lo sviluppo dell'autocoscienza come naturale evoluzione della capacità di creare e accertare ipotesi sul comportamento altrui. Nel mio Conditions of Personhood teorizzavo qualcosa di analogo individuando una tappa evolutiva fondamentale nel passaggio da un sistema intenzionale di primo ordine- ovvero capace di desideri e credenze su molte cose, ma non su desideri e credenze- a uno di secondo ordine, capace invece di metapensiero. Ora, è mia opinione - e non solo mia - che il pensiero nasca con il linguaggio. Le parole ci rendono intelligenti perché semplificano il nostro orientarci nel mondo, creando punti di riferimento. Muoversi nel mondo astratto delle idee sarebbe impossibile, se non avessimo quei punti di riferimento memorizzabili e condivisibili che sono le parole. Nessun momento nella vita di un individuo è più significativo di quello in cui impara a parlare, avendo cura di sottolineare l'inadeguatezza del verbo "imparare", giacché è provato che l'essere umano è geneticamente predisposto al linguaggio. Secondo un'esagerazione cara al linguista Noam Chomsky, i bambini non hanno bisogno di imparare la propria lingua, perché hanno delle disposizioni di apprendimento innato che
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si adattano al contesto in cui vivono, esattamente come gli uccelli non si devono preoccupare delle loro penne per volare. Ogni bambino impara in media dodici parole al giorno, per anni, almeno fino ali' adolescenza. La fase iniziale di questo apprendimento è segnata dalle vocalizzazioni informi che il bambino emette nei primi due anni di vita e che costituiscono una sorta di cronaca privata del mondo. I bambini adorano parlare a se stessi, anche quando non sono ancora capaci di comprendere il significato delle parole che dicono. Inizialmente sono i suoni a essere rievocativi, non le parole. L'abitudine a ripetere parole, pur non conoscendone il significato, crea legami di riconoscimento e di associazione tra le facoltà uditive e le correlate proprietà sensoriali. In altre parole, il bambino sta disponendo delle etichette verbali sul mondo circostante. Passo dopo passo, nell'acquisizione del linguaggio, le nostre etichette diventano sempre più elaborate, fino ad arrivare alla semplice rappresentazione mentale, capace di richiamare tutte le associazioni appropriate. Adesso sappiamo "comprendere", oltre che nominare, gli oggetti che ci circondano: abbiamo creato dei concetti. Appare allora evidente che la parola ha assolto alla funzione di prototipo del concetto.
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Un ritratto à rehours
Vorrei finire tornando al punto in cui è cominciata la mia avventura filosofica: quando lessi per la prima volta Cartesio ed ero soltanto una giovane matricola. Mi colpì subito la sua defmizione del Sé, da intendersi come res cogitans, ovvero come fonte immateriale di ogni azione intenzionale e focus di tutte le decisioni. Mi sembrava un errore madornale. L'idea che il libero arbitrio e la responsabilità potessero dipendere da strane circostanze metafisiche era - a parer mio - semplicemente pretestuosa. Riguardo al libero arbitrio ero ancora "possibilista", giacché ritenevo di poter conciliate, in un modo o nell'altro, una generosa parte della tradizione sul libero arbitrio con l'evidenza che noi - come oggi mi piace dire siamo composti soltanto da miliardi di stupidi ingranaggi. Quando l'Università di Oxford mi invitò a tenere una John Locke Lectute, nel 1983, colsi l'occasione per rispolverare e organizzare parte delle mie riflessioni al riguardo e il risultato fu Elbow Room. Già in altre occasioni avevo partecipato alle Locke Lectures, sia come laureando sia come visitatore durante i miei anni sabbatici, e conoscevo le usanze: il professore americano tiene le sue lezioni e, con l'intento di dimostrate alla platea di Oxford il valore del suo tecnicismo e della sua conoscenza filosofica, legge interventi molto articolati e complessi, che soltanto i più intrepidi e informati specialisti possono seguire. Così si ripete la storia di Zenone: ogni settimana si dimezza il numero degli studenti - se non peggio - e, dopo sei lezioni, soltanto un esiguo numero di la-
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ureandi siede ancora nell'aula quasi vuota, giusto per non mettere in imbarazzo il relatore. Personalmente avevo deciso di cambiare le usanze: avrei seguito il mio metodo abituale per rendere accessibili le lezioni anche ai non-filosofi eventualmente presenti. E il risultato fu "soltanto posti in piedi" per tutti e sei gli interventi. Ma dovetti pagarne il prezzo, ovviamente. Un eminente filosofo di Oxford fu sentito dire, mentre si allontanava da uno dei miei seminari: "Che io sia dannato se mi lascio insegnare qualcosa da una persona che ogni settimana attira simili orde". Tale commento fece il suo corso, diffondendosi e amplificandosi nei circoli filosofici, man mano che io ampliavo il giro del mio pubblico di non-filosofi. Ma a un certo punto, anche tra alcuni filosofi, ha prevalso l'opinione che, dopotutto, non stavo facendo nulla di male. Più volte, per attirare l'attenzione dei professionisti, ho dovuto riadattare i temi trattati - in modo peraltro già serio e originale - nei miei libri (come L'idea pericolosa di Darwin e La mente e le menti) per pubblicarli su qualche rivista di settore. Non mi sorprenderò, pertanto, se dovrò fare altrettanto con il mio nuovo libro L'evoluzione della libertà, che è la continuazione ideale di Elbow Room. Del mio mestiere, pur avendo scelto la via meno battuta, non mi posso lamentare: mentre gli esperti si contendono le imprese "per soli filosofi", i laureandi leggono con piacere i miei libri e apprendono tutte quelle utili nozioni che poi restano nel loro patrimonio, quando entrano negli oscuri e satanici ingranaggi della specializzazione. Concetti come la distinzione tra livello personalelsubpersonale, la psicologia del senso comune e le pompe d'intuizione vengono utilizzati, pur senza attribuzione, accanto ai più noti temi dennettiani, quali l'atteggiamento intenzionale e l'atteggiamento progettuale, il Sé come Centro di Gravità Narrativa, e il Teatro Cartesiano.
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Ryle aveva ragione: il confronto dialettico- fatto di definizione, confutazione e risoluzione-non è il solo modo, e neanche il migliore, per influenzare il pensiero filosofico. Non vi nascondo che provo una certa soddisfazione nel creare dispute e dissensi.Non a caso sulla porta del mio ufficio ho affisso una frase di Gore Vidal, come monito per me stesso e per quelli che mi avvicinano: "Non è sufficiente riuscire. Bisogna che gli altri falliscano". Mi è sempre piaciuto navigare a vista: quando trovo qualcosa che mi interessa non mi preoccupo di quanto mi porterà lontano. Peraltro, da marinaio autodidatta (ho comprato una barca a vela con la quale, se volessi, potrei attraversare l'Atlantico) mi vanto di avere quel po' di spericolato ardimento dal quale forse l'attento navigatore non si lascerebbe prendere. C'è da dire, però, che sono anche una persona molto concreta, per cui non mi piace divagare in sterili discussioni, del tipo "esiste la vita su Marte?" Anzi, credo che dovremmo desistere dal cercare di comunicare con altri pianeti, perché potremmo anche avere successo e captare non un messaggio di benvenuto, ma una qualche straziante richiesta di aiuto, unita a dettagliate istruzioni su come assisterli! Poi mi piace "mischiare": la scienza con la filosofia, la psicologia con le neuroscienze, l'ingegneria con la fisica ... Sono convinto che l'approccio interdisciplinare possa arrecare solo vantaggi. Non solo per via di un indubbio allargamento delle vedute e di un accrescùnento conoscitivo, ma anche perché si riesce a dare il giusto tributo allo sforzo di molti, anziché a quello di un solo uomo. Spesso, sbagliando, si tende ad attribuire esclusivamente a un nome, a una persona o a una disciplina una determinata scoperta, dimenticando che essa è solo il punto di confluenza di mille altri contributi e, a sua volta, sarà di contributo per qualche altra scoperta. Prendiamo il caso dell'ingegneria: in America è una scienza un po' declassa-
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ta. Non ha mai avuto il marchio e il vanto della fisica o della chimica, eppure molte delle innovazioni in ambito tecnologico, computeristico e persino biologico sono da ascriversi agli sforzi compiuti da anonimi ingegneri. Anche la termodinamica nasce da una macchina a vapore e alcuni dei più grandi artisti di tutti i tempi erano ingegneri. Credo che l'ingegneria sviluppi una confidenza di tipo "manuale", oltre che mentale, con la macchina, la materia e i suoi più intimi segreti.
Attualmente, dopo aver percorso in lungo e in largo le vie della filosofia, delle scienze, della robotica ... mi sono imposto il compito di estirpare il dominio del soprannaturale dalle menti, con un libro che s'intitolerà qualcosa del tipo Spezzare l'incantesimo. Non che voglia condurre una privata crociata illuminista, ma rimango del parere che anche il mistero ha le sue spiegazioni: basta sapere da quale parte inquadrare il problema.
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Indice
All'ombra cli un mito e cli strane idee ................................................ 7 Primi passi contro corrente ............................................................... 12 Verso una teoòa dell'intenzionalità ................................................. 18 L'avventura dell'intelligenza artificiale e delle scienze cognitive .......27 La coscienza, il linguaggio e le pompe d'intuizione ......................43 Il mio modo cli dire "mente" ........................................................... .46 Il problema dell'Io .............................................................................. 49 Dove nasce il pensiero ....................................................................... 53 Un òtratto à rebours .......................................................................... 55