131 29 9MB
Italian Pages 354 Year 1997
li DOMENICO LOSURDO DEMOCRAZIA 0 BONAPARTISMO T r i o n f o e d e c a d e n z a del s u f f r a f j i o u n i v e r s a l e
Bollati
B()rinji;hieri
Tormentata è la storia d e l l ' a v v e n t o del suffragio universale, ostacolato, ancora in pieno N o v e c e n t o , dalla discriminazione di censo, di razza, di sesso, che si è rivelata particolarmente tenace proprio nei paesi di pili consolidata tradizione liberale. Peraltro, appena conquistato, il suffragio universale è stato l'oggetto di u n ' o p e r a di s v u o t a m e n t o dall'interno che ha rid o t t o l'esercizio dei diritti politici all'acclamazione di un leader investito di amplissimi poteri. A t t r a v e r s o un complesso processo storico, il bonapartismo ha assunto l'attuale configurazione soft, che comporta la concorrenza e la successione ordinata, e c h e ricorre al p u g n o di f e r r o solo in situazioni di emergenza. Il sistema elettorale più funzionale a tale r e g i m e sembra essere q u e l l o u n i n o m i n a l e c h e , tagliando fuori i partiti organizzati e programniatici, e grazie anche al gigantesco processo di concentrazione dei mass media, privando le classi subalterne di ogni espressione politica, riduce la «democrazia», già nei singoli collegi, a scontro tra leaders concorrenti, interpreti peraltro solo di realtà o interessi locali, al di sopra dei quali può quindi stagliarsi la figura del l e a d e r c a r i s m a t i c o della n a z i o n e . G l i S t a t i U n i t i c o s t i t u i s c o n o il p r i v i l e g i a t o p a e s e - l a b o r a t o r i o del « b o n a p a r t i s m o soft» c h e ora si a f f a c c i a a n c h e in Italia e sembra voler divenire il regime politico del nostro tempo. D o m e n i c o Losurdo è ordinario di Filosofia dell^ sioria al''(;nivt'r-
sità di Urbino. Tra le sue pubblicazioni: La catastrofi- JcHa derma nia e l'immagine di Hegel (Guerini), He^t^l e Li "'v; i^r- moderni (Editori Riuniti), La comunità, la morie. /'Chi /"»?,'(• !'r-àe^^rr e r«ideologia della guerra» (Rollati Rf)ringhieri
6 o (L) rrs H
Domenico Losurdo
Democrazia o bonapartismo Trionfo e decadenza del suffragio universale
Bollati Boringhieri
Prima edizione 1993 Ristampa settembre zg^j © 1993 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati Stampato in Italia dalla Stampatre di Torino ISBN 88-339-0732-5 Schema grafico della copertina di Pierluigi Cerri Stampato su carta Palatina delle Cartiere Miliani Fabriano
Indice
II
I. La lotta per il suffragio: una storia tormentata e non ancora conclusa I. Constant e la restrizione censitaria dei diritti politici 2. Tocqueville e il rifiuto del suffragio universale diretto 3. Europa e America 4. Discriminazione censitaria e discriminazione razzile 5. Gli esclusi dalla democrazia 6. Proprietà, cultura e diritti politici in John Stuart Mill 7, Il voto plurale 8. La discriminazione censitaria come principio di legittimità 9. Emancipazione e de-emancipazione IO. Negazione dei diritti politici, mercato del lavoro e lavoro servile 11. Tradizione liberale, discriminazione censitaria e razzizzazione degli esclusi 12. Dal liberalismo alla democrazia? 13. Le tre tappe della conquista del suffragio universale
55
2. Alla ricerca di un nuovo tutore per la moltitudine «bambina» I. Suffragio universale e bonapartismo 2. La moltitudine « bambina » e il capo carismatico 3, Personalizzazione del potere e culto degli eroi 4. Bonapartismo, liberalismo, bonapartismo liberale 5, Personalizzazione del potere, «missione» ed esternalizzazione del conflitto 6. Dalla moltitudine «bambina» alla «psicologia delle folle»
86
3. Un'alternativa alla discriminazione censitaria: le origini del bonapartismo tra America e Francia I. Bonapartismo francese e modello americano 2. Il «colpo di Stato» dei federalisti americani 3. Francia e America: come uscire dalla rivoluzione 4. L'ombra della dittatura dell'antica Roma 5. Tradizione liberale, stato d'eccezione e Costituzione americana 6. La Francia tra presidenza imperiale e Impero presidenziale 7. America e Francia: analogie e differenze 8. Il bonapartismo come alterna-
6
INDICE tiva alla discriminazione censitaria 9. Bonapartismo e missione imperiale I o. II presidente degli S tati Uniti come interprete della « missione» del suo popolo 11. Normalità e stato d'eccezione 12. Regime bonapartista, bonapartismo soft, bonapartismo di guerra
139
4. Le trombe delle classi dominanti e le campane delle classi subalterne I. Il regime rappresentativo e i corpi armati 2. Controllo politico e controllo economico dei mezzi di informazione 3. Il curato, il giornale, il partito 4. Giornali, partiti organizzati e classi subalterne 5. Partiti, sindacati e individualismo repressivo
157
5. Il battesimo del fuoco del regime bonapartista 1. Italia e Usa: come imporre la guerra alla moltitudine «bambina» 2. Un regime politico all'altezza dello stato d'eccezione 3. «Missione» e mobilitazione totale 4. «Americanismo» e riti di purificazione e di espulsione del Male 5. Cesarismo perfetto e imperfetto tra Usa, Inghilterra e Germania 6. Weber: cesarismo e primato della politica estera 7. Mussolini, Pareto, le «due democrazie» e il bonapartismo 8. Il movimento comunista e Io spettro del bonapartismo 9, Cesarismo, dittatura e bonapartismo
196
6. Suffragio universale, proporzionale e reazione uninominalista I. Collegio uninominale e forme nuove di discriminazione censitaria 2. La proporzionale come completamento del suffragio universale 3. Tra emancipazione e de-emancipazione: il voto alle donne 4. Democrazia, partiti e proporzionale in Kelsen 5. Parlamento corporativo e voto plurale 6. Nazionalisti, fascisti e collegio uninominale 7. Uninominale e controllo politico e sociale dell'elettorato 8. Gobetti, la proporzionale e l'Inghilterra 9. Il suffragio universale, la «tragedia presente della borghesia» e i possibili rimedi 10. Liberalismo, fascismo e de-emancipazione
230
7. Il Novecento tra emancipazione e de-emancipazione I. La moltitudine «bambina», la democrazia e il mercato 2. Critica e ridefinizione della democrazia in Schumpeter 3. Dalla società per azioni al mercato 4. Processo di emancipazione e teorizzazione dei «diritti sociali ed economici» 5. Hayek e la nostalgia di un mondo non contaminato dal suffragio universale 6. La critica della democrazia dall'Ottocento al Novecento e il suo punto d'approdo 7. Suffragio universale e «democrazia "sociale" o totalitaria» 8. Deemancipazione e «minimizzazione» della democrazia: il caso Pop-
INDICE
7
per 9, De-emancipazione e «minimizzazione» della democrazia; il caso Bobbio 10. Debolezza della resistenza al processo di de-emancipazione 11. De-emancipazione e «Nuovo Ordine Internazionale» 12. Vecchia e nuova ideologia coloniale 13. Il ritorno degli «stranieri» e il futuro della democrazia
280
8. Il trionfo del bonapartismo soft e i tempi lunghi della democrazia I. Democrazia, mercato, manipolazione totale 2. Il Novecento e la nuova vittoria del bonapartismo soft 3. Due investiture plebiscitarie concorrenziali 4. Bonapartismo soft, monopartitismo competitivo e potere delle lobbies 5. Un bilancio storico strumentale e l'avvento della «democrazia del cancelliere» 6. Gollismo e repubblica presidenziale in Francia 7. Uninominale, bonapartismo e decapitazione politica delle classi subalterne 8. La parabola dell'odierno liberalismo 9. Il bonapartismo soft e l'analisi marxiana della democrazia «borghese » i o. La nuova de-emancipazione e i tempi lunghi della democrazia
317
Riferimenti
bibliografici
341
Indice analitico
Democrazia o bonapartismo
AVVERTENZA Per tutti i testi citati, il corsivo è stato liberamente mantenuto, soppresso o modificato a seconda delle esigenze di sottolineatura emergenti dall'esposizione. N o n si dà notizia delle modifiche eventualmente apportate alle traduzioni italiane utilizzate.
I.
La lotta per il suffragio: una storia tormentata e non ancora conclusa
I. Constant e la restrizione censitarìa dei diritti politici Per comprendere la genesi e i problemi della democrazia moderna conviene risalire alla rivoluzione francese. L'elogio più alto nei suoi confronti è stato oggettivamente pronunciato da un autorevole esponente, da un classico in qualche modo, della tradizione liberale il quale, dopo aver ironizzato sull'idea, «peculiare» solo alla Francia, del suffragio come «diritto naturale, assoluto», e dopo aver sottolineato l'estraneità dell'Inghilterra e degli Stati Uniti (i paesi da lui ammirati) ad una concezione politica così stramba e rovinosa, conclude: «Bisogna arrivare aUa rivoluzione francese per trovare, in Europa, qualcosa che rassomigli al suffragio universale» (Laboulaye, 1866, voi. 3, pp. 319 e 322). In effetti, è nel corso del processo di radicalizzazione di tale rivoluzione che emerge la rivendicazione del suffragio più o meno universale (limitatamente alla popolazione maschile), e diretto. Dopo la giornata del 10 agosto 1792, che segna l'atto di nascita della Comune rivoluzionaria di Parigi, assieme alla distinzione tra cittadini attivi e passivi viene messa in discussione anche l'istituzione dei «corpi elettorali» intermedi e il suffragio a due gradi che, sia pure come misura provvisoria, era stato mantenuto in piedi dall'Assemblea legislativa. E invece - dichiarano i giacobini - «il popolo sovrano deve alienare la sua sovranità il meno possibile» (Aulard, 1977, pp. 256 sg.). Se le elezioni per la Convenzione sono ancora caratterizzate dal sistema elettorale di doppio grado e dall'esclusione dei domestici, il suffragio uni-
I 2
CAPITOLO PRIMO
versale (maschile) e diretto viene sancito dalla Costituzione del 24 giugno 1793 (Villey, 1900, pp. 4 sg.). Certo, le condizioni concrete in cui si svolgono le elezioni per la Convenzione, mentre già si intravvede l'ombra del Terrore, non garantiscono né la segretezza né la piena libertà del voto (Fayard, 1989, p. 610), e gli sviluppi drammatici della situazione interna e internazionale impediscono che la Costituzione varata entri mai in vigore; e, tuttavia, resta un fatto di grande rilevanza storica questa prima radicale contestazione che investe la discriminazione censitaria. Alle trasformazioni democratiche del sistema elettorale corrispondono, nel periodo di radicalizzazione giacobina della rivoluzione, incisivi interventi dello Stato in campo economico: comincia ad essere rivendicata una politica economica che oggi definiremmo di redistribuzione del reddito tramite, ad esempio, l'imposta progressiva. Ed è significativo che Robespierre, U quale condanna come contraddittoria rispetto alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo la restrizione censitaria dei diritti politici, teorizzi al tempo stesso il diritto alla vita come il primo tra i «diritti imprescrittibili dell'uomo» (Robespierre, 1958, voi. i , p. 140 e voi. 2, p. 85). Dopo il Termidoro, la borghesia liberale viene a trovarsi dinanzi ad un dilemma: per un verso aderisce al regime rappresentativo in funzione antiassolutistica e antifeudale; per un altro deve impedire che la rappresentanza politica conferisca un'eccessiva influenza alle masse popolari. Ecco dunque U ritorno ad una politica di rigida restrizione censitaria dei diritti politici: la critica della politica sociale dei giacobini procede di pari passo con la critica del sistema elettorale democratico. Presa particolarmente di mira è l'imposta progressiva denunciata come sinonimo di «legge agraria» e quindi di attentato al diritto di proprietà. Boissy d'Anglas dichiara che bisogna escludere i non proprietari dai diritti politici: diversamente essi «stabiliranno o faranno stabilire delle tasse funeste» (Lefebvre, 1984, pp. 28 sg. e 35). Questa è anche l'opinione di Constant per il quale, anzi, le misure che comportano l'esenzione dalle imposte o un trattamento fiscale di favore per i poveri non solo penalizzano ingiustamente «l'agiatezza» ma finiscono col trattare la «povertà come un privilegio» e coli'istituire «nel paese una casta privilegiata», della quale, però, sorprendentemente, fanno parte non
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
3
i nobili o i ricchi bensì i miserabili (Guillemin, 1958, pp. 76 sg.). Si tratta di una tesi singolare, se non altro per il fatto che cade in un momento in cui l'effetto congiunto di carestia e inflazione riduce, secondo le autorevoli testimonianze di Madame de Staèl (1983, p. 317) e di Mallet du Pan (Guillemin, 1958, p. 37), «l'ultima classe della società nella condizione più miserabile», infliggendole dei «mali inauditi», fino alla morte per «inedia». Ma per la tradizione liberale si tratta per l'appunto di neutralizzare politicamente queste masse in condizioni di indigenza o letteralmente affamate. Qual è il mezzo più adatto per conseguire tale obiettivo? La borghesia post-termidoriana reintroduce sia la restrizione censitaria dei diritti politici (anche se in misura più blanda di quella prevista dalla Costituzione del 1791 che era stata spazzata via dall'insurrezione del 10 agosto dell'anno dopo), sia il suffragio a due gradi, come strumento ulteriore per filtrare socialmente gli organismi rappresentativi e tenerli al riparo da qualsiasi contaminazione plebea e popolare (Lefebvre, 1984, p. 34). Ma, dal punto di vista di Constant, quest'ultima clausola del sistema elettorale rende difficile, se non impossibile, l'identificazione della massa del popolo coi suoi rappresentanti, riducendo invece di allargare il margine di consenso e rischiando di fare il vuoto attorno al governo e agli organismi legislativi (Constant, 1970, p. 86). Ed ecco allora che la restrizione censitaria s'impone in misura ancora più drastica che in passato. Perché i miserabili non si trasformino in una «casta privilegiata» - e cioè approfittino del potere politico o dell'influenza esercitata su di esso per imporre una redistribuzione del reddito e migliorare in qualche modo la loro condizione materiale - l'esercizio dei diritti politici deve costituire il privilegio esclusivo delle classi agiate; diversamente si espone a rischi intollerabili l'ordine sociale esistente.
2. Tocqueville e il rifiuto del suffragio universale diretto La preoccupazione di Constant è anche quella di Tocqueville, che a torto oggi viene presentato come un teorico della democrazia, mentre invece è chiaramente da annoverare tra i suoi critici, almeno se di essa si considera parte integrante il suffragio universale e diretto. L'autore della Democrazia in America è
I 14
CAPITOLO PRIMO
mosso dalle medesime preoccupazioni sociali che abbiamo coito nella tradizione liberale alle sue spalle: è nettamente contrario a un intervento del potere politico in campo economico, ad ogni ipotesi di redistribuzione del reddito e, di conseguenza, ad un sistema elettorale capace di favorire tali sciagurate eventualità. Contro la pretesa di mettere «la preveggenza e la saggezza dello Stato al posto della preveggenza e della saggezza individuali», Tocqueville proclama che «non vi è nulla che autorizzi lo Stato ad intromettersi nell'industria» (Tocqueville, 1864-67, voi. 9, pp. 551 sg.): è il celebre discorso del 12 settembre 1848 pronunciato perché l'Assemblea costituente respinga quella rivendicazione del «diritto al lavoro» che già era stata sanguinosamente soffocata nelle giornate di giugno. Il liberismo di Tocqueville si spinge sino al punto di mettere sul conto delle «dottrine socialiste» la regolamentazione legislativa e conseguente riduzione dell'orario di lavoro («le travail de douze heures»), la quale diventa così oggetto di una condanna senz'appello (Tocqueville, 1951, voi. 8, n, p. 38). E , ugualmente, come espressione di socialismo e dispotismo viene liquidata ogni misura legislativa tesa ad alleviare la miseria delle «classi inferiori» mediante il contenimento del livello dei fitti (Tocqueville, 1951, voi. 15, n, p. 182). Anche una assai limitata redistribuzione del reddito è da considerare come un inammissibile attacco alla libertà e alla proprietà; privo di legittimità è un regime politico che, pur «neU'assicurare ai ricchi il godimento dei loro beni, protegga al tempo stesso i poveri dall'eccesso della loro miseria, esigendo dai primi una porzione del loro superfluo in modo da accordare il necessario ai secondi» (Tocqueville, 1951, voi. 16, p. 126). Ma il medesimo pericolo viene ora fronteggiato in modo diverso che da Constant. Secondo quest'ultimo, era preferibile neutralizzare politicamente le masse popolari mediante la restrizione censitaria dei diritti politici piuttosto che col ricorso ad un sistema elettorale a più gradi. E a favore di quest'ultima opzione che si pronuncia, invece, l'autore della Democrazia in America richiamandosi all'esempio del paese da lui visitato e additato a modello. Nonostante la larga estensione del suffragio, gli Stati Uniti godono di un'invidiabile stabilità politica e sociale per il fatto che lasciano largo spazio al sistema elettorale di secondo grado il quale, senza bisogno di far ricorso a discriminazioni vistose e spesso avvertite come odiose, riesce ugualmente, e in
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
5
modo tanto più efficace, a tener gli organismi rappresentativi al riparo dall'influenza, o da un'eccessiva influenza, delle masse popolari. Questa, almeno, l'interpretazione di Tocqueville, il quale procede ad un significativo confronto tra Camera dei rappresentanti e Senato (che - è importante ricordarlo - veniva allora eletto dalle assemblee legislative dei singoli Stati): Q u a n d o entrate nell'aula dei rappresentanti a W a s h i n g t o n , vi sentite colpiti dall'aspetto volgare di questa grande assemblea. L ' o c c h i o cerca spesso invano in essa un uomo celebre. Quasi tutti i suoi membri sono personaggi oscuri, il cui nome non fornisce alcuna immagine al pensiero. Sono, per la maggior parte, avvocati di provincia, commercianti, o anche uomini appartenenti alle classi inferiori. In un paese in cui l'istruzione è quasi universalmente diffusa, si dice che i rappresentanti del popolo non sempre sanno scrivere correttamente. A due passi di là si apre l'aula del Senato, il cui stretto recinto racchiude una gran parte delle celebrità dell'America. Difficilmente vi si scorge un solo uomo che non richiami l'idea di una persona illustre. Sono eloquenti avvocati, generali eminenti, abili magistrati, o uomini di Stato assai noti. O g n i parola che esce da questa assemblea farebbe onore ai più grandi dibattiti parlamentari d ' E u r o p a . D i dove deriva questo bizzarro contrasto? Perché X élite della nazione si trova in questa aula piuttosto che nell'altra? Perché la prima assemblea riunisce tanti elementi volgari, mentre la seconda sembra avere il monopolio degli ingegni e della cultura? (...) D o n d e proviene, dunque, una così enorme differenza? N o n v e d o che un solo fatto capace di spiegarlo: l'elezione della C a m e r a dei rappresentanti è diretta; quella del Senato procede attraverso due gradi.
E Tocqueville conclude: E facile intravvedere nell'avvenire un momento in cui le repubbliche americane saranno costrette ad aumentare l'applicazione del doppio grado nel loro sistema elettorale, altrimenti si perderanno miserevolmente fra gli scogli della democrazia. I o non h o difficoltà ad ammetterlo; v e d o nell'elezione del doppio grado il solo mezzo per mettere l'uso della libertà politica alla portata di tutte le classi del popolo» (Tocqueville, 1968, pp. 240 sg.).
E appena il caso di rilevare il carattere radicalmente errato delle previsioni che il liberale francese formula sul futuro dell'America, caratterizzato dall'affermarsi di quel suffragio universale diretto considerato funesto e incompatibile con la stabilità politica e sociale sia da Constant che da Tocqueville. Entrambi respingono l'idea di una rappresentanza politica autonoma di
I 6
CAPITOLO PRIMO
quegli «elementi volgari» ovvero di quegli «uomini appartenenti alle classi inferiori» che disgraziatamente fanno sentire la loro influenza nella Camera dei rappresentanti a Washington, in quell'aula in cui l'accesso non è sbarrato né dalla discriminazione di censo cara al primo né dal sistema elettorale di secondo grado caro a Tocqueville. Il quale ultimo si esprime in privato, nei confronti delle elezioni dirette, con un'ostilità ancora più aspra di quella che risulta dalle prese di posizione pubbliche. Ciò, a giudicare almeno da una lettera della fine del 1835, in cui, dopo aver indicato nelle «elezioni a più gradi» (si può dunque andare anche oltre il secondo grado) l'unico «rimedio agli eccessi della democrazia», Tocqueville aggiunge che, dato il clima ideologico dominante, è necessario presentare «con molta prudenza» una tale tesi, da lui stesso espressa in pubblico con cautela, smussandone un po' gli angoli (Tocqueville, 1951, voi. 15, i, p. 57). A conferma di come sia precipitoso fare dell'autore della Democrazia in America un campione della democrazia, si tenga presente che fautori di un suffragio universale o assai largo, ma espresso sulla base del sistema elettorale di secondo grado, sono anche i legittimisti (Rials, 1987, pp. 153-55), coi quali, peraltro, come vedremo, subito dopo il colpo di Stato di Luigi Bonaparte, Tocqueville intrattiene brevi contatti. Si tenga presente che, nel 1789, le elezioni di una istituzione tipica dell'Antico regime (gli Stati generali), ben lungi dall'essere caratterizzate da una rigida discriminazione censitaria, si erano svolte sulla base di un «suffragio quasi universale» che però filtrava il Terzo stato attraverso elezioni successive in modo da poter tranquillamente eliminare «gli analfabeti scampati alle assemblee primarie» (Halévi, 1988, p. 80). Una cosa è certa: se anche la presa di posizione a favore del sistema elettorale di secondo grado può assumere contenuti politici e sociali anche assai diversi (Losurdo, 1992 a, capp. 6, § 6 e 12, § 5), non bisogna perdere di vista il fatto che esso è chiamato da Tocqueville a svolgere quella medesima funzione di neutralizzazione politica delle classi popolari e di epurazione sociale degli organismi rappresentativi che Constant affida al monopolio dei diritti politici da parte dei proprietari. Del resto, è significativo l'atteggiamento assunto in concreto da Tocqueville nel corso delle lotte sviluppatesi in Francia contro la discriminazione censitaria, E stato osservato che l'autore della democrazia in America «si tiene distante, durante la monar-
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
7
chia di luglio, dall'agitazione per allargare il suffragio elettorale» (Drescher, 1964, p. 10). Nei Ricordi Tocqueville scriverà che si trattava di un movimento che commetteva l'imprudenza di fare appello al «popolo» e che lui temeva potesse sfuggire, come poi in effetti avvenne, alla direzione e al controllo della «classe media», cioè della borghesia (Tocqueville, 1951, voi. 12, p. 43). Ma forse, più che distante, l'atteggiamento del teorico liberale sembra diffidente e ostile. E vero che negli scritti politici di questo periodo è possibile trovare una dichiarazione che giudica opportuno «estendere gradualmente la cerchia dei diritti politici oltrepassando i confini della classe media, in modo da rendere la vita pubblica pivi varia e più feconda e da interessare, in maniera regolare e pacifica, le classi inferiori alle questioni politiche» (Tocqueville, 1951, voi. 3,11, p. 737). Ma questa estensione del diritto di voto deve riguardare solo singoli elementi o uno strato piuttosto ristretto degli esclusi. Il liberale francese è così lontano dall'idea di suffragio universale e di partecipazione democratica delle larghe masse alla vita politica che, in polemica trasparente contro l'agitazione dei banchetti, dichiara: «Non bisogna corteggiare il popolo e non bisogna conferirgli, con prodigalità e temerarietà, più diritti politici di quelli che è capace di esercitare». In compenso, nei confronti dei «bisogni del povero», gli organi legislativi, eletti su base censitaria, devono mostrare una sollecitudine «filantropica» tale che leghi il popolo alle istituzioni e «lo consoli del fatto di non fare la legge, facendogli incessantemente vedere che il legislatore pensa a lui» (Tocqueville, 1951, voi. 3, II, p. 727). Sia chiaro: continua a essere considerato intollerabile, come sappiamo, ogni intervento legislativo nella sfera dell'economia e della proprietà privata. Non a caso si parla di «filantropia» ovvero di carità, sia pure di «carità pubblica» o di «carità cristiana applicata alla politica» {ibid., e Tocqueville, 1864-67, voi. 9, pp. 537 e 551): se Robespierre sussume diritto di suffragio e diritto alla vita sotto la categoria generale di diritti dell'uomo, per il filosofo liberale il primo è una questione di opportunità politica e il secondo è semplicemente impensabile, dato che le «miserie umane» sono opera della «Provvidenza» e non già delle «leggi», per cui è assurdo pensare «che si potrebbe sopprimere la povertà cambiando l'ordinamento sociale» (Tocqueville, 1951, voi. 12, p. 84). Infine, Tocqueville non sembra opporsi al colpo di mano del
I 8
CAPITOLO PRIMO
31 maggio 1850 che cancella il suffragio universale (maschile) sancito dalla rivoluzione del febbraio 1848 (cfr. infra, cap. i , § 9). Le riserve espresse in una lettera ad un amico riguardano solo l'opportunità politica di attaccare un principio ormai radicato nella coscienza del tempo, tanto più che la nuova legislazione, pur riducendo drasticamente l'elettorato e provocando quindi comprensibili irritazioni, «non mi sembra dare garanzie più serie all'ordine, dato che si ha sempre dinanzi a sé una moltitudine e le emozioni di una moltitudine». Anzi, la nuova legislazione può persino sortire effetti controproducenti, per il fatto che essa «colpisce sì duramente ma alla cieca», fino al punto da cancellare dalla lista elettorale, nelle campagne, «gli uomini che maggiormente dipendono dai proprietari e dal clero e più facilmente da essi sono diretti» (Tocqueville, 1951, voi. 15, n, pp. 29 sg.). È vero che, alla vigilia del colpo di Stato di Luigi Napoleone, il quale già si atteggia a vindice del suffragio universale conculcato, Tocqueville sembra rendersi conto dell'opportunità di rivedere o abrogare la legge del 31 maggio (Jardin, 1984, p. 436); ma tale ripensamento ha luogo pur sempre a partire dalle preoccupazioni politiche già viste, e non certo da un'adesione di principio d suffragio universale. D'altro canto, a poche settimane dal 2 dicembre 1851, il filosofo liberale si mette in contatto con gli ambienti legittimisti e scrive direttamente all'erede dei Borboni, il conte di Chambord, perché si faccia promotore di una monarchia costituzionale la quale dovrebbe sì prevedere «una sincera rappresentanza nazionale» ma nell'ambito di un solido «potere tradizionale fondato sulle classi superiori e morali della nazione» (Rials, 1987, pp. 164 sg.). Sarebbe sopravvissuto il suffragio universale all'eventuale successo di tale tentativo o ne sarebbe invece scaturita una de-emancipazione, eventualmente camuffata mediante l'introduzione del sistema elettorale di secondo grado?
3. Europa e America Nello scrivere la Democrazia in America, Tocqueville ha presente il periodo inaugurato dall'ascesa alla presidenza, nel 1829, di Jackson, allorché si sviluppa impetuosamente, all'interno deUa comunità bianca, un processo di democratizzazione il quale sembra dover cancellare le discriminazioni censitarie che in quel
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
9
momento continuano ancora ad imperare in Europa. Ma, se esaminiamo la storia e la situazione dei decenni precedenti, vediamo anche in America alternarsi o intrecciarsi gli strumenti utilizzati e discussi in Francia per cancellare o filtrare il suffragio popolare. I delegati alla Convenzione di Filadelfia (1787) dalla quale scaturì il progetto di Costituzione federale furono «designati dagli Stati»; c'è da aggiungere che, «nella maggioranza dei casi, gli Stati imponevano agli elettori requisiti di proprietà diretta, mentre altri Stati eliminavano praticamente tutti coloro che non pagavano imposte»: e, dunque, in questo caso, il sistema elettorale di secondo grado s'intrecciava con la discriminazione censitaria, e, talvolta, con la discriminazione religiosa, per cui, in Stati come il New Hampshire e la Georgia, per essere titolari dei diritti politici, bisognava essere di religione protestante e quindi, in pratica, appartenere al gruppo di abitanti di più antica data (Beard, 1959, pp. 67-72). Per quanto riguarda poi le Convenzioni dei singoli Stati chiamate a ratificare il progetto di nuova Costituzione, esse non poggiavano certo su una base popolare molto larga, se si tiene presente il fatto che, su una popolazione di circa tre milioni e mezzo di persone, i votanti ammontavano a 160000, con una percentuale più bassa di quella che poi si verifica in Francia al momento delle elezioni degli Stati generali (Toinet, 1991, pp. 123 sg.). Evidenti tratti comuni sulle due rive dell'Atlantico presenta pure l'ideologia chiamata a legittimare la discriminazione censitaria. Come per Constant, anche per Gouverneur Morris, i lavoratori manuali possono essere assimilati a «bambini» che non votano e non possono votare perché non hanno una volontà autonoma (Morison, 1953, p. 276). E questa è anche l'opinione di Hamilton (Merriam, 1969, p. 84). Soprattutto, vediamo agire nella realtà, in Europa come in America, le medesime preoccupazioni sociali: «In Inghilterra, attualmente - osserva Madison - , se le elezioni fossero aperte a tutte le classi del popolo, la proprietà terriera non sarebbe più sicura. Verrebbe subito introdotta una legge agraria». È vero che la composizione sociale dell'America è diversa e caratterizzata da un peso nettamente superiore degli agricoltori, ma bisogna essere previdenti e pensare al futuro, quando si svilupperanno ulteriormente, come già avviene nei paesi europei, i contrasti di classe e le contraddizioni tra ricchi e poveri. E dunque necessario tener sin d'ora a bada il popolo
I 20
CAPITOLO PRIMO
il quale, secondo Hamilton, ben lungi dall'essere la «voce di Dio», come comunemente si crede e si pretende, è «turbolento e mutevole», invidioso e quindi incline ad attaccare la proprietà. (Morison, 1953, pp. 263-65 e 259). Analogamente a quello che si verifica in Europa, talvolta si pensa di fronteggiare la minaccia popolare mediante l'elezione indiretta che a Filadelfia alcuni membri della Convenzione propongono di far valere, oltre che per il Senato, anche per la Camera dei rappresentanti. Ed è interessante la risposta di Madison il quale, dopo aver premesso che anche lui è favorevole al sistema dei «filtri successivi» del voto, fa notare che, in alcuni Stati, il potere legislativo è già il risultato di un'elezione indiretta, per cui c'è il pericolo di spingersi «troppo lontano» su tale strada, col rischio di compromettere la «necessaria simpatia» tra popolo e governo, e cioè di ridurre la base di consenso e la stabilità di quest'ultimo (Morison, 1953, p. 238-40). Come si vede, è l'argomento cui più tardi ricorrerà anche Constant nella sua polemica contro il sistema elettorale di secondo grado. Risultano dunque evidenti le analogie con l'Inghilterra e la Francia della Restaurazione e, ancora di più, della monarchia di Luglio: nell'ambito del sistema bicamerale, prima di Jackson, la Camera bassa si fonda, anche al di là dell'Atlantico, suUa restrizione censitaria dei diritti politici; la Camera alta, invece, viene tenuta al riparo dall'influenza politica delle masse popolari, in Europa mediante il monopolio assicurato ai pari ereditari, in America, dove è praticamente assente lo strato sociale dell'aristocrazia feudale, mediante le elezioni di secondo grado. Non a caso, a Filadelfia, la proposta di far eleggere il Senato non direttamente dal basso bensì dalle assemblee legislative dei singoli Stati viene avanzata esplicitamente con l'intento di costituire una Camera alta il più possibile somigliante alla Camera dei Pari d'Inghilterra e quindi composta di membri che si distinguano già per il loro «rango» e che facciano valere inequivocabilmente il «peso della proprietà» (Morison, 1953, p. 244). C ' è da aggiungere che, negli Stati Uniti, la Corte Suprema funziona in pratica come una Terza Camera chiamata ad essere «la guardiana della proprietà contro il potere del numero»; ed è per l'appunto in tale veste che essa nell'Ottocento ostacola fortemente lo sviluppo della democrazia, l'associazionismo sindacale, l'imposta progressiva sul reddito, la proibizione del lavoro dei bambini ecc. (Laski, 1977, pp. 20 e 30 sg.).
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
21
Già per queste ragioni risulta insostenibile il discorso di chi pretende di trasfigurare la storia degli Stati Uniti, immergendola nell'aura di un presunto «eccezionalismo» all'insegna della democrazia e dell'uguaglianza: anzi, come vedremo, in questo paese la discriminazione censitaria si rivelerà particolarmente tenace fino ai giorni nostri. Certo, all'interno della comunità bianca, essa viene messa rudemente in discussione con la presidenza Jackson, e, proprio in seguito alla larga estensione del suffragio, la Democrazia in America tesse l'elogio del sistema elettorale di secondo grado che così egregiamente riesce a riservare il Senato 2!^«élite della nazione», tenendovi invece lontani i «personaggi oscuri», gli «elementi volgari» e soprattutto gli «uomini appartenenti alle classi inferiori». Una descrizione così univocamente lusinghiera, e priva di qualsiasi cenno ad eventuali controindicazioni, del «doppio grado» sembra voler suggerire la sua introduzione anche per la Camera dei rappresentanti, com'era stato già proposto, a Filadelfia, dall'ala destra dello schieramento presente nella Convenzione.
4. Discriminazione censitaria e discriminazione razziale Ma conviene ora soffermarsi sull'interpretazione dell'Ame rica post-jacksoniana come paese in cui sarebbe ormai sostanziai mente scomparsa la discriminazione censitaria dei diritti politici tanto più che l'opinione di Tocqueville è condivisa anche dal giovane Marx il quale vede ormai sancita negli Stati Uniti «l'eleggibilità attiva e passiva»: il censo non costituirebbe più una condizione richiesta dalla legge per l'esercizio dei diritti politici e l'ammissibilità alle cariche elettive; e dunque i non-proprietari sarebbero divenuti, almeno in teoria, legislatori dei proprietari e la «proprietà privata [sarebbe stata soppressa] politicamente» fermo restando che, secondo Marx, proprio nel momento in cui viene dichiarata priva di rilevanza politica, come un fatto atti nente esclusivamente alla sfera privata, la ricchezza può eserci tare indisturbata la sua influenza e il suo dominio. In questo senso, come dichiara la Questione ebraica, l'America appare il «paese dell'emancipazione politica compiuta», ovvero costituirebbe, per dirla questa volta con l'Ideologia tedesca, «l'esempio più perfetto di Stato moderno», il quale assicura il dominio della
I 22
CAPITOLO PRIMO
borghesia senza escludere a priori alcuna classe sociale dal godimento dei diritti politici (Marx ed Engels, 1955, voi. i , pp. 352 sgg. e voi 3, p. 62). Ma nell'interpretare in tal modo gli Stati Uniti, in realtà si sbagliano sia Marx che Tocqueville, i quali generalizzano e assolutizzano una tendenza pur realmente in atto, trascurando gli episodi di resistenza: nella Virginia precedente il 1851 «tra un terzo e la metà dei maschi bianchi» sono privi del suffragio (Cooper jr., 1987, p. 258). Ma è soprattutto rilevante il fatto che, al di là dell'Atlantico, ben lungi dall'essere scomparsa, la discriminazione censitaria si esprime attraverso la discriminazione etnica e razziale e che, in tale forma, si rivelerà ben più tenace che in Europa. A l tempo della Guerra di secessione, di questo aspetto del problema mostra di avvedersi Marx, che definisce i ribelli difensori dell'istituto della schiavitìi come la «nobiltà della Confederazione» (Konfóàerientenadet) (Marx ed Engels, 1955, voi. 16, p. 19), istituendo dunque un implicito confronto con la Francia dell'Antico regime. La repubblica nord-americana non costituisce più l'esempio di Stato moderno particolarmente avanzato, come risulta anche dal fatto che Lincoln viene considerato come il continuatore dell'opera di Washington (Marx ed Engels, 1955, voi. 15, p. 553), come colui che in qualche modo porta a termine anche negli Stati Uniti la rivoluzione democratico-borghese che ha già trionfato nei paesi europei più sviluppati. I secessionisti e schiavisti del Sud non vengono spesso designati dai loro avversari come «Borboni»? Per quanto riguarda Tocqueville, è lui stesso a notare che, per i padroni bianchi del Sud, il valore più alto è costituito dall'offese, dall'oS/«w, mentre «il lavoro si confonde con l'idea di schiavitù» (Tocqueville, 1968, pp. 441 e 407). E dunque, oltre che dei diritti politici, il lavoro si trova ad esser privo anche di quelli civili. E vero, nel Nord i neri sono liberi e in teoria non sono neppure esclusi dal suffragio, ma è sempre il liberale francese ad osservare che, se per un verso «in quasi tutti gli Stati in cui la schiavitù è abolita si sono concessi al negro i diritti elettorali», per l'altro, «se egli si presenta per votare, rischia la vita» (Tocqueville, 1968, p. 404). I neri costituiscono un aspetto essenziale di una realtà più generale. E stato osservato che «gli Stati Uniti importarono la propria classe operaia con i velieri e con le navi a vapore». Non si tratta solo degli schiavi: «L'emigrazione europea prima della
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
23
Guerra d'indipendenza americana convogliò anche molte persone che accettavano un legame temporaneo di apprendistato nella speranza di potersi stabilire definitivamente nel Nuovo mondo; questi apprendisti comprendevano almeno i due terzi del totale dei primi emigrati» (Wolf, 1990, p. 504). Chi sono in realtà tali «apprendisti»? Lasciamo la parola ad uno storico americano contemporaneo. Si tratta dei cosiddetti indentured servants, in pratica dei «semischiavi», almeno per la durata del loro «contratto» (spesso, peraltro, con vari pretesti arbitrariamente prolungato dai loro padroni): sono venduti e acquistati in un regolare mercato, annunciato anche dalla stampa locale, e viene loro data la caccia in caso di fuga o di allontanamento indebito dal luogo di lavoro (Jernegan, 1980, pp. 45-56). E un rapporto definito come «schiavitù legale» da Sieyès che ne raccomanda l'estensione alla Francia al fine di regolamentare la collocazione economica e sociale dell'«ultima classe, composta di uomini che hanno solo le braccia» (Sieyès, 1985, pp. 76 sg.), la classe che in altra occasione lo stesso Sieyès definisce come l'insieme dei «cittadini passivi» a cui sarebbe assurdo affidare un qualche ruolo nella vita politica. Né si tratta di una realtà che riguarda solo la storia più remota degli Stati Uniti, i quali, invece, ancora nell'Ottocento, importano masse considerevoli di lavoratori cinesi (Wolf, 1990, p. 522), i coolies che, ad esempio, vengono impiegati per la costruzione dell'impervia linea ferroviaria destinata a consolidare la conquista del Far West (Nevins e Commager, i960, p. 333). Per comprendere lo statuto giuridico e sociale di questi immigrati, basti riflettere sul fatto che ad essi fa riferimento come ad un possibile modello Nietzsche, allorché sottolinea la necessità di introdurre in Europa e nel mondo occidentale una «nuova schiavitù», un «nuovo tipo di rapporto schiavistico», suscettibile di essere realizzato mediante «una introduzione massiccia di popolazioni barbariche asiatiche e africane» da obbligare «a prestazioni servili», mediante l'importazione, in particolare, di cinesi i quali «porterebbero seco la maniera di vivere e pensare che si conviene a laboriose formiche». In termini analoghi, sia pure con un giudizio di valore evidentemente diverso e contrapposto, si esprime Engels il quale parla,di «schiavitù camuffata di coolies indiani e cinesi» (Losurdo, 1986, pp. 103 sg.).
I 24
CAPITOLO PRIMO
E, dunque, oltre ai neri, c'è un'altra categoria importante ad essere esclusa negli Stati Uniti dai diritti politici e persino, in larga parte, da quelli civili. È possibile anzi giungere a questa conclusione: per giustificare la discriminazione censitaria a danno dei lavoratori salariati, Constant li assimila fra l'altro a «stranieri» non interessati ad una «prosperità nazionale» di cui «non conoscono gli elementi» costitutivi e di cui partecipano poco o nulla (Constant, 1970, p. 100); ebbene, tale metafora diviene realtà negli Stati Uniti, dove in effetti la forza-lavoro, in gran parte importata da Oltreoceano, continua ad essere straniera fino al momento della naturalizzazione, un momento che, in situazioni di crisi, può essere tranquillamente posticipato, come accade nel 1798 col Naturalìzation Act, allorché il periodo di residenza necessario per la naturalizzazione viene prolungato da cinque a quattordici anni (Commager, 1963, voi. i , p. 175). Ci si può persino chiedere se, nel ricorrere alla metafora degli stranieri, oltre che ai meteci dell'antichità classica (Losurdo, 1992 a, cap. 8, § 8) Constant non pensi proprio all'America cui pili volte si richiama e a cui fa talvolta riferimento come ad un «grande esempio» (Constant, 1980, pp. 494 e 499; Constant, 1970, p. 95).
5. Gli esclusi dalla democrazia Della realtà degli immigrati negli Stati Uniti si occupa esplicitamente Tocqueville, ma è interessante vedere in che termini. Mentre si addensano le nubi che di lì a qualche anno avrebbero portato alla Guerra di secessione, il liberale francese attribuisce l'aggravamento della crisi alla «rapida introduzione negli Stati Uniti di uomini estranei alla razza inglese» e che proprio per questo fanno correre all'America «il pericolo piii grande» (Tocqueville, 1951, voi. 8, III, p. 229). Nei confronti di tale pericolo Tocqueville non si stanca di mettere in guardia i suoi amici e corrispondenti americani: «Disgraziatamente, ogni giorno vi porta tanti elementi estranei che presto non sarete più voi stessi: tutti i ragionamenti che si potevano fare sulla vostra natura (yiaturet) diventano sempre piìi incerti. In effetti, mescolati come oggi siete a tante razze, chi potrebbe dire ora qual è la vostra natura {naturel)}». E ancora: «Ciò che mi spaventa è questo numero
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
25
prodigioso di stranieri che fa di voi un popolo nuovo» (Tocqueville, 1951, voi. 7, pp. 177 e 182). È probabilmente eccessivo affermare che Gobineau, il teorico della disuguaglianza delle razze, sia «molto meno lontano dal suo temporaneo mentore e superiore Alexis de Tocqueville di quanto si possa credere» (Nolte, 1978, p. 682), ma è comunque privo di senso dipingere come un campione della democrazia un autore che denuncia nella mancata opposizione alla massiccia immigrazione (e al conseguente imbastardimento dell'originaria popolazione americana) una delle «grandi colpe» della classe dirigente statunitense (Tocqueville, 1951, voi. 7, p. 177), un autore che sembra condividere gli argomenti pivi tardi utilizzati dai nativisti americani nella campagna da loro scatenata per negare i diritti politici agli immigrati (soprattutto quelli estranei alla «razza» anglo-protestante), e persino per sottoporli, come vedremo, ad un processo di de-emancipazione. Il fatto è che Tocqueville non pensa mai la democrazia in termini realmente universali. Solo così si spiega il paradosso per cui da una parte descrive con lucidità e senza indulgenze il trattamento disumano imposto a pellerossa e neri, dall'altra insiste sul fatto che gli Stati Uniti costituiscono l'unico vero modello di democrazia. I primi sono costretti a subire i «mali terribili» che accompagnano le «emigrazioni forzate» (e cioè le successive deportazioni imposte dai bianchi) e sono ormai vicini ad essere cancellati dalla faccia della terra (Tocqueville, 1968, pp. 382 e 399). Per quanto riguarda i secondi, il liberale francese riconosce che la loro situazione è catastrofica, e non solo nel Sud; anzi - osserva - «il pregiudizio razziale mi sembra piìi forte negli Stati che hanno abolito la schiavitù che in quelli in cui la schiavitù esiste ancora, e in nessuna parte si mostra così intoUerante come negli Stati in cui la servitù è sempre stata sconosciuta». Tale pregiudizio esclude il nero, anche quello in teoria libero, dal godimento non solo dei diritti politici, ma anche di quelli civili, dato che la società lo consegna di fatto inerme alla violenza razzista: «Oppresso, può lamentarsi, ma trova soltanto bianchi tra i suoi giudici» (Tocqueville, 1968, p. 404). Ciò non impedisce, tuttavia, a Tocqueville di celebrare l'America come l'unico paese al mondo in cui vige la democrazia, viva, attiva trionfante (...). Là vedrete un popolo in cui le condizioni sono più uguali di quanto non lo siano neppure tra noi; in cui l'assetto sociale,
I 26
CAPITOLO PRIMO
i costumi, le leggi, tutto è democratico; in cui tutto emana dal popolo e vi rientra, e dove, tuttavia, ogni individuo gode di una indipendenza più intera, di una libertà più grande che in alcun altro tempo o in alcuna altra contrada della terra (Tocqueville, 1864-67, voi. 9, pp. 544 sg.).
La sorte di pellerossa e neri non interviene mai ad offuscare questo quadro così luminoso. La dichiarazione programmatica che il liberale francese fa ad apertura del capitolo dedicato al problema delle «tre razze che abitano il territorio degli Stati Uniti» ha qualcosa di incredibile: «Il compito principale che mi ero imposto è ora adempiuto; ho mostrato, almeno per quanto mi è stato possibile, quali siano le leggi della democrazia americana, ho fatto conoscere quali siano i suoi costumi. Potrei fermarmi qui». E solo per evitare una possibile delusione del lettore che egli parla dei rapporti tra le tre razze: «Questi argomenti, che toccano il mio soggetto, non ne sono parte integrante: si riferiscono all'America, non alla democrazia, e io ho voluto soprattutto fare il ritratto della democrazia» (Tocqueville, 1968, p. 373). Nel corso della sua polemica contro i giacobini, Constant rimprovera loro di aver dimenticato il fatto che la democrazia antica, che pretendono di additare a modello, è in realtà fondata sulla schiavitù; ma è poi lui stesso ad incorrere in una dimenticanza o sbadataggine ancora più singolare allorché, proprio nel testo dedicato all'illustrazione e celebrazione della libertà moderna, va a chiedere quel che si deve intendere «con la parola libertà», fra gli altri, ad «un abitante degli Stati Uniti d'America» (Constant, 1980, p. 494), come se quel paese nulla avesse a che fare con l'istituto che proiettava un'ombra così grave sulla libertà antica. La dimenticanza e la sbadataggine di Constant diventano una sorta di dichiarazione programmatica in Tocqueville, il quale scrive a chiare lettere che la sorte dei neri (e dei pellerossa) è un tema estraneo e allotrio all'essenza della democrazia americana. Chiamata in causa per spiegare, e condannare, la democrazia antica, la schiavitù viene dalla tradizione liberale tranquillamente ignorata allorché si tratta di contrapporre alla violenza e alla turbolenza plebea della tradizione rivoluzionaria francese la democrazia americana, il cui svolgimento celebrato come ordinato e pacifico riposa in realtà sui ceppi che tengono avvinte le classi «pericolose» già sui luoghi di produzione.
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
27
6. Proprietà, cultura e diritti politici in John Stuart Mill Se, per neutralizzare politicamente le masse popolari e disinnescare la tendenza alla redistribuzione del reddito propria della democrazia, Constant ricorre alla restrizione censitaria dei diritti politici, e Tocqueville, trasfigurando e fraintendendo il modello americano, raccomanda il ricorso alle elezioni indirette, John Stuart Mill, invece, dopo aver proceduto ad un bilancio e ad una riformulazione, in qualche modo più moderna e civettuola, dei metodi tradizionali, attira l'attenzione soprattutto su un metodo raccomandato come nuovo. Concentriamoci, intanto, sul primo aspetto. Il sistema elettorale di secondo grado, caro al suo amico e interlocutore Tocqueville, appare al liberale inglese scarsamente praticabile già per il fatto che risulta difficilmente esportabile in un paese privo di struttura federale: Il caso in cui l'elezione a due fasi risponde bene nella pratica, è quando gli elettori non sono scelti unicamente come elettori ma anche per assolvere altre funzioni importanti; per cui essi cessano di essere eletti unicamente come delegati per dare un voto. Un'altra istituzione degli Stati Uniti d'America, il Senato, offre un esempio a tale riguardo (...). Questi membri non sono scelti dalla popolazione ma dalle legislature di Stato che a loro volta sono scelte dalla collettività di ciascuno Stato.
E inoltre da tener presente che il sistema elettorale di secondo grado comincia a rivelarsi una finzione anche là dove continua ad essere formalmente in vigore: solo «nominalmente», negli Stati Uniti, l'elezione del presidente «è indiretta»; in realtà, i membri del collegio elettorale sono eletti con un mandato vincolato ad una precisa ed esclusiva candidatura presidenziale (Mill, 1916, pp. 172 sg.). Che fare? Rispetto alla precedente tradizione liberale, in Mill c'è una preoccupazione nuova. Nel frattempo, in Francia il suffragio universale (maschile) si è imposto definitivamente e, se anche viene «regolato» e vanificato dal regime bonapartista, risulta comunque sempre più difficile contestarlo in linea di principio. L'autore inglese ne tiene conto: «è assolutamente necessario (...) che il suffragio sia il più possibile esteso» e che si giunga, anzi, all'«universalità del suffragio». Ma dopo questo
I 28
CAPITOLO PRIMO
riconoscimento di principio, subito emerge la preoccupazione di sempre: in un tale stato di cose la grande maggioranza dei votanti di quasi tutti i paesi, certissimamente anche nel nostro, si comporrebbe di lavoratori manuali; e il doppio pericolo, quello di un livello troppo basso di intelligenza politica e quello di una legislazione di classe, continuerebbe a sussistere in misura considerevole (Mill, 1 9 1 6 , pp. 1 5 5 e 153).
Per fronteggiare tale pericolo, rispunta il rimedio tradizionale della restrizione censitaria dei diritti politici: E pure importante che l'assemblea che vota le tasse generali o locali sia eletta esclusivamente da coloro che pagano una parte di queste tasse. Quelli che non pagano tasse, disponendo coi loro voti del denaro altrui, hanno tutte le ragioni per essere prodighi e nessuna per essere economi. Finché si tratta di questioni di denaro, ogni diritto di voto posseduto da questi è una violazione del principio fondamentale di un governo libero; una separazione dei poteri di controllo dall'interesse di esercitare proficuamente questo potere. (...) C o m ' è noto, ciò ha provocato in qualche grande città degli Stati Uniti l'ascesa delle imposte locali ad una cifra esorbitante sostenuta per intero dalle classi ricche. La rappresentanza estesa proporzionalmente all'imposta, e non oltre, s'accorda con la teoria delle istituzioni britanniche (MiU, 1916, p. 153).
Emerge qui con chiarezza che il principio caro alla tradizione liberale, per cui non è lecita alcuna tassazione che non sia approvata dalla rappresentanza parlamentare (No taxation without representation) sta a significare anche, e forse in primo luogo, che non hanno diritto ad una rappresentanza politica autonoma coloro che risultano troppo poveri per essere soggetti a imposizione fiscale (No representation without taxation). Del resto, è in questo senso che, un quarto di secolo più tardi, questo principio, «il principio più fondamentale della libertà britannica», verrà interpretato da Lecky (1981, voi. i , pp. 2 e 27). Per Mill, non ci sono comunque dubbi sul fatto che l'assistenza del comune dovrebbe essere un perentorio motivo d'inammissibilità al diritto di voto. Colui che non può sostenersi col suo lavoro, non ha diritto di servirsi del denaro degli altri. Dipendendo per il suo sostentamento dai membri della comunità, egli abdica al diritto di essere trattato sul medesimo piano degli altri. C o l o r o ai quali egli d e v e la continuazione della sua stessa esistenza possono reclamare, a giusto titolo, la direzione esclusiva di quelle attività alle quali egli non contribuisce o contribuisce meno di quanto ottiene. Per avere diritto al v o t o bisognerebbe non essere stati iscritti sui registri del comune per u n certo numero di anni (ad esempio cinque) prima del giorno dell'iscrizione elettorale (Mill, 1 9 1 6 , p. 154).
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
29
Ma la concessione dei diritti politici sulla base del reddito viene avvertita sempre più come odiosa da strati via via più ampi di popolazione. Ecco allora che la discriminazione censitaria si sforza di assumere un volto più moderno e più accettabile: «Considero inammissibile che una persona partecipi al suffragio senza saper leggere, scrivere e, aggiungerei, senza possedere i primi rudimenti di aritmetica» (Mill, 1916, p. 151). Alcuni anni dopo, in America, il processo di de-emancipazione dei neri e dei bianchi poveri sarebbe avvenuto per l'appunto anche tramite l'imposizione di un esame preliminare teso ad accertare il livello di alfabetizzazione e di cultura dell'elettore. È significativo l'argomento cui Mill ricorre per giustificare l'esclusione dai diritti politici degli analfabeti: concedere «il suffragio a un uomo che non sappia leggere» è come «darlo a un fanciullo che non sappia parlare» (Mill, 1916, p. 151). Ritorna la metafora che era servita a Constant per discriminare «coloro che l'indigenza mantiene in un'eterna dipendenza e condanna ai lavori giornalieri» e che pertanto non risultano «più illuminati dei fanciulli in merito agli affari pubblici» (Constant, 1970, p. 100). Considerati che siano come analfabeti o fanciulli, questi esseri a cui il duro lavoro impedisce di conseguire la cultura e la maturità civica rinviano pur sempre alla medesima classe sociale a cui entrambi gli autori liberali negano la cittadinanza politica. Scrivendo ad alcuni decenni di distanza da Constant, Mill sembra incline ad allentare i vincoli della discriminazione censitaria, si mostra ed è più possibilista circa l'indiretta «influenza sullo spirito dei votanti e su quello del legislatore» che è lecito e opportuno accordare alle «opinioni e i desideri delle classi operaie più povere e più rozze», le quali ultime, tuttavia, non possono essere ammesse «ad esercitare pienamente il diritto di suffragio nella condizione attuale della loro moralità e della loro intelligenza» (Mill, 1916, p. 185). I cittadini tradizionalmente considerati «passivi» possono prendere ora l'iniziativa di comunicare le loro opinioni a quelli «attivi», i quali ultimi rimangono però i soli titolari dei diritti politici in senso stretto. Ma che ne è allora dell'«universalità del suffragio», pur affermata in linea di principio? Per realizzarla in concreto si dovrebbe fare in modo «che l'imposta scenda in forma visibile fino alle classi più povere» e che i «mezzi di acquisto» dell'«elementare sapere» richiesto per l'esercizio dei diritti politici «siano alla por-
I
31
CAPITOLO PRIMO
tata di tutti» (Mill, 1916, pp. 153 e 151). Risulta dunque con chiarezza che, in Mill - mentre il suffragio universale viene coniugato al futuro, rinviato com'è al momento in cui sarà scomparso l'atialfabetismo e non ci saranno più individui così poveri da aver bisogno dell'assistenza pubblica e da non poter essere sottoposti neppure ad un livello minimo di imposizione fiscale - le esclusioni, dettate immediatamente o mediatamente dal censo, vengono coniugate al presente. In realtà, il filosofo che pure ha avuto il merito di mettere in discussione e condannare l'esclusione delle donne dai diritti politici (Mill, 1971) non riesce a superare la logica della discriminazione censitaria, nonostante qualche omaggio formale al principio del suffragio universale.
7. Il voto plurale Non solo: con lo sguardo rivolto al montante movimento di rivendicazione dell'estensione dei diritti politici, il liberale inglese indica un altro metodo per neutralizzare o limitare al massimo l'influenza politica delle classi popolari: Q u a n d o due persone interessate nella medesima controversia sono di opinioni differenti, deve la giustizia esigere che le due opinioni siano considerate esattamente di eguale valore? (...) Se le istituzioni del paese attribuiscono virtualmente alle due opinioni un medesimo valore esse sanciscono un'assurdità. L'una delle due persone, in quanto dotata di migliori qualità, ha diritto a un'influenza superiore (Mill, 1 9 1 6 , pp. 1 5 5 sg.).
E, dunque, pur coniugato al futuro, il suffragio universale non deve comunque essere uguale per tutti: ai migliori e piii intelligenti va assicurata già per via legislativa una superiore influenza sulla vita politica. Ma tale discriminazione non è essa stessa odiosa? Non è questa l'opinione di Mill: «Ognuno ha il diritto di sentirsi offeso se non è tenuto in considerazione. Nessuno, se non un pazzo, e solo un pazzo di una certa categoria, può sentirsi offeso perché si riconosce che ci sono altri la cui opinione e le cui aspirazioni valgono più delle sue» (Mill, 1916, p. 157). Come accertare, tuttavia, il livello d'intelligenza degli elettori in modo da assegnare ai meritevoli il voto plurale? Per il liberale inglese, c'è un'immediata evidenza a cui fare ricorso:
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
31
U n datore di lavoro è più intelligente di un operaio, in quanto è necessario che egli lavori con il cervello e non solo con i muscoli (...). U n banchiere, un negoziante saranno probabilmente più intelligenti di un bottegaio perché hanno interessi più vasti e più complessi da seguire (...). A tali condizioni, si potrebbero accordare due o tre voti ad ogni persona che esercitasse una di queste funzioni di maggior rilievo.
E un analogo trattamento privilegiato può essere riservato alle «professioni liberali» (Mill, 1916, p. 158). È appena il caso di dire che, cacciata dalla porta, la discriminazione censitaria rientra prepotentemente dalla finestra. Almeno in un caso, essa non ha neppure bisogno di evitare l'ingresso principale o di assumere mentite spoglie. Per quanto riguarda gli enti locali, Mill propone esplicitamente un voto plurale su base censitaria: «Poiché l'uso onesto ed economo del denaro costituisce un fattore molto più importante nei corpi locali che non nell'assemblea nazionale, è giusto quanto politico accordare un'influenza superiore e proporzionale a coloro che hanno in gioco degli interessi pecuniari superiori» (Mill, 1916, p. 246). A questo punto, il teorico del voto plurale è costretto a polemizzare, anche vivacemente, contro il paese dal suo amico e interlocutore Tocqueville additato invece a modello in quanto fondato sul suffragio universale eguale, anche se poi filtrato attraverso un sistema elettorale di secondo grado. Il liberale inglese scrive: Le istituzioni americane hanno impresso fortemente nella mentalità americana l'idea che ogni uomo di razza bianca vale quanto un altro: questa falsa credenza è strettamente legata a taluni degli aspetti meno felici del carattere americano. E un male, è un grande male che la costituzione di un paese venga a sanzionare questo principio: credervi più o meno esplicitamente è moralmente e intellettualmente nocivo quanto i peggiori effetti cui possano condurre la maggior parte delle forme di governo (Mill, 1 9 1 6 , p. 163).
Come si vede, a torto si è voluto fare un campione della democrazia anche di Mill che pure riconosce la sua diffidenza per tale regime politico, dato il terrore che in lui suscita «l'ignoranza e specialmente l'egoismo e la brutalità delle masse» (Mill, 1976, p. 180). Aveva invece ragione il liberale, o liberal-conservatore, Lecky a richiamarsi, alla fine dell'Ottocento, nella sua denuncia degli effetti rovinosi del crollo di ogni discriminazione censitaria, all'insegnamento di Mill il quale «non era insensibile al
I 32
CAPITOLO PRIMO
pericolo e all'ingiustizia di dissociare il potere di deliberare le tasse dall'obbligo di pagarle, ed era consapevole del fatto che il suffragio universale non qualificato conduce direttamente e rapidamente a una forma di rapina» (Lecky, 1981, voi. i , p. 232). Un'ulteriore riflessione merita la storia del voto plurale. Adottato su scala limitata in Francia durante la Restaurazione, nel momento in cui più fortemente si fa sentire la reazione nobiliare e clericale (Villey, 1900, p. 10), per un curioso destino il sistema elettorale proposto da Mill al fine di conciliare estensione del suffragio ed egemonia delle classi possidenti e colte, presiede in pratica a tutti i tentativi di de-emancipazione che si sviluppano nei decenni successivi: così dopo la Comune di Parigi (cfr. infra, cap. i , § 9); così in Italia, subito dopo la marcia su Roma (cfr. infra, cap. 6, § 4); così, di nuovo in Francia, dopo il crollo della Terza Repubblica e l'avvento al potere di Pétain (Huard, 1991, p. 357). C ' è solo da aggiungere che, ancora nell'America dei giorni nostri, non è mancato chi ha proposto, sulla scia di Mill, l'introduzione di un «sistema di rappresentanza proporzionale che dia peso al voto di ogni uomo in rapporto alla sua capacità manifesta di operare scelte intelligenti». L'articolo in questione, di J. Farkas, pubblicato sulla pagina delle «opinioni» del «New York Times», ha un titolo assai significativo: «Un uomo, 1/4 di voto»! (Okun, 1990, p. 9).
8. La discriminazione censitaria come principio di legittimità Già il carattere ostinato, variegato e proteiforme della resistenza opposta al principio del suffragio universale mette in crisi la tesi cara a coloro che, più o meno apertamente, vorrebbero ridurre la discriminazione censitaria ad una sorta di incidente di percorso o ad un errore giovanile superato in virtù di un processo di maturazione spontanea della tradizione liberale, al di fuori, in ultima analisi, di ogni pressione e condizionamento esterno (Veca, 1990, p. 27). In realtà, tale tradizione mostra così poca apertura nei confronti dell'estensione del suffragio alle classi popolari che giunge a considerarla, in quanto gravida di attacchi rovinosi alla proprietà, come una violazione delle regole del gioco meritevole di essere contrastata anche con la violenza. Per Montesquieu (1949-51, libro 11, cap. 6), la soppressione della
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
33
Camera ereditaria dei Pari e del suo diritto di veto nei confronti delle «iniziative del popolo» (e cioè delle leggi varate dal ramo in qualche modo popolare del Parlamento) è già sinonimo di dispotismo e persino di «schiavitù» per il fatto che darebbe il via ad una legislazione tutta o prevalentemente rivolta contro i ceti privilegiati. Collocandosi questa volta dal punto di vista della borghesia più che della nobiltà, il termidoriano Boissy d'Anglas, dopo aver messo in guardia contro le «tasse funeste» che sarebbero state inevitabilmente imposte dal potere legislativo una volta caduto in balia o sotto l'influenza dei non-proprietari, aggiunge: «Un paese governato dai proprietari è nell'ordine sociale, quello in cui governano i non-proprietari è invece nello stato di natura» (Lefebvre, 1984, p. 35). E in una condizione priva di ordinamento giuridico e di norme legali, la parola è evidentemente alle armi. Sia pure con linguaggio più cauto, in termini analoghi si esprime anche Constant: N o t a t e che lo scopo necessario dei non-proprietari è di arrivare alla proprietà: tutti i mezzi che darete loro essi li impiegheranno a questo scopo. Se alla libertà di mestiere e di lavoro (de facultés et d'industrie) che dovete loro aggiungete i diritti politici che non dovete loro, questi diritti nelle mani del più gran numero serviranno infallibilmente a invadere la proprietà (...). Ponete fra i legislatori dei non-proprietari, sia pure bene intenzionati, e l'inquietudine dei proprietari ostacolerà tutti i loro provveddimenti. Le leggi più sagge saranno sospettate (Constant, 1970, p. l o i ) .
Esse verranno cioè, legittimamente o comprensibilmente, disattese o trasgredite. È anche in base a tali considerazioni che gli ambienti liberali francesi partecipano all'organizzazione del colpo di Stato del 18 Brumaio, o lo salutano, almeno agli inizi, calorosamente (cfr. infra, cap. 3, § i). Il quadro non cambia se dalla Francia si passa all'Inghilterra che, peraltro, già costituisce il modello di Montesquieu. Anche per Locke, dal fatto che «la conservazione della proprietà» è il fine stesso della società consegue non solo che «il potere legislativo d'uno Stato» non può «disporre arbitrariamente dei beni dei sudditi, o prenderne una parte a suo piacimento», ma anche che il potere legislativo non può essere modificato nella sua composizione, intaccando ad esempio la Camera dei lords e la trasmissione ereditaria dei suoi seggi (Locke, 1974, §§ 138 e 243). Anche se mediata dall'intervento del potere legislativo, l'intrusione o r«invasione» dei non-proprietari nella sfera della prò-
I 34
CAPITOLO PRIMO
prietà è sempre un atto di arbitrio e di saccheggio, di violenza, un atto quindi che può essere legittimamente contrastato dalla violènza dell'aggredito. E questa è l'opinione dello stesso John Stuart Mill: «ogni diritto di voto» nelle mani di chi non paga tasse «è una violazione del principio fondamentale di un governo libero»; attribuire i diritti politici a cittadini poveri non soggetti all'imposizione fiscale e quindi la partecipazione al potere legislativo «è la medesima cosa che permettere alla gente di frugare nella tasca del prossimo per scopi che ci si compiace di chiamare pubblici» (Mill, 1916, p. 153). Alla fine dell'Ottocento, Lecky, dopo aver ripreso la tesi già vista in Constant secondo cui i non-proprietari titolari di diritti politici sarebbero inevitabilmente portati a perseguire «obiettivi predatori e anarchici» e persino a «demolire la società», definisce un «sistema di confisca velata» quello che consente ai nonproprietari di imporre tasse che gravano sulle spalle degli abbienti. In tal modo, questi ultimi vengono di fatto ad essere «completamente privati dei diritti politici» {disfranchised) (Lecky, 1981, voi. I, pp. 2, 21 e 27). L'indebita emancipazione politica delle classi popolari comporta cioè la de-emancipazione di fatto delle sole classi abilitate alla guida del paese. Come si vede, è semplicemente un mito apologetico la tesi di una spontanea maturazione del pensiero liberale che progressivamente si apre ad un'estensione sempre più larga del suffragio. Del resto, ancora ai giorni nostri, autori come Mises e Hayek individuano nel suffragio universale la causa ultima dei provvedimenti dispotici e totalitari di redistribuzione del reddito emanati, anche in Occidente, dal Welfare State (cfr. infra, cap. 7, §§ 5 e 7).
9. Emancipazione e de-emancipazione Ma la tesi degli apologeti della tradizione liberale risulta insostenibile non solo perché sorvola sulle gigantesche lotte politiche e sociali sviluppate dalle masse popolari escluse dai diritti politici, ma anche perché conferisce al processo storico di conquista ed estensione del suffragio un carattere lineare che non corrisponde affatto alla realtà. Già la prima riforma elettorale realizzata dall'Inghilterra liberale, quella che comincia ad introdurre gli elementi costitutivi del regime rappresentativo mo-
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
35
derno, presenta caratteristiche contraddittorie: «Il suffragio in molti borghi era democratico, più democratico prima che dopo il 1832; e se da una parte la grande legge di riforma mitigò molti abusi e spazzò via alcune anomalie, dall'altra privò dei diritti politici numerosi elettori poveri e creò un malcontento che alimentò il movimento cartista» (Pollard, 1938, p. 164). Assistiamo qui ad un intreccio tra emancipazione e de-emancipazione. Considerazioni analoghe possono essere fatte anche per quanto riguarda la Francia. Dopo il 1789, la borghesia liberale introduce una discriminazione censitaria piii aspra di quella presente al momento delle elezioni degli Stati generali svoltesi, come abbiamo visto, sulla base di un «suffragio quasi universale», sia pur controllato, per quanto riguarda il Terzo stato, mediante un sistema elettorale a più gradi (cfr. supra, cap. i , § 2). Come in Inghilterra, anche in Francia gli inizi del regime rappresentativo moderno sono caratterizzati dall'intrecciarsi di emancipazione e de-emancipazione. L'ulteriore sviluppo storico vede l'alternarsi serrato di rivendicazioni e misure di emancipazione a tentativi e misure di deemancipazione. La giornata del 10 agosto 1792 impone un suffragio maschile quasi universale, successivamente cancellato dal Termidoro. Qualcosa di analogo si verifica dopo la rivoluzione del '48 che sancisce il suffragio universale (maschile). Ma ecco che, nel maggio 1850, la borghesia liberale non esita a calpestare la Costituzione su cui aveva giurato due anni prima. Questa affermava (art. 25): «Sono elettori, senza condizione di censo, tutti i francesi al di sopra dei 21 anni e che godono dei diritti civili e politici». E, invece, con una sorta di «colpo di Stato parlamentare», vengono privati dell'emancipazione politica appena conquistata coloro che, costretti a continui spostamenti in cerca di occupazione, non possono esibire un certificato di residenza stabile (Pierre, 1878, voi. 2, pp. 366 e 322). In tal modo, vengono esclusi «3 milioni sui 9 milioni e mezzo di votanti». A d essere de-emancipata è la «vile moltitudine» indegna dei diritti politici; questa, almeno, l'opinione di Thiers (Cobban, 1967, p. 397), il quale poi, non senza cinismo, aggiunge: «Universale non vuol dire tutti, ma vuol dire il più gran numero possibile nello spirito della Costituzione» (Huard, 1991, p. 11), e cioè, a ben guardare, dell'ordinamento sociale esistente. Per guadagnare il consenso popolare. Luigi Napoleone rein-
I 36
CAPITOLO PRIMO
troduce il suffragio universale maschile, sia pure controllandolo dall'alto nell'ambito di un regime le cui caratteristiche analizzeremo nei capitoli successivi. Come si è visto, non mancano tentativi per sostituire a quello bonapartista un regime legittimistaliberale che difficilmente avrebbe lasciato in piedi il suffragio universale diretto. Il quale ultimo, come dopo l'esperienza giacobina e la rivoluzione del '48, così anche-dopo la Comune di Parigi viene duramente contestato e messo in discussione dagli stessi ambienti liberali. Fioriscono le proposte più diverse che prevedono il voto plurale a favore dei «più intelligenti» oppure il suffragio a più gradi oppure ancora il ritorno alla discriminazione censitaria esplicita. Quest'ultima opzione appare subito assai pericolosa o del tutto impraticabile per le reazioni popolari che potrebbe provocare. Non è più possibile, o è comunque sconsigliabile, mettere apertamente in discussione il principio del suffragio universale. Si tratta semmai di «regolamentarlo, moralizzarlo, epurarlo», come afferma Thiers (con riferimento forse alla legge del 31 maggio 1850 di cui era stato uno dei promotori), evitando, però, di suscitare l'impressione di voler reintrodurre la discriminazione censitaria. Ma anche tale scappatoia appare alquanto problematica, tanto più che i bonapartisti continuano ad atteggiarsi a difensori del suffragio universale; e così la legislazione elettorale della Terza Repubblica si accontenta di sancire il collegio uninominale, disegnando le circoscrizioni elettorali in base a criteri «che falsificano a profitto dei dipartimenti rurali l'uguaglianza nella rappresentanza tra i cittadini» (Huard, 1991, pp. 108-17). Il paese classico della de-emancipazione, dove questa si è affermata con particolare ampiezza e tenacia, sono gli Usa. Qui, alla fine dell'Ottocento, si sviluppa un movimento complessivo di de-emancipazione costituito da tre processi certo tra loro intrecciati e che tuttavia presentano caratteristiche distinte. Le prime vittime sono ovviamente i neri: affrancati dalla schiavitù e ammessi al godimento dei diritti politici con la Guerra di secessione, inizialmente riescono persino ad essere presenti in organismi rappresentativi locali e statali (Piven e Cloward, 1988, p. 79). La loro situazione peggiora, però, rapidamente, e drammaticamente, dopo il ritiro delle truppe federali e la «riconciliazione» tra Nord e Sud: «Prima che il ventesimo secolo avesse compiuto i dieci anni di vita, la soppressione dei diritti eletto-
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
37
rali dei neri era un fatto compiuto in tutto il Sud»: semplicemente assurdo e «impossibile» viene dichiarato dalla classe dominante il «principio del suffragio universale» (Buck, 1963, p. 277). E il periodo in cui anche numerosi bianchi vengono privati, come vedremo, dei diritti politici. Ma che siamo in presenza, al tempo stesso, di un processo specifico di de-emancipazione riguardante i neri è dimostrato dalla legislazione mirata di numerosi Stati del Sud e dalla reinterpretazione del Literacy Tesi ad opera della Louisiana, che introduce, nel 1898, la «clausola del nonno», per cui un cittadino viene esonerato dalla prova di leggere e scrivere se ha votato prima del 1° gennaio 1867 o se è figlio o nipote di una persona che abbia usufruito di quel diritto: con tale espediente le liste elettorali vengono epurate di tutti i votanti di colore, pur includendo al tempo stesso «tutte», o quasi, «le classi dei bianchi» (Buck, 1963, pp. 276 sg.). Particolarmente complesso e tormentato è l'evolversi dello statuto politico degli immigrati. Il Naturalization Act del 1798, al quale si è già avuto modo di accennare, comporta in pratica una de-emancipazione, per il fatto che nega la cittadinanza, cui fino a quel momento hanno diritto, a numerosi immigrati i quali anzi si vedono privati anche di alcuni diritti civili, dato che quella legge è il presupposto di altre che immediatamente dopo conferiscono al presidente poteri discrezionali per quanto riguarda «l'arresto e la deportazione» degli stranieri (Wilson, 1918, voi. 6, p. 39). Successivamente, gli immigrati usufruiscono anch'essi del generale processo di emancipazione che si verifica nel decennio successivo alla Guerra di secessione e che sembra voler abbattere ogni discriminazione politica: in alcuni Stati, anche senza aver formalmente conseguito la cittadinanza, gli immigrati «possono votare, a condizione che siano residenti da pili anni e/o abbiano manifestato l'intenzione di chiedere la naturalizzazione». Nel momento più alto di estensione della cittadinanza politica, gli immigrati hanno diritto di voto nella maggioranza degli Stati (22 su 37). Senonché, a partire dal 1875, inizia il processo di de-emancipazione: nel 1900, a consentire tale voto sono solo II Stati; nel 1925 è rimasto solo l'Arkansas; «nel 1928, per la prima volta a partire dalle origini, neppure un nonamericano partecipa a una elezione, che sia federale, statale o locale» (Burnham, 1970, pp. 71-90; Toinet, 1988, pp. 294 sg. e 299).
I 38
CAPITOLO PRIMO
A d essere sottoposti a misure di de-emancipazione sono anche i bianchi poveri, attraverso la poll-tax, cioè l'imposta elettorale, e il literacy test che misura il livello di alfabetizzazione. Non poche volte, la de-emancipazione viene sancita solennemente: «la maggior parte degli Stati del Sud e l'Oklahoma» procedono ad una revisione costituzionale in base alla quale si richiede agli elettori «di saper leggere o anche di saper spiegare il testo della Costituzione» (Ostrogorski, 1991, p. 470, nota). Questo soprattutto nel Sud. A livello federale, invece, vengono emanate le registration laws che scaricano sul singolo cittadino il compito di provvedere alla propria registrazione nelle liste elettorali e rendono questo compito sempre più macchinoso e costoso con il risultato (e l'intento) di scoraggiare la partecipazione delle classi più povere. In effetti, si verifica un crollo verticale. Il 1896, l'anno della definitiva sconfitta del movimento populista e dell'accelerazione del processo di reazione ad opera delle classi dominanti ancora spaventate, segna una svolta che può essere persino definita una «controrivoluzione», sia pure dalle modalità pacifiche (Piven-Cloward, 1988, pp. 48 sgg.).
IO. Negazione dei diritti politici, mercato del lavoro e lavoro servile Come la tenace restrizione censitaria dei diritti politici non è un incidente di percorso o una svista della tradizione liberale, cosi la de-emancipazione non è l'occasionale ricaduta in un errore 0 peccato giovanile. La controrivoluzione in questione ha evidenti implicazioni sociali. Cominciamo ad analizzare quelle riguardanti gli immigrati e i bianchi americani. La pressione operaia e popolare era riuscita a strappare in numerosi Stati una legislazione sociale che limitava e regolamentava il lavoro di donne e bambini e imponeva, nelle fabbriche e sui posti di lavoro, alcune misure generali di sicurezza; si trattava di una legislazione che, sia pure largamente disattesa e spesso annullata dai tribunali in nome della libertà di contratto, veniva tuttavia dalle classi dominanti sentita come una minaccia e messa in connessione con 1 guasti del suffragio universale e dell'influenza politica delle classi considerate pericolose. Bisognava dunque procedere ad una decisa limitazione di tale influenza, in modo da impedire o
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
39
ostacolare il più possibile l'avvento deUo Stato sociale: proprio la «controrivoluzione» della fine del secolo scorso è la principale responsabile del ritardo accumulato dagli Stati Uniti in tale campo (Toinet, 1988, pp. 291 sg.; Piven e Cloward, 1988, p. 9). Per quanto riguarda gli immigrati, gli ostacoli supplementari posti alla loro naturalizzazione e all'acquisizione della cittadinanza cadono in un periodo in cui contro di loro si sviluppa un'esagitata campagna razzista, col verificarsi anche di episodi di linciaggio a danno dei cinesi (Gosset, 1965, p. 290). Non a caso si tratta di una minoranza non poche volte inquadrata in rapporti di lavoro semi-servili. È stato giustamente osservato che «i termini razziali rispecchiano il processo politico grazie al quale le popolazioni di interi continenti sono state trasformate in fornitori di lavoro eccedente coatto». Altre minoranze etniche, deemancipate o private della possibilità di accesso alla cittadinanza e «stigmatizzate» in termini razziali, vengono costrette ai «gradini inferiori» del mercato del lavoro (Wolf, 1990, pp. 526 sg.). Ancora più evidente è il rapporto tra de-emancipazione politica e de-emancipazione sociale per quanto riguarda i neri. Non pochi studiosi sottolineano il fatto che nel Sud degli Usa «la soppressione del diritto di voto dei neri era una condizione della stabilità dell'economia della piantagione e del lavoro servile sul quale questa si fondava» (Piven, 1991, p. 243). La presenza di esponenti politici neri a livello locale e statale ostacolava il ristabilimento del «sistema di lavoro di casta» (Piven e Cloward, 1988, p. 79); ed è così che gli schiavi già emancipati e ammessi alla cittadinanza politica diventano di nuovo degli «stranieri», inferiori per natura e per razza, e quindi destinati a «lavorare per i bianchi» in una condizione «paragonabile al servaggio» (Buck, 1963, pp. 274-78). Si assiste così ad una «nuova schiavizzazione dei negri», i cui salari di fame vengono imposti non dal mercato, bensì dalla forza bruta dei padroni bianchi (Franklin, 1983, pp. 392 sg.).
11. Tradizione liberale, discriminazione cemitaria e razzizzazione degli esclusi A questo punto, siamo in grado di comprendere meglio il significato della discriminazione censitaria che ha pervicacemente accompagnato la storia della tradizione liberale. Sieyès
I 40
CAPITOLO PRIMO
che teorizza la distinzione tra cittadini attivi e cittadini passivi, considera come un fatto pacifico che la «moltitudine senza istruziofle» sia obbligata ad un lavoro «forzato» e sia dunque «priva di libertà»; propone anche, come sappiamo, di introdurre formalmente in Francia il lavoro servile o semiservile, cui dovrebbero essere sottoposti i cittadini passivi ovvero le «macchine di lavoro»: le due categorie coesistono talvolta tranquillamente (Sieyès, 1985, pp. 81 e 236). E, oltre che come machines de travati, il portavoce del Terzo stato e della borghesia liberale francese parla della «maggior parte degli uomini» come «strumenti umani della produzione» o come «strumenti bipedi», riprendendo in ultima analisi la categoria di cui si serve Aristotele per definire il lavoro servile (Sieyès, 1985, pp. 89, 75 e 81). Se dalla Francia passiamo all'Inghilterra, vediamo che anche Burke, il whig inglese ancora oggi assai caro ad autori liberali come Hayek e Dahrendorf (cfr. infra, cap. 7, § 10), sussume il bracciante o il lavoratore salariato sotto la categoria di instrumentum vocale utilizzata nell'antichità classica per designare e classificare lo schiavo (Burke, 1826 b, p. 383; Losurdo, 1992 a, cap. 6, § 4). E la cosa ben si comprende: già Locke è dell'opinione che «la maggior parte dell'umanità» non può non essere sottoposta a condizioni di vita e di lavoro dalle quali è enslaved, è cioè ridotta ad una condizione simile alla schiaviti! (Locke, 1982, libro 4, cap. 20, § 2); a sua volta Mandeville, un altro classico della tradizione liberale, definisce la «parte più meschina e povera della nazione» the working slavingpeople, destinato per sempre a svolgere un «lavoro sporco e simile a quello dello schiavo» {dirty slavtsh Work), un lavoro rispetto al quale l'istruzione può essere considerata solo un elemento di disturbo (Mandeville, 1987, parte prima, nota L; Mandeville, 1974, pp. 106 e 91 sg.). Come si vede, vanno di pari passo la discriminazione censitaria e una divisione del lavoro che si spinge fino alla giustificazione del lavoro servile o semiservile. I miserabili che ad esso sono condannati vengono poi descritti in termini che giustifichino la loro utilizzazione come semplici strumenti di produzione, in qualche modo vengono rappresentati come esseri privi della pienezza delle caratteristiche umane. Che senso avrebbe concedere i diritti politici a coloro che, «per il naturale e inalterabile stato di cose in questo mondo», sono destinati - è Locke ad esprimersi in questi termini - a rimanere al livello di un
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
41
«cavallo da soma portato avanti ed indietro dal mercato per un ristretto sentiero ed una strada sporca» e che sono separati dagli uomini delle classi superiori da «una distanza maggiore che tra alcuni uomini e alcune bestie» (Locke, 1982, libro 4, cap. 20, § 2 e 5)? Analogo è l'atteggiamento di Burke che parla della maggior parte degli uomini, quella che deriva i suoi mezzi di sussistenza dal duro lavoro quotidiano, come della «moltitudine suina» {swinish multitudé) (Burke, 1826 a, p. 154), o quello di Sieyès che nega si possano «trovare degli uomini», almeno nel senso pieno della parola, tra la «folla immensa di strumenti bipedi {ìnstruments bipèdes), priva di libertà, priva di moralità, priva di vita intellettuale {intelkctmlité)» (Sieyès, 1985, p. 81). A fondamento e giustificazione della discriminazione censitaria c'è un'antropologia e un'ontologia, ovvero - per far ricorso ad una categoria oggi al centro dell'indagine sociologica e del dibattito politico (Taguieff, 1987; Balibar, 1988 a e 1988 b) - un processo di razzizzazione, che rende totalmente estranei ai cittadini attivi e slV élite dominante gli esclusi dalla cittadinanza. È stato osservato che fra il 1660 e il 1760, si sviluppa in Inghilterra un atteggiamento verso il nuovo proletariato industriale notevolmente più duro di quello generalmente d i f f u s o nella prima metà del diciassettesimo secolo, tanto da non trovare riscontro ai nostri tempi se non nel comportamento dei piii abietti colonizzatori bianchi verso i lavoratori di colore (Tawney, 1 9 7 5 , p. 513).
È un'osservazione che si presta a due ordini di considerazioni. Intanto fa cadere definitivamente in crisi lo schema evoluzionistico caro agli apologeti della tradizione liberale i quali, come ignorano l'intreccio tra emancipazione e de-emancipazione, così sorvolano sul legame tra la discriminazione censitaria e quel processo di razzizzazione dei discriminati che caratterizza gli inizi dell'Inghilterra liberale, ma che si può osservare anche in altri paesi. E evidente ad esempio che, per quanto riguarda la Francia, sarebbe difficile trovare in autori come Bodin o Bossuet la durezza manifestata da Sieyès nei confronti di quelli che egli definisce «strumenti bipedi». Il secondo ordine di considerazioni scaturisce dal confronto istituito da Tawney tra l'atteggiamento assunto dall'Inghilterra protoliberale verso il proletariato industriale e l'atteggiamento
I 42
CAPITOLO PRIMO
razzista ancora ai giorni nostri largamente diffuso nei riguardi delle popolazioni coloniali o ex-coloniali. E un confronto che ci aiuta a comprendere il processo di razzizzazione a carico di certi strati sociali. In effetti, in Locke possiamo trovare scritto a chiare lettere che un lavoratore salariato, «un manovale (...) non è in grado di ragionare meglio di un indigeno» (a perfect naturai)-. l'uno e l'altro non hanno ancora raggiunto il «livello di creature ragionevoli e di cristiani» (Locke, 1979, §§ 6 e 8). Ancora nella Francia liberale della monarchia di Luglio, la rivolta dei Setaioli di Lione appare a Saint-Marc Girardin come la «nuova invasione dei barbari» (Hunecke, 1978, p. 164); e, dopo la rivolta operaia del giugno '48, Tocqueville, sia pur descrivendo le emozioni collettive del tempo, finisce con l'evocare anche lui lo spettro «dei vandali e dei goti» (Tocqueville, 1951, voi. 12, p. 93). Ma già in Sieyès possiamo leggere che «una grande nazione è necessariamente composta di due popoli» - il corsivo è nell'originale - , in qualche modo di due razze differenti e di valore essenzialmente diverso, dato che da una parte abbiamo i veri «produttori» ovvero i «capi della produzione», dall'altra gli «strumenti umani della produzione»; da una parte «le persone intelligenti» ovvero la «gente perbene» {gens honnètes), dall'altra «gli operai che non hanno che la forza passiva» e che sono semplici «strumenti di lavoro» {instruments de labeur) (Sieyès, 1985, pp. 75 e 89). Possiamo allora comprendere meglio il senso della metafora che accompagna come un'ombra la storia della tradizione liberale fino ai giorni nostri, quella che paragona gli esclusi dalla cittadinanza a «stranieri». È una metafora che, prima ancora che in Constant, troviamo in qualche modo già in Sieyès per il quale tra «questa folla immensa di strumenti bipedi» non c'è «uno solo che sia capace di entrare in società» e di far parte della ristretta cerchia di persone veramente «civilizzate» {policés) (Sieyès, 1985, p. 81). Qui lavoratore manuale è sinonimo non solo di straniero ma anche di estraneo alla civiltà, in qualche modo di membro di una razza inferiore. E significativo che questa medesima metafora venga usata già da Locke in riferimento questa volta a quel genere di servi che con un nome specifico chiamiamo schiavi, che essendo prigionieri catturati nel corso di una guerra legittima (...) e avendo perduto i loro beni e non essendo, appunto perché schiavi, qualificati a godere di
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
43
proprietà alcuna, non possono essere considerati, nelle loro condizioni, parte della società civile, il cui fine principale è la conservazione della proprietà (Locke, 1974, § 85).
Applicata che sia allo schiavo vero e proprio o al lavoratore manuale che svolge un lavoro semiservile, resta il fatto che la metafora in questione ha svolto un ruolo importante nella negazione dei diritti politici e anche in certe leggi di de-emancipazione come quella del 31 maggio 1850 in Francia (che, esigendo determinati requisiti di residenza, finiva col considerare in qualche modo stranieri i lavoratori costretti a inseguire una qualche occupazione da una località all'altra) o, ancora, come quelle che negli Stati Uniti prolungavano il periodo di residenza o comunque aggravavano i requisiti necessari agli immigrati per ottenere la naturalizzazione ed essere ammessi alla cittadinanza. Il rapporto tra discriminazione censitaria e processo di razzizzazione degli esclusi si può sorprendere anche in un'altra metafora, apparentemente piìi innocua, cui la tradizione liberale ricorre per definire e giustificare l'esclusione dalla cittadinanza dei lavoratori salariati, i quali, costretti a lavorare giorno e notte, rimangono in una situazione di «eterna dipendenza» e dunque sono simili a «fanciulli» dotati di una singolare caratteristica: l'impossibilità di divenire, prima o poi, maggiorenni (Constant, 197O) PP- 99 sgg-). D'altro canto, secondo Locke, il servo salariato entra a far parte della «famiglia del suo padrone» ed è assoggettato «alla normale disciplina di essa» (Locke, 1974, § 85). Si tenga presente che dell'oìxo?, della familia aristotelica e antica, facevano parte anche gli schiavi, la cui figura ci riconduce ancora una volta ai «barbari», dalle cui file provengono gli «schiavi per natura» di cui parla il filosofo greco. E Mill, che teorizza il dispotismo nei confronti dei «barbari» o dei membri delle «società arretrate», precisa che in questo caso «la razza stessa può essere considerata minorenne» (Mill, 1981, p. 33). D'altro canto, Sieyès, che divide la società in «due popoli» nettamente distinti e contrapposti, definisce quello destinato a fornire gli «strumenti umani» - o meglio «bipedi» - della produzione anche come la «moltitudine sempre bambina» (Sieyès, 1985, p. 80). Persino per quanto riguarda gli Stati Uniti (dove il processo di razzizzazione all'interno della comunità bianca è ostacolato dal fatto che gli strumenti di lavoro - le macchine bipedi - ven-
I 44
CAPITOLO PRIMO
gono identificati nei neri e, successivamente, nella seconda metà dell'Ottocento, negli immigrati extraeuropei o provenienti dall'Europa sudorientale e comunque estranei al ceppo degli americani autentici e di vecchia data), in occasione della Convenzione di Filadelfia non manca chi difende il monopolio proprietario del suffragio con l'argomento che non si può certo estendere un diritto così prezioso e cosi delicato anche ai «bipedi della foresta», e cioè ai barbari e selvaggi (Jameson, i960, p. 21). Soprattutto dà da pensare la caratterizzazione a cui, in contrapposizione alla «massa del popolo», composta di «meccanici» e gente comunque priva di cultura e di educazione «liberale», Hamilton e John Quincey Adams procedono dei membri dell'elite dominante come dei «ricchi e ben nati» {well-bom) (Morison, 1953, p. 259; Merriam, 1969, pp. 130, 132 e 140): anche in questa definizione è evidente la tendenza alla naturalizzazione, e quindi, in una certa misura, alla razzizzazione, delle differenze sociali esistenti all'interno della stessa comunità bianca. Ed è un linguaggio tanto piià significativo in quanto fa pensare a quello alcuni decenni piii tardi usato da Nietzsche il quale, in contrapposizione alla massa democratico-plebea e a tutto ciò che è «degenere e parassitario» (Nietzsche, 1977, La nascita della tragedia, af. 4), celebra i «ben riusciti» {wohlgeraten) che fanno parte della «razza dei conquistatori e dei signori, quella degli ariani» (Nietzsche, 1979, I, af. 5 e III, af. 16). Gli operai e le classi popolari in lotta per il riconoscimento del diritto di coalizione o dei diritti politici si rendono conto in qualche modo che la discriminazione ai loro danni s'intreccia strettamente con un'antropologia che, considerandoli stranieri non solo rispetto alla comunità in cui vivono ma anche, in ultima analisi, alla civiltà, li relega in un razza inferiore negando loro la piena dignità di uomini. Per questo nella Parigi immediatamente successiva alla rivoluzione di Luglio i giornali operai rinfacciano ai «nobili borghesi» di volersi ostinare a vedere negli operai non «uomini» ma «macchine», nient'altro che «macchine» chiamate a produrre solo per i «bisogni» dei loro padroni (Sewell jr., 1987, p. 339). Viene così individuata e colpita con precisione una categoria cara, ad esempio, a due autori liberali come Burke e Sieyès. E interessante che dopo la rivoluzione di Febbraio le canzoni popolari festeggino in Francia il conseguimento del suffragio universale come la prova che anche gli indi-
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
45
vidui dei ceti più umili cominciano a essere innalzati al «rango di uomini» (Huard, 1991, p. 33). A l di là di tali espressioni spontanee delle classi popolari, se si vuole trovare una critica dei processi di razzizzazione, non è certo alla tradizione liberale classica che si può far riferimento. È in un frammento di Rousseau che gli schiavi in lotta contro il loro «padrone» rimproverano a quest'ultimo di considerarli e trattarli alla stregua di semplici «macchine», «strumenti di lavoro» o «utensili» (Rousseau, 1959, voi. 4, p. 1726): da questo testo scaturisce un'oggettiva messa in stato d'accusa della tradizione liberale che, per definire il lavoro salariato, continua a servirsi delle categorie già utilizzate dall'antichità classica in riferimento allo schiavo cui negava la piena dignità umana. Se Locke paragona il lavoratore salariato ad un «cavallo da soma» e Burke tuona contro la «moltitudine suina», Rousseau rimprovera alle classi superiori la tendenza ad assimilare al «bue» o ad un animale domestico gli «infelici oppressi da un lavoro incessante» (Rousseau, 1971, voi. 2, p. 330). Infine, la metafora (cara a Constant e implicitamente presente già in Sieyès) che assimila i lavoratori salariati a stranieri ovvero a membri di un popolo diverso e inferiore a quello costituito dalle classi dominanti, tale metafora viene criticata anticipatamente dal filosofo ginevrino, allorché sottolinea che in uno Stato ben ordinato nessuno deve potersi sentire «straniero» (Rousseau, 1959, voi. 3, p. 255). Discepolo di Rousseau si considera Robespierre per il quale, a differenza della monarchia assoluta e dell'aristocrazia, dove uno solo o solo pochi individui possono dire di avere una «patria», mentre tutti gli altri sono apolidi, il «regime democratico» è quello in cui «lo Stato è veramente la patria di tutti gli individui», tutti ammessi, su un piano di uguaglianza, «alla pienezza dei diritti del cittadino» (Robespierre, 1958, voi. 3, pp. 114 sg.). Non è certo un caso che in Marx punto di partenza della critica della società capitalistica sia la denuncia del fatto che in essa (per riprendere le parole del Manifesto del partito comunista) gli operai «sono soltanto strumenti di lavoro che costano più o meno a seconda dell'età e del sesso» (Marx ed Engels, 1955, voi. 4, p. 469).
I 46
CAPITOLO PRIMO
12. Dal liberalismo alla democrazia? Non resiste all'indagine storica il mito, caro a Bobbio (1984, pp. 6 sg.) dello sviluppo spontaneo del liberalismo in direzione della democrazia. E un dato di fatto che ad accumulare un notevole ritardo storico sul terreno stesso dell'emancipazione politica sono proprio i paesi con una più consolidata tradizione liberale alle spalle: «Durante il ventesimo secolo, gli Stati Uniti non sono stati una democrazia, nel senso elementare di un effettivo suffragio universale» (Piven e Cloward, 1988, p. 9). Lasciamo pure da parte i pellerossa, o, meglio, i loro superstiti: in teoria, vengono ammessi al godimento dei diritti politici nel 1887 (Schlesinger sr., 1967, p. 178); ma, in realtà, attraverso alterne vicende, si vedono riconosciuta dal Congresso la qualità di cittadini americani solo nel 1924 e comunque «Stati come il Nuovo Messico e l'Arizona rifiuteranno loro il diritto di voto fino al 1948» (Jacquin, 1977, p. 160). Per quanto riguarda l'altra minoranza razziale, ancora nel secondo dopoguerra vediamo le classi dominanti nel Sud condannare i tentativi di abolire la poli tax e di imporre la registrazione elettorale dei neri, «senza riguardo alla loro intellingenza e capacità», come un criminale attentato alla migliore «eredità anglosassone», come un tentativo di ridurre gli americani autentici «al rango di una razza bastarda, inferiore» (Schlesinger jr., 1973 a, pp. 3409 e 3416 sg.). Assieme ai neri, anche i bianchi poveri continuano a subire restrizioni censitarie sino al «decennio 1960-70» (Toinet, 1991, pp. 123 sgg.). Sono del 1966 le sentenze della Corte Suprema che dichiarano l'incostituzionalità delle norme che impongono, come prerequisito per essere riconosciuti titolari del diritto di voto, un certo livello di alfabetizzazione e il pagamento della tassa elettorale; mentre è del 1972 la sentenza che dichiara l'incostituzionalità della norma in quel momento ancora in vigore nel Texas che subordina il requisito di eleggibilità al versamento di una somma proporzionale all'importanza della carica per la quale ci si intende candidare (Kerjan, 1991, pp. 67-70 e 123-27). In piedi continuano, invece, ad essere ancora oggi le leggi sulla registrazione che di fatto falcidiano la partecipazione elettorale delle classi pili povere e che quindi, secondo alcuni autori, costituiscono una nuova forma, indiretta e camuffata, di discrimina-
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
47
zione censitaria (Piven e Cloward, 1988). La quale, dunque, continuerebbe ad agire, ai giorni nostri, nel paese-guida dell'Occidente. Del resto, ancora nel 1988 la piattaforma elettorale del partito democratico invita a lottare, con riferimento alle leggi sulla registrazione, contro «ogni diluizione del principio "una testa, un voto"» (Gérard, 1989, p. 91). Considerazioni analoghe possono essere fatte, sempre per quanto riguarda il ritardo storico in tema di emancipazione politica e di conquista del suffragio universale, a proposito dell'altro paese classico della tradizione liberale, la Gran Bretagna. E appena il caso di dire che per tutto il Settecento e fino alla riforma del 1832, dunque un secolo e mezzo dopo la Gloriosa Rivoluzione liberale, «entrambi i rami del parlamento erano appannaggio della classe piìi elevata della società», e cioè dell'aristocrazia. Ancora più importante è il fatto che molto a lungo, fin quasi ai giorni nostri, le «tradizioni feudali» continuano a gravare sull'idea stessa di rappresentanza «la quale non è affatto considerata come un mezzo per esprimere il diritto individuale o per promuovere interessi individuali. Sono le comunità, e non gli individui ad essere rappresentati» (Pollard, 1938, pp. 164 e 155). Nel 1788 «The Federalist», tutt'altro che anglofobo, così sintetizza il diritto elettorale dell'ex-madrepatria: Il numero degli abitanti dei due regni, Inghilterra e Scozia, non può essere certo calcolato a meno di 8 000 000.1 rappresentanti di questi 8 milioni nella Camera dei comuni sono 558. U n nono di questi vengono eletti da 364 persone e la metà da 5 7 2 3 . N o n è possibile supporre che la metà così eletta e che non risiede nemmeno tra il popolo possa aggiungere alcunché alle garanzie su cui il popolo può contare contro il governo (...). A l contrario, è notorio che essi rappresentano pivi spesso il magistrato esecutivo di cui divengono gli strumenti, di quanto non sappiano ergersi a guardiani e ad assertori dei diritti popolari (n. 56, 1980, p. 431).
La situazione esistente alcuni decenni dopo viene così descritta da Ostrogorski: «In base ad una tabella compilata verso il 1815, c'erano alla camera dei Comuni 471 membri che dovevano il loro seggio al favore di 144 pari e di 123 commoners, 16 membri erano nominati dal governo; e soltanto 171 deputati erano eletti per suffragio popolare». Ma che sta qui a significare «suffragio popolare»? G l i elettori rappresentavano solo la corte personale dei rivali che si affrontavano Fan l'altro a duello; erano i loro fedeli oppure si vendevano loro per denaro il giorno del voto. Nelle contee il fittavolo seguiva il suo landlord.
I 48
CAPITOLO PRIMO
I piccoli proprietari (freeholders) rurali, più indipendenti, gravitavano in genere nell'orbita del grande signore del luogo; fra i borghi, molti dipendevano direttamente dai magnati territoriali; questi li possedevano come proprietà o vi esercitavano un'influenza ereditaria. La maggior parte delle altre città si vendeva alle elezioni in blocco o al dettaglio. I deputati che si facevano nominare grazie alla loro influenza territoriale, o a quella dei loro padroni, o che compravano i seggi in denaro contante, erano in realtà indipendenti dal corpo elettorale (Ostrogorski, 1 9 9 1 , pp. 1 1 3 e 144).
Per comprendere fino a che punto giungesse tale indipendenza, basta ricordare come «allorché Palmerston entrò alla Camera nel 1807, il patrono gli pose una sola condizione: che non mettesse mai piede tra gli elettori». Una condizione che certo contribuiva a equiparare il suo mandato a quello di Robert Peel il quale, in decenni di carriera parlamentare, non «partecipò mai a una competizione elettorale» (Calise, 1989, p. 39). Un liberale inglese dell'Ottocento, cantore della costituzione del suo paese, ha osservato che, per lungo tempo. Camera bassa e Camera alta sono state entrambe soggette al monopolio o allo stretto controllo dei lords, i quali decidevano della composizione anche dei Comuni; e dunque, i due rami del parlamento erano di fatto appannaggio dell'aristocrazia (Bagehot, 1974 b, p. 175). E questa «rappresentanza» che non riesce a scrollarsi di dosso il peso della tradizione medioevale alle sue spalle, che considera il suffragio non come un diritto e neppure come un diritto riservato ai membri di una determinata classe di reddito, secondo una regola pur sempre in qualche modo generale, bensì come un motivo di distinzione o un privilegio graziosamente concesso e trasmesso ereditariamente a determinate comunità o ceti od ordini; è questa «rappresentanza» che ignora del tutto la figura dell'individuo moderno come soggetto autonomo di diritti e che anzi comporta la piena «subordinazione dell'individuo alla comunità» (Ostrogorski, 1991, pp. n i sg.), è tale singolare «rappresentanza» che, in ogni caso nel Settecento, non differisce molto da quella degli Stati generali dell'Antico regime, ad essere presa di mira da Rousseau, allorché nel Contratto sociale, dopo aver sottolineato il fatto che essa affonda le sue radici nel «governo feudale», conclude che «il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso» e condanna come contrario alla libertà il sistema rappresentativo in quanto tale (Rousseau, 1966, libro 3, cap. 15).
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
49
È vero, con la riforma elettorale del 1832 la Camera dei Comuni si apre sempre pivi alla presenza e all'influenza deUa borghesia: ecco allora Bagehot consigliare caldamente a «plutocrazia» e «aristocrazia» di evitare lotte intestine e di procedere di comune accordo, per tener al riparo delle masse popolari le istituzioni parlamentari, fermo restando che le due Camere devono continuare ad essere ognuna il monopolio di una delle due classi alte e detentrici della ricchezza del paese (Bagehot, 1974 b, pp. 175-79). Certo, attraverso le due successive riforme elettorali del 1867 e del 1884-85 si realizza una notevole estensione del corpo elettorale: ma siamo ancora ben al di qua del suffragio universale (maschile), dato che, ancora con l'ultima riforma, voluta da Gladstone, ad esercitare il diritto di voto sono solo gli «intestatari di una casa», mentre continuano a sussistere «notevoli svantaggi per la classe inferiore di elettori», quelli dal proprio lavoro costretti a «cambiare di frequente luogo di residenza» (Feuchtwanger, 1989, pp. 210 e 214). Come, citando un autore tedesco, nota Lenin nel corso del primo conflitto mondiale, «il diritto elettorale (...) in Inghilterra "è ancora abbastanza Imitato da escludere lo strato inferiore propriamente proletario" » (Lenin, 1965 a, p. 653). D'altro canto, sempre in questo periodo di tempo, è lo stesso Weber (1982, p. 95) a osservare, che, se si fosse introdotto in Germania il sistema elettorale vigente in Inghilterra sino alla guerra (e alla rivoluzione d'Ottobre), sarebbe risultato dimezzato il numero dei deputati socialdemocratici al Reichstag, a danno, ovviamente, delle classi subalterne. Ma più importante ancora delle persistenti restrizioni censitarie è il fatto che in Inghilterra continua a sussistere un'idea di rappresentanza fondamentalmente premoderna. Almeno fino alla riforma del 1918, esponenti delle classi privilegiate ritengono che «il numero dei voti espressi da un uomo debba essere in proporzione ai suoi possedimenti» (PoUard, 1938, p. 165). In effetti il voto plurale continua a sussistere ancora per alcuni decenni in Gran Bretagna, dove il difficile cammino verso la democrazia è stato così sintetizzato da uno storico contemporaneo: Il sistema elettorale britannico raggiunse una teorica democrazia solo nell'aprile 1928 (...). « U n adulto, un v o t o » divenne infine una realtà, con l'eccezione dei collegi elettorali delle università e dei centri di affari che, insieme, davano a circa mezzo milione di persone (prevalentemente uomini) un secondo voto finché non furono aboliti nel 1948 (Taylor,.1975, p. 326).
I 50
CAPITOLO PRIMO
Ha osservato Bobbio (1989, p. 122 sg.): «L'individualismo è la base filosofica della democrazia: una testa, un voto. Come tale si è sempre contrapposto, e sempre si contrapporrà alle concezioni olistiche della società e della storia, da qualsiasi parte provengano». Se l'autorevole filosofo liberale volesse prendere sul serio il principio qui da lui enunciato, dovrebbe riscrivere completamente la storia dell'individualismo e della democrazia che finora emerge dalle sue pagine, per riconoscere che all'uno e all'altra è pervenuto con grave ritardo proprio il paese classico della tradizione liberale da lui celebrata o trasfigurata, e per riconoscere altresì il fondamentale contributo fornito alla vittoria del principio democratico e individualista (una testa, un voto) da una tradizione politica ben diversa, e dal Bobbio più recente troppo sbrigativamente liquidata. A quest'ultima tradizione rende oggettivamente omaggio lo storico (inglese) del parlamento inglese già più volte citato, che, scrivendo nel 1920, a proposito del dibattito in corso nel proprio paese osserva: «Un lungo cammino è stato compiuto dalla teoria feudale verso l'idea del suffragio universale. Il socialismo moderno tende a fare dello Stato la sola forma di società e a indebolire ogni altro legame associativo; e il parlamento, invece di rappresentare comunità e famiglie, è sul punto di rappresentare nuli'altro che individui» (Pollard, 1938, p. 165). Parlare in questo momento di socialismo significa anche parlare di rivoluzione d'Ottobre e delle rivendicazioni e agitazioni che da esse hanno preso le mosse e che influenzano e condizionano il movimento operaio nel suo complesso.
13. Le tre tappe della conquista del suffragio universale In effetti, a ben guardare, sono tre le tappe fondamentali che segnano la conquista del suffragio universale egualitario: 10 agosto 1792, rivoluzione del febbraio 1848, sconvolgimenti rivoluzionari neUa Russia del 1917. Tutte e tre queste date sono estranee alla tradizione liberale che anzi guarda ad esse con diffidenza o con aperta ostilità. Per quanto concerne la prima, è da notare che i teorici della restrizione censitaria nella Francia del tempo si richiamano per l'appunto all'esempio dell'Inghilterra liberale:
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
52
lo nota Robespierre il quale, senza lasciarsi impressionare dal modello agitato dai suoi avversari, accosta l'esclusione dai diritti politici alla condizione dello schiavo nell'antichità classica (Robespierre, 1958, voi. i , p p . 75669). Per quanto riguarda la seconda tappa, è interessante rileggere le dichiarazioni fatte, negli anni che precedono lo scoppio della rivoluzione, da autorevoli esponenti liberali. Sì, - osserva Thiers, polemizzando contro il movimento di rivendicazione dell'estensione del suffragio - è vero, «32 milioni di uomini sono governati dal voto di 240000. Ci sono 240000 uomini che comandano e 32 milioni che obbediscono». Può sembrare, e forse «è una sproporzione spaventosa», ma in realtà, nella concessione dei diritti politici, si è già andati troppo in là, anzi troppo in basso, dato che «si è già discesi a una classe che non ha sufficiente tempo libero, cultura e proprietà per prendere interesse alle questioni politiche» (Thiers, 1879, pp. 484 sg.). Ancora nel 1847 Guizot dichiara: «Non sorgerà mai l'alba del suffragio universale, non si leverà il giorno in cui tutte le creature umane, senza distinzione, possano essere chiamate a esercitare i diritti politici» (Huard, 1991, p. 19). Non a caso, Tocqueville vede con sgomento quella del '48 come una rivoluzione «fatta esclusivamente», già a partire dal febbraio, «al di fuori della borghesia e contro di essa», come una rivoluzione la cui «filosofia» è ispirata da «teorie socialiste», e di cui i «borghesi» costituiscono i «veri e unici vinti» (Tocqueville, 1951, voi. 12, pp. 92 e 94 sg.). È una rivoluzione, ai giorni nostri denunciata da Hayek come l'infausto prologo della «democrazia "sociale" o totalitaria» (cfr. infra, cap. 7, § 5), a sancire il suffragio universale (maschile) che peraltro, come abbiamo visto, viene subito calpestato e soppresso dalla borghesia liberale, appena quest'ultima si sente al sicuro e al riparo dalle pressioni della piazza popolare e plebea. Veniamo infine alla terza tappa. Si potrebbe obiettare che il suffragio universale (maschile) è stato conseguito già prima della rivoluzione d'Ottobre in un paese come l'Italia, che pure non ha conosciuto il giacobinismo e comunque non è passato attraverso l'esperienza di un processo rivoluzionario così radicale come quello verificatosi in Francia. Ma, a parte il fatto che, anche in tal caso, non si può prescindere dall'influenza e dalla pressione esercitate dal movimento operaio e socialista, è da notare che, contrariamente al mito corrente, la riforma elettorale del 1912
I 52
CAPITOLO PRIMO
non sancisce, in realtà, il suffragio universale, neppure maschile, dato che, per una classe importante della popolazione, quella compresa tra i 21 e i 30 anni, continua in qualche modo a sussistere il legame tra «censo» (ovvero «titoli di cultura e di onore») da una parte e «capacità elettorale» dall'altra (Siotto Pintor, 1932, p. 781; Corso, 1932, p. 785). La stessa stampa del tempo parla di «suffragio allargato» (Lucatelli, 1919, p. 125). Ha ragione Lenin (1955, voi. 21, p. 330, nota) a precisare, non senza ironia, che la riforma di Giolitti ha «"quasi" realizzato il suffragio universale». Peraltro, anche a voler ammettere che fosse eletta al di fuori di qualsiasi discriminazione censitaria, non è da perdere di vista il fatto che la Camera era comunque neutralizzata da un Senato così composto: «Vi sedevano i principi di Casa Savoia, i quali, nella loro qualità di membri di diritto, conferivano a quest'assemblea la sua impronta regia». Non solo si trattava di un'assemblea monopolizzata dalle classi alte, ma anche «appesantita da un elemento feudale di dimensioni cospicue ». A questo punto, si può fare una considerazione di carattere più generale: «II Senato Italiano presentava numerose somiglianze di famiglia» con tutte le altre Camere alte europee che, ad eccezione di quella francese, non erano elettive ed erano caratterizzate da «una mescolanza di ereditarietà e di nomina regia». Persino per quanto riguarda il Senato della Terza Repubblica, che pure alle spalle aveva una serie ininterrotta di sconvolgimenti rivoluzionari culminati nella Comune, è da notare che esso era costituito in modo da «garantire una marcata sovrarappresentanza dei villaggi e dei piccoli centri di contro a Parigi ed alle maggiori città», a tutto vantaggio, quindi, dei «grossi agricoltori» e dei «piccoli contadini» (Mayer, 1982, pp. 141 e 148 sg.). Lo storico qui citato ha visto l'Europa del 1914 ancora in misura cospicua dominata dall'Antico regime, il quale, però, chiaramente, è stato spazzato via sì dal conflitto mondiale, ma anche dalla rivoluzione d'Ottobre. A d un anno di distanza da questa scoppiano le rivoluzioni che in Germania e in Austria segnano la fine delle dinastie degli HohenzoUern e degli Asburgo, e assieme ad esse, delle Camere alte appannaggio della borghesia e di una nobiltà ancora in qualche modo legata all'Antico regime. Si impone nell'ordinamento politico complessivo il suffragio universale su base egualitaria che invece si farà ancora attendere a lungo in Gran Bretagna e negli Usa.
LA LOTTA PER IL SUFFRAGIO
3
53
Abbiamo finora parlato del suffragio universale maschile, lasciando da parte le donne, alla vigilia del primo conflitto mondiale escluse dai diritti politici in pratica in tutto il mondo. E solo nel 1920 che entra a far parte della Costituzione americana l'emendamento che vieta, a livello federale, la discriminazione del diritto di voto sulla base della «differenza di sesso». Il conseguimento di questo importante obiettivo ad opera delle donne non può essere compreso senza tener presente da una pàrte la loro massiccia immissione nel processo produttivo nel corso della prima guerra mondiale e dall'altra l'influenza profonda degli sconvolgimenti verificatisi in Russia. Quando, parlando dell'emendamento costituzionale appena visto, un illustre storico americano spiega la rapidità con cui vengono superate le resistenze conservatrici col fatto che «i paesi europei stavano raggiungendo e sorpassando in questo campo gli Stati Uniti, ed egli [Wilson] riteneva che la democratica America non potesse restare indietro» (Schlesinger sr., 1967, p. 439), è chiaro che, ne sia o no consapevole, fa riferimento anche alla Russia rivoluzionaria, il paese che aveva aperto la strada alla cancellazione totale della discriminazione sessuale nel godimento dei diritti politici e che, proprio per questo, esercitava una forte attrazione sul movimento femminista in Francia (Huard, 1991, p. 223) e altrove. C'è da aggiungere che, mentre la rivoluzione d'Ottobre segna l'inizio di una campagna a livello mondiale per la piena emancipazione politica e sociale delle donne, in Occidente agisce una tradizione di pensiero che afferma si la necessità del suffragio femminile, ma in primo luogo come contrappeso conservatore alla crescente influenza di gruppi sociali ed etnici che si intendono contenere e che negli Stati Uniti, alla fine dell'Ottocento, vengono esclusi dalla cittadinanza politica proprio mentre le donne cominciano ad accedervi (cfr. infra, cap. 6, § 3). Ed è probabile che tracce di tale atteggiamento conservatore siano presenti anche nell'impegno a favore del suffragio femminile mostrato, a partire dalla prima guerra mondiale, dal presidente americano Wilson il quale, per un altro verso, impone negli uffici civili federali la segregazione dei neri, anche per quanto riguarda le mense ed i servizi igienici, e si rivela carico di pregiudizi razziali nei confronti, altresì, degli immigrati provenienti dall'Europa orientale (Gosset, 1965, pp. 279 e 284). Naturalmente, l'avvertenza fatta a proposito della giornata
I
54
CAPITOLO PRIMO
del IO agosto 1792 e del movimento giacobino vale altresì per la rivoluzione d'Ottobre: in un caso e nell'altro, siamo in presenza di un principio proclamato, con maggiore o minore coerenza o radicalità, mentre infuria uno stato d'eccezione, ed uno stato d'eccezione dal quale i dirigenti politici del momento non riescono ad uscire, a causa sia dell'estrema difficoltà della situazione oggettiva, sia delle loro gravi carenze politiche e teoriche, che li portano a inseguire ideali (la comunità antica per i giacobini ovvero l'estinzione dello Stato per i bolscevichi) non suscettibili di realizzazione alcuna e quindi in grado solo di ostacolare il ritorno alla normalità (cfr. infra, cap. 8, § 10). Ma ciò nulla toglie all'importanza storica dell'affermazione del diritto di ogni individuo a partecipare, al di fuori di ogni discriminazione di classe, di razza o di sesso, alla vita politica, e a parteciparvi su una base egualitaria (una testa, un voto).
2.
Alla ricerca di un nuovo tutore per la moltitudine «bambina»
I. Suffragio universale e bonapartismo Luigi Napoleone ristabilisce il suffragio universale cancellato dal colpo di mano della borghesia liberale. Con quest'ultima, la propaganda bonapartista condivide l'odio o il disprezzo per coloro che definisce e bolla come i «demagoghi», gli «egualitari», i «detestabili sognatori della dottrina speculativa» (Bluche, 1980, p. 357). L'estensione del diritti politici è legata non ad un progetto di emancipazione sociale, bensì ad una precisa preoccupazione politica. Già prima del colpo di Stato del 2 dicembre, nello spiegare la sua presa di posizione contraria alla legge del 31 maggio 1850, il principe-presidente osserva: Mi sono chiesto se, in presenza del delirio delle passioni, della confusione delle dottrine, della divisione dei partiti, mentre tutto sembra allearsi per sottrarre ogni prestigio alla morale, alla giustizia, all'autorità, era proprio necessario sconvolgere o intaccare il solo principio che la Provvidenza abbia mantenuto in piedi per tenerci uniti. Una volta che il suffragio universale ha ricostruito l'edificio sociale per il fatto stesso di aver sostituito un diritto a un fatto rivoluzionario, è forse saggio volerne restringere ancora la base? Infine, mi sono chiesto se ciò non avrebbe significato compromettere in anticipo i nuovi poteri chiamati a presiedere ai destini del paese, fornendo il pretesto di mettere in discussione la loro origine e disconoscere la loro legittimità (Napoléon III, 1861, voi. 3, pp. 259 sg.).
Non c'è dubbio, Luigi Napoleone rivela un'intelligenza politica superiore a quella dei suoi avversari liberali: soprattutto in Francia, ma, progressivamente, anche negli altri paesi, è ormai il suffragio universale a costituire il principio di legittimità. La
7
8
CAPITOLO SECONDO
sua violazione alimenta ed esaspera l'opposizione, e, ben lungi dal consolidare l'ordinamento sociale esistente, finisce col fargli correre gravi pericoli. Ma, anche a voler prescindere dalle reazioni popolari, le misure di de-emancipazione decise dalla borghesia liberale si rivelano controproducenti anche su un piano meramente tecnico: Nella sua applicazione, la legge del 31 maggio è andata al di là dell'obiettivo che pensava di conseguire; nessuno prevedeva la cancellazione di 3 milioni di elettori, di cui i due terzi sono costituiti da pacifici abitanti delle campagne. Q u a l è il risultato? Questa immensa esclusione è servita di pretesto al partito anarchico che camuffa i suoi disegni detestabili mediante un diritto violato e da riconquistare (Napoléon III, 1 8 6 1 , voi. 3, p. 261).
Impraticabile o rovinosa si presenta la via dell'esplicita deemancipazione, la quale pretende di escludere di nuovo dalla cittadinanza politica coloro che vi erano stati ammessi. Bisogna invece decidersi a percorrere altre strade, rendendosi conto una volta per sempre che, come «l'opinione pubblica [è] la regina dell'universo» (Napoléon III, 1861, voi. i , p. 370), così il suffragio universale costituisce il nuovo principio di legittimità, al di qua del quale non è saggio e agevole recedere. II programma enunciato dal presidente golpista è chiaro: si tratta di stabilire un regime politico «che dovrà essere forte per il fatto di essere popolare» (Geywitz, 1965, p. 258). Inammissibile è la discriminazione censitaria: «Oggi, il regno delle caste è finito, si può solo governare con le masse»; «è necessario che la massa sia (...) la forza costante dalla quale emanano tutti i poteri» (Napoléon III, 1861, voi. 2, p. 122 e voi. I, p. 381), Se, al momento della soppressione del suffragio universale, Thiers esprime, come abbiamo visto, tutto il suo disprezzo per la «vile moltitudine», e se gli ambienti liberali o liberal-conservatori continuano a manifestare il loro aristocratico disgusto nei confronti della «plebaglia» (populacé) o della «canaglia» {canaillé). Luigi Napoleone parla sempre di «popolo» o di «massa», senza attribuire una connotazione negativa neppure a quest'ultimo termine (Geywitz, 1965, pp. 261 sg.). In senso peggiorativo parla, invece, delle «passioni della folla» (Napoléon III, 1861, voi. i , p. 9). Ma qual è il popolo di cui si vuol guadagnare l'appoggio? Non certo quello organizzato autonomamente in partiti o sindacati. Luigi Napoleone si presenta non come «il rappresentante di un
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
partito» bensì come l'interprete della nazione e delle sue migliori tradizioni, come colui che intende «governare nell'interesse delle masse e non nell'interesse di un partito» (Napoléon III, 1861, voi. 3, pp. 140 sg. e 37). Già a partire dal '48, la propaganda bonapartista insiste sul fatto che «tra il popolo e il suo sovrano non ci dev'essere intermediario che si arroghi il diritto di sostituire l'uno e l'altro» (Geywitz, 1965, p. 261). Alla vigilia del colpo di Stato, un opuscolo, alla cui redazione sembra aver partecipato Luigi Napoleone in persona, attacca la costituzione esistente per il fatto che essa fissa «come modo di elezione lo scrutinio di lista, un modo ingannatore che, sottraendo al popolo ogni libertà e ogni scelta, trasferisce ai giornali e ai comitati il potere elettorale» (Granier de Cassagnac, 1851, p. 6). I partiti e i gruppi politici organizzati, e gli organi di stampa ad essi collegati, vengono denunciati come strumenti di coercizione e di soffocamento della spontaneità dell'elettorato, il quale da tutto ciò dev'essere «liberato» per essere consegnato al rapporto diretto, e subalterno, col leader locale e, a livello nazionale, col capo carismatico e indiscusso della nazione. Nell'appello al popolo lanciato all'indomani del 2 dicembre 1851, il presidente golpista torna a tuonare contro lo «scrutinio di lista», ancora una volta condannato come strumento di inquinamento e di falsificazione della libera volontà popolare. Tale giudizio è ribadito e solennemente consacrato nel preambolo alla Costituzione e nella Costituzione stessa del 1852: «Scegliendo isolatamente ogni candidato, il popolo può valutare più facilmente i meriti di ognuno di loro» (Napoléon III, 1861, voi. 3, pp. 274, 292 e 308). Viene così reintrodotto il collegio uninominale che era stato soppresso dalla rivoluzione del '48 (Villey, 1900, p. 113). A questo punto, le ragioni della preferenza per tale sistema elettorale sono chiarissime. Esaminando la situazione immediatamente precedente il colpo di Stato, Marx osserva che la Costituzione allora ancora in vigore finisce col distruggersi da sola, facendo eleggere il presidente da tutti i francesi, a suffragio diretto. Mentre i voti della Francia si disperdono sui 750 membri dell'Assemblea nazionale, qui invece si concentrano su un solo individuo. Mentre ogni singolo rappresentante del popolo rappresenta soltanto questo o quel partito, questa o quella città, questa o quella testa di ponte, o anche semplicemente la necessità di eleggere un settecentocinquantesimo qualunque, senza considerare troppo per il sottile né la cosa, né l'uomo, egli è l'eletto
7 8
CAPITOLO SECONDO
della nazione, e l'atto della sua elezione è la briscola che il popolo sovrano gioca una volta ogni quattro anni. L'Assemblea nazionale eletta è unita alla nazione da un rapporto metafisico, il presidente eletto è unito alla nazione da un rapporto personale (Marx ed Engels, 1955, voi. 8, p. 128).
Se c'era qualcosa che poteva dare ombra ad un presidente deciso ad atteggiarsi a interprete diretto unico della nazione e a capo carismatico nettamente al di sopra delle meschine beghe e rivalità personali che dividevano i deputati e aspiranti al seggio parlamentare, se c'era qualcosa che poteva ostacolare tale disegno, ciò era costituito dall'esistenza di partiti organizzati nazionalmente e in grado di rivolgersi al popolo per invitarlo a votare non questa o quella singola persona bensì una precisa piattaforma programmatica, collocata al centro di un dibattito che andasse ben al di là dei singoli collegi elettorali, spezzando con ciò stesso il monopolio presidenziale dell'appello al popolo. Il successo e il consolidamento del progetto bonapartista presupponevano dunque la dissoluzione o l'emarginazione dei partiti, e quindi la liquidazione di un sistema elettorale su di essi fondato che introduceva un fastidioso diaframma tra presidente da una parte e investitura o acclamazione popolare dall'altra. In pieno Novecento un grande politologo ha osservato che «lo scrutinio uninominale rende possibile un rapporto personale dell'elettore con un capo riconosciuto» e «acclamato dall'elezione», mentre invece lo scrutinio di lista, tanto più se proporzionale, «abolisce il rapporto personale», rafforzando «il potere dell'organizzazione di partito» (Schmitt, 1984, p. 430). Ma proprio tale rafforzamento è inconciliabile con la natura e le modalità di funzionamento del regime bonapartista il quale, una volta che si senta al sicuro, può ben concedere un certo spazio di libertà individuale, ma in nessun caso può tollerare organizzazioni politiche e sociali autonome e autonomamente organizzate. Da questo punto di vista, il collegio uninominale presenta tre vantaggi: i) personalizzando la lotta elettorale, dissolve i partiti in individui; 2) riproduce a livello di ogni singolo collegio il rapporto tra capo carismatico da una parte e massa amorfa e disarticolata dall'altra; 3) proprio perché fa del singolo deputato il rappresentante non della nazione, o l'esponente di un programma politico che vuole avere una valenza nazionale, bensì solo il rappresentante di un collegio locale o degli interessi in esso prevalenti, permette poi al presidente-imperatore, al capo propriamente detto, di sta-
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
gliarsi nettamente al di sopra di tutti come unico interprete della nazione e che solo a lei risponde. A questa medesima logica risponde l'atteggiamento da Napoleone III assunto nei confronti del movimento sindacale. Certo, nel periodo di crisi rivoluzionaria o di iniziale debolezza delle nuove istituzioni, il potere bonapartista lo reprime duramente, collocandosi peraltro su una linea di continuità con la politica in precedenza perseguita dalla borghesia liberale (Sewell jr., 1987, p. 457). Ma nella sua fase «liberale», allorché si sente sufficientemente solido e sicuro, il nuovo regime non esita a legalizzare lo sciopero: in vista di una singola protesta o rivendicazione economica, gli operai possono concertare la loro azione, ma continua ad essere severamente proibito un legame associativo permanente (Boon, 1936, p. 150). Alla luce di tali considerazioni possiamo rileggere l'affermazione già vista secondo cui «il regno delle caste è finito, si può solo governare con le masse». Luigi Napoleone così prosegue: «Bisogna, dunque, organizzarle perché esse possano formulare le loro volontà, disciplinarle perché possano essere dirette e illuminate sui loro veri interessi» (Napoléon III, 1861, voi. 2, p. 122). Rispetto alla tradizione liberale precedente, la moltitudine non è più «vile», ma continua ad essere «bambina», non è in grado di articolare un discorso e una rappresentanza politica autonomi. In essa, «il cuore sente prima che la mente possa concepire», «i sentimenti precedono (...) la ragione» e svolgono un ruolo nettamente superiore rispetto a quest'ultima. Ecco allora che la moltitudine, ovvero le «masse» e i «popoli» possono essere trascinati e guidati dall'« influenza di un gran genio [che], simile in questo all'influenza della Divinità, è un fluido che si spande come l'elettricità; esalta le immaginazioni, fa palpitare i cuori, e rapisce perché tocca l'anima prima di persuadere»! Una tale influenza è un elemento di stabilizzazione, serve «non già a sconvolgere la società, ma, al contrario, a riordinarla e riorganizzarla»: le «masse» sono come soggiogate e ammansite da una personalità e un fascino superiori (Napoléon III, 1861, voi. i , pp. 12 sg.). Chiaramente, il compito di tutore della moltitudine «bambina» è assunto ora non più dai proprietari e notabili, bensì dal rappresentante unico e supremo della nazione, il quale, proprio perché si colloca nettamente al di sopra delle classi e del conflitto sociale, può ben ascoltare e recepire, o può ben atteggiarsi come
7
8
CAPITOLO SECONDO
colui che solo è disposto e capace di ascoltare e recepire, le voci e le esigenze anche degli strati piti umili della popolazione. Per questo, secondo Luigi Napoleone, «l'aristocrazia non ha bisogno di un capo, mentre la natura della democrazia è di personificarsi in un uomo»; «in un governo la cui base è democratica, solo il capo ha il potere ipuissance) governativo» e risponde di questo potere alla nazione dato che «tutto risale direttamente a lui, che sia odio o amore» (Napoléon III, 1861, voi. i , pp. 37 nota e 56). Neir«appello al popolo» lanciato all'indomani del 2 dicembre 1851, il presidente golpista chiede l'investitura in nome della «grande missione» che gli compete di «chiudere l'era delle rivoluzioni, appagando i bisogni legittimi del popolo e proteggendolo contro le passioni sovversive». Si tratta di una missione che non ha una dimensione solo nazionale. Già diversi anni prima Luigi Napoleone aveva affermato a proposito del grande zio che «la sua missione, all'inizio meramente francese, riguardò in seguito l'intera umanità», mirando a illuminare «le nazioni» e a diffondervi le conquiste già realizzate dalla Francia (Napoléon III, 1861, voi. 3, p. 273 e voi. I, pp. 368 e 29). Alla vigilia del colpo di Stato, la stampa bonapartista insiste su un punto centrale: Il Presidente della Repubblica non solo è l'uomo delle nostre simpatie ma è anche l'uomo che rappresenta, secondo noi, una grande idea, e precisamente quella più possente nel corpo della nostra civiltà, l'idea di forza, l'idea di ordine, di entusiasmo, di iniziativa e di probità governativa.
Ed è un'idea che tanto piìi facilmente può essere additata a modello ed esportata nel mondo, per il fatto che colui che l'incarna è, al tempo stesso, l'erede dello «splendore militare» della Francia (Bluche, 1980, p. 358). È chiaro: siamo in presenza di un nuovo modello di controllo politico e sociale delle masse, nell'ambito del quale il suffragio universale è neutralizzato dalla posizione assolutamente eminente del presidente della repubblica o del capo dell'esecutivo che, da una parte cerca di ingraziarsi le classi considerate pericolose mediante alcune limitate concessioni (sviluppo dei lavori pubblici, calmiere ai fitti nelle grandi città ecc.), dall'altra cerca di incanalare e deviare il malcontento verso l'esterno, inalberando lo stendardo della missione della Francia nel mondo. Già in un libello giovanile. Luigi Napoleone aveva fatto appello all'unità di «tutti i buoni francesi» senza distinzione di partito o di altro genere, in modo da presentare
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
all'Europa lo spettacolo imponente di un grande popolo che si costituisce senza eccessi e procede nella libertà senza disordine. Se le potenze che vogliono spartirsi la Francia ci facessero la guerra, esse vedrebbero allora un popolo libero sollevarsi unito come un gigante in mezzo ai pigmei che volessero attaccarlo (Napoléon III, 1 8 6 1 , voi. i , pp. 386 sg.).
La novità del regime politico sembra disorientare la tradizionale élite liberale. Scandalizzato per l'interventismo economico è Tocqueville, il quale, pur riconoscendo il peso della «miseria» che grava sulle «classi inferiori», condanna le misure di Napoleone III come «del socialismo puro e semplice» e persino più radicale di quello di Ledru-Rollin. E, a tale proposito, il teorico liberale aggiunge di aver visto nella casa di un contadino l'uno di fronte all'altro, i ritratti del rivoluzionario e dell'imperatore e da ciò desume la conferma della sostanziale identità di giacobinismo-socialismo da una parte e di bonapartismo dall'altra (Tocqueville, 1951, voi. 15, n, p. 182). A smentire tale illazione provvederà lo stesso Napoleone III il quale, ormai saldamente in sella, nel varare tre anni dopo un'amnistia larghissima, anzi pressoché generale, fisserà un'unica eccezione, quella a danno per l'appunto di Ledru-Rollin (Cobban, 1971, p. 105). In realtà, ben piii che della tradizione giacobina, il nuovo regime politico è l'erede, critico, della tradizione liberale: nelle mutate condizioni, si tratta pur sempre di garantire la sicurezza della proprietà e della sfera privata dall'intrusione di un potere politico prevaricatore che si nutre del pathos del citoyen e delle rivendicazioni sociali delle classi popolari.
2. La moltitudine «bambina» e il capo carismatico La linea di continuità qui suggerita risulta piìi evidente se dalla Francia spostiamo l'attenzione ad altri paesi dove non si è verificata una rivoluzione così radicale e così radicalmente democratica e plebea, e dove tuttavia si manifesta ugualmente un processo di personalizzazione del potere. In Inghilterra, alla vigilia della seconda riforma elettorale, Bagehot celebra il sistema politico del suo paese in quanto fondato non sulla divisione dei poteri e suUa «teoria dei pesi e contrappesi», come comunemente si crede, bensì sulla concentrazione e l'indivisibilità del potere sovrano nelle mani del primo ministro: «Il segreto dell'efficacia della Costituzione inglese può essere definito come unione in-
7
8
CAPITOLO SECONDO
tima, come fusione pressoché completa fra il potere esecutivo e legislativo» (Bagehot, 1974 a, pp. 344-66 e 210). Tale personalizzazione del potere risulta tanto più necessaria in seguito alla notevole estensione del suffragio che si verifica nel 1867. Che uso farà dei diritti politici una massa di ignoranti che «non hanno tempo per migliorarsi perché devono lavorare tutto il giorno» e che sono assolutamente bisognosi di guida? (Bagehot, 1974 b, pp. 169 sg.). Il tema a noi già noto della «moltitudine sempre bambina» viene ripreso chiaramente dal liberale inglese dell'età vittoriana: anche lui ricorre alla metafora del «fanciullo», al cui comportamento fa pensare quello degli «operai» di Leeds i quali, nel corso di una medesima assemblea, applaudono calorosamente uno dopo l'altro l'oratore conservatore e il radicale arrabbiato, inclini come sono a lasciarsi trascinare da un discorso brillante «senza rifletterci su» (Bagehot, 1873, pp. 91 sg.). Il fatto è che «la mente della gente comune» è incapace di cogliere le «questioni politiche» (Bagehot, 1974 b, p. 172). Ugualmente, su una linea di continuità con la tradizione liberale precedente, si colloca Bagehot allorché esprime l'auspicio che la moltitudine continui a lasciarsi guidare «dai suoi superiori» e a rimettersi, come nel passato, «alla ricchezza e al rango, e alle qualità superiori di cui la ricchezza e il rango sono i simboli tangibili e i comuni attributi» (Bagehot, 1974 b, p. 170). In questo senso un ruolo fondamentale svolge la Corona: la venerazione e lo splendore che la circondano e il ruolo «mistico» che le viene attribuito aiutano a tenere a bada la «plebe» e fanno sì che «creature miserabili» immerse in una vita di stenti si appaghino della loro condizione e, dinanzi ad una regina che è tale per «grazia di Dio», si inchinino con un sentimento fatto di «reverenza mistica», di «obbedienza religiosa» e di sottomissione filiale (Bagehot, 1974 a, pp. 370 sg., 379 sg. e 205). Fin qui, siamo nell'ambito di una società liberale - la Corona non detiene un potere effettivo o ne detiene uno piuttosto limitato - ma in cui continuano ad esercitare un notevole peso l'ideologia, il costume, le classi dominanti dell'Antico regime. Di facile soluzione si presenta il problema del controllo delle classi inferiori che sembrano accettare la propria sorte come un evento naturale o come una vicenda inserita in un misterioso disegno provvidenziale. Man mano che si sviluppano la mobilità e la secolarizzazione proprie della società industriale, il problema
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
diventa più complesso: in un certo senso, si tratta di rendere in qualche modo partecipi dell'aura sacra e del carisma della Corona anche coloro che detengono ed esercitano il potere effettivo e che, in virtii dell'estensione del suffragio, vengono a trovarsi in posizioni di prima linea nel rapporto con la «plebe». Rispetto alla precedente tradizione liberale, comincia a emergere in Bagehot un elemento nuovo, il culto dei leading statesmen, circonfusi di un aureola che, agli occhi almeno delle masse, sembra collocarli in una sfera superiore, il culto dei grandi statisti che guidano ?«umanità» e che, «con uno o due grandi discorsi, determinano quello che verrà letto e scritto per molto tempo dopo». Non piii i tradizionali notabili, ma tali leaders sono chiamati ad assolvere «il compito di guidare i nuovi elettori nell'esercizio del suffragio». E a guidarli non facendo ricorso ad «argomenti» e «tanto meno ad una formale esposizione degli argomenti», bensì mediante «la maschia formulazione di conclusioni chiare», da esporre, possibilmente, con «illustrazioni umoristiche» (Bagehot, 1974 b, pp. 171-73). Incapace di esaminare le questioni politiche generali relative aU'« essenza di una Costituzione, l'attività di un'assemblea, il gioco dei partiti», la «massa degli uomini» può solo riconoscersi neir«azione di una singola volontà» e nel «comando di un singolo uomo» (Bagehot, 1974 tf, p. 226). Continuando ad immergere il potere in un'aura sacra, la Corona rende la transizione indolore, ma è ormai chiaro che la moltitudine resta sì bambina, ma cambia tutore, dato che viene ora affidata alle cure non più dei notabili bensì, sempre più, di un leader carismatico dotato di «impulso oratorio» e di una «disposizione naturale verso il pubblico», da lui più che persuaso «eccitato». Questo leader non comunica conoscenze: egli si mostra «sicuro che, se solo gli altri sapessero quello che lui sa, sentirebbero come lui sente e crederebbero come lui crede; e grazie a ciò, egli conquista» e viene così a disporre di «un potere eccezionale nei rapporti umani» basato sulla «fede», r«entusiasmo», la «fiducia» che egli sa trasmettere (Bagehot, 1958, pp. 402 sg.). La descrizione calorosa e a tratti entusiasta, cui procede l'autore liberale inglese, avendo presente dinanzi a sé soprattutto il modello di Gladstone, fa pensare alla celebrazione, cui, con riferimento al suo impareggiabile zio, abbiamo visto abbandonarsi Luigi Napoleone, del «gran genio» capace di soggiogare e ammansire le masse.
7
8
CAPITOLO SECONDO
Naturalmente, perché tale risultato possa essere conseguito, le masse devono essere disponibili a subire il fascino del genio, e dunque devono essere tenute al riparo da «questioni metafisiche», da «uno spirito di dottrina che distrugge ogni germe vitale», da discussioni politiche e sociali di principio che potrebbero agitarle, deviando la loro attenzione verso le lotte di partito e turbando la loro disposizione d'animo fatta di fiduciosa attesa del capo fascinoso chiamato a guidarle (Napoléon III, 1861, voi. I, pp. 10 e 375). Ma questa è, in ultima analisi, l'opinione anche di Bagehot, per il quale bisogna bandire dal dibattito politico o, meglio, dalla competizione elettorale, gli «ismi», i temi suscettibili di «eccitare le classi inferiori» (cfr. infra, cap. 6, § i). Il leader carismatico non solo non comunica conoscenze, ma si direbbe che debba ben guardarsi dal comunicarle: deve in ogni caso evitare di «sollevare questioni che potrebbero eccitare le classi inferiori dell'umanità» e spingerle a unirsi «come classe» in lotta «contro il ricco» (Bagehot, 1974 b, p. 172). Tra i temi «metafisici» e comunque da mettere al bando non rientra certo l'idea di «splendore militare» e di gloria nazionale: l'abbiamo visto per Luigi Napoleone e lo vedremo presto anche per il liberale inglese, il quale anzi chiarisce in modo esplicito che tale idea dev'essere sistematicamente agitata al fine di contrastare la propaganda e l'azione di chi vorrebbe ricondurre la miseria di massa all'ordinamento sociale esistente, per organizzare autonomamente, sulla base di tale analisi e denuncia, le classi inferiori della società. Le classi dominanti possono sventare tale pericolo, dando prova di moderazione ed evitando che la competizione tra individuo e individuo per questa o quella carica pubblica si trasformi in una lotta politica generalizzata e in una contrapposizione frontale. Già Marx aveva osservato, nel Manifesto, che «i conflitti in seno alla vecchia società in generale favoriscono in pivi modi il processo di sviluppo del proletariato» (Marx ed Engels, 1955, voi. 4, p. 471). E questa è anche l'opinione del liberale inglese il quale invita «aristocrazia» e «plutocrazia», che controllano rispettivamente Camera alta e Camera bassa, ad astenersi accuratamente da lotte e polemiche intestine che finirebbero col minare il tradizionale atteggiamento di deferenza della moltitudine verso le classi superiori e col favorire la formazione di
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
un'«alleanza politica delle classi inferiori, in quanto classi inferiori e per gli obiettivi che esse intendono perseguire». Se ciò avvenisse, si tratterebbe di «un naale di capitale importanza; l'unione permanente di tali classi le renderebbe (ora che tanti loro membri hanno conquistato il suffragio) la forza dominante del paese» (Bagehot, 1974 b, pp. 174-79). Il compito di spezzare l'organizzazione politica autonoma delle classi popolari (che avevano ottenuto, o cominciavano ad ottenere, i diritti politici), prima affidata ai notabili, comincia ora ad essere demandato al leader carismatico. Il quale ultimo ha bisogno di trovare dinanzi a sé una massa amorfa non organizzata in sindacati e partiti operai o popolari. La prima legge di estensione del suffragio al di là della cerchia dell'aristocrazia e della borghesia coincide significativamente con l'introduzione di pesanti limitazioni delle libertà sindacali, con la magistratura che giunge a condannare come «restrittive del commercio» alcune Unioni, le quali vengono dunque a essere private di diritti di cui avevano goduto sin dal 1825, cioè dal momento della legalizzazione delle coalizioni operaie (Trevelyan, 1942, pp. 482-84). Intervenendo nel dibattito che precede il varo del Secondo Reform Bill, il grande critico Leslie Stephen osserva: In che misura il rimedio di escludere le classi lavoratrici da ogni reale possibilità di influenza è sano e soddisfacente? Il f a t t o di escluderle dall'influenza a livello legislativo non le orienta forse a pensare ad altri mezzi? N o i abbiamo costantemente f a t t o rintronare nelle nostre orecchie le pratiche tiranniche delle T r a d e Unions, come se esse offrissero una ragione definitiva contro la concessione del suffragio ai lavoratori. A me pare altrettanto definitivo l'altro aspetto... L'esclusione dei lavoratori dal diritto di v o t o tende, se non altro, a diffondere De Trade Unions] piìi rapidamente (Hirschman, 1983, p. 125).
È vero che successivamente questa legislazione che colpisce le Trade Unions viene superata, e tuttavia essa è sintomatica della tendenza ad associare emancipazione politica e de-emancipazione sindacale, se quest'ultima è la condizione necessaria per atomizzare una massa da consegnare inerme al fascino del leader carismatico. Il mutamento che si è verificato rispetto al tradizionale regime dei notabili è ben colto dalla Arendt (1989, p. 252): a partire da questo momento, «i "grandi uomini", non gli aristocra-
7
8
CAPITOLO SECONDO
tici, erano i veri rappresentanti della nazione, gli individui in cui si incarnava il "genio della razza"»; e Disraeli non si stancava infatti di ripetere che «il grande uomo era "la personificazione della razza, il suo migliore esemplare" ». Il grande avversario del primo ministro tory è Gladstone che, con la riforma del 1884-85, allarga ulteriormente il suffragio, ma che non a caso diventa il modello a cui principalmente guarda Bagehot allorché celebra il leader fornito, grazie alle sua capacità magnetiche nei confronti della massa, di «un potere eccezionale nei rapporti umani». Si profila una sorta di «cesarismo popolare»: il leader è ora «un generale comandante in capo di un'armata. Consulta appena il suo stato maggiore, il front bench, e più spesso è ad un inner circle [cerchia ristretta] di alcuni luogotenenti che limita le sue confidenze. Tutto il resto dell'armata riceve semplicemente gli ordini di marcia» (Ostrogorski, 1991, pp. 353 sg.). In Francia, nel condannare lo scrutinio di lista, la propaganda bonapartista rivendica l'introduzione del collegio uninominale. Ma questo esiste da sempre in Inghilterra: le tracce ridottissime di sistema elettorale diverso vengono definitivamente cancellate da Gladstone in concomitanza con la nuova legge di estensione del suffragio da lui varata (Laffitte, 1910, pp. 221 e 259); e tanto più definitiva è la vittoria del collegio uninominale per il fatto che esso viene a trovarsi in perfetta sintonia con la tesi cara a Bagehot, ma che ormai fa scuola, per cui la moltitudine «bambina», incapace di analizzare le questioni politiche generali, può solo esprimere una scelta tra due persone concrete, una delle quali deve comunque pensare per lei i problemi politici che sono al di là della sua portata. II liberale inglese continua a farsi assertore della tesi cara alla tradizione liberale per cui Votìum {leisuré) e la proprietà sono i prerequisiti della partecipazione alla vita politica, dalla quale dunque è naturale che vengano propriamente escluse le masse popolari caratterizzate da «una vita di lavoro, un'educazione incompleta, un'occupazione monotona, un'attività, nell'ambito della quale vengono costantemente esercitate le mani non l'intelligenza» (Bagehot, 1974 a, p. 380). Nelle nuove condizioni create dall'estensione del suffragio, questa tesi tradizionale viene reinterpretata nel senso che aUe «creature miserabili», sopraffatte dal lavoro e dagli stenti, pur sempre ai margini della vita politica, viene tuttavia concesso di scegliere a livello locale o nazionale tra due leaders, nell'ambito di un
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
sistema elettorale fondato sul collegio uninominale e sul bipartitismo, o, più esattamente, sulla competizione tra due candidati. Bagehot è decisamente critico nei confronti della rappresentanza proporzionale la quale favorisce lo sviluppo di partiti programmatici inclini ad agitare questioni che sono, invece, assolutamente da evitare, se non si vuole agevolare il processo di organizzazione autonoma delle classi inferiori delle società (cfr. infra, cap. 6, § i).
3. Personalizzazione del potere e culto degli eroi La personalizzazione del potere e la celebrazione del capo carismatico trova una sua espressione anche in sede di filosofia della storia, nell'ambito della quale comincia a farsi sentire il culto dell'eroe solitario e del genio che si colloca ben al di sopra della comune banalità e mediocrità, e rispetto al quale le masse sono come materiale grezzo. Tramontata è ormai l'eroicità diffusa e corale che non isola l'individualità eccezionale dal popolo e dal tempo che l'hanno alimentata e che essa esprime. E questa eroicità democratica, che è l'altro aspetto della professione di fede nella democrazia, che possiamo leggere in Robespierre. Nell'illustrare il suo piano d'istituzione di feste nazionali chiamate a celebrare gli eroi e al tempo stesso a rinsaldare l'unità del popolo, il dirigente giacobino tratteggia un pantheon ideale nel quale c'è ampio posto per i personaggi della vita quotidiana e anche per tanti nomi «ancora avviluppati nell'oscurità» e tuttavia «degni di essere iscritti nelle feste della storia» (Robespierre, 1958, voi. 3, p. 177). È questa eroicità che poi trova il suo interprete d'eccezione in Michelet: «Senza negare la grande influenza del genio individuale, non si può dubitare che, nell'azione di questi uomini, la parte principale debba tuttavia esser fatta risalire all'azione generale del popolo, del tempo, del paese»; ben più di «quei parlatori brillanti e carismatici che hanno espresso il pensiero delle masse (...), il protagonista principale è il popolo» (Michelet, 1981, voi. i , p. 231 e voi. 4, p. 360). E una visione, quella scaturita dalla Rivoluzione francese, che resiste ancora nell'epoca napoleonica: la gloria di Bonaparte - dichiara Talleyrand, nel festeggiare il generale vittorioso che ritorna dalla folgorante campagna d'Italia - «appartiene alla Rivoluzione», alle
7 8
CAPITOLO SECONDO
istituzioni che essa ha prodotto, a tutti coloro che tale colossale sconvolgimento storico hanno prima reso possibile e poi difeso con ardore, «appartiene a quei valorosi soldati che la libertà ha reso invincibili eroi», infine «a tutti i Francesi degni di tale nome» (Mascilli Migliorini, 1984, pp. 14 e 9 sg. nota). In Hegel, ammiratore della rivoluzione francese e di Napoleone, troviamo l'affermazione per cui le grandi personalità storiche «sembrano attingere esclusivamente da se medesime», «.sembrano» portare avanti un'opera che è solo «loro», ma, in realtà, si rivelano grandi nella misura in cui sanno portare alla luce «la verità del loro tempo e del loro mondo» (Hegel, 1969, voi. 12, p. 46). Per quanto riguarda in ogni caso la filosofia della storia, possiamo misurare la distanza che ormai separa il protagonista del colpo di Stato del 2 dicembre 1851, alla ricerca di un regime politico disposto a riconoscere i meriti superiori dei «geni trascendenti» (Napoléon III, 1861, voi. i , p. 382), dalla Rivoluzione francese, la quale non a caso era stata messa in stato d'accusa dalla pubblicistica conservatrice e reazionaria in quanto ispirata dall'odio nei confronti del «genio» e dalla mancanza di «rispetto per le grandi personalità» (Gentz, 1837, p. 34). Anche in Carlyle il culto dell'eroe si accompagna ad un disagio, che assume un significato sempre piii esplicitamente e virulentemente antidemocratico, nei confronti delle tendenze egualitarie della modernità. Ne è pienamente consapevole, dopo il '48, Engels il quale, polemizzando con lo scrittore inglese, ironizza su un'ideologia che pretende di trasfigurare la classe dominante in quanto «partecipe del genio» e di giustificare la condizione della classe oppressa in quanto «esclusa dal genio» (Marx ed Engels, 1955, voi. 7, pp. 259 e 264 sg.). Discriminazione censitaria e culto del genio vanno di pari passo. Ma delle implicazioni antidemocratiche della visione della storia propria di Carlyle si era reso conto già Mazzini il quale così si era espresso in un lunga recensione a lui dedicata: I o protesto in nome delle tendenze democratiche dell'età nostra contro quelle idee. La storia non è la biografia dei più rari e potenti tra gli intelletti (...). I grandi ingegni non sono che le pietre miliari della via che l'Umanità segue (...). V ' è pur sempre tal cosa ch'è più grande e più divinamente misteriosa dei grandi individui, ed è la terra che li sostiene, la razza umana che li comprende in sé, il pensiero di D i o che s'agita in
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
essi, e che solo l'opera collettiva di tutti può tradurre in f a t t o politico e norma di vita (...). L'ispirazione del G e n i o appartiene per metà al cielo, per metà alla moltitudine dei mortali suUa cui vita E i s'innalza (Mascilli Migliorini, 1984, pp. 147 sg.).
Dopo il '48, comincia ad emergere con chiarezza il contenuto non solo antidemocratico ma filobonapartista del culto dell'eroe: polemizzando contro la rivoluzione e il suffragio universale da essa sancito, Carlyle lamenta che l'ondata sovversiva metta in discussione e spazzi via ogni lordship or leadership, ovvero ogni Dux or Duke-, agli sconvolgimenti sovversivi viene sempre più contrapposto non la vecchia società di aristocratici e notabili fondata sui «lords» e sui «duchi» bensì un nuovo regime guidato da un «leader» o da un «duce»; tanto che il saggio qui citato si conclude con l'invocazione di un «Vero Capitano» {Real Captain) che prenda finalmente il posto di quel «Fantasma di Capitano» che è il risultato della sciagurata ondata di «democrazia universale» (Carlyle, 1983, pp. 12 sg. e 31). Significativamente, dello scrittore antidemocratico è un ammiratore John Stuart Mill che, ancora nella sua Autobiografia, si vanta di aver subito preso posizione, prima che si facessero sentire i «critici comuni», celebrando r«epico poema» di Carlyle sulla o meglio contro la Rivoluzione francese come «una di quelle produzioni di genio al di sopra di qualsiasi regola e aventi vigore di legge di per se stesse» (MiU, 1965, voi. 20, p. 133; Mill, 1976, p. 169). Si tratta di un'ammirazione non confinata all'ambito letterario. Partendo da una denuncia del mondo moderno e della sua tendenza al «predominio della mediocrità», e allo strapotere delle «masse» (Mill, 1981, p. 96), il filosofo liberale esprime una filosofia della storia non molto diversa da quella di Carlyle: «Tutto ciò che è saggio e nobile viene iniziato, e deve esserlo, da individui: generalmente da uno solo. L'onore e il merito dell'uomo medio stanno nel fatto che è capace di seguire questa iniziativa». E vero che MOl si difende in anticipo dall'accusa di voler anche lui procedere al «culto degli eroi», ma solo per fornirne una versione meno minacciosa e più edulcorata, una versione che, escludendo il diritto alla violenza, si limita a rivendicare per «l'uomo forte e di genio (...) la libertà di indicare la via» alla massa (Mill, 1981, p. 97). A l contrario dello scrittore suo conterraneo, il filosofo libe-
7
8
CAPITOLO SECONDO
rale inglese si dichiara favorevole, sia pur coniugandolo ad un futuro vago e indeterminato, al suffragio universale: in realtà, nella visione di filosofia della storia di entrambi emerge, anche se con modalità diverse, un culto del capo e dell'eroe che non può essere disgiunto dal progressivo affermarsi delle tendenze bonapartistiche in campo politico. Come è confermato da Nietzsche, la cui «metafisica del genio» va di pari passo con la polemica contro ogni visione della storia che «democratizza i diritti del genio» (Nietzsche, 1980, voi. i , pp. 700 e 666). Il filosofo che, in polemica contro gli sviluppi della modernità, continua a tener fermo alla visione cara all'antichità classica e alla tradizione liberale secondo cui «i più» sono da considerare semplici «portatori, strumenti di trasmissione» (Nietzsche, 1980, voi. 12, p. 492), è un nemico così radicale della democrazia da giungere a condannare, come eccessivamente inclini «alla mediocrità, alla democrazia e alle "idee moderne"», Bismarck e il Secondo Reich, a causa del loro ricorso, demagogico, allo strumento dell'approvazione plebiscitaria dal basso (Nietzsche, 1980, voi. I, p. 20). Per un altro verso, soprattutto nella sua maturità, il filosofo si rende conto che il suffragio universale può essere piegato in senso diverso e contrapposto rispetto alla democrazia: N o n c'è motivo per scoraggiarsi (...). La manipolabilità (Dressierharkeit) degli uomini è diventata molto grande in questa democratica Europa (...). C h i è in grado di comandare trova coloro che devono obbedire: penso ad esempio a Napoleone e Bismarck (Nietzsche, 1980, voi. i i , pp. 269 sg.).
L'esperienza storica ha ormai dimostrato che è possibile controllare il suffragio universale, piegandolo a strumento di controllo e di dominio delle masse ad opera di personalità eccezionali. In tal senso, «la democratizzazione dell'Europa è al tempo stesso un'involontaria organizzazione per l'allevamento di tiranni - intendendo questa parola in ogni senso, anche in quello piiì spirituale» (Nietzsche, 1981 b, af. 242). In autori tra loro pur così diversi, il culto, ovvero la «metafisica del genio», comincia ad assumere un contenuto chiaramente filobonapartista.
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
4. Bonapartismo, liberalismo, bonapartismo liberale Anche sul piano più strettamente politico, l'emergere di tendenze bonapartiste è un fenomeno che va al di là della Francia: Engels giunge a parlare della guerra franco-prussiana come dello scontro tra «due Bonaparte» (Marx ed Engels, 1955, voi. 22, p. 516). Non mancano in effetti le somiglianze tra Napoleone III e Bismarck. Entrambi giungono al potere dopo la sconfitta della rivoluzione del '48 e fanno leva sul conservatorismo agrario e contadino per bloccare e liquidare le tendenze democratico-radicali emerse nel corso di quella rivoluzione essenzialmente urbana. Dopo un'iniziale rottura, il cancelliere di ferro riesce a riconciliarsi pienamente, e da posizioni di forza, con la borghesia liberale o nazional-liberale; ma è quello che fa, o tenta di fare, nell'ultima fase del suo Impero, anche Napoleone III. Parzialmente diversa è la situazione dell'Inghilterra, rimasta immune dall'ondata rivoluzionaria del '48. E, tuttavia, Disraeli il quale, almeno per quanto riguarda la politica estera, paragona Bismarck a Bonaparte (Monypenny e Buckle, 1914, voi. 5, p. 421), qualche tratto comune pur presenta col cancelliere tedesco e con lo stesso Luigi Napoleone: scavalcando la borghesia liberale, tutti e tre si rivolgono direttamente alle masse, a cui concedono, in misura più o meno ampia, il suffragio, e di cui guadagnano o cercano di guadagnare l'appoggio facendo concessioni sul piano della politica economica e sociale, stimolando l'eccitazione nazionale e sciovinistica, e coltivando su questa base il culto del capo carismatico, al di sopra delle parti e interprete e leader indiscusso della nazione. Certo, al contrario che in Francia, negli altri paesi le tendenze bonapartistiche rimangono confinate e limitate nell'ambito di un regime più o meno liberale. E, tuttavia, bisogna ugualmente guardarsi da contrapposizioni frettolose e troppo nette. Intanto, nel 1799, il colpo di Stato di Napoleone Bonaparte era stato organizzato col contributo importante di Sieyès e col caloroso appoggio almeno, iniziale, di Constant, Madame de Staèl e degli ambienti liberali (Guillemin, 1958, pp. 275-79) che avevano salutato il generale asceso al potere come il Washington francese (cfr. infra, cap. 3, § i). Ma è soprattutto interessante esaminare l'atteggiamento assunto da Tocqueville dopo la rivoluzione o le rivoluzioni del '48. Così come, in qualità di ministro degli esteri.
7
8
CAPITOLO SECONDO
chiama le truppe francesi a Roma a «colpire col terrore il partito demagogico» (Tocqueville, 1951, voi. 15, i, p. 323), in una lettera da Francoforte del 18 maggio 1849, si augura in Germania «la vittoria dei principi» e dell'esercito prussiano, in modo anche da farla finita con una «decentralizzazione eccessiva» che favorisce il pullulare di «focolai rivoluzionari» (Tocqueville, 1951, voi. 8, II, pp. 133 sg.). Si tratta di un atteggiamento non molto diverso da quello assunto, in questo stesso periodo di tempo, da Bismarck il quale, per l'appunto a partire dalla vittoria invocata dal liberale francese, può successivamente costruire il suo edificio politico. Per quanto riguarda la Francia, dopo aver raccomandato, in occasione delle giornate di giugno, la fucilazione sul posto di chiunque sia sorpreso «in atteggiamento di difesa» (Tocqueville, 1951, voi. 12, p. 176), a oltre un anno di distanza dalla rivolta operaia, quando ormai la spietata repressione sembra aver scongiurato per sempre il pericolo giacobino e socialista, Tocqueville ritiene ancora necessario il pugno di ferro contro il pericolo proveniente da sinistra: non ci si può più accontentare di «palliativi»; per spazzar via non solo la Montagna, ma anche «tutte le colline circostanti», bisogna mettersi «coraggiosamente alla testa di tutti quelli che vogliono ristabilire l'ordine, a qualunque sfumatura appartengano»; non bisogna esitare neppure dinanzi a «un rimedio (...) eroico» (Tocqueville, 1951, voi. 8,11, p. 53). Viene indirettamente suggerita la necessità di misure eccezionali con la sospensione delle libertà costituzionali. Senonché, il blocco d'ordine compatto ed energico qui invocato finisce poi con l'essere egemonizzato da Luigi Bonaparte protagonista di un colpo di Stato che mette fuori gioco anche la borghesia liberale. E il momento in cui Tocqueville si accosta ai legittimisti: qual è il regime che propone nella lettera inviata al conte di Chambord, aspirante al trono col nome di Enrico V? Certo, si tratta di stabilire una «monarchia costituzionale e rappresentativa» che sappia garantire la «libertà individuale» e una «reale libertà di stampa» ma che, al tempo stesso, «dopo l'anarchia che ha fatto seguito al '48», proceda su questo piano con «grande prudenza»: «bisogna innnanzi tutto assicurare al potere monarchico tutti i diritti che sono compatibili con la libertà, e, nei primi tempi, non riconoscere alla libertà che i diritti indispensabili senza i quali essa non potrebbe esistere». A d esempio.
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
un Parlamento dove si discuta liberamente e le cui discussioni siano pubbliche mi sembra una condizione sine qua non della monarchia costituzionale, ma da ciò non segue necessariamente che, inizialmente, il Parlamento non possa essere fortemente limitato nelle sue attribuzioni e contenuto nella durata dei suoi lavori.
La libertà di stampa è indispensabile, ma ciò non significa che «non si possa o non si debba prendere ogni genere di garanzia contro gli abusi di questa temibile libertà» (Rials, 1987, p. 165). E molto diverso tale programma da quello che poi realizzerà, nella sua ultima fase, il Secondo Impero? La differenza più rilevante risiede forse nel ruolo che il teorico liberale continua ad attribuire ai notabili tradizionali, a giudicare almeno dalla speranza che esprime di veder ristabilito il primato delle «classi superiori e morali della nazione». Alla vigilia della svolta in senso più o meno liberale di Napoleone III, in una lettera all'amico Beaumont del febbraio 1858, Tocqueville esprime l'opinione secondo cui solo il consolidamento del regime esistente potrebbe favorire un'evoluzione politica in senso liberale del regime bonapartista: «Qualche volta penso che la sola possibilità di veder rinascere in Francia il gusto vivo della libertà è nello stabilirsi tranquillo e, in apparenza definitivo, del dispotismo» (Tocqueville, 1951, voi. 8, in, p. 544). A suo tempo, superata la fase di delusione che aveva fatto seguito alle speranze o agli entusiasmi iniziali suscitati dal presunto Washington francese, Constant aveva finito col riconoscersi nel Primo Impero. Avrebbe finito Tocqueville col riconoscersi nel Secondo Impero liberale così come più tardi vi si riconosce un suo fervido ammiratore qual è Laboulaye (cfr. infra, cap. 3, § 5)? Peraltro, non bisogna neppure idealizzare i regimi che, fuori della Francia, cominciano essi stessi a fondarsi suUa personalizzazione del potere. Rimasta immune dall'ondata di sconvolgimenti del 1848, l'Inghilterra si precipita a riconoscere, prima fra tutti e «con fretta indecorosa», secondo il giudizio di Marx (Marx ed Engels, 1955, voi. 17, p. 278), il colpo di Stato di Luigi Napoleone, mentre il governo Palmerston non esita ad esprimere la sua simpatia e approvazione all'ambasciatore francese (Lecky, 1910, p. 255). Si tratta di un atteggiamento condiviso anche da illustri autori liberali. Pur continuando, ovviamente, a celebrare la superiorità delle istituzioni inglesi, negli avvenimenti verifi-
7
8
CAPITOLO SECONDO
catisi in Francia Bagehot scorge una conferma della sua teoria relativa all'inevitabile, e benefica, tendenza delle masse alla personalizzazione del potere. Piuttosto che da un'assemblea, il popolo francese preferisce essere governato da Luigi Napoleone, dal leader singolo di cui è in grado di farsi una concreta rappresentazione (Bagehot, 1974 a, p. 226). Per di più è da tener presente che la Francia attraversa una grave crisi, e «il primo obbligo della società è la preservazione della società» (Bagehot, 1958, p. 419). Proprio a partire da «quella fondamentale legge naturale e politica» che è la preservazione della società, Locke aveva giustificato la «prerogativa» dell'esecutivo di esercitare un «potere discrezionale (...) senza prescrizioni della legge, e talvolta anche contro di essa» (Locke, 1974, §§ 159 sg.). E - ha osservato agli inizi del nostro secolo un illustre costituzionalista, inglese e liberale - , grazie alla prerogativa, nei momenti di crisi, in Gran Bretagna l'esecutivo è «oggi quasi collocato nella posizione degli ultimi Tudor e dei primi Stuart», viene a disporre cioè del potere di un monarca assoluto (Bryce, 1901, p. 146), e comunque non inferiore rispetto a quello di cui può disporre Luigi Napoleone dopo il colpo di Stato. È da aggiungere che, anche a prescindere dallo stato di eccezione, neppure nel cesarismo popolare che comincia ad imporsi, al di fuori della Francia, è assente il momento della coercizione. Ciò è immediatamente evidente nel caso della Germania, dove Bismarck sa ben conciliare la concessione del suffragio universale col pugno di ferro contro socialisti e cattolici. E già i contemporanei del cancelliere di ferro paragonano il suo regime a quello che vede in Inghilterra come protagonista Disraeli (Bauer, 1979). A proposito di quest'ultimo, non è mancato chi ha voluto vedere nel suo governo un'anticipazione di alcune caratteristiche dei «regimi totalitari del secolo x x » (Barié, 1953, p. 145). Piii esattamente, l'eccitazione sciovinistica di massa esercita una pressione e intimidazione psicologica e talvolta anche fisica sui dissidenti, isolati e squalificati come potenziali traditori. Quando leggiamo gli avversari di Disraeli denunciare il ricorso alla «canaglia» che blocca «qualsiasi tentativo da parte degli intelligenti e degli onesti di far sentire la propria voce», mentre «l'autorità» sta a guardare e persino ad applaudire (Barié, 1953, p. 144), non possiamo non pensare al comportamento della Società del 10 dicembre che Luigi Napoleone recluta tra il sottoproletariato col
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
«compito di improvvisargli un pubblico, di esibire l'entusiasmo pubblico, di urlare Vìve l'Empereur, di insultare e di picchiare i repubblicani, naturalmente sotto la protezione della polizia» (Marx ed Engels, 1955, voi. 8, p. 162). Se analizziamo la situazione politica esistente in Francia, Germania e Inghilterra nella seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso, le analogie balzano agli occhi: in tutti e tre i casi, siamo in presenza di un regime politico i cui tratti più o meno liberali sono bilanciati dalla presenza di un forte potere esecutivo, nel cui ambito la concessione della cittadinanza politica a larghi strati sociali viene neutralizzata da un cesarismo dal volto più o meno popolare e che comunque fa leva sull'eccitazione sciovinistica di massa.
5. Personalizzazione del potere, «missione» ed estemalizzazione del conflitto Ma concentriamoci ora sull'Inghilterra. Può sembrare assai singolare il fatto che la prima sensibile estensione del suffragio al di là della cerchia dell'aristocrazia e della borghesia avvenga per iniziativa non dei liberali, bensì di Disraeli, di quello che è stato giustamente definito a racial thinker, un pensatore razziale o razzista il quale non si stanca in effetti di ripetere che la razza, radicata nel sangue, è «la chiave della storia», che «tutto è razza e non c'è altra verità» e che, pertanto, il mondo è inevitabilmente diviso in razze superiori e dominanti da una parte e razze inferiori e soggiogate ovvero da soggiogare dall'altra (Vincent, 1990, pp. 27-30). A concedere dunque i diritti politici a settori consistenti di masse popolari è un «devoto sostenitore della "razza" » che schernisce quella che considera « "la perniciosa dottrina dei tempi moderni, l'eguaglianza naturale degli uomini" », è uno statista che, a partire da tali presupposti, cerca di sviluppare un torysmo popolare, fondato sul culto dell'Impero e della missione imperiale del popolo inglese il quale costituisce !'« aristocrazia della natura». Sì, nell'immaginazione del politico inglese di origine ebraica, l'Inghilterra è Israele, è il popolo «eletto» (Arendt, 1989, pp. 256, 98 e 104). Il programma del primo ministro inglese viene così descritto da uno studioso: Il partito conservatore d o v e v a rappresentare tutti coloro che erano orgogliosi di appartenere ad un grande paese, ad un «paese imperiale», che desi-
7
8
CAPITOLO SECONDO
deravano mantenere la sua grandezza e vedevano nelle antiche istituzioni inglesi la causa prima della posizione attuale della G r a n Bretagna. Le classi lavoratrici dovevano esservi degnamente rappresentate: esse infatti erano inglesi fin nel profondo dell'animo e ripudiavano i princìpi cosmopoliti e internazionalistici (Barié, 1 9 5 3 , p. 139).
Tutto ciò consente di mettere a tacere all'interno ogni voce di dissenso come estranea o ostile alla nazione e all'anima inglese, incanalando verso l'esterno l'azione e le passioni delle masse guidate dal leader e soggiogate dal suo fascino. Emancipazione e de-emancipazione si intrecciano strettamente: l'ammissione alla cittadinanza di vasti strati popolari in Inghilterra va di pari passo con un'espansione coloniale che comporta l'imposizione di una schiavitù piti o meno camuffata o di forme di lavoro semiservili a carico delle popolazioni soggiogate (Hobson, 1974, pp. 214-35). Le categorie e le metafore a lungo utilizzate per designare certi strati sociali all'interno della metropoli capitalistica vengono ora riservate in modo esclusivo alle popolazioni coloniali: a partire da questo momento, sono esse ad essere identificate da John Stuart Mill coi «barbari» ovvero con le «razze minorenni» (cfr. supra, cap. i , § 11); il liberale inglese si spinge ancora oltre, fino al punto cioè di collocare certi popoli primitivi appena al di sopra delle specie animali superiori (Mill, 1916, p. 39). La de-razzizzazione delle classi nella metropoli capitalista via via ammesse alla cittadinanza e comunque non piìi considerate semplicemente alla stregua di macchine da lavoro o strumenti vocali va di pari passo con una configurazione orripilante, e con la razzizzazione, delle popolazioni coloniali. In questo periodo di tempo larghissimamente diffusa è la visione cara a Kipling, secondo cui i popoli coloniali sono da considerare metà bambini e metà diavoli, e cioè minorenni bisognosi di tutela e barbari e anche peggio allorché dovessero rifiutare tale tutela. Corrispondente dello scrittore inglese è lo statista americano Theodore Roosevelt, il quale parla anche lui delle «razze inferiori» come di «bambini» (Roosevelt, 1951, voi. 2, pp. 620 e 1401) ovvero di «selvaggi» e «barbari» (Roosevelt, 1901, pp. 292-94). Una volta così configurate, è chiaro che le popolazioni oggetto del dominio europeo o «occidentale» vengono totalmente private dei diritti politici, o perché non hanno ancora superato lo stadio della fanciullezza (e la libertà - afferma Mill -
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
«vale solo per esseri umani nella pienezza delle loro facoltà»), oppure perché estranee alla civiltà (e, sempre secondo il liberale inglese, «il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con barbari») (Mill, 1981, p. 33). Abbiamo visto che, secondo Sieyès, «una grande nazione è necessariamente composta di due popoli» (cfr. supm, cap. i , § 11). Ora questa metafora ritorna in Disraeli, ma in senso critico. Nel romanzo giovanile che già nel titolo fa riferimento a tale tema, è l'agitatore cartista a parlare dell'Inghilterra come divisa in «due nazioni», e cioè «i ricchi e i poveri» (Disraeli, 1988, pp. 65 sg.). Tale visione viene, invece, rifiutata dal politico conservatore inglese che vi contrappone la tesi per cui il «lavoro» è il «fratello gemello» della «proprietà». Le classi sociali prima divise da un abisso in qualche modo razziale, ora vengono a far parte non solo di una medesima nazione ma persino di una medesima famiglia (Disraeli, 1904, p. 411). E però, più che dileguare, la razzizzazione di cui erano tradizionalmente vittime le classi popolari sembra dislocarsi al di fuori dell'Europa e dell'Occidente. Non a caso quei medesimi romanzi giovanili che con tanto calore sottolineano il legame di «fratellanza» che ormai unifica «il privilegiato e prospero popolo inglese» (Disraeli, 1988, p. 422) al tempo stesso, con lo sguardo rivolto al di fuori dell'Inghilterra e dell'Occidente, agitano ossessivamente il tema della razza. Può essere utile istituire qui un confronto tra gli sviluppi dell' Inghilterra da una parte e degli Stati Uniti dall'altra. In quest'ultimo paese, poco dopo la fine della Guerra di secessione, inizia il processo di de-emancipazione che investe anche settori limitati di bianchi poveri: in Inghilterra, l'estensione del suffragio, anche dopo la terza riforma elettorale del 1884-85, lascia ancora fuori alcuni settori delle classi popolari, quelli piij miserabili su cui ancora grava in qualche modo la razzizzazione che in precedenza colpiva i lavoratori manuali in quanto tali. Al di là dell'Atlantico la de-emancipazione o l'esclusione dai diritti investe soprattutto, e in modo particolarmente pesante, i neri, sottoposti, come sappiamo, a forme di lavoro semiservile, assieme a certi immigrati extraeuropei come i coolies cinesi; per quanto riguarda l'Inghilterra, invece, la forza-lavoro semiservile è dislocata nelle colonie. Ma identica o assai simile è l'ideologia che, nei due paesi, discrimina razzialmente gli esclusi dalla cittadinanza, integrando o cercando di integrare al tempo stesso larghi settori dei
78
CAPITOLO SECONDO
lavoratori manuali, de-razzizzati ed emancipati. Disraeli che estende il suffragio in Inghilterra non si sarebbe certo opposto al processo di de-emancipazione a carico dei neri negli Stati Uniti, dato che era dell'opinione che, se gli americani si fossero mescolati con gli ex-schiavi, «sarebbero divenuti così degenerati che i loro Stati avrebbero finito probabilmente con l'essere riconquistati e riguadagnati dagli aborigeni» (Vincent, 1990, p. 30). Il rapporto tra estensione della cittadinanza nella metropoli capitalista e proiezione all'esterno del processo di razzizzazione risulta evidente anche per la Francia: l'espansione coloniale tocca il suo culmine con la Terza Repubblica, fondata sul suffragio universale maschile, che non esita a condurre una politica di sterminio a danno di «popolazioni inermi» (Lenin, 1955, voi. 24, p. 412). Se i lavoratori francesi celebrano nell'ammissione ai diritti politici la loro elevazione al «rango di uomini» (cfr. supra, cap. I, § II), per l'esercito francese che porta avanti la conquista dell'Algeria «gli arabi sono come bestie malefiche». Questo, almeno, secondo il giudizio di Tocqueville (1951, voi. 15, i, p. 224), il quale peraltro, persuaso dell'impossibilità di trattare gli arabi «come se fossero nostri cittadini e nostri uguali», invita i suoi concittadini a guardarsi dal gettare «stupore e confusione» nei «popoli semicivilizzati», riempendoli «di nozioni erronee e pericolose», come potrebbe essere quella dell'eguaglianza (Tocqueville, 1951, voi. 3, i, p. 324). Il fenomeno qui oggetto di indagine può infine essere verificato anche in un altro paese liberale. Per quanto riguarda l'Italia, già in Orlando, un esponente di primo piano della classe dirigente liberale del tempo, è possibile sorprendere il riconoscimento della «coincidenza non certo fortuita di tali memorabili eventi [la conquista della Libia] con la radicale riforma democratica dei nostri ordinamenti», e cioè con la larga estensione dei diritti politici sancita dalla riforma del 1912: lo fa ironicamente notare il socialista Turati il quale, a sua volta, osserva che il suffragio universale è stato elargito da Giolitti, già suo avversario irriducibile», nell'intento di allargare il consenso popolare all'impresa coloniale (Turati, 1979, pp. 295-98). Ma, a sviluppare l'analisi più approfondita del «legame tra il passaggio dell'Italia all'imperialismo e l'accettazione della riforma elettorale da parte del governo» (quella riforma che «ha "quasi" realizzato il suf-
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
fragio universale» e alla quale lo stesso Giolitti, prima della guerra libica, «era decisamente contrario») è Lenin che, per spiegare il mutamento verificatosi nello statista italiano, ricorre ad una lunga citazione da Michels: Nonostante la vecchia ripugnanza teorica per la politica coloniale, gli operai dell'industria, e più ancora i manovali, si sono battuti contro i turchi con molta disciplina e docilità, contrariamente a tutte le previsioni. Q u e sto comportamento devoto verso la politica governativa meritava una ricompensa per incitare il proletariato a continuare a seguire questa via. A l parlamento, il presidente del consiglio dei ministri ha dichiarato che la classe operaia italiana, con il suo comportamento patriottico, sui campi di battaglia della Libia, aveva dimostrato alla patria la sua alta maturità politica. Chi è capace di sacrificare la vita per un nobile scopo è anche capace di difendere gli interessi della patria in qualità di elettore e merita che lo Stato lo ritenga degno di assumere i pieni diritti politici (Lenin, 1955, voi. 2 1 , p. 330 nota).
Ma mentre in Italia, le classi dominanti si riconciliano con le classi popolari, ormai considerate partecipi della civiltà e quindi meritevoli di essere ammesse alla cittadinanza politica, ecco che la razzizzazione dei barbari collocati al di fuori della metropoli capitalistica si sviluppa fino al punto da stimolare contro di loro una guerra coloniale spietata e di sterminio che comporta il massacro di «famiglie intere», compresi «bambini e donne» (Lenin, 1955, voi. 18, pp. 322 sg.). Il legame tra estensione del suffragio e guerra esterna è evidenziato dalla stessa riforma elettorale del 1912 la quale prevede che i maschi minori di trent'anni ma maggiori dei ventuno possono ottenere i diritti politici certo in virtìi del censo o di «titoli di cultura e di onore», ma anche in virtù della prestazione del servizio militare (Siotto Pintor, 1932, p. 781; Corso, 1932, p. 785). Significato analogo ha, nell'Inghilterra del primo dopoguerra, l'esclusione dal diritto di voto, per cinque anni, degli obiettori di coscienza (Taylor, 1965, p. 145). Ma torniamo all'Inghilterra vittoriana. Contemporaneo di Disraeli e della prodigiosa espansione coloniale e imperiale dell'Inghilterra, e ammiratore dei grandi leaders che guidano tale impresa catturando il consenso e l'ammirazione dell'intera nazione è Bagehot, il quale insiste sul fatto che la moltitudine «bambina» è sì incapace di comprendere r«attività di governo»,
78
CAPITOLO SECONDO
ma, se trattata adeguatamente, può ben entusiasmarsi per imprese grandi e fascinose: N o n è vero che le classi inferiori siano completamente prese dall'idea di utilità; esse, al contrario non sono attratte da qualcosa di così mediocre. Nessun oratore ha mai fatto impressione parlando agli uomini dei loro pili comuni bisogni fisici, tranne quando indicava come responsabile di tale condizione la tirannia di qualcuno. M a nugliaia di oratori hanno suscitato la più grande emozione, facendo appello a qualche vago sogno di gloria, o v v e r o all'impero o alla nazionalità. L e classi più rozze dell'umanità, cioè l'umanità ad un certo livello di rozzezza, sacrificheranno tutte le loro speranze, tutto ciò che hanno, persino se stesse, per ciò che viene chiamato un ideale, per qualcosa di suggestivo che sembra trascendere la realtà, che aspira a innalzare gli uomini mediante un interesse pivi nobile, più profondo, più elev a t o di quello della vita ordinaria» (Bagehot, 1974 a, pp. 208 sg.).
Si tratta dunque di distogliere l'attenzione della massa dai suoi problemi materiali, evitando il pericolo che l'insoddisfazione, abilmente sfruttata da eventuali demagoghi, metta in discussione l'ordinamento politico-sociale esistente; il risultato può essere conseguito mediante qualche avventura di politica coloniale: migliaia di oratori e demagoghi - in tal caso ben accetti e benefici - provvederanno sapientemente a suscitare le emozioni giuste. Il successo di tale politica di esternalizzazione del conflitto, col venire meno, in «una nazione che sfrutta il mondo», dell'opposizione anche della classe operaia, ormai conquistata al fascino e ai vantaggi dalla politica coloniale, tutto ciò viene constatato anche da Engels in alcune lettere che richiamano l'attenzione di Lenin (1965 a, p. 654) nel corso della prima guerra mondiale, nel tragico momento in cui, per dirla con Bagehot, l'inseguimento di «qualche vago sogno di gloria» conduce le moltitudini «bambine» dei paesi impegnati nel conflitto a sacrificare «tutte le loro speranze, tutto ciò che hanno, persino se stesse», e cioè a morire su sanguinose contrapposte trincee.
6. Dalla moltitudine «bambina» alla «psicologia delle folle» Alla fine dell'Ottocento, mentre ormai dilaga l'estensione del suffragio, il tema della moltitudine «bambina» subisce un'importante modificazione. Gustave Le Bon procede ad un'implacabile requisitoria contro le «folle» che vede ferme «a forme inferiori
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
dell'evoluzione come il selvaggio e il bambino» (Le Bon, 1980, p. 59). Nonostante il linguaggio e il clima culturale sensibilmente diversi, riemergono le categorie dell'eterno «fanciullo» e dello «straniero» (membro di una razza considerata piii o meno esplicitamente inferiore), in base alle quali la tradizione liberale ha escluso dai diritti politici i lavoratori salariati. Persino l'affermazione per cui «le folle sono (...) femminili» (Le Bon, 1980, p. 63) riecheggia un argomento desunto da quella medesima tradizione, la quale, a partire dal dato di fatto, considerato ovvio e pacifico, dell'esclusione dalla cittadinanza politica delle donne, pretende di escludere anche i lavoratori salariati il cui livello di maturità non si può certo ritenere superiore. La psicologia delle folle - il termine l'abbiamo visto apparire in senso peggiorativo già in Luigi Napoleone - che si affaccia alla fine dell'Ottocento, in un momento in cui si è imposto o si va imponendo il suffragio universale, è la diretta erede della psicologia della moltitudine «bambina» sviluppatasi e affermatasi in un periodo storico in cui ancora dominava la discriminazione censitaria. Del processo in atto di estensione dei diritti politici Le Bon si occupa esplicitamente: Parlerò dapprima degli inconvenienti del suffragio universale che sono evidentemente troppo visibili per essere ignorati. N o n si può negare che le civiltà furono opera di una piccola minoranza di spiriti superiori, paragonabili alla punta di una piramide (...). L a grandezza di una civiltà non può assolutamente dipendere dal suffragio degli elementi inferiori che hanno soltanto la forza del numero. D suffragio delle folle è spesso pericoloso (Le Bon, 1980, pp. 223 sg.).
Come la tradizione liberale, ai cui rappresentanti (Tocqueville, Macaulay, Spencer) fa spesso riferimento. Le Bon mette in connessione l'estensione del suffragio e il diffondersi delle idee socialiste che, violando le «leggi economiche», pretendono di «regolare le condizioni dell'impiego e del salario», diffondendo la «fiducia superstiziosa nello Stato provvidenziale» e l'attesa della soluzione di una presunta questione sociale mercé l'intervento legislativo nei rapporti di proprietà. Tutto ciò ha già avuto e può ancora avere effetti rovinosi: «Le fantasie di sovranità popolare ci costeranno di sicuro ancora piìi care» (Le Bon, 1980, pp. 34, 125 e 224). Bisogna allora tornare alla discrimi-
78
CAPITOLO SECONDO
nazione censitaria o promuovere una distribuzione dei diritti politici tale da privilegiare le classi colte? Scrivendo in Francia, nel paese che prima di ogni altro, a partire già dalla stagione che prepara ideologicamente lo scoppio della rivoluzione, ha visto l'emergere della figura deU'intellettuale engagé, Le Bon non condivide le illusioni di Mill circa gli effetti positivi che potrebbero derivare dal privilegiamento, sul piano elettorale, dei ceti con un più alto livello di istruzione: E forse credibile che un suffragio limitato (limitato ai più capaci, se si vuole) riesca a migliorare il v o t o delle folle? N o n posso ammetterlo nemmeno per un istante, essendo noti i motivi d'inferiorità mentale di tutte le collettività, quale che sia la loro composizione. Q u a n d o appartengono a una folla, 10 ripeto, gli uomini si equivalgono sempre e, di fronte a problemi di carattere generale, il voto di quaranta accademici non è migliore di quello di quaranta acquaioli (...). Se dunque alcune persone inzeppate di scienza componessero, esse soltanto, il corpo elettorale, i risultati non sarebbero migliori di quelli attuali. Le difficoltà che ci affliggono rimarrebbero identiche e, in più, avremmo sicuramente la pesante tirannia delle caste (Le Bon, 1980, pp. 225 sg.).
Già Constant, assieme ai lavoratori salariati, aveva escluso dai diritti politici anche gli intellettuali senza proprietà i quali, inseguendo «teorie chimeriche» ed eversive, sono portati a «disdegnare le conclusioni ricavate dai fatti e a disprezzare il mondo reale e sensibile, a ragionare da fanatici sullo stato sociale» (Constant, 1837, pp. 106 sg.). Nel Taine da lui straordinariamente ammirato, Le Bon (1980, pp. 127 sgg.) può aver letto la requisitoria contro gli intellettuali alla Rousseau, «l'uomo del rancore» e della sobillazione delle masse. E, in quegli anni, analogamente si esprime Nietzsche (Losurdo, 1992 a, cap. 8, § 3), 11 quale dedica un capitolo di Così parlò Zarathustra alla denuncia di quelle «tarantole» velenose che sono gli intellettuali rivoluzionari o sovversivi. A sua volta, il sociologo francese lamenta il fatto che il sistema scolastico del suo paese, così poco attento alla formazione pratica e professionale, produce «anarchici» in continuazione, «un immenso esercito di malcontenti, pronto a seguire tutte le suggestioni degli utopisti e dei rétori» (Le Bon, 1980, p. 132). Non ha senso, dunque, voler ripercorrere a ritroso la via che ha condotto al suffragio di massa o universale. Tanto più che esso «per molto tempo ebbe limitata influenza e agli inizi fu tanto
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
facilmente diretto». È diventato ingovernabile a partire dalla diffusione delle idee socialiste e dall'organizzarsi delle «folle» in sindacati e partiti, sulla base per l'appunto di quelle idee (Le Bon, 1980, pp. 33 sg.). E, nell'ambito del movimento sindacale o socialista, un ruolo rilevante viene giocato proprio dagli intellettuali. E allora? Diversa è la soluzione che bisogna esplorare. Le folle sono incapaci di argomentare logicamente, ma questo fatto, che in apparenza è un inconveniente, costituisce in realtà il presupposto della soluzione del problema: «Il tipo dell'eroe caro alle folle avrà sempre la struttura di un Cesare. Il suo pennacchio seduce. La sua autorità si fa rispettare e la sua sciabola suscita paura» (Le Bon, 1980, p. 80). Ma in che modo l'eroe o il Cesare deve cercare di agire sulle folle? Non in base ad argomentazioni razionali. Il sociologo di fine Ottocento condivide in pieno la diffidenza espressa alcuni decenni prima da Luigi Napoleone per le «questioni metafisiche» e dal liberale Bagehot per le ideologie e gli «ismi». Non ha senso volersi servire degh strumenti propri di quegli intellettuali che un'influenza così rovinosa hanno esercitato ed esercitano sulle masse. Quegli strumenti rischiano di essere controproducenti; finirebbero col suscitare l'interesse politico nelle masse, le quali potrebbero allora essere portate a dar ragione ai demagoghi che mettono sul conto della politica la miseria delle classi inferiori della società. E invece è una superstizione «l'idea che le istituzioni possano rimediare ai difetti della società, che il progresso dei popoli dipenda dal perfezionarsi delle costituzioni e dei governi». Nella denuncia di questa «pericolosa chimera» che ha preso piede a partire dalla rivoluzione francese e di cui «invano filosofi e storici hanno tentato di dimostrare l'assurdità» (Le Bon, 1980, pp. 117 sg.), lo psicologo delle folle è d'accordo con Tocqueville (cfr. supra, cap. i , § 2), da lui più volte citato. Solo che ben diversamente si configura il rimedio suggerito, il quale ora è da ricercare non nel sistema elettorale di secondo grado o in qualche altro accorgimento per limitare o contenere il suffragio universale diretto. Quest'ultimo dev'essere, al contrario, portato a compimento perché il capo, senza essere ostacolato da barriere e diaframmi, possa agire sulle masse ricorrendo a strumenti di persuasione che vengono così descritti: L'affermazione pura e semplice, svincolata da ogni ragionamento e da ogni prova, costituisce un mezzo sicuro per far penetrare un'idea nello spirito
78
CAPITOLO SECONDO
delle folle. Q u a n t o più l'affermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità. I testi sacri e i codici d'ogni tempo hanno sempre proceduto per affermazioni. G l i uomini di Stato chiamati a difendere una causa politica qualsiasi, gli industriali che diffondono i prodotti con la pubblicità, conoscono il valore dell'affermazione. Tuttavia quest'ultima acquista una reale influenza soltanto se viene ripetuta di continuo, il più possibile, e sempre negli stessi termini. Napoleone diceva che esiste una sola figura retorica seria, la ripetizione. C i ò che si afferma finisce, grazie alla ripetizione, col penetrare nelle menti al punto da essere accettato come verità dimostrata (Le B o n , 1980, p. 159).
Per un verso, il sociologo e psicologo delle folle si richiama a Cesare o Napoleone, ai loro «pennacchi» e ai sogni di gloria imperiale cui aveva fatto riferimento anche Bagehot; per un altro verso, Le Bon pensa ormai sul modello della pubblicità commerciale la propaganda considerata adatta al regime cesaristico o bonapartistico da lui prospettato: C o s ì si spiega la forza straordinaria della pubblicità. Q u a n d o abbiamo letto cento volte che il miglior cioccolato è il cioccolato X . . . ci immaginiamo di averlo sentito dire spesso e finiamo con l'averne la certezza (...). A furia di veder ripetuto su uno stesso giornale che A . . . è un vero mascalzone e B... un onest'uomo, finiamo con l'esserne convinti, a patto, naturalmente, di non leggete spesso un altro giornale di opinione contraria, in cui tali definizioni sono capovolte (Le Bon, 1980, p. 160).
Alle origini del regime politico fondato su una personalizzazione pifi o meno accentuata del potere, abbiamo visto i suoi teorici celebrare le qualità magnetiche del capo carismatico, la sua capacità di incantare le masse indipendentemente da un programma politico concreto. ,11 sociologo e psicologo delle folle continua a nutrire diffidenza nei confronti delle ideologie e delle teorie «astratte», dei partiti organizzati e programmatici, della rappresentanza politica autonoma delle classi subalterne, dei corpi intermedi che possono ostacolare il rapporto diretto tra masse atomizzate e leader. Ma, accanto a questi elementi di continuità, emerge, evidente, una novità: al carisma personale subentra ora la persuasione occulta propria della pubblicità commerciale; le «migliaia di oratori» chiamati da Bagehot ad accendere la passione sciovinistica delle masse vengono ora sostituiti da un apparato pubblicitario centralizzato con una capacità di penetrazione ben superiore e ben più capillare. Rimangono fermi gli elementi di continuità. Dal punto di vista della società e della civiltà nel suo complesso l'incapacità
UN NUOVO TUTORE PER LA MOLTITUDINE
57
della moltitudine «bambina» a ragionare e ad argomentare razionalmente non costituisce, per Bagehot, un elemento negativo: solo grazie a tale dato di fatto, essa può essere abbagliata dal carisma religioso della regina o dal carisma eroico del leader nazionalista che agita il «vago sogno di gloria», e solo così essa può smarrire la sua potenziale pericolosità e accettare docilmente il posto che le è proprio e che è richiesto dall'interesse della società (e della classe dominante). Non molto diverso, è l'atteggiamento di Le Bon; «Dobbiamo dunque rimpiangere che la ragione non guidi le folle? Non oserei dirlo». In realtà, è un fatto benefico che esse «si possono accendere d'entusiasmo per la gloria e per l'onore». Sì, «le folle spesso sono criminali, certamente, ma spesso anche eroiche»; solo esse sono capaci di quegli «eroismi evidentemente un po' incoscienti», senza i quali non «si fa la storia». E, «se si dovessero mettere all'attivo dei popoli soltanto le grandi imprese freddamente ragionate, gli annali del mondo ne registrerebbero ben poche» (Le Bon, 1980, pp. 148 e 57). L'apparato propagandistico e pubblicitario chiamato ad accendere d'entusiasmo la moltitudiné «bambina» o le folle per la «gloria» (cui fanno riferimento sia il politologo inglese che il sociologo e psicologo francese, oltre che Luigi Napoleone in persona) rivelerà tutta la sua impressionante potenza a partire soprattutto dalla prima guerra mondiale, ed è in tale occasione che, dopo un lungo periodo di gestazione, il regime bonapartista affronta e supera brillantemente il battesimo del fuoco (cfr. infra, cap. 5). Ma, prima di analizzarne la marcia trionfale, conviene soffermarsi ulteriormente sulla genesi e lo sviluppo storico di quello che sembra essere il regime politico del nostro tempo.
3-
Un'alternativa alla discriminazione censitaria: le origini del bonapartismo tra America e Francia
I. Bonapartismo francese e modello americano Si è già visto che è riduttivo voler confinare l'emergere e lo sviluppo di tendenze bonapartiste nell'Ottocento esclusivamente alla Francia. C ' è da aggiungere che in questo paese i protagonisti e ideologi del bonapartismo amano spesso richiamarsi all'esempio degli Stati Uniti. A l momento dell'effettuazione del colpo di Stato, Napoleone viene salutato dagli ambienti liberali come una sorta di «nuovo Washington». Pochi mesi dopo, il 9 febbraio 1800, è lo stesso Primo Console a presiedere agli Invalides una grande cerimonia in onore del primo presidente degli Stati Uniti di cui si è appena appresa la morte, a decretare il lutto nazionale e a inviare alle sue truppe un messaggio che contiene un omaggio vibrante allo statista scomparso: «Washington è morto. Questo grande uomo si è battuto contro la tirannide. Egli ha consolidato la libertà della sua patria» (Bredin, 1988, pp. 464 e 496). Abile e interessata propaganda politica? Senza dubbio. Ma forse c'è un altro aspetto che sarebbe ingiusto trascurare. Nell'esilio di Sant'Elena, Napoleone ritorna sul tema: Giunto al potere si sarebbe voluto che io fossi stato un Washington (...). Se fossi stato in America, sarei stato volentieri un Washington, e avrei avuto anche poco merito perché non vedo come sarebbe stato ragionevolmente possibile fare diversamente. Ma se lui si fosse trovato in Francia, dinanzi alla dissoluzione interna e all'invasione esterna, l'avrei sfidato ad essere quello che lui è stato, e se egli avesse voluto esserlo, non sarebbe stato che un sempliciotto e non avrebbe fatto altro che prolungare grandi sventure. Per quanto mi riguarda, io non potevo essere che un Washington coronato (Bluche, 1980, p. 354).
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1
1
Per ora, senza ulteriormente discuterla, limitiamoci a prendere atto della tesi formulata nel memoriale di Sant'Elena da Napoleone, il quale si paragona al primo presidente degli Stati Uniti per quanto riguarda il rafforzamento del potere esecutivo, pur aggiungendo che esso non poteva non assumere forme politiche e istituzionali diverse, a causa della diversa situazione dei due paesi. In Luigi Napoleone si ripresenta con forza ancora maggiore il richiamo al modello costituito dagli Usa, dove soggiorna per alcuni mesi del 1837, costretto all'esilio dalla monarchia di Luglio in seguito ad un fallito tentativo insurrezionale. Non sappiamo se egli, grazie alle «sue conoscenze delle istituzioni di diversi paesi europei», è veramente «preparato in modo ammirevole per osservare e studiare a fondo gli Stati Uniti e il loro governo» e se veramente «più tardi realizza in Francia alcune delle idee di cui ha preso conoscenza negli Stati Uniti» (Boon, 1936, pp. 15 sg.). Certo è che la repubblica d'oltre Atlantico viene visitata, a pochi anni di distanza da Tocqueville, nel momento in cui il generale Jackson, mettendosi in rotta di collisione coi vecchi notabili, per un verso fa cadere largamente la discriminazione censitaria all'interno della comunità bianca, per un altro verso incoraggia la missione di espansione nel Far West, nell'ambito di una politica che comporta comunque un netto rafforzamento dei poteri presidenziali. E alla missione che «la Provvidenza ha affidato agli Stati Uniti dell'America (...) di popolare e di guadagnare alla civiltà tutto quell'immenso territorio che si estende dall'Atlantico al mare del Sud, e dal Polo Nord all'Equatore» fa riferimento Luigi Napoleone. Assieme alla Russia, l'America è uno dei due paesi che, al contrario del «vecchio centro europeo», avanza «senza esitare verso il perfezionamento»; solo che la prima lo fa «mediante la volontà di uno solo, l'altra mediante la libertà», ovvero «mettendo in pratica 0 vecchio adagio lahsez faire, kìspasser per favorire l'istinto irresistibile che spinge verso Ovest i popoli dell'America». E un brano che chiaramente riecheggia un giudizio di Tocqueville, in altra occasione esplicitamente citato (Napoléon III, 1861, voi. i , pp. 24 sg. e 98). Nella Democrazia in America possiamo leggere: Vi sono oggi sulla terra due grandi popoli che, partiti da punti differenti, sembrano avanzare verso lo stesso scopo: sono i russi e gli angloamerica-
I o8
CAPITOLO TERZO
ni (...). L'uno combatte il deserto e la barbarie, l'altro la civiltà rivestito di tutte le sue armi; così le conquiste dell'americano si fanno col vomere dell'agricoltore, quelle del russo con la spada del soldato. Per raggiungere il suo scopo, il primo si basa sull'interesse personale e lascia agire, senza dirigerle, la forza e la ragione degli individui. Il secondo concentra, in qualche modo, in un solo uomo tutto il potere della società. L'uno ha per principale mezzo d'azione la libertà; l'altro la servitù» (Tocqueville, 1968, pp. 483 sg.).
Forse nell'opera di Tocqueville, Luigi Napoleone o qualcuno dei suoi ideologi ha potuto leggere che il presidente americano, «solo e unico rappresentante del potere esecutivo dell'Unione», ha «prerogative quasi regali» (Tocqueville, 1968, pp. 148 e 153). Certo è che la propaganda bonapartista per la revisione della Costituzione che precede il colpo di Stato, si richiama esplicitamente, e ripetutamente, al modello americano, al quale dichiara di volersi ispirare per quanto riguarda «la posizione del capo dello Stato». La Costituzione francese soffre di una grave contraddizione per il fatto che, mentre fa eleggere il presidente a suffragio universale, considerandolo quindi in qualche modo come il rappresentante della nazione, lo colloca poi in una «posizione subalterna» rispetto al legislativo (Granier de Cassagnac, 1851, pp. 25 e 8). E, invece, anche in Francia, il capo dell'esecutivo deve disporre di «un potere reale, serio, efficace». Il nuovo quadro istituzionale, qui rivendicato, viene così sintetizzato: D a un lato un governo impegnato ad agire e non a parlare, ad amministrare e non a legiferare, può consacrare tutto il suo tempo, tutte le sue forze al bene pubblico, invece di usarle in agitazioni e lotte miserabili. Dall'altro, il potere legislativo, essendo solo impegnato a fare delle leggi, e non a fare e disfare i governi, viene finalmente a trovarsi nelle condizioni ordinarie di calma, di saggezza e di patriottismo che si addicono ad un organo deliberante (Granier de Cassagnac, 1851, pp. 23 e 40 sg.).
Il potere legislativo deve smetterla di debordare dai suoi compiti: esso «esamina, discute, controlla, modera, ma non dirige» (Granier de Cassagnac, 1851, p. 46). A dirigere e governare, ad assicurare l'obbedienza alle leggi, nonché a rappresentare l'unità della nazione, è il presidente della repubblica, il quale sceglie in modo autonomo i ministri che sono i suoi «agenti necessari»: «Depositari del suo pensiero e organi della sua volontà, è indispensabile che essi dipendano da lui e siano a lui devoti» (Granier de Cassagnac, 1851, p. 25).
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1
1
2. Il «colpo di Stato» dei federalisti americani Il modello americano viene qui seguito abbastanza da vicino, come si desume anche dal fatto che bersaglio principale della polemica è «il regime parlamentare, il suo predominio e l'oblio del ruolo del potere esecutivo» (Granier de Cassagnac, 1851, p. 8). Non era questo il nemico dei protagonisti della Convenzione di Filadelfia, da cui scaturisce la Costituzione americana? Dato che, nel sottolineare la necessità di un forte potere esecutivo, in Francia, a partire in ogni caso dal colpo di Stato del 1799, ci si richiama all'esempio degli Stati Uniti e della sua Costituzione, conviene dare uno sguardo a quest'ultima e alla sua genesi storica. L'avvenimento decisivo che è alle sue spalle è la rivolta che, nel 1786-87, si sviluppa nel Massachusetts ad opera di contadini poveri e indebitati i quali, guidati da Daniel Shays, colonnello in pensione dell'esercito continentale che aveva sconfitto l'Inghilterra, si ribellano contro la vendita all'asta, e a basso prezzo, delle loro terre e dei loro beni e contro la condanna al carcere dei debitori. Su questo punto, la legislazione americana è dura e spietata. Alcuni decenni più tardi Tocqueville avrebbe osservato che negli Usa i poveri finivano in prigione anche per debiti assolutamente insignificanti: si poteva calcolare che, in Pennsylvania, il numero degli individui annualmente arrestati per debiti ammontava a 7000; se a questa cifra si aggiungeva quella dei condannati per delitti più gravi, risultava che su 144 abitanti ve ne era pressappoco uno che ogni anno finiva in prigione (Tocqueville, 1951, voi. 4, i, pp. 323 sg.). Ma torniamo agli sviluppi della rivoluzione americana. Pur repressa duramente con l'intervento della milizia, l'agitazione e la rivolta dei contadini poveri gettano nel panico le classi possidenti: la «catastrofe» che si profila rende «più inquieto e più preoccupato che durante la guerra» contro gli inglesi John Jay (firmatario del trattato di pace e rampollo di una ricca famiglia di commercianti newyorkesi) che comunica le sue preoccupazioni a George Washington. L'allora generale a riposo è destinatario della lettera di un altro interlocutore il quale delinea un'alternativa drammatica: o ci si arrende al «terrore dell'anarchia e dell'illegalità» promosse dallo «strato inferiore» della popolazione e da una «classe la cui situazione disperata può esser migliorata
I
o8
CAPITOLO TERZO
solo mediante la rovina della società», oppure la si fa finita una volta per sempre con «governi deboli e indecisi». Si tratta allora di procedere all'immediata imposizione di «un governo stabile e capace di agire» e fornito del «potere che è assolutamente necessario per punire il vizio e premiare la virtù»: questo il quadro tracciato da Henry Lee, delegato della Virginia in una lettera sempre indirizzata a Washington (Adams e Adams, 1987, pp. 309 sg.). A quest'ultimo si rivolge anche il generale Knox, appena reduce dal Massachusetts dov'è stato inviato dal Congresso per l'appunto allo scopo di sedare la rivolta cui ha preso parte - riferisce allarmato - una «massa tra i 12 e 15000 uomini, disperati e privi di carattere», epperò reclutati «fondamentalmente tra la parte giovane e attiva della popolazione», in preda ad idee, strane e mostruose, di redistribuzione della terra, di «leggi agrarie» e persino di «proprietà comune». Le «fosche notizie» ricevute dal generale Knox il generale Washington le comunica a sua volta a Madison assieme alla conclusione che ne ha ricavato: per sfuggire all'«anarchia e al caos», s'impongono «una costituzione liberale ed energica» e decisi mutamenti rispetto alle precedenti «convinzioni politiche» (Department of State, 1905, voi. 4, pp. 34 sg.). Bisogna abbandonare - osserva Washington già nella lettera di risposta a Jay una «visione troppo benevola della natura umana» e ignara della necessità di un forte potere centrale che tenga a freno il vizio e le inclinazioni malvage. Il senso della svolta politica che si delinea in America è ben colto dall'inviato francese che così riferisce a Parigi: si tratta di stabilire su solide basi «il chiaro predominio dei ricchi e dei grossi proprietari terrieri». Per conseguire tale obiettivo, bisogna liquidare definitivamente le aspirazioni alla «democrazia perfetta», alla «libertà assoluta», air«abolizione del Senato», alle misure a favore dei contadini poveri e indebitati rivendicate dal «popolo » ovvero dal «basso popolo »: a neutralizzare e, eventualmente, domare quest'ultimo, è chiamato ora un forte «potere esecutivo» (Morison, 1953, pp. 220-25). U suo rafforzamento viene invocato non solo o non tanto per superare i limiti di una confederazione continuamente esposta al rischio della disgregazione e disintegrazione, quanto per sventare la paventata minaccia popolare e plebea: il grande obiettivo della costruzione di uno Stato nazionale a base federale viene
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1 1
COSÌ a collocarsi sotto il segno di un'egemonia chiaramente conservatrice. In effetti, a causa del clima politico già visto, la Convenzione convocata a Filadelfia è quasi esclusivamente composta «di uomini estremamente conservatori», i quali, lavorando in un rigoroso segreto, e andando ben al di là del mandato ricevuto, il quale prevede solo un'opera di riforma degli «Articoli» della Confederazione, elaborano un testo costituzionale totalmente nuovo che rafforza in modo enorme il potere centrale: «compiuto da Napoleone, si sarebbe detto un coup d'état» (Nevins e Commager, i960, pp. 133-36). In tal caso, a istituire un confronto tra Washington e il protagonista del Brumaio non è quest'ultimo bensì l'opera di due storici americani contemporanei. È un giudizio che risulta implicitamente confortato dall'analisi prima di loro sviluppata da uno storico che poi ascende alla presidenza degli Stati Uniti. Da un punto di vista legale - fa notare Woodrow Wilson - l'originaria costituzione avrebbe potuto essere modificata solo in base al «consenso unanime» degli Stati firmatari; se anche, in deroga alla legalità, si fosse proceduto a un «conteggio delle teste su scala nazionale, si sarebbe indubbiamente verificata una maggioranza contraria aUa [nuova] costituzione»; epperò i protagonisti della Convenzione di Filadelfia si preoccupavano non di «risultare graditi al paese ma di salvarlo» (WUson, 1918, voi. 5, pp. 76, 82 e 71). E cioè, la svolta politicocostituzionale non era legittimata né dall'ordinamento giuridico esistente né dall'appello alla sovranità popolare, bensì dall'assoluta necessità di risparmiare al paese gli attacchi alla proprietà, il caos e l'anarchia che incombevano minacciosamente. E il principio di legittimità che di solito presiede ai colpi di Stato; e lo spettro del colpo di Stato o del suo pericolo viene significativamente evocato già dagli oppositori contemporanei della nuova Costituzione (Adams e Adams, 1987, p. 361). I protagonisti della svolta sono dominati dalla preoccupazione di mettere a punto gli strumenti più efficaci per la repressione di eventuali sommovimenti popolari. Sfogliamo le pagine di «The Federalist»: ricorrente è il riferimento alla rivolta di Shays e alla «guerra civile» del Massachusetts e alla necessità di costituire un potere atto «a spezzare e a controllare la violenza delle fazioni» (n. 10, 1980, p. 90) e«ranarchia che ci minaccia da vicino»(n. 15,1980, p. 126). Costantemente in agguato è il pericolo di «guerre e rivo-
I
o8
CAPITOLO TERZO
luzioni», e per «proteggere lo Stato da questi due mortali mali della società», bisogna poter disporre di efficienti «forze armate» (n. 34, 1980, pp. 258 sg.), le quali sono necessarie in primo luogo a causa della minaccia che proviene dall'interno del paese, come dimostra il caso ben noto del Massachusetts, nonché della Pennsylvania, dove anche i più esitanti si sono convinti della necessità di un esercito permanente, almeno «fino a tanto che sussista la benché minima parvenza di pericolo per l'ordine pubblico» (n. 25, 1980, p. 205). Al fine di trovarsi preparati dinanzi a ogni evenienza, è assolutamente necessario un governo dotato di «energia» (n. 37, 1980, p. 281), un «esecutivo forte» (n. 70,1980, p. 532) che sappia eventualmente anche sfidare lo «sfavore» del «popolo» e «sia in grado di imporre la propria opinione con decisione ed energia» (n. 71, 1980, pp. 539 sg.), un esecutivo in condizione di disporre in modo centralizzato di tutti i corpi armati, compresa, in caso di necessità, «la Milizia dei singoli Stati» (n. 69, 1980, p. 519). Si comprende allora la tesi di chi ha voluto vedere nella Convenzione di Filadelfia non solo un «coup d'état pacifico» - tale interpretazione è abbastanza diffusa - , ma un colpo di Stato che, inseguendo il «modello dello Stato-Leviatano», rappresenta «la vittoria di Hobbes su Locke» (Wehler, 1984, p. 58).
3. Francia e America-, come uscire dalla rivoluzione Si tratta di un giudizio eccessivo e, come vedremo, anche fuorviante. Conviene preliminarmente riflettere sulle caratteristiche del regime politico tenuto a battesimo dalla nuova Costituzione, partendo da un confronto con la vicenda che si conclude in Francia col trionfo di Napoleone Bonaparte. Si è parlato talvolta degli sconvolgimenti che alla fine del Settecento si manifestano in America e in Europa come di un'unica «rivoluzione occidentale, o più esattamente atlantica» (Godechot, 1962, p. 6). Ma, se tale definizione è giusta, emerge immediatamente il problema di mettere a confronto non solo gli inizi e le modalità di svolgimento ma anche la conclusione delle diverse rivoluzioni: se la francese termina, sia pure provvisoriamente, nel 1799, quella americana si conclude, definitivamente, nel 1788-89, col varo della nuova Costituzione. In entrambi i paesi, l'acuta crisi
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1
1
sociale sfocia nell'ascesa al potere di un generale circonfuso di gloria. Sul piano interno, in un caso come nell'altro, si tratta di riassorbire o stroncare le tendenze radicali emerse nel corso dei precedenti sconvolgimenti. «La rivoluzione è finita», proclama Napoleone nel presentare, subito dopo il colpo di Stato, il progetto di nuova Costituzione. E in modo analogo si esprime «The Federalist» nell'illustrate i risultati della Convenzione di Filadelfia: «Era difficile aspettarsi che, nel corso di una rivoluzione popolare, gli animi degli uomini sapessero fermarsi al giusto mezzo» (n. 26, 1980, pp. 206 sg.); è ora di chiudere una stagione (fatta di «universale entusiasmo per forme di governo rivoluzionarie e nuove») che ha impresso il suo segno su «tutte le Costituzioni vigenti» nei singoli Stati americani (n. 49,1980, p. 388). Con la consueta lucidità, e con maggiore franchezza, l'inviato francese così sintetizza le conclusioni a cui sono pervenuti i «patrioti pili illuminati» in seguito allo «spiacevole avvenimento» costituito dalla rivolta di Shays: «E divenuto chiaro per loro che, al tempo in cui sono sorte le Costituzioni, quando avevano urgente bisogno del sostegno del basso popolo, hanno dovuto fare a quest'ultimo più concessioni di quanto sia compatibile con la stabilità dell'ordine pubblico, la sicurezza del cittadino e l'agilità di funzionamento del governo»; si tratta ora di mettere l'accento non più su libertà e partecipazione, bensì su «tranquillità e ordine pubblico» (Morison, 1953, p. 221). Il medesimo problema, e in termini più drammatici, si presenta in Francia dove ben più fortemente si è fatto sentire il peso delle masse popolari e dove prima il Termidoro e poi il Brumaio vengono salutati anche dagli ambienti liberali come il momento della liberazione dalla minaccia della «populace» o plebaglia che adesso, finalmente, può essere neutralizzata sul piano militare e politico. E si comprende allora la violenta polemica, subito dopo il colpo di Stato del 1799 scatenata da Sieyès e dalla pubblicistica a lui vicina contro la «democrazia bruta» e la connessa precisazione per cui il regime rappresentativo consiste semplicemente nella delega della pienezza dei poteri a un'«élite rappresentativa», ovvero ad una «classe di rappresentanti» che, una volta insediata al potere, al popolo non è lecito di disturbare neppure mediante petizioni (Bredin, 1988, pp. 468 e 475 nota). Ma anche in America «The Federalist» si premura di chiarire che «la repubblica» si differenzia dalle democrazie (le quali «hanno sem-
I o8
CAPITOLO TERZO
pre offerto spettacolo di turbolenza e di dissidi»), per il fatto che la prima, fondata sul «sistema di rappresentanza», consiste nella «delega dell'azione governativa ad un piccolo numero di cittadini eletti dagli altri», anche in questo caso con la sostanziale esclusione di qualsiasi autonoma capacità d'iniziativa popolare (n. IO, 1980, pp. 95 sg.). La vigilia e i lavori della Convenzione di Filadelfia sono dominati dalla preoccupazione, sempre con riferimento alla «ribellione» verificatasi nel Massachusetts, di farla finita con r«anarchia», con «gli eccessi della democrazia» e con l'agitazione dei demagoghi o «pretesi patrioti» (Farrand, 1966, voi. I , pp. 18 sg. e 48). A sua volta, l'opposizione denuncia nella nuova Costituzione lo strumento indiretto per stabilire il monopolio politico delle classi alte che si considerano r«aristocrazia naturale del paese»: a causa anche del numero assai ridotto di deputati e senatori previsto, difficilmente sarebbero riusciti a farsi eleggere esponenti dei ceti sociali piii modesti e piìà poveri (Adams e Adams, 1987, pp. 362 e 381 sg.). È interessante vedere in che modo vengono ribattute queste critiche dai protagonisti della svolta: «The Federalist» risponde che è naturale che gli «organi rappresentativi» siano esclusivamente «composti di proprietari terrieri, di commercianti, di rappresentanti delle professioni liberali. Ma dov'è mai il pericolo che questi individui non sappiano comprendere o non possano curare gli interessi d'ogni altra categoria di cittadini?». E invece è chiaro che il «ricco latifondista», avendo a cuore le sorti dell'agricoltura nel suo complesso, saprà essere l'interprete anche del «modesto fattore», mentre «gli artigiani e coloro che lavorano nelle manifatture» {manufacturers), cioè gli operai, trovano i loro «naturali rappresentanti» nei ricchi commercianti, ovviamente interessati a promuovere e garantire il benessere delle attività economiche con le quali è connessa la loro stessa agiatezza. E poi, perché mai artigiani e operai dovrebbero eleggere altri artigiani e operai, come se fra loro non ci fosse motivo alcuno di concorrenza? E più probabile e più logico che si facciano rappresentare da un commerciante. Gli esponenti delle professioni liberali, godendo di una posizione di «neutralità rispetto alla rivalità esistente tra i vari rami dell'industria», costituiscono infine un'ulteriore garanzia per il rispetto degli «interessi comuni della società tutta» («The Federalist», n. 35, 1980, pp. 265-68, passim).
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1
1
I critici radicaleggiami della nuova Costituzione si oppongono al monopolio politico degli organismi rappresentativi da parte di coloro che detengono il privilegio dell'oiium, ma che ignorano o sono distanti dalle «comuni preoccupazioni del popolo»? (Adams e Adams, 1987, p. 383). Hamilton ribatte che, consapevoli del fatto di esser privi, a causa del «loro costume di vita» fatto di duro lavoro, delle «doti» necessarie per figurare degnamente in un'assemblea rappresentativa, i membri delle classi inferiori si affidano con piena fiducia, e giustamente, alle superiori conoscenze delle classi alte («The Federalist», n. 35, 1980, p. 266). Intervenendo poi all'Assemblea di New York per la ratifica della nuova Costituzione, il dirigente federalista si spinge ancora oltre con l'osservazione che, anche sul piano morale, oltre che intellettuale, «il vantaggio è dalla parte dei benestanti. Probabilmente, i loro vizi sono più vantaggiosi per la prosperità dello Stato che non quelli dei bisognosi. E tra i primi c'è minor depravazione morale» (Hamilton, 1962, p. 43). In America come in Francia, l'otium continua ad essere considerato la condizione indispensabile per l'acquisizione delle conoscenze e della probità necessarie per poter partecipare alla direzione politica della comunità, mentre viene rigettata come il colmo dell'assurdità l'idea di un'autonoma rappresentanza e di un'autonoma iniziativa politica delle classi popolari. Sulle due rive dell'Atlantico, a distanza di circa di un decennio, i due colpi di Stato, con o senza virgolette, effettuati a conclusione di due rivoluzioni mirano a neutralizzare le spinte radicali e plebee: si tratta, per dirla col generale Washington, di spazzar via «anarchia e caos» e garantire la «vita, libertà e proprietà» dei cittadini, nell'ambito di una «costituzione liberale ed energica»; ovvero, a voler usare questa volta le parole dei due proclami già visti del generale Bonaparte, si tratta di condurre a termine la «dispersione dei faziosi» e mettere in piedi un «governo rappresentativo», dotato di poteri «forti e stabili», e quindi capace di difendere «i sacri diritti della proprietà, dell'uguaglianza, della libertà». Analoghe preoccupazioni sociali e politiche fermentano da una parte e dall'atra dell'Adantico: se la Convenzione di Filadelfia rassicura i creditori spaventati dall'agitazione dei contadini indebitati. Napoleone abolisce l'imposta progressiva sul reddito, denunciata dai proprietari come una forma di rapina (Cobban, 1971, p. 87). Se si fa astrazione dalla situazione reli-
I
o8
CAPITOLO TERZO
giosa, i federalisti americani esprimono posizioni molto vicine a quelle della «borghesia francese divenuta conservatrice e al suo interprete estremo, Sieyès» (Lefebvre, 1987, p. 679). Persino il linguaggio è abbastanza simile: come la Proclamation du général en chef Bonaparte del 19 Brumaio associa idee «conservatrici» e «liberali», così, alla vigilia della Convenzione di Filadelfia, il generale Washington conia una sorta di logo pubblicitario [liberal & energetìc) (Department of State, 1905, voi. 4, pp. 34 sg.) per illustrare e propagandare la Costituzione chiamata a sventare una volta per sempre il pericolo dell'eversione sociale. In un caso e nell'altro, liberale è sinonimo di conservatore, in quanto si contrappone all'ormai inquieto e preoccupante mondo del lavoro meccanico, servile e lontano dalle arti liberali. Qualche anno prima, Sieyès, non a caso tra gli ispiratori del colpo di Stato di Napoleone, ha celebrato quelle classi che, grazie alla loro «agiatezza», sono in grado di «ricevere un'educazione liberale» (Sieyès, 1985, p. 133). Analogamente in Washington, coloro che hanno in qualche modo dimestichezza con le «arti liberali» si contrappongono ai «meccanici» (mechanics) (Washington, 1988, pp. 397 e 455). A cavallo del Brumaio, Madame de Staél auspica il definitivo consolidarsi del potere della gente per bene e danarosa, della gens de biens ovvero honnète gens (Guillemin, 1958, pp. 182 sg.); in America, abbiamo visto Hamilton o John Quincey Adams parlare dèi.'élite dominante come dei «ricchi e ben nati» in contrapposizione alla «massa del popolo», composta di «meccanici» e gente comunque priva di cultura e di educazione «liberale» (cfr. supra, cap. i , § 11). Subito dopo la rivolta di Shays, Washington riferisce a Jay che anche personalità influenti sono a favore di una «forma monarchica di governo» (Department of State, 1905, voi. 4, p. 20). Sono note le simpatie monarchiche di Hamilton condivise anche da altri delegati, come Dickinson (proveniente dal Delaware), il quale, però, è ben consapevole della scarsa praticabilità di un tale progetto malauguratamente estraneo allo «spirito dei tempi» (Tansill, 1927, pp. 142 sg.). In effetti, l'opzione britannica dovrebbe fronteggiare un'impopolarità troppo grande e forse insuperabile in un momento in cui è ancora vivo il ricordo della guerra contro l'Inghilterra di Giorgio III, nella Dichiarazione d'indipendenza dipinto come un tiranno con un comportamento «che non ha pari nella storia delle ore pili barbare ed
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1
1
è del tutto indegno del capo di una Nazione Civile». E, tuttavia, alla ex-madrepatria ci si continua ad ispirare nella ricerca di strumenti di controllo della pressione popolare e delle tensioni sociali. Nel gennaio 1788, Washington riceve una lettera di Knox il quale, nell'informarlo che nel Massachusetts le classi alte sono compattamente a favore del progetto di nuova Costituzione varato a Filadelfia, aggiunge che tuttavia molti tra i loro esponenti avrebbero «preferito una Costituzione piii vicina a quella inglese» (Department of State, 1905, voi. 4, p. 442). Alla Convenzione di Filadelfia il Dickinson già vistò si pronuncia esplicitamente per l'istituzione di una Camera dei Pari, in direzione della quale tende anche Hamilton, secondo cui un Senato costituito di membri a vita è necessario per proteggere «i pochi», e cioè «i ricchi e ben nati» dall'invidia e dal possibile assalto dei «molti» (Morison, 1953, pp. 244 e 259). Ma anche l'introduzione di una Camera alta sul modello inglese si presenta problematica in un paese che, privo o quasi di tradizione feudale alle spalle, non può facilmente inventare dei Pari a vita, ereditari e dotati di un prestigio secolare. Difficoltà analoghe deve fronteggiare la Francia: certo, nonostante la nobiltà sia uscita decimata dai colossali sconvolgimenti politici e dalla guerra civile, è possibile istituire una Camera dei Pari anche se questa, a causa della cesura rappresentata dalla rivoluzione, non può contare sul prestigio derivante da un'interrotta tradizione, come in Inghilterra. Mettendo da parte quella ormai screditata dei Borboni, si può persino procedere alla ricerca di una nuova dinastia: ma, come dimostra poi la breve esperienza della monarchia di Luglio, anche una tale soluzione presenta gravi inconvenienti, per il fatto che, mentre non placa l'opposizione repubblicana, divide lo stesso fronte monarchico e, in tal modo, non può piii contare sull'aura sacra in cui la Corona ha il merito, secondo Bagehot, di immergere il potere.
4. L'ombra della dittatura dell'antica Roma In conclusione, i due colpi di Stato sulle due rive dell'Atlantico mirano a ristabilire il tradizionale monopolio politico detenuto dalla ricchezza e daIl'otó«ffz; ma, a causa anche del peso della situazione oggettiva, il regime politico chiamato a conseguire tale
I o8
CAPITOLO TERZO
obiettivo finisce col presentare caratteristiche nuove che vanno al di là della coscienza e delle intenzioni dei protagonisti degli avvenimenti e che diventano via via evidenti nel corso del successivo sviluppo storico. Possiamo riprendere le mosse dalla lettera già citata del gennaio 1788, in cui Knox informa Washington che le classi alte del Massachusetts avrebbero sì preferito una costituzione all'inglese, ma che comunque sono a favore di un «governo forte il più possibile» {most vigorous government) (Department of State, 1905, voi. 4, p. 442). Alcuni, in realtà, si spingono ancora oltre: subito dopo la rivolta dei debitori, Jay osserva, nel giugno del 1786, che la «parte migliore del popolo» (cioè le famiglie più ricche) comincia ad essere del tutto indifferente al «fascino della libertà», mentre è pronta ad ogni rimedio che metta comunque fine air«insicurezza della proprietà», garantendo «quiete e sicurezza» (Morison, 1953, p. 215). E cioè non mancano settori della classe dominante attratti ddl'idea di una dittatura più o meno aperta. Ma, come quella monarchica, anche quest'ultima soluzione si presenta assai problematica in un paese appena uscito da una rivoluzione che ha agitato la parola d'ordine della libertà e, su questa base, è riuscito a suscitare l'entusiasmo necessario per sconfiggere le truppe britanniche. La Convenzione di Filadelfia opta invece per un forte esecutivo. Ma quale dev'essere la sua configurazione? Contrariamente che in Francia, sin dall'inizio diffusa e chiara è nei circoli dirigenti americani la coscienza che tale potere deve incarnarsi in una sola persona: bisogna assolutamente evitare che al suo interno si manifestino discordie o incertezze paralizzanti. Osserva «The Federalist» che, «nella condotta di una guerra, laddove un forte esecutivo rappresenterebbe in modo particolarissimo il baluardo della sicurezza del paese, si potrebbe temere ogni cosa se questo dovesse essere formato da più di una persona». L'argomento decisivo è quello della guerra, civile o internazionale che sia (n. 70, 1980, p. 532). Così ampi sono i poteri conferiti al presidente che questi finisce con l'apparire, agli occhi degli avversari della nuova Costituzione, non dissimile dalle teste coronate della vecchia Europa. Date le passioni ancora vive suscitate dalla lotta contro il «tiranno» Giorgio III, un marchio infamante rischia di pesare sulla magistratura suprema, e «The Federalist» accusa allora «di deliberata impostura e d'inganno coloro che vorranno grossolanamente pretendere di tracciare
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l11
un'analogia tra la figura del re di Gran Bretagna e quella del supremo Magistrato degli Stati Uniti» (n. 67, 1980, p. 508). Le differenze sono indubbie. Ma è lo stesso autore dell'articolo qui citato, Hamilton che, a dimostrazione della piena consonanza del «forte esecutivo (...) con lo spirito della Costituzione repubblicana», evoca in un successivo articolo un'istituzione assai significativa: Chiunque conosca, anche superficialmente, la storia romana sa come quella Repubblica fosse spesso costretta a trovare scampo nel potere assoluto di un solo individuo, che assumeva il formidabile titolo di dittatore, per difendersi così dagU intrighi di ambiziosi che aspiravano alla tirannide, come dalle ribellioni di intere classi della comunità la cui condotta insidiava l'esistenza stessa dello Stato, come dalle invasioni di nemici esterni che minacciavano la conquista e la distruzione di Roma (n. 70, 1980, pp. 527 sg.).
È evidente la simpatia, o per lo meno lo spirito di comprensione che caratterizza tale descrizione: non si dimentichi che, per «The Federalist», l'antica Roma repubblicana è sinonimo di libertà (n. 41,1980, p. 317). A d esser degno di imitazione non è comunque l'istituto del consolato il quale, a causa della divisione del potere esecutivo, provocò al paese tante «sciagure», dalle quali è possibile e necessario ricavare una lezione in negativo: Che l'unicità della persona rappresenti un elemento di garanzia di energia, non è cosa da essere troppo discussa. Le azioni di un unico individuo saranno generalmente caratterizzate da maggiore decisione, efficienza, segretezza e rapidità che non quelle di un più numeroso gruppo di persone (n. 70,1980, pp. 529 sg.).
Si rifletta sui sostantivi qui usati e da me messi in corsivo e sul fatto che il soggetto di tale auspicata azione energica, decisa, efficiente, segreta e rapida è una persona singola che non deve dividere il potere con un collega o un collaboratore: chiaramente, si guarda allo stato d'eccezione, derivante da conflitto interno o internazionale, e la figura del presidente è sempre suscettibile di trasformarsi in quella del dittatore della Roma repubblicana. Già i contemporanei della Convenzione di Filadelfia esprimono profonda preoccupazione per il fatto che la nuova Costituzione prevede esplicitamente la sospensione del «privilegio ò^'habeas corpus (...) quando, in caso di ribellione o invasione, lo esiga la sicurezza pubblica» (art. i , sez. 9). Da Parigi Jefferson protesta che vorrebbe veder sancita «l'eterna e incessante validità delle leggi àeWhabeas corpus» e l'assoluta inviolabilità di una serie di
I
o8
CAPITOLO TERZO
«diritti fondamentali» che la Costituzione avrebbe dovuto puntigliosamente elencare (Department of State, 1905, voi. 4, p. 412); analoghe proteste si levano in Pennsylvania e altrove subito contrastate dal federalista Noah Webster che chiede in atteggiamento ironico e di sfida: «Volete veramente affermare che non è mai lecito sospendere» Vhabeas corpus e i diritti di libertà? (Adams e Adams, 1987, p. 366). In realtà, in situazioni di emergenza, i poteri concessi all'autorità federale dovranno essere senza limiti (loithout limitation), dacché è assolutamente impossibile prevedere o definire quale possa essere l'entità o la varietà delle esigenze nazionali, o le corrispondenti entità e varietà di mezzi necessari a soddisfarle; le circostanze che possono compromettere seriamente la situazione di un determinato paese sono infinite, e, proprio per questa ragione, a norma di logica non si potranno imporre vincoli costituzionali (constitutional shakles) di sorta all'autorità cui la salvaguardia di tale sicurezza è commessa. (...) Non si possono configurare dei limiti {limitation) all'autorità chiamata a proieggere e a difendere la comunità, in tutte quelle furaioni che sono determinanti per la sua esistenza.
E questa sorta di dittatura qui teorizzata è lecita e doverosa ogni volta che è in pericolo «il mantenimento della pace pubblica», sia essa minacciata da «attacchi esterni» che da «possibili rivolte interne», («TheFederalist», n. 23, 1980, p. 187). È vero che la Costituzione non assegna la facoltà di sospendere Vhabeas corpus esclusivamente al presidente, ma dato che a lui comunque compete di «preservare», «proteggere» e «difendere» la Costituzione stessa, di dirigere tutte le forze armate e di controllare che ci sia «piena osservanza delle leggi» (art. 2, sezz. 2 e 3), è chiaro che egli, come dimostrerà la storia successiva degli Stati Uniti, viene a trovarsi in una situazione assolutamente privilegiata per decretare lo stato d'emergenza e assumere la pienezza dei poteri. Un regime politico nuovo sta nascendo e certo esso ha poco a che fare con la monarchia - qui Hamilton ha perfettamente ragione - e poco a che fare altresì con il tradizionale dominio dei gentlemen e dei «ben nati» caro allo stesso Hamilton e a John Adams e a non pochi degli artefici o dei sostenitori della nuova Costituzione. La straordinaria ampiezza di poteri di colui che viene definito il «supremo Magistrato degli Stati Uniti» non è in contraddizione con l'investitura popolare. «The Federalist» procede ad una descrizione assai significativa di una celebre figura dell'antica Grecia: «Secondo Plutarco, Solone fu, in
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l11
un certo qual modo, costretto dal suffragio universale dei suoi concittadini ad assumersi il solo ed assoluto potere di riformare la Costituzione» (n. 38,1980, p. 287). Sia pure con un discorso coniugato al passato, viene qui descritto il funzionamento di un regime tendenzialmente bonapartista che da una parte comporta un'investitura dal basso assai larga e dall'altra un esercizio del potere quanto mai esteso e persino, in situazioni d'emergenza, assoluto.
5. Tradizione liberale, stato d'eccezione e Costituzione americana E , tuttavia, è ugualmente fuorviante affermare che la Convenzione di Filadelfia costituisce la vittoria di Hobbes su Locke. Intanto, è da notare che la riflessione sullo stato d'eccezione e sulla dittatura accompagna tutto il pensiero moderno ed è presente, ad esempio, in Rousseau (1966, libro 4, cap. 6), il quale prevede anche lui, in situazioni di crisi particolarmente acuta, e sempre con riferimento all'antica Roma, il ricorso ad una dittatura di durata «brevissima», i cui termini non dovrebbero in nessun caso poter essere prolungati. La riflessione su questo tema gioca nella tradizione liberale un ruolo rilevante. Montesquieu (1949-51, libro 12, cap. 19) non ha dubbi sul fatto che rientra nella «consuetudine dei popoli piii liberi che siano mai stati sulla terra» il «mettere per un momento un velo sulla libertà, così come si nascondono le statue degli dei». Per Locke, lo stato d'ec cezione provocato da un attacco, comunque configurato e qua lunque sia la sua provenienza, contro la proprietà privata giusti fica il ricorso non solo a misure eccezionali ma ad una sorta di guerra totale, tanto che i suoi responsabili sono meritevoli di essere trattati «alla stessa stregua di una qualsiasi bestia feroce o di un dannoso bruto con cui il genere umano non può avere rapporti di società e sicurezza» {Locke, 1974, §§ 171 sg.). La peculiarità della tradizione liberale risiede nel fatto che lo stato d'eccezione interno viene pensato con riferimento agli attentati che all'ordinamento politico-sociale esistente possono derivare non solo e non tanto dalla Corona o dall'esecutivo, ma anche e soprattutto dal legislativo (Locke, 1974, §§ 201 e 226). Lo chiarisce in modo inequivocabile Montesquieu, allorché, dopo aver denunciato il «delirio della libertà» che portò i pie-
I
o8
CAPITOLO TERZO
bei dell'antica Roma a spogliare i patrizi della loro «partecipazione al potere legislativo» e a sottoporli al «potere legislativo di un altro corpo dello Stato», celebra queir«ammirevole istituzione» che fu la dittatura grazie alla quale il popolo sovrano era costretto ad «abbassare la testa e le leggi piii popolari restavano nel silenzio» (Montesquieu, 1949-51, libro n , cap. i6). Alle spalle della messa in guardia contro le possibili prevaricazioni del legislativo c'è l'esperienza storica della prima rivoluzione inglese e del movimento livellatore. E la lezione dei due filosofi liberali, mediata dall'angoscia provocata dalla rivolta di Shays e dal manifestarsi, anche in America, di quello che Madison chiama lo «spirito livellatore» (levelingspirit) (Tansill, 1927, p. 280), agisce in profondità sulla Convenzione di Filadelfia. In tale occasione, sono numerosi i delegati ad essere d'accordo con James Wilson sul fatto che si tratta di fronteggiare in primo luogo il pericolo costituito dal «dispotismo legislativo» (Farrand, 1966, voi. i , p. 261); ad essere d'accordo con la tesi di Gouverneur Morris, secondo cui «le usurpazioni del legislativo fanno correre alla libertà pubblica un pericolo più grave di qualsiasi altra fonte»: sono da temere misure come «emissione di carta moneta, elargizioni a favore del popolo, condono dei debiti». Lo sbandieramento del pericolo del varo, soprattutto nei singoli Stati, di «leggi ingiuste e perniciose» e di «misure perniciose» ritorna in modo ossessivo in tutta una serie di interventi (Tansill, 1927, pp. 425, 427 e 450; cfr. Aquarone, 1959, pp. 29-43). Dunque, non è solo allo stato d'eccezione determinato da una guerra o da una sollevazione popolare violenta che pensano gli ispiratori e gli autori della Costituzione americana. Se sulle colonne di «The Federalist» fa riferimento in primo luogo alla possibilità di una vittoriosa rivolta popolare in un singolo Stato, nei dibattiti confidenziali di Filadelfia Madison esprime l'opinione per cui r«emergenza» può verificarsi già col semplice costituirsi di una maggioranza parlamentare che imponga «leggi ingiuste», grazie alle quali «i debitori defraudano i creditori» ancora l'ombra di Shays - ; e tale pericolo è tanto più concreto per il fatto che, con l'incremento demografico, è destinato ad aumentare anche in America il numero dei «poveri», ovvero di «coloro che lavorano, subendo tutti gli stenti della vita e che segretamente aspirano ad una distribuzione più egualitaria delle sue gratificazioni» (Tansill, 1927, pp. 163 e 280). Anche una
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l11
moderata redistribuzione del reddito per via legislativa è da considerare un attacco alla proprietà che fa insorgere, o può far insorgere, lo stato d'eccezione. Presente a livello latente già negli organismi rappresentativi, il pericolo per i proprietari e per i «pochi» di essere isolati o di cadere in minoranza è ancora piìi grave nella società. Sì, la rivolta di Shays è stata minoritaria, ma cosa avverrebbe se una nuova sollevazione popolare diventasse «una maggioranza di persone con l'aggiunta di residenti stranieri, di un casuale concorso di avventurieri o di coloro che la Costituzione dello Stato non ha ammesso ai diritti di suffragio»? Per non parlare dei neri, cioè di «quella parte infelice di popolazione, numerosissima in alcuni Stati, la quale, nei periodi di pace civile, vive al di sotto del livello umano, ma nelle tempestose scene di violenza civile, può riemergere, affermare la sua personalità umana, e dare una superiorità a qualsiasi partito col quale essa può associarsi». Se dunque si tiene presente questa potenziale miscela esplosiva costituita di americani poveri, immigrati e schiavi neri, bisogna concludere che la sovversione sociale potrebbe anche avere la meglio in un singolo Stato, e uno tra i «vantaggi» più importanti dell'unione federale - osserva Madison citando Montesquieu risiede nel fatto «che se dovesse accadere una insurrezione popolare in uno degli Stati, gli altri potrebbero domarla» («The Federalist», n. 43, 1980, pp. 340 sg.). Come si vede, assieme a Locke, è un altro autore liberale che aiuta a pensare lo stato d'eccezione, a cui non può non essere dedicata particolare attenzione in un paese come gli Stati Uniti, la cui popolazione si è sviluppata attraverso ondate successive di importazione di schiavi neri o di semischiavi bianchi. Soprattutto per quanto riguarda i primi, la rivolta è sempre (o è sempre considerata) in agguato, e ogni conflitto internazionale fa scattare la paura che si apra un fronte interno, alimentato dalla complicità o dal complotto dei nemici dell'America: non è neppure possibile o agevole distinguere tra nemico interno e nemico esterno, tra guerra civile e guerra propriamente detta, per il fatto che una massa considerevole di «stranieri» vive già all'interno della madrepatria. La Costituzione scaturita dalla Convenzione di Filadelfia eredita e radicalizza ulteriormente l'attenzione allo stato d'eccezione riservata, con lo sguardo rivolto alle paventate prevari-
I
o8
CAPITOLO TERZO
cazioni del legislativo, dalla tradizione liberale. Ma il rimedio non è più individuato in una Camera ereditaria dei Pari con diritto di veto nei confronti del ramo più o meno popolare del parlamento come in Locke e in Montesquieu (cfr. supra, cap, i , § 8), bensì in un forte esecutivo concentrato nelle mani di un'unica persona, e cioè di un presidente suscettibile ad ogni momento di trasformarsi in dittatore nel senso romano del termine.
6. La Francia tra presidenza imperiak e Impero presidenziale Sulle due rive dell'Atlantico la rivoluzione termina facendo emergere tendenze bonapartiste. Ma c'è un ulteriore motivo per non isolare il Brumaio dal suo contesto internazionale: se è «occidentale» o «atlantica» la rivoluzione, lo è anche la lotta contro di essa o, per lo meno, contro le sue tendenze radicali e plebee. Un anno prima del colpo di Stato di Napoleone, vengono varati negli Stati Uniti gli Alien andSedition Acts, che comportano gravi restrizioni delle libertà costituzionali e che colpiscono in modo particolare i seguaci delle idee rivoluzionarie francesi in terra americana (cfr. infra cap. 3, § 11). Ancora qualche anno prima, nel 1794, l'Inghilterra sospende Vhabeas corpus-, le truppe occupano la maggior parte delle zone industriali come se si trattasse di terre di conquista (...). Pitt, appoggiato da una larga parte dell'opinione pubblica, perseguita inesorabilmente tutti coloro che si mostrano favorevoli alle idee liberali o che comunque propendono a favore delle idee francesi (Poursin e Dupuy, 1972, pp. 61-64).
C'è una relazione tra questi avvenimenti e, in particolare, tra gli avvenimenti che si verificano nei due paesi reduci da due grandi rivoluzioni? Come sappiamo, Napoleone si richiama a Washington: l'aspetto propagandistico di tale gesto è evidente ed è stato più volte sottolineato. E tuttavia è opportuno chiedersi se, in questo momento, i poteri del Primo console siano realmente più estesi di quelli del presidente degli Stati Uniti, il quale può ora contare sul larghissimo margine di discrezionalità conferitogli dagli Alien and Sedition Acts emanati col consenso anche di Washington che anzi dovrebbe dirigere il poderoso esercito messo nel frattempo in piedi con l'occhio rivolto più al nemico
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1
1
interno che a quello esterno (Bailyn e Wood, 1987, p. 358). L'appoggio a «tali leggi straordinarie» fornito dal vecchio generale e statista americano si può spiegare col fatto - osserverà piìi tardi Woodrow Wilson - che egli «così appassionatamente ama l'ordine, odia la fazione e teme per la salvezza della società» (Wilson, 1918, voi. 6, p. 39). Ma tale motivazione non vale anche per la Francia? In quest'ultimo paese il pericolo del giacobinismo e deir«anarchia» è meno acuto che in America? È vero, mentre Washington, esaurito il suo mandato, si ritira dalla vita pubblica, Napoleone diviene, nel 1802, console a vita. Ma non si dimentichi che anche nell'ambito della Convenzione di Filadelfia emergono voci a favore di una presidenza o di una magistratura suprema a vita e che a tale soluzione è incline 10 stesso Hamilton (Wilson, 1918, voi. 5, p. 74). Persino l'instaurazione dell'impero ereditario è motivata in Napoleone da una preoccupazione ideologica e da una persuasione comune ad autori come Burke, Necker e alla cultura «monarchica, anche liberale», secondo cui «il potere dev'essere inseparabile da un imponente apparato di maestà che dispieghi la sua potenza sull'immaginazione dei popoli» (Furet, 1988, p. 250). Siamo in realtà in presenza di un dibattito che si prolunga ancora in pieno Ottocento. Bagehot spiega la grandezza e la stabilità delle istituzioni inglesi, col fatto che, mentre il potere effettivo compete all'unità di esecutivo e legislativo realizzantesi nel gabinetto e nella persona del primo ministro, la Corona, pur lontana dalla concreta azione di governo e di direzione del paese, svolge ugualmente una funzione decisiva, in quanto, immergendo il potere in un'aura sacra, non solo stimola la sottomissione filiale delle classi inferiori (cfr. supra, cap. 2, § 2), ma legittima, trasfigura e consacra la forza armata necessaria per 11 mantenimento dell'ordine, gli «eserciti» che poi altri sono chiamati a dirigere e impiegare. A due organi diversi vengono dunque affidate due diverse funzioni, quella per così dire sacerdotale-ideologica e quella propriamente politico-militare (Bagehot, 1974 a, pp. 206 sg.). Problemi e preoccupazioni analoghe emergono anche in occasione del dibattito che si sviluppa al di là dell'Atlantico alla vigilia della Convenzione di Filadelfia e nel corso del suo svolgimento. Riferendo gli umori dei circoli americani più influenti, l'inviato francese in America osserva che non si tratta solo di raf-
I
o8
CAPITOLO TERZO
forzare drasticamente il «potere esecutivo», ma anche di conferigli una diversa immagine e una maggiore capacità di presa sulle masse; bisogna farla finita col «modo di presentarsi modesto dei dirigenti politici dinanzi alla moltitudine», ciò che li «rende disprezzabili» ai suoi occhi, dato che essa «giudica solo in base ai suoi sensi»; e, dunque, perché i governanti godano del necessario «rispetto», è necessario che essi siano forniti anche dell'esteriore «documentazione del potere, delle armi e dei soldati» (Morison, 1953, p. 221). Largamente diffusa negli ambienti e tra le personalità più influenti degli Stati Uniti è l'opinione per cui il potere centrale deve saper evitare i toni dimessi e umili per esibire, invece, la sua «dignità imperiale» (imperiaidignity): lo riferisce Washington (Department of State, 1905, voi. 4, pp. 19 sg.) che sembra condividere tale persuasione e che, nel 1791, compie un trionfale, «lungo viaggio nella nazione, alla maniera di un re» a suggellare la fine della crisi e il nuovo inizio degli Stati Uniti col suo forte potere centrale guidato dal generale-presidente (Bailyn e Wood, 1987, p. 346). In assenza di una tradizione monarchica e di un re (o una regina) che è anche capo della Chiesa anglicana, i ruoli che la Costituzione inglese tiene distinti e affida a organi diversi tendono, negli Stati Uniti, a unificarsi nella figura del presidente il quale concentra in sé, oltre alla funzione propriamente politico-militare, anche quella sacerdotaleideologica che a lui compete in quanto capo e interprete di una nazione investita di una missione religiosa e costituita, secondo l'ideologia puritana, dagli eletti di Dio. Il modello inglese, così come viene descritto da Bagehot, non è più realizzabile in Francia, dove, dopo la cesura della rivoluzione, non c'è una dinastia incontestata e capace di immergere il potere in un'aura sacra. Per di più, si presenta impraticabile anche la soluzione americana, data la diversa tradizione religiosa alle spalle: nel mondo cattolico, il sacro si incarna nella Chiesa e nella sua gerarchia, e può legittimare e trasfigurare il potere politico solo nella misura in cui questo è consacrato dalla Chiesa. In Francia è inimmaginabile l'identificazione della funzione sacerdotale-ideologica e di quella poUtico-militare, e, nella misura in cui può aver luogo, essa richiede la mediazione di una Chiesa (e di una gerarchia) che tradizionalmente ha consacrato le vecchie dinastie monarchiche e che ora, in seguito ad un faticoso
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1
1
compromesso con la nuova Francia, consacra la nuova dinastia fondata da Napoleone anche per queste ragioni. Se Washington suggella la nuova costituzione e l'entrata in funzione di una presidenza collocata in posizione assolutamente eminente con un viaggio trionfale alla maniera di un re, in Francia, invece, è l'instaurazione dell'Impero ad essere suggellata da un «ultimo omaggio repubblicano», e cioè da un plebiscito ancora più massiccio di quello che aveva consacrato il colpo di Stato del Brumaio (Furet, 1988, p. 250). Dopo una lunga parentesi, il bonapartismo si riaffaccia in Francia in occasione della crisi rivoluzionaria del 1848. Come dopo il Brumaio, così anche ora la borghesia è chiamata a lottare su due o più fronti, non solo a fronteggiare l'agitazione operaia. Ferma restando la necessità, avvertita sia nella Francia del 1799 che nell'America che va dalla rivolta di Shays alla Convenzione di Filadelfia, di rafforzare il potere esecutivo, si tratta intanto di scegliere tra repubblica e monarchia. Abbiamo visto Tocqueville accarezzare per un attimo l'idea di una restaurazione borbonica all'insegna di un legittimismo timidamente liberale. Questo, a colpo di Stato ormai consumato. Ma subito dopo il crollo della monarchia di Luglio, la borghesia liberale crede di poter individuare il Washington francese nel generale Cavaignac in fama di eroe repubblicano per aver «salvato» la repubblica dalla rivolta operaia di giugno e dal pericolo rosso. La nuova Costituzione guarda chiaramente al di là dell'Atlantico: pur rinunciando alla finzione del collegio elettorale, prevede un presidente eletto dal popolo e proprio per questo investito di una legittimità autonoma rispetto all'Assemblea legislativa e quindi capace, all'occorrenza, di resistere ad una Camera che, come la Convenzione giacobina, risultasse troppo permeabile alle pressioni popolari e plebee (Furet, 1988, pp. 404-07). Ma Cavaignac viene sconfitto da Luigi Napoleone, il quale, almeno inizialmente, agita anche lui il modello americano. Ritorniamo all'opuscolo diffuso immediatamente prima del colpo di Stato. Granier de Cassagnac parte da una premessa che ha una sua logica precisa: la situazione della Francia non può essere paragonata a quella dell'Inghilterra, dove l'aristocrazia, ben lungi dall'essere stata liquidata, continua a svolgere una funzione di primo piano. In quel paese, più che rappresentare individui o partiti astrattamente politici, il regime parlamentare esprime
I o8
CAPITOLO TERZO
forze sociali corpose, «il clero, la nobiltà, i Comuni», «tre ordini riuniti in assemblee sovrane», cui «il potere monarchico si trova chiaramente sottomesso» (Granier de Cassagnac, 1851, pp. 12 sg.). Le due Camere esercitano dunque una funzione analoga a quella degli Stati Generali in Francia, dove, nel frattempo, la situazione è radicalmente mutata, a causa dell'azione antiaristocratica svolta dalla rivoluzione e, ancor prima, dalla monarchia assoluta. La stabilità e solidità del regime parlamentare è garantita in Inghilterra dalla presenza di «tre grandi corpi cosi antichi, così nazionali, così forti, così intelligenti, così uniti, così conservatori, così liberali»; ma, «in un paese come la Francia, dove tutti i grandi corpi sono stati spezzati o annientati», dove non c'è piii spazio per «i grandi interessi tradizionali e permanenti», le maggioranze parlamentari sono fluttuanti nel vuoto, precarie e continuamente esposte ai capricci e alle ambizioni di individui e gruppi (Granier de Cassagnac, 1851, pp. 16-19). In tali condizioni, l'unico possibile contrappeso alla democrazia e all'instabilità e alle prevaricazioni del potere legislativo può essere costituito da un forte potere esecutivo, esattamente come avviene nella repubblica di oltre Atlantico. E, dunque, i ministri devono dipendere esclusivamente dall'esecutivo, di cui sono gli «agenti necessari»: grazie a tale ordinamento, eleggendo un presidente per quattro anni, gli Stati Uniti sanno in anticipo quale sistema essi portano al potere, ed hanno in seguito la certezza che tale sistema sarà lealmente seguito e sperimentato per quattro anni, senza che nessun ostacolo venga frapposto dai ministri stessi incaricati di applicarlo, e di applicarlo peraltro qualunque sia questo sistema, che sia la pace, o la guerra, o le banche, o la libertà, o la schiaviti!, o l'annessione di un nuovo Stato.
Né si deve temere che in tal modo il presidente venga a disporre di un potere troppo esteso, dato che «la rappresentanza nazionale, armata dei suoi immensi diritti, avendo nelle sue mani il bilancio, è sempre in grado di moderare, di contenere questo sistema, e di mettere una diga alle sue invasioni, se esso divenisse contrario agli interessi reali ed evidenti del paese»; il tutto, ancora una volta, secondo il modello americano (Granier de Cassagnac, 1851, pp. 25 sg.). La propaganda bonapartista non esita a richiamarsi allo Spirito delle fcggi, «il libro francese moderno piìi conosciuto in Ame-
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
11
rica» (Palmer, 1971, p. 73) e a Montesquieu, l'autore particolarmente caro a « The Federalist » e senza il quale - è stato detto - non sarebbe neppure pensabile la configurazione assunta dalla Costituzione americana (Maine, 1976, p. 218). Ebbene - osserva l'opuscolo più volte citato - «è la divisione e l'indipendenza dei poteri che Montesquieu chiama il principio stesso della libertà. E aggiunge che, se in una qualsiasi società, l'uomo, l'assemblea, ovvero la casta che fa la legge ha anche il potere di farla eseguire, allora abbiamo il dispotismo, il disordine e l'anarchia». Bisogna, dunque, «separare completamente il potere esecutivo dal potere legislativo»: è appena il caso di dire che il principio della separazione dei poteri qui invocato è perfettamente funzionale all'affermazione di un «potere centrale elevato, libero e forte», e non inceppato dal legislativo, dall'«onnipotenza parlamentare» (Granier de Cassagnac, 1851, pp. 31, 37 sg. e 47): ma non è in questo senso che procede anche la Costituzione degli Stati Uniti? Abbiamo visto Bagehot celebrare l'unità di esecutivo e legislativo (cfr. supra, cap. 2, § 2); i federalisti americani, così come poi la propaganda bonapartista francese, insistono invece sull'indipendenza dell'esecutivo. Ma, nonostante la diversità del linguaggio, ad agire è comunque la preoccupazione per i gravi rischi che alla proprietà e ai rapporti economici e sociali esistenti fa correre un potere legislativo forte e fortemente influenzato dalle masse popolari. Il contrappeso a quello che autorevoli delegati alla Convenzione di Filadelfia condannano come il «dispotismo legislativo» e che l'ideologo di Luigi Napoleone bolla come r«onnipotenza parlamentare» viene individuato, in Inghilterra come in America e in Francia, nella drastica personalizzazione del potere da affidare ad un leader capace di neutralizzare politicamente la moltitudine. In tale direzione, comincia già a muoversi, all'indomani della rivoluzione di Febbraio, la borghesia liberale francese, ma in modo oscillante: al fine di ridimensionare il legislativo ed esorcizzare lo spettro della Convenzione giacobina, fa eleggere il presidente direttamente dal popolo sulla base del suffragio universale (maschile) che poi, però, abolisce per far posto ad una discriminazione censitaria, appena camuffata, chiamata adesso a svolgere lei la funzione di garante della proprietà. Di tutto ciò approfitta abilmente la propaganda bonapartista, la quale non solo utilizza le frustrazioni dei ceti sociali de-emancipati, ma fa anche notare le contraddizioni in cui si
I o8
CAPITOLO TERZO
avvolge il blocco liberal-moderato: facendo eleggere il presidente dal popolo ma rendendo poi i suoi ministri responsabili dinanzi al legislativo, Tocqueville dimostra di non aver imparato molto dallo studio dell'America, di non aver assimilato «il sentimento di quella disposizione così semplice e così sensata» che caratterizza la Costituzione di quel paese (Granier de Cassagnac, 1851, p. 27). Come si vede, in Francia a presentarsi con un programma di riforme all'americana è il partito di Luigi Napoleone, il quale, nell'appello lanciato all'indomani del colpo di Stato, così si rivolge al popolo: Persuaso che l'instabilità del potere e la preponderanza di una sola Assemblea sono cause permanenti di disordine e di discordia, sottopongo ai vostri suffragi le seguenti basi fondamentali di una nuova costituzione che le Assemblee svilupperanno successivamente: 1) Un capo responsabile eletto per dieci anni; 2) Ministri che dipendano solo dal potere esecutivo (...); 4) Un corpo legislativo, che discuta e voti le leggi, eletto a suffragio universale, senza scrutinio di lista che falsifichi le elezioni» (Napoléon III, 1861, voi. 3, pp. 273 sg.).
Colpisce subito la lunghezza del mandato presidenziale, ma non bisogna dimenticare che alla Convenzione di Filadelfia si erano levate voci autorevoli che andavano in questa medesima direzione e che prevedevano persino un mandato a vita. È vero, la presidenza imperiale evocata in Francia dal partito bonapartista si trasforma poi in un impero ereditario. Granier de Cassagnac si era già lasciata aperta una porta in questo senso allorché aveva scritto che «nei paesi democratici, qualunque sia il nome dato al capo dell'esecutivo, lo spirito di obbedienza non può derivare che dal capo stesso, dato che attorno a lui tutto è mobile, variabile, transitorio» (Granier de Cassagnac, 1851, p. 24). Ma, d'altro canto, era stato lo stesso Tocqueville che, nelraccingersi a precisare «in che cosa la posizione del presidente degli Stati Uniti differisce da quella del re costituzionale in Francia», aveva fatto una significativa premessa metodologica: «In questo paragone, darò poca importanza ai segni esteriori del potere: essi ingannano l'occhio dell'osservatore, pivi che non lo guidino» (Tocqueville, 1968, p. 149). D'altro canto, in uno scritto giovanile del 1832, Luigi Napoleone, aveva formulato un progetto di riforme politiche e istituzionali, fondato su «princìpi (...) interamente repubblicani», ma nell'ambito del quale a rap-
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l 1 1
presentare il popolo sono le due Camere e l'Imperatore, la cui ascesa al trono dev'essere in ogni caso, anche al momento della successione, sottoposta alla «sanzione del popolo» (Napoléon III, 1861, voi. I, pp. 382-85). È vero che poi Napoleone III lascerà cadere questo punto, ma resta il fatto che nel testo appena esaminato abbiamo il progetto di una sorta di Impero presidenziale: esso riposa sui princìpi del regime « rappresentativo » ed è sottoposto, per quanto riguarda la scelta del sovrano, ad una sorta di referendum o plebiscito. Si direbbe, anzi, che siano tenuti presenti come modello, ovviamente adattato alle condizioni della Francia e alle ambizioni del principe, gli Stati Uniti di Jackson, in quel momento impegnati a cancellare, all'interno della comunità bianca, le discriminazioni censitarie. Nello Stato vagheggiato dal giovane Luigi Napoleone, «non ci sarà più distinzione né di rango né di fortuna; ogni cittadino concorrerà in modo eguale all'elezione dei deputati ». Se la Camera bassa viene eletta immediatamente dal popolo, la Camera alta è, come il Senato americano, il risultato di elezioni di secondo grado, con « collegi elettorali » che, in un paese come la Francia priva di struttura federale, designano i cittadini distintisi a livello nazionale per i loro servigi alla patria. Negli Usa, nel caso non riesca ad esprimere la maggioranza qualificata richiesta dalla Costituzione, il collegio elettorale, che dovrebbe normalmente eleggere il presidente, passa la mano alla Camera dei rappresentanti; nel progetto giovanile di Luigi Napoleone, le due Camere «proporranno un nuovo sovrano», nel caso che quello da loro precedentemente designato non abbia ottenuto la necessaria approvazione popolare (Napoléon III, 1861, voi. i , pp. 384 sg.). E da aggiungere che, più tardi, un autorevole esponente e teorico liberale, francese e ammiratore dell'America, dopo aver condannato la rivoluzione del '48 in quanto colpevole di aver voluto «avvilire il potere esecutivo» e di aver dimenticato che «un'autorità energica (...) è la prima garanzia della libertà» (Laboulaye, 1863 b, p. 45), così si esprime sul regime nel quale finisce, sia pure con distanza critica, col riconoscersi: La Costituzione del 1852 ha conservato il suffragio universale: è il principio stesso del nostro governo, L'Impero è una democrazia, con un capo ereditario e delle istituzioni rappresentative. Si tratta di un nuovo sistema politico che non ha precedente alcuno nella storia (...). La novità di una forma di governo non mi sembra affatto un'obiezione contro di essa; e forse l'alleanza di un potere energico e di garanzie rappresentative risponde molto bene al carattere e al temperamento dei francesi (Laboulaye, 1863 a, p. 150).
Io8CAPITOLO TERZO
7. America e Francia: analogie e differenze Naturalmente, non si intendono qui negare le differenze tra Francia e America che sono numerose ed evidenti; ma, se non ci si vuole accontentare della facile e oziosa spiegazione di tipo antropologico (cara, peraltro, ad una larga pubblicistica liberale a partire per lo meno da Tocqueville), secondo cui una sorta di maledizione originaria peserebbe sulla tradizione politica francese, inguaribilmente ammalata di statalismo e dispotismo, bisogna pur problematizzare e mettere in discussione certe contrapposizioni stereotipe. Analoga è nei due paesi l'aspirazione a controllare o liquidare le spinte radicali emerse nel corso della rivoluzione. Si tratta di un compito nettamente piìi agevole in un paese come l'America «intensamente rurale» e con una «scarsissima densità» demografica: a raggiungere gli 8000 abitanti sono solo cinque città, e in esse vive appena il due o il tre per cento dell'intera popolazione (Jameson, i960, pp. 31 sg.); la Francia, invece, è caratterizzata dalla presenza di agglomerati urbani a forte densità e con alto potenziale esplosivo. Nel primo caso, si tratta di controllare, al momento della ratifica della Costituzione, circa 160000 votanti su circa tre milioni e mezzo di abitanti (cfr. supra, i , § 3), nel secondo il problema si presenta più grave e complesso già per le dimensioni nettamente più cospicue del corpo elettorale. Per di più, il paese europeo non ha a disposizione un Far West come valvola di sfogo per l'agitazione delle classi più povere e per i conflitti sociali. I quali ultimi risultano meno aspri al di là dell'Atlantico anche per una ragione già da Hegel individuata con grande lucidità: L'America non va ancora incontro a questa tensione [caratteristica della Francia e dell'Europa in genere], perché le è aperto ininterrottamente e in larga misura l'espediente della colonizzazione, e un gran numero di persone affluisce di continuo neUe pianure del Mississippi. C o n questo mezzo vien meno la fonte principale di scontento, ed è garantita la persistenza dell'odierna organizzazione civile.
È dunque priva di senso la contrapposizione meramente ideologica tra Francia e Stati Uniti, prescindendo dalla diversità delle condizioni materiali di vita: «L'America del Nord potrebb'es-
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1
1
sere paragonata con l'Europa, solo quando l'immenso territorio di questo Stato fosse occupato per intero, e la società civile, rifluendo su se stessa, si fosse concentrata e agglomerata in sé». Per questo Hegel giunge ad affermare che, «se le foreste germaniche fossero ancora esistite, non avrebbe certo avuto luogo la rivoluzione francese», o, per lo meno, essa non avrebbe presentato quel radicalismo e quelle successive ondate e lacerazioni che l'hanno caratterizzata (Hegel, 1963, pp. 230-32). A sua volta Engels fa notare che in «Nord-America (...) i conflitti di classe sono sviluppati solo in modo incompleto; le collisioni di classe vengono di volta in volta camuffate mediante l'emigrazione all'Ovest della sovrappopolazione proletaria» (Marx ed Engels, 195^, voi. 7, p. 288). E un'analisi indirettamente confermata dagli stessi protagonisti della rivoluzione americana. A Jefferson che, colpito dallo spettacolo della miseria a Parigi, esprime l'opinione che il rimedio potrebbe essere trovato in una distribuzione a favore dei poveri di terre incolte o lasciate incolte dalla nobiltà, Madison obietta che si tratterebbe comunque di una misura incapace di risolvere il problema: «un certo grado di miseria sembra inseparabile da un alto grado di popolazione» (Morgan, 1972, pp. 11 sg.). Ed è lo stesso Madison a invitare la Convenzione di Filadelfia a non dimenticare che, «nel corso del tempo», anche in America, come già negli «Stati e regni europei», «il numero dei proprietari terrieri sarà relativamente ridotto». In quella medesima occasione, Gouverneur Morris fa notare che «attualmente, nove decimi della popolazione sono proprietari terrieri» ma che verrà il tempo in cui «questo paese abbonderà di meccanici e operai (manufacturen) che riceveranno il pane dai datori di lavoro» e che inevitabilmente costituiranno una sfida per la stabilità e l'ordinato funzionamento delle istituzioni (Morison, 1953, pp. 264 e 276). I diversi delegati discutono, ed eventualmente si dividono, sulle misure da prendere nel presente per fronteggiare il paventato futuro, ma sono comunque d'accordo che si tratta di erigere una diga politica e istituzionale contro l'assalto dei «molti» e dei poveri, e tale diga, dopo molte discussioni, viene infine individuata nei larghissimi poteri concessi all'esecutivo e al presidente. Se la Francia è chiamata a costruire e sperimentare il nuovo regime politico nel corso di una tempesta sociale già in atto, gli Stati Uniti hanno il vantaggio di poter prò-
I o8
CAPITOLO TERZO
cedere in una situazione di relativa tranquillità quando, stroncata la rivolta di Shays, si tratta ormai di guardare ad un futuro che costituisce, invece, il presente della Francia. Qui, l'asprezza dello scontro sociale s'intreccia con la complessità delle contraddizioni politiche. Dopo la rivoluzione del '48, non solo, come già era avvenuto in occasione del Brumaio, la sfida all'ordine costituito proviene da due direzioni contrapposte (radicalismo plebeo e agitazione monarchica), ma lo stesso fronte monarchico si presenta a sua volta diviso tra seguaci dei Borboni e degli Orléans, per non parlare dei bonapartisti. Quest'ultimo problema è assente in America: costretti a fuggire, i lealisti fedeli alla Corona britannica si rifugiano in Canada e persino in Inghilterra (Trevelyan, 1965, p. 506), di dove non fanno ritorno, contribuendo così in misura notevole alla stabilizzazione del paese d'origine (Palmer, 1971, pp. 212 sg.). Quei pochi lealisti rimasti o che fanno ritorno negli Stati Uniti, se anche «rimpiangono la separazione» dalla ex-madre patria, rassegnati alla situazione di fatto, si schierano a favore della nuova Costituzione federale che fornisce solide garanzie del «governo centralizzato ed efficiente» a loro caro (Wilson, 1918, voi. 5, p. 80). E da tener presente, infine, la radicale diversità del contesto internazionale. È lo stesso Tocqueville a notare che, mentre gli Americani, nel corso della Guerra d'indipendenza, sono favoriti dal fatto di essere «separati da 1300 leghe di mare dai loro nemici», la Francia invece è «esposta agli attacchi dell'Europa intera, senza denaro, senza credito, senza alleati», essendo per di più costretta ad affrontare «l'incendio» che la divora all'interno. Ma poi, nel celebrare la Costituzione federale e la democrazia americana nel suo complesso, l'autore liberale così procede: C i ò che è nuovo nella storia delle nazioni, è di vedere un grande popolo che, avvertito dai suoi legislatori che gli ingranaggi del governo stanno arrestandosi, volge senza fretta e senza paura gli sguardi su se stesso, misura la profondità del male, si frena per due anni interi al fine di scoprirne pacificamente il rimedio (Tocqueville, 1968, pp. 138 sg.).
Sorvoliamo pure sui toni oleografici che caratterizzano questa descrizione degli avvenimenti: neppure una volta viene citato quello Shays che pure domina il dibattito della Convenzione di Filadelfia! Da questo punto di vista, si deve condividere la tesi
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
11
secondo cui la Democrazia in America, «non è tanto uno studio politico quanto un'opera di edificazione» (Bryce, 1901, p. 325) e in tal senso va accostata al saggio a gloria della rivoluzione americana e dei Padri Fondatori scritto dalla Arendt e che ignora del tutto anch'esso la rivolta dei contadini e dei debitori del Massachusetts (Losurdo, 1987). Ma, tornando alla Francia, è evidente che, a causa della situazione oggettiva descritta da Tocqueville, essa non può in alcun modo permettersi quel comportamento che ho evidenziato col corsivo e che l'autore liberale mette sul conto e a gloria esclusiva della democrazia americana fortunatamente non attaccata dal bacillo giacobino. Negli anni e decenni successivi, mentre gli Stati Uniti possono perseguire nell'emisfero occidentale la loro missione imperiale (elemento essenziale del bonapartismo) senza eccessive difficoltà, dilagando nei territori strappati ai poveri pellerossa, e, alla metà dell'Ottocento, a un paese debole come il Messico, il periodo che va dalla rivoluzione alla Restaurazione vede la Francia alle prese con le grandi potenze europee e mondiali e impegnata in un processo di militarizzazione che non può non farsi sentire sul piano piii direttamente politico. In tal senso possiamo leggere l'osservazione di Marx, secondo cui «il Primo Impero (...) fu il prodotto delle guerre di coalizione della vecchia Europa semifeudale contro la Francia moderna» (Marx ed Engels, 1955, voi. 17, p. 336). Ma la militarizzazione è anche il risultato degli esplosivi conflitti politici e sociali interni. E qui ancora possiamo accogliere un'indicazione di Marx il quale nota come l'apparato militare sviluppato dalla borghesia in funzione antioperaia finisce con l'inghiottire la società nel suo complesso e la stessa classe dominante; con la repressione della rivolta operaia di giugno, il generale Cavaignac (caro alla borghesia liberale) esercita «la dittatura della borghesia mediante la spada» che però finisce col trasformarsi nella «dittatura della spada sulla società civile» (Marx ed Engels, 1955, voi. 7, p. 40). Ossessionate dal pericolo operaio e rosso, le classi dominanti furono portate non solo ad attribuire all'esecutivo poteri di repressione sempre più vasti, ma in pari tempo a spogliare la loro stessa fortezza parlamentare - l'Assemblea nazionale - di tutti i suoi mezzi di difesa contro l'esecutivo, l'uno dopo l'altro. L'esecutivo, in persona di Luigi Bonaparte, le mise alla porta. Il frutto naturale della repubblica del «partito dell'ordine» fu il Secondo Impero (Marx ed Engels, 1955, voi. 17, p. 337).
I o8
CAPITOLO TERZO
II Washington francese prima ricercato e individuato nel generale Cavaignac finisce con l'assumere una configurazione più ingombrante, quella di Napoleone III. Evidenti sono dunque le differenze tra America e Francia, ma esse non devono farci dimenticare i punti di contatto. La preoccupazione di contenere le rivendicazioni popolari e plebee sfocia in un caso e nell'altro non neUa riproposizione del regime dei notabili bensì, andando anche al di fuori e al di là delle aspirazioni e delle intenzioni soggettive dei protagonisti degli avvenimenti, in un regime politico nuovo, nell'ambito del quale l'esecutivo forte o fortissimo trova la sua legittimazione in un'investitura popolare che si esprime o mediante il plebiscito o mediante un suffragio elettorale abbastanza largo e comunque sensibilmente più esteso rispetto al passato. Tale regime politico nuovo si rivela in America tanto più efficiente per il fatto che sa associare la rapidità, la forza e l'unità del centro decisionale alla competizione e al ricambio tra leaders diversi e, in condizioni di sviluppo normale, al godimento dei diritti di libertà da parte dei cittadini; in questo senso si tratta di un bonapartismo soft, che, però, quando una situazione di crisi lo richieda o sembri richiederlo, dati i larghi poteri concessi al presidente, può trasformarsi, in modo indolore in un bonapartismo duro e di guerra e capace di imporre U pugno di ferro. È, invece, solo in quest'ultima forma che il bonapartismo fa la sua apparizione in Francia, rivelandosi così incapace di dar luogo ad un regime stabile e fondato su una successione ordinata e pacifica.
8. Il bonapartismo come alternativa alla discriminazione censitaria Se in Francia Luigi Napoleone reintroduce il suffragio universale, vediamo che in America ogni sviluppo in direzione del bonapartismo è accompagnato o preceduto da un dibattito che finisce per concludersi con la sconfitta delle tendenze o aspirazioni, maturate negli ambienti conservatori e più tradizionalisti in occasione di crisi più o meno acute, a restringere il suffragio o a contenerlo il più possibile. E quello che si verifica già alla Convenzione di Filadelfia; in questo momento, la discriminazione censitaria è largamente presente, e tuttavia l'orrore prò-
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1 1
vocato nelle classi alte dalla rivolta di Shaj^s spinge i settori di destra a chiedere un ulteriore giro di vite. E in tal senso che si esprime Gouverneur Morris il quale ritiene che i diritti politici debbano essere esplicitamente, e a livello federale, limitati ai proprietari, ai freeholders, in modo da sventare il pericolo che in futuro potrebbe derivare all'ordinamento sociale dalla crescita inevitabile, anche in terra americana, dei «meccanici» e del mondo turbolento dell'industria e della città. L'accoglimento di tale proposta avrebbe comportato un restringimento del suffragio almeno in quegli Stati in cui si era verificata una sua estensione al di là della cerchia dei proprietari; e un'ulteriore deemancipazione di fatto sarebbe scaturita dall'allungamento del periodo di residenza richiesto sempre da Gouverneur Morris per la concessione della naturalizzazione agli immigrati. Ma tali misure di de-emancipazione avrebbero suscitato - fanno notare diversi delegati alla Convenzione di Filadelfia - un malcontento popolare, tanto piii forte - osserva Franklin - per il fatto che avrebbero colpito anche persone che avevano partecipato attivamente alla Guerra d'Indipendenza e che certo non avrebbero gradito di essere private dei diritti politici, pur avendo dato una grande prova di patriottismo e di attaccamento alla causa comune. Tutto ciò avrebbe reso difficile e problematica l'approvazione della nuova Costituzione (Morison, 1953, pp. 274-79). Lasciando inalterate le discriminazioni censitarie esistenti a livello dei singoli Stati e demandando a questi ultimi la legislazione relativa ai requisiti necessari per accedere al suffragio, la Convenzione di Filadelfia decide, infine, di fronteggiare i nuovi pericoli evidenziati dalla rivolta di Shays non con misure esplicite di de-emancipazione, bensì con un drastico rafforzamento dell'esecutivo a livello federale. Da un nuovo vivace dibattito sul suffragio è caratterizzata la vigilia dell'estensione dei diritti politici che si verifica con l'avvento di Jackson alla presidenza degli Stati Uniti. Alcuni anni prima, nel 1820, il liberal-conservatore Daniel Webster dichiara: Non c'è esperimento più pericoloso che collocare la proprietà nelle mani di una classe e il potere politico nelle mani di un'altra (...). Se la proprietà non può disporre del potere politico, il potere politico metterà le mani sulla proprietà (Schlesinger jr., 1948, p. 269).
Particolarmente significativo è il fatto che, l'anno dopo, a pronunciarsi per il mantenimento del legame tra proprietà e
I o8
CAPITOLO TERZO
diritti politici, in modo da bloccare l'accesso «nel più sacro santuario della costituzione» di «una folla o teppaglia violenta e disorganizzatrice come i giacobini francesi», è Van Buren, e cioè colui che poi diviene l'artefice della vittoria elettorale di Jackson (Calise, 1989, pp. 89 sg.). Il quale ultimo, pervenuto alla presidenza, concede, in realtà, i diritti politici praticamente a tutti gli americani, purché maschi e bianchi: ma l'altra faccia della medaglia è il deciso passo in avanti nel rafforzamento dei poteri dell'esecutivo e del ruolo missionario e carismatico della figura del presidente. Nel corso della guerra civile che avrebbe portato all'abolizione della schiavitù, e, in un primo momento, all'estensione della cittadinanza politica ai neri, si assiste ad una divaricazione sintomatica del sistema politico a Nord e a Sud: pur sulla base dì un testo costituzionale elaborato tenendo sempre ben presente il modello consegnato dai Padri Fondatori e in vigore nell'Unione, il presidente della Confederazione secessionista, Jefferson Davis, viene a disporre di poteri molto più limitati del suo antagonista: «non è escluso che il sistema confederato si sarebbe avvicinato a quello parlamentare, se gli fosse stato concesso di durare più a lungo» (Beyme, 1986, pp. 53 sg.). L'istituto della schiavitù, col controllo della forza-lavoro esercitato dai grandi proprietari sui luoghi di produzione e in pratica senza limitazioni legali, rende possibile una più ricca vita democratica per la classe dominante che invece ricorre a precauzioni supplementari, fra cui in primo luogo il rafforzamento dell'esecutivo, per tenere a bada le classi sociali inferiori, le quali divengono «pericolose» nella misura in cui si spezzano o si logorano i ceppi della schiavitù. A d un ridimensionamento dei poteri dell'esecutivo e della presidenza e all'affermarsi del «governo del Congresso» si assiste nell'Unione del dopoguerra, durante gli anni in cui, non a caso, si sviluppa un generale processo di de-emancipazione a danno non solo dei neri, ma anche degli immigrati e degli stessi bianchi poveri. In consonanza con tali tendenze è il giovane Woodrow Wilson che, in una pagina di diario del 1876, a cento anni dalla proclamazione dell'indipendenza degli Stati Uniti, annota: «Secondo me, la repubblica americana non celebrerà un altro centenario. Per lo meno, non con la Costituzione e le leggi attuali. Il suffragio universale è il fondamento di ogni male in
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
11
questo paese» (Wilson, 1966, p. 143). E un saggio pubblicato tre anni dopo ribadisce che «il suffragio universale è un costante elemento di debolezza e ci espone a molti pericoli che potrebbero essere diversamente evitati». Ma qual è il rimedio? Settori sempre più larghi di opinione pubblica esigono un'epurazione degli organismi rappresentativi dai «loro elementi ignoranti» (Wilson, 1966, p. 494). E questa è anche l'opinione da Wilson espressa in un intervento pubblico del 1880 (Wilson, 1966, p. 481). In questo medesimo contesto dev'essere inserita la lettera che al futuro presidente degli Stati Uniti invia, nell'aprile del 1879, suo padre, Joseph Ruggles Wilson, il quale così formula il dilemma dinanzi a cui si trova il paese: O una limitazione del suffragio oppure l'anarchia in venticinque anni o anche prima. Non mi riferisco ai negri più che agli elettori ignoranti del Nord. Il vero principio è senza dubbio quello per cui i proprietari di un paese dovrebbero essere i suoi governanti. E dunque, è necessario in primo luogo introdurre requisiti di proprietà, perché, generalmente, proprietà e intelligenza vanno di pari passo. Lo statista che riuscirà a trovare un rimedio efficace e al tempo stesso pacifico al suffragio universale sarà il leader più importante degli Stati Uniti (Wilson, 1966, p. 477).
A prima vista, l'autore della lettera parla come Constant o gli altri esponenti del liberalismo classico, esprime cioè l'opinione per cui la rappresentanza politica non può non essere monopolio dei proprietari. Ma tra le righe si fa luce una preoccupazione nuova: può essere rischioso contestare apertamente il principio del suffragio universale, il quale, dunque, più che cancellato, dev'essere svuotato e neutralizzato. A favore di tale soluzione parla anche l'esperienza storica: la legge del 31 maggio 1850, che in Francia aveva de-emancipato un terzo dell'elettorato precedente, si era ben guardata dal reintrodurre apertamente la discriminazione censitaria vietata dalla Costituzione e ormai invisa e odiosa alla coscienza popolare; aveva preferito, invece, far leva sui requisiti di residenza. In modo analogo si sviluppa negli Stati Uniti, alla fine dell'Ottocento, il processo di de-emancipazione: se l'esclusione dei neri è così ovvia e pacifica che può essere dichiarata più o meno apertamente e imposta persino al di fuori di ogni legalità, gli immigrati si vedono privati dei diritti politici in quanto ridiventano «stranieri», e gli americani bianchi poveri in primo luogo in quanto costretti a passare attraverso le
Io8CAPITOLO TERZO
forche caudine delle prove di alfabetizzazione e delle leggi sulla registrazione. E questo il «rimedio efficace e al tempo stesso pacifico» suggerito dalla lettera? In realtà già nel saggio di Wilson del 1879, comincia a far capolino un'alternativa diversa: sì, il suffragio universale svolge un ruolo nefasto, ma non è l'unico responsabile dei mali del paese; sul banco degli imputati dev'essere trascinata anche l'onnipotenza del legislativo e la connessa debolezza dell'esecutivo (Wilson, 1966, p. 494). E così, il politico americano che inizia propugnando una restrizione del suffragio finirà col concederlo anche alle donne, ma nell'ambito di un regime politico che rivela aspetti sempre più chiaramente bonapartistici (cfr. infra, cap. 5, §§ 1-3). È interessante notare la continuità tra l'ideologia con cui la tradizione liberale giustifica l'esclusione dai diritti politici della moltitudine «bambina» e gli argomenti cui Wilson ricorre per sottolineare l'assoluta necessità della concentrazione e personalizzazione del potere: se pure è capace di pensare, una «classe molto numerosa di persone», anzi la «maggioranza della nazione», lo è solo «in forme concrete» e avendo dinanzi a sé individui in carne e ossa, mentre resta in ogni caso incapace di innalzarsi a «generalizzazioni» e quindi di scegliere tra idee e programmi politici (Wilson, 1959, p. 57). E un tema che abbiamo visto già in Bagehot (cfr. supra, cap. 2, § 2), di cui il futuro presidente americano è lettore ed estimatore. Da Constant a Wilson, passando per il liberale inglese dell'età vittoriana, il quale già individua l'antidoto all'estensione del suffragio nel forte esecutivo guidato da un capo carismatico, la moltitudine continua ad essere «bambina»; non sarebbe saggio e prudente negarle o strapparle i diritti politici, ma conviene comunque limitare il loro esercizio alla facoltà di scelta tra individui dotati di amplissimi poteri e che si collocano in una sfera nettamente superiore. Quella che ai giorni nostri è stata chiamata la «presidenza imperiale» (Schlesinger jr., 1973 b) è la vera alternativa ad una de-emancipazione che, condotta troppo scopertamente, avrebbe potuto provocare reazioni vivaci e persino violente.
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMOl11
9. Bonapartismo e missione imperiale I due generali vittoriosi che, a conclusione di un periodo di sconvolgimenti rivoluzionari, assumono il potere in America e in Francia, rispettivamente nel 1789 e nel 1799, sono incaricati non solo di mantenere l'ordine all'interno ma anche di assicurare e sviluppare la potenza e la gloria del loro paese nel mondo. Al momento di presentare all'approvazione popolare la nuova costituzione, i protagonisti del Brumaio mettono in stato d'accusa il regime precedente, in primo luogo per le «incertezze» che esso ha fatto pesare «nelle relazioni esterne e nella situazione interna e militare della Repubblica». D'altro canto, «The Federalist» denuncia il fatto che, in assenza di un forte potere centrale, l'America ha «quasi raggiunto l'ultimo stadio della mortificazione nazionale », non essendo in grado di recuperare « territori » e « posizioni strategiche importanti» che pure le apparterrebbero di diritto (n. 15,1980, p. 127). Il forte potere esecutivo che viene invocato risulta necessario sia per «proteggere la proprietà» sia per «proteggere la comunità da attacchi dall'esterno» (n. 70,1980, p. 527). E da tener presente che la Convenzione di Filadelfia è costituita sì, come si è visto, di « uomini estremamente conservatori », ma anche «quanto mai "nazionali"» (Nevins e Commager, i960, p. 133). Essi si propongono in primo luogo di assicurare l'espansione commerciale e mercantilistica della nazione (Wehler, 1984, pp. 57 sg.). Ma come si potrà difendere «il nostro commercio» e «con quale diritto - si chiede James Wilson - possiamo attenderci che si rispetti la nostra bandiera, se non siamo capaci di sparare a nostra difesa neppure un colpo di cannone?» (Adams e Adams, 1987, p. 354). A tale proposito, «The Federalist » non esita a formulare una profezia; «Abbiamo udito un gran parlare della flotta inglese e tempo verrà, se noi opereremo con saggezza, che la flotta americana potrà attirare su di sé altrettanta attenzione» (n. 4, 1980, p. 54). Un forte potere esecutivo è tanto piià necessario - incalza il James Wilson già visto - per un paese destinato a conquistare una posizione di leadership per lo meno sul piano culturale (Adams e Adams, 1987, p. 355), per un paese - osserverà Hamilton nel 1795 - che è «in embrione un grande impero» (Bairati, 1975, p. 100) e che anzi, già al momento della sua fondazione e ancor pri-
122
CAPITOLO TERZO
ma del conseguimento dell'indipendenza, ama presentarsi e celebrarsi come «un nuovo impero» il quale - osserva nel 1776 William Henry Drayton, rampollo di una famiglia di ricchi piantatori e più tardi delegato al congresso continentale di Filadelfia - «con la benedizione del Signore, promette di essere il più glorioso di tutti i tempi», quello che dà «inizio all'epoca più importante della storia, non di una nazione ma del mondo» (Bairati, 1975, p. 77). Del bonapartismo è parte integrante non solo la coscienza imperiale, ma una coscienza imperiale ideologicamente trasfigurata in termini di missione religiosa, morale o politica. In tal modo, viene potentemente rinsaldato il senso di appartenenza ad una determinata comunità, l'attenzione viene distolta dai conflitti interni e il dissenso emarginato o messo a tacere e criminalizzato. E noto come la Grande rivoluzione abbia fatto emergere o, riallacciandosi ad una tradizione precedente, abbia modificato e ulteriormente rafforzato una sorta di coscienza missionaria nel paese che è stato il suo protagonista. Carlyle ironizza sui francesi che si considerano «gli eletti "soldati della libertà"» e «un popolo le cui baionette sono sacre, una sorta di Popolo Messia che salva un mondo cieco e recalcitrante e raccoglie per sé una grande gloria terrestre e persino celeste» (Carlyle, 1983, p. 8). Ma, anche al di fuori dei suoi confini, la Francia viene celebrata, ad opera di liberali o democratici entusiasti, come il paese o «il popolo eletto della nuova religione» della libertà, la «combattente d'avanguardia» della causa della libertà, ovvero il paese o il popolo al di fuori o contro il quale non c'è salvezza {nulla salus) (Losurdo, 1983, pp. 93 sg.)! Questo motivo ideologico viene sapientemente sfruttato dalla propaganda bonapartista (da Napoleone I a Napoleone III) che presenta l'espansione della Francia, realizzata o solo sperata, come un contributo alla causa della civiltà e del progresso dell'umanità e che, su tale base, chiama tutti i francesi a stringersi attorno ad un capo e condottiero circonfuso di prestigio e di gloria già per il compito in qualche modo salvifico che è chiamato a realizzare a livello internazionale. Ma un ruolo ben più importante svolge in America la coscienza della missione imperiale, vissuta, peraltro, in termini questa volta esplicitamente religiosi. Già è impossibile, secondo «The Federalist», comprendere il successo della rivoluzione americana, senza tener presente «quella Mano divina che tanto
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
I2J
spesso e con tanta evidenza» è intervenuta a sostegno dei coloni impegnati nella lotta per l'indipendenza (n. 37, 1980, p. 285). John Adams non ha alcun dubbio sul fatto che il suo paese è destinato «a illuminare ed emancipare in ogni angolo della terra la parte dell'umanità ridotta in schiavitù» (Laski, 1977, p. 8). Non si tratta di una voce isolata: innumerevoli personalità e autori non si stancano di ripetere che la nuova repubblica, intrepido alfiere della causa della libertà, è destinata ad esercitare e «estendere» la sua «benefica influenza sulle nazioni selvagge e preda della schiavitù e dell'oscurantismo» e che pertanto l'America rappresenta il popolo eletto e persino la «razza eletta» (chosen race), investita di un ruolo provvidenziale (Weinberg, 1963, pp. 18 e 39 sg.). Se la coscienza della missione imperiale è un elemento costitutivo del bonapartismo, come si è visto in Disraeli e Bismarck, oltre che nei due Napoleone, è bene tener presente che tale coscienza svolge in America un ruolo senza pari di unificazione della nazione, e di superamento od occultamento dei contrasti politici: Jefferson è un avversario dei federalisti, e tuttavia condivide con loro l'opinione secondo cui gli Stati Uniti, mediante anche l'eventuale annessione di Cuba e del Canada, sono destinati a «possedere un impero per la libertà, quale mai è stato visto dalla Creazione ad oggi» (Bairati, 1975, pp. 104 sg.). Con un pizzico forse anche di autoironia, Heine celebra la Francia scaturita dalla rivoluzione come la «nuova Gerusalemme» (Losurdo, 1983, pp. 93 sg.); Jefferson propone, in tutta serietà, che lo stemma degli Stati Uniti rappresenti i figli di Israele guidati da un fascio di luce (Weinberg, 1963, pp. 18 e 39 sg.). Un autore dell'Ottocento enuncia poi la tesi secondo cui la «razza anglicana» (in primo luogo quella che si è impiantata negli Stati Uniti) ha il compito di espandere, a guisa di un «missionario», «i princìpi e la libertà anglicana sull'intero globo» (Lieber, 1859, p. 21). Conviene soffermarsi un attimo sull'aggettivo qui ripetutamente usato - da un autore ancora oggi caro negli Usa a importanti circoli culturali e politici (cfr. infra, cap. 7, § 5) - e da me evidenziato col corsivo: assistiamo ad una fusione piena tra razza, comunità nazionale e religione, all'emergere di una sorta di religione nazionale la quale legittima e trasfigura la missione imperiale e immerge in un'aura dichiaratamente sacra l'uomo chiamato a guidarla, il presidente degli Stati Uniti, che viene in qualche modo ad essere un capo politico e religioso al
124
CAPITOLO TERZO
tempo stesso, un leader carismatico nel senso pieno del termine. Se l'idea di missione imperiale contiene, generalmente, un elemento religioso, sia pur secolarizzato, si direbbe che essa si configuri, invece, nella tradizione politica americana come una religione esplicitamente dichiarata e professata.
IO. Il presidente degli Stati Uniti come interprete della «missione» del suo popolo La coscienza della missione che in Francia scaturisce o si consolida a partire dal 1789 ha un limite interno proprio per il fatto che la Grande rivoluzione rappresenta un momento di grave lacerazione non facile a rimarginarsi. Per di più, tale coscienza subisce una prima seria incrinatura con Waterloo e poi una decisiva battuta d'arresto con Sedan e la disfatta subita nella guerra con la Prussia. Diversa è la storia degli Usa: profondamente radicata nella coscienza religiosa, e anzi suo elemento costitutivo, l'idea di missione sembra incrollabile, e si consolida sempre di più, man mano che, con una marcia irresistibile, si sviluppa l'espansione imperiale; di pari passo si rafforzano le tendenze verso un regime di bonapartismo soft. Si tratta di un fenomeno che possiamo osservare già al momento del varo della nuova Costituzione, chiamata a superare le debolezze della vecchia Confederazione la quale «non riusciva a trovare mezzi sufficienti per tenere testa alle tribù indiane» (Tocqueville, 1968, p. 138); e non a caso il primo presidente degli Stati Uniti è non solo un generale (Washington), ma un generale che ha investito «un grosso capitale liquido (...) nelle terre dell'Ovest», contando sulla loro «rivalutazione col costituirsi di un governo stabile e con l'avanzare della "frontiera"» (Beard, 1959, p. 123). Come si è già visto, elemento costitutivo del bonapartismo è l'esternalizzazione del conflitto (cfr. supra, cap. 2, § 5), la quale tanto più facilmente riesce quanto più è accompagnata da un'espansione che rafforza la coscienza della peculiare missione del proprio paese; ebbene, tale intreccio caratterizza in modo assolutamente eminente la storia degli Stati Uniti, nel cui ambito l'espansione è, sin dall'inizio, un elemento costituitivo e che tanto più agevolmente è suscettibile di trasfigurazione ideologica, per il fatto che essa può assumere la parvenza pacifica di un progressivo sposta-
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
I JJ
mento in avanti della «frontiera», in adempimento di una missione di libertà e di. civiltà. I protagonisti di questa missione, coloro che guidano tale spostamento in avanti della frontiera della libertà e della civiltà finiscono con l'essere circonfusi di un'aureola che non è solo militare: «per un americano è naturale allora che un generale di successo, come Jackson o Taylor, o Harrison o Grant, ascenda alla Casa Bianca» (Laski, 1977, p. 12). Protagonista del primo consistente allargamento dei poteri presidenziali è Andrew Jackson, un generale che conquista la massima carica nel 1828 grazie alla sua «fama militare» (Schlesinger jr., 1948, p. 36): è un «veterano delle guerre contro gli Indiani», assurto alla «dignità di eroe nazionale» anche per aver conseguito l'unico successo americano nel corso della guerra contro l'Inghilterra del 1812-1815 (Nevins e Commager, i960, p. 175). Non solo sul campo di battaglia questo combattente «per la supremazia militare degli Stati Uniti» dà prova della sua energia: non aveva esitato a far impiccare «intriganti inglesi nella Florida spagnola» e a ordinare «l'esecuzione di un soldato [americano] insubordinato non ancora ventenne» (Davis e Donald, 1987, p. 144). Jackson è un democratico che dichiara di voler evitare il formarsi di «un'aristocrazia finanziaria contraria alle libertà del paese» (Schlesinger jr., 1948, p. 36). Ma lo sviluppo della democrazia non riguarda né i pellerossa né i neri: il presidente, che è «un ricco proprietario di schiavi», diviene un eroe popolare e conquista un consenso di massa, anche facendosi «interprete della richiesta di espansione territoriale dell'Ovest, intesa come mezzo per assicurare le opportunità economiche degli individui» (Davis e Donald, 1987, pp. 144 e 140). Il potenziale conflitto sociale viene incanalato e rivolto verso l'esterno se non degli Stati Uniti, comunque della comunità bianca; il presidente democratico fornisce persino «appoggio ai cittadini della Georgia nella loro campagna di sterminio del popolo cherokee» (Carroll e Noble, 1991, p. 213). Il nuovo generale asceso alla più alta magistratura si rivela «il presidente più energico ed intraprendente dai tempi di Washington», esercita «il suo dominio sul Congresso con un uso senza precedenti di veti» e tratta «il suo gabinetto come il comandante di un esercito», facendo affidamento su un gruppo di consiglieri informali, che sceglie o licenzia a sua completa discrezione. L'estensione dei poteri del presidente Jackson giunge a tal punto che un suo avversario,
I o8
CAPITOLO TERZO
Daniel Webster, attacca «Re Andrew» come «una reincarnazione di Luigi X I V » (Davis e Donald, 1987, pp. 141 e 153). Mentre la «vecchia aristocrazia» mette in guardia contro il nuovo Cesare, «le masse da poco ammesse ai diritti politici e sciovinistiche guardano con selvaggio entusiasmo all'eroe», il quale può così rendere «la presidenza più potente di quanto mai lo fosse stata prima» (Schlesinger jr., 1948, pp. 38 e 276). Il rafforzamento dei poteri presidenziali si rivela con particolare evidenza in politica estera e in occasione delle tappe piià importanti del processo espansionistico. Conviene qui affidarsi alla ricostruzione di uno storico d'eccezione che, asceso alla massima carica degli Stati Uniti, darà grande impulso, a sua volta, allo sviluppo della presidenza imperiale. Quando nel 1836, gli agricoltori americani che per decenni sono sconfinati nella provincia del Texas, dichiarano l'indipendenza di quella provincia, mettendo da parte le precedenti assicurazioni di lealismo nei confronti del governo messicano, il presidente Jackson procede ad un pronto riconoscimento, e prende tale decisione suscettibile di provocare una guerra col Messico e fors'anche con l'Inghilterra, senza consultarsi «né col Congresso né con nessun altro, eccetto gli amici del Texas stesso». Nel decidere poi, nel 1844, l'annessione di questo territorio, il presidente Tyler incontra l'opposizione del Senato (diffidente od ostile per ragioni di politica interna); ma il Texas «è connesso troppo vitalmente col dominio del continente, è una questione che troppo chiaramente costituisce il cuore dei piani ad Ovest, per essere messo da parte da un voto del Senato». L'annessione viene formalmente sancita nel dicembre del 1845, e il presidente democratico Folk ordina al generale Taylor di avanzare verso Rio Grande, minacciando la città di Matamoros. I messicani chiedono il ritiro delle truppe americane ottenendone un netto rifiuto. Ne derivano scontri di frontiera: «Il Messico - riferisce il presidente al Congresso - ha oltrepassato i confini degli Stati Uniti (...) e sparso sangue americano sul suolo americano. La guerra è nei fatti a causa del comportamento del Messico». Ma il presidente Folk, «prima di ordinare al generale Taylor l'avanzata verso il Rio Grande, non ha consultato il Congresso» che pure era in sessione. Commenta Wilson: «E vero, la guerra era nei fatti, ma il Congresso non aveva più la libertà di indagare attraverso quali comportamenti [presidenziali]» (Wilson, 1918, voi. 7, pp. 107, 102 e 1 1 7 sg.).
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1
1
In modo tanto più disinvolto e discrezionale possono procedere i presidenti americani, per il fatto di essere in sintonia con quello che un giornalista democratico, John L. O'SuUivan, definisce il Manifest Destiny, il destino palese che chiama gli Stati Uniti «a coprire tutto il continente, scelto dalla Provvidenza per il libero sviluppo dei nostri milioni di abitanti che annualmente si moltiplicano» (Weinberg, 1963, p. 112). Questa coscienza missionaria avrebbe dovuto cadere in crisi con la Guerra di secessione che richiama l'attenzione sulla terribile realtà della schiavitìi. Tanto pili che Lincoln, reduce anche lui dalle guerre contro i pellerossa, che avevano anche comportato il massacro «senza pietà» di «uomini, donne e bambini» (Nevins e Commager, i960, p. 203), sulla questione dei neri è piuttosto reticente. Prima di ascendere alla presidenza, nel 1858, dichiara di non voler affatto conceder loro i diritti politici, l'accesso alle cariche pubbliche, e di essere contrario anche ai matrimoni misti: «c'è una differenza fisica tra la razza bianca e nera» la quale impedisce che possano vivere assieme su un piano di «uguaglianza sociale e politica»; ed è allora naturale che la superiorità venga riconosciuta alla razza bianca (Lincoln, 1953, voi. 3, pp. 145 sg.); ancora dopo l'emancipazione degli schiavi, il presidente accarezza l'idea della loro deportazione in Liberia o in America latina (Gosset, 1965, p. 255). E, tuttavia, il sangue versato nella lotta per schiacciare la secessione schiavista viene interpretato come la conferma definitiva che gli Stati Uniti costituiscono effettivamente il «paese favorito» da Dio e da lui designato per rappresentare in eterno sulla terra la causa della libertà e del «governo del popolo mediante il popolo e per il popolo» (Lincoln, 1953, voi. 4, p. 271; voi. 7, pp. 20 sg.). Anche quando non è un generale ad ascendere alla Casa Bianca, non poche volte è una personalità che può vantare al suo attivo meriti militari e patriottici. All'esempio di Jackson si richiama Theodore Roosevelt (1968^2, p. xn), il quale celebra in lui il «genio militare », il « valido generale » che ha saputo « fronteggiare l'esercito regolare inglese, le più formidabili truppe combattenti del mondo» (Roosevelt, 1968 b, pp. 349 sg.). E Roosevelt, divenuto a sua volta un «eroe popolare per il coraggio disperato con cui si batté nella guerra spagnola» (Hofstadter, i960, p. 212), imprime un ulteriore impulso alle tendenze bonapartiste. Non a caso, ama menar vanto della larghissima autonomia da lui goduta in politica
I o8
CAPITOLO TERZO
estera: «I problemi più importanti, come la pace di Portsmouth, l'acquisizione di Panama e l'invio della flotta in questo o quell'angolo del mondo li ho risolti senza consultare nessuno, poiché è meglio che nelle questioni di importanza capitale sia soltanto uno a decidere» (Roosevelt, 1951, voi. 6, p. 1498). Il presidente è chiamato ad essere «un vero uomo forte», capace di usare «senza esitazione» il potere che gli deriva da una «carica decisamente possente» e che è superiore a quello esercitato dalla magistratura «in qualsiasi altra grande repubblica o monarchia costituzionale dei tempi moderni» (Roosevelt, 1951, voi. 6, pp. 1136 e 1086). Con questa sua interpretazione energica del ruolo del presidente, Roosevelt (1920, pp. 362 sg.) dichiara ripetutamente di volersi collocare sulla linea Jackson-Lincoln. Ma, assieme agli elementi di continuità, non mancano quelli di novità. Il presidente è ora la «guida del popolo» (steward of thepeoplé), la «guida dell'intero popolo», autorizzato ad agire energicamente e ad impegnarsi in un'«azione esecutiva immediata e vigorosa», senza attendere una «specifica autorizzazione» e senza neppure lasciarsi inceppare da un «punto di vista angustamente legalistico»: egli solo è l'interprete del «bene pubblico» {public welfare) e del «benessere comune {common well-beìn^ di tutto il nostro popolo» ed egli è «soggetto solo al popolo» (Roosevelt, 1920, pp. 361 sg., 367 e 464). Prima che in Europa, la figura della «guida», del condottiero e duce del proprio popolo emerge negli Stati Uniti, sia pure, ovviamente, nell'ambito di un quadro politico caratterizzato dal rispetto, almeno in condizioni di normalità, di precise regole del gioco, destinate, invece, ad essere spazzate via in paesi come l'Italia e la Germania, a causa sia della particolare asprezza in quei paesi della Seconda guerra dei Trent'anni sia dell'assenza, alle loro spalle, di una radicata tradizione garantistica come quella americana. E, comunque, con Theodore Roosevelt, è ormai un rapporto diretto, al di là della mediazione e dell'impaccio del legislativo, che si comincia ad istituire tra il popolo e il suo presidente. Quest'ultimo si atteggia ora a interprete solitario del «bene pubblico», non solo in occasione di una situazione assolutamente eccezionale, come la Guerra di secessione, ma già nella sua azione politica quotidiana, la quale, peraltro, è sempre più costellata di momenti di crisi o delicati, man mano che procede la marcia degli Stati Uniti verso il ruolo di grande potenza e verso l'egemonia mondiale. Assieme al rafforzamento dell'esecutivo, fa un ulteriore passo
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1
1
in avanti anche la coscienza della missione imperiale. Gli Stati Uniti e il suo presidenziale interprete sono chiamati non solo al mantenimento dell'ordine e alla diffusione della civiltà del diritto nell'emisfero occidentale (cfr. infra, cap. 7, § 11), ma hanno dinanzi a sé, in modo ormai esplicito e immediato, un compito ben più vasto e ambizioso: «Ci siamo fatti obbligo, e lo stiamo assolvendo, di promuovere la civilizzazione dell'umanità». E una missione che, iniziata con la conquista del Far West, chiama dappertutto a «cancellare selvaggi e barbari» in modo da «portare la luce nei posti tenebrosi del mondo» (Roosevelt, 1901, pp. 292-94); è una missione che si sviluppa nella guerra contro la «tirannia medievale» della Spagna e la «selvaggia anarchia» delle Filippine appena conquistate. In ultima analisi, si tratta di una missione che non ha confini: gli Stati Uniti hanno da assolvere il «compito grande e giusto» di portare la civiltà in ogni angolo del mondo e sono comunque alla testa della «guerra contro l'esistenza del male»; essi hanno il «privilegio di svolgere un ruolo dirigente nel secolo che è appena iniziato» (Roosevelt, 1901, PP- 9. 394. 26 e 287). Woodrow Wilson, che nel 1888, aveva lamentato il peso da lui considerato eccessivo del Congresso e vi aveva contrapposto l'esempio di paesi come l'Inghilterra e la Germania, con un esecutivo molto forte e con una personalizzazione del potere in leaders carismatici come Gladstone e Bismarck (Wilson, 1959, p. 58), osserva poi, nell'introduzione del 1900 al suo Congressional Government, che il «potere nettamente accresciuto» del presidente americano è da mettere in connessione col fatto che gli Stati Uniti sono ormai immersi «nella politica internazionale e nell'amministrazione di lontani possedimenti (...). Quando gli affari esteri giocano un ruolo preminente nella politica e nella condotta di una nazione, l'esecutivo deve necessariamente essere la sua guida »; e Theodore Roosevelt è in questa posizione preminente «come nessun presidente, eccetto Lincoln, lo è stato nel primo quarto del diciannovesimo secolo, quando le relazioni internazionali della nuova nazione dovevano ancora essere sistemate » (Wilson, 1959, p. 22). L'osservazione ammirata che in precedenza Wilson aveva fatto per la Germania, dove la figura del « cancelliere imperioso e dominante » sovrastava di gran lunga il Reichstag dal quale pure in teoria dipendeva (Wilson, 1959, p. 58), tale osservazione vale ora anche per gli Stati Uniti, e in misura anche maggiore o che tale è destinata a diventare nel corso degli anni e decenni successivi.
I o8
CAPITOLO TERZO
II.
Nomalità e stato d'eccezione
Nel celebrare il sistema politico inglese in contrapposizione a quello americano, Bagehot rimprovera a quest'ultimo la «mancanza di elasticità». Eletto per la durata di quattro anni, anche se scialbo e mediocre, un presidente non può essere sostituito con un altro energico e all'altezza di una drammatica situazione di crisi che si sia nel frattempo verificata: in questo senso ciò che caratterizza negativamente la Costituzione degli Stati Uniti è «l'impossibilità di una dittatura, la totale assenza di una riserva rivoluzionaria», l'incapacità di fronteggiare con mezzi d'emergenza una situazione d'emergenza (Bagehot, 1974 a, pp. 223 sg.). Assolutizzando la crisi provocata dall'assassinio di Lincoln e dalla casuale ascesa al suo posto di un vice-presidente assolutamente privo di qualità, il liberale inglese incorre in un colossale errore di valutazione. Abbiamo visto invece che la Costituzione americana è stata pensata avendo costantemente presente lo stato d'eccezione e il modello della dittatura dell'antica Roma che interveniva a fronteggiare la crisi senza alterare in modo definitivo il quadro istituzionale. La storia degli anni immediatamente successivi alla Convenzione di Filadelfia è quanto mai istruttiva. Si direbbe che i «Padri Fondatori» cerchino un battesimo del fuoco per la nuova Costituzione. Nel 1794, una modesta ribellione di contadini della Pennsylvania occidentale contro l'odiata tassa sul whisky è l'occasione per il governo nazionale di procedere ad una spettacolare esibizione di forza col reclutamento di circa 15 000 uomini della milizia: ancora «non avevamo dimostrato al mondo» - dichiara Washington - «di sapere o volere difendere il nostro governo e le nostre leggi». E Hamilton rincara la dose con l'affermazione per cui «non si può parlare di un governo davvero affermato finché esso non ha mostrato la sua forza in modo evidente con la coercizione militare» (Bailyn e Wood, 1987, pp. 346 sg.). Alcuni anni dopo, in occasione di una crisi politica (un'acuta tensione con la Francia rivoluzionaria la quale gode di simpatie anche in America) che non mette certo in discussione l'ordinamento sociale o l'indipendenza del paese, si assiste ad una drastica limitazione delle libertà costituzionali. Il Sedition Act del 14 luglio 1798 considera reato qualunque scritto «scandaloso»
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1
1
o semplicemente «malevolo» {malicious) nei confronti del governo, di una o l'altra delle Camere del Congresso e del presidente degli Stati Uniti, e condanna a pene detentive non solo l'autore di tale scritto ma anche chiunque lo «stamperà, diffonderà, pubblicherà» o assisterà a una di queste operazioni (Commager, 1963, voi. i , pp. 177 sg.). Fra i condannati in base a tale legge ci sono numerosi giornalisti jeffersoniani e anche un membro del Congresso (Toinet, 1987, p. 568). E interessante leggere a tale proposito il commento di Wilson il quale, in qualità di storico si mostra piuttosto critico, ma che piùi tardi, divenuto lui stesso presidente, andrà ben oltre nelle misure repressive (cfr. infra, cap. 5, § 2). Ma leggiamo: «Il Sedìtion Act incise in modo pericolosamente vicino alle radici della libertà di parola e di stampa. Nulla veniva detto sui limiti di un tale esercizio dei poteri. Le uniche limitazioni e garanzie risiedevano nella moderazione e nel buon senso del presidente e del ministro della Giustizia». Ancora piìi significativi gli Alien Acts (25 giugno e 6 luglio 1798) che conferiscono amplissimi poteri discrezionali alla massima autorità dello Stato per l'arresto e la deportazione non solo degli stranieri propriamente detti, ma anche degli immigrati in attesa di naturalizzazione; i maschi cittadini o provenienti da paesi considerati nemici possono addirittura essere deportati a partire già dal quattordicesimo anno di età. Può essere utile leggere anche in questo caso il commento di Wilson il quale osserva che, in tal modo, stranieri e immigrati vengono ad essere privati di ogni diritto «sulla base del semplice sospetto del presidente e "in mancanza di accusa, di giuria, di dibattimento pubblico, senza confronto coi testimoni a carico e senza poter avvalersi di testimoni a discarico, in mancanza di difesa e di assistenza legale"» (Wilson, 1918, voi. 6, pp. 39 sg.). In effetti, in nome della «salvezza della società» (public safety), della «pace o salvezza dello Stato» {public peace or safety) ovvero della «pace e salvezza degli Stati Uniti» [peace and safety of the United States), il presidente è autorizzato a intervenire duramente contro coloro nei confronti dei quali ha «ragionevoli motivi di sospettare» che possano essere pericolosi per la sicurezza del paese (Commager, 1963, voi. i , pp. 176-78). Gli Alien and Sedition Acts sembrano conferire concretezza alla figura (evocata, dieci anni prima, dal «The Federalist») del dittatore dell'antica Roma.
I
o8
CAPITOLO TERZO
Il presidente è dunque in ogni momento suscettibile di trasformarsi in dittatore. Prescindiamo per ora dalla guerra civile. Alla fine dell'Ottocento, dinanzi al manifestarsi di tensioni all'interno della stessa comunità bianca con lo sviluppo dell'agitazione populista e operaia, vediamo come la normalità sia sempre sul punto di trasformarsi in stato d'eccezione. Il capo dell'esecutivo può decidere o minacciare l'invio delle truppe federali in occasione di scioperi considerati lesivi degli interessi nazionali: la forza militare viene impiegata da Cleveland per stroncare uno sciopero dei trasporti che la stampa della grande borghesia denuncia come un atto di «guerra contro il governo e contro la società», come un'azione atta a provocare, o che già ha determinato, uno stato d'eccezione da fronteggiare con metodi eccezionali. Il presidente protagonista di questa impresa appare subito come un salvatore della patria, mentre il suo antagonista, il sindacalista Eugene V . Debs, prima ancora del suo arresto, viene denunciato dalla grande stampa come un nemico non solo della patria ma anche «del genere umano», col quale bisogna in ogni caso farla finita al piìi presto (Dulles, 1963, voi. 2, pp. 102-04). L'immersione del leader interprete deUa nazione in un'aura di sacralità patriottica va di pari passo con l'esternalizzazione del conflitto e criminalizzazione del dissenso, nel senso che i dissenzienti vengono considerati estranei non solo all'America, ma anche alla civiltà e persino al genere umano. L'azione di Cleveland viene giudicata «eccellente» da Theodore Roosevelt, il quale, asceso alla più alta magistratura del paese, si vanta a sua volta di aver riportato «l'ordine in Nevada» intervenendo con energia contro «la Federazione dei minatori [la quale] minacciava l'anarchia» e di aver saputo piegare, al tempo stesso, le «grandi corporazioni» industriali e persino la «plutocrazia». Il presidente che rivendica un «forte esecutivo centrale» si atteggia a leader al di sopra delle parti che fa valere «ogni oncia del potere» implicito nella sua alta carica per salvare la pace sociale nell'interesse superiore della nazione di cui è l'interprete privilegiato e unico. Ma non è difficile cogliere il reale contenuto politico e sociale di quello che Roosevelt (1951, voi. i , p. 391 e voi. 6, pp. 1087 sg. e 1369) definisce il «conservatorismo progressista». Il regime bonapartista o tendenzialmente bonapartista che si viene costituendo può ben procedere ad alcune limitate concessioni dall'alto alle classi subalterne, se-
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
l
1
1
condo il modello di Luigi Napoleone, Disraeli o Bismarck, ma non può tollerare la loro organizzazione e attività autonoma. Come è stato osservato, «quando si trattava di scioperi, [Roosevelt] pensava a un'unica soluzione, la presenza delle truppe sul luogo della controversia». E, in effetti, nel corso della sua lunga carriera politica (da membro dell'Assemblea dello Stato di New York a capo della polizia a governatore, sottosegretario alla Marina, vice-presidente e infine presidente), Roosevelt proclama ripetutamente il diritto dell'esecutivo a ricorrere al pugno di ferro: anche in occasione di agitazioni operaie, l'ordine «sarà mantenuto a qualunque costo. Se ci sarà da sparare noi spareremo, e non a colpi di salve o al di sopra delle teste della gente»; «mi piace vedere le truppe o la brava Guardia Nazionale lavorarsi la folla, senza eccessivi scrupoli per gli spargimenti di sangue». Significativa in queste dichiarazioni non è solo la brutalità, ma anche e soprattutto la consapevolezza di quanto sia agevole, nell'ordinamento politico e costituzionale americano, il passaggio dalla normalità allo stato d'eccezione: «Come fu soppressa la Comune di Parigi, così si possono sopprimere i sentimenti che animano ora una gran parte del nostro popolo, prendendo dieci dei suoi capi, mettendoli (...) contro un muro e fucilandoli. Penso che si arriverà a questo» (Hofstadter, i960, pp. 214-16). II passaggio dalla normalità allo stato d'eccezione nei singoli Stati fa perno attorno alla figura del governatore e, a livello federale, attorno alla figura del presidente. Naturalmente, quando si parla di stato d'eccezione non si può non pensare alla Guerra di secessione. Lincoln procede ad una mobilitazione generale e ad un poderoso armamento, sospende Vhabeas corpus, decide gli arresti che ritiene opportuni, sopprime gli organi di stampa ostili o «sleali», afferma il suo diritto di proclamare la legge marziale nelle retrovie. L'introduzione della coscrizione al Nord provoca a New York l'insurrezione della massa dei miseri immigrati, soprattutto irlandesi: «Fu necessario far marciare contro la città un corpo d'armata, e dopo parecchi giorni di terrore e di incendi la sommossa fu schiacciata». Tutte queste misure straordinarie, necessarie se si voleva schiacciare la secessione schiavista, vengono prese «senza una dichiarazione di guerra ad opera del Congresso». E così agevole, per il presidente americano, lo stato d'eccezione che in un certo senso non si ha neppure bisogno di
I
o8
CAPITOLO TERZO
proclamarlo. A Bagehot che lamenta la presunta «impossibilità di una dittatura» nell'ambito dell'ordinamento costituzionale americano, risponde oggettivamente il segretario di Stato di Lincoln che, parlando con l'ambasciatore inglese, si vanta in questi termini: Posso suonare il campanello qui sulla mia destra e ordinare l'imprigionamento di un cittadino dello Ohio; posso di nuovo suonare il campanello e ordinare l'imprigionamento di un cittadino di New York; e nessun potere sulla terra, eccetto quello del presidente, può rilasciarli. La regina d'InghOterra può fare altrettanto? (Schlesinger jr., 1973 pp. 58 sg.; Luraghi, 1978, p. 53)-
Ma ci sono altre considerazioni da fare. Gli avversari di Lincoln lo accusano di giacobinismo per il fatto di imporre «governi militari» e «tribunali militari» e di interpretare «la parola "legge"» come la «volontà del presidente» e Vhabeas corpus come il «potere del presidente di imprigionare chiunque e per il periodo di tempo che gli aggrada» (Schlesinger jr., 1973 a, pp. 915-21). E, in effetti, come i giacobini il salut public, così Lincoln invoca la public safety, «le leggi della necessità, della conservazione e della salvezza del paese» che impongono di amputare un «membro» pur di salvare il corpo nel suo complesso (Schlesinger jr., 1973 b, pp. 58-61). Ma il paragone coglie solo un aspetto, trascura cioè il fatto che il titolare della dittatura giacobina è, almeno formalmente, non un individuo bensì un comitato di salute pubblica, investito dal potere legislativo e responsabile dinanzi ad esso. Rovesciando dunque il giudizio di Bagehot, si può dire che la particolare flessibilità del sistema costituzionale e politico americano consiste in ciò che il presidente, già detentore di larghissimi poteri in tempo di pace e di normalità, è suscettibile di trasformarsi, senza soluzione di continuità e senza scosse istituzionali, in un dittatore chiamato a gestire la crisi con poteri assoluti o pressoché assoluti. Nei primi decenni di vita della Costituzione americana, tale trasformazione si realizza attraverso la mediazione del Congresso che però passa sempre più in secondo piano. La novità, evidenziata soprattutto dalla Guerra di secessione, risiede nella figura del dittatore che in qualche modo investe se stesso.
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
I 35
12. Regime bonapartista, bonapartismo soft) bonapartismo di guerra Per comprendere quest'ultimo punto, torniamo per un attimo alla guerra contro il Messico chf mette il Congresso dinanzi al fatto compiuto, suscitando le forti perplessità di Abraham Lincoln, a quel tempo oscuro deputato della Camera dei rappresentanti: se il presidente è autorizzato a invadere il territorio di un altro paese invocando la necessità di sventare in anticipo un'invasione, e se di tale presunta necessità è lui «il solo giudice», vuol dire che, avendo la facoltà di «far guerra a suo piacimento», il presidente viene di fatto a trovarsi nella posizione tradizionale dei monarchi e anzi ad esercitare «la piìi oppressiva fra tutte le oppressioni monarchiche» (Lincoln, 1953, voi. i , pp. 451 sg.). Si tratta di un'obiezione che mette il dito sulla piaga evocando una domanda classica della filosofia politica: quis judicabitì Ma a tale domanda, Lincoln dà una risposta univoca nel corso della Guerra di secessione. A giudicare è senza dubbio il presidenteche ha giurato di «preservare», «proteggere» e «difendere» la Costituzione degli Stati Uniti e il paese in quanto tale e a cui la Costituzione chiede di aver «cura della piena osservanza delle leggi» (art. 2, sezz. i e 3). Siamo dinanzi ad una svolta cruciale: il presidente si vede riconosciuto il diritto non solo di decidere di fatto l'inizio di operazioni belliche, ma di operazioni belliche che comportano anche sul piano interno la drastica limitazione delle libertà costituzionali, come avverrà ad esempio in occasione dei due conflitti mondiali. Se «sovrano è chi decide sullo stato d'eccezione» (Schmitt, 1972, p. 33), il più alto magistrato degli Stati Uniti è sovrano due volte, per il fatto che, dopo averlo deciso, è chiamato anche a gestirlo. Contrariamente a quello che riteneva Bagehot, il passaggio alla dittatura è piìi complicato in Inghilterra: il ricorso alla prerogativa reale non è possibile senza il consenso della Corona che non è lei però a gestire lo stato d'eccezione. Nell'ordinamento costituzionale e politico americano, c'è posto non solo per un dittatore, ma per un dittatore che in ultima analisi investe se stesso di poteri che, secondo l'esplicita dichiarazione di Hamilton e di «The Federalist» (n. 23), sono «senza limiti» e senza «vincoli costituzionali». Per di più, data l'unificazione della fun-
136
CAPITOLO TERZO
zione sacerdotale-ideologica e di quella politico-militare, nei momenti di crisi più acuta, quando sembra essere in gioco il destino della nazione americana investita di una peculiare missione religiosa, il suo capo e interprete, il presidente-dittatore, viene piìi che mai ad essere immerso in una sorta di aura sacra che rende più agevole l'esercizio dei poteri richiesti dallo stato d'eccezione. In questo senso, si assiste negli Stati Uniti allo sviluppo di un regime politico almeno tendenzialmente bonapartista. Chiaramente, tale definizione non è contraddetta dal fatto dell'investitura popolare, che, come si è visto, è costitutiva del fenomeno bonapartista: il plebiscito a favore di Luigi Napoleone esprime un reale e larghissimo consenso, e le modalità in cui si svolge la consultazione elettorale consentono l'esprimersi anche di un'opposizione dato che, «grazie alla reintroduzione del suffragio segreto, ognuno ha la possibilità di votare no senza subirne svantaggi». Si potrebbe obiettare che il bombardamento propagandistico abbia vanificato in Francia qualsiasi possibilità di scelta; ma la studiosa che sto citando fa notare che la «campagna propagandistica messa in atto si mantiene in limiti che, in confronto alla pienezza degli attuali mezzi di propaganda, sono piuttosto stretti» (Geywitz, 1965, pp. 248 sg.). Ma, anche a voler prescindere dall'oggi, è noto che la campagna elettorale che, nel 1896, segnò il trionfo di McKinley e di Theodore Roosevelt (destinato a divenire presidente e succedere al primo dopo il suo assassinio), fu contrassegnata non solo dalla mobilitazione corale della stampa e dal fiume di dollari e di materiale propagandistico di cui poterono disporre i vincitori, ma anche da una capillare opera di intimidazione che non si limitava a denunciare come «anarchico» e «pazzo» il candidato democratico-populista, Bryan: G l i industriali stipulavano contratti vincolati alla clausola della vittoria di McKinley, e ai salariati veniva detto che nel caso contrario le fabbriche sarebbero state chiuse e le loro famiglie ridotte alla fame. Il presidente nazionale del partito democratico denunciò che «quasi senza eccezione» le grandi aziende erano «impegnate in uno sforzo comune per costringere i dipendenti a votare contro le proprie idee» (Schlesinger sr., 1967, p. 230).
La definizione qui proposta di regime almeno tendenzialmente bonapartista potrebbe sembrare in contraddizione col fatto che negli Stati Uniti c'è scelta tra più candidati e succes-
LE ORIGINI DEL BONAPARTISMO
I 37
sione ordinata. Ma, in realtà, intanto si può parlare di regime, in quanto si ha successione ordinata, e questa, dati i presupposti ideologici su cui riposa il regime bonapartista, non può che essere regolata dal suffragio universale. In Francia si assiste all'instaurazione di dittature più o meno bonapartiste, le quali non riescono a trasformarsi in regime vero e proprio a causa anche del verificarsi di una sorta di stato d'eccezione permanente. Oltre a sapersi prolungare nel tempo, mediante la definizione di regole per la successione, un regime politico dimostra la sua solidità mediante la capacità di passare, in modo relativamente indolore, dalla normalità allo stato d'eccezione e viceversa. Può essere utile qui ritornare a Theodore Roosevelt, grande ammiratore oltre che di Jackson, anche di altri due presidenti, Washington e Lincoln, nonché di... Cromwell, il quale ultimo «non solo è uno dei grandi generali di tutti i tempi, ma anche un grande statista che, nel complesso, ha compiuto un'opera meravigliosa». C'è, però, un limite: «il suo farsi dittatore non era necessario e distrusse la possibilità di rendere permanenti gli effetti di questa rivoluzione» (Roosevelt, 1951, voi. 2, pp. 1327 e 1047). È bene tener presente che la dittatura è qui criticata per il fatto di non esser limitata nel tempo; «nei grandi giorni della repubblica romana, nessun danno è derivato dalla dittatura, per il fatto che, per grande che fosse il potere del dittatore, egli lo restituiva, dopo un periodo di tempo relativamente breve, a coloro dai quali l'aveva ricevuto». Non ci si deve, dunque, spaventare per la straordinaria ampiezza delle prerogative della piii alta magistratura degli Stati Uniti: i grandi presidenti della sua storia sono coloro che «non possono essere accusati di debolezza o timidezza» e che si sono rivelati «altrettanto energici» di Cromwell e Bismarck e «molto piii energici che non i tipi alla Luigi Napoleone»; l'importante è che il loro mandato non duri troppo a lungo; «non è bene che un forte esecutivo [che pure è assolutamente necessario] sia un esecutivo perpetuo » (Roosevelt, 1951, voi. 6, pp. 1086 sg.). Ecco: Theodore Roosevelt attribuisce alla presidenza poteri larghissimi e un diritto di decisione solitaria, soprattutto per quanto riguarda la politica estera, ma si rende conto, al tempo stesso, che una tale istituzione può diventare permanente solo nell'ambito di un regime capace di assicurare una successione ordinata e indolore. La realtà politica americana ci mette così di fronte ad una sorta di bonapartismo
138
CAPITOLO TERZO
soft che può però trasformarsi all'occorrenza in modo quanto mai agevole in un bonapartismo esplicito e di guerra, per far di nuovo ritorno alla normalità, una volta che lo stato d'eccezione venga considerato superato. E un regime politico che, superata brillantemente la prova del fuoco del primo conflitto mondiale, conquista una vittoria dopo l'altra fino ai giorni nostri. Ma prima di analizzare quest'irresistibile ascesa, conviene soffermarsi su uno dei suoi presupposti sinora rimasto in ombra.
4-
L e trombe delle classi dominanti e le campane delle classi subalterne
I. Il regime rappresentativo e i corpi armati Alla fine dell'Ottocento, Engels traccia ripetutamente il bilancio del periodo storico iniziato con la rivoluzione francese: trascorsa è l'epoca delle barricate e dei colpi di mano popolari che avevano giocato un ruolo importante fino alla Comune di Parigi; troppo forte è diventata la precisione e la potenza delle • armi da fuoco; e incolmabile ormai è la sproporzione di forze a vantaggio dello Stato e dei corpi armati di cui esso dispone. Tale radicale mutamento della situazione Engels sembra talvolta mettere sul conto soprattutto degli sviluppi della tecnologia militare: «fino al 1848 ci si poteva fabbricare da sé con polvere e piombo le necessarie munizioni»; ora non è più possibile o risulta quanto mai problematico, e comunque le eventuali, rudimentali armi popolari, «anche in una lotta a piccola distanza, non reggono assolutamente il confronto coi fucili a ripetizione dell'esercito», la cui capacità d'urto è destinata a spazzare via ogni ostacolo e ogni barricata (Marx ed Engels, 1955, voi. 7, p. 522). Il monopolio statale della forza armata è un fatto compiuto: un risultato a cui non è comunque estranea l'azione politica della borghesia, il cui «primo scopo», nella Francia successiva alla rivoluzione di Febbraio, «fu di disarmare gli operai» (Marx ed Engels, 1955, voi. 22, p. 190). Ma forse quest'ultima osservazione può essere radicalizzata. Di rado si è prestato attenzione al fatto che la storia del regime rappresentativo ha una sua tappa fondamentale nel restringimento della sfera elettorale che per un certo periodo ha abbrac-
140
CAPITOLO QUARTO
ciato anche la formazione dei corpi armati e dei suoi gruppi dirigenti. Uno dei primi atti della borghesia rivoluzionaria francese consiste nella contrapposizione alla truppa regia, controllata dall'alto e da un corpo ufficiale composto esclusivamente di nobili, di una Guardia Nazionale, i cui ufficiali sono eletti, ma al cui interno vige la stessa discriminazione censitaria fatta valere per la vita politica nel suo complesso. Nel periodo di massima radicalizzazione della rivoluzione, il principio elettivo, e per di più senza la precedente esclusione a danno dei «cittadini passivi», si afferma anche all'interno dell'esercito propriamente detto (Soboul, 1966, pp. 282 sg.; Fayard, 1989, pp. 672 sg.), sicché in questo momento è l'insieme dei corpi armati ad essere sottoposto ad un qualche controllo dal basso, e il processo di formazione dei dirigenti militari della nazione non differisce in linea di principio da quello dei dirigenti politici. È una situazione gravida di pericoli per la borghesia, la cui azione successiva è ispirata dalla preoccupazione di assicurarsi il monopolio della forza armata. Il problema in questione è ben presente in America ai delegati alla Convenzione di Filadelfia che, in un quadro istituzionale assai diverso, possono risolverlo agevolmente, sottoponendo all'autorità del presidente, in caso di crisi, anche le milizie dei singoli Stati (cfr. supra, cap. 3, § 2).
2. Controllo politico e controllo economico dei mezzi di informazione Ci si può chiedere se un processo analogo a quello che si è verificato sul piano militare, non si sia verificato, con modalità diverse e con tempi molto più lunghi, anche per quanto riguarda il controllo della stampa e dei mezzi di informazione. È noto il ruolo importante di mobilitazione svolto dai giornali nel corso della rivoluzione in Francia: si calcola che tra il 1789 ed il 1800 ne furono pubblicati più di 1350 (Fayard, 1989, p. 656); «nella Parigi del 1789 e poi di nuovo nel 1848, sempre a Parigi, tutti gli uomini politici di qualche rilievo fondano il proprio club, e un politico su due dà vita ad un giornale; soltanto tra il febbraio e il maggio sorgono 400 club e oltre 200 giornali». È un momento nel quale «anche i più piccoli raggruppamenti politici» possono disporre ognuno del proprio giornale (Habermas, 1977,
LE T R O M B E E L E CAMPANE
I4I
p. 219). Dato lo Stadio ancora artigianale dell'editoria c dell» stampa e dati i costi relativamente bassi di produzione, abbastanza agevole si presenta l'accesso delle classi popolari a questi strumenti di agitazione e di mobilitazione. Una stabilizzazione del potere e dell'ordinamento sociale esistente comporta la necessità non solo del disarmo delle classi popolari, ma anche di un pili accentuato controllo della ricchezza sui mezzi di informazione e di agitazione politica. Se l'Antico regime aveva cercato di controllare la stampa mediante la censura preventiva, si tratta ora di ricorrere ad uno strumento diverso che risulta dall'intreccio di politica ed economia. Già negli anni della Restaurazione, il monopolio proprietario della vita politica viene realizzato sia mediante la discriminazione censitaria, che esclude direttamente le masse popolari dall'esercizio dei diritti politici, sia mediante l'obbligo del versamento di una cauzione al momento della registrazione di un organo di stampa. E interessante notare che la legge del 9 giugno 1 8 1 9 scagliona il livello della cauzione a seconda non solo della periodicità ma anche del luogo di pubblicazione dell'organo di stampa, imponendo il versamento della somma più alta ai giornali che pubblicano più di tre numeri alla settimana e che vedono la luce a Parigi e nei tre dipartimenti confinanti (Marx ed Engels, 1955, voi. 7, p. 623 nota). Si tratta cioè di colpire e di mettere a tacere i fogli suscettibili di «aizzare» le masse popolari, e soprattutto le masse popolari parigine che un ruolo così importante e così radicale hanno svolto nel corso della Grande rivoluzione. Man mano che viene a cadere il controllo direttamente politico della stampa e si allentano le restrizioni censitarie dei diritti politici, acquista importanza sempre maggiore l'istituto della cauzione come strumento di esclusione delle masse popolari dalla vita politica. La rivoluzione di Luglio abolisce la censura, ma, come è stato giustamente osservato, ciò non significa che il governo divenga «impotente nei confronti dei giornalisti»: i giornali politici sono «tenuti a depositare una forte somma di denaro a titolo di cauzione, per poter ess'ere pubblicati» (Cobban, 1967, pp. 350 sg.). Dopo l'attentato a Luigi Filippo nel luglio del 1835, «le crudeli leggi di settembre», oltre a colpire penalmente la propaganda o l'incitamento all'odio contro l'ordinamento proprietario esistente, gravano la stampa periodica di cauzioni ancora più pesanti (Marx ed Engels, 1955, voi. 17, pp. 576, 706 nota,
142
CAPITOLO QUARTO
323 e 510). Immediatamente dopo la rivoluzione del '48, Blanqui traccia il bilancio della politica seguita dai governi prima della Restaurazione e poi della monarchia di Luglio: Da trent'anni è solo la controrivoluzione che parla alla Francia. Imbavagliata dalle leggi fiscali, la stampa è penetrata alla superficie della società. L'educazione delle masse è stata fatta dal solo insegnamento orale [della Chiesa] che è sempre appartenuto e tuttora appartiene ai nemici della repubblica. Soprattutto nelle campagne, sono solo i notabili delle fazioni sconfitte [con la rivoluzione di Febbraio] ad attirare l'attenzione del popolo, mentre gli risultano sconosciuti gli uomini devoti alla causa democratica (Huard, 1991,
PP- 34 sg )-
Blanqui spera che, col crollo della monarchia di Luglio, abbia termine, al tempo stesso, anche il monopolio della stampa e dell'informazione che il blocco conservatore è riuscito a realizzare grazie al soffocamento dei giornali popolari messo in atto mediante il ricorso alle leggi sulla cauzione. Ma tale istituto diviene in realtà ancora piii importante nella nuova situazione che, almeno per un momento, sancisce il suffragio universale maschile, e comunque segna un allargamento considerevole del godimento dei diritti politici. La borghesia al potere ricorre ad una nuova legge sulla stampa che non solo aggrava le cauzioni, ma cerca di colpire «tutti gli scritti pubblicati in dispense settimanali o mensili sino a un determinato numero di fogli» e persino «i romanzi d'appendice», ogni prodotto giornalistico o letterario suscettibile di circolare tra le masse popolari e di esprimerne, sia pure episodicamente, gli umori (Marx ed Engels, 1955, voi. 7, p. 100). A ulteriore garanzia del monopolio proprietario dei mezzi di informazione, vennero emanate norme che, per ogni infrazione alle leggi sulla stampa, prevedevano «sanzioni finanziarie enormi». In tal modo, scomparve totalmente la stampa rivoluzionaria. A lungo aveva essa lottato contro la persecuzione: settimana dopo settimana, giornali e opuscoli vennero messi in stato d'accusa, multati, repressi. Sul banco dei giurati sedeva la borghesia ed essa annientò la stampa operaia (Marx ed Engels, 1955, voi. 7, p. 496).
Quest'ultimo punto merita una riflessione ulteriore. Già ai tempi della monarchia di Luglio, «ogni offesa al re o tentativo di gettare disprezzo sul governo potevano essere puniti con
L E T R O M B E E L E CAMPANE
I 4)
un'ammenda di looo franchi, più l'imprigionamento del direttore responsabile». Epperò, «sebbene i giurati fossero scelti soltanto fra la classe più ricca con diritto di voto», essi avevano la tendenza a mandare assolti i giornalisti accusati di simili reati (Cobban, 1967, p. 351). Perché dopo il '48, i tribunali diventano nettamente più severi? Non soltanto per il fatto che più concreto e immediato sembra esser divenuto il pericolo della rivoluzione sociale e del rovesciamento dei rapporti di proprietà esistenti. C'è anche un'altra ragione da tener presente. Negli anni della monarchia di Luglio, la borghesia, ancora impegnata nei suoi settori più radicali nella lotta contro l'aristocrazia terriera e la nobiltà feudale, risulta divisa al suo interno, dato che una parte continua ad essere esclusa dal godimento dei diritti politici, il cui accesso è sbarrato da una barriera censitaria piuttosto elevata. Non si è ancora realizzata l'unità delle classi proprietarie, e le leggi sulla stampa, le cauzioni e le ammende non colpiscono Mcora in modo univoco i fogli popolari, come avverrà dopo il '48: ecco perché, negli anni della monarchia di Luglio, i giurati possono mostrare indulgenza nei confronti degli imputati coi quali sono talvolta legati da molteplici fili di appartenenenza sociale e di solidarietà politica. Dopo le giornate di febbraio, dopo quella che Tocqueville definisce con orrore una rivoluzione «socialista» (cfr. supra, cap. I, § II), l'amministrazione della giustizia, almeno per quanto riguarda i reati di stampa, assume una configurazione chiaramente e univocamente classista. Ancora dopo la caduta di Napoleone III, il nuovo governo diretto da Thiers introduce un'imposta «di due centesimi su ogni esemplare di qualsivoglia pubblicazione », ciò che fa gridare Marx all'infausta continuità con le leggi del settembre 1835 che già hanno visto Thiers come protagonista (Marx ed Engels, 1955, voi. 17, pp. 328 e 323). Che l'istituto della cauzione sia un modo nuovo di reintrodurre la discriminazione censitaria in regime di suffragio universale o di suffragio comunque allargato, non sfugge agli osservatori politici più attenti di quegli anni. Si è visto Marx lamentare il colpo mortale inferto alla «stampa operaia». Sul versante opposto, vediamo un lucido conservatore tedesco, Stahl, annoverare «censo per la rappresentanza» e «cauzioni per la stampa» tra le «distinzioni politico-giuridiche a favore dei benestanti» cui la
144
CAPITOLO QUARTO
borghesia organizzata nel «partito liberale» ricorre per «dominare la vita pubblica (...), completare e consolidare il proprio appagamento materiale mediante quello politico», tenendo a bada «la classe di coloro che sono privi di proprietà» (Stahl, 1863, pp. 72 sg.).
3. Il curato, il giornale, il partito Può essere utile a questo punto far riferimento a un testo celeberrimo Ideologia tedesca: Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale (Marx ed Engels, 1955, voi. 3, p. 46).
Nel corso della rivoluzione borghese, alla divisione delle classi proprietarie e della «potenza materiale» corrisponde la divisione della «potenza spirituale». In questa fase, Ì1 giornale svolge un ruolo eminentemente sovversivo; esso rappresenta lo strumento con cui il Terzo stato nel suo complesso può contrapporsi all'Antico regime il quale ultimo può contare sull'organizzazione e l'influenza ideologica capillari della Chiesa. E in questo senso che, alla vigilia del Luglio 1830, e cioè della sollevazione che avrebbe rovesciato, questa volta in modo definitivo, la monarchia borbonica, dopo aver sottolineato la «paura» che ai «tirannelli» incute anche la sola «vicinanza dei giornali di Parigi», Stendhal si chiede: «Il giornale potrà mai sostituire il curato?» (Stendhal, 1980, pp. 237 e 200). In questo medesimo senso va letto l'aforisma di Hegel risalente a piìi di due decenni prima: «La lettura del giornale la mattina è una sorta di realistica preghiera mattutina. Si può orientare il proprio comportamento nel mondo o secondo Dio, oppure secondo ciò che è il mondo. Entrambi i modi danno la medesima sicurezza, quella di sapere come ci si possa stare» (Hegel, 1969, voi. 2, p. 547). In questo momento, due sono gli strumenti di formazione della coscienza e dell'opinione pubblica, ed essi rinviano a classi
L E T R O M B E E L E CAMPANE
15J
e a blocchi sociali diversi e contrapposti. L'ultima volta in cui il giornale e il curato si affrontano alla testa di due contrapposti schieramenti è in occasione dell'ascesa alla presidenza e poi alla dittatura di Luigi Napoleone, il quale può avvalersi dell'appoggio e della larghissima influenza della Chiesa per neutralizzare la stampa e spazzar via la debole e velleitaria resistenza della borghesia liberale, la quale, peraltro, ha già messo a tacere, in occasione delle giornate di giugno, i fogli e i club delle classi popolari. Con la stabilizzazione liberale del Secondo Impero e tanto più, poi, con la Terza Repubblica, si assiste alla sostanziale unificazione delle classi proprietarie, col convergere quindi dei rispettivi strumenti di formazione dell'opinione pubblica verso un obiettivo comune, e cioè il consolidamento dell'ordine sociale esistente. E , tuttavia, le classi proprietarie non riescono a conseguire un totale monopolio dei mezzi di informazione: sia pur ridimensionata, continua a far sentire la sua presenza una stampa sovversiva. È da tener presente che, già nel corso della Grande rivoluzione, il giornale è sì lo strumento del Terzo stato, ma di un Terzo stato attraversato da acute contraddizioni e all'interno del quale il peso dei ceti popolari, a causa delle concrete modalità del processo di produzione materiale e spirituale e della conseguente facilità di accesso ai mezzi di informazione, risulta eccessivo e pericoloso per la borghesia. Si comprende allora la denuncia che, ancor prima della rivoluzione del '48, Comte fa dei «giornali» come uno dei maggiori veicoli di diffusione del «contagio metafisico» e rivoluzionario «fra le classi inferiori» (Comte, 1985, p. n i ) . La tesi àé^'Ideologia tedesca cade dunque agli inizi del processo di concentrazione nelle mani della borghesia dei mezzi di informazione, viene formulata cioè in un momento in cui essa risulta vera solo parzialmente, per il fatto che il pieno controllo della produzione materiale non comporta ancora, automaticamente, il pieno controllo della produzione spirituale. Sono gli anni in cui la borghesia è costretta in effetti a ricorrere, come si è visto, a strumenti politici supplementari (imposizione per legge di onerose tasse e cauzioni sulla pubblicazione di organi di stampa) al fine di ridurre al massimo o cancellare del tutto l'influenza ideologica delle classi subalterne. Per di più, in questo come in casi analoghi, nell'enunciare una tendenza di fondo della società borghese, Marx suggerisce i comportamenti e i metodi
146
CAPITOLO QUARTO
con cui le classi subalterne possono contrastarla, e cioè stimola il movimento storico reale che tende a falsificare la tesi da lui stesso enunciata. Organizzato e sorretto dall'entusiasmo e dallo spirito di abnegazione propri di ceti sociali che sperano in tal modo di conseguire la propria emancipazione, il partito politico a base sociale popolare e operaia incrina e mette in discussione il monopolio borghese e proprietario dei mezzi di informazione. Quel partito politico si configura esso stesso come un mezzo, e un mezzo potente, di produzione spirituale, coi suoi giornali, i suoi intellettuali e funzionari capaci di esercitare una capillare influenza ideologica e politica. E per questo che Engels, nel 1882, tesse l'elogio degli operai socialdemocratici che «si sono esercitati a leggere piii copiosamente e più metodicamente i giornali» (Marx ed Engels, 1955, voi. 19, p. 186). Sul versante opposto, Treitschke denuncia l'influenza nefasta che sulla massa, «mediante l'esibizione di forza dei suoi giornali», riesce ad esercitare la socialdemocrazia,.i cui funzionari, la cui «burocrazia», possono proliferare solo grazie ai «proventi della vendita dei giornali» {Zeitungseinmhmé) (Treitschke, 1878, pp. 6 sg.). Sono gli anni in cui la pubblicistica conservatrice accusa i partigiani della «rivoluzione sociale» di servirsi spregiudicatamente dei «mezzi della cultura moderna» e dei «giornali» (Luthardt, 1967, pp. 157 sg.), gli anni in cui Bismarck giunge ad additare nei giornali gli «"strumenti dell'Anticristo"» (Croce, 1965, p. 219), presumibilmente prendendo di mira in modo particolare la stampa socialdemocratica e d'opposizione. In questo periodo storico, il filosofo e il poeta di tale demonizzazione della stampa politica e di partito è Nietzsche che lamenta il fatto che «il giornale subentra alle preghiere quotidiane» (Nietzsche, 1980, voi. 13, p. 123 e voi. 1 1 , pp. 68 sg.). Si tratta della medesima contrapposizione già vista in Stendhal e in Hegel ma che conosce ora un rovesciamento del giudizio di valore: in un momento in cui contro l'agitazione operaia e socialdemocratica torna più utile che mai anche la predica del curato, il filosofo dell'Anticristo guarda con disappunto al dileguare dell'ovattata e ottusa tranquillità delle masse all'ombra del campanile e il subentrare al suo posto del «giornale» con cui va di pari passo il «fare politica» (Nietzsche, 1981 h, af. 239), o addirittura il furor politicus che è il risultato della lettura quotidiana dei giornali (Nietzsche, 1980, voi. i , p. 409). Forse alle spalle c'è anche il vago ricordo dell'esperienza della rivoluzione del '48 (da
LE T R O M B E E L E CAMPANE
1
5
J
Nietzsche descritta a tinte fosche nella sua autobiografia), quando quotidiani, periodici e fogli di partito spuntavano come funghi anche a Naumburg (dove allora si trovava la famiglia del filosofo), per essere quotidianamente divorati da lettori in preda alla passione politica e desiderosi di sapere e d'influire sugli avvenimenti (Losurdo, 1986, p. 134). Certo è che, dopo la svolta rappresentata da quell'anno traumatico per tutta la cultura conservatrice europea, il tema già visto in un filosofo così radicalmente anticristiano qual è Nietzsche lo ritroviamo in Italia in un autore come Vincenzo Gioberti ( 1 9 1 1 - 1 2 , voi. I, p. 116) il quale esprime anche lui la persuasione che «la stampa e i giornali», diffondendosi nel «popolo», contribuiscono potentemente ad «accrescere il sentimento de' suoi mali e il desiderio di riscattarsene». Un anno prima del filosofo cattolico liberale, era stata la stessa «Civiltà Cattolica» a tuonare, nel 1850, contro il «giornalismo» e a tuonare puntando il dito accusatore esplicitamente contro la «Francia rivoluzionaria», il paese degli incessanti sconvolgimenti politici, dove il giornalismo si è rivelato più chiaramente che mai «strumento di perpetua agitazione fra i popoli» (Lerda, 1976, p. 233) e dove da ultimo si è affacciato anche lo spettro del socialismo. Per Nietzsche, il giornale è il simbolo della massificazione del mondo moderno e di tutto ciò che il filosofo dell'«inattualità» condanna nel mondo moderno, ma in primo luogo è lo strumento e l'espressione della rivolta delle masse. La condanna del giornale è l'altra faccia della celebrazione del torpore degli strati popolari, della celebrazione del carattere benefico dell'oppio ideologico. Fa tutt'uno nel filosofo tedesco la polemica contro il giornale, il movimento operaio, il suffragio universale, l'avvento delle masse sulla scena della politica e della storia e l'involgarimento del mondo. Un frammento postumo individua nel «parlamentarismo» e nella «stampa» (Zeitmgswesen) «i mezzicon i quali l'animale del gregge si fa padrone » (Nietzsche, 1980, voi. II,p.4d,o),&mihtmoéà.AldilàdelbeneedelmaleQ^ì'e:t7.schs, 1981 b, af. 208) evoca un futuro a tinte fosche nell'ambito del quale il dispotismo della massa è evidenziato dall'« obbligo per ognuno di leggere a colazione il proprio giornale». Resta comunque il fatto che anche in Nietzsche la requisitoria contro l'elemento di volgarità e di pericolo rappresentato dalla stampa avviene tenendo presente in primo luogo lo spettro del socialismo, la paventata presa di potere da parte deir«animale del gregge».
148
CAPITOLO QUARTO
4. Giornali, partiti organizzati e classi subalterne Per questo, la denuncia del giornale si accompagna alla denuncia del partito, un'istituzione di per sé contrassegnata dal «carattere demagogico», dair«intenzione di agire sulle masse» (Nietzsche, 1 9 7 0 , 1 , af. 438), col risultato oggettivo o consapevolmente perseguito di mettere in crisi e in discussione la loro tradizionale subalternità e passività. Il partito qui messo in stato d'accusa non è tanto il partito di opinione della borghesia liberale, quanto in primo luogo il partito socialdemocratico che cerca di organizzare le masse; non a caso il filosofo mette in guardia gli operai dal prestare ascolto al «piffero dei socialisti accalappiatopi», ovvero «al giornale» (Nietzsche, 1981 a, af. 206), il quale ultimo viene anche condannato come parte integrante della «cultura delle grandi città» (Nietzsche, 1980, voi. 1 3 , p. 93), dove più evidente e spaventoso si presenta il fenomeno della rivolta delle masse e del declino delle élites. Nel suo lucido odio reazionario, Nietzsche individua con chiarezza il carattere socialmente, prima ancora che politicamente, eversivo del giornale e del partito operaio, il quale, nella misura in cui si organizza autonomamente, rappresenta l'emergere minaccioso di strati sociali fino a quel momento incapaci di svolgere un ruolo politico reale. Nel linguaggio di Marx, fungendo da centro autonomo di produzione intellettuale e spirituale, un partito siffatto incrina o rompe il monopolio proprietario di tale produzione. Conviene a questo punto ritornare al bilancio storico tracciato da Engels: nel periodo che va sino al 1848, o, al più tardi, sino al 1 8 7 1 , data la relativa facilità con cui i civili e le masse possono accedere alle armi, un potenziale dualismo di poteri, sul piano militare, caratterizza il rapporto tra Stato borghese da una parte e classi subalterne dall'altra. La repressione delle giornate di giugno prima e della Comune poi mette fine una volta per sempre ad una tale situazione. E il momento per il partito operaio di prendere congedo dal romanticismo delle barricate, senza ritardi, e anche senza rimpianti, tanto più che, nella diversa situazione oggettiva venutasi a creare, nuovi strumenti di lotta sono emersi, e non meno efficaci degli antichi. In primo luogo il suffragio universale di cui la socialdemocrazia tedesca - sottolinea Engels - sa fare uso sapiente che può ben esser preso a modello
L E T R O M B E E L E CAMPANE
15J
dagli altri partiti operai. Quello operante in Germania è il partito «più forte, più disciplinato»; sa impegnarsi in un paziente, «lento lavoro di propaganda» e di conquista delle masse, grazie alla sua «stampa» e all'utilizzazione come «tribuna» dello stesso parlamento (Marx ed Engels, 1955, 75 PP- 5^9. 5^4 ® 520), Ma in che modo il suffragio universale riesce a funzionare come strumento di emancipazione e non già di acclamazione plebiscitaria di un governo bonapartista, com.era avvenuto nella Francia di Luigi Napoleone e come sperava di fare, in Germania, lo stesso Bismarck, il quale per l'elezione del Reichstag aveva introdotto il suffragio universale come «unico mezzo per interessare le masse ai suoi piani » e farsi conferire l'agognata legittimazione cesaristica? La questione è sfiorata più che altro incidentalmente, e, tuttavia, nonostante tale limite, Engels chiarisce che la socialdemocrazia tedesca può neutralizzare le manovre bonapartiste nella misura in cui riesce, grazie anche alla sua organizzazione e alla sua stampa, a «costringere tutti i partiti a difendere dai nostri attacchi, dinanzi all'intero popolo, il loro modo di vedere e di agire» (Marx ed Engels, 1955, voi. 7, pp. 5 1 9 sg.). E cioè, in una situazione di dualismo o pluralismo dei centri di produzione intellettuale e spirituale, ogni elezione si trasforma in un grande dibattito politico nazionale, in cui il popolo è messo in grado di giudicare con cognizione di causa dall'assenza di un monopolio dei mezzi di informazione. C'è dunque un periodo storico in cui alle trombe della borghesia e delle classi proprietarie si contrappongono, per così dire, le campane dei ceti popolari. Il dominio della borghesia non sarà sufficientemente solido e garantito fin quando il monopolio della forza armata non sarà completato dal monopolio della produzione spirituale, e cioè dalla messa fuori gioco sia dei mezzi di informazione sia dei partiti che, a causa della loro organizzazione e del loro legame con classi sociali antagonistiche rispetto a quelle dominanti, si configurano, o sono suscettibili di configurarsi, in situazioni di crisi, come un'alternativa di potere. Per quanto riguarda il primo punto, la borghesia è favorita dall'oggettività dello sviluppo economico e industriale. Tocqueville descrive lo spettacolo affascinante della libertà di stampa in America, dove «non vi sono licenze per gli stampatori, non timbri, né registrazioni per i giornali, e il principio della cauzione è sconosciuto». Anche tale contrapposizione alla pratica di controlli e vessazioni
150
CAPITOLO QUARTO
governative nella vecchia Europa, compreso il paese liberale scaturito dalla monarchia di Luglio, non è priva di elementi stereotipi: mentre in Francia, il potere deve fronteggiare una vivace e combattiva stampa popolare e persino operaia di opposizione, nata sull'onda della Grande rivoluzione e anzi di un processo rivoluzionario che non accenna a esaurirsi, in America, il controllo sociale e politico delle «classi pericolose» è in primo luogo assicurato dall'istituto della schiavitii. E non bisogna dimenticare che, in un momento di crisi, come quella del 1798, anche al di là dell'Atlantico, il potere non aveva esitato a intervenire rudemente a imbavagliare la stampa (cfr. supra, cap. 3, § 11). Tocqueville, comunque, così prosegue: Ne deriva che la creazione di un giornale è un'impresa semplice e facile; pochi abbonati bastano al giornalista per coprire le spese: così il numero degli scritti periodici o semiperiodici, negli Stati Uniti, sorpassa ogni immaginazione. Gli americani più illustri attribuiscono lo scarso potere della stampa a questa incredibile dispersione delle sue forze (...). I giornali, negli Stati Uniti, non possono quindi stabilire quelle grandi correnti di opinione, che alzano o infrangono le dighe più potenti. Questo frazionamento delle forze della stampa produce ancora altri effetti non meno rilevanti; poiché la creazione di un giornale è cosa facile, tutti se ne possono occupare; d'altro canto, la concorrenza fa sì che un giornale non possa sperare grandissimi profitti; il che impedisce che soggetti di alte capacità industriali si interessino a questo tipo d'impresa (Tocqueville, 1968, pp, 221 sg.).
È appena il caso di dire che questo quadro non corrisponde più in alcun modo alla realtà odierna, caratterizzata da un gigantesco processo di concentrazione che di fatto ha assicurato il monopolio della grande borghesia sulla stampa e tanto più sui massmedia che richiedono capitali e investimenti ancora più elevati. Cancellando, o contribuendo in modo decisivo a cancellare la stampa operaia e popolare, lo sviluppo economico e tecnologico ha reso obsoleti e superflui i mezzi politici supplementari di coercizione e di condizionamento della libertà di stampa che ora, anche in Europa, in periodi di normalità, è da considerare, sul piano giuridico, completa. E, tuttavia, sarebbe errato credere che la situazione odierna, caratterizzata dal dileguare delle campane delle classi subalterne e dal dominio incontrastato delle trombe, sempre più smisuratamente possenti, della classe che, per dirla con Marx, controlla «i mezzi di produzione materiale», sia il risultato esclusivo di un processo meramente economico.
LE T R O M B E E LE CAMPANE
15J
5. Partiti, sindacati e individualismo repressivo In realtà, lo sviluppo della stampa operaia e popolare nell'Ottocento non può essere disgiunto dalla storia del processo di organizzazione politica e sindacale delle classi subalterne nonché dalla storia della reazione delle classi dominanti a tale processo. Particolarmente istruttiva risulta, a tale proposito, l'evoluzione che si verifica negli Stati Uniti. Nel 1885, la stampa operaia (laborpress) comprende 17 mensili, 400 settimanali e alcuni quotidiani (fra cui la socialista Volkszeitung e Vlrish World and American Industriai Liberator). Malgrado i tentativi del padronato che si sforza in tutti i modi, e soprattutto mediante il licenziamento degli operai sorpresi a leggerla, di limitare la sua influenza, questa non è trascurabile. Essa è dovuta in particolare alle biblioteche e sale di letture aperte allora da sindacati e movimenti o circoli politici: gli operai sono al corrente dei dibattiti contemporanei (Toinet, 1988, p. 290).
Ma assieme alle organizzazioni politiche che la sostengono o di cui è espressione, questa stampa diviene il bersaglio e la vittima della reazione conservatrice che si sviluppa alla fine dell'Ottocento e che sfocia in un processo di de-emancipazione. E, dùnque, è una precisa azione politica, e non solo l'oggettività del processo economico, a determinare la scomparsa dei giornali di partito e sindacali, che consentono alle classi subalterne di esprimersi, almeno in una certa misura, autonomamente, e che ora vengono, invece, soppiantati da una stampa che si vanta di essere indipendente ma che è controllata dalla grande proprietà (Burnham, 1970, p. 76). Sono gli anni in cui, come sappiamo, viene messo in stato d'accusa il principio del suffragio universale, colpevole di spalancare gli organismi rappresentativi a ceti miserabili e privi di cultura, affossando il «governo dei migliori» e sancendo il dominio del popolino ignorante e peggio degli immigrati. E come strumento di questa sorta di nuova invasione barbarica sono denunciati la stampa di partito, a cui viene contrapposta quella «indipendente», e i partiti stessi di cui qualcuno si spinge fino a chiedere la soppressione pura e semplice (Testi, 1 9 9 1 , pp. 59 e 62; Testi, 1984, pp. 40 sg.). Negli stessi autori europei che, a partire dall'esperienza degli Stati Uniti, sistematizzano la critica conservatrice del sistema dei partiti, è possibile avvertire l'eco dell'atteggiamento, largamente
152
CAPITOLO QUARTO
diffuso nelle classi alte americane, di ostilità nei confronti dell'estensione dei diritti politici (fonte solo di disastri o per lo meno di «risultati infelici») ai «negri del Sud» o agli «immigrati delle grandi città» (Bryce, 1888, voi. 3, pp. 357 e 674). Anche quando non ci si spinge sino a tal punto, è significativo il fatto che nella denuncia dei partiti impegnati a «mantenere e sviluppare l'oppressione del numero» (Pstrogorski, 1991, p. 621) riemergono in ultima analisi gli argomenti classici della polemica contro il suffragio universale e la democrazia. In un periodo di tempo in cui al Sud, anche prima dell'emanazione di leggi che sanciscono la loro de-emancipazione, i neri vengono dai bianchi privati dei diritti politici con «la forza e la frode» (Bryce, 1888, voi. 2, p. 364), in un periodo in cui le associazioni sindacali sono spinte, come vedremo, nell'illegalità o ai margini della legalità, a stroncare gli scioperi interviene l'esercito federale, gli operai sorpresi a leggere la stampa sindacale e di partito rischiano il licenziamento e, con ciò stesso, una condanna definitiva alla disoccupazione e alla miseria più nera, dato l'uso delle «liste nere» stese dal padronato per tenere «lontani dal lavoro molti "agitatori"» (Nevins e Commager, i960, p. 312), in quello stesso periodo di tempo, la pubblicistica conservatrice, in America e in Europa, denuncia il partito organizzato come «scuola di sottomissione servile» e strumento di intimidazione che reprime e calpesta r«individuo» (Ostrogorski, 1 9 9 1 , pp. 625 e 621); di fatto, cioè, la pubblicistica conservatrice mette indiscriminatamente in stato d'accusa le uniche possibili forze in grado di opporre una resistenza organizzata alla violenza delle classi e del potere dominante. La denuncia del partito come «macchina» si concentra sulla figura odiosa del boss, e tuttavia l'altra faccia della medaglia viene fuori oggettivamente, e involontariamente, allorché si osserva che i neri costretti a subire le sopraffazioni dei bianchi, cominciano a rassegnarsi alla loro sorte anche perché vanno «smarrendo la fiducia nei loro boss di una volta», i quali in effetti, battono ormai la ritirata dal Sud, lasciando libero campo ad una società civile e ad un potere che non hanno bisogno di partiti per sancire il dominio incontrastato di «una razza superiore» (Bryce, 1888, voi. 2, pp. 450 sgg. e 364). Anche a prescindere dai neri, quali siano in effetti i bersagli concreti della campagna contro i partiti emerge con chiarezza dal
L E T R O M B E E L E CAMPANE
15 J
dito accusatore puntato contro i militanti che «assistono impassibili ai disordini nella vita pubblica, perché questi disordini sono coperti dalla bandiera del loro partito» (Ostrogorski, 1 9 9 1 , p. 617): ad essere prese di mira sono chiaramente le organizzazioni politiche, sindacali, sociali in senso lato, delle classi subalterne le quali, per poter opporre un minimo di resistenza a governo e padronato, sono obbligate a fare appello alla coesione e anche allo spirito di solidarietà dei loro membri (cui talvolta forniscono istruzione ed educazione politica) e che pertanto sono condannate come una sorta di «Chiesa che provvede a tutti i bisogni spirituali dell'uomo» (Ostrogorski, 1991, p. 609). Per di più, si tratta di una Chiesa che confonde pericolosamente le idee dei suoi fedeli: La visione intellettuale e la facoltà di attenzione dell'uomo medio sono molto limitate, non gli è possibile esercitarle neanche su un ampio orizzonte ó su una prospettiva punteggiata di aspetti molteplici; egli può seguire unicamente l'azione limitata ad un campo ristretto, come quello del comune, o più esteso, ma avente sempre solo un unico oggetto chiaro a tutti gli sguardi. Una volta superati questi limiti, la sua visione si confonde, la sua attenzione si disperde e si stanca, e se egli continua a seguire la direzione indicata, lo fa in maniera del tutto passiva. Così i membri di un raggruppamento politico che perseguono scopi molteplici sono semplici unità giustapposte (Ostrogorski, 1 9 9 1 , pp. 6 1 1 sg.).
Emerge qui il tema classico della moltitudine «bambina» che il partito organizzato pretende di innalzare alla vita politica cosciente, ma che in tal modo trasforma in una massa di manovra e in un esercito di soldati abituati ad una cieca obbedienza. In questo senso, un tale partito, fondato sulla «cooperazione passiva» e lo «spirito di corpo», impedisce «l'emancipazione dell'individuo» (Ostrogorski, 1 9 9 1 , pp. 612 e 609). E possibile tracciare una storia sociale della forma partito. Il partito politico organizzato nasce sull'onda del movimento di rivendicazione dell'emancipazione da parte delle classi subalterne. Sono queste ad aver bisogno di un'organizzazione il più possibile ramificata e capillare, non già le classi che hanno a disposizione l'apparato statale e governativo e la ricchezza, nonché l'influenza sociale che da tutto ciò immediatamente scaturisce. Ecco perché, per tutto un periodo storico, al partito borghese d'opinione si contrappone il partito operaio o popolare organizzato. Abbiamo visto Bagehot riflettere sulle tecniche atte
154
CAPITOLO QUARTO
ad impedire l'organizzazione in classe delle «creature miserabili» appagate della propria sorte o perché indotte ad un atteggiamento di sottomissione filiale dal carisma di una regina che è tale «per grazia di Dio» o perché abbagliate dal «vago sogno di gloria» agitato da leaders sciovinisti (cfr. supra, cap. 2, §§ 2 e 5). Sono le classi subalterne a dover ricorrere a sforzi organizzati e prolungati per elaborare una cultura e uha visione politica autonome, per «costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti» e per costituirlo nel corso di un processo che spesso è spezzato «dall' iniziativa [politica e ideologica] dei gruppi dominanti» (Gramsci, 1975, pp. 1858 e 2283). Ecco, perché, per tutto un periodo storico, al partito borghese, almeno apparentemente disideologizzato, si contrappone un partito operaio o popolare che cerca di realizzare al suo interno un grado piìi o meno alto di coesione anche ideologica. Un partito siffatto costituisce un forte centro di autonoma produzione spirituale. In determinate circostanze, soprattutto in situazioni di crisi acuta, le classi dominanti hanno cercato esse stesse di porsi su questo terreno, superando la forma partito meramente di opinione. Ma è chiaro che, dal loro punto di vista, la soluzione ideale è nella scomparsa di partiti che si pongano in alternativa, sul piano organizzativo e ideologico, al loro sistema di potere. Siffatti partiti rappresentano l'emergere sulla scena politica di classi sociali in precedenza considerate come un insieme di «strumenti di lavoro» o «macchine bipedi» che cominciano ora a rivendicare il riconoscimento della loro dignità di uomini e individui. E , invece, dal punto di vista di Ostrogorski, i partiti che organizzano queste classi subalterne hanno il torto di calpestare l'individualismo. A ben guardare, con argomenti non dissimili da quelli poi utilizzati dalla pubblicistica conservatrice contro i partiti, soprattutto operai, la legge Le Chapelier vietava in Francia, nel 1 7 9 1 , le coalizioni operaie che, con la loro pretesa di darsi una struttura organizzativa per difendere «pretesi interessi comuni», calpestavano la libertà di lavoro dell'individuo. Ed è in nome di questo individualismo repressivo che per lungo tempo viene colpito e stroncato il nascente movimento sindacale. Ancora dopo la rivoluzione di Luglio, in occasione di un'agitazione di protesta contro il cottimo, le autorità della Francia liberale intimano: «Se gli operai di Parigi intendono esporre dei reclami fondati, questi devono essere presentati alle autorità
L E T R O M B E E L E CAMPANE
1
5
J
individualmente e in una forma regolare», e comunque senza intaccare «il principio della libertà dell'industria» e della «libertà di lavoro» (Sewell jr., 1987, p. 336). E tale individualismo repressivo è ben vitale anche nell'America degli anni in cui si sviluppa la campagna contro i partiti organizzati, dato che lo S/>erman Antitrust Act (1890) viene «applicato anzitutto, e con molta efficacia, contro gli operai» (Nevins e Commager, i960, p. 3 1 1 ) , colpevoli, evidentemente, di riunirsi in «monopoli» sindacali, poco rispettosi dell'iniziativa e della libertà individuale. Contrario alle coalizioni di ogni genere, in nome sempre del mercato e delle ragioni dell'individuo, era anche Adam Smith il quale però almeno, onestamente, riconosceva che il divieto, anche se formulato in termini generali, avrebbe finito col colpire in una direzione sola: I padroni, essendo in numero minore t)ossono coalizzarsi più facilmente (.•..). I padroni sono sempre e ovunque in una specie di tacita ma non per questo meno costante e uniforme coalizione volta a impedire il rialzo dei salari al di sopra del loro livello attuale [... o volta] ad abbassare ulteriormente il livello dei salari (Smith, 1977, pp. 62 e 67).
E, ovviamente, anche la dissoluzione, o il drastico ridimensionamento, dei partiti politici organizzati finisce per agire nello stesso senso del divieto delle coalizioni. La campagna conservatrice che si sviluppa in America e in Europa alla fine dell'Ottocento avanza talvolta la tesi per cui, eliminando «i partiti rigidi, i partiti permanenti che hanno per fine il potere», si consentirebbe «alle opinioni di manifestarsi con più libertà e di affermarsi con più sincerità» (Ostrogorski, 1991, pp. 632 e 634). Avviene esattamente il contrario: il depotenziamento o la dissoluzione dei partiti organizzati consacra il monopolio dei mezzi di produzione spirituale nelle mani di una piccola cerchia privilegiata che non trova più alcuna resistenza organizzata alla sua opera di manipolazione. I critici conservatori di fine Ottocento si dichiarano talvolta persuasi che, depotenziando i partiti, il livello del dibattito pubblico si innalzerebbe: «si sarà meno tentati di usare quei metodi sensazionali che fanno appello alle emozioni e ai sensi» (Ostrogorski, 1 9 9 1 , pp. 634 sg.). Si verifica, invece, un pauroso scadimento nel livello del dibattito politico, e l'atomizzazione della massa crea i presupposti del trionfo del bonapartismo fondato sul rapporto
156
CAPITOLO QUARTO
quanto mai disuguale che vede da una parte un leader, il quale può fare appello ai più potenti mezzi di comunicazione e alle tecniche più raffinate di persuasione occulta e di manipolazione, e dall'altra una moltitudine ora sì veramente «bambina» perché sempre più privata di ogni autonoma organizzazione e espressione. La denuncia che Bryce e Ostrogorski fanno dei partiti e dei sindacati soffocatori della libera individualità è contemporanea alla requisitoria da Le Bon pronunciata contro «l'era delle folle» che è poi l'era dei sindacati e dei partiti più o meno socialisti: La potenza della folla nacque dapprima col propagarsi di certe idee che si radicavano lentamente negli spiriti, poi grazie al graduale associarsi degli individui che consentì la realizzazione di concetti fino ad allora teorici. Il fatto di associarsi ha permesso alle folle di farsi un'idea, se non molto giusta, almeno molto precisa dei propri interessi, e di prendere coscienza della propria forza. Le folle formano i sindacati davanti ai quali tutti i poteri capitolano, creano le camere del lavoro che, a dispetto delle leggi economiche, tendono a regolare le condizioni dell'impiego e del salario. Inviano nelle assemblee governative i loro rappresentanti sprovvisti di ogni iniziativa, di ogni indipendenza, e ridotti nella maggioranza dei casi ad essere soltanto i portavoce dei comitati che li hanno eletti (Le Bon, 1980, pp. 33 sg.).
Le folle sono dunque le classi subalterne che si organizzano autonomamente in partiti e sindacati, la cui forza dev'essere spezzata perché gli individui cosi atomizzati siano consegnati inermi al fascino del Cesare che ora li può soggiogare mediante gli strumenti forniti dalla pubblicità commerciale (cfr. supra, cap. 2, § 6).
5-
Il battesimo del fuoco del regime bonapartista
I. Italia e Usa: come impone la guerra alla moltitudine «bambina» La prima guerra mondiale imprime slancio aUa marcia del bonapartismo. Abbiamo visto Theodore Roosevelt vantarsi del carattere assolutamente solitario delle sue decisioni in politica estera, comprese quelle che comportano un coinvolgimento militare all'estero degli Stati Uniti (cfr. supra, cap. 3, § 10). Ma Wilson, democratico, è d'accordo: «Negli affari esteri è proprio l'autonomia di cui il presidente dispone senza limitazioni, a consentirgli un controllo virtualmente totale delle operazioni» (Carrol e Noble, 1991, p. 335). Ed è a tale filosofia che si ispira l'atteggiamento da Wilson assunto nel corso della prima guerra mondiale, dall'iniziale dichiarazione di neutralità sino alla decisione di intervenire. Può essere utile a questo punto istituire un confronto fra Italia e Stati Uniti, due paesi che, non essendo stati immediatamente trascinati nel conflitto, e, accingendosi a parteciparvi in un momento in cui è ampiamente dileguato l'entusiasmo di massa dell'estate del 1 9 1 4 , sono costretti a superare una resistenza ampia dell'opinione pubblica e soprattutto delle classi popolari, le quali hanno ormai colto tutto l'orrore della gigantesca carneficina in atto. In Italia, com'è noto, per piegare la maggioranza neutralista esistente nel parlamento e tanto più nel paese, occorre una sorta di colpo di Stato con la partecipazione della Corona (che respinge le dimissioni del governo minoritario di Salandra) e con lo scatenamento della piazza (tollerato o incoraggiato dalla polizia),
158
CAPITOLO QUARTO
che intimidisce e minaccia gli oppositori. E, in quegli anni, non pochi filosofi e intellettuali legittimano il colpo di mano interventista, teorizzando esplicitamente il diritto dell'élite a imporre la propria volontà a «masse» arretrate che - osserva Salvemini «si muovono per istinti negativi e non per dottrine positive» e sono quindi portate a evitare «la sofferenza e il dolore» (Salvemini, 1963, p. 448). E invece, secondo Guido Dorso, occorre «una minoranza audace e geniale che trascinerà per la gola questa turba di muli e di vigliacchi a morire da eroi o a vincere da trionfatori» (Forcella, 1972, p. xii). Più tardi, lo stesso Croce, che pure inizialmente aveva mostrato esitazioni sull'opportunità della partecipazione italiana al conflitto, scriverà: «I contrari alla guerra (...) erano certamente molti (in Italia come altrove), e forse "masse", ma non contavano, perché qui si discorre di coloro che politicamente pensavano, parlavano e operavano»; non potevano certo essere assecondate masse di uomini attanagliati dalla «paura della guerra, chiusi nel loro comodo e nel loro egoismo» (Croce, 1967, p. 266). In un paese a regime parlamentare, come l'Italia, la moltitudine «bambina» può essere costretta al sacrificio e al senso del dovere solo dalla violenza di piazza e dal colpo di mano antiparlamentare della Corona, e cioè solo mediante una lacerazione del tessuto costituzionale che costituisce l'inizio della crisi sfociata poi nell'instaurazione della dittatura fascista. Diversa la situazione degli Stati Uniti. Al momento dello scoppio della guerra, Wilson non solo proclama la neutralità, ma lancia un appello al paese perché i partiti, le associazioni, i giornali, tutti i singoli cittadini si astengano da giudizi partigiani e passionali sul conflitto e sui suoi partecipanti, in modo da osservare fino in fondo una stretta neutralità, nel «pensiero», oltre che nell'«azione». Ma, qualche mese dopo, è lo stesso presidente ad autorizzare e a promuovere una politica di prestiti a favore di Inghilterra e Francia (Nouailhat, 1987, pp. 130 e 132). E, tuttavia, ancora nel 1916, la Convenzione democratica di St. Louis, nel riconfermare per acclamazione, con un solo voto contrario, la candidatura di Wilson, elabora una piattaforma elettorale, in larga parte opera del presidente in carica, in cui quest'ultimo viene raccomandato al «popolo americano» per le «splendide vittorie diplomatiche», da lui conseguite (che «hanno preservato gli interessi vitali del nostro governo e dei suoi cittadini»), e
IL BATTESIMO DEL R E G I M E BONAPARTISTA
I^I
soprattutto per il fatto che «egli ci ha tenuti fuori della guerra». Wilson preferisce non compromettersi sino a tal punto: è più cauto e anche più ambiguo. Come osserva un suo biografo, peraltro alquanto benevolo, senza far riferimento «allo slogan della campagna elettorale "egli ci ha tenuti fuori della guerra"», il presidente si limita ad affermare, o insinuare, che, contrariamente a lui, molti repubblicani desiderano intervenire nel conflitto mondiale (Canfield, 1966, pp. 78-81). Un anno dopo, Wilson chiede l'autorizzazione del Congresso ad armare le navi mercantili destinate ad operare in zona di guerra: ma nel Senato, l'opposizione e l'ostruzionismo dei pacifisti conducono alla bocciatura della legge. Ciò non basta a bloccare il presidente che, avvalendosi dei suoi poteri esecutivi, ordina l'immediata esecuzione del provvedimento. Possiamo concludere con le parole di due storici americani: Lo strapotere di cui la presidenza poteva disporre negli affari di politica estera aveva consentito a Wilson di portare gli Stati Uniti sull'orlo della guerra senza che l'elettorato medio ne avesse alcuna coscienza. Quest'ultimo, in realtà, aveva rieletto Wilson proprio perché lo aveva ritenuto capace di preservare la neutralità della nazione americana. Il movimento pacifista, molto forte nell'elettorato femminile, aveva sostenuto la candidatura Wilson così come avevano fatto gruppi di tedeschi e di irlandesi americani, che nutrivano un profondo odio per l'imperialismo inglese. Una grossa parte dei «progressisti» WASP [i bianchi di origine anglosassone e di religione protestante] del Midwest (...) avevano altresì appoggiato Wilson, nel 1 9 1 6 , in quanto avevano visto nel partito repubblicano il sostenitore dell'Inghilterra e della guerra (...). Entro il marzo 1 9 1 7 Wilson aveva coinvolto gli Stati Uniti in un conflitto a fuoco con la Germania (Carroll e Noble, 1 9 9 1 , pp. 338 sg.).
Chiaramente, fra i due paesi qui messi a confronto, piii difficile risulta la decisione, o l'imposizione, dell'intervento in Italia in cui i segni della discriminazione censitaria sono ben visibili, in ogni caso per quanto riguarda il Senato che continua ad essere non solo monopolio delle classi proprietarie, ma anche un luogo in cui esercita ancora una forte influenza l'Antico regime, il quale trova poi la sua consacrazione nella Corona. Negli Stati Uniti, invece, all'interno della comunità bianca (che è la sola abilitata a decidere) sono pressoché scomparse le tracce della discriminazione censitaria; in alcuni Stati le donne hanno già conquistato il suffragio. Ma, dotato com'è di poteri molto ampi, il presidente
l6o
CAPITOLO QUARTO
americano può costringere la moltitudine «bambina» a subire disciplinatamente i sacrifici e gli orrori della guerra, più facilmente e pili elegantemente di quanto non siano in grado di fare in Italia Corona e Parlamento. 2. Un regime politico all'altezza dello stato d'eccezione A questa prima dimostrazione di superiorità del regime di bonapartismo soft, che ormai si va affermando, altre ne seguono nel corso e a conclusione della guerra. Il suo sviluppo comporta un'enorme estensione dei poteri dell'esecutivo in tutti i paesi impegnati nel gigantesco scontro. E un fenomeno dal quale non rimangono certo immuni i paesi occidentali a pili consolidata tradizione liberale che anzi, sotto certi aspetti, si presentano persino all'avanguardia. Osserverà più tardi uno studioso inglese che «Woodrow Wilson, Clemenceau e Lloyd George» furono investiti «di un'autorità che in pratica equivaleva alla dittatura nel senso romano del termine» (Cobban, 1 9 7 1 , p. 1 1 1 ) . Se si dà uno sguardo alla cultura e alla pubblicistica della Germania del primo dopoguerra, essa appare attraversata dallo stupore per il fatto che proprio i paesi occidentali hanno dimostrato una superiore capacità di mobilitazione totale e di totale e ferreo inquadramento della propria popolazione in funzione della guerra. Nel visitare gli Stati Uniti, un professore tedesco procede a questa significativa analisi: Nelle discussioni politiche dell'anteguerra, si è sempre detto, da parte dei difensori del sistema di governo allora dominante nell'Europa centrale, che la democrazia come forma di vita politica ha sì certi vantaggi, ma che, soprattutto in quanto democrazia parlamentare, sarebbe destinata al fallimento nella guerra. L'esperienza pratica ha dimostrato il contrario. Per quanto riguarda la compattezza politica e il perseguimento disciplinato degli obiettivi, le democrazie occidentali sono state nettamente superiori al sistema burocratico dell'Europa orientale e centrale. L'interna scissione tra direzione militare e politica, che ha paralizzato gli imperi centrali per quasi tutto il periodo di guerra, è stata superata dalle potenze occidentali ad opera di politici consapevoli dei propri obiettivi. L'ascesa di personalità forti e dotate di autonoma iniziativa, che secondo la concezione continentale avrebbe dovuto essere resa impossibOe dalla democrazia, si è manifestata senza ostacoli nelle potenze occidentali, non invece in Russia, Germania o Austria, dove le poche individualità forti in grado di imporsi si sono logorate in una lotta senza fine contro gli intrighi burocratico-militari.
IL BATTESIMO DEL REGIME BONAPARTISTA
I
^
I
E , tra lo sbigottito e l'ammirato, il professore tedesco così prosegue: Durante i periodi critici della guerra, i primi ministri di Inghilterra, Francia o Italia e il presidente degli Stati Uniti hanno goduto di una pienezza dijrateri, in confronto alla quale la potenza di un Alessandro o di un Cesare era limitata (...). Nei paesi occidentali, i poteri dittatoriali conferiti sono stati in pratica molto più ampi di quelli che i monarchi hanno potuto esercitare in Russia e Germania (Bonn, 1925, pp. 9 e 63 sg.).
Certo, ad essere protagonista di tali miracoli o misfatti non è la «democrazia parlamentare», bensì un regime politico caratterizzato dalla personalizzazione del potere e che ha raggiunto o sta raggiungendo la propria compiutezza proprio nel paese visitato dal professore tedesco. Wilson viene «investito di poteri quasi dittatoriali» (Canfield, 1966, p. 109) o dittatoriali nel senso pieno del termine. Per ironia della storia colui che aveva considerato liberticida la legislazione d'emergenza del 1798 (cfr. supra, cap. 2, § IO), va ora ben oltre nel ricorso al pugno di ferro, procedendo ad una gestione dello stato d'eccezione che, al confronto, fa apparire «molto blanda» la legislazione precedentemente criticata (Commager, 1963, voi. 2, p. 145). Le misure prese nel corso del primo conflitto mondiale mirano «a cancellare anche le minime tracce di opposizione» (Schlesinger sr., 1967, p. 414): in base sàVEspionage Act del 16 maggio 1 9 1 8 si può essere condannati sino a venti anni di carcere per essersi espressi «in modo sleale, irriverente, volgare o abusivo sulla forma di governo degli Stati Uniti, ovvero sulla Costituzione degli Stati Uniti, ovvero sulle forze militari o navali degli Stati Uniti, ovvero sulla bandiera (...) ovvero sull'uniforme dell'esercito o della marina degli Stati Uniti» (Commager, 1963, voi. 2, p. 146). Se per quanto riguarda l'intervento in guerra, ho proceduto ad un confronto con l'Italia, per quel che concerne la capacità di mobilitazione e irregimentazione totale, conviene fare un confronto soprattutto con la Germania imperiale. Qui, Karl Liebknecht, dopo aver votato contro i crediti di guerra, ha la possibilità, almeno per qualche tempo, di utilizzare il parlamento come tribuna per denunciare il massacro e persino per invitare i soldati ad «abbassare le armi e volgersi contro il nemico» interno (Flechtheim, 1992, p. 142): arrestato nel maggio 1 9 1 6 , dopo un comizio pacifista e antimilitarista, e condannato a due anni e mezzo, viene graziato e rilasciato nell'ottobre del 1 9 1 8 ,
I 7 2
CAPITOLO QUINTO
in tempo per partecipare alla rivoluzione che il mese dopo pone fine sia alla guerra che alla dinastia degli HohenzoUern. Più dura è la sorte del dirigente socialista americano, Eugene Debs: ha conosciuto il carcere per aver sostenuto lo sciopero dei trasporti stroncato dal presidente Cleveland mediante Tinvio delle truppe federali; e, già in tal occasione, è stato bollato come nemico della patria (cfr. supra, cap. 3, § 11). Viene di nuovo arrestato nel giugno 1918 per un discorso contro la guerra, condannato a dieci anni e rilasciato solo nel dicembre 1 9 2 1 , dopo aver trascorso in carcere sia la fine del conflitto sia la campagna elettorale che lo vede candidato alla carica di presidente (Poster, 1956, p. 190; Schlesinger sr., 1967, pp. 4 1 5 e 440 sg.). E Harding a ridurgli la pena, dopo che Wilson si è rifiutato di scarcerarlo (Schlesinger jr., 1959-65, voi. I, p. 47). Ma più che il destino parallelo di due dirigenti del movimento di protesta contro la guerra, conviene vedere la situazione dei partiti socialisti dei due paesi antagonisti. Nonostante tutto, in Germania l'agitazione pacifista continua a farsi sentire e talvolta anche attraverso strumenti legali, con la diffusione di volantini nelle fabbriche e con organi di stampa che salutano la rivoluzione d'Ottobre e pubblicano gli appelli alla pace immediata che da essa scaturiscono (Ulbricht, 1967, voi. 5, p. 55 e voi. 6, pp. 22-24). Ben più occhiuta e dura è la repressione negli Stati Uniti: Agenti federali sistematicamente impedivano lo svolgimento di manifestazioni socialiste ritenute pericolose, censuravano e sopprimevano i giornali di quel partito, disperdevano e scioglievano le assemblee, incriminavano gli oratori (Schlesinger sr., 1967, p. 415).
Nonostante che la guerra rappresenti per la Germania un pericolo ben più mortale che per i suoi nemici posti al di là dell'Atlantico e protetti dall'oceano, è indubbiamente negli Stati Uniti che il pugno di ferro si fa sentire con maggior forza ed efficacia. Quel che è importante non è tanto la radicalità dello stato d'eccezione - alla vigilia dell'intervento, Wilson dichiara che la guerra avrebbe significato, anche all'interno del paese, la fine di ogni «tolleranza» e il ricorso a metodi «brutali e spietati» (Canfield, 1966, p. 97) - quanto il modo indolore con cui ad esso si perviene a partire da una normalità costituzionale che contiene già in nuce la figura del dittatore. Con l'intervento nel gigantesco conflitto, il presidente ame-
IL BATTESIMO DEL R E G I M E BONAPARTISTA
I
^
I
ricano assume poteri dittatoriali nell'ambito non solo dell'economia (Nouailhat, 1987, p. 141), ma anche della cultura e dell'informazione: sette giorni dopo la dichiarazione di guerra, Wilson crea un Comitato per la pubblica informazione che fornisce «alla stampa ogni settimana 22 000 colonne di notizie» trattenendo tutto ciò che viene considerato suscettibile di «servire al nemico» (Schlesinger sr., 1967, p. 414). Ed è un Comitato che nasce, al di fuori del Congresso, per iniziativa presidenziale e finanziato, almeno inizialmente, con fondi presidenziali (Manicas, 1989, p. 356). Alla irregimentazione non si sottrae neppure l'alta cultura: «La sezione accademica» di tale Comitato mobilita «le energie dei docenti universitari per produrre materiale propagandistico a favore della guerra», mentre le autorità incoraggiano «il formarsi di organizzazioni a sfondo patriottico col compito di controllare l'insegnamento della storia americana nelle scuole superiori e nelle università» (Carroll e Noble, 1991, p. 359). Come scriverà poi uno studioso delle tecniche di propaganda adottate nel corso della guerra, Harold Lasswell, l'obiettivo a cui mirano i paesi belligeranti, e che negli Stati Uniti viene conseguito con superiore efficacia, è quello di «fondere l'indocilità degli individui nella fornace della danza della guerra», di «fondere migliaia e anzi milioni di esseri umani in un massa amalgamata di odio, di volontà, di speranza», nonché di «bellicoso entusiasmo» (Straubing, 1989, p. 109). Dopo aver brillantemente superato il battesimo del fuoco della guerra, il bonapartismo soft si consolida ulteriormente con la grande crisi economica mondiale che fa da preludio ad un nuovo gigantesco conflitto. Nel suo discorso d'investitura, il 4 marzo 1933, Franklin Belano Roosevelt rivendica poteri straordinari così ampi «come se fossimo stati effettivamente invasi da un nemico straniero» (Commager, 1963, voi. 2, p. 242). E statisti e politici autorevoli invocano un «dittatore nazionale» e invitano il neopresidente a dar prova di tutta la sua energia: «Diventa un tiranno, un despota, un vero monarca. Durante la guerra mondiale noi prendemmo la nostra Costituzione, la mettemmo da parte finché la guerra non fu finita». Enormi sono le attese che si concentrano sul nuovo leader della nazione definito «una persona provvidenziale», ovvero, secondo le parole del cardinale O'Connel, «un uomo mandato da Dio». La gente della strada scrive e si rivolge a Roosevelt in termini ancora più enfa-
I
7
2
CAPITOLO QUINTO
tici, dichiarando di guardare a lui «quasi come guarda a Dio» e di sperare di poterlo un giorno collocare «nel Pantheon degli immortali, accanto a Gesù» (Schlesinger jr., 1959-65, voi. 2, pp. 3-15). E, invitato a comportarsi da dittatore e uomo della Provvidenza, Roosevelt fa larghissimo uso del suo potere esecutivo già nel primo giorno o nelle prime ore del suo mandato. Più tardi, la piattaforma repubblicana del 1936 affermerà: «I poteri del Congresso sono stati usurpati dal presidente» (Commager, 1963, voi. 2, p. 354). Il supremo magistrato del paese si viene sempre più configurando come un leader tanto più carismatico quanto più sa apparire come espressione della gente comune. Facendo sapiente uso delle nuove possibilità di comunicazione diretta offerta dalla radio, coi suoi fireside chats, i suoi discorsi accanto al caminetto, Roosevelt si rivolge direttamente alla nazione. Il messaggio è chiaro: quel che conta non è la «politica», bensì il «governo». I partiti, o meglio i due partiti propri del «nostro sistema americano», possono risultare utili nel «mostrare i problemi e spiegarli, nel suscitare interesse per le elezioni e, occasionalmente, nel rendere migliore la schiera dei candidati alle cariche pubbliche», ma la loro funzione essenziale è quella, in ultima analisi, di selezionare i «saggi leaders politici» che, proprio facendo appello al «grande pubblico» non interessato a sterili dispute politiche, hanno «il futuro nelle mani» (Roosevelt, 1 9 4 1 , pp. 27 sg.). Naturalmente, il tono benevolo e affabile non impedisce, in situazioni giudicate di emergenza, il ricorso alle misure più drastiche. A pochi mesi dall'intervento nel nuovo conflitto mondiale, che, ancora prima di Pearl Harbour, Roosevelt ha progressivamente preparato, un «ordine esecutivo» del «Presidente degli Stati Uniti e comandante in capo dell'esercito e della marina», autorizza le autorità militari a deportare 1 1 2 000 giapponesi (di cui i due terzi cittadini americani), in quanto sospetti o sospettabili di scarso lealismo (Commager, 1963, voi. 2, pp. 464 sg.). Il ricorso avanzato in questa circostanza alla Corte suprema viene respinto così come era stato respinto quello avanzato in occasione à^VCEspionage Act del 1918: la «salute pubblica» {public safety) di cui il presidente è l'interprete privilegiato e unico l'autorizzano anche a cancellare «diritti», sanciti sì costituzionalmente e che però non possono essere invocati durante lo stato d'eccezione (Commager, voi. 2, pp. 469 e 147). Non a
IL BATTESIMO DEL R E G I M E BONAPARTISTA
I
^
I
caso, nel suo discorso d'investitura, Roosevelt aveva celebrato la Costituzione americana, «il piìi superbamente durevole meccanismo politico che la storia moderna abbia creato», per la sua agilità e capacità di affrontare situazioni e «bisogni straordinari», superando nel corso della sua storia, «ogni tensione derivante da una vasta espansione del territorio, da guerre internazionali, da aspri conflitti interni, dalle relazioni mondiali» (Commager, 1963, voi. 2, p. 242).