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Italian Pages 228 [227] Year 2013
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Barry Miller
Dall'esistenza a Dio Una dimostrazione filosofica contemporanea
Carocci editore
Volume pubblicato con il contributo dell'Istituto di Studi Filosofici della Facoltà di Teologia di Lugano.
Traduzione dall'inglese di Ciro De Florio Titolo originale: From Existence to God. A Contemporary Philosophical Argument First published 1992. by Routledge ©1992. Barry Miller - Ali rights reserved
Authorised translation from the English language edition published by Routledge, a member of che Taylor & Francis Group la edizione italiana, novembre 2013 © copyright 2013 by Carocci editore S.p.A., Roma
Impaginazione e servizi editoriali: Pagina soc. coop., Bari Finito di stampare nel novembre 2013 dalla Litografia Varo (Pisa)
ISBN 978-88-430-6055-9 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,
è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.
Indice
Introduzione di Ciro De Florio
7
Prefazione
21
l.
La domanda centrale
23
2.
Struttura del senso e ontologia
35
La relazione parti/tutto nelle proposizioni atomiche II. La relazione parte/parte nelle proposizioni atomiche III. Proposizioni atomiche e ontologia IV. Conclusione I.
40
43 56 60
3.
L'inconcepibilità degli individui futuri
62
I.
Non ci si può riferire a Socrate prima che questi esista
65
II. Socrate era inconcepibile prima di esistere
71
IV.
La sfida dell'haecceitismo di Plantinga La sfida dell'universalismo v. Conclusione
73 82 84
4. L'esistenza è una proprietà reale
85
esiste" come predicato di primo livello II. Principale difetto nel rifiuto dell'interpretazione del primo livello III. L'esistenza è una proprietà reale IV. Conclusione
86 90 96
III.
I.
5.
"_ _
Perché l'esistenza? La penultima risposta
L'argomento II. Obiezioni III. Ulteriori conclusioni I.
98 100 101 108 n2
s
INDICE
6. Perché l'esistenza? L'ultima risposta
117
Condizioni per una serie causale che termina necessariamente II. Forma logica di una serie causale che termina necessariamente III. Serie causali e l'argomento della contingenza
119
I.
124 130
7.
La causa incausata
135
I.
Obiezioni alla nozione di una causa incausata Elaborazione sulla causa incausata
137
II.
135
8. Esistenza necessaria
157
I.
La nozione di esistenza necessaria La causa incausata esiste necessariamente? III. Conclusione
157
II.
166 169
9. Obiezioni all'argomento della contingenza
172
Commento a obiezioni particolari Conclusione
173
II. IO.
Fraintendimenti dell'argomento della contingenza
187
I.
Interpretazioni errate Il ruolo centrale del principio di non contraddizione III. Conclusione
I.
II.
185
188 190 192
Appendice al capitolo 2 Obiezioni alle istanze di predicati
193
Appendice al capitolo 3 Obiezioni all'impossibilità di riferirsi a individui futuri
197
Appendice al capitolo 4 I.
II.
Difetti nelle impostazioni alla Russell e alla Quine L'esistenza è irriducibile ad altre proprietà
w7
Riferimenti bibliografici
217
Postfazione. Un "tomistà' contemporaneo di Giovanni Ventimiglia
222
6
212
Introduzione* di Ciro De Florio
I
L'eterno problema dell'esistenza di Dio Nel suo intelligentissimo Guida galattica per gli autostoppisti, Douglas Adams offre una raffinata e divertente prova della non esistenza di Dio: nell'Universo c'è un essere vivente - un particolare pesce - dalle proprietà così straordinarie che è del tutto impossibile che sia frutto della casualità evolutiva. Questo comporterebbe una prova schiacciante dell'esistenza di Dio, perché la sua perfezione può essere solo il frutto di un'intelligenza creatrice, e con ciò annullerebbe la fede. Ma senza fede, non c'è Dio. Quindi non c'è Dio. Quello che Adamsha scritto nel suo romanzo come divertissment coglie però una verità profonda: quale spazio per una prova dell' esistenza di Dio? Verrebbe da dire, quale spazio oggi per un oggetto filosofico così ingombrante? In effetti, il panorama contemporaneo esibisce un atteggiamento ostile, almeno per quanto riguarda la filosofia recepita dal grande pubblico. Da un lato, la questione di Dio sembra essere messa tra parentesi perché appartenente a quell'onto-teo-logia che molti pensatori, capofila Martin Heidegger, hanno aspramente criticato; dall'altro, se l'ultima parola sul mondo è fornita dal dettato delle scienze naturali, c'è ben poca speranza che un concetto come quello di "Dio" possa farsi strada nei vari cataloghi del mondo. Abbiamo appena fotografato, a grana estremamente grossa, i due fondamentali atteggiamenti teorici che si possono riscontrare nella comunità filosofica e che rispondono, anche qui con una certa approssimazione, a una sensibilità "continentale" contrapposta a quella "analiticà'. Insomma, sembra che, alla fine, l'unica strada verso Dio sia la fede, magari filosofica• Vorrei ringraziare Giovanni Ventimiglia per avermi affidato la traduzione di questo saggio e averla accolta nella serie di studi da lui diretta; Sergio Galvan per averla letta e commentata integralmente; Serena Sevasta per i suoi preziosi suggerimenti.
7
DALL'ESISTENZA A DIO
mente analizzata nelle sue componenti antropologiche ma senza mai prendere in esame il suo oggetto proprio, e cioè Dio. La radice comune di un così diffuso scetticismo nei confronti di Dio (filosoficamente inteso, sia chiaro) sta, a nostro avviso, nella convinzione condivisa che tutta limpresa metafisica, intesa come la possibilità di trascendere razionalmente lesperienza sensibile, sia destinata al fallimento. Giudizio durissimo che muove autorevolmente da Kant - e non è un caso che Kant, insieme a Hume, siano i critici più feroci delle tradizionali prove dell'esistenza di Dio - e che si trova inverato dalle filosofie post-moderne e dalle ontologie naturalizzate. In entrambi i casi, cade proprio quel presupposto concettuale, ovvero il quadro di riferimento, in cui iscrivere la dimostrazione dell'esistenza di Dio. In realtà le cose non stanno davvero così. Come abbiamo detto, la nostra fotografia a grana grossa trascura alcuni dettagli che ribaltano anzi il giudizio espresso nelle righe precedenti. Se è vero che la metafisica è condizione necessaria per il discorso filosofico su Dio, è altrettanto vero che non ogni metafisica si inquadra nello schema del naturalismo ontologico; ed è proprio in questo campo che, da circa cinquant'anni, è presente una viva discussione su quelle tematiche che, classicamente, rubricheremmo sotto la voce "teologia razionale". Non si tratta di uno sparuto gruppo di studiosi; nel 2006 Andy F. Sanders e Kristof de Ridder hanno raccolto una bibliografia1 completa di lavori nel campo della filosofia della religione: si tratta di poco meno di ottomila titoli che spaziano dal concetto di Dio all'analisi logica delle dimostrazioni della Sua esistenza, dall'esperienza religiosa all'epistemologia della religione, dall'affidabilità dei miracoli al rapporto tra dottrina della Creazione e moderna cosmologia, solo per citare alcuni dei temi trattati. Siamo allora in presenza di una porzione significativa della filosofia contemporanea, portata avanti da centinaia di esperti, in tutti i continenti. E non si tratta di un dibattito solo tra filosofi credenti o, in particolare, cristiani. Basterebbe ricordare su tutti il mirabile The Miracle of Theism 2 in cui
I. A. F. Sanders, K. de Ridder, Fifty Years ofPhilosophy ofReligion: A Select Bibliography (z955-2005), Koninklijke Brill NV, Leiden 2.007. In lingua italiana rimandiamo poi al volume di M. Micheletti, La teologia razionale nella filosofia analitica, Carocci, Roma 2.010, che è anche il primo volume della collana in cui appare questo lavoro. 2..J. Mackie, The Miracle ofTheism: Argumentsfor and against the Existence ofGod, Clarendon Press, Oxford 1982..
8
INTRODUZIONE
John Mackie mette in discussione, da prospettiva radicalmente atea, le principali tesi teiste. Davanti a tanta diversità è però possibile rintracciare almeno due elementi comuni presenti nel dibattito attuale in fìlosofìa della religione: il primo riguarda il metodo, il secondo il contenuto. Dal punto di vista metodologico, ogni tesi deve essere suffragata da un argomento convincente: ciò che fonda le nostre tesi sono argomenti razionali, ovvero il più possibile obiettivi, rigorosi e coerenti. Questa attenzione al processo argomentativo ha valso a questa fìlosofìa della religione la qualifìca di "analitica". Non è la sede per entrare in una discussione circa la correttezza e l'utilità di questo aggettivo: ci riserviamo di approfondire un poco la questione chiarendo alcuni equivoci che potrebbero sorgere al riguardo a breve. Dal punto di vista contenutistico, invece, questi autori ritengono, più o meno esplicitamente, che i problemi cruciali del pensiero fìlosofico non invecchino, non passino di moda. Cioè, che in fìlosofìa non vi siano questioni passate "in giudicato': per usare una felice espressione di Sofia Vanni Rovighi. Gli interrogativi fondamentali del pensiero si ripresentano in forme diverse agli uomini di ogni tempo e ricevono trattazioni differenti; così, il problema dell'esistenza di Dio, o, più in particolare, I' argomento ontologico, saranno analizzati oggi in maniera radicalmente diversa da quanto fece Anselmo, ma non per questo presenteranno per coloro che si cimentano sfìde meno interessanti e impegnative.
2
Dimostrare l'esistenza Prima di fornire qualche dettaglio sulle tematiche discusse nel seguito, è bene spendere qualche parola sul concetto stesso alla base dei vari tentativi di dimostrare I'esistenza di Dio. Ciò, oltre a chiarire preliminarmente I' ambito nel quale ci muoviamo, sarà molto utile per dissipare alcuni dubbi circa l'impiego di "tecniche" filosofìche nuove nella discussione di problemi "vecchi': Innanzitutto, in una dimostrazione dell'esistenza di Dio possiamo isolare tre componenti interessanti: le premesse da cui partiamo, il meccanismo logico con cui raggiungiamo la conclusione e un ultimo passaggio in cui identifichiamo I'ente di cui abbiamo dimostrato I'esistenza con Dio. Inutile dire che tutte e tre le componenti presentano criticità. Facciamo qualche esempio: ipotizziamo, per amor di discussione, di sviluppare la seguente dimostrazione dell'esistenza di Dio. 9
DALL'ESISTENZA A DIO
i) Tutti gli esseri spirituali esistono;
ii) Dio è un essere spirituale; quindi
iii) Dio esiste. La dimostrazione è valida, ovvero se le premesse sono vere allora seguirà anche la verità della conclusione. Tuttavia, è totalmente implausibile; infatti, se la (ii) può essere accettata, lo stesso non vale affatto per la (i) che pare semplicemente falsa. Il primo e principale problema circa le prove dell' esistenza di Dio riguarda proprio la verità o perlomeno la plausibilità razionale delle premesse. Come si può vedere dall'ampia letteratura in merito e come si potrà toccare con mano affrontando le pagine che seguono, quasi tutta la discussione sull'esistenza di Dio è concentrata sulla difesa (o sulla critica) delle premesse di carattere metafisico impiegate nel ragionamento. In realtà, ed è importante tenerlo presente, questo è un tratto comune a ogni forma di sapere dimostrativo: non si ottiene nulla da nulla. Anche nelle dimostrazioni matematiche, per ceiti versi paradigmi della conoscenza dimostrata in maniera oggettiva e sicura, è necessario accettare la verità degli assiomi per fondare la verità dei teoremi. La differenza tra un argomento matematico e uno di carattere metafisico sta, se mai, nel differente "peso epistemico" che hanno gli assiomi: se è, tutto sommato, non così problematico considerare gli assiomi dell'aritmetica veri e dimostrare così la verità dei teoremi, quadri metafisici ricchi e complessi come quelli impiegati per la dimostrazione dell'esistenza di Dio richiedono un impegno maggiore. Ma non sono solamente le premesse a costituire problema nella dimostrazione dell'esistenza di Dio; anche il meccanismo argomentativo impiegato, ovvero la logica, può essere oggetto di dibattito. Qui le opzioni si riducono e proprio questo aspetto testimonia inequivocabilmente un oggettivo "passo in avanti" compiuto dalla teologia razionale del xx secolo. Una delle conquiste del secolo precedente è stata la formulazione e rigorizzazione di uno strumento di straordinaria potenza e plasticità: il calcolo dei predicati del primo ordine. Questo linguaggio logico, di gran lunga più espressivo del linguaggio sillogistico, permette una formalizzazione rigorosa di quasi tutte le argomentazioni impiegate nelle classiche dimostrazioni di esistenza. Le IO
INTRODUZIONE
cose cambiano leggermente qualora si opti per un tipo di argomentazione probabilistica ove, cioè, la verità delle premesse non determini la verità della conclusione ma ne aumenti solamente la probabilità. Un aspetto più problematico, e quindi discusso, è legato all'impiego di estensioni, e cioè a potenziamenti, della logica del primo ordine; in particolare, ai sistemi modali e ai linguaggi di ordine superiore. Se è vero che l'utilizzo della logica modale, trattando concetti come quelli di necessario, possibile, contingente, permette inferenze sicuramente più interessanti dal punto di vista metafisico, è altrettanto vero che i suoi stessi principi risultano più ricchi di contenuto e quindi bisognosi di una giustificazione a parte. Questo fenomeno è presente, ad esempio, nella discussione circa lammissibilità di un sistema modale molto forte3 nella formalizzazione delle prove dell'esistenza di Dio. Infine, anche l'ultimo stadio, ovvero la procedura di identificazione di Dio con ciò che abbiamo dimostrato non è scevra da critiche. Si tratta però di notazioni più generali che sono mosse non tanto a questa o quella particolare dimostrazione quanto, piuttosto, all'idea stessa di dimostrare l'esistenza di un ente sommo. In altre parole, da più parti si nega l'efficacia filosofica (e forse anche teologica) dei tentativi di dimostrare lesistenza di Dio, perché si afferma che, quand'anche fosse a disposizione una prova sicura, o almeno ragionevolmente sicura, questa porterebbe ad affermare l'esistenza di qualcosa che non ha nulla a che vedere con Dio colto secondo limpostazione tipica della teologia o anche solamente del credente. La discussione critica dei tre aspetti messi in luce riguarda le condizioni stesse di possibilità di una dimostrazione in metafisica e, segnatamente, di una dimostrazione dell'esistenza di un essere supremo. E questo è, in un certo senso, presupposto da un'opera come quella di Miller che ci accingiamo a presentare. Ciononostante, chiarire questi punti non è solo un'utile operazione metodologica preliminare ma costituisce un'importante strategia di legittimazione - qualora ve ne fosse bisogno - dell'impiego della logica formale e dell'analisi linguistica nelle discussioni metafisiche. Proprio quest'ultimo punto merita un'ultima parola. Di sicuro, la presenza di formalizzazioni rappresenta talvolta uno scoglio per alcuni lettori e non facilita una larga diffusione di questi lavori scientifici. Abbiamo già accennato alla potenza di 3. Il sistema in questione è chiamato, in letteratura, Ss e codifica, tra le altre, l'idea che le possibilità sono le stesse in ogni mondo possibile: se qualcosa è possibile, allora è necessario che sia possibile. Il
DALL'ESISTENZA A DIO
alcuni sistemi di logica nel trattare concetti tipicamente metafisici quali quelli appartenenti alle modalità dell'essere (necessità, contingenza, possibilità); qui ci preme sottolineare solo un aspetto che talvolta genera equivoci: si sente dire che la logica ha solamente una funzione strumentale per il sapere metafisico veicolando con ciò lidea che, tutto sommato, si tratti di qualche cosa di accessorio, subalterno rispetto al cuore della conoscenza filosofica. Ciò non sembra vero per il semplice motivo che la logica simbolica è l'espressione (matematicamente rigorosa) dei nessi concettuali presenti tra le proposizioni di una qualunque porzione di sapere, anche quello metafisico. Poiché tali nessi non sono affatto strumentali ma, se mai, costitutivi dell'organizzazione stessa della conoscenza, la loro espressione formale e rigorosa non è un'utile artificio ma una naturale conseguenza. Un certo grado di arbitrarietà sta invece nella scelta del filosofo circa il modo di rappresentare matematicamente questi nessi concettuali: le logiche sono molte, nel senso che vi sono molte strade per catturare il nesso di conseguenza logica, alcune - come abbiamo accennato - estremamente potenti e quindi "rischiose': altre più salde ma meno informative. Concludendo questa prima sezione introduttiva ci sembra di poter affermare che la 'nuova' filosofia della religione (di stampo analitico) raccoglie e porta a maturazione molte sfide della teologia naturale; è un programma di ricerca ambizioso (forse, verrebbe da dire, il più ambizioso possibile) che è interessante non solo in sé ma anche come cornice concettuale condivisa perché confluiscano saperi differenti, dall'ontologia alla scienza, alla teologia propriamente detta. 3
La proposta di Miller Il testo di Miller che avete in mano è un contributo interessante a questo dibattito, come è reso evidente dalla Prefazione a questo volume. Miller poi sa coniugare come vedremo a breve una sensibilità classica, tomistica, con la conoscenza approfondita di molte tematiche di logica e di filosofia del linguaggio. Ha, infatti, riversato in questo lavoro anni di ricerche personali e secoli di tradizione filosofica metafisica, da Avicenna a Frege, giungendo a un risultato originale ed estremamente interessante; il tutto a prezzo di una complessità di temi e problemi non comune. Ci limiteremo, pertanto, a presen12
INTRODUZIONE
tare solo alcuni aspetti cruciali del suo argomento riservandoci di discuterli criticamente nel prossimo paragrafo. La trattazione pone subito a tema il punto di partenza di una prova dell'esistenza di Dio: i classici argomenti della contingenza assumono il darsi di un mondo e muovono, quindi, verso un ente necessario basandosi sull'insufficienza causale o esplicativa dell'universo. Detto altrimenti, il cosmo, inteso come lin tutto, non può bastare a se stesso (risulta cioè incausato o inspiegato) e quindi - poiché una causa o una spiegazione sono necessarie - ecco comparire !'"ipotesi" Dio. L'inciso in corsivo, è facile notarlo, non è accessorio: per Miller ogni argomento a posteriori per dimostrare l'esistenza di Dio fa uso di principi metafisici specifici quali il principio di ragion sufficiente o quello di causalità. Ora, perché l'impiego di questi principi metafisici risulta problematico agli occhi di Miller? Il motivo è semplice: quanto più una tesi è informativa, tanto più necessiterà di una giustificazione appropriata. Nel caso del principio di ragion sufficiente (o in quello di causalità) siamo in presenza di un assioma metafisico estremamente significativo ma, proprio per questo, difficile da giustificare. Ovviamente, il fatto che queste premesse siano così esigenti dal punto di vista epistemico non pregiudica la loro verita; tuttavia - ed è questo il punto di Miller - se si riesce a ottenere la medesima conclusione, l'esistenza di Dio per esempio, a partire da presupposizioni più facilmente fondabili, allora la dimostrazione sarà migliore, dal momento che richiede meno per ottenere lo stesso risultato. L'idea di Miller è fare uso di un principio molto meno problematico di quelli citati in precedenza: il principio di non contraddizione. «Al contrario, ci dovremo affidare a un principio le cui credenziali sono impeccabili - il principio di non contraddizione» (cfr. infra, p. 32). Ma dove rinvenire la contraddizione? Ebbene, anche in questo caso Miller decide di battere una strada del tutto nuova partendo da un dato ontologico tutto sommato indiscutibile: l'esistenza di individui concreti, come un orologio, una montagna o l'amatissimo cagnolino Fido. Gli ingredienti fondamentali sono riassunti così: « [C'è] una contraddizione nascosta nell'affermare simultaneamente che, per esempio, Fido esiste e Dio no» (cfr. infra, p. 21). Vediamo nel dettaglio questo passaggio. Che cosa vuol dire che Fido esiste? Secondo Miller, la struttura logica di "Fido esiste" è strutturalmente simile a quella di "Fido è nero": in entrambi i casi, una proprietà - o meglio un'istanza di una proprietà - viene predicata di un individuo. Le simpatie ontologiche di Miller vanno a Frege e alla sua proposta ontologica. Per FreI3
DALL'ESISTENZA A DIO
ge, le entità si suddividono in due grandi categorie: gli oggetti e i concetti4 • Poiché si tratta di una distinzione primitiva, non è possibile definire ulteriormente questi elementi di base. Sono però possibili delle descrizioni, o chiarificazioni concettuali. La metafora preferita da Frege - e ripresa da Miller - è che gli oggetti (gli individui) sono entità sature, ovvero non possono essere predicate di nulla, mentre i concetti (in cui possiamo far rientrare anche le proprietà e le relazioni) sono entità insature, incapaci di esistere indipendentemente. Tornando al nostro esempio, Fido, l'individuo, è l'entità satura mentre il colore nero è l'entità insatura; in maniera analoga, ragiona Miller, anche la proprietà di esistere è un'entità insatura che si predica di Fido. Ma questo passaggio è giustificato solo se ammettiamo che l'esistenza sia una proprietà, vero tabù metafisico dopo gli attacchi congiunti di Hume e Kant. TUttO il CAP. 4 (L'esistenza una proprieta reale) è dedicato a difendere la tesi; la strategia argomentativa però non è diretta: Miller non porta ragioni a favore dell'includere l'esistenza nelle proprietà. Il che è del tutto comprensibile: il predicato di esistenza si comporta anche grammaticalmente come tutti gli altri predicati e quindi, per parità di ragionamento, siamo portati a concludere che denoti una proprietà genuina. In realtà, la gran parte degli studiosi .oggi sostiene che l'esistenza non sia una proprietà di individui ma un predicato di secondo ordine: quando diciamo che, per esempio, gli elefanti esistono, diciamo che l'estensione del concetto "essere elefante" non è vuota. Il che significa che non viene detto nulla circa i singoli elefanti. Questa tesi, che viene detta di Frege-RussellQuine, serve, in particolare, a evitare i paradossi legati agli enunciati negativi di esistenza; la strategia di Miller è, per certi versi, speculare: è possibile sostenere coerentemente che l'esistenza sia una proprietà di individui concreti. Quello che bisogna negare è che la non-esistenza sia anch'essa una proprietà reale di individui; così facendo, secondo Miller, si evitano i paradossi legati agli enunciati negativi di esistenza senza, per questo, fare a meno dell'intuizione secondo cui l'esistenza è una proprietà di individui. Il problema di considerare o meno l'esistenza come una proprietà reale è cruciale in metafisica anche al di là dell'applicazione alla teologia razionale. A questo proposito è bene ricordare che Miller è allievo di Geach e Geach
e
4. Frege in realtà parla di oggetti e funzioni, specificando poi i concetti come particolari tipi di funzioni. Per i nostri scopi possiamo benissimo tralasciare questa distinzione.
I4
INTRODUZIONE
si rifà espressamente a Tommaso d'Aquino nel ritenere l'esistenza una proprietà di individui. Per Miller, l'esistenza di Fido ha due costituenti: Fido e la sua esistenza - il primo, come abbiamo detto, entità completa, la seconda incompleta. Ora, quale rapporto c'è tra Fido, la proprietà di esistere di Fido e il fatto che Fido esiste? Detto altrimenti, che rapporto c'è tra l'individuo, l'istanza di proprietà e lo stato di cose? Miller argomenta a questo punto che i costituenti di uno stato di cose sono ontologicamente prioritari rispetto allo stato di cose che originano. Pertanto, Fido e l'esistenza di Fido sono i punti di partenza per la costruzione concettuale del fatto che Fido esiste. Si noti, ed è un punto importante, che per "costruzione concettuale" Miller non intende un processo epistemico determinato, specifico, quanto piuttosto la possibilità stessa di fornire senso alle espressioni del nostro linguaggio. Avendo mostrato che il fatto che Fido esiste dipende ontologicamente da altre entità, segnatamente dall'individuo Fido e dall'istanza di esistenza, Miller rigetta la tesi del "fatto bruto". Secondo la celebre formulazione di Russell, il fatto che lUniverso esista è un esempio di fatto bruto, cioè di uno stato di cose contingente che non richiede però alcuna spiegazione del suo essere tale. Nella prospettiva russelliana i fatti bruti sono i "punti di cominciamento" della nostra ontologia e viene così bloccata, ab initio, ogni possibile trascendimento della dimensione empirica. Stabilito questo, Miller dichiara conseguentemente che Fido, in quanto individuo, è distinto dalla sua esistenza. Ora, la questione è: che cos'era Fido prima che venisse all'esistenza? O, in altre parole: era possibile riferirsi a Fido prima che venisse all'esistenza? Tutto il CAP. 3 è dedicato a difendere la tesi secondo cui nemmeno a Dio è possibile riferirsi a individui che non sono ancora esistiti. Una conseguenza di questo è che non vi sono proposizioni genuinamente singolari vere su Fido prima che questi sia esistito; ogni previsione che può essere formulata ha, in realtà, la forma logica di una proposizione universale. La ragione di questo è che, secondo Miller, una proposizione singolare vera su Fido dovrebbe contenere una costante individuale, in questo caso un nome proprio, che comporta l'esistenza dell'oggetto denotato. Ma Fido non esiste ancora e quindi non ci può essere nessun riferimento ad esso. Ovviamente, si possono concepire le cose in maniera differente. I referenti polemici di Miller sono quei pensatori che intendono, a diverso titolo, l'esistenza come una forma di attualizzazione di un individuo possibile: Plantinga con la sua teoria dell' haecceitas su tutti. Secondo questo approccio IS
DALL'ESISTENZA A DIO
è possibile riferirsi a Fido prima della sua esistenza perché l'entità cui facciamo riferimento è un individuo possibile, o un'essenza individuale non (ancora) attualizzata. Se la critica di Miller a questo modo di pensare funziona, ci troviamo nella situazione seguente: lesistenza di un fatto incontestabile quale I'esistenza di Fido dipende ontologicamente dall'esistenza dei suoi due costituenti, Fido e la sua esistenza. Ciò implica che lesistenza di Fido non può essere un fatto bruto. Ora, però, la costruzione concettuale dell'esistenza di Fido deve muovere dai suoi costituenti e qui abbiamo due scelte possibili: partire da Fido o dalla sua istanza di esistenza. Miller, fedele a Frege, dichiara che l'esistenza (di Fido), in quanto entità incompleta, non può essere il punto di partenza della costruzione concettuale. L'unica alternativa rimasta è allora partire da Fido che però non esiste "ancorà'. Anche questa strada è dunque bloccata dal momento che è impossibile, pure per Dio, riferirsi a Fido prima che questi inizi ad esistere. Miller ha raggiunto quindi una contraddizione a partire da un dato ontologico indubitabile, e cioè l'esistenza del suo cagnolino Fido. Pertanto, se la sua strategia argomentativa è corretta, la contraddizione non può essere reale ma solo apparente. Per la risposta bisogna attendere i CAPP; s e 6, dove si afferma che Fido dipende per la sua esistenza da qualcosa di esterno ad esso. Si affaccia qui il problema delle catene causali e del regresso all'infinito. Miller ingaggia un interessante corpo a corpo filosofico con Hume che, notoriamente, argomentò contro lidea di una serie causale che debba per forza terminare. L'idea di fondo dell'analisi di Miller è la seguente: l 'argomento di Hume vale solo per determinati tipi di serie causali dove l'antecedente nella serie spiega (o causa) completamente il conseguente; in questo caso la serie può procedere all'infinito senza tema di contraddizione. Ci sono però altri tipi di serie causali in cui l'antecedente spiega (o causa) il conseguente solo in quanto è causato esso stesso dal suo antecedente e così via. L'esempio di Miller è proprio quello dell'esistenza: un oggetto a è causato a esistere da un oggetto b nella misura in cui quell'oggetto b è a sua volta causato a esistere da un oggetto e nella misura in cui... e così via. Secondo Miller, questo tipo di serie causale non può non avere un termine, pena rifiutare che anche il punto di partenza, e cioè l'oggetto a, esista. Ma il I6
INTRODUZIONE
fatto che Fido esiste è proprio il nostro punto di partenza ed è indubitabile. Quindi, conclude Miller, deve esserci una causa m che è all'inizio della serie causale ma che non è a sua volta causata ad esistere da nient'altro. Poiché la causa è incausata ed è, ovviamente, esistente, segue che la sua struttura ontologica è differente da quella degli altri individui concreti: nel caso di Fido, Fido è distinto dalla sua esistenza, cioè dalla proprietà di esistere. Ma nel caso della causa incausata non vi è distinzione tra essenza ed esistenza. La causa incausata è il suo stesso esistere. Per questo motivo può dirsi "individuo" solo in senso analogico. Del resto, Poiché non è distinta dalla sua esistenza non può non esistere, ovvero esiste necessariamente. Infine Miller attacca la tesi secondo cui l'Universo stesso possa giocare il ruolo di causa incausata: l'Universo è un individuo e in quanto tale è distinto dalla sua esistenza a differenza della causa incausata.
4
Discussione critica Dall'esistenza a Dio è, parafrasando Darwin, un "unico, lungo, ragionamento" che parte da un esempio concreto e quotidiano per arrivare a una causa incausata, necessaria e sussistente. L'argomento funziona? Poiché è un ragionamento valido, tutto dipende dalla plausibilità delle ipotesi di partenza impiegate e, a questo proposito, ci sembra tuttavia utile sottolineare almeno tre punti critici della sua impresa. Il primo ha a che fare con il cuore dell'argomento stesso di Miller e cioè la contraddizione rinvenuta nell'analisi ontologica dell'esistenza di Fido. Innanzitutto è forse fuorviante l'impiego di Miller di termini quali "costruzione concettuale" o "riferimento a individui futuri"; benché, infatti, egli si impegni nell'affermare che si tratta di impossibilità di principio, strutturali, rimane un certo alone di dipendenza epistemica: il fatto che qualcosa sia, anche di principio, inconcepibile prima della sua esistenza, significa che questa cosa è un nulla? Ma se le cose stanno così, perché non dichiarare apertis verbis che Fido, prima di esistere, è niente? E, in secondo luogo, non è chiaro perché il processo di costruzione concettuale non possa essere in un certo senso logicamente simultaneò con il riferimento a Fido. Se le relazioni in gioco sono quelle di dipendenza ontologica, la dimensione temporale è esclusa da queste riflessioni. E su questo Miller sembra essere d'accordo. Ma I7
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se si tratta di una priorità logica, perché non dire che lo stato di cose "Fido esiste" dipende ontologicamente da Fido, in quanto individuo, anche se Fido senza la sua esistenza non si dà mai, essendo un puro nulla? In questo senso, si può salvare l'idea che sia impossibile riferirsi a Fido prima che questi inizi ad esistere senza però ammettere la contraddizione. Un'analogia potrebbe essere la seguente: l'essere colorato dipende ontologicamente dall'essere esteso; la proprietà dell'estensione spaziale è quindi ontologicamente prioritaria rispetto all'essere colorato. Tuttavia, non è concepibile un'estensione senza colore. In questo caso, non c'è alcuna contraddizione tra le due ipotesi di partenza e quindi il procedimento argomentativo di Miller non può partire. La seconda critica ha invece a che vedere con l'impiego del principio di non contraddizione. Miller impiega due pagine (cfr. infra, pp. 190-1) alla fine del libro per rivisitare rapidamente i luoghi in cui il principio viene applicato. Come ricorderemo, uno dei vantaggi della sua dimostrazione consiste nel rinunciare a usare principi metafisici più difficilmente giustificabili quali quello di causalità o di ragion sufficiente. In realtà, a ben vedere, le cose non stanno così. Miller non usa il principio di non contraddizione da solo. Se facesse così, otterrebbe ben poco: data una proposizione potrebbe derivare solo la negazione della sua negaziones. L'uso del principio serve a negare ipotesi contraddittorie, ovvero a formulare dimostrazioni per assurdo. Chiariamo il punto. Com'è noto, anche nella matematica o nella geometria elementare si sfrutta il metodo di dimostrazione per assurdo. Ipotizziamo di voler dimostrare una data tesi A. Neghiamo la tesi (-,A) e otteniamo, per esempio, una contraddizione (cioè B & 1B). Per il principio di non contraddizione, neghiamo l'ipotesi per assurdo e affermiamo A 6• Ora, è sufficiente l'impiego del principio di non contraddizione per ottenere la conclusione desiderata? No. È necessario il principio in aggiunta a tutti gli assiomi tramite i quali dalla negazione della tesi otteniamo la contraddizione. Da nulla non si dimostra nulla. Tornando a Miller, quindi, la contraddi5. Nemmeno questo è del tutto vero: l'inferenza da p a •-,P richiede risorse logiche leggermente eccedenti il principio di non contraddizione. Ma questo non fa che avvalorare ulteriormente la critica. 6. Anche in questo caso, la ricerca logica ha mostrato come la dimostrazione per assurdo esiga principi logici più potenti rispetto al principio di non contraddizione. Ciò è testimoniato dal fatto che per i logici intuizionisti non è ammissibile la procedura di dimostrazione per assurdo ma è salvaguardata la validità del principio di non contraddizione. In ogni caso ciò non tange in alcun modo la forza della critica.
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INTRODUZIONE
zione è tra il fatto che Fido esiste, e il fatto che sia impossibile riferirsi a lui prima della sua esistenza. Se è una contraddizione allora il principio potrà negarla. Ma per dimostrare che è una contraddizione Miller fa largo uso di principi metafisici che nulla hanno a che vedere con la sobrietà del principio di non contraddizione: deve ammettere come valida l'analisi ontologica fregeana, difendere la tesi secondo cui l'esistenza è una proprietà, affermare la distinzione di uno stato di cose in componenti e costituenti, e così via. Da questo punto di vista, non c'è nessuna differenza tra la strategia di Miller e quella di Tommaso o Leibniz che fanno rispettivamente uso di forme di principi di causalità e ragion sufficiente: in entrambi i casi si può giungere a una contraddizione e quindi, in base al principium firmissimum, affermare la tesi. Ma questo è solo l'ultimo passaggio, puramente logico, di un'argomentazione che si svolge grazie a principi di natura metafisica differente. Ciò di per sé non mina l'eventuale correttezza della proposta di Miller, né tantomeno quella di Tommaso o Leibniz; semplicemente annulla la presunta superiorità dell'argomento in questione basato solo sul principio di non contraddizione giacché appunto non si basa solo su di esso. Infine, una serie di considerazioni più generali che hanno a che vedere con la struttura stessa dell'argomento di Miller. Prendiamo proprio il cuore della sua proposta metafisica: la distinzione tra essenza ed esistenza e la conseguente affermazione che Fido è distinto dalla sua esistenza. In base a questo, rimane il problema di capire che cosa sia Fido prima di esistere. E di qui tutto il percorso che conduce alla contraddizione. Ma ovviamente qualche filosofo potrebbe partire proprio dalle premesse di Miller e concludere in maniera totalmente opposta: proprio dalle difficoltà che scaturiscono nel considerare l'esistenza una proprietà legittima, argomentiamo che l'esistenza non è affatto una proprietà. Qualcuno ha affermato che il modus ponens di un pensatore è il modus tollens di un altro. Quello che bisognerebbe fare è proprio cercare di avvalorare le nostre scelte in confronto ad altre che conducono a conclusioni opposte. In che senso è preferibile la strada di Miller, di fronte alle difficoltà generate dalla sua intuizione metafisica? A questo proposito, Miller sottolinea che l'analisi fregeana dell'esistenza di Fido è solo una delle possibili, legittime, analisi ontologiche: l'approccio fregeano conduce a contraddizione e ciò innesca l'argomento. Ma cosa accadrebbe se utilizzassimo un altro approccio e se non giungessimo a una contraddizione? In teoria, Miller non dovrebbe essere spaventato da questo, altrimenti risulterebbe ingiustificata l'ammissione di più analisi legittime. In un passaggio afferma:: «Il nocI9
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cio lo della questione è che un'analisi corretta non può generare un paradosso insolubile» (cfr. infra, p. 10 2). Ora il problema è che potrebbe esserci un'altra analisi, ugualmente legittima, che non comporta contraddizione: potremmo, ad esempio, assumere un'ontologia naturalista e dire, con Quine, che Fido non è altro che la somma mereologica delle sue particelle elementari disposte nello spazio-tempo. In questo senso, non vi è alcuna contraddizione perché si nega, tra le altre cose, il fatto che l'esistenza di Fido sia una qualità reale di Fido. Che fare? Se Miller vuole mantenere la pluralità di analisi ha di fatto un'unica alternativa: può affermare che è almeno possibile una via a Dio, nella misura in cui si assume il suo approccio e si segue la strada della contraddizione. Ovvero, egli dimostra che non tutte le analisi legittime conducono a una visione per cui l'esistenza di Fido è un fatto bruto. Ce n'è almeno una, la sua, che porta a contraddizione e che necessita di un fondamento esterno per l'esistenza di un individuo concreto. Naturalmente, si potrebbe argomentare in maniera completamente speculare: proprio perché l' indagine fregeana (unita ad altre tesi metafisiche quali considerare l'esistenza una proprietà) conduce a contraddizione, sono preferibili altre strade che, non comportando l'assurdo, non permettono però di intraprendere la via di Miller a Dio. Detto in altri termini: se la cornice metafisica di Mill!!r, partendo da un dato quale l'esistenza di Fido, rinviene una contraddizione, perché non abbandonare proprio quella cornice metafisica e abbracciarne un'altra? Al di là di questi rilievi critici il testo di Miller rimane un lavoro molto interessante per la ricerca in metafisica e in filosofia della religione. Oltre a indubbi meriti di carattere teorico (tra cui l'ampiezza delle tematiche discusse, l'intelligenza di molte proposte argomentative e la novità di alcune soluzioni), un altro aspetto è degno di nota: la spregiudicata e coraggiosa ricerca di una verità tanto impegnativa. Nel dibattito filosofico contemporaneo, anche nei suoi esempi migliori, si lamenta talvolta un'eccessiva specializzazione degli studi che non permette di cogliere l'ampiezza sistematica del sapere filosofico. Del resto, la complessità degli argomenti rende quasi naturale la frammentazione dei saperi, a scapito di uno sguardo unitario sul mondo. Ebbene, se la particolarizzazione è tipica dell'era contemporanea mentre la sistematicità era la marca dei grandi sistemi metafisici del passato, si può tranquillamente dire che il libro di Miller è un'opera filosofica nuova: sa compendiare, infatti, una discussione minuziosa di tematiche filosofiche anche molto tecniche, senza perdere di vista, però, la risposta al quesito più importante di tutti, la domanda su Dio. 20
Prefazione
Per quanto possano essere su fronti diametralmente opposti, gli atei e molti credenti condividono almeno un'opinione circa Dio: nessuno crede che si possa dimostrarne l'esistenza. Segnatamente, l'esistenza di Dio non può essere dimostrata da alcun argomento che presenti come premessa iniziale l'esistenza di qualche parte dell'Universo, ovvero dall'argomento della contingenza. La ragione, come si ricorderà, è che l'argomento potrebbe funzionare solo se fosse «incoerente asserire che un universo fisico complesso esiste e Dio no. Deve esserci una contraddizione nascosta in queste asserzioni» (Swinburne, 1979, p. n9 ). Siamo, tuttavia, del tutto sicuri che non c'è affatto una simile contraddizione: «l'ateismo appare un'ipotesi consistente con l'esistenza di un universo fisico complesso, come il nostro» (ivi, p. 12.o). Inoltre, come molti autori teisti e atei non si stancano di ripetere, gli argomenti per l'esistenza di Dio sono stati confutati dalle critiche di Hume e Kant e dai loro seguaci contemporanei; e non c'è ragione per credere che l'argomento della contingenza sia una sorta di Lazzaro filosofico. Questo è, grossomodo, lo stato della questione; ma è anche ciò che questo libro considera fondamentalmente sbagliato. Al contrario, credo che in realtà ci sia una contraddizione nascosta nel dichiarare, per esempio, che Fido esiste e Dio no. Infatti, se non ammettessimo l'esistenza di Dio, ci sarebbe una contraddizione implicita in uno solo dei congiunti, ovvero nell'affermazione - apparentemente pacifica - che Fido esiste. Proprio per questa semplice ragione, la domanda "Come è mai possibile che Fido esista?" non può essere ignorata: è logicamente inevitabile. Se ho ragione, quindi, l'argomento della contingenza trae forza non dai principi di ragione sufficiente o di intellegibilità, accettati da molti in virtù della dannosa influenza di Leibniz e Clarke, ma dalla necessità di armonizzare la verità dell'esistenza di Fido con la verità complementare che la sua esistenza non può - logicamente - essere un fatto bruto. Né si è costretti a 2.I
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cadere nella fallacia della composizione mostrando che ciò che è vero dell 'esistenza di Fido debba essere vero anche dell'esistenza dell'Universo. L'argomento che muove inizialmente dall'impossibilità dell'esistenza di Fido o dell'Universo come fatto bruto dovrà condurre alla fine all'esistenza del Dio del classico teismo filosofico. E, come mostrerò piuttosto dettagliatamente, si tratta di un argomento contro il quale le critiche mosse da Hume e Kant si rivelano inefficaci. Sia l'esposizione dell'apparente contraddizione sia la dimostrazione della conclusione richiedono un notevole apparato di metafisica e logica filosofica, la maggior parte del quale è sviluppato nei CAPP. 2-4 e utilizzato nella dimostrazione che occupa i CAPP. 5-7. Dal momento che questo volume ha visto numerose revisioni durante gli anni, i miei debiti di riconoscenza sono troppo numerosi per essere elencati in maniera completa. Devo, però, ricordare coloro che hanno letto il lavoro interamente o in parte. Sono particolarmente grato a Cristopher Williams e Peter Forrest che hanno letto il manoscritto in toto, il primo una delle prime versioni, il secondo la penultima. A costoro sono felice di aggiungere Justin Gosling, Toomas Karmo, Alvin Plantinga, James Ross e Richard Swinburne i quali sono stati prodighi dei loro commenti su molte stesure di singoli capitoli. B.M.
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La domanda centrale
Questo lavoro si occupa apertamente dell'esistenza di Dio; tuttavia la domanda fondamentale che affronteremo non è "Dio esiste?" ma piuttosto "Come è possibile che l'Universo esista?". Si tratta di una strategia, apparentemente bizzarra, messa a punto per evitare di impantanarsi in una discussione interminabile circa il significato di "Dio": è il Dio concepito dai cristiani, dagli ebrei, dai mussulmani, dagli indù o da altri gruppi religiosi? Ci evita, inoltre, l'immane compito di prendere in esame l'intera gamma di argomenti per I'esistenza di Dio -1' argomento ontologico, I' argomento cosmologico, quello teleologico, l'argomento morale, l'argomento a partire dall'esperienza religiosa - tutti, tra l'altro, presentati in numerose varianti. Un vantaggio della nostra impostazione è quindi escludere tutti gli argomenti teistici tranne il solo connesso all'esistenza dell'Universo, cioè, I' argomento della contingenza. Ma c'è un ulteriore punto a favore: se la nozione di Dio fosse introdotta all'inizio, immediatamente sorgerebbero le numerose e ben note obiezioni contro la possibilità stessa di dimostrarne I'esistenza tramite un qualunque argomento; e una discussione appropriata di ciascuna di esse avrebbe richiesto tempo. Ma, visto che la nozione di Dio sarà introdotta solo verso la fine di questo lavoro, le discussioni delle obiezioni saranno posticipate di conseguenza e le premesse di carattere logico e metafisico potranno iniziare senza indugio. Ciò significa, tra I'altro, che nel momento in cui discuteremo le obiezioni, questo non avverrà di punto in bianco, né, tantomeno, in relazione a qualche forma molto generale di argomento della contingenza, ma rispetto a quella particolare versione che avremo, per quel momento, già presentato con un certo dettaglio. A scanso di altri equivoci, la questione circa I' Universo dovrebbe innanzitutto essere distinta da un problema simile, col quale è spesso confusa, e cioè "Perché esiste qualcosa?". Si tratta di un interrogativo che è stato, rispet-
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tivamente, considerato una non-domanda o una domanda assurda; infatti «non c'è niente che possa fornire una risposta[ ... ] non perché nulla lo fa, ma perché nulla potrebbe» (Penelhum, 1960, p. 182). Molti autorevoli protagonisti della storia della fìlosofìa sarebbero senza dubbio sorpresi da un' analisi così radicale, visto che hanno considerato questa domanda piuttosto seriamente: Leibniz, addirittura, le riservò un posto d'onore nel suo sistema di metafisica. In effetti, dopo aver esposto il principio di ragion sufficiente, egli nota immediatamente che «la prima domanda che dovremo porci sarà: Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?» (Leibniz, 1945, pp. 414-5). Anche se probabilmente Leibniz fu il primo a utilizzare questa formulazione precisa, non fu di sicuro il primo, e nemmeno l'ultimo, a porre una simile domanda. Nel xx secolo, la questione è stata oggetto di un nuovo interesse, parzialmente a causa della sua associazione (peraltro errata) con il nome di Heidegger. Di certo, la conclusione del suo iMis ist Metaphysik? presenta la questione fondamentale della metafisica come «Perché ci sono enti e non non-enti? » ( «Warum ist i.iberhaupt Seiendes und nicht vielmehr Nichts?» ). E, poiché la questione ricompare sia nel suo Einfohrung in die Metaphysik sia in Vom U1ésen des Grundes, si può lecitamente pensare di aver trovato un'eco leibniziana nel suo pensiero. Tuttavia, per quanto naturale possa essere considerare "Non essere" sinonimo di "Niente': Heidegger stesso distingue costantemente "Nichts" (cioè, Non essere) da "nichts" (nulla): il primo è inteso non come nihil absolutum ma come qualcosa. Di qui, la conclusione di un commentatore secondo cui «sembra assolutamente evidente che la questione per Heidegger deve avere un senso completamente differente da quello di Leibniz» (Richardson, 1963, p. 203). L'interesse contemporaneo per la questione di Leibniz non è stato causato solamente da un equivoco circa la fìlosofìa di Heidegger. Per un po', anche Wittgenstein ne fu affascinato; e, come Malcolm racconta, talvolta egli provava una sorta di esperienza che può essere così descritta: «Quando provo questo mi meraviglio dell'esistenza del mondo. E allora sono portato a usare espressioni come: "È straordinario che qualcosa debba esistere!"» (Malcolm, 1958, p. 70). Anche Smart confessò un'esperienza simile, notando che la sua mente sembrava «essere sopraffatta dal significato immenso» della domanda "Perché esiste qualcosa piuttosto che niente?" - nonostante la logica gli abbia insegnato «a guardare con il massimo sospetto domande come questa» (Smart, 1955, p. 46). La logica, del resto, non riuscì a dissua-
I. LA DOMANDA CENTRALE
dere Matson che, anche dopo aver rifiutato nettamente l'argomento di Leibniz, si sentiva, ciononostante, costretto a chiedere: «Certo ... ma perché c'è qualcosa piuttosto che niente?» (Matson, 1965 p. 86) 1• Tymieniecka dichiarò che «ogni serio percorso di ricerca in metafisica ha alla fine a che fare, implicitamente o esplicitamente, con la domanda: "Perché c'è qualcosa piuttosto che niente?"» (Tymieniecka, 1966, p. 1). Munitz si esprime su un registro simile: «per coloro che sono attratti dal mistero dell'esistenza[ ... ] la questione fondamentale è perché debba esistere un mondo» (Munitz, 1974, p. 4). Quale che sia il fascino che scaturisce da questi temi, li cito solo per evitare che ci inducano in errore nella discussione che affrontiamo in questo libro. Anche se la domanda in questione risulta adesso sufficientemente chiara, non abbiamo alcuna assicurazione che sia meritevole di una risposta. Di certo, il semplice porre una domanda non garantisce, di per sé, che questa necessiti di una risposta. Per esempio, potremmo essere piuttosto sorpresi da una domanda come "Perché cresce dell'erba nel tuo giardino sul retro?" dal momento che non avevamo mai considerato strano un fatto così scontato. E quindi la nostra risposta potrebbe essere "Perché mai me lo stai chiedendo?". E repliche come "Perché mi è appena venuto in mente" o "Perché sentivo semplicemente il bisogno di chiedertelo" non farebbero altro che confermare i nostri sospetti circa il fatto che la domanda non ha alcuna risposta. Se, al contrario, venissimo a conoscenza che tutti gli altri giardini nella zona fossero stati da poco trattati con un erbicida, avremmo buone ragioni per pensare che sia necessaria una qualche spiegazione anche se ci trovassimo impossibilitati a offrirne alcuna. Se applichiamo queste riflessioni alla domanda "Come è possibile che l'Universo esista?': notiamo che la semplice formulazione di essa non comporta, da sola, la necessità di una spiegazione. In assenza di una dimostrazione che l'esistenza dell'Universo richieda una spiegazione, non c'è alcuna obiezione alla risposta per cui «Nessuna spiegazione è necessaria. Semplicemente, esiste e questo è quanto. Si tratta di un fatto bruto - un fatto che deve essere accettato senza spiegazione». O, come disse Russell nel suo confronto con Copleston, «Direi che l'Universo c'è semplicemente e questo è tutto [... ] Credo che la nozione di spiegazione del mondo sia errata. Non
1.
Corsivi e punti di sospensione sono nell'originale.
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vedo perché ci si debba aspettare che ne abbia una» (Russell, Copleston, 1965, pp. 175-7 ). Ci sono state varie ragioni per porre questa domanda. Alcuni hanno agito non per motivi razionali e nemmeno per sentimenti di meraviglia o timore. Mi riferisco a H. D. Lewis, Trethowan, Pontifex, Jolivet e Mascall (almeno nel suo Words and lmages) per i quali la questione è posta e risolta in ciò che Lewis chiama l' insight che si ha guardando «ciò che sta fino a suddividersi in finito e infinito. È questo salto del pensiero in cui finito e infinito sono ugualmente presenti e che non può essere suddiviso in passi che possiamo negoziare uno per uno, che ci conduce al mistero ultimo» (Lewis, 1959, p. 43). Più recentemente, anche John Shepherd ha fatto ricorso al resoconto di un'esperienza per mostrare che la domanda sul perché l'Universo dovrebbe esistere non può essere liquidata con un "Perché no?". A differenza di Lewis, tuttavia, l'esperienza non è considerata la sorgente di una qualche apprensione dell'esistenza di Dio ma semplicemente come punto di partenza per un argomento - a dire il vero inconcludente - per la sua esistenza. L'esperienza in questione è «una consapevolezza della fragilità ontologica dell'esistenza del cosmo» (Shepherd, 1975). Ma proprio qui sta il p,unto debole delle posizioni diLewis e Shepherd: sono precisamente l' insight di Lewis o la consapevolezza della fragilità ontologica di Shepherd che l'agnostico metterebbe subito in dubbio. Egli cerca il pane degli argomenti razionali, ma costoro gli offrono ciò che per lui è la pietra dell'intuizione. Nel lamentare che l' insight del quale parla è tristemente mal rappresentato quando viene suddiviso in una serie di passaggi logici, Lewis sta senza dubbio pensando ad argomenti come la Terza Via di Tommaso e le versioni precedenti che si trovano in Avicenna e Maimonidei.. Egli potrebbe avere in mente anche autori contemporanei come Étienne Gilson,Jacques Maritain, Richard Taylor, Bruce Reichenbach e Joseph Owens, i quali tentano di rispondere alla questione partendo da una base razionale e non solamente intuitiva. La prima ragione offerta da Taylor (1963) e Reichenbach (1972) è precisamente quella di Leibniz - il principio di ragione sufficiente -, una strategia da considerare con attenzione senza, per questo, doverlo seguire. Sono tuttavia numerosi i pensatori, sia teisti sia atei, che considerano il 2.. Étienne Gilson (1957) fa risalire I' argomento di Tommaso alla Guida per i perplessi di Maimonide e a sua volta alla Metafisica di Avicenna.
J. LA DOMANDA CENTRALE
ricorso all'argomentazione razionale certamente preferibile ma non più fruttuoso del richiamo all'intuizione. Hepburn, Hick, Flew, Crombie, Penelhum, Scriven, Mackie e altri forniscono una serie di ragioni per liquidare la domanda "Come è possibile che esista l'Universo?" come o ingiustificata o impropria e quindi non meritevole di alcuna risposta. Ma cosa significa dire che è ingiustificata o che è impropria? MANCATA GIUSTIFICAZIONE DELLA DOMANDA
Considerare la domanda come ingiustificata significa dire che, quand'anche avesse un qualche significato, non vi sono basi razionali per porla. Fino a che tali basi non vengono esibite, si può semplicemente rispondere: "perché no?". Un tentativo di fornire una ragione fa leva sull'evidente caducità di molte delle cose che ci circondano: gli esseri viventi muoiono, e presto o tardi anche le cose inanimate sembrano degenerare. Poiché apparentemente ogni cosa finisce di esistere, ci si potrebbe aspettare che alla fine tutto cesserà. Perché allora ci dovrebbe essere qualcosa nell'Universo che è sopravvissuta fino ad ora? Una possibile risposta è che non sia trascorso un tempo sufficiente per la sua scomparsa. Ma questo potrebbe essere vero solo se l' assunzione di base fosse corretta. Tuttavia tale assunzione - cioè che alla fine non ci sarà più nulla - si basa su un fraintendimento su come le cose che ci circondano "cessino di essere': Queste non vengono infatti annichilite ma diventano qualcosa d'altro. Quando Giulio Cesare "cessò di essere': non lasciò alcun buco ontologico nell'Universo: egli diventò semplicemente qualcosa d'altro - un cadavere. La temporaneità di tutte le cose nel mondo potrebbe giustificare la nostra domanda sul perché alcune cose dovrebbero esistere al posto di altre, ma non perché l'Universo debba esistere al posto di niente. Se il cessare di esistere non può essere la base razionale che ci serve, non lo è nemmeno l'iniziare ad esistere. Anche se la proposizione "tutto ciò che inizia ad esistere deve avere una qualche causà' fosse un principio assolutamente non criticabile, questo ci consentirebbe di richiedere una spiegazione solo di quelle cose che sappiamo avere avuto un inizio. Ma poiché non possiamo assumere che l'Universo come un tutto abbia avuto un inizio, non abbiamo ragioni per chiedere perché esso debba esistere. I critici delle prove dell'esistenza di Dio sono abituati a sottolineare che non si dovrebbero cercare spiegazioni oltre l'Universo, e se questa fosse I' unica ragione per cercarne non avrebbero di certo torto.
DALL'ESISTENZA A DIO
Più in generale, la contro-risposta a "Perché no?" è consistita nell' affermazione che l'esistenza dell'Universo non può essere semplicemente un fatto bruto: deve essere intellegibile. Ma, in effetti, si tratta di un richiamo al principio di ragion sufficiente, il cui status è a sua volta controverso. Per almeno un secolo, fino a che Gilson (1952..) mostrò che il principio era assente in Tommaso, e Owens (1954-55) fece vedere ai suoi colleghi tomisti che le critiche ala Hume circa la sua presunta auto-evidenza erano corrette, i tomisti difesero il principio di ragion sufficiente dichiarando che la negazione di quest'ultimo avrebbe implicato la negazione del principio di non contraddizione. Solo in seguito, molti sono stati convinti dall'argomento di Owens che non si tratta di un principio ma di una conclusione. Tuttavia, una strategia di difesa più recente è stata quella di accettare il principio né come dimostrabile né come necessario ma di sottolineare la stranezza nell'affermare «che è contingente. Se si tentasse di dimostrarlo si giungerebbe, presto o tardi, a fare appello a considerazioni che sono meno plausibili del principio stesso. In effetti, è difficile vedere come si possa anche solo formulare un argomento senza di fatto assumerlo» (Taylor, 1963, p. 105) 3• Richard Taylor ha suggerito che potrebbe essere propriamente chiamato «una presupposizione della ragione stessa». La difficoltà con questa posizione è stata riconosciuta anche da coloro in accordo con l'impostazione di Taylor. Hick, che è pronto egli stesso a riconoscere il principio come «un fondamentale principio della razionalità», nondimeno nega che possa essere applicato a «quel fondamentale stato di cose che non è correlato a niente di più fondamentale, tramite il quale possa esso stesso essere reso intellegibile» (Hick, 1970, pp. 4 7-8 ). La ragione è semplicemente che «la somma di tutte le spiegazioni o la teoria finale non possono richiedere a loro volta una spiegazione» (Scriven, 1966, p. 12..4). Questo, secondo Flew, «non è un fatto contingente riguardante un tipo di sistema ma una verità logica circa tutte le spiegazioni dei fatti» (Flew, 1966, p. 83); il motivo è il seguente: spiegare qualcosa di sconosciuto significa metterlo in relazione con un contesto più ampio. Ora, se il contesto più ampio è esso stesso sconosciuto, può essere spiegato tramite il ricorso a un contesto
3. Una posizione simile considera il principio di ragion sufficiente un