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Le trecento ore a Nord di Qattara.01
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BELLEZZA … Una scheggia di mortaio mi ha colpito al viso e mi ha trasfigurato. Però sono rimasto ugualmente bello perché resta bello il viso del soldato. Mitragliere caposquadra BETTUZZI ANGIOLINO XXXVI battaglione
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PRESENTAZIONE C’è una grande panoplia scolpita in pietra all’ingresso della necropoli italiana di Quota 33 presso Alamein. Riunisce gli emblemi delle nostre forze armate, a coronamento di una lapide in ricordo delle molte migliaia di soldati, marinai e aviatori che “il deserto e il mare non restituiscono”. La scritta include, tacitamente, coloro che ebbero sorte ancor peggiore, perché furono restituiti senza nome. Questo simbolo sembra squillare nella gran solitudine. Così aveva echeggiato, durante la battaglia grande, il grido “Folgore”, unica risposta all’invito di resa. Contro lo stesso nemico, in uguale contingenza, il 18 giugno 1815 un generale della guardia napoleonica aveva urlato una parola più breve e meno eterea. Ai detrattori nostrani e foresti del nostro combattente vada, tra le due risposte, quella che più aderisce al loro spirito. Essi sono numerosi. Gli altri, che scrissero di noi in modo obiettivo e documentato, sono pochi. E tra i forestieri, forse una dozzina: Claus Silvestre, l’ammiraglio tedesco Weichold, il generale inglese Lucas Phillips, e anche, per qualche sua frase isolata, il feldmaresciallo Rommel con altri pochi. Val la pena di nominare i detrattori? Un nostro ministro o sottosegretario elogiò pubblicamente gli obiettori di coscienza. Un noto collaboratore della televisione chiamò “fuggitivi” gli italiani che si ritirarono combattendo da Alamein: e non soltanto c’era anche lui, volontario e ufficiale, tra quelli: ma apparteneva proprio alla grande unità che per non mollare si ridusse da cinquemila a trecentottantaquattro uomini che ebbero dal vincitore l’onore delle armi. No, non vale la pena di prendersela. *** La grande battaglia durò trecento ore, a nord di Qattara, fino alla costa di Alamein, dalla sera del 23 ottobre al pomeriggio del 6 novembre 1942. Da qui il titolo di questa raccolta. Bisogna ringraziare la Longanesi & C. che ne ebbe l’idea e i cinquantadue autori che costituiscono un complesso eterogeneo per grado, età, ceto, educazione e convinzioni. Fra loro c’è di tutto, conformisti e faziosi, scettici e ingenui, parlatori e silenziosi. Ma vanto comune è l’essersi aggrappati con furore, ciascuno, al proprio pezzo di deserto squallido, quasi fosse la terra promessa. Non furono sconfitti, ma spazzati via come foglie secche da un cataclisma cosmico. Non manca, tra gli autori, qualche scrittore di professione. Un capitano carrista, che nelle trecento ore comandò successivamente la compagnia, il battaglione e il reggimento, si rivela aspro, battagliero e polemico, in una prosa originale e brillante. Un sergente guastatore, allora modesto impiegato di biblioteca, uomo schietto e alieno dalle chiacchiere, si trascinava la squadra con impeto e aveva la civetteria di guadagnarsi, a ogni ferita, una medaglia d’argento: oggi si distingue come saggista e storico. E scrittore è diventato anche un giovane marinaio volontario, quasi un ragazzo, allegramente sboccato e arguto. E, finalmente, un piccolo scatenato paracadutista, sottotenente d’artiglieri, oggi scrive di astronomia e di altre discipline e allora concluse le trecento ore trascinando con pochi superstiti, per giorni e notti nella sabbia infernale e cedevole, il suo cannone anticarro senza munizioni, avendo messo felicemente a segno nel ventre di mezzi corazzati nemici i due ultimi colpi utili. Tra gli altri collaboratori vi sono autori di scritti pubblicati, ma tutti traggono i loro sostentamento da professioni non letterarie. Abbiamo uno scienziato di fama internazionale e
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di alto grado universitario, accademico dei Lincei, che delle trecento ore e di qualche fatto successivo ha presentato una visione profonda, vivace, rigorosa e di elevata dignità. Abbiamo un torrefattore di caffè , un agente turistico, un proprietario di ristorante, un titolare di forno da pane e due impiegati comunali. E un parroco, due medici, quattro avvocati, un paio di ingegneri e altrettanti dottori in chimica, oltre a numerosi altri pure laureati e diplomati. Gli ufficiali di carriera sono undici, ventuno quelli di complemento. Sottufficiali, graduati e gregari sono una ventina, in gran parte artigiani, operai, agricoltori. Ecco, per completare la statistica, la loro ripartizione regionale: dieci lombardi, nove piemontesi, sette veneti, sette emiliani, quattro napoletani, tre pugliesi e tre liguri. Toscana, Abruzzi, Marche e Sardegna intervengono ciascuna con due firme, e con una sola Lazio, Lucania e Sicilia. A tutti chiediamo scusa di averli tanto tormentati perché aderissero a questa iniziativa dell’editrice. *** Insomma: se è vero che antologia significa “raccolta di scritti diversi”, questa è certamente un’antologia. P.C.D. Riva dei Tessali, 1972
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-1FINE DI UN GRANATIERE del sergente A.A., classe 1912, IV battaglione controcarro Granatieri di Sardegna. Nato in un villaggio del Vallone di Chiapovano sull’altipiano di Bainsizza, nomi tragici per le cruente battaglie del 1917, oggi terra jugoslava. Un giorno l’aiutante maggiore del reparto lo convocò e gli comunicò la circolare che ritirava dal fronte combattimento tutti i militari di razza slovena. Il sergente pensò allo stoicismo dei volontari giuliani che un quarto di secolo prima avevano affrontato la morte in combattimento, esecuzioni al capestro e persecuzioni anche per i familiari. Divampò di sdegno, si tolse la pistola e la posò sopra una cassa che serviva da tavolo, nel caposaldo, all’ufficiale, e disse: “Piuttosto che allontanarmi per una simile ragione dalla linea del fuoco, signor tenente, mi spari”. Questa scena non può essere taciuta nella presentazione dell’uomo e del soldato, ma potrebbe attirare pericolose rappresaglie ai congiunti rimasti oltre frontiera. Abbiamo pertanto rinunciato, con vivo rincrescimento, a palesare nome e cognome del sottufficiale, autore del brano pubblicato. Quando, la sera del 23 ottobre 1942, cominciò la valanga di ferro, fuoco, fumo e pietre proiettate dalle esplosioni, il tenente Francesco Palladino, umbro, aveva da pochi giorni assunto il comando della nostra prima compagnia, che aveva i suoi pezzi controcarro da 47/32 sparpagliati nelle ondulazioni sabbiose di Tell el Eissa (in arabo “piccola altura di Gesù”). Rinforzava la scarna difesa tenuta dal 62° fanteria Trento nella sacca minata o “cassone” denominato J, ove la difesa era affidata anche a due robusti battaglioni tedeschi di recente arrivo, ben diversi da quelli del reggimento logorato da due anni di guerra desertica. Il nemico si presentava in modo schiacciante: nel nostro tratto, presidiato da un battaglione italiano e due tedeschi, l’assalto fu dato da due brigate australiane, 20a e 26a, sostenute dalla 2a brigata corazzata inglese che portava in linea, per la prima volta, i famosi carri americani Sherman da trentadue tonnellate. Prima di tornare al suo posto di comando, Palladino venne a salutarmi nel mio centro di fuoco. Noialtri granatieri, per regolamento e per tradizione, siamo di statura prestante, altrimenti non saremmo granatieri. E anche Palladino era così, e tuttavia era un uomo dall’aspetto timido, quasi dimesso, e portava occhiali. Lo avevano promosso da poco tempo. Lo rivedo come se fosse ieri. Quando si ripensa, dopo, a un incontro che è stato l’ultimo fra due uomini, vengono in mente molte cose. Palladino fece bravamente il suo dovere. Aveva visto assottigliarsi la compagnia, fin dall’inizio del bombardamento: aveva visto cadere ucciso il sottotenente Cesare Feliciangeli, egli pure umbro, e ferire gravemente il tenente Tosoni, suo vicecomandante. Una parte della linea era stata sommersa, e come non avrebbe potuto avvenire ciò quando per esempio, la prima compagnia del 62°, comandata dal triestino Paolo Goitan, doveva tenere un fronte di oltre un chilometro con ottantatre uomini, uno ogni quindici metri? Tuttavia Palladino aveva continuato a vigilare sui suoi pezzi superstiti, che facevano quello che potevano, quasi sempre isolati, tagliati fuori, senza più un telefono che potesse funzionare e senza che un portaordini potesse collegare i capisaldi. Non c’era un metro di terreno che non fosse battuto, quando non erano sventagliate di mitraglia provvedevano fitte salve di 88 o sganci di aereo con razioni d’una tonnellata per ogni bomba. I cannoni di Palladino, completamente innocui sulle corazze arrotondate e spesse come mattoni degli Sherman, continuavano a sparare da tre gironi quando l’ufficiale fu ucciso da una granata. Forse non ebbe il tempo di accorgersene. Una croce di più nell’interminabile cimitero
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dei granatieri di Sardegna, il camposanto che ha un’anzianità di tre secoli. Palladino fu sepolto sul posto. Vi giunsero un anno dopo, agli ordini degli inglesi, i prigionieri italiani che, sotto il bravo sergente maggiore Pellicciotta, giustamente elogiato dai giornali degli anni successivi, si erano presentati volontari per l’opera pietosa di recuperare le salme dei compagni. Palladino fu ritumulato nel grande cimitero nuovo, creato sotto Quota 33 per italiani e tedeschi, a breve distanza, non più di due chilometri o tre, dal punto dove era caduto: e oggi riposa nel grande sacrario creato sulla medesima altura. Tra le ossa di Palladino fu trovato un alamaro di granatiere, più tardi consegnato religiosamente a tre valorosi veterani del nostro battaglione, i capitani Vigano e Magnani, e il sergente Svanino, tutti lombardi.
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-2PER GODERCI LA FRESCURA del capitano SILVIO ASTOLFI, pescarese, classe 1912, dello stato maggiore della divisione “Bologna”. Reduce di Spagna, ferito in Albania come tenente nella divisione “Pinerolo”, ebbe sempre, in seguito, incarichi militari di particolare responsabilità. Avvocato di fama nazionale, pubblicista, poeta e commediografo. Pubblichiamo un brando tratto dal “Giardino del diavolo”, premio SIA 1959, edizioni SIA Bologna. Altre sue opere: “Da Malaga a Guadalajara” , edizioni SIA Bologna; “Il palazzotto”, ed. Gastaldi, Milano; “Caio Gracco”, dramma in versi ed. Gastaldi, Milano; “Storia di Cavolino”, finalista al premio Europa narrativa per ragazzi, 1966, ed. Antelminelli, Torino (…) La sera del 23 ottobre, dopo la seconda mensa, ci eravamo portati su un piccolo rilievo per goderci all’aperto la frescura, quando all’improvviso divampa a oriente il lampeggio dei cannoni seguito dal sordo ronfare degli scoppi dei proietti. Lo spettacolo aveva qualcosa di messianico: tutta la linea, dalla costa alla depressione di El Qattara, era illuminata di fiamme e assordata di scoppi in un crescente tambureggiare. Mai battaglia al mondo aveva presentato un impiego così colossale di artiglieria e uno spreco ancor più colossale di proietti. In alto, nel cielo, rombano gli aerei col loro caratteristico ansimare di cetacei in volo. “Ci siamo! Gli inglesi attaccano.” Tutto il personale di servizio al Comando si precipita nell’apposito tunnel, e cominciamo i primi contatti informativi con le unità dipendenti e le divisioni laterali La nostra artiglieria, intanto, comincia debolmente a rispondere al fuoco nemico, limitando la sua azione a qualche predisposta interdizione o al tiro contro bersagli molto visibili. Tutta la notte continua il fuoco dell’artiglieria nemica che cerca di spianare la via ad attacchi piuttosto deboli di fanterie appoggiate da carri armati in quasi tutti i settori del fronte. Questi attacchi spiegati dappertutto dovevano evidentemente servire a non farci individuare subito la vera direzione dell’azione nemica principale. Una delle più preoccupanti puntate venne effettuata sul fianco destro della Trento profondamente. Per fortuna venne nella stessa notte contenuta e respinta. Lo spiegamento delle forze e dei mezzi avversi appariva sempre più imponente, inesauribile, nonostante le forti perdite subite e i limitatissimi progressi conseguiti. Il centro di gravità dell’azione andò spostandosi sempre più evidentemente a cavallo della rotabile costiera, ove il nemico continuò accanitamente a buttare la massa dei suoi mezzi, come un maglio poderoso, con l’evidente intento, in caso di sfondamento in quel punto, di tagliare fuori ogni possibilità di ripiegamento alla massa delle nostre truppe schierate nell’interno. Dopo i primi cinque giorni la battaglia non accennava ancora a esaurirsi, ebbene il nemico avesse conseguito veramente trascurabili progressi, subendo perdite di gran lunga superiori alle nostre. Anche le nostre retrovie continuavano a essere continuamente battute dall’aviazione nemica, che teneva sotto costante controllo tutti i porti, fino a Tobruk, e tutta la rotabile, mentre la nostra aviazione era quasi completamente assente. Le nostre perdite di uomini erano ancora trascurabili, mentre sensibili erano le perdite di carri e di automezzi. Il fronte della divisione Bologna era relativamente tranquillo. Dopo cinque giorni nessun progresso vi aveva fatto il nemico. le perdite si riducevano a pochissimi morti e pochi feriti.
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Tra i reparti serpeggiava la calma e nasceva persino la fiducia che la battaglia stesse ormai per risolversi in nostro favore. Ognuno, forte delle passate esperienza, si illudeva che, essendo mancata la iniziale sorpresa e un sensibile successo iniziale, il nemico stesse per desistere dall’attacco. Invece questo era ancora all’inizio. Si diceva, intanto, che Rommel fosse tornato in sede, e ciò era elemento idoneo a rafforzare la fiducia. Il comandante del XXI Corpo d’Armata aveva ripreso il suo posto e così anche il comandante della Bologna. Questi, il 28 ottobre, mi incaricava di recarmi a Cirene a ritirare le sigarette destinate all’ufficio propaganda. Segretamente, però, mi incaricava di cercare di ottenere l’assegnazione di un gruppo di artiglieria recentemente costituito. Il generale, vecchio artigliere e forte di una lunga esperienza in Africa Settentrionale, sapeva bene il peso nella battaglia di una buona artiglieria, l’unica arma in grado di fronteggiare efficacemente la massa dei carri armati. Perciò egli curava molto l’artiglieria divisionale, senza trascurare, però, la fanteria. Magro e alto, quasi quotidianamente ispezionava i reparti, senza mai curvare la schiena per porsi dietro un riparo, poiché intimamente desiderava, come un privilegio, essere colto dalla morte sul campo stando in piedi. Dopo aver consumato in allegria la prima mensa, mi avviai alla base divisionale attraverso la polverosa pista. Dappertutto i segni della furiosa battaglia erano ancora visibili; ma solo lo schieramento delle nostre unità appariva ancora solido. Dopo aver pernottato alla base, il mattino del 29 a bordo di un sahariano mi avviai alla volta di Cirene. Il traffico lungo la rotabile, continuamente battuta dall’aviazione nemica, era minimo. Marsa Matruh sembrava ben munita, con un robusto spiegamento di forze, specialmente lungo la costa. A sera raggiunsi Bardia, pernottando presso la locale tappa, piuttosto misera e sporca. Il 30 ripresi il cammino verso ovest e passando per Tobruk, effervescente di traffico nonostante la continua minaccia aerea, raggiunsi Derna, oasi di pace nella frescura della sua meravigliosa positura. Il 31 raggiunsi la sede della delegazione del Comando Superiore in Africa Settentrionale, dalla quale non riuscii a ottenere il desiderato gruppo di artiglieria. Raggiunta la pace verde della bellissima Cirene, ottenni le sigarette e anche un invito a pranzo dall’ispettore del PNF, il quale, con mia enorme sorpresa, mi rese noto che le nostre truppe stavano per iniziare il ripiegamento da El Alamein per tentare di sottrarsi alla completa distruzione. Immediatamente presi la via del ritorno, raggiungendo in serata Derna. Il 1° novembre raggiunsi Bardia e il 2, verso l’imbrunire, raggiunsi la base della divisione. Durante questo tragitto non avevo notato né segni di nervosismo né indizi di ripiegamento, talché mi indussi a sperare che le notizie comunicatemi dall’ispettore del partito fossero infondate. Mi misi subito in contatto con il Comando tattico della divisione. All’altro capo del filo mi rispose la voce del generale comandante in persona, il quale mi ordinò di rimanere alla base. Il colloquio cessò bruscamente, come se fosse stata improvvisamente tagliata la linea telefonica. Intanto il cielo era solcato continuamente da aerei nemici e in più parti illuminato sinistramente dai bagliori dei lampioncini al magnesio di cui essi costellavano il loro passaggio. Addirittura assordante era poi il rombo delle opposte artiglierie, e il bagliore di fuoco degli scoppi pareva rendere incandescente la terra. Il comandante della base, un simpatico maggiore di complemento, mi mise a disposizione una bella buca coperta da tenda, fornita di una comoda brandina da campo. Mi
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distesi sulla brandina piombando nel sonno, nonostante l’eco vicina dell’infuriare della battaglia. Poco dopo il maggiore bruscamente mi svegliò per comunicarmi che aveva intercettato una telefonata del Corpo d’Armata secondo la quale era già in atto l’ordine di approntamento per il ripiegamento. Chiamai subito al telefono l’ufficiale di servizio della base del Corpo d’Armata, e questi mi confermò l’ordine, con riserva di comunicare l’effettivo inizio del movimento. Comprendevo ora perché il generale mi aveva ordinato di rimanere alla base. A causa del limitatissimo numero di automezzi esistenti in relazione alla massa dei materiali e del personale, non c’era altra soluzione che effettuare il trasporto con più viaggi a scaglioni, finché la situazione lo permetteva. Il lavoro di approntamento ebbe subito inizio, con buona volontà da parte di tutti, e senza precipitazione, mentre cresceva e pareva avvicinarsi il rombare del cerchio di fuoco che illuminava di bagliori sinistri la cupa solitudine dell’immenso deserto. Verso le due della notte il maggiore mi comunicò che la base del Corpo d’Armata non rispondeva più, e che le truppe tedesche viciniori erano già in movimento. Nel dubbio che fosse interrotta per guasto la linea telefonica, mi recai subito al Comando della base del Corpo d’Armata. Giunsi appena in tempo per prendere contatto con l’ufficiale di servizio, il quale si disponeva ad accodarsi alla colonna già in movimento. Era stato dimenticato, nella confusione, di trasmettere l’ordine esecutivo di ripiegamento, disposto per una imprecisata località a ovest di El Daba, che sarebbe stata indicata sul posto dal comandante della base del Corpo d’Armata. Rientrato alla base venne immediatamente iniziato il movimento del primo scaglione. Verso l’alba riuscii a prendere contatto col Comando base del Corpo d’Armata, che aveva determinato la località al Km. 12 a ovest di El Daba. Due soli viaggi poterono essere effettuati, con perdite relativamente lievi durante il tragitto. Ora, invece, l’aviazione nemica stava tempestando proprio la nostra zona, con bombe di medio e piccolo calibro. Ben cinque dei nostri pochi automezzi vennero colpiti e incendiati. Frattanto la base del Corpo d’Armata si era già rimessa in movimento, pare verso il Km. 30 a est di Marsa Matruh, senza comunicare alcun ordine alle basi divisionali. Era ormai evidente che la situazione per noi diventava di ora in ora più critica e, rotti i collegamenti, non rimaneva che regolarsi di iniziativa. Venne distrutto tutto quanto non era possibile caricare sugli automezzi rimasti a nostra disposizione, e proseguimmo il ripiegamento fino al Km. 30 a est di Marsa Matruh, ove giungemmo il giorno 4. Sempre più evidenti apparivano i segni del nostro sfacelo. Marsa Matruh era in fiamme. La rotabile costiera cominciava a diventare come un torrente che man mano si gonfia per i rivoli che vi affluiscono da tutte le parti durante l’uragano. Poiché non si poteva scartare a priori la eventualità che il nemico potesse, per la strada di Siwa, tagliarci la ritirata, appariva prudente portarsi almeno al di qua del bivio. Perciò diedi disposizione alla colonna della base di portarsi nei pressi del Km. 20 a ovest di Marsa Matruh e quindi di regolarsi secondo la situazione, eventualmente proseguendo fino in Cirenaica. Io, invece, ritenni opportuno ritornare verso est alla ricerca del Comando di divisione, presso il quale avrei potuto essere, forse, di maggiore utilità. Così ripresi il sahariano dalle alte ruote e, in compagnia di un cappellano e due ufficiali appena giunti dall’Italia e assegnati alla divisione, cominciai a risalire lentamente la corrente della interminabile colonna delle nostre truppe in ripiegamento.
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Il mitragliamento aereo sulla rotabile era quasi continuo. I due ufficiali nuovi a un certo punto non se la sentirono più di proseguire e, avviliti e disfatti, saltarono giù dal sahariano rinunziando a proseguire, Il cappellano, invece, un monaco silenzioso, fiero, magro, esile, volle rimanere a tutti i costi al mio fianco, deciso a raggiungere con me la divisione. All’alba del 5 novembre raggiungemmo Fuka, nelle cui vicinanze seppi che si trovava il Comando tattico del XXI Corpo d’Armata. Lo raggiunsi, trovandovi il generale comandante, il capo di stato maggiore e pochissimo altro personale. Tutti avevano impressi sul volto i segni della stanchezza per le notti insonni trascorse. Il generale comandante, notissima e stimata figura di ufficiale sempre presente in mezzo ai suoi soldati, era raggomitolato in una coperta da campo sul sedile posteriore della sua vettura scoperta. Con la voce divenutagli rauca mi comunicò che l’intero comando della divisione Bologna era stato catturato. Dovevo quindi incaricarmi di riprendere contatto con i resti della mia divisione e curarne lo schieramento sulla nuova linea di Fuka, che mi indicò approssimativamente sulla carta topografica, non avendone io mai posseduto una. Il compito affidatomi appariva più che difficile, impossibile in quelle condizioni. Il tenente cappellano si offrì ancora di coadiuvarmi. Sul nostro unico sahariano ci avviammo verso est, piuttosto alla ventura. Ma, dopo solo qualche chilometro, ci imbattiamo addirittura nel nostro generale e tutto il personale del Comando. Poco dopo, a piedi, con la mia pesante cassetta sulle spalle, sopraggiunge anche il mio attendente. Non c’era tempo per fare domande, Feci il mio rapporto al generale, il quale dispose di radunare tutto il personale e i mezzi non indispensabili o non più idonei al combattimento, di raggiungere con questi la base e avviare tutti verso Tobruk, senza perdita di tempo. La colonna fu rapidamente costituita e iniziammo subito la marcia, lenta sia per la pesantezza dei mezzi, sia per il crescente ingombro stradale. Il maggiore comandante il Genio divisionale, che viaggiava con me, mi rese noto che la divisione Bologna aveva perduto la quasi totalità delle fanterie, impossibilitate a ripiegare per mancanza di automezzi, e gran parte delle artiglierie e dei servizi. Il Comando della divisione al completo era stato catturato da un reparto di autoblindo inglesi, che l’aveva accerchiato. Ma, durante una sosta, il reparto era stato attaccato da aerei tedeschi, e così, mentre le autoblindo inglesi si sparpagliavano, tutti gli italiani si erano dati alla fuga con le loro macchine, salvandosi dalla prigionia. La fuga era miracolosamente riuscita sebbene una macchina avesse una ruota rotta, e un’altra il manicotto dell’acqua spaccato e legato appena con un fazzoletto. Questa stessa macchina compì poi in tali condizioni tutto il ripiegamento fino in Sirtica. Giunti a Marsa Matruh, rimanemmo bloccati in mezzo a un vero mare di automezzi che si allargava sempre più, mentre gli aerei nemici minacciosamente solcavano il cielo, e tutt’intorno si levavano le fiamme degli incendi dei nostri depositi. Dopo alcune ore di attesa riuscimmo a proseguire incolonnandoci sulla rotabile, e lasciandoci alle spalle quel mare sempre più nervoso di automezzi in forzata pericolosa sosta. Raggiunto il Km. 20 a est di Marsa Matruh si scatenò una pioggia tempestosa e torrenziale, un uragano che ben presto si placò. Ricostituita la colonna l’avviammo verso la lontana Tobruk. Il maggiore del Genio e io, invece, a bordo di una 1100 mimetica, decidemmo di raggiungere nuovamente Fuka. Ma il tentativo si dimostrò presto vano, poiché era impossibile rimontare la marea di macchine ammassate a Marsa Matruh. Fermi al Km. 20, rimanemmo a guardare l’interminabile sfilata della colonna di mezzi di ogni sorta, che confusi insieme ripiegavano verso est, danno l’esatta visione della nostra irrimediabile rotta.
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Il giorno 6 passa anche il Comando della nostra divisione, Il generale ci rimprovera di essere rimasti qui in attesa e ci ordina di accodarci al suo seguito. A me viene data un’altra 1100 nuovissima. Dopo pochi chilometri la macchina si guasta. Il generale, che se ne accorge, ferma la colonna per attendermi. Ma, ripresa la marcia dopo una rapida riparazione, il motore si arresta nuovamente. Questa volta rimango staccato dalla colonna, che presto scompare alla nostra vista, mentre dietro vi è una sconsolata solitudine. L’autista con fretta nervosa riesce, fortunatamente, dopo molti sforzi, a rimettere la macchina in moto. Riprendiamo celermente la corsa, ma a tarda sera giungiamo nei pressi di Sollum senza esserci ancora ricongiunti con la nostra colonna. Ai piedi del ciglione di Sollum si intravede, sotto il bagliore dei lampioncini lanciati dagli aerei nemici, un mare di macchine stazionanti, frementi di impazienza sotto la continua offesa dall’aria. È meglio passare la notte un poco distanti da quel mare, Così usciamo fuori di strada e ci rincantucciamo sui sedili della vettura. All’alba cerchiamo di farci strada in mezzo all’intrico delle macchine e, con un poco di fortuna, riusciamo a portarci in poche ore all’inizio di una ripida rampa del ciglione e a riprendere la corsa. Raggiungiamo rapidamente Sollum alta e, quindi, il bivio di Bardia.
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-3IL NEMICO HA DORMITO TROPPO POCO del cappellano militare DON ERIO BALLARDINI, classe 1917, ravennate. Fu il più giovane cappellano del regio esercito, mobilitato nel 1940 con la divisione “Trento”, poi del 165° ospedale da campo. Il suo periodo di guerra africano è totale, e giunge fino alla resa in Tunisia. Svolse opera mirabile, coraggiosa e fervida nell’assistere morenti e feriti, continuando anche dopo la guerra i contatti con le famiglie, cui apportò conforto e aiuto. Tenne sempre un suo diario, spesso difficilmente decifrabile a causa delle abbreviazioni, e ridotto all’essenziale, felicemente, senza preoccupazioni di forma e di stile. Questi suoi appunti, e la generosità del suo carattere, furono preziosi più tardi, quando migliaia di salme italiane restate nel deserto non avevano più nome, e anche molte di quelle che erano tumulate nei cimiteri di guerra avevano perso l’identità sotto la “gestione inglese” 1943-1947. Don Erio fu il principale collaboratore della missione italiana a Quota 33 di Alamari quando si trattò di ricostruire, con lavoro di mosaico, le planimetrie dei cimiteri di El Daba, Ghazala e Sidi Abdel Rahman: e così centinaia di nominativi furono ricuperati. Don Erio si è spento nel 1970 a Masiera di Bagnacavallo dove era parroco, lasciando gran vuoto tra reduci e familiari di Caduti. Tre anni prima si era recato ad Alamein per celebrare il venticinquennale della Santa Messa tra i suoi soldati morti. 3 novembre 1942 Appare l’alba, non apportatrice di calma. Notizie estremamente dolorose: il 12° bersaglieri della divisione Littorio, sopraffatto dopo strenua lotta, è stato circondato e ingoiato in questo caos orrendo. Il 7° bersaglieri e la 90a divisione leggera tedesca, sotto il continuo fuoco nemico di artiglieria e di bombardamenti aerei a tappeto, si ritirano verso ovest, oltre il minareto di Sidi Abdel Rahman. Vivo allarme all’ospedale, dove si ammucchiano morti e feriti. Ore 10 Comincia lo smistamento. I feriti nelle autoambulanze sono più accatastati che sistemati. Quanto lavoro e quanta sofferenza, mio Dio. Mezzodì Il comando del XXI Corpo d’Armata ordina di sgomberare quanto possibile per organizzare un ospedale arretrato, verso Fuka. Partono due ambulanze e un autocarro Spa (tipo Ovunque) con una delle due tende grandi superstiti. Altre due sono state distrutte dal bombardamento del 1° novembre. Vengono caricati materiali di medicazione, di cura e di chirurgia. Con il nostro direttore, capitano medico Cagnoni (uno dei tanti che abbiamo “bruciato” nella nostra lunga attività) si imbarcano gli ufficiali medici dottori Passaponti e Ronchetti e una trentina di militari. Restiamo volontariamente gli ufficiali medici dottori Fox e Barelli, e io, con una quindicina di soldati. Morti e feriti sono ovunque, anche nelle nostre buche personali: si odono gemiti e richiami di aiuto. Pomeriggio Arriva il I battaglione del 39° fanteria Bologna, con diversi sbandati della stessa divisione, ed elementi anche della Trento, e si schierano a difesa piazzando mitragliere da 20, cannoncini anticarro da 47/32 e mitragliatrici di minor conto tra le nostre buche, la tenda Moretti, la baracchetta chirurgica e una tenda inglese, bottino della presa di Tobruk. Una mitragliatrice è stata piazzata presso la buca del tenente medico Passaponti, e il mitragliere servente, dritto e imperterrito, esaurisce le munizioni residue sugli apparecchi da caccia Spitfire o Sputafuoco che ci mitragliano a volo radente. Oltre a questi mitragliamenti dei cacciatori, si susseguono ogni mezz’ora le incursioni degli “squadroni bianchi” americani,
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come ormai tutti li chiamano, che sganciano il loro carico di morte sulla strada, a meno di cento metri da noi. Intanto, da oltre la cortina delle dune costiere, affluiscono a noi feriti leggeri e gravi del 7° bersaglieri e della 90a tedesca, alcuni in barella, altri trascinandosi pietosamente. Tardo pomeriggio Puntata di carri armati nemici: un soldato dice che se ne vedono una ventina, ma ancora lontani. Molti loro colpi d’artiglieria cadono attorno a noi. Ma come pensare a queste cose nel caos dei morti e dei feriti gementi? Continua il nostro lavoro: devo assistere, confortare, dare la Estrema Unzione, medicare, e anche estrarre schegge con bisturi e pinzette chirurgiche, scrivere diagnosi e prendere ogni possibile appunto con i dati dei Caduti. Ai medici Fox e Barelli sono riservati i compiti più impegnativi e urgenti. Oggi non abbiamo neppure mangiato. Non abbiamo certo modo di osservare quanto avviene attorno a noi: un soldato grida che tre carri, coliti, emettono fiamme, e che gli altri arrestano la loro avanzata. Sera Bombardamento e bengala in cielo: questi non arrecano danno, ma non permettono riposo di alcuno. 4 novembre È ancora completamente buio.Il battaglione del 39° Bologna riceve l’ordine di ripiegare e di attestarsi a Fuka, mi pare. Gli arriva anche un numero di autocarri superiore alla bisogna. Incredibile ma vero: forse devono servire anche per i bersaglieri del 7° e i tedeschi della 90a, che sono schierati oltre la cortina dunosa al nostro fianco, verso il mare. Non riusciamo a saperlo. Sono autocarri nuovi, Isotta Fraschini. Facciamo anche qualche considerazione… sentimentale, ma non fuori posto, e ci chiediamo quali sacrifici ha dovuto sopportare la Patria lontana per inviarci tali superbi automezzi, proprio quando siamo ai limiti della resistenza. (A suo tempo, ricuperando lungo la costa, tra Sliten e Misurata Marina, i naufraghi morti e in parte divorati, dopo il siluramento del Saturnia e di altre navi, mi illudevo di conoscere un poco i drammi del mare.) Il capitano Figari, ufficiale presente più elevato in grado, del 39° Bologna, decide di caricare sugli autocarri anche tutti noi del 165° ospedale da campo coi nostri feriti e col nostro materiale residuo. Forse il caro capitano, oltre a compiere una buona azione, pensa anche di dare alla sua unità un ospedale, o meglio un posto di medicazione sempre pronto ed estremamente avanzato, al punto di stare nelle stesse posizioni ci combattimento. Albeggia. Qualche pezzo nemico, di semoventi o di carri armati (?), accompagna i nostri preparativi con qualche colpo senza esito. Commentiamo che il nemico spara male perché ha dormito troppo poco o perché si è svegliato troppo presto. Siamo pronti sul far del giorno, dopo aver sistemato i feriti e sepolto gli ultimi morti nel cimitero di Ghazala. C’è voluto un po’ di tempo. Il capitano ha pazientato e i suoi soldati, oltre al carico dei propri “impedimenta”, ci hanno molto aiutato. Viaggiamo da qualche ora, molestati da mitragliamenti a volo radente. Piana di Fuka Raggiunto il nostro ospedale, facciamo proseguire i feriti verso Marsa Matruh, ma dobbiamo purtroppo seppellire due morti. 5 novembre e seguenti Sempre ripiegando e lavorando, montando e smontando tende e posti di medicazione, smistando feriti e tumulando Caduti, abbiamo traversato Egitto, Marmarica, Cirenaica e Sirtica. Bombardamenti e mitragliamenti dall’aria, soprattutto di quegli antipaticissimi Sputafuoco,
DON ERIO BALLARDINI IL NEMICO HA DORMITO TROPPO POCO
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hanno passato ogni limite di sopportabilità. Ma l’appuntamento con la prigionia alla quale eravamo già moralmente preparati è per ora mancato.
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-4IL QUARTO BATTAGLIONE “FOLGORE” A DEIR EL MUNASSIB BRUNO BEAN E STEFANO LUTMAN dei tenenti paracadutisti BRUNO BEAN e STEFANO LUTMAN. Bruno Bean, classe 1920, da Trieste, della 12a compagnia, decorato di una medaglia di bronzo e proposto per altre, è, nella vita civile, insegnante e commerciante. Temerario e abile pattugliatore, si è reso famoso per le sue fruttuose incursioni nelle linee nemiche, dalle quali riportava un vasto assortimento di preda (ufficiali e soldati britannici, carte operative, viveri, armi, bevande e munizioni). Restò memorabile una sua pattuglia mista con il sottotenente Gambaudo del contiguo VII battaglione: entrambi gli ufficiali e i loro paracadutisti furono portati all’ordine del giorno della direzione e del X Corpo d’Armata. Gambaudo fu ucciso durante le trecento ore, e alla sua memoria fu concessa la medaglia d’oro. Bean, nonostante la sua robustezza e il suo slancio indomabile, era da tempo colpito dalla tremenda epidemia di colite che falcidiava le truppe del deserto, ma rifiutò costantemente il ricovero all’ospedale, ed era assai malridotto quando partecipò al combattimento del 25 ottobre. Tornata la calma, crollò anche lui e fu allontanato d’autorità, in barella Stefano Lutman, classe 1914, da Gorizia, della stessa compagnia, fu tra i primi ufficiali che raggiunsero la scuola paracadutisti di Tarquinia. Volontario per il primo esperimento di lancio in mare e anche per la prova sperimentale del nuovo paracadute FP 41 a fascio unico. Assegnato a un battaglione destinato a restare sul suolo nazionale, riuscì a farsi trasferire alla “Folgore” in partenza per l’Africa. Era già allora un anziano e sperimentato tenente di fanteria, con molti anni di servizio in conseguenza dei numerosi richiami in quegli anni agitati. È uno dei bei nomi della “Folgore” e fu proposto per la medaglia d’argento. Nella vita civile è direttore tecnico della maggiore agenzia di viaggi della provincia isontina. Lo scritto è una narrazione in forma di diario, fatta congiuntamente dai due amici a guerra finita. Deir el Munassib, 24 ottobre 1942 Ieri sera, poco prima delle 21, è cominciato un fuoco infernale su tutte le linee, e contemporaneamente un incessante bombardamento a tappeto dalle posizioni avanzate alle retrovie. Nella notte si è pronunciato un forte attacco di carri e fanterie sulla nostra destra, contro le posizioni dei nostri battaglioni VII e VIII guastatori, raggruppamento del tenente colonnello Marescotti Ruspoli. Non abbiamo notizie, e non vediamo nulla per via della sacca minata che ci separa da quelle posizioni. Neppure noi della 12a compagnia possiamo renderci conto, pur essendo l’estremo reparto di destra del 187° reggimento Folgore. Ma
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dall’andamento degli scoppi e dai traccianti dobbiamo dedurre che la prima linea ha tenuto dappertutto, anche se qualche caposaldo avanzato è stato travolto. Arriva, a tarda sera, la notizia che Marescotti Ruspoli è caduto. Da noi, poche perdite sulla linea del battaglione: qualche morto e alcuni feriti dal bombardamento che non cessa. La truppa è calma, e moltissimi vorrebbero che l’attacco venisse a frantumarsi anche contro il nostro schieramento.
Pomeriggio del 25 Il deserto si annerisce di carri, certamente avanguardie di grosse aliquote di fanteria. Il nostro fuoco di artiglieria, che sappiamo diretto dal tenente colonnello Bechi nostro comandante di reggimento, si rivela subito efficacissimo. Sono i pezzi da 100 e da 75 dei gruppi Pavia e Trieste rimasi a nostra disposizione, perché i paracadutisti hanno soltanto il piccoli 47/32 anticarro. Neppure i grossi carri Pilot resistono. Strage di carri, esplosioni e incendi, grosse fumate brune che si riuniscono in cielo come a formare un gigantesco ombrello. Ma tutto il 4° reggimento ussari è impegnato contro la nostra 12 a compagnia, e i primi carri giungono a contatto, sostenuti da fanteria che attacca, decisa e violenta. La 12 a compagnia, capitano Cristofori, schiera in tutto novanta uomini con tre pezzi anticarro. La mischia diventa generale, volano le bottiglie anticarro contro le corazze, si giunge al combattimento a corpo a corpo mentre diminuisce il crepitio della mitraglia e della fucileria. Cresce invece il frastuono delle bombe a mano, l’urlio delle voci, il lavoro di pugnale e di baionetta. Un corpo a corpo non si descrive: ognuno deve risolvere il problema del proprio metro quadrato, e si capisce qualcosa soltanto quando, tra scene di terrore, è evidente che la vittoria è italiana. I pochi superstiti attaccanti ripiegano dopo aver lasciato nelle nostre mani settantatre tra fanti e carristi, mentre ventidue carri ardono. Scende la notte, nuvolosa, arrossata dai bagliori che salgono dal deserto. Ma sono nuvole del buon Dio, o nuvole di fumo fabbricate dall’uomo?
26 ottobre Giornata molto inquieta, metodico bombardamento dalle artiglierie nemiche schierate sull’opposto versante del Munassib e dagli “squadroni bianchi” degli aerei americani che si susseguono a centinaia, senza interruzione. Attacchi sulla nostra destra e sulla nostra sinistra. Poche perdite della compagnia
27 sera Prima dell’imbrunire si scatena un attacco, prima di soli carri, poi anche di fanteria. Lo respingiamo senza fatica. Non è ancora buio quando esce un pattugliane al comando di Lutman, con gli ufficiali Presenti, (sette volte decorato, e tra le altre anche di tre medaglie d’argento) e Mesina, valoroso reduce dall’Africa Orientale. Vengono rastrellati circa venti prigionieri che non volevano uscire dai carri immobilizzati dal nostro tiro ma non incendiati. Grande bottino, nei carri, di viveri, armi, goniometri e whisky.
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A notte fatta riprende, molto più violento, l’attacco combinato di carri e fanteria. Il combattimento corpo a corpo è immediato. Mesina è falciato da una raffica mentre, ritto e scoperto, sta sparando. Izzo viene inchiodato in una buca prima che riesca a reagire. Il capitano Cristofori corre da una parte all’altra come un pazzo (e forse pazzo lo è sul serio, e lo dimostrerà) senza badare al fuoco violentissimo. Non ha forse fatto il gesto, prima del combattimento, di alzarsi sul parapetto del caposaldo, calarsi le brache e scaricarsi col sedere rivolto al nemico? Ma infonde a tutti una gran sicurezza, galvanizza le pattuglie e le conduce spavaldamente nella terra di nessuno senza avere istruzioni superiori. Ha dato gli arresti al sottotenente Caltabellotta, ottimo ufficiale, “perché non sapeva sparare”. Caltabellotta aveva fatto partire nel buio una raffica di mitraglia contro una nostra pattuglia che rientrava in linea dalla parte opposta a quella stabilita. Secondo la logica del capitano, il sottotenente aveva fatto benissimo a sparare ma, dal momento che aveva sparato, avrebbe dovuto colpire.
28 ottobre Questa notte sono state provatissime le altre due compagnie del IV battaglione. La 11a compagnia completamente annientata: morto il capitano Costantino Ruspoli, morto il bravo tenente Mascarin, pare schiacciato da un carro inglese dopo aver esaurito ogni mezzo per incendiarlo. Della intera compagnia sono rimasti otto uomini con il sottotenente Sonetti, conciato male anche lui. Fortunato il sottotenente Livio Pesce, assente perché ricoverato all’ospedale per dissenteria.La 10a è ridotta a pochi uomini, dopo aver respinto vittoriosamente l’assalto: tra gli altri, è morto il comandante, uno splendido ufficiale di cavalleria, Gaetano Simoni, al quale era già stata annunciata la promozione a capitano. Quindi è la nostra 12a , ridotta a quaranta uomini, che si deve assumere, con i superstiti della 10a , la continuità di una linea che ha due chilometri di sviluppo. Tra i caduti del battaglione ve ne sono alcuni che avevano già una fama proverbiale. Il sergente maggiore Lieber, famoso pattugliatore, si era specializzato in pazzesche spedizione nella paurosa e micidiale depressione di Qattara, e così i caporalmaggiori Mingozzi e Lancellotti. Tra i sopravvissuti, quasi tutti feriti o contusi, il tenente Lenci di cavalleria, avvocato milanese, uno dei rari ufficiali di complemento che avesse superato vittoriosamente competizioni ippiche internazionali, e che verrà ucciso otto giorni dopo, ultimo caduto della Folgore ad Alamein, l’istriano sergente Brezza, il sergente maggiore Cerri, il caporale agordino Nilo Rosson, il caporalmaggiore Soliman con una ferita molto grave, e il paracadutista Cominotto che nella primavera 1943 perderà una gamba a Takruna, in Tunisia, combattendo con l’ultimo esiguo manipolo superstite dell’antica Folgore. il valoroso tenente Cimenti, udinese, non è stato presente agli ultimi combattimenti, essendo stato mandato all’ospedale per ferita, pochi giorni prima. Ora il battaglione è ridotto a poche decine di uomini. Le perdite di questa notte superano i cento, ma la linea è ristabilita. Il IV battaglione è stato degno di Bechi Luserna che lo ha formato e portato al fuoco. Ma tra i comandanti venuti dopo di lui, in meno di dieci giorni, si contano troppi bravi ufficiali fuori combattimento. Il primo fu il maggiore Patella, ucciso, e il suo successore, il capitano Valletti Borgnini, fu ferito poco dopo: lo sostituì per qualche ora il capitano Ruspoli, caduto la notte scorsa, e dopo di lui il maggiore d’artiglieria Vagliasindi che è morto oggi, colpito da una bomba di mortaio. V’è, sulla morte dei due fratelli Ruspoli, un particolare pietoso. La notizia della fine di Marescotti filtrò attraverso il IX battaglione di Chiappa fino alla nostra 12a compagnia, ma Bechi, conscio dell’ora tragica, non volle che il fratello Costantino lo venisse a sapere in un
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momento che esigeva in lui la massima serenità. L’ammirevole e solidale omogeneità dei paracadutisti riuscì a creare attorno a Costantino la barriera del silenzio, e semmai, alle sue richieste di notizie dopo che il raggruppamento Ruspoli aveva subito con gravissime perdite il primo urto nemico, furono date risposte evasive e provvisoriamente rassicuranti. Sembra pertanto che Costantino, al momento della morte nella notte sul 28, cioè tre giorni dopo la perdita di Marescotti, ne fosse ancora ignaro.
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-5L’ULTIMA BATTAGLIA ALBERTO BECHI LUSERNA del tenente colonnello paracadutista ALBERTO BECHI LUSERNA, classe 1904, ufficiale di carriera, nato a Napoli da padre toscano e da madre savoiarda. Medaglia d’oro alla memoria, dopo altre sei ricompense al valore guadagnate in Africa Settentrionale e Orientale, appartenente alla cavalleria e allo stato maggiore, fu spesso detto “il più bell’ufficiale del regio esercito”. Ebbe tra gli ascendenti altri tre colonnelli Bechi caduti: il primo per le ferite di Russia, nella campagna napoleonica del 1812; il secondo in Polonia, contro i russi (tra le file garibaldine) nel 1864; né la serie si chiuse con suo padre Giulio, pure medaglia d’oro, ucciso alla testa del suo reggimento nel 1917 in un assalto presso Gorizia. Alla bellezza fisica Alberto univa una singolare e lieta irradiazione, grande e colta intelligenza, eleganza d’espressione con la penna, con la matita e in diverse lingue, profondità di studio e magnetico ascendente nel comando. Ad Alamein ebbe ai suoi ordini il celebre IV battaglione “Folgore” da lui creato e quindi il 187° reggimento. Cadde tragicamente in Sardegna il 10 settembre 1943 perché fedele al suo reggimento, mentre era capo di stato maggiore della divisione paracadutisti “Nembo”, da poco costituita. Della sua attività letteraria, oltre alla brillante collaborazione a giornali, giova ricordare tre volumi editi a Milano da Alfieri: “Britannia in armi” (1941). “Noi e loro” (1942) e “I ragazzi della Folgore” (1943). Lo scritto che pubblichiamo, redatto in uno stile davvero insolito per una relazione militare, è il rapporto ufficiale sulla battaglia da lui presentato quale comandante il 187° reggimento “Folgore”. Nella notte sul 24 ottobre un tiro di artiglieria, di violenza e proporzioni inusitate, si abbatteva sulle nostre posizioni di Alamein, Era l’inizio dell’offensiva nemica. In seguito ai rimaneggiamenti avvenuti nel corso del mese, la divisione Folgore era in quei giorni interamente schierata all’ala destra dell’armata italotedesca, in pieno deserto, fra il saliente di Munassib e il sistema collinoso Qaret el Himeimat – Naqb Rala. Si appoggiava sulla destra alla depressione di El Qattara. Fronte occupato: circa quindici chilometri. Schieramento: due reggimenti in primo scaglione, il 187° a nord e il 186° , raccordati da un raggruppamento di due battaglioni, al comando del tenente colonnello Marescotti Ruspoli di Poggio Suasa. Forza complessiva: circa cinquemila uomini, di cui non più di quattromila paracadutisti. Il rimanente, come verrà detto in seguito, era stato precedentemente perduto per ferite e soprattutto per malattie.
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Le caratteristiche topografiche dello schieramento erano lungi dall’essere soddisfacenti. A eccezione degli appigli laterali (Munassib e Naqb Rala), offrenti discrete condizioni di difendibilità per il dominio esercitato all’intorno, la linea correva attraverso una piana desertica priva di ogni ostacolo e agevolmente controllata dalle posizioni inglesi. Si aggiunga che il pilastro settentrionale dello schieramento (Deir el Munassib) costituiva un accentuato saliente della fronte ed era premuto da presso dal nemico su due lati. Nei primi giorni dello stesso mese di ottobre l’avversario aveva anzi tentato di impadronirsene ed era stato respinto con gravi perdite. Ciò nonostante quel settore permaneva assai delicato e tormentato e ci procurava un quotidiano stillicidio di perdite. In seguito all’insistente martellamento dell’artiglieria avversaria si era proceduto, nel corso del mese di ottobre, a un diradamento delle forze presidianti la prima linea e a un maggiore scaglionamento in profondità. Ciò in previsione dell’imminente offensiva nemica (i cui complessi preparativi non erano sfuggiti alla nostra osservazione) e del conseguente proposito di attendere l’attacco nelle migliori condizioni di efficienza. L’organizzazione della difesa si basava su un sistema di capisaldi, circondati da campi minati e aventi possibilità d’azione a giro d’orizzonte. Lo scardinamento di uno dei capisaldi avrebbe dovuto essere contenuto dall’azione fiancheggiante di quelli laterali (come in effetti si verificò). Su questa possibilità di resistenza e di reazione dei singoli elementi della difesa, appoggiata dall’ostacolo offerto dai campi minati, era sostanzialmente imperniato il concetto d’azione formulato in caso d’offensiva nemica: logorare con le fanterie la massa corazzata avversaria sino a raggiungere le condizioni idonee alla contromanovra delle nostre forze meccanizzate. Le notizie che si avevano sul nemico lasciavano concordemente intendere che l’offensiva fosse imminente e che riserve massicce di truppe e di materiali fossero in via di afflusso da Alessandria e dalla regione del Delta. Dall’interrogatorio di prigionieri si era potuto accertare che sulla sola fronte della Folgore andassero ammassandosi forze pari a due divisioni di fanteria e a una intera divisione corazzata: una massa d’urto cioè, di quindici -ventimila uomini e trecento mezzi corazzati contro i nostri quattromila paracadutisti, debilitati dai disagi e dalle malattie. L’osservazione aerea aveva inoltre accertato la presenza di cinquanta o sessanta batterie nemiche già in posizione. L’aviazione avversaria, rinforzata di recente da forti formazioni americane, aveva raggiunto una decisa superiorità numerica. In quanto alle riserve di munizioni, carburante e materiale vario accumulate dall’avversario, un proclama diramato alle truppe britanniche da generale Montgomery, comandante la 8a armata (proclama da noi rinvenuto fra i documenti di un ufficiale prigioniero), diceva testualmente: “abbiamo di che alimentare l’offensiva, se necessario, per mesi. Possiamo concederci il lusso di incalzare gli italo-tedeschi fino a Tripoli e oltre senza alcuna tema logistica”. Particolare di notevole interesse: le truppe avversarie, quasi tutte affluite di recente dal medio Oriente, dall’India e dalla Gran Bretagna, erano abbondantemente motorizzate e dotate di gran copia di automezzi. La Folgore non disponeva invece che di pochi autocarri impiegati in esigenza logistiche. Le condizioni fisiche della nostra truppa, come già accennato, lasciavano a desiderare. In parte per l’alimentazione, che le gravi difficoltà di rifornimento rendevano insufficiente, e in parte per le disagiatissime condizioni di ambiente e di clima, la salute degli uomini era andata assai deperendo negli ultimi tempi. Quasi tutti erano sofferenti per dissenteria. A onta di tali menomate condizioni fisiche, integre erano rimaste le qualità spirituali e combattive dei paracadutisti. La materia prima umana della divisione s’era rivelata, alla prova del fuoco, di qualità e tempra invero eccezionali. Per mordente aggressivo, sprezzo di ogni pericolo, abilità manovriera, i nostri uomini erano in breve divenuti leggendari in tutta l’armata. Il nemico aveva maturato un ben nutrito timore dei paracadutisti italiani e bastava
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talora il grido d’assalto “Folgore” per indurre gli inglesi a evitare il contatto e a battere in ritirata. Le notizie sulla consistenza del ciclone offensivo che il nemico era in procinto di scatenare non avevano minimamente intaccato il morale dei “ragazzi” della Folgore (com’eran affettuosamente chiamati i paracadutisti in tutto il fronte dell’armata). Con la sensibilità tattica di che vive da mesi in prima linea, essi s’erano resi perfettamente conto che il nemico avrebbe tentato, almeno inizialmente, di infrangere la resistenza della nostra linea attaccandone l’ala destra, presidiata appunto dalla Folgore, sì da minacciare di avvolgimento l’intero schieramento dell’armata. Del duro compito reattivo loro affidato si dimostravano fierissimi. Come ebbe a dichiarare taluno di essi al generale Von Stumme, pochi giorni prima dell’inizio dell’offensiva: “Dite pure al Maresciallo Rommel,. Signor generale, che finché vi sarà qui un uomo, una cartuccia e una borraccia d’acqua, il nemico non passerà”. Ed erano talmente compresi dell’importanza del momento e del settore che, senza alcun incitamento, trascorrevano le notti in lavori di rafforzamento, attuando di loro iniziativa lavori e migliorie spesso geniali. Nei giorni precedenti l’offensiva s’era a essi aggiunto un altro splendido reparto, il battaglione guastatori del maggiore Caccia Dominioni. Guastatori e paracadutisti s’erano scambievolmente apprezzati; avevano in breve fraternizzato e gareggiavano nel migliorare l’efficienza della linea con lavori notturni di mina, spesso rischiosissimi, svolti a poche decine di metri dalle vedette nemiche. Compatibilmente con gli scarsi materiali di rafforzamento disponibili, le posizioni erano state messe nelle migliori condizioni di efficienza. Questa, in sintesi, la situazione tattica e spirituale della Folgore alla immediata vigilia dell’offensiva avversaria. *** … Nella tarda sera del 24 ottobre, verso le ore 21, un tiro di artiglieria di eccezionale violenza si abbatteva, come già detto, sull’intero fronte della divisione. Dall’immediato rilevamento alla vampa effettuato dagli osservatori di artiglieria si poté calcolare che contro il solo settore del 187° agissero non meno di quaranta o cinquanta batterie. Gli avversari, evidentemente, erano riusciti a portare in linea un numero di pezzi ancora maggiore di quello stimato prima dell’azione. Apparve presto evidente, dall’insistenza e precisione del tiro, com’esso fosse il preludio dell’attesa offensiva avversaria. Nelle pause di silenzio balistico si udiva infatti lo sferragliamento di grosse masse di carri armati serranti nella notte sotto le nostre posizione, il bombardamento, con qualche breve sosta, si prolungò violentissimo sino all’alba nei settori laterali della divisone, provocando peraltro perdite relativamente limitate, grazie alle minute predisposizioni prese per il ricovero della truppa in linea. Nel settore centrale (Ruspoli) il tiro venne invece allungato dopo circa due ore e il nemico mosse all’attacco con forze importanti (successivamente valutate a quattro battaglioni di fanteria e a una brigata corazzata). I collegamenti a filo si erano interrotti alle prime granate e quelli radiotelegrafici erano molto disturbati dall’avversario; solo alle prime luci si poté quindi avere un quadro sommario della situazione. Alle ore 5 questa appariva la seguente. Gli avamposti del tenente colonnello Ruspoli, dopo lotta impari e accanitissima durata sino all’alba, erano stati sommersi. La compagnia avanzata (capitano di cavalleria Marengo di Moribondo) , sebbene investita da una autentica valanga di ferro e di fuoco, non era arretrata d’un passo. I novanta uomini che la componevano si erano abbarbicati al terreno e, benché sopravanzati e circondati dalla massa degli assalitori, avevano condotto resistenza tenacissima per oltre sei ore. Schiacciati dal grave peso dell’attacco, isolati e frantumati dalle infiltrazioni di carri armati, erano stati soverchiati solo
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dopo un’accanita serie di assalti e di contrassalti conchiusasi alle prime luci. La quasi totalità era rimasta sul terreno; unici superstiti, una quindicina di paracadutisti, quasi tutti feriti. Il nemico aveva anch’esso subito dure perdite, fra cui non meno di una trentina di carri. L’accanita resistenza l’aveva anzi a tal punto sconcertato da indurlo a desistere dall’attacco e a rafforzarsi sulle posizioni raggiunte, in attesa che la massa dei suoi mezzi corazzati serrasse sotto lo scaglione di rottura. Altri attacchi, condotti da forse degolliste, erano stati sferrati nella notte sul fronte del 186°. Ma erano stati energicamente stroncati dai contrassalti personalmente guidati da un comandante di battaglione, ferito nel corso dell’azione. Appena chiaritasi la situazione, i comandanti di reggimento laterali distoglievano d’iniziativa le batterie a disposizione dai loro compiti di protezione normale e battevano con esse durante l’intera mattinata del 24 la massa corazzata avversaria, visibilissima dagli osservatori, sì da alleviare la pressione esercitatesi sul raggruppamento Ruspoli. Non appena ristabiliti i collegamenti (verso mezzogiorno) si poté concentrare sulla fronte del settore centrale anche il tiro degli altri gruppi onde mantenere l’avversario sotto un fuoco pressoché costante. L’azione sortì esito particolarmente efficace, ché numerosi mezzi corazzati, colti di sorpresa, furono centrati e messi in fiamme; e il fumo del carburante incendiato, levantesi altissimo nella mattinata calma, servì da richiamo e da obiettivo ai successivi concentramenti di artiglieria. Fosse tale vigorosa reazione, fossero le gravi perdite già subite, il nemico si mantenne inattivo durante l’intera giornata. Le fanterie inglesi, logoratesi nell’assalto, andavano frettolosamente cercando riparo con lavori di scavo. All’orizzonte, fuori delle nostre batterie, si scorgeva il complesso movimento delle riserve nemiche autocarrate apprestantisi a riprendere l’attacco col favore delle tenebre. Approfittando della tregua venne effettuato a sera un contrattacco con le magre forze disponibili. Si poté così ristabilire una linea continua, se pur esile, fra i due reggimenti della Folgore minacciati di separazione. In questa fase dell’azione cadeva valorosamente sul campo il tenente colonnello di cavalleria principe Marescotti Ruspoli di Poggio Suasa. Giova ricordare che questo splendido ufficiale era già stato ferito in precedente azione né aveva voluto allontanarsi dalla linea. Benché ancora febbricitante, aveva diretto mirabilmente la difesa della notte prodigandosi quindi durante l’intera giornata. Cadde mentre conduceva in linea di persona i pochi rincalzi per il contrassalto. Era il quarto ufficiale superiore della Folgore, dopo i maggiori Rossi, Macchiato e Patella, a lasciare la vita sul campo in breve volgere di giorni. *** … L’attacco si riaccendeva violentissimo nella notte sul 25. Con i rinforzi affluiti l’avversario si era ricostituito una massa d’urto, valutabile in cinque-sei battaglioni e in due brigate corazzate, e mirava con essa ad allargare la fessura dischiusasi nel settore centrale della Folgore, gravando verso meridione sopra il 186° presidiante le posizioni di Qaret el Himeimat. Lo scardinamento di questo pilastro difensivo avrebbe probabilmente consentito, secondo i calcoli dell’avversario, di iniziare il movimento aggirante destinato a far cadere per manovra l’intero fronte di Alamein. Al sorgere della luna, precedute dall’abituale tiro massiccio di artiglieria, le colonne d’attacco movevano da tre diverse direttrici verso le posizioni del 186°. Si urtavano istantaneamente a una resistenza non meno feroce e accanita di quella incontrata nel settore centrale. Il battaglione investito per primo (VII, del capitano Mautino), composto in prevalenza di elementi provenienti dalle truppe alpine, stroncava nettamente la prima ondata d’assalto. Le atre, dilaganti su tutto il fronte reggimentale, venivano arginate dapprima e contrassaltate
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dipoi dai battaglioni vicini. Il logorio subìto dall’attaccante fu tale da non consentirgli di superare la cerchia difensiva dei campi minati e di lanciare oltre questi, come si proponeva, le forze corazzate attendenti in potenza. Né miglior sorte ebbero i successivi attacchi miranti ad aggirare da sud le difese del pilastro di Qaret el Himeimat. In tal fase un altro comandante di battaglione, il maggiore Bergonzi, cadeva sul campo. *** … Nel pomeriggio, visti falliti i suoi attacchi contro il 186°, il nemico tentava miglior fortuna contro il 187°.apriva un violentissimo tiro a granate esplosive e nebbiogene contro il caposaldo viciniore di quel reparto e vi sferrava contro, a guisa d’ariete, l’intero reggimento corazzato IV Hussars. Era il caposaldo presidiato da una compagnia (capitano Cristofori) ridotta dai precedenti combattimenti a non più di settanta uomini, con tre pezzi anticarro. Nel mentre questi sparavano a ritmo accelerato sino ad arroventarsi, gli uomini, infossati fra le mine del campo perimetrale, impedivano ai pionieri nemici di aprire un varco ai carri. Dopo vani e reiterati tentativi di avvicinare al caposaldo elementi,a appiedati, il nemico lanciava contro i difensori una carica di mezzi corazzati. Ma per nulla scossi dall’impressionante spettacolo dei mastodonti (americani, di trenta tonnellate) vomitanti mitraglia a pochi passi, i paracadutisti continuavano il loro fuoco calmo e mirato e passavano anzi al contrassalto, attaccando i carri nemici con bottiglie incendiarie. Contemporaneamente i nostri gruppi di artiglieria riuscivano con audaci tiri d’infilata a battere efficacemente la massa corazzata attaccante arrecandole notevoli perdite. Visto inutile ogni tentativo, il nemico s’induceva a ripiegare a sera sulle posizioni di partenza lasciando innanzi al nostro caposaldo ventidue carri armati inutilizzati, successivamente incendiati da nostre pattuglie. Gli equipaggi, una sessantina di uomini, venivano catturati. Nella notte l’intero fronte della Folgore era illuminato dal riverbero delle carcasse ardenti innanzi alle nostre posizioni. *** … La giornata del 26 trascorse relativamente calma ché, ammaestrato dai duri scacchi subiti, il nemico non azzardò azioni isolate e solo si contentò di mantenere le nostre linee sotto un tormentoso tiro di artiglieria. Andava intanto ammassando le sue truppe ancora fresche, tenute sino ad allora in riserva, nell’intento di compiere con esse l’estremo sforzo contro la Folgore. Adunò così quattro reggimenti scelti di fanteria motorizzata inglese e si accinse nella notte sul 27 a vibrarci il colpo decisivo. Avendo constatato il saldo tenore della nostra resistenza in ogni tratto (com’ebbero poi a dichiarare vari ufficiali prigionieri), il nemico decise di far massa contro il saliente di Munassib, mirando a impadronirsene e a dilagare lungo un allineamento vallivo (Deir el Munassib – Deir Alinda) che da quelle posizioni si diparte. Dopo l’ormai consueta preparazione di artiglieria e di nebbiogeni, il nemico moveva all’attacco al sorgere della luna (ore 22) contro le posizioni tenute dal battaglione presidiante il vertice del saliente (IV, comandato dal maggiore Patella, caduto il 18 ottobre, poi dal capitano di cavalleria Valletti – Borgnini). Una colonna composta da due battaglioni del reggimento Green Howards e da una compagnia autoblinde, riprendeva il fallito attacco del pomeriggio contro la compagnia Cristofori. Un’altra colonna, formata da elementi d’assalto degollisti, impegnava la compagnia di sinistra (tenente di cavalleria Simoni). Una terza colonna, costituita dall’intero reggimento Royal West Kent e da un battaglione carri del IV Hussars investiva da ogni lato il caposaldo
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centrale (capitano di cavalleria Ruspoli). Contemporaneamente venivano impegnate da distaccamenti le posizioni del battaglione viciniore (II, maggiore di cavalleria Zanninovich). Alle ore 23 l’intero fronte del reggimento era così premuto da ogni lato. I due gruppi di artiglieria a disposizione sparavano a ritmo accelerato sui previsti settori di protezione. Aliquote del battaglione di secondo scaglione (IX, Capitano di cavalleria Chiappa) venivano spostate nella notte per rafforzare le ali dello schieramento, particolarmente minacciate. Dopo una dura serie di assalti e contrassalti, verso le ore 1 gli attacchi diretti contro le posizioni delle compagnie Cristofori e Simoni potevano considerarsi stroncati. Le colonne avversarie, in seguito alle gravi perdite subite, desistevano da ogni tentativo di progresso, e si accontentavano di mantenere impegnata la difesa. Più grave si dimostrava invece la situazione della compagnia Ruspoli. Protetto da una fitta cortina di nebbiogeni, il nemico era riuscito a infiltrarsi nel caposaldo, presidiato da sessantasette uomini. I vai centri di fuoco si erano visti così attaccati su ogni lato e premuti da presso dai carri. La lotta durò violentissima per un paio d’ore sinché, uno alla volta, i pezzi controcarro esaurirono le munizioni e, non potendo esserne riforniti perché rimasti isolati, furono costretti al silenzio. Le armi automatiche venivano soverchiate dai carri. Alle ore 4 solo un paio di centri di fuoco resistevano ancora; il rimanente della compagnia s’era fatto uccidere sulle postazioni. Il comandante, capitano Ruspoli di Poggio Suasa (fratello del colonnello caduto l’antivigilia), rimasto pressoché solo, si accinse alla disperata impresa di difendere col suo moschetto l’ultimo lembo del caposaldo ancora non sommerso. In piedi fra il grandinare dei colpi, esortando pacatamente i superstiti a vendere cara la pelle, egli tenne così in scacco per più tempo il nemico dilagante sinché, colpito al petto dalla raffica di una mitragliera di carro armato, cadeva a sua volta sul campo. Ma non per questo cessò la lotta sul contesissimo e insanguinato ripiano di Munassib. I pochi superstiti della compagnia Ruspoli venivano raccolti e riordinati da altro ufficiale di cavalleria accorso volontario a sostituire il compagno d’armi caduto, e imbastivano successive resistenze per contenere il nemico incalzante. Alle ore 5 tutte le artiglierie del reggimento concentravano il fuoco con tiri di repressione sul caposaldo, consentendo così ai superstiti, una decina di uomini, di ripiegare. Alle prime luci del giorno 27 il comandante del battaglione (più volte ferito, ma rimasto volontariamente in linea) riusciva con i pochi uomini di cui sopra, con qualche rincalzo e con l’ausilio di mine frettolosamente deposte dai guastatori del Genio, a costituire una seconda linea di difesa contro cui si esauriva definitivamente ogni irruzione avversaria. Il nemico, a prezzo di durissime perdite, era solo riuscito a intaccare gli avamposti del 187° senza minimamente infirmare la solidità delle posizioni principali. L’offensiva sulla fronte della Folgore appariva già virtualmente fallita. *** … Nel corso del giorno 27 il nemico, efficacemente contrastato sul nuovo fronte di difesa di Munassib, tentava un ultimo attacco contro la compagnia di Simoni con elementi degollisti rincalzati da un battaglione del Queen’s Royal Regiment. La immediata, decisa reazione del presidio e il tempestivo intervento dei gruppi di artiglieria stroncavano l’attacco. Il nemico veniva rigettato con gravi perdite. Durante un contrassalto cadeva valorosamente alla testa dei suoi uomini il comandante della compagnia tenente Gastone Simoni. (Aveva venticinque anni, la sensibilità delicata d’un fanciullo e l’entusiasmo schietto di chi non è guasto dalla vita. Era un puro.) Non migliore risultato ottenevano altri rabbiosi attacchi condotti con forze corazzate sul fronte del 186°. Dappertutto il nemico si urtava a una resistenza di tale saldezza da fargli
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perdere ogni speranza di progresso; del che esso si rivelava a tal punto sconcertato da compiere gli ultimi tentativi offensivi senza convinzione né mordente aggressivo. Un ufficiale superiore inglese prigioniero, nel presentarsi a un nostro comandante di reggimento ebbe a dichiarare testualmente: “Credevamo di dover batterci contro degli uomini, per quanto famosi, e ci siamo urtati a dei macigni. Ogni vostro soldato, signore, è un eroe”. Durante la giornata del 28 il nemico, esausto, non rinnovava i suoi attacchi limitandosi a battere le nostre posizioni con violenti tiri d’artiglieria e di mortai. Veniva mortalmente colpito in tale circostanza il maggiore d’artiglieria Vagliasindi, che aveva sostituito, nel comando di un battaglione a Munassib, il comandante di reparto ferito. Il maggiore Vagliasindi decedeva più tardi nell’ospedaletto da campo, chiedendo al cappellano che gli mostrasse una bandiera, sì da spirare con l’ultima visione della Patria innanzi agli occhi. Il giorno 29, dopo qualche scontro locale, il nemico rinunciava definitivamente a ogni velleità offensiva. Ritirava le sue forze corazzate, lasciando a contatto con le nostre linee unità di fanteria che iniziavano lavori di rafforzamento. Nei giorni successivi gli opposti fronti si stabilizzavano e si iniziava una nuova fase di attività a carattere di guerra di posizione. L’offensiva tentata dal nemico contro la Folgore era in sostanza sanguinosamente fallita dopo sei giorni di accaniti e inutili attacchi. Gli inglesi avevano lasciato sul terreno sessantanove carri, più di seicento caduti e centonovantasette prigionieri, tra cui ventitré ufficiali. Le perdite della divisione, secondo le cifre pervenute nei primi giorni, e purtroppo di gran lunga inferiori alla realtà, erano di ventitré ufficiali e trecentocinquanta sottufficiali, graduati e paracadutisti caduti; di sedici ufficiali e duecentodieci sottufficiali e uomini di truppa feriti. Particolarmente glorioso il tributo di sangue offerto dagli ufficiali superiori. Su dodici comandanti di battaglione e di gruppo d’artiglieria, presenti in linea nel mese di luglio, otto erano caduti e due feriti. *** … Impegnati con ogni energia nella durissima lotta, i “ragazzi” della Folgore avevano in quei giorni prestato scarsa attenzione agli avvenimenti svolgentisi più a nord, ove, dal 24 – 25 ottobre, andava combattendosi sulla fronte del XXI Corpo d’Armata e delle unità di fanteria germaniche un’altra aspra battaglia, con alterne vicende. Le riserve inizialmente spostate dal Comando d’Armata sul tergo della Folgore, durante i giorni in cui questa era più duramente impegnata, erano state riportate verso la costa non appena accertato che i nostri paracadutisti, sia pure miracolosamente, erano in grado di resistere con successo alla pressione avversaria. Fra il 28 e il 30 ottobre anche l nemico ebbe evidentemente ad avvedersi che, se nessun serio risultato si poteva ottenere a sud, qualche speranza di successo andava invece delineandosi a cavallo della rotabile costiera. Ritirò allora i resti delle truppe corazzate accanitesi invano contro la Folgore e li scagliò ad alimentare la battaglia infuriante a nord. Fra il primo e il 3 novembre si combatterono lassù, fra le opposte unità corazzate, le giornate decisive della grande battaglia. Di fronte alla schiacciante superiorità in numero e mezzi dell’avversario, nella notte sul 3 novembre veniva ordinato il ripiegamento generale dell’Armata. Alle ore 23 il Comando della Folgore veniva telefonicamente avvisato ch’era d’uopo far arretrare nella notte la divisione sulla linea di Gebel Kalakh (venticinque chilometri più addietro). L’ordine, che doveva avere esecuzione immediata, giungeva fra i paracadutisti come fulmine a ciel sereno ché, ancora presi dall’euforia dei combattimenti vittoriosi dei giorni precedenti, non ritenevano particolarmente preoccupante la situazione del settore costiero.
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Il ripiegamento della divisione, effettuato in quelle circostanze, appariva estremamente arduo. Occorreva abbandonare le posizioni in due ore (prima dell’alba) senza che il nemico se ne avvedesse. Per mancanza di mezzi di trasporto l’intero armamento doveva essere trainato a braccia o trasportato a spalla, agli uomini, logori da malattie e da quattro mesi di vita in “buca”, si offriva la prospettiva di una improvvisa marcia celere di venticinque chilometri, nella sabbia e sotto il fardello di carichi eccezionali. Ma non ciò li costernava, bensì il dolore di dover volgere le spalle a quel nemico da essi costantemente battuto; e si dové far opera di paziente persuasione per convincerli della necessità di evacuare le posizioni. Il ripiegamento notturno, intrapreso dopo aver silenziosamente distrutto e inutilizzato tutto ciò che potesse riuscire utile all’avversario, fu tristissimo e faticoso. Nella notte oscurissima gli uomini marciavano penosamente, affondando nella sabbia, senza far parola. Gli artiglieri portavano seco gli otturatori dei pezzi abbandonati in linea perché intrasportabili. Le artiglierie mobili venivano invece trainate a braccia, faticosamente, da mute di paracadutisti alternatisi a ogni centinaio di metri. Altre mute trasportavano su barelle improvvisate i feriti. Un attendente recava sulle spalle la salma del suo ufficiale onde non rimanesse insepolta fra gli avversari. Al sorgere del sole del giorno 3 novembre i primi scaglioni della divisione raggiunsero esausti, ma in mirabile ordine, le posizioni prestabilite. Il nemico, tenuto a bada da retroguardie, non aveva disturbato eccessivamente il movimento. Assai grave si delineava peraltro la nuova situazione logistica poiché gli uomini, carichi di munizioni, avevano potuto recar seco una sola giornata di viveri e di acqua; il resto era stato distrutto. Se, come in effetti avvenne, le comunicazioni con la costa fossero state interrotte, la Folgore avrebbe avuto possibilità di vita per poche ore. Il giorno 3 fu trascorso assestandosi sulle nuove posizioni, prive peraltro di ogni preesistente sistemazione difensiva. I paracadutisti scavarono con i pugnali rudimentali trincee e vi sistemarono le armi portate seco. Nel corso della giornata sopraggiunsero tre autobotti partite dai pozzi della costa poco prima che le avanguardie avversarie vi giungessero e sfuggite miracolosamente ai mitragliamenti dell’aviazione avversaria che martellava le piste e i valichi. Ciò valeva ad aumentare d’una giornata di acqua le riserve. Ma dalla mattina del 4 ogni ulteriore comunicazione con le basi fu definitivamente interrotta. La Folgore era isolata nel deserto. Giova ricordare che la divisione occupava nello schieramento dell’armata la posizione più meridionale. Era difatti l’unità più addentro nel deserto e, come tale, la più difficilmente ricuperabile. Non potendo più ripiegare verso il mare perché già sopravanzata dalle forze nemiche (che in quel giorno erano alle porte di Fuka), la sua sorte era segnata: ché il tentare di ritirarsi verso la Cirenaica a piedi, attraverso ottocento chilometri di deserto, in zone totalmente prive di pozzi, era eventualità apparentemente impossibile. Ma la Folgore decise di tentare ugualmente. Solo nel tardo pomeriggio del 3 le truppe nemiche fronteggianti le primitive posizioni della divisione si erano avvedute che questa aveva evacuato la linea. Messesi sulle piste dei paracadutisti (con molta cautela, ché il timore che ne avevano faceva temere loro qualche tranello o ritorno offensivo), esse giunsero a contatto con le nuove posizioni della Folgore nella mattina del 4. Vi trovarono solo delle retroguardie, assai aggressive. La divisione, ridotta a poco più di tremila uomini, aveva nella notte effettuato un altro balzo indietro e marciava penosamente per tentar di raggiungere il meridiano di Fuka. Lo stesso giorno, però, altre colonne meccanizzate nemiche provenienti dalla costa apparivano sul suo fianco. Il cerchio andava chiudendosi. Nella mattinata successiva il nemico sferrava da più direzioni puntate di autoblinde sulla colonna ripiegante. Veniva respinto. I nostri uomini, esausti, febbricitanti, privi d’acqua e di viveri da ventiquattr’ore, reagivano rabbiosamente, con urla rauche, agli attacchi. Il calare della sera trovò i paracadutisti sfiniti, ma vigili, intenti a sistemare le loro
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posizioni. Un ufficiale del Corpo d’Armata, riuscito fortunosamente a prendere contatto con la colonna dei paracadutisti, così scriveva al suo comando: ”Ho percorso tutta la linea della Folgore. È commovente vedere questi ragazzi scarni, affaticati, dagli occhi lucidi, scavare buche, pulire i fucili mitragliatori e prepararsi all’estrema resistenza. È la più bella prova del dominio della volontà. È manifestazione di virtù incomparabile”. *** Gli uomini non sono però in condizioni di riprendere il cammino. Da due giorni non hanno nutrimento alcuno e si dissetano con poche gocce di guazza notturna.quasi tutti hanno i piedi insanguinati. La temperatura, gelida di notte e torrida di giorno, sfibra anche i più validi. Appare impossibile il proseguire. Non altre soluzioni restano che la resa o il battersi sino all’esaurimento. I paracadutisti, senza eccezione alcuna, decidono di resistere a oltranza. Si schierano ad anello, col Comando della divisione al centro, e attendono. All’alba dell’indomani, con batterie affluite da ogni direzione, il nemico inizia il martellamento concentrico delle groppe desertiche ove s’era asserragliato quel gruppo di eroi1. Da quel momento le vicende della Folgore cessano d’essere storia e divengono leggenda. Dai bollettini avversari si sa che tre giorni dopo essa combatteva ancora. Il giorno 8 il nemico comunica dal Cairo: “La resistenza opposta dalla divisione di paracadutisti Folgore è invero ammirevole”. Il giorno 11:”I resti della divisione italiana Folgore hanno resistito oltre ogni limite delle possibilità umane”. E infine (Londra, BBC, 3 dicembre):”Gli ultimi superstiti della Folgore sono stati raccolti esanimi nel deserto. La Folgore è caduta con le armi in pugno…“ Vi è un certo punto del deserto di Alamein, al K. 42 della “pista dell’acqua” un cimiterino, nudo, senza pretese architettoniche né steli votive; tanti tumuli allineati, delle croci di abete, dei nomi: tutto qui. Ma v’ha nel mezzo una semplice scritta che vale di più d’una intera epigrafe: FOLGORE. A chi la capisce essa dice: FRA LE SABBIE NON PIÙ DESERTE SON QUI DI PRESIDIO PER L’ETERNITÀ DELLA FOLGORE: FIOR FIORE D’UN POPOLO E D’UN ESERCITO IN ARMI. CADUTI PER UN’IDEA, SENZA RIMPIANTO, ONORATI NEL RICORDO DELLO STESSO NEMICO , ESSI ADDITANO AGLI TIALIANI, NELLA BUONA E NELL’AVVERSA FORTUNA , IL CAMMINO DELL’ONORE E DELLA GLORIA. VIANDANTE, ARRESTATI E RIVERISCI. DIO DEGLI ESERCITI, ACCOGLI GLI SPIRITI DI QUESTI RAGAZZI IN QUELL’ANGOLO DI CIELO CHE RISERBI AI 2 MARTIRI ED AGLI EROI.
NOTE
1. Bechi non poteva sapere come finì la Folgore, neppure nei pochi mesi di vita che gli rimanevano: cercò di ricostruirne gli ultimi giorni dalle notizie imprecise e frammentate avute dai rari paracadutisti scampati alla cattura. Il lettore potrà conoscere la verità dagli appunti del generale Zanninovich, in questa stessa raccolta. La vicenda di Bechi fu singolare. Al comando della divisione erano arrivati nuovi pressanti ordini perché egli raggiungesse il nuovo incarico al comando della Nembo, in Italia, e il generale Frattini gli ingiunse di partire immediatamente. La sera del 2
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novembre, nella calma assoluta che regnava nello schieramento meridionale, Bechi andò al comando per prendere congedo e consegnare alcune proposte di ricompense, e partì a notte inoltrata, qualche ora prima che giungesse affatto inatteso l’ordine di ritirata generale. Puntò verso la costa, trovò una certa confusione nel deserto buio e si accorse improvvisamente d’essere chiuso nelle colonne nemiche in veloce avanzata verso occidente. Pensò di tornare alla divisione per dividerne le sorti, ma sarebbe stato inutile e folle tentativo. Decise allora di giocare d’audacia. Era di tipo anglosassone, come il suo attendente, e parlava un perfetto inglese: viaggiavano senza copricapo, con impermeabili mimetici britannici d’ordinanza, sopra una jeep di preda bellica che portava ancora la targa originale. Seguì il movimento, e sulla litoranea, all’alba, forzò l’andatura, risalì indisturbato le avanguardie, rallentando quando le vedeva procedere con cautela, e finalmente rientrò nelle nostre retroguardie, prima di El Daba. Ma era evidente che tutto il deserto era ormai coperto da autoblindo delle quattro brigate corazzate che sciamavano per rastrellare la massa degli italiani abbandonati senza automezzi. Capì che non avrebbe più potuto tornare alla divisione e si rassegnò all’ordine che portava in tasca. Un rimpatrio che conteneva un ben tragico destino. 2. Questa iscrizione, finalmente materiata in marmo, orna dal 1941 la Corte d’Onore del Cimitero Militare Italiano di Quota 33 presso Alamein, e dal 1969 la cappella votiva Folgore sulla costa di Castro Marina, tra Otranto e Leuca. Ce ne vorrebbero molti altri esemplari, bene in vista, nelle caserme, sulle case, nei sacrari. Ma chi, in Italia, legge ancora le lapidi?
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-6MADE IN USA DAVIDE BERETTA del capitano Davide Beretta, milanese, comandante la 1a batteria del 554° gruppo semoventi da 75/18, 3° reggimento artiglieria celere “Duca d’Aosta”, divisione corazzata “Littorio”. Medaglia d’argento, fu tanto gravemente ferito e mutilato durante la battaglia che a lungo si disperò di salvargli la vita, e più tardi di fargli ricuperare la memoria. Ma guarì, e si riprese soprattutto grazie a una volontà d’acciaio. Architetto. Il brano pubblicato è tratto dal suo volume “Batterie semoventi, alzo zero”, Milano 1968, Mursia. Guardavo, affacciato fuori dei portelli del semovente e col viso rasente i sacchetti di sabbia posti a protezione del posto di osservazione, l’affascinante duello delle macchine che l’ingegno dell’uomo aveva fabbricato per uccidere. Sgomento compresi che il sottile velo dei corazzati italiani e tedeschi non avrebbe potuto continuare ad arginare quell’immenso brulichio di fantasmi bianchi che infittivano con un crescendo esasperante. I capi – carro, con voce angosciata, segnalavano, via radio, di essere prossimi all’esaurimento delle granate, del carburante, dell’acqua per il raffreddamento dei motori ormai roventi. Sperando nel miracolo e nell’imminente tramonto del sole, aggiustai il laringofono alla gola per trasmettere agli equipaggi le solite e forse inutili parole d’incitamento a resistere e a sparare sino all’ultimo proietto contro la bianca marea nemica incalzante, quando una sibilante e spaventosa sferzata mi frustò la guancia sinistra. L’ora del destino segnava le 16.18 del 30 ottobre 1942, nei pressi di Quota 33, ormai soffusa di una luce crepuscolare. Anche per me era giunto il momento di morire. In quell’attimo, in quel lembo di sabbia rossa, il dover morire mi sembrò la cosa più naturale del mondo. Un proietto di Sua Maestà britannica, made in USA, calibro 75, mi aveva lacerato mezza guancia, dopo aver trapassato il sacchetto protettivo, trascinando nel suo guizzo una frustata di sabbia rovente che aveva completamente accecato. Non provai alcun dolore: soltanto uno strano senso d’immenso stupore mi attraversò la mente come folgore. Poi, senza nulla vedere, cominciai a sentire un rivolo di sangue caldo che correva per il viso e scendeva giù, giù, sempre più giù per il corpo, lentamente. Con le unghie, disperatamente, avevo lacerato il sacchetto di sabbia che mi stava davanti, spinto dalla volontà di non dover cadere, ma una forza misteriosa mi trascinava sempre più in basso, come se il fondo del semovente non avesse più fine. Percepii delle parole concitate e delle imprecazioni urlate dai ragazzi dell’equipaggio e molte mani che mi sorreggevano, ma che sembravano spingermi in un vuoto infinito. Sentii strapparmi dalla testa insanguinata il casco nero e la cuffia radio, in parte distrutta e asportata dalla rabbia del proietto nemico. Non vedevo più il vorticoso frullare della sabbia e non udivo più gli schianti assordanti e i lugubri boati delle granate rincorrersi sulla petraia ammantata di sabbia. Non potevo più ammirare l’immensa volta del cielo, offuscata dalle nuvole di polvere rossa e l’incantesimo del vespero, contaminato dalle spirali capricciose di fumo oleoso che usciva dai relitti di carri armati, sparsi un po’ dappertutto. Non scorgevo più il sole; eppure, in quel momento c’era tanta luce bianca che sembrava accecarmi anche se gli occhi erano ormai spenti. Tentai, allora, di balbettare qualcosa ai ragazzi dell’equipaggio, ma le parole che volevo pronunciare arrivavano a stento fino alle labbra, poi le sentivo sfuggire e perdersi fra i denti. Forse, solo in quel momento, compresi che la morte non era mancata all’appuntamento di Quota 33. Sentivo il suo alito di ghiaccio che, dalla fronte perlata di sudore, scendeva lentamente lungo i rivoli non più caldi dell’ultimo sangue. Della morte percepivo la fredda
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sensazione e lo sgomento dell’annullamento assoluto, mentre nelle orecchie sentivo un urlio lacerante che si perpetuava all’infinito. Di tanto in tanto riprendevo conoscenza, ma tutt’intorno era sempre buio come se una notte precoce avesse inghiottito l’immenso deserto e sospinto via, all’improvviso, gli uomini e le macchine, disperati protagonisti di un’allucinante carica senza fine. Quindi, il senso delle cose terrene e il ricordo di quello che era successo si perdevano nella mente diffondendosi in un torpore commisto al sonno. Supplicai la mia piccola stella perché potessi continuare la battaglia, ormai affascinato dalla fantastica parata dei carri nemici che irretivano i semoventi, ma quelle tenebre opprimenti avevano già offuscato tutto l’orizzonte, e allora, rassegnato, attesi il gran momento: quello della più grande esperienza della vita. Poi persi i sensi.
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-7IL CARTELLINO DI MEDICAZIONE del tenente colonnello in spe GIUSEPPE BONINI, nato nel 1893 a Bologna, comandante il 133° reggimento carristi, divisione “Littorio”. Reduce dall’Isonzo, dal Carso e dalla Spagna, più volte ferito e decorato. Il lettore ritroverà il suo nome nel testo di Campini. Chiuse la sua vita nel 1970, altrettanto schivo di onori e di parole quanto era stato valoroso al fuoco e paterno con i suoi dipendenti. Non volle neppure collaborare a questa raccolta. E tuttavia non poteva mancarvi, anche se il brano che lo riguarda non è scritto da lui. È il più conciso di tutti, un cartellino che si appendeva al collo dei feriti, riempito dal medico che lo curò. Documento minimo, ma di poderosa eloquenza. Aggiungasi che Bonini, per non aver voluto abbandonare i pochi superstiti del reggimento, rischiò la morte per cancrena e fu salvato per miracolo. COGNOME
NOME
Bonini
Giuseppe
GRADO
CORPO O REPARTO
Ten. Colonnello
133° Reggimento Carristi
NUMERO MATRICOLA
FERITO O DECEDUTO
a Alamein il 2.XI.1942 ore 4
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DIAGNOSI
Ferita trasfossa alla coscia sinistra CURE PRATICATE
Medicazione e drenaggio INIEZIONI PUO' CAMMINARE DA SE'? E' TRASPORTABILE? SU BARELLA?
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Antitetanica Sì
SU CARRO?
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URGE RIMEDICATURA? URGE SGOMBERO? ANNOTAZIONI SPECIALI
L’ufficiale rifiuta il ricovero ospedaliero IL MEDICO
firmato: illeggibile
BONINI IL CARTELLINO DI MEDICAZIONE
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-8CHISSÀ PERCHÉ ERANO NEMICI del capitano nobile VITTORIO EMANUELE BORSI DI PARMA, classe 1910, aiutante maggiore in prima del 66° fanteria “Trieste”. Più volte ferito, otto volte decorato al valor militare, è una delle più intrepide e serene figure delle trecento ore. La sua brillante carriera si sviluppò poi alternando in ogni grado il comando di truppa e il servizio di stato maggiore, sempre in primo piano. Giunto all’alta dignità di generale di Corpo d’Armata, ha assunto nel 1970 un comando di impegno e di responsabilità: quello del V corpo, alla frontiera orientale. Pubblichiamo numerosi passaggi di una sua bella lettera alla consorte, e riteniamo, considerando la lunghezza del messaggio, che sia stato scritto a diverse riprese, nelle soste altrettanto affannose quanto i movimenti: scritto” sul tamburo”, come si diceva al tempo di Austerlitz. Senza dubbio alcuno, esso è tra i pochissimi che in quei giorni, dal caos che è proprio di ogni ripiegamento, poterono giungere a destino: infatti l’autore l’affidò a un collega ferito e avviato alla nave ospedale. Tuttavia il testo, con rigorosa disciplina, rispetta le disposizioni superiori e tace ogni notizia militare di località e reparti. Persino nell’episodio dei carristi il nome di una prestigiosa divisione corazzata è occultato dietro una linea di sei puntini. Ma si tratta evidentemente dell’”Ariete” e del 4 novembre, tra Bir el Abd e Deir el Murra, dove il 132° reggimento carri e gli altri avanzi della divisione furono annientati sotto gli occhi di Borsi, dovendo il 66° proteggere il fianco settentrionale di quello schieramento. Lo stesso 66° era assai provato, e per le proprie perdite e per la scomparsa del 65°, il reggimento gemello, distrutto due giorni prima a Tell el Aqqaqir. Anche gli altri episodi narrati devono ritenersi compresi tra il 2 e il 4 novembre, e si accordano con le espressioni di ammirazione che vennero tributate a quei reparti tanto dal radiomessaggio ufficiale tedesco del 4 sera, quanto dai successivi scritti di Rommel. Novembre 1942 Mia cara, ormai avrai appreso dal bollettino del Comando Supremo che la battaglia iniziata il 23 ottobre sta per giungere a un epilogo per noi non tanto favorevole. Ti chiedo perdono se nei giorni scorsi ho potuto scriverti solo saltuariamente e limitarmi a pochissime frasi o a telegrammi. … Il 23 ottobre si è scatenato un inferno da terra e dal cielo. Non è stata una sorpresa, ma ti confesso che molti di noi eravamo pessimisti sulla possibilità di affrontare un attacco nemico. Quando si è rovesciata quella furia sulle nostre linee, guardavo i miei soldati, pensavo a quelli ancora più esposti, alle loro mamme, ai loro papà, alle loro spose, alle loro fidanzate, ai loro figli, a tutti quelli che li amano e che loro amano. L’inferno tuonava implacabile, odioso, maledetto. Pensavo alla storia dell’umanità e cercavo di convincermi che tutto ciò che accade, non accade invano, ha una ragione anche nella sua irrazionalità. Il male, quindi, genera anche il bene. Io mi rassegno, ma vedo i miei soldati con l’aureola dei martiri.
BORSI DI PARMA CHISSÀ PERCHÉ ERANO NEMICI
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… Ci hanno ordinato di muovere e di contrattaccare. Dobbiamo riconquistare una posizione perduta. Si attraversano luoghi dove sono avvenuti scontri cruenti. Quanti carri bruciati dall’una e dall’altra parte, quanti morti! Su di un carro una testa e un braccio sono appoggiati alla torretta. Quella testa ha un ghigno. Mi avvicino: testa e braccio sono uniti, ma manca il resto del corpo. Fisso quegli occhi spalancati. “Spero che tu non abbia molto sofferto”. E guardando lui vedo sua mamma e suo papà che gli stanno ancora scrivendo e gli dicono tante belle cose per quando la guerra sarò finita e lui tornerà a casa. Vedo anche una sposa pallida e triste e due bei marmocchi spensierati. La vita e la morte. Addio! Chissà perché erano nemici? … L’artiglieria avversaria riversa su di noi la sua collera rabbiosa. Mi avvicino a un ferito: ha una gamba spezzata. “Coraggio, stringi con questa cinghia la coscia: adesso verranno i portaferiti”. Risponde: “Non importa. Credo che sia inutile. Non si preoccupi di me. Vada con loro, vada. Ho fatto il mio dovere. Occorre riconquistare. Il resto non conta”. … Vado avanti e mi viene incontro, trascinandosi, un portaordini. Mi dà un biglietto e stramazza a terra.: “Lo manda il signor capitano, presto presto, attaccano i carri, artiglieria”. “Ma sei ferito?” “Sì, ma attaccano”. I carri avversari hanno attaccato: i nostri resistono con disperata determinazione. I puntatori dei cannoni controcarro, infallibili, piangono dalla disperazione: i proiettili non forano la corazza nemica. … I nostri soldati sono impareggiabili cacciatori: un carro inglese cade in un agguato e viene incendiato. L’equipaggio esce rapidamente e si arrende, ma un Tommy brucia come una torcia. I suoi commilitoni, storditi, non lo soccorrono. I nostri fanti si lanciano verso di lui, lo avvolgono in coperte, in stracci, gli strappano i vestiti. Povero Tommy, è rosso come un gambero e gli italiani gli offrono sigarette, acqua, cibo, quelle povere poche cose che hanno, e lo curano come una mamma curerebbe la sua creatura. Sono questi i nostri combattenti. Hanno uno sprezzo della vita che lascia attoniti. … Si sta avvicinando una nostra compagnia di carri e si attesta protetta da una duna che la sottrae alla vista dell’avversario e alla sua offesa. Parlo con il comandante, un giovane capitano pieno di entusiasmo. Guardo i capi carro che sporgono dalle torrette. Si fanno tra di loro segni scherzosi. Eppure vanno incontro alla morte. Ma sembra che ciò non li riguardi. Raccomando al collega molta cautela: il reparto è venuto da poco quaggiù e cerco di dargli la mia esperienza di veterano. Mi risponde che l’assalto carrista non può conoscere soste, che è indispensabile, soprattutto, accorciare la distanza con l0avversario data la modesta gittata dei cannoni che armano i nostri carri. Insisto perché attuino una tattica d’agguato. “Ma noi siamo carristi dell’…”Si lanciano spavaldi come cavalieri antichi e dopo pochi minuti i dodici carri sono immobilizzati, bruciano, e con essi i corpi di quei valorosi. … Quei pavidi che sono ben protetti dalle bombe, ben vestiti, impomatati, con pancetta fiorente, certamente criticheranno questi uomini convinti di ciò che è stato loro insegnato, fiduciosi nel materiale loro affidato, sicuri di sé. Un soldato, invece, si inchina in rispettosa ammirazione.
BORSI DI PARMA CHISSÀ PERCHÉ ERANO NEMICI
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Ti ho raccontato alcuni dei tanti episodi dei quali sono stato testimone. Non volevo farlo perché temevo che potessero accrescere la tua apprensione per me. L’ho fatto perché, se lo desideri, tu ne possa parlare a coloro che sono rimasti in Italia. è un omaggio anche questo ai giovani che muoiono sorridendo, forse perché chi è giovane non prende sul serio neppure la vita.
BORSI DI PARMA CHISSÀ PERCHÉ ERANO NEMICI
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-9CONTROBATTERIA del sergente maggiore ALDO BRIZI, classe 1919, da Gorizia, già artigliere da montagna, che ad Alamein apparteneva al IV gruppo del 1° reggimento artiglieria celere “Eugenio di Savoia”. Accompagnando il seguente brano di uno scritto salvato dal caos di quelle giornate ,ha voluto precisare: “Appartengo alla truppa, vengo dalla gavetta e non sono uso a dir le cose in modo letterario”. Sarà. Certo è che queste cose non potevano essere dette meglio. Brizi è funzionario comunale a Barga in Garfagnana. Ognissanti, novembre 1942 … Il fuoco inglese, serrato e nutrito, non ha smesso un istante dalla sera del 23 ottobre. Qui da noi si è particolarmente accanito, e ora sembra voglia aumentare la furia e la precisione, sopra quel nostro pezzo da 75/27 modello 1911 che fa tiro di controbatteria. Prima che partisse il caporale portalettere ho buttato giù due righe sopra una cartolina in franchigia, ma davvero non sapevo che cosa scrivere. Ho messo, per dir qualcosa, che vivo intensamente queste giornate. Altro che intensamente. Chissà se il caporale arriverà alla posta divisionale, se questa funziona ancora, se la cartolina supererà tutte le migliaia di chilometri di strada desertica e di cielo, sempre sotto la minaccia aerea e navale, chissà se arriverà a destino. E chissà se un giorno ci arriverò io, allo stesso destino, a casa mia, per rileggermi quello che scrivevo da qui e per rievocare questa orribile Quota dei Carri Bruciati, cioè Quota 73 di Deir Omm el Khawabir dove hanno sbattuto il nostro gruppo, chissà perché, a una quindicina di chilometri dal comando di reggimento. Non ho mai visto un deserto peggiore, pietra e sabbia, senza uno solo di quegli arbusti bassi che ho visto spesso altrove. Dietro abbiamo la Pista Rossa, davanti le fasce minate che segnano i limiti dell’area di sicurezza che chiamano “cassone C”, e finalmente, nella terra di nessuno, la Pista dell’Acqua, proprio dove c’è appunto il gruppetto macabro dei carri bruciati. Sono tre Grant inglesi e due Mark IV tedeschi che si sono massacrati a vicenda, in un raggio di cento metri, a corpo a corpo. Uno è esploso, e la torretta è volata via come un tappo di spumante, lontano, infilandosi nella sabbia e piantandovi dentro il cannone come un paletto. A destra, interrato e invisibile, c’è il I battaglione del 20° fanteria Brescia, a sinistra, ugualmente invisibile, il III del 39° fanteria Bologna. Altro che giornate vissute intensamente, è un caldarone d’inferno per noi vivi, che dura non so da quanto: ore? Giorni? Settimane? Potrebbe definirsi sagra dei marti. E intanto il nostro pezzo che fa controbatteria incassa colpi di ogni calibro, ma spara sempre: la piazzola è quasi distrutta, i serventi hanno la faccia scavata dal caldo, dalla fatica, dalla tensione delle troppe giornate di coraggio. Dicono che il coraggio ha un limite, ma io smentisco: basta guardare questa nostra meschina bocca da fuoco che continua a rispondere ai calibri più massicci. Stavolta si teme che la fortuna ci sia avversa malgrado l’ardimento. Il nemico sta smantellando i nostri più bei reparti, anche il nostro reggimento già carico di tanta storia e ornato dal bel nome antico del principe condottiero. … Poco fa un boato più fragoroso degli altri ha segnato la fine del 75 che aveva avuto la consegna di tirare fino all’ultimo colpo. Si è frantumato in mille pezzi. Non esiste più.
BRIZI CONTROBATTERIA
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- 10 COSTONE DI MITEIRIYA del capitano TULLIO CAIMI, classe 1901, da Rovereto, comandante la 11 a compagnia, poi il III battaglione del 61° fanteria “Trento”. Di professione commerciante. Già volontario in Libia (1922) e Spagna (1937 – 39), fu richiamato per la seconda guerra mondiale. Condusse al fuoco la sua gente con l’esempio e senza cedimenti, salvando situazioni disperate e meritando dai tedeschi, giudici severi e mal disposti, la eccezionale citazione del battaglione sul loro comunicato ufficiale, e due volte di seguito. Schivo, modesto e positivo, ha orrore delle chiacchiere, e dal suo stralcio di diario non risulta abbastanza che il III del 61° fu tra le migliori forze amiche o nemiche che si scontrarono in Africa Settentrionale. In quelle giornate di angosciosa baraonda, sotto il rullo compressore dell’avversario strapotente, tutto andò perduto: la testimonianza di fatti sublimi e il taccuino con i nomi dei morti e dei feriti, e grande ne è il rammarico di Caimi. Egli, a esempio, non possiede altro che una lettera riguardante la sua 10 a compagnia, scritta anni dopo dal prode comandante della stessa, capitano Milanesi. Questi era stato ferito da una pallottola di mitragliatrice alla regione sopracciliare destra, e dopo una sommaria medicazione era tornato al fuoco. Nuovamente ferito a una gamba e immobilizzato nel momento cruciale e conclusivo, era stato catturato. Più tardi, nell’ospedaletto inglese, si era incontrato con quattro suoi feriti, un caporalmaggiore e tre fanti, e da loro aveva appreso la morte di molti dipendenti, tra cui un veterano d’Africa, bolognese, telefonista della compagnia. Ma neppure nella lettera di Milanesi, purtroppo, v’è traccia di nomi. Il severo Caimi, come massima concessione, parlando dei fanti, chiude così il suo scritto: “In alcuni fatti d’arme si dimostrarono almeno alla pari del nostro alleato”. Ma Rommel aveva bisogno di tenere, con poca gente e in condizioni disperate, una posizione nevralgica e infernale come il Costone di Miteiriya. Pertanto, proprio lui che non faceva complimenti con nessuno, in specie con noi, decorò Caimi con le croci di ferro di prima e di seconda classe, rara distinzione concessa ai non tedeschi. ottobre 1942 Finalmente, dopo parecchie settimane di duro lavoro con metà della forza delle compagnie, il nuovo caposaldo è terminato, e il battaglione trasferito nella nuova posizione, sul lato ovest del campo minato K, dove il Costone di Miteiriya si presenta a tratti di sabbia e roccia. Mancavano detonatori, micce, dinamite: per questa si suppliva smontando mine anticarro vaganti. Sul margine est del caposaldo, che è trapezoidale, la 11a è schierata come campanello d’allarme in zona di sicurezza. A breve distanza sulla sinistra abbiamo il II/382° germanico comandato dal capitano Krüpfganz, mutilato di una mano e decorato della medaglia d’argento italiana. A destra c’è il II/433° germanico. 20.10.42 Dalla zona di sicurezza il tenente Cattania comandante della 11a segnala precisi rumori di cingolati in arrivo, e non sa come cavarsela perché è notte inoltrata. Ho il collegamento diretto col nostro 46° artiglieria e indico al tenente Bortolani gli ovuli di tiro dove urge aprire il fuoco. Dopo pochi minuti, con sollievo, sento le nostre granate passare sul caposaldo. L’intervento fa cessare il rumore dei cingolati. Il nemico tentava un colpo di mano. 21 ottobre
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Alle prime luci, senza preavviso, arriva il generale vicedivisionario e mi chiede chiarimenti circa l’intervento. Rispondo che non avrei richiesto un tanto intervento se non l’avessi ritenuto indispensabile. A sera visito la compagnia. I fanti sono esultanti per l’intervento dell’artiglieria. 22 ottobre Mi è stato tolto il collegamento telefonico con il 46° artiglieria. 23 ottobre Alle ore 20.45 si scatena il furioso bombardamento avversario. Il caposaldo è sconvolto, distrutti i reticolati e le riservette con armi e munizioni. Notevoli le perdite di uomini. 24 ottobre Il quadro del caposaldo, alle prime luci, è desolante. Bruciano ancora le munizioni che state insabbiate a qualche distanza dai centri di fuoco. Tutti i collegamenti telefonici interni sono distrutti, e il fuoco è tale che nessun movimento è possibile all’interno del caposaldo. La compagnia di sicurezza è stata probabilmente annientata senza superstiti. A sera, dopo nutrito fuoco di preparazione, II/382° è attaccato con tali forze da venire quasi totalmente distrutto dopo una furiosa lotta anche all’arma bianca. I nostri centri di fuoco concorrono al loro sostegno, ma le forze nemiche sono tanto preponderanti che le ultime resistenze vengono sommerse. 25 ottobre Situazione immutata. Riesco a comunicare telefonicamente, per la prima volta dopo il 23, con il comandante di reggimento colonnello Rabezzana: faccio presente la situazione molto grave e chiedo intervento di carri armati, ma senza successo. 26 ottobre Situazione immutata. Alle prime luci do ordine al plotone mortai di battere il terreno immediatamente davanti alla nostra linea e gradatamente allungare il tiro senza limitazione di colpi. Effetto temporaneamente positivo. Dopo alcune ore il caposaldo è invaso da carri armati nemici, senza accompagnamento di fanteria. Dal varco aperto sulla nostra sinistra, dove stava il II/382° , il nemico è penetrato e con movimento aggirante riesce a spadroneggiare senza che io possa chiedere al 46° artiglieria l’intervento dei nostri 88 preda bellica (il 46° ne possiede una batteria). Così il nemico, malgrado la tenace resistenza, ha prelevato tutta la 10a compagnia del capitano Milanesi che stava alle mie spalle, gran parte del plotone comando, e dei centri arretrati (9a compagnia del capitano Agnolotti e 12a del capitano Ghiringhelli).
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Nel pomeriggio, senza fiato, un portaordini germanico si presenta, inseguito dai colpi da 88 inglesi. Il comandante del 433° vuole notizie sulla situazione, che gli do per iscritto, firmando tale prova dell’effettuato servizio. Sono preoccupato per la sorte della 11a, non avendo ancora le prove del suo annientamento. Mando una squadra di soli sardi con un caporalmaggiore, tutti con armi automatiche, che passano il varco nel campo minato e raggiungono uno dei posti di corrispondenza. Trovano uomini in parte biondi, li prendono per germanici, ma per misura di sicurezza spianano le armi. Infatti sono inglesi, che si fanno catturare. La squadra ritorna coi prigionieri e con la notizia che la 11a è stata effettivamente annientata. Situazione insostenibile. Ormai il nemico è da tutte le parti, davanti, dietro e di fianco. Il fuoco incrociato non ci permette alcuna iniziativa. A notte giunge un ufficiale germanico con pochi superstiti del II/382°, chiede ospitalità e munizioni, ma dopo un po’ si allontana. Un rumore di cingolati, nella notte, mi fa ritenere che tale gruppo sia stato rimandato sopra un’altra posizione: tale rumore mi è stato segnalato da un ufficiale del comando 433° germanico che è venuto a visitarmi. Pare che lo schieramento sia stato modificato. Arrivano, in rinforzo, i superstiti del nostro II/61° con un maggiore, che però rifiuta di prendere in consegna la posizione. Il bombardamento molto intensificato da mezz’ora investe anche la mia buca, mentre, all’esterno, sto conversando con ufficiali nostri e germanici. Si odono i caratteristici scoppi delle fumogene. Il maresciallo tedesco Enghert, che è di collegamento presso il mio comando, scorge per primo, nell’annebbiamento delle fumogene, sagome di soldati che irrompono di sorpresa con baionetta inastata. Ben pochi arrivano a por mano alle armi, e intuendo che il momento supremo è giunto, ordino il contrattacco in italiano e in tedesco, ma non v’è più nulla da fare. Mi viene misurato un colpo di baionetta al basso ventre: non ho alzato le mani. Bombe a mano vengono lanciate nella mia buca. Posso assicurare che le armi furono adoperate senza economia di munizioni dai nostri valorosi fanti, che in alcuni fatti d’arme si dimostrarono almeno alla pari del nostro alleato.
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- 11 CATALOGO DEGLI AVVENIMENTI di DINO CAMPINI, classe 1911, da Asti, capitano del 133° reggimento carri “Littorio”, IV battaglione. Comandante la 1a compagnia, ebbe successivamente ai suoi ordini, nella battaglia di Alamein, anche il battaglione e il reggimento, in conseguenza della perdita dei superiori. Ferito e decorato, reduce anche di Etiopia, Spagna, Albania e Tunisia. Noto scrittore di multiforme e geniale ispirazione, si è fatto conoscere per le seguenti opere: “Eroismi e miserie a El Alamein”, “Le piccole corna”, “Crisaline”, “Pellerossa”, “Re della nostra Italia: Vittorio Emanuele III”, “La principessa martire: Mafalda di Savoia”, “La peinture d’Alexandre Cavo” (Parigi), “Vita del Serafico: San Francesco”, “Giunta Pisano e le croci dipinte romaniche”, “La scultura di Umberto Milani”. Di particolare rilievo la poderosa “Storia dell’arte dalle origini ai nostri giorni”, in sei volumi, ed. ELI, Milano; e “I giardini del diavolo”, storia completa dei carristi della “Centauro”, dell’”Ariete” e della “Littorio”, Longanesi & C., Milano, 1969. Campini occupa, tra coloro che scrissero di Alamein, uno dei primi posti, per priorità cronologica e per brillante esposizione. Pubblichiamo la parte essenziale del libro “Eroismi e miserie” citato. L’asprezza e la immediatezza dello stile, se conferiscono particolare vigore al testo, vanno però a scapito della serenità. Aggiungiamo che la convinzione è tuttavia evidente e onesta in ogni pagina. LO SCHIERAMENTO
La divisione Littorio era, insieme con elementi tedeschi, costituita in Raum1. Tre erano questi raggruppamenti: quello Nord, quello del centro e quello del Sud. Quello del centro,il nostro, poggiava su Quota 33 di El Alamein ed era formato dal IV battaglione carri medi, dalla 8a compagnia carri tedesca, da granatieri tedeschi del 115° reggimento, dal XXIII battaglione bersaglieri, da un gruppo di cannoni da 149, da un gruppo di cannoni da 88 e da un gruppo di carri semoventi da 75. Davanti a noi, a tre o quattro chilometri, a tenere la linea, tra i campi di mine, la divisione Trento insieme con granatieri germanici e artiglierie sparse tra i reparti. Il nostro schieramento si poteva definire, considerandone la profondità , offensivo. Tutto proiettato in avanti, compresi gli ospedali da campo! L’ATTACCO NEMICO
Il giorno 23, alle ore 20 circa, mentre si discorreva delle tante inutili cose lontane col capitano Piccinini, si fermò da noi una di quelle piccole macchine dei tedeschi e un ufficiale ci chiese come poteva ritrovare la “Otto Piste”. Da quel punto, la famigerato “Otto Piste” si districava tra infinite piste sabbiose difficilmente identificabili di notte. Alla meglio orientammo il collega su un gruppo di stelle caratteristiche e, mentre lo guardavamo allontanarsi a bordo della sua minuscola vettura, tutto l’orizzonte a est si accese di un fuoco rossastro. Il groviglio di artiglierie del Ruweisat parve un fantastico incendio. L’attacco nemico si rivelò con tiri di artiglieria di inusitata violenza sul nostro schieramento e particolarmente su quello del Raum del centro.
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Il IV battaglione carri medi 41, con due compagnie avanzate e una in rincalzo a cavallo di Quota 33 di El Alamein, fronte a est, subì, ininterrotta, l’offesa dell’artiglieria e dell’aviazione nemica. La linea fiammeggiava, le radio erano impazzite dal disturbo nemico, le stelle verdi dei razzi di allarme si ripetevano da tutte le parti. La nostra artiglieria era un po’ disorientata. Il nemico aveva scelto per l’attacco un’ora psicologica: quando di sera, tutti, chi più chi meno, erano in cerca di nuove. Si aggiunga che è raro che in colonia, a linee ferme, si attacchi dopo l’imbrunire: il nemico era fin troppo al corrente delle nostre abitudini e del nostro schieramento. *** Le prime notizie, nella notte, si ebbero dal sottotenente Marchigiani Fazio, che venne a riferire che tra i suoi carri erano giunti dei fanti della Trento ce asserivano di provenire da oltre le fasce minate. Il loro battaglione era stato accerchiato, dicevano.
INCERTEZZA DELLE FANTERIE
Mezzanotte era, e i carri distavano dal campo di mine un quattro chilometri: se quei soldati non raccontavano storie, nel percorrere di buca in buca la distanza in quell’inferno di artiglieria, più d’un chilometro per ora non potevano aver fatto. La linea della fanteria allora non aveva resistito già dall’inizio. Poteva darsi però, conclusi, che quei soldati esagerassero, sorpresi in corvè dall’attacco: e le cose non erano così gravi. Gravissime erano. È indubbio che la linea della fanteria dimostrò una capacità reattiva minima. Le cause erano molteplici, assolute e contingenti. Tra le assolute è da considerare l’avvento dei meccanizzati che ha fiaccato lo spirito delle fanterie: il fante pensa al carro come a un mezzo invulnerabile, ignorando quante siano le preoccupazioni del carrista che ha il nemico più insidioso proprio nel cannone di fanteria. Causa contingente, che concorreva a indebolire il morale dei reparti al fronte egiziano era, tra le altre, una circolare dello stato maggiore che prescriveva, per il rimpatrio, una permanenza nei reparti operanti, cioè in linea, perché non si parlò mai di riposo, di trentasei mesi. Trentasei mesi di linea in quel tipo di Africa, senza un permesso. Chi ha ideato questo delitto non ha mai visto neppure un ingenuo cammello. Notizie successive confermarono la gravità della situazione; il nemico allungava il tiro. Riuscii a raggiungere al comando il tenente colonnello Casamassima, comandante del battaglione. Anche lui con le radio in disordine, i telefoni per aria, senza collegamento. Tornai al mio posto, deciso a ordinare il fuoco su tutto quello che si fosse presentato davanti ai carri, nemico o amico che fosse. In attesa di una livida alba, che apparve insabbiata e polverosa tra gli scoppi, la notte trascorse. MI SCRISSE LA MADRE…
Spuntò l’alba del 24 ottobre, si ritrovarono i collegamenti. Chiaro ormai che le fanterie poste a difesa dei varchi dei campi di mine non avevan sostenuto l’urto, ci spostammo a sud per proteggere le nostre artiglierie rimaste scoperte. L’avversario tentò di impedire il movimento. Una granata da 88 cadde pochi metri innanzi al mio carro, non esplose, rimbalzò,
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come un sasso piatto sull’acqua, fischiando paurosamente per la perdita della spoletta e ricadde indietro, dopo di aver compiuto una curva perfetta. Il tenente Chiodi Garibaldi, aiutante maggiore del battaglione che era già con me in Spagna al 1° reggimento d’assalto Littorio, rimase gravemente ferito a una spalla da una scheggia. Una scheggia stroncò le gambe al mio portaordini Ferro. Lo rivedo, questo soldato siciliano, taciturno, con gli occhi vivaci, sempre a lustrarsi la moto e a rappezzarla. Mi scrisse la madre: non credeva alla morte del figlio. Una povera lettera dolorosa a cui non risposi: mi era così difficile! Un’altra scheggia alla testa uccise il sottotenente Mantovani. Era tra noi da due giorni, giunto dall’Italia, entusiasta. A ovest delle sacche minate davanti a Quota 33, intanto, s’andavano ammassando confusamente mezzi blindati nemici. Parve però in quel giorno che la situazione si ristabilisse: pur sotto il martellare dell’artiglieria e dell’aviazione i tedeschi riuscirono a costituire una linea e noi tornammo sulle nostre posizioni dove si fimase fin nel pomeriggio quando, riapparsa una minaccia di mezzi blindati e corazzati dalla direzione est – sud – est, ci riportammo davanti ai cannoni del gruppo Giorgiolè. L’ANIMA DEI CARRISTI NON LASCIA IL MOTORE
A mezzodì del 25 ottobre, dopo un breve rapporto del tenente colonnello Casamassima, fissata una direttrice di attacco, a formazioni aperte, in quarta velocità, ci si scontrò con l’avversario. Combattimento rapido e sanguinoso: il nemico, fermo, aveva la scelta dei bersagli. L’effetto dei perforanti sulle nostre corazze si rivelò una sorpresa: proiettili al fosforo usati per la prima volta e che incendiavano l’ambiente dove esplodevano. Una triste esperienza. Si consideri anche la minor velocità dei carri tedeschi della 21a divisione, partiti con noi all’attacco e che erano rimasti indietro. Il fuoco che doveva distribuirsi su quattro chilometri di fronte si concentrava sui mille metri del nostro schieramento. Non potevano certo aver buon gioco i nostri carri di quattordici tonnellate con un cannone da 47 contro quelli nemici del tipo Pilot, di ventotto, con un cannone da 75. Neppure a numero pari potevano aver buon gioco. Figuriamoci nella proporzione in cui erano di uno a quattro! Nonostante questi svantaggi, mentre qualcuno dei nostri carri colpiti, prima che l’incendio raggiungesse i serbatoi, con a bordo solo morti o moribondi, correva ancora verso l’avversario, come un immenso rogo semovente, il nemico venne respinto. Oltre che dal fuoco dei pezzi da 47, non sempre efficace sulle corazze americane, venne respinto dal nostro coraggio: e ancor più da quello dei morti che procedevano sulla sabbia nei loro carri in fiamme. Molti carristi, per abitudine, tenevano l’acceleratore abbassato con un artificio. Giova pensare al significato di questa processione di mostri fiammeggianti, scossi dai bagliori variopinti delle granate contenute nel ventre, irreali come in una paurosa leggenda fantasma. L’anima dei carristi morti non lascia il motore! Come potrebbe altrimenti un carro incendiato e squarciato seguitar a dirigersi verso il nemico? Così ci sgombrarono il campo pur se i nostri colpi non erano micidiali e si era nadati all’attacco senza un aiuto d’artiglieria. Contro uomini vivi si può combattere, non contro morti.
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Il campo rimase inutilmente a noi. Lo scontro, durato non più di dieci minuti, costò a noi diciotto carri, quindici agli anglo – americani. MOLTI MANCAVANO ALL’APPELLO
Fu proprio all’inizio di questo attacco che venne ferito il tenente colonnello Casamassima. Un carro tedesco lo raccolse e lo portò via e fu per noi un vero dolore perché gli volevamo bene. Casamassima era, col tenente Frajria suo aiutante, un’autentica istituzione carrista. Un uomo onesto, scrupoloso e coraggioso. Con cinque figli, mentre gli sarebbe stato facile restarsene in Italia, aveva preferito, litigando e brigando, portare il suo battaglione alla guerra. E non per speranza di onori o di carriera. S ricordano sempre con piacere le poche persone dabbene che s’incontrano per le strade della vita. L’allontanamento di Casamassima mi poneva di fronte a problemi che richiedevano un’immediata soluzione. È facile, quanto si è tranquilli, riordinare un reparto; ma è difficile quando imperversa intorno una tempesta di ferro. Io ero l’unico rimasto tra i comandanti di compagnia. Considerai che sarebbe stato peggio restare ancora isolati raggruppai i carri spostandoli a destra, sul fianco del reggimento corazzato della 21a divisione. Mi fu così possibile eseguire un primo controllo della forza. Il capitano Piccinini della 3a compagnia, un caro amico, era morto. Preso il suo carro, agonizzante, ormai senza un braccio e con una larga ferita dal collo alla spalla, a un suo soldato che gli faceva animo aveva risposto che di coraggio ne aveva anche troppo. Al tenente Ronga, comandante della 2a compagnia, era stata asportata un0anca da un colpo ed era stato messo al riparo in una piccola buca, con il tenente Marchioni, fortemente ustionato. I sottotenenti Ficaia della 2a e Cuzzoni della 1a, la mia, erano bruciati nei loro carri. Considerate le perdite subite, non rimaneva che ridurre le compagnie su due plotoni di cinque carri. E questo era il massimo che si poteva ottenere perché nei corazzati, come una volta nella cavalleria, reparto impiegato è reparto perduto: è necessaria molta abilità per riportare, dopo uno scontro violento, i mezzi in condizioni, sia pur minime, di efficienza. E I FERITI?
All’imbrunire giunse l’ordine di tornare davanti alle batterie da 88 della Littorio. Nella notte si pensò al ricupero dei feriti. Mentre per tutti gli altri Corpi è previsto che i feriti siano raccolti e trasportati a un posto di medicazione, questo per i carristi non si verifica. Si deve pensare che il concetto del posto di medicazione fisso è legato all’idea tradizionale della linea statica e nn è alido per reparti che hanno la loro ragione di esistenza nel movimento. Il problema del posto di medicazione i tedeschi l’han risolto con speciali mezzi blindati che seguono immediatamente il reparto. In Italia, con quella mancanza di senso pratico e incompetenza che distinguevano gli organi preposti ai problemi della mobilitazione dei corazzati, si era assegnato ai battaglioni carri, per il disimpegno del sevizio sanitario, un autocarro leggero che, come si può ben comprendere, era assolutamente inadatto al suo compito.
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Perché questo autocarro servisse, il nemico avrebbe dovuto essere tanto gentile da risparmiarlo. Se pur riusciva a distinguerlo dagli altri infiniti mezzi che intervengono in un combattimento di corazzati. L’unica difesa per il camion del medico poteva essere, al più, una speciale preghiera da far recitare all’alba o al tramonto. Preghiera che poteva anche contenere un certo numero di maledizioni indirizzate a quei distinti signori che, all’Ispettorato o al Centro Studi per la Motorizzazione, manipolavano la quintessenza della nostra regolamentazione. Capitava così che, per le prime cure ai nostri feriti, ci si appoggiava in genere sul servizio sanitario tedesco, a cui molti di noi debbono la vita.
HO TROVATO UN CAMERATA
Mi è caro, oggi ancora, ricordare il dottor Schmidt, medico del I battaglione del 115° reggimento germanico di fanteria. Apparve tra noi all’improvviso, con la sua carretta corazzata e i suoi infermieri, tra gli scoppi delle granate, calmo come in piazza d’armi, ed è per lui se i miei ragazzi, che andavo man mano raccogliendo, trovarono un primo sollievo alle ferite e alle ustioni. Purtroppo le ferite dei carristi sono sempre brutte e molti morirono durante i trasporti verso gli ospedali, tra cui i tenenti Ronga e Marchioni. Il dottor Schmidt, io quella sera, lo abbracciai e gli diedi la sola cosa che avevo con me: una bottiglia di anice. È solo un sentimento di riconoscenza che mi costringe a ricordare un onesto soldato. Coi tedeschi della linea noi siamo sempre andati perfettamente d’accordo. Potevamo al più provare invidia per le loro armi e la loro organizzazione. Se le avessimo avute noi! E anche i tedeschi della linea avevano per noi stima e amicizia. È bene ricordarsi che in Spagna i germanici avevano per i nostri reparti una sconfinata ammirazione. Diventava solo un po’ difficile intendersi con quelli delle retrovie e dei lontani Comandi, ma è bene precisare che anche con gli italiani delle retrovie delle lontane basi era difficilissimo intendersi. A quel medico di battaglione tedesco ho desiderato tanto, in seguito, far giungere un segno tangibile di ringraziamento e di ammirazione, e l’ho segnalato al nostro Comando: inutilmente credo, poiché, ignorando io molti dei suoi dati personali, mi fecero sapere che non era possibile inoltrare alcuna proposta al suo nome. E anche se una proposta avessi inoltrato, non se ne sarebbe fatto nulla perché , per quel che mi risulta, neppure le proposte che si inoltrarono per i nostri morti ebbero corso. Il tenente colonnello Rimini del Comando del XX Corpo d’Armata seppe tenerle ferme tanto quanto bastò perché il generale De Stefanis non le firmasse. Se pur le voleva firmare. E del resto perché avrebbe dovuto, il generale De Stefanis, firmare quelle proposte? Che ne sapeva lui dei rabbiosi concentramenti d’artiglieria e dei violenti bombardamenti aerei cui eravamo ininterrottamente sottoposti?2
ELOGIO AI SEMOVENTI
Verso le due del mattino del giorno 26 ci giunse in appoggio una batteria del gruppo semoventi, comandata dal capitano Sciortino. Tale batteria si rivelò di particolare utilità ed è in parte merito suo se, negli otto giorni che seguirono, il battaglione, impegnandosi in duri combattimenti, benché stremato di mezzi e di uomini, riuscì sempre a contenere e a respingere l’avversario, senza concedergli neppure un solo metro di terreno.
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I semoventi da 75 erano, anche se a qualche stratega potrà spiacere, dei normali carri. E quando non ci fosse stata altra ragione a farli considerare dei semplici carri, bastava ricordarsi che l’armamento dei corazzati nemici era costituito da cannoni da 75. Non ho mai compreso perché, invece di semoventi da 75, ottimi ancor oggi sotto ogni punto di vista, si continuassero a costruire, con lo stesso materiale, carri medi di quattordici tonnellate ormai superati.
UN SOLDATO CHE SPARA NON HA TEMPO PER FARE INUTILI CONSIDERAZIONI
Coi semoventi giunsero, inviati dal solertissimo e valoroso tenente Greppi, i rifornimenti dei viveri, del carburante e delle munizioni. Decisi di costituire sul posto riserve di munizioni, acqua e nafta. La capacità di un serbatoio di carro, di centottanta litri, consentiva al motore otto ore di lavoro. Per aumentare tali possibilità avevamo aggiunto in coda al carro un sostegno contenente quattro fustini metallici di venti litri: due di nafta, uno di acqua e uno di olio. Mi preoccupava che le schegge avessero forato quasi tutti i fustini. Anche per le munizioni ero preoccupato. Il munizionamento di un carro, composto di centocinque colpi per il cannone, in teoria definito pari a due giornate o come si chiamavano in ultimo (vedi la grande invenzione dello stato maggiore) unità di fuoco, o unfuoc, nella pratica bastava per due ore. Per la psicologia dei nostri reparti, preferivo lasciare ai carristi molta libertà nel fuoco. Un soldato che spara non ha tempo per fare inutili considerazioni. E del resto gli inglesi, fin quando si sparava, non venivano avanti. Costituii dunque le riservette in tante buche, dando incarico al tenente Greppi di ricuperare il materiale nel caso di uno spostamento. E così, rinforzato da una batteria di cannoni da 75, coi carri riforniti di acqua, viveri e stracarichi di munizioni, affrontai la giornata del 26, che trascorse in continui duelli e puntate. Diedi l’ordine di reagire sempre nel modo più violento. Molti, in guerra, pensano che sia meglio star tranquilli e sperano così di esser meno notati dal nemico. io credo, per mio conto, che, se si può, si debba sempre scagliare sull’avversario la massima offesa. Il tiro preciso dei carri e dei semoventi riuscì a incendiare non meno di dieci carri inglesi, mentre, da parte nostra, non si ebbe alcuna perdita perché i plotoni, con limitati movimenti e senza presentare il fianco, si spostavano in avanti, sparavano e retrocedevano senza voltare la prua, lentamente, di modo che non erano mai nello stesso posto.
LE NOSTRE RADIO ERANO ORDIGNI PRIMITIVI
Si può credere che le batterie inglesi fossero munite di qualche dispositivo particolare, sufficiente per indicare la distanza e la direzione delle radio a bordo dei nostri carri. Infatti, per risparmiare gli accumulatori dei carri, che servono, oltre che per l’avviamento del motore, per l’alimentazione delle radio, si era creato un alfabeto con le stelle dei razzi e uno schema di appuntamenti; ma tale schema non era valido per il carro centro radio e per il carro comando, che si dovevano tenere ininterrottamente collegati col comando del Raum. Su questi due carri si concentrava sistematicamente la maggiore offesa nemica. Pure di notte, quando era, per la sola vista, impossibile discernere uno schieramento talvolta assunto dopo l’imbrunire.
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Le nostre radio, specie le RF 1, erano ordigni primitivi e ci resero più di un brutto servizio. Il nemico interferiva continuamente nelle comunicazioni, ci chiamava talvolta anche per nome e tentò perfino di impartirci ordini. Si convenne tra di noi, per questo, di iniziare le trasmissioni con frasi dialettali, poiché era impossibile cifrare i messaggi. Si pensi per farsi un’idea della fantasia dei Comandi, come, tra gli scoppi, di notte, sotto un carro, con una coperta indosso e un pezzo di candela accesa sotto la coperta, si possa consultare il cifrario ANCHE OGGI …
Anche oggi, ricordando gli infiniti pericoli trascorsi in quei giorni, mi riesce difficile comprendere come si siano superati. Si sentiva nell’aria che qualcosa non andava. La notizia che mi era giunta, della morte del generale Stumme, che sostituiva Rommel, mi dava a pensare. Dopo Rommel, Stumme era l’unico che conoscesse profondamente la nostra dislocazione compartimentata in un sistema di sacche e bretelle minate. Mi riusciva poi strano che questo vecchio soldato fosse morto di apoplessia proprio nella prima sera dell’attacco inglese. Ci sono tanti modi di morire in guerra e proprio l’apoplessia doveva intervenire. I collegamenti erano quanto di più caotico si potesse immaginare. Sentivo di avere quasi sempre i fianchi scoperti, talvolta mi trovavo isolato. Avevo incaricato i miei ufficiali di ala di cercarmi continuamente il congiungimento con gli elementi del Raum del nord e con il reggimento carri della 21a divisione tedesca. Il comandante di questo reggimento, un giovane capitano tranquillo e coraggioso che commentò con la sola parola “malheur” uno sfortunato attacco dei suoi, era stato da me vivamente pregato di informarmi sui suoi spostamenti, ma le notizie che mi giungevano di lui erano scarse. Capitava che i reparti della sinistra ricevessero gli ordini da un altro raggruppamento; quelli di destra, tedeschi, erano nelle comunicazioni molto più rapidi di noi. Una buona norma di guerra è quella di adoperare molto l’udito. Più di tutte le altre facoltà, più della vista, l’udito permette d farsi un’idea della situazione. Di notte, poi, le complesse sensazioni di una battaglia son date quasi esclusivamente dall’orecchio. Per la mancanza di una linea regolare di fanteria, orientarsi in quel groviglio era difficile. La linea della fanteria è sempre una base, come una convenzione: senza di essa mancano molte volte i termini di riferimento. Lo schieramento della fanteria è la falsariga di una battaglia! Anche lo schieramento delle artiglierie, a El Alamein, era incerto e il fuoco non manovrato. Le differenze tecniche tra i pezzi non favorivano questa manovra, ostacolata inoltre dall’alternarsi dei gruppi italiani con quelli tedeschi e dai collegamenti che per i germanici avevano un ritmo diverso dal nostro. Solo l’intelligenza di Rommel avrebbe potuto far rendere sullo stesso tono i differenti elementi della linea, ma Rommel nei primi giorni, e quelli che seguirono portarono l’eredità dei primi, non c’era.
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UN ASPIDE BIONDO
Nella notte tra il 26 e il 27, poiché la fanteria tedesca che aveva tentato con deboli forze di stabilire un velo di copertura era stata sopraffatta, due plotoni del IV battaglione, coi sottotenenti Colonna e Morini, intervennero per proteggere una compagnia del I/115° germanico spingendosi oltre le trincee già tenute dalla Trento e perdendo due carri sulle mine. Il giorno 27 con un violento attacco, numerosi mezzi blindati leggeri avversari giunsero fin sulla linea dei granatieri tedesche, ma il fuoco preciso dei carri e dei semoventi, che fecero strage di camionette, li arrestò. In quel giorno, l’azione dell’artiglieria su noi divenne, se lo poteva ancora divenire, rabbiosa. Il nemico aveva capito di non avere di fronte grandi forze e si accaniva per eliminarle. Intorno a noi solo più il fumo delle esplosioni. Nel pomeriggio, mentre, sotto il mio carro, in una piccola buca deducevo, dal tono degli scoppi, che gli inglesi avevano portato in linea artiglierie di calibro maggiore, un piccolo serpe, un aspide biondo, spaventato forse da tanto frastuono, si infilò sibilando nel mio insufficiente riparo. Una granata esplose contemporaneamente sull’orlo della buca ad ammonirmi. Quando si dissipò la polvere, il serpe non c’era più. Confesso che ci son momenti in cui il normale coraggio non serve più a sommergere la disperazione dilaga in noi, quando sembra che il destino ci si accanisca contro. Non è paura (non si ha paura in certi istanti, se mai si ha paura dopo), è il senso dell’inutilità dei nostri sforzi. E la cosa più pericolosa in guerra è la rassegnazione. Venne la notte: un attacco respinto, carri incendiati. ALL’ORIZZONTE CAROSELLO DI CAMIONETTE
Il 28, al battaglione giunse l’ordine di recarsi nella zona di AP 453, a disposizione del III/115° germanico. Gli AP erano un ingegnoso sistema ideato dai tedeschi per creare una rete di punti di riferimento. Il deserto di El Alamein è piatto: Quota 28 e Quota 33 non si distinguono dal resto e allora si stabilì una rete di triangoli sostenuta da vecchi fusti di benzina numerati e che costituivano tanti punti di appoggio, posti in modo da essere, col binocolo, visibili uno dall’altro. Questi punti di appoggio, gli AP, consentivano, con una semplice bussola, un facile orientamento. Il Comando tedesco li aveva riportati sulle carte topografiche. In definitiva, come sul terreno mancavano punti caratteristici, si erano creati disponendo dei fusti numerati che venivano esattamente segnati sulle carte. Per recarsi in AP453, a sud – est, il battaglione lasciò Quota 33. Preoccupazione per la sorte del gruppo da 88 della Littorio, difeso solo da poca fanteria. Nella nuova zona non si riuscì a trovare il III/115° germanico. Ricerca ansiosa di una linea che non esisteva più, letteralmente non esisteva più. All’orizzonte il solito carosello di camionette: due semoventi anticarro tedeschi, dispersi, si aggregarono al mio battaglione e si aprì il fuoco sui blindati nemici che retrocedettero.
UN SENSO DI SICUREZZA
Nel pomeriggio, finalmente, ci raggiunse l’amico reggimento carri della 21a Panzer e noi, sempre sottoposti al martellamento dell’artiglieria e ai massicci bombardamenti aerei, per cui si perse un semovente con alcuni carri, ne seguimmo il movimento. Attestammo così sul
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fianco dei tedeschi, e questo ci dava un senso di sicurezza. Appresi il ritorno di Rommel. Quelle poche ore furono sufficienti a non farci impazzire dal sonno e dalla stanchezza: ci ritrovavamo finalmente con un fianco sicuramente coperto e collegati a vista. La capacità di sonno in guerra è tanto intensa che basta un po’ di riposo per consentire all’organismo un grande ricupero di energia. E, grazie ai camerati germanici, riposammo un poco. *** Ma nella notte, potevano essere le dieci, ci raggiunse luna staffetta di Rommel, un tenente, con l’ordine del Maresciallo di schierarci davanti alle batterie sistemate a nord – ovest delle posizioni occupate in AP 453 e resistere a oltranza per proteggerle. C’ERA ANCORA QUALCHE STELLA E NON SEMPRE VA MALE
Resistere a oltranza, fin quando la 21a divisione, con una manovra da condurre il giorno seguente, non avesse dato a quelle benedette artiglierie una completa sicurezza. L’esecuzione dell’ordine comportava l’attacco delle posizioni che gli australiani avevano celermente sistemato nella zona del gruppo da 88 della divisione Littorio. Il gruppo, posto davanti ai medi calibri da difendere, nella sera era caduto in mano nemica. Da qualche artigliere sfuggito alla cattura si era saputo che, superata la leggera linea tedesca, l’avversario aveva occupato il costoncino di Quota 33 e si era impadronito dei pezzi che erano, come capitava sempre per i cannoni italiani, un po’ troppo in avanti. Il concetto dell’impiego della nostra artiglieria è sempre stato un concetto d’assalto, determinato dalla gittata delle bocche da fuoco. Come l’impiego dei nostri corazzati è sempre stato d’assalto perché il minore ingombro ci faceva sempre assegnare questi compiti. Se si considerano tali elementi si spiegano le sproporzionate perdite di alcuni reparti. Dalle notizie di qualche artigliere della Littorio e di qualche granatiere tedesco si poteva intuire la consistenza dello schieramento avversario. Mi resi così esatto conto di quel che era successo e mi determinai ad agire con la massima circospezione. Tutta la notte s’impiegò per sgusciare coi carri tra le batterie da proteggere, con infinita astuzia e, dall’alba, sbucando sugli anticarro inglesi con rapido coraggio, i carristi, incuranti di ovni sbarramento, piombarono proprio tra i cannoni nemici. C’era ancora qualche stella e non sempre va male. Traiettorie variopinte di perforanti fitte come fili di un canovaccio, a filare una rete inesplicabile nel cielo sonnacchioso. Un bel ricordo coraggioso di un’azione condotta con molta fortuna. In molti scontri, fortunati o sfortunati, mai m’era toccato di vedere svolgersi, con tanta perfezione, il piccolo piano ideato in precedenza. Non ci fu il minimo intoppo. Risultati: riconquista dei pezzi da 88 del gruppo Giorgiolè, liberazione dei nostri artiglieri che il nemico non aveva potuto sgombrare dalle buche, cattura di circa trecento prigionieri, quelli riportati da un bollettino di quei giorni, e delle relative armi, sicurezza completa alle batterie germaniche a tergo. Quei prigionieri australiani, che spuntavano dalle trincee con le braccia in aria, allampanati sotto i cappellacci alla boera, intontiti per lo stupore, ancora più tragici tra i bagliori delle camionette incendiate, ripagavano le fatiche della notte. Disfatti, mentre li guardavo, mentre mi chiedevo come mai quegli uomini avessero potuto, nella sera precedente, attaccare, a quanto dicevano, con tanto selvaggio furore.
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SI DEVE SEMPRE TEMERE DI QUESTE PALLOTTOLE VAGABONDE
Quota 33, prima tanto accanitamente difesa, tornava nelle nostre mani. A questo punto la reazione nemica si sviluppò violenta su di noi, ma ormai era tardi. Convergere tutto il fuoco sui nostri carri fu un errore perché facilitò il movimento della 21a Panzer che, attaccando da destra, ci sgombrò dopo qualche ora definitivamente il campo: l’avversario, avvertendo la minaccia dell’accerchiamento, ripiegò. Contrattacchi nemici non riuscirono a sloggiarci dalle posizioni: il nemico perse cinque carri . Purtroppo anche noi perdemmo dei carri e degli uomini. Tra cui il sottotenente Gulisano Salvatore, uno degli ultimi ufficiali che restassero. Nell’entusiasmo del successo, era giovane di vent’anni, uscito dal suo carro quanto quei soldati australiani a gruppi gettavano le armi, una pallottola spersa lo prese al fianco sinistro. Si deve sempre temere di queste pallottole vagabonde. Un piccolo foro sopra il cuore. Quando me lo portarono, mentre gli facevo coraggio, vidi che diventava pallido pallido e sulla fronte gli si formavano tante perline di sudore. Ricevetti poi dall’ospedale la comunicazione della morte.
GLI SQUADRONI BIANCHI
Nel tardo pomeriggio, risultando le batterie tedesche coperte dall’azione della 21a divisione, il battaglione, assolto il compito, ricevette l’ordine di spostarsi in zona di AP 411, a protezione delle batterie denominate Liguria del capitano Lusiana e in appoggio al XXIII battaglione bersaglieri. Quel giorno subimmo trentaquattro bombardamenti aerei. Si può dire che, ininterrottamente, ci volavan sopra quelle formazioni che a El Alamein si chiamavano “squadroni bianchi” perché dei diciotto apparecchi che le costituivano, diciassette erano bianchi e solo quello del capo squadriglia era nero. La mancanza della nostra aviazione consentiva poi un totale dominio del cielo al nemico. La nostra aviazione, almeno quella che si vedeva, era costituita da una trentina di Stuka e qualche caccia e, quando tornavano, li contavamo su di noi sempre in numero minore. Bisognava vederla la contraerea inglese di El Alamein! L’unica volta che si tentò di agire con l’aviazione, e noi, poiché erano le ultime ore della notte, dovevamo segnare le nostre posizioni con lancio di razzi bianchi, tutta la linea inglese si accese di stelle bianche. Vedi come erano informati bene e tempestivamente i Comandi nemici. I poveri Stuka dovettero rinunciare e tornarsene al campo.
UN APPARECCHIO INGEGNOSO
È in questo tempo che si accentuò la prevalenza aerea dell’avversario. Prima si poteva ancora respirare. In Albania, a esempio, l’offesa aerea lasciava quasi indifferenti. Veniva il solito “Vorrei – volare” greco, a lanciare un baio di bombe e manifestini. Apparecchio ingegnoso il “Vorrei – volare”. Gli alpini l’avevano chiamato così ed era una sintesi riuscita. Una specie di calesse con le ali; una volante fabbrica di rumori eterogenei. Le bombe che lanciava dovevano essere appese alla carlinga con un cordoncino che il piloto, al momento buono, tagliava con un coltellaccio. Questa era l’aviazione greca, ma, in Egitto, quella americana era una cosa seria. ***
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In uno dei trentaquattro bombardamenti aerei di quel giorno venne ferito il mio pilota. Era un carrista dell’ultima leva, Bernardini. Una scheggia, mentre era fuori dal carro, gli incise la testa asportandogli una striscia di cranio. Una scriminatura bianca proprio tra i capelli, spaventosa. Fasciato alla meglio, si lamentò solo perché voleva ancora condurre lui il mio carro, preoccupato di dare al marconista che lo sostituiva alle leve di direzione, inesperto, le necessarie indicazioni. Un ragazzo d’oro. Era la mia preoccupazione perché non credeva che i perforanti lo potessero colpire. E infatti, lo colpì una scheggia di bomba d’aereo e morì, dopo qualche giorno, a Brindisi, poiché ebbe ancora la fortuna di essere trasportato sino in Italia.
LONTANANZE
Dall’AP 453, nelle prime ore della notte, passando per l’AP 409, il battaglione raggiunse l’AP 411. In AP 409 trovai in uno di quei pozzi, antichi serbatoi di grano, probabilmente, disseminati in quella parte del deserto egiziano, il comando del 115° reggimento di fanteria tedesco. Era una ginnastica straordinaria scendere o salire da quel pozzo battuto sull’orlo da alcune mitragliatrici inglesi. Eran cisterne in genere profonde anche quindici metri e si allargavano sotto in vaste caverne scavate nell’arenaria che testimonia l’antica immersione di quelle terre. A scendervi giù si provavano sensazioni di grandissima calma. Anche il rumore della battaglia si attenuava in una fioca lontananza. Si intendeva, rinato nelle profondità arcane dell’anima, il senso del riparo, in quella cisterna di arenaria, a udire affievoliti i colpi di cannone e il fruscio della sabbia umida sotto i piedi in quell’irreale abitazione. Scrosci di artiglieria e frusciare di sabbia che divenivano di colpo come lontani nel tempo, attutiti su una sensibilità ridestatasi improvvisamente sotterranea, lontanante nell’incanto di un attimo di quiete. Tanta doveva essere la stanchezza, se ora conservo un così vivo ricordo di quei pochi istanti notturni. Dal fondo, in alto, si vedeva una stella e per un attimo, a guardarla, si dimenticava ogni materia, si diveniva completamente spirito, panico nel fiato del cielo che incombeva miracoloso su quel tormento di uomini e di macchine orrende. A
L’ATTACCO DELLA 90
Lasciato nel pozzo il comando del 115° reggimento, quello che aveva il nome di “Azalea” (poiché ogni reparto e ogni comandante avevano un nome, il mio era Camillo e, se non fossero state le troppe cose serie in giro, me ne sarei risentito come di un’offesa), raggiungemmo la località indicataci alle spalle del XXIII battaglione bersaglieri della Littorio, in tempo per assistere all’attacco che il nemico sferrò a nord delle nostre posizioni. Anche il giorno seguente si ripeterono questi attacchi e assistemmo a una bellissima azione dei fanti della 90a tedesca. Camminavano in fila sotto il fuoco i ragazzi della 90a, come se andassero al cambio della guardia. A vederli, così dritti, vigorosi e calmi, sotto il sole, pareva di sentirli cantare, tanto erano perfetti. Non uno che corresse. Solo qualcuno ogni tanto cadeva. Meritavano anche loro più fortuna. L’attacco coinvolse a un certo punto anche la linea dei carri che concorsero con tutto il loro fuoco in appoggio e in sostegno ai bersaglieri.
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Vennero incendiati mezzi blindati e carri del nemico e la colonna inglese, che si dirigeva inizialmente verso l’AP 411, si spostò versi nord, allontanandosi. Vari carri nostri furono colpiti e il battaglione (negli ordini, con mia grande rabbia, si continuava a chiamarlo pomposamente IV battaglione carri medi 41) era ormai troppo ridotto nei mezzi. Si ricostituì intanto la linea davanti ai carri con reparti del 115° fanteria tedesca “Azalea”, in AP 409, col XXIII battaglione bersaglieri Littorio in AP 410 e reparti del 200° fanteria tedesco a ovest di Quota 28. Quota 28, per quanto i Comandi, forse per una qualche celeste ispirazione, insistessero nel darla sgombra, era presidiata dal nemico anche con reparti corazzati. Bene o male, passò anche la giornata del 31 ottobre e le cose sembrava stessero per normalizzarsi. Pensavamo che il nemico si fosse esaurito: le perdite che aveva subìto nel nostro settore erano forti. E così, ristabilita la linea, il battaglione, la sera del 31, si spostò in zona di AP 507, nei pressi della famosa palificata di El Alamein, in secondo scaglione, con l’intenzione di riordinarsi. Davanti a noi, a un chilometro circa, c’erano i carri del LI battaglione della Littorio. Ci si poteva quasi considerare a riposo e la giornata del primo novembre trascorse in relativa tranquillità, disturbata solo dai normali bombardamenti aerei dai tiri d’artiglieria. Quei diabolici proiettili di nuovo tipo, aguzzi e senza ogiva, metallici, con un vitone in fondo, avevano per noi una spiccata simpatia. È in quel giorno che dettai le notizie che precedono. ALL’ALBA DEL 2 NOVEMBRE
All’alba del 2 novembre il nemico rinnovò lo sforzo contro le nostre posizioni, impiegando masse imponenti di carri, artiglieria e aviazione. Travolto il LI battaglione, gli inglesi si trovarono ben presto di fronte ai nostri carri che si appoggiavano alla 8a compagnia Panzer della 15a divisione, schierata e mal ridotta, sulla nostra destra. A nord, un contrattacco della 21a divisione tedesca venne respinto dall’avversario e il IV battaglione rimase, per tutto il giorno, a tentare di far fronte alle forze attaccanti. Il fuoco dell’artiglieria aumentava in un crescendo indescrivibile. I carri e gli anticarro nemici, protetti da cortine fumogene, erravano sotto. Sei carri nostri e un semovente incendiati. Anche molti carri nemici bruciavano davanti a noi. L’undicesimo battaglione carri medi 40, della divisione Trieste, intervenuto nella lotta al nostro fianco fu, in poco tempo, distrutto. Il comandante, maggiore Verri, che si era messo vicino al mio carro, ebbe le gambe asportate da un colpo. Tutti i miei carri erano colpiti; quasi tutti definitivamente inefficienti nelle armi. Feci avvisare i resti dell’undicesimo battaglione dell’accaduto, perché sapessero almeno da chi prendere gli ordini. Sulla sinistra, pochi elementi anticarro tedeschi concorrevano alla difesa. La situazione era disperata. Un sottufficiale del Comando aveva portato la notizia che il colonnello Bonini, comandante del Raum, un caro e valoroso ufficiale che fci fu sempre maestro di coraggio e di calma, accerchiato dal nemico, era riuscito a rientrare miracolosamente tra i nostri su un motocarrello, ma era ferito alle gambe da una raffica di mitragliatore. Il nemico, però, nonostante la superiorità assoluta dei mezzi, non riuscì a smuoverci dalla posizione che occupavamo. Forse ingannato dalle molte carcasse bruciate che disseminavano e la zona e che, da lontano, potevano sembrare carri ancora efficienti.
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DUE CARRI CON UN SOTTOTENENTE
Che cosa potevamo ormai fare? La nostra speranza, quella che ci teneva abbarbicati ai carri ormai inutili, era che dietro si fosse costituita una linea e che, noi esauriti, questa linea entrasse in funzione. Invece, alle spalle neppure l’ombra di uno schieramento! Quando, nel pomeriggio, una stupida scheggia di perforante mi colpì alla testa, il battaglione aveva ancora due carri. Anche il capitano Sciortino venne ferito con me, forse dallo stesso colpo. Due carri con un sottotenente: Marchegiani, quello che si comportò meglio! E pochissimi uomini, dieci o dodici. Ancora mi riuscì di sgombrare i feriti e dire per radio a Marchigiani di riunirsi ai carri tedeschi della 8a compagnia. Di collegamento, fin dall’alba, non se ne parlava più. Dieci giorni ininterrotti di combattimento e di stanchezza. Il dolore vivissimo alla testa non mi impediva di pensare al battaglione che non c’era più: del battaglione mi era rimasto l’elenco delle perdite. Di quattordici ufficiali: sette morti e cinque feriti. Di trentanove sottufficiali: dodici morti, quattordici feriti, cinque dispersi. Di centoquarantanove uomini di truppa: ventitré morti, quarantadue feriti, trentatré dispersi. I dispersi probabilmente tutti periti con l’incendio del loro carro. Ma il nemico, dov’era stato il IV, non ci passò. Passò più a sud, il giorno dopo. Quando raggiunsi il Comando della divisione, per rendere conto dell’accaduto, trovai gente che, stupita, mi chiese dov’era il battaglione. Ebbi l’impressione che sulla situazione non ci fossero idee troppo chiare. E mi portarono all’ospedale. Questa è la storia di El Alamein del IV battaglione.
NOTE
1. Raum in tedesco è spazio o zona. Nel linguaggio militare di allora indicava una specie di campo trincerato chiuso, poligonale o quadrangolare, delimitato da capisaldi, fasce minate e reticolati. Noi lo chiamavamo “cassone” 2. Non possiamo concordare con l’autore circa le ultime tredici righe. Un alto Comando in grave crisi, conscio di avere ormai le ore contate, ha compiti e ansie più urgenti delle decorazioni da proporre. Il compianto generale De Stefanis, per quanto ci risulta da numerosi giudizi italiani e tedeschi (anche noi combattemmo sulle primissime linee di Alamein, dal primo all’ultimo giorno) era tra i nostri migliori generali per preparazione e coraggio. La sua impassibilità e
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la sua arguzia sotto i peggiori concentramenti fuoco erano proverbiali, anche per nostra personale testimonianza [PCD]
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- 12 RICORDO DEL SANGIOVESE del sottotenente MASSIMO CAZZAROLI, da Bologna, classe 1919, 132° reggimento artiglieria corazzato “Ariete”. Già decorato al valor militare in Albania, proposto per la medaglia d’argento ad Alamein. Ottimo ufficiale d’artiglieria, si distingueva per il carattere vivace e allegro che neppure l’angoscioso disagio della guerra nel deserto riusciva a smorzare. Dottore in chimica, autore di interessanti lavori scientifici nella sua partita, è direttore tecnico di un importante complesso industriale nella Val Padana. Mi ha telefonato questa mattina Guido Pepe, tenente dei carabinieri del Comando del XX Corpo d’Armata, caro amico di ospedale, il Torelli a Bengasi, dove molto ingloriosamente io smaltivo una violenta itterizia e lui una ferita indubbiamente molto più nobile! Voleva mie notizie; gli ho promesso di andarlo a trovare anche perché spero avvicinandomi a un grosso Comando di avere qualche notizia sull’andamento della battaglia in corso. Da qualche giorno sembra che la buriana grossa si sia spostata a nord; noi qui, in posizione arretrata e privi d’informazioni attendibili, abbiamo l’impressione che, dopo la pressione fortissima dei giorni scorsi a sud, gli inglesi abbiano deciso di tentare a nord sperando forse di ottenere ciò che sul fronte della Folgore non è stato loro possibile. Approfitto di uno Spa 38 che deve andare da quelle parti; è il primo pomeriggio e dovremmo farcela per tornare prima che faccia buio. Il mio autista è un bersagliere dell’ottavo; è di Imola, trenta chilometri da Bologna. I ricordi di tante cose care a entrambi sorgono spontanei, ma non ci immalinconiscono, anzi! Sarà forse merito della nostra origine emiliano – romagnola che ci ha dotato di una naturale tendenza all’ottimismo! Siamo ormai poco distanti dal Comando del XX , credo; sentiamo aerei e vedo sulla sinistra il classico squadrone bianco con i soliti diciotto bombardieri: “Non è il caso di fermarsi, chissà dove vanno a sganciare”. Il tempo di pensarlo e subito il fischio e lo schianto delle bombe su di noi. Il mio bersagliere inchioda lo Spa e ci buttiamo a terra; solito polverone, ronzio di schegge, odore di polvere. Siamo stati presi proprio nell’inizio della zona di sgancio che prosegue sulla nostra destra dove non credo ci sia nulla di particolarmente interessante da colpire. Mi rialzo incolume e giro attorno all’autocarro che mi sembra indenne; il mio autista è a terra bocconi. Lo chiamo: “ Anche questa è andata”, gli dico; non mi risponde; mi chino, lo giro; ha una macchia di sangue sul fianco sinistro; apre gli occhi e mi accenna un sorriso. “Signor tenente”, mi dice, “voi tornerete a Imola, vero?” “Senz’altro” dico, “ci torneremo! Ma dimmi, dove hai male?” “Non ho male, signor tenente, ma sento che me ve vado; mi dispiace di non potervi portare dal vostro amico carabiniere.”. Mi chiede un po’ d’acqua: stacco la borraccia dall’autocarro dove era appesa e gliela avvicino alla bocca. “Vi ricordate il Sangiovese?” mi dice. “Certo che me lo ricordo!”. Gira la testa e sbarra gli occhi; gli prendo il polso, non batte più.
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- 13 DECIMO CARRISTI "ARIETE" Cinque ufficiali del battaglione ne raccontano la fine. Veramente i presenti furono soltanto quattro, perché il quinto, ferito pochi mesi prima, giaceva in gravi condizioni, in ospedale, in Italia: eppure la su presenza, per le ragioni che diremo, restava dominante nel crepuscolo incandescente del suo reparto. Lasciamo agli attori il privilegio di una narrazione lineare, quindi ineguagliata. Neghiamo ai documenti ufficiali, alle dotte monografie e alla fantasia romanzata la possibilità di rappresentare la fine dell’”Ariete”, della” divisione fantasma” come amici e nemici l’avevano chiamata nelle battaglie di Marmarica. L’”Ariete” morì il 4 novembre 1942 nel deserto di Alamein, tra Bir el Abd e Deir el Murra, cioè tra il”Pozzo dello Schiavo” d la “Depressione Amara”. Aveva l’ordine di fermare il nemico e andò a fermare il nemico con perfetta coscienza della propria sorte, perché la mazzata finale di Montgomery era già in corso. Sapeva, l’”Ariete”, di avere un centinaio di piccoli carri, rivestiti di lamierino e armati con giocattoli da quarantasette millimetri, con poche artiglierie semoventi. Guardando verso oriente all’alba, controluce, si vedeva la linea scura del deserto tagliata dal cielo opalescente, e sembrava mare, soltanto che le ondulazioni erano ferme. Ma quel mattino, tra l’orizzonte sabbioso e il cielo, si era inserita una specie di boscaglia nera, quasi continua: videro, i carristi, che moveva, fatta tutta d’acciaio: duecento carri, dei quali la metà erano i mastodontici Sherman, debuttanti nel deserto. Tuttavia l’attacco fu contenuto per dieci ore: poi il nemico, avendo pagato assai caro il biglietto d’ingresso, dilagò tra i rottami arrossati e fumanti dell’”Ariete” che non c’era più. Qualche carro superstite e ammaccato, poco prima, aveva ricevuto l’ordine di ripiegare. Quelli del X battaglione erano cinque, ormai disarmati anche nel motore, senza munizioni, e scomparvero essi pure. Nessun carrista rivide mai quell’angolo di deserto. Gli inglesi, già nel 1943, dopo aver rastrellato l’intero campo di battaglia tra il mare e Qattara, erano riusciti a concentrare sotto il minareto di Sidi Abdel Rahman, tra la rotabile costiera e la ferrovia, tutti i carri trainabili, e ve ne avevano allineati trecento: sette file di inglesi, tre di italiani e due di tedeschi. un cimitero di terrore, specialmente nelle notti lunari e ventose, quando il ghibli carico di sabbia o il maestrale umido di sale marino sibilavano tra quella ferraglia spettrale. Poi l’alba fugava i fantasmi, e il sole riportava la sonnolenta letizia del calore. Magri arbusti, erbe giallastre erano cresciuti tra gli scafi, vi pascolavano pecore e cammelli, in tono bonario e pastorale. Il terrore restava anche di giorno sui singoli teatri di lotta “corazzata”, “Ariete” dove s’è detto, 21a Panzer poco lontano, “Littorio”, “Trieste” e 15a Panzer un po’ più a nord: v’erano rimasti, a dozzine, i carri senza cingoli, o squartati, con targhe e insegne dei tre eserciti, non potevano più scorrere sul terreno, non valeva la pena di portarli via. I capicarro, dall’aldilà, avevano comunicato che il loro “mezzo” era “passato in avaria”. Un’avaria più grossa del solito. I raccoglitori di ferro avrebbero disintegrato i carri sul posto dopo averli riempiti di mine, e poi avrebbero portato via i frantumi con secchi e sporte fatte con corda di palma. I nostri M/41, i nostri semoventi su scafo M/40 in certi punti conservavano un certo allineamento anche nella morte: dietro di loro le carregge sinuose, vere scie del sacrificio, testimoniavano, nel parallelismo, la disciplina di memoria. Facevano pensare agli alpini del colonnello Menini, così come furono ritrovati dopo Adua alle falde di Amba Raio: sembravano dormire, allineati a terra, quasi a contatto di gomito, roba da piazza d’armi. A poco a poco si vuotò anche la piana dell’”Ariete”: i beduini vivevano sul ferro, e già nel 1954 non vi si trovava più neppure un bullone. Allora s’era pensato di salvare qualcosa per ricordare il sacrificio del XX Corpo d’Armata corazzato, già agli ordini del generale Baldassarre, caduto e medaglia d’oro, poi d’un altro bravo capo. Il generale De Stefanis. Si comprarono ai beduini, che
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avevano il monopolio legale di quella ferraglia, due relitti di carri M/40 del povero Bulgarelli, capitano dell’undicesimo carristi, morto nelle trecento ore. Si pensava di ornarne il costruendo sacrario, ma Roma disse di no: era in arrivo laggiù il presidente del Consiglio, che nn amava rappresentazioni commemorative solide, meglio le parole d’un prudente discorso, e soprattutto niente sacrilegi nella parrocchia democratica. Esiste ancora una “pezza contabile” del 1956 che ne annulla una precedente del 1954: i due relitti, completi di cannone e mitragliatrici, pagati venti lire sterline, tornavano a disposizione dei beduini “senza rimborso, come da ordine allegato”. Tristezze postume da scordare. Ma torniamo all’aria pura, torniamo tra le fiamme scarlatte su fondo azzurro dei carristi, e lasciamo parlare, per la presentazione degli autori, l’uomo che ne ebbe il comando nel fervore della preparazione in patria, che li portò in Africa, e li condusse a vittoriose battaglie nel deserto. Nessuno li conosce meglio di lui.
*** Tenente carrista EZIO CEREDA, classe 1914, da Milano, aiutante maggiore in seconda del battaglione fin dalla costituzione. Ragioniere, libero professionista, è il capofila del gruppetto perché soltanto grazie a lui è stata possibile la raccolta dei documenti indispensabili all’antologia delle trecento ore. Non è mai stato un burocrate; buon amministratore, sì, ma soprattutto organizzatore e propulsore, dotato di altro senso patriottico e del dovere, animato da spirito militare raro in chi non abbia scelto, a scopo della propria esistenza, il servizio nelle forze armate. Cereda è stato soprattutto un elemento di forza. Ha sempre dato al suo comandante la tranquillità nella parte più rognosa del servizio: non si è mai risparmiato al pericolo e in linea, dove grazie a lui, e agli splendidi ufficiali che lo assecondavano (da segnare specialmente il tenente Giuseppe Macaro, da Piedimonte d’Alife, oggi capitano in congedo, e il tenente Ventura, oggi tenente colonnello nel ruolo d’onore per la gravissima ferita riportata) mai mancarono alle compagnie in azione acqua, carburanti, rancio caldo, munizioni. Insomma Cereda fu il centro campo d’una squadra di calcio: non si combatte senza simile sostegno. Il suo comportamento ad Alamein, la proposta di medaglia d’argento e la croce di guerra germanica di cui è insignito sono la dimostrazione più evidente del suo comportamento.
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Del capitano carrista LUIGI GRATA non si sono potute avere notizie esatte, ma si teme sia scomparso recentemente. Era probabilmente della classe 1909, nativo di Ferrara, ma residente da molto tempo in Alto Adige. Si era fatto molto onore in Spagna con i carri leggeri. Geometra, aveva svolto specialmente lavori di carattere topografico e catastale. Apparteneva, in origine, al IX battaglione, che comandò molto degnamente dopo che il tenente colonnello Pasquale Prestisimone, medaglia d’oro, era stato catturato con una grave ferita, e che il di lui successore, maggiore Brucato, era stato ucciso in Marmarica. Trasferito poi al X, ne prese il comando interinale a metà ottobre 1942. il comportamento stoico del battaglione nella disperata vicenda del 4 novembre riflette in pieno le doti del capo, e il suo attaccamento alla tradizione del reparto. Nelle vicende della Tunisia comandò di nuovo il X, ormai ridotto a battaglione controcarro, fino alla giornata suprema. Il capitano carrista ANITO CERVIO, classe 1909, da Zeme in Lomellina, era un reduce di Spagna, dove aveva guadagnato una medaglia d’argento, un’altra di bronzo, un encomio solenne e una proposta di promozione per merito di guerra. Nella vita civile è ragioniere e amministratore di società industriale. Attualmente a riposo, vive a Vigevano. Al battaglione aveva atteggiamento freddo e apatico, ma in sola apparenza: esso velava meditazione e concentramento verso una rigida ubbidienza al dovere. Più che lombardo, appariva un sardo tipicamente passionale e riservato. Occorreva vederlo appena iniziato un combattimento: prendeva le sue decisioni dopo un glaciale esame dei fatti, e l’esecuzione era sempre travolgente. Il suo calore umano veniva subito avvertito da ufficiali, sottufficiali e truppa, tanto da farne uno degli uomini più amati del battaglione. Comandava egregiamente la 5a compagnia. Il tenente carrista FRANCESCO VIGLIONE, classe 1917, milanese, comandava il 2° plotone della 5a compagnia. Brillante avvocato, esercita la professione a Roma. Ha il tipo un po’ blasé del quartiere Parioli, elegante e annoiato. È decorato di medaglia al valor militare sul campo. Ma era il più sbolinato degli ufficiali del X; la sua bustina era sempre imbevuta di grasso, e una delle stellette, distintivo di grado, v’era fissata a una sola punta. Ma i superiori sorvolavano: lui e il povero Guido Ricevuti erano i più giovani ufficiali del reparto: e quali ufficiali! Dello spirito caustico di Viglione facevano specialmente le spese alcuni dei capitani, e anche gli inglesi, subito dopo il suo brillante esordio a Bir Hakeim, il 27 maggio 1942, quando, inquadrato nella compagnia Rombolà, attacca a tutta velocità una camionetta e un pezzo controcarro nemici, catturandoli. Qualche ora più tardi dopo un nuovo attacco “ventre a terra”, concorre a una nuova vittoria, e tre pezzi da 88 rimangono intatti nelle nostre mani. Scende dal carro per inquadrare i prigionieri che stanno a mani alzate, quando uno di questi, proditoriamente, gli spara un colpo di pistola, a vuoto. Allora Viglione, che parla un perfetto inglese, li mette in rango, e ordina una serie di esercizi a corpo libero: “One… two… three… four”. Intanto s’inizia un violento fuoco di repressione da parte avversaria e il gruppo viene inquadrato dal tiro. Viglione insiste negli esercizi, i prigionieri protestano. “Non dovete preoccuparvi”, ribatte Viglione. “Sono granate di marca vostra!” Dopo la grave ferita di Alamein, Viglione soffrì a lungo ed era sempre zoppo quando, oltre due anni più tardi e separato dalla sua regione nativa (v’era di mezzo la monile linea gotica) decise di rientrarvi “con lo schioppo in spalla”. E ciò avvenne, essendo egli divenuto ufficiale di collegamento in una divisione americana. ***
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Qui cessa la parola del comandante: sono quattro “sintesi informative personali” poco regolamentari, ma certamente espressive. Il discorso passa nuovamente a noi che curiamo questa antologia, e dobbiamo, per l’appunto, presentare il comandante stesso: maggiore carrista LUIGI PINNA, classe 1908, da Thiesi nel Logudoro (Sassari). Ufficiale di carriera, prima nei Lupi di Toscana, poi nei carristi, fece molto parlare di sé in Somalia e in Etiopia, dove partecipò a un numero stragrande di combattimenti grossi e piccoli. Dopo aver superato la scuola di guerra chiese di “non entrare” nello stato maggiore, per tornare alle truppe. Assunse il comando del X battaglione carri M14/41 poco dopo la formazione dello stesso, e gli diede l’impronta definitiva della propria energica e intelligente personalità. Egli rientra nel novero dei capi che lasciano appunto un tono inconfondibile al loro reparto, e così ve ne furono altri nel celebre 132° reggimento carristi “Ariete”: vogliamo ricordare specialmente il tenente colonnello Maretti e il tenente colonnello Prestisimone, medaglia d’oro. Pinna contribuì in modo eccezionale alla gloria delle “divisione fantasma”, prima al comando del X, poi del 132° in sostituzione di Maretti ferito. Lui stesso fu ferito nella dura giornata di Knightsbridge, l’otto giugno 1942, nella corsa che portò alla riconquista di Tobruk. Trasportato in Italia, sopportò la degenza lunga e penosissima per le complicazioni sopraggiunte, e mai ebbe vera guarigione. Lo immaginiamo nella sua sofferenza fisica, aggravata dalle notizie che gli giungevano quando fu distrutta la “Ariete”, ma anche, nel successivo sfacelo morale e militare del nostro paese, quando lo confortava un orgoglio insostituibile: da fonti diverse sapeva con certezza che il suo X carristi si era comportato fino all’ultimo con le reazioni, le vibrazioni e la dignità che portavano, ben illuminata, la marca “Gigi Pinna”. Delle sue ricompense al valor militare sappiamo che sono parecchie: medaglie d’argento e bronzo, croci al valore, una promozione per merito di guerra. Ma egli è visibilmente staccato da queste cose, e assai più sensibile al ricordo che ha lasciato tra i suoi del X. Dopo la guerra, il colonnello Pinna comandò nuovamente il rinato 132° carristi dell’”Ariete”, ed è attualmente generale in ausiliaria, residente a Treviso. Della battaglia finale ha voluto scrivere brevemente in una lettera diretta a un amico e collega d’Africa Orientale e Settentrionale: “Il 4 novembre è stata la grande giornata del X, per senza aver ‘potuto salvare più di una situazione compromessa’, come ha detto il generale De Stefanis, riferendosi ai combattimenti tra il 27 maggio e l’otto giugno 1942 a nord del Trigh Capuzzo, aveva scritto esaltando il battaglione. La quantità, e soprattutto la qualità dei mezzi bellici posti in linea dall’avversario, con lo scarso spazio disponibile per la manovra,consentono una sola scelta: immolarsi sul posto per facilitare lo sganciamento delle restanti nostre unità. Sodale, come sempre, con il X, in questa che ho sempre considerato la più bella pagina nostra, e del 132°, è il V gruppo artiglieria semoventi, che era del maggiore Biglietti e ora è agli ordini del capitano Folchi. In questo ambiente di serena determinazione si innesta il sacrificio del sottotenente Pietro Bruno, che quasi nessuno ricorda: eppure è a i limiti di mitizzazione del Milite Ignoto onorato dopo la prima guerra. Questo ragazzo siciliano si presenta al battaglione: consuma, assieme agli anziani, il suo primo e ultimo pasto alla mensa del reparto, assume un comando di plotone e scompare dopo prodigi di valore, assieme ai carri che divengono arma, bara e rogo per gli equipaggi. La medaglia d’oro alla sua memoria premia anche tutti gli altri che hanno immolato la gioventù con uguale determinazione e serenità. Impressioni di partecipanti? Non ne ho. Fatti? Sì, ce ne sono quattro, estremamente positivi: su trentun carri, ventisei distrutti e cinque tanto avariati dal fuoco, che furono accerchiati e catturati prima di raggiungere la posizione ordinata; carri superstiti, zero;
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tempo di arresto imposto a una massa schiacciante di carri avversari, in gran parte Sherman: da nove a dieci ore; nessun equipaggio che sia tornato indietro a raccontarci la tragedia di ogni singolo carro; l’impiego, a tarda notte, di cinque o sei carri superstiti per tamponare l’avanzata nemica e consentire alle nostre truppe residue di ripiegare. Ma come si fa, d’altro canto, a fissare minuziosamente le azioni che si susseguono nel corso del combattimento, sempre che a esse si sia effettivamente partecipato? come si fa ad annotare partitamene (con mentalità da stato maggiore, o da cronista che voglia sfruttare i fatti ‘pro bono suo’) il sacrificio di tanti uomini, e con esso le espressioni e gli atteggiamenti di coloro che caddero? È molto difficile reperire particolari ricchi del cosiddetto calore umano, anche se esistono le solite scarne relazioni ufficiali, anche per il reparto che ebbi l’onore di formare, comandare e portare al fuoco.” *** Pinna è anche fisicamente un carrista e fa subito pensare all’acciaio: duro nella parola, alto nel pensiero, di profonda sensibilità. Resta per sempre uomo centrale del X, del 132° e dell’”Ariete”. Gli scritti che seguono narrano dunque del X, e più lontano l’intrepido tenente colonnello Mazzara dirà del suo IX carristi. È morto in prigionia un altro prode, il tenente colonnello Baldini comandante del XIII battaglione, esso pure sacrificato nella giornata fatale. La sua decima compagnia era comandata dal tenente Luigi Arbib Pascucci, coetaneo di Pinna, Grata e Cervio: romano, dottore commercialista, soldato nell’anima, già decorato al valore in Etiopia. Nell’ultima fase notturna della lotta ebbe la temeraria audacia di buttarsi con i suoi undici carri, a capofitto, dentro una colonna di Sherman avanzanti. Scomparvero tutti nel gesto evidentemente disperato, e nessuna spoglia fu ritrovata neppure nelle appassionate ricerche degli anni successivi: il solito destino del caduto carrista, annullato materialmente nella vampata. Come Bruno, Pascucci ebbe la medaglia d’oro. Si vorrebbe estendere la narrazione, in modo particolareggiato, agli artiglieri corazzati che divisero la sorte dei carristi, fraternamente: V gruppo semoventi, del capitano Folchi che lo aveva ereditato dal maggiore Biglietti, e VI del tenente colonnello Pasqualini. Ancora tre grandi nomi dell’”Ariete”. Pasqualini poi, che aveva combattuto anche con la “Littorio”, proiettava la sua fama nell’intera armatacorazzata, e anch’egli ci veniva invidiato dagli artiglieri delle due divisioni corazzate tedesche. RELAZIONE UFFICIALE DEL CAPITANO LUIGI GRATA COMANDANTE INTERINALE DEL X BATTAGLIONE CARRI M/14/41
]Sintesi[ Prot.338/op., Z.O. 17.XI.1942 XXI carri 37 Alle ore 15 del giorno 2 il battaglione riceve ordine di tenersi pronto a muovere. Alle ore 17 il battaglione riceve ordine di muovere e di puntare alla pista del XX Corpo d’Armata. Con il battaglione muove pure il V gruppo semoventi da 75/28, assegnato già in precedenza in appoggio specifico. Poco prima dell’alba la colonna viene raggiunta dal signor comandante di reggimento il quale ordina di accelerare, e verso le ore 6 del 3 giunge a Pass for Cars. Durante il tragitto,
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da Ragabet el Retem nove carri passano in avaria. L’officina di battaglione e le officinette di compagnia si mettono all’opera per il ricupero e le riparazioni. carri 28 Nella mattinata del 3 il battaglione su ventotto carri raggiunge Deir el Marakiz e si schiera. Nelle prime ore del pomeriggio si sposta a sud di Tell el Aqqaqir con la 5a compagnia avanzata, la 4a e la 6a arretrate. In serata tre carri riparati raggiungono efficienti il battaglione carri 31 Nella notte sul 4 ricevo ordine di spostare, alle ore 5, il battaglione in direzione sud – ovest e di andare a schierarmi tra Deir el Murra e Quota 55. Alle 5 del 4 il battaglione inizia il movimento e alle 5.30 è schierato nella zona predetta: le tre compagnie in linea, il gruppo semoventi leggermente spostato sulla destra e sulla linea dei carri. Verso le 5.45 si presentano all’orizzonte nord – est numerosi mezzi corazzati nemici, i quali, appoggiati da fuoco d’artiglieria, iniziano una pressione sulla sinistra del battaglione, pressione contenuta dalla pronta reazione della 5a compagnia. Intanto i mezzi corazzati aumentano di numero e lentamente si schierano su tutta la fronte del battaglione; in conseguenza adatto lo schieramento mio e dei semoventi. Il nemico si mantiene a distanza di circa un chilometro e mezzo. Verso le 7.30 ricevo a mezzo radio, dal comando di reggimento, ordine di resistere sul posto a oltranza; l’ordine ritrasmesso a tutti i dipendenti prepara i carristi ad affrontare qualsiasi evenienza. Da tutti ho conferma che l’ordine sarà rigorosamente rispettato. Verso le 8, preceduto da violento fuoco di preparazione di artiglieria, il nemico lancia il suo primo vigoroso attacco, e anche questa volta sopra la mia sinistra: quindi la 5a compagnia è la maggiormente impiegata. Richiedo l’intervento della nostra artiglieria e comunico la situazione al comando di reggimento. Ordino alla 5a compagnia di arrestare gli elementi corazzati più vicini, passando al contrattacco con il plotone Ricevuti. Il contrattacco viene effettuato con buoni risultati. Il fuoco dei nostri carri è appoggiato da quello del gruppo semoventi. Verso le 9 la posizione è insostenibile. La massa nemica può essere intaccata dal solo fuoco dei semoventi. Diversi miei carri sono ripetutamente colpiti, due sono incendiati, un carro – pezzo da 75/28 pure incendiato. Il battaglione tiene fermamente: il contrattacco di Ricevuti ha salvato il nostro fianco destro, ma frontalmente il mordente avversario si fa sempre più preoccupante. carri 23 Chiedo di spostare il battaglione su posizione arretrata, ricevo l’autorizzazione, e mi sposto un chilometro a sud – ovest schierandomi sulla destra del IX battaglione (tenente colonnello Mazzara). La pressione avversaria diminuisce. Il battaglione, con sedici carri e tre pezzi semoventi, si adatta subito alla nuova linea. carri 16 Versi le 11.30 nuovo attacco avversario, sostenuto specialmente dal IX e dal VI gruppo semoventi, che con l’appoggio del V gruppo semoventi arresta e stronca l’attacco avversario.
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Pausa di combattimento fin verso le 14. poiché quanto ho al seguito mi basta appena per la giornata, dispongo che il tenente Cereda provveda i rifornimenti per il giorno successivo, e affido alla sua iniziativa le sorti del carreggio. Due Lancia 3 RO con un rimorchio partono nella mattinata per il Centro rifornimenti di El Daba. Noto attività della nostra artiglieria sulle linee nemiche. Verso le 14 altro attacco frontale in forze dell’avversario. Viene sostenuto dal battaglione e dai due carri – pezzo superstiti, ma il nemico riesce a progredire lentamente, mettendo in crisi il battaglione. Chiedo nuovamente di poter arretrare, ricevo l’autorizzazione e mi sposto di 500 – 600 metri mettendomi a squadra con il IX battaglione. Verso le 16 attacco decisivo del nemico che avanza con tutta la linea dei suoi carri, in numero di circa duecento, frontalmente e sui fianchi del battaglione. Le munizioni difettano: i semoventi dispongono, in tutto di venti colpi. Ordino: conservare pochi colpi per carro e confermo che l’ordine di resistere sul posto non è stato revocato, che bisogna attendere il nemico a distanza sicuramente efficace per il nostro tiro, e che allora contrattaccherei. Comunico la situazione al comando di reggimento, assicurando la resistenza a oltranza da parte di tutti, ma affermo che questa volta saremo sopraffatti. Il battaglione, in nove ore di combattimento, ha perduto ventidue carri dei quali sette incendiati, e due carri – pezzo del gruppo semoventi, ma ha risposto in pieno all’ordine. carri 9 I carri nemici avanzano sempre, appoggiati e protetti da intenso fuoco di artiglieria e sono ormai a cinquecento metri. Vengono colpiti e incendiati altri due carri: un terzo, accorso per colmare il vuoto, è a sua volta colpito e messo inefficiente. carri 6 Ricevo ordine di ripiegare su Quota 78, con il IX, entrambi sotto la protezione del XIII. Rispondono all’appello i sei carri superstiti, dei quali tre colpiti. Il battaglione ha iniziato il combattimento all’alba con trentun carri (nove della 4a, tredici della 5a e sette della 6a, due del comando) e quattro pezzi semoventi. Rimangono sei carri e due semoventi con il loro carro comando. L’avanzata nemica è stata ritardata di dieci ore e la tradizione carrista della divisione Ariete è stata confermata. Quota 78 è raggiunta verso mezzanotte sul 5 novembre. Conferisco con i signori tenente colonnello Mazzara del IX e tenente colonnello Baldini del XIII, che verso le ore 8.30 mi ordina di ripiegare su Fuka. Nella notte ho dovuto abbandonare e incendiare un carro troppo avariato. Iniziamo il movimento con i due carri – pezzo superstiti in avanguardia. Munizionamento: dieci perforanti per carro. Autonomia: cinquanta chilometri. carri 5 Dispongo il movimento tra la ferrovia e la rotabile. Anche il mio carro si arresta (non passa gasolio dal filtro). Salgo sul carro comando del V gruppo semoventi e mi riporto alla testa dei carri. carri 4 Una quarantina di carri nemici tipo Pilot hanno interrotto il traffico. Acceleriamo al massimo, ma il nemico ha creato una sacca nella quale vengono compresi gli ultimi carri superstiti del battaglione. Ho raggiunto la base del reggimento nei pressi di Fuka, verso le 15.30.
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carri 0 Alle 18.30, con il carreggio superstite, inizio il ripiegamento su Marsa Matruh, dove mi ricollego, il mattino del 6 novembre, con cinque automezzi del battaglione e proseguo verso Sidi Barrani1.
AGGIUNTA ALLA RELAZIONE UFFICIALE DEL TENENTE EZIO CEREDA GIÀ AIUTANTE MAGGIORE IN SECONDA DEL X BATTAGLIONE CARRI STI
[1970] Non è certo senza un preciso movente che, nella grande battaglia sul fronte di El Alamein, iniziata la notte del 23/10/1942, i Comandi Superiori abbiano fatto entrare in azione la divisione corazzata Ariete, per quanto con effettivi in uomini e mezzi assai al di sotto degli organici soltanto nelle ultime giornate, meglio, nelle ultime ore dell’epica lotta. L’Ariete aveva già dato numerose prove di capacità combattiva anche nelle peggiori situazioni, e ora le veniva affidato il compito di ritardare, quanto più a lungo possibile, l’avanzare del nemico, strapotente, onde dar modo alle truppe a piedi di ripiegare nel modo più ordinato ed efficace possibile. In questo quadro, il mattino del 4 novembre 1942, il X battaglione del 132° reggimento carrista veniva schierato, fronte a est, coi suoi trentun carri, molti dei quali in cattive condizioni meccaniche, con l’appoggio del V gruppo semoventi. Il battaglione carri è al comando del capitano Luigi Grata (comandante interinale); il V semoventi è al comando del capitano Folchi. Fra i due reparti è già in atto, da tempo, una efficace intesa che facilita la migliore collaborazione del combattimento. Anche a distanza di lustri, certe situazioni rimangono scolpite vivamente e visivamente nella memoria e si ritrovano con commozione gli stati d’animo di quei momenti. Così, è ancora come una sensazione attuale quella di una serena attesa degli eventi, con un’ombra di preoccupazione in ciascuno, ma non per la sorte propria, bensì per quella dell’intero mondo che stava alle nostre spalle, della Patria, la cui presenza viva ciascuno sentiva lì, in quel momento, in linea, fondersi con la propria determinazione di fare fino in fondo il proprio dovere. Il battaglione “sentiva”, preparandosi al definitivo scontro col nemico, di essere all’altezza di sempre, di saper manovrare, combattere, infliggere comunque all’avversario perdite ben più gravi di quelle che sarebbe stato lecito attendersi, data l’enorme inferiorità dei mezzi meccanici e delle armi in dotazione. Queste, che precedono, non sono parole vane, ma piuttosto la sola spiegazione di come il battaglione abbia potuto tener testa al nemico per circa dieci ore, in completa ubbidienza all’ordine di resistere a oltranza, bloccando letteralmente, nel settore di fronte affidatogli, la sua avanzata e favorendo così, con il proprio totale annientamento, il ripiegamento degli altri reparti verso ovest. È noto l’ultimo messaggio radio del Comando di divisione: esso diceva che l’Ariete era circondata, ma che i suoi carri combattevano. Era veramente così; io stesso, che avevo portato ai carri in linea uno dei rifornimenti della giornata, vedevo ora soltanto cinque o sei carri che lentamente si spostavano, sempre sparando, verso nord – ovest, dietro una duna.
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Artiglierie dei bersaglieri e quattro pezzi da 90 automontati sparavano a zero, poche centinaia di metri avanti a me, finché venivano centrati e distrutti dall’artiglieria inglese. Lo stesso carreggio di combattimento e l’officina di battaglione rimanevano al loro posto, fin dopo le ore 16.30, e si mossero solo dopo avere avuto il consenso dal Capo di stato maggiore della divisione in persona, richiesto di direttive dal sottoscritto. Circa un’ora più tardi, ritornato sulla posizione per meglio rendermi conto della situazione, vedevo le blindo del Comando di divisione in fiamme. Alla fine della giornata, i trentun carri del battaglione erano ridotti a soli cinque. Tutti gli altri distrutti, per la maggior parte convertiti in roghi. In uno di questi perdeva la vita il sottotenente PIETRO BRUNO, insignito poi della medaglia d’oro alla memoria. Destino diverso ha guidato i carristi del battaglione, ma un identico spirito, un altissimo comune intendimento li ha sempre animati sulla via del sacrificio, per il bene della Patria amatissima e per una riconferma indiscutibile dell’onore militare. Dal fronte di El Alamein, la sera del 4 novembre 1942, il X battaglione carri 14/41 non si è ritirato! È rimasto là, in sublime resistenza a oltranza.
AGGIUNTA ALLA RELAZIONE UFFICIALE DEL CAPITANO ANITO CERVIO A COMANDANTE LA 5 COMPAGNIA
[1970] Quando, dopo il trasferimento notturno, dal 3 al 4 novembre, nelle prime ore del mattino, il battaglione si schierò sulle nuove posizioni assegnategli e si profilarono all’orizzonte i carri nemici, subito avemmo modo di valutarne la massa e la specie. Capimmo che la lotta sarebbe stata impari e che solo la volontà e il coraggio sarebbero stati le nostre armi valide per contrapporci a essi. Quando, poi, ci pervenne l’ordine di “resistere sul posto a oltranza” ci rendemmo conto che la nostra sorte era ormai segnata. Di fronte a una tale situazione e a un siffatto ordine, era logico aspettarsi, da parte di tutti, una deprimente sfiducia e un’imprevedibile ripercussione sul morale e lo spirito combattivo. Invece, ed è proprio su questo che desidero esaltare il merito dei carristi tutti, l’ordine provocò una viva reazione d’orgoglio e di sfida al destino avverso. In ognuno si centuplicò la determinazione di vendere cara la pelle e di non cedere per alcun motivo. L’unica amarezza che angustiava l’animo di tutti era la consapevolezza di non poter reagire con efficacia ai tiri dei mastodontici carri Sherman che ci fronteggiavano. Il battaglione si schierava con tutte e tre le compagnie in linea e con il gruppo semoventi in appoggio. Subito si ebbe ben chiara l’intenzione del nemico che si era portato, frattanto, sotto sino a una distanza di circa un chilometro e mezzo. La massa dei carri nemici era imponente, sicuramente più di duecento. Veniva spontaneo il raffronto coi nostri che, oltre a essere molto inferiori di numero, rappresentavano i pigmei di fronte ai giganti. Cominciò, così, il calvario di gloria del battaglione. Ebbero inizio furiosi attacchi del nemico, preparati e appoggiati da massicci e violenti bombardamenti d’artiglieria e d’aviazione. Era logico pensare che, con una tale disparità di forze e di mezzi, ogni
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resistenza sarebbe stata sbaragliata al primo attacco. Ma qui subentra, a sovvertire ogni logica considerazione, il fattore uomo. Da una parte stava l’enorme massa di mezzi, dall’altra, pochi mezzi, ma con uomini dalla volontà e coraggio indomabili e pronti a lottare sino alla morte, per di non cedere. La lotta fu epica nel vero senso della parola. Ogni attacco nemico veniva contrastato con disperato coraggio. I carri colpiti e incendiati aumentavano sempre più, ma questo non faceva desistere i superstiti dal lottare con ancor più selvaggia determinazione. I carri colpiti e immobilizzati, ma che erano ancora in condizione di sparare, non venivano abbandonati, dando così ancora il loro apporto di fuoco. Gli ufficiali, anche se feriti, ma in condizioni di poter dare ancora la loro opera, si trasferivano dai carri colpiti ad altri in efficienza pur di continuare l’azione di comando. Per tutto il giorno è stato un susseguirsi di attacchi e contrattacchi, senza che il nemico riuscisse nel suo intento di rompere il nostro schieramento. Alla sera, quando giunse l’ordine di portarsi a nord sulla litoranea, a eseguirlo erano soltanto sei carri, compreso il carro comando di battaglione, dei trentuno in schieramento; tutti gli altri rimanevano là sul campo di battaglia, ancora schierati, coi loro morti, a testimonianza del valore e del sacrificio compiuti. Dovrei, ora, entrare in particolari, raccontare singoli episodi e fare dei nomi, a sarebbe come insultare la memoria di tutti quanti gli altri, i cui atti di valore e di supremo sacrificio non potrei mettere nella dovuta evidenza. Vorrei qui fare una sola eccezione per il tenente Ricevuti, il cui ricordo è ancora tanto vivo in me e per il quale l’oblio e il silenzio cui sono state oggetto le sue numerose azioni di guerra torna a colpa e disdoro di tutti. Del battaglione, è stato l’unico ufficiale, unitamente al tenente Viglione, a effettuare, sempre col proprio carro, tutta l’avanzata da Segnali a El Alamein, partecipando a tutte le battaglie. La fortuna lo ha sempre assistito, e anche il giorno 4 non venne meno, nonostante che, specie durante i primi scontri, il peso e i compiti di contrattacco fossero sempre affidati al suo plotone. Sebbene il suo carro, e anche un secondo sul quale si era trasferito, venissero ripetutamente colpiti, sempre ebbe la fortuna di uscirne incolume, continuando imperterrito la sua azione di comando su altro carro. Il destino gli fu avverso il giorno seguente quando, nello scontro per rompere l’accerchiamento dei carri nemici, per poter ripiegare su Fuka, venne colpito all’addome da una scheggia di perforante esalando l’ultimo respiro fra le mie braccia. Anche negli ultimi istanti, non venne meno la sua proverbiale serenità, facendomi rilevare che era destino che la fortuna gli fosse benigna solo nella vittoria delle avanzate, e gli avesse voltato le spalle subito alla prima e unica volta in cui si trovava a essere partecipe di un ripiegamento. Conviene ricordare tra gli ufficiali caduti il tenente Paolo De Angelis, abruzzese. Ma tutti i carristi indistintamente meritano di essere degnamente onorati, perché tutti si sono comportati da valorosi. È per questo che ritengo deplorevole lasciare nell’oblio e nel silenzio tanto valore e tanti sacrifici. Una degna ricompensa al battaglione li accomunerebbe in un degno ricordo, rendendo giustizia a tutti i numerosi caduti. Il battaglione, distrutto ma non domo, rivivrebbe così nel ricordo dei suoi morti.
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LETTERA DEL TENENTE FRANCESCO VIGLIONE AL TENENTE EZIO CEREDA
[1970] Ho tardato a risponderti trattenuto dall’incertezza perché (mentre potrei scrivere un volume sul ciclo operativo che ci ha portato da Segnali a El Alamein, attraverso i combattimenti di Bir Hakeim, Bir el Harmat, Bir el Gobi, Bir el Aslag, Knightsbridge, Tobruk e così via) ben poco posso dirti in quanto il 4 novembre, come sai, fui malamente ferito alle gambe, tra i primi, verso le otto del mattino, e così fui allontanato dal combattimento quando ancora la maggior parte dei nostri carri era intatta e bravamente fronteggiava il nemico. Non posso, quindi, fare altro che limitarmi a una ristretta relazione del primo breve scontro che ebbe luogo quella mattina e dei guai che, subito dopo, pensai bene di andarmi a cercare sul ciglio del pianoro su cui, prima dell’alba, ci eravamo venuti a schierare in linea di fronte. Il mio plotone era il 2° della 5a compagnia che, se non sbaglio, si era distesa all’estrema sinistra del battaglione; alla mia sinistra avevo solo il plotone dell’indimenticabile tenente Guido Ricevuti. Lo spettacolo che, man mano che la visibilità aumentava, giù nella piana sottostante, mi apparve, attraverso il binocolo, non lo ho dimenticato. Si trattava di varie batterie nemiche le quali, assai lontane, stavano comodamente piazzando i pezzi, e di lunghe colonne di carri armati non ancora spiegati per il combattimento. Il loro movimento, tuttavia, non tardò molto e fummo ben presto interessati allo spostamento di una ventina di Sherman che, attraversata la piana sottostante, si disposero frontalmente iniziando l’ascesa del declivio che portava, appunto, sul pianoro, dove era aperta a ventaglio la nostra 5a compagnia, e che terminava con un ciglio alquanto più ripido. Fu uno sbaglio per loro, ché avrebbero potuto con il oro pezzo da 75 tenersi fuori portata; invece, si portarono troppo sotto, a tiro dei nostri modesti 47/32 e, non appena le loro torrette spuntarono dal ciglio, furono accolti da una tale gragnola di colpi che li
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costrinse a una pronta marcia indietro e Ricevuti, animoso come sempre, passò al contrattacco. Il mio secondo carro, comandato dal sergente maggiore Mannarin, fu incendiato e solo il servente al pezzo ne uscì sanguinante: fu, per quanto mi consta, il primo carro del X a rimanere colpito. Confesso che questo successo mi rincorò molto. La piana sottostante, però, si andava sempre più animando di mezzi e l’artiglieria nemica cominciava a inquadrarci. Fu allora che scorsi, a non più di duecento metri, la torretta di un carro inglese (non era nemmeno uno Sherman, ma un piccolo Stuart americano da tredici tonnellate!) da cui emergeva il collega britannico che, fornito anche li di binocolo, scrutava le nostre linee defilato dietro il ciglio del pianoro cui ho appena accennato. Il carro nemico ogni pochino indietreggiava nascondendosi alla mia vista, poi, di nuovo, emergeva sempre con il capo carro in torretta armato di binocolo. Pensai che stesse dirigendo il tiro delle batterie retrostanti e, approfittando del momento in cui si era ritirato dietro il ciglio, ordinai al mio pilota di portarsi rapidamente più sotto. Quando l’inglese riemerse ero pronto a riceverlo e il perforante – tracciante da 47/32 che gli riservai andò alto di pochissimi centimetri: sparì immediatamente dalla mia vista. Qui cominciarono i miei guai: ricaricato il pezzo, l’otturatore del mio 47/32 non andò in chiusura, nonostante tutti i tentativi che, col cuore in gola, andammo facendo, il servente e io, per estrarre il cartoccio difettoso. L’inglese, evidentemente, sapeva il fatto suo, rispuntò dopo nemmeno un minuto e mi gratificò, col suo 37 mm., di due o tre colpi, ai quali non potevo rispondere: il carro subì uno scossone, si riempì di polvere e il mio pilota mi guardò dal sotto insù facendomi capire, con una mimica espressiva delle mani, che il carro non governava: non do dr avevamo scingolato o se eravamo stati colpiti nel sistema epicicloidale. Intanto non riuscivo a estrarre il cartoccio difettoso che aveva impedito la chiusura dell’otturatore e, mentre stavo per dare l’ordine di uscire all’aperto per vedere di farci rimorchiare indietro dal carro più vicino, l’inglese nonostante che il marconista lo tenesse sotto il continuo fuoco delle due Breda, spuntò di nuovo e ci centrò in pieno (vidi distintamente arrivare le macchie nere dei perforanti) nei sacchetti di sabbia che portavamo frontalmente a rinforzo della corazza: due colpi bastarono per buttarli all’aria e altri due riuscirono a perforare. Il pilota (Giacomo Dellea di Luino) fu colpito alla fronte dalle schegge della corazza e svenne (perse, poi, la vista a un occhio) e io mi ritrovai a contemplarmi la gamba e la coscia sinistra ridotte a un disordinato insieme di schegge, di ossa e di sangue. (Trascorsi, poi, come sai, due anni di prigionia in ospedale.) Il dolore era assai forte e non mi rimase altro che far estrarre dal carro il pilota dal servente e dal marconista (Serafino Alvisi di Genova). Io mi arrangiai a uscire per conto mio dalla torretta, ma mi accasciai dietro il carro. Terminai, così, la mia carriera di carrista, un po’ per colpa mia e un po’ stupidamente, in verità; ma a mia scusante porto la mia età di allora. Inoltre, ti assicuro che, pur essendo allora già convinto che la guerra si sarebbe perduta sicuramente, non mi passava per la mente, dopo tutti i combattimenti che avevamo in precedenza sostenuto, che gli inglesi potessero sfondare il fronte tenuto dal X battaglione e dal 132°. Seppi, poi, di non avere sbagliato perché, se è vero che il nemico dilagò ai lati, è anche vero che, su quel fronte, non passò, perché il X lo trattenne finché i trentun carri con cui iniziò il combattimento, ridotti, a sera, a soli cinque, ricevettero l’ordine di ripiegare. In prigionia e dopo, ho ricostruito, attraverso il racconto dei pochi superstiti (quanto pochi!) che ho potuto incontrare, la determinatezza della resistenza del X, e non è il caso di
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parlare del comportamento dei singoli, in molti casi addirittura eroico, perché è scontato che ognuno rimase al suo posto; vorrei solo dire che riparlando con il carrista Serafino Alvisi, operaio dell’Ansaldo, con Giacomo Dellea meccanico a Luino, con il sergente Beppe Botto, che vende chincaglierie sui mercati dei paesetti del Cuneense, non ho mai sentito una parola di rammarico o una frase inutilmente retorica, sempre narrative piane di soldati modesti, che sono rimasti fermi dove erano, che ricordano con amore i loro compagni e i loro ufficiali; nessuno si è mai atteggiato a eroe. Ora più che mai sono convinto che il X battaglione era un gran bel reparto e, anche se nelle giornate in cui il tempo cambia e zoppico un po’ più marcatamente il mio umore tende al nero, non ho mai cessato di congratularmi di averne fatto parte.
NOTA
1. La relazione ufficiale ha trascurato di citare i bombardamenti aerei e d’artiglieria della notte sul 5 novembre, e così pure l’attacco dei carri pesanti nemici verso le 10 del mattino, in località non lontana da Tell el Ghazal, tra il minareto di Sidi Abdel Rahman e El Daba. In questa azione vennero annientati gli ultimi carri del X: fu ucciso il tenente Guido Ricevuti, uno dei più animosi ufficiali del battaglione (quello che si era maggiormente prodigato per difendere l’ala sinistra nei combattimenti del 4 mattina, unitamente al tenente Viglione gravemente ferito), e catturato il capitano Anito Cervio, comandante la 5a compagnia, che stava assistendo il morente.
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- 14 SOLILOQUIO SULL’ULTIMA SOGLIA del tenente medico GIUSEPPE CERIANA, classe 1916, da Arcisate, del 187° reggimento “Folgore”. Specialista delle malattie polmonari, dirige il servizio di broncologia dell’ospedale civile di Varese. Ottimo medico, ha lasciato tra i paracadutisti un doppio ricordo, come professionista e come audace combattente quando il suo compito glielo permetteva. Né il suo ardore patriottico, nel lungo periodo successivo alla guerra, è venuto a tepore, adeguandosi all’ambiente, alla moda, e al disfattismo dei nostri supremi reggitori. Ne è la prova il finale della lettera con la quale accompagna l’invio del suo brano appassionato: “Io di guerra ne farei subito un’altra pur di restituire all’Italia una bandiera”. Li avevo fortunatamente già piazzati tutti e due, puntati dritti sul varco tra i campi minati, quando gli inglesi hanno cominciato a sparare. Sparare come sparano loro e la terra bolliva come un pentolone e pareva che nessuno, nessuno potesse scampare, ma le buche erano profonde, strette e messe giuste, e i colpi tesi dell’ottantotto difficilmente ci potevano entrare; tra fischi e scoppi, però, e sfarfallare di schegge, ripetuti, ravvicinati, sovrapposti era un concerto d’inferno e pareva non dovesse mai più finire. Allungano il tiro, se Dio vuole, io alzo la testa e il capitano era già là in piedi a guardare. Mi sono alzato anch’io e non era necessario il cannocchiale: i carri si stavano allontanando, ma dentro il varco si stava infilando la fanteria. Il varco era stretto e quello era un reggimento intero e si allungava nel passaggio, mentre veniva verso di noi e pareva una lunga serpe di colore solo un poco più scuro della sabbia. Camminavano diritti in piedi un po’ perché, io penso, avevano fiducia che il loro fuoco ci avesse fatto fuori e un po’ perché dovevano far presto per passare il varco prima che comunque si potesse riorganizzare una difesa dopo il bombardamento. Così dovevano fare e così facevano: buoni soldati quegli inglesi. “Artigliere”, mi chiamò con una grossa voce strascicava la erre, “attento che bisogna conservare i nervi sotto il ghiaccio e qui fa caldo e lo farà di più tra poco e non è facile. Bisogna sparare a colpo sicuro, il più vicino possibile. Intesi?” Capii che sarà stato matto, ne aveva la fama, ma stupido non lo era di sicuro: insisteva nel chiamarmi artigliere per farmi capire che lì era tutta la Folgore e io non dovevo far la figura sporca per me, ma soprattutto per la mia arma. “Ghe fèmm la bèla improvisàda”, chi parlava era un lombardo con la voce roca e tutti risero. Loro ridevano, ma anch’io non avevo paura. Ero forte forse come il più forte di loro, forte e calmo e non provavo altro che un senso di curiosità di come sarebbe andata a finire. Paura neanche un po’, anche se la fanteria si stava facendo sotto di buon passo, anche se le sberle dell’artiglieria ancora arrivavano , ma sopra la nostra testa, decisamente sopra; lo si sentiva in partenza che erano colpi alti… ne avevamo sentiti più di mille forse di quei colpi e lo sapevamo. Dopo un’occhiata ci mettemmo l’uno di fianco all’altro, io e il capitano, ad aspettare. “Sarà ora”, mi disse. “Saranno giusto a cinquecento metri”, risposi e ordinai: “Fuoco, alzo zero”. ***
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Portavano quei fanti un rettangolo bianco sul dorso perché, su quel bianco, l’artiglieria che li appoggiava potesse regolare il tiro per battere il terreno davanti a loro che avanzavano. I miei colpi arrivarono insieme, tanto tesi che non picchiarono il muso per terra e non esplosero: fecero invece il rimbalzello sulla sabbia come due spaventosi delfini lucenti e ruggenti e scavarono due solchi nella schiera. Altri colpi seguirono. I rettangoli bianchi li vedemmo roteare nell’aria, altri disperdersi nei campi minati per poi di nuovo comparire in altro, quindi ricadere e sparire definitivamente dentro le vampate rosse e nere e gialle delle mine. Carte da gioco parevano, gettate da un giocatore infuriato, che si sparpagliavano nell’aria e ricadevano, prendendo fuoco infine in un grande braciere. Furono uccisi o fatti prigionieri tutti, nessuno escluso. Erano truppa scelta, un reggimento del Queen’s. *** Neppure ora ho paura, anche se la febbre sta divorando questo mio corpo… non ho neanche curiosità, questa volta. Qui davanti ai miei occhi c’è una nebbia che mi impedisce di guardare lontano. Procede questa nebbia, viene avanti, anche se molto lentamente. Prima di notte raggiungerà i reticolati; io non vedrò più quelle luci e il negro di sentinella. Se non arriverà per me quella muffa che hanno gli inglesi, presto la nebbia mi inghiottirà. Non ho paura e non sono neanche curioso perché so che di là da quella cortina opaca e chiara ci sono i morti di quel giorno e adesso hanno i volti distesi. Essi riconosceranno la mia pietà e mi saluteranno, mi accoglieranno: sarò uno di loro.
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- 15 LETTERA A UN LANCIERE di RENATO CHIODINI, classe 1914, milanese, guastatore nel 31° battaglione d’Africa. Decorato sul campo di medaglia d’argento per ave partecipato alla riconquista di Tobruk il 20 giugno 1942, superando per primo le difese nemiche. Gravemente ferito una prima volta durante le “trecento ore” e rimpatriato, partecipò poi attivamente alla resistenza con il comandante e alcuni superstiti del battaglione, e alcuni anni dopo nel 1950, volle raggiungere lo stesso comandante nel deserto di Alamein, nella missione per i Caduti. Ebbe una seconda e grave ferita per esplosione di mina nel 1951, e rimase nel deserto fino al 1962, egli stesso capomissione nell’ultimo periodo. Operaio e disegnatore meccanico, al ritorno in Italia fu assunto come impiegato in una grande industria, salendo rapidamente, per i suoi meriti, nella carriera. La lettera che pubblichiamo fu scritta nell’inquietudine d’una notizia avuta durante il ripiegamento, ed effettivamente il destinatario era caduto. Il messaggio non scomparve nel caos di quel periodo, e dopo lunghi viaggi tornò in Italia con la generica indicazione “disperso in combattimento”, diretta al mittente che l’ebbe nella primavera del 1943. Al caporal maggiore MOROSI GINO III gruppo corazzato Lancieri di Novara 2° squadrone Posta Militare 133 ASI Ospedale militare di Verona, 30 novembre 1942 Caro Ginetto, spero tu stia bene, e dato il gran casino che c’è dappertutto, farai bene a darmi le tue notizie scrivendomi a casa (via Bernardino Corio 8, Milano). Ho fatto il conto che da quando sono venuto a trovarti con il nostro Panara Carletto bersagliere sono passate solo poche settimane, ma tutto quello che è successo ha come allungato il tempo, e quella bella giornata con te mi sembra pressappoco come quando eravamo ragazzi e giocavamo da veri scavezzacolli. Insomma vorrei sapere come stai, dove sei, e come te la sei passata durante l’ultima giostra. Intanto ti racconto un po’ la nostra storia. Come sai, eravamo con i paracadutisti della Folgore, e abbiamo fatto anche noi bella figura anche se poi le cose sono finite così. Se ti dico che la ritirata è stata brutta non ti racconto niente di nuovo. Il giorno 5 di questo mese eravamo a un centinaio di chilometri dalle linee abbandonate, e ci rimaneva un quarto di litro d’acqua a testa, senza sapere quando avremmo potuto trovarne dell’altra. Noi ripiegavamo ordinati, sotto continui attacchi RAF, e con perdite. ogni camion aveva una ventina di uomini in piedi nel cassone e altrettanti fuori, come grappolo umano del tram di una volta. Tra questi ero io, a sinistra della cabina, col mio Thompson attaccato a un gancio, e lo tenevo bene d’occhio. A un certo punto sento gridare, le macchine rallentano , e sento una mitraglia sulla destra. Agguanto il Thompson e salto a terra, pensando di aprire il foco da qualche parte, quando abbassando una mano tra il ventre e la coscia la ritiro tutta bagnata di sangue. Corro lo stesso dall’altra parete del camion per essere con gli altri, quando vedo ferito uno dei nostri sergenti, coricato nella sabbia morto il caporalmaggiore Vita, e il Pierino Pisani, milanese anche lui, della mia squadra, ferito al ventre come me, ma grave che urlava dal dolore. Come mai non avevo
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dolore, non capivo, ma tastandomi il ventre, la coscia e l’alto delle reni il dolore lo ho sentito forte e ho capito che lì si era fermata la pallottola senza uscire. Intanto le autoblinde inglesi avevano già incendiato il mio camion con raffiche incendiarie. Ho visto che anche gli inglesi sono sotto il nostro tiro e tornano indietro, ma noi siamo lì abbandonati. Io posso camminare in qualche modo, arriva il nostro capitano con un altro camion, ci raccoglie, e raggiungiamo il battaglione fermo che si sta schierando a difesa tirando fuori tutto quello che ha salvato in fatto di armi: cioè la sola cosa che ha salvato. Per la seconda volta le autoblinde fanno dietro-front, ma nel pomeriggio veniamo chiusi tra le auroblinde che spingono dietro e carri armati fermi davanti. Io ero disteso sull’impiantito del camion e non capivo che cosa è successo, in un gran pandemonio: il battaglione non ha voluto arrendersi e in qualche modo, rimettendoci la metà della forza, ha sfondato ed è passato. Il mio dolore è cresciuto di continuo e quando siamo arrivati alla costa non potevo più camminare. Però abbiamo finalmente potuto bere, e anche l’acqua che sapeva di muffa salata ci è sembrata buona. In nessun ospedale volevano prendermi perché tutti se ne andavano, da Matruh, da Sollum, da Bardia e da Tobruk. A Derna mi hanno preso all’ospedale civile, ma per poche ore: sono stato medicato da una famosa suora, Madre Massimina Brivio, di Missaglia, decorata al valore. Le mie vicende sono statee molto lunghe, ho ritrovato il battaglione, e con quello ho potuto fare i mille chilometri da Bengasi a Tripoli, dove finalmente, dopo l’esame radio all’ospedale, mi hanno rimpatriato sulla nave ospedale, e dopo aver girato negli ospedali di Napoli e di Aversa sono arrivato qui il 27. Per farti ridere ti dirò che ad Aversa mi avevano messo, per errore, all’ospedale psichiatrico, dove non capivano più niente né dottori né infermieri, mentre per gli altri ricoverati non c’erano dubbi. In complesso poteva andar peggio e sono stato fortunato: adesso vedremo come andrà l’estrazione della pallottola. Ti prego, caro Ginetto, di non farmi aspettare le tue notizie, e siccome spero di andare presto a Milano fammi sapere senza complimenti se hai bisogno di qualche cosa. Il tuo aff.mo RENATO
NOTA: Il guastatore Pisani morì in prigionia, quindici giorni dopo che Chiodini scrisse questa lettera, e fu sepolto nel cimitero di El Taqa, non lontano dal canale di Suez, dove lo stesso Chiodini ne riesumò la salma, perfettamente riconoscibile, quando la missione italiana curò il concentramento di tutti i Caduti italiani e tedeschi nella necropoli di Quota 33 presso Alamein. Qui era invece stato già tumulato il destinatario della lettera, Morosi, caduto il 31 ottobre, prima che Chiodini fosse ferito.
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- 16 VITTORIO CARRACCIO, CAPITANO CARRISTA Del sergente carrista CARMINE D’AVANZO, classe 1919, IV del 133° reggimento carristi “Littorio”. Nato a Cicciano presso Nola, dove esercita la professione di commerciante. Alto, secco e scattante, mette desiderio di vestirlo con una lucente armatura d’acciaio e di inserirlo in una stampa cinquecentesca. Tale è lo stile dell’uomo. Fu alle armi per più di otto anni, e di questi ne passò cinque ininterrotti alle dirette dipendenza di Vittorio Carraccio caduto ad Alamein, un ufficiale perfetto, giovane sposo che mai conobbe la figlia natagli poco dopo la morte. Una dipendenza militare così stretta, consacrata da quarantatre mesi di azioni belliche vissute assieme in ben cinque paesi (Grecia, Albania, Jugoslavia, Cirenaica ed Egitto) non poteva non trasformarsi un una vera fraternità: e in un fatto centrale nella vita del D’Avanzo. Al momento di entrare in azione il fiero capitano pugliese ebbe il presentimento della fine, e volle salvare l’amico. Pertanto si mise d’autorità, e gli diede un incarico che, per alcune ore, o per un paio di giorni al massimo, lo avrebbe allontanato dalla compagnia. Un incarico prematuro, che sarebbe stato normale soltanto cinque giorni dopo, e che fece reagire il sergente: allora il capitano si accese in volto e ripeté calmamente l’ordine, così come è narrato dal D’Avanzo in una pagina che molti scrittori veri gli invidieranno. VITTORIO CARRACCIO era un giovane sottotenente al quale mi presentai recluta, il primo marzo 1938, nello VIII battaglione carri L del 4° reggimento di fanteria carrista. Per cinquantasei mesi non dovevamo più lasciarci, sempre nella stessa compagnia, la 2a, divenuta poi la 4a del II battaglione, 31° reggimento carristi, divisione Centauro, e successivamente 8a del LI battaglione, 133° reggimento, divisione Littorio. Il 7 aprile 1939 sbarcammo in Albania. Varcammo la frontiera greca all’alba del 28 ottobre 1940: combattemmo a Kalibaki, Dolina, Covraoi, Argirocastro, Klisura, Tepeleni e Monastero. Il tenente Carraccio meritò la medaglia di bronzo e la croce al valor militare. Cominciò poi la campagna contro la Jugoslavia: entrammo nella piana di Scutari l’otto aprile 1941. in questo periodo Carraccio fu proposto per la promozione a capitano per merito di guerra. Rimpatriammo, costituimmo il LI battaglione nel Friuli, al comando del leggendario tenente colonnello Zappalà, valorosissimo e stimato da tutti i suoi dipendenti. Nella primavera 1942 fummo inviati in Africa Settentrionale. Il 20 giugno avemmo il primo combattimento, nella riconquista di Tobruk. Quindi la corsa verso est: Sollum, Sidi Barrani, Marsa Matruh. Seguì lo scontro sanguinoso di Khor el Bayat, dove il colonnello Zappalà, a piedi tra i carri, allo scoperto sotto il fuoco, fu ucciso mentre faceva segni di manovra agli equipaggi. In quel fatto d’armi avemmo gravi perdite di uomini e di una ventina di carri. *** Arrivammo nella zona di Alamein il primo luglio, e subito ci trovammo in una baraonda indescrivibile: non si discernevano più le unità nostre da quelle nemiche. Carraccio fu ferito alla gamba sinistra, e io pure fui ferito. Rifiutammo entrambi il ricovero ospedaliero, ci curammo in reparto ed entro una quindicina di giorni eravamo a posto. In quel settore, a sud del minareto di Sidi Abdel Rahman, artiglieria e aviazione si accanivano particolarmente contro i nostri carri. Si incominciava tutte le mattine alle 7, con mitragliamenti in picchiata e scarico di bombe. La notte erano soltanto voli di disturbo, che
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non recavano mai danni apprezzabili, ma riuscivano a tenerci svegli, nervosi e stanchi, mentre i reparti nemici dormivano sogni d’oro. Giungemmo così alla sera del 30 agosto, quando ebbe inizio la “corsa dei sei giorni”. Sotto un uragano di fuoco, il nostro reggimento, con i battaglioni IX, XII e LI, riuscì ad aprirsi un varco attraverso insidiosissimi campi minati, subendo forti perdite, e raggiunse l’obiettivo assegnato. In questa azione il capitano Carraccio si guadagnoò la croce di ferro tedesca di 2a classe, ampiamente meritata. Il 23 ottobre (eravamo di nuovo, da un mese, nella zona di Sidi Abdel Rahman) alle 20.45 si scatenò il bombardamento su tutti i settori, coadiuvato enormemente dall’aviazione: ma il nostro reparto non ebbe alcun danno. Il 24, alle 6, il battaglione si spostò lungo la palificata e si portò a tre chilometri da Quota 28: qui pernottò e rimase fino alle 11 del 25, rientrando al reggimento, mentre fino a quel momento era stato alle dipendenze di un gruppo d’artiglieria della 15a divisione corazzata tedesca. Alle 11.30 giunse l’ordine di tenerci pronti per fronteggiare un attacco di mezzi corazzati nemici che tentavano di infiltrarsi nel nostro schieramento. Il LI battaglione, con i suoi trentadue carri rimasti, si spostò lentamente di circa un chilometro, ostacolato sempre dall’artiglieria nemica, e si portò sulla sinistra del IV battaglione carri. Alle 11.50 entrò in combattimento la 9a compagnia, sulla destra dello schieramento; la 8a sulla sinistra e la 7a di rincalzo. Lo schieramento del battaglione assunse una formazione in linea tendente leggermente ad arco col centro in avanti. Il combattimento che seguì fu violentissimo: il battaglione, incurante del tiro rabbioso dell’artiglieria nemica tendente a ostacolare la nostra avanzata, si buttò contro i carri nemici che aveva di fronte, e ne immobilizzò parecchi, incendiandoli. Il combattimento procedette sempre con maggiore violenza fino alle 15, ora in cui il nemico, comprendendo l’inutilità dei suoi sforzi, rallentò la pressione e cominciò a ritirare le unità corazzate. Alle 15.40, assolto brillantemente e con grande valore il compito assegnatogli, il battaglione ricevette l’ordine di rientrare nelle linee di partenza. Al termine dell’azione risultano mancanti tre carri lasciati sul campo, colpiti completamente incendiati. Altri tre carri danneggiati vengono ricuperati con grande abnegazione, e inviati alla base per la rimessa in efficienza. Nel combattimento trova gloriosa morte il comandante la 7a compagnia, tenente Adelmo Ferrari. Il comandante la 8a, capitano Vittorio Carraccio, non rientra. Il suo carro, colpito da un proietto di medio calibro, è stato visto incendiarsi completamente. *** Ricordo con grande emozione gli ultimi istanti passati con il signor capitano, e anche i giorni precedenti. Avevamo trascorso la notte sul 24, che fu apocalittica, come del resto si presentava quella sul 25, nella buca scavata sotto il carro comando di compagnia: tutti rintanati con il signor capitano: il caporalmaggiore Mario Porcu, il caporale Remo Di Leonardo e il carrista Giovanni Parigi (componenti l’equipaggio del carro comando), e io stesso, sottufficiale di contabilità del reparto. La preponderanza del bombardamento d’artiglieria e aerea annullava la nostra artiglieria, sembrava non esistesse neppure. Queste amare constatazioni erano tanto evidenti che non potevano sfuggire neppure ai più ingenui. Alla baldanza di appena qualche giorno prima cominciava a subentrare, a poco a poco, un senso di sbigottimento, tanto che durante la notte rimanemmo ammutoliti e non scambiammo che poche parole. Ogni tanto il signor capitano offriva delle sigarette che anch’io accettai nonostante non avessi il vizio del fumo. Debbo però dire che quel pandemonio non c’incuteva paura, e poi l’atteggiamento calmo e dignitoso del signor capitano al nostro cospetto ci rassicurava. Quella notte fumò molte sigarette e sono certo che sotto quell’uragano il suo pensiero doveva essere rivolto ai suoi cari lontani, e alle
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prossime ore che non promettevano nulla di buono. Certo, già in uno dei precedenti scontri, il suo carro era riuscito a rientrare a malapena nelle nostre linee, con morti e feriti a bordo. In quei pochi ma densi mesi a El Alamein era maturata una tale certezza degli avvenimenti futuri, che già egli vedeva delinearsi un quadro esatto dello scontro in massa contro le forze corazzate nemiche a noi tanto superiori. Ed era inevitabile che quello scontro avvenisse: era questione di ore. Spesso, al rientro da qualche azione, Lo avevo sentito imprecare sordamente contro la inadeguatezza delle nostre corazze, e soprattutto dei 47/32, cannoni capaci soltanto di solleticare le corazze nemiche. Si rammaricava che i nostri alti Comandi fossero così ciechi da non ovviare a tanto gravi lacune, e non progettassero carri con corazze e armamento più efficienti. Queste sfogate, beninteso, erano sempre contenute nell’ambito della buca comando. Spesso, intuendo nel reparto sintomi di sfiducia, lo riuniva, e con argomenti chiari e convincenti riusciva a ridare spirito, omogeneità e saldezza morale. Ai primi di ottobre il generale Ceriana Mayneri, nostro comandante di divisione, aveva chiesto direttamente ai comandanti di reparto una relazione urgente circa le esperienze acquisite nei contatti col nemico, e i suggerimenti che ritenevano più atti a migliorare la nostra situazione. Il capitano Caraccio aveva esposto con documentata nettezza il nostro caso, invocando l’appoggio di batterie semoventi (da poco giunte dall’Italia e usate come batterie da postazione) in ausilio ai carri. In tal modo sarebbe stato possibile che i semoventi impegnassero il nemico durante la fase di avvicinamento dei carri fino a trecento o quattrocento metri, questa essendo la portata utile di tiro per i nostri 47/32. Ma Egli non vide appagato il suo desiderio (per ironia, soltanto al mattino del 26 una batteria di semoventi venne messa a disposizione del LI e si liquefece rapidamente come neve al sole). Giunse l’alba del 25, e il fuoco era diminuito fino a cessare. Verso le cinque un silenzio preoccupante aveva sostituito il fragore di poco prima. uscimmo dalla buca per sgranchire le gambe: il signor capitano volle approfittarne per rendersi conto delle perdite arrecate dal bombardamento della notte. Si mise poi in giro, accompagnato da me. Visitò tutti i carri, che erano dislocati in un tratto di quasi mezzo chilometro. Si trattenne brevemente con i suoi subalterni, tenenti Conquisi, Cioffi e Colonna, e sottotenente Ottaviani: ebbe parole di incoraggiamento per tutti gli equipaggi. L’ispezione durò quasi un’ora: tornò al carro comando, soddisfatto che il reparto non avesse subìto altro danno che la perdita di due motocicli Galera 500 sui tre che avevamo in dotazione. Verso le 7 un portaordini avvertì il signor capitano di recarsi a rapporto (non so se dal comandante di battaglione maggiore Guiscardi, o dal colonnello Bonini comandante il 133° carristi). Fece ritorno dopo qualche ora. Io ero appoggiato pigramente a una fiancata del carro. Si mise a camminare avanti e indietro per una trentina di metri, tenendosi una mano sotto il mento (suo gesto abituale quando meditava qualche decisione da prendere): il viso era acceso, sintomo che mi indicava quando era in collera o quando le cose non andavano. A tre chilometri verso est il nemico stendeva cortine fumogene, segno che si spingeva in avanti cercando di coprire i propri movimenti. A un certo momento mi sentii chiamare, accorsi verso lui e mi irrigidii nel saluto. Mi ordinò di prendere la mosto superstite e di tentare dei raggiungere la base di El Daba, dove avrei dovuto chiudere la contabilità prima della mezzanotte del certo momento mi sentii chiamare, accorsi verso lui e mi irrigidii nel saluto. Mi ordinò di prendere la mosto superstite e di tentare dei raggiungere la base di El Daba, dove avrei dovuto chiudere la contabilità a tutto il 25. Di fronte a tale inspiegabile ordine rimasi un istante stupito, e subito ricordai rispettosamente al signor capitano che non potevo chiudere la contabilità prima della mezzanotte del 31 ottobre. Egli mi riprese, sottolineando la mia abitudine di aver sempre l’ultima parola, accendendosi in volto ancor
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più. La mia osservazione lo aveva irritato e perciò rimasi turbato e silenzioso. Poco dopo riconfermò l’ordine e mi consigliò di prestare attenzione lungo la litoranea: alludeva ai continui mitragliamenti arerei che mi avrebbero potuto sorprendere lungo il percorso. Disse anche che facessi ritorno entro quarantott’ore. Avvicinandosi di qualche passo, sottovoce e fissandomi negli occhi, mi raccomandò di scrivere a casa, ai suoi, se egli non fosse stato in grado di farlo, a questo punto fui onorato di una Sua stretta di mano, l’ultima, che conciliò il mio imbarazzo di poco prima. mi accompagnò fino alla moto, che era lì a pochi passi, attese che la mettessi in movimento. Lo fissai negli occhi in segno di saluto, attesi il suo ultimo gesto con la mano e un “mi raccomando”. Mi avviai lentamente lungo la pista, mi girai più volte indietro e lo vidi ancora là, ritto, finché la polvere sollevata da alcuni automezzi che incrociavo me lo fecero perdere di vista.
NOTA: La salma di Vittorio Caraccio (proposto per la medaglia d’oro e decorato della medaglia d’argento alla memoria), dapprima ritenuta distrutta nel rogo del carro, fu invece ritrovata dopo sei anni di ricerche nel cimitero italiano di Quoto 33 presso Alamein. S’era pensato che potesse far parte d’un gruppo di sette ignoti, probabilmente del LI carristi. Una delle salme corrispondeva esattamente, per la statura, la struttura cranica e un particolare della dentatura: la congettura divenne certezza quando, tra le ossa, furono trovati i gradi di capitano, poi consegnati al padre, in Taranto, nell’autunno del 1955.
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