Vita, pensiero, opere scelte [PDF]

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Zitiervorschau

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VITA, PENSIERO, OPERE SCELTE

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> o mostrando un comportamento spavaldo e fermo. L'essere stato posto all' inizio si spiega con la rilevanza di quel tema dell 'uomo «soggetto meravigliosamente vano, vario e ondeggiante» , che si rintraccia anche a chiusa dell' edizione de11' 80 dei Saggi, come se Montaigne avesse voluto delineare una qualche architettonica: «la regola più generale che la natura abbia seguito è la varietà[ ...] E non vi furono mai al mondo due opinioni uguali, non più che due peli o due granelli. La loro più universale caratteristica è la diversità» (II, 37, 716-717/1043). La pratica dell'accostare esempi, che nel loro opporsi illustrano e giustificano soluzioni antinomiche, si risolve nella negazione della deducibilità di un giudizio razionale, di una qualsiasi precettistica che intenda dare forma ai nostri comportamenti, e questo perché dell'uomo «è difficile farsene un giudizio costante e uniforme». L'edizione dell'80 recita nul jugement, ma nel testo (a) l'aporia del giudizio è di fatto negata: solo nella prima frase è questione dell'umiliarsi; tutti gli esempi di carattere storico indicano la necessità di far fronte: «i tre gentiluomini francesi» che resistettero all'esercito del principe Edoardo, caduta la città di Limoges, ed ebbero la vita salva per il loro valore; il soldato che, inseguito dal principe Scanderbeg, «si risolse ad attenderlo con la spada in pugno», e fu da questi graziato in virtù di quella risoluzione tanto coraggiosa; le gentildonne bavaresi che, avendo l'imperatore Corrado III durante l'assedio di Weinsberg nel 1140 concesso loro «di uscire, salvo l'onore, a piedi, con quello che potessero portare addosso», deliberarono «di caricarsi sulle spalle i loro mariti, i figli e il duca stesso»; infme il popolo tebano che, sottoposti a giudizio per delitto capitale Pelopida ed Epaminonda, assolse a mala pena il primo, che sopportò pazientemente la calunnia, mentre «non ebbe cuore nemmeno di por mano ai suffragi» per il secondo , per la sua indole più impulsiva. La fierezza non solo ha la capacità di muovere a compassione, di riportare cioè alla sorte comune, all'umana condizione, vinto e vincitore, ma ha anche una capacità pedagogica sul «popolo». Si noti l'opposizione femminile/maschile: debolezza, benigni-

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Eudemonismo

tà, mollezza, agiscono sulle nature più deboli come quelle delle donne, dei fanciulli e del popolo; di contro, animo In generale, il termine "eudemonismo" identifica la ricerca della feliciforte e inflessibile, vigore maschio e tà (in greco eudaimonia) e, nel contenace. E la condizione di femminea testo della cultura classica, sudditanza del popolo è riaffermata nelrappresenta il fine di gran parte delle !' agire dietro la spinta di stupore e dottrine filosofiche. Significativamente, l'etimo greco del termine (eu + ammirazione, che è pure indice di perdaimon, cioè "buon demone") semmanente inferiorità morale. I due esembra rimandare al dibattito socratico pi finali in (a), il confronto fra la consulla natura della felicità, che per il dotta di Epaminonda e quella di filosofo ateniese era costituita dal raggiungimento della virtù interiore Pelopida, fra la clemenza di Pompeo e mentre per altri pensatori - ad esemla furia omicida di Silla, sono tratti dalla pio i sofisti - consisteva nell' abbontraduzione delle Oeuvres morales di danza di beni materiali . La discusPlutarco del!' Amyot che è della fine sione sulla natura della felicità piacere, serenità, quiete - animerà lo del 1572. L'esempio dell'imperatore sviluppo delle successive correnti di Corrado è tratto dallaMéthode di Bodin pensiero, dall'epicureismo allo stoiche Montaigne legge verso il '78. cismo o allo scetticismo. Il testo (a) sarebbe quindi un inno stoico. E il verbo essayées dimostra come un vocabolario carico di suggestioni stoiche abbia ispirato la stessa scelta di un titolo che palesa tutta la lontananza dalla trattatistica scolastica. Di fatto questa ipotesi ripropone quell'interpretazione di Villey che rintracciava in Montaigne il succedersi di una fase stoica, scettica ed epicurea. Complessivamente il limite principale di codesta tesi è da rintracciare in una soverchia rigidità, palese nel passaggio dall'erudizione all'esegesi. Difatti la tripartizione indicata da Villey non rappresenta tanto un succedersi di tappe, quanto una sequela di atteggiamenti mentali rintracciabili sin dai primi capitoli. La nozione di 'crisi scettica' è allora da abbandonare. Invero si è dinanzi a un'opera molteplice in cui si mescolano di continuo l'ideologico e l'aneddotico, e dove l'enciclopedia dei saperi rinascimentale fornisce materia ali' assunto di dipingersi «per intero, e tutto nudo». Così in Dell'esperienza il topos cosmologico eracliteo/pitagorico della concorde discordia si traduce nell'aforisma della vita come armonia dei

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contrari . Di conseguenza all'esigenza classica di compiutezza succede lo schema di un'opera 'in movimento': già Erasmo faceva penetrare il lettore nella fabbrica degli Adagia. Il crollo di una secolare concezione delle cose si rispecchia in un procedere «a salti e a sgambetti» (III, 9, 323/1327) che sottende il rifiuto dell'uso dogmatico della ragione. La superiorità umana consiste allora in codesta duttilità, la metafora pichiana del camaleonte, e certo Montaigne condivise la fortuna rinascimentale di Ovidio, la sensibilità metamorfica.

IV. LO SCETIICISMO E IL MOBILISMO Montaigne legge di sicuro prima del 1580 il De incertitudine et vanitate scientiarum di Agrippa di Nettesheim, pubblicato nel '27 ad Anversa e frequentemente ristampato. Se ne rintracciano difatti imprestiti nell'Apologia e in Della rassomiglianza dei figli ai padri. Fu assai grande la fortuna del De incertitudine: tradotto in italiano, francese e inglese, costituì, insieme agli Accademici di Cicerone, anche la fonte di Rabelais nel tracciare la comica figura del filosofo scettico Spaccapeli, nel terzo libro del Gargantua e Pantagruel. L'opera di Agrippa, coi rimandi a Cicerone e a Diogene Laerzio, attesta come nel primo '500 ci si volga di preferenza allo scetticismo accademico, anziché al pirronismo sestano. Questo interesse si risolve in taluni, come Reginald Pole, Pierre Brunei e Arnould du Ferron, in un antirazionalismo propedeutico a professioni fideistiche. A costoro replicava il cardinal Iacopo Sadoleto, nel De laudibus philosophiae , che oppone allo scetticismo accademico quel Platone e quell'Aristotele restituito dagli umanisti e dai padovani. Quanto al De incertitudine è palese il nesso con Gian Francesco Pico allo scopo di pervenire a uno scetticismo edificante . Infatti la rassegna delle opinioni contrastanti, poi accolte da Montaigne, conferma i prestiti di Agrippa dal!' Examen e dall 'Adversus astrologiam divinatricem pichiani. A proposito del carattere storico-filologico più che filosofico della sollecitudine del '400 per l'opera di Sesto , si evoca l'Examen vanitatis doctrinae gentium (1520) di Gian Francesco Pico: gran parte dei suoi argomenti sono derivati dallo scetticismo della tarda Antichità. Nel tracciare una storia delle incessanti contraddizioni delle sette filosofiche, avverso all ' arista-

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telismo, cui si era conformata l'apologetica dopo san Tommaso, si volse verso il platonismo agostiniano e lo scetticismo per la sfiducia nella speculazione filosofica. Se ne evince che Gian Francesco rappresenta una pietra miliare nella fortuna europea di Sesto: del resto anche il Savonarola aveva fatto intraprendere una traduzione latina di Sesto allo scopo di valersene a fini apologetici. Difatti, prima dell'edizione di Henri Estienne delle Istituzioni sestane, il solo Gian Francesco ebbe a utilizzare le idee di Pirrone. Ma in polemica con la tesi di Strowski, secondo cui questi avrebbe goduto di «un notevole successo e avrebbe occupato un posto di grande rilievo nel pensiero scettico del Cinquecento», Popkin, nell'ormai classica Storia dello scetticismo, sostiene che Gian Francesco esercitò «un influsso molto moderato, non riuscendo ad imporsi nemmeno come volgarizzatore» delle idee sestane,come sarà il caso poi per l'Apologia di Raymond Sebond, che Montaigne intraprende in difesa della Teologia naturale del teologo catalano, il quale si era proposto di dimostrare razionalmente le verità della fede cristiana. A quanti trovavano insufficienti quelle argomentazioni, il perigordino oppone la fallacia, l'inanità della ragione umana, e di conseguenza lApologia si muta in una critica della Teologia e in un'esposizione della dottrina scettica. I Saggi costituirebbero quindi «la prima rielaborazione sistematica dello scetticismo tardo antico». È accertato che Montaigne non tornerà su Sesto all'atto di redigere le edizioni parigine: gli Accademici saranno allora la fonte scettica, come si evince dagli imprestiti ciceroniani. Di conseguenza il pirronismo si scioglie nel probabilismo, e invero l'erudizione cinquecentesca confonde pirronismo, scetticismo dell'Accademia e neoscetticismo. Verso il 1550, un interessamento per il pensiero accademico si era manifestato nella cerchia intorno a Pietro Ramo, cui appartenne anche il Guy de Brués, autore di quei Dialogues contre les nouveaux academiciens, annoverati tra le fonti di Montaigne, in cui Pierre Ronsard, Jean Antoine de Bruf, Guillaume Aubert e Jean Nicot, membri della Pléiade, discutono della validità dello scetticismo. Ignorando gli argomenti sestani, i Dialogues rappresentano di fatto un'indagine sullo scetticismo muovendo dalla pluralità delle credenze e dalle implicanze morali conseguenti; se ne evince che fu assai scarsa la considerazione di cui godette la filosofia scettica prima della pubblicazione delle opere di Sesto. E ancora,

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che dapprima ci si volse a costui con un interesse meramente storico, come attesta la Manuductio in stoicam philosophiam di Giusto Lipsio, e che solo a distanza di un ventennio, col Quod nihil scitur di Sanchez, prevalesse un approccio squisitamente filosofico revocando in dubbio la possibilità di addivenire ad una conoscenza scientifica col metodo aristotelico, superando così l'anti-intellettualismo di un Agrippa-cioè il ricorso alla 'storia della stupidità umana' o alla contraddittoria molteplicità dei differenti dogmatismi. A proposito dello 'sperimentalismo', in virtù del quale lo si è indicato come un antesignano dell'empirismo, Sanchez, a differenza di Bacone e di Cartesio, condivise tuttavia l'attacco scettico e lo giudicò decisivo. Invero era assai prossimo allo 'scetticismo costruttivo' di Montaigne, che lungi dall'acquietarsi nelle filosofie ellenistiche, ricerca la saggezza attraverso l'affermazione della soggettività della coscienza. Per collocare l'Apologia di Raymond Sebond nello 'spazio mentale' del XVI secolo si scorra, oltre alla prefazione del 1520 di Gian Francesco Pico al libro terzo dell'Examen vanitatis, l'epistola dedicatoria a Henri de Mesmes preposta dall'Estienne alle Ipotiposi più di quarant'anni dopo.

L'Apologia è in sintonia con l'ideologia controriformista quale traspare dalla traduzione di Gentian Hervet dell 'Adversus mathematicos. A proposito di codesta traduzione, detto dell'intento apologetico, si noti che l'Hervet ebbe a mostrare nelle pagine di Sesto la ricchezza di 'polymathia, polyhistoria et philologia', congiunta al procedimento suscettibile di trarre la verità 'ex multis probabili bus et verisimilibus'. Fu dapprima Henri Estienne a licenziare un'edizione latina delle Ipotiposi cui segue, alla fine del decennio, quella di diverse opere curata da Hervet ( 1499-1584), esponente della controriforma francese, allo scopo di apprestare armi contro il calvinismo. Se già teologi 'antirazionali' delle tre confessioni monoteiste, e in ispecie il Cusano, si erano avvalsi degli asserti dello scetticismo antico , nell'arco temporale che va da Lutero a Descartes, il rilievo assunto dallo scetticismo dipende dalla concomitanza fra il movimento riformatore e la riscoperta degli argomenti degli scettici greci. Se ne evince che 'scetticismo' e 'fideismo' sono ben lungi dall'essere classificazioni contraddittorie. Fu infatti a proposito del valore della conoscenza religiosa, ovvero della regulafidei, che ci si valse di quel-

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le argomentazioni nelle dispute ecclesiastiche. A quest'ambito è riconducibile pure la contrapposizione erasmiana tra la stultizia cristiana e la superbia dei teologi. Solo la coincidenza fortuita fra la riproposizione delle Istituzioni e i dibattiti sul criterio di verità, fece sì che Sesto, da rinvenimento erudito, si trasformasse nel '600 nel ' divino Sesto' - la locuzione fu coniata da François de la Mothe Le Vayer -, ossia nel padre della filosofia moderna. A proposito della 'modernità' di codesto scetticismo, l'antropologia montaignana si volge a indagare non il fondamento delle cose, ma i meccanismi di traduzione delle idee , delle rappresentazioni , nella psicologia individuale. Il carattere eminentemente pratico di codesto pirronismo esclude come esito possibile il nichilismo filosofico , e persegue un ' modo di vita' volto alla sconfessione della ragione irragionevole. Invero l'esito dello scetticismo antico, il secolare lavoro di dissoluzione, è accolto da Montaigne come uno stadio iniziale. E si noti come, a proposito del ritorno dei filosofi antichi , non ci si volse alle più mature e più alte sintesi sistematiche, ma ai problemi e ai dubbi della tarda Antichità. La mutevolezza, la fluidità del reale, tipiche della condizione umana, agiscono in maniera tale per cui «la verità e la menzogna hanno volti conformi e portamento e andatura simili» (III, 11 , 369/1371). In un processo continuo, «l'errore particolare dà origine in primo luogo all'errore pubblico e a sua volta, dopo , l'errore pubblico dà origine all'errore particolare» (ivi, 370/1372). L'individuo è una congerie molteplice di soggetti momentanei, l'identità personale un fatto linguistico , ma ciò genera anche «chimere e mostri fantastici»: è la scaturigine della costante tensione volta al disvelamento delle imposture , in ispecie linguistiche , che si rintraccia nei Saggi. Il proponimento programmatico di dipingere se stesso si muta allora in un itinerario volto ali' emendazione dell ' intelletto. Di fatto nell'Apologia il flusso della realtà, non più l'armonico fluire rinascimentale, ma un trascorrere vertiginoso, senza posa, prova che questa rappresentazione in qualche modo eraclitea conduce alla critica del linguaggio e della scrittura, del loro conato a fermare la spontaneità e creatività della vita vissuta. In Montaigne non c'è alcuna sostantificazione dell ' io , poiché l'essere si riassume nel cambiamento, nel

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fluire perenne, l'io nella molteplicità. L'assenza di una qualche costante, il vivere entro un mondo eracliteo , inficia la possibilità di una «comunicazione con l'essere», poiché non si è che «un'oscura apparenza e un ' ombra, e un ' opinione incerta e debole» (Il, 12, 434/801). Si è fatto allora di Montaigne un nominalista poiché non riconosce alcun significato universale nelle cose: contrario all 'interpretazione platonico-agostiniana, che fa corrispondere agli universali realtà o idee effettivamente esistenti nella mente di Dio , gli universali hanno una realtà esclusivamente concettuale o linguistica, sono soltanto segni e apparenze , poiché della natura sono predicabili differenza e particolarità. Se ne evince che l'identità personale è illusoria, risultato di differenti percezioni del mutamento. Analogamente le teorie sarebbero riducibili a opinioni condivise che rispecchiano mentalità e asserti logici modificantesi più lentamente. Il modello antropologico immerso in un ' atmosfera autunnale è un insieme «di pezzettini, e di una tessitura così informe e bizzarra che ogni pezzo, ogni momento va per conto suo» (Il, 1, 24/435). Ma oltre la radicale discontinuità delle forme della personalità, l'io riducibile a un mosaico, è la «forma sovrana» che assicura l'unità dell'essere, poiché resta la necessità di «un'idea del tutto» per ordinare il proprio agire, di una qualche morale provvisoria, che esige «costumi modesti e umili». Ogni pretesa della filosofia di salire «sul pulpito per predicarci» (Ill, 13, 500/1493) è stolta, il suo compito è invece quello di «combatte[re] la nostra presunzione e vanità». La peculiarità irriducibile dell'istante inficia le congetture della ragione e gli ammaestramenti dell'esperienza: la commedia umana e profana di Montaigne si confronta dunque con l'ostacolo cui si sono urtati da sempre i mistici nel tentativo di escludere i procedimenti ordinari del sapere umano . La sua perspicacia, osservava L. Brunschvicg in Descartes et Pascal, lo pone al riparo dalla «tentazione dogmatica d'erigere l'incosciente in una sorta di sostanza trascendente rispetto alle nostre tendenze naturali», scongiurando «l'orrore congiunto della disciplina ' violenta' e della ' pedanteria' dogmatica». Lo sforzo dell'intelligenza consiste nello schivare il 'fanatismo logico' per esercitare il 'giudizio indipendente' . Allo stesso modo agiscono tanto Descartes quanto il Pascal razionalista, 'lettori di Montaigne' . I tre concordano difatti nel denunciare le pretese deduttive della scolastica, che si risolvono in petizioni di principio.

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La negazione di un apprendimento puramente mnemonico - «noi lavoriamo solo a riempire la memoria, e lasciamo vuoti l'intelletto e la coscienza» (I, 25, 240-2411178); «sapere a memoria non è sapere: è conservare ciò che si è dato in custodia alla propria memoria.[ ...] Fastidiosa scienza, una scienza puramente libresca» (I, 26, 264/200)- è allora finalizzata al «desiderio di conoscenza>>, il cui soddisfacimento, implicato nell"ideale della salute', richiede il ricorso all'esperienza «quando la ragione ci fa difetto». In proposito si è parlato di materializzazione del lavoro intellettuale e di attaccamento alle funzioni del corpo in relazione agli elementi barocchi dello stile e del pensiero di Montaigne , che considera l'esperienza «Un mezzo più debole e meno nobile [della ragione]; ma la verità è una cosa tanto grande che non dobbiamo disdegnare alcun aiuto che ad essa ci conduca. La ragione ha tante forme che non sappiamo a quale appigliarci; l'esperienza ne ha meno» (ll, 13, 425/1423). Ma l'esperienza non è una mera «pratica», poiché , per poter essere utilizzata, implica l'esercizio di una serie di mediazioni intellettuali. «Non basta registrare le esperienze, bisogna pensarle e sceglierle, e bisogna averle digerite e filtrate per ricavarne le ragioni e conclusioni che esse comportano» (ll, 8, 230/1239). L' igiene del comportamento implica l'urgenza della 'moderazione' poiché «la ragione umana è una spada a doppio taglio e pericolosa» (II, 17 , 517 /874) e ancora «è una tintura data in ugual misura, o quasi, a tutte le nostre opinioni e usanze, di qualsiasi specie siano» (I, 23, 203/ 145). La sfiducia nelle possibilità euristiche della ragione è motivata dalla sua comparazione con la fortuna, entrambe variabili in egual misura - l'una «cieca e sconsigliata» quanto l'altra (II, 12, 294/677) - , e dall' autorità che la sorte conserva sulle nostre argomentazioni. Più volte si rileva di fatto nei Saggi come l' immaginazione sia capace di razionalizzare «ogni specie di sogni» (III , 11 , 380/ 1382). La moderazione si traduce allora in una inclinazione al dubbio , soprattutto «in cose difficili da provare e pericolose da credere», ove dietro il problema gnoseologico emerge l'eco di un difficile presente. La ragione come procedimento discorsivo è difatti incapace di cogliere le leggi universali del reale, ma essa è suscettibile di guidare la condotta umana nel mondo. Lo scetticismo di Montaigne è un abito di modestia che nasce dalla pratica quotidiana della

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Il ritorno di Martin Guerre "Vidi durante la mia fanciullezza un processo che Corrado, consigliere di Tolosa, fece stampare, su uno strano accidente di due uomini che si presentavano l'uno per l'altro. Mi sowiene (e di nessuna cosa tanto mi ricordo) che mi sembrò avesse reso l'impostura di colui, che egli giudicò colpevole, così straordinaria ed eccedente di tanto la nostra cognizione, e di lui che era giudice, che io trovai molta crudeltà nella sentenza che l'aveva condannato ad essere impiccato ... " (Saggi, Libro lii, Xl) . Come sua abitudine, Montaigne racconta quasi in sordina la vicenda dei due Martin Guerre, uno dei casi giudiziari più noti del suo tempo; l'episodio era avvenuto a pochi giorni di cammino da quelli che sarebbero divenuti i suoi domini feudali, ma la sua fama si era rapidamente diffusa in tutta l'Europa, soprattutto dopo

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la pubblicazione de Gli arresti

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memorabili del Parlamento di Tolosa, scritto da Jean de Coras (il "Corrado" di cui parla Montaigne) . Alla fine del Cinquecento, la

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Europa tramite fogli a stampa, gli stessi che avevano avuto tanta parte nella circolazione delle idee

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della Riforma. Montaigne cita l'episodio nel saggio Degli zoppi, forse uno dei

Foglio volante a stampa risalente alla seconda metà del Cinquecento. La storia di

Martin Guerre si diffuse rapidamente anche oltre i confini francesi, come testimonia questo foglio volante stampato in lingua tedesca.

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brani in cui il filosofo perigordino si è più lasciato andare a quella sorta di peculiare "flusso di coscienza" che tanto caratteriz-

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11 Giurista (tela di Giuseppe Arcimboldo, 1566). //pollo arrosto che suggerisce il

volto del personaggio riporta alla memoria i capponi che Manzoni immagina donati da Renzo all'avvocato del luogo.

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Un giurista (tela di Adriaen van Ostade, 1637). Nei suoi Saggi Montaigne fa diversi riferimenti alla sua carriera di giurista.

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za il suo stile, spaziando dalla riforma del calendario alla sterilità della retorica; la storia degli uomini "che si presentavano l'uno per l'altro" è inquadrata all'interno di un discorso più generale, che esplicita lo scetticismo del sindaco di Bordeaux tanto nei confronti della capacità di percezione quanto in quelli della ragionevolezza degli uomini che "dilettano più volentieri a cercare la ragione" delle cose "piuttosto che a cercarne la verità". Allo storico moderno, invece, il caso di Martin Guerre offre lo spunto per osservare da vicino la società rurale francese del XVI secolo e approfondire il contesto in cui Montaigne visse e scrisse i suoi Essays. Martin Daguerra nasce a Hendaye, nei Paesi Baschi spagnoli, nel 1524; la sua famiglia si trasferisce, tre anni dopo, nel villaggio guascone di Artigat- al di là dei Pirenei - dove Martin cresce francesizzando il suo cognome in Guerre. A quattordici anni, Martin sposa Bertrande de Rais, figlia di una delle famiglie più agiate della zona e per otto anni, un periodo insolitamente lungo per l'epoca, la coppia resta senza figli; nel 1548 infine, due anni dopo la nascita di un figlio maschio, in seguito ad un'accusa di furto sporta contro di lui dal padre di Bertrande, Martin scompare senza lasciare traccia e la moglie - data

Nel Cinquecento, la vita di una donna con figli che aveva perso il marito era durissima, a meno che non riuscisse a contrarre rapidamente un secondo matrimonio.

Una strada del Cinquecento (tela di Jan August Hendryk Leys, 1866).

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l'impossibilità di accertare se il marito fosse vivo o morto - è obbligata ad attendere il suo ritorno senza potersi risposare. Nell'estate del 1556, fa la sua comparsa ad Artigat un uomo che dice di essere Martin Guerre: non solo gli somiglia molto - anche per diversi segni particolari, come una cicatrice in fronte o una serie di difetti dentali - ma è in grado di raccontare numerosi particolari della sua vita; quando Bertrande lo riconosce come proprio marito, l'uomo è presto accettato dalla piccola comunità. I sospetti, tuttavia, rimangono: qualche anno dopo, un soldato di passaggio racconta di aver saputo che Martin aveva perso una gamba in battaglia; quando l'uomo arrivato ad Artigat reclama l'eredità paterna, lo zio Pierre Guerre - anch'egli coinvolto dall'eredità - lo accusa di essere un impostore. Bertrande invece, che nel frattempo ha avuto altri due figli, lo difende accanitamente; la vicenda è resa ancor più intricata dal fatto che Pierre Guerre ha sposato la madre di Bertrande, rimasta vedova, ed è diventato così il suo patrigno (oltre che una delle persone più influenti del villaggio). Nel 1559, Pierre accusa il "nuovo" Martin di impostura ma, grazie a Bertrande, l'uomo viene prosciolto; lo zio - deciso a difendere i propri diritti sul l'eredità - rifiuta di darsi per vinto e inizia una serie di "indagini" nella zona, che lo portano ad identificare il nuovo arrivato con un certo Arnaud du Tilh, detto "Pansette", uno scapestrato che abitava nel vicino villaggio di Sajas, anch'egli scomparso. Pierre e la moglie costringono Bertrande ad accusare nuovamente il marito e il processo viene portato al tribunale di Rieux, dove il "nuovo" Martin sfida apertamente la moglie, dicendosi pronto ad essere impiccato se quest'ultima l'avesse rinnegato pubblicamente. Vengono ascoltati centinaia di testimoni, molti dei quali lo riconoscono come Arnaud du Tilh ma tanti altri (tra cui le quattro sorelle) lo identificano con Martin Guerre. La corte emette un verdetto di colpevolezza e la condanna all'impiccagione, ma, dopo l'inevitabile ricorso alla corte superiore di Tolosa, dispone l'arresto tanto di Bertrande (per possibili bigamia e adulterio) quanto di Pierre Guerre (per possibili menzogna e spergiuro). A Tolosa, l'accusato si difende in modo molto persuasivo, fornendo un resoconto convincente e particolareggiato della vita di Martin fino al momento della sua sparizione, ma l'improvvisa comparsa del vero Martin Guerre davanti alla corte ribalta completamente l'andamento del processo. Martin Guerre ha effettivamente perso una gamba, combattendo per gli spagnoli a San Quintino e un contraddittorio tra i due smaschera definitivamente l'inganno. Arnaud du Tilh confessa di essere venuto a conoscenza della sua somiglianza con Martin Guerre dopo essere stato

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scambiato per lui da due uomini e di aver combinato lo scambio grazie alla collaborazione di due complici di Artigat che gli avevano decritto per sommi capi la vita di Martin. Dopo aver domandato perdono alla corte e a Bertrande, viene condotto ad Artigat per essere impiccato di fronte alla casa di Martin. Bertrande, prosciolta dall'accusa di bigamia perché considerata vittima di frode, viene liberata dal carcere di Tolosa nel 1560. Nulla si sa della vita successiva dei protagonisti di questa strana storia. I commentatori moderni, a cominciare dalla storica di Princeton Natalie Zamon Davis, si sono concentrati sulla vicenda di Bertrande de Rols per sottolineare l'intollerabile stato di sudditanza con cui il diritto medievale e rinascimentale vedeva la condizione femminile; Montaigne, invece, ne trasse lo spunto per una parabola di carattere più generale, concludendo la storia con questo aneddoto: "Troviamo qualche forma di sentenza che dice: la corte non ci capisce più niente, più liberamente di quanto non fecero gli Aeropagiti, i quali, trovandosi presi da una causa che potevano districare, ordinarono che le parti ritornassero dopo cento anni".

Il villaggio di Montrésor nella Francia centrale. Dominato dalla

mole del castello feudale, il borgo di Montrésor ha conservato pressoché intatto l'aspetto del villaggio rurale cinquecentesco.

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ragione, che «è capace cli costruire altrettanto bene sul vuoto che sul pieno, e dal nulla come dalla materia» (ID, 11 , 369/1370), è una terapeutica, e di questa terapia «l'utilizzazione del diverso è un mezzo»: «una misura dell' uomo e una verità delle cose» nella mentalità rinascimentale . Di conseguenza codesto scetticismo è del tutto estraneo alla tradizione agostiniana che ne faceva una tappa nell'itinerario alla verità: difatti lo scopo di Montaigne è una superiore saggezza, una condotta morale, diversamente il sapere scade a funzione tecnica, strumentale. Il suo metodo rinunciando all ' acquisizione del vero , persegue il possibile. In virtù del concorso di esperienza e ragione elabora una morale come arte del vivere , in una prospettiva eclettica per il comporsi di epicureismo e di stoicismo nell' individuazione del piacere come lo scopo della vita. E invero l'esperienza, dinanzi ali' impotenza della ragione a dar conto del molteplice, è strettamente connessa alla pratica personale e alla concretezza corporea. Anche se la nostra condizione è di ostacolo alla conoscenza, e l'uomo «è debitore alla fortuna e al caso della verità» (II, 12, 3541732), la ragione resta pur sempre l'unica guida «in questa confusione esposta ai venti di voci, notizie e opinioni volgari che ci spingono» (Il, 16, 469/833) . Guida incerta, poiché incapace anche di valersi della verità casualmente acquisita. L'igiene consiglia di «cedere un po' alla semplice autorità della natura», tuttavia , a differenza delle bestie, occorre «non lasciarsi tirannicamente trascinare da essa». Poiché «la sola ragione deve guidare le nostre inclinazioni», è necessario conformare l'agire alla «pratica naturale» e limitare l'immaginazione (III, 5, 100/116-117) . La consapevolezza della propria «insufficienza» deve spingere allora lo sguardo dalla pubblica piazza al foro interiore - «La gente guarda sempre di fronte; io ripiego la mia vista al di dentro, la fisso, la trattengo lì . Ciascuno guarda davanti a sé , io guardo dentro di me» (II, 17, 522/878-879). L''ideale della salute' rapporta certo l'inctividuo a se stesso, ma non lo chiude nel solipsismo in quanto lo scopo è quello «di obbligare la[ ...] mente a fantasticare, perfino , secondo un certo ordine e disegno, e di impedirle di perdersi e di andar vagando dietro al vento» (II , 18 , 533/889) . Un'esigenza di socializzazione delle conoscenze è esplicitata d'altro canto nell'affermazione che «quello che le mie facoltà non possono scoprire , non smetto di sondarlo e provarlo; e rimaneggiando e impastando questa nuova materia, agi-

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tandola e riscaldandola, apro a colui che mi segue qualche possibilità di goderne più a suo agio e gliela rendo più duttile e maneggevole» (II, 12, 366-367/742). Nelle pagine dei Saggi può leggersi inoltre una esigenza di controllo sia dello strumento sia dell'oggetto della conoscenza: «accogliamo [...] spesso cose false, e con quegli strumenti che spesso si contraddicono e s'ingannano. È certo che la nostra intelligenza, il nostro giudizio e le facoltà della nostra anima in generale soffrono secondo i movimenti e le alterazioni del corpo» (ivi, 372/747). Non è un caso che nella fisiologia della percezione Montaigne opponga al privilegiamento della vista, propugnato dal Rinascimento, le sensazioni gustative e in ispecie quelle cinestetiche, provocate dai movimenti di segmenti corporei . Appunto l'asservimento dell' uomo al proprio corpo spiega come mai l'immaginazione sia una facoltà insieme attiva e passiva, che supera di gran lunga la capacità d'espressione dell'uomo. È questo uno scetticismo fenomenologico, un pensiero concreto. In effetti la memoria concepita come conservazione è una sorgente continua di immagini, di frequente espresse con metafore impudiche. Così, in Su alcuni versi di Virgilio, per il tramite di citazioni da Marziale e accoppiando in certa misura francese e latino, Montaigne conia una lingua acconcia a parlare di sesso, la cui centralità comporta il rifiuto di quei valori cristiani che ne facevano un carattere accessorio. Lo scetticismo è allora un 'attitudine di controllo dei dati sensoriali e degli strumenti dell' appercezione, che si traduce in un abito morale poiché «il rafforzamento della nostra ragione» è finalizzato all'emendazione della «nostra coscienza» (III , 2, 62/1083).

V. «VANITAS VANITATIS »:FRA MELANCONIA E FISIOLOGIA Montaigne addebita alla potenza dell' immaginazione il credito riservato «ai miracoli, alle visioni , agli incantesimi e a simili fatti straordinari » (I, 21, 183/ 128) e ironizza, denunciandole come «buffonate», su «quelle ridicole fatture», cui si imputava l'impotenza sessuale. Analogamente smaschera le pretese di scientificità della medicina, poiché il medico agisce in modo che «l'effetto dell' immaginazione supplisca all ' impotenza del decotto» (ivi, 190/ 134) . La medicina, «scienza molesta, che ci vieta le ore più dolci del giorno» (III, 13, 455/1452) , trae «pro-

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fitto dalla nostra stoltezza» (II, 27 , 707/ 1035), risultando in ciò non dissimile da «molte professioni»; e nella diatriba nei confronti dei medici critica un sapere che ha smarrito la pratica clinica per confondersi con la retorica. Alla forza dell'immaginazione sono da ricondurre «parecchi esempi di persone che si sono ammalate per aver cominciato a fingersi tali» (Il, 25 , 567/917) , tanto che in assenza di veri malanni «la scienza ci presta i suoi» (Il, 12, 253/639) . Montaigne oppone allora all' «uomo schiavo di tali fantasie» il «contadino» , che seconda la «tendenza naturale» . L'individuo, chiuso in un suo mondo immaginativo - poiché «tutti i nostri beni non sono che sogno» (Il, 12, 250/636) -, rimane «schiavo delle proprie chimere»: tutti gli uomini, al pari di bambini , risultano «vittime delle [ ...] stesse fandonie e invenzioni» (ivi , 317 /697). L'immaginazione fabbrica quelle «fanatiche follie» ordinate «nella nostra povera scienza>>, che presumono di comprendere fenomeni che d'altro canto confessiamo sfuggire alla nostra ragione. È codesto il carattere 'anticipatorio' e 'materializzante' dell' immaginazione, e si consideri che in Montaigne fantasia e immaginazione sono sinonimi. La filosofia in questa pretesa di «voler sondare e controllare tutte le cose fino in fondo » (ivi, 3601736) ha «Stranezze simili a quelle della poesia», anzi «non è che una poesia sofisticata» (ivi, 3281708). Anche la scienza e il diritto operano attraverso «finzioni legittime», per mezzo delle quali non si entra in commercio col reale, stabilendo un 'effettiva padronanza, ma costruiscono un mondo «che ha maggior verosimiglianza ed eleganza». La filosofia è allora il repertorio di tutte le «nostre fantasticherie» e ha estensione eguale a quella della fantasia . L'inadéquation è la figura costante del rapporto soggetto-oggetto in conseguenza della parcellizzazione dell'essere: l'umana condizione è quindi un concorrere di diversità . Nei confronti dell'immaginazione , di cui sente «moltissimo la forza», ligiene implica allora l ' «astuzia [ ...] di sfuggirle non di resisterle» (I , 21 , 181 / 124-125): la «tratto più dolcemente che posso e la libererei , se potessi , da ogni pena e contrarietà» (III, 13 , 463-464/ 1460). Una simile terapia consente anche di volgere verso il piacere la «vagabonda libertà delle nostre fantasie» (I , 14, 121172) senza lasciarsi opprimere , ma sottoponendole al controllo dei sensi , che - seppur «incerti e falsabi-

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San Luca (tela di Frans Hals, 1625). Secondo Montaigne, la saggezza si raggiunge attraverso

la rimeditazione dei classici, studio che porta a riconsiderare i criteri di veridicità tramandati dalla tradizione. li», causa di inganno per l'intelletto e talora «storditi dalle passioni dell'anima» (II , 12, 425/793) - sono «i sovrani padroni» della conoscenza, ne fondano la possibilità. La scienza umana trova allora sostegno in «una ragione irragionevole , folle e forsennata», ma conserva una utilità pratica dal momento che consente di smascherare «la verità invero svantaggiosa» di una stoltezza assoluta dell ' uomo. A proposito di phantasia e imaginatio , E. Garin rileva che, «riassumendo il libro tredicesimo della Theologia ficiniana, Pedro Mexia, nella sua Selva destinata a circolar dappertutto in Europa, osservava: 'L' immaginazione ha potere di muover le passioni , e affetti nell'animo , e alterare i sentimenti del proprio corpo , mutare gli accidenti , muovere gli spiriti[ ...], produrre nei membri diverse qualità'» . E allora Montaigne , «scrivendo all ' inizio del capitolo sulla forza dell'immaginazione 'Fortis imaginatio generat casum' , attraverso Mexia, riproduce, senza saperlo, Ficino». Possedeva difatti la traduzione france se di C . Gruget delle Diverses leçons de Pierre Messie, pubblicata nel 1552 .

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Come il XVI secolo declinante offre molteplici esempi di temperamenti melanconici, così i Saggi discorrono a lungo degli spettri della déraison , delle forme di patologia mentale, la senescenza cerebrale e la sessualità nevrotica. Ma più di frequente è il caso della malinconia e dell 'immaginario . La rilevanza di codesta complessione, la più concreta fra i quattro temperamenti della dottrina umorale medioevale, non è estranea all'aristotelismo di un Pomponazzi , all'assurdità cioè di separare l'intelletto dal corpo , ché l'anima è la 'forma' del corpo e si dissolverà con esso. In Montaigne l'approccio teoretico alla conoscenza dell'anima cede dinanzi all'indagine fenomenologica. Vale a dire, la rivisitazione cui sono sottoposti gli antichi non scade mai a mero esercizio filologico ed erudito. E di contro al comune sentire e ai postulati della medicina, rifugge da ogni spiegazione soprannaturale, dalla magia e dalla demonologia. Nei Saggi non sono di scena il demonologo o il giudice, ma il 'naturalista' ; difatti il capitolo Della tristezza è una trattazione di sintomatologia clinica. Quanto all 'assenza di una dottrina della sessualità a dispetto del fatto che di frequente trae da codesta sfera esempi e credenze, mette conto notare che dovette adottare in proposito quel sapere medico, oggetto anche di scherno, e in ispecie la concezione idraulica della sessualità riconducibile alla dottrina galenica della rete mirabile dei vasi corporei . Del tutto estraneo a codesto approccio fisiologico è invece l'aver individuato un legame fra sessualità e desiderio, manifestazione della sintesi montaignana di sensibilità e immaginazione. La galenica concezione finalistica dei processi bio-fisiologici , riproposta nel 1575 da Juan Huarte nell' Examen de ingenios para las sciencias , e accolta da Bodin , Cardano , Charron , oltre che da Montaigne, forniva una spiegazione unitaria suscettibile d'interpretare sia i fenomeni naturali che quelli psichico-mentali . Invero la presenza del 'corpo' nei Saggi è incessante, vantaggiosa. E a proposito della pertinacia antiplatonica del discorso sul corpo , echeggia in Montaigne l'ilemorfismo aristotelico, la sostanza come unità di materia e forma: desume dallo Stagirita che il corpo è la materia intesa come potenzialità, principio d'individuazione, cosicché Dell 'esperienza analizza il particolare suscettibile di universalizzazione, non il generale passibile di differenziazione. In proposito mette conto ricordare l'attitudine di Montaigne verso la vec-

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Montaigne Il pensiero

chiaia, che se è in certo modo oscillante, come oscillante è il suo rapporto con Cicerone, di fatto distrugge quel topos classico della vecchiaia come età della saggezza, riconducibile al De Senectute. In una tarda aggiunta a Della Vanità si legge: «Sarebbe bello esser vecchi se non procedessimo che verso il miglioramento. È un andamento da ubriaco, titubante, preso dalle vertigini, informe, o di giunchi che il vento fa muovere a caso , a suo piacere» (III, 9, 277/ 1284). Di fatto la vecchiaia è pensata sotto la categoria del depotenziamento, ché sempre il disgregarsi delle forze fisiche, l'isterilirsi degli umori della corporeità, si accompagna a un ottundersi delle facoltà intellettuali, della sensibilità. La critica della scolastica, della disposizione gerarchizzata delle scienze in base al loro grado di certezza, della distinzione tra la verità scientifica, certezza non psicologica ma apodittica - «scire est causas cognoscere» -, e la credenza, verità dossica, consegue dall'asserto che la scienza umana è discorsiva poiché la mente non attinge con un unico atto la conoscenza perfetta delle cose. Ma nel ricusare la tassonomia scientifica, nel farsi beffe della medicina Montaigne smarrisce la distinzione tra la medicina scolastica, il cui problema maggiore era quello di conciliare l'autorità dei testi antichi con le nuove conoscenze, con la pratica clinica e terapeutica. Il disconoscimento della tassonomia scientifica comporta l'accettazione del procedimento dossico della giurisprudenza che non si fonda su assiomi ma su premesse probabili, e consente di denunziare la verbositas . Se ne evince un Montaigne influenzato dalla filosofia giuridica, il Digesto vieta difatti l'indagine della ratio legis per non scuotere l'ordine politico. Con parole fortemente radicate nel presente, Montaigne denuncia quindi come «nel mio paese, e al tempo mio, la dottrina giova abbastanza alla borsa, raramente all 'anima» (III, 8, 224/ 1234), e come proprio «in coloro che trattano le cose più alte e più a fondo» si possono rintracciare «le più grossolane e puerili fantasticherie» (II, 12, 340/719). Il «mucchio delle asinerie della saggezza umana» , di cui i Saggi raccolgono «una sorta di campionario», è «non meno utile a considerarsi delle opinioni sane e moderate»: di contro alla «stoltezza>>delle «critiche che i filosofi si fanno reciprocamente sui dissensi delle loro opinioni e delle loro sette» (ivi , 341/720) , vale l'ammonimento secondo cui chi «abbraccia le opinioni di

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La Scuola di Atene La Scuola di Atene venne dipinta da Raffaello tra il 1508 e il 1511, quindi circa un ventennio prima della nascita di Montaigne. Senza dubbio, si tratta di una delle più potenti elaborazioni iconografiche mai realizzate su temi filosofici, destinata ad avere un'enorme risonanza in tutta Europa; se, dal punto di vista artistico, Raffaello sembra voler sperimentare in questi anni una molteplicità di strade - caratteristica che, a ben guardare, farà la fortuna del ciclo - da quello filosofico fissa, in modo monumentale, la concezione rinascimentale della filosofia antica in un'immagine che finirà per costituire un paradigma ermeneutico di riferimento anche per i secoli a venire. Raffaello affresca la Scuola su una delle pareti della stanza riservata alla biblioteca del Pontefice, assieme alla Disputa sul Santissimo Sacramento e al Parnaso; si tratta di un programma iconografico molto raffinato, destinato a sottolineare la complementarità tra pensiero greco e religione cristiana, che il pittore urbinate svolge in modo elegante immaginando un ambiente naturale e silvestre per il Parnaso, una maestosa architettura aperta verso il cielo per la Scuola e una sorprendente struttura di nuvole (debitrici delle pale d'altare medievali) per la Disputa: l'insieme degli affreschi configura perciò un passaggio da un mondo naturale (il Parnaso, in cui campeggia la figura di Apollo) ad uno ultraterreno (la Disputa, dominata dalla potente esedra di santi sospesa nell'aria che, a sua volta, sottostà alla Trinità). La Scuola, in quanto glorificazione del pensiero, va così a ricoprire la funzione di "tramite" tra questi due universi; anche per questo è l'unico dei tre affreschi ad essere caratterizzato da una "macchina" architettonica prospetticamente rigorosa, il cui aspetto potrebbe suggerire una successione di archi trionfali, ma anche l'aspetto coevo della grande Basilica di San Pietro, allora in costruzione. Edgar Morin ha suggestivamente sottolineato come il cristianesimo del XVI secolo, discendente dell'impero cristiano che aveva decretato la chiusura delle vere scuole ateniesi in nome della superiorità della teologia, si riapriva in questo modo all'eredità greca: "Da questo momento il pensiero, la poesia e l'arte europea rimangono ancorati a questa fonte"; in realtà si potrebbe piuttosto parlare di una "reinvenzione" consape-

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La parte centrale della Scuola di Atene. Secondo la tradizione, Raffaello ha raffigurato Platone con le sembianze di Leonardo ed Eraclito (la figura pensosa appoggiata ad un blocco in primo piano) con quelle di Michelangelo.

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La parte destra della Scuola di Atene. Euclide, ritratto in primo piano mentre traccia disegni geometrici su una lavagna, è probabilmente il ritratto de/l'architetto di San

Pietro, Donato Bramante. Alle sue spalle sono raffigurati il Sodoma, amico di Raffaello, e lo stesso urbinate.

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vole della tradizione, che fissa definitivamente i termini della dicotomia Platone-Aristotele attraverso una contrapposizione (anche se Raffaello fa in modo che finiscano per apparire complementari), molto distante dalle rappresentazioni medievali che mettevano i due filosofi su uno stesso piano intenti a mostrare pagine delle loro opere alla stregua dei santi (una eco di questa iconografia si può rintracciare nei grossi volumi che i due portana sottobraccio).

Particolare del lato sinistro della Scuola di Atene. Il personaggio coronato di alloro appoggiato alla base della colonna ha il volto di Tommaso lnghirami, umanista di grande fama; molti critici ritengono che sia stato lui a ideare il programma iconografico de/l'affresco.

L'intera composizione ruota attorno al dialogo tra i due, rievocato anche dalle due colonne che sostengono l'immaginaria cupola che ricopre l'ambiente rinforzando l'impressione che Platone ed Aristotele svolgano le funzioni di un Pietro e un Paolo laici; tutta intorno ai due filosofi si svolge una pletora di figure che vorrebbe, con un colpo d'occhio, rievocare l'intera storia de pensiero greco. Significativamente vi sono alcune omissioni (gli epicurei ad esempio) in linea con l'indirizzo neoplatonico allora dominante negli ambienti della curia romana, così come personaggi la cui identificazione è oggi molto contestata o si è perduta: appoggiati al grande pilastro di destra, ad esempio, subito sotto alla statua di Minerva, si nota una coppia formata da maestro e discepolo la cui interpretazione non è chiara; Raffaela ha voluto sottolineare l'importanza della figura del discepolo dipingendone i capelli come se fossero agitati da un colpo di vento (mezzo di cui si era già servito per uno dei personaggi della Deposizione), noi oggi però non siamo in grado di stabilire con certezza se i due facessero riferimento a figure storiche o ideali. Le molteplici relazioni che si vanno a intessere tra i personaggi sono stati oggetto di capillare studio da parte di diversi importanti studiosi (tra cui Reinhard Brandt e Giovanni Reale, quest'ultimo autore di esaustive monografie sia sulla Scuola sia sulla Disputa, solo per citare i più recenti). L'aspetto forse più interessante è la ricostruzione "genealogica" delle interpretazioni che si sono succedute dell'affresco, la cui fama ha finito per sovrapporsi alle opere originali degli stessi filosofi: in questo senso, l'operazione di "assimilazione" cinquecentesca della cultura greca può dirsi perfettamente riuscita.

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Senofonte e di Platone [...] bisogna che assorba i loro umori, non che impari i loro precetti» (I, 26, 262-263/199) , che ripercorra cioè, facendola propria, un'intera vicenda logica, non riducibile all'enunciazione di una qualche dottrina. La saggezza è allora una lenta emendazione dalla certezza nei criteri di falsificazione e verificazione dei nostri assiomi . L'uomo non è dunque misura di tutte le cose, poiché «non bisogna giudicare ciò che è possibile e ciò che non lo è secondo quello che è credibile e incredibile al nostro buon senso» (II, 32, 620/962). E se «il credere è come un'impressione» (I, 27 , 303/237) e «vero oggetto dell'impostura sono le cose sconosciute» (I, 32, 359/285), lo scetticismo di Montaigne non si traduce in una confessione agnostica, ma nella denuncia di quanto di «vanità ceriminiosa o di opinione menzognera[ ...] serva di briglia a mantenere il popolo nel dovere», funzione questa «che ha dato credito alle religioni bastarde». L'attenzione è in effetti alla valenza sociale del fenomeno religioso in un universo che è menzogna e teatro: «la sua essenza è astrusa e occulta; le apparenze, facili e pompose». Tutto il discorso è su queste ultime, cui i Saggi restano costantemente limitati essendo non una biografia interiore, ma la descrizione di Miche! de Montaigne, e per estensione dell'uomo, condotta tutta attraverso il mondo fenomenico . La cogenza dei fatti, la resistenza delle cose , quella vanità che sempre tutto insidia e pervade, costituisce il limite invalicabile contro cui cozza l'esigenza della comunicazione. Di conseguenza si adottano tattiche accorte, patteggiamenti, un interagire con la necessità, un fare del! 'agire umano parte di quella necessità. Questo motiva anche l' assenza di interesse per i fondamenti del nostro conoscere , il discredito con cui tratta le discipline scientifiche, il sarcasmo nei confronti della logomachia dei dotti . Si aggiunga paradossalmente che la stessa Apologia non è un discorso sui limiti della scienza o della filosofia, ma è il tentativo di affrancarsi dal dogmatismo della «ragione irragionevole». Tutto in Montaigne si muove entro un universo etico: il 'conoscere se stessi' è un 'esigenza prevalentemente morale. L'etica dei Saggi è allora un ' arte di vivere nella città, di comunicare. Non esiste difatti un discorso sulla guerra, sulla tecnica militare , ché il suo solo referente sono i torbidi. Analogamente mai si parla di fede , di teologia , ma

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sempre della religione del proprio paese, della terra, poiché si è cristiani così come si è 'perigordini o tedeschi'. Questa costante rivendicazione contro la 'stupidità' si esprime in una filosofia dell'adeguazione, del necessario continuo comporsi di equilibri, sempre inficiati dall'ignoranza, dalla superstizione, che traduce l'agire individuale in un coacervo di passioni a esito disgregante, e compromessi anche dalla resistenza, dalla pesantezza immobile delle cose. La mente è intrisa di inganno: «la lusinga della speranza» ci acceca dinanzi alla morte - assai «difficilmente si crede di essere arrivati a quel punto» (Il, 13, 439/807); «una troppo alta opinione[ ...] del nostro valore» agisce alla stregua della «passione amorosa», che «presta bellezze e grazie ali' oggetto che abbraccia» (Il, 17, 480/842-843); infine anche l'esotismo, «le società, i costumi lontani [ci] allettano, e così le lingue» (ivi, 484/845). Quella di Montaigne è una filosofia della lentezza, della fatica dell'apprendere, è il Qoèlet: tutto pervaso dal tema della vanità come attributo dell'esistente, I' Ecclesiaste incontrò difficoltà ad essere accolto nel canone ebraico. Se l'esegesi ha ormai escluso qualsiasi influsso di filosofie stoiche, epicuree o ciniche, presenti nell'Egitto ellenistico, sono invece ipotizzabili influssi della letteratura sapienziale mesopotamica. Si ritenga che l' Ecclesiaste ha il carattere di un'opera di transizione: le certezze tradizionali sono scosse, ma niente di fermo viene a rimpiazzarle. La possibilità del comunicare è revocata in dubbio. E allora non sorprende come in presenza di un numero molto limitato di citazioni bibliche, le pagine dei Saggi facciano una sola eccezione per il Qoèlet, ove letteratura sapienziale mesopotamica e mentalità aramaica si fondono in un pessimismo diffuso .

VI. IL FIDEISMO Diventata ormai improponibile la tesi di un Montaigne libertino, precorritore di Bayle (si ricordi l'imbarazzo dei philosophes dinanzi ali 'immagine di un Montaigne praticante che il casuale rinvenimento del Diario di viaggio in Italia nel 1774 rivelava), ci si deve chiedere perché nella prima recezione dei Saggi, sin oltre la metà del '600, lo scetticismo che traspare dall'Apologia di Raymond Sebond non sembra aver suscitato forti

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reazioni: la critica dei poteri della ragione lungi dal nuocere alla fede, che riduce a un elemento irrazionale, la invera come fideismo . E in ciò Montaigne non è certo originale: l'alleanza di scetticismo e fideismo era assai diffusa. Si esamini allora l'uso apologetico che dei Saggi si fece negli anni immediatamente successivi alla loro pubblicazione: l'impossibilità per la ragione di addivenire alla verità comportava l'adesione alla rivelazione divina. Poi, cessate le guerre di religione con l'avvento al trono di Enrico IV (e mai nessuno aveva messo in dubbio l'ortodossia di Montaigne), dopo l'editto di Nantes (1598) , con l'avvicinarsi della metà del '600, le minacce per la religione verranno dal libertinismo che traeva alimento proprio dai Saggi. Lo scetticismo, distaccato dal fideismo , non sarà più premessa alla fede , ma porterà seco i germi del libero pensiero. Di fatto l'inserimento nel 1676 dei Saggi nel!' lndex librorum prohibitorum rappresenterà un rovesciamento dell'apologetica cristiana: una nuova edizione sarà data alle stampe solo nel 1724. Alla fine del novembre 1580, all'entrata in Roma, i Saggi gli vengono confiscati per essere sottoposti all'Inquisitore. Gli saranno resi dal Maestro del Sacro Palazzo il lunedì della settimana santa, il 20 marzo 1581 ; tanta benevola attenzione, che si esplicita il 15 aprile all'atto del congedarsi «dal Maestro del Sacro Palazzo e dal suo compagno che [lo] pregarono di non preoccupar[ si] delle censure del [suo] Libro», si traduce nella preghiera rivolta a Montaigne «di aiutare la Chiesa con la [sua] eloquenza». Non certo estranea a tutto ciò è la concessione di quella cittadinanza romana con bolla del 13 marzo 1581 che Montaigne non aveva esitato a sollecitare. Invero quantunque aderisca alla professione apostolica romana, Montaigne prova simpatia per le dottrine teiste delle popolazioni amerinde. Nell 'Apologia e in Dei cannibali si manifesta una religione naturale estranea a qualunque rivelazione e da Della fisionomia si evince che la conferma della religione non è di natura dogmatica, ma morale. In effetti c 'è in Montaigne una tensione irrisolta: da un lato ritiene che la religione cristiana sia la vera e ne ricerca delle analogie sin nelle convinzioni teiste dei selvaggi, dal! ' altro riduce ogni credenza sotto la categoria dell'irrazionale. Di conseguenza sin dal 1595 taluni sferzeranno l" indif-

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ferentismo ' religioso , vale a dire la tolleranza, il relativismo , il fideismo e l'avversione all'antropomorfismo, e denunceranno la «straordinaria licenza» di Su alcuni versi di Virgilio e l'aspra contrapposizione alla demonologia racchiusa in Degli zappi. La nozione di peccato, che in quella fine secolo impregna ugualmente d' Aubigné, Charron e Chassignet, è ignorata da Montaigne, come prima da Rabelais. Dalla perdita dell'idea di peccato , all'interno di un ' etica secolarizzata, tutta mondana, discende il carattere relativistico e convenzionalistico del diritto e la designazione della ' semplicità' come comportamento virtuoso . Se già nel 1595 Jean de Champaignac rilevava nel suo Traité de l'immortalité de l' ame i pericoli insiti in quel paradosso della ragione animale contro cui, ben oltre la metà del '600 , si scaglierà Bossuet, nel 1599 esce la Disquisitionum magicarum libri sex, di cui si avrà una traduzione francese nel 1611 (Controverses et recherches magiques). L'autore è un gesuita nato ad Anversa nel 1553, il Delrio, imparentato con lo stesso Montaigne, essendo della famiglia dei L6pez. Questi cita a più riprese i Saggi accusandoli di aver negato l'intervento dei demoni nelle vicende umane . Difatti Montaigne, pur aderendo apertamente ai dogmi della religione cattolica, poiché le verità teologali sono poste al di fuori del campo del pensiero e quindi sottratte al dubbio, e accettando i racconti agiografici tramandati dalla tradizione, denuncia come impostura la pretesa di spacciare i vaticini e la taumaturgia per un sapere positivo . Si veda in proposito il capitolo Degli zappi, ché il tema della demonologia si lega sempre nei Saggi a quello sulla forza dell ' immaginazione. A partire dal De lncantationibus (1520) del Pomponazzi la spiegazione razionale della forza dell'immaginazione poteva essere sospetta in quanto suscettibile di negare i miracoli . Proprio contro codesta tesi muoveva Thomas Feyens nel suo De viribus imaginationis pubblicato a Lovanio nel 1608 . Ma nessuna di queste ultime testimonianze , che pur provengono in certa misura da avversari, revoca in dubbio il suo cattolicesimo. Si scorrano allora Le tre verità di Charron , che opera una vera e propria utilizzazione a fini apologetici dei Saggi. La prima traccia di un qualche rapporto tra i due risale al 1586, quando Montaigne lo riceve nel proprio castello , offrendogli un dono certo singolare per un apologeta: il catechismo di Bernardino Ochino , da cui Montaigne traeva che errore e igno-

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ranza non possono essere puniti alla stregua di crimini . E difatti sulla formulazione del De haereticis an sint persequendi (1554) di Sébastien Castellion , che sarà il traduttore dei Dialoghi dell ' Ochino (1563) - «giudichiamo eretici tutti coloro che non concordano con le nostre opinioni» -, Montaigne calcava l'identificazione della barbarie con l'estraneità, la soggettiva ignoranza, poiché nulla è strano, che si legge in Dei cannibali. È allora necessario abbattere quella separazione artificiale che si è andata costruendo fra lo Charron filosofo e lo Charron polemista e apologeta, tra La Saggeua e Le tre verità . Sono ben noti i legami del primo con i Saggi , cosicché si ascriverà a La Saggeu a il merito d'aver sviluppato un 'etica radicalmente realista, non riconducibile a un corollario della religione, come si evince dai richiami allo stoicismo. Ma in realtà Charron cambiando la formula «Que sçay-je?» in «Je ne sçay» palesa la sua lontananza. È invece necessario indugiare anche sui nessi, sulle acquisizioni implicite, che sono individuabili nelle Tre verità. Questa è anche un'opera tutta politica, poiché traendo spunto dalla conversione di Enrico IV, cui è dedicata, risponde al Traité de la vérité de la religion chrétienne, vecchio di dodici anni, dell'apologeta protestante Du Plessis-Mornay, dedicato al re di Navarra. A conclusione della seconda verità, dopo aver ripercorso tutto un armamentario tradizionale di prove, riassume a nome dei suoi avversari, 'miscredenti, gentili, ebrei, maomettani', la posizione dei cristiani, ma lungi dal dimostrare la falsità di quelle obiezioni, le fa proprie. Nella terza verità tredici capitoli sono consacrati a una puntuale discussione dei punti contestati fra cattolici e protestanti, nel XIV il tono muta e dà luogo a una «esortazione agli scismatici a rientrare in seno alla Chiesa». La ragione cui aveva fatto ricorso nei capitoli precedenti non è più riconosciuta quale criterio di verità, che è invece collocato nella tradizione, garanzia contro l'orgoglio e la superbia di un giudizio personale assurto a misura di tutte le cose. Coloro che confidano nella ragione e presumono di correggere abusi politici o religiosi sono i veri responsabili dei torbidi. Dottrina cristiana e pirronismo costituiscono quindi l'ideologia della Controriforma francese: un nesso congiunge scetticismo, fideismo e attitudine conservatrice. Emblematicamente, nelle Tre verità Charron con-

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nette il fideismo montaignano alla ' teologia negativa' . Anche l'amicizia fra il Nostro e il controriformatore gesuita Juan Maldonat, che si volle vicino ai sociniani , poggerebbe sul comune convincimento che lo scetticismo fosse di ausilio al cristianesimo. Maldonat predicava il ritorno alle origini, che fu già degli 'erasmiani' . E se nel redigere il Giornale, nel suo peregrinare fra la Svizzera e la Germania, Montaigne compie all ' incirca un'indagine sulle diverse confessioni religiose, conviene rilevare in codesto itinerario l'assenza della 'rigorista Ginevra' a favore della tollerante Basilea, donde l'ipotizzabile influsso sull'Apologia di quei gruppi ereticali , di quei 'ribelli a qualsiasi forma di comunità ecclesiastica' presenti a Basilea, del circolo di Zwinger, successore di Castellion nella cattedra di greco e genero di Conrad Lychostenes, discepolo di Sozzini. Anche la menzione di Cracovia risponde ad analoghe considerazioni , ché era un ricettacolo della libertà e della tolleranza. Un criterio indirizza codesto peregrinare a prima vista incerto: il desiderio di una riforma radicale della civitas terrena. L'ostilità nei riguardi della Riforma, in ispecie del calvinismo, dal punto di vista teologico , morale e politico , proviene allora dall ' avversione per la giuridicità, dalla diffidenza nei confronti di un pensiero totalitario. E invero chi rifiuti di annoverarlo fra i teorici della Controriforma può scorgervi l' accettazione pirroniana della tradizione cattolico-gallicana. Ma in proposito si tenga ben presente tutta la distanza che lo separa dai sostenitori della Riforma cattolica: la critica del dogmatismo si traduce nel continuo, incessante riferimento alla rinnovata barbarie delle guerre di religione.

VII. LA CRITICA ALL'ANTROPOCENTRISMO La critica all ' antropocentrismo si traduce in Montaigne nella negazione della differenza qualitativa tra l'uomo e l'animale, poiché le qualità primarie e secondarie («la durezza, la bianchezza, la profondità e l'asprezza>>) non si riferiscono soltanto all'uomo , ma «interessano l'utile e la conoscenza degli animali». Sarebbe allora necessario concordare «con le bestie , e poi fra noi stessi» , parametri «per giudicare l' azione dei sensi», ma poiché ciò è impossibile - si constata infatti come noi stessi adattiamo e produciamo l'oggetto della conoscenza - la verità non è reperibi-

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le perché pervenendoci dai sensi è da questi alterata e falsificata. A ciò si aggiunga che la 'nostra anima' è agitata da un incessante turbinio di immagini, «una fantasticheria senza corpo e senza base» (ll, 4, 95/1113), che trova alimento nel «nulla». La prerogativa dell'uomo, «questa libertà d'immaginazione e questa sfrenatezza di pensieri», lungi dall'assicurargli una qualche preminenza in seno ali' ordine naturale, aumenta i «mali che lo affliggono: peccato, malattia, incertezza, turbamento, disperazione» (II, 12, 203/595). Il male difatti non è solo una condizione della ragione alienata, di una cultura corruttrice, egoistica. Al contrario di Rousseau, per Montaigne la ferocia si confonde con la natura che è una condizione ferina, viene meno la distinzione fra l'uomo e l'animale. È l'abbandono del motivo umanistico della grandezza e centralità dell'uomo nel piano dell'universo. D'altro canto, «il privilegio di cui si gloria la nostra anima, di [... ] costringere le cose che stima degne della propria familiarità a svestirsi e spogliarsi delle proprie condizioni e di far loro abbandonare, come vesti superflue e vili, lo spessore, la lunghezza, la profondità, il peso, il calore, l'odore, la ruvidezza,[ ...] sembra appartenere anche alle bestie» (ivi, 237-238/625-626). E a proposito della comunanza con gli animali, oppone ai contemporanei, che imputano loro malefici, quasi un'amicizia pitagorica. Nell'Apologia difatti, al contrario di Sebond, il Nostro sostiene l'identità biologica fra l'uomo e le bestie. In questo modo viene meno la supremazia dell'uomo nel disegno salvifico. Di conseguenza la subordinazione alla causalità naturale comporta un 'nuovo sentimento di unità': alla solitudine dell'uomo, postulata dalla dottrina teologica, succede una trama di rapporti reciproci fra i regni vegetale e animale. Come la scelta di un tempo ciclico, anziché lineare, implica il rifiuto di qualsiasi gerarchia fra passato, presente e futuro, simultaneità e successione coesistono, così in assenza della deducibilità dei valori è impossibile stabilire una superiorità dell'anima rispetto al corpo; cade così ogni privilegiamento metafisico dell'uomo nella grande catena dell'essere. Ma invero a proposito della natura composita dell'uomo, Montaigne, avverso a una concezione dualistica, leggeva in Sebond la metafora dell 'unione matrimoniale applicata al nesso corpo-anima, che è ugualmente nel libro IV del Definibus ciceroniano e in Erasmo. In quell'arco di tempo,

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a conclusioni non dissimili giungevano l'aristotelismo del portoghese Pedro da Fonseca (1528-1599) e la Paraphrasio de prima philosophia di Antonio Scaino. Il concetto della scala dell'essere come serie di forme naturali, che Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso rintracciavano in Aristotele e Agostino, comportava che la pluralità e la disuguaglianza delle creature fossero giudicate un bene; ne conseguiva il postulato della superiorità dell'uomo. Si attribuisce dunque a Montaigne la smania di ribaltare la scala di Sebond , che configurava una dogmatica, l ' universo intero gerarchicamente ordinato. Un esemplare della Theologia Naturalis , dono dell'umanista Pierre Bune! (1499-1546) a Pierre Eyquem nel corso di un soggiorno a Montaigne risalente approssimativamente al 1540, si trovava nella biblioteca del castello da una ventina d' anni; inoltre Montaigne aveva chiesto > degli uomini, che «Si trasforma poi in legge» (III, 9, 266/1273), donde una utilizzazione della storia come repertorio per la trattazione morale, poiché ciò che «noi chiamiamo contro natura[ ...] avviene contro la consuetudine» (Il, 30, 602/946) . E se a fondamento degli oggetti della credenza è il succhiarli «col latte fin dalla nascita>>, l'uomo resta tutto chiuso in un universo immaginoso . L'abitudine opera infatti un effetto di mascheramento nascondendoci «il vero aspetto delle cose» (I, 23, 210/151). Ma se la consuetudine è questa «maestra di scuola prepotente e traditrice» (I, 23 , 198/ 140) che rende tardi i >. E in ispecie nel presente, poiché sempre la riflessione si sostanzia dell'attualità, ha un forte spessore empirico , «in questi smembramenti e divisioni della Francia in cui siamo caduti [ ...] anche il partito più giusto è pur sempre membro d'un corpo verminoso e bacato». L' obiettivo polemico, che si risolve in un invito a «non fuggire il presente», è il moralista dottrinario, l'impotenza cioè della ragione teorica a ordinare la vita politica: «chi ha costumi stabiliti secon-

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do una regola al di sopra del suo secolo, o contorca e smussi le proprie regole o , cosa che piuttosto gli consiglio , si ritiri in disparte e non si occupi di noi». In effetti in contrasto con lo stereotipo dello scettico , dell'edonista, fu quella di Montaigne una vicenda umana profondamente connessa alle temperie politiche del tempo. Il suo giudizio , lungi dall'essere riconducibile alle categorie del pensiero politico, è uno strumento quotidiano d'indagine in mezzo all ' urto di opposte fazioni. La scrittura è immersa nella durata di un tempo malato. E se certo sarebbe errato farne un 'cronista' , nondimeno forte è il coinvolgimento nelle vicissitudini della sua generazione, quella del tramonto del Rinascimento, e porta uno sguardo disincantato sull'età di Francesco I, come su quelle di Luigi XII e di Enrico II. Avverso allo schematismo storico , tanto alle concezioni cicliche quanto alle semplificazioni evoluzioniste, del tutto estraneo a qualsiasi nostalgia passatista, lammirazione per lAntichità è limitata alla repubblica romana.

IX. ÉTIENNE DE LA BOÉTIE, L'AMICO DI MONTAIGNE Montaigne è depositario per lascito testamentario nel 1563 delle opere di La Boétie. A partire dal 1570 ne pubblica gli scritti, lasciando inediti però i testi specificamente politici. Se ne ricava l'immagine di un dotto tutto impregnato di cultura umanistica, intento a tradurre l'Economico di Senofonte, i Precetti coniugali e la Lettera consolatoria di Plutarco. È quella un' intensa stagione di traduzioni: Lefevre d'Étaples volge in francese La politica d'Aristotele nel!' 11 , Amyot le Vite di Plutarco nel ' 59 e i Moralia nel '72: la lezione erasmiana, «aurulam quandam melioris litteraturae nobis invexit ex Italia». La Servitù volontaria risalirebbe al 1546 o al '48. Ne11'80, ormai a diciassette anni dalla morte dell'amico , non troverà posto nei Saggi. Il capitolo sull'Amicizia, al centro del primo libro, si apre con una similitudine fra il procedere del pittore e la composizione dei Saggi: come quello «sceglie il posto più bello e il centro di ogni parete per collocarvi un quadro fatto con tutto il suo talento , e il vuoto tutt' intorno lo riempie di grotteschi», così «che cosa sono questi, in verità, se non grotteschi e corpi mostruosi, messi insieme con membra diverse» (I, 28 , 310/242-243). E

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incapace di comporre un quadro «a rego la d'arte», dice d'aver «pensato di prenderne a presti to uno»: la Servitù volontaria, ma invano la si cercherà, sostituita dapprima da Ventinove sonetti di Étienne de La Boétie, poi cancellati anch'essi nell'esemplare di Bordeaux. Da subito cominciava un processo di rimozione, di occultamento, della Servitù, definita un componimento retorico: «lo scrisse a mo' di saggio, nella sua prima giovinezza in onore della libertà contro i tiranni», solo un'esercitazione scolastica , poiché «non ci fu mai Incisione ottocentesca raffigurante Ravaillac. cittadino migliore, né più attacLe tesi politiche di La Boétie sembrano ricalcare, in più cato alla tranquillità del suo parti, le idee coeve dei monarcomachi: nel 1610, paese, né più nemico degli scon- François Ravaillac di Angouleme arriverà ad assassinare volgimenti e delle innovazioni Enrico IV probabilmente perché suggestionato da del suo tempo» (I, 28, 328/259) . questo genere di teorie. E nelle aggiunte manoscritte all'esemplare di Bordeaux , ormai quasi a un trentennio dalla morte dell'amico , Montaigne cancella «diciott 'anni » per aggiungere «questo ragazzo di sedici anni»*.

* Circa la datazione, F. Combes, Essai sur les idées politiques de M. de La Boétie (J 882), sos tiene che La Boétie ha sedici o diciott 'anni , quando lo concepisce, «ma aveva certamente l 'età adulta quando vi diede l'ultimo tocco»; già Léon Feugère, Étienne La Boétie, ami de Montaigne (1845), lo datava al 1553-55 , e poi lo avrebbe rimaneggiato servendosi di quanto veniva apprendendo nel frequentare i corsi di Anne du Bourg. Ugualmente M. Rat, Montaigne et La Boétie , «Bulletin de la Société des amis de Mon-

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taigne», 1953, pp. 19-22, sostiene che la Servitù volontaria «fu in seguito rimaneggiata , corretta . [ ... ) Se l'opera fosse restata come era nel 1546 o nel 1548 [ ... ) La Boétie come avrebbe potuto menzionare Ronsard, Ba'if e du Bellay? Du Bellay non aveva ancora pubblicato niente nel 1548; Ba'if, nato nel settembre 1532, aveva appena sedici anni; lo stesso Ronsard fu conosc iuto solo a partire dal 1550». Se ne evince che il libello «buttato giù negli anni della prima giovinezza, è stato ripreso in seg uito a Orléans, probabilmente verso il 1551 o il 1552». Nel 1724 il Discorso sulla servitù volontaria veniva inserito nell'edizione dei Saggi curata dal Coste. È la seconda edizione integrale del Discorso, ma è la prima volta - La Boétie è morto ormai da centosessantaquattro anni - che il suo nome vi è inscritto . Nel 1835 il Lamennais dà al Discorso un'autonomia che sino allora di fatto non aveva avuto, riproducendo le annotazioni del Coste e premettendogli una Préface . Poi sarà tutto un rigoglio di studi , si ritenga solo che La Boétie fu accomunato a quei pubblicisti democratici , così li si definirà nell '800, come H. Languet (15 18-1581), Ph. Du Plessis-Mornay (1549-1623) e F. Hotman (1524-1590) . Il 19 dicembre 1859 A. Prévost-Paradol pubblicava sul «Journal des Débats» un 'analisi della Servitù volontaria, che verrà poi inserita nelle Études sur les moralistes français (1865). Sosteneva che nonostante la comune estraneità a ogni eccesso, vi fosse in La Boétie «una qualche ambizione, un'inclinazione a intervenire negli affari umani », che sarebbe del tutto estranea a Montaigne. Aveva cioè «maggiori illusioni sulla possibilità di dare ali' intelligenza e ali' honnéteté un ruolo utile nei movimenti umani ». E ancora, benché nella Servitù volontaria «l'importanza dell'Antichità fosse riconoscibile a ogni passo , non era uno di quei trattati dogmatici , alla maniera degli antichi , nei quali si ricerca con metodo la natura della servitù e la spiegazione delle sue cause; ma sarebbe un'invettiva contro l' ignavia del popolo che si lascia ridurre in servitù», costituirebbe allora «Un grido eloquente contro la servitù». Certo carica di suggestioni del presente è l 'i nsi stenza di Prévost- Paradol sulla differenza fra una giusta obbedienza, senza cui la soc ietà non potrebbe vivere , e la tiranni a. Dalla lettura del Prévost possiamo datare l' inizio della critica moderna , in ispecie i contributi di P. Bonnefon , cui si deve anche l'ed izione delle Oeuvres complètes de La Boétie pubblicate nel 1892. Anche H. Friedrich , di fatto riproponendo quanto scrive lo stesso Montaigne , dice dell'appello in tyrannos della Servitù volontaria che non sarebbe nient ' altro che «una declamazione com posta di luoghi comuni letterari ».

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La questione fu al centro di un ampio dibattito inaugurato all'inizio del '900 da A. Armaingaud, che in due articoli del 1906 sulla «Revue politique et parlementaire», poi in Montaigne pamphlétaire. L' énigme du Contr ' Un uscito nel '10, avanza l'ipotesi che Montaigne avesse introdotto delle aggiunte in ispecie nei passi relativi alla trattazione della figura del tiranno, poiché Armaingaud vi riconosce Enrico III, che regna dal 1574 all'89. La Boétie era morto nel 1563. E se taluni, come C. Champion e P. Stapfer, condivisero codesta tesi, e altri, come Combes, ravvisarono nel tiranno i tratti di Francesco Il, o ancora, come R. Dezeimeris e J. Barrière, quelli di Carlo VI, Bonnefon e Villey vi scorsero caratteri generali e impersonali, una riflessione sullo statuto della politica, di fatto confutando quelle tesi che riducevano la Servitù a una riflessione sulle contingenze del momento. E certo non giovò ali' Armaingaud il tono assertorio, fu facile dimostrare che Montaigne non era l'autore del libello. Mette conto notare però come anche Villey sulla «Revue d'histoire littéraire de la France» del 1906 escluda una «scrupolosa fedeltà» e ammetta che vi si sia «potuto trasporre qualche parola, sopprimere, aggiungere. Che talora anche queste minime alterazioni portano l'impronta delle veementi passioni di quei miseri esiliati dalla strage di San Bartolomeo», il che potrebbe lasciare ipotizzare una qualche «complicità» di Montaigne con quei primi editori. Divenne rapidamente uno strumento della contesa ideologica, un libello militante che valse a La Boétie d'essere annoverato fra i 'monarcomachi'. Nel '74 a Basilea esce un pamphlet in forma dialogica, Le Réveille-Matin des François et de leurs voisins: a chiusa del secondo dialogo è posto un ampio frammento della Servitù volontaria, ma è codesta una versione del tutto corrotta per servire alle tesi ugonotte. Non vi sono dubbi sulla partecipazione di Nicolas Barnaud e di Théodore de Bèze (15191605) al Réveille-Matin; difatti lo pseudonimo Eusebio Filadelfo Cosmopolita nasconde una composizione collettiva. La violenza degli accenti supera quella della Franco-Gallia di François Hotman, la cui traduzione francese esce a Colonia nel '74, e delle Vindiciae contra Tyrannos di poco successive (1579). Non si è data importanza al fatto che, non solo, è altamente probabile che Montaigne possedesse il pamphlet di Hotman, ma in particolare che, passando per

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La scuola di Fontainebleau Èsolo a partire dalla fortunata definizione data nel 1818 dallo storico Adam Bartsch, che si parla di scuola di Fontainbleau per indicare il nucleo delle esperienze rinascimentali in Francia, sintesi di esperienze italiane e fiamminghe, ma al tempo stesso esito individuale e unico, culminante verso il 1560 nell'aggregarsi di uno dei maggiori centri europei di cultura manierista. Infatti il cosiddetto "Primo Rinascimento" quello di Michelangelo e di Raffaello, giunge in Francia in qualità di ricordo, di memoria, già sfumato da epigoni e manieristi, e privo soprattutto del suo antecedente logico e formante, l'umanesimo. Solo a partire dal 1494 infatti, a seguito delle guerre d'Italia, Carlo VIII, e dopo di lui Francesco I, vengono in contatto con la nuova percezione artistica italiana e la importano innestandola su un substrato gotico borgognone ancora forte e vitale.

Il castello di Fontainebleau visto dal vicino lago artificiale. Per la decorazione

del castello, Francesco I richiamò da Firenze gli esponenti migliori dell'arte manierista.

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li lago artificiale di Fontainebleau. Il padiglione costruito sulla piccola isola ricorda,

come Chenonceaux, il dominio dell'uomo sull'acqua. Arte che se in un primo momento è preda di guerra - 87.000 libbre di oggetti di ogni tipo, dall'oreficeria ai quadri, riempivano le casse che Carlo VIII portò come bottino dall'Italia subito seduce, conquista i conquistatori, ponendosi come status symbol imprescindibile. Quando Francesco I, dopo la disfatta di Pavia e la prigionia spagnola, nel 1528 torna finalmente in patria, trasferisce la corte a Fontainbleau e decide di farne un castello "all'italiana" in tutto e per tutto, concretizzando così i suoi tentativi precedenti- nel 1516 aveva invi: tata l'ormai anziano Leonardo da Vinci, che però era morto di lì a tre anni senza lasciar opere significative; come Andrea del Sarto, che si era fermato a corte solo un anno per poi allontanarsene nel 1518. Solo che ormai, col volgere del terzo trentennio del secolo, la grande fase rinascimentale è volta al suo termine: i maestri sono morti, e discepoli ed epigoni guardano al mondo e all'arte con occhi ben diversi. La nuova generazione di artisti non riesce più a credere nella perfezione statica e nell'assoluto equilibrio dei maestri. Le formule classiche crollano, o soprawivono come vuoti gusci, riempiti da ben altre inquietudini. Gli ideali che un Raffaello, un Michelangelo esprimevano, sono entrati in una crisi profonda; e se gli epigoni continuano ad imitarli, queste loro opere esprimono il vuoto di un'assenza, il desiderio disperato di ricreare un ordine contro il caos imperante, una ricerca ultima di sicurezze che sottintende e palesa l'insicurezza di fondo: intellettualismo esasperato, arte difficile per pochi eletti; e al tempo stesso facilmente seduttiva grazie alle cromie fulgide, alle preziosità materiche. Se la grandezza del Primo Rinascimento era proprio nella fusione di interno ed esterno, anima e corpo, ora l'equazione si è rotta, e dei due poli non resta che il secondo: un'esteriorità prodigiosa, magnifica, ricercata nel mini-

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Pietà (tela del Rosso Fiorentino, 1537-1540).

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In questa Pietà, il pittore utilizza gli stilemi espressivi propri del manierismo, che avranno grande importanza per lo sviluppo della pittura francese.

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Ritratto di Diana di Poitiers (tela di François Clouet 1571 ). Amante di Enrico Il, Diana di Poitiers divenne uno dei soggetti preferiti dai pittori della scuola di Fontaineb/eau.

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mo, estroso dettaglio, ma che copre un vuoto angosciante. Èquesta la "seconda generazione" a cui deve forzatamente riferirsi Francesco I, e la scuola di Fontainbleau nasce dall'incontro di artisti quali il Rosso e il Primaticcio con la cultura borgognona precedente. Saltando a piè pari quasi un secolo di storia, il raffinato intellettualismo gotico, la sua ricerca del particolare orna-

Astronomi (arazzo francese del XVI secolo).

Nel Cinquecento, le manifatture di arazzi francesi avevano raggiunto un altissimo livello qualitativo.

to, del dettaglio scintillante e ricco, incontra l'analogo manieristico; le figure allungate quattrocentesche si sposano con i corpi awitati "a serpentina" tipici della nuova corrente; le prospettive arcaizzanti prive di punto di fuga centrale finiscono per combaciare con quelle "soggettivizzate" in un connubio fertile e al tempo stesso algido. Una fioritura artistica globale, che lungi dal limitarsi all'opera pittorica investe tutti gli aspetti della possibile fruizione di una raffinata nobiltà cortigiana, dagli arazzi all'oreficeria, dagli smalti alle architetture effimere per feste e balli in maschera. Proprio negli arazzi più che in altri medium si può identificare il punto di tangenza più interessante fra le varie componenti culturali presenti a corte. Una delle forme d'arte predilette, diffusi al punto che l'architetto Philibert de !'Orme, sovrintendente ai lavori del palazzo sotto Enrico Il, poté affermare che era inutile dare una struttura architettonica all'interno delle stanze, in quanto sarebbe stata dissimulata dagli arazzi. Oggetti topici della cultura e del modo di abitare gotico, secolare status symbo/, si sostituiscono alle grandi partiture ad affresco tipiche invece dell'ambito italiano, assumendone però motivi e rimandi: ai fili preziosi di seta, d'oro e d'argento, si intrecciano scene mitologiche, allegorie complesse al punto che per spiegare le bordure delle "storie della regina Artemisia" si dovette pubblicare un trattato filosofico-artistico apposito. Complessità, estetizzazione, soggettività, e soprattutto raffinatezza; puro edonismo di superficie, godimento dell'occhio e dell'intelletto. In un'epoca perturbata e perturbante, l'invito a gustare l'istante, l'effimero, l'incerto piacere dell'attimo.

"Vivez, - cantava in quel momento, alla stessa corte, Ronsard - Vivez, si m'en croyez, n'attendez à demain: cuiellez dès aujourd'hui /es roses de la vie!" Cogliete subito le rose che vi offre la vita.

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Corte principale del castello di Fontainebleau.

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La corte con lo scalone "a ferro di cavallo", sulla facciata ovest del castello, venne iniziata da Francesco I.

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Basilea, gli renda visita («cena con Hotman») e più oltre, da Bolzano, sul punto di lasciare la Germania, gli scriva. E quasi certamente fu costui che volse in latino le pagine del Discorso nel Réveille-Matin. Nel 1577 il

Discorso è accolto nel terzo tomo di Les Mémoires de l'État de France sous Charles Neufiesme del pastore protestante Simon Goulart, anche se in veste non integrale e col titolo cambiato: Le Contre Un. È così inscritto in un contesto polemico e militante, e difatti sull'esemplare della Bibliothèque nationale si legge: «sedizioso contro la monarchia». La liceità della resistenza al tiranno si esprimeva allora nella Franco-Gal-

lia, nel Devoir de Magistrats (1574) di Théodore de Bèze e nelle Vindiciae contra Tyrannos attribuite al Du Plessis-Mornay. Di questi Montaigne avrebbe utilizzato, in un'addizione dell'88 dell'Apologia, il De la

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vérité de la religion chrétienne, contre les Athées, Épicuriens, Payens, Juifs, Mahométans et autres infidèles, edito dapprima ad Anversa nell' 81, poi nell '82 a Parigi. A sostegno della tesi della superiorità del popolo rispetto al re, nel '79 George Buchanan aveva pubblicato il De jure regni apud Scotos. Costui fu uno dei maestri di Montaigne al collegio di Guienna, come si evince da Dell'educazione dei fanciulli, ed ebbe a recitarne le tragedie latine. Se l'elogio si rivolge in ispecie al poeta, è altamente probabile che conoscesse pure quest'opera, difatti pare riferirvisi in Dello svantaggio della grandezza: l'avrebbe letta, fra il 1580 e 1'88, mentre le allusioni al poeta sono precedenti. La Boétie nasce nel 1530 a Sarlat nel Périgord, antico arcivescovado e baliato che conobbe in età rinascimentale una certa prosperità, anche sotto l'impulso del cardinale Nicolò Gaddi, vescovo della cittadina, imparentato coi Medici, che, tutto impregnato di cultura umanistica, carezzò il sogno di fare della sua diocesi un" Atene perigordina'. Di conseguenza il giovane La Boétie è introdotto in un ambiente ricco di suggestioni culturali, ma poco sappiamo della sua prima educazione. Di nobile famiglia , La Boétie fu affidato alle cure dello zio Étienne, baccelliere, priore delle Vayssières e curato di Bouilhome. Fra il '48 e il '50 consegue il titolo di baccelliere in diritto a Orléans , università che conobbe alla metà del '500 un grande sviluppo. In quel lasso di tempo La Boétie si lega d'amicizia con un allievo di Anne du Bourg , Lambert Daneau, e dal 1555 con Balf, sodale di Durate di Ronsard. E sull'importanza di quell'università abbiamo la testimonianza del Machiavelli nel Ritratto di cose di Francia: «Lo studio di Parigi è pagato dalle entrate delle fondazioni de' collegi, ma magramente[ ... ] Li studi primi sono quattro: Parigi, Orléans , Burdeos e Pottiers, e dipoi Torsi e Angieri, ma vagliano poco». A Orléans sono praticati , nello studio dell ' Antichità e del diritto , gli insegnamenti di Lorenzo Valla, Angelo Poliziano e Andrea Alciato, I' autore di quei Paradoxes (1518) che contribuirono al rinnovamento degli studi giuridici. Delle suggestioni dell'umanesimo in quell'ambiente accademico sono esponenti Charles Dumoulin e in ispecie Anne du Bourg , che fu a più riprese rettore dello studio e anche consigliere al parlamento di Parigi - protestante, sarà suppliziato nel

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1559 - ed ebbe forse a esercitare la propria influenza su La Boétie, suo allievo. Sia Charles Dumoulin che Anne du Bourg sono in certa misura i continuatori di François Connan , autore dei Commentaires de droit civil che fecero autorità, e di Grégoire de Toulouse, cui si deve il Syntagmajuris. In seguito il merito di Jacques Cujas (1522-1590) sarà quello di restituire al diritto romano il significato che possedeva nella società in cui si era costituito . Questa congiunzione di diritto e storia è un'idea che sarà cara a La Boétie. Di lì a poco, Jean Bodin perfezionerà il metodo nella Juris universi Distributio, pubblicata due anni dopo I sei libri della repubblica (1576). Si richiami in primo luogo quel.frammento d'una lettera sulla malattia e la morte del fu signor De La Boétie che Montaigne avrebbe indirizzato al padre negli ultimi giorni dell'agosto 1563. E subito sorprende la dimensione tutta laica nella morte di La Boétie, che pure rivendica il viatico della Chiesa. D'abitudine nel '500 il cristiano che sente venire la morte fa venire il prete, e questo non lo abbandona e accoglie le sue ultime parole, mentre nella camera di La Boétie, anche se è il prete a compiere I 'ufficio, è un laico , Montaigne, che accoglie le ultime confidenze del moribondo. La morte quindi non quale accesso all'eternità, ma come corònamento della vita. Il discorso sulla morte è del tutto privo di prospettiva escatologica. Certo Montaigne già va costruendo in quella lettera la figura del saggio, ed Erasmo è in certa misura presente: quasi sicuramente nella biblioteca del Nostro furono i Colloqui . Si consideri il sarcasmo erasmiano di quel testo sul Funerale , con quell 'affaccendarsi tutto mondano di francescani e domenicani , agostiniani e carmelitani al capezzale di Giorgio Balearico, «un trapasso imponente», in opposizione alla fine serena, nella mestizia degli affetti , nella semplicità della fede , di Cornelio. E in Erasmo non mancava anche in quella pagina, seppure in via subordinata rispetto a quello verso gli ecclesiastici, uno sguardo ironico rivolto alla medicina, che è motivo tanto frequente in Montaigne. D'altro canto i Colloqui erano molto praticati nei collegi e presumibilmente Montaigne li conobbe sin dalla prima giovinezza. Frequentò quasi certamente la totalità delle opere morali erasmiane e difatti si rintraccia nei Saggi un passo della Querela Pacis. La Boétie era entrato in contatto con la lezione erasmiana, certo a Orlé-

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Il pensiero

Baccelliere

ans, ma presumibilmente già a Sarlat. E ripercorrendo quella Oratio de pace et discordia di un Erasmo ventenne, ancoNelle università medievali o cinquecentesche, il "baccelliere" era uno ra nel periodo monastico, esercitazione studente particolarmente dotato questa tutta retorica, nel recupero di fonti che, una volta conseguita la laurea, classiche già si vedono quegli argomenrestava per un certo tempo all'interti cui farà costante riferimento negli anni no dell'università svolgendo le funzioni di assistente dei professori. della maturità. Quell'uomo, che non ha Nel Medio Evo, nel corso delle Quaeartigli, ma lacrime, poiché destinato dalla stiones disputatae pubbliche tra natura alla pacifica convivenza, quello docenti - durante le quali le lezioni stigmatizzare l'avidità e l'ambizione che venivano sospese in modo da permettere a tutti di assistervi -, erano hanno suscitato la guerra fra individui i baccellieri a svolgere il dibattito, appartenenti alla stessa specie, cosa che mentre i maestri restavano in disparnon si riscontra fra le belve, sembrano in te intervenendo solo per consigliacerto modo riecheggiare nello snaturare di volta in volta i propri assistenti. L'etimo della parola è rimasto in mento dei governati e dei governanti del "bacca/aureat", termine con cui, Discorso. Pur essendo estranea a La Boénelle scuole francesi, si indica il tie ogni tassonomia dei regimi politici, diploma di maturità. traccia una descrizione del tiranno, che coltiva 'lusinga' e 'ricatto' , pertanto la Servitù volontaria è l'indagine dei meccanismi psicologici che inducono alla passività collettiva. Un'idea-forza la percorre tutta: la denuncia della malattia, di quel soggiacere dei popoli sotto il giogo, e la necessità di comprendere come i più si abbandonino alla tristizia di un solo. Fra i due amici vi era un comune intendimento ideologico e l'amore dei Graeci philosophi e dei Latini sapientes , ma anche un certo dissenso su questioni di metafisica, di etica e di conduzione politica. Condivisero entrambi il mito di Venezia, la più compiuta realizzazione della forma di governo mista formulata da Polibio, e il viaggio in Italia, il soggiorno lucchese, indurranno Montaigne a meditare sulla libertà effettiva come problema di misura: «le società in cui si avverte meno disparità fra i servi e i padroni mi sembrano le più eque» (ID, 3, 68/1089). Donde la condanna della Roma imperiale in cui si congiungono corruzione e disgregazione del corpo politico per l'assenza di libertà. E se il Tacito degli Annali e delle Storie alimenta la nostalgia repubblicana di La Boétie , Montai-

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Montaigne Il pensiero

gne utilizza invece il Dialogo sull'oratoria, l'interrogarsi di Materno (il personaggio che più direttamente esprime le posizioni di Tacito e che abbandona l'oratoria per la poesia) su quale sia la sorte dell'eloquenza in un regime corrotto. Mette conto notare il passaggio dall'eloquenza civile di Leonardo Bruni - in La Boétie risuona quella libertà degli antichi ove l'individuo è sovrano negli affari pubblici-, al 'particulare', all'indipendenza privata che Montaigne concepisce entro i limiti imposti dalla monarchia francese . Di fatto La Boétie pensa la libertà in termini di restaurazione. Il suo realismo si riassume in due punti: la condizione politica dell'uomo si comprende ricorrendo all'analisi antropologica e la politica non può pensarsi al di fuori dell ' etica. I tre articoli fondamentali di questa morale politica, programmaticamente ostile al sommovimento, consistono nel salvaguardare Pax et Lex (al contrario dei monarcomachi non vede nell ' assassinio del tiranno un rimedio, poiché la riforma può essere effettuata solo secondo le vie della legalità), nell'intuizione contrattualista, il monarca lungi dal possedere solo dei diritti ha dei doveri verso il popolo, e nell 'umanesirno liberale di ascendenza erasmiana, dall' /nstitutio Principis christiani. La Servitù volontaria è in certa misura un saggio di psicologia politica, che si rivolge allo studio della natura umana, alle cause della servitù che sarebbero in essa radicate: quella viltà, quella ignavia, che fa sì che i soggetti siano complici , «la servitude n'existe que parce qu'elle est volontaire». In natura ciò che è dotato di vita, di sentimento, è atto alla libertà: l'elefante sacrifica le zanne infrangendole contro l'albero pur di non cadere in cattività, ragione e libertà sono difatti gli attributi di una natura umana incorrotta. Una matrice laboetiana probabilmente è rintracciabile nello 'stoicismo' dei Saggi . Nel quotidiano siamo allora in presenza di una fenomenologia della déraison: la patologia insegna a contrario i criteri della normalità- due cause presiedono a questa aberrazione politica che è la servitù volontaria: lo snaturamento dei governati e quello dei governanti . Invero la nozione di 'stato di natura' , pur non trovandosi l'espressione nel Discorso - bisognerà attendere il De jure belli ac pacis di Grazio (1625) - , è presente e congiunta alla concezione di una natura-provvidenza. La Boétie non redige una tipologia dei regimi, né pensa

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Montaigne 1 5 5 Il pensiero

le categorie della politica secondo il modello di una società domestica

di tipo paternalistico o sul modello della società feudale. La monarchia è estranea alla res publica, poiché tutto rileva in essa dagli interessi privati di un solo, il che implica la distinzione fra il potere statuale e la persona che lo esercita. Si pone allora un duplice problema di datazione: circa la sua redazione e circa le tappe della sua diffusione. Accogliendo le date di Montaigne (1546, 1548) si può ipotizzare che La Boétie compilò allora un abbozzo, poi redatto compiutamente qualche anno più tardi quando seguirà a Orléans le lezioni di Anne du Bourg. Ciò consentirebbe di tenere conto della tesi di Jacques-Auguste de Thou, che fu amico di Montaigne. Questi, intrapresa nel 1581 la redazione di L'histoire de son temps pubblicata a Parigi nel 1604, mette la Servitù volontaria in relazione con la 'rivolta della gabella' (1548) e con la cruenta repressione condotta dal Montmorency. La Boétie fautore della politica di conciliazione voluta da Miche! de l'Hospital, una breve stagione di tolleranza, si adoperò, in conformità al futuro giudizio di Montaigne, insieme al de Burie, luogotenente del Re a Bordeaux , a calmare gli animi quando nel settembre 1561 scoppiano dei torbidi religiosi nell ' Agenais. Tuttavia il Mémoire touchant l' édit de janvier 1562 , di cui Bonnefon rinviene una copia manoscritta alla Bibliothèque Méjanes d' Aix-en-Provence poi pubblicata sulla «Revue d' histoire littéraire de France» nel 1917 , non è certo un breviario di tolleranza, quanto piuttosto l'apologia di un terrorismo di Stato controllato. Alla fine del 1561 , al fallimento della politica persecutoria di Enrico II, la regina Caterina dei Medici, reggente in nome del dodicenne Carlo IX, con l'editto del 19 aprile 1561 concede ai protestanti l' uso intermittente delle Chiese; nel luglio 1561 a Poissy un colloquio riunisce dotti di entrambe le confessioni per discutere questioni dogmatiche, sacramentali. liturgiche. Nonostante l'ostilità del Parlamento di Parigi , la regina convoca l'assemblea di Saint-Germain-en-Laye dal 3 al J 7 gennaio 1562. Per questa circostanza La Boétie redige il Mémoire che rifiuta assai nettamente la laicizzazione dello Stato verso cui si orienteranno Bodin o Hotman . Di fatto sostiene la teoria del ' braccio secolare' che Calvino aveva criticato, prima d'abbracciarla. Invece Pasquier, altro amico di Montaigne, affer-

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Montaigne Il pensiero

ma che è meglio «permettere due chiese nella vostra Repubblica», non crede cioè come La Boétie alla virtù dell'intimidazione. Questi difatti attribuiva allo Stato il 'monopolio' della violenza fisica legittima.

X. L'ETNOGRAFO E I SELVAGGI Se il Diario di viaggio in Italia è il componimento del 'cronista', e la sua importanza risiede nella gran mole di osservazioni minute con cui coglie l'incipiente decadenza italiana, mentre ancora perduravano gli echi rinascimentali (il viaggio diviene il capitolo Della Vanità), i Saggi sono quello deU "antropologo'. Allora, passando senza soluzione di continuità dall'Europa del periodo delle guerre di religione ali' America dei

conquistadores, vale la pena notare nell'edizione del 1588 l'antitesi fra Dei cannibali e Delle carrozze. Alla descrizione della «scoperta di un paese infinito», «ingenuo e fanciullo», segue il resoconto di un genocidio: un mondo che si è «appena trovato», «non sono cinquant'anni», è ormai scomparso. Montaigne ebbe chiara consapevolezza delle potenzialità insite nel passaggio dal mondo chiuso a un universo aperto, omnicentrico, in conseguenza dell'immissione rinascimentale, nella storia della civiltà occidentale, di un ambito geografico in cui si manifesta con chiarezza l'alterità. Quella costante attenzione al molteplice si muta ora nell'accettazione della «continua varietà di forme della nostra natura» (ill, 9, 29111297). La scoperta di «quell 'altro mondo» revoca in dubbio l'equazione tra costume e natura: difatti , se, con assonanze stoiche , uniformità e verità sono predicabili di quest'ultima, l'ethos diventa l' indice del modo di funzionamento di una data società, di conseguenza la ragione sarà necessariamente 'municipale' e strumentale. Così se la scoperta dell'America e l'invenzione della stampa alimentarono la retorica del primato dei moderni , i Saggi fustigavano la stoltezza di codesta cultura del tutto artificiosa cui opponevano quella degli antichi e dei selvaggi, che è un Naturam sequi. Montaigne, a fondamento della cui antropologia sono l' 'interezza armonica' e la conformità con la natura, oppone a quanti giustificano come naturale la schiavitù , valendosi dell'ipotizzata identità fra differenza e inferiorità, che la differenza culturale dimostra piuttosto la superiorità degli

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Montaigne 15 7 Il p ensiero

Amerindi che seguono la natura, di contro alla cultura degli europei , che si rivela un' anti-physis . Nel '500 l'indigeno americano incarna in tutta la sua radicalità la categoria della differenza, e lAmerica, lungi dall'essere definibile come un ' Arcadia, oppone alla stoltezza, alla decadenza europea, la pienezza di quella nuova umanità. Lo sguardo di quei Brasiliani che Montaigne incontra a Rouen nel 1562, anticipando quello settecentesco dei Persiani di Montesquieu e dell'Urone di Voltaire, è volto a denunciare profitto , menzogna , gerarchia, la barbarie europea, cui oppone coraggio e fratellanza . L'apologia dei cannibali rappresenta difatti un' utopia politica e non è riconducibile a un mero paradosso . Si stabilisce allora un parallelo fra l'Antichità classica e il Nuovo Mondo, indicati come due possibili forme di umanità opposte all'irragionevolezza europea. I francesi dell 'autunno del Rinascimento si valsero di dissertazioni latine, come ad esempio il De Orbe Novo di Pietro Martire d' An-

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nojlriljimikbl!J car>. Montaigne è ostile alle 'estasi' e alle 'demonerie', tessendo invece l'elogio della «Vera misura>> che è composizione del molteplice, a un tempo Aristippo e Zenone, la corporeità e la spiritualità. Cosicché l'immagine socratica a chiusa dei Saggi non rivela un sistema dottrinale, ma il vivo colloquio umano, l'agire plurimo e consapevole. Socrate, certo degno d'ammirazione per avere assunto la sua morte come dato puramente naturale, è di fatto sempre più ricondotto alla quotidianità. La sua grandezza sta in quel trasalire di piacere nel grattarsi le gambe, nell'inclinazione alla modestia, alla moderazione, nel «trascorrere la vita umana conformemente alla propria natura», e in ciò è quel Montaigne che riconduce l'imparare a morire all'imparare a vivere, accrescendo così l'intensità dell'esistenza . Ciò spiega il favore accordato a Socrate , «indifferente» dinanzi alla morte, che è «terribile per Cicerone, desiderabile per Catone» (I, 50, 475/392). È allora sin troppo facile spiegare quel progressivo distaccarsi da Catone, il liberarsi cioè dallo stoicismo, da quella morte che è troppo grave - «una condotta tesa ben al di sopra di quelle comuni» (Ili, 12, 384/1385)-, cui antepone la semplicità della virtù socratica. Socrate è il filosofo per antonomasia perché «ricondusse giù dal cielo, dove perdeva il suo tempo, la saggezza umana, per restituirla all'uomo, dove è il suo più giusto e laborioso compito e il più utile» (Ili, 12, 385/1386). Questa non è una sommatoria di saperi, ma uno sviluppo ordinato di facoltà fisiche e morali: «Quand' anche potessimo esser sapienti del sapere altrui, saggi, almeno, non possiamo esserlo che della nostra propria saggezza>> (I, 25, 243/180). L'affermazione su cui concordano le «sette filosofi-

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Montaigne Il pensiero

che», al di là di «dissensi verbali», è che «il piacere è il nostro scopo» e quindi anche la virtù è finalizzata alla «Voluttà>>. E in polemica col pedante, possessore di un sapere mnemonico privo di capacità operativa, e col moralista, assertore di una precettistica dogmatica nel continuo mutare delle condizioni dell'esistenza, Montaigne afferma: «mi piace romper loro i timpani con questa parola che va loro così poco a genio» (I, 20 , 157/ 102). Se a causa dei «cavilli» delle sette, filosofia è «Un nome vano e fantastico», Montaigne rivendica una filosofia di cui «non c 'è nulla di più gaio , di più vivace, di più giocondo e, direi quasi, burlone» , rifiutando «quella sciocca immagine» della saggezza «triste, litigiosa, corrucciata, minacciosa, arcigna, [ ...] sopra una roccia, in disparte, fra i rovi, fantasma per spaventare la gente» (I , 26, 276-278/212-213). Si consideri che la critica dell'aristotelismo, in ispecie dell'abito apodittico, censura quel parassitismo della filosofia universitaria occultato dall ' artificio e dalla saccenteria. La critica della pedanteria degli studi classici scaduti a studi linguistici, a mera precettistica grammaticale e retorica, conduce Montaigne a riproporre l'istanza umanistica dell'educazione dell' uomo, della paideia. La coscienza dell' impossibilità di acquisire la certezza si accompagna al rifiuto di «dividere le nostre due parti principali e separarle l'una dall'altra» . Ciò comporta l'uso delle nozioni di otium e di misura, poiché «la filosofia non combatte i piaceri naturali , [ ...] ne raccomanda la moderazione , non la fuga; la forza della sua resistenza si Aristotele utilizzava il termine "apodittico" (apodeiktikos)- cioè "dimoadopera contro quelli strani e bastardi» strativo" - per identificare quel (III, 5 , 173/1187) e questo in conformigenere di sillogismi che possono tà con la natura dell ' uomo («che cosa portare alla definizione di verità c' è di più caduco , di più miserabile e di scientifiche poiché gli stessi partono da verità accertate; diversamenpiù insignificante?»), che può solo «frete, il sillogismo viene definito "dianare le sue inclinazioni , perché sopprilettico" poiché, muovendosi da merle non è in suo potere » (II , 2 , premesse solo probabili, può dare 35/446) . L"ideale della salute' impone origine solo ad opinioni il cui criterio di approvazione è il consenso e allora la «modestia», la «sottomissione non la verità . alle credenze che[ ...] sono prescritte», «una costante freddezza e moderazione

Apodittico

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Montaigne 173 Il pensiero

Nobile in armatura (tela anonima, 1560 ca.). In uno dei suoi Saggi, Montaigne scrive "//

valore ha, come le altre virtù, i suoi limiti: varcati quelli ci si trova nel terreno del vizio".

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1 7 4 Montaigne Il pensiero

di opinioni e l'avversione a quell'arroganza importuna e litigiosa[ ...] nemica mortale di disciplina e di verità» (III, 13 , 441/1438) . L' «insipienza comune» contribuisce all'emendazione personale in «quest'epoca adatta a correggerci solo a rovescio , per contrasto» (III, 8, 216/1227). E se «nessuno è esente dal dire sciocchezze, il male è dirle con pretensione» (III , 1, 2111047). Il saggio deve rifuggire dall 'intolleranza, che è «una rigidità tirannica», consapevole che il vivere quotidiano implica il commercio con lo «sciocco» che talora si cela sotto «Un contegno freddo e taciturno.[ ...] C'è forse qualcosa di più sicuro , deciso, sdegnoso, contemplativo, grave, serio come l'asino?» (III , 8, 240-241/1249). Montaigne traccia allora la figura del pedante: «questi saccentelli» che mettono in bella mostra «un sapere che galleggia alla superficie del loro cervello [ ... ] Conoscono bene Galeno, ma per nulla il malato» (I, 25, 244-245/182). Dunque saggio non è chi si erge al di sopra dell ' umana condizione, ma chi ha consapevolezza della passività umana naturale e necessaria. Difatti i Saggi prospettano un 'estetica dell'esistenza: la vita è riconducibile sotto la categoria dell'arte, e anche la saggezza lungi dall'essere acquisita una volta per tutte è necessariamente episodica. Così nelle immagini di Pirrone e di Socrate è in certa misura rinvenibile il modello montaignano . Alla dialettica socratica volta a confutare le credenze supinamente accettate, Montaigne associa la difficoltà dell'uomo, per natura duplice, a riconoscere la verità, poiché la lingua che è un insieme di convenzioni necessarie, un 'istituzione sociale duratura , è incapace di esprimere tutto un mondo d'immaginazioni e d'intellezioni. Di conseguenza preferisce il Socrate risvegliatore d'anime al Socrate platonico che congiunge nel mito della reminiscenza, conoscere è ricordare , il dissidio Eraclito-Parmenide, distinguendo fra la realtà vera dell 'Essere e il mondo della sensibilità.

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Montaigne 1 7 5

La storia della critica Nell'arco di tempo che corre dal tramonto del Rinascimento alle soglie dell'età cartesiana i Saggi registrano, specie nelle aggiunte (e), echi del dialogo intercorso fra il 'Seneca francese' e i suoi primi lettori. Si distingue allora fra disputa ideologica, come nel caso di Charron, di Pascal, poi dei libertini, e dibattito specificamente letterario: solo Jean-Pierre Camus (1584-1652) mostrò di apprezzare lapeinture du mai. Dapprima Étienne Pasquier e Giusto Lipsia salutano l'edizione del 1580 come la rinascita della saggezza stoica, e in Montaigne il 'Talete francese', donde in seguito l'imbarazzato silenzio e l'operata rimozione del terzo libro, dove più compiutamente prende corpo l'originalità della

peinture de soi. L' étalage de l'intimité sembra focalizzare i primi elementi di critica, non già lo scetticismo dell'Apologia, se ancora Francesco di Sales (1567-1622) e il giovane Camus se ne serviranno a fini apologetici. In realtà la prima recezione dei Saggi sconta l'equivoco della loro catalogazione come espressione della saggezza stoica. Per il tramite della Sagesse penetrano nel ' 600, difatti l' operare di Charron - quell ' ordinare una materia che era adesione al continuo ' mobilismo ' dell 'esistenza - fu confuso dai contemporanei con l'attitudine di Montaigne, tanto che Gassendi confessava di preferire Charron. Già questi, e poi C. Pesselier (1712-1763), che nell'Esprit de Montaigne, pubblicato nel 1753 , intenderà estrarre dai Saggi la loro «sostanza midollare», affrontano la questione del loro ' disordine ' tuttora dibattuta, se Pouilloux in Lire les «Essais» (1969), stigmatizzando le letture volte a rintracciare un ordine seppure nascosto , individua I' «innovazione filosofica» nel «tener conto del disordine in quanto tale», come fine in sé. Invero già Guez de Balzac (ca. 1595-1654) negli Entretiens, pubblicati postumi nel 1657, lungi dallo stigmatizzarle, sosteneva, allora quasi solo, che «le sue

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1 7 6 Montaigne La storia della critica

digressioni sono molto piacevoli e assai istruttive. Quando lascia il buono, di solito trova il migliore». D'altro canto, a partire dalla Sages-

se di Charron, è stata forte la tentazione di costringere Montaigne in disciplinati costumi I. Si è voluto distinguere fra «enunciati ideologici» e «critici»: questi, «la maggior parte del tempo sotto forma d'episodi inseriti nel corso di un diverso svolgimento», sono per lo più tardi, posterio~ rial 1588. In effetti, «che l'incoerenza apparente del libro dipenda dalla fedeltà alla natura mutevole del mondo barocco (ordine estetico) o dal]' accorta dissimulazione delle opinioni socialmente pericolose (ordine ideologico)», tutte queste interpretazioni misconoscono che il 'disordine' palese è una «questione preliminare», poiché i Saggi non sono riducibili sotto la specie del manuale di morale2. Col pascaliano Entretien avec M. de Saci il pensiero dei Saggi è ricondotto allo scetticismo: per lungo tempo l'attenzione sarà allora posta sul1'Apologia. Pascal, fra i primi, stigmatizza nei Saggi il legame tra scetticismo ed epicureismo: una morale nonchalante della salvezza, una morale priva di ascesi, riducibile a una quete du bonheur. Sulla scia di Pascal si collocano la Logica di Port-Royal, Bossuet e la Ricerca della verità, un véritable réquisitoire - si noti come in Malebranche operi anche quel discredito che dopo Descartes accompagnerà Montaigne, teorico scettico della conoscenza. Se la messa all'Indice nel 1676 registra il successo dell'invettiva re)jgiosa di Pascal e di Nicole - entrambi gli imputavano di avere misconosciuto la dignità primigenia dell'uomo non ancora corrotto dal peccato originale - alla critica del moralista si somma in Malebranche la critica allo scetticismo empirico: i fondamenti della gnoseologia montaignana sono dissolti dalla risoluzione del dubbio cartesiano. E invero il successo del cartesianesimo nella seconda metà del secolo coinciderà col discredito cui andrà incontro lo scetticismo; Nella Ricerca della verità discorre inoltre della «Vanit~ assez crirninelle» di quel gratuito ritrarre i propri difetti: Montaigne si discosterebbe così dal razionalismo socratico, dal «conoscere se stessi», condiviso poi dai Padri della Chiesa. Parimenti Nicole nella Logica vi ·scorge «Un artificio che lo deve rendere ancor più odioso» poiché l'esibizione dei vizi non implica il loro ripudio, ma è fatta «per farli conoscere, e non per farli detestare». Malebranche discorrendo Des livres des faux savants, nel quarto libro della Ricerca della

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Montaigne La storia della critica

verità, lo taccia di «bel esprit», di pedante, «heureux et fort en citations , malheureux et faible en raison , d'une imagination vigoureuse et spacieuse , mais volage et déréglé». Invero Malebranche intende scalzare Montaigne a vantaggio di Descartes: «La Ricerca della verità appare allora come una santa alleanza agostiniano-cartesiana per arrestare l'influenza dei Saggi , giudicata pericolosa per la scienza, per la morale e per la religione»; contrappone pertanto alla «logica aristotelica del 'raro e dello straordinario' , [ ...] il 'metodo' e la ' vera logica', inaugurata da Descartes»3. Eppure l'imputazione di pirronismo morale mossa da PortRoyal - Pascal componeva l'ammirazione morale per la capacità montaignana di «confondere l'orgoglio di quanti, fuori della fede, si piccano d'una vera giustizia» col biasimo per «essersi chiuso in un pirronismo morale per viltà e per pigrizia»4 - poggiava sull'errata assimilazione fra l'etica pirroniana e quella epicurea, come si evince dalla confutazione che Nicole operò «dell'amor proprio nella terza parte della Logica di PortRoyal, opera da lui considerevolmente rimaneggiata per la nuova edizione del 1664». Tacciava difatti d' indolenza l'atarassia sestana. Non solo i giansenisti, ma anche Mersenne (1588-1648), J. Boucher (1548-ca. 1645) e J. Silhon (t 1667) si volsero contro quelle tesi di Pirrone considerate, a torto , empie, anche per le testimonianze discordanti degli scettici antichi : «Gli uni vedevano in Pirrone il fondatore dello Scetticismo, gli altri (i filosofi della Nuova Accademia) rivendicavano il dubbio filosofico come caratteristica del Platonismo», infine Cicerone metteva l'accento sul! ' «ascetismo morale di Pirrone», intento a perseguire I' apatheia. E fu questa l'immagine che ne ebbero il XVI e il XVII secolo . Difatti si leggeva a chiusa delle Ipotiposi sestane che , negando l'esistenza di un significato assoluto della realtà, «il saggio è obbligato a fondare una morale pratica le cui norme sono l'esperienza e l'abitudine». L'assenza di qualsiasi dogmatismo «permetterà ai Saggi di essere una fonte feconda di riflessione sulle due nozioni di certezza filosofica e di certezza religiosa», esponendoli parimenti all'acrimonia di Huet, lo scettico vescovo di Avranches, che rinfaccia a Montaigne «la sua vanità e la sua mancanza di pudore». Negli Huetiana definirà i Saggi «il breviario dell' onesto scansafatiche, e degli ignoranti studiosi, che vogliono infarinarsi di qualche cognizione del mondo , e di qualche infarinatura di Lette-

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1 78 Montaigne La storia della critica

re . A malapena troverete un Gentiluomo di campagna , che voglia distinguersi da quanti vanno a caccia di lepri , senza un Montaigne sul suo caminetto»S. Il successo dei Saggi - trentacinque edizioni si succedono fra l' inizio del secolo e il '69 - registra difatti il mutar di mentalità conseguente all'acculturazione della nobiltà nel '600: Montaigne è letto, intorno al 1630, come l' esempio più rappresentativo dell'honnéte homme , che si istruisce ancor più nel commercio con gli uomini che nella pratica dei libri6. Fra quella nobiltà che tematizza l'idealtipo dell 'honnéte home , Dell' ar-

te di conversare ne delinea il modello. Mme de Sévigné, Mme de Lafayette e La Bruyère abbozzeranno una lettura en moraliste , psicologizzante, ancora subalterna ali ' identificazione scettica dei Saggi, che comporterà il loro accantonamento. Poco oltre la metà del secolo René Papin , gesuita, avverso ai giansenisti, nelle Réflexions sur la philosophie ancienne et moderne (1676), che ebbero vasta circolazione e furono tradotte in inglese e in latino, discorrendo del demone socratico cita anche le interpretazioni del Pomponazzi e del Montaigne cui si richiama nel prendere posizione a favore degli antichi. Dopo la revoca dell ' editto di Nantes Montaigne fu in qualche sorta esule in Inghilterra. Il successo dei Saggi era stato qui rapido e duraturo: al 1603 risale la traduzione di Giovanni Florio che leggono Shakespeare e Webster. E doveva trovare ascolto tra gli altri nel Burton, la cui Anatomia della malinconia (1621) è uno dei più notevoli trattati di umorologia,e nel Browne, che esercitò la professione medica e nelle Urne sepolcrali (1658) discorre della vanità dell ' umana condizione. Ma ancor prima, nel 1597 , Bacone si era appropriato del nome: «la parola è recente, ma la cosa è vecchia. Infatti le Epistole di Seneca a Lucilio , se ben considerate , non sono altro che Saggi» . Così la History of philosophy dello Stanley e la Historia di Georg Horn, professore all'università di Leida, uscite entrambe nel 1655, comporranno concezione enciclopedica ed etico-umanistica, congiungendo Bacone al «Secolo filologico» , cioè a quell ' esigenza, che fu anche di Montaigne, di abbinare l'approccio biografico plutarcheo con quello dossografico laerziano. Invece, come fu scarsa la presenza di libri spagnoli nella biblioteca di Montaigne, altrettanto sarà della fortuna spagnola dei Saggi: si ritenga la Dife-

sa di Epicuro (1635) di Francisco de Quevedo posta in appendice alla tra-

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Montaigne La storia della critica

duzione del Manuale d'Epitteto e due secoli e mezzo più tardi Menéndez y Pelayo nella Storia degli eterodossi spagnoli alluderà allo 'scetticismo moderato' che, nella successiva Storia delle estetiche in Spagna, opporrà al dogmatismo di Descartes o di Malebranche. Solo nel 1724, con l'edizione curata da Pierre Coste, si apre una nuova fase della sua fortuna. Al Traité philosophique di Huet apparso postumo nel 1722, cui la Bibliothèque Française riconosce il merito d'aver ordinato lo scetticismo radicale, si riporterà a un quindicennio di distanza JeanBaptiste de Boyer nelle Lettres cabalistiques; questi nella lettera XXXII estende la rassegna degli scettici sino a includere i moderni: Montaigne e Gassendi. E in una lettera successiva, interrogandosi su quali fossero i più chiari ingegni della Francia moderna, indica accanto al De Thou, l'autore della Historia sui temporis (1604), cinque filosofi: Montaigne, La Mothe le Vayer, Gassendi, Cartesio e Bayle. Nei Mémoires secrets de la République des Lettres (1737-1748) associa Montaigne a Bacone, cui dedica uno spazio insolitamente breve: entrambi sono stati difatti i primi distruttori delle 'chimere scolastiche'. Già il Deslades, pubblicando nel I 7 I 2 la sua prima opera, le Réflexions sur les grands hommes qui sont morts en plaisantant, rifuggi va dai compilatori e dai pedanti , in virtù di «una felice mescolanza di erudizione e di critica>>, e si riallacciava esplicitamente a Montaigne e alla letteratura scettica e libertina seicentesca. Nell'edizione Coste lo leggeranno i philosophes. Vale la pena di rilevare in proposito una perfetta continuità fra '600 e '700 nell'utilizzazione dei Saggi: la questione religiosa è al centro, benché si operi un rovesciamento speculare, idolatrando ciò che prima si condannava. E circa il forte desiderio d'adoperarlo nella battaglia ideologica, si ricordi l'utilizzazione polemica, ma superficiale, di Voltaire nelle Lettere filosofiche, ché lo scopo è quello di schiacciare Pascal: accredita l'immagine di un Montaigne tollerante, alleato dei philosophes nella lotta contro il fanatismo. Alla metà del '700 «la reputazione di Montaigne non è più soltanto quella di un moralista un po ' libertino , ma di un autentico filosofo»: D' Alembert nelJ' Avertissement del 1753 premesso al terzo tomo dell 'Encyclopédie lo rappresenta come uno scettico precursore di Bayle e di Fontenelle. Di li a un lustro è il precorritore dell 'empirismo lockiano per Hel-

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vétius in Dello Spirito, infine nel '72 d 'Holbach, nel Buon senso, ne farà il propugnatore della tolleranza di contro agli impostori. Se ne evince che ciò che interessa gli enciclopedisti è «la loro lotta, cui Montaigne è associato come forza di complemento» 7. Allora Montaigne è in primo luogo l'autore di Degli zoppi, l'uomo che sa revocare in dubbio i miracoli, rigettare le superstizioni e la credulità: la denuncia della demonologia. Sul progresso, come sullo scetticismo, la lode e il biasimo saranno misurati dalla sua utilizzabilità nel dibattito ideologico: nell'articolo

Arte, Diderot gli rimproverava d'avere misconosciuto l'importanza delle innovazioni tecniche e gli opponeva Bacone, ché il filosofo deve promuovere anche le arti meccaniche. Invero non solo Voltaire e i philosophes, si ritenga come esemplificazione l'articolo diderotiano Imposture nell' Encyclopédie, ma già Pierre Bayle aveva coperto le proprie audacie col nome di Montaigne. E ancor prima del Dizionario, nella Lettera-dissertazione al Minutoli (1673), lo accomuna a La Mothe le Vayer sotto l'esplicita etichetta di pirroniani, cui era da ricondurre anche il Gassendi. li XVlll secolo ne ebbe di fatto una conoscenza schematica, ma assai lo utilizzò nella battaglia ideologica: i Saggi assumono allora una dimensione politica che prima non avevano. In quell'arco di tempo , Alexandre Séverin componeva l'Histoire des philosophes modernes (1760-1769) e, nel volume consacrato ai moralisti e ai legislatori , colloca il Nostro a principio della sequela Charron, Grazio, La Rochefoucauld, Pufendorf, Cumberland, La Bruyère, Duguet, Wallaston , Shaftesbury. Di contro Condillac nell'lntroduction à l'étude de l'histoire polemizza con Bayle cui imputa d'essere «il più ingegnoso sofista» e discepolo di Montaigne che fu «scrittore pieno di spirito, e pirroniano per pigrizia». Alla storiografia illuministica si riallacciava il De Méhégan nel Tableau de l'histoire moderne (1766), il quale nelle sezioni di storia della cultura, che accompagnano l 'esposizione evenemenziale, a proposito del '500 opponeva alla fisica peripatetica «i Socrati della loro età»: Ramo , Bodin , Charron, Montaigne . Fu proprio la Logica di Port-Royal, la sua edizione latina, l 'Ars Cogitandi, che ebbe larghissima circolazione nell'Europa colta, a veicolare la penetrazione di Montaigne specialmente in ambito tedesco. Le accuse di pir-

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ronismo e d'empietà sollevarono le rimostranze di una personalità anticonformista come Christian Thomasius contro l'imputazione di ateismo (Uber Vorurtheile , 1725), ma simile fu pure l'indulgenza del Buddeus, vicino ai pietisti , nelle Theses theologicae de atheismo et superstitione (1717) e del Reimmann, diacono e primo predicatore, nella Historia universalis atheismi (1725), che è in realtà un rifacimento delle Theses del Buddeus. È poi la volta di Brucker, che riferiti critiche ed elogi indirizzati ai Saggi, sull'esempio di De Thou e di Lipsio , si colloca fra i lodatori seppure con qualche cautela. Intorno al terzo decennio del secolo, Montaigne sembra influenzare il circolo zurighese riunito attorno alla rivista critico-letteraria «Discourse der Mahlern», come risulta dalla corrispondenza intercorsa fra il Bodmer e il Breitinger. Ma già il '600 tedesco aveva conosciuto letture montaignane, come nel caso dell' Oratio contra Galliam di Thomas Lausius (1577-1657) di Tubinga che, pur muovendogli appunti, lo proclama Galliae sapientem. Sarà poi l'alsaziano Moscherosch (1601-1669), che soggiorna a Parigi tra il 1624 e il ' 26, a redigere nelle Visions de Philander ( 1640), e in particolare nella Dissertatio de politico (1652) un ditirambo sui Saggi. Il Montaigne patrocinato dai philosophes trovò facile acclimatazione nella Germania dell 'Aujkliirung, come risulta anche dalla traduzione del Titius uscita a Lipsia nel 1753, cui seguirà nell' ultimo decennio del secolo quella eccellente del Bode, salutata, ancora in corso di stampa, dall '«Allgemeine Litteratur-Zeitung» di Iena nel 1794. Ma l'interesse che già aveva suscitato la versione del Titius è dimostrato dal fatto che sin dal 1777 fosse volto in tedesco il Diario di viaggio. L'edizione originale dovuta a Meunier de Querlon risaliva a solo tre anni prima. Ma invero anche J.G. Hamann , avverso al razionalismo illuminista, trova proprio in Montaigne conforto per opporsi alle pretese di erigere la sola ragione umana a criterio di verità, e questi può averlo segnalato a Herder che cita un passo Delle astuzie inutili nella prefazione dei Volkslieder. A proposito del Mémoire présenté à Monsieur de Mably sur l 'éducation de Monsieur sonfils , redatto nel 1740, «tutti i principi di Rousseau educatore , a quell 'epoca , derivano da Montaigne, sia tramite Fleury, Locke o Lema'ìtre de Claville , sia direttamente», similmente «il giudizio d'Erni-

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!io sarà quindi formato esattamente secondo i principi e i metodi di Montaigne». AI contrario Villey afferma che «la critica della società era in Montaigne solo un paradosso accidentale»8. Di fatto nell 'epoca dell ' illuminismo Rousseau e Montaigne «sono politicamente dalla stessa parte, quella dell'avvenire», nell'età della Restaurazione saranno «in campi avversi, Montaigne dimostrandosi più facilmente 'ricuperabile' da una borghesia diventata conservatrice». Guizot, allora venticinquenne, nelle «Annales de l'éducation» del 1812, rileva l'importanza dei saggi XXV e XXVI del primo libro: lo «scettico audace» cede dinanzi al «filosofo illuminato» . Si è allora in presenza di una sintesi dell' eudemonismo montaignano: leducazione armonica dell'individuo, propedeutica alla tolleranza, implica l'assenza di coercizione. Tale laicismo del tutto estraneo a Fenelon e a Rousseau , aveva trovato eco a due secoli di distanza in Helvétius e in Condorcet. E difatti Dugald Stewart, nella Considerazione generale dei progressi della metafisica, dell 'etica e dellafilosofia pratica (1815), dedica un 'ampia disamina, fra i cultori di morale, a Montaigne, a Charron, a La Rochefoucauld, e fra quelli di metafisica a Descartes, a Gassendi, a Malebranche. E pone il Nostro «alla testa degli scrittori francesi che, agli inizi del XVII secolo, volsero i pensieri dei loro concittadini ad argomenti connessi con le filosofie della mente». Apprezza in ispecie «la vivezza e la facilità» delle parole con cui esprime gli «ondeggiamenti della nostra immaginazione», anche se in codeste massime Io Stewartrintraccia «i germi» dei paradossi d'Helvétius . Quanto all'impronta elitaria, Strowski (1906) parlerà di una pedagogia «eminentemente aristocratica», ma «si tratta della nobiltà personale , non dell'aristocrazia del sangue o del denaro». Con l'età della Restaurazione alle immagini dell' honnete homme, del libertino, e del philosophe che avevano veicolato due secoli di letture, si sovrappone , sin dal]' Éloge del Villemain nel ' 12, quella del saggio, che un quarto di secolo più tardi nel Port-Royal di Sainte-Beuve assumerà i caratteri di un machiavellismo faustiano, di un naturalismo pagano areligioso . La sensibilità romantica insorgerà poi contro quanto di rassegnazione si esprime nell' immagine del saggio: è il violento ripudio rnicheletiano che traduce l'ansia di palingenesi sociale . Pertanto nella ' sinistra romantica' , lo dimostra l'arbitraria divisione «fatta da Canini e da Ginamrni, dell'unitario saggio dell'Apologia in 27 capitoli». In effetti «gli ampi ed analitici titoli non costituiscono tanto il sommario degli argomenti trattati da Montaigne, ma semplicemente la ricapitolazione dei temi più dibattuti nell'ambiente veneto-padovano, per i quali si attendeva nell'Apologia un avvallo». La messa ali 'Indice, che porrà fine a quella prima fortuna italiana, sarebbe allora addebitabile all'aver avvallato l'aristotelismo

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eterodosso21. La traduzione di Gerolamo Canini apparirà postuma a Venezia in due volumi: il primo di 780 pagine edito nel 1633 riuniva i tre libri , da cui era espunta l'Apologia , pubblicata l'anno seguente . Lo scorporo dell'Apologia e «l'inserimento di una 'Vita ' di Montaigne, 'raccolta per gli stampatori' e ' cavata fuori quasi interamente dalle sue Opere ', che si conclude con una riaffermazione di perfetto allineamento confessionale», dimostra che persino nella Venezia del Sarpi, e addirittura presso un editore che aveva in catalogo I capricci del Bottaio del Gelli, già all'Indice, la traduzione dell'Historia delle Indie di Bartolomé de Las Casas e le Considerazioni politiche e morali di Ludovico Zuccolo, «l'impresa di tradurre Montaigne non poteva passare per un'iniziativa del tutto neutra»22. Bisognerà attendere il 1785 per la nuova e parziale traduzione redatta da un Accademico Fiorentino, l'abate Giulio Perini, come parziale sarà quella pisana di Dionisio Leon Durakys del 1833. Due anni prima a Milano era stata ristampata la traduzione Canini, cui il Mauri aggiunge quella dell'Apologia, ché di quel saggio non era stata ancora rintracciata I' edizione Ginammi . Solo nel 1871 Natale Contini intraprende una nuova traduzione italiana, condotta sull'edizione Coste. Nell'ambito della storiografia filosofica, il padre celestino Agatopisto Cromaziano (Appiano Buonafede) nella Restaurazione d'ogni filosofia (1766) diede conto non certo con adesione simpatetica del Montaigne, ma invero usava «le notizie e gli scoprimenti» in ispecie «della stupenda compilazione di questo valoroso Bruckero». In quell ' arco di tempo, o a breve distanza, ameranno invece riferirsi a Montaigne I' Algarotti , il Beccaria e il Verri . Allusioni montaignane saranno poi rintracciabili in Alfieri e in Foscolo , mentre nella Storia universale Cantù rileverà l'accusa di miscredenza, anche se riconosce che condannò gli 'ugonotti di Stato' e la Lega «perché turbolenti» i primi , «perché violenti» gli altri. De Sanctis lo accomunerà a Camoes, a Cervantes, a Shakespeare e a Milton fra gli scopritori di «mondi nuovi poetici» e in margine al Cours familier de littérature del Lamartine parla di «una critica formale e psicologica», «Un certo naturale buon senso e buon gusto», condividendo nel Saggio sul Petrarca l'esortazione a far diventare «naturale l'arte quanto essi rendono artificiale la natura».

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Montaigne La storia della critica

Negli ultimi decenni la ricerca italiana deve molto a Fausta Garavini, in ispecie l'esemplare traduzione dei Saggi, pubblicata nel 1966 da Adelphi, seguita da un'intensa attività pubblicistica culminata nella monografia del '91, Mostri e chimere. Montaigne , il testo, il fantasma, che volgendosi contro «le incrostazioni di un'annosa saggezza critica>>, e facendo giustizia della vieta ipotesi sul carattere compilatorio e impersonale dei primi saggi, sostiene che «l'individuo è una molteplicità incomprensibile di soggetti istantanei, un mosaico di)e». La traduzione adelphiana era accompagnata dalla riproposizione del saggio di Sergio Solmi La salute di Montaigne del 1933; questi, formatosi nell'ambiente gobettiano e avverso alle interpretazioni irrazionalistiche , sosterrà l'unicità inattuale del perigordino .

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LA STORIA DELLA CRITICA: NOTE I D. Taranto, Pirronismo ed assolutismo nella Francia del '600. Studi sul pensiero dello scetticismo da Montaigne a Bayle (1580-1697), Franco Angeli, Mi lano 1994, pp. 63 sg., sostiene che «l'eclettismo più che il pirronismo sembra essere la cifra del pensiero di Charron» , giacché si compongono «una sensibili tà moderna ed un gusto per le scolastiche divisioni e classificazioni [ ...], elementi naturalistico-epicurei e platonic i, pirroniani e stoici [ ...] l'ortodossia religiosa delle Trois Veritez e il sospetto libertinismo della Sagesse». In proposito F. Kaye, Charron et Montaigne. Du plagiai à l'originalité, Presses de l'Université d 'Ottawa, Ottawa 1982, pp. 11e126, sostiene che «la Sagesse è in realtà l'opera originale di un pensatore autorevole»; difatti nel '500 «l'originalità non era un criterio riconosciuto per la definizione dell'opera d'arte». 2 J.-Y. Pou ill oux.°Montaigne, l' éveil de la pensée, Champion, Paris 1995, pp. 38-56 passim.; cfr. anche R . Sayce, L'ordre des «Essais», «Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance», XVIII, 1956, pp. 7-22; Id., Montaigne et la peinture du passage, «Saggi e ricerche di letteratura francese», IV, 1963, pp. 11-59; F. Gray, Style de Montaigne, Nizet, Paris 1958 e M. Baraz, Sur la structure d'un essài de Montaigne (lii, XIII: «De l'experience»), «B ibliothèque d'Humanisme et Renaissance», 1961, pp. 265-281. 3 A.R. Ndiaye, Malebranche lecteur de Montaigne: la piace des «Essais» dans la «Recherche de la vérité», in Montaigne. Penseur et philosophe (I 588-1988), éd. par C. Blum, Champion, Paris 1990, pp . 164 e 172 sg . 4 E. Limbrick, Montaigne et Port-Royal: critique du pyrrhonisme moral, in Études montaignistes en hommage à Pierre Miche!, éditées par C. Blum et F. Moureau, Slatkine, Qenève-Paris 1984, pp. 147-152,passim, e aggi unge che «la critica che fa Pasca l al pensiero morale di Montaigne» lo «deforma assai gravemente». Difatti nell 'Entretien tutto ciò che cita dei Saggi è per «sostenere la sua tes(principale: 'che è un mero Pirronista' ». Così la confutazione operata da Pascal «termina con un confronto fra la 'virtù stoica', temibile per la sua austerità, e la virtù pirroniana 'adagiata mollemente in seno a un quieto ozio'. Or dunque questa requisitoria è un'abile ricomposizione di passi tratti da due capitoli differenti , con soppressione di un importante elemento che cambia la portata del testo». 5 Huetiana, Paris 1822, p. 15, cit. in E. Limbrick, Montaigne et le spectre du Pyrrhonisme au XV//e siècle, in Montaigne. Penseur et philosophe cit. , pp. 150 e 153; cfr. L. Tolmer, Pierre-Daniel Huet (1630-1721). Humanistephysicien, Bayeux 1949, p. 596. Invero F. Brahami, Le scepticisme de Montaigne , PUF, Paris 1997 , pp. 39 e 46, distingue tra il fideismo razionalista pado-

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vano «della doppia verità» e quello irrazionalista e scettico di Huet, cui Montaigne sarebbe «assai vicino», giacché «la 'follia' del razionalismo consiste nell'interpretare il sentimento in termini epistemologici di verità, e metafisici di fondamento»; difatti «la fede non dipende per nulla da un approccio epistemologico». 6 A proposito dell '«ideale_laico dell 'honneteté» nel XVII secolo cfr. G. Stabile, Tra «emozione» ed «esperienza»: frammenti [di un saggio possibile] sui «movimenti» degli «Essa is» di Montaigne, «Aut-Aut», n. 205, 1985, p . 136: «Pasquier rivisita Aristote_le alla luce del suo ideale di vita bucolico-intellettuale» e «l'opera di Antonio Guevara, L'Orloge des Princes, circolava ampiamente nella Francia di Montaigne [ ...]la prima ed . spagnola del Relax de principes è del 1529». 7 C. Fleuret, Rousseau -et Montaigne, Nizet, Paris 1980 , pp. IO sg. 8 Ivi , pp. 104 e 45. 9 Ivi , p. 14. IOR. Aulotte, Avant-Propos, in Montaigne: Apologie de Raimond Sebond: de la Theologia à la Théologle, éd. par C. Blum , Champion , Paris 1990 , pp. 5 sg. Il A. Tournon , Montaigne en toutes lettres , Bordas , Paris 1989, p. 169. 12 A proposito dell' «interesse più vivo, più personale, di Montaigne per l 'attualità», G. Nakam , Montaigne'et son temps. Les événements et les «Essais», Nizet, Paris 1982 , pp. 193-200 ,passim , discorre di un «realismo cronologico»; certo i Saggi non hanno «Un intento esclusivamente politico», ma registrano i mutamenti politici e ideologici: «il libro si evolve in rapporto ai tempi [ ... ].Così , il problema della tolleranza è messo in risalto nel 1580 , in Della libertà di coscienza, e, nel 1588 , quello della ragion di Stato , in Dell 'utile e dell'onesto». Il silenzio sulla Saint Barthélemy, così come sul duplice assassinio di Blois e sull'uccisione di Enrico III , denuncia «una medesima politica di perfidia, di disprezzo e d 'accecamento»: «la realtà ottusa, continua e negativa della guerra costituisce una materia importante del secondo libro e quasi tutta la trama del .terzo». 13 In proposito J. Brody, Nouvelles lectures de Montaigne , Champion, Paris 1994, p. 10 , scrive che «lo scarto fra i due contenuti dei Saggi, l'ideologico e l'aneddotico, si approfondisce a mano a mano che Montaigne raggiunge il periodo della maturità». 14 O. Naudeau, La pensée de Montaigne et la composition des «Essais», Droz, Genève 1972, p. 3. 15 «Bulletin de la Société des amis de Montaigne», Slatkine Reprints , Genève 1972 , Deuxième série, n. 16, 1953-1954 , pp. 13 sg. 16 S. Mancini, Oh, un amico! In dialogo con Montaign e e i suoi interpreti, Franco Angeli, Milano 1996 , pp. 168-171 e 266.

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17 Naudeau , La pensée de Montaigne et la composition des «Essais», cit., p. 65. 18 Mancini, op. cit ., pp. 27-31,passim. 19 Numérotation et ordre des chapitres et des pages dans !es cinq premières éditions des «Essais», in Éditer les «Essais» de Montaigne, Actes du Colloque tenu à l'Université de Paris IV-Sorbonne !es 27 et 28 janvier 1995, réunis par C. Blum et A. Tournon, Champion, Paris 1997 , pp. 45 sg . 20 A.M. Rangeri, L'onesta infedele: ancora sulla traduzione degli «Essais» di Girolamo Naselli, in Montaigne e l'Italia, Slatkine, Genève 1991, pp . 3860, passim. 21 B. Wojciechowska Bianco, Le ragioni culturali della traduzione dell'«Apologia», in Montaigne e l'Italia, cit., pp. 196 sgg. 22 E. Balmas , Girolamo Canini traduttore di Montaigne , in Montaigne e l'Italia, cit. , pp. 23-32, passim.

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BIBLIOGRAFIA I. OPERE DI CARATTERE BIBLIOGRAFICO Bonnet P., Bibliographie méthodique et analytique, ouvrages et documents relatifs à Montaigne jusqu'en 1975, Slatk:ine, Genève-Paris 1983. Clive H.P., Bibliographie annotée des ouvrages relatifs à Montaigne publiés entre 1976 et 1985, Champion, Paris 1990. Desgraves L., lnventaire des fonds Montaigne conservés à Bordeaux, Champion, Paris 1995. Duviard F., État présent des études montaignaistes, «lnformation Littéraire», n. 5, 1956,pp. 171-179 .• Inventaire de la collection des ouvrages et documents sur Michel de Montaigne réunis par le Dr J.-F. Payen et conservés à la Bibliothèque nationale, rédigé et précedé d'une notice par G. Richou, Emile Crugy, Bordeaux 1877. Leake R.E., Concordance des «Essais», Droz, Genève 1981, 2 voll. Marcu E ., Répertoire des idées de Montaigne, Droz, Genève 1965. Plattard J., État présent des études sur Montaigne, Les Belles Lettres, Paris 1935. Sayce R.A. e Maskell D., Descriptive Bibliography of Montaigne's «Essais», 1580-1700, Bibliographical Society, London 1983. Tannenbaum S.A., Montaigne. A Concise Bibliography, The autor, New York 1942.

AVVERTENZA. Nella Bibliografia vengono impiegate le seguenti abbreviazionj: BHR: «Bibliothèque d'Humanjsme et Renaissance»; BSAM: «Bulletin de la Société des arnis de Montaigne»; SEDES: Société d'édition d'enseignement supérieur. Un ringraziamento al dott . Raffaele Giampietro, bibliotecario della Scuola Normale di Pisa, per i preziosi suggerimenti bibliografici.

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Il. PRINCIPALI EDIZIONI DEGLI «ESSAIS» 1580 Essais de Messire Miche{ Seigneur de Montaigne, Chevalier de l'ordre du Roy, et Gentil-homme ordinaire de sa Chambre. A Bourdeaus , Par S. Millanges Imprimeur ordinaire du Roy. Prima edizione in due libri e in due volumi in-8°. 1582 Essais par Messire Miche{, Seigneur de Montaigne , Chevalier de l'ordre du Roy, et Gentil-homrne ordinaire de sa Chambre, Maire et Gouvemeur de Bourdeaus. Edition seconde, revué et augmentée. A Bourdeaus, Par S. Millanges Imprimeur ordinairé du Roy. Edizione in un volume in-8° pubblicata dopo il ritorno di Montaigne dall'Italia, con aggiunte relative al viaggio. 1587 Essais ... A Paris, chez Jean Richer. Pri~a edizione parigina in un volume in-12°. Non presenta variazioni rispetto alla precedente. 1588 Essais de Miche{ Seigneur de Montaigne. Cinquiesme edition, augmentée d'un troisiesme !isvre et de six cens additions aux deux premiers. A Paris, chez Abel L' Angelier, au premier pillier de la grande Salle du Palais. In un volume in-4 °, è l'ultima edizione pubblicata vivente Montaigne e da lui riveduta; designata come quinta, benché delle precedenti si conoscano solo le tre sopra citate. Su un esemplare di questa edizione, conservato al monastero dei Feuillants a Bordeaux e passato poi, alla fine del XVIII secolo, alla Bibliothèque municipale di Bordeaux, dove tuttora si trova, Montaigne apportò aggiunte e correzioni in vista d'una successiva edizione. Tale esemplare viene comunemente designato come «esemplare di Bordeaux». 1595 Les Essais de Miche{ Seigneur de Montaigne. Édition nouvelle, trouvée après le deceds del' Autheur, reveue et augmentée par luy d'un tiers plus qu 'aux precedentes Impressions. A Paris, chez Abel L' Angelier, au premier pillier de la grande Salle du Palais. Edizione pubblicata in un volume in-folio da Marie de Goumay su una copia dell'esemplare di Bordeaux accresciuta delle aggiunte copiate da Pierre de Brach dall'originale posseduto da Montaigne , e corredata d'una prefazione di Marie de Goumay. Per la prima volta, Essais diventa Les Essais.

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1617 Les Essais ... Édition nouvelle, enrichie d'annotations en marge, du nom des auteurs cités et de la version du latin d' iceux, corrigée et augmentée ..., chez Charles Sevestre, Paris, 1 vol. in-4° . Seconda edizione di Mlle de Goumay, in cui è rifusa e in parte ritrattata la prefazione dell'edizione precedente. La traduzione in francese delle citazioni latine, che compare qui per la prima volta, è dovuta a Mlle de Goumay, Bergeron, Martinière e Bignon. 1635 Les Essais ... Édition nouvelle , exactement corrigée selon le vrai exemplaire , enrichie à la marge des noms des auteurs cités et de la version de leurs passages , mise à la fin de chaque chapitre , avec la vie de l'auteur; plus deux tables, l'une des chapitres et l' autre des principales matières. Jean Camusat, Paris, 1 vol. in-folio . Edizione definitiva di Mlle de Goumay, dedicata al cardinale Richelieu, preceduta dalla prefazione del 1595 di nuovo rifusa. È servita come testo base a molte edizioni del XIX secolo. 1724 Les Essais ... Nouvelle édition fai te sur les plus anciennes et les plus correctes, augmentée de quelques lettres de l'auteur, et où !es passages grecs , latins et italiens sont traduits plus fidèlement et cités plus exactement que dans aucune des éditions précédentes, avec de courtes remarques et de nouveaux indices plus amples et plus utiles que ceux qui avaient paru jusqu'ici, par Pierre Coste. Londres , de l'imprimerie de J. Tonson et J. Watts , 3 voll. in-4°. È la grande edizione settecentesca , in seguito arricchita e migliorata, e presa come base per tutte le successive edizioni del secolo , di cui molte a cura dello stesso Coste . Nel 1740 fu pubblicato a Londra un Supplément aux Essais de Miche[, seigneur de Montaigne , in un volume in-4°. 1802 Essais .. . Édition stéréotype. Paris, imprimere de P. et F. Didot, 4 voll. in-8° . A cura di Naigeon, è la prima edizione basata sull'esemplare del 1588 annotato da Montaigne. Sono indicati i passi dell' edizione del 1595 non conformi a quest'esemplare. La prefazione, violentemente anticristiana, di Naigeon fu soppressa in quasi tutti gli esemplari . 1870-1873 Essais ... Texte originai de 1580, avec les variantes de 1582 et 1587 , publié par R . Dezeimeris et H. Barckhausen. Bordeaux , Féret et fils (Publication de la Société des Bibliophiles de Guyenne), 2 voll . in-8° .

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1873-1875 Les Essais ... Réimprimés sur l'édition de 1588 par MM. H . Motheau et D. Jouaust, précédés d'une note par M. Silvestre de Sacy. Paris, Librairie des Bibliophiles, 4 voli. in-8°. Questa edizione, che dà il testo del 1588 con le varianti del 1595 ,.è stata ripubblicata dagli stessi nel 1886, nella Collection Jouaust, 7 voli. in-16°. 1872-1900 Les Essais ... Par E . Courbet et Ch. Royer. Paris , A . Lemerre , 5 voli. in-8°. Coscienziosa ristampa dell'edizione del 1595, sfigurata nelle edizioni allora correnti. Essa contiene, inoltre , tutte le lettere conosciute di Montaigne. 1906-1933 Les Essais ... Publiés d ' après l'exemplaire de Bordeaux, avec !es variantes manuscrites et !es leçons des plus anciennes impressions , des notes, des notices et un lexique par F. Strowski [et F. Gebelin]. Bordeaux, imprimerie de F. Pech , 5 voli. in-4°.

È la prima edizione scrupolosamente fedele all'esemplare di Bordeaux, nota sotto il nome di édition municipale e presa come base da tutti gli editori posteriori. Comprende tre volumi di testo (collazionato da F. Strowski e F. Gebelin), un volume di note di P. Villey e un volume di lessico di G . Norton . L'esemplare di Bordeaux è reso accessibile dalla riproduzione fototipica (Hachette , Paris 1912, 3 voli. in-4°) e dalla riproduzione tipografica (Imprimerie Nationale, Paris 1913-1931 , 3 voli . in-4°). 1922-1923 Les Essais ... Nouvelle édition conforme au texte de l'exemplaire de Bordeaux, avec !es additions de l'édition posthume, l'explication des termes vieillis et la traduction des citations , une chronologie de la vie et de l'oeuvre de Montaigne, des notices et un index, par P. Villey. Alcan, Paris, 3 voli. in-16°. Questa edizione fu riveduta e aumentata dallo stesso Villey nel 1930-1931 ; essa comporta inoltre il catalogo dei libri di Montaigne, la lista delle iscrizioni della sua biblioteca e un ' appendice sulla fortuna e l'influenza degli

Essais. 1924-1928 CEuvres complètes de Montaigne (12 voll. in-16°). Tomes IVI, Les Essais. Texte du manuscrit de Bordeaux. Étude , commentaire et notes par le docteur A . Armaingaud . Paris , L. Conard . Sono offerte in nota tutte le varianti del testo dal 1580 al 1595. 1933 Essais. Texte établi et annoté par A. Thibaudet, «Collection de la Pléiade», Nouvelle Revue Française, Paris , 1 voi. in-16° .

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Montaigne La storia della critica

Questa edizione, che presenta in nota le varianti manoscritte dell'esemplare di Bordeaux , è stata più volte ristampata. 1942 Essais. Édition conforme au texte de l'exemplaire de Bordeaux avec !es additions de l'édition posthume, !es principales variantes, une introduction, des notes et un index, par M. Rat. Garnier, Paris, 3 voli. in-16°.

È stata ristampata nel 1958 e, in due volumi, nel 1962. 1965 Essais, édition P. Villey, réimprirnée sous la direction et avec une préface de V.L. Saulnier, PUF, Paris , 2 voli. 1998 Essais, présentation, établissement du texte , apparat critique et notes par André Toumon, Imprimerie Nationale, Paris, 3 voli.

lii. PRINCIPALI EDIZIONI DELLE ALTRE OPERE DI MONTAIGNE La Théologie nature/le de Raymond Sebon, traduicte nouvellement enfrançois par messire Miche/, seigneur de Montaigne , chevalier de l 'ordre du Roy, et gentilhomme ordinaire de sa chambre. A Paris , chez Miche! Sonnius 1569, in-8°. Tale traduzione fu ristampata nel 1581. Journal de Voyage de Miche/ de Montaigne en 1talie,par la Suisse et l'Allemagne en 1580 et 1581, avec des notes, par M. de Querlon. A Rome, et se trouve à Paris, chez le Jay, librairie, rue Saint-Jacques, au GrandCorneille. Le edizioni originali, in numero di tre (1 vol. in-4°, 2 voli. in-12°, 3 voli. in-12°) apparvero tutte sotto questo titolo nel 1774. Altre due edizioni, dovute allo stesso Querlon, uscirono l'una alla fine del 1774, l'altra nel 1775. La parte redatta da Montaigne in italiano è tradotta in francese. ln mancanza del manoscritto, andato perduto, è questo il testo-base per tutte le successive edizioni, tra le quali quella a cura di L. Lautrey, Hachette, Paris 1906. Di questa edizione, in cui una nuova traduzione della parte in italiano è stata sostituita a quella di M. de Querlon, fu fatta una ristampa nel 1909. Journal de voyage, édition présentée, établie et annotée par F. Garavini, Gallimard, Paris 1983. Journal de voyage, édition présentée, établie et annotée par F. Rigolot, PUF, Paris 1992.

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Per quanto riguarda le Lettere di Montaigne, si rimanda all'edizione completa delle opere a cura di A. Armaingaud, vol. Xl, e ancora a: Montaigne, maire de Bordeaux, Lettres (1581-1585), texte d ~ A.-M. Cocula, avant-propos de J. Chaban-Delmas, l'Horizon Chimérique,-Bordeaux 1992. Mette conto riportare i titoli di alcune opere contenenti marginalia di notevole interesse. Tali note sono state riprodotte anch'esse nell' edizione di A. Armaingaud, voli. XI e XII: Annales et Chroniques de France , jusqu 'au temps du roi Louis onzième, composées par feu Maistre Nicolle Gilles , additionnées jusqu'à cest an mille cinq soixante deux. A Paris , à l'Imprimeriè de Guillaume le Noir, MDLXII, in-folio. Q. Curtii Historiographi luculentissimi De Rebus Gestis Alexandri Magni Regis Macedonum opus ,... Basilere, in ç>fficina Frobeniana, MDXLV, in-folio. C. Julii Ccesaris commentarii novis emendationibus illustrati, ejusdem librorum qui desiderantur fragmenta ex bibliotheca Fulvi Ursini Romani. Antverpire , ex officina Christoph. Plantini MDLXX, in-8°. Michcelis Beutheri carolopolitce franci , Ephemeris Historica, ejusdem, de annorum mundi concinna disposizione libellus . Parisiis, ex officina Michrelis Fezandat et Roberti Grandion in tabema Gryphiana: ad montem D. Hilarii, sub juncis. 1551, in-8°. Delle note a quest'ultima opera un'edizione più accurata è stata pubblicata da Jean Marchand , Le livre de raison de Montaigne sur l' Ephemeris historica de Beuther, Reproduction en fac-simile publiée par la Société des amis de Montaigne , Paris 1948 .

IV. OPERE COMPLESSIVE CEuvres complètes de Montaigne, a cura di A. Armaingaud, 12 voli. in160, Conard, Paris 1924-1941. (Euvres complètes , éd. A. Thibaudet et M. Rat, Gallimard-Bibl. de la Pléiade , Paris 1967 . Corpus des oeuvres de Montaigne , CD-Rom, éd . multilingue électronique par C. Blum , Slatkine-Champion , Genève-Paris 1997.

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Montaigne 2O1 La storia della critica

V. TRADUZIONI ITALIANE 1. Traduzioni italiane degli «Essais» La prima in ordine di tempo, dovuta al ferrarese Girolamo Naselli, è appar-

sa col titolo: Discorsi morali, politici et militari del molto illustre Sig . Michiel di Montagna; Cavaliere dell'Ordine del Re Christianissimo Gentil' huomo ordinario della sua Camera, primo Magistrato et Governatore di Bordeos. Tradotti dal sig. Girolamo Naselli dalla lingua Francese nell'Italiana. Con un discorso se il forastiero si deve admettere alla administratione della Repubblica. In Ferrara, per Benedetto Mamarello 1590. ln-12°. Questa traduzione, condotta sull'edizione del 1580, comprende in tutto quarantadue saggi. Saggi di Michel Sig. di Montagna Overo Discorsi, Naturali, politici e morali, trasportati dalla lingua Francese nell'Italiana, per opera di Marco Ginammi. In Venetia 1633. Presso Marco Ginammi. ln-8°. Prima versione italiana di tutta l'opera, condotta sull'edizione del 1595. Benché mutilata in più luoghi, è superstiziosamente fedele all'originale, ricalcandolo quasi alla lettera. Di tale traduzione , stampata presso Marco Ginammi, ma dovuta a Girolamo Canini, curò una seconda edizione ammodernata Achille Mauri: Saggi di Michele de Montaigne. Traduzione di Girolamo Canini nuovamente purgata e corretta, Milano , per Niccolò Bettoni, 1831-1832, 9 voli. della «Biblioteca universale di scelta letteratura antica e moderna (Classe francese)». Vi è inclusa anche la traduzione, ad opera del Mauri, dell' Apologie de Raymond Sebond, in quanto quella del Canini non fu rinvenuta dagli editori ottocenteschi. Era stata però effettivamente pubblicata: Apologia di Raimondo di Sebonda. Saggio di Michiel Signor di Montagna , nel quale si tratta Della debolezza, et incertitudine del discorso Humano. Trasportato dalla lingua Francese nell'Italiana per opera di Marco Ginammi. In Venetia, 1634. Appresso Marco Ginammi. In-8°. I Saggi di Michele della Montagna . Tradotti nuovamente in Lingua

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2 O2 Monta igne La storia della critica

Toscana da un'Accademica [sic] Fiorentino e pubblicati da Filandra. In Amsterdam 1785. L'accademico fiorentino è l'abate Giulio Perini, che ha aggiunto di propria mano il suo nome sulla copia della Biblioteca Nazionale di Firenze. I due voli. in-18° , pubblicati a Firenze, comprendono il I Libro dei

Saggi fino al cap. XXXIX incluso. Animato da illuministico fervore, l'abate Perini, operando sull'edizione di Ginevra del 1779, nell'intento «d'iliuminare eguaimente ogni classe di uomini e d'ingegni», si allontana da una «Superstiziosa fedeltà» al testo originale prendendosi «qualche licenza per rischiarar talvolta le tenebre e rendere più agevole il disastroso sentiero». Saggi di Michele di Montaigne con note di tutti i commentatori . Traduzione di D.L., Pisa, presso Niccolò Capurro e Comp., 1833-1834. In 5 tomi , che giungono fino al saggio II, 12, non completo . Il traduttore, Dionisio Leon Darakys, ha seguito l'edizione Lefèvre del 1826 curata da J.V. Le Clerc. Saggi di Montaigne annotati da Coste, recati in italiano e postillati da Natale Contini . Pubblicati da Andrea Verga , Stabilimento Giuseppe Civelli, Milano 1871. La traduzione è condotta sull'edizione di Pierre Coste e preceduta dalla prefazione del medesimo. Saggi, a cura di V. Enrico, Casini, Roma 1953. Saggi, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1966. 2. Traduzioni italiane del «lournal de Voyage »

L'Italia alla.fine del secolo XVI. Giornale del viaggio di Michele de Montaigne in Italia nel 1580 e 1581. Nuova edizione del testo francese editaliano con note ed un Saggio di Bibliografia dei viaggi in Italia, a cura del professor Alessandro D'Ancona. Lapi, Città di Castello 1889 (ristampata nel 1895 con l'aggiunta di un indice dei nomi). Viaggio in Italia. Versione , introduzione e note di I. Riboni, Bompiani , Milano 1942. Giornale di viaggio in Italia, a cura di E. Camesasca,Rizzoli, Milano 1956. Giornale del viaggio di Miche/ de Montaigne in Italia. Traduzione, cura

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storia della critica

del testo italiano e note di A. Cento. Prefazione di G. Piovene. Introduzione critica di G. Natoli. Parenti , Firenze 1959.

VI. SILLOGI DI STUDI A quadricentennial celebration, ed. by Raymond C. La Charité, «Esprit créateur», XX, n. 1, 1980. Autour du «lournal de Voyage » de Montaigne ( 1580-1980), publié par F. Moureau et R. Bernoulli , avant-propos de R. Aulotte, Slatkine, Genève 1982.

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Montaigne La storia della critica

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INTRODUZIONE Quando il signor di Montaigne, a 38 anni di età, decise di ritirarsi nel suo castello, era un agiato signore di provincia, nutrito di molte letture di classici latini, che aveva fino a quel momento guardato al mondo forse con un certo senso di distacco, e che non aveva sentito particolari attrattive per la vita pubblica, alla quale peraltro, forse a causa della sua posizione sociale, aveva partecipato. Era nato nel Périgord il 28 febbraio 1533 ed era il terzogenito di Pietro Eyquem; ma, per la morte dei due fratelli nati prima di lui, era diventato il primogenito della famiglia. Questa, da quando il bisavolo di Michele, a nome Ramon, nel 1478 aveva acquistato il castello di Montaigne, aveva aggiunto questo titolo al cognome; e col nome di Montaigne l'autore (dei «Saggi» è passato alla storia. Il padre di lui, che aveva esercitato il commercio come i suoi antenati, aveva poi militato in Italia nell'esercito di Francesco I e ne aveva riportato egli, uomo nutrito di studi modesti - una grande ammirazione per la cultura umanistica italiana, tanto da voler trasferita nel figlio Michele questa sua passione. Fu in tale intenzione che il bambino fino a sei anni, affidato come fu ad un maestro tedesco che non conosceva una parola di francese, imparò, quasi fosse la sua lingua, il latino, e in quell'idioma egli si esprimeva. Soltanto più tardi, quando fu messo a scuola nel collegio di Guyenne, imparò la lingua del paese in cui era nato. In quel collegio poté avere, per desiderio di suo padre, anche maestri particolari fra gli uomini che in quel tempo erano in auge nel campo culturale. Dalla vita del collegio e dall'esame dei metodi d'istruzione del tempo egli trasse un'esperienza che tradusse poi in quelle riflessioni sull'educazione che formano due interessanti capitoli dei «Saggi». Non ha molto interesse seguire Montaignc nella sua vita civile, di cui, del resto, poco si sa per i ventiquattro o venticinque anni circa che passarono dopo il collegio e prima del suo ritiro nel castello paterno. Pare che abbia studiato giurisprudenza a Tolosa; ed aveva ventun anni quando successe al padre nella carica di Consigliere al Consiglio municipale di Périgueux, passando poi al Parlamento di

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Bordeaux, quando quel Consiglio vi fu incorporato. Abbandonò la carica allorché pensò di ritirarsi nella torre del suo castello. Aveva sposato Francesca de la Chassaigne, figlia di un suo collega al Parlamento di Bordeaux . Durante i primi anni del ritiro fece due viaggi a Parigi per accompagnare il sovrano a Bar-le-Due e all ' assedio di Rouen ; ed era nell ' armata reale quando, nel 1574, fu inviato dal Duca di Montpensier con una missione presso i suoi antichi colleghi del Parlamento di Bordeaux. Poche notizie egli ci ha lasciate della sua famiglia : pochissimo infatti parla della madre; pochissimo dei figli, di cui sappiamo che una sola, Eleonora, sopravvisse , mentre tutti gli altri furono colti dalla morte quando erano ancora in fasce ; pochissimo della moglie , che egli trattò sempre con devozione e rispetto maritale , ma per la quale non sembra abbia mai avuto slanci di passione; un po' più del padre , per il quale, nei «Saggi » ha parole di assai tenero affetto. Nel 1580 l'idea di un viaggio in Italia attraverso la Svizzera e la Germania l'attrasse. L'attrasse l'idea di conoscere l'Italia, ma indubbiamente vi contribuì anche l'insorgere in lui dei sintomi di un male ereditario nella sua famiglia , una calcolosi renale , che gli si manifestò , pare, nel 1577 o ' 78, quando era, cioè, fra i quarantaquattro e i quarantacinque. I disturbi si fecero sempre più fastidiosi , e dopo un paio d' anni di cure varie , volle tentare quelle delle acque; e frequentò perciò luoghi di cura in Italia e in Germania. Il viaggio lo tenne lontano dalla sua casa per circa un anno e mezzo , ed egli era ancora assente dalla patria quando gli giunse la notizia della nomina a sindaco di Bordeaux, carica che aveva due anni di durata, ma in cui fu riconfermato per un altro biennio. Cominciò ad esercitarla al suo ritorno, nel novembre 1581. Quelli in cui occupò la prima magistratura della città furono quattro anni di attività che lo distolsero alquanto dai suoi studi, ma lo portarono a maggior contatto con gli uomini ed accrebbero quelle esperienze della vita pratica , che sono alla base delle sue riflessioni , sopratutto nel terzo libro dei «Saggi», da lui scritto quando , dopo la parentesi della vita pubblica , ritornò nel suo ritiro .

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Dopo questo periodo la biografia dello scrittore non offre fatti veramente degni di nota . Tale periodo s'identifica sopratutto con la fase del pensiero di lui , in cui questo si precisa sempre meglio , si modifica talvolta, mentre l'autore si dedica anche a curare le edizioni della sua opera, nata certo non per il pubblico , ma che al pubblico fu poi consegnata , forse anche per desiderio di amici, quando egli la fece stampare nel 1580, quando cioè conteneva soltanto i due primi libri. Lo scrittore Montaigne si può dire che sia tutto nei «Saggi », poiché la traduzione della Theologia naturalis di Raimondo Sebond, a cui egli si dedicò per desiderio del padre e che pubblicò nel 1569, fa parte per se stessa , ed è nota ed importante sopratutto per l'apologia, che egli fece dell'autore, nel più lungo dei suoi saggi . Quanto al «Diario» del viaggio in Italia, esso ha indubbiamente un notevole interesse per stabilire alcune date della vita dell ' autore e per alcuni apprezzamenti da lui fatti su città, uomini e cose; ma dal punto di vista letterario e del pensiero di Montaigne non ha vero rilievo. Non era, del resto , destinato ad essere un libro, ma una specie di taccuino di viaggio, scritto, per la prima parte, da una delle persone che gli furono compagne, e continuato poi da lui stesso quando venne a mancare la persona che si incaricava delle annotazioni. Montaigne, anzi, ad un certo punto - è questo l'aspetto più curioso del diario - cominciò a scrivere in italiano . Egli conosceva la lingua , ma non così bene da evitare le molte improprietà che vi si notano. Basta leggere, per convincersene , la premessa che egli fa al punto in cui comincia il testo italiano: «Assaggiamo di parlare un po ' quest'altra lingua , massime essendo in queste contrade dove mi pare sentire il più perfetto favellare della Toscana ». Molta buona volontà, dunque , ma successo linguistico piuttosto modesto. Ad un italiano possono dispiacere taluni giudizi che l'autore dà sull'Italia e su alcune città; giudizi, oltre tutto, discordanti da quelli che di solito sono stati dati da tanti scrittori. A parte il timore che egli esprime quando sta per entrare nel nostro paese , di rimaner vittima dell ' esosità degli albergatori , che sarebbe stata , a quei tempi, a quanto pare, una caratteristica dei nostri verso gli stranieri , fa certo meraviglia leggere la delusione di fronte alla decantata bellezza delle donne

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veneziane, e sentirgli dire che in nessun paese aveva trovato tanto poche donne belle come in Italia. Si meraviglia inoltre che Firenze fosse considerata una bella città; ma poi fa ammenda, e in una seconda visita, sulla via del ritorno in patria, trova che, invece, è bella. Tutto questo non può non richiamare il giudizio, che da alcuni è stato dato, circa una certa insensibilità del Montaigne di fronte alle bellezze artistiche; insensibilità che può collegarsi in parte con la malattia ai reni che ad un certo momento della vita cominciò a tormentarlo, e che lo spinse, nel suo diario, ad elencare, spesso anche con qualche fastidio per il lettore, giorno per giorno i bicchieri d'acqua curativa bevuti, gli effetti derivatine per l'intestino e il numero dei calcoli emessi volta per volta. Ma può forse avere origine anche dal suo temperamento pratico, straordinariamente portato piuttosto a!l 'osservazione della vita e del costume. Sentì però vivamente il fascino di Roma, e lo dimostra l'impazienza da cui era tenuto a mano a mano che si avvicinava alla città. Lo accolse, nei primi giorni di permanenza, l'antico Albergo dell'Orso, dove una tradizione vuole abbia alloggiato Dante quando venne a Roma per il Giubileo del 1300. Si sistemò poi meglio, con la sua compagnia, in un appartamento accogliente che trovò nella stessa via di Monte Brianzo. Nel suo lungo soggiorno romano volle vedere tutto quello che gli fu possibile: assisté alla Messa papale in San Pietro, e trovò la cerimonia più magnifica che devota; pochi giorni dopo fu ricevuto dal Papa, e in quella occasione fu lusingato dalla considerazione in cui era tenuto , considerazione che gli fu confermata anche dal particolare trattamento riserbato ai «Saggi», che, trattenuti in esame dalla censura pontificia, e giudicati poco ortodossi in più punti, gli furono poi restituiti con la libertà di apportarvi egli stesso gli emendamenti che la sua coscienza gli avrebbe dettati. Sopratutto aveva impressionato i censori l'uso frequente che Montaigne fa della parola «fortuna», che si sarebbe vista volentieri sostituita dalla parola «Provvidenza». Egli tenne conto, nelle successive edizioni, di alcune delle osservazioni fattegli, ma non si spinse, almeno nella maggior parte dei casi, a quella sostituzione. La parola incriminata, infatti, ricorre assai spesso, e non sempre con senso identico, ma quasi

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sempre confondibile con un concetto di casualità , che era evidentemente quello che più aveva messo in sospetto i censori. Altro segno ancor più tangibile della considerazione di cui fu circondato a Roma, e , anche, della longanimità di cui le autorità ecclesiastiche diedero prova nel giudicare la sua opera , Montaigne ebbe nel diploma di cittadino romano onorario che gli fu consegnato . Ne provò un ' immensa soddisfazione , tanto più che aveva ardentemente desiderato quella distinzione , e si era , occorre dirlo , non poco adoperato per ottenerla. «Ho messo in opera - scrive nel suo diario - tutti quanti i miei cinque sensi per ottenere il titolo di Cittadino Romano non fosse che per l antico onore e per la sacra memoria della sua autorità». Il testo del decreto di cittadinanza egli riproduce in un capitolo intitolato «Della vanità», che è uno degli ultimi dei «Saggi». Dove Montaigne si scopre tutto intero è senza dubbio in quest' opera, che si può considerare l ' unica , e nella quale è depositato il suo pensiero. I «Saggi» dividono la vita di Montaigne in due epoche: quella anteriore al 1571 , l'anno del ritiro , che qualcuno ha definito l'epoca «prima della saggezza», e quella posteriore, tutta, o per la massima parte almeno , trascorsa nella riflessione su avvenimenti e su cose , e che è stata chiamata l ' epoca «dopo la saggezza». Chi dicesse che il periodo più attivo di questa straordinaria personalità di scrittore e di pensatore fu quello nel quale, ritirato nel castello che il padre gli aveva lasciato in eredità, egli stette fermo, quasi separato dal mondo, tutto dedito all 'osservazione della natura e dei sentimenti umani , quali gli si rivelavano dalle persone che avvicinava , non direbbe cosa molto lontana dal vero. Mai quest'uomo appare tanto vicino alla vita pratica come quando ne fu lontano . Nelle sue riflessioni , che traduce in giudizi e conclusioni, egli porta quel senso positivo e realistico che fa della sua filosofia una filosofia prevalentemente pratica, una filosofia dell'esperienza . Si potrebbe pensare che un simile atteggiamento mentale egli abbia derivato in parte dal fatto che i suoi antenati e suo padre stesso si erano dedicati al commercio , e dall ' origine ebraica di sua madre . Che cosa Montaigne si sia proposto , egli lo dice nella prefazione alla prima edizione dei «Saggi». « Con esso - dice al lettore alludendo

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al suo libro - mi sono proposto soltanto uno scopo domestico e privato. Non mi sono affatto proposto di essere utile a te né alla mia gloria. L'ho dedicato all'utile particolare dei miei parenti ed amici: affinché quando mi avranno perduto (cosa che accadrà molto presto) vi possano ritrovare alcuni tratti delle mie qualità e delle mie tendenze, e così conservare più completa e viva la conoscenza che hanno avuta di me». Quando Montaigne cominciò a scrivere, probabilmente non aveva un'idea chiara di quello che poi in realtà fece. Si era chiuso nel suo ritiro per cercarvi sopratutto la tranquillità. Uno spirito così portato all'indagine speculativa e, sopratutto, così equilibrato e rifuggente da ogni violenza, non poteva non trovarsi a disagio in quel torbido periodo che la Francia attraversava con le guerre civili, e in cui la violenza e l'oppressione delle coscienze erano la norma, sotto la specie della lotta religiosa. «Noi possediamo un'anima ripiegatile su se stessa; essa si può far compagnia», scrive in un saggio del primo libro. In quella torre del suo castello, presso ai classici della cui lettura si era nutrito, ebbe l'impressione di essersi quasi allontanato da quel mondo di lotte e di soprusi; fu allora che cominciò, quasi a modo di esercitazione, quell'attività di pensatore, che doveva poi avere orizzonti così vasti e manifestarsi con una potente originalità di forme e di immagini. In principio, a suggerire il tema, furono spesso citazioni di classici, da cui egli prese l'avvio per le sue osservazioni e per quegli accostamenti con la vita del tempo, la quale poi, a mano a mano, fornì direttamente gli spunti. Chi segua lo sviluppo dell'opera, quale a poco a poco si delineò e, sopratutto quale appare nel terzo libro, può accorgersi di come, a grado a grado, egli esprimesse idee sempre più originali, e come la personalità dell'autore sempre più chiara venisse fuori; tanto che lo scopo di ritrarre se stesso soltanto perché il ricordo ne rimanesse ai familiari e a quelli che l'avevano conosciuto, appare travalicato dalla reale consistenza del libro. Del resto, presto egli ebbe forse coscienza, sia pure non netta, che il tema propostosi in principio si era allargato. Ormai si era accinto a studiare quello che egli stesso, come uomo, rappresentava della intera forma umana. Numerosi furono in seguito i rifacimenti e i compie-

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tamenti dopo la prima edizione, e l'opera prende incremento sopratutto quando l ' autore , nel 1585 , ritiratosi di nuovo nel suo castello dopo la parentesi dei quattro anni in cui fu sindaco di Bordeaux, scrisse il terzo libro , fondamentale per la conoscenza completa di questo grande spirito , che si può dire veramente abbia scoperto l ' essere umano , come ha osservato Gide, e che certo ha trovato nella sua opera notazioni di carattere così universale , che ognuno può riconoscervisi per qualche aspetto . Classificare i «Saggi», classificare Montaigne è opera di difficoltà forse insuperabile , e , sopratutto , è opera vana . Questa straordinaria personalità , che , con mezzi in apparenza semplici , con uno stile che può sembrare talvolta dimesso, raggiunge spesso altezze impressionanti per efficacia ed originalità d ' immagini , rivela la sua singolarità anche per il contrasto che rappresenta coi caratteri prevalenti nel tempo in cui visse, e nel quale l'ambizione e la prepotenza erano spesso l'unica spinta all'azione . La natura dolce e temperata di Montaigne, lontana dalle passioni violente , ne fa, in quel tempo di feroci lotte religiose e civili , un pacifico tra i violenti. Che cosa rappresenta Montaigne nella storia letteraria e , più ancora , nella storia del pensiero umano? Sotto il primo aspetto egli certo fu la più grande figura del secolo XVI in Francia ; e l'influenza del suo libro andò oltre i confini del suo paese. Libro squisito , in cui gli argomenti sono presentati con un ' amabilità, una finezza ed uno spirito incomparabili , e in una lingua tutta «inventata», disse molto giustamente Emile Faguet. Per tali sue qualità Montaigne ci ha lasciato un 'opera in cui le numerosi ssime citazioni dei classici non intralciano quasi mai , col peso dell'erudizione , il pensiero. Il quale , peraltro , non è sempre di facilissima accezione , in parte proprio a causa dello stile, del resto inimitabile per robustezza ed efficacia. «Ho per mia indole - egli confessa - uno stile naturale e familiare, ma è una forma tutta mia , inadatta alle trattazioni pubbliche , come in tutte le forme è il mio linguaggio : troppo serrato , disordinato , tronco , tutto particolare». E , ancora : «Ho qualche ragione particolare di non dire che a metà, di dire confusamente , di dire disarmonicamente» . Tutto ciò, del resto, forma gran parte dell'originalità di quello

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stile e del grande interesse che l'opera desta in ogni spirito colto e portato ali' osservazione dei fatti della vita. Per ciò che riguarda il pensiero di Montaigne e quella che si può chiamare la sua filosofia, è bene astrarre subito da qualsiasi intenzione di vedervi un sistema. Alla base di questo pensiero - ha detto molto bene Gide - è il perpetuo mutare di tutte le cose; non può quindi meravigliare come anche in questo campo possa vedersi una certa disarmonia. Montaigne è un eclettico, che si accosta ora ad una scuola, ora ad un'altra, secondo che vi è portato dalle osservazioni che la vita gli suggerisce. Quando si è voluto tracciare, in linee assai ampie, e anche abbastanza approssimative, un certo sviluppo del pensiero dello scrittore, è stato detto che egli, partendo da uno stoicismo, che per certi aspetti potrebbe dirsi più di sentimento che di vero orientamento filosofico, finisce poi per sboccare in un pirronismo scettico, il quale va però anch'esso inteso in un certo senso particolare, aderente sopratutto al significato etimologico della parola, in quanto al fondo di quel pensiero è l 'indagine in se stessa, senza che ci si debba vedere nulla di veramente amaro. Per questo, Montaigne non conclude con la rinuncia ad ogni ricerca in quanto ritenuta vana , ma si esercita continuamente nella critica di tutti i metodi di ricerca, sempre per trovarne uno nuovo. Ad evitare le sconfortanti conseguenze dello scetticismo opera in lui il giudizio, che egli educa con l'osservazione attenta delle cose e degli uomini, continuamente messi a confronto del proprio io; sicché il campo è ognora liberato da incrostazioni che possano rendere statico il pensiero e creargli l'impossibilità della conquista di nuove verità. Egli perviene alla fine, attraverso la continua lettura di quel libro che è il mondo, messo, nel suo saggio sull ' educazione, appunto a fondamento di questa, ad una fase che è stata definita di un realismo politico. La sua conclusione non è quella tipica dello scetticismo: «Non so»; ma piuttosto «Che so?». Si può infatti considerare una confessione di fede il motto Que sais-je? che egli pose in una medaglia da lui fatta coniare nel 1576 e dove è rappresentata una bilancia di cui i due piatti restano in perfetto equilibrio: impossibilità, quindi , del giudizio a pendere verso una soluzione piuttosto che verso un'altra. Il suo spi-

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rito tollerante lo portava ad una reazione all'assolutismo dogmatico trionfante nel suo tempo di lotte religiose, e piuttosto ad una visione tranquilla della vita dell'universo. Questo temperamento fondamentalmente calmo, alieno da qualsiasi scossa violenta, fece sì che anche in religione Montaigne non ebbe passioni violente, né fu animato da quel fanatismo che segnò il carattere delle lotte che si svolgevano in Francia. Mentre avvenivano gli orrori della notte di San Bartolomeo, egli era da un anno nel suo ritiro, e forse, come amò immaginare Giacomo Tauro nel suo interessante studio sullo scrittore, era intento a comporre il suo saggio «Che filosofare è apprendere a morire». Per questa sua natura Montaigne seguì con ammirazione l'opera di Enrico IV che sboccò in quell'Editto di Nantes con cui fu proclamata la tolleranza religiosa, e nel quale da qualcuno è stato visto sostanzialmente il trionfo dello spirito dei «Saggi». L'osservazione si ricollega in qualche modo ad un altro quesito che alcuni esegeti del pensiero di Montaigne si sono posti: se, cioè, egli sia stato un vero cristiano e cattolico. Naturalmente un quesito simile è riferito all'essenza intima del pensiero dello scrittore, che della sua fede, in quanto si manifesta in molte occasioni, non c'è dubbio. Quando egli piegò il capo nella morte, il 13 settembre 1592, nella sua camera un sacerdote celebrava una Messa. Per quella che è appunto l'essenza del pensiero, ha valore il dubbio affacciato da Gide, per il quale evidentemente è difficile trovare concordanza fra un pensiero cristiano ed un pensiero così tinto di pirronismo quale fu quello di Montaigne; ed è anche interessante il giudizio di Sainte-Beuve, il quale lo considera più cattolico che cristiano. Sostanzialmente egli sarebbe stato cattolico in quanto sopratutto vedeva nel cattolicesimo una tutela dell'ordine e del costume preesistenti, turbati dalle guerre civili. Montaigne è essenzialmente un individualista e rappresenta la migliore derivazione dell'umanesimo italiano, penetrato in Francia attraverso le guerre della prima metà del secolo XVI, per le quali quel paese venne a contatto con la civiltà superiore che fioriva in Italia e ne fu conquistato. Fu in quell ' occasione, si può dire , che la Fran-

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eia scoprì l ' Italia e la civiltà italiana. Per questo spirito individualistico e per la comprensione longanime delle tesi contrarie e delle opinioni altrui, che egli ebbe, può ritenersi giusta l'altra osservazione, secondo la quale Montaigne anticipa il liberalismo, che egli sostanzialmente insegna. Un aspetto di questo individualismo è stato imputato all ' autore dei «Saggi» come una manifestazione di egoismo. Ma anche a questo proposito si può dire che lo sforzo di catalogare Montaigne abbia tradito i suoi commentatori e critici. Se si può ammettere che nella sua opera si colga qua e là una punta di amabile egoismo, non è lecito, per questo solo, derivarne una definizione del temperamento dell'autore . Che l'amore non abbia avuto grande importanza nella vita di lui, è innegabile; ma da ciò non deriva necessariamente una definizione di egoista , poiché, se non altro , la contrastano , oltre alle numerose citazioni che si potrebbero fare, l'esemplare amicizia che lo legò a Stefano La Boetie: amicizia profonda , intera, piena di comprensione , che gli dettò uno dei più bei saggi , in cui la commozione e la poesia compongono un vero inno all'amicizia, che ha frequenti ritorni in molti passi degli altri saggi , sempre con commosso rimpianto per la morte di La Boetie . E la contrasta anche il legame spirituale che unì Montaigne a Maria de Coumay, molto più giovane di lui, alla quale si deve l'edizione del 1595 dei «Saggi». Infine è difficile definire egoista l ' autore di un ' opera che può considerarsi tutta un inno alla vita, animato da un amore intenso per la natura e per tutte le cose naturali , per cui la morte stessa è considerata tale, e perciò non spaventosa. La vita , per ,Montaigne , ha la sua più significativa manifestazione nella generazione , intesa come mezzo della continuazione di essa. In questo senso acquista speciale importanza il capitolo «Su alcuni versi di Virgilio» , il quale deve essere inteso come qualche cosa di più vasto e di più profondo che un seguito di variazioni sui rapporti sessuali . Fu Montaigne un moralista ? In un senso molto largo e generico, in considerazione di gran parte della materia trattata, può dirsi di sì; ma se si dovesse pensare ad un suo scopo prefisso , si dovrebbe rispondere di no , in quanto egli cerca soltanto di conoscere , e non di mora-

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lizzare. Ma se anche non gli si deve attribuire un fine moralizzatore, non può negarsi quell' esperienza morale di Montaigne , che , come osservò Sergio Solmi in un suo pregevole studio, tende lentamente ad una totale liberazione dell'individuo, ad una liberazione dalle preoccupazioni dell 'avvenire , prima e dopo la morte, per cui vivere «c 'est non seulement la fondamentale, mais la plus illustre de nos occupations »,con un ideale che si identifica con quella «salute» che egli anteponeva alla gloria , e che , quando fu malato , riceveva, nelle pause del male, come una grazia beatificante , sì da essere considerata dal Solrni stesso come ideale finale di Montaigne; salute che, intesa nel suo senso fisico , sarebbe soltanto una prefigurazione materiale, dovendosi piuttosto considerare come un nativo equilibrio delle facoltà vitali , e, insieme, come una laboriosa formazione morale. Per questo aspetto lo stesso studioso pensa che l'indole di Montaigne sia stata , nonostante la sua formale sottomissione alla Chiesa , essenzialmente irreligiosa, e , come tale, lontana da bisogni religiosi da soddisfare. Si può anche dire che si sia esagerato quando si è voluto vedere al fondo dei «Saggi» un fine pedagogico: non basta certo a stabilire un tal fine il capitolo sull'educazione dei fanciulli , dedicato a Diana de Foix, contessa De Gurson, capitolo che probabilmente, sebbene contenga tanti concetti personali sui metodi d'educazione, fu uno scritto occasionale, e difficilmente può considerarsi come un vero e proprio frammento di un sistema pedagogico . Le molte allusioni al problema educativo non bastano a giustificare uno scopo del genere . Per concludere , possiamo intendere i «Saggi» come una rappresentazione delle reazioni diverse dell'autore davanti ai fatti che a mano a mano gli si presentano ; reazioni attraverso le quali egli ci fa vedere se stesso; e attraverso se stesso ci rappresenta l'uomo medio. Libro affascinante per il contenuto e per la forma personalissima; libro di meditazione , che può ricordare in qualche modo le più famose «confessioni». Il lettore può avvicinarsi ad esso con la fiducia di trovarvi qualche cosa di se stesso, e potrà amarne l' autore in qualsiasi veste egli a quando a quando gli si presenti: con le sue affermazioni e con le sue contraddizioni, con le oscurità che non mancano , come

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lo stesso Montaigne riconosce e che talvolta ne rendono alquanto difficile la penetrazione sicura del pensiero; con le sue digressioni , per le quali gli stessi titoli dei capitoli abbracciano spesso soltanto qualche aspetto della materia, divagando essa, per la maggior parte, per altre vie. Un'attrattiva particolare del libro è anche lo stile così aderente a quello della conversazione, per cui ha ragione Pascal quando afferma che Montaigne è da considerarsi un grande maestro dell'arte di conversare. La presente traduzione è stata condotta sul testo dell ' edizione della Pléiade , curata da Albert Thibaudet e nella quale si tiene conto dei testi delle successive edizioni del 1580 , del 1588 e del 1595 , che furono le basi per quello che è considerato il testo autentico , secondo l' esemplare esistente nella Biblioteca di Bordeaux, pubblicato fra il 1906 e il 1920. Non ho creduto di riportare in nota alcune varianti , perché ho pensato che esse avessero scarso significato in una traduzione. Mi sono largamente servito, per le indicazioni di passi di autori latini e greci citati da Montaigne, di quelle dell'edizione presa come esemplare . Tradurre Montaigne non è impresa facile, oltre che per le frequenti difficoltà di esatta interpretazione del pensiero dell ' autore, per l'impossibilità di riprodurne le infinite peculiarità di stile e di espressione. Fra il metodo della libera traduzione, nell'unico scopo di rendere perfettamente scorrevole e moderno un linguaggio che non è tale, e quello della fedeltà assoluta alla forma originale dell'autore , ho seguito una via intermedia, ma più vicina che fosse possibile alla seconda , qualche volta anche a costo di qualche oscurità, nel timore che, per la via più libera, avrei potuto addirittura tradire il pensiero di Montaigne. Ho deliberatamente mantenuto certe forme sintattiche un po' dure e certe costruzioni per anacoluti , che, del resto, sono accettate anche in italiano : ed ho mantenuto , finché mi è stato possibile, la punteggiatura originale dell'autore, certo anch'essa una peculiarità di lui , anche se egli confessi di essere piuttosto ignorante di quell'arte. Ho creduto utile premettere ai vari capitoli brevissimi riassunti, nell ' intento di presentare , a linee molto larghe, al lettore, l'argomento trattato. A questo punto potrei concludere col dubbio da cui fui preso al

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principio del mio lavoro: era opportuno ritentare, a distanza di tanti anni, di tradurre gli Essais, opera così personale? Il dubbio potrebbe riferirsi a quello che vale per ogni traduzione, se sia cioè opportuno tradurre in altra lingua un'opera d'arte. Mi spinse al tentativo il desiderio che fra noi potesse essere più diffuso un autore, la cui opera è spesso citata, ma pochissimo conosciuta nella sua interezza. E mi spinse a ciò anche quanto lessi in una raccolta di pensieri e di aforismi di Ugo Ojetti, da lui pubblicata quando compì i sessant'anni. Egli, riferendosi ai «Saggi» di Montaigne, come al libro che più l'aveva consolato in questa vita, così manifestò un desiderio per il giorno in cui fosse venuto a morire: «Potessi quella sera portarlo con me e lassù rileggermelo, guardando ogni tanto fra due nuvole la dolce terra ... » Un desiderio che questo libro inimitabile potrà destare in molti, anche in coloro che, pur non potendo consentire in tutti i casi col pensiero dell'autore, certo ne saranno conquistati; e nessuno potrò sentirsi turbato per la scabrosità di certe riflessioni, tanto è il candore con cui l'autore le fa. Virginio Enrico

AVVERTENZA. La sezione successiva è costituita da una scelta di brani tratti dall'edizione integrale dei Saggi a cura di Virginio Enrico, pubblicata in due volumi da Mondadori nel 1986; ad essa si rimanda per quei testi che non sono stati ricompresi nella presente antologia.

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Montaigne I testi - Saggi - Libro I

LIBRO PRIMO I. CON MEZZI DIVERSI SI ARRIVA ALLO STESSO FINE Con esempi storici dimostra il diverso modo di comportarsi degli uomini in contingenze simili. Sia con l'umiltà che con la spavalderia si possono commuovere i potenti.

La maniera più comune di addolcire il cuore di coloro che si è avuto occasione di offendere, quand'essi avendo in pugno il modo di vendicarsi ci tengono in loro possesso, è quella di muoverli a compassione e a pietà con la sottomissione. Tuttavia la spavalderia e la costanza, mezzi in tutto contrastanti fra loro, sono qualche volta serviti ad ottenere il medesimo effetto. Edoardo , principe di Gallesi, che per tanto tempo fu governatore della nostra Guienna, personaggio il cui grado e la cui dignità hanno molti veri aspetti di grandezza, era stato gravemente offeso dai Limosini. Egli, prendendo la loro città con la forza, non fu arrestato dalle grida del popolo e delle donne e dei fanciulli abbandonati al massacro, e che gli chiedevano grazia gettandoglisi ai piedi, se non quando, andando avanti nella città, scorse tre gentiluomini francesi, i quali, con ardimento incredibile, sostenevano da soli l'urto del suo esercito vittorioso. La considerazione e il rispetto destati da un valore così grande fecero d'un tratto spegnere la sua collera; ed egli cominciò, da questi tre, a far grazia a tutti gli altri abitanti della città. Mentre Scanderbeg, sovrano dell'Epiro, insegui-va uno dei suoi soldati per ucciderlo, questi, dopo aver tentato di calmarlo con una infinità di atti di umiltà e di preghiere, decise di affrontarlo alla disperata con la spada in pugno. Quest'atto risoluto troncò all'improvviso la furia del suo capo, il quale, per avergli visto prendere un così onorevole partito, gli fece grazia. Questo esempio potrà avere diversa interpretazione da parte di coloro che non sanno della prodigiosa forza e del valore di quel principe. L'Imperatore Corrado III, stringendo d'assedio Guelfo, duca di Baviera, non volle accondiscendere a più miti condizioni, per quan-

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te vili e disonorevoli soddisfazioni gli si offrissero, se non di permettere alle gentildonne che erano assediate col Duca di uscire a piedi, facendo salvo l'onore, con quello che esse avessero potuto portarsi via addosso. Quelle, con magnanimo cuore , pensarono di caricarsi sulle spalle i loro mariti, i loro figli e il Duca stesso. L'Imperatore si commosse talmente a vedere la grazia del loro coraggio, che ne pianse di gioia, e sentì smorzarsi tutta l'asprezza d'inimicizia mortale e capitale che aveva avuto contro quel Duca, e d'allora in poi trattò umanamente lui e i suoi. L'uno e l'altro di questi due modi l'avrebbero vinta con me. Io ho infatti una straordinaria inclinazione alla pietà e alla mansuetudine. Tanto che, per la mia indole, mi sentirei di cedere piuttosto alla compassione che alla stima: per gli Stoici tuttavia la pietà è passione trista: essi vogliono che si soccorrano gli afflitti, ma non che ci si commuova per essi e che si compatiscano. Ora questi esempi mi sembrano più appropriati; in quanto si vedono anime affrontate e provate con quei due mezzi, e, mentre ne sostengono uno senza commuoversi , cedono all'altro . Si può dire che il piegare il proprio cuore alla commiserazione è effetto di debolezza , di clemenza e di mollezza, per cui accade che le nature più deboli, come quelle delle donne , dei fanciulli e del popolo vi sono più soggette. Ma se si sono avute a sdegno le lagrime e le preghiere, l'arrendersi al solo rispetto della santa immagine della virtù è effetto di un ' anima forte e inflessibile che ama e tiene in onore un vigor maschio e saldo. Tuttavia, fra anime meno generose , lo stupore e l'ammirazione possono far nascere un uguale effetto. Ne è prova il popolo Tebano. Questo , avendo messo in grave stato d'accusa i suoi capitani , per avere essi continuato a tener le loro cariche oltre il tempo che era stato stabilito e predisposto , a stento assolse Pelopida , che si afflosciava sotto le prove di tali accuse e non si difendeva che con preghiere e suppliche. Invece , davanti a Epaminonda, che prese a raccontare pomposamente le cose da lui fatte e a rinfacciarle al popolo in tono fiero e arrogante , non si ebbe neppure il coraggio di prendere in mano le palle per la votazione; e l'assemblea si sciolse con alte lodi del gran coraggio di quel personaggio.

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Dionisio il vecchio, che aveva dopo indugi e difficoltà grandissimi preso la città di Reggio, e con essa il capitano Pitone, uomo assai probo, che l'aveva ostinatamente difesa, volle prenderne lo spunto per un tragico esempio di vendetta. Gli disse, prima di tutto, che il giorno prima gli aveva fatto affogare il figlio e tutti quelli del parentato. Allora Pitone rispose soltanto che essi erano di un giorno più felici di lui. Poi lo fece spogliare e consegnare ai carnefici e lo fece trascinare per la città facendolo frustare ignominiosamente e con somma crudeltà mentre per giunta gli gridavano parole scellerate e offensive. Quello tuttavia mantenne sempre un saldo coraggio, senza perdersi; e con viso fermo andava invece proclamando a voce alta l'onorevole e glorioso motivo della sua morte, il non aver cioè voluto abbandonare il suo paese nelle mani del tiranno; e prospettava a costui la minaccia di una prossima punizione degli Dei. Dionisio, leggendo negli occhi della maggior parte dei suoi soldati che invece di eccitarsi per le minacce di quel nemico vinto, senza riguardo al loro capo e al suo trionfo , essi cominciavano a commuoversi nell'ammirazione d'una sì rara virtù, e stavano per ammutinarsi ed eran pronti magari a strappare Pitone dalle mani dei suoi sgherri, fece cessare quel martirio e di nascosto mandò a far affogare il prigioniero nel mare. Certo che l'uomo è un soggetto straordinariamente vago, vario e sfuggente. È difficile darne un giudizio sicuro e uniforme . Ecco Pompeo perdonare a tutta la città dei Mamertini, contro la quale era fortemente adirato, in considerazione della virtù e magnanimità del cittadino Zenone, il quale si addossava da solo le colpe di tutti e non chiedeva altra grazia che di portarne lui solo la pena. E l'ospite di Silla, che pure aveva dato prova nella città di Perugia della stessa virtù, non ci guadagnò nulla né per sé né per gli altri. Proprio al contrario degli esempi ora da me citati è quello del più valoroso degli uomini e altrettanto magnanimo coi vinti, Alessandro. Egli, che aveva soggiogato dopo grandi difficoltà la città di Gaza, s'incontrò con Beti che ne aveva il comando, e del cui valore egli aveva avuto durante quell 'assedio prove meravigliose. Infatti, rimasto solo, abbandonato dai suoi, le armi spezzate, tutto coperto di sangue e di

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ferite, combatteva ancora, circondato da un folto gruppo di Macedoni, i quali l'incalzavano da ogni parte. Allora Alessandro, sebbene irritato per una vittoria pagata così cara, poiché, fra l'altro, egli aveva avuto di fresco sulla sua persona due ferite, gli disse: Tu, Beti, non morrai come hai voluto; fa' pure conto che dovrai soffrire ogni genere di tormento che potrà essere inventato per un prigioniero. L'altro, con viso non soltanto impavido, ma sdegnoso e altero, si contenne senza dir parola a quelle minacce. Allora Alessandro, di fronte al suo silenzio fiero e ostinato: Ha piegato un ginocchio? Gli è sfuggita qualche parola di supplica? In ogni modo vincerò il tuo silenzio; e se non posso strapparti parole, ti strapperò almeno gemiti. E, voltando la sua collera in rabbia, comandò che gli si trapassassero i talloni, e vivo lo fece trascinare, lacerare, smembrare, tirato dietro una carretta. Forse che l'ardimento gli era così familiare che, non destandogli neppure ammirazione, per ciò stesso meno lo rispettò? Oppure che egli lo stimasse tanto cosa sua da non poter soffrire di vederlo così grande in un altro senza il cruccio di un sentimento d'invidia; oppure che l'impetuosità naturale della sua collera fosse incapace di freno? Peraltro, se essa avesse tollerato un freno, è a credere che l'avrebbe tollerato nella conquista e nella devastazione della città di Tebe, quando stette a guardare mentre erano crudelmente passati a fil di spada tanti valorosi vinti che non avevano ormai alcun mezzo di pubblica difesa. Ne furono infatti uccisi ben seimila, e di essi neppure uno ne fu visto né a fuggire né a domandar grazia, ma, al contrario, a cercare, chi qua, chi là, di affrontare per le strade i nemici vittoriosi, e a provocarli per poter morire di morte onorevole. Nessuno ne fu visto così fiaccato dalle ferite che non tentasse, mentre dava l'ultimo respiro, di vendicarsi ancora di consolare nell'ultimo disperato combattimento la propria morte con la morte di qualcuno dei nemici. La mortificazione della loro forza morale non suscitò alcuna pietà, e non bastò la durata di un giorno a saziare la sua vendetta. Quello scempio durò fino all'ultima goccia di sangue che si trovò da potere spargere, e non si fermò che davanti alle persone disarmate, vecchi, donne e fanciulli, per trarne trentamila schiavi.

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Montaigne I testi - Saggi - Libro I

Il. DELLA TRISTEZZA Diversi modi di manifestare la tristezz.a, e come essa possa moderarsi con la ragione. Io sono affatto esente da questo stato d'animo, e non l'amo e non ne fac-

cio conto , sebbene ci si sia messi ad onorarlo di particolare favore, come cosa assai pregevole. Se ne vestono la saggezza, la virtù, la coscienza: ornamento sciocco e mostruoso. Gli Italiani hanno più propriamente battezzato col suo nome la cattiveria. È infatti una qualità sempre dannosa, sempre folle, e, come qualità vile e bassa, gli Stoici la vogliono lontana dai saggi. Ma si racconta che Psammenito, Re d' Egitto, quando sconfitto e preso prigioniero da Cambise, Re di Persia, si vide passare davanti sua figlia prigioniera, che, in vesti da schiava, era mandata ad attingere acqua, mentre attorno a lui i suoi amici piangevano e si lamentavano, stette zitto senza dir parola, con gli occhi fissi a terra; e vedendo ancora di lì a poco che suo figlio era condotto a morte, mantenne lo stesso contegno; ma quando vide fra i prigionieri uno dei suoi domestici, cominciò a darsi pugni in testa abbandonandosi al più fiero dolore. Questo fatto si potrebbe mettere insieme a ciò che accadde recentemente, di un nostro Principe, il quale, trovandosi a Trento, ebbe notizia della morte del suo fratello maggiore, un fratello che era l'appoggio e l'onore di tutta la sua casata, e, poco dopo, di un fratello minore, che era per lui una seconda speranza. Sopportò con fermezza esemplare questi due colpi, ma, quando dopo qualche giorno, venne a morte uno dei suoi servitori, si lasciò abbattere da quest'ultimo fatto, e, abbandonando il suo fermo contegno , si lasciò andare al dolore e ai lamenti, sì che alcuni ne dedussero che egli non era stato colpito veramente che da quest'ultima scossa'· Ma la verità era che , essendo già pieno di tristezza, il minimo sovracarico spezzò i limiti della sopportazione. Si potrebbe - io dico - ugual giudizio trarre da quanto ho detto, senonché, la storia aggiunge che, domandando Cambise a Psammenito perché non si fosse tanto commosso per la disgrazia del figlio e della figlia e perché non riuscisse invece

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a sopportare quella di un suo amico: «È - rispose - che soltanto quest' ultimo dolore si può esprimere con le lagrime, mentre i due primi superano di gran lunga ogni mezzo di potersi esprimere». Tornerebbe ora forse a proposito la trovata di quell ' antico pittore, il quale, dovendo raffigurare, al sacrificio d' Ifigenia, il dolore degli astanti , secondo il grado dell ' interessamento che ciascuno prendeva alla morte di quella bella fanciulla innocente, ed avendo esaurito ogni possibilità della sua arte , quando si trovò a rappresentare il padre della fanciulla, lo dipinse col viso coperto , come se nessuna espressione potesse rappresentare quel grado di dolore . Ecco perché i poeti immaginano che quella misera madre che fu Niobe, avendo perduto prima sette figli e, in seguito, altrettante figlie, fu infine tramutata in pietra.

Diriguisse malis2. Essi vogliono esprimere quel cupo , muto e sordo stupore che ci agghiaccia quando le disgrazie ci abbattono oltre ogni nostra forza. In verità la forza di un dispiacere, per essere al culmine, deve stordire tutta l'anima e impedirle la libertà delle sue azioni: così ci capita, per l'improvviso colpo di una tremenda notizia, di sentirci presi, messi fuor di sentimento e come paralizzati nei movimenti, sicché l'anima, abbandonandosi poi alle lagrime e ai lamenti, sembra liberarsi , sciogliersi e spaziare e abbandonarsi a suo agio .

Et via vix tandem voci laxata dolore est3. Nella guerra che il Re Ferdinando mosse contro la vedova di Giovanni Re d'Ungheria, intorno a Buda, il capitano tedesco Raisciac , vedendo trasportare il corpo di un cavaliere, che era stato visto condursi in modo eccezionale in battaglia, lo pianse di un compianto normale; ma, curioso come gli altri di sapere chi fosse, quando a quello furono tolte le armi , scoprì che era suo figlio . E , in mezzo al pianto di tutti , lui solo , senza dare né in esclamazioni né in lamenti , stette in piedi , gli occhi fermi , a guardarlo fisso finché la forza del dolore giunse ad agghiacciare i suoi spiriti vitali, e lo fece cadere morto stecchito a terra.

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Chi può dir com' egli arde é in picciol fuoco4 ,

dicono gli innamorati che vogliono descrivere una passione insopportabile: misero quod omnes Eripit sensus mihi. Num simul te, Lesbia, aspexi, nihil est super mi Quod loquar amens Lingua sed torpet, tenuis sub artus Fiamma dimanat, sonitu suopte Tinniunt aures, gemina teguntur Lumina nocte5.

Non è infatti nel vivo e più cocente calore del palpito d' amore che noi siamo capaci di manifestare le nostre doglianze e le nostre idee: l'animo è in quel momento oppresso da profondi pensieri e il corpo abbattuto e languente d' amore. Da questa situazione nasce talvolta la debolezza momentanea che prende così fuor di proposito gli innamorati, e quel gelo da cui sono afferrati per la forza di un ardore veemente, proprio nel colmo del godimento. Ogni passione che, appena gustata, è digerita, non è che mediocre. Curae leves loquuntur, ingentes stupent6.

Nello stesso modo ci stordisce il raggiungimento improvviso di un piacere insperato. Ut me conspexit venientem, et Troia circum Arma amens vidit, magnis exterrita monstris, Diriguit visu in medio, calor ossa reliquit, Labitur, et longo vix tandem tempo re fatur7.

Oltre a quella Romana, che morì d'improvviso per la gioia di veder suo figlio ritornare dalla sconfitta di Canne, a Sofocle e al tiranno Dioni-

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sio che morirono di piacere, e a Talva, il quale morì in Corsica mentre leggeva le notizie degli onori che il Senato di Roma gli aveva decretati, c'è stato nel nostro secolo Papa Leone X, il quale, essendo stato avvertito della presa di Milano, che aveva desiderata con tutte le sue forze, fu preso da tale impeto di gioia, che lo colse la febbre e ne morì. A miglior testimonianza dell'umana debolezza, è stato anche raccontato dagli antichi che Diodoro il Dialettico morì improvvisamente, colto da infinito senso di vergogna per il fatto di non poter risolvere una questione che gli era stata posta. Io sono poco soggetto a queste violente passioni. Ho sensibilità tarda per natura; e la fodero e la ispessisco ogni giorno col raziocinio.

XIV. COME IL SAPORE DEL BENE E DEL MALE DIPENDE IN BUONA PARTE DALL'OPINIONE CHE NE ABBIAMO Ciò che noi chiamiamo male non lo è in se stesso: dipende dalla disposizione d'animo che abbiamo il sopportarlo più o meno fortemente. Anche di fronte alla morte alcuni si turbano e altri rimangono impavidi e talvolta diventano sprezzanti. Gli uomini, nella morte, danno importanza sopratutto al dolore, e si spaventano sopratutto di quello. Tanto più la mente è sveglia, tanto più acutamente si sente il dolore; e tanto meno si sente quanto più siamo decisi ad affrontarlo, come dimostrano tanti esempi di uomini che, per devozione, se lo provocano. Considerazioni sull'indigenza e sulle vie che possono portarvi. Gli uomini (dice un'antica sentenza greca), sono tormentati dalle opinioni che hanno delle cose, non dalle cose per se stesse. Farebbe un gran passo, per il sollievo della nostra miserevole condizione umana, chi potesse rendere questa proposizione vera in tutto e per tutto. Infatti se i mali non hanno accesso in noi che attraverso il nostro giudizio, sembra che sia in nostro potere averli in disprezzo o volgerli a bene. Se le cose si mettono alla nostra mercé, perché non le governeremo o non le volgeremo a nostro vantaggio? Se ciò che chiamiamo male e tormento non è di per se stesso né male né tormento, bensì soltanto in quanto la nostra immaginazione gli dà questa qualità, sta in noi cambiarla. E, avendone

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Montaigne I testi - Saggi - Libro I

la scelta, se nessuno ci costringe, noi siamo follj oltre mjsura ad ostinarci nel partito che ci è più fastidioso, e dj dare alle malattie, all'indjgenza e allo scherno un gusto aspro e cattivo, se possiamo darglielo buono; e, del resto, se la natura ci fornisce semplicemente la materia, sta a noi di darle la forma. Ora che ciò che noi chjamiamo male non lo sia di per se stesso, o per lo meno non lo sia tale qual è, e che dipenda da noi di dargli un altro sapore e un altro aspetto, poiché è la stessa cosa, vediamo se ci riesce di sostenerlo. Se l'essenza originale ili quelle cose ili cui noi abbiamo timore avesse potere ili allogarsi in noi di propria autorità, essa si allogherebbe in tutto uguale in tutti : poiché gli uomini sono tutti di una specie, e, salvo il più e il meno , sono forniti dj eguali organi e strumenti per intendere e giudjcare. Ma la diversità delle opilioni che noi abbiamo ili tali cose mostra chiaramente che esse entrano in noi solo per un accordo: un tale per avventura le alberga in sé nel loro vero essere, ma mille altri danno a quelle un 'essenza nuova e djversa. Ma consideriamo la morte, la povertà e il dolore come i nostri principali nemici . Ora quella morte che alcunj chjamano la più orribile delle cose orribili , chi non sa che altri la chiamano l'unico rifugio dai tormenti ili questa vita, e il bene sovrano della natura, il solo sostegno della nostra libertà? E comune e pronto riparo a tutti i mali? E come alcuni l'aspettano tremanti e spauriti, altri la sopportano più facilmente che la vita. Quello là si lamenta della sua debolezza:

Mors, utinam pavidos vita subducere nolles, Sed virtus te sola daret' . Ma lasciamo da parte questo coraggio degno di gloria: Teodoro a Lisimaco che minacciava di ucciderlo disse: Tu farai un gran colpo se arriverai ad avere la forza di una cantaride. La maggior parte dei filosofi si sa che hanno o prevenuto volontariamente o affrettato e aiutato la morte. Quante persone comuni si vedono, condotte alla morte, e non ad una morte semplice ma mescolata di vergogna e di gravi tormenti , portarsi con tale fermezza, chi per ostinatezza, chi per naturale tranquillità , da non scor-

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gere in essi niente di mutato dal loro aspetto abituale e regolano i loro affari domestici e si raccomandano ai loro amici, e cantano e arringano e intrattengono il popolo. Qualche volta addirittura vi mettono in mezzo parole scherzose, e bevono alla salute dei loro conoscenti, proprio come fece Socrate. Uno che stavano conducendo al patibolo, disse di non passare per quella tale strada, perché c' era pericolo che qualche mercante lo facesse prendere per il collarino a causa di un vecchio debito . Un altro disse al carnefice di non toccarlo alla gola , per timore che lo facesse saltare dal ridere , tanto soffriva il solletico. Quell'altro rispose al suo confessore , il quale gli prometteva che avrebbe cenato quel giorno con nostro Signore: Andateci voi, ché io , per parte mia, faccio digiuno . Un altro , che aveva domandato da bere, avendo prima di lui bevuto il carnefice, disse di non voler bere dopo quello, per paura di prendersi la sifilide. Tutti hanno sentito raccontare del Piccardo al quale, mentre era presso la forca , fu presentata una ragazza, dicendogli (come la nostra legge qualche volta permette) che gli si sarebbe salvata la vita se l'avesse voluta sposare. Quello, dopo averla contemplata un po ' e aver visto che zoppicava: Attacca, attacca, disse, è zoppa. Si dice pure che in Danimarca un uomo condannato al taglio della testa, quando, mentre era sul patibolo, gli fu presentata una simile combinazione, la rifiutò perché la ragazza che gli era offerta aveva le gote vizze e il naso troppo puntuto . A Tolosa un servo, accusato di eresia, per giustificare la sua fede, si riferiva a quella del suo padrone, giovane studente prigioniero con lui; e amò meglio morire che lasciarsi persuadere che il suo padrone potesse sbagliare . Leggiamo che degli abitanti della città di Arras , quando il Re Luigi Undecimo la prese , ce ne furono fra il popolo parecchi i quali si fecero impiccare piuttosto che dire: Viva il Re. Nel regno di Narsinga ancora oggi le mogli dei sacerdoti sono seppellite vive coi loro mariti quando questi vengono a morire. Tutte le altre donne si fanno bruciar vive non solo con coraggio , ma con gioia ai funerali dei lor mariti. E quando si brucia il corpo del loro Re morto , tutte le sue mogli e concubine, i suoi favoriti e ogni sorta di ufficiali e servitori che formano un popolo, accorrono con tanta letizia a quel fuoco per gettarvisi insieme col loro padrone , che sembrano tenere ad onore l'essergli compagni nel trapasso.

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E di quelle vili anime che sono i buffoni se ne sono trovati alcuni che non hanno voluto abbandonare i loro lazzi neppure nella morte. Quel tale a cui il carnefice menava il colpo gridò un suo abituale ritornello: Forza col remo. Quell'altro che in punto di morte era stato adagiato su un pagliericcio presso il focolare , quando il medico gli domandò dove si sentiva male: Fra la panca e il fuoco, rispose. E mentre il prete, per dargli I' estrema unzione, gli cercava i piedi, che quello teneva serrati e contratti per il male, disse: Li troverete alla fine delle mie gambe. Alla persona che l'esortava a raccomandarsi a Dio: Chi ci va? domandò; e siccome l'altro rispose: Presto sarete voi stesso, se vi piace; egli replicò: Ci potessi essere almeno domani sera. Raccomandatevi soltanto a lui, seguitò l'altro, e ci sarete prestissimo. Allora è meglio, aggiunse, che gli porti la raccomandazione io stesso . Durante le nostre ultime guerre di Milano in tante conquiste e riconquiste, il popolo, impazientito di così vari mutamenti di fortuna, acquistò tal coraggio di fronte alla morte, che ho udito dire da mio padre di avere sentito raccontare di ben venticinque capi famiglia che in una settimana si erano uccisi. Tal caso somiglia a quello di Zante , i cui abitanti , assediati da Bruto, si lasciarono andare tutti , uomini , donne e fanciulli ad una cupidigia di morire così sfrenata, che nulla si fa per sfuggire alla morte, quanto essi non facessero per sfuggire la vita. In tal modo Bruto ne poté salvare appena un piccolissimo numero. Ogni fede è abbastanza forte da farsi abbracciare a prezzo della vita . Il primo punto di quel bel giuramento che la Grecia fece e mantenne nella guerra coi Medi, fu che ciascuno avrebbe cambiato con la morte la vita piuttosto che le leggi persiane con le leggi di quelli. Quanta gente nella guerra fra Turchi e Greci non vediamo accettare durissima morte piuttosto che circoncidersi per battezzarsi? Esempio di cui nessuna sorta di religione è incapace. Quando i Re di Castiglia bandirono dalle loro terre i Giudei , il Re Giovanni di Portogallo vendette loro a otto scudi a persona l'asilo nelle sue , a condizione che in un certo giorno essi le avreb'-' bero evacuate. Ed egli prometteva di fornire loro le navi per trasportarli in Africa . Venuto l ' ultimo giorno , dopo il quale era stabilito che quelli che non avessero obbedito sarebbero rimasti schiavi, le navi furono loro fornite in misura scarsa. Quelli che vi si imbarcarono furono trattati

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rozzamente e villanamente dai passeggeri che, oltre a far loro numerose altre cose indegne, li portarono avanti e indietro per il mare, finché quelli avessero consumato i loro viveri e fossero costretti ad acquistarne da loro a prezzi sì cari e per tanto tempo finché non spirarono a bordo dopo essere stati ridotti addirittura in camicia. Riferita la notizia di questa inumanità a coloro che erano a terra, la maggior parte si diedero schiavi: alcuni fecero sembiante di cambiare religione. Emanuele, salito al trono, prima li mise in libertà; cambiando poi avviso, diede loro il tempo di sgombrare i loro paesi, fissando tre porti per l'imbarco. Sperava, dice il vescovo Osorio, il migliore storico latino dei nostri tempi, che il vantaggio della libertà che aveva loro restituita, dopo aver tentato invano di convertirli al Cristianesimo, e il timore di restar vittime, come i compagni, del ladrocinio dei marinai, e di abbandonare un paese dove erano abituati a vivere fra grandi ricchezze, ve li avrebbe ricondotti. Ma, vedendosi deluso nella sua speranza, e quelli assolutamente decisi ad imbarcarsi, egli chiuse loro due dei porti che aveva promessi nella speranza che la lunghezza e il disagio del viaggio ne distogliesse qualcuno; oppure per ammassarli tutti in un luogo per avere maggiore comodità nella punizione che aveva decisa. E fu che ordinò che si strappassero dalle braccia dei padri e delle madri tutti i fanciulli al disotto dei quattordici anni per trasportarli lontani dalla loro vista e dal loro contatto, in luogo dove fossero istruiti nella nostra religione. Dicono che questo fatto creasse un orribile spettacolo, dato che il naturale affetto fra padri e figli, e ancor più l'attaccamento alla loro antica fede si opposero a quest'ordine crudele. Li videro in generale, padri e madri, darsi la morte: e, fatto ancora più orrendo, precipitare per amore e compassione i loro piccoli figli nei pozzi per sottrarli a quella legge. I rimanenti, spirato il termine che egli aveva fissato loro, per mancanza di mezzi, si riassoggettarono alla servitù. Alcuni si fecero Cristiani: ma della fede di questi, o di quelli della loro discendenza, ancora oggi, vent'anni dopo, pochi Portoghesi si fidano, sebbene l'abitudine e il passar del tempo siano consiglieri assai più forti di qualsiasi altra condizione. «Quoties non modo ductores nostri, dice Cicerone, sed universi etiam exercitus ad non dubiam mortem concurrerunt»2. Ho visto qualcuno dei miei amici intimi3 andare incontro alla morte con

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slancio, con un piacere sincero e radicato nel cuore come si poteva capire da diversi discorsi a cui io non fui capace di replicare; e alla prima che gli si offrì adorna dell'attrattiva dell' onore, precipitarvisi senza alcuna riflessione, con una fame lacerante e ardente. Abbiamo nella nostra epoca parecchi esempi di alcuni, perfino fanciulli, che, per il timore di qualche piccola difficoltà, si sono dati la morte. E a questo proposito, che cosa non paventeremo, dice un antico, se noi paventiamo quello che la stessa codardia ha scelto per suo rifugio? Non mi sarei messo mai ad elencare qui le persone di tutti i sessi e condizioni e di tutte le sette fin dai tempi più felici , che hanno o atteso la morte con fermezza o l'hanno cercata volontariamente, e non soltanto per fuggire i mali di questa vita, ma alcuni per fuggire semplicemente la stanchezza di vivere e altri per la speranza di una condizione migliore altrove. N'è così infinito il numero che in verità mi sarebbe più facile fare una lista di quelli che ne hanno avuto paura. Questa cosa soltanto. Il filosofo Pirrone, trovandosi in giorno di grande tormenta in un battello, mostrava a quelli che vedeva più atterriti intorno a lui un porco, che non era affatto preoccupato di quella tempesta, e con quell 'esempio li incoraggiava. Oseremo dunque dire che quella superiorità della ragione della quale meniamo tanto vanto, e per motivo della quale ci riteniamo padroni e sovrani del resto delle creature , sia stata messa in noi per il nostro tormento? A che cosa serve avere la conoscenza delle cose, se vi perdiamo il riposo e la tranquillità; dove saremmo senza questa conoscenza e se essa dovesse metterci in condizione peggiore di quella del porco di Pirrone? L' intelligenza che ci è stata data come il nostro più grande bene, l'impiegheremo noi per rovinarci, per combattere quanto natura ha predisposto e contrastare l'universale ordine delle cose, il quale vuole che ciascuno usi dei suoi strumenti e mezzi per il proprio vantaggio? Va bene, mi si dirà, la vostra regola serve per la morte; ma che direte della povertà? che direte ancora del dolore, che Aristippo, Girolamo e la maggior parte dei saggi hanno stimato il male supremo; e quelli che lo negavano a parole lo confessavano coi fatti? Mentre Posidonio era tormentato in modo indicibile da un male acuto e doloroso , Pompeo andò a trovarlo, e si scusò d' aver colto un momento così inopportuno per ascoltarlo ragionare di filosofia. Dio non voglia, gli disse Posidonio, che il dolo-

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re possa tanto su di me , da impedirmi di conversarne e di parlarne! E si gettò proprio sull'argomento del disprezzo del dolore. Ma intanto questo andava per conto suo e lo tormentava incessantemente. Perciò egli esclamò ad un certo punto: Tu hai un bel fare , dolore , eppure io non dirò che tu sei male . Questo racconto a cui danno tanto valore che argomento porta a far disprezzare il dolore? Quegli non ragiona che sulla parola, e, allora, se i tormenti non lo turbano , perché interrompe il suo ragionare? Perché pensa di far molto non chiamandolo male? In questo argomento non tutto consiste nell'immaginazione. Noi crediamo, del resto, che sia una scienza sicura a sostener la sua parte. Gli stessi nostri sensi ne sono giudici . Qui nisi sunt veri, ratio quoque falsa sit omnis4. Daremo ad intendere alla nostra pelle che i colpi di staffile le fanno il solletico? E al nostro gusto che l'aloe sia un vino di gran pregio? Il porco di Pirrone qui è in nostra compagnia. È vero che non ha paura della morte, ma se uno lo batte, esso grida e dà in smanie. Sforzeremo la comune abitudine naturale, che si può vedere in ogni essere vivente sotto il cielo, cioè di tre-mare sotto il dolore? Gli alberi stessi sembrano gemere ai colpi che ricevono. Conosciamo la morte solo per i ragionamenti che se ne fanno , mentre è questione di un istante: Aut fuit , aut ve niet, nihil est praesentis in illa5. Morsque minus poenae quam mora mortis habet6. Mille bestie, mille uomini sono morti per non essere maltrattati. E invero quello che noi diciamo principalmente di temere nella morte, è il dolore, cioè il suo abituale battistrada. Tuttavia, se si deve credere ad un santo padre: «Malam mortem nonfacit, nisi quod sequitur mortem»7. E io dirò anche più verosimilmente che né quello che precede , né quello che vien dopo ha a che fare con la morte. Noi ci giustifichiamo con delle falsità. Per esperienza io credo che è piuttosto l'insofferenza del pensiero della morte a renderci insofferenti del

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dolore, e che noi lo sentiamo doppiamente forte per il fatto che esso ci fa minaccia di morte. Ma, dato che la ragione ci accusa di viltà perché temiamo una cosa che è così subitanea, così inevitabile, così inafferrabile, noi prendiamo quest'altro pretesto più accettabile. Tutti i mali che non presentano altro pericolo al di fuori del male, li diciamo senza pericolo; quello dei denti o della gotta, per forte che sia, dato che non è omicida, chi lo considera una malattia? Ora è certo che nella morte consideriamo principalmente il dolore. E così pure la povertà non ha niente di temibile se non questo, che ci afferra fra le sue braccia con la sete, la fame, il freddo, il caldo, le veglie che ci fa subire. E sia pure che non abbiamo da occuparci che del dolore. Concedo, e anche volentieri, che sia il peggiore accidente della nostra esistenza: io, del resto, sono in questo mondo un uomo che lo odia e lo fugge per il fatto di non aver avuto finora, grazie a Dio, grandi rapporti con esso. Ma sta in noi se non di annullarlo, per lo meno di impiccolirlo con la pazienza, e quand'anche il corpo ne fosse scosso, di mantenere tuttavia l'anima e la ragione ben temprate. E se questo non fosse, chi avrebbe, fra noi, tenuto in conto la virtù, il valore, la forza, la magnanimità e la risolutezza? Dove queste cose sosterrebbero la loro parte se non si dovesse più temere il dolore: «avida est pericoli virtus»8. Se non ci fosse da dormire sul duro, da sopportare con tutte le armi addosso il calore di mezzogiorno, da nutrirsi di cavallo e di asino, da vedersi fare a pezzi e trarre una palla di fra le ossa, da sopportare suture, cauterizzazioni e sonde, da dove ci verrebbe la superiorità che vogliamo avere sugli uomini del volgo? ben altro che fuggire il male e il dolore, quel che dicono i saggi, che cioè delle azioni ugualmente meritevoli, è preferibile a compiersi quella in cui c'è più pena. «Non enim hilaritate, nec lascivia, nec risu, aut joco comi te levitatis, sed saepe etiam tristes firmi tate et constantia sunt beati9. Per questa ragione è stato impossibile persuadere i nostri padri che le conquiste fatte a viva forza nel rischio della guerra non fossero più pregevoli di quelle fatte in tutta sicurezza con trattative e raggiri: Laetius est, quoties magno sibi constat honestumlO.

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Ancor più ci deve confortare questo: che per natura, se il dolore è violento, è più corto; se è di lunga durata, è leggero, «si gravis brevis, si longus levis» II, Non lo sentirai certo per molto tempo , se lo senti troppo; esso porterà o la fine sua o la fine tua: l'una cosa e l'altra si risolvono nella stessa. Se tu non lo sopporti, esso porterà via te . «Memineris maximos morte finiri ; parvos multa habere intervalla requietis; mediorum nos esse dominos: ut si tolerabiles sintferamus, sin minus, e vita quum ea non placeat, tanquam e theatro exeamus» 12. Quel che ci fa sopportare con tanto poca pazienza il dolore è il non essere abituati a trovare la principale nostra soddisfazione nell'anima, il non fare abbastanza conto di essa, che è sola e padrona assoluta della nostra condizione e della nostra esistenza. Il corpo non ha, salvo il più e il meno, che un procedere e un andamento. Essa invece è variabile in ogni sorta di aspetti, e conforma a sé e al suo stato, qualsivoglia esso sia, i sentimenti del corpo e tutti gli altri accidenti. Perciò bisogna studiarla e indagarla, ed eccitare in essa le sue potentissime molle. Non c'è ragione, né ordine, né forza che abbia potere contro la sua inclinazione e il suo discernimento . Di tante migliaia di mezzi che essa ha a sua disposizione, diamogliene uno adatto alla nostra conservazione , e saremo non soltanto protetti da ogni colpo, ma favoriti e lusingati , se essa acconsente, contro le offese e i mali. Essa trae profitto indifferentemente da tutto. L'errore, le illusioni le sono utili, come materia schietta per garantirci e soddisfarci. facile vedere come ciò che acuisce in noi il dolore e il piacere sia l' acutezza del nostro intelletto. Le bestie che lo tengono al guinzaglio, affidano al corpo i loro sensi liberi e spontanei, e per conseguenza identici press' a poco in tutte le razze, come noi vediamo dalla manifestazione simile dei loro impulsi. Se noi non turbassimo nelle nostre membra la giurisdizione che è ad esse riservata in quel campo, è da credere che ci troveremo meglio , e che la natura abbia dato ad esse una giusta e moderata inclinazione al piacere e al dolore. E non può non esser giusta, dato che è uguale e generale. Ma se ci siamo emancipati dalle sue regole, per abbandonarci alla vagabonda libertà delle nostre fantasie , almeno cerchiamo di piegarle dalla parte più piacevole. Platone teme per il nostro violento trasporto al dolore e al piacere, poi-

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ché esso obbliga e attacca troppo l'anima al corpo. Io sono di contrario avviso, perché l'allontana e la distacca. Proprio come il nemico si fa più accanito se fuggiamo, così il dolore s'inorgoglisce a vederci tremare sotto di lui. Esso si mostrerà assai più arrendevole con chi gli terrà testa. Bisogna opporglisi e contrastarlo. Rincattucciandoci e tirandoci indietro, chiamiamo verso di noi e attiriamo la rovina che ci minaccia. Come il corpo è più saldo all'attacco se l'irrigidiamo, così è l'anima. Ma veniamo agli esempi, i quali rappresentano propriamente la selvaggina delle persone deboli di reni, come me, e in cui vedremo che succede del dolore come delle pietre che prendono colore o più splendente o più fosco secondo il metallo su cui le mettiamo, e che esso occupa in noi soltanto il posto che gli facciamo. «Tantum doluerunt, dice S. Agostino, quantum doloribus se inseruerunt»l3. Noi sentiamo più un colpo di bisturi del chirurgo che dieci colpi di spada quando siamo nel calore del combattimento. I dolori del parto, ritenuti grandi dai medici e da Dio stesso, e che noi subiamo con tante cerimonie, ci sono interi popoli che non ne fanno alcun conto. Lascio da parte le donne Spartane, ma in quelle Svizzere, che vanno coi nostri soldati di fanteria, che diversità vi trovate? Nient'altro che, mentre trottano appresso ai loro mariti, voi le vedete portare in collo oggi il bambino che ieri avevano nel ventre. E quelle Egiziane deformi, che, mescolate in mezzo a noi, vanno esse stesse a lavare subito dopo che i loro bambini sono nati e prendono il bagno nel torrente più vicino. Oltre a tante ragazze che ogni giorno fanno sparire i loro bambini sia nella nascita che nel concepimento, l'onesta moglie di Sabino, patrizio romano, nell'interesse di altri, sopportò le doglie del parto di due gemelli, da sola, senza assistenza e senza grida né gemiti. Un fanciullo qualsiasi di Sparta, che aveva rubato una volpe (dato che essi temevano ancor più la vergogna della propria stoltezza nel rubare di quanto noi non ne temiamo la condanna) avendola messa sotto il vestito, sopportò che quella gli rodesse il ventre, piuttosto che scoprirsi. E un altro al quale, mentre dava l'incenso in un sacrificio, il carbone era caduto nella manica, si lasciò bruciare fino all'osso per non disturbare il rito. E si son visti tanti i quali per sola prova di virtù, secondo le regole della propria istituzione, hanno sopportato all'età di sette anni di esse-

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re frustati a morte senza scomporsi nel viso. E Cicerone ne ha visti lottare a schiere: coi pugni, coi piedi e coi denti fino a venir meno piuttosto che darsi per vinti. «Nunquam naturam mos vinceret est enim ea semper invicta: sed nos umbris, deliciis, otio, languore, desidia animum infecimus; opinionibus maloque more delinitum mollivimus»14. Ognuno sa la storia di Scevola che, introdottosi nel campo nemico per ucciderne il capo e avendo fallito il colpo, per riacquistare il suo prestigio con una trovata straordinaria e per riabilitare la sua patria, confessò a Porsenna, il quale era il Re che egli voleva uccidere, non solo il suo proposito, ma aggiunse che nel suo campo c'erano un gran numero di Romani disposti a far quello che voleva far lui. E per mostrare di che tempra fosse, fattosi portare un braciere, vide e sopportò che il suo braccio bruciasse e si arrostisse, finché lo stesso nemico per l'orrore comandò di togliere via il braciere. E che dire di colui che non si degnò di interrompere la lettura del suo libro mentre stavano operandolo? E quello che resisté a burlarsi e a ridere del male che gli veniva fatto: di guisa che la crudeltà inasprita dei carnefici nelle cui mani si trovava, e tutte le invenzioni dei tormenti raddoppiati uno sull'altro gliela diedero vinta. Ma quello era un filosofo. E che? un gladiatore di Cesare sopportò sempre ridendo che gli specillassero le ferite e lo tagliassero. «Quis mediocris gladiator ingemuit; quis vultum mutavit unquam? Quis non modo stetit, verum etiam decubuit turpiter? Quis cum decubuisset.ferrum recipe re jussus, collum contraxit?» 15. Mettiamoci in mezzo anche le donne. Chi non ha sentito parlare a Parigi di quella che si fece scorticare solo per ottenerne la tinta più fresca di una nuova pelle? Ce ne sono di quelle che si sono fatti strappare denti vivi e sani per avere la voce più dolce e più morbida, o per averli più pareggiati: Quanti esempi del disprezzo del dolore abbiamo in questo genere di cose? Che cosa non possono le donne? Che cosa temono? per poco miglioramento che ci sia da sperare nella loro bellezza:

Veliere queis cura est albos a stirpe capillos Et faciem dempta pelle referre novam16. Ne ho viste inghiottire sabbia e cenere e travagliarsi al punto da rovinarsi lo stomaco per acquistare un color pallido. Per fare un corpo proprio

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alla spagnola quale tortura non soffrono esse, pressate e incinghiate, piene di intaccature sui fianchi, fino alla carne viva? Qualche volta proprio fino a morirne.

È costume di molti popoli del nostro tempo di ferirsi volontariamente per tener fede alla propria parola; e il nostro Re cita illustri esempi di ciò che ha visto in proposito in Polonia e anche riguardo a se stessol7. Ma, oltre a ciò che io so avere qualcuna imitato da alcuni in Francia, ho visto una ragazza, per provare la sincerità delle sue promesse e anche la sua fermezza, con lo spillone che portava nei capelli darsi al braccio quattro o cinque buoni colpi , che le fecero crepare la pelle e la fecero sanguinare, come, del resto, essa voleva. I Turchi si fanno sulla pelle grandi ferite per le loro dame , e, perché il segno vi rimanga, mettono subito sulla piaga del.fuoco e ve lo tengono per un tempo incredibile, per arrestare il sangue e formare la cicatrice. Persone che hanno visto ciò l' hanno scritto e me l'hanno giurato. Ma per il compenso di dieci aspri si trova sempre fra quelli chi si farà un taglio assai profondo nel braccio o nelle cosce. Sono assai contento che le prove ci sono più alla mano dove ne abbiamo più bisogno: e il Cristianesimo ce ne fornisce a sufficienza. Sull'esempio della nostra santa guida, ce ne sono stati molti che per devozione hanno voluto portare la croce. Sappiamo, per testimonianza degnissima di fede, che il Re San Luigi portò il cilicio finché, nella vecchiaia il suo confessore non lo dispensò; e che tutti i venerdì si faceva flagellare le spalle dal suo sacerdote con cinque catenelle di ferro , che a questo fine portava sempre

in una scatola. Guglielmo, il nostro ultimo Duca di Guienna, padre di quella Eleonora che trasmise quel Ducato alle case di Francia e d 'Inghilterra, portò negli ultimi dieci o dodici anni di sua vita continuamente per penitenza una corazza sotto un abito da religioso. Folco, Conte d ' Angiò, andò fino a Gerusalemme per farvisi frustare da due dei suoi valletti , la corda al collo , davanti al Sepolcro di Nostro Signore. Ma non si vede ancora sempre il Venerdì Santo in diversi luoghi un gran numero di uomini e di donne battersi fino a strapparsi la carne e bucarla fino all'osso? Questo l'ho visto spesso io e senza estasiarmici: si diceva anzi (dato che costoro sono mascherati) che ce n 'erano di quelli i quali per denaro lo facevano per testimoniare della religione di altri, con un disprezzo del dolore tanto maggiore in quanto possono più gli stimoli della devozione che dell'avarizia.

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Q. Massimo seppellì suo figlio che era consolare, M. Catone il suo che era pretore designato; e L. Paolo i suoi due nello spazio di pochi giorni, mantenendo un aspetto calmo e non dando alcun segno di dolore. Io ho detto motteggiando, di qualcuno dei miei tempi, che aveva beffato la giustizia divina: infatti, essendogli stata annunciata in un giorno la morte violenta di tre figli grandi, avvenuta, come pare, per un feroce colpo di sferza, poco mancò che non la prese per un regalo . Io stesso ne ho perduti, ma mentre erano a balia, due o tre, non dico senza dispiacere, per lo meno senza disperazione. E sì che non c'è altro fatto che tocchi più nel vivo gli uomini. Vedo parecchie altre occasioni comuni di dolore, che io sentirei appena, se mi capitassero, e le ho disprezzate quando mi sono capitate; di quelle alle quali la gente attribuisce un 'immagine così atroce, che non oserei vantarmene davanti al mondo senza arrossire.

«Ex quo intelligitur non in natura, sed in opinione esse aegritudinem»18 . L'opinione è una cosa potente, temeraria, e senza misura. Chi mai cercò con tanta ansia la tranquillità e il riposo, quanto Alessandro e Cesare hanno cercato l'inquietudine e le difficoltà! Terete, padre di Sitalce, soleva dire che quando non faceva la guerra gli sembrava che non ci fosse alcuna differenza fra lui e il suo palafreniere. Dopo che Catone, da console, per essere sicuro di alcune città di Spagna aveva proibito ai loro abitanti di portare le armi , molti si uccisero: ll. Lo sa Iddio, nella nostra presente discussione, in cui c'è da sottrarre e riproporre cento proposizioni grandi e profonde, quanti sono a potersi vantare di avere conosciuto con precisione le ragioni e le basi dell'uno e dell'altro partito. Essi rappresentano un numero, se pure è un numero, che non avrebbe molto maniera di sconvolgerci. Ma tutta quell'altra folla dove va? sotto quale insegna si getta nella battaglia? Capita alla loro come alle altre medicine deboli e male applicate: gli umori di cui essa ci voleva purgare li ha invece riscaldati, esasperati ed acuiti col conflitto, e così c'è rimasta nel corpo. Essa per la sua debolezza non ha saputo purgarci, e così ci ha indeboliti, in maniera che non la possiamo più evacuare e non ricaviamo dalla sua opera che lunghi dolori interni. È vero che il caso, riservandosi sempre l'autorità sui nostri ragionamenti, ci prospetta alcune volte

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Montaigne 2 9 7 I testi - Saggi - Libro I

necessità così urgenti, che occorre che le leggi gli facciano un po' di posto. E quando ci si oppone allo sviluppo di una innovazione introdotta con la violenza, il tenersi, in tutto e per tutto, a freno e nelle regole, contro coloro che possono andare dove vogliono e ai quali è lecito tutto quello che può giovare al loro proposito, che non hanno altra legge né altro ordine se non di fare il loro utile, è un impegno pericoloso e un'ingiustizia: >l9? Perché li priviamo di anima e di vita, e di intelletto? Vi abbiamo osservato una certa stupidità immobile e insensibile, noi che non abbiamo alcuna comunione con essi, se non d'obbedienza? Diremo che non abbiamo visto in nessun'altra creatura se non nell ' uomo l'impiego di un'anima ragionevole? E che! abbiamo visto qualche cosa di simile nel sole? Cessa questo di esistere perché noi non abbiamo visto niente di simile? e i movimenti cessano di essere, perché non ce ne sono affatto di simili? Se ciò che non abbiamo veduto non esiste, la nostra conoscenza è straordinariamente corta: «Quae sunt tantae animi angustiae»20! Non sono sogni della vanità umana, fare della Luna una terra celeste, immaginarvi montagne, vallate, come fa Anassagora? piantarvi abitazioni e dimore umane e stabilirvi colonie per nostra comodità, come fanno Platone e Plutarco? e fare della nostra terra un astro illuminante e luminoso? «Inter coetera mortalitatis incommoda et hoc est, calligo mentium, nec tantum necessitas errandi sed errorum amor21. Corruptibile corpus aggrava! animam, et deprimit terrena inhabitatio sensum multa cogitantem»22. La presunzione è nostra malattia naturale ed originale. La più disgraziata e fragile di tutte le creature è l'uomo, e nello stesso tempo la più orgogliosa. Essa si sente e si vede collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo, unita e connessa alla peggiore, più morta e corrotta parte

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dell'universo, all'ultimo piano della casa e nel più lontano dalla voltaceleste, con gli animali della peggiore specie delle tre; e vuol piantarsi con l'immaginazione al disopra del cerchio della Luna e vuol mettersi il cielo sotto i piedi. È per la vanità di quella stessa immaginazione che si paragona a Dio, che si attribuisce i caratteri divini, che presceglie se stesso e si divide dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi confratelli e compagni e distribuisce loro una o l'altra porzione di poteri e di forze, secondo che gli par bene. In che modo viene egli a conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? per quale confronto fra essi e noi viene a concludere della bestialità che attribuisce loro? Quando io mi diverto con la mia gatta, chi sa se essa passa il suo tempo con me più che io non faccia con lei. Platone, nella sua descrizione dell'età d'oro sotto Saturno, mette fra i principali vantaggi dell'uomo di allora la comunione che esso aveva con le bestie, indagando e imparando dalle quali egli veniva a sapere le qualità vere e le differenze fra ciascuna di esse, per cui acquistava una intelligenza e prudenza assai perfetta e con essa conduceva assai più felicemente la sua vita di quanto non sapremmo far noi. Ci è necessaria una prova migliore per giudicare l'impudenza umana in fatto di bestie? Quel grande è stato del parere che nella maggior parte della forma corporale che natura ha data loro, essa ha badato soltanto all'utilità dei pronostici che se ne traevano al suo tempo. Questo difetto che impedisce la comunicazione fra esse e noi, perché non è tanto nostro che loro? È da stabilire di chi è la colpa di non intenderci affatto: infatti noi non le comprendiamo non più che esse noi. Per questa stessa ragione esse ci possono credere bestie, come noi crediamo di esse. Non è tanto strano se noi non le comprendiamo; nello stesso modo facciamo coi Baschi e i Trogloditi. Tuttavia alcuni si sono vantati di capirle, come Apollonio Trianeo, Melampo, Tiresia, Talete e altri. E poiché sta il fatto, come dicono i cosmografi, che ci sono popoli i quali tengono un cane per loro Re, bisogna bene che essi diano una certa interpretazione alla sua voce e alle sue mosse. Bisogna osservare la parità che c'è fra noi. Abbiamo qualche comprensione approssimativa del loro significato: così l'hanno le bestie del nostro, press'a poco nella stessa misura. Esse ci accarezzano, ci minacciano e ci cercano; e noi loro.

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Del resto, scopriamo molto chiaramente che fra esse c'è una piena ed intera comunicazione e che si capiscono fra loro, non soltanto quelle della stessa specie, ma anche di specie diverse. Et mutae pecudes et denique secla ferarum Dissimiles fuerunt voces variasque cluere, Cum metus aut dolor est, aut cum jam gaudia gliscunt23. In certo abbaiamento del cane il cavallo capisce che quello è in collera; di qualche altra sua voce non si spaventa affatto. Anche nelle bestie che non hanno voce, dalla comunione di compiti che vediamo fra esse argomentiamo facilmente qualche altro mezzo di comunicazione: le loro mosse discorrono e ragionano:

Non alia longe ratione atque ipsa videtur Protrahere ad gestum pueros infantia linguae24. E perché no, dato che i nostri muti discutono, disputano e raccontano storie coi segni? Ne ho visti di così svelti ed abili in ciò, che in verità ad essi non mancava nulla per la perfezione del farsi comprendere; gli amanti si bisticciano, si riconciliano, si pregano, si ringraziano, si fanno conoscere e dicono infine con gli occhi ogni cosa: E 'l silentio ancor suole Haver prieghi e paro[e25. E con le mani? noi chiediamo, promettiamo, chiamiamo, congediamo, minacciamo, preghiamo, supplichiamo, neghiamo, rifiutamo, interroghiamo, ammiriamo, contiamo, confessiamo, ci pentiamo, abbiamo paura, ci vergogniamo, dubitiamo, insegniamo, comandiamo, incitiamo, incoraggiamo, giuriamo, testimoniamo, accusiamo, condanniamo, assolviamo, offendiamo, disprezziamo, differiamo, andiamo in collera, accarezziamo, applaudiamo, benediciamo, umiliamo, beffiamo, riconciliamo, raccomandiamo, esaltiamo, festeggiamo, ci rallegriamo, compiangiamo, ci rattristiamo, ci sconfortiamo, ci disperiamo, ci meravigliamo,

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gridiamo, taciamo; e perché no? con una varietà e maggior potenza in confronto alle parole. E con la testa: noi invitiamo, congediamo, confermiamo, neghiamo, smentiamo, diamo il benvenuto, onoriamo, veneriamo, disdegniamo, chiediamo, ricusiamo, ci rallegriamo, lamentiamo, carezziamo, sorridiamo, ci sottomettiamo, sfidiamo, esortiamo, minacciamo, assicuriamo, domandiamo. E con le sopracciglia? e con le spalle? Non c'è gesto che non parli un linguaggio intelligibile, senza scuola, un linguaggio per tutto: e ciò fa, guardando la varietà e l'uso distinto dagli altri , che questo qui debba essere piuttosto giudicato quello adatto alla natura umana. Lascio da parte ciò che in modo particolare subito insegna il bisogno a coloro che ne hanno necessità e gli alfabeti delle dita e le grammatiche di gesti, e le scienze che non si esercitano e non si esprimono che con essi, e i popoli che Plinio dice non avere altra lingua. Un ambasciatore della città di Abdera, dopo avere a lungo parlato al Re Agide di Sparta, gli domandò: Ebbene, Sire, che risposta vuoi che porti ai nostri cittadini? - Che t'ho lasciato dire tutto quello che hai voluto, e quanto hai voluto, senza fare mai parola. Non è questo un silenzio eloquente e ben comprensibile? Del resto, che specie di nostra dottrina non riconosciamo noi alle opere degli animali? C'è governo regolato con più ordine, diviso in più incarichi ed Uffici, e tenuto con più fermezza di quello delle api? Questa divisione di atti e di compiti così ordinata, la possiamo immaginare condotta senza parole e senza intelligenza?

His quidam signis atque haec exempla sequuti, Esse apibus partem divinae mentis et haustus Aethereos dixere26. Le rondini che vediamo al ritorno della primavera frugare tutti gli angoli delle nostre case, cercano senza giudizio e scelgono forse senza discernimento, fra mille posti, quello che è per loro più comodo per alloggiarsi? E, in quella bella e ammirabile tessitura delle loro fabbriche, gli uccelli possono servirsi piuttosto di una figura quadrata che di quella tonda, di un angolo ottuso che di un angolo retto, senza che ne sappiano le condizioni e gli effetti? Prendono essi ora acqua, ora argilla senza valutare

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che la durezza si ammollisce umettandola? Pavimentano di muschio il loro palazzo , o di piuma, senza prevedere che le membra tenere dei loro piccoli vi staranno più mollemente e più comodamente? Si riparano dal vento piovoso , e piantano il loro nido ad Oriente, senza conoscere le condizioni differenti di quei venti e considerare che l' uno è per loro più giovevole dell'altro? Perché il ragno ispessisce la sua tela in un canto e la fa più debole in un altro? si serve a questo punto di una specie di nodo, ora di quello, se non ha potere di scegliere di pensare e di decidere? Constatiamo a sufficienza, nella maggior parte delle loro opere quanta superiorità hanno gli animali su noi , e quanto la nostra arte è debole ad imitarli. Noi vediamo tuttavia, nelle nostre , più grossolane le facoltà che vi applichiamo , e che la nostra anima vi si applica con tutte le sue forze; e perché non concepiamo altrettanta stima di loro? perché attribuiamo a non so quale istinto naturale e basso le opere che superano tutto ciò che noi possiamo naturalmente e per arte? In questo , senza riflettere , diamo loro un grande vantaggio su noi, di fare che natura, con una materna dolcezza, li accompagni e guidi , quasi per la mano, in tutte le azioni e utilità della loro vita; e che quanto a noi essa ci abbandoni al caso e alla fortuna, e a cercare, con l'arte , le cose necessarie alla nostra conservazione; e ci rifiuti nello stesso tempo i mezzi di poter arrivare, con qualche educazione e sforzo mentale , alla naturale industriosità delle bestie; in maniera che la loro stupidità brutale sorpassa in ogni utilità tutto ciò che può la nostra divina intelligenza. Veramente, per questo riguardo, avremo ben ragione di chiamarla una matrigna molto ingiusta. Ma non fa niente; il nostro regime non è così difforme e sregolato. Natura ha abbracciato interamente tutte le sue creature; e non ce n'è alcuna che essa non abbia pienamente fornito di tutti i mezzi necessari per la conservazione della sua esistenza: infatti quei lamenti che comunemente ho sentito fare dagli uomini (giacché la licenza delle loro opinioni ora le innalza al disopra delle nuvole , e poi le rigetta agli antipodi), che noi siamo il solo animale abbandonato nudo sulla terra nuda, legato , incatenato, senza avere nulla di cui armarsi e proteggersi se non le spoglie di altri; laddove tutte le altre creature natura le ha rivestite di conchiglie , di lamine, di corazza, di pelo , di lana, di punte, di cuoio , di peluria, di scaglie, di vello e di altra seta secondo i bisogni

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della loro esistenza; le ha armate di artigli, di denti, di coma, per assalire e difendersi; e le ha spesso addestrate a ciò che è loro proprio, a nuotare, a correre, a volare, a cantare, laddove l'uomo non sa né camminare, né parlare, né mangiare, se non piangere senza insegnamento: Tum porro puer, ut saevis projectus ab undis Navita, nudus humijacet, infans, indigus omni Vitali auxilio, cum primum in luminis oras Nixibus ex alvo matris natura profudit; Vagitoque locum lugubri complet, ut aequum est Cui tantum in vita restet transire malorum. At variae crescunt pecudes, armentaferaeque, Nec crepitacula eis opus est, nec cuiquam adhibenda est Almae nutricis blanda atque infracta loquela; Nec varias quaerunt vestes pro tempore coeli; Denique non armis opus est, non moenibus altis, Queis sua tutentur, quando omnibus omnia large Tellus ipsa parit, naturaque daedala rerum27;

quei lamenti sono ingiustificati, c'è nel governo del mondo un'eguaglianza più grande e un rapporto più uniforme. La nostra pelle è provvista, tanto a sufficienza quanto la loro, di solidità contro le ingiurie del tempo; ne son prova tanti popoli che non hanno adottato ancora alcun uso di vestiti. I nostri antichi Galli non erano affatto vestiti; non lo sono gli Irlandesi, nostri vicini, sotto un clima così freddo. Ma lo constatiamo meglio in noi stessi, giacché tutte le parti della persona che ci piace scoprire al vento e all'aria, si trovano in grado di sopportarlo: il viso, i piedi, le mani, le gambe, le spalle, la testa, secondo che l'uso ci porti. Infatti, se c'è in noi parte debole e che sembri dover temere il freddo, dovrebbe essere lo stomaco, dove si fa la digestione; i nostri padri lo portavano scoperto; e le nostre signore, deboli e delicate come sono, se ne vanno mezzo scoperte fino all'ombelico. I legacci e le fasce dei bambini non sono affatto più necessari; e le madri Spartane allevavano i loro in tutta libertà di movimenti delle membra, senza legarli né avvolgerli. Il nostro piangere è comune alla maggior parte degli altri

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animali; e non ce ne sono molti che si vedono lamentarsi e piangere molto tempo dopo la nascita: in quanto è un contegno molto proprio alla debolezza in cui si sentono. Quanto all'uso del mangiare, è in noi, come in essi, naturale e senza che sia insegnato,

Sentit enim vim quisque suam quam possit abuti28 . Chi dubita che un bambino, giunto in grado di nutrirsi, non saprebbe cercarsi l'alimento? E la terra ne produce e gliene offre abbastanza per i suoi bisogni, senza altra coltivazione ed arte; e se non in ogni stagione, altrettanto fa con le bestie, come provano le provviste che vediamo fare dalle formiche e da altre per le stagioni sterili dell'anno. Quei popoli che abbiamo or ora scoperti29 così abbondantemente forniti di carne e di bevande naturali, senza coltivazione e adattamenti, ci hanno insegnato che il pane non è il solo nostro alimento, e che, senza lavoro, la nostra madre natura ci aveva provveduti di tutto quello che ci occorreva; anzi, come è verosimile, più completamente e più doviziosamente di quanto essa non faccia ora che noi vi abbiamo messo in mezzo la nostra arte,

Et tellus nitidas fruges vinetaque lata Spante sua primum mortalibus ipsa creavit; lpsa dedit dulces foetus et pabula laeta, Quae nunc vix nostro grandescunt aucta labore, Conterimusque boves et vires agricolarum30, giacché l'eccesso e la sregolatezza del nostro desiderio supera tutte le invenzioni che noi cerchiamo per soddisfarlo . Quanto alle armi noi le abbiamo più naturali che la maggior parte degli altri animali, più variati movimenti di membra, e ne traiamo maggiore utilità, naturalmente e senza insegnamento: quelli che sono adatti a combattere nudi li si vede gettarsi ai rischi simili ai nostri. Se alcune bestie la vincono in questa superiorità, noi la vinciamo in parecchie altre. E l'addestramento per fortificare il corpo e ripararlo con mezzi acquisiti, l' abbiamo per un istinto e per una regola naturale. Infatti, l' elefante aguzza e affila i suoi denti , dei quali si serve per il combattimento (poiché ce ne

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sono alcuni speciali per quest'uso, che esso risparmia e non li adopera affatto per gli altri suoi usi). Quando i tori vanno al combattimento, spandono e sollevano la polvere attorno ad essi; i cinghiali affinano i loro mezzi difensivi; l'icneumone quando deve venire alle prese col coccodrillo, protegge il suo corpo, lo copre e l'incrosta tutt'intorno di fango ben saldo e bene impastato, come una corazza. Perché non diremo che è altrettanto naturale per noi di armarci di legno e di ferro? Quanto al parlare, è certo che se non è naturale, non è necessario. Tuttavia, io credo che un bambino che fosse allevato in piena solitudine, lontano da ogni comunione (e sarebbe prova difficile a farsi) avrebbe una specie di parola per esprimere i suoi pensieri; e non è credibile che natura ci abbia rifiutato questo mezzo che ha dato a parecchi altri animali. Infatti che altro se non parlare è quella facoltà che noi vediamo in loro di lamentarsi, di rallegrarsi, di chiamarsi a vicenda in aiuto, di invitarsi all'amore, come quelli fanno servendosi della loro voce? Come essi non parlerebbero fra loro? essi parlano ben con noi e noi con essi. In quante maniere parliamo noi ai cani? ed essi ci rispondono. Con altro linguaggio, con altri appellativi noi comunichiamo con essi che non con gli uccelli, coi porci, i buoi, i cavalli, e mutiamo di linguaggio secondo la specie: Così per entro loro schiera bruna S'ammusa l'una con l'altraformica Forse a spiar lor via et lor fortuna31. Mi pare che Lattanzio attribuisca alle bestie non soltanto il parlare, ma anche il riso. E la diversità di linguaggio che si constata fra noi, secondo la diversità delle regioni, si trova anche negli animali della stessa specie. Aristotele cita a questo proposito il diverso canto delle pernici, secondo la situazione dei luoghi, variaeque volucres Longe alias alio faciunt in tempore voces, Et partim mutant cum tempestatibus una Raucisonos cantus32.

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Ma occorrerebbe sapere in che favella parlerebbe quel bambino; e quel che se ne dice per immaginazione non ha molta probabilità. Se mi si adduce, contro questa opinione , che i sordi dalla nascita non parlano affatto, rispondo che ciò non avviene soltanto per non aver essi potuto ricevere l'educazione della parola con le orecchie, ma piuttosto perché il senso dell 'udito , del quale essi sono privati, è in relazione con quello del parlare e si accoppiano insieme con un' unione naturale: di modo che ciò che noi diciamo, bisogna che lo diciamo prima a noi e che lo facciamo risonare dentro le nostre orecchie, prima di rivolgerlo agli estranei. Ho detto tutto questo per sostenere questa rassomiglianza che esiste nelle cose umane, e per riportarci e congiungerci alla massa. Noi non siamo né al disopra né al disotto del resto; tutto quello che è sotto il Cielo, dice il saggio, è soggetto ad una legge e ad una sorte eguale, I ndupedita suis f atalibus omnia vinclis33. C 'è qualche differenza, ci sono ordini e gradi; ma sotto l'aspetto di una stessa natura: res quaeque suo ritu procedit, et omnes Foedere natura certo discrimina servant34. Bisogna vincolare l'uomo e metterlo nelle barriere di questo regime. Il miserabile si attenta di scavalcare al di là; è impastoiato e impedito, è soggetto agli stessi obblighi come le altre creature della sua specie, e in una condizione assolutamente mediana, senza alcuna prerogativa, né superiorità vera ed essenziale . Quella che egli si attribuisce con l'idea e per vezzo, non ha né corpo né sapore; e se accade che lui solo , fra tutti gli animali, abbia quella libertà dell'immaginazione e quella sfrenatezza di pensieri che gli rappresentano quello che egli è , quello che non è , e quello che vuole , il falso e il vero, è una superiorità che gli è venduta ben cara e della quale ha ben poco da gloriarsi, poiché di là nasce la sorgente principale dei mali che lo affliggono: peccato, malattia, incertezza, turbamento, disperazione.

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Dico dunque, per tornare al mio argomento, che non c'è alcuna ragione di pensare che le bestie facciano per istinto naturale ed imposto le stesse cose che noi facciamo di nostra volontà e ingegno. Da uguali risultati dobbiamo trarre uguali facoltà, e confessare per conseguenza che quello stesso ragionamento, quella stessa strada che noi prendiamo per agire, è anche quella degli animali. Perché immaginiamo in essi quella spinta naturale, mentre noi non sperimentiamo alcun effetto simile? aggiungi che è più onorevole essere indirizzato e obbligato ad agire sensatamente per una condizione naturale e inevitabile e più prossima alla divinità, che agire sensatamente per una libertà temeraria e fortuita; ed è più sicuro lasciare alla natura che a noi le redini della nostra condotta. La vanità della nostra presunzione fa che noi preferiamo dovere alle nostre forze piuttosto che alla sua liberalità la nostra capacità; e doniamo agli altri animali beni naturali e li togliamo loro, per onorarci e nobilitarci con beni acquisiti: per un umore molto semplice, mi sembra, poiché io apprezzerei altrettanto le grazie tutte mie e spontanee come quelle che fossi andato a mendicare e cercare con un tirocinio. Non è in nostro potere acquistare un più bel favore piuttosto che essere favoriti da Dio e dalla natura. Perciò la volpe di cui si servono gli abitanti della Tracia quando stanno per attraversare sul ghiaccio qualche fiume gelato e la mandano avanti a loro a questo scopo, quando noi la vedessimo all'orlo dell'acqua avvicinare l'orecchio molto prossimo al ghiaccio per provare se udirà da una distanza lontana o vicina mormorare l'acqua corrente di sotto, e secondo che essa trovi così che c'è più o meno spessore di ghiaccio, indietreggiare o avanzare, non avremmo ragione di pensare che le passa per la testa questo medesimo ragionamento che passerebbe nella nostra, e che è un'argomentazione e una conseguenza tratta dal senso naturale: Quello che fa rumore si muove; quello che si muove non è gelato; quello che non è gelato è liquido, e quello che è liquido cede sotto il peso? Infatti attribuire ciò soltanto ad un'acutezza del senso dell'udito, senza ragionamento e senza conclusione è una chimera e non può entrare nel nostro pensiero. Ugualmente bisogna pensare di tante specie di astuzie di invenzioni con cui le bestie si proteggono dalle cacce che noi facciamo loro . E se vogliamo acquistare qualche superiorità dal fatto stesso, che sta in

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noi di acchiapparle , di servircene e di usarne a nostra volontà , non c' è se non questa superiorità che noi abbiamo gli uni sugli altri. Noi abbiamo a questa condizione i nostri schiavi. E le Climacidi non erano in Siria donne che servivano, bocconi a quattro piedi , di sgabello e di scala alle signore per salire in carrozza? E la maggior parte delle persone libere abbandonano per piccolissime comodità la loro vita e la loro esistenza al potere altrui . Le mogli e le concubine dei Traci litigano per chi sarà scelta per essere uccisa sul tumulo del marito. I tiranni hanno mai mancato di trovare abbastanza uomini votati alla loro devozione, alcuni di essi stimando più questa necessità di accompagnarli neIJa morte che neIJa vita? Eserciti interi si sono così legati ai loro capitani. La formula del giuramento in quella dura scuola degli schermitori all 'ultimo sangue conteneva queste promesse: Giuriamo di farci incatenare, bruciare, frustare e uccidere di spada, e sopportare tutto ciò che i veri gladiatori sopportano dal loro padrone; impegnando con ogni religione e il corpo e l'anima al suo servizio:

Ure meum, si vis,flamma caput, et peteferro Corpus, et intorto verbere terga seca35 . Era un impegno vero; eppure se ne trovavano diecimila, in un anno, che ci si mettevano e ci morivano. Quando gli Sciti seppellivano il loro Re, strangolavano sul suo corpo la più favorita delJe sue concubine, il suo coppiere, il vaIJetto di scuderia, il ciambelJano, il valJetto di camera e il cuoco. E nel suo anniversario uccidevano cinquanta cavalli montati da cinquanta paggi che avevano impalati per la spina dorsale fino alla gola, e li lasciavano così piantati in mostra attorno alla tomba. Gli uomini che sono al nostro servizio lo fanno , a miglior mercato, e per un trattamento meno delicato e meno piacevole di quello che noi facciamo agli uccelli , ai cavalli e ai cani. A quale pena noi non ci sottoponiamo per il loro comodo? Non mi sembra affatto che i più bassi servitori facciano volentieri per i loro padroni quello che i Principi si onorano di fare per quelle bestie . Diogene vedendo i suoi genitori darsi da fare per riscattarlo dalla schiavitù: Sono pazzi , diceva; è quello che mi mantiene e nutrisce, che serve

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me; e di quelli che mantengono le bestie, deve dirsi che essi servono loro piuttosto che ne sono serviti . E certo quelle hanno questo di più generoso , che mai leone si mise al servizio di altro leone, né un cavallo di un altro cavallo, per mancanza di coraggio. Come noi andiamo a caccia delle bestie, così le tigri e i leoni vanno a caccia degli uomini; ed hanno una stessa occupazione gli uni nei confronti degli altri: i cani delle lepri, i lucci delle tinche , le rondini delle cicale, gli sparvieri dei merli e delle allodole:

serpente ciconia pullos Nutrit, et inventa per devia rura lacerta, Et leporem aut capreamfamulae Jovis, et generosae In saltu venantur aves36. Noi dividiamo il frutto della nostra caccia coi cani e con gli uccelli, come la fatica e l'abilità; e, più su cli Anfipoli in Tracia, i cacciatori e i falchi selvatici dividono giustamente il bottino a metà; come lungo la palude Meotide, se il pescatore non lascia ai lucci, spontaneamente, una parte uguale della sua pesca, essi vanno subito a lacerare le sue reti . E come abbiamo una caccia che si fa più con l'astuzia che con la forza, come quella delle trappole, delle lenze e dell ' amo , se ne vedono simili anche fra le bestie. Aristotele dice che la seppia manda fuori dal collo un budello lungo come una lenza, che allunga lasciandolo andare e lo ritira a sé quando vuole: appena vede qualche pesciolino avvicinarsi, gli lascia abboccare la cima di questo budello, tenendosi nascosta nella sabbia o nella melma, e a poco a poco lo ritira finché quel pesciolino sia tanto vicino ad essa che d ' un balzo lo possa afferrare. Quanto alla forza, non c'è animale al mondo capace di tante offese quanto l'uomo: e non occorre una balena, un elefante, un coccodrillo , né altri animali simili; dei quali uno solo è capace di uccidere un gran numero di uomini; i pidocchi sono sufficienti per render vana la dittatura di Silla; la colazione di un piccolo verme è il cuore e la vita cli un grande Imperatore trionfante. Perché diciamo che l'uomo ha scienza e conoscenza costruite con arte e con ragionamento, per discernere le cose utili alla sua vita e alle malat-

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tie, da quelle che non lo sono; per conoscere il potere del rabarbaro e del polipodio? E quando vediamo le capre di Candia che hanno ricevuto un colpo di freccia andare fra un milione d'erbe a scegliere il dittamo per guarirsi; e la tartaruga quando ha mangiato la vipera, cercar subito l'origano per purgarsi; il drago pulirsi e schiarirsi gli occhi con finocchio; le cicogne farsi da se stesse clisteri con acqua di mare; gli elefanti strapparsi non solo dal loro corpo e da quello dei compagni, ma anche dai corpi dei loro padroni (prova ne è quella del Re Poro, sconfitto da Alessandro) i giavellotti e le freccie lanciate contro di loro nel combattimento, e strapparli loro così abilmente come noi non sapremmo con tanto poco dolore: perché non diciamo ugualmente che è scienza e saggezza? Poiché il dichiarare, per abbassarli, che è con la sola abilità e padronanza naturali che essi sanno farlo, non è toglier loro il pregio di scienza e di saggezza: è attribuirlo loro a più forte ragione che a noi, per l'onore di una così sicura maestra di scuola. Crisippo, benché in tutte le altre cose altrettanto sdegnoso giudice della condizione degli animali quanto nessun altro filosofo, osservando i movimenti del cane, che incontrandosi in un incrocio di tre strade, o cercando il padrone smarrito, o inseguendo qualche preda che scappa davanti lui, prova una strada dopo l'altra, e, dopo essersi assicurato di due e non avervi trovato traccia di ciò che cerca, si slancia nella terza senza esitare, è costretto a confessare che in quel cane si svolga questo ragionamento: Ho seguito fino a questo incrocio le orme del mio padrone; bisogna necessariamente che egli passi da una di queste tre strade; non è né da questa né da quella; bisogna dunque infallibilmente che passi da quest'altra; e che, fattosi sicuro con questa conclusione e con questo ragionamento, non si serve più del suo fiuto alla terza strada, né l'annusa più, anzi si lascia trasportare dalla forza del ragionamento. Questo tratto puramente dialettico e quest'uso di proposizioni divise e congiunte e della sufficiente enumerazione delle parti, non significa che il cane lo sappia da sé piuttosto che da Trebisonda37. Cos: le bestie non sono incapaci di essere pure istruite al modo nostro. Ai merli, ai corvi, alle piche, ai pappagalli, insegniamo a parlare; e quella facilità che troviamo nel fornir loro voce e fiato così agile e maneggevole, per formarli e costringerli ad un certo numero di lettere e di sii-

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labe, prova che essi hanno una mente nel loro interno, che li rende così disciplinabili e volonterosi ad apprendere. Ognuno è sazio, credo io, di vedere tante specie di scimmiottature che i ciarlatani insegnano ai loro cani: i balletti in cui non sbagliano una sola cadenza del suono che sentono, parecchi movimenti diversi e salti che fanno fare ad essi al comando della loro parola: ma io osservo con più ammirazione quel fatto, che è tuttavia assai comune, dei cani dei quali si servono i ciechi e in campagna e in città: ho osservato come essi si fermano a certe porte dove sono abituati a ricevere le elemosine, come evitano l'urto delle carrozze e delle carrette, anche quando, per quanto riguarda loro, hanno abbastanza posto per passare; ne ho visti, lungo un fossato di città lasciare un sentiero piano e uguale e prenderne uno peggiore, per allontanare il proprio padrone dal fossato. Come si era potuto far capire a quel cane che era compito suo di badare soltanto alla sicurezza del suo padrone e trascurare le proprie comodità per servirlo? e com'esso capiva che quella tale strada che era per lui abbastanza larga non lo sarebbe stata per un cieco? Tutto questo si può comprender senza ragionamento e senza intelligenza? Non si deve dimenticare ciò che Plutarco dice di aver visto a Roma di un cane, con l'Imperatore Vespasiano padre, al teatro di Marcello. Quel cane era a servizio di un giocoliere che rappresentava una scena con parecchie figurazioni e più personaggi, e vi aveva una parte. Doveva, fra l'altro, fingere per un certo tempo di essere morto per aver mangiato certa droga: dopo aver ingoiato il pane che si fingeva fosse quella droga, cominciò subito a tremare e ad agitarsi come se fosse svenuto; finalmente, stendendosi e irrigidendosi come morto, si lasciò tirare e trascinare da un luogo ad un altro come dettava il soggetto della rappresentazione; e poi, quando capì che era il momento, cominciò ad un tratto ad agitarsi molto bene, come se si fosse destato da un profondo sonno, e, alzando la testa, guardò qua e là in maniera da meravigliare tutti i presenti. I buoi che nei giardini Reali di Susa servivano ad annaffiare e girare certe grandi ruote per attingere acqua, alle quali sono attaccati mastelli (come se ne vedono parecchi in Linguadoca) erano stati comandati a tirarne su fino a cento giri al giorno; essi erano così abituati a quel numero, che era impossibile con qualsiasi imposizione di fargliene tirare un giro di più; e quando avevano fatto il compito loro, senz'altro si fermavano. Noi arri-

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viamo all 'adolescenza prima di saper contare fino a cento , e ora abbiamo scoperto popolazioni che non hanno alcuna conoscenza dei numeri. C'è anche più forza di ragionamento nell'istruire gli altri che nell 'imparare. Ora, lasciando da parte ciò che Democrito dichiarava e dimostrava, che la maggior parte delle arti ce le hanno insegnate le bestie; come il ragno a tessere e a cucire , la rondine a costruire , il cigno e l'usignolo la musica, e parecchi animali, per loro imitazione , ad esercitare la medicina; Aristotele ritiene che gli usignoli istruiscano i loro piccoli a cantare e vi impieghino tempo e cura, per cui avviene che quelli che alleviamo in gabbia, i quali non hanno avuto mai modo di andare a scuola dai loro genitori, perdono molta della grazia del loro canto. Possiamo dedurre da ciò che essi si migliorano con l'insegnamento e con lo studio. E, anche fra quelli liberi, non tutti sono uguali, ognuno ha imparato secondo la propria capacità; e, nella gara dell'imparare, gareggiano valorosamente, con un fare così animoso, che spesso il vinto vi muore, mancandogli il fiato piuttosto che la voce. I più giovani ruminano, pensosi, e prendono ad imitare certe strofe di canzoni: l'allievo ascolta la lezione del suo istruttore e ne rende conto con grande cura; essi tacciono ora l'uno ora l'altro; si sente correggere i difetti e si sentono talune correzioni del]' istruttore. Ho veduto (dice Arriano) una volta un elefante che aveva ad ogni coscia appeso un cimbalo, e un altro attaccato alla proboscide , e al suono di quelli tutti gli altri danzavano in giro , alzandosi e abbassandosi in cadenza, secondo che lo strumento invitava; ed era un piacere udire quell'armonia. Negli spettacoli di Roma, si vedevano spesso elefanti istruiti a muoversi e ballare, al suono della voce , danze a parecchie figure , cesure e cadenze assai difficili a impararsi . Se ne sono visti di quelli , che, appartati, si ripassavano la lezione e si esercitavano con cura e con studio per non essere sgridati e picchiati dai loro padroni . Ma quest'altra storia della pica della quale abbiamo garante lo stesso Plutarco è strana. Questa pica era nella bottega di un barbiere a Roma e faceva meraviglie nel contraffare con la voce tutto quello che sentiva; un giorno accadde che certi trombettieri si fermarono a suonare a lungo davanti a quella bottega; più tardi e tutto il giorno dopo ecco quella pica pensierosa, muta e malinconica, cosa di cui tutti erano meravigliati ; e si pensava che il suono delle trombe l'avesse stordita e confusa e che con l'udi-

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to anche la voce si fosse affievolita; ma si scoprì infine che era uno studio profondo e un raccoglimento in se stessa, mentre il suo cervello si esercitava e preparava la voce ad imitare il suono di quelle trombe: tanto che il suo primo grido fu quello di ripetere perfettamente i loro attacchi, le loro pause e le loro variazioni , dopo aver lasciato con questo nuovo studio e messo da parte tutto quello che sapeva dire prima. Non voglio dimenticare di citare quest' altro episodio di un cane che il medesimo Plutarco dice di aver visto (quanto all'ordine sento bene che lo modifico, ma non mi curo di mettere in fila questi esempi più che tutto il resto del mio argomentare) mentre si trovava su una nave: quel cane, non riuscendo a succhiare l'olio che si trovava nel fondo di una mezzina in cui non poteva arrivare con la lingua attraverso la stretta imboccatura del vaso, andò a cercare alcuni sassi e ne gettò in quella mezzina finché non ebbe fatto venir su l'olio più vicino all'orlo, e così poté arrivarci. Questo che cosa è se non il portato di un cervello molto acuto? Si dice che i corvi di Barberia fanno lo stesso quando l'acqua che vogliono bere è troppo bassa. Questo modo di fare è in tutto simile a ciò che raccontava degli elefanti un Re del loro paese, Giuba, che cioè, quando per l'astuzia di quelli che ne vanno a caccia, l'uno di essi si trova preso in certe fosse profonde che si preparano per loro, coprendole di piccoli rametti per trarli in inganno, i suoi compagni vi portano a gara molte pietre e pezzi di legno, perché questa roba lo aiuti a venirne fuori. Ma quest'animale fa pensare in tante altre occasioni all' abilità umana, tanto che se volessi seguire minutamente quel che l'esperienza ci ha fatto imparare, arriverei facilmente a ciò che ritengo di solito , che cioè c'è,più differenza fra uomo e uomo che fra un animale e un uomo. Il custode di un elefante, in una casa privata di Siria, rubava in tutti i pasti la metà della razione che era stata a lui assegnata: un giorno il padrone volle provvedervi lui stesso , versò nella mangiatoia la giusta misura di orzo che gli aveva fissato per il pasto; l'elefante , guardando malamente quel custode, divise con la proboscide e ne mise da parte la metà, denunciando così il torto che gli si faceva . E un altro, avendo un custode che mescolava nel suo cibo pietre per aumentarne il volume , si avvicinò al vaso in cui quello faceva cuocere la carne per il suo pranzo e glielo riempì di cenere. Questi sono fatti particolari;

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ma ciò che tutti hanno visto e che tutti sanno è che in tutti gli eserciti che si conducevano dalle regioni del levante, una delle più grandi forze consisteva negli elefanti dai quali si avevano risultati senza confronto più grandi di quanto non facciamo adesso dalla nostra artiglieria, la quale tiene press ' a poco il loro posto in una battaglia ordinata (e ciò è facile a constatarsi da coloro che conoscono le storie antiche) :

siquidem Tirio servire solebant Annibali, et nostris ducibus, regique Molosso, Horum majores, et dorso /erre cohortes, Partem aliquam belli et euntem in proelia turmam38 . Bisognava bene che ci si garantisse pienamente della intelligenza di quelle bestie e del loro ragionare, se si affidava ad esse la punta di una battaglia, laddove la minima sosta che esse avessero fatto , per la grandezza e la pesantezza del loro corpo, il minimo spavento che le avesse fatte voltare la testa sulla loro gente , era sufficiente a perder tutto; e si sono visti meno esempi in cui sia accaduto che essi si buttassero sulle loro truppe, che quelli per cui noi stessi ci buttiamo gli uni sugli altri e ci scompaginiamo. Né a loro si dava l'incarico di un solo movimento, ma di parecchi compiti diversi nel combattimento . Come facevano gli Spagnoli nella recente conquista delle Indie coi cani, ai quali essi pagavano il soldo e facevano parte del bottino; e quegli animali dimostravano tanta bravura e abilità nel perseguire e decidere la vittoria, nel caricare o indietreggiare secondo i casi, nel distinguere gli amici dai nemici, quanto spiegavano ardore e vigoria. Noi ammiriamo e apprezziamo di più le cose straordinarie che quelle ordinarie; e, se non fosse stato per questo , non mi sarei compiaciuto di questa lunga elencazione, poiché, secondo la mia opinione, chi indagherà da vicino ciò che noi di solito vediamo negli animali che vivono fra noi, avrà di che constatarvi fatti meravigliosi come quelli che si vanno raccogliendo da paesi e da epoche lontane. È sempre la stessa natura che segue il suo corso . Chi ne avesse abbastanza esaminata la condizione attuale, potrebbe sicuramente dedurne e tutto l'avvenire e tutto il passato. Ho visto una volta da noi uomini condotti per mare da paese lontano, i quali per

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il fatto che non comprendevano minimamente la lingua e che il loro costume, del resto, e la loro condotta e i loro vestiti erano assolutamente diversi dai nostri, chi di noi non li avrebbe giudicati selvaggi e bruti? Chi non avrebbe attribuito a stupidità e ad ignoranza il vederli muti, ignoranti della lingua Francese, ignoranti dei nostri baciamani e delle nostre riverenze serpentine, del nostro modo di comportarci e del nostro contegno, sul quale, se non vuol sbagHare, deve prendere il suo modello la natura umana? Tutto quello che ci sembra strano noi lo condanniamo, e così quello che non comprendiamo; come ci accade nel giudizio che facciamo delle bestie. Esse hanno parecchie qualità che somigHano alle nostre: da quelle, per paragone, noi possiamo traITe qualche deduzione; ma di quello che esse hanno di particolare, che sappiamo noi cosa sia? I cava!Ji, i cani, i buoi, le pecore, gli uccelli e la maggior parte degli animali che vivono con noi, riconoscono la nostra voce e si fanno guidare da essa: così faceva anche la murena di Crasso, e veniva a lui quando egli la chiamava; e fanno così le anguille che stanno nella fontana di Aretusa. Ho anche visto parecchi vivai in cui i pesci corrono per mangiare, ad un certo grido di quelli che li custodiscono;

nomen habent, et ad magistri Vocem quisque sui venit citatus39.

Da questo possiamo giudicare. Possiamo anche dire che gli elefanti hanno una certa partecipazione alla religione, sicché dopo parecchie abluzioni e purificazioni li si vede mentre levano la loro proboscide come braccia e tengono gli occhi fissi verso il Sol levante, fermarsi molto tempo in meditazione e contemplazione a certe ore del giorno, di loro propria abitudine, senza esservi istruiti e comandati. Ma, per il fatto di non vedere alcuna manifestazione simile in altri animali, non possiamo pertanto concludere che essi sono senza religione, e non possiamo prendere alcun partito su quello che ci è nascosto. Così noi vediamo qualche cosa in questo atto che il filosofo Cleante notò, per ciò che si riferisce ai nostri: egli vide, dice, formiche uscire dal formicaio, portando il corpo di una formica morta verso un altro formicaio, dal quale parecchie

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altre formiche vennero loro incontro , come per parlare ad esse; e , dopo essere state insieme qualche po' , quelle si voltarono per consultarsi, pensate, con le concittadine e fecero così due o tre viaggi per le difficoltà delle trattative; infine le ultime arrivate portarono alle prime un verme dalla loro tana, come per riscatto del morto , il qual verme le prime si caricarono sul dorso e lo portarono a casa loro, lasciando alle altre il corpo del morto. Ecco l' interpretazione che ne diede Cleante, che cioè quel fatto provasse che quelle che non hanno voce non mancano di pratica e comunicazione reciproca, della quale è nostra deficienza se non partecipiamo; e noi scioccamente ci intrighiamo per dire la nostra opinione. Ora le bestie fanno anche altre azioni che superano d'assai la nostra capacità, alle quali perché noi possiamo arrivare per imitazione, corre tanto , che non le possiamo neppure concepire con l'immaginazione. Parecchi ritengono che in quella grande ultima battaglia navale che Antonio perdé contro Augusto, la sua galera ammiraglia fu fermata a mezzo della sua corsa da quel piccolo pesce che i latini chiamano Remora, a causa di questa sua proprietà di fermare ogni specie di bastimento a cui si attacca. E mentre l'imperatore Caligola navigava con una grande flotta presso la costa della Romania, solo la sua galera fu fermata all'improvviso da quello stesso pesce che egli fece prendere attaccato com' era al fondo del suo bastimento, stizzito che un così piccolo animale potesse violentare e il mare e i venti e la forza di tutti i suoi remi , solo per essersi attaccato alla sua galera col becco (poiché era un pesce a conchiglia) ; e rimase anche stupito , non senza grande ragione, del fatto che quello , portato sul battello , non aveva più quella forza che aveva fuori . Un cittadino di Cizico acquistò una volta fama di buon matematico per avere imparato la condizione del riccio, che ha la sua tana protetta in diverse direzioni e contro diversi venti , e , prevedendo il vento che verrà, chiude il buco dalla parte di quel vento là: cosa che notando quel cittadino faceva nella sua città sicure previsioni del vento che avrebbe spirato. Il camaleonte prende il colore del luogo in cui si posa; ma il polpo si dà lui stesso il colore che gli piace, secondo i casi, per occultarsi da ciò che paventa e acchiappare quello che cerca: nel camaleonte, si tratta di un mutamento di sentimento; ma nel polpo è un mutamento di fatto . Noi abbiamo cambiamenti di colore nello spavento, la collera, la vergogna, e altre passioni che

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mutano la tinta del nostro viso, ma è l'effetto della sofferenza, come nel camaleonte: è l'itterizia che ci fa ingiallire, ma non è in dipendenza della nostra volontà. Ora questi effetti che noi constatiamo negli altri animali, più grandi dei nostri, dimostrano in essi qualche potere più forte che ci è occulto, come è verosimile che ci sono parecchi altri nelle loro condizioni e facoltà delle quali non viene fino a noi alcun indizio. Di tutte le profezie del tempo passato, le più antiche e più sicure erano quelle che si traevano dal volo degli uccelli. Noi non abbiamo nulla di simile e di così meraviglioso. Quella regola, quel segno del muoversi delle loro ali, da cui si traggono conseguenze su ciò che avverrà, bisogna bene che sia da qualche potere superiore guidato ad una così nobile opera; infatti è supplire alla realtà l'andare attribuendo quel grande significato a qualche fatto naturale, senza intelligenza, consenso e ragionamento intorno a ciò che avviene; ed è una credenza evidentemente falsa. Infatti: la torpedine ha quella facoltà non soltanto di intorpidire le membra che la toccano, ma attraverso le reti essa trasmette una pesantezza torpida alle mani di quelli che la smuovono e la toccano; e si dice addirittura di più, che se si versa acqua sopra, si sente quell'impressione la quale prende in su fino alla mano e intorpidisce il tatto attraverso l'acqua. Questo potere è straordinario ma non è inutile alla torpedine: essa lo sente e se ne serve, in maniera che, per afferrare la preda che cerca, la si vede acquattarsi sotto la melma, perché gli altri pesci filando sopra, colpiti e intorpiditi da questo suo irrigidimento, cadano in suo potere. Le gru, le rondini e altri uccelli di passo, cambiando dimora secondo le stagioni dell'anno, dimostrano a sufficienza la conoscenza che hanno della loro facoltà divinatrice, e la mettono in pratica. I cacciatori ci assicurano che per scegliere da un certo numero di cuccioli quello che è da conservarsi come migliore, basta mettere la madre in condizione di scegliere essa stessa, così se si portano via fuori dalla loro cuccia, il primo che essa vi riporterà sarà sempre il migliore; oppure, se si fa in modo di contornare di fuoco la cuccia da ogni parte, quello dei piccoli in aiuto del quale essa correrà prima. Da ciò si trae che quelle hanno una facoltà di pronostico che noi non abbiamo o che hanno qualche virtù di giudicare dei loro piccoli, diversa e più viva che la nostra. Il modo di nascere, di generare, di allevare, agire, muoversi, vivere e mori-

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Montaigne 409 I testi - Saggi - Libro Il

re delle bestie essendo tanto simile al nostro, tutto quello che noi sopprimiamo dei loro poteri di movimento e che noi aggiungiamo alla nostra condizione al disopra della loro, non può in nessun modo venire dalla facoltà della nostra ragione. Come regola per la nostra salute i medici ci mettono avanti l'esempio del vivere delle bestie e il loro modo; infatti è in ogni tempo sulla bocca del popolo quel motto: Tenete caldi piedi e testa, per il resto vivete come bestie. La generazione è il principale dei fatti naturali: noi abbiamo una certa disposizione di membra che è adatta per quello; tuttavia ci fanno disporre, come quella più efficace, in maniera e posizione bestiale, more ferarum Quadrupedumque magis ritu, plerumque putantur Concipere uxores; quia sic loca sumere possunt, Pectoribus positis, sublatis semina lumbis40. E respingono come nocivi quei movimenti indiscreti e insolenti che le donne vi hanno mescolati di loro iniziativa, guidandole all'esempio e all'uso delle bestie del loro sesso , più modesto e tranquillo: Nam mulier prohibet se concipere atque repugnat, Clunibus ipsa viri venerem si laeta retractet, Atque exossato ciet omni pectore fluctus . Ejicit enim sulci recta regione viaque Vomerem , atque lucis avertit seminis ictum41. Se è giusto dare a ciascuno quello che gli è dovuto, le bestie che servono, amano e difendono i loro benefattori , e che inseguono e offendono gli estranei e quelli che fanno loro male, riproducono in ciò qualche aspetto della nostra giustizia, come pure conservando una eguaglianza assai equa nel dispensare i loro beni ai loro piccoli. Quanto all' amicizia, esse l'hanno, senza confronto , più viva e più costante che non l'abbiano gli

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4 1O Montaigne I testi - Saggi - Libro Il

uomini . Ircano, il cane del Re Lisimaco, morto il suo padrone, rimase ostinato sul suo letto senza voler bere né mangiare; e il giorno che se ne bruciò il corpo , prese la corsa e si gettò nel fuoco, in cui rimase bruciato . E così fece anche il cane di uno chiamato Pirro, che non si mosse da sopra il letto del padrone dopo che esso fu morto; e quando questi fu portato via, si lasciò portar via anche lui, e finalmente si lanciò nel rogo dove si bruciava il corpo del padrone. Ci sono certi trasporti d' affetto che nascono qualche volta in noi senza l' aiuto della ragione, che derivano da un impulso fortuito che altri chiamano simpatia: le bestie ne sono capaci come noi . Vediamo i cavalli prendere una certa familiarità gli uni con gli altri , fino a farci durar fatica a farli vivere o viaggiare separatamente; si vedono rivolgere il loro attaccamento a certo pelo dei loro compagni, come a certa figura , e, quando l'incontrano, unirsi a loro subito con feste e dimostrazioni di trasporto, e prendere qualche altra figura in antipatia e in odio. Gli animali hanno come noi criterio di scelta nei loro amori e fanno una certa cernita delle loro femmine . Non ci sono esempi delle nostre gelosie e di odii estremi e irreconciliabili. I desideri sono o naturali e necessari, come il bere e il mangiare; o naturali e non necessari, come il commercio con le donne; o non sono né naturali né necessari: di questa ultima specie sono quasi tutti quelli degli uomini; essi sono tutti superflui e artificiali. Infatti fa meraviglia quanto poco occorre alla natura per contentarsi; quanto poco essa ci ha lasciato da desiderare. Le arti della nostra cucina non toccano questa regola. Gli Stoici dicono che un uomo avrebbe di che sostentarsi con un'oliva al giorno. La delicatezza dei nostri vini non ha a che fare con le sue prescrizioni, e neppure il di più che noi aggiungiamo ai desideri amorosi ,

neque illa Magno prognatum deposcit consule cunnum42. Questi desideri estranei, che l'ignoranza del bene e una falsa opinione hanno messi in noi, sono in sì gran numero che scacciano quasi tutti quelli naturali; né più né meno che se, in una città, ci fosse tanto gran numero di stranieri da metterne fuori gli abitanti nativi, e da soffocare la loro autorità e l'antica potenza, usurpandola interamente ed impossessandosene.

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Montaigne 411 I testi - Saggi - Libro Il

Gli animali sono molto più moderati di quanto non siamo noi, e si contengono con più moderazione al di sotto dei limiti che natura ci ha fissati; ma non così esattamente da non avere anche qualche somiglianza con la nostra sfrenatezza. E così come si è visto dei desideri curiosi che hanno spinto gli uomini aU'amore deUe bestie, esse si trovano anche qualche volta prese del nostro amore e accolgono affetti mostruosi da una specie ad un'altra; prova ne è l'elefante emulo di Aristofane grammatico nell'amore di una giovane fioraia della città di Alessandria, e che non la cedeva in niente agli ardori di un amante appassionatissimo. Infatti, passeggiando nel mercato in cui si vendevano frutta, esso ne prendeva con la proboscide e gliele portava; non la perdeva di vista per quanto gli era possibile e le metteva qualche volta la proboscide nel seno passandola sotto il bavero e le tastava le tette. Raccontano anche di un drago innamorato di una ragazza, e di un'oca presa d'amore per un ragazzo della città di Asopo, e di un becco servitore deUa suonatrice Glancia: e si vedono tutti i giorni bertucce furiosamente prese d'amore per donne. Si vedono anche certi animali darsi all'amore dei maschi del loro sesso: Oppiano e altri raccontano alcuni esempi per dimostrare il rispetto che le bestie nel matrimonio portano ai genitori, ma la esperienza ci fa molto spesso vedere il contrario,

nec habetur turpe juvencae Ferre patrem tergo; fit equo suafilia conjux; Quasque creavit init pecudes caper; ipsaque cuius Semine concepta est, ex ilio concipit ales43. Di astuzia maliziosa ce n'è una più chiara di quella del mulo del filosofo Talete? il quale traversando carico di sale un fiume, ed avendo per caso incespicato, tanto che i sacchi che portava si bagnarono tutti, essendosi accorto che il sale in tal modo sciolto gli aveva reso più leggero il suo carico, non mancava mai, appena incontrava qualche rusceUo, di immergervisi col carico; finché il padrone, scoprendone la malizia, ordinò che lo si caricasse di lana, per cui, trovandosi vinto, cessò di servirsi più di quell'astuzia. Ce ne sono parecchi che riproducono ingenuamente l'immagine deUa nostra avarizia, poiché si vede in essi un'estrema cura di affer-

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rare tutto ciò che vedono e nasconderlo gelosamente , pur non traendone alcun utile . Quanto alla cura della casa, le bestie ci superano non solo in quella cura di ammassare e risparmiare per il futuro, ma posseggono ancora più parti della scienza che è necessaria a ciò. Le formiche stendono fuori il loro grano e i loro semi per fare prendere ad essi aria, per rinfrescarli e seccarli, quando vedono che cominciano ad ammuffire e irrancidirsi, per paura che vadano a male e imputridiscano. Ma la cautela e la preveggenza che usano nel rosicchiare il granello di frumento, supera ogni idea di umana grandezza. Siccome il frumento non rimane sempre secco e sano, ma anzi si ammollisce , si scioglie e stempera come il latte, avviandosi a germogliare e gemmare, per paura che non diventi semenza e perda la sua natura e proprietà di riserva per il loro nutrimento, rosicchiano la punta da cui il germe è uso uscire. Quanto alla guerra, che è la più grande e pomposa azione umana, mi piacerebbe sapere se se ne vogliono servire come argomento di qualche prerogativa, o, al contrario, per prova della nostra debolezza e imperfezione; e davvero la scienza per distruggerci e ucciderci a vicenda, per rovinare e perdere la nostra specie, sembra che non abbia molto di che farsi desiderare dalle bestie che non la posseggono: quando leoni Fortior eripuit vitam Leo ? quo nemore unquam Expiravit aper majoris dentibus apri? 44 Ma esse non ne sono in tutto esenti tuttavia, prova ne sono i furiosi scontri delle api e le zuffe dei capi delle due armate contrarie: saepe duobus Regibus incessit magno discordia motu, Continuoque animos volgi et trepidantia bello Corda licet longe praesciscere45. Non leggo mai questa divina descrizione che non mi sembri di leggere dipinta l'inettitudine e la vanità umana. Infatti queste azioni guer-

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Montaigne 41 3 I testi - Saggi - Libro II

riere che ci colpiscono per il loro orrore e spavento, quella tempesta di suoni e di grida , Fulgur ibi ad coelum se tollit, totaque circum Aere renidescit tellus, subterque virum vi Excitur pedibus sonitus, clamoreque montes Icti rejectant voces ad sidera mundi46; questo spaventevole schieramento di tante migliaia di uomini, armati, tanto furore, ardore e coraggio, è piacevole a considerare per quante vane ragioni è agitato e per quante ragioni futili si estingue: Paridis propter narratur amorem Graecia Barbariae diro collisa duello47: tutta l'Asia andò in rovina e si consumò in guerre per il ruffianesimo di Paride. Il capriccio di un uomo solo, un dispetto, un piacere, una gelosia domestica , cause che non dovrebbero spingere due pescivendole a graffiarsi, sono la scintilla di tutto quello scompiglio. Vogliamo credere a quelli proprio che ne sono i principali autori e cause? Sentiamo il più grande , il più vittorioso Imperatore e il più potente che vi fu mai , imbastire e prendere a scherno , assai scherzosamente e molto argutamente parecchie battaglie rischiose e per mare e per terra, il sangue e la vita di cinquecentomila uomini che seguirono la sua sorte , e le forze e le ricchezze delle due parti del mondo dissipate per servire alle sue imprese, Quod futuit Glaphyran Antonius, hanc mihi poenam Fulvia constituit, se quoque utifutuam. Fulviam ego utfutuam? Quid, si me manius oret Poedicem,faciam ? Non puto, si sapiam. Autfutue, aut pugnemus, ait. Quid, si mihi vita Charior est ipsa mentula? Signa canant48. (Io uso in libertà di coscienza il mio latino, col permesso che voi me ne

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avete dato) 49. Ora questo grande corpo ha tanti aspetti e atteggiamenti che sembra minacciare il cielo e la terra:

Quam multi Lybico volvuntur marmore fluctus Saevus ubi Orion hybernis conditur undis, Vel cum sole novo densae torrentur aristae, Aut Hermi campo, aut Lyciaeflaventibus arvis, Scuta sonant, pulsuque pedum tremit excita tellus50; questo mostro furioso con tante braccia e tante teste è sempre l'uomo debole, pieno di disgrazie e miserabile. Non è che un formicaio smosso e agitato,

lt nigrum campis agmen51 . Un soffio di vento contrario, il gracchiare di una volata di corvi, il passo falso di un cavallo, il passaggio casuale di un'aquila, un sogno, una voce, un segno, una brinata mattutina bastano a rovesciarlo e a gettarlo per terra. Che solo un raggio di sole lo tocchi sul viso, eccolo distrutto e svenuto; che gli sventagli solo un po' di polvere agli occhi, come alle api del nostro poeta, ecco tutte le nostre bandiere , le nostre legioni e lo stesso grande Pompeo alla loro testa, disfatto e fracassato: infatti fu lui, mi pare, che Sertorio sconfisse in Spagna con quelle belle armi che hanno anche servito ad altri, come ad Eumene contro Antigono, a Surenna contro Crasso:

Hic motus animorum atque haec certamina tanta Pulveris exigui jactu compressa quiescent52. Che gli si lancino pure appresso le nostre api, esse avranno la forza e il coraggio di perderlo. Recentemente quando i Portoghesi assediavano la città di Talmy nella regione di Xiatime, gli abitanti di quella portarono sulle mura gran quantità di alveari, di cui sono assai fomiti. E a forza di fuoco spinsero le api con tanta vivacità contro i loro nemici, che li misero in fuga, poiché non poterono sostenere i loro attacchi e le loro puntu-

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Montaigne 41 5 I testi - Saggi - Libro II

re . Così si dovette la vittoria e la libertà della loro città a questo inusitato aiuto; con tale fortuna che , finito il combattimento, non si trovò una sola ape . Le anime degli Imperatori e dei ciabattini sono gettate nello stesso stampo. Considerando l'importanza delle azioni dei Principi e il loro peso , ci persuadiamo che sono prodotte da alcune cause tanto gravi e importanti: c' inganniamo; esse sono portate avanti e indietro nelle loro manifestazioni dalle stesse molle come le nostre. La stessa ragione che ci fa urtare con un vicino , suscita una guerra fra i Principi; la stessa ragione che ci fa frustare un servitore , capitando ad un re , gli fa mandare in rovina una provincia. Essi vogliono con la stessa leggerezza che noi, ma possono di più. Gli stessi desideri muovono un piccolo pidocchio e un elefante . Quanto alla fedeltà , non c 'è animale al mondo traditore quanto l'uomo; le nostre storie raccontano la fiera crudeltà che certi hanno fatta della morte dei loro padroni. Il Re Pirro, avendo incontrato un cane che faceva la guardia ad un uomo morto, e avendo sentito, che erano tre giorni che compiva quell' ufficio, comandò che si seppellisse quel corpo e portò quel cane con sé. Un giorno che egli assisteva alla rivista generale del suo esercito , quel cane, vedendo gli uccisori del suo padrone, si slanciò addosso a loro con grandi abbaiamenti e rabbia feroce, e con quel primo segno indirizzò la vendetta di quel diritto, che ne fu fatta subito dopo per via di giustizia. La stessa cosa fece il cane del saggio Esiodo , che persuase i figli di Ganistore di Naupatto dell'assassinio commesso sulla persona del suo padrone . Un altro cane, il quale stava a guardia di un tempio di Atene , avendo scorto un ladro sacrilego che portava via i più bei gioiern, si mise ad abbaiare contro di lui a più non posso; ma non essendosi i custodi svegliati, egli prese ad inseguirlo, e, venuto il giorno, si tenne un po' più lontano da lui, senza perderlo mai di vista. Se gli si porgeva da mangiare, non ne voleva; e agli altri passanti che incontrava sulla sua strada faceva festa con la coda e prendeva dalle loro mani quello che gli davano da mangiare; se il suo ladro si fermava per dormire, esso si fermava contemporaneamente nello stesso posto. Venuta notizia di questo cane ai custodi di quella chiesa, si misero a seguirne la traccia, informandosi del pelo di quel cane, e infine l'incontrarono nella città di Cromione, e

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anche il ladro, che essi portarono nella città di Atene, dove fu punito. E i giudici , in riconoscimento di quel buon merito, ordinarono dal bilancio pubblico una certa misura di grano per nutrire il cane, e ai sacerdoti di averne cura. Plutarco riferisce questa storia come cosa verissima e accaduta al suo tempo . Quanto alla gratitudine (poiché mi sembra che abbiamo bisogno di mettere in valore questa parola) basterà questo solo esempio , che Appione racconta per esserne stato spettatore egli stesso. Un giorno, egli dice, che a Roma si dava al popolo lo spettacolo del combattimento di parecchie bestie nuove, e principalmente di leoni di grandezza inusitata, ce n'era fra gli altri uno che, per il suo portamento furioso, per la forza e la grossezza delle sue membra e un ruggire forte e spaventevole, si attirava lo sguardo di tutti gli astanti . Fra gli altri schiavi che furono presentati al popolo in questo combattimento delle bestie, vi fu un certo Androdo, della Dacia, che apparteneva ad un Signore Romano di grado consolare. Questo leone, vedutolo di lontano, si fermò improvvisamente come stupito, e poi si avvicinò con tutta dolcezza, in atteggiamento tranquillo e pacifico, come se lo riconoscesse. Fatto ciò, assicuratosi di quello che cercava, cominciò ad agitare la coda come i cani che festeggiano il loro padrone, e a baciare e leccare le mani e le cosce di quel povero miserabile mezzo morto di paura e fuori di sé . Avendo Androdo ripreso spirito per la mansuetudine di quel leone , ed essendosi assicurato per averlo guardato e riconosciuto, era un piacere straordinario vedere le carezze e le feste che si facevano tra loro l'un I' altro. Per cui , avendo il popolo levato grida di gioia, l'Imperatore fece chiamare quello schiavo per sentire da lui la ragione di un fatto così strano. Egli raccontò una storia nuova e meravigliosa: Mentre il mio padrone, disse, era proconsole in Africa, fui costretto dalla crudeltà e rigore che aveva verso di me, poiché mi faceva battere tutti i giorni, a sottrarmi a lui e fuggirmene. E, per nascondermi con sicurezza ad un personaggio che aveva così grande potere nella provincia, trovai che fosse il modo migliore raggiungere le solitudini e le regioni sabbiose e inabitabili di quel paese, risoluto, se mi fosse venuto meno il modo di nutrirmi, di trovare qualche modo di uccidermi da me stesso. Essendo il sole assai cocente sul mezzogiorno e i calo-

ri insopportabili, veduta una caverna nascosta e inaccessibile, mi ci gettai dentro. Poco dopo vi capitò questo leone, che aveva una zampa sanguinan-

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te e ferita, e si lamentava e gemeva per i dolori che soffriva. Al suo arrivo, mi spaventai molto; ma vedendomi rannicchiato in un angolo della sua tana, si avvicinò adagio adagio a me, presentandomi la zampa ferita e mostrandomela come per chiedermi aiuto: gli tolsi allora una grossa scheggia di legno che aveva dentro , ed essendomi un po' familiarizzato con lui, premendo la ferita, ne feci uscire il sudiciume che vi si era ammasato, l'asciugai, la pulii più accuratamente che potei; esso, sentendosi alleviato del male e sollevato da quel dolore, cominciò a riposare e a dormire tenendo sempre la sua zampa fra le mie mani. Da allora in poi, lui ed io vivemmo insieme in quella caverna, per tre anni interi , degli stessi cibi: poiché delle bestie che esso uccideva nella caccia me ne portava le parti migliori che io facevo cuocere al sole in mancanza di fuoco e me ne nutrivo. A lungo andare, stancatomi di quella vita brutale e selvaggia, essendosene andato un giorno quel leone alla sua solita caccia, io mi allontanai di là e al terzo giorno fui colto dai soldati che mi condussero dall ' Africa in questa città dal mio padrone; il quale subito mi condannò a morte e ad essere dato alle bestie. Ora, a quel che vedo, poco dopo è stato preso anche quel leone che adesso mi ha voluto ricompensare della buona azione e della guarigione che aveva ottenuto da me. Ecco la storia che Androdo raccontò all'Imperatore, il quale la fece conoscere a poco a poco alla folla. Per questo , a richiesta di tutti , egli fu messo in libertà e assolto da quella condanna e per volere del popolo gli si fece dono di quel leone. Vediamo in seguito, dice Appione , Androdo condurre quel leone con sé con un leggero laccio , girare per le taverne di Roma , ricevere il denaro che gli veniva dato , il leone lasciarsi coprire dei fiori che gli venivano gettati e ognuno dire incontrandolo: ecco il leone ospite dell'uomo , ecco l'uomo medico del leone . Noi piangiamo spesso la perdita delle bestie che amiamo, e così esse fanno per la nostra.

Post, bellator equus, positis insignibus, Aethon lt lachrymans, guttisque humectat grandibus ora53. Come alcune delle nostre nazioni hanno le donne in comune, in alcune ciascuno ha la sua; e questo non si vede anche nelle bestie? e matrimo-

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ni custoditi meglio dei nostri? Quanto all ' associazione e collaborazione che esse stringono fra loro per collegarsi insieme e aiutarsi vicendevolmente, si vedono buoi, maiali e altri animali , che al grido di quello che voi colpite, tutta la compagnia accorre in suo aiuto e si unisce per difenderlo. La chiocciola se ha preso in bocca l'amo del pescatore, le sue compagne si radunano in massa attorno a lui e rosicchiano la lenza; e se per avventura ce n'è una che sia incappata nella rete , le altre le stendono la coda da fuori , ed essa la stringe quanto può coi denti; la tirano così fuori e la trascinano via. I barbi, quando uno dei loro compagni è preso, mettono la lenza contro il loro dorso, drizzando fuori una spina che hanno dentata come una sega, e tutti insieme la segano e la spezzano. Quanto ai particolari servizi che ci facciamo l' uno con l'altro per soccorso della vita, se ne vedono parecchi esempi simili fra quelle. Si dice la balena non avanzi mai senza avere davanti a sé un piccolo pesce simile al chiazzo di mare che per questo si chiama la guida; la balena lo segue, lasciandosi condurre e girare facilmente come il timone fa girare la nave; e, in ricompensa, mentre ogni altra cosa, sia bestia o bastimento, che entri nell'orribile caos della bocca di questo mostro , è subito perduta e inghiottita, quel piccolo pesce vi si ritira in tutta sicurezza e vi dorme, e durante il sonno di lui la balena non si muove; ma appena quello esce, essa si mette a seguirlo senza posa; e se, per caso , lo perde, si mette a girare qua e là, e spesso strofinandosi contro le rocce, come un bastimento senza timone; e questo Plutarco assicura di aver visto nell'isola di Anticira . Una simile associazione esiste fra il piccolo uccello chiamato scricciolo e il coccodrillo: lo scricciolo serve da sentinella a quel grande animale; e se l 'icneumone , suo nemico, si avvicina per assalirlo, quell'uccellino, per paura che quello non lo sorprenda addormentato, va col suo canto e a beccate a svegliarlo e ad avvertirlo del pericolo: esso vive dei resti di quel mostro che lo accoglie familiarmente nella sua bocca e gli permette di beccare nelle sue mascelle e fra i denti e raccogliervi i pezzi di carne che vi sono restati; e, quando quello vuol chiudere la bocca, l'avverte prima di uscirne, chiudendola a poco a poco , senza stringerla e ferirlo . Quella conchiglia che si chiama madreperla vive anch'essa così come un crostaceo, il quale è un piccolo animale , una specie di granchio, che gli serve di usciere e di portiere , situato all ' apertura di quella con-

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chiglia che esso tiene continuamente socchiusa, finché non vede entrarci qualche pesciolino adatto alla loro caccia; allora esso entra nella madreperla e le va a pizzicare la carne viva, e la costringe a chiudere la conchiglia; e così tutti e due insieme mangiano la preda chiusa nella loro fortezza . Nel modo di vivere dei tonni , si nota una particolare conoscenza di tre parti della matematica. Quanto ali' astrologia, essi l'insegnano all 'uomo; infatti si fermano nel luogo dove li sorprende il solstizio d'inverno , e non se ne allontanano fino all'equinozio seguente: ecco perché Aristotele stesso concede loro volentieri quella scienza. Quanto alla geometria e l'aritmetica, essi formano il loro banco sempre a forma di cubo, quadrato in tutti i sensi , e ne formano un corpo di battaglione solido, chiuso e circondato tutt'intorno , a sei facce tutte uguali; poi nuotano in quest'ordine quadrato , tanto largo dietro che davanti, in maniera che chi ne guarda e conta una fila, può facilmente contare tutto l'esercito , in quanto il numero in profondità è uguale come in larghezza , e in larghezza come in lunghezza. Quanto alla magnanimità, è difficile di darne un esempio più evidente che in quel fatto del grande cane che fu mandato alle Indie al Re Alessandro. Gli fu messo davanti prima un cervo perché combattesse con lui, e poi un cinghiale e poi un orso: esso non se ne curò e non si mosse neppure dal suo posto; ma, quando vide un leone, si alzò subito sulle zampe , mostrando chiaramente che credeva quello là solo degno di venire a combattimento con lui . Riguardo al pentimento e al riconoscimento delle colpe, si racconta di un elefante , il quale avendo ucciso il suo custode nell 'impeto della collera, ne prese un 'afflizione così grande che non volle poi mangiare e si ridusse a morire. Quanto alla clemenza, si racconta di una tigre, la più inumana di tutte le bestie , la quale, essendogli stato offerto un capretto , soffrì due giorni la fame prima di fargli male, e il terzo spezzò la gabbia in cui era chiusa, per andare a cercare altro pasto , non volendo attaccarsi al capretto, suo familiare ed ospite. E quanto ai diritti della familiarità e della convenienza che si stabilisce con la convivenza, ci avviene di solito di entrare in dimestichezza coi gatti ,

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i cani e le lepri insieme: ma ciò che l'esperienza insegna a quelli che viaggiano per mare, e specialmente nel mare di Sicilia, sulla condizione degli alcioni, supera ogni immaginazione umana. Di quale specie di animali la natura non ha tenuto in onore il puerperio, la nascita e il parto? Infatti i poeti narrano che una sola isola, quella di Delo, prima vagante, fu fermata per il parto di Latona; ma Dio ha voluto che tutto il mare fosse fermato, calmato e appianato , senza onde, senza venti e senza pioggia, mentre l'alcione fa i suoi piccoli , che è giusto circa il solstizio, il giorno più corto dell'anno; e per suo privilegio noi abbiamo sette giorni e sette notti nel cuore dell'inverno, in cui possiamo navigare senza pericolo. Le loro femmine non conoscono altro maschio che il proprio, l'assistono per tutta la loro vita senza mai abbandonarlo; se diventa debole e fiacco, se lo caricano sulle spalle , lo portano dovunque e lo servono fino alla morte. Ma nessuna esperienza è potuta ancora arrivare alla conoscenza di quella meravigliosa arte con cui la femmina dell'alcione costruisce il nido per i suoi piccoli , né indovinarne la materia. Plutarco, il quale ne ha veduti e avuti per le mani parecchi, pensa che sia delle lische di qualche pesce che essa congiunge e lega insieme, intrecciandole le une per lungo, le altre di traverso, e aggiustando curve e rotondità, in modo da formarne infine un vascello rotondo adatto a navigare; poi, quando ha terminato di costruirlo, lo porta allo sbattimento delle onde marine, là dove il mare, percuotendolo dolcemente, le insegna a raddobbare quello che non è ben collegato, e rafforzarlo meglio nei punti in cui vede che la sua struttura si dimostra poco salda e si rilascia per i colpi del mare; e , al contrario , quello che è ben collegato, lo sbattimento del mare ve lo stringe e ve lo serra in modo che non si può né rompere, né sciogliere o danneggiare con colpi di pietra o di ferro, se non di tutta forza. E ciò che più è da ammirare , è la proporzione e la formazione della cavità di dentro: infatti essa è composta e proporzionata in maniera da non potere accogliere né ricevere altro che l'uccello che l'ha costruita; poiché ad ogni altra cosa è impenetrabile, chiusa e serrata talmente che niente ci può entrare , neppure l'acqua del mare. Ecco una descrizione ben chiara di quella costruzione, e presa di buona fonte: tuttavia mi sembra che essa non ci spieghi ancora abbastanza la difficoltà di quell ' architettura. Ora da quale vanità ci può venire di considerare al di sotto di noi e di interpretare sde-

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gnosamente i fatti che non possiamo imitare né comprendere? Per portare un po' più a fondo questa uguaglianza e conformità fra noi e le bestie, il privilegio di cui la nostra anima si gloria, di riferire alla propria condizione tutto ciò che essa concepisce, di spogliare delle qualità mortali e materiali tutto ciò che entra in essa, di costringere le cose che stima degne della sua familiarità a svestire e spogliare le loro condizioni corruttibili, e far loro mettere da parte, come vestiti superflui e vili, lo spessore, la lunghezza, la profondità, il peso, il colore, l'odore, l'acutezza, la finezza, la durezza, la mollezza e tutti gli accidenti sensibili, per adattarli alla sua condizione immortale e spirituale, in modo che Roma e Parigi che io ho nell'anima, Parigi che immagino, me la immagini e la comprenda senza grandezza e senza postazione, sen:i;a pietra, senza intonaco e senza legno: questo stesso privilegio, io dico, sembra appartenere molto evidentemente alle bestie: infatti un cavallo abituato alle trombe, alle archibugiate e ai combattimenti, che noi vediamo tremare e fremere mentre dorme, steso sulla sua lettiera, come se fosse nella mischia, è certo che sente nella sua anima un suono di tamburo senza rumore, un esercito senz'armi e senza corpo: Quippe vide bis equos fortes cum membra jacebunt In somnis, sudare tamen, spirareque saepe, Et quasi de palma summas contendere vires54. Quella lepre che un levriero immagina in sogno, e dietro la quale lo vediamo ansare mentre dorme, allungare la coda, scuotere i garretti e ripetere perfettamente i movimenti della corsa, è una lepre senza pelo e senz 'ossa, Venantumque canes in molli saepe quiete, Jactant crura tamen subito, vocesque repente Mittunt, et crebras reducunt naribus auras, Ut vestigia si teneant inventa ferarum, Experge factique sequuntur inania saepe Cevorum simulachra,fugae quasi dedita cernant: Donec discussis redeant erroribus ad se55.

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I cani da guardia che spesso vediamo brontolare sognando, e poi guaire ad un tratto e svegliarsi di soprassalto, come se vedessero giungere qualche estraneo: quell'estraneo che la loro anima vede è un uomo in spirito e impercettibile, senza dimensione, senza colore e senza corpo:

consueta domi catulorum blanda propago Degere, saepe levem ex oculis volucremque soporem Discutere , et corpus de terra corripere instant, Proinde quasi ignotas facies atque ora tueantur56. Quanto alla bellezza del corpo, prima di passare oltre, mi occorrerebbe sapere se siamo d ' accordo nella sua descrizione. È verosimile che noi non sappiamo affatto che cosa sia bellezza in natura e in generale, poiché alla bellezza umana e alla nostra diamo tante forme diverse: per la quale se ci fosse qualche regola naturale, la riconosceremmo tutti, come il calore del fuoco. Noi ne immaginiamo le forme a nostro piacere.

Turpis Romano Belgicus ore color57. Gli Indiani la rappresentano nera e fosca , con le labbra grosse e gonfie, col naso piatto e largo. E caricano di grossi anelli d'oro la cartilagine fra le narici facendoli pendere fino alla bocca; come anche il labbro di sotto, di grossi cerchi ornati di pietre, sicché il labbro cade loro sul mento; ed è una loro grazia mostrare i denti fino a sotto le radici. Nel Perù , le orecchie più grandi sono le più belle, e le tirano quanto più possono ad arte: e un tale dei nostri giorni narra di aver visto in un paese orientale questa cura di ingrandirle a tal modo, e di caricarle di gioielli pesanti, sicché egli d 'un colpo passava il suo braccio vestito attraverso il foro dell'orecchio. Ci sono altrove popoli che si anneriscono con gran cura i denti e non vogliono vederli bianchi; altrove li tingono di color rosso: Non solo fra i Baschi le donne si credono più belle con testa rasata, ma anche altrove; e, cosa più strana, in certe regioni glaciali, come dice Plinio. Le Messicane mettono fra le bellezze la piccolezza della fronte, e, mentre si radono in tutto il resto del corpo, fanno crescere peli sulla fronte e anche ad arte; ed hanno in così gran pregio la grandezza delle mammelle, che fanno sfoggio di poter dare la mammella ai loro

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piccoli per disopra le spalle. Noi considereremmo ciò una bruttezza. Gli Italiani dipingono la bellezza grossa e massiccia, gli Spagnoli magra e smilza; e fra noi, uno la vuole bianca, l'altro bruna; l'uno molle e delicata, l' altro forte e vigorosa; chi richiede la graziosità e la dolcezza, chi la gagliardia e la maestosità. Proprio come l'eccellenza nella bellezza, che Platone attribuisce alla figura sferica, gli Epicurei la danno piuttosto a quella piramidale o quadrata, e non possono mandar giù un Dio in forma di palla. Ma, checché sia, natura non ci ha privilegiati in questo, più che, del resto, nelle sue leggi comuni . E, se ci esaminiamo bene, vedremo che se ci sono in ciò alcuni animali meno favoriti che noi, ce ne sono altri, e in gran numero, che lo sono di più, «a multis animalibus decore vincimur»58 , specie di quelli di terra, nostri compatrioti: poiché quanto a quelli marini (ad eccezione della forma che non può mettersi a confronto , tanto essa è diversa) nel colore, nettezza, pulizia, acconciamento, noi la cediamo loro abbastanza; non meno, in ogni qualità, a quelli dell'aria. E quella prerogativa che i poeti mettono in valore, della nostra posizione eretta, volta verso il cielo, sua origine,

Pronaque cum spectent animalia caetera terram, Os homini sublime dedit, coelumque videre Jussit, et erectos ad sidera tollere vultus59, essa è veramente poetica, poiché ci sono parecchie bestiole che hanno lo sguardo ugualmente volto verso il cielo; e il collo dei cammelli e degli struzzi trovo che è ancora più alzato e diritto del nostro. Quali animali non hanno il viso in alto e non l'hanno in avanti, e non guardano in faccia come noi , e non mirano nella loro normale posizione tanto cielo e tanta terra come l'uomo? E quali caratteri della nostra costituzione corporale in Platone e in Cicerone non possono adattarsi a mille sorte di bestie? Quelle che ci somigliano di più sono le più brutte e abiette di tutta la schiera: infatti per l'apparenza esteriore e per la forma del viso, sono le bertucce:

Simia quam similis, turpissima bestia, nobis!(:IJ

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Montaigne I testi - Saggi - Libro II

per l'interno e per le parti vitali , è il porco, Certo , quando considero l'uomo proprio nudo (sì , anche in quel sesso che sembra avere maggior bellezza) , le sue tare, la sua soggezione naturale e le sue imperfezioni , trovo che abbiamo avuto più ragione che qualsiasi altro animale di coprirci . Siamo stati scusabili di farci prestare da quelli che natura aveva favoriti in ciò più che noi , per mascherarci con la loro bellezza e nasconderci sotto le loro spoglie, lana, piume , pelo , seta. Notiamo , del resto , che noi siamo il solo animale il cui difetto offenda i nostri propri compagni , e i soli che dobbiamo appartarci , nelle nostre azioni naturali , dai nostri simili. Veramente è anche un fatto degno di considerazione , che i maestri del mestiere ordinano , per rimedio alle passioni amorose , la vista intera e libera del corpo che si desidera; che, per raffreddare l'amore , non occorra che vedere in libertà quello che si ama . Ille quod obscaenas in aperto corpore partes Viderat, in cursu qui fuit , haesit amor61 .

E, ancor che questa ricetta possa per avventura venire da un 'indole un po' delicata e tepida, è pure uno straordinario segno della nostra debolezza, che l'uso e la conoscenza ci disgusti, gli uni degli altri. Non è tanto pudore quanto arte e prudenza, quel che rende le nostre signore così circospette nel ricusarci l'ingresso nei loro gabinetti, prima che siano dipinte e preparate per mostrarsi in pubblico , Nec veneres nostras hoc fallit: quo magis ipsae Omnia summopere hos vitae post scenia celant, Quos retinere volunt adstrictoque esse in amore62;

laddove in parecchi animali non c'è niente di loro che non amiamo e che non sia gradito ai nostri sensi, tanto che dai loro stessi escrementi e dal loro svuotamento, noi traiamo non solo le leccornie da mangiare , ma i nostri più ricchi ornamenti e profumi. Questo discorso non riguarda se non la nostra c0mune categoria, e non è tanto sacrilego da volerci comprendere quelle divine , soprannaturali e

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straordinarie bellezze che talvolta si vedono risplendere fra noi come astri sotto un velo corporeo e terrestre. Del resto, la parte stessa che noi attribuiamo agli animali dei favori della natura, è per nostra ammissione molto vantaggiosa per loro. Noi ci attribuiamo beni immaginari e fantastici , beni futuri e che ora non sono , dei quali l'umana capacità non può essa stessa garantire; o beni che ci attribuiamo falsamente con la libertà del nostro arbitrio , come la ragione, la scienza e l'onore; e ad essi lasciamo beni essenziali , maneggiabili e palpabili; la pace, la tranquillità , la sicurezza, l'innocenza e la salute; la salute, dico , il più bello e il più ricco dono che la natura ci possa fare. In modo che la Filosofia, particolarmente quella stoica, osa ben dire che Eraclito e Ferecide, se avessero potuto scambiare la loro saggezza con la salute e salvarsi con quel mercato l'uno dall' idropisia, l'altro dal morbo pediculare, che lo affliggeva, lo avrebbero certo fatto . Per questo, danno ancora più gran pregio alla saggezza, confrontandola e contrapponendole alla salute, di quanto non facciano in quest'altra proposizione che è pure loro. Essi dicono che se Circe avesse offerto ad Ulisse due beveraggi, uno per far diventare un uomo da folle saggio,l'altro da saggio folle, Ulisse avrebbe dovuto accettare quello della follia, piuttosto che consentire a Circe di mutare la sua figura umana in quella di una bestia; e dicono che la stessa saggezza avrebbe parlato a lui in questa maniera: Lasciami, lasciami là, piuttosto che mettermi nella forma e nel corpo di un asino. Come? Questa grande e divina sapienza i Filosofi l'abbandonano dunque per questo velo corporeo e terrestre? Non è più dunque per la ragione , per la favella e per l'anima che noi eccelliamo sulle bestie; è per la nostra bellezza, la nostra bella tinta e la nostra bella disposizione di membra, per cui bisogna che abbandoniamo la nostra intelligenza, la nostra saggezza e tutto il resto. Ora, io accetto questa ingenua e franca confessione. Certo, essi hanno capito che quelle parti, di cui abbiamo tanta gioia, non sono che vana fantasia. Quando le bestie avessero dunque tutta la virtù, la scienza, la saggezza e dottrina Stoica, sarebbero sempre bestie: né sarebbero pertanto paragonabili ad un uomo miserabile , malvagio e insensato. Infine tutto ciò che non è come siamo noi , non ha valore. E Dio stesso, per farsi valere, bisogna che ci assomigli, come diremo or ora. Per cui appare che non è per un vero ragionamento , ma per una

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superbia folle e per ostinazione che ci preferiamo agli altri animali e ci appartiamo dalla loro condizione e comunione. Ma, per tornare al mio argomento, abbiamo per parte nostra l'incostanza, l'irresolutezza, l'incertezza, il dolore, la superstizione, la preoccupazione delle cose future, sopratutto, dopo la nostra vita, l'ambizione, l'avarizia, la gelosia, l'invidia, i desideri smodati, sfrenati e indomabili, la guerra, la menzogna, la slealtà, la calunnia e la curiosità. Certo, abbiamo davvero strapagato questa bella ragione della quale ci gloriamo e quella capacità di giudicare e di conoscere, se l'abbiamo comprata a prezzo di quel numero infinito di passioni delle quali siamo continuamente prigionieri. Certo non vogliamo fare ancora valere, come ben fa Socrate, quella notevole prerogativa sugli altri animali, per cui, mentre natura ha loro fissato certe stagioni e certi limiti per i piaceri di Venere, ne ha lasciata a noi la possibilità in tutti i momenti e in tutte le occasioni. «Ut vinum aegrotis, quia prodest raro, nocet saepissime, melius est non adhibere omnino, quam, spe dubiae salutis, in apertam perniciem incurrere: sic haud scio an melius faerit humano generi motum istum celerem cogitationis, acumen, solertiam, quam rationem vocamus, quoniam pestifera sint multis, admodum paucis salutaria, non dari omnino, quam tam magnijice et tam large dari»63. Di qual frutto possiamo pensare essere stata a Varrone e ad Aristotele quell'intelligenza di tante cose? Li ha essa esentati dalle disgrazie umane? Sono stati liberati dagli accidenti che affliggono un facchino? hanno tratto dalla logica qualche sollievo alla gotta? per aver saputo come quest'umore si mette nelle giunture, l'hanno sentita meno? si sono salvati dalla morte col sapere che alcuni popoli se ne rallegrano, e dall'esser cornuti col sapere che in qualche paese le donne sono in comune? Al contrario, avendo tenuto il primo posto nel sapere, l'uno fra i Romani, l'altro fra i Greci, e nel tempo in cui la scienza era in maggior fiore, non abbiamo però saputo che essi avessero ottenuto alcuna particolare eccellenza nella loro vita; anzi il Greco ha abbastanza da fare per liberarsi di alcune notevoli macchie nella sua. Si è trovato che il piacere e la salute siano più gustosi per colui che conosce l'astrologia e la grammatica?

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llliterati num minus nervi rigent?64 e l'onta e la povertà meno fastidiose?

Scilicet et morbis et debilitate carebis, Et luctum et curam effugies, et tempora vitae Longa tibi post haec fato meliore dabuntur65 . Ho visto al tempo mio cento artigiani, cento contadini più saggi e più felici dei rettori dell'università, e ai quali io desidererei più rassomigliare. La dottrina, mi pare, tiene posto fra le cose necessarie alla vita, come la gloria, la nobiltà, la dignità o, per i più, come la bellezza, la ricchezza e simili altre qualità che ci servono veramente, ma da lontano, e un po' più per nostra volontà che naturalmente. Non ci occorrono affatto più doveri, regole e leggi di vita, nella nostra società, che non ne occorrano alle gru e alle formiche nella loro. E- ciò nondimeno noi vediamo che quelle vivono assai bene senza erudizione. Se l'uomo fosse saggio, terrebbe in giusto pregio ciascuna cosa secondo che essa fosse la più utile e adatta alla sua vita. Chi ci stimerà per le nostre azioni e per i nostri atteggiamenti, troverà maggior numero di eccellenti fra gli ignoranti che fra i sapienti, dico in ogni specie di virtù. La vecchia Roma mi sembra averne prodotti di più grande valore, e in pace e in guerra, che quella Roma sapiente che andò in rovina da se stessa. Quando il resto fosse in tutto simile, per lo meno la probità e l'onestà rimarrebbero dalla parte dell'antica, poiché esse si accoppiano singolarmente bene con la semplicità. Ma lascio questo discorso, che mi porterebbe più lontano di quanto non vorrei andare. Dirò solo ancora questo, che sono la sola umiltà e la sottomissione a poter fare un uomo dabbene. Non bisogna lasciare al giudizio di ciascuno la conoscenza del proprio dovere; bisogna prescriverglielo, non lasciarlo scegliere a suo giudizio: altrimenti, secondo la debolezza e varietà infinita delle nostre ragioni e opinioni , noi ci fabbricheremmo alla fine doveri che ci porterebbero a mangiarci gli uni con gli altri, come dice Epicuro. La prima legge che Dio diede all'uomo fu

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una legge di pura obbedienza; fu un comandamento nudo e semplice in cui l'uomo non ebbe niente da conoscere e da fare; in quanto che l'obbedire è il principale compito di una anima ragionevole, che riconosce un celeste superiore e benefattore. Dall 'obbedire e dal cedere nasce ogni altra virtù, come dal desiderio smodato ogni peccato . E, al contrario, la prima tentazione che venne alla natura umana da parte del diavolo, il suo primo veleno, s'insinuò in noi dalle promesse che quello ci fece di scienza e di conoscenza. «Eritis sicut dii, scientes bonum et malum»66. E le Sirene, in Omero , per ingannare Ulisse, e attirarlo nelle loro pericolose e rovinose acque, gli offrirono in dono la scienza . La peste dell'uomo è la presunzione di sapere. Ecco perché l'ignoranza ci è tanto raccomandata dalla nostra religione come cosa necessaria al credere e all'obbedire. «Cavete ne quis vos decipiat per philosophiam et inanes seductiones secundum elementa mundi»67. In questo c'è una generale concordia fra tutti i filosofi di tutte le scuole, che cioè il sommo bene consista nella tranquillità dell'anima e del corpo. Ma dove la troveremo? Ad summum sapiens uno minor est love: dives , Liber, honoratus, pulcher, rex denique regum; Praecipue sonus, nisi cum pituita molesta est68.

Sembra in verità che la natura per la consolazione del nostro stato miserabile e debole non ci abbia fatto parte che della presunzione. È ciò che dice Epicuro: che l'uomo non ha niente di propriamente suo se non l'uso dei propri pensieri. Non abbiamo di nostro che vento e fumo. Gli Dei hanno la sanità per essenza, dice la filosofia, e possono conoscere la malattia; l'uomo, al contrario, possiede i suoi beni per immaginazione, i mali in essenza. Abbiamo avuto ragione di far valere le forze della nostra immagine, poiché tutti i nostri beni non sono che in sogno. Sentite come si vanta quel povero e calamitoso animale. Non c'è niente, dice Cicerone, di così dolce come l'occupazione delle lettere, di quelle lettere, dico io, per mezzo delle quali l'infinità delle cose, l'immensa grandezza della natura, i cieli in questo stesso mondo, e le terre e i mari ci sono fatti palesi; sono esse che ci hanno insegnato la religione, la mode-

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razione, la magnanimità e che hanno strappato la nostra anima dalle tenebre per farle vedere tutte le cose alte, basse, prime, ultime e medie: sono esse che ci procurano di che vivere bene e felicemente, e ci guidano a trascorrere la nostra vita senza tedio e senza offesa. Costui non sembra parlare delle condizioni di Dio onnipresente e onnipotente? E, infatti, mille femminette hanno vissuto in paese una vita più tranquilla, più dolce e costante che non sia stata la sua. Deus illefuit, Deus, inclite Memmi, Qui princeps vitae rationem invenit eam, quae Hunc appellatur sapientia, quique per artem Fluctibus e tantis vitam tantisque tenebris In eam tranquillo et tam clara luce locavit69 . Ecco parole meravigliose e belle; ma un accidente lievissimo mise il cervello di costui in peggiore stato che quello del più piccolo pastore, nonostante quel Dio maestro , e quella divina sapienza. Della stessa impudenza è quella proposizione del libro di Democrito: Mi accingo a parlare di ogni cosa; e quello sciocco titolo che Aristotele ci presenta: degli Dei mortali; e quel giudizio di Crisippo, che Dione era virtuoso quanto Dio. E il mio Seneca dice di riconoscere che Dio gli ha dato la vita, ma che è cosa sua il vivere bene; così come quest'altro: «In virtute vere gloriamur; quod non contingeret, si id donum a Deo, non a nobis haberemus»?o. Equesto pure è di Seneca: che il saggio ha la fortezza simile a Dio, ma nell'umana debolezza; per cui lo supera. Non c'è niente di così comune come imbattersi in ragionamenti di simile temerità. Non c'è nessuno di noi che si offenda tanto di vedersi paragonare a Dio, come di vedersi abbassare al livello degli altri animali; tanto noi siamo più gelosi del nostro onore che di quello del nostro creatore . Ma è necessario abbassare questa sciocca vanità e scuotere vivamente e coraggiosamente le fondamenta ridicole su cui si fabbricano queste false opinioni. Finché penserà di avere qualche mezzo e qualche potere in sé, mai l'uomo riconoscerà ciò che deve al suo padrone; farà sempre delle sue uova polli , come si dice: bisogna metterlo in camicia. Vediamo qualche notevole esempio degli effetti della sua filosofia:

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Posidonio, afflitto da una malattia tanto dolorosa che gli faceva torcere le braccia e digrignare i denti , pensava bene di far le fica al dolore gridando contro di esso: Hai voglia a fare, tanto non dirò che tu sei male . Egli ha gli stessi tormenti del mio servo , ma si fa bravo per il fatto che almeno trattiene la lingua in obbedienza alle regole della sua setta. «Re succumbere non oportebat verbis gloriantem»7 1. Arcesilao era malato di gotta; Carneade, andatolo a visitare e tornandosene via tutto afflitto , quello lo richiamò e, mostrandogli i suoi piedi e il petto: Niente è venuto di là qui, gli disse. Costui ha un po' miglior garbo, poiché sente di aver male e vorrebbe esserne liberato; ma da quel male il suo cuore non è tuttavia abbattuto e indebolito . L'altro si chiude nella sua rigidezza, più, temo, verbale che essenziale. E Dionisio di Eraclea, afflitto da violento bruciore agli occhi, fu spinto ad abbandonare quelle decisioni Stoiche. Ma quando la scienza avesse per effetto ciò che essi dicono, di smussare e abbassare l'asprezza delle disgrazie che ci perseguitano , che cosa fa essa che non faccia molto più semplicemente l' ignoranza, e con maggior evidenza? Il filosofo Pirrone, correndo in mare il rischio di una grande burrasca , mostrava a coloro che erano con lui , perché la imitassero, soltanto la tranquillità di un maiale che viaggiava con loro e che guardava quella tempesta senza spaventarsi. La filosofia, al culmine dei suoi precetti , ci rimanda agli esempi di un atleta e di un mulattiere, nei quali si nota in genere molto meno preoccupazione della morte, del dolore e di altri inconvenienti , e più fermezza di quanto la scienza non ne fornisca mai ad alcuno che non ci sia nato e già preparato per naturale abitudine. Che cosa, se non l' ignoranza, fa che si incidano e taglino le tenere membra di un fanciullo più facilmente che le nostre? E quelle di un cavallo? Quanti malati non ha guarito la sola forza dell ' immaginazione? Noi ne vediamo di solito farsi salassare , purgare e dare medicine per guarire dai mali che essi non sentono che nel proprio cervello. Quando ci vengano a mancare i nostri mali veri, la scienza ci presta i suoi. Quel colore e quella tinta vi denunciano qualche flussione catarrosa; questa stagione calda vi minaccia di un attacco di febbre ; questa frattura della linea di vita della vostra mano sinistra vi avverte di qualche grosso malanno . E infine essa si rivolge bruscamente alla salute stessa. Questo ardore e vigore di gio-

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vinezza non può rimanere in quello stato; occorre portar via del sangue e della forza, per paura che non si volga contro voi stessi. Paragonate la vita di un uomo soggetto a queste fantasie con quella di un contadino che si lascia andare alla sua naturale tendenza, che misura le cose col solo senso del momento, senza scienza e senza pronostici, che non ha malattie se non quando le ha; quando quell'altro ha spesso la pietra nella mente prima che l'abbia nei reni: come se non facesse a tempo abbastanza per soffrire il male quando questo ci sarà, esso l'anticipa con la fantasia e gli corre incontro. Ciò che dico della medicina, si può applicare per esempio in genere per ogni scienza. Da ciò è venuta quell'antica opinione dei filosofi che collocavano il bene supremo nel riconoscere la debolezza della nostra ragione. La mia ignoranza mi fornisce tanti motivi di speranza quanti di timore, e, non avendo altra misura della mia salute che quella degli esempi altrui e dei fatti che vedo altrove in casi simili, ne trovo di ogni specie, e mi fermo ai paragoni che mi sono più favorevoli. Accolgo la salute a braccia aperte, libera, piena ed intera, e aguzzo la mia voglia di goderla, tanto più che essa è per me ora meno consueta e più rara e tanto io son lontano dal turbare la sua pace e la sua dolcezza col fastidio di una nuova e obbligatoria forma di vivere. Le bestie ci mostrano a sufficienza quante malattie ci procuri l'agitazione del nostro spirito. Ciò che ci viene raccontato di quelli del Brasile, che non morivano se non di vecchiaia e che si attribuisce alla serenità e tranquillità della loro aria, io l'attribuisco piuttosto alla tranquillità e serenità della loro anima, libera di ogni passione e pensiero e occupazione faticosa e spiacevole, come genti che passano la loro vita in un'ammirevole semplicità ed ignoranza, senza lettere, senza leggi, senza re, senza qualsiasi religione. E da che cosa viene, come si vede per esperienza, che i più grossolani e volgari sono più saldi e più desiderabili nelle pratiche amorose, e che l'amore di un mulattiere si rende spesso più accettabile di quello di un uomo elegante, se non che in questo qui l'emozione dell'anima turba la sua forza corporale, la corrompe e la stanca? Così essa stanca anche e turba di solito se stessa. Che cosa travolge l'intelletto, che lo spinge di solito di più alla follia, se non la sua prontezza, la sua acutezza, la sua piccolezza, e infine la sua propria forza? Da che

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cosa nasce la più spinta follia se non dalla più spinta saggezza? Come dalle grandi amicizie nascono le grandi inimicizie; dalle saluti vigorose le malattie mortali così dalle rare e vive emozioni delle nostre anime le pazzie più straordinarie e più sconcertanti; non c'è che un mezzo giro di bischero per passare dall'una cosa all'altra. Nelle azioni degli uomini insensati noi vediamo quanto propriamente la follia si conformi con le più gagliarde opere della nostra anima. Chi sa quanto sia impercettibile la vicinanza fra la follia e le sublimi elevazioni di uno spirito libero e le manifestazioni di una virtù somma e straordinaria? Platone considera i melanconici più disposti ed eccellenti nella scienza eppure non ci sono altri che abbiano tanta tendenza alla follia. Infiniti spiriti sono travolti dalla loro propria forza e pieghevolezza. Che cosa non ha avuto or ora , per la sua propria vivacità, uno dei più saldi ingegnosi e più conformi allo spirito dell'antica e pura poesia, che vi sia stato da lungo tempo fra i Poeti italiani? Non lo deve egli a quella sua vivacità assassina? Chi l'ha accecato da quella lucidità? da quella precisa ed acuta intelligenza della sua ragione chi l'ha ridotto senza ragione? dalla curiosa e laboriosa indagine delle scienze chi l'ha condotto alla follia? da quella rara attitudine agli esercizi dell ' anima chi l'ha ridotto senza esercizi e senza anima? Io ebbi anche più rispetto e compassione al vederlo a Ferrara in uno stato così pietoso, sopravvivendo a se stesso, senza conoscenza di sé e delle sue opere, le quali , senza il suo intervento , e tuttavia sotto i suoi occhi , sono state pubblicate non corrette e informi. Volete un uomo sano , lo volete in regola e in posizione salda e sicura? Circondatelo di tenebre , di ozio e di oppressione. Ci occorre diventare insensati per diventar saggi , e abbacinati per dirigerci . E se mi si dice che il vantaggio di avere il senno freddo e ottuso ai dolori e mali, trae con sé questo svantaggio di renderci anche , per conseguenza, meno sensibili e delicati al godimento dei beni e dei piaceri , ciò è vero; ma la miseria della nostra condizione porta con sé che noi non abbiamo tanto da gioire quanto da fuggire, e che il più grande piacere non ci tocca quanto un leggero dolore. «Segnius homines bona quam mala sentiunt»72 noi non sentiamo la salute integra come la minore delle malattie,

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Montaigne 433 I testi - Saggi - Libro Il

pungit Incute vix summa violatum plagula corpus, Quando valere nihil quemquam movet. Hoc juvat unum Quod me non torquet latus aut pes: caetera quisquam Vix queat aut sanum sese, aut sentire valentem73. Il nostro benessere non è che la privazione del malessere. Ecco perché la setta filosofica che ha dato maggior valore al piacere, l'ha anche dato alla sola mancanza di dolore. Il non avere alcun male è il maggior bene che l'uomo possa sperare, come diceva Ennio: Nimium boni est, cui nihil est rna[i74. Del resto anche quell'allettamento ed eccitamento che si trova in certi piaceri e che sembra innalzarsi al di sopra della semplice salute e mancanza di dolori, quella voluttà attiva, eccitante, e, non so come, cocente e mordente, per se stessa non mira che alla mancanza del dolore come a suo fine. Il desiderio che ci spinge ad accostare le donne , non mira che a scacciare il fastidio che ci dà il desiderio ardente e furioso, e non chiede che di calmarsi e di mettersi in riposo e libero da quella febbre. Così degli altri . Dico dunque che , se la semplicità ci porta al punto di aver male, essa ci porta ad uno stato felicissimo , secondo la nostra condizione. Invero non bisogna immaginarla così squallida da essere interamente senza gusto . E Crantore aveva bene ragione di combattere la mancanza di dolore di Epicuro , se la si voleva così profonda da non sentire neppure la apparizione stessa e la nascita dei mali. Io non approvo affatto questa assenza del dolore che non è né possibile né desiderabile. Sono contento di non essere malato, ma se lo sono , voglio sapere che lo sono; e se mi si cauterizza o mi si opera, lo voglio sentire. Invero , chi sradicasse la sensazione del male, estirperebbe contemporaneamente la sensazione del piacere e infine annienterebbe l'uomo: «lstud nihil dolere, non sine magna mercede contingit immanitatis in animo , stuporis in corpore»74 . Il male è talvolta bene per l'uomo. Né il dolore è sempre da fuggire, né il piacere sempre da cercare.

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È un grandissimo vantaggio ad onore dell'ignoranza che la scienza stessa ci spinga fra le sue braccia quando si trova impedita a farci saldi contro il peso dei mali; essa è costretta a venire a quest' accordo di allentarci le redini e darci il permesso di salvarci nel suo seno, e metterci sotto la sua protezione al riparo dei colpi e delle offese della fortuna. Infatti che altro vuoi dire quando ci esorta a distrarre il nostro pensiero dai mali che ci affliggono e intrattenerlo sui piaceri perduti, e a giovarci a consolazione dei mali presenti del ricordo dei beni passati, e a chiamare in nostro aiuto una soddisfazione svanita per opporla a quello che ci affligge: «levationes aegritudinum in avocatione a cogitanda molestia et revocatione ad contemplandas voluptates ponit>>76? senonché, quando gli manca la forza, esso deve usare l' astuzia, e fare una giravolta e uno sgambetto quando il vigore del corpo e delle braccia gli viene a mancare. Poiché non solo per un filosofo, ma semplicemente per un uomo saggio, quando sente effettivamente l'alterazione cocente di una forte febbre, che moneta è di pagarlo col ricordo della dolcezza del vin greco? Sarebbe piuttosto peggiorargli il suo stato. Ché ricordarsi il ben doppia la noia. Della stessa specie è quest'altro consiglio che la filosofia dà, di serbare nella memoria soltanto la felicità passata, e di cancellarne i dispiaceri che abbiamo sofferti come se avessimo in nostro potere la scienza dell'oblio.

È un consiglio per il quale noi abbiamo ancora un po' meno valore. Suavis est laborum praeteritorum memoria77. Come la filosofia , la quale deve mettermi in mano le armi per combattere la fortuna e deve rafforzarmi il coraggio per mettermi sotto i piedi tutte le avversità umane, arriva a questa mollezza di farmi cercare sotterfugi con questi stratagemmi vili e ridicoli? Infatti la memoria ci conserva presente non ciò che noi scegliamo ma ciò che le piace. In verità non c'è niente che imprima così vivamente nel nostro ricordo qualche cosa come il desiderio di dimenticarla: è una buona maniera di dare in custodia e di imprimere nella nostra anima qualche cosa, quella di sollecitar-

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la a perderla. Ed è falso questo: «Est situm in nobis, ut et adversa quasi perpetua oblivione obruamus, et secunda jucunde et suaviter meminerimus»78. E questo è vero: «Memini etiam quae nolo, oblivisci non possum quae volo»79. E di chi è questo consiglio? di colui «qui se unus sapientem profiteri sis ausus»80, Qui genus humanum ingenio superavit, et omnes Praestrinxit stellas, exortus uti aetherius so[8J. Il vuotare e smantellare la memoria è forse la strada conveniente verso lignoranza? «lners malo rum remedium ignorantia est»82. Troviamo parecchi precetti simili con i quali ci si permette di prendere dal volgo apparenze frivole in cui la ragione viva e vigorosa non può abbastanza, sebbene esse ci servano di soddisfazione e di consolazione. Quando non possono guarire la piaga, si contentano di addormentarla e di mascherarla . Credo che non mi negheranno questo, che, se potessero porre ordine e costanza in una condizione di vita che si è mantenuta nel piacere e nella tranquillità a costo di una certa debolezza e mancanza di intelletto, l'accetterebbero: potare et spargere flores lncipiam, patiarque vel inconsultus haberi83 . Si troverebbero parecchi filosofi del parere di Lica. Costui avendo nel resto costumi bene in regola, vivendo dolcemente e pacificamente nella sua famiglia, non venendo meno a Jessun obbligo del proprio dovere verso i suoi e gli estranei , stando ben lontano dalle cose cattive, s'era, per qualche alterazione di sensi , messo in mente una fantasticheria: cioè pensava di essere continuamente a teatro e di assistere a divertimenti , a spettacoli e alle più belle commedie del mondo . Guarito che dai medici fu di questo umore strano , per poco non fece loro causa per essere riportato alla dolcezza di quelle immaginazioni ,

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poi! me occidistis, amici, Non servastis, ait, cui sic extorta voluptas, Et demptus per vim mentis gratissima error84;

sogno simile a quello di Trasilao, figlio di Pitodoro, il quale credeva che tutte le navi che salpavano dal porto del Pireo e che vi attraccavano, non lavorassero che al suo servizio: e si rallegrava della buona ventura della loro navigazione e le accoglieva con gioia. Suo fratello Critone avendolo fatto riportare a lucidità di senno, egli rimpiangeva quella tale condizione in cui aveva vissuto pieno di gioia e libero di ogni dispiacere. È ciò che dice quell'antico verso greco, che cioè c'è gran vantaggio a non essere tanto saggio, 'Ev 'té;l >I04 - perché a costoro non sarà ugualmente concesso di conservare la loro libertà e considerare le cose senza vincolo e schiavitù? «Hoc liberiores et solutiores quod integra illis est judicandi potestas»I05. Non è un certo vantaggio trovarsi liberati dal bisogno che imbriglia gli altri? Non vale meglio restare in sospeso che imbrogliarsi in tanti errori che l'immaginazione umana ha creati? Non val meglio tener sospesa la propria convinzione che impigliarsi in quelle divisioni sediziose e litigiose? Che sceglierò? Quello che vi piacerà, purché scegliate! Ecco una scioc-

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ca risposta, alla quale tuttavia sembra che arrivi ogni dogmatismo. Prendere il partito più famoso, non sarà mai sicuro che non vi occorra, per difenderlo, attaccare e combattere cento e cento partiti contrari. Non val meglio tenersi fuori da questa mischia? Vi è permesso di sposare, come se fosse vostro decoro e vostra vita, l'opinione di Aristotele sull'Eternità dell'anima, e contraddire e smentire in proposito Platone; e a costoro sarà vietato di dubitarne? Se è lecito a Panezio sostenere la sua opinione intorno agli aruspici, sogni, oracoli, vaticini, cose delle quali gli Stoici dubitano in modo assoluto, perché un saggio non oserà in ogni cosa quello che costui osa in quelle che ha apprese dai suoi maestri, stabilite dal comune consenso della scuola della quale è seguace e che professa? Se a giudicare è un ragazzo, egli non sa che cosa è; se è un sapiente, è prevenuto. Si sono riservati un mirabile vantaggio nel combattimento con l'essersi liberati della preoccupazione di difendersi. A loro non importa di essere colpiti, purché colpiscano; traggono partito da tutto. Se vincono essi, la vostra proposizione zoppica; se voi, quella loro. Se perdono, danno prova di ignoranza; se perdete voi, ne date prova voi. Se essi provano che non si sa nulla, va bene; se non lo sanno provare, va bene lo stesso. «Vt, quum in eadem re paria contrariis in partibus momenta inveniuntur,facilius ab utraque parte assertio sustineatur»l06. E son capaci di trovare molto più facilmente perché una cosa sia falsa, che non perché sia vera; e ciò che non è, più di ciò che é; e ciò che non credono, più di ciò che credono. I loro modi di parlare sono: Io non decido niente; non è così più che così, o né l'uno né l'altro; io non Io capisco; le apparenze sono uguali ovunque; la regola di parlare e pro e contro è la stessa. Niente sembra vero, che non possa sembrare falso. La loro parola sacramentale è ÉnÉxro, cioè non decido, non mi sposto. Ecco i loro ritornelli, e altri della stessa maniera. Il loro risultato è un semplice, intero e perfettissimo dubbio e una sospensione di giudizio . Si servono della loro ragione per ricercare e discutere, ma non per decidere e scegliere. Chiunque immaginerà una continua confessione d'ignoranza, un giudizio senza tendenza e senza inclinazione, in qualsiasi caso, concepirà il Pirronismo. Descrivo questa fantasia, per quanto posso, poiché parecchi la trovano difficile ad immaginare; e gli autori stessi la descrivono un po' oscuramente e diversamente.

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Per quanto riguarda le azioni della vita, essi seguono in ciò la maniera comune. Si adattano e si accomodano alle inclinazioni naturali, all'impulso e alla forza delle passioni, alle regole delle leggi e dei costumi e alla tradizione delle arti. «Non enim nos Deus ista scire, sed tantummodo uti voluit» 107. Lasciano guidare da queste cose le loro comuni azioni , senza alcuna opinione o giudizio. Questo fa sì che io non possa adattare bene a questo ragionamento ciò che si dice di Pirrone. È rappresentato attonito e immobile , dedito ad un modo di vivere selvatico e non socievole, che non si cura degli urti dei carri, che si fa avanti ai precipizi, e rifiuta di adattarsi alle leggi . Questo è un esagerare la sua dottrina. Egli non ha voluto farsi pietra o legno; ha voluto essere uomo vivente, parlante e ragionante, che gode di tutti i piaceri e comodità naturali , che ha bisogno e si serve di tutte le parti del suo corpo e dello spirito regolarmente e dirittamente. I privilegi immaginari, fantastici e falsi, che I 'uomo si è usurpati, di regolare, ordinare, determinare la verità, egli li ha, in buona fede, rifiutati e abbandonati. Invero non c'è una setta che non sia costretta a permettere ai suoi sapienti di andare appresso a parecchie cose non comprese, né percepite, né consentite, se egli vuol vivere. E, quando prende il mare, egli segue questo proposito, ignorando se gli sarà utile, e si lusinga che il vascello sia buono, il pilota sperimentato, la stagione favorevole, circostanze soltanto probabili: dietro le quali egli deve andare e lasciarsi guidare dalle apparenze, purché esse non dimostrino assoluta avversità. Egli ha un corpo , un'anima; i sensi lo spronano, lo spirito lo muove . Anche se non trova per nulla in sé quella appropriata e singolare qualità di giudicare e se sente di non dovere impegnare il suo consenso , attesoché può essere qualche falso luccicone verso quella verità, egli non lascia di continuare i doveri della sua vita pienamente ed agevolmente. Quante arti ci saranno che fanno professione di consistere nella congettura più che nel sapere; che non definiscono il vero e il falso e seguono soltanto ciò che appare? Esiste, dicono essi , il vero e il falso e c'è in noi di che indagarlo , ma non di che deciderlo coi sensi. È molto meglio per noi di lasciarci portare senza indagare sull 'ordine del mondo. Un'anima libera da prevenzione ha un meraviglioso avviamento verso la tranquillità . Persone che giudicano e controllano i loro giudizi non vi si sottomettono mai come si conviene.

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Quanto, e nelle leggi della religione e nelle leggi politiche , sono più docili e capaci di essere guidati gli spiriti semplici e indifferenti , che quegli spiriti vigili ed indagatori delle cause divine ed umane! Non c' è nulla nell'immaginazione umana in cui sia tanta verosimiglianza e utilità. Essa raffigura l'uomo nudo e vuoto, che riconosce la sua debolezza naturale, atto a ricevere dall ' alto una certa forza estranea , sfornito di scienza umana e tanto più adatto ad albergare in sé quella divina, mentre annulla il suo giudizio per fare più posto alla fede ; né miscredente, né definitore di alcun dogma contro le comuni credenze, umile, obbediente, disciplinabile, studioso; nemico giurato di eresie e alieno per conseguenza dalle vane e irreligiose credenze introdotte dalle false sette. È una carta bianca preparata a ricevere dalla mano di Dio le forme che a lui piacerà imprimerle. Più ci rimandiamo ed affidiamo a Dio, e rinunciamo a noi, più ne ricaviamo valore . Accetta, dice !'Ecclesiaste, di buon grado le cose nell ' aspetto e nel gusto in cui ti si presentano , giorno per giorno, il rimanente è fuori della tua conoscenza. «Dominus novit cogitationes hominum, quoniam vanae sunt»I08. Ecco come, delle tre grandi divisioni della filosofia, due fanno espressa professione di dubbio e d'ignoranza; e , in quella dei dogmatisti , che è la terza, è facile scoprire che la maggior parte non hanno assunto l'aspetto della sicurezza se non per avere miglior cera. Non hanno tanto pensato di darci qualche certezza, quanto mostrarci fin dove erano arrivati in quella caccia della verità: «quam doctifingunt, magis quam norunt>>. Timeo, dovendo informare Socrate di ciò che egli sapeva degli Dei, del mondo e degli uomini, propone di parlarne come uomo ad un uomo; e che è sufficiente, dato che le sue ragioni sono probabili come le ragioni di un altro: non essendo le ragioni precise né in mano sua, né in mano mortale. Cosa che uno dei suoi seguaci ha così imitato: «Ut potero, explicabo: nec tamen, ut Pythius Apollo, certa ut sint etfixa, quae di.xero; sed ut homunculus,probabilia conjectura sequens»I09 , e questo a proposito del discorso del disprezzo della

morte, discorso naturale e popolare. Altrove quello l'ha tradotto dal ragionamento stesso di Platone: «Si forte , de de o rum natura ortuque mundi disserentes, minus id quod habemus animo consequimur, haud erit mirum . Aequum est enim meminisse et me qui disseram, hominem esse, et vos qui judicetis; ut, si probabilia dicentur, nihil ultra requiratis»IIO.

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44 8 Montaigne I testi - Saggi - Libro II

Aristotele ci ammassa di solito un gran numero di altre opinioni e di altre credenze, per paragonarvi la sua e farci vedere di quanto egli è andato più oltre e come si è avvicinato di più alla verosimiglianza: poiché la verità non si giudica affatto dall'autorità e testimonianza di altri. E pertanto evitò religiosamente di citarne nei suoi scritti. Costui è il principe dei dogmatisti; e tuttavia noi impariamo da lui che il saper molto porge argomento di dubitare di più . Lo si vede di proposito coprirsi di nebbia così spessa e inestricabile che non ci si può scorger nulla del suo pensiero . È in effetto un Pirronismo sotto una forma dogmatica. Sentite la dichiarazione di Cicerone che ci spiega l'idea altrui con la sua: «Qui requirunt quid de quaque re ipsi sentiamus, curiosius idfaciunt quam necesse est. Haec in philosophia ratio contra omnia disserendi nullamque rem aperte judicandi , profecta a Socrate, repetita ab Arcesilao, confirmata a Carneade, usque ad nostram viget aetatem. Hi sumus qui omnibus verisfalsa quaedam adjuncta esse dicamus, tanta similitudine ut in iis nulla insit certe judicandi et assentiendi nota»l l l . Perché non solo Aristotele, ma la maggior parte dei filosofi hanno prediletto la difficoltà, se non per mettere in rilievo la vanità del soggetto e dilettare la curiosità del nostro Spirito , dandogli di che pascersi, rosicchiando quest'osso vuoto e scarnito? Clitomaco affermava di non avere mai saputo capire dagli scritti di Carneade di quale opinione egli era. Perché Epicuro ha evitato nei suoi la facilità ed Eraclito ne è stato soprannominato crKO'tEv6ç. La difficoltà è una moneta che i sapienti usano, come i giocolieri di passamano , per non scoprire la vanità della loro arte , e con la quale l'umana stoltezza si lascia appagare facilmente: Clarus, ob obscuram linguam, magis inter inanes , Omnia enim stolidi magis admirantur amantque Inversis quae sub verbis latitantia cernuntl 12.

Cicerone rimprovera alcuni dei suoi amici per aver preso l'abitudine di dedicare all'astrologia, al diritto, alla dialettica e alla geometria più tempo che quelle arti non meritino; e perché ciò li sviava dai doveri della vita, più utili ed onesti. I filosofi Cirenaici disprezzavano ugualmente la

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fisica e la dialettica. Zenone all 'inizio dei libri della sua repubblica chiamava inutili tutte le discipline liberali. Crisippo diceva che quanto Platone e Aristotele avevano scritto della Logica l'avevano scritto per divertimento e per citarsi; e non poteva credere che avessero parlato seriamente di una materia così vana. Plutarco lo dice della metafisica. Epicuro lo avrebbe detto anche della retorica, della grammatica, della poesia, delle matematiche, e, all'infuori della fisica , di tutte le scienze . E anche Socrate di tutte, salvo di quella soltanto che tratta dei costumi della vita. Di qualsiasi cosa gli si domandasse, egli conduceva subito e sempre l'interrogante a dar conto delle condizioni della sua vita presente e passata, che egli esaminava e giudicava, pensando ogni altra conoscenza accessoria e in soprappiù a quella. «Parum mihi placeant eae litterae quae ad virtutem doctoribus nihil profuerunt>>l 13. La maggior parte delle arti sono state disprezzate dagli stessi sapienti. Ma non hanno pensato che fosse fuori proposito esercitare e sperimentare il loro spirito nelle cose in cui non c'era alcuna solidità profittevole. Del resto, alcuni hanno stimato Platone dogmatista; altri dubitante; altri, in certe cose, l' uno, e in certe cose l'altro. Quello che è la guida dei suoi dialoghi, Socrate, va sempre chiedendo e muovendo la discussione , mai fermandola, mai dicendosi soddisfatto , e dice di non avere altra scienza che la scienza di opporsi. Omero , loro padre, ha dato in modo uguale i fondamenti a tutte le scuole di filosofia, per mostrare come fosse indifferente per dove noi ci incamminassimo. Da Platone nacquero dieci scuole diverse, si dice. Così , secondo me, nessuna dottrina fu titubante e malsicura, se non l'è la sua. Socrate diceva che le levatrici, dandosi a quel mestiere di fare partorire le altre, abbandonano il mestiere di partorire esse; che lui , invece dal titolo di uomo saggio che gli Dei gli hanno attribuito, s'era così indebolito nel suo amore virile e mentale, del potere di generare; e si contentava di aiutare e favorire del suo soccorso i generanti , aprire la loro natura, ingrassare i loro condotti, facilitare l' uscita del loro parto, esaminarlo, battezzarlo , allevarlo, fortificarlo , fasciarlo e circonciderlo: esercitando e adoperando il suo ingegno nei rischi e nei casi altrui . È così della maggior parte degli autori di quel terzo genere114; come gli

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antichi hanno notato a proposito degli scritti di Anassagora, Democrito, Parmenide, Senofane e altri. Essi hanno un modo di scrivere dubitoso nella sostanza e un proposito indagatore piuttosto che docente, sebbene intramezzino il loro linguaggio di sentenze dogmatiche. Non si vede ciò tanto bene e in Seneca e in Plutarco? Come questi parlano ora con un tono , ora con un altro, per coloro che vi guardino da vicino! E i giudici conciliatori dovrebbero prima di tutto conciliare ciascuno con se stesso . Platone mi sembra aver amato quella forma di filosofia a dialoghi a ragion veduta, per collocare più convenientemente in bocche diverse la diversità e mutevolezza delle sue proprie idee. Trattare in modo diverso gli argomenti e trattarli bene quanto in modo uniforme, e meglio: cioè più copiosamente e utilmente. Prendiamo esempio da noi. Le sentenze di giustizia rappresentano il punto estremo del parlare dogmatico e decisivo: così è che quelle che i nostri parlamenti offrono al popolo come più esemplari, adatte a suscitare in esso il rispetto che deve a questa dignità, principalmente per la dottrina delle persone che l'esercitano, ricevono la loro bellezza non dalla conclusione, che è per essi quotidiana, e che è comune ad ogni giudice, quanto dalla discussione e dall'agitarsi dei diversi e contrari ragionamenti che la materia del diritto comporta. E il più largo campo degli appunti di alcuni filosofi , nei confronti degli altri, viene dalle contraddizioni e diversità in cui ciascuno di essi si trova impigliato o a ragion veduta, per dimostrare il vacillare dello spirito umano intorno ad ogni argomento, o spirito incoscientemente dalla volubilità e incomprensibilità di ogni argomento. Che cosa significa questo ritornello: In questo luogo sdrucciolevole e precipite teniamo in sospeso la nostra fede ? Poiché, come dice Euripide , «Le opere di Dio in diverse maniere ci danno pene» simile a quello che Empedocle seminava spesso nei suoi libri , come mosso da un divino furore e spinto dalla verità. No , no , noi non sentiamo niente, non vediamo niente: ogni cosa ci è occulta, non ce n'è alcuna della quale possiamo stabilire che è: e corrisponde a quella sentenza divina «Cogitationes mortalium timidae, et incertae adinventiones nostrae et pro-

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videntiae» l 15. Non si deve trovare strano se persone che disperavano di raggiungere la preda non hanno cessato di prendere piacere alla caccia: l'indagine essendo di per sé un'occupazione piacevole, è così piacevole che, tra i piaceri, gli Stoici proibiscono anche quella che viene dall'esercizio dell'intelletto, vogliono che ci sia un freno, e considerano intemperanza il troppo sapere. Democrito, avendo mangiato a tavola fichi che avevano il sapore del miele, si mise subito a cercare nella sua mente donde venisse ad essi quella dolcezza insolita, e, per spiegarselo, si levò da tavola per vedere la condizione del luogo in cui quei fichi erano stati colti. La sua cameriera, avendo sentito la ragione di questo alzarsi, gli disse ridendo che non pensasse più a ciò; poiché era lei che li aveva messi in un vaso in cui era stato del miele. Egli si stizzì perché essa gli aveva tolto l'occasione di quella indagine e sottratto argomento alla sua curiosità: Va', le disse, mi hai fatto dispiacere: io non lascerò pertanto di ricercare la causa come se essa fosse naturale. E non mancò di trovare qualche ragione vera di un effetto falso e immaginario . Questa storia di un famoso e grande Filosofo ci rappresenta ben chiaramente quella passione di studio che ci prende nella ricerca delle cose del cui acquisto non abbiamo speranza. Plutarco racconta un esempio simile di un tale che non voleva essere illuminato su ciò di cui dubitava, per non perdere il piacere di indagare; come l'altro che non voleva che il suo medico gli togliesse l'alterazione della febbre, per non perdere il piacere di calmarla bevendo. «Satius est supervacua discere , quam nihil» ll6. Così come in ogni cibo c'è spesso il solo piacere; e tutto quello che di piacevole prendiamo non è sempre nutriente e sano. Similmente ciò che il nostro spirito trae dalla scienza non cessa di essere piacevole anche se non è né nutriente né salutare . Ecco come dicono: Lo studio della natura è un pascolo adatto ai nostri spiriti ; esso ci eleva e ci gonfia, ci fa sdegnare le cose basse e terrene col confronto di quelle più alte e celesti; la stessa ricerca delle cose occulte e grandi è assai dilettevole specialmente per colui che non ne acquista che la venerazione e il timore di dame giudizio. Sono parole della loro professione. La vana immagine di questa misera curiosità si nota anche più precisamente in quest'altro esempio che essi hanno così spesso in bocca per farsene onore. Eudossio si augurava e pre-

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gava gli Dei di poter vedere una volta il sole da vicino, capire la sua forma, la sua grandezza e la sua bellezza, a rischio di esserne bruciato all 'istante. Egli vuole, a prezzo della sua vita, acquistare una scienza l'uso e il possesso della quale gli siano nello stesso tempo tolti, e, per questa subita e fugace conoscenza, perdere tutte le altre nozioni che ha e che può acquistare in seguito. Io non mi persuado facilmente che Epicuro, Platone e Pitagora ci abbiano dato per moneta sonante i loro Atomi, le loro Idee e i loro Numeri. Essi erano troppo saggi per stabilire i loro articoli di fede su cosa tanto incerta e tanto discutibile. Ma, in questa oscurità e ignoranza del mondo, ognuno di quei grandi personaggi s'è affaticato a portare una qualche idea di luce, e hanno condotto la loro anima ad invenzioni che avessero almeno una piacevole e sottile apparenza: purché, per quanto falsa, essa si potesse sostenere contro le obbiezioni contrarie: «unicuique ista pro ingenio

finguntur, non ex scientiae vi»ll7. Un antico a cui si rimproverava di fare professione di Filosofia, di cui però in mente sua non teneva gran conto, rispose che ciò era veramente filosofare. Si è voluto considerare tutto, soppesare tutto, e si è trovata questa occupazione adatta alla naturale curiosità che è in noi. Alcune cose le hanno scritte per il bisogno dell'umana società, come le loro religioni; ed è stato ragionevole, sotto questo riguardo, che le opinioni comuni essi non abbiano voluto esaminarle troppo a fondo per non ingenerare turbamento ne!J'obbedienza alle leggi e ai costumi del loro paese. Platone parla di questo mistero molto chiaramente. Infatti dove parla secondo il proprio pensiero, non afferma niente con certezza. Quando fa il legislatore, mette fuori uno stile da precettore e imperativo, e vi mescola arditamente le più fantastiche delle sue immaginazioni, altrettanto utili a persuadere se stesso, conoscendo come noi siamo adatti a ricevere tutte le impressioni e, sopra tutte, le più strane ed enormi. E pertanto, nelle sue leggi la grande cura che non si cantino in pubblico che poesie delle quali le immagini favolose tendano a qualche fine utile; ed essendo così facile imprimere ogni fantasma nello spirito umano, sarebbe ingiusto non pascerlo di menzogne profittevoli piuttosto che di menzogne o inutili o dannose. Egli dice con tutta franchezza nella sua repubblica che, per l'utilità degli uomini, è necessario spesso ingannarli. È facile

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discernere che alcune scuole hanno seguito più la verità, le altre l'utilità , per cui queste hanno avuto credito . È miseria della nostra condizione, che spesso ciò che si presenta alla nostra immaginazione come la cosa più vera, non vi si presenti come la più utile per la nostra vita. Le più ardite scuole, 'Epicurea, Pirroniana, Accademica nuova , anche esse sono costrette a piegarsi alla legge civile, in fin dei conti. Ci sono altri argomenti che essi hanno agitato, chi a sinistra, chi a destra, ciascuno dandosi da fare per dare ad essi qualche apparenza, a ragione o a torto. Infatti, non avendo trovato nulla di così occulto di cui non abbiano voluto parlare, sono stati spesso spinti a foggiare congetture deboli e folli, non che essi stessi le prendessero a fondamento, né per stabilire qualche verità, ma per esercitarsi nella loro indagine: «Non tam id sensisse quod dicerent, quam exercere ingenia materiae difficultate videntur voluisse»118. E, se non si pensasse così , come giustificheremmo noi questa così grande instabilità, varietà e vanità di opinioni che abbiamo visto essere state messe in voga da quelle anime eccellenti e rare? Infatti, per esempio, che c'è di più vano che il voler indovinare Dio per mezzo delle nostre analogie e congetture, adattare lui e il mondo alla nostra capacità e alle nostre leggi, e servirci, a spese della divinità, di quel piccolo campione di intelligenza che a lui è piaciuto di attribuire alla nostra condizione naturale? E per il fatto che non possiamo far giungere la nostra vita fino al suo glorioso trono , perché averlo portato qui in basso al livello della nostra corruzione, delle nostre miserie? Di tutte le opinioni umane e antiche riguardanti la religione, mi sembra avere avuto più verosimiglianza e più giustificazione quella che considerava Dio come una potenza incomprensibile, origine e conservatrice di tutte le cose , tutta bontà, tutta perfezione, che accoglie e riceve benevolmente l'onore e la venerazione che gli umani le rendono sotto qualsiasi aspetto, sotto qualsiasi nome e in qualsiasi maniera: Juppiter omnipotens rerum, regumque deumque Progenitor genitrixquel 19.

Questo zelo generalmente è stato visto dal cielo di buon occhio. Tutti i governi hanno tratto frutto dalla loro religione: gli uomini, le azioni

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empie hanno avuto dovunque risultati conformi. Le storie pagane riconoscono dalla dignità, daU 'ordine, dalla giustizia e dai prodigi e dagli oracoli impiegati a loro profitto e insegnamento neUe loro fiabesche religioni , Dio , che, per la sua misericordia, si degna per avventura di rinsaldare con questi benefici temporali i vacillanti principii di queUa tale rozza conoscenza che la ragione naturale ci ha data di lui attraverso le false immagini delle nostre fantasie . Non solo false, ma anche empie e ingiuriose sono quelle che l'uomo ha foggiate di sua invenzione. E di tutte le religioni che San Paolo trovò in onore ad Atene quella che era stata dedicata ad una Divinità occulta ed ignota gli sembrò la più scusabile. Pitagora adombrò più da vicino la verità stimando che la conoscenza di questa causa prima e di questo essere degli esseri doveva essere indefinita, senza regola, senza dimostrazione; che non era altro se non l ' estremo sforzo della nostra immaginazione verso la perfezione, ciascuno ampliandone l'idea secondo la sua capacità. Ma se Numa cominciò a conformare a questo disegno la religione del suo popolo, ad attaccarlo ad una religione puramente mentale, senza oggetto fisso e senza mescolanza materiale, intraprese cosa di nessuna utilità: lo spirito umano non potrebbe ritrovarsi vagante in questo infinito di pensieri informi; bisogna formularglieli in apparenza certa, a suo modello. Soltanto per noi la maestà divina s' è fatta circoscrivere in limiti corporali: le sue prerogative soprannaturali e celesti hanno i segni della nostra condizione terrestre; l'adorazione di lei si manifesta con offici e parole sensibili; poiché è l'uomo il quale crede e prega. Lascio da parte gli altri argomenti di cui ci si serve a questo proposito. Ma a stento mi si farebbe credere che la vista dei nostri crocifissi e la raffigurazione di quel pietoso supplizio, che gli ornamenti e i riti cerimoniosi delle nostre chiese , che le parole adattate alla devozione del nostro pensiero, e quell ' emozione dei sensi non riscaldano l'anima dei popoli di un sentimento religioso di un utilissimo effetto . Fra quelle alle quali si è dato corpo secondo che il bisogno ha richiesto , in mezzo a questa universale cecità, io mi sarei, mi sembra , più volentieri unito a quelle che adoravano il Sole , «la luce comune, l'occhio del mondo; e se Dio porta in testa gli occhi,

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i raggi del sole sono i suoi occhi radiosi, che a tutti danno vita, ci conservano e ci custodiscono, e che guardano le azioni umane in questo mondo; questo bello, grande Sole che ci fa le stagioni, secondo che entri od esca dalle sue dodici case; che riempie l'universo delle sue conosciute virtù; che con un batter di ciglio ci toglie ogni nube; è lo spirito , l'anima del mondo, con il suo ardore e le sue fiamme , mentre nella corsa di un sol giorno gira intorno a tutto il Cielo; pieno d 'immensa grandezza, rotondo, vagante e fermo; che tiene sotto di lui tutto il mondo per mira; in riposo senza riposo; ozioso e senza soggiorno; figlio primogenito della natura e padre del giorno» 120 . Tanto più che oltre questa sua grandezza e bellezza, la parte di quella macchina che noi vediamo è la più lontana da noi, e, per questo riguardo, sì poco conosciuta, essi erano perdonabili se ne venivano in ammirazione e venerazione . Talete , il quale per primo fece ricerche in tale argomento, credette Dio uno spirito che facesse dall'acqua ogni cosa; Anassimandro , che gli Dei morissero e rimanessero nelle diverse stagioni e che ci fossero in gran numero mondi infiniti; Anassirnene, che l'aria fosse Dio, che esso fosse creato e immenso, sempre muoventesi, Anassagora, per primo, ha ideato che la forma e il modo di tutte le cose fossero governati dalla forza e dalla ragione di uno spirito infinito. Alcmeone ha attribuito la divinità al sole, alla luna, agli astri e all ' anima. Pitagora ha fatto di Dio uno spirito diffuso nella natura di tutte le cose, da cui le nostre anime si sono separate, Parmenide un cerchio che circonda il cielo e che conserva il mondo con l'ardore della luce. Empedocle diceva essere Dei le quattro nature delle quali tutte le cose son fatte; Protagora, non saper dire se sono o no, o che cosa sono; Democrito, ora che sono Dei le immagini e i loro contorni, ora questa natura che dà corpo a queste immagini, e poi la nostra conoscenza e intelligenza. Platone vaga con la sua opinione fra diverse immagini: egli dice, nel Timeo, che il padre del mondo non si può nominare; nelle leggi, che non bisogna indagare circa la sua essenza; e , altrove, in quei medesimi libri , fa Dei il mondo, il cielo , gli astri , la terra e le nostre anime, e ammette inoltre quelli che sono stati ammessi per antica legge in ogni stato. Senofonte riferisce una discrepanza simile nella dottrina di Socrate: ora che non bisogna indagare la forma di Dio, e poi gli fa definire che il Sole è Dio e l'anima di Dio; che

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non ce n'è che uno, e poi che ce ne sono parecchi. Speusippo, nipote di Platone, dice Dio una certa forza che governa le cose, e che essa è animale; Aristotele, ora che è lo spirito, ora il mondo; ora dà un altro padrone a questo mondo, e ora dice Dio il calore del cielo. Senocrate ne stabilisce otto: cinque li mette fra i pianeti, il sesto composto di tutte le stelle fisse come sue membra, il settimo e l'ottavo, il sole e la luna. Eraclito Pontico non fa che vagare fra le opinioni e infine priva Dio di sentimento e lo rappresenta che muta da una forma ad un'altra, e poi dice che è il cielo e la terra. Teofrasto passeggia in simile indecisione fra tutte le sue immaginazioni, e attribuisce l'intelligenza del mondo ora all'intelletto, ora al cielo, ora alle stelle; Stratone, che è la natura che ha la forza di generare, aumentare e diminuire, senza forma e sentimento; Zenone, la legge naturale che comanda il bene e vieta il male, la quale legge è cosa animante, e sopprime gli Dei consueti, Giove, Giunone, Vesta; DiogeneApolloniate, che è l'aria. Senofane fa Dio rotondo, veggente, udente, non respirante, non avente niente di comune con l'umana natura. Aristone giudica la forma di Dio incomprensibile, lo priva di sensi e ignora se è animante o altra cosa; Cleante, ora la ragione, ora il mondo, ora l'anima della Natura, ora il calore supremo che circonda e racchiude tutto. Perseo, allievo di Zenone, ha sostenuto che si sono soprannominati Dei quelli che avevano recato qualche notevole utilità alla vita umana e le stesse cose utili. Crisippo faceva un miscuglio confuso di tutte le precedenti opinioni, e metteva fra mille forme di Dei che egli crea, anche gli uomini che vengono immortalati. Diagora e Teodoro negavano assolutamente che ci fossero Dei. Epicuro crea gli Dei lucenti, trasparenti e permeabili all'aria, collocati, come fra due rocche, fra due mondi, al coperto dai colpi, rivestiti di figura umana e delle nostre membra, le quali membra sono per loro di nessuna utilità.

Ego deum genus esse semper duxi, et dicam caelitum; Sed eos non curare opinor, quid agat humanum genusl2l . Fidatevi della vostra filosofia, vantatevi di aver trovato il nocciolo della questione, al vedere questa giostra di tanti cervelli filosofici! La confusione delle forme umane ha fatto in me sì che i diversi costumi e le idee

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Montaigne 45 7 I testi - Saggi - Libro II

differenti dalle mie non mi dispiacciano tanto quanto mi istruiscono, non mi inorgogliscono tanto quanto mi umiliano nel confrontarle; e ogni altra scelta all'infuori di quella che viene proprio dalla mano di Dio, mi sembra essere di poca importanza. Lascio da parte i modi di vita mostruosi e contro natura. Gli ordinamenti del mondo non sono meno contrastanti in questa materia che le scuole; per cui noi possiamo imparare che la Fortuna stessa non è più diversa e mutevole della nostra ragione, né più cieca e sconsigliata. Le cose più ignorate sono più adatte ad essere deificate: Perciò il fare di noi degli Dei, come l'antichità, supera l'estrema debolezza del raziocinio. Avrei ancor più seguito coloro che adoravano il serpente, il cane, e il bue; in quanto la loro natura e il loro essere ci sono meno conosciuti; e abbiamo più da fare ad immaginare ciò che ci piace di quelle bestie e ad attribuire loro facoltà straordinarie. Ma l' aver creato Dei della nostra condizione, della quale noi dobbiamo conoscere l'imperfezione, avere attribuito loro il desiderio, la collera, la vendetta, i matrimoni, le generazioni e le parentele, l'amore e la gelosia, le nostre membra e le nostre ossa, le nostre cupidigie e i nostri piaceri, le nostre morti, le nostre sepolture, bisogna che ciò sia venuto da una straordinaria ebbrezza dell'umano intelletto, Quae procul usque adeo divino ab numine distant, lnque Deum numero quae sint indigna videril22_ «Formae, aetates, vestitus, ornatus noti sunt; genera, conjugia, cognationes omniaque traducta ad similitudinem imbecillitatis humanae: nam et perturbatis animis inducuntur; accipimus enim deorum cupiditates, aegritudines, iracundias»l23_ E anche l'avere attribuito la divinità non sol-tanto alla fede, alla virtù, all ' onore, alla concordia, alla libertà, alla vittoria, alla pietà; ma anche al piacere, alla frode, alla morte, all'invidia, alla vecchiaia, alla miseria, alla paura, alla febbre e alla mala fortuna, e altre infelicità della nostra vita fragile e caduca. Quidjuvat hoc, templis nostris inducere mores? O curvae in terris animae et caelestium inanes/124

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Gli Egiziani con impudente accortezza proibivano, sotto pena della forca, che alcuno dicesse che Serapide ed Iside, loro dei, fossero stati un tempo uomini; e nessuno ignorava che lo fossero stati . E la loro effigie, raffigurata col dito sulla bocca, significava, dice Varrone, quell' ordine misterioso ai loro sacerdoti di tacere la loro origine mortale, come quella che per necessaria ragione avrebbe annullato la loro venerazione. Dato che l'uomo desiderava tanto di paragonarsi a Dio, avrebbe fatto meglio, dice Cicerone , di riferire a sé le condizioni divine e trarle quaggiù , piuttosto che mandare lassù la sua corruzione e la sua miseria; ma, a ben ragionare , egli ha fatto in parecchie maniere e l'una e l'altra cosa, con uguale vanità di opinione. Quando i filosofi intessono la gerarchia dei loro Dei e si danno da fare a distinguere le loro parentele, i loro compiti e il loro potere, io non posso credere che essi parlino seriamente. Quando Platone ci descrive il giardino di Plutone e le delizie o le pene corporali che ci attendono anche dopo la distruzione e l'annientamento dei nostri corpi, e le adatta alla sensazione che abbiamo in questa vita, Secreti celant calles , et myrtea circum Sylva tegit; curae non ipsa in morte relinquunt125 ; quando Maometto promette ai suoi un paradiso tappezzato , ornato d'oro e di pietre preziose, popolato di fanciulle di rara bellezza, di vini e di vivande straordinarie , vedo bene che si tratta di beffeggiatori che si adattano alla nostra stoltezza per addolcirci e attrarci con queste credenze e speranze, confacenti al nostro mortale desiderio. Così alcuni dei nostri sono caduti in uguale errore, promettendosi dopo la resurrezione una vita terrestre e temporale accompagnata da ogni sorta di piaceri e comodità mondane . Crediamo che Platone, lui che ha avuto concetti così celesti, e così grande familiarità con la divinità, che glie n'è rimasto il soprannome, abbia pensato che l'uomo, questa povera creatura, non abbia in se stesso niente di confacente a quella potenza incomprensibile? e che egli abbia creduto che i nostri intelletti deboli fossero capaci, né il vigore della nostra anima fosse abbastanza robusta per partecipare alla beatitudine o alla pena eterna? Bisognerebbe dirgli da parte della ragione umana: Se i piaceri che

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Montaigne l testi - Saggi - Libro ll

tu ci prometti nell ' altra vita sono di quelli che ho provati quaggiù, ciò non ha niente di comune con l'infinito . Quando tutti i miei cinque sensi naturali fossero colmi di letizia, e quest'anima presa di tutto il piacere che può desiderare e sperare, noi sappiamo quel che essa può: questo non sarebbe ancora nulla. Se c'è qualche cosa del mio, non c'è niente di divino . Se non è altro che quello che può appartenere a questa nostra condizione presente , non può essere messo in conto. Ogni piacere dei mortali è mortale. Il riconoscere i nostri genitori, i nostri figli, i nostri amici se ci può commuovere e far piacere nell'altro mondo , se teniamo ancora ad un tal piacere, rimaniamo nelle utilità terrestri e finite . Noi non possiamo degnamente concepire queste alte e divine promesse, se non le possiamo in nessun modo concepire; per immaginarle adeguatamente bisogna immaginarle inimmaginabili, indicibili e incomprensibili, e perfettamente diverse da quelle della nostra miserabile esperienza. Occhio non potrebbe vedere, dice San Paolo, e non può entrare in cuore d ' uomo la felicità che Dio ha preparata ai suoi . E se, per rendercene capaci, si riforma e muta il nostro essere (come dici tu, Platone, con le tue purificazioni), ciò deve essere con un cambiamento così assoluto e così totale, che, per la scienza fisica, non saremo più noi.

Hector erat tunc cum bello certabat; at ille, Tractus ab Aemonio, non erat Hector, equol26. Sarà qualche altra cosa a ricevere quei premi,

quod mutatur, dissolvitur; interit ergo: Trajiciuntur enim partes atque ordine migrantl27 , Infatti, nella Metempsicosi di Pitagora e nel cambiamento di abitazione che egli immaginava per le anime pensiamo che il leone, nel quale è I' anima di Cesare, sposi le passioni éhe muovevano Cesare, e che sia lui? Se fosse ancora lui, avrebbero ragione quelli che , combattendo questa opinione contro Platone, gli rimproverano che il figlio si possa trovare a cavalcare sua madre rivestita di un corpo di mula, e simili assurdità. E pensiamo che nei mutamenti che avvengono dei corpi degli animali in altri

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della stessa specie , i nuovi venuti non siano altro che i loro predecessori? Dalle ceneri di una fenice si genera, si dice, un verme, e poi un 'altra fenice; questa seconda fenice, chi può pensare che non sia altro che la prima? I vermi che ci danno la seta si vedono come morire e seccarsi, e, da quello stesso corpo , prodursi una farfalla, e di là un altro verme, che sarebbe ridicolo pensare essere ancora il primo. Quello che una volta cessò di essere, non è più, Nec si materiam nostram collegerit aetas Post obitum, rursumque redegerit, ut sita nunc est, Atque iterum nobis fuerint data lumina vitae, Pertineat quidquam tamen ad os id quoquefactum, lnterrupta semel cum sit repetentia nostra128. E quando altrove tu dici, Platone, che sarà la parte spirituale dell'uomo a cui spetterà di godere le ricompense nell' altra vita, ci dici cosa di assai poca probabilità, Scilicet, avolsis radicibus, ut nequit ullam Dispicere ipse oculus rem, seorsum corpore totol29 . Infatti, a questo riguardo, non sarà più l'uomo , né noi, per conseguenza, a cui toccherà questo godimento: poiché noi siamo fabbricati di due pezzi principali essenziali, la separazione dei quali è la morte e distruzione del nostro essere, Inter enim jacta est vitai pausa , vageque Deerrarunt passim motus ab sensibus omnesl 30. Noi non diciamo che l'uomo soffre quando i vermi gli rodono le membra di cui egli viveva, e che la terra le consuma, Et nihil hoc ad nos, qua coitu coniugioque Corporis atque animae consistimus uniter aptil31 .

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Montaigne 461 I testi - Saggi - Libro Il

Inoltre, su che base di loro giustizia possono gli Dei riconoscere e ricompensare all'uomo, dopo la sua morte, le sue azioni buone e virtuose, dacché sono essi stessi che le hanno condotte e prodotte in lui? E perché si offendono essi e vendicano su lui quelle peccaminose, dato che essi stessi l'hanno creato in questa condizione errante, e che, con un solo cenno della loro volontà, possono impedirgli di peccare? Epicuro non opporrebbe a Platone con grande evidenza di umana ragione questo, se non si coprisse spesso con quella sentenza: Che è impossibile stabilire qualche cosa di certo della natura immortale per mezzo di quella mortale? Essa non fa che deviare ovunque, ma specialmente quando si mette in mezzo alle cose divine. Chi lo sente più raramente di noi? Infatti, ancorché noi le abbiamo dato principii certi e infallibili, ancorché le abbiamo illuminato il cammino con la santa lampada della verità di cui a Dio è piaciuto di farci partecipi, vediamo in ogni modo giornalmente, per poco che essa si allontani dal sentiero consueto e che si svii o perda la traccia della vita segnata e battuta dalla Chiesa, come subito essa si perda, si trovi imbarazzata e impacciata, vagando e ondeggiando in quel vasto mare, turbato e burrascoso, delle opinioni umane, senza guida e senza scopo. Appena essa smarrisce quella grande e comune strada, se ne va smarrita e sperduta in mille vie diverse. L'uomo non può essere se non ciò che è, né pensare che secondo la sua possibilità. E più grande persuasione, dice Plutarco, per coloro che non sono che uomini, di mettersi a parlare e ragionare degli Dei e dei semidei di quanto non sia per un uomo ignorante di musica il volere giudicare coloro che cantano, o per un uomo che non sia stato mai in campo, voler discutere delle armi e della guerra, presumendo di comprendere per qualche lieve congettura gli effetti di un'arte che è fuori delJa sua cognizione. L'antichità pensò, credo io, di fare qualche cosa per la grandezza divina, con l'accoppiarla all'uomo, vestirla delle proprie facoltà e regalarle le sue belle tendenze e i più vergognosi bisogni, offrendole a mangiare i nostri cibi, le nostre danze, le buffonate e farse per divertirla, i nostri vestiti, per coprirsi e le case per abitare, lusingandola con l'odore degli incensi e i suoni della musica, coi festoni e coi fiori, e, per accostarla alle nostre passioni viziose, adulando la sua giustizia con una vendetta inu-

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mana, rallegrandola con la rovina e distruzione delle cose· da essa create e conservate (come Tib. Sempronio, il quale fece bruciare , per sacrificare a Vulcano , le ricche spoglie ed armi che aveva conquistate ai nemici in Sardegna; e Paolo Emilio , quelle di Macedonia a Marte e a Minerva; e Alessandro, giunto dall'oceano Indiano, gettò in mare, in onore di Teti, parecchi grandi vasi d'oro) ; riempiendo inoltre i suoi altari di una carneficina non di bestie innocenti soltanto, ma anche di uomini , così come parecchi popoli, e fra gli altri il nostro , avevano in uso costante. E credo che non ci sia alcuno che non ne abbia fatta prova, Sulmone creatos Quattuor hic juvenes, totidem quos educat Ufens , Viventes rapit, inferias quos immolet umbrisl32_ I Geti si ritengono Immortali, e il loro morire non è che l'andare verso il loro dio Zamolzi. Di cinque in cinque anni essi spediscono verso di lui qualcuno di loro per chiedergli le cose necessarie. Questo delegato è scelto a sorte. E il modo di spedirlo, dopo averlo istruito a voce del suo incarico , è che, di quelli che lo assistono , tre tengono fermi altrettanti paletti sui quali gli altri lo gettano a forza di braccia. Se egli va ad infilzarsi in un punto mortale e muore subito, questo è per loro segno certo di favore divino; se sfugge, lo ritengono malvagio ed esecrabile , e ne delegano un altro nella stessa maniera. Amestri, madre di Serse, diventata vecchia, fece seppellire vivi in una volta quattordici giovinetti delle migliori casate di Persia, secondo la religione del paese, per ingraziarsi qualche dio infero . Anche oggi, gli idoli di Temistitan vengono impastati col sangue dei bambini , e non amano sacrifici che di queste anime infantili e pure: giustizia affamata del sangue dell ' innocenza, Tantum relligio potuit suadere malorum! 133 I Cartaginesi immolavano i loro figli a Saturno; e chi non ne aveva ne acquistava, il padre e la madre erano tuttavia obbligati ad assistere a quell'ufficio con un contegno lieto e soddisfatto . Era una strana idea quella

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Montaigne 463 I testi - Saggi - Libro II

di voler soddisfare la bontà divina col nostro dolore, come gli Spartani, che vezzeggiavano la loro Diana col sacrificio dei giovanetti che facevano frustare in suo onore; spesso fino alla morte. Era una voglia feroce quella di voler ingraziarsi l'architetto con la distruzione della sua costruzione, e di voler liberare dalla pena i colpevoli con la punizione dei non colpevoli; e che la povera Ifigenia, nel porto di Aulide, con la sua morte e col suo sacrificio, sdebitasse verso Dio l'esercito dei Greci delle colpe che essi avevano commesse:

Et casta inceste, nubendi tempore in ipso, Hostia concideret mactatu maesta parentis134; e che quelle due belle e generose anime dei due Deci, padre e figlio, per rendere propizio il favore degli Dei verso le cose.dei Romani, si andassero a gettare a corpo morto attraverso il più fitto delle spade nemiche.

«Quae fuit tanta deorum iniquitas, ut placari populo Romano non possent, nisi tales viri occidissent»l35. Aggiungi che non sta al criminale di farsi frustare secondo la sua volontà e il suo beneplacito: sta al giudice di non mettere in conto del castigo se non la pena che ordina e di non poter attribuire a punizione ciò che torna gradito a chi la subisce. La vendetta divina presuppone il nostro dissenso intero per la sua giustizia e per la nostra pena. E fu ridicolo il capriccio di Policrate, tiranno di Samo, il quale, per interrompere il corso della sua continua fortuna, e controbilanciarla, andò a gettare in mare il più caro e prezioso gioiello che avesse, pensando che con questa disgrazia incontrata scientemente, avrebbe soddisfatto al trascorrere e alla vicissitudine della fortuna; ed essa, per burlarsi della sua imbecillità, fece sì che ritornasse ancora nelle sue mani quel medesimo gioiello trovato nel ventre di un pesce. E poi a che pro le lacerazioni e le mutilazioni dei Coribanti, delle Menadi, e, ai nostri tempi, dei Maomettani, che si sfregiano il viso, il petto, le membra, per ingraziarsi il loro profeta, poiché l'offesa sta nella volontà, non nel petto, negli occhi, nei genitali, nella freschezza della carnagione e nella gola. «Tantus est perturbatae mentis et sedibus suis pulsae furor, ut sic Dii placentur, quemadmodum ne homines quidem saeviunt>>136.

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Questa tessitura naturale non appartiene, per il suo servizio, soltanto a noi, ma anche a Dio e agli altri uomini; é ingiusto mutilarla a nostra volontà, come ucciderci per qualsiasi pretesto. Sembra sia grande viltà e tradimento maltrattare e corrompere le funzioni del corpo, stupide e schiave, per risparmiare all ' anima la cura di guidarle secondo ragione. «Uhi iratos deos timent, qui sic propitios habere merentur? In regiae libidinis voluptatem castrati sunt quidam; sed nemo sibi, ne vir esset,jubente domino manus intulit»l37 . Così quelli riempivano la loro religione di parecchie cattive azioni , saepius olim Relligio peperit scelerosa atque impia facta1 38 . Ora niente di nostro si può trovare o paragonare, in qualsiasi maniera, alla natura divina, che non la macchi e non la segni di altrettanta imperfezione. Quella infinita bellezza, potenza e bontà, come può sopportare qualche paragone e similitudine con cosa tanto abbietta come noi siamo , senza un immenso avvilimento della sua divina grandezza? «lnfirmum deifortius est hominibus, et stultum dei sapientius est hominibus»139. Il filosofo Stilpone, interrogato se gli Dei gioissero dei nostri onori e sacrifici: Siete indiscreto, rispose; ritiriamoci in disparte, se volete parlar di questo. Tuttavia noi vi mettiamo dei limiti, consideriamo la sua potenza assillata dalle nostre ragioni (chiamo ragione le nostre fantasie e i nostri sogni, col permesso della filosofia, la quale dice che anche il folle e il malvagio impazziscono per la ragione, ma che è una ragione di forma particolare); noi vogliamo asservirla alle apparenze vane e deboli della nostra mente, essa che ha fatto e noi e il nostro intelletto. Per il fatto che da niente non viene niente, Dio non avrà potuto costruire il mondo senza materia. Che! Dio ci ha messo nelle mani le chiavi e le molle più riposte della sua potenza? s' è obbligato a non oltrepassare i limiti della nostra scienza? Metti il caso, o uomo, che tu abbia potuto constatare qui qualche segno delle sue azioni; pensi che egli vi abbia impiegato tutto ciò che ha potuto e che abbia messo tutte le sue possibilità e tutte le sue idee in quest' opera? Tu non vedi che l'ordine e la regola di questa piccola cantina in cui

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Montaigne 465 I testi - Saggi - Libro Il

sei collocato, seppure la vedi: la sua divinità ha un'infinita giurisdizione al di là; questo pezzo non è niente in confronto del tutto: omnia cum caelo terraque marique Nil sunt ad summam summai totius omnem140: è una legge municipale quella che tu citi , tu non sai quale sia l'universale. Attacca te a quello a cui sei soggetto, ma non lui; egli non è il tuo confratello, e concittadino, o compagno; se egli s'è in qualche cosa comunicato a te , non è per abbassarsi alla tua piccolezza né per darti la misura del suo potere. Se il corpo umano non può volare sulle nubi, è per cagion tua; il sole continua sempre la sua corsa; i confini dei mari e della terra non si possono confondere: l'acqua è instabile e senza solidità; un muro è, se non ci sono fessure, impenetrabile ad un corpo solido; l'uomo non può vivere nelle fiamme; esso non può essere in cielo e in terra, e in mille luoghi insieme corporalmente. È per te che ha fatto queste regole; è te che esse riguardano. Egli ha dimostrato ai cristiani che le ha superate tutte , quando gli è piaciuto. Invero , perché , onnipotente com'è , avrebbe limitato le sue forze ad una misura determinata, in favore di chi avrebbe rinunciato al suo privilegio? La tua ragione non ha in nessun ' altra cosa maggiore verosimiglianza e fondamento che in questo, che ti convince della pluralità dei mondi: Terramque, et solem, lunam, mare, caetera quae sunt Non esse unica, sed numero magis innumerati141 . I più famosi spiriti del tempo passato l'hanno creduto, e così alcuni dei nostri, spinti dall'evidenza della ragione umana. Tanto più che in questa fabbrica che noi vediamo, non c'è niente di solo ed unico, cum in summa res nulla sit una, Unica quae gignatur, et unica solaque crescatl42, e tutte le specie sono moltiplicate in qualche numero; per cui sembra non essere verosimile che Dio abbia fatto questa sola opera senza compagna,

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e che la materia di questa costruzione sia stata tutta esaurita in questo solo individuo: Quare etiam atque etiam tales fateare necesse est Esse alias alibi congressus materiai, Qualis hic est avido complexu quem tenet aether143: specialmente se è un essere animato, come i suoi movimenti fanno credere, come Platone assicura, e parecchi dei nostri o confermano o non osano contrastare; e anche quella opinione antica che il cielo , le stelle e altre parti del mondo sono creature composte di corpo ed anima, mortali se si considera la loro composizione , ma immortali per determinazione del Creatore. Ora, se ci sono parecchi mondi, come Democrito , Epicuro e quasi tutta la filosofia hanno pensato, che cosa sappiamo noi se i principii e le regole di questo riguardino nello stesso modo gli altri? Essi per avventura hanno altra forma e altro governo. Epicuro l'immagina o simili o dissimili. Noi vediamo in questo mondo un'infinita differenza e varietà per la sola distanza dei luoghi. Né il grano né il vino si vede, né alcuno dei nostri animali in quelle nuove terre che i nostri padri hanno scoperte; tutto vi è diverso. E , nel tempo passato , vedete in quante parti del mondo non si conosceva né Bacco né Cerere. Per chi vorrà credere a Plinio e ad Erodoto, ci sono specie di uomini in certi luoghi , che hanno pochissima rassomiglianza con noi. E ci sono delle forme meticce e ambigue fra la natura umana e quella dei bruti. Ci sono regioni in cui gli uomini nascono senza testa, ed hanno gli occhi e la bocca sul petto; in cui essi sono tutti androgini; in cui camminano a quattro zampe; in cui non hanno che un occhio in fronte , e la testa più simile a quella di un cane che alla nostra; dove sono metà pesci nella parte inferiore e vivono nell 'acqua; dove le femmine partoriscono a cinque anni e non ne vivono che otto; dove hanno la testa così dura e anche la pelle della fronte, che il ferro non l'intacca e vi si spunta contro; dove gli uomini sono senza barba; popoli che non hanno l'uso e la conoscenza del fuoco ; altri che emettono lo sperma di color nero . E inoltre , quelli che naturalmente si mutano in lupi , in giumenti , e poi ancora in uomini? E , se è come dice Plutarco, che , in qualche luogo delle

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Montaigne Zl6 7 I testi - Saggi - Libro Il

Indie, ci sono uomini senza bocca, che si nutriscono aspirando certi odori, quante nostre descrizioni non sono false? non è cosa più ridicola né per avventura ragionevole e confacente alla società.L'ordine e la ragione della nostra costruzione interna sarebbero, per la maggior parte, fuori di luogo. Di più, quante cose sono a nostra conoscenza, le quali contrastano a quelle belle regole che noi abbiamo fissate e prescritte alla natura? E noi pretendiamo di applicarle a Dio stesso! Quante cose non chiamiamo miracolose e innaturali? Questo si fa da ogni uomo e da ogni popolo secondo la misura della sua ignoranza. Quante proprietà occulte e quintessenze non troviamo? infatti, andare secondo natura, per noi, non è che andare secondo la nostra intelligenza, in quanto essa può seguire e in quanto noi con essa vediamo: ciò che è al di là è mostruoso e fuori delle regole. Ora a questo riguardo per i più sapienti e per i più assennati, tutto sarà dunque mostruoso. Infatti quelli l'umana ragione li ha convinti che essa non vi aveva né base né fondamento qualsiasi, non solo per renderli certi soltanto che la neve è bianca (eAnassagora diceva essere nera); se esiste qualche cosa o se non esiste nulla; se c'è scienza o ignoranza (Metrodoro di Chio negava che l'uomo lo potesse dire); o se noi viviamo: infatti Euripide è in dubbio se la vita che noi viviamo sia vita, o se non sia vita ciò che chiamiamo morte:

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E non senza probabilità: infatti perché noi possiamo dire di esistere da quell'istante che non è che un lampo nel corso infinito di una notte eterna, e una interruzione così breve della nostra perpetua e naturale condizione? mentre la morte occupa tutto il futuro e tutto il passato di quel momento, e una buona parte ancora di quel momento . Altri giurano che non c ' è affatto movimento , che niente si muove , come i seguaci di Melisso (infatti se non esiste che uno , né gli può giovare il movimento sferico , né il movimento da un luogo a un altro, come dimostra Platone) , che in natura non c'è né generazione né corruzione. Protagora dice che in natura non c'è che il dubbio; che, di ogni cosa,

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si può ugualmente discutere, e anche di ciò, se si possa ugualmente discutere di tutte le cose; Nausifane, che di tutte le cose che appaiono niente esiste più che non esista; che non c 'è di certo che l'incertezza; Parmenide, che, di tutto ciò che appare, non esiste alcuna cosa in generale, che non esiste che una cosa; Zenone, che nessuno esiste, e che non c'è niente . Se una cosa esistesse, sarebbe o in un'altra o in se stessa, se è in un'altra sono due; se è in se stessa, sono pure due, il contenente e il contenuto. Secondo questi assiomi, la natura delle cose non è che un'ombra o falsa o vana. Mi è sempre parso per un uomo Cristiano questo modo di parlare sia pieno di indiscrezione e di irriverenza: Dio non può morire , Dio non si può contraddire, Dio non può fare questo o quello. Non trovo buono il racchiudere così la potenza divina sotto le leggi della nostra parola. E l'evidenza che si mostra a noi in queste proporzioni, bisognerebbe descriverla più reverentemente e più religiosamente. Il nostro parlare ha le sue debolezze e i suoi difetti, come tutto il resto. La maggior parte delle occasioni degli sconvolgimenti del mondo sono grammaticali . I nostri processi non nascono che dalla discussione sull'interpretazione delle leggi; e la maggior parte delle guerre dall'impotenza di non aver saputo chiaramente esprimere le convenzioni e gli accordi dei principi. Quante liti e quanto importanti ha create nel mondo il dubbio del senso di questa sillaba HOC! Prendiamo la regola che la logica stessa ci presenterà come la più chiara. Se voi dite: fa bel tempo , e se voi dite la verità, fa dunque bel tempo. Non è questo un modo di parlare certo? E anch'essa c'ingannerà. A prova di questo continuiamo l'esempio: Se voi dite: Io mentisco, e dite il vero , voi dunque mentite. L'arte, la ragione , la forza di dimostrazione di questa frase sono uguali all'altra; tuttavia eccoci impantanati. Vedo i filosofi Pirroniani che non possono esprimere il loro concetto generale in nessuna forma di linguaggio: infatti occorrerebbe loro un nuovo linguaggio. Il nostro è tutto costituito di proposizioni affermative, che sono per loro assolutamente nemiche; in modo che quando essi dicono: Io dubito , li si prende subito alla gola per far loro confessare che per lo meno assicurano e sanno questo , che dubitano. Così sono stati costretti a salvarsi in quell 'altro paragone della medicina, senza il quale la loro idea sarebbe inesplicabile. Quando dico-

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no: Ignoro, o: Dubito, essi dicono che questa proposizione fugge via da se stessa insieme col resto, né più né meno che il rabarbaro, il quale manda fuori gli umori cattivi e fugge via insieme con quelli stessi. Quest'idea è più sicuramente concepita per interrogazione: Che cosa sono io? come è scritto su una mia insegna con una bilancia 145. Guardate come ci si serve di questa sorta di linguaggio pieno d'irriverenza. Nelle discussioni che si svolgono ora nella nostra religione, se incalzate troppo gli avversari, essi vi diranno molto francamente che non è in potere di Dio di fare che il suo corpo sia in paradiso e in terra e in parecchi luoghi contemporaneamente. E quell'antico beffeggiatorel46, come ne trae vantaggio! Almeno, egli dice, viene non piccola consolazione per l'uomo dal fatto che vede non poter Dio ogni cosa: infatti egli non potrebbe uccidersi quando lo volesse, e questo è il più grande vantaggio che noi abbiamo nella nostra condizione; non può fare immortali i mortali; né resuscitare i morti; né che colui che ha vissuto, non abbia vissuto; colui che ha avuto onori, non li abbia avuti: non avendo altro diritto sul passato che quello dell'oblio. E per adattare questa comunione dell'uomo con Dio con esempi piacevoli, egli non può fare che due volte dieci non siano venti. Ecco quello che egli dice, e che un Cristiano dovrebbe evitare di far passare per la sua bocca. Laddove, al contrario, sembra che gli uomini cerchino questa folle protervia di linguaggio, per portare Dio alla loro misura,

cras ve/ atra Nube polum pater occupato, Ve/ sole puro; non tamen irritum Quodcumque retro est, efficiet, neque Diffinget infectumque reddet Quodfugiens semel hora vexit147. Quando noi diciamo che l'infinità dei secoli, tanto passati che avvenire, non è per Dio che un istante; che la sua bontà, la sua sapienza, la sua potenza sono la stessa cosa con la sua essenza, la nostra parola lo dice, ma il nostro intelletto non lo comprende. E tuttavia la nostra tracotanza vuoi

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far passare la divinità per il nostro buratto. E da ciò si generano tutte le fantasie e gli errori da cui il mondo si trova stretto , mentre porta e pesa sulla sua bilancia cosa tanto lontana dal suo giudizio. «Mirum quo procedat improbitas cordis humani , parvulo aliquo invitata successu» I48. Con quanto rigore rimbeccano Epicuro gli Stoici , per il fatto che egli sostiene che l'essere veramente buono e felice non appartiene che a Dio , e che l'uomo saggio non ne ha che un ' ombra e rassomiglianza! Quanto temerariamente hanno appaiato Dio al destino (per ciò che riguarda la mia volontà , nessuno il quale abbia soprannome di Cristiano lo faccia ancora!) e Talete, Platone e Pitagora l'hanno asservito alla necessità! Quest'ambizione di voler scoprire Dio coi nostri occhi , ha fatto sì che un grand'uomo dei nostril49 abbia dato alla divinità una forma corporea. Ed è a cagione di ciò che ci accade tutti i giorni di attribuire a Dio i fatti importanti , con una particolare assegnazione . Siccome hanno peso per noi, ci sembra che abbiano peso anche per lui, e che egli vi guardi più interamente e con maggiore attenzione che. agli eventi che ci sono lievi o d' importanza ordinaria. «Magna dii curant, parva negligun/:>>150 . Ascoltate l'esempio, che ve ne spiegherà la ragione: «Nec in regnis quidem reges omnia minima curant>>151. Come se per lui non fosse uguale rimuovere un impero o la foglia di un albero, e se la sua provvidenza si esercitasse altrimenti , nel far decidere l'esito di una battaglia, che il salto di una pulce! Il potere del suo governo si presta a tutte le cose con uguale tenore, con la stessa forza e la stessa regola: il nostro interesse non vi può niente; i nostri movimenti, i nostri disegni non lo toccano. «Deus ita artifex magnus in magnis, ut minor non sit in parvis»152. La nostra arroganza ci riporta sempre avanti questo paragone blasfemo. Per il fatto che le nostre occupazioni ci impegnano , Stratone ha attribuito a Dio ogni immunità da doveri, come i loro sacerdoti. Egli fa creare e conservare tutte le cose dalla Natura, e con i suoi pesi e coi suoi movimenti costruisce le parti del mondo , liberando la natura umana del timore dei giudizi divini . «Quod beatum alternumque sit, id nec habere negotii quicquam, nec exhibere alteri»153. Natura vuole che nelle cose uguali ci sia relazione uguale . Dunque il numero infinito dei mortali presuppo-

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ne un numero uguale d'immortali . Le cose infinite che uccidono e nuocciono, ne presuppongono altrettante che conservano e portano utilità. Come le anime degli Dei, senza lingua, senza occhi, senza orecchie, sentono fra loro , ciascuna ciò che l'altra sente, e giudicano i nostri pensieri , così le anime degli uomini , quando sono libere e svincolate dal corpo per mezzo del sonno o di qualche estasi , divinano, pronosticano , e vedono cose che non saprebbero vedere se·unite ai corpi. Gli uomini, dice San Paolo, sono diventati pazzi , per voler esser saggi; e hanno mutato la gloria di Dio incorruttibile nell'immagine dell' uomo corruttibile. Guardate un po' questa ciarlataneria delle antiche deificazioni. Dopo il grande e fastoso rito del seppellimento, appena il fuoco si apprendeva all'alto della piramide e conquistava il letto del defunto, lasciavano nello stesso momento libera un'aquila, che , se volava in alto significava che l'anima se ne andava in paradiso. Abbiamo mille medaglie, e specialmente di quella onesta donna di Faustina, in cui quell'aquila è rappresentata che porta sul dorso verso il cielo queste anime deificate. È pietoso vedere come noi c'inganniamo con le nostre stesse scimmiottature e fantasie, Quodfimere, timent154; come i fanciulli che si spaventano di quel medesimo viso che hanno impiastricciato e tinto di nero al loro compagno . «Quasi quicquam infelicius sit homine cui suafigmenta dominantur»l55. È cosa ben diversa onorare colui che ci ha fatti, che onorare colui che noi abbiamo fatto. Augusto ebbe più templi che Giove, officiati con altrettanta devozione e credenza di miracoli. I Tasiani, in ricompensa dei benefici che avevano ricevuto da Agesilao , gli vennero a dire che lo avevano canonizzato: Il vostro popolo, egli disse loro, ha tal potere da fare Dio chi gli garba? Fatene , per prova, uno di voi , e poi, quando avrò visto come se ne sarà trovato , vi dirò grazie della vostra offerta. L'uomo è assai insensato . Non saprebbe fabbricare un piccolissimo insetto e fabbrica Dei a dozzine. Sentite Trimegisto che elogia la nostra dottrina: Di tutte le cose meravi-

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gliose ha superato la meraviglia il fatto che l'uomo abbia potuto trovare la natura divina e crearla. Ecco alcuni argomenti della stessa scuola della filosofia, Nosse cui Divos et coeli numina soli, Aut soli nescire, datum156:

Se Dio esiste, è animale; se è animale, ha sensi; e se ha sensi, è soggetto alla corruzione. Se è senza corpo, è senz'anima, e per conseguenza privo di azione; e se ha corpo, è peribile. Non è questo un trionfo? Noi siamo incapaci di aver fatto il mondo: c 'è dunque qualche natura più eccellente che vi ha posto mano. Sarebbe una stolta arroganza quella di stimarci la cosa più perfetta di questo universo: c'è dunque qualche cosa di migliore: questa è Dio. Quando vedete una casa ricca e fastosa, anche se non sapete chi n'è il padrone, pure non direte che sia fatta per dei topi. E questa divina struttura che noi vediamo del palazzo celeste, non dobbiamo credere che sia l'abitazione di qualche padrone più grande di noi? Il più alto non è sempre il più degno? E noi siamo collocati in basso. Niente che sia senz'anima e senza ragione può produrre un essere animato capace di ragione. Il mondo ci crea, dunque esso ha anima e ragione. Ogni parte di noi è meno che noi. Noi siamo parte del mondo. Il mondo è dunque fornito di saggezza e di ragione, e più abbondantemente di quanto non lo siamo noi. È una bella cosa avere un gran regime. Il regime del mondo appartiene dunque a qualche natura felice. Gli astri non ci fanno danno , essi sono dunque pieni di bontà. Noi abbiamo bisogno di nutrimento, così l'hanno dunque gli Dei, e si pascono dei vapori di quaggiù. I beni mondani non sono beni per Dio; non sono dunque beni per noi. L'offendere e l'essere offeso sono ugualmente prove di debolezza; è dunque follia temere Dio . Dio è buono per sua natura, l' uomo per sua arte, il che è di più . La saggezza divina e l'umana saggezza non hanno altra differenza, se non che quella è eterna. Ora la durata non è affatto un'accessione della saggezza; per cui eccoci compagni. Noi abbiamo vita, ragione e libertà, stimiamo la bontà, la carità e la giustizia: queste quaUtà sono dunque in lui. Insomma il fabbricare e lo smontare, le condizioni della divinità sono costruite dall' uomo secondo il paragone con se stesso.

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Che padrone e che modello! Stendiamo, eleviamo e ingrandiamo le qualità umane quanto ci piacerà: gonfiati, pover'uomo, e ancora, e ancora, e ancora:

Non, si te ruperis, inquit157. «Profecto , non Deum, quem cogitare non possunt, sed semel ipsos pro ilio cogitantes, non illum sed se ipsos non illi sed sibi comparant» 158. Delle cose naturali, gli effetti non si riferiscono che a metà delle loro cause: e che dire di questa? essa è al di sopra dell'ordine naturale; la sua condizione è troppo elevata, troppo distante e troppo dominatrice, per sopportare che le nostre conclusioni l'attacchino e la incatenino. Non è da noi arrivarci, questa strada è troppo bassa. Noi non siamo più vicini al cielo sul Moncenisio che in fondo al mare; controllate, per credere, col vostro astrolabio. Essi portano Dio fino al commercio carnale con le donne: per quante volte, per quante generazioni? Paolina, moglie di Saturnino, matrona di grande reputazione a Roma, pensando di giacersi col Dio Serapide, si trovò fra le braccia di un suo amoroso per l'inganno dei sacerdoti di quel tempio . Varrone, il più sottile e più sapiente scrittore latino, nei suoi libri di Teologia, scrive che il servo di Ercole, giocando alla sorte, con una mano per sé, con l'altra per Ercole, giocò contro di lui una cena e una ragazza; se avesse vinto, sarebbe stato a spese delle offerte votive, se avesse perduto, a spese sue. Egli perdette, pagò la cena e la ragazza. Il nome di lei fu Laurentina, e vide di notte quel Dio fra le sue braccia, che le diceva per di più che il giorno dopo, il primo che essa avesse veduto le avrebbe pagato in modo divino la sua ricompensa. Fu Tarunzio, giovane ricco, che se la condusse in casa, e, col tempo, la lasciò ereditiera. Essa, a sua volta, sperando di fare cosa gradita a quel Dio , lasciò erede il popolo Romano: col patto che le si attribuissero onori divini. Come se non bastasse che, per doppia genealogia, Platone fosse originariamente disceso dagli Dei; e avesse per autore comune della sua razza Nettuno , si riteneva per certo ad Atene che Aristone, che aveva voluto godersi la bella Perizione, non aveva saputo farlo; e fu avvertito in sogno dal dio Apollo di lasciarla non polluta e intatta , finché non rimanesse incin-

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Montaigne I testi - Saggi - Libro Il

ta. Erano il padre e la madre di Platone. Quante non ce ne sono, nelle storie, di simili corna procurate dagli Dei contro i poveri uomini? e di mariti ingiuriamente screditati a vantaggio dei figli ? Nella religione di Maometto si trovano , per la credenza di quel popolo, parecchi Merlini , cioè figli senza padre , spirituali nati per voler divino, dal ventre delle vergini: e portano un nome che significa questo nella loro lingua. Occorre notare che a ciascuna cosa niente è più caro e più stimabile che il proprio essere (il leone, l' aquila, il delfino non apprezzano niente al disopra della loro specie) ; e che ognuna riferisce le qualità di tutte le altre cose alle sue proprie qualità: che noi possiamo bene ampliare e rimpicciolire, ma questo è tutto: poiché, al di fuori di questo rapporto e di questo principio, la nostra immaginazione non può andare, non può pronosticare nient' altro, ed è impossibile che essa esca di là e che vada oltre. Da ciò nascono quelle antiche deduzioni: di tutte le forme la più bella è quella dell' uomo; Dio dunque è di tale forma . Nessuno può essere felice senza virtù, né la virtù essere senza la ragione e nessuna ragione può alloggiare se non nella spoglia umana; Dio dunque è rivestito della figura umana. «lta est informatum, anticipatum mentibus nostris ut homini, cum de dea cogitet,forma occurrat humana»159. Pertanto diceva Senofane che, se gli animali si fabbricano degli Dei, come è verosimile che facciano, li fabbricano certamente simili ad essi, e se ne compiacciono come noi. Infatti perché un papero non dirà così: Tutte le parti dell'universo son fatte per me; la terra mi serve per camminare, il sole ad illuminarmi, le stelle ad infondermi i loro influssi; ho la tale comodità dai venti, la tale dalle acque; non c'è niente che questa voltaceleste guardi con tanto favore quanto me; io sono il favorito della natura; non è l'uomo che mi nutrisce, mi dà l'alloggio, mi serve? è per me che fa seminare e macinare? se egli mi mangia, l'uomo fa così anche col suo compagno, e faccio io stesso coi vermi che l'uccidono e lo divorano. Altrettanto direbbe una gru, e più magnificamente ancora per la libertà che ha nel volo e il possesso di quella bella e alta regione: «tam blanda conciliatrix et tam sui est lena ipsa natura»160! Ora dunque, per questo medesimo ragionamento per noi sono i destini, per noi il mondo; esso lampeggia, tuona per noi; e il creatore e le creature, tutto è per noi .

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Montaigne 4 7 5 I testi - Saggi - Libro II

È lo scopo e il punto a cui mira l'universo delle cose. Guardate il registro che la filosofia ha tenuto per duemila anni e più degli affari celesti: gli Dei non hanno agito, non hanno parlato che per noi; essa non attribuisce loro altro ufficio e altra occupazione: eccoli in guerra contro noi, domitosque Hercules manu Telluris juvenes, unde periculum Fulgens contremuit domus Saturni veteris161; eccoli che prendono parte alle nostre lotte, per renderci la pariglia per il fatto che, tante volte, noi prendiamo parte alle loro, Neptunus muros magnopere emota tridenti Fundamenta quatit, totamque a sedibus urbem Eruit. Hic luno Scaeas saevissima portas Prima tenetl62. I Cauni, per il desiderio di essere dominati dai loro propri Dei , prendono indosso le armi il giorno della loro festa, e vanno correndo per tutta la loro provincia battendo l'aria qua e là con le loro spade, cacciando così di tutta forza e mettendo al bando gli Dei stranieri dal loro territorio. I poteri di essi sono fissati secondo il nostro bisogno: chi guarisce i cavalli, chi gli uomini, chi la peste , chi la tigna, chi la tosse , chi una specie di rogna, chi altro («adeo minimis etiam rebus prava relligio inserit deos»)163 chi fa nascere l'uva chi gli olmi; chi ha cura della lussuria, chi della mercanzia (ad ogni specie di artigiani un Dio) , chi ha la sua provincia e il suo culto ad oriente chi a ponente: hic illius arma, Hic currusfuit164. O sancte Apollo, qui umbilicum certum terrarum obtines/165. Pallada Cecropidae, Minoia Creta Dianam, Vulcanum tellus Hipsipilea colit, lunonem Sparte Pelopoiadesque Mycenae;

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4 7 6 Montaigne I testi - Saggi - Libro II

Pinigerum Fauni Maenalis ora caput; Mars Latio venerandusl66. Chi non ha in suo potere che un borgo o una famiglia, chi abita solo; chi in compagnia o volontaria o necessaria.

Iunctaque sunt magno tempia nepotis avol67. Ce ne sono di così miseri e volgari (poiché il loro numero sale fino a trentamila) che bisogna metterne insieme ben cinque o sei per produrre una spiga di grano, e prendono da ciò i loro diversi nomi: tre a una porta, quello del legno, quello del cardine, e quello della soglia; quattro a un ragazzo, protettori delle sue fasce, del suo bere, del suo mangiare, del suo succhiare; alcuni certi, altri incerti e dubbi; alcuni che ancora non entrano in Paradiso:

Quos quoniam caeli nondum dignamur honore Quas dedimus certe terras habitare sinamusl68; ce ne sono di fisici, di poetici, di civili; alcuni, in mezzo fra la divina e l'umana natura, mediatori, intermediari fra noi e Dio: adorati con un certo secondo grado di adorazione e minore; infiniti per titoli e offici; gli uni buoni, gli altri cattivi. Ce ne sono di vecchi e deboli, e ce ne sono di mortali: infatti Crisippo pensava che nell'ultima conflagrazione del mondo tutti gli Dei sarebbero finiti, salvo Giove. L'uomo fabbrica mille società piacevoli fra Dio e lui. Non è suo compatriota?

Jovis incunabula Cretenl69 . Ecco la giustificazione che ci danno a proposito di quest' argomento, Scevola, Pontefice Massimo, e Varrone, grande teologo ai loro tempi: Che

è necessario che il popolo ignori molte cose vere e ne creda molte false; «cum veritatem qua liberetur, inquirat, credatur ei expedire, quodfallitur» 170. Gli occhi umani non possono percepire le cose che per mezzo delle forme di loro conoscenza. E non ci ricordiamo del salto che fece il

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misero Fetonte per aver voluto tenere le redini dei cavalli di suo padre con mano mortale. Il nostro spirito ricade in uguale abisso, si dissipa e si infrange nella stessa maniera, a causa della sua temerità. Se domandate alla filosofia di che materia è il cielo e il Sole, che cosa vi risponderà essa, se non di ferro o, con Anassagora, di pietra, e simile materia di uso nostro? Si chiede a Zenone che cosa è la natura? Un fuoco, egli dice, artificiale, adatto a generare, procedente secondo una regola. Archimede, maestro di quella scienza che si attribuisce la precedenza su tutte le altre nella verità e nella certezza: Il Sole, egli dice, è un dio di ferro infiammato . Ecco una bella immaginazione creata dalla bellezza e dalla inevitabile necessità delle dimostrazioni geometriche! Non però così inevitabile e utile che Socrate non abbia stimato che bastasse saperne fino a potere misurare la terra che veniva data e che veniva ricevuta, e che Polieno, il quale ne era stato famoso ed illustre dottore, non abbia preso a disprezzarle, come piene di falsità e di vuotezza evidente, dopo che ebbe gustato i dolci frutti dei giardini del dolce far niente di Epicuro. Socrate in Senofonte, occupandosi di Anassagora, stimato dall'antichità dotto sopra tutti gli altri nelle cose celesti e divine, dice che si sconvolse il cervello, come fanno tutti gli uomini i quali indagano smodatamente le nozioni che non sono di loro spettanza. Nel fare del sole una pietra ardente, non si accorgeva che una pietra non risplende affatto al fuoco, e, quel che è peggio, che essa si consuma; facendo una cosa sola del sole e del fuoco, che il fuoco non abbrunisce coloro che lo guardano; che noi possiamo guardare fissi il fuoco; che il fuoco uccide le piante e le erbe. Secondo il parere di Socrate e anche mio , il più saggio giudizio sul cielo è non dame alcun giudizio. Platone, dovendo parlare dei Demoni a Timeo: È un'impresa, dice, che supera le nostre forze. Non bisogna credere a quegli antichi che si sono detti generati da essi. È irragionevole rifiutare fede ai figli degli Dei, pure se la loro parola non sia provata da ragioni necessarie né verosimili, poiché essi ci assicurano di parlare di•cose domestiche e familiari. Guardiamo se possediamo qualche maggiore chiarezza nella conoscenza delle cose umane e naturali. È bene un'impresa ridicola, in quelle alle quali, per nostra propria confessione, la nostra scienza non può arrivare, di andar loro fabbricando un

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altro corpo e prestare una forma falsa, di nostra invenzione: come si constata nel movimento dei pianeti, a cui non potendo la nostra intelligenza arrivare, né immaginare il loro naturale modo di comportarsi, noi prestiamo loro, del nostro, forze materiali, pesanti e corporee:

temo aureus, aurea summae Curvatura rotae, radiorum argenteus ordol 71. Voi potreste dire che abbiamo avuto cocchieri, carpentieri e pittori, che se ne sono andati a fabbricare lassù congegni a diversi movimenti, e adattare ruote e intrecci dei corpi celesti di colori screziati attorno al fuso della necessità, secondo Platone:

Mundus domus est maxima rerum, Quam quinque altitonae fragmine zonae Cingunt, perquam limbus pictus bis sex signis Stellimicantibus, altus in obliquo aethere, lunae Bigas acceptat172. Sono tutti sogni e follie visionarie. Piacesse un giorno alla natura di aprirci il suo seno e farci vedere al vero i mezzi e il comportamento dei suoi movimenti, e addestrarvi i nostri occhi! O Dio! che abusi, che errori troveremmo nella nostra povera scienza: che io m'inganni se essa può mantenere una sola cosa giustamente al punto suo; e me ne andrò di qui più ignorante di qualsiasi altra cosa che della mia ignoranza. Non ho trovato in Platone quella divina sentenza, che la natura non è che una poesia enigmatica? sarebbe come chi dicesse una pittura velata ed offuscata, che facesse trasparire una infinita varietà di false luci per esercitare le nostre congetture. «Latent ista omnia crassis occultata et circumfusa tenebris, ut nulla acies humani ingenii tanta sit, quae penetrare in caelum, terram intrare possit» 173. E certo la filosofia non è che una poesia sofisticata. Da dove traggono quegli antichi autori tutte le loro prove se non dai poeti? E i primi furono poeti essi stessi e la trattarono secondo la loro arte. Platone non è che

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un poeta scucito. Timone lo chiama, per disprezzo, gran fabbricatore di miracoli. Come le donne usano denti di avorio quando quelli loro naturab mancano, e, invece della loro vera tinta, se ne fabbricano una con qualche materia estranea; come esse si fanno cosce di panno e di feltro, e rotondità di cotone, e agli occhi di tutti si abbelliscono di una bellezza falsa e presa a prestito; così fa la scienza (e anche il nostro diritto, si dice, ha finzioni legittime sulle quali fonda la verità della sua giustizia); essa ci dà in soddisfazione e presupposizione le cose che essa stessa ci insegna essere state inventate: infatti quegli epicicli, eccentrici, concentrici di cui l'Astrologia si giova per il movimento delle stelle, ce li offre come il meglio che essa abbia saputo inventare in questa materia. E così anche per il resto la filosofia ci mette davanti non ciò che è, o ciò che essa crede, ma ciò che essa costruisce come avente più evidenza e più eleganza. Platone, nel ragionamento sullo stato del nostro corpo e su quello delle bestie dice, che quello che noi abbiamo detto essere vero, noi lo affermeremmo, se avessimo su ciò conferma da un oracolo; soltanto dichiariamo che è il più verosimile che abbiamo saputo dire. Non è al cielo soltanto che essa manda i suoi cordami, e i suoi congegni e le sue ruote. Consideriamo un po' quello che essa dice di noi stessi e della nostra struttura. Non c'è retrogradazione, trepidazione, accessione, retrocessione, rapimento, negli astri e corpi celesti, che essi non abbiano costruito in questo povero piccolo corpo umano. Veramente essi hanno avuto per questo ragione di chiamarlo il piccolo mondo, tanti pezzi e figure hanno usati per farne le mura e costruirlo. Per adattare i movimenti che essi vedono nell'uomo, le diverse funzioni e facoltà che sentiamo in noi, in quante parti hanno diviso la nostra anima? in quanti luoghi l'hanno collocata? in quanti ordini e piani hanno diviso questo povero uomo, oltre quelli naturali e percettibili? e per quanti compiti e occupazioni? Essi ne fanno una cosa pubblica immaginaria. È un soggetto che posseggono e manovrano; è lasciata loro ogni facoltà di smontarlo, montarlo, rimetterlo insieme e guarnirlo, ciascuno a sua voglia; eppure ancora non lo possiedono. Non solo in realtà, ma perfino in immaginazione, non lo possono regolare, che non vi si trovi qualche ritmo o qualche suono che sfugga alla loro architettura, per quanto enorme essa

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sia, e ricomposta da mille pezzi falsi e fantastici. E non c'è ragione di scusarli. Poiché ai pittori, quando dipingono il cielo, la terra, i mari, i monti, le isole remote, noi con-cediamo che ce ne rappresentino soltanto una lieve immagine; e, come di cose ignorate, ci contentiamo di un qualche adombramento e finzione. Ma quando riproducono dal naturale un soggetto che ci è familiare e conosciuto, esigiamo da essi una raffigurazione perfetta ed esatta delle linee e dei colori, e li spregiamo se falliscono. lo sono grato

alla fanciulla Milesia, la quale, vedendo il filosofo Talete occupato continuamente nella contemplazione della volta celeste e a tenere sempre gli occhi levati verso l'alto, gli mise sui suoi passi qualche cosa per farlo inciampare, per avvertirlo che sarebbe stato tempo di volgere il pensiero alle cose che erano tra le nuvole, quando avesse provveduto a quelle che erano ai suoi piedi. Essa gli consigliava certo di guardare piuttosto a sé che al cielo. Poiché, come dice Democrito per bocca di Cicerone,

Quod est ante pedes, nemo spectat; coeli scrutantur plagasl74. Ma la nostra condizione porta con sé che la cognizione che abbiamo per le mani è tanto lontana da noi e così al disopra delle nuvole, quanto quella degli astri. Per questo Socrate in Platone dice che a chiunque si occupa di filosofia si può fare il rimprovero che fa quella donna a Talete, di non veder niente di ciò che è davanti a lui. Del resto ogni filosofo ignora ciò che fa il suo vicino, e quello che fa lui stesso, e ignora ciò che sono tutti e due, o bestie o uomini. Quelle persone che trovano le ragioni di Sebond troppo deboli, che non ignorano nulla, che guidano il mondo, che sanno tutto,

Quae mare compescant causae; quid temperet annum; Stellae spante sua jussaeve vagentur et errent; Quid premat obscurum Lunae, quid proferat orbem; Quid velit et possit rerum concordia discors175; non hanno qualche volta sondato fra i loro libri le difficoltà che si presentano a conoscere il loro proprio essere? Noi vediamo bene che il dito si muove, e che il piede si muove; che certe parti si agitano da se stesse

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senza permesso, e che altre le moviamo per comando nostro; che una certa apprensione genera il rossore, cert'altra il pallore; tale impressione agisce soltanto sulla milza, tal' altra sul cervello; l'una ci provoca il riso, l'altra il pianto; tal 'altra colpisce e stordisce tutti i nostri sensi e ferma il movimento delle nostre membra. Di fronte ad un oggetto si solleva lo stomaco; di fronte ad un altro qualche parte più in basso. Ma come una impressione spirituale faccia una tale ammaccatura in un oggetto fermo e solido, e la natura del legamento e dell'unione di queste meravigliose molle, l' uomo non l'ha mai saputo. «Omnia incerta ratione et in naturae majestate abdita» l76, dice Plinio; e S. Agostino: «Modus quo corporibus adhaerent spiritus, omnino mirus est, nec comprehendi ab homine potest: et hoc ipse homo est>>l77. Eppure non lo si mette in dubbio, poiché le opinioni degli uomini si formano seguendo antiche credenze, per autorità e a credito, come se si trattasse di religione e di legge. Si accoglie come un gergo ciò che è ritenuto comunemente; si accoglie questa verità con tutta la sua costruzione e attrezzatura di argomenti e di prove, come un corpo stabile e solido, che non si scuote più, che non si giudica più. Al contrario, ognuno, come meglio può, va intonacando e confortando questa credenza accolta, con tutto quello che può la sua ragione, la quale è un utensile duttile, acconciabile e adattabile ad ogni forma. Così il mondo si va riempiendo o confettando di scipitezza e di menzogna. E questo fa sì che non si dubiti di niente e che le impressioni comuni non siano messe mai a prova; non si tenta mai col piede, dove sta l'errore e la debolezza; non si discute che sui rami; non si domanda mai se una cosa è vera, ma se è stata intesa così o così. Non si domanda se Galeno ha detto niente di importante, ma se ha detto così o altrimenti. Veramente era molto giusto che questa guida e questo freno della libertà dei nostri giudizi e questa tirannia delle nostre credenze si estendesse fino alle scuole e alle arti. Il Dio della scienza scolastica è Aristotele; è peccato discutere delle sue leggi come di quelle di Licurgo a Sparta. La sua dottrina ci serve di legge magistrale, la quale è per avventura falsa quanto un'altra. Non so perché non dovrei accettare altrettanto volentieri o le idee di Platone o gli atomi di Epicuro, o il pieno e il vuoto di Leucippo e di Democrito, o l' acqua di Talete , o l'infinità naturale di Anassimandro, o l'aria di Diogene, o i numeri e la simmetria di

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Pitagora, o l ' infinito di Parmenide, o l'uno di Museo, l'acqua e il fuoco di Apollodoro , o le parti similari di Anassagora, o la discordia e l'accordo di Empedocle, o il fuoco di Eraclito, o qualsiasi altra opinione fra quella confusione infinita di pareri e di proposizioni che questa bella ragione umana crea con la sua certezza e chiaroveggenza in tutto ciò di cui si occupa, come io farò dell'opinione di Aristotele, su questo argomento dei principii delle cose naturali: i quali principii egli forma di tre parti: materia , forma e privazione. E che cosa è più vana che il fare la vanità stessa causa della creazione delle cose? La privazione è una negativa; con quale intendimento se n'è potuta fare la causa e lorigine delle cose che esistono? Ciò tuttavia non si oserebbe di smontare, che per esercitazione di logica. Non si discute alcun punto di ciò per metterlo in dubbio, ma per difendere il fondatore della scuola dalle obiezioni degli altri: la sua autorità, questo è il fine al di là del quale non è permesso d'indagare. È assai facile, su postulati, costruire ciò che si vuole: infatti, secondo la legge e la regola di questo principio, il resto delle parti della fabbrica si tira avanti facilmente, senza sbagliare. Su questa strada noi troviamo il nostro ragionamento ben fondato , e ragioniamo facilmente: infatti i nostri padroni s'impadroniscono e conquistano in precedenza tanto spazio della nostra fede quanto ne occorre loro per concludere ciò che vogliono , a guisa dei Geometri, coi loro assiomi; il consenso e l' approvazione che prestiamo loro dà, ad essi modo di portarci a sinistra e a destra, e farci piroettare a loro beneplacito. Chiunque è creduto nei suoi presupposti , è nostro padrone.e nostro Dio: esso pianterà le sue fondamenta così ampie e in modo così agevole che, con esse, ci potrà far salire, se vuole, fino alle nuvole. In questa pratica e commercio di scienza, noi abbiamo preso per moneta sonante la parola di Pitagora, che ogni esperto deve essere creduto nella sua arte . Il dialettico si riferisce al grammatico per il significato delle parole; il retorico prende in prestito dal dialettico per i punti delle argomentazioni; il poeta dal musico le misure; il geometra, dall' aritmetico le proporzioni; i metafisici prendono per base le congetture della fisica. Infatti ogni scienza ha i suoi principi presuppos~ , per i quali il giudizio umano è guidato in tutte le parti. Se voi venite ad urtare questa barriera in cui ha sede l'errore principale, essi hanno subito in bocca quella sentenza, che non si deve discutere contro coloro che negano i principi i.

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Ora non ci possono essere per gli uomini principii se la divinità non li ha loro rivelati : per tutto il resto, e l'inizio, e il mezzo e la fine, non è che sogno e fumo. A coloro che discutono per presupposti, occorre presupporre , al contrario, il medesimo assioma di cui si discute. Poiché ogni presupposizione umana e ogni enunciazione ha altrettanta autorità di un ' altra, se la ragione non ne fa differenza. Così bisogna metterle sulla bilancia tutte; e in primo luogo quelle generali, e quelle che ci tiranneggiano. L'idea della certezza è una specie di dimostrazione di follia e di incertezza estrema; e non ci sono persone più pazze; né meno filosofiche che i filodossi di Platone. Occorre sapere se il fuoco è caldo, se la neve è bianca, se noi conosciamo niente di duro o di molle . E quanto a quelle risposte di cui si parla negli antichi racconti, come di colui che metteva in dubbio il calore , colui di cui si dice che si gettasse nel fuoco; colui che negava il freddo del ghiaccio , tanto da metterselo in seno; esse sono assai indegne della professione di filosofo. Se ci avessero lasciati nel nostro stato naturale, ad accogliere le apparenze esterne secondo che ci si presentano ai nostri sensi, e ci avessero lasciati andare dietro ai nostri desideri semplici e conformi alla condizione della nostra nascita avrebbero ragione di parlare così ; ma è da essi che abbiamo imparato a farci giudici del mondo; è da essi che abbiamo avuto l' idea, che la ragione umana è sindacatrice generale di tutto quello che è al di fuori e dentro la voltaceleste; che abbraccia tutto , che può tutto, per mezzo della quale tutto si sa e si conosce. Questa risposta sarebbe buona fra i Cannibali che godono la fortuna di una lunga vita, tranquilla e pacifica senza le regole di Aristotele, e senza la conoscenza del nome della fisica . Questa risposta varrebbe meglio per avventura e avrebbe più solidità di tutte quelle che essi prenderanno a prestito dalla loro ragione e dalla loro immaginazione. Di questa qui sarebbero capaci con noi tutti gli animali ed ogni cosa in cui è ancora il puro e semplice comando della legge naturale; ma quelli vi hanno rinunciato. Non occorre che mi dicano: È vero, perché voi lo vedete e sentite così ; occorre che essi mi dicano se , quello che io credo di sentire, lo sento proprio in realtà; e , se lo sento, che mi dicano poi perché lo sento , e come, e che cosa; che mi dicano il nome, l'origine , le circostanze e i limiti del calore, del freddo, le qualità di quello che agisce e di quello che subisce , o che essi mi abbandonino la loro professione,

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che è di non accogliere né approvare niente se non per la via della ragione: è la loro pietra di paragone per ogni sorta di prova, ma certo è una pietra piena di falsità, di errore, di debolezza e di deficienza. In che modo la vogliamo provare meglio che per mezzo di se stessa? Se non bisogna crederla quando parla di se stessa, a mala pena essa potrà giudicare le cose estranee; se essa conosce qualche cosa , per lo meno sarà questo suo essere e il suo domicilio. Essa è nell'anima, e parte o effetto di essa: poiché la vera ed essenziale ragione, da cui prendiamo il nome per darlo a false mostre, siede nel seno di Dio; è là la sua sede e il suo ritiro , è di là che essa parte quando piace a Dio di farcene vedere qualche raggio, come Pallade balzò dalla testa di suo padre per rivelarsi al mondo. Ora guardiamo quello che l'umana ragione ci ha insegnato di sé e dell ' anima; non dell ' anima in generale della quale quasi tutta la filosofia fa partecipi i corpi celesti e i primi elementi; né di quella che Talete attribuiva alle cose stesse che sono ritenute inanimate, addottovi dall'osservazione della calamita, ma di quella che ci appartiene, che noi dobbiamo conoscere meglio . Ignoratur enim quae sit natura animai, Nata sit, an contra nascentibus insinuetur, Et simul intereat nobiscum morte dirempta , An tenebras Orci visat vastasque lacunas, An pecudes alias divinitus insinuet sel 78

Da Crate e Dicearco ci è insegnato che non c 'era affatto , ma che il corpo si moveva così per un movimento naturale; da Platone, che era una sostanza semovente essa stessa; da Talete, una natura senza riposo; da Asclepiade, un esercizio dei sensi; da Esiodo e Anassimandro, cosa composta di terra e di acqua; da Parmenide, di terra e di fuoco; da Empedocle, di sangue, Sanguineam vomit ille animam179;

da Posidonio , Cleante e Galeno, un calore o complessione calorosa,

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Igneus est ollis vigor, et caelestis origol 80;

da Ippocrate, uno spirito diffuso per il corpo; da Varrone, un' aria venuta per la bocca, riscaldata nel polmone, temperata nel cuore e sparsa per tutto il corpo; da Zenone, la quintessenza dei quattro elementi; da Eraclide Pontico, la luce; da Senocrate e dagli egiziani, un numero nobile; dai Caldei, una virtù senza determinata forma, habitum quemdam vitalem corporis esse, Harmoniam Graeci quam dicunt181 .

Non dimentichiamo Aristotele: per lui è ciò che naturalmente fa muovere il corpo, e che egli chiama entelechia; con un ' invenzione altrettanto fredda quanto nessun'altra, poiché egli non parla né dell'essenza, né dell 'origine, né della natura dell' anima, ma ne osserva soltanto l'effetto . Lattanzio, Seneca e la miglior parte dei dogmatici hanno confessato che eran cose che essi non intendevano. E dopo tutta questa elencazione di opinioni: «Harum sententiarum, quae vera sit, deus aliquis viderit»l82, dice Cicerone. lo per me, dice San Bernardo, conosco quanto Dio è incomprensibile, poiché le parti del mio essere non lo possono comprendere . Eraclito, il quale riteneva tutto essere pieno di anime e di demoni , sosteneva però che non si poteva andare tanto avanti verso la conoscenza dell ' anima, che non ci si può arrivare, tanto profonda è la sua essenza. Non c'è meno dissenso né discussione nel collocarla. Ippocrate e Zerofilo la collocano nel ventricolo del cervello; Democrito e Aristotele, in tutto il corpo, Ut bona saepe valetudo cum dicitur esse Corporis, et non est tamen haec pars ulla valentis1 83;

Epicuro , nello stomaco, Hic exultat enim pavor ac metus, haec loca circum Laetitiae mulcent1 84.

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Montaigne I testi - Saggi - Libro Il

Gli stoici, intorno e dentro il cuore; Erasistrato, prossima alla membrana dell'epicranio; Empedocle, nel sangue; e così pure Mosé , il che fu la causa per cui proibì di mangiare il sangue delle bestie , a cui la loro anima è congiunta; Galeno ha pensato che ciascuna parte del corpo abbia la sua anima; Stratone l'ha collocata fra le due sopracciglia. «Qua facie quidem sit animus, aut ubi habitet, ne quaerendum quidem est»l85 , dice Cicerone. Lascio volentieri a quest'uomo le sue proprie parole. Mi metterei ad alterare con la facondia il suo parlare? Aggiungi che c 'è poco profitto a portar via la materia delle sue immagini; esse sono e poco frequenti, e poco vigorose, e poco ignorate. Ma la ragione per cui Crisippo la pensa attorno al cuore, come gli altri della sua scuola, non deve essere dimenticata: È per questo , egli dice , che quando vogliamo affermare qualche cosa, noi mettiamo la mano sul petto; e quando vogliamo pronunziare Èyw; che significa io, abbassiamo verso il petto la mascella di sotto. Questo passo non va citato senza rilevare la vanità di un così gran personaggio . Infatti, oltre che queste considerazioni sono per se stesse infinitamente leggere, l'ultima non prova se non ai Greci, che essi abbiano l'anima in quel punto . Non c'è intelletto umano, per perspicace che sia, che non sonnecchi qualche volta. Che cosa terniamo noi di dire? Ecco gli Stoici, padri dell ' umana saggezza, i quali trovano che l'anima di un uomo sopraffatto da una rovina, si trascina e affanna a lungo per uscire , non potendosi districare dall'imbarazzo , come un topo preso alla trappola. Altri ritengono che il mondo fu fatto per dar corpo, per punirli, agli spiriti decaduti , per loro colpa, dalla purezza in cui erano stati creati, non essendo stata la prima creazione che incorporea; e che secondo che essi si sono più o meno allontanati dalla loro spiritualità, vengono forniti di corpo più o meno leggero o pesante. Da ciò deriva la varietà di tanta materia creata . Ma lo spirito che fu , per sua punizione , investito del corpo del sole, doveva avere un grado di alterazione ben raro e particolare. Gli estremi della nostra ricerca cadono tutti in stupore: come dice Plutarco della testa degli storici , la quale a guisa delle carte dei confini delle terre conosciute è preda di paludi, di foreste fitte, di deserti e di luoghi inabitabili. Ecco perché le più grossolane e puerili fantasticherie si trovano più in coloro che trattano le cose più alte e più avanzate, giacché si inabis-

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Montaigne 487 I testi - Saggi - Libro Il

sano nella loro curiosità e presunzione. Il fine e il principio della scienza si mantengono nella medesima follia. Guardate lo slancio di Platone prendere il volo fra le sue nuvole poetiche: guardate in lui il gergo degli Dei. Ma a che pensava quando definì l'uomo un animale a due piedi, senza penne; fornendo a coloro che avevano voglia di burlarsi di lui una piacevole occasione: infatti avendo pelato un cappone vivo, andavano chiamandolo l'uomo di Platone. E che più; gli Epicurei? con quale ingenuità si erano messi in un primo momento ad immaginare che i loro atomi, che dicevano essere corpi aventi un certo peso e un movimento naturale verso il basso, avessero formato il mondo; finché non furono messi sull 'avviso dai loro avversari che con questa descrizione non era possibile che essi si unissero e si attaccassero gli uni agli altri, essendo la loro caduta così diretta e perpendicolare, e generando dovunque linee parallele? Per cui fu forza che essi vi aggiungessero poi un movimento di lato , fortuito , e che attribuissero anche ai loro atomi code curve e uncinate, per renderli atti ad attaccarsi e a saldarsi. E in ogni modo , quelli che li inseguono con questa considerazione , non li mettono in difficoltà? Se gli atomi hanno , per caso, formato tante specie di figure, perché non si sono mai incontrati a fare una casa, una scarpa? Perché, nella stessa maniera, non si crede che un numero infinito di lettere greche rovesciate in mezzo ad una piazza non potrebbero arrivare a tessere l'Iliade? Ciò che è capace di ragione, dice Zenone, è migliore di ciò che non ne è capace: non c'è niente di meglio che il mondo: esso è dunque capace di ragione. Cotta, con questa stessa argomentazione, fa il mondo matematico; e lo fa musico e organista con quest'altra argomentazione, pure di Zenone: Il tutto è più della parte; noi siamo capaci di saggezza e siamo parti del mondo: questi è dunque saggio. Ci sono infiniti esempi simili , non di argomenti falsi soltanto , ma inadatti , che non reggono e che accusano i loro autori non tanto d'ignoranza quanto di imprudenza , negli attacchi che i filosofi si fanno gli uni con gli altri sui dissensi delle loro opinioni e delle loro scuole. Chi mettesse in un fascio un sufficiente mucchio delle asinerie della sapienza umana direbbe meraviglie. Io ne raduno volentieri come una mostra, con qualche modello non

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meno utile da considerare che le opinioni sane e moderate. Giudichiamo da ciò quel che dobbiamo pensare dell 'uomo , della sua mente e della sua ragione, dato che in questi grandi personaggi, i quali hanno portato così in alto l'umana dottrina, si trovano deficienze tanto evidenti e tanto grossolane. Per me, io preferisco credere che essi abbiano trattato la scienza a caso, come un giocattolo per tutte le mani, e si siano serviti della ragione come di uno strumento vano e frivolo , mettendo avanti ogni sorta di idee e di fantasie , ora più spinte, ora più fiacche. Quello stesso Platone il quale definisce l'uomo come un pollo, dice altrove, prendendolo da Socrate, che non sa in verità che cosa sia l'uomo e che è una delle parti del mondo di conoscenza oltremodo difficile. Con questa varietà e instabilità di opinioni , essi ci portano come per mano, in silenzio, a questa soluzione della loro irresolutezza. Essi fanno professione di non presentare sempre il loro pensiero a viso aperto e manifesto; l'hanno nascosto ora sotto gli adombramenti favolosi della Poesia, ora sotto qualche maschera: poiché la nostra imperfezione porta anche questo, che la carne cruda non è sempre adatta al nostro stomaco: bisogna seccarla, alterarla e corromperla. Essi fanno la stessa cosa: oscurano talvolta le loro semplici opinioni e il loro giudizio , e li falsificano, per adattarsi all ' usanza comune. Non vogliono fare professione espressa di ignoranza e della debolezza della ragione umana, per non fare paura ai ragazzi; ma ce la scoprono abbastanza sotto l' apparenza di una scienza torbida e incostante. ln Italia io consigliavo a qualcuno il quale faticava a parlare italiano, che, ove non cercasse che di farsi intendere , senza volervi in altro modo eccellere, usasse soltanto le prime parole che gli verrebbero alla bocca, Latine, Francesi , Spagnole o Guasconi, e ci aggiungesse la terminazione italiana; non gli sarebbe mai mancato di capitare su qualche idioma del paese, o Toscano , o Romano, o Veneziano , o Piemontese, o Napoletano , ed arrivare a qualcuna fra tante forme. Dico lo stesso della filosofia; essa ha tanti aspetti e tante varietà, e ha detto tanto , che tutti i nostri sogni e tutte le nostre fantasticherie vi si trovano . L'a fantasia umana non può niente concepire in bene e in male che non vi si trovi messa. «Nihil tam absurde dici po test quod non dicatur ab aliquo philosophorum» 186. E mi lascio andare più Liberamente ai miei capricci in pubblico: in quanto che , sebbene essi siano nati in me e senza maestro, so che troveran-

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no il loro legame con qualche manifestazione antica; e non mancherà qualcuno che dirà: Ecco da dove l'ha preso! I miei costumi sono naturali; non ho mai chiamato a costruirli l'aiuto di alcuna dottrina. Ma, per quanto deboli siano, quando mi ha preso la voglia di esporli , e, per farli uscire in pubblico un po' più decentemente, mi sono creduto in dovere di aiutarli con ragionamenti ed esempi, è stata meraviglia per me stesso di trovarli , per caso fortuito , conformi a tanti esempi e ragionamenti filosofici . A quale categoria appartenesse la mia vita, non l'ho appreso che dopo che essa è esperimentata ed impiegata. Una nuova figura: un filosofo non premeditato e fortuito! Per tornare alla nostra anima, l'aver Platone messo la ragione nel cervello, l'ira nel cuore e la cupidigia nel fegato , è verosimile che sia stata piuttosto un'interpretazione degli impulsi dell'anima, che una divinazione e divisione che egli ne abbia voluto fare , come di un corpo in parecchie membra. E la più verosimile delle opinioni dei filosofi è che è sempre un ' anima la quale, in virtù del suo potere, ragiona , si ricorda, comprende, giudica , desidera e compie tutti gli altri suoi atti con diversi strumenti del corpo (come il nocchiere governa la propria nave secondo l'esperienza che ne ha, ora tirando o rilasciando una corda, ora alzando l'antenna o movendo il remo , con una sola facoltà ottenendo effetti diversi); e che essa abita nel cervello: cosa che apparisce dal fatto che le ferite e gli accidenti che toccano questa parte offendono subito le facoltà dell'anima ; per cui non è strano che essa si spanda per il resto del corpo: medium non deserit unquam Coeli Phoebus iter; radiis tamen omnia lustrat1 87;

come il sole spande fuori dal cielo la sua luce e i suoi poteri e ne riempie il mondo: Caetera pars animae per totum dissita corpus Paret, et ad numen mentis nomenque moveturl 88.

Alcuni hanno detto che c'era un'anima generale, come un grande corpo ,

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dal quale tutte le anime particolari erano estratte e al quale ritornavano, rimescolandosi sempre a questa materia universale, Deum namque ire per omnes Terrasque tractusque maris caelumque profundum: Hinc pecudes, armenta, viros, genus omneferarum, Quemque sibi tenues nascentem arcessere vitas; Scilicet huc reddi deinde, ac resoluta referri Omnia: nec morti esse locum 189; altri, che esse non facevano che ricongiungersi e riattaccarsi; altri, che esse erano prodotte dalla sostanza divina; altri, dagli angeli, di fuoco e d'aria. Alcuni, dalla più lontana antichità; alcuni proprio nel momento del bisogno. Alcuni le fanno discendere dal globo della Luna e ritornarvi. La maggior parte degli antichi, dicono che esse sono generate da padre in figlio, in una maniera e in una generazione simile a tutte le altre cose naturali, arguendo ciò dalla rassomiglianza dei figli coi padri, Instillata patri virtus tibi; Fortes creantur fortibus et bonis190, e che si vedono discendere dai padri ai figli non soltanto i segni del corpo, ma anche una rassomiglianza di indoli, di costituzioni e inclinazioni dell'anima: Denique cur acris violentia triste leonum Seminium sequitur; dolus vulpibus, et fuga cervis A patribus datur, et patrius pavor incitat artus; Si non certa suo quia semine seminioque Vis animi pariter crescit cum corpore toto? 191 che di lassù ha fondamento la giustizia divina, che punisce nei figli la colpa dei padri; in quanto che il contagio dei vizi paterni è assolutamente impresso nell'anima dei figli, e che la sfrenatezza della loro volontà li accompagna. Di più, che, se le anime derivassero altronde che da una

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discendenza naturale, e che esse fuori del corpo fossero state qualche altra cosa, avrebbero memoria del loro essere primo, date le naturali facoltà che sono loro proprie, di parlare , ragionare e ricordarsi : si in corpus nascentibus insinuatur, Cur superante actam aetatem meminisse nequimus, Nec vestigia gestarum rerum ulla tenemus ?l92 .

Infatti, per far valere la condizione delle nostre anime come noi vogliamo, bisogna pensarle tutte sapienti quando si trovano nella loro semplicità e purezza naturale. Così esse sarebbero state tali, essendo libere dalla prigione del corpo, tanto prima di entrarvi, come noi speriamo che esse saranno dopo che ne saranno uscite . E di questo sapere, bisognerebbe che esse si ricordassero ancora quando sono nel corpo , come dice Platone , che ciò che noi impariamo non è che un ricordarsi di ciò che abbiamo saputo: cosa che ognuno , per esperienza , può constatare essere falsa: in primo luogo , per il fatto che non ci sovviene se non proprio quello che ci si insegna, e che, se la memoria facesse puramente il suo dovere, almeno ci suggerirebbe qualche cosa oltre ciò che impariamo. In secondo luogo, ciò che essa sapeva, quand'era nella sua purezza, era una vera scienza, la quale conosceva le cose come sono per mezzo della sua intelligenza divina, laddove qui le si fa accogliere la menzogna e il vizio, se le viene insegnato! E in ciò non può servirsi della sua reminiscenza, poiché questa immagine e questa idea non hanno mai albergato in essa. Il dire che la prigione corporale soffoca in modo tale le sue facoltà native sì che esse vi sono tutte spente, è in primo luogo contrario a quest'altra credenza, di riconoscere le proprie forze tanto grandi, e gli effetti che gli uomini ne sentono in questa vita così ammirevoli, da averne dedotta questa divinità ed eternità passata e l'immortalità futura:

Nam, si tantopere est animi mutata potestas Omnis ut actarum exciderit retinentia rerum, Non, ut opinar, ea ab leto jam longior erratl93. Inoltre è qui , in noi, e non altrove , che devono essere considerate le forze

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e le azioni dell'anima; tutto il resto delle sue perfezioni le è vano e inutile: è dallo stato presente che deve essere soddisfatta e riconosciuta tutta la sua immortalità, e soltanto della vita dell'uomo essa è responsabile. Sarebbe ingiusto averne limitato i mezzi e le facoltà; averla disarmata perché, dal tempo della sua cattività e della sua prigionia, della sua debolezza e malattia, dal tempo in cui essa sarebbe stata vincolata e legata, si traesse il giudizio e una condanna di durata infinita e perpetua; e perché ci si fermasse alla considerazione di un tempo tanto breve, il quale è per avventura di una o di due ore, o peggio, di un secolo, che in confronto dell'infinito non ha che la proporzione di un istante; perché, da questo periodo di tempo, si determinasse e si giudicasse definitivamente su tutto il suo essere. Sarebbe una sproporzione iniqua trarre una ricompensa eterna da una vita così breve. Platone, per salvarsi da questo inconveniente, vuole che le ricompense future si limitino alla durata di cento anni relativamente alla durata umana; e parecchi dei nostri hanno dato ad esse Iirniti di tempo. E così essi stimavano che la generazione dell'anima seguisse la comune condizione delle cose umane, come anche la sua vita per l'opinione di Epicuro e di Democrito, che è stata la più diffusa, secondo quelle belle manifestazioni per cui la si vedeva nascere secondo che il corpo ne era capace; si vedevano aumentare le sue forze come quelle corporali; le si riconosceva la debolezza della sua infanzia, e, col tempo, il vigore e la maturità; e poi il suo declino e la sua vecchiaia, e infine la sua decrepitezza,

gigni pariter cute corpore, et una Crescere sentimus,pariterque senescere mentem194. La si immaginava capace di passioni diverse e agitata da parecchi sentimenti dolorosi, per cui cadeva in prostrazione e in dolore, capace di alterazione e di mutamento, di allegrezza, di assopimento e di languore, soggetta a proprie malattie e ad offese, come lo stomaco o il piede,

mentem sanari, corpus ut aegrum Cernimus, etflecti medicina posse videmusl95;

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Montaigne I testi - Saggi - Libro II

smarrita e turbata per effetto del vino; scossa dalla sua condizione dai vapori di una calda febbre; addormentata per l'applicazione di alcuni medicamenti e risvegliata con altri: corporem naturam animi esse necesse est, Corporeis quoniam telis ictuque laborat196 . Si vedevano in essa scosse e rovesciate tutte le facoltà per il solo morso di un cane malato , e non esserci nessuna tanto grande saldezza di ragionamento, nessuna dottrina nessuna virtù , nessuna risoluzione filosofica , nessuna continenza delle proprie forze, che la potesse liberare dalla soggezione a questi accidenti; la saliva di un mastino malato, versata sulla mano di Socrate far traballare tutta la sua saggezza e tutte le sue grandi e tanto ordinate idee, annientarle in maniera da non far restare alcuna traccia della sua precedente scienza vis animai Conturbatur, .... et divisa seorsum Disjectatur, eodem illo distracta venenol97; e questo veleno non trovare resistenza in quell'anima più che in quella di un fanciullo di quattro anni; veleno capace cli far diventare tutta la filosofia, se essa fosse incarnata, furiosa e insensata; sì che Catone, il quale torceva il collo perfino alla morte e alla fortuna, non avrebbe potuto sopportare la vista di uno specchio o dell'acqua, colto dallo spavento e dal terrore, quando fosse caduto , per il contagio di un cane arrabbiato , nella malattia che i medici chiamano idrofobia: vis morti distracta per artus Turbat agens animam, spumantes aequore salso Ventorum ut validis fervescunt viribus undae 198. Ora, quanto a questo punto, la filosofia ha ben armato l'uomo, perché sopporti tutti gli altri accidenti, o di pazienza, o, se essa costa troppo a trovarsi , di una disfatta infallibile, sottraendosi assolutamente al sentimen-

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to; ma sono mezzi che servono ad un'anima che sia in sé e nelle sue forze, capace di ragionamento e di decisione; non a quell'inconveniente per cui, in un filosofo, un'anima diventa l'anima di un pazzo, turbata, sconvolta e perduta: cosa che parecchi accidenti producono, come un'agitazione troppo violenta che, per qualche forte passione, l'anima possa generare in se stessa, o una ferita in qualche punto della persona, o un languore di stomaco che ci getti in uno svenimento e giramento di testa,

morbis in corporis, avius errat Saepe animus: dementit enim, deliraquefatur; lnterdumque gravi Lethargo fertur in altum Aeternumque soporem, oculis nutuque cadentil99. I filosofi non hanno, mi sembra, toccato affatto questa corda. E neppure un'altra di uguale importanza. Essi hanno sulla bocca, per confortare la nostra condizione mortale, sempre questo dilemma: O l'anima

è mortale, o immortale. Se mortale, essa sarà senza sofferenza; se immortale, andrà correggendosi . Non toccano mai l'altra parte: E che, se essa peggiora? e lasciano ai poeti le minacce delle pene future. Ma così si danno buon gioco. Sono due omissioni che mi si presentano spesso nei loro ragionamenti. Ritorno alla prima. Quest'anima perde il gusto del supremo bene Stoico, così costante e così saldo. Bisogna che la nostra bella saggezza si porti in questo punto e lasci le armi. Del resto, essi consideravano pure, per la vanità dell'umana ragione, che la mescolanza e l'unione di due parti così diverse, come è la mortale e l'immortale, è inimmaginabile: Quippe etenim mortale aeterno jungere, et una Consentire putare, et fungi mutua posse, Decipere est. Quid enim diversius esse putandum est, Aut magis inter se disjunctum discrepitansque, Quam mortale quod est, immortali atque perenni luntum, in concilio saevas tolerare procellas?200 Di più essi sentivano che l'anima era impegnata nella morte, come il corpo,

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simul aevo fessafatiscit201: cosa che, secondo Zenone, l'immagine del sonno ci rappresenta a sufficienza; poiché egli pensa che c'è una mancanza e caduta dell'anima così come del corpo: «Contrahi animum et quasi labi putat atque concidere»202. E quel che si vedeva in alcuni, che cioè la sua forza e il suo vigore si mantengono nella fine della vita, essi lo riferivano alla diversità delle malattie, come si vedono gli uomini in quella contingenza conservare chi un senso, chi un altro, chi l'udito, chi l'odorato, senza alterazione; e non si osserva affatto un indebolimento così totale, che non vi resti qualche parte integra e vigorosa:

Non alio pacto quam si, pes cum dolet aegri, In nullo caput interea sit forte dolore203 . La vista del nostro giudizio si comporta, con la verità, come fa l'occhio del barbagianni rispetto allo splendore del Sole, come dice Aristotele. Come lo sapremmo noi provare meglio che con così grossolani accorgimenti davanti ad una luce così sfolgorante? Infatti l'opinione contraria dell'immortalità dell' anima, la quale Cicerone dice essere stata per prima introdotta, almeno per la testimonianza dei libri , da Ferecide Siro, al tempo del Re Tullo (altri ne attribuiscono l'idea a Talete, e altri ad altri) è la parte del sapere umano trattata con più riserva e piìì dubbio . I dogmatisti più solidi sono costretti a questo punto principalmente a rifugiarsi al coperto delle ombre dell ' Accademia. Nessuno sa ciò che Aristotele ha sentenziato su questo argomento: non più che degli antichi in generale, i quali lo trattano con una opinione vacillante: «rem gratissimam promittentium magis quam probantium»204. Egli si è celato sotto il velame di parole e significati difficili e non intelligibili , ed ha lasciato ai suoi seguaci da discutere tanto sul suo giudizio quanto sulla materia. Due cose rendevano loro plausibile quest'opinione: una che, senza l'immortalità delle anime , non ci sarebbe più di che conformare le vane speranze della gloria, che è una considerazione la quale gode al mondo di un meraviglioso credito; l'altra che è una impressio-

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ne utilissima, come dice Platone, che i peccati quando si sottraggono alla vista oscura ed incerta dell'umana giustizia, rimangono sempre in groppa a quella divina, che li perseguirà, anche dopo la morte dei colpevoli. Una estrema cura occupa l'uomo , di allungare la sua esistenza; si è provveduto per tutte le sue parti. E per la conservazione del corpo ci sono le sepolture; per la conservazione del nome, la gloria. Esso ha impiegato tutto il suo modo di pensare a rifabbricarsi, impaziente della sua fortuna, e a puntellarsi con le sue invenzioni. L'anima non potendosi tenere in piedi per il suo turbamento e per la sua debolezza, va cercando da tutte le parti consolazioni , speranze e fondamenti in circostanze estranee a cui essa si attacca e si pianta; e per lievi e fantastici che la sua immaginazione glieli appresti, ci si riposa più sicuramente che in se stessa e più volentieri . Ma i più ostinati in questa così giusta e chiara convinzione dell' immortalità delle nostre anime, è strano come si siano trovati insufficienti e impotenti a determinarla con le loro forze umane: «Somnia sunt non docentis, sed optantis»205 , diceva un antico. L'uomo può riconoscere per questa testimonianza, che deve alla fortuna e al caso la verità scoperta da lui solo, poiché, anche quando gli è capitata nelle mani, egli non ha modo di afferrarla e di conservarla, e la sua ragione non ha la forza di valersene. Tutte le cose create dal nostro proprio ragionamento e dalla nostra dottrina , sia vere che false , sono soggette a incertezze e a discussione. È per punizione della nostra superbia e istruzione della nostra miseria e incapacità, che Dio provocò lo sconvolgimento e la confusione dell'antica torre di Babele. Tutto quello che noi facciamo senza la sua assistenza, tutto quello che vediamo senza la lampada della sua grazia, non è che vanità e follia; la stessa essenza della verità, che è uniforme e costante, quando la fortuna ce ne dà il possesso, noi la corrompiamo e imbastardiamo con la nostra debolezza. Qualsiasi andamento l'uomo prenda da sé, Dio permette che egli arrivi sempre a questa medesima confusione, della quale egli ci rappresenta vivamente l' immagine col giusto castigo con cui abbatté la tracotanza di Nembrod e annientò le vane imprese della costruzione della sua piramide: «Perdam sapientiam sapientium, et prudentiam prudentium reprobabo»206. La diversità di favelle e di lingue, con cui sconvolse quell' opera, non è altro che questa infinita e per-

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petua discussione e discordanza di opinioni e di ragionamenti che accompagna e turba il vano costruire della scienza umana . E lo turba utilmente. Chi ci terrebbe, se avessimo un grano di conoscenza? Mi ha fatto gran piacere quel santo: «ipsa utilitatis occultatio aut humilitatis exercitatio est, aut elationis attritio»W7. Fino a quale punto di presunzione e di superbia non portiamo noi il nostro acciecamento e la nostra follia? Ma, per riprendere il mio argomento, era veramente molto giusto che noi fossimo obbligati a Dio solo, e a beneficio della sua grazia, della verità di una così nobile credenza, poiché dalla sua sola liberalità riceviamo il frutto dell'immortalità, il quale consiste nel godimento della beatitudine eterna. Confessiamo ingenuamente che ce l'ha detto Dio solo, e la fede: infatti non è dottrina di natura e della nostra ragione. E chi esaminerà il suo essere e le sue forze, e dentro e fuori senza questo privilegio divino; chi guarderà l'uomo senza lusingarlo, non vi vedrà né efficacia, né facoltà che senta altra cosa se non la morte e la terra. Più noi diamo, e dobbiamo , e rendiamo a Dio, più ci comportiamo cristianamente. Ciò che quel filosofo Stoico dice avere dal fortuito consenso della voce popolare, non era meglio che lo avesse da Dio? «Cum de animorum aeternitate disserimus, non leve momentum apud nos habet consensus hominum aut timentium inferos, aut colentium. Utor hac publica persuasione»208. Ora la debolezza degli argomenti umani su questo soggetto si rivela singolarmente dalle favolose circostanze che essi hanno aggiunte in seguito a questa opinione, per trovare di quale condizione era questa nostra immortalità. Lasciamo gli Stoici - «usuram nobis largiuntur tanquam cornicibus: diu mansuros aiunt animos; semper, negant»209 - che danno alle anime una vita al di là di questa, ma limitata. L'opinione più universale e più diffusa , che dura fino a noi in diversi luoghi, è stata quella di cui si ritiene autore Pitagora, non che egli ne fosse il primo inventore, ma in quanto essa acquistò molta importanza e credito dall'autorità del suo appoggio; cioè che le anime, nel partirsi da noi , non facevano che passare da un corpo ad un altro, da un leone a un cavallo, da un cavallo a un Re, andandosene così senza posa di alloggio in alloggio. E lui diceva ricordarsi di essere stato Etalide, poi Euforbo, poi Ermotimo, infine

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da Pirro essere passato in Pitagora, avendo memoria di se da duecentosei anni . Aggiungevano alcuni che quelle anime talvolta risalgono al cielo e poi ne discendono ancora:

O pater, anne aliquas ad coelum hinc ire putandum est Sublimes animas iterumque ad tarda reverti Corpora? Quae lucis miseris tam dira cupido? 210 Origene le fa andare e venire eternamente dal buono al cattivo stato. L'opinione che Varrone espone, è che in quattrocentoquarant'anni di rivoluzione esse si ricongiungono al loro corpo primitivo. Crisippo, che ciò debba accadere dopo un certo spazio di tempo non limitato. Platone, il quale dice prendere da Pindaro e dal!' antica poesia questa credenza delle infinite vicissitudini di mutazioni alle quali l'anima è diretta, non avendo nell'altro mondo né pene né ricompense se non corporali, come la sua vita in questo non è che temporale, conclude che essa ha una singolare conoscenza delle cose del cielo, dell ' inferno e di qui , dove è passata , ripassata ed ha soggiornato in parecchi viaggi: materia per la sua reminiscenza. Ecco altrove il suo procedimento: Chi ha vissuto bene si ricongiunge all'altro a cui è assegnato; chi male, passa in una donna, e, se anche allora non si corregge, si rimuta in bestia di condizione conforme ai suoi costumi viziosi , e non vedrà fine alle sue punizioni finché non sia ritornato alla sua nativa costituzione, dopo essersi disfatto, per forza della sua ragione, delle qualità rozze, basse ed elementari, che erano in lui. Ma non voglio dimenticare l'obbiezione che fanno a questa trasmigrazione da un corpo all'altro gli Epicurei. È un'obbiezione amena. Essi domandano che succederebbe se la folla dei morenti venisse ad essere più grande di quella dei nascenti, poiché le anime sloggiate dalla loro sede si affollerebbero a chi prendesse posto per prima in questo nuovo astuccio. E chiedono anche come esse passerebbero il loro tempo, mentre attendessero che un alloggio fosse loro preparato. O, al contrario , se nascessero più animali di quanti ne morissero , dicono che i corpi si troverebbero a mal partito nell'aspettare l'infusione della loro anima, e accadrebbe che qualcuno di essi morrebbe prima di essere vissuto:

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Montaigne 499 I testi - Saggi - Libro II

Denique connubia ad veneris partusque ferarum Esse animas praesto deridiculum esse videtur, Et spectare immortales mortalia membra Innumero numero, certareque praepoperanter Inter se, quae prima potissimaque insinuetur2l1. Altri hanno fermato l'anima nel corpo dei defunti per animarne i serpenti, i vermi e altre bestie, che si dice producano la corruzione delle nostre membra, e anche delle nostre ceneri. Altri la dividono in una parte mortale e l'altra immortale. Altri la fanno corporea, e tuttavia immortale. Alcuni la fanno immortale senza scienza e senza conoscenza. Ce ne sono anche di quelli che hanno pensato che delle anime dei condannati se ne facessero diavoli (e alcuni dei nostri l'hanno anch'essi pensato); come Plutarco pensa che si facciano Dei di quelle che si sono salvate; infatti ci sono poche cose che quell'autore definisca in maniera così decisa come fa per questa, mentre altrove tiene sempre un modo dubbioso ed ambiguo. Bisogna pensare (egli dice) e credere fermamente che le anime degli uomini virtuosi secondo natura e secondo giustizia divina, divengano da uomini, santi; e da santi, semidei; e da semidei, dopo che si sono perfettamente, come da sacrifici di purgazione, nettati e purificati, liberandosi da ogni passibilità e da ogni mortalità, essi diventano, non per alcun comandamento civile, ma per la verità e secondo verosimile ragione, Dei interi e perfetti, ottenendo una fine felicissima e gloriosissima. Ma chi lo vorrà vedere, lui che è pertanto dei più contenuti e moderati della compagnia, battagliare con maggiore ardimento e raccontarci i suoi miracoli su quest'argomento, lo rimando al suo ragionamento sulla Luna e sul Demone di Socrate, là dove, con tanta evidenza quanta in nessun altro punto, si può vedere che i misteri della filosofia hanno molte stranezze comuni con quelle della poesia: perdendosi l'intelletto umano a voler scandagliare e controllare tutte le cose fino al fondo; in tutto come, stanchi e affaticati dalla lunga corsa della nostra vita, noi ricadiamo nell'infantilismo. Ecco i belli e sicuri insegnamenti che noi tiriamo fuori dalla scienza umana sull'argomento della nostra anima. Non c'è minor temerità in quello che essa ci insegna delle parti del corpo. Scegliamone uno o due esempi, poiché altrimenti noi ci perderem-

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mo in questo mare torbido e vasto degli errori dei medici. Vediamo se ci si accorda almeno in questo, di qual materia gli uomini si producano gli uni dagli altri. Poiché, quanto alla loro prima creazione, non è da meravigliarsi se, in cosa tanto alta ed antica, l'intelletto umano si perda e si confonda. Archelao il fisico , del quale Socrate fu il discepolo e il favorito secondo Aristosseno, diceva che sia gli uomini che gli animali erano stati fatti da un fango lattiginoso espresso col calore dalla terra. Pitagora dice il nostro seme essere la schiuma del nostro migliore sangue; Platone, la secrezione del midollo della spina dorsale , cosa che egli argomenta dal fatto che questo punto si risente per primo della stanchezza dell'operazione; Alcmeone, parte della sostanza del cervello , e che sia così, egli dice, lo prova il fatto che gli occhi si confondono a coloro che lavorano oltre misura a quell'esercizio; Democrito una sostanza estratta da tutta la massa del corpo; Epicuro una sostanza estratta dall'anima e dal corpo; Aristotele un escremento tratto dall'alimento del sangue; l'ultimo che si spande per le nostre membra; altri, del sangue cotto e digerito dal calore dei genitali, cosa che essi pensano per il fatto che negli sforzi estremi vengon fuori gocce di sangue puro: e ciò sembra sia più probabile, se si può trarre qualche prova da una così infinita confusione. Ora, per portare ad effetto questo seme, quante opinioni contrarie tiran fuori? Aristotele e Democrito ritengono che le donne non abbiano affatto spenna e che in loro non si tratti se non di un sudore che metton fuori per il calore del piacere e del movimento , e che non serve affatto alla generazione; Galeno, al contrario, e i suoi seguaci , che, senza l'incontro dei semi, la generazione non può avvenire. Ecco i medici, i filosofi, i giureconsulti e i teologi alle prese , confusi con le nostre donne, nel disputare a qual termine le donne portano il loro frutto. lo per me aiuto con l'esempio di me stesso, coloro fra essi che sostengono la gravidanza di undici mesi. Il mondo è costruito su questa esperienza; non c'è semplice donnicciola che non possa dire il suo parere su tutte queste contestazioni, e se noi non riuscissimo ad essere d'accordo. Ed ecco abbastanza per provare che l'uomo non è più informato nella conoscenza di sé per la parte corporale di quanto non sia per la spirituale. Noi abbiamo proposto lui a se stesso, e la sua ragione alla sua ragio-

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Montaigne 5O1 I testi - Saggi - Libro Il

ne, per vedere ciò eh' essa ce ne direbbe. Mi sembra di aver mostrato abbastanza quanto poco essa comprende di se stessa. E chi non comprende di se stesso, di che può comprendere? «quasi vero

mensuram ullius rei possit agere, qui sui nesciat>>212. Davvero Protagora ce ne raccontava di belle, quando faceva l'uomo la misura di tutte le cose, l'uomo il quale non conobbe mai neppure la sua. Se non è lui, la sua dignità non permetterà che altra creatura abbia questo vantaggio. Ora, essendo egli così contrastante per sé, e un giudizio sovvertendo senza posa l'altro, questa favorevole proposizione non sarebbe che uno scherno che ci porterebbe a concludere per necessità l' inutilità del compasso e del misuratore . Quando Talete crede assai difficile per l'uomo la conoscenza dell'uomo, gli insegna essergli impossibile la conoscenza di ogni altr~ cosa. Voi, per cui io mi son preso la pena di dilungare un così Lungo argomento contro il mio costume, non mancherete di difendere il vostro Sebond per la forma comune di argomentare da cui siete ogni giorno istruito, ed esercitate in questo il vostro spirito e la vostra indagine: infatti quest'ultimo colpo di spada non bisogna impiegarlo che come estremo rimedio. È un colpo disperato al quale bisogna affidare le vostre armi per far perdere al vostro avversario le sue, e un colpo segreto, del quale bisogna servirsi raramente e con parsimonia. È grande temerità perdervi da voi stessi per rovinare un altro. Non bisogna voler morire per vendicarsi, come fece Gobria; infatti, essendo ai ferri corti con un Signore di Persia, mentre Dario gli veniva addosso con la spada in pugno ed esitando a colpire, per paura di prendere Gobria, esso gli gridò che desse giù senz'altro, quand ' anche dovesse trapassarli tutti e due. Anni e condizioni di lotta tanto disperate da non poter credere che l'uno e l'altro si potesse salvare, io le ho sentite riprovare, quando si sono presentate. I Portoghesi fecero prigionieri nel mare delle Indie 14 Turchi, i quali, insofferenti della lor prigionia, decisero, e riuscì loro, di mettere, e se stessi e i loro padroni e il bastimento in cenere, strofinando l'un contro l'altro chiodi di navi, finché una scintilla di fuoco cadesse sui barili di polveri, da cannone che vi si trovavano. Noi scuotiamo qui i limiti e i più riposti nascondigli delle scienze, delle quali l'eccesso è difettoso, come nella virtù . Tenetevi sulla strada comu-

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Montaigne I testi - Saggi - Libro II

ne, non è niente bene essere così sottili e acuti. Ricordatevi di ciò che dice il proverbio Toscano: Chi troppo s'assottiglia si scavezza213. Vi consiglio, nelle vostre opinioni e nei vostri ragionamenti, come nelle vostre abitudini e in ogni altra cosa, la moderazione e la temperanza, e il fuggire dalle novità e dalle cose fuori del comune. Tutte le strade fuori dal1' ordinario mi danno noia. Voi che, per l'autorità che vi dà la vostra grandezza, e ancor più per i vantaggi che vi offrono le qualità più specialmente vostre, potete con un cenno d'occhi comandare a chi vi piace, dovreste dare questo incarico a qualcuno che facesse professione di lettere, il quale vi potrebbe altrimenti puntellare e arricchire questo ragionamento. Tuttavia eccone abbastanza per ciò che voi ne dovete fare. Epicuro diceva delle leggi , che le peggiori ci erano così necessarie che senza di esse gli uomini si mangerebbero gli uni con gli altri. E Platone, vicino a lui di due dita, asserisce che senza leggi noi vivremmo come bestie brute; e si prova a dimostrarlo. Il nostro spirito è un utensile vagabondo, dannoso e temerario; è difficile mettervi assieme l'ordine e la misura. E, al tempo mio, coloro che hanno qualche rara eccellenza al disopra degli altri e qualche perspicacia fuori dell'ordinario, li vediamo quasi tutti straripare in licenza di opinioni e di costumi. È un miracolo se se ne incontra uno calmo e di vita tranquilla. Si ha ragione di porre allo spirito umano le barriere più rigorose che si può. Nello studio, come nel resto, bisogna contargli e regolargli i passi, bisogna assegnargli con arte i limiti della sua caccia. Lo si imbriglia e lo si vincola di religione, di leggi, di usanze, di scienza, di precetti, di pene e ricompense mortali e immortali; eppure si vede che per la sua volubilità e dissolutezza sfugge a tutti questi legami. È un corpo vano, che non ha per dove essere afferrato e colpito; un corpo diverso e difforme, al quale non si può gettare laccio e che non si può afferrare. Certo ci sono poche anime così regolate, così forti e ben nate, alle quali ci si possa affidare per la loro propria condotta, e che possano, con moderazione e senza temerità, vogare nella libertà dei propri giudizi al di là delle comuni opinioni. È più opportuno metterle sotto tutela. Lo spirito è una spada pericolosa per il suo stesso possessore, se uno non se ne sa armare con regola e discrezione. E non c'è bestia a cui più giustamente occorra mettere paraocchi per tenere la sua vista obbligata e costretta davanti ai suoi passi, e impedirle di andarsene qua e là, fuori

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Montaigne 503 I testi - Saggi - Libro Il

delle rotaie che l'uso e le leggi le traccino. Per cui sarà per voi meglio il tenervi chiusa nella vita solita, qualunque essa sia, che lanciare il vostro volo in quella sfrenata licenza. Ma se qualcuno di questi nuovi dottori si mette a fare l'ingegnoso in vostra presenza, a spese della sua salute e della vostra; per disfarvi di questa dannosa peste che si diffonde tutti i giorni nelle vostre corti, questo preservativo, nell'estrema necessità, impedirà che il contagio di questo veleno offenda voi e quelli che sono con VOI.

La libertà dunque e la temperanza di quegli antichi spiriti creava nella filosofia e nelle scienze umane parecchie scuole di differenti opinioni, e ciascuna si metteva a giudicare e a scegliere per prendere una via. Ma ora che gli uomini vanno tutti per una strada, «qui certis quibusdam destinatisque sententiis addicti et consecrati sunt, ut etiam quae non probant, cogantur defendere»2l4 e che noi riceviamo le arti per autorità e comandamento civile, sicché le scuole non hanno che un modello e un'uguale dottrina e una disciplina fissata, non si guarda più quello che le monete pesano e valgono, ma ciascuno a sua volta le accoglie secondo il pregio e il corso che la comune approvazione dà ad esse. Non si discute della lega, ma dell'uso: e così accade per tutte le cose. Si accoglie la medicina come la Geometria; e le stregonerie, le magie, i legami, il commercio degli spiriti dei defunti, i pronostici, gli oroscopi e fino a quella ridicola ricerca della pietra filosofale, tutto si fa senza contraddire. Basta sapere che il punto di Marte è situato nel mezzo del triangolo della mano, quello di Venere nel pollice, e di Mercurio al dito piccolo; e che, quando la linea di mezzo taglia il polpastrello del!' indice è segno di crudeltà; quando essa viene a terminare sotto il medio e che la media naturale fa un angolo con la vitale sotto lo stesso punto, è segno di una morte miseranda. Che se in una donna la naturale è aperta, e non chiude l'angolo con la vitale ciò denota che essa non sarà casta. Chiamo voi stessa a testimone se con questa scienza un uomo non può passare con reputazione ed onore in mezzo ad ogni compagnia. Teofrasto diceva che la conoscenza umana, guidata dai sensi, poteva giudicare le cause delle cose fino ad una certa misura, ma che, arrivata alle cause estreme e prime, occorreva si fermasse e si spuntasse a motivo o della debolezza o della difficoltà delle cose. È una opinione mediana e

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Montaigne I testi - Saggi - Libro II

dolce, che la nostra dottrina ci può portare fino alla conoscenza di alcune cose, e che essa ha certe misure di potenza, oltre le quali è temerità impiegarla. Questa opinione è plausibile e introdotta da persone concilianti; ma è difficile fissare limiti al nostro spirito: esso è curioso ed avido, e non ha occasione di fermarsi piuttosto a mille passi che a cinquanta. Avendo provato per esperienza che ciò in cui uno era fallito , l'altro vi era riuscito , e che ciò che era sconosciuto ad un secolo , il secolo seguente l'ha spiegato, e che le scienze e le arti non si gettano nello stampo, ma si formano e si modellano a poco a poco maneggiandole e rifinendole in parecchie volte, come gli orsi ripuliscono i loro piccoli leccandoli a loro agio: ciò che le mie facoltà non possono scoprire, io non lascio di sondarlo e di provarlo; e rimaneggiando e rimpastando questa materia nuova, rimovendola e riscaldandola, apro a chi mi segue qualche possibilità di goderne più a suo agio , e gliela rendo più docile e più maneggevole, ut hymettia sole Cera remollescit, tractataque pollice, multas Vertitur infacies, ipsoque fit utilis usu2L5. Altrettanto farà il secondo col terzo : e questo è ragione per cui la difficoltà non mi deve far disperare , e neppure la mia impotenza , poiché non è che la mia. L' uomo è capace di tutte le cose; e se dichiara , come dice Teofrasto, l' ignoranza di quelle cause prime e dei principii , che mi lasci arditamente tutto il resto della sua scienza: se gli occorre il fondamento, il suo ragionamento è terra terra; discuterlo e indagarlo non ha altro scopo e limite che i principii ; se quel fine non ferma la sua corsa , egli si lancia ad una irresolutezza infinita. «Non potest aliud alio magis minusve comprehendi, quoniam omnium rerum una est definitio comprehendendi»2 16 Ora è verosimile che se l'anima sapesse qualche cosa , si conoscerebbe in primo luogo essa stessa; e se sapesse qualche cosa fuori di sé , sarebbe del suo corpo e del suo astuccio , prima che di ogni altra cosa. Se si vedono fino ai giorni d'oggi gli Dei della medicina discutere della nostra anatomia ,

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Montaigne 5O5 I testi - Saggi - Libro Il

Mulciber in Trojam, pro Troja stabat Apollo217,

quando pensiamo che essi siano d'accordo? Noi siamo più vicini a noi stessi di quanto non è a noi la bianchezza della neve o la pesantezza della pietra. Se l'uomo non si conosce, non può conoscere le sue funzioni e le sue forze? Non è un caso, che qualche vera conoscenza non sia allogata in noi , ma è per caso che lo sia. E dato che per la stessa via, nello stesso modo e per lo stesso procedimento entrano nell'anima gli errori, essa non ha di che distinguerli, né di che scegliere la verità dalla menzogna. Gli Accademici ammettevano qualche flessibilità di giudizio, e trovavano troppo crudo il dire non essere più verosimile che la neve fosse bianca piuttosto che nera, e che noi non fossimo non più sicuri del movimento di una pietra che si parte dalla nostra mano che di quello dell ' ottava sfera. E per evitare questa difficoltà e stranezza, che non può in verità stare nella nostra fantasia se non a disagio, sebbene essi ammettano che noi non siamo in alcun modo capaci di sapere, e che la verità è sprofondata in profondi abissi in cui la vista umana non può penetrare, dichiaravano certe cose più verosimili che le altre, e ammettevano nella loro mente questa facoltà di poter piegarsi piuttosto ad un'apparenza che ad un'altra: essi le permettevano questa propensione, inibendole ogni decisione. L' opinione dei Pirroniani è più ardita e , nello stesso tempo, più verosimile. Infatti questa inclinazione Accademica e questa propensione ad un ' opinione piuttosto che ad un'altra, è forse altra cosa che il riconoscimento di qualche verità più apparente in questa che in quella? Se la nostra mente è capace di discernere la forma, i lineamenti, il portamento e l'aspetto della verità , essa la vedrebbe tanto bene intera che a metà, sul nascere ed imperfetta. Questa apparenza di verosimiglianza che inclina la bilancia, moltiplicatela di cento, di mille once , ne risulterà infine che la bilancia si deciderà interamente e decreterà una scelta e una verità intera . Ma come si lasciano piegare alla verosimiglianza se non conoscono il vero? Come conoscono la sembianza di ciò di cui non conoscono l'essenza? O noi possiamo giudicare interamente o interamente non lo possiamo . Se le nostre facoltà intellettuali e sensibili sono senza fondamento e senza base, se esse non fanno che galleggiare e vagare alla ventura, per nulla noi lasciamo trasportare il nostro intelletto in qualche

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parte del loro operare , qualsiasi aspetto essa sembri presentarci; e la più sicura disposizione della nostra mente, e la più felice sarebbe quella in cui essa si mantenesse calma , diritta, inflessibile , senza scosse e senza agitazioni «Inter visa vera aut falsa ad animi assensum nihil interest>>218. Quando le cose non ci si presentano nella loro forma e nella loro essenza, e non entrano in noi con la loro propria forza ed autorità, noi le vediamo a sufficienza: poiché, se fosse così , le accoglieremmo nella stessa maniera; il vino sarebbe uguale nella bocca del malato come nella bocca del sano. Chi ha delle crepature nelle dita, o chi le ha intirizzite, troverebbe una uguale durezza nel legno o nel ferro che maneggia, come un altro . I soggetti estranei cedono a noi a nostra discrezione; essi stanno in noi come ci piace. Ora se per parte nostra noi accogliessimo qualche cosa senza modificarci, se le forze umane fossero abbastanza capaci e solide per afferrare la verità coi nostri propri mezzi , tali mezzi essendo comuni a tutti gli uomini, questa verità sarebbe passata di mano in mano da uno all'altro. E almeno si troverebbe una cosa al mondo , di tante che ce ne sono , che sarebbe creduta dagli uomini con un consenso universale. Ma il fatto che non si vede alcuna proposizione la quale non sia discussa e agitata fra noi o che non possa esserlo , dimostra bene che il nostro naturale intelletto non afferra molto chiaramente quello che afferra; infatti il mio intelletto non lo può far comprendere dall ' intelletto del mio compagno: è segno che io l'ho afferrato con qualche altro mezzo che non un naturale potere che sia in me e in tutti gli uomini. Lasciamo da parte quell'infinita confusione di opinioni che si nota fra i filosofi stessi, e quella perpetua universale discussione sulla conoscenza delle cose. Infatti si presuppone assai veracemente questo, che su nessuna cosa umana, dico i sapienti più dotati, i più addottrinati, sono d'accordo , e neppure che il cielo sia sulla nostra testa; poiché coloro che dubitano di tutto, dubitano anche di questo; e coloro i quali negano che possiamo comprendere alcuna cosa, dicono che non abbiamo compreso come il cielo sia sulla nostra testa; e queste due opinioni sono per il numero, senza confronto , le più forti. Oltre questa diversità e divisione infinita, per il turbamento che la nostra mente po,rta a noi stessi e l'incertezza che ciascuno prova in sé, è facile vedere che ha la sua sede molto malferma. Con quale diversità giudichia-

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Montaigne 5O7 I testi - Saggi - Libro II

mo le cose? quante volte mutiamo le nostre idee? Quello che penso e che credo oggi, lo penso e lo credo con tutta la mia fede; tutti i miei strumenti e tutti i miei congegni sostengono questa opinione e me ne danno garanzia per quanto possono. Non saprei abbracciare alcuna verità né conservarla con più vigore che non faccia con questa. Io ci sto tutto intero , ci sto veramente; ma non mi è accaduto, non una sola volta, ma cento, ma mille, e tutti i giorni , di avere abbracciato qualche altra cosa con tutti questi stessi strumenti , in questa stessa condizione, e che poi l'abbia giudicata fals a? Almeno bisogna diventar saggi a proprie spese . Se mi sono trovato spesso tradito da un certo colore, se la mia pietra di paragone è di solito falsa, e la mia bilancia ineguale e ingiusta, che affidamento ne posso avere questa volta più che le altre? Non è una sciocchezza lasciarmi tante volte ingannare da una stessa guida? Tuttavia, che la fortuna ci muova cinquecento volte di posto, che essa non faccia che vuotare e riempire senza posa, come un vaso, la nostra credenza di altre ed altre opinioni , sempre la presente e l'ultima è quella certa e infallibile. Per questa occorre abbandonare i beni, l'onore, la vita e la salute e tutto, posterior res illa reperta, Perdit, et immutat sensus ad pristina quaeque2I9. Qualsiasi cosa ci si predichi , qualsiasi cosa apprendiamo, occorrerebbe sempre ricordarsi che è l'uomo che dà e l'uomo che riceve; è una mano mortale che ce la presenta, è una mano mortale che l'accetta. Le cose che ci vengono dal cielo , solo esse hanno diritto ed autorità di persuasione; solo esse hanno marchio di verità: la quale pure noi non vediamo coi nostri occhi, né la riceviamo coi nostri mezzi: questa santa e grande immagine non potrebbe stare in un così misero alloggio, se Dio non la preparasse per quest'uso, se Dio non la riformasse e non la fortificasse con la sua grazia e col suo favore particolare e soprannaturale. Per lo meno la nostra condizione fallace dovrebbe farci comportare con maggiore moderazione e ritegno nei nostri mutamenti. Ci dovrebbe ricordare, qualsiasi cosa accogliessimo nella mente, che vi accogliamo spesso cose false, e che è per mezzo di questi stessi strumenti che mentiscono e spesso ingannano.

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Montaigne i testi - Saggi - Libro Il

Ora non è da meravigliarsi che mentiscano essendo così facili ad essere inclinati e torti per lievissime occorrenze. È certo che la nostra facoltà di apprendere, la nostra mente e le facoltà della nostra anima in generale soffrono secondo i movimenti e le alterazioni del corpo, le quali alterazioni sono continue. Non abbiamo noi lo spirito più sveglio, la memoria più pronta, il ragionamento più vivace quando siamo sani che quando siamo malati? La gioia e la gaiezza non ci fanno percepire i soggetti che si presentano alla nostra anima con tutt'altro viso che il lutto e la malinconia? Pensate che i versi di Catullo o di Saffo sorridano ad un vecchio avaro e arcigno come ad un giovane vigoroso e ardente? Cleomene, figlio di Anassandride, essendo malato, i suoi amici gli rimproveravano di avere tendenze e idee nuove e non comuni: Credo bene, egli fece; non sono neppure quello che sono quando sto bene: essendo altro, altre sono anche le mie opinioni e le mie idee . Nei cavilli dei nostri tribunali è in uso quel detto, che si dice dei criminali che capitano coi giudici in momento di dolcezza e di bonarietà: GAUDEAT DE BONA FORTUNA, che goda di questo buon umore: infatti è certo che le menti si trovano qualche volta più portate alla condanna, più spinose e aspre, ora più facili , agevoli e inclini alla scusa. Chi porta da casa sua il dolore della gotta, la gelosia o il ladroneccio del suo servo, avendo tutta l'anima tinta e abbeverata di collera, non c'è da dubitare che la sua mente non se ne alteri, verso quella parte. Quel venerabile senato che era lAreopago, giudicava di notte per paura che la vista dei sollecitanti corrompesse la sua giustizia. L'aria stessa e la serenità del cielo ci portano qualche mutamento, come dice quel verso Greco in Cicerone, Tales sunt hominum mentes, quali pater ipse Juppiter auctifera lustravit lampade terras220. Non sono soltanto le febbri , i beveraggi e i grandi accidenti che sconvolgono il nostro intelletto; le minime cose del mondo lo fanno girare. E non si deve dubitare, anche se non lo sentiamo, che, se la febbre continua può afferrare la nostra anima, la terzana non vi apporti una certa alterazione, secondo il suo grado e la sua forza. Se l' apoplessia addormenta ed estingue interamente la vista della nostra intelligenza, non si deve dubitare che

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Montaigne 5O9 I testi - Saggi - Libro Il

il reuma non la abbagli; e, per conseguenza, si può avere appena un sol momento nella vita in cui il nostro intelletto si trovi nella sua condizione normale, essendo il nostro corpo soggetto a tante continue variazioni, e corredato di tante molle, che (in questo credo ai medici) è veramente difficile non ce ne sia sempre qualcuna che tiri di traverso. Del resto, questa malattia non si scopre tanto facilmente, se non è al punto estremo ed irrimediabile, in quanto la ragione va sempre, e di sghembo e zoppicante, e sciancata tanto con la menzogna come con la verità. Per cui è malagevole scoprire la sua deviazione e il suo traviamento. Io chiamo sempre ragione quella sembianza di ragionamento che ognuno fabbrica in sé: quella ragione, della cui specie ce ne possono essere cento contrarie intorno ad un medesimo soggetto, è uno strumento di piombo e di cera, allungabile, pieghevole e acconciabile ad ogni tortuosità e ad ogni misura; non manca che la possibilità di saperle limitare. Qualsiasi buona idea che un giudice abbia, se non si sorveglia da vicino, cosa a cui poche persone si dedicano, l'inclinazione all'amicizia, alla parentela, alla bellezza e alla vendetta, e non soltanto cose tanto importanti, ma quell'istinto fortuito che ci fa favorire una cosa piuttosto che un'altra, e che ci dà, senza il permesso della ragione, la scelta fra due oggetti uguali, o qualche ombra di uguale vanità, possono insinuare insensibilmente nel suo giudizio il favore o lavversione in una causa e far pendere la bilancia. Io che mi sorveglio più da vicino, che ho gli occhi incessantemente fissi su di me, come colui che non ha molto da fare altrove, qui sub Arcto Rex gelidae metuatw orae Quid Tyridatem terreat, unice Securus 221 , oserei appena dire la vuotezza e la debolezza che trovo in me. Ho il piede così instabile e così malfermo, lo sento così facile ad inciampare e così pronto ad essere smosso, e la mia vista così fuor di sesto, che a digiuno mi sento diverso che dopo il pranzo; se mi arride la salute e la chiarità di una bella giornata, eccomi galantuomo; se ho un callo che mi faccia

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dolere il pollice, eccomi corrucciato ostile e inaccessibile. Uno stesso andare del cavallo mi sembra ora rude, ora dolce, e la stessa strada ora più breve, un'altra volta più lunga, e una stessa figura ora più, ora meno gradevole. Ora mi va di far tutto, ora niente; quello che mi piace adesso, qualche volta mi sarà duro. In me si producono mille agitazioni indiscrete e casuali. O mi prende l'umor malinconico o quello collerico; e ora dentro di me predomina la tristezza, ora l'allegria. Quando prendo qualche libro, in un passo avrò scorto grazie eccellenti e che avranno colpito la mia anima; quando vi capito un'altra volta, ho un bel voltarlo e rigirarlo, ho un bel piegarlo e tenermelo fra le mani, è una massa sconosciuta ed informe per me. Anche nei miei scritti non ritrovo spesso il tono della mia prima i=aginazione; non so quello che ho voluto dire, e mi affanno spesso a correggere e a darvi un nuovo senso, per avere perduto il primo, che valeva meglio. Non faccio che andare e venire; la mia mente non va sempre avanti; ondeggia e vaga, qua e là, velut minuta magno Deprensa navis in mari vesaniente vento222.

Alcune volte (come facilmente mi accade di fare) essendomi messo per esercizio e per passatempo a sostenere un 'opinione contraria alla mia, il mio spirito applicandosi e volgendosi da quel lato, ci si attacca così bene che non trovo più la ragione del mio primo pensiero, e me ne allontano. Io mi lascio trascinare quasi dove pendo , comechessia, e mi lascio trasportare dal mio peso. Ciascuno press'a poco direbbe altrettanto di sé , quando si guardasse come me . I predicatori sanno che l'emozione che li coglie quando parlano, li anima verso la fede , e che nella collera, noi ci applichiamo più alla difesa della nostra proposizione, la imprimiamo in noi e l'abbracciamo con più veemenza e convinzione di quanto non facciamo quando siamo in uno stato tranquillo e riposato. Se quando esponete semplicemente una causa all'avvocato , egli vi risponde esitante e dubbioso , voi vi accorgete che egli è indifferente di prendere a sostenere l'una o l'altra parte; se l'avete ben pagato per darvi dentro e per formalizzarsene , egli comincia

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Montaigne 511 I testi - Saggi - Libro II

ad esserne interessato, non vi si riscalda la sua volontà? la sua mente e la sua scienza vi si riscaldano contemporaneamente; ecco una verità evidente e indubitabile che si presenta alla sua mente; egli vi scopre una luce assolutamente nuova, e lo crede con tutta coscienza e così se ne persuade. Invero, io non so se l'ardire che nasce dalla collera e dall'ostinazione di fronte all'impressione e alla violenza del magistrato e del pericolo, o l'interesse della reputazione non hanno spinto qualcuno a sostenere fino al fuoco l'opinione per la quale, libero fra amici, egli non si sarebbe voluto bruciare la punta del dito. Le spinte e le scosse che la nostra anima riceve dalle passioni del corpo possono molto su di essa, ma ancora più le sue proprie, nelle quali è presa così fortemente, che è per avventura sostenibile non avere essa alcun altro impulso e moto che dal soffio dei suoi venti, e che, senza la loro spinta, sarebbe restata inattiva, come una nave in alto mare che i venti abbandonino del loro aiuto. E chi sostenesse ciò seguendo l'opinione dei Peripatetici non ci farebbe molto torto, poiché è noto che la maggior parte delle più belle azioni del!' anima procedono ed hanno bisogno di quest' impulso delle passioni. Il valore, essi dicono, non può perfezionarsi senza l'assistenza della collera. Semper Ajax fortis ,fortissimus tamen in furore223.

Né si dà addosso ai malvagi e ai nemici con sufficiente vigore, se non si

è adirati. E si vuole che l'avvocato ispiri corruccio ai giudici perché ne venga giustizia. Le passioni mossero Temistocle, mossero Demostene; ed hanno spinto i filosofi alle fatiche, alle veglie e alle peregrinazioni; conducono noi all'onore, alla dottrina, alla salute e ad altre mete utili. E quella fiacchezza d'animo di sopportare la noia e il fastidio, serve ad alimentare nella coscienza la penitenza e il pentimento: e a sentire i flagelli di Dio per nostro castigo e i flagellamenti della correzione politica. La compassione serve di pungolo alla clemenza e la saggezza di conservarci e governarci è tenuta sveglia dal nostro timore; e quante belle azioni non si sono compiute per causa dell'ambizione? quante per causa della presunzione? Qualche eminente e gagliarda virtù infine non esiste senza un certo impulso sre-

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golato. Non sarebbe questa una delle ragioni che avrebbero mosso gli Epicurei a liberare Dio di ogni cura e sollecitudine dei nostri affari, in quanto gli stessi effetti della sua bontà non si potevano esercitare verso di noi senza scuotere la sua tranquillità per mezzo delle passioni, le quali sono come stimoli e sollecitazioni che portano l'anima alle azioni virtuose? Oppure essi le hanno credute altra cosa e le hanno considerate come tempeste che corrompono vergognosamente l'anima nella sua tranquillità? «Ut maris tranquillitas intelligitur, nulla, ne minima quidem, aurafluctus commovente: si animi quietus et placatus cernitur, quum perturbatio nulla est qua moveri queat>>224. Quale differenze di sentimenti e di ragione, quale contrasto di immagini ci presenta la varietà delle nostre passioni! Quale fiducia possiamo dunque avere di cosa tanto instabile e tanto mobile, soggetta, per la sua condizione, al dominio del disordine, non procedente mai se non con passo forzato e impacciato? Se la nostra ragione è in possesso addirittura del male e della confusione; se è dalla follia e dalla temerità che deve ricevere l'impressione delle cose, che sicurezza possiamo attenderci da essa? Non dimostra insolenza la filosofia, nel giudicare degli uomini, che essi creino le loro più grandi azioni e le più vicine alla divinità, quando sono fuori di sé e infuriati e fuori di senno? Noi ci correggiamo quando siamo privi della nostra ragione ed essa è assopita. Le due vie naturali per entrare nel segreto degli Dei e prevedere il corso dei destini sono il furore e il sonno. È piacevole considerarlo: per lo spostamento che le passioni portano alla nostra ragione noi diventiamo virtuosi; per la sua estirpazione che il furore o l'immagine della morte produce, noi diventiamo profeti e divinatori. Mai l'ho creduto più di buon grado. È un puro entusiasmo che la santa verità ha ispirato nello spirito filosofico, che lo costringe a proclamare, contro il suo proposito, che la condizione di tranquillità della nostra anima, la condizione di calma, la condizione più sana a che la filosofia le possa conquistare, non è la sua migliore condizione. La nostra veglia è più addormentata che il dormire; la nostra saggezza meno saggia della follia; i nostri sogni valgono meglio che i nostri ragionamenti; la peggiore posizione che possiamo prendere è in noi. Ma la filosofia non pensa che noi abbiamo l'accortezza di notare che la voce che fa lo spi-

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rito, quando è staccato dall'uomo, così chiaroveggente, così grande, così perfetto e, finché è nell'uomo, così terreno, ignorante e pieno di tenebra, è una voce che viene dallo spirito che è parte dell'uomo terrestre, ignorante e pieno di tenebra, e per questa ragione infido e non degno di fede? Io non ho grande esperienza di queste agitazioni veementi (essendo di natura molle e tarda) delle quali la maggior parte afferrano improvvisamente la nostra anima, senza darle possibilità di avere coscienza di sé. Ma quella passione che si dice essere creata dall'ozio nel cuore dei giovani, sebbene proceda con dolcezza e con passo misurato, rappresenta molto chiaramente, in coloro che hanno provato ad opporsi alla sua spinta, la forza di questo mutamento e di questa alterazione che la nostra mente subisce. Una volta io mi proposi di starmene all'erta per sostenerla e vincerla (poiché non son di coloro che corron dietro ai vizi, e anzi non ci vado appresso, se essi non mi trascinano), la sentivo nascere, crescere ed aumentare a dispetto della mia resistenza, e, in fine, in piena coscienza e pienamente vitale, afferrarmi e possedermi in maniera che, come in un'ebbrezza, l'immagine delle cose cominciava ad apparirmi diversa che d'ordinario. Io vedevo chiaramente ingrandire e crescere le virtù del soggetto che andavo desiderando, e ingrandirsi e gonfiarsi per il vento della mia immaginazione; le difficoltà della mia impresa diventar facili e appianarsi, la mia mente e la mia coscienza farsi indietro; ma, svaporato questo fuoco, tutto ad un tratto, come per il bagliore di un lampo, la mia immagine riprendere un altro modo di vedere, un altro stato e un altro giudizio; le difficoltà della ritirata sembrarmi grandi e invincibili, e le stesse cose di gusto e di aspetto molto diverso da come l'ardore del desiderio me le aveva figurate. E Pirrone in questo non sa niente in modo più sicuro. Noi non siamo mai sani. Le febbri hanno il loro calore e il loro raffreddamento; dalle manifestazioni di una passione ardente ricadiamo nelle manifestazioni di una passione algida. Come mi ero buttato avanti, mi ributto indietro: Qualis uhi alterno procurrens gurgite pontus Nunc ruit ad terras, scopulisque superjicit undam Spumens, extremamque sinu perfundit arenam;

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Nunc rapidus retro atque aestu revoluta resorbens Saxa fugit, litusque vado labente relinquit225. Ora dalla conoscenza di questa mia volubilità ho per caso ingenerato in me una certa fermezza di opinioni, e non ho affatto mutato le mie precedenti e naturali. Infatti, qualsiasi aspetto esteriore ci sia nella novità, io non cambio facilmente, per paura che non abbia a perdere nel cambio. E, poiché non sono capace di scegliere, prendo la scelta altrui e mi sto al posto in cui Dio mi ha messo. Altrimenti, non saprei come guardarmi dal rotolare senza posa. Così mi sono , per grazia di Dio , conservato integro, senza scosse e senza turbamento di coscienza, nelle antiche credenze della nostra religione, attraverso tante sette e divisioni che il nostro tempo ha create. Gli scritti degli antichi, dico gli scritti buoni, ricchi e solidi mi tentano e mi trasportano quasi dove vogliono; quello che ascolto mi sembra sempre il più dritto; trovo che hanno ragione ciascuno a sua volta, se pure si contraddicono . Questa facilità che i buoni spiriti posseggono di rendere verosimile quello che vogliono e il non esser di niente di così strano a cui essi non riescano a dare sufficiente colorito per ingannare una ingenuità come la mia, mostra evidentemente la debolezza della loro dimostrazione. Il cielo e le stelle hanno girato tremila anni; tutto il mondo aveva creduto così, finché Cleante di Samo, o, secondo Teofrasto, Niceta di Siracusa, pensò di sostenere che era la terra che si muoveva nel cerchio obliquo dello Zodiaco girando attorno al suo asse, e, al tempo nostro, Copernico ha così ben fissato questa dottrina, che se ne serve con tutta esattezza per tutte le conseguenze astronomiche. Che cosa trarremo da ciò, se non che non ci deve importare quale sia delle due? E chi sa che una terza opinione, di qui a mille anni, non sconvolga le due precedenti?

Sic volvenda aetas commutai tempora rerum: Quodfuit in pretio,fit nullo denique honore; Porro aliud succedit, et e contemptibus exit, lnque dies magis appetitur, floretque repertum Laudibus, et miro est mortales inter honore226.

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Montaigne 51 5 I testi - Saggi - Libro II

Per cui, quando ci si presenta qualche nuova dottrina, abbiamo buon diritto di diffidarne, e di considerare che prima che essa fosse ideata, la sua contraria era in voga; e come essa è stata rovesciata da questa, potrà nascere nell'avvenire una terza invenzione che scrollerà nello stesso modo la seconda. Prima che i principii che Aristotele ha introdotti trovassero credito, altri principii soddisfacevano la ragione umana, come questi ci soddisfano ora. Quali patenti hanno questi, quale privilegio particolare perché il corso della nostra immaginazione si fermi ad essi, e che ad essi appartenga per tutto il tempo avvenire il possesso della nostra fede? essi non sono esenti da travolgimento più di quanto non erano quelli che li hanno preceduti. Quando mi si stringe con un nuovo argomento, sta a me giudicare che ciò a cui io non posso soddisfare, un altro soddisferà; poiché credere tutte le apparenze delle quali non possiamo disfarci è una grande ingenuità. Verrebbe da ciò che tutta la gente comune, e noi siamo tutti gente comune, avrebbe la sua fede girevole come una banderuola: poiché la loro anima, essendo molle e senza resistenza, sarebbe costretta a ricevere senza posa sempre diverse impressioni, mentre l'ultima cancellerebbe sempre la traccia della precedente. Chi si sente debole, deve rispondere , secondo la pratica, che ne parlerà al suo consiglio , o che ne riferirà ai più sapienti , dai quali ha fatto il suo alunnato. Quanto è che la medicina è al mondo? Si dice che un nuovo venuto, che si chiama Paracelso , cambi e rovesci tutto l'ordine delle regole antiche, e sostenga che fino ad ora essa non è servita che a far morire gli uomini. Credo che dimostrerà facilmente questo; ma il mettere la mia vita alla prova della sua esperienza, trovo che non sarebbe grande saggezza. Non bisbgna credere ad ognuno, dice la sentenza, poiché ognuno può dire ogni cosa. Un uomo che faceva questa professione di novità e di riforme fisiche mi diceva, non molto tempo fa, che tutti gli antichi si erano evidentemente ingannati nella natura e nei movimenti dei venti , cosa che egli mi avrebbe fatto con molta evidenza toccare con mano , se avessi voluto starlo a sentire. Dopo che ebbi avuto un po' di pazienza ad ascoltare le sue argomentazioni, che erano piene di verosimiglianza: Come dunque , gli feci , quelli che navigavano sotto le regole di Teofrasto andavano ad occiden-

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te, quando i venti tiravano a levante? Andavano di sbieco o a ritroso? Era il caso, mi rispose: in ogni modo s'ingannavano. Io gli replicai allora che preferivo seguire gli effetti più che la ragione. Sono dunque cose che cozzano spesso. E mi è stato detto che nella Geometria, che penso aver conquistato un alto grado di certezza fra le scienze, si trovano dimostrazioni irrefragabili che sovvertono la verità dell'esperienza: come Giacomo Peletier mi diceva trovandosi da me, di aver trovato due linee dirette l'una verso l'altra a congiungersi, che tuttavia dimostrava non potere mai, fino all'infinito, arrivare a toccarsi. E i Pirroniani non si servono dei loro argomenti e del loro ragionamento se non per distruggere l'evidenza dell'esperienza: ed è strano fin dove l'agilità della nostra ragione li ha condotti nel proposito di combattere l'evidenza dei fatti: infatti essi dimostrano che noi non ci muoviamo, che non parliamo, che non c'è niente di pesante o di caldo, con una identica forza di argomentazione, come noi proviamo le cose più verosimili. Tolomeo, il quale è stato un grande uomo, aveva fissato i confini del nostro mondo; tutti i filosofi antichi hanno creduto di possederne la misura, salvo alcune Isole remote che potevano sfuggire alla loro conoscenza: fu un Pirronizzare, mille anni fa, il mettere in dubbio la scienza della Cosmografia, e le opinioni che ne erano accettate da tutti; era eresia affermare gli Antipodi: ecco nel nostro secolo un'infinita estensione di terraferma, non isola o una regione particolare, ma una parte press' a poco uguale in grandezza a quella che noi conoscevamo, che da poco è stata scoperta: I Geografi dei nostri giorni non mancano di assicurare che ora tutto è trovato e che tutto è veduto, Nam quod adest praesto, placet, et polle re videtur227 .

Sicuramente, se Tolomeo si è ingannato una volta basandosi sui fondamenti della sua ragione, certo sarebbe stoltezza affidarmi subito a ciò che costoro ne affermano, e non sia piuttosto verosimile che questo gran corpo che noi chiamiamo il mondo sia cosa ben diversa da quel che crediamo. Platone ritiene che esso cambi aspetto in ogni momento; che il cielo, le stelle e il sole rovescino talvolta il movimento che noi vi constatiamo, cambiando l'Oriente in Occidente. I sacerdoti Egiziani dissero ad Ero-

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doto che dal primo loro Re, da cui erano passati undicimila anni (e di tutti i loro re gli fecero vedere le effigie in statue fatte dal vero) il Sole aveva cambiato quattro volte di cammino; che la nascita del mondo è indeterminata; Aristotele, Cicerone, lo stesso; e qualcun altro di noi, che esso

è, in tutta l'eternità, mortale e rinascente secondo parecchie vicende, e chiama a testimone Salomone ed Isaia, per sfuggire a quelle opposizioni che Dio sia stato qualche volta creatore senza creatura; che sia stato ozioso, che abbia abbandonato il suo ozio mettendo mano a quest'opera e che è per conseguenza soggetto a variazione. Nella più famosa delle scuole greche, il mondo è ritenuto un Dio fatto da un altro Dio più grande, e che sia composto di un corpo e di un'anima, che alloggi nel suo centro, che si diffonda per note musicali alla sua circonferenza, divino, felicissimo, grandissimo, sapientissimo, eterno. In lui sono altri Dei, la terra, il mare, gli astri, che si comportano in un armonioso e perpetuo movimento e in una danza divina, ora incontrandosi, ora allontanandosi, nascondendosi, manifestandosi, cambiando disposizione, ora avanti, e ora indietro. Eraclito sosteneva che il mondo era composto di fuoco e, per disposizione del fato, doveva incendiarsi e risolversi in fuoco qualche giorno, e qualche giorno ancora rinascere. E degli uomini Apuleio dice: «Sigillatim mortales, cunctim perpetui»228. Alessandro scrisse a sua madre la narrazione di un sacerdote Egiziano, tratta dai loro monumenti, la quale dimostrava l'antichità infinita di questo popolo e trattava al vero la nascita e lo sviluppo degli altri paesi. Cicerone e Diodoro dissero al loro tempo che i Caldei tenevano nota di quattrocentomila anni; Aristotele, Plinio e altri, che Zoroastro viveva seimila anni prima del tempo di Platone. Platone dice che quelli della città di Sais hanno memorie scritte ottomila anni prima, e che la città di Atene fu costruita mille anni prima della detta città di Sais; Epicuro, che nello stesso tempo, in cui le cose sono qui come le vediamo, sono in tutto simili, e della stessa foggia, in parecchi altri mondi. E questo egli avrebbe detto con più sicurezza, se avesse visto le somiglianze e conformità di quel nuovo mondo delle Indie occidentali col nostro, presente e passato, in esempi così strani. In verità, considerando quello che è venuto a nostra cognizione nel corso di questo ordinamento terrestre, mi sono spesso meravigliato di vedere, in un grandissimo spazio di luoghi e di tempi, le combinazioni di un

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gran numero di opinioni popolari mostruose e dei costumi e delle credenze selvagge e che, per qualche verso, non sembrano confarsi alla nostra ragione naturale. È un grande operatore di miracoli l'animo umano; ma questa corrispondenza ha non so che cosa ancora di più eteroclito; essa si riscontra anche in nomi, in accidenti, e in mille altre cose. Infatti ci sono dei paesi che non hanno, che noi sappiamo, sentito notizie di noi, e nelle quali era diffusa la circoncisione; nei quali erano governi e forti regimi tenuti da donne, senza uomini; nei quali i digiuni e la nostra quaresima erano prescritti, e vi si aggiungeva l'astinenza dalle donne; nei quali la nostra croce era onorata in diverse forme: e vi si decoravano le tombe; vi si usavano, specie quella di Sant' Andrea, per preservarsi dalle visioni notturne e per metterle sulle culle dei bambini contro gli incantesimi; altrove ne trovarono una di legno, di grande altezza, adorata come Dio delJa pioggia, ed era anche avanti nella terraferma; vi si trovò un'immagine precisa dei nostri penitenziari; l'uso delle mitre, il celibato dei preti, l'arte di indovinare per mezzo dei visceri degli animali sacrificati, l'astinenza da ogni sorta di carne e di pesce nel mangiare; il co.stume dei preti di usare nell'officiatura una lingua particolare e non quella volgare; e quella favola, che il primo dio fu cacciato da un altro, il fratello secondogenito; che essi furono con tutti gli agi, che poi a loro furon tolti a causa del peccato, ed hanno mutato la loro sede e peggiorato la loro natural condizione; che un giorno furono sommersi dall'inondazione delle acque celesti; che non si salvarono se non poche famiglie le quali si gettarono negli alti crepacci delle montagne, crepacci che essi turarono sicché l'acqua non vi entrò, dopo avervi chiuse dentro parecchie specie di animali; che, quando sentirono la pioggia cessare, misero fuori cani, ed essendo essi ritornati puliti e bagnati giudicarono che I' acqua non si era ancora abbassata; poi, avendone fatti uscire altri e vedendoli ritornare infangati, uscirono essi a ripopolare il mondo, che trovarono pieno soltanto di serpenti. Fu trovata in qualche luogo la fede nel giorno del giudizio, tanto che si turbavano stranamente nei confronti degli Spagnoli, i quali sparpagliavano le ossa dei defunti per frugare le ricchezze delle sepolture dicendo che queste ossa separate non si sarebbero potute facilmente ricongiungere; il commercio per permuta, e non altro, fiere e mercati a questo scopo, nani e uomini deformi per ornamento delle tavo-

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Montaigne I testi - Saggi - Libro II

le dei principi , l'uso della falconeria secondo la natura dei loro uccelli ; tributi tirannici; eleganze di giardinaggio; danze , salti dei giocolieri; musica di strumenti; armerie, giochi di palla, gioco di dadi e d' azzardo nei quali essi si riscaldavano spesso fino a giocare se stessi e la loro libertà; non altra medicina che di incantesimi; il modo di scrivere con figure; credenza di un solo primo uomo, padre di tutti i popoli; adorazione di un dio che visse una volta uomo in perfetta verginità, digiuno e penitenza, predicando la legge naturale e le cerimonie della religione , e che disparve dal mondo senza morte naturale; la credenza nei giganti, l'uso di ubriacarsi con loro bevande e di bere altrettanto ornamenti religiosi dipinti di ossa e di teste di morti, cotte sacerdotali, acqua benedetta, asperges; mogli e servitori che si presentano a gara per essere bruciati e sotterrati col marito o col padrone defunto; regola che i primogeniti succedono in tutti i beni, e al secondogenito non è riservata alcuna parte, se non l'obbedienza; costumanza, nella promozione a certo ufficio di grande autorità, che colui il quale è promosso prende un nuovo nome lasciando il suo; di versare calce sul ginocchio del bambino neonato dicendogli: Sei venuto dalla polvere e ritornerai in polvere; l'arte degli auguri. Questi vani adombramenti della nostra religione che si vedono in alcuni esempi, ne testimoniano la dignità e la divinità. Non soltanto essa si è in qualche modo insinuata in tutte le nazioni infedeli di qua con qualche imitazione , ma anche in quelle barbare come per una comune e soprannaturale ispirazione. Infatti vi fu trovata anche la credenza nel purgatorio, ma in una forma nuova: ciò che noi diamo al fuoco , essi lo danno al freddo , e immaginano le anime purgate e punite col rigore di un enorme freddo. E questo esempio mi fa pensare ad un 'altra interessante diversità: infatti come si trovarono popoli che amavano liberare la punta del loro membro e ne tagliavano la pelle al modo Maomettano ed Ebraico, se ne trovarono altri che si facevano così grande scrupolo di circoncidere che a mezzo di piccoli cordoni portavano la loro pelle con gran cura stirata e fissata al di sopra, per paura che quella punta vedesse la luce. E anche quella diversità, per cui, come noi onoriamo i Re e le feste adornandoci dei più decorosi vestiti che abbiamo, in alcune regioni, per mostrare tutta la disparità e sottomissione al loro Re, i sudditi si presentano a lui nei loro più modesti vestiti, ed entrando nel palazzo mettono

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qualche vecchia veste strappata su quella loro buona, affinché tutto il lustro e l'ornamento sia per il padrone. Ma continuiamo. Se natura racchiude nei limiti del suo ordinario progredire, come tutte le cose , anche le credenze, i giudizi e le opinioni degli uomini; se essi hanno la loro rivoluzione, la loro ragione, la loro nascita , la loro morte , come i cavoli , se il cielo li muove e li volge a sua guisa , quale autorità dominante e permanente andiamo loro attribuendo? Se con l'esperienza noi tocchiamo con mano che la forma del nostro essere dipende dall'aria, dal clima e dal paese in cui nasciamo, e non soltanto la tinta, la statura , la complessione e il modo di comportarci , ma anche le facoltà dell 'anima, «et plaga coeli non solum ad robur corporum , sed etiam animorum fa cit»229 , dice Vegezio; e che la Dea fondatrice della città di Atene scelse per situarla una temperatura di paese che facesse gli uomini saggi , come i sacerdoti di Egitto insegnarono a Solone, «Athenis tenue coelum, ex quo etiam acutiores putantur Attici; crassum Thebis , itaque pingues Thebani et valentes»230; in modo che come i frutti e gli animali nascono diversi , gli uomini anche nascono più o meno bellicosi , giusti, temperanti e docili: qui dediti al vino , altrove al ladrocinio o alla lussuria; qui inclini alla superstizione, altrove alla miscredenza ; qui alla libertà , qui alla servitù ; capaci di una scienza o di un'arte, rozzi o ingegnosi , obbedienti o ribelli , buoni o cattivi, secondo che porta l'inclinazione del luogo in cui sono posti , e prendono nuova indole se sono mutati di posto , come gli alberi: il che fu la ragione per cui Ciro non volle accordare ai Persiani di lasciare il loro paese aspro e gibboso per trasmigrare in un altro dolce e piano , dicendo che le terre grasse e molli fanno gli uomini fiacchi , e quelle fertili gli animi sterili ; se noi vediamo ora fiorire un'arte , un pensiero , ora un altro, per qualche influsso celeste; un tal secolo creare tali nature e volgere l 'uman genere in questa o quella direzione; le anime degli uomini ora gagliarde ora magre , come i nostri campi ; a che cosa si riducono tutte quelle belle prerogative di cui noi ci andiamo vantando? Dato che un uomo saggio si può ingannare, e cento uomini , e parecchi popoli , e magari la natura umana secondo noi s'inganna per parecchi secoli in questa o in quella cosa, quale sicurezza abbiamo noi che una volta cessi d'ingannarsi e che ora essa non sia nell ' inganno?

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Montaigne I testi - Saggi - Libro Il

Mi sembra, fra altre prove della nostra debolezza, che non meriti di essere dimenticata questa, che l'uomo col desiderio stesso non sappia trovare ciò che gli occorre; che non solo nella gioia e nell'immaginazione e neppure nell'aspirazione non possiamo essere d'accordo su ciò di cui abbiamo bisogno per esser contenti. Lasciamo che il nostro pensiero tagli e cucia a suo piacere, esso non potrà soltanto desiderare ciò che gli si confà, ed esserne soddisfatto: quid enim ratione timemus Aut cupimus? quid tam dextro pede concipis, ut se Conatus non poeniteat votique peracti?23 l.

È per questo che Socrate non chiedeva agli Dei se non di dargli ciò che sapevano essergli giovevole. E la preghiera degli Spartani, in pubblico e in privato, chiedeva che fossero loro concesse semplicemente le cose buone e belle: rimettendo alla discrezione divina la concessione e la scelta di quelle: Conjugium petimus partumque uxoris; at i/li Notum qui pueri qualisque futura sit uxor232. Ed il Cristiano supplica Dio che sia fatta la sua volontà, per non cadere nel pericolo che i poeti immaginano del Re Mida. Egli chiese agli Dei che tutto ciò che avesse toccato si convertisse in oro. La sua preghiera fu esaudita: il suo vino fu oro, il suo pane oro, e così la piuma del suo letto, e d'oro la sua camicia e il suo vestito; in maniera che egli si trovò oppresso sotto il godimento del suo desiderio e regalato di una utilità insopportabile. Gli fu necessario deprecare le sue preghiere, Attonitus novitate mali, divesque miserque, Effugere optat opes, et quae modo voverat, odit233. Parliamo di me stesso. Io domandai alla fortuna, più che altra cosa, l'ordine di San Michele, quando ero giovane; poiché allora era il supremo segno d'onore della nobiltà Francese e assai raro. Mi fu graziosamente

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accordato. Invece di farmi salire e innalzarmi dal mio grado per arrivarvi, essa mi ha trattato ben più graziosamente, l'ha portato giù e abbassato fino alle mie spalle, e al di sotto. Cleobi e Bitone, Trofonio e Agamede, avendo chiesto, quelli alla loro Dea, questi al loro Dio, una ricompensa degna della loro pietà, ebbero la morte per dono, tanto le opinioni celesti su ciò che ci è necessario sono diverse dalle nostre. Dio potrebbe concederci le ricchezze, gli onori, la vita e perfino la salute qualche volta a danno nostro: poiché non tutto ciò che ci è piacevole ci è sempre salutare. Se, invece della guarigione, egli ci manda la morte, o il peggioramento dei nostri malanni, «virga tua et baculus tuus ipsa me consolata sunt>>234, lo fa per le ragioni della sua provvidenza, la quale vede molto più sicuramente quello che ci è dovuto di quanto non possiamo fare noi; e dobbiamo prenderlo in buona parte, come da una mano sapientissima e amorevolissima: si consilium vis Permittere ipsis expendere numinibus, quid Conveniat nobis, rebusque sit utile nostris: Charior est illis homo quam sibi235.

Infatti chiedere agli Dei onori e cariche è un chiedere di gettarvi in una mischia o in un gioco di dadi, o in simile altra cosa di cui l'esito è ignoto e il risultato dubbio. Non c'è lotta così violenta tra i filosofi, e così aspra, come quella che si svolge sulla questione del sommo bene dell'uomo, da cui, secondo il calcolo di Varrone, nacquero 288 scuole. «Qui autem de summa bono dissentit, de tota philosophiae ratione dissentit>>236. Tres mihi convivae prope dissentire videntur, Poscentes vario multum diversa palato: Quid dem? quid non dem? Renuis tu quod jubet alter; Quod petis, id sane est invisum acidumque duobus237.

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Montaigne 52 3 I testi - Saggi - Libro II

La natura dovrebbe rispondere così alle loro contestazioni e alle loro discussioni. Gli uni dicono il nostro bene consistere nella virtù , altri nel piacere , altri nel seguire la natura; chi, nella scienza; chi, nel non aver dolore; chi , nel non lasciarsi vincere dalle apparenze (ed a questa idea sembra accostarsi quest'altra, del vecchio Pitagora, Nit admirari prope res est una , Numaci, Solaque quae possit facere et servare beatum238 , che è il fine della scuola Pirroniana); Aristotele attribuisce a magnanimità il non meravigliarsi di nulla. Ed Arcesilao diceva i puntelli e lo stato eretto ed inflessibile della mente essere i beni , ma il consentire e l'adagiarsi essere i vizi e i mali. È vero che per il fatto che lo poneva come assioma certo si allontanava dal Pirronismo. I Pirroniani , quando dicono che il sommo bene è lAtarassia, la quale è l' immobilità della mente , non intendono dirlo in maniera affennativa; ma lo stesso ondeggiare della loro anima che fa loro evitare i precipizi i e mettersi al coperto dal cielo libero , questo stesso offre loro tale idea e gliene fa rifiutare un ' altra. Che desiderio ho io che, finché viva, io, o qualche altro, o Giusto Lipsio, l'uomo più sapiente che ci resti , di spirito finissimo e ferratissimo , veramente germano al mio Tumèbe, abbia e la volontà, e la salute, e sufficiente tranquillità per raccogliere in un catalogo, secondo le loro divisioni e le loro classi , sinceramente ed acutamente, per quanto noi possiamo vedere, le opinioni della filosofia antica sul!' argomento dell'esser nostro e dei nostri costumi, le relative controversie, il credito e il seguito che hanno le scuole, la corrispondenza della vita degli autori e seguaci ai loro precetti fra gli accidenti memorabili ed esemplari? Che opera bella ed utile sarebbe! Per il resto, se è da noi che traiamo il governo dei nostri costumi, in che confusione ci gettiamo! Infatti quello che la nostra ragione ci consiglia di più verosimile a tale proposito, è generalmente per ciascuno di obbedire alle leggi del proprio paese, come pensa Socrate, ispirato, egli dice, da un consiglio divino. E per questa via che cosa vuol dire essa, se non

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che il nostro dovere non ha altra regola che una fortuita? La verità deve avere un viso uguale e universale. Il diritto e la giustizia, se l'uomo riconoscesse che avesse corpo ed essenza verace, egli non la identificherebbe con la condizione dei costumi di questa o di quella regione; non sarebbe dall'immaginazione dei Persiani o degli Indiani che la virtù riceverebbe la sua forma. Non c'è nulla di soggetto a più continua variazione che le leggi. Dacché son nato, ho veduto tre o quattro volte mutare quelle degli Inglesi, nostri vicini, non solo nel campo politico, che è quello che si usa dispensare dalla costanza, ma nel campo più importante che ci possa essere, cioè della religione. È una cosa di cui ho vergogna e dispetto, tanto più che è una nazione con la quale quelli della mia famiglia hanno avuto un tempo una così intima dimestichezza, che restano ancora nella mia casa alcune tracce della nostra antica parentela. E qui da noi, ho visto una tal cosa che era per noi delitto capitale, diventare legittima; e noi che ne riteniamo legittime altre siamo al punto, per l'incertezza della fortuna nelle guerre, d'essere un giorno criminali per lesa maestà umana e divina, essendo la nostra giustizia alla mercé dell'ingiustizia, e, nello spazio di pochi anni di possesso, prendendo un'essenza contrastante. Come poteva quell'antico Dio accusare più chiaramente nella conoscenza umana l'ignoranza d7ll'essere divino e insegnare agli uomini che la religione non era che una parte della loro invenzione, adatta a far da legame alla loro società, se non dichiarando, come fece a coloro che ne chiedevano la dottrina dal suo tripode, che per ciascuno il vero culto era quello che esso trovava nell'uso del luogo in cui era? O Dio! quale obbligazione non abbiamo noi verso la benevolenza del nostro signore creatore per aver ripulito la nostra fede di quelle devozioni vagabonde ed arbitrarie e averla situata sulla base eterna della sua santa parola! Che cosa ci dirà dunque in questo frangente la filosofia? Che seguiamo le leggi del nostro paese? ossia questo mare ondeggiante delle opinioni di un popolo o di un Principe che mi dipingeranno la giustizia con tanti colori e la riformeranno in tante immagini quanti ci saranno in essa mutamenti di passione? Io non posso avere la ragione così flessibile. Quale bontà è quella che vedevo ieri in onore, e domani non più, e che il corso di un fiume fa diventare crimine?

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Quale verità limitano queste montagne, che è menzogna per la gente che sta dall'altra parte? Ma sono curiosi quando , per dare una qualche certezza alle leggi , quelli dicono che ce ne sono alcune ferme , perpetue e immutabili , che chiamano naturali, le quali sono impresse nel genere umano dalla condizione della sua propria essenza. E di quelle, chi ne fissa il numero in tre, chi in quattro, chi in più, chi in meno: segno che è un marchio incerto come il resto. Ora essi sono così sfortunati (infatti come posso io chiamare questa se non sfortuna, che di numero di leggi così infinito non se ne incontri almeno una che la fortuna e la temerità della sorte abbia permesso di essere universalmente accolta dal consenso di tutte le nazioni?) essi sono, dico, così miseri, che di quelle tre o quattro leggi scelte non ce n'è una sola che non sia contraddetta e sconfessata, non da un popolo, ma da parecchi. Ora il solo segno verosimile, per il quale essi possano asserire alcune leggi naturali , è l'universalità dell'approvazione . Infatti ciò che natura ci avesse veramente ordinato, lo suggelleremmo senza dubbio di un comune consenso. E non soltanto ogni popolo, ma ogni uomo sentirebbe la forza e la violenza che gli farebbe colui il quale lo volesse spingere contro quella legge. Me ne mostrino, per constatare, una di questa condizione. Protagora e Aristone non davano alla giustizia delle leggi altra essenza che lautorità e l'opinione del legislatore; e sostenevano che , messo da parte ciò, il buono e l'onesto perdevano le loro qualità e rimanevano nomi vani di cose indifferenti. Trasimaco in Platone pensa che non ci sia altro diritto che l'utilità del superiore. Non c' è cosa in cui il mondo sia così vario come in fatto di costumi e di leggi. Una cosa è abominevole qui , e reca onore altrove, come a Sparta l'abilità nel rubare. I matrimoni fra i parenti sono assolutamente vietati da noi, altrove essi sono in onore ,

gentes esse feruntur In quibus et nato genitrix, et nata parenti lungitur, et pietas geminato crescit amore239. L' infanticidio, il parricidio , lo scambio delle mogli , il traffico degli oggetti rubati, la licenza in ogni sorta di piaceri , non c'è niente insom-

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ma così eccessivo che non si trovi accolto nell'uso di qualche nazione. È credibile che ci siano delle leggi naturali, come si vede fra altre creature; ma da noi esse si sono perdute, poiché questa bella ragione umana si arroga di spadroneggiare e comandare ovunque, offuscando e confondendo l'immagine delle cose secondo la sua vanità e incostanza. 240.

Gli oggetti hanno diversi aspetti e diversi rilievi; è da questo che deriva principalmente la diversità di opinioni. Una nazione guarda un oggetto sotto un aspetto, e si ferma a quello; l'altra sotto un altro. Non c'è nulla così orribile quanto immaginare di mangiare il proprio padre. I popoli che anticamente avevano quest'uso, lo tenevano tuttavia come prova di pietà e di grande affetto, poiché cercavano con ciò di dare ai loro progenitori la più degna e onorevole sepoltura, mettendo ad abitare in essi stessi e quasi nelle loro midolla i corpi dei loro padri e i loro resti, vivificandoli affatto e rigenerandoli con la trasmutazione nella loro viva carne per mezzo della digestione e del nutrimento. È facile considerare quale crudeltà e abominio sarebbe stato, per uomini nutriti e imbevuti di questa superstizione, il gettare le spoglie dei genitori alla corruzione della terra e al nutrimento delle bestie e dei vermi. Licurgo considerò nel ladrocinio la sveltezza, la diligenza, l'ardimento e l'abilità che c'è nel sottrarre qualche cosa al proprio vicino, e l'utilità che ne viene al pubblico, ciascuno mirando a conservarla con più cura di quella che è propria; e giudicò che da quel doppio insegnamento di assalire e di difendere se ne traeva per la disciplina militare (che era la principale scienza e virtù a cui egli voleva condurre quel popolo) utilità di più gran rilievo che non fosse il danno e l'ingiustizia di appropriarsi della cosa altrui. Il tiranno Dionigi offrì a Platone una veste di foggia persiana, lunga, damascata e profumata; Platone la rifiutò, dicendo che essendo egli nato uomo non si sarebbe vestito volentieri con una veste da donna; maAristippo l'accettò, con questa risposta, che nessun ornamento poteva corrompere un cuore puro. I suoi amici rimproveravano la sua viltà di prendere così poco a cuore che Dionigi gli avesse sputato in faccia: I pescatori, disse, sopportano bene di essere bagnati dalle onde del mare dalla testa ai piedi , per acchiappare un chiozzo. Diogene lavava i cavoli, e veden-

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dolo passare: Se tu sapessi vivere di cavoli, non faresti la corte a un tiranno. Al che Aristippo: Se tu sapessi vivere fra gli uomini, non laveresti cavoli. Ecco come la ragione fornisce la forma esteriore a fatti diversi. È una pentola a due anse, che si può prendere a sinistra e a destra:

bellum, o terra hospita, portas; Bello armentur equi, bellum haec armenta minantur. Sed tamen iidem olim curru succedere sueti Quadrupedes, et frena jugo concordia ferre Spes est pacis241. Si raccomandava a Solone di non spargere per la morte di suo figlio lagrime impotenti e inutili: Ed è per questo, egli disse, che con più ragione le verso, perché sono inutili e impotenti. La moglie di Socrate per simile circostanza raddoppiava il pianto: Oh come lo fanno morire ingiustamente questi giudici cattivi! - Preferiresti dunque che fosse giustamente, replicò lui. Noi portiamo le orecchie forate; e i Greci ritenevano ciò un segno di schiavitù. Noi per godere le nostre donne, ci nascondiamo; gli Indiani lo fanno in pubblico. Gli Sciti immolavano gli stranieri nei loro templi, altrove i templi servono per il diritto di asilo.

Jnde furor vulgi, quod numina vicinorum Odit quisque locus, cum solos credat habendos Esse Deos quos ipse colit242. Ho sentito dire di un giudice, il quale, quando gli capitava un aspro conflitto fra Bartolo e Baldo, e qualche argomento materia di parecchi contrasti, metteva al margine del suo libro: Questione per l'amico; volendo dire che la verità era così imbrogliata e dibattuta, che in una causa simile egli avrebbe potuto favorire quella delle parti che gli sembrerebbe meglio. Riteneva mancanza di spirito e di competenza il non poter mettere dovunque: Questione per l'amico. Gli avvocati e i giudici del nostro tempo trovano per tutte le cause sufficienti cavilli per volgerle come sembra loro meglio. In una scienza così immensa che dipende dall ' autorità

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di tante opinioni e da un soggetto così arbitrario, non può essere che non ne nasca una confusione estrema di giudizi. Così non c'è affatto processo tanto chiaro in cui i pareri non siano diversi. Quello che un'assemblea ha giudicato, un'altra lo giudica al contrario, ed essa stessa al contrario di un'altra volta. E di questo noi vediamo esempi comuni per quella licenza, che macchia in modo singolare l'autorità cerimoniosa e il lustro della nostra giustizia, di non fermarci cioè alla sentenza, e correre dagli uni agli altri giudici per decidere di una medesima causa. Quanto alla libertà delle opinioni filosofiche riguardo al vizio e alla virtù, è cosa in cui non c'è bisogno di diffondersi, e in cui ci sono parecchi pareri i quali valgono per gli spiriti deboli più se sono taciuti che resi pubblici. Arcesilao diceva che nella lussuria non era importante da qual parte e per dove fosse. «Et obscaenas voluptates, si natura requirit, non genere, aut loco, aut ordine, sedforma, aetate,figura metiendas Epicurus putat» 243 . «Ne amores quidem sanctos a sapiente alienos esse arbitrantur244. Quaeramus ad quam usque aetatem juvenes amandi sint>>245. Questi due ultimi passi Stoici, e, a questo proposito, il rimprovero di Dicearco a Platone, stesso, dimostrano quanto la più sana fùosofia soffra di licenze lontane dall'uso comune, ed eccessive. Le leggi ricevono la loro autorità dal possesso e dall'uso; è dannoso riportarle alla loro nascita: esse si sviluppano e si nobilitano scorrendo come i nostri fiumi; seguibili contro corrente fino alla loro sorgente; non è che una piccola vena d'acqua appena riconoscibile, che si inorgoglisce così e si irrobustisce invecchiando. Vedete le considerazioni antiche le quali hanno dato il primo movimento a questo famoso torrente, pieno di dignità, d'orrore e di riverenza: le troverete così leggere e così delicate, che queste persone che pesano tutto e lo riportano alla ragione, e che non accolgono niente per autorità e a credito, non è strano se hanno i loro giudizi spesso lontanissimi dai giudizi pubblici. Gente che prende per modello la primitiva immagine naturale, non è strano se, nella maggior parte delle loro opinioni, scansano la via comune. Come, per esempio: pochi di essi avrebbero approvato le condizioni e i vincoli dei nostri matrimoni; e la maggior parte hanno voluto le donne comuni e senza obblighi. Essi respingevano i nostri riti. Crisippo diceva che un filosofo farà una doz-

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zina di capitomboli, in pubblico, magari senza brache, per una dozzina d'olive. A fatica avrebbe egli consigliato a Clistene di rifiutare la bella Agarista, sua figlia, a Ippoclide per averlo visto a cavalcioni su una tavola. Metrocle lasciò andare un po' indiscretamente un peto mentre discuteva, in presenza della sua scuola, e si tenne in casa, nascosto per vergogna, finché Crate non andò a visitarlo; e, aggiungendo alle sue consolazioni e alle sue ragioni l'esempio della sua libertà, mettendosi a petare a gara con lui, gli tolse quello scrupolo, e in più lo trasse alla scuola Stoica, più libera, dalla scuola Peripatetica, più civile, che fino allora quello aveva seguita. Ciò che chiamiamo decenza, di non osar fare in pubblico quello che ci è lecito di fare in privato, essi lo chiamavano stoltezza; e l'averlo scopo di tacere e sconfessare quello che la natura, il costume e il desiderio nostro professano pubblicamente e proclamano delle nostre azioni, essi lo stimavano vizio. E sembrava loro che fosse profanare i misteri di Venere di toglierli dal sacrario privato del suo tempio per esporli alla vista del popolo, e che mettere i loro giochi fuori del sipario, fosse avvilirli (è una specie di importanza il pudore; il celare, il riserbo, la circospezione sono parti dell'estimazione); che il piacere con molto impegno faceva istanza sotto la maschera della virtù, di non essere prostituito nei quadrivii, messo tra i piedi e sotto gli occhi di tutti rimpiangendo la dignità e l'agio dei suoi gabinetti consueti. Perciò dicono alcuni che togliere i bordelli pubblici è non soltanto diffondere ovunque la lussuria che era assegnata a quel luogo, ma ancora spronare gli uomini a quel vizio a causa dell'incomodità:

Maechus es Aufidiae, qui vir, Corvine,fuisti; Rivalisfuerat qui tuus, ille vir est. Cur aliena placet tibi, quae tua non placet uxor? Numquid securus non potes arrigere? 246. Questa esperienza si fa diversa in mille esempi:

Nullus in urbe fuit tota qui tangere vellet Uxorem gratis, Caeciliane, tuum,

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Dum licuit, sed nunc, positis custodibus , ingens Turbafuturorum est. Ingeniosus homo es247. Fu domandato ad un filosofo , che fu sorpreso in simile caso , che cosa facesse . Egli rispose con tutta freddezza: Pianto un uomo , non arrossendo per essere colto in tal modo più che se lo si fosse trovato a piantar agli. È, penso io , per una opinione troppo delicata e rispettosa, che un autore grande e religioso248 ritiene quest'azione così necessariamente vincolata all' occultamento e alla vergogna, che nella libertà degli abbracciamenti cinici non si può persuadere che la faccenda giungesse alla fine , ma che essa si fermasse a rappresentare soltanto movimenti lascivi, per mantenere l'impudenza della professione della loro scuola; e che per mettere fuori quello che la vergogna aveva vincolato e ritirato indietro , era anche dopo necessario per loro di cercare l'ombra. Non aveva veduto abbastanza avanti nella loro dissolutezza. Infatti , Diogene , dandosi in pubblico alla masturbazione, dichiarava in presenza della gente che assisteva, che poteva così saziare il suo ventre, sfregandolo. A coloro che gli domandavano perché non cercasse per mangiare luogo più comodo che in piena strada: È rispondeva, che io ho fame in piena strada. Le donne filosofe, che si univano alla loro scuola, si univano anche alla loro persona in ogni luogo, senza riserbo; e Ipparchia non fu accolta nella compagnia di Crate se non a condizione di seguire in ogni cosa gli usi e i costumi della sua regola. Questi filosofi pregiavano assai la virtù e rifiutavano tutte le altre discipline all' infuori della morale; in quanto tutte le azioni attribuivano la suprema autorità alla scelta del loro sapiente anche al di sopra delle leggi: e non stabilivano ai piaceri altro freno che la moderazione e la conservazione dell'altrui libertà249. Eraclito e Protagora, dal fatto che il vino sembra amaro al malato e gentile al sano, il remo storto nell'acqua e dritto a quelli che lo vedono fuori di lì, e da simili apparenze contrarie che si riscontrano negli oggetti, argomentarono che tutti gli oggetti avevano in se stessi le cause di quelle apparenze; e che nel vino c'era qualche amarezza corrispondente al gusto del malato, nel remo una certa curva corrispondente a colui che lo guarda nell'acqua. E così di tutto il resto. Il che equivale a dire che tutto è in tutte le cose , e per conseguenza niente in ciascuna, poiché niente non è dove è tutto.

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Questa opinione mi ha rammentato l'esperienza che abbiamo, che non c'è sensazione né apparenza, o diritta, o amara, o dolce , o curva, che lo spirito non provi negli scritti che si mette ad esaminare. Nella parola più limpida pura e perfetta che possa esserci, quanta falsità e menzogna non si è fatta nascere? Quale eresia non vi ha trovato basi sufficienti e testimonianze per incominciare e mantenersi? È per questo che gli autori di tali errori non vogliono mai allontanarsi da quella prova, che è testimonianza della interpretazione delle parole. Un personaggio di alto grado volendomi dimostrare autorevolmente quella ricerca della pietra filosofale in cui si è tutto sprofondato, mi citò ultimamente cinque o sei passi della Bibbia, sui quali diceva di essersi in principio fondato a scarico della sua coscienza (poiché egli è di professione ecclesiastica); e, in verità, l' idea non era soltanto curiosa, ma anche molto bene adatta a difendere quella bella dottrina. Per questa via acquistano credito le favole divinatrici. Non c'è pronosticatore se ha tale autorità di farlo, e degno di spiegare e ricercare con curiosità tutte le pieghe e apparenze delle sue parole, a cui non si faccia dire tutto ciò che si vorrà, come alle Sibille: ci sono infatti tanti modi di interpretazione che è difficile che, per traverso o per dritto, uno spirito ingegnoso non trovi in ogni soggetto qualche apparenza che gli serva a proposito. È per questo che uno stile nubiloso e dubbioso si trova in così frequente e antico uso! Che l'autore possa ottenere di attirare e conciliare a sé la posterità (ciò che non soltanto la dottrina, ma altrettanto o di più può ottenere il favore fortuito della materia); che per il resto egli si presenti, per sciocchezza o per acutezza, un po' oscuramente e variamente: non gli importa! Molti spiriti, rimestandolo e agitandolo, ne esprimeranno una quantità di forme, o in conformità, o prossime o contrarie alla propria, che faranno loro onore. Esso si vedrà arricchito delle risorse dei discepoli, come i precettori della tassa che pagano gli alunni . È ciò che ha messo in valore molte cose da nulla, che ha dato credito a parecchi libri , e li ha riempiti di ogni sorta di sostanza che si è voluta: una stessa cosa può accogliere mille e mille e quante vogliamo immagini e considerazioni diverse. È possibile che Omero abbia voluto dire tutto ciò che gli si fa dire; e che si sia prestato a tante e così diverse immagini che i teologi, legislatori , capitani , filosofi , ogni sorta di persone che

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si occupano di scienza, anche se la trattino in modo divero e contrario, si appoggino a lui, si riferiscano a lui: maestro universale per tutti i compiti, opere e artefici; Consigliere Generale per tutte le imprese. Chiunque ha avuto bisogno di oracoli e di predizioni, ve ne ha trovate per l'affar suo. Una persona sapiente, ed amica mia, è straordinario quanti casi e quanto ammirabili ne fa derivare in favore della nostra religione; e non può facilmente allontanarsi da questa opinione, che essa sia per ispirazione di Omero (tanto gli è famigliare quest'autore come a nessun uomo del nostro tempo). E ciò che egli trova a favore della nostra, parecchi in antico l'avevano trovato a favore delle loro. Guardate come venga rimestato e agitato Platone. Ognuno, onorandosi di applicarlo a sé, l'adagia sul lato che vuole. Lo si porta e lo si inserisce in tutte le nuove opinioni che il mondo accoglie; e lo si mette in contraddizione con se stesso, secondo il vario corso delle cose. Si fanno sconfessare per mezzo suo i costumi leciti nel secolo suo, in quanto sono illeciti nel nostro. Tutto questo con vivacità e con forza, quanto più forte e vivace è lo spirito dell ' interprete. Su quello stesso fondamento di Eraclito e quella sua sentenza, che tutte le cose avevano in sé gli aspetti che vi si constatavano, Democrito ne traeva una conclusione assolutamente contraria, ossia che gli oggetti non avevano assolutamente nulla di ciò che noi vi possiamo trovare; e dal fatto che il miele era dolce per uno e amaro per l'altro, egli argomentava che esso non era né dolce né amaro. I Pirroniani direbbero che non sanno se

è dolce o amaro, o né l'uno né l'altro, o tutte e due le cose: poiché costoro arrivano sempre all'estremo del dubbio. I Cirenaici250 pensavano che niente era percepibile dal dì fuori, e che era percepibile soltanto quello che arrivava a noi per il tatto interno, come il dolore e il piacere, non riconoscendo essi né tono né grado, ma soltanto certi effetti che ce ne venivano; e che l'uomo non aveva altra sede del suo giudizio. Protagora pensava esser vero per ciascuno ciò che a ciascuno sembra. Gli Epicurei collocano nei sensi ogni giudizio e così nella conoscenza delle cose e nel piacere. Platone ha voluto che il giudizio della verità e la verità stessa, tratta dalle opinioni e dai sensi, appartengano allo spirito e al pensiero.

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Montaigne I testi - Saggi - Libro II

Quest'argomento mi ha portato alla considerazione dei sensi, nei quali siede il più grande fondamento e la più grande prova della nostra ignoranza. Tutto quello che si conosce, si conosce senza dubbio per il potere di chi conosce: infatti, poiché il giudizio viene dal!' azione di colui che giudica, è giusto che quest'azione egli la compia coi propri mezzi e con la volontà, non per la costrizione altrui, come accadrebbe se noi conoscessimo le cose per la forza e secondo la legge della loro essenza. Ora ogni conoscenza entra in noi per mezzo dei sensi: essi sono i nostri padroni,

via qua munita fidei Proxima fert humanum in pectus templaque mentis25 I. La conoscenza comincia da essi e si risolve in essi. Dopo tutto, noi non sapremmo di più circa una pietra, se non sapessimo che esistono suono, odore,luce,sapore,misura,peso,morbidezza,durezza,ruvidezza,colore, levigatezza, larghezza, profondità. Ecco la base e i principii di tutta la costruzione della nostra scienza. E, secondo alcuni, scienza non è che sentimento . Chiunque mi può portare a contraddire i sensi, mi tiene per la gola, non potrebbe farmi arretrare di più. I sensi sono il principio e la fine dell'umana conoscenza:

Invenies primis ab sensibus esse creatam Notitiam veri, neque sensus passe refelli. Quid maiore fide porro quam sensus haberi Debet? 252 . Anche se si attribuisca loro il meno che si potrà, sempre questo bisognerà conceder loro, che per mezzo di essi e per loro intromissione progredisce ogni nostra istruzione. Cicerone dice che Crisippo, avendo provato a combattere la forza dei sensi e il loro potere, si prospettò argomenti in contrario e opposizioni così forti che non riuscì a soddisfarli. In ciò Carneade, il quale sosteneva il punto contrario, si vantava di servirsi delle stesse armi e parole di Crisippo per combatterlo, e perciò gli gridava contro: O miserabile, la tua forza ti ha perduto! Non c'è nessun assurdo secon-

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do noi più estremo che sostenere che il fuoco non riscalda, che la luce non illumina, che non c'è pesantezza nel ferro né solidità, che sono cognizioni che ci offrono i sensi, né c'è credenza o conoscenza nell'uomo la quale possa paragonarsi, in certezza, a quella. La prima osservazione che faccio sull'argomento dei sensi è che metto in dubbio che l'uomo sia provvisto di tutti i sensi naturali . Vedo parecchi animali che vivono una vita intera e perfetta, gli uni senza la vista, altri senza l'udito: chissà se anche in noi non manchino pure uno, due , tre e parecchi altri sensi? del resto, se ne manca qualcuno, la nostra mente non ne può scoprire la mancanza. È privilegio dei sensi essere l'estremo limite della nostra percezione: non c'è niente oltre di essi che ci possa servire a scoprirli; né invero un senso può rivelare l ' altro, An poterunt oculos aures reprehendere, an aures Tactus, an hunc porro tactum sapor arguet oris, An confutabunt nares, oculive revincent? 253.

Essi formano tutti insieme l'estrema linea delle nostre facoltà, seorsum cuique potestas Divisa est, sua vis cuique est254. È possibile far concepire ad un uomo cieco dalla nascita che egli non ci vede, impossibile fargli desiderare la vista e rimpiangere la mancanza di essa. Per cui noi non dobbiamo in alcun modo essere sicuri del fatto che la nostra anima è contenta e soddisfatta di quelli che abbiamo , visto che essa non ba di che sentire in ciò il suo male e la sua imperfezione, se questa c 'è. È impossibile dire a questo cieco con ragionamento, argomentazione o similitudine, cosa che metta nella sua immaginazione qualche idea di luce, di colore e di vista. Non c'è niente di più difficile che poter rivelare i sensi. I ciechi nati, che vediamo desiderosi di vederci, non è perché comprendano ciò che domandano: hanno saputo da noi che essi hanno da nominare qualche cosa, che hanno da desiderare qualche cosa, che è in noi, e che essi chiamano bene, e gli effetti e le conseguenze di

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essa; ma tuttavia non sanno che cosa sia né la percepiscono né da vicino né da lontano . Ho visto un gentiluomo di buona casata, cieco nato, per lo meno cieco da età tale da non sapere che cosa sia la vista: egli comprende così poco ciò che gli manca, che usa e si serve come noi delle parole adatte al vedere, e le adopera in un modo tutto suo particolare. Gli si presentava un bambino del quale egli era padrino; avendolo preso fra le braccia: Dio mio, disse, che bel bambino! che gioia vederlo! che viso allegro ha! Egli dirà come uno di noi: Questa casa ha una bella vista; è sereno, c' è un bel sole. E c' è di più: infatti per ciò che riguarda i nostri esercizi come la caccia, la palla, il tiro, di cui ha udito parlare, egli ci prende interesse e se ne occupa, e crede di prendervi la stessa parte che vi prendiamo noi; e vi si sdegna e vi si compiace, e non ne sa che per mezzo delle orecchie. Se gli si grida: ecco una lepre, quando si è in qualche bella spianata in cui egli possa correre; e se poi gli si dice ancora: ecco presa una lepre: eccolo fiero della sua caccia, come ha sentito dire che lo sono gli altri. La palla, la prende con la mano sinistra e la lancia con tutta la forza della sua racchetta; con l'archibugio tira a caso , e si contenta di ciò che i suoi compagni gli dicono, che è andato o alto o di fianco. Che cosa si sa se il genere umano non compia una uguale sciocchezza, per difetto di qualche senso , e che per questo difetto non ci sia nascosta la maggior parte dell'aspetto delle cose? Che cosa si sa se le difficoltà che troviamo in parecchie opere della natura non ci vengano da ciò? e se parecchie azioni degli animali le quali superano la nostra capacità non siano prodotte dalla facoltà di qualche senso che a noi manchi? e se alcuni di essi non abbiano per questo una vita più completa e intera della nostra? Noi cogliamo la mela quasi con tutti i nostri sensi; vi troviamo color rosso, levigatezza, odore e dolcezza; oltre ciò essa può avere altre virtù , come di asciugare o restringere, per le quali non abbiamo sensi a cui ci si possa riferire. Quanto alle proprietà che chiamiamo occulte in parecchie cose, come nella calamita di attirare il ferro , non è verosimile che ci siano facoltà sensitive in natura, adatte a giudicarle e a percepirle, e che la mancanza di tali facoltà ci porti l'ignoranza della vera essenza di tali cose? È per avventura qualche senso particolare quello che rivela ai galli l'ora del mattino e di mezzanotte, e li spinge a cantare; che inse-

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gna alle galline, prima di ogni pratica ed esperienza, di temere uno sparviero, e non un'oca, né un pavone, bestie più grandi, che avverte i pollastrelli dell'inimicizia che ha per essi il gatto e a non diffidare del cane, di tenersi all'erta contro il miagolio, voce in certo modo allettatrice, non contro l'abbaiare, voce aspra e litigiosa; ai calabroni, alle formiche e ai topi, di sceglier sempre il miglior formaggio e la migliore pera prima di averla assaggiata, e che guida il cervo, l'elefante, il serpente alla conoscenza di certa erba adatta a guarirli. Non c'è senso che non abbia un grande dominio, e che non porti per proprio mezzo un numero infinito di conoscenze. Se mancassimo dell'intelligenza dei suoni, dell'armonia e della voce, ciò recherebbe una confusione inconcepibile in tutto il resto delle nostre cognizioni. Infatti, oltre ciò che è unito all'effetto proprio di ciascun senso, quanti argomenti, risultati e conclusioni traiamo noi dalle altre cose per confronto di un senso con l'altro! Che un uomo intelligente immagini la natura umana creata originariamente senza la vista, e argomenti quanta ignoranza e molestia porterebbe una tale mancanza, quante tenebre e quanto acciecamento nella nostra anima! Si vedrà da ciò quanta importanza abbia in noi per la conoscenza della verità la privazione di un tal senso, o di due, o di tre, se si verifica in noi. Noi abbiamo foggiato una verità con la consultazione e concorrenza dei nostri cinque sensi; ma per avventura occorrerebbe l'accordo di otto o dieci sensi e il loro contributo per percepirla con sicurezza nella sua essenza. Le sètte che combattono la scienza dell'uomo, la combattono principalmente per l'incertezza e la debolezza dei nostri sensi; infatti, poiché ogni conoscenza ci viene per loro mediazione e per mezzo loro, se falliscono nella relazione che ci fanno, se corrompono o alterano quello che ci recano dal di fuori, se la luce che attraverso loro penetra nella nostra anima è oscurata nel passaggio, noi non abbiamo che cosa pensare. Da questa somma difficoltà sono nate tutte quelle fantasie: che ogni soggetto ha in sé tutto ciò che vi troviamo; che non c'è niente di quello che pensiamo trovarvi; e quella degli Epicurei, che il Sole non è più grande di quanto la nostra vista lo giudica, Quidquid id est, nihilo fertur majore figura Quam nostris oculis quam cemimus, esse videtur255;

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che le apparenze che fanno vedere un corpo grande a chi gli è vicino, e più piccolo a chi gli è lontano, sono tutt'e due vere,

Nec tamen hic oculis falli concedimus hilum Proinde animi vitium hoc oculis adfingere no[i256; e precisamente che non c'è alcun inganno nei sensi; che bisogna stare alla loro mercé e cercare altrove ragioni per giustificare la diversità e la contraddizione che vi troviamo; magari inventare ogni altra menzogna e fantasia (essi arrivano a questo) piuttosto che fame colpa ai sensi. Timagora giurava che, per quanto socchiudesse e torcesse l'occhio, non aveva mai veduto farsi doppia la luce della candela, e che questa apparenza veniva da stortura del pensiero , non dello strumento. Di tutte le assurdità la più assurda negli Epicurei è sconfessare la potenza e l'azione dei sensi.

Proinde quod in quoque est his visum tempore, verum est. Et, si non potuit ratio dissolvere causam, Cur ea quae fuerint juxtim quadrata , procul sint Visa rotunda, tamen praestat rationis egentem Reddere mendose causas utriusque figurae , Quam manibus manifesta suis emittere quoquam , Et violare fidem primam, et convellere tota Fundamenta quibus nixatur vita salusque . Non modo enim ratio ruat omnis, vita quoque ipsa Concidat extemplo , nisi credere sensibus ausis Praecipitesque locos vitare, et caetera quae sint In genere hocfugienda257. Questa opinione disperata e così poco filosofica non vuol dire altro , se non che l'umana scienza non si può sostenere che per ragione irragionevole, folle e forsennata ; ma che val meglio ancora che l'uomo , per farsi valere, se ne serva, e così di qualsiasi altro rimedio, per fantastico che sia, piuttosto che confessare la sua indiscutibile stoltezza: verità invero svantaggiosa! Egli non può evitare che i sensi non siano i sovrani padroni della sua conoscenza; ma essi sono incerti e falsificabili in tutte le cir-

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costanze. È qui che bisogna battersi ad oltranza, e , se ci vengono a mancare le forze giuste, come ci mancano, ricorrere alla ostinatezza, alla temerità, all'impudenza. Nel caso in cui quello che dicono gli Epicurei sia vero, ossia che noi non abbiamo conoscenza dato che le apparenze dei sensi sono false; e ciò che dicono gli Stoici, che è anche vero che le apparenze dei sensi sono tanto false che non ci possono dare alcuna conoscenza: concluderemo, a spese di queste due grandi scuole dogmatiche, che non c'è affatto conoscenza. Quanto all'inganno e all'incertezza dell'opera dei sensi, ognuno può fornirsi di esempi tanto che gli piacerà, tanto gli errori e gli inganni che ci procurano sono comuni. Per l'eco di una valle il suono di una tromba sembra giungere davanti a noi, mentre viene da un luogo dietro: Extantesque procul medio de gurgite montes !idem apparent longe diversi licet .... Et fugere ad puppim colles campique videntur Quos agimus propter navim .... Uhi in medio nobis equus acer obhaesit Flumine, equi corpus transversumferre videtur Vìs, et in adversumflumen contrudere raptim258. Al maneggiare una palla d 'archibugio sotto il secondo dito, mentre quello di mezzo è accavallato al di sopra, occorre sorvegliarsi rigorosamente per accorgersi che non è che una; tanto il senso ce ne fa sentire due. Che i sensi siano spesso dominatori della ragione, e la spingano ad avere impressioni che essa sa e giudica false, si constata ad ogni momento . Lascio da parte quello del tatto, che ha la sua azione più immediata, più viva e sostanziale, che sconvolge tante volte, per effetto del dolore che reca al corpo, tutte quelle belle conclusioni Stoiche, e costringe a gridare al mal di ventre chi ha fissato nell'animo suo con tutta decisione questo dogma, cioè la colica, come ogni altra malattia e dolore, essere cosa indifferente , poiché non ha la forza di diminuire niente del sovrano benessere e della felicità in cui il saggio è posto dalla sua virtù. Non c'è cuore così debole che il suono dei nostri tamburi e delle nostre trombe

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Montaigne I testi - Saggi - Libro Il

non riscaldi; né così duro che la dolcezza della musica non svegli e alletti; né anima così dura che non si senta toccata di qualche rispetto nel considerare quella cupa vastità delle nostre chiese, la diversità degli ornamenti e il rito delle nostre cerimonie, e nell'udire il suono devoto dei nostri organi, e l'armonia così calda e religiosa dei nostri canti. Anche quelli che vi entrano con disprezzo sentono qualche brivido nel cuore e qualche fremito che li mette in diffidenza della loro opinione. Quanto a me, non mi stimo affatto così forte da ascoltare calmo versi di Orazio e di Catullo, recitati con voce adatta da una bocca bella e giovane. E Zenone aveva ragione di dire che la voce era il fiore della bellezza. Mi si è voluto dare ad intendere che un uomo, che tutti noi altri francesi conosciamo, mi avesse fatto credere, recitandomi versi che egli aveva fatti, che non erano uguali sulla carta come per aria, e che i miei occhi ne giudicherebbero diversamente dai miei orecchi, tanto la pronuncia ha potere di dare pregio e modellatura ai lavori che passano attraverso l'opera sua. Per cui non fu crudele Filosseno, il quale, sentendo uno che sbagliava tono in una certa sua composizione, prese a calpestare e a rompere un mattone che era di quello dicendo: Rompo questo che è tuo, come tu guasti quello che è mio. Per quale ragione coloro stessi che si sono dati la morte con fredda decisione, volgevano la faccia per non vedere il colpo che si facevano dare? e quelli che per la loro salute vogliono e comandano di essere incisi e cauterizzati, non possono sostenere la vista dei preparativi, degli strumenti e dell'opera del chirurgo? poiché la vista non deve avere alcuna partecipazione a quel dolore. Non sono, questi, esempi adatti a dimostrare il dominio che i sensi hanno sulla nostra ragione? Noi abbiamo un bel sapere che quelle trecce sono state prese a prestito da un paggio o da un servo; che quel rosso è venuto dalla Spagna, e quel bianco e quella levigatezza dall'Oceano, bisogna anche che la vista ci spinga a trovarne il soggetto più amabile e più piacevole, contro ogni ragionamento. Poiché in questo non c'è nulla del suo,

Auferimur cultu; gemmis auroque teguntur Crimina: pars minima est ipsa puella sui.

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Saepe ubi sit quod ames inter tam multa requiras: Decipit hac oculos Aegide, dives amor259.

Quanto consentono alla potenza dei sensi i poeti , i quali fanno Narciso perduto d'amore per la sua immagine, Cunctaque miratur, quibus est mirabilis ipse; Se cupit imprudens, et qui probat, ipse probatur; Dumque petit, petitur; pariterque accendit et ardet260 ;

e la mente di Pigmalione così scossa dall'impressione della sua statua d'avorio, da amarla e considerarla come viva! Oscula dat, reddique putat, sequiturque tenetque Et credit tactis digitos insidere membris; Et metuit pressos veniat ne livor in artus261.

Mettete un filosofo in una gabbia di fil di ferro rado, che sia sospesa in alto alle torri di Notre Dame a Parigi, ed egli vedrà per evidente ragione che gli è impossibile cadere , eppure non riuscirebbe ad impedirsi (se non è abituato al mestiere degli acconciatetti) che il guardare da quell'altezza così grande non lo spaventasse e non lo facesse venir meno. Infatti abbiamo molto da fare per sentirci sicuri nelle gallerie che sono nei nostri campanili, se esse sono lavorate a giorno , sebbene siano di pietra. Ci sono alcuni che non possono sopportarne neppure l'idea. Se si getta fra quelle due torri una trave di larghezza tale quanto occorre per poterci camminare sopra, non c'è saggezza filosofica di sì grande forza che ci possa dar coraggio di camminarci come faremmo, se fosse a terra. Io ho provato spesso nelle nostre montagne di qua (e sì che io sono di quelli che non si spaventano molto di queste cose) di non poter sopportare la vista di quella infinita profondità senza orrore e tremito delle gambe e delle cosce, ancorché ci volesse tutta la mia lunghezza perché ne fossi all'orlo e non fossi potuto cadere che portandomi scientemente al pericolo. Ho anche notato, qualsiasi altezza ci fosse , purché in quel precipizio ci fosse un albero o gobba di roccia per

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Montaigne I testi - Saggi - Libro Il

sostenere un po ' la vista e interromperla, che ciò sollevava e dava sicurezza , come se fosse cosa dalla quale nella caduta potessimo avere aiuto; ma i precipizi netti e lisci, noi non possiamo neppure guardarli senza giramento di testa: «ut despici sine vertigine simul oculorum animique non possit»262; il che è un evidente inganno della vista. Quel bel filosofo si cavò gli occhi per liberare l' anima dal disordine che gliene veniva; e poter filosofare più liberamente . Ma, allora, doveva farsi anche turare le orecchie, che Teofrasto dice essere il più pericoloso strumento che noi abbiamo per ricevere impressioni violente, le quali ci turbano e ci tramutano, e doveva privarsi infine di tutti gli altri sensi, cioè del suo essere , e della sua vita. Poiché tutti hanno questo potere di comandare la nostra ragione e la nostra anima. «Fit etiam saepe specie quadam, saepe vocum gravitate et cantibus, ut pellantur animi vehementius; saepe etiam cura et timore»263. I medici pensano che ci siano certe nature le quali si agitano per alcuni suoni e strumenti fino al furore. Ne ho veduti di quelli che non potevano sentir rosicchiare un osso sotto la loro tavola senza perder la pazienza; e non c'è uomo che non s'infastidisca a quel rumore acre e pungente che fanno le lime raspando il ferro; come a sentir masticare vicino a noi , o sentir parlare qualcuno che abbia il passaggio della gola o del naso impedito, parecchi s'inquietano fino alla collera e all 'odio. Quel flautista segretario di Gracco, che addolciva, irrigidiva e regolava la voce del suo padrone quand' egli arringava a Roma, a che cosa serviva se la modulazione e la quantità del suono non aveva potere di commuovere e mutare l'animo degli ascoltatori? Invero c'è proprio di che fare gran festa della saldezza di questo bel pezzo, che si fa piegare e mutare dall' ondeggiamento e dagli accidenti di un vento così lieve! Quello stesso inganno che i sensi portano al nostro giudizio , essi lo ricevono a loro volta. La nostra anima alcune volte se ne vendica perfino; essi mentiscono e s'ingannano a gara. Quello che vediamo e sentiamo quando siamo mossi dalla collera, non lo sentiamo com'è, Et solem geminum, et duplices se ostendere Thebas264.

L'oggetto che amiamo ci sembra più bello di quanto non sia,

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Multimodis igitur pravas turpesque videmus Esse in delitiis , summoque in honore vigere265, e più brutto quello che non ci va a genio. Ad un uomo infastidito e addolorato la luce del giorno sembra tetra e tenebrosa. I nostri sensi sono non soltanto alterati, ma spesso resi interamente ottusi dalle passioni dell'anima . Quante cose noi vediamo, che non percepiamo se abbiamo il nostro spirito preso altrove? In rebus quoque apertis nascere possis, Si non advertas animum, proinde esse, quasi omni Tempore semotae fuerint, longeque remotae266 . Sembra che l'anima conservi dentro e intrattenga le facoltà dei sensi . In questo modo e il di dentro e il di fuori dell'uomo sono pieni di debolezza e d'inganno. Coloro che hanno paragonato la nostra vita ad un sogno, hanno avuto ragione, per avventura più che non pensassero. Quando noi sogniamo, la nostra anima vive, agisce , esercita tutte le sue facoltà, ne più né meno di quando è sveglia; ma se più dolcemente e oscuramente , non certo tanto che ci sia differenza come dalla notte ad una luce viva. Ma sì, come dalla notte all'ombra: là essa dorme , qui sonnecchia, più e meno. Sono sempre tenebre, e tenebre Cimmerie. Noi vegliamo quando dormiamo , e dormiamo quando siamo svegli. Io non vedo così chiaro nel sonno, ma, quanto al vegliare, non lo trovo mai abbastanza netto e senza nubi . Anche il sonno nella sua profondità addormenta qualche volta i sogni. Ma il nostro vegliare non è mai tanto sveglio da purgare e dissipare bene in tutto le fantasie , che sono i sogni di quelli che stanno svegli , e peggio dei sogni. Siccome la nostra ragione e la nostra anima accolgono le fantasie e le opinioni che nascono in loro dormendo , e danno impulso alle azioni dei nostri sogni con lo stesso consentimento come fanno con quelle del giorno , perché non mettiamo in dubbio se il nostro pensare , il nostro agire non sia un diverso sognare, e il nostro vegliare una specie di dormire. Se i sensi sono i nostri primi giudici , non sono soltanto i nostri che biso-

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gna chiamare a consiglio, poiché in questa facoltà gli animali hanno altrettanto e più diritto che noi. È certo che alcuni hanno l'udito più acuto che l'uomo, altri la vista, altri l'odorato, altri il tatto e il gusto. Democrito diceva che gli Dei e le bestie avevano le facoltà sensitive molto più perfette che l'uomo. Ora, fra gli effetti dei loro sensi e dei nostri, la differenza è enorme. La nostra saliva pulisce e secca le nostre piaghe, essa uccide il serpente:

Tantaque in his rebus distantia differitasque est, Ut quid aliis cibus est, aliisfuat acre venenum. Saepe etenim serpens, hominis contacta saliva, Disperit, ac sese mandendo conficit ipsa267. Quale potere attribuiamo alla saliva? secondo noi o secondo il serpente? Con quale dei due sensi verificheremo noi il suo vero essere che cerchiamo? Plinio dice che ci sono nelle Indie certe lepri marine che per noi sono veleno, e noi lo siamo per esse, in maniera che col solo toccarle le uccidiamo: chi sarà veramente veleno, l'uomo o il pesce? a chi crederemo, al pesce nei riguardi dell'uomo o all'uomo nei riguardi del pesce? Alcune qualità di aria infettano l'uomo e non nuocciono affatto al bue; altre, il bue e non nuocciono affatto all'uomo: quale delle due sarà, in verità e per natura, qualità pestilenziale? Quelli che hanno l'itterizia vedono tutte le cose giallastre e più pallide di noi:

Lurida praeterea fiunt quaecumque tuentur Arquati268. Quelli che hanno quella malattia che i medici chiamano «lposfragma» il quale è un versamento di sangue sotto la pelle, vedono tutte le cose rosse e sanguigne. Quegli umori che cambiano in tal modo l'azione della nostra vista, che cosa sappiamo se sono predominanti nelle bestie e son loro comuni? Infatti ne vediamo alcune che hanno gli occhi gialli come i nostri malati di itterizia, altre che li hanno rossi sanguigni; a quelle è verosimile che il colore degli oggetti appaia diverso che a noi: quale giudizio fra i due sarà il vero? Poiché non è detto che l'essenza delle cose

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sia riferibile al solo uomo. La durezza e la bianchezza, la profondità e l'asprezza si riferiscono al servizio e alla conoscenza degli animali, come alla nostra: la natura gliene ha dato l'uso come a noi . Quando noi socchiudiamo gli occhi, i corpi che guardiamo li percepiamo più lunghi ed estesi ; parecchie bestie hanno l'occhio così ristretto: quella lunghezza è dunque per avventura la vera forma di quel corpo, non quella che i nostri occhi gli danno nella loro condizione ordinaria. Se noi stringiamo l'occhio dal disotto, le cose ci sembrano doppie, Bina lucernarurn florentia lurnina flarnrnis Et duplices horninurnfacies, et corpora bina269.

Se abbiamo le orecchie occluse da qualche cosa, o il canale dell'udito ostruito, sentiamo il suono diverso da come accade di solito; gli animali che hanno le orecchie pelose , o che non hanno che un buco piccolissimo, al posto dell'orecchio, non sentono per conseguenza quello che noi sentiamo, e percepiscono un suono diverso. Noi vediamo nelle feste e nei teatri , che , mettendo contro la luce delle lampade un vetro tinto di qualche colore, tutto ciò che è in quel luogo ci appare o verde, o giallo, o violetto, Et vulgo faciunt id lutea russaque vela Et ferruginea, curn rnagnis intenta theatris Per rnalos volgata trabesque trernentia pendent: Narnque ibi consessurn caveai subter, et ornnern Scenai speciern, patrurn, rnatrurnque, deorurnque Inficiunt, coguntque suo volitare colore270 ,

è verosimile che gli occhi degli animali, che vediamo essere di colore diverso, producano ad essi le apparenze dei corpi simili ai loro occhi. Per giudicare dell'azione dei sensi, bisognerebbe dunque che noi fossimo prima d'accordo con le bestie, in secondo luogo fra noi stessi. Cosa che non ci accade mai; ed entriamo in discussione tutti i momenti sul fatto che l'uno sente, vede o gusta qualche cosa in modo diverso da un altro; e discutiamo, come di un'altra cosa, della diversità delle immagini che

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i sensi ci portano. In modo diverso sente e vede, per comune legge di natura, e in modo diverso gusta un fanciullo da un uomo di trent'anni, e costui in modo diverso da un sessagenario. I sensi sono per gli uni più oscuri ed ottusi, per gli altri più chiari ed acuti. Percepiamo le cose in modo diverso , secondo come ci troviamo e come esse ci sembrano. Ora, dato che il nostro sembrare è così incerto e controverso, non è più miracoloso se ci si dice che possiamo dichiarare che la neve ci appare bianca, ma quanto a stabilire se per propria essenza essa è tale in verità, non sapremmo rispondere: e, messo da parte questo principio, tutta la nostra scienza se ne va necessariamente a rotoli . E che dire, che i nostri sensi stessi si intralciano gli uni con gli altri? Una pittura che sembra a rilievo alla vista, al tatto sembra piatta; diremo che il muschio è gradevole o no, se fa piacere al nostro odorato e disturba il nostro gusto? Ci sono erbe ed unguenti adatti ad una parte del corpo , che ne danneggiano un ' altra; il miele è piacevole al gusto , disgustoso alla vista. Quegli anelli che sono intagliati in forma di penne, che prendono il nome di penne senza fine, non c'è occhio che ne possa valutare la larghezza e che si sappia difendere da quell'illusione, che da una parte essi vadano allargandosi e appuntendosi e restringendosi dal! ' altra, anche quando vengono girati attorno al dito; tuttavia se li tenete in mano essi vi sembrano uguali in larghezza e simili dappertutto . Quelle persone che per aiutare la loro voluttà, si servivano anticamente di specchi adatti ad ingrossare e ad aumentare l'oggetto che riflettono , perché le membra su cui si affaccendavano piacessero loro di più per quest'ingrandimento oculare; quale dei due sensi facevano guadagnare, la vista che raffigurava loro quelle membra ingrossate e grandi a piacere, o il tatto che le rappresentava loro piccole e spregevoli? Sono i nostri sensi che prestano al soggetto queste diverse condizioni mentre i soggetti non ne hanno tuttavia che una? come vediamo nel pane che mangiamo: non è che pane, ma il nostro uso ne fa ossa, sangue, carne, peli e unghie:

Ut cibus, in membra atque artus cum diditur omnes, Disperit, atque aliam naturam sufficit ex se271.

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L'umore che la radice di un albero succhia, si fa tronco , foglia e frutto ; e l'aria, pur essendo una, si fa, con l'applicazione ad una tromba, diversa in mille sorta di suoni: sono, dico io, i nostri sensi che foggiano da sé di differenti qualità quei soggetti, o sono essi tali? E in questo dubbio , che cosa possiamo concludere circa la loro vera essenza? Inoltre , poiché gli accidenti delle malattie, del sogno e del sonno, ci fanno apparire le cose diverse da quelle che appaiono ai sani, ai saggi, e a quelli che stanno svegli , non è verosimile che il nostro portamento dritto e i nostri umori naturali abbiano anche di che dare un'essenza alle cose, riferendosi alla loro condizione, e di che adattarle a sé, come fanno gli uomini sregolati? e la nostra salute è anche capace di fornir loro il suo aspetto, come la malattia? Perché il saggio non possiederebbe qualche forma degli oggetti relativa a sé, come il dissestato , e non imprimerebbe ad essi similmente il suo carattere? Lo svogliato imputa al vino l'insipidezza; il sano il sapore; l'assetato la squisitezza. Ora, dato che la nostra condizione adatta le cose a sé e le trasforma secondo sé, non sappiamo più quali le cose sono in realtà; poiché niente arriva a noi se non falsificato e alterato dai nostri sensi. Quando il compasso, la squadra e la riga sono malfatti, tutte le misure che se ne traggono, tutte le costruzioni che si fanno sulla loro misura, sono anche di necessità false e manchevoli. L'incertezza dei nostri sensi rende incerto tutto quello che essi manifestano:

Denique ut infabrica, si prava est regula prima, Normaque sifallax rectis regionibusque exit, Et libella aliqua si ex parte claudicat hilum, Omnia mendose fieri atque obstipa necessum est, Prava, cubantia, prona, supina, atque absona tecta, Iam ruere ut quaedam videantur velie, ruantque Prodita iudiciis fallacibus omnia primis. Hic igitur ratio tibi rerum prava necesse est Falsaque sit,falsis quaecumque a sensibus orta est272 . Del resto, chi sarà capace di giudicare di queste differenze? Come noi , nelle dispute sulla religione, diciamo che ci occorre un giudice non lega-

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to all'uno né all'altro partito, lontano da partito preso e da preferenze, cosa che non è possibile fra i Cristiani, accade lo stesso in ciò; poiché, se è vecchio, non può giudicare del sentimento della vecchiaia, essendo lui stesso parte in questo dibattimento; se è giovane, lo stesso; sano, lo stesso; lo stesso, malato se dorme e se è sveglio. Ci occorrerebbe qualcuno esente da tutti questi caratteri, affinché, senza preoccupazione di giudicare, giudicasse di quelle proposizioni come a lui indifferenti; e a questo riguardo ci occorrerebbe uno strumento giudic>6, a che cosa riescono per questa via se non ad istruirli a non rischiare quando non sono veduti, e di guardare bene se ci sono testimoni che possano riferire notizie del loro valore, laddove si presentano mille occasioni di ben fare senza poter essere notati? Quante belle azioni particolari non si nascondono nella mischia di una battaglia? Chiunque si diletti di controllare altri durante una tale mischia, non deve affaccendarvisi troppo, e porta contro se stesso la testimonianza che fa della condotta dei suoi compagni . «Vera et sapiens animi magnitudo honestum illud quod maxime naturam sequitur, infactis positum, non in gloria, judicat>>7. Tutta la gloria che pretendo dalla mia vita, è di averla vissuta tranquilla: tranquilla non secon· do Metrodoro, o Arcesilao , o Aristippo, ma secondo me. Poiché la filosofia non ha saputo trovare nessuna strada per la tranquillità, che fo sse buona per tutti , sì che ciascuno la cerchi in se stesso . A chi devono Cesare ed Alessandro quella grandezza in.finita della loro fama, se non alla fortuna? Quanti uomini ha essa spenti all' inizio del loro cammino, dei quali noi non abbiamo alcuna notizia, e che vi avrebbero portato lo stesso valore quanto il loro, se la sfortuna della lor sorte non li avesse d' improvviso fermati al nascere delle imprese! Attraverso tanti e così estremi pericoli non mi ricordo di aver mai letto che Cesare sia stato ferito. Mille sono morti per rischi minori del minore che egli superò . Infinite belle azioni devono perdersi senza testimonianza prima che una giunga ad acquistar merito. Non si sta sempre sull'alto di una breccia o alla testa di un esercito, in vista del proprio generale, come su un palco. Si è colti fra la siepe e il fossato: bisogna tentare la fortuna contro un pollaio, bisogna snidare quattro miseri archibugieri da una capanna; bisogna da solo allontanarsi dalla truppa ed agire da solo , secondo l'occorrenza che si presenta. E

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se si guarda, si troverà per esperienza accadere che le occasioni meno clamorose sono le più pericolose; e che nelle guerre che sono accadute al tempo nostro, si sono perduti più uomini dabbene nelle occasioni futili e poco importanti e nell' attacco a qualche bicocca che non in luoghi degni e onorevoli. Chi considera la propria morte male impiegata se non avviene in occasione importante, invece di rendere illustre la sua morte, rende facilmente oscura la sua vita, lasciando sfuggire parecchie circostanze adatte a rischiare. E tutte quelle adatte sono abbastanza illustri essendo la propria coscienza a strombazzarle sufficientemente a tutti. «Gloria nostra est testimonium conscientiae nostrae»8. Chi non è uomo dabbene se non per il fatto che lo si verrà a sapere, e perché lo si stimerà di più dopo che si sarà saputo; chi non vuoi far bene se non a condizione che la sua virtù venga a conoscenza della gente; costui non è uomo da cui si possa trarne molto profitto.

Credo che 'l resto di quel verno cose Facesse degne di tenerne conto; Mafur sin 'a quel tempo sì nascose, Che non è colpa mia s'hor' non le conto: Perché Orlando a far opre virtuose, Più eh ' a narrarle poi sempre era pronto, Né mai fu alcun de li suoi fatti espresso, Se non quando ebbe i testimoni appresso9. Bisogna andare in guerra per il proprio dovere, e attenderne quella ricompensa che non può mancare ad ogni bell'azione , per nascosta che sia, nemmeno ai pensieri virtuosi; questa è la soddisfazione che una coscienza ben fatta riavrà in sé dal far bene. Bisogna essere valoroso per se stesso e per il vantaggio che c'è nell'avere il proprio coraggio posto in una condizione salda e sicura contro gli assalti della fortuna:

Virtus, repulsae nescia sordidae, Intaminatisfulget honoribus, Nec sum.it aut ponit secures Arbitrio popularis aurae !O.

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Non è per il pubblico che la nostra anima deve rappresentare la sua parte, è in noi, nell 'intemo, in cui non vede alcun occhio se non i nostri: là essa ci difende dalla paura della morte, dai dolori e dalla stessa vergogna; là essa ci conforta della perdita dei nostri figli, dei nostri amici e dei nostri beni, e, quando si presenta l'opportunità, ci guida anche nei rischi della guerra. «Non emolumento aliquo, sed ipsius honestatis de core» 11 . Questo vantaggio è ben più grande e ben più degno di essere vagheggiato e sperato, che l'onore e la gloria, la quale non è che un giudizio favorevole che si fa di noi. Bisogna scegliere da tutto un popolo una dozzina d'uomini per fare la stima di una misura di terra; e la stima dei nostri sentimenti e delle nostre azioni, la materia più difficile e più importante che ci sia, noi l'affidiamo alla voce del pubblico e della turba, madre d'ignoranza, d'ingiustizia e di incostanza. È giusto far dipendere la vita di un saggio dal giudizio degli stolti? «An quidquam stultius quam quos singulos contemnas eos aliquid putare esse universos»12? Chiunque mira a piacere loro, non ha mai fatto nulla; è un fine che non ha né forma né presa.