Verso la fine dell'economia: Apice e collasso del consumismo [PDF]

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Verso la fine dell'economia: apice e collasso del consumismo di Manuel Castelletti

Pubblicato da Fuoco Edizioni in Smashwords

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Copyright Fuoco Edizioni – http://www.fuoco-edizioni.it 1^ Edizione Giugno 2013 Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale. Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone. Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di tornare a Smashwords.com e acquistare la propria copia. Grazie per il rispetto al duro lavoro di questo editore.

Indice Introduzione Parte I: “Lo stato dei fatti” I) L’ossessione per la crescita II) La dipendenza dai combustibili fossili III) Il ruolo strategico delle materie prime minerarie IV) Pressione demografica, povertà ed urbanizzazione V) Un mondo da sfamare VI) La risorsa legno VII) L’acqua è sempre più scarsa VIII) La situazione ambientale non è più sostenibile IX) Riepilogando: undici “punti salienti” Parte II: “Verso la fine del sistema” I) Lotta per le risorse naturali II) Il potere del capitale III) L’economicizzazione del mondo IV) Collasso

Parte III: “Decrescita, istruzioni per l’uso” Fonti dei dati e sitografia Bibliografia Pubblicazioni ed articoli scientifici Autore

Introduzione Torna all’indice La recente crisi economica non sembra più avere fine. Tutto è iniziato nel luglio del 2007, quando negli Stati Uniti è scoppiata la bolla immobiliare dei mutui sub prime a causa di una scellerata corsa all’indebitamento dei cittadini americani che, sperando di ottenere facili guadagni dal continuo rialzo dei prezzi immobiliari, hanno contratto mutui per comprare la seconda o la terza casa. Nell’autunno del 2008 è fallito il colosso finanziario Lehman Borthers e quella che è seguita è una situazione di stallo a livello mondiale che, nonostante i massicci stimoli economici messi in campo dalle principali banche centrali, nessuno sa con precisione quando potrà dirsi superata. Ma questa crisi ha fatto emergere tutta la fragilità del nostro sistema economico e così ora dobbiamo fare i conti anche con la crisi del debito sovrano europeo e il rallentamento dell’economia cinese (che dipende fortemente dall’export in Europa e Nord America). Nel 2008 il prezzo di praticamente tutte le materie prime (dal petrolio alle derrate alimentari passando per le materie prime minerarie) si è impennato e nonostante il quadro macroeconomico sia fortemente peggiorato rispetto alla situazione pre-crisi, per molte materie prime siamo tornati ai massimi del 2008. E’ dai due grandi shock petroliferi

degli anni Settanta che l’umanità si domanda se esiste una reale alternativa ai combustibili fossili, ormai destinati al totale esaurimento nel giro di qualche decennio, ma la risposta è che per ora tale alternativa non esiste. Petrolio, carbone e gas naturale contribuiscono alla produzione dell’87% dell’energia che viene prodotta sul nostro pianeta e le fonti rinnovabili difficilmente potranno far fronte alla crescente domanda di energia dovuta all’affacciarsi dei paesi emergenti sulla scenda mondiale (Cina, India, Brasile e Russia, ma anche Indonesia, Messico e Arabia Saudita). Le materie prime minerarie sono alla base dell’economia mondiale anche se esistono seri problemi legati alla sicurezza della loro fornitura perché i grandi produttori sono spesso paesi poco stabili dal punto di vista politico o intenzionati a massimizzare i vantaggi derivanti dalla posizione monopolistica per motivi geopolitici o per ottenere facili guadagni (come nel caso della Cina con le terre rare). L’acqua dolce è diventata una risorsa sovrasfruttata e in molte regioni del pianeta, nonostante la crescente domanda di acqua per

irrigare

i

campi

(il

70%

dell’acqua

viene

destinata

all’irrigazione), per usi industriali o civici, la quantità d’acqua procapite è destinata a calare, mentre sempre più persone non hanno accesso all’acqua potabile a causa del crescente inquinamento. Molti dei paesi che già ora non sono autosufficienti dal punto di vista alimentare sono quelli che nei prossimi anni vedranno maggiormente crescere la popolazione e quindi la necessità di importare ulteriore cibo, in un mondo in cui la superficie destinata all’agricoltura, pari a

circa 1/3 delle terre emerse, per aumentare dovrà necessariamente passare dall’abbattimento delle ultime foreste del pianeta. L’Asia è il continente più dipendente dalle importazioni estere di cibo e con il recente aumento del reddito medio dei suoi abitanti abbiamo assistito a un vero e proprio boom della domanda mondiale di prodotti di origine animale, con il risultato che è aumentata la superficie da destinare alla produzione di cereali e leguminose necessarie alla produzione di mangimi. Nel 2011 abbiamo raggiunto i 7 miliardi di abitanti e secondo i demografi, entro il 2025 il nostro pianeta dovrà fornire tutte le risorse naturali a mantenere lo stile di vita di un ulteriore miliardo di persone (mentre entro il 2050 avremo superato i 9 miliardi di abitanti). Ogni estate assistiamo al dramma dello scioglimento della banchisa dell’Artico, segno inequivocabile del fatto che ci stiamo avviando verso sconvolgimenti del clima che saranno epocali (l’avanzata della desertificazione, l’aumento dei fenomeni meteorologici estremi come siccità e inondazioni, lo scioglimento dei ghiacciai delle principali catene montuose e quindi la diminuzione della portata dei principali fiumi del pianeta fra le conseguenze più prevedibili). La principale causa di questo fenomeno è però da attribuirsi all’attività dell’uomo; infatti, ad ogni aumento del PIL mondiale si immettono nell’atmosfera ulteriori quantità

di

gas

serra

(anidride

carbonica,

metano,

cluorofluorocarburi, eccetera), responsabili del riscaldamento del pianeta. Sempre a causa dell’attività dell’uomo stiamo assistendo alla repentina perdita della biodiversità, con l’allarmante esaurimento

delle risorse ittiche degli oceani e i fragili ecosistemi tropicali sempre più a rischio. Infine, un altro effetto collaterale del nostro modello di sviluppo è rappresentato dagli inquinanti organici persistenti che – come nel caso delle diossine – si accumulano nella catena alimentare e comportano vere e proprie epidemie di tumori e altre gravi malattie. In un sistema economico basato sulla necessità di una costante crescita della produzione materiale è evidente che le sempre più acute crisi che si stanno abbattendo sull’umanità rischiano di portarci dritti verso il collasso.

Oltre alla crisi economica, infatti, esiste

anche una crisi agricola, energetica, delle materie prime minerarie, socio-demografica, delle risorse idriche e una crisi ambientale. Viviamo in un sistema socio-economico molto complesso e quindi tra le cause dell’attuale crisi economica c’è anche la crisi ambientale, perché l’eccessivo sfruttamento e il rapido deperimento delle risorse naturali ha portato all’aumento del prezzo degli input e quindi a un rallentamento della crescita della produzione materiale. Crisi ambientale che a sua volta dipende dal continuo aumento della popolazione e della povertà (in termini assoluti), che hanno aumentato le pressioni per l’accaparramento delle sempre più scarse risorse del pianeta. Esiste una forte interdipendenza tra le varie crisi che stiamo vivendo. Ma alla radice delle innumerevoli crisi che si stanno abbattendo sull’umanità

sembra

esserci

il

comportamento

dell’homo

oeconomicus, ovvero quella “razionale stupidità” che ha portato ogni singolo attore del sistema economico – individui, imprese e stati – ad agire nel proprio interesse secondo valori prettamente economici (legati alla massimizzazione dell’accumulo di ricchezza). Perché quando i valori economici diventano preponderanti, come già teorizzava Aristotele, si arriva alla disgregazione e quindi alla fine della società. La tragedia dei beni comuni (la natura è patrimonio dell’umanità) nasce dalle scelte razionali dei singoli che per il proprio interesse arrecano danno alla collettività. Ma le perverse logiche del sistema consumista hanno finito per soggiogare anche l’uomo che, trovandosi in un perenne stato di insoddisfazione perché costretto a rincorrere le illusorie promesse della pubblicità – la più efficace delle leve del sistema produttivo –, è costretto svendere il proprio tempo e le proprie energie in cambio di una vacua felicità che durerà giusto il tempo in cui la prossima moda o trovata tecnologica avrà superato ciò che ci è costato così tanta fatica. Forse non tutto è perduto, anche se il cambiamento non potrà che venire da un radicale rovesciamento dei valori correnti in grado di fermare la folle corsa alla sempre più efficiente e rapida razzia delle risorse naturali in nome dell’altrettanto sempre più veloce ed efficiente distruzione di esse.

PARTE I “La stato dei fatti” Torna all’indice I L’ossessione per la crescita A) Rallenta la crescita mondiale ed aumenta il peso degli emergenti Il PIL – acronimo di Prodotto Interno Lordo –, occupa il posto d’onore di tutto il discorso economico in quanto essenza stessa dell’economia, ed è quindi la principale preoccupazione di governanti ed economisti. Si tratta di una misura, di un indicatore, che è stato messo appunto a metà del XX secolo dall’economista ed esperto di contabilità nazionale Simon Kuznets per poter valutare in modo preciso la ricchezza materiale di una nazione, ovvero il suo benessere. Dal punto di vista dell’offerta, il PIL è la somma algebrica del valore aggiunto in un dato periodo di tempo, ovvero una misura di ciò che viene prodotto (beni e servizi) al netto del costo dei materiali impiegati. Dal punto di vista della domanda, il PIL è una misura della spesa finale, ovvero della spesa per i consumi delle famiglie, per gli investimenti delle imprese e per la spesa pubblica (per consumi ed investimenti) dello stato. Infine, dal lato della distribuzione funzionale del reddito, il PIL è l’insieme di tutti i

redditi, ovvero la remunerazione dei fattori produttivi che hanno concorso alla produzione materiale di beni e servizi. L’intera nostra società, attraverso le sue istituzioni (i governi centrali e gli enti locali, le banche centrali, le authority, i tribunali, le camere di commercio, eccetera) è progettata per favorire e stimolare la crescita, cioè lo sviluppo dell’economia. Da quando il termine PIL è diventato sinonimo di economia, è emerso chiaramente quale fosse lo scopo, il fine della nostra società (una società dominata dall’economia e dai suoi valori): ovvero la crescita del PIL – cioè una sempre maggiore produzione di beni e servizi. Nel 2009 abbiamo assistito ad una contrazione del PIL mondiale pari al 2,33%, ovvero alla prima battuta d’arresto del treno della crescita economica dal secondo dopoguerra ad oggi. A luglio del 2007, gli Stati Uniti, ovvero il paese più ricco al mondo, sono stati colpiti da quella che forse è stata la più grave crisi finanziaria di sempre, culminata con il fallimento a fine 2008 del gigante della finanza Lehman Brothers e tamponata dalle massicce iniezioni di liquidità delle banche centrali di tutto il mondo. Ma è importante notare come la recessione mondiale del 2009 ben si intersechi in un processo di lungo termine, ovvero nel graduale rallentamento della crescita economica mondiale, fenomeno iniziato con le tensioni legate al prezzo del petrolio degli anni Settanta (con i due shock petroliferi del 1973 e del 1979), ma sintomo anche di un’economia che sembra aver esaurito lo slancio iniziale legato all’applicazione su larga scala delle

tecnologie

della

Seconda

rivoluzione

industriale

(fondata

sull’energia elettrica ed il motore a scoppio) e che non ha ottenuto quei “miracolosi” benefici provenienti dalle nuove tecnologie (computer, cellulare, fibra ottica, eccetera). Nel periodo che va dal 1971 al 1989, il tasso di crescita medio dell’economia mondiale è stato pari al 3,73%, mentre dal 1990 al 2010 del 2,71%, cioè inferiore di oltre un punto percentuale nonostante la dirompente crescita dei paesi emergenti e le nuove tecnologie (vedi Grafico 1).

Grafico 1: Tasso di crescita di PIL e popolazione mondiale dal 1970 al 2010

Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

Il primo decennio del nuovo millennio ha infatti registrato il boom dell’economia cinese, cresciuta secondo la Banca Mondiale del 171%, ma anche di quella indiana, che si è più che raddoppiata in soli dieci anni (+109%) e di quella indonesiana (+66%). Fra le prime 15 economie del mondo, troviamo ben sei paesi emergenti (Cina, India, Russia, Brasile, Messico ed Indonesia), con i BRIC che pesano per 1/4 del PIL mondiale (ed il 42% della popolazione del pianeta). Dal 2000 abbiamo assistito ad un calo dell’importanza delle economie dei paesi sviluppati (ovvero di quelli a reddito alto), con un generale ribilanciamento a favore delle economie dei paesi a reddito medio-alto (che nel 2010 valevano 1/3 del PIL mondiale) – anche se occorre comunque specificare che i paesi ricchi rappresentano ancora la parte più importante dell’economia mondiale – ovvero il 55,19% del PIL mondiale (vedi Grafico 2).

Grafico 2: Andamento quota percentuale pil mondiale per gruppi di reddito dal 1980 al 2010

Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

Il processo di trasferimento (attualmente in atto) di quote della ricchezza prodotta nel nostro pianeta dai paesi ricchi a quelli non ancora sviluppati trova le sue radici nella globalizzazione, che ha portato i paesi con un più basso reddito pro-capite a convergere con quelli con un più alto reddito pro-capite. Dal 1980 al 2010, il contributo alla crescita del PIL mondiale dei paesi in via di sviluppo (ma nel complesso anche per i paesi poveri) è stato maggiore rispetto a quello dei paesi ad alto reddito. B) Globalizzazione: la creazione di un mercato unico mondiale

L’attuale sistema economico abbraccia in toto l’economia di mercato, un’economia profondamente capitalista, perché anche la Cina – l’ultimo grande paese comunista – ha abbracciato l’ideale del liberismo in campo economico quando nel 2001 ha deciso di entrare a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (l’OMC o WTO). L’ortodossia economica ritiene che la globalizzazione dovrebbe favorire la crescita della produzione di beni e servizi, ovvero l’aumento del PIL, soprattutto nei paesi più poveri, con il fenomeno della convergenza (i capitali tendono ad andare dove i fattori della produzione, come il lavoro, costano meno e inoltre i paesi più poveri adottano la tecnologia di quelli più ricchi). La globalizzazione potrebbe essere definita come un aumento, a livello mondiale, della circolazione di capitali, merci e persone (ma anche idee, tecnologie, culture, specie animali e vegetali e via dicendo). Con l’abbattimento dei dazi doganali e delle misure protezionistiche (il cui ultimo atto si è tenuto nel novembre del 2001 con la firma degli accordi del Doha Round), viene promossa la libera circolazione di merci, capitali e persone e si entra nella fase più avanzata della globalizzazione economica, che era iniziata con la caduta della “cortina di ferro”. La prima fase è stata caratterizzata dell’affermarsi dell’ideologia liberista negli ambienti economici prima e politici poi.

Grafico 3: Variazione del peso di import/export sul totale del PIL per area geografica dal 1970 al 2010

Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

La seconda fase è stata invece quella dell’abbattimento dei dazi doganali e dell’adozione delle grandi innovazioni tecnologiche nel settore dell’ICT, come il computer, internet, il cellulare, le fibre ottiche e via dicendo, che hanno permesso la libera circolazione delle idee e dei capitali (peraltro sempre più virtuali). A partire dall’inizio degli anni Novanta, l’incidenza del commercio estero (inteso come somma dell’import e dell’export) è passato dal 38,76% del PIL mondiale nel 1990, al 49,61% del 2000, un balzo di oltre dieci punti

percentuali in soli dieci anni (vedi Grafico 3). Il culmine degli scambi commerciali a livello internazionale (sempre in rapporto al PIL) è stato toccato nel 2008 (allo scoppio della crisi finanziaria americana), quando il commercio internazionale arrivò a pesare per il 59,44% del PIL prodotto dall’umanità. Ma la globalizzazione non ha raggiunto lo stesso grado di intensità ovunque. Ad esempio, nel 2010 gli scambi commerciali con l’esterno dell’Unione Europea erano pari al 79% del proprio PIL, mentre per la Cina, sempre per lo stesso anno, erano pari al 55% della propria economia, mentre troviamo che è il Nord America la regione più “autarchica”: gli scambi con l’esterno pesano per poco più del 30% del valore del prodotto interno lordo (cosa sorprendente visto il ruolo che gli USA e le grandi multinazionali nordamericane hanno avuto nella costruzione “istituzionale” di questa globalizzazione). Con la globalizzazione si assiste anche a un aumento della circolazione delle persone oltre le frontiere nazionali e questo fenomeno si manifesta con le migrazioni dei lavoratori dai paesi poveri a quelli più ricchi e con l’aumento del flusso di turisti. Nel periodo che va dal 1960 al 2010, il fenomeno delle migrazioni dai paesi più poveri verso quelli più ricchi è aumentato di quasi undici volte (secondo la Banca Mondiale nel 1960 quasi 2 milioni di persone hanno dovuto migrare verso i paesi ricchi, mentre nel 2010, il numero di persone che hanno deciso di migrare alla ricerca di migliori condizioni di vita sono state 23 milioni). Le due grandi ondate migratorie sono avvenute tra il 1990 ed il 1995 (+37% rispetto al quinquennio precedente) e tra il 2000 ed

il 2005 (+51% rispetto al quinquennio precedente, con quasi 7 milioni di migranti in più). Anche il turismo ha registrato una costante crescita –anche se a differenza delle migrazioni si tratta di spostamenti temporanei e che riguardano principalmente la popolazione più ricca. Secondo la Banca Mondiale, il numero di arrivi è aumentato del 67% in 14 anni, passando dai 531 milioni del 1995 ai 923 milioni del 2009. Dopo aver analizzato l’aumento della circolazione delle merci e delle persone degli ultimi 20 anni, ci rimane da affrontare l’ultimo aspetto della globalizzazione, cioè la libera circolazione dei capitali oltre i confini nazionali. Secondo McKinsey, dal 1990 al 2010 gli investimenti oltre confine a livello globale sono quasi decuplicati, passando dagli 11.000 miliardi di dollari del 1990 ai 96.000 miliardi del 2010. Il 32% degli investimenti internazionali sono prestiti, che sono stati concessi da banche e istituti finanziari a soggetti oltre i confini, il 21% sono titoli obbligazionari detenuti all’estero e un altro 21% sono investimenti diretti esteri, il 15% titoli azionari detenuti all’estero e infine, il 9% sono riserve straniere. C) Il fattore produttivo capitale: risparmio, stock monetario e finanziario Il risparmio viene indirettamente considerato un fattore di produzione (che va a incidere sull’offerta aggregata), perché attraverso l’intermediazione del sistema finanziario, diventa capitale. Un sistema finanziario sufficientemente sviluppato permette alle

imprese (ma anche allo stato e alle famiglie che investono ad esempio nell’istruzione o nell’acquisto dell’abitazione di proprietà) di finanziarsi tramite i risparmi delle famiglie (ma anche di imprese ed enti pubblici). Il risparmio svolge quindi un ruolo molto importante

nelle

economie

moderne,

perché

permette

l’accumulazione di capitale tramite gli investimenti produttivi di imprese, stato e famiglie. Secondo la Banca Mondiale, negli ultimi quarant’anni il tasso di risparmio mondiale è calato, passando dal 25% del reddito prodotto (il PIL) nel 1970 a valori al di sotto del 20% nel 2010. Il calo del tasso di risparmio mondiale è dovuto al calo del tasso di risparmio registrato nei paesi a reddito alto, che detengono ancora la maggioranza del risparmio (sempre secondo la Banca Centrale nel 2010 pesavano per il 54,31% del totale mondiale). I paesi a reddito alto rappresentano oltre 1/3 del risparmio mondiale (il 36,83% nel 2010), ed è emblematico il fatto che sia uno di questi paesi il maggior risparmiatore al mondo. Secondo la Banca Centrale, la Cina, infatti, con 3.063 miliardi di dollari è il più grande risparmiatore al mondo, destinando il 51,69% del proprio reddito – una percentuale molto più alta rispetto alla quota di risparmio degli Stati Uniti, pari l’11,51% del proprio PIL – a investimenti o consumi futuri. Lo stock finanziario totale, in quanto capitale finanziario, è una buona approssimazione del fattore produttivo capitale, perché in grado di convertirsi, di comprare il capitale fisico (macchinari, terra,

lavoro). Ma questo può essere aumentato anche da un incremento della moneta presente nel sistema economico con un intervento della banca centrale che aumenta la base monetaria, ovvero l’offerta di moneta. La moneta “creata” dalla banca centrale entra quindi a far parte del sistema finanziario, che ha poi il compito di indirizzarla agli investimenti e ai consumi di imprese, famiglie e stato. Per valutare

l’andamento

dello

stock

monetario,

ho

preso

in

considerazione l’andamento di M2, una misura dell’aggregato monetario che si definisce come la somma di M0 (circolante e depositi delle banche presso le banche centrali), M1 (moneta elettronica e depositi in conto corrente) più tutte le attività finanziarie che, come la moneta, hanno elevata liquidità e valore certo in qualsiasi momento (in sostanza tutti i vari tipi di depositi).

Grafico 4: Andamento stock monetario in rapporto al PIL per classi di reddito dal 1960 al 2010

Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

Dal 1960 al 2010 abbiamo assistito ad una crescita della moneta a percentuali più elevate rispetto alla crescita del PIL, con M2 che nel 2010 ha raggiunto, a livello mondiale, il 120% del PIL (vedi Grafico 4). La Cina è il paese che detiene il maggior quantitativo di moneta in percentuale al proprio PIL (pari al 167%), ed è seguita dai paesi ad alto reddito (con valori pari al 135% del PIL), quelli a reddito mediobasso (58% del PIL) e infine da quelli a basso reddito, per cui M2 pesa per il 42% del PIL. La quantità di moneta totale in rapporto al valore dell’economia mondiale è aumentata del 15% nel primo decennio del nuovo millennio (nel 2000 era pari al 105% del PIL mondiale), con il maggior incremento che è stato registrato nei paesi

a reddito basso, che hanno registrato un aumento del 55% (nel 2000 M2 pesava per il 27% del PIL di questi paesi). Seguono la Cina, che ha visto aumentare l’incidenza dell’aggregato monetario, rispetto al valore totale della propria economia, del 34% (nel 2000 valeva il 116% del PIL cinese) e i paesi ad alto reddito, che hanno visto aumentare il proprio stock di moneta del 17%. Negli ultimi anni lo stock finanziario mondiale è cresciuto ad una percentuale maggiore rispetto all’economia reale, raggiungendo la cifra record di 212.000 miliardi di dollari Usa nel 2010 (vedi Grafico 5) – con il primo che dal 2000 al 2010 è cresciuto dell’87,27% contro il 40,9% della seconda – , sintomo del crescente indebitamento della nostra economia (uno stock finanziario rappresenta sempre – in ultima analisi – un debito del sistema economico, anche se può non esserci l’obbligo alla restituzione ad una scadenza fissa, come nel caso dell’emissione di azioni da parte di un’azienda). Nonostante lo scarso vigore registrato dalle economie mature negli ultimi anni (la Banca Mondiale indica il tasso annuo medio di crescita del PIL dei paesi ad alto reddito nel periodo che va dal 2000 al 2010 pari all’1,81%, paragonato a quello di Cina ed India che è stato, rispettivamente, del 10,3% e del 7,36%), i paesi sviluppati detengono la quasi totalità dell’intero stock finanziario mondiale con una quota pari all’82,4% del totale – il 32% appartiene agli Usa, il 30% all’Europa Occidentale e il 12% al Giappone (vedi Grafico 6).

Grafico 5: Andamento stock finanziario mondiale per tipologia dal 1990 al 2010 (in migliaia di miliardi di dollari Usa)

Fonte: Rielaborazione dati McKinsey

Questo risultato dipende dalla marcata “finanziarizzazione”delle economie mature dove, secondo la Banca Mondiale,

il credito

bancario è superiore al 200% del PIL, il peso dei mercati azionari ha superato il 100% del valore dell’intera economia già nel 2000 e, secondo McKinsey, si trovano il 73% dei depositi mondiali. I paesi

sviluppati mostrano anche un più alto indebitamento pubblico rispetto alle economie emergenti, fondamentalmente a causa dei maggiori costi sociali (dovuti all’invecchiamento della popolazione e alla più alta disoccupazione) e alla miglior reputazione sui mercati internazionali (anche se questo sta in parte cambiando, dopo la crisi del debito sovrano dei paesi periferici dell’area euro).

Grafico 6: Quota di stock finanziario per area geografica (2010)

Fonte: rielaborazione dati McKinsey

È però importante notare che, nonostante i paesi emergenti rappresentino ancora una quota minoritaria dello stock finanziario mondiale (il 17,6% del totale), stanno anche in questo caso crescendo a percentuali più alte rispetto ai paesi sviluppati (secondo McKinsey, la crescita dello stock finanziario cinese dal 2000 al 2010 è stata pari al 21%, quella indiana del 23%, contro il 5,2% di Stati Uniti ed Europa Occidentale e il 2,4% del Giappone). Prendendo ad esempio il caso cinese, notiamo che sempre secondo McKinsey, il solo mercato azionario cinese nel 2010 ha raccolto il 45% del controvalore di tutte le IPO mondiali – contro il 12,5% della borsa di New York –, con i depositi bancari cinesi che, dal 2009 al 2010, sono cresciuti del 12,4%. Secondo la Banca Mondiale, la Cina è il più grande risparmiatore al mondo, con uno stock di risparmio che nel 2010 ammontava a 3.063 miliardi di dollari. Per cui a livello di stock finanziario, nonostante il dominio dei paesi più ricchi, stiamo anche in questo caso assistendo all’affermarsi dei paesi emergenti. d) Il fattore produttivo lavoro Il lavoro, inteso come occupazione retribuita col denaro, è il punto di contatto tra le famiglie e le imprese, con gli individui che prestando le proprie energie intellettuali e fisiche al processo di produzione ottengono in cambio denaro con cui possono acquistare i beni e i servizi necessari a soddisfare i propri bisogni. Per disoccupazione s’intende invece il numero di persone che non hanno un lavoro retribuito e che lo stanno cercando. La somma delle persone

occupate e di quelle disoccupate si definisce forza lavoro. Per quantificare il fattore produttivo lavoro di un’economia si considera la forza lavoro. L’area geografica Pacifico ed Asia dell’Est è il serbatoio mondiale di lavoratori, la zona dove si ammassa il più grande ammontare di fattore produttivo lavoro, pari a 1.200 milioni di individui (vedi Grafico 7). Quest’area geografica (che comprende paesi come Cina, Indonesia, Corea e Giappone) ha registrato un aumento pari al 62% della propria forza lavoro nel periodo che va dal 1980 al 2009, grazie al forte incremento demografico registrato dai paesi emergenti. Diversamente, nel periodo considerato, l’incremento più contenuto di forza lavoro è avvenuto in Europa ed Asia Centrale (+16%) ed in Nord America (+44%), regioni caratterizzate da un più alto reddito pro capite.

Grafico 7: Contributo all’aumento della forza lavoro per area geografica dal 1980 al 2009

Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

e) Il ruolo del progresso tecnologico A parità di capitale e lavoro, una determinata economia può ottenere una produzione maggiore di un’economia tecnologicamente più arretrata. Ma il primo vincolo di questa funzione deriva dal fatto che esistono dei rendimenti decrescenti sia del capitale, che del lavoro: aumentando l’uno e mantenendo costante l’altro (o vice versa), la produzione di beni e servizi subirà andamenti via via decrescenti (ad esempio, se in un ufficio abbiamo tre impiegati e due computer, un

computer aggiuntivo aumenterà molto la produttività, ma il secondo porterà ad un bassissimo, quasi nullo aumento di produttività). Il capitale può essere scomposto in due tipologie: il capitale fisico (macchinari, computer, fabbricati e via dicendo), che dipende dagli investimenti, a loro volta determinati dai risparmi di un’economia (tramite il sistema finanziario la parte di reddito non consumato e quindi risparmiato diventerà investimento) e il capitale umano, cioè le abilità e le capacità dei lavoratori, che dipendono dall’istruzione e dalla formazione che viene loro fornita. La prima implicazione dell’esistenza di rendimenti decrescenti del capitale (in particolare fisico), implica che la sola accumulazione di capitale (quindi il solo tasso di risparmio) non è in grado di sostenere in modo permanente un maggior tasso di crescita del PIL. Emerge quindi la centralità del progresso tecnologico come determinante della crescita economica. Per capire il livello tecnologico raggiunto dai diversi paesi, e in particolare da quelli più ricchi rispetto a quelli non ancora sviluppati, ho preso in considerazione alcuni indicatori che mostrano il livello di diffusione di alcune tecnologie dell’ICT (diffusione dei cellulari e utilizzatori di internet), altri che manifestano lo sforzo delle varie economie per aumentare il proprio livello tecnologico (numero di articoli pubblicati su riviste scientifiche e spesa in ricerca e sviluppo in rapporto al PIL) e infine il grado di tecnologia delle imprese di quel paese (misurato dal livello di tecnologia che viene esportato). Quello che emerge è che i paesi più ricchi sono anche quelli più avanzati dal punto di vista tecnologico. Considerando la penetrazione

di cellulari e internet (due prodotti simbolo della rivoluzione dell’ICT), notiamo che secondo quanto reso disponibile dalla Banca Mondiale siamo arrivati ad un punto di saturazione per quanto riguarda i cellulari e ad una penetrazione pari al 75% per quanto riguarda internet (mentre siamo rispettivamente intorno all’80% e al 40% per i paesi a reddito medio-alto). Inoltre, l’81% delle ricerche pubblicate su riviste scientifiche nel 2007 proveniva da paesi ad alto reddito (vedi Grafico 8).

Grafico 8: Numero di articoli pubblicati su riviste accademiche scientifiche per classi di reddito dal 1981 al 2007

Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

Sempre secondo la Banca Mondiale, Giappone, Stati Uniti e Unione Europea mantengono comunque (nonostante la debole crescita economica degli ultimi anni) un investimento in ricerca e sviluppo che è superiore all’1,5% del PIL, rispetto a valori medi che per i paesi emergenti vanno dallo 0,5% all’1% del PIL (ma con l’eccezione della Cina, che nel 2007 già investiva l’1,44% del proprio reddito nella ricerca). La situazione cinese è l’emblema della veloce convergenza, anche dal punto di vista tecnologico, che sta portando i paesi emergenti (e in particolar modo quelli del continente asiatico) ad avvicinarsi agli standard dei paesi sviluppati. La Banca Mondiale stima che l’export di tecnologia da parte del dragone cinese abbia raggiunto nel 2009 un importo pari a 348 miliardi di dollari, consacrando quindi al primo posto la Cina, che si è trovata davanti a Germania e Stati Uniti, con un valore rispettivamente pari a 143 e 141 miliardi di dollari. Le così dette “tigri asiatiche” (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore) insieme alle “tigri minori” (Malaysia, Indonesia, Thailandia e Filippine), nel 2009 hanno esportato tecnologia per un valore pari a 310 miliardi di dollari. Ma anche sul fronte degli articoli pubblicati su riviste scientifiche, notiamo che i paesi non ancora sviluppati hanno quasi

triplicato la quota di pubblicazioni, passate dal 6,63% del 1986 al 19,25% del 2007 (vedi Grafico 8).

II La dipendenza dai combustibili fossili Torna all’indice Energia primaria ed energia elettrica Negli ultimi 20 anni, abbiamo assistito ad un incremento del consumo mondiale annuo di energia primaria pari al 51% e nel 2011 sono stati consumati 147.296 TWh di energia (vedi Grafico 9). La parte più consistente di questo incremento annuo registrato dal 1991 al 2001 (pari a 50.037 TWh) è avvenuto nell’ultimo decennio (per l’esattezza si tratta del 69% dell’incremento mondiale annuo dei consumi energetici), prevalentemente ad opera dei paesi non-OCSE (per

una

quota

pari

al

96%).

Questo

risultato

dipende

dall’impressionante crescita economica registrata dai paesi emergenti a partire dal nuovo millennio, che ha fatto letteralmente esplodere la domanda di energia di queste economie. La Cina ha visto crescere del 151% i propri consumi energetici dal 2001 al 2011 ed è ora il più grande consumatore di energia al mondo – ne assorbe oltre 1/4 del totale (vedi Tabella 1). Ma nell’ultimo decennio si sono impennati anche i consumi energetici di altri paesi emergenti: India +88%, Arabia Saudita +77% e Iran +75%.

Grafico 9: Consumo energetico mondiale per aree geografiche dal 1965 al 2011 (in TWh)

Fonte: Rielaborazione dati BP Statistics

Il 33% dell’energia prodotta sul nostro pianeta proviene dal petrolio, il 30% dal carbone ed il 24% dal gas naturale, cioè l’87% di tutta

l’energia necessaria a garantire lo stile di vita degli oltre 7 miliardi di persone che popolano il nostro pianeta proviene dai tre combustibili fossili e non è quindi rinnovabile (vedi Grafico 10). Il resto proviene per il 6% dall’idroelettrico, il 5% dal nucleare e poco meno del 2% da fonti rinnovabili diverse dall’idroelettrico (eolico, geotermico, biomasse, eccetera).

Tabella 1: I 10 maggiori consumatori di energia per il 2011

Fonte: Rielaborazione dati BP Statistics

Grafico 10: Consumi energetici mondiali del 2011 per fonte

Fonte: Rielaborazione dati BP Statistics

In genere, i paesi sviluppati (paesi OCSE) utilizzano una maggior percentuale di petrolio, gas naturale e nucleare, mentre quelli in via di sviluppo privilegiano il carbone; a tal proposito basti pensare che, secondo BP, la Cina nel 2011 produceva il 70% della propria energia dal combustibile solido. Secondo l’EIA, oltre la metà dell’energia che viene consumata annualmente sul nostro pianeta è destinata al settore industriale – che comprende l’industria manifatturiera, ma anche il settore agricolo, quello minerario e delle costruzioni, il 26% al settore dei trasporti, il 14% a quello residenziale ed infine l’8% a quello commerciale. Sempre secondo l’EIA, notiamo che l’energia prodotta dal settore industriale proviene per il 28,9% dai

combustibili liquidi, per il 26% dal carbone, per il 23% dal gas naturale, per il 14,6% all’energia elettrica e infine per il 7,4% dall’energia proveniente da fonti rinnovabili. Il settore dei trasporti (trasporto di persone e merci su strada, ferrovia, aria, acqua e gasdotti/oleodotti), assorbe circa il 26% del totale dell’energia consumata e proviene per il 95,2% dai combustibili liquidi e per il 3,7% dal gas naturale. Il settore residenziale (inteso come consumo di energia da parte di famiglie o singoli individui) assorbe circa il 14% dell’energia consumata dall’umanità, derivante per il 40,2% dal gas naturale (utilizzato per riscaldarsi, lavarsi e cucinare), per il 31,3% dall’elettricità, per il 19% dai combustibili liquidi e per l’8,5% dal carbone. Il settore commerciale (cioè tutte quelle istituzioni private e pubbliche che forniscono servizi a famiglie, imprese e settore pubblico) pesa per l’8% del totale dell’energia consumata globalmente (il 50% dell’energia consumata dal settore commerciale proviene dall’energia elettrica, il 29,5% dal gas naturale). L’energia elettrica primaria proviene dalle risorse naturali quali l’acqua (idroelettrico), il vento (l’eolico), il sole (solare e fotovoltaico), le maree e le onde. L’energia elettrica secondaria proviene invece dal calore della fissione nucleare, dal calore dei sistemi geotermici o bruciando combustibili primari come il petrolio, il carbone, il gas naturale e i rifiuti, oppure da combustibili rinnovabili, come il legno o i biocarburanti. Secondo BP, il consumo

mondiale di energia elettrica dal 2001 al 2011 è aumentato del 41%, raggiungendo nel 2011 i 22.018 TWh. Il consumo di energia elettrica è cresciuto di più rispetto al consumo di energia primaria (che comprende anche l’energia elettrica) che nello stesso periodo è cresciuto del 30%. Nel 2011, i paesi OCSE hanno consumato il 49% dell’energia elettrica prodotta mondialmente, in calo rispetto alla quota del 2001, pari al 62% del totale. Il 40% dell’energia elettrica è stata consumato nei paesi appartenenti ad Asia e Pacifico, il 24% in Europa ed Eurasia, il 22% in Nord America, il 6,5% in America Latina e Caraibica, il 4% in Medio Oriente ed il 3% in Africa. Sempre secondo BP è la Cina è il paese che divora il più grande quantitativo di energia elettrica (ma anche di energia primaria), con un consumo che nel 2011 è stato pari a 4.700 TWh, ovvero il 21,3% del totale mondiale (e una crescita nell’ultimo decennio pari al 217%). Seguono gli Stati Uniti, con 4.308 TWh di energia elettrica consumata (ed una quota pari al 19,6% del totale) e il Giappone, con 1.104 TWh consumati (e una quota pari al 5% del totale). Globalmente, solamente il 30% dell’energia che viene consumata per produrre energia elettrica viene effettivamente utilizzata sotto forma di energia elettrica, mentre il 70% viene dispersa nei processi di conversione e distribuzione (vedi Grafico 11). Ad esempio, secondo l’EIA, una centrale a carbone è in media efficiente al 38% e questo significa che poco più di 1/3 dell’energia contenuta nel carbone viene effettivamente convertita in energia elettrica, mentre il resto si disperde nell’atmosfera. Ma occorre inoltre aggiungere le perdite

della rete di distribuzione elettrica – che secondo l’EIA nel 2009 erano pari all’8,82% dell’energia elettrica prodotta mondialmente – e l’uso poco efficiente che viene fatto dell’energia elettrica (una lampadina ad incandescenza utilizza solamente il 5,5% dell’energia che le viene fornita dalla rete per l’illuminazione, il restante 94,5% viene disperso sotto forma di calore).

Grafico 11: Fonti di produzione di energia elettrica e perdite di conversione e distribuzione per il 2008

Fonte: Rielaborazione dati EIA

Le perdite di energia elettrica durante la fase della distribuzione sono maggiori nei paesi in via di sviluppo (secondo l’EIA pari al 26% dell’energia prodotta in India, al 16% di quella prodotta in America Latina, al 13% di quella prodotta in Medio Oriente e al 12% di quella prodotta in Africa) rispetto a quelli sviluppati, anche se non mancano le eccezioni, come nel caso della Cina (circa 5%). Sempre secondo l’EIA, a livello mondiale l’energia elettrica viene prodotta dalla combustione del carbone per il 43%, dall’utilizzo di fonti rinnovabili per il 19%, dalla combustione del gas naturale per un altro 19%, dalle centrali nucleari per il 14% ed infine, dall’utilizzo di combustibili liquidi per il 5%. Il 47% dell’energia elettrica prodotta viene poi assorbita dal settore industriale, il 28% dal settore residenziale, il 23% dal settore commerciale ed infine, solamente il 2% dal settore dei trasporti. Fonti esauribili: i combustibili fossili Secondo BP, nel 2011 le riserve di petrolio accertate ammontavano a 1.652,6 miliardi di barili o l’equivalente di 234,3 miliardi di tonnellate. Di queste, il 48% si trova in Medio Oriente, il 20% in America Latina e Caraibica (in prevalenza in Venezuela), il 12% in Nord America e il 7,7% nei paesi ex-URSS. La quasi totalità delle

riserve di petrolio si trovano nei paesi non-OCSE (l’86%), che sono anche i principali produttori al mondo, con una quota pari al 78,3% della produzione mondiale. Dato l’attuale livello di produzione, occorreranno altri cinquantaquattro anni per esaurire le riserve di petrolio accertate al 2011. Gli Stati Uniti sono ancora il maggior consumatore al mondo di petrolio, con una quota pari al 21,4% del totale, nonostante la crescente domanda dei paesi emergenti (la Cina è il secondo consumatore al mondo, dopo che ha più che raddoppiato i propri consumi nell’ultimo decennio, l’Arabia Saudita ha aumentato i propri consumi del 76%, Singapore del 69%, l’India del 52%).

Tabella 2: Primi 15 paesi per riserve accertate di petrolio nel 2011 (in rosso indice R/P < 40 anni)

Fonte: Rielaborazione dati BP Statistics

I paesi sviluppati (OCSE) sono ancora i principali consumatori al mondo di petrolio (52% del totale). Infatti, Stati Uniti ed Europa (ma anche la Cina) hanno dovuto ricorrere a massicce importazioni di petrolio, perché la produzione locale di greggio non è sufficiente a mantenere l’attuale livello di sviluppo economico di queste regioni. r interessante notare come gli USA, la più grande economia del mondo, sempre secondo BP hanno dovuto importare dall’estero quasi la metà (il 47,3%) del petrolio consumato internamente nel 2011, proveniente, per il 30,5% da America Latina e Caraibica, per il 24% dal Canada, per il 17,1% dal Medio Oriente e per il 12,2% dall’Africa Sub-Sahariana. Anche la Cina – che è il secondo consumatore al mondo di petrolio –, si trova in una situazione che è più o meno analoga a quella degli Stati Uniti, avendo, nel 2011, dovuto ricorrere a importazioni nette per 1.843 milioni di barili di petrolio (vedi Tabella 3), pari al 52% del petrolio consumato internamente.

Tabella 3: Export netto di petrolio per area geografica nel 2011

Fonte: Rielaborazione dati BP Statistics

Secondo BP, nel 2011 la Cina si è approvvigionata prevalentemente dal Medio Oriente (per il 42% delle importazioni), ma anche dai paesi dell’ex-URSS (per il 14,8%) e dall’Africa Sub-Sahariana (per il 12,9%). Nonostante le nuove riserve scoperte (cresciute a un tasso maggiore rispetto a quello della produzione), la produzione di petrolio dell’ultimo decennio è aumentata dell’11,8%, troppo poco per far fronte alla crescente domanda, se si considera che il prezzo del petrolio degli ultimi dieci anni, sempre secondo BP, è passato (in

dollari costanti) dai 31,05 dollari per barile del 2001 ai 111,26 dollari per barile del 2011, registrando quindi un aumento del 258,3%. Il forte incremento del prezzo del petrolio degli ultimi 10 anni è da addebitarsi quasi esclusivamente dalla crescente domanda di petrolio proveniente delle economie emergenti (Cina in testa), piuttosto che da comportamenti collusori dell’OPEC – il cartello dei produttori di petrolio. Anche se l’OPEC riunisce il 72% delle riserve mondiali di petrolio, rappresenta comunque una più bassa percentuale della produzione mondiale di petrolio (il 42%) e fatica a far rispettare le proprie decisioni, con le quote di produzione assegnate ai singoli paesi che non sono quasi mai rispettate a causa di comportamenti da “free raiders” da parte dei singoli membri, che confermano a pieno la morale contenuta nella storia del dilemma del prigioniero. Questo ci dovrebbe far riflettere sul fatto che i nuovi giacimenti che vengono scoperti (le riserve accertate) sono di qualità più scarsa o presentano più alti costi di estrazione (la media mondiale tenuti conto i costi sociali dei grandi esportatori di petrolio si aggira intorno agli 80 dollari al barile) in quanto si tratta di petrolio non convenzionale, che non giustifica a pieno il loro sfruttamento nonostante il già alto prezzo raggiunto dal petrolio in questi ultimi anni. Secondo l’OPEC, il 54% del petrolio consumato nel 2008 è andato al settore dei trasporti, con il trasporto su gomma (automobili, veicoli commerciali e a due ruote) che ne ha assorbito il 76% del totale. A trainare la domanda di petrolio nel settore dei trasporti su strada ci sono automobili e veicoli commerciali. Sempre secondo l’Opec,, nel 2008

sul nostro pianeta erano presenti un totale di 841 milioni di automobili e 176 milioni di veicoli commerciali, prevalentemente nei paesi sviluppati (paesi OCSE), con il 69% del totale delle automobili e il 53% dei veicoli commerciali. Ma l’organizzazione che raggruppa i principali esportatori di petrolio, stima che nel 2035 nel mondo ci saranno 441 milioni di veicoli commerciali e 1.660 milioni di automobili e che di questi, solamente il 31% dei veicoli commerciali e il 43% delle automobili saranno nei paesi OCSE. La maggior parte della domanda futura di petrolio proverrà quindi dai paesi in via di sviluppo. Le riserve mondiali di gas naturale (aggiornate al 2011), secondo BP ammontano a 208.400 miliardi di m3 e si trovano per il 74% tra i paesi dell’ex-URSS e il Medio Oriente, con quattro paesi (Russia, Iran, Qatar e Turkmenistan), che ne detengono il 61% del totale, mentre nei paesi sviluppati (OCSE) si trova solamente il 9% delle riserve mondiali di gas naturale. Dato l’attuale livello di produzione, occorrono ancora sessantatre anni per esaurire le riserve del pianeta accertate al 2011. Sempre secondo BP, i 2/3 del gas naturale viene prodotto da Nord America, paesi dell’ex-URSS e Medio Oriente, con Stati Uniti e Russia che da soli bastano per il 38% della produzione mondiale (e sono anche i principali consumatori). I paesi OCSE pesano per il 48% dei consumi mondiali, mentre i paesi dell’exURSS per il 19% del totale. Tabella 4: Primi 10 paesi per consumo di gas naturale nel 2011

Fonte: Rielaborazione dati BP Statistics

La multinazionale inglese indica in Giappone, Europa e Stati Uniti i maggiori importatori di gas naturale, mentre Russia, Qatar e Norvegia sono i principali esportatori. A differenza del petrolio, per

cui il commercio estero secondo BP pesa per il 65% della produzione mondiale, il gas naturale viene meno commercializzato, infatti, la quota di gas naturale che passa i confini del luogo di produzione è pari al 31% della produzione mondiale. Il commercio di gas naturale è limitato all’interno di tre grandi macro-aree, ovvero Europa ed Eurasia, Nord America, Medio Oriente e Asia Orientale, a causa degli alti costi di liquefazione e rigassificazione del trasporto via mare, per cui i 2/3 del gas che viene commercializzato all’estero per BP viaggia all’interno di gasdotti. In generale, notiamo che l’Europa si rifornisce da Russia e Nord Africa, l’Asia Orientale dal Medio Oriente e gli Stati Uniti dal Canada (il 90% degli scambi di gas fra i due paesi avviene tramite gasdotto). Il prezzo del gas naturale scambiato in Europa e in Giappone ha registrato un notevole incremento nell’ultimo decennio (dal 2001 al 2011), registrando sempre secondo BP, rispettivamente un +190% e +118%, a causa dell’aumento della domanda dei paesi emergenti asiatici (Turchia, Cina ed India). Diversamente, il prezzo dello Henry Hub statunitense, che era piuttosto correlato con gli altri due indici e in particolare con il petrolio fino al 2008, è sceso bruscamente, registrando un performance negativa del 55% a causa del recente sfruttamento dello shale gas negli Stati Uniti. Secondo BP, le riserve mondiali di carbone contabilizzate alla fine del 2011 sono pari a 860.938 milioni di tonnellate, con Stati Uniti e Russia che ne detengono il 46%, con i paesi OCSE con il 44% del

totale. Dato l’attuale livello di produzione, le riserve accertate al 2011 saranno esaurite fra centododici anni. I 2/3 della produzione mondiale di carbone avviene nei paesi della regione dell’Asia e del Pacifico, che pesano per il 69% dei consumi mondiali, dopo che dal 2001 al 2011 hanno visto incrementare il consumo di carbone del 120% (vedi Grafico 12).

Grafico 12: Produzione mondiale di carbone per area geografica dal 1981 al 2011 (in miliardi di tonnellate)

Fonte: Rielaborazione dati BP Statistics

La Cina, da sola, consuma quasi la metà di tutto il carbone che viene consumato sul nostro pianeta, e nell’ultimo decennio ha visto aumentare il proprio consumo del 155% (vedi Tabella 5). La Malaysia ha aumentato il proprio consumo di carbone del 406%, l’Indonesia del 161%, l’India del 103%. Sempre secondo BP, i maggiori importatori al mondo di carbone sono i paesi dell’Asia e del Pacifico (Giappone, Cina e Corea del Sud), mentre Australia, Indonesia e Russia ne sono i maggiori esportatori.

Tabella 5: Primi 10 paesi per consumo di carbone nel 2011

Fonte: Rielaborazione dati BP Statistics

Il prezzo del carbone sul mercato europeo, americano e giapponese, ha subito un notevole incremento negli ultimi dieci anni, a causa della crescente domanda asiatica. Basti pensare che, secondo BP, la quotazione del combustibile solido sul mercato dell’Europa NordOccidentale, negli ultimi dieci anni è aumentata del 211,4%,

toccando i 121,54 dollari per tonnellata. Quello americano, invece, sempre dal 2001 al 2011 ha visto incrementare la propria quotazione del 74,2%, mentre il prezzo d’importazione giapponese del carbone coking, più sensibile alla domanda asiatica, è balzato del 454%, raggiungendo il prezzo di 229,12 dollari per tonnellata (con un incremento del 44% dal 2010 al 2011 a causa dell’incidente di Fukushima, che ha portato il Giappone a ricorrere pesantemente al carbone). Il 43% dell’elettricità prodotta nel mondo proviene da centrali a carbone (vedi Grafico 11), inoltre, circa i 2/3 dell’acciaio prodotto globalmente proviene da ferro fuso in fornaci che utilizzano carbone (in prevalenza coke) come fonte energetica per raggiungere le alte temperature richieste dal procedimento, ed in generale viene utilizzato come fonte energetica di tutte quelle produzioni industriali molto dispendiose di energia (nella produzione di cemento, di alluminio, di fibre di carbonio, di metalli di silicio e via dicendo). Fonti esauribili: l’energia nucleare Secondo BP, nel 2011 sono stati prodotti 2.648,7 TWh di energia nucleare proveniente per il 35% dal Nord America e per il 34% dall’Unione Europea (i paesi OCSE rappresentano l’81% dell’intera produzione mondiale). Da notare che contrariamente a quanto avvenuto con tutte le altre fonti energetiche, che sono state sospinte dalla forte domanda mondiale di energia, negli ultimi 10 anni la produzione di energia nucleare è addirittura diminuita (-0,24%). Anche in questo caso i paesi emergenti hanno notevolmente

aumentato la propria produzione (Cina +394%, India +71%), ma il forte incremento è stato bilanciato dalla diminuzione della produzione nell’ultimo decennio per motivi legati alla sicurezza delle centrali nucleari o in seguito agli alti costi dell’energia nucleare (Giappone -49%, Germania -37%, Regno Unito -23%). Per produrre energia nucleare si utilizza come combustibile l’uranio, le cui riserve mondiali ammontano a 5,47 milioni di tonnellate e si trovano per il 23% in Australia, il 15% in Kazakistan e per il 10% in Russia. Occorreranno circa centoventi anni per esaurire le riserve di uranio del nostro pianeta dato l’attuale livello di produzione. Dal 1988 al 2004, il prezzo dell’uranio si è mantenuto piuttosto basso (nel 2004 secondo BP era pari a 20 dollari per libbra), ma a partire dal 2005 la domanda mondiale si è impennata (in parte per l’entrata sul mercato della Cina), superando la quantità di uranio disponibile, con la conseguenza che nel 2007, il prezzo di una libbra di uranio ha toccato i 138 dollari (+590% in soli 3 anni), per poi però scendere velocemente con la crisi finanziaria del 2009 (quando toccò i 42 dollari per libbra, comunque sempre più del doppio del prezzo di cinque anni prima), a causa della contrazione della domanda mondiale di energia. Nel processo della fissione nucleare – necessario a far evaporare l’acqua e quindi a produrre energia elettrica tramite una turbina – viene utilizzato come combustibile l’uranio, un elemento chimico caratterizzato da un’alta densità – naturalmente radioattivo –, che si

trova nella crosta terrestre con un’abbondanza pari a 1,3 parti per milione (quando ad esempio il ferro è 52.157 ppm). Per produrre energia nucleare viene prevalentemente utilizzato l’uranio-235, un combustibile in grado di produrre energia con una concentrazione 3 milioni di volte maggiore rispetto alla fonte più utilizzata per produrre energia elettrica, cioè il carbone. Nel febbraio del 2010, nel mondo c’erano in funzione 436 reattori nucleari e ulteriori 53 in costruzione (di cui 20 in Cina). Non esistono sostituti o alternative all’utilizzo dell’uranio come combustibile nelle centrali nucleari, anche se esistono comunque alcune centrali progettate per funzionare anche con un combustibile misto, che però presenta sempre una certa percentuale di uranio (e plutonio). La produzione di energia elettrica tramite la fissione nucleare, pur essendo di fatto a emissioni zero, presenta però un grande problema, che è rappresentato dal trattamento di quel 3% di rifiuti radioattivi più pericolosi (contenenti il 95% della radioattività totale del processo), che devono essere stoccati in luoghi sicuri e protetti per un lunghissimo ammontare di tempo, per evitare la contaminazione con l’esterno. Inoltre, esiste sempre una probabilità, per quanto piccola, che si giunga a un incidente nucleare che porti alla fuoriuscita di materiale radioattivo in grado di contaminare gravemente l’ambiente (come nel caso di Chernobyl in Ucraina nel 1986 e di Fukushima in Giappone nel 2011). Esiste poi un ulteriore rischio, cioè che le centrali nucleari diventino in futuro un bersaglio militare o terroristico, rischio che ci porterebbe dritti verso uno scenario da ecatombe nucleare. Oltre a

essere una fonte energetica non rinnovabile, il nucleare presenta anche numerosi problemi, che sono poi gli stessi che hanno frenato il suo utilizzo su larga scala in un mondo sempre più affamato di energia. Fonti rinnovabili Secondo BP, nel 2011 sono stati prodotti 4.358 TWh di energia da fonti rinnovabili, proveniente per l’80% dall’idroelettrico, per il 10% dall’eolico, l’8,4% da geotermico, biomasse ed altre fonti ed infine l’1,3% da solare e fotovoltaico. La Cina è il primo produttore al mondo di energia idroelettrica (col 20% del totale), che a livello mondiale viene prodotta per il 60% nei paesi non-OCSE (mentre per le altre rinnovabili, il 76% viene prodotto dai paesi OCSE) . Come per altre fonti energetiche, gli ultimi dieci anni sono stati caratterizzati dal forte incremento della produzione dei paesi emergenti. Sempre secondo BP notiamo che la produzione di energia idroelettrica da parte della Cina è aumentata del 150%, quella della Turchia del 118%, dell’India dell’83%, mentre quella del Brasile del 60%.

Grafico 13: Produzione mondiale di energia da altre fonti rinnovabili per area geografica dal 1990 al 2011 (in TWh)

Fonte: Rielaborazione dati BP Statistics

La produzione mondiale di energia proveniente da eolico, solare, geotermico, biomasse e altre fonti, ha registrato una vera e propria impennata nell’ultimo decennio, con un aumento del 268% (vedi Grafico 13), con i paesi OCSE che pesano per la maggior parte delle nuove fonti rinnovabili (ovvero per il 76% dell’intera produzione mondiale del 2011). Europa ed Eurasia hanno contribuito a produrre il 43% dell’energia da fonti rinnovabili differenti dall’idroelettrico del 2011 (in prevalenza nell’Unione Europea, con il 96% del totale), il Nord America ne ha prodotto poco più di 1/4 del totale, mentre Asia e Pacifico ne hanno prodotto il 24%. Secondo BP, la

produzione mondiale di biocarburanti è stata pari a 431,46 milioni di barili, con il Nord America che ne ha prodotto il 49,6%, seguito da America Latina e Caraibica con 118 milioni di barili ed Europa ed Eurasia con 72 milioni di barili, ovvero il 16,7% del totale. Dal 2001 al 2011, la produzione mondiale di biocarburanti si è incrementata di quasi sei volte, con gli Usa che ne hanno prodotto il 48% del totale, seguiti dal Brasile con il 22,4%.

III Il ruolo strategico delle materie prime minerarie Torna all’indice La Cina domina la produzione mondiale Alla base della nostra economia ci sono le materie prime minerarie, presenti più o meno direttamente in quasi tutti i beni e servizi che utilizziamo. Ad esempio, un’automobile contiene in media più di una tonnellata di ferro e acciaio, 108 chilogrammi di alluminio, 23 di carbonio, 19 di rame e selenio, 10 di zinco e quantità più piccole di più di 30 altri elementi chimici, incluso titanio, platino e oro. Rame e alluminio servono per trasmettere l’elettricità dalle centrali elettriche alle nostre case, piombo, cadmio, nickel e litio servono per le batterie dei nostri cellulari, un frigorifero contiene alluminio, rame, ferro, nickel, zinco, i fertilizzanti utilizzati in agricoltura provengono da fosfato e carbonato di potassio, mentre selenio, fosforo e zinco vengono aggiunti nei mangimi destinati a polli e bovini, per

riequilibrare la loro dieta. Negli ultimi venti/trent’anni, la domanda mondiale di minerali e metalli è cresciuta molto rapidamente e di conseguenza

è

aumentato

il

peso

dell’industria

mineraria

nell’economia mondiale.

Grafico 14: Produzione mondiale di minerali e metalli per gruppo di appartenenza dal 1990 al 2009 (in milioni di tonnellate)

Fonte: World Mining Data

Il consumo di minerali e metalli è correlato positivamente con il reddito pro capite, perché all’aumentare del reddito aumentano anche i consumi. Gli ultimi dieci/quindici anni sono stati caratterizzati dall’emergere del ruolo dei paesi emergenti (Cina sopra tutti, ma anche India, Brasile, Russia, Indonesia), che insieme all’aumento del proprio reddito pro-capite hanno visto crescere l’urbanizzazione e quindi il consumo di minerali e metalli. A conferma di quanto detto, si può vedere il balzo che, a partire dal nuovo millennio, ha registrato la produzione mondiale di minerali e metalli, che in soli sette anni (dal 2001 al 2009) è aumentata del 54% (vedi Grafico 14). L’incremento più consistente è avvenuto nella produzione di minerali ferrosi (+86% nei sette anni considerati), seguiti da quelli non ferrosi (+43%), quelli industriali (+30%) ed infine quelli preziosi (+9%). Il ferro è il metallo più strategico a mantenere l’attuale stile di vita della popolazione mondiale, con la produzione del 2009 che secondo il World Mining Data è stata pari a 1.125 milioni di tonnellate. Seguono poi il sale, con una produzione di 257 milioni di tonnellate, la bauxite, con 185 milioni di tonnellate prodotte nel 2009, il gesso, con 137 milioni di tonnellate ed infine lo zolfo, con una produzione pari a 59 milioni di tonnellate. Sale, gesso e zolfo sono classificati come minerali industriali. Sempre secondo il World Mining Data, la Cina è il più grande produttore al mondo di materie

prime minerarie, con una produzione che nel 2009 era pari a 489 milioni di tonnellate, ovvero il 24% del totale. La Cina ha prodotto il 25% della produzione mondiale di minerali ferrosi, il 19% di quelli non ferrosi, il 24% di quelli industriali e il 13% di quelli preziosi. Al secondo posto troviamo l’Australia, con una produzione di 339 milioni di tonnellate di minerali e metalli (e il 28% del totale dei minerali non ferrosi), seguita dal Brasile, con una produzione pari a 235 milioni di tonnellate, l’India (193 milioni di tonnellate) e gli Stati Uniti (110 milioni di tonnellate) e la Russia, con 86 milioni di tonnellate di produzione di minerali e metalli. Esiste chiaramente un limite fisico alla produzione delle varie materie prime minerarie, limite che viene sancito dalla loro abbondanza nella crosta terrestre. L’alluminio – che viene principalmente estratto dai minerali di bauxite – è fra gli elementi chimici più presenti nella crosta terrestre secondo il British Geological Survey (con 84.129 ppm), ed è seguito dal ferro (con 52.157 ppm) e il magnesio (con 28.104 ppm); mentre elementi chimici piuttosto rari sono l’arsenico (2,5 ppm), il tungsteno (1 ppm) od il tantalo (0,7 ppm). Fra i minerali più rari in assoluto troviamo i metalli preziosi, come il platino (0,0015 ppm), l’oro (0,0013 ppm) e l’iridio (0,000037 ppm). Da notare che solamente quattro dei quindici maggiori produttori di minerali al mondo sono paesi sviluppati (si tratta degli Usa, dell’Australia, della Germania e del Canada). I paesi sviluppati sono anche quelli che in genere presentano il maggior numero di istituzioni che permettono di avere una certa stabilità politica (democrazia, stato di diritto, divisione dei

poteri, garanzia di un processo equo, rispetto dei diritti di proprietà, eccetera) e quindi dove il rischio di un’interruzione delle forniture di materie prime minerarie al mercato globale è minore. Secondo il World Mining Data, la maggior parte (per l’esattezza il 61%) della produzione mondiale di minerali e metalli avviene in paesi la cui situazione politica è critica o estremamente critica e questo espone l’economia mondiale al rischio di atti o fatti non previsti (cioè guerre, misure protezionistiche o nazionalizzazioni) in grado di ridurre la disponibilità di minerali e metalli. Secondo il British Geological Survey, gli elementi chimici (o gruppi di elementi chimici) essenziali a mantenere l’attuale grado di sviluppo economico del nostro pianeta sono cinquantadue. L’organizzazione britannica ha elaborato un indice in grado di valutare il rischio di interruzioni nella fornitura di ognuno dei cinquantadue elementi. Nel valutare il rischio di fornitura, questo indice considera: una misura della scarsità di ogni singolo elemento nella crosta terrestre del nostro pianeta, la concentrazione o la diffusione di riserve e luoghi di produzione nel pianeta e la stabilità politica dei luoghi dove si concentrano le risorse minerarie.

interessante il caso delle terre

rare, un insieme di diciassette elementi chimici di cui la Cina detiene il monopolio. Il primo settembre del 2009 Pechino ha intrapreso una decisione strategica, volta a preservare le proprie riserve future e garantirsi degli extra-profitti: ha deciso di diminuire la produzione interna di terre rare per far crollare le esportazioni dei preziosi metalli. Questo provvedimento ha subito fatto lievitare il prezzo

medio delle terre rare, che è passato dai 7.100 dollari per tonnellata del 2009 ai 14.500 del 2010 (+104% in un solo anno!).

Tabella 6: Materie prime minerarie per cui la Cina è il principale produttore mondiale nel 2009 e quota mondiale in percentuale

Fonte: rielaborazione dati World Mining Data

Secondo l’indice Risk List del 2011, un indice elaborato dal British Geological Survey per valutare il rischio di interruzione della fornitura dei cinquantadue elementi (o gruppi di elementi) chimici che servono a far funzionare l’economia mondiale, antimonio, metalli del gruppo del platino e mercurio sono i composti chimici che presentano il più alto rischio di vedere interrotta la propria fornitura nei prossimi anni e sono seguiti da tungsteno, terre rare, niobio e stronzio. Titanio, alluminio, cromo, ferro e zolfo sono invece i metalli che non dovrebbero presentare particolari rischi di fornitura per i prossimi anni. La Cina domina la produzione dei minerali e dei metalli del nostro pianeta e dei sette metalli che nei prossimi anni sono più a rischio di veder interrotta la propria fornitura, soltanto i metalli del gruppo del platino e il niobio non vedono la Cina come primo produttore secondo il British Geological Survey. Oltre a essere il principale produttore di minerali e metalli in termini assoluti, secondo il World Mining Data, la Cina è il primo produttore di ben ventisette dei cinquantadue elementi o gruppi di elementi chimici essenziali per l’economia del pianeta, quando parliamo di materie prime minerarie, occorre aver presente che siamo tutti più o meno dipendenti dalla Cina. Dei ventisette minerali e metalli per cui la Cina è il primo produttore al mondo, in ben nove casi, da sola ne produce oltre la metà della produzione mondiale (è il

caso di tungsteno, antimonio, bismuto, gallio, germanio, terre rare, fluorite, grafite e magnesite). La Cina è inoltre il secondo produttore al mondo di bauxite (con il16% del totale), asbesto (18%), bentonite (25%), diatomite (28%), zolfo (16%), il terzo produttore al mondo di argento (con il 13% del totale), di feldspato (12% del totale), caolinio (12% del totale), zirconio (12% del totale), il quarto produttore al mondo di titanio (10% della produzione del 2009) e rame (7% del totale) e infine il quinto produttore al mondo di litio (7% del totale) e idrossido di potassio (10% del totale). Focus su cinque metalli o gruppi di metalli indispensabili Il rame è un metallo non ferroso e fra i più potenti conduttori sia di elettricità che di calore (secondo solo all’argento). Per questo motivo, 1/4 di tutto il rame prodotto mondialmente viene direttamente impiegato in applicazioni elettriche. Il suo valore dipende anche dalla facilità con cui lo si riesce a lavorare, dalla sua duttilità e dalle sue peculiarità che lo rendono molto resistente alla corrosione, motivo per cui viene abbondantemente utilizzato anche in architettura –oltre che nelle lavorazioni industriali. Il rame viene utilizzato nei circuiti elettrici e nelle cablature (in particolar modo in quelle ad alta velocità) e sta sostituendo l’alluminio come componente dei chips dei computer.

a causa di queste

caratteristiche che il rame è diventato uno dei metalli più importanti dell’economia mondiale (il suo andamento nei mercati finanziari è un indicatore della salute dell’economia mondiale). Secondo il

British Geological Survey, le riserve accertate di rame sono pari a 467.000 tonnellate, di cui circa 1/3 si trovano in Cile, il più grande produttore al mondo (nel 2005 ha prodotto il 35% dell’intera produzione mondiale secondo l’americana USGS). Stati Uniti, Indonesia, Perù e Australia sono gli altri grandi produttori, ma tutti con quote di produzione inferiori al 10% del totale. Dal 2002 al 2010 la domanda di rame è aumentata rapidamente, soprattutto a causa dell’appetito dell’economia cinese, che da sola oggi consuma 1/4 della produzione mondiale, a fronte di un modesto aumento della produzione mondiale che secondo l’USGS è stato di 2.500 milioni di tonnellate (+18% nel periodo considerato), contro un aumento del prezzo (in dollari costanti del 1998) che sempre secondo l’USGS è stato pari al 268%, a dimostrazione del fatto che negli ultimi dieci anni la domanda è cresciuta molto più rapidamente dell’offerta. Se dividiamo il totale delle riserve accertate nel 2005 (gli ultimi dati a disposizione) con la produzione di rame del 2010 otteniamo il numero degli anni che, ipotizzando che in futuro non aumentino produzione e riserve, ci vorranno ad esaurire i giacimenti mondiali di rame, pari a ventinove. Il rame può comunque essere riciclato abbastanza facilmente e inoltre, ancorché riutilizzato, il prezioso metallo non diminuisce le proprie caratteristiche di duttilità e conducibilità elettrica. I sostituti del rame sono l’argento (troppo caro e non così diffuso) e l’alluminio, anche se di qualità decisamente inferiore.

Il tungsteno è un materiale dotato di un’eccezionale densità (simile a quella dell’oro) ed è per questo caratterizzato da una notevole durezza; è inoltre l’elemento chimico con il più alto punto di fusione (ad una temperatura di 3.422°) dopo il carbonio. Se aggiunto all’acciaio ne aumenta notevolmente la durezza e per questo motivo è particolarmente adatto a formare leghe e superleghe (di solito vengono utilizzati nickel, cobalto ed una lega fra nickel e ferro) che vengono utilizzate nell’industria delle costruzioni (ad esempio per costruire grattacieli), in quella bellica e in altre applicazioni industriali (ad esempio per l’estrazione dei minerali, nel taglio dell’acciaio, ma anche nei filamenti che sono all’interno delle lampadine elettriche, eccetera). Secondo l’USGS, è la Cina è il paese con le più grandi riserve di tungsteno al mondo (pari al 64% del totale) e nel 2009 ha contribuito all’81% della produzione mondiale. Il resto della produzione proviene in prevalenza da Canada e Russia, entrambi con il 4% del totale. Alla base del forte rialzo del prezzo del tungsteno, che in soli 5 anni – ovvero dal 2003 al 2008 – è aumentato, sempre secondo l’USGS, del 245% (a valori costanti), c’è la domanda cinese (il dragone cinese ne consuma 1/3 del totale) e nonostante l’incremento della produzione, che è stato pari al 32%. Il tungsteno è considerato uno dei metalli più strategici per il futuro e a causa del suo valore è anche fra i metalli più riciclati, grazie ai notevoli sforzi per riuscire a recuperarne il maggior quantitativo possibile (se ne può recuperare anche fino al 98%).

Le terre rare (un gruppo di diciassette elementi chimici) vengono utilizzate in una serie di applicazioni (dall’industria della ceramica a quella del vetro o quella metallurgica) e sono un elemento indispensabile per svariati prodotti dell’elettronica (ad esempio nei televisori o negli schermi dei computer), dell’ottica (applicazioni di optoelettronica), per costruire catalizzatori o come magneti. Secondo l’USGS, nel 2010 la Cina ha prodotto il 97% dell’intera produzione mondiale di terre rare, non tanto perché le riserve mondiali di questi minerali si trovano solamente in Cina, ma a causa dei bassi costi di produzione (nelle miniere cinesi dove si estraggono le terre rare, i diciassette metalli sono in genere più facilmente estraibili che altrove), che impediscono ad altri paesi di essere competitivi. Nel 2009, la Cina ha però imposto alcune misure volte a limitare l’estrazione e quindi l’esportazione all’estero di terre rare, creando così forti pressioni nei mercati internazionali dove si scambiano le terre rare. L’aumento della domanda mondiale di terre rare è stata trainata dai consumi dei paesi emergenti (secondo l’USGS, la sola Cina nel 2010 ha avuto bisogno di 70.000 tonnellate di terre rare, pari al 53% del consumo mondiale) e dalla rapida diffusione delle nuove tecnologie, così che quando Pechino ha messo in atto le misure volte a ridurne la produzione, c’è stata una vera e propria corsa al rifornimento dei preziosi metalli. Sempre secondo l’USGS, dal 2006, anno in cui c’è stato il picco di produzione mondiale di terre rare (pari a 137.00 tonnellate), il loro prezzo medio (in dollari costanti) è aumentato in soli quattro anni del 360%, mentre la

produzione mondiale ha segnato un calo del 3%. L’attuale monopolio cinese della produzione di terre rare ha destato molte preoccupazioni e dopo le recenti misure intraprese da Pechino, si sono sollevate le proteste di Stati Uniti, Europa e Giappone. Le terre rare sono strategiche, basti pensare che alcuni dei diciassette elementi sono indispensabili per quelle che saranno le applicazioni tecnologiche più importanti dei prossimi decenni (le terre rare vengono utilizzate negli impianti per produrre energia da fonti rinnovabili, così come nelle auto elettriche). Secondo il British Geological Survey, entro il 2014 l’offerta mondiale di neodimio, disprosio, europio e terbio non basterà a soddisfare la crescente domanda mondiale. Gli Stati Uniti sono il più grande importatore al mondo di terre rare; nel 2009 ne hanno dovuto importare 16.500 tonnellate e sono seguiti dal Giappone, con 13.500 tonnellate e la Germania, con 8.200 tonnellate. Non esistono sostituti di questi diciassette elementi chimici ed inoltre è quasi impossibile il riutilizzo delle terre rare (l’attuale tasso di riciclo di questi minerali è inferiore all’1%), per cui siamo di fronte ad una totale dipendenza dell’economia mondiale dalla produzione cinese. Anche se non esistono ancora dati precisi sulle riserve mondiali di terre rare, il British Geological Survey stima però per i diciassette minerali un dato veramente ottimistico, perché sul nostro pianeta ve ne sarebbero 114 milioni di tonnellate. Di questi, il 44 % si troverebbe in Cina, il 17% nei paesi facenti parte il CSI (le ex repubbliche sovietiche, senza considerare gli stati baltici) e l’11% negli Stati Uniti.

Niobio e tantalio sono metalli di transizione piuttosto rari, contraddistinti da proprietà e caratteristiche chimiche simili. Niobio e tantalio vengono utilizzati per fare leghe metalliche non ferrose, ma anche per fare leghe con alcuni acciai inossidabili, perché sono in grado di conferirgli maggiore robustezza. I due metalli vengono utilizzati nella realizzazione di automobili e infrastrutture (le grandi strutture in acciaio), per la costruzione di oleodotti e gasdotti, ma trovano applicazione anche nell’industria chimica e in particolari apparecchiature mediche. Niobio e tantalio sono impiegati per la costruzione di sofisticati strumenti, utilizzati nel campo della ricerca avanzata (sono stati utilizzati dalla Nasa nel progetto Gravity Probe B e grazie alle qualità di metalli superconduttori, vengono inoltre impiegati per la costruzione degli acceleratori di particelle). Secondo il British Geological Survey, le riserve mondiali di niobio (probabili e accertate) si trovano in prevalenza in Brasile (452,8 milioni di tonnellate) e Canada (32 milioni di tonnellate), anche se, dovrebbero essere presenti anche in Egitto, Malawi e Groenlandia, pur trattandosi di riserve non ancora quantificate. A causa della recente esplosione della domanda di prodotti tecnologici (cellulari, magneti utilizzati come superconduttori, lenti che trovano applicazione nelle macchine fotografiche, eccetera) e di nuove leghe in acciaio che contengono niobio, secondo l’USGS, la produzione mondiale è cresciuta di cinque volte negli ultimi quindici anni, passando dalle 20.000 tonnellate del 1997 alle 100.000 tonnellate del 2009. La quasi totalità della produzione di niobio proviene dal Brasile, che nel 2009

ne ha prodotto il 95% del totale, mentre il rimanente 5% è stato prodotto in Canada. A contribuire alla domanda di tantalio ci sono l’industria elettronica, dove viene impiegato nella produzione dei condensatori al tantalio (di ridotte dimensioni e di miglior qualità rispetto a quelli in alluminio), ma anche in tutti i prodotti tecnologici di consumo (cellulari, computer, elettronica per l’automobile, eccetera). Ruanda e R.D. Congo hanno prodotto il 60% della produzione mondiale di tantalio del 2009. Sempre secondo l’USGS, il Brasile pesa per il 20% della produzione mondiale di tantalio, mentre la parte restante proviene da Malaysia e Canada. Come per il niobio, secondo il British Geological Survey è il Brasile il paese con le maggiori riserve al mondo di tantalio e si stima che ce ne siano più di 87.000 tonnellate (pari al 57% del totale mondiale). Al secondo posto troviamo l’Australia, con 40.560 tonnellate (pari al 27% del totale) e infine i paesi africani, con 15.600 tonnellate, ovvero il 10,2% del totale. Non esistono effettivi sostituti (che possano competere sul piano economico) di niobio e tantalio e per questo motivo, la Commissione Europea, nel 2010 ha indicato i due minerali critici per l’economia europea. Sia il tantalio che il niobio possono essere riciclati, e secondo l’USGS attualmente circa il 20% della produzione totale dei due metalli proviene da niobio e tantalio che sono stati riciclati. Fanno parte dei metalli del gruppo del platino un gruppo di sei metalli con in comune molte proprietà chimiche – oltre alla rarità e il

conseguente alto prezzo –, si tratta di rutenio, platino, rodio, osmio, palladio ed iridio. Platino, iridio e osmio sono i metalli che hanno la più alta densità del nostro pianeta, mentre palladio e rutenio sono molto resistenti al calore e alla corrosione, oltre a essere metalli molto duttili e “teneri”, facili da lavorare. Platino e palladio sono i metalli più utilizzati nelle applicazioni industriali. I metalli del gruppo del platino sono largamente impiegati per la produzione di catalizzatori (marmitte catalitiche) per le auto, perché sono in grado di convertire parte delle emissioni nocive provenienti dalla combustione delle automobili in sostanze meno pericolose. L’utilizzo di questi metalli nella fabbricazione delle marmitte catalitiche ha contribuito a un vero e proprio boom della domanda, e in particolar modo di quella di palladio per i veicoli a benzina e di platino per i veicoli a diesel. Secondo l’USGS, il 50% circa del platino e del palladio vengono infatti utilizzati per la produzione di marmitte catalitiche, ma i due metalli vengono anche utilizzati dall’industria dei gioielli (il 19% del platino e l’11% del palladio), in applicazioni chimiche ed elettroniche (ad esempio il platino è presente negli hard disk dei computer), nel settore odontoiatrico (il 16% del palladio viene utilizzato a questo scopo), nell’industria del vetro e anche nei processi di raffinazione del petrolio. Dopo aver raggiunto il picco della produzione nel 2007 (quando secondo l’USGS vennero prodotti 511 tonnellate dei sei metalli del gruppo del platino), abbiamo assistito ad un calo della produzione, a causa della maggior efficienza con cui vengono prodotte le marmitte

catalitiche e grazie all’utilizzo del nickel al posto del palladio nell’industria dell’elettronica (in particolare nella costruzione dei cellulari). Secondo le stime del British Geological Survey, il Sud Africa ha le maggiori riserve al mondo di platino, pari al 75% del totale e attualmente ne produce l’80% (con una produzione che nel 2007 è stata pari a 165.835 chilogrammi). Secondo l’USGS, Russia e Sudafrica si spartiscono poco più dell’85% della produzione mondiale di palladio del 2007 (96.800 kg la prima e 86.461 kg il secondo). Il palladio e il platino contenuti nelle vecchie marmitte catalitiche vengono riciclati e se ne può quindi recuperare una buona percentuale (le vecchie marmitte catalitiche vengono fuse ad alte temperature insieme al ferro o al rame, per scindere la parte di platino o palladio).

IV Pressione demografica, povertà ed urbanizzazione Torna all’indice La grande crescita demografica Secondo la Banca Mondiale, dal 1960 al 2010 la popolazione mondiale è più che raddoppiata, passando da 3.027 milioni a 6.841 milioni (ma già 7 miliardi a metà 2011), registrando quindi nei cinquant’anni considerati un aumento pari al 126%. Sempre secondo la Banca Mondiale, l’Asia Meridionale pesa per il 23% dell’intera popolazione mondiale, mentre gli altri paesi dell’Asia Orientale e del

Pacifico rappresentano il 13% della popolazione mondiale, l’Africa Sub-Sahariana il 12%, l’Europa il 9% come l’America Latina e Caraibica, Medio Oriente e Nord Africa il 6%, il Nord America il 5% e infine, i paesi dell’ex Unione Sovietica il 4% del totale. Con una popolazione che nel 2010 era pari a 1,33 miliardi, la Cina è il paese più popoloso e pesa per il 19,56% dell’intera popolazione mondiale. Al secondo posto troviamo l’altro gigante asiatico, l’India, che con 1,17 miliardi di abitanti, vanta il 17% della popolazione presente sulla terra. Dal punto di vista demografico, esistono però grandi differenze tra i due paesi asiatici: nel 2009 il tasso di crescita naturale della popolazione cinese (tasso di nascita – tasso di morte) è stato pari allo 0,51%, mentre quello indiano è stato dell’1,51%, per cui, la popolazione indiana sta crescendo con una maggior velocità. I paesi OCSE pesano per il 18% della popolazione mondiale del 2010, mentre se consideriamo solo quelli ad alto reddito ci troviamo di fronte ad una quota ancor più piccola, ovvero il 16% del totale (vedi Grafico 15).

Grafico 15: Tasso di crescita annuo della popolazione per classi di reddito dal 1960 al 2010

Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

I paesi a reddito medio-alto e medio-basso pesano per il 36% della popolazione del nostro pianeta, mentre quelli a basso reddito rappresentano il 16% del totale. Per fare un’ipotesi sugli scenari demografici futuri più probabili, ho deciso di considerare l’andamento del tasso di crescita naturale della popolazione (tasso di nascita meno tasso di morte) e la quota di popolazione che è fra gli 0 ed i 14 anni per i vari raggruppamenti considerati. Sempre secondo i dati forniti dalla Banca Mondiale, dal 1960 al 2010 il tasso annuo di crescita della popolazione mondiale è rallentato dello 0,24%, passando da un +1,40% ad un +1,16%. La crescita della popolazione

sembra essere negativamente correlata con il reddito pro capite, così notiamo che i paesi più ricchi presentano un tasso di crescita naturale della popolazione più basso della media mondiale (+0,33% nel 2010).

Tabella 7: Primi 10 paesi per popolazione nel 2015, 2025 e 2050

Fonte: rielaborazione dati FAO

Esistono ovviamente più motivazioni per spiegare il calo della natalità (e quindi del tasso di crescita naturale della popolazione) quando il reddito pro capite aumenta. Il principale motivo è legato

alla meccanizzazione dell’agricoltura (viene meno il bisogno di avere tante braccia in famiglia) e la conseguente migrazione della popolazione dalle campagne alle città. La conseguenza è che in città per motivi socio-economici (alto costo della vita, scarsità di spazi, impossibilità di portare i figli al lavoro da parte delle madri, eccetera) ma anche culturali (come ad esempio l’affermarsi di nuovi valori, come l’individualismo), si assiste alla diminuzione del tasso di natalità della popolazione. Secondo la Banca Mondiale, i paesi dell’Asia Meridionale sono quelli che presentano la quota più importante di popolazione compresa fra gli 0 e i 14 anni, pari al 27% del totale (e più alta rispetto alla quota mondiale di popolazione della regione, pari al 23%), seguiti dai paesi dell’Africa Sub-Sahariana con una quota di popolazione tra gli 0 ed i 14 anni pari al 20%. Diminuisce anche il peso demografico che le regioni più ricche avranno in futuro. Nel 2025, secondo le stime della FAO, sul nostro pianeta ci saranno 8 miliardi di persone e nel 2050 avremo raggiunto la strabiliante cifra di 9,31 miliardi di esseri umani. Entro il 2025 l’India sarà il paese più popolato al mondo con 1,46 miliardi di persone (vedi Tabella 7), mentre l’Africa entro il 2050 avrà cinque fra i quindici paesi più popolati al mondo, cioè Nigeria (390 milioni di abitanti), R.D. Congo (149 milioni di abitanti), Etiopia (145 milioni di abitanti), Tanzania (138 milioni di abitanti) e Egitto (124 milioni di abitanti). In aumento aspettativa di vita e povertà

Secondo i dati messi a disposizione dalla Banca Mondiale, negli ultimi cinquanta anni l’aspettativa di vita media di un neonato è aumentata, passando così dai 53 anni del 1960 ai 69 del 2010. L’aumento dell’aspettativa della vita significa che c’è stato un generale allungamento della vita media delle persone sul nostro pianeta, anche se occorre tener presente che l’aspettativa di vita alla nascita è notevolmente influenzata dalla mortalità infantile che avviene nei primi mesi di vita. La mortalità infantile è correlata negativamente con il reddito pro capite, perché disporre di migliori condizioni igieniche, di un’alimentazione adeguata, di un sistema sanitario efficiente e soprattutto dell’accesso all’acqua non contaminata, significa abbattere significativamente le probabilità di morire nei primi mesi di vita, laddove secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la diarrea è la principale causa di morte.

Tabella 8: Malnutrizione infantile, numero di posti letto in ospedale, accesso a dispositivi sanitari adeguati e all’acqua nel 2009 per fascia di reddito

Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

I paesi che dispongono di un alto reddito pro capite non presentano quasi malnutrizione infantile (mentre la media mondiale è del 31,83%), hanno circa il doppio dei posti letto disponibili per abitante rispetto alla media mondiale (5,94‰ contro 2,95‰) e garantiscono l’accesso all’acqua e ai servizi igienici adeguati alla quasi totalità delle propria popolazione (vedi Tabella 8). Nei paesi più poveri (a

reddito basso e medio-basso), invece, la maggior parte della popolazione non ha accesso ai servizi igienici (rispettivamente solo il 35% ed il 45% della popolazione ne usufruisce) e questo può provocare l’insorgere di malattie che colpiscono le fasce di popolazione più deboli (come i neonati), contribuendo quindi all’abbassamento della speranza di vita alla nascita.

allarmante il

fatto che nei paesi più poveri, più di 1/3 della popolazione non abbia accesso all’acqua (in più anche chi ha accesso deve fare i conti con l’acqua contaminata dall’inquinamento). I paesi con un reddito pro capite elevato non solo si possono permettere migliori condizioni igienico-sanitarie, ma possono anche beneficiare di un’istruzione “adeguata”, dell’accesso all’elettricità e di una sanità efficiente. Secondo la Banca Mondiale, la quasi totalità della popolazione dei paesi ricchi ha accesso all’elettricità e la totalità della popolazione che in età scolastica dovrebbe frequentare una scuola secondaria, la frequenta. Il 99,50% della popolazione ha imparato a leggere e scrivere e la spesa sanitaria pro capite è di 4.401 dollari USA all’anno. Per i paesi più poveri (con un reddito basso), l’elettricità è invece un lusso, a beneficio di un’esigua minoranza (nel 2009 solo il 23% della popolazione poteva accedere all’elettricità), così come le scuole secondarie, che vengono frequentate dal 38% della popolazione in età scolastica. Ma, il dato più grave è quello della spesa sanitaria pro capite annua, che nel 2009 era di soli 57 dollari USA, più di 77 volte inferiore a quella dei paesi ricchi. Nei paesi più poveri le strutture ospedaliere non garantiscono un servizio sanitario

dignitoso e anche questo influisce sull’aspettativa di vita alla nascita. Nel 2005, sempre secondo la Banca Mondiale, 2,55 miliardi di persone vivevano ancora con meno di 2 dollari al giorno (e quindi sotto ogni soglia di povertà), ovvero il 40% della popolazione mondiale viveva in una condizione di povertà assoluta. Di questi 2,55 miliardi di “poverissimi”, 1,09 miliardi si trovano in Asia Meridionale (ovvero il 43% del totale), 732 milioni in Asia Orientale e Pacifico (il 29% del totale) e 550 milioni in Africa Sub-Sahariana (il 22% del totale). Dal 1981 al 2005, il numero di persone che nel nostro pianeta vivono con meno di 2 dollari al giorno è aumentato di 19 milioni, per cui si può affermare che nonostante la grande crescita economica

e

gli

ottimistici

proclami

della

globalizzazione

economica, negli ultimi venti/trent’anni la povertà non sia affatto diminuita. Va però detto, che questo dato sarebbe potuto essere molto più grande (nel 1999 c’erano 2,87 miliardi di “poverissimi” nel mondo) se a partire dal nuovo millennio non ci fosse stata la grande crescita economica della Cina, che ha praticamente dimezzato il numero di persone che vivono sotto la soglia di povertà, passate dai 971 milioni del 1981 ai 473 milioni del 2005, sempre secondo quanto fornito dalla Banca Mondiale. Anche le altre economie dell’Asia Orientale hanno visto diminuire il numero di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno – per l’esattezza del 43%. Ma così non è stato per l’Africa Sub-Sahariana, che dal 1981 al 2005 ha visto aumentare la propria popolazione di “poverissimi” dell’87% e per l’Asia Meridionale con un aumento del numero di persone che

vivono con meno di 2 dollari al giorno del 37%. Complice la caduta dell’URSS, anche l’Europa e i paesi dell’Asia Centrale hanno registrato un aumento della povertà nel periodo considerato (+17%), così come il Medio Oriente e il Nord Africa (+13%) e l’America Latina e Caraibica (+5%). Per capire le condizioni di vita della popolazione, è utile guardare anche al livello di disuguaglianza interno – sintomo della qualità della vita (un paese con una forte disuguaglianza economica non può che essere un paese afflitto da criminalità e gravi problemi sociali –, che può essere misurato tramite la distribuzione (percentuale) del reddito tra i vari quantili della popolazione, cioè divisioni della popolazione in parti uguali. Quando accade che una piccola parte della popolazione arrivi a possedere una parte molto consistente del reddito di quel paese, vi sarà molta iniquità; quando invece il reddito viene distribuito fra la popolazione in modo piuttosto omogeneo, vi sarà equità. I paesi del Sudamerica, dell’Africa Sub-Sahariana, ma anche importanti paesi come la Cina, la Russia, la Turchia e la più grande economia del pianeta, gli Stati Uniti (con l’indice GINI che secondo la Banca Mondiale è pari a 40,81 e il 10% più povero della popolazione che detiene solamente l’1,88% del reddito degli USA), presentano grandi disuguaglianze interne, misurate dal fatto che l’indice GINI è per tutti questi paesi sopra quota 40. Ma è forse il Sud Africa uno dei casi dove vi è la più grande iniquità interna, con il 10% della popolazione più ricca che possiede quasi il 60% del reddito prodotto dal paese (nel 2006), mentre il 10% più povero si deve accontentare

dell’1,07%. Sono invece caratterizzati da una buona equità sociale i paesi europei, i grandi paesi di Medio Oriente e Nord Africa e l’Asia Meridionale. Il processo di urbanizzazione Oltre la metà della popolazione mondiale vive in città (il 52%) e di questa il 73% si trova nei paesi in via di sviluppo o non ancora sviluppati (vedi Grafico 16). Anche se il tasso di urbanizzazione mondiale è in calo (è passato dal 3% degli anni Cinquanta a poco meno del 2% del 2010) ed è probabile che continui a calare anche nei prossimi anni (secondo le Nazioni Unite, nel 2050 sarà pari a poco meno dell’1%), si tratta comunque di un tasso di crescita positivo, con il risultato che avremo sempre più persone che andranno a vivere in città e nel 2050 sempre secondo le stime delle Nazioni Unite i 2/3 degli abitanti del nostro pianeta vivranno in centri urbanizzati. Di conseguenza, anche le dimensioni delle grandi metropoli sono in crescita (la più grande metropoli del 1950 era allora come oggi Tokio, che in 70 anni ha visto passare la propria popolazione da 13 a 37 milioni di abitanti). Ma secondo quanto contenuto nel World Urbanization Prospect del 2009, la maggior parte delle megalopoli si trovano ora nei paesi non ancora sviluppati (dodici dei quindici agglomerati urbani più grandi al mondo), che si trovano a fare i conti con un’orda di contadini che dalle campagne migrano in città in cerca di lavoro. L’India è il paese più rappresentato fra i primi quindici agglomerati al mondo nel 2010, con Delhi (22 milioni),

Mumbai (20 milioni) e Calcutta (16 milioni) ed è seguita dalla Cina con Shanghai (17 milioni) e Pechino (12 milioni) e dal Brasile, con San Paolo (20 milioni) e Rio de Janeiro (12 milioni).

Grafico 16: Variazione popolazione urbanizzata dei paesi sviluppati

e

non

ancora

sviluppati

urbanizzazione mondiale dal 1950 al 2050

e

tasso

annuo

di

Fonte: rielaborazione dati Nazioni Unite

V Un mondo da sfamare Torna all’indice In calo la superficie agricola, ma in aumento quella equipaggiata per l’irrigazione Secondo la FAO, la superficie che sul nostro pianeta è occupata dalle terre emerse ammonta a 13,46 miliardi di ettari. Di questi, 456 milioni di ettari sono occupati da acque interne (laghi, fiumi, torrenti, paludi, eccetera), 4,04 miliardi di ettari da foreste e boschi (anche se occorre tenere conto che le foreste primarie sono solo 1/5 del totale e quindi meno del 10% delle terre emerse), 4,89 miliardi di ettari da terreni destinati a usi agricoli (e di questi, 1,38 miliardi di ettari sono terra arabile, 152 milioni di ettari colture permanenti e 3,36 miliardi di ettari prati e pascoli permanenti) e infine 4,09 miliardi di ettari da terreni destinati ad altri usi, cioè zone aride, urbanizzate, rocciose e via dicendo (vedi Grafico 17). La superficie destinata a uso agricolo è aumentata fino alla prima metà degli anni Novanta, è poi rimasta stabile per circa un decennio e a partire dal 2002 è iniziata a calare (dal 2002 al 2009 è calata dell’1%), nonostante la continua

sottrazione di superficie forestale per fare spazio a nuovi terreni agricoli.

Grafico 17: Destinazione terre emerse per tipologia di terreno

Fonte: rielaborazione dati FAO

Sulla superficie forestale del nostro pianeta la FAO fornisce dati precisi solamente a partire dal 1990: così vediamo che dal 1990 al 2009, la superficie destinata a uso forestale è sempre calata e nei 19

anni presi in considerazione se ne sono andati 130 milioni di ettari di foreste, cioè pari a circa due volte e mezzo la superficie della Francia. Con meno del 18% della popolazione mondiale, i paesi OCSE dispongono del 25% della superficie agricola del nostro pianeta e questo li avvantaggia, garantendo ai paesi più ricchi un surplus di terreni agricoli. Ma secondo la FAO è la Cina il paese con la più grande superficie agricola, pari a 524 milioni di ettari ed è seguita dall’Australia, con 409 milioni di ettari, gli Stati Uniti, con 402 milioni di ettari, il Brasile, con 265 milioni di ettari e la Russia, con 216 milioni di ettari. Cina, Giappone e i paesi dell’Asia Meridionale sono quelli che nel 2008 hanno maggiormente fatto uso di fertilizzanti chimici (fertilizzanti azotati, carbonato di potassio e fosfati), con la Cina che secondo la FAO ne ha utilizzati, in media, 468 kg per ogni ettaro di terreno arabile, il Giappone circa 250 kg per ettaro di terreno arabile, mentre i paesi dell’Asia Meridionale 150 kg. Anche se i fertilizzanti chimici permettono di aumentare la resa dei terreni agricoli, hanno un forte impatto ambientale e inoltre aumentano la dipendenza dal petrolio di quella specifica economia (occorrono tre tonnellate di petrolio per farne una di fertilizzanti chimici). Secondo la Banca Mondiale, oltre la metà della superficie agricola del Giappone è equipaggiata per l’irrigazione (per l’esattezza il 54%), e al secondo posto troviamo i paesi dell’Asia Meridionale, che con le forti pressioni demografiche hanno equipaggiato il 34% dei propri terreni agricoli con mezzi adeguati all’irrigazione dei campi (irrigazione a scorrimento, a goccia o

tramite getti). Il totale della superficie agricola equipaggiata per l’irrigazione del nostro pianeta è pari 311 milioni di ettari (ovvero il 20,3% dell’area arabile e destinata a colture permanenti del nostro pianeta) e tale superficie è aumentata del 10% nel periodo che va dal 2000 al 2009 (e del 75% dal 1970 al 2009). Poter contare su un impianto di irrigazione sarà sempre più strategico per i prossimi anni a causa dei grandi cambiamenti climatici a cui stiamo andando incontro, cambiamenti che metteranno fortemente a rischio la produzione agricola di quell’80% circa dei terreni che, secondo la FAO, non dispongono di adeguate attrezzatura per l’irrigazione e che quindi producono il 60% della produzione agricola mondiale. Il ruolo dei cereali Secondo la FAO, nel 2008 i cereali occupavano il 46% della superficie agricola arabile (e destinata a colture permanenti), mentre il 17% era destinato alle colture oleaginose (soia, girasole, arachidi, palma da olio, ulivo, eccetera), il 7% a frutta e verdura e il 5% ai legumi. Il grano è la principale coltura del nostro pianeta, con un’estensione che nel 2010 era pari a 217 milioni di ettari (vedi Tabella 9). Il mais è la seconda coltura per estensione (con 162 milioni di ettari coltivati a granoturco), seguono poi riso (le risaie occupano 154 milioni di ettari) e soia, con 102 milioni di ettari. La soia è la coltura (fra le prime quindici al mondo) che ha maggiormente incrementato la propria estensione nel periodo che va dal 2000 al 2010 (+38%), ed è seguita dai fagioli (+25%), dalla colza

(+23%), la canna da zucchero (+23%) e dal mais (+18%). Più modesto l’aumento della superficie coltivata a grano del primo decennio del terzo millennio (+1%).

invece diminuita la superficie

destinata alla coltivazione dei cereali più poveri, come il miglio (5%) e il sorgo (-1%). Il mais è il cereale che garantisce il maggior rendimento, con una media di 5,2 tonnellate di prodotto per ettaro ed è seguito dal riso, con 4,4 tonnellate di resa per ettaro e dal grano, con 3 tonnellate di prodotto per ettaro.

Tabella 9: Prime 10 colture nel 2010 per superficie coltivata e rendimento medio (in tonnellate per ettaro)

Fonte: rielaborazione dati FAO

A partire dagli anni Ottanta, è iniziata a diminuire la superficie destinata alla coltivazione dei cereali, con il picco che è stato raggiunto nel 1981, con un’estensione che la FAO indica pari a 726,5 milioni di ettari. Ma con l’inizio del nuovo millennio e l’affermarsi del ruolo delle economie emergenti, si è invertito il trend ed è tornata

ad aumentare la superficie destinata alla coltivazione dei cereali (a partire dal 2002) e nel 2008 sono stati coltivati a cereali 710,5 milioni di ettari di terreno. Europa, Cina e Nord America le aree geografiche più efficienti dal punto di vista agricolo Considerando il valore totale della produzione agricola (incluso quindi l’allevamento) in rapporto alla superficie agricola disponibile, si ottiene un dato che è in grado di darci una certa misura della produttività dal punto di vista agricolo di una data regione (anche se ovviamente esistono molti fattori esterni e quindi indipendenti dall’azione dell’uomo, come la qualità dei terreni, il clima e la quantità di acqua disponibile). Da questo calcolo emerge che è l’Europa la regione più “produttiva”, con 1.370 dollari di valore lordo della produzione per ogni ettaro di superficie agricola (vedi Grafico 18). Grafico 18: Superficie agricola e valore lordo della produzione nel 2009 per area geografica (in miliardi di US$ a valori costanti del 2004-2006)

Fonte: rielaborazione dati FAO

r però importante sottolineare il fatto che l’Europa è anche la regione che, secondo i dati forniti dalla FAO, in proporzione dispone della più alta quota di terreni arabili e destinati a colture permanenti (più produttivi rispetto ai pascoli), che sono pari al 63% del totale. La Cina, con un valore lordo della produzione pari a 1.000 dollari per ettaro di superficie agricola, è al secondo posto in questa classifica delle regioni più “produttive” dal punto di vista agricolo (con una percentuale di terreni arabili e destinati a colture permanenti pari al 24% del totale). Seguono poi i paesi del Nord

America, con una valore lordo della produzione pari a 560 dollari per ettaro di terreno agricolo (con il 46% dei terreni che sono arabili e destinati a colture permanenti). All’ultimo posto ci sono invece i paesi dell’Africa Sub-Sahariana, con 140 dollari di produzione agricola per ettaro di terreno (quasi dieci volte di meno rispetto alla produttività media dei paesi europei). A livello di singoli paesi, è la Cina – il paese con la maggior estensione agricola al mondo –, il paese che vanta anche il più grande valore lordo della produzione agricola mondiale, pari a 523 miliardi di dollari (ovvero il 23% del totale mondiale). Al secondo posto ci sono gli Stati Uniti, con 237 miliardi di dollari e poi l’India con 209 miliardi di dollari. La produzione di alimenti di origine animale cresce ad un tasso maggiore rispetto a quella di alimenti di origine vegetale Secondo quanto fornito dalla FAO, dal 2000 al 2010 la produzione mondiale di prodotti alimentari di origine vegetale è aumentata del 21%, mentre sempre per lo stesso periodo, quella di alimenti di origine animale è aumentata del 25%. Nel 2010, il totale della produzione primaria (cioè allo stato grezzo) di prodotti di origine vegetale è stata pari a 6,93 miliardi di tonnellate, in leggera flessione dal massimo del 2008, quando ha toccato il valore di 7,06 miliardi di tonnellate. Sempre secondo la FAO, i cereali pesano per il 35% della produzione primaria di alimenti di origine vegetale (in aumento del 18% nel primo decennio del nuovo millennio), il 28% è rappresentato da canna da zucchero e barbabietole da zucchero

(+27% la produzione dal 2000 al 2010) e il 23% da frutta e verdura (+26%). Nel 2010, la produzione mondiale di alimenti primari (cioè non ancora trasformati) di origine animale ha raggiunto il picco massimo di 1,084 miliardi di tonnellate (circa sei volte e mezzo meno della produzione mondiale di prodotti alimentari di origine vegetale), con i 2/3 della produzione totale che è rappresentato dal latte, il 27% dalla carne, il 6% dalle uova e lo 0,13% da miele.

Grafico 19: Andamento produzione

mondiale di carne di

bovino, pollame, ovino e caprino dal 1961 al 2010 (in milioni di tonnellate)

Fonte:rielaborazione dati FAO

Dal 1961 al 2010 la produzione di pollame (polli, tacchini, anatre, oche, eccetera) è aumentata di otto volte e mezzo (si tratta di un vero e proprio aumento esponenziale se si considera che siamo passati dalle 8,95 milioni di tonnellate del 1961 alle quasi 100 milioni di tonnellate di carne di pollame che è stata prodotta nel 2010), quella di bovini di due volte e mezzo (con un aumento di circa il 30% della resa in carne per capo bovino) e quella di ovini e caprini è più che raddoppiata (vedi Grafico 19). Esiste una relazione positiva fra la produzione di alimenti di origine animale e (almeno una parte) di quelli di origine vegetale, con i primi che fanno da traino alla produzione dei secondi, che vengono destinati alla produzione di mangimi. Il grande incremento nella produzione di carne è stato accompagnato quindi da un incremento a tre cifre della produzione mondiale di cereali e soia, usati come mangimi per gli animali, che secondo la FAO dal 1970 al 2010 hanno registrato un incremento della produzione rispettivamente pari al 177% e al 499%. Ma non esistono solamente le colture alimentari Fibre vegetali, gomma naturale e tabacco sono i tre principali prodotti agricoli che non vengono destinati (né direttamente, né indirettamente) all’alimentazione umana. Secondo la FAO è il cotone la principale fibra vegetale (rappresenta l’83% della produzione

totale di fibre di origine vegetale) considerando che dal 2000 al 2010 la sua produzione è aumentata del 27% (contro il 4% delle altre colture destinate alla produzione di fibre vegetali). La Cina è il principale produttore al mondo di cotone, con una produzione che nel 2010 è stata pari a 5,97 milioni di tonnellate (pari al 25% del totale mondiale), ed è seguita dall’India, con 5,7 milioni di tonnellate e gli Stati Uniti, con il 17% della produzione mondiale. Da notare che sempre secondo la FAO, dal 2000 al 2010 abbiamo assistito ad un’impennata della produzione mondiale di gomma naturale (prodotta per il 75% dai paesi del Sud-Est asiatico), che è passata da 6,94 milioni di tonnellate a 10,53 registrando quindi un aumento del 52%. Più modesto invece l’aumento della produzione mondiale di tabacco, che dal 2000 al 2010 è aumentata del 6,5%. La Cina è il primo produttore al mondo di tabacco e con una produzione che nel 2010 è stata pari a 3 milioni di tonnellate, pesa per il 42% della produzione mondiale. Consumo di prodotti agricoli per area geografica Le tre regioni più ricche del pianeta, ovvero Europa (senza includere i paesi ex-URSS), Nord America e Oceania, sono i maggiori consumatori al mondo di cereali secondo quanto fornito dalla FAO, con una quota che è pari al 28% del totale, ovvero più del doppio di quanto spetterebbe loro se le parti venissero fatte in modo equo, perché rappresentano il 12% della popolazione mondiale. Le tre regioni più ricche del pianeta sono anche quelle in cui, tra il 2000 ed

il 2009, si è verificata la parte più consistente dell’incremento mondiale dei consumi annui di cereali (aumentati per queste regioni del 21%). In soli nove anni, questi paesi hanno registrato un incremento dei consumi annui di cereali pari a 104 milioni di tonnellate, ovvero quasi 1/3 dell’incremento annuo mondiale, pari a 314 milioni di tonnellate. Nel 2009, i paesi dell’Asia Meridionale e del Sud-Est asiatico (che rappresentano 1/3 della popolazione mondiale), si sono dovuti accontentare di consumare il 22% del totale. Questi paesi, tra il 2000 ed il 2009 hanno visto aumentare il consumo annuo di cereali di 80 milioni di tonnellate (ovvero il 26% dell’incremento

mondiale

annuo).

A

causa

del

consistente

incremento demografico, i paesi dell’Africa Sub-Sahariana (che rappresentano il 12% della popolazione mondiale) dal 2000 al 2009, hanno registrato un incremento del consumo annuo di cereali pari al 37% (a fronte di un incremento demografico che secondo la Banca Mondiale è stato del 28%).

curioso notare che le tre regioni più

ricche del pianeta sono anche quelle che destinano la quota più rilevante dei propri consumi interni di cereali alla produzione di mangimi. Secondo la FAO, il 45% dei cereali consumati in Nord America, il 59% di quelli consumati in Oceania ed il 61% di quelli consumati in Europa, sono infatti destinati all’alimentazione animale. à un lusso che si possono permettere soltanto i più ricchi, cioè quelli che possono consumare 20 chilogrammi di mangime per fare 1 chilogrammo di carne di manzo, 7,3 per fare 1 chilogrammo di carne di maiale e 4,5 chilogrammi per fare 1 chilo di carne di pollo. A

dimostrazione di questa tesi, vediamo che i paesi dell’Asia Meridionale insieme a quelli del Sud-Est asiatico hanno utilizzato solamente il 10,5% dei cereali consumati internamente per la produzione di mangimi, quelli dell’Africa Sub-Sahariana il 12%, mentre quelli dell’Asia Orientale, che possono vantare di un maggior reddito pro capite, il 33%. La maggior parte dell’orzo e del mais che vengono prodotti sono destinati alla produzione di mangimi (rispettivamente il 65% e il 55% sempre secondo i dati della FAO), mentre per grano e riso le percentuali sono più basse (rispettivamente il 18% e il 6%). Il 73% dell’incremento mondiale annuo dei consumi di colture oleaginose (soia, palma da olio, olive, colza, eccetera) verificatosi tra il 2000 ed il 2009 proviene secondo la FAO da Asia Orientale (per 39 milioni di tonnellate), America Latina e Caraibica (per 31 milioni di tonnellate) e dai paesi dell’Asia Meridionale e del Sud-Est asiatico (per 28 milioni di tonnellate). Queste regioni, nel periodo considerato hanno visto aumentare i propri consumi annui rispettivamente del 52%, 50% e 34%. Il 77% delle colture oleaginose vengono poi trasformate in oli vegetali (vedi Tabella 10), destinati per il 56% ad utilizzi alimentari e per il 44% a utilizzi non alimentari (ad esempio nell’industria della cosmesi). L’olio di palma è l’olio vegetale maggiormente utilizzato (con una quota pari al 28% del consumo mondiale di oli vegetali), ed è seguito dall’olio di soia (con una quota che è pari al 25%) e dall’olio di colza (15% del consumo totale).

I paesi dell’Asia Orientale (Cina in testa) sono quelli che hanno maggiormente contribuito all’aumento del consumo mondiale annuo di carne, che tra il 2000 ed il 2009 è stato pari a 51 milioni di tonnellate, di cui 17 milioni di tonnellate (ovvero 1/3 dell’incremento mondiale) proveniente da questi cinque paesi (vedi Grafico 20). L’Asia Orientale pesa per il 31,4% del consumo mondiale di carne, Europa, Nord America e Oceania per il 29% e l’America Latina e Caraibica per il 14,2%. A livello percentuale, è però l’Asia Meridionale e il Sud-Est asiatico la regione che ha maggiormente aumentato il proprio consumo annuo di carne nel periodo considerato (+53%), ed è seguita dai paesi dell’ Africa Sub-Sahariana (+43%). Le tre regioni più ricche (da sole consumano il 35% della carne bovina) sono quelle che hanno registrato il più modesto incremento nel consumo annuo di carne, passato dai 77,9 milioni di tonnellate del 2000 agli 81,5 del 2009.

Grafico 20: Variazione consumo annuo di Carne dal 2000 al 2009, per area geografica (in milioni di tonnellate)

Fonte: Rielaborazione dati FAO

Secondo le stime della FAO, la carne di suino è quella più utilizzata (pesa per il 38% dei consumi mondiali), ed è seguita da quella di pollame (pari al 33% del totale) e di bovino (pari al 23% del totale). Sempre secondo quanto fornito dalla FAO, l’Asia Meridionale e Sud-Orientale è la regione che, tra il 2000 ed il 2009, ha maggiormente contribuito all’incremento annuo del consumo mondiale di latte, pari a 126 milioni di tonnellate (e una quota del 36%). Segue l’Asia Orientale, che nel 2009 ha consumato 29 milioni di tonnellate in più di latte rispetto al 2000 a fronte del notevole incremento dei consumi interni, più che raddoppiati (+104%).

Europa, Nord America e Oceania sono comunque i maggiori consumatori al mondo di latte e con 231 milioni di tonnellate pesano per 1/3 dei consumi totali del 2009. Dal 2000 al 2009, il consumo di latte annuo delle tre regioni più ricche del pianeta ha però registrato un modesto aumento (+4% contro il +22% della media mondiale). La FAO indica in cinque paesi dell’Asia Orientale i maggiori consumatori al mondo di pesce e frutti di mare (a pesare per il 47% del totale). Questi paesi sono anche quelli che hanno maggiormente contribuito all’aumento dei consumi tra il 2000 ed il 2009, con una variazione annua pari a 16 milioni di tonnellate, ovvero il 45% dell’incremento mondiale dei consumi di pesce e frutti di mare. I paesi dell’Asia Meridionale e del Sud-Est asiatico pesano per il 22% del consumo mondiale di pesce e frutti di mare e tra il 2000 e il 2009 hanno visto incrementare il proprio consumo annuo del 52% (ovvero di 13 milioni di tonnellate). Ma sono i paesi dell’Africa SubSahariana (dove la popolazione sta crescendo più vertiginosamente) ad aver registrato il più alto incrementare del consumo annuo di pesce e frutti di mare nei primi nove anni del nuovo millennio, registrando un aumento del +54% (anche se comunque pesano per solamente il 5% dei consumi totali). Sempre secondo la FAO è da notare il fatto che è in aumento il consumo di pesci e frutti di mare provenienti da allevamenti, che nel 2000 pesavano per l’8% del totale, mentre nel 2009 la loro quota era cresciuta all’11% del totale (occorrono dai 2 ai 4 chilogrammi di pesce selvatico per fare 1

chilogrammo di salmone allevato). Nel periodo considerato, il consumo mondiale di pesce proveniente dall’acqua dolce è aumentato del 58% e rappresenta ora il 29% del totale dei consumi di pesce e frutti di mare.

Tabella 10: Utilizzo finale gruppi di prodotti alimentari nel 2009 ed incremento del consumo annuo dal 2000 al 2009

Fonte: rielaborazione dati FAO

La dieta media di un abitante del nostro pianeta Secondo la FAO, in media un abitante del nostro pianeta ha a disposizione 2.823 chilocalorie al giorno (dati del 2009), provenienti per il 51% da cereali e tuberi (per l’esattezza il 46% dai cereali e il 5% dai tuberi), il 12% da frutta secca, oli vegetali (olio di soia, olio di oliva, olio di semi, eccetera) e culture oleaginose (ad esempio soia ed olive), il 10% da carne ed uova, l’8% da zucchero e dolcificanti, il 6% da frutta e verdura, il 5% da latte e derivati e così via. Ma i consumi stanno cambiando a livello mondiale ed è da svariati decenni ormai che stiamo assistendo a due precisi fenomeni: l’aumento dell’apporto calorico medio e la diminuzione della quota di chilocalorie provenienti da cereali, tuberi, dolcificanti e zucchero a fronte di un aumento di quelle provenienti da grassi vegetali, carne, latte e uova. La fine dell’agricoltura di sussistenza e l’avanzata del progresso economico hanno reso l’umanità sempre più dipendente dall’industria alimentare e i cibi trasformati. Esistono comunque ancora marcate differenze tra le varie regioni. Così, ad esempio notiamo che secondo la FAO un abitante dell’Africa consuma in media 2.552 chilocalorie al giorno, con i cereali e i tuberi che incidono per il 63% dell’apporto calorico giornaliero, la carne e le uova per il 4% (contro una media mondiale al 10%) e il latte per il 3% (contro una media del 4%), mentre l’apporto calorico delle proteine di origine vegetale è doppio rispetto alla media mondiale (i legumi pesano per il 4% del fabbisogno calorico contro il 2%). Un

abitante dell’Asia Meridionale consuma in media 2.384 chilocalorie al giorno, provenienti per il 60% da cereali e tuberi e per l’11% da colture oleaginose, oli vegetali e frutta secca, con la carne e le uova che pesano per un modesto 2% sull’apporto calorico medio (mentre i legumi sono anche in questo caso al 4%). Per un abitante del Nord America, invece cereali e tuberi incidono relativamente poco (solamente il 25% delle 3.654 chilocalorie consumate in media ogni giorno), mentre è più alta la quota di colture oleaginose, oli vegetali e frutta (20% dell’apporto calorico), carne e uova (a pesare per il 13%), dolcificanti e zuccheri (al 16% del totale) e i latticini (10%). Da notare il “misero” apporto delle proteine vegetali: i legumi forniscono in media solamente l’1% delle chilocalorie di un americano o un canadese. Possiamo concludere che i paesi più ricchi consumano in proporzione meno cereali (e tuberi) e più grassi (sia di origine vegetale che animale), preferendo le proteine di origine animale (carne, uova e latte) a quelle di origine vegetale (legumi). Il forte incremento del prezzo dei prodotti agricoli Il forte aumento della domanda mondiale di cereali, con i consumi che dal 2000 al 2009 sono aumentati del 17%, ha provocato, secondo quanto riportato dal servizio “market news” dell’USDA, dal settembre del 2002 all’agosto del 2012 un aumento del prezzo del grano dell’86%, di quello dell’orzo del 123% e di quello del mais del 192%. Mais e orzo hanno entrambi superato i massimi raggiunti nel 2008 (quando il prezzo del petrolio si aggirava intorno ai 130 dollari

al barile), mentre il prezzo del grano non ha ancora superato la quotazione record toccata a marzo 2008, quando arrivò a costare 439,72 dollari per tonnellata (+134% rispetto a settembre 2002). Gli aumenti del prezzo dei cereali (e in particolare di mais e orzo, principalmente destinati a diventare mangimi per animali), hanno provocato un aumentato del prezzo delle tre principali tipologie di carne (bovino, suino e pollame rappresentano il 94% dei consumi mondiali di carne), con il prezzo della carne di bovino che dal settembre del 2002 all’agosto del 2012 è aumentato del 98%, quello della carne di suino del 136% e quello della carne di pollame del 48% (vedi Grafico 21).

Grafico 21: Andamento del prezzo della Carne di Bovino, Pollo e Suino quotati sul mercato di Chicago dal 09/2002 al 08/2012 (in US cent per libbra: 1 libbra = 454 grammi)

Fonte: Rielaborazione dati USDA Market News

Secondo il CME, tra il settembre del 2002 e l’agosto del 2012 il prezzo dei due principali oli vegetali, cioè l’olio di palma e l’olio di soia, è aumentato rispettivamente del 168% e del 152%, raggiungendo il primo i 1.188 dollari alla tonnellata e il secondo i 930 dollari alla tonnellata. Il prezzo del cotone – la principale coltura da fibra – è aumentato, nel periodo considerato e sempre secondo il CME, del 72% con il massimo che è stato toccato nel marzo del 2011 (229,67 dollari per libbra). Nonostante il notevole aumento dei consumi e quindi dei prezzi delle derrate alimentari, abbiamo assistito alla diminuzione della quota di valore finale destinata ai produttori agricoli. Ad esempio, negli Stati Uniti – tra i principali

produttori di cereali e carne al mondo – tale quota è costantemente diminuita negli ultimi 40 anni. Secondo l’USDA, nel 1970 il 50% di quanto il consumatore pagava al dettaglio per un chilogrammo di carne di suino (o di bovino) era destinato a remunerare i costi e l’attività dell’allevatore di suini, ma nel 2010, solamente il 33% di quanto pagato dal consumatore finale è andato a finire all’allevatore di suini, mentre il restante 66% è andato a finire a tutti quei processi che portano la carne di suino sugli scaffali dei supermercati (trasporto, macellazione e taglio, stoccaggio, imballaggi, eccetera) e ai costi di marketing. Per i cereali il fenomeno è ancora più marcato. Nel 1970, il 16% di quanto pagato dai consumatori americani per comprare negli scaffali dei supermercati prodotti a base di grano, riso od orzo era destinato ai coltivatori di cereali, mentre nel 2010 tale quota è scesa al 7% (in calo del 56%). Surplus e deficit alimentari per area geografica L’intera umanità dipende più o meno direttamente dai cereali, perché sono il principale alimento umano (con un apporto calorico medio pari al 46% del totale) e anche il principale componente dei mangimi destinati agli animali allevati per la loro carne, il latte, le uova e altri prodotti derivati non alimentari (pelle, lana, eccetera). Inoltre, da qualche anno i cereali (ma anche oli vegetali e canna da zucchero) sono diventati ancora più strategici perché adoperati

Immagine 1: Divisione del mondo in 19 aree geografiche

Tabella 11: Export netto di Cereali nel 2009 per area geografica

Fonte: Rielaborazione dati FAO

Come materia prima per fare biocarburanti, ovvero combustibili che vengono poi utilizzati nel settore dei trasporti (soprattutto in Nord America ed Europa). Nord America (con 93 milioni di tonnellate), Europa Orientale (con 65 milioni di tonnellate), Oceania (con 21 milioni di tonnellate) ed Europa Occidentale (con 20 milioni di tonnellate) sono i principali esportatori netti di cereali al mondo (vedi Tabella 11). Asia Orientale, Asia Occidentale, Nord Africa ed Europa Meridionale, sono invece i principali importatori netti di cereali (tutti con valori superiori alle 20 milioni di tonnellate). Le esportazioni nette di cereali da parte dell’Oceania ammontano al 133% del proprio consumo interno, quelle dell’Europa Orientale al 39% e quelle del Nord America al 26%, mentre i paesi dell’Asia Occidentale sono dipendenti dalle importazioni estere per il 45% del consumo interno e quelli del Nord Africa per il 41%. Secondo la FAO, i principali esportatori al mondo di oli vegetali sono i paesi del Sud-Est asiatico (nel Borneo si produce la maggior parte dell’olio di palma), che nel 2009 hanno accumulato un surplus nella bilancia commerciale di quasi 37 milioni di tonnellate (pari al 388% del consumo interno). Al secondo posto ci sono i paesi del Sud America (dove si trasforma la soia di Brasile, Argentina, Paraguay e

Bolivia), con 6,8 milioni di tonnellate di export netto di oli vegetali, pari al 79% del consumo interno. I maggiori importatori di oli vegetali sono anche in questo caso i paesi dell’Asia Orientale, con un deficit commerciale di 12,7 milioni di tonnellate (pari al 38% del fabbisogno interno), ma anche quelli dell’Asia Meridionale, con 12,4 milioni di tonnellate di importazioni nette (ed una dipendenza dall’estero pari al 56% dei consumi interni) e dell’Europa Occidentale, con 3,3 milioni di tonnellate di importazioni nette (pari al 28% del fabbisogno interno). Sempre secondo la FAO, i più grandi esportatori netti di carne al mondo sono il Sud America (con 7,3 milioni di tonnellate), il Nord America (con 5,6 milioni di tonnellate), l’Europa Occidentale (con 2,6 milioni di tonnellate) e l’Oceania, con 2,3 milioni di tonnellate. L’Asia Orientale è la regione che consuma più carne al mondo e nel 2009 ha dovuto importarne 4,95 milioni di tonnellate (pari al 6% del proprio fabbisogno interno). Seguono l’Europa Orientale, con un deficit netto verso l’estero di 3,2 milioni di tonnellate (pari al 17% del proprio fabbisogno) e l’Asia Occidentale, che ha maturato un deficit con l’estero per 1,8 milioni di tonnellate di carne (pari ad 1/4 del proprio fabbisogno interno). L’Oceania ha un surplus di produzione pari al 74% del proprio fabbisogno interno, il Sud America del 24% e il Nord America del 14%. Oceania (con 18 milioni di tonnellate), Europa Occidentale (con 16 milioni di tonnellate), Europa Orientale (con 5,2 milioni di

tonnellate) ed Europa Settentrionale (con 2,8 milioni di tonnellate) sono secondo quanto fornito dalla FAO i principali esportatori di latte. Europa Meridionale (con 10,2 milioni di tonnellate), Asia Orientale (con 5,5 milioni di tonnellate) e Sud-Est asiatico (con 5,3 milioni di tonnellate) sono i più grandi importatori netti di latte. L’Oceania ha un surplus di produzione pari al 213% dei propri consumi, l’Europa Occidentale del 27%, mentre i paesi del Sud-Est asiatico sono quelli maggiormente dipendenti dalle importazioni estere di latte (pari al 57% dei propri consumi interni). La FAO indica in Nord America (con 1,68 milioni di tonnellate e un surplus pari al 25% dei consumi interni), Oceania (con 960 mila tonnellate di export netto e un surplus pari al 224% del consumo interno) ed Europa Occidentale, con 820 mila tonnellate ed un surplus pari al 19%, i maggiori esportatori al mondo di grassi animali (tra cui il burro). Dall’altra parte troviamo invece Asia Orientale, America Centrale ed Europa Orientale, con un deficit nella bilancia commerciale rispettivamente pari a 970, 770 e 391 mila tonnellate. Sempre secondo quanto messo a disposizione dalla FAO, il Sud America (con un surplus netto pari a 9,80 milioni di tonnellate, ovvero il 162% dei consumi interni) e il Sud-Est asiatico (con 2,62 milioni di tonnellate di surplus, pari al 10% dei consumi interni) sono i maggiori esportatori netti di pesce e frutti di mare. I cinque paesi dell’Asia Orientale – che da soli pesano per il 47% dei consumi

mondiali – sono i principali importatori netti di pesce, avendo accumulato nel 2009 un deficit con l’esterno per 9,8 milioni di tonnellate (la dipendenza dall’estero della regione è pari al 12% del fabbisogno interno). Seguono i paesi dell’Europa Meridionale, che hanno ricorso ad importazioni nette di pesce e frutti di mare per 3,7 milioni di tonnellate (ovvero il 63% del proprio fabbisogno interno), l’Europa Occidentale, con 3 milioni di tonnellate di importazioni nette (e una dipendenza dall’estero pari al 65% dei consumi interni) e il Nord America, con un deficit di 2,54 milioni di tonnellate (ovvero il 28% del fabbisogno interno). I cinque paesi dell’Asia Orientale si trovano in una situazione di deficit cronico per quanto riguarda la bilancia commerciale delle principali categorie di prodotti agricoli, sono infatti i principali importatori netti al mondo di cereali, colture oleaginose, oli vegetali, carne, grassi animali, pesce e frutti di mare e i secondi più grandi importatori di zucchero e latticini. I paesi dell’Asia Meridionale sono i principali importatori al mondo di zucchero e legumi e i secondi maggiori importatori di oli vegetali. Mentre nella veste di rifornitore di cibo per l’umanità troviamo il Sud America, con un surplus positivo per tutte le categorie di prodotti agricoli e primo esportatore netto al mondo per frutta e verdura, zucchero, eccitanti, carne e infine pesce e frutti di mare. I paesi più ricchi presentano in genere surplus positivi per quasi tutte le categorie di commodity agricole: il Nord America è il primo esportatore al mondo di cereali, legumi,

colture oleaginose e grassi animali e i paesi dell’Europa e dell’Oceania presentano surplus positivi per molti dei principali prodotti agricoli.

VI La risorsa legno Torna all’indice Produzione di legname Il tondame (detto anche “roundwood”) è la materia prima alla base dell’industria del legno e proviene dal taglio o l’attività di recuperato di tronchi d’albero (cioè tondame), derivati dall’attività di selvicoltura (gestione di una superficie forestale per lo sfruttamento del legno) o dal taglio delle foreste (in genere si tratta di foreste primarie). Il tondame può essere utilizzato come combustibile (e allora diverrà legna da ardere, cippato o carbone di legna) oppure per scopi industriali. La produzione mondiale di tondame del 2010 è stata pari a 3.405 milioni di m3, in aumento del 3,46% rispetto al 2009 – ma solamente del 2,06% rispetto al 2001 (vedi Grafico 22). La maggior parte del tondame è destinato a diventare combustibile (una quantità che nel 2010 è stata pari a 1.868 milioni di m3, ovvero il 55% del totale), mentre dei 1.537 milioni di m3 destinati a uso industriale, la quota più importante (nel 2006, il 60% secondo la FAO) è destinata alla produzione di legname segato (detto “sawnwood”) e pannelli a base di legno (“wood based panels”),

mentre la parte restante sarà utilizzata per fare pasta di legno, necessaria per la produzione di carta e pannelli di carta.

Grafico 22: Andamento produzione di tondame per area geografica dal 1961 al 2010 (in milioni di m3)

Fonte: rielaborazione dati FAO

La produzione di tondame ha continuato a crescere a una media dell’1,2% annuo fino al 1990 (da quando esistono dati attendibili,

cioè dal 1961), quando raggiunse il picco di 3.524 milioni di m3 (vedi Grafico 22) e ci sono voluti ben 15 anni per tornare a quei livelli. La produzione mondiale di tondame ha toccato un nuovo massimo nel 2005, quando ha raggiunto la cifra di 3.571 milioni di m3 prodotti. Nei quasi cinquant’anni considerati, la produzione annua di tondame, per far fronte alla crescente domanda mondiale è aumentata del 35%. Africa e Medio Oriente pesano per il 21% dell’intera produzione mondiale del 2010 e sono seguiti da Asia Orientale e Pacifico, con il 19% del totale e da Nord America ed America Latina e Caraibica, entrambe le regioni con il 14% del totale. Dal 1961 al 2010, Africa e Medio Oriente sono le regioni che hanno visto maggiormente incrementare la propria produzione di tondame (+ 149%). Al secondo posto troviamo i paesi dell’America Latina e Caraibica, che nel periodo considerato hanno visto aumentare la propria produzione del 142%, seguiti da quelli dell’Asia Meridionale (+94%) e dell’Europa (+47%). Secondo il Fondo Monetario Internazionale, il prezzo dei futures sul legname (si tratta di legname segato, cioè “sawnwood”) sul mercato delle materie prime più importante del mondo (il Chicago Mercantile Exchange) ha toccato un massimo nel 1993, quando per un board feet di legname di varia lunghezza erano necessari 479 dollari. Dal 1993, il prezzo del legname ha attraversato un trend discendente di lungo periodo, anche se ci sono stati alcuni balzi al rialzo (ad esempio nel 1996, nel 2004, nel 2005 e nel 2010). Non ci sono invece dati attendibili per quanto riguarda i pannelli a base di legno. Il prezzo del legname è influenzato positivamente

dall’attività economica (in una fase di ciclo espansivo tende ad aumentare la domanda e di conseguenza il prezzo) e dalla crescita della popolazione, perché un aumento della popolazione significa una maggiore domanda di legname per tutti gli svariati utilizzi civili (dall’arredamento della propria abitazione alla carta necessaria per stampare i libri, eccetera), mentre è negativamente influenzato da un aumento della produzione (quando è superiore alla domanda), dall’arrivo di nuove tecnologie che ne diminuiscano il consumo e soprattutto dall’utilizzo di prodotti sostituti (ad esempio tramite l’utilizzo di altre fibre per produrre carta o dalla sostituzione della plastica al legno nella produzione di imballaggi). La pratica di utilizzare il legno (tondame) come combustibile è piuttosto diffusa nei paesi non ancora sviluppati (che lo utilizzano sia per cucinare che per produrre calore), motivo per cui la gran parte della domanda di tondame legata a questo scopo è piuttosto stabile e legata alla crescita demografica dei paesi non ancora sviluppati. Secondo la FAO, la produzione di tondame destinato a diventare combustibile non ha mostrato una grande volatilità e dal 1961 al 2010 ha seguito un trend crescente, registrando un aumento del 25%. Il 54% del legno utilizzato come combustibile viene prodotto da Africa, Medio Oriente e Asia Meridionale, regioni in cui il reddito pro capite è inferiore alla media mondiale. Nel 2010, il primo produttore di tondame destinato a diventare combustibile è stato l’India, con una produzione pari a 309 milioni di m3, seguita da Cina e Brasile, rispettivamente con 189 e 143 milioni di m3 (si tratta sempre di paesi

non ancora sviluppati e molto popolati). Il tondame a uso industriale (legname segato, pannelli a base di legno, carta e pannelli di carta) viene utilizzato nel settore dei media e della comunicazione (la carta utilizzata dai giornali, dalle presentazioni aziendali, dalle circolari della pubblica amministrazione, eccetera), nel settore del packaging e delle confezioni (le confezioni di carta di prodotti alimentari, farmaceutici, eccetera), in quello degli imballaggi (di cartone o legno), nel settore delle costruzioni (travi, infissi, pavimenti in legno, eccetera), nell’arredamento (mobili) e in molti altri settori (artistico, sportivo, eccetera). La domanda di legname a uso industriale è quindi in gran parte legata alla crescita economica, alla nascita di una classe media e all’urbanizzazione della popolazione. Sempre secondo la FAO, nel 2010 i maggiori produttori mondiali di tondame a uso industriale sono stati gli Stati Uniti, con una produzione di 300 milioni di m3, la Russia (133 milioni di m3) e il Canada (130 milioni di m3). La Cina è stato il paese che nel 2010 ha importato la maggior quantità di tondame a uso industriale, per un importo pari a 35 milioni di m3. Riserve mondiali di legname Nel 2009, secondo la FAO la superficie forestale del nostro pianeta era pari a 4.038 milioni di ettari, con il 24% del totale delle foreste che si trova in America Latina e Caraibica, il 22% nei paesi dell’exURSS e dell’Europa dell’Est e il 17% in Africa e Medio Oriente. La Russia ha la più grande estensione al mondo di superficie forestale

pari a 809 milioni di ettari (circa il 20% del totale), ed è seguita dal Brasile con 520 milioni di ettari, il Canada con 310 milioni di ettari e gli Stati Uniti con 304 milioni di ettari. A livello globale, il tasso di deforestazione (e perdita di foreste per altre cause, come incendi e cambiamenti climatici) rimane a un livello allarmante, anche se inferiore a quello degli anni Novanta quando sono stati distrutti in media 16 milioni di ettari di foreste all’anno. Comunque tra il 2000 e il 2010 sono stati distrutti in media 13 milioni di ettari di foreste all’ anno, il che significa che ogni anno sparisce una superficie forestale pari alla Grecia. La situazione è allarmante, soprattutto perché le perdite più ingenti di foreste si registrano nelle zone tropicali, ovvero dove si trova una maggior densità di carbonio rispetto alle foreste dai climi temperati, grazie al particolare clima che permette alle piante di crescere tutto l’anno. Dalla quantità di carbonio che è presente all’interno di una foresta, emerge il grado di sviluppo e quindi la quantità di legname che è presente (determinato dalla densità e dall’altezza delle specie arboree che vi sono presenti). Secondo quanto emerso dallo State of World Forest del 2011, il Brasile è il paese con il maggior quantitativo di carbonio stoccato all’interno delle proprie foreste (nonostante si ritrovi ad avere meno di 2/3 della superficie forestale della Russia), pari a 62.607 milioni di tonnellate. Seguono la Russia, con 32.500 milioni di tonnellate (e la più grande superficie al mondo ricoperta da foreste) e la Repubblica Democratica del Congo, con 19.309 milioni di tonnellate. Brasile, Indonesia e R.D. Congo sono i paesi che tra il 1990 ed il 2010 hanno

subito le maggiori perdite nette di carbonio (rispettivamente pari a 5.512, 3.318 ed 804 milioni di tonnellate), mentre Stati Uniti, Cina e Malaysia hanno visto incrementare il proprio stock di carbonio rispettivamente di 2.357, 1.789 e 390 milioni di ettari, soprattutto grazie agli intensi programmi di rimboschimento voluti dai rispettivi governi. A incidere sulla superficie forestale disponibile concorrono positivamente le nuove leggi o gli accordi internazionali (per costituire parchi e riserve naturali o per limitare il taglio degli alberi in alcune zone) e negativamente la crescente richiesta di terreni per coltivare cereali, leguminose e olio vegetale, necessari per produrre cibo, mangimi, prodotti cosmetici o biocombustibili (oltre alla domanda di legname). Queste sono le principali cause che stanno portando all’abbattimento delle ultime foreste.

Immagine 2: Zone a rischio di desertificazione (colori caldi)

Fonte: USDA (vedi http://soils.usda.gov/use/worldsoils/mapindex/desertmap.zip)

L’ultima

minaccia

è

rappresentata

dall’affermarsi

dei

biocombustibili, ovvero dell’utilizzo di grano, mais, canna da zucchero, colza, jatropha, ma anche lo stesso legname, per produrre energia (anche se non sempre il ritorno energetico è positivo) e si prevede che entro il 2030, per soddisfare la crescente domanda di biocombustibili avremo bisogno di un’ulteriore superficie agricola, pari a 109,1 milioni di ettari. Non bisogna poi dimenticare che con il riscaldamento del pianeta aumentano gli incendi, che ogni anno divorano migliaia di ettari di foreste e stiamo assistendo all’inesorabile avanzata del deserto (vedi Immagine 2).

VII L’acqua è sempre più scarsa Torna all’indice Disponibilità di acqua dolce Secondo l’UNEP (il programma delle nazioni unite per l’ambiente), sul nostro pianeta ci sono 1,4 miliardi di km3 di acqua, ma di questi, solamente 35 milioni, ovvero il 2,5%, sono acqua dolce. Il 69% dell’acqua dolce del nostro pianeta si trova allo stato solido nei ghiacciai permanenti che o nelle catene montuose (nelle Alpi, nell’Himalaya, nelle Ande, in Patagonia, in Alaska, in Scandinavia, sul Kilimangiaro e sul Ruwenzory) e ai poli (nell’Artico e nell’Antartico), il 31% si trova nelle falde acquifere, nel permafrost e nelle paludi, mentre solamente lo 0,3%, ovvero 105.000 km3, si trova in laghi e fiumi. Sempre secondo l’UNEP, la quantità di acqua dolce che è accessibile e quindi può essere divisa fra l’intero ecosistema e gli attuali 7 miliardi di abitanti del nostro pianeta, è pari a 200.000 km3. Quindi, solamente lo 0,57% dell’intera acqua dolce del nostro pianeta (e lo 0,014% di tutta l’acqua presente sulla Terra) è a disposizione di tutte le forme di vita presenti, uomo compreso. Secondo il World Water Assesment Programme, l’umanità consuma il 54% di tutta l’acqua dolce accessibile nei fiumi, nei laghi e nelle falde acquifere. Lo UN Water asserisce che il 70% dell’acqua consumata dall’umanità è destinata al settore agricolo, il 22% viene

utilizzata nei processi industriali e per la produzione di energia (idroelettrico), mentre solamente l’8% viene impiegato per usi domestici (cucinare, dissetarsi e avere un’igiene adeguata). Secondo la FAO, la quantità di acqua necessaria per dissetarsi varia dai 2 ai 4 litri al giorno, mentre quella necessaria a sopperire al bisogno della fame (e quindi alla produzione di cibo consumato quotidianamente da un individuo) varia dai 2.000 ai 4.000 litri (è mille volte maggiore!). Secondo la FAO, infatti, occorrono dai 1.000 ai 3.000 litri di acqua per produrre 1 chilogrammo di riso e dai 13.000 ai 15.000 litri per 1 chilo di manzo. Sempre secondo la FAO, l’80% delle terre arabili che sono coltivate dall’uomo non ha un sistema di irrigazione e deve quindi fare affidamento sulle sole precipitazioni piovose, con la conseguenza che nei terreni dove esiste un sistema di irrigazione si hanno rendimenti agricoli superiori, in una misura che varia dal 100% al 400%. Il 40% dell’intera produzione agricola proviene da terreni che dispongono di un sistema di irrigazione (cioè il 20%), mentre il restante 60% proviene dall’80% delle terre coltivate sul nostro pianeta. Nonostante la relativa abbondanza delle risorse idriche sul nostro pianeta (dove non ci sono fonti d’acqua dolce in superficie, quali fiumi e laghi, ci sono quasi sempre le falde acquifere sotterranee), l’accesso all’acqua dolce dei 7 miliardi di persone che vivono sul nostro pianeta è fortemente diseguale, con i più poveri che devono la loro condizione e la forte mortalità infantile principalmente a un insufficiente accesso all’acqua dolce non contaminata.

Cattiva qualità dell’acqua Nel 2008, secondo la Banca Mondiale, 2,6 miliardi di persone non hanno potuto usufruire di adeguati servizi igienici, con la conseguenza che malattie come la diarrea, il tifo o il colera, che potrebbero essere debellate con un’adeguata igiene, ogni anno mietono 1,5 milioni di vittime. A peggiorare la situazione non è solamente la mancanza di acqua (basterebbe infatti la costruzione di infrastrutture anche minime, come pozzi o pompe in grado di prelevare l’acqua sotterranea), ma anche la scarsa qualità dell’acqua utilizzata, sempre più contaminata da inquinanti batteriologici e chimici. Nei paesi in via di sviluppo, infatti, il 70% dei rifiuti industriali (e spesso la quasi totalità degli scarichi fognari) che vengono scaricati nelle acque di fiumi e laghi, la cui acqua viene poi utilizzata dalla popolazione locale per irrigare, cucinare e assolvere ai servizi igienici di base (come lavarsi), non subiscono nessuna forma di trattamento. Il contatto con acqua infetta, la mancanza di servizi igienici o misure igieniche elementari (come lavarsi le mani), o il consumo di acqua o cibo contaminati dai batteri fecali di una persona infetta, sono le principali causa della diarrea che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è la responsabile della morte di 2 milioni persone all’anno (di cui 1,5 milioni sono bambini al di sotto dei 5 anni). Altre malattie legate all’utilizzo di acqua infetta o alla mancanza di misure igieniche di base sono la febbre tifoidea (con 17 milioni di casi all’anno), il colera e l’epatite A.

L’insorgere di questo tipo di malattie è molto più probabile dove si sviluppano tutte e tre queste condizioni: alta densità della popolazione, urbanizzazione e povertà. La maggior parte dei casi di diarrea, tifo, colera, epatite e altre malattie legate all’acqua contaminata avvengono infatti nelle periferie delle città del terzo mondo, dove si ammassano centinaia di migliaia di persone che devono fare i conti con la mancanza di acqua potabile e con servizi igienici non adeguati. Ma altrettanto grave è la contaminazione da sostanze chimiche non organiche, anche se purtroppo non si dispone di dati precisi sul fenomeno, perché quelli disponibili sono incompleti o tendono a sottostimare il fenomeno, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. La contaminazione dell’acqua con sostanze chimiche inorganiche che sono dannose per la salute umana può avvenire sia per cause naturali (ad esempio tramite la presenza di arsenico nelle falde acquifere), che per cause legate all’attività dell’uomo (ad esempio con la contaminazione dell’acqua da parte di pesticidi, insetticidi o rifiuti industriali, quali piombo, cromo, mercurio e via dicendo). Secondo il Blacksmith Institute, gli inquinanti chimici dell’acqua che maggiormente minacciano la popolazione nei siti identificati sono piombo (a rischio 10 milioni di persone), mercurio (8,6 milioni di persone), cromo (7,3 milioni di persone), arsenico (secondo le Nazioni Unite, nel mondo ci sono 130 milioni di persone che consumano acqua con livelli di arsenico superiori alla soglia massima stabilita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità), ma anche pesticidi e radionuclidi. Ma l’inquinamento

dell’acqua

danneggia

anche

l’ecosistema.

Ad

esempio,

l’eutrofizzazione delle acque, che è provocata da un’eccessiva presenza di nitrati e fosfati (provenienti da fertilizzanti chimici e concimi naturali, come l’urea), danneggia fortemente l’ecosistema, portando alla perdita di gran parte della fauna ittica e danneggiando irrimediabilmente l’ecosistema. Consumi, quantità disponibile e scenari futuri Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite dedicata allo studio delle risorse idriche (la UN Water), ogni anno sulla Terra cadono 110.000 km3 di acqua sotto forma di precipitazioni piovose, ma di questi solamente 7.130 km3, ovvero il 7% del totale, vengono utilizzati dall’agricoltura. L’80% dei 7.130 km3 di acqua che vengono utilizzati

dall’agricoltura

provengono

direttamente

dalle

precipitazioni piovose, mentre il restante 20% proviene da fiumi, laghi e falde acquifere allo scopo di irrigare i campi (e quindi indirettamente dalle precipitazioni piovose). L’acqua non può essere trasportata in grandi quantità da un continente all’altro e questo condanna le regioni che ne sono prive a importare acqua in modo “virtuale”, cioè tramite l’acquisto di prodotti finiti che ne incorporino grandi quantità (ad esempio, tramite l’acquisto di riso o carne di bovino da parte delle popolazioni che vivono in zone aride). Per capire la futura disponibilità di acqua sul nostro pianeta, occorre quindi capire in che modo si evolverà l’attività agricola (che ne consuma il 70%). La produzione agricola è influenzata dalla

domanda di cibo, che a sua volta dipende dalla crescita della popolazione e anche da quanto e cosa mangia la popolazione del nostro pianeta. Quanto mangiamo e che cosa mangiamo dipende da più variabili, quali il reddito pro capite, la cultura e le abitudini alimentari, la religione e altre variabili ancora, come

la

consapevolezza del proprio impatto sull’ambiente o l’aspirazione a raggiungere uno stile di vita sano. Secondo la FAO, nel 2025 la popolazione mondiale avrà superato la soglia degli 8 miliardi di abitanti, mentre nel 2050 il nostro pianeta sarà abitato da 9,3 miliardi di persone. n inoltre piuttosto probabile che i paesi emergenti, per i quali il reddito pro capite continua a crescere ad un tasso maggiore rispetto a quello dei paesi sviluppati, vedranno cambiare le proprie abitudini alimentari, aumentando quindi il consumo di carne (piuttosto basso per i paesi poveri, come l’Africa Sub-Sahariana e i paesi dell’Asia Meridionale). L’aumento della popolazione e quello del reddito medio dei paesi in via di sviluppo significa quindi che dovrà aumentare anche la produzione agricola (o le importazioni) e quindi il consumo globale di acqua. Entro il 2050, la maggior parte dell’incremento della popolazione avverrà nei paesi in via di sviluppo (7,5 miliardi di persone vivranno nei paesi a reddito basso o medio-basso), con la conseguenza che proprio in questi paesi vi sarà una maggior necessità di acqua per garantire una più sostanziosa produzione agricola. Secondo la UN Water, il Sudamerica è la regione che ha a disposizione la maggior quantità di acqua rinnovabile (senza considerare le precipitazioni piovose), pari a

12.380 km3 all’anno, ovvero il 29% del totale, mentre al secondo posto troviamo il Nord America, con una quantità pari a 6.077 km3 all’anno. L’Oceania è invece la regione che ha a disposizione il maggior quantitativo di acqua rinnovabile per persona: la media per ogni abitante è pari a 33.469 m3 all’anno. Al secondo posto c’è il Sudamerica, con in media 32.165 m3 di acque interne disponibili ogni anno per i propri abitanti, mentre al terzo posto troviamo l’Europa Orientale (compresa l’intera Federazione Russa), con 21.430 m 3 di acqua rinnovabile disponibile per persona. Nord-Africa, Asia Meridionale ed Asia Occidentale sono le regioni che hanno invece a disposizione il minor quantitativo di acqua rinnovabile per abitante, rispettivamente pari a 286, 1.125 e 1.632 m3 l’anno. Nord Africa, Asia Centrale, Asia Meridionale e Asia Occidentale, sono le regioni che nei prossimi anni subiranno i maggiori problemi legati alla disponibilità dell’acqua. In queste regioni, infatti, sempre secondo la UN Water, l’irrigazione dei campi preleva una quantità di acqua pari al 170% dell’acqua rinnovabile del Nord Africa, il 57% di quella dell’Asia Centrale, il 52% di quella dell’Asia Meridionale ed il 47% di quella dell’Asia Occidentale, mentre, con l’esclusione dell’Asia Meridionale, la piovosità annua è inferiore agli 809 millimetri all’anno, cioè la media del nostro pianeta, mentre queste regioni hanno una piovosità che è rispettivamente pari a 96, 273 e 217 millimetri all’anno). Oltre all’intenso prelievo di acqua per l’irrigazione e a precipitazioni piovose inferiori alla media del nostro pianeta, in futuro queste regioni dovranno fare i conti con l’eccessivo

aumento demografico. Dal 2015 al 2050, secondo la FAO, il Nord Africa vedrà aumentare la propria popolazione del 42%, l’Asia Centrale del 27%, l’Asia Meridionale del 31% e l’Asia Occidentale del 55%. A livello di singoli stati, è il Brasile il paese che dispone della maggior quantità di acqua rinnovabile pari a 8.233 km3 all’anno (secondo le statistiche della FAO dedicate a questo apposito tema – Aquastat). Seguono la Russia, con 4.508 km3, gli Stati Uniti, con 3.069 km3, il Canada, con 2.902 km3 e la Cina, con 2.840 km3. Considerando i primi 15 paesi per quantità d’acqua disponibile, troviamo che, sempre secondo la FAO, è il Bangladesh ad avere il più alto tasso di dipendenza nei confronti dell’estero, avendoci il 91,44% delle risorse idriche rinnovabili che hanno origine al di fuori dei propri confini. Seguono Vietnam e Venezuela, che ricevono rispettivamente il 59,35% e il 41,42% del’acqua disponibile dall’estero. Un alto tasso di dipendenza dall’estero aumenta la vulnerabilità di un paese, perché in futuro potrebbe dover affrontare alcuni problemi relativi alla disponibilità dell’acqua, a causa di dighe, sbarramenti e/o un eccessivo prelievo della preziosa risorsa idrica operato a monte. La Fao indica nell’India è il paese che ha effettuato il maggior prelievo d’acqua nel 2008 (pari a 761 km3 d’acqua), mentre al secondo posto troviamo la Cina, con 554 km3 di acqua prelevata e gli Stati Uniti, con 478,4 km3 utilizzati per garantire il benessere degli oltre 300 milioni di americani. Tra i più importanti

consumatori

d’acqua

al

mondo,

troviamo

che

l’Uzbekistan ha già superato la soglia della quantità d’acqua che ogni

anno si ricarica tramite le precipitazioni nevose e piovose, infatti, il paese nel 2008 ha prelevato il 118,30% dell’acqua rinnovabile a disposizione, attingendo quindi allo stock di acqua fossile, che è una risorsa non rinnovabile. Altri paesi vicini a una condizione di sovrasfruttamento delle proprie risorse idriche rinnovabili sono Egitto, Pakistan e Iran, che nel 2008 hanno prelevato rispettivamente il 95%, il 74% e il 68% della quantità d’acqua rinnovabile interna. Attualmente, 1,4 miliardi di persone vivono in bacini idrici dove il consumo di acqua non è sostenibile, perché più grande rispetto alla quantità di acqua che si rigenera ogni anno, con la conseguenza che le falde acquifere si esauriscono e i fiumi si prosciugano. Tutto questo nonostante il consumo d’acqua sia in continuo aumento e a un tasso maggiore rispetto a quello della crescita della popolazione. Secondo la FAO e la UN-Water, il tasso di consumo di acqua dolce da parte dell’umanità, nell’ultimo secolo è stato più che doppio rispetto al tasso di crescita della popolazione. Entro il 2025, il consumo d’acqua è previsto in aumento del 50% nei paesi in via di sviluppo e del 18% in quelli sviluppati. Un ulteriore aumento delle pressioni nei confronti dell’”oro blu” non potrà che aggravare le già gravi disuguaglianze che esistono sul nostro pianeta. Secondo la FAO, entro il 2025, 1,8 miliardi di persone vivranno in regioni dove l’acqua sarà una risorsa scarsa o addirittura assente, mentre i 2/3 dell’intera popolazione mondiale subirà dei disagi (e andranno incontro a una qualche forma di razionamento del prezioso oro blu) per l’utilizzo dell’acqua, mettendo a rischio tutte quelle attività che

ne assorbono grandi quantitativi (come l’irrigazione dei campi, il raffreddamento

delle

centrali

termoelettriche

e

nucleari,

la

produzione di energia idroelettrica, eccetera). Ad aggravare tutte le previsioni sulla futura disponibilità d’acqua, ci sono anche i cambiamenti climatici – già in atto – a causa del surriscaldamento dell’atmosfera del nostro pianeta. Secondo gli scienziati dell’IPCC, a causa dei cambiamenti climatici il rendimento dei terreni agricoli che fanno affidamento sulle sole precipitazioni piovose (che sono circa l’80% delle terre coltivate), potrebbe diminuire del 50% già entro il 2020. Sempre a causa del riscaldamento terrestre, la FAO prevede che entro il 2030 i ghiacciai e le nevi dell’Himalaya, che riforniscono alcuni dei più importanti fiumi asiatici (il bacino dell’Indo, il Gange, il Brahmaputra, il Fiume Giallo, lo Yangtze, il Mekong, eccetera), potrebbero diminuire del 20%, con la conseguenza che alcune delle regioni più densamente popolate al mondo (l’Asia Meridionale e la Cina) si troverebbero a fronteggiare una sempre più grave crisi idrica, con conseguenze disastrose sulla produzione agricola di questa regione. Oltre a una gestione sostenibile delle risorse idriche contenute nelle falde freatiche, c’è da considerare il fatto che la quantità d’acqua sfruttabile sarà sempre meno a causa dell’inquinamento e della contaminazione delle falde freatiche con sostanze inquinanti provenienti dall’attività dell’uomo (dai pesticidi ai metalli pesanti, passando per i rifiuti radioattivi). Da notare che l’attività di “frackling”, ovvero la rottura di rocce scistose per estrarre lo shale gas, un tipo di gas non convenzionale che da

qualche anno gli Stati Uniti hanno iniziato a produrre in grandi quantità, inquina pesantemente le falde acquifere a causa delle frequenti fuoriuscite dalle tubazioni utilizzate per recuperare il gas (perché si utilizza una soluzione di acqua al 98% e additivi chimici al 2%). L’acqua è in assoluto la risorsa più strategica per il futuro, perché da essa dipende la continuazione della vita sulla Terra ed è inoltre presente più o meno direttamente in praticamente tutti i beni che ci permettono l’attuale stile di vita.

VIII La situazione ambientale non è più sostenibile Torna all’indice Le ultime foreste primarie Le foreste primarie (o vergini) sono foreste che sono rimaste intatte per un lungo periodo di tempo e hanno quindi sviluppato caratteristiche biologiche uniche. La caratteristica peculiare è la presenza di alberi di grandi dimensioni e quindi molto longevi a fianco di alberi in condizioni di marcescenza. Questi, insieme alla grande varietà di specie arboree, sono l’elemento fondamentale affinché si sviluppi una marcata biodiversità. Questi ambienti sono spesso la patria di specie animali e vegetali rare o in pericolo di estinzione e sono quindi una riserva di biodiversità di inestimabile valore. Secondo Greenpeace, le foreste primarie del nostro pianeta occupano una superficie pari a 13,1 milioni di km2 (1,31 miliardi di

ettari) – ovvero il 9,3% delle terre emerse del pianeta e poco meno di 1/3 delle aree forestali e boschive del nostro pianeta.

Immagine 3: Foreste primarie (in verde scuro)

Fonte: http://www.intactforests.org/world.map.html

Tre paesi, ovvero Canada, Brasile e Russia, da soli rappresentano il 63,8% dell’intera superficie delle foreste primarie del nostro pianeta. Secondo un rapporto di Greenpeace del 2006, il 35% delle foreste primarie si trova in America Latina e Caraibica (L’Amazzonia è in assoluto la più grande foresta del mondo), il 28% in Nord America (anche se Canada e Stati Uniti distruggono ogni anno circa 10.000

km2 di foreste primarie), il 19% nell’Asia Settentrionale (sede della seconda foresta boreale più grande al mondo), il 7% nell’Asia Meridionale e nel Pacifico (le foreste di queste regioni sono state distrutte molto più rapidamente che in altre zone, il 70% delle foreste primarie dell’Indonesia e il 60% di quelle della Papua Nuova Guinea sono già state abbattute), l’8% in Africa (l’industria del legname ha distrutto negli ultimi trent’anni enormi aree di foresta intatta) e meno del 3% in Europa, che sconta il fatto di essere stata la prima ad aver sperimentato la rivoluzione industriale. Oltre la metà delle foreste primarie è stata distrutta negli ultimi ottant’anni e di questi, la metà negli ultimi trent’anni. Dobbiamo prendere atto però che sempre secondo Greenpeace, solamente l’8% delle foreste primarie sono protette da una legislazione efficace e in grado di garantirne la sopravvivenza nei prossimi anni. Le cause di questa distruzione, come abbiamo già visto nel VI° capitalo, sono la necessità del taglio del legname, ma anche quella di fare spazio a nuovi terreni da dedicare all’allevamento o alla coltivazione della palma da olio (ampiamente impiegata dall’industria della cosmesi e da quella alimentare), della soia e del mais (per fare mangimi destinati alla crescente popolazione di bovini, suini e pollame, necessari a placare l’appetito di carne dei paesi emergenti). Nonostante la presenza dell’Amazzonia – la più grande foresta primaria del mondo – dove vivono circa la metà delle specie vegetali e animali del nostro pianeta, solamente l’8% delle foreste primarie tropicali dell’America Latina sono attualmente protette da una legislazione efficace. In

Patagonia si trova l’altra foresta primaria dell’America Latina (l’82% si trova in Cile, mentre l’8% in Argentina) e può contare su una legislazione che ne protegge quasi 1/3, la percentuale più alta del mondo. In Africa le foreste primarie si addensano nel “cuore” del continente: il 93% si trova fra R.D. Congo, Congo, Camerun e Gabon. Ne viene protetto solamente l’8,7%. In Asia Meridionale e nel Pacifico, una delle regioni dove le foreste primarie stanno sparendo più in fretta, il 57% delle foreste primarie si trova fra Indonesia e Papua Nuova Guinea. Ne viene protetto il 12% e la parte rimanente è seriamente in pericolo a causa della grande crescita economica da parte dei paesi asiatici (e quindi del loro insaziabile bisogno di risorse naturali). In Nord America le foreste primarie si trovano prevalentemente in Canada (l’84% del totale), mentre la parte rimanente è situata nella regione dell’Alaska (anche gli Usa hanno pagato il prezzo del processo di industrializzazione iniziato a fine Ottocento, con la perdita della quasi totalità delle proprie foreste primarie). In questa regione, solamente il 6,7% delle foreste primarie vengono protette (una percentuale che è inferiore a quella dei paesi africani o dell’Asia Meridionale). In Europa, quel che rimane delle foreste primarie si trova per il 90% nella Russia (la parte europea), un 3% in Finlandia e un altro 3% in Svezia, mentre trentasei paesi le hanno completamente distrutte. Il 15,5% delle foreste primarie dell’Europa è attualmente protetto (troppo poco anche in questo caso). Il 90% delle ultime foreste primarie dell’Asia Settentrionale si trovano in Russia e solamente il 4,4% sono protette, la percentuale

più bassa al mondo, che lascia quindi ben poche speranze di riuscire a salvare la tigre siberiana, uno degli animali più a rischio d’estinzione al mondo (secondo Greenpeace, ne rimarrebbero ancora circa 400 esemplari). Una delle più gravi minacce per la sopravvivenza futura di questi habitat è rappresentato dal fenomeno della frammentazione delle foreste, cioè quando la superficie originale viene divisa in più parti da strade e insediamenti umani (sia urbani che agricoli o industriali), andando così ad alterare il clima delle zone di confine (ad esempio modificandone la piovosità). La rapida diminuzione della biodiversità Il WWF ha elaborato un indice, il Living Planet Index, che permette di stimare le variazioni della biodiversità di una determinata regione. Dal 1970 il WWF effettua campionamenti sulle popolazioni di differenti specie di vertebrati (mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci) in tutto il mondo per valutarne la numerosità e quindi per stimare lo stato di salute degli ecosistemi in cui vivono. Dal 1970 al 2008, il Living Planet Index del nostro pianeta ha registrato una flessione pari al 28%. Questo significa che l’attività dell’uomo (inquinamento, urbanizzazione e costruzione di infrastrutture, agricoltura industriale e allevamenti intensivi, disboscamento, erosione del suolo, pesca intensiva e caccia, costruzione di grandi dighe, cambiamenti climatici, eccetera) sta aumentando le pressioni sulle popolazioni di altri esseri viventi, che si stanno avviando verso la scomparsa. A preoccupare maggiormente è però la distruzione

della biodiversità degli ecosistemi tropicali (compresi fra il Tropico del Cancro ed il Tropico del Capricorno). L’indice del WWF che misura la numerosità delle popolazioni animali di questi ecosistemi è infatti diminuito del 61% (sempre dal 1970 al 2008) – a fronte di una variazione positiva dell’indice degli ecosistemi temperati (+31%). Questi due dati vanno però letti con attenzione, se infatti il primo ci mostra tutta la sua gravità, il secondo è piuttosto una “vittoria di Pirro”. Il WWF non dispone infatti di dati anteriori al 1970 e, considerando che quasi tutti i paesi ricchi si concentrano nell’emisfero Boreale (e in particolare nei climi più temperati), non possiamo quantificare le perdite di biodiversità che hanno subito queste

regioni

con

l’arrivo

dell’agricoltura

industriale,

la

deforestazione e il processo di industrializzazione (avvenuti per buona parte già prima del 1970). Per cui, la situazione nei climi temperati è migliorata anche perché i paesi più ricchi hanno destinato parte del loro reddito alla salvaguardia dell’ambiente, per cercare di salvare il salvabile dopo che lo sviluppo economico ha distrutto gran parte dell’habitat originario (le foreste primarie dell’Europa e degli Stati Uniti, le grandi praterie nordamericane, eccetera) e a causa del processo di de-industrializzazione. Ma tornando agli ecosistemi tropicali, segnaliamo che si è praticamente dimezzata la popolazione degli animali terrestri nei quasi quattro decenni considerati (-44%), mentre negli ecosistemi marini è stato distrutto il 63% della materia vivente, a fronte di una vera e propria ecatombe degli ecosistemi nelle acqua dolci, dove il 70% degli animali che erano presenti nel

1970 sono ora spariti. Dal 1970 al 2008, sempre secondo il WWF, i paesi dell’America Latina hanno visto dimezzare la propria popolazione animale, nell’Africa Sub-Sahariana oltre 1/3 della biodiversità è stato distrutto, mentre nelle regioni del Pacifico e nell’Asia al di sotto dell’Himalaya (una delle zone più densamente popolate al mondo), i 2/3 della popolazione di animali presente in questi quarant’anni è stata spazzata via dall’inesorabile avanzata del progresso. La pressione dell’uomo nei confronti del nostro pianeta è in continuo aumento e stiamo seriamente minacciando la continuazione della vita nei mari, nei fiumi, nelle ultime foreste primarie e in tutti gli ambienti più fragili (come le paludi e le aree umide, le ultime praterie, le savane o le barriere coralline), portando sull’orlo dell’estinzione milioni di specie di esseri viventi. Per fare un esempio, tra il 1960 ed il 2010, la popolazione di merluzzo dell’Atlantico (famoso per la sua fecondità) è diminuita del 74%, prevalentemente a causa della pesca intensiva ma anche per l’aumento dell’inquinamento. L’Atlantico Nord-Occidentale è l’area dove ci sono state le maggiori perdite di questo pesce ampiamente utilizzato dall’industria alimentare e simbolo della cultura delle zone costiere che si affacciano sul Mare del Nord. L’attuale popolazione di merluzzi presenti nei mari scozzesi è il 3% di quella che c’era prima della rivoluzione industriale. In Living Planet del 2012, il WWF cita anche la tigre e il delfino d’acqua dolce (presente con un alcune specie differenti nel Rio delle Amazzoni e un tempo anche nel fiume Indo, nel Gange, nello Yangtze e nel Mekong) come animali a

un passo dall’estinzione a causa dell’attività antropica che negli ultimi anni ne ha decimato le popolazioni. Negli ultimi trent’anni la popolazione di tigri sul nostro pianeta è diminuita del 70% e oggi ne rimangono fra i 3.200 ed i 3.500 esemplari. Nel 2008, la Banca Centrale stimava in 12.095 il numero delle specie viventi minacciate, ovvero in via d’estinzione o a rischio di diventarlo. Di queste, 1.141 specie appartenevano ai mammiferi, 1.222 agli uccelli, 8.457 alle piante e 1.257 ai pesci (la Banca Centrale però non ci fornisce informazioni su rettili, anfibi, insetti e altre specie viventi). Cina e Indonesia sono i paesi che vantano il maggior numero di specie minacciate e sono presenti in tutte e quattro le categorie considerate dalla classificazione della Banca Centrale (vedi Tabella 12). Sono entrambi grandi paesi caratterizzati da una marcata biodiversità, che è però minacciata da una popolazione molto numerosa e dal rapido sviluppo economico che sta mettendo a rischio gli ultimi habitat ancora intatti. Considerando l’indice GEF, che misura la quantità e la qualità della biodiversità presente in ogni singolo paese, notiamo che sul nostro pianeta la biodiversità non è equamente distribuita: trenta paesi rappresentano il 76% della biodiversità totale del nostro pianeta, con il Brasile che è il paese che detiene la più grande biodiversità del mondo, con un indice GEF pari a 100. Seguono in questo particolare indice gli Stati Uniti, l’Australia e l’Indonesia.

Tabella 12: Primi 5 paesi per numero di specie minacciate nel 2010 per classe (uccelli, pesci, piante, mammiferi)

Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

L’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche Dal secondo dopoguerra la pesca si è fatta industriale e quindi pianificata su scala mondiale, con un esercito di pescherecci di dimensioni sempre più grandi che è salpato alla conquista dei pesci di tutti i mari (e in particolar modo del Nord dell’Atlantico e del Pacifico Nord-Occidentale). Secondo l’ICCAT, si è così passati, in qualche decennio, dalle 19 milioni di tonnellate di pesce pescato nel 1950 a una cifra pari a 87 milioni di tonnellate nel 2005 (un incremento del 358%), troppo anche per gli oceani e i mari del nostro pianeta. La pesca intensiva sta rapidamente razziando i mari di tutto il mondo portando alla graduale scomparsa dei grandi predatori dei mari (tonni, pesci spada, marlin, squali), essenziali per garantire quel fragile equilibrio su cui si basa l’ecosistema marino, anche se l’ittiofauna dei nostri oceani deve fare i conti con altre piaghe, la cui causa è pur sempre riconducibile all’attività dell’uomo. Secondo la Nasa, l’acidificazione dei mari è già una realtà, essendo aumentata del 30% in pochi decenni (causata dall’inquinamento, ovvero dall’emissione di anidride carbonica nell’atmosfera) e mettendo quindi sempre più a rischio le barriere coralline, cioè dove si concentra la gran parte della biodiversità marina. Ma tornando alla pesca, notiamo che l’andamento delle catture di alcune delle specie di predatori di maggior valore commerciale (le così dette “specie maggiori”), nonostante la crescente richiesta (proveniente soprattutto da Cina, Corea e Giappone), ha raggiunto un punto di massimo nel

1994, quando sono state pescate 670.906 tonnellate delle nove “specie maggiori” (vedi Grafico 23), per poi registrare una costante discesa fino ad arrivare alle 464.004 tonnellate del 2010 (-31%). Il tonno rosso – il tonno più pregiato, richiestissimo nei mercati di Tokio (il cui prezzo può arrivare a qualche migliaia di euro al chilogrammo) – è l’emblema dello svuotamento dei mari e della strage che l’industria della pesca ha perpetuato negli ultimi decenni. Basti pensare che se le catture di tonno rosso del 1996 sono state pari a 53.320 tonnellate, nel 2010 ne sono state pescate solamente 13.158 tonnellate, cioè il 75% in meno. Ma l’industria della pesca ha iniziato a pescare anche altre specie, meno pregiate, come la palamita, il tonnetto alletterato, lo sgombro macchiato o il tombarello), così che quello che è successo con le nove “specie maggiori” si è poi ripetuto anche con le “specie minori” e con altri tipi di tonnidi. Sempre secondo l’ICCAT, dalle 147.202 tonnellate di catture del 1988 siamo passati alle 71.987 tonnellate del 2010, ciò

significa che si è

dimezzato il quantitativo di “specie minori” pescate.

Grafico 23: Andamento delle catture delle nove “specie maggiori” dal 1950 al 2010 (in tonnellate)

Fonte: rielaborazione dati ICCAT

Siamo ormai pericolosamente vicini al punto in cui avremo completamente svuotamento gli oceani, le cui conseguenze non saranno solamente la perdita di un’importante fonte di proteine, ma la rottura degli equilibri del mare, essenziali alla continuazione della vita sulla terra ferma. L’umanità sta dilapidando il proprio capitale naturale Per valutare l’impatto che l’attività antropica ha sul nostro pianeta, è utile utilizzare l’impronta ecologica, un indicatore che permette di calcolare l’utilizzo di risorse da parte degli uomini rispetto alla

capacità del nostro pianeta di rigenerarle. L’impronta ecologica è un concetto che è stato messo a punto a metà degli anni Novanta da due scienziati, Mathis Wackernagel e William Rees. L’impronta ecologica viene espressa in “ettari globali” e permette così di avere un’idea dell’ammontare dell’area biologicamente riproduttiva di terra (e mare) che è necessaria a rigenerare le risorse che sono state consumate e ad assorbire i rifiuti che sono stati immessi dall’umanità in un certo periodo di tempo (di solito un anno). Il calcolo dell’impronta

ecologica

avviene

mediante

l’utilizzo

di

un

coefficiente di rendimento (ad esempio kg/ha) utilizzando la quantità di risorse consumate. In questo modo si ottiene la quantità di “ettari globali” di superficie produttiva necessari a ricostituire quanto l’umanità ha prelevato. Nel calcolo dell’impronta ecologica vengono prese

in

considerazione

sei

tipologie

di

terreno,

o

aree

biologicamente riproduttive. Così che abbiamo un’area destinata all’assorbimento dell’anidride carbonica proveniente dall’utilizzo di combustibili fossili (boschi e foreste), una destinata alla coltivazione dei terreni per produrre cibo o altre colture non alimentari (terreni agricoli), una destinata all’allevamento o alla produzione di mangimi (terreni agricoli e pascoli), una destinata alla produzione di legname (boschi e foreste), una destinata alla riproduzione delle risorse ittiche (area marina) e infine, l’area destinata alle costruzioni (aree urbane, strade, fabbriche, eccetera). L’impronta ecologica tiene però in considerazione la sola superficie necessaria alla rigenerazione delle risorse naturali consumate o legate all’immissioni di anidride

carbonica nell’ambiente, ma non tiene conto degli altri inquinanti immessi dall’uomo nell’ambiente, così come di altri aspetti come il consumo delle risorse idriche, la perdita della biodiversità, la contaminazione transgenica e via dicendo. Per cui, è bene ricordare che quella riassunta dall’impronta ecologica è pur sempre una situazione approssimata per difetto e che quindi tende a sottodimensionare il vero impatto della nostra economia sul capitale naturale. Nel 2008 l’umanità ha consumato 18,2 miliardi di “ettari globali” di superficie, mentre quelli resi disponibili da parte del nostro pianeta erano solamente 12 miliardi (vedi Grafico 24). Siamo quindi in deficit di 6,2 miliardi di ettari di spazio bioproduttivo. Infatti, nel 2008 l’umanità aveva a disposizione in media 1,8 “ettari globali” di spazio bioproduttivo per persona, a fronte di un consumo pari a 2,7 e questo significa che la terra avrebbe impiegato più di un anno e mezzo per rigenerare quanto consumato. L’umanità ha quindi semplicemente liquidato una parte delle risorse e del patrimonio naturale del nostro pianeta per mantenere l’attuale stile di vita, ma a scapito del proprio futuro. E’ da più di quarant’anni che continuiamo a vivere al di sopra delle nostre possibilità, prendendo a prestito anche le risorse naturali delle generazioni future perché abbiamo oltrepassato quella soglia di sostenibilità oltre la quale si ha la pura liquidazione delle risorse del nostro pianeta – ovvero del capitale naturale. Liquidazione netta di capitale naturale significa perdita della biodiversità, riscaldamento globale (con tutte le conseguenze negative del caso), rapido esaurimento delle risorse non rinnovabili

(ad esempio degli idrocarburi alla base della nostra economia), inquinamento delle falde acquifere, acidificazione dei mari, erosione del suolo, aumento della desertificazione e via dicendo. In poche parole significa mettere a rischio la stessa capacità di sopravvivenza delle future generazioni. Dal 1961 al 2008, la capacità biologica totale del nostro pianeta è aumentata del 22%, passando da 9,8 a 12 miliardi di “ettari globali”, ma comunque non abbastanza per compensare il marcato aumento che c’è stato nella domanda di risorse naturali (+149%).

Grafico 24: Variazione impronta ecologica dell’umanità e capacità biologica del nostro pianeta dal 1961 al 2008 (in miliardi di “ettari globali”)

Fonte: rielaborazione dati National Footprint Account 2011

Secondo il National Footprint Account, l’impronta ecologica pro capite dell’umanità si è mantenuta più o meno stabile (intorno ai 2,7 ettari globali per persona), mentre abbiamo assistito a una diminuzione della capacità biologica a disposizione di ogni abitante del nostro pianeta: nel 1961 era di 3,2 ettari globali, mentre nel 2008 abbiamo raggiunto gli 1,8 ettari globali, ovvero il 78% di superficie bioproduttiva in meno in soli quarantasette anni. Com’è logico immaginare, i paesi ricchi consumano un maggior numero di risorse per persona di quelli poveri e quindi necessitano di una maggiore superficie bioproduttiva. In termini assoluti, il Brasile è il più grande

creditore al mondo di capacità biologica, con una riserva pari a 1.282 milioni di “ettari globali” di spazio bioproduttivo che attualmente non è ancora stato utilizzato dai propri abitanti. Seguono poi la Russia, con 318 milioni di “ettari globali” di spazio bioproduttivo e il Canada, con una riserva di spazio produttivo pari a 283 milioni di “ettari globali”. La Cina è invece il più grande debitore al mondo di superficie bioproduttiva: per mantenere una crescita economica a doppia cifra e una popolazione di 1,3 miliardi di persone, nel 2008 ha avuto bisogno di 1.714 milioni di “ettari globali” di superficie al di fuori dei propri confini. Il secondo più grande debitore al mondo di superficie bioproduttiva sono gli Stati Uniti, che, pur disponendo della terza superficie al mondo più estesa (dopo Russia e Canada) e di una popolazione di poco più di 300 milioni di abitanti (rispetto agli 1,3 miliardi di cinesi), si trovano ad aver un deficit interno pari a 1.015 milioni di “ettari globali” di capacità biologica, che devono quindi importare dall’estero per mantenere il proprio stile di vita (o più semplicemente si limitano a scaricare anche sugli altri paesi gli effetti negativi delle proprie emissioni di CO2). Al terzo posto troviamo l’India (con un deficit di 461 milioni di “ettari globali”) seguita dal Giappone (-453 milioni di “ettari globali”). Gli Stati Uniti sono il paese che detiene le più grandi riserve al mondo di terreno agricolo, pari a 134 milioni di ettari, mentre la Cina è il paese con il maggior deficit di terra da coltivare: nel 2008 ha avuto bisogno di 201 milioni di ettari di superficie agricola al di fuori dei propri confini. L’Australia ha il maggior surplus nell’allevamento (109

milioni di ettari), mentre Regno Unito e Cina (con 22 e 21 milioni di ettari) il deficit maggiore. Il Brasile ha le maggiori riserve al mondo di legname (pari a 1.283 milioni di ettari di foreste), mentre l’India è il paese con il più grande deficit al mondo di legname, avendo avuto bisogno nel 2008 dell’equivalente di 112 milioni di ettari di foreste al di fuori del proprio confine per sopperire ai propri consumi interni. invece la Cina il paese con il più grande deficit di spazio per la pesca (41 milioni di ettari), mentre la Russia quello con la più grande riserva al mondo di area biologicamente riproduttiva destinata alla pesca, con 141 milioni di ettari in surplus rispetto al proprio fabbisogno interno. Verso cambiamenti epocali del clima: il riscaldamento terrestre A partire dalla fine del XIX secolo, abbiamo assistito a un aumento della temperatura media sia dell’atmosfera terrestre, che degli oceani. Dall’inizio del XX secolo ad ora, la temperatura media del nostro pianeta è aumentata di 0,8°C, con la maggior parte dell’incremento (pari a 0,6°C) che è avvenuto dal 1980 ad 2010. A partire dal 1980 abbiamo assistito a un forte aumento della temperatura media del nostro pianeta e non ci sono più stati scostamenti al di sotto della media del periodo 1951-1980 (vedi Grafico 25). Se il processo di riscaldamento del nostro pianeta, attualmente in atto ed entrato ormai in una pericolosa fase di accelerazione, è un dato di fatto, il dibattito della comunità scientifica si è ora spostato sulle cause, sui motivi che ci hanno portato verso questi sconvolgimenti climatici. La comunità

scientifica è d’accordo praticamente all’unanimità (oltre il 90% degli scienziati) nell’imputare le cause del riscaldamento globale alle attività antropiche e in particolar modo a tutte quelle attività che aumentano la concentrazione di gas serra nell’atmosfera, derivanti dalla pratica della deforestazione, dall’utilizzo di combustibili di origine fossile e dall’industria delle costruzioni e del cemento. Le radiazioni solari (calore) entrano nell’atmosfera raggiungendo la superficie terrestre, da dove vengono in parte riflesse nello spazio e in parte assorbite dalla superficie e quindi convertite in calore.

Grafico 25: Scostamento della temperatura annua terrestre dalla media del periodo 1951-1980 dal 1880 al 2010

Fonte: rielaborazione dati NASA

Una parte delle radiazioni che vengono riflesse nello spazio viene però trattenuto e rilasciato nella troposfera (la parte bassa dell’atmosfera) da parte di alcuni gas presenti nell’atmosfera, i così detti gas serra. E’ bene ricordare che questo processo ha permesso al nostro pianeta una temperatura media di 14°C anziché di -19°C e quindi la possibilità della vita. I principali gas serra sono il vapore acqueo (che incide dal 36% al 70% dell’effetto serra), l’anidride carbonica o CO2 (che incide dal 9% al 26%), il metano o CH4 (che incide dal 4 al 9%) e l’ozono (che incide dal 3 al 7%). Per cui l’effetto serra è di per sé un fenomeno positivo, perché permette

all’acqua di non congelarsi; il problema sorge però quando assistiamo a un repentino aumento dell’effetto serra, in grado di impedire alla maggior parte delle specie animali e vegetali di adattarsi ai veloci mutamenti dell’habitat naturale. A partire dalla rivoluzione industriale, iniziata nella Gran Bretagna a metà del XVIII secolo, l’uomo ha iniziato a bruciare combustibili fossili (all’inizio carbone, poi anche petrolio e gas naturale) per produrre l’energia necessaria a muovere le macchine e quindi aumentare la produzione di beni e servizi. Secondo gli studi del CDIAC e dell’IPCC, l’anidride carbonica presente nell’atmosfera è passata dalle 280 ppm di prima del 1750 alle 390,5 ppm del 2010, registrando quindi un incremento della concentrazione di CO2 pari al 40%. Sempre per lo stesso periodo abbiamo assistito a un aumento della concentrazione di gas metano (+167%), di protossido di azoto (+20%), di ozono (+36%) e sono anche comparsi nell’atmosfera nuovi gas serra, come i cluorofluorocarburi. Non tutti i gas serra hanno però lo stesso potere di trattenere calore nell’atmosfera e così notiamo che alcuni di loro amplificano enormemente la loro capacità di trattenere le radiazioni solari, mostrando quindi un “global warming potential” – cioè un potenziale di riscaldamento terrestre – di gran lunga superiore a quello della CO2. Ad esempio, quando viene emessa una molecola di metano nell’atmosfera, questa ha un “global warming potential” che è 25 volte maggiore rispetto a quello di una molecola di CO2, una molecola di protossido di azoto equivale a quasi 300 molecole di CO2, mentre una molecola di CFC-12

(CCl2F2) – un tipo di cluorofluorocarburo – ha un “global warming potential” che è 10.900 volte più potente di quello di una singola molecole di anidride carbonica. Ma è il vapore acqueo il gas serra più abbondante e quindi maggiormente in grado di influenzare l’aumento dell’effetto serra e ciò che preoccupa maggiormente gli scienziati è il fatto che la quantità di vapore acqueo presente nell’atmosfera aumenta con l’aumentare della temperatura del pianeta. Questo significa che nel momento in cui si innesca il meccanismo del riscaldamento globale, l’aumento del vapore acqueo presente nell’atmosfera non farà altro che accelerare sempre più la portata del fenomeno. L’anidride carbonica rappresenta solo una piccola parte dell’atmosfera terrestre (lo 0,039% nel 2010) e viene naturalmente emessa nell’atmosfera dall’attività dei vulcani e dai processi di respirazione degli esseri viventi. Il metano è un idrocarburo poco presente nell’atmosfera terrestre e viene rilasciato nell’atmosfera dalla decomposizione di materiale organico, dalla coltivazione dei campi (ed in particolar modo dalle risaie) e dalla digestione degli animali ruminanti. Il protossido di azoto – una vera e propria bomba climatica – viene rilasciato nell’atmosfera dalle pratiche dell’agricoltura moderna (ed in particolar modo dall’utilizzo dei fertilizzanti, sia chimici che naturali), così come dall’utilizzo di combustibili fossili, dalla produzione di acido nitrico e dalla combustione delle biomasse. I cluorofluorocarburi (CFC) sono componenti sintetici largamente utilizzati in differenti processi industriali che, oltre ad essere potenti gas serra, sono responsabili

della distruzione dello strato di ozono che ci difende da radiazioni molto

dannose.

Occorre

rigettare

l’ipotesi

secondo

cui

il

riscaldamento globale sarebbe provocato da un aumento delle radiazioni da parte del sole. Tra il 1650 e il 1850, infatti, c’è stata una diminuzione dell’attività solare e questo ha provocato l’avvento di una mini era glaciale e sembra, sempre secondo la Nasa, che dal 1750 l’ammontare di energia proveniente dal sole è rimasta costante se non addirittura diminuita. Inoltre, se l’aumento della temperatura fosse dovuto a una maggiore attività solare, tutti gli strati dell’atmosfera registrerebbero un aumento della temperatura, mentre gli scienziati della NASA hanno osservato che solamente la parte più bassa dell’atmosfera (cioè dove ci sono i gas serra) ha registrato un aumento della temperatura media, con la parte più alta dell’atmosfera che si è addirittura raffreddata. Dal 1959 al 2010, c’è stato un vero e proprio boom delle emissioni di anidride carbonica rilasciata nell’atmosfera (e di queste, la maggior parte proviene dall’utilizzo di combustibili fossili, cioè carbone, petrolio e gas naturale, mentre un’altra buona parte proviene dalle pratiche di deforestazione. La quantità di CO2 effettivamente rilasciata nell’atmosfera varia di anno in anno a causa dei cicli legati alla respirazione e alla fotosintesi e per la differente capacità di trattenere CO2 da parte di mari e oceani, ma comunque segue un trend che è crescente (ed è aumentato molto a partire dal primo decennio del nuovo millennio). Secondo il CDIAC, gli Stati Uniti sono il paese che ha maggiormente contribuito alle emissioni di CO2 dal 1751 al 2010, avendo rilasciato

nell’atmosfera – nel periodo sopra considerato – l’impressionante quantità di 355,61 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (pari al 27,32% del totale). Al secondo posto troviamo i paesi dell’ex URSS, che in 259 anni hanno sprigionato 161,03 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (pari al 12,37% del totale). Seguono la Cina, con 132,40 miliardi di tonnellate, e la Germania con 84,07 miliardi di tonnellate di CO2 rilasciate nell’atmosfera dal 1751 al 2010. Se gli USA sono il paese che ha maggiormente contribuito al riscaldamento globale attraverso le emissioni cumulate di anidride carbonica, da qualche anno però non è più il più grande inquinatore del mondo. Lo scettro è ora passato alla Cina, che con 8.248 milioni di tonnellate di anidride carbonica (pari al 24,59% del totale mondiale) emesse nell’atmosfera nel 2010, è diventato in assoluto il più grande inquinatore al mondo secondo il CDIAC e il Global Carbon Project. Seguono poi Stati Uniti e India, rispettivamente con 5.497 e 2.072 milioni di tonnellate di CO2. Tra i primi quindici inquinatori del mondo, più della metà sono paesi in via di sviluppo (Cina, India, Russia, Iran, Arabia Saudita, Indonesia, Brasile, Messico e Sud Africa). Questo sottolinea il ruolo che anche i paesi non ancora sviluppati hanno assunto (e soprattutto assumeranno) nel contribuire all’aumento dell’effetto serra e quindi al riscaldamento globale. Fino ai primi anni Settanta i paesi ad alto reddito rappresentavano quasi i 2/3 del totale delle emissioni di anidride carbonica del mondo ma poi, gradualmente, hanno cominciato a veder calare la propria quota a favore dei paesi a reddito medio-alto (tra cui la Cina) e a reddito

medio-basso (tra cui l’India). Ma è a partire dal 2000 che i paesi non ancora sviluppati hanno iniziato a dare il loro pesante contributo al riscaldamento globale, con i paesi a reddito medio-alto che arrivando ad emettere nell’atmosfera una quota di CO2 che è quasi pari a quella dei paesi ad alto reddito (40% contro 41%). Rimangono comunque marcate differenze per quanto riguarda le emissioni di CO2 pro capite, con un abitante dei paesi a reddito alto che, in media, emette quasi 12 tonnellate di CO2 all’anno contro i 5,3 di un abitante dei paesi a reddito medio-alto (vedi Grafico 26). Nel 2008, un abitante dei paesi a reddito medio-basso ha emesso, in media, 1,57 tonnellate di CO2, mentre un abitanti dei paesi più poveri ha contribuito al riscaldamento globale con emissioni pari a 230 kg di CO 2 per persona (52 volte di meno rispetto ai paesi ricchi).

Grafico 26: Andamento emissioni di CO2 pro capite per fascia di reddito dal 1960 al 2008 (in tonnellate)

Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

Quando l’economia mondiale cresce, aumenta anche l’inquinamento, così, in media, per ogni 10 dollari di Prodotto Interno Lordo vengono rilasciati nell’atmosfera 4,94 chilogrammi di CO2, con i paesi a reddito medio-alto che hanno il maggiore impatto ambientale per ogni 10 dollari di crescita del PIL, perché vengono rilasciati nell’atmosfera 6,59 chilogrammi di CO2 nell’atmosfera – ma per la Cina il valore è molto più alto e pari a 9,30 chilogrammi. Più basso l’impatto della crescita dei paesi a reddito alto, che nel 2008 hanno rilasciato, in media, 3,54 chilogrammi di CO2 per ogni 10 dollari di PIL creati. Anche i paesi che da poco si sono avviati verso un

percorso di sviluppo economico (cioè quelli a reddito medio-basso) hanno un impatto ambientale (per ogni 10 dollari di PIL) comunque maggiore rispetto a quello dei paesi ricchi, perché vengono in media rilasciati 5,24 chilogrammi di CO2 per ogni 10 dollari di PIL. I paesi più poveri sono invece quelli che presentano il più basso impatto ambientale: per ogni 10 dollari di PIL vengono rilasciati, in media, 2,70 chilogrammi di CO2, ovvero il 44% in meno rispetto alla media mondiale. Il fatto che la crescita dei paesi emergenti sia molto più inquinante rispetto a quella dei paesi ricchi o di quelli a reddito basso dipende dal basso peso percentuale che l’industria e la produzione di energia elettrica tramite il carbone (la più inquinante delle fonti energetiche) ha nelle varie economie. Ma è opportuno ricordare che le produzioni più inquinanti sono state quasi tutte delocalizzate nei paesi emergenti, mentre nei paesi a reddito basso l’industria è praticamente assente e l’agricoltura è ancora di sussistenza. Secondo la Banca Mondiale, il 48% delle emissioni mondiali di CO2 del 2008 proviene dalla produzione di energia elettrica e di calore (centrali di generazione elettrica ed impianti di generazione di calore), il 21% dall’industria manifatturiera e da quella del cemento (attraverso la combustione di carburanti nei processi produttivi e l’autoproduzione di energia elettrica o calore), il 19% dal settore dei trasporti (aerei, treni, automobili, bus, moto e via dicendo), il 10% dai servizi residenziali, commerciali e pubblici ed il 2% da “altre attività”. Per riuscire ad abbattere le emissioni di anidride carbonica bisogna partire da una radicale riforma del settore dei trasporti e della

produzione di energia elettrica (da soli rappresentano oltre i 2/3 delle emissioni totali). Ma come abbiamo già visto, l’anidride carbonica non è l’unico gas serra. Considerando anche le emissioni di metano e protossido di azoto (i due più importanti gas serra dopo l’anidride carbonica), notiamo che, sempre secondo la Banca Mondiale, la Cina è la regione che ne emette il maggior quantitativo, pari a 1.332 milioni di tonnellate equivalenti a CO2, ovvero il 19% del totale (dati del 2005), mentre al secondo posto troviamo i paesi dell’America Latina, con 1.019 milioni di tonnellate equivalenti a CO2 di metano rilasciato nell’atmosfera nel 2005. Anche considerando il terzo gas serra più importante – il protossido di azoto –, troviamo sempre la Cina nel ruolo di più grande inquinatore al mondo (nonostante i dati a disposizione siano anche in questo caso piuttosto vecchi): nel 2005 ha contribuito ad emettere nell’atmosfera 467 milioni di tonnellate equivalenti a CO2 di questo gas serra molto potente (pari al 16% del totale). Seguono anche in questo caso l’America Latina e poi l’Europa (rispettivamente con 442 e 373 milioni di tonnellate equivalenti a CO2). Assodato che la temperatura media del nostro pianeta sta rapidamente aumentando, che la causa di tutto questo è l’attività umana e che, per ora, non è stato preso nessun serio provvedimento per tentare di arginare il riscaldamento globale (il nuovo Protocollo di Kyoto che servirà fino al 2020 rappresenta solamente il 15% delle emissioni di CO2), non ci resta che accettarne le conseguenze. Secondo la Nasa, nell’ultimo secolo il livello dei mari è aumentato di 17 centimetri (ma la gran parte dell’aumento si è

verificato negli ultimi dieci anni), negli ultimi dodici anni si sono registrati i dieci anni più caldi a partire dal 1880 (nonostante il declino dell’attività solare a partire dal 2000, con il punto di minimo che è stato raggiunto tra il 2007 ed il 2009), dal 1969 gli oceani si sono riscaldati di 0,302°F, i ghiacci della Groenlandia si sono ridotti da 150 a 250 km2 all’anno dal 2002 al 2006 (dopo non ci sono ancora dati precisi), l’Antartide ha perso 152 km2 di ghiaccio tra il 2002 ed il 2005, i ghiacciai si stanno ritirando in quasi tutte le catene montuose (Alpi, Ande, Himalaya, Alaska, eccetera) e al Polo Nord è ora possibile navigare nel passaggio a Nord-Ovest (vedi Immagine 4).

Immagine 4: Quel che rimane dei ghiacciai dell’Artico

Fonte: NASA/Goddard Space Flight Center Scientific Visualization Studio

Gli eventi metereologici estremi (temperature anomale, siccità e desertificazione, inondazioni, eccetera) sono in aumento e gli oceani e i mari si stanno acidificando sempre più, congli oceani che si ritrovano ad assorbire, ogni anno, una quantità aggiuntiva di CO 2 pari a 2 miliardi di tonnellate), con conseguenze catastrofiche sulla continuazione stessa della vita dei mari. Nel 2009, siccità, inondazioni e temperature anomale hanno colpito soprattutto i paesi emergenti o quelli non ancora sviluppati. Secondo la Banca Mondiale, più di 106 milioni di persone in Cina (pari al 7,95% della popolazione cinese) hanno subito eventi meteorologici estremi (siccità o inondazioni). Sempre nel 2009, 51 milioni di indiani hanno subito i danni di eventi meteorologici estremi e altri paesi fortemente colpiti da inondazioni o siccità sono stati il Bangladesh, l’Etiopia e il Kenya. Secondo l’IPCC, il foro a cui partecipano più di 1.300 scienziati da tutto il mondo e creato dalle Nazioni Unite nel 1988 proprio per studiare i cambiamenti climatici del nostro pianeta, i danni provocati dal riscaldamento terrestre saranno ogni anno sempre più grandi e questo non potrà che avere un forte impatto sull’economia mondiale. Ad esempio, l’IPCC prevede che in America Latina si arriverà a una graduale sostituzione della foresta tropicale con una specie di savana sub-tropicale (in particolar modo

nell’Amazzonia Orientale), con gravi perdite nella biodiversità della foresta tropicale più grande al mondo (dove si concentrano circa la metà delle specie vegetali e animali del nostro pianeta). Calerà sempre più l’acqua che è a disposizione dell’umanità, con gravi ripercussioni sulla produzione agricola mondiale (ma anche la produzione di energia elettrica). L’Europa vedrà calare i rendimenti agricoli delle regioni meridionali, con i processi di erosione – dovuti all’aumento del livello dei mari e alle inondazioni interne sempre più frequenti (causate dalla maggior frequenza ed intensità dei fenomeni meteorologici estremi) – che spazzeranno via milioni di ettari di suolo fertile. I rendimenti delle coltivazioni agricole che richiedono grandi quantità di acqua potrebbero crollare fino al 50% già entro il 2020, soprattutto nelle regioni più a rischio di siccità, come l’Africa, che dovrà sostenere il forte incremento demografico dei prossimi anni. Si prevede che diminuirà la quantità di acqua a disposizione delle regioni agricole che dipendono dai grandi fiumi dell’Himalaya (Asia Meridionale, Sud-Est asiatico e Cina) a causa dello scioglimento dei ghiacciai ed è a rischio l’intera sostenibilità alimentare di una delle zone più popolate al mondo. I grandi cambiamenti climatici andranno inoltre a colpire anche le regioni e le città costiere, che vedranno aumentare il livello del mare e la contaminazione delle falde di acqua dolce con quella salata. Ci sono fattori che potrebbero accentuare il fenomeno, ed altri che potrebbero invece mitigarlo, ma la strada imboccata dal clima del nostro pianeta è quella del surriscaldamento, causato dall’attività dell’uomo.

Inquinanti organici persistenti: il caso delle diossine Le diossine sono composti chimici che gli scienziati hanno appurato essere cancerogeni per l’uomo (ovvero in grado di sviluppare tumori) e sono inoltre considerati fra i più potenti veleni conosciuti al mondo. Per “diossine” gli esperti di tossicologia genericamente intendono un’intera classe di diossine e diossino simili, furani, diossini e policlorobifenili, detti PCB, complanari compresi. Nel 1994 l’EPA – l’agenzia per la protezione dell’ambiente americana – li considerava già una seria minaccia per la salute pubblica dei cittadini statunitensi. Le diossine possono sviluppare tumori (in particolare ai grandi organi interni quali fegato, pancreas, intestino, polmoni e cervello, ma anche al seno) e anche altre patologie, come malattie cardiovascolari, ipertensione, diabete, disfunzioni della tiroide, problemi all’apparato riproduttore, al sistema immunitario, a quello ormonale e disturbi neurologici gravi.

Grafico 27: Principali fonti di diossina provenienti dalla dieta di un americano medio (totale 119 pg / giorno di TEQ)

Fonte: rielaborazione dati EPA

Si tratta quindi di una sostanza molto pericolosa per la salute dell’uomo e di tutti gli altri esseri viventi. Le diossine hanno un elevato peso molecolare (motivo per cui tendono ad accumularsi nel terreno) e sono una sostanza liofila (cioè solubile nei grassi). Insieme ad altri dodici inquinanti chimici, le diossine (PCB in testa) vengono considerati “inquinati organici persistenti”, perché in grado di resistere alla degradazione biologica naturale accumulandosi nei tessuti e negli organi degli organismi viventi. Sono quindi composti che si bio-accumulano nell’ambiente e risalgono la catena alimentare, immagazzinandosi soprattutto nei tessuti e negli organi degli animali (rispetto a quelli dei vegetali). La contaminazione con le diossine è altissima in tutti quegli esseri che si trovano in cima alla piramide della catena alimentare, per cui foche, balene, orsi polari,

orche, ma anche uccelli come l’aquila, che rischiano di estinguersi anche a causa di alcune diossine che si accumulano nei tessuti organici (ed in particolar modo il PCB). L’alimentazione è il principale canale con cui l’uomo entra in contatto con le diossine. Nella dieta media di un americano finiscono ben 119 pg di TEQ al giorno (vedi Grafico 27), provenienti in prevalenza da cibi di origine animale, come la carne bovina (38 pg al giorno), i latticini (24,1 pg al giorno), il latte (17,6 pg al giorno) e il pesce (7,8 pg al giorno). Secondo studi fatti negli Stati Uniti, il pesce di acqua dolce sarebbe l’alimento più contaminato, con una quantità pari a 1,73 ng/kg di TEQ, seguito dal burro, con 1,12 ng/kg di TEQ, mentre una dieta vegana (0,09 ng/kg) rappresenterebbe il modo migliore per limitare al massimo la contaminazione del proprio corpo con le diossine. Il TCDD è forse la più nota delle diossine, a causa della pericolosità e dell’emivita (ovvero il numero di anni che rimane nell’organismo), che nell’uomo varia dai 5,8 agli 11,3 anni, a seconda del metabolismo e di altre caratteristiche peculiari dell’individuo. Le diossine vengono rilasciate nell’ambiente nella fase iniziale della combustione (il responsabile è il cloro “organico”, cioè legato a composti chimici polimerici, come ad esempio il PVC) e questo processo è favorito da reazioni a più bassa temperatura. I processi di combustione responsabili dell’immissione di diossine nell’ambiente (e quindi nella catena alimentare) sono quelli legati all’industria siderurgica, metallica, chimica, del vetro, delle ceramiche, ma anche del carbone, dei rifiuti solidi urbani e delle centrali termoelettriche.

In particolare, gli inceneritori sono fra i principali responsabili dell’immissione di diossine nell’ambiente, come dimostrato da diversi studi specifici, che rivelano la correlazione fra malattie legate alle diossine (e in particolare tumori) e la presenza di inceneritori nelle vicinanze. Le diossine non vengono rilasciate solamente nell’aria, ma anche (e soprattutto) nei terreni, laddove – nonostante l’incertezza e la difficoltà degli studi – i pesticidi rappresentano la principale fonte di emissione, seguiti dai fuochi accidentali e dallo smaltimento dei rifiuti. Le diossine hanno contaminato anche l’acqua (fiumi, laghi, mare e falde freatiche), principalmente a causa dell’attività di produzione di carta (anche in assenza di combustione, attraverso il processo di sbiancamento della carta), ma anche dall’incenerimento dei rifiuti, dalla presenza di discariche, dallo smaltimento di oli usati, dall’utilizzo di pesticidi, dagli scarichi delle industrie chimiche e via dicendo. Alla base della contaminazione dell’ambiente con uno degli inquinanti inorganici più pericolosi ci sono le attività del nostro sistema economico, quei processi industriali e quelle pratiche dell’agricoltura moderna che hanno permesso il grande sviluppo economico a partire dalla Rivoluzione Industriale. Accertata (seppur in un cinico ritardo) la pericolosità delle diossine da parte delle istituzioni pubbliche, si è giunti alla firma degli accordi presi il 17 maggio 2004 con la Convenzione di Stoccolma, che pone come obiettivo l’eliminazione o almeno la limitazione dell’utilizzo delle diossine in tutti i processi industriali, per cercare di arginare l’imminente catastrofe ecologica e sanitaria a

cui stiamo andando in contro anche in questo frangente. Facendo un po’ di storia, vediamo che il primo caso di contaminazione da diossine che attirò l’attenzione dei media è stato quello dell’incidente del 10 luglio del 1976 a Seveso, in Pianura Padana, quando a causa di un incidente, dall’ICMESA (azienda chimica italiana, ma di proprietà di Hoffmann-La Roche) si formò una nube altamente tossica che portò alla morte immediata di oltre 3.000 animali per intossicazione e alla rapida diffusione della cloracne fra la popolazione locale. La causa della malattia è stata la contaminazione con il temibile erbicida 2,4,5-T, che veniva prodotto nello stabilimento di Seveso. Anche a distanza di anni, l’incidenza delle classiche malattie legate alla contaminazione da diossine della zona è molto più alta che altrove, segno che la contaminazione con questi pericolosi composti chimici persiste nel tempo. Ma oltre a quello di Seveso, sono numerosi i casi di contaminazione da diossine dovuti a incidenti o a scelte scellerate, come quelle dell’azienda Russell Bliss a Times Beach, nel Missouri fra il 1972 ed il 1976, quando unse 38 chilometri di strade polverose con oli di rifiuto contenenti clorurati. Ma la decisione più infame di tutte venne presa dal Pentagono negli anni Settanta, quando si decise di utilizzare l’agente arancio nella guerra in Vietnam. In questo ultimo caso, due erbicidi, il 2,4,5 T e il 2,4-D, sono stati impiegati in dosi massicce (per ogni ettaro fino ad oltre 30 volte la dose utilizzata negli Stati Uniti) dall’esercito militare americano nella guerra contro il Vietnam del Nord. Dal 1962 al 1971, sono stati versati 80 milioni di litri di defogliante su 3,3

milioni di ettari di foreste e terreni del Vietnam (il 60% dei defoglianti usati erano costituiti dall’agente arancio, cioè da 400 chilogrammi puri di diossina, quando ne basterebbero pochi grammi diluiti nella rete di acqua potabile per uccidere milioni di persone).

IX Riepilogando: undici “punti salienti” Torna all’indice 7

possibile immaginare l’attuale Sistema – essenzialmente

economico – come l’approssimazione di una funzione produttiva mondiale, dove gli input sono rappresentati dalle risorse rinnovabili (materie prime agricole, acqua, fonti energetiche rinnovabili e legname) e dalle risorse non rinnovabili (combustibili fossili, uranio, materie prime minerarie e altre risorse rinnovabili non utilizzate in modo sostenibile), mentre l’output è rappresentato dall’insieme di tutti i beni e i servizi creati ogni anno sul nostro pianeta (il PIL mondiale). La funzione (ovvero il processo, la “formula magica”) che permette alle risorse naturali del nostro pianeta di “trasformarsi” in prodotto interno lordo è rappresentata dal capitale tecnologico (l’insieme di ogni sorta di macchina e delle conoscenze che permettono la miglior organizzazione produttiva delle risorse) e dal lavoro di chi prende parte al processo produttivo. In questa titanica opera dell’umanità intera, intenta a trasformare le risorse naturali del nostro pianeta in PIL, si creano però anche degli “effetti collaterali”,

quelli che gli economisti potrebbero chiamare “esternalità negative”. Si tratta dell’intera questione ambientale, ma anche dell’aumento di un certo tipo di patologie, di fatto assenti nelle popolazione non ancora contaminate dal modello di sviluppo moderno (come la maggior parte dei tumori, lo stress o le malattie cardiovascolari), dello svuotamento di senso e dello smarrimento dell’homo oeconomicus – cioè l’uomo moderno –, dell’omologazione culturale e via dicendo. Per comprendere al meglio la situazione attuale sono stati affrontati nella prima parte del libro alcuni temi necessari a far emergere il quadro completo del particolare momento storico in cui stiamo vivendo. Nello specifico, si tratta dell’analisi dello scenario economico e tecnologico, di quello demografico e sociale, di quello ambientale, di quello energetico e infine di quello riguardante lo sfruttamento e lo stato delle principali risorse naturali (materie prime minerarie, risorse agricole, risorse idriche e legname). Da questi diversi scenari, interdipendenti e influenzabili l’uno con l’altro, emergono alcuni “punti salienti” o topici, alcune costanti in grado di influenzare l’evoluzione futura della nostra società. L’umanità intera, nei prossimi decenni, dovrà quindi fare i conti con i seguenti undici “punti salienti”. L’affermarsi e la definitiva entrata in scena dei paesi emergenti (e in particolar modo della Cina) sul palcoscenico mondiale (il ruolo di paesi come Cina, India, Brasile, Russia, Indonesia e via dicendo, non

può più essere ignorato da parte dei paesi ricchi). Particolarmente significativo è il caso della Cina, la cui economia, dal 2000 al 2010, è cresciuta del 171% e oggi è già la seconda economia del pianeta, il più grande consumatore al mondo di energia (tra il 2001 e il 2011 ha visto crescere del 151% i consumi interni di energia, è il secondo consumatore al mondo di petrolio, consuma quasi la metà di tutto il carbone utilizzato dall’umanità ed è il primo generatore di energia elettrica al mondo), il principale consumatore al mondo di molte materie prime minerarie (tra cui 1/4 di tutto il rame utilizzato nel mondo), il maggior importatore al mondo di legname ad uso industriale, il secondo maggior consumatore di acqua (dopo l’India), il paese più popolato al mondo – con una popolazione che nel 2010 era pari a 1,3 miliardi di abitanti –, il più grande inquinatore al mondo (considerando le emissioni dei principali gas serra) e (considerato che è il principale paese della regione dell’Asia Orientale) il più grande importatore netto di cibo (cereali, colture oleaginose, oli vegetali, carne, pesce, eccetera). La crescita demografica (anche se in fase di rallentamento rispetto al secondo dopoguerra) della popolazione del nostro pianeta, che nel 2025 raggiungerà gli 8 miliardi di persone e nel 2050 oltrepasserà i 9 miliardi. I paesi dell’Asia Meridionale e dell’Africa Sub-Sahariana sono quelli che vedranno maggiormente crescere la propria popolazione.

L’aumento della povertà in termini assoluti. Dal 1981 al 2005, il numero di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno è aumentato di 19 milioni, con i “poverissimi” a pesare per il 40% della popolazione del nostro pianeta. Il consolidamento del processo di globalizzazione attualmente in atto nel nostro pianeta, le cui peculiarità sono l’aumento della circolazione di merci (il commercio estero è passato dal 39% del PIL del 1990 al 55 % del 20100), capitali (dal 1990 al 2010 gli investimenti diretti all’estero sono quasi decuplicati, passando da 11.000 a 96.000 miliardi di dollari) e persone al di fuori dei confini nazionali (dal 1960 al 2010, le migrazioni sono aumentate di ben undici volte e nel 2010 ci sono stati 23 milioni di emigranti; inoltre, dal 1995 al 2009, il numero di turisti è aumentato del 67%, raggiungendo nel 2009 la cifra di 923 milioni). La recessione mondiale del 2009 è giunta al culmine di un processo di graduale rallentamento della crescita mondiale, iniziato con le tensioni legate al prezzo del petrolio (il cui peso nell’economia era maggiore all’epoca) degli anni Settanta (con i due shock petroliferi del 1973 e del 1979), ma sintomo del graduale esaurimento dei benefici – in termini di produttività –apportati dalle tecnologie della Seconda Rivoluzione Industriale alla crescita economica. Nel periodo che va dal 1971 al 1989, il tasso di crescita medio dell’economia mondiale è stato pari al 3,73%, mentre dal 1990 al 2010, del 2,71%.

La Finanziarizzazione dell’economia, con lo stock finanziario e monetario che negli ultimi decenni è sempre cresciuto a un tasso maggiore rispetto a quello dell’economia reale. Negli ultimi dieci anni lo stock finanziario mondiale è cresciuto a un tasso più che doppio rispetto a quello della produzione di beni e i servizi (+87% contro +41%). La quantità di moneta (M2) nel 2000 era pari al 105% del PIL mondiale, mentre nel 2010 era già pari al 120% del valore di tutti i beni e servizi creati dall’umanità. I diversi rapporti di forza fra i paesi più ricchi, che detengono l’83% dello stock finanziario mondiale, sono tecnologicamente più avanzati e dispongono (in genere) di maggiori risorse idriche e di un surplus agricolo rispetto al proprio fabbisogno interno (sono quindi esportatori netti) e i paesi in via di sviluppo (o non ancora sviluppati), che dispongono della maggior parte delle risorse energetiche (il 91% del gas naturale, l’86% del petrolio, il 66% del carbone e circa il 60% dell’uranio si trovano in paesi non appartenenti all’OCSE), delle materie prime minerarie (ad esempio, la Cina è il primo produttore al mondo di ventotto elementi o gruppi di elementi chimici su cinquantadue ed è monopolista per una serie di materie prime essenziali alla nostra economia, inoltre il 61% della produzione mineraria mondiale avviene in paesi in cui la situazione interna – dal punto di vista della sicurezza della fornitura – è critica o molto critica) e la quota più importante della popolazione mondiale

(i paesi non-OCSE pesano per l’82% della popolazione mondiale) e anche i maggiori tassi di crescita demografica. La dipendenza dell’economia mondiale dai combustibili fossili: l’87% dell’energia prodotta nel 2011 proviene da petrolio, carbone e gas naturale. Ipotizzando costanti sia l’attuale livello di produzione mondiale, che le riserve mondiali di combustibili fossili, occorrono ancora cinquantaquattro anni per esaurire le riserve accertate di petrolio, sessantaquattro anni per esaurire quelle di gas naturale e centododici per quelle di carbone, per cui c’è da ipotizzare che la dipendenza della nostra economia da queste tre fonti energetiche non si modifichi molto nei prossimi anni. La graduale sostituzione a livello mondiale (ma soprattutto nei paesi in via di sviluppo), degli alimenti di origine vegetale (cereali, tuberi, zucchero e legumi) con quelli di origine animale (carne, uova, latte e pesce) e con gli oli vegetali (olio di soia, olio di palma, eccetera). Nel 1980, cereali e tuberi pesavano per il 56% dell’apporto calorico medio di un abitante del nostro pianeta (contro l’attuale 50,6%), colture vegetali, frutta secca e oli vegetali per il 9% (contro l’attuale 12,3%), dolcificanti e zucchero per il 9,6% (contro l’attuale 8,1%), carne e uova per il 7,1% (contro l’attuale 10%), il pesce per lo 0,9% (contro l’attuale 1,2%), il latte il 4,6% (contro l’attuale 4,8%) i legumi il 2,4% (contro l’attuale 2,2%). Il surriscaldamento del nostro pianeta a causa dell’aumento dell’effetto serra, la continua perdita di biodiversità e l’erosione di

capitale naturale. Per entrambi, la causa prima è l’attività antropica. L’aumento dell’effetto serra trova nella deforestazione, nell’utilizzo dei combustibili fossili e nelle pratiche dell’agricoltura moderna le principali cause del suo acceleramento (considerando che l’attività del sole è stabile o in declino dal 1750). La perdita della biodiversità dipende

anch’essa

dalla

deforestazione

e

dalla

pratiche

dell’agricoltura moderna, ma anche dall’inquinamento industriale e civile (organico e non organico), dal buco dell’ozono, dalle piogge acide e dalla sempre maggior competizione con gli esseri umani per la gestione delle risorse naturali (fiumi, aree umide, terreni, eccetera). La distruzione di capitale naturale, dipende dal fatto che l’impronta ecologica dell’umanità ha ormai (dal 1970) oltrepassato la soglia oltre la quale il nostro pianeta non è più in grado di produrre risorse naturali in modo rinnovabile, per cui, per mantenere questo stile di vita, l’umanità ha bisogno di ulteriori risorse e deve quindi attingere al capitale della Terra. Urbanizzazione della popolazione mondiale, nel 2011, il 52% della popolazione del nostro pianeta vive in città, nel 2050 i 2/3 degli abitanti del nostro pianeta saranno urbanizzati. Gli undici punti evidenziati nella Parte I sono la base per comprendere la direzione verso cui siamo diretti.

PARTE II “La fine del sistema” Torna all’indice I Lotta per le risorse naturali Le peculiarità del Sistema Quello verso cui andiamo in contro è lo scenario della lotta di tutti contro tutti per l’accaparramento delle ultime risorse del pianeta Terra, perché siamo, più o meno consapevolmente, in competizione gli uni con gli altri. Il povero lotta per la sopravvivenza biologica (il pasto della sera), la classe media per pagarsi l’automobile e le vacanze, i miliardari per non rinunciare all’aereo privato o all’acquisto di una residenza estiva extra-lusso (considerati beni essenziali per chi appartiene al loro rango), insomma ognuno di noi cerca di razziare il maggior numero di risorse naturali per il proprio benessere (o per la propria sopravvivenza). Tramite la celebrazione del “rito del consumo quotidiano”, gli individui-consumatori sanciscono il diritto a usufruire della propria quota di risorse naturali del pianeta, che sono incorporate nei beni e nei servizi che si apprestano a comprare. Il denaro necessario all’acquisto è il risultato della lotta quotidiana di tutti contro tutti, è l’onorificenza dei

vincitori che poi si apprestano a proclamare la propria condizione di vincenti nei centri commerciali, nei negozi, nei ristoranti, nei luoghi di divertimento, insomma in tutti i mercati dove è possibile convertire il denaro in beni e servizi. Il denaro è quindi l’unico metro di giudizio, l’unico parametro che viene utilizzato per acclamare i vincitori e per condannare i vinti della nostra società (non è un parametro qualitativo ma semplicemente quantitativo, perché 10 dollari saranno sempre inferiori a 11 dollari), per sancire la vittoria o meno nella competizione globale, laddove le regole del gioco sono piuttosto semplici: “vince chi ha più soldi” (e poco importa la modalità con cui questo denaro è stato fatto). La caratteristica più importante del denaro è quella di non essere deperibile e, da un po’ di tempo, di essere sempre più intangibile, virtuale e quindi, di essere diventato (teoricamente) accumulabile all’infinito, non essendoci più neanche un qualche limite fisico alla quantità di denaro che si può possedere. Date queste poche e semplici regole del gioco (ovvero: “vince chi ha più soldi”, “non importa come ce li si procuri” e “non esiste un limite alla quantità di denaro che si può possedere”) inizia la corsa all’accaparramento del denaro e alla sua conversione in beni e servizi, si tratta della competizione di tutti contro tutti, individui contro individui, imprese contro imprese, stati contro stati, regioni contro regioni e il campo di battaglia è l’attività economica, l’attività produttiva, la creazione di beni e servizi sempre più “competitivi”. La peculiarità della società in cui viviamo è che ogni individuo è afflitto da una forma di egoismo “naturale” rivolto alle ricchezze

materiali, un egoismo che si spinge oltre allo spirito di sopravvivenza. Questo perché la moderna società occidentale (i cui valori hanno travalicato ogni confine, sia a Oriente che sotto l’Equatore)

attribuisce

massimo

valore

alla

ricchezza

e

all’abbondanza materiale (essendo diventato il fine degli individui, delle imprese e degli stati). Ma la specificità della nostra società è quella di riuscire a mantenere sempre alto l’egoismo materiale degli individui e questo per almeno due motivi: il primo è la minaccia, sempre latente, di perdere tutto, di finire nelle miserabili condizioni dei più poveri, dei paria del Sistema (in questo senso la povertà gioca un ruolo molto importante, come minaccia che agisce nel subconscio degli individui); mentre il secondo è la pubblicità – l’arma più potente in mano al sistema produttivo –, abilmente architettata per mantenere alto l’interesse nei confronti del consumismo, dell’avere, della parte più superflua del benessere materiale, che si materializza con la ricerca di sofisticati bisogni secondari a partire da quelli primari (con la pressione sui valori immateriali che vengono veicolati dal marchio). La pubblicità ha il “pregio” di rendere le persone insoddisfatte di quello che hanno (e quindi, in questa società, di quello che sono), con la promessa di giungere alla felicità con l’acquisto dell’ultima trovata, dell’ultima moda o dell’ultima novità tecnologica. Peccato che questi attimi di felicità (o forse sarebbe meglio dire di ebbrezza) dureranno comunque poco, perché svaniranno nel momento stesso in cui il bene sarà stato consumato o dureranno fino al tempo in cui una nuova moda l’avrà soppiantato. Il

Sistema (essenzialmente economico, essendo questi i valori più importanti dell’agire umano) non è sostenibile nel lungo termine e questo perché fondato sulla crescita economica infinita, in contrasto con la finitezza del pianeta. I teorici della crescita (politici, economisti, istituzioni internazionali, manager, eccetera) non si pongono neanche il problema, accecati come sono dal loro dogma e dal loro atavico ottimismo, così che ricercano la crescita infinita dei profitti delle imprese, del PIL delle nazioni e in genere del benessere materiale; peccato però che tutto questo non sia possibile e che la “crescita sostenibile” rimanga un astuto ossimoro coniato da qualche prestigiatore, perché non esiste una crescita illimitata della produzione materiale che sia sostenibile con i limiti fisici del pianeta. Quindi, il Sistema ha iniziato a fare i conti con i propri limiti, con l’impossibilità di crescere all’infinito perché le risorse sul pianeta non sono infinite (anche quelle rinnovabili devono sottostare a dei limiti fisici ben precisi). Questo è diventato particolarmente vero a partire dai due grandi shock petroliferi degli anni Settanta ed è riemerso con l’attuale crisi economica, ancora più grave di quella del 1929 (perché allora non ci furono le ingenti iniezioni di liquidità delle banche centrali) ed è ormai un fatto che siamo di fronte ad un rallentamento della crescita di lungo termine dell’economia mondiale. Questo significa che nel momento in cui i valori economici – come l’egoismo materialista e la competizione economica – si scontrano con la finitezza del pianeta e quindi con l’impossibilità della crescita infinita, si arriva ad una sempre

maggiore competizione di tutti contro tutti, perché non ce n’è abbastanza per l’egoismo di molti. Questi sono i tempi verso cui siamo diretti, tempi sempre più difficili, tempi in cui la lotta di tutti contro tutti sarà sempre più acuta, tempi in cui grazie alla globalizzazione economica, che ha semplicemente accelerato un processo peraltro irreversibile, si avrà una sempre maggiore competizione globale. I lavoratori cinesi, italiani, americani e africani sono in competizione fra loro (e i salari e le condizioni di lavoro tenderanno quindi ad allinearsi), con il risultato che nei paesi sviluppati i lavoratori assisteranno a un graduale peggioramento delle loro condizioni, perché lavoreranno sempre di più e per meno (a livello di paga oraria) e verrà loro richiesta una sempre maggiore flessibilità. Le imprese a loro volta sono in competizione fra loro, così che le più inefficienti, quelle troppo piccole o quelle artigianali già ora sono costrette a chiudere e a lasciare la scena, mentre sopravvivranno solamente quelle di grandi dimensioni e in grado di delocalizzare la fase produttiva. Lo stesso avviene fra gli Stati, che vedono di continuo ridimensionare il proprio ruolo e i propri compiti (non esistono più i grandi stati nazionali). La grande illusione tecnologica La nostra società sta affrontando una serie di crisi sempre più profonde (crisi economica, crisi energetica, crisi socio-demografica, crisi agricola, crisi idrica, crisi ambientale e via dicendo) e si sta avvicinando alla fase più turbolenta. Sappiamo che questi sono

problemi sempre più reali, che il riscaldamento globale avrà effetti disastrosi sulla produzione agricola, la disponibilità d’acqua dolce e quindi sulla stessa economia mondiale, che i combustibili fossili sono prossimi all’esaurimento (tra cinquant’anni sarà stato estratto tutto il petrolio, compreso quello non convenzionale), ma nonostante questo, siamo tutti presi dall’ottimismo e dalla “grande illusione” che permea le speranze e le coscienze dell’umanità, ovvero questa cieca fiducia nei confronti della scienza e della tecnica. Siamo tutti convinti che “la scienza salverà l’umanità”, che “si inventeranno qualcosa di miracoloso che risolverà tutti i problemi e farà ripartire l’economia” e così via. La “religione” della scienza (laddove la tecnica ne è l’applicazione pratica) ha spodestato le vecchie credenze religiose (come nel caso del cristianesimo in Occidente) e ha quindi il compito di influenzare i sogni, le riflessioni razionali, così come quelle meno razionali, le discussioni, la pubblicità, insomma tutta la cultura dell’uomo moderno. Nelle idee della scienza, permangono però alcuni dei valori propri del cristianesimo, come quello della linearità del tempo (mentre nell’antichità o nella civiltà indù il tempo era ciclico), o come la fiducia e l’ottimismo nei confronti del futuro, il tempo in cui si materializzeranno i frutti del progresso scientifico. Esiste quindi una non razionalità diffusa, una “grande illusione”, nel fatto di credere ciecamente e senza riserve che tutti i problemi che stiamo vivendo ora verranno risolti in futuro da nuove scoperte scientifiche, che riusciremo in un qualche modo a ripristinare il capitale naturale che stiamo dilapidando o abbiamo già dilapidato, ad

esempio creando alberi artificiali in grado di assorbire la CO 2 emessa dall’uomo nell’atmosfera, oppure che gli scienziati riusciranno sicuramente a scoprire il modo di creare energia per tutti, in modo economico e che non inquini o sia pericoloso per la biosfera. Si tratta per lo più di sogni. Personalmente, non solo non credo che la scienza e la tecnica siano in grado di risolvere tutti i nostri problemi (crisi economica, agricola, ambientale, energetica, eccetera), ma che continueranno (come hanno fatto fino ad ora) a crearne di nuovi. Certo, magari alcuni problemi verranno risolti e si troverà il modo di aumentare ad esempio l’efficienza energetica (cosa peraltro auspicabile), risparmiando – in un primo momento – energia e quindi evitando di inquinare maggiormente l’ambiente ma, volendo utilizzare proprio quell’empirismo tanto caro alla scienza, troviamo che l’età dell’oro della scienza (l’ultimo secolo e mezzo) ha semplicemente moltiplicato il numero di problemi da risolvere (come ad esempio tutte le forme di inquinamento legate a composti chimici che prima non esistevano, oppure legati all’attività industriale, oppure all’enorme quantità di rifiuti che non sono biodegradabili, agli armamenti nucleari potenzialmente in grado di distruggere l’intera umanità, alla contaminazione del cibo, alla perdita della biodiversità, alla diffusione di malattie legate a uno stile di vita sbagliato, ai pericoli legati alle onde elettromagnetiche di ripetitori, ai cellulari e alle antenne Wi-Fi, all’indebolimento del sistema immunitario ad opera di antibiotici e nuovi medicinali, ai pericoli del cibo transgenico, eccetera). Ma la scienza ha anche moltiplicato il

numero dei bisogni, col tempo divenuti sempre più essenziali. Se 150 anni fa nessuno aveva la necessità di possedere un’automobile, semplicemente perché non esisteva, oggi, nei paesi sviluppati, è diventato un bene essenziale e così con il cellulare o il tablet, ma questo ha semplicemente reso le persone sempre più schiave dei propri bisogni essenziali (peraltro in continuo aumento) e quindi di fatto della necessità di lavorare per ottenere del denaro. y curioso notare che la maggior parte dei problemi che la tecnologia (e la scienza) dovrebbe risolvere nel presente (non riuscendoci, se non in parte), sono problemi creati dalla tecnologia del passato. Oggi ci aspettiamo che nel futuro si riescano a risolvere i problemi del presente (peraltro cumulati con quelli del passato), così come nel passato si sperava che oggi avremmo risolti i problemi di ieri. Stiamo semplicemente continuando ad accumulare problemi, illudendoci che un giorno possa arrivare il miracolo. Questo sembra proprio un atteggiamento da irresponsabili. Ma non tutte le tecnologie sono negative, così come non tutte le tecnologie sono positive. Prima di rendere disponibile una certa tecnologia o prima di andare avanti con la ricerca in un determinato campo occorrerebbe sempre fare un calcolo preciso di tutti i possibili danni, di tutte le possibili conseguenze negative che l’impiego di quella particolare tecnologia avrebbe nei confronti dell’uomo e della natura e solo dopo decidere, ma sempre sulla scala di determinati valori, che siano compatibili con la biosfera. Inoltre, a causa del primo e soprattutto del secondo principio della termodinamica, sappiamo che “la tecnologia non crea

mai energia, semplicemente usa quella esistente e disponibile, e quanto più è pesante e complessa, tanto più ha bisogno di energia”, sappiamo che “l’energia si converte sempre da uno stato utilizzabile a uno stato dissipato, ovvero da uno stato ordinato a uno disordinato”. Essendo fisicamente impossibile azionare tramite l’energia termica “una macchina a cicli se non cade verso un più basso livello di temperatura”, e sapendo che l’energia termica “è irrimediabilmente persa per l’uomo quando si trova alla più bassa temperatura disponibile”, possiamo dedurre quindi che ogni tecnologia aumenti l’entropia (ovvero la quantità di energia non più utilizzabile, che a sua volta aumenta il disordine, che poi si manifesta sotto varie forme come l’inquinamento o i rifiuti). Essendo il nostro pianeta un sistema chiuso, non possiamo scambiare materia con l’ambiente (se si eccettuano un po’ di polvere cosmica e qualche meteorite) e dobbiamo quindi affidarci alla sola energia solare. Più la tecnologia è complessa e più consuma materia, consapevoli che “la materia non più disponibile non può essere riciclata”, dovremo pensarci bene prima di adottare o meno una tecnologia, perché i suoi effetti sono sempre irreversibili. Tecnologie “compatibili” con il secondo principio della termodinamica sono quelle in grado di dissipare il minor quantitativo possibile di materia (o energia proveniente dalla materia, come i combustibili fossili), riuscendo quindi a sfruttare l’energia solare nelle sue forme dirette o indirette (le così dette energie rinnovabili). Solamente quando l’uomo (e i nuovi valori essenzialmente non economici) saranno in grado di

riappropriarsi del processo scientifico (e quindi della tecnica), si potrà mettere un limite anche alla ricerca per la ricerca, al “ricercare” e “sperimentare” tutto quanto sia possibile ricercare e sperimentare a prescindere dallo scopo (o come avviene per gran parte della ricerca scientifica, che è privata, lo scopo esiste, ma è meramente economico, ovvero aumentare i profitti di chi ha commissionato la ricerca).

quindi opportuno chiarire che anche la ricerca scientifica,

così come la tecnica (che è l’applicazione pratica di ciò che la scienza ricerca), deve essere assoggettata a una morale, perché non possono diventare autonomi, scindersi completamente dalla sfera umana. La ricerca scientifica deve rispondere a valori che siano compatibili con i limiti specifici dell’essere umano e soprattutto con quelli del pianeta in cui viviamo, deve quindi permettere l’armoniosa convivenza dell’uomo con gli altri esseri viventi. Ma se ciò non accadrà, non ci troveremo più di fronte a un’attività benefica volta al raggiungimento del progresso e della felicità del genere umano, ma a una mera attività distruttrice. Cause della lotta per le risorse Dati i vincoli del nostro pianeta (limitatezza dello spazio e risorse finite), non è materialmente possibile la crescita all’infinito, con la conseguenza che fino a quando non si arriverà a un radicale rovesciamento dei valori economici propri della nostra società (interesse egoistico materiale, consumismo, competizione, calcolo economico, “naturalità” delle leggi economiche) non si potrà che

avere una sempre maggiore competizione tra i soggetti del Sistema per l’accaparramento delle sempre più rare risorse naturali del pianeta (che sono incorporate nei beni e nei servizi, cioè nel PIL mondiale). Ma questo processo è già in atto ed emerge chiaramente dalla prima parte del libro, da dove si evince che stiamo già vivendo o stiamo andando incontro a una crisi economica, energetica, ambientale, socio-demografica, agricola, delle risorse idriche e delle materie prime minerarie. Nove degli undici punti salienti, che emergono dalla fotografia della particolare situazione che stiamo vivendo, sono alcune delle cause che ci stanno portando ad una maggiore competizione per le risorse del pianeta, cioè alla lotta di tutti contro tutti. Di seguito i nove punti che stanno accentuando il fenomeno. L’entrata in scena dei paesi emergenti (e in particolar modo della Cina), che vedono crescere il loro reddito pro capite – e di conseguenza i loro consumi – andando ad aumentare la competizione globale per l’accaparramento delle risorse naturali del nostro pianeta. La quantità di materie prime che i paesi emergenti consumano è in aumento di anno in anno. La crescita demografica, con la popolazione che nel 2025 raggiungerà gli 8 miliardi e nel 2050 i 9,3 miliardi. Ancorché si tratti in prevalenza di poveri o poverissimi – l’incremento della popolazione mondiale proverrà in prevalenza dai paesi dell’Asia Meridionale e dell’Africa Sub-Sahariana –, un ulteriore miliardo di

persone entro i prossimi dodici/tredici anni e 2,3 miliardi di persone entro i prossimi quarant’anni vivranno sul nostro pianeta. Questo significa che avremo un aumento della domanda mondiale di generi di prima necessità, quali cibo (in prevalenza cereali), acqua (per i servizi igienici di base e per garantire una maggiore produzione agricola), vestiario (cotone e altre fibre naturali) e combustibili (in prevalenza legname). Se poi il processo di convergenza – attualmente in atto – dovesse continuare, con l’affermarsi di nuove economie emergenti, si avrebbe un ulteriore aumento della competizione mondiale per le risorse naturali alla base della nostra economia (materie prime energetiche e minerarie, legname, prodotti agricoli, risorse idriche). Il processo della globalizzazione porta ad un aumento della quantità e

della

varietà

(in

un

primo

momento,

poi

segue

la

standardizzazione) dei prodotti disponibili sui mercati locali (teoricamente provenienti da tutto il mondo), con il risultato che i consumi

interni

subiscono

un’impennata,

modificandosi

e

indirizzandosi verso beni e servizi esteri. La stessa globalizzazione significa una maggior competizione, si abbassano i dazi e si tolgono le barriere alla libera circolazione di capitali e persone, così che le aziende europee entrano direttamente in competizione con quelle americane, cinesi e giapponesi e lo stesso quindi avviene fra i lavoratori. Ma la globalizzazione non significa il semplice aumento delle merci disponibili nei mercati e una maggior competizione, ma

anche un cambiamento delle abitudini di consumo, proveniente dall’incontro delle culture locali con quelle dei paesi Occidentali – e in particolare degli Stati Uniti (ma sarebbe meglio parlare dell’aggressione della cultura occidentale nei confronti delle culture periferiche, perché in fondo, si tratta sempre di un flusso a senso unico). Ricalcando quanto successo nel secondo dopoguerra in Europa Occidentale e nel Giappone, l’american way of life (che abbraccia i valori dell’edonismo, del divertimento di massa, dell’accumulazione, dell’abbondanza e dell’individualismo) permea così le culture dei paesi periferici e la popolazione inizia a desiderare i beni di consumo occidentali (il benessere e la tecnologia dell’occidente si sostituiscono alle credenze, le tradizioni, le competenze e l’ambiente delle società tradizionali, conquistate dalla cultura occidentale). L’Occidente non è più un luogo geografico, ma un insieme di valori, una enorme macchina impersonale, metà meccanismo

e

metà

organismo,

che

si

basa

sui

valori

dell’universalismo (tutti vi possono partecipare e non è impossibile vincere, anche se piuttosto improbabile), della concorrenza fra individui e della ricerca della performance, dove però viene garantito il “diritto di vita e di cittadinanza” solamente ai più efficienti (mentre è necessaria la presenza di un buon numero di poveri). La situazione di dipendenza dei paesi sviluppati dalle materie prime minerarie e dalle fonti energetiche (petrolio, carbone, gas naturale e uranio) provenienti dai paesi in via di sviluppo o non ancora

sviluppati. Dall’altro lato, assistiamo alla dipendenza dei paesi non ancora sviluppati (con l’aggravante di essere in una situazione di continua crescita demografica) nei confronti delle risorse alimentari dei paesi sviluppati. Emblematico è il caso della Cina (seconda economia al mondo e nel ruolo di paese più popolato al mondo), che ha un crescente bisogno di procurarsi combustibili fossili e risorse agricole, per cui non è autosufficiente, ma grazie alla posizione di monopolista nella produzione di molte delle materie prime minerarie essenziali all’economia mondiale, possiede un enorme forza di ricatto. Questa reciproca dipendenza spinge inequivocabilmente paesi sviluppati e paesi non ancora sviluppati alla corsa all’approvvigionamento al di fuori dei propri confini di ciò che è vitale per la loro economia (non a caso gli ultimi interventi della NATO sono avvenuti proprio in Libia, Iraq ed Afghanistan, paesi con importanti giacimenti petroliferi o strategici per il passaggio di oleodotti e gasdotti). La dipendenza dell’economia mondiale da tre materie prime energetiche (petrolio, carbone e gas naturale), che non sono egualmente distribuite sul nostro pianeta, porta ad aumentare le pressioni nei confronti dei grandi produttori di queste materie prime (ad esempio Russia e paesi dell’OPEC) da parte dei grandi consumatori (USA, Europa e Cina). Inoltre, esiste sempre il rischio che si arrivi all’interruzione della fornitura di petrolio, gas e in misura minore carbone da parte di uno dei principali produttori di

queste materie prime energetiche, interruzione che potrebbe avvenire per un qualsiasi motivo (instabilità politica e rivolte interne, guerre, ma anche per il cambiamento delle politiche commerciali) e che porterebbe a conseguenze che sarebbero disastrose per l’economia mondiale. Aumento dei consumi degli alimenti di origine animale e delle colture oleaginose (soia, palma da olio, eccetera), verificatosi in prevalenza nei paesi in via di sviluppo. Con l’aumentare del reddito pro capite, la popolazione dei paesi non ancora sviluppati inizia ad aumentare il proprio consumo di alimenti di origine animale, che prima non poteva permettersi perché più costosi (è il caso della carne). Ma le motivazioni che hanno portato a un aumento del consumo di alimenti di origine animale nei paesi in via di sviluppo non sono solo legate all’aumento del reddito, ma anche al fenomeno del mimetismo culturale, così che i paesi in via di sviluppo tendono a imitare le abitudini occidentali. In Cina e India si inizia a consumare il caffè al posto del tè, l’autoproduzione di alimenti si sostituisce al consumo di cibo proveniente dall’industria alimentare (che fa un largo uso di oli vegetali, come l’olio di soia o l’olio di palma) e le catene internazionali di fast food hanno praticamente invaso tutte le grandi città dei paesi in via di sviluppo. La popolazione urbanizzata (in costante crescita) aumenta le proprie necessità e di conseguenza i propri consumi. Per motivi culturali, in città ci sono più esigenze e quindi più bisogni da soddisfare, inoltre

si riduce al minimo il numero di beni e servizi che vengono autoprodotti, con il risultato che si deve ricorrere al mercato per quasi tutto – ma i prodotti in vendita necessitano di molta più energia (e materia) per essere prodotti, trasportati e imballati, inoltre si crea una maggior quantità di rifiuti (basti pensare agli imballaggi). Le città dipendono dall’esterno (terreni agricoli, miniere, giacimenti di gas e petrolio, foreste) per praticamente tutte le risorse naturali che consumano (materie prime energetiche, minerarie e agricole, legname ed acqua) e quindi richiedono la costruzione di enormi infrastrutture che garantiscano la sicurezza delle forniture (strade, autostrade, porti, aeroporti, ferrovie), infrastrutture che a loro volta richiedono il consumo di enormi quantitativi di risorse naturali (acciaio, sabbia, energia, legname, eccetera). La crisi ambientale va a incidere direttamente sulla quantità di risorse naturali a disposizione dell’umanità: l’aumento dell’effetto serra porta al surriscaldamento del clima del nostro pianeta, con la conseguenza che il clima si modifica, aumenta la desertificazione (ad esempio nelle zone limitrofe al Sahara, nel Mediterraneo, in alcune zone dell’Amazzonia, eccetera), si sciolgono i ghiacci dei poli (con il conseguente aumento dei livelli dei mari e quindi dell’erosione del suolo), aumentano i fenomeni meteorologici estremi, come siccità e inondazioni (dovuti al fatto che c’è più vapore acqueo in atmosfera), si sciolgono i ghiacciai e le nevi perenni delle principali catene montuose e diminuisce la portata dei principali fiumi del pianeta,

mettendo così a serio rischio la produzione agricola (ma anche di energia

elettrica)

surriscaldamento

di del

molte

regioni

pianeta,

del

assistiamo

pianeta. alla

Oltre

perdita

al

della

biodiversità, alla deforestazione, alla contaminazione con sostanze organiche e non organiche di mari, fiumi, aria e terra (e quindi anche del cibo), alle piogge acide (l’acidificazione delle acque ne compromette la biodiversità) e al buco dell’ozono (causa di molti tumori alla pelle a umani e animali, e della distruzione del plancton). Stiamo assistendo all’erosione del capitale naturale del nostro pianeta, con la conseguenza che anche questo porta ad un aumento della competizione globale per le risorse naturali, che sono sempre più scarse. La sempre maggiore finanziarizzazione dell’economia (crescita dello stock finanziario e monetario in percentuale al PIL). La peculiarità del sistema capitalistico è quella di fondarsi sul debito, che è l’impulso, ovvero la forza interna che permette al sistema economico di crescere: l’imprenditore prende a prestito capitali che non possiede tramite un intermediario finanziario (il cui compito consiste nel selezionare i migliori progetti di investimento, impiegando il risparmio delle famiglie che ha raccolto) e li investe in un progetto da cui si attende, in futuro, dei flussi finanziari che gli permettano di ripagare

il

capitale

preso

a

prestito,

gli

interessi

dovuti

all’intermediario finanziario e un “di più”, detto profitto (ovvero la remunerazione dell’attività dell’imprenditore). Il sistema bancario

(che svolge l’attività di intermediario finanziario) attinge ai risparmi delle famiglie per finanziare progetti di investimento (privati o pubblici), ma quando questi risparmi non bastano (perché le famiglie non risparmiano abbastanza o perché occorre rilanciare la crescita economica), riceve un prestito dalla banca centrale, che ha quindi creato del denaro. Il denaro che viene creato dalla banca centrale serve come stimolo affinché il sistema bancario possa finanziare un maggior numero di progetti d’investimento (di imprenditori, ma anche di famiglie che vogliono comprare casa) oppure possa comprare sui mercati strumenti finanziari che permettano di finanziarli (azioni, obbligazioni, titoli di stato, derivati, eccetera). Un debito non è altro che una scommessa che viene fatta sul futuro da parte del debitore (che spera di ripagare il debito, gli interessi e di trarne un guadagno) e del creditore (che spera di vedersi rimborsare il prestito più il pagamento di un interesse). Entrambi hanno quindi scommesso su un futuro migliore (nel senso economico del termine), ovvero sulla capacità che quell’investimento sia in grado di garantire un ritorno finanziario maggiore. Ma se per ogni dollaro di PIL abbiamo un certo consumo di risorse naturali (ad esempio, secondo la Banca Mondiale, per ogni 1.000 dollari di PIL mondiale, nel 2009 è stato necessario utilizzare l’equivalente di 182,76 chilogrammi di petrolio per produrre energia, senza considerare le altre risorse naturali, quali materie prime minerarie, risorse idriche, prodotti agricoli, forestali e ittici), in sostanza si tratta di una scommessa o forse sarebbe meglio dire dell’impegno (da parte degli imprenditori,

delle famiglie e dei governi), a estrarre, produrre e trasformare in futuro più risorse naturali. L’aumento dello stock finanziario e di quello monetario (a livello globale) a un tasso maggiore rispetto alla crescita dell’economia reale, significa che il Sistema produttivo sta aumentando le pressioni nei confronti delle risorse naturali, si sta impegnando ad andare a sfruttare in futuro una quantità ancora maggiore di risorse naturali (e se questo non accadrà si avrà inflazione o una forte recessione perché alcuni addetti ai lavori dichiareranno bancarotta). Questo aumenta la competizione e la lotta fra imprese, famiglie e governi indebitati, ovvero fra i soggetti che si sono impegnati ad andare a sfruttare un maggior numero di risorse naturali nel futuro. Conseguenze della lotta per le risorse La conseguenza della strada che abbiamo intrapreso (dal 1970 l’umanità ogni anno consuma molte più risorse di quante ne mette a disposizione il pianeta, andando quindi a intaccare il capitale naturale), è la sempre maggiore competizione per le risorse naturali del nostro pianeta, che si manifesta nell’aumento dei prezzi delle risorse naturali (sempre più contese e sempre più rare) e nella volatilità dei prezzi (dovuta alle sempre maggiori incertezze). Le tensioni sui mercati delle materie prime energetiche, minerarie e agricole sono la conferma di quanto detto fino a ora sull’aumento della competizione per le risorse. Come abbiamo visto nella prima parte del libro, dal nuovo millennio si sono affermate le economie

dei paesi emergenti – che hanno cominciato a sperimentare l’aumento generale del proprio benessere economico – ed è continuato il trend di crescita demografica (nel 2011 abbiamo raggiunto i 7 miliardi di abitanti), con i prezzi di praticamente tutte le risorse naturali del pianeta che si sono impennati (petrolio, carbone, gas naturale, uranio, cereali, carne, pesce, cotone, gomma naturale, rame, oro, tungsteno, terre rare, tantalio, eccetera). L’aumento dei prezzi delle materie prime porta a quattro conseguenze, fra di loro interconnesse e in grado di aumentare ancora di più la lotta per l’accaparramento delle risorse naturali del nostro pianeta. Si riducono i consumi della parte di popolazione che è maggiormente sensibile agli aumenti di prezzo, ovvero i poveri e i poverissimi. Questo è particolarmente vero per i beni essenziali (cibo, acqua, vestiario, combustibile per riscaldarsi e cucinare). Per una persona che vive con meno di 2 dollari al giorno (e che non ha la possibilità di ricorrere all’autoproduzione di cibo), un aumento del prezzo dei cereali del 50% può voler dire che lui e i propri figli non potranno permettersi una dieta equilibrata (ed esempio non ci saranno abbastanza proteine o l’apporto calorico non sarà sufficiente) o le cure mediche essenziali. Un aumento dei prezzi delle materie prime (e in particolar modo di quelle agricole) provoca un aumento degli indigenti e della miseria dei più poveri. Frena la produzione mondiale, ovvero la produzione di tutti i beni ed i servizi creati dal nostro sistema economico a causa dell’aumento

dei prezzi finali e la conseguente flessione dei consumi mondiali (quando l’aumento dei prezzi dei beni e dei servizi è provocato da un aumento del costo delle materie prime, gli aumenti salariali non riescono a colmare l’inflazione). Questo perché un aumento del prezzo delle materie prime (combustibili fossili, materie prime minerarie, agricole, forestali, eccetera) provoca un aumento del costo dell’energia necessaria a far funzionare la tecnologia usata nella produzione e nel trasporto delle merci dalle periferie ai centri di consumo (le città). Inoltre, si assiste ad un aumento dei prezzi di tutti quei beni che incorporano una parte delle materie prime che hanno subito un aumento del prezzo (se aumenta il prezzo del petrolio aumenterà anche il costo per produrre plastica e fertilizzanti chimici, così come se aumenta il prezzo del rame, aumenterà il costo per produrre cavi elettrici e dispositivi tecnologici e via dicendo). L’aumento del costo delle materie prime mina alla stabilità stessa della nostra società e può portare a una pericolosa spirale di crescita negativa, perché non si creano più nuovi posti di lavoro, diminuisce il gettito fiscale e di conseguenza le risorse da destinare alle spese sociali necessarie a mitigare gli effetti collaterali del sistema economico (sussidi per i disoccupati, pensioni per chi non può lavorare, spesa sanitaria, risorse da destinare alla cultura e alla bonifica dell’ambiente) e soprattutto a ridare nuova linfa al Sistema (nuove infrastrutture, ricerca scientifica, sgravi fiscali alle imprese). Da una crisi di questo tipo si può uscire solamente con l’invenzione di nuove tecnologie che migliorino l’efficienza energetica (si

aumenta la produzione a parità di consumo energetico) o con un intervento dell’economia politica. Ma gli interventi di politica monetaria comportano un aumento della base monetaria (ovvero della liquidità a disposizione delle istituzioni finanziarie), che significa comunque un aumento dello stock finanziario disponibile e quindi dell’indebitamento nei confronti del futuro. Un maggior indebitamento significa solo che si richiedono ulteriori pressioni nei confronti delle risorse naturali del pianeta per far crescere l’economia. Rende più conveniente lo sfruttamento delle risorse naturali che si trovano nei luoghi più remoti del pianeta (il petrolio dei giacimenti marini più profondo o delle foreste più impervie, la pesca nei fondali dei mari più lontani), oppure che sono di più bassa qualità (le miniere i cui minerali sono più impuri, i terreni meno fertili e più lontani dai centri di consumo, gli idrocarburi non convenzionali). Lo sfruttamento delle ultime risorse naturali comporta oltre alla richiesta di una maggior quantità di energia per raggiungere, estrarre, lavorare o trasformare queste risorse, la distruzione degli ultimi habitat incontaminati (che si sono mantenuti proprio per la loro inaccessibilità) e quindi la veloce dilapidazione del capitale naturale. Aumentano la spesa militare, i contrasti politici e soprattutto quelli militari per il controllo delle risorse naturali. Aumento della spesa militare, armi nucleari e conflitti in corso

Con lo sfaldamento del blocco sovietico è finita l’era delle due superpotenze militari (sono rimasti solamente gli USA a dominare la scena) e di conseguenza la spesa militare mondiale è diminuita. Nel decennio che va dal 1988 al 1998, la diminuzione della spesa militare mondiale è stata di oltre 1/3, anche se poi è tornata a crescere e anche piuttosto rapidamente. Dal 1998 al 2011, la spesa militare mondiale si è incrementata del 63% (superando – a valori costanti – i livelli della guerra fredda), e ha registrato un aumento annuo pari a 630 miliardi di dollari (vedi Grafico 28). Gli Stati Uniti dominano la scena militare e si può affermare che sono l’unica vera superpotenza militare del pianeta. La spesa militare degli USA rappresenta il 42% dell’intera spesa militare mondiale (vedi Grafico 29). Segue la Cina, anche se con valori molto più bassi rispetto a quelli americani; la spesa militare cinese rappresenta “solamente” l’8% del totale (inferiore di oltre cinque volte rispetto a quella degli USA). Seguono poi Russia, Francia e Regno Unito, tutti e tre con una spesa militare pari al 4% del totale mondiale.

Grafico 28: Variazione spesa militare mondiale dal 1988 al 2010 (in miliardi di dollari)

Fonte: rielaborazione dati SIPRI Military Expenditure Database 2011

Grafico 29: Spesa militare mondiale nel 2011 per paese

Fonte: rielaborazione dati SIPRI Military Expenditure Database 2011

Gli Stati Uniti sono anche il paese che ha maggiormente contribuito all’incremento annuo della spesa mondiale registratosi tra il 1998 ed il 2011, per un importo pari a 323 miliardi di dollari (ovvero il 51% dell’incremento mondiale). Seguono la Cina, che nel 2011 ha destinato al budget militare 102 miliardi di dollari in più rispetto a quanto destinato nel 1998 (ovvero il 16% dell’incremento mondiale), la Russia (con 44 miliardi di spesa militare in più nel 2011 rispetto al 1998), l’India (con un incremento annuo, nel periodo considerato, di

23 miliardi) e l’Arabia Saudita (con un incremento annuo, nel periodo considerato, di 20 miliardi).

Grafico 30: Andamento spesa militare dei primi cinque paesi dal 1988 al 2010 (in miliardi di dollari)

Fonte: rielaborazione dati SIPRI Military Expenditure Database 2011

Da notare, che i primi cinque paesi per spesa militare sono anche i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (e

quindi quelli che hanno il diritto di veto su tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite), a dimostrazione del fatto che le cinque nazioni più influenti del punto di vista politico lo sono anche da quello militare. Nel decennio che va dal 1988 al 1998, Russia e Stati Uniti hanno fortemente tagliato il proprio budget destinato alla spesa militare (la Russia quasi completamente nei primi due/tre anni in cui si è sciolto l’URSS), anche se poi c’è stato un forte incremento della spesa militare da parte dell’unica superpotenza rimasta (cioè gli Stati Uniti) con le guerre all’Afghanistan, all’Iraq e alla Libia. Cina, India e Stati Uniti sono i paesi che, secondo la Banca Mondiale, dispongono degli eserciti più numerosi al mondo (e sono anche i tre paesi più popolati al mondo). L’esercito cinese dispone di 2.945.000 soldati, quello indiano di 2.626.000 soldati e infine, quello americano di 1.564.000 soldati, anche se, considerando il numero di soldati in rapporto alla popolazione, troviamo che gli Stati Uniti hanno una quota di militari che è doppia rispetto a quella di Cina e India. Ma un esercito numeroso non è necessariamente una garanzia della potenza militare di un paese, occorre infatti valutare anche la spesa militare, il livello tecnologico e la qualità degli armamenti militari. Per farsi un’idea dello sviluppo dell’industria bellica di un paese è utile guardare alle esportazioni nette di armamenti. Sempre secondo i database della Banca Mondiale, Stati Uniti, Russia e Germania sono i paesi che nel 2010 hanno registrato le maggiori esportazioni al netto delle importazioni di armamenti militari, per un valore rispettivamente pari a 7,75, 6,02 e 2,24 miliardi di dollari, mentre India e Pakistan

sono stati i principali importatori netti di armamenti (rispettivamente con 3,33 e 2,58 miliardi di dollari). La bomba nucleare è in assoluto l’arma più distruttiva che sia mai stata inventata e rimane quindi la più grave minaccia all’esistenza stessa della vita sulla Terra, con il rischio, sempre latente, che si arrivi all’olocausto del genere umano. Con la fine della Guerra Fredda abbiamo assistito a una diminuzione delle testate nucleari in circolazione, che sono passate dalle 65.000 del 1989 alle 4.400 attuali, anche se ne rimangono comunque 19.000 se nel conto si considerano le armi nucleari che pur non essendo attive, non sono ancora state dismesse o distrutte. Gli Stati Uniti detengono un arsenale di 2.150 ordigni nucleari pronti al lancio immediato con un preavviso di soli 15 minuti (su un totale di circa 8.000 comunque a disposizione), mentre la Russia ne ha 1.800 (su un totale di circa 10.000). Oltre a USA e Russia, dispongono di armi nucleari anche gli altri tre membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU, ovvero Regno Unito (160 attive, su 225 totali), Francia (290 attive su 300 totali) e Cina (Pechino dispone di circa 240 ordigni nucleari). I cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno nel 1970 (ovvero in piena Guerra Fredda) firmato gli accordi di non proliferazione delle armi nucleari, con cui ci si poneva come obiettivo un maggior “controllo” del numero di ordigni nucleari in circolo. Ma esistono anche paesi che di fatto sono entrati a far parte del club del nucleare senza aver mai firmato il Trattato di non

proliferazione. Questi paesi sono l’India (si stima che disponga fra le 80 e le 100 bombe atomiche), il Pakistan (dai 90 ai 110 ordigni nucleari), Israele (tra le 80 e le 200 bombe atomiche) e la Corea del Nord (meno di 10 ordigni nucleari). In quanto membri della NATO, dispongono di testate nucleari anche Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia (anche se rigidamente sotto il controllo statunitense). Anche se sono stati compiuti migliaia di esperimenti nucleari, solamente in due casi abbiamo assistito all’utilizzo di ordigni atomici contro bersagli umani: il 6 ed il 9 agosto del 1945, gli Stati Uniti sganciarono la bomba atomica sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, facendo dalle 100.000 alle 200.000 vittime civili e ottenendo così la resa incondizionata del Giappone e la fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma purtroppo le armi atomiche attualmente in dotazione da Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Israele, Pakistan, India e Corea del Nord, sono molto più potenti delle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki: ad esempio, la potenza distruttrice di un ordigno nucleare americano è, in media, venti volte maggiore. Il fatto che comunque esistano ancora 4.400 testate nucleari pronte a essere lanciate nel giro di qualche minuto (su un totale di circa 19.000 potenzialmente utilizzabili), ci espone tutti al rischio di una guerra termonucleare di portata mondiale. Anche se dal 1991 (anno di dissoluzione dell’URSS e quindi della fine della Guerra Fredda) sono diminuiti i conflitti armati ti tipo convenzionale, ovvero quei conflitti combattuti fra stati e tramite

l’utilizzo di eserciti nazionali, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito ad un aumento delle guerre civili, degli scontri interni fra diverse fazioni (religiose, civili, politiche o di particolari gruppi di interesse), delle rappresaglie e delle guerre latenti, mantenute a un basso profilo, una tipologia di scontri armati che hanno comunque fatto registrare un aumento delle vittime civili in rapporto a quelle militari. I cambiamenti intercorsi nella tipologia di scontri armati non possono però non essere collegati anche ai cambiamenti politici ed economici

degli

ultimi

vent’anni,

con

l’affermarsi

della

globalizzazione e la diminuzione del ruolo dello Stato, avvenuto anche nelle questioni militari. La maggior parte delle guerre di oggi sono scontri armati che avvengono tra fazioni rivali, o tra ribelli e governo centrale e seguono logiche proprie della guerriglia o del terrorismo, andando quindi a colpire sia bersagli civili, che militari. I conflitti in corso sono spesso latenti, striscianti e si protraggono per anni mantenendo però un basso profilo, con l’esplosione di sporadici fenomeni ad alta intensità o stragi a intermittenza che riportano alta l’attenzione sul conflitto, che in realtà non si è mai fermato. Siamo sempre meno di fronte a conflitti legati all’identità nazionale, alla religione o all’appartenenza politica (si fanno sempre meno guerre ideologiche), mentre i nuovi conflitti sono prevalentemente legati al controllo delle risorse naturali (acqua, cibo, minerali, risorse energetiche) o alla mera sopravvivenza (l’estrema povertà è in molti casi il motivo per cui si combatte).

Tabella 13: Regioni o paesi in cui nel settembre del 2011 erano in corso dei conflitti

Fonte: Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo. Terra Nuova Edizioni (2011)

In questi conflitti, si combatte utilizzando eserciti paramilitari, milizie armate, ma anche eserciti mercenari che utilizzano tattiche di guerra proprie della guerriglia (incursioni) e attacchi terroristici (nei confronti della popolazione civile). Ci sono conflitti in cui le principali motivazioni sono di tipo religioso (ad esempio in Pakistan, con le continue tensioni fra sciiti e sunniti), politico (in Ciad si combatte per le tensioni fra governo ed opposizione) o legate all’identità nazionale o alla richiesta d’indipendenza (come in Sahara Occidentale, in Cecenia, nelle regioni abitate dai Curdi in Turchia, nei Paesi Baschi, eccetera), per contrastare criminalità e narcotraffico (ad esempio in Guinea Bissau), ma per molti conflitti, la principale motivazione rimane di tipo economico, ovvero il controllo delle risorse naturali (vedi regioni in grassetto nella Tabella 13). Nel mondo, ci sono attualmente 35 conflitti in corso, anche se l’ONU ha previsto solamente quindici missioni (in Israele/Palestina, Kashmir, Cipro, Siria, Libano, Sahara Occidentale, Kosovo, Liberia, Costa d’Avorio, Haiti, Sudan, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Timor Est e Ciad) con l’obiettivo di garantire la pace e la stabilità. In Costa d’Avorio si combatte principalmente per il controllo delle materie prime agricole destinate alle esportazioni (cacao e caffè), con le multinazionali straniere (francesi, americane e

cinesi) che finanziano i diversi gruppi per assicurarsi il controllo del potere e quindi delle risorse. La guerra alla Libia (con l’appoggio della NATO ai ribelli libici), è stata portata avanti per abbattere il clan di Gheddafi e ridiscutere quindi il controllo del potere, ovvero dei giacimenti petroliferi (prima in buona parte italiani). In Nigeria, i contrasti tra una sparuta oligarchia – che controlla il petrolio – e l’estrema povertà in cui versa la popolazione (in particolare proprio nella regione del Delta, dove si estrae il petrolio), è la principale motivazione degli attacchi terroristici (in apparenza per motivi religiosi) e della guerriglia che dilania il paese. In Repubblica Centrafricana si combatte per il controllo del commercio dei diamanti. In Repubblica Democratica del Congo le multinazionali straniere si contendono le enormi risorse minerarie (coltan, diamanti, rame, uranio, cobalto, tungsteno, eccetera) e sono la causa di praticamente tutti i conflitti interni all’ex-Zaire. Oltre che per motivi religiosi e di identità nazionale (il nord è abitato dall’etnia araba, di religione islamica, mentre il sud e parte del Darfur da gruppi etnici africani di religione animista o cristiana), i conflitti all’interno del Sudan e tra Sud Sudan e Sudan sorgono dalla necessità di controllare il petrolio del paese, che si trova in prevalenza nella zona di confine tra il neonato stato e Khartoum (il Sudan è il terzo produttore di petrolio del continente dopo Nigeria ed Angola). In Uganda si combatte per il controllo delle risorse del paese, anche alla luce delle recenti scoperte di nuovi giacimenti petroliferi. In Colombia – dove il 4% dei proprietari agricoli controlla il 67% dei terreni produttivi –

si lotta per la terra e per il controllo delle aree destinate alla coltivazione della coca. La guerra all’Afghanistan, iniziata nel 2001 dalla NATO sotto il comando degli USA, oltre che per abbattere il regime talebano, trova nelle motivazioni geopolitiche (la strategicità dell’Afghanistan in caso di guerra fra Pakistan e India e la particolare posizione a cavallo tra Asia Centrale e Medio Oriente) ed economiche (il passaggio dei gasdotti che collegano il Medio Oriente alla Cina e l’immenso giacimento di minerali – tra cui terre rare, rame e carbone), le ragioni del conflitto ancora in corso. Le tensioni fra Cina e Tibet (invaso nella più totale indifferenza della comunità internazionale nel 1950 dall’esercito cinese) sono da ricercarsi anche e soprattutto nel controllo diretto delle risorse minerarie del paese e nelle imponenti riserve idriche del Tibet, da cui nascono alcuni fra i più importanti fiumi asiatici (Indo, Brahmaputra, Mekong, Saluen). Nelle campagne più remote dell’India (nel Bengala Occidentale, nel Bihar, nella piana del Gange, nel Jharkhand, nell’Orissa, nel Chattisgarh), c’è un conflitto aperto fra la popolazione rurale (in prevalenza indigena) e lo stato e alla base dei contrasti c’è l’opposizione della popolazione locale ai grandi progetti di sviluppo voluti da Nuova Delhi (miniere, acciaierie, dighe), che abbattono foreste e sottraggono terre alla popolazione locale, costretta a migrare altrove (di solito nelle bidonville delle grandi città) e quindi a pagare sulla propria pelle l’amaro prezzo dello sviluppo. Nelle campagne indiane si fronteggiano da una parte i ribelli – di ispirazione maoista – e dall’altra il governo (che requisisce le terre

trasformandole poi in “zone economiche speciali”, a vocazione industriale), mentre nelle zone montagnose, definite “tribali” (tribal belt), si lotta sempre fra governo e popolazione indigena, ma per le risorse minerarie (vi si trovano l’80% del ferro, il 90% della bauxite, dell’uranio, del carbone, del rame e dell’oro indiano), che il governo vuole iniziare a sfruttare. L’Iraq di Saddam Hussein è stato invaso nel 2003 da Gran Bretagna e Stati Uniti, ufficialmente perché accusato di detenere armi distruzioni di massa (accusa poi rivelatasi falsa), ma di fatto per controllarne il petrolio (di ottima qualità, il paese detiene le quinte riserve al mondo e punta a produrne 12 milioni di barili al giorno entro il 2017, dai 2,8 milioni attuali). Abbattuto il regime, ora il paese si trova in una situazione di instabilità cronica ed è segnato dalla continua guerriglia interna, che vede fronteggiarsi da una parte i sunniti e dall’altra gli sciiti. Il paese è inoltre scosso dalle continue tensioni tra curdi (che sono diventati quasi indipendenti) e governo centrale (soprattutto per la gestione del petrolio che si trova nella regione del Kurdistan), tensioni che in ogni momento rischiano di far cadere il paese nello spauracchio di una guerra civile. La questione israelo-palestinese si gioca da una parte intorno alle richieste dei palestinesi, che chiedono il ritiro di Israele dai territori occupati nella “Guerra dei sei giorni” del 1967 (si tratta delle Alture del Golan, di Gerusalemme Est, della Striscia di Gaza e della Cisgiordania) e il diritto che i profughi palestinesi, che nel 1948 hanno dovuto abbandonare la propria terra, vi possano fare ritorno. Dall’altra parte c’è invece Israele, che rivendica il diritto alla propria

sicurezza (dopo la Seconda Intifada i palestinesi hanno iniziato a colpire con attentati terroristici obiettivi civili israeliani), esercitato in modo piuttosto aggressivo, come nella guerra del 2009, o con la continua costruzione di colonie in territorio palestinese (illegali secondo il diritto internazionale), ed il controllo delle risorse dei palestinesi (l’acqua e le terre più fertili). Ma il nodo di tutta la questione sono le risorse idriche, che pur trovandosi in territori palestinesi o dei vicini paesi arabi sono di fatto controllate da Israele, che preleva il 58,3% dell’acqua del fiume Giordano, il 70% della portata

della

Falda

acquifera

orientale

(teoricamente

tutta

palestinese) ed il 90% delle Falde Settentrionale e Occidentale, mentre ai palestinesi di Gaza e Cisgiordania spetta il 10% delle risorse idriche del territorio dell’ex mandato britannico. La gestione delle risorse idriche in modo iniquo è piuttosto semplice da verificare: un israeliano consuma in media 350 litri di acqua al giorno, mentre un palestinese dai 30 ai 76 litri, senza contare il fatto che l’acqua a disposizione dei palestinesi è spesso contaminata (mentre quella degli israeliani proviene dai desalinizzatori o da impianti di depurazione). La lotta per le risorse idriche è legata all’altipiano delle Alture del Golan, vero e proprio serbatoio d’acqua della regione (e luogo da cui sorge il fiume Giordano), tutt’ora rivendicato dalla Siria, che lo ha perso nella “Guerra dei sei giorni” (iniziata

con

l’attacco

preventivo

di

Israele

nei

confronti

dell’aviazione egiziana, il 5 giugno 1967). L’altro punto di attrito è rappresentato dal Sud del Libano, attaccato anch’esso da Israele nel

1978, durante quella che fu chiamata ”operazione Litani”, per il nome del fiume Litani, corso d’acqua strategico per l’irrigazione della regione. Basti pensare che “per i due terzi, il bisogno idrico israeliano è assicurato da fonti esterne rispetto alle frontiere del 1948”. “Il 75% delle acqua del Giordano sono destinate alla conurbazione Giaffa-Tel Aviv e alle piantagioni agricole del Nagev, a scapito dei Territori Occupati e del Mar Morto”, inoltre “i palestinesi pagano l’acqua per l’uso agricolo al prezzo dell’acqua potabile,

mentre

i

coloni

israeliani

beneficiano

di

tariffe

preferenziali”. “La costruzione del muro ha portato alla separazione dei pozzi dalle terre agricole arabe”, che diventano così sempre più aride. La situazione idrica è ancora più grave nei confronti dei palestinesi se si pensa che la società palestinese è tradizionalmente rurale e contadine (“l’agricoltura palestinese, con un 14% della popolazione attiva, fornisce il 15% del PIL, allorché solamente il 6% delle terre siano irrigate, mentre i coloni irrigano il 60% delle loro terre” ). Dietro ad ogni conflitto, oltre agli interessi e le ragioni più tangibili e più evidenti, ovvero quelle delle fazioni in campo, ci sono (quasi) sempre altri interessi, più nascosti, in ombra, esterni alle fazioni. Che si tratti del sostegno che l’Iran fornisce agli sciiti di Yemen, Iraq o Pakistan, o dell’appoggio incondizionato della Cina a El Bashir, il sanguinario dittatore del Sudan, che vende petrolio ai cinesi in cambio di infrastrutture o prestiti agevolati (ma ora anche al Sud

Sudan, nonostante il nuovo stato sia stato fortemente voluto dagli USA), o delle maxi tangenti di 182 milioni di euro pagate da ENI, JGC e TECHNIP in dieci anni a politici e funzionari nigeriani, ci troviamo comunque di fronte a una tipologia di conflitto in cui gli interessi economici di altre potenze economiche o quelli delle grandi multinazionali prevalgono su quelli delle parti in conflitto. Infatti, dietro a questi conflitti armati, si nasconde quasi sempre la lotta di fazioni esterne, per riuscire a mettere le mani sulle ultime risorse del nostro pianeta. L’Africa Sub-Sahariana, dove secondo la FAO si concentra il 45% dei terreni agricoli adatti alla coltivazione del nostro pianeta, è diventata il campo di battaglia dove si fronteggiano i vari interessi esterni: quelli della superpotenza mondiale USA, dell’emergente Cina, ma anche quelli dei paesi arabi, dei francesi, degli inglesi, italiani, dei coreani e via dicendo. Ad esempio, la Cina ha in progetto di investire entro i prossimi cinquant’anni anni 5 miliardi di dollari in Africa (ed è comunque già presente in Sudan, Sud Sudan, Ciad, Costa d’Avorio, Angola, Zambia, Uganda, Zimbabwe, Tanzania e in altri paesi), riuscendo così ad aggiudicarsi terreni fertili in cambio di infrastrutture e tecnologia. I cinesi hanno in progetto di trasferire in massa i propri contadini nel Continente Nero, riducendo così le possibili tensioni interne dovute alle enormi disuguaglianze e soprattutto riuscendo a garantirsi una sicura fornitura di cibo, in grado di colmare il deficit alimentare del paese più popolato al mondo. I paesi del Golfo Persico (che stanno velocemente esaurendo le falde acquifere sovrasfruttate), la Corea

del Sud e i paesi Occidentali stanno facendo incetta di terreni fertili dell’Africa per garantirsi la fornitura di cibo e biocarburanti proprio dal continente che subirà il maggior incremento demografico nei prossimi anni. In Etiopia (uno dei paesi più colpiti dalla recente carestia del Corno d’Africa) un ettaro di terreno si può avere in concessione per 99 anni pagando solamente 1 dollaro all’anno di affitto e così la Corea del Sud non si è fatta scappare l’affare e di recente ha siglato accordi per 2,3 milioni di ettari (ovviamente con il benestare del governo etiope). In Africa Sub-Sahariana stanno investendo le grandi multinazionali che producono bio-combustibili (delle 390 grandi acquisizioni di terreni recensite fino ad ora, solamente il 37% è stato destinato alla produzione di cibo, mentre il 35% è stato destinato alla produzione di bio-carburanti). Secondo la FAO, entro il 2050 occorrerà produrre una quantità di cibo più grande del 70% rispetto all’attuale produzione per riuscire a far fronte al boom demografico che avverrà proprio nell’Africa SubSahariana (ma anche in Asia Meridionale), dove ora gli stranieri stanno facendo incetta di terreni fertili per garantirsi il fabbisogno alimentare dei prossimi decenni. È piuttosto evidente che è l’Africa il continente in cui è più probabile che si arrivi a uno stato di conflitto perenne, con da una parte la popolazione che è affamata e in stato di miseria e, dall’altra, i guerriglieri al servizio degli interessi degli stranieri. Stiamo accelerando verso la fase più critica della competizione globale, perché si combatte sempre più per il controllo della terra, dell’acqua, delle risorse energetiche o dei minerali e dove

parallelamente una massa sempre più grande di indigenti reclama il proprio diritto alla sopravvivenza.

II Il potere del capitale Torna all’indice Secondo una speciale classifica del Financial Times, la società che nel marzo del 2012 ha raggiunto la più alta capitalizzazione al mondo è stata l’americana Apple, con un valore di mercato pari a 559 miliardi di dollari (più grande di tutta l’economia sudafricana o del Belgio), seguita da Exxon Mobil, con una capitalizzazione di mercato pari a 409 miliardi di dollari e PetroChina, con un valore di mercato di 279 miliardi di dollari. Le prime dieci aziende al mondo per capitalizzazione di mercato valgono in totale 2.863 miliardi di dollari, quasi quanto il prodotto interno lordo degli 82 milioni di tedeschi. Il settore energetico è quello più rappresentato nelle prime dieci aziende al mondo (con Exxon Mobil, PetroChina, Royal Dutch Shell e Chevron), ed è seguito da quello tecnologico (con Apple, Microsoft ed IBM). La classifica delle prime dieci aziende al mondo per capitalizzazione di mercato ci fa riflettere sul peso e quindi il ruolo che una singola azienda può avere nel determinare l’economia e la politica mondiale. L’esistenza di aziende il cui valore è più grande di quello di intere nazioni ci pone di fronte a un grosso problema, ovvero al conflitto tra interesse privato e interesse

collettivo. Al di là della propaganda “etica”, il cui unico scopo rimane sempre lo stesso, ovvero quello di creare valore per gli azionisti aumentando i propri profitti (le spese di Corporate Social Responsability

hanno

come

obiettivo

quello

di

migliorare

l’immagine dell’azienda – e quindi il valore del marchio – oppure quello di gratificare e incentivare i propri dipendenti, per aumentarne la produttività e la fedeltà), questi colossi del mondo privato non hanno altro fine se non la creazione di valore per i propri azionisti.

Tabella 14: Prime 10 aziende al mondo per capitalizzazione di mercato a marzo 2012

Fonte: Financial Times

Ma una nazione persegue fini diversi e non necessariamente economici (difesa e sicurezza dei cittadini, diritto alla salute,

salvaguardia dell’ambiente, eccetera), anche se comunque il principale obiettivo rimane un obiettivo economico, ovvero la crescita del PIL (e quindi dei redditi dei singoli).

a rischio la stessa

sovranità dei cittadini e delle varie collettività, che rischiano di vedersi sottrarre una parte o la totalità dei propri diritti e del proprio potere decisionale nel momento in cui gli interessi nazionali entrano in contrasto con le politiche di queste grandi aziende (sempre e comunque volte ad aumentarne i profitti). Queste grandi aziende hanno a disposizione enormi budget annuali, con cui riescono a mettere in campo gli strumenti e i mezzi necessari per raggiungere il proprio scopo (ad esempio mettendo in atto una campagna pubblicitaria su vasta scala, effettuando attività di lobbing o corrompendo funzionari, assoldando luminari di fama internazionale e via dicendo). Con la globalizzazione si è messo in atto il processo volto alla creazione di un mercato globale, in cui tutte le aziende fossero tra loro in competizione, in cui non esistessero frontiere (o si tendesse perlomeno a superarle), in cui non esistessero dazi (o fossero comunque trascurabili). Ma nel momento in cui si è arrivati a creare un mercato che è globale, anche le dimensioni delle aziende che vi partecipano hanno dovuto modificarsi per essere adeguate alle dimensioni di un mercato che teoricamente abbraccia tutto il globo. La globalizzazione opera una continua “razionalizzazione” dei settori economici a livello mondiale: la competizione è stata ampliata a tutti indiscriminatamente e quindi le aziende che competono, i servizi che vengono forniti, le merci in vendita sui mercati, il lavoro dei

lavoratori, ma anche le razze degli animali che vengono allevati o le colture che hanno il compito si sfamarci, devono continuamente aumentare la propria produttività per essere più efficienti, pena l’espulsione dal Sistema. Tutte le attività produttive ed economiche devono rendere il massimo risultato con il minimo impiego di mezzi e così il mercato ha selezionato i più efficienti (c’è spazio solamente per tre o quattro varietà di grano, magari OGM, una razza di bovini da latte, due o tre grandi produttori di bevande non alcoliche, meno di dieci produttori di automobili), perché il capitale opera una selezione a livello planetario: è “naturalmente” destinato agli investimenti più redditizi, ovvero a quelli più produttivi. Ma l’efficienza va a braccetto con il progresso tecnologico, perché è la tecnologia che permette di scoprire quei nuovi prodotti e quei nuovi processi che sono in grado di aumentare l’output finale dato un certo input. Nell’arco di qualche decennio abbiamo quindi assistito alla modifica delle dimensioni e quindi della competizione delle aziende, che sono passate da una scala locale, dove magari operavano con tecniche di produzione artigianali (ad esempio una regione dell’Italia) a una continentale (con il mercato unico europeo), e infine a una scala globale (con i 153 paesi appartenenti all’OMC), dove l’azienda opera con impianti robotizzati e fa ricerca nei laboratori

scientifici.

°

il

caso

ad

esempio

del

settore

automobilistico, che negli ultimi anni ha attraversato una fase di riorganizzazione e concentrazione, che ha lasciato pochi grandi gruppi a spartirsi l’intero mercato mondiale (Toyota, Volkswagen,

General Motors, Hyunday/KIA, Honda, Gruppo PSA, Nissan, Fors, Suzuki, Renault, FIAT-Chrysler, BMW, Daimler e qualche gruppo emergente in Cina od India). A dimostrazione del fatto che le dimensioni delle aziende sono aumentate, notiamo che nel 2011, la quota di fatturato totale delle 500 aziende più grandi al mondo in termini di fatturato, era pari al 47% dell’intero PIL mondiale dello stesso anno, più alta di quasi 10 punti percentuali rispetto al 1993, quando il fatturato delle 500 multinazionali più grandi del pianeta era pari al 38% del PIL dello stesso anno. Il fatturato delle 500 multinazionali più grandi al mondo è quindi pari a circa la metà del PIL mondiale, una quota veramente enorme se si considera che nel PIL rientrano anche i beni e i servizi prodotti da tutti gli stati e gli enti pubblici del mondo, laddove invece, secondo la Banca Mondiale, la spesa pubblica che nel 2009 è stata destinata alla produzione di beni e servizi, a livello globale, è stata pari al 31,19% dell’intero PIL mondiale. Il mondo economico privato, che si potrebbe approssimare con le 500 aziende che hanno il fatturato più grande al mondo, è controllato direttamente (tramite quote di capitale) e indirettamente (tramite prestiti obbligazionari e mutui bancari) dal mondo finanziario, che potremmo definire una sorta di “oligarchia finanziaria”, perché raggruppa i grandi colossi della finanza del nostro pianeta, ovvero i fondi di investimento e i fondi pensione, le società di investimento, i gruppi bancari e assicurativi, che riescono più o meno direttamente (tramite il gioco delle scatole cinesi e le forti pressioni di lobby) a controllare l’economia del

pianeta. L’”oligarchia finanziaria” beneficia del diritto alla nomina dei propri “vassalli e valvassori” nelle persone degli amministratori e dei vari consiglieri che presiedono il consiglio d’amministrazione ed è inoltre in grado di rimuoverli qualora il loro operato non risultasse consono alle politiche e alla volontà degli azionisti di maggioranza. Ma le “oligarchie finanziarie” non solo controllano tutte le più grandi corporation del pianeta, ma finanziano, tramite la concessioni di fidi e mutui o tramite l’acquisto di obbligazioni, le piccole e medie aziende, quelle che non si sono ancora rivolte ai mercati finanziari. Oltre a effettuare un controllo (più o meno diretto) del mondo privato, il mondo della finanza ha anche la possibilità di influenzare e quindi controllare anche l’operato dei governi e degli Stati nazionali. Anche in questo caso sono i soldi lo strumento più efficace, l’arma più subdola, perché in grado di influenzare un governo ogni qual volta che emette titoli di stato per finanziarsi. I titoli di stato verranno acquistati in prima battuta dagli intermediari finanziari (le banche, che a loro volta li possono rivendere ai loro clienti o tenere nel proprio portafoglio) o da società di gestione, grandi fondi d’investimento, gruppi assicurativi e via dicendo, ma è chiaro a tutti che la capacità di finanziarsi sul mercato e il tasso d’interesse verrà deciso dal mondo finanziario, cioè da chi rappresenta la domanda. Questo meccanismo garantisce al mondo finanziario (preso nel suo complesso) un potere straordinariamente grande, perché dispone delle leve e degli strumenti per decidere le sorti di intere nazioni nel momento in cui decidesse di chiudere i

rubinetti del credito o richiedesse un maggior interesse sui titoli di stato. Nonostante l’illusione creata da costituzioni e trattati di indipendenza di ogni genere, i governi non sono affatto indipendenti e quindi non possono rispettare a pieno la volontà dei cittadini, di cui ne rappresentano gli interessi, mentre devono assolutamente ingraziarsi e assoggettarsi agli interessi del mondo finanziario, dell’”oligarchia finanziaria”, anche se ovviamente questo mondo non centra niente con il processo democratico. Ogni azione politica, ogni legge, ogni provvedimento intrapreso da parte di un governo deve sempre avere il benestare del mondo della finanza, deve essere in linea con gli interessi di chi ha prestato i capitali e può decidere da un momento all’altro di continuare o meno a prestarli, pena la radiazione dai circuiti finanziari mondiali (come successo nel recente caso dell’Ecuador o dell’Argentina dopo il 2001). Questo meccanismo si è visto all’opera

con la recente crisi del debito

sovrano che si è abbattuta nei confronti dei paesi periferici dell’area euro. Quando le azioni di un governo non piacciono agli investitori, questi iniziano a domandare un extra-rendimento (in termini tecnici viene detto “premio per il rischio”) per continuare a comprare i titoli di stato di quel determinato paese (evitando così che l’asta dei titoli di stato sia disertata). Questo però significa che quel determinato paese dovrà destinare una parte sempre più grande del proprio budget governativo (raccolto tramite le imposte e teoricamente destinato ai servizi pubblici, alle spese sociali, come le pensioni e agli investimenti) al pagamento degli interessi sul debito, entrando

così in un pericoloso circolo vizioso dove ci si indebita sempre più per ripagare gli interessi sul debito. La risposta che i grandi investitori, cioè l’”oligarchia finanziaria”, fornisce a un paese a seguito delle proprie azioni politiche (ad esempio l’aumento del debito pubblico, le riforme del lavoro, gli sgravi fiscali alle imprese, il taglio della spesa pubblica, le nazionalizzazioni, eccetera), si manifesta quotidianamente tramite l’andamento delle quotazioni dei CDS (Credit Default Swap) sul debito di quel determinato paese. I CDS sono una sorta di assicurazione contro il default di un determinato debitore, che può ovviamente trattarsi anche di un paese (se questo ha emesso titoli di stato). Il valore dei CDS viene lasciato alle forze del libero mercato: quando gli investitori ritengono che sia più probabile che quel determinato debitore non sia in grado di onorare il proprio debito, comprano CDS, diversamente vendono CDS. La crisi del debito sovrano dei così detti PIIGS si è manifestata con un peggioramento dell’umore degli investitori (il mondo finanziario), che hanno iniziato a coprirsi dal rischio che Grecia, Portogallo, Irlanda e poi Spagna ed Italia non fossero più in grado di restituire il capitale che era stato loro prestato, iniziando così a comprare i CDS relativi a questi paesi, con la conseguenza che il costo degli interessi sul debito dei PIIGS è lievitato. Per far fronte all’aumento dei costi, questi paesi hanno però dovuto mettere in campo misure fortemente recessive, come il taglio della spesa pubblica e l’aumento delle imposte. Ma questo spesso non è sufficiente e i prestatori di capitali richiedono altre misure, come le

privatizzazioni, ovvero la vendita (anche se sarebbe più corretto dire la svendita) degli asset pubblici, che di solito avviene con la quotazione sui mercati finanziari tramite un’offerta pubblica di vendita (in questo modo le aziende che prima erano di proprietà pubblica vanno in mano ai privati, cioè all’”oligarchia della finanza”), ma anche la riforma del mercato del lavoro (si tolgono le protezioni ai lavoratori) e la concessione di fondi pubblici tramite il taglio dell’aliquota fiscale o la creazione di sussidi alla disoccupazione. Il mondo della finanza è il vero padrone della nostra società, perché riesce a controllare più o meno direttamente il mondo economico-produttivo delle aziende private e a tenere in pugno il mondo politico, che deve arrendersi alle proprie condizioni e ai propri diktat (crescita economica, privatizzazioni, flessibilità del mondo del lavoro, deregulation, sgravi fiscali alle imprese, sussidi pubblici al mondo industriale, incentivi al consumo, eccetera). Per farsi un’idea dell’immenso potere che i grandi gruppi finanziari detengono, basta osservare la quantità di denaro che sono in grado di amministrare, controllare e quindi investire. Laurence Fink, l’amministratore della più grande società d’investimento al mondo, ovvero Blackrock (uno dei principali azionisti di Apple, la più grande società al mondo), gestisce un patrimonio pari a 3.700 miliardi di dollari, più del valore delle dieci multinazionali più grandi del pianeta o dell’intera economia di Spagna e Italia messe insieme (vedi Tabella 15).

Tabella 15: Primi 10 gruppi finanziari per asset in gestione nel giugno 2011

Fonte: Economist

Quest’uomo (o meglio chi ha il potere di nominarlo o revocarlo) è quindi molto più potente del cancelliere tedesco o di tutti gli amministratori delegati delle prime 10 multinazionali al mondo. I primi dieci gruppi finanziari del nostro pianeta gestiscono 15.270 miliardi di dollari, ovvero un ammontare di denaro più grande dell’intero PIL degli Stati Uniti, l’economia più grande del pianeta. Ma le grandi aziende del mondo finanziario e di quello industriale, esercitano un’enorme influenza sul mondo politico tramite le varie attività di lobbying (dove è legale), di finanziamento del mondo politico e anche di corruzione di politici o funzionari pubblici (presente un po’ ovunque nei paesi sottosviluppati, ma anche in paesi avanzati, com’è stato il caso di Tangentopoli in Italia nel 1992, oppure il tentativo da parte di Monsanto di corrompere i membri dell’Health Canada – ma un libro non basterebbe a citare tutti i casi di corruzione da parte delle imprese). Negli Stati Uniti, l’attività di lobbying viene fatta alla luce del sole perché legale: è infatti garantita dalla stessa Costituzione. Nel 2011, la sola industria finanziaria americana ha speso oltre 100 milioni di dollari per influenzare le decisioni del Congresso americano, ma l’attività di lobbying è legale anche presso i tecnocrati dell’Unione Europea, in Australia, nel Regno Unito e via dicendo. A fianco dell’attività di lobbying esiste il finanziamento diretto ai partiti, uno dei lati più oscuri delle democrazie del XXI secolo. Negli Stati Uniti, le grandi multinazionali finanziano (direttamente o tramite fondazioni o associazioni di imprese) le campagne presidenziali dei candidati alla

Casa Bianca, e ognuno dei due contendenti sa benissimo quanto sia decisivo l’appoggio dei grandi gruppi finanziari e industriali, perché per finanziare una campagna elettorale di successo occorre un mucchio di denaro. Così, ad esempio, nel 2008 Barack Obama ha raccolto (tramite finanziamenti privati) 744 milioni di dollari, mentre il suo rivale, John McCain, si è dovuto accontentare di 368 milioni di dollari, troppo poco per pretendere di diventare il Presidente degli Stati Uniti d’America (anche nel 2004, G.W. Bush raccolse 367 milioni di dollari, mentre John Kerry ebbe a disposizione un budget inferiore, ovvero 328 milioni). Oltre che da singoli cittadini, Obama è stato finanziato dai grandi gruppi della finanza e dalle grandi multinazionali, così che tra i principali benefattori troviamo Goldman Sachs, Microsoft e Google, mentre la campagna elettorale di John McCain ha ricevuto l’appoggio di Merrill Lynch, JP Morgan Chase, Citigroup e Morgan Stanley. Del resto, ogni governo sa che non può più sottrarsi al gioco della competizione globale (voluta dalle grandi corporation in cerca di nuovi mercati e bassi salari) e che si trova quindi in lotta con gli altri paesi per riuscire ad assicurarsi i capitali delle grandi multinazionali o almeno evitare che escano quelli già presenti. Senza quei capitali non verranno creati nuovi posti di lavoro e l’economia smetterà di crescere, con la conseguenza che le entrate fiscali necessarie a far funzionare lo stato, a pagare gli interessi sul debito pubblico e a garantire un sistema pensionistico adeguato non basteranno più, con tutte le conseguenze negative del caso. I grandi capitali hanno preso in ostaggio la politica

mondiale che ormai non può più decidere in modo autonomo, ma deve servire gli interessi dell’”oligarchia finanziaria” e delle grandi multinazionali alla continua ricerca di condizioni più vantaggiose dove produrre (o far produrre ai propri fornitori), dove le tutele dei lavoratori siano blande o inesistenti, dove la legislazione ambientale sia debole e la tassazione vantaggiosa, ovvero di luoghi dove poter scaricare le proprie esternalità negative (cioè i propri costi) sulla collettività. In un Sistema fondato sulla competizione fra stati, le grandi multinazionali possono infatti decidere la fortuna o il declino di intere nazioni, sempre più alla mercé del potere del capitale. I grandi gruppi industriali minacciano di andarsene via e di smantellare tutto nel momento in cui le loro condizioni non verranno accettate, come nel caso FIAT, con l’amministratore delegato Marchionne che minaccia sindacati e governi di trasferire quel che resta della FIAT in Italia negli USA ogni qual volta che le sue condizioni non vengono accettate, mostrando così l’ingratitudine di un’azienda che per decenni ha beneficiato di aiuti di stato. In questo Sistema esiste una continua tensione fra potere politico e potere economico, con il primo che si pone a tutela degli interessi dei cittadini (diritto alla piena realizzazione del potenziale umano, diritto alla salute, diritto a vivere in un ambiente non inquinato, eccetera) e il secondo, invece, che si pone a tutela dei soli interessi degli azionisti, di chi detiene i capitali (il cui unico obiettivo è di veder aumentare i propri profitti). Trattandosi di interessi così divergenti fra loro, che di fatto sono incompatibili, perché una concessione a

uno significa togliere qualcosa a un altro, non è possibile arrivare ad un equilibrio che vada bene ad entrambi. Lo scontro fra potere politico e potere economico è però ormai giunto a un epilogo, a una conclusione con la definitiva proclamazione del potere economico (e quindi degli interressi dei detentori dei capitali) a vero padrone dell’umanità. Le multinazionali dispongono di budget enormi, in alcuni casi maggiori rispetto a quelli di alcune fra le più importanti nazioni del mondo (nel 2010, la manovra finanziaria dell’Italia è stata pari a circa 25 miliardi di euro, mentre i profitti di Nestlé per lo stesso anno hanno sfiorato i 33 miliardi di dollari). I budget delle grandi multinazionali sono destinati ad aumentarne il valore e quindi i profitti e per fare questo spesso si trovano a dover influenzare più o meno

direttamente

il

potere

politico

e/o

le

autorità

di

regolamentazione (attività di lobbying nei paesi avanzati, corruzione in quelli in via di sviluppo), ma anche ad assoldare i migliori tecnici, i migliori avvocati e i migliori scienziati presenti sulla piazza (ovviamente la ricerca scientifica fatta nei laboratori delle multinazionali è finalizzata esclusivamente a creare profitti per l’azienda), a ricattare i media (una grande multinazionale che spende milioni di dollari all’anno in pubblicità dispone di un enorme potere di ricatto nei confronti dei giornali e delle televisioni, così che è impossibile che qualche giornalista dei media più accreditati possa mettere in cattiva luce l’operato di una di queste aziende) o ad imprimere la propria cultura, la propria visione del mondo in internet, in tv, nei giornali, nelle radio, per le strade e via dicendo. Il

potere del capitale è praticamente senza limiti e siamo ben lontani da una condizione di democrazia (dal greco “governo del popolo”) e molto più vicini a quella di un sistema plutocratico, dove chi governa sono le grandi élite del capitalismo mondiale – ovvero l’“oligarchia finanziaria”.

III L’economicizzazione del mondo Torna all’indice L’economia non è un concetto universale L’economia può essere definita come l’insieme delle scelte razionali il cui fine è quello di impiegare risorse naturali dell’ambiente per trasformarle in beni e servizi necessari a soddisfare i bisogni degli individui o dei gruppi sociali. Per gli economisti, l’economia ha sempre accompagnato la storia dell’uomo, ed è quindi un concetto universale (e quindi presente in ogni tempo ed in ogni luogo). Diverso il punto di vista di Serge Latouche, secondo cui – a meno di voler includere fra le attività economiche qualsiasi pratica materiale, con il rischio di dover includere anche le pratiche per la sopravvivenza di piante e animali – l’economia non è che una realizzazione dello spirito umano, una mera costruzione umana, che in un determinato momento ha creato l’immaginario economico. Secondo il filosofo ed economista francese, le pratiche per la sopravvivenza dei singoli individui non possono, a priori, essere

considerate attività economiche. Quando queste pratiche materiali non vengono scisse dalle altre forme, ovvero dalle altre dimensioni dell’agire umano – dimensioni che non sono dominate dalla razionalità e dal calcolo economico (tutto ciò che appartiene alla cultura, alla sfera della creatività umana, della religione, della tradizione, dei riti, della guerra, dei sentimenti e delle passioni umane) –, appartengono a tutti gli effetti alla sfera culturale. Si tratta di una sfera poco o per nulla interessata al modo più efficiente di produrre e forse ancor meno al calcolo economico. Ma quando queste pratiche materiali si “automatizzano”, quando “vengono pensate come una sfera a parte”, si separano dalle altre attività sociali e giungono a una loro indipendenza. L’indipendenza di queste pratiche materiali da altri condizionamenti esterni porta quindi all’autoregolamentazione

(si

riconosce

l’esistenza

di

“leggi

universali” proprie a queste pratiche, come nel caso della legge della domanda e dell’offerta che permette di arrivare allo scambio) e alla nascita dell’economia. solamente

quindi opportuno sottolineare che

quando questo accade ha senso l’investigazione

dell’economista, che va a ricercare il modo più razionale ed efficiente di mettere in atto queste pratiche materiali. Con la scissione di queste pratiche materiali dalla sfera culturale nasce l’economia e inizia lo svuotamento di ogni senso e di ogni significato precedentemente attribuito a quelle pratiche (profondamente legate alla sfera culturale). L’unico senso che rimane è quello economico, legato ai concetti di efficienza, razionalità e crescita. “La costruzione

di una sfera economica è un processo storico e culturale e in quanto tale, è una produzione di rappresentazioni”. Per Latouche, l’intero discorso economico, le attività che noi vediamo e percepiamo come economiche, sono percepite tali solamente perché esiste a monte un “discorso” e dei “concetti” che si possono qualificare come economici. Nelle considerazioni di tipo economico non contano più i sentimenti, i pensieri o le immagini degli individui che vi partecipano (quindi l’aspetto umano), ma ci si limita a registrare la mera attività materiale, senza che importi quale persona l’abbia realizzata e che cosa abbia pensato o provato nel metterla in atto. Conta solamente il risultato, la precisa esecuzione dell’attività materiale

(occorre

quella

freddezza

e

quell’efficienza

che

difficilmente gli uomini riescono a mettere in pratica, e infatti sono stati praticamente sostituiti dalle macchine, che sono più efficienti e di gran lunga più produttive). La scienza economica ha “inventato” (come sostiene Latouche) dei concetti ad hoc, che sono il più possibile astratti e autoreferenziali e con cui si possono definire le varie attività del circuito economico. Il circuito economico (l’applicazione alla realtà di quei concetti astratti) diventa quindi un meccanismo perfetto, che si potrebbe quasi definire come “divino”, in grado di spiegare le leggi e il funzionamento dell’intero discorso economico: il capitale (che è lavoro, interesse/profitto o rendita terriera che sono stati precedentemente risparmiati) viene investito in una qualche attività produttiva che tramite il lavoro (retribuito dal salario) trasforma le risorse naturali in beni o servizi destinati a

soddisfare i bisogni dei consumatori, i quali utilizzeranno parte del loro reddito (lavoro, interesse/profitto o rendita terriera) per consumare quei beni o servizi prodotti, andando così a remunerare il lavoro impiegato (sotto forma di salario) e il capitale (sotto forma di profitto/interesse). Queste categorie mentali sono poi gradualmente entrate nell’immaginario e nei valori della nostra società e l’umanità percepisce ora la realtà e il mondo in cui vive come rappresentazioni sostanzialmente economiche. L’umanità si è ormai abituata a percepire la realtà con gli schemi e le rappresentazioni economiche e gli esseri umani si sono quindi “evoluti” in un nuovo tipo di ominide, l’homo oeconomicus. Per l’homo oeconomicus ogni cosa ha un valore quantificabile e quindi monetizzabile, riducibile a denaro. Ogni cosa può essere scambiata in uno degli infiniti mercati, così che la maggior parte del tempo in cui l’homo oeconomicus non lavora, lo passa a soppesare, analizzare, valutare e calcolare tutti i possibili scambi

che

potrebbero

risultargli

utili.

Con

l’affermarsi

dell’utilitarismo siamo diventati tutti dei mercanti, degli agenti calcolatori volti a massimizzare la nostra utilità. Tutto ha un prezzo e tutto può essere comprato, l’aria pulita ha un prezzo (le case costano di più in campagna o in montagna che vicino a un’acciaieria o a un inceneritore), ogni risorsa naturale viene vista per il suo valore monetario o la rendita che è in grado di produrre (si istituiscono parchi naturali anche e soprattutto per attirare turisti e quindi creare denaro), le persone sono diventate capitale umano in grado di generare reddito (gli studenti si iscrivono all’università non per

accrescere la propria cultura, ma per aumentare il proprio valore sul mercato del lavoro, cioè per poter guadagnare più denaro; gli immigrati li accogliamo non in quanto esseri umani, ma perché fanno i lavori che nei paesi ricchi nessuno vuole più fare e quindi perché c’è richiesta di manodopera a basso costo). Ma anche per valori immateriali come gli affetti (per una cifra veramente alta sarebbero pochi quelli che non tradirebbero un’amicizia o un amore) o l’onore (chi riceve un’ingiuria ha sempre diritto a un risarcimento pecuniario) possono essere comprati e hanno quindi un prezzo. Il denaro si è insinuato in ogni frangente, in ogni aspetto della vita umana. La cultura (intesa come risposta che individui e gruppi sociali danno al problema della loro esistenza sociale) è sempre più ridotta a pura funzione della pratica materiale; anche se esiste una “cultura” che comprende le arti, le scienze, le tecniche e le emozioni estetiche, si tratta di una cultura come segno di distinzione (e quindi suscettibile di appropriazione privata) e non più come pratica in grado di dare un senso alla vita e alla morte degli individui. La stessa scienza, valore par excellence della società moderna e occidentale, o è diventata anch’essa autonoma e staccata da ogni altro aspetto o considerazione etica, oppure si trova completamente al servizio dell’interesse economico (la previsione di creare maggiori profitti è l’unico motivo per cui le grandi multinazionali private investono enormi somme di denaro nella ricerca). Nelle società non occidentali, invece, le pratiche materiali non vengono scisse dalle pratiche religiose, politiche, militari, ricreative, famigliari o sessuali. In

queste società, infatti, non ha molto senso l’analisi dell’economista che ricerca nelle pratiche materiali un’attività di investimento, di consumo e di risparmio, perché si tratta di attività portate a termine con motivazioni differenti dal razionale impiego delle risorse naturali al fine di produrre beni e servizi destinati a soddisfare i bisogni degli individui.

un esercizio poco utile e anche (a mio avviso) piuttosto

arrogante quello dell’economista razionale che intende analizzare le pratiche materiali delle società non occidentali, perché saranno sempre permeate da un certo alone di “non razionalità” (con il rischio che ci si lasci andare a confronti con il razionale Occidente e si caschi quindi nella trappola dell’etnocentrismo), dovuto al fatto che le motivazioni alla base di quelle pratiche non sono economiche (e quindi dominate dal calcolo economico), ma legate alla sfera religiosa, spirituale, ma anche della superstizione o di qualche ben preciso rituale, insomma proprie di quella specifica cultura. La pretesa di considerare la nostra società e i nostri valori superiori a quelli delle società del passato o di quei pochi gruppi di individui che non sono ancora stati contaminati dall’Occidente, è limitata nel tempo. Quando questi valori non domineranno più la società, nuovi valori si sostituiranno e guarderanno con una certa ironia la vita così “irrazionale” e senza senso dell’ homo oeconomicus (dal loro punto di vista). Origini del pensiero economico (da Aristotele ad Adam Smith)

La nascita dell’economia avviene quando una parte delle attività materiali poste in essere dall’uomo iniziano a rendersi autonome e indipendenti dal resto delle attività sociali.

con la nascita della

moneta (attorno al 640 A.C. in Asia Minore, ad opera dei greci) che si sviluppa maggiormente il commercio e iniziano a nascere le figure dei mercanti (gli scambi prima non erano quasi mai basati sul principio di equivalenza economico, ma soggiacevano alla logica del dono) che operano nei mercati e hanno la possibilità di accumulare la ricchezza (sotto forma di monete non deperibili). Anche se queste pratiche mercantili iniziano ad avere una loro autonomia e a diffondersi, il loro peso rimane comunque marginale nelle società dell’epoca. Aristotele è forse il primo ad affrontare in modo esaustivo il discorso economico (percepisce il ruolo dell’attività mercantile e nell’Etica nicomachea analizza il valore e i prezzi) accorgendosi della specificità dello scambio mercantile, in grado di riprodursi in modo spontaneo e quindi indipendentemente dalle leggi del sovrano, cioè dalla sfera politica. Anche se ne concepisce il funzionamento, Aristotele condanna (in Politica) le attività mercantili, il commercio e l’usura, che per lui hanno una valenza totalmente negativa, perché contrarie ai valori della città greca. Il numerario (ovvero la moneta) diventa riserva di valore (con la conseguente

tendenza

alla

tesaurizzazione

invece

che

alla

condivisione) ed è quindi la fonte dei rapporti ineguali, ovvero differenti da quelli stabiliti dai presupposti sociali che stanno alla base della polis (che derivano dal diverso status che i cittadini hanno

all’interno della città). I rapporti ineguali sono la causa della corruzione della politica che, secondo il filosofo greco, porteranno alla disgregazione della città e dei valori che ne reggono il funzionamento. Per Aristotele non esiste (come per i fisiocratici) un ordine sociale naturale, ovvero fondato sulla “naturalità” dei valori economici (ancorché in grado di autoriprodursi), perché la città deve essere retta da altri valori che si potrebbero definire etici (come ad esempio la philia – l’amicizia). L’idea che l’agire economico (in quanto legato alla sfera individuale) debba rimanere saldamente legato all’etica e alla filosofia politica permane anche nel Medioevo, con il pensiero di Tommaso d’Aquino e della Scolastica, che uniscono alla filosofia classica greca il cristianesimo medievale. Il movimento utilitarista (secondo cui l’utilità è il perno del ragionamento etico e la finalità della giustizia sarebbe quindi quella di massimizzare il benessere sociale, obiettivo raggiungibile solamente tramite la massimizzazione della somma delle utilità dei singoli individui) avrà un ruolo fondamentale per giungere alle basi immaginarie dell’economia politica e della vita economica, con la credenza in un’armonia naturale degli interessi e una concezione utilitaristica del soggetto economico (che nel frattempo è diventato l’homo oecnomicus). Ma alla base del movimento utilitarista, ci sono i moralisti del XVII secolo (La Rouchefoucauld, Pascal, eccetera), che affrontano tutti i temi che verranno poi ripresi da Bentham e seguaci, ovvero l’onnipresenza dell’interesse nell’agire umano, il carattere comunque interessato del disinteresse, l’esistenza di un

equilibrio e di un’armonia degli interessi. A loro volta influenzati dagli agostiniani (protestanti, giansenisti e pietisti cattolici), che denunciano

l’amor

sui

(inteso

come

amor

proprio),

in

contrapposizione all’amor dei (l’amore di Dio), per i moralisti (ed in particolar modo La Rouchefoucauld) l’amor proprio è la chiave di tutti gli enigmi della vita umana. L’amor proprio di La Rouchefoucauld, che starebbe alla base dell’agire umano (anche per quelle azioni “disinteressate”, che il duca francese intende smascherare) è una mescolanza di narcisismo, vanità ed interesse. però opportuno chiarire che non si tratta in nessun caso di un interesse quantificabile e quindi materiale, perché per il filosofo francese, nell’amor proprio vanità ed orgoglio hanno sempre la meglio sul desiderio di ricchezza o su quello di sfamarsi (cioè l’interesse materiale). La Rouchefoucauld combatte l’ipocrisia delle false virtù in un mondo in cui la morale cristiana è molto forte e dove a suo giudizio dietro gli atti più disinteressati e virtuosi si nascondono interesse, egoismo e vanità. Il filosofo francese elogia l’umiltà, che è la vera virtù cristiana, ma è anche consapevole che la vera virtù rimane comunque nascosta perché non identificabile dagli altri uomini (anticipando quella che sarà poi la cinica teoria delle apparenze di Benjamin Franklin, per cui quel che conta non è la vera virtù, ma averne la reputazione). Questa concezione dell’amor proprio ricalca appieno il tempo in cui scrive il filosofo (il XVII secolo), quando i valori e gli ideali aristocratici dominano ancora la scena (La Rouchefoucauld è un precursore dell’antiutilitarismo).

Dalle posizioni dei moralisti del XVII secolo, si svilupperanno poi le idee di Adam Smith, di Bernard de Mandeville, di David Hume, che ritrovano nell’opera dei moralisti le basi di un ordine naturale fondato sull’interesse personale. In appena un secolo si arriva a un capovolgimento

della

concezione

dell’amor

proprio,

prima

considerato (dagli agostiniani e dai moralisti) il più condannabile dei vizi (l’Io di Pascal e di La Rouchefoucauld è sempre odioso e si identifica con l’orgoglio e la concupiscenza) e poi divenuto cura legittima dei propri interessi, con la posizione dei filosofi scozzesi e di Adam Smith. Ma prima di arrivare al completo rovesciamento dei valori comuni c’è stato qualche fraintendimento e si è quindi proceduti per gradi. Il primo a intaccare l’aurea negativa dell’amor proprio è stato il filosofo Jean-Jacques Rousseau ipotizzando l’idea di un “buon” amore di sé (ovvero di un sentimento naturale di conservazione, che negli uomini darebbe luogo all’umanità e alla virtù) e un “cattivo” amor proprio (un sentimento egoistico e artificioso che si svilupperebbe nel momento in cui l’uomo si trova a convivere nelle società). Nonostante la condanna dell’amor proprio, per gli agostiniani esisterebbe comunque un certo ordine sociale naturale fra gli uomini. Infatti, nonostante la perdizione totale dei vizi, per Sant’Agostino in un mondo corrotto dal peccato originale esiste comunque un ordine umano che è coerente – seppur guidato dalla cupidigia –, che garantirebbe quindi un certo equilibrio dall’antagonismo delle passioni degli uomini. Sant’Agostino e gli agostiniani sarebbero quindi i precursori del dogma liberista della

mano invisibile e dell’ordine sociale naturale che sarebbe retto da questo amor proprio. L’esistenza di un “buon” amor proprio e la nozione di ordine sociale naturale, ancorché retto dalla cupidigia, permetterà poi di arrivare al concetto di legittimo amor di sé, rivalutando quell’amor proprio che con gli agostiniani era cosparso di un’aurea peccaminosa e contribuiva ad accendere una visione pessimistica del mondo. Quando, secondo l’analisi del sociologo Max Weber, i puritani e i giansenisti si stancano di vivere di sola fede e amore per il proprio Dio e iniziano a vivere il proprio “paradiso in terra”, capovolgono i valori precedenti ed inizia l’esaltazione dell’amor sui, così che quelli che prima erano i vizi, sono ora diventati le nuove virtù. Per Adam Smith il soddisfacimento dei bisogni naturali delle nazioni (il benessere sociale) sarebbe quindi affidato al self-love degli agenti (ma non si tratta più dell’amor proprio permeato di narcisismo, vanità e orgoglio di La Rouchefoucauld, ma di un interesse monetario, matematico, totalmente materiale). Questa nuova concezione proclama l’egoismo – da cui ne può derivare la più grande felicità per il più grande numero di individui – e il “fare denaro” a valori naturali ed universali, decidendo quindi che si può benissimo fare a meno delle antiche virtù. I fisiocratici sono i primi ad annunciare l’idea di un ordine sociale naturale con Boisguilbert, che nel formulare l’idea della mano invisibile e del principio del laissez faire in campo economico si rifà all’amor proprio “illuminato”, teorizzato dai giansenisti Nicole e Dumat. Ma è con Bernard de Mandeville che si

arriva alla vera svolta della filosofia morale e della politica nel mondo occidentale, quando con la pubblicazione de “La favola delle api” il filosofo olandese riesce ad imprime nell’immaginario sociale i valori economici. Attaccando l’amor proprio e la falsa carità (e volendo quindi attaccare l’ipocrisia del tempo), Mandeville sostiene l’ordine sociale naturale, affermando che la cosa migliore in campo sociale ed economico è evitare qualsiasi interferenza (“bisogna lasciare che i poveri subiscano le leggi naturali”), elogiando la ricerca spasmodica del profitto, ma anche i vizi più abietti (e addirittura i crimini), in quanto fonti di un certo dinamismo economico (secondo Mandeville, l’opulenza inglese è la prova della fecondità

dell’egoismo).

Ma

per

arrivare

alla

definitiva

proclamazione dell’ideale economico e della visione economicista del mondo bisogna però attendere l’arrivo di Adam Smith, considerato da tutti il “padre dell’economia classica”. In “La teoria dei sentimenti” Smith rifiuta l’utilitarismo e la posizione di Mandeville nella vita sociale, che per il filosofo scozzese deve fondarsi sulla simpatia, un concetto molto simile all’amore di sé di Rousseau, mentre per quanto riguarda la vita economica il “padre dell’economia” mantiene una posizione totalmente contrapposta. L’economista scozzese sostiene che l’egoismo (self-love) è conforme al corso naturale delle cose ed è quindi vantaggioso per la società, perché porterà al massimo benessere sociale, per cui il laissez faire e la

concorrenza

in

ambito

economico

non

devono

essere

assolutamente intralciati dall’esterno (ad esempio dall’attività o dalle

leggi dello stato). In “La ricchezza delle nazioni” (opera del 1776), Smith si lancia in un vero e proprio appello per l’abolizione di tutti quegli ostacoli che si oppongono all’ordine naturale in economia (che si tratti dei privilegi delle corporazioni, delle leggi dello stato o delle regolamentazioni sociali), sostenendo quindi il laissez faire nella politica del sovrano, motivata dal fatto che spetta ai singoli individui la cura dei propri interessi perché nelle loro situazioni sanno sempre giudicare meglio del legislatore ciò che per loro è meglio. Condanna qualsiasi protezione nei confronti dei lavoratori (ad esempio donne e bambini), perché non avrebbe garantito il raggiungimento di quel “prezzo molto minore” utile alla società (ribadendo l’interesse sovrano del consumatore – a scapito di quello dei lavoratori) e considera le leggi umane sempre folli o assurde (senza domandarsi la ratio, il motivo dell’esistenza di quelle leggi). Se, in un primo tempo, Smith sembra lasciare spazio alla morale della simpatia, che dovrebbe comunque governare la vita sociale, si trova però a ribadire in “La ricchezza delle Nazioni” (opera successiva) che questa simpatia non deve in nessun caso immischiarsi nel campo economico (ovvero degli affari), facendo ancora una volta ricorso al mito naturalista e al libero gioco delle forza naturali. Esiste però una contraddizione interna all’utopia liberista, perché se, da una parte, viene ribadito fino alla nausea la “naturalità” dell’ordine sociale e quindi la necessità che questo venga lasciato alle proprie leggi, non si capisce poi perché occorrano comunque delle istituzioni che facciano rispettare quelle leggi

definite “naturali” (il laissez faire della libera concorrenza e la “sacra” proprietà privata di John Locke). C’è qualcosa che non torna se in assenza di interventi esterni le leggi “naturali” non riescono a garantire l’equilibrio e il massimo benessere per tutti. Il paradigma meccanicistico del mondo Le idee e le teorie economiche di Adam Smith, così come quelle dei fisiocratici, hanno subito una forte influenza dalle grandi scoperte scientifiche del XVII secolo, che hanno dato il via ad una vera e propria rivoluzione nel campo scientifico. Il primo passo verso una visione meccanicistica del mondo proviene da Francesco Bacone. Bacone critica la visione greca del mondo, dove tutto è contemplazione o “dispute e conversazioni oziose” e dove ci si interessa al perché metafisico delle cose, mentre la scienza che ha in mente lui deve interessarsi al come delle cose, perché è solamente la conoscenza oggettiva del mondo che potrà garantire un “prometeico” controllo della natura da parte dell’uomo. Cartesio, riducendo tutto l’universo e quindi la natura a una questione di moto, afferma che solo lo spazio e le coordinate contano. “La matematica rappresenta l’ordine totale e così Cartesio, con un colpo di genio, aveva eliminato dal mondo tutto ciò che appariva sporco, caotico e anche vivente”. “La visione greca del mondo come un caos che si dispiega e poi decade, fu giudicata non matematica e pertanto fallace”. La visione cristiana andava un po’ meglio, ma non c’era più spazio per un Dio che entrasse nell’ordine naturale – anche se gli venne concesso il

merito di “architetto dell’universo” –; il paradigma meccanicistico dell’universo “doveva essere soprattutto perfettamente prevedibile e calcolabile”. Ma per la messa in pratica della visione del mondo meccanicistica pensata da Bacone e Cartesio, si dovette attendere Isaac Newton. “Newton scoprì i metodi matematici necessari per descrivere la meccanica del moto”, che però si riferiva solamente ai corpi in movimento, si trattava quindi di una visione quantitativa, in cui non c’era spazio per la vita, ma solamente per la materia non vivente. La proclamazione di un ordine naturale universale, perfettamente prevedibile e calcolabile dava un immenso potere all’uomo, che studiando le leggi dell’universo avrebbe potuto assoggettarle ai propri scopi e al proprio interesse egoistico. Anche se esisteva un ordine per le cose, non si capì perché le attività umane, cioè le società, fossero così confuse e irrazionali, c’era qualcosa che non andava, perché il comportamento umano era così pieno di errori e caos, mentre l’ordine fisico delle cose era rappresentato da ordine, precisione e spiegazioni matematiche. Si decise allora che “se la società si comportava male, non poteva che essere perché non si conformava alle leggi naturali che governano l’universo”. Una volta comprese le leggi di natura (la visione meccanicista del mondo si rafforzò molto con la pubblicazione de “L’origine delle specie” di Charles Darwin nel 1859, quando i sociologi darwiniani, come Herbert Spencer, sostennero che l’interesse personale materiale significava progresso ed evoluzione, garantendo l’ordine naturale del mondo), occorreva solo applicarle anche alla società e all’agire

dell’uomo. Questo lavoro viene fatto da John Locke, che abbracciando a pieno il paradigma meccanicistico del mondo, lo trasferisce nella società. Locke condanna ogni comportamento irrazionale delle società (in particolar modo le tradizioni e le religioni, che dovevano rimanere un affare privato di ciascun individuo), affermando che esiste una legge “naturale” anche per le società. Così, l’agire umano, spinto dall’interesse personale materiale degli atomi sociali, diventa il fondamento della società, che a sua volta lo deve sostenere e difendere. Locke afferma che il ruolo dello Stato è quello di favorire il dominio sulla natura: “La negazione della natura è la via della felicità”. Viene elogiato il ruolo del denaro, dell’oro e dell’argento, che garantiscono che l’accumulo di proprietà non sia mai troppo. Viene inoltre sancita la “sacralità” della proprietà privata, che “obbliga a generare benessere”, riducendo così tutto l’agire umano al perseguimento dell’interesse personale materiale e quindi alla creazione dell’ordine sociale “naturale”. Il progresso è quindi accumulo di beni materiali, da realizzarsi con il lavoro, la scienza e la tecnologia. La natura viene considerata uno stato di disordine, mentre la trasformazione di essa per la produzione di beni e servizi ordine. La teoria economica dopo Adam Smith Complici le deprecabili condizioni dei lavoratori nei paesi dove la Rivoluzione Industriale era partita, le proteste e le critiche al capitalismo liberista non si fecero attendere molto. La storia del

movimento operaio inizia con la rivolta luddista (tra il 1808 ed il 1820 in Francia e Inghilterra), che si oppone alle macchine (nel 1779 Ned Ludd spezza un telaio in segno di protesta), considerate la causa della disoccupazione e dei salari di sussistenza. Seguono poi altre grosse esplosioni di conflittualità, con i movimenti operai (sempre più organizzati) che chiedono migliori condizioni di lavoro e salari più dignitosi, fino allo scoppio dei grandi disordini del 1848, che si concludono con la sconfitta operaia. A partire dal 1848, si apre una fase di egemonia culturale borghese e di sviluppo economico capitalistico senza precedenti e infatti, quelli sono gli anni in cui Karl Marx matura la propria critica dell’economia politica. Il primo volume de “Il Capitale” viene pubblicato nel 1867 e Marx, pur mantenendo uno strettissimo rapporto con gli economisti classici (l’apparato analitico dell’economia classica verrà adottato in pieno), considera l’economia politica classica come l’espressione teorica del punto di vista della borghesia, che all’epoca si faceva interprete delle esigenze dell’intera società nella lotta contro la reazione clericale e aristocratica. Marx critica i classici su tre aspetti: il primo è l’incapacità di spiegare la natura del profitto e del capitale (la cui origine è lo sfruttamento del lavoro), la seconda è l’incapacità di riconoscere il carattere storico del capitalismo (per Marx il capitale è un rapporto sociale, non è semplicemente l’insieme dei mezzi di produzione, ma il potere che il loro controllo dà alla borghesia, ovvero il potere di utilizzare questi mezzi di produzione per produrre profitti), infine l’attenzione sui rapporti di scambio, operata dagli

economisti classici, invece che su quelli di produzione. Quest’ultima critica vuole dimostrare la vera natura del rapporto capitale-lavoro, smascherando il rapporto tra equivalenti in cui si presenta lo scambio tra salario e lavoro. Il lavoratore entra nel mercato con l’unico requisito produttivo, la forza-lavoro, che riceverà un prezzo determinato dalle condizioni di produzione. Il valore della forzalavoro è uguale al valore dei mezzi di sussistenza necessari per la sopravvivenza e la riproduzione della classe lavoratrice. Il capitale acquista il “valore d’uso” della forza-lavoro e diventa mezzo di produzione, prerogativa del capitalista. Nel processo di produzione il lavoro produce merci il cui valore è superiore a quello della forzalavoro e la differenza è il “plusvalore”, che è attributo del capitale perché nel processo produttivo è entrato come capitale. Secondo Marx, quindi, il lavoro ha la capacità di produrre di più di quanto é necessario

alla

riproduzione

della

forza-lavoro

ed

essendo

sottomesso al capitale (legittimamente attraverso un contratto di lavoro), che ne esercita il comando, dovrà produrre di più di quello che gli viene pagato sotto forma di salario (grazie anche ai vantaggi della cooperazione nella struttura organizzativa dell’impresa: economie di scala, specializzazione, razionalizzazione dei tempi, eccetera). WIlliam Jevons, Carl Menger e Léon Walras, a partire dagli anni Settanta del XIX secolo, getteranno invece le basi della rivoluzione marginalista, che seppellirà il vecchio sistema classico portando a una nuova ortodossia in campo economico: il pensiero neoclassico. Le novità consistono, tra le altre, in una riduzione

dell’interesse nei confronti dello sviluppo economico, che viene sostituito, nella scala degli interessi, dai problemi di allocazione di risorse date (massimizzazione dell’utilità dati alcuni vincoli), dall’accettazione del principio dell’utilità come base di tutto il discorso economico (il comportamento umano è esclusivamente riconducibile al calcolo razionale teso alla massimizzazione dell’utilità) e dall’individualità dell’unità decisionale (non più le classi sociali, ma famiglie o imprese) e dall’astoricità delle leggi economiche, che assumono da quel momento un carattere assoluto e obiettivo. Con la Grande Depressione del 1929, John Maynard Keynes mette in dubbio le capacità dell’economia di mercato di raggiungere in modo automatico un equilibrio di piena occupazione delle risorse e del benessere (in realtà già il fisiocratico Boisguilbert aveva

ammesso

un

certo

intervento

esterno

per

ritornare

all’equilibrio). Secondo l’economista inglese, quando siamo in una situazione di debole domanda aggregata (com’era nella crisi del 1929), occorre l’intervento pubblico per permettere l’acquisto dell’eccessiva quantità di merci prodotte che sono rimaste invendute (intervento che dovrà avvenire necessariamente in deficit – ad esempio ricorrendo al debito pubblico o alla creazione di moneta, senza ricorrere alla tassazione). Le idee di Keynes dominano il pensiero economico dagli anni Trenta agli anni Sessanta, portando i grandi aggregati economici (consumo, risparmio, investimento, spesa pubblica, eccetera) al centro dell’analisi economica e dando vita alla macroeconomia,

differente

dall’approccio

individualista

dell’economia neoclassica. Il pensiero di Keynes viene riportato nell’alveo

neoclassico

da

Modigliani,

per

cui

l’equilibrio

macroeconomico può essere raggiunto con qualsiasi livello di occupazione – per cui l’intervento pubblico in economia si giustifica solo per smorzare oscillazioni di breve termine. Più critica la posizione di Milton Friedman, il fondatore della Scuola di Chicago, secondo cui un aumento della moneta potrà influire solamente su reddito e occupazione del breve periodo, dipendendo questi ultimi da fattori reali (risorse, tecnologie, preferenze, eccetera), per cui un aumento della moneta rimane un fenomeno esclusivamente monetario, limitandosi ad aumentare l’inflazione. Robert Lucas ed Edward Prescott sono i più importanti esponenti della nuova macroeconomia classica che, in sostanziale opposizione con il pensiero keynesiano, sottolinea l’importanza delle scelte dei singoli individui (agenti razionali), che basano le loro scelte sulla base di modelli microeconomici. Inoltre, secondo questa impostazione, in macroeconomia esiste solo un unico equilibrio di piena occupazione, che si raggiunge tramite gli aggiustamenti di prezzi e salari. In risposta a questa scuola di pensiero si afferma la nuova macroeconomia keynesiana (quella di Olivier Blanchard, Paul Krugman, Nouriel Roubini e Joseph Stiglitz), che riprendendo il pensiero keynesiano aggiunge comunque alcuni concetti. La base di partenza è sempre quella neoclassica, ovvero quella delle aspettative razionali di imprese e famiglie, ma questa nuova scuola di pensiero sostiene che salari e prezzi sono “vischiosi” (non si adeguano

istantaneamente alle modificate condizioni economiche), per cui l’intervento dei governi (con la politica fiscale) e delle banche centrali (tramite la politica monetaria) possono portare a risultati migliori rispetto a quelli di una politica del laissez faire, sostenuta dalla nuova macroeconomia classica. Interessante è anche la posizione di Paul Samuelson, più defilata, secondo cui le politiche economiche devono essere utilizzate per assicurare il pieno impiego, mentre i tassi di cambio per cercare di mantenere la competitività, il tutto cercando di beneficiare delle virtù del mercato (conscio che sia il mercato che lo stato possono fallire). L’economia non ha morale Smtih ha definitivamente emancipato l’economia e il mondo degli affari da morale e politica (“gli affari sono affari” è l’espressione che meglio riassume questo concetto), e i quasi due secoli e mezzo che ci separano dalla pubblicazione della “Ricchezza delle Nazioni” hanno portato le leggi economiche a dominare la scena, a occupare tutti gli spazi dell’agire e del pensare umano (mentre la teoria economica non ha modificato la sua base di partenza). La stessa critica marxista del capitalismo e del liberismo economico, non mette però in dubbio le basi del pensiero economico di Adam Smith: progresso, sviluppo ed economia rimangono paradigmi indiscutibili. La Rivoluzione marxista intende semplicemente cambiare i rapporti di produzione e sostituire i capitalisti borghesi ai lavoratori (o meglio ai rappresentanti di questi, come nel caso dei burocrati dell’Unione

Sovietica). Anche se Marx denuncia il naturalismo degli economisti classici (che con l’ordine sociale naturale dimostrano come gli interessi della borghesia siano leggi rigorose e intangibili), il pensiero dell’economista tedesco non critica lo scientismo e l’immaginario della scienza (Marx è affascinato dal materialismo più profondo della scienza di Galileo e Cartesio, che non ha bisogno dell’ipotesi divina). La posizione di Marx e del socialismo reale (o della sua versione più morbida, la socialdemocrazia europea) è quella dell’unità della scienza (scienze naturali e scienze sociali sono rette dal positivismo – ovvero dal metodo scientifico, considerato l’unico criterio di scientificità), del paradigma cartesiano dell’uomo padrone e

dominatore

della

natura,

dell’hybris

(la

dismisura),

dell’illimitatezza consumistica e del mito dell’abbondanza materiale. Anche il socialismo si affida alla crescita, al progresso economico e alla produttività come fine, come meta finale a cui la società deve tendere per migliorare le proprie condizioni materiali. Cambiano gli attori (invece delle leggi naturali e del laissez faire ci sono i piani quinquennali decisi dalla casta burocratica), ma non la sostanza, che rimane la stessa, ovvero quella dell’economicizzazione di ogni aspetto della vita degli esseri umani, che non hanno altro fine nella propria esistenza che contribuire all’aumento della produzione di beni e servizi. Economisti e filosofi del XVIII secolo, riprendendo per analogia la meccanica naturale e le leggi di gravità universale, considerano

l’interesse

personale

ed

egoistico

(il

self-love

materialista di Adam Smith) come il grande motore del movimento

sociale (la forza di attrazione e repulsione sarebbe rappresentata dalla brama del piacere e dalla fuga dal dolore e dalla morte). Con questa posizione si giunge alla definitiva estromissione della filosofia e dell’etica, che vengono sostituite dalle “naturali” leggi economiche (così come è avvenuto per la scienza, con l’abbandono della metafisica di Aristotele) con Leibniz ed Hobbes che derivano il modello dell’ordine sociale dalla fisicità della natura e non più dalla legge divina o da quella umana, come era stato fino a prima. Lasciata alle proprie leggi, l’economia ha in poco più di due secoli inglobato ogni aspetto dell’agire e del pensare umano, ha eliminato ogni morale (che non sia la propria) e proclamato il trionfo della razionalità, del calcolo dei costi e dei benefici, dei rapporti mercantili e dell’accumulazione infinita di denaro. L’homo oeconomicus si trova quindi in una condizione di perenne frustrazione perché è nell’assoluta impossibilità di affermare i propri valori. La sua creatività e la sua visione del mondo non interessano, sono ridicolizzate e rifiutate perché non hanno alcun senso per il Sistema e i valori economici. L’unico senso dell’homo oeconomicus è quello di prestare le proprie energie intellettuali e fisiche alla produzione di beni e servizi destinati al mercato e di utilizzare il denaro che riceve in cambio del proprio lavoro per acquistare, sempre dal mercato, i beni e i servizi necessari alla soddisfazione dei propri bisogni. Gli homo oeconomicus si trovano a passare la propria vita come fossero automi, delle macchine, proprio quelle “macchine che si muovono da sé, come un orologio o un altro automa” che Cartesio ipotizzava in

“Le passioni dell’anima” già nel XVII secolo. Tutto deve uniformarsi, tutto deve tendere alla massima efficienza, per cui non c’è spazio per macchine inefficienti e il Sistema premia solamente chi riesce meglio a reprimere i propri sentimenti e le proprie passioni, chi meglio si sottomette alla disciplina del lavoro, ovvero chi riesce ad essere più produttivo. Gli individui le cui qualità non sono conformi agli standard del Sistema (peraltro in continuo aumento) si andranno a sommare alla massa degli esclusi (lavoratori afflitti da stress o malattie psicosomatiche, precari e disoccupati senza nessuna speranza, barboni, abitanti delle bidonville e delle periferie delle grandi metropoli, eccetera). Con la globalizzazione economica del mondo siamo entrati nella più grande crisi culturale di sempre. I valori economici si diffondo in ogni angolo del pianeta, distruggendo ogni cultura che incontrano sul proprio cammino e ogni specificità, perché tutta l’umanità deve uniformarsi alle leggi “naturali” dell’economia e l’homo oeconomicus non ammette rivali, la sua natura è aggressiva, il suo egoismo senza limiti, il suo pensiero totalizzante.

la fine di un mondo, quello incantato delle società

non occidentali o della società tradizionale, delle loro credenze, dei loro riti, delle loro superstizioni, delle loro religioni e della loro cultura, che vengono messe a nudo e ridicolizzate al confronto con la razionalità occidentale, fatta di tecnologia, medicina e opulenza della ricchezza materiale. I vecchi dèi vengono seppelliti in fretta. Il mondo rurale, fatto di tradizioni e visioni “magiche” della natura e del reale, scompare definitivamente per lasciare spazio alle enormi

metropoli, ai grandiosi complessi industriali o alle immense praterie delle monoculture, tutte uguali, tutte perfettamente efficienti, il paesaggio diventa anonimo, sterile, asettico, freddo, senz’anima. L’identità culturale tradizionale scompare per sempre (o viene anch’essa economicizzata, come nel caso della fedeltà a vita dei lavoratori giapponesi nei confronti della propria fabbrica) e rimane una vita meccanica, fatta di angosce e vuoto di senso, senza creatività, in una società profondamente individualista, dove le leggi economiche non ammettono morale. Così, al neonato homo oeconomicus non resta che fuggire nel consumismo più sfrenato, l’unica dimensione dove può provare a crearsi una (falsa) identità, sorretta dal mimetismo e dal conformismo della società dei consumi. Questo è l’ultimo aspetto che era necessario affrontare per capire la fragilità del Sistema, ormai avviato verso il proprio tramonto. Oltre a una crisi economico-finanziaria, ambientale, agricola, energetica, socio-demografica, idrica e delle materie prime minerarie, siamo di fronte a una crisi culturale, anch’essa di livello planetario, le cui cause sono da ricercarsi nell’insinuarsi dell’economia (senza morale e libera di agire secondo le proprie leggi) in ogni aspetto della vita umana, ridotta al servizio del Sistema.

IV Collasso Torna all’indice

Lezioni dal passato Nel libro “Collasso”, il brillante scienziato americano Jared Diamond si lancia in una lucida analisi delle cause che hanno portato al crollo di alcune fra le più importanti civiltà del passato (i Maya, gli abitanti dell’Isola di Pasqua, gli Anasazi dell’America, i Vichinghi della Groenlandia, eccetera) e del perché, invece, per altre società non si è giunti alla catastrofe nonostante fossero anch’esse giunte sull’orlo del baratro (è il caso ad esempio del Giappone dell’era Tokugawa e dell’Islanda del XVIII secolo). Secondo Diamond, il collasso o meno delle società del passato è dipeso da come queste hanno gestito i problemi ambientali legati alla gestione delle risorse naturali nel momento in cui si sono trovate di fronte a un calo della disponibilità delle stesse. Le società che hanno preso decisioni volte a salvaguardarle sono riuscite a sopravvivere, mentre le altre non ce l’hanno fatta. Tutte le società dipendono dallo sfruttamento delle risorse disponibili nell’ambiente (acqua, cibo, legno, minerali e metalli), ma quando queste cominciano a esaurirsi a causa dell’eccessivo sfruttamento perché l’ecosistema non riesce più a ripristinare quanto è stato prelevato, senza che si arrivi a una rapida inversione del processo di sfruttamento, si avrà il collasso di qualsiasi società umana. Il meccanismo è sempre lo stesso: a un aumento

della

produzione

agricola

segue

l’aumento

della

popolazione e quindi della manodopera disponibile, la società si specializza e aumenta il numero di bisogni e quindi di risorse naturali

necessarie a mantenere lo stile di vita e la crescente complessità politica, sociale e culturale raggiunta da quella società. Tutto questo può andare avanti fino a quando si potranno sfruttare le risorse disponibili, ma ad un certo punto, queste scarseggeranno e quindi quella società sprofonderà nella più profonda crisi, fatta di carestie e guerre civili. Secondo Diamond, il collasso delle società del passato è

sostanzialmente

riconducibile

ad

otto

punti,

tutti

legati

all’eccessivo sfruttamento dell’ambiente. La distruzione dell’habitat naturale (foreste, aree umide o barriere coralline). Le foreste proteggono i bacini idrografici, difendono il suolo dall’erosione, svolgono un importantissimo ruolo nei cicli dell’acqua e delle precipitazioni piovose e inoltre ospitano un’immensa varietà di specie animali e vegetali. Le zone umide sono importanti riserve d’acqua e custodiscono specie animali importanti, mentre le barriere coralline sono l’habitat di gran parte della fauna marina (pesci, crostacei, eccetera). Se gestiti correttamente, gli habitat naturali rappresentano un’inesauribile fonte di cibo, acqua e materie prime di ogni genere (legname, prodotti medicinali, pelli e via dicendo) e svolgono un importante ruolo nella regolazione del clima. L’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche (pesci e crostacei). Si tratta di proteine liberamente messe a disposizione dalla natura, che permettono quindi di diminuire la dipendenza dall’allevamento di animali.

La perdita di gran parte delle specie selvatiche e quindi della diversità genetica. Ogni specie animale o vegetale ha un ruolo all’interno dell’ecosistema e la perdita di una di essa potrebbe avere gravi ripercussioni a valle su molte attività essenziali alla sopravvivenza stessa del genere umano (come il ruolo degli insetti impollinatori nella produzione agricola oppure dei lombrichi nella fertilità del suolo). La perdita netta di suolo (e in particolar modo di humus). Sui terreni agricoli l’erosione di acqua e vento è 40 volte più veloce rispetto al ritmo in cui il suolo si riforma (ed è dalle 500 alle 10.000 volte più rapida rispetto ai terreni ricoperti da boschi o foreste). La salinizzazione, la perdita di fertilità del suolo, l’acidificazione o l’alcalizzazione del terreno sono – insieme all’erosione – le principali cause che portano alla perdita di fertilità dei terreni agricoli. L’eccessivo sfruttamento dell’acqua dolce dei bacini idrografici o delle falde acquifere per l’irrigazione dei campi e per usi domestici e industriali. Quando l’acqua prelevata dalle falde acquifere è maggiore rispetto a quella che si riforma naturalmente grazie alle precipitazioni piovose si inizia ad attingere allo stock di acqua fossile, che è una risorsa non rinnovabile e quindi esauribile. L’invasione di specie alloctone che distruggono l’ambiente con cui vengono a contatto (come ad esempio hanno fatto i ratti in alcune isole del Pacifico o i conigli e le volpi in Australia).

La crescita della popolazione aumenta le pressioni per l’utilizzo di risorse naturali, ancorché di prima necessità. L’impatto ambientale dei singoli individui dovuto al loro stile di vita e quindi al consumo pro capite di risorse naturali (cibo, spazio, acqua, energia e risorse minerarie). Ci dovrebbe far riflettere il caso degli abitanti dell’Isola di Pasqua, che in pochi secoli hanno abbattuto tutti gli alberi e le specie arboree dell’isola (e in particolare un tipo di palma gigante, oggi estinto). Dopo che sono stati abbattuti tutti gli alberi, gli abitanti dell’isola, che si trova in mezzo al Pacifico ed è quindi troppo distante dalla terra ferma, sprofondarono nel caos e nella penuria più totale, portando al collasso di quel tipo di società. Abbattendo tutti gli alberi, infatti, gli abitanti dell’Isola di Pasqua si privarono del legno, la materia prima alla base della loro società e con cui costruivano praticamente tutto, dagli attrezzi necessari all’attività quotidiana, alle imbarcazioni con cui andare a pesca in mare (il delfino era – prima che furono abbattuti tutti gli alberi – la tipologia di carne più consumata, ma con le barche riuscivano a procurarsi anche diverse specie di pesci e foche). Inoltre, il legno veniva usato anche come combustibile per cucinare e per scaldarsi durante le ventose notti invernali (in cui la temperatura scende a 10°C). Il primo effetto dell’abbattimento di tutti gli alberi si è visto con la sostituzione della caccia alla pesca, che ha portato all’immediata estinzione degli uccelli terrestri e alla decimazione di quelli marini e della

popolazione di crostacei dell’Isola. Quindi, per procurarsi le proteine, hanno dovuto puntare tutto sull’allevamento dei polli e sulla caccia ai ratti – rimasti praticamente l’unico animale selvatico dell’isola (animali alloctoni arrivati sull’isola per sbaglio con i primi abitanti), che hanno dato un importante contribuito all’estinzione degli uccelli terrestri (di cui si cibavano) e delle palme giganti (in quanto voraci mangiatori dei loro germogli). E queste sono state le immediate conseguenze del taglio di tutti gli alberi dell’Isola. Ma nel giro di qualche decennio, la deforestazione ha portato a conseguenze peggiori. Aumentando l’azione erosiva di vento e pioggia (le grandi palme svolgevano un ruolo importantissimo nella difesa del suolo dal sole, dall’evaporazione, dal vento e dall’impatto diretto della pioggia) e favorendo frane e smottamenti, il suolo si inaridì o venne spazzato via, con conseguenze tragiche sulla fertilità dei terreni dell’isola. In aggiunta, senza la copertura boschiva venne meno il materiale organico delle foreste (foglie, frutti, eccetera) e i resti organici delle colture (che nel frattempo avevano rimpiazzato il legname per permettere l’accensione del fuoco), che venivano utilizzati come concime. Questo diminuì ancora di più la produzione agricola dell’isola. La punizione per aver abbattuto tutti gli alberi dell’Isola si era quindi abbattuta sulla società dell’Isola di Pasqua, che sprofondò in un periodo buio, fatto di carestie, violentissime lotte interne per il controllo delle poche risorse naturali e atti di cannibalismo. Le imponenti e caratteristiche statue di pietra, i moai e gli ahu furono tutti abbattuti nelle lotte fra clan rivali e alla fine la

vecchia religione venne abbandonata. La civiltà degli abitanti di Pasqua era collassata e la popolazione dimezzata (dai 6.000 agli 8.000 abitanti rispetto a una popolazione che all’apice dovette essere di almeno 15.000 abitanti, ma c’è chi ne stima 30.000), mentre quelli sopravvissuti, si dovettero accontentare di vivere in un mondo dove tutto era più difficile, le risorse scarse e difficili da procurare e la dieta povera e sbilanciata (con un eccessivo consumo di amidi e zuccheri). Rimasero comunque le enormi e minacciose statue di pietra, ormai tutte abbattute al suolo, la cui inquietante presenza serve ancora come avvertimento ed ammonizione a chi ha voluto sfidare la natura. La storia dell’Isola di Pasqua dovrebbe servirci da monito per le nostre azioni, affinché non si giunga anche noi ad una situazione simile. Esistono infatti molti punti in comune con quella situazione. Il primo – e forse il più inquietante – è il fatto che viviamo nella stessa condizione di isolamento degli abitanti dell’Isola di Pasqua (così come loro non potevano migrare su un'altra isola, noi non possiamo andarcene a vivere in un altro pianeta). Anche noi stiamo gestendo le risorse naturali in modo non sostenibile, per cui la nostra crescita, cioè il miglioramento del nostro tenore di vita, non può che avvenire sulle spalle delle generazione future, avendo depredato in pochi decenni le riserve del pianeta, accumulatesi in milioni di anni. Stiamo rendendo la vita molto dura a chi verrà dopo di noi (significativo è il caso delle risorse ittiche del pianeta, ormai in costante calo da almeno due decenni), perché, così come gli attuali abitanti dell’Isola di Pasqua

sono rimasti con le enormi statue abbattute e un terreno poverissimo e privo di alberi, alle generazioni future non lasceremo che gli spettri dei grattacieli delle grandi metropoli e un pianeta ormai esaurito dalle proprie risorse. Anche se non abbiamo ancora distrutto tutte le foreste del pianeta, stiamo seriamente minacciando l’esistenza delle ultime foreste primarie del pianeta (secondo Greenpreace, oltre la metà sono state distrutte negli ultimi ottant’anni, di cui il 50% negli ultimi trent’anni), considerando che queste coprono solamente il 9% delle terre emerse e che solo una minima parte – cioè l’8% – è attualmente protetta. Se non cambieranno le cose (fermando subito la distruzione delle ultime foreste primarie proteggendole con misure adeguate), entro pochi decenni rimarremo con una superficie di foreste primarie inferiore all’1% delle terre emerse (quella attualmente protetta). Il 61% della biodiversità degli ecosistemi tropicali è già stata persa nel periodo che va dal 1970 al 2008. Il 57% dell’acqua dolce del nostro pianeta viene attualmente utilizzata per scopi antropici (il 70% è destinata all’irrigazione dei campi), mentre la domanda di cibo dell’umanità è in continua crescita (entro il 2025 avremo 1 miliardo di abitanti in più, mentre entro il 2050, secondo la FAO, occorrerà produrre il 70% in più di cibo per sfamare gli oltre 9 miliardi di persone che abiteranno il nostro pianeta). Ancora più preoccupante

dell’aumento

demografico

(la

maggior

parte

dell’incremento proverrà dai più poveri, il cui impatto ambientale è comunque minore) è l’aumento dello stile di vita (e quindi dell’impatto ambientale: consumo di risorse, inquinamento e

moltiplicazione dei rifiuti) della popolazione dei paesi emergenti (Cina in primis, ma anche India, Brasile, Indonesia, Russia, Messico, Arabia Saudita e via dicendo). La globalizzazione e l’aumento della circolazione delle merci ha aumentato gli episodi di contaminazione con specie alloctone che alterano l’equilibrio naturale, provocando ingenti danni agli ecosistemi, all’agricoltura, alla pesca e alla selvicoltura. I fenomeni di erosione del suolo, salinizzazione e perdita di fertilità sono in continuo aumento, anche se per ora si riescono a tamponarne gli effetti ricorrendo a massicce dosi di fertilizzanti (che però provengono dagli idrocarburi, risorse in via di esaurimento). La tecnologia e la ricerca scientifica possono aiutare a trovare nuove soluzioni che permettano di arginare alcuni dei problemi che abbiamo creato. Occorre comunque sempre valutare se siamo di fronte ad un reale miglioramento o se si tratta di una soluzione temporanea, che non farà altro che ripresentare lo stesso problema (con gli interessi) più in là nel tempo. ‡ l’esempio dei fertilizzanti chimici: per produrne 1 tonnellata ne occorrono 3 di petrolio, questo ha ovviamente un costo, che nei prossimi decenni aumenterà e prima o poi non sarà più possibile continuare ad affidarsi su questo metodo, con il risultato che rimarremo con milioni di ettari di terreno sterile, senza più humus, praticamente morto. Quattro nuovi problemi Ma la nostra società moderna non deve affrontare solamente gli otto problemi che portarono le società del passato al collasso, ne esistono

infatti altri completamente nuovi, i cui effetti di lungo termine non sono ancora ben chiari. A questo proposito, Diamond ne ha individuati quattro. La dipendenza dai carburanti di origine fossile (petrolio, carbone e gas naturale) per produrre energia. Anche se sono stati scoperti nuovi giacimenti (come le sabbie bituminose del fiume Orinoco in Venezuela – le maggiori riserve di petrolio al mondo), questi sono o a profondità maggiori o contengono materiale grezzo meno puro, il che richiederà un maggior quantitativo di energia e quindi un maggior impatto ambientale nei processi di estrazione e lavorazione. I carburanti fossili non sono risorse rinnovabili (ma sono finite) e considerando che l’87% dell’energia che produciamo proviene da petrolio, carbone e gas naturale, quando questi combustibili inizieranno a scarseggiare o quando per estrarli e lavorarli si avrà bisogno di una maggior quantità di energia, si andrà incontro al declino della nostra civiltà (le alternative, ovvero idroelettrico, fotovoltaico, biomasse, eolico e geotermico, non potrebbero comunque sostituire a pieno i combustibili fossili). Le attività umane, quali agricoltura, selvicoltura, destinazione del suolo ad aree urbane, industriali o alla costruzione di strade e parcheggi, già nel 1986 utilizzavano, sprecavano o deviavano circa la metà della fotosintesi che arriva alla Terra. Questa percentuale – peraltro in continuo aumentato – significa che gli habitat naturali non

antropizzati dispongono di una quantità di energia che è in continua diminuzione. L’industria chimica scarica nell’aria, nell’acqua e nel suolo sostanze tossiche che hanno effetti deleteri sulla salute degli esseri viventi del nostro pianeta. Gli inquinanti ritornano però sia direttamente che indirettamente dell’epidemia

anche di

all’uomo

tumori

e

(sono

la

causa

dell’indebolimento

del

principale sistema

immunitario che stiamo vivendo) e stanno contaminando tutto, il cibo che mangiamo, l’acqua che beviamo e anche l’aria che respiriamo. L’emissione di gas (in particolar modo i Cluorofluorocarburi) nell’atmosfera che danneggiano lo strato di ozono (che assorbe quasi tutte le radiazioni ultraviolette, in particolare quelle chiamate UV-B, dannose per gli esseri viventi) e provocano l’aumento dell’effetto serra e il conseguente surriscaldamento del pianeta, le cui conseguenze (anche se non sono facilmente prevedibili) potrebbero essere catastrofiche. Lo scioglimento dei ghiacciai ai poli sta aumentando il livello del mare, con gravi ripercussioni sull’erosione delle coste (a rischio le città e milioni di ettari di terreni fertili) e sulla contaminazione delle falde di acqua dolce con quella salata. I ghiacciai delle principali catene montuose del pianeta si stanno sciogliendo con la conseguenza che si riduce la portata dei fiumi, indispensabili per l’irrigazione dei terreni dove si produce cibo ed energia idroelettrica (oltre che al raffreddamento delle centrali

nucleari e di quelle termoelettriche). L’aumento della temperatura globale porta a una maggior intensità dei fenomeni meteorologici estremi (siccità ed inondazioni) e mette a rischio le foreste e la maggior parte degli ecosistemi del nostro pianeta (a causa dei più frequenti incendi e del fatto che il clima necessario alla crescita delle piante si sposta verso i poli o a una maggior altitudine troppo in fretta rispetto ai tempi necessari allo spostamento dei vegetali). La desertificazione che avanza minaccia seriamente tutte le zone di confine (le zone semi-aride). L’acidificazione dei mari (dovuta all’aumento della concentrazione di anidride carbonica) provoca la morte delle barriere coralline, mettendo a serio rischio la vita nei mari. Il ciclo delle piogge si modifica, così ad esempio, alcune delle zone in cui si producono la maggior parte dei cereali – la cintura del Midwest statunitense, l’Europa Centrale, parte della Russia europea, l’Australia – , potrebbero diventare semi-aride e veder diminuire la quantità d’acqua presente nelle falde acquifere. L’estate del 2012 ha confermato che tutte le preoccupazioni degli scienziati riguardo il riscaldamento del nostro pianeta sono fondate e che stiamo andando incontro a sconvolgimenti epocali. Anche se disponiamo di una tecnologia di gran lunga più potente di quella del passato, anche se la nostra società può vantare mezzi di comunicazione molto sofisticati (internet, tv, giornali, radio), in grado di tenerci informati sulla crisi ambientale che stiamo vivendo e sulle azioni da mettere in pratica per scongiurare la sempre più

imminente catastrofe, è piuttosto improbabile che si riesca a invertire la rotta prima che sia troppo tardi, perché la nostra è innanzi tutto una crisi culturale. I valori economici hanno completamente colonizzato le nostre menti, il nostro agire e il nostro modo di pensare è ormai diventato quello dell’homo oeconomicus, per cui l’egoismo (non più vanità e orgoglio come nella società aristocratica del Seicento, ma mero interesse materiale), la competizione, il consumismo, il lavoro, l’interesse monetario e la mercificazione di ogni cosa, sentimento ed essere umano sono diventati parte del nostro DNA. L’intera umanità, con le proprie azioni quotidiane sostiene questo sistema economico-produttivo, diffondendone il verbo e salvaguardandone i principi. E non potrebbe essere altrimenti, è infatti molto difficile, se non impossibile combattere apertamente contro il Sistema, che è oppressivo, totalizzante e in continua espansione. Il potere del capitale (espressione di chi detiene il potere economico e quindi dirige questa immensa crociata del Sistema alla conquista dell’intero pianeta) è assoluto e dati questi valori di base (quelli economici), è piuttosto improbabile che si riesca a fermare la folle corsa dell’economia. La cultura è stata appiattita, distrutta o riportata a una dimensione razionale ed economica,

insomma

non

rappresenta

più

una

minaccia

all’inevitabile espansione del Sistema. Nella sfida tra politica ed economia, la prima tappa è stata quella di emancipare l’economia (in modo definitivo con “La Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, nel 1776), evitando quindi che si potesse arrivare a pericolose

interferenze politiche (come nella città di Aristotele), la seconda è stata quella di attaccare il potere politico, portandolo alla definitiva resa (con le rivoluzioni borghesi del XVIII secolo, che sanciscono la vittoria della classe mercantile, imprenditoriale, “produttiva”, che poi porterà i propri valori anche all’interno dello Stato moderno, che ha come unico obiettivo quello della crescita per la crescita). Vinto il potere politico, lo si è costretto a inscenare l’umiliante parte di chi deve servire l’interesse altrui, così che oggi lo vediamo al servizio delle grandi multinazionali, dei potenti gruppi finanziari o delle varie confederazioni di imprenditori locali, insomma intento a legiferare sempre a favore delle lobby economiche. La propaganda del capitale si è assicurata il controllo di tutti i mezzi di informazione (diventati essi stessi grandi multinazionali che hanno anche loro come obiettivo il profitto) e può così liberamente dedicarsi all’indottrinamento delle menti delle masse tramite la pubblicità. Infatti, alle masse occorre ricordare ogni giorno che devono proclamare il proprio delirio consumistico, che devono comprare e consumare, perché queste sono le virtù del nostro tempo. Con il controllo diretto (che avviene tramite i propri laboratori) o indiretto (tramite i ricatti al mondo della politica e la pratica piuttosto diffusa di “comprarsi” il parere di esperti luminari e professori universitari) del mondo scientifico il gioco è fatto e oggi il potere del capitale si è definitivamente garantito l’incolumità del Sistema, ovvero dei valori economici (e quindi della propria capacità di creare profitti).

La forza del debito Ma la vera forza del Sistema non risiede nel potere del capitale (che ne è una naturale conseguenza), ma nella sua eccezionale forza di crescita, in questo suo continuo progredire, nell’impulso vitale che lo porta ad autoalimentarsi all’infinito, arrivando così a inglobare tutto ciò che incontra sul proprio cammino. Le “leggi naturali” dell’economia implicano la centralità del mercato e la concorrenza fra imprenditori, il cui ruolo è quello di investire i capitali risparmiati dalle famiglie (tramite l’intermediazione del sistema finanziario) in investimenti più redditizi (ruolo che può essere svolto anche dallo Stato). L’intero Sistema si fonda sul debito e quindi sulla scommessa che nel futuro riuscirà a produrre una quantità di beni e servizi maggiore rispetto al debito che è stato contratto (a livello di Sistema si tratta di un debito contratto con il tempo futuro). Il maggior valore creato servirà a remunerare l’imprenditore per aver intrapreso quell’investimento produttivo e il creditore perché gli ha prestato i capitali. I capitali presenti nel sistema finanziario provengono dal lavoro delle famiglie, dalle rendite della terra, dagli interessi provenienti dalla remunerazione del capitale e dai profitti degli imprenditori e tutti questi capitali sono poi in grado di generare ulteriori capitali (venendo risparmiati e quindi reimmessi in attività produttive perché prestati agli imprenditori). Ma quando questo non basta, occorre ricorrere a un potentissimo strumento, l’azione creatrice delle banche centrali, che creano nuovo denaro, nuovi

capitali, che poi, una volta immessi nel circuito finanziario verranno prestati a imprenditori e stati, che li investiranno in attività produttive e dovranno necessariamente creare quel maggior valore. L’azione creatrice delle banche centrali potrebbe essere paragonata a un nucleo da cui proviene l’energia necessaria all’espansione del Sistema, che tramite la creazione di nuovo debito (e quindi la necessità di creare quel maggior valore oltre al debito contratto) permette al Sistema di sfruttare la forza dell’interesse composto. Entropia e scenari apocalittici Se il mondo fosse infinito e soprattutto se non esistesse il secondo principio fisico della termodinamica, ci troveremmo di fronte alla possibilità di veder crescere la produzione mondiale di beni e servizi all’infinito

e

dell’economia

non e

esisterebbe

delle

sue

nessun

leggi.

Ma

limite

all’espansione

sfortunatamente

(o

fortunatamente – dipende dai punti di vista) il pianeta è finito e il secondo principio della termodinamica sostanzialmente dice che: “Ogni volta che una certa quantità di energia viene convertita da uno stato a un altro si ha una penalizzazione che consiste nella perdita di una parte dell’energia stessa, in particolare ve ne sarà una parte non più utilizzabile per produrre lavoro. C’è un termine che indica questa perdita: entropia”. La legge dell’entropia ci dice che nell’universo (e quindi anche sulla Terra), non si può creare energia (ogni cosa è costituita da energia, anche la materia è una materializzazione dell’energia), ma solamente convertirla da uno stato all’altro e che

“l’entropia è una misura della parte di energia che non può più essere trasformata in lavoro”. L’energia presente sulla Terra proverrebbe quindi da due fonti di materia: le riserve di suolo, dove ci sono i minerali e le sostanze organiche e le radiazioni solari, per cui la Terra – almeno dal punto di vista dei beni materiali – sarebbe un sistema chiuso, che quindi non riceve materia dall’universo. Così che ogni qual volta si pensa di riciclare qualche cosa (ad esempio una lattina di metallo), in realtà stiamo utilizzando ulteriore energia, andando quindi ad aumentare l’entropia totale (ed inoltre perdiamo anche una parte di materia, che è in lento e costante degrado), come riconobbe per primo l’economista Nicholas Georgescu-Roegen quando sostenne che: “In un sistema chiuso l’entropia dei materiali dovrà a un certo punto raggiungere un massimo”. Quindi, tornando al discorso del debito quale forza in grado di sprigionare la crescita infinita dell’economia, ora sappiamo che questo è vero solamente nei modelli teorici che non contemplano il limite invalicabile della finitezza del pianeta (che in molti considerano superabile dalla tecnologia) e soprattutto il secondo principio della termodinamica (che però mai nessuna tecnologia potrà mai superare e anzi è vero l’esatto contrario, perché ogni tecnologia – definita da Rifkin un “convertitore di energia” – aumentando la conversione di energia da uno stato all’altro, aumenta anche l’entropia, cioè il disordine). Per cui il nostro Sistema, lanciato verso la folle corsa della conquista del pianeta, dell’umanità intera e di ogni aspetto umano, si troverà ad un certo punto a veder rallentare la propria crescita (della produzione di

beni e servizi), perché non ci saranno più nuovi mercati da conquistare e perché le risorse naturali (minacciate dal riscaldamento globale e da ogni altra forma di inquinamento o distruzione provocata dall’azione umana – e ben rappresentata dall’entropia) non saranno più sufficienti per una popolazione in continua crescita e dove il miglioramento dello stile di vita (PIL pro capite) dell’enorme massa di popolazione dei paesi emergenti (Cina e India da sole hanno una popolazione di circa 2,5 miliardi di persone) non farà altro che aumentare la competizione (e di conseguenza il prezzo) di tutte le materie prime necessarie all’economia. L’incremento del costo dell’energia, causato dall’esaurimento dei combustibili fossili (con la conseguenza che l’estrazione diventa sempre più difficile e la materia prima grezza sempre più impura perché prima si estraggono i giacimenti di qualità superiore) e dalle sempre più urgenti misure ambientali (come la carbon tax), porterà a un aumento generale dell’inflazione (aumentano i costi di trasporto e dell’utilizzo della tecnologia di qualsiasi altro settore, ma aumenta anche il prezzo della plastica e dei fertilizzanti), che a sua volta si ripercuoterà sui consumatori finali (che vedranno diminuire il proprio potere d’acquisto), deprimendo così i consumi generali e facendo quindi rallentare la corsa dell’economia (sospinta dal debito). Tutto questo innescherà una spirale depressiva, con gli imprenditori che vedranno calare i propri profitti ed inizieranno a realizzare delle perdite, compromettendo quindi la loro capacità di ripagare il denaro preso a prestito dalle istituzioni finanziarie, che inizieranno a vacillare, e

alcune falliranno (con gli stati troppo indebitati per poterle salvare). Aumenterà la fila dei disoccupati e i salari diminuiranno, i governi dovranno diminuire i propri budget perché saranno schiacciati dai debiti, mentre il continuo aumento dell’inflazione (le risorse naturali costeranno sempre di più) renderà vana ogni azione delle banche centrali, che non potranno più immettere denaro nel Sistema. l’inizio della fine dell’economia, a cui seguirà una fase di accentuata turbolenza prima che si arrivi al probabile collasso, al tracollo della nostra civiltà e alla fine del Sistema. Questa fase prevede il continuo peggioramento

delle

condizioni

economiche

e

l’aumento

dell’inflazione, mentre l’ambiente sarà sempre più degradato e il riscaldamento globale metterà a ferro e fuoco il nostro pianeta. A fare da sfondo a questo scenario apocalittico ci saranno milioni di poveri in ogni regione e lo spettro di una guerra nucleare che aleggerà tra le rovine della nostra civiltà (con le 19.000 bombe nucleari ancora in circolazione). Ad una crisi ambientale rispondiamo con soluzioni economiche Il limite maggiore del nostro Sistema è rappresentato dal fatto che ogni volta che emerge un problema, una crisi (l’economia non cresce più, la competizione per le risorse del pianeta si fa sempre più serrata a causa dell’aumento della popolazione e dello stile di vita dei paesi emergenti, i carburanti fossili costano sempre di più e via dicendo), si reagisce sempre allo stesso modo, ovvero si intraprendono delle azioni che – in ultima analisi – sono esse stesse la causa del

problema, della crisi. Tutte le crisi sono infatti riconducibili a una crisi ambientale. L’economia reale inizia a rallentare la propria crescita proprio perché si scontra contro la finitezza del pianeta e subisce il continuo aumento del prezzo dell’energia e delle materie prime, mentre l’eccessiva finanziarizzazione dipende dalle continue pressioni che riceve per far ripartire la crescita del PIL e quindi scommettere su un futuro con più abbondanti risorse naturali. La crisi agricola, energetica e delle materie prime è sempre riconducibile all’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali e dalla sempre maggior competizione a livello globale, mentre la crisi culturale e il continuo aumento della popolazione dipendono dall’aver abbracciato valori incompatibili con la biosfera o dai continui miglioramenti tecnologici. Ma a tutti questi problemi si reagisce sempre allo stesso modo perché si concede maggior spazio all’economia e quindi si scommette un po’ di più sulla crescita infinita (cercando di economicizzare gli ultimi territori vergine). Le banche centrali aumentano la quantità di denaro immesso nel Sistema economico per stimolare gli investimenti produttivi, i governi detassano lavoro e profitto e intraprendono misure volte a garantire una maggiore deregulation (lasciando ampio spazio alle “leggi naturali” dell’economia), misure anch’esse volte a stimolare maggiori investimenti produttivi e un aumento del lavoro. Gli economisti della crescita chiedono un aumento della produttività del Sistema perché bisogna produrre di più e nel minor tempo possibile (aumentando quindi il prelievo delle risorse naturali), Fondo

Monetario e Banca Mondiale finanziano nei paesi non ancora sviluppati enormi dighe per produrre energia, ponti, strade, autostrade, aree industriali, tutti progetti che oltre a distruggere l’habitat naturale e la società rurale, richiedono enormi quantità di cemento, acciaio, rame, petrolio e carbone (andando quindi ad aumentare la domanda mondiale di risorse naturali). I paesi sviluppati, che si trovano il pesante fardello di una popolazione invecchiata, nonostante la già alta densità di popolazione e la presenza di città sovrappopolate e sempre più difficili da gestire, incentivano la crescita demografica con le politiche delle nascite e quelle dell’immigrazione. Continuiamo a buttare benzina sul fuoco. Tutto questo ci sta rapidamente portando al doomsday (il giorno del giudizio), cioè al giorno in cui la nostra civiltà collasserà e con essa l’economia. I contestatori del Sistema Ma prima che si arrivi al punto in cui l’economia sbatterà contro i propri limiti, ovvero contro la finitezza del mondo e l’inesorabile secondo principio della termodinamica, prima che la lotta di tutti contro tutti abbia raggiunto dimensioni planetarie, assisteremo a un crescendo dell’azione dei contestatori del Sistema. Si tratta della massa degli esclusi e degli emarginati dall’orgia consumistica (i miserabili delle bidonville e i barboni), il crescente esercito di sconfitti (disoccupati e precari senza speranze) e chi non si è mai arreso fino in fondo ai valori economici per preservare la propria

identità culturale (gli “integralisti” e i fedeli che non hanno abbandonato i valori delle proprie religioni, siano esse l’Islam, il Cristianesimo, l’Induismo o l’Animismo, ma anche le ultime tribù di “selvaggi” delle zone più marginali che non vogliono arrendersi al progresso, e in genere tutti coloro che sono rimasti fortemente attaccati ai propri valori). Questi, trovandosi fuori o ai margini del Sistema, ne subiscono la condizione di paria o nemici da conquistare ed è quindi più facile che si sentano spronati a intraprendere una guerra tout court e senza esclusione di colpi nei confronti del Sistema o dei simboli che esso rappresenta (l’entrata nell’era del terrorismo è stata proclamata con l’attacco di Al Qaeda dell’11 settembre del 2011 contro le Torri Gemelle). Non sempre si tratta di una guerra ideologica, come quella combattuta da chi lotta per la salvaguardia della propria identità culturale, perché spesso siamo di fronte a una guerra che viene combattuta per la mera sopravvivenza (gli episodi di micro-criminalità degli esclusi, le guerre dei poveri combattute per la terra o l’acqua, l’orda di immigrati alla ricerca di migliori condizioni di vita nei paesi sviluppati). Gli unici che non sembrano reagire alla loro condizione, in parte per mancanza di vitalità e in parte per la vana speranza di poter ritornare un giorno a essere accettati dal Sistema, sono gli sconfitti. Trovandosi in una perenne condizione che potremmo definire come “disillusione esistenziale”, sentono un vuoto ancora più angosciante di quello dell’homo oeconomicus, che almeno a tratti mantiene una certa illusione del proprio senso esistenziale (come minuscolo ingranaggio

dell’enorme macchinario sociale), mentre agli sconfitti non rimane che il ruolo di rifiuti, di scarti del Sistema senza che possano aver ritrovato una loro precisa identità o nuovi valori in cui credere. Esistono comunque anche altri tipi di contestatori, più ambigui e meno radicali nelle loro posizioni, ma che tuttavia non abbracciano a pieno gli ideali del Sistema o comunque hanno intravisto delle contraddizioni e quindi sanno che qualcosa non va nella civiltà del progresso e della crescita illimitata. Sono i liberi pensatori, gli ambientalisti, i no global, i no TAV, i separatisti baschi, i terzomondisti, gli agricoltori che si convertono a un’agricoltura più sostenibile – anche se meno produttiva –, i cittadini che praticano il volontariato o iniziano a coltivarsi l’orto, chi rivaluta i principi e la lettura letterale dei Vangeli, chi si trova ad avere posizioni politiche di estrema destra o di estrema sinistra (spesso molto più vicine di quanto si creda), ma anche chi inizia a limitare gli eccessi del delirio consumistico o a padroneggiare valori nuovi, diversi da quelli economici. Questa categoria di persone, pur facendo appieno parte del sistema produttivo e consumistico, in quanto lavoratori, consumatori e risparmiatori (d’altronde sarebbe molto difficile o quasi impossibile uscirne una volta entrati), decidono comunque di non concedersi completamente alle logiche economiche, all’egoismo “naturale” e alla disumana condizione di homo oeconimucus, sottraendo quindi preziose energie (e risorse) al Sistema. Abbandoniamo l’economia

L’unico modo che abbiamo per reagire alle crisi che già ora avvertiamo e che in futuro non potranno che acuirsi, è quello di trovare una soluzione non convenzionale, ovvero completamente al di fuori degli schemi e del modo di agire del dogma economico. La soluzione, infatti, non potrà mai giungere dall’economia, perché l’economia non potrà mai mettere in discussione se stessa e i propri valori. Si può anche pensare di abolire il capitalismo, sostituendo i burocrati agli imprenditori, ma se l’obiettivo rimane quello di aumentare la produzione e il consumo di beni materiali, se l’uomo rimarrà comunque schiavo del lavoro produttivo, se avrà sacrificato la propria creatività, le proprie emozioni e la propria umanità all’aumento senza fine della produzione materiale, allora nella sostanza tutto sarà rimasto come prima. Questa soluzione non convenzionale significa trovare il modo di uscire completamente dal paradigma dell’economia e abbandonarne i valori, perché quei valori ci stanno portando dritti verso il collasso. Ma una volta abbandonati i valori economici, dovremo però essere in grado di trovarne di nuovi, il cui minimo comune denominatore sarà la compatibilità con l’ambiente naturale. La storia ci dimostra che ogni volta che i valori di una società non sono stati conformi alla natura e all’equilibrio naturale (siano anche la religione e la cultura degli abitanti dell’Isola di Pasqua, che imponeva loro la costruzione di imponenti statue di pietra in un ambiente così piccolo e fragile), abbiamo assistito all’inesorabile crollo di quella società.

PARTE III “Decrescita, istruzioni per l’uso” Torna all’indice Vicini all’apice del consumismo Gli ultimi tre secoli hanno sancito la definitiva vittoria dell’economia sulla morale e sulla politica e una volta crollato il socialismo reale (i cui valori di fondo rimangono sempre gli stessi, ovvero crescita economica e progresso materiale), abbiamo assistito alla conquista del pianeta da parte del modello più efficiente e più produttivo, cioè quello

capitalista

fondato

sull’economia

di

mercato.

La

globalizzazione economica rappresenta l’ultimo balzo in avanti del Sistema, che inglobando tutto ciò che incontra diffonde i propri valori su tutto il pianeta. Ma siamo ormai giunti all’inizio della fine, perché stiamo per toccare l’apice, a cui non potrà che seguire l’implosione della nostra società, mentre i primi segnali premonitori già si iniziano a sentire (crisi economica, crisi ambientale, crisi energetica, crisi agricola e via dicendo). Il Sistema imploderà perché non potrà più crescere, perché le risorse naturali saranno sempre meno e costeranno sempre più, perché quando l’enorme debito contratto con il futuro non potrà più essere saldato, perché non sarà

più possibile continuare a crescere, ci presenterà un conto salatissimo. Grandi catastrofi sono all’orizzonte, il surriscaldamento del pianeta rischia di mettere a rischio la buona parte della biodiversità, la fine dei combustibili fossili ci renderà sempre più fragili, la sovrappopolazione e la crescita dello stile di vita nei paesi emergenti ci spinge a lottare sempre più per le ultime risorse del pianeta. Per invertire la rotta bisogna agire al più presto, tenendo ben presente che solo un radicale cambiamento dei valori correnti potrà salvare l’umanità dal caos e dal disordine. Un giorno l’umanità si sveglierà dall’incanto in cui ha sempre vissuto, un giorno l’homo oeconomicus si accorgerà che con la propria razionalità non ci potrà più fare niente e che sopravvivrà solamente chi sarà in grado di adattarsi ai nuovi tempi e quindi ai nuovi valori.

à

Perché uscirne: limiti e contraddizioni del Sistema utile ripercorrere i limiti e le contraddizioni dell’attuale Sistema e dei valori su cui è fondato, valori che non essendo sostenibile nel lungo termine, ci lasciano senza futuro (nonostante la continua scommessa su un futuro in cui il Sistema sarà in grado di produrre ancora di più). Esiste un limite ben preciso alla crescita economica e si tratta di un limite fisico, che dipende “dalla quantità di risorse naturali non rinnovabili” e “dalla velocità di rigenerazione della biosfera per le risorse rinnovabili”. Come è stato più volte ribadito in questa sede, è piuttosto elementare capire che non si può crescere all’infinito

quando le risorse che si hanno a disposizione sono finite. E ci stiamo pericolosamente avvicinando a questo limite, perché se l’87% dell’energia prodotta proviene dalle tre fonti non rinnovabili per eccellenza – ovvero petrolio, carbone e gas naturale – dato l’attuale livello di produzione annuo e l’ammontare di riserve accertate (laddove però i giacimenti di qualità maggiore o meno in profondità sono già stati sfruttati), entro circa cinquant’anni avremo esaurito tutto il petrolio e da quel momento si inizierà a utilizzare solamente gas naturale e carbone, che ovviamente si esauriranno con largo anticipo

rispetto

a

quanto

previsto

dall’attuale

indice

rsierve/produzione. La crescita delle economie emergenti (Cina, India e Brasile su tutti) e della popolazione terrestre (sostenuta dal continuo aumento del numero di abitanti di Africa Sub-Sahariana e Asia Meridionale) aumenterà la competizione per accaparrarsi le risorse rinnovabili e non rinnovabili, mentre la capacità di sfamare la popolazione mondiale sarà messa sempre più a repentaglio dagli sconvolgimenti climatici dovuti al riscaldamento del pianeta e da tutte le varie forme di inquinamento. Anche se la tecnologia può aumentare l’efficienza di consumo delle risorse naturali, questo effetto viene quasi sempre compensato da un aumento dei consumi totali, sia perché esiste un esercito composto da miliardi di persone che premono per ottenere lo stesso sviluppo dei paesi ricchi, sia perché il minor consumo per unità di una certa risorsa spinge a un maggior consumo totale della stessa (è il famoso paradosso di Jevons). Inoltre, tutta la tecnologia dipende quasi totalmente dalle

materie prime minerarie che sono finite (e per riciclarle – laddove fosse possibile – occorrono enormi quantitativi di energia, bene che in futuro sarà sempre più costoso). Dai chip ai pannelli fotovoltaici, passando per le automobili, le grandi infrastrutture e le nuove armi, tutti questi prodotti tecnologici necessitano di ingenti quantità di acciaio, rame, tungsteno, terre rare, tantalio, eccetera. Il secondo principio della termodinamica è incompatibile con il pensiero economico dominante (sia che si parli di keynesiani, neoclassici o marxisti). Inseguendo la chimera della crescita infinita della produzione materiale (per quanto aumenti la quota dei servizi, occorre sempre una certa quantità di materia e soprattutto di energia), la teoria economica, in piena logica newtoniana, considera le trasformazioni dell’energia come processi reversibili. “La Terra è in un sistema virtualmente chiuso rispetto al sistema solare, scambia energia con il Sole, ma, a tutti gli effetti pratici, non scambia materia con il resto del sistema solare”. Per utilizzare l’energia necessaria a mantenere il nostro stile di vita abbiamo quasi esaurito un capitale naturale accumulatosi in milioni di anni, un’immensa riserva di energia solare e materia organica proveniente da piante e organismi marini fossili e quell’energia non la potremo mai più recuperare, mentre a causa dell’entropia, dovremo subirne gli effetti negativi (come l’inquinamento). Ma lo stesso discorso vale per la materia (legname, minerali e metalli, materia organica), perché in ogni processo di trasformazione se ne perde una parte (non è possibile

riciclare la materia al 100%) e perché per trasformarla da uno stato all’altro occorre sempre l’utilizzo di nuova energia, aumentando così l’entropia totale (l’accumulo di rifiuti e scarti organici). Mai come in questi ultimi due/tre secoli l’umanità si è trovata a dilapidare una così grande quantità di materia, convertita in energia o utilizzata per altri scopi. Più in fretta accresciamo la produzione materiale, più in fretta consumiamo merci (destinate poi a diventare rifiuti) e più in fretta ci avviciniamo alla fine, scritta nell’inesorabile legge dell’entropia, da cui nessuno può sottrarsi. I primi due punti dovrebbero servire a sfatare il mito tecnologico, a demitizzare la convinzione, piuttosto diffusa, che la scienza riuscirà a risolvere tutti i nostri problemi, che la scienza sconfiggerà la legge dell’entropia, la finitezza del pianeta e la catastrofe ecologica verso cui stiamo andando incontro. Ma questo è semplicemente impossibile, perché non esiste il miracolo che potrà garantirci il benessere illimitato, perché l’energia nucleare crea ancora più entropia di quella proveniente dai combustibili fossili, sotto forma di rifiuti radioattivi (l’atomo pulito è una buona trovata pubblicitaria) e gli stessi problemi li incontriamo con la fusione (“un grande impianto potrebbe produrre fino a 250 tonnellate di rifiuti radioattivi all’anno”). L’ottimismo della classe politica è influenzato da quello degli economisti con la scuola di pensiero attualmente dominante, che ha superato il concetto di “stato stazionario” degli economisti classici e sostiene che grazie alla sostituibilità dei fattori produttivi, i

rendimenti decrescenti di questi vengono annullati da nuove tecnologie e migliori conoscenze e quindi di fatto non ammettono l’esistenza di limiti alla crescita e alla finitezza dei capitali naturali, mentre l’ottimismo dell’opinione pubblica, cioè dei cittadiniconsumatori, viene influenzato dalla propaganda consumistica della pubblicità, che ha tutto l’interesse a mantenere questo stato di incoscienza collettivo. Produce disuguaglianze e una ricchezza materiale che è per buona parte illusoria e questo anche considerando i parametri e le definizioni statistiche utilizzati dal Sistema (come il PIL). Dal 1981 al 2005, i poverissimi del nostro pianeta (coloro che vivono con un reddito inferiore ai 2 dollari al giorno) sono tutt’altro che diminuiti e ci troviamo con 19 milioni di poveri in più rispetto al 1981. Questa è una sonora sconfitta per tutti quelli che ammettono che la povertà è diminuita grazie alla globalizzazione o alla grande crescita economica dei paesi in via di sviluppo. Anche se si potrà sostenere che a valori percentuali è diminuita (soprattutto grazie alla grande crescita economica della Cina), siamo comunque di fronte a un aumento reale del numero di persone che vivono in miseria, che comunque è sempre bene ricordare che rappresentano il 40% dell’intera popolazione mondiale. Le forme di disuguaglianza si manifestano però anche nei paesi sviluppati, con Europa e Stati Uniti che hanno visto aumentare il numero di disoccupati, precari o lavoratori sottopagati. Negli USA, il 10% più povero detiene le

briciole del reddito annuo del paese più ricco al mondo, ovvero l’1,88%, mentre in Sud Africa tale percentuale è pari all’1,07%, e in Italia al 2,30%. Considerando la povertà sulla base del PIL, si va però incontro a un grande limite e questo è ancora più vero nei paesi in via di sviluppo, dove la popolazione si trova a migrare dalle campagne alle città. Il PIL è una misura meramente quantitativa e che quindi per definizione non tiene conto del valore qualitativo della produzione che viene fatta (un ospedale o un missile potrebbero avere lo stesso valore) e soprattutto dei possibili danni che quel determinato tipo di bene potrebbe arrecare (e arreca!) alla collettività. Inoltre, il PIL è una misura selettiva, che valorizza solamente i beni e i servizi che vengono scambiati con del denaro e che quindi hanno un prezzo o comunque un valore monetizzabile (ci rientra anche la spesa pubblica, ma ovviamente non se ne considera la qualità o il tipo di servizi resi, ma il solo ammontate totale), mentre non riconosce alcun valore a tutti quei beni o servizi che vengono autoprodotti (ad esempio la frutta e la verdura che crescono in un orto, i lavori casalinghi, le riparazioni fatte nella propria casa, eccetera), barattati, oppure che vengono messi a disposizione di tutti gratuitamente, che sono i cosiddetti commons o beni comuni (dalla luce e il calore del sole, alle precipitazioni piovose, le foreste o il servizio reso dagli insetti impollinatori). Eppure, i beni autoprodotti, barattati o messi a disposizione dai commons, contribuiscono lo stesso al benessere e la ricchezza delle popolazioni (soprattutto nelle campagne dei paesi non ancora sviluppati). Maurizio Pallante

definisce i beni come “gli oggetti o i servizi che soddisfano un bisogno”, mentre le merci come “gli oggetti o i servizi che si comprano, che si ottengono in cambio di denaro”, aggiungendo che “non tutti i beni devono essere comprati, né tutte le merci soddisfano un bisogno”. Stando a questa definizione, vediamo il grande limite dell’utilizzare il PIL (e in particolar modo in società agricole tradizionali) come indicatore di benessere e quindi di povertà, perché solamente le merci, ovvero ciò che viene scambiato con denaro viene considerato ricchezza, mentre il resto non è niente. Se infatti è piuttosto vero che in un paese in cui l’economia ha abbracciato quasi tutte le dimensioni dell’essere e la popolazione vive in città, il PIL rappresenta un buon indicatore di benessere, non è così per i paesi non ancora sviluppati (come ad esempio l’Africa), dove si pratica ancora un’agricoltura di sussistenza e si scambiano le (poche) eccedenze per comprare ciò che non si può autoprodurre, barattare od ottenere da un commons. Diversamente in città per qualsiasi bisogno occorre pagare con del denaro, che ci si procura mettendo a disposizione di un’azienda le proprie energie intellettuali e fisiche. Anche in campagna si mettono a disposizione le proprie energie intellettuali e fisiche (e quindi si lavora), solo che tutto ciò che non riceve una contropartita in denaro non viene considerato dal PIL. Il problema è che basando tutte le politiche economiche sulla crescita del PIL, così come gli aiuti e le raccomandazioni delle istituzioni internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organismo Mondiale del Commercio, Nazioni Unite), stiamo

spingendo i paesi non ancora sviluppati ad aprirsi al cancro dello sviluppo economico – e dei suoi valori. Il primo passo consiste nella “modernizzazione” dell’agricoltura, tramite

l’introduzione dei

fertilizzanti chimici, dei pesticidi, degli erbicidi e di culture molto più produttive (sempre più OGM) da destinare alle esportazioni, ma soprattutto di trattori, mietitrebbie e macchine agricole. Le conseguenze sono la fine dell’agricoltura tradizionale di sussistenza che si basava sulla piccola proprietà contadina, sulla prevalenza del lavoro manuale, sull’utilizzo di concimi organici e sulla coltivazione di varietà agricole selezionate nei millenni per quel particolare clima e territorio. A questo punto la popolazione inizia a subire sempre più frequenti carestie (ad esempio perché le varietà di cereali più produttivi mal si adattano alla siccità o al clima locale) e a essere dipendente dai prodotti agricoli esteri (mentre le terre locali continuano a essere coltivate a caffè, cacao, soia, cotone, arachidi, tutti prodotti destinati ai ricchi mercati esteri).

significativo il fatto

che in Africa, prima degli anni Sessanta nessuno morisse di fame (in condizioni normali) e l’intero continente si trovasse in una condizione di autonomia alimentare, retto da un’agricoltura di sussistenza e una civiltà contadina ben inserita nel contesto locale. Con l’avvento dell’agricoltura moderna e quindi della crescita del PIL (i prodotti destinati all’export vengono contabilizzati perché ricevono una controparte in denaro, mentre quelli destinati alla sussistenza no), milioni di contadini sono obbligati (o persuasi) a lasciare le campagne per andare ad ammassarsi nelle periferie delle

grandi megalopoli del Sud del mondo, dove contribuiranno all’industrializzazione del paese e all’arrivo dei capitali stranieri, sempre alla ricerca di lavoratori pronti a farsi sfruttare per un misero salario e senza nessun tipo di diritto. Ma non tutti troveranno lavoro, altri saranno costretti a migrare all’estero, alla perpetua ricerca di migliori condizioni di vita, come hanno fatto centinaia di migliaia di immigrati africani, indiani, del Bangladesh o nepalesi che ad esempio hanno permesso la costruzione dei grattacieli di Dubai, un immenso serbatoio di manodopera sottopagata (o spesso truffata, perché alla fine i datori di lavoro non pagavano), senza diritti di alcun tipo e costretta a lavorare senza protezioni. Da quel momento, quasi ogni bisogno verrà soddisfatto solo tramite l’utilizzo di denaro e per garantirselo occorrerà svendere il proprio tempo (cioè gran parte della propria vita) alle grandi aziende, da quel momento sarà iniziata la schiavitù dell’homo oeconomicus, fatta di lavoro alienante, dipendenza dal consumo e pagamento delle imposte (perché tutto ciò che viene autoprodotto, barattato o reso gratuitamente dai commons non viene tassato e non va ad aumentare i profitti di nessuno). o l’inizio della schiavitù moderna, ancora più efficace perché avvolta di un alone di ipocrisia, che si chiama “libertà”, mentre in realtà è una non-libertà di lavorare, una non-libertà di comprare qualsiasi cosa per poter sopravvivere, data dall’impossibilità di poter tornare a vivere liberi dal giogo della svendita di sé stessi. Questo tremendo inganno viene perpetuato e continuamente alimentato dai governi di tutti i paesi del mondo per due fondamentali motivazioni: la prima è

l’interesse che la classe dirigente politica ha nel mettere in atto misure che aumentino le entrate fiscali, necessarie per attuare la politica dei consensi, la seconda sono le pressioni messe in atto dalle lobby economiche – cioè dal potere del capitale – per aprire nuovi mercati, ovvero trovare nuovi schiavi che per comprare le loro merci dovranno svendere le proprie energie intellettuali e fisiche al miglior offerente. Così vediamo il PIL dei paesi in via di sviluppo che in pochi anni si raddoppia, triplica e tutti siamo persuasi a credere che queste popolazioni abbiano finalmente superato le loro condizioni di miseria, indigenza e che ora possano finalmente essersi avviati anche loro verso l’american dream. Niente di più falso, perché quella che è raddoppiata o triplicata è la produzione di merci (riprendendo la definizione di Pallante), ovvero di beni e servizi pagati, comprati o venduti sul mercato, ma non necessariamente la produzione di beni e servizi in generale.

anzi piuttosto probabile che ci sia stato un

peggioramento netto delle condizioni di vita di queste popolazioni, che a fronte dell’aumento della luccicante oggettistica del consumismo – l’unica vera crescita – hanno visto diminuire lo spazio vitale in cui vivere (i nuovi ghetti sono gli anonimi palazzoni delle periferie urbane delle megalopoli dei paesi in via di sviluppo), la qualità del cibo, dell’aria e dell’acqua, le relazioni sociali (in città trionfa l’individualismo e la reciproca diffidenza) e soprattutto il tempo libero da dedicare alla realizzazione della propria personalità (se si considera il valore del tempo libero, considerando che gli ultimi cacciatori-raccoglitori del deserto Kalahari lavorano solo tre o

quattro ore al giorno), alle pratiche religiose e della propria cultura, al gioco, al divertimento e alla cura degli affetti (famiglia e amici), insomma a tutto ciò che non è economia. Limitandoci a misurare la sola ricchezza materiale che abbia ricevuto un equivalente monetario, vengono inoltre ignorati i costi nei confronti della collettività che la produzione materiale comporta (le esternalità negative di Pigou) e non sappiamo se l’aumento del PIL abbia portato a un effettivo miglioramento o peggioramento delle condizioni di vita dell’umanità. Non esiste una mano invisibile “verde”. Una volta che – tra il XVII ed il XVIII secolo –

sono state slegate le briglie che tenevano

l’economia soggiogata alla politica e all’etica, una volta che l’economia è stata libera di accrescere la propria dismisura, di autoregolarsi tramite le proprie leggi, è arrivata a inglobare qualsiasi spazio fisico e virtuale del pianeta. L’enorme crescita della dimensione economica sul nostro pianeta è stata possibile (oltre che per i valori propri dell’economia), grazie al meccanismo del debito – che le permette di trovare la continua spinta in avanti – e alla razzia del capitale ecologico accumulatosi in milioni di anni. Senza che si riesca a porre un freno a questa dismisura, senza che la politica sappia – almeno in una fase di transizione – limitare l’azione economica,

cercando

magari

di

indirizzarla

verso

obiettivi

ecologicamente sostenibili, si andrà incontro alla catastrofe ecologica (e si può dire che siamo sulla buona strada), perché non ci sarà più

un capitale ecologico da razziare, e quindi al collasso di tutto il Sistema. In una fase di transizione, per cercar di far convivere l’economia e l’ambiente, si potrebbe realizzare a pieno quanto proposto dall’economista inglese Cecil Pigou, ovvero la necessità di far pagare una tassa alle imprese la cui produzione produce esternalità negative che ricadono poi sotto forma di costi sulla collettività o le generazioni future. Ma un provvedimento del genere sarebbe fortemente osteggiato dalle imprese e dagli stessi cittadini (soprattutto dei paesi sviluppati), che non vorrebbero rinunciare alla loro quota di profitti o alla vasta scelta di beni di consumo a buon mercato (la benzina dovrebbe costare almeno tre o quattro volte di più, così come la quasi totalità dei manufatti, e in particolar modo quelli tecnologici, costruiti in paesi dove non esistono norme a tutela dell’ambiente o a garanzia delle condizioni di lavoro degli operari). Il Sistema ha reso l’umanità sempre più dipendente dal mercato. Siamo arrivati al punto in cui per (quasi) qualsiasi bisogno esiste una merce, una merce che si compra sul mercato con del denaro, che occorre però procurarsi prestando il proprio lavoro a un’azienda. La dipendenza

dal

mercato,

però,

a

lungo

andare

porta

a

un’atrofizzazione di quell’ingegno e di quella creatività necessari ad autoprodurre

beni.

L’homo

oeconomicus

è

completamente

dipendente e subordinato dalle istituzioni del Sistema perché ha bisogno di un supermercato dove comprare tutto ciò che può soddisfare i propri bisogni, di un’azienda dove prestare il proprio

lavoro in cambio di denaro e infine di un’automobile per raggiungere il supermercato e il posto di lavoro. Non esistono alternative, perché se si fa parte del Sistema è necessario svendere le proprie energie intellettuali e fisiche per poter ottenere denaro, che verrà poi utilizzato per comprare merci. Per aumentare i propri profitti le aziende devono produrre sempre più, ma un aumento del numero e della varietà delle merci, implicano che vi sia una moltiplicazione dei bisogni tra le masse, processo controllato dalle aziende che inondano della propria propaganda ogni spazio fisico e virtuale (internet, tv, email, cassetta della posta, eventi culturali, giornali, radio, strade, passaparola, eccetera). Ciò che rende l’homo oeconomicus dipendente, schiavo del mercato (da cui si rifornisce) e del lavoro alienante, è proprio questo, è la propaganda pubblicitaria e quel meccanismo mentale e cognitivo che all’improvviso gli fa scattare qualcosa, ovvero il desiderio, il bisogno di quella particolare merce. Nella nostra società non c’è più spazio per il saper-fare (non contemplato dal sistema educativo), ma solo per il lavoro e il mercato, due forze che si autoalimentano a vicenda (si lavora per poter comprare quella particolare merce che si trova sul mercato, che per essere prodotta necessita del lavoro). Anche sul lavoro siamo di fronte a una continua diminuzione delle competenze generali a favore di quelle particolari, ovvero della richiesta di una sempre maggior specializzazione. Il lavoratore di oggi deve sapere alla perfezione il suo compito specifico, diventare un esperto della propria mansione, ma per fare questo dovrà inevitabilmente

sacrificare il sapere generale. Ed è così in ogni campo, non solo nel mondo delle aziende, ma anche nella medicina, nella ricerca scientifica, nello sport e via dicendo. Ma questa maggior specializzazione, legata alle competenze intellettuali necessarie a dominare le macchine o alla sempre maggior richiesta di efficienza da parte del Sistema, porta anche in questo contesto a una condizione di dipendenza, dipendenza da quel tipo di lavoro, l’unico che si è in grado di fare con abilità. Se ci spostiamo nel campo delle scienze naturali, e in particolar modo a quello della biologia, notiamo che la specializzazione rappresenta uno svantaggio, perché “ogni specie super-specializzata in un determinato ecosistema solitamente non riesce a riadattarsi quando l’ambiente si modifica, perché non ha in sé la flessibilità e la diversificazione di funzioni che le permettono di affrontare la transizione”. La teoria della decrescita Secondo Latouche, “decrescita non è il termine simmetrico di crescita, ma uno slogan politico con implicazioni teoriche”, “è una parola d’ordine che significa abbandonare radicalmente l’obiettivo della crescita per la crescita, un obiettivo il cui motore non è altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale e le cui conseguenze sono disastrose per l’ambiente”. Secondo Pallante, “la decrescita è invece la riduzione volontaria della produzione di alcuni tipi di merci che si ritengono inutili o dannose, come chi decide di dimagrire per stare meglio e riduce volontariamente l’assunzione di

alcuni cibi che ritiene controproducenti o nocivi per la sua salute”, dove “tra decrescita e recessione c’è un rapporto analogo a quello che intercorre tra chi mangia meno di quanto desidera perché vuol dimagrire e chi è costretto a farlo perché non riesce a procurarsi il cibo”. Tra le due definizioni, pur concettualmente piuttosto simili, ritengo che vi sia comunque una differenza, data dal grado di intensità con cui si dovrebbe attuare la decrescita, con la posizione di Latouche che sembra essere più netta e marginale (si tratta di “abbandonare radicalmente l’obiettivo della crescita per la crescita”), mentre quella di Pallante rimane comunque più morbida, sembra contemplare un qualche compromesso con il Sistema (“riduzione volontaria della produzione di alcuni tipi di merci”). Personalmente ritengo che la decrescita che ha in mente Pallante sia quella che si dovrebbe applicare soprattutto nei paesi che sono già sviluppati, ovvero dove la sfera economica ha raggiunto l’apice del proprio vigore e la popolazione è stata completamente anestetizzata dall’economia. Si tratterebbe comunque di una prima fase di transizione, una terapia di cura, che porterebbe a una graduale disintossicazione dalla bulimia del consumismo, dalla venerazione del lavoro subordinato, dall’egoismo materiale, dalla competizione sfrenata e dal calcolo economico. La prima fase di transizione dovrebbe avvenire d’accordo con il potere politico e le istituzioni internazionali, per cercare di prendere misure volte a ridurre l’impatto ambientale senza che si arrivi a sacrifici e privazioni troppo radicali. La ricetta che ci fornisce Pallante è quella “dello sviluppo di

innovazioni tecnologiche finalizzate a ridurre progressivamente il consumo di risorse, l’inquinamento ambientale e la produzione di rifiuti a parità di produzione; della diffusione di stili di vita fondati sulla ricerca del benessere e non del tanto avere”, nella sostanza si tratta di migliorare l’efficienza energetica, evitare gli sprechi, ridurre il numero di rifiuti, far durare più a lungo i beni che si producono (sia migliorandone la qualità, che sensibilizzando gli acquirenti a utilizzarli finché sono funzionali), preferire l’uso dei mezzi pubblici e della bicicletta all’auto privata e via dicendo. Ma tutte queste misure mantenendo lo status quo (ovvero i valori economici), in uno scenario in cui rimarranno ancora le grandi aziende, che magari riconvertiranno pure parte della loro produzione dei prodotti più “dannosi” (invece di automobili si produrranno micro generatori elettrici, aumentando il risparmio energetico), ma il senso è che se le istituzioni e i valori ricorrenti rimarranno quelle che abbiamo conosciuto fino ad ora, non si potrà sfuggire alle risorse che si esauriscono, all’aumento della competizione globale per le risorse necessarie alla produzione di una tecnologia, ancorché “green” e c’è il rischio che si stia solamente rimandando di qualche anno quello che è il “doomsday”. La fase di transizione (più simile all’idea di stato stazionario di John Stuart Mill) dovrà (seppur gradualmente) essere superata, evolversi fino ad arrivare al fine verso cui dovrà tendere la nostra società, ovvero una nuova società, in cui i valori economici non avranno più senso e dove ve ne saranno di nuovi (che non possiamo conoscere, anche se sapremo che dovranno per forza

essere compatibili con quelli ambientali). Ecco così che in questa “seconda fase” si potranno realizzare a pieno le idee di Latouche, perché si arriverà a una rottura totale “con il sistema capitalistico, il consumismo e il produttivismo”. Secondo Latouche dobbiamo entrare in una società conviviale autonoma e sobria, reagire all’hybris, la dismisura, ma soprattutto rompere con l’immaginario dell’economia e della crescita, con quei valori che ci hanno portato fino a questo punto. La ricetta di Latouche sarebbe quella di “tornare ad un impatto ecologico sostenibile (ad esempio la produzione mondiale degli anni Sessanta/Settanta), rilocalizzare le attività produttive, ripristinare l’agricoltura contadina, trasformare l’aumento di produttività in riduzione del tempo di lavoro e creazione di impieghi fino a quando non si azzera la disoccupazione, incentivare la produzione di beni relazionali (servizi mercantili e soprattutto non mercantili a forte impatto interpersonale, come l’amicizia, l’amore, la psicoanalisi, il servizio di baby-sitter, eccetera), ridurre fortemente lo spreco di energia, penalizzare altrettanto fortemente le spese pubblicitarie (e in particolar modo quelle volte a far conoscere i marchi), decretare una moratoria per l’innovazione tecnologica, tracciando un bilancio serio e orientando la ricerca in funzione di nuove ispirazioni (secondo cui dovremmo direi di sì alla libera espansione del sapere ma con ragionevolezza)”. Ma Latouche è ben consapevole del fatto che la scelta della decrescita rimane comunque un’utopia ed è irrealizzabile in un simile contesto, dove il capitalismo finanziario e le oligarchie del denaro (ovvero il potere

del capitale), che sono forze antidemocratiche, sono i nuovi padroni del mondo. Occorrerebbe rifondare la democrazia, che potrà funzionare solamente se di piccole dimensioni e legata a valori specifici di ogni singola cultura. Perché la democrazia potrà forse funzionare solo se sarà di piccole dimensioni, se a fare la politica saranno i cittadini stessi, tutti i giorni e partecipando attivamente al dibattito, tornando a un nuovo modello di città più simile a quello che vigeva al tempo di Platone e Aristotele. Considerazioni strettamente personali La mia speranza è quella che i rappresentanti dei cittadini o un qualche “despota illuminato”, comprendendo la gravità della situazione e la direzione verso cui siamo diretti, si decidano al più presto a mettere in atto un serio programma per la decrescita, magari iniziando da una più morbida fase di transizione in cui venga applicato

il

programma

politico

proposto

alle

istituzioni

amministrative da Pallante. Ma questa rimane appunto una speranza, un’illusione, perché le cose sembrano andare in un altro verso e con la connivenza di tutti noi. Ci troviamo infatti di fronte allo strapotere del capitale, che di fatto riesce a controllare l’intera politica mondiale (o per lo meno le decisioni più importanti), sia nei paesi in via di sviluppo (dove la corruzione avviene più alla luce del sole anche nei piani più bassi), che in quelli sviluppati (dove esistono tecniche di “corruzione” un po’ più fini). Esistono inoltre motivazioni psicologiche, emozionali, culturali o legate alla sfera etica. La

maggior parte delle persone ha un’idea piuttosto vaga di cos’è la decrescita (un insieme di pregiudizi legati alla valenza negativa del termine decrescita) e non sa quasi niente sugli sconvolgimenti verso cui stiamo andando incontro (cambiamento del clima, lotta per le risorse, eccetera). Poi esiste una parte della popolazione che pur conoscendo i problemi e la direzione verso cui siamo diretti si trova comunque a reagire con pigrizia (cambiare le proprie abitudini costa fatica) o con egoismo (rigettando la propria quota di responsabilità), preferendo l’esistenza meccanica dell’homo oeconomicus. E lo vediamo tutti i giorni sentendo parlare economisti, esperti, capi di governo e banchieri centrali, che ci ripetono il lavaggio del cervello, ovvero che il modo migliore per uscire da questa crisi economica è la crescita del PIL, per cui un aumento della produzione di merci, che deve però essere seguita da maggiori consumi da parte della popolazione (magari con gli incentivi alla rottamazione di elettrodomestici o automobili), da un aumento delle ore di lavoro (per consumare di più bisogna lavorare di più), insomma dal sacrifico del proprio aspetto umano. Non so se mai si arriverà ad attuare un programma della decrescita collettivo, ma personalmente rimango cautamente pessimista, mentre sono convinto che si potranno fare grandi cose a livello individuale o anche di piccoli gruppi, piccole comunità. Il primo passo da fare per mettere in atto la decrescita “individuale” è quello di comprendere che si tratta pur sempre di una scelta etica, della volontà di abbandonare i vecchi valori economici, cioè la mercificazione di ogni aspetto della nostra

vita, la concorrenza sfrenata e l’interesse materiale, l’accumulazione illimitata di denaro o di beni materiali, il mito del consumismo e della svendita del proprio lavoro, per adottarne di nuovi. Abbandonare i vecchi valori è una scelta volontaria, una scelta maturata dalla propria coscienza e dal proprio essere e sono gli anticorpi che ognuno di noi deve sviluppare per non venire risucchiato dal vuoto di senso della vita dell’homo oeconomicus.

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Manuel Castelletti è nato a Mantova nel 1986. Ha terminato la carriera accademica nel 2010 con una laurea a pieni voti in Economia e Management. Nel 2009 è stato selezionato tra i 50 migliori neolaureati d’Italia da Alma Graduate School. Ha svolto differenti esperienze lavorative: Banca Monte dei Paschi (ricerca economico-finanziaria),

Ambasciata

d’Italia

a

Buenos

Aires

(questioni diplomatiche e ricerca economica), Freeandpartners (consulenza finanziaria), Nestlè (marketing) e il quotidiano di consulenza finanziaria Ifanews (marketing e redazione di articoli). I suoi interessi spaziano dall’economia alla finanza, passando per le tematiche ambientali e la teoria della decrescita. Torna all’indice

***** Per Smashword la Fuoco Edizioni ha pubblicato: L’artiglio del Drago Iran, prossima guerra? Il mistero di Calatubo La seconda vita di Bettino Craxi Chi muore si rivede L’Estate in tavola I segreti del debito pubblico Il cuore di Sarah La guerra dell’acqua

Italia, Potenza globale? Il ritorno dell’Impero di Mezzo Sahara sabbia e sangue Il lato oscuro dell’America Celeste nostalgia Gli italiani nella guerra di Corea Oro blu Portaerei Italia ***** Vieni a trovare la nostra Casa editrice anche su Facebook e Twitter o contattaci su Skype.