Undead. Gli immortali
 8856615150, 9788856615159 [PDF]

  • 0 0 0
  • Gefällt Ihnen dieses papier und der download? Sie können Ihre eigene PDF-Datei in wenigen Minuten kostenlos online veröffentlichen! Anmelden
Datei wird geladen, bitte warten...
Zitiervorschau

Londra, 1912. Venticinque anni dopo gli eventi che avevano portato alla sconfitta del Conte Dracula, i vampiri ritornano a seminare una lunga scia di sangue, più decisi che mai a vendicare la morte del principe delle tenebre. L'attesissimo seguito di uno dei romanzi più letti e amati di tutti i tempi.

«Sia i neofiti che i fan sfegatati del Dracula di Bram Stoker saranno conquistati da questo libro.»

USA Today

«Il primo vero sequel di Dracula. Riecco il principe delle tenebre. Ed è di nuovo firmato Stoker.»

Il Venerdì di Repubblica

«Un romanzo che dà nuova linfa al mito di Dracula.»

Publishers Weekly

9788856615159 www.piemmebestseller.it

Londra, 1912. La "compagnia degli eroi", il gruppo di cacciatori di vampiri che aveva sconfitto il celebre Dracula, conta un membro in meno da quando il dottor Seward ha trovato la morte in circostanze misteriose. La sua macabra fine, insieme al ritrovamento dei cadaveri di alcune giovani donne, alimenta negli altri componenti del gruppo l'avvocato Jonathan Harker, sua moglie Mina, Arthur Holmwood e il professore Van Helsing - il sospetto che il famigerato Dracula sia tornato a colpire. Ma il vampiro che semina la morte per le strade di Londra è in realtà la bellissima Contessa ungherese Elizabeth Bàthory. E lei, capelli corvini, pelle bianchissima, la vera responsabile degli efferati delitti. La sua non è solo sete di sangue, ma anche e soprattutto di vendetta: è decisa a eliminare quelli che, venticinque anni prima, avevano sconfitto Dracula. Ai cacciatori si unisce anche il giovane Quincey Harker, figlio di Jonathan e Mina, che viene coinvolto nella lotta contro i vampiri, ignaro che il male che vorrebbe combattere è più vicino a lui di quanto non sospetti. Tra colpi di scena e duelli si snoda una storia trascinante, in un romanzo dove passioni tutte umane si mescolano al mito delle creature destinate all'immortalità.

Dacre Stoker Di origine canadese ma da anni residente negli Stati Uniti, è il pronipote di Bram Stoker, il famoso autore. Campione mondiale di pentathlon e allenatore del team canadese di pentathlon alle Olimpiadi di Seul del 1988, vive nel South Carolina con la moglie e i loro due figli. Undead è il suo primo romanzo.

lan Holt È appassionato di Dracula fin da giovane, tanto che ha visitato la Transilvania e ha anche passato una notte tra le rovine dello storico castello del Conte nella città di Poenari. Membro della "Transylvanian Society of Dracula", vive a Long Island ed è storico, documentarista e sceneggiatore. Undead è il frutto di anni di ricerca sul mito dei vampiri e sulla figura di Dracula.

www.draculatheun-dead.com

Illustrazione di copertina: Craig White/lottreps.com Progetto grafico: Cecilia Flegenheimer

Dacre Stoker - lan Holt

Undead Gli immortali Traduzione di Annalisa Crea

PIEMME BESTSELLER

Titolo originale dell'opera: Dracula: The Un-Dead © 2009 by Dacre Stoker and lan Zisholtz Published in agreement vvith the author, c/o Baror International, Inc. Armonk, New York, U.S.A. Traduzione di Annalisa Crea / Studio Editoriale Littera Le citazioni alle pagine 9, 140, 187, 329 sono tratte da Bram Stoker, Dracula, traduzione di Francesco Saba Sardi, Mondadori, Milano 2004 (pp. 357, 330, 113, 302). Le citazioni alle pagine 27 e 28 sono tratte da Christopher Marlowe, il Dottor Faust, a cura di Nemi D'Agostino, Mondadori, Milano 2002, Scena III, I.1II. (pp. 47 e 49). Le citazioni alle pagine 44, 45, 46, 50 sono tratte da William Shakespeare, Riccardo III, traduzione di Gabriele Baldini, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2000, Atto V scena III; Atto I scena I; Atto V scena IV (pp. 295, 25, 27, 299). La citazione alla pagina 335 è tratta da William Shakespeare, Macbeth, traduzione di Gabriele Baldini, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1991, Atto V scena VIII (p. 187). I versetti della Bibbia citati alle pagine 142 e 224 sono Genesi 1,3 e Marco 10,14. I Edizione Piemme Bestseller, settembre 2010 © 2009 - EDIZIONI PIEMME Spa 20145 Milano - Via Tiziano, 32

[email protected]

- www.edizpiemme.it

Anno 2010-2011-2012 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9

A Bram, grazie per averci ispirato e guidato.

Prologo LETTERA DI MINA HARKER AL FIGLIO QUINCEY HARKER

(da aprirsi in caso di morte improvvisa o violenta di Wilhelmina Harker) 9 marzo 1912

Caro Quincey, figlio mio adorato, per tutta la vita hai nutrito il sospetto che vi fossero dei segreti fra noi. Temo che sia giunto il momento di dirti la verità. Continuare a negare metterebbe a rischio sia la tua vita sia la tua anima immortale. Io e tuo padre abbiamo deciso di tenerti nascosto il nostro passato per proteggerti dall'oscurità che avvolge il mondo. Avevamo sperato di darti un'infanzia libera dalle paure che hanno tormentato la nostra vita di adulti. Mentre crescevi, diventando il giovane uomo che sei oggi, abbiamo scelto di non rivelarti ciò che sapevamo, per paura che ci considerassi pazzi. Perdonaci. Se stai leggendo questa lettera, il male da cui abbiamo cercato disperatamente e, forse, inopportunamente, di proteggerti, è tornato. E ora anche tu, come i tuoi genitori prima di te, sei in grave pericolo. Nell'anno 1888 io e tuo padre scoprimmo che il male si annida fra le ombre del nostro mondo, pronto a piombare sugli scettici e sugli sprovveduti. Quando era un giovane avvocato, tuo padre fu inviato nelle zone selvagge della Transilvania. Il suo compito era quello di aiutare il conte Dracula a concludere l'acquisto di una proprietà a Whitby, un antico monastero noto con il nome di abbazia di Carfax. Durante il suo soggiorno in Transilvania scoprì che il suo ospite e cliente, il conte Dracula, in realtà era una di quelle creature che crediamo esistere solo nelle leggende, uno di quegli esseri che si nutrono del sangue dei vivi per raggiungere l'immortalità. Dracula era ciò che gli abitanti del luogo chiamavano Nosferatu, il Nonmorto. È probabile che tu conosca il suo nome più comune:

vampiro. Temendo che tuo padre rivelasse la sua vera natura, il conte lo imprigionò nel suo castello e si imbarcò sul veliero Demeter, diretto in Inghilterra, nascondendosi per tutto il viaggio in una delle casse stipate nella stiva. Lo fece perché, sebbene i vampiri possiedano la forza di dieci uomini e la capacità di assumere numerose forme, la luce del giorno li riduce in cenere. All'epoca mi trovavo a Whitby, ospite della mia carissima amica Lucy Westenra. Una notte, scoppiò una burrasca in mare e le insidiose scogliere di Whitby erano avvolte da una fitta nebbia. Lucy, che non riusciva a dormire, vide dalla finestra la nave che, in balia dei marosi, veniva sospinta verso le rocce, e tentò di dare l'allarme prima che si schiantasse, ma giunse troppo tardi. Io mi svegliai di soprassalto, mi accorsi che Lucy non era nel letto accanto a me e uscii nella tempesta per cercarla. La trovai sul bordo della scogliera, priva di sensi e con due forellini sul collo. Lucy si ammalò gravemente. Il suo fidanzato, Arthur Holmwood, figlio di Lord Godalming, e un suo intimo amico texano che era in visita, Quincey P. Morris, tuo omonimo, convocarono tutti i medici di Whitby e dintorni, ma nessuno di essi riuscì a capire la causa del male di Lucy. Allora il dottor Jack Seward, che dirigeva il manicomio di Whitby, chiamò per un consulto il suo mentore, il dottor Abraham Van Helsing, che viveva in Olanda. Van Helsing, oltre a essere un valente medico, era anche esperto di occultismo, e capì che Lucy era stata morsa da un vampiro. Fu allora che ebbi notizie di tuo padre. Era riuscito a fuggire dal castello di Dracula e aveva trovato rifugio in un monastero, ma era anch'egli gravemente malato. Così, dovetti abbandonare il capezzale di Lucy per raggiungerlo. A Buda-Pest ci sposammo. Tuo padre mi raccontò gli orrori a cui aveva assistito, e fu così che scoprimmo l'identità del vampiro che aveva aggredito Lucy e minacciava le vite di tutti noi: il conte Dracula. Di ritorno da Buda-Pest, ci informarono che Lucy era morta. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Alcuni giorni dopo il funerale, era risorta dalla tomba. Era divenuta un vampiro e si nutriva del sangue

di bambini innocenti. Il dottor Van Helsing, Quincey Morris, il dottor Seward e Arthur Holmwood dovettero prendere una terribile decisione: conficcare un paletto di legno nel cuore di Lucy e salvare così la sua povera anima. Ma il dramma non era ancora giunto al suo epilogo. Una notte il conte Dracula tornò e mi aggredì nel sonno. Dopo questo episodio, giurammo di dargli la caccia e ucciderlo per liberare il mondo dalla sua malvagità. Fu così che ricacciammo Dracula in Transilvania. Quincey Morris perse la vita durante lo scontro, ma, con un estremo gesto eroico, riuscì a conficcargli un pugnale nel cuore prima di spirare, il corpo del conte prese fuoco e lo guardammo incenerirsi alla luce del tramonto. Eravamo liberi, o almeno così sperammo. Ma un anno dopo la tua nascita cominciai ad avere incubi terribili. Dracula continuava a perseguitarmi nel sonno. Fu allora che tuo padre mi ricordò dell'avvertimento del Principe delle tenebre: «La mia vendetta è solo all'inizio! Io ho secoli per compierla, il tempo è dalla mia». Da quel giorno, io e tuo padre non abbiamo più avuto pace. Abbiamo trascorso la vita a guardarci le spalle. E ora temo che non abbiamo più la forza di proteggerti. Sappi, figlio mio, che se vuoi sopravvivere al male che ti sta dando la caccia, devi credere a queste mie parole e trovare l'eroe che è dentro di te, come abbiamo dovuto fare, un giorno, io e tuo padre. Dracula è un nemico intelligente e astuto. Non puoi nasconderti né fuggire: devi combattere. Buona fortuna, mio adorato figlio, e non aver paura: se Van Helsing ha ragione e i vampiri sono demoni, Dio ti assisterà. Con tutto il mio amore Tua madre Mina

Capitolo 1 UN MARE D'AMORE, LUCY Quell'incisione era l'unica cosa su cui il dottor Jack Seward riuscisse a concentrarsi mentre si sentiva sopraffare dalle tenebre. In esse trovava la pace: nessuna luce impietosa a illuminare i brandelli della sua vita. Per anni aveva combattuto l'oscurità. Ora la accoglieva a braccia aperte. Solo di notte si acquietava nel ricordo di Lucy. Nei sogni, sentiva ancora il suo caldo abbraccio. Per un breve momento, riusciva a tornare a Londra, a un'epoca più felice in cui tutto aveva un senso e dove lui, grazie ai suoi studi, occupava un posto ben preciso nel mondo. Era quella la vita che aveva desiderato condividere con Lucy. Le grida dei pescivendoli e il frastuono mattutino dei carretti degli ambulanti che procedevano rumorosamente sulle strade acciottolate di Parigi lo strapparono al sogno, riportandolo alla triste realtà del suo presente. Si costrinse ad aprire gli occhi, che bruciavano come sale su una ferita aperta. Mentre metteva a fuoco la ragnatela di crepe del soffitto della stanza della fatiscente pensione parigina in cui alloggiava, rifletté su quanto fosse cambiata la sua vita. Lo rattristava constatare come la sua muscolatura avesse perso tono. Il suo bicipite cadente somigliava a una di quelle bustine del tè fatte di mussola appena uscita dalla teiera. Le vene che gli percorrevano le braccia sembravano i fiumi disegnati su una mappa consunta. Era l'ombra di se stesso. Pregò che la morte giungesse presto. Aveva dato disposizioni affinché il suo cadavere venisse utilizzato per le lezioni di anatomia dell'università. Il fatto di poter essere, da morto, fonte di ispirazione per futuri medici e scienziati lo gratificava. D'un tratto, si ricordò dell'orologio, che ancora stringeva nella mano sinistra. Lo guardò: le sei e mezzo! Per un attimo, fu preso dal panico. Accidenti, aveva dormito troppo. Si alzò barcollando. Una siringa di vetro vuota rotolò giù dal tavolo e si infranse sul sudicio

pavimento di legno. Una boccetta di morfina stava per fare la stessa fine, ma Seward riuscì ad afferrare al volo il prezioso liquido, poi slacciò con attenzione la cinghia di cuoio che aveva intorno al braccio sinistro. Il sangue riprese a scorrere normalmente mentre Seward si srotolava la manica e rimetteva il gemello d'argento con le iniziali sul polsino del logoro sparato. Poi si riabbottonò il panciotto e si infilò la giacca. Wallingham & Sons erano i sarti migliori di tutta Londra. Se il completo che indossava fosse stato confezionato da chiunque altro, si sarebbe disintegrato dieci anni prima. "La vanità è dura a morire" pensò con una risata amara. Doveva affrettarsi, se voleva prendere il treno. Dov'era l'indirizzo? Lo aveva nascosto in un posto sicuro, ma non riusciva a ricordare dove. Proprio ora che ne aveva bisogno. Rovesciò il pagliericcio, ispezionò la parte inferiore del tavolo sbilenco e sbirciò sotto le cassette della verdura che fungevano da sedie. Passò al setaccio pile di vecchi ritagli di giornale, i cui titoli la dicevano lunga sul suo attuale interesse: Jack lo Squartatore e i suoi efferati crimini. C'erano persino le fotografie dell'autopsia delle cinque vittime identificate. Donne mutilate immortalate a gambe aperte nell'attesa di ricevere il loro folle assassino. Lo Squartatore era considerato una sorta di macellaio delle donne, ma i veri macellai mostravano maggiore pietà verso gli animali che scannavano. Seward aveva letto innumerevoli volte i referti dell'autopsia. Intorno a lui volavano, come foglie spazzate dal vento, pagine, pezzi di cartone e scatole di fiammiferi aperte su cui aveva annotato le sue idee e le sue teorie. Il sudore che gli imperlava la fronte gli bruciò gli occhi iniettati di sangue. Accidenti, dove l'aveva messo? Il Benefattore aveva corso enormi rischi per fargli avere quell'informazione. Il pensiero di deludere l'unica persona che ancora credeva in lui gli era insopportabile. Tutti gli altri, gli Harker, gli Holmwood, pensavano fosse uscito di senno. Se avessero visto quella stanza, si sarebbero sentiti ancora più giustificati a crederlo. Osservò i muri scrostati che recavano i segni dei suoi deliri causati dalla morfina: folli intuizioni scritte con inchiostro, carbone, vino, persino con il sangue. Nessun pazzo sarebbe stato così lucido. Era certo che, un giorno, quelle scritte avrebbero provato la sua sanità mentale. In mezzo a esse vi era una pagina strappata da un libro e affissa al

muro con un coltello da caccia dal manico d'osso la cui lama era macchiata di sangue rappreso. La pagina mostrava il ritratto di un'elegante bellezza dai capelli corvini. Sotto l'immagine compariva la didascalia: «Contessa Elizabeth Bàthory, 1582 circa». "Ma certo, ecco dove l'ho nascosto!" Ridendo, estrasse il coltello dalla parete, prese la pagina e la voltò, leggendo l'indirizzo di una villa a Marsiglia scritto di suo pugno ma in modo quasi illeggibile. Seward tolse la croce, il paletto di legno e le collane d'aglio appese accanto all'immagine della contessa e raccolse un coltello d'argento dal pavimento. Ripose il tutto nel doppiofondo della sua borsa da medico, che riempì poi di medicinali. Il treno lasciò la Gare de Lyon in perfetto orario. Vedendolo partire mentre pagava il biglietto, Seward attraversò di corsa l'edificio che portava ancora i segni dell'inondazione di due anni prima e riuscì a salire sull'ultima carrozza prima che il treno prendesse velocità. Quando spiccò il salto, provò un moto d'orgoglio per la propria audacia. Era il genere di prodezze che compiva da giovane insieme a Quincey P. Morris e al suo vecchio amico Arthur Holmwood. "La gioventù è sprecata, per i giovani" pensò Seward, sorridendo fra sé e ricordando i giorni spericolati della sua innocenza... e ignoranza. Si sedette nell'elegante carrozza ristorante mentre il treno procedeva sferragliando verso sud. "È lento" pensò, lanciando un'occhiata all'orologio da taschino: erano trascorsi solo cinque minuti. Seward si rammaricò di non poter passare il tempo scrivendo sul suo diario, poiché non poteva più permettersi quel lusso. Non sarebbe giunto a Marsiglia prima di dieci ore. Lì, avrebbe finalmente trovato le prove necessarie ad avvalorare le sue teorie e a dimostrare a coloro che lo disprezzavano che non era pazzo e che aveva avuto ragione sin dall'inizio. Sarebbero state le ore più lunghe della sua vita.

«Billets, s'il vous plait!» Seward guardò stupito il controllore che lo fissava con aria severa e impaziente.

«Scusatemi, ero sovrappensiero» disse, porgendogli il biglietto e sistemandosi la sciarpa in modo da coprire il taschino lacero. «Siete inglese?» chiese il controllore. «Sì.» «E siete un medico?» aggiunse, indicando con un cenno del capo la borsa ai piedi di Seward. «Sì.» Seward vide gli occhi grigi del controllore osservare freddamente il suo completo liso e le sue scarpe malconce. Non era certo il ritratto del medico rispettabile. «Mostratemi la borsa, prego.» Non avendo scelta, Seward gliela porse e il controllore estrasse, a una a una, le boccette di medicinali, leggendo attentamente le etichette per poi lasciarle ricadere, con un tintinnio, nella borsa. Seward sapeva cosa stava cercando e sperava che non sarebbe stato troppo scrupoloso. «Morfina!» esclamò a un certo punto, stringendo la boccetta marrone. Gli altri passeggeri si voltarono. «A volte la prescrivo come sedativo.» «Esibitemi la licenza, prego.» Seward si frugò nelle tasche. Un mese prima era stata firmata la Convenzione internazionale sull'oppio, che proibiva a chiunque di importare, vendere, distribuire ed esportare morfina senza licenza medica. Impiegò così tanto tempo a trovarla che, quando gliela porse, il controllore era già pronto a fermare il treno. Esaminò il foglio con aria severa, poi posò lo sguardo gelido sui suoi documenti di viaggio. Il Regno Unito era stato il primo paese a introdurre i passaporti muniti di fotografia. Tuttavia, da quando la sua era stata scattata, Seward era notevolmente dimagrito e aveva i capelli più grigi e la barba incolta. L'uomo sul treno era l'ombra di quello nella foto. «Come mai vi state recando a Marsiglia, dottore?» «Seguo un paziente laggiù.» «Di cosa soffre?» «Di disturbo di personalità narcisistica.»

«Qu'est-ce que c'est?»

«Una turba psicologica che induce il paziente a esercitare su chi lo circonda un controllo predatorio, autoerotico, antisociale e parassitario. Inoltre...»

«Merci» lo interruppe il controllore restituendogli biglietto e

documenti con un rapido gesto della mano. Poi si voltò e si rivolse agli uomini seduti nello scompartimento successivo. «Billets, s'il vous

piat.»

Jack Seward sospirò. Mentre riponeva i documenti nella giacca, guardò di nuovo l'orologio: era una sorta di tic nervoso. Gli era sembrato che quell'interrogatorio fosse durato ore, mentre in realtà erano trascorsi solo dieci minuti. Chiuse la tendina del finestrino per ripararsi dal sole e si appoggiò al morbido sedile bordeaux.

Un mare d'amore, Lucy. Si portò l'amato orologio al cuore e chiuse gli occhi, abbandonandosi al sogno. Era passato un quarto di secolo. Seward osservava lo stesso orologio alla luce del sole per leggere meglio l'incisione. Un mare

d'amore, Lucy.

Lucy era lì con lui. Viva. «Non ti piace» gli disse, imbronciata. Lui non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli occhi verdi come un prato in primavera. Lucy aveva la strana abitudine di fissare la bocca del proprio interlocutore, come a volerne assaporare le parole prima ancora che le pronunciasse. Aveva una tale voglia di vivere! Il suo sorriso era in grado di scaldare anche il più freddo dei cuori. Mentre se ne stava seduta sulla panchina del giardino in quella giornata primaverile, Seward osservava rapito il modo in cui il sole illuminava le ciocche dei suoi capelli rossi che, sfuggite all'acconciatura, ondeggiavano al vento, incorniciandole il viso. L'odore dei lillà si mischiava a quello dell'aria salmastra del porto di Whitby. Da allora, il profumo di quei fiori gli avrebbe sempre ricordato quella giornata bella e triste. «Devo quindi concludere,» disse Seward con un colpo di tosse, cercando di evitare che la voce gli si strozzasse in gola «dal momento che avete scritto "Amico carissimo" anziché "Fidanzato", che avete

scelto di non accettare la mia proposta di matrimonio?» Lucy distolse lo sguardo, gli occhi velati di lacrime. Il silenzio era assordante. «Ho creduto fosse meglio che lo sapeste da me» disse infine con un sospiro. «Ho acconsentito a sposare Arthur.» Arthur era un amico d'infanzia di Jack Seward. Quest'ultimo lo amava come un fratello, ma lo invidiava per la disinvoltura con cui affrontava la vita. Era ricco e di bell'aspetto e non aveva mai conosciuto dolori né affanni. Né pene d'amore. «Capisco» disse con voce stridula. «Io vi amo» sussurrò Lucy. «Ma...» «Ma non quanto amate Arthur.» Jack non poteva certo competere con la ricchezza di Arthur Holmwood né con l'arguzia dell'altro pretendente di Lucy, il texano Quincey P. Morris. «Perdonatemi» aggiunse poi più dolcemente, timoroso di averla ferita. «Sono stato inopportuno.» Lucy gli accarezzò la mano come fosse la zampa di un cane molto amato. «Ci sarò sempre, per voi.» Seward si mosse nel dormiveglia. Se solo avesse potuto vedere ancora i bellissimi occhi di Lucy... L'ultima volta che aveva incrociato il suo sguardo, quella terribile notte nel mausoleo, non vi aveva letto altro che dolore e tormento. Il ricordo delle urla strazianti che avevano accompagnato la sua morte gli squarciò il cuore. Sceso dal treno, Seward attraversò sotto la pioggia battente il labirinto di edifici bianchi di Marsiglia e maledisse il suo pessimo tempismo. La sua ricerca lo portava sulla riviera francese proprio a marzo, l'unico mese piovoso dell'anno. Si diresse stancamente verso il centro, voltandosi per ammirare Fort Saint-Jean, che si ergeva come una sentinella di pietra nel porto color indaco. Poi si guardò intorno per studiare la città, costruita intorno a un villaggio sorto 2600 anni prima. Gli arrondissements medievali di stampo parigino erano ricchi di opere dei fondatori greci e romani. Seward si rammaricò di trovarsi in quel luogo cosi

suggestivo per uno scopo così macabro. Per quanto non fosse la prima volta che il male vi si manifestava: nell'ultimo secolo quella città marittima era stata funestata da epidemie e assalti di pirati. Dopo aver a lungo girovagato, si fermò. Davanti a lui si ergeva una villa a due piani in stile tipicamente mediterraneo, con grandi persiane di legno e inferriate di ferro battuto alle finestre. La luna faceva capolino fra le nubi, gettando una luce spettrale sui muri bianchi. Il tetto era coperto da tegole di terracotta che gli ricordarono le antiche dimore ispaniche che aveva visto tanti anni prima, quando aveva fatto visita a Quincey P. Morris in Texas. L'atmosfera era decisamente inquietante, persino ostile, per una sontuosa villa della riviera francese. Sembrava completamente disabitata. Seward ebbe un tuffo al cuore al pensiero di essere arrivato troppo tardi. Controllò di nuovo l'indirizzo: era quello giusto. D'un tratto, udì uno scalpitio di zoccoli e il rumore di una carrozza che avanzava sulla strada acciottolata piena di pozzanghere, e corse a nascondersi nel vigneto di fronte alla villa. Non vi erano grappoli d'uva sui rami tortuosi e gocciolanti. Poi vide una carrozza nera con finiture dorate risalire lungo la collina, trainata da due cavalli dal manto nero e lucido, che si arrestarono senza ricevere alcun ordine. Seward alzò gli occhi e si accorse, con sua grande sorpresa, che a cassetta non vi era alcun cocchiere. Com'era possibile? Dalla carrozza scese una figura alta e maestosa. I cavalli nitrirono, tendendo il collo, e ripartirono nello stesso istante, lasciando di nuovo Seward a bocca aperta. La persona, che stringeva in una mano guantata di nero un bastone da passeggio, infilò l'altra in tasca come a cercare una chiave. Poi però si fermò improvvisamente, quasi si fosse resa conto di qualcosa. «Dannazione» mormorò Seward. La misteriosa figura sollevò la testa, come se avesse udito la sua voce nella pioggia battente, e si voltò lentamente verso il vigneto. Seward si sentì sopraffare dalla paura, ma riuscì a trattenere il fiato. La mano guantata si avvicinò alla tesa del cappello di velluto e, togliendolo, liberò una cascata di riccioli neri.

Seward si sentì mancare. Era lei! Il Benefattore aveva ragione. La contessa Elizabeth Bàthory era ferma sulla soglia della villa, identica al ritratto che era stato dipinto più di trecento anni prima.

Capitolo 2 I lampi solcavano il cielo notturno, illuminando le gocce di pioggia come gemme sul velluto nero. Seward sapeva che avrebbe dovuto cercare un riparo, ma non riusciva a staccare gli occhi dalla bellezza esotica e pericolosa che aveva di fronte. La pelle d'alabastro di Elizabeth Bàthory contrastava nettamente con i capelli corvini, e lei si muoveva con la grazia felpata di un predatore. Un lampo illuminò la strada di fronte a lei, e i suoi occhi di un azzurro gelido si guardarono intorno, indagatori. Quando poi si voltò verso il vigneto, Seward si gettò prontamente nel fango per non essere scoperto. Trattenne il fiato e cercò di non muoversi, ignorando i crampi alle gambe. Avrebbe tanto voluto sollevare la testa, ma i lampi avrebbero illuminato il suo volto pallido, tradendo la sua presenza, così rimase a terra, con il naso a pochi centimetri dal fango. Dopo quella che gli parve un'eternità, alzò lo sguardo, timoroso di trovarsi accanto la contessa, come un cobra pronto a colpire. Ma di lei nessuna traccia. Si rialzò faticosamente, cercando di non fare rumore, e si guardò intorno, lottando contro la paura che lo attanagliava. Aveva bisogno di muoversi, ma aveva le gambe intorpidite. Si sentiva come un sacco bagnato, i vestiti troppo larghi gli impedivano i movimenti. Un'improvvisa raffica di vento lo fece trasalire. Si voltò, ma non vide nessuno. Poi, prendendo il coraggio a due mani, s'incamminò risolutamente verso l'edificio in pietra, ma si accorse di avere un piede nudo e, guardandosi indietro, vide che una delle sue scarpe era rimasta invischiata nel fango. Imprecando fra i denti e tenendosi in equilibrio su un piede solo, se la infilò, rischiando di cadere. Poi proseguì, inciampando a ogni passo, finché non urtò una palma. Stava facendo un chiasso infernale, lo sapeva, ma sperava che la pioggia avrebbe attutito i rumori. Finalmente raggiunse l'albero che svettava accanto alla villa. Quando era ragazzo, arrampicarsi sugli alberi era la sua specialità, ma erano trascorsi cinquant'anni, e la sua agilità era svanita. Non aveva scelta, però. Così, fece un profondo respiro e si issò sul ramo più basso, dal quale riuscì poi a salire sulla

tettoia. Le tegole erano scivolose per via della pioggia. Si aggrappò alla ringhiera di ferro battuto e si guardò intorno, terrorizzato all'idea che la contessa lo stesse osservando nell'ombra e stesse ridendo di lui. Scorse una tenda sopra una delle finestre del primo piano e si riparò sotto di essa, cercando di riprendere fiato. Tese l'orecchio, ma non udì altro che la pioggia scrosciante e il suo cuore che batteva all'impazzata. Sbirciò attraverso la finestra e vide che si affacciava su quella che doveva essere stata una grande sala da ballo. Buia e vuota com'era, gli parve piuttosto inquietante. Era come guardare dentro un museo di notte. O, peggio ancora, dentro una tomba. I suoi pensieri furono bruscamente interrotti dalla comparsa di due figure di un bianco splendente che sembravano fluttuare sul pavimento della sala e trasportavano una specie di cassapanca. Timoroso di restare troppo a lungo nella stessa posizione ed essere scoperto, Seward afferrò la ringhiera e la scavalcò, passando sul balcone successivo e avvicinandosi a un'altra finestra. L'unica luce che illuminava la sala proveniva da alcune candele e dalle braci del camino, ma bastò a fargli capire che quelli che gli erano parsi due spettri erano in realtà due affascinanti giovani donne vestite con lunghi e impalpabili abiti candidi. Dov'era la contessa? Seward non riusciva a liberarsi dalla paura che lo aggrediva alle spalle. D'un tratto, le portefinestre si spalancarono e la contessa Bàthory fece il suo ingresso nella sala. Seward indietreggiò, nascondendosi nell'ombra. La donna si slacciò il mantello all'altezza del collo e se lo gettò con noncuranza su una spalla, svelando la sua statuaria eleganza. Indossava un frac, una camicia bianca con il colletto diplomatico e una cravatta nera. Malgrado le linee severe dell'abito, il sarto aveva trovato il modo di esaltare la sua figura voluttuosamente femminile trasmettendo al tempo stesso la forza di un uomo. La contessa si avvicinò alle due Donne in bianco. «Mie adorate» disse, ma dietro il suo languido tono di voce, Seward intuì qualcosa di molto più sinistro. Quando poi Elizabeth baciò entrambe sulle labbra, non poté fare a meno di rabbrividire.

«Che regalo mi avete portato?» La donna bionda spezzò a mani nude il grosso lucchetto della cassapanca: un gesto sorprendente per una persona di aspetto così delicato. Poi sollevò teatralmente il coperchio, come un cameriere che mostri con orgoglio la portata principale di una cena. All'interno della cassapanca c'era una giovane donna, legata, imbavagliata e visibilmente terrorizzata. Elizabeth infilò una mano nello stivale, sguainando una lama ricurva. Seward capì subito che si trattava di un bisturi. La giovane donna sgranò gli occhi alla vista della lama. Un attimo dopo, Seward vide il bisturi fendere l'aria e il bavaglio e le corde che la fanciulla aveva ai polsi ricadere sul fondo della cassapanca. Quando Elizabeth le mise la lama sotto il mento, Seward strinse istintivamente il manico del suo coltello da lancio d'argento, ma la contessa si limitò a guidarla fuori dalla cassapanca, così Seward allentò la presa. Mentre la giovane donna si toccava il viso e i polsi per accertarsi di non essere ferita, la contessa le girò intorno, osservando attentamente il suo abbigliamento. Indossava un casto abito di lana blu che la copriva dal collo alle caviglie. Seward si sentì avvampare di collera al pensiero di cosa vedessero gli occhi di Elizabeth: un invitante pacchetto pronto per essere aperto. La fanciulla rimase immobile mentre la lama fendeva nuovamente l'aria. Un attimo dopo, l'abito e la biancheria caddero a terra, svelando la sua pelle delicata e miracolosamente illesa. La contessa non batté ciglio, anzi: si godette lo spettacolo. La giovinetta, invece, indietreggiò e cercò di coprirsi, suscitando l'ilarità delle Donne in bianco. Seward si affacciò alla finestra successiva per osservare meglio la scena. Vide gli occhi di Elizabeth rimpicciolirsi mentre la luce tremolante delle candele si rifletteva sul piccolo crocifisso d'oro che la giovane donna portava al collo. Il bisturi saettò e la croce cadde tintinnando sul pavimento di marmo seguita dalla catenina spezzata. La fanciulla rimase senza fiato dalla sorpresa, mentre una minuscola goccia di sangue luccicava come una gemma alla base del suo collo. Le Donne in bianco vi si gettarono sopra come belve feroci. «Vergine Madre di Dio, proteggila tu» mormorò Seward, che

rimase a guardare, terrorizzato e impotente, mentre le Donne in bianco issavano la fanciulla tramite un sistema di pulegge e la appendevano, nuda e a testa in giù, al soffitto. Il demone dai capelli scuri porse alla contessa un gatto a nove code di pelle nera munito di uncini. Le labbra rosse di Elizabeth si piegarono in un sorriso senza gioia, mentre i suoi occhi ultraterreni rimanevano fissi su quell'unica goccia di sangue che scivolava lungo il petto della vittima. Un guizzo del polso, e cominciò a frustarla, osservando con bramosia il sangue che iniziava a scorrere copioso. Seward distolse lo sguardo, ma le urla della giovane donna continuarono a straziarlo. Strinse la croce intorno al collo, ma quel gesto non gli diede alcun conforto. Se avesse ascoltato il suo istinto, sarebbe corso in aiuto della povera ragazza, ma quella sarebbe stata una decisione avventata. Un vecchio come lui non avrebbe potuto nulla contro quelle tre creature diaboliche: lo avrebbero fatto a pezzi. «Qualsiasi cosa tu veda o provi, non dimenticare il tuo compito»: era stato quello l'ultimo messaggio del Benefattore. Seward si fece forza e continuò a guardare la scena attraverso la finestra. La contessa si accaniva sulla sua vittima con tale violenza che ogni colpo la faceva oscillare come un pendolo. Il sangue scorreva ormai a fiumi. Le Donne in bianco se ne stavano distese sul pavimento sotto di lei, con la bocca aperta, a ricevere le preziose gocce color cremisi che cadevano come una pioggia infernale. Seward osservava la folle depravazione di quelle tre creature che, al sorgere del sole, si sarebbero ritirate nelle loro bare: solo allora sarebbero state vulnerabili e avrebbe potuto colpirle, liberando il mondo dalla loro malvagità. Le avrebbe pugnalate al cuore con il suo coltello d'argento e le avrebbe decapitate. Poi avrebbe riempito loro la bocca d'aglio e avrebbe bruciato i resti. Eppure, era tormentato dai sensi di colpa per il fatto di starsene lì, senza far nulla, mentre quella ragazza innocente veniva torturata. Strinse la lama fino a farsi sanguinare: se non poteva salvare la giovane donna, poteva almeno condividerne il dolore. A poco a poco, le sue grida si attenuarono, ma continuarono a echeggiargli nella mente, evocando penosi ricordi della seconda morte di Lucy.

Una morte che lui stesso aveva contribuito a causare. Fu assalito dai ricordi: la rabbia che aveva provato di fronte alla profanazione della tomba della sua amata; lo sconcerto causato dalla scoperta del suo corpo caldo e roseo, apparentemente ancora in vita; la vista di Arthur che le conficcava il paletto nel cuore, mentre la creatura che sembrava Lucy lanciava urla strazianti; e le lacrime che aveva silenziosamente versato mentre riempiva d'aglio la bocca del mostro e sigillava per sempre la sua tomba. Eppure, nessuna di quelle emozioni era ignobile come quella che aveva tenuto nascosta per tutti quegli anni, persino a se stesso: la segreta soddisfazione di vedere Arthur perdere Lucy. Non sarebbe mai stata sua, ma neanche di qualcun altro. Era un'emozione talmente indegna che l'oscurità in cui aveva vissuto da allora era più che meritata. Accettare quell'ultima missione costituiva il suo atto di pentimento. Fu strappato ai ricordi dall'improvviso silenzio in cui era caduta la sala da ballo. La giovane donna era svenuta dal dolore. Respirava ancora, seppure a fatica. La contessa gettò a terra la frusta, irritata come un gatto quando il topo non gioca più perché gli ha spezzato il collo. Seward sentì qualcosa di caldo bagnargli il viso e, toccandosi una guancia, si rese conto che stava piangendo. «Preparatemi un bagno!» ordinò Elizabeth. Le Donne in bianco trasportarono la fanciulla in un'altra stanza. La contessa mise deliberatamente il piede sulla croce d'oro, schiacciandola, poi passò, con aria soddisfatta, nella stanza accanto, togliendosi i vestiti a uno a uno mentre camminava. Seward si sporse dal balcone per verificare se vi fosse un'altra finestra affacciata sulla stanza accanto. In quel momento smise di piovere: il picchiettio della pioggia non avrebbe più attutito il rumore dei suoi passi sulle tegole di terracotta. Si diresse, lentamente e cautamente, verso la finestra successiva e sbirciò dentro. Il sistema di pulegge finiva direttamente sopra un bagno in stile romano. Decine di candele illuminavano la contessa che si sfilava con grazia i pantaloni. Era la prima volta che Seward la vedeva nuda. Non somigliava affatto alle prostitute con cui si era intrattenuto nei bordelli di Camden. Le sensuali curve del suo corpo, bianche e lisce

come porcellana, avrebbero distratto chiunque la osservasse dalla crudeltà calcolatrice dei suoi occhi: ma non Seward. Conosceva quello sguardo. Eppure, nulla di ciò che aveva visto nel suo cupo passato avrebbe potuto prepararlo alla macabra scena cui dovette assistere. La giovane donna era appesa al soffitto del bagno mosaicato. La contessa se ne stava in piedi in fondo alla stanza, con le braccia aperte, il collo piegato all'indietro, magnificamente nuda. A un certo punto, voltò i palmi verso l'alto. Era un segnale: in quel preciso istante, la Donna in bianco dai capelli scuri sgozzò la fanciulla con l'unghia della mano e la spinse fino alla fine del percorso di pulegge, dove la attendeva Elizabeth, che accolse, con la bocca aperta e un'espressione estatica, una pioggia di sangue. "Che brucino all'inferno!" pensò Seward, furibondo, aprendo il doppio fondo della borsa da medico ed estraendo una piccola balestra che munì di una freccia dalla punta d'argento. Era disposto a pagare con la vita quella decisione avventata. Preferiva morire piuttosto che lasciare che quelle atrocità proseguissero. Puntò la balestra tra le inferriate e si preparò a colpire la contessa. In quel momento, però, scorse qualcosa e sgranò gli occhi, stupefatto. Sulla scrivania accanto alla finestra c'era un manifesto che brillava in modo innaturale, come illuminato dal chiaro di luna. I grandi caratteri in rilievo recitavano:

Riccardo III

di William Shakespeare 7 mars 1912 Théàtre de l'Odèon Rue de Vaugirard 18 Tel 811.42 8 heures Paris, France Con l'attore rumeno Basarab nel ruolo del protagonista

Seward indietreggiò istintivamente, dimenticando l'inclinazione della tettoia. La tegola sotto il suo piede si spaccò e rotolò giù, infrangendosi sul vialetto acciottolato. Lui rimase immobile. La Donna in bianco dai capelli biondi, che si trovava nella sala da ballo, udì il rumore e si voltò di scatto. Corse alla porta, ma non vide nessuno. Allora uscì dalla villa e si guardò intorno con i suoi occhi gelidi, ma tutto taceva. Stava per rientrare quando scorse, a terra, una tegola di terracotta sporca di sangue fresco. Sangue umano. Il suo odore pungente era inconfondibile. Lo leccò avidamente, ma lo sputò subito: era contaminato da sostanze chimiche. Agile come una lucertola, si arrampicò su per il muro per proseguire la sua ispezione. Sotto una delle finestre, trovò un coltello d'argento sporco di sangue. Solo un cacciatore di vampiri alle prime armi sarebbe stato così ingenuo da portare con sé una lama d'argento. Ma la Donna in bianco sapeva che la sua padrona non era più al sicuro. Dovevano lasciare Marsiglia quella sera stessa. Si affrettò a rientrare in casa. Seward sapeva che la contessa e le due donne non sarebbero rimaste a Marsiglia, quella sera. Sarebbero fuggite a Parigi, ne era certo. Volando, potevano spostarsi rapidamente. Ma, grazie al manifesto che aveva visto, Seward si rese conto di avere, ancora una volta, un vantaggio: conosceva i loro piani. La contessa Bàthory e le Donne in bianco sarebbero state al Théàtre de l'Odèon la sera seguente. "È lì che avrà luogo lo scontro decisivo" pensò, con un sorriso amaro.

Capitolo 3 «Ti ordino di sparire! Cambia aspetto» esclamò, con voce risoluta ma tremante, un giovane con una bombetta e le braccia spalancate a mo' di supplica. «Sono davvero potenti le mie parole celesti! Ormai, Faust, sei un mago laureato, se dai ordini al grande Mefistofele:

Quin redis Mephostophilis fratris imagine.»

Un sibilo. Una nube di fumo. Poi le fiamme. La carta imbevuta di nitrocellulosa appesa ai lampioni a gas prese fuoco. La piccola folla riunitasi nei Jardins de Luxembourg trasalì all'unisono. Quincey Harker voltò le spalle al pubblico e provò orgoglio per la propria bravura. Sorridendo, si tolse la bombetta, si mise una barba finta e un cappello a punta, si gettò un mantello sulle spalle e balzò agilmente sul bordo della fontana dei Medici. Era lo scenario ideale per una pantomima del Faust, poiché i Medici erano mecenati e correva voce che fossero in combutta col demonio. Non solo: le ombre proiettate dalla fontana creavano effetti sinistri che ben si adattavano alla pièce. Quincey era perfettamente a suo agio, su quel palco improvvisato, e si rallegrava non solo della sua esibizione, ma anche della sua ingegnosità. Eccelleva nella cosiddetta chapeaugraphie, l'arte di cambiare cappello per trasformarsi in un altro personaggio. Era una tecnica molto nota ma poco usata per via della grande abilità che richiedeva, e solo gli attori più dotati, o più presuntuosi, vi si cimentavano. Quincey prese un'aria minacciosa e aprì il mantello dicendo, con voce roca e diabolica: «Allora, Faust, cosa vuoi che faccia?». Poi fece un pausa, certo di ricevere gli applausi dei presenti. Ma non fu così. Strano. Alzò gli occhi e si accorse che il pubblico era distratto. Qualcosa aveva attratto la loro attenzione verso l'estremità settentrionale del parco. Quincey cercò di non perdere la concentrazione. Sapeva di essere bravo. Aveva recitato quella parte all'Hippodrome di Londra e aveva persino ottenuto di esibirsi prima dell'attrazione principale, Charles Chaplin, un maestro della commedia fisica. Correva voce che Chaplin avesse intenzione di

lasciare Londra per cercare fortuna in America, e Quincey aveva sperato di prendere il suo posto. Ma quel despota di suo padre, Jonathan Harker, aveva distrutto il suo sogno corrompendo l'impresario del teatro e spedendolo a Parigi in una prigione senza sbarre: la facoltà di legge della Sorbona. Quincey fu colto dal panico quando la piccola folla cominciò a disperdersi, dirigendosi verso il trambusto all'estremità settentrionale del parco. Toccandosi la barba finta per accertarsi che fosse al suo posto, Quincey si lanciò in uno dei soliloqui di Mefistofele scendendo di corsa i gradini della fontana, nel disperato tentativo di riconquistare l'attenzione degli spettatori. «Io servo il grande Lucifero, non posso obbedirti senza il suo permesso. E solo ciò che egli ordina ci è lecito.» Per un attimo, sembrò che la forza della sua recitazione catturasse nuovamente l'attenzione del pubblico, ma ogni speranza svanì quando Mefistofele scivolò sulla pietra umida della fontana finendo gambe all'aria e suscitando l'ilarità dei pochi spettatori rimasti. Quincey sbatté il pugno in terra e si strappò la barba. Fu allora che lo vide, con quel sorriso beffardo che conosceva così bene. Quell'essere ripugnante di Braithwaite Lowery, suo compagno di stanza e di studi. Cosa ci faceva lì? Era troppo ottuso per apprezzare l'arte. Braithwaite sbirciò da sopra gli occhiali le poche monetine che gli spettatori avevano lanciato a terra. «Sei proprio un idiota, Harker. Lo sai quanto guadagna un avvocato in un giorno?» «Non mi importa niente dei soldi.» «Perché sei nato ricco. Io discendo da una famiglia di pescatori dello Yorkshire. Dovrò costruirmela la mia fortuna.» Se solo Braithwaite avesse saputo a cosa aveva dovuto rinunciare per assicurarsi il sostegno finanziario della sua famiglia! «Cosa vuoi?» gli chiese bruscamente Quincey, raccogliendo le monetine. «Ti è arrivata una lettera. È di tuo padre» replicò Braithwaite con gioia velenosa. Si divertiva a vedere Quincey sulle spine quando riceveva le lettere di rimprovero del padre. «Sai cosa mi piace di te,

Braithwaite?» «Non ne ho la più pallida idea.» «Nemmeno io» disse Quincey strappandogli di mano la busta e salutandolo. LETTERA DA PARTE DI JONATHAN HARKER, EXETER, A QUINCEY HARKER, UNIVERSITÀ DELLA SORBONA, PARIGI 29 febbraio 1912

Figlio mio, ho ricevuto una lettera estremamente preoccupante sui tuoi progressi - o meglio, sulla tua mancanza di progressi - negli studi, e ho saputo che continui a dedicare troppo tempo allo svago. Questo è inaccettabile. Sebbene tu manchi da casa da tre anni, fatto che ha profondamente ferito tua madre, sono costretto a ricordarti che è il mio denaro che ti consente di pagare gli studi e l'alloggio. Se le cose non cambieranno questo semestre, neanche le mie conoscenze riusciranno a evitare la tua espulsione. Il che comporterebbe la sospensione immediata della tua diaria e... Quincey smise di leggere. Sempre più persone gli sfilavano accanto dirette verso nord. Quella distrazione gli giunse quanto mai gradita: gli sembrava di udire la voce severa del padre in ogni parola che leggeva. Sfogliò il resto della lettera: caspita, tredici pagine! La famiglia Harker era famosa per le lettere corpose, eppure, a tavola, la conversazione languiva sempre. Un altro gruppo di persone gli passò accanto. «Che diavolo sta succedendo?» chiese. Un uomo gli rispose senza fermarsi: «Basarab sta arrivando! Qui! Ora!». Basarab? Quincey ricordò di aver letto alcune settimane prima su «Le Temps» che Basarab, il grande attore shakespeariano noto in tutto il mondo, si sarebbe esibito a Parigi. E, sebbene desiderasse vederlo sul palco, se lo era dimenticato, sapendo che non avrebbe

mai potuto giustificare il costo di un biglietto sulla nota spese che compilava e sottoponeva ogni mese al padre. Gli aveva mentito così tante volte che ormai conosceva tutti i suoi trucchi. Che fortuna! No, non si trattava di fortuna, era il destino che aveva fatto in modo che Quincey si trovasse lì all'arrivo a Parigi di Basarab. Si sentì subito sollevato quando capì che non era stata la sua esibizione a mettere in fuga il pubblico. Era semplicemente stato eclissato da una vera celebrità. Dimenticando i buoni propositi e i costumi sulla fontana, si ritrovò a correre insieme agli altri, sperando di vedere con i propri occhi il grande Basarab. Quincey uscì dal parco su Rue de Vaugirard e si ritrovò davanti una folla di persone con lo sguardo fisso sul Théàtre de l'Odèon, un edificio bianco con colonne neoclassiche. Il nome del teatro, scritto in caratteri di ottone e illuminato dal chiaro di luna, sembrava risplendere di luce propria. Quincey cercò di avvicinarsi, ma si ritrovò intrappolato nella rotonda davanti al teatro, e spinto contro il monumento al drammaturgo francese Emile Augier. Senza perdersi d'animo, salì sul piedistallo per vedere meglio. Quando una vettura Benz Tourer percorse la rotonda in direzione della scalinata del teatro, Quincey salì ancora più in alto. Il conducente suonò il clacson, facendosi strada tra la folla, poi si fermò davanti all'edificio, scese e aprì lo sportello al passeggero. Nei due anni in cui aveva lottato per affermarsi come attore, Quincey era giunto alla conclusione che, dall'epoca di Shakespeare in poi, quel mestiere venisse scelto da debosciati, ubriaconi, prostitute e vagabondi. Eppure, davanti a lui c'era un attore che veniva trattato come un re, e tutta la Francia sembrava essere scesa in piazza per il suo arrivo. L'attore rumeno scese dall'auto e rimase in piedi sul predellino. Quincey riconobbe i capelli neri e i lineamenti cesellati di Basarab dalla fotografia che aveva visto su «Le Temps». Sfoggiava un mantello simile a uno indossato dal principe Edoardo, ma il suo era di pelle cremisi, molto decadente per un attore. I cronisti, armati di macchine fotografiche montate su cavalletti di legno, attendevano

sui gradini per catturare le prime immagini del suo arrivo. Quando si voltò verso di loro e sorrise, vi fu una raffica di lampi al magnesio. Dopo alcuni istanti, Basarab scese dalla vettura e attraversò la folla a braccia aperte, lasciando che il pubblico adorante lo toccasse. Quincey scoppiò in una risata fragorosa quando una donna gli sfiorò il gomito e svenne. Se solo avesse potuto suscitare reazioni del genere nei suoi spettatori... André Antoine, il corpulento impresario dell'Odèon, attendeva il divo in cima alla scalinata. Accanto a lui c'era un uomo che girava la manovella di una cinepresa di legno come un suonatore d'organetto mentre Basarab saliva le scale per stringere la mano all'impresario. La folla in visibilio gridava il nome del divo e Quincey si ritrovò a scandire, insieme agli altri: «Basarab! Basarab! Basarab!». "Non c'è da stupirsi se la gente lo adora" pensò. Lui stesso ne era incantato. Basarab non aveva ancora pronunciato una parola, ma teneva tutti in pugno. Doveva essere bellissimo assistere a un suo spettacolo e vederlo infondere nuova vita alle parole di Shakespeare. Basarab fece un cenno ad Antoine e scomparve con lui dentro l'Odèon. La folla indugiò un istante, come in attesa di un bis. Poi un omino riemerse dal teatro per informare i presenti che il botteghino sarebbe rimasto aperto tutta la notte per vendere i biglietti per le rappresentazioni del Riccardo III. La folla cominciò a spingere verso l'entrata. Quincey si sentì morire. Non sarebbe più riuscito a dimenticare Basarab. Desiderava ardentemente vederlo recitare, ma era al verde. La diaria del padre copriva solo le spese essenziali, per evitare che Quincey sperperasse il denaro in quelle che Jonathan Harker considerava frivolezze. "Maledizione" pensò. "Cos'è la vita senza il teatro?" Contò le monetine che aveva guadagnato grazie alla sua esibizione. Era abbastanza giovane da correre rischi, anche se ciò significava attingere alla diaria e spendere fino all'ultimo franco o sopportare le ire del padre. La sera successiva, avrebbe assistito alla prima del Riccardo III al Thèàtre de l'Odèon.

Capitolo 4 Erano trascorsi trent'anni da quando Seward aveva attraversato quelle acque, e l'ultima volta era giorno. Aveva viaggiato su un carro da Marsiglia ad Antibes per poi "procurarsi" una barca a remi al porto di Villefranche-sur-Mer. Sarebbe stato considerato un furto solo se lo avessero scoperto. Doveva arrivare a Parigi. Se pure avesse avuto denaro a sufficienza per acquistare il biglietto del treno, quest'ultimo non sarebbe partito da Marsiglia prima delle dieci di mattina, giungendo a Parigi alle undici di sera. Lui, però, doveva essere al Théàtre de l'Odèon entro le otto della sera successiva. Assicurò la barca con un nodo scorsoio e avanzò barcollando lungo il molo di legno finché le gambe non si riabituarono alla terraferma. Alla vista del vecchio Lazaret si illuminò. Quando era ancora un giovane medico idealista, aveva partecipato a un progetto di ricerca finanziato dal governo francese, collaborando con scienziati geniali come Charles Darwin. Lo studio mirava a stabilire un collegamento fra il comportamento di animali come gli scimpanzé, i ratti e i topi e quello degli esseri umani, nella speranza di avvalorare ulteriormente la teoria darwiniana dell'evoluzione. Durante le ricerche, Seward era rimasto affascinato da quell'uno o due per cento di soggetti esaminati le cui azioni potevano essere considerate anomale. Perché esistevano quelle anomalie? E il comportamento anomalo poteva essere corretto? Seward sorrise ripensando alle lunghe passeggiate in riva al mare insieme agli altri scienziati del Lazaret, durante le quali discutevano e contestavano la visione anacronistica della Chiesa, ancora legata al Creazionismo. I loro studi suscitarono tante e tali controversie che il governo decise di porre fine al loro lavoro e di trasformare l'edificio in un laboratorio oceanografico. Gli scienziati erano stati messi a tacere con una somma di denaro che Seward aveva usato per acquistare il manicomio di Whitby. Continuò a risalire la collina che dominava il porto. Mentre osservava la cittadina di mare che gli era tanto familiare e che non era affatto cambiata da quando se ne era andato, ripensò agli studi

rivoluzionari che aveva condotto sul caso di R. N. Renfield. Seward aveva diagnosticato a Renfield una rara condizione mentale nota come zoofagia. Il fatto che Renfield avesse manifestato i sintomi della malattia in età adulta lo rendeva un soggetto di studio ideale. «Renfield» mormorò Seward. Aveva nutrito così tante speranze quando quell'uomo, promettente avvocato trasformatosi in mangiatore di insetti, era arrivato al manicomio di Whitby. Se Seward fosse riuscito a curarlo, avrebbe dimostrato che la malattia mentale non era ereditaria, il che avrebbe avvalorato le teorie formulate ai tempi del Lazaret e contribuito a rafforzare la tesi di Darwin secondo la quale tutti i mammiferi si sono evoluti da un comune antenato. Invece il povero Renfield aveva finito con infoltire la lunga serie di fallimenti di Seward. Presto avrebbe rivisto il suo vecchio amico Henri Salmet, che aveva conosciuto all'inizio del secolo, quando aveva appena perso tutto ciò che possedeva: il manicomio, la professione, la famiglia. L'estate di quattro anni prima si erano incontrati di nuovo vicino a Le Mans, in occasione di un incredibile evento storico: il volo dei fratelli Wright. La dimostrazione era durata solo pochi minuti, ma aveva segnato l'inizio, in Europa, di una nuova era. Seward scosse la testa, incredulo di fronte al mondo che cambiava sotto i suoi occhi. I francesi potevano avere una rete ferroviaria antiquata, ma stavano investendo in modo massiccio nelle macchine volanti. I sintomi dell'astinenza cominciarono a farsi sentire, insieme al dolore per i lividi e i tagli che si era procurato cadendo dalla tettoia della villa. Stava invecchiando. Ma resistette eroicamente alla tentazione di iniettarsi una dose di morfina, certo che avrebbe avuto bisogno di tutte le sue facoltà mentali per affrontare la battaglia che lo attendeva. Osservò dalla cima della collina la vista familiare della fattoria di Henri, ai piedi delle Alpi. Il vigneto, un tempo rigoglioso, era stato spianato per creare una pista d'atterraggio. Il fienile ospitava aerei e un laboratorio invece di bestiame. Il segnavento era stato sostituito da una torre radiotelegrafica. Alla finestra della cucina brillava una luce. «Grazie a Dio, Henri è in casa.»

«Jack Seward!» esclamò Henri Salmet aprendo la porta della modesta fattoria. «Mon Dieu, che ti è successo? Cos'hai fatto alla mano?» «Bonsoir, Henri» disse Seward. Poi abbassò gli occhi e vide che il sangue aveva macchiato il fazzoletto. «So che è tardi, ma...» Non poté fare a meno di notare che Henri non era cambiato affatto. Solo i baffi a manubrio erano un po' più lunghi. Questo fu l'ultimo pensiero che gli attraversò la mente prima di soccombere alla stanchezza e svenire. Quando si svegliò, era giorno. Si rese conto di essere madido di sudore e di avere una fasciatura nuova intorno alla mano. Doveva arrivare in tempo al teatro. Saltò giù dal letto e uscì barcollando dalla stanza. «Henri?» chiamò. «Quanto tempo ho dor...» Entrando in cucina, si ritrovò in compagnia di Henri, di sua moglie Adeline e dei loro tre bambini, che erano notevolmente cresciuti dall'ultima volta che li aveva visti. Appena lo videro, i bimbi ridacchiarono: era impresentabile. Si sentì avvampare.

«Regardez, Adeline» sghignazzò Henri. «Si è finalmente levato

dalla tomba.»

«Devo andare a Parigi» balbettò Seward in preda ai sintomi dell'astinenza, che lo facevano tremare come una foglia. «Vuoi andare a Parigi in aereo?» «So che arrivare a Parigi è impossibile, accompagnarmi dove puoi... magari a Lione...»

ma

se

potessi

«Non hai idea di cosa mi stai chiedendo. Ma ho sempre detto che avrei fatto qualsiasi cosa per aiutare un amico in difficoltà. Prima di tutto, resta qui e riposati per qualche giorno. Ci hai spaventato, ieri notte.» «Vi sono grato della vostra ospitalità, ma devo essere a Parigi stasera.» «Stasera?» esclamò Henri, scambiandosi un'occhiata incredula con Adeline. «Ma se fatichi a stare in piedi! Cosa può essere così importante?»

«Si tratta di una paziente. È una questione di vita o di morte.» Mentiva con estrema naturalezza, ormai. «Se non le somministro un elisir che ho qui con me entro... le sette di stasera... temo il peggio.» Henri guardò di nuovo la moglie, che annuì. «D'accordo» disse allora lui. «Se si tratta di salvare una vita, il nostro dovere di cristiani ci impone di agire. Siediti e mangia qualcosa, e cerca di recuperare le forze. Partiamo fra un'ora.» Seward si sedette, sollevato, a tavola, cedendo ai saggi consigli di Henri. «Non so come ringraziarti, amico mio.» Adeline lo zittì mettendogli davanti un piatto pieno di ogni ben di Dio. Henri si rivolse ai bambini. «Venite ad aiutare papà a prepararsi per il volo.» Un'ora dopo, Seward portò la borsa da medico nel fienile. Non mangiava così tanto da anni. Sperava che il cibo gli avrebbe dato le forze di cui aveva bisogno per tenere a bada l'astinenza. Un meccanico portò delle taniche di benzina sulla pista. Henri, chino sul telegrafo, alzò gli occhi quando Seward apparve accanto a lui. «Sto telegrafando a un amico per dirgli di aspettarci al suo campo d'aviazione a Vichy» spiegò. «È a metà strada, ed è lì che dovremo fare rifornimento.» «Posso inviare un messaggio anch'io?» chiese Seward. «Ma certo.» Seward estrasse un biglietto dal taccuino. «Deve raggiungere una persona a questa stazione telegrafica privata del Théàtre de l'Odèon. Il codice postale è sul biglietto.» Henri inserì il codice. «E il messaggio?» TELEGRAMMA - dal Dott. Jack Seward a Basarab Théàtre de l'Odèon, Parigi. LA CONTESSA BÀTHORY È A PARIGI. ATTENZIONE.

Poco dopo, si diressero verso il monoplano Blériot di Henri. Da lontano, pensò Seward, sembrava uno dei modelli di Leonardo da Vinci fatto di spago e cartapesta. Quando si avvicinò, vide che il rivestimento era di compensato. L'abitacolo era sorretto da due ruote di bicicletta, e il motore aveva solo due pale. «Eccolo qui» disse Henri, raggiante. «Cinquanta cavalli di potenza, e in grado di raggiungere i duemila piedi di altitudine.» Seward non ebbe neanche il tempo di rispondere. Henri gli prese la borsa dalle mani e la sistemò nel vano bagagli in fondo all'abitacolo, poi lo aiutò a salire sul sedile del passeggero. Seward era contentissimo mentre guardava Henri baciare la moglie e le due figlie più piccole e dirigersi a passo di marcia verso l'aereo. Gli sembrava impossibile che, nel giro di pochi minuti, avrebbe provato l'emozione del volo. «Mettiti gli occhiali!» gli ordinò Henri, sistemandosi i propri. Jack Seward lo imitò. «E tieni la bocca chiusa mentre decolliamo. A meno che non ti piacciano le mosche.» Il figlio di Henri girò le pale del motore, che si accese con un rombo. Il meccanico tenne sollevata la coda mentre Henri manovrava l'aereo, che avanzava traballando. "Forse non è stata una buona idea" pensò Seward, mentre si avvicinavano pericolosamente a un precipizio. Strinse i denti, terrorizzato. Poi, pochi istanti prima di raggiungere il baratro, l'aereo si librò in aria, e Seward ebbe l'impressione che tutti i suoi organi interni precipitassero verso il basso. Osservando il litorale, riconobbe la sagoma familiare dello Chàteau d'If, la celebre prigione al largo delle coste di Marsiglia. Aveva impiegato diverse ore per giungere in barca a Villefranche-surMer da Marsiglia. Ed ecco che, nel giro di pochi minuti, si ritrovava a sorvolarla. Sapeva che la contessa Bàthory, come tutti i non-morti, era in grado di volare. Anche lui, ora. Quattro ore dopo, atterrarono nel campo di un contadino di Vichy, dove fecero rifornimento. Il barile di benzina era talmente pesante che dovettero farlo rotolare dal fienile fino all'aeroplano. Poi fu lo stesso Seward a manovrare la pompa per riempire il serbatoio, mentre il contadino controllava il livello del carburante. Seward voltò il capo per ripararsi dai fumi della benzina mista a

paraffina che gli bruciavano gli occhi e vide Henri che controllava i bulloni e il delicato rivestimento di compensato dell'aereo per accertarsi che non fosse danneggiato. L'attenzione di Seward si concentrò sull'ombra dell'apparecchio che il sole alto nel cielo proiettava sul terreno, e la sua mente vagò lontano. Fu allora che l'oscurità lo sopraffece di nuovo. «Continua a pompare!» gli gridò Henri. «Dobbiamo ripartire prima che il vento cambi direzione. Non avremo abbastanza carburante per arrivare a Parigi, se dovremo volare controvento. Non so tu, mon frère, ma io non ho nessuna intenzione di schiantarmi sul fienile di qualche illustre sconosciuto.» La benzina fuoriuscì dal serbatoio. Henri fece cenno a Seward di smettere di pompare ed esclamò: «C'est tout!». Seward si riscosse dai suoi cupi pensieri.

Capitolo 5 Quando l'aereo si fermò in mezzo al pascolo di un allevamento di cavalli, Seward si liberò delle cinghie e scese subito a terra. «Non volerò mai più finché vivrò» disse con voce tremante mentre il motore si spegneva. Poi alzò gli occhi su Henri, che ballava sulla fusoliera, felice come un bambino il giorno di Natale. «Ce l'abbiamo fatta!» esclamò. «Secondo i miei calcoli, abbiamo percorso duecentocinquanta miglia dall'ultimo rifornimento. Dove arriveremmo se ne percorressimo altrettante?» «A Londra, credo» disse mestamente Seward, pensando alla sua casa mentre recuperava la borsa da medico. «Ora che so per certo che è in grado di percorrere questa distanza, volerò fino a Londra e avvertirò la stampa, affinché documenti che sono stato il primo uomo ad attraversare la Manica e a volare da Londra a Parigi. Diventerò très fameux! Devo andare subito in città a comprare del carburante. Ma come farò a trasportarlo fin qui?» «Grazie di tutto, Henri» disse Seward con un sorriso forzato.

«Bonne chance, mon ami.» Henri baciò Seward sulle guance e gli strinse la mano. Seward lo osservò affrettarsi verso la strada. Sapeva che forse non avrebbe più rivisto il volto allegro di Henri. Ma non riuscì a trovare le parole per salutarlo, così si limitò a gridargli: «Arrivederci, vecchio amico mio!». Poi si voltò e guardò l'orologio da taschino. Aveva a malapena il tempo di tornare nella sua stanza e radunare l'arsenale prima di precipitarsi al teatro. Elizabeth Bàthory e le sue arpie sarebbero state armate fino ai denti. Malgrado ciò, si fermò alcuni istanti ad ammi-rare il sole che tramontava in un tripudio di colori. Per troppo tempo aveva vissuto da solo nell'oscurità, ignorando la bellezza della natura. Quella sera si rallegrò al pensiero che, in un modo o nell'altro, avrebbe finalmente raggiunto Dio e la Sua luce. Quincey arrivò presto all'Odèon per acquistare il biglietto e si

trattenne nel foyer dell'antico teatro. Le pareti erano decorate di busti, medaglioni e ritratti di attori. Li osservò attentamente uno a uno, riconoscendo, fra gli altri, un ritratto di Sarah Bernhardt in una cornice di foglie d'oro. Sotto la fotografia erano riportati il suo nome e la scritta: La reine de l'Odèon. Quincey si fermò di fronte alla fotografia di Sir Henry Irving, immortalato durante la tournée dell'Amleto. Irving era considerato da molti il più grande interprete shakespeariano di tutti i tempi. Quasi tutti gli attori miravano a suscitare le emozioni del pubblico attraverso la forza delle proprie. Cercavano di cogliere ogni occasione per toccare il cuore degli spettatori. Irving, invece, prediligeva un approccio più cerebrale alle pièce che interpretava, tenendo conto delle intenzioni dell'autore e della storia personale del personaggio. Il suo metodo, seppure ridicolizzato dagli altri attori, affascinava il pubblico. La stampa diceva altrettanto di Basarab; un recensore particolarmente entusiasta aveva persino affermato che Basarab aveva ereditato il titolo di «Più grande attore del mondo» da Sir Henry Irving in persona. Quincey si rese conto di stare ancora stringendo la busta che aveva accuratamente preparato. Aveva acquistato della carta da lettere e chiesto a un artista di strada di decorare la busta con delle maschere teatrali rosso sangue. Poi aveva scritto in bella grafia, un'arte che aveva appreso dalla madre: «Per Basarab da Quincey Harker». Dopo aver assistito al bagno di folla della sera precedente, aveva capito che la sua lettera avrebbe dovuto distinguersi dalle innumerevoli altre che i suoi ammiratori gli avrebbero indirizzato. Sperava che l'avrebbe considerata importante, ma non inopportuna. Vide un uomo anziano in uniforme con un grosso mazzo di chiavi in una mano e una torcia elettrica nell'altra e capì che doveva trattarsi della maschera. «Scusatemi» gli disse porgendogli la busta. «Posso chiedervi di consegnare questa lettera dietro le quinte?» La maschera lesse il nome del destinatario, scosse la testa e rispose seccamente: «No». Quincey ebbe un'idea. «Bene, allora devo parlare subito con monsieur Antoine.»

«André Antoine? In questo momento non può essere disturbato.» «Credo che l'impresario debba sapere perché Basarab non si esibirà stasera.» La maschera studiò attentamente Quincey. «Di cosa state parlando?» «Monsieur Basarab attende con impazienza questa lettera. Potrebbe rimanere sconvolto e non essere in grado di recitare se non la...» «D'accordo» tagliò corto la maschera, allungando la mano. «Gliela consegnerò.»

«Merci» disse Quincey porgendogliela, ma la maschera non ritrasse

la mano finché non ricevette una mancia. Quella menzogna gli era salita alle labbra con incredibile naturalezza.

Si guardò intorno e vide che gli intellettuali e i ricchi in abito da sera avevano cominciato a riversarsi nell'elegante teatro. Sapeva che la maggior parte di loro era lì per farsi vedere più che per assistere alla rappresentazione. Molti di loro erano d'accordo con suo padre sul fatto che gli attori fossero tutti miscredenti e vagabondi. Che ipocriti! Suo padre, poi, era il peggiore di tutti: sembrava aver dimenticato di essere figlio di un ciabattino, e lui stesso un semplice impiegato di uno studio legale che aveva avuto la fortuna di subentrare al suo proprietario, il signor Hawkins. Il socio anziano, il signor Renfield, si era suicidato in manicomio. D'un tratto ebbe un brivido, come se la temperatura della sala si fosse improvvisamente abbassata. Si guardò intorno, chiedendosi da dove venisse quella folata gelida, quando rimase folgorato da una magnifica visione. Nel foyer era entrata una donna la cui bellezza aveva oscurato tutte le altre. I presenti le lanciarono occhiate cariche di disapprovazione. Era vestita da uomo, con un frac molto attillato. Elizabeth Bàthory non riusciva a credere che quello fosse il Théàtre de l'Odèon. Appoggiò la mano su una colonna dorata e si guardò intorno. L'ultima volta che vi era stata era il 18 marzo 1799, la notte del grande incendio. Il teatro ricostruito sembrava più piccolo. Alzò gli occhi sugli affreschi del soffitto, illuminato da nuove luci elettriche. Il dipinto, in stile michelangiolesco, ritraeva delle

danzatrici che sembravano fluttuare nell'aria. Alcune indossavano abiti di un bianco virginale, casto e angelico, altre erano seminude, eppure sembravano bambine più che donne capaci di provare desiderio. Era evidente che l'artista non riteneva le donne esseri sessuati con gli stessi bisogni degli uomini. Solo un uomo timorato di Dio poteva dipingere una donna con tale disprezzo. Gli occhi di Elizabeth Bàthory si soffermarono sull'immagine di una fanciulla dai capelli corvini che correva felice e spensierata. Ma il passato oscuro della donna le aveva insegnato che creature del genere non esistevano. Appena quindicenne aveva dovuto subire, impietrita dall'orrore, l'assalto del suo novello sposo, il conte Ferenc Nàdasdy, un ripugnante grassone sempre ubriaco di vent'anni più vecchio di lei, che le aveva strappato di dosso l'elegante abito nuziale e, palpandole grossolanamente i seni, aveva biascicato, con l'alito fetido di vino: «Sei mia moglie, ormai... e in quanto tale hai l'obbligo di fronte a Dio di consumare questo matrimonio... Bàthory!». Il disprezzo con cui aveva pronunciato il suo cognome lasciava capire quanto fosse indignato per il fatto che le fosse stato concesso di mantenere il nome da ragazza dal momento che la sua famiglia era più potente di quella di lui. Poi, siccome lei non si muoveva abbastanza rapidamente per soddisfarlo, le aveva assestato un manrovescio con tutta la sua forza. L'anello con sigillo che portava aveva spaccato un labbro della giovane. Lei aveva provato a urlare, ma quel bastardo le aveva tappato la bocca. Sentiva ancora l'odore di letame, visto che lui non aveva avuto l'accortezza di lavarsi le mani dopo essere tornato dai campi. Era stata la prima volta in cui aveva sentito il sapore del sangue, ed era il suo. Durante la giovinezza aveva letto innumerevoli poesie e romanzi scritti in ungherese, latino e tedesco, che descrivevano "l'amore romantico" come una fiaba suggellata da un bacio. A quindici anni non sapeva nulla dei rapporti sessuali né del dolore causato dalla perdita della verginità, e suo marito non aveva avuto alcun riguardo. Tutte le fanciulle sognavano il giorno del matrimonio. Ma per lei quel sogno si era subito trasformato in un incubo dal quale non riusciva a svegliarsi.

Si era trattato di un matrimonio combinato, volto ad assicurare terre e alleanze militari: l'amore non vi aveva avuto alcuna parte. Per il conte Nàdasdy lei non era altro che una cavalla da domare, e il suo corpo un giocattolo nelle sue mani. Quando il balordo era finalmente sprofondato nel sonno, Elizabeth era sgattaiolata fuori dalla camera nuziale e aveva cercato di fuggire nella notte. Il castello di Csejthe, regalo di nozze del marito, era situato sui monti Carpazi. A differenza della proprietà piena di vita in cui era cresciuta, a Nyìrbàtor, in Ungheria, quel luogo, pur suggestivo, non offriva altro che uno scenario bucolico. Il castello si trovava in mezzo alle montagne innevate. Era maggio, ma a quell'altitudine sembrava ancora inverno. La contessa era rimasta a lungo al freddo, l'aria gelida che le leniva le ferite e il sangue che le si ghiacciava sulla pelle nuda. Preferiva morire assiderata piuttosto che vivere accanto a quel mostro. Ma Dio non le aveva mostrato alcuna misericordia. I senatori le erano corsi incontro, gettandole addosso delle coperte. Quando si era ribellata, l'avevano immobilizzata e costretta a tornare dal marito. Non aveva alcuna via di scampo. Era prigioniera della sua nuova vita. «State bene, padrona?» le chiese, preoccupata, la Donna in bianco dai capelli biondi. Il suo tocco la fece trasalire, riportandola bruscamente al presente. Non disse nulla, ma si sentì invadere dalla rabbia di fronte alla spudorata menzogna incarnata dall'innocente fanciulla dai capelli corvini dell'affresco. "Dicono che il sangue chiami altro sangue, ma a suo tempo. La mia vendetta è appena cominciata." Com'era possibile che fossero trascorsi quasi due giorni dall'ultima volta in cui Seward aveva preso la sua "medicina"? Le mani gli tremavano violentemente. Non aveva molto tempo. Aveva bisogno di una dose, e presto, o sarebbe stato troppo debole per sferrare un attacco efficace alla contessa Bàthory. Fu lieto di scoprire che il Benefattore aveva lasciato al botteghino un biglietto a suo nome per un posto a sedere nel settore

dell'orchestra. Doveva aver ricevuto il telegramma e provveduto alle sue necessità. Nelle sue precarie condizioni, introdursi furtivamente nel teatro sarebbe stato impossibile. Purtroppo, malgrado la posizione privilegiata, non avrebbe potuto godersi lo spettacolo. Si diresse barcollando verso una porta con la scritta: Personnel du Théàtre seulement, ma la trovò chiusa. Stava per mettersi alla ricerca di un'altra porta che conducesse dietro le quinte quando scorse Elizabeth Bàthory e le due Donne in bianco in fondo al teatro. Non era ancora pronto! Aveva la nausea e sudava copiosamente. Si nascose dietro una colonna romanica e, appoggiandovisi, vide la contessa Bàthory che guardava il soffitto. Seguì il suo sguardo, fisso su un magnifico affresco in stile rinascimentale, e una delle figure dipinte attrasse la sua attenzione. Era più alta delle altre donne raffigurate nella scena, e i suoi penetranti occhi azzurri contrastavano nettamente con la folta chioma corvina. Un'Afrodite bruna, la sosia di Elizabeth Bàthory. Era come se il Fato avesse scelto quel teatro come sfondo ideale in cui quella creatura immortale avrebbe trovato la morte. D'un tratto, udì un tintinnio di chiavi e trasalì. Voltandosi, vide avvicinarsi un omino con in mano una busta decorata da illustrazioni in rosso. Aprì la porta ed entrò, visibilmente agitato. Seward fece scivolare il piede nella porta prima che si chiudesse di nuovo e, dopo essersi accertato che nessuno lo stesse guardando, entrò con aria disinvolta. Gli artisti gli sfrecciavano accanto, trafelati e mezzo vestiti. Alcuni uomini trasportavano sul palco dei massi di cartapesta. Una sarta cuciva un costume direttamente addosso a un attore intento a fare vocalizzi. Doveva trovare un nascondiglio sicuro prima che qualcuno lo scoprisse e lo buttasse fuori. «Cosa fate qui dietro?» chiese una voce dall'accento russo alle sue spalle. Seward si voltò di scatto. Lo avevano scoperto? I suoi occhi velati e iniettati di sangue individuarono il russo, che guardava dall'alto in basso l'omino con le chiavi, probabilmente la maschera. Seward era al sicuro, per il momento. Per non rischiare, si nascose dietro uno scranno dall'alto schienale. La maschera alzò gli occhi sul russo e rispose: «Ho una lettera per

il signor Basarab. Credo la stia aspettando». «Gliela porterò io» replicò l'altro, strappandogli la busta di mano. Poi, mentre la maschera si allontanava in tutta fretta, si avvicinò a grandi passi a un camerino con sopra incisi una stella e il nome Basarab, bussò e fece scivolare la busta sotto la porta. Seward, che stava per svenire a causa dell'astinenza, rimase nascosto dietro lo scranno. Poi, mentre le forze lo abbandonavano, alzò gli occhi sulle travi del soffitto, da cui pendevano corde, pulegge e sacchi di sabbia. Avrebbe atteso il Fato lassù, ma prima aveva bisogno di una dose. Mentre estraeva la borsa da medico da sotto il soprabito, gli venne in mente una citazione quanto mai appropriata tratta dallo spettacolo che stava per cominciare. «Non permettiamo che i nostri sogni pettegoli ci faccian perdere d'animo. La coscienza è soltanto una parola che sogliono usare i vigliacchi.» Prese una cinghia di cuoio e se la strinse intorno al bicipite, poi riempì di morfina una siringa di vetro. "Solo metà dose, stavolta. Quel tanto che basta ad attenuare la nausea" pensò. Seward sapeva che drogarsi era rischioso, ma non riusciva a fare più nulla senza morfina. La sentì scorrere nelle vene. Gli ci vollero solo una manciata di minuti per riacquistare il controllo del corpo; non appena sentì le gambe di nuovo stabili, cominciò ad arrampicarsi sulle travi. Mentre sul palco andava in scena la Guerra delle due rose, con spade di legno e sangue finto, Seward allestiva lo scenario della propria guerra personale, feroce e cruenta. Estrasse le armi da uno scomparto segreto del soprabito. Era tutto pronto.

Capitolo 6 Mancavano ormai venti minuti alle nove. Ne erano trascorsi solo due da quando Quincey aveva estratto l'orologio dal taschino per controllare l'ora. L'inizio dello spettacolo era previsto per le otto in punto, e il pubblico cominciava ad agitarsi. Avendo lavorato in un teatro, Quincey conosceva le complicazioni che potevano ritardare l'inizio di una rappresentazione. Cominciò a pensare al peggio. E se Basarab non fosse stato in grado di recitare? Forse stavano aggiustando i suoi costumi perché li indossasse qualche sostituto. In circostanze normali, sarebbe stato un colpo di fortuna per qualsiasi sostituto, ma quella sera il pubblico aveva pagato per vedere Basarab e non avrebbe bene accolto alcun rimpiazzo. Se poi l'attore fosse stato incapace di recitare, sarebbe stata la rovina. Un gentiluomo si rivolse alla moglie in francese, lingua che Quincey conosceva bene, dicendole: «Questo Basarab è irrispettoso come quell'inglese, Sarah Bernhardt. Una volta ho visto un suo spettacolo che è iniziato con un'ora di ritardo. Un francese non lo farebbe mai...». Quincey stava per dire qualcosa in difesa degli attori britannici quando le luci si spensero, settore dopo settore, finché l'intero teatro non piombò nell'oscurità. Quincey attese che si accendesse un proiettore, ma non accadde nulla. Il pubblico rumoreggiò e Quincey aguzzò la vista per cercare di vedere nel buio. D'un tratto, una profonda voce baritonale riecheggiò nel teatro: «L'inverno del nostro affanno s'è ora mutato in luminosa estate, grazie a questo bel sole di York». In quel preciso istante, una delle luci della ribalta si accese, illuminando dal basso il volto pallido di Basarab e conferendogli un che di inquietante. I suoi penetranti occhi neri fissavano il pubblico da sotto le sopracciglia scure. Quincey rimase sbigottito di fronte all'incredibile trasformazione di un attore così bello nel ripugnante Riccardo III. Era, ovviamente, vestito di nero dalla testa ai piedi, con il braccio sinistro rattrappito e la gobba. Malgrado il travestimento, il suo tono di voce e i suoi gesti non lasciavano alcun dubbio sul fatto che la figura sul palco fosse quella di un aristocratico.

«Ma io, che non son davvero conformato per i dilettosi svaghi, né per far la corte a un amorevole specchio...» Il palco si illuminò lentamente. Quincey lesse il dolore negli occhi di Basarab. Non stava semplicemente recitando le parole di Shakespeare: stava attingendo all'intenzione e al significato che si celavano dietro di esse. «Io non ho altra distrazione che m'aiuti a passare il tempo, se non quella che consiste nel riguardare l'ombra mia nel sole.» Basarab si interruppe, fissando la propria attenzione su uno dei palchi. Quincey seguì il suo sguardo, riconoscendo immediatamente la donna in frac che aveva visto nell'atrio. «E così, dal momento che non riuscirei davvero a far l'innamorato e intrattenere questi bei giorni dalla voce soave, ho deciso d'assumere, per contro, la parte del cattivo.» Elizabeth Bàthory rimase sorpresa nel vedere Basarab guardare così insistentemente nella sua direzione. Riusciva a vederla malgrado le luci del palco, o era un caso? Lo fissò freddamente di rimando. La Donna in bianco dai capelli neri sussurrò: «È lui, padrona?». «È lui» rispose lei senza battere ciglio. Quando si rese conto che quel bastardo arrogante avrebbe recitato la versione integrale di quell'orribile opera, graffiò i braccioli della poltrona, facendo cadere a terra piccoli trucioli di legno. Dover stare seduta quattro ore a sorbirsi quella noia sarebbe stata una tortura di gran lunga più spietata di tutti gli strumenti dell'Inquisizione spagnola in suo possesso. Quella storia colpiva nel segno. Ferenc Nàdasdy non era un uomo intelligente. Elizabeth capì presto che non formulava alcun pensiero dalla cintola in su. Ma fu proprio questo che le permise di metterlo nel sacco. Lasciò che si crogiolasse in un illusorio senso di sicurezza fingendo di apprezzare la sua dissolutezza e il suo sadismo sessuale. Tre anni dopo il matrimonio, sperando di sbarazzarsi per sempre di lui, fece leva sulla sua vanità e lo convinse ad assumere il comando delle truppe ungheresi nella guerra contro gli ottomani. La vittoria avrebbe dato lustro alla sua famiglia, gli disse, e gli promise che, dopo il suo

trionfo, avrebbe cambiato il suo nome in contessa Nàdasdy di fronte a tutta la sua famiglia. Durante l'assenza del conte le sue guardie non la perdevano mai di vista, ma lei era riuscita a ingannare anche loro, inducendole a pensare che fosse più interessata ad amministrare la proprietà che a fuggire. Assisteva i contadini ungheresi e slovacchi, assicurando loro cure mediche, laddove necessario. In più di una occasione intervenne a favore di donne sole e prive di risorse, fra cui una il cui marito era stato fatto prigioniero dagli ottomani e un'altra la cui figlia era rimasta incinta in seguito a uno stupro. Di notte, quando era finalmente sola nella sua stanza, pregava Dio affinché il marito trovasse la morte sul campo di battaglia. Finalmente, giunse il suo momento. Avendo effettuato studi di scienza e di astronomia, fu in grado di prevedere un'eclissi totale di luna in occasione della quale indossò un mantello nero, e, col favore delle tenebre, svanì dal castello. Aiutata dai contadini di cui aveva saputo conquistarsi la fiducia grazie al denaro del marito e alla sua studiata generosità, fuggì e si rifugiò presso sua zia Karla. Karla aveva la reputazione di essere una donna pia. Sotto il suo tetto, Elizabeth sperò di poter finalmente godere dell'amore e della protezione di Dio. La zia Karla esibiva con orgoglio il suo aspetto austero. Vestiva sempre di nero e il suo unico ornamento era una croce d'oro intorno al collo. Elizabeth immaginò che fosse in lutto per la morte di uno dei suoi mariti. Ne aveva avuti quattro, e tutti erano andati incontro a una morte tanto orribile quanto misteriosa. Quando la contessa era arrivata, avvolta in un abito di velluto cremisi, la zia Karla non l'aveva neanche salutata, limitandosi a osservare, caustica: «I colori vivaci sono per i vanitosi. E la vanità è uno dei sette peccati capitali. Dio non approverebbe». Sebbene in pubblico sembrasse fredda e rigida, in privato era molto più gentile. Ascoltò attentamente il racconto della nipote e la confortò. Col tempo, il loro rapporto si consolidò, al punto che una notte la zia Karla confessò a Elizabeth di aver assassinato i mariti perché avevano scoperto il vero motivo per cui si rifiutava di giacere con loro. Non perché fosse così devota da prendere alla lettera le

Sacre Scritture e pensare che i rapporti sessuali fossero finalizzati solo ed esclusivamente alla procreazione. Ma perché gli uomini non la eccitavano e riusciva a provare piacere solo con altre donne. Elizabeth fissò la croce intorno al collo di Karla, sconvolta dalla sua ipocrisia assassina. Tuttavia, quella rivelazione le fece capire molte cose di se stessa. Da ragazza si era "divertita" con più d'una serva finché sua madre non l'aveva scoperta, redarguendola aspramente. I suoi genitori avevano persino convocato un sacerdote affinché riportasse la figlia peccatrice sulla retta via. Poco dopo, l'avevano costretta a sposare Nàdasdy. Leggendo la confusione sul bel viso di Elizabeth, la zia Karla le accarezzò i capelli, fissandola con desiderio negli occhi blu come l'oceano. Poi, prima che Elizabeth se ne rendesse conto, le labbra di Karla erano sulle sue. Elizabeth la respinse. L'idea di toccare quella donna non più giovane la ripugnava. «La Bibbia non dice forse che l'omicidio e questi desideri sono sbagliati? Non state commettendo peccato davanti a Dio?» «Sei una stupida e un'ingenua! Non potevo rischiare che uno dei miei mariti mi smascherasse. Nella migliore delle ipotesi, avrei perso tutte le mie ricchezze e sarei stata costretta a vagare con addosso il marchio dell'eretica. Nella peggiore, sarei stata bruciata sul rogo. Non si è trattato affatto di omicidio, ma di autodifesa! Faresti meglio a non giudicarmi così severamente. Per come la vedo io, hai tre possibilità: restare con me e amarmi, contando sulla mia protezione. Andare in convento e veder sfiorire la tua incomparabile bellezza fino a diventare vecchia, grassa e rugosa come me. O tornartene da quel bruto di Nàdasdy. A te la scelta.» La contessa Bàthory avrebbe avuto bisogno di tempo per pensare, ma la zia Karla non era una donna paziente, Così finì col cedere ai suoi desideri. Elizabeth non aveva immaginato che fare l'amore potesse essere così piacevole. Perché suo marito non l'aveva mai toccata in quel modo? Mentre si abbandonava al suo primo orgasmo, non pensò più a cosa stava facendo e con chi. Finalmente aveva trovato se stessa. Com'era possibile che un atto così gradevole venisse

considerato un peccato contro Dio? Dio non era forse amore? Fu allora che Elizabeth cominciò a ribellarsi a Dio. Un attore lanciò un urlo dal palco ed Elizabeth sobbalzò. Non poteva restare lì un minuto di più. Si alzò. «Che succede, padrona?» le chiese la Donna in bianco dai capelli biondi. Gli occhi della contessa Bàthory erano fissi sul personaggio di Cristopher Urswick, il sacerdote. «Devo andarmene» rispose. «E Basarab?» «Sapete cosa dovete fare. Non deludetemi.» Quincey non immaginava che quella serata gli avrebbe riservato una così bella sorpresa. Non aveva mai visto una rappresentazione del Riccardo III nella sua interezza, né aveva immaginato che potesse essere così spettacolare. I costumi sembravano autentici, la scenografia era accurata e grandiosa. Gli attori erano magnifici. Ma la vera meraviglia era Basarab, che interpretava il machiavellico re con tale convinzione che, per un attimo, Quincey dimenticò che si trattasse di una finzione. Basarab pronunciava le battute come se le parole gli scaturissero dalla mente. Quincey aveva imparato a memoria l'intera tragedia anni prima, ma all'epoca i dialoghi gli erano parsi privi di vita sulla pagina. Ora, invece, quelle parole vivevano e respiravano. Lo spettacolo raggiunse il culmine. Basarab sembrava così afflitto dal rimorso che Quincey ebbe l'impressione che fosse davvero pentito delle sue azioni. Percepiva il dramma del personaggio che capiva che ormai era troppo tardi. Quando Basarab tuonò, brandendo la spada: «Un cavallo! Un cavallo! Il mio regno per un cavallo!» il cuore di Quincey prese a battere all'impazzata. Non si rese nemmeno conto che stava stringendo così forte il sedile davanti a sé da rischiare di far cadere all'indietro lo sfortunato occupante. D'un tratto, si udì un grido di battaglia e numerosi attori nelle vesti di soldati si riversarono sul palco scagliandosi contro Basarab, che maneggiava la spada con l'abilità e l'agilità di un vero guerriero.

Quincey stava per alzarsi e applaudire quando apparvero altri soldati. Sembrava che un intero esercito stesse attaccando re Riccardo. Quincey rimase sbigottito di fronte alle coreografie degli scontri. Non vi erano parole per descrivere la rappresentazione della battaglia che pose fine alla dinastia dei Plantageneti. Quando Richmond affondò la spada nel petto di re Riccardo, Quincey ebbe un sussulto. I personaggi sul palco si bloccarono e le luci, tutte tranne quella della ribalta, si spensero. Quincey sapeva che la morte di Riccardo segnava la fine della pièce, eppure si ritrovò a trattenere il fiato come il resto del pubblico. Basarab barcollò e si accasciò a terra, morto. La platea esplose in un applauso che coprì il soliloquio finale di Richmond. Nessuno, però, applaudiva più forte di Quincey. Basarab tornò sul palco, si inchinò, e il suo sguardo incrociò quello di Quincey, che ebbe un tuffo al cuore. Poi gli occhi del divo si spostarono sul palco occupato dalla donna vestita da uomo. Era vuoto. Chi erano quelle donne?, si domandò Quincey. Basarab le conosceva? Quando guardò di nuovo il palcoscenico, era già calato il sipario. Quincey non vedeva l'ora di trovarsi faccia a faccia con quell'uomo formidabile. Ogni dubbio era svanito dalla sua mente: la sua vita era il teatro, non un soffocante studio legale. Doveva trovare il modo di intrufolarsi dietro le quinte per vedere se Basarab aveva ricevuto la sua lettera. Attese che la folla cominciasse a disperdersi e fece per uscire dal lato del corridoio. In quel momento, vide la maschera che lo indicava ad Antoine, l'impresario. Quest'ultimo gli si avvicinò e gli sussurrò: «Allons. Monsieur Basarab vuole vedervi subito».

Capitolo 7 Quincey si sentì come un Teseo dei tempi moderni mentre seguiva l'impresario nel labirinto del dietro le quinte dell'opulento Théàtre de l'Odèon. Vide gli attori che si erano finti cavalli intenti a liberarsi dei loro elaborati costumi, e gli parvero tanti centauri. Passò accanto ad attrici seminude con corpi da ninfe. A un certo punto, Antoine si fermò davanti a una porta con scritto il nome di Basarab. Bussò e disse: «Excusez-moi, monsieur Basarab? Il giovanotto è qui». Vi fu un lungo silenzio, poi, proprio quando Quincey cominciò a pensare che non avrebbe mai incontrato Basarab, la voce baritonale risuonò da dietro la porta. «Fallo entrare.» Quincey fece un profondo respiro e varcò la soglia. Basarab era seduto davanti alla toeletta, intento a leggere la sua lettera. Non alzò gli occhi, ma disse, con un garbato gesto della mano: «Venite avanti». Quincey si affrettò a chiudere la porta. Poi osservò l'ampio camerino. In un angolo c'era una pila di bauli che somigliava a una piccola fortezza. Alle pareti erano appesi simmetricamente manifesti incorniciati dei precedenti spettacoli di Basarab. La stanza era arredata con uno sfarzo insolito per il camerino di un attore. Accanto a una raffinata chaise longue in stile egizio c'era un elegante tavolino apparecchiato per il tè. Basarab continuò a scorrere la sua missiva e Quincey si chiese se fosse la prima volta che la leggeva. «Perdonatemi, signor Harker» disse infine, in tono amichevole. «La vostra lettera mi ha colpito così tanto che ho voluto leggerla una seconda volta.» Quincey rimase stupito: era come se gli avesse letto nel pensiero. Disse, con impeto: «Non riesco a credere di essere qui, di fronte a voi. Non so spiegarvelo, ma vi vedo ed è come se, d'un tratto, tutta la mia vita avesse senso». Poi tacque, domandandosi come avesse potuto pronunciare una frase così stupida, ma, con sua grande sorpresa, Basarab gli sorrise calorosamente. «Perdonate le mie cattive maniere. Mio padre mi rinnegherebbe.

Vi prego, sedetevi e fatemi compagnia per una tazza di tè.» Quincey aveva quasi paura di sedersi sull'antica e apparentemente fragile chaise longue, ma non voleva offendere il suo ospite. Così, si appollaiò sul bordo mentre Basarab serviva il tè in due eleganti tazze di vetro. Quincey ne prese delicatamente una studiandone la base e il manico argentati su cui erano incise le iniziali I.L. La teiera, la zuccheriera e il bricco del latte recavano tutti lo stesso monogramma. Quincey si chiese chi fosse I.L. «Ivan Lebedkin» disse Basarab. Quincey lo guardò, interdetto: ancora una volta sembrava avergli letto nel pensiero. Poi si rese conto che stava seguendo il contorno delle iniziali sulla sua tazza. Basarab non era un veggente: era un attento osservatore del comportamento umano. Una delle tante doti che avevano fatto di lui un formidabile interprete. Basarab continuò: «Era il saggiatore ufficiale di metalli preziosi dello zar. Le sue iniziali attestano che si tratta effettivamente di oro». «Lo zar?» «Sì. Questo servizio da tè e il tè stesso, lapsang souchong, sono un dono dello zar Nicola. Spero vi piaccia. Na zdarovia» disse Basarab. Stava per bere un sorso dalla tazza quando si rese conto che il suo naso, o meglio, il naso di Riccardo III, lo ostacolava. Sorrise, poggiò la tazza e disse: «Scusatemi un istante». Mentre tornava alla toeletta, Quincey non poté fare a meno di pensare come fosse strana la vita. Il giorno prima era imprigionato alla Sorbona, il giorno dopo sorseggiava un tè (scelto dallo zar di Russia) insieme al più celebre attore europeo. «Io vi ho già visto, signor Harker» disse Basarab, togliendosi il naso finto. «Davvero?» disse Quincey, chiedendosi se lo avesse visto appollaiato sul piedistallo della statua la sera prima. «All'Hippodrome di Londra. In una produzione del Faust.» Quincey rischiò di rovesciare il tè. Il grande Basarab era in quel piccolo teatro di varietà più di un anno prima? «Mi avete visto recitare?»

«Sì, e vi ho trovato molto divertente. Anche molto originale, e non è facile in questo ambiente. Sono venuto dietro le quinte per congratularmi con voi, ma eravate nel bel mezzo di un'animata discussione con un anziano gentiluomo.» Quincey sapeva benissimo a quale serata si riferisse Basarab. Fra il pubblico c'era anche suo padre, Jonathan Harker, ma Quincey lo aveva scoperto troppo tardi. Aveva cercato di svignarsela dopo lo spettacolo, ma il padre si era già intrufolato dietro le quinte e stava sbraitando contro l'impresario. «...e se pensate di fermarmi...» «Vi prego, padre!» «Prendi subito la tua roba, Quincey!» urlò Jonathan. «Non metterai più piede qui dentro.» «Non potete fermar...» «L'unica cosa che non posso fare è lasciarti proseguire su questa strada. Attiri troppo l'attenzione... sul palco sei indifeso... non è sicuro.» «Indifeso? Non sono più un bambino. Spetta a me scegliere cosa fare della mia vita ! » «D'accordo. Se è quello che vuoi, va bene. Ma sappi che, se sceglierai questa strada,» disse freddamente Jonathan, abbassando la voce «dovrai sopravvivere come i tuoi colleghi, senza alcun sostegno finanziario da parte mia.» Quincey aveva voluto far valere le sue ragioni, ma non era ancora in grado di provvedere al proprio sostentamento. Così, dovette cedere. Il suo silenzio fu una risposta eloquente. «Come pensavo» disse Jonathan. «Finché vivrai del mio denaro, ti atterrai alla mia volontà.» Harker padre non perse tempo e si mise in contatto con ex colleghi e vecchie conoscenze a cui chiese aiuto. La settimana successiva, Quincey si ritrovò alla Sorbona. Quincey, accigliato, abbassò gli occhi sulla tazza di tè. Era stata una serata formidabile, finché il ricordo di quello scontro con suo padre non l'aveva rovinata.

«Così vi ha costretto a studiare legge? Immagino che anche vostro padre sia un avvocato.» «Prego? Ah, sì» disse Quincey, rendendosi conto che doveva aver rievocato quell'episodio ad alta voce. «Ora capisco perché non ho più avuto vostre notizie da allora. Non è raro che un padre desideri che il figlio segua le sue orme. Ahimè, è una storia vecchia come il mondo. Non avete un fratello che sia attratto dalla legge e possa prendere il vostro posto?» «Sono figlio unico. Non ho nessuno con cui condividere questo fardello.» «Be', consideratevi fortunato» replicò Basarab. «Avreste potuto avere un fratello minore prediletto da tutti. I paragoni tra fratelli generano sempre rivalità.» Quincey non sapeva che Basarab avesse un fratello. La sua vita privata era avvolta nel mistero. Si schiarì la gola e indagò, discretamente: «Suppongo che vostro fratello non sia un attore». «Supponete bene. Siamo agli antipodi, io e lui» disse Basarab. Poi, indicando la corona che indossava sul palco, aggiunse: «Oserei dire che re Riccardo e suo fratello erano più uniti. Anche Caino e Abele lo erano più di noi». Quincey scoppiò a ridere e Basarab osservò, sorridendo: «Il destino ha uno strano modo di far incontrare gli animi affini». Stava per bere un altro sorso di tè quando si udì un macabro lamento che proveniva dal corridoio. Basarab balzò in piedi. Qualcuno bussò energicamente alla porta e un uomo gridò: «Signor Basarab! Mettetevi in salvo!». Le due Donne in bianco si intrufolarono dietro le quinte e giunsero, silenziose e indisturbate, davanti alla porta con la stella dorata. Mentre sguainavano le scimitarre leccandosi le labbra, gli occhi bramosi si scurirono e i canini si allungarono. Quella dai capelli neri tese la mano verso la maniglia, mentre l'arpia bionda si accucciò come un gatto pronto a spiccare un balzo. D'un tratto, un sacco di sabbia cadde dall'alto su una delle due,

che si accasciò a terra. Un istante dopo, Seward si lanciò giù dal soffitto appeso a una delle tante corde che pendevano dalle travi, versando sulle due donne l'acquasanta contenuta in una boccetta con sopra incisa una croce. La loro pelle sfrigolò, coprendosi di vesciche, e le loro grida raccapriccianti riecheggiarono nel corridoio. Mentre le due donne fuggivano, contorcendosi dal dolore, Seward bussò con forza alla porta del camerino dell'attore. «Signor Basarab! Mettetevi in salvo!» Basarab si voltò verso Quincey e gli indicò i grossi bauli. «Nascondetevi lì dietro.» Quincey obbedì. Da fuori la porta provenivano urla e tonfi. Basarab prese uno spadone d'acciaio da dietro la scrivania. Se Quincey non avesse saputo che si trattava di un oggetto di scena, avrebbe giurato che fosse vera. Basarab aprì la porta del camerino, sollevò la spada e si precipitò fuori, pronto a combattere. Ma, fatta eccezione per alcuni macchinisti terrorizzati, il corridoio non presentava alcun pericolo. Basarab vide il sacco di sabbia a terra e alzò di scatto la testa, osservando attentamente le travi del soffitto. Poi si guardò intorno con circospezione, come aspettando un altro attacco: le urla e i colpi sulla porta potevano essere un'azione diversiva? Quincey si chiese quali segreti nascondesse Basarab. Seward inseguì le Donne in bianco lungo il corridoio e le raggiunse sul palco, dietro il sipario chiuso. Vide un'ombra sul pavimento e si accucciò nell'istante in cui la scimitarra di una delle arpie gli passò sopra la testa. Nello stesso momento, la donna dai capelli biondi gli si scagliò contro dalla direzione opposta. Seward sguainò il coltello dal manico d'osso e fece per piantarglielo nel cuore. La donna, con una rapidità di riflessi sovrumana, riuscì a schivare il colpo e la lama le si conficcò nella spalla. La vampira dai capelli scuri prese Seward per la gola, ma sfiorò inavvertitamente la catenina d'argento che aveva al collo, da cui pendeva un vasto assortimento di icone religiose. Dalla sua mano si levò una nuvola di

vapore e Seward provò una terribile gioia. Era proprio per quel motivo che indossava la catenina. Le due donne, ferite, si diedero allora alla fuga. Malgrado gli acciacchi dell'età, Seward aveva avuto la meglio. Almeno per il momento. Le Donne in bianco sbucarono dal sipario di velluto rosso e si lanciarono giù dal palco, saltando di sedile in sedile come gatti selvatici. Anche Seward balzò giù, ma, atterrando, si storse una caviglia. Malgrado ciò, continuò l'inseguimento, zoppicando lungo il corridoio del teatro. D'un tratto, in fondo al corridoio apparve la maschera, che chiese, con comprensibile sconcerto: «Qu est-ce qui se passe?». La donna dai capelli biondi lo urtò, sbattendolo contro una colonna. Poi, mentre, fuggiva, si estrasse il coltello dalla spalla. Seward si fermò un istante accanto all'uomo, ma, dopo essersi accertato che non fosse gravemente ferito, proseguì l'inseguimento. Seward si fermò in cima alla scalinata del Théàtre de l'Odèon. L'aria era fredda e dalla sua bocca uscivano nuvole di vapore. Nella fitta coltre di nebbia che era scesa sulla notte parigina, faticava a distinguere le sagome delle Donne in bianco dall'altra parte della strada; ma, dal riflesso dei loro coltelli d'acciaio nei lampioni a gas, capì che si erano nascoste dietro un monumento per tendergli un agguato. Finalmente era giunto il suo momento. Per darsi coraggio, accarezzò l'amato orologio. Avrebbe ucciso una delle due vampire in nome di Lucy e l'altra in memoria della povera ragazza massacrata a Marsiglia. Sguainò la spada. Era di nuovo il folle di Dio. Il Suo soldato. Con un grido di battaglia, sollevò l'arma sopra la testa, e si lanciò con sorprendente agilità giù per le scale, del tutto dimentico del dolore alla caviglia. Le due vampire rimasero a guardarlo, immobili, e sorrisero quando attraversò correndo Rue de Vaugirard. Si udì il nitrito di un cavallo e Seward si voltò di scatto, rendendosi conto del suo errore tattico. Era talmente concentrato sulle due donne che aveva dimenticato che la regina nera poteva

attaccarlo da qualsiasi direzione. Prima che potesse reagire, la carrozza senza cocchiere sbucò dalla nebbia e lo travolse. Mentre giaceva a terra, spezzato e sconfitto, capì che non aveva deluso solo il Benefattore, ma anche Dio. La vergogna che provò fu ancor più grande del dolore per le ferite. Tra le lacrime, vide le Donne in bianco raggiungere correndo la carrozza e balzarvi agilmente sopra. Prima di scomparire al suo interno, la vampira dai capelli scuri si voltò verso di lui e rise. Seward vide il proprio orologio a terra accanto a lui. Cercò di prenderlo, ma, quando si mosse, il dolore fu troppo forte. Tentò di urlare, ma tossì sangue. Quando un uomo si chinò su di lui, gli fece cenno di dargli l'orologio. L'uomo seguì il suo sguardo e raccolse l'amato oggetto, dicendogli in francese: «Non ne avrete bisogno, dove state andando». Mentre la vita lo abbandonava, Seward osservò impotente l'uomo correre via con il suo bene più prezioso.

Capitolo 8 Antoine spinse Quincey fuori dall'entrata principale del teatro, dove il giovane vide, con suo grande sgomento, il corpo martoriato di un uomo che giaceva in una pozza di sangue sull'acciottolato della strada. I passanti si affollarono intorno a lui, gridando di chiamare un medico e la polizia. «Mio Dio!» esclamò Quincey. «Cos'è successo?» I poliziotti accorsero sulla scena del delitto, soffiando convulsamente nei fischietti per farsi strada. Antoine trascinò Quincey giù per le scale, cercando di portarlo via il prima possibile. «A quanto ne so, un pazzo ha aggredito due donne nel teatro.» Quincey vide un vagabondo chinarsi sull'uomo riverso sulla strada, afferrare il suo orologio e darsi alla fuga. Senza pensare, gridò: «Al ladro!» e si lanciò all'inseguimento, spingendo via Antoine. Troppo tardi: il ladro era già arrivato in fondo alla strada. Quincey, stizzito per aver perso l'occasione di compiere un gesto eroico, si unì agli altri passanti che indicavano il ladro ai poliziotti accorsi. Nel giro di pochi istanti, due di essi lo raggiunsero e lo arrestarono, recuperando l'orologio d'argento. Antoine prese Quincey per un braccio. «Il signor Basarab mi ha incaricato di riportarvi sano e salvo alla Sorbona. Quindi venite con me: non è posto per voi, questo.» Neanche Quincey osava contravvenire agli ordini di Basarab. Mentre si facevano strada tra la folla, Quincey gli chiese: «Che ne è del signor Basarab?». «Non crederete che una celebrità come Basarab si faccia vedere nei pressi di tragedie di questo genere! Pensate alla sua reputazione.» Quincey annuì, ma non poté fare a meno di chiedersi cosa fosse realmente accaduto dietro le quinte, e perché il grande attore fosse rimasto indietro quando poteva ancora essere in pericolo. I poliziotti cominciarono a sgomberare l'area per consentire al ferito di respirare più agevolmente. Quincey si guardò indietro, riuscendo finalmente a intravedere il volto della vittima, che gli sembrò stranamente

familiare. Con gli occhi fissi sul cielo notturno, Seward si rese conto di non provare più dolore. Mentre esalava l'ultimo respiro, mormorò un'unica parola: «Lucy». La carrozza nera senza cocchiere attraversò la Senna sul ponte del Boulevard du Palais. La Ville Lumière splendeva nella notte. I poeti avevano scritto che, quando le luci brillavano, «Parigi era la città degli amanti». Ma la contessa Bàthory aveva vissuto abbastanza da sapere che quello scintillio era solo un'illusione, come l'amore. Col passare del tempo, la contessa divenne una docile allieva della zia Karla, e faceva tutto ciò che le veniva chiesto. Tuttavia, dopo aver scoperto la propria natura e trovato finalmente la felicità, si rese conto che avrebbe potuto essere ancora più soddisfatta con qualcuno della sua età, in particolare con Ilka, la cameriera. Ilka era giovane, bella, dolce e innocente. Inoltre, parlava sempre del futuro, mentre Karla si soffermava spesso sul passato. Con Ilka, Elizabeth poteva condividere la prepria giovinezza e appagare i propri sensi. Non voleva però ferire la zia, e giustificava la sua nuova passione appellandosi alla filosofia secondo la quale l'amore non era mai sbagliato. La zia Karla cominciò a sospettare e affrontò Ilka. Accecata dalla rabbia e dalla gelosia, la accusò di furto e la fece impiccare. Quando la contessa si vendicò cacciando Karla dal proprio letto, quest'ultima svelò alla sua famiglia dove si trovava. Alcuni giorni dopo, giunse una scorta armata. Elizabeth cercò di opporre resistenza, ma fu legata, imbavagliata, incappucciata e caricata su un cavallo. I suoi guardiani le dissero che la sua famiglia aveva intenzione di rispedirla a casa del marito affinché mantenesse le promesse matrimoniali pronunciate davanti a Dio e desse un erede al conte Nàdasdy. Fu allora che Elizabeth capì che l'amore era solo una fugace illusione creata da Dio per far soffrire ancora di più i Suoi figli. Mentre guardava la cosiddetta "Città degli innamorati" dalla

carrozza nera che si allontanava a tutta velocità dal Théàtre de l'Odèon, la contessa Bàthory giurò che un giorno l'avrebbe bruciata e ne avrebbe calpestato le ceneri. Si allontanò dalla fessura tra le tendine che oscuravano i finestrini e disse: «Dobbiamo portare a termine il nostro piano il più presto possibile». «La vostra trappola è stata ingegnosa, padrona» osservò la vampira dai capelli biondi con un'ombra di preoccupazione nella voce. «Il cacciatore di vampiri è morto e non potrà svelare a nessuno ciò che ha visto a Marsiglia» aggiunse la Donna in bianco dai capelli scuri, con il bel viso imbronciato. «Lo conoscevo» replicò la contessa. «Era solo uno fra tanti. Ora verrà anche il turno degli altri. Ma saremo noi a colpire per prime.»

Capitolo 9 Era notte, e Mina Harker se ne stava in piedi sulla piccola terrazza in preda a un'agitazione cui non riusciva a dare un nome. Pur non avendo freddo, rabbrividì al suono delle campane della vicina cattedrale. Dalle nuvole stava scendendo una nebbia di un rosso innaturale: sembrava quasi che il cielo sanguinasse. Un banco si mosse rapidamente nella sua direzione, procedendo controvento. Lei sgranò gli occhi e rientrò nello studio del marito, chiudendo le persiane. Poi, presa dal panico, chiuse una finestra dopo l'altra. Pochi istanti dopo, un vento rabbioso scosse i vetri con tale violenza che Mina indietreggiò per paura che si frantumassero. Il vento divenne sempre più forte. Poi, d'un tratto, più nulla, solo un silenzio inquietante. Mina tese l'orecchio, cercando di cogliere qualche suono. Quindi, facendosi coraggio, si avvicinò alla finestra e sbirciò attraverso le persiane, ma la casa era completamente avvolta nella nebbia e non si vedeva nulla. All'improvviso, si udì un colpo sordo contro la porta d'ingresso, che riecheggiò fino alle travi del soffitto dell'atrio. Mina trasalì. Un altro colpo, poi un altro ancora, sempre più forte. Mina non si mosse. Non riusciva a muoversi. Avrebbe voluto fuggire, ma si ritrovò paralizzata dal cieco terrore che potesse trattarsi di lui. Sapeva che era impossibile: era morto. Lo avevano visto tutti. Poi, al piano di sotto, si udì un rumore di vetri infranti. Mina sentì la porta principale aprirsi e il suono di qualcosa che veniva trascinato sul pavimento di marmo. Jonathan era uscito, come al solito. Manning, il maggiordomo, aveva la serata libera. E ora qualcun altro, o forse qualcos'altro, era in casa con lei. Mina si rannicchiò in un angolo, terrorizzata. Era furiosa: non poteva essere così debole; non poteva essere prigioniera di nessuno in casa sua, tanto meno di se stessa. Le sue precedenti esperienze con il soprannaturale le avevano insegnato che nascondersi come una scolaretta spaventata non faceva scomparire il male. L'unico modo per combatterlo era affrontarlo a testa alta. Afferrò la spada cerimoniale giapponese appesa a una parete, dono di un cliente di Jonathan. Ironia della sorte, Mina aveva

sempre disapprovato la scelta del marito di esibirla. Si avvicinò alla fine dell'imponente scalinata e si inginocchiò per sbirciare attraverso la ringhiera di ferro battuto. La porta d'ingresso era spalancata e sul pavimento c'era una lunga scia di sangue che attraversava l'atrio e raggiungeva il salotto. Il pensiero raccapricciante che Jonathan potesse essere tornato a casa ferito scacciò tutte le paure di Mina, che si precipitò giù per le scale, irrompendo nel salotto. Seguendo la scia di sangue fino in un angolo, vide un uomo rannicchiato sotto il ritratto che nascondeva la cassaforte. D'un tratto, un lampo squarciò il cielo, illuminando lo studio e un uomo che Mina conosceva bene. «Jack?» Non solo era sporco di sangue dalla testa ai piedi, ma sembrava debole e malato. Era completamente diverso dall'uomo robusto che ricordava. Lui alzò gli occhi su di lei e aprì la bocca per parlare, ma dalle sue labbra uscì un fiotto di sangue. Mina lasciò cadere la spada e gli si inginocchiò accanto. «Jack, non dire nulla. Vado a chiamare un medico.» Mentre si alzava, però, Seward la prese per un braccio e scosse energicamente la testa. Poi le indicò il pavimento, sul quale aveva scritto con il proprio sangue: «A-T-T-E-N-T...». «Attenta?» gli chiese Mina. «A cosa? A chi?» Seward lanciò un urlo che gli si strozzò in gola e si accasciò a terra, con il terrore negli occhi. Era morto. Mina si svegliò dall'incubo a causa delle sue stesse urla. Era sana e salva nel suo letto, in un groviglio di lenzuola. Nei brevi istanti tra il sonno e la veglia, Mina ebbe la netta impressione di vedere la nebbia cremisi uscire dalla stanza e disperdersi nella notte. Sebbene fosse certa di aver percepito una presenza accanto a sé, pensò che si trattasse di un residuo del suo incubo. Sospirò e si lasciò cadere sul cuscino, osservando le tende ondeggiare al vento. All'improvviso si ricordò che aveva chiuso la finestra prima di andare a letto.

Le campane della cattedrale suonarono e Mina lanciò un'occhiata all'orologio sopra la cappa del camino. Era mezzanotte e un quarto. Corse alla finestra e fece per chiuderla, ma rimase sconcertata alla vista della nebbia rossa che si stava lentamente ritirando, ma ancora indugiava intorno agli alberi e ai cespugli del cortile. Dopo aver tirato le tende, si precipitò in camera di Jonathan per trovare conforto tra le sue braccia; fu una delusione scoprire che il marito non era ancora rincasato. «Accidenti a lui!» imprecò. Avrebbe dovuto essere sul treno delle 18.31 da Paddington che arrivava alla stazione di St. David's di Exeter alle 22.05. Guardò di nuovo fuori dalla finestra, chiedendosi se avrebbe dovuto chiamare Mark all'Hall Moon, in fondo alla via, per sapere se Jonathan si era fermato lì. Poi le venne in mente che l'ultima volta Jonathan si era azzuffato con un altro ubriaco per conquistarsi i favori di una prostituta attempata e, per giunta, tisica. Mina aveva dovuto subire il disonore di andare in città e pagare la cauzione per fare uscire il marito di prigione. Malgrado quell'episodio piuttosto imbarazzante, desiderava che Jonathan fosse accanto a lei. Non era spesso a casa, ultimamente. Da quando anche il figlio, Quincey, era a Parigi, Mina si ritrovava sovente sola nella grande casa vuota. Ma quella sera la sua solitudine era struggente e la casa le sembrava una tomba. Fissò la fila di fotografie incorniciate sulla cappa del camino. Cos'era accaduto a tutte quelle persone? Alcune erano decedute, ma la maggior parte era semplicemente svanita nel nulla. "Com'è possibile che tutta la mia vita si sia schiantata contro le rocce?" pensò. Il suo sguardo si posò su una delle sue fotografie preferite, che ritraeva lei e Lucy prima che l'oscurità sconvolgesse le loro vite. Prima che lei facesse quella fatidica scelta. L'ingenuità e l'innocenza di quei sorrisi la confortarono. Ricordava perfettamente quella splendida giornata d'agosto del 1885, quando aveva conosciuto l'amore della sua vita, Jonathan Harker, alla fiera d'estate di Exeter. Lucy era radiosa nel suo nuovo abito parigino. Aveva atteso mesi per sfoggiarlo. Mina, invece, aveva preso in prestito un vecchio

vestito di Lucy, sebbene lo trovasse soffocante. Non aveva il virino di vespa dell'amica, e le sembrava che il bustino le spingesse il seno fino al mento. Era tipico di Lucy esibire il décolleté. Tuttavia, pur essendo a disagio, non aveva potuto fare a meno di sentirsi gratificata dagli sguardi dei giovani che passavano. Lucy voleva presentare Mina ad alcuni ospiti londinesi, fra cui Arthur Fraser Walter, la cui famiglia era proprietaria del «Times» da più di un secolo, ma si ritrovò assediata da una frotta di giovani spasimanti che le chiedevano di essere aggiunti al suo carnet per il ballo di quella sera. Con la sua risata argentina e la sua finta innocenza, Lucy sapeva giocare bene le sue carte. Se solo avessero saputo in che modo Mina l'aveva conosciuta! Mina era convinta che Dio avesse dato a Lucy quella chioma rosso fiamma per segnalare agli uomini la sua insaziabile natura. «La nostra società andrà in rovina se non correremo subito ai ripari» disse una voce maschile accanto a lei. Mina si voltò e vide un giovane con una zazzera di capelli neri e un completo di lana sgualcito che agitava una manciata di fogli sotto il naso di Lord Henry Stafford Northcote. Il lord, originario di Exeter, era deputato presso la Camera dei Comuni e sembrava diffidare di quel giovane esuberante come di un cane rabbioso. «Le case di correzione non sono la risposta giusta» continuò il giovane. «Molti bambini indigenti vivono rubando, e, a volte, facendo anche di peggio. È necessario riformare l'istruzione per preservare la moralità, la legge e l'ordine.» «Signor Harker,» rispose Lord Northcote «l'Education Act ha reso la frequenza scolastica obbligatoria ai bambini tra i cinque e i tredici anni.» «Ma andare a scuola costa nove scellini a settimana. Molte famiglie non possono permettersi una somma del genere.» «I bambini hanno tanti modi per guadagnare denaro.» «Sì, lavorando in una fabbrica per diciotto ore, che non è altro che una forma di schiavitù legalizzata e non lascia loro abbastanza tempo da dedicare alla scuola o allo studio. Non c'è da stupirsi allora se la nostra gioventù abbrutita si dedica al furto o alla prostituzione.»

Lord Northcote alzò un sopracciglio, sbigottito, ma Harker lo incalzò: «Non sono fortunati come voi, che siete nato ricco e lascereste che si vendessero per permettersi ciò che vi è stato donato da Dio». «Come osate?» «È evidente che il signor Harker è un uomo di forti passioni» intervenne Mina, stringendo il braccio di Harker per far sì che tacesse. «Ciò che intendeva dire è: immaginate se foste stato analfabeta. Non avreste mai frequentato Oxford, né sareste stato designato per il ministero degli Esteri, né sareste stato eletto alla Camera dei Comuni. Un'istruzione gratuita per i nostri bambini sarebbe un grande investimento per il futuro, poiché darebbe a tutti loro la possibilità di migliorare se stessi e il mondo in cui vivono. Ogni genitore desidera il meglio per i propri figli: è grazie a loro che raggiungiamo l'immortalità. Non siete d'accordo, Eccellenza?» «E come potrei non esserlo?» rispose Lord Northcote, ridacchiando. «Ma davvero, signorina Murray, una donna avvenente come voi non dovrebbe occuparsi di questioni così complesse. Fareste meglio a seguire l'esempio della vostra amica, la signorina Westenra, e dedicare le vostre energie alla ricerca di un buon marito.» Poi, senza permettere al giovane Harker di aggiungere altro, offrì il braccio all'austera moglie e scomparve con lei tra la folla. Harker si volse verso Mina con un'espressione sorpresa e ammirata. «Vi ringrazio per il vostro tentativo. Non avrei saputo esprimermi meglio, ma questi sciocchi si rifiutano di riconoscere l'importanza della cosa. Stavo cercando di convincere Lord Northcote della necessità di introdurre una legislazione sul modello di quella adottata nel 1839 dagli Stati Uniti d'America, che garantisce a tutti un'istruzione gratuita. Se perderemo questa battaglia, la nostra società andrà in rovina. Non saremo in grado di competere in questa nuova era industriale di scoperte scientifiche.» Mina sorrise. «Vista la vostra conoscenza della legge, immagino che siate un avvocato o un aspirante politico.» «In realtà, sono solo un impiegato dello studio legale di Peter

Hawkins. Ho cercato di convincere uno dei soci, l'avvocato Renfield, ad accettare il caso di due bambine di tredici anni arrestate per prostituzione. A titolo gratuito, ovviamente. Purtroppo, però, a meno che non riesca a trasformarlo in un caso di maggiore risonanza, magari sostenuto da una nuova legislazione, dubito che avrò molta fortuna. E così avremo perso altre due giovani vite.» Mina rimase profondamente colpita dall'ardore di quell'uomo. Le venne in mente un antico proverbio ebraico che amava molto, sebbene non ricordasse dove l'avesse letto: «Chi salva una vita, salva il mondo intero». E davanti a lei c'era un giovane che voleva salvarne due. «Avete letto gli articoli di William Murray sul "Daily Telegraph"? Sembra pensarla come voi. Potrebbe essere un prezioso alleato per la vostra causa.» «Signorina Murray! Siete forse imparentata con William Murray? Sono settimane ormai che cerco di raggiungerlo, ma nessuno sembra conoscerlo. Tutte le volte che sono passato dal suo ufficio, non era mai alla scrivania. È un uomo molto misterioso. Se potessi incontrarlo, sarei lietissimo di stringergli la mano e ringraziarlo per aver portato all'attenzione dell'opinione pubblica questioni così importanti.» Mina gli tese la mano. L'espressione confusa di Harker si trasformò lentamente in un sorriso stupito. «William Murray siete voi?» «Wilhelmina Murray. Ma gli amici mi chiamano Mina.» «Jonathan Harker» disse lui, prendendo la mano guantata di Mina e stringendola come quella di un uomo, dimenticando per un attimo le buone maniere. «È un vero piacere conoscervi, signorina Murray.» «Vi prego, chiamatemi Mina.» Lui la guardò negli occhi e la sua espressione ammirata e rispettosa convinse Mina di avere di fronte un uomo che avrebbe potuto facilmente amare. Anni dopo, Jonathan le disse di essersi innamorato di lei in quel momento. «Ballate, signor Harker?»

«No» si affrettò a rispondere Jonathan. «Temo di non essere un granché, come ballerino.» "È timido" pensò Mina. «Bene. Preferisco di gran lunga discutere della possibilità di salvare due bambine dagli orrori della strada. Mi fareste compagnia per una tazza di tè?» «Con molto piacere.» La maggior parte degli uomini avrebbe rifiutato l'audace offerta di Mina. Ma l'entusiasmo con cui Jonathan la accettò la fece innamorare ancora di più. Mina non riuscì a riprendere sonno dopo la macabra visione di Jack Seward. Così, indossò un lungo abito di lana lungo fino ai piedi e andò in sala da pranzo per una colazione anticipata. I servitori tornarono all'alba e le portarono il tè. Lei fissò la propria immagine riflessa nel vassoio d'argento. Sotto i suoi occhi inquieti non comparivano mai i segni dell'insonnia. Un filosofo di cui non ricordava il nome diceva: «Le ombre che l'uomo getta al mattino tornano a perseguitarlo la sera». Mina aveva l'impressione che il passato avvolgesse la sua vita in una perenne oscurità. Alle serate di gala a cui aveva partecipato negli ultimi anni, si era sentita dire più volte che doveva tenere un ritratto in soffitta che invecchiava al posto suo, proprio come Dorian Gray nell'audace romanzo di Oscar Wilde apparso sul «Lippincott's Magazine». Ciò, tuttavia, non era per Jonathan motivo di gioia, poiché non faceva che ricordargli il tradimento subito. Mina si rendeva conto di quanto il marito odiasse guardarla, sebbene cercasse di compiacerlo vestendosi da donna matura. Ma nemmeno la mise più mortificante riusciva a nascondere il suo aspetto giovanile. Jonathan aveva cinquant'anni ma ne dimostrava dieci di più. Mina capiva il suo dolore, e anche il motivo per cui beveva così tanto. Ma non avrebbe mai potuto condividere fino in fondo l'orrore che il marito aveva dovuto sopportare durante la sua prigionia in quel castello, molti anni prima. Di tanto in tanto, lo udiva piangere nel sonno, ma non le raccontava mai i suoi incubi. Possibile che non si fidasse ancora di lei?

Jonathan evitava, per quanto gli era possibile, di stare a casa con lei, ma quella volta la sua assenza si era protratta più del solito. Non era mai rimasto lontano così a lungo senza lasciar detto dove si trovasse. Manning le mise davanti il «Daily Telegraph» e il «Times» e lei si immerse nella lettura. Per un attimo, riuscì a dimenticare la sua notte insonne leggendo di un aviatore francese di nome Henri Salmet che aveva volato da Londra a Parigi in meno di tre ore, stabilendo un nuovo primato. Mina si compiacque dell'infinita ingegnosità umana, e si chiese quanto tempo sarebbe trascorso prima che una donna conquistasse, con le sue imprese, la prima pagina di un quotidiano. Alle dieci e un quarto Jonathan entrò barcollando nella stanza, con un completo di tweed grigio sgualcito, la barba lunga ed evidenti postumi di una sbornia, e si lasciò cadere con un gemito su una sedia. «Buongiorno, Jonathan.» Lui posò gli occhi spenti e iniettati di sangue sulla moglie e rispose: «Buongiorno, Wilhelmina». La sua cortesia faceva ancora più male della sua rabbia. Manning rientrò nella stanza, poggiò discretamente un'altra teiera e del pane fresco sul tavolino, e si richiuse silenziosamente la porta alle spalle. Lavorava per gli Harker da diversi anni, ed era abituato alle tensioni del loro travagliato matrimonio. Il rumore della porta, seppure attutito, disturbò Jonathan, che fece una smorfia e cercò di raddrizzarsi sulla sedia. «Sei ancora ubriaco?» Jonathan alzò gli occhi sulla moglie, come stupito che fosse ancora lì. Prese la teiera e rispose: «Dio, lo spero!». «Dove hai trascorso tutte queste notti? In mezzo a una strada? O con una delle tue... conoscenti?» «Non certo in mezzo a una strada» replicò lui, versando il tè con mano tremante. «Perché sei diventato così crudele?» Jonathan alzò la tazza come per fare un brindisi. «Il mondo è

crudele, mia cara. Io ne sono un semplice riflesso.» Si stava prendendo gioco di lei e del riflesso giovanile che le rimandavano gli specchi. «Allora rifletti su questo» ribatté Mina, con piglio deciso. «Anche se il nostro matrimonio è stato un fallimento e ormai dormiamo persino in camere separate, a volte ho ancora bisogno di te!» «Dimenticate, signora Harker, che un tempo ero io ad aver bisogno di voi.» Mina si morse il labbro inferiore. «Ho avuto di nuovo delle visioni.» «Nel senso che lo hai sognato di nuovo?» chiese lui, allungando una mano verso il «Times». «Non si tratta di sogni, stavolta.» «Io credo che tu voglia fare questi sogni, Mina, perché in fondo al cuore lo desideri ancora. La passione che provi per lui è inestinguibile.» La passione! Mina, furiosa, raddrizzò la schiena come un cobra pronto a colpire. «No, aspetta un momento...» «Perché?» la interruppe Jonathan. «Perché deve sempre mettersi fra noi, invadendo il nostro matrimonio come un cancro?» «Sei tu, Jonathan che lo metti fra noi, non io. Io ho scelto te.» Jonathan si voltò lentamente verso di lei con uno sguardo così carico di desiderio che Mina si illuse che, per una volta, avesse davvero ascoltato le sue parole. «Oh, mia adorata Mina, ancora giovane e bella come il primo giorno, è per questo che di notte gridi il suo nome? Perché mi ami tanto?» Mina si sentì mancare. «Per quanto tempo continuerai a punirmi per i miei errori? Ero giovane e sciocca, e incapace di vedere il mostro che si celava dietro la maschera.» «Cosa ti ha fatto? Io invecchio, e tu...» disse lui, scuotendo la testa sconsolato. Mina lo guardò. La sua passione, il suo ardore, il suo interesse verso il prossimo erano affogati nel whisky. L'individuo spregevole

che aveva di fronte aveva ucciso suo marito, l'amore della sua vita. Non somigliava affatto all'uomo di cui si era innamorata. Se era quello il gioco a cui voleva giocare, lo avrebbe accontentato. Nascondendo le emozioni che provava dietro una maschera di studiata cortesia, Mina si sedette e finse di immergersi di nuovo nella lettura del giornale. Il suo sguardo cadde su un trafiletto nella pagina della cronaca: «L'ex direttore del Manicomio di Whitby è morto a Parigi». Atterrita, scorse il primo paragrafo. «Jack Seward è morto!» «Cosa vai blaterando?» «La visione che ho avuto stanotte. La morte di Jack!» esclamò Mina, sbattendo il giornale sul tavolo di fronte al marito. «Non può essere una coincidenza.» Negli occhi di Jonathan, ancora stordito dall'alcol, passò un lampo. «Riposi in pace» disse, e, per un attimo, parve lucido. Poi prese il giornale e lesse l'intero articolo. Quando alzò di nuovo gli occhi, fra lui e Mina aleggiava una muta domanda. È tornato per vendicarsi? Jonathan tacque alcuni istanti, come se stesse prendendo una decisione. Poi si accasciò di nuovo sulla sedia e parve ricadere nel suo torpore. Restituì il giornale a Mina e disse: «È stato un incidente. Lo ha investito una carrozza». Mina si sentì invadere dalla collera. «Sei diventato un vecchio ubriacone, cieco e stupido!» gridò, pentendosene immediatamente. Voleva scuoterlo, ma la sua aggressività lo avrebbe solo ferito ancora di più. «La verità è che invidio Jack» sussurrò Jonathan, con gli occhi velati di lacrime. «Ha smesso di soffrire, finalmente.» Poi si alzò e si diresse verso la porta. Mina rabbrividì nuovamente. Le sue visioni erano reali. C'era qualcosa di terribile nel loro futuro. Ma stavolta avrebbe dovuto affrontarlo da sola. Presa dal panico, rincorse il marito, raggiungendolo fuori dalla stanza. «Perdonami, Jonathan. Ti amo. Ti ho sempre amato. Quante

volte devo ripetertelo?» Jonathan non si voltò. Salì in macchina e disse: «Devo mettermi in contatto con la ex moglie e la figlia di Jack, che vivono a New York. Per quanto ne so, sono ancora il loro esecutore testamentario, e dovrò occuparmi di alcune questioni». Poi premette l'acceleratore, lasciò andare il freno e sfrecciò via. Mina osservò l'auto dirigersi verso la stazione e scomparire. Le salirono le lacrime agli occhi, ma le ricacciò subito indietro, perché ebbe la netta sensazione che qualcuno la stesse osservando. Qualcuno nascosto fra i cespugli.

Capitolo 10 L'ispettore Colin Cotford camminava lungo Fenchurch Street, dirigendosi verso il cuore di Whitechapel. Era il luogo più disgustoso della terra. Dopo trent'anni di servizio a Scotland Yard, Cotford aveva visto il peggio del genere umano. Non credeva più nei concetti di paradiso e inferno che gli erano stati inculcati da bambino. Aveva visto l'inferno sulla terra, ed era Whitechapel, uno dei quartieri più poveri dell'East End di Londra. Le sue fabbriche attiravano una quantità di debosciati in cerca di occupazione, ma c'erano più abitanti che posti di lavoro, il che causava sovrappopolazione e indigenza. L'intero quartiere aveva un odore inconfondibile: un misto di escrementi, sporcizia e carne putrefatta. Mentre percorreva Commercial Street, Cotford cercò di non respirare dal naso. Era mattina presto: stava sorgendo il sole e i venditori ambulanti si stavano avviando, con i carri carichi di frutta, latte e acqua, verso Covent Garden. Il carro di un fabbro gli passò accanto sferragliando sulla strada acciottolata. Cotford continuò a camminare, fingendo di non vedere le tante donne anziane raggomitolate a terra. La povertà e il vizio le avevano gettate nella disperazione più nera e non avevano nemmeno più la forza di mendicare il cibo. Così, si rannicchiavano l'una contro l'altra per scaldarsi e attendevano di morire d'inedia, ponendo fine alla loro miserabile esistenza. Cotford era stato svegliato all'alba dal sovrintendente capo, che gli aveva ordinato di indagare sulla morte di un vagabondo, avvenuta a Parigi. Cotford aveva parlato con il tenente Jourdan, il suo collega francese che si occupava del caso, sebbene non capisse il motivo di quelle indagini. Ogni giorno, a Londra, venivano travolti da cavalli e carrozze almeno una decina di vagabondi. La situazione non doveva essere molto diversa a Parigi. Ma Jourdan sembrava pensare che ci fosse qualcosa di misterioso sotto. La vittima aveva con sé una spada placcata d'argento e, secondo i registri civili, aveva ricevuto una sovvenzione dalla Francia per svolgere alcune ricerche scientifiche. A differenza della Metropolitan Police di Londra, la Sureté Nationale di Parigi non era

gestita dall'amministrazione locale, ma da un'agenzia governativa, che voleva accertarsi che la morte del dottor Jack Seward fosse stata davvero accidentale. Cotford aveva alzato gli occhi al cielo mentre ascoltava Jourdan blaterare nel suo inglese stentato. L'uomo aveva ventilato l'ipotesi che si trattasse di una strana cospirazione, e, quando Cotford si era mostrato scettico, aveva minacciato di rivolgersi al suo superiore. Cotford si fermò davanti a una pensione situata in Wentworth Street, di fronte a un enorme magazzino. Prima di entrare nel fatiscente edificio, per scaldarsi bevve un sorso dalla sua bottiglietta di whisky che portava sempre con sé in una tasca. Quando era entrato in Scotland Yard, pensava a se stesso come a un semplice segugio. Negli ultimi anni, invece, si era sentito più come un cane da riporto. A quel punto della sua carriera, avrebbe sperato di essere almeno un sovrintendente. In fondo, venticinque anni prima era stato il più giovane poliziotto a entrare a Scotland Yard ed era stato scelto dal grande ispettore Frederick Abberline in persona. E invece era ancora un semplice ispettore. Anziché starsene seduto al caldo in un bell'ufficio del Norman Shaw Building, sede di New Scotland Yard, si occupava di casi insignificanti, destinati a rimanere irrisolti. Entrò nell'appartamento dell'ultimo piano, in cui aleggiava un odore nauseabondo. Non vi erano luci elettriche, e le finestre erano state sbarrate dall'interno con delle assi. Cotford estrasse una torcia dalla tasca del cappotto. Il fascio di luce squarciò il pulviscolo, rivelando diversi libri sparsi per la stanza. Cotford ne lesse i titoli: erano tutti incentrati sul tema dell'occulto. Intorno alle porte e alle finestre erano appesi spicchi d'aglio essiccato e rami di agrifoglio. Dal soffitto pendevano manufatti e simboli delle religioni più disparate. Nella cornice di uno specchio erano infilati ritagli di vecchi giornali londinesi dall'inchiostro così sbiadito che Cotford non riuscì a leggerli senza occhiali. Un insetto di ragguardevoli dimensioni alla luce della torcia fuggì. Nel giro di pochi minuti, arrivarono anche il sergente Lee e due poliziotti che lo aiutarono a impacchettare tutto per spedirlo alla Sureté Nationale.

«Cristo santo!» disse Lee guardandosi intorno. Cotford non sapeva se la sua esclamazione riguardasse lo stato della stanza o l'arduo compito che li attendeva. Per via della sua straordinaria altezza, Lee continuava a sbattere la testa contro i vari oggetti appesi al soffitto, facendoli ondeggiare in modo sinistro. Il sergente Lee nutriva per Cotford una sorta di venerazione, perché un tempo il vecchio ispettore aveva lavorato al caso più celebre della storia di Scotland Yard. Lo scalpore che aveva suscitato gli aveva dato una certa notorietà. Purtroppo, essendo rimasto irrisolto, era stato anche il più grande fallimento di Cotford, e aveva macchiato la sua reputazione sia in ambito professionale sia agli occhi dell'opinione pubblica. Cotford riteneva che l'ammirazione di Lee fosse ingiustificata. Lo trovava molto promettente, e sperava che raggiungesse gli obiettivi che a lui erano sfuggiti. A differenza di lui, Lee era un uomo di famiglia. Cotford non sapeva molto altro della vita privata del suo subalterno, e preferiva che fosse così. Il fascio di luce della sua torcia illuminò pareti tappezzate di pagine della Bibbia. D'un tratto, Cotford scorse una macchia rossa. Si avvicinò e vide che sul muro erano scarabocchiate le parole «Vivus est» con quello che sembrava sangue. «Matto come un cavallo» osservò Lee, scuotendo la testa incredulo. «Cosa significa?» «Non ne sono sicuro, ma credo sia latino» rispose Cotford. L'ispettore prese un libro rilegato in pelle, soffiò via la polvere e lo aprì. Da sotto la copertina cadde una fotografia. Lee la raccolse mentre Cotford sfogliava le pagine piene di annotazioni scritte a mano. Lee girò la fotografia e mostrò la dedica all'ispettore: «Lucy Westenra, il mio amore, giugno 1887». Cotford scosse la testa: niente di interessante. Allora il sergente gettò la fotografia in uno degli scatoloni che i poliziotti avevano iniziato a riempire. Cotford chiuse il libro e stava per mettersi al lavoro quando un pensiero gli attraversò la mente. Per un attimo rimase interdetto, e si chiese se il fatto di essere tornato a Whitechapel non lo avesse suggestionato. «Tutto bene, signore?» gli chiese Lee.

Cotford riaprì il libro, ritrovò la pagina e rilesse il brano. Era proprio lì, nero su bianco. Possibile? Tamburellò le dita sulla pagina e recitò le parole, che gli si erano già impresse nella mente. «Fu il professore a sollevare la sega chirurgica e a tagliare gli arti di Lucy.» Cotford si gettò sullo scatolone e recuperò la fotografia di Lucy Westenra. La guardò un istante in silenzio, compiangendo quella povera ragazza che nemmeno conosceva. Dopo tutto quel tempo, continuava a sentirsi in colpa: «Il passato grava sul presente come un incubo». Un attimo dopo, sfrecciò verso la porta, ordinando ai due poliziotti di finire di imballare gli altri diari e a Lee di seguirlo con lo scatolone. Circa un'ora dopo, Cotford e Lee giunsero al Victoria Embankment ed entrarono nell'edificio gotico di mattoni bianchi e rossi che ospitava New Scotland Yard. Senza dire una parola, si diressero nell'archivio, altrimenti noto come "l'altro obitorio", per spulciare i fascicoli. Alcune ore dopo, cominciarono ad accusare la fatica. «Dove accidenti sono quei fascicoli?» sbottò Cotford. «Sembra che ne manchino alcuni, signore.» «Lo vedo! Ma perché? Questo caso dovrebbe essere esposto nell'atrio per ricordarci sempre la nostra follia.» «Mi perdoni, signore, ma quel caso era all'ufficio di Whitehall.» «Lo so che era di competenza dell'ufficio di Whitehall. Ci ho lavorato, accidenti!» «Be', quando ci siamo trasferiti in questo edificio non tutti i fascicoli sono stati spostati qui. Alcuni sono andati perduti.» Cotford sbraitò: «Questo caso è stato un disonore per Scotland Yard, e mi ha perseguitato come la peste. Se qualcuno venisse a sapere che abbiamo perso dei fascicoli, sarebbe la fine». «Qui c'è qualcosa, signore» disse Lee, estraendo una scatola di cartone nera dai bordi consumati tenuta insieme da un nastro rosso.

Cotford la riconobbe immediatamente. La prese dalle mani di Lee come fosse un prezioso cimelio. L'etichetta, ingiallita dal tempo, era ancora al suo posto e diceva, a caratteri dattiloscritti: «Omicidi di Whitechapel, 1888». Sotto, nella calligrafia dello stesso Cotford, era riportato il numero del fascicolo: 57825. E sotto: «Jack lo Squartatore». Dal 31 agosto 1888 al 9 novembre 1888, Londra aveva vissuto nel terrore poiché cinque donne erano state brutalmente uccise nel quartiere di Whitechapel. L'assassino non era mai stato arrestato. Colpiva di notte e scompariva senza lasciare traccia. Era stata quella la triste occasione in cui Abberline, investigatore capo, aveva promosso il promettente Cotford affinché potesse partecipare alle indagini. Il suo impeccabile stato di servizio e il fatto che Whitechapel fosse il suo territorio lo avevano reso la scelta più ovvia. Il più grande rimpianto di Cotford era proprio quello di aver mancato l'assassino di un soffio, la notte del 30 settembre. Si trovava per caso a Dutfield's Yard, dove lo Squartatore aveva appena massacrato la sua terza vittima, Elizabeth Stride. Vide una sagoma scura fuggire dalla scena del delitto, lasciando dietro di sé una scia di sangue che seguì. Suonò il fischietto per richiamare i suoi colleghi e si lanciò all'inseguimento. Ma, proprio quando riuscì ad avvicinarsi, inciampò in un marciapiede che non aveva visto per via della fitta nebbia che saliva ogni notte dal fiume. Quando si rialzò, il fuggitivo era svanito. Come se non bastasse, non vedendo nulla al di là del proprio naso si perse fra i vicoli, e non riuscì nemmeno a tornare sul luogo dell'uccisione di Elizabeth Stride. Quella notte c'era stato un altro omicidio. La quarta vittima era stata ritrovata a Mitre Square, a un tiro di schioppo da dove Cotford era inciampato. Quella caduta gli era costata la carriera. Se solo fosse stato più attento, sarebbe passato alla storia come l'uomo che aveva arrestato Jack lo Squartatore. Come sarebbe stata diversa la sua vita! Non confessò mai ad Abberline che era caduto. Nutriva una vera e propria venerazione per il grande investigatore e temeva di perdere il suo rispetto. Abberline sapeva, o almeno sospettava, che Cotford gli nascondesse qualcosa, ma ciò non gli impedì di difendere lui e i suoi colleghi dalle ire dell'opinione pubblica, che li tacciò di incompetenza. Quel suo atto di altruismo non significò nulla per la

gente e forse non fece che accelerare il suo declino all'interno di Scotland Yard, ma per i suoi uomini significava tutto. Cotford ebbe l'impressione di tornare indietro nel tempo mentre esaminava i fascicoli contenenti le trascrizioni degli interrogatori. Fra i sospetti c'era anche Alexander Pedachenko, un medico russo che utilizzava lo pseudonimo di conte Luiskovo. Tuttavia, all'epoca dell'uccisione della quinta vittima, Mary Jane Kelly, il dottor Pedachenko era un paziente del manicomio di Whitby, quindi Abberline lo aveva escluso dalla rosa dei sospetti. Cotford aprì un altro fascicolo, su cui era scritto "riservato". Quando lo aprì, si ricordò del perché: il sospettato era il dottor William Gull. «Gull? Il medico personale della regina?» chiese Lee, in piedi alle sue spalle. «Proprio lui» rispose Cotford. «Ma quella pista si rivelò infondata. Nel 1888, il dottor Gull aveva settant'anni ed era stato colpito da un ictus che gli aveva lasciato il lato sinistro quasi completamente paralizzato. Non era certo l'uomo che avevo inseguito quella notte.» «Quale notte?» Cotford ignorò la domanda e tirò fuori un altro fascicolo. Eccolo! La sua possibilità di redenzione. Il destino gli aveva concesso un'altra possibilità. Era così elettrizzato che scoppiò a ridere. Lee rimase perplesso di fronte all'entusiasmo di Cotford, piuttosto insolito per lui. «Non capisco, signore.» Cotford non aveva bisogno che Lee capisse. Il sogno di scoprire l'identità di Jack lo Squartatore e di portarlo in tribunale era di nuovo a un passo da lui. L'uomo di cui il professor Seward scriveva nei suoi diari era stato fra i primi sospettati di Abberline. Sebbene quest'ultimo non fosse mai riuscito a inchiodarlo, la sua sanguinosa biografia giustificava i dubbi sulla sua estraneità ai fatti. Il sospetto in questione era un medico e un professore caduto in disgrazia. Possedeva una grande abilità chirurgica, ma aveva perso la licenza medica e la cattedra universitaria per aver sottoposto alcuni pazienti a terapie sperimentali e per aver sottratto all'università dei cadaveri cui aveva inflitto terribili mutilazioni ispirate a chissà quale rituale.

Cotford porse, con aria trionfante, il fascicolo di Seward al suo secondo. «Ricordati: la fortuna è una ruota che gira.» Il sergente Lee lo guardò perplesso prima di leggere ad alta voce il nome del sospettato: «Dottor Abraham Van Helsing».

Capitolo 11 «Hai intenzione di nasconderti ancora a lungo fra quei cespugli, amore?» disse Mina guardandolo dritto negli occhi, come se riuscisse a vedere attraverso il fogliame. Quincey emerse dalle siepi, cercando di non rimanervi impigliato. «Ho visto l'automobile di papà e ho aspettato che se ne andasse» rispose lui, ripulendosi il cappotto impolverato. «Come facevate a sapere che ero lì?» «Sono tua madre, sciocchino» disse Mina, ridendo. Lo strinse in un lungo abbraccio, poi lo allontanò da sé per guardarlo meglio. «È passato così tanto tempo... Lasciati guardare. Mi sei mancato tanto.» «Anche voi, madre...» disse Quincey, poi, rendendosi conto che la donna aveva da poco smesso di piangere, le chiese: «Cosa c'è? Cos'è successo?». «Non preoccuparti per me» rispose lei, togliendogli delle foglie dai capelli. «È per via di papà? Beve ancora?» «Ti prego, Quincey, è molto irrispettoso da parte tua.» «Perdonatemi.» «Vieni dentro. È un piacere averti qui. Sei diventato un gran bel giovanotto. Però sembra che non mangi da settimane.» Nei tre anni in cui era mancato da casa, Quincey aveva girato tutto il Regno Unito e l'Irlanda con la tournée teatrale, e solo nell'ultimo anno si era stabilito a Parigi. Aveva conosciuto mondi completamente diversi. Ritrovarsi nella casa in cui era cresciuto fu un'esperienza surreale. Quando varcò la porta d'ingresso, ebbe l'impressione che il tempo non fosse mai trascorso. Guardò la ringhiera della scalinata, da cui adorava, da bambino, scivolare giù, malgrado gli ammonimenti del padre. Sbirciò dentro il salotto: era tutto esattamente come lo aveva lasciato. Il servizio da tè preferito della madre e, accanto, la pila di

giornali. Riconobbe il decanter di cristallo del padre, riempito a metà del suo scotch preferito. Gli tornò in mente la volta in cui ne aveva rotto uno e il genitore lo aveva aspramente redarguito. Si domandò se fosse stato più adirato per la perdita del costoso oggetto o del whisky che conteneva. Mentre si guardava intorno, Mina si avvicinò al tavolo e prese uno dei giornali aperti. Mentre lo richiudeva e se lo metteva sotto il braccio, Quincey ebbe l'impressione che le tremassero le mani. «Madre, siete sicura di star bene?» «Ma certo» rispose lei, con un timido sorriso. «Ora, perché non vai a rinfrescarti un po'? Nel frattempo, dirò al cuoco di prepararti qualcosa da mangiare.» Dopo le fatiche del lungo viaggio da Parigi, Quincey si sentì, rinascere indossando degli abiti puliti. Si guardò intorno nella vecchia stanza, che non gli apparteneva più. Passò davanti allo studio e vide sua madre che fissava, assorta, la vecchia fotografia che la ritraeva insieme all'amica Lucy, morta per una grave malattia quando aveva più o meno la sua età. Doveva essere terribile perdere la vita così giovane. Sua madre guardava sempre quella foto, quando era preoccupata. Era come se si rivolgesse all'amica defunta per chiederle consiglio. Mentre la osservava, Quincey si rese conto che sua madre non era cambiata affatto, da quando l'aveva lasciata, proprio come la casa in cui viveva. Il tempo non doveva essere stato altrettanto clemente con il padre, scontroso e alcolizzato. Gli venne in mente un giorno di alcuni anni prima quando alcuni suoi compagni di classe avevano fatto osservazioni fuori luogo sull'aspetto giovanile della madre e lui li aveva affrontati tutti e tre, dando loro una bella lezione. Malgrado la sua prodezza gli fosse valsa una sospensione da scuola, Quincey si era sentito orgoglioso di sé. Lui e sua madre fingevano spesso di essere fratello e sorella. Era certo che, un giorno, anche lei sarebbe invecchiata come il padre, ma era lieto che quel momento non fosse ancora arrivato. Se fosse tornato a casa dopo tanto tempo trovando la madre sfiorita e malata, il senso di colpa sarebbe stato

insopportabile e la rabbia verso il padre che lo aveva allontanato incontenibile. Quincey non si rese conto di quanta fame avesse finché non cominciò a mangiare. Non gustava un salmone affumicato così buono da quando era partito. Non fece in tempo a svuotare il piatto che Mary, la domestica, entrò silenziosamente nella stanza e sparecchiò la tavola. «Ora che ti sei rifocillato,» disse Mina «mi spieghi perché, dopo essere rimasto a Parigi tutto questo tempo, hai scelto di tornare proprio adesso, nel bel mezzo di un semestre universitario?» «Promettetemi che non vi arrabbierete.» «Sai benissimo che non ti farei mai una promessa del genere.» «D'accordo.» Quincey fece un profondo respiro e disse, tutto d'un fiato: «Ho conosciuto una persona. Una persona meravigliosa». Mina fece per ribattere, ma sembrò essere rimasta senza parole. Quincey stava per continuare quando riapparve Mary con del tè e dei biscotti Garibaldi, i preferiti di Quincey. Appena se ne fu andata, Mina disse: «Allora dimmi: chi è la fortunata?». «La fortunata?» «Be', non hai meravigliosa...?»

detto

che

hai

conosciuto

una

persona

«Sì, ma non intendevo... Madre, tenetevi forte: ho avuto un colloquio con Basarab.» «Chi?» «Non lo conoscete? È un genio. Acclamato da tutta Parigi. È considerato il più grande interprete shakespeariano del mondo.» «Oh, Quincey, di nuovo con questa storia?» «Basarab mi ha consigliato di smetterla di inseguire i sogni spezzati di mio padre e di cominciare a inseguire i miei, prima che sia troppo tardi.» «Non trovi alquanto presuntuoso supporre che lui sappia meglio dei tuoi genitori ciò che è bene per te?» «Credo che abbia visto delle potenzialità in me.»

«Anche io e tuo padre. E la tua laurea in legge?» «Il suo incoraggiamento mi ha convinto a lasciare la Sorbona e a cercare lavoro al Lyceum Theatre.» «Non so che dire, Quincey. Tu e tuo padre avevate un accordo. E, come avresti imparato se solo avessi studiato, un accordo verbale è vincolante tanto quanto un contratto scritto.» «Vi prego, madre, quell'accordo fu stipulato sotto coercizione. Ero senza un soldo e papà pagò l'impresario del teatro per licenziarmi in tronco e gettarmi in mezzo alla strada. Se non avessi accettato le sue condizioni, sarei morto di fame.» «Io intervenni in tuo favore, e diedi a tuo padre la mia parola. Lui voleva che tu andassi a Cambridge, e io, con la promessa che ti saresti laureato e avresti abbracciato l'avvocatura, lo convinsi a lasciarti andare a Parigi...» «Così almeno avrei potuto frequentare l'ambiente degli artisti, lo so» la interruppe lui. «Ma sarei stato molto meglio a Cambridge. Avete idea di come sia desiderare ardentemente qualcosa e averla sempre sotto gli occhi, sapendo che è un frutto proibito? C'è da impazzire!» «Capisco come ti senti più di quanto tu non creda, ma resta il fatto che hai promesso di laurearti, e una promessa è una promessa.» «Se possiedo davvero il talento che Basarab dice di aver visto in me,» replicò Quincey «verrò assunto al Lyceum. Allora disporrò dei miei mezzi e quel vecchio ubriacone potrà andarsene all'inferno.» Mina balzò in avanti e lo schiaffeggiò. Fu uno shock per entrambi. Né Mina né Jonathan avevano mai alzato un dito sul figlio. «Quincey Arthur John Abraham Harker!» esclamò Mina, cercando di controllarsi. «Jonathan è ancora tuo padre, e ti vuole bene.» «Allora perché non me lo dimostra?» «Te lo dimostra ogni giorno, ma sei troppo giovane e ingenuo per rendertene conto. Io, però, lo conosco bene, e c'è un motivo in tutto ciò che fa. Qui non si tratta solo dei tuoi desideri. Non posso darti la mia benedizione, Quincey. Devi fidarti di noi e capire che sappiamo ciò che è meglio per te.»

Quincey era distrutto. Lui e sua madre erano sempre stati vicini. Era l'unica che avesse mai ascoltato i suoi sogni e le sue speranze e lo avesse incoraggiato. E adesso anche lei, come il padre, voleva soffocare le sue aspirazioni. Evidentemente, non era rimasto tutto immutato, in quella casa. Aveva sempre saputo che i suoi genitori avevano molti segreti che avevano scelto di non condividere con lui. Di qualunque cosa si trattasse, non aveva più importanza. «Ego sum qui sum. Sono ciò che sono, ed è tempo che lo sia.» Gli occhi di Mina si riempirono di lacrime e il suo volto si contorse in una smorfia di dolore che Quincey interpretò come paura irrazionale. Supplicò il figlio un'ultima volta: «Ti prego, Quincey, non farlo». L'orologio suonò le undici. Lui disse, freddamente: «Devo andare a prendere il treno. Mi stabilirò a Londra e non vi disturberò mai più». Poi, per evitare lo sguardo della madre, si voltò e, per la prima volta in vita sua, uscì di casa senza darle un bacio.

Capitolo 12 L'alta figura del conte Dracula, vestito di un logoro frac e di un mantello nero bordato di rosso, giganteggiava nel polveroso salotto inglese. La sua espressione torva lasciò lentamente il posto a un sorriso sinistro quando chiese con forte accento continentale: «Volete ripetere ciò che avete appena detto, professore?». L'uomo anziano rispose, sospirando: «Ho detto: "Conte, desiderate sapere cosa ho prescritto alla signorina Westenra per guarirla dal suo male?"». «Qualsiasi cosa facciate per la mia cara Lucy mi interessa profondamente, professore.» Il professor Van Helsing estrasse una grossa croce di legno e si voltò verso il conte. Quest'ultimo si ritrasse con un sibilo e cercò di ripararsi con il mantello. Mentre indietreggiava, urtò un mobile e rovesciò una lampada. La nuvola di fumo che si levò da terra fece trasalire entrambi. Il conte prese a tossire violentemente. «Ora che voi... e quell'avvocato da quattro soldi... Jonathan Harker... avete scoperto... ciò che credete di aver scoperto, professor Van... Helstock...» Van Helsing alzò gli occhi al cielo, ma Dracula continuò: «È tempo che facciate ritorno...» esitò un istante, come a corto di parole «...nella vostra terra degli zoccoli!». «Io mi chiamo Van Helsing!» gridò l'altro. «E potreste riferirvi alla mia terra come all'Olanda, brutto idiota.» «Razza di insolente!» replicò Dracula, stavolta senza alcun accento. «Avete idea dell'immenso talento che avete davanti?» «Io non vedo altro che un ubriacone che non riesce nemmeno a ricordarsi le battute.» Furioso, il conte Dracula si voltò verso le luci. «Stoker! Licenziate immediatamente questo imbecille!» Van Helsing afferrò il mantello di Dracula, rovesciandoglielo sopra la testa. Questi lo afferrò per il colletto e i due si azzuffarono

finché il conte non fu assalito da un altro attacco di tosse. «Ho ingoiato un canino, accidenti!» sbraitò. Poi si strappò di dosso il mantello e colpì Van Helsing con un pugno, rompendogli il naso. Quest'ultimo, accecato dalla rabbia e dal dolore, abbassò la testa e caricò il conte. «Cosa fai, idiota! Mi sporchi di sangue!» Quincey Harker, in piedi in fondo all'opulento Lyceum Theatre, in stile neoclassico, scosse la testa. L'uomo che barcollava sul palco con indosso un mantello da prestigiatore da quattro soldi era il grande attore americano John Barrymore. Si sarebbe aspettato un diverso contegno anche da Tom Reynolds, che interpretava Van Helsing e che Quincey aveva visto una volta nel ruolo di Vinaigre in Madame Sans-Gène. E invece i due si accapigliavano senza alcun ritegno. Era uno spettacolo davvero disdicevole. Il teatro non era un ring di pugilato! Esistevano precise regole di decoro da osservare. Vedere degli attori comportarsi in modo così incivile non faceva che confermare i pregiudizi che l'opinione pubblica nutriva nei loro confronti. Ciononostante, Quincey sapeva di aver fatto la scelta giusta seguendo il consiglio di Basarab. Il grande interprete era elegante e professionale: proprio ciò che lui stesso voleva essere. Ma la vista del triste circo che si esibiva sul palco non era l'unica cosa che lo infastidiva. Bram Stoker, un corpulento irlandese di una certa età con la barba e i capelli rossi ormai ingrigiti, era seduto in prima fila. Sbatté il bastone a terra e urlò: «Signori! Siete dei professionisti!». Il giovanotto seduto accanto a lui balzò sul palco per separare i due contendenti, gridando: «Smettetela! Vi state comportando come dei bambini!». «E stato lui a cominciare!» esclamò Reynolds, che si teneva il naso con le mani insanguinate. Barrymore si raddrizzò e disse: «Signor Stoker, non intendo

tollerare alcuna forma di insubordinazione da parte di questo imbecille! Chiedo che venga allontanano immediatamente». «Signor Barrymore, vi prego, siate ragionevole...» «Ragionevole? È una questione d'onore!» «Non dimenticate che sono io il produttore dello spettacolo» intervenne Hamilton Deane. «Sono io che decido chi deve essere licenziato e chi no. Trovare un sostituto adesso sarebbe una spesa inutile. Il signor Reynolds resta dov'è.» «Allora, signor Hamilton Deane, produttore di spazzatura, avete perso la vostra punta di diamante!» esclamò Barrymore, scendendo a passo deciso dal palcoscenico. Stoker si alzò, appoggiandosi stancamente al bastone. «Vi ho portato qui dall'America in nome dell'affetto che nutrivo per vostro padre, che la sua anima tormentata riposi in pace. Debuttò su questo stesso palco. Smettetela di trattare questo spettacolo come una delle vostre sciocche commedie. Qui a Londra avete le potenzialità per diventare un grande attore drammatico. Anche più grande di Henry Irving, ma almeno lui si rovinò con l'alcol dopo aver raggiunto la fama. Voi rischiate di distruggervi prima che il pubblico possa apprezzare tutto il vostro talento.» «Allora, licenzierete questo idiota o no?» «Certo che no. Il signor Reynolds è un fedele membro della compagnia del Lyceum da più di trent'anni.» «Allora mi imbarcherò sulla prima nave per l'America» disse Barrymore, voltandosi e avviandosi barcollando lungo il corridoio della platea. «Signor Barrymore, pensateci bene» gli disse Stoker. «Avete lasciato New York perché nessuno era disposto a ingaggiare un primo attore sempre ubriaco.» John Barrymore si fermò, ondeggiò lievemente, si voltò di nuovo verso Stoker e sibilò: «Credete che la vostra sia l'unica proposta che abbia ricevuto? Me ne andrò in California. Mi è stata offerta una parte in una pellicola cinematografica. Rimpiangerete questo momento per il resto della vostra vita, ve lo assicuro».

Quincey aveva visto alcune di quelle pellicole al cinematografo di Parigi. Gli erano sembrate poco coinvolgenti e trovava strano che un attore serio potesse puntare su di esse. Poiché erano mute, gli interpreti dovevano recitare in modo esageratamente enfatico per farsi capire dagli spettatori. Mentre si dirigeva verso la porta, Barrymore si scontrò con Quincey. «Guarda dove vai, ragazzo» gli disse. «Mi scusi, signore.» Barrymore se ne andò sbattendo la porta. Quincey rimase impietrito. Deane e Stoker lo fissarono. «Chi diavolo siete?» gli chiese Deane. «Sono prove a porte chiuse, queste.» «Perdonatemi, sono in anticipo, ma ho un appuntamento con il signor Hamilton Deane» rispose Quincey. «Ah, sì. Siete qui per l'apprendistato, dico bene? Come vi chiamate?» «Quincey Harker.» Stoker sobbalzò. «Ho sentito bene?» continuò Quincey. «Uno dei personaggi del vostro spettacolo è un avvocato di nome Jonathan Harker?» «Sì. E allora?» ribatté Stoker. «Mio padre si chiama Jonathan Harker... ed è un avvocato.» Pochi minuti dopo, Stoker, Deane e Quincey erano seduti nel minuscolo ufficio di Stoker. Le pareti erano tappezzate di manifesti degli spettacoli di Henry Irving rappresentati al Lyceum. Quando Deane porse a Quincey un libro con una copertina di un giallo brillante e i caratteri rossi, Stoker parve preoccupato.

Dracula di Bram Stoker

«Il personaggio di un romanzo. Mio padre non me l'aveva detto» osservò Quincey, sfogliando le pagine. Aveva tra le mani la prova dell'atteggiamento ipocrita del padre verso le arti. Era incredibile. Avrebbe voluto fare così tante domande, ma si morse la lingua. Non voleva cominciare col piede sbagliato e mostrare la stessa inosservanza delle regole del decoro di Barrymore. Un umile apprendista teatrale non doveva mai contraddire il produttore o il regista di uno spettacolo, se teneva al proprio lavoro... e Quincey non era nemmeno stato assunto, almeno non ancora. Stoker gli strappò di mano il volume. «Tutto questo è ridicolo!» sbraitò. «Ho scelto quel nome perché negli anni Ottanta avevamo uno scenografo che si chiamava Joseph Harker. Qualsiasi riferimento a vostro padre è una pura coincidenza.» «Una strana coincidenza, vorrai dire» interloquì Deane.

«Dracula è il mio romanzo, ed è un'opera di fantasia.» «Nessuno lo ha messo in dubbio» disse Deane. «Per quanto mi sembra di ricordare che tu abbia insistito molto per organizzare una lettura dell'opera volta a dimostrare la tua paternità. E ancora non capisco il motivo di questa scelta.» «L'unica cosa che devi capire è che la paternità dell'opera è mia, e solo mia» ringhiò Stoker, che poi riversò la sua ira su Quincey. «Mi dispiace, giovanotto, ma il Lyceum non ha bisogno di apprendisti, in questo momento. Grazie.» «Ma signor Stoker...» Stoker fece per andarsene. Deane gli mise una mano sul braccio e sussurrò: «Bram, siamo terribilmente in ritardo. Abbiamo bisogno di ogni aiuto possibile. Abbiamo sforato il bilancio e siamo a corto di personale. E, come se non bastasse, abbiamo appena perso il nostro primo attore». Quincey colse la palla al balzo. «Forse posso esservi d'aiuto.» I due uomini si voltarono verso di lui. Era il suo momento. «E se potessi procurarvi il più grande attore dei nostri tempi? Un artista di cui i critici hanno scritto: "Quando recita Shakespeare è come se vivesse quel ruolo, camminasse nel sangue, combattesse le battaglie".»

«State parlando di Basarab» disse Deane. «È un mio intimo amico. E sono certo che il suo nome sui cartelloni attirerebbe un folto pubblico, giustificando qualsiasi altra spesa doveste affrontare.» Deane sollevò un sopracciglio, valutando la proposta. Stoker sbatté il bastone sul pavimento. «Il primo attore è John Barrymore. Vedrete che tornerà.» E uscì dall'ufficio, borbottando: «Queste pellicole cinematografiche saranno un completo fiasco». Quando Stoker si fu allontanato, Deane disse: «Ciò che il signor Stoker dimentica, è che ci vorranno tre settimane prima che il signor Barrymore raggiunga la California. Anche se dovesse rendersi conto di aver fatto un terribile errore e tornasse da noi col cappello in mano, saremmo già rovinati». «Basarab è a Parigi, a un giorno di viaggio. A voi la scelta.» Deane lo guardò a lungo negli occhi. «Siete un uomo di parola, signor Harker? Un uomo di cui fidarsi?» «Certo, signor Deane.» «Bene. Allora potreste farmi compagnia a cena» disse Deane. «Abbiamo molte cose di cui discutere, voi e io.»

Capitolo 13

Quid verum atque decens era il motto della famiglia Stoker.

"Tutto ciò che è vero e onorabile." Stoker senior lo aveva imposto a tutti e sette i figli, ma Bram trovava sempre più difficile farlo proprio.

«T'anam an Diabhal» imprecò Bram in gaelico, la sua lingua

madre. Aveva aspettato che quel ragazzo, Quincey Harker, se ne andasse, ma, con suo grande disappunto, lo aveva udito uscire dall'ufficio insieme a Hamilton Deane e ora stavano andando alla Ye Olde Cheshire Cheese, il pub preferito di Deane; per discutere di Basarab, ovviamente. A quanto sembrava, Deane non aveva intenzione di lasciar cadere la questione come aveva sperato. Stoker non lasciava mai nulla al caso, neanche quando sembrava comportarsi in modo strano. Ogni sua azione faceva parte di un disegno più ampio e ben congegnato. Una variabile imprevedibile come Quincey Harker era molto pericolosa.

Dracula era la sua ultima possibilità di dimostrare di essere uno

scrittore, di realizzare il sogno di una vita, di salvare il suo teatro. Da quando suo figlio se n'era andato, Stoker non aveva nessuno ad aspettarlo a casa. La sua bella moglie lo faceva sentire un estraneo, ma non gli importava più che disertasse il suo letto. Il Lyceum era stato la sua vera casa per decenni, e sarebbe morto prima di lasciarlo nelle mani di Hamilton Deane o di un altro della sua razza. Stoker salì zoppicando sul palco. Quanti spettacoli, e quanti ricordi. Ma anche quanti cambiamenti. Lo splendido soffitto a volta che aveva tanto amato non c'era più. All'orchestra erano state aggiunte due file di sedili. Disprezzava il modo in cui Deane stava trasformando quel luogo glorioso in un teatrino da quattro soldi. Sebbene Stoker non fosse contrario alla nuova era industriale, trovava che i teatri fossero sacri. Chi oserebbe mai modernizzare le antiche chiese di Venezia? Rise fra sé e sé. Forse Deane lo avrebbe fatto. Era ossessionato dalle ultime diavolerie del progresso, di cui aveva riempito il teatro di Stoker, deturpandolo. Vi aveva installato

una delle stazioni senza fili di Marconi con la scusa che avrebbe evitato agli attori di doversi continuamente allontanare per ricevere i messaggi. Bertie Crewe fu incaricato di riprogettare l'interno del teatro per ottenere "un'acustica migliore". Sebbene Stoker detestasse l'amore di Deane per il nuovo e il moderno, si rendeva conto che era proprio quello a fargli cogliere il valore delle idee innovative. Deane aveva visto delle potenzialità, nel romanzo di Stoker. Aveva capito che le storie dell'orrore, da sempre identificate con romanzacci da due soldi, stavano finalmente trovando un nuovo pubblico. Rappresentare Dracula per competere con gli apprezzati adattamenti di Frankenstein e del Dottor Jekyll e Mr Hyde poteva fruttare una fortuna. Stoker aveva il teatro e Deane il denaro: la loro era una combinazione perfetta. Ma Stoker aveva fatto parte dell'industria dell'intrattenimento abbastanza a lungo da conoscerne la regola aurea: è chi ha il denaro che detta le regole. Deane rifiutava di ascoltarlo. Del resto, perché avrebbe dovuto? Se Stoker era così esperto, perché il suo teatro stava fallendo? Bram aveva sempre sognato di diventare uno scrittore. Da giovane, aveva studiato legge per tener fede all'impegno preso con i genitori, ma non aveva mai smesso di scrivere. Aveva sperato che i suoi insegnanti riconoscessero il suo talento, così avrebbe potuto convincere i genitori che la sua vocazione era un'altra. Purtroppo, ciò non era accaduto, poiché era stato oscurato dal suo amico e compagno di classe Oscar Wilde. La sua rivalità con quest'ultimo ebbe persino ripercussioni sulla sua vita amorosa: Bram amava, senza mai dichiararsi, Florence Balcombe, la donna più bella che avesse mai visto, ma fu Wilde a conquistarla con le sue poesie d'amore. Forse Florence intuì che Wilde preferiva la compagnia maschile, perché la loro relazione finì, e lei accettò la corte di Stoker. Col passare del tempo, tuttavia, Bram si rese conto che la scelta di Florence era stata dettata dall'interesse più che dall'amore. Florence non voleva essere costretta a sbarcare il lunario al fianco di un artista vagabondo, e Bram aveva un lavoro sicuro, essendo stato assunto come impiegato in uno studio legale. Stoker scosse la testa. Wilde poteva aver perso Florence, ma lui continuava a invidiare il suo prestigio letterario. Così, cercò di tenere almeno un piede nel mondo della letteratura. Scrisse, a titolo completamente gratuito,

numerose recensioni teatrali per il «Dublin Mail». E, dopo averne scritta una molto lusinghiera dell'Amleto di Henry Irving, fu ammesso nella cerchia di amici altolocati del grande attore shakespeariano, con grande soddisfazione di Florence, che aveva sempre desiderato far parte dell'alta società londinese. Poco dopo, Bram lasciò il lavoro e divenne socio in affari e impresario di Irving. Fu una grande fortuna, poiché gli permise di vivere indirettamente i suoi sogni attraverso il successo di Irving. Florence era certa che anche quel tentativo si sarebbe rivelato un fallimento, ma, quando Bram si arricchì, cambiò idea. Gli Stoker frequentavano il pittore James McNeill Whistler, il poeta Frances Featherstone e Sir Arthur Conan Doyle. Bram, tuttavia, sapeva di essere stato ammesso in quella ristretta cerchia solo grazie al suo rapporto con Irving. Quest'ultimo, tuttavia, si rifiutò sempre di interpretare le pièce teatrali di Bram. Malgrado Stoker lavorasse giorno e notte per gestire i suoi affari, e persino i suoi intrighi amorosi, Irving disprezzava la sua scrittura e non voleva aiutarlo. Finalmente, Stoker ebbe la sua occasione. Nel 1890 Oscar Wilde scrisse un racconto gotico, Il ritratto di Dorian Gray, che ebbe un enorme successo. Poco dopo lo scrittore fu arrestato con l'accusa di oltraggio alla morale, e il suo processo suscitò molto scalpore. Sperando di sfruttare l'ultima moda letteraria, Stoker si ispirò a Wilde, Mary Shelley e John Polidori. Nell'estate del 1816, il celebre poeta Lord Byron invitò lui e i suoi ospiti a scrivere un racconto del terrore. Tutti erano certi che a vincere la sfida sarebbero stati i due partecipanti più autorevoli, Byron stesso e Percy Shelley. Nessuno avrebbe immaginato che la moglie di Percy, Mary Shelley, o il dottor John Polidori, potessero aggiudicarsi la vittoria. Il romanzo Frankenstein e il racconto Il vampiro videro la luce quella notte, ed ebbero un enorme successo. Bram adorava quelle storie gotiche, e cominciò a sperare di poter emulare il loro trionfo. L'occasione si manifestò quando Wilde fu rinchiuso in prigione, lasciando un vuoto letterario. Bram decise che era giunta l'ora di uscire dall'ombra di Irving e Wilde. La sua non fu una scelta dettata dall'opportunismo, ma dalla convinzione che il suo duro lavoro dovesse ripagarlo, prima o poi. Non fu una sorpresa che il suo redattore e editore non

condividesse la sua aspirazione: Bram aveva pubblicato, fino ad allora, solo biografie e opere di consultazione. Fu invece colto alla sprovvista dalla totale mancanza di appoggio che riscontrò in Florence, la quale pensava che Bram stesse perdendo il suo tempo. Stoker si rese quindi conto di essere solo nel suo tentativo di diventare un romanziere di successo. Finì persino col convincersi che il suo redattore e il suo editore avessero fatto in modo che fallisse, nella speranza che "tornasse in sé" e abbandonasse il proposito di scrivere opere di fantasia. Quegli idioti avevano cambiato il titolo del romanzo da Il non-morto a Dracula, e tagliato centinaia di pagine di vitale importanza per il libro. Era pronto a scommettere che Wilde non fosse mai stato censurato. Come se non bastasse, il suo editore non aveva fatto alcun tentativo di promuovere Dracula, incolpando poi Bram per l'esiguità delle vendite. Dopo tutti quegli anni, Stoker continuava a sentirsi oscurato dal suo vecchio amico e rivale in amore. Anche dopo la sua morte, Dorian Gray continuò a vendere moltissime copie. Bram aveva sperato che Irving lodasse pubblicamente Dracula, invece lo definì "terribile", soffocando le sue ultime speranze. Un gesto che Stoker non gli perdonò mai. Alcuni anni dopo, Irving morì senza avergli porto le sue scuse. Con sua grande sorpresa, però, gli lasciò in eredità il Lyceum Theatre. Finalmente Bram aveva qualcosa di suo. Ma, senza il richiamo del nome di Irving, il pubblico disertò le sue produzioni teatrali. Col passare del tempo, i suoi collaboratori più brillanti si trasferirono in altri teatri. Il Lyceum era un buco nero finanziario, e la tensione si fece insopportabile. Stoker ebbe un ictus. Giunto ormai all'ultimo atto della sua esistenza, non gli restava che un'occasione per far conoscere la sua opera al grande pubblico. L'adattamento teatrale di Dracula doveva essere un successo in modo da alimentare le vendite del romanzo. Le sue precarie condizioni di salute non gli avrebbero concesso un'altra possibilità. Non voleva essere ricordato in una nota a piè di pagina dell'illustre biografia di Irving. Doveva essere lui a trasformare quella produzione in un successo, non Hamilton Deane, né Quincey Harker. Guardò la platea di poltroncine rosse, completamente vuota.

Doveva essere lui a riempirla. Doveva convincere Barrymore a tornare e a riassumere il controllo della rappresentazione. Pensò, non senza cogliere il lato ironico della faccenda, che avrebbe potuto usare l'infernale stazione senza fili di Deane per inviare un telegramma a Southampton e supplicare Barrymore di non imbarcarsi per l'America. Era lui il primo attore che voleva. Non aveva più tempo né voglia di altri compromessi.

Capitolo 14 La campana del Westertoren echeggiò in lontananza. Suonava ogni quindici minuti, e il vecchio non ci faceva più caso. Negli ultimi tempi, tuttavia, i rintocchi sembravano essere diventati più forti, come a voler contare i minuti che mancavano alla fine della sua vita. Trascorreva la maggior parte delle giornate nel suo appartamento al terzo piano di un edificio situato su Haarlemmer Houttuinen. Se ne stava affacciato alla finestra che dava sul Prinsengracht Canal, circondato dai suoi libri. Il suo unico collegamento con il mondo esterno era la pila di giornali che gli veniva consegnata alla fine di ogni settimana insieme ai viveri. Il vecchio si infilò gli occhiali e prese il «Times». Un francese aveva stabilito un nuovo primato in aviazione. Scosse la testa: gli uomini non erano fatti per volare. Persino la mitologia greca aveva lanciato un ammonimento con la storia di Icaro, che aveva osato volare troppo vicino al sole. La morale di quella storia era sempre valida: l'orgoglio conduce alla rovina. La nuova era industriale aveva svelato l'arroganza dell'uomo. Il vecchio chiuse il giornale, lo voltò e il suo sguardo cadde sulla rubrica della cronaca mondana. Normalmente non se ne curava, ma un titolo attirò la sua attenzione: «L'ex direttore del manicomio di Whitby è morto a Parigi». Il dito rugoso del vecchio seguì, tremante, il testo. Quando lesse il nome della vittima, che confermò i suoi sospetti, il cuore gli balzò in petto. Jack Seward. I dettagli della sua morte erano piuttosto vaghi: un incidente con una carrozza, o così sembrava. Cosa ci faceva Jack a Parigi? Il vecchio rilesse la data. Era trascorsa quasi una settimana. Accidenti! Sfogliò gli altri giornali e trovò gli ultimi numeri di «Le Temps». In uno di essi figurava un articolo scritto il giorno dopo la morte di Jack. Lo lesse, malgrado il suo francese lasciasse ormai molto a desiderare, ma non vi erano particolari interessanti. C'era una fitta nebbia, il cocchiere non si era fermato e Jack era stato travolto davanti al Théàtre de l'Odèon. Una tragica fatalità. Stava per chiudere il quotidiano quando lesse che un testimone aveva dichiarato di aver visto due donne salire sulla carrozza che si

allontanava, ma che la polizia non aveva ritenuto attendibile la sua deposizione, poiché aveva anche affermato che la carrozza era priva di cocchiere. Poteva essere un dettaglio insignificante agli occhi delle autorità francesi, ma per il vecchio era un segnale di pericolo. Del resto, aveva sempre pensato che gli incidenti non succedono mai per caso.

«Hij leeft... È vivo» disse fra sé e sé, col cuore in gola. Sentì una

fitta acuta alla mascella, come se lo avessero trafitto con un coltello arroventato.

Pochi istanti dopo, avvertì una morsa al petto. Infilò una mano in tasca e prese il portapillole d'ottone. Sentì il braccio sinistro intorpidirsi. Cercò di aprire il fermaglio della scatola con una mano sola, ma la morsa si intensificò, e le compresse caddero sul tappeto. Il vecchio aprì la bocca per urlare, ma dalle sue labbra secche uscì solo un lamento. Cadde dalla sedia, sul pavimento. Se fosse morto lì, lo avrebbero trovato una settimana dopo, al ritorno del fattorino. Sarebbe rimasto lì a marcire, solo e dimenticato. Riuscì ad afferrare una compressa di nitroglicerina, se la mise sotto la lingua e attese che facesse effetto. Il bagliore del fuoco illuminava in modo sinistro gli occhi vitrei degli animali imbalsamati sparsi per la stanza. I loro sguardi opachi sembravano schernirlo. Pochi minuti dopo, percepì il suo sangue scorrergli di nuovo nelle vene. La morte allentò la presa. I suoi occhi umidi guardarono di nuovo il giornale. Sapeva che il suo destino non era morire di un banale attacco di cuore. C'era un motivo per cui Dio lo aveva tenuto in vita. Radunando tutte le sue forze, si sedette di nuovo sulla sedia, poi, risoluto, si alzò.

Capitolo 15 Quincey non ricordava nulla del tragitto da Londra a Harbour Station, a Dover, né dell'attesa del traghetto per Calais. Per tutto il viaggio, durato ventiquattro ore, rimase immerso nella lettura del romanzo di Bram Stoker. Continuò a leggere anche dalla stazione di Calais-Fréthun, sullo Chemin de Fer du Nord, fino alla Gare du Nord, a Parigi. Trovò estremamente originale la combinazione di narrazione in prima persona, stralci di diari e corrispondenza, e rimase affascinato dal protagonista, il conte Dracula, un personaggio del tutto inverosimile ma anche una figura piena di contraddizioni, una maschera tragica, un simbolo del Male, il cacciatore che diventa preda. Ma il fatto che due dei personaggi principali fossero suo padre e sua madre era davvero surreale. Venivano menzionati persino la sua casa di Exeter e il fatto che il padre avesse ereditato lo studio legale Hawkins. Trovò offensivo che Stoker mettesse in dubbio la virtù di sua madre e gettasse un'ombra sulla natura del suo rapporto con il vampiro. Ma, andando avanti con la lettura, la sua collera si placò: alla fine, Mina si redimeva aiutando la compagnia degli eroi a dare la caccia a Dracula e a distruggerlo. Buffo: non aveva mai pensato a suo padre come a un eroe. Ma doveva esserci un motivo per cui Stoker si era ispirato ai suoi genitori per i protagonisti del suo romanzo, e sperava che sarebbe stato meno reticente quando lo avrebbe rivisto. Quincey era elettrizzato all'idea che l'adattamento teatrale di Dracula potesse fornirgli non solo l'occasione di dimostrare a se stesso di poter riuscire come attore e produttore, ma anche di provare a Stoker il suo valore come membro della compagnia del Lyceum. Quando giunse al Théàtre de l'Odèon, poco dopo le quattro, trovò ad attenderlo Antoine, l'impresario, che esclamò: «Benvenuto, monsieur Harker!». Quincey fu preso alla sprovvista da quella calorosa accoglienza, molto diversa da quella ricevuta solo una settimana prima. Antoine gli strinse la mano. «Com'è andato il voyage a Londra?»

«Piuttosto movimentato» replicò Quincey. «Monsieur Basarab è qui?»

«Non, gli attori arriveranno fra un paio d'ore.» Quincey lo aveva immaginato. Estrasse dalla borsa il Dracula insieme a una busta sigillata, che infilò nel libro. «Potete farlo avere al signor Basarab?» «Glielo consegnerò io stesso.» Quincey osservò Antoine scomparire all'interno del teatro e si mise alla ricerca di una stanza d'albergo nel Quartiere latino. Era esausto: non aveva chiuso occhio da quando aveva lasciato Londra. Sperava di riuscire a tornare al teatro dopo lo spettacolo, ma sapeva che, nell'istante in cui avesse poggiato la testa sul cuscino, sarebbe crollato. Quella notte sognò il giorno in cui il suo nome sarebbe apparso sui cartelloni accanto a quello di Basarab, e la mattina dopo si svegliò ritemprato e curioso di sapere cosa pensasse Basarab della lettera e del libro. Tutto dipendeva dalla sua reazione. Quincey non vedeva l'ora che venisse la sera per andare incontro al suo destino. Si vestì in fretta, uscì per fare colazione e passò davanti al teatro. Sapeva che Basarab non poteva essere già lì, ma sentì il bisogno di fermarsi e fantasticare ancora un po'. Nelle ore successive vagò per le strade di Parigi, ripensando al romanzo di Stoker. Si chiese se la figura di Dracula fosse frutto del suo genio creativo o fosse basata su un personaggio realmente esistito. Stoker aveva scritto che Dracula era un nobile rumeno. Chissà, forse Basarab conosceva la sua storia. Un bravo produttore avrebbe cercato di documentarsi il più possibile sul vero Dracula per convincere il potenziale primo attore a partecipare al progetto. Così, si diresse verso il Boulevard Montparnasse, nei pressi dell'università, dove si trovavano numerose librerie. Due ore e tre librerie dopo, non aveva trovato neanche una copia del Dracula di Stoker. Forse non era stato bene accolto. Cominciò a temere di aver puntato sul cavallo sbagliato. Poi entrò in un'altra libreria, che possedeva titoli di tutto il mondo, e, con sua grande sorpresa, vi trovò due volumi su Dracula, entrambi tradotti

dal tedesco. Il più breve era in realtà un poema intitolato La storia di un pazzo assetato di sangue di nome Dracula di Valacchia. L'altro, più lungo, era La storia vera e spaventosa di un malvagio tiranno

assetato di sangue chiamato principe Dracula.

"I tedeschi non hanno il dono della sintesi" pensò. Le sue congetture riguardo alle origini di Dracula si rivelarono corrette: il vampiro di Stoker, il conte Dracula, era ispirato a un personaggio storico. Sebbene fosse a corto di quattrini, acquistò entrambi i volumi. Avrebbe saltato qualche pasto, ma si trattava di un sacrificio necessario. Voleva sapere il più possibile su quella misteriosa figura. Uscito dalla libreria, si fermò all'ufficio della Compagnie Frangaise des Càbles Télégraphiques, sul Boulevard Saint-Germain, e inviò un telegramma a Hamilton Deane, informandolo della sua incredibile scoperta. Trascorse il resto della giornata ai Jardins du Luxembourg, sulla sua panchina di pietra preferita, vicino allo stagno, immerso nella lettura della storia del principe Dracula. I brutali resoconti delle atrocità compiute dal diabolico principe lo assorbirono a tal punto che non si rese conto che il sole stava tramontando finché non riuscì più a leggere. Erano quasi le otto! Si precipitò al Théàtre de l'Odèon e cercò subito Antoine. «Monsieur Harker, Basarab la aspettava, stasera. Mi ha chiesto di offrirle un biglietto per lo spettacolo.» Quincey era felicissimo di poter assistere di nuovo a quella grandiosa produzione del Riccardo III. Mentre ammirava Basarab nei panni del re, pensò che sarebbe stato perfetto come Dracula. I due personaggi erano simili: erano entrambi guerrieri valorosi, astuti, ambiziosi, crudeli e al tempo stesso affascinanti. Non potè fare a meno di immaginare come sarebbe stato vivere nel quindicesimo secolo e trovarsi faccia a faccia con il brutale Dracula. Rabbrividì al solo pensiero: il principe aveva impalato quarantamila persone. Quincey non riusciva neanche a immaginare l'indicibile sofferenza che dovevano aver provato le sue povere vittime. I crimini di Riccardo III impallidivano al confronto. Dracula doveva essere stato un pazzo sadico come Jack lo Squartatore. Ma almeno Jack era

abbastanza "compassionevole" da sgozzare le sue vittime prima di farle a pezzi. Dopo lo spettacolo, Quincey si recò dietro le quinte, dove i membri della compagnia erano intenti a smontare le scene. Basarab si fermava a Parigi una sola settimana: di qui il prezzo esorbitante dei biglietti. Le circostanze sembravano essere dalla parte di Quincey. Giunto davanti al camerino di Basarab, fece un profondo respiro e bussò. «Signor Basarab?» «Avanti.» Basarab indossava una giacca da camera di raso rosso e nero ed era intento a ritagliare da una pila di giornali gli articoli che lo riguardavano, sistemandoli poi con cura in un album. «Chissà quante recensioni avrete collezionato!» Basarab sorrise. «Ricordate, signor Harker: va biasimata solo l'arroganza di chi non possiede talento.» «Sissignore» disse Quincey, mentre alle sue narici giungeva l'odore delle cibarie appoggiate sul tavolo dove, la settimana prima, c'era il servizio da tè. Saltare i pasti era più difficile di quanto pensasse. Sperò che Basarab non udisse i brontolii del suo stomaco. Dopo aver incollato un ritaglio, Basarab allungò una mano dietro il baule dei trucchi e prese la copia del Dracula. «Ho letto il libro che mi avete portato.» Quincey rimase di stucco: come aveva fatto a leggerlo in così poco tempo? «Che ne pensate?» «Un titolo piuttosto strano.» «Ho fatto delle ricerche» disse Quincey, mostrandogli orgogliosamente i due volumi tedeschi. «Il titolo ha senso perché nel quindicesimo secolo visse davvero un principe rumeno di nome Vlad Dracula. Ed era un farabutto.» «Non lo definirei tale» obiettò Basarab. «Fu il padre della mia nazione.» Quincey sorrise fra sé. Il denaro investito in libreria stava già

cominciando a fruttare. Basarab attraversò la stanza e scomparve dietro il paravento accanto al baule di vestiti. Poi, come se gli avesse letto ancora una volta nel pensiero, indicò le cibarie e disse: «Prego, servitevi pure». «Grazie» disse Quincey. Non voleva sembrare ingordo, ma poi mise da parte l'imbarazzo e si sedette. Mentre Basarab si toglieva la giacca da camera, assaggiò un pollo arrosto dall'aspetto delizioso. Era il più buono che avesse mai mangiato. «È squisito. Che cos'è?» D'un tratto, la spezia con cui era condito cominciò a fare effetto e la bocca di Quincey andò a fuoco. Lui tossì e allungò la mano verso l'acqua per trovare refrigerio. «No,» lo fermò Basarab «l'acqua non farà altro che peggiorare le cose. Mangiate del riso.» Quincey obbedì e rimase sorpreso dalla rapidità con cui il riso sembrò smorzare gli effetti della spezia piccante. «Si chiama paprika hendl, ed è un piatto tipico della mia terra.» «Davvero ottimo» disse Quincey. «Suppongo che avrete tempo di riposarvi, ora che la tournée parigina si è conclusa. Tornerete in Romania?» «Non ho ancora deciso cosa farò. Mi hanno offerto di portare la produzione a Madrid, ma non ho accettato, almeno per il momento.» Quincey dovette reprimere un sorriso. Non riusciva a credere alla sua fortuna. «Quindi Dracula è considerato il padre della vostra nazione? A quanto ho letto, assassinò migliaia di persone, bevendone il sangue.» «Un antico rituale pagano. Si dice che chi beve il sangue del proprio nemico ne acquisisca le energie.» «E poi c'è la questione del significato del suo nome» aggiunse Quincey. Sfogliò le pagine del libro per trovare il brano che gli interessava e mostrarlo a Basarab. «"Figlio del diavolo."» «La vera traduzione del nome di Dracula è "Figlio del drago". Suo

padre era un cavaliere dell'ordine cattolico del Drago, che si proponeva di proteggere la Cristianità dai musulmani. Il simbolo del demonio nella cultura ortodossa cristiana è il drago. Di qui l'equivoco.» Basarab, in piedi davanti allo specchio, cercava invano di annodare l'ascot. Quincey sapeva come fare: aveva visto tante volte sua madre aiutare suo padre. Così, senza pensarci due volte, andò in suo soccorso. «Suppongo che, come in tutte le cose, la verità dipenda dal punto di vista. A ogni modo, questo Dracula è un personaggio molto interessante, non credete?» Basarab guardò Quincey per un interminabile momento, riflettendo sulle sue parole. «Ora capisco» disse infine. «Volete che interpreti Dracula. E voi, ovviamente, impersonereste vostro padre, Jonathan Harker.» «Ha sempre voluto che seguissi le sue orme...» Basarab ridacchiò e gli poggiò una mano sulla spalla. «Sono stupito dalla vostra ambizione, mio giovane amico. Da apprendista di belle speranze ad attore e produttore nel giro di una settimana. Siete un uomo dalle mille risorse.» «Avete letto la mia lettera? Verrete in Inghilterra?» Basarab prese cappello, guanti e bastone da passeggio. Quincey maledisse la propria impulsività e rimase in attesa, sulle spine. Il grande attore si voltò verso di lui. «Non vi prometto nulla. Preferisco recitare personaggi inglesi, perché muoiono quasi sempre bene. Ho basato la mia carriera sull'interpretazione di inglesi morti gloriosamente.» Scoppiarono a ridere entrambi e la tensione sembrò allentarsi. Quincey non poté fare a meno di pensare che era quello che aveva sempre desiderato fare con suo padre. «Sto andando a Les Folies Bergère» disse Basarab. «Volete farmi compagnia?» Quincey aveva sempre desiderato visitare quel teatro di varietà di dubbia fama, noto per i suoi spettacoli osé. Accettò prontamente. «Berremo qualcosa e discuteremo della vostra proposta» disse

Basarab. Quincey dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non mettersi a saltare di gioia. I due uomini si diressero a nord, verso il diciottesimo arrondissement. Basarab tempestò Quincey di domande sulla produzione del Dracula, sul teatro, sui tempi che avevano a disposizione, persino sul pagamento. Avendo soddisfatto tutte le sue curiosità, Quincey si sentì autorizzato a sottoporgli, a sua volta, un quesito. «I libri che parlano di Dracula fanno spesso riferimento a quella che credo sia una parola rumena. Il principe viene a volte definito tepes. Sapete cosa significa?» Basarab si voltò di scatto verso di lui fulminandolo con lo sguardo e puntandogli il bastone contro il petto in modo da rendere ancora più incisiva la sua risposta. «È un termine molto offensivo usato dagli avversari politici di Dracula per screditarlo. Non lo pronunciate mai più!» Fece qualche passo in avanti, poi si fermò e tornò indietro. La sua collera sembrava svanita ed era di nuovo il Basarab che Quincey conosceva. Come se si fosse reso conto di essere stato troppo brusco con quel giovane ingenuo, gli disse, in tono di scusa: «Tepes v uol dire "impalatore"».

Capitolo 16 Il drago di Fleet Street lo osservava dalla sommità del Tempie Bar. Jonathan lo vedeva dalla finestra del suo ufficio, e aveva l'impressione che lo schernisse e lo giudicasse. In origine, il Tempie Bar era un arco di pietra che segnava il punto in cui Fleet Street diventava lo Strand. Si trovava nei pressi di Tempie Church, un complesso un tempo di proprietà dei Cavalieri Templari, e in un'area che ospitava la corporazione degli avvocati e veniva chiamata "Legal London". Durante il diciottesimo secolo, sull'arco del Tempie Bar venivano esposte le teste dei traditori, infilzate su lance di ferro. Nel 1878 l'arco era stato rimosso e al suo posto era sorto, due anni dopo, il Tempie Bar Monument, un piedistallo alto una dozzina di metri sormontato da un drago nero che si ergeva nel bel mezzo di Fleet Street. Fra i tanti studi legali della zona, c'era anche quello di Hawkins & Harker. La notizia della morte di Jack Seward aveva scosso Jonathan dal suo torpore alcolico, inducendolo a recarsi a Londra. Aveva trascorso due giorni chiuso in ufficio a preparare i documenti riguardanti le ultime volontà di Jack. Non era stato facile. Lo studio legale di Jonathan, che nel periodo di massima prosperità contava una decina di impiegati, era decaduto al punto che Jonathan era rimasto da solo. Non sarebbe stato neanche più in grado di mantenere un ufficio in Heet Street se Peter Hawkins non avesse acquistato l'intero edificio nel 1870. Era piuttosto ironico che gli studi legali rivali, che affittavano gli appartamenti situati sugli altri piani, costituissero l'unico reddito fisso di Jonathan. Per riuscire a sopravvivere all'ardua impresa di mettere insieme i pezzi della vita disordinata di Jack, Jonathan fece più volte tappa al pub Mooney & Son, lungo Fleet Street. Si chiese se tutto quel lavoro non fosse una perdita di tempo. Dopotutto, lui e Jack non si parlavano da anni. Jack si era convinto, nei suoi deliri causati dalla morfina, che il demone fosse ancora in vita, e si era presentato a casa sua chiedendo di parlare con Mina. Jonathan lo aveva sbattuto fuori per proteggere la moglie, e da allora aveva sempre pensato che, un giorno, avrebbe ricevuto una

lettera da parte del nuovo avvocato ed esecutore testamentario di Jack. Ma poiché quell'eventualità non si era mai verificata era suo dovere esaudire le ultime volontà di Jack. Il terzo giorno Jonathan si svegliò, stordito come sempre dall'alcol, e si accorse di aver ricevuto un telegramma. Lo aprì e lo lesse. Il mittente affermava che c'era stato un cambiamento nelle volontà di Jack Seward. Lo aveva infatti udito pronunciare una rettifica verbale per cui Jack desiderava ricevere una sepoltura invece di donare il suo corpo alla scienza. Jonathan tirò un sospiro di sollievo perché la richiesta originaria di Jack lo aveva messo a disagio. L'anonimo benefattore aveva anche effettuato un bonifico presso una delle più antiche banche private d'Inghilterra, la Child & Co. Bankers, situata in fondo a Fleet Street. Secondo le istruzioni contenute nel telegramma, Jonathan avrebbe dovuto utilizzare il denaro per spedire il corpo di Jack a Londra e organizzare un funerale. Il resto della somma sarebbe stato il suo compenso. Non vi era alcuna prova che ciò che aveva scritto il benefattore fosse vero, ma Jonathan vi prestò fede. Jack sarebbe dovuto essere sepolto nel cimitero di Hampstead, vicino al mausoleo dei Westenra. Avrebbe finalmente riposato accanto alla donna che aveva amato. Jonathan si chiese chi fosse quel benefattore e perché conoscesse Seward. Si era sempre sentito in colpa per il modo in cui aveva trattato Jack l'ultima volta che lo aveva visto. Avrebbe dovuto cercare di aiutarlo, ma quell'incontro lo aveva scosso e non era riuscito a comportarsi in modo razionale. Jack gli aveva ricordato il viaggio all'inferno dal quale nessuno di loro era davvero tornato. Jonathan si guardò intorno nello squallido ufficio e ripensò al giorno in cui aveva incontrato Jack Seward. Il giorno che avrebbe cambiato per sempre la sua vita.

«Dottor Jack Seward» puntualizzò l'uomo basso e tarchiato,

alzandosi per stringere la mano a un giovane Jonathan Harker.

«Il dottor Seward è un amico della famiglia Westenra» spiegò il corpulento avvocato Peter Hawkins sedendosi sulla poltrona di pelle dell'ufficio. «È qui per curare il signor Renfield.» «Cosa gli è accaduto esattamente?» chiese Jonathan.

«È ancora un mistero» rispose Hawkins. «Lo hanno trovato in un cimitero di Monaco, mezzo nudo, nella neve.» «Monaco?» «Immagino stesse tornando a Londra dopo aver incontrato un cliente.» Il dottor Seward aggiunse: «Era in preda a un attacco isterico e urlava dei versetti delle Sacre Scritture». «Il signor Renfield aveva l'abitudine di citare la Bibbia» osservò Jonathan. «Non così» replicò Hawkins. «Urlava brani dell'Apocalisse e farneticava sul fatto di aver guardato il demonio negli occhi.» «Dio del cielo, cosa può aver causato un attacco del genere?» «Non lo sapremo finché non cominceremo la terapia presso la mia clinica di Whitby» rispose il dottor Seward. «Per il momento posso solo ipotizzare che abbia assistito a qualcosa di terribile e che la sua mente abbia evocato un'immagine demoniaca per rimuovere la realtà di ciò che ha visto. Non preoccupatevi: la nostra struttura è la migliore di tutta l'Inghilterra.» «Nel frattempo, signor Harker,» disse Hawkins «ho bisogno che vi occupiate del caso del signor Renfield.» «Io, signore? Ma sono un semplice impiegato.» «Non siate modesto, è fuori luogo» ribatté Hawkins ridendo. «Siete stato molto più di un impiegato per questo studio. Siete con noi da appena un anno, ma il vostro contributo è stato prezioso, in molte circostanze persino indispensabile. Per esempio, nel caso delle due bambine. Vi devono la vita, e il clamore sollevato dal caso ha incrementato il nostro giro d'affari. La vostra collaborazione con quel Murray del "Daily Telegraph" è stata l'opera di un grande giurista. Un bravo avvocato non deve semplicemente conoscere la legge, ma anche la politica e il quarto Stato.» Jonathan sorrise, lusingato. «Non so cosa dire. Vi ringrazio.» «Ve lo dico io come potrete ringraziarmi. Non appena diventerete avvocato, vale a dire dopo aver superato l'esame di venerdì...»

«E se non lo superassi?» obiettò Jonathan. «Sono certo che lo supererete. E, non appena diventerete avvocato, dovrete fare del vostro meglio per assistere il cliente del signor Renfield. È un principe dell'Europa orientale, e deve concludere l'acquisto di alcune proprietà qui a Londra. Non possiamo permetterci di perdere un cliente così illustre.» «Un principe, avete detto?» intervenne Seward. E poi, rivolto a Jonathan: «Congratulazioni, signor Harker». Era molto più di quanto Jonathan osasse sperare. Non vedeva l'ora di raccontarlo alla sua fidanzata, Mina, che in quel momento si trovava negli uffici del «Daily Telegraph», dall'altra parte della strada. Sperava di liberarsi presto per raggiungerla e portarla fuori a cena a festeggiare. Era un'occasione senza precedenti. Quel principe avrebbe potuto cambiare per sempre le loro vite. «Ecco i documenti che dovrete portare con voi» disse Hawkins, porgendogli una cartella di pelle. «Gli altri sono già stati inviati al principe.» Poi gli diede una pacca sulla spalla e tornò alla scrivania per fumare un sigaro. Pochi minuti dopo, lui e Seward uscirono insieme dallo studio e si fermarono su Fleet Street. «Signor Harker,» disse Seward «sarei onorato se voleste essere mio ospite stasera a cena. Mi sarebbe di grande aiuto se poteste descrivermi com'era il signor Renfield prima della crisi. E, poiché si tratta di un'occasione così importante per voi, stapperò la migliore bottiglia di champagne della mia cantina per festeggiarla degnamente.» «Vi dispiacerebbe se la mia fidanzata si unisse a noi?» «Sarei onorato di fare la sua conoscenza e lieto di stringere amicizia con entrambi.» Dopo aver salutato Seward con una calorosa stretta di mano, Jonathan aprì la cartella che il signor Hawkins gli aveva consegnato e lesse il nome del nobile cliente. «Dracula.» Jonathan trasalì al suono della propria voce nell'ufficio vuoto.

Non pronunciava quel nome da venticinque anni, e gli lasciò in bocca un sapore amaro. Il ricordo di Dracula era sempre stato onnipresente, e lo aveva allontanato dalla sua famiglia. I suoi occhi iniettati di sangue si soffermarono su una fotografia incorniciata sulla sua scrivania, che ritraeva Mina e Quincey da bambino. Quincey. Jonathan non avrebbe voluto dargli quel nome, ma Mina aveva insistito per onorare la memoria del loro amico caduto, e lui aveva acconsentito per compiacerla. Non che Jonathan fosse così freddo da non voler commemorare il signor Morris, ma voleva che suo figlio fosse libero dal terribile passato che aveva tentato in ogni modo di dimenticare. Dopo la nascita di Quincey, Jonathan sentì che la sua vita era completa e riuscì, per un periodo, a mettere da parte gli orrori a cui aveva assistito. Quincey era il dono più prezioso che la vita gli avesse riservato. Voleva il meglio per lui, e si gettò a capofitto nel lavoro. Che ne era stato di quel bambino che lo amava così tanto? Quel bambino che lo aspettava nascosto fra i cespugli davanti a casa per poi saltar fuori e soffocarlo di abbracci? Col passare del tempo, mentre Jonathan ingrigiva e Quincey cresceva, divenne penosamente evidente che Mina non era invecchiata di un solo giorno nell'ultimo quarto di secolo. Jonathan suscitava le invidie di tutti i suoi coetanei, che avrebbero voluto che anche le loro mogli restassero giovani e belle per sempre. Ma per Jonathan il prezzo da pagare era troppo alto. Sebbene l'aspetto esteriore di Mina fosse rimasto identico, qualcosa dentro di lei era cambiato. Divenne insaziabile in camera da letto; e anche quello era un aspetto di cui la maggior parte degli uomini non si sarebbe lamentata, ma per Jonathan era fisicamente impossibile soddisfarla. Tanto che Mina cominciò a ricordargli le tre vampire del castello di Dracula. Si vergognava profondamente del fatto che fossero state loro la sua prima esperienza sessuale, non la sua adorata moglie. Quando lui e Mina si sposarono, poco dopo essere sfuggiti alle grinfie del conte, il suo senso di colpa gli rese difficile consumare il matrimonio. Poi giunse la fatidica notte. Suo figlio aveva circa tredici anni. Mentre Jonathan faceva l'amore con Mina, lei si lasciò sfuggire

che era stato Dracula a defiorarla. Era stato il conte, con secoli di esperienza alle spalle, a iniziarla alla passione, lasciando su di lei un segno profondo e indelebile. Jonathan non avrebbe mai potuto competere con lui. Inoltre, aveva sentito dire spesso, nei pub, che l'uomo con cui una donna condivideva la prima esperienza sessuale le restava per sempre nel cuore, e ne era convinto a sua volta. La sua amarezza e il suo senso di colpa si acuirono e il desiderio di Mina crebbe a dismisura, mentre il suo viso rimaneva bello come non mai. A Jonathan non restò che trovare conforto nella bottiglia. Guardando la fotografia, Jonathan ricacciò indietro una lacrima. Aveva sempre cercato, a suo modo, di proteggere il figlio. Eppure, più stringeva la presa, più lui gli sfuggiva. E pensare che lo stesso Jonathan aveva detestato il padre per l'educazione rigida e puritana che gli aveva impartito. Negli ultimi anni, aveva visto lo stesso sguardo carico d'odio negli occhi di Quincey. Jonathan sapeva di aver fallito. Nel lavoro. Con la moglie. Con il figlio. Con gli amici. Guardò fuori dalla finestra l'edificio di cinque piani con la scritta «Daily Telegraph» scolpita nella pietra. Come sarebbe stata diversa la sua vita, se non avesse superato l'esame di avvocato! Non sarebbe mai andato in Transilvania. Quando Jonathan aveva ereditato lo studio legale di Peter Hawkins, Mina aveva abbandonato la carriera di scrittrice. Grazie alla conoscenza del bel mondo appresa da Lucy, era riuscita ad abbracciare facilmente il suo nuovo stile di vita. Organizzava ricevimenti, suggeriva a Jonathan cosa dire e cosa indossare, e divenne non solo la sua portavoce, ma una moglie devota che faceva di tutto per aiutarlo nella sua carriera. Le sue ultime parole gli riecheggiavano nella mente: «Perdonami, Jonathan. Ti amo. Ti ho sempre amato. Quante volte devo ripetertelo?». Aveva sacrificato i suoi sogni e le sue aspirazioni per lui. Senza di lei, privo com'era di eleganza e buone maniere, non sarebbe mai riuscito a elevarsi al di sopra del ceto borghese dal quale proveniva. Non era forse quello il vero amore? La capacità di sacrificarsi per un'altra persona? Mina aveva scelto di realizzarsi attraverso Jonathan. Aveva assunto un ruolo che detestava, quello della perfetta moglie vittoriana, perché lui riuscisse ad affermarsi. E se, nel

momento della verità, Mina avesse scelto il demone al posto suo? Non fosse stato per lei, non sarebbero mai riusciti a trovare Dracula e a distruggerlo per sempre. Jonathan afferrò la bottiglia di whisky e la scagliò contro la parete di mogano. «Accidenti! Che idiota sono!» Guardò l'orologio: se si fosse affrettato, sarebbe riuscito a prendere il treno delle 22.31 per tornare a Exeter da Mina. Sempre che lei lo avesse voluto ancora. Se lo avesse respinto non l'avrebbe biasimata, ma doveva se non altro provare a farsi perdonare. Chissà, magari avrebbero potuto far visita a Quincey, a Parigi. Aveva bisogno di vedere suo figlio. Se Mina fosse stata d'accordo, lo avrebbe finalmente messo a conoscenza dei segreti della loro famiglia, e, se fosse ancora stato possibile perdonare, sarebbero potuti andare avanti. Doveva questa nuova prospettiva delle cose al suo caro vecchio amico Jack. La sua morte non sarebbe stata vana. Jonathan chiuse a chiave l'ufficio e si avviò lungo Fleet Street verso lo Strand per trovare un taxi che lo portasse a Charing Cross Station. Non voleva andare a piedi: la tentazione di infilarsi in qualche pub sarebbe stata troppo forte. Accidenti! Non c'era neanche un taxi in vista. Non erano trascorsi più di venti minuti da quando aveva frantumato la bottiglia di whisky e aveva già voglia di bere. Pensò alla mezza bottiglia che teneva nel cassetto della scrivania per le "emergenze". Com'era diventato debole... Doveva assolutamente trovare un taxi. D'un tratto, notò una carrozza nera con le finiture dorate, apparentemente vuota e senza cocchiere. Piuttosto strano, a quell'ora della sera. Due giovani amanti uscirono barcollando da una taverna, baciandosi appassionatamente. Jonathan non potè fare a meno di notare che la fanciulla sembrava andare in estasi al minimo tocco del suo accompagnatore. La sua sete si fece ancora più forte. Quante volte si era trovato in quella stessa situazione! Spesso, nel corso degli anni, era giunto alla conclusione che amava ancora Mina più di ogni altra cosa e voleva stare con lei, chiederle perdono per tutti i propri errori e dimenticare i suoi. Poi la realtà prendeva di nuovo il sopravvento. Appena si

ritrovavano da soli a letto, la propria inadeguatezza tornava a ossessionarlo. Non sapeva se a muoverlo in quei momenti fosse la sua dipendenza dall'alcol o un lucido calcolo. La sua incapacità di soddisfare Mina, la gelosia che provava per il suo coinvolgimento con Dracula e l'orrore di fronte alla sua eterna giovinezza lo gettavano nella disperazione. E fra le braccia dell'alcol, che lo aspettava sempre, paziente e indulgente. «Volete un po' di calore in questa notte gelida, signore?» disse una voce argentina alle sue spalle. Jonathan si voltò e vide emergere dalla nebbia una donna bionda e voluttuosamente bella con un lungo abito bianco virginale. Nella mano stringeva un fiasco di rame a forma di mela. Non era giusto. Jonathan era quasi riuscito a tornare da Mina. La donna si leccò le labbra rosse e bevve un sorso dal fiasco. Era più di quanto la sua forza di volontà riuscisse a sopportare. Sapeva di essere debole. Non era degno di Mina. Si avvicinò alla donna tendendo la mano. «Molto volentieri.» Solo la buona educazione lo trattenne dallo svuotare il fiasco d'un fiato. «Andiamo?» fece lei, indicando il labirinto di vicoli che conduceva al Victoria Embankment. «Temo di non avere scelta» rispose Jonathan, offrendole il braccio. La sconosciuta rise e, insieme, imboccarono una stradina, ritrovandosi avvolti in una spessa coltre di nebbia. Un istante dopo, cominciarono a baciarsi appassionatamente. Jonathan spinse la donna contro il muro di mattoni. «Ti chiami Mina» le sussurrò Jonathan mentre la sua lingua saettava fra le sue labbra rosse. «Chiamami come vuoi.» Jonathan le strappò il corpetto e la baciò sul collo, palpandole i seni prosperosi. «Dimmi come ti chiami.»

«Mina.» Jonathan le sollevò la gonna, infilandole una mano tra le gambe mentre con l'altra si sganciava le bretelle. «Dimmi quanto ti soddisfo, Mina.» «Ora ti faccio vedere» ribatté lei. Lo fece girare e lo sbatté con violenza contro il muro. Poi si accucciò sulle ginocchia, con il viso all'altezza della sua cintola. Quando aprì la bocca, Jonathan sorrise, pregustando ciò che stava per accadere. Sentì il suo respiro freddo sulla pelle. Di punto in bianco, vide con orrore gli occhi della donna scurirsi, gli incisivi allungarsi e il volto deformarsi. La bocca si spalancò in modo innaturale ed emise un ringhio spaventoso e inumano, avvicinandosi minacciosamente al suo membro. Stava per evirarlo! Jonathan lanciò un urlo e le assestò un pugno con tutte le sue forze, scaraventandola a terra. Poi si tirò su i pantaloni e si mise a correre. La Donna in bianco balzò in piedi, furiosa, e con un salto gli fu addosso. Lo afferrò e lo gettò contro delle cassette di legno impilate in un angolo della stradina. Jonathan rimase immobile, stordito e dolorante. Perché non aveva dato ascolto al suo cuore e non era tornato a casa? La vampira lo sollevò di peso. Jonathan cercò di divincolarsi, ma la sua stretta era troppo forte. Quando lo afferrò per i capelli e gli piegò la testa all'indietro, avvicinando affilatissimi canini al suo collo, Jonathan urlò: «Dio, ti prego, no!». In quel preciso istante vide, con la coda dell'occhio, un'ombra che si dirigeva rapidamente verso di loro. L'ombra avvolse la Donna in bianco, staccandola da lui e scaraventandola contro il muro. Jonathan rimase pietrificato dal terrore alla vista dell'ombra che si ergeva minacciosa sulla vampira. La Donna in bianco gridò, terrorizzata: «Signora!». Jonathan seguì il suo sguardo, rivolto verso una nebbia color cremisi che avanzava strisciando verso di loro. D'un tratto, qualcosa di freddo e umido lo colpì in pieno volto. Si voltò di nuovo verso la Donna in bianco e, dall'interno dell'ombra che giganteggiava su di lei, vide cadere a terra organi insanguinati e levarsi in aria arti

mozzati. Jonathan si rese conto solo allora di avere il viso coperto del sangue della donna. All'improvviso, una voce maschile riecheggiò nell'aria: «Fuggi, sciocco! Fuggi!». Jonathan ascoltò quell'esortazione e si mise a correre verso Fleet Street. Si guardò indietro una volta per accertarsi che l'ombra non lo stesse inseguendo, ma non riuscì a spiegare ciò che vide. L'ombra aveva bloccato l'avanzata della nebbia cremisi, che ondeggiava come un cobra, cercando di colpirla trapassandola. L'ombra si dissolse di colpo, e Jonathan capì che, fino a quel momento, aveva cercato di proteggerlo. La nebbia cremisi che avanzava rapidamente verso di lui, invece, doveva avere intenzioni ben diverse. Mentre correva, Jonathan fissò lo sguardo nel punto in cui il vicolo si ricongiungeva a Fleet Street, affollata come sempre. La salvezza era a pochi metri di distanza. In quel momento, udì il nitrito di un cavallo e vide una carrozza nera senza cocchiere materializzarsi davanti a lui, rischiando di investirlo e bloccandogli il passaggio. La nebbia rossa gli era ormai alle calcagna. Non sarebbe riuscito a raggiungere Fleet Street da lì. Gli restava un'unica possibilità. Girò a sinistra e imboccò un altro vicolo gridando aiuto, ma, infiacchito dall'abuso di alcol, inciampò e cadde sull'acciottolato, ansimando. La nebbia rossa gli fu subito addosso. «Chi sei? Cosa vuoi da me? Mio Dio!» La nebbia lo attaccò. L'ultima cosa che Jonathan udì fu il suo urlo. L'ultimo suo pensiero fu per Mina. In quel preciso istante, a centottanta miglia di distanza, a Exeter, Mina Harker si svegliò gridando.

Capitolo 17 L'ispettore Cotford sbrigava il lavoro d'ufficio al Red Lion. Il suo posto preferito si trovava nel punto più buio del pub. Nessuno sedeva mai lì, perché era il più lontano dal bancone del bar. Cotford immaginava che, se quel locale fosse stato meno malfamato, il suo angolino sarebbe stato perfetto per due innamorati. Ma quello era un pub da uomini. Da bevitori. Da poliziotti. Le giovani signore si guardavano bene dal mettervi piede. Gli unici scambi che vi avvenivano prevedevano whisky invecchiati, pacche sulla schiena e barzellette osé. A Cotford piaceva quell'ambiente spartano con le pareti rivestite di pannelli di legno scuro. Le lunghe ombre che circondavano il suo angolo creavano una sorta di barriera fra lui e gli altri avventori. Voleva restare solo con l'unica cosa che gli restava nella vita: il lavoro. Poiché il pub era il più vicino alla Camera dei Comuni, a New Scotland Yard e alla residenza del primo ministro, al numero 10 di Downing Street, il Red Lion era infestato di politici, poliziotti e funzionari statali. Chi era così fortunato da avere una famiglia era già tornato a casa a quell'ora della notte. Solo chi non possedeva un'altra vita restava lì, ad affogare la propria solitudine nell'alcol. Cotford era nel suo elemento. Fece segno alla cameriera di portargli un'altra birra mentre confrontava gli appunti scritti a mano con le trascrizioni dattiloscritte che dovevano essere inviate al direttore della pubblica accusa. Cotford si stava occupando di una banda di ladri di biciclette. Supponeva vi fosse una certa dignità nel permettere ai Poveri lavoratori che avevano perso il loro unico mezzo di trasporto di ottenere giustizia, ma non poteva fare a meno di trovare quell'incarico degradante. Il fatto di lavorare, anno dopo anno, in quell'ufficio senza prospettive non lo aiutava. La cameriera sostituì il bicchiere vuoto di Cotford con una pinta di birra scura. Cotford frequentava quel pub da trent'anni e la conosceva bene. Purtroppo, però, non aveva instaurato nessun rapporto con lei: non si erano neanche mai rivolti la parola. L'investigatore era consapevole della sua infamante notorietà e si

chiedeva se la cameriera lo ignorasse di proposito per rimproverargli il fatto di non aver saputo assicurare Jack lo Squartatore alla giustizia. Ma forse il vero motivo era il suo carattere introverso. Immerso in quei pensieri, osservò i quadri alle pareti, che ritraevano alcuni dei clienti abituali del locale, i poliziotti più brillanti di Scotland Yard che lo fissavano con aria severa. Il crimine era una guerra infinita e impossibile da vincere, ma quanti più casi un poliziotto risolveva tanto più la sua vita aveva valore. Quei grandi uomini avevano fatto tanto per la giustizia. C'erano l'ex ispettore capo Donald Swanson, il sovrintendente Thomas Arnold, che aveva dato le dimissioni per combattere nella guerra di Crimea ed era tornato alla fine del conflitto. E poi ancora il mentore di Cotford, l'ispettore capo Frederick Abberline. Cotford ridacchiò guardando il ritratto del suo vecchio amico. "Diavolo, è sempre sembrato più un bancario che un poliziotto" pensò. E levò il bicchiere in un brindisi a quegli uomini illustri. Quando era ancora un giovane agente che faceva un lavoro che amava, si era chiesto perché un uomo stimato come Abberline portasse sulle spalle il peso del mondo. Col tempo, però, capì. Abberline riteneva fosse suo dovere far sì che le vittime dei crimini ottenessero giustizia. Non vi era missione più nobile. Venticinque anni prima, quando il caso dello Squartatore era rimasto irrisolto, la reazione dell'opinione pubblica era stata talmente violenta da costringere Abberline ad andare in pensione. Eppure aveva risolto così tanti crimini nel corso della sua lunga e gloriosa carriera che il suo fallimento nel trovare l'assassino delle cinque prostitute non aveva in alcun modo macchiato la sua reputazione fra i suoi pari. Lo stesso non poteva dirsi per Cotford. Quando Abberline andò in pensione, fu riassegnato all'incarico che ancora adesso ricopriva, ponendo fine alla sua carriera di detective e a qualsiasi speranza di ottenere una promozione. Era certo che tutti si aspettassero che si comportasse degnamente e rassegnasse le dimissioni, ma poiché era troppo testardo per farlo continuò a trascinarsi dietro il fardello delle cinque puttane smembrate. Finché non fosse in qualche modo riuscito a riscattarsi, non avrebbe avuto la coscienza pulita. Pregò che le rivelazioni contenute nel diario del dottor Seward lo avrebbero finalmente aiutato a trovare pace.

D'un tratto, la porta del pub si spalancò. Gli occhi iniettati di sangue degli avventori, stanchi e ubriachi, si appuntarono sul poliziotto che entrò correndo. Il giovane, rosso in viso e madido di sudore, rimase in piedi al centro della stanza e gridò: «È qui l'ispettore Cotford?». I

clienti abituali bisbigliarono qualcosa fra di loro.

«Sono io» disse Cotford dall'ombra. II

poliziotto gli fece il saluto e gli porse un biglietto ripiegato.

«Ispettore Cotford? Il sergente Lee mi ha ordinato di consegnarvi questo. Immagino riguardi un caso importante.» Cotford provò simpatia per quel ragazzo. Gli ricordò se stesso quando era ancora giovane e idealista. Aprì il biglietto e lo lesse. Poi lo rilesse, e la sua mente cominciò a turbinare. Si era già lanciato verso la porta quando il poliziotto lo chiamò: «Ispettore Cotford! Sono fuori servizio, ma posso aiutarvi se avete bisogno di me». Cotford valutò la sua offerta. Perché non incoraggiare questa giovane e zelante recluta? «I miei appunti sono sul tavolo laggiù. Fa' in modo che vengano consegnati immediatamente all'ufficio del procuratore della regina. Mi raccomando, giovanotto: ne va della cattura di alcuni temibili criminali.» «Sissignore! Potete contare su di me, signore!» Dopo aver compiuto la sua buona azione quotidiana, Cotford andò incontro a quello che sperava essere un destino cupo, il primo passo verso uno scontro con il Male a cui dava la caccia da venticinque anni. Il sergente Lee fu accecato da un lampo di luce. Davanti ai suoi occhi danzavano decine di puntini blu. Appena riacquistò la vista, il fotografo della polizia ricaricò la polvere di magnesio e scattò un'altra foto, ma stavolta Lee si voltò. Provava una profonda nostalgia per i giorni in cui le scene del crimine venivano disegnate e non fotografate. Da quando faceva parte di Scotland Yard, si chiedeva come sarebbe stato lavorare sul caso dello Squartatore. Era stata proprio la

sua curiosità verso quegli efferati omicidi a spingerlo ad avvicinarsi a Cotford. Il vecchio ispettore era l'unico ancora in servizio ad aver lavorato a quel caso. Lee era poco più di un bambino quando gli omicidi erano avvenuti, ma li ricordava perfettamente. Anzi, era stato proprio quel mistero insoluto a spingerlo ad abbandonare l'esercito dopo la Seconda guerra boera, nel 1902, e ad arruolarsi nella Metropolitan Police. Erano trascorsi dieci anni, da allora, e il sergente Lee se ne stava in piedi in un vicolo davanti al cadavere mutilato di una giovane donna. Aveva visto molti corpi straziati durante la guerra, ma si trattava di uomini. La vista di una donna massacrata era molto più penosa. Una gamba da una parte, un braccio dall'altra, la testa mozzata, e il cuore e gli organi interni sparsi ovunque in una pozza di sangue. Gli occhi grigio acciaio di Lee osservavano l'ispettore Huntley, che si occupava del caso e seguiva, con le mani dietro la schiena, i due poliziotti intenti a raccogliere e classificare le prove. D'un tratto, fra i muri di mattoni del vicolo riecheggiò un colpo di tosse. Lee, Huntley e i poliziotti si voltarono verso il lato della stradina che dava su Tempie Bar e videro emergere dalla nebbia un ubriacone corpulento. Huntley lo illuminò con la torcia e Lee riconobbe subito Cotford. Aveva sperato che l'ispettore non si presentasse sulla scena del crimine ubriaco fradicio. Era stato lui a ordinare a Price di andarlo a chiamare al Red Lion: Huntley non ne sapeva nulla. Se Cotford si fosse reso ridicolo davanti a tutti, avrebbe screditato anche lui. Huntley non perdeva occasione per far valere la sua autorità, e lo avrebbe sicuramente redarguito. Vedendo il suo mentore farsi avanti barcollando, Lee sperò di non aver commesso un grave errore. Huntley non spostò di un millimetro la torcia che illuminava il volto arrossato e madido di sudore di Cotford. Quest'ultimo guardò fisso la luce, come a volerlo sfidare. «Ispettore Cotford» disse Huntley. «Dovete esservi perso. I pub sono tutti su Fleet Street.» I poliziotti ridacchiarono. Lee, conoscendo Cotford, temette per un attimo di dover sedare una rissa. Fortunatamente, Cotford si limitò a schivare Huntley, avvicinandosi con passo malfermo alla

vittima. Huntley e i suoi colleghi si scambiarono occhiate perplesse. Cotford non aveva intenzione di indagare su quel crimine, vero? Poi scoppiarono a ridere fragorosamente. Cotford sembrò non accorgersene, ma Lee era in imbarazzo per lui. «Siete arrivato giusto in tempo, ispettore» disse Huntley. «Sto per fare un riepilogo dei fatti. Rimanete pure, se volete. Potreste persino imparare qualcosa.» Lee avrebbe voluto prendere a pugni quell'arrogante di Huntley, ma Cotford lo ignorò, tenendo gli occhi fissi sui resti insanguinati della vittima. Huntley disse: «Dalle perle cucite a mano sull'abito della vittima si può dedurre che non era una prostituta di Whitechapel. Può essere stata trascinata nel vicolo dall'aggressore o averlo seguito di sua spontanea volontà. Dal momento che Tempie Bar è sempre molto frequentato, se fosse stata costretta i passanti avrebbero sicuramente udito le sue urla. Perciò è molto probabile che fosse qui per un convegno amoroso. Ma qualcosa è andato storto. Forse ha rifiutato le avance dell'amante. Hanno avuto un diverbio e lui ha cercato di prenderla con la forza. C'è stata una colluttazione e sono finiti contro quelle cassette di legno laggiù. Lei ha cercato di fuggire, ma il suo amante ha estratto il coltello». Lee non poté non rimanere colpito da quell'acuta interpretazione della scena del crimine. Cotford, invece, continuò a ignorare Huntley, con grande sorpresa di quest'ultimo. Si chinò e sollevò la testa mozzata della Donna in bianco. Il suo volto era rimasto pietrificato in un'espressione di terrore, ma Cotford rimase impassibile. Osservò attentamente la testa, la capovolse, infilò le dita nella carne viva, tirò la pelle insanguinata. Poi la lanciò in aria, la prese al volo e fissò gli occhi sbarrati della donna. Lee non temeva più di ricevere un rimprovero. Ora aveva paura di perdere il posto. Huntley rimase a guardare allibito mentre Cotford appoggiava la testa a terra e si dirigeva barcollando verso le cassette. Poi, scuotendo il capo incredulo, proseguì il suo riepilogo: «L'aggressore,

in un impeto di passione, si è scagliato contro la vittima indifesa. L'ha brutalmente assassinata e mutilata. A giudicare dalla pregiata fattura dell'abito della donna, anche l'assassino doveva essere un gentiluomo. Ha compiuto questo scempio per depistarci, sperando che qualche ispettore particolarmente ottuso avrebbe pensato che il colpevole fosse un uomo della strada. Tempie Bar è un luogo frequentato da avvocati e banchieri. È fra questi che dobbiamo cercare l'assassino». In quel preciso istante, si udì uno schianto in fondo al vicolo. Ancora una volta, tutti gli occhi si volsero verso Cotford. A quanto sembrava, era caduto sopra le cassette. Lee si rese conto con orrore che la situazione era più grave di quanto pensasse. Cotford si rialzò dalle cassette rimaste intatte, fece qualche passo indietro, poi, prendendo la rincorsa, si lanciò di nuovo a peso morto su una di esse. Solo quando fece per rialzarsi faticosamente si rese conto che tutti gli occhi erano puntati su di lui. «Scusate, ispettore. Non fate caso a me.» Uno dei poliziotti fece notare: «Ispettore Huntley, dimenticate l'impronta insanguinata che abbiamo ritrovato su una delle cassette rotte». «Certo che no! L'aggressore, dopo aver compiuto il suo odioso crimine, si è ritrovato coperto di sangue. Ha fatto qualche passo indietro, cercando di tornare in sé. Poi, resosi conto della gravità dell'accaduto, è corso verso Tempie Bar. Lo sappiamo perché, nella fuga, ha calpestato quel pezzo di legno, e l'impronta è rivolta in quella direzione.» «Ottimo lavoro, vecchio mio» disse Cotford. Huntley si voltò verso di lui per accettare il suo elogio, ma rimase senza parole quando lo vide in ginocchio intento a far girare un pezzo di legno come fosse una trottola. Lee sentì l'impulso di correre in suo soccorso. «Ispettore Huntley! È arrivato il medico legale.» Huntley esclamò, raggiante: «Ah, è arrivato il segaossa. Ragazzi, noi abbiamo finito. Offro io il primo giro al Red Lion». E, così dicendo, si incamminò allegramente verso il pub, seguito dai suoi

uomini. Il medico legale venne avanti e osservò i resti della vittima, cercando di non vomitare la cena. Lee, figlio e nipote di militari, era stato allevato dal padre nel rispetto del protocollo e della catena di comando. Aveva voluto lui mandare a chiamare Cotford, e ora spettava a lui occuparsi dell'ispettore ubriaco che si era appena coperto di ridicolo. Fece un profondo respiro e si voltò. Cotford era sparito. Dove diavolo era finito? Lee si diresse verso Fleet Street e trovò Cotford carponi, chino su quello che sembrava un mucchio di fango. Cotford ne prese un po' in mano, se lo portò al naso e lo annusò. Fu allora che Lee si rese conto che stringeva del letame. Lee si inginocchiò accanto a lui e, provando compassione per lui, gli mise una mano sulla schiena. «Ispettore, lasciate che vi accompagni a casa.» Cotford lasciò cadere il letame, si pulì le mani sui pantaloni e alzò lo sguardo su Lee. Era perfettamente sobrio. I suoi erano gli occhi di un detective. Mentre parlava, si alzò in piedi. «Huntley è un pallone gonfiato, ma è un bravo detective. Deve solo aggiustare un po' il tiro. Quelle cassette sono di quercia rinforzata. Sono state costruite per trasportare un carico molto pesante. Come avrai notato, io non sono esattamente un peso piuma. Ho preso la rincorsa e mi ci sono buttato sopra, ma non si sono rotte.» «Cosa intendete dire?» «L'uomo e la donna erano qui per un convegno amoroso, come ha ipotizzato Huntley. Ma io credo che siano stati aggrediti da una terza persona.» «Cosa ve lo fa pensare?» «Guarda. Vedi quelle impronte insanguinate lì in terra? Sono le mani di un uomo.» Lee osservò le impronte sull'acciottolato. Huntley non le aveva notate. «Guarda i pollici» disse Cotford. «Il nostro uomo è caduto

istintivamente all'indietro, cercando di attutire la caduta, ed è per questo che i pollici sono rivolti verso l'esterno. Stava fuggendo.» «Da cosa?» «Osserva bene il letame. Da qui sono passati dei cavalli. Probabilmente attaccati a una carrozza. Gli hanno bloccato il passaggio. Lui stava cercando di fuggire da qualcuno e di rifugiarsi in Fleet Street, ed era già coperto di sangue.» Lee si sentì in colpa per aver messo in dubbio l'acume di Cotford. «Stava fuggendo dalla terza persona di cui parlavate.» «Esatto! E dev'essersi trattato di un uomo molto forte, perché ha scaraventato con grande violenza la seconda vittima contro quelle cassette. E la donna non è stata decapitata con un coltello. La ferita sul collo indica che la testa è stata staccata dal corpo da due mani straordinariamente forti.» Lee era sbigottito. «Suvvia, ispettore. Un attimo fa avete affermato che le cassette non potevano spezzarsi per il peso di un corpo umano. Quanto a decapitare una persona a mani nude, chi potrebbe mai riuscirci?» «Le prove non mentono. Mai escludere ciò che, sul momento, appare inspiegabile. Nella mia esperienza, sergente Lee, un pazzo furioso ha la forza di dieci uomini. Una volta ne ho dovuto inseguire uno.» Cotford si voltò e imboccò un altro vicolo che conduceva all'Embankment. Lee lo seguì. L'ispettore si fermò e raccolse un piccolo oggetto lucente, che lanciò a Lee. Era un bottone d'ottone con il monogramma "W&S". «Wallingham & Sons» disse. «Già, uno dei migliori sarti di Londra.» Sul bottone c'era del sangue fresco. «La nostra seconda vittima era un uomo facoltoso» osservò Cotford. Lee fissò il bottone. «Perché avete imboccato questo vicolo?» «Ricordi il pezzo di legno con cui giocherellavo poco fa? Un

uomo che, correndo, lo calpestasse, lo farebbe girare come una trottola sui ciottoli irregolari. L'impronta insanguinata ha indotto Huntley a pensare che il sospettato si stesse dirigendo verso Tempie Bar. Ma non è così. L'impronta è rivolta nella direzione sbagliata, e appartiene alla seconda vittima. Non stava abbandonando la scena del delitto. Stava fuggendo dalla terza persona, e la sua corsa è finita qui.» Cotford si inginocchiò di nuovo e mostrò a Lee le numerose gocce di sangue sparse sui ciottoli. «Devi farmi un altro favore, sergente. Ho bisogno di sapere cosa dice esattamente il referto del medico legale.» Lee esitò. Un altro strappo alla regola. Ma sapeva che il vecchio segugio era sulla pista giusta. «Potete contarci, signore.» Cotford annuì e si incamminò verso la nebbia. Lee disse: «Non c'è molto sangue qui, ispettore. Potrebbe esserci un testimone ancora in vita». «Molto improbabile» ribatté Cotford. «Non ci sono altre impronte insanguinate da qui in poi. La seconda vittima non è uscita viva dal vicolo.» Chinò la testa. «Temo, sergente, che all'alba dovrai convocare l'ispettore Huntley su un'altra scena del crimine. Che Dio ci aiuti.»

Capitolo 18 Kate Reed detestava i mattini di Londra. Le strade erano invase da una moltitudine di persone che si recavano al lavoro. L'idea di starsene pigiata come una sardina nella metropolitana le ripugnava. Tutti quegli sconosciuti che le stavano addosso la mettevano a disagio. Così, quella mattina si alzò prima del marito e svegliò i bambini. Fuori era ancora buio. Voleva a tutti i costi sbrigare le sue commissioni prima dell'ora di punta. Salì faticosamente le scale della metropolitana di Piccadilly con la carrozzina e il figlio Matthew al seguito. C'erano già alcune persone in giro, ma nessuno si offrì di aiutarla. "La cavalleria è morta" pensò. Piccadilly Circus la deprimeva: negli ultimi tempi aveva perso tutto il suo fascino. Due anni prima, dei produttori di birra vi avevano installato un enorme cartellone pubblicitario illuminato da decine di lampadine a incandescenza che deturpava gli eleganti edifici della piazza. Da quando aveva due bambini piccoli e suggestionabili, Kate era divenuta una vera e propria attivista, una delle migliaia che avevano lottato affinché il cartellone venisse rimosso. Molti sostenevano che fosse innocuo, ma Kate sapeva che la compagnia che aveva ottenuto il permesso di reclamizzare la propria merce non poteva che essere la prima di una lunga serie. Di notte, il cartellone illuminava la piazza, attirando un'umanità dissoluta. Piccadilly era stata concepita per somigliare a un elegante boulevard parigino, ma risentiva dell'influenza del quartiere dei teatri: la parte volgare della città. Il cartellone era un'ulteriore prova del suo declino. Kate avrebbe evitato volentieri di recarvisi, ma le scarpe di suo marito avevano bisogno di una risuolatura, e John Tuck, la cui bottega si trovava proprio a Piccadilly, era il miglior calzolaio di Londra dopo Lobb, su St. James's Street, che però era troppo caro. Giunta in cima alla scalinata, Kate scelse la strada più lunga in modo da evitare il cartellone. Non voleva che il figlio venisse sedotto dalle sirene della pubblicità luminosa. Sfortunatamente, anche quel percorso era irto di pericoli, poiché li costringeva a passare davanti al monumento a Shaftesbury, adornato con una statua alata completamente nuda: uno spettacolo ancora più sconveniente.

La scultura era troppo sensuale per onorare Lord Shaftesbury, un uomo austero e rispettabile. I padri della città avevano cercato di placare le polemiche sorte intorno alla statua battezzandola L'Angelo della carità cristiana. Un espediente che non ingannò la maggior parte dei bravi cristiani. Le voci sul possibile nome della scultura continuarono a circolare. Ci fu persino chi parlò di Eros, il dio greco dell'amore. Una divinità pagana eretta in memoria di un uomo noto per la sua devozione. Kate distolse lo sguardo. Matthew, attratto dallo spazio aperto di Piccadilly Circus, lasciò la mano della madre e lanciò l'aeroplanino che il padre gli aveva costruito con della carta e dei ramoscelli di abete rosso. Il forte vento lo fece volare all'indietro, ma Matthew, affascinato dai misteri del volo, non se ne ebbe a male. «Sono Henri Salmet! Sto sorvolando la Manica!» gridò, correndo a recuperare il modellino. «Vieni qui, Matthew!» lo chiamò Kate. «Non abbiamo tempo. Dopo il calzolaio, la mamma deve andare a Covent Garden prima che finiscano i pesci migliori.» Kate dovette aspettare che passassero diverse carrozze prima di riuscire ad attraversare Regent Street. Fece per prendere la mano del figlioletto e disse: «Su, andiamo». Ma accanto a lei non c'era nessuno. Irritata per aver perso l'occasione di attraversare la strada, si voltò e vide che Matthew era in piedi in mezzo alla piazza, con il naso in su. «Matthew!» esclamò. Il bambino non si mosse. L'aeroplanino era a terra davanti a lui. Cosa stava guardando, allora? La scandalosa statua al centro del Circus? Gli avrebbe dato una bella lezione, altroché. «Matthew! Vieni subito qui!» Kate si diresse verso di lui spingendo la carrozzina in mezzo ai numerosi passanti. «Mi hai sentito, giovanotto?» Matthew sembrava non udirla. D'un tratto, Kate si rese conto che tremava come una foglia. Spaventata, gli si inginocchiò accanto e lo prese per le spalle. «Matthew, stai bene?» Il bambino alzò il braccio tremante. Per la prima volta, Kate lesse

il terrore nei suoi occhi. Guardò nella direzione che il figlio le indicava e vide un albero. Un momento: non ci sono alberi, a Piccadilly Circus. Quando capì, lanciò un urlo che fece fermare di colpo tutti i passanti. Poi prese in braccio il figlioletto e gli coprì gli occhi, continuando a gridare. La gente accorse in suo aiuto. Un uomo le chiese: «Cos'è successo, signora?». Kate guardò verso l'alto e rispose, con voce tremante: «Il diavolo è a Londra!». I passanti radunatisi intorno a lei seguirono il suo sguardo e sgranarono gli occhi. Un grido d'orrore collettivo squarciò Piccadilly Circus. Alcuni poliziotti si precipitarono, suonando freneticamente il fischietto, verso la moltitudine ai piedi dell'albero. Le donne svenivano. Gli uomini sembravano pietrificati. Le vetture frenavano di colpo con un gran stridore di gomme. I carretti della frutta e del latte si scontravano. Scoppiò il pandemonio. Al centro di Piccadilly Circus si levava un'asta di legno alta più di dieci metri che sovrastava l'Angelo della carità cristiana e sulla quale era stato impalato un uomo nudo. La punta del palo gli usciva dalla bocca insieme all'intestino e agli altri organi interni. Gli occhi, le orecchie e il naso grondavano sangue. Il pover'uomo emetteva un gemito da far gelare il sangue nelle vene. Era ancora vivo. Una cosa del genere non poteva che essere opera di un demone.

Capitolo 19 Quando, la sera prima, aveva incontrato Basarab, Quincey non sapeva cosa aspettarsi. Il divo gli aveva detto che non sarebbe tornato in Romania con la sua compagnia, ma non aveva espresso l'intenzione di accompagnarlo a Londra. Quincey aveva quindi pensato che stesse cercando di sbarazzarsi di lui. Basarab invece gli aveva mostrato sorridendo un contratto, chiedendogli di unirsi alla sua compagnia e di sbrigare tutte le faccende che lo riguardavano prima del suo arrivo a Londra. Quincey era raggiante. Nemmeno il diluvio che si abbatté su Parigi riuscì a spegnere il suo entusiasmo. La gente cercava riparo dalla pioggia. Quincey no: camminava lungo il boulevard che conduceva alla Gare du Nord lasciando che l'acqua gli scorresse addosso e sembrava la persona più felice del mondo. Essendo cresciuto in Inghilterra, Quincey era abituato alla pioggia. Mentre però a Londra faceva sembrare tutto più grigio, a Parigi donava una sfumatura dorata. La Ville Lumière splendeva radiosa, proprio come il futuro di Quincey, che continuava a camminare spedito. Non aveva un passo così leggero da quando suo padre lo aveva trascinato via urlante dal teatro, alcuni anni prima. Saltò sul treno diretto a Calais e si sedette nella carrozza ristorante. Aveva ripreso in mano la sua vita. Mentre metteva il biglietto e il passaporto nella tasca interna del cappotto in modo da esibirlo rapidamente all'arrivo del controllore, trovò il telegramma. Preso dall'entusiasmo, lo aveva completamente dimenticato. Mina non sapeva dove rintracciare Quincey, così gli aveva spedito un telegramma al Théàtre de l'Odèon. Antoine glielo aveva consegnato, ma lui non l'aveva ancora aperto. Ne immaginava il contento: sua madre lo avrebbe supplicato di ripensarci e di tornare alla Sorbona, spinta ovviamente dal padre, inamovibile come sempre. Quincey si sentiva in colpa per aver lasciato sua madre dopo una discussione così accesa, ma non era ancora pronto a chiederle scusa. Voleva avviare la nuova produzione prima di parlare di nuovo con i genitori. Avrebbero assistito al suo successo la sera della prima del

Dracula di Bram Stoker. Quincey sperava che sarebbero stati

orgogliosi di lui quando avrebbero letto il suo nome in cartellone come co-protagonista e co-produttore, e che si sarebbero resi conto che non stava buttando al vento un grande futuro: ne stava costruendo uno. Fino ad allora, però, avrebbe evitato ogni contatto inutile. Per quanto lo addolorasse sfuggire sua madre, sapeva che doveva essere forte. Ordinò un tè e riprese in mano i suoi libri. Perché Stoker designava Dracula con il titolo di conte e non con quello vero di principe? Strano. Forse aveva voluto distinguere il suo personaggio, frutto di fantasia, dal Dracula storico e dalla scia di sangue che si era lasciato alle spalle, sperando che il vampiro suscitasse nei lettori maggiore empatia. Quando arrivò il tè, Quincey mise da parte i libri e il quaderno per gli appunti. Quando alzò gli occhi sul passeggero di fronte, che stava leggendo l'edizione serale di «Le Temps», per poco non rovesciò la tazza. Strappò il giornale dalle mani dell'uomo, che, vedendo la sua espressione, non osò protestare. Quincey non riusciva a credere al titolo che aveva sotto gli occhi: «UOMO IMPALATO ». Sotto il titolo c'era un disegno a tratteggio incrociato della vittima. Gli occhi di Quincey corsero all'immagine xilografata contenuta in uno dei suoi libri. Il principe Dracula era solito cenare circondato dai corpi impalati delle sue vittime. Poi lesse l'articolo, col cuore che gli batteva all'impazzata: «Un homme a été découvert empalé hier matin à Piccadilly Circus». Ieri mattina un uomo è stato ritrovato impalato a Piccadilly Circus. Non riusciva quasi a leggere da tanto gli tremavano le mani, così poggiò il giornale sul tavolo. Quando giunse all'ultima riga, credette di svenire. Si costrinse a rileggerla. «La vittima è Jonathan Harker, noto avvocato di Exeter, cittadina a ovest di Londra.»

Capitolo 20 L'ispettore Cotford sollevò un lembo del lenzuolo bianco, che sembrava emanare una luce iridescente e sinistra sotto la lampada a idrogeno. Si voltò verso Mina Harker e la vide fare un profondo respiro, per darsi forza. Cotford l'aveva osservata molto attentamente, al suo arrivo all'obitorio di Scotland Yard. Non era indietreggiata sulla soglia come tante altre vedove venute a riconoscere i resti dei mariti. Dal modo in cui camminava e guardava dritto davanti a sé, Cotford aveva intuito la sua pacata forza d'animo. Possedeva un'eleganza sobria e solenne. Indossava un abito nero lungo fino ai piedi e portava le trecce legate in uno chignon come la madre di Cotford. L'ispettore non poté fare a meno di notare che, malgrado il suo aspetto austero, la signora Harker era molto bella. Aveva un viso incantevole, e senza una ruga. Cotford pensò che Jonathan Harker dovesse essere un idiota per cercare la compagnia di una prostituta in un vicolo quando una donna così affascinante lo aspettava a casa. L'ispettore cercò di sembrare impassibile. Durante il sopralluogo nel vicolo, aveva elaborato una sua teoria che sembrava fondata, ma che non era in grado di dimostrare. Poi Lee gli aveva mostrato il referto del medico legale che aveva esaminato il cadavere della donna vestita di bianco, ancora non identificata. Le impronte insanguinate ritrovate nel vicolo appartenevano a Jonathan Harker, e le gocce di sangue che Cotford aveva scoperto erano del suo stesso gruppo sanguigno. Il vecchio ispettore non aveva dubbi che Harker fosse la seconda vittima del vicolo, e si rallegrò del fatto che la sua intuizione si fosse rivelata esatta. Quando poi lesse il diario di Seward, Cotford si rese conto che conteneva una vera e propria confessione: l'anziano medico faceva il nome dei suoi complici. In un attimo, Cotford capì perché lui e Abberline non erano riusciti a catturare l'inafferrabile assassino. Jack lo Squartatore non era un solo uomo: era un gruppo di occultisti folli. Seward era morto con una spada in mano: qualcuno aveva voluto metterlo a tacere. Evidentemente, il capo degli assassini aveva iniziato a temere i suoi

complici. Cotford sapeva che l'omicidio di Seward avrebbe segnato l'inizio di una nuova ondata di delitti. Nemmeno la morte della donna vestita di bianco lo sorprese. Era inevitabile che, una volta riaccesa la sua sete di sangue, il capo degli assassini avrebbe ucciso altre donne. Nei suoi diari il dottor Seward menzionava anche Mina Harker, ma in termini quasi agiografici. Cotford dubitava che la signora Harker fosse direttamente coinvolta negli omicidi, ma era certo che ne fosse a conoscenza, e sperava che lo avrebbe aiutato a riscattarsi. Quando l'ispettore aveva chiesto di incontrarla e aveva ordinato a Lee di far sparire dall'obitorio tutte le sedie, quest'ultimo aveva obbedito senza protestare. Se Cotford aveva deciso di prendere sul serio i diari di Seward e non di liquidarli come i deliri di un pazzo furioso, doveva anche mettere in conto che Mina Harker fosse una donna forte. Anzi: un osso duro. L'unica possibilità che aveva di indurla a confessare ciò che sapeva del gruppo di assassini era di turbarla profondamente. Costringerla a riconoscere il cadavere del marito l'avrebbe messa subito in una posizione di debolezza. Cotford sperava che sarebbe stato sufficiente. Ma, nel momento in cui Mina varcò la soglia, l'ispettore capì che avrebbe dovuto torchiarla. Stringendo il lembo del lenzuolo, Cotford disse: «Devo avvertirvi, signora, che il corpo di vostro marito è piuttosto malridotto». «Credetemi, ispettore,» mormorò Mina «nella mia vita ho assistito a tali e tante atrocità che sono poche le cose che mi impressionano, ormai.» Cotford tirò via il lenzuolo con un gesto teatrale. Sotto di esso giaceva il corpo straziato di Jonathan Harker, disteso su una barella di ghisa smaltata di bianco. Dopo che il palo di legno lungo una dozzina di metri e largo dieci centimetri era stato rimosso postmortem, il volto dell'uomo era come imploso. Il corpo ormai svuotato e deforme aveva cominciato a decomporsi, poiché Cotford aveva atteso due giorni prima di contattare la vedova. La pelle aveva assunto una tinta bluastra che sembrava ancora più inquietante alla luce della lampada a idrogeno. Appena Cotford sollevò il lenzuolo, la stanza fu invasa da un terribile fetore. La maggior parte delle donne sarebbe svenuta o scoppiata in

lacrime di fronte al marito morto, figuriamoci di fronte a uno scempio del genere. Cotford notò invece che Mina si limitò a fissare il corpo di Jonathan per alcuni istanti. Poi sgranò gli occhi, come se si fosse resa conto di ciò che stava guardando, e distolse lo sguardo. Le salirono le lacrime agli occhi, ma le ricacciò subito indietro. Poi fece appello a tutte le sue forze e si raddrizzò. Cotford rimase sbigottito di fronte alla sua tempra. "Ha la forza di volontà di un uomo nel corpo delicato di una donna" pensò. La descrizione del dottor Seward era davvero calzante. «Dio mio, Jonathan» disse. Si guardò intorno come a cercare una sedia. Non vedendone nessuna, lanciò un'occhiata alla porta. Era a disagio e voleva andarsene. La sua reazione era esattamente quella che Cotford aveva sperato di ottenere. Doveva battere il ferro finché era caldo. In quel preciso istante, da un angolo buio spuntò l'anziano medico legale con un bicchiere d'acqua in una mano e un fazzoletto nell'altra. Mina gli sorrise, grata. Cotford, invece, avrebbe voluto picchiarlo. Aveva fatto di tutto per rendere la situazione sgradevole e quell'idiota aveva rovinato tutto. Non pago, il medico estrasse dalla tasca del camice una boccetta di sali. "Imbecille" pensò Cotford. La signora Harker non stava certo per svenire. Fulminò con lo sguardo Lee, che sembrò incerto sul da farsi. Poi cercò di rimediare. «Lo hanno infilzato come un pollo allo spiedo, eh?» osservò. I tre sottoposti di Lee, in piedi alle sue spalle, non riuscirono a trattenere una risatina. Il medico legale si fece avanti e disse: «Trovo il vostro commento sconveniente e fuori luogo». Cotford lanciò un'altra occhiataccia a Lee, che si avvicinò al medico intimidendolo con la sua stazza. Poi gli sussurrò: «Il vostro lavoro consiste nell'eseguire i nostri ordini e tenere qualsiasi commento per voi». "Accidenti a Lee" pensò Cotford. Anche quando sussurrava, aveva una voce talmente stentorea che Mina non poteva non aver udito le sue parole.

«La vostra compassione, ispettore, mi scalda il cuore» disse la donna. Lee e gli altri poliziotti smisero improvvisamente di ridacchiare e si schiarirono la gola imbarazzati. "Touché, signora Harker." Cotford doveva assolutamente prendere il sopravvento prima di perdere il vantaggio acquisito. «Perdonatemi, ma poco fa avevate detto di non essere facilmente impressionabile.» Mina non rispose. Cotford si appoggiò a una scrivania di legno e sbatté la mano sui diari rilegati in pelle di Seward. «Secondo le annotazioni del defunto dottor Seward, questa non è la prima morte prematura che colpisce la vostra famiglia.» Mina spalancò gli occhi sorpresa, e per un attimo Cotford pensò di aver colto nel segno, ma poi la vide ricomporsi, decisa a non far trapelare alcuna emozione. «Cosa vuole insinuare?» gli chiese. «La Morte è stata per voi una fedele compagna. Quincey Morris, di cui vostro figlio porta il nome. Un americano. Texano, per l'esattezza, che...» «...morì venticinque anni fa durante una battuta di caccia in Romania» lo interruppe Mina. «Avete idea di chi possa aver fatto una cosa del genere a vostro marito? Aveva dei nemici, che voi sappiate?» Negli occhi di Mina passò un lampo. «Mio marito era un avvocato. Chi svolge la sua professione conosce ogni sorta di individuo.» "Ecco, ci siamo" pensò Cotford. «Ma un crimine così violento richiede un movente passionale.» «A cosa vi riferite, ispettore?» Cotford aveva la sensazione che Mina avesse in mente un nome. Non doveva fare altro che convincerla a pronunciarlo. «Qualcuno si è preso la briga di piantare un grosso palo in mezzo a Piccadilly Circus e impalarvi vostro marito. Non si tratta di un

gesto istintivo, ma di un atto che richiede una certa pianificazione. È opera di qualcuno che non nutriva un rancore passeggero nei confronti di vostro marito. Suvvia, signora Harker, se nel vostro passato esiste qualcuno che ritenete capace di una simile atrocità, non potete non ricordare il suo nome.» "Non può essere stato lui" pensò Mina. Il cuore le batteva così forte che temeva le balzasse fuori dal petto. Cotford sapeva già troppo. Per un attimo, credette di svenire. Il suo principe era morto da tanto tempo e ormai viveva solo nei suoi incubi. E, se pure fosse stato ancora vivo, non l'avrebbe mai ferita così. Non poteva essere stato lui. Ma, se fosse stato lui, perché proprio adesso? Perché dopo venticinque anni? Chi altri, però, poteva essere così brutale? Una ridda di pensieri le affollava la mente. Aveva i nervi a fior di pelle ancor prima di mettere piede all'obitorio. Era tormentata dal senso di colpa per l'ultima discussione avuta con Jonathan, così accesa e dolorosa. Non ci sarebbe mai stata alcuna riconciliazione. Non avrebbe più avuto la possibilità di dirgli ciò che provava. Giurò a se stessa che non avrebbe commesso lo stesso errore con Quincey. La stanza era fredda e l'illuminazione non contribuiva certo a scaldarla. Da qualche parte nel buio, si udiva il ticchettio di un orologio. Il tempo non era dalla sua parte. L'ispettore estrasse qualcosa da una cartella appoggiata sulla scrivania. Mina riconobbe i bordi irregolari della carta fotografica e si preparò al peggio. «Conoscete questa donna?» le chiese Cotford. Mina guardò la foto, che mostrava una testa mozzata. Con sua grande sorpresa, non conosceva affatto quella donna. «No. Dovrei?» «Be', vostro marito la conosceva sicuramente, non so se mi spiego. Era presente quando è stata massacrata.» Quella tecnica di interrogatorio non lo avrebbe condotto da nessuna parte, pensò Mina, radunando tutte le sue forze. «E perché la cosa dovrebbe riguardarmi, ispettore?» «Accanto alla testa mozzata della donna è stato trovato il sangue

di vostro marito. Insieme a questo...» ribatté lui, mostrandole un bottone d'ottone con le iniziali "W&S". Cotford si diresse lentamente verso la barella. Accanto al corpo di Jonathan c'erano dei brandelli del suo completo grigio. «Abbiamo trovato gli abiti del signor Harker a pochi metri dalla scena del delitto. Come vedete, il bottone si incastra perfettamente qui.» Sistemò il bottone su quel che rimaneva della giacca di Jonathan, costringendo Mina a guardare di nuovo il cadavere. Cotford stava cercando di manipolare la situazione. Mina si sentì mancare. La vista di ciò che avevano fatto a suo marito le era insopportabile. L'odore nauseabondo della morte la sopraffece ed ebbe un conato. La sua determinazione la stava abbandonando. Doveva andarsene subito. Cotford continuò, imperterrito: «Il sangue sul bottone non appartiene a vostro marito, ma alla donna assassinata». «State forse insinuando che mio marito ha ucciso questa donna?» «È ciò che intendo scoprire. Sapete per caso se vostro marito intratteneva relazioni con altre donne?» «Mio marito aveva molti difetti, ispettore, ma non era un assassino. Posso andare, ora?» Per tutta risposta, Cotford la fissò come se volesse scavarle dentro. Fino ad allora Mina aveva eluso le sue domande. Doveva stare attenta. Cotford le mostrò un biglietto da visita macchiato di sangue. «Secondo il rapporto della Sureté di Parigi, nella tasca della giacca del dottor Seward è stato trovato un biglietto da visita. Lo stesso rivenuto nel portafogli di vostro marito. Il biglietto da visita di Arthur Holmwood.» «Dove volete arrivare, ispettore?» «Lord Godalming non si fa chiamare Arthur Holmwood da prima della vostra battuta di caccia in Romania.» La stanza era gelida, ma Mina si sentì avvampare. Era evidente che l'ispettore sapeva più di quanto avesse immaginato. Seward aveva davvero descritto le loro terribili esperienze nei suoi diari? Se

avesse raccontato la verità alla polizia, l'avrebbero rinchiusa in un manicomio come quello di Whitby. Si rese conto di non potersi difendere. L'unica sua speranza era la fuga. La voce roca di Cotford la strappò ai suoi pensieri. «A proposito, a cosa davate la caccia laggiù?» le chiese. «Ai lupi» replicò Mina, avviandosi verso la porta. Cotford gettò il biglietto da visita sulla barella, girò rapidamente intorno al tavolo e, con un balzo, le bloccò il passo. «Vi piace cacciare, signora Harker? O vi limitate a fare da spettatrice?» Almeno era riuscita ad allontanarsi dal corpo di Jonathan. Era alle sue spalle, ma l'odore della morte teneva viva nella sua mente l'immagine del suo cadavere straziato. «Ispettore, ho la netta sensazione che vogliate farmi una domanda. Perché non...» «Stamattina il sergente Lee ha fatto visita a Lord Godalming, che ha giurato di non aver mai conosciuto il dottor Seward... né vostro marito. Avete idea del perché abbia mentito?» «No» rispose sinceramente Mina. «Non mi piacciono le domande che rimangono senza risposta, signora Harker. E questo caso ne è pieno. Due uomini che si conoscevano sono morti tragicamente a una settimana di distanza l'uno dall'altro. Nel mio lavoro, le coincidenze non esistono. Entrambi erano legati a Lord Godalming, che però nega di averli mai conosciuti. Voi, signora Harker, siete l'ultimo anello che collega tutte queste persone.» La mente di Mina fu invasa dai ricordi delle sue avventure. Sebbene si trovasse al centro della stanza, si sentì in trappola. Il ticchettio dell'orologio sembrò accelerare. «Vi prego, ispettore. Devo trovare mio figlio e dirgli che suo padre è morto.» Cotford sembrava un leone pronto a gettarsi sulla preda. Mina cominciava a dare segni di cedimento. «Un'ultima cosa» le disse. «Abbiamo appena ricevuto questo da Parigi. Lo riconoscete, per caso?» e le porse la fotografia di un orologio da taschino d'argento

sporco di sangue. Mina non riuscì a nascondere l'emozione quando lesse l'incisione: Un mare d'amore, Lucy. Accarezzò la fotografia e, con voce tremante, rispose: apparteneva a Jack. Era un regalo di una vecchia amica... Lucy Westenra». «La ex fidanzata di Lord Godalming. Sapete dove posso trovarla?» Mina alzò la testa di scatto. Stava cercando di coglierla in fallo. Quell'interrogatorio riguardava la morte di Jonathan o quella di Lucy? Capì che l'ispettore non aspettava altro che di metterle le manette. Una parola sbagliata e si sarebbe trovata in arresto. Ma non poteva lasciare Quincey solo e indifeso per risolvere i suoi guai con la giustizia. Scegliendo con cura le parole, disse: «Credo che conosciate già la risposta, ispettore. Lucy è morta venticinque anni fa». «I vostri amici sembrano avere un tasso di mortalità molto elevato, signora Harker.» «La sfortuna non è un reato» ribatté lei. Sapeva che ciò che stava per dire avrebbe gettato ulteriori sospetti su di lei, ma doveva andarsene da lì. «E ora vi chiedo di farmi passare, ispettore. Se avete altre domande, potrete sottopormele attraverso il mio avvocato. Ora devo occuparmi del funerale di mio marito. Vi auguro una buona giornata.» «Come desiderate, signora. Ma ci rivedremo presto, ve lo assicuro.» Detto ciò, si scostò per farla passare. Mina lo guardò con diffidenza. Le parve strano che la lasciasse andare così, ma in quel momento l'unico suo pensiero era trovare Quincey. Quindi, si precipitò verso la porta. Pochi passi e sarebbe stata libera. Ma poi udì Cotford dire: «Vi prego di porgere i miei omaggi ad Abraham Van Helsing!». Le sue parole la colpirono come un veleno, paralizzandola. Sentì le gambe cederle. Cotford esultò nel vedere Mina urtare una barella vuota, voltarsi di scatto e fulminarlo con lo sguardo. Quella volta, però, i suoi occhi

non esprimevano sorpresa, bensì paura. Evidente, tangibile. Spinse via la barella e uscì barcollando. Finalmente si era tradita. Continuava a proteggere il marito anche dopo la sua morte e malgrado i loro pessimi rapporti. Se l'amore era finito, che cosa aveva tenuto insieme il loro matrimonio? Il figlio? Cotford era scettico. Dalle indagini che aveva condotto sugli Harker era emerso che Quincey aveva lasciato da tempo il nido. Jonathan e Mina Harker erano legati da qualcosa di più profondo. Un segreto inconfessabile. L'omertà che univa ladri, malviventi e cospiratori. Cotford sapeva che ciò che aveva letto nei diari di Seward a proposito di Lucy Westenra era vero. Mina nascondeva qualcosa di terribile. La malvagità di Abraham Van Helsing. La sua espressione terrorizzata quando aveva udito il nome del professore aveva rivelato a Cotford tutto ciò che voleva sapere. Avrebbe richiesto il certificato di morte di Lucy, che non poteva che affermare che era morta per cause naturali. Ma il suo istinto gli diceva che era una menzogna escogitata, comprata e pagata dal facoltoso Arthur Holmwood. Lee lo strappò alle sue riflessioni: «E adesso?». Cotford estrasse dalla tasca un sigaro, un Iwan Ries d'importazione. Lo annusò come un segugio fa con una traccia fresca. «E adesso, sergente, lasciamo che gli avvoltoi si radunino attorno alla carcassa.» Lee gli accese un fiammifero e Cotford aspirò con soddisfazione il sigaro. Per la prima volta in vita sua, si sentiva degno dell'ammirazione del sergente.

Capitolo 21 Mina si precipitò a casa, profondamente scossa. La pioggia scandiva il ritmo del suo cuore e l'angoscia che la attanagliava cresceva di minuto in minuto. Il viaggio di quattro ore da Londra a Exeter le parve infinito. Ma in quella circostanza nessun treno sarebbe stato abbastanza veloce. Il fatto che il figlio la evitasse la affliggeva profondamente. Come accadeva nella maggior parte delle famiglie, lei e Quincey si erano scontrati spesso nel corso degli anni, ma sempre su questioni futili. Era certa che la notizia della morte di Jonathan li avrebbe riavvicinati e ogni screzio sarebbe stato dimenticato in un batter d'occhio. Ciò che non riusciva a superare era il terrore che Quincey fosse in pericolo. E se fosse già stato ucciso? Il giovane non aveva idea della natura del male che lo minacciava, né era in grado di difendersi. Dover tornare a casa a prendere il passaporto per recarsi a Parigi le stava rubando tempo prezioso. Contrariamente a ciò che aveva detto all'odioso ispettore Cotford, aveva deciso di non far celebrare il funerale di Jonathan. In quel momento, la sua priorità era trovare Quincey. Jonathan avrebbe capito. Anzi: avrebbe insistito in tal senso, come avrebbe fatto lei stessa al suo posto. D'altra parte, non c'era alcun motivo per svolgere una cerimonia funebre: nessuno vi avrebbe partecipato. Quincey era a Parigi, Jack era morto, Arthur era un idiota e Jonathan non aveva più nessun cliente che avesse ossequi da porgergli. Non restava che Abraham Van Helsing. Ma non poteva rischiare: sapeva che quel maledetto ispettore avrebbe contato sulla sua presenza al funerale. «Vi prego di porgere i miei omaggi ad Abraham Van Helsing!» Le parole dell'ispettore le risuonavano nella mente come un fonografo gracchiante. Non avrebbe dato a quel porco irlandese la soddisfazione di servirgli Van Helsing su un piatto d'argento. Le circostanze della morte di Jonathan erano già abbastanza complicate senza un vecchio segugio che cercava di acquisire notorietà

rivangando il passato. Alcune cose andavano lasciate sepolte, come la sua cara Lucy. Mina ordinò al becchino di cremare i resti di Jonathan. Avrebbe ritirato le ceneri in un secondo momento. Se non altro, la cremazione gli avrebbe assicurato l'eterno riposo. Recitò una preghiera silenziosa per il suo amato, rimpiangendo di non poter cancellare tutto ciò che aveva causato il loro allontanamento. Mina era bagnata fino al midollo quando giunse sulla soglia della maestosa dimora che Jonathan aveva ereditato da Peter Hawkins. Come avrebbe potuto continuare a vivere lì? Era troppo grande. Troppo vuota. Malgrado le frequenti assenze di Jonathan, le sembrava già più fredda. Ma non era il momento di pensarci. Aveva solo un'ora per asciugarsi, cambiarsi e preparare la valigia prima di recarsi a Portsmouth, dove si sarebbe imbarcata su un traghetto. Giunta oltremanica, avrebbe preso il primo treno per Parigi: due giorni di viaggio in tutto. Altri due giorni in cui Quincey sarebbe stato vulnerabile, in pericolo. Quello zotico di un ispettore le sarebbe sicuramente stato alle calcagna, ma a Parigi sarebbe riuscita a sfuggire alle sue grinfie. Quella poteva essere l'ultima volta in cui sarebbe potuta tornare liberamente a casa. Se Cotford avesse continuato a scavare nel suo passato, avrebbe potuto essere accusata di concorso in omicidio. Per un attimo, pensò di avvertire Arthur Holmwood del pericolo rappresentato dall'ispettore, ma poi cambiò idea. Le avrebbe sicuramente sbattuto la porta in faccia. Mina infilò la chiave nella toppa e si rese subito conto che qualcosa non andava. Era già aperta. Esitò un istante: era stata una sua dimenticanza nella fretta di prendere il primo treno per Londra? Ma no, ricordava distintamente di averla chiusa a chiave prima di partire. Aveva concesso ai domestici due giorni di libertà, quindi la casa avrebbe dovuto essere vuota. Eppure Mina aveva la netta sensazione che ci fosse qualcuno. Tesa come una corda di violino, aprì lentamente la porta, sperando che non cigolasse. Temeva che qualche mostro nascosto nell'ingresso le saltasse addosso, ma non accadde nulla. Allora fece capolino da dietro la porta e guardò dentro. Alla vista

dell'inconfondibile cappotto liso e bagnato del figlio, il cuore le balzò in petto. Quincey era a casa! Poi, mentre sulle labbra le spuntava un sorriso sollevato, udì uno schianto proveniente dalla stanza accanto. Quincey era a casa, ma questo non significava che fosse al sicuro. Si precipitò in salotto. Quincey udì la porta sbattere e si voltò di scatto, trovandosi di fronte la madre, che se ne stava in piedi sulla soglia del salotto, bagnata come un pulcino. Mina rimase immobile per un attimo, sconvolta dal caos che regnava nella stanza. Poi gli chiese: «Quincey, stai bene?». «Sì, sto bene» rispose lui, cercando di comportarsi civilmente. Ma la sua collera era palpabile. «Ti ho cercato dappertutto» disse Mina. E aggiunse, guardandosi intorno: «In nome del cielo, che cosa...?». Come un bravo avvocato che cerchi di ricostruire la storia di un caso, Quincey aveva scoperto tutti i segreti della sua famiglia. Aveva usato un martello da fabbro per sfondare la cassaforte di famiglia, aveva forzato tutti i cassetti chiusi a chiave e rovistato in ogni anfratto. Il risultato era una pila di lettere, diari, fra cui quello privato di Mina, e ritagli di giornale che aveva meticolosamente disposto in ordine cronologico: la storia segreta della vita dei suoi genitori prima della sua nascita. Quincey prese una busta bianca con una mano e una pila di lettere manoscritte con l'altra. Poi mostrò a sua madre l'intestazione della busta, affinché la riconoscesse. LETTERA DI MINA HARKER AL FIGLIO QUINCEY HARKER

(da aprirsi in caso di morte improvvisa o violenta di Wilhelmina Harker) Il volto di Mina esprimeva sollievo e disperazione al tempo stesso. Quincey lanciò la lettera alla madre, e i numerosi fogli ricaddero svolazzando a terra. «La vostra vergogna vi avrebbe

indotta a nascondermi la vostra vera natura anche nella morte. Credevate fossi uno stupido. Credevate, e a ragione, di poter dissimulare la vostra innaturale giovinezza fingendo che fossimo fratello e sorella, trasformando quest'orrore in un gioco tra madre e figlio.» Mina disse, in tono supplichevole: «Tutto ciò che devi sapere è in quella lettera. Tutto ciò che io e tuo padre avremmo dovuto dirti anni fa. Ma avevamo paura di farlo». «Non avete fatto altro che mentirmi ! » gridò Quincey, ormai in preda all'ira. «Come fate a conoscere Bram Stoker?» «Chi?» chiese Mina. Sembrava davvero perplessa. Fino al giorno prima, avrebbe creduto ciecamente alla sua buona fede, ma le ultime ventiquattro ore avevano cambiato tutto quanto. «Quando l'ho letto la prima volta, ho creduto si trattasse di una coincidenza, ma ora...» le disse, lanciandole il libro dalla copertina giallo acceso e studiando la sua espressione mentre leggeva il titolo ad alta voce.

«Dracula... di Bram Stoker.» Sfogliò il libro con dita tremanti, poi

alzò gli occhi su di lui, atterrita. «Dove l'hai preso?»

"È davvero una straordinaria attrice" pensò Quincey. L'aveva amata. Aveva confidato in lei. Aveva preso le sue parti contro il padre. E ora si rendeva conto di non conoscerla. «Ormai non mi imbrogliate più. Quelle pagine contengono la verità che avete tralasciato di raccontare nella vostra lettera, la risposta al grande mistero che ha distrutto la nostra famiglia.» «Quincey, ti giuro che non sapevo nulla di questo libro.» «Non mi sorprende che lo diciate. Stoker ha scritto la verità che avete ritenuto opportuno tacere. Ha scritto che avevate un "legame" con quel mostro, Dracula. Ma temo che abbia usato un eufemismo.» «Bada a come parli, giovanotto!» Quincey la guardò: sembrava così giovane. Il suo volto era quello di una fanciulla ferita. Ripensò ai tre bambini che aveva picchiato tanti anni prima per aver offeso l'onore della madre e si pentì amaramente di averlo fatto. «È stato Dracula la causa della rottura

tra voi e papà. Osate dire che non è vero?» «Tu non puoi capire!» «Avete cospirato con Dracula contro mio padre. Avete bevuto il suo sangue» gridò Quincey. Poi, recitando a memoria, aggiunse: «Capitolo ventuno... Sul letto matrimoniale, vicino alla finestra giaceva Jonathan Harker...». «Basta!» esclamò Mina, il volto rigato di lacrime. In condizioni normali, Quincey non avrebbe sopportato l'idea di far piangere la madre, ma il pensiero di lei che beveva il sangue di quel mostro mentre il padre, suo marito, dormiva accanto a lei, lo disgustava. Per tutti quegli anni aveva creduto che la rovina della sua famiglia fosse stata causata dall'alcolismo del padre. Finalmente, aveva scoperto la verità. Era stato il tradimento di sua madre che lo aveva spinto a bere. Era stata lei la sciagurata che aveva distrutto la loro casa. «Il libro di Stoker non è frutto di fantasia. E quel demone, Dracula, è il responsabile della vostra eterna giovinezza.» «Sapevo che non avresti capito, alla tua età» singhiozzò Mina. «Il male è grigio, non bianco e nero!» Quincey ribatté, agitando il libro: «E invece ho capito tutto. Ho capito perché papà era così tormentato, e perché voleva tenermi sotto controllo. Per impedirmi di scoprire chi fosse realmente mia madre». «Tuo padre ti voleva nel suo mondo per poterti proteggere.» Quincey capì che quando suo padre parlava di "sicurezza", non si riferiva alla stabilità finanziaria, ma alla sua incolumità personale. Ecco perché era intervenuto quando stava iniziando a farsi conoscere come attore. Per proteggerlo. Sbatté il libro sul tavolo e afferrò la copia di «Le Temps» che vi aveva poggiato perché si asciugasse. Poi mostrò alla madre la prima pagina con l'illustrazione dell'uomo impalato a Piccadilly Circus.

«Tepes... l'Impalatore. Alla fine non ero io, ma papà ad aver

bisogno di protezione... dal vostro ex amante!»

Mina fece un profondo respiro. «Amavo tuo padre tanto quanto

amo te.» Lo amava, pensò Quincey, e rise beffardo fra sé e sé. Sua madre aveva uno strano modo di dimostrare i suoi sentimenti. «Per tutta la vita, avete lasciato che accusassi ingiustamente mio padre. Se ripenso a tutte le crudeltà che gli ho detto... a tutte le menzogne che mi avete raccontato e a cui ho creduto ciecamente! Non posso cancellare ciò che è stato, né riparare ai miei errori. E non posso più credere a una parola di quello che dite. Ma state pur certa che non sono un Amleto, eterno indeciso. Vendicherò mio padre. Che Dio vi aiuti!» Detto questo, uscì come una furia dal salotto raccogliendo il cappotto dal pavimento dell'ingresso. Mina cercò di fermarlo: «No! Quincey, ti prego! Odiami pure, se vuoi, ma la nostra famiglia ha già pagato il suo tributo di sangue! Se in te c'è ancora un briciolo di affetto nei miei confronti, non rivangare il nostro terribile passato. Lascia sepolta la verità, o potresti andare incontro a un destino peggiore di quello di tuo padre». Quincey uscì sbattendo la porta e senza guardarsi indietro. Mina temette che il cuore le scoppiasse di dolore. Vedere negli occhi del figlio quell'espressione di rabbia e disgusto era più di quanto potesse sopportare. Ora capiva cos'aveva provato Jonathan quando Quincey gli aveva riversato addosso la sua rabbia. La sua unica colpa era aver cercato di proteggerlo. Ma era stato proprio quel suo tentativo ad allontanarlo e a spingerlo incontro al pericolo. Afferrò la piccola croce d'oro che portava al collo e si chiese: "È possibile che il mio principe delle tenebre conosca il segreto che gli ho tenuto nascosto per tutti questi anni? E la sua collera nei miei confronti è così grande che ha deciso di vendicarsi? Su di me e su tutti coloro che amo?".

Capitolo 22

«Dixitque Deus fiat lux et facta est lux.» Dio disse: «Sia la luce!». E

la luce fu. L'inizio della creazione dell'universo.

Il vecchio viaggiava su un calessino nella notte londinese. Quando giunse a Liverpool Street, aggrottò la fronte. I suggestivi lampioni a gas con la loro romantica luce soffusa erano stati sostituiti da lampade ad arco dall'illuminazione intensa e violenta. Un viaggiatore solitario non poteva più guardare le stelle per trovare la strada: la luce elettrica le oscurava completamente. L'uomo aveva creato la luce e aveva perso il contatto con il cielo. Il pensiero che non sarebbe vissuto abbastanza da assistere al declino della sua specie non lo confortava. Gli era rimasto un solo compito nella vita, e aveva speso quasi tutte le energie nel viaggio da Amsterdam. Aveva dimenticato quanto odiasse il clima inglese. Sentiva l'umidità nelle ossa e nelle articolazioni dolenti. Il viaggio da Amsterdam era durato più di quanto pensasse. Un tempo lo faceva più volte al mese. Ora, la sua impossibilità di camminare a passo spedito gli aveva fatto perdere il treno ad Anversa e aveva dovuto aspettare un giorno intero quello successivo diretto in Francia. Il suo spirito, ancora forte, malediceva il corpo, vecchio e fragile. Il calessino si fermò davanti al Great Eastern Hotel, un signorile edificio di mattoni rossi che gli era molto familiare. Anch'esso, tuttavia, era cambiato dall'ultima sua visita, poiché si era ampliato, inglobando lo stabile adiacente. Mentre pagava al cocchiere il mezzo scellino pattuito, si accorse che, dall'altra parte della strada, si era spenta all'improvviso una fila di lampioni. Accadeva piuttosto spesso, ormai, mentre le fiamme a gas utilizzate un tempo non si spegnevano mai. Le meraviglie del progresso! Un giovane con una bombetta si fermò sotto uno dei lampioni spenti, fingendo di leggere il giornale e spiandolo. Il vecchio si appoggiò al bastone e si avviò lentamente verso l'entrata dell'albergo. Si rallegrò del fatto che avesse finalmente smesso di piovere e si guardò intorno, assaporando scorci, odori e

suoni che gli evocavano un tempo passato vissuto in quella città. Mentre i facchini portavano dentro il suo baule e le sue borse da viaggio, il portiere si offrì di dargli il braccio, ma lui rifiutò. Non avrebbe lasciato che l'età lo limitasse più di quanto non facesse già. Attraversò cautamente l'atrio con il pavimento di marmo e onice reso scivoloso dalla pioggia e si presentò nella hall. «Ho prenotato una stanza» disse. Il portiere sorrise e aprì il grosso registro nero. «Certo, il vostro nome, signore?» Il vecchio non rispose. Aveva ancora la sensazione di essere osservato. Si voltò verso la porta e vide il giovanotto con la bombetta sbirciare attraverso i vetri. Nell'istante in cui i loro occhi si incontrarono il giovane trasalì, spaventato, e indietreggiò, scomparendo nella notte. Perché lo stava seguendo? Doveva essere uno dei tirapiedi del demone. Quando Cotford e Lee entrarono nel cimitero di Highgate dall'ingresso di Swains Lane, aveva finalmente smesso di piovere. In compenso, stava già scendendo la nebbia notturna. Cotford studiò la mappa alla luce di una torcia elettrica, cercando di individuare la Egyptian Avenue. Giunti di fronte a un arco in pietra fiancheggiato da quattro colonne ornate di foglie di papiro e fiori di loto, lo attraversarono e si incamminarono lungo il sentiero. Gli alberi spogli tendevano i rami simili ad artigli verso la luna crescente e, scossi dal vento, spruzzavano Cotford e Lee di goccioline di pioggia. Statue di angeli, di figure piangenti e di donne con fiaccole in mano splendevano al chiaro di luna. Qua e là fra l'erba, l'edera e i rovi, spuntavano visi di pietra. Cotford ripensò alla sua infanzia. Sua madre gli raccontava antiche leggende irlandesi di spiriti, gnomi, folletti e di Caoineadh, la Signora della morte. Quando Cotford era bambino, la tubercolosi e l'influenza imperversavano in tutta l'Irlanda. Gli anziani del suo paesino sostenevano che quelle epidemie fossero opera del demonio. I

malati affermavano di non riuscire a respirare di notte perché sentivano un peso sul petto. Il medico superstizioso spiegò che ciò avveniva perché un vampiro si sedeva sopra di loro per succhiargli il sangue. Il panico si diffuse ancor più rapidamente della malattia stessa. Cotford ricordava perfettamente la notte in cui gli abitanti del villaggio avevano riesumato il cadavere di suo fratello. Il sacerdote aveva sentenziato che, poiché il ragazzo era stato la prima vittima dell'epidemia, doveva essere lui il vampiro che aveva infettato tutti gli altri. E, con grande orrore dell'ispettore Cotford, aveva conficcato un palo di ferro nel corpo del fratello. Quando lo aveva udito emettere un gemito e aveva visto del sangue fuoriuscire dalla bocca, dagli occhi e dalle orecchie, Cotford, all'epoca giovane e ingenuo, aveva creduto alle parole del sacerdote, che aveva dichiarato che il villaggio era salvo. Alla morte di altre cinque persone, però, la sua fiducia aveva cominciato a vacillare. Anni dopo, la sua esperienza in polizia gli aveva spiegato cos'era realmente accaduto quella notte. I gas prodotti dal processo di decomposizione facevano gonfiare il cadavere. Se quest'ultimo veniva inciso con un bisturi (o trafitto da un palo di ferro), i gas fuoriuscivano dalla bocca facendo vibrare le corde vocali e provocando una sorta di "gemito". Poi il corpo, svuotato, collassava su se stesso, e il sangue usciva da ogni orifizio. Il fratello di Cotford non era mai stato un vampiro, solo una vittima della superstizione e dell'ignoranza. I genitori di Cotford non si erano opposti alla profanazione della tomba del giovane per paura. Paura dell'ignoto. Le persone incolte temevano ciò che non capivano, consentendo alla superstizione di prosperare. Certo, dopo la morte del fratello Cotford aveva scoperto che quelle leggende erano un mucchio di sciocchezze. Era stata quella rivelazione a spingerlo ad abbandonare il suo luogo d'origine e a trasferirsi a Londra per studiare. Aveva trovato grande conforto nella scienza, che era in grado di spiegare i misteri che angosciavano gli uomini, Il soprannaturale si nutriva delle loro paure. Ma, grazie alla scienza, non si sarebbe mai più lasciato ingannare. Cotford si fermò di colpo: aveva udito qualcosa muoversi. La luna scomparve dietro le nuvole e il cimitero piombò nell'oscurità.

Cotford fece cenno a Lee di fermarsi e tese l'orecchio. Udendo un fruscio provenire dalla sua sinistra, puntò la torcia elettrica e vide un'enorme croce risplendere nel buio. Cotford udì Lee trasalire e alzò lo sguardo su di lui. Non credeva che un uomo della sua stazza fosse così impressionabile. «È solo una croce» gli disse. «Non l'avevo vista, tutto qui.» Cotford guardò di nuovo la croce e riconobbe la tomba del celebre cocchiere James Selby, che deteneva ancora il primato del più veloce viaggio in carrozza da Londra a Brighton e ritorno. Sulla lapide, circondata da quattro pali ornati di ferri di cavallo, era scolpito un frustino. Dopo aver attraversato il labirinto di croci e tombe, Lee e Cotford passarono accanto a una appena scavata, ancora in attesa di una lapide. Finalmente, giunsero a un mausoleo ricoperto di edera e circondato da tassi dal tronco di un bianco splendente. Lee scostò le foglie e i rami che nascondevano il nome inciso sulla pietra: WESTENRA. Lee sospirò. «Siete sicuro di voler andare fino in fondo?» Cotford annuì: era l'unico modo. Non aveva prove sufficienti a ottenere un'ordinanza del tribunale. Bevve un sorso dalla bottiglietta di whisky per riscaldarsi. «Mi state chiedendo di aiutarvi a commettere un reato.» «Non è un capriccio, sergente.» Cotford estrasse dal soprabito uno dei diari di Jack Seward. «Venticinque anni fa, Jack lo Squartatore commise un crimine di cui non eravamo a conoscenza. E la prova è la testimonianza del dottor Jack Seward, scritta di suo pugno.» Cotford aprì il diario e lesse alla luce della torcia: Arthur, il suo promesso sposo, lanciò un grido di dolore quando le conficcò il palo di ferro nel cuore. Al primo colpo di maglio, la creatura che era un tempo la bella Lucy urlò come un'ossessa. Il sangue! L'orrore!

Piansi tutte le mie lacrime. Arthur amava Lucy più di ogni altra cosa, ma ciò non gli impedì di vibrare il colpo mortale. Quante volte ho rivisto quella scena con gli occhi della mente: perché, se amavo Lucy più di Arthur, non ho fermato la sua mano? Ma come potevo, quando ero stato io stesso a decapitarla... Nel corso degli anni, ho continuato a ripetermi che volevamo solo salvare la sua anima immortale. Ma, se ciò è vero, perché non riesco a dimenticare le sue grida? O la spaventosa vista del professor Van Helsing che sollevava la sega chirurgica per mutilarla... «Basta!» esclamò Lee. «D'accordo, ma sappi che il mio zelo nasce da un terribile senso di colpa che ti auguro di non provare mai. Il certificato di morte di Lucy Westenra afferma che soffriva di una rara malattia del sangue. Il medico che lo redasse era un certo dottor Langella, lo stesso che, poche settimane prima, aveva firmato la licenza di matrimonio di Holmwood. Una strana coincidenza, non trovi? Ma, come scrive chiaramente Seward, Lucy non è morta in pace.» «E se quei diari non fossero altro che i deliri di un pazzo?» «Non dire sciocchezze, Lee. Dopo tutto ciò che abbiamo scoperto, non può non essere vero, e lo sai. Se fingiamo di non sapere e lasciamo che un'altra donna cada sotto i colpi dello Squartatore...» Cotford esitò un istante, serrando la mascella, poi concluse: «Dovremo risponderne in un'altra vita». Lee fissò a lungo il suo mentore. Non poteva confutare la sua logica. Indicando la tomba, disse piano: «Che Dio ci perdoni se abbiamo torto». «E ci protegga se abbiamo ragione.» Ci volle tutta la forza dei due poliziotti per aprire la porta di ferro. I cardini gemettero come donne piangenti. Quando la porta sbatté contro il muro di pietra, lo schianto fu più forte di un tuono. La luce della torcia illuminò dei topi che fuggirono via, spaventati. Cotford e il sergente sollevarono il coperchio del sarcofago. Il fetore di morte che li investì li lasciò senza fiato. Lee tossì, portandosi un braccio sul viso. «Com'è possibile che resti

così vecchi abbiano un odore così nauseabondo?» Poi un terribile pensiero gli attraversò la mente. «Forse ne sono stati aggiunti di nuovi» aggiunse. «Quella porta non veniva aperta da decenni» ribatté Cotford. Il sergente annuì: l'ispettore aveva ragione. Ma ciò non spiegava come mai l'odore di morte fosse ancora così forte. Sperò che vi fosse qualche carcassa di animale. Cotford puntò la torcia all'interno del sarcofago, che conteneva lo scheletro di una donna mutilata. Il teschio, coperto di lunghi capelli rossi, era stato evidentemente reciso dal corpo. La bocca era piena di fiori secchi, gli arti mozzati erano incrociati. Fra le ossa del petto c'era ancora il palo di ferro menzionato da Seward e accanto ai resti erano ben visibili tracce di sangue rappreso. La vista di quel corpo straziato risvegliò in Cotford il ricordo delle cinque prostitute ritrovate a Whitechapel e mutilate nello stesso modo. Evidentemente, lo Squartatore era passato dalle prostitute alle donne facoltose. Aveva ucciso Lucy in un luogo in cui nessuno l'avrebbe udita urlare e le aveva inferto il colpo mortale con un palo di ferro, in puro stile Van Helsing. Malgrado il profondo disgusto, Cotford si rallegrò del fatto che i suoi sospetti si fossero rivelati fondati. «Pazzi furiosi!» esclamò. «Assassini ! » gli fece eco Lee. Cotford guardò il sergente. Il suo volto esprimeva la sua stessa sete di giustizia. «Sergente Lee, voglio che ogni centimetro della scena del crimine venga fotografato e che i resti vengano portati all'obitorio. Rivolgiti a uomini di fiducia. I nostri superiori non devono ancora sapere cos'abbiamo scoperto. Butta giù dal letto quell'imbecille del medico legale e digli di effettuare un'autopsia. Assicurati che se ne vada prima dell'alba, in modo da non destare sospetti, e che il suo referto giunga immediatamente sulla mia scrivania.» «Sissignore.» In quel preciso istante, Cotford chinò il capo di lato e si portò un dito alle labbra, facendo segno a Lee di tacere.

Entrambi tesero l'orecchio e udirono qualcuno correre verso la tomba. Cotford era, come sempre, disarmato. Forse quella notte avrebbe dovuto mettere da parte l'orgoglio e portare con sé una pistola. Quando i passi si avvicinarono, spense la torcia, mentre Lee si posizionava accanto all'entrata della tomba con lo sfollagente in mano. Proprio quando la luna fece capolino da dietro le nuvole, una sagoma scura con la bombetta in testa apparve sulla soglia. Cotford accese la torcia, accecando l'intruso. Stava per scagliarsi contro di lui, quando udì Lee esclamare: «Price! Cosa ci fai qui? In borghese, per giunta?». Price si tolse la bombetta, se la mise sotto il braccio e venne avanti. «Mi avevate ordinato di non dare nell'occhio, signore. Ho fatto male...?» Cotford riconobbe in Price il giovane che era andato a cercarlo al Red Lion. «Sergente Lee,» continuò Price, ansimando «mi avevate ordinato di informarvi... quando l'uomo nella foto... fosse arrivato al Great Eastern Hotel.» «Ed è arrivato?» gli chiese Cotford, lieto che Lee avesse coinvolto Price. Gli piaceva quel giovane, così serio e zelante. «Sissignore. L'ho visto entrare con i miei occhi. È molto più vecchio rispetto alla foto, ma l'ho riconosciuto.» Cotford bevve un sorso dalla sua bottiglietta e sorrise trionfante. «Che i giochi abbiano inizio!»

Capitolo 23 La contessa Bàthory attese, avvolta nella spessa coltre di nebbia, che i due poliziotti e il giovane con la bombetta uscissero dal mausoleo con sopra inciso il nome "Westenra". Li spiava da diversi giorni. Da una settimana, per l'esattezza: la notte in cui la sua amata Donna in bianco era stata uccisa, mentre se ne stava seduta sul tetto di una casa nel vicolo vicino a Tempie Bar, il più grasso dei tre aveva cercato di ricostruire la dinamica dei fatti, suscitando il suo interesse. Aveva ascoltato divertita anche l'ispettore Huntley snocciolare la sua ridicola spiegazione. Un vero e proprio insulto alla sua pupilla. Pensare che quel rammollito di Harker fosse in grado di uccidere la sua amata dai capelli dorati era a dir poco offensivo. Lo avrebbe fatto a pezzi, se solo ne avesse avuto la possibilità. Il grassone, invece, non era uno stupido. Non solo aveva ricostruito esattamente l'accaduto, ma aveva persino ipotizzato la sua presenza sul luogo del delitto. Da allora, lo aveva tenuto d'occhio. Il più alto dei poliziotti si era rivolto al grassone chiamandolo ispettore Cotford. Il nome non le diceva nulla; il viso, invece, sì. Alcuni anni prima aveva visto la sua fotografia sui giornali, insieme a quell'idiota di Abberline. "Sì, è vero. Si chiamava Cotford" pensò. Era diverso, però: invecchiato e appesantito. Era incredibile come i mortali potessero cambiare così radicalmente in (appena) un quarto di secolo. Cotford poteva essere più astuto di altri che avevano incrociato il suo cammino, ma non era certo un genio. Era riuscito a trovare tutte le tessere del mosaico, ma la sua mente limitata gli impediva di vedere il quadro d'insieme. Elizabeth Bàthory aveva resistito all'impulso di piombargli addosso e fracassargli la testa contro il muro. Immaginò la sua espressione scioccata quando avrebbe provato sulla sua pelle che una donna poteva essere molto più forte di un uomo. Per secoli, la contessa era stata fuorviata dalla credenza che Dio avesse creato l'uomo a sua immagine e somiglianza. Se fosse stato davvero così, Dio sarebbe stato debole. L'uomo era così fragile

e limitato! Senza la tecnologia, sarebbe stato l'ultimo anello della catena alimentare. Elizabeth Bàthory aveva scoperto la verità che tutti gli animali conoscevano da millenni: l'uomo era una preda facile e il suo sangue un vino pregiato. Si chiese se le bestie che avevano mangiato carne umana avessero provato la sua stessa soddisfazione. L'unico uomo per cui la contessa nutrisse rispetto era Charles Darwin, perché aveva formulato per primo la teoria della selezione naturale. Elizabeth Bàthory possedeva facoltà eccezionali. I suoi sensi erano dieci volte più acuti e la sua forza dieci volte maggiore di quella di qualsiasi mortale. Ed era dotata di un potere ancora più grande: quello della mente. Per secoli, gli uomini avevano guardato stupiti ai maghi, che manipolavano gli oggetti e leggevano nel pensiero. Ma lei sapeva che non si trattava di un trucco: era in grado di penetrare nella coscienza di qualsiasi essere umano, anche a centinaia di miglia di distanza, e costringerlo a vederla sotto forma di lupo, gargouille, topo, o nebbia. Aveva la capacità di muoversi a velocità incredibili. Poteva persino levitare e volare, sfruttando le correnti. L'uomo, invece, aveva bisogno di una macchina per staccarsi dalla terraferma. La contessa era il futuro dell'evoluzione umana. Non sapeva se uccidere Cotford per ciò che aveva scoperto o fare di lui un inconsapevole alleato. Il suo primo istinto fu quello di sterminare subito i tre uomini nel mausoleo, prima che spifferassero tutto a qualcun altro. Aveva ucciso Jack Seward per molto meno, e quel cimitero era lo scenario ideale per un omicidio. Era immenso, e lei si trovava a grande distanza, ma i suoi occhi sovrumani vedevano attraverso la nebbia e nel buio. Il mausoleo dei Westenra. "Stanno rivangando il passato. Raccogliendo altre tessere del mosaico" disse fra sé. Rifletté sul da farsi. L'ispettore era limitato e dominato dalle sue ossessioni. Forse i suoi contemporanei lo ritenevano pazzo come i criminali a cui dava la caccia. A lei piaceva giocare, ma non con le carte o con il denaro. La vita e la morte erano premi molto più allettanti. A ogni modo, era tutto così arbitrario, e lei, in quel gioco, aveva sempre vinto. Era pronta a scommettere che Cotford avesse ordinato agli altri due poliziotti di mantenere il segreto. Era intelligente, certo, ma il fatto che non avesse notato la tomba di

Seward vicino a quella di Lucy la indusse a pensare che la sua forma mentis fosse pateticamente lineare. Poteva usare Cotford per i propri fini? Sì. Lo avrebbe sfruttato per scovare tutti gli altri, e li avrebbe portati a sé. Sorrise. La vita in Inghilterra non sarebbe stata più noiosa e monotona. Così, la contessa decise di risparmiare la vita di Cotford e dei suoi uomini, almeno per il momento. Non perché provasse compassione, poiché era incapace di un sentimento del genere: era una vera predatrice. Ma quella notte avrebbe messo da parte la sua sete di sangue in favore del gioco. "Diamo alle mie pedine un'altra tessera del mosaico" pensò. Salì sulla carrozza nera senza cocchiere e batté la punta dorata del bastone da passeggio sul soffitto. I cavalli partirono al galoppo e lasciarono il cimitero di Highgate dirigendosi verso sud, a Whitechapel. Kristan era esausta. Aveva camminato tutta la notte lungo Commercial Street e aveva i piedi coperti di vesciche. I giornali che si era infilata nelle scarpe per scaldarsi erano ormai fradici ed emanavano un odore di pesce marcio. Mentre si dirigeva zoppicando verso Devonshire Square, dove si trovava la fatiscente pensione in cui viveva, udì dei cavalli avvicinarsi. Avrebbe voluto ignorarli, ma la sua situazione finanziaria non le permetteva quel lusso. Così, fece un sorriso forzato e si voltò. Dalla spessa coltre di nebbia spuntò una carrozza nera. Ma c'era qualcosa di strano. Le carrozze non si guidavano da sole. Poi notò che la carrozza aveva preziose finiture in oro e un pensiero le attraversò la mente. Quella era l'epoca delle grandi invenzioni e i ricchi potevano permettersi ogni sorta di diavoleria. Una carrozza senza cocchiere doveva essere un incrocio fra un calessino e un'automobile. La vista dell'oro la eccitò. Aveva già avuto cinque clienti, quella notte, ma l'avevano pagata talmente poco che il giorno dopo sarebbe a malapena riuscita a mangiare. Quella carrozza poteva trasportare un cliente facoltoso. Se lo avesse soddisfatto, avrebbe potuto spillargli un mese di affitto. Era la sua notte fortunata. La carrozza rallentò, fermandosi a un passo dalle sue scarpe

logore. Kristan aspettò che lo sportello si aprisse e immaginò di trovarsi davanti un affascinante gentiluomo. I sedili imbottiti sarebbero stati molto più confortevoli dei freddi ciottoli di un vicolo. Dopo alcuni istanti, però, Kristan capì che doveva fare il primo passo. Si passò la lingua sulle labbra sperando di ammorbidirle abbastanza da nascondere le screpolature causate dal gelido vento di marzo. Si aggiustò la camicetta in modo da far risaltare il seno prosperoso, la sua "mercanzia", e si accostò alla carrozza con le movenze più sinuose che le scarpe e la stanchezza le consentissero di avere. Bussò alla porta e chiese: «Cerchi compagnia, tesoro?». Nessuna risposta. Il riccone si faceva desiderare. «Ehi? C'è nessuno in casa?» Una mano guantata di nero con un anello di rubino scostò la tenda rosso sangue e le porse un doblone d'oro spagnolo. Kristan indietreggiò istintivamente, poi sorrise e afferrò la moneta. «Adesso sì che parli la mia lingua, tesoro.» La porta della carrozza si aprì lentamente e un dito indice fece cenno a Kristan di salire. A quel prezzo, il gentiluomo poteva fare di lei ciò che voleva. Essendo un'ottima donna d'affari, Kristan sapeva che, in quella parte della città, chiunque fosse disposto a pagare così tanto cercava qualcosa di speciale. E, di qualunque cosa si fosse trattato, sarebbe stata al gioco. Con un po' di fortuna, sarebbe potuto diventare un cliente abituale. Kristan infilò la moneta nella camicetta in modo provocante e prese la mano guantata di nero. Quando la porta si richiuse, Kristan rimase di stucco. Il suo facoltoso cliente non era un uomo, ma una splendida donna dai capelli corvini e gli occhi azzurri con indosso un frac e un cappotto da uomo. Kristan si rallegrò del fatto di poter evitare un altro amplesso violento, e si eccitò al pensiero di un incontro amoroso con una bella signora. La carrozza della contessa Bàthory sfrecciava lungo il Tamigi, nei pressi della Torre di Londra. I sei cavalli neri correvano al galoppo sulle strade acciottolate. D'un tratto, si fermarono di colpo, come se qualcuno avesse tirato

delle redini invisibili. Mancava un'ora all'alba e il cuore della City era ancora immerso nell'oscurità. Per le strade non c'era anima viva: non vi sarebbero stati testimoni. La porta della carrozza si aprì lentamente e la contessa gettò il corpo insanguinato di Kristan nel Tamigi come fosse un mucchio di stracci. Kristan era stata sgozzata e il suo viso era pietrificato in un'espressione di puro terrore. Il corpetto era strappato e mostrava i seni, e le mutandine erano intorno alle caviglie. Elizabeth Bàthory non aveva risparmiato alla succulenta fanciulla nessuna umiliazione, nemmeno nella morte. Dopo essersi sbarazzata del cadavere, rovesciò in strada il contenuto della borsa di Kristan: una manciata di monete, un fazzoletto, un rosario. Alla vista di quest'ultimo, scoppiò a ridere. "Un'altra ipocrita" pensò. Il corpo della prostituta si allontanò in balia della corrente. I suoi occhi sbarrati guardavano il cielo. La contessa non riusciva a capire come donne così sventurate potessero ancora provare devozione nei confronti di Dio. Cos'aveva fatto per loro? La sua mano guantata di nero gettò il doblone nell'acqua vicino al cadavere e sorrise mentre Kristan e il suo oro affondavano tra le onde nere del Tamigi. "Chi dice che non puoi portarlo nella tomba?" pensò. «Buona caccia, ispettore Cotford.»

Capitolo 24 Pioveva a dirotto, ma Quincey si sentiva ribollire il sangue nelle vene mentre correva lungo Bonhay Road. Perché i suoi genitori gli avevano tenuto nascosto il loro passato? Perché suo padre non aveva avuto fiducia in lui? Perché era morto? Perché sua madre aveva tradito i suoi amici? Quelle domande gli turbinavano nella mente mentre sfrecciava verso la stazione di St. David. D'un tratto, udì il fischio del treno, appena partito. Non aveva tempo di acquistare il biglietto. Il convoglio successivo sarebbe partito tre ore dopo, e lui non aveva intenzione di restare a Exeter un minuto di più. Senza pensare, continuò a correre lungo i binari mentre il treno prendeva velocità, e saltò sull'ultima carrozza. La pioggia, però, aveva reso il metallo scivoloso, e Quincey scivolò. Per non cadere si aggrappò a una catena; mentre il treno accelerava si issò sulla carrozza, il cuore che batteva all'impazzata. Poi si voltò a guardare Exeter svanire in lontananza, sapendo che non avrebbe messo più piede nella sua città natale. Suo padre era morto, sua madre lo aveva profondamente deluso: non c'era più nulla che lo tenesse legato a quei luoghi. Mentre il treno si dirigeva verso Londra, Quincey trovò un posto a sedere in una carrozza tranquilla, ma la sua mente non si placò. Quanta parte di verità c'era nel libro di Stoker? I non-morti camminavano davvero sulla terra? Sembrava assurdo. Nella lettera che gli aveva scritto, sua madre affermava che i mostri esistevano e che uno di loro aveva ucciso suo padre e distrutto la sua famiglia. Quincey provava un'inestinguibile sete di vendetta. Ma come poteva combattere un male così grande? Aveva di fronte un avversario che secoli prima aveva guidato interi eserciti. Brutale e senza scrupoli, quel mostro aveva dalla sua un potere diabolico. Quincey era solo e indifeso. Gli unici che conoscevano la verità erano gli impavidi eroi che lo avevano affrontato tanti anni prima. Il loro legame si era spezzato da tempo, e ormai erano quasi tutti morti. Ma forse c'era ancora qualcuno a cui poteva rivolgersi. Mina possedeva un intero fascicolo sulle sue prodezze. Aveva prestato servizio insieme a Quincey P. Morris nella Legione straniera. Le doti militari di quell'unità scelta erano leggendarie. Aveva combattuto nell'assedio

di Tuyen Quang contro la Cina, era sfuggito ai cannibali nelle isole Marchesi e aveva difeso l'imperatrice coreana dai suoi nemici giapponesi, che volevano eliminarla. Inoltre, aveva affrontato il principe Dracula in battaglia ed era sopravvissuto. "Sì" pensò Quincey. "Andrò da lui. Andrò da Arthur Holmwood." Quando il calessino giunse davanti al cancello di Holmwood, noto anche con il nome di Lord Godalming, il sole stava tramontando. Quincey saltò giù e gettò alcune monete al conducente. La vista della maestosa dimora lo lasciò a bocca aperta. Era tre volte più grande della casa dei suoi genitori a Exeter. Quell'Holmwood era un mistero. Avrebbe potuto rimanersene in Inghilterra a godersi i privilegi della sua ricchezza e invece il fatto che avesse rischiato più volte la vita suscitò l'ammirazione di Quincey ancor prima di incontrarlo. Era un uomo di grande valore, e gli avrebbe sicuramente fornito l'aiuto di cui aveva bisogno. Il romanzo di Stoker non chiariva le circostanze che avevano fatto incontrare la compagnia degli eroi. Quincey ne era venuto a conoscenza grazie ai dettagliati resoconti di Mina. Jack, Arthur e il suo omonimo Quincey P. Morris avevano frequentato l'esclusivo Huguenot College, fuori Londra. Jack era cattolico, ma il padre, un noto medico, non voleva che suo figlio frequentasse una scuola parrocchiale e lo aveva iscritto a quel collegio protestante affinché socializzasse con l'élite britannica. Era stato lì che Jack aveva stretto amicizia con Arthur. Il padre di Quincey P. Morris, Brutus, era un ricco allevatore di bestiame texano. Quando, nel 1861, era scoppiata la Guerra civile americana, il Texas si era riservato il diritto di non uscire dall'Unione e di non unirsi alla Confederazione. A tal proposito era stata istituita, a Londra, una sede diplomatica, e Brutus Morris era stato nominato ambasciatore. Come si confaceva a un uomo della sua posizione sociale, Brutus aveva iscritto il figlio alla stessa scuola privata di Jack e Arthur. Quincey P. Morris rimpiangeva profondamente di non aver potuto combattere nella Guerra civile americana, e il suo rammarico lo aveva indotto a tornare in patria per partecipare alle guerre contro gli indiani e per contribuire a domare il selvaggio

West. Arthur era rimasto estremamente colpito dall'epopea americana di Morris e aveva deciso di arruolarsi con lui nella Legione straniera. Jack Seward, invece, non li aveva seguiti, scegliendo di perseguire la gloria in ambito scientifico e iscrivendosi alla prestigiosa Vrije Universiteit, in Olanda, come studente e assistente del professor Abraham Van Helsing. Quincey indugiò alcuni istanti in cima alle scale della villa per riprendere fiato e ricomporsi. Non voleva che il grande Arthur Holmwood lo scambiasse per un fattorino. In piedi sulla soglia, pensò che la compagnia degli eroi doveva essersi incontrata spesso in quella dimora, e che forse il piano per liberare il mondo da Dracula era stato concepito proprio lì. Eppure, malgrado il contributo di un uomo come Holmwood, avevano fallito. Quincey temeva che l'avversario che aveva davanti fosse invincibile. Allungò una mano verso il battente, ma si rese conto che non c'era. Guardandosi intorno perplesso, notò una corda accanto alla porta. Ma certo: un lord non poteva che disporre di tutti i lussi, fra cui il nuovo "campanello". Quincey tirò la corda e udì un cupo rintocco. Nessuna risposta. La tirò di nuovo, ma nulla. Stava per bussare quando vide la porta socchiudersi e un maggiordomo fare capolino. «Posso aiutarvi?» «Sono Quincey Harker. Vorrei parlare con...» ed esitò. Un uomo come Arthur Holmwood doveva essere designato con il titolo appropriato. «Con Lord Godalming. È una questione della massima urgenza.» Per tutta risposta, il maggiordomo gli presentò un piccolo vassoio d'argento. Gli stava chiedendo di mostrargli un biglietto da visita. Fortunatamente, Basarab gliene aveva procurati alcuni. Quincey frugò a lungo nel cappotto sotto lo sguardo severo del maggiordomo: un vero gentiluomo aveva sempre i biglietti da visita a portata di mano. Quando finalmente li trovò e gliene porse uno, l'uomo disse: «Vogliate attendere un istante, prego» e gli richiuse la porta in faccia. Quincey rimase in attesa. Era sulle spine: aveva letto così tanto sul conto di Holmwood, negli ultimi giorni. Le prodezze che aveva compiuto in Transilvania erano solo la punta dell'iceberg. Tra le

carte di Mina, Quincey aveva trovato delle informazioni sulla sua vita precedente e su quella successiva allo scontro con Dracula. Sebbene Arthur fosse divenuto Lord Godalming dopo la morte del padre, una volta tornato dalla Transilvania non aveva più usato spesso quel titolo. Quincey si chiese se avesse cambiato nome perché sapeva che Dracula era ancora vivo, ma era certo che non si nascondesse per paura. Negli anni, era diventato un velista provetto, un esperto giocatore di polo e un famigerato duellante. Aveva spesso difeso il suo buon nome con la spada e la pistola, uccidendo tre uomini e ferendone altri dodici. C'era da aspettarselo dall'uomo che aveva rischiato tutto ciò che aveva per l'onore del suo grande amore, Lucy Westenra, Quincey era certo che un eroe della sua tempra non si sarebbe tirato indietro di fronte a una nuova battaglia contro Dracula. Quincey ricordava di aver incontrato un certo "zio Arthur", da bambino, e capì che doveva essersi trattato di Lord Godalming. Ma quest'ultimo non aveva contatti con gli Harker da quasi vent'anni, ormai, per motivi che Quincey immaginava legati al tradimento della madre e all'alcolismo del padre. Sperava solo che Holmwood sarebbe stato disposto a dimenticare le colpe dei suoi genitori e a dargli fiducia, poiché aveva un disperato bisogno del suo aiuto. Gli uomini come lui erano una razza in via d'estinzione. Quincey aveva letto che un amico del padre di Arthur aveva Perso tutti i suoi averi a causa di un investimento sbagliato. Per non lasciare che l'uomo perdesse le sue terre e la sua ricchezza, Holmwood aveva acconsentito a sposarne la figlia. Quincey sperò che, se Lord Godalming era stato disposto a prendere in moglie una sconosciuta per aiutare un amico, si sarebbe dimostrato altrettanto caritatevole nei suoi confronti. Ma prima avrebbe dovuto riceverlo. Mentre aspettava, Quincey pensò al padre, e si sentì sopraffare dai rimorsi. Non avrebbe più avuto la possibilità di chiedergli perdono per il suo comportamento. Ora sapeva che lo aveva amato al punto da rinunciare a tutto per lui, e voleva a tutti i costi dimostrarsi degno del suo sacrificio. Finalmente, la porta si riaprì e il maggiordomo disse: «Lord Godalming vi riceverà subito».

Quincey fece per entrare, ma l'uomo gli si parò davanti e, schiarendosi la gola, lanciò un'occhiata ai suoi stivali sporchi di fango. Quincey, colto di nuovo in fallo, strofinò le suole delle scarpe sullo zerbino di ghisa accanto alla porta. Il maggiordomo lo fece accomodare nello studio di Arthur Holmwood, prese in consegna il suo cappotto e uscì, chiudendo la porta. Quella stanza aveva un odore familiare. Quincey si rese conto di esservi già stato e fu assalito dai ricordi. Riconobbe la carta da parati bordeaux, con un pregiato motivo di William Morris. Alle pareti erano appesi spade, stocchi e pugnali. Nei suoi spettacoli, Quincey si ritrovava spesso a maneggiare spade di legno, ma quelle erano lame vere. Nessuna era macchiata di sangue, ma alcune erano scalfite. D'un tratto ricordò che, da bambino, aveva allungato una mano per toccare una spada, ma suo padre glielo aveva impedito. «Rischi di farti male» gli aveva detto. Riconobbe anche i mobili di quercia intagliata a mano, i vetri istoriati delle finestre e gli scaffali carichi di libri. Mentre si guardava intorno, un'altra immagine gli passò davanti agli occhi: in quella stanza c'era il ritratto di una bella donna dai capelli rossi, la stessa la cui fotografia era tanto cara a sua madre. Quincey si voltò verso il camino, poiché, nei suoi ricordi di bambino, il quadro era appeso sopra la cappa, ma si accorse che era stato sostituito da un semplice paesaggio. «Il ritratto di Lucy...» rifletté ad alta voce. «Il dipinto a cui vi riferite» disse una voce alle sue spalle «è stato tolto dieci anni fa per rispetto nei confronti di Beth, mia moglie.» Quincey si voltò di scatto e vide Arthur Holmwood, Lord Godalming, seduto a un'enorme scrivania di mogano. Sotto un'elegante lampada era appoggiato il vassoio d'argento con sopra il suo biglietto da visita. Quincey rimase di stucco: Holmwood non era cambiato affatto. Era più vecchio di suo padre, ma chiunque li avesse visti insieme avrebbe faticato a crederlo. Aveva i capelli biondi, gli occhi grigioazzurri, la mascella volitiva: era facile capire perché Lucy lo avesse

preferito a qualsiasi altro pretendente. Il povero dottor Seward non aveva alcuna possibilità. Quincey si raddrizzò e si schiarì la gola. «Buongiorno, signor... Lord Godalming. Perdonatemi, non vi avevo visto.» «Immagino non siate venuto per discutere delle mie scelte in fatto di arredamento.» Quincey rimase sorpreso dal suo tono brusco, ma non si lasciò scoraggiare e disse: «Sono il figlio di Jonathan e Mina Harker...». «So chi siete, signor Harker, Cognac?» «No, grazie» rispose Quincey, sperando che il suo rifiuto fosse interpretato come un segno che non condivideva il vizio del padre. Lord Godalming si alzò e si diresse verso il fornito mobile bar dalla parte opposta della stanza. Era alto e imponente e indossava un completo di sartoria che metteva in risalto il suo fisico asciutto e muscoloso, apparentemente immune al trascorrere del tempo. Aveva un portamento così elegante che era difficile credere a tutte le storie avventurose che Quincey aveva letto sul suo conto. Solo una spruzzata di capelli grigi intorno alle tempie tradiva la sua età, conferendogli peraltro un'aria ancora più distinta. Arthur prese un bicchiere di cristallo e un decanter e si voltò, mostrandosi alla luce. Fu allora che Quincey notò due dettagli che gli erano sfuggiti: aveva una cicatrice sulla guancia destra e gli mancava parte della cartilagine di un orecchio. Quincey si chiese quale delle sue tante battaglie gli avesse lasciato quei segni. Arthur versò del cognac nel bicchiere e gli chiese: «Ditemi, signor Harker, cosa vi porta qui?». «Sono certo che lo sappiate.» «Non ne ho la più pallida idea.» «Mio padre è stato assassinato la scorsa settimana.» «Sì, ho saputo» replicò Arthur con un tono distaccato. «Condoglianze» aggiunse, stringendo il bicchiere affinché il calore della sua mano scaldasse il cognac. Quincey cercò di capire il motivo di tanta freddezza. «Avete anche saputo che Jack Seward è stato ucciso a Parigi, due settimane

fa?» Arthur si rabbuiò e chiuse gli occhi. Poi si portò il bicchiere al naso e ne odorò l'aroma. Quincey alzò la voce: «Mi avete sentito? Jack è...». «Vi ho sentito perfettamente» ribatté lui aprendo gli occhi e fulminandolo con lo sguardo. «Jack era uno sciocco. Ha ficcato il naso in una... faccenda in cui non avrebbe dovuto immischiarsi.» «Ma era un vostro amico!» Arthur fece un passo verso di lui, guardandolo con aria minacciosa. «Jack Seward era un drogato che aveva perso tutto: casa, famiglia, patrimonio e reputazione!» L'istinto di sopravvivenza di Quincey gli suggerì di smettere di provocare Lord Godalming. Ma doveva tenere duro, se voleva guadagnarsi il suo rispetto. Alzò il mento in segno di sfida e lo guardò dritto negli occhi, ma si rese conto che la collera di Arthur era svanita, lasciando il posto a una profonda tristezza. «Jack era uno sciocco che non riusciva a dimenticare il passato» disse, svuotando d'un fiato il bicchiere, come per affogare un ricordo doloroso. «Mio padre e il dottor Seward sono stati assassinati a distanza di pochi giorni; non può essere una coincidenza, non credete?» gli chiese Quincey. «Voi e vostra moglie siete in pericolo.» Arthur scoppiò a ridere e riempì di nuovo il bicchiere. «Pericolo? Signor Harker, non avete idea di cosa significhi questa parola.» Quincey non riusciva a credere che l'uomo che aveva davanti fosse lo stesso che, tanti anni prima, aveva combattuto contro Dracula. Avrebbe dovuto conoscere bene la minaccia che rappresentava. Si sentì sopraffare dalla collera e, prima di rendersene conto, gli andò incontro e lo afferrò per il braccio mentre versava il cognac. «Dracula sta per tornare. Vuole vendicarsi, e voi lo sapete. Aiutatemi a ucciderlo, una volta per tutte.» Arthur lanciò un'occhiata torva alla mano che gli stringeva il braccio e si liberò con uno strattone. «Siete avventato, signor Harker.

Avventato e sconsiderato. Quindi alla fine vi ha raccontato tutto.» «No, ho scoperto da solo la verità» rispose Quincey, cercando invano di controllare il tremito nella voce. «Dracula è morto. L'ho visto con i miei occhi» disse Arthur, poggiando il decanter e tornando alla scrivania. «Lo abbiamo visto tutti.» Quincey era esasperato da quella ostinata cecità. «Mio padre è stato impalato. Tepes... chi altri può essere stato?» «Signor Harker, nella mia vita ho combattuto molte battaglie. Ho attraversato oceani di sangue. Ma tutto ciò appartiene al passato. Non ho alcuna intenzione di tornare indietro» concluse, poi afferrò un campanello e fece per chiamare il maggiordomo. Quincey sbatté il pugno sulla scrivania. «Codardo!» esclamò. Era certo che quell'insulto lo avrebbe indotto a reagire, ma gli occhi azzurri di Arthur sembravano spenti. «Tornate a casa, figliolo» sospirò Holmwood. «Prima di farvi male.» Quincey udì il maggiordomo aprire la porta alle sue spalle. «Devo dedurre che il nostro colloquio è finito?» «Buon pomeriggio, signor Harker» replicò Arthur, prendendo in mano un libriccino e cominciando a leggere. Il maggiordomo venne avanti con il cappotto di Quincey fra le mani. «Da questa parte, signore.» Quincey rimase immobile, incredulo. Poi prese il cappotto e si diresse a grandi passi verso la scrivania, strappando il libro dalle mani di Arthur. I loro sguardi si incrociarono. «Non proverò alcuna compassione quando vi vedrò all'obitorio» sibilò, sperando di scuoterlo, finalmente. Ma Arthur non raccolse la provocazione e, fissando il dipinto sopra la cappa del camino, sussurrò: «Nessuno lo farà». Mentre usciva dalla casa di Lord Godalming ritrovandosi nella strada ormai buia, Quincey rifletté sull'accaduto. La stessa forza che aveva condotto Jack Seward alla pazzia, indotto sua madre al tradimento e portato via suo padre, aveva anche spento l'ardore di

Arthur. In quel momento capì perché si facesse chiamare Lord Godalming: perché Arthur Holmwood non esisteva più. E capì anche perché si batteva a duello: non per difendere il proprio onore, ma per trovare la morte.

Capitolo 25 La luna era bassa nel cielo e la sua luce filtrava attraverso le finestre di New Scotland Yard. Cotford lavorava alla scrivania, cercando di tenere gli occhi aperti. Alla sua sinistra c'erano le crude fotografie in bianco e nero del cadavere riesumato di Lucy Westenra e il referto del medico legale. Alla sua destra c'erano invece le fotografie del corpo straziato della donna ritrovata nel vicolo cinque notti prima. Cotford confrontò le immagini e notò che i due corpi erano stati mutilati allo stesso modo. Era certo che i due omicidi, benché avvenuti a venticinque anni di distanza, fossero collegati, ma non aveva ancora trovato le prove decisive. Non poteva rivolgersi ai suoi superiori: avrebbero pensato che le sue fossero semplici congetture. Esaminò appunti e fotografie alla ricerca di un indizio, anche il più insignificante, in grado di confermare che i due omicidi fossero opera della stessa mano. Scosse la testa per scacciare il sonno: erano giorni che non chiudeva occhio. «Ispettore Cotford!» La voce del sergente Lee lo svegliò di soprassalto. «Sì, che c'è?» chiese. Aveva il collo rigido e indolenzito. Alzò il braccio per ripararsi gli occhi dalla luce accecante del mattino. "Accidenti! Ho dormito troppo" pensò. «Hanno trovato un altro cadavere!» esclamò Lee. «Dove?» chiese lui, ora perfettamente sveglio. «Nel Tamigi, signore. Vicino alla Torre di Londra.» Cotford afferrò il cappotto appoggiato sulla sedia e si precipitò fuori dall'ufficio. Lungo le fredde rive del Tamigi, nei pressi di St. Katherine Dock, a est della Torre di Londra, si era radunata una piccola folla. L'ispettore Huntley seguiva le operazioni di recupero del corpo. I suoi uomini avevano legato il capo di una corda intorno al busto del cadavere e l'altro alla sella di un cavallo. Gli spettatori sussultarono alla vista del corpetto strappato della donna e dei suoi seni nudi. Quando il corpo fu disteso sulla strada, Huntley si tolse galantemente la giacca e la sistemò sul petto della donna nel

tentativo di preservare quel poco di dignità che le rimaneva. Il medico legale si inginocchiò accanto al cadavere per dare inizio all'esame preliminare, parlando sottovoce con Huntley. Poco lontano, uno dei poliziotti annotava su un taccuino la testimonianza di una donna vestita con abiti logori e succinti che piangeva disperata. Cotford prese Lee per un braccio e lo guidò attraverso la folla, avvicinandosi alla giovane donna in modo da udire le sue parole. «...dopo ho visto Kristan allontanarsi da sola e girare in Devonshire Square. Vive lì... ha una stanza in affitto a dodici scellini la settimana... o meglio... viveva lì...» disse la donna, scoppiando in singhiozzi. Cotford notò che il poliziotto aveva un fazzoletto nel taschino, ma non glielo offrì. "È pur sempre una donna, accidenti a te" pensò. Frugò nella tasca alla ricerca del proprio fazzoletto e si fece strada tra la folla, ma un altro arrivò prima di lui. La giovane donna accettò graziosamente l'offerta, e Cotford rimase stupito nel vedere che il gentiluomo era l'ispettore Huntley. Quest'ultimo lo vide e si rabbuiò. Poi, con fare sin troppo amichevole, prese sottobraccio lui e Lee, allontanandosi dalla donna. «Cosa ci fate qui, sergente Lee?» chiese Huntley in tono brusco. «Ora capisco: la comparsa dell'ispettore Cotford nel vicolo l'altra notte non è stata una coincidenza. Quali fandonie vi ha raccontato per abbindolarvi? Collaborare con un uomo di così dubbia fama potrebbe danneggiare la vostra carriera.» Poi, rivolgendosi a Cotford, aggiunse: «Sono certo che l'ispettore sarà d'accordo con me». «Come potrei non esserlo? Ma ricordate: il fine giustifica i mezzi.» Lee si schiarì la gola per controbattere, ma Huntley lo zittì con un gesto perentorio della mano. «Vi prego di non dire nulla che possa compromettere ulteriormente la buona opinione che avevo di voi.» Poi si rivolse di nuovo a Cotford dicendo: «Ispettore, lasciate che vi ringrazi per le vostre scoperte dell'altra notte. Ho saputo dal sergente Lee che avete trovato altre impronte e altre macchie di sangue. Il fatto che gli abbiate ordinato di portarle alla mia

attenzione, non a quella dei nostri superiori, dimostra che osservate ancora il protocollo e la cortesia fra colleghi.» Cotford annuì. «Il mio unico scopo è quello di assicurare l'assassino alla giustizia.» «Molto bene, allora permettetemi di ricambiare la vostra cortesia professionale» disse Huntley. «Vi prego di non saltare ad altre conclusioni. Vi conosco, quindi sarò chiaro. Non esiste alcun collegamento tra la donna nel vicolo e la vittima di oggi. Quest'ultima era una povera prostituta uccisa da un cliente depravato, cosa che accade piuttosto spesso da queste parti. La donna ritrovata decapitata nel vicolo, invece, era ricca. È probabile che sia stata assassinata da una terza persona, come avete ipotizzato, ma sono certo che si sia trattato di un omicidio passionale. Commesso probabilmente da un marito geloso. A ogni modo, state certo che scoverò il colpevole.» «Per me si tratta di una questione personale» replicò Cotford. «Non mi interessa la gloria, e non ho alcuna intenzione di farvi sfigurare. Vi sottoporrò qualsiasi indizio riesca a trovare prima di presentarlo all'Alta Corte. Come ho detto, il mio unico scopo è quello di assicurare l'omicida alla giustizia.» «Allora sarò ancora più chiaro, ispettore Cotford» ribatté Huntley, in tono sempre più categorico ed esasperato. «Se scopro che interferite con le mie indagini o seminate il panico affermando che gli omicidi sono collegati, sarò costretto a deferirvi ai nostri superiori. Vi prego di non mettermi nella condizione di doverlo fare. Non compromettete la vostra reputazione andando a caccia di fantasmi.» E, senza attendere risposta, gli sorrise con aria incoraggiante, gli diede una pacca sulla schiena e andò incontro ai giornalisti radunatisi sulle rive del fiume. Lee gli si avvicinò con aria preoccupata e gli sussurrò all'orecchio: «Ma cosa gli è preso?». «Sergente Lee, Huntley ha ragione. Hai una famiglia a cui pensare. Se vorrai abbandonare le indagini, non ti biasimerò.» Lee lo guardò dritto negli occhi e gli disse: «Ispettore, resterò con voi finché i fatti non vi daranno ragione».

Cotford sorrise e, insieme, si avvicinarono al corpo della vittima disteso accanto al parapetto. Aveva i capelli bagnati, ma era evidente che fossero rossi, come quelli di Lucy Westenra. Il viso sarebbe stato grazioso, se non fosse stato irrigidito in un'espressione terrorizzata. Gli occhi verdi e senza vita erano sbarrati e fissavano Cotford. La ferita che aveva sul collo era profonda quasi fino all'osso e sembrava più opera di un animale che di un essere umano. Cotford era certo che il colpevole fosse un pazzo. Aveva perso del tempo prezioso nel tentativo di trovare prove schiaccianti? La meticolosità del suo metodo scientifico era costata la vita a quella donna? Si rese conto che il fattore tempo era essenziale. Doveva dare una svolta alle indagini. Si voltò verso Lee, con il sangue che gli ribolliva nelle vene. C'era qualcosa che lo tormentava, qualcosa che aveva detto poco prima la giovane donna in lacrime. Kristan era stata vista l'ultima volta mentre tornava alla sua stanza in affitto in Devonshire Square. "Devonshire Square? È a un tiro di schioppo da... dall'albergo presso il quale alloggia Van Helsing" pensò. «Maledetto!» esclamò, le vene delle tempie che gli pulsavano per la rabbia. «Sergente, resta qui e trova quanti più indizi possibile.» Poi, senza dire una parola si mise a correre, diretto verso nord.

Capitolo 26 Il vecchio si appoggiò al bastone per sistemarsi più comodamente sulla sedia di velluto. Sedeva nell'elegante ristorante che un tempo ospitava la grande sala da ballo vittoriana del Great Eastern Hotel. Quello scenario familiare, rimasto immutato nel tempo, lo confortava. Aveva già finito il consommé di pomodoro e attendeva con impazienza la bistecca e il pasticcio di rognoni per cui il ristorante era famoso. Ricordava ancora, a distanza di anni, l'odore e il sapore di quel piatto prelibato. Quando un giovane gli si avvicinò con un vassoio d'argento, lo guardò con l'acquolina in bocca. Ma poi si rese conto, con sorpresa, che si trattava del portiere e non del cameriere. «Non vedete che sto pranzando, giovanotto?» «Vi domando scusa, signore» disse il portiere, sollevando il coperchio lucido e avvicinandogli il vassoio. «È appena arrivato un telegramma per voi. Da Amsterdam.» Il vecchio guardò la familiare busta gialla con il suo nome scritto sopra. In genere i telegrammi portavano cattive notizie; e aveva la netta sensazione che quella volta non sarebbe stato diverso. «Grazie» disse sospirando. Prese la busta con una mano e con l'altra depose mezza corona sul vassoio. Il ragazzo si inchinò e si allontanò, facendosi scivolare in tasca la moneta con un gesto discreto. Il vecchio pensò che Maaijcke, il fattorino del negozio di alimentari, avesse trovato il suo biglietto ad Amsterdam e gli avesse risposto. Aprì la busta con il coltello da bistecca. TELEGRAMMA - da Mina Harker, Exeter, al Prof. Abraham Van Helsing, Amsterdam Quincey fa domande. vieni subito. abbiamo bisogno di te. MINA

Aveva sempre ammirato la forza e la volontà di Mina Harker, due caratteristiche che avevano fatto di lei una preziosa alleata durante le loro avventure. Ma era proprio la sua forza a renderla imprevedibile, a volte. Una donna con una testa pensante era pericolosa. Gli uomini, stimoli sessuali a parte, erano guidati dalla ragione e dalla logica. Le donne, al contrario, erano sempre guidate dalle emozioni. Mina era stata tentata dal demone e, a un certo punto, aveva persino ceduto. Era stata la sua lealtà nei confronti del marito a riportarla sulla retta via. Ora che Jonathan era morto, non aveva più alcun vincolo. Di fronte a una nuova tentazione, avrebbe ceduto ai suoi desideri? Un cameriere gli mise davanti un piatto fumante con una bistecca e un pasticcio di rognoni dal profumo delizioso. Aveva una fame da lupi, ma rilesse nuovamente il telegramma. Quincey Harker faceva domande. Non c'era da stupirsene, visto che gli erano state tenute nascoste così tante cose. Ma i segreti erano come fiori sepolti sotto un manto di neve: alla fine, venivano sempre alla luce. Si chiese se Quincey fosse in grado di sopportare il terribile segreto che i suoi genitori avevano custodito fino ad allora. Con un po' di fortuna, poteva avere ereditato la fede incrollabile che Jonathan possedeva in gioventù... e forse anche parte della forza di volontà di sua madre. Quella però avrebbe potuto rivelarsi un problema. A ogni modo, se si fosse trovato di fronte al demone, come Mina prima di lui, avrebbe dovuto fare una scelta. I giovani potevano essere ribelli e avventati. In una simile circostanza, Quincey sarebbe potuto diventare una minaccia. Un pensiero inquietante gli attraversò la mente: sarebbe potuto toccare a lui eliminare Quincey. Dio gli avrebbe dato la forza di uccidere il ragazzo che aveva amato come un figlio? Pregò di non trovarsi mai in quella situazione. Decise che il prezzo da pagare per la pessima notizia contenuta nel telegramma sarebbe stato rinunciare al pranzo. Si alzò da tavola, afferrò il bastone e si diresse zoppicando verso l'atrio. Mentre si allontanava, gli venne in mente che, forse, non avrebbe mai più avuto l'occasione di gustare la bistecca e il

pasticcio di rognoni del Great Eastern Hotel. Giunto di fronte all'ascensore, sospirò. La vita era fatta di piccoli momenti speciali. "Quanti ne abbiamo nel corso della nostra esistenza?" A lui ne rimanevano pochi. Maledisse Jonathan e Mina per avergliene rubato uno. Come avevano potuto essere stati talmente sciocchi da aver nascosto al figlio la verità per così tanto tempo? L'ignoranza generava rabbia. Nel loro maldestro tentativo di proteggerlo, avevano messo a repentaglio la sua vita. Doveva trovare Quincey prima del demone. «Gli avvoltoi si sono radunati intorno alla carcassa» disse un uomo alle sue spalle, strappandolo ai suoi pensieri. Il vecchio conosceva quella voce, sebbene non la udisse da tanto tempo. «Cotford!» esclamò, voltandosi. In piedi in mezzo all'atrio c'era un fantasma del suo passato. Il segugio era ingrassato e invecchiato, ma ringhiava ancora. Da giovane era un tipo brusco che sembrava non badare troppo alle buone maniere. Era evidente che il tempo non lo aveva ammorbidito. Non aveva nemmeno avuto la decenza di togliersi il cappello entrando nell'hotel. «La morte vi segue come un'ombra, Van Helsing.» Cotford osservò Van Helsing avvicinarsi appoggiandosi al bastone. Astuto da parte sua fingere di essere un povero vecchio in modo da sviare da sé i sospetti. Cercò di nascondere il fatto che era ancora senza fiato, avendo corso quasi ininterrottamente dalla riva del Tamigi fino al Great Eastern Hotel. Forse non era un caso che Van Helsing amasse alloggiare proprio lì. Prima di diventare un grand hotel, nel 1884, era un manicomio, proprio come quello di Whitby, diretto dal suo ex allievo Jack Seward. Nei suoi lunghi anni di servizio, Cotford aveva imparato che i predatori preferivano agire nei pressi della propria base. Il Great Eastern Hotel era su Liverpool Street, a ovest di Bishopsgate. E Devonshire Square, dove Kristan era stata vista per l'ultima volta, era

un poco più a est di Bishopsgate. Quel pazzo di Van Helsing aveva colpito la notte del suo arrivo. Cotford non aveva le prove schiaccianti necessarie ad arrestarlo, ma non voleva aspettare che uccidesse un'altra vittima innocente. Sperò che, cogliendolo alla sprovvista, sarebbe riuscito a strappargli una confessione, com'era accaduto con Mina Harker. L'espressione sbigottita del professore indicava che non si aspettava di vederlo lì. Era un buon inizio. Il fattore sorpresa gli conferiva un vantaggio. «Ancora in servizio, detective?» gli chiese Van Helsing. «Ispettore.» «È tipico degli inglesi dissimulare un fallimento con una promozione.» Cotford accusò il colpo, ma lasciò che la stoccata del professore gli scivolasse addosso, limitandosi a replicare: «Altre due donne massacrate a Whitechapel, ed eccovi qui. Nel 1888, siete riuscito a sfuggire alla giustizia. Stavolta, però, voi e i vostri complici non mi sfuggirete». «Aprite gli occhi, Cotford. Il male a cui date la caccia non può essere arrestato» ribatté il vecchio, dirigendosi di nuovo verso l'ascensore. Cotford, furibondo, gli lanciò un'occhiata torva. Detestava gli uomini come Van Helsing, che sostenevano di essere scienziati ma che, di fronte a una domanda cui non erano in grado di rispondere, si appellavano al soprannaturale. Erano il prodotto di un'era morta e sepolta. Il professore premette il pulsante dell'ascensore. La voce di Cotford, resa roca dal whisky, risuonò nell'atrio di marmo: «Ho riesumato il cadavere di Lucy Westenra». Van Helsing rimase immobile alcuni istanti, poi si voltò lentamente verso di lui. Dalla collera che lesse nei suoi occhi, Cotford capì di aver colto nel segno. Il vecchio sibilò: «La vostra arroganza è insopportabile. Ve ne state al sicuro nel vostro mondo moderno pieno di macchine e certezze scientifiche, ma siete cieco di fronte agli antichi mali pagani che fanno marcire la terra che avete sotto i piedi».

I clienti abituali che si trovavano nell'atrio si fermarono a guardarli, stupiti. A Cotford non importava: che ascoltassero pure. Era arrivato il momento di svelare a tutti la follia di Van Helsing, «Siete stato cacciato dalla Vrije Universiteit perché trafugavate i cadaveri dalle tombe» disse ad alta voce Cotford. «Ma le vostre autopsie consistevano nel conficcare pali di ferro nei cuori delle vittime e mutilarne i corpi.» Udiva la propria voce riecheggiare nella sala, e spaventare gli ospiti dell'hotel, ma era troppo furioso. Aveva visto coi propri occhi uomini imprudenti profanare le tombe dei morti. Il sacerdote del suo paesino in Irlanda aveva creduto di fare la volontà di Dio quando aveva infierito sul cadavere di suo fratello. «Avete perso la licenza medica per aver effettuato trasfusioni di sangue su pazienti usati come cavie e deceduti a causa dei vostri "esperimenti". Non conoscevate i gruppi sanguigni. A vostra discolpa, dichiaraste che erano stati morsi dai vampiri...» «Nessun medico sapeva dell'esistenza dei gruppi sanguigni fino al 1901, brutto zotico ignorante. Ho sempre agito nell'interesse dei miei pazienti. E ho fatto il possibile per salvarli.» Cotford lo guardò con disprezzo. Se il professore avesse dedicato la vita alla scienza invece che alla mitologia, avrebbe potuto salvare delle vite invece di causare tante morti. I suoi occhi tradivano la paura del giudizio dei clienti che avevano assistito impietriti a quella discussione. Il cuore di Cotford batteva all'impazzata. Era arrivato il momento di assestare il colpo di grazia. «E, come se non bastasse, siete stato voi, insieme a quegli squilibrati che avete plagiato, a uccidere quelle povere donne venticinque anni fa. Io vedo il male davanti a me, Van Helsing! Vedo voi. Vedo Jack lo Squartatore!» L'atrio fu percorso da un mormorio. Gli uomini abbracciarono istintivamente le mogli. Le madri trascinarono via i bambini. Tutti si allontanarono da Van Helsing, che rimase solo e indifeso. Cotford credeva che il suo orgoglio lo avrebbe spinto a difendersi dalle gravi accuse che gli aveva rivolto. Il vecchio, invece, sembrò rimpicciolirsi e lanciò a Cotford un'occhiata che esprimeva pietà e

compassione. «Voi non vedete nulla. E ciò che non vedete vi ucciderà.» Il tono della sua voce fece rabbrividire Cotford, che pure non era facilmente impressionabile. Van Helsing aveva capovolto la situazione, e ora era l'ispettore a sentirsi scosso. "Era una minaccia, la sua?" si domandò. Le porte dell'ascensore si aprirono e Van Helsing fece cenno all'addetto di tenerle ferme. Cotford avrebbe voluto dire qualcosa ma stava ancora riflettendo sulle ultime parole del professore. Poi la porta dell'ascensore si richiuse e il vecchio svanì, lasciando Cotford solo nell'atrio, con tutti gli occhi puntati addosso. «Sciocchezze!» esclamò. Era stato ingenuo da parte sua affrontare Van Helsing così. Non sarebbe mai riuscito a estorcergli una confessione. Avrebbe dovuto ricorrere ad altri mezzi per assicurarlo alla giustizia.

Capitolo 27 Il passato era come una prigione dalla quale era impossibile evadere. Negli ultimi giorni, Mina si era sentita sempre più in trappola. Il suo amato Jonathan era morto, Quincey era fuggito. La paranoia iniziò a impossessarsi di lei: si ritrovava a guardare continuamente fuori dalla finestra. Aveva il terrore che, da un momento all'altro, Cotford e i suoi uomini si presentassero alla sua porta, Avrebbe dovuto escogitare un altro piano per tenerli a bada. Da quando Quincey se n'era andato, aveva passato in rassegna le carte che aveva lasciato sparse sul pavimento dello studio, contemplando le rovine del suo passato. Se solo fosse riuscita a trattenerlo! Ora per trovarlo avrebbe dovuto prevedere le sue mosse. Volente o nolente, lui aveva bisogno della sua protezione. Nel frattempo era calata la notte, e lei era in svantaggio, poiché il predatore aveva in mano tutte le carte. Aprì la grossa cartella contenente i fascicoli che aveva compilato. Il primo era quello di Arthur Holmwood, con l'indirizzo in bella vista. Se fosse stata al posto di Quincey, sarebbe stata la sua prima tappa. Purtroppo suo figlio non poteva sapere quanto fosse cambiato Arthur. Se pure fosse riuscito a farsi ricevere da lui, sarebbe stato tutto inutile. Al contrario di Mina e Jonathan, che avevano, dopo la Transilvania, cercato di tornare a una vita normale, Lord Godalming si era rinchiuso nella sua elegante residenza londinese. Col passare degli anni, la rabbia e l'amarezza si erano a tal punto impossessate di lui che l'Arthur Holmwood che conosceva era scomparso. Aveva deformato la realtà dei fatti, giungendo a detestare i suoi compagni di sventura. "Ci ha incolpato per la morte della sua adorata Lucy. Ma non sapeva che la adoravo anch'io" pensò. L'odio di Holmwood si era concentrato in particolare su di lei. Se Quincey si fosse davvero presentato alla sua porta, avrebbe potuto trovarvi un nemico mortale. Quale sarebbe stata la mossa successiva di Quincey? Avrebbe ripercorso i loro passi fino in Transilvania? Sarebbe andato a cercare Van Helsing? Mina passò in rassegna le diverse possibilità, ma non

riuscì a trovarne altre. Non aveva quasi chiuso occhio da quando suo marito era stato ucciso. Aveva perso la cognizione del tempo, e ora il tempo era contro di lei. Si guardò intorno e si domandò perché avesse conservato quelle carte. Se solo le avesse distrutte, in quel preciso momento Quincey sarebbe potuto essere accanto a lei, al sicuro. Si domandò se sbarazzarsene avrebbe reso più facile anche cancellare i ricordi. Poi, senza pensarci due volte, le gettò nel fuoco e rimase a osservare le pagine accartocciarsi tra le fiamme. Che Cotford si presentasse pure a casa sua con un mandato di perquisizione! Non avrebbe trovato altro che ceneri amare. Ora nessuno avrebbe potuto provare che il romanzo di Stoker fosse qualcosa di più del frutto di un'immaginazione disturbata. Accidenti a quel Bram Stoker. Chi diavolo era? Come faceva a conoscere la loro storia? I membri della loro compagnia avevano pronunciato un giuramento che li vincolava al segreto sugli orrori che avevano vissuto. Era stato Jack Seward a raccontare tutto a Stoker? Purtroppo, sembrava proprio così. Mina era stanca. Le domande le si accumulavano nella mente come mattoni, murando i suoi pensieri. Aveva bisogno di dormire, anche solo per pochi istanti, per schiarirsi le idee. Le venne in mente che quando, alcuni mesi prima, aveva ricominciato ad avere gli incubi, Jonathan, preoccupato per la sua salute, le aveva portato una boccetta di laudano, dicendole che l'avrebbe aiutata. Lei però si era rifiutata di prenderlo, sospettando persino che Jonathan volesse drogarla perché smettesse di sognare il suo principe delle tenebre... Mina prese la boccetta di laudano nella credenza. Era talmente stanca che faticò a leggere il dosaggio scritto sull'etichetta. Mentre versava il liquido in un misurino, le tornò in mente che era stato il suo rifiuto a prendere il sedativo ad aver definitivamente allontanato Jonathan dal suo letto: il primo passo verso la distruzione del loro matrimonio. Svuotò il misurino d'un fiato, nella speranza di scacciare quel ricordo doloroso. La droga fece effetto rapidamente. Mina tornò barcollando nello studio, rimpiangendo il fatto che l'amore fra lei e Jonathan alla fine fosse divenuto così amaro. In quel momento, però, non le

importava. Avrebbe solo voluto che suo marito la stringesse un'ultima volta fra le braccia. Sul tavolo accanto alla poltrona c'era una fotografia incorniciata che mostrava Jonathan il giorno in cui era stato nominato avvocato. Mina la prese e la guardò. Era così orgogliosa di lui, quando era ancora un giovane pieno di sogni e speranze! Una lacrima cadde sul vetro che copriva il volto sorridente del marito. Mina la asciugò dolcemente, accarezzandone l'immagine. Poi si accasciò sulla poltrona. «Jonathan, ho bisogno di te. Non posso farcela da sola.» Le sue palpebre si fecero sempre più pesanti. Negli ultimi istanti di consapevolezza, credette di vedere una nebbia rossa entrare da sotto le portefinestre. Mina non avrebbe saputo dire quanto tempo avesse dormito quando sentì un lieve soffio sulla caviglia. Stordita dal sonno e dalla droga, si sforzò di aprire gli occhi, ma non vide nessuno. Strinse la fotografia al petto e immaginò di abbracciare Jonathan un'ultima volta. Poi sentì una carezza, come se una mano gentile le stesse sfiorando il polpaccio coperto dalla calza. La mano risalì lungo la gamba, fino a toccare la morbida pelle nuda della coscia. Mina si morse il labbro. "Dio, fa' che sia Jonathan." La mano le dischiuse le gambe e il cuore di Mina cominciò a battere forte. Desiderava essere amata, sentirsi di nuovo una donna. Quando le mani spettrali le sfiorarono le parti intime, Mina inarcò la schiena e si lasciò sfuggire un gemito. Stava per abbandonarsi alla passione, quando un pensiero spaventoso le attraversò la mente. Non poteva essere Jonathan. Non aveva mai voluto imparare a conoscere il suo corpo. Mina trasalì. Nessuno sapeva toccarla così. Nessuno, a parte... lui. Mina lanciò un urlo e scoppiò in lacrime. "No, ti prego, non farlo. Io amo Jonathan ! " Una voce le riecheggiò nella mente: «Ho visto la morte di Jonathan. Ora sei mia».

D'un tratto, Mina capì. Il principe delle tenebre aveva ucciso Jonathan, tradendo l'amore che, un tempo, avevano condiviso. In quel preciso istante, le mani cominciarono a toccarla dappertutto. Mina rabbrividì, incapace di resistere un minuto di più. "Ti supplico, non farmi questo! Non costringermi a scegliere, amore mio!" Ma era troppo tardi. Chiuse gli occhi, dischiuse le labbra e si abbandonò alla passione. Mina sentì un vento gelido sferzarle la pelle. Sapeva di essere distesa, ma aveva l'impressione di stare in piedi. Avrebbe voluto ripararsi dall'ululato assordante del vento, ma non riusciva a muoversi. Il suo corpo era come paralizzato, ma i suoi sensi erano acutissimi. Sentiva l'odore di alberi sempreverdi, acqua e fango. Aveva freddo. D'un tratto, le si aprirono gli occhi. Avrebbe voluto urlare, ma non aveva alcun controllo sul suo corpo. Era in cima a una torre merlata semidistrutta che sovrastava un campo coperto di neve. I fiocchi volteggiavano nel vento. Guardandosi intorno, riconobbe le cime frastagliate dei monti Carpazi: si trovava in Transilvania, sulla torre più alta del castello di Dracula. Udì un rumore di cavalli al galoppo e vide due dozzine di cavalieri zingari dirigersi verso il castello. Scortavano un carro che trasportava una bara e ondeggiava come una coda di serpente sulla strada ghiacciata. Mentre si avvicinavano al cancello distrutto, gli zingari estrassero le armi. Quella scena le era terribilmente familiare. Stava rivivendo il momento più buio del loro passato, che cercava di dimenticare da venticinque anni. Eppure, i suoi ricordi erano diversi. Senza volerlo, volse lo sguardo verso est e vide una donna dai capelli biondi in sella a un cavallo bianco. Al suo fianco c'era un uomo su uno stallone grigio che teneva le redini di entrambi i destrieri. La donna era... lei stessa. L'uomo invece era il professor Van Helsing. In quel momento, Mina capì che stava assistendo a quegli eventi passati da un diverso

punto di vista. Non aveva mai messo piede nel castello di Dracula. Era forse morta? Un pensiero agghiacciante le attraversò la mente: si trovava in Purgatorio e il suo castigo consisteva nel rivivere in eterno i momenti più orribili della sua vita. Il suono assordante di un corno di guerra la strappò ai suoi pensieri. Girò istintivamente la testa a ovest e vide due uomini dirigersi al galoppo verso il castello. Li riconobbe subito: erano quell'adorabile canaglia di Quincey P. Morris e il dottor Jack Seward. La vista di Quincey la tranquillizzò: forse era vero che, dopo la morte, si ritrovavano i propri cari. Anche gli zingari si volsero a guardarli, e Mina avvertì la loro inquietudine. Non avevano mai visto nessuno come il pistolero texano. Non appena Quincey Morris e Seward apparvero all'orizzonte, si udirono degli spari provenire da sud. Erano Jonathan e Arthur, che, in sella ai loro destrieri, avevano aperto il fuoco sugli zingari. Mina ricordava perfettamente il piano che avevano escogitato: si sarebbero divisi, utilizzando mezzi di trasporto diversi per spostarsi all'interno della Transilvania, e poi avrebbero fatto in modo di convergere sugli zingari nello stesso momento, accerchiandoli. L'idea era stata di Quincey Morris, che aveva imparato quella tecnica durante le guerre indiane, quando era ufficiale di cavalleria. La compagnia degli eroi, viva e vibrante, si era finalmente riunita. I cavalli avanzavano al galoppo sulla bianca distesa di neve, correndo incontro al tramonto. Anche Quincey Morris e il dottor Seward cominciarono a sparare sugli zingari, che risposero al fuoco mentre i cavalli nitrivano e si impennavano. Il cancello del castello era stato distrutto dai detriti crollati dalla torre su cui si trovava. Sempre senza volerlo, Mina abbassò gli occhi sulla battaglia. Non riusciva ancora a capire come fosse possibile vedere se stessa dall'esterno. Quando il giovane Jonathan si avvicinò, rimase per un attimo senza fiato. Aveva dimenticato com'era bello e impavido in sella a quel cavallo. A differenza di Arthur e Quincey Morris, non aveva mai cercato l'avventura, e le aveva confessato che quel giorno era terrorizzato al punto di non riuscire quasi a muoversi. Aveva rischiato la vita per un unico

motivo: combattere, e se necessario morire, per la donna che amava. Gli eroi conversero sul carro che trasportava la bara e un gruppo di zingari andò loro incontro, avanzando disordinatamente, in formazione sparsa. Alcuni loro compagni rimasero intorno al carro. Quincey P. Morris fece valere la sua esperienza di combattente; tenendo fra i denti le redini del cavallo, scaricò il fucile Winchester contro i nemici, uccidendone due, Il dottor Seward lanciò un grido quando il proiettile esploso da uno degli zingari colpì il suo fucile, che gli schizzò via dalle mani in una pioggia di scintille. Arthur sparò di nuovo, colpendo uno dei nemici in pieno viso. Gli altri zingari si fecero avanti, tentando di accerchiare Quincey Morris e Seward. Morris, usando il calcio del fucile come una mazza, colpì uno degli aggressori, disarcionandolo, mentre urlava a Seward, disarmato: «Che aspetti? La spada!». Mina rimase sbalordita nel vedere il mite medico lanciare un urlo e sguainare la spada, facendola roteare furiosamente e massacrando chiunque gli capitasse a tiro. Le sembrò di udire il suo cuore battere all'impazzata. Quando poi uno dei nemici gli ruppe il naso con il calcio del fucile, sentì l'odore del sangue che gli usciva a fiotti dalle narici. Si voltò a guardare il professor Van Helsing e il suo doppio, che erano appena scesi da cavallo. Abraham Van Helsing imbracciò il fucile e prese la mira con la calma di un vero cacciatore. Poi premette il grilletto, uccidendo lo zingaro che aveva attaccato Seward. Udendo lo sparo, un secondo gruppo di zingari si staccò dal carro per andargli incontro. Fu allora che Mina, osservando la scena dall'alto, capì la strategia del professore: ridurre il più possibile il numero di uomini di guardia alla bara. Vide il suo doppio ripararsi dietro Van Helsing, che estrasse due revolver e li scaricò contro gli zingari urlando: «Il sole sta tramontando. Non abbiamo più tempo. Jonathan, Arthur, carica!». Mina vide il suo doppio imbracciare il fucile abbandonato da Van Helsing e aprire il fuoco sui nemici. Nel frattempo, Jonathan e Arthur si erano scagliati contro la scorta della bara. Jonathan mancò tutti i bersagli, mentre Arthur

riuscì, malgrado il cavallo imbizzarrito, a uccidere altri due zingari. I rimanenti fecero fuoco su di lui, colpendolo in pieno viso. Arthur cadde a terra, il volto una maschera di sangue. Jack Seward estrasse la pistola e sparò all'impazzata, mentre Quincey Morris si lanciò al galoppo con l'intento di scontrarsi con uno degli zingari, il cui cavallo s'impennò, disarcionandolo. Van Helsing, invece, dopo aver scaricato i due revolver contro i nemici, sguainò una scimitarra con la mano destra e un pugnale ricurvo con la sinistra, incrociando abilmente le lame e affrontando tre zingari contemporaneamente. Mina vide il suo doppio irrigidirsi mentre gli ordini del principe delle tenebre le penetravano nella mente. Ricordava perfettamente quel momento e la lotta che le infuriava dentro. Avvertì tutto l'amore che il principe provava per lei, insieme all'impulso irrefrenabile di puntare il fucile contro Van Helsing e sparargli alle spalle. Con uno sforzo sovrumano, riuscì a gettare via il fucile. Nel frattempo, Van Helsing piantò la scimitarra nel petto di uno zingaro e tagliò la gola di un altro con il pugnale. Mina si riparò dietro di lui, afferrando la croce d'oro che portava al collo, in preda alla delirante agonia che provava ogni volta che Dracula invadeva i suoi pensieri. Dall'alto della torre, Mina vide Jack Seward, circondato dai cadaveri degli zingari massacrati, scendere da cavallo e recuperare uno dei fucili dei nemici morti, scaricandolo poi contro coloro che ancora difendevano la bara. Arthur si rialzò barcollando, con il sangue che gli usciva a fiotti da una profonda ferita sulla guancia. La punta del suo orecchio destro era sparita. Ciononostante, alzò il cane del fucile e si unì a Seward. Il loro fuoco di copertura spianò la strada a Jonathan e a Quincey Morris. Quest'ultimo lanciò un grido di guerra, estrasse il suo coltello kukri e balzò dal cavallo direttamente sul carro. Jonathan si irrigidì, visibilmente spaventato. Mina lo vide lanciare un'occhiata al suo doppio, che si contorceva dal dolore dietro Van Helsing. Dal suo nuovo punto di osservazione, Mina notò qualcosa che, all'epoca, le era sfuggito. La vista di sua moglie sofferente aveva trasformato la

paura di Jonathan in rabbia, spingendolo a sguainare la spada, a scagliarsi contro uno zingaro e, dopo averlo ucciso, saltare sul carro accanto a Quincey Morris. Insieme, rimossero il coperchio di legno della bara, che ospitava una creatura scheletrica elegantemente vestita ma d'aspetto ripugnante, con le orecchie a punta e i denti aguzzi. «Per l'amor di Dio, Harker!» esclamò Quincey Morris. «Che cos'è?» «Pura malvagità.» Nel frattempo, uno zingaro aveva afferrato Van Helsing per la gola. Il professore estrasse una lama nascosta nello stivale e gliela piantò selvaggiamente nell'inguine. Con un grido di dolore, l'uomo abbandonò la presa, e Van Helsing ne approfittò per dargli una testata che gli fece perdere i sensi. Poi si voltò verso Quincey Morris e Jonathan, che fissavano, immobili, la bara aperta. «Non statevene lì a guardare! Uccidetelo!» Ma era troppo tardi. In quel preciso istante, gli occhi della creatura si aprirono, mostrando due iridi nere cariche d'odio. Quincey Morris e Jonathan rimasero impietriti. Mina vide il suo doppio tornare in sé e capì ciò che era successo: l'attenzione del principe delle tenebre si era spostata sui due uomini, paralizzandoli. Mina osservò Van Helsing afferrare il fucile e correre verso il carro, facendo cenno a Jack e ad Arthur di seguirlo. Quest'ultimo continuò a sparare nel tentativo di tenere gli zingari superstiti lontano dai suoi amici ipnotizzati. Uno, però, riuscì a sfuggire al fuoco di fila e pugnalò Quincey alle spalle. L'urlo di quest'ultimo ridestò Jonathan dall'incantesimo che lo immobilizzava. «Quincey!» esclamò, mentre lo zingaro estraeva freddamente la lama dalla schiena del suo amico. Quincey Morris si aggrappò ai bordi della bara mentre il sangue gli sgorgava a fiotti dalla ferita. Lo zingaro fece roteare la spada con l'intento di decapitare Jonathan. Dalla cima della torre, Mina udì il rumore dell'acciaio che fendeva l'aria. Jonathan sollevò la propria spada per parare il colpo fatale, ma la forza dell'impatto lo fece cadere a terra. Mina udì il suo doppio urlare: «Jonathan!». Arthur, Jack e Van Helsing aprirono il fuoco nello stesso istante e

lo zingaro, crivellato di colpi, volò giù dal carro. Mina vide gli occhi di Jonathan, scampato alla morte, e del suo doppio incontrarsi. Poi Van Helsing gli urlò: «Uccidilo! Il sole sta tramontando!». Il sole era quasi sulla linea dell'orizzonte e il suo bagliore arancione era accecante. Dalla bara si levò del vapore: alcuni raggi avevano colpito la creatura, bruciandole la pelle. Jonathan si rabbuiò quando Mina, confusa e spaventata, distolse lo sguardo da lui posandolo sulla bara fumante. Fu allora che Quincey Morris, coperto di sangue, si piegò in avanti, conficcando il coltello kukri nel petto della creatura, che emise uno spaventoso ululato, coperto dall'urlo di Mina. Quincey Morris crollò, privo di forze, sopra Dracula, che lo spinse via scaraventandolo giù dal carro e poi si alzò in piedi gemendo di dolore. Dalla ferita sgorgava sangue scuro. I raggi del sole morente lo investirono direttamente; mentre tendeva una mano coperta di vesciche a Mina, il suo corpo prese fuoco. «Mina! Aiutami, amore mio!» Jonathan si volse verso la moglie, il cui sguardo passò da lui al principe delle tenebre. Doveva fare una scelta. Di fronte alla sua esitazione, la collera di Jonathan divampò. Afferrò la spada e balzò sul carro. I suoi occhi accesi incontrarono quelli neri e crudeli della creatura. «Va' all'inferno, principe Dracula!» gridò, e fece roteare la spada con l'intento di decapitarlo. Il colpo, tuttavia, non fu abbastanza forte, e la lama si incastrò nel collo della creatura. Dracula si scagliò contro di lui e il suo pugno infuocato raggiunse Jonathan in pieno viso, facendolo cadere all'indietro. Il vampiro si estrasse la spada dal collo e il sangue sgorgò copioso dalla ferita. Poi cadde in ginocchio urlando di dolore, mentre le fiamme gli avvolgevano ormai tutto il corpo. Jonathan si rialzò faticosamente, sguainò il coltello da caccia e venne avanti, deciso a concludere la battaglia. Nello stesso istante, Mina vide uno degli zingari feriti balzare in piedi con una pistola

puntata contro suo marito. Osservò il suo doppio compiere una scelta devastante. Nel giro di pochi secondi, il sole sarebbe tramontato dietro i Carpazi, e il suo principe sarebbe stato salvo. Ma se avesse lasciato che quegli istanti trascorressero, l'uomo che aveva rischiato la vita per lei, il suo amato marito, sarebbe morto. Mina fece l'unica scelta possibile, che l'avrebbe perseguitata per il resto della sua vita. Raccolse una pistola caduta, prese la mira e sparò, colpendo lo zingaro ferito in mezzo agli occhi. Jonathan alzò di nuovo il coltello da caccia. Lo avrebbe decapitato, stavolta. Ma non ne ebbe la possibilità. Il principe aveva visto Mina scegliere di salvare il suo rivale invece di fare la sua volontà. Era più di quanto riuscisse a sopportare. Lanciò un grido di dolore mentre la carne bruciata gli si staccava dalle ossa. Jonathan capì che non gemeva per la sua morte imminente, ma per il tradimento dell'adorata Mina, e fece un passo indietro. La creatura cadde a terra, divorata dalle fiamme. Il corpo si accartocciò su se stesso e implose, trasformandosi in cenere. Era tutto finito. Dall'alto della torre, Mina si ritrovò a fissare la bara e sentì una rabbia sorda crescere dentro di sé. Poi, dalle ceneri del principe si levò una nebbia bianca che si insinuò fra le rovine fino all'entrata del castello. Mina disse, con una voce che non era la sua: «Questa volta no». D'un tratto si sentì trascinare via e, senza riuscire a opporre alcuna resistenza, si ritrovò a sfrecciare tra le mura di pietra del castello. Passò davanti a pareti rivestite in legno e ornate da dipinti, poi scese una scala a chiocciola. Pur non essendo padrona del proprio corpo, una parte di lei sapeva esattamente dove stesse andando. Poi sentì di nuovo il vento sferzarle la pelle e si rese conto di essere di nuovo fuori, nella neve. Si fermò di colpo, stordita. Era in piedi in mezzo alle rovine di una chiesa sconsacrata. Sembrava abbandonata da secoli: il soffitto era crollato e le panche, esposte alle intemperie, erano marcite. La statua di Cristo che si trovava un tempo sopra l'altare era caduta sul pavimento di pietra, andando in frantumi.

Mina osservò attentamente l'altare. La nebbia bianca raccoltasi ai suoi piedi prese lentamente forma e consistenza, finché Mina non si ritrovò davanti il suo principe delle tenebre. Aveva la pelle bruciata dal sole, un profondo taglio alla gola e il coltello kukri ancora piantato nel petto. Dalla ferita continuava a sgorgare sangue a fiotti. Eppure era vivo, e urlava, contorcendosi dal dolore. Dracula era vivo. Mina rimase sbalordita di fronte al suo genio tattico. Aveva trasformato la compagnia degli eroi in un branco di idioti. Le sue dita scheletriche si strinsero intorno al manico del coltello kukri nel tentativo di estrarlo dal petto. Mina avrebbe voluto correre in suo soccorso, ma la forza che si era impadronita del suo corpo le permise di farsi avanti molto lentamente. Udì i propri passi risuonare sul pavimento di pietra. Poi la luce della luna proiettò la sua ombra sul principe, che avvertì la sua presenza e volse lo sguardo verso di lei, tendendole la mano con aria supplichevole.

«Sànge!» Mina non conosceva il rumeno, ma sapeva che Dracula le stava chiedendo il suo sangue, e scoppiò in una risata beffarda e vittoriosa. Poi il suo lungo stivale nero si poggiò sul manico del coltello kukri. Gli occhi della creatura, incassati nella testa ridotta a un teschio, scintillarono di rabbia, e Mina disse, in una voce e in una lingua che non erano le sue: «Parli di moralità, e poi mi respingi per una sgualdrina». Mina pensò, confusa: "Che cosa sto dicendo?". Poi si udì urlare, con voce gutturale: «Sacrilegio!». Il suo stivale spinse più forte. Stavolta, non era lei a scegliere. Avrebbe voluto gridare di disperazione, e invece emise un'esclamazione di gioia. La creatura lanciò un urlo straziante e lasciò cadere la testa all'indietro, mentre i suoi occhi si spegnevano. Mina udì un ultimo rantolo attraversare le labbra che un tempo aveva baciato, e un istante dopo il suo amato era morto. Non avrebbe mai più dovuto sopportare il fardello di una scelta drammatica.

Nel corso degli anni, aveva sempre desiderato conoscere la verità: lo aveva visto incenerirsi, ma aveva continuato a nutrire numerosi dubbi sulla sua morte. In un certo senso era stato meglio non sapere perché, nell'ignoranza, aveva potuto continuare a cullare la flebile speranza che fosse ancora vivo. Improvvisamente, vide una mano guantata di nero con un anello di rubino afferrare il manico d'avorio del coltello kukri ed estrarlo dal cadavere della creatura. La mano asciugò il coltello sulla manica e, per un attimo, Mina vide un'immagine riflessa nell'acciaio. Ma il volto che la guardava non era il suo: era quello di una donna con i capelli corvini e gli occhi azzurri e gelidi. Il suo corpo tremava di gioia per l'uccisione della creatura e l'odore del sangue. Mina era disgustata, eppure si sentì invadere da un'ondata di piacere. Quando riaprì gli occhi si rese conto, con sua grande sorpresa, di trovarsi di nuovo nello studio della casa di Exeter. Vibrava tutta: non più per la vittoria, ma per l'estasi. Le mani sconosciute che le si erano insinuate sotto il vestito le accarezzavano ogni centimetro di pelle. Poi il suo corpo, scosso da violenti spasmi, esplose in un orgasmo così travolgente che la fotografia di Jonathan che stringeva al petto andò a schiantarsi contro la libreria dalla parte opposta della stanza. Mina si appoggiò, ansimando, allo schienale della sedia e le sue labbra mostrarono un sorriso. Il suo cuore si sentiva in colpa, ma il suo corpo provava un appagamento indicibile. In fondo, l'aveva sempre saputo: solo una persona sapeva farla sentire così. Era un fantasma ormai? Stava per pronunciare il suo nome quando fu investita da un odore di morte. Una nebbia rossa uscì da sotto il corpetto del suo abito e si raccolse davanti a lei, assumendo le sembianze di una donna. Quando i suoi lineamenti divennero più definiti, Mina riconobbe la magnifica sconosciuta che aveva visto riflessa nella lama del coltello kukri. Era la donna che aveva ucciso il suo principe. Mina sì sentì mancare. Cercò di fuggire, ma la sconosciuta la costrinse a restare sulla poltrona, sedendosi a cavalcioni su di lei. Poi le si avvicinò e posò le

labbra sopra le sue, costringendola ad aprirle. Si passò la lingua sui denti aguzzi, procurandosi un taglio, e Mina sentì in bocca il sapore del suo sangue. Lanciò un urlo, si divincolò e cercò di sputarlo, ma la donna non la lasciò andare. Quando la sua lingua si ferì contro i denti della creatura, una serie di immagini tanto raccapriccianti quanto inspiegabili le affollò la mente: giovani donne appese, nude, a testa in giù, con la gola tagliata e il sangue che cadeva a terra in una pioggia rossa. D'un tratto, la sconosciuta si staccò da lei e sorrise. La sua voce familiare ruppe il silenzio: «Il tuo principe delle tenebre è ormai l'ombra di se stesso. Sei sola, adesso. È giunta la tua ora, dolcezza». Così dicendo, si dissolse di nuovo in una nebbia rossa e svanì. Mina si gettò a terra, stringendo spasmodicamente la croce d'oro che aveva al collo. Poi si avvicinò, tremante, alla libreria e prese una bottiglia di whisky che era caduta a terra ma era rimasta miracolosamente intatta. La stappò e si sciacquò la bocca con il liquido caldo, gemendo per il dolore causato dall'alcol sulla ferita aperta. Mentre cercava di placare i nervi scossi, la sua mente fu invasa da una moltitudine di ricordi che non le appartenevano, e capì che, in seguito allo scambio di sangue, i pensieri, i desideri, l'odio e la depravazione di quella creatura erano diventati anche suoi. La sconosciuta aveva fatto parte della loro storia fin dall'inizio, pur rimanendo nell'ombra. Era l'assassina di Dracula, colei che stava dando la caccia alla compagnia degli eroi, uccidendoli a uno a uno. Era la contessa Elizabeth Bàthory.

Capitolo 28 Quincey se ne stava in piedi sul molo vuoto. Le acque della Manica erano avvolte in una fitta nebbia, ma si udiva distintamente il rumore delle onde che lambivano i pali di legno. La quiete che lo circondava strideva con l'amarezza che aveva dentro di sé. Batté i piedi, infreddolito. Il cappotto, ancora umido per via dell'ultimo acquazzone, non lo scaldava minimamente, così come i suoi pensieri confusi e rabbiosi non gli scaldavano l'anima. Una settimana prima, la sua strada era segnata. Aveva deciso di seguire il suo cuore e di diventare un attore e un produttore, mettendo da parte, una volta per tutte, i desideri della sua famiglia. Ma ora suo padre era morto, sua madre si era rivelata una bugiarda e lui non riusciva a pensare ad altro che a vendicarsi. Doveva trovare la bestia che aveva ucciso suo padre in quel modo così barbaro e distruggerla con le sue mani. I suoi sogni avrebbero dovuto aspettare. Guardò l'orologio: la nave era in ritardo. Scrutò il mare, sapendo di dover prendere una decisione prima di arrivare, ma non riusciva a vedere nulla per via della nebbia sinistra sospesa sulla superficie dell'acqua. Nemmeno la luce del faro riusciva a penetrarla. Basarab aveva noleggiato una goletta che lo trasportasse nottetempo in Inghilterra, per non trovare all'arrivo folle di ammiratori e giornalisti. Era stato lungimirante: i moli erano deserti. Persino il capitano del porto si era ritirato nei suoi alloggi per la notte. Quincey era completamente solo. Si voltò a guardare le maestose scogliere di Dover a picco sul mare. La luna inondava la loro candida superficie di una luce spettrale. All'improvviso, si udì il suono di una campana di bordo e la fitta nebbia cominciò a diradarsi. La goletta di Basarab stava entrando in porto. Quincey non vide alcun movimento nella coffa dell'albero maestro. Aguzzò la vista, ma la nave sembrava abbandonata e alla deriva, proprio come lui. Man mano che la goletta si avvicinava, la sua sagoma divenne

sempre più visibile. Quincey non poté fare a meno di pensare alla descrizione di Stoker del Demeter, il veliero sul quale Dracula si era nascosto durante il viaggio dalla Transilvania all'Inghilterra. Anche lui aveva voluto tenere segreto il suo arrivo. Poi aveva sterminato tutti i membri dell'equipaggio tranne il capitano. Alla fine, però, non aveva risparmiato neanche lui: il pover'uomo era stato trovato sulla plancia, legato al timone, con un rosario fra le dita. Stoker descrisse l'atroce ritrovamento del Demeter, schiantatosi contro le coste rocciose di Whitby, e di un cane morto, «la gola risultava squarciata e il ventre aperto da un terribile artiglio». La goletta di Basarab sembrava non rallentare, e Quincey non riusciva ancora a scorgere alcun movimento sul ponte. D'un tratto, udì un tonfo sordo, come se qualcosa avesse urtato il molo alle sue spalle. Si voltò, ma nell'oscurità non riuscì a distinguere nulla, e ricordò le ultime parole che sua madre gli aveva gridato: «Lascia sepolta la verità, o potresti andare incontro a un destino peggiore di quello di tuo padre». Un pensiero agghiacciante gli attraversò la mente. Aveva letto di tiranni che, nel corso della storia, avevano sterminato non solo i loro avversari, ma anche i loro figli, affinché non potessero crescere e vendicarsi. Quincey sapeva che la creatura che aveva ucciso suo padre era proprio quel genere di tiranno. E ora si trovava lì, solo su quel molo deserto, senza via d'uscita. La nebbia lo circondava ormai da ogni lato. Stoker non aveva forse scritto che i non-morti si manifestavano a volte sotto forma di nebbia? Di nuovo un tonfo sordo. Quincey ebbe l'impulso di fuggire. Si allontanò dal bordo del molo, col cuore in gola. In quel momento, vide una fiamma accendersi al largo e udì di nuovo il tonfo. Stavolta, però, si rese conto che si trattava di un salvagente alla deriva che urtava il molo e tirò un sospiro di sollievo. Era fuori pericolo, almeno per il momento, ma non si sentiva affatto al sicuro. Quando volse di nuovo lo sguardo verso la nave, vide una figura in piedi sul ponte con una lanterna in mano. Era uno sciocco se pensava di poter avere la meglio su una bestia come Dracula. Se, da

uomo mortale, era stato capace di compiere crimini così atroci, ora che possedeva i poteri dei non-morti doveva essere invincibile. Quincey non sapeva se i metodi per uccidere i vampiri descritti da Stoker fossero efficaci. Come suo padre prima di lui, non aveva alcuna esperienza di guerra. Suo padre, però, aveva avuto accanto uomini valorosi, mentre lui era solo. Tuttavia, se ciò che gli aveva detto sua madre era vero, non avrebbe potuto semplicemente evitare lo scontro, poiché Dracula lo avrebbe trovato ovunque. Il fischio del nostromo lo strappò ai suoi pensieri. La goletta rallentò e si diresse verso il molo. Quincey scorse, a prua, la sagoma familiare di Basarab, elegante come sempre. Si domandò sconsolato che cosa gli avrebbe detto. Il suo mentore aveva affrontato un lungo viaggio per lui. Quale spiegazione avrebbe potuto dargli per l'improvvisa decisione di abbandonare la produzione? Non poteva certo raccontargli la verità. Basarab nutriva grande stima per il principe, e non avrebbe mai creduto che fosse divenuto un nonmorto. Per la prima volta in vita sua, Quincey capì perfettamente l'Amleto di Shakespeare: un uomo che si era trovato di fronte a un bivio. Se avesse avuto la sfortuna di interpretarlo prima di quel giorno, lo avrebbe dipinto come uno smidollato indeciso; ma, se ne avesse avuto la possibilità in futuro, ne avrebbe fatto un personaggio schiacciato dal peso del mondo e spinto sull'orlo della follia dall'enormità della decisione che aveva di fronte. Non aveva idea di quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Mentre si arrovellava, si udì un cigolio di catene e la passerella venne abbassata sul molo. Poi la sagoma alta e scura di Basarab emerse dalla nebbia, avvolta nel chiarore della luna. Sembrava un re. Il tempo di Quincey era scaduto. «Signor Basarab, benvenuto in Inghilterra» disse porgendogli la mano mentre l'attore scendeva maestosamente la passerella. «Ho ricevuto il vostro telegramma» disse Basarab in tono dispiaciuto. «Dopo la morte di vostro padre, voglio che non abbiate alcun senso di colpa qualora decidiate di abbandonare la produzione.» Ancora una volta, era come se gli avesse letto nel pensiero.

Quincey rimase profondamente toccato dal suo gesto. Forse, in fondo, non era solo. Basarab era degno della sua fiducia. Forse era l'unica persona su cui potesse contare. I membri dell'equipaggio trasportarono i bagagli di Basarab sul molo. «Ci ho riflettuto a lungo» disse Quincey. «Sarò sincero con voi: non so cosa fare.» «Che vi dice il vostro cuore?» Quincey si rasserenò. Capiva ciò che intendeva dire il grande attore: gli stava offrendo il suo appoggio, qualunque fosse stata la sua scelta. Quincey non era un guerriero. Non aveva più una casa. Non poteva fuggire né nascondersi. Ma forse, con Basarab al suo fianco, avrebbe trovato il coraggio necessario ad affrontare le prove che lo attendevano. Basarab era forte e coraggioso. Quincey lo aveva visto reagire con prontezza quando erano stati attaccati al teatro di Parigi. Decise così di portare avanti il progetto dello spettacolo, e di cercare di convincere Basarab che Dracula era divenuto uno spietato nonmorto. Poi, con l'appoggio del suo mentore, avrebbe combattuto il male incarnato dal principe. Nel frattempo, però, aveva bisogno di lui, e di tempo per convincerlo ad affiancarlo nella battaglia. Si rese conto con sollievo che la sua decisione non comportava alcuna scelta. «Porterò avanti lo spettacolo in onore di mio padre» disse. «È il minimo che io possa fare. Spero di riuscire a dimostrargli, nella morte, l'amore che gli ho ingiustamente negato in vita.» Basarab sorrise, orgoglioso. «Allora faremo in modo che abbiate successo.» Quincey si sentì incredibilmente sollevato. Ripensò a tutte le dispute che aveva avuto con il genitore. La rabbia e la confusione di quei giorni lo avevano assorbito a tal punto che non era ancora riuscito a piangere la sua morte. Non voleva farlo in quel momento, però, così si voltò, sperando che Basarab non notasse i suoi occhi velati di lacrime. L'attore, invece, gli mise un braccio sulle spalle e gli disse, con la sua voce bassa e suadente: «Non dovete vergognarvi di piangere. Io

ricordo ancora il triste giorno in cui persi mio padre». «Come morì?» gli chiese Quincey. «Ero molto giovane. Mio padre era un guerriero e fu assassinato dai suoi stessi connazionali» rispose Basarab, con una strana espressione. Guardandolo negli occhi, Quincey capì che il suo mentore conosceva il significato della parola vendetta. «Tuo padre sarà orgoglioso di te» disse Basarab. Poi lo prese sottobraccio e camminarono insieme lungo il molo. «Tra padre e figlio c'è un legame indissolubile, nel bene e nel male.» Per la prima volta da giorni, Quincey si ritrovò a sorridere fra le lacrime. Basarab gli stava offrendo qualcosa che nessuno gli aveva mai dato, nemmeno suo padre: la fiducia.

Capitolo 29 Il sergente Lee, in piedi sulla soglia del Red Lion, alzò gli occhi sul Big Ben illuminato dalla nuova luce elettrica. Il sole stava iniziando a tramontare dietro i palazzi del Parlamento e la torre dell'orologio proiettava la sua lunga ombra sul Tamigi. Aveva aspettato Cotford, in ritardo di un quarto d'ora, seduto nel pub, ma non si sentiva a suo agio. Aveva sete e avrebbe voluto partecipare all'atmosfera gioviale del locale, ma era ancora in servizio. Così, per evitare tentazioni, era uscito. Meglio così. Se sua moglie avesse saputo che si trovava in un pub la sera del loro anniversario si sarebbe infuriata. Lee guardò di nuovo l'orologio e si rabbuiò. Da più di una settimana non riusciva a tornare a casa in tempo per rimboccare le coperte ai figli. Sperava che sua moglie avrebbe capito che non intendeva mancarle di rispetto lavorando anche quella sera. Del resto, Clara quando lo aveva sposato sapeva che era innanzitutto un uomo ligio al dovere. Dover rinunciare a una cena a lume di candela con l'amata moglie era un piccolo prezzo da pagare per la possibilità di salvare una vita umana. «Sergente Lee?» Lee si voltò e vide Cotford dirigersi verso di lui. «Siete in ritardo, signore.» «Chi hai lasciato a guardia del sospetto?» gli chiese ansiosamente Cotford, aggiungendo, con un sorriso: «Il giovane Price?». Lee rise. Anche a lui piaceva quel ragazzo. «No, era distrutto, poveretto. Non dormiva da una settimana. L'ho mandato a casa.» Poi, vedendo l'espressione preoccupata di Cotford, si affrettò ad aggiungere: «State tranquillo: il nostro sospetto ha ospiti a cena, stasera. Ne avrà per ore. Sapete com'è: sigari e brandy fino all'alba». «Bene. Voglio che lo porti in centrale» disse Cotford, con una punta di perfidia nella voce. «Siete sicuro, signore? Se lo porto via davanti ai suoi ospiti, le nostre indagini diventeranno di dominio pubblico.» «Non credo: i ricchi parlano solo fra loro. A ogni modo, vale la

pena rischiare. Dobbiamo scuoterlo.» Lee annuì e fece per allontanarsi, ma Cotford lo afferrò per un braccio. «Fallo passare dall'entrata su Derby Gate» gli disse, indicando il vicolo che collegava Parliament Street al Victoria Embankment. «Così nessuno lo vedrà.» Lee sorrise. Non si poteva certo dire che il suo capo non fosse meticoloso. «Van Helsing è troppo furbo per tradirsi» continuò solennemente Cotford. «La nostra unica possibilità è fare in modo che uno dei suoi complici lo incastri.» Lee si allontanò. Anche lui, come Cotford, sapeva bene che il loro sospetto si sarebbe rivelato un osso duro. Li aspettava una lunga notte. Il grasso ispettore irlandese gettò sul tavolo i diari di Jack Seward. Arthur Holmwood lo guardò con aria beffarda. Era certo che stesse bluffando: non poteva averli scritti Jack. Ma quando lesse il brano che l'ispettore aveva evidenziato riconobbe la calligrafia del suo amico e rimase di stucco. Come aveva potuto venire meno al giuramento e formulare un suo personale resoconto degli avvenimenti di quella tragica notte? Imprecò fra sé e sé, cercando di non far trapelare alcuna emozione. Holmwood chiuse bruscamente il diario. «Sono tutte sciocchezze. Jack le avrà scritte sotto gli effetti della droga.» Era ormai risaputo che Jack Seward, un tempo stimato scienziato, fosse impazzito e facesse uso di morfina. Per quanto compromettenti, le testimonianze contenute nei suoi diari non avrebbero retto in tribunale. Arthur osservò attentamente l'ispettore. Non era uno sprovveduto, e il suo aspetto trasandato non doveva trarre in inganno. Aveva fatto di tutto per metterlo a disagio. La stanza degli interrogatori era vuota, fatta eccezione per un tavolo e alcune scomode sedie di legno. Sopra il tavolo c'era una lampada di metallo dalla luce intensa e violenta. Faceva caldo, ma non c'erano attaccapanni, e nessuno aveva avuto la cortesia di prendere in consegna il suo pesante soprabito invernale, lasciandolo a grondare

di sudore. Cotford aveva davanti un bicchiere d'acqua, ma non glielo offrì. A ogni modo, non avrebbe ottenuto nulla. Molti anni prima, dopo l'assedio di Tuyen Quang, Arthur Holmwood era stato fatto prigioniero dai cinesi, maestri nell'arte dell'interrogatorio e in grado di infliggere terribili torture fisiche e psicologiche. Cotford era un dilettante, in confronto. «Forse troverà questo più interessante» disse l'ispettore con un sorrisetto, aprendo una cartellina verde chiaro e mostrandogli il contenuto. Gli occhi di Arthur scorsero gli appunti scritti a mano. Dopo alcuni istanti, alzò lo sguardo e disse: «Un'autopsia?». «Effettuata su Lucy Westenra.» Stavolta, Holmwood non riuscì a nascondere la sua sorpresa. Non era mai stata effettuata alcuna autopsia. Nessuno dei medici interpellati era riuscito a guarirla dal suo male, e quando era morta non vi era stato bisogno di ulteriori esami. Cotford, visibilmente soddisfatto, disse: «Lasciate stare tutti quei termini difficili». Poi, mostrandogli l'ultima pagina della cartellina, aggiunse: «È la conclusione che conta». Holmwood si sporse in avanti per leggere la riga che Cotford gli indicava. «Omicidio?» disse. «È assurdo. Lucy è morta di una rara malattia del sangue.» Quelle parole risvegliarono in lui dolorosi ricordi legati al misterioso male di Lucy. La sua inspiegabile perdita di sangue, i disperati tentativi di arginarla con delle trasfusioni, il denaro speso per consultare i migliori specialisti, nessuno dei quali era stato in grado di formulare una diagnosi. Nessuno, tranne il dottor Van Helsing, che però non era riuscito a evitare la morte di Lucy. "La morte" pensò, e rise amaramente fra sé. L'immagine di Lucy che giaceva non-morta nella bara gli era rimasta impressa a fuoco nella memoria. La sua vera morte, poi, lo aveva segnato per sempre. «La signorina Westenra proveniva da una famiglia benestante» disse Cotford in tono insinuante. «Poco prima della sua morte, alla vigilia del vostro imminente matrimonio, cambiò le sue ultime

volontà, designando voi come unico erede.» «E questo costituirebbe un movente» intervenne Lee, che se ne stava in piedi in fondo alla stanza cercando di intimidire Arthur con la sua stazza. «Insieme alla testimonianza contenuta nei diari del dottor Seward, sarebbe più che sufficiente a farci ottenere un mandato d'arresto.» Holmwood si sentì avvampare dalla collera e strinse istintivamente i pugni e la mascella. Il suo primo impulso fu quello di prenderli entrambi per il collo, ma sapeva bene che, se avesse dato libero sfogo alla sua ira, avrebbe fatto il gioco di Cotford. Quel perfido ispettore stava bluffando. Così disse: «Spero stiate scherzando. Non avevo certo bisogno dell'eredità dei Westenra, come saprete». «Vi assicuro che non è uno scherzo» ribatté Cotford, estraendo una fotografia dalla tasca e poggiandola sul tavolo. Arthur impallidì. La fotografia mostrava un orribile scheletro. Il teschio, reciso dal resto del corpo, era coperto da una massa incolta di capelli rossi. Fra le costole era conficcato un paletto di ferro. L'abito color avorio, che Lucy aveva fatto confezionare per il matrimonio, era consunto e sporco di sangue rappreso. A giudicare dallo stato di decomposizione e dalla qualità dell'immagine, la fotografia era stata scattata di recente. "Questo bastardo irlandese ha profanato la tomba di Lucy!" pensò Arthur. Per quanto ci provasse, non riusciva a distogliere lo sguardo da quella spaventosa fotografia. Non riusciva nemmeno a sbattere le palpebre. Evitò accuratamente di prenderla, perché Cotford non vedesse che gli tremavano le mani. Arthur era profondamente turbato. Nel corso degli anni, aveva cercato di convincersi che quella notte non fosse mai esistita, ma i ricordi continuavano a perseguitarlo. Van Helsing lo aveva costretto a recarsi al mausoleo in cui giaceva Lucy. Quando Arthur l'aveva vista, viva e bella come pochi giorni prima, il suo cuore si era riempito di gioia. Sulle prime, aveva pensato che si trattasse di un'allucinazione. Poi si era voltato e aveva visto l'espressione di orrore e raccapriccio sul volto di Jack Seward. Lucy lo aveva chiamato, con la voce dolce e melodiosa di sempre. «Vieni, marito

mio. Baciami. Non ci lasceremo mai, come promesso.» Gli era stata data una seconda possibilità. Ricordava ancora il calore del sorriso di Lucy in quella notte gelida. Le si era avvicinato, spinto dal desiderio di baciare le sue labbra rosse. Sapeva che, una volta fra le sue braccia, tutto il dolore che aveva provato dal giorno del suo funerale sarebbe svanito. Ma quando le sue dita stavano per sfiorare quelle dell'amata, Van Helsing si era frapposto tra di loro brandendo un crocifisso. Con grande orrore di Holmwood, Lucy aveva emesso una specie di sibilo, mostrando i denti appuntiti e sputando sangue verso il professore. Mentre si contorceva nella bara, gli occhi le erano diventati completamente neri. Holmwood aveva cercato di provare gratitudine verso Van Helsing per avergli salvato la vita, ma una parte di lui non gli aveva mai perdonato la sua intromissione in quel momento fatidico. Forse un'eterna giovinezza con Lucy sarebbe stata preferibile alla vita che aveva condotto da quella notte in poi. Van Helsing aveva provato a spiegargli che ciò gli sarebbe costato la sua anima immortale, ma i venticinque anni trascorsi senza Lucy gli erano costati molto di più. La voce di Cotford lo riportò bruscamente al presente. «Confessate i vostri crimini. Testimoniate contro Van Helsing e vi salverò dal patibolo.» L'ispettore temeva davvero che avesse paura di morire? Holmwood aveva conosciuto destini peggiori. Aveva visto l'oltretomba: la morte sarebbe stata una benedizione per lui. Nei dieci anni successivi a quella terribile notte, a ogni anniversario della morte definitiva di Lucy aveva eseguito un macabro rituale: si chiudeva a chiave nel suo studio, fissando il ritratto di lei e lucidando le pistole da duello. Poi si puntava la canna alla tempia, vicino alla punta dell'orecchio mutilato, e cercava di porre fine alla sua miserabile esistenza imponendosi di sparare. Voleva ricongiungersi alla sua amata. Ma ogni volta gli tornavano alla mente le parole della Bibbia che aveva imparato da bambino, secondo le quali chi commetteva suicidio era dannato. In fondo al cuore, sapeva che l'anima di Lucy si trovava in paradiso. Era stato proprio il desiderio di salvare la sua anima immortale a spingerlo a conficcarle quel

paletto di ferro nel cuore, su suggerimento di Van Helsing. Il pensiero, tuttavia, non lo confortava. Ricordava ancora come gli tremavano le mani quando aveva assestato il colpo di maglio e aveva udito le grida strazianti di Lucy mentre il sangue sgorgava a fiotti macchiando il suo elegante abito da sposa! Il destino non poteva essere così crudele da imporre a uno sposo di uccidere la sua amata il giorno del loro matrimonio. Lucy non aveva mai chiesto di essere trasformata in una creatura della notte. Era stato quel demonio di Dracula a farlo! Holmwood si rese conto che Cotford lo stava guardando attentamente. Doveva costringerlo a scoprire le carte. Spinse via i diari e il referto dell'autopsia e si appoggiò con aria arrogante allo schienale della sedia. «Un'offerta gentile, ma le prove in vostro possesso sono puramente circostanziali. Se aveste potuto ottenere un mandato d'arresto, sarei già in manette.» «State scherzando col fuoco» ribatté Cotford, indicando i diari. «Seward non riusciva più a sopportare il senso di colpa. Aveva intenzione di denunciare Van Helsing, e lui lo ha ucciso.» «Con tutto il rispetto per un rappresentante di Scotland Yard, è l'affermazione più ridicola che abbia mai sentito. Jack Seward era il pupillo di Van Helsing. Era come il figlio che non aveva mai avuto. Un legame di quel genere non può sfociare in un omicidio. Sono folli congetture, le vostre.» «Poi, quando Jonathan Harker ha scoperto la verità,» aggiunse Lee, ignorando le osservazioni di Holmwood «Van Helsing ha ucciso anche lui.» «Van Helsing sta cercando di nascondere le proprie tracce» disse Cotford. Poi si sporse verso Arthur, fingendo per un attimo di essere dalla sua parte: «Voi sarete il prossimo». «Ne dubito» disse Holmwood, scoppiando a ridere. «Van Helsing è un vecchio di settantacinque anni.» «Non sto dicendo che abbia agito da solo. Van Helsing manipolò anche voi, inducendovi a commettere un omicidio.» Arthur smise di ridere e gli lanciò un'occhiata carica d'odio. La stanza piombò in un silenzio di tomba, rotto solo dal ticchettio

dell'orologio e dal respiro dei tre uomini. Chiunque avesse parlato per primo avrebbe perso quella guerra di nervi. L'ispettore ricordava ad Arthur un vecchio capitano di mare che aveva conosciuto durante una vacanza in Scozia e che aveva per lungo tempo dato la caccia a un mostro che si diceva si nascondesse fra le acque di Loch Ness. Il vecchio aveva dedicato tutta la sua vita e le sue risorse a setacciare le acque del lago alla ricerca di prove dell'esistenza della creatura. Cotford faceva lo stesso: non aveva riscontri concreti, solo una fantasiosa teoria; e, fingendo di volerlo salvare da un'immaginaria minaccia, sperava di convincerlo a rendere una confessione che confermasse le sue bislacche ipotesi. Quel povero ispettore non sapeva chi aveva di fronte! La tensione nella stanza continuò a salire finché Cotford non ruppe il silenzio. «Chi può dire che Van Helsing non abbia trovato un altro gruppetto di uomini suggestionabili disposti a uccidere per lui?» Arthur Holmwood scosse la testa. Cotford non era così pericoloso come aveva creduto che fosse. Ma aveva uno sguardo strano. Lo stesso che aveva visto negli occhi Van Helsing quando gli aveva parlato per la prima volta dei non-morti, dei Nosferatu. Era lo sguardo di un fanatico. L'ispettore aveva perso la battaglia, ma non si sarebbe dato per vinto. Arthur avrebbe volentieri confessato qualsiasi crimine che Cotford avesse voluto attribuirgli e accettato una morte rapida e indolore su un patibolo, se ciò avesse posto fine alle sue sofferenze. Ma doveva pensare a sua moglie Beth e ai suoi famigliari, che avrebbero sofferto se Cotford avesse infangato il nome degli Holmwood. La forca gli avrebbe consentito di ricongiungersi a Lucy in paradiso, ma aveva già causato alla sua famiglia abbastanza disonore. Aveva sposato Beth per amicizia, per salvare suo padre dai debiti. Beth lo amava, ma lui non ricambiava il suo sentimento, e lei cercava di consolarsi con le piacevolezze della vita mondana. Aveva pianificato il ricevimento di quella sera nei minimi dettagli, invitando la crème della società londinese. Il suo arresto davanti a tutti gli ospiti aveva rovinato la serata e avrebbe costituito per settimane uno spiacevole argomento di conversazione fra i suoi pari. Beth era

la sua più cara amica, e l'unica che gli era rimasta, ormai. Le lacrime di imbarazzo che aveva visto nei suoi occhi mentre Lee lo portava via avevano quasi spezzato il suo cuore di pietra. Non poteva permettere che una condanna danneggiasse ulteriormente la posizione sociale della moglie: era tutto ciò che aveva. Si alzò in piedi, infilandosi lentamente i guanti bianchi, e sfidò i suoi accusatori: «Ho sentito abbastanza. Sono un lord inglese, e non avete alcun motivo valido per trattenermi qui. Importunatemi ancora, e dovrete dire addio ai vostri distintivi». E, così dicendo, si diresse verso la porta. «Voi e Van Helsing tentate di giustificare i vostri crimini affermando che il male è incarnato da un demone onnipotente» disse Cotford. Le sue parole indussero Holmwood a indugiare sulla soglia. «Ma io conosco la verità, perché l'ho vista con i miei occhi. Il male vero esiste nell'anima dell'uomo, e sta venendo a prendervi.» «Sta venendo a prendere tutti noi» ribatté Arthur Holmwood, uscendo. Van Helsing aveva molto da fare. Dopo aver letto il telegramma di Mina, decise di tornare subito nella sua stanza, prendere cappotto e cappello e mettersi alla ricerca di Quincey. Ma, dopo aver saltato il pasto ed essersi scontrato con Cotford nell'atrio dell'albergo, si sentiva troppo debole. Avrebbe rimandato il tutto alla mattina dopo. Aveva perso troppo tempo a cercare di ragionare con il detective... anzi, no, con l'ispettore Cotford. Dopo tutti gli anni trascorsi a combattere il male in nome di Dio affinché uomini ignoranti come Cotford potessero dormire sonni tranquilli, ecco il ringraziamento che riceveva al tramonto della sua vita. Venire accusato di omicidio! Quel Cotford era più matto di un inquisitore spagnolo. Cercò di non pensarci. Era tornato a Londra per un motivo più importante, e l'ispettore era sulla pista sbagliata. Ma non avrebbe lasciato che interferisse con i suoi piani, Sperava solo che Quincey quella notte si trovasse al sicuro. Le pareti della stanza d'albergo di Van Helsing erano tappezzate di ritratti del Dracula storico, il principe rumeno, Vlad l'Impalatore, e di stampe che ne illustravano le gesta sanguinarie. In bella vista c'era

una xilografia che mostrava Dracula a tavola in mezzo a migliaia di vittime: la Foresta degli impalati. Guardando quelle immagini, Van Helsing capì che il destino gli riservava uno scontro finale con Dracula e che il suo compito era distruggerlo una volta per tutte. Stava compiendo la volontà di Dio. Se Cotford lo avesse ostacolato, avrebbe ucciso anche lui. «Il mio tempo è quasi scaduto, demone» disse, fissando gli occhi dipinti di Vlad Dracul. Su un tavolo poco distante era dispiegato il suo arsenale, costituito da croci, ostie, acqua santa, un paletto di legno, un coltello da caccia e una balestra con un dardo incoccato. «Vieni a cercarmi, e moriremo insieme. Non di vecchiaia, ma in battaglia!» In quel preciso istante, avvertì di nuovo la morsa al petto che conosceva bene e sentì l'alito freddo della morte. "No! Non adesso! Mi servono solo pochi giorni!" Si appoggiò al tavolo e, con dita tremanti, prese il portapillole. Poi, facendo attenzione a non farlo cadere, lo aprì e si mise sotto la lingua una compressa di nitroglicerina. Quando la morte allentò la presa, si sentì di nuovo in forze. Il buon Dio gli aveva lanciato un avvertimento: il tempo a sua disposizione era ancora più breve di quanto pensasse. Guardò di nuovo il volto dipinto del suo acerrimo nemico e, raddrizzandosi e levando le braccia al cielo, esclamò: «DEMONE, TI ASPETTO!».

Capitolo 30 Quincey e Basarab sedevano uno di fronte all'altro su una carrozza diretta a Londra. Il contegno amichevole di Basarab aveva lasciato il posto a un gelido silenzio dopo che Quincey lo aveva informato della sua ultima conversazione telefonica con Hamilton Deane. Bram Stoker aveva puntato i piedi. Non approvava la scelta di Basarab, e aveva persino telegrafato a Barrymore in America per convincerlo a tornare. Quincey sperava che, di fronte allo straordinario talento di Basarab, Stoker avrebbe cambiato idea. Man mano che si avvicinavano al teatro, però, il divo divenne sempre più pensieroso. Il tempo sembrava peggiorare e la nebbia infittirsi. Quincey ritenne opportuno non disturbarlo. Prima che il cocchiere fermasse la carrozza, Basarab era già con un piede fuori. Tenendo gli occhi fissi sull'entrata del teatro disse, in un tono gelido che mise Quincey a disagio: «Parlerò con Stoker da solo. Fate in modo che nessuno ci disturbi». «E se non dovesse collaborare?» gli chiese Quincey, sfiorandogli un braccio per trattenerlo. Basarab lo fulminò con lo sguardo, inducendolo a ritirare subito la mano. Gli tornò in mente la reazione di Arthur Holmwood quando aveva fatto la stessa cosa. Non sapeva cosa volesse esattamente Basarab da lui. Poi, con la stessa rapidità con cui era esplosa, la sua collera svanì e Basarab si sedette, sorridendo, accanto a Quincey. «Il principe Vlad Dracula guidò quarantamila uomini contro trecentomila invasori turchi: l'esercito più numeroso mai radunato per uccidere un solo uomo. Ma, quando si lasciò alle spalle una foresta di trentamila prigionieri musulmani impalati, i suoi nemici fuggirono terrorizzati.» Quincey rimase profondamente turbato dall'elogio di Basarab dell'uomo che aveva ucciso suo padre, e rivide, con gli occhi della mente, l'illustrazione che lo ritraeva morto e impalato a Piccadilly Circus. Ma poi si ricordò che l'ammirazione del suo mentore andava al personaggio storico, non al demone non-morto che Dracula era divenuto quando aveva deciso di abbandonare Dio. E, in fondo al cuore, sapeva che Basarab avrebbe combattuto il male al suo fianco quando fosse giunto il momento.

Basarab continuò: «Quel giorno, Dracula salvò il suo paese, e il mondo cristiano, usando l'unica arma che aveva a disposizione... il terrore. Proprio così. Il terrore può essere uno strumento molto potente, mio giovane amico. Ricordatevelo». Il cocchiere aprì lo sportello della carrozza. Basarab fissò di nuovo gli occhi sull'entrata del teatro e scese. Quincey lo seguì lungo le scale, ripensando alle sue ultime parole. Gli stava forse suggerendo di usare l'intimidazione come arma? Non erano quelli i principi con cui era stato allevato. Ma Basarab era un uomo di grande successo. Forse gli stava impartendo una preziosa lezione. Il guardiano notturno li attendeva sulla porta. Quincey impiegò alcuni istanti per abituarsi alla penombra dell'atrio. Sentì nell'aria l'odore familiare e rassicurante del cerone. Poi il guardiano aprì la porta che conduceva alla platea e Quincey seguì Basarab all'interno. Le luci della sala erano basse. Hamilton Deane andò loro incontro con la mano tesa. «Quincey! Signor Basarab! Benvenuti.» Quando diede la mano a Basarab il produttore fece una lieve smorfia, come se l'attore avesse stretto troppo, ma si riprese subito e, sempre sorridendo, disse: «Vogliamo parlare d'affari?». Quincey acconsentì al suo cenno di seguirlo, ma Basarab non si mosse, fulminandolo con lo sguardo. Voleva verificare che il giovane fosse in grado di seguire le sue istruzioni. «Con tutto il rispetto,» disse allora Quincey «il signor Basarab vorrebbe prima discutere in privato con il signor Stoker.» Deane sembrò stupito dall'intraprendenza di Quincey e rispose seccamente: «La decisione di ingaggiare il signor Basarab spetta a me. Il signor Stoker dovrà farsene una ragione». Di fronte al tono categorico di Deane, Quincey rimase interdetto. Il produttore aveva acconsentito ad affidare il ruolo di protagonista a Basarab, ma Quincey sapeva che questi desiderava parlare con Stoker a quattr'occhi, e doveva accontentarlo. Allora, essendo un attore, decise di recitare. Si avvicinò a Deane, e lo guardò dritto negli occhi, cercando di imitare la gelida perentorietà di Basarab.

Deane parve a disagio, e Quincey pensò che Basarab aveva ragione: il terrore era davvero un'arma potente. Quincey non ebbe tuttavia la possibilità di verificare dove lo avrebbe condotto quella tattica, perché Basarab gli mise una mano sulla spalla e lo scansò. «Vi prego, signor Deane» disse. «Desidero evitare ogni polemica. Concedetemi l'opportunità di convincere il signor Stoker con la mia interpretazione del suo straordinario personaggio, al riparo da ogni influenza esterna. Ho il vostro permesso?» Quincey rimase stupefatto dal tono suadente di Basarab. Lo aveva manipolato intenzionalmente in modo da farlo passare per il cattivo? Ma poi capì: Quincey era il bastone e Basarab la carota. Dopo essere stato intimidito, Deane sarebbe stato più propenso ad accettare la cortese richiesta di Basarab. Quell'uomo era un genio! Quincey aveva così tanto da imparare da lui. Deane sorrise e indicò la porta che conduceva dietro le quinte. «Avete la mia benedizione.» Basarab chinò signorilmente il capo a mo' di ringraziamento e scomparve. Quincey guardò il palco, in testa gli turbinavano mille pensieri. Com'era fortunato. Era evidente che il grande attore sapeva come ottenere ciò che voleva. Era certo che ogni istante trascorso al suo fianco gli avrebbe fornito i mezzi necessari a mettere in atto la sua vendetta.

Capitolo 31 Bram Stoker si sedette alla scrivania del suo ufficio aiutandosi con il bastone da passeggio. Aveva poco tempo, se voleva convincere John Barrymore a tornare a Londra. Barrymore aveva risposto al suo ultimo messaggio dicendogli che era troppo tardi. Ethel, sua sorella, lo aveva aiutato a ottenere una parte in A Slice of Life di James M. Barrie, in cartellone al Criterion Theatre di Broadway. Le repliche dello spettacolo si sarebbero concluse alla fine del mese, dopo di che Barrymore si sarebbe recato in California. Grazie all'esperienza accumulata con Henry Irving, Stoker sapeva che l'unico modo con cui uno scrittore poteva conquistare un attore era attraverso le parole. Così, decise di scrivere un monologo per il personaggio di Dracula che qualsiasi attore avrebbe voluto recitare. Barrymore, con il suo ego smisurato, sarebbe tornato di corsa al Lyceum per evitare che un altro attore acquisisse lustro con quell'interpretazione. Stoker avrebbe inviato le pagine all'amico George Boldt, impresario del Waldorf e dell'Astoria di New York, i due alberghi in cui alloggiava Barrymore quando lavorava a Broadway, e Boldt gli avrebbe consegnato personalmente la nuova versione della pièce. L'ufficio di Stoker traboccava di ricordi di Irving: le pareti erano tappezzate di manifesti dei suoi spettacoli, e in un angolo faceva bella mostra di sé un manichino di legno a grandezza naturale con il costume di Mefistofele che Irving aveva indossato nell'acclamata produzione del Faust. Bram alzò gli occhi sul ritratto appeso a una parete che mostrava Irving con lo stesso costume diabolico. Avrebbe dovuto interpretare lui Dracula, non Barrymore, o quel Basarab che Deane aveva ingaggiato a sua insaputa. Irving era uno sciocco. Se gli avesse dato ascolto, avrebbe potuto concludere la sua carriera con un ultimo ruolo importante invece di rovinarsi con l'alcol. Ma alla fine, come sempre, Stoker aveva messo da parte le proprie ambizioni per soddisfare i desideri di qualcun altro. Quella volta, però, sarebbe stato fedele solo a se stesso. Perdio, sarebbe stato lui a scegliere chi avrebbe interpretato Dracula! Quei pensieri gli fecero ribollire il sangue nelle vene: era tempo di

scrivere. La collera lo avrebbe sicuramente ispirato. Si sedette e intinse il calamo nell'inchiostro. Pochi istanti dopo, udì qualcuno bussare alla porta. Stizzito, sbatté il calamo sulla scrivania. Dopo la disputa che avevano avuto, Deane sapeva che non doveva disturbarlo mentre era all'opera. Ma, prima che potesse liquidare il seccatore, la porta si aprì ed entrò un uomo alto e magro con gli occhi scuri e penetranti e i capelli corvini. Sebbene il volto fosse in ombra, il primo pensiero di Bram fu che Irving fosse tornato a maledirlo per aver mandato in rovina il suo teatro. Quando però lo sconosciuto venne avanti, Stoker si rese conto che non si trattava di lui. Aveva i lineamenti affilati e aristocratici dei nobili dell'Europa dell'Est. Gli occhi scuri e infossati fissavano Stoker come quelli di un rapace. C'era qualcosa di strano nel suo viso: lo sguardo era malvagio, ma la bocca sorrideva. Stoker riconobbe in lui l'uomo delle fotografie promozionali che gli erano state mostrate. Gli venne in mente una frase pronunciata da Ellen Terry, una delle attrici che avevano affiancato Irving: «Mai fidarsi di un attore che sorride: è solo una maschera». «Ultime correzioni alla pièce?» gli chiese Basarab. «Vi aspettavo» disse Stoker, coprendo la pagina su cui stava scrivendo. Temeva quel momento da quando aveva incontrato il giovane Harker. Cos'aveva scoperto? Stoker sapeva che quella di Basarab non era una visita di circostanza. Se Deane avesse continuato a fare comunella con Quincey e Basarab, il rischio che qualcuno scoprisse le vere origini del suo romanzo sarebbe divenuto sempre più concreto. Stoker aveva cercato di scacciare i sensi di colpa. Dopotutto, non aveva fatto nulla di male: aveva semplicemente fuso la sua storia con quella inverosimile che gli era stata raccontata in un pub. Lavorava da tempo, ma con scarso successo, a un romanzo sui vampiri. Malediceva gli anni trascorsi nel mondo legale, che avevano ucciso la sua immaginazione. Poi, una notte, aveva incontrato in un pub un uomo strano ma disposto a parlare finché Stoker avesse continuato a riempirgli il bicchiere. I suoi deliri lo avevano ispirato, convincendolo a cambiare il nome del

protagonista da conte Wampyre a conte Dracula. Il nome gli ricordava la parola gaelica droch-fhoula, che significava "sangue cattivo", e lo faceva rabbrividire. Come poteva sapere che alcuni dei personaggi della storia di quel folle erano veri? Il suo teatro, però, non poteva permettersi pettegolezzi e maldicenze. Accidenti a Quincey Harker! Doveva saltar fuori proprio allora? Basarab si voltò e chiuse la porta. Il sorriso era svanito dalle sue labbra. «Vedo che non siete in vena di convenevoli quindi verrò subito al punto.» «Se proprio dovete.» «Il vostro libro si è rivelato un fallimento dal punto di vista finanziario. Quindi lo spettacolo deve essere un successo. Perché vi opponete alla mia partecipazione? Posso aiutarvi.» Quelle parole ferirono Stoker come un palo di legno conficcato nel cuore. Non aveva bisogno che quell'attorucolo arrogante e pomposo gli ricordasse le esigue vendite del suo romanzo. «Se Deane vuole la guerra, l'avrà» ribatté Stoker, cercando di mantenere la calma. «Sono io l'impresario del teatro. Preferisco chiuderlo piuttosto che lasciarlo nelle vostre mani. E poi la parte è già stata assegnata.» Basarab rise e scosse la testa, togliendosi cappotto e guanti. Stoker rimase indispettito dalla disinvoltura mostrata da quell'ospite indesiderato. «Certo, se dovessi prendere parte alla produzione, sarà necessario apportare delle modifiche alla pièce e, di conseguenza, al romanzo.» «Siete davvero arrogante come dicono!» sbottò Stoker. Le intenzioni di Basarab gli erano chiare. Si stava comportando come Dracula in modo da convincerlo ad assegnargli la parte. Ma non avrebbe funzionato. Il suo Dracula avrebbe cercato di convincerlo con le minacce, non con l'arroganza. Ciò non fece che rafforzare in lui la convinzione che Basarab non fosse tagliato per quel ruolo. «Oltre a rivelare una deplorevole mancanza di immaginazione, il vostro libro è pieno di incoerenze e supposizioni sbagliate» replicò Basarab, prendendo il volume dalla copertina gialla appoggiato sulla scrivania.

«Avevo sentito dire che la vostra arroganza era leggendaria. Ora, però, temo che in voi vi sia anche una buona dose di follia» disse Stoker, alzandosi e guardandolo negli occhi. Era certo di leggervi rabbia, e invece non esprimevano altro che tristezza ed esasperazione. Basarab sembrava serio. O forse era un attore più bravo di quanto pensasse. «Perché mi provocate?» gli chiese Basarab. «Non è mia intenzione litigare con voi.» «Peccato. Perché è mia intenzione sbattervi fuori!» esclamò Stoker, sedendosi di nuovo sulla poltrona girevole e voltandosi. Aveva perso abbastanza tempo con quell'idiota. Basarab gli si avvicinò e gli appoggiò le mani sulle spalle, sussurrandogli all'orecchio: «Fate attenzione. State commettendo un grave errore». Stoker cercò di non lasciar trapelare la sua paura, ma non poté nascondere il brivido che gli corse lungo la schiena: si era tradito. Quincey si rese conto che Deane provava ancora un certo timore nei suoi confronti, dopo il vivace scambio che avevano avuto poco prima. Cercava di mantenere le distanze mentre mostrava a Quincey le migliorie apportate al palco. Spense le luci della sala, che piombò nell'oscurità. Quincey trovò strano il fatto di riuscire ancora a vedere Deane, intento a cercare un altro interruttore sul palco. Doveva esserci un'altra luce per la troupe, ma non riusciva a capire da dove provenisse. Quando finalmente Deane trovò l'interruttore, vi fu una scintilla seguita da un ronzio elettrico. «Benvenuto nel ventesimo secolo» disse. Le luci della ribalta illuminarono il palco e Quincey rimase a bocca aperta davanti al nuovo sistema di illuminazione a tre colori: bianco, rosso e verde. «Ora guardate qui» proseguì Deane, regolando ciascuna luce colorata su un'intensità diversa. Quincey non credeva ai propri occhi. Sarebbe stato impossibile

raggiungere un risultato del genere con l'illuminazione a gas. Quella novità avrebbe permesso loro di creare un'atmosfera inquietante mai vista prima su un palco. Si ritrovò a ridere come un bambino. D'un tratto, la voce dal forte accento irlandese di Bram Stoker risuonò dietro le quinte. Era furioso, e urlava a squarciagola. «Brutto segno» disse Deane. «Vado a vedere cosa succede.» «Fate in modo che nessuno ci disturbi.» Le parole di Basarab riecheggiarono nella mente di Quincey come se il divo fosse accanto a lui. Non poteva deluderlo. Quando Deane fece per avvicinarsi alla porta che conduceva dietro le quinte, balzò sul palco e gli bloccò la strada. Deane sussultò, sorpreso dalla rapidità del giovane. «Mi dispiace, ma il signor Basarab non vuole essere disturbato» disse Quincey. «Questo progetto è troppo importante» replicò Deane. «Non lascerò che Stoker rovini tutto.» Fece un passo verso Quincey, che però non si mosse. Deane rimase interdetto. Nel frattempo, le grida dietro le quinte si fecero sempre più concitate. «Toglietevi di mezzo!» urlò Deane. La collera gli fece perdere il suo abituale contegno. Cercò di scansare Quincey, che però disse: «Mi dispiace, ma devo insistere» e gli diede una leggera spinta. Deane, colto alla sprovvista, perse l'equilibrio e cadde all'indietro, nel bel mezzo del palco. Quincey vide un lampo di paura e sorpresa nei suoi occhi. Poi lo guardò rialzarsi e scendere dal palco lanciandogli un'occhiata torva. Quincey rimase a bocca aperta. "L'ho appena sfiorato..." pensò. Si guardò le mani, disgustato. Ora era lui ad avere paura... di se stesso. Questo era l'uomo che Basarab voleva che diventasse? Stoker si allontanò da Basarab e girò la poltrona verso di lui. «Non mi importa chi siete. Credete di potermi spaventare al punto da assegnarvi la parte?» Basarab ignorò la domanda. «Siete uno sciocco, e il vostro romanzo è disseminato di imprecisioni. Il vostro Dracula se ne va in giro in pieno giorno. Lo accusate ingiustamente di aver ucciso la

madre di Lucy Westenra, vecchia e malata, e di aver dato un bambino vivo in pasto alle sue mogli. Lo chiamate conte quando in realtà era un principe. Questo è un insulto al mio paese.» «Il vostro paese è fermo al Medioevo. Non so nemmeno quanti rumeni sappiano leggere.» Basarab lo fulminò con lo sguardo e sbatté il romanzo sulla scrivania. Sembrò che l'intera stanza tremasse. «Scrivete con leggerezza di cose che non capite o in cui non credete e di persone che non avete mai incontrato! Siete uno scribacchino da quattro soldi.» Stoker farfugliò: «Non ho nessuna intenzione di giustificarmi con voi. Dracula non è altro che il protagonista di una storia nata nella mia testa». «Se il principe Dracula è davvero malvagio come lo dipingete, come mai ha risparmiato Jonathan Harker, prigioniero nel suo castello?» «Parlate di queste cose come se fossero realmente accadute» osservò Stoker. «Se vi foste preso la briga di interpellare il capitano del porto di Whitby, avreste saputo che, in seguito a una tempesta, la nave Demeter si schiantò sulle rocce nel 1888, non nel 1897.» Stoker doveva porre subito fine a quella conversazione. Si alzò e sibilò, guardando Basarab dritto negli occhi: «Vi chiedo di andarvene...». «I membri dell'equipaggio morirono per via della peste causata dai topi» lo interruppe Basarab. «Impazzirono e si uccisero l'un l'altro. Non vi fu nessun cane sgozzato da "un terribile artiglio", come avete scritto.» L'occhio sinistro di Stoker prese a tremare furiosamente. Il vecchio indicò la porta, sperando che Basarab non notasse quella debolezza, e gli intimò: «Fuori di qui, subito!». Ma Basarab proseguì, imperterrito: «Fu Van Helsing a uccidere Lucy Westenra, non Dracula. Fu lui a sbagliare la trasfusione e ad avvelenarle il sangue. Dracula la trasformò in una vampira per

salvarla». «Cosa sapete del professor Van Helsing?» gli chiese Stoker, facendosi sempre più piccolo e rabbrividendo. Basarab ribatté, il volto illuminato dalla luce tremolante della candela: «L'arroganza di Van Helsing è pari solo alla sua ignoranza». Tutto il coraggio di Stoker svanì sotto lo sguardo gelido di Basarab. Prese a respirare affannosamente. Le sue minacce erano del tutto vane. «Se siete venuto qui a perorare la causa di Quincey Harker in un processo per diffamazione, vi avverto...» «Siete esattamente come i tronfi protagonisti del vostro romanzo» lo interruppe Basarab. «Credete davvero che per sconfiggere il male basti combattere le sue manifestazioni?» Stoker era con le spalle al muro, ormai. La stanza sembrò farsi più buia. Basarab era così vicino da bloccare completamente la sua visuale. "Quegli occhi così neri!" pensò. E sentì il braccio sinistro intorpidirsi. Era sull'orlo delle lacrime. «Dracula è un mostro frutto della mia immaginazione!» «No! Era un eroe che ha fatto ciò che doveva fare per sopravvivere.» La voce di Basarab si riempì di orgoglio mentre proseguiva la sua tirata. «Il principe Dracula fu ordinato dal papa in persona capitano delle Crociate e affrontò, nel nome di Dio, l'intero impero ottomano. Non sarebbe mai indietreggiato di fronte a un buffone come Van Helsing, rifugiandosi in Transilvania. Siete davvero colpevole di diffamazione!» Stoker grondava di sudore. Si appoggiò al muro, strofinandosi il braccio intorpidito. La stanza prese a girare vorticosamente, e lui distolse lo sguardo dagli occhi penetranti di Basarab. Il dolore si estese dal braccio al collo e il suo respiro si fece sempre più affannoso. Si sentì mancare, ma si impose di incrociare lo sguardo di Basarab. «Chi siete?» gli chiese, senza fiato. Basarab afferrò il collo di Stoker e lo strinse. Il suo volto parve trasformarsi nel muso di un lupo mentre rispondeva: «Sono un guanto di sfida che vi viene gettato» disse in un macabro sussurro.

«Sono il vostro giudizio davanti a Dio!» Poi lasciò la presa, con un'espressione disgustata. In quel preciso istante, Stoker sentì un dolore lancinante al collo, che risalì lungo la mascella fino al cervello. Gli sembrò che gli avessero conficcato un ferro rovente nell'occhio. Si portò le mani alla testa e cadde a terra. Basarab si voltò. Stoker fece per chiedergli aiuto, ma si rese conto di essere paralizzato. Non poté fare altro che osservare, impotente, Basarab impadronirsi del suo bene più prezioso: la sceneggiatura del Dracula. Poi, il buio. Quincey si sentiva addosso lo sguardo di Deane, seduto in platea, in prima fila. Non si erano più rivolti la parola. Quincey si stava ancora guardando le mani e rifletteva sulle conseguenze delle sue azioni sconsiderate. Si era spinto troppo oltre. A un tratto si udì un rumore di passi: era il momento del giudizio. Basarab emerse da dietro le quinte con un libretto sottobraccio. Guardò Deane e disse, semplicemente: «Andate a chiamare un medico. Temo che il signor Stoker abbia avuto un ictus». Quincey lo fissò, interdetto. Solo quando vide Deane balzare sul palco capì di aver sentito bene. «Cosa state aspettando? Andate a chiamare un medico!» gridò Deane sfrecciandogli accanto. Prima di scomparire dietro le quinte, lanciò un'occhiata torva a Basarab, che rimase impassibile. Quincey si volse verso di lui, che gli fece un cenno del capo. Ancora una volta, si ritrovava a eseguire i suoi ordini. Balzò giù dal palco e si mise a correre lungo il corridoio. Se Stoker fosse morto, Quincey non avrebbe mai avuto la possibilità di soddisfare le sue curiosità sul libro, sui segreti dei suoi genitori e su Dracula. Doveva fare in fretta. «Sciocchi, sciocchi!» tuonò Basarab dal palco. Quincey si fermò di colpo e, voltandosi verso di lui, vide che stava leggendo il copione ad alta voce. «Quale demone o strega fu mai grande quanto Attila, il cui sangue scorre in queste vene?»

Quincey sapeva che, in quella circostanza, il fattore tempo era essenziale, eppure rimase immobile. Basarab era diventato il conte Dracula. La voce cupa e tormentata, l'accento dell'Europa orientale più marcato, il portamento regale. Il suo corpo ricordava quello di un lupo. La trasformazione fu così rapida e radicale da sembrare quasi soprannaturale. Il contrasto con l'interpretazione farsesca di John Barrymore era evidente. «Ma i giorni di guerra sono finiti» proseguì Basarab. «Il sangue è un bene troppo prezioso in questi anni di vergognosa pace, e le glorie del grande Dracula non sono altro che una storia da raccontare.» Basarab venne avanti. Le luci della ribalta illuminarono il suo volto di una luce sinistra. Nei suoi occhi, secoli di agonia. Era tutto rabbia e sangue. Basarab lasciò che il copione cadesse a terra e continuò a recitare come se quelle righe fossero impresse a fuoco nelle profondità della sua anima. Il lupo rabbioso si trasformò di nuovo. Gli occhi tormentati si riempirono di lacrime, i muscoli si contrassero e la testa si rovesciò all'indietro. Quanto dolore, quanta disperazione! Quincey era completamente rapito. Basarab proseguì, guardandolo negli occhi, penetrando nelle sue carni: «Il tempo mi ha finalmente raggiunto. In quest'epoca di macchine e politici e ragione, non c'è più posto per i mostri che vagano nella notte. O evolvere, o morire». Quincey era come inchiodato al pavimento. Basarab aveva trasformato Dracula in un eroe tragico e Quincey pensò sconsolato che, se nutriva una così grande ammirazione per il personaggio storico, non sarebbe mai riuscito a convincerlo a combattere il mostro. Poi l'urgenza di trovare un medico per Stoker lo riportò bruscamente alla realtà. Si precipitò fuori dal Lyceum, chiamando aiuto. Un passante si offrì di aiutarlo, dicendo di essere un medico, e Quincey tornò con l'uomo al teatro. Forse Basarab non era l'alleato di cui aveva bisogno. La perdita di Stoker come fonte di informazioni era solo l'inizio. Il demone aveva vinto la prima battaglia senza neanche alzare un dito.

Capitolo 32 Arthur Holmwood tornò a casa ma, con sua grande sorpresa, non trovò nessuno ad attenderlo. I domestici avevano riordinato tutto quanto e la villa era immacolata e immersa nel silenzio, come un cimitero. Arthur aveva immaginato che Beth lo avrebbe aspettato nell'atrio, risentita. Ne aveva tutte le ragioni: era colpa sua se la serata che aveva organizzato nei minimi dettagli era andata a rotoli. Ma la sua assenza era ancora più preoccupante. Doveva essere talmente furiosa da non volerlo neanche vedere. Wentworth, il maggiordomo, aveva il compito di attendere il ritorno del padrone e avrebbe dovuto essere sulla porta per accoglierlo e prendere in consegna cappotto, cappello e bastone da passeggio, ma anche lui era sparito. Arthur pensò che Beth lo avesse congedato di proposito: un'altra piccola vendetta per l'umiliazione che le aveva inflitto. Il terribile ricordo della fotografia del cadavere di Lucy continuava a tormentarlo. Doveva assolutamente liberarsene. Appoggiò il cappotto e il cappello su una sedia, entrò nello studio e si versò da bere. Poi spalancò gli occhi e lasciò cadere il bicchiere, incredulo. Il ritratto di Lucy era di nuovo sopra il camino. Holmwood si sentì sopraffare dalla collera. Doveva essere stata Beth. Ma, qualunque ingiustizia ritenesse di aver subito, una ritorsione del genere era crudele e ingiustificabile. Sentì un rumore di passi nell'atrio e chiamò: «Beth?». Nessuna risposta. «Wentworth?» Ancora silenzio. Vide un'ombra muoversi sul pavimento di marmo. C'era qualcuno, là fuori. «C'è nessuno?» Per tutta risposta, altri passi. Holmwood chiamò di nuovo, sulla soglia dello studio: «Chi c'è?». Il corridoio era deserto. La temperatura era diminuita drasticamente. Udì un flebile respiro e si guardò intorno, ma continuò a non vedere nessuno. Poi si accorse che la finestra era aperta: ecco svelato l'arcano. Rise dei propri timori e la richiuse. I

suoi vecchi commilitoni lo avrebbero sicuramente deriso. Si diresse di nuovo verso lo studio per finire il cognac, e sentì un odore familiare. Lillà? Non era periodo di fioritura. Ricordò che era il profumo usato da Lucy ed ebbe un brivido lungo la schiena. Un tempo lo faceva arrivare da Parigi apposta per lei. D'un tratto, una soave voce femminile ruppe il silenzio: «Arthur...». Holmwood si voltò di scatto. Era solo. «Beth?» La sua voce riecheggiò nella casa dai soffitti a volta. Poi si udì una risata argentina che sembrava provenire da tante direzioni diverse. Holmwood conosceva bene quella risata, ma non poteva essere lei. I suoi sensi gli stavano giocando un brutto scherzo. «Arthur» disse di nuovo la voce, che sembrava provenire, stavolta, dalla cima delle scale. Holmwood alzò la testa e ciò che vide gli fece gelare il sangue nelle vene. Una figura luminescente stava scendendo, con movenze feline, le scale. La folta chioma rossa le ricadeva sulle spalle e la pelle di porcellana splendeva alla luce della luna che entrava dalla finestra. Gli occhi erano neri e senza vita, le labbra rosse deliziosamente imbronciate. L'abito bianco era lacero e trasparente. «Lucy?!» esclamò Holmwood. Ancora non credeva ai propri occhi. Lei rise di nuovo, mostrando i denti aguzzi e scintillanti, e continuò a scendere la scala. Holmwood si sentì mancare il respiro. Avrebbe voluto correrle incontro e stringerla fra le braccia. Ma Lucy era morta. Il suo grande amore era morto. Lei lo guardò con un'espressione carica di tristezza e compassione e, come se gli avesse letto nel pensiero, gli disse: «So che vorresti essere qui con me, amore mio». La sua voce lo investì come un'onda purificatrice. Gli sembrò che il tempo si fosse fermato e tutto il dolore degli ultimi venticinque anni fosse svanito. Dalle mani di Lucy si diffuse una nebbia bianca che si raccolse ai suoi piedi formando una piccola nube, poi lei rimase sospesa sopra di essa. «La morte è solo l'inizio, amore mio. E il corpo non è che un limite» disse, fluttuando verso di lui,

«No! Non è possibile!» esclamò Holmwood. Aveva appena visto le fotografie dei suoi resti. Lo shock doveva avergli fatto perdere il lume della ragione. «È buio, qui, Arthur. Mi sento così sola! Vorrei tanto abbracciarti.» No! Lucy doveva essere in paradiso. Van Helsing aveva promesso che, conficcandole quel paletto nel cuore, avrebbe salvato la sua anima... Lucy gli si avvicinò, le braccia spalancate. Arthur si sentì diviso in due. Avrebbe tanto voluto stringerla di nuovo. Era lo stesso desiderio che aveva provato fuori dal mausoleo, quella fatidica notte, Stavolta, però, Van Helsing non avrebbe potuto interferire. Era davanti a lei. Chiuse gli occhi e sentì le morbide labbra di Lucy posarsi sulle sue. Avvertì una specie di scossa, come se il suo cuore avesse ripreso a battere dopo essere rimasto fermo un quarto di secolo. Ma poi Lucy si staccò da lui. "No! " pensò lui. "Voglio che questo bacio duri in eterno." «Lucy, non voglio lasciarti sola. Voglio venire con te, nel buio.» Aprì gli occhi e il suo cuore si fermò di nuovo. Il bel volto di Lucy si stava putrefacendo. La sua pelle di luna diventò violacea. Il profumo di lillà si trasformò in un odore di morte. Gli occhi di Lucy si infossarono nel viso ormai ridotto a un teschio e le labbra scomparvero, mostrando tutta la lunghezza dei suoi denti aguzzi. Anche il suo corpo cominciò a marcire. Aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì altro che una cascata di vermi. Arthur Holmwood, terrorizzato, indietreggiò barcollando. Il suo amore si era trasformato in un incubo. «Abbi pietà di me!» gridò. I muscoli e i tendini di Lucy si liquefecero formando una pozza nera sul pavimento. La sua voce melodiosa divenne cupa e cavernosa. «Pietà? La stessa pietà che mi hai dimostrato quando mi hai conficcato quel paletto nel cuore... amore mio?» E, ringhiando come un animale rabbioso, gli si scagliò contro, scaraventandolo contro il muro. I suoi artigli gli lacerarono i polsi mentre gli spalancava le braccia e le inchiodava ai pannelli di palissandro, crocifiggendolo. Holmwood lanciò un grido di dolore.

Poi Lucy spalancò la bocca in modo innaturale e gli premette i denti sulla gola, strappandogli la laringe e riducendolo al silenzio. Nei suoi ultimi istanti di vita, Holmwood vide la sua amata Lucy bagnarsi nel suo sangue, in estasi. «Lucy!» urlò Arthur, tirandosi su a sedere. Si guardò intorno, smarrito e spaventato, ma era al buio. Era forse morto? Mentre i suoi occhi si abituavano all'oscurità, si rese conto di essere a letto. Si toccò il collo: nessuna ferita, niente sangue. Era stato solo un incubo. Il cuore gli batteva così forte che, per un attimo, temette di avere un infarto. Poi udì un singhiozzo soffocato accanto a sé. Si voltò e vide che Beth stava piangendo. I suoi occhi esprimevano una sofferenza indicibile. Arthur capì subito cos'era successo: aveva gridato il nome di Lucy nel sonno. Poteva solo immaginare il dolore che aveva inflitto a sua moglie. Beth si alzò e, senza dire una parola, corse fuori dalla stanza, continuando a singhiozzare. Arthur sapeva che non avrebbe mai trovato le parole per confortarla. Si disprezzava profondamente. Beth lo amava con tutta se stessa, ma lui la respingeva. Nemmeno nella morte riusciva a tradire Lucy. L'aveva amata dal primo momento in cui l'aveva vista. Era stato così per tutti quanti: Jonathan e Mina Harker, Jack Seward e Quincey P. Morris. Quando Jonathan aveva superato l'esame da avvocato ed era partito per la Transilvania per il suo fatidico incontro con il principe Dracula, Mina aveva cercato di riempire il vuoto che aveva lasciato. Era stata Lucy, la sua migliore amica, ad aiutarla ad alleviare la sua solitudine. Aveva organizzato una serata di beneficenza nella sua casa di Whitby a favore dei poveri e dei senzatetto di Whitechapel. Era stato in quell'occasione che lui, Jack e Quincey Morris avevano ballato con lei, innamorandosene perdutamente. Arthur e i suoi amici avevano stipulato un patto: le avrebbero fatto una corte spietata, e sarebbe stata lei a scegliere. Il giorno in cui Lucy aveva acconsentito a sposarlo era stato il più felice della sua vita. I suoi amici avevano brindato alla loro unione e al loro futuro insieme, e lui era stato lieto e orgoglioso di sceglierli

come testimoni di nozze. Il matrimonio, però, non era mai stato celebrato. Arthur si trascinò fino alla toeletta di Beth e fissò il proprio viso stravolto riflesso nello specchio. Per lungo tempo non aveva desiderato altro che morire, smettere di soffrire e ritrovare Lucy in paradiso. Forse era solo per via del senso di colpa che provava, ma, sebbene desiderasse la propria morte, la temeva anche. Gli omicidi che aveva commesso in guerra erano, in qualche modo, giustificati. Dio lo avrebbe perdonato per aver fatto la sua volontà e aver combattuto il male. Gli uomini che aveva ucciso in duello erano un'altra cosa. Incapace di togliersi la vita per paura della dannazione eterna, aveva cercato di fare in modo che altri lo facessero al suo posto. Li aveva provocati e oltraggiati, costringendoli a difendere il loro onore. I duelli si erano svolti lealmente, ma i suoi avversari erano morti per la sua codardia. Si toccò la cicatrice sulla guancia destra, e poi la punta dell'orecchio mozzato. Le parole di Quincey Harker gli riecheggiarono nella mente: «Dracula sta per tornare. Vuole vendicarsi, e voi lo sapete. Aiutatemi a ucciderlo, una volta per tutte». Holmwood ripensò alla mattina successiva alla morte di Lucy. Si era recato nella cappella di famiglia e, in piedi davanti alla statua del Cristo, aveva giurato sulla tomba di Lucy che non avrebbe avuto pace finché non avesse distrutto il demone che l'aveva uccisa. Dio gli aveva mandato Lucy in sogno per ricordargli quel giuramento. Dopo venticinque anni, era venuto a riscuotere il suo debito. Arthur Holmwood non poteva sottrarsi a questo richiamo. Era l'unico modo in cui avrebbe ottenuto la salvezza e si sarebbe ricongiunto per sempre alla sua Lucy. La mattina seguente, sarebbe andato a Londra a cercare il demone.

Capitolo 33 Dopo che Bram Stoker fu trasportato in ospedale, Quincey tornò ai suoi alloggi e rifletté sull'accaduto. Non vi erano più ostacoli, ormai, all'ingaggio di Basarab come interprete di Dracula: Stoker era fuori dai giochi. Deane era indebitato fino al collo, e non avrebbe mai annullato lo spettacolo. Anzi, avrebbe dovuto subentrare a Stoker nel ruolo di regista. Cos'avrebbe significato per Quincey? La formidabile interpretazione di Basarab lo aveva incantato, ma anche allarmato. Non poteva permettere che umanizzasse Dracula. Il suo primo pensiero fu di raccontargli la verità, ma cos'avrebbe potuto dirgli? "Il vostro eroe nazionale è un mostro che ha distrutto la mia famiglia e massacrato mio padre, e io ho il dovere di dargli la caccia e ucciderlo"? Basarab lo avrebbe preso per folle. Che prove aveva? Continuò a riflettere sul da farsi, misurando a grandi passi la stanza. Innanzitutto, sarebbe dovuto tornare al Lyceum e scusarsi con Deane per la sua villania. Perché il suo piano funzionasse, avrebbe dovuto riconquistare la sua fiducia e il suo appoggio. A metà mattina uscì e si recò al teatro. I giornali non riportavano la notizia del malore di Stoker. Ciò non sorprese Quincey: lo sfortunato incidente aveva avuto luogo troppo tardi per poter figurare nelle edizioni del mattino. Fu con grande disappunto che scoprì che Deane non era al Lyceum e che nessuno dei membri della compagnia aveva notizie sullo stato di salute di Stoker. Mentre aspettava l'arrivo del produttore, fu avvicinato dal signor Edwards, l'impresario. Edwards era un uomo allegro dal sorriso pronto. Quando Quincey vide la sua espressione cupa, capì subito che qualcosa non andava. Avvertì una stretta allo stomaco e pensò al peggio: Deane era talmente furibondo che aveva cancellato la produzione. Ma la realtà era ancora più spaventosa di quanto fossero i suoi peggiori incubi. Edwards gli mostrò un biglietto che qualcuno aveva lasciato davanti all'ingresso degli artisti. Quincey aggrottò la fronte. Aveva dato istruzioni a tutti i membri della compagnia di diffidare di

una donna dall'aspetto giovanile che affermasse di essere sua madre. Nessuno avrebbe dovuto lasciarla entrare nel teatro né dirle dove si trovasse. Dopotutto, non sapeva ancora da che parte stesse Mina. Edwards gli spiegò, in tono di scusa: «Un signore anziano è passato di qui di buon mattino dicendo di essere vostro nonno. Aveva bisogno di parlarvi subito di una delicata questione di famiglia, e ha lasciato questo biglietto per voi. Date le circostanze, ho pensato fosse meglio dargli il vostro indirizzo, che ho trovato sulla lista dei contatti del direttore di scena. Spero di aver fatto la cosa giusta». Quincey lo rassicurò e lo ringraziò per la sua premura. Ma era profondamente allarmato. L'unica sua parente ancora in vita era la madre. Quel "nonno" era un impostore. Quincey aprì il biglietto e vide che non vi era scritto nulla. "Era stato solo uno stratagemma per ottenere il suo indirizzo" pensò, in preda al panico. Scese la notte. Quincey si ritrovò davanti al drago di Fleet Street. "Ironia della sorte" pensò. Aveva vagato tutto il giorno senza meta, per paura di tornare sia al teatro sia alla stanza che aveva preso in affitto. Grazie a Edwards, quel misterioso sconosciuto sapeva dove abitava e avrebbe potuto tendergli un agguato. Ma forse, se si fosse stancato di aspettare, sarebbe tornato al teatro. A ogni modo, Quincey sentiva di dovergli stare alla larga. Rifletté a lungo sulla sua possibile identità e finì col formulare tre ipotesi. La prima: Mina sapeva che non avrebbe ottenuto informazioni se fosse venuta di persona al teatro, quindi aveva inviato il vecchio in sua vece. La seconda: l'uomo lavorava per Scotland Yard. Forse la polizia voleva interrogarlo a proposito del malore di Stoker. O forse lo stava cercando per un altro motivo: era successo qualcosa a sua madre. Quincey sapeva di amarla ancora, ma non riusciva più a fidarsi di lei. Il suo istinto gli suggerì di spedire un telegramma per accertarsi che fosse viva e in buona salute e di precipitarsi ai suoi

alloggi per attendere la risposta. Ma era la terza ipotesi a farlo titubare. Stoker aveva scritto nel romanzo che, quando suo padre aveva incontrato per la prima volta Dracula in Transilvania, questi aveva l'aspetto di un uomo anziano. La sua vita, però, non era un romanzo, e Quincey non poteva rischiare. Alzò lo sguardo sul drago, che i lampioni illuminavano di una luce sinistra. Era terribilmente stanco e non riusciva più a ragionare lucidamente. Non poteva trascorrere tutta la notte per strada. Basarab era in albergo. Era l'uomo più saggio che Quincey conoscesse. Ed era suo amico: di sicuro, lo avrebbe aiutato. Tuttavia, non poteva rischiare di esporre anche lui al pericolo. Alzò gli occhi verso la finestra dell'ufficio di suo padre, ormai vuoto. C'era solo un posto che gli sembrava davvero sicuro. Girò i tacchi e si diresse al Mooney & Son's, il pub preferito di suo padre. Si sarebbe mischiato alla folla e avrebbe finalmente goduto di un totale anonimato. Se il vecchio fosse stato un poliziotto o un messo di sua madre non avrebbe mai pensato di andarlo a cercare lì. Se invece fosse stato Dracula, sarebbe stato al sicuro in mezzo alla gente. L'unica cosa di cui Quincey era certo era che Dracula doveva restare nell'ombra. Non poteva rischiare di esporsi. Scese la nebbia. Ancora pochi metri e avrebbe trovato tepore, tranquillità e un pasto caldo. Mentre si avvicinava al vicolo che sbucava su Fleet Street, un pensiero gli attraversò la mente: se bastava un'inezia come un finto biglietto di uno sconosciuto a terrorizzarlo, come sperava di poter sconfiggere un demonio come Dracula? D'un tratto, una mano spuntò dalla nebbia, lo afferrò per il cappotto e lo spinse nel vicolo buio. "Il demone mi ha trovato!" pensò Quincey. Sapeva che la morte di suo padre non era stata rapida né indolore e che Dracula non sarebbe stato più tenero con lui. Pregò che Dio gli desse la forza. Dalla fitta nebbia emerse un uomo con un bastone. Quincey vide lo scintillio di una lama e, prima che potesse reagire, si ritrovò uno spadino puntato alla gola.

«Sapete chi sono?» gli chiese l'uomo con un marcato accento straniero, mostrandosi alla luce. Quincey si sentì sollevato e spaventato al tempo stesso. Era vecchio e fragile. I capelli bianchi e ondulati gli ricadevano sul viso. L'abito che indossava era di squisita fattura, ma la sua magrezza lo faceva sembrare un sacco. Il suo aggressore era un uomo anziano e malato. Quincey avrebbe dovuto sentirsi sicuro sapendo di essere più forte, ma c'era qualcosa di inquietante nei suoi occhi: una ferrea determinazione e, forse, anche un pizzico di follia. Quel vecchio non era Dracula, ma poteva essere altrettanto pericoloso. «Immagino siate Van Helsing.» «Se sapete il mio nome, sapete anche di cosa sono capace» ribatté lui. «Smettetela di ficcare il naso nella morte di vostro padre.» Dopo la fredda accoglienza di Arthur Holmwood, Quincey non sarebbe dovuto rimanere sorpreso di fronte al tentativo di dissuasione di un altro membro della compagnia degli eroi. Eppure, non immaginava di vedere il vecchio professore vagare, di notte, per le strade di Londra. Non aveva neanche pensato che il misterioso sconosciuto potesse essere lui. La paura doveva avergli annebbiato il cervello. Evidentemente, Van Helsing si era stancato di aspettarlo ai suoi alloggi e si era messo sulle sue tracce. Quincey spinse via lo spadino. «È stata mia madre a mandarvi?» Van Helsing glielo puntò di nuovo alla gola, mettendolo con le spalle al muro. Il suo sguardo disperato e rabbioso gli fece capire che quell'uomo non aveva tempo da perdere in stupide discussioni. Per essere ancora più chiaro, Van Helsing girò la lama, penetrando nella carne. Un rivolo di sangue corse lungo il collo di Quincey. Il vecchio non era poi così debole. «Non ci sono risposte per voi. Solo tenebre.» «Quali segreti cercate di nascondermi, tutti quanti?» gli chiese Quincey, sperando che il professore non udisse il tremito nella sua voce. Negli occhi di Van Helsing passò un lampo di follia. Quincey trattenne il fiato: non era più così certo che sarebbe uscito vivo da quel vicolo. Ma poi il viso del vecchio si addolcì. Il suo sguardo

rimase duro, ma sembrava più un nonno affettuoso che un assassino. «La maggior parte degli uomini attraversa la vita nella certezza della fede» disse col tono grave di un professore che impartiva un'ultima lezione a uno studente senza speranza. «I meno fortunati giungono a un momento in cui la loro fede viene messa alla prova, e devono scegliere fra la luce e il buio. Non tutti hanno la forza o la saggezza di fare la scelta giusta.» Van Helsing ritirò la lama e la ripose nel bastone. «Se amate vostra madre, tornatevene alla Sorbona» gli disse. «Continuate a vivere nell'ignoranza e restate un figlio di Dio.» Poi si voltò e si allontanò zoppicando, senza voltarsi indietro. Quincey era furibondo. Sua madre aveva mandato Van Helsing a ricordargli quanto fosse debole e bisognoso di protezione. Ma gliel'avrebbe fatta vedere! A tutti quanti.

Capitolo 34 Dracula era morto. Mina ne aveva avuto, finalmente, la conferma. Lo aveva visto, attraverso gli occhi della contessa Bàthory, esalare l'ultimo respiro. Avrebbe voluto piangere sia Dracula sia Jonathan, ma non ne aveva il tempo. Le stavano dando la caccia. Se fosse sopravvissuta, avrebbe avuto tutta la vita per farlo. Se fosse morta, non le sarebbe dispiaciuto. Aveva così pochi motivi per vivere, con un marito nella tomba e un figlio furibondo per un motivo che non poteva capire. Doveva munirsi non solo di armi, ma di qualcosa di più potente: la conoscenza. Se non fosse sopravvissuta, avrebbe però fatto in modo che suo figlio sapesse quale malvagità abitava il mondo. Decise di scoprire il più possibile sul conto della contessa Elizabeth Bàthory. Il professor Van Helsing soleva dire: «Per combattere il nemico, bisogna sapere tutto di lui». E ora il nemico di Mina era Elizabeth Bàthory. Dopo lo scambio di sangue avvenuto tra di loro, la mente di Mina era collegata a quella della contessa come lo era stata, venticinque anni prima, a quella di Dracula, il che significava che la contessa sarebbe stata in grado di leggere i pensieri, i desideri e i segreti di Mina, e viceversa. Ecco perché, dopo il loro incontro, la mente di Mina era stata invasa da secoli di ricordi. Nel tentativo di venirne a capo, si recò alla biblioteca di Exeter, dove condusse un'approfondita ricerca sulla leggendaria vita della contessa. Credeva che si sarebbe trovata di fronte a un racconto dell'orrore, ma ciò che scoprì la sorprese e la rattristò. Come molti malvagi, anche la contessa Bàthory era diventata un mostro in seguito alle angherie subite. Le donne non potevano dirsi libere, all'epoca di Mina, ma nel sedicesimo secolo vivevano in una condizione di totale sottomissione e la contessa era stata costretta a sposare un uomo che aveva il doppio dei suoi anni. Mina lesse il nome del marito, Ferenc Nàdasdy, e si sentì sopraffare dall'odio, mentre nella sua mente si affollavano immagini di violenze, stupri e il ricordo di un fetore nauseabondo. Richiuse il libro come se potesse cancellare quegli orrori.

La quantità di sangue che lei e la contessa si erano scambiate era minima, e ciò le dava accesso solo a immagini sparse, che le consentivano comunque di ricostruire una storia dolorosa. Elizabeth Bàthory parlava correntemente ungherese, latino e tedesco. Mina annotò, meticolosa come sempre, "profondamente erudita". Quella caratteristica la rendeva già un nemico temibile. Poi trovò riferimenti alle sue doti di cavallerizza e di schermitrice, ugualmente allarmanti. Un brano del libro che stava leggendo la fece riflettere. Narrava che, mentre suo marito era in guerra, Elizabeth aveva trascorso un lungo periodo a casa della zia, la contessa Karla. Mina, con gli occhi della mente, "vide" il volto di Karla insieme all'immagine di una giovane domestica bionda... morta impiccata. Cosa significava? Chi era quella ragazza? Perché era stata giustiziata? Cercò di concentrarsi sui ricordi, ma le immagini svanivano come vapore su uno specchio. Lesse che i rapporti con la zia Karla si erano bruscamente interrotti quando la famiglia aveva inviato un manipolo di guardie a riprendere la contessa. Secondo gli storici, Elizabeth aveva avuto dei figli subito dopo essere tornata dal marito. Era stata la governante a occuparsene, com'era consuetudine all'epoca, ma lei era stata una madre amorevole. Mina lo trovò inverosimile, ma poi lesse che la figlia Ursula e il figlio Andràshad erano morti in tenera età per una grave malattia, e si sentì invadere da rabbia e dolore. Vide il ghigno di Ferenc che picchiava selvaggiamente Elizabeth, accanendosi su di lei, a terra indifesa, e urlando: «Adesso non ho più eredi! Dio mi ha punito per i tuoi peccati!». Mina sentì la mente della contessa offuscarsi e il suo cuore raffreddarsi. Malgrado avesse la mascella rotta, sputò il sangue e sibilò, non al marito, ma a Dio: «Mi hai portato via tutto ciò che amavo. Ora farò dei tuoi peggiori nemici i miei migliori alleati. Ti porterò via ciò che hai di più caro. "Lasciate che i bambini vengano a me." Non è forse quello che dicevi?». Mina poteva comprendere lo strazio di una madre di fronte alla morte dei propri figli, ma non aveva mai provato quella rabbia incontenibile. L'ira di Elizabeth contro Dio e l'uomo l'avrebbe consumata. Non c'era da stupirsi che la contessa avesse riversato la sua furia

sul suo aguzzino. Nel gennaio del 1604, Ferenc Nàdasdy era stato gravemente ferito da una prostituta che si era rifiutato di pagare. Mina vide una rapida immagine di Ferenc che dormiva placidamente nella sua camera da letto e poi le mani delicate di Elizabeth che scostavano la fasciatura che aveva intorno al torso. Mina sentì di nuovo quell'odore nauseabondo e vide la mano della contessa versare, con un cucchiaio d'argento, del letame nella ferita, per poi rimettere il bendaggio al suo posto. Ferenc era morto pochi giorni dopo, tra indicibili sofferenze. Causa della morte: una ferita infetta. Mina ne fu disgustata. Che modo barbaro e diabolico per uccidere un altro essere umano, per quanto ignobile come Ferenc. Finalmente libera dai vincoli del matrimonio, e convinta di essere al di sopra delle leggi di Dio, Elizabeth abbracciò la sua vera natura, intrecciando relazioni con donne del luogo. Gli abitanti del villaggio, che alla morte del marito si erano sottomessi di buon grado al suo comando, temettero che la sua condotta licenziosa avrebbe attirato una maledizione su di loro e sulle loro terre, e cominciarono a evitarla. Poi si rivolsero alle autorità, chiedendo che Elizabeth venisse destituita e incarcerata, ma queste si limitarono a chiedere ai parenti della contessa di intervenire, e loro inviarono dei sacerdoti al castello. Elizabeth, ovviamente, li cacciò, e la famiglia, temendo che disonorasse il loro nome, decise di imprigionarla. Mina vide un uomo misterioso far visita alla donna durante la sua reclusione, durata quattro anni, ma non capì se fosse andato da lei per liberarla o per salvare la sua anima. Mina cercò invano di dare un volto allo sconosciuto. Chiuse gli occhi e, per un attimo, le passò davanti l'immagine di Dracula. Ma era un ricordo di Elizabeth o uno dei suoi? Impossibile stabilirlo con certezza. Continuò a leggere. I testi storici non fornivano informazioni sui tre anni seguenti della vita della contessa. Era come se fosse scomparsa dalla faccia della terra. Poi, alle soglie del quarantesimo anno d'età, tornò al castello in Ungheria, ma, stando ai resoconti, era profondamente cambiata. Poco dopo, una serie di efferati omicidi colpì i Bàthory e i Nàdasdy, e alcune giovani contadine del villaggio scomparvero nel

nulla. La paura cadde come un'ombra sulle campagne, e la contessa fu additata da tutti come colpevole. Le immagini che attraversavano la mente di Mina erano oscene: orge, pratiche perverse, persino rituali pagani eretici e adorazione del demonio. Elizabeth aveva rinnegato completamente Dio, e quello era il risultato. Gli abitanti del villaggio sussurravano che l'uomo misterioso che aveva portato via Elizabeth era uno stregone che l'aveva iniziata alla magia nera. I domestici di sesso maschile fuggirono dal castello, raccontando storie inaudite di abiezione e dissolutezza. Il numero di omicidi, intanto, cresceva di giorno in giorno. La contessa Bàthory era divenuta una feroce assassina che aveva dichiarato guerra a tutti i cristiani. Le autorità fecero irruzione nel castello della contessa, arrestandola nel bel mezzo di un'orgia con tre giovani donne, le sue domestiche, che si bagnavano nel sangue di una quarta donna e lo bevevano. Fu allora che Mina capì che Elizabeth si era trasformata in una vampira. Nei sotterranei del castello le autorità trovarono gli strumenti di tortura più barbari che fossero mai stati concepiti e numerose contadine prigioniere che portavano i segni di indicibili violenze, alcune delle quali erano ormai senza vita. Nei terreni che circondavano il castello furono inoltre rinvenuti innumerevoli scheletri sepolti. Le domestiche di Elizabeth furono condannate al rogo per i loro crimini. Anche la contessa fu processata e giudicata colpevole, ma l'intervento della sua famiglia riuscì a evitarle il rogo e a commutare la pena in carcere a vita. I famigliari della donna erano affranti: pur essendo nata nel privilegio, benedetta da Dio e considerata da tutti la donna più bella della sua epoca, Elizabeth aveva gettato al vento la sua vita e avrebbe subito la dannazione eterna per i peccati commessi. Ancora una volta, la mente di Mina fu invasa da una moltitudine di ricordi. Vide un altro uomo che aiutò la contessa, escogitando un piano per la sua fuga. Elizabeth Bàthory era stata murata nella sua camera da letto, con un'unica fessura vicino al pavimento attraverso la quale riceveva i pasti. Fu attraverso quell'apertura che lo

sconosciuto le consegnò una missiva. Mina si concentrò e vide che il testo era scritto in ungherese, ma riuscì a leggerlo in virtù del sangue della contessa che le scorreva, ormai, nelle vene. La lettera diceva che il sangue della Bàthory aveva subito una trasformazione. Se un corpo umano veniva invaso dal sangue di un vampiro, resisteva al veleno. Ma quando il corpo moriva e non era più in grado di lottare e il veleno aveva la meglio, trasformando l'essere umano mortale in un non-morto. Il cuore, un tempo mortale, pompava sangue di vampiro e il corpo rinasceva a una seconda vita di enorme potenza. L'unico modo per uccidere i nonmorti era trafiggerne il cuore, che, concludeva la missiva, batteva così lentamente da risultare impercettibile ai mortali. Finalmente, Mina capì cosa le stava accadendo. Il suo corpo mortale, ancora vivo, impediva al veleno di Dracula di prendere il sopravvento, ma esso era comunque riuscito a garantirle l'eterna giovinezza. Si chiese, allarmata e al tempo stesso incuriosita, quali altri effetti il sangue di Dracula (e, ormai, anche quello di Elizabeth) avrebbe avuto sul suo corpo. Le restava un unico conforto: finché il suo cuore umano avesse continuato a battere, non sarebbe mai divenuta una vera vampira. Proseguì nella lettura del libro. La contessa smise di mangiare; dopo alcuni giorni, ricevette la visita di un medico. Questi si accucciò a terra e, sbirciando attraverso la fessura, vide la contessa immobile a terra. Il muro fu abbattuto e il medico che visitò Elizabeth, non udendo il battito cardiaco, la dichiarò morta. Il suo corpo fu portato via col favore delle tenebre per evitare sguardi indiscreti e fu chiuso in una bara, seppellito e dimenticato. Ma Mina sentì la contessa raschiare, con i suoi artigli affilati, la bara, e uscire dalla tomba. Quando fu finalmente libera, il mondo conobbe secoli di atrocità. Mina aveva conosciuto il male, ma Dracula non era come Elizabeth Bàthory. Lui aveva sempre un motivo, uno scopo, che lo spingeva a commettere un crimine. La contessa, invece, uccideva per diletto e non aveva un briciolo di compassione. Mina si sentì sopraffare dal terrore. Stava per chiudere i libri e pianificare la mossa successiva quando il suo sguardo cadde su un'immagine: un'illustrazione dell'albero

genealogico dei Bàthory. Il nonno era Stephan Bàthory, celebre nobiluomo ungherese. Dove aveva già sentito quel nome? Risalendo lungo l'albero genealogico, lesse il nome di Ilona Szilàgyi e rabbrividì. Dracula e la contessa non erano uniti solo dal bisogno di sangue. Il marito di Ilona Szilàgyi era Vlad Dracula III. Stephan Bàthory aveva combattuto al fianco del principe Dracula, aiutandolo ad affermare il suo diritto di successione dopo la morte del padre. Dracula aveva sposato la cugina di Stephan per suggellare un'alleanza con il sovrano del Sacro romano impero. Il suo principe delle tenebre credeva di essere un guerriero di Cristo e che il suo matrimonio lo avrebbe aiutato a riunire i due volti della Cristianità in un'unica forza contro gli ottomani. L'uomo misterioso. Ecco perché, poc'anzi, aveva visto il volto di Dracula. Era stato lui a salvare Elizabeth. E la magia nera a cui l'aveva iniziata era sicuramente il bacio del vampiro. Com'era possibile che Dracula, che affermava di combattere in nome di Dio, avesse contribuito a liberare un essere satanico come la sua lontana cugina Elizabeth? Mina era confusa. Qualunque fosse la natura del legame tra Dracula e la contessa o l'identità del secondo uomo che le aveva consegnato la missiva, una cosa era certa: il principe aveva salvato la contessa da una vita d'inferno, e lei, dopo la morte, aveva scatenato l'inferno sulla terra. Mina sapeva, grazie al sogno che aveva fatto, che era stata Elizabeth ad assestare il colpo di grazia a Dracula. Ma perché? Nella sua mente riecheggiarono le parole che la contessa aveva pronunciato prima di affondare il coltello nel cuore del principe: «Parli di moralità, e poi mi respingi per una sgualdrina». Mina si rese conto, con stupore, di essere stata la causa scatenante dell'odio fra Dracula e la contessa Bàthory. Non potevano essere stati amanti, ma il loro legame aveva radici profonde. Dracula progettava di fuggire con Mina ed Elizabeth doveva essersi sentita tradita e aver nutrito una violenta gelosia nei suoi confronti. Mina capì, finalmente. La contessa voleva distruggere lei e la compagnia degli eroi, rei, ai suoi occhi, di avere allontanato Dracula

da lei. Ma c'era un'altra domanda che la tormentava: cos'aveva spinto Elizabeth ad agire dopo tanti anni? Mina immaginò che, di qualunque cosa si trattasse, avesse a che fare con Jack Seward, il quale doveva aver scoperto l'esistenza della contessa. Era l'unica possibilità. E, poiché i suoi amici avevano ignorato i suoi avvertimenti, doveva essersi messo da solo sulle sue tracce. Ma non poteva competere con lei. Il suo attacco doveva aver scatenato il desiderio di vendetta della contessa, che sapeva che i valorosi eroi, separati dal tempo e prostrati dalle difficoltà della vita, erano ormai facili prede. Solo ora capiva le parole di Elizabeth quando aveva detto: «Ti porterò via ciò che hai di più caro. "Lasciate che i bambini vengano a me."». La follia della contessa le si rivelò in tutta la sua enormità. Si era trasformata in una piaga biblica ed era assetata di vendetta. Mina si sentì mancare. Doveva trovare suo figlio prima di lei.

Capitolo 35 Quincey salì di corsa le tre rampe di scale che conducevano alla sua stanza in Archer Street, a Soho. L'affitto era ragionevole, e il quartiere pullulava di attori, pittori e artisti vari. Le parole di Van Helsing continuavano a riecheggiargli nella mente mentre percorreva il lungo corridoio che conduceva alla sua stanza, accanto ai servizi che condivideva con gli altri inquilini. Si domandò perché mai nessuno si fidasse di lui: non i suoi genitori, né Arthur Holmwood. Forse anche il confronto con il professore era stato una prova, e Quincey non l'aveva superata. Persino un vecchio col bastone aveva avuto la meglio su di lui. Quincey inserì la chiave nella toppa e si rese conto che la porta era aperta, sebbene ricordasse perfettamente di averla chiusa. C'era qualcuno dentro. Darsi alla fuga sarebbe stato del tutto inutile. Se ad aspettarlo fosse stato Dracula, avrebbe udito il rumore della chiave nella serratura e Quincey non sarebbe mai riuscito a sfuggirgli. Era arrivato il momento di provare a se stesso e alla compagnia degli eroi che era un uomo degno di rispetto. Quincey diede un colpetto alla porta, che si aprì scricchiolando, e, scrutando la stanza immersa nella penombra, scorse la sagoma di un uomo alto e magro in piedi davanti alla finestra. Facendo appello a tutto il suo coraggio, gridò: «Chi siete? Cosa volete?». Per tutta risposta, lo sconosciuto accese un fiammifero e Quincey distinse la punta di un sigaro da cui si levava una voluta di fumo. Il suo primo istinto fu quello di fuggire, ma era esattamente ciò che sua madre e Van Helsing si sarebbero aspettati da lui. Così deglutì, ed entrando nella stanza allungò una mano verso l'interruttore della luce. La lampadina si accese con un ronzio, illuminando l'ambiente. L'uomo continuò a dargli le spalle, guardando fuori dalla finestra. Poi, sempre senza voltarsi, disse: «Buonasera, signor Harker». Quincey riconobbe sia la voce sia i folti capelli biondi. «Lord Godalming?»

Arthur Holmwood si voltò e indicò il baule in mezzo alla stanza, sul quale era poggiato il biglietto da visita che gli aveva dato Quincey stesso. Ecco come aveva saputo il suo indirizzo. Holmwood era pallido e tirato, e i suoi occhi di un azzurro penetrante sembravano vuoti. Quincey si domandò cosa lo avesse turbato a tal punto. Il lord non era un uomo facilmente impressionabile. Holmwood gettò il fiammifero nel camino e passò la mano guantata di bianco sulla cappa, mostrandogli poi le dita coperte di polvere. Era evidente che disapprovava le condizioni in cui viveva Quincey. «Siete venuto anche voi per minacciarmi su richiesta di mia madre?» gli chiese bruscamente Quincey. Holmwood parve sorpreso. «Van Helsing è stato molto chiaro in proposito» aggiunse, scostando la sciarpa e mostrando la ferita sul collo. «Ho sempre pensato che Van Helsing fosse irreprensibile. Ma ora non ne sono più così sicuro» disse Holmwood, sospirando. Sembrava molto diverso dall'uomo che aveva incontrato pochi giorni prima. Allora Quincey si arrischiò a chiedergli: «Siete qui per aiutarmi?». Holmwood si irrigidì e gli voltò di nuovo le spalle. «Lucy mi è apparsa in sogno e mi ha aperto gli occhi.» Era assurdo, ma Quincey non dubitò nemmeno per un istante che fosse vero. Holmwood continuò a guardare fuori dalla finestra dalla quale vedeva Piccadilly Circus. «Devo portare a termine, in un modo o nell'altro, ciò che cominciai venticinque anni fa» mormorò. Si raddrizzò e alzò la testa, respirando profondamente. Quincey vide i muscoli della schiena contrarsi sotto la stoffa pregiata del cappotto. Poi Arthur girò su se stesso come un soldato e lo fissò con aria risoluta, aggiungendo in tono perentorio: «Se avete ragione, e Dracula è ancora vivo, allora voi e io dobbiamo pronunciare un giuramento davanti a Dio: lo distruggeremo una volta per tutte, costi quel che costi».

Per la prima volta dall'inizio della sua avventura, Quincey aveva un alleato. Era il momento di agire. Senza esitazione, dichiarò: «Giuro davanti a Dio di vendicare mio padre e di uccidere Dracula con le mie mani». Arthur Holmwood diede un calcio alla porta, che si spalancò. I topi squittirono nel buio. Entrando nella stanza fatiscente, Holmwood accese una torcia elettrica. Quincey tastò il muro alla ricerca di un interruttore, ma il suo compagno gli mise una mano sulla spalla e gli ricordò: «Siamo a Whitechapel. Non c'è la luce elettrica, qui». La torcia illuminò una lampada a kerosene arrugginita abbandonata sul pavimento e Holmwood lanciò a Quincey una scatola di fiammiferi, facendogli cenno di accenderla. Subito, una moltitudine di ratti corse a rifugiarsi negli angoli bui della stanza. Quincey non credeva ai propri occhi. «Com'è possibile che Jack Seward vivesse in una topaia del genere?» «Come vi ho già detto, era pazzo» rispose Holmwood indicando il soffitto, da cui pendevano simboli di ogni religione conosciuta. Quincey alzò la testa e riconobbe la croce dei rosacrociani. Il soffitto era tappezzato di pagine del Vecchio e Nuovo Testamento, della Torah e del Corano. Evidentemente, il dottor Seward desiderava che tutte le divinità fossero dalla sua parte. Osservò attentamente i muri, e notò che le pagine della Bibbia erano state strappate da varie edizioni in lingue diverse. Poi il suo sguardo cadde su una scritta... era sangue, quello? VIVUS EST. «È vivo» tradusse. «Dite che Seward era pazzo. Ma forse "terrorizzato" è l'aggettivo più adatto.» Holmwood non tradì alcuna emozione. Si diresse verso il pagliericcio di Seward e batté il bastone da passeggio sulle assi del pavimento, una delle quali rispose con un suono sordo. «Cosa fate?» gli chiese Quincey. «Mi passereste il bisturi, lì sul muro?»

Quincey guardò nella direzione indicata da Arthur e vide che il bisturi di Jack era conficcato in una parete e teneva appeso un vecchio ritaglio di giornale ormai ingiallito. Il titolo era sbiadito: «Jack lo Squartatore colpisce ancora». "Forse Seward era davvero matto" pensò. Ma, esaminando le pareti, si rese conto che quel caos apparente possedeva una propria logica, e che alcuni temi erano ricorrenti: Dracula, Jack lo Squartatore, vampiri, religione e rappresentazioni del Riccardo III... Fu strappato alle sue riflessioni da uno scricchiolio. Si voltò e vide che Holmwood aveva infilato la punta del bisturi in una fessura del pavimento e stava sollevando un'asse. Poi introdusse la mano nell'apertura e ne estrasse una cassetta di metallo arrugginita. "Un comparto segreto?" pensò Quincey, avvicinandosi. «Come facevate a sapere che era lì?» Holmwood sbatté la cassetta contro il muro, spaccando il lucchetto. Sul pagliericcio caddero fiale di morfina e cloralio, una cintura di cuoio e delle siringhe. «Mai voltare le spalle a un uomo che ha combattuto al tuo fianco, neanche se impazzisce. Chi pensate pagasse la sua droga? E l'affitto di questa stanza?» chiese Holmwood. Esaminò attentamente l'interno della cassetta alla ricerca di un doppiofondo, ma poi la gettò sul pavimento esclamando, stizzito: «Accidenti! Se a Cotford era sfuggito qualcosa, speravo si trovasse qui». Poi cominciò a perquisire la stanza, ribaltando i mobili e rovesciando i cassetti della scrivania, completamente vuoti. Quincey non fu sorpreso dalla rivelazione di Holmwood. Era un uomo d'onore: il suo matrimonio ne era la prova. Desideroso di rendersi utile, esaminò a sua volta il comparto segreto e vide qualcosa di bianco coperto da uno stuolo di scarafaggi. «Aspettate! C'è qualcos'altro qui sotto.» Quincey batté i piedi sulle assi per mettere in fuga gli insetti e, con grande trepidazione, estrasse da sotto il pavimento un fascio di fogli,

porgendolo poi a Holmwood nella speranza di colpirlo favorevolmente. Holmwood andò alla scrivania e slacciò il cordino che teneva unite le carte, mentre Quincey le illuminava con la lanterna. Si trattava di una pila di lettere, tutte con timbro postale, appoggiata sopra un pacchetto rettangolare. Holmwood strappò la carta bianca che lo avvolgeva e ne prese un libro dalla copertina gialla. Quincey capì subito di cosa si trattava. Holmwood, invece, impallidì quando lesse il titolo: Dracula. La residenza di Holmwood si trovava a East Finchley, ma non era più un luogo sicuro. Quincey propose ad Arthur di rifugiarsi nel vecchio ufficio di suo padre. Negli ultimi anni, aveva evitato accuratamente di recarvisi. Ma quale nascondiglio migliore dell'ultimo posto in cui sarebbero andati a cercarli? Ripensò al giorno in cui suo padre gli aveva consegnato le chiavi dell'ufficio e gli aveva detto, con orgoglio: «Un giorno, lavorerai qui». E lui lo aveva ripagato con odio e disprezzo. Un tonfo sordo lo riportò bruscamente alla realtà. Alzò la testa dalle lettere che stava riordinando e vide che Holmwood aveva scagliato il romanzo di Stoker sulla scrivania. Non riusciva più a leggere: era disgustato. «Come ha potuto? Dopo tutto quello che ho fatto per lui. Avevamo giurato di mantenere il segreto! Non era solo per via dell'amicizia che ci legava che gli pagavo l'affitto e la morfina. Era anche per tenerlo sotto controllo e assicurarmi che mantenesse la promessa.» Holmwood sbatté il pugno sulla scrivania, ripensando al momento in cui, dopo la battaglia con gli zingari, gli amici sopravvissuti avevano giurato sulla Bibbia di non raccontare a nessuno cos'avevano scoperto nella loro folle e sanguinosa caccia a Dracula. «Come fate a essere sicuro che sia stato Seward a spifferare tutto a Stoker?»

Holmwood indicò il volume e le lettere. «È evidente che Jack aveva bisogno di parlare con qualcuno, e noi ci rifiutammo di ascoltarlo.» Quincey avrebbe voluto dire qualcosa di intelligente, ma pensò che fosse meglio concentrarsi sul plico della corrispondenza. Il suo sguardo cadde su un foglio spiegazzato che sembrava diverso dagli altri. La calligrafia era elegante e femminile e la lettera arrivava dall'ex moglie di Seward. Secca e concisa, diceva: «Non venire in America. Stai lontano da nostra figlia». Parte della firma era illeggibile: le lacrime di Seward avevano sbiadito l'inchiostro. Quincey si domandò se la figlia avrebbe mai saputo della morte del padre. Holmwood si avvicinò alla scrivania e aprì i cassetti uno a uno finché non trovò una bottiglia di whisky. Ridendo, disse: «Una cosa è certa: quando si trattava di bere, potevi sempre contare sul vecchio Jonathan!». Soffiò via la polvere da un bicchiere e si versò una doppia razione. Leggendo la firma in calce alla lettera seguente, Quincey trasalì. Sbatté le palpebre come se non credesse ai propri occhi. Holmwood lo vide impallidire e gli chiese: «Cosa c'è?». Quincey deglutì e rispose: «Questa è di... Basarab». «L'uomo di cui mi avete parlato, l'attore rumeno? Fatemi vedere.» Holmwood prese il foglio dalla mano tremante di Quincey e lo lesse. Quincey frugò tra le altre lettere. «Anche questa» disse, prendendone un'altra. Holmwood sembrava turbato quanto lui. Gli si avvicinò e lo aiutò a cercarne altre, leggendo le firme. «Anche questa» disse a un certo punto, mostrandogli un foglio. «E questa» ribatté Quincey, facendo altrettanto. «Seward e Basarab erano in contatto.» Holmwood cominciò a ordinarle cronologicamente. «Dove possono essersi conosciuti?»

Quincey era sconcertato. Ripensò alla voce che aveva udito dietro la porta del camerino di Basarab la sera del loro primo incontro: «Signor Basarab! Mettetevi in salvo!». Doveva essere stato Seward a gridare quell'avvertimento. La sua morte non era stato un incidente. Quanto sapeva Basarab? Lo aveva usato sin dall'inizio? Le lettere di Seward gli avrebbero fornito tutte le risposte. Quando il sole cominciò a tramontare, Holmwood e Quincey finirono di ricostruire la corrispondenza tra Seward e Basarab. Quincey affisse una delle lettere su un pannello di sughero. «In questa lettera Basarab afferma di aver saputo delle vostre imprese in Transilvania dagli zingari sopravvissuti alla battaglia alle porte del castello di Dracula. Ma perché contattare solo Seward?» Holmwood affisse un'altra lettera al muro. «Questa è la lettera successiva. Basarab chiede a Seward di aiutarlo a dare la caccia a colui che era certo fosse Jack lo Squartatore.» Quincey ripensò al vecchio articolo appeso al muro della stanza di Seward e cercò la lettera successiva in base alla data. All'interno delle buste lui e Arthur avevano rinvenuto anche numerosi ritagli di giornali provenienti da diversi paesi, scritti in tante lingue, ma tutti riguardanti omicidi di donne commessi negli ultimi dieci anni. Holmwood li appoggiò sul tavolo, cercando di ordinarli e di trovarvi una logica. Ogni illustrazione mostrava scene del crimine particolarmente cruente e vittime barbaramente seviziate. Le analogie con gli omicidi dello Squartatore erano evidenti. A un certo punto, Holmwood si alzò di scatto, come se avesse avuto una rivelazione. «Ma certo!» esclamò, e trascinò Quincey fino al tavolo, indicando i ritagli e spiegando: «Questi articoli indicano che gli omicidi dello Squartatore non sono cessati nel 1888 e mostrano crimini molto simili commessi in tutta Europa. Lo Squartatore si è limitato a lasciare Londra e ha continuato ad agire indisturbato negli ultimi venticinque anni, spostandosi di città in città e di paese in paese. Le diverse giurisdizioni e le barriere linguistiche hanno impedito alle autorità di mettere insieme le tessere del puzzle. A quanto pare, in ogni città si sono verificati cinque o sei omicidi. Le vittime erano sempre prostitute e gli assassini cessavano improvvisamente perché, evidentemente lo Squartatore si spostava

altrove». Quincey prese la lettera affissa al pannello di sughero, la cui insolita intestazione lo aveva colpito: «Teatro dell'arte di Mosca». La porse a Holmwood e disse: «Questa è la prima lettera che Basarab ha scritto a Seward quando si trovava a Mosca per la prima tappa della tournée del Riccardo III». Poi prese un'altra lettera con l'intestazione del Théàtre de l'Odèon e trovò i ritagli di giornale corrispondenti. «Questa è stata spedita quando Basarab era a Parigi. Guardate. Altri ritagli, altri omicidi. A Parigi!» Quincey guardò Holmwood, eccitato come uno scolaretto. «Non capite? Lo Squartatore si sta muovendo verso ovest. Verso l'Inghilterra!» «E Basarab usava la sua compagnia teatrale come copertura mentre dava la caccia all'assassino in tutta Europa.» Quincey stava per dire ciò che entrambi pensavano, ma Holmwood lo fermò: «No! Non abbiamo le prove». «Allora perché Basarab decise di chiedere aiuto proprio a Seward? Lo Squartatore è un vampiro. Non può che essere così.» Holmwood esaminò di nuovo le lettere. «Quincey, dobbiamo averne la certezza. E queste lettere non contengono prove decisive. L'unica cosa di cui possiamo essere sicuri è che Seward stava cercando di metterci in guardia da Jack lo Squartatore. È morto cercando di aprirci gli occhi.» Quincey sapeva che Holmwood voleva solo essere prudente e non saltare a conclusioni affrettate. Ma lui non aveva dubbi. «Se vi rifiutate di dirlo, lo farò io. Jack lo Squartatore è Dracula. Deve essere così, "VIVUS EST"! Seward lo ha scritto col proprio sangue. A chi altri avrebbe potuto riferirsi?» «State correndo troppo. Dobbiamo ancora appurare l'identità dello Squartatore» ribatté Holmwood. «Solo allora potremo essere certi di percorrere la pista giusta, e solo allora potremo collegare questi eventi a noi.» Quincey pensava fosse una perdita di tempo. Se Basarab conosceva Seward e lo aveva coinvolto nella caccia a Jack lo Squartatore, era ovvio che quest'ultimo dovesse essere Dracula e che

il divo ne fosse al corrente. Quincey si sentì ribollire il sangue nelle vene al pensiero di come Basarab avesse difeso Dracula, giungendo a vestirne i panni sul palco, con grande trasporto, per giunta. Ma poi si era rivolto a Seward perché lo aiutasse a trovarlo. Da che parte stava? Quincey guardò l'orologio, prese il cappotto e disse a Holmwood: «Avete bisogno di altre prove? Allora andiamo a cercarle». «Dove?» «Sono in ritardo per le prove. È ora di affrontare il mio caro mentore. Non ha fatto altro che confondermi, ma stasera gli estorcerò la verità, finalmente.» Quincey e Holmwood uscirono insieme dall'ufficio e si diressero verso ovest. Uno strillone del «Daily Telegraph» sbraitava dall'angolo di Wellington Street: «La Francia istituisce un protettorato in Marocco! Esploratori dispersi al Polo Sud! Bram Stoker, impresario del Lyceum Theatre, in fin di vita!». Quincey comprò una copia dell'ultima edizione e lesse attentamente l'articolo riguardante Bram Stoker, che si limitava a confermare che quest'ultimo aveva avuto un ictus. Poi accartocciò il giornale e lo gettò via. Era inutile. Lui e Holmwood proseguirono verso il Lyceum e furono accolti dal responsabile del botteghino, Joseph Hurst. Quincey stava per entrare quando Holmwood lo fermò, indicando il manifesto dello spettacolo, montato su un cavalletto. SONO IN CORSO LE PROVE DI:

UN RACCONTO DEL TERRORE CON IL GRANDE ATTORE RUMENO BASARAB L'ULTIMA FATICA DI BRAM STOKER PRODOTTO DA HAMILTON DEANE E QUINCEY HARKER.

Holmwood era sbigottito. «Come avete potuto farci questo, sapendo ciò che sapete? Non vi permetterò di ridicolizzare la morte di Lucy e di infangare il mio nome.» «Ma il vostro nome non compare nello spettacolo.» «Cosa volete dire?» «Deane ha pensato di riunire voi, il signor Morris e il dottor Seward in un unico personaggio per evitare di ingaggiare, e pagare, tre diversi attori.» «È oltraggioso!» Quincey lo guardò perplesso. Quegli aristocratici erano davvero eccentrici. «Non avete appena detto che non volevate che infangassi il vostro nome?» «Proprio così» sospirò Holmwood. In quel momento, con un tempismo perfetto, Deane entrò nel foyer. Visibilmente sorpreso dalla presenza di Quincey, si mantenne a debita distanza. «Le prove sono state annullate per riguardo nei confronti del signor Stoker» disse. «Perché non ne sono stato informato?» «Non ero sicuro di volervi qui.» Quincey alzò le spalle. «Capisco» disse, poi, dopo un attimo di esitazione, chiese: «Dov'è Basarab?». Udendo il nome dell'attore, Deane fece una smorfia. «Gli ho detto che il signor Stoker era stato dimesso dall'ospedale e che volevo fargli visita a casa per accertarmi del suo stato di salute. Lui ha avuto l'audacia di vietarmelo e mi ha sottoposto delle modifiche al copione che mi costringeranno a ricostruire parte dello scenario sulla base delle sue direttive. La compagnia dovrà lavorare tutta la notte per apportare i cambiamenti previsti in tempo per le prove di domani sera. Comunque, per rispondere alla vostra domanda, non ho idea di dove si trovi quel bastardo arrogante.» Quincey fece un passo verso Deane, che indietreggiò, spaventato. Quincey si sentì avvampare. «Vi chiedo di perdonarmi, signor Deane... per tutto quanto. Mi sono sbagliato e mi vergogno del modo in cui mi sono comportato nei vostri confronti. Ora, vi prego,

ho bisogno di parlare immediatamente con Basarab. È urgente.» Di fronte alle scuse e alla cortese richiesta di Quincey, Deane parve visibilmente sollevato, Holmwood, tuttavia, percepì una lieve tensione tra loro e lanciò un'occhiata interrogativa a Quincey. Deane disse: «Basarab ha indetto una pausa fino a domani alle sei e mezzo. Immagino che tornerà per quell'ora». Quincey porse la mano a Deane, che gliela strinse con diffidenza. Poi lui e Holmwood se ne andarono. «Ma che cos'aveva?» gli domandò il lord. «Sembrava spaventato da voi.» Quincey percepì un'ombra di rispetto nella sua voce. Per quanto detestasse ammetterlo, gli insegnamenti di Basarab si erano rivelati, ancora una volta, preziosi. Si rammaricò di non aver chiesto al divo dove alloggiasse. La sua disattenzione gli sarebbe costata cara. «Sarà anche spaventato da me, ma è sicuramente terrorizzato da Basarab. E ora dovremo attendere fino a domani per sapere se il suo timore sia giustificato o meno.» Holmwood, però, stava già pensando ad altro. «Al diavolo Deane e Basarab. Abbiamo un problema più urgente. Dobbiamo scoprire perché Van Helsing vi ha aggredito e a quale gioco sta giocando.» Disteso sul letto della sua stanza d'albergo, Van Helsing pensò a Quincey. Il figlio di Mina Harker stava giocando col fuoco, e lui doveva impedirgli di incendiare il mondo. Sperò di averlo spaventato al punto da convincerlo a tornare alla Sorbona. Il sangue di Dracula era passato nelle sue vene attraverso il grembo di Mina. Se Quincey fosse stato sopraffatto dalle tenebre, sarebbe diventato un nemico potente e pericoloso. Van Helsing avrebbe dovuto impedirlo anche a costo di mettere in atto la sua minaccia e ucciderlo. Quel ragazzo non doveva cadere nelle mani di Dracula. Non era l'età avanzata a impedirgli di prendere sonno: era l'attesa, infinita e snervante. Era certo che Dracula sapesse che si trovava a Londra. Era una preda facile per il principe, che aveva già ucciso Jack e Jonathan, molto più giovani e prestanti di lui. Si domandò quando sarebbe arrivato il suo turno.

Guardò le armi dispiegate sul tavolo dall'altra parte della stanza. Dracula non era uno sciocco e doveva sapere che Van Helsing sarebbe stato pronto ad affrontarlo. La sua paura più grande era proprio che lo considerasse un vecchio pazzo e ritenesse inutile ucciderlo. D'un tratto, sentì qualcosa sfiorargli la gamba sotto le coperte. Alzò la testa e vide una protuberanza strisciare verso di lui. Poi un'altra, e un'altra ancora. Rimase a guardarle, incredulo. Era giunta finalmente la sua ora? Quando sentì il primo morso, lanciò un urlo, ma non era più così agile da riuscire a balzare giù dal letto. Così, rimase disteso, contorcendosi dal dolore mentre i morsi si moltiplicavano. Spinse via le coperte e vide, con orrore, una moltitudine di topi di fogna che gli strappavano a morsi la pelle e brandelli di carne insanguinata. Gli camminavano sul corpo e lui scalciava e urlava, cercando di toglierseli di dosso. Un topo bianco con gli occhi rossi e i denti aguzzi gli corse lungo il petto puntando al collo. Van Helsing lo afferrò e lo lanciò via, e la creatura si sfracellò contro il muro fra copiosi schizzi di sangue. Finalmente il professore trovò la forza di alzarsi dal letto, ma il suo cuore non resse allo spavento. Si portò le mani al petto e si accasciò a terra, in preda a dolori lancinanti. Non riusciva neanche più a urlare. Allungò la mano verso il portapillole sul comodino, ma una fitta più forte delle altre lo fece ricadere a terra. La morte era vicina ormai. Dopo alcuni lunghissimi minuti, il vecchio notò che i topi erano scomparsi. Non aveva nessun morso sulle gambe. Le ombre della stanza, però, si muovevano ancora, e fu allora che capi che i topi erano solo l'inizio. Malgrado il dolore, provò una triste esultanza. Era il momento del tanto atteso scontro finale. Radunando tutte le sue forze, si sporse verso il comodino e tentò di nuovo di afferrare il portapillole, facendo cadere gli occhiali. Le ombre, tuttavia, avevano formato una specie di vortice che investì il comodino, facendolo ribaltare. Il portapillole cadde a terra. Van Helsing ebbe l'impressione di essere circondato da un branco di lupi ululanti. Si trovò di fronte a quella che sarebbe potuta essere l'ultima

decisione della sua vita: cosa recuperare, le pillole o le armi? Nel frattempo, l'ombra aveva quasi raggiunto il soffitto e assunto una forma antropomorfa. Il tempo del professore stava per scadere. Finalmente, prese una decisione e, con un ultimo sforzo, si lanciò verso il tavolo ingombro di armi. Sarebbe morto, sì, ma avrebbe portato il demone con sé. Un attimo prima di riuscire ad afferrare la balestra con il dardo già incoccato, la creatura d'ombra si allungò, con un guizzo fulmineo, verso il tavolo e lo rovesciò, facendo cadere tutto ciò che vi stava sopra. Era finita. Il vecchio si accasciò a terra, aspettando la morte. Non aveva più speranze: il suo cuore un tempo potente si era arreso molto prima della sua volontà. Gli ululati crebbero di intensità, e l'ombra piombò su Van Helsing. «Perdonatemi, amici miei» sussurrò. «Vi ho deluso.» Sperò che il suo cuore si fermasse in modo da risparmiargli il dolore, ma la Morte era sadica, oltre che crudele. Quando il demone gli affondò i lunghi canini nel collo, era ancora vivo.

Capitolo 36 Mina doveva assolutamente trovare Quincey. Tutti i telegrammi che aveva inviato al professor Van Helsing erano rimasti senza risposta. Era molto probabile che fosse rimasta sola in questa ricerca. Quincey era esposto, vulnerabile. E la contessa Bàthory era la forza più diabolica che avesse mai dovuto affrontare. Prese la chiave di ferro che teneva nascosta nella toeletta e si precipitò nello scantinato adiacente alla ghiacciaia. Inserì la chiave nella serratura arrugginita e provò a girarla, ma non ci riuscì. Quella stanza era rimasta chiusa per venticinque anni, per evitare che Quincey vi entrasse. Provò di nuovo, con maggiore determinazione, ma nulla. "Dannazione!" pensò stizzita, e, in quel preciso istante, la porta si aprì. Mina si rese conto, con sua grande sorpresa, che la serratura si era rotta. La sua sorprendente forza la spaventò, ma poi pensò che il legno dovesse essere marcio per via dell'umidità. Sollevò la lanterna che aveva con sé e si avventurò nella stanza buia. Su uno scaffale, accanto a souvenir ammuffiti e dimenticati, c'era la vecchia scatola di legno che lei e Jonathan avevano portato in battaglia in Transilvania. Quando sollevò il coperchio vide, sconsolata, che la Bibbia era fradicia, l'aglio e l'aconito erano marciti, il contenuto delle bottiglie era evaporato da chissà quanto tempo, i coltelli erano arrugginiti, il maglio e i pali di legno adorni di croci d'oro si erano spezzati. Anni prima, avevano affidato la loro vita al contenuto di quella scatola. Ma anch'essa, come la compagnia degli eroi, aveva subito le offese del tempo. Mina si precipitò nello studio per recuperare l'unica arma rimasta in casa. Fisicamente, non poteva competere con la con-tessa Bàthory. Se avesse voluto avere una possibilità contro di lei, avrebbe avuto bisogno di un'arma robusta. Così, afferrò la katana, la spada cerimoniale giapponese che Jonathan aveva ricevuto in dono da uno dei suoi clienti e che recava questa incisione: JONATHAN HARKER L'alleanza anglo-giapponese 30 gennaio 1902

Nella fretta, Mina sguainò la spada in modo maldestro, sbattendo il gomito contro lo scaffale di mogano dietro di sé. Udì uno schiocco e fece cadere istintivamente la lama. Poi, voltandosi, si accorse che il bordo dello scaffale era spaccato. Si tirò su la manica e si esaminò il braccio, sul quale si stava già formando un livido. Eppure, non provava alcun dolore. Poi esaminò la ferita alla mano. Il taglio era profondo e sanguinava abbondantemente. Ma, anche in quel caso, nessun dolore. Era possibile che il sangue di Dracula la stesse rendendo più forte? Dopo tutti quegli anni? O era forse quello di Elizabeth Bàthory? Che ironia che fosse stata proprio la contessa a donare a Mina la forza che avrebbe reso il loro inevitabile scontro più interessante! Il suo sguardo cadde sul fermacarte di vetro in un angolo della scrivania. Lo prese e lo strinse, ma non accadde nulla. Provò di nuovo, stringendo con tutte le sue forze. Ancora nulla. Aveva preso un abbaglio? Accidenti! Per la frustrazione, sbatté il fermacarte sulla scrivania, mandandolo in frantumi. Poi aprì la mano e vide dei frammenti di vetro conficcati nel palmo insanguinato. Ma, ancora, non provava quasi dolore. Per la prima volta da diverse settimane, Mina sorrise. Perché quel potere non le si era mai rivelato prima? Forse perché non era mai stata incline a scoppi d'ira. Ma, qualunque fosse il motivo, doveva capire come attingere a quella nuova forza perché fosse un'arma efficace contro la contessa. Poggiò le mani su entrambi i lati dell'enorme scrivania di quercia, ripensando ai due robusti facchini che l'avevano trasportata, a fatica, dentro casa. Fece un profondo respiro e cercò di sollevarla, ma la scrivania non si mosse. Poi, chiudendo gli occhi, pensò alla contessa e al modo ignobile in cui si era introdotta in casa sua e l'aveva violentata. La sua rabbia crebbe, ma la scrivania rimase immobile. "Lasciate che i bambini vengano a me" pensò, ma, di nuovo, non accadde nulla. Allora, stizzita, spinse via la scrivania e fece per allontanarsi, ma udì uno

stridio e, voltandosi, si accorse che si era mossa sul parquet. La fissò, sconcertata. Doveva imparare a controllare quella forza. In quel momento qualcuno bussò alla porta dello studio, strappandola ai suoi pensieri. «Perdonatemi, signora» disse Manning. «C'è un gentiluomo alla porta che desidera parlarvi.» Mina doveva prendere il primo treno per Londra per andare a cercare Quincey. Non aveva tempo per le visite di cortesia: suo figlio non poteva restare solo e indifeso un'altra notte. «Mi dispiace, Manning, ma devo chiederti di mandarlo via. Digli che non sono in vena di compagnia. Sono certa che capirà.» «Gli ho già riferito che non desiderate essere disturbata, ma l'ospite mi ha dato il suo biglietto da visita e ha insistito affinché faceste un'eccezione per lui.» Mina socchiuse la porta per evitare che Manning vedesse il caos che regnava nello studio e prese il biglietto da visita. Leggendo il nome, ebbe un tuffo al cuore. «Devo congedarlo?» le chiese Manning, «No» rispose lei, sapendo che quella visita doveva essere della massima importanza. «Fallo accomodare in salotto mentre mi preparo e assicuragli che lo raggiungerò appena sarò pronta.» Lord Godalming - Arthur Holmwood - aveva osservato Quincey allontanarsi. Era lieto che gli avesse chiesto di lasciarlo solo: anche lui aveva bisogno di tempo per assimilare le informazioni che avevano trovato nell'appartamento di Seward. Era davvero possibile che Dracula fosse Jack lo Squartatore? Holmwood ricordava a malapena l'autunno del 1888, quando Londra viveva nel terrore. Era assorbito dalle proprie paure, con suo padre e Lucy gravemente malati. Non poteva credere che il loro nemico fosse ancora vivo. Com'era possibile? Ma poi pensò agli omicidi commessi in quegli anni in tutta l'Europa orientale che ricordavano lo "stile" dello Squartatore e che non potevano essere liquidati come mere coincidenze. Arthur non riusciva a confutare la teoria di Quincey, né a pensare a qualcun altro, a parte Dracula, che avrebbe potuto impalare Jonathan nel bel

mezzo di Piccadilly Circus con tanta facilità e senza alcun testimone. Se Dracula era davvero tornato in Inghilterra, i membri superstiti della compagnia degli eroi erano in grave pericolo e andavano messi in guardia. Malgrado ciò, era restio a incontrare Mina Harker. Dracula poteva essere tornato per vendicarsi di lei; o forse Mina aveva finalmente ceduto al suo fascino, ora che non era più legata dal vincolo matrimoniale. Holmwood non era mai riuscito a penetrare il mistero della sua mente e non immaginava quale avrebbe potuto essere la propria reazione alla notizia che Dracula era ancora vivo. A ogni modo, malgrado le sue perplessità, decise di comportarsi con onore. Mina aveva il diritto di conoscere i fatti e di scegliere cosa fare di quelle informazioni. Purtroppo, però, le conseguenze della sua decisione sarebbero ricadute anche su di lui. Manning prese il cappotto di Arthur Holmwood e gli fece cenno di seguirlo in salotto. «Sua Eccellenza desidera qualcosa da bere?» chiese l'anziano maggiordomo. Holmwood non rispose: era intento a guardare le fotografie sul caminetto, in particolare quella della famiglia Harker, scattata il giorno di Natale di tanti anni prima, quando Quincey era bambino. Ripensando alle proprie perdite e alla fortuna di Mina, si sentì invadere dalla rabbia. Aveva perso Lucy e, con lei, ogni possibilità di essere felice. Mina invece era riuscita, dopo la morte di Dracula, a tornare alla normalità, formando una famiglia con l'uomo che amava. Gli occhi di Arthur si spostarono su una fotografia di Lucy e Mina. Era un sacrilegio che fosse lì. Dopotutto, erano stati Jonathan e il suo studio legale a fare in modo che Dracula venisse in Inghilterra. Ed era stata Mina a portare, seppure involontariamente, il demone dalla sua Lucy. Per causa loro era stato costretto a conficcare un paletto di ferro nel cuore della sua amata. Mina aveva giaciuto con il demone che aveva distrutto Lucy. Come osava mettere in mostra quella fotografia? Il suo risentimento divenne una furia incontenibile. Quando udì la porta aprirsi alle sue spalle, si voltò di scatto, pronto a riversare su Mina tutta la rabbia che provava. Ma, vedendola, rimase senza parole. Era come se avesse

fatto un salto indietro nel tempo. I lunghi anni trascorsi non avevano lasciato segni su di lei, che era identica a come la ricordava. Per un attimo, Holmwood immaginò che, alle spalle di Mina, sarebbe apparsa, come sempre, Lucy... Ma poi fu assalito dal ricordo della fotografia dell'autopsia. Lucy era morta: era marcita come il suo cuore. Non c'era da stupirsi se Jonathan Harker si era dato all'alcol, dovendo vivere accanto a una donna che non faceva che ricordargli la tragedia che avevano vissuto. Holmwood si scosse dai suoi pensieri e notò l'austero abito nero di Mina, da anziana nobildonna. Almeno aveva la decenza di vergognarsi di se stessa, pensò. «Il tempo è stato clemente con voi, signora Harker» disse, sarcastico. «Anche voi non siete cambiato affatto, Lord Godalming» ribatté Mina, rendendogli la pariglia. «Tornare qui non è un piacere, credetemi...» «Se siete venuto a porgermi le vostre condoglianze, consideratele già fatte e sentitevi libero di congedarvi» replicò Mina, voltandosi e dirigendosi verso la porta. «Aspettate.» Mina si fermò. Conoscendo la caparbietà di Mina e sapendo che prenderla di petto era il modo più sicuro per alienarsela, Arthur cercò di moderare i toni. «Sono venuto per mettervi in guardia. Per quanto possa sembrare incredibile, ho ragione di pensare che colui che pensavamo morto e sepolto sia in realtà ancora vivo.» Mina si limitò a chinare il capo di lato. Non sembrava affatto stupita come si sarebbe aspettato. «Mio caro Arthur, cercate sempre di fare ciò che è giusto, anche quando vi si rivolta lo stomaco.» A che gioco stava giocando? «Non trattatemi come Jack. Sapete che non sono un amante delle teorie bislacche» disse. «Lo so che mi odiate ancora. Lo sento dalla voce. È un vostro diritto. Ma non diffidate di me. Ricordate: sono stata io a condurvi

da Dracula. Non sono venuta meno al giuramento.» «E questo è l'unico motivo per cui sono qui. Ho fatto tanti errori, Mina. Ma il più grave di tutti è aver liquidato gli avvertimenti di Jack come i deliri di un pazzo.» Detto questo, estrasse dalla tasca un ritaglio di giornale che aveva trovato fra le sue carte e lo porse a Mina. Quando lei fece per prenderlo, Holmwood notò la fasciatura che aveva intorno alla mano. «Cosa vi è successo?» le chiese. «Ho rotto un bicchiere» si affrettò a rispondere lei, osservando il ritaglio. Un attimo dopo alzò la testa, stupita. «Parla di Jack lo Squartatore.» «Guardate i dettagli degli omicidi. Il primo ebbe luogo a Londra il 31 agosto del 1888. Solo una settimana dopo il Demeter si schiantò sulle coste di Whitby. L'ultimo omicidio accertato ebbe invece luogo il 9 novembre dello stesso anno, il giorno prima che Dracula sfuggisse alla nostra cattura rifugiandosi in Transilvania.» Mina lo ascoltava, immobile. Holmwood le mostrò allora le lettere di Seward. «Jack era convinto che lo Squartatore fosse un vampiro» disse. «Ha rischiato la vita per dimostrarcelo, e lo Squartatore lo ha ucciso per metterlo a tacere. Ecco qual è il mistero della sua morte. La logica ci dice che Dracula e Jack lo Squartatore sono la stessa persona.» Mina scoppiò a ridere. «Oh, Arthur, siete sempre stato il più coraggioso di tutti. Ma avete sempre lasciato le speculazioni a Van Helsing, e dovreste continuare a farlo.» Arthur strinse i pugni, accartocciando le lettere. «Vengo qui ad avvertivi che potreste essere in pericolo di vita e voi vi prendete gioco di me?» Ma, mentre lo diceva, gli venne in mente che quella di Mina poteva essere una tattica per depistarlo e proteggere Dracula. Chissà, magari si stava preparando a raggiungere il suo amante. Mina parve leggergli nel pensiero, e si fece terribilmente seria. «C'è un vampiro, a Londra. Ma non è Dracula.» Holmwood la guardò, scettico. Un altro vampiro? «Non ho tempo per i vostri giochetti. Siamo tutti in pericolo.» «Sono stata aggredita in casa mia. Ho rischiato di morire.»

«Ma vedo che siete sopravvissuta e che la casa è in perfetto ordine. Cosa vi ha fatto quel terribile vampiro? Vi ha lanciato un bicchiere e se n'è andato?» Mina lo fulminò con lo sguardo. «Ho ascoltato le vostre teorie. Ora ascoltate le mie. Avete mai sentito parlare della contessa ungherese Elizabeth Bàthory?» «No. Dovrei conoscerla?» «Nel sedicesimo secolo, Elizabeth Bàthory stuprò e massacrò seicentocinquanta giovani contadine, bagnandosi nel loro sangue. Era convinta che quella pratica le assicurasse l'eterna giovinezza. È quanto riportano i libri di storia, ma non è forse la descrizione di un vampiro? E, se le supposizioni di Jack fossero esatte, non potrebbe anche essere la descrizione dei crimini di Jack lo Squartatore?» «È assurdo. Lo Squartatore era un uomo. Una donna non commetterebbe mai tali atrocità.» «I vostri pregiudizi vi accecano. Lo Squartatore non è mai stato identificato. Perché non potrebbe essere una donna?» «Una vedova nera. Interessante...» rifletté ad alta voce Holmwood. Ma sospettava ancora che Mina gli nascondesse qualcosa. «Jonathan è stato impalato. A meno che anche la contessa venisse soprannominata l'Impalatrice, non vedo il nesso.» «Potrebbe essere uno stratagemma usato dalla contessa Bàthory per indurci a pensare che Dracula sia ancora vivo.» Arthur non era convinto. «Supponiamo che abbiate ragione e che esista davvero una contessa Bàthory, e che lei e lo Squartatore siano la stessa persona. Cos'avrebbe a che fare con noi, e perché mai dovrebbe volerci morti? Non ha senso.» Mina prese un libro rilegato in pelle e lo aprì alla pagina che illustrava l'albero genealogico della famiglia Bàthory, tracciando con un dito il collegamento fra Elizabeth e Vlad Dracula III. Immaginò che quella rivelazione fosse sufficiente, e decise di non raccontare ad Arthur tutta la verità. «Dracula ed Elizabeth Bàthory erano imparentati. Cugini, per l'esattezza» disse. Holmwood iniziò a capire. «È tornata per vendicarlo.»

Era come se, all'improvviso, tutte le tessere del puzzle fossero andate a posto. Ogni cosa aveva un senso. Non aveva importanza cosa pensasse Mina di Dracula, né quali desideri provasse nei suoi confronti. La contessa li avrebbe ritenuti tutti ugualmente colpevoli della morte del cugino. Questo, insieme a ciò che aveva appreso dalle lettere di Seward a Basarab, lo convinse che lui e Mina erano dalla stessa parte. Doveva fidarsi di lei: non aveva altra scelta. «Dobbiamo metterci subito in contatto con Van Helsing» disse. «Ci ho già provato, ma non risponde ai miei telegrammi.» Holmwood stava per dirle che Van Helsing aveva affrontato Quincey quando ebbe una nuova, terribile rivelazione. «Basarab!» esclamò. Mina impallidì. «Cos'avete detto?» Holmwood le mise in mano le lettere, mostrandole le firme. «Jack Seward stava aiutando Basarab a trovare lo Squartatore.» «Se la contessa sapeva di Seward e lo ha ucciso,» esclamò Mina «allora saprà anche di Basarab!» Di fronte alla sua espressione terrorizzata, Holmwood provò quasi compassione. Ancora una volta, il suo senso dell'onore lo spinse all'azione. «Stasera alle sei e mezzo Quincey incontrerà Basarab al Lyceum Theatre, per le prove del loro spettacolo.» Mina trasalì e si voltò a guardare l'orologio sul caminetto. «Ce un treno che parte per Londra fra venti minuti. Arriveremmo a Waterloo Station alle sei e dieci. Non c'è tempo da perdere: Quincey è in grave pericolo!» Mentre Holmwood recuperava cappotto, cappello e bastone nell'atrio, Mina si precipitò al piano di sopra e riapparve poco dopo con la borsetta e quella che sembrava una spada avvolta nello scialle. «Cos'avete da guardare? Sono brava a maneggiare le armi, come ben sapete.» Arthur trovò quell'osservazione quanto mai inopportuna. Mina non si era mai conformata a un modello di femminilità tradizionale: non era né delicata né indifesa. Non aveva mai conosciuto una donna così complicata. Chi poteva dire cosa le passasse per la testa? Per questo, non si fidava ciecamente di lei. Gli era sembrata

convincente, eppure, a parte la fasciatura alla mano, non portava i segni di nessuno scontro. Com'era possibile che la contessa Bàthory l'avesse attaccata? L'alternativa era troppo spaventosa: Mina e Dracula potevano aver escogitato un piano diabolico per attirarlo in una trappola. Non avrebbe mai voltato le spalle a Mina Harker. Tuttavia, voleva parlare di persona con quel Basarab. Manning fermò Mina sulla porta: «Signora, è appena arrivato questo telegramma. Altre condoglianze...». «Grazie, Manning» disse lei. Gli strappò di mano la busta, la infilò nella borsetta e uscì, seguita da Arthur Holmwood.

Capitolo 37 Hamilton Deane emise un sonoro rutto. Un membro della compagnia alzò un sopracciglio in segno di disapprovazione. Da quanto Stoker aveva avuto l'ictus, Deane soffriva di violenti dolori addominali causati dalla tensione, ma non aveva ancora avuto il tempo di porvi rimedio a causa dei pressanti impegni della produzione. La sua posizione era quanto mai precaria. Non possedeva i diritti del Dracula. Se Bram non si fosse ripreso, avrebbero dovuto negoziarli con l'odiosa signora Stoker. Al solo pensiero, rabbrividì. Doveva rendere conto ai finanziatori, e aveva già abbastanza problemi da risolvere. Basarab aveva infatti chiesto di sostituire lo scenario tradizionale, che prevedeva un salotto, con una struttura mobile su più livelli in grado di fungere, al tempo stesso, da castello di Dracula, manicomio di Whitby e abbazia di Carfax. Il mastro carpentiere si era licenziato per protesta e Deane aveva dovuto assumere la direzione dei lavori. In teoria, con Stoker immobilizzato a letto avrebbe anche dovuto fare le veci del regista. Basarab, però, aveva altri piani, perché aveva preso in mano la regia senza nemmeno consultarlo. Deane era furioso, ma non osava affrontare l'eccentrico divo. Non voleva fare la fine di Stoker. Era stanco e affamato, aveva un terribile mal di testa e fitte lancinanti allo stomaco. Mancava meno di un'ora alle prove e c'era ancora moltissimo da fare. E tutti sembravano avere bisogno di lui per risolvere mille contrattempi. La costumista era uscita dal camerino di Basarab in lacrime, i finanziatori esigevano aggiornamenti di ora in ora, i giornalisti chiedevano interviste e gli ammiratori di Basarab cercavano di eludere la sorveglianza e di intrufolarsi nel teatro nella speranza di vederlo. Lavorare nel mondo dello spettacolo non era così piacevole come aveva creduto quando aveva deciso di imbarcarsi con Stoker in quella sciagurata impresa. La maggior parte degli attori si presentò al teatro alle sei, con mezz'ora di anticipo. Accadeva spesso, in occasione delle prime

prove, perché i nuovi spettacoli suscitavano sempre grande trepidazione. Nell'attesa di prendere posto sul palco, gli attori si misero a chiacchierare rumorosamente fra loro. Nel frattempo, Deane cercava di comunicare con il tecnico delle luci, uno scozzese, ma non riusciva nemmeno a sentire la propria voce, figuriamoci quella del tecnico, che si divertiva a provare i nuovi giocattoli elettrici nella sua cabina in fondo alla sala. In quel momento, stava cercando di usare il nuovo riflettore Kliegl n.5 per simulare il chiaro di luna in Transilvania, in una scena del primo atto. Deane riteneva che l'illuminazione fosse troppo intensa per una scena notturna dall'atmosfera gotica e stava cercando di convincerlo ad abbassare le luci. Il tecnico annuì, ma Deane, in piedi al centro del palco, vide le luci aumentare d'intensità. I suoi dolori addominali fecero altrettanto. «Ho detto che devi abbassarle, idiota!» sbraitò, cercando di farsi sentire sopra il baccano delle voci degli attori. Tutti gli occhi si appuntarono su di lui e il suo stomaco brontolò di nuovo mentre si rendeva conto di essersi appena assicurato il ruolo del cattivo della pièce. Cercò di trovare un modo per trasformare il suo scoppio d'ira in uno scherzo, ma poi cambiò idea. Quincey Harker gli aveva insegnato che la paura era molto più efficace del rispetto. Il tecnico si affrettò a eseguire i suoi ordini, ma, nella foga, si confuse e il palco si illuminò di una luce blu. «Blu? No, no, no! Rosse! Quante volte ve lo devo dire? È il punto in cui il principe Dracula racconta le sue imprese di guerra!» Gli attori trasalirono e una voce chiese: «E cosa ne sapete voi della guerra, signor Deane?». Deane capì che il sussulto degli attori non era stato dovuto alla sua collera, ma all'apparizione di Basarab, e rimase interdetto. Il teatro piombò nel silenzio e tutti gli sguardi si posarono sul divo. L'intera compagnia pendeva dalle sue labbra, come discepoli intenti ad ascoltare il discorso della montagna. Basarab, in effetti, era una visione impressionante. Indossava un abito di raso nero e oro con un lungo strascico e brandiva uno spadone, maneggiandolo con disinvoltura, come se fosse un'appendice del suo braccio. La lama scintillava alla luce dei riflettori.

Sebbene Deane fosse il direttore, produttore e, almeno per il momento, regista dello spettacolo, la comparsa di Basarab in quel preciso istante gli parve quanto mai intempestiva. La sua reazione fu aggressiva: «Cosa ne so della guerra? Non quanto voi, ovviamente». Con un gesto fulmineo, Basarab gli puntò la spada alla gola. Gli attori utilizzavano in genere spade di legno, per ovvie questioni di sicurezza. Ma quella lama era vera. «La battaglia, signor Deane, non può essere ricreata su un palco cambiando semplicemente il colore delle luci» disse Basarab. Il suo tono gelido non riusciva a dissimulare la rabbia che provava. «Una spada sguainata in pugno, e la sete di sangue che ti invade mentre uccidi il tuo nemico. Ecco cos'è la battaglia. È una forma d'arte in sé. Se ne sente la mancanza, ai giorni nostri.» Poi la sua collera svanì, lasciando il posto alla malinconia, e per un attimo Deane pensò che Basarab credesse veramente alle sciocchezze che diceva. Quando finalmente abbassò la spada, Deane si portò istintivamente la mano al collo per accertarsi di non essere ferito. Era stato fortunato o Basarab era davvero abile con la spada? In ogni caso, quell'uomo era un pazzo furioso. D'un tratto, le porte del teatro si spalancarono con violenza, e il fragore rimbombò fino alla volta del soffitto. Tutti si voltarono per vedere chi fosse entrato con tale impeto. Deane si schermò gli occhi dalle luci della ribalta. Chi osava interrompere le prove in quel modo? Quando l'intruso si fece avanti, Deane si accorse che si trattava di una donna bellissima. I capelli corvini contrastavano nettamente con la pelle di porcellana. L'elegante abito di sartoria che indossava metteva in risalto la sua figura snella. Deane rimase tuttavia allibito di fronte alla volgarità di una donna che indossava i pantaloni. La sconosciuta venne avanti battendo le mani e disse, in tono di scherno: «Bravo! Bravo! Le vostre interpretazioni hanno ormai una potenza shakespeariana». Passando accanto a un gruppo di giovani attrici, si portò una mano al cappello e sorrise con aria maliziosa. «Buonasera, signore.»

Deane era fuori di sé. Poteva essere troppo debole per avere la meglio su Basarab, ma di sicuro non avrebbe lasciato che quella donna insolente la passasse liscia. Le andò incontro a grandi passi e le disse: «Perdonatemi, non so chi diavolo crediate di essere, ma queste sono prove a porte chiuse...». Basarab gli fu accanto in un lampo e gli bloccò la strada con la spada, sussurrandogli: «Per la vostra incolumità, vi consiglio di non aggiungere altro». Deane incrociò lo sguardo torvo della donna, che gli fece gelare il sangue nelle vene. Poi guardò Basarab e, per la prima volta da quando lo conosceva, gli parve sincero, cosa che lo confuse ancora di più. Basarab affrontò la donna, scuro in volto. Lei gli sorrise con aria beffarda. Deane intuì che i due avevano un passato comune, e che non doveva essere molto piacevole. «Contessa, vi aspettavo» disse Basarab. «Sembra che voi diate ragione al proverbio» osservò lei, avanzando verso il palco con il bastone da passeggio che graffiava il pavimento come una spada. Guardò Basarab scuotendo la testa, come se non riuscisse a credere ai suoi occhi. «Il tempo cura davvero tutte le ferite.» «Alcune sono troppo profonde per guarire» ribatté il divo, e Deane udì una profonda collera nella sua voce. La donna scoppiò in una risata non più beffarda, ma sinceramente divertita. «Quando la smetterete di giocare con le parole?» Basarab brandì la spada. «Preferite forse qualcosa di più movimentato?» La donna si irrigidì, come una vipera pronta a colpire. «Perché no?» disse in tono carezzevole, e sgranò gli occhi, impaziente di cominciare. «La scherma è molto più... interessante.» Durante una breve sosta a Salisbury, Arthur Holmwood scese di corsa dal treno e si precipitò in una delle nuove cabine telefoniche. Mentre l'addetto componeva il numero della sua casa di Londra,

Holmwood udì il primo fischio del treno. L'addetto gli porse il ricevitore, lasciando che entrasse nella cabina di legno per maggiore riservatezza. «Tutti a bordo!» urlò il capotreno. Holmwood ordinò a Wentworth, il maggiordomo, di fare in modo che la carrozza lo attendesse a Waterloo Station alle sei e dieci. «Sii puntuale!» si raccomandò. Si udì l'ultimo fischio e Holmwood corse via senza lasciare la mancia all'addetto né rimettere a posto la cornetta, saltando sul treno diretto a Londra proprio mentre cominciava a prendere velocità. Sfortunatamente, a causa di un gregge di pecore appena fuori Basingstoke, la locomotiva entrò in stazione alle sei e un quarto. Inoltre, negli ultimi dodici anni la stazione si trovava in uno stato di perenne ristrutturazione, e l'entrata principale sul lato nord-est era chiusa. Arthur e Mina dovettero uscire dal lato sud e raggiungere a piedi la carrozza di Holmwood. Il tempo non era dalla loro parte. Quincey sarebbe giunto al Lyceum Theatre cinque minuti dopo, e loro dovevano percorrere un tragitto di almeno dieci minuti. Malgrado l'urgenza, le maniere di Holmwood furono impeccabili. Aprì la porta della carrozza e porse la mano a Mina affinché salisse per prima. Lei, però, rifiutò il suo aiuto e cercò di salire sulla carrozza da sola. Holmwood avrebbe dovuto ricordare che considerava la cavalleria un insulto alla sua indipendenza. Sfortunatamente, però, Mina inciampò sull'orlo della gonna facendo cadere la borsetta e l'oggetto avvolto nello scialle. Il contenuto della borsetta, un portamonete, un mazzo di chiavi e il telegramma ancora chiuso, cadde a terra. Holmwood non riuscì a reprimere un sorrisetto. "Le sta bene" pensò. Mina fece per recuperare la sue cose, ma Holmwood, seccato, la prese per la vita e la issò sulla carrozza. Non avevano tempo da perdere. Prima di salire a sua volta, raccolse i vari oggetti sparsi a terra, chiedendosi cosa mai ci fosse in quello scialle. «Cocchiere! Al galoppo, per favore» sbraitò. Poi si accorse, con suo grande disappunto, che Mina si era seduta

sul sedile posteriore della carrozza, costringendolo a occupare quello anteriore. Accidenti a lei! L'etichetta prevedeva che le donne non sedessero sui sedili posteriori. Arthur, inoltre, odiava sedere nel senso opposto a quello di marcia. La carrozza procedeva rapidamente, ma non abbastanza per Holmwood, che, impaziente, sbatté il bastone sul tetto e gridò, sporgendosi dal finestrino: «Più veloce!». «Arthur, rilassatevi. Dobbiamo stare calmi.» Il tono della donna lo offese. Era come se si stesse rivolgendo a un bambino. Per tutta risposta, le mise in grembo, con poco garbo, gli oggetti che aveva raccolto poc'anzi. Mina, forse per la prima volta nella sua vita, decise di mordersi la lingua e non controbattere. Appoggiò gli oggetti sul sedile e aprì il telegramma, in modo da avere una scusa per ignorare Arthur. Appena lo lesse, tuttavia, trasalì e alzò su di lui gli occhi terrorizzati e già velati di lacrime. Aprì la bocca per parlare, ma non riuscì a dire nulla. Holmwood la conosceva da tanti anni, ma non l'aveva mai vista restare senza parole. Alla fine Mina disse, sottovoce: «Van Helsing è a Londra, Dice di essere stato attaccato nella sua stanza d'albergo da...» e si interruppe. «Da chi?» incalzò lui. «Da Dracula.» «Lo sapevo!» esclamò Holmwood, strappandole di mano il telegramma per guardarlo con i propri occhi. Ora aveva le prove di ciò che sosteneva. «Van Helsing vuole che lo raggiungiamo subito» mormorò Mina con lo sguardo perso nel vuoto. Il tempo si fermò per Arthur Holmwood. In un attimo, tutto ciò che sapeva o credeva di sapere svanì, e, per la prima volta da venticinque anni, ebbe di nuovo paura. Ma provò anche una sorta di euforia. Lucy non era più così lontana: la morte sarebbe giunta presto. Esultò al pensiero. In tempo di guerra, il mondo era semplice. Giusto o sbagliato, bianco o nero, vivere o morire. In

tempo di pace, invece, Arthur aveva l'impressione di andare alla deriva in un oceano grigio. Adesso, però, era di nuovo tempo di guerra. Si sporse dal finestrino e sbraitò al cocchiere: «Ho detto più veloce!». Poi si appoggiò al sedile con un sorriso soddisfatto. Era evidente che Mina non condivideva il suo entusiasmo, ma era profondamente turbata e assorta nei suoi pensieri. Holmwood cercò di immaginare cosa le passasse per la testa. Dracula era vivo. Era più che probabile che fosse stato lui a impalare Jonathan. Un tempo era stata sedotta dal suo fascino e ora si trovava di fronte alla possibilità che fosse stato lui a uccidere il marito. E poi c'era la contessa Bàthory, che Mina indicava come il vero nemico. Lei e Dracula erano complici? La Bàthory esisteva realmente? Vi erano solo domande e una sola certezza: la morte li attendeva. L'ispettore Cotford, le braccia cariche dei diari di Jack Seward e di altre prove, passò davanti a file di ispettori e poliziotti dall'aria annoiata seduti alla scrivania. Sapeva che stava sbuffando e battendo i piedi come un bambino contrariato, ma non gli importava. Aveva ottimi motivi per essere adirato: le sue ipotesi erano state frettolosamente accantonate dai superiori, che avevano persino messo in dubbio la sua integrità e la sua sanità mentale. Nessuno dei colleghi si prendeva la briga di alzare gli occhi e guardarlo. A nessuno importava dei casi irrisolti e del suo bisogno di sfidare il sistema. Sbatté le carte sulla sua scrivania. A lui importava, invece, ed era quella la sua maledizione. «Razza di idioti senza spina dorsale. "Perché rivangare il passato per delle teorie bislacche? Ecco cosa dicono!» Prese la bottiglietta d'argento e cercò di spegnere la sua rabbia con diversi sorsi di whisky. Solo allora gli altri parvero notarlo. Ecco, quel grassone di Cotford infrangeva l'ennesima regola bevendo in servizio. Lee gli si avvicinò e mise una mano sulla bottiglietta per impedirgli di bere un altro sorso. «Ispettore, un po' di discrezione, per favore.» «L'ufficio del procuratore della regina si è rifiutato di emettere un

mandato d'arresto per Van Helsing e Godalming!» esclamò Cotford. «I diari di un pazzo drogato non possono essere considerati attendibili, così dicono.» Lee lo fissò per un lungo momento. Aveva giurato di seguirlo finché i fatti non gli avessero dato ragione. Era evidente, ormai, che i pezzi grossi di Scotland Yard ritenevano che l'ispettore stesse vaneggiando. Huntley gli avrebbe sicuramente fatto rapporto. Non solo Cotford aveva compromesso ulteriormente la propria carriera, ma aveva, con ogni probabilità, danneggiato anche la sua. «Vado a casa, signore» replicò Lee. «Devo parlare con mia moglie. Temo che le ripercussioni di questa disavventura saranno molto gravi anche per me.» Cotford si lasciò cadere sulla sedia, pensando a ciò che lo aspettava. La sua ultima follia gli sarebbe costata cara e sarebbe probabilmente finita sui giornali. I suoi superiori lo avrebbero aspramente redarguito per aver infangato ancora una volta il buon nome di Scotland Yard. Il congedo forzato era ormai inevitabile. «Che vadano a farsi fottere!» esclamò, prendendo di nuovo la bottiglietta del whisky. «Dimenticavo questa» disse Lee freddamente, porgendogli una busta con l'indirizzo scritto a inchiostro rosso. «È arrivata stamattina.» E, senza aggiungere altro, uscì dall'ufficio. «Sarà una lettera d'amore di un'ammiratrice segreta» disse Cotford in tono sarcastico. Gli ispettori e i poliziotti si voltarono e tornarono al loro lavoro. Cotford strappò la busta e aprì la lettera che si trovava all' interno. Ancora prima di cominciare a leggere, riconobbe la calligrafia e si ritrovò catapultato a venticinque anni prima. Il cuore gli batteva all'impazzata. "Perdio, avevo ragione!" Balzò in piedi e corse fuori dalla stanza, chiamando a gran voce Lee. Lo raggiunse a metà delle scale, ed era talmente eccitato che non riusciva quasi a parlare. «L'ha scritta lui!» esclamò, sventolando la lettera. «Anche venticinque anni fa scriveva lettere, prendendosi gioco di Abberline e di me. Una volta ne spedì una imbrattata del sangue del rene di

una delle vittime. La calligrafia e la firma sono le stesse. È lui! Ce l'abbiamo fatta, sergente! L'abbiamo stanato, quel bastardo!» Lee lo guardò con aria perplessa. Cotford aveva un sorriso radioso. Gli mise in mano la lettera e gli disse: «Invece di fissarmi, leggila!». Lee obbedì cautamente. «Potrebbe essere opera di un burlone che conosceva le lettere originali dello Squartatore» osservò. Cotford, che aveva previsto le obiezioni, peraltro sensate, di Lee, ribatté: «Impossibile! Le nostre attuali indagini non sono ancora finite sui giornali. Solo l'ufficio del procuratore della regina ne è al corrente, e solo da stamattina. La lettera è stata spedita giorni fa. Guarda il timbro postale». Lee parve meno scettico. L'ispettore non aveva tutti i torti. Lesse la lettera, che diceva:

Caro ispettore, le risposte che cercate sono in possesso di Quincey Harker. Recatevi al Lyceum Theatre mercoledì sera e ogni mistero sarà svelato. Cordiali saluti dall'inferno Lee alzò gli occhi su Cotford. «Ma è stasera!» Cotford sorrise di nuovo. Lee era tornato dalla sua parte. Non sapeva a quale gioco stesse giocando lo Squartatore, ma si era messo in contatto con lui dopo un quarto di secolo. Non se lo sarebbe lasciato sfuggire, stavolta! Quella sera sarebbe finito tutto, in un modo o nell'altro. «Sergente, raduna i tuoi uomini.»

Capitolo 38 Il magazzino dietro le quinte era lo scenario ideale per un finale di partita. Vi erano stipati costumi, fondali e arredi scenici, ed era perennemente immerso nella penombra. Non c'erano luci elettriche, in quella parte del teatro: i membri della troupe non avevano bisogno di lussi del genere. Le lampade a gas ai quattro angoli della stanza proiettavano lunghe ombre tremolanti. La contessa Bàthory rise fra sé mentre aspettava Basarab. Era così prevedibile! Credeva ancora che Dio fosse dalla sua parte. Poi lo vide avanzare, con lo spadone in pugno. Non aveva paura: era questa la sua follia. Non capiva che Dio non premiava mai la lealtà. La contessa adorava giocare al gatto col topo. Vide Basarab cercarla fra i costumi appesi agli appendiabiti. Non aveva alcuna possibilità di avere la meglio su di lei. Nessun uomo l'aveva. Nemmeno Dio poteva distruggerla, figuriamoci Basarab! D'un tratto, il divo affondò la spada, ma la contessa, con la sua velocità sovrumana, schivò agevolmente il colpo. «Se siete così potente, venite fuori e affrontatemi, strega!» gridò Basarab. Elizabeth, però, voleva assaporare quel momento. Aveva molti debiti da riscuotere, prima che il gioco finisse. «Siete stato voi a venirmi a cercare» disse, nascosta nell'ombra. «Dopo tutto ciò che avete fatto, credete ancora che Dio sia dalla vostra parte. Siete arrogante e prevedibile.» Basarab, intanto, cercava di avvicinarsi a lei, aspettando il momento opportuno per metterla all'angolo e colpire. «Credevo di potervi salvare dall'oscurità.» La contessa si fermò e alzò la testa per farsi vedere dietro uno degli scaffali. «Avevate giurato di rimanere per sempre al mio fianco.» Basarab fece una smorfia. Il dolore del passato era ancora vivo nel presente. Poi disse, in un tono che le parve quasi sincero: «Sì, c'è stato un tempo in cui sono stato così sciocco da credere che avremmo potuto unire le nostre forze. E c'è stato un tempo in cui vi

ho persino amata». «Sapevate che non era possibile.» «Siete stata voi a scegliere di infrangere le leggi di Dio e dell'uomo» replicò Basarab. «Ah, è per questo che avete cercato di uccidermi» disse lei, ritirandosi nell'ombra. Il gioco stava per concludersi. Basarab sollevò la spada e colpì lo scaffale dove, pochi istanti prima, aveva intravisto la testa della contessa. Poi si lanciò in avanti, abbattendo scaffali e rovesciando arredi scenici. «Quando ho visto il male che vi divorava l'anima, non ho avuto scelta!» La contessa spuntò da dietro un appendiabiti per affrontare Basarab, di spalle, in fondo alla stanza. Questi, avvertendo la sua presenza, si voltò di scatto, brandendo la spada. Era certo che lo avrebbe attaccato, ma la contessa non era ancora pronta a fare la sua mossa. Quel gioco era troppo divertente. «Il vostro Dio mi ha portato via tutto ciò che avevo di più caro. I suoi seguaci mi hanno perseguitata per dei sentimenti che non potevo dominare. Non ho altra scelta che vendicarmi su di Lui e sui suoi figli. Non ostacolatemi.» Basarab abbassò la spada in segno di pace. «Andatevene. Non tormentate più Quincey, la sua famiglia e i suoi amici» disse, e le si avvicinò. La contessa indietreggiò e gli sussurrò: «Quando avete convinto Seward e i suoi amici a darmi la caccia, avreste dovuto sapere che li avreste condannati a morte». Poi si nascose di nuovo in un angolo fiocamente illuminato da una lanterna, trattenendo il fiato. Basarab era confuso. Perché si era nascosta? Perché sembrava impaurita? Ma poi decise di rischiare e gridò «Mettete fine una volta per tutte ai vostri crimini insensati o vi distruggerò!». «Una volta avete finto di essere morto per sfuggire alla mia ira!» ribatté lei sorridendo, e aggiunse: «Ma adesso è finalmente giunta la vostra ora». Il gioco era finito. Era il momento di riscuotere il debito. Solo allora Basarab capì che si era finta spaventata per suscitare la sua compassione e attirarlo in una trappola. La contessa lesse il

terrore sul suo viso. L'aveva messa con le spalle al muro, ma sarebbe stato lui a morire, pensò. In un attimo, i suoi occhi si scurirono e le labbra si ritrassero, scoprendo canini affilati quasi come zanne. Basarab fece roteare la spada, ma era troppo lento. La contessa aveva già spiccato un balzo, afferrando al volo la lanterna e lasciandola cadere a terra prima di atterrare agilmente alle spalle di Basarab. Il lungo strascico del divo prese immediatamente fuoco. Lui urlò e si contorse, mentre le fiamme divampavano, estendendosi, nel giro di pochi secondi, all'intera stanza. Basarab cadde a terra, cercando disperatamente di spegnere il fuoco che lo avvolgeva. La contessa Bàthory lo guardò ridendo. Poi aprì la porta e uscì, lasciandosi alle spalle le ceneri del suo passato. Arthur Holmwood sospirò. Anni prima, l'amministrazione londinese gli aveva chiesto una donazione per la ricostruzione del Waterloo Bridge. Il granito della Cornovaglia si stava deteriorando, senza contare i difetti strutturali. All'epoca non aveva visto l'utilità di finanziare un'opera del genere, e aveva suggerito all'amministrazione di attingere ai fondi pubblici. Ma le casse della città erano vuote e la popolazione era già oberata dalle tasse, quindi l'unica possibilità fu quella di chiudere di tanto in tanto il ponte per effettuare riparazioni provvisorie. Era esattamente ciò che era accaduto quel giorno. Così, sebbene il Lyceum Theatre si trovasse in fondo al Waterloo Bridge, Arthur e Mina furono dirottati, insieme ad altre decine di carrozze e centinaia di persone, sul Westminster Bridge e costretti a procedere a passo d'uomo. Quando finalmente riuscirono ad attraversare il ponte, il cocchiere svoltò sul Victoria Embankment con l'intenzione di imboccare Savoy Street, che li avrebbe portati a destinazione. La strada, tuttavia, aveva recentemente cambiato senso di marcia, e la carrozza dovette proseguire verso est passando sotto il Waterloo Bridge e poi davanti al King's College prima di trovare una traversa che li conducesse di nuovo a nord, verso lo Strand. Così, un tragitto di dieci minuti si trasformò in un'odissea di mezz'ora. Arthur era esasperato, e persino Mina, che fino ad allora era riuscita a mantenere la calma, perse il suo contegno. Quincey sarebbe arrivato

al teatro prima di loro. Mentre la carrozza sfrecciava verso il Lyceum, Mina e Arthur udirono un boato. Doveva essere accaduto qualcosa. La strada era vuota, ma il fragore sembrava venire da poco lontano. Si trattava probabilmente di un altro ingorgo, ma non potevano fare altro che proseguire. Holmwood batté di nuovo il bastone sul tetto della carrozza e il cocchiere spronò i cavalli, ma la tensione di Mina non si allentò. Giunti all'angolo di Wellington Street, una carrozza nera senza cocchiere tagliò loro la strada. Il loro cocchiere tirò le redini con tutte le sue forze, e gli stalloni si impennarono, nitrendo, ma l'urto fu inevitabile. Il cocchiere fu scaraventato in aria e la carrozza si ribaltò. L'ultima cosa che Arthur Holmwood udì fu uno schianto. Poi fu solo il buio. Wellington Street era nel caos. La gente faceva avanti e indietro trasportando secchi d'acqua. Le campane risuonavano in lontananza. Le carrozze cercavano di aprirsi un varco tra la follali cielo era pieno di grida e cenere. Quincey si fece strada tra la ressa e vide il Lyceum Theatre avvolto dalle fiamme. D'un tratto, una parte del tetto crollò e l'incendio divampò, tingendo il cielo notturno di Londra di un rosso infernale. Attori e membri della troupe uscivano tossendo dal teatro, coperti di fuliggine e con i vestiti bruciacchiati. Alcuni erano gravemente ustionati. I capelli di una donna avevano preso fuoco, lasciandola calva e con il cranio coperto di vesciche. L'aria era satura dell'odore nauseabondo della cenere e della carne bruciata. Quincey era atterrito. A un certo punto, riconosciuta la sagoma allampanata di Hamilton Deane emergere dalla cortina di fumo, gli corse incontro e lo sorresse. «Deane! Cos'è successo?» Deane farfugliò: «È arrivata una donna... una contessa... Basarab si è allontanato con lei... e poi le fiamme... ovunque...». «Basarab!» esclamò Quincey, scuotendolo. «È riuscito a mettersi in salvo?» «Non lo so. Non credo.»

Quincey lo spinse via e si precipitò verso l'entrata del teatro. Deane gli gridò dietro: «Quincey! No! È un suicidio!». Giunto davanti al colonnato, Quincey fu investito da una vampa di calore ed esitò. Una parte di lui voleva salvare a tutti i costi l'uomo di cui si fidava, il suo amico e mentore. L'altra voleva trovare l'uomo che gli aveva mentito, tradendo quella fiducia. In un modo o nell'altro, doveva portare in salvo Basarab: chi altri avrebbe potuto rispondere a tutte le sue domande? Si riparò il volto dal fuoco e dal fumo, fece un profondo respiro, salì di corsa i gradini ed entrò nel Lyceum in fiamme. L'ultima cosa che Mina udì prima che Arthur Holmwood le cadesse addosso e lei svenisse fu uno schianto. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse rimasta priva di sensi, ma, quando si svegliò, vide Arthur chino su di lei. «State bene?» le chiese. «Sono ancora viva» rispose lei, incredula. Holmwood le porse la mano, e stavolta Mina la prese, lasciando che lui la aiutasse a tirarsi su e a uscire dal finestrino della carrozza ribaltata. La manovra si rivelò più difficile del previsto a causa della lunga gonna che indossava. Poi, mentre recuperava la spada avvolta nello scialle, Mina chiese ad Arthur: «Prima di svenire ho sentito uno schianto. Avete rotto qualcosa?». Lui le indicò il bastone da passeggio, che era a terra, spezzato in due. In quel momento, udirono un gemito: era il cocchiere, che giaceva in mezzo alla strada. Mina e Holmwood, ancora storditi, andarono in suo soccorso e videro che si era rotto una gamba e l'osso aveva lacerato la pelle, causando un'emorragia. «Sta perdendo troppo sangue» osservò Mina. «L'osso deve aver reciso un'arteria.» Svolse lo scialle che celava la spada e lo legò strettamente intorno alla gamba del cocchiere, proprio sopra la ferita, sperando di arrestare l'emorragia. Quando notò che Holmwood non la stava aiutando, pensò che non volesse sporcarsi le mani con un umile domestico. Ma quando alzò gli occhi per redarguirlo si accorse che

era corso a cercare aiuto e a capire a cosa fosse dovuto il trambusto che proveniva da Wellington Street. «Un incendio!» le gridò dall'angolo delia strada. «Al Lyceum!» Non poteva essere una coincidenza. Mina gli disse: «Andate! Io resto con il cocchiere. Trovate Quincey!». Lui annuì e scomparve dietro l'angolo. Mina strinse ulteriormente lo scialle. Avrebbe voluto seguire Holmwood, ma non poteva lasciare quell'uomo da solo. Vide alcune persone affacciate alla finestra di un edificio vicino e urlò: «Qualcuno mi aiuti! Quest'uomo è gravemente ferito! Ha bisogno di un medico!». Per tutta risposta, le persone scomparvero dentro casa, chiudendo accuratamente le persiane: non avevano alcuna intenzione di farsi coinvolgere. Mina guardò di nuovo il cocchiere. Non aveva scelta: la paura per l'incolumità di suo figlio era più forte di tutto. Lasciò l'uomo in agonia e seguì zoppicando Arthur Holmwood. Mentre passava accanto all'altra carrozza, nera e dalle finiture dorate, la porta si aprì improvvisamente. Intravide una massa di capelli corvini, due occhi neri come la pece e denti appuntiti. Ebbe giusto il tempo di capire che si trattava della vampira quando questa le si scagliò contro.

Capitolo 39 Arthur Holmwood si fece strada tra la folla radunatasi davanti al teatro. Dall'alto del suo metro e novanta, riusciva a vedere sopra le teste degli spettatori, malgrado il denso fumo gli bruciasse gli occhi. Più cercava di andare avanti, più la gente lo spingeva indietro. Gli sembrava di avanzare tra le sabbie mobili. Finalmente, la folla si fece da parte per far passare il carro dei pompieri, trainato da tre cavalli. Sapendo che la cavalleria precedeva sempre la fanteria, Holmwood si posizionò dietro il carro. Superò la fila di persone che si passavano di mano in mano dei secchi pieni d'acqua, e si ritrovò in mezzo alla moltitudine riunitasi davanti al colonnato del teatro, che fissava come ipnotizzata le lingue di fuoco. «Toglietevi di mezzo!» sbraitò. Gli vennero in soccorso due pompieri muniti di maniche antincendio, che cercavano come lui di raggiungere l'entrata. Il calore sprigionato dalle fiamme era così intenso che era improbabile che vi fossero dei sopravvissuti. Attraverso le finestre rotte del teatro, vide interi muri crollare. Nessuno dei pompieri entrò: era troppo pericoloso. Poi vide due di essi che innaffiavano gli edifici ai lati del teatro. La loro non era più un'operazione di salvataggio, ma un'azione di contenimento. Il Lyceum era perduto, ormai, ma bisognava impedire che l'incendio si estendesse all'intera strada. Arthur giunse finalmente ai piedi delle scale. Salì alcuni gradini per avere una visuale migliore e cercò Quincey tra la gente. Sperava che il giovane non fosse entrato o che avesse avuto il buonsenso di fuggire in tempo. Poi vide un uomo magro con gli occhiali coperto di cenere e fuliggine farsi strada tra la folla e avvicinarsi ai pompieri gridando: «Quincey Harker è ancora dentro!». Era Hamilton Deane. Holmwood ebbe un tuffo al cuore. «Vi prego, dovete aiutarlo!» Uno dei pompieri lo spinse via, dicendo: «Se è ancora dentro, è già morto». Holmwood si sentì impotente, e per un uomo d'azione non c'era niente di peggio. Era la stessa sensazione che aveva provato

vedendo morire-Lucy e Quincey P. Morris. Non di nuovo! Non quella volta! Non sotto i suoi occhi! Si lanciò verso l'entrata del teatro, in mezzo alle fiamme. Un pompiere gridò: «Tornate qui! Siete matto?». Le fiamme arretrarono per un istante, e Holmwood le attraversò correndo. Il caldo era insopportabile. Un attimo prima che varcasse la soglia, il fuoco divampò nuovamente, ricacciandolo indietro. Gli sembrava di essere alle porte dell'inferno. Disperato, urlò: «Quincey!». Quincey respirava a fatica. Il fumo gli bruciava gli occhi. Si riparò il volto dalle fiamme, cercando un varco per giungere dietro le quinte. «Basarab, dove siete? Basarab? Rispondetemi!» Aprì una porta con un calcio e fu investito da un'ondata d'aria calda. Le fiamme divamparono verso il soffitto, avvolgendolo. Quincey era nel ventre della bestia, e rischiava di venire divorato vivo. Accucciandosi per evitare la cortina di fumo, raggiunse un'altra porta, si appiattì contro il muro e toccò la maniglia, ritraendo subito la mano con un grido di dolore. Il legno scricchiolava in modo sinistro. Quincey si coprì il volto e, un attimo dopo, la porta esplose in mille schegge, e le fiamme divamparono. Il teatro stava per crollare, ormai. Doveva uscire subito, o sarebbe morto. Si rialzò, deciso a darsi alla fuga, quando, attraverso il denso fumo, scorse un corpo intrappolato sotto le macerie. Era avvolto in un abito nero bruciacchiato e la mano ustionata stringeva ancora uno spadone. «Basarab!» esclamò Quincey, precipitandosi verso di lui, incurante del caldo infernale. Il volto, però, era irriconoscibile. Ogni speranza di ottenere le risposte che cercava svanì. Basarab era morto. Chi era la contessa di cui aveva parlato Deane? Quincey non era quasi riuscito a piangere per il padre; ma per Basarab, che pure gli aveva mentito, si sciolse in lacrime. La sua battaglia con Dracula sembrava persa ancor prima di cominciare. Le lacrime, unite al fumo,

lo accecarono. Pochi istanti dopo, udì un terribile schianto e il soffitto cedette. Le pesanti travi di legno gli caddero addosso prima che avesse il tempo di ripararsi la testa. Una di esse gli si conficcò nel costato, strappandogli un grido di dolore. Era in trappola. La Donna in bianco dai capelli scuri balzò fuori dalla carrozza nera, il volto stravolto, gli occhi di pece e canini scintillanti. Colpì Mina in pieno petto, e ruzzolarono entrambe a terra. Nessuno in Wellington Street fece caso a loro: gli occhi di tutti erano fissi sul Lyceum Theatre. Mina, in mezzo a una metropoli, era sola. La Donna in bianco le si mise a cavalcioni e la afferrò per i capelli, tirandole indietro la testa e avvicinandole i denti al collo con un ululato di vittoria. Mina cercò di divincolarsi, ma la Donna in bianco era troppo forte. «La contessa vi invia il suo amore eterno» ringhiò la vampira, e fece per azzannarla. Mina aveva già sperimentato il bacio di un vampiro, ma quello era diverso: l'intento della Donna in bianco era quello di sgozzarla. «No!» urlò. Dopo tutto quello che aveva passato, non avrebbe lasciato che la uccidesse proprio adesso, quando Quincey aveva più bisogno di lei. Si sentì sopraffare dalla rabbia, e la bestia che dormiva da anni nel suo sangue, il sangue di Dracula, si risvegliò. Il cuore cominciò a batterle all'impazzata e il sangue prese a scorrerle nelle vene come se avesse una volontà propria, conferendole una forza e una velocità sovrumane. Prima che la Donna in bianco si rendesse conto della sua trasformazione, Mina la afferrò e la scaraventò contro un lampione di ferro, che si spezzò in due in una pioggia di scintille. La vampira ricadde a terra con un tonfo sordo e l'asta del lampione la schiacciò. Mina si guardò le mani, incredula. Poi alzò la testa in tempo per vedere la Donna in bianco sollevare il lampione come fosse un fuscello e lanciarglielo contro. Mina balzò

istintivamente di lato, schivandolo con incredibile facilità. Poi corse a recuperare la spada, a terra accanto alla carrozza di Holmwood. Sguainandola, si voltò di scatto proprio mentre la vampira le si scagliava contro e le trafisse il petto. In realtà il suo intento era di decapitarla, quindi fece roteare nuovamente la katana: non avrebbe mancato il bersaglio, stavolta. La spada fendette l'aria e puntò dritto al collo della Donna in bianco, che, ringhiando come una bestia feroce, sollevò un braccio e parò il colpo con una mano. Il sangue sgorgò a fiotti dalla ferita profonda fino all'osso, ma la vampira afferrò la lama e la spezzò in due. Poi strappò l'elsa dalle dita di Mina, che si sentì proiettare in avanti e cadde pesantemente su una ruota della carrozza, che si spaccò; l'asse di ferro le si conficcò nella schiena, lasciandola senza fiato. «Combatti come un uomo» disse ridendo la Donna in bianco. «Credevo che un principe avrebbe scelto una donna più gentile da amare.» Mina replicò, ansimando: «Non tutte le donne sono schiave dei loro padroni». Offesa, la Donna in bianco emise un ringhio bestiale e le si scagliò contro a una velocità incredibile. Mina era certa che fosse giunta la sua ora. In quel preciso istante, le apparve l'immagine del suo principe delle tenebre, che, guardandola terrorizzato, le urlò: «Spostati!». Mina perse il controllo del proprio corpo. Era come se il sangue di Dracula che le scorreva nelle vene rispondesse all'ordine del suo padrone. Vide la propria mano afferrare il bastone spezzato di Holmwood e brandirlo come un lanciere che si appresti ad affrontare la carica della cavalleria. La vampira non riuscì a fermarsi in tempo e l'estremità appuntita del bastone le trafisse il cuore. Mina sentì un fiotto di sangue gelido inondarle il viso e le mani, facendola rabbrividire. L'urlo di vittoria della Donna in bianco si trasformò in un gemito di agonia. Fissando incredula Mina, disse con voce rotta: «Come...?». «La tua padrona non ti aveva avvertita? Sono la sgualdrina di

Dracula!» ribatté lei, e, così dicendo, la afferrò e la scaraventò contro il muro di un edificio vicino. I mattoni si spaccarono per la forza dell'urto, e la vampira si accasciò al suolo. Quando i suoi occhi si chiusero per sempre, il volto riacquistò la sua sembianza umana. Dracula l'aveva salvata, ma aveva anche ucciso suo marito. Mina non sapeva quale sentimento prevaleva in lei. Tornò alla carrozza di Holmwood, trovando il cocchiere morto, e si chiese se, in fondo, non fosse anche lei un'assassina come lui. Le grida provenienti da Wellington Street la strapparono ai suoi pensieri. "Quincey!" pensò, togliendo le briglie a uno degli stalloni. Al diavolo l'etichetta: non aveva tempo per montarlo all'amazzone. Sollevò la gonna e sali a cavalcioni sul dorso nudo del cavallo. Poi, aggrappandosi alla criniera, lo spronò e si lanciò al galoppo verso il Lyceum, facendosi strada tra la folla terrorizzata. Non si fermò davanti a nulla. Di fronte al teatro in fiamme lo stallone spaventato s'impennò e Mina rischiò di essere disarcionata, ma la sua nuova forza la salvò ancora una volta. Lo spronò e proseguì fino al colonnato, ma era inutile, ormai: l'incendio aveva fatto crollare il tetto dell'edificio, rovesciando a terra una pioggia di tizzoni ardenti che illuminavano la notte di Londra. Mina vide alcuni pompieri che cercavano di calmare un uomo evidentemente fuori di sé. «Arthur!» gridò. Holmwood si divincolò e si diresse barcollando verso di lei. Scuoteva la testa con gli occhi pieni di lacrime e un'espressione sconfitta che Mina gli aveva visto solo in un'altra occasione. Col cuore in gola, gli chiese: «Cos'è successo? Dov'è mio figlio? Dov'è Quincey?». Arthur Holmwood non si era mai tirato indietro davanti a nulla. Eppure, non riusciva a guardarla negli occhi. Con voce rotta, rispose: «Mina, mi dispiace. Quincey è morto».

Capitolo 40 Si dice che non vi sia dolore più grande per un genitore che sopravvivere a un figlio. Non avendo eredi, Arthur Holmwood non avrebbe mai creduto di dover appurare la veridicità di quell'affermazione. E invece se ne stava in piedi davanti a Mina, che continuava a fissare il teatro in fiamme come una statua di sale. La luce nei suoi occhi si era spenta. Arthur pensò che il cuore le si fosse pietrificato. Per quanto nutrisse nei suoi confronti un profondo rancore, non avrebbe mai potuto augurarle una tragedia del genere. Suo figlio, poi, gli piaceva più di quanto non volesse ammettere. Era uno scapestrato, ma lo era stato anche lui alla sua età. Aveva sperato che il Fato gli avrebbe risparmiato la triste fine toccata a Jonathan e a Jack. La stessa che sembrava attendere tutti loro. I pompieri ricacciarono indietro la folla ammutolita. Avevano attorcigliato gli idranti e spento le pompe dell'acqua. Non c'era più nulla da fare se non attendere la fine. Holmwood guardò Mina e un pensiero spaventoso gli attraversò la mente: sarebbe stata cosi sciocca da gettarsi nel fuoco per raggiungere suo figlio? Per precauzione, prese le redini del cavallo e cominciò ad allontanarsi dal teatro. Mentre camminava, continuò a osservarla con la coda dell'occhio, cercando di valutare le sue intenzioni. D'un tratto, la vide indicare l'entrata del teatro. «Quincey!» gridò. Arthur pensò che fosse impazzita, ma poi, voltandosi, rimase sbigottito nel vedere Quincey Harker emergere barcollando dalle fiamme. In quel preciso istante, si udì un terribile scricchiolio. Sui muri esterni del teatro apparvero crepe profonda l'intera struttura stava collassando. Mina smontò rapidamente da cavallo e Holmwood corse incontro a Quincey, che era coperto di fuliggine e aveva il cappotto in fiamme, ma sembrava non essersene accorto. Holmwood lo afferrò per il bavero e lo trascinò via. «Corri, Quincey!» gli gridò. Poi lo spinse giù per le scale e spiccò un balzo per mettersi a sua volta in salvo, mentre l'edificio crollava. La folla lanciò un grido di orrore. Una densa nube di fumo nero si levò dalle

macerie. Solo il colonnato di marmo del teatro rimase in piedi. Mina soffocò le fiamme del cappotto di Quincey e poi lo aprì, per verificare che non fosse ferito. «Quincey, stai bene?» Il giovane era profondamente turbato e non rispose, ma non ve ne fu bisogno: non aveva un graffio. Holmwood scosse la testa, incredulo. Aveva partecipato a decine di battaglie e toccato con mano le conseguenze degli scontri sui corpi di tanti giovani coraggiosi. Ma non aveva mai visto nulla del genere. Non si trattava di fortuna, bensì di un miracolo. Un uomo con una borsa da medico corse loro incontro, seguito da due pompieri dall'aria allarmata. Mina guardò Holmwood terrorizzata: "Non lasciare che lo vedano". Arthur si parò loro davanti dicendo, in tono perentorio: «State indietro. Tutti quanti!». Gli uomini, intimoriti, obbedirono. Poi si voltò verso Mina e Quincey e gridò: «Dobbiamo andarcene da qui!». Gli occhi di Quincey si riempirono di lacrime. «È morto... Basarab è morto.» Ma non era il momento di abbandonarsi al dolore. Holmwood aiutò Quincey ad alzarsi sotto gli occhi sbigottiti dei presenti, che si resero conto che il giovane era illeso, e lo trascinò via mentre Mina correva a recuperare lo stallone. Holmwood non era affatto stupito dalla miracolosa incolumità di Quincey: conosceva sin troppo bene i motivi che l'avevano resa possibile. Mina doveva il suo aspetto giovanile al fatto di aver bevuto il sangue di Dracula, che era passato, attraverso il suo grembo, anche nelle vene del figlio. Mentre si allontanavano dalla folla, Arthur provò, per la prima volta, un barlume di speranza. Dracula aveva commesso il suo primo errore tattico. Forse, oltre alla capacità di guarire, Quincey aveva ereditato dal principe anche la forza fisica. Un'arma potente da usare contro di lui. Cotford imprecò sottovoce. Da quando la stazione dei pompieri di Waterloo era stata chiusa, due anni prima, quella di Scotland Yard era oberata di lavoro e le carrozze dei pompieri sfrecciavano continuamente per le strade a sirene spiegate. Il cocchiere della carrozza della polizia su cui viaggiava e che stava percorrendo

Whitehall in direzione dello Strand, era costretto ad accostare a ogni piè sospinto per lasciare passare i pompieri. L'incendio, dovunque fosse, doveva essere stato davvero di enormi proporzioni. Sembrava che tutta Londra si fosse riversata nelle strade per assistere allo spettacolo, poiché le vie principali della città erano impraticabili. Se lui, Lee e gli altri poliziotti armati che partecipavano alla missione avessero voluto arrivare in tempo all'appuntamento con lo Squartatore, avrebbero dovuto aprirsi un varco tra la folla. Nervoso e impaziente, Cotford si sporse dal finestrino e si voltò a guardare l'altra carrozza della polizia, bloccata, come la sua, dal caos. Cotford urlò alla moltitudine che intralciava il passaggio: «Toglietevi di mezzo! Via». Lee gli diede manforte affacciandosi all'altro finestrino: «Polizia, lasciate passare!». Cotford imprecò nuovamente quando vide che il Waterloo Bridge era chiuso per lavori e gridò al cocchiere: «Girate a destra su King William Street. Prenderemo St. Martin's in modo da evitare la folla e poi torneremo indietro!». Poi si appoggiò al sedile con una familiare sensazione alla bocca dello stomaco, la stessa che aveva provato venticinque anni prima quando si era lasciato scappare lo Squartatore. Il suo appuntamento con il temibile assassino sarebbe stato ritardato di altri venti minuti. E Cotford sapeva che quella poteva essere la sua ultima possibilità per chiudere i conti con il passato. Sballottata qua e là dalla folla, Mina cercò di trattenere le lacrime mentre osservava Arthur Holmwood camminare accanto a Quincey. Avrebbe tanto voluto confortare il figlio. Aveva rischiato di perderlo, eppure non riusciva a trovare il modo per esprimere i suoi sentimenti. «Che ci fa lei qui?» domandò Quincey ad Arthur Holmwood, continuando a ignorare la madre. «Credevo di potermi fidare di voi!» Mina ne aveva avuto abbastanza. Lo afferrò per un braccio e gli disse: «Sono ancora tua madre! L'unica che hai, e ti voglio bene».

«Vi sembra questo il momento di litigare?» intervenne Arthur. «Dobbiamo trovare Van Helsing! Subito!» Quincey aprì la bocca per protestare, ma Holmwood gli diede uno spintone, costringendolo a proseguire. Avevano già perso abbastanza tempo: avevano cercato di raggiungere l'imbocco di Wellington Street, che si trovava a un tiro di schioppo dal Lyceum, ma l'incrocio era bloccato dai carri dei pompieri e dai curiosi, quindi erano stati costretti a tornare indietro. Mentre passavano di nuovo davanti al teatro in fiamme, lo stallone, impaurito, si impennò, rischiando di disarcionare Mina. Holmwood si tolse la cravatta e lo bendò, tenendo ben strette le briglie. Poi, mentre si dirigevano verso nord, Quincey raccontò loro ciò che aveva appreso. «Mi state dicendo che una contessa ha appiccato l'incendio per uccidere Basarab?» gli chiese Holmwood. Quincey annuì. Holmwood lanciò un'occhiata severa a Mina, che capì perfettamente cosa stesse pensando. La contessa Bàthory, le morti di Jonathan e Seward e il telegramma di Van Helsing indicavano un'unica possibilità: che Dracula fosse vivo e fosse tornato in Inghilterra. Quanto all'eventualità che avesse scoperto il segreto che Mina gli aveva nascosto e fosse tornato a reclamare ciò che era suo con ogni mezzo necessario, vale a dire anche agendo di concerto con Elizabeth Bàthory e uccidendola, Mina preferiva non pensarci. «Cosa c'è?» le chiese Quincey, vedendola assorta. «Dracula è vivo. Ed è qui a Londra...» «Mina Harker! Arthur Holmwood!» esclamò una voce familiare. «Fermi dove siete!». Mina alzò lo sguardo e vide due carrozze della polizia sbucare da Tavistock Street. Da una di esse scese Cotford, seguito dal sergente Lee. «Non muovetevi» ordinò loro Lee. «Dobbiamo interrogarvi.» Dalle carrozze emersero numerosi poliziotti. Lee fece loro strada, sfruttando la sua stazza per aprirsi un varco tra la folla. Non c'era tempo da perdere. Mina spinse Quincey verso

Holmwood e gridò: «Prendete il cavallo!». Holmwood balzò in groppa allo stallone, togliendogli la benda. Quincey, confuso, esclamò: «Che succede?». Per tutta risposta, Holmwood lo prese per la collottola e lo issò sul cavallo. «Fermateli!» urlò Cotford. «Non lasciateli scappare!». Holmwood estrasse una pistola dalla tasca ed esplose alcuni colpi in aria per disperdere la moltitudine di persone che li circondava. Un poliziotto imbracciò il fucile e prese la mira, ma Lee spinse la canna verso il cielo notturno. «Non sparare sulla folla, idiota!» Holmwood, invece, esplose altri colpi, e Quincey gli urlò: «Siete impazzito?». «Sì, tanti anni fa, signor Harker» ribatté lui, con un luccichio negli occhi. Poi spronò lo stallone e partì al galoppo dirigendosi a nord, verso Bow Street. «Fermatevi!» sbraitò Cotford, puntando la pistola sulla schiena di Quincey. Ora che la folla si era dispersa, aveva la visuale libera, e intendeva approfittarne. «No! Mio figlio no!» esclamò Mina, parandoglisi davanti. «Accidenti!» esclamò Cotford. Poi, rivolto ai suoi uomini, gridò: «Prendeteli!». Due poliziotti si lanciarono all'inseguimento a piedi mentre Lee e gli altri si precipitarono verso la carrozza più vicina. Cotford fermò Price e un altro giovane poliziotto, Marrow. «Aspettate! Voi due restate con me.» Poi si rivolse a Mina e sibilò: «Grazie infinite, signora Flarker. Ora sappiamo chi è vostro figlio. Dove stanno andando?». Lei si raddrizzò e rispose: «Non ne ho la più pallida idea. E, di grazia, cosa c'entra mio figlio con tutto questo?». Cotford fece una smorfia e stava per riversarle addosso tutta la sua rabbia quando un urlo squarciò la notte. Tutti si voltarono a guardare una donna che correva lungo la strada gridando: «C'è stato un omicidio!».

Cotford, Price e Marrow trascinarono Mina alla carrozza di Holmwood. Quella notte sarebbe rimasta negli annali di Londra. Un incendio spettacolare, una fuga miracolosa e una donna assassinata per la strada, col cuore trafitto da un palo. Cotford esaminò attentamente il bastone da passeggio che sporgeva dal petto insanguinato della vittima. Poi si rivolse alla folla e disse, con aria trionfante: «L'arma del delitto porta lo stemma della famiglia Holmwood». Afferrò Mina per un braccio e la costrinse a voltarsi, mostrando a tutti il suo abito sporco di sangue. «Sareste così gentile da spiegarmi da dove proviene questo sangue?» «Mio figlio è rimasto ferito nell'incendio del teatro.» «Signore, guardate qua» esclamò Price, raccogliendo la katana insanguinata. Cotford spinse Mina verso Marrow, facendogli cenno di tenerla d'occhio, ed esaminò la lama spezzata, che recava l'incisione: Jonathan Harker. L'alleanza anglo-giapponese. «Molto intelligente da parte vostra usare un'arma con sopra il nome di vostro marito» osservò. Mina aprì la bocca per rispondere, ma non riuscì a trovare una spiegazione plausibile in grado di scagionarla. «Signora Harker, state certa che sarò molto scrupoloso» disse Cotford sorridendo. «Analizzeremo i gruppi sanguigni, e sono pronto a scommettere che il sangue sulla lama e quello che avete addosso appartengono alla stessa persona. Siete stata voi ad assassinare questa donna.» Poi si rivolse a Marrow dicendo: «Va' a chiamare il medico legale. Stavolta non vi sarà alcun dubbio. Seguirò personalmente la raccolta delle prove». Mina cercò di non tradire alcuna emozione, ma temeva che sarebbe presto salita al patibolo. La contessa Elizabeth Bàthory se ne stava in piedi sulla cupola di rame di fronte alle rovine del Lyceum Theatre. Il fumo che si levava

dalle macerie portava con sé l'aroma inebriante della carne umana bruciata. Da quel punto di osservazione privilegiato, riusciva a seguire i movimenti di tutte le pedine del suo grande gioco. Arthur Holmwood e il giovane sembravano aver sacrificato la donna per assicurarsi la fuga. "La cavalleria è morta" pensò. L'ispettore Cotford aveva seguito accuratamente le briciole di pane che aveva lasciato sul suo cammino: la sua strategia si era rivelata vincente. La semplicità della mente umana non finiva mai di sorprenderla. Com'era facile manipolare i mortali! Non c'era da stupirsi se Dio li aveva messi al di sopra di tutte le Sue creature. Scoppiò in una fragorosa risata. Era davvero un essere superiore. Prima dell'alba, il gioco sarebbe finito. I perdenti sarebbero morti e lei si sarebbe aggiudicata un'altra vittoria contro Dio. La sua sopravvivenza era certa: questione di selezione naturale. Guardò le rovine fumanti del teatro, rallegrandosi della vittoria riportata su Basarab. «Buonanotte, mio dolce principe.» Poi si voltò e scomparve nella notte, preparandosi a ultimare la sua opera.

Capitolo 41 Quincey stringeva convulsamente il cappotto di Arthur Holmwood, cercando di non cadere da cavallo. I fischi della polizia riecheggiavano nel labirinto di stradine. Quando lui e Arthur passarono al galoppo davanti a un carro dei pompieri, questi li indicarono e suonarono la campana per avvertire la polizia. Allora Holmwood tirò le redini del cavallo cambiando bruscamente direzione, e Quincey rischiò di cadere all'indietro. Si sentiva completamente indifeso, non certo il valoroso guerriero che avrebbe tanto voluto essere. Lanciò un'occhiata sopra la spalla di Holmwood e vide una vettura della polizia dirigersi a tutta velocità verso di loro. Arthur tirò nuovamente le redini e lo stallone attraversò l'Alexandra Gate, entrando in Hyde Park. Il veicolo non avrebbe potuto seguirli lungo la stretta Buck Hill Walk. La tecnologia aveva i suoi limiti. Holmwood si fermò davanti al lago Serpentine, e Quincey allentò la presa per la prima volta da diverse miglia a quella parte. Arthur si guardò intorno alla ricerca della migliore via di fuga. «Dobbiamo cercare di uscire di qui senza farci notare e trovare Van Helsing.» «Quel pazzo mi ha minacciato di morte» disse Quincey. «Non ho nessuna intenzione di avvicinarlo di nuovo.» «Su, non fate il bambino. Van Helsing ha visto Dracula. Abbiamo bisogno del suo aiuto.» «La polizia è ovunque. Non sappiamo neanche dove si nasconde quel bastardo.» Holmwood estrasse un telegramma dalla tasca della giacca e glielo sventolò davanti. «Era al Great Eastern Hotel. In questo telegramma ci sono tutte le indica...» e si interruppe bruscamente, tendendo l'orecchio a un rumore lontano. Quincey ebbe la stessa strana sensazione di quando era sopravvissuto al crollo del tetto del teatro. Il suo corpo stava cambiando. Riconobbe il suono molto prima di Holmwood. «Sono cani!»

«Segugi» puntualizzò Holmwood. Poi, con sua grande sorpresa, scese da cavallo e lo prese per un braccio, trascinandolo via. «Cosa fate? Non ce la faremo mai a piedi!» protestò Quincey «I cavalli sono veloci, ma non certo coraggiosi. Appena il nostro vedrà i cani, si impennerà, e finiremo entrambi gambe all'aria.» Poi lanciò un urlo, diede una pacca sul posteriore dello stallone e lo osservò allontanarsi al galoppo nel parco. «Seguitemi» sussurrò. Si incamminò verso nord, quindi, a un certo punto, staccò un ramoscello da un albero e, camminando all'indietro, cancellò le loro impronte, lasciando solo quelle degli zoccoli del cavallo, dirette a est. «Il nostro odore indicherà entrambe le direzioni. Nella migliore delle ipotesi, i nostri inseguitori perderanno del tempo. Nella peggiore, si limiteranno a dividersi.» Quincey si sentì come un bambino sprovveduto che giocava ai soldatini. Era stato così ingenuo da credersi un guerriero! Seguì docilmente Holmwood, sempre più ammirato dal suo valore. Quando uscirono dal parco, attraversarono Bayswater Road e si diressero verso Paddington Station. Quincey non rimase stupito nel vedere che le entrate della stazione pullulavano di poliziotti. Lui e Holmwood si tirarono su il bavero del cappotto e attraversarono Praed Street. In quel preciso istante, si udì un telefono squillare. Il suono proveniva da una cabina blu. Uno dei poliziotti estrasse una chiave dalla tasca e aprì la cabina. Con le nuove tecnologie, pensò Quincey, la notizia della loro fuga si sarebbe sparsa in un batter d'occhio. Fu strappato alle sue riflessioni da un latrato lontano. Lo stratagemma di Holmwood non aveva funzionato e i segugi erano ancora sulle loro tracce. I poliziotti di guardia alla stazione erano in allerta e si guardavano intorno. Arthur prese Quincey per un braccio e lo trascinò via dalla stazione, dirigendosi verso il vicino ospedale, che brulicava di persone in visita ai propri cari. Holmwood contava sul fatto che fossero troppo prese dalle loro preoccupazioni per prestare attenzione a due fuggitivi. Lui e Quincey cercavano di camminare con la massima disinvoltura per evitare di destare sospetti, ma il latrato dei cani si faceva sempre più vicino e la gente

cominciò a guardarsi intorno. L'istinto di sopravvivenza di Quincey gli ordinò di mettersi a correre. Holmwood avvertì la sua tensione e gli sussurrò fra i denti: «Non fatelo!». «Non possiamo camminare per strada come se niente fosse. La polizia è ovunque» protestò Quincey. «Infatti non cammineremo per strada. Cammineremo sotto la strada» replicò Arthur con un sorriso. Un attimo dopo, Quincey mise un piede in fallo e perse l'equilibrio, rischiando di cadere a faccia in giù in una pozza d'acqua putrida. Rialzandosi, si rese conto di trovarsi davanti a un piccolo canale urbano. Senza un attimo d'esitazione, Holmwood si immerse nell'acqua con le sue eleganti scarpe di pelle e si voltò a guardare Quincey con aria interrogativa. Quincey abbassò lo sguardo sul canale, che emanava un odore nauseabondo. I segugi erano sempre più vicini. Erano in trappola. Holmwood gli sussurrò: «Il fetore farà perdere le nostre tracce. Forza, muovetevi». Quincey si tappò il naso e la bocca e lo seguì. Eccoli, i valorosi eroi a caccia di vampiri: inseguiti da un branco di cani e coperti di sporcizia. Finalmente, la fortuna sembrò ricordarsi di loro: dietro una curva, trovarono una barca a remi abbandonata sulla riva. La spinsero in acqua e Holmwood si impadronì dell'unico remo. Mentre si avvicinavano al sottopassaggio Warwick, Arthur svoltò a destra. Quincey rimase stupito: girando a sinistra, si sarebbero diretti verso ovest e si sarebbero allontanati dalla città. «State andando dalla parte sbagliata» gli disse. Arthur lo fulminò con lo sguardo. «Nel suo telegramma, Van Helsing ha detto di essere stato attaccato da Dracula nella sua stanza al Great Eastern Hotel. E ha aggiunto: "Renfield è il mio santuario presso la grande dimora del santo patrono dei bambini. Accanto alla croce del re". Van Helsing è ancora a Londra.» A Quincey, però, non importava. Poggiò una mano sul remo,

costringendo Holmwood a fermarsi. «Dobbiamo andarcene finché possiamo. Torneremo quando le acque si saranno calmate.» Arthur lo guardò con occhi fiammeggianti. C'era del coraggio, in quel fuoco, ma anche un pizzico di follia. Lo stesso che Quincey aveva visto dardeggiare negli occhi di Van Helsing. Poi spinse via la sua mano e continuò a remare verso la città. A un tratto, Quincey udì un gorgoglio nel punto in cui era seduto. Ma certo. La barca era stata abbandonata perché aveva una falla. Fissò l'acqua putrida riempire lentamente lo scafo e si guardò intorno alla ricerca di qualcosa con cui buttarla fuori, ma non trovò nulla. Allora, trattenendo il fiato e i conati, cominciò a toglierla con le mani, ma i suoi sforzi si rivelarono inutili. Holmwood continuò a remare il più velocemente possibile, attraversando vari tunnel. Il canale proseguiva girando intorno a Regent's Park. «Avrei dovuto iscrivermi alla squadra di canottaggio di Oxford, invece che a quella di scherma» mormorò fra i denti. Quincey si rese presto conto che l'imbarcazione stava per affondare: l'acqua gli arrivava ormai ai polpacci. Arthur giunse alla stessa conclusione e tornò a riva, nei pressi del Gas Works Depot. Dopo aver abbandonato la barca, lui e Quincey si diressero a passo spedito verso sud, malgrado avessero entrambi le scarpe piene d'acqua. Quincey ebbe un tuffo al cuore alla vista di una voluta di fumo che si levava nel cielo notturno. Il fuoco covava ancora tra le macerie del Lyceum, e avrebbe continuato a farlo per giorni. L'incendio non aveva distrutto solo il teatro, ma anche i suoi sogni. Basarab! Quincey non sapeva se piangerlo o maledirlo. D'un tratto, si sentì perduto, e vecchio. La morte era sempre più vicina, lo sapeva. A un certo punto, si rese conto che Holmwood si stava dirigendo verso St. Pancras Station, e ruppe il silenzio: «Avevate detto che Van Helsing era ancora in città». «Il telegramma dice: "... la grande dimora del santo patrono dei bambini. Accanto alla croce del re". Van Helsing si trova al Midland Grand Hotel, sopra St. Pancras Station, che è adiacente a King's Cross Station. San Pancrazio è il protettore dei bambini e la croce del re è, appunto, King's Cross» spiegò Arthur con aria soddisfatta.

Quincey non condivideva il suo entusiasmo per essere riuscito a decifrare il messaggio del professore. Per raggiungere l'hotel sarebbero dovuti passare davanti a entrambe le stazioni, sicuramente presidiate dalla polizia. Giunti nei pressi dell'hotel, Quincey rimase profondamente colpito dalle sue dimensioni e dalla magnificenza del suo stile gotico. L'aggettivo "grand" non gli rendeva giustizia. Il modo in cui si stagliava contro il cielo notturno aveva un che di inquietante e minaccioso. Holmwood vide un'auto della polizia avvicinarsi e lo trascinò sotto un voltone. La vettura si fermò e ne scese un poliziotto alto e imponente, che mostrò ai colleghi di guardia un disegno. «Lee» mormorò Holmwood. Quincey capì che si trattava di un identikit di lui e di Arthur. Doveva essere opera di uno degli artisti che lavoravano sullo Strand, offrendosi di ritrarre i passanti per uno scellino. Holmwood estrasse un sigaro e gli lanciò una scatola di fiammiferi. Poi si voltò e chinò il capo. Quincey capì il suo stratagemma: accese un fiammifero e lo tenne fra le mani chiuse a coppa, come per schermarlo dal vento. I poliziotti passarono loro accanto guardandosi intorno, con il ricordo dell'identikit bene impresso nella memoria. Scrutarono i volti di tutti i passanti, ma non fecero caso a Holmwood e Quincey. Era perfettamente plausibile che due uomini si voltassero per accendere tranquillamente un sigaro. Holmwood aspirò una boccata dal suo e poggiò una mano sul braccio di Quincey perché non si muovesse finché Lee non si fosse allontanato a bordo dell'auto. «Dracula non fa che spingerci incontro al pericolo» mormorò Quincey mentre si dirigevano verso l'entrata del Midland Grand Hotel. «Credete davvero che questo vecchio pazzo possa aiutarci a sopravvivere?» «A sopravvivere?» ripeté Holmwood, lanciandogli un'occhiata perplessa. «Che importanza ha? Purché Dracula muoia...» E, senza aggiungere altro, entrò nell'atrio dell'hotel.

Capitolo 42

Qui giace Bram Stoker, ex impresario del più grande attore di tutti i tempi, Sir Henry Irving. Stoker cercò di scacciare quell'immagine, ma, ogni volta che chiudeva gli occhi, vedeva quell'epitaffio inciso sulla sua lapide. Sulla sua vita stava per calare il sipario, e non ci sarebbero stati bis. Il destino aveva voluto che trascorresse i primi anni e gli ultimi giorni della sua vita in un letto. Era prigioniero del proprio corpo, paralizzato da un lato, incapace di muoversi e persino di mangiare da solo. Doveva sopportare l'onta di venire lavato e cambiato come un neonato. Si era sempre vantato di essere un uomo onesto e laborioso, e non riusciva a capire cos'avesse fatto di male perché Dio gli infliggesse una tale punizione. Ma doveva essere qualcosa di molto grave. Lo rattristava sapere che, non potendo più dirigere lo spettacolo, il suo romanzo Dracula sarebbe stato presto relegato sullo scaffale più nascosto di una libreria, mentre II ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde sarebbe diventato l'opera gotica più celebre del suo tempo. Era certo che Henry Irving lo guardasse dall'alto dei cieli e ridesse di lui. Non gli aveva lasciato il Lyceum Theatre perché potesse realizzare le sue aspirazioni, ma per dargli uno schiaffo morale. Quando sarebbe andato in paradiso, lo avrebbe trovato lì ad aspettarlo tutto gongolante, con uno scotch in una mano e due belle donne sottobraccio. Gli sembrava persino di udire le sue parole: «Te l'avevo detto che non avevi talento. Chi nasce perdente lo è per sempre». Udì, in lontananza, i rintocchi del Big Ben. Sapeva che era iniziato il conto alla rovescia verso la fine. Nove rintocchi, le nove di sera. Sua moglie si era ritirata in camera, come pure la sua infermiera. Era il momento della giornata che odiava di più: era solo, immobilizzato, tormentato dai suoi pensieri. All'improvviso ebbe un brivido, e gli parve che la temperatura fosse bruscamente diminuita. Il fuoco si era spento? Mentre cercava di tirarsi su, si rese conto che le ombre della stanza, proiettate dal chiaro di luna che filtrava dalle persiane, si stavano muovendo.

Provò a chiamare l'infermiera, ma riuscì a emettere solo un suono inarticolato. Si guardò intorno: era solo. Tese l'orecchio, ma la stanza era immersa nel silenzio. A un tratto, però, udì uno strano rumore e trattenne il fiato. Sulle prime, pensò che si trattasse di un topo intento a scavare una tana sotto le assi del pavimento, ma poi il rumore si fece più forte, come quello di uno scalpello sul legno. Fu colto dal panico: c'era qualcuno nella stanza. Un'ombra si staccò dal muro e passò davanti alla finestra, oscurando per un attimo la luce della luna, per poi strisciare fino ai piedi del suo letto. Stoker strinse il pugno e lo sbatté contro la testiera, tentando di urlare. Poi vide l'ombra prendere lentamente forma fino a delineare una figura umana e rimase a fissarla, incredulo e impotente, certo di essere preda di un terribile incubo. Si girò su un fianco e tese il braccio sano verso la sedia a rotelle di fianco al letto. Se fosse riuscito a raggiungerla, forse sarebbe potuto fuggire. Poi, un attimo prima di afferrare il bracciolo, sentì un'improvvisa folata di vento e qualcosa lo colpì in mezzo al petto. Si accasciò di nuovo sul letto, senza fiato, e udì un ringhio rabbioso che sembrava provenire da ogni direzione, come se un branco di lupi avesse circondato il suo letto. L'ombra si sporse in avanti, avvolgendolo. Era pesante, proprio come un essere umano, e lo immobilizzò. Stoker fece appello alle poche forze che gli rimanevano e cercò di divincolarsi. D'un tratto, sentì un morso sul collo e lanciò un urlo. Non provò dolore, ma sapeva che l'ombra gli stava succhiando via il sangue. Era giunta la sua ora. Aveva commesso un gravissimo errore. Il pazzo che aveva incontrato tanti anni prima in quel pub non gli aveva semplicemente raccontato una storia macabra: aveva cercato di avvertirlo che i vampiri esistevano davvero. Poi l'ombra si mosse e la luce della luna illuminò di nuovo Stoker, che vide cosa lo aveva colpito al petto. Era la sua copia del romanzo. Sulla copertina c'era la scritta BUGIE!, come incisa da un terribile artiglio.

Capitolo 43 Quincey pensava non esistesse nulla di più imponente della cattedrale di Notre-Dame, eppure rimase a bocca aperta di fronte all'ostentata magnificenza del Midland Grand Hotel. Si sentiva estremamente a disagio con il suo abito lacero, maleodorante e coperto di fuliggine. Si appoggiò alla colonna di marmo verde come a volersi mimetizzare, tenendosi a debita distanza dai clienti che affollavano l'atrio. Holmwood, invece, era così sicuro di sé che attraversò la sala dal pavimento di marmo multicolore e si diresse a grandi passi verso il banco di mogano intagliato a mano della conciergerie. Il suo aspetto trasandato non lo preoccupava minimamente: era ancora Arthur Holmwood, ed esigeva rispetto. Il portiere gli corse incontro, visibilmente agitato. «Lord Godalming! Che gradita sorpresa. Se avessi saputo del vostro arrivo, vi avrei inviato un sarto e un valletto.» Holmwood rimase impassibile. «Un sarto? E perché mai?» «Vi avrei fatto preparare un abito in un batter...» Arthur lo zittì con un gesto perentorio della mano e disse: «Non sarà necessario. Sto cercando un vostro ospite, il signor Renfield». "Renfield è il mio santuario" pensò Quincey, riuscendo finalmente a decifrare il messaggio nascosto nel telegramma di Van Helsing. Il professore voleva portarli da lui. Forse era davvero in grado di aiutarli. Non c'era da stupirsi se il Midland Grand Hotel aveva perso buona parte del suo prestigio. Era il 1912 e non aveva ancora l'ascensore. E ovviamente Van Helsing, o meglio, il signor Renfield, aveva scelto una stanza all'ultimo piano, in grado di fornire rapide vie di fuga dal tetto. La maestosa scalinata a spirale Holmwood non si fermò neanche Quincey, che fu costretto a fare più di fiato, alzò gli occhi su un cielo blu

sembrava non finire mai. una volta, al contrario di una sosta. Mentre riprendeva cobalto tempestato di stelle

dorate dipinto sul soffitto simile a quello di una cattedrale. Era come se lui e Arthur stessero salendo in paradiso. In una nicchia affacciata sul ballatoio c'era una tela raffigurante San Giorgio e il drago, che Quincey trovò quanto mai azzeccata. Quando giunsero in cima, Holmwood si fermò a metà corridoio e si guardò intorno per accertarsi che fossero soli. Poi estrasse il revolver e controllò che tutte le camere di scoppio fossero cariche. «Non abbiamo la certezza che il telegramma sia stato scritto da Van Helsing. Nel caso in cui si tratti di una trappola, dobbiamo essere pronti.» «Secondo Stoker dovreste usare proiettili d'argento» osservò Quincey. «Confondete le leggende, signor Harker, come pure Stoker, del resto. I proiettili d'argento servono a uccidere i lupi mannari» replicò Arthur con un sorrisetto sarcastico. Quincey non condivideva il suo buonumore. Se Dracula avesse teso loro una trappola, avrebbero rischiato entrambi la vita. A Holmwood non importava di vivere o di morire. A lui, però, sì. Arthur si diresse verso l'ultima porta, la più vicina all'accesso al tetto, e sussurrò: «Ci siamo». Quincey stava per bussare quando Holmwood lo spinse via, indicando la fessura tra la porta e il pavimento. Se vi si fosse parato davanti, chiunque si trovasse nella stanza avrebbe visto l'ombra dei loro piedi. Quincey si sentì, per l'ennesima volta, un inetto. Poi Holmwood indicò lo stipite della porta, che era stata deliberatamente lasciata socchiusa. Non era un buon segno. Fece un cenno del capo a Quincey: "Tenetevi pronto". Quincey annuì a sua volta, con il cuore in gola. Holmwood spalancò la porta e con un balzo fu dentro la stanza, pronto a sparare. La lussuosa suite era immersa nell'oscurità, e la luce del corridoio ne illuminava solo una parte. Il soffitto era altissimo, come nel resto dell'hotel. Le tende erano tirate. Quincey chiuse la porta dietro di sé e Arthur gli sussurrò, irritato: «No, aspettate». Ma era troppo tardi. La porta si richiuse, lasciandoli nel buio più completo. Quincey imprecò sottovoce. Un altro stupido

errore. D'un tratto, le assi del pavimento alla loro sinistra scricchiolarono e si udì un rumore di passi. Non erano soli. «Vi avverto: sono armato» disse Holmwood. I passi si avvicinarono. Arthur si voltò e alzò il cane della pistola, spingendo Quincey dietro di sé. Quest'ultimo era talmente terrorizzato che, quando sentì una mano toccargli una spalla, sobbalzò. Una voce profonda e impostata disse: «Buonasera, signori». Holmwood puntò la pistola contro il buio.

Capitolo 44 Considerato il tempo che lui stesso aveva impiegato a raggiungere il teatro, Cotford non avrebbe dovuto essere così irritato dal ritardo del medico legale. Per accertarsi che non vi fossero errori nella raccolta delle prove, seguì la vettura del medico fino all'ospedale di Carey Street, vicino alle Royal Courts of Justice, dove sarebbe stata effettuata l'autopsia. Mentre la carrozza della polizia su cui viaggiava si dirigeva verso sud, Cotford accese un sigaro, assaporandone il gusto. Il fumo giunse fino a Mina Harker, che, seduta di fronte a lui, gli lanciò un'occhiata di disapprovazione. Cotford sfiorò, con aria trionfante, la punta della spada macchiata di sangue. Presto sarebbe stato in grado di dimostrare il coinvolgimento di Mina nell'omicidio. L'ufficio del procuratore della regina gli aveva chiesto prove schiaccianti, e lui gliele avrebbe fornite, ottenendo finalmente la sua rivincita. La carrozza passò accanto al vicolo in cui Jonathan Harker e la donna vestita di bianco erano stati aggrediti. Cotford lanciò un'occhiata a Mina, ma il suo volto non tradiva alcuna emozione, come durante l'interrogatorio all'obitorio. Era astuta o innocente? Cotford era certo che Van Helsing fosse implicato nell'omicidio di Jonathan Harker. Pensò alle cassette di quercia spezzate ritrovate nel vicolo. Era evidente che il professore era troppo vecchio per agire da solo. Doveva aver reclutato nuove leve per eseguire i delitti di cui era la mente. La lettera dello Squartatore, scritta ovviamente da Van Helsing, indicava in Quincey Harker la chiave del mistero. Mentre indagava sulla vita di Jonathan Harker, Cotford aveva preso informazioni anche sul figlio, scoprendo che era un attore mancato e che era stato costretto dal padre a frequentare l'università a Parigi. Quegli elementi gli erano sembrati talmente interessanti da spingerlo a telefonare a Braithwaite Lowery, l'ex coinquilino di Quincey alla Sorbona. Questi lo aveva descritto come un pazzo furioso che odiava profondamente il padre. L'ultima volta che lo aveva visto, Quincey gli aveva confidato di aver incontrato «una persona meravigliosa» e di voler abbandonare gli studi per «seguire il suo nuovo destino».

Pochi giorni dopo, suo padre era stato ritrovato impalato a Piccadilly Circus. Cotford era sempre più convinto che Quincey fosse il complice ideale dei nuovi crimini di Van Helsing. Ed era pronto a scommettere che «la persona speciale» di cui parlava Quincey fosse proprio il professore. Harker era abbastanza suggestionabile da farsi sedurre dai suoi perversi insegnamenti. Era anche giovane, forte e sufficientemente eccitato dal suo primo omicidio da spezzare le cassette di quercia nel vicolo. E l'odio nei confronti del padre poteva averlo spinto a impalarlo brutalmente per dimostrare la sua lealtà nei confronti di Van Helsing. Tutto tornava. Anche l'ufficio del procuratore della regina avrebbe dovuto convenirne. Quando la carrozza imboccò Fleet Street, Cotford guardò fuori dal finestrino e vide la cupola della cattedrale di St. Paul comparire all'orizzonte, poi lanciò un'altra occhiata a Mina Harker. La sua reticenza non sarebbe durata a lungo. L'avrebbe interrogata di nuovo, e stavolta alla luce del sole, perché aveva la legge dalla sua parte. Sarebbe stato spietato e l'avrebbe costretta a svelare il nascondiglio di Van Helsing e a confessare tutti i suoi crimini. Cotford aveva sempre sospettato che Van Helsing reclutasse seguaci dell'occultismo per svolgere il lavoro sporco. Era più che probabile che Seward, roso dai rimorsi, avesse minacciato di smascherarlo. Doveva essere stato Van Helsing a guidare la carrozza nera che lo aveva investito a Parigi, eliminando il primo dei suoi vecchi complici. A quel punto, gli unici testimoni ancora in vita erano Jonathan, Mina e Lord Godalming, ed era ragionevole pensare che Van Helsing avesse deciso di sopprimerli uno dopo l'altro, tanto più che la morte di Jonathan li aveva riuniti. Cotford ipotizzò che fosse stato Quincey ad appiccare il fuoco al Lyceum. Forse era stato un tentativo fallito di uccidere la madre e Lord Godalming. Quincey era poi "fuggito" con Godalming, con la probabile intenzione di eliminarlo al riparo da sguardi indiscreti. Lee doveva trovare Godalming prima che fosse troppo tardi. Tutte le vie di fuga dalla città erano state bloccate. Prima o poi, Quincey sarebbe stato catturato. Ma forse anche quello faceva parte del piano di Van Helsing: eliminare tutti, anche il suo ultimo complice, e farla franca ancora una volta. Cotford era soddisfatto: il suo ragionamento non faceva una grinza. Dopo quella notte,

sarebbe stato definitivamente riabilitato e la giustizia avrebbe trionfato. C'era un solo problema: dov'era Van Helsing? L'agente Price teneva ben salde le redini dei cavalli mentre la carrozza percorreva Fleet Street. La statua del drago si ergeva minacciosa davanti a lui. Il pilastro su cui era poggiata era avvolto nella nebbia, dando l'impressione che il drago fluttuasse nell'aria con le ali da pipistrello spiegate. Price lanciò un'occhiata a Marrow, che gli sedeva accanto stringendo il fucile. Dal modo in cui fissava la statua, doveva aver pensato la stessa cosa. Non c'era da stupirsi che i due giovani poliziotti si abbandonassero a strane fantasie dopo gli insoliti avvenimenti delle ultime settimane. Per la prima volta nella loro carriera, erano stati autorizzati a portare armi da fuoco. Poi c'era stato l'incendio al teatro, seguito dal brutale omicidio di quella povera donna. Price aveva udito il sergente Lee e l'ispettore Cotford sussurrare un nome: lo Squartatore. Era davvero possibile? Price non riusciva a credere di essere coinvolto nelle indagini sul più celebre caso irrisolto di Scotland Yard. Ciò che stava accadendo andava al di là delle sue fantasie più sfrenate. Man mano che la nebbia si infittiva, diventava sempre più difficile vedere la strada. Price aguzzò la vista, cercando di capire dove si trovasse, ed ebbe l'improvvisa sensazione che qualcuno li stesse seguendo. Marrow doveva aver avuto la stessa impressione, perché anche lui si guardò indietro. La strada era completamente vuota... Price batté le palpebre, stupito, perché gli parve che la nebbia alle loro spalle si fosse tinta di rosso. "Saranno i nuovi lampioni elettrici" pensò. A un tratto, udì un suono inquietante, e il cuore gli balzò nel petto. Sembrava il battito d'ali di un grande uccello rapace, un falco, forse. Ma era molto più imponente, e si stava avvicinando.

Capitolo 45 Holmwood era pronto a sparare. «Vi aspettavo» disse la voce dal marcato accento straniero. Quincey, che aveva una mano appoggiata sulla spalla di Holmwood, sentì i muscoli del compagno rilassarsi. Perché non sparava? Un attimo dopo, le applique illuminarono la stanza. Davanti a loro c'era Van Helsing, con una mano sull'interruttore e l'altra sul bastone da passeggio. «Professore!» esclamò Holmwood, mettendo via la pistola. «Mio Dio, stavo per spararvi! Ma siete salvo, per fortuna!» e corse ad abbracciarlo. Van Helsing sorrise compiaciuto. «Sapete che ho un debole per le entrate teatrali.» Quincey fece una smorfia. Il graffio sul collo causato dallo spadino di Van Helsing poche notti prima gli bruciò. Era come se il suo corpo volesse avvertirlo di stare attento a quell'uomo. Ebbe un moto di stizza al pensiero che Holmwood avesse dimenticato che il professore lo aveva aggredito. Arthur cominciò a tempestare Van Helsing di domande, senza aspettare di ricevere alcuna risposta. Le ultime furono: «State bene? Come ha fatto Dracula a trovarvi? E come siete riuscito a sfuggirgli?». «Usando l'astuzia e una tattica che non si aspettava...» rispose Van Helsing, ma poi si interruppe e lanciò un'occhiata a Quincey, restio a condividere con lui quell'informazione. Holmwood annuì: il giovane aveva la sua fiducia. Van Helsing, però, gli voltò le spalle. Quincey rimase profondamente indignato dalla sua villania, tanto più perché Arthur non reagì. A ogni modo, il professore non aveva risposto alla domanda: come aveva fatto a sfuggire a Dracula? «È un bene che mi abbiate trovato» disse piano Van Helsing. «Avevo sperato che Mina vi avesse informato del mio telegramma.»

Quincey trovò strano che il professore sembrasse così tranquillo malgrado l'incontro con Dracula. Era completamente diverso dal vecchio pazzo che lo aveva aggredito nel vicolo. Guardò il tavolo ingombro di armi e poi la finestra, chiedendosi come mai le tende fossero tirate. Poi pensò che fosse sciocco starsene lì a parlare, rischiando di farsi sorprendere dalla polizia o da Dracula, invece di pianificare subito la mossa successiva. Holmwood menzionò Elizabeth Bàthory mentre esaminava l'arsenale sul tavolo: accanto a una borsa da viaggio erano dispiegati un paletto di legno, delle croci, un coltello da caccia e delle boccette che Quincey immaginò contenessero acqua santa. Niente aconito né aglio. Al centro troneggiava una balestra con il dardo incoccato. Van Helsing non parve sorpreso udendo il nome della contessa Bàthory, come se la conoscesse già. Poi si avvicinò zoppicando al tavolo e cercò di aprire, con mani tremanti, una bottiglia di brandy. Sembrava così fragile, così diverso dall'uomo che lo aveva minacciato. Finalmente, gli rivolse la parola: «Mi pare di capire, signor Harker, che abbiate deciso di ignorare il mio... consiglio». Il modo in cui pronunciò quella parola irritò profondamente Quincey, che replicò: «Da quando mio padre è stato ucciso, sono diventato meno remissivo». «Buon per voi» ribatté il professore con un sorriso malizioso. Poi versò il brandy in due bicchieri e aggiunse: «In realtà, è una fortuna per me che siate qui». «E perché?» Van Helsing non rispose. Prese uno dei due bicchieri e si avvicinò ad Arthur. Questi conficcò nel tavolo il coltello che stava esaminando e accettò il bicchiere offertogli dal professore. «Se solo avessi dato ascolto a Seward!» disse. Bevve un sorso come a voler affogare quel ricordo. «Forse sarebbe ancora vivo, e con lui anche Jonathan e Basarab.» «Basarab?» chiese Van Helsing, incuriosito. «L'attore rumeno» spiegò Holmwood. Van Helsing si raddrizzò appoggiandosi al bastone e porse l'altro bicchiere a Quincey, che lo rifiutò. Non era un bevitore come suo

padre. Van Helsing poggiò il bicchiere senza fare commenti, ma il suo contegno tradiva una certa distanza. "Crede che sia un irresponsabile" pensò Quincey, e cercò di riportare la conversazione su Basarab. «È stata la corrispondenza tra Basarab e il dottor Seward a condurci a Dracula e alla contessa Bàthory.» «Basarab» ripeté lentamente Van Helsing, come a voler assaporare ogni sillaba di quel nome. Poi voltò di nuovo le spalle a Quincey e disse: «Holmwood, non avete imparato nulla da tutte le nostre avventure?». Arthur parve confuso. «Che intendete dire?» «Ditemi: avete mai visto questo Basarab?» gli chiese Van Helsing. «No. Quincey, però, lo ha incontrato più volte. Perché?» «Ingegnoso» ridacchiò il professore. Quincey era esasperato: avrebbe voluto prenderlo per le spalle e scuoterlo per estorcergli le informazioni in suo possesso. Gli si parò dinanzi e gli disse: «Professore, se sapete qualcosa, dovete dircelo. Non teneteci all'oscuro». Van Helsing lo guardò per un lungo momento. Poi sospirò. «Signori miei, non vi è altro che oscurità. Avete già perso. L'unica via che resta è la sua.» «Di chi?» Van Helsing posò la mano rugosa sul bavero della giacca e cominciò a parlare con piglio oratorio, guardando fisso Quincey. «Dracula è solo il titolo che scelse quando divenne principe. Ma il suo vero nome è... Vladimir Basarab.»

Capitolo 46 «Lo senti?» chiese Price scrutando il cielo mentre la carrozza sfrecciava lungo la strada. Marrow, seduto accanto a lui a cassetta, non lo stava ascoltando. Aveva gli occhi fissi sulla nebbia di un rosso scintillante che si stava addensando di fronte a loro. «Che diavolo è?» «Guarda!» esclamò Price, indicando le nubi basse e nere che sembravano convergere sopra le loro teste. Marrow alzò il cane del fucile. «C'è qualcosa che non va. Hai mai visto una nebbia rossa?» Price, spaventato, rispose con voce tremula: «Non credo sia nebbia. A ogni modo, è anche dietro di noi». Marrow si voltò e vide la massa rossa avvicinarsi sempre più alla carrozza. «Sembra che ci stia inseguendo.» «Credo stia cercando di bloccarci» disse Price. «È quasi...» aggiunse, ma non riuscì a completare la frase, perché i cavalli si fermarono bruscamente, e lui e Marrow dovettero aggrapparsi saldamente al sedile per evitare di cadere. Anche la carrozza del medico legale, che li precedeva, si era fermata. I cavalli che la trainavano cominciarono ad agitarsi e a nitrire come se avvertissero un pericolo. Marrow si voltò: «Ci sta raggiungendo!». Price spronò i cavalli, urlando: «Forza, muovetevi!» ma gli animali si rifiutarono di muoversi. Nel frattempo, la nebbia rossa aveva formato un muro davanti alla carrozza del medico. Il cocchiere spronò più volte i cavalli, che cominciarono finalmente a muoversi. Marrow strinse il braccio di Price. «Forse è meglio se cambiamo strada» disse, mentre osservavano la carrozza del medi-co attraversare la barriera di nebbia rossa. Price si rese conto che stava trattenendo il fiato. Che stupido era! Era solo nebbia. O no? Marrow ripeté, in tono più incisivo: «Dammi retta. Dobbiamo

andarcene da qui». Price, però, non aveva alcuna intenzione di disobbedire alle consegne. «Calmati. Ti ricordo che abbiamo degli ordini da eseguire.» In quel preciso momento sì udì un suono agghiacciante, simile al ringhio di una creatura degli inferi, e la carrozza del medico legale riemerse, in volo, dalla nebbia rossa in una pioggia di teste, membra e interiora di cavallo, per poi esplodere in mille pezzi. «Muoviti!» urlò Marrow, in preda al panico. Stavolta né Price né i cavalli se lo fecero ripetere due volte, e la carrozza ripartì a tutta velocità, schivando il muro di nebbia e imboccando la traversa più vicina. A Price non importava dove stesse andando, purché fosse il più lontano possibile. Cotford e Mina Harker furono sballottati a destra e sinistra e poi su e giù, tanto che Mina sbatté la testa contro il tetto, ferendosi. «Che sta succedendo lassù?» esclamò Cotford affacciandosi al finestrino. Mina si portò una mano alla fronte, rammaricandosi che non vi fossero altri finestrini: non aveva idea di cosa stesse accadendo là fuori, ma qualcosa le diceva di stare in guardia. Era certa di poter fuggire in qualsiasi momento grazie ai suoi nuovi poteri. Il suo arresto, però, avrebbe distratto Cotford e, almeno così sperava, facilitato la fuga di Quincey e Arthur. Aggrappandosi al sedile, si chiese se avessero trovato Van Helsing. Il pensiero dell'anziano professore la allarmò. Era lieta che fosse sopravvissuto, ma anche profondamente turbata dal suo telegramma. Dracula era ancora vivo? Com'era possibile? Aveva visto la sua morte attraverso gli occhi della contessa Bàthory. Il telegramma era una trappola di Elizabeth? Impossibile. Si rifiutava di credere che Dracula potesse allearsi con una donna cosi crudele. Eppure, se il suo principe fosse stato ancora in vita e avesse scoperto il suo segreto, chi poteva prevedere come avrebbe reagito? L'idea che Quincey e Arthur potessero imbattersi nella contessa rafforzò i suoi propositi. Doveva fuggire e salvarli. La carrozza

sobbalzò di nuovo e stavolta fu Cotford a sbattere la testa contro il tetto. Mina, invece, si ritrovò contro il finestrino, e riuscì a lanciare un'occhiata fuori. Non appena scorse la nebbia rossa, capì perché la carrozza procedeva così a scossoni. Si chiese, terrorizzata, se la nebbia fosse opera della contessa o di Dracula, o di entrambi. «Che accidenti succede?» sbraitò Cotford. Si sporse verso la porta, ma poi si fermò. Incrociò lo sguardo di Mina e allungò una mano verso la katana spezzata che aveva avvolto in un fazzoletto e infilato nella tasca della giacca. Mina dovette trattenere una risata di fronte all'assurdità del suo gesto. In quel momento, era l'ultima persona di cui Cotford doveva preoccuparsi. D'un tratto, si udì un urlo provenire dal tetto. Cotford si affacciò al finestrino e Mina, sbirciando da sopra la sua spalla, vide uno dei poliziotti cadere dalla carrozza e il suo fucile volare in aria. Cotford urlò con quanto fiato aveva in gola: «Price, che diavolo combini lassù? Ti ordino di fermare immediatamente la carrozza!». Non ricevendo alcuna risposta, Cotford tirò fuori la chiave e la infilò nella serratura dello sportello. Mina provò una sincera compassione nei suoi confronti. Non sapeva cosa lo attendeva. Istintivamente, gli afferrò un braccio e gli disse: «Se avete a cuore la vostra vita, non aprite la portiera!». «Non vedo perché dovrei fidarmi di voi, signora Harker» replicò lui. Mina sapeva di non poter fare nulla per salvarlo dal male che si celava nel buio. Mollò la presa e lasciò che andasse incontro al suo destino. Aveva anche lei delle decisioni da prendere, da cui dipendeva la vita di suo figlio. Marrow udì un battito d'ali, ma, prima di riuscire a capire da dove provenisse quello strano suono, sentì un dolore lancinante alla testa e si ritrovò in aria. Ricadendo a terra, si lussò una spalla. Poi udì un rumore di ossa frantumate e, per un attimo, temette che le ruote della carrozza gli avessero spezzato le gambe. Ma poi capì, con enorme sollievo, che avevano schiacciato il suo fucile. Si rialzò a

fatica. Era vivo! Si portò una mano sul lato sinistro della testa, là dove era stato colpito, e si rese conto che era coperto di sangue e che una parte del suo scalpo ondeggiava nell'aria della sera. Stava toccando il proprio teschio! Fece qualche passo, barcollando. Si trovava nei Tempie Gardens, subito a nord del Tamigi. Vide la carrozza allontanarsi a tutta velocità, inseguita dalla nebbia rossa. Il dolore era acutissimo, e il braccio sinistro inutilizzabile. Ma, considerando il destino a cui erano andati incontro il medico legale e i cavalli della sua carrozza, era un miracolo che fosse ancora vivo. Temette che Price, Cotford e la prigioniera non sarebbero stati altrettanto fortunati. Il suo sollievo fu tuttavia di breve durata, perché, un istante dopo, vide la nebbia rossa dirigersi rapidamente verso di lui e udì di nuovo il battito d'ali. Non perse tempo cercando di capire da dove provenisse. Aveva ancora il revolver d'ordinanza. Lo estrasse e, mentre prendeva la mira, sentì un'improvvisa raffica di vento in pieno viso e uno strappo al braccio. Fece per alzare il cane della pistola, ma la sua mano non si muoveva. Poi, abbassando lo sguardo sull'erba ai suoi piedi, scorse una mano mozzata che stringeva un revolver. Confuso, sollevò il braccio destro e vide un moncherino coperto di sangue. Quando il dolore raggiunse il cervello, lanciò un urlo straziante. Il battito d'ali riecheggiò nuovamente sopra di lui. Alzando la testa, gli parve di vedere gli artigli affilati di un rapace. Poi fu scaraventato all'indietro, e udì un suono simile a quello di un secchio d'acqua rovesciato a terra. Fu assalito da un freddo improvviso e, stordito, abbassò lo sguardo, rendendosi conto con orrore di avere il petto dilaniato e le viscere esposte. Ebbe un conato di vomito, ma mentre si accasciava al suolo, capì di non avere più lo stomaco. «Sedetevi e non muovetevi!» sbraitò Cotford rivolto a Mina mentre spalancava lo sportello della carrozza ancora in movimento. Voleva vederci chiaro. Mise un piede sul predellino e si aggrappò al tetto. Il vento lo sferzava così violentemente che, per un attimo, temette di volare giù dalla carrozza. Vide Price, seduto a cassetta, frustare implacabilmente i cavalli. «Price! Che diavolo ti è preso?

Ferma subito la carrozza! È un ordine!» L'ispettore Price parve non udirlo, o non volergli dare retta. All'improvviso, la carrozza sbandò a destra, e Cotford perse l'appoggio dei piedi, rimanendo aggrappato al tettuccio con le nocche delle mani bianche per lo sforzo. Quando era un giovane cadetto, riusciva a fare cento trazioni: ora che aveva bisogno di farne una, quella che gli avrebbe salvato la vita, non ne aveva la forza. Facendo appello a tutte le sue energie, appoggiò un piede contro la fiancata della carrozza e l'altro sul primo gradino, riuscendo, con uno sforzo sovrumano, a tirarsi su. Poi, aggrappandosi al corrimano e lottando contro il vento, si issò sul sedile del conducente. Guardò in alto e vide le nubi basse e nere muoversi vorticosamente nel cielo notturno. Non aveva mai visto una tempesta del genere. Price si voltò a guardarlo. Aveva il viso sporco di sangue e lo sguardo terrorizzato. «È ancora lì. Non abbiamo scampo» disse, e Cotford capì che era uscito di senno. Fece per prendere in mano le redini, ma il giovane non voleva lasciarle. Mentre cercava di strappargliele, scorse qualcosa che gli gelò il sangue nelle vene. Da sotto la carrozza si diffuse una nebbia di un rosso scintillante. Cotford l'aveva vista solo un'altra volta in vita sua, e non ne aveva mai parlato con nessuno. Price lanciò un urlo agghiacciante e Cotford, voltandosi, lo vide volare via, avvolto nella nebbia, e scomparire tra le nubi minacciose. Fu allora che ripensò a quello che gli era sembrato uno sproloquio di Van Helsing sul male pagano. Stava sicuramente accadendo qualcosa di diabolico. Ma non c'era tempo per pensare: i cavalli sembravano impazziti e doveva prendere il controllo delle redini. L'ispettore Price provò a urlare, ma la nebbia rossa gli riempì la bocca di un sapore disgustoso. Gli sembrò che il suo corpo venisse schiacciato come una noce e gli mancò il respiro. Non udiva altro che un battito d'ali assordante. Terrorizzato, cercò di divincolarsi, ma i suoi sforzi furono vani. La sua ascesa al cielo gli parve infinita. Credeva che il cuore gli sarebbe esploso nel petto, eppure continuò

a lottare fino all'ultimo. D'un tratto, avvertì un dolore acuto al collo, e si calmò. Poi, fu colto da un'improvvisa stanchezza. Avrebbe tanto voluto dormire. Era consapevole di ciò che gli stava accadendo, ma non aveva la forza di opporvisi. Il sangue stava abbandonando il suo corpo, si sentiva leggero come una piuma e la nebbia lo lasciò andare... Il suo orrore fu di breve durata. Vide le strade di Londra corrergli incontro, udì il rumore sinistro delle proprie ossa che si frantumavano sull'acciottolato... e infine fu tutto buio.

Capitolo 47 Arthur Holmwood si voltò, incredulo, verso Quincey Harker, e lo sguardo sconvolto che lesse sul suo viso gli confermò che non aveva sognato: Van Helsing aveva davvero pronunciato quelle parole. «Basarab? Impossibile» disse Quincey, scuotendo la testa. «Sciocchi!» esclamò il professore. «Accettate la verità come ha fatto Seward. Come ho fatto io stesso. Il nostro nemico non è Dracula.» Holmwood vacillò, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. "Come ha fatto Seward." Se Jack si era davvero alleato con l'assassino di Lucy, aveva tradito tutti quanti. Avevano rischiato di morire in Transilvania. Quincey P. Morris aveva affondato il coltello nel petto di Dracula un attimo prima di esalare l'ultimo respiro. I loro sacrifici erano dunque stati vani? "Sono tutte bugie" pensò. "Devono essere tutte bugie." «Quincey Morris non è morto invano!» gridò. «Il vero nemico è la contessa Bàthory» sentenziò solennemente Van Helsing. «Nel 1888, dopo aver saputo dei suoi terribili omicidi, attribuiti al fantomatico Jack lo Squartatore, Dracula è venuto in Inghilterra per distruggerla. Non è tornato al suo castello per paura di noi. È stata la contessa a fuggire per paura di lui. Abbiamo interferito con la sua caccia, lasciandoci ingannare da quella donna. Le ferite che gli abbiamo inflitto lo hanno indebolito, consentendo alla contessa Bàthory di vibrare quello che pensava essere il colpo di grazia. Quincey Morris è morto combattendo il nemico sbagliato.» «Dracula ha ucciso la mia Lucy. E un demone, e deve morire!» «La rabbia ha offuscato il vostro giudizio» sentenziò Van Helsing, voltando le spalle a Holmwood, deluso da colui che era stato un suo discepolo. Holmwood lo afferrò bruscamente per un braccio. «Non mi alleerò mai con Dracula! Se lo Squartatore era la contessa Bàthory, bene, li uccideremo entrambi.» «Siete uno sciocco e un impulsivo. Non avreste mai dovuto portare il ragazzo qui» ribatté Van Helsing, cercando di divincolarsi.

Disgustato dalle parole velenose del vecchio, Holmwood lo lasciò andare con uno spintone e lo fece cadere a terra. «Professore!» esclamò Quincey, correndo in suo soccorso. Lo scosse, ma non ebbe alcuna risposta. Allora gli prese il polso, e alzando gli occhi su Arthur disse spaventato: «Non sento il battito!». «Oddio!» esclamò Holmwood, inginocchiandosi al suo fianco e verificando a sua volta l'assenza di pulsazioni. «Aiutatemi a girarlo» disse Quincey. In quel momento, Van Helsing emise un gemito e si mosse. Quincey e Holmwood balzarono in piedi, sconvolti. Erano certi che fosse morto. Il professore, invece, si tirò su con le braccia scheletriche. Evidentemente, non era così fragile come aveva voluto far credere. I capelli lunghi e arruffati gli ricaddero sul viso. «Se non siete dalla nostra parte...» disse con una voce che fece gelare loro il sangue nelle vene. Tacque un istante e gettò indietro i capelli, scoprendo il volto e l'orribile verità: due occhi neri e lunghi canini appuntiti. Poi concluse, in un ringhio animalesco: «...allora siete contro di noi!». Era troppo tardi per fuggire. Van Helsing si avventò su di loro.

Capitolo 48 «È inutile: non riuscirete mai a fuggire!» gridò Mina da dentro la carrozza. Cotford sapeva che aveva ragione. La nebbia era rimasta indietro dopo aver portato via Price, ma aveva già raggiunto la carrozza. I cavalli erano madidi di sudore: non avrebbero potuto tenere quel passo ancora a lungo. Cotford aveva urgente bisogno di un piano. Diede uno strattone alle redini per cambiare direzione e tornare verso la strada principale, nella speranza che vi fossero dei passanti. "Vediamo come reagisce di fronte a possibili testimoni" pensò. A un tratto, udì di nuovo quello strano battito d'ali; alzando la testa, vide due enormi artigli piombare su di lui. Cercò di scansarsi, ma non fu abbastanza rapido e sentì qualcosa di appuntito penetrargli nelle carni. Cotford si portò la mano alla ferita, subito sotto la spalla. Era profonda e sanguinava copiosamente. Malgrado il dolore, continuò a guidare la carrozza nel labirinto di vicoli, riuscendo miracolosamente a distanziare la nebbia rossa. Quando riemerse dalle strade secondarie, vide la scritta «Piccadilly Rly» sulla facciata di mattoni di un edificio, e gli parve un miraggio. Facendo appello alle poche forze che gli restavano, fermò la carrozza nel bel mezzo della mezzaluna di Aldwych, bloccando il passaggio delle poche vetture ancora in giro a quell'ora di notte. I passanti si fermarono a guardare, stupiti. Cotford saltò giù dalla carrozza e si voltò: la nebbia rossa non li aveva seguiti fin sulla strada principale. Poi aprì lo sportello con la mano insanguinata e sbraitò: «Venite fuori!». Mina esitò un istante, poi prese la mano di Cotford e scese. Fissò la ferita sulla spalla dell'ispettore e la sfiorò, pur sapendo che non avrebbe potuto tamponare il sangue. Poi lo guardò e gli disse: «Avete bisogno di un medico». Cotford parve non ascoltarla: stava fissando il cielo, ingombro di nubi minacciose che avevano oscurato la luna e le stelle. «Andiamo!» disse, prendendola per mano e trascinandola verso la stazione della metropolitana dello Strand. D'un tratto, udirono un battito d'ali

sopra le loro teste, nascosto dal vortice di nuvole nere. «La metropolitana è la vostra unica speranza!» urlò Cotford, nel fragore del forte vento che si era levato. Poi le mise in mano delle monete e aggiunse: «Dite a Van Helsing che mi sbagliavo... su tutto». «È me che vuole!» protestò Mina, cercando di restituirgli le monete. «Mettetevi in salvo!» «La mia cecità ha messo in grave pericolo voi, la vostra famiglia e i vostri amici. Me ne rendo conto solo adesso. Perdonatemi!» Il battito d'ali aumentò sempre più. Il mostro stava arrivando. «Andate! Ora!» gridò Cotford, spingendo Mina verso le scale. Poi si voltò ed estrasse dalla tasca la katana spezzata. Udì Mina correre via, ma poi, stranamente, la sentì sussurrargli all'orecchio con voce dolce e sommessa: «Vi perdono». Cotford era stato tormentato per anni dalle morti misteriose di quelle giovani donne. Finalmente capì il motivo della sua ossessione: aveva mentito a se stesso, respingendo la verità. L'assassino non era un uomo. La notte in cui lo Squartatore gli era sfuggito, aveva visto la stessa nebbia rossa. Nel suo destino c'era scritto che presto o tardi avrebbe dovuto affrontare quel mostro. Se solo fosse riuscito a salvare almeno una persona quella notte... forse il lavoro di una vita non sarebbe stato vano. La creatura emerse dalle nubi, svelandosi. Aveva un muso da gargouille, occhi fiammeggianti e zanne aguzze. La pelle era squamosa come quella di un rettile. Aveva due corna ricurve ai lati della testa e, sul dorso, due enormi ali e una lunga coda seghettata e affilata come un rasoio, che, agitandosi, scalfiva la pietra degli edifici circostanti. Mentre piombava su di lui, estrasse gli artigli, pronto a ghermirlo. passanti urlarono terrorizzati e corsero qua e là in cerca di un riparo, lasciandolo solo. Cotford pregò per la salvezza della propria anima e per il coraggio necessario ad affrontare quella prova. Era arrivato il momento di chiudere i conti con il passato. I

Avvolse il fazzoletto intorno alla katana a mo' di manico e si lanciò contro il mostro, mirando al cuore. La creatura, però, era

troppo veloce, e Cotford le conficcò la lama in una zampa. La udì ululare di dolore e schiantarsi al suolo alle sue spalle. Cotford fece per voltarsi e continuare a combattere quando, all'estremità del suo campo visivo, scorse la micidiale coda del mostro saettare verso di lui. L'ultimo suo pensiero tornò all'avvertimento che gli aveva dato Van Helsing: «Ciò che non vedete vi ucciderà». Mina si precipitò giù per le scale che conducevano ai binari. I passeggeri in attesa del treno si scansarono, spaventati. Lei abbassò gli occhi e si accorse di avere le mani sporche del sangue di Cotford e l'abito imbrattato di quello della Donna in bianco. Corse verso l'ultima carrozza del treno appena arrivato, ma, un attimo prima di salire a bordo, udì uno strano rumore. Si voltò e vide la testa mozzata di Cotford ruzzolare giù dai gradini. Quando giunse in fondo alle scale, rotolò sul binario, mostrando il volto dell'ispettore. Con grande sorpresa di Mina, la sua espressione non tradiva orrore, ma una profonda tranquillità. Sembrava più sereno nella morte di quanto non lo avesse mai visto in vita. All'improvviso, si udì uno spaventoso ululato e un rumore di mattoni frantumati, e sulle scale apparve l'ombra di una bestia alata. l capotreno fischiò. Mina era stanca di fuggire. Avrebbe voluto affrontare il mostro, ma sapeva che, prolungando l'inseguimento, Quincey, Arthur e Van Helsing avrebbero avuto più tempo per elaborare un piano. II

Così, quando le porte dell'ultima carrozza le si chiusero davanti, le riaprì a forza e salì a bordo mentre il treno cominciava già a muoversi. Il dottor Max Windshoeffel e sua moglie decisero di non salire sul treno dopo aver visto la donna coperta di sangue e la testa mozzata rotolare sul binario. Avrebbero atteso l'ultimo treno che li avrebbe portati dallo Strand a Finsbury Park. Max allontanò la moglie dalla testa mozzata, chiedendosi se avrebbe dovuto avvertire la polizia. Dopotutto, era un medico e aveva delle responsabilità. Le sue riflessioni vennero bruscamente interrotte da un rumore di mattoni

frantumati seguito da un ululato agghiacciante. Un istante dopo, sulle scale apparve una creatura alata simile a un drago. Lui e sua moglie la fissarono, impietriti. La coda del demone saettava da una parte e dall'altra, spaccando le piastrelle bianche che ornavano i muri della stazione come fossero di cristallo. Max Windshoeffel decise che non avrebbe mai raccontato a nessuno ciò che aveva visto. «Toglietevi di mezzo!» ordinò Mina ai pochi passeggeri della carrozza. Poi spaccò un sedile e ne ricavò un paletto di legno. Il suo abito macchiato di sangue, il suo tono perentorio e il terribile rumore che riecheggiava nel tunnel spinsero gli altri passeggeri a trasferirsi nella carrozza successiva. Mina si voltò e, attraverso la porta a vetri del treno, vide la creatura che la inseguiva. D'un tratto, fu assalita da una sensazione che, negli ultimi venticinque anni, aveva provato solo in sogno, e avvertì distintamente la presenza di Dracula. "È lui. È venuto a cercarmi!" Nel frattempo, il mostro si avvicinava sempre più, distruggendo, con le ali e la coda, le pareti del tunnel e lasciandosi alle spalle macerie e una grande nube di polvere. Mina strinse il paletto di legno. «Forza, vieni. Il tempo non è più dalla tua parte.» Un istante dopo, un enorme artiglio abbatté la porta del treno e Mina fu investita da una violenta raffica di vento. Immaginò di trovarsi davanti l'orribile mostro, ma, alzando gli occhi, vide la nebbia rossa invadere la carrozza e assumere lentamente una forma umana. Una ridda di pensieri le affollò la mente. Era davvero Dracula? L'idea di rivedere il suo viso dopo tutti quegli anni la eccitava, malgrado le atrocità che aveva commesso quella notte. Dalla nebbia emerse una figura alta, vestita di nero. Mina sussurrò, senza fiato: «Principe Dracula». «Mi dispiace deludervi» rispose sogghignando la contessa Bàthory.

L'amore che Mina aveva sentito crescere dentro di sé si trasformò immediatamente in odio. Quando la contessa le si avvicinò, notò che Cotford le aveva conficcato la katana nella gamba, ma lei sembrava non farvi caso. «Non abuserete di nuovo di me, contessa» disse Mina, brandendo il paletto. «Stavolta sono pronta.» La contessa scoppiò a ridere. «Il sangue di Dracula può garantirvi una certa forza, ma non crediate di potermi eguagliare. Sono la regina della mia specie.» «Siete una pazza sadica» ribatté Mina. «Sono disposta a morire pur di liberare il mondo dalla vostra malvagità.» «Oh, e morirete, mia cara. Morirete con la consapevolezza che vostro figlio e i vostri amici vi seguiranno stanotte stessa. Vi prometto che le loro morti saranno brutali e spietate... come la vostra.» Mina si sentì invadere dalla rabbia al pensiero che quel mostro potesse fare del male a Quincey. Prima di morire, le avrebbe cancellato quel sorriso beffardo dalla faccia. Con un grido di guerra simile a quello lanciato da Quincey P. Morris tanti anni prima, le si scagliò contro, puntando il paletto dritto al cuore. La donna allungò una mano e afferrò il palo al volo, ringhiando di piacere e costringendo Mina a inginocchiarsi davanti a lei. Poi, afferrandola per i capelli, le tirò indietro la testa, esponendo il suo collo d'alabastro. Estrasse una lama che Mina riconobbe immediatamente: un bisturi ricurvo, l'arma preferita di Jack lo Squartatore. Sgranò gli occhi, terrorizzata, e cercò di sottrarsi alla morsa di ferro della contessa, ma, più lottava, più quest'ultima si eccitava. In preda alla sua diabolica passione, la donna avvicinò la lama al collo di Mina, assaporando ogni istante della violenza che stava per consumarsi. Mina non poteva competere con la contessa. I secoli che aveva trascorso a compiere efferatezze l'avevano resa invincibile. Non sarebbe riuscita a proteggere Quincey: non le restava altro che pregare.

La contessa Bàthory si chinò per leccare l'orecchio di Mina, sussurrando: «È tempo che conosciate lo Squartatore».

Capitolo 49 Van Helsing si scagliò contro Quincey e Arthur Holmwood, scaraventandoli contro il muro. Era talmente vicino da vedere la propria immagine riflessa nei loro occhi: era lieto di appurare che l'antica leggenda secondo la quale i vampiri non avevano un riflesso fosse falsa. Capì anche perché i due uomini sembravano impietriti dal terrore: con il suo viso stravolto, gli occhi neri come la pece e i denti appuntiti, era molto diverso dal fragile vecchio che avevano conosciuto. Quando aveva bevuto il sangue di Dracula, non aveva immaginato che sarebbe stato così rigenerante: si sentiva di nuovo giovane, e forte come un guerriero. Era stato come rinascere. Quincey si rialzò prima di Holmwood, ma Van Helsing non gli diede il tempo di reagire, e lo sollevò e scaraventò in aria come un cuscino di piume, Quincey andò a finire contro l'armadio di quercia, frantumandone lo specchio. Van Helsing rise di fronte all'espressione scioccata di Arthur. «Sono stato io a raccontare la nostra storia a Bram Stoker. Il mio primo, timido tentativo di raggiungere l'immortalità.» «Siete stato voi a tradire il nostro giuramento?» Van Helsing scosse la testa, sconsolato. Agli occhi di Holmwood, era tutto bianco o nero. Era come un cane addestrato. Lo prese per il bavero e lo spinse su una chaise longue di velluto. Finalmente avrebbe avuto la sua attenzione. «Avete gli occhi per vedere, eppure siete cieco. Chiedere a Stoker di scrivere la mia biografia non è stato un tradimento» gli disse. «Il mio scopo era quello di tramandare, attraverso di lui, tutte le conoscenze da me acquisite in questi lunghi anni. La mia biografia doveva fungere da monito per le future gene-razioni e da manuale per sconfiggere le creature soprannaturali che avevo combattuto per tutta la vita. Stoker, invece, ha scritto una fantasiosa parodia della verità.» Van Helsing udì Quincey muoversi alle sue spalle e si voltò, sorprendendolo a fissare il tavolo ingombro di armi dall'altra parte della stanza. Holmwood approfittò di quel momento di

disattenzione per spaccargli una sedia sulla schiena. Van Helsing non batté ciglio. Non se ne sarebbe nemmeno accorto, non fosse stato per i frammenti di legno che gli ricaddero intorno. Si voltò di nuovo verso Holmwood, che stringeva ancora, incredulo, le gambe della sedia, e con la coda dell'occhio vide Quincey lanciarsi verso il tavolo. "Due piccioni con una fava" pensò. Sollevò Arthur e lo scagliò contro Quincey, con l'intento di mettere entrambi fuori gioco. Stava cominciando a divertirsi. Sperava che, dopo l'ennesima dimostrazione di forza, Arthur sarebbe venuto a più miti consigli. Invece quello sciocco estrasse dalla tasca una croce d'oro, brandendola contro di lui. «Ogni singolo giorno degli ultimi venticinque anni» sibilò Holmwood «mi sono rammaricato di non essere morto insieme a Lucy.» Avanzò verso Van Helsing, tenendo sollevata la croce. «Voi me lo avete impedito e mi avete costretto a conficcarle un paletto nel cuore per porre fine a quella che definivate la sua "malvagia esistenza"!» «Lucy, Lucy, sempre Lucy...» esclamò Van Helsing. Afferrò la croce che Holmwood stringeva tra le dita. "È ora di dargli una bella lezione" pensò. La croce non lo respingeva: unirsi alla schiera di non-morti non significava necessariamente allearsi con il demonio. Arthur lo guardò, interdetto. «Com'è possibile?» disse. «Perché la croce non mi fa alcun effetto? Per lo stesso motivo per cui non faceva alcun effetto a Dracula. Solo chi ha paura di Dio ha paura dei suoi simboli. La vostra Lucy era una di questi.» Con un ghigno beffardo, gli strappò di mano la croce, gettandola via. «Se, in punto di morte, Dracula fosse venuto a voi, che cosa avreste fatto?» Per tutta risposta, Arthur si lanciò verso il tavolo. "Sciocco" pensò Van Helsing, parandoglisi davanti. «Voi, però, non siete obbligato a fare una scelta del genere. Potete venire con me.» Poi, lanciando un'occhiata a Quincey, che lo guardava sbigottito, aggiunse: «Anche voi». «Mai!» gridò Quincey, avventandosi su di lui. Holmwood tentò di afferrare il coltello da caccia sul tavolo, ma il professore lo

scaraventò a terra; rapido come un fulmine, si voltò verso Quincey, immobilizzandolo. «Andare incontro alla morte in battaglia è molto diverso dall'attendere che ti piombi alle spalle in tarda età» disse Van Helsing. Poi afferrò Quincey per i capelli e, tirandogli indietro la testa, gli disse: «Ho cercato di avvertirvi, figliolo». Van Helsing non voleva fare del male a un giovane che aveva visto crescere. Holmwood era accecato dalla rabbia e non era in grado di ragionare, ma il professore aveva sperato di convincere Quincey a unirsi a lui. Aveva promesso a Dracula di non nuocergli, ma solo di indebolirlo, di modo che tornasse da sua madre. Si passò la lingua sui denti appuntiti, pregustando il suo primo sorso di sangue. «Ipocrita!» urlò Arthur Holmwood. Il professore udì il rumore di uno sparo e sentì un dolore acuto alla schiena. Holmwood esplose un secondo proiettile che perforò la spalla di Van Helsing, per poi ferire Quincey al braccio. Il giovane lanciò un urlo di dolore e si accasciò a terra mentre il professore veniva raggiunto da un terzo proiettile. «Eravate nostro amico!» esclamò Holmwood. «Posso continuare a esserlo» replicò Van Helsing. «E anche Dracula. Non è troppo tardi.» «Non tradirò mai la mia fede» asserì Holmwood. "Fede?" pensò il professore. Cosa ne sapeva lui della fede? Lui stesso l'aveva trovata solo quando aveva aperto gli occhi sul male del mondo. Be', se Arthur era davvero così devoto, doveva sapere che era stato Dio a creare i vampiri, concedendo a loro, come agli uomini, la libertà di scegliere fra il bene e il male. Con un guizzo fulmineo, si voltò e disarmò Holmwood. Forse, senza una pistola in mano, lo avrebbe ascoltato. Ma, con sua grande sorpresa, Arthur non lasciò andare l'arma. Van Helsing udì altri due spari e vide il corpo di Holmwood tremare, mentre nei suoi occhi celesti compariva un'espressione stupita. Entrambi abbassarono lo sguardo verso il fiotto di sangue che usciva dal petto del lord.

Van Helsing sussurrò, addolorato: «Solo ora capite la paura della morte». «Arthur!» gridò Quincey. Holmwood parve annuire, poi alzò gli occhi al cielo e crollò sul pavimento. «No!» urlò Quincey, scagliandosi contro il professore. Questi si limitò ad afferrarlo per la gola e a spingerlo contro la scrivania. Poi lo prese di nuovo per i capelli e, tirandogli indietro la testa, spalancò la bocca, mostrando gli spaventosi canini e chinandosi su di lui.

Capitolo 50 Francis Aytown non era un uomo fortunato. Non era mai al posto giusto nel momento giusto. Come fotografo, aveva lavorato con il celebre John J. Thomson, che aveva immortalato le strade di Londra in memorabili fotografie. Quando Thomson aveva deciso di trasferirsi in Cina, Aytown non aveva voluto seguirlo. Così, era partito da solo ed era divenuto il fotografo ufficiale dell'imperatore cinese e, in seguito, della famiglia reale britannica. Se Aytown non si fosse lasciato sfuggire quell'occasione, la sua vita sarebbe stata molto diversa. Quella sera ricevette l'ennesima conferma della sua follia. Si guadagnava da vivere fotografando i turisti che uscivano dai teatri del West End e vendendo le pose a uno scellino l'una. Lavorando fuori dal Globe e dall'Olympic, aveva saputo dell'incendio al Lyceum solo quando il teatro era ormai ridotto a un mucchio di macerie. Chissà quanto sarebbero stati disposti a pagare il «Daily Telegraph» e il «Times» per una fotografia dell'edificio in fiamme. Si era appena sistemato all'angolo tra Wych e Newcastle Street per fotografare gli spettatori che uscivano dai teatri, quando udì delle urla provenire da una strada vicina. Senza pensarci due volte, afferrò la macchina fotografica e si precipitò sul posto. Davanti alla stazione della metropolitana dello Strand c'era un gran tumulto. La polizia aveva transennato le scale che conducevano ai treni. Aytown si avvicinò a un poliziotto e gli chiese: «Che succede?». «C'è stato un omicidio. Uno strano animale è fuggito dallo zoo e ha ucciso un uomo.» Aytown lo guardò, perplesso. Lo zoo di Londra si trovava molto più a nord, a Regent's Park. Com'era possibile che un animale giungesse fin laggiù senza essere intercettato e catturato? C'era qualcosa che non andava. D'un tratto, vide un'ombra attraversare la strada. Alzò gli occhi verso il cielo, ma la luna era oscurata da nubi minacciose. Poi l'ombra scomparve nella stazione della metropolitana.

C'era decisamente qualcosa che non andava.

Capitolo 51 Bàthory stringeva il collo di Mina in una morsa d'acciaio. Quando il bisturi fendette l'aria, Mina alzò le mani per parare il colpo letale, afferrando l'avambraccio della contessa e bloccando la lama a un centimetro dalla propria gola. Le labbra rosse di Elizabeth si piegarono in un sorriso: la lotta la divertiva e la resistenza di Mina la eccitava. Così, dopo un lungo braccio di ferro, Mina, giunta ormai allo stremo delle forze, decise di negare alla contessa almeno quella soddisfazione. Chiuse gli occhi e lasciò la presa. In quel preciso istante, si udì un rombo di tuono seguito da un tonfo sordo, come se qualcosa di molto pesante fosse atterrato sopra il tetto del vagone della metropolitana. Mina aprì gli occhi e vide che la contessa aveva abbassato il bisturi e guardava verso l'alto, scioccata. Un attimo dopo, furono investite da una pioggia di scintille e schegge di legno e si resero conto che il soffitto della carrozza era stato squarciato e che un uomo era piombato sui sedili. Aveva il capo chino e il viso coperto da una folta chioma nera. Pur essendo carponi, era evidente che fosse molto alto. Le mani erano eleganti, con lunghe dita da pianista. Mina ebbe un tuffo al cuore. Conosceva quelle mani. Le aveva viste uccidere, ma ne aveva anche sentito l'amorevole carezza. L'uomo si raddrizzò lentamente, e Mina si sentì invadere dal desiderio. Non era più sola. Era tornato proprio quando aveva più bisogno di lui. Ma com'era possibile che la amasse ancora e volesse salvarla dopo tutto il male che gli aveva fatto? Dracula alzò la testa e i riccioli neri caddero all'indietro, scoprendo finalmente il suo volto. Gli occhi da lupo che fissavano la contessa Bàthory con un'espressione feroce erano esattamente come Mina li ricordava. Era al tempo stesso bello e terribile, gentile e spietato. Era amore e odio. Finalmente Mina pronunciò il nome che aveva serbato nella mente e nel cuore per un quarto di secolo. «Dracula...» Al suono del suo nome, Elizabeth strinse la presa sul collo di Mina e gli sibilò, con odio: «La vostra capacità di scampare alla morte è

quanto mai irritante», Malgrado il dolore che provava, Mina si sentì sopraffare dalla gioia. Dracula la fissava con lo stesso desiderio che lei nutriva nei suoi confronti. La sua espressione confermava le sue speranze. Dracula era sicuramente un assassino, ma non era crudele, e non avrebbe mai potuto allearsi con una creatura sadica come la contessa Bàthory. Dracula posò di nuovo gli occhi neri su Elizabeth, il viso stravolto dalla rabbia. Meritava di morire fra atroci sofferenze. Le sibilò, fra i denti: «Venite da me, contessa. Venite a morire». Elizabeth Bàthory, che stringeva ancora il collo di Mina, la sollevò bruscamente, scaraventandola contro la parete di metallo della carrozza. L'ultimo pensiero di Mina, prima di perdere i sensi, fu: "È tornato". La contessa alzò gli occhi su Dracula. Com'era possibile che fosse ancora vivo? Lo aveva ucciso due volte. Si sentì sopraffare dalla rabbia. Non sarebbe mai riuscita a placare la sua sete di vendetta. Non desiderava altro che distruggere una volta per tutte Dracula il crociato, e spedirlo dritto all'inferno insieme al suo Dio e a tutti i suoi seguaci. Con un balzo, si levò in aria e puntò il bisturi agli occhi di Dracula, con l'intento di accecarlo. Ma, prima che mettesse a segno il colpo letale, il principe delle tenebre spiccò a sua volta un balzo e ingaggiò con lei un corpo a corpo a mezz'aria che sfidava le leggi della fisica. Le assestò una ginocchiata allo stomaco, scaraventandola contro il finestrino, che andò in mille pezzi, e si avventò su di lei per spingerla fuori dalla carrozza. La contessa, tuttavia, fu più rapida: si levò di nuovo in aria e lo colpì al petto a mo' di ariete. Con sua grande sorpresa, Dracula lanciò un urlo di dolore e cadde all'indietro su una panca di legno, spaccandola. La contessa non perse tempo e si gettò su di lui, affondandogli il bisturi nello stomaco. Il prezioso sangue di Dracula sgorgò a fiotti e il suo odore la inebriò. Lo colpì più e più volte, mentre lui lanciava grida strazianti. Elizabeth Bàthory esultò di fronte alla sua debolezza. Si era sempre considerata la regina della sua specie. Ora che il re stava per morire, avrebbe preso il suo posto e nessuno avrebbe più

potuto ostacolare il suo ambizioso piano. Si sarebbe dimostrata benevola verso tutti coloro che non godevano della misericordia di Dio. I poveri, i pervertiti sessuali, gli psicopatici, i malati e gli iracondi: avrebbe risollevato gli ultimi degli ultimi, realizzando i loro sogni e conquistando la loro lealtà. A coloro che giuravano fedeltà a Dio e ai suoi insegnamenti, avrebbe riservato invece la ruota della sua inquisizione. Avrebbe punito i ricchi e i potenti che avevano vessato i deboli. Avrebbe schiacciato interi eserciti. Avrebbe distrutto le chiese a mani nude e costretto il papa a bere il suo sangue. Era decisa a ricreare il mondo a sua immagine, e la morte di Dracula era il primo passo verso il suo obiettivo. La contessa lo afferrò per la gola. Lui non oppose resistenza: aveva perso gran parte della sua forza. Poi gli affondò le zanne nel collo per succhiargli via il sangue, e, con esso, tutto ciò che sapeva, tutto ciò che era, tutto il suo potere, tutto il suo vigore. Quando era ancora umana, Dracula aveva bevuto il suo sangue, ma non l'aveva uccisa. Non poteva: era sua cugina, e l'amava. Lei, invece, non avrebbe avuto alcuna remora: lo avrebbe prosciugato fino all'ultima goccia. Quando Mina riacquistò i sensi, si guardò intorno, ma non riuscì subito a mettere a fuoco la scena che aveva davanti. Vide due figure indistinte combattere in fondo alla carrozza. Una era evidentemente più forte. Mina era contraria alla violenza, ma sperava che Dracula la facesse a pezzi. Quella vendetta non avrebbe cancellato il male che la contessa le aveva inflitto, ma avrebbe reso i suoi ricordi meno dolorosi. Si sedette e, osservando più attentamente il corpo a corpo che si svolgeva sotto i suoi occhi, capì di aver preso un abbaglio. La contessa Bàthory aveva affondato gli affilatissimi canini nel collo di Dracula, che cercava di divincolarsi ma perdeva sangue dall'addome. Com'era possibile? Mina si rese conto solo in quel momento del motivo per cui il suo principe era rimasto nell'ombra fino ad allora: Elizabeth era più forte di lui. Ma se Dracula non fosse stato in grado di distruggerla, come avrebbero potuto riuscirvi lei, Arthur, Quincey e Van Helsing, ammesso che fosse ancora vivo?

Mina si guardò intorno alla ricerca di un'arma. Dal tetto sventrato pendeva un cavo elettrico lungo e spesso. Mina lo afferrò, pensando a come utilizzarlo. Avvolgerlo intorno alla contessa sarebbe stato inutile. Poi il suo sguardo si posò sulla porta della carrozza, abbandonata sul pavimento, ed ebbe un'idea. Vi legò un'estremità del cavo, poi si avvicinò ai due contendenti. Dracula fece appello alle poche forze che gli rimanevano e, afferrando la testa di Elizabeth, le conficcò il pollice nell'occhio, cavandoglielo. La contessa si staccò dal collo del principe con un gemito di dolore, mentre del liquido vischioso fuoriusciva dalla ferita. Allora Dracula le tirò indietro la testa e, ringhiando come una bestia feroce, tentò di morderle il collo, Elizabeth riuscì a liberarsi dalla sua presa e lo scaraventò sul pavimento. Poi gettò il capo all'indietro ed emise un lungo lamento, mentre il sangue sgorgava copioso dall'orbita vuota. Mina approfittò di quel momento di debolezza per far passare l'altro capo del cavo intorno al collo della contessa. Lei si voltò di scatto, esclamando: «Brutta sgualdrina!». Per tutta risposta, Mina diede un calcio alla porta, gettandola sui binari mentre il treno sfrecciava nel tunnel. La porta scivolò lungo le rotaie sollevando una pioggia di scintille, poi, finalmente, si incastrò come un'ancora. Mina esultò quando lesse il terrore nell'unico occhio della contessa, che si era resa conto di ciò che aveva fatto. Furiosa, cercò di avventarsi su di lei, ma in quel preciso istante il cavo si tese, trascinandola giù dal treno in corsa. Mina si precipitò in fondo alla carrozza e guardò fuori, pronta a vedere Elizabeth Bàthory rialzarsi e inseguirli. Invece la contessa scivolò lungo i binari finché la lama della katana che Cotford le aveva conficcato nella gamba non urtò le rotaie elettrificate, generando una scintilla. Il corpo della contessa Bàthory fu attraversato da una potente scossa elettrica e prese fuoco. La contessa lanciò un urlo disumano, dimenandosi tra le fiamme. Mina restò a guardarla, incredula: aveva davvero ucciso la regina dei vampiri?

Francis Aytown aveva a disposizione un'ultima lastra fotografica. Sistemò la macchina sul treppiede e sperò di riuscire a scattare una fotografia degna di nota. Aveva visto che il lenzuolo che copriva il cadavere era macchiato di sangue nella parte superiore. Forse la vittima era stata decapitata. Quella poteva essere la sua serata fortunata. Aytown si posizionò accanto all'entrata della stazione della metropolitana. Uno scatto del cadavere senza testa gli avrebbe fruttato una bella somma. Purtroppo, il corpo non era ancora stato spostato perché il medico legale era introvabile, come aveva detto un poliziotto poco prima. D'un tratto si udì, in lontananza, un suono basso e gutturale. Man mano che si avvicinava, crebbe d'intensità, fino a diventare assordante, al punto che tutti coloro che si trovavano nei pressi della stazione si tapparono le orecchie. Poi una vampa di fuoco fuoriuscì dall'entrata della stazione. Aytown non credeva ai suoi occhi. Dalle scale emerse una creatura enorme, che gridando attraversò la mezzaluna di Aldwych. Incurante del dolore lancinante alle orecchie, Aytown afferrò la macchina e scattò. Non ebbe il tempo di regolare l'inquadratura e sperò di essere stato abbastanza rapido da catturare l'orrore che aveva visto, perché, in tal caso, la sua vita sarebbe cambiata: quella fotografia gli avrebbe fruttato una fortuna. Quello non era un animale fuggito dallo zoo, ma un vero e proprio drago sputafuoco!

Capitolo 52 «Professore, vi prego» supplicò Quincey. Van Helsing lo guardò con profonda tristezza. «Sono io che vi prego di unirvi a noi.» «Non posso» disse Quincey con voce tremula. «Dracula è il mostro che ha traviato mia madre e ucciso mio padre.» Il professore scosse la testa, sconsolato. «Non mi lasciate altra scelta» disse, e con un guizzo affondò le zanne nel collo di Quincey, ma con sua grande sorpresa si ritrovò in aria e atterrò sul tavolo delle armi, che si sparsero sul pavimento. Quincey si guardò le mani, spaventato dalla sua forza. «Che Dio mi protegga!» Van Helsing si sedette e lo guardò scioccato. Era stato davvero Quincey a scaraventarlo dall'altra parte della stanza? Lentamente, cominciò a capire il motivo per cui Dracula desiderava così ardentemente mantenerlo in vita. Il principe sapeva che avrebbe potuto rivelarsi un alleato prezioso nella guerra contro la contessa Bàthory. Ma se Quincey Harker era già così potente e così pieno di odio malriposto, sarebbe potuto diventare un ostacolo. Era tempo di prendere una decisione. Quincey doveva morire. Sperò che Dracula avrebbe capito. Van Helsing afferrò il coltello da caccia sul pavimento e si avventò sul giovane come un fulmine, afferrandolo per la gola e inchiodandolo al muro. Poi, proprio mentre stava per affondargli il coltello nel cuore, sperando che Dio e Dracula lo avrebbero perdonato, udì un rumore sordo e il coltello gli cadde dalle mani. Il peso di Quincey divenne insostenibile. Cosa stava succedendo? Avvertì la familiare morsa della Morte. «No! Nog niet!» esclamò. «Non ancora.» Poi abbassò gli occhi e si rese conto di avere una freccia conficcata nel petto. Si voltò e vide Arthur Holmwood che, appoggiato alla parete all'estremità opposta della stanza, stringeva la balestra, con il sangue che gli usciva a fiotti dalle ferite e dalla bocca. Il professore era stato colpito al cuore. Si sentì sopraffare dal dolore e fissò Holmwood con gli occhi pieni di lacrime. «Ho così tante cose da fare, da vedere, da imparare! Non posso morire. Non

ancora!» «Andate all'inferno, professore!» gli gridò Holmwood. E, con un grido di battaglia, lasciò cadere la balestra e si scagliò contro di lui. «Arthur, aspettate!» esclamò Quincey. Ma era troppo tardi: Arthur si gettò su Van Helsing e, nella foga, lo spinse contro la finestra. Il vetro andò in frantumi e caddero entrambi nel vuoto. Mentre precipitavano, Van Helsing pensò che Dracula fosse troppo debole per vincere la battaglia contro Elizabeth Bàthory senza l'aiuto di validi alleati. La contessa, incontrastata, avrebbe causato la fine del genere umano. "Dio, perché ci hai abbandonato?" fu il suo ultimo pensiero.

Capitolo 53 Mentre la metropolitana si avvicinava alla stazione di Finsbury Park, Mina corse verso Dracula, che giaceva privo di sensi appoggiato a un sedile. Aveva perso molto sangue, ma lei sapeva che era ancora vivo. Le ferite al collo e all'addome avrebbero ucciso qualsiasi mortale, ma su di lui si stavano già rimarginando. Dracula parve avvertire la sua presenza, perché aprì gli occhi. Come potevano essere malvagi quegli occhi neri così pieni di sentimento? Mina gli si inginocchiò accanto, e lui le si appoggiò contro, cercando il suo sostegno. Mina ripensò al momento che avevano vissuto venticinque anni prima, in Transilvania, quando Dracula, che stava bruciando al sole, con il coltello kukri conficcato nel cuore, aveva teso le braccia verso di lei, che lo aveva abbandonato per il marito. Ora Jonathan era morto. Quel pensiero la fece ritrarre. «Avete ucciso Jonathan.» Dracula alzò gli occhi su di lei e Mina vi lesse un dolore incommensurabile, come se le sue parole lo avessero ferito più di qualsiasi colpo inflitto dalla contessa Bàthory. «Se lo pensate davvero, non mi conoscete affatto.» Mina ricordò di aver udito la voce del principe mentre lottava contro la Donna in bianco. L'aveva salvata. Che sciocca era stata a pensare che avrebbe potuto farle del male, Malgrado le atrocità che aveva commesso, non le aveva mai mentito. Non avrebbe mai ucciso Jonathan: l'amava troppo. Mina prese la mano di Dracula nelle sue. Al suo tocco gelido rabbrividì come una scolaretta sfiorata dal suo primo amore. Ripensò al modo in cui l'aveva toccata quella notte di tanti anni prima e desiderò ardentemente rivivere quel momento. Jonathan era stato l'amore della sua vita; Dracula, la passione. D'un tratto, udì un cigolio che la con sollievo che si trattava dei entrando in stazione. Alzò gli occhi adiacente fissarli a bocca aperta.

fece sobbalzare, ma si rese conto freni del treno che rallentava e vide i passeggeri della carrozza Presto li avrebbero circondati.

Dovevano fuggire. Mina e Dracula saltarono giù dal treno prima che si fermasse completamente. Il principe riusciva a camminare con passo rapido ma malfermo e Mina gli mise un braccio intorno alla vita per sorreggerlo. Era spaventata: il Dracula che aveva conosciuto era così potente, mentre quello che aveva di fronte era l'ombra di se stesso. Eppure, ora si sentiva molto più vicina a lui che in passato. Per la prima volta, anche lui aveva bisogno di lei. Dopo aver salito faticosamente le scale, uscirono dalla stazione. Mina alzò gli occhi verso il cielo notturno, e udì il pensiero di Dracula risuonare nella propria mente. So dove vuoi andare. Non

giungeremo a destinazione prima dell'alba.

Dracula annuì e Mina scorse una carrozzella trainata da un cavallo dall'altra parte della strada. Non vi erano cocchieri in vista, solo una ruvida coperta di lana sul sedile. Mina la afferrò e stava per aiutare Dracula a salire quando fu accecata dai fari di una vettura decappottabile. Mina udì di nuovo il pensiero di Dracula nella sua mente. Un'automobile sarebbe più veloce. Porse la coperta al principe e si gettò in mezzo alla strada. La vettura dovette frenare di colpo per non investirla. «Ehi, voi!» esclamò il conducente. «Guardate dove andate. Ho rischiato di invest...» Prima che riuscisse a completare la frase, Mina lo afferrò e lo scaraventò sulla strada. L'uomo, sbigottito, fuggì chiedendo aiuto e lei si voltò verso Dracula, che la guardava sorridendo. Poi, mentre il principe la raggiungeva zoppicando, chiuse il tettuccio della vettura. Nel frattempo, numerosi passanti si erano fermati a guardarli e alcuni si fecero avanti per aiutare il conducente. Dovevano sbrigarsi. Mina saltò sulla vettura, tolse il freno a mano, inserì la marcia e partì a tutta velocità, sfrecciando lungo Seven Sisters Road, che li avrebbe condotti fuori Londra, in direzione nord-ovest. Mina guardò Dracula, sempre più convinta di aver fatto la scelta giusta decidendo di aiutarlo. La contessa Bàthory doveva morire e

Dracula, seppure indebolito, era ancora il suo alleato più prezioso. Pensò a Quincey. La destinazione scelta dal principe era molto strategica. In posizione sopraelevata e su un terreno familiare. Avrebbe dovuto portarvi anche suo figlio. Era l'unico posto in cui si sarebbero sentiti al sicuro, sebbene la sicurezza fosse, in quel momento, un'illusione.

Capitolo 54 Quincey si affacciò alla finestra della suite del Midland Grand Hotel. I corpi straziati di Arthur Holmwood e del professor Van Helsing giacevano a terra, cinque piani più sotto. La testa di Van Helsing era letteralmente esplosa al momento dell'impatto con il marciapiede. Sotto di lui si era formata una pozza di sangue che colava tra i ciottoli della strada. Il suo viso, tuttavia, esprimeva saggezza e serenità, come se nella morte avesse trovato, finalmente, la pace. Arthur Holmwood era disteso sopra di lui, con la testa illesa appoggiata sul petto del professore. Quincey si rese conto, fra le lacrime, che Dracula aveva vinto la guerra. Aveva fatto proprio il motto dei grandi generali romani: divide et impera. Quincey lo aveva sottovalutato, e il suo errore era costato la vita ad Arthur. Era stato uno sciocco, e ora era rimasto solo a fronteggiare il diabolico principe. Una folla di curiosi si radunò su Euston Road. Quincey capì che era il momento di darsi alla fuga. La polizia lo stava ancora cercando, setacciando edifici e strade. L'incidente li avrebbe sicuramente condotti all'hotel. Uscì dalla stanza, contuso e dolorante, e scese nell'atrio. La ferita al braccio avrebbe dovuto indebolirlo, eppure si sentiva in forze. Merito del maledetto sangue di Dracula che gli scorreva nelle vene. Quincey si domandò se fosse mai stato davvero umano. Quando uscì dall'hotel, udì Arthur Holmwood gemere. «Arthur!» urlò, e si fece strada fra i curiosi, sconcertati dal fatto che quell'uomo potesse essere ancora vivo. Quando gli si inginocchiò accanto e gli sollevò delicatamente la testa, la folla fu percorsa da un mormorio, e Quincey udì distintamente la parola "omicidio". Poi si rese conto che alcune persone si stavano allontanando e capì che stavano andando ad avvertire la polizia. Non gli restava molto tempo. Il bel volto di Arthur era pallido e gonfio. Il sangue gli sgorgava a fiotti dalle ferite e respirava a fatica. Era un uomo forte e coraggioso, ma non poteva nascondere il dolore. Quincey gli prese la mano, cercando invano di trattenere le

lacrime. Van Helsing aveva accusato Holmwood di avere paura della morte, ma Quincey lesse sul suo viso una profonda serenità: finalmente aveva ottenuto ciò che voleva. Lui, invece, era terribilmente spaventato. «Mi sta accadendo qualcosa, Arthur. Avete visto cosa ho fatto. Sono maledetto, dannato. Se il sangue di Dracula scorre nelle vene di mia madre, allora scorre anche nelle mie. Cosa farò? Non mi lasciate, Arthur. Non mi lasciate!» Holmwood fece appello alle poche forze che gli rimanevano e disse: «Non è una maledizione. Non capite? Può essere una grande risorsa. Siete abbastanza forte da sconfiggere sia Dracula sia Elizabeth Bàthory». Poi si interruppe, e un rivolo di sangue gli uscì dalla bocca. Quincey lo sentì irrigidirsi. Mentre esalava l'ultimo respiro, disse: «Seppellitemi accanto a Lucy...». Quincey rimase a guardare impotente mentre la gloriosa fiamma di Arthur Holmwood si spegneva. Le sue battaglie erano finite. Solo allora Quincey capì perché avesse cercato la morte per tutti quegli anni: per potersi finalmente ricongiungere all'amore della sua vita. Quincey si guardò le mani sporche di sangue. Holmwood aveva detto che la sua nuova forza era una grande risorsa, perché gli avrebbe consentito di sconfiggere Dracula. Ma quel potere lo avrebbe corrotto come aveva fatto con il principe? Il male lo avrebbe consumato mentre dava la caccia alla stessa creatura che lo aveva dannato?

Dove tutto è cominciato. Quincey trasalì udendo la voce di sua madre sussurrargli all'orecchio. Si guardò intorno, ma non vide altro che volti sconosciuti.

Dove tutto è cominciato, figlio mio. Era decisamente la voce di sua madre. Quincey appoggiò delicatamente il corpo di Arthur a terra, incerto sul da farsi. Non aveva nessun piano. Era completamente solo.

Dove tutto è cominciato, figlio mio. Amore mio. Il sangue che scorreva nelle vene di Mina lo stava chiamando.

Stoker aveva descritto, nel suo romanzo, la telepatia fra Dracula e Mina. Evidentemente, possedeva anche lui quella dote. E non si manifestava solo attraverso le parole, poiché, in quel momento, Quincey visualizzò le rovine di un antico monastero situato in cima a un'altura, accanto a un cimitero e a una panchina, con il mare in tempesta che si infrangeva sulla scogliera. Tutto era cominciato a Whitby, più precisamente all'abbazia di Carfax. Mina era con Dracula e lo attendeva laggiù. Fu strappato ai suoi pensieri dall'allarme delle campane e dallo scalpiccio di cavalli al galoppo. I curiosi che si erano allontanati dalla folla riapparvero accanto a una carrozza della polizia, che si fermò davanti all'hotel. Ne scese un poliziotto alto e imponente che Quincey riconobbe con un tuffo al cuore: era lo stesso che aveva il suo identikit. Era tempo che i suoi incubi finissero una volta per tutte. Il suo destino era davvero quello di distruggere Dracula? Forse Dio gli aveva indicato la strada per trasformare la sua maledizione in un dono. Non aveva più nulla, ormai, e non aveva scelta: doveva salvare la sua anima immortale. Sarebbe andato a Whitby, all'abbazia di Carfax, e con l'aiuto di Dio avrebbe affrontato il demone. Forse, se lo avesse ucciso, avrebbe potuto spezzare la maledizione e salvare se stesso e sua madre dalla dannazione eterna. Se invece fosse morto in battaglia, sperava che il suo gesto gli sarebbe valso il perdono. Il poliziotto si fece strada tra la gente. Non c'era più tempo. Mentre si dava alla fuga, udì le grida della folla e percepì lo stupore del poliziotto, ma continuò a correre come il vento, più veloce di qualunque essere umano. Aveva accettato la propria maledizione. Era libero, finalmente.

Capitolo 55 Era l'alba. Dracula e Mina avevano viaggiato tutta la notte in silenzio. Sfrecciando verso nord al volante della decappottabile, Mina non riusciva a smettere di pensare agli eventi della notte precedente, mentre una rabbia sorda le cresceva dentro. La morte e la distruzione causate da Elizabeth Bàthory nel corso dei secoli erano incommensurabili. Il pensiero della vampira non faceva che accrescere la sua collera, che la spingeva a stringere il volante con tutte le sue forze e a premere sempre più l'acceleratore. Elizabeth Bàthory l'aveva violentata, aveva tentato di ucciderla e, soprattutto, aveva minacciato la vita di Quincey. Mina non aveva più alcun dubbio: la contessa doveva morire. A un certo punto, superò un carretto guidato da un mulo, che, spaventato, si fermò di colpo e prese a indietreggiare. Il conducente del carro imprecò e solo allora Mina si rese conto di quanto stesse andando veloce. Doveva calmarsi e ragionare. Del resto, era ciò che le riusciva meglio. Non poteva farsi accecare dal fanatismo e dall'ossessione, o sarebbe scesa al livello della contessa. Nel quindicesimo secolo, i nobili dovevano essere eroici per convincere i loro sudditi a seguirli. Ma non era l'eroismo a tenere a bada il popolo quando era il momento di riscuotere le imposte, bensì il terrore. Il sangue scorreva a fiumi, all'epoca. Gli omicidi erano all'ordine del giorno e la brutalità una forma di controllo ampiamente accettata. Il confine tra il buon governo e la tirannia era sottile. Dracula e la contessa erano figli di quei tempi cupi, gli ultimi sopravvissuti di un'era ormai lontana. D'un tratto, Mina scorse una carrozza ferma in mezzo alla strada. Frenò bruscamente e uscì di strada, rischiando di finire contro un albero. Quando la decappottabile si fermò, Mina abbassò lo sguardo su Dracula, che, avvolto nella coperta per ripararsi dal sole, se ne stava raggomitolato sotto il sedile e sembrava non essersi reso conto di nulla. Le ore del giorno erano quelle in cui riposava e riacquistava le forze. Mina provava sentimenti contrastanti nei suoi confronti. Era eroico e appassionato, leale e generoso, ma anche crudele e spietato. Temeva che potesse esercitare un'influenza nefasta su Quincey. Forse

avrebbe potuto proteggerli dalla contessa Bàthory, ma a quale prezzo per l'anima immortale di suo figlio? Cercò di visualizzare la donna, ma non vide altro che un cielo ingombro di nuvole. Evidentemente, l'esigua quantità di sangue che si erano scambiate non le consentiva di seguire ogni suo movimento. Era certa che Elizabeth lo sapesse. Ma anche lei aveva riportato gravi ferite, e avrebbe avuto bisogno di tempo per rigenerarsi. La domanda era: quanto tempo? Mina tornò sulla strada. Doveva raggiungere l'abbazia di Carfax e ricongiungersi a Quincey. Di ritorno in Inghilterra dopo le nozze, Mina aveva saputo della morte di Lucy. Lei e Jonathan non avevano ancora consumato il matrimonio, perché lui era troppo provato dalle vicissitudini affrontate in Transilvania e lei troppo prostrata dal dolore. Suo marito, tuttavia, aveva trovato la forza per unirsi alla compagnia degli eroi e trovare e distruggere le casse di Dracula, piene di terra della Transilvania. Quella stessa notte, il principe le aveva fatto visita per la prima volta. Era addolorato quanto lei per la triste sorte toccata a Lucy, e incolpava Van Helsing della sua morte. Mina non sapeva cosa pensare. Non riusciva a credere che il terribile mostro di cui parlava Van Helsing e il seducente principe che era venuto a darle conforto fossero la stessa persona. Non volendo raccontare a Jonathan della sua visita, gli aveva detto che Dracula le era apparso in sogno, spiegandole la vera natura della morte di Lucy. Van Helsing, però, temendo che fosse stata influenzata dal mostro, aveva insistito affinché venisse esclusa dai piani della compagnia. A tal proposito, Mina, indispettita, aveva scritto sul suo diario: «Mi fa una strana impressione che quest'oggi mi si sia tenuta all'oscuro; dopo aver goduto per tanto tempo della piena confidenza di Jonathan». Quegli eventi avevano messo a dura prova il suo matrimonio. Lei e Jonathan alloggiavano presso la residenza del dottor Seward, a Whitby. Durante la sua visita, Dracula aveva professato il suo amore per lei, offrendole la possibilità di realizzare tutti i suoi desideri. Mentre Jonathan le dormiva accanto, Mina aveva lasciato che Dracula la portasse via con sé all'abbazia di Carfax. Insieme a lui si era sentita, per la prima volta da mesi a quella parte, amata e al

sicuro. «Non ho più osato tornare a Whitby» disse ad alta voce, cercando di convincersi della bontà della sua decisione. «E non ho più messo piede nell'abbazia di Carfax dalla notte che trascorremmo insieme. La notte in cui...» e si interruppe, sopraffatta da un'ondata di emozioni contrastanti. Quante volte aveva desiderato rivivere la notte trascorsa con il suo principe tra le rovine dell'abbazia! Mina credeva che Dracula stesse dormendo, e trasalì udendo la sua voce da sotto la coperta. «È giusto che tutto finisca dove è cominciato.» Erano le parole di un guerriero. Dure e intransigenti. La contessa Bàthory era sopravvissuta per secoli tramando e battendo in ritirata al momento opportuno. Dracula, invece, si lanciava là dove nessuno osava. Ma il suo coraggio aveva un prezzo, che chi gli stava accanto era chiamato a pagare. Il sangue chiamava altro sangue. Ma non si poteva vivere sempre in guerra. Non era quella la lezione che voleva impartire a Quincey. Suo figlio era il futuro, e Mina doveva fare in modo che sopravvivesse a tutti loro. Il sangue che le scorreva nelle vene le avrebbe conferito la forza necessaria a difenderlo da Elizabeth Bàthory. Quincey aveva bisogno della sua protezione: non aveva mai visto la potenza di un vampiro dispiegarsi in tutta la sua distruttività. A ogni modo, sentiva che aveva ricevuto il suo messaggio telepatico e li stava raggiungendo. Se la contessa Bàthory avesse davvero avuto bisogno di tempo per rigenerarsi, forse sarebbe riuscito a fuggire. Se fosse giunto a Carfax prima che la contessa li trovasse, Mina avrebbe potuto imbarcarsi per l'America insieme a lui. Dopo essersi accertata che fosse al sicuro, sarebbe potuta tornare e trasformarsi da preda in cacciatrice. Lei e Dracula avrebbero potuto scoprire dove si nascondeva Elizabeth durante il giorno e distruggerla quando giaceva indifesa nella bara. Mina continuava a sfrecciare attraverso la campagna inglese mentre il sole iniziava a tramontare. Aveva viaggiato per la maggior parte del giorno, e aveva avuto tutto il tempo per riflettere. La sua razionalità aveva avuto la meglio sugli istinti primordiali. Il fanatismo e l'ossessione erano difetti tipici di personalità come quelle

della contessa, di Cotford e di Dracula. Non sarebbero mai stati i suoi. Lei e Quincey sarebbero sopravvissuti perché sapevano quando fermarsi. Il sergente Lee sbirciò cautamente dentro l'armadio, ma vi erano solo vestiti appesi. Mentre richiudeva l'anta, guardò fuori dalla finestra e vide che il cielo notturno era ingombro di nuvole e squarciato da lampi. Chiuse le tende. «È tutto a posto. Non c'è niente da temere.» «Sotto il letto» sussurrò la voce alle sue spalle. Ma certo. Sotto il letto. Lee era talmente alto che detestava doversi accucciare sul pavimento, ma, per amor di pace, lo fece. Niente. Nemmeno un calzino. «È tutto a posto» dichiarò. «Non ci sono mostri.» Rialzandosi, guardò il figlio di cinque anni, visibilmente sollevato, e sorrise alla figlia di quattro, entrambi raggomitolati sotto le coperte. Odiava dover mentire ai suoi bambini. Nessuno sapeva meglio di lui che i mostri esistevano eccome, e non erano gli spiritelli maligni che popolavano le fantasie dei bambini, ma mostri veri, che se ne stavano in agguato nelle strade buie di Londra, pronti a piombare su vittime innocenti. Erano quelli che aveva giurato di assicurare alla giustizia. Ma era meglio che i bambini rimanessero il più a lungo possibile all'oscuro dei mali del mondo. Lee rimboccò loro le coperte e li baciò sulla fronte. «Buonanotte. Sogni d'oro.» «Non chiudere la porta, papà» sussurrò la figlia. «No, stai tranquilla.» I bambini credevano che la luce del corridoio spaventasse i mostri. Se solo fosse stato così semplice! Sua moglie lo aspettava fuori dalla stanza, in camicia e cuffia da notte. Lee lesse nei suoi occhi una grande preoccupazione. La prese sottobraccio e la condusse in soggiorno. Aveva bisogno di parlarle, e voleva essere certo che i bambini non sentissero. «Cos'hai intenzione di dirgli?» gli chiese lei, allarmata.

«Non ti preoccupare, andrà tutto bene» rispose lui. Il telegramma che avevano ricevuto quella sera da Scotland Yard aveva gettato Lee nella disperazione e sua moglie nel panico. Si trattava della conferma ufficiale della tragica notizia che Lee aveva già appreso dall'ispettore Huntley, il quale si trovava, quella mattina, nei pressi della stazione della metropolitana dello Strand. L'ispettore Cotford, il medico legale, Price e i poliziotti che li accompagnavano erano tutti morti. I pezzi grossi di Scotland Yard volevano far luce sulla vicenda, e Lee avrebbe dovuto iniziare il turno di notte con un colloquio presso l'ufficio del vicecommissario per spiegare quale ruolo avesse ricoperto nelle indagini dell'ispettore Cotford. Lee si ripulì le ginocchia dalla polvere e si infilò la camicia bianca nei pantaloni. Quando aveva appreso che Cotford era morto per ciò in cui credeva, il suo primo istinto era stato quello di portare avanti la sua battaglia. Ma poi si era reso conto che non poteva permettersi di soccombere alla rabbia e alla sete di vendetta. Non poteva lasciare che lo consumassero come avevano fatto con Cotford. Non poteva imboccare quell'oscuro sentiero. Fu difficile per lui ammetterlo, ma Van Helsing e Cotford erano due facce della stessa medaglia. Erano entrambi ossessionati da una ricerca impossibile. Raccontare la verità non avrebbe riportato Cotford in vita, né svelato l'identità dello Squartatore. I superiori di Lee lo avrebbero redarguito, forse anche sospeso per aver preso parte alle temerarie indagini di Cotford. Non poteva compromettere la sua carriera raccontando loro ciò che non volevano sentirsi dire. Se avesse perso il lavoro, come avrebbe mantenuto sua moglie e i suoi figli? Un uomo andava giudicato per la sua capacità di provvedere al meglio alla propria famiglia, non per il numero di malviventi che aveva acciuffato. Su quel punto, divergeva profondamente da Cotford. I delinquenti sarebbero sempre esistiti: la loro era una guerra senza fine. Lee pensò ai bambini, che dormivano tranquillamente nella stanza accanto. La sua decisione era presa: avrebbe tradito l'ispettore, e lo avrebbe fatto senza rimorsi. Avrebbe mentito ai suoi superiori, affermando che Cotford era uscito di senno. Non sarebbe stata una vera e propria menzogna: Cotford era un fanatico, ed era stato quello a causare la sua rovina. Lee avrebbe affermato che, essendosi reso conto della follia dell'ispettore, si era rifiutato di partecipare alle ultime indagini

sugli omicidi dello Squartatore. Tuttavia, poiché rispettava la catena di comando, non lo aveva denunciato ai loro superiori. Dopotutto, l'ispettore Huntley gli aveva dato la sua parola che non lo avrebbe coinvolto. Il vicecommissario, un ex soldato come Lee, avrebbe accettato la sua spiegazione e rispettato la sua lealtà. Forse quella linea di condotta avrebbe persino potuto favorire la sua carriera, aiutandolo a consolidare la reputazione di uomo fidato. Dopo aver indossato cappotto e cappello, accompagnò la moglie in camera da letto e la salutò con un bacio. Poi si precipitò nello studio e aprì l'ultimo cassetto della scrivania, che era chiuso a chiave, estraendone il vecchio fascicolo dello Squartatore che Cotford aveva sottratto dagli archivi di Scotland Yard. Leggendo il nome sulla copertina, ebbe un brivido. Tornato in soggiorno, rattizzò il fuoco del camino. Era il momento della verità. Fu assalito dal senso di colpa, ma cercò di giustificarsi con se stesso. Dalle prove raccolte nella stanza del Midland Grand Hotel, aveva dedotto che Arthur Holmwood aveva trafitto Van Helsing con una freccia prima di precipitare dalla finestra insieme a lui. Se Cotford avesse avuto ragione e Van Helsing fosse stato davvero Jack lo Squartatore, allora il caso si sarebbe potuto considerare chiuso. Cotford non aveva mai aspirato alla gloria, ma solo alla giustizia, e giustizia era stata fatta. Per quanto riguardava Mina Harker, non esistevano prove decisive a suo carico. Lee era certo che l'uomo che aveva visto chino sul corpo di Holmwood fuori dall'hotel fosse Quincey Harker, ma si sarebbe attenuto solo ed esclusivamente ai fatti. E i fatti non facevano pensare a un coinvolgimento del giovane in quei crimini. Quanto all'omicidio nel vicolo, quello da cui era iniziato tutto quanto, il caso apparteneva all'ispettore Huntley. Lee gettò il fascicolo nel camino e rimase a osservare le carte consumarsi lentamente. Aveva chiuso con Jack lo Squartatore. Pregò Dio di perdonarlo. Che avesse avuto ragione o torto, la sua parte in quella storia era finita. Le nuvole oscurarono la luna, gettando la campagna inglese nell'oscurità. Quincey sfrecciava al galoppo lungo la costa. Quando un lampo squarciò il cielo, seguito dal potente rombo di un tuono, il

suo cavallo si fermò di colpo e si impennò. Quincey gli piantò gli stivali nei fianchi e strinse forte le redini per non venire disarcionato. Quando finalmente si calmò, Quincey gli accarezzò il collo, cercando di rassicurarlo. Anche il tempo era contro di lui. Stoker non aveva forse menzionato nel romanzo che Dracula era in grado di controllare gli elementi? Ma non c'era quasi più nessuno a cui chiedere conferma delle sue affermazioni. "Dracula sa che sto arrivando" pensò. Era per via del sangue che gli scorreva nelle vene. Sapeva sempre tutto di lui, ed era impossibile sorprenderlo. Quincey sapeva di non avere molte possibilità di prevalere sul principe, ma ciò non lo distolse dal suo proposito. Dracula doveva morire. Spronò il cavallo e ripartì al galoppo. Se qualcuno gli avesse chiesto, due mesi prima, cosa pensasse del soprannaturale, sarebbe scoppiato a ridere. Negli ultimi tempi, tuttavia, aveva avuto modo di ricredersi. Ora spettava a lui portare a termine la gravosa missione intrapresa venticinque anni prima dalla compagnia degli eroi. Mentre attraversava la brughiera, si convinse che quello fosse il suo destino. Per la prima volta in vita sua, aveva imboccato una strada senza dubbi, paure, rimorsi e sensi di colpa. Era deciso. Si diceva che chiunque voltasse le spalle al proprio destino non avrebbe mai avuto successo. Lui aveva applicato quella logica alla scelta di diventare un attore. Ora però le conseguenze erano molto più gravi. Continuò a galoppare, accucciandosi all'ultimo momento per schivare il ramo di un albero che, assorto nei suoi pensieri, non aveva visto. Furono i suoi sensi acutizzati a salvarlo. Sarebbe stato davvero un modo stupido di morire! Quincey non aveva mai pensato alla propria morte. Era giovane e, fino a pochi giorni prima, si era creduto invincibile. Se solo fosse stato vero! Il suo destino si avvicinava rapidamente, come l'imminente tempesta. Ripensò a una battuta del Macbeth, un ruolo che non avrebbe mai più avuto la possibilità di interpretare: «In guardia, Macduff, e sia dannato chi per primo grida: "Fermo, basta"». Elizabeth Bàthory atterrò sugli scalini della basilica di Saint-Denis

mentre il cielo notturno si schiariva, lasciando spazio ai colori tenui dell'alba. Se qualcuno avesse assistito alla scena, avrebbe avuto l'impressione che una delle gargouille della basilica fosse caduta a terra. Il mantello scuro con cappuccio che la contessa indossava per nascondere la pelle bruciata si confondeva perfettamente con la pietra. La contessa si diresse verso l'entrata della chiesa. Era in preda a dolori lancinanti. Le fiamme le avevano provocato ferite profonde e la pelle, che si stava lentamente rigenerando, le doleva a ogni movimento. Avrebbe tanto voluto riposare tra le braccia delle sue amate Donne in bianco. Sarebbero state ben felici di curare le sue ferite. Ma erano morte, ormai. Un motivo in più per vendicarsi di Dracula e Mina. Il suo unico occhio spiò la Trinità scolpita sopra l'ingresso. Sarebbe potuta entrare come qualsiasi altro visitatore, ma quella era la casa di Dio: avrebbe significato riconoscerGli la sua potenza. Sfondò con una mano il pesante portone di legno e ferro e, coprendosi la testa con il cappuccio, entrò con aria di sfida nell'imponente vestibolo della chiesa gotica nota come la Necropoli reale di Francia perché ospitava le tombe di tutti i monarchi. Il suo sguardo si posò sulla statua del Cristo in croce. Persino il figlio di Dio era più debole di lei. Il sole si levò nel cielo, illuminando le vetrate istoriate. La contessa passò davanti ai monumenti funerari degli ultimi re borboni e si diresse verso le tombe di Luigi XVI e Maria Antonietta. Su una delle lastre di onice al centro della cripta era scritto, a lettere d'oro: MARIE ANTONIETTE D'AUTRICHE 1755-1793. La contessa Bàthory, però, sapeva che le sue reliquie non si trovavano lì, almeno non nella loro interezza. Poi posò lo sguardo sulla lastra nuda accanto alla tomba della regina e spaccò la pietra con un pugno, infilando il braccio nel foro ed estraendone uno scrigno d'avorio con sopra una croce. Quell'oggetto le era stato donato da una persona che aveva amato con tutta se stessa. Dracula l'aveva definita un mostro senza cuore. Se solo avesse saputo. In realtà, era stata proprio la profondità dei suoi sentimenti a spingerla a voler mettere il mondo a ferro e fuoco per vendicarsi della perdita del suo amore. Lo scrigno conteneva ciò che la contessa considerava il suo bene più prezioso. L'ultima volta che era entrata in quella chiesa, aveva sollevato la

lastra di onice riponendovi lo scrigno. Era stato il suo modo di dimostrare all'amata che la sua morte era stata vendicata e di prometterle che il mondo intero, e Dio stesso, avrebbero pagato per ciò che avevano fatto. Incurante del dolore lancinante alla mano, la contessa aprì lo scrigno. Le candele della cripta ne illuminarono il contenuto: un coltello kukri macchiato di sangue. Lo stesso che aveva conficcato nel petto di Dracula venticinque anni prima. Elizabeth Bàthory lo sfiorò amorevolmente, e, a suggello della promessa che in quel momento fece a se stessa, leccò il sangue essiccato dalla lama ancora affilata. Era il sangue di Dracula, e aveva un sapore delizioso. Con quel coltello, avrebbe dato il colpo di grazia al suo nemico. La contessa Bàthory ripose lo scrigno sotto la lastra di onice, ripensando all'errore commesso durante il suo ultimo scontro con Dracula. Aveva sottovalutato sia lui sia Mina, ma non sarebbe accaduto di nuovo. Era evidente che nelle vene di Mina Harker scorreva anche il sangue di Dracula, oltre al suo. La contessa sorrise fra sé. Anche lei aveva bevuto il sangue del principe. Lo avrebbe inchiodato al muro con il coltello e avrebbe decapitato Mina sotto i suoi occhi. Prima di morire, l'avrebbe vista bagnarsi nel sangue della sua amata. Elizabeth sapeva di dover agire in fretta. Dracula era ancora debole, ma era certa che, presto, avrebbe cercato di convincere Mina a unirsi alla schiera dei non-morti. Doveva raggiungerli prima che ciò accadesse. Lasciò la cripta e si diresse verso l'uscita. C'era un altro mortale che aveva nelle vene il sangue di Dracula: Quincey Harker. Doveva morire anche lui. Senza la protezione di Mina e Dracula» sarebbe stato una facile preda. Quando si fosse liberata di quei tre, nessuno avrebbe più potuto ostacolarla e il mondo sarebbe stato nelle sue mani.

«Que faites-vous?» la apostrofò una voce maschile. La contessa si

voltò di scatto e vide un giovane monaco con una lanterna in mano, che, di fronte al suo viso deturpato, ebbe un moto di raccapriccio.

Elizabeth Bàthory sentì l'odore della sua paura mentre gridava: «Il demonio!». "Non esattamente" pensò lei sorridendo. Lucifero aveva avuto il coraggio di ribellarsi al suo creatore, ma aveva fallito. A lei non sarebbe accaduto. Si avvicinò al monaco, il quale afferrò la croce che aveva al collo urlando: «Questo è un luogo sacro!». "Che sciocco" pensò lei. Non esistevano luoghi sacri, per la contessa Elizabeth Bàthory. E gli si avventò contro.

«Antéchrist!» gridò lui, ma la contessa gli affondò i canini nel

collo, mettendolo a tacere. Dopo aver assaggiato il delizioso sangue di Dracula, con il suo pregiatissimo bouquet, quello del monaco le parve un dozzinale vino da messa. Ma non aveva importanza: avrebbe placato la sua sete finché non fosse giunta in Inghilterra. Dopo essersi saziata, scaraventò il corpo del monaco contro le file di candele votive all'estremità opposta della navata. Poi si calò il cappuccio sulla testa calva per proteggerla dal sole e uscì dalla chiesa, addentrandosi fra le strade di Parigi. I pochi passanti in giro a quell'ora del mattino non fecero caso alla figura avvolta nel mantello. Sarebbe giunta in Inghilterra prima che il sole fosse alto nel cielo. Con un balzo, si levò in aria, attraversò le nuvole e vide la terra scomparire sotto di sé mentre sorvolava la Manica. Ancora pochi istanti e sarebbe stata al sicuro nella sua carrozza. Durante il rigenerante sonno diurno, i cavalli l'avrebbero condotta a Whitby, dove avrebbe finalmente ottenuto la sua vendetta. Il crociato di Dio sarebbe morto fra le rovine di un'antica cattedrale: quale scenario migliore? Dopo aver cancellato il suo sangue dalla faccia della terra, la contessa avrebbe raccolto la scintilla con cui Satana aveva tentato di incendiare il paradiso e acceso la fiamma che avrebbe consumato il mondo.

Capitolo 56 Quando passò davanti alla vecchia residenza estiva dei Westenra, Mina rallentò. Fu come tornare indietro nel tempo: per un attimo, immaginò che Lucy uscisse dalla porta e le corresse incontro. Ripensò al giorno in cui l'aveva conosciuta, quando erano entrambe poco più che bambine. I genitori di Mina erano proprietari di una delle due botteghe di Whitby, e Mina era costretta ad aiutarli dopo la scuola e durante l'estate perché riuscissero a sbarcare il lunario. Non aveva mai conosciuto la spensieratezza di un'infanzia normale. Lucy era la ragazza ricca che viveva in cima alla collina, ma, come lei, si sentiva sola, sebbene non per mancanza di amici. Era divorata da un'insaziabile curiosità e voleva sperimentare tutto ciò che la vita aveva da offrire. Una mattina d'estate era scappata di casa per recarsi in città e vedere come viveva quella che sua madre chiamava la gente "comune". La sua avventura l'aveva condotta nella bottega dei genitori di Mina con le tasche piene di monete e l'intenzione di rimpinzarsi di caramelle. Sulle prime, Mina aveva pensato che Lucy le avesse offerto la sua amicizia perché mossa a compassione dalla povera e triste ragazza "comune", ma si era dovuta ricredere di fronte alla profonda bontà di Lucy. Mentre la decappottabile continuava la sua corsa, lo sguardo di Mina si posò sulla scogliera che dominava la cittadina. In cima a quelle rocce insidiose si ergeva l'abbazia di Carfax. Mina scorse la panchina sul bordo della scogliera dove, una notte, aveva trovato Lucy. Vi era giunta durante uno dei suoi episodi di sonnambulismo e aveva sul collo quelle che Mina aveva scambiato per due punture di spillo e che credeva di averle procurato appuntandole lo scialle in modo maldestro. Quella stessa notte, il Demeter si era schiantato sulle rocce e Dracula era entrato nelle loro vite. Il rombo di un tuono in lontananza la strappò alle sue riflessioni. A sud si stavano radunando nubi minacciose. Il mare era agitato: si stava avvicinando una tempesta. Mina doveva giungere in cima alla scogliera prima che il fiume, ingrossato dalle piogge, straripasse, sommergendo la strada. La vettura passò davanti ai centonovantanove scalini che conducevano all'abbazia. Da bambine,

Mina e Lucy facevano a gara a chi giungeva per prima in cima, e a vincere era quasi sempre Lucy, malgrado la gonna le si impigliasse sempre da qualche parte. Era stato sulla panchina sul bordo della scogliera che Lucy le aveva raccontato dei suoi tre spasimanti. Mina pensò a Quincey Morris e a Jack Seward, augurandosi che riposassero in pace. La decappottabile sfrecciò davanti a quella che era un tempo l'imponente residenza estiva degli Holmwood e che ospitava ora un hotel. Mentre cominciava a piovere, Mina imboccò il ponte di legno sopra il fiume Esk. Il suo pensiero andò di nuovo alla notte in cui Dracula era giunto a Whitby. Si era imbattuto in Lucy dopo essere rimasto nascosto per giorni a bordo del Demeter, senza alcun nutrimento. I marinai erano stati colpiti dalla peste, che aveva reso il loro sangue velenoso. Non aveva nemmeno potuto cibarsi dei topi, anch'essi portatori della malattia. Dopo un digiuno così prolungato, avrebbe dovuto prosciugare completamente Lucy, Invece, le aveva succhiato solo il sangue necessario al suo sostentamento, lasciandola sulla panchina dove l'aveva trovata Mina. A suo modo, si era dimostrato misericordioso. Mina udì un rumore sinistro: il ponte di legno scricchiolava sotto il peso considerevole della vettura. Mentre rifletteva sull'opportunità di fare retromarcia, il ponte cominciò a ondeggiare. Le nuvole non avevano ancora oscurato completamente il sole, il che significava che Mina non poteva abbandonare la vettura e lasciare Dracula indifeso. Il ponte, però, non avrebbe retto a lungo: Mina doveva decidere rapidamente. Stava per ingranare la retromarcia, quando Dracula allungò una mano da sotto la coperta e le spinse il piede sull'acceleratore. La decappottabile ripartì a tutta velocità, percorrendo in un baleno gli ultimi metri del ponte, che crollò alle loro spalle. Dracula ritirò la mano, nascondendola di nuovo sotto la coperta. La vettura si inerpicò sul ripido pendio di Green Lane finché le ruote non cominciarono a girare a vuoto sulla strada fangosa. Mina riuscì comunque a raggiungere il bivio e imboccò Abbey Lane, trovandosi di fronte quello che era un tempo il manicomio del dottor Seward. "Povero Jack. Era di animo nobile."

Mentre si avvicinava all'abbazia, Mina notò che gli alberi erano scomparsi, come se quella terra fosse talmente maledetta da non consentire la vita. Le nubi, intanto, avevano invaso il cielo. Finalmente, scorse le rovine dell'abbazia di Carfax, in cima alle scogliere che incombevano sulla sonnacchiosa cittadina di Whitby. Le torri gotiche sembravano sfiorare il cielo e gli archi a sesto acuto sorvegliavano, silenziosi e solenni, il cimitero che sorgeva lì accanto, avvolto nella nebbia. L'ultima volta che Mina aveva messo piede nell'abbazia era stata la notte in cui aveva detto addio al suo principe delle tenebre, venticinque anni prima. E ora stava per farlo di nuovo. Mina pensò al piano che aveva escogitato. Avrebbe lasciato Dracula ad affrontare le ire della contessa Bàthory, in modo da guadagnare tempo e portare Quincey al sicuro nel Nuovo Mondo. Sapeva che Dracula non si sarebbe tirato indietro, ma sapeva anche che lasciarlo solo avrebbe significato la sua morte. Rabbrividì. Sarebbe davvero riuscita a essere così fredda e calcolatrice? Per il bene di Quincey, sì. Si fermò davanti al cancello occidentale. «Siamo arrivati» disse. «Il sole se ne è andato.» Dracula si sedette sul sedile e scese dalla vettura, lasciando cadere a terra la vecchia coperta. Poi gettò il capo all'indietro e chiuse gli occhi, sotto la pioggia battente. D'un tratto, un lampo squarciò il cielo, illuminando il suo viso impassibile. Sembrava perfettamente in forze, malgrado avesse perso molto sangue. Era come Mina lo ricordava: regale e minaccioso. In quel momento, si udì un ululato in lontananza. Era un cane o un lupo? Dracula si voltò verso il suono, ma Mina non riuscì a capire, dalla sua espressione impenetrabile, se lo considerasse un benvenuto o un avvertimento. Poi la prese per mano, guidandola verso l'abbazia. La carrozza nera sfrecciava verso nord. La contessa si affacciò al finestrino e osservò la campagna avvolta nell'oscurità. La pioggia batteva all'unisono con gli zoccoli dei suoi cavalli. Aveva dormito

per ore. Il suo viaggio notturno in Francia sulle ali del vento le aveva richiesto un grande sforzo. Guardò il proprio volto sfigurato allo specchio. Il sangue del monaco le aveva ridato forza, ma non aveva ancora sanato le sue ferite. "Meglio così" pensò. Il suo aspetto avrebbe infuso in Dracula un illusorio senso di superiorità, e ciò avrebbe costituito per lei un vantaggio. "Ah, come mi piace giocare!" pensò, ridacchiando. Dracula aveva sempre avuto un'alta opinione di sé. La scorsa notte, tuttavia, la contessa Bàthory aveva trovato conferma di ciò che aveva sempre pensato: che Dracula fosse sempre stato più debole di lei. Rifiutandosi di uccidere Lucy Westenra, aveva lasciato dietro di sé una testimone in grado di denunciare la sua esistenza alla cosiddetta compagnia degli "eroi". Una leggerezza che gli era stata quasi fatale. Ora si concedeva raramente il ricco nutrimento costituito dal sangue umano. Era quella la sua più grande debolezza: non accettava la sua vera natura. Era un vampiro, ma continuava a considerarsi un essere umano. Aveva più di cinquecento anni, e non aveva ancora imparato ad abbracciare, senza sensi di colpa, il potere dei non-morti. Mentre i cavalli procedevano al galoppo lungo la costa, la contessa Bàthory pensò al momento in cui avrebbe finalmente regnato incontrastata. Era vicino. Lo sentiva.

Capitolo 57 Osservando l'abbazia di Carfax, Mina pensò che somigliava alla sua esistenza. Anni e anni prima era stata splendida, piena di vita, virtù e speranza. Poi il tempo l'aveva consumata, trasformandola in un guscio vuoto. Persino le ragnatele negli angoli erano state abbandonate dai ragni che le avevano tessute. Il vento di tempesta ululava nei corridoi dell'abbazia, come se gli spiriti del passato supplicassero di venire liberati. Quelle mura avevano assistito a molti sanguinosi conflitti, dalla guerra fra celti e romani, all'invasione dei vichinghi, ai conflitti fra sassoni e normanni. Quando era giovane, Mina aveva troppa paura dei fantasmi che si diceva abitassero quei luoghi per avventurarvisi di notte. L'enorme sala di pietra in cui si trovava ospitava un tempo la biblioteca in cui i monaci si ritiravano per studiare in silenzio. Era la prima stanza che il principe Dracula aveva tentato di fare propria quando era giunto a Whitby, un quarto di secolo prima. Era ingombra di antichi mobili coperti da lenzuoli simili a fantasmi dimenticati. Gli scaffali di legno ormai fradicio erano carichi di tomi scritti in ogni lingua del mondo. Lo strato di polvere che li ricopriva era talmente spesso che Mina riusciva a malapena a distinguere il colore delle copertine, tanto meno i titoli. Alzò lo sguardo sullo specchio incrinato appeso sopra il camino e vi vide riflessa l'immagine di una giovane donna. Ciononostante, Mina si sentiva vecchia e vuota come quell'abbazia diroccata. Vide la cassapanca di noce che aveva portato con sé a Whitby nel 1888. Aveva trascorso quell'estate con Lucy mentre Jonathan era in Transilvania. Dopo la sua relazione adultera con Dracula, aveva fatto in modo che la cassapanca venisse segreta-mente trasportata dal suo appartamento di Londra all'abbazia di Carfax in vista della sua fuga d'amore con il principe. Ma poi, nella fretta di abbandonare Dracula e di lasciarsi alle spalle il tradimento delle promesse matrimoniali, la cassapanca era rimasta laggiù. Era al tempo stesso triste e ironico che, ricongiungendosi al suo principe, avesse ritrovato anche quell'oggetto perduto. Era come se il suo destino fosse già scritto.

Aprì la cassapanca e vi trovò un abito che le aveva regalato Lucy. Mina non l'aveva mai indossato: era troppo provocante. Ma, venticinque anni dopo, le parve perfetto per la donna che era diventata. Guardò l'abito nero e austero che aveva indosso. Si era mortificata per anni per compiacere Jonathan. Ora non aveva più bisogno di farlo. Lo sbottonò e lo lasciò cadere sul pavimento coperto di calcinacci. Poi prese l'abito di Lucy, dalla stoffa morbida ed elegante, e se lo infilò, sentendosi subito bella. D'un tratto, fu assalita dal senso di colpa: avrebbe voluto vestirsi così per Jonathan, ma sarebbe stato come spargere sale su una ferita che non si sarebbe mai rimarginata. Poi si guardò allo specchio, e la piccola croce d'oro che aveva al collo scintillò alla luce del focolare. Turbata, si diresse verso una delle finestre. I suoi passi riecheggiarono sul pavimento di pietra. Guardò fuori nella notte, e vide i lampi illuminare il cimitero sottostante, proiettando lunghe ombre fra le lapidi. Sentiva che Quincey si stava avvicinando rapidamente, e sperava che avrebbe raggiunto l'abbazia prima che si scatenasse la tempesta. Quando sarebbe arrivato, Mina avrebbe illustrato il suo piano a Dracula. «Quell'abito vi dona» disse una voce alle sue spalle. Mina non l'aveva sentito entrare e temeva, voltandosi, di perdere la sua risolutezza. O, peggio ancora, di cedere ai suoi desideri più oscuri. Percepì il desiderio nella voce del principe, che le disse: «Siete una gioia per gli occhi». «Ho ritrovato la mia vecchia cassapanca» farfugliò lei. Poi abbassò gli occhi sull'abito che metteva in risalto le sue voluttuose forme e aggiunse: «Ho lasciato molte cose, quaggiù». Il significato recondito delle parole di Mina non sfuggì a Dracula, che, dopo un lungo silenzio, disse: «Questa dimora vi appartiene come me, del resto». La sua voce era esattamente come Mina la ricordava: melodiosa e ipnotica. Si rese conto di quanto le fosse mancato quel suono carezzevole e soave. No! Non poteva pensare a sé. Doveva pensare a Quincey e alla sua fuga. Nella sua mente apparve l'immagine del figlio a cavallo. Aveva i vestiti macchiati di sangue... gli avevano sparato? Mina si sentì invadere da una rabbia incontenibile. Si voltò di scatto verso Dracula, come una leonessa pronta a difendere il suo cucciolo, e gli

sibilò: «Come avete potuto mettere a repentaglio la vita di Quincey? Van Helsing avrebbe potuto ucciderlo». «Van Helsing ha cercato di passare alla storia dipingendomi come un essere spregevole attraverso la penna di Stoker» replicò seccamente Dracula. Fece un passo verso di lei, che però gli voltò le spalle. Allora sospirò e proseguì: «Non ho mai cercato di vendicarmi su vostro marito né sugli altri che hanno tentato di uccidermi. La loro era una nobile causa, benché basata su presupposti errati, e cercavano solo di proteggervi. Ma Van Helsing ha passato il segno». Man mano che le si avvicinava, la sua voce si addolcì nuovamente. Mina lo guardò da sopra una spalla e vide i suoi occhi volgersi all'orizzonte quando la luce del faro illuminò la finestra. «Quincey, però, ha fatto sì che Van Helsing pagasse per le sue colpe» concluse. Mina capì, dal modo in cui pronunciò il nome di Quincey, che Dracula aveva altri piani per lui. «Mi portereste via il mio unico figlio?» gli chiese. «Per sopravvivere a ciò che lo attende, Quincey deve abbracciare la verità. Deve abbracciare la sua vera natura.» Mina ebbe un tuffo al cuore. «Non sta a noi decidere del suo destino» replicò. Il cavallo di Quincey correva lungo Robin Hood's Bay. Le onde si infrangevano violentemente sulle rocce. Il gelido vento d'aprile si fece ancora più impetuoso. Lampi e tuoni squarciavano il cielo, che sembrava prepararsi all'imminente battaglia. A un tratto, il cavallo si impennò, perse l'equilibrio e cadde sulla battigia fangosa, scaraventando Quincey a terra. Si rialzò dolorante, e si precipitò verso l'animale, temendo che si fosse spezzato una zampa. Quando gli si inginocchiò accanto, si rese conto che era madido di sudore e respirava affannosamente: era quasi morto di fatica. Un altro lampo illuminò il cielo notturno e Quincey scorse in lontananza le rovine dell'abbazia in cima alla scogliera. Era vicino, ormai. Il cavallo provò a rialzarsi, ma crollò di nuovo a terra, esausto.

Quincey non poteva aspettare che si riprendesse. Gli accarezzò dolcemente la criniera. Era pronto a morire per la sua causa, ma non poteva sacrificare anche quella povera bestia. Così, si avviò a piedi lungo il sentiero roccioso e scivoloso che lo avrebbe condotto al suo destino.

Capitolo 58 «L'epoca in cui i bambini venivano usati come armi è morta e sepolta. Lasciate stare mio figlio» sibilò Mina. Si stava avventurando su un terreno insidioso, e lo sapeva. Era pericoloso menzionare le sofferenze che Dracula aveva patito da bambino. Secoli prima, il sultano turco aveva rapito Vlad Dracula e suo fratello minore, Radu. Gli anni trascorsi lontani dalla famiglia avevano segnato irrimediabilmente la vita di Dracula, che era stato tenuto prigioniero finché suo padre non era stato ucciso in battaglia. Allora aveva ereditato il trono di Valacchia ed era divenuto un crociato di Dio, trascorrendo il resto della sua vita mortale a cercare vendetta. Nella sua esistenza da non-morto, aveva continuato a combattere sotto lo stesso vessillo, e le creature come Elizabeth Bàthory erano i suoi peggiori nemici. Mina, tuttavia, non poteva permettere che Quincey venisse coinvolto nell'interminabile guerra di Dracula. «Quincey merita di condurre una vita normale. Pertanto è bene che lo porti via da qui. Via dall'Inghilterra. Via dalla contessa Bàthory» disse. Dracula rimase impassibile. Conosceva i pensieri più reconditi di Mina, e sapeva che quel momento sarebbe arrivato, prima o poi. Continuando a fissarla, sfiorò la cicatrice che aveva sul collo. La profonda ferita causata la notte prima dal morso della vampira si era già rimarginata. «La contessa ha bevuto anche il mio sangue» le disse. «Siamo tutti legati, ormai. Lei ci scoverà dovunque andiamo. Non solo noi due: anche Quincey. Dobbiamo reagire.» «Non siete abbastanza forte da affrontare la contessa. Ieri vi ha quasi ucciso.» Il suo volto di pietra sembrò incrinarsi e Mina scorse un lampo di dolore nei suoi occhi. Poi Dracula si voltò, fece un profondo respiro come per parlare, ma non disse nulla. Richiuse gli occhi come per farsi coraggio e infine disse, con voce sommessa: «Venticinque anni fa, ho rischiato di morire. A causa di Harker, e poi della contessa Bàthory. Le mie ferite non sono ancora guarite». Quindi si voltò verso di lei e si aprì la camicia.

Mina esclamò, sconvolta: «Dio mio!». Il petto di Dracula era una ragnatela di cicatrici, emaciato e con le costole in evidenza. Mina vide le cicatrici delle ferite inflittegli da Morris e da Jonathan e quelle dell'attacco di Elizabeth Bàthory, cui lei aveva assistito attraverso gli occhi della contessa, che gli aveva affondato il coltello kukri nel petto con lo stivale. Mina, il viso rigato di lacrime, non riusciva a staccare gli occhi da quello spettacolo pietoso. Per la prima volta, Dracula le aveva mostrato la propria paura e la propria debolezza. Mina capiva quanto fosse difficile per lui condividere con lei la sua vulnerabilità: era un atto di amore puro. Da quel momento in poi, non ci sarebbero più stati segreti fra loro. Mina aveva sempre provato una passione travolgente per Dracula, ma, con quella rivelazione, il principe le era entrato nel cuore, occupando il posto che era stato di Jonathan. Allungò una mano tremante, sfiorandogli il petto straziato. «Ecco perché avevate bisogno dell'aiuto di Seward» disse. Tutto tornava. La sua mano accarezzò la pelle sopra il cuore, nel punto da cui aveva bevuto il suo sangue e in cui Morris aveva conficcato il coltello. Dracula poggiò una mano gelida sulla sua, e le loro dita si intrecciarono. «Ho fatto tutto ciò che era in mio potere per proteggere voi e Quincey dalla contessa» sussurrò. Poi le sollevò il mento e la guardò con i suoi occhi scuri, come supplicandola di leggergli dentro. «Ma ormai non abbiamo più scampo. Ci ucciderà tutti, a meno che voi non torniate da me, Mina.» La stava ponendo di fronte a una scelta... ma Mina non poteva mettere da parte la sua fede. Non le restava altro. Doveva tenere a bada i suoi istinti. «Forse sembro ancora la giovinetta che avete conosciuto tanti anni fa,» ribatté, sempre guardandolo negli occhi «ma, col tempo, sono diventata molto più saggia. Per quanto le vostre parole siano dolci e il vostro tocco gentile, siete un mostro. È un assassino.» Dracula si raddrizzò e sul suo viso apparve un'espressione orgogliosa. «Sono un cavaliere del Sacro ordine del drago. Stoker e Van Helsing non mi hanno lasciato altra scelta....» «Non siamo più nel Medioevo. Non potete uccidere un uomo

perché ha offeso il vostro onore in un romanzo» lo interruppe Mina. «In vita, ero il braccio di Dio» replicò Dracula con aria di sfida. «Ho combattuto per difendere la Cristianità. Non ho conosciuto altro che morte e brutalità. Ho desiderato ardentemente una seconda vita, un'altra possibilità. Quando mi si è presentata l'occasione, l'ho colta al volo, incurante delle conseguenze. Sì, sono risorto dalla morte, ma non uccido per diletto. Il sangue di cui ho bisogno per sopravvivere proviene solo ed esclusivamente da animali, assassini, ladri e stupratori. Continuo a dispensare la giustizia di Dio.» E la fissò, con gli occhi spalancati. Mina ricordava bene quello sguardo ipnotico. Sentì il sangue di Dracula ribollirle nelle vene mentre una quantità di immagini le affollava la mente. Dracula le stava permettendo di vedere, attraverso i suoi occhi, le gesta che aveva compiuto in nome di Dio, i mostri che aveva ucciso, gli innocenti che aveva salvato... Poi proseguì: «Sono stato creato a immagine e somiglianza di Dio, ma appartengo a un ordine superiore. Il lupo non si ciba forse delle pecore? Come tutti i grandi cacciatori, sono solo. Non esiste suono più triste dell'ululato del lupo, solo nella notte, disprezzato dagli uomini e perseguitato fino a rischiare l'estinzione». Le si avvicinò e le sussurrò all'orecchio: «Mina, vi prego, senza di voi sono perduto. Il mio unico crimine consiste nell'ignorare le usanze dell'era moderna. Come può un uomo che vi ama così tanto essere davvero malvagio?». Mina sentì il suo alito gelido sull'orecchio. Avrebbe tanto voluto che quelle labbra la baciassero, ma, al tempo stesso, sentiva l'impulso di staccarsi da lui e fuggire. Abbassò gli occhi, incapace di sostenere ancora il suo sguardo. «Molto tempo la, avrei lasciato volentieri Jonathan per fuggire con voi. Ora, l'unica cosa che conta è mio figlio. Il nostro tempo è passato.» Sapeva di non essere convinta di ciò che diceva, e, ovviamente, lo sapeva anche Dracula. Era inutile mentire. Il principe la afferrò per le spalle, costringendola a voltarsi. «Smettetela!» le ordinò. «Vi state ingannando. So che mi amate ancora. Lasciatevi andare alle vostre passioni. Venite a me.

Illuminatemi. Solo unendo le nostre forze potremo salvare il mondo dalla contessa Bàthory.» «Mi state chiedendo di accettare il vostro dono. Di diventare come voi.» «Se fuggirete con Quincey in America, dovrò affrontare la contessa da solo. Questa sera siamo insieme e abbiamo un vantaggio. Se pure dovessi cadere in battaglia, lascerei la contessa gravemente indebolita. Voi, benché giovane, sareste una vampira nata dal mio antico sangue. Sareste in grado di proteggere Quincey, e i vostri nuovi poteri vi consentirebbero di combattere Elizabeth.» Mina strinse la croce che aveva al collo. «Non posso...» Dracula si voltò bruscamente e uscì dalla stanza, e Mina si sentì più sola di quanto non fosse mai stata. Guardò la notte senza luna fuori dalla finestra. Dov'era suo figlio? Doveva prendere una decisione, e sarebbe stato più semplice se avesse saputo che si trovava al sicuro. In quel preciso istante, si udì il rombo di un tuono. Mina non aveva mai avuto paura dei temporali, nemmeno da bambina, ma quel tuono le parve un avvertimento, e la lasciò profondamente scossa. Un istante dopo, percepì una presenza. La contessa Bàthory si stava avvicinando. La contessa sorrise alla vista di due baleniere che tentavano di attraccare al porto di Whitby mentre scoppiava la bufera. L'arrivo della donna fu annunciato da venti impetuosi e violenti scrosci di pioggia. Gli abitanti della cittadina si rifugiarono in casa, sbarrando porte e finestre. Mentre la sua carrozza sfrecciava per le strade, udì le grida di orrore che conosceva così bene. Persino gli ultimi degli ultimi percepivano il potere del male. Dal finestrino della carrozza, la contessa incrociò lo sguardo di un'anziana donna grinzosa e senza denti e rise dell'orrore che lesse nei suoi occhi. Adorava suscitare terrore negli esseri umani. Le faceva correre il sangue nelle vene e battere forte il cuore. Era corroborante, inebriante. La carrozza si fermò di colpo. Lei si sporse dal finestrino e vide che il ponte di legno sul fiume Esk era crollato e che i cavalli non

potevano attraversare le sue acque impetuose. Lo sforzo necessario a giungere all'abbazia in volo le avrebbe sottratto energie preziose, di cui aveva bisogno in vista dell'imminente battaglia. Così si rivolse, con la forza del pensiero, ai suoi cavalli, che scossero la criniera in segno di assenso. Sarebbero tornate indietro e avrebbero preso la via più lunga che conduceva agli scalini di pietra alla base della scogliera. La notte era ancora giovane. La contessa fissò la maestosa abbazia e, scorgendo la sagoma di una donna affacciata a una finestra dell'ala occidentale e avvolta nella luce soffusa delle candele, si leccò avidamente le zanne: avrebbe bevuto il suo sangue prima dell'alba.

Capitolo 59 cosa doveva fare. La tempesta imperversava sull'abbazia, ma le sue mura resistevano alla furia degli elementi, e così avrebbe fatto lei. Scese una breve scala di pietra che conduceva all'ala in cui si trovavano, un tempo, gli alloggi dei monaci e si avviò lungo uno stretto corridoio su cui si aprivano numerose celle e che terminava con una grande porta di quercia da cui si accedeva agli appartamenti dell'abate. Dracula aveva affermato più volte che i vampiri non erano malvagi di natura. Il fatto di essere non-morti non li condannava necessariamente alla perdizione, poiché essi conservavano la possibilità di scegliere fra il bene e il male. Mina aveva visto con i propri occhi che l'inestinguibile sete di un giovane vampiro era in grado di spingerlo verso il male. Lucy aveva attirato a sé dei bambini, ma non aveva avuto scelta: essendo impreparata, era divenuta un mostro. Mina pregò di non andare incontro allo stesso triste destino della sua cara amica. Sentiva che la contessa Bàthory si stava avvicinando e sapeva di non avere scelta: per salvare suo figlio, avrebbe dovuto sacrificare la sua anima immortale. Posò la lanterna sul pavimento e aprì la porta di quercia. Dracula era in piedi davanti all'enorme camino acceso. Udendola entrare, si voltò verso di lei. La stanza era immersa nella calda luce del fuoco e delle candele. Dracula la fissò con desiderio e speranza. «Quincey deve essere libero di scegliere il proprio destino. Non potete sostituirvi a lui» sentenziò Mina. Su quel punto, sarebbe stata irremovibile. Il principe annuì. «Se è questo il prezzo da pagare, così sia.» Poi le si avvicinò lentamente, e il cuore di Mina prese a battere all'impazzata al pensiero delle sue mani su di lei. Trepidante, afferrò la croce che aveva al collo e la strappò, lasciandola cadere sul pavimento. Il desiderio negli occhi di Dracula crebbe ancora di più. Il principe le appoggiò le mani gelide sulle spalle, facendola

rabbrividire, e la baciò sulle labbra. Poi, senza staccarle gli occhi di dosso, la prese in braccio e le sussurrò all'orecchio: «Insieme, vedremo l'ascesa e la caduta di intere nazioni. Insieme, vedremo l'eternità». La adagiò sul letto e prese a esplorare il suo corpo, toccandola come Jonathan non aveva mai fatto. La fece sentire una donna. Malgrado la sua forza, era gentile e delicato. Le sfilò l'abito e contemplò la sua nudità con un misto di stupore e cupidigia. Sebbene vivesse fra le tenebre, non spense le candele come faceva Jonathan: desiderava vedere ogni parte di lei. Quando le baciò il collo, Mina ebbe un tuffo al cuore. Non perché avesse paura, ma perché lo voleva con tutta se stessa. Dal modo in cui la accarezzò ed entrò in lei, Mina capì che considerava il suo piacere più importante del proprio. Mentre si muoveva dentro di lei, conobbe un'estasi mai provata. Dracula le sussurrò: «Prenderemo il mondo per la gola e ne berremo ciò che vogliamo». Mina aveva lottato tutta la vita contro la repressione. Accettando il bacio eterno di Dracula, avrebbe finalmente spezzato quelle catene e non avrebbe più dovuto sottostare ad altre regole all'infuori di quelle stabilite da lei stessa. Si strinse a lui e, al culmine della passione, tutto le fu chiaro. I suoi conflitti e le sue resistenze svanirono nel nulla. Era come se le nuvole, ritirandosi, avessero svelato un cielo limpido. Amava Dracula come non avrebbe mai potuto amare Jonathan. Erano una cosa sola. «Che Dio mi perdoni, vi voglio ancora» gli disse. Dracula aprì la bocca, scoprendo le zanne, ma Mina lo fermò con un cenno della mano. Lui obbedì di buon grado: voleva che la scelta fosse sua. «C'è una cosa che devo confessarvi. Un segreto che ho custodito per tutti questi anni.» Lui scosse lentamente la testa. «L'ho sempre saputo.» Mina sorrise, finalmente libera dal fardello della sua colpa, e gli offrì il collo.

Dracula si chinò su di lei e la morse. Mentre beveva il suo sangue, Mina si abbandonò a una commistione erotica di dolore e piacere. Non le importava più nulla delle sorti della sua anima. D'un tratto, Dracula si portò una mano al petto, scosso da violenti spasmi. Gli stava accadendo qualcosa. Respirava affannosamente e sembrava in preda ad atroci sofferenze. Poi lanciò un grido e si strappò la camicia. Mina vide che il suo petto emaciato e pieno di cicatrici si stava rigenerando. Dracula la guardò, incredulo. «Il sangue puro che beveste da me tanti anni fa sta guarendo le mie ferite.» Mina non credeva ai suoi occhi. Il sangue che, un tempo, aveva definito maledetto, avrebbe salvato Quincey e sconfitto la contessa Bàthory. «Il sangue è vita. La nostra vita» disse, e lo attirò di nuovo a sé, invitandolo a finire. Era il momento di morire e rinascere fra le braccia del suo principe, pensò, chiudendo per sempre gli occhi alla vita mortale. Quincey s'avvicinò a un pescatore che stava ormeggiando la sua piccola barca di legno. «La strada per l'abbazia di Carfax?» «L'abbazia di Carfax? Intendete l'abbazia di Whitby.» «No, l'abbazia di Carfax. La conoscete?» ribatté Quincey con impazienza. Il pescatore annuì: «Certo. Ma statene alla larga!». «Dannazione a voi, ditemi solo dove si trova!» Il pescatore si fece il segno della croce. Quincey si rese conto di non avere un aspetto rassicurante: era zuppo di pioggia e sporco di fango, sangue e chissà cos'altro. «Perdonatemi. È una questione di vita o di morte! Devo raggiungere l'abbazia di Carfax.» Il vecchio scosse la testa e indicò un sentiero che conduceva alla foresta. «Che Dio vi assista!» Quincey corse verso il sentiero. La pioggia lo accecava e il vento sembrava volerlo ricacciare indietro. Si chiese se fosse stato Dracula a scatenare la tempesta nel tentativo di rallentarlo. Non riusciva più a

sentire i pensieri di sua madre, e la cosa lo terrorizzava. Avanzò a fatica lungo il sentiero fangoso che attraversava le foreste di Stainsacre, scivolando a ogni passo. Finalmente, si trovò di fronte l'edificio abbandonato che, un tempo, era stato il manicomio del dottor Seward. Le rovine erano coperte di muschio, edera ed erbacce, come se la natura stesse cercando di cancellare il tormento che aveva abitato quel luogo. Secondo il romanzo di Stoker, davanti a lui si stendeva il campo che Renfield aveva attraversato per trovare rifugio nell'abbazia di Carfax. La ricchezza della famiglia di Quincey era frutto del sacrificio di Renfield. I suoi genitori maledicevano Dracula, ma avevano beneficiato dei suoi crimini. Quincey si chiese se le tragedie che li avevano colpiti fossero una sorta di castigo divino. Carfax si stagliava maestosa nella notte. Quincey non immaginava fosse così imponente. Era immersa nell'oscurità: solo una fiammella rischiarava una finestra. A un tratto, la luce del faro passò sulle mura diroccate, gettandovi ombre sinistre. Mentre Quincey attraversava il campo, la pioggia e il vento si fecero ancora più impetuosi. Lui però non si arrese e, facendo appello a tutte le sue forze, proseguì. Giunto finalmente all'abbazia, si appoggiò esausto, contro il portone di legno intagliato che, essendo socchiuso, si aprì sotto il suo peso. Colto alla sprovvista, perse l'equilibrio e cadde a faccia in giù sul pavimento dell'atrio. Rialzandosi, chiuse il portone, lasciandosi alle spalle la tempesta. Poi guardò fuori dalle finestre per controllare se qualcuno lo stesse osservando, ma non vide altro che lapidi illuminate dai lampi. C'erano solo i morti, lì fuori. Quincey si avventurò nei tortuosi corridoi dell'abbazia, imboccandone uno su cui si affacciavano molte porte. In fondo a esso, vide una porta socchiusa da cui proveniva un fascio di luce. Fece un profondo respiro e irruppe nella stanza, ma la trovò vuota. Le numerose candele si erano consumate e, in un angolo, c'era un letto sfatto con accanto un mucchio di vestiti. Il chiarore che Quincey aveva intravisto da dietro la porta proveniva dalle braci del camino. Quincey si voltò e sentì qualcosa sotto il piede. Abbassò gli

occhi ed ebbe un tuffo al cuore: aveva calpestato la croce di sua madre. Era certo che non se la sarebbe mai tolta di sua spontanea volontà. Furioso, la raccolse e uscì dalla stanza, senza sapere dove andare. Provò ad aprire tutte le porte affacciate sul corridoio, ma le serrature erano arrugginite. Presto sarebbe giunta l'alba, e, stando a quanto affermava Stoker nel suo romanzo, Dracula avrebbe avuto bisogno di un rifugio per ripararsi dal sole. Quincey trovò la scalinata principale e cominciò a scendere i gradini umidi, inoltrandosi nei sotterranei dell'abbazia. D'un tratto, si ritrovò in un'enorme sala con file di scaffali alle pareti. Guardandosi intorno, si rese conto che si trattava di una cripta con centinaia di tombe. Accanto all'entrata c'era una lampada a olio ancora calda: qualcuno era appena stato lì. Quincey si frugò nelle tasche alla ricerca dei fiammiferi che gli aveva dato Arthur Holmwood, sperando che fossero abbastanza asciutti. Le sue preghiere furono ascoltate, perché riuscì ad accenderne uno e, con esso, la lampada. Poi si diresse verso il centro della stanza, illuminando tre grandi sarcofagi di pietra. Il primo recava un'incisione in latino: ABATE CARFAX. Accanto, c'era una bara con un nome tanto familiare quanto ormai odioso: Basarab. Quincey si guardò intorno e notò una pala arrugginita appoggiata in un angolo. La afferrò e la sbatté contro il primo sarcofago, spaccandola in due e ricavandone un bastone con cui forzò il coperchio della bara. Quando si aprì, Quincey esultò. Poi, ricordando il grave errore commesso dal suo omonimo in Transilvania, chiuse gli occhi per paura di venire ipnotizzato dallo sguardo di Dracula. Sollevò il bastone, pronto a conficcarlo nel petto del principe. Aprì gli occhi all'ultimo momento per prendere la mira e si bloccò, come se il cuore gli si fosse fermato. Non riusciva a credere ai suoi occhi: nella bara giaceva sua madre. Quincey gettò via il bastone e si chinò su Mina, sfiorando quel viso che gli aveva sorriso e quella bocca che lo aveva baciato tante volte. Le labbra erano fredde e senza vita. Non avrebbe più potuto riconciliarsi con lei, pensò disperato: Dracula aveva vinto.

Quincey notò che le labbra di Mina erano coperte di piccole gocce di sangue e si rese conto di essersi ferito le dita aprendo la bara. In un silenzioso addio, posò una mano sul petto della madre, ma rimase sconvolto quando lo sentì sollevarsi. Un istante dopo, vide Mina leccare le gocce di sangue che aveva sulle labbra e spalancare gli occhi, che non erano più di un delicato colore azzurro, ma neri come la pece. Quando aprì la bocca, svelando lunghe zanne appuntite e lanciando un grido lacerante, Quincey rimase impietrito dal terrore. Prima che potesse reagire, Mina lo afferrò per la gola, stringendola in una morsa micidiale.

Capitolo 60 Dal cielo cadeva una pioggia di lacrime, come se Dio sapesse che, quella notte, il suo regno sarebbe finito. Le onde del Mare del Nord si infrangevano violentemente sulla costa. I lampi e i tuoni squassavano il cielo. La carrozza della contessa Bàthory procedeva sobbalzando sui ciottoli di Church Street. Le strade che conducevano all'abbazia erano impraticabili per via del fango. I cavalli si fermarono ai piedi dei centonovantanove scalini che conducevano in cima alla scogliera: la contessa sarebbe dovuta proseguire a piedi. Scese dalla carrozza sotto il diluvio. La pioggia cadeva impietosa sul suo cranio calvo, ricordandole la dolorosa perdita dei lunghi riccioli neri. In compenso, l'acqua gelida evaporava immediatamente a contatto con la sua pelle ancora calda. Il suo unico occhio scorse un uomo in piedi su un grosso masso. Era di spalle e fissava il mare in tempesta, del tutto incurante della pioggia e della sua presenza. Elizabeth Bàthory scoprì i denti e gli si avvicinò di soppiatto. "La pioggia coprirà il suono dei miei passi" pensò. In quel preciso istante, smise di piovere. Il cielo si aprì e la luna piena illuminò lo sconosciuto. «È tempo che rispondiate dei vostri peccati» disse Dracula voltandosi. «Erzsébet.» La contessa odiava il suono del suo nome nella lingua madre. Dracula, inoltre, lo aveva pronunciato come una maledizione. Elizabeth ebbe l'impulso irresistibile di avventarsi su di lui e farlo a pezzi. Erano secoli che aspettava quel momento. Ma poteva assecondare i suoi giochetti ancora per un po'. In fondo, cos'erano pochi attimi di fronte all'eternità che aveva davanti? Immaginò di strappargli la lingua e di mettersela al collo a mo' di ciondolo. Quel pensiero la aiutò a placare il suo istinto assassino. Quando la luce della luna la illuminò, lo sguardo di Dracula tradì un certo stupore. Era evidente che il suo aspetto ripugnante lo aveva colto alla sprovvista. Se avesse ancora avuto le labbra, avrebbe

sorriso. Ma anch'esse, come il naso e le palpebre, erano state consumate dall'incendio nella metropolitana. «Mi avete tagliato la gola, lasciandomi agonizzante» sibilò la contessa. «Ma stanotte sono qui, davanti a voi, con la forza di mille demoni. E vi giuro che, stavolta, non sfuggirete alla morte.» Dracula la guardò dall'alto del masso e le rispose, in tono risoluto: «State attenta. Dio è al mio fianco in questa battaglia». «Sarà proprio la vostra cieca fiducia in Dio a portarvi alla rovina.» Dracula si aprì il mantello con una mano e, con l'altra, gettò qualcosa verso la contessa. La luce della luna illuminò due spade in volo, che si conficcarono nel terreno. «Come un tempo» la sfidò Dracula. La donna fissò le due armi. «È la spada di vostro padre?» gli chiese, indicando quella più vicina a sé. «Sì» rispose Dracula. «E l'altra è una delle tante appartenute a mio fratello.» «Mi lusingate» disse lei, avvicinandosi alle spade e studiandole. Erano entrambe di squisita fattura, e di una foggia tipica di cinquecento anni prima. A giudicare dalle numerose scalfitture, entrambe le lame avevano combattuto numerose battaglie e versato molto sangue. Ma era giusto così. Lei e Dracula non avrebbero mai potuto usare dell'acciaio vergine, non con la loro storia a gravare sulle spalle. La contessa Bàthory prese entrambe le spade, stringendole nelle mani scheletriche e nodose. Una aveva un'elsa di legno molto appuntita che poteva essere utilizzata a mo' di pugnale. L'altra, invece, aveva un'elsa d'avorio arrotondata, ma la guardia a forma di V, con la punta rivolta verso l'elsa. Un abile schermidore avrebbe potuto sfruttare quella caratteristica a proprio vantaggio. Era la spada di Radu, e faceva al caso suo. La contessa gettò l'altra spada a Dracula e gli si scagliò contro per decapitarlo. Il principe, benché colto alla sprovvista, afferrò al volo l'arma del padre, e con un guizzo fulmineo schivò l'attacco della contessa. Poi si mise in guardia e attese. Il volto sfigurato di Elizabeth Bàthory si contorse in un ghigno e

Dracula, da bravo istrione, fece roteare la lama come se fosse su un palcoscenico. La contessa pensò al suo mentore e sospirò. Come avrebbe voluto che potesse assistere alla disfatta di Dracula! «Vi siete mai chiesto, Vlad,» gli disse, incapace di resistere all'impulso di riaprire vecchie ferite «chi vi odia più di me?» Dracula rimase interdetto. «Quanti nemici, mortali e non-morti, si collezionano in una vita?» «In tutti questi anni, Vlad, non vi siete mai domandato chi mi abbia spinta alla vendetta dopo ciò che mi avevate fatto?» proseguì la contessa. «Chi mi abbia offerto il dono oscuro?» Elizabeth Bàthory percepì il tentativo di Dracula di leggerle nel pensiero per scoprire l'identità del suo mentore, colui che l'aveva trasformata in una vampira. Lei esultò al pensiero dell'imminente rivelazione. Voleva distruggere la fiducia di Dracula e vederlo consumato dalla rabbia. «Non sono sola, nella mia guerra contro Dio, anzi: sono una fra tanti. Vi credete coraggioso perché siete qui ad affrontarmi. Ma siete uno sciocco arrogante, se pensate di poter cambiare il destino del mondo.» Il principe ringhiò. Aveva finalmente visualizzato il volto del mentore della contessa. Lo conosceva sin troppo bene. L'odio che li opponeva era leggendario. I suoi occhi fiammeggiarono d'ira. Con un urlo lacerante, balzò giù dal masso, scagliandosi contro di lei. Elizabeth parò il colpo, ma rimase sconvolta dalla sua violenza. Dracula era una furia. Le loro lame si incrociavano in una pioggia di scintille, e il loro clangore squarciava la notte come le trombe dell'Apocalisse. Mina sentì odore di sangue umano. Aprì le palpebre e rimase accecata dalla luce di una lampada a olio. Scorse la sagoma indistinta di un uomo chino su di lei, ma fu subito costretta a richiudere gli occhi. Fortunatamente, l'odore del sangue era così forte, così inebriante, che riuscì ad afferrare facilmente la sua prima vittima, pur non vedendola. Aveva bisogno di nutrirsi. "Il sangue è vita!" pensò. Spalancò la bocca, passandosi la lingua sulle zanne, e sentì se stessa ringhiare come una bestia feroce. Poi, un attimo prima di colpire,

udì una voce mormorare: «Madre?». Era un sussurro, ma al suo udito finissimo di non-morta parve un tuono. Mina rimase impietrita: era la voce di suo figlio, Quincey. La luce della lanterna era ancora accecante, ma si costrinse a riaprire gli occhi e rimase sbigottita da ciò che vide. Sembrava tutto più chiaro e più vivido; riusciva persino a vedere il calore emanato dal corpo che aveva davanti. Guardandolo più attentamente, riconobbe un volto amato. Era Quincey. Era vivo e, finalmente, al sicuro. Ma i suoi occhi esprimevano l'orrore più profondo. Mina fu sopraffatta dalla vergogna e dal senso di colpa. «Quincey, perdonami» disse. Le zanne le si ritirarono nelle gengive e la sua mente riacquistò lucidità. L'espressione di suo figlio era straziante. Mina sentì l'improvviso bisogno di confortarlo. Dracula le aveva detto la verità: se fosse ancora riuscita a provare emozioni, a sperimentare amore, dolore e senso di colpa, non sarebbe divenuta un demone e la sua anima si sarebbe salvata. «Mia madre è morta» disse freddamente Quincey, allontanandosi dalla bara. «No! È quello che affermava Van Helsing, ma non è vero!» esclamò Mina in tono supplichevole, cercando disperatamente le parole giuste. Udendo il nome del professore, Quincey trasalì. Mina leggeva nei suoi occhi un profondo tormento: doveva spiegargli come stavano davvero le cose. «Van Helsing si sbagliava. Sono ancora tua madre, Quincey» disse, tendendogli le braccia e sperando nel suo perdono. Invece vide l'energia emanata dal corpo del figlio cambiare colore, da un benevolo celeste a un rosso acceso. Anche l'espressione sul suo viso mutò. La mente logica di Quincey stava avendo il sopravvento sulle sue emozioni. «No!» urlò, spingendola via con tale violenza che Mina cadde sopra la bara, spaccandola, per poi rotolare sul freddo pavimento di pietra. Era debole e aveva un urgente bisogno di sangue. Mentre cercava di rialzarsi, Quincey si allontanò ulteriormente da lei, scuotendo la testa incredulo e disgustato. In quel momento, l'energia che emanava diventò nera e Mina lesse nella sua mente un unico pensiero: "Uccidila". «Quincey, no!» urlò, barcollando verso di lui. «Non pensarci

nemmeno!» Lui si voltò e afferrò il manico del bastone, stringendolo così forte che il sangue riprese a stillargli dalle ferite alle dita. Mina cercò di non farsi sopraffare da quell'odore così inebriante. Quincey esitò, il volto rigato di lacrime. Poi si voltò e, senza dire una parola, fuggì. «Quincey, aspetta! È stata una mia scelta!» gridò Mina, cercando di trattenerlo. «L'abbiamo fatto per salvarti dalla contessa Bàthory!» Fece qualche passo avanti, poi crollò a terra. Nello stato in cui si trovava, non sarebbe mai riuscita a raggiungerlo, né a impedirgli di commettere un grave errore. Ma doveva trovarlo prima che incontrasse Dracula. Sapeva che il principe non avrebbe mai fatto del male al figlio venendo meno alla parola data, ma temeva l'ingenuità di Quincey. Nella sua ignoranza, avrebbe potuto schierarsi dalla parte di Elizabeth Bàthory, sperando di ottenere la sua vendetta contro Dracula. I sensi acutizzati di Mina la stordivano: sentiva l'odore dei cadaveri putrefatti, della muffa che cresceva sulla pietra, degli escrementi degli animali, dell'umidità dell'aria. Udiva i passi di Quincey che saliva le scale. Ed era quasi assordata dal rumore delle gocce d'acqua che cadevano in una pozzanghera nell'angolo. Solo allora capì perché Lucy fosse impazzita. Era entrata in coma dopo una trasfusione sbagliata eseguita da Van Helsing e si era risvegliata in una bara, confusa, disorientata, e assetata di sangue. Nessuno le aveva spiegato cosa fosse accaduto. Dracula, braccato dalla compagnia degli eroi, era dovuto fuggire senza poterle fornire alcun chiarimento sulla sua nuova condizione di vampira. Ecco perché Lucy aveva bevuto il sangue della prima vittima che le era capitata a tiro: un bambino. Anche Mina era in preda a una sete implacabile, ma si impose di rimanere lucida. Del resto, Dracula l'aveva preparata. Era Consapevole di ciò che le stava accadendo e sapeva cos'avrebbe dovuto fare per fermare Quincey. Aveva bisogno di sangue. La sua fame non proveniva dallo stomaco, ma ogni cellula del suo corpo desiderava nutrimento. Il suo corpo si stava cibando di quello di Dracula, consumandolo. Doveva rifocillarsi, o avrebbe rischiato di divorare se stessa.

D'un tratto, udì qualcosa muoversi nella cripta. Si voltò di scatto e, vedendo dei topi correre qua e là, si trasformò immediatamente in vampira. Mettendo da parte il disgusto, si gettò su di loro e li sventrò con le zanne affilate. Gli strilli degli animali agonizzanti le perforarono le orecchie. Eppure, bevve: non aveva altra scelta. Il sangue è vita!

Capitolo 61 Il feroce attacco di Dracula colse la contessa Bàthory alla sprovvista. La forza dei suoi colpi la ricacciò sempre più indietro, finché non si ritrovò ai piedi degli scalini che conducevano all'abbazia e dovette cominciare a salire. La sua decisione di utilizzare la carrozza per non sciupare energie si era rivelata saggia: aveva bisogno di tutta la sua forza per fronteggiare i colpi di Dracula. Tanto meglio: avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vederlo sconfitto. Dracula, gli occhi spalancati, i denti stretti, sembrava un pazzo furioso. Elizabeth Bàthory continuava a indietreggiare, cercando di non tradire il dolore che provava: non voleva dargli quella soddisfazione. Le parole del suo mentore le riecheggiarono nella mente: «Impariamo dal dolore». Quello che aveva di fronte non era lo stesso Dracula che aveva affrontato nella metropolitana: era molto più forte. Mina doveva averlo aiutato a guarire. A lei avrebbe pensato dopo. Dracula si rese conto che la contessa era in difficoltà e si fece ancora più ardito. Nella testa della contessa, tuttavia, stava prendendo forma un piano, Dracula poteva essere più forte di lei, ma non avrebbe potuto mantenere quel ritmo ancora a lungo. Lei, inoltre, era molto più veloce di lui. Il principe sferrò una serie di attacchi micidiali. Le spade cozzavano l'una contro l'altra e la contessa faticava a parare i colpi. L'espressione trionfante di Dracula le era insopportabile. A un certo punto, fu costretta a voltarsi e a correre su per le scale fino al terrazzino successivo, trascinandosi la spada. Sembrava stremata e vicina alla resa. Dracula la inseguì, convinto di essere a un passo dalla vittoria. La sua arroganza era tale che aveva persino abbassato la spada, come se la contessa non costituisse più una minaccia. "Venite. Venite e morite" pensò. Quando Dracula raggiunse il terrazzino su cui lo attendeva Elizabeth, non la attaccò, ma si soffermò a guardare la sua bellezza devastata. La contessa vide la collera svanire dal suo volto e lasciare il posto a una profonda tristezza. Odiava ammetterlo, ma capiva

cosa stava pensando. Uccidendola, avrebbe perso una parte di sé. Erano simili, in fondo: due immortali che conducevano vite solitarie. Avrebbero potuto essere compagni, alleati. Ma, poiché Elizabeth aveva scelto di volgere le spalle a Dio, Dracula aveva dovuto volgerle a lei. Poi la contessa lo vide cambiare di nuovo espressione: aveva deciso di porre fine una volta per tutte alla loro lunga faida. Aveva deciso di ucciderla. "Povero illuso" pensò. Dracula fece roteare la spada con l'intento di decapitarla. Anche in quella circostanza, si sarebbe dimostrato misericordioso, accordandole una morte indolore. Fu allora che la contessa mise in atto il suo piano. Un attimo prima che la lama di Dracula la decapitasse, sfruttò il vantaggio della velocità e, con un guizzo fulmineo, si piegò all'indietro. La spada del principe le passò a un soffio dal viso e, mancando il bersaglio, lo trascinò in avanti, facendogli perdere l'equilibrio. Con un movimento talmente rapido da risultare quasi impercettibile, la contessa Bàthory incastrò la spada di Dracula nella guardia della propria e la conficcò nella terra umida accanto agli scalini di pietra. Poi estrasse il coltello kukri e glielo affondò nell'addome, squarciandolo fino al petto. Dracula lanciò un urlo e cadde all'indietro, mentre il suo sangue sgorgava a fiotti, inondando Elizabeth. La ferita era talmente profonda che fu costretto a tamponarla con entrambe le mani. La contessa lasciò cadere la spada e gli mostrò il coltello. «Ve lo ricordate?» Il lampo d'orrore che vide nei suoi occhi era la risposta che cercava. «È venuto il vostro momento. La nostra lunga guerra è finita, e sono io la vincitrice. Finalmente, governerò il mondo da quell'essere superiore che sono. E Dio volterà le spalle agli uomini, come fece con me nel momento del bisogno. Mi ha portato via tutto ciò che amavo, compresi i miei figli. Le sue leggi hanno indotto la mia famiglia ad abbandonarmi, mio marito a torturarmi, il mio popolo a ignorarmi. Per questo, ora, sputo su di Lui. E su di voi, Suo paladino. Mi siete venuto in aiuto, è vero. Ma, quando vi siete reso conto che non potevo più modificare la mia natura e cercavo giustizia, avete cercato di uccidermi. Non meritavo forse vendetta?

Be', ora l'ho ottenuta. Dio non troverà posto nel mondo che creerò.» La lama di Quincey P. Morris era di semplice metallo, ma i ricordi a essa collegati erano potenti. La contessa girò il coltello, consentendo a Dracula di riconoscere la stessa arma che aveva usato in Transilvania. Il principe la fissò come in trance. Di nuovo, aveva sottovalutato l'astuzia della sua avversaria. «Stavolta, la lama del texano porterà a termine il suo compito» mormorò la contessa. Dracula indietreggiò, le mani sulla ferita. Ma non era solo la paura della contessa Bàthory a indurlo ad arretrare. I suoi occhi erano fissi su un punto alle spalle di Elizabeth, che si voltò e si rese conto che stava spuntando l'alba. Il tempo era scaduto per entrambi. D'un tratto, si udì un urlo lacerante. La contessa Bàthory si girò di nuovo e vide Dracula scagliarsi contro di lei. La colpì in pieno petto, scaraventandola scontro gli scalini. Poi raccolse la spada di Elizabeth, si levò in aria sopra la sua testa, bagnandola con il suo sangue, e ricadde sugli scalini sopra di lei, tentando nuovamente di decapitarla. "Non ha imparato nulla?" pensò la contessa Bàthory, schivando il colpo mentre la lama del principe si conficcava in uno degli scalini, incrinandosi. Poi si gettò sulla spada di Dracula, ancora piantata nel terreno. I due contendenti si erano scambiati le armi. Elizabeth fece roteare la spada e si lanciò contro il suo nemico, sapendo che la vittoria era vicina. In quel momento, Dracula subì una spaventosa trasformazione: gli occhi divennero simili a quelli di un rettile, la pelle si tinse di verde, le orecchie si allungarono. La bocca si ingrandì, mostrando file di zanne affilate e sporgenti. Gli succedeva sempre quando era in pericolo e quando voleva infondere terrore nei suoi nemici mortali. Ma non avrebbe avuto alcun effetto su Elizabeth Bàthory, che di mortale non aveva più nulla. La contessa si avventò sul principe, che indietreggiò di fronte alla rapidità e alla ferocia del suo attacco, salendo gli ultimi scalini. Man mano che si avvicinava alla cima della scogliera, la parete rocciosa si riduceva, esponendo la sua schiena al sole che sorgeva. I malefici

raggi avrebbero colpito prima lui, pensò la contessa. Lei sarebbe rimasta nell'ombra. Il crociato di Dio aveva i minuti contati. Elizabeth sentì Dracula farsi sempre più debole. Il sangue continuava a sgorgare dalla ferita che gli aveva inflitto... Ed ecco che i raggi del sole gli colpirono la schiena. La contessa non gli diede tregua, sapendo che non avrebbe potuto resistere ancora a lungo. Allora lo avrebbe finalmente colpito al cuore. Mina avanzò barcollando nei bui e tortuosi corridoi dell'abbazia. Malgrado l'oscurità, riusciva a vedere perfettamente. Non era più una creatura della luce, ma un predatore notturno. Il suo corpo era in tumulto, diviso tra i morsi della fame e i conati di vomito. D'un tratto, ebbe un capogiro e si appoggiò al muro gelido. Poi avvertì una stretta allo stomaco e vomitò sangue. Perché stava rigettando il sangue dei topi? Forse, essendo una giovane vampira, avrebbe dovuto bere solo sangue umano. All'improvviso, nel fragore della tempesta che infuriava all'esterno, udì il rumore, lieve ma distinto, della pioggia e del vento sul legno. Il portone dell'abbazia! Mina seguì il suono, attraversando i sotterranei dell'edificio. Sentiva l'odore dell'umidità, quello del fumo delle candele, persino quello dei topi morti che si era lasciata alle spalle. Sentiva l'odore di suo figlio. Doveva essere passato di lì. Finalmente, capì cosa intendeva Dracula quando affermava che i vampiri erano superiori ai mortali. Pur sentendosi debole e fragile, era molto più forte di qualsiasi uomo. Solo la sua paura per l'incolumità di Quincey era ancora molto umana. Lasciandosi guidare dagli odori e dai suoni, Mina giunse davanti al portone dell'abbazia. Quando lo spalancò, fu sopraffatta da un dolore così forte che fu costretta a ritirarsi nell'ombra. Il sole! Era l'alba. Il suo istinto le disse di ripararsi dalla luce, ma l'urgenza di trovare Quincey la spinse di nuovo all'esterno. I raggi del sole erano come innumerevoli aghi che le pungevano la pelle. Era doloroso, sì, ma sopportabile. Accecata dalla luce, attraversò correndo il campo finché i suoi occhi non cominciarono ad abituarsi al chiarore. Ma poi fu

nuovamente assalita dalla nausea, e inciampò, cadendo a terra. Quando alzò lo sguardo, vide Quincey in piedi fra le tombe del cimitero e udì il cozzare di spade. Cercò di capire dove stesse guardando suo figlio e vide due figure intente a darsi battaglia sulle scale che conducevano all'abbazia. Mina sapeva che si trattava di Dracula e della contessa Bàthory. Percepì che Quincey era incerto sul da farsi: stava valutando se intervenire o meno. Mina si rialzò a fatica. Doveva raggiungere suo figlio prima che prendesse una decisione. Quincey rimase a osservare, come in trance, lo scontro che si stava svolgendo sotto i suoi occhi. Dracula era in difficoltà. La creatura scheletrica che lo attaccava era veloce come il lampo, e lo stava spingendo verso la cima della scogliera e verso il sole che sorgeva. Il giovane non doveva fare altro che gettarsi nella mischia. Ma non riusciva a muoversi. La creatura che stava combattendo contro il suo acerrimo nemico doveva essere la contessa di cui gli aveva parlato Van Helsing, nonché il famigerato Jack lo Squartatore. Se si fosse schierato al suo fianco, Dracula non avrebbe avuto scampo. L'istinto lo avvertì di stare attento, ma la ragione gli disse: «Il nemico del mio nemico è mio amico». La contessa emise un ringhio spaventoso. Secoli di ossessione l'avevano condotta fin lì. La vittoria era vicina. Continuò ad attaccare Dracula, sentendolo sempre più debole mentre il sole sorgeva. Respirava affannosamente e continuava a perdere sangue. Era giunto il momento di vibrare il colpo di grazia. Mentre salivano gli ultimi scalini, Elizabeth pensò a tutto il dolore che aveva dovuto sopportare nella sua lunga vita e si sentì invadere da una furia incontenibile, che riversò tutta nel colpo finale. La spada di Dracula, già incrinata, cedette: la lama andò in mille pezzi e lui cadde all'indietro. La contessa esultò, pregustando la sua morte. Se avesse avuto tempo, avrebbe pianto lacrime di gioia. Con il coltello kukri ancora nella mano sinistra, sollevò la spada con la destra, stringendola a mo' di lancia, e fece per conficcarla nel cuore

del principe. Un attimo prima di trafiggerlo, però, vide la sua espressione terrorizzata lasciare il posto a un perfido sorriso. Dracula allungò una mano e afferrò la spada della contessa, bloccando il colpo. Mentre la spingeva via, la lama affilata gli mozzò le dita, per poi conficcarsi nella pietra dell'ultimo scalino. Elizabeth perse l'equilibrio e cadde sopra di lui, che ne approfittò per affondarle la spada spezzata nell'addome, trapassandola da parte a parte. La contessa Bàthory aveva scommesso e aveva perso. Era profondamente ingiusto. Tutti i suoi piani, tutte le sue macchinazioni erano andati in fumo. Fra dolori atroci, alzò gli occhi sul volto sorridente di Dracula, che aveva di nuovo assunto le sue sembianze umane. Il principe aveva giocato d'astuzia. Aveva guardato dentro di lei e aveva compreso la sua rabbia, la sua arroganza. La sua ossessione. Aveva raccolto di proposito la sua spada incrinata e si era finto spaventato per trarla in inganno. Da quel grande attore che era, aveva recitato una parte. La contessa aveva dimenticato la regola aurea di ogni combattimento: mai sottovalutare il proprio avversario. Dracula estrasse la lama dall'addome di Elizabeth e la gettò via. Poi la guardò con aria triste. «Nessun cavaliere di Dio può soccombere a un avversario malvagio.» Udendo il nome di Dio, la contessa si sentì invadere dalla rabbia. Con un urlo raccapricciante, si avventò su Dracula e gli squarciò la gola con il coltello kukri che ancora stringeva in pugno. Poi, dimenticando il proprio dolore, scoppiò in una risata irrefrenabile. L'espressione sconvolta di Dracula mentre si portava la mano dalle dita mozze al collo per tamponare il sangue che usciva a fiotti dalla ferita era impagabile. Poi, però, il suo viso si contorse in una smorfia di rabbia. Strinse il pugno e lo affondò nell'addome squarciato della contessa. «Dio vi amava» ringhiò. «Avete scelto di uccidere perché non avete voluto accettare il suo amore. Siete l'unica responsabile dei vostri crimini.» Dracula afferrò il cuore della contessa e lo estrasse dal suo corpo. Elizabeth Bàthory fissò, incredula, il cuore nero ancora palpitante che il principe stringeva fra le dita. Poi, con un grido straziante,

conficcò il coltello nel petto di Dracula. Sapeva di non avere forza sufficiente ad affondarlo fino al cuore, ma le ferite che gli aveva inflitto e i micidiali raggi del sole gli avrebbero sicuramente dato il colpo di grazia. Il loro duello era finito alla pari. Avevano vinto e perso entrambi. Non volendo morire ai piedi di Dracula, si lanciò all'indietro e rotolò giù dai centonovantanove scalini. Durante la lunga caduta, sentì le ossa del suo corpo straziato spezzarsi una dopo l'altra, ma non provò dolore. La morte di Dracula avrebbe segnato l'avvento di un nuovo ordine del mondo, anche se non sarebbe stata lei a guidarlo. Mentre esalava il respiro fatale, il suo ultimo pensiero fu che la contessa Elizabeth Bàthory, disprezzata, abusata, svilita, terrorizzata, era morta spianando la strada alla distruzione del mondo: un epitaffio quanto mai appropriato per una creatura alla quale Dio aveva voltato le spalle. Quincey vide la contessa cadere, lasciando Dracula da solo, con il coltello ancora piantato nel petto. Ancora pochi istanti e i raggi del sole lo avrebbero illuminato direttamente. Strinse il bastone che aveva in mano. Era tempo di agire. Dracula doveva morire. Fece un passo verso di lui. «Quincey, aspetta!» gridò Mina alle sue spalle. La voce di sua madre non fece altro che rafforzare il suo proposito. Il giovane si mise a correre. Era venuto il momento di vendicarsi dell'uomo che aveva distrutto la sua famiglia. «Dracula! È venuta l'ora di affrontarci!»

Capitolo 62 Il sole non era ancora alto nel cielo, e la pelle di Mina stava già bruciando. Avrebbe voluto alzarsi e correre a fermare Quincey, ma si sentiva debole. Si trascinò avanti appoggiandosi alle lapidi del cimitero e gridando disperata: «Quincey! Fermati! Aspetta!». Quincey correva verso Dracula a una velocità sovrumana. Giunto a pochi passi da lui, lanciò un grido e sollevò il bastone sopra la testa, pronto ad attaccare. Ma Dracula non si voltò e Quincey si fermò, interdetto. Non vi sarebbe stato alcun onore nel colpire il suo nemico alle spalle. "Al diavolo l'onore" pensò. Quella era una questione di vita o di morte! Stava per trafiggerlo quando sentì un dolore lancinante, come un chiodo conficcato nella testa, e udì una voce risuonargli nella mente: Vuoi davvero uccidermi, Quincey? Vuoi davvero

uccidere colui che hai tanto amato?

Quincey rimase impietrito. Era come se non avesse più alcun controllo su di sé. Poi si rese conto che le nubi avevano oscurato il sole, e capì come mai Dracula non si fosse ancora girato verso di lui: si stava concentrando sul cielo e sulla sua mente. Solo allora si volse a guardarlo. Nella foga di distruggere il suo nemico, Quincey non aveva previsto il fatto che si sarebbe trovato di fronte Basarab. Con la gola e l'addome squarciati, la mano dalle dita mozze e il petto trafitto dal coltello kukri, sembrava così debole e fragile che provò un'improvvisa compassione. Non per Dracula, che aveva assassinato suo padre e violentato sua madre, ma per Basarab. «Siete davvero voi» disse. «Van Helsing mi aveva avvertito... eppure ho sperato fino all'ultimo che...» poi si interruppe e lasciò cadere il bastone. Fece un passo indietro, sconfitto. «Non posso farlo.» La voce che gli riecheggiava nella mente si fece più forte e più incalzante: Dracula e Basarab ti amano entrambi. Il dolore di Dracula era insopportabile, ma strinse i denti e si sforzò di dire: «Non avrei mai voluto ingannarti, ma volevo che la

contessa Bàthory credesse che ero morto. Sono diventato Basarab per potermi nascondere pur essendo sotto gli occhi di tutti». Nel frattempo, nella mente di Quincey si affollarono delle immagini che gli mostrarono la verità, o almeno una versione della verità, secondo la quale la vera malvagia era Elizabeth Bàthory e Dracula aveva sempre agito, nel bene e nel male, per proteggere lui e sua madre. Quincey non sapeva cosa pensare. Quelle immagini erano vere? Dracula era sempre stato dalla sua parte? La consapevolezza che Basarab gli aveva mentito lo mandò su tutte le furie: «Io vi amavo. Avevo fiducia in voi! E voi cos'avete fatto? Mi avete usato e tradito!». In quel momento, il sole sbucò da dietro le nuvole, illuminando il principe delle tenebre. La sua pelle cominciò ad avvizzire e le ossa affiorarono come dune di sabbia. Mentre deperiva a vista d'occhio, anche i suoi poteri scemarono e le nubi cominciarono a dissolversi. «Chiediti perché non puoi uccidermi» disse, respirando a fatica. «Io e te siamo la stessa cosa. Non puoi uccidermi senza uccidere te stesso.» Quincey scosse la testa. Non gli importava se la contessa Bàthory fosse o meno malvagia. Se Dracula non fosse venuto in Inghilterra, se non avesse invaso la sua famiglia come un cancro, la vampira sarebbe rimasta dov'era. Non gli importava neanche di sapere chi avesse ucciso e impalato suo padre in quel modo barbaro. Era Dracula la causa di tutto. Colui che aveva davanti non era più Basarab, ma un morto vivente malvagio fino al midollo. Quincey non era più confuso. Afferrò il principe per il mantello e lo attirò a sé. Poi, guardandolo negli occhi, gli sibilò: «Siete stato voi a uccidere mio padre!». Credeva che Dracula avrebbe reagito violentemente. Invece sorrise, e delle scaglie di pelle secca gli si staccarono dagli angoli della bocca. «Quincey, non sei uno sciocco» gli disse con voce grave e tranquilla. «Non vedi la verità? Non ho assassinato tuo padre. Sono io tuo padre.» Quincey, scioccato, lo lasciò andare, e Dracula si accasciò di nuovo sugli scalini, Un istante dopo, però, gli si avventò contro,

afferrando il manico del coltello kukri. «Siete un bugiardo!» gridò. Il principe non oppose alcuna resistenza. Allargò le braccia e lasciò a Quincey il potere di decidere della sua vita e della sua morte. «Fallo, se ne hai il coraggio» lo sfidò. Quell'ultimo sforzo doveva aver consumato tutte le sue energie residue, perché le nubi si aprirono e i raggi del sole lo investirono in pieno. Il momento a cui Van Helsing aveva cercato di prepararlo era arrivato. Era ancora un bambino o un uomo con la forza e la saggezza di fare ciò che andava fatto? Fissò l'uomo che aveva sempre identificato come il suo nemico e che ora sosteneva di essere suo padre. Il vapore filtrava attraverso i suoi abiti e si levava dalla pelle esposta al sole. Quincey vacillò. Se gli avesse dato il colpo di grazia, sarebbe diventato un assassino come lui. Era quello il destino che Dio gli aveva riservato? «Non volevi sapere la verità?» disse Dracula, ansimando. «Scoprire il segreto che tutti cercavano disperatamente di nasconderti? Ho giaciuto con tua madre prima di tuo padre. Tu sei il frutto del mio seme. Nelle tue vene scorre il mio sangue.» Quincey avvertì di nuovo una fitta lancinante alla testa e lasciò andare il coltello. Questa volta, però, la voce che udì riecheggiare nella sua mente era quella di Mina. Perdonami, figlio mio. Eh verità. Tutta la sua esistenza era stata una bugia. Fissò Dracula, la cui pelle si stava sciogliendo. Il sole, però, non aveva alcun effetto su di lui. Era ancora umano, quindi dotato di libero arbitrio. «Io sono il figlio di Jonathan Harker e di Dio.» Dracula guardò Mina con un'espressione rassegnata. Poi si alzò a fatica e si lanciò giù dalla scogliera, trasformandosi in una torcia umana. Il sole aveva fatto il suo dovere. La luce aveva distrutto l'oscurità. Quincey rimase a guardare, impotente, il corpo avvolto dalle fiamme che precipitava dalla scogliera per poi scomparire nel mare in tempesta. Udì sua madre gridare. Ma non provò nulla.

Mina lanciò un urlo straziante alla vista del corpo di Dracula che precipitava dalla scogliera. In un attimo, era svanito, lasciando dietro di sé una scia di fumo nero. Mina aveva lottato tutta la vita contro la verità del suo amore per Dracula, e perso così tanto tempo. Il loro amore era destinato a essere eterno, e ora era finito. Si rese conto che dai suoi palmi si levavano nuvole di vapore. I raggi del sole illuminavano, ormai, anche lei, infliggendole un dolore insopportabile. Si fece avanti barcollando finché non le cedettero le gambe. Poi continuò ad avanzare carponi, cercando di raggiungere Quincey. Forse, dopo aver scoperto la verità, avrebbe capito la sua scelta e le avrebbe offerto il perdono di cui aveva bisogno. Ma lui continuava a darle le spalle e a osservare il bordo della scogliera, assorto nei propri pensieri. «Vieni via con me, amore» lo supplicò Mina. «Ho tante cose da dirti. E tante cose a cui devo prepararti.» Quincey si guardò le mani insanguinate. Le parole che pronunciò furono più letali di qualsiasi arma. «Mia madre è morta» disse, e corse via senza guardarsi indietro. Mina lo guardò allontanarsi, disperata e impotente. Lo aveva salvato, ma avrebbe pagato a caro prezzo la sua vittoria. Ne era valsa comunque la pena: Quincey avrebbe potuto scegliere il proprio destino. Ma ora era sola. Le uniche persone che avesse mai amato erano morte. Che senso aveva l'immortalità se non la si poteva condividere con nessuno? Si diresse verso il bordo della scogliera con le fiamme che le lambivano i piedi, ma non provava dolore, solo la sensazione che la sua vita fosse giunta alla fine. Desiderava rivedere Jonathan, Lucy e tutti i suoi amici. E ricongiungersi al suo principe delle tenebre. Il viaggio era stato lungo e difficile, ed era tempo di tornare a casa. Alzò le braccia verso il cielo e raccomandò la propria anima a Dio, sperando che, nelle Sue infinite saggezza e misericordia, l'avrebbe perdonata. Ondeggiò alcuni istanti sull'orlo del baratro. Poi si sporse leggermente in avanti e precipitò.

Il mare e le rocce le andarono incontro. Per un attimo, vide il proprio riflesso infuocato, poi il buio. Un sonno ben meritato.

Capitolo 63 Il marinaio scelto John Coffey era esausto. Quella notte aveva alzato il gomito insieme agli altri membri dell'equipaggio e ora ne pagava il prezzo. Era una giornata grigia, ma il sole tentava di fare capolino fra le nuvole. Il mare era agitato a causa del forte vento. Coffey si chiese se i postumi della sua sbornia sarebbero migliorati se il tempo fosse cambiato. L'enorme transatlantico era ancorato a Roches Point, due miglia al largo della costa di Queenstown, perché era troppo grande per il porto locale. Coffey si domandò perché diavolo costruissero navi così grandi. Chi volevano impressionare? Di sicuro non l'equipaggio: su un transatlantico di quelle dimensioni, un marinaio aveva molto più lavoro da fare per lo stesso salario. Quando una nave era ancorata al largo, l'equipaggio era solito accompagnare i passeggeri sul traghetto che faceva la spola con il porto di Queenstown. Quella fredda mattina, John Coffey aveva avuto la fortuna di venire assegnato al PS. America, uno dei vaporetti utilizzati per trasportare i passeggeri. Queenstown era la sua città natale, ma non avrebbe avuto la possibilità di mettervi piede. Aveva l'ordine di fare più in fretta possibile: il transatlantico era al suo viaggio inaugurale, e gli armatori e il capitano erano decisi a infrangere il primato della traversata più rapida da Southampton a New York. Non c'era tempo da perdere. Coffey era per mare da più di due anni. Il lavoro su quel nuovo transatlantico era il migliore che avesse mai avuto, ma il salario era talmente misero che non gli permetteva di risparmiare neanche uno scellino. Il PS. America levò l'ancora e si staccò dal transatlantico, dirigendosi verso il porto con sette passeggeri a bordo. Mentre attraversava la baia di Cork, gli occhi iniettati di sangue di Coffey si posarono sulla cattedrale di St. Colman, che si ergeva su un'altura di Queenstown. I lavori di costruzione erano iniziati più di quarant'anni prima e, a giudicare dalle impalcature accanto al campanile, erano quasi terminati. Coffey sorrise. Quel porto era divenuto la principale via d'accesso all'America dal 1891, quando l'SS Nevada aveva portato oltreoceano i primi immigrati irlandesi. Coffey era stato molte volte

a New York, ma finiva sempre col provare nostalgia per quella tranquilla cittadina di mare. Per aggiungere il danno alla beffa, il PS. America avrebbe attraccato al molo 13. Un numero così sfortunato ! Coffey avrebbe tanto voluto recitare una preghiera nella cattedrale prima di prendere il largo. Sospirò e osservò il molo, dove un centinaio di passeggeri di terza classe attendevano il vaporetto che li avrebbe condotti sull'enorme transatlantico. Erano venuti da tutta Europa in cerca di una vita migliore. Chissà cos'avrebbero trovato una volta giunti in America. Dopo aver controllato i biglietti e aver scritto i nomi dei passeggeri sul manifesto, Coffey e gli altri marinai cominciarono a caricare i bagagli. A un tratto, Coffey udì qualcuno esclamare: «Aspettate!». Alzò gli occhi e vide un uomo dall'aspetto trasandato correre verso il vaporetto. A giudicare dagli abiti logori, doveva essere un vagabondo che cercava di ottenere un passaggio per l'America. «Ehi, voi, dove credete di andare?» lo apostrofò. «Perdonatemi» farfugliò il vagabondo. Aveva un accento aristocratico, cosa che stupì Coffey, e gli occhi spiritati. Conosceva bene quello sguardo: era lo stesso che aveva suo padre di ritorno dalla guerra, dopo aver assistito a ogni sorta di atrocità. Coffey rimase nuovamente di stucco quando il vagabondo gli porse un foglio con su stampato, a caratteri rossi: «Carta d'imbarco». «Ponte B, prima classe?» disse con aria scettica, lanciando un'occhiata ai suoi abiti consunti. Poi lesse il nome sulla carta d'imbarco. «Voi sareste il dottor Fielding?» gli chiese, notando il suo aspetto giovanile. Non poteva essere un medico: era poco più che un ragazzo. Doveva aver rubato il biglietto al legittimo proprietario. «E quella sarebbe la vostra borsa da medico?» disse, indicando la sacca che aveva in spalla. «Ah... ho avuto un incidente, come avrete intuito dal mio aspetto, e ho perso la borsa» replicò l'altro, stringendo la tracolla di cuoio della sacca. «L'avete persa? Insieme al vostro bagaglio?» insisté Coffey, aspettandosi che il giovane si desse alla fuga. Ma questi si limitò a

lanciargli un'occhiata che lo fece rabbrividire. «Mostratemi il passaporto e la licenza medica, prego» disse. Il vagabondo estrasse un astuccio dalla tasca e lo porse a Coffey, che rimase sbigottito nel trovarvi una banconota verde con uno strano disegno. Capì subito che si trattava di una banconota americana, con il numero 20 e la scritta «In moneta d'oro» stampati in inchiostro giallo. Coffey batté le palpebre. Voltò nervosamente la banconota per accertarsi che fosse autentica e si rese conto che ve ne erano altre quattro. Cento dollari. Era più di quanto guadagnasse in un anno. Coffey guardò di nuovo il giovane. Quel denaro avrebbe potuto cambiargli la vita, ma a che prezzo? Doveva prendere una decisione, e in fretta. «I vostri documenti sembrano in ordine» disse. «Siete arrivato appena in tempo, dottore. Da questa parte.» Sul molo c'era una pila di casse da trasportare a bordo del transatlantico. Mentre lui e gli altri marinai finivano di caricarle sul vaporetto, Coffey giurò a se stesso che avrebbe confessato il suo peccato nella cattedrale di St. Coiman prima della fine di quella giornata. Il dottor Fielding scese dal PS. America e si imbarcò sull'enorme transatlantico. Salì la maestosa scalinata e uscì sul ponte di passeggiata, costeggiando il parapetto di prua. I ricchi membri dell'alta società lo guardavano con disprezzo. Rimase sorpreso dal fatto che nessuno lo segnalasse all'equipaggio, credendo che fosse un passeggero di terza classe approdato dove non doveva. Finalmente un attimo di pace. "Dottor Fielding" era un nome come un altro, per lui che non sapeva più chi era. Un tempo, era stato l'omonimo di Quincey Morris, un uomo valoroso che era morto combattendo per il bene dell'umanità. Ma Quincey Harker non si sentiva più degno di quel nome. Ricordava di aver corso per ore dopo essere fuggito dall'abbazia di Carfax. Ricordava anche il momento in cui aveva percepito che sua madre era morta, per sempre. Aveva vagato senza meta per giorni. Poi, per miracolo o per

semplice fortuna, si era di nuovo imbattuto nel cavallo che aveva rubato a Whitby, dove era giunto in treno da Londra. Quando era crollato per la fatica, Quincey si era mostrato misericordioso, e aveva proseguito a piedi per l'abbazia. Era incredibile che l'avesse ritrovato. A ogni modo, quando lo aveva rubato non aveva notato la sacca appesa alla sella. Poi Dio gli aveva indicato la strada. Aprendola, vi aveva trovato il portafogli del dottor Fielding con dentro trecento dollari americani e un biglietto di prima classe per un transatlantico diretto a New York. Il primo istinto di Quincey era stato quello di cercare il medico e restituirgli ciò che gli apparteneva, insieme al cavallo. Avrebbe tanto voluto essere un uomo di elevata caratura morale, malgrado fosse ii figlio di Dracula. Invece aveva scoperto di essere un codardo. Eppure, mentre se ne stava in piedi sul ponte di quella maestosa nave, non poté fare a meno di emozionarsi per la grande avventura che stava per iniziare. Dopo aver accompagnato i cento nuovi passeggeri di terza classe sul transatlantico, Coffey si apprestò a svolgere l'ultima incombenza di quella mattina: trasferire il carico del traghetto nella stiva della nave. Quando quest'ultima avrebbe mollato gli ormeggi, Coffey si sarebbe nascosto a bordo del PS. America e sarebbe tornato a Queenstown. Sarebbe andato dritto in chiesa a confessarsi, poi avrebbe iniziato una nuova vita. Legò una corda intorno alle ultime due casse che dovevano essere caricate sul transatlantico e, con l'aiuto degli altri marinai, le trascinò lungo la passerella fin nella stiva. Sui lati delle casse era scritto: Proprietà di Vladimir Basarab. Da Queenstown, Irlanda, a New York, Stati Uniti d'America L'equipaggio chiuse le porte della stiva. Coffey si allontanò dai suoi compagni e tornò a bordo del PS. America, nascondendosi

sottocoperta, sotto un sacco di tela abbandonato. Toccò la tasca in cui aveva riposto il denaro, per accertarsi che fosse ancora lì, poi sollevò un lembo del sacco in modo da poter guardare attraverso l'oblò. Vide i suoi compagni salire a bordo della maestosa nave, poi il PS. America mollò gli ormeggi e tornò verso Queenstown. Era quasi a casa. Mentre il vaporetto attraccava al molo 13, Coffey lanciò un'ultima occhiata al nome dipinto sulla prua del transatlantico che si allontanava all'orizzonte, poi si coprì di nuovo la testa con il sacco: avrebbe atteso che facesse buio prima di uscire. A un tratto, fu assalito da un indefinibile senso di terrore. Qualcosa gli disse che la vita del vagabondo e di tutti i passeggeri del transatlantico era in pericolo. Pregò che il Titanic fosse davvero inaffondabile come affermavano i capitani d'industria.

Postfazione di Elizabeth Miller* [ Elizabeth Miller, professore emerito (Memorial University of Newfoundland), è riconosciuta a livello internazionale come esperta di Dracula. Curatrice (insieme a Robert Eighteen-Bisang) di Bram Stoker's Notes for Dracula: A Facsimile Edition, ha anche pubblicato A Dracula Handbook e il pluripremiato Dracula: Sense and Nonsense. Tiene regolarmente conferenze negli Stati Uniti e in Europa e ha partecipato a numerosi documentari radiofonici e televisivi. Al Congresso mondiale su Dracula, tenutosi in Romania nel 1995, le è stato conferito il titolo onorario di «Baronessa della casa di Dracula». È possibile accedere ai suoi siti web (Dracula's homepage e il Dracula Research Centre) attraverso www.blooferland.com.] Abraham (Bram) Stoker nacque a Clontarf, vicino Dublino, l'8 novembre 1847. Suo padre, John Abraham Stoker, era un funzionario statale. Sua madre, Charlotte Thornley, originaria di Sligo, nell'Irlanda occidentale, era impegnata nel sociale. Gli Stoker erano protestanti e frequentavano la Chiesa d'Irlanda. Bram era il terzo di sette figli: aveva quattro fratelli (William Thornley, Thomas, Richard e George) e due sorelle (Margaret e Matilda). L'infanzia di Bram fu segnata da una misteriosa malattia che lo costrinse a letto per anni. Sua madre gli teneva compagnia narrandogli storie e leggende della sua terra d'origine, fra cui racconti soprannaturali e macabri di malattia e morte. Nonostante l'infermità che lo afflisse da bambino, quando si iscrisse al Trinity College di Dublino, Bram Stoker era un giovane forte e prestante, che eccelleva nel calcio, nella corsa e nel sollevamento pesi. Ricevette dei premi per le sue doti oratorie e fu presidente della Philosophical Society. Dopo aver conseguito la laurea, seguì le orme del padre e accettò un impiego nella pubblica amministrazione. Nel frattempo, scriveva recensioni teatrali per un giornale locale. Fu grazie a quella dell'Amleto che conobbe Henry Irving, considerato il più grande interprete shakespeariano dell'epoca vittoriana. Nel 1878, sposò la bellezza dublinese Florence Balcombe (corteggiata anche da Oscar

Wilde) e accettò di diventare impresario del teatro di Irving, il Lyceum di Londra, posizione che ricoprì fino alla morte del divo, avvenuta nel 1905. A causa dei suoi numerosi impegni, scriveva per lo più nei ritagli di tempo. In qualità di impresario doveva infatti pianificare le stagioni teatrali e le tournée oltreoceano della compagnia, gestire la contabilità del Lyceum e svolgere attività di segreteria per conto di Irving. Partecipò alle otto tournée nordamericane della compagnia, durante le quali strinse amicizia con Walt Whitman (di cui era un fervido ammiratore) e Mark Twain. La collaborazione con Henry Irving (che nel 1895 ricevette il cavalierato dalla regina Vittoria) lo mise in contatto con molte figure di spicco dell'epoca. Tra le conoscenze di Stoker figuravano Alfred Lord Tennyson, Sir Richard Burton e William Gladstone. Ma l'influenza dello stesso Irving fu preponderante: l'opera Personal Reminiscences of Sir Henry Irving, che Stoker scrisse nel 1906, è un caloroso tributo al suo mentore, verso cui provava grande lealtà e affetto. Pur essendo noto soprattutto come autore del Dracula, Bram Stoker scrisse molti altri romanzi e racconti. Morì il 20 aprile 1912 (cinque giorni dopo l'affondamento del Titanic), dopo aver sofferto del morbo di Bright e subito due colpi apoplettici. Le sue ceneri si trovano a Golders Green, a Londra. Uno dei suoi necrologi sul «Times» di Londra affermava che sarebbe stato ricordato soprattutto per la sua collaborazione con Henry Irving. Ma oggi sappiamo che non fu così. Il Dracula fu pubblicato a Londra nel 1897. Sappiamo, dai suoi appunti, che lavorò al libro in maniera discontinua per più di sei anni, anche durante le vacanze e la tournée del Lyceum in Nordamerica. Il titolo originale del romanzo era The Un-Dead (Il non-morto). Il 18 maggio, a pochi giorni dalla sua pubblicazione, ne allestì una lettura teatrale al Lyceum al fine di tutelare il proprio diritto d'autore. La lettura, intitolata Dracula; or The Un-Dead, della durata di quattro ore, ebbe luogo davanti a un ristretto gruppo di membri della troupe e di curiosi e comprendeva ampi frammenti del romanzo messi insieme in fretta e furia da Stoker. La decisione di utilizzare Dracula come titolo fu presa all'ultimo momento.

[ Si veda Bram Stoker's Notes for Dracula: A Facsimile Edition, annotazioni di Robert Eigtheen-Bisang ed Elizabeth Miller (McFarland, 2008). Drake Stoker e Ian Holt hanno consultato gli appunti di Bram Stoker nel corso delle ricerche che hanno compiuto per scrivere il romanzo Undead. Gli immortali. Si sono imbattuti in molti personaggi (tra i quali il detective Cotford) che nella stesura finale del Dracula erano stati esclusi e ora appaiono in Undead.] Possiamo solo supporre che Bram Stoker intendesse scrivere un sequel di Dracula. Girava voce che avesse in mente di «portare Dracula in America in una storia diversa», [Roger Sherman Hoar, citato da David J. Skal in Hollywood Golhic (Faber and Faber, 2004]. ma non esistono prove circostanziate a sostegno di questa ipotesi. La conclusione del romanzo è tuttavia abbastanza vaga da non escludere un seguito della storia in cui riappaia il conte. Il metodo con cui Dracula viene ucciso è in contrasto con le indicazioni precedentemente fornite nel testo: un paletto nel cuore seguito dalla decapitazione. Il vampiro viene invece colpito da due coltelli: un kukri e uno da caccia. Inoltre, non è chiaro se quello di Harker (il kukri) decapiti Dracula. L'affermazione di Mina secondo la quale il corpo del vampiro «si è dissolto in polvere» lascia spazio a ulteriore ambiguità: è un segno della sua distruzione definitiva o solo una delle tante manifestazioni della capacità del conte di mutare forma? Un altro elemento che sembra lasciare la porta aperta è che Stoker (o il suo redattore) modificò il finale originale in cui il castello di Dracula doveva andare distrutto in un'enorme esplosione naturale. Tale cambiamento fu apportato per rendere la conclusione più ambigua? Non lo sappiamo. Quel che è certo è che il Dracula pullula di incoerenze, causate probabilmente dalla fretta di Stoker di ultimarlo. A ogni modo, il romanzo ha dato vita a una quantità di prequel e sequel che testimoniano la fascinazione che continua a esercitare sui lettori.

Undead. Gli immortali (il cui titolo originale in inglese è Dracula: The Un-Dead) è il seguito eterogeneo di un'opera complessa. Dacre Stoker e Ian Holt seguono le diverse fortune dei personaggi sopravvissuti: il dottor Seward, Arthur Holmwood (Lord Godalming), Abraham Van Helsing, Jonathan Harker e Mina Harker.

L'incontro con Dracula ha profondamente segnato la loro vita personale e professionale. Seward è dipendente dalla morfina. Arthur ha cercato invano di superare il dolore della perdita di Lucy risposandosi e isolandosi dai suoi ex compagni. Van Helsing è ancora ossessionato, malgrado l'età avanzata, dal desiderio di scovare il mostro. Il matrimonio di Jonathan e Mina è stato irrimediabilmente compromesso dal ricordo indelebile di Dracula. Attraverso le vite dei protagonisti, riviviamo alcuni degli eventi chiave della loro precedente esperienza: la morte di Lucy, la pazzia di Renfield, il "battesimo di sangue" di Mina, il viaggio in Transilvania e lo scontro finale con il conte. L'elemento di raccordo è rappresentato da Quincey Harker, figlio di Jonathan e Mina, che «porta i nomi di tutti i componenti del nostro piccolo gruppo». Menzionato brevemente nella nota di Jonathan Harker che chiude il romanzo originale, Quincey è il primo esponente della nuova generazione.

Undead è ambientato nel 1912. La scelta degli autori non è stata

casuale. Innanzitutto, rende possibile l'apparizione di Bram Stoker (che morì il 20 aprile di quell'anno). In secondo luogo, consente agli autori di far coincidere la conclusione del romanzo con la partenza del Titanic (anch'essa avvenuta in aprile). Questo collegamento apre la strada a un sequel del sequel, con la possibilità che Dracula sbarchi in America. Questa decisione ha tuttavia reso necessario modificare la datazione degli eventi del romanzo di Bram Stoker. Secondo i suoi appunti e i riferimenti contenuti nel testo, il Dracula era ambientato nel 1893. Per poter utilizzare un Quincey Harker adulto come catalizzatore di eventi (e per ambientare la loro storia nel 1912), Stoker e Holt hanno dovuto retrodatare la storia originale. La scelta è caduta sul 1888, anno in cui Jack lo Squartatore assassinò, da agosto a novembre, cinque donne nel quartiere di Whitechapel, a Londra. Che Stoker fosse a conoscenza degli omicidi è fuor di dubbio; anzi, li menziona direttamente nella prefazione all'edizione islandese del Dracula, pubblicata nel 1901. La scoperta della vera identità dello Squartatore diventa in Undead, una trama secondaria. Il Dracula che incontriamo in questo romanzo è una figura molto

più complessa rispetto al vampiro descritto da Bram Stoker. Innanzitutto, viene chiaramente identificato con Vlad l'Impalatore, il voivoda rumeno vissuto nel quindicesimo secolo, celebre per le sue atrocità. L'identificazione del Dracula di Stoker con Vlad non è certo una novità, essendo stata resa nota da Raymond McNally e Radu Florescu nel loro bestseller Alla ricerca di Dracula (1973) e avendo trovato spazio anche nelle trasposizioni cinematografiche del romanzo. In realtà, nel Dracula il collegamento è molto più vago: Stoker non menziona mai Vlad e i suoi crimini, neanche nei suoi appunti. In effetti, gli studiosi hanno recentemente dimostrato che Stoker sapeva pochissimo del vero Dracula, a parte il suo soprannome e il fatto che avesse attraversato il Danubio per combattere contro i turchi e che avesse un "fratello indegno". Per molti, però, i due Dracula erano ormai inseparabili. E la comparsa di Vlad nel sequel era quasi scontata. [ Si veda Elizabeth Miller, Dracula: Sense and Nonsense (Desert Island Books, 2006), Capitolo 5.] Stoker e Holt sono tuttavia riusciti a utilizzare creativamente questo elemento. Nel loro romanzo, Dracula arriva in Inghilterra nei panni di Basarab (il nome della famiglia reale alla quale apparteneva Vlad l'Impalatore), un attore rumeno venerato in tutta Europa. È Quincey a portarlo in Inghilterra, come aveva fatto suo padre Jonathan con il conte Dracula venticinque anni prima. L'intento originario di Bram Stoker era quello di far arrivare Dracula a Dover, il porto utilizzato anche da Basarab. Il cambiamento che lo indusse invece a scegliere Whitby avvenne dopo che Stoker visitò la cittadina sulla costa orientale inglese e decise di farne una delle ambientazioni principali della sua opera. Le somiglianze fra Basarab e Sir Henry Irving, la cui morte, avvenuta nel 1905, lo escludeva giocoforza dal romanzo, saltano agli occhi. Quincey Harker prova per Basarab la stessa ammirazione che Stoker provava per Irving. Quincey spera che Basarab accetti di interpretare Dracula nella riduzione teatrale del romanzo, e forse lo stesso Stoker aveva accarezzato quell'ipotesi. La rivelazione che Basarab è effettivamente il conte Dracula fa astutamente leva sulla diffusa (benché controversa) ipotesi secondo la quale Stoker si ispirò al suo autoritario datore di lavoro per delineare la figura del

vampiro. Ovviamente, non tutti i personaggi del romanzo sono tratti dal Dracula di Stoker. Ma "i ben informati" individueranno molti ingegnosi rimandi al testo originale. Alcuni sono minori, come nel caso di Braithwaite Lowery, compagno di stanza di Quincey alla Sorbona, il cui nome appare nel Dracula sulla lapide di una delle tombe del cimitero di Whitby indicate da Swales. E che, peraltro, esisteva veramente. Un altro esempio è un personaggio che compariva in una delle prime stesure del Dracula, da cui era stato stralciato in un secondo momento: il detective Cotford. In Undead il personaggio risorge nei panni dell'ispettore Cotford, che aveva partecipato alle indagini su Jack lo Squartatore condotte dall'ispettore capo Frederick Abberline (realmente esistito) e che è ancora ossessionato dal desiderio di rimediare al fallimento passato e risolvere, a distanza di venticinque anni, il caso. Stoker e Holt inseriscono nel romanzo molte altre persone realmente esistite. Una di queste è lo stesso Bram Stoker. La scelta del tempo della narrazione ha costretto gli autori a prendersi delle libertà con la biografia di Stoker, che viene presentato come proprietario del Lyceum Theatre impegnato ad allestire una rappresentazione teatrale basata sul suo romanzo. Bram ammette che il Dracula è il frutto della fusione tra la sua fantasia e una storia che un vecchio gli aveva raccontato in un pub. Durante un alterco con Basarab (che gli causa un colpo apoplettico), Stoker si trova a fronteggiare le accuse del divo, che sottolinea le incoerenze e i falsi presupposti del romanzo. Un altro personaggio storico che trova spazio nel testo è Elizabeth Bàthory, la contessa ungherese tristemente nota per l'abitudine di bagnarsi nel sangue delle giovani donne che assassinava. Anche il suo nome è sempre stato associato a Stoker e al Dracula, sebbene le prove di questo collegamento siano inconsistenti. La sua apparizione conferisce tuttavia a Undead buona parte della sua potenza, consentendo agli autori di trasferire il concetto di "male assoluto" dal conte a un'altra creatura. Il libro contiene molti altri cammei con cui gli autori rimandano a persone collegate al Lyceum e/o alla storia di Dracula, fra cui:

Hamilton Deane, Tom Reynolds, John Barrymore, Raymond Huntley, Vincent Price, Cristopher Lee e Louis Jourdan. Altri, pur non avendo a che fare con Stoker e il suo romanzo, contribuiscono a radicare il testo nel 1912: Henri Salmet, per esempio, fu uno dei primi aviatori che volarono da Londra a Parigi nel marzo di quell'anno. Ma la trovata più ingegnosa è stata quella di inserire il personaggio di John Coffey, che passò alla storia come il marinaio che abbandonò il Titanic a Queenstown perché convinto che il transatlantico sarebbe andato incontro a un tragico destino. Nel dare forma al loro romanzo, Stoker e Holt si prendono numerose libertà sia con la realtà sia con il testo originale: dall'incendio al Lyceum alla decisione di collocare il manicomio di Seward a Whitby. Creano anche un passato per diversi personaggi del romanzo di Stoker, come nel caso di Renfield, che diventa un ex socio dello studio legale Hawking, o del corteggiamento di Mina e Jonathan a Exeter. In un'occasione, manipolano persino una data chiave dell'originale, posticipando il volo di Dracula da Londra alla Transilvania di alcuni giorni in modo da rendere possibile la presenza del conte a Londra il 9 novembre 1888 e da inserirlo nella rosa dei potenziali Jack lo Squartatore. Un purista potrebbe rimanere sconvolto dall'inserimento di tali imprecisioni. Sebbene possa sembrare che i due autori sacrifichino l'accuratezza sull'altare della creazione artistica (impresa peraltro assolutamente legittima), le loro scelte mirano in realtà a ristabilire il Dracula originale, che è quello che fornisce le basi alla loro opera. Al tempo stesso, però, riconoscono che non esiste un solo Dracula, ma molti Dracula compresi tra la primissima stesura di Stoker e l'ultima trasposizione hollywoodiana, e che i confini tra l'uno e l'altro non sono così netti. Il bisogno di riaffermare e di rielaborare il Dracula è un'ulteriore testimonianza della durevole influenza dell'opera. Come afferma il professor Van Helsing nel romanzo del 1897: «E così il cerchio sempre più si allarga, come le increspature che fa un sasso gettato in acqua». Toronto, febbraio 2009

Nota degli autori

La storia di Dacre Essendo uno Stoker, non sorprende che abbia sempre nutrito un interesse verso il lavoro del mio antenato. Il fratello minore di Bram, George, gli era molto affezionato ed era mio nonno, quindi Bram era mio prozio. Quando ero all'università, scrissi un saggio su di lui, esaminando le motivazioni che potevano averlo spinto a scrivere il Dracula. Grazie alle ricerche che condussi, mi resi conto di quanto fosse stata tragica, dal punto di vista delle ripercussioni sulla mia famiglia, la genesi del suo libro. Bram Stoker morì prima che il Dracula ricevesse i giusti riconoscimenti. Le vendite dell'opera erano talmente esigue all'epoca della sua scomparsa che la vedova, Florence, pensava che non avrebbe mai beneficiato economicamente dei sette anni che Bram aveva "sprecato" a fare ricerche e a scrivere. Poiché le altre opere di narrativa e saggistica del marito non venivano più stampate, Florence era certa di dover tirare la cinghia per il resto della sua vita. Dieci anni dopo la morte di Bram, invece, il pubblico cominciò ad accorgersi del suo talento letterario. La diffusione dei racconti del terrore incrementò le vendite del Dracula, e Bram fu finalmente riconosciuto come il progenitore del genere horror. Nel 1922 Florence scoprì che la società tedesca Prana Films aveva realizzato una pellicola tratta dal Dracula senza chiedere preventivamente il suo consenso. In qualità di erede dei diritti d'autore di Bram, Florence avrebbe dovuto beneficiare economicamente di quella e di qualsiasi altra versione cinematografica dell'opera. Così, Florence citò la Prana Films per violazione del diritto d'autore. La causa si rivelò complicata a tal punto che si trascinò, di appello in appello, per tre anni e mezzo. Nel 1925, Florence vinse la causa, ma scoprì che la Prana Films era fallita. Così, non riuscì a ottenere altro che il risarcimento delle spese legali. La sua unica consolazione fu che il tribunale ordinò la distruzione di tutte le copie del film in questione, intitolato Nosferatu. Ma la sua soddisfazione fu di breve durata, poiché scoprì presto che una copia del film era sopravvissuta ed era stata proiettata nei cinema di Londra nel 1928 e in quelli americani nel 1929. Florence, stanca di

combattere, depose le armi. In compenso, riuscì a far valere i propri diritti sugli adattamenti teatrali del Dracula realizzati nel Regno Unito, per i quali ricevette una percentuale. In seguito, nel 1930, beneficiò della vendita dei diritti d'autore agli Universal Studios, intenzionati a realizzare un film tratto dall'opera, ma, anche in questo caso, non fu facile per lei ottenere ciò che le spettava. Dopo aver concluso l'accordo con gli Universal Studios, Florence scoprì infatti che Bram non aveva soddisfatto uno dei requisiti dell'ufficio per il diritto d'autore statunitense, il che aveva reso il Dracula di pubblico dominio negli Stati Uniti sin dal 1899. Così, da allora in poi, Florence dovette accontentarsi dei diritti d'autore britannici. E, da allora in poi, gli Studios americani furono liberi di fare ciò che volevano della storia e dei personaggi di Bram. La famiglia Stoker non venne più interpellata in merito a nessuna delle centinaia di versioni cinematografiche del Dracula realizzate nel secolo successivo. Essendo cresciuto in Nord America, ho potuto toccare con mano le conseguenze della questione dei diritti d'autore sulla mia stessa famiglia. La generazione di mio padre aveva un'opinione negativa di tutto ciò che riguardava Hollywood e il Dracula, eccezion fatta, ovviamente, per l'opera originale. Non ho affrontato questi temi nel mio saggio universitario, pur avendoli ben presenti. Ho sempre pensato che fosse sbagliato che la mia famiglia non fosse in grado di controllare l'eredità del mio prozio e che fosse importante per gli Stoker riaffermare i propri diritti sul personaggio di Dracula, sempre più immerso nella cultura popolare. Purtroppo, per buona parte della mia vita non ho saputo come affrontare tali questioni. Molti anni dopo la laurea, ho incontrato una persona estremamente interessante, Ian Holt. Ian è uno sceneggiatore da sempre ossessionato da Dracula. È un idealista e mi ha spinto a non accettare passivamente quella storia frustrante, ma a cercare di cambiarla. Il piano di Ian era semplice: ristabilire il controllo creativo sul romanzo e sui personaggi di Bram scrivendo un sequel che portasse il nome degli Stoker. Con mia grande sorpresa, nessuno della mia famiglia aveva mai considerato questa possibilità.

Incuriosito, decisi di unirmi a Ian nell'impresa. Nello scrivere Undead, ho provato un forte senso di responsabilità verso la mia famiglia. Lo scopo mio e di Ian era quello di rendere la visione che Bram aveva di Dracula e di risuscitare i suoi temi e i suoi personaggi originali. Così tanti libri e film si erano allontanati dalla sua concezione del personaggio che, nel nostro piccolo, sentivamo la necessità di restituire, sia a Bram sia a Dracula, la dignità perduta. Sono molto orgoglioso di avere avuto l'appoggio di tutti gli Stoker. Credo che Bram sarebbe lieto di sapere che un membro della famiglia ha preso questa iniziativa e reso finalmente giustizia alla sua eredità.

La storia di lan Non mi vergogno di dire che adoro i film dell'orrore. Da bambino quello che amavo di più era il Dracula del 1931, con Bela Lugosi, per la regia di Tod Browning. Quando avevo dieci anni, mia madre mi regalò un disco per Halloween in cui Cristopher Lee narrava la storia di Dracula di Bram Stoker. Leggere il trafiletto stampato sulla copertina del disco mi cambiò la vita: fu allora che appresi che la Transilvania esisteva realmente e che Dracula era un personaggio storico. Giurai che un giorno avrei visitato quel Paese lontano e cercato il vecchio conte. Ispirato dal disco, lessi il Dracula di Stoker e rimasi sorpreso dalla differenza assai evidente tra il romanzo e le sue versioni cinematografiche, che ben conoscevo. Il romanzo era più acuto, più intelligente, e più gotico e possedeva personaggi più complessi e affascinanti. Mi sentii ingannato da Hollywood e giurai vendetta. Quindici anni dopo, ebbi la mia occasione. Una sera, facendo zapping, mi imbattei in un programma sulla realizzazione del Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola. Durante un'intervista, Coppola mostrò il libro Alla ricerca di Dracula (1973), scritto dagli studiosi Fulbright Raymond McNally e Radu Florescu (discendente diretto del principe Dracula). Coppola si era ispirato alle ricerche condotte dai professori sulla vita del Dracula storico per

realizzare la scena iniziale del suo film. Presi il primo aereo diretto a Boston per incontrare i due studiosi. Dopo aver mostrato loro alcuni appunti sulla sceneggiatura che intendevo scrivere basandomi sul loro libro, i professori mi vendettero i diritti per un dollaro e divennero miei partner, mentori e ottimi amici. L'amicizia che strinsi con McNally e Florescu portò molti frutti. Iniziai a partecipare alle loro conferenze sull'impatto del romanzo di Stoker sulla nostra cultura, e ciò mi valse un invito a intervenire al primo Congresso mondiale su Dracula, tenutosi nel 1995 a Bucarest, che riunì gli studiosi di Dracula e del genere horror di tutto il mondo. Finalmente, riuscii ad andare in Transilvania. Trascorsi una notte fra le rovine del castello di Dracula, a Poienari, e visitai il suo palazzo a Tàrgoviste, dove mi affacciai al balcone della torre Chindia, dal quale il principe aveva contemplato la Foresta degli impalati. Visitai anche la sua città natale, Sighisoara, e la sua "tomba vuota" presso il monastero dell'isola di Snagov. Ero finalmente riuscito a realizzare il sogno che coltivavo sin da quando avevo dieci anni. Grazie alle amicizie che strinsi al congresso, mi fu chiesto di entrare a far parte della Transylvanian Society of Dracula, un'organizzazione dedita allo studio di tutto ciò che riguarda il principe. Fu così che conobbi la professoressa Elizabeth Miller, la maggiore esperta mondiale di Stoker, Dracula e i vampiri. La professoressa mi chiese di intervenire al convegno su Dracula tenutosi a Los Angeles nel 1997, in occasione del quale fu celebrato il centesimo anniversario della pubblicazione del romanzo di Bram. Il sogno di ogni appassionato di horror. Fu lì che concepii l'idea di realizzare un sequel di Dracula con il contributo di un membro della famiglia Stoker. E, da allora in poi, il mio unico scopo fu quello di assicurarmi quel contributo. Così, mi misi in contatto con il patriarca della famiglia, ma la vecchia generazione degli Stoker, ancora scottata dalla questione dei diritti d'autore del Nosferatu e profondamente delusa da Hollywood, non voleva avere niente a che fare con me. Io, però, non mi diedi per vinto e continuai ad arricchire il mio curriculum di

sceneggiatore e di esperto di Dracula, nell'attesa che la nuova generazione degli Stoker venisse avanti. Cinque anni dopo conobbi Dacre Stoker, il pronipote di Bram, e gli sottoposi il mio progetto di un sequel, che all'epoca concepivo ancora come la sceneggiatura di un film. Lui rimase favorevolmente colpito dalla mia idea, ma mi suggerì di iniziare con un libro, e io acconsentii con entusiasmo a scriverlo insieme a lui. Dacre contattò diversi membri della sua numerosa famiglia, illustrando loro il nostro progetto. Quando si resero conto che le nostre intenzioni erano cristalline e che il libro sarebbe stato il frutto di un profondo amore per l'opera originale, ci accordarono, finalmente, il loro consenso.

Undead è la realizzazione del sogno di una vita e il dono che

offro a tutti gli appassionati del genere horror. Spero di aver realizzato, insieme a Dacre, un libro al tempo stesso moderno e vicino alla visione gotica di Bram. So di essere molto fortunato: il mio nome sarà, in qualche modo, collegato a quello del mio eroe, Bram Stoker, l'inventore dell'horror moderno.

La stesura del romanzo Dacre Quando Ian mi ha chiesto di partecipare al suo progetto, sono scoppiato a ridere. Ho pensato: come potrei scrivere un libro, così ambizioso, per giunta? Ian, però, mi ha rassicurato dicendomi che, sebbene non avessi mai scritto un romanzo, sarei stato in grado di farlo. Avremmo condiviso il carico di lavoro e i nostri redattori ci avrebbero fornito preziosi suggerimenti. Ian conosceva anche un autorevole storico, Alexander Galant, che avrebbe potuto aiutarci a restituire un quadro fedele dell'epoca in cui era ambientata la narrazione. Non ci restava che scrivere una bella storia. I miei spunti si sono fusi perfettamente con quelli di Ian. Questo processo si è rivelato più facile del previsto, anche perché entrambi abbiamo attinto alle idee dello stesso Bram Stoker. A volte sembrava che Bram fosse con noi nella stanza e ci guidasse attraverso i numerosi indizi disseminati qua

e là come briciole di pane da seguire. Ian e io abbiamo dedotto dagli appunti di Bram che lui o il suo editore avevano in mente un sequel del Dracula. Innanzitutto, la copia dattiloscritta dell'editore, recentemente battuta all'asta da Christie's, ha un finale diverso rispetto al romanzo. In quella versione, la storia si conclude con un'eruzione vulcanica in cui il castello di Dracula viene travolto da un mare di lava, sequenza poi tagliata in favore di un finale più ambiguo. Inoltre, l'"uccisione" di Dracula non segue le "modalità" illustrate da Van Helsing. Il professore afferma che, per uccidere un vampiro, è necessario trafiggergli il cuore con un paletto e poi decapitarlo. Alla fine del romanzo, invece, Dracula viene pugnalato al cuore e sgozzato. Ian e io abbiamo interpretato questa scelta come un chiaro indizio del fatto che Bram intendesse scrivere un seguito. Essendo uno Stoker, desideravo che il mio prozio comparisse nella storia, in modo da accordargli, finalmente, un po' di gloria. Ian aveva letto la prefazione all'edizione islandese del Dracula, pubblicata nel 1901, in cui Bram affermava che i fatti di cui scriveva «erano realmente accaduti». Ian e io abbiamo colto al volo questa dichiarazione del mio prozio e ne abbiamo fatto il fulcro della nostra storia. A questo punto potreste chiedervi: perché inserire Jack lo Squartatore in un sequel di Dracula? Anche in questo caso, Ian e io ci siamo rifatti a quanto scrisse il mio prozio, che, nella prefazione all'edizione islandese del romanzo, affermò: «La serie di delitti [di Dracula] è ancora viva nella memoria. Una serie di delitti che sembrano eseguiti dalla stessa mano e che suscitarono nella gente la stessa ripulsa degli omicidi di Jack lo Squartatore». In questo passaggio, sembra che Bram voglia suggerire che i crimini dello Squartatore fossero della stessa natura di quelli di Dracula. Ian e io abbiamo pensato di fare di questo riferimento una trama secondaria della storia, ed è incredibile con quanta facilità le tessere del puzzle siano andate al loro posto. Una volta deciso che il "cattivo" del romanzo sarebbe stato Jack lo Squartatore, abbiamo dovuto identificare l'inafferrabile serial killer. Ian aveva letto il racconto di Bram intitolato L'ospite di

Dracula, pubblicato postumo. Molti studiosi ritengono che facesse parte del romanzo originale, ma che fosse stato tagliato dall'editore. Alcuni sostengono persino che Bram intendesse utilizzare il racconto come base per un sequel. Il personaggio di Johann si imbatte in una tomba con un paletto di ferro conficcato nella lastra tombale. Sulla lapide è scritto: CONTESSA, DOLINGEN DI GRAZ, STIRIA, ELLA CERCO' E TROVO' LA MORTE, 1801.

Un'altra incisione, in russo, recitava i morti sono veloci: un chiaro indizio che nella tomba giaceva una vampira. Alcuni studiosi ritengono che, mentre scriveva il Dracula, Bram fosse stato influenzato dalle atrocità commesse dalla contessa Elizabeth Bàthory, e che fece di Dracula un conte per via del soprannome dato a Elizabeth: la contessa sanguinaria. Secondo alcuni la contessa de L'ospite di Dracula è proprio Elizabeth. Questa teoria ci ha affascinato e abbiamo deciso di svilupparla. Una delle fonti di Ian ci spiegò che la contessa era una lontana parente di Dracula, e decidemmo di inglobare anche questa informazione. Secondo le storie tramandate prevalentemente da scrivani sassoni, il principe Dracula si macchiò di crimini orribili, e la contessa Bàthory, che aveva l'abitudine di bagnarsi nel sangue delle sue vittime, non era da meno. Ian e io trovammo interessante che due delle più celebri figure storiche che vengono oggi associate (più o meno a ragione) alle leggende sui vampiri fossero imparentate. Proprio come Bram, nel 1897, si ispirò a un personaggio storico per creare il suo conte Dracula, Ian e io, nel 2009, abbiamo attinto alla storia per delineare la figura della contessa Bàthory. Mentre la trama prendeva forma, Ian mi suggerì di recarmi al Rosenbach Museum di Philadelphia per consultare gli appunti che Bram aveva utilizzato per scrivere il Dracula. Vi trovai un personaggio che Bram aveva tratteggiato, ma quasi subito eliminato: un detective di nome Cotford. Il fatto che Bram, scrupoloso com'era, non avesse inserito un'indagine poliziesca sulle bizzarre morti causate da Dracula mi aveva sempre lasciato perplesso. Così, Ian e io abbiamo deciso di appropriarci dell'ispettore Cotford e di utilizzare le sue indagini per guidare i lettori attraverso il mistero al centro del romanzo.

Ian Dacre e io ci siamo concentrati sul personaggio del conte Dracula e ci siamo subito trovati di fronte a un dilemma. Alla fine dell'Ottocento, quando Bram scrisse il romanzo, la figura storica del principe Dracula era poco conosciuta in Occidente. Bram inserì nel romanzo alcuni fatti della vita del principe, fondendo realtà e fantasia. Lo fece intenzionalmente, per distinguere il suo conte dal principe realmente esistito? O, non potendo attingere alla biografia completa di Dracula, dovette colmare le lacune con la sua immaginazione? Dacre e io cercammo una risposta a questa domanda nei suoi scritti. Il personaggio che Bram creò nel 1897 era una creatura complessa e misteriosa, piena di contraddizioni: talora appare come un nobiluomo erudito e raffinato, in sintonia con il passato glorioso del suo Paese, talaltra come una bestia feroce dominata da istinti primordiali. Era un uomo del quindicesimo secolo che cercava di adattarsi alla realtà dell'Ottocento, di volta in volta abbracciando o respingendo la modernità. Era inoltre dotato di un'etica che gli causava profondi conflitti interiori quando si trovava a dover giustificare il suo bisogno di uccidere esseri umani. A ogni modo, uccideva solo se necessario o per quelli che considerava scopi nobili. Capii immediatamente che il personaggio del conte Dracula di Bram era molto simile al principe. Anche quest'ultimo era un uomo in lotta contro un'epoca di grandi cambiamenti, che cercava di riportare il mondo ai tempi cupi delle crociate. E anche il principe giustificava le sue atrocità affermando che non aveva avuto scelta o che le sue vittime avevano segnato il loro destino con le loro azioni. Sarebbe stato impossibile per Bram identificare il conte con il principe all'epoca in cui scrisse il romanzo, ma sia io sia Dacre eravamo certi che le analogie fra i due Dracula non fossero una pura coincidenza. Sin dalla pubblicazione di Alla ricerca di Dracula, il confine fra il conte e il principe è divenuto sempre più sottile. I due si sono poi confusi per sempre nell'immaginario collettivo grazie alla scena iniziale del Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola. Alla luce di tutto ciò, Dacre e io non abbiamo avuto altra scelta se

non quella di fondere una volta per tutte i due Dracula. D'altronde siamo certi che se Bram dovesse scrivere il Dracula oggi, con la mole di informazioni di cui ormai disponiamo sul principe, la sua natura meticolosa e la sua attenzione al dettaglio lo porterebbero a delineare un personaggio in linea con la documentazione storica. Alcuni, leggendo il nostro romanzo, potrebbero sottolineare che il nostro Dracula non è il "cattivo assoluto". Nel libro di Bram, il conte veniva descritto solo attraverso gli occhi dei suoi nemici, nei diari e nelle lettere della compagnia degli eroi. Dacre e io, invece, abbiamo deciso di dargli la parola e di presentarlo come un complesso antieroe. Alcuni continueranno a percepirlo come malvagio, ma noi gli abbiamo dato la possibilità di mostrare un lato diverso. Quindi non abbiamo modificato la visione di Bram; abbiamo semplicemente offerto un altro punto di vista. Questa scelta ci ha anche aiutato a rendere la nostra storia fresca e vitale. Dacre e io abbiamo sempre sostenuto che uno dei motivi principali che ci ha spinto a scrivere questo sequel è stato il desiderio di porre rimedio all'imbastardimento e alla cannibalizzazione dell'opera di Bram da parte di Hollywood e di altri autori. Ciò non significa che disprezziamo le altre versioni, ma che, da un punto di vista letterario, nessuno dei libri e dei film è riuscito a catturare la vera essenza del romanzo e dei personaggi di Bram. Anche nel classico di Tod Browning, con Bela Lugosi (l'unico film ad avere ricevuto un contributo della famiglia Stoker), il personaggio di Arthur Flolmwood è stato eliminato, ed è Renfield, non Jonathan Harker, a recarsi in Transilvania all'inizio del film. I problemi ebbero inizio quando Hollywood manifestò la volontà di realizzare un sequel di quel film basato su L'ospite di Dracula. Florence Stoker si rifiutò di cedere i diritti a meno che non le venisse garantita la possibilità di partecipare al processo creativo. Nel bel mezzo delle trattative, tuttavia, l'ufficio per il diritto d'autore statunitense dichiarò nulli i diritti di Bram, lasciando mano libera a Hollywood. Poiché Florence esigeva maggior potere decisionale e Bela Lugosi chiedeva un compenso più elevato per vestire nuovamente i panni del conte, i produttori decisero di ingaggiare John Balderston affinché scrivesse La figlia di Dracula, tagliando fuori sia Florence sia Bela. Il film fu un fallimento, ma il dado era tratto.

Ormai chiunque era libero di scrivere un romanzo o girare un film su Dracula come meglio credeva. E così fu. Ma è proprio questo il problema. Dacre e io sappiamo benissimo che una buona parte degli appassionati di Dracula ha visto solo i film e non ha mai letto l'originale di Bram. Il nostro auspicio è quello di invogliare il maggior numero possibile di persone a leggere sia il libro di Bram sia il nostro sequel. Perciò non abbiamo potuto ignorare quegli aspetti che i fan delle versioni cinematografiche del Dracula avevano ormai assimilato. Ci scusiamo fin d'ora con i puristi del romanzo, ma abbiamo ritenuto necessario fare alcune concessioni agli appassionati di Dracula nella speranza di armonizzarli una volta per tutte. Eccole: la storia d'amore fra Mina e Dracula, la capacità dei vampiri di muoversi anche alla luce del giorno, di volare e di cambiare forma, le armi utilizzate per distruggerli e la denominazione e l'ubicazione di alcuni siti geografici. Quanto alla storia d'amore fra Mina e Dracula, Dacre e io eravamo d'accordo sul fatto che dovesse essere affrontata con maggiore attenzione rispetto alle versioni cinematografiche, dal momento che Bram non aveva mai menzionato apertamente l'esistenza di una relazione amorosa fra i due. Con questo scopo bene in mente, abbiamo riletto un brano tratto dal diario di Mina che trovavamo entrambi estremamente ambiguo. Dopo aver scritto che credeva che Dracula le fosse apparso in sogno, Mina aggiunge: «Mi fa una strana impressione che quest'oggi mi si sia tenuta all'oscuro; dopo aver goduto per tanto tempo della piena confidenza di Jonathan». Dacre e io trovavamo strano che la reazione di Jonathan e di Van Helsing al sogno di Mina fosse quella di tagliarla fuori dai loro piani per distruggere Dracula, poiché fino ad allora era stata, a tutti gli effetti, un membro della compagnia degli eroi. Ma poi aveva bevuto il sangue di Dracula dal suo petto. A nostro avviso, era quello il punto ideale in cui inserire la storia d'amore fra i due senza rimaneggiare o tradire l'originale. Così, abbiamo immaginato che, durante il "sogno", Dracula abbia spiegato a Mina la sua versione dei fatti nella speranza di indurre la compagnia degli eroi a desistere dal loro proposito. Mina, non volendo ammettere la sua relazione romantica (ma ancora platonica) con il conte, afferma di averlo visto

in sogno. Jonathan e Van Helsing, però, si insospettiscono e decidono di escluderla dai loro piani, spingendola di nuovo fra le braccia di Dracula; in senso letterale, stavolta. Inserendo la loro storia d'amore nel tessuto del romanzo originale, siamo riusciti a mantenerci fedeli a Bram e ai fan dell'opera letteraria senza alienarci quelli delle versioni cinematografiche. Nel romanzo di Bram Stoker il conte Dracula cammina in pieno giorno, pur essendo più debole. Il fatto che i vampiri venissero distrutti dal sole era stata un'invenzione di Friedrich Wilhelm Murnau nel suo Nosferatu. Eppure è entrato a far parte della moderna tradizione vampiresca, tanto che molti che si avvicinano per la prima volta al classico di Bram sostengono che si sia "sbagliato". Dacre e io ci siamo quindi trovati ad affrontare il problema dell'evoluzione delle leggende sui vampiri avvenuta nel secolo scorso e abbiamo deciso di rivolgerci alla scienza più o meno ufficiale per modernizzare, con le dovute cautele, i vampiri di Bram e avvicinarli alla tradizione contemporanea. A ogni modo, non abbiamo fatto nulla che Bram non avesse previsto. La prova di questa nostra convinzione proviene, ancora una volta, dalla prefazione all'edizione islandese del Dracula: «Sono inoltre convinto che [questi eventi] debbano rimanere in qualche misura incomprensibili, sebbene non escluda che i progressi nella ricerca scientifica e psicologica saranno in grado, negli anni a venire, di fornire spiegazioni logiche a fenomeni misteriosi che, oggi, né gli scienziati né la polizia segreta riescono a capire». Così, Dacre e io abbiamo abbracciato la posizione secondo la quale il fatto che i vampiri brucino al sole è dovuto a una reazione chimica/allergica al sangue virulento del vampiro, in grado di modificare il DNA. È evidente che nel 1912, l'anno in cui è ambientato il nostro sequel, i termini "DNA", "virus" o "influenza" erano ancora sconosciuti. Al loro posto abbiamo usato il termine "veleno". Il virus vampiresco modifica il DNA degli esseri umani. Questa trasformazione comporta, fra le altre cose, anche la capacità di controllare circa il settanta per cento del nostro cervello, che non utilizziamo e non conosciamo ancora a fondo, conferendoci poteri paranormali. Abbiamo spiegato la trasformazione dei vampiri in

nebbia, gargouille eccetera come un'illusione telepatica creata attraverso il controllo della mente degli esseri umani. Quanto alla capacità dei vampiri di spostarsi rapidamente in volo, abbiamo attinto alla telecinesi e alla levitazione (la capacità di muovere se stessi e gli oggetti con la forza del pensiero). Nel nostro romanzo, quindi, sono le eccezionali facoltà cerebrali indotte dal virus vampiresco a rendere possibili tutti questi fenomeni. Abbiamo anche chiarito quali armi possono essere usate contro i vampiri. Anche in questo caso, ci siamo rivolti alla scienza, e in alcuni casi alla religione. Per spiegare come mai nel nostro romanzo le icone religiose (la croce, per esempio) non respingano tutti i vampiri, ci siamo basati sulla psicologia. I vampiri che, in vita, credevano in Dio ma avevano commesso gravi delitti, avevano ovviamente la coscienza sporca e temevano i simboli religiosi che rappresentavano, ai loro occhi, la dannazione eterna. I vampiri che non credevano in Dio, invece, non temevano le icone religiose. Il fatto che queste ultime o l'acqua santa brucino la pelle dei vampiri "con la coscienza sporca" può trovare spiegazione in una reazione psicosomatica particolarmente violenta. Quanto ai vampiri e agli specchi, non siamo riusciti a trovare alcuna giustificazione scientifica per questo fenomeno, che abbiamo quindi screditato. Per quanto riguarda invece l'aglio e l'aconito, la reazione dei vampiri può essere dovuta a una semplice allergia. L'argento invece è da tempo associato ai lupi mannari, e lì lo abbiamo lasciato. L'ultima concessione che abbiamo fatto è quella che riguarda la denominazione e l'ubicazione di alcuni siti geografici. La storia di Bram si sposta dalla Transilvania a Londra, da Exeter a Whitby. Quando Deane e Balderston scrissero l'opera teatrale tratta dal Dracula, era impossibile effettuare tanti cambi di set, così decisero di ambientare la pièce in Transilvania e a Whitby. Questa semplificazione è stata ripresa in numerose versioni cinematografiche della storia, ingenerando nei fan una certa confusione. Nel romanzo di Bram non compare nessuna abbazia di Carfax, fatto sorprendente agli occhi di coloro che conoscono bene i film su Dracula ma non hanno mai letto il libro. Bram si limitò a scrivere che Dracula aveva acquistato una proprietà chiamata Carfax e situata a Purfleet, a una

trentina di chilometri a est di Londra. E poi ci sono le antiche rovine dell'abbazia di Whitby, a cui Bram si ispirò mentre scriveva parti del romanzo durante il suo soggiorno nella cittadina costiera. Nella speranza di spazzare via ogni equivoco, Dacre e io abbiamo deciso di mettere insieme le informazioni contenute nel romanzo originale, nella pièce teatrale e nei film, immaginando un'abbazia di Carfax situata a Whitby. Abbiamo adottato lo stesso approccio per dissipare i dubbi intorno all'ubicazione della residenza estiva dei Westenra e del manicomio del dottor Seward, collocandoli entrambi a Whitby, come nell'opera teatrale e in molti film. Nel nostro romanzo abbiamo poi giustificato la scelta del personaggio Bram di situare, nella propria opera, il manicomio di Seward a Purfleet con il fatto che, all'epoca della stesura del Dracula, Bram credeva che le vicende che raccontava fossero frutto dei deliri di un pazzo ubriaco e non fossero realmente accadute. Così, si era sentito libero di apportarvi tutti i cambiamenti che aveva ritenuto opportuni. Nel nostro romanzo, Bram scopre che la storia che Van Helsing gli aveva raccontato era vera, e le libertà che si era preso nella narrazione tornano a perseguitarlo. Letteralmente.

Dacre Fra gli appunti di Bram custoditi al Rosenbach Museum, ho trovato informazioni molto interessanti che Ian e io abbiamo deciso di inserire nel nostro romanzo. Innanzitutto, in origine Bram aveva elaborato diverse ipotesi di titolo prima di scegliere The Un-Dead. In seguito, poco prima della pubblicazione e, forse, dietro suggerimento del redattore, optò per Dracula. Fra gli appunti ho trovato anche una lista di potenziali nomi di personaggi che Bram stilò ma, chissà perché, non utilizzò mai. Ian e io abbiamo deciso di dare questi nomi ad alcuni dei nostri personaggi minori: Kate Reed, che scopre il corpo impalato di Jonathan Harker, Francis Aytown, il fotografo che vede il "drago sputafuoco" fuori dalla stazione dello Strand, e il dottor Marx Windshoeffel, che lo vede volare nel tunnel delia metropolitana. Ian e io abbiamo inserito nel nostro Undead numerosi riferimenti

nascosti al Dracula di Bram e ad alcuni dei suoi migliori adattamenti, nella speranza che gli studiosi e i veri appassionati dell'opera li individuino. Inoltre, molti dei personaggi che appaiono nel nostro sequel sono realmente esistiti. Un esempio è il nome del compagno di stanza di Quincey alla Sorbona, Braithwaite Lowery, che, nel romanzo di Bram, viene indicato dal capitano Swales su una lapide del cimitero di Whitby. Il nostro Braithwaite accenna alle sue umili origini dicendo di essere figlio di pescatori e lasciando intendere di essere il nipote del Braithwaite Lowery sepolto a Whitby. Il nome del braccio destro di Cotford, il sergente Lee, è un omaggio a Christopher, l'attore. C'è anche un tenente Jourdan, la nostra strizzata d'occhio a Louis Jourdan, che interpretò Dracula nell'eccellente miniserie della BBC del 1978, che Ian e io consideriamo l'adattamento più fedele al romanzo di Bram. E poi ancora il dottor Langella, un riferimento allo straordinario Dracula interpretato da Frank Langella, che lo dotò di una fortissima carica erotica. L'ispettore Huntley è ispirato all'attore Raymond Huntley, il primo a vestire i panni del conte nell'allestimento teatrale di Hamilton Deane. Questi sono solo alcuni dei riferimenti nascosti disseminati nel nostro romanzo. Quanto ai personaggi storici, ricordiamo Henri Salmet, il primo aviatore a volare da Londra a Parigi nel marzo del 1912. E poi Lord Northcote, che nel 1880 fu eletto alla Camera dei Comuni come deputato di Exeter. Frederick Abberline fu l'investigatore che, nel 1888, diresse le indagini sugli omicidi di Jack lo Squartatore. Ivan Lebedkin fu il saggiatore dello zar di Russia dal 1899 al 1900. Hamilton Deane fu il produttore e lo sceneggiatore dell'allestimento teatrale del Dracula. John Barrymore fu un leggendario attore teatrale e cinematografico, nonché bisnonno dell'attrice Drew Barrymore. Tom Reynolds era un noto attore teatrale britannico, membro della compagnia del Lyceum Theatre, che interpretò Van Helsing nella produzione di Hamilton Deane. Il marinaio Coffey era un membro dell'equipaggio del Titanic che ebbe una premonizione sul tragico destino del transatlantico quando era attraccato a Queenstown, in Irlanda. Per questo abbandonò la nave, ebbe il suo quarto d'ora di celebrità, e scomparve tra le nebbie della storia. Ian e io abbiamo inoltre seguito l'esempio di Bram facendo riferimento a

luoghi, strade, rotte e orari ferroviari dell'epoca che, in molti casi, esistono ancora. L'ultimo ostacolo che Ian e io abbiamo dovuto affrontare prima di cominciare a scrivere è stato quello di decidere se e come rispondere a molte delle domande che Bram lasciò in sospeso. Poiché aveva scelto di scrivere il suo romanzo sotto forma di diari e lettere, la sua capacità di esplorare il passato dei personaggi era limitata. Ciò ha lasciato enormi lacune nella trama su cui gli appassionati discutono da decenni. Ian e io abbiamo ritenuto opportuno rispondere alle seguenti domande: come era nata la lunga amicizia tra Lucy e Mina, come aveva fatto un texano a conoscere il figlio di un lord inglese e un medico di origini borghesi, come i tre amici erano divenuti rivali in amore nel tentativo di conquistare il cuore di Lucy, come Jonathan e Mina si erano conosciuti e innamorati, come il personaggio di Renfield era stato influenzato da Dracula e perché era così importante per il dottor Seward e la compagnia degli eroi. Ian e io crediamo di poter affermare che tutte queste domande hanno trovato una risposta plausibile in Undead. In conclusione, il nostro scopo principale nello scrivere quest'opera è stato quello di raddrizzare i torti subiti dall'originale di Bram. Io, uno Stoker, e Ian, il più accanito fan vivente di Dracula, ci siamo impegnati a fondo per raggiungere questo obiettivo, e speriamo di essere riusciti a fare ammenda per aver perduto, per quasi un secolo, i diritti d'autore, e di conseguenza il controllo della magnifica e immortale storia di Bram. A ogni modo, desideriamo ricordarvi che tutti gli eventi narrati in questo romanzo potrebbero essere realmente accaduti, come suggerì all'epoca lo stesso Bram. Sogni d'oro. Dacre Stoker e Ian Holt

Ringraziamenti Ian Holt Innanzitutto, desidero ringraziare i miei genitori, Dolores e Sonny. Senza il loro incoraggiamento e il loro appoggio non sarei mai riuscito a superare i momenti difficili. Vi voglio bene. Vorrei dedicare questo libro alla memoria di Ruth e Bob Kaufman, J. Boyce Harman e del professor Raymond MacNally. Il loro affetto, la loro amicizia, il loro appoggio e la loro guida hanno reso possibile la realizzazione di questo libro. Continuerete a vivere attraverso me, perché vi porterò dentro per il resto dei miei giorni. Che Dio vi benedica. Al professor Radu Florescu, che ha scommesso su di me quando non ero nessuno. Il suo genio, la sua dedizione, la sua fiducia e la sua amicizia mi hanno aiutato a diventare qualcuno. Ai miei vecchi amici John Florescu e Sir David Frost, che mi hanno aiutato a capire che bisogna sempre avere il coraggio di osare. Il loro appoggio mi ha dato la forza di non arrendermi mai. Alla professoressa Elizabeth Miller, che mi ha gentilmente messo in contatto con le persone che hanno reso possibile la realizzazione di questo sogno. A Laura Stoker e al defunto Nicolae Paduraru, fondatore e presidente della Transylvanian Society of Dracula, autorevole studioso e gentiluomo. Siete stati i primi a credere in me. A Jenne Stoker, che ci ha riuniti tutti quanti. A Dacre Stoker, fratello, amico, socio in affari e compagno d'avventura. Sangue del sangue originale: CE L'ABBIAMO FATTA! A Bela Lugosi, Tod Browning, Hamilton Deane, John Balderston, Bud Abbott e Lou Costello per aver popolato gli incubi di un bambino, poi divenuti il sogno di una vita. A Bela Lugosi junior, per aver condiviso con me la storia travagliata di suo padre e la sua tormentata infanzia. A Frank Langella, W. D. Richter e John Badham. Il vostro film mi

ha spinto a rischiare e a ripensare Dracula come l'eroe romantico che era. A Christopher Lee per aver realizzato il disco che ha cambiato la mia vita e per aver donato dignità al genere horror. Ma peccherei di negligenza se elogiassi il signor Lee senza riconoscere il talento di Peter Cushing e l'opera della casa cinematografica Hammer Horror. A Jan De Bont che, con la sua guida, il suo coraggio e la sua visione ambiziosa mi ha spinto a raggiungere vette impensate. A Chris Stanley della Blue Tulip che, con il suo fiuto infallibile, ha dato l'avvio a tutto quanto. A Ernest Dickerson, uno degli uomini più simpatici e dei registi più bravi che conosca. A Ken Atchity, Chi-Li Wong e Mike Kuciak dell'AEI, miei manager e amici, per il loro duro lavoro, la loro guida illuminata, la loro esperienza e le loro conoscenze. Grazie per aver creduto in me e avermi sempre appoggiato. A Danny Baror della Baror International, il nostro agente per l'estero, per lo straordinario impegno profuso. A tutto il team della casa editrice Dutton, pieno di talento, pazienza, comprensione, buonsenso, dedizione, e soprattutto al nostro intrepido capo Brian Tart e alla straordinaria Carrie Thornton, nume tutelare, consigliera, psicologa, amica e impareggiabile redattrice. Ogni scrittore dovrebbe avere la fortuna di poter lavorare con voi. Avete tutta la mia gratitudine e la mia ammirazione. A Ron Gwiazda e Amy Wagner della Abrams Artists, che, oltre a essere due cari amici, danno lustro alla professione dell'agente. A Shannon Mullholland della Moda Entertainment, la nostra guru e agente dell'L&M. Sei davvero in gamba, donna pipistrello. A Peter Fields, il nostro angelo custode. Con te e il tuo team al mio fianco mi sento sicuro. Un ringraziamento speciale ad Alexander Galant, fratello, amico, consigliere e partner di scrittura cinematografica, che mi ha accompagnato in questo viaggio movimentato. Le tue brillanti

ricerche, il tuo straordinario talento e la tua assoluta dedizione sono stati indispensabili nella realizzazione di questo sogno. A Carmen Gillespie, che ha offerto un punto di vista femminile e ha ideato il nostro logo resuscitando l'antica arte del ricamo vittoriano [per l'edizione americana, n.d.r.]. A Cynthia Galant, che ha lasciato che le rubassi il suo papà per diverse ore al giorno. A Doctor Dre, il mio migliore amico, per tutto il tuo appoggio, tutta la tua saggezza e per le ore che mi hai dedicato nei momenti più difficili. A Graig E Weich, uno dei miei più vecchi e cari amici, le cui geniali illustrazioni non sono purtroppo sopravvissute all'editing finale e hanno dovuto essere eliminate per motivi di spazio. Potete ammirare il lavoro realizzato da Craig per il romanzo sul nostro sito web www.draculatheun-dead.com e le sue originalissime illustrazioni su www.beyondcomics.tv.

Dacre Stoker Vorrei dedicare Undead a tutti i membri della famiglia Stoker, in Irlanda e nel mondo. Un ringraziamento speciale ai miei figli Bellinger e Parker, che un giorno saranno orgogliosi dei loro geni. A mio padre Desmond, che non c'è più, e a suo fratello, mio zio Paddy, il dinosauro della famiglia. Al mio padrino, Henry Hugh Gordon Dacre Stoker, comandante di sottomarino durante la Prima guerra mondiale, che si distinse nella battaglia di Gallipoli. La realizzazione di questo libro non sarebbe stata possibile senza l'appoggio e l'incoraggiamento di mia moglie Jenne, le cui ricerche hanno portato alla luce un inestimabile patrimonio di informazioni sulla famiglia Stoker. Sono inoltre grato a: The Bram Stoker Society per lo sforzo teso a sensibilizzare l'opinione pubblica sull'eredità letteraria di Bram; Douglas Appleyard, il genealogista della nostra famiglia; tutti gli appassionati di letteratura gotica irlandese che tengono accesa la fiamma di Bram Stoker; John Moore, che ci ha garantito l'accesso alla sua collezione di Dracula di Bram Stoker; John Stokoe della «Whitby Gazette» e i Suttcliff Studios per averci fornito preziose fotografie d'epoca; John Stoker per averci presentato molte persone importanti; ed Elizabeth Miller, la "poliziotta di Dracula". Grazie alla "compagnia degli eroi" del ventunesimo secolo: a Ian Holt, per il suo impareggiabile entusiasmo, ad Alexander Galant per la sua profonda conoscenza dell'epoca vittoriana e a Carrie Thornton per la pazienza e la comprensione dimostrate durante il processo di editing. Un ringraziamento speciale allo staff del Rosenbach Museum and Library di Philadelphia per aver messo a nostra disposizione gli appunti di Bram.