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Italian Pages 477 Year 2007
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L n apJll'OC'CiO ~cc>logi · che la luce in questo caso è indifferenziata, non è posf/< ,.e sottoporla ad analisi e compiervi distinzioni, e non c'è tF:3suna informazione, in nessun significato del termine. La foce ambiente sotto questo aspetto non differisce dal buio arnbiente. Al di là della nebbia o del buio potrebbe esistere w.1 ambiente, ma potrebbe anche non esserci nulla: entrambe le alternative sono possibili. Quando invece si dà una luce ambiente che non sia strutturata da una parte e che lo sì~ invece in una parte adiacente - come nel caso del cielo b sopra l'orizzonte, e in quello di una regione sottostante dotata di tessitura -, nel primo caso non viene a specificarsi ;1ltro che un vuoto, mentre. nel secondo è una superficie che \ J.ene a specificarsi. Analogamente, nell'area omogenea tra le nubi viene a specificarsi il carattere del vuoto, mentre sono k nuvole a specificarsi nelle aree eterogenee. La strutturazione della luce ambiente attraverso Ie superfici, specialmente con la loro pigmentazione e la loro configurazione, verrà descritta nel prossimo capitolo. Sono soprattutto le superfici opache del nostro mondo che riflettono k luce, ma dobbiamo considerare anche le superfici luminose che emettono luce e le superfici· semitrasparenti che h trasmettono. Noi descriveremo, esponendo i dati, come avviene la specificazione di queste superfici da parte della luce, la loro composizione, la tessitura, il colore e la configurazione, le loro proprietà macroscopiche, e non quelle atomiche. Ed è questo processo di specificazione che fornisce delle utili informazioni al riguardo.
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5. La stimolazione e l'informazione dello stimolo
Per poter stimolare o, in altri termini, eccitare un fotorecettore e fargli > a questi tipi di energia. In questo senso rigoroso, uno stimolo non trasmette informazioni su quella che nel mondo è la sua fonte; non specifica, cioè, cosa questa sia. Solo la stimolazione che giunge in un assetto.strutturato e che cambia nel tempo opera tale specificazione. Si osservi anche che, a rigore, uno stimolo è temporaneo. In esso, a differenza di un oggetto .persistente nell' ambiente, non c'è nulla di durevole. Uno stimolo deve iniziare e finire. Se persiste, la risposta del recettore diminuisce e cessa; l'espressione che descrive questo processo è adattamento sensoriale. Da ciò deriva che è impossibile che un oggetto permanente venga individuato e definito, specificato da uno stimolo. L'informazione che lo stimolo fornisce circa un oggetto dovrebbe risiedere in qualcosa che persiste durante un flusso di stimolazione altrimenti mutevole. E si osservi soprattutto che un oggetto non può essere uno stimolo, anche se nel modo di pensare oggi prevalente si dà per scontato, senza riflettere, che lo sia. Si può dire che un'applicazione di energia di stimolazione che supera la soglia causi una risposta dei meccanismi sensoriali, e la risposta è un effetto. Ma non si può dire che è la presenza dell'informazione dello stimolo a causare la percezione. Questa non è una risposta a uno stimolo, ma un atto con cui si coglie l'informazione. Non è detto che si verifichi· upa percezione in presenza di informazione. A dif-
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ferenza della consapevolezza sensoriale, la consapevolezza percettiva non ha nessuna soglia di stimolazione determinabile in via assoluta. Essa dipende dall'età del percipiente, dal modo in cui questi ha appreso a percepire, e da quanto forte è la sua motivazione a percepire. Le percezioni si basano su sensazioni, e le sensazioni hanno soglie, e quindi anche le percezioni dovrebbero avere soglie. Ma non ne hanno, ed io credo che questo dipenda dal fatto che le percezioni non si basano sulle sensazioni. Gli stimoli che ven" gono applicati hanno delle grandezze al di sopra delle quali si hanno sensazioni, e al di sotto delle quali non se ne hanno. Ma le informazioni non hanno grandezze al di sopra delle quali si hanno percezioni, e al di sotto delle quali non se ne hanno. Quando l'energia dello stimolo è trasformata in impulsi nervosi, si dice che questi sono trasmessi al cervello. Ma l'informazione dello stimolo non è nulla che ·si possa inviare lungo un fascio nervoso e recapitare al cervello, proprio in quanto deve essere isolata ed estratta dall'energia ambiente. L'informazione, secondo la concezione qui presentata, non è trasmessa o inviata, non consiste in segnali o messaggi, e non comporta un'emittente e un ricevitore. Di questo parleremo più a fondo in seguito. Quando una piccola porzione di energia dello stimolo è assorbita dal recettore, quello che l'ambiente perde viene guadagnato dalle cellule viventi. Può trattarsi di una quantità di energia molto modesta, pochi quanta, ma nondimeno l'energia viene conservata. In contrasto con questo fatto, le informazioni ambientali, quando sono acquisite dall'osservatore, non vengono tuttavia perse dall'ambiente. Non esiste nulla di simile alla conservazione delle informazioni. Essa non ha limiti quantitativi. Le informazioni disponibili in termini di luce ambiente, di vibrazioni, di contatti e di azioni chimiche sono inesauribili. Uno stimolo convoglia allora parte del significato che. la parola ha in latino, quello cioè qel pungolo affondato per un momento nella pelle del bue. E un'applicazione rapida e discreta di energia su una superficie sensibile. Come tale, esso specifica ben poco al di là di se stesso; non contiene nessuna informazione. Ma un assetto fluente di stimolazione è una questione affatto diversa.
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8. L'energia ambiente come stimolazione disponibile
Si è detto che l'ambiente di un osservatore è costituito
da sostanze, mezzo e superfici. La gravità, il calore, .la luce, il suono e le sostanze volatili riempiono il mezzo. I contatti chimici e meccanici e le vibrazioni colpiscono il corpo del-
1'osservatore, che è immerso, per così dire, in un mare di energia fisica. Si tratta di un mare che fluisce, poiché cambia e subisce cicli di cambiamento, specie per quel che riguarda la temperatura e l'illuminazione. L'osservatore, essendo un organismo, scambia energia con l'ambiente attraverso la respirazione, la consumazione del cibo, e il comportamento. Una minima porzione di questo mare di energia ambiente costituisce la stimolazione e fornisce informazioni. Questa frazione è piccola, perché solo l'odore ambiente che entra nel naso è efficace per l'odorato, solo la catena di vibrazioni dell'aria che colpisce la membrana del timpano è efficace per l'udito, e solo la luce ambiente che entra nella pupilla dell'occhio è efficace per la visione. Ma questa minuscola porzione del mare delle energie è cruciale per la sopravvivenza, perché contiene le informazioni relative alle cose distanti. Dovrebbe essere ora evidente che questo minuto afflusso di energia di stimolazione non è costituito da impulsi discreti - che la stimolazione non è costituita da stimoli. È un flusso continuo. Nel flusso ci sono ovviamente degli episodi, che sono però annidati l'uno dentro l'altro, e non possono essere isolati come unità elementari. La stimolazione non è momentanea. Su un individuo cade energia radiante di ogni lunghezza d'onda, che urta, cioè, contro la sua pelle. La radiazione infrarossa darà calore, e quella ultravioletta causerà l' abbronzatura, ma la ristretta gamma intermedia di tali radiazioni la luce - ne costituisce l'unico tipo che ecciterà i fotorecettori dell'occhio, dopo essere entrata nella pupilla. Un occhio, o almeno I'occhio a camera dei vertebrati, a differenza di quello sfaccettato di un insetto, accoglie di solito; secondo G.L. Walls [1942], la luce di poco meno di un emisfero della luce ambiente. Una coppia di occhi come quelli del coniglio, che puntano in direzioni opposte, accoglie quasi tutta quanta la luce ambiente, e nello stesso momento. Que-
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sta, come abbiamo visto, è strutturata; e un duplice sistema oculare ha lo scopo di registrare questa struttura, o più esattamente, gli invarianti della sua mutevole struttura. La luce ambiente è di solito ricchissima di ciò che chiamiamo rispettivamente pattern e cambiamento. L'immagine retinica li registra entrambi. E un'immagine retinica implica la stimolazione della sua superficie recettiva, ma non, come spesso si suppone, un insieme o una sequenza di stimoli. 9. La teoria ortodossa dell'immagine retinica
La teoria generalmente accettata dell'occhio non riconosce a quest'ultimo la capacità di registrare la struttura invariante della luce ambiente, ma afferma che questa forma è un'immagine di un oggetto sulla parte posteriore dell'occhio. L'oggetto è ovviamente nel mondo esterno, e la parte posteriore dell'occhio è una superficie fotorecettiva attaccata a un fascio nervoso. Qual è la differenza tra queste teorie? La teoria della formazione dell'immagine in una camera oscura risale a più di 350 anni fa, a Keplero. Il nucleo iniziale della teoria enunciata da Keplero è che ogni cosa visibile emette radiazioni, e più precisamente che ogni punto su un corpo emette raggi in tutte le direzioni. Certo, una superficie opaca riflettente riceve la radiazione da una fonte e quindi la ri-emette, ma di fatto diventa un insieme di fonti puntiformi radianti. Se è presente un occhio, nella pupilla entra, muovendo da ogni sorgente luminosa puntiforme, un piccolo cono di raggi divergenti, ed è il cristallino che li farà convergere su un altro punto della retina. I raggi divergenti e convergenti costituiscono quello che viene chiamato un pennello luminoso focalizzato di raggi. L'insieme denso dei punti a fuoco sulla retina costituisce l'immagine retinica. C'è una corrispondenza proiettiva uno-a-uno tra punti radianti e punti focali. Un pennello luminoso focalizzato è costituito da due parti, il cono divergente della luce radiante e quello convergente dei raggi rifratti dal cristallino, uno con il vertice sul1'oggetto, l'altro con il vertice sull'immagine. Questo pennello luminoso è poi ripetuto per ogni punto sull'oggetto. C'è così un insieme illimitato di raggi in ogni pennello e un
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Singolo punto riflettente (particella radiante)
~ Superficie fisica
I. FIG. 4.3. Un pennello - messo a fuoco - di raggi che connettono un punto radiante
su una superficie con un punto focale nell'immagine retinica. Si suppone che i raggi del fascio siano infinitamente densi. Si noti che solo i raggi che entrano nella pupilla hanno efficacia per la visione. Fonte: Gibson [1950b].
insieme illimitato di pennelli luminosi in ogni oggetto. La storia dell'ottica ci dice che è a Keplero che va riconosciuto il merito principale di questa straordinaria invenzione intellettuale. Invenzione che comportava delle idee di indubbia difficoltà, ma che ha costituito - e ancora costituisce - il fondamento indiscusso della teoria della formazione dell'immagine. Il concetto di un oggetto come composto di punti ha incontrato per secoli il consenso dei fisici, dato che la maggioranza di questi ultimi partivano dall'assunto che un oggetto consista effettivamente dei suoi atomi. Successivamente, nel corso del diciannovesimo secolo, la nozione di una immagine retinica come costituita da una serie di punti di luce focalizzata nettamente distinti non apparve sconcertante ai fisiologi, che già avevano avuto modo di familiarizzarsi con quella di stimolo puntiforme, per esempio applicato alla pelle. La teoria della corrispondenza punto a punto tra un oggetto e la sua immagine si presta ad un'analisi di tipo mate-
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matico. Essa è infatti una teoria che è possibile astrarre dai concetti della geometria proiettiva e che è possibile applicare con grande successo alla progettazione di macchine fotografiche e di proiettori, e cioè ali' arte di realizzare, con la luce, delle figure, cioè alla fotografia. E la teoria consente anche la costruzione di lenti con un minimo grado di «aberrazione», cioè a dire con punti di particolare finezza nella corrispondenza punto a punto tra oggetto e immagine. Per farla breve: la teoria funziona a meraviglia per le immagini proiettate su uno schermo o su una superficie e che devono essere osservate. Ma il successo così ottenuto dalla teoria ha indotto a credere che l'immagine retinica si proietti su una sorta di schermo, e di per sé sia un qualcosa che va osservato, come una sorta di quadro. La teoria ha così condotto ad una delle fallacie più ricche di seduzione della storia della psicologia - quella secondo cui l'immagine retinica è qualcosa che deve essere vista. Io la chiamo la teoria dell'«omino nel cervello» dell'immagine retinica [Gibson 1966b, 226], che concepisce l'occhio. come una macchina fotografica al termine di un cavo nervoso che trasmette l'immagine al cervello. Deve allora esserci un omino, un homunculus, che risiede nel cervello e che osserva questa immagine fisiologica. Per vederla, l'omino dovrebbe avere un piccolo occhio con una piccola immagine retinica, connessa a un piccolo cervello: in questo modo, la teoria non ci spiega niente. Stiamo di fatto peggio di ·prima, dato -che ci troviamo davanti al paradosso di una serie di omini, ognuno dentro l' altro, e ognuno di essi osserva il cervello di quello appena più grande. Se l'immagine retinica non è trasmessa al cervello nella sua interezza, mi sembra di poter dire che l'unica alternativa è che venga trasmessa elemento per elemento, e cioè attraverso dei segnali nelle fibre del nervo ottico. Ci sarebbe allora una corrispondenza elemento-a-elemento tra l'immagine e il cervello, analoga alla corrispondenza punto a punto tra oggetto ed immagine. Sembrerebbe così possibile evitare la fallacia dell'omino nel cervello che osserva un'immagine; ma ciò implica tutte le difficoltà di quelle che ho chiamato le teorie della percezione basate sulla sensazione. La corrispondenza tra le macchie di luce sulla retina e le sensazioni nel cervello può essere solo una corrispondenza tra intensità
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James Mille la sensazione visiva, 1829
«Quando alzo gli occhi dal foglio su cui scrivo, vedo dalla finestra alberi e campi, e cavalli e buoi, e colline distanti. Li vedo ognuno della giusta grandezza, della giusta forma, alla giusta distanza; e questi particolari appaiono come informazioni immediate dell'occhio, come i colori che vedo per suo mezzo. Ma la filosofia ha accertato che noi dall'occhio non deriviamo alcuna sensazione se non di colore ... Com'è allora che riceviamo con l'occhio informazioni accurate su grandezza e forma e distanza? Meramente per associazione?» (Mill, Analysis o/ the Phenomena o/ the Human Mind, 1869]. È proprio questo il punto! Mill rispondeva, per associazione. Ma altri hanno risposto, per idee innate dello spazio, o per inferenza razionale dalle sensazioni, o per intetpretazione dei da#. Altri ancora hanno parlato di organizzazione spontanea degli input sensoriali che giungono al cervello. La risposta che attualmente è di moda è quella che parla di un'attività simile a quella di un computer svolta dal cervello sui segnali neuronali. Abbiamo 1'empirismo, l'innatismo, il razionalismo, la. teoria della Gestalt, ed oggi la teoria dell'elaborazione delle informazioni. I sostenitori di queste diverse posizioni dibatterebbero per l'eternità, se non partissimo da un nuovo punto di vista. La filosofia ha accertato che «noi dal1' occhio non deriviamo alcuna sensazione se non di colore»? No. Con «sensazioni di colore» si intendevano tracce o macchie di colore, come in un dipinto. La percezione non comincia così.
e brillantezza, tra lunghezza d'onda e colori. Se è così, il cervello si trova di fronte al pesantissimo compito di costruire un ambiente fenomenico basandosi su macchie che differiscono per brillantezza e colore. Se è questo quanto è visto direttamente, quanto è offerto alla percezione, se questi sono i dati dei sensi, allora è il fatto stesso della percezione ad essere quasi miracoloso. Anche la più raffinata delle teorie secondo cui l'immagine retinica è trasmessa come una serie di segnali nelle fibre del nervo ottico ha come insidiosa implicazione la tesi del1'«omino nel cervello». I segnali devono infatti essere codificati, e devono perciò anche essere decodificati; i segnali
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sono messaggi, e i messaggi vanno interpretati. In entrambe le teorie l'occhio invia, il nervo trasmette e una mente o uno spirito ricevono. Entrambe le teorie implicano una mente separata dal corpo. Non è necessario assumere che nell'attività percettiva vi sia una qualsiasi cosa che venga trasmessa lungo il nervo ottico. Non dobbiamo credere che al cervello venga recapitata o un'immagine invertita o una serie di messaggi. Possiamo concepire la visione come un sistema percettivo, in cui il cervello è semplicemente parte del sistema. Anche l'occhio è parte del sistema, dato che gli input retinici conducono a degli aggiustamenti oculari, e quindi a modificare gli input retinici, e così via. Il processo è circolare, non è una trasmissione unidirezionale. Il sistema occhio-testa-cervello-corpo registra gli invarianti nella struttura della luce ambiente. L'occhio non è una macchina fotografica che forma e distribuisce immagini, né la retina è semplicemente una tastiera che può essere azionata da dita di luce. 10. Una dimostrazione che' l'immagine retinica non è necessaria per la visione
Noi siamo inclini a dimenticare che l'occhio non è necessariamente una camera oscura, sulla cui superficie posteriore si forma, attraverso una lente, un'immagine invertita, alla maniera descritta da Keplero. Anche se gli occhi dei vertebrati e dei molluschi sono dì questo tipo, gli occhi degli artropodi non lo sono. Essi hanno quello che viene chiamato un occhio compoito, senza camera, cristallino, superficie sensoriale, ma con un insieme compatto di tubi recettivi detti ommatidi. Ogni tubo punta in una direzione differente rispetto agli altri, e presumibilmente I'organo può così registrare le differenze di intensità nelle diverse direzioni. È perciò parte di un sistema che registra la struttura della luce ambiente. In un altro libro, in un capitolo sullo sviluppo evolutivo dei sistemi visivi [Gibson 1966b, cap. 9], ho descritto .occhio a camera e occhio composto come due modi differenti di accettare un assetto di luce proveniente dall'ambiente [ibidem, 163 ss.]. L'occhio a camera ha un mosaico concavo
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di fotorecettori, la retina. L'occhio composto ha un insieme convesso di recettori tubolari sensibili alla luce. Il primo accetta un numero infinito di pennelli di luce, ognuno focalizzato su un punto, e che si combinano per formare un'immagine continua. Il secondo accoglie un numero finito di campioni di luce ambiente, senza focalizzarli e senza formare un'immagine ottica. Ma se compattiamo diverse migliaia di tubi, come nell'occhio del cervo volante, la percezione visiva è eccellente. Eppure nel suo occhio non c'è nulla che ci possa essere possibile vedere, nessuna immagine su una superficie, nessuna figura. Nondimeno, il cervo volante vede il suo ambiente. Gli zoologi che studiano la visione degli insetti sono talmente rispettosi dell'ottica che viene insegnata nei manuali di fisica da sentirsi vincolati a pensare che nell'occhio dell'insetto si formi una sorta di immagine non capovolta. Ma questa nozione è vaga e auto-contradditoria. Non c'è nessuno schermo su cui si possa formare un'immagine. Il concetto di assetto ottico ambiente, anche se non riconosciuto dal1'ottica, costituisce un fondamento migliore di quello di immagine retinica per capire la visione in generale. Per la percezione visiva è necessaria la registrazione delle differenze di intensità in diverse direzioni; non è invece necessaria la formazione di un'immagine retinica. 11. Il concetto di informazione ottica Il concetto di informazione che ci è più familiare deriva dalle esperienze che compiamo inviando e ricevendo comunicazioni nel corso dei nostri rapporti con le altre persone, e non dalla nostra esperienza di percezione diretta dell' ambiente. Noi tendiamo a pensare all'informazione in primo luogo come a qualcosa che viene inviato e ricevuto, e assumiamo che debba esserci qualche tipo intermedio di trasmissione, un «mezzo» o «canale» di comunicazione lungo cui si dice che l'informazione scorre. In questo senso, l'informazione è costituita da messaggi, segni, segnali. Nei primi tempi i messaggi, che potevano essere orali, scritti o pittorici, venivano inviati servendosi di staffette o di corrierì. Venne poi inventato il sistema dei semafori, e poi il telegra-
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Il sofisma del!' immagine nel!'occhio Sin dal momento in cui qualcuno per primo escisse la parte posteriore del bulbo oculare di un bue macellato e, postolo di fronte a una scena, osservò, sulla retina trasparente, l'apparire di una minuscola immagine colorata invertita, siamo stati tentati di trarre una conclusione falsa. Pensiamo dunque all'immagine come a qualcosa da vedere, a una figura su uno schermo. La si può vedere estirpando e sezionando l'occhio del bue, e allora perché il bue non dovrebbe vederla? Il sofisma dovrebbe essere evidente. Il problema del perché possiamo vedere il mondo diritto quando l'immagine retinica è invertita sorge a causa di questa falsa conclusione. Tutti gli esperimenti su questo famoso problema non sono giunti a nulla. L'immagine retinica non è qualcosa che possa essere vista. Il famoso esperimento di G.M. Stratton [1897] sulla reinversione dell'immagine retinica ha fornito dei risultati inintelligibili perché era mal concepito.
fo elettrico, quello senza fili, il telefono, la televisione, e così via, con un tasso accelerato di sviluppo. . Noi comunichiamo con gli altri anche tracciando delle figure su una superficie (tavoletta d'argilla, papiro, carta, tela, schermo), e plasmando una scultura, un modello, o un'immagine solida. Nella storia della produzione di immagini, è stata l'invenzione della fotografia a produrre la rivoluzione tecnologica fondamentale, allorché si è fabbricata una superficie fotosensibile che poteva essere posta sulla parte posteriore di una camera oscura, con una lente di fronte. Questo tipo di comunicazione, che chiamiamo grafica o plastica, non consiste di segni o segnali, ed evidentemente non ha nulla a che fare con un messaggio da una persona a un'altra. Non è né trasmessa né veicolata. Le pitture e le sculture sono adatte ad essere mostrate, e così contengono informazioni, e le rendono disponibili a chiunque le osservi. Non di meno, esse, come le parole dette o scritte del linguaggio, sono opera dell'uomo. Trasmettono informazioni, che, come le informazioni trasmesse dalle parole, sono mediate dalla percezione del primo osservatore. Non
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consentono un'esperienza di prima mano ;. . . solo una di seconda mano. Le informazioni dello stimolo ambiente, presenti nel mare di energia che ci circonda, sono del tutto diverse. Le informazioni percettive non sono trasmesse, non sono costituite da segnali, non comportano che vi sia chi le invii e chi le riceva. L'ambiente non comunica con gli osservatori che lo abitano. Per quale ragione il mondo dovrebbe rivolgerci la parola? Il concetto di stimolo come segnale dà interpretare conduce a delle assurdità, come quella di una sorta di anima del mondo che cerchi di entrare in contatto con noi. Il mondo è specificato nella struttura della luce che ci raggiunge, ma percepirlo è compito interamente nostro. I segreti della natura non si capiscono violandone il codice. L'informazione ottica, l'informazione che si può estrarre dal continuo modificarsi di un assetto ottico, è un. concetto che non ci è assolutamente familiare. Per pigrizia intellettuale, cerchiamo di interpretare la percezione allo stesso modo in cui interpretiamo la comunicazione, in termini a noi familiari. Oggigiorno vi è una vasta letteratura nella quale si discute e si fanno molte considerazioni sui mezzi di comunicazione: in larga misura, si tratta di una letteratura di carattere generico e disordinato. Il concetto di informa~ zione di cui la maggior parte di noi è in possesso deriva da questa letteratura; ma non è certo questo il concetto che verrà adottato in questo libro. Non è infatti possibile spiegare la percezione in termini di comunicazione: le cose stanno in modo assolutamente diverso. Noi non possiamo trasmettere ad altri informazioni sul mondo, a meno che non abbiamo percepito quest'ultimo. E le informazioni disponibili per la nostra percezione sono radicalmente differenti da quelle che trasmettiamo.
Riepilogo L'ottica ecologica si occupa di luce riflessa molte volte nel mezzo, e cioè di illuminazione. L'ottica fisica si occupa di energia elettromagnetica, e cioè di radiazione. La luce ambiente che giunge ad un punto collocato nel1'atmosfera è profondamente diversa da quella che parte da
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lUla sorgente puntiforme. La luce ambiente ha struttura, mentre quella radiante non ne ha. La prima, quindi, mette a disposizione delle informazioni. sulle superfici riflettenti, mentre la luce radiante può, al massimo, trasmettere informazioni sugli atomi da cui proviene. Se la luce ambiente fosse non strutturata o indifferenziata, non fornirebbe nessuna informazione sull'ambiente, anche se stimolasse i fotorecettori dell'occhio. C'è così una chiara distinzione tra informazione dello stimolo e stimolazione. In condizioni normali, gli stimoli non evocano in noi sensazioni di luce. La teoria degli stimoli isolati non vale per la visione ordinaria. Viene rifiutata, come base esplicativa della visione ecologica, la teoria ortodossa della formazione di un'immagine su uno schermo, basata sulla corrispondenza tra punti radianti e plUlti focali. Questa teoria è valida quando si vogliono progettare strumenti ottici e macchine fotografiche, ma concepire il sistema oculare in questo modo è una fallacia seducente. Uno dei risultati peggiori di questa fallacia è arrivare a concludere che l'immagine retinica è trasmessa al cervello. Le informazioni che possono essere estratte dalla luce ambiente non sono dello stesso tipo di quelle che vengono trasmesse attraverso un canale. Non vi è chi le invii fuori dalla nostra testa, né chi le riceva nella nostra testa.
Capitolo· quinto
L'assetto ottico ambiente
Il concetto centrale dell'ottica ecologica è l'assetto ottico ambiente ad un punto di osservazione. Essere assetto significa avere una certa disposizione, ed essere ambiente a un punto significa circondare una posizione nell'ambiente circonvicino che potrebbe essere occupata da un osservatore. La posizione può o meno essere occupata; al momento, trattiamola come se non lo fosse. Cosa è implicato più specificamente da una disposizione? Sinora ho ipotizzato solo che ha una struttura, il che non è molto esplicito. È più facile da descrivere l'assenza di struttura, che consiste in un campo omogeneo senza differenze di intensità tra le sue parti. Un assetto non può essere omogeneo, deve essere eterogeneo. Non può, cioè, essere indifferenziato, deve essere differenziato; non può essere vuoto, deve essere pieno; non può essere privo di forma, deve avere forma. Questi termini contrastanti sono comunque ancora insoddisfacenti. Il concetto di struttura è difficile da definire. Nel tentativo di chiarirlo, faremo una proposta radicale che farà riferimento alla struttura invariante. Cosa implica una nozione come quella di ambiente a un punto? Rispondere a questa domanda è meno difficile. Per essere ambiente, l'assetto deve circondare completamente il punto - deve essere qualcosa che «gira intorno» (environing). Il campo deve essere chiuso, nel senso geometrico del termine, quello cioè per cui la superficie di una sfera ritorna su se stessa. Più precisamente, il campo è illimitato. Si osservi che un campo dato da una figura su una superficie piana non soddisfa questo criterio. Nessuna figura può essere ambiente, ed anche quelle dette panoramiche non sono mai sfere completamente chiuse. Si osservi anche che il campo temporaneo di visione di un osservatore non soddi-
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sfa il criterio, perché ha dei confini. Questo fatto è ovvia~ mente della massima importanza, e vi ritorneremo tanto nel capitolo settimo che nel dodicesimo. Infine, cosa implica il termine punto nell'espressione punto di osservazione? Intendo, invece di un punto geometrico nello spazio astratto, una posizione nel.lo spazio ecologico, in un mezzo invece che in un vuoto. E un posto dove può stare un osservatore, e da cui si potrebbe compiere un atto di osservazione. Mentre lo spazio astratto è costituito da punti, quello ecologico è costituito da posti: localizzazioni o posizioni. Verrà fatta una netta distinzione tra l'assetto ambiente a un punto di osservazione non occupato, e l'assetto a un punto occupato da un osservatore, umano o meno. Quando · la posizione viene occupata, accade qualcosa di molto interessante ali' assetto ambiente: esso viene a contenere informazioni sul corpo dell'osservatore. Questa modificazione dell'assetto sarà presa nella giusta considerazione in seguito. Il punto di osservazione dell'ottica ecologica può sembrare equivalente al punto stazionario della geometria che tratta della prospettiva di cui viene fatto uso nella pittura figurativa. Il punto stazionario è il punto di proiezione per il piano pittorico su cui è proiettata la scena. Ma i termini non sono affatto equivalenti e, come vedremo, non dovrebbero essere confusi. Un punto stazionario deve essere immobile, non può muoversi rispetto al mondo e non deve muoversi rispetto al piano pittorico. Ma, salvo casi limite, un punto di osservazione non è mai stazionario. Gli osservatori si aggirano nell'ambiente, ed è caratteristico dell' osservazione l'essere compiuta da un punto in movimento. 1. .Come è strutturata la luce ambiente? Considerazioni prelt'minari Se rifiutiamo l'assunto per cui l'ambiente è costituito da atomi nello spazio e che, di conseguenza, la luce che giunge ad un punto dello spazio è costituita da raggi ·che provengono da questi atomi, cosa è che invece accettiamo? Si è tentati di assumere che l'ambiente sia costituito da oggetti' nello spazio, e che quindi l'assetto ambiente consista di far-
L'ASSEITO
omeo
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Terra FIG. 5.1. L'assetto ottico ambiente cli una terra rugosa all'aperto sotto il cielo. In questa illustrazione si assume che l'illuminazione abbia raggiunto uno sta-
to costante. La terra si mostra rugosa o a gobbe, ma non accidentata. Le linee tratteggiate di questo disegno rappresentano gli inviluppi degli angoli solidi visivi, e non dei raggi cli luce. Non viene mostrato l'annidamento di questi angoli solidi. In questo disegno schematico, i contrasti sono provocati dall'illuminazione differenziale delle gobbe della terra. Si confronti con la fotografia di colline e valli della figura 5 .9. Questo è un assetto ottico con un singolo punto fisso di osservazione. &so illustra i tanti invarianti della prospettiva naturale: la separazione dei due emisferi dell' assetto ambiente all'orizzonte, é l'aumento di densità della tessitura ottica verso il suo massimo all'orizzonte. Sono, questi, invarianti anche quando si ha un flusso dell'assetto, come quando il punto di osservazione si muove.
me a contorno chiuso in un campo altrimenti vuoto, o di «figure sullo sfondo». Ad ogni oggetto dello spazio corrisponderebbe una forma nell'assetto ottico. Ma questo assunto, lungi dall'essere soddisfacente, deve essere respinto. Potrebbe non esserci corrispondenza tra una forma nell' assetto ed ogni oggetto nello spazio, perché alcuni oggetti sono nascosti dietro agli altri. E in ogni caso, per porre il pròblema in termini radicali, l'ambiente non è costituito da oggetti. L'ambiente consiste della terra e del cielo, con oggetti sulla terra e nel cielo, montagne e nuvole, fuochi e tramonti, ciottoli e stelle. Non tutti questi sono oggetti distinti gli uni dagli altri, ed alcuni sono annidati gli uni negli altri, alcuni si muovono, altri sono animati. Ma l'ambiente è tutte queste svariate cose - posti, superfici, layout, movimenti, eventi, animali, genti e artefatti - che strutturano la luce ai punti di osservazione. L'assetto a un punto non è costituito
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da forme che ·si diano in un campo. ll1 fenomeno figurasfondo non vale in generale per il mondo. Il concetto di contorno chiuso, costituito da una linea, viene dall'arte del . disegno degli oggetti, e il fenomeno in questione è frutto di quegli esperimenti in cui si presentano agli osservatori dei disegni per studiarne la percezione. Ma questo non è l'unico modo, né il migliore, di indagare sulla percezione. Una concezione migliore della struttura della luce ambiente la otteniamo quando la concepiamo come divisa e suddivisa in parti che ne siano le componenti. Per l' ambiente terrestre, il contrasto terra-cielo divide il campo sferico illimitato in due emisferi, con quello superiore più chiaro dell'inferiore. Entrambi sono suddivisi ulteriormente, l'inferiore in modo _molto più elaborato del superiore, e in maniera affatto diversa. Come ho indicato nel capitolo primo, le componenti della terra sono annidate a diversi livelli di grandezza - per esempio, montagne, canyon, alberi, foglie e cellule. Le componenti dell'assetto dalla terra sono così anch'esse assoggettate ad una gerarchia di livelli subordinati di grandezza, ma, ovviamente, le componenti dell'assetto sono affatto diverse dalle componenti della terra. Le prime sono ango# visivi formati da montagne, vallate, alberi e foglie (di fatto, quelli che in geometria chiamiamo angoli solidi), e vengono misurati convenzionalmente in gradi, minuti e secondi, e non in chilometri, metri e millimetri. Essi sono, come vedremo, angoli' di intersezione. Tutte queste componenti ottiche dell'assetto, quale che sia la loro grandezza, rimpiccioliscono sino a svanire al margine tra cielo e terra, all'orizzonte; per di più, ogni qualvolta il punto di osservazione si sposta, cambiano di grandezza. Le sostanze che compongono la terra, d'altro canto, non cambiano di grandezza. La concezìone dell'assetto ottico avanzata in questi termini, come gerarchia annidata di angoli solidi, aventi tutti un vertice in comune, invece di una serie di raggi intersecantisi in un punto, presenta diversi vantaggi. Ogni angolo solido, indipendentemente da quanto piccolo possa essere, ha una forma, nel senso che la sua sezione trasversale ha una forma, e sotto questo aspetto un angolo solido_ è assolutamente diverso da un raggio. A differenza di un raggio, che può essere identificato arbitrariam~nte solo con una
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FIG. 5.2. !:assetto ottico ambiente di una stanza con finestra. Il disegno mostra ùn ambiente accidentato in cui alcune superfici, ma non tutte, sono proiettate verso il punto di osservazione; alcune sono cioè nascoste, altre no. Le superfici nascoste sono indicate da linee tratteggiate. Sono mostrate solo le facce del layout delle superfici, non le sfaccettature delle loro superfici, e cioè, le loro tessiture.
coppia di coordinate, ogni angolo solido è unico. Gli angoli solidi possono riempire una sfera così come i settori possono riempire un cerchio, ma occorre ricordare che vi sono angoli dentro altri angoli, in modo tale che la loro somma non equivale alla sfera. La superficie della sfera, il cui centro è il vertice comune di tutti gli angoli solidi, può essere concepita come una sorta di pellicola o guscio trasparente, ma non come un quadro. La struttura così concepita di un assetto ottico non presenta interruzioni. Non è costituita da entità discrete come punti o macchie, ma è completamente riempita. Ogni componente si rivela costituita da componenti più piccole. Entro i confini di ogni forma, per quanto piccola, ci sono sempre altre forme. Ciò significa che l'assetto è più simile a una gerarchia che a una matrice, e che non dovrebbe essere analizzato come un insieme di macchie di luce, ognuna con un luogo, e ognuna con una determinata intensità e una determinata frequenza. In una ·struttura gerarchica ambiente, i luoghi non sono definiti con coppie di coordinate, poiché la relazione di localizzazione non è data, per esempio, dai gradi di azimut e di elevazione, ma dalla relazione di inclusione. Il seguente fatto può illustrare la differenza tra la relazione di localizzazione metrica e quella di inclusione. Le stel-
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le del cielo possono essere localizzate in ·modo idoneo per mezzo di gradi a destra del nord e sopra l'orizzonte. Ma ogni stella può essere localizzata anche per mezzo della sua inclusione in una delle costellazioni, e della configurazione sovraordinata dell'intero cielo. Analogamente, le strutture ottiche corrispondenti alle foglie, agli alberi e alle colline della terra sono tutte incluse nella struttura immediatamente più grande. Ovviamente, la tessitura della terra, messa a confronto con quella delle costellazioni di stelle discrete, è densa e così ancor meno dipendente da un sistema di coordinate. Stando così l~ cose, la percezione della direzione di qualche elemento particolare, la sua direzione-da-qui, non è di per sé un problema. La percezione dell'ambiente non è costituita da percezioni delle differenti direzioni degli elementi dell'ambiente. 2. Le leggi della prospettiva naturale: l'angolo di intersezione Il concetto di angolo visivo, con apice sull'occhio e base su un oggetto del mondo è senz'altro antico. Esso risale ad Euclide, che postulava un «cono visivo» per ogni oggetto nello spazio; Il termine non è esatto, perché non necessariamente gli oggetti sono circolari, e la figura non è quindi sempre un cono. Tolomeo parlava della «piramide visiva>>, il che implicava che loggetto fosse rettangolare. Di fatto, noi dovremmo fare riferimento alla faccia di un oggetto, che può avere qualsivoglia forma, e all'angolo solido corrispondente, che ha un inviluppo. Quello che chiamiamo contorno dell'oggetto è la sezione trasversale di questo inviluppo. Possiamo ora rilevare che l'angolo solido si contrae con l'aumentare della distanza dell'oggetto dal vertice, e che è schiacciato lateralmente con l'inclinarsi o il voltarsi della sua faccia. Ci sono due leggi principali della prospettiva per gli oggetti. Euclide, Tolomeo e i loro successori non hanno mai dubitato, per secoli, che gli oggetti venissero visti per mezzo di questi angoli solidi che, fossero conici, piramidali, o di altro genere, furono alla base dell'ottica antica. Nulla si sapeva allora di immagini invertite, e prima di paragonare l'occhio a una macchina fotografica si sarebbe dovuto attendere più di un migliaio d'anni. Gli antichi non capivano
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l'occhio, la luce li rendeva perplessi, non avevano nessuna idea della dottrina moderna secondo cui nell'occhio non entra altro che la luce; tuttavia, avevano le idee molto chiare sugli angoli visivi. La concezione dell'assetto ottico ambiente come insieme di angoli solidi corrispondenti agli oggetti si colloca così su una linea di continuità con l'ottica antica e medioevale. Peraltro, invece di oggetti a sé stanti presenti ali' occhio, io postulo un ambiente di superfici illuminate. E invece di un gruppo di angoli solidi, io postulo un complesso annidato di essi. In questo assetto, gli angoli solidi grandi provengono dalle facce del layout, dalle facciate degli oggetti distaccati, e dagli interspazi, o buchi, che chiamiamo sfondo o cielo (e a cui Tolomeo ed Euclide sembrano non aver mai pensato). Gli angoli solidi piccoli dell'assetto provengono da quelle che, per distinguerle dalla facce, possiamo chiamare le faccette del layout, le tessiture delle superfici, in quanto distinte dalle loro forme. Peraltro, come abbiamo già sottolineato,. la distinzione tra questi livelli di grandezza è arbitraria. La prospettiva naturale, così come la concepisco, è lo studio di un assetto ambiente di angoli solidi che corrispondono a certe parti geometriche distinte di un ambiente terrestre, quelle separate da spigoli e angoli. Ci sono delle eleganti relazioni trigonometriche tra gli angoli e le parti ambientali. Ci sono gradienti di grandezza e densità degli angoli lungo i meridiani della metà inferiore dell'assetto - la terra - con grandezze che svaniscono e densità che diventano infinite ali' orizzonte. Queste relazioni contengono una gran quantità di informazioni sulle parti della terra, e nessuno che le abbia presenti può metterne in discussione la validità. Il loro studio costituisce una disciplina assolutamente chiara e lineare, pur se negletta e poco sviluppata. Ma l' ambiente non consiste nella sua interezza di parti o forme geometriche nettamente differenziate. La prospettiva naturale non vale per le ombre con penombra e per le chiazze di luce, né per le superfici soleggiate a vari livelli di illuminazione. Essa geometrizza l'ambiente, e così lo ipersemplifica. Peraltro, il limite più serio è che la prospettiva naturale non riesce a prendere in considerazione il movimento. L'assetto ottico ambiente è trattato come se la sua struttura fosse
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FIG. 5.3. Lo stesso assetto ambiente con il punto di osservazione occupato da una persona. Il sistema visivo comincia a funzionare quando in un punto di · osservazione è presente un osservatore.
congelata nel tempo e il suo punto di osservazione fosse immobile. Anche se ho chiamato questa disciplina prospettiva naturale, gli antichi la chiamavano perspectiva, il nome latino con cui oggi intendiamo l'ottica. Nei tempi moderni, il termine prospettiva è venuto ad indicare una tecnica - la tecnica della realizzazione di quadri. Dipinto a mano o ottenuto con un processo fotografico, un quadro è una superficie, e la prospettiva è l'arte di «rappresentare» le relazioni geometriche degli oggetti naturali su tale superficie. Quando i pittori del Rinascimento scoprirono i procedimenti della rappresentazione prospettica, chiamarono questo metodo in modo più che appropriato prospettiva artificiale. Essi capirono che quest'ultima andava distinta dalla prospettiva naturale che governa la consueta percezione dell'ambiente. Da allora noi abbiamo acquisito una mentalità talmente pittorica, siamo stati talmente dominati dal pensiero pittorico, che abbiamo smesso di operare questa distinzione. Ma confondere la prospettiva pittorica con quella naturale è equivocare il
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problema della percezione visiva sin dall'inizio. Pur se la riflessione pittorica sulla percezione ci tenta di assumerle come se fossero la stessa cosa, i cosiddetti indici di profondità di un quadro non corrispondono affatto alle informazioni del layout di superficie di un assetto ambiente «congelato». I quadri sono una sorta di esibizione artificiale di informazioni «congelata>> nel tempo, e questo fatto sarà evidente quando tratteremo il tipo particolare di percezione visiva da loro mediata nella parte quarta. Come la prospettiva artificiale, anche quella naturale ha un obiettivo ristrçtto, occupandosi solo di una struttura ottica «congelata». E questa una restrizione che sarà eliminata in seguito.
3. La struttura ottica con un punto mobile di osservazione Un punto di osservazione in quiete è solo un caso limite di un punto di osservazione in movimento, il caso nullo. L'osservazione implica il movimento, e cioè la locomozione in riferimento a un ambiente rigido, poiché tutti gli animali sono osservatori, e tutti gli animali sono mobili. Le piante non osservano, ma gli animali sì, e le piante non si muovono, ma gli animali sì. Ne deriva che la struttura di un assetto ottico a un punto di osservazione stazionario è solo un caso particolare della struttura di un assetto ottico a un punto di osservazione in movimento. Il punto di osservazione si sposta, di norma, lungo una via di locomozione, e le >. Un altro modo di ottenere un campo omogeneo consiste nel mettere davanti agli occhi delle semisfere di vetro traslucido, fortemente illuminate dall'esterno [Gibson e Dibble 1952]. Un modo ancora migliore consiste nel mettere, avanti ad ogni occhio uria copertura adatta di materiale traslucido fortemente diffusivo da usare come una sorta di occhiali protettivi .[Gibson. e Waddell 1952]. La struttura della luce in arrivo, la tessitura· ottica, può così ess,ere eliminata ad ogni livello di intensità. Quello ·che i miei osservatori ed io vedevamo in queste ·condizioni potrebbe essere descritto nel . migliore. dei modi come > sono del tutto diversi. . Gibson e Walk [1960; Walk e Gibson 1961] hanno costruito uno strapiombo virtuale servendosi delle apparecchiature realizzate per gli esperimenti sul pavimento di vetro. Essi facevano esperimenti con animali e bambini, per vedere se questi si sarebbero avventurati sullo strapiombo virtuale. L'esperimento consisteva nel provvedere una piattaforma di dimensioni ristrette di due bordi per ognuno dei . suoi lati: uno che precipitava verso il basso, l'altro che digradava in modo adatto alle diverse specie animali. Le scelte degli animali vennero registrate. Quasi tutti gli animali terrestri sceglievano il bordo poco rilevato e non quello più profondo. I risultati dell'esperimento sono stati di solito esaminati in termini di percezione della profondità e dei tradizionali indici di profondità. Tuttavia, tali risultati risultano più comprensibili in termini di percezione del layout e delle a/fordances. La separazione sul piano della profondità che si realizza là dove si ha un bordo della superficie di sostegno non ha
PERCEZIONE DIRETTA E PERSISTENZA DEL o «non poggiata>> sulla superficie che si estende al di là di essa solo in quanto il. di: stacco venga specificato. E questo dipende dal vedere da punti di osservaziòne differenti, o da due pUllti di osservazione nello stesso tempo, o da diversi punti di osservazione in te~pi differenti. . Una superficie piatta che «retrocede SU>> o «giace» sul suolo sembrerà avere grandezza, forina ed anche riflettanza diversa, rispetto a quando ci è davanti, sospesa in aria, Questa caratteristica dell'illusione è estremamente interessante, e l'ho dimostrata più volte. La priina ricerca pubbli- · cata in proposito si deve a J.E. Hochberg e J. Beck [1954].
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1.4. Esperimenti con il suolo come sfondo
Gli studiosi che continuano a condividere la teoria tradizionale circa la percezione dello spazio e circa gli ~dici di profondità hanno solitamente fatto esperimenti con uno sfondo sul piano frontale, e cioè con superfici poste di fronte all'osservatore, come una parete, uno schermo o un foglio di carta. Una forma che si trovi su questo piano è molto simile a una forma sulla retina, e l'estensione su questo piano può essere vista come una sensazione semplice. Tutto ciò è una conseguenza dell'ottica dell'immagine retinica. Ma gli studiosi che lavorano sulla percezione dell'ambiente fanno esperimenti che hanno il suolo come sfondo, non studiano forme ma superfici, e utilizzano l'ottica ecologica. Invece di studiare la distanza nell'aria, studiano il ,recedere della superficie lungo lo sfondo. La distanza come tale non può essere vista direttamente, ma può essere solo inferita o cal-. colata, mentre la recessione lungo lo. sfondo può essere vista direttamente.
Percezione di distanza e grandezza sullo sfondo. Anche se la prospettiva lineare di una strada.in un quadro è nota sin dal Rinascimento, e l'aspetto che assume un viale contornato da alberi paralleli in un paesaggio è stato esaminato sino a partire dal diciottesimo secolo, nessuno ha mai studiato la percezione di un suolo con una tessitura naturale. La prospettiva naturale era un indice evidente della distanz~, ma il gradiente della densità o prossimità della tessitura non era altrettanto evidente. E.G. Boring ha descritto i vecchi esperimenti con i viali artificiali [1942, 290-296], ma credo che il primo esperimento con un campo visivo con una tessitura normale condotto all'aperto sia stato pubblicato solo alla fine della Seconda Guerra mondiale [Gibson 1947]. Venne usato un campo arato senza solchi che si estendeva sino a scomparire all'orizzonte, senza che vi si potessero vedere linee e bordi rettilinei. Questo originale esperimento richiedeva di giudicare laltezza di un palo piantato nel campo a una distanza maggiore di mezzo miglio. A tale distanza, la grandezza ottica degli elementi della tessitura e la grandezza otticà dello stesso palo sono estremamente piccole. . Sino ad allora, la conclusione unanime degli osservatori
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era stata che le linee parallele vengono ·viste convergere, e che gli oggetti venivano visti più piccoli «a distanza». Certamente, vi era una tendenza verso la «costanza di dimensione» degli oggetti, tendenza tuttavia solitamente solo parziale. Si era sempre partiti dall'assunzione che la costanza di dimensione deve ». Queste dimostrazioni sono ispirate dall'argomento delle configurazioni equivalenti. Nella figura 9.7 è fornito un diagramma che l'illustra. Secondo questo argomento, molti possibili oggetti possono dare origine a una sola immagine retinica; deriva da ciò che un'immagine retinica non può specificare l'oggetto che gli dà origine. Ma, secondo I'argomento, tutte le informazioni di cui un soggetto è in possesso sono costituite dall'immagine. La percezione di un oggetto richiede perciò che si compia una assunzione su quale, dei molti oggetti possibili che potrebbero esistere, è quello che dà origine all'immagine attuale (o all'angolo solido visivo corrispondente). Si suppone che questo argomento valga per un insieme di oggetti nello spazio. Si può costruire una camera distorta con pareti trapezoidali in modo da dare origine a un angolo solido visivo al puhto di osservazione che sia identico all'angolo solido di una normale stanza rettangolare. Oppure si può costruire una finestra trapezoidale, con trapezi per riquadri; e la si può far ruotare in modo che i cambiamenti dell'angolo soli-
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do visivo siano identici a quelli dell'angolo solido di una finestra rettangolare inclinata di 45° rispetto alla finestra realmente distçirta. La finestra si lascia sempre dietro, per così dire, un ottavo di rotazione. Si dà per scontato un unico punto di osservazione stazionario. Un osservatore che guarda con un solo occhio e che ha la testa immobilizzata percepisce erroneamente le superfici trapezoidali ed esperisce un insieme di superfici rettangolari, una forma o finestra > di un oggetto era un fatto della percezione visiva. Ma poteva solo supporre che la percezione di un oggetto debba persistere in qualche modo dopo la fine dell'input sensoriale; non giunse così alla più radicale ipotesi per cui la persistenza dell'oggetto viene per-. cepita come un fatto che ha di per sé valore. C'è una grande differenza tra la persistenza di un percetto e la percezione della persistenza. È noto da molto tempo che nei quadri, o in altre configurazioni con un assetto immutabile, si può ottenere l' apparenza di una sovrapposizione. Analogamente, la scoperta di Rubin per cui in una raffigurazione un contorno chiuso, o figura, implica la comparsa di uno sfondo che sembra estendersi senza interruzione dietro la figura, era ben nota. Ma si tratta sempre di. osservazioni che si occupano della visione di linee e di contorni, e della percezione di forme, e non della percezione dei bordi occludenti di superficie in un ambiente terrestre accidentato. Quel che veniva dimostrato è che con una figura si può indurre quella che possiamo chiamare profondità per sovrapposizione, e non la persi~ stenza di una superficie occlusa. Sembra che il bordo occludente non sia stato rilevato né in psicologia né in fisica; ma, per la verità, non si tratta di un fatto né della fisica né della psicologia, per quel che è sinora stato il corpo dottrinario di queste discipline, · poiché dipende dalla combinazione di fatti· relativi al layout di superfici e a un punto di osservazione.
3. La teoria del!' occlusione reversibile La teoria dell'occlusione reversibile è stata formulata nel capitolo terzo, nei termini di quelle che ho chiamato superfici proiettate e non proiettate per un assetto ottico ambiente ad un tempo dato. Si disse allora che si trattava di una con-
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seguenza della reversibilità della locomozione e del moto nel mezzo, tesi che nel capitolo sesto venne contrapposta a quella dell'irreversibilità di cambiamenti come la· disintegrazione, la dissoluzione, e il passaggio dallo stato solido a quello liquido o gassoso. Come ho avuto modo di affermare, questi cambiamenti sono tali che lo svanire di una superficie non è l'inverso temporale del suo costituirsi, e la proiezione al contrario del filmato di un evento non potrebbe comunque rappresentare l'evento opposto [Gibson e Kaushall 1973]. Successivamente, nel capitolo settimo sul sé, il principio dell'occlusione reversibile è stato esteso a quando l'osservatore gira la testa, e i margini del campo di visione sono stati comparati ai bordi occludenti di una finestra. Il principio può essere applicato a un gran numero di situazioni. Sarebbe utile riunire tutte queste teorizzazioni, e riassumerle in un elenco di proposizioni. 3.1. Terminologia È opportuno ricordare di nuovo al lettore che per denotare ciò che ho chiamato occlusione possono essere utilizzate molte coppie di termini. Nelle pagine che seguono, le parole nascosto e non nascosto sono scelte come termini di significato generale (anche se conservano, involontariamente, il sapore di un tesoro sepolto!). Non proiettato e proiettato, termini usati nel capitolo quinto, andrebbero benissimo, sal~ vo che per quanto concerne la proiezione di un'immagine su uno schermo, con il che si sottolinea proprio quel che non si dovrebbe. Coperto e scoperto sono termini possibili, come schermato e non schermato, e furono queste le espressioni usate da Michotte. Altre possibilità sono celato e rivelato, o non~dischiuso e dischiuso. Tutti questi termini si riferiscono a vari tipi di occlusione. I termini più generali sono fuori di vista e in vista, che vanno posti in contrasto con fuori di esistenza e in esistenza. Va tenuto ben presente che tutti questi termini si riferiscono a transizioni reversibili, e cioè a diventare nascosto o non nascosto, a uscire di vista. o venire alla vista. Termini che non dovrebbero essere usati sono apparire e sparire. Anche se usate comunemente, queste parole sono ambigue, e trasmettono una concezione im-
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precisa della psicologia della percezione .. Lo stesso è vero per le parole visibile e invisibile. Sembra qui che ci siano modi diversi per uscire di vista, alcuni per occlusione, altri no. Il primo caso implica sempre un bordo occludente, con la progressiva cancellazione da un lato del contorno, ma non accade lo stesso nel secondo caso. Io posso concepire tre modi di andare fuori di vista non per occlusione: primo, lallontanamento, con rimpicciolimento dell'angolo solido sino al cosiddetto punto di fuga, nel cielo o all'orizzonte; secondo, uscire di vista «nel buio», per riduzione dell'illuminazione; e, terzo, uscire di vista per chiusura o coperture degli occhi. Forse un altro tipo è uscire di vista per nebbia o vapori, ma è simile alla perdita di struttura per oscurità (vedi cap. 4). Posso anche concepire tre tipi di occlusione diversi dall'auto-occlusione (vedi cap. 5): primo, al bordo di una superficie opaca coprente; secondo, al bordo del campo di visione di un osservatore; e, terzo, per i corpi celesti, all'orizzonte della terra. Come nel caso dell'andar fuori di esistenza di una superficie, sembra che siano molti i tipi di distruzione, tanto che nel capitolo sesto, sugli eventi ecologici, ne abbiamo potuto dare solo un elenco limitato di esempi.
3.2. La locomozione in un ambiente accidentato I seguenti sette enunciati sull'occlusione reversibile sono presi dal capitolo primo al sesto.
1. Le sostanze di un ambiente differiscono per la misura in cui persistono, con alcune che resistono alla dissoluzione, alla disintegrazione o alla vaporizzazione più di altre. 2. Analogamente, le superfici di un ambiente differiscono per la misura in cui persistono, essendo alcune transitorie ed altre relativamente permanenti. Una superficie esce di esistenza quando la sua sostanza si dissolve, si disintegra o evapora. 3. Dato un mezzo illuminato, una superficie è non nascosta a un punto fisso di osservazione se ha un angolo solido visivo nell'assetto ottico ambiente a quel punto. In caso
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contrario (ma ha tale angolo in un altro punto di osservazione), essa è nascosta. 4. Per ogni punto fisso di osservazione, il layout persistente dell'ambiente è diviso in superfici nascoste e non nascoste. Di converso, per ogni superficie persistente, i possibili punti di osservazione sono divisi tra quelli da cui è nascosta e quelli da cui non lo è. 5. Una superficie che non ha mai un angolo solido visivo in un punto di osservazione non è né nascosta né non nascosta. Non è fuori di vista, è fuori di esistenza. 6. Ogni movimento di un punto di osservazione che nasconde superfici precedentemente non nascoste ha un movimento opposto che le riv~a. Così, vi è un interscambio tra nascosto e non nascosto. E questa la legge del!' occlusione reversibile, per la locomozione in un habitat accidentato. Essa implica che dopo una sequenza sufficiente di locomozioni reversibili tutte le superfici saranno state nascoste e non nascoste. 7. I luoghi d'occlusione sono quei posti in cui le superfici nascoste e non nascoste in cui un layout è temporaneamente diviso sono separate ai bordi occludenti, e sono di due tipi, apicali e curvi. Sono anche i posti in cui le superfici nascoste è non nascoste &ono congiunte ai bordi occludenti. Così, percepire un bordo occludente di un oggetto, anche un bordo occludente fisso a un punto fisso di osservazione, è percepire sia la separazione sia la giunzione delle sue superfici vicina· e lontana. 3 .3. I moti degli oggetti staccati Seguono ancora tre enunciati sull'occlusione reversibile: sono presi dal capitolo quinto. 8. Per ogni oggetto opaco, la superficie vicina, quella che è temporaneamente «di fronte», nasconde quella lontana, quella che è temporaneamente «di dietro», dato un punto fisso di osservazione. Le due si scambiano comunque tra di loro se l'oggetto ruota. La superficie vicina nasconde anche lo sfondo dell'oggetto, se presente, ma quando l'oggetto viene spostato le parti che vanno dietro a un bordo
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vengono da dietro l'altro. Questi fatti possono essere osservati nel film The Change /rom Visible to lnvisible: A Study o/ Optical Transition [Gibson 1968a]. 9. Sia per la solidità che per la sovrapposizione, ogni moto di un oggetto che cela una superficie ha un moto inverso che la rivela. 10. Nella misura in cui gli oggetti dell'ambiente vengono mossi, o lo sono stati, la parte vicina e quella lontana di ogni oggetto verranno interscambiate .molte volte. Questo resta veto anche se l'osservatore si è aggirato nell'ambiente.
3 .4. Girare la testa Il seguente è il teorema dell'occlusione reversibile, quando 1'osservatore si guarda attorno girando la testa. Si assume ora che il punto di osservazione sia occupato (vèdi cap. 7). 11. Per ogni postura fissa della testa, le superfici del layout circostante si dividono tra quelle all'interno dei limiti del campo di visione e quelle al loro esterno. Ma ogni volta che la testa si gira, le superfici entrano nel campo visivo al bordo anteriore del campo di visione e ne escono al bordo posteriore. L'osservatore che si guarda attorno può così vedere, indiviso, tutto ciò che lo circonda e, nel mezzo, può vedere se stesso.
3 .5. Superfici non persistenti Il prossimo teorema è sulla distruzione non reversibile e sulla creazione di superfici, e sulle transizioni ottiche non reversibili che accompagnano questi fenomeni (vedi cap. 6). 12 .. L'uscita di esistenza di una superficie non è l'inverso dell'entrata in esistenza, né il disturbo della struttura ottica che specifica la prima è l'inverso del disturbo che specifica la seconda. Dscende da ciò che la scomparsa di una superficie per, ·poniamo, dissoluzione, può essere distinta dalla sua scomparsa per occlusione, se l'osservatore ha appreso a vedere la differenza tra le transizioni ottiche. I dati che abbia-
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mo a disposizione indicano che di solito i due tipi di scomparsa vengono distinti [Gibson, Kaplan, Reynolds e Wheeler 1969]. Ciò non equivale a dire che i bambini rilevano la ·differenza, e neppure che gli adulti la rilevano sempre. Essa può essere a volte difficile da rilevare, come quando un illusionista fa dei trucchi percettivi. Quel che si sostiene è che ciascuno può imparare a vedere la differenza. L'occlusione di una superficie può essere annullata, ma la sua distruzione no. L'occlusione di una superficie può essere cancellata da un movimento del corpo, della testa o delle gambe in direzione opposta. La distruzione, anche se a volte vi si può porre rimedio, non può essere semplicemente cancellata da un movimento opposto. Mi pare che i bambini piccoli non possono non notare le transizioni· ottiche che possono essere annullate, e quelle che non possono esserlo. E. come potrebbero mancare di prestar loro attenzione? Essi giocano a bù-sette, girano la testa, si guardano le mani, tutti casi di occlusione reversibile; ma succhiano anche il latte, rompono i vetri, é fanno precipitare le torri che hanno costruito con i cubi, tutte cose irreversibili. Ma questa ipotesi non è stata verificata con bambini, dato che gli unici esperimenti in proposito sono permeati da quello spirito razionalistico di cui era alfiere Jean Piaget, che asseriva che i bambini devono formarsi il concetto çli persistenza o permanenza, e dava risalto a quel che i bambini credono, e non tanto a quello che vedono [per esempio, Bower 1974, cap. 7]. 4. Quello che viene visto in questo momento da questi posizione non comprende quello che viene visto Il vecchio approccio alla percezione assumeva che il problema centrale era quellq della visione a distanza, e non si chiedeva mai come si può vedere nel passato e nel futuro. Questi non erano problemi per la percezione. Il passato era immaginato e il futuro era ricordato, mentre la percezione riguardava il presente. Ma questa teoria non ha mai funzionato. Nessuno era in grado, in essa, di decidere quanto dura il presente, o cosa distingue la memoria dall'immaginazione, o quando i percetti cominciano ad essere memorizza-
302 LA PERCEZIONE VISIVA
ti, o cosa viene memorizzato, o qualsiasi altro problema che ne nascesse. Il nuovo approccio alla percezione, ammettendo la co-percezione del sé ed assegnandogli uno status pari a quello della percezione dell'ambiente, introduce l'idea che quest'ultima è atemporale, e che la distinzione presente-passato-futuro è rilevante solo per la consapevole~za del sé. · L'ambiente visto-in-questo-momento non costituisce l'ambiente che è visto. Né l'ambiente visto-da-questo-punto non costituisce l'ambiente che è visto. Il visto-ora e il visto-daqui specificano il sé, non l'ambiente. Consideriamoli separatamente. Quel che è visto ora è un campione molto ristretto delle superfici del mondo: più precisamente, si tratta solo di quelle superfici che rimangono all'interno dei limiti del campo visivo che si viene ad aprire con questa determinata postura della testa. Ed è anche un campione limitato a quella superficie che viene fissata con questa postura degli occhi, se con visto si intende visto con chiarezza. Al massimo, tutto questo non arriva ancora ad essere la metà del mondo, e forse ne costituisce solo un dettaglio. Quel che è visto dal punto che qui occupiamo è costituito, al massimo, dalle superfici non coperte del mondo · che si presentano in questo punto di osservazione, e cioè dalle superfici vicine degli oggetti, dalle porzioni non nasco.ste del suolo, dalle pareti, dal poco che si proietta attraverso finestre e porte. Il fatto, anche se è vero che con un atteggiamento introspettivo si può diventare consapevoli del visto-ora e del visto-da-qui, è che quel che si percepisce è un ambiente che ci circonda, che è ugualmente ·chiaro in ogni direztone, che è a-tutto-tondo, solido, che è tutto-d'un-pezzo. E questa l'esperienza di quel che una volta ho chiamato il mondo visivo [Gibson 1950b, cap. 3]. Ha visuali connesse tra di loro, posti che si uniscono, e dietro a tutto il suolo continuo, una superficie che si distende al di sotto di tutte, che tende ad allontanarsi, sin oltre 1'orizzonte. La superficie che viene ora fissata in questa momentanea postura dell'occhio non è una chiazza di colore priva di profondità, e le superfici che sono dentro al campo di visione ora, con questa postura della testa, non sono coacervi di macchie di colore senza profondità, poiché possiedono
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FIG. 11.1. Le superfici viste qui ed ora· da un osservatore seduto in una stanza. In
queste posture temporanee di occhio e testa, le superfici proiettate sull'immagine retinica sono indicate dalle linee continue, mentre le linee tratteggiate indicano le superfici rimanenti. La consapevolezza delle superfici qui-ed-ora può essere chiamat3:_ visuale (vievÌing) della stanza, e la distingueremo dalla visione (seeing). E questa una sezione verticale del!' osservatore e del suo campo di visione monoculare.·
quella qualità che nell'ultimo capitolo abbiamo chiamato z'ncllnazione. Il visto-in-questo-momento non equivale perciò, al campo visivo piatto che ci troviamo a dovere supporre, campo visivo analogo ai colori che il pittore depone sulla tela, come affermava l'antica teoria delle sensazioni di colore. Io una volta ·credevo che fosse. possibile, con un opportuno addestramento, arrivare a vedere il mondo come un quadro, o quasi, ma oggi ne dubito. Una tale eventualità equivarrebbe quasi ad affermare che siamo in grado di vedere la nostra immagine retinica, il che è palesemente ridicolo. Il visto-da-qui, da questo punto di osservazione stazionario, non è neppure il campo visivo piatto supposto dalla tradizione, poiché è comunque un visto-da-qui ambiente. Ma potrebbe essere chiamato correttamente visuale del mondo in prospettiva o osservazione delle prospettive delle cose. Si intende la prospettiva naturale dell'antica ottica, e
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non quella artificiale del Rinascimento; quest'ultima si riferisce all'insieme di superfici che creano degli angoli visivi solidi in un assetto ottico ambiente cristallizzato. Questo, peraltro, è un piccolissimo campione dell'intero mondo, mentre quello che noi percepiamo è il mondo.
5. La percezione nel tempo è derivante da percorsi di
osser~
vazione
È evidente che un osservatore immobile può vedere il mondo solo da un unico punto di osservazione fisso, è può così notare la prospettiva delle cose. La cosa non è altrettanto ovvia, ma resta vera per un osservatore che si aggira nell'ambiente e vede il mondo da nessun punto di osservazione e così, a rigore, non può notare la prospettiva delle cose. Le implicazioni sono radicali. Vedere il mondo da un punto di osservazione in movimento, per un tempo sufficientemente lungo, e per una serie di percorsi sufficientemente estesi, comincia ad essere la percezione del mondo da tutti i punti di osservazione, come se fosse possibile essere contemporaneamente in ogni luogo. Ed essere contemporaneamente in ogni luogo con nulla di nascosto è vedere tutto, come Dio. Ogni oggetto è visto da tutti i lati, ed ogni posto è visto nella sua connession~ con quelli che gli sono vicini. Il mondo non è visto in prospettiva. La struttura invariante sottostante emerge dalla struttura prospettica che cambia, come ho messo in evidenza nel capitolo quinto. Di fatto, animali e persone vedono l'ambiente durante la locomozione, e non solo nelle pause tra i movimenti. Probabilmente vedono meglio mentre si muovono che quando sono fermi. L'immagine bloccata è necessaria solo alla macchina fotografica. Un osservatore che si sposta nel suo ambiente nel corso della vita quotidiana vede da quello che chiamo un percorso di osservazione. Un percorso non va trattato come un insieme infinito di punti adiacenti per un insieme infinito di istanti in successione. Può essere concepito come un movimento unitario, un'escursione, una gita, un viaggio. Un percorso di osservazione è il caso normale, con brevi percorsi per brevi periodi di osservazione e lunghi per ore, giorni, anni di osservazione. Il mezzo può allo-
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ra essere concepito come composto non tanto da punti quanto da percorsi. Sembra molto curioso dire che un oggetto o un intero habitat non si percepisce da nessun punto fisso di osservazione, perché così viene. contraddetta la teoria. pittorica della percezione e la dottrina dell'immagine retinica su cui quest'ultima si basa. Ma se si riconosce che si può percepz're l'ambiente durante la locomozione, questo deve· essere vero. Si arriva allora a ritenere che la percezione dell'ambiente accompagni ovviamente la propriocezione visiva della locomozione; perché questo sia intelligibile, comunque, è necessaria l'ipotesi di una struttura invariante sottostante alla mutevole struttura della prospettiva. Si tratta di nozioni poco familiari. Ma il concetto di visione deambulatoria non è certamente più difficile di quello di istantanee in successione del flusso dell'assetto ottico ambiente scattate dall'occhio, e mostrate nella camera oscura di proiezione del cranio.
6. Il problema dell' orientàmento Animali ,e uomini sono capaci di essere orientati rispetto all'habitat. E questo stato l'opposto di essere disorientati o «persi>>. Si dice che il ratto che riesce a trovare la mèta in un labirinto è orientato alla mèta. Se ci sono molte vie che conducono alla mèta, il ratto è capace di scegliere la più breve. Analogamente, una persona può apprendere la strada per il lavoro, per l'ufficio postale, per il droghiere, e tornare poi a casa attraverso.le vie della sua città. Quando è in grado di fare la stessa cosa in una città che non è la sua, vuol dire che ha acquisito l'orientamento nel nuovo habitat. Sia gli animali che gli uomini sono capaci di tornare a casa. Più in generale, sono capaci di trovare la via. O, ancora in altri termini, possono avere un apprendimento di posti. Gli osservatori possono andare in posti che offrono delle a/fordances; per di più, se sono umani, possono essere capaci di indicare questi posti e cioè mostrare la direzione del· punto in cui si trovano attraverso le pareti o le altre superfici che li nascondono. Due spiegazioni consuete di come gli animali apprendono a trovare la via per i posti nascosti sono la teoria della_ ca-
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tena di risposte e quella delle mappe cognitive. Nessuna delle due teorie è adeguata. Trovare la via non è certamente una sequenza di risposte con cui cambiare direzione e che sono condizionate da stimoli. Ma non è neppure la consultazione di una mappa interna del labirinto: chi è, infatti, il percipiente interno che consulta la mappa? La teoria .dell'occlusione reversibile può fornire una spiegazione migliore. Un corridoio in un labirinto, una stanza in ùna casa, una strada in una città e una valle ìn una campagna, tutti costituiscono un posto, e un posto spesso costituisèe una vista [Gibson 1966b, 206], una semichiusura, un insieme di superfici non nascoste. Una vista è quel che viene visto da qui, una volta. che sia chiaro che per «qui>> non si intende un punto, ma· una regione estesa. Le viste sono connesse serialmente. Alla fine di un corridoio ci si apre un nuovo corridoio; al bordo della porta di irigresso, ci si apre la nuo~ va stanza; all'angolo della strada ci si apre la nuova strada; al culmine della collina, ci si apre la nuova valle. Andare da un posto a un altro implica che la vista davanti a noi si apra, e quella dietro si chiuda. Un labirinto o un ambiente accidentato forniscono un assortimento di viste. E così accade che per trovare la via per un posto nascosto si ha bisogno di vedere quale sarà la prossima vista che ci si aprirà, o quale bordo occludente nasconde la nièta. Una vista conduce ad un'altra, in un insieme continuo di transizioni reversibili. Si noti che in un ambiente terrestre di posti semichiusi ogni vista è unica, a differenza dei passaggi privi pi caratteristiche di un labirinto. Ogni vista costituisce così contemporaneamente il proprio «contrassegno», per quanto l'habitat non duplichi mai se stesso. Quando le viste sono state messe in ordine -con l' esplorazione locomotoria, la struttura invariante della casa, della città, dell'intero habitat sarà stata appresa. Si può allora percepire il suolo che esiste sotto le irregolarità della superficie sino all'orizzonte, e nello stesso tempo percepire anche queste irregolarità. Ci si è orientati all'ambiente. Non è tanto come avere una vista a volo d'uccello del terreno, quanto come essere ovunque contemporaneamente. L'avere una vista a volo d'uccello è utile per iniziare ad orientarsi, e lesploratore cercherà, se gli è possibile, di guardare da un posto elevato. I piccioni viaggiatori .si orientano meglio di
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FrG. 112. L'apertura di una vista a livello di un bordo occludente, visto da sopra. Questa è la pianta di un passaggio che conduce a una corte, da cui si diparte un altro passaggio. Come un osservatore si muove lungo il primo passaggio, le superfici dietro la sua testa escono progressivamente di vista, e quelle di fronte entrano progressivamente in vista, prima a livello di un bordo occludente, poi anche a livello dell'altro. Le parti nascoste del suolo sono indicate dal tratteggio, e quelle delle pareti dalle linee tratteggiate. Il punto nero indica la posizione dell'osservatore.
noi. Ma lorientamento nella direzione di mète oltre ai muri, di alberi, di una collina, non. è un guardare a qualcosa di scritto; certamente non consiste nell'essere in possesso' di una mappa, neppure di una mappa «cognitiva», che si suppone che esista nella mente, invece che sulla carta. Una mappa è un artefatto di grande utilità quando il viandante si perde, ma è un errore confondere lartefatto con lo stato psicologico che è lartefatto stesso a favorire. . Si osservi che percezione dei luoghi e percezione degli oggetti staccati sono cose affatto differenti. I posti, al contrario degli oggetti, non possono essere spostati, e gli oggetti animati si spostano da soli. I posti si fondono con i posti adiacenti, mentre gli oggetti hanno dei confini. L'orientamento verso i . posti nascosti, con i loro oggetti attaccati, può essere appreso una volta per tutte, mentre l'orientamento verso gli oggetti mobili deve essere riappreso continuamente. Io so dov'è il lavandino della cucina. Penso di sapere dove sono riposti gli scarponi da sci, ma non sempre
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so dov'è mio figlio. Per gli oggetti staccati~ si può solo andare all'ultimo luogo noto. Gli oggetti nascosti possono essere mossi senza ché l'evento venga percepito, ed è ben nota l'infelicità di chi raramente ritrova le chiavi della macchina dove le ha lasciate. . Nelle pagine precedenti ho formulato una teoria dell'orientamento nella direzione dei posti dell'habitat. La percezione del mondo implica la copercezione del dove si è nel mondo e dell'essere nel mondo in quel posto. È questo un fatto trascurato, che non è né oggettivo né soggettivo. Nella misura in cui ci si è mossi da posto a posto, da vista a vista, si può stare ancora in un posto e vedere dove si è, il che significa dove si è in rapporto a dove si potrebbe essere. Non è necessario avere una mappa con un cerchio con su scritto: «Voi siete qui». Propongo che questo sia lo stato dell'essere orientati. 6.1. Il problema della conoscenza pubblica
L'ipotesi delle trasformazioni ottiche reversibili e delle occlusioni risolve il rompicapo di come i diversi ossèrvatori, pur avendo delle differenti apparenze prospettiche, non di meno percepiscono lo stesso mondo. Le apparenze prospettiche non sono la base necessaria della percezione. È vero che per ogni punto di osservazione c'è un assetto ottico ambiente differente, e che i diversi osservatori, in ogni momento,· devono occupare punti differenti. Ma gli os- ·, servatoci si muovono, e la stessa via può essere percorsa da qualsiasi. osservatore. Se un insieme di osservatori si aggira nell'ambiente, tutti avranno a loro disposizione i medesimi invarianti nel caso di trasformazioni e occlusioni ottiche. Nella misura in cui tali invarianti saranno rilevati, tutti gli osservatori percepiranno lo stesso mondo~ Ognuno sarà anche consapevole che il suo posto nel mondo è qui ed ora differente da quello di tutti gli altri osservatori. I punti, ovviamente, sono concetti geometrici, mentre i posti sono layout ecologici, ma la teoria suesposta può anche essere posta in forma geometrica: anche se ad un istante dato alcuni punti di osservazione sono occupati, e i restanti non lo sono, i due insiemi possono mutarsi l'uno nell'altro. e
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La teoria afferma che un osservatore può percepire il layout persistente da posti diversi da quello che è occupato in posizione di quiete. Ciò significa che il layout può essere percepito dalla posizione di un altro osservatore. La comune affermazione, allora, secondo cui «io posso mettermi nella tua posizione» ha un significato nell'ottica ecologica, e non è una mera figura retorica. Adottare il punto di vista di un'altra persona non è un risultato particolarmente avanzato del pensiero concettuale. Esso significa che io posso percepire le superfici che sono nascoste dal mio punto di vista, ma sono non nascoste dal tuo. Esso significa che io posso percepire una superficie· che è dietro a un'altra. E se le cose stanno così, noi possiamo percepire entrambi· lo stesso mondo.
7. Il rompicapo della consapevolezza egocentrica Gli psicologi parlano spesso della percezione egocentrica. Si suppone che un percipiente egocentrico veda il mondo solo dal proprio punto di vista, e a volte si ritiene che questa abitudine caratterizzi una persona egocentrica. Si pensa che l'egoismo sia uno stato naturale dell'uomo, che è consapevole in modo innato delle proprie esperienze private, e non impara facilmente ad adottare il punto di vista degli altri. Questa linea di pensiero ci appare ora erronea. Percezione e propriocezione non sono tendenze opposte o alternative dell'esperienza, ma esperienze complementari. Le teorie della percezione basate sulle sensazioni assumono che le apparenze prospettiche del mondo sono tutto ciò che è dato a un neonato; in altri termini, che esse siano i dati per la percezione. Discende da ciò la tesi per cui il bambino sarebbe necessariamente egocentrico, e lo sviluppo cognitivo consisterebbe in un progresso dalle sensazioni soggettive alle percezioni oggettive. L'io del bambino abbraccia il mondo, ma nello stesso tempo si ritiene che esso debba limitarsi alla consapevolezza delle sue fugaci sensazioni. Ma vi è motivo di sospettare di tutte queste speculazioni. I dati sulle prime esperienze visive dei bambini non indicano che queste sono limitate a superfici viste qui-edora, e contraddicono decisamente la dottrina secondo cui· quello che i bambini vedono è un mosaico piatto di sensa-
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zioni colorate. Sospetto perciò che il supposto egocentrismo del bambino sia un mito. 8. Nascondere, sbirciare e privacy Nel capitolo ottavo sulle affordances, ho anche descritto alcuni posti dell'ambiente come posti per nascondere. Sono, cioè, posti che offrono l' a/fordance di nascondere se stessi o le proprie proprietà alla vista di altri osservatori. Il fenomeno del vedere senza essere visti illustra l'applicazione dell'occlusione ottica alla psièologia sociale. Sarebbe opportuno rileggere il brano sui posti per nascondere del capitol~ottavo. La percezione delle superfici occluse e degli o getti si verifica e può essere condivisa con altri soggetti per ipienti. In questa misura, noi tutti percepiamo lo stesso mon o. Ma c'è anche l'ignoranza delle cose occluse, e se tu mi nascondi la tua proprietà privata, il tuo rifugio in collina, .il tuo amante segreto, le tue caratteristiche, il mondo che noi due percepiamo non è del tutto lo stesso. La conoscenza pubblica è possibile, ma in questi termini essa è una cqnoscenza privata reciproca. Non solo i bambini quando sono piccoli giocano a bùsette, e quando crescono giocano a nascondino, ma gli animali che sono prede si nascondono dai predatori, e questi ultimi possono nascondersi ai primi quando tendono un agguato. Succede di frequente che un osservatore voglia spiare altri, vedere senza essere visto. Guarda attraverso un pertugio, o sbircia oltre il bordo occludente di un angolo. A ciò si contrappongono gli sforzi che altri fanno per non essere visti, il bisogno di privacy. Crepacci, grotte, capanne e case non offrono solo protezione dal vento, dal freddo e dalla pioggia, ma anche lo stato di essere fuori di vista, fuori della , e cioè il tipo che si basa sulla disparità binoculare. Con gli occhi laterali, la regione cieca dietro l'animale è minima, ma viene ~acrificata la sovrapposizione dei campi di visione davanti ali' animale. Con gli occhi in posizione frontale, la sovrapposizione dei campi di visione anteriori è massima, ma l'ampiezza del, campo di visione è sacrificata, e la regione cieca è ampia. E impossibilè una ·percezione simultanea di tutto l'ambiente. Ci deve essere qualche 'lacuna nel campo di visione combinato semplicemente perché n è il corpo dell'animale stesso, e cioè il suo corpo nasconde alcune delle superfici dell'ambiente circostante. La percezione simultanea di tutto l'ambiente non è necessaria, se l'animale può sempre girare la testa. Non c'è bisogno di percepire tutto contemporaneamente, se lo si può in successione. In un campo di visione combinato, la lacuna è in quella porzione dell'assetto ottico ambiente riempita dalla testa e dal corpo dell'osservatore stesso. È un angolo solido visivo con un inviluppo chiuso, un confine chiuso dell'assetto che specifica il corpo, che ha un significato e veicola informazioni. Ho già trattato in modo abbastanza diffuso questo punto nel capitolo settimo, parlando del sé.· La porzione del layout ambientale che è nascosta dal corpo, al muoversi di questo e della testa si interscambia continuamente con la rimanente parte non nascosta. . La differenza tra il modo in cui un cavallo percepisce il suo ambiente, e il modo in cui lo percepisce l'uomo non è perciò tanto profonda quanto si tende a ritenere. La regione cieca prodotta dalla testa e dal corpo di questo animale è
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