Tutti i nomi
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Zitiervorschau

José Saramago

Tutti i nomi Titolo originale: Todos os Nomes Traduzione di Rita Desti La traduzione italiana è stata realizzata con il contributo del Ministério da Cultura Instituto Português do Livro e das Bibliotecas Copyright 1997 José Saramago & Editorial Caminho Copyright 1998 Einaudi

Indice Nota editoriale .......................................................................... 1 Il labirinto e la sua metafora – di Manuel Vázquez Montalbán .......... 2 TUTTI I NOMI................................................................................... 3 1. ...........................................................................................3 2. ...........................................................................................6 3. ......................................................................................... 11 4. ......................................................................................... 17 5. ......................................................................................... 22 6. ......................................................................................... 30 7. ......................................................................................... 35 8. ......................................................................................... 43 9. ......................................................................................... 47 10......................................................................................... 54 11......................................................................................... 60 12......................................................................................... 65 13......................................................................................... 72 14......................................................................................... 79 15......................................................................................... 86 16......................................................................................... 91 17......................................................................................... 95 18....................................................................................... 103 19....................................................................................... 113 20....................................................................................... 119 21....................................................................................... 127 Nota editoriale Il Signor José – l’unico personaggio cui Saramago dà un nome proprio in questo suo romanzo di “nomi” – è scritturale ausiliario presso la Conservatoria Generale dell’Anagrafe di una non ben identificata città: piranesiana struttura ove si ammassano gli incartamenti relativi a chi nasce accanto a quelli di coloro che non sono più in vita. E qui il nostro eroe, modesto impiegato tutto dedito al lavoro e al rispetto delle gerarchie, ha come unica distrazione il collezionismo di notizie, ritagli di giornale, fotografie, o quant’altro, di persone famose. Ma un giorno, tanto casualmente quanto inspiegabilmente, viene attratto dai dati relativi a una sconosciuta. Ed è una sorta di colpo di fulmine. Messe da parte le altre ricerche, tutta la sua attenzione viene ossessivamente come risucchiata da questa donna senza volto; dapprima insegue, senza darsene una ragione, “nel labirinto confuso della sua testa senza metafisica la traccia dei motivi che l’avevano portato a copiare il modulo della donna sconosciuta”, ma poi si arrende, e inizia la caccia. Come una sorta di dottor Jekyll e mister Hyde il mite scritturale si trasforma, fuori dall’orario di ufficio, in contraffattore di documenti, in ladro di pagelle: mente, falsifica, ruba... E passa notti insonni cercando informazioni durante le sue illegali incursioni tra

gli immensi, polverosi, bui e terrorizzanti schedari dei vivi e dei morti della Conservatoria, in una terribile ricerca lungo quell’impercettibile confine che separa la vita dalla morte. Dopo il grandioso affresco apocalittico di un mondo sprofondato nella più totale Cecità, Saramago propone un’altra apocalisse, ma questa volta ridotta all’essenziale: qui, infatti, il reale perde apparentemente i suoi confini, mentre la psiche e i suoi meccanismi acquistano dimensione di realtà, sia pure soltanto nella mente del Signor José.

Il labirinto e la sua metafora – di Manuel Vázquez Montalbán La Repubblica, 9 ottobre 1998. Il Premio Nobel finalmente privilegia uno scrittore in lingua portoghese, uno scrittore difficile, poco ligio a ciò che si considera come letterariamente corretto e che ora più che mai ha bisogno di una presentazione per sfuggire all’immaginario costruito dai luoghi comuni, quasi si trattasse del fumetto di un comic. L’immaginario Saramago riproduce uno scrittore “della tarda età”, come Bufalino o Camilleri, giornalista e comunista. Uno scrittore nato all’ ombra dell’estetica di Pessoa ne “L’anno della morte di Ricardo Reis”, costruttore di utopie ironiche impossibili ne “La zattera di pietra”, interpretata come una parabola antieuropeista, esempio di scrittore impegnato nei confronti della letteratura e dell’ideologia, ma possessore di quella verità letteraria che non dipende da quella ideologica. “Cecità” introduce nel Saramago attuale, in cerca di un discorso in cui Vita, Storia e Morte diventano parsimonia espositiva, come se lo scrittore si autoconcedesse un tempo senza limiti di esposizione letteraria, in contraddizione con i limiti biologici e storici. Può dirsi addirittura che Saramago sembri allontanarsi dalla speranza laica, dalla Storia, dall’ottimismo storico, ma che lo faccia dibattendosi, cercando di non arrendersi alla tendenza del pessimismo biologico. “Tutti i nomi” mi pare una delle opere che meglio rivelano il rapporto etica-estetica nell’attuale Saramago. Vita, mondo, tempo, spazio incontrano in questo romanzo il plutonico riferente dell’Archivio in cui tutto è scritto. Il protagonista cerca ostinatamente nella geometria filata dell’archivio della Conservatoria Generale del Registro Civile, concepito come un universo di archivi o come l’universo archiviato, materializzazione del rapporto tra spazio e tempo, imbalsamati entrambi. Se per Borges l’Universo era o meritava di essere una Biblioteca, Saramago ci propone che il mondo sia la Conservatoria Generale del Registro Civile con due soggetti dominanti: Il capo e don Josè, definibile come il “probo funzionario”, della stirpe dei funzionari ottocenteschi, conoscitore ormai della nausea dell’autodidatta e dell’indeterminazione di Josep K. Saramago si diletta nella ricostruzione di un romanzo di impiegati in un ufficio dall’atmosfera ottocentesca, quasi cercando la scenografia falsamente naturalistica, una scenografia sotterrata, sepolta, prekafkiana. Ed è questo uno dei maggiori successi del libro. Se nel romanzo introverso degli anni Sessanta e Settanta i protagonisti impiegavano trenta pagine a salire una scala e quaranta ad aprire una finestra, in “Tutti i nomi” don Josè ne impiega quaranta ad aprire una cartella, con l’intima soddisfazione di chi è proprietario delle vite di tutti nei loro dati più ovvi. Il lettore si vede sottoporre all’ intrigo dell’atteso disvelamento e accetta l’approssimazione fino a raggiungere la luminosità della notizia di una donna che condurrà don Josè e il lettore fuori del Registro, forse con la speranza di uscire dal labirinto. Ormai bisogna dire che se la metafora del mondo è la Conservatoria, il labirinto lo è della vita. Forse quella donna che chiama don Josè dalla sostanza stessa di un pezzo di carta ammuffito è Arianna che gli offre il filo redentore. Il labirinto interiore è separato da quello esteriore mediante la pelle, ma Valery scrisse che nell’uomo la cosa più profonda è la pelle. Don Josè, lo stesso Saramago, pensa che noi non prendiamo decisioni, ma che sono le decisioni a prenderci. Ecco qui la prima presenza di Beckett: “Questo non è muoversi, questo è essere mosso”. Nei suoi percorsi nell’intento di costruzione di una donna reale, don Josè la sta decostruendo, perché l’indagine lo porterà alla morte, all’interno dei due emisferi separati della Conservatoria dei Registri, quello dei morti e quello dei vivi. Il capo, al corrente di tutte le piccole, angosciose trasgressioni che don Josè ha dovuto tramare per attraversare il sottile muro che separa la vita dalla morte, gli propone di contemplare i due emisferi come se fossero uno solo. In una patetica scena quasi finale, l’indagine gli consente di ascoltare la voce della donna cercata in una banale registrazione su una segreteria telefonica. Il protagonista confessa di essere rimasto senza pensieri e la voce sul nastro è il secondo apporto di Beckett,

il referente de “L’ultimo nastro di Krapp”. La vita è registrata, registrata soltanto, e a malapena ha un senso rispetto a tale voce. Romanzo di intrigo amoroso con l’andatura lenta di un funzionario. Romanzo, letteratura d’amore (come ogni opera di Saramago) al di sopra del sensoriale dei corpi concreti: si tratta di costruire un mito emozionale con la parsimonia di un burocrate incapace di accettare che la sua angoscia si chiama angoscia. O il lettore accetta questo tempo lento, identificazione del rapporto del tempo e dello spazio imbalsamati, o non entrerà nel labirinto e nella sua metafora. Hanno dato il Nobel di Letteratura a un grande scrittore e a una grande letteratura che se lo meritavano. Perché la notizia non è soltanto l’assegnazione del premio a Saramago, ma che per la prima volta sia stato dato il Nobel a uno scrittore in lingua portoghese nonostante Eça de Queiròs, Torga o Jorge Amado.

Tutti i nomi A Pilar Conosci il nome che ti hanno dato, non conosci il nome che hai. Libro delle Evidenze

1. Sopra la cornice della porta c’è una placca metallica lunga e stretta, rivestita di smalto. Su sfondo bianco, le lettere nere annunciano Conservatoria Generale dell’Anagrafe. Lo smalto è crepato e sbrecciato in alcuni punti. La porta è antica, l’ultimo strato di vernice marrone si sta scrostando, le venature del legno, visibili, ricordano una pelle striata. Ci sono cinque finestre sulla facciata. Appena si varca la soglia, si sente l’odore della carta vecchia. Certo è che non passa giorno senza che in Conservatoria entrino incartamenti nuovi, degli individui di sesso maschile e di sesso femminile che fuori continuano a nascere, ma l’odore non cambia mai, in primo luogo perché il destino di ogni foglio nuovo, subito dopo l’uscita dalla fabbrica, è quello di cominciare a invecchiare, in secondo luogo perché, di solito più spesso sui fogli vecchi, ma tante volte su quelli nuovi, non passa giorno che non si scrivano cause di decessi e relativi luoghi e date, ciascuno apportando i propri particolari odori, non sempre offensivi per le mucose olfattive, come dimostrano certi effluvi aromatici che di tanto in tanto, impercettibilmente, attraversano l’atmosfera della Conservatoria Generale e che i nasi più fini identificano come un profumo composto metà di rosa e metà di crisantemo. Subito dopo la porta compare un alto paravento a vetri con due battenti da cui si accede all’enorme sala rettangolare dove lavorano gli impiegati, separati dal pubblico da un lungo bancone che unisce le due pareti laterali, a eccezione, a una delle estremità, del ripiano mobile che permette il passaggio all’interno. La disposizione dei posti nella sala rispetta naturalmente le priorità gerarchiche, ma essendo, come ci si aspetterebbe, armoniosa da questo punto di vista, lo è anche dal punto di vista geometrico, il che serve a dimostrare che non esiste alcuna insanabile contraddizione fra estetica e autorità. La prima fila di tavoli, parallela al bancone, è occupata dagli otto scritturali ausiliari a cui compete ricevere il pubblico. Dietro questa, altrettanto centrata rispetto all’asse mediano che, partendo dalla porta, si perde giù in fondo, negli oscuri confini dell’edificio, c’è una fila di quattro tavoli. Questi appartengono ai funzionari. Dopo di loro si vedono i vice, che sono due. Infine, isolato, da solo,

come doveva essere, il conservatore, a cui quotidianamente si rivolgono chiamandolo capo. La distribuzione dei compiti fra tutti gli impiegati risponde a una regola semplice, e cioè che gli elementi di ciascuna categoria hanno il dovere di eseguire tutto il lavoro che sia loro possibile, in modo che solo in minima parte debba passare alla categoria successiva. Ciò significa che gli scritturali ausiliari sono obbligati a lavorare senza sosta da mane a sera, mentre i funzionari lo fanno di tanto in tanto, i vice molto più di rado e il conservatore quasi mai. La continua agitazione degli otto in prima fila, i quali non fanno che sedersi e alzarsi, sempre di corsa fra il tavolo e il bancone, fra il bancone e gli schedari, fra gli schedari e l’archivio, ripetendo senza sosta queste e altre sequenze e combinazioni davanti all’indifferenza dei superiori, sia diretti che remoti, è un fattore indispensabile per comprendere come siano stati possibili e deprecabilmente facili da commettere gli abusi, le irregolarità e le falsificazioni che costituiscono la materia centrale di questo racconto. Per non perdere il bandolo della matassa in un argomento così trascendentale, conviene sapere prima di tutto dove sono ubicati e come funzionano gli archivi e gli schedari. Sono divisi, strutturalmente e fondamentalmente, o, se vogliamo usare parole semplici, in obbedienza alle leggi di natura, in due grandi aree, quella con gli archivi e gli schedari dei morti e quella con gli schedari e gli archivi dei vivi. Gli incartamenti di coloro che non sono più in vita sono sistemati alla bell’e meglio nella parte posteriore dell’edificio la cui parete di fondo, a seguito dell’aumento impari del numero dei defunti, dev’essere sistematicamente abbattuta e rialzata di nuovo alcuni metri più avanti. Come sarà facile concluderne, le difficoltà di inserimento dei vivi, ancorché preoccupanti, tenendo conto del fatto che la gente continua a nascere, sono molto meno pressanti e sono state risolte, fino a ora, in modo ragionevolmente soddisfacente, vuoi facendo ricorso alla compressione meccanica orizzontale delle singole pratiche collocate sugli scaffali, come nel caso degli archivi, vuoi impiegando schedine sottili e ultrasottili, nel caso degli schedari. Malgrado il fastidioso problema della parete di fondo di cui si è già riferito, è altamente lodevole lo spirito di previsione degli architetti storici che progettarono la Conservatoria Generale dell’Anagrafe, proponendo e difendendo, contro le opinioni conservatrici di certi spiriti taccagni rivolti al passato, l’installazione di cinque gigantesche strutture di scaffali che si ergono fino al soffitto alle spalle degli impiegati, più arretrata la sommità della scaffalatura di centro, che sfiora quasi la grande sedia del conservatore, più prossime al bancone quelle delle scaffalature laterali estreme, mentre le altre due restano, per così dire, a metà strada. Considerate ciclopiche e sovrumane da tutti gli osservatori, queste costruzioni si estendono all’interno dell’edificio più di quanto la vista riesca a cogliere, anche perché da un certo punto in poi comincia a regnare l’oscurità e le lampade si accendono solo quando è necessario consultare qualche pratica. Queste strutture di scaffali sono quelle che sopportano il peso dei vivi. I morti, o meglio, i loro incartamenti, sono tutti verso l’interno, meno ben confezionati di quanto dovrebbe consentire il rispetto, ragion per cui è proprio un bel da fare ritrovarli quando un parente, un notaio o un ufficiale giudiziario viene in Conservatoria Generale a richiedere certificati o copie di documenti di altre epoche. La disorganizzazione di codesta

parte dell’archivio è motivata e aggravata dal fatto che sono proprio i defunti più antichi quelli che si trovano più prossimi all’area denominata attiva, subito appresso ai vivi, costituendo, secondo l’intelligente definizione del capo della Conservatoria Generale, un peso due volte morto, visto che è rarissimo che qualcuno se ne preoccupi, solo di tanto in tanto si presenta qualche eccentrico ricercatore di sottigliezze storiche di scarsa rilevanza. A meno che un giorno non si decida di separare i morti dai vivi, costruendo in un altro locale una nuova Conservatoria per la raccolta esclusiva dei defunti, a questa situazione non c’è rimedio, come si è visto quando a uno dei vicecapi, in un momento infelice, venne in mente la proposta di cominciare a riordinare l’archivio dei morti all’incontrario, verso il fondo i remoti, verso l’esterno quelli di fresca data, in modo da facilitare, burocratiche parole sue, l’accesso ai defunti contemporanei che, come si sa, sono gli autori di testamenti, i fornitori di eredità, e quindi facili oggetti di dispute e contestazioni mentre il corpo è ancora caldo. Sarcastico, il conservatore approvò l’idea, a condizione che fosse lo stesso proponente a incaricarsi di spingere verso il fondo, giorno dopo giorno, la gigantesca massa delle pratiche personali dei morti preteriti, in modo da poter far entrare nello spazio così recuperato quelli defunti di recente. Volendo far dimenticare la disastrosa e impraticabile proposta, nonché per distrarre dall’umiliazione lo spirito, il vicecapo non trovò di meglio che richiedere agli scritturali ausiliari di passargli una parte di lavoro, incrinando così, sia verso l’alto che verso il basso, la storica pace della gerarchia. Crebbe con questo episodio la trascuratezza, prosperò l’abbandono, si moltiplicò l’incertezza, al punto che un giorno si perse nelle labirintiche catacombe dell’archivio dei morti un investigatore che, alcuni mesi dopo l’assurda proposta, si presentò in Conservatoria Generale per condurre certe ricerche araldiche che gli erano state commissionate. Fu scoperto quasi per miracolo in capo a una settimana, affamato, assetato, esausto, delirante, sopravvissuto solo grazie alla disperata risorsa di ingerire enormi quantità di vecchie scartoffie che, non dovendo essere masticate perché si disfacevano in bocca, non perduravano nello stomaco né fornivano alcun nutrimento. Il capo della Conservatoria Generale, che aveva già richiesto alla sua segretaria la scheda e la pratica dell’imprudente storico per inserirlo fra i morti, decise di sorvolare sui danni, ufficialmente attribuiti ai topi, diramando in seguito un ordine di servizio in cui si decretava, pena una multa e la sospensione dello stipendio, l’obbligatorietà dell’uso del filo di Arianna per chiunque dovesse recarsi nell’archivio dei morti. In ogni caso non sarebbe giusto dimenticare le difficoltà dei vivi. È più che sicuro e noto che la morte, vuoi per incompetenza di origine vuoi per malafede acquisita con l’esperienza, non sceglie le proprie vittime secondo la durata delle vite che hanno vissuto, procedimento questo che, peraltro, sia detto fra parentesi, a dar credito alla parola delle innumerevoli autorità filosofiche e religiose che sul tema si sono pronunciate, ha finito per produrre nell’essere umano, di riflesso, per differenti e talvolta contraddittori cammini, l’effetto paradossale di una sublimazione intellettuale del timore naturale di morire. Ma, per venire a ciò che ci interessa, quello di cui la morte non potrà mai essere accusata è di aver dimenticato a tempo indeterminato nel mondo qualche vecchio, solo per invecchiare sempre di più, senza alcun merito o altro

motivo visibile. Ormai si sa che, per quanto i vecchi durino, finirà sempre per giungere la loro ora. Non passa giorno senza che gli impiegati di concetto debbano togliere pratiche dalle scaffalature dei vivi per trasferirle nel deposito giù in fondo, non passa giorno in cui non debbano spingere verso l’alto degli scaffali quelle che restano, anche se a volte, per un capriccio ironico dell’enigmatico destino, solo fino al giorno seguente. In base al cosiddetto ordine naturale delle cose, l’essere arrivati in cima allo scaffale significa che la fortuna si è stancata, che non ci sarà più molto altro cammino da percorrere. La sommità della scaffalatura è, in tutti i sensi, il principio della caduta. Capita, tuttavia, che alcune pratiche, non si sa per quale ragione, si mantengano sul bordo estremo del vuoto, insensibili all’ultima vertigine, per anni e anni al di là di quella che sia ritenuta per convenzione la durata consigliabile di un’esistenza. All’inizio queste pratiche eccitano, negli impiegati, la curiosità professionale, ma ben presto cominciano a risvegliarne l’impazienza, come se lo sfacciato accanimento dei microbi stesse riducendo, mangiando, divorando le loro stesse prospettive di vita. Non si sbagliavano del tutto i superstiziosi, se teniamo in considerazione i numerosi casi di impiegati di tutte le categorie le cui pratiche dovettero essere prematuramente ritirate dall’archivio dei vivi, mentre le pagine esterne degli ostinati sopravvissuti si andavano ingiallendo sempre di più, fino a trasformarsi in macchie scure e antiestetiche in cima alle scaffalature, che offendevano la vista del pubblico. È allora che il direttore della Conservatoria Generale dice a uno degli impiegati di concetto, Signor José, mi sostituisca quelle cartelline. 2. Oltre al nome proprio, José, il Signor José ha anche dei cognomi, tra i più comuni, senza stravaganze onomastiche, uno da parte del padre, un altro da parte della madre, secondo la norma portoghese, legittimamente trasmessi, come potremmo appurare nel registro delle nascite in Conservatoria se l’argomento in questione giustificasse l’interesse e se il risultato dell’accertamento ripagasse il lavoro di confermare quanto già si sa. Tuttavia, per qualche ignoto motivo, a meno che non sia dovuto semplicemente all’irrilevanza del personaggio, quando al Signor José gli si domanda come si chiami, o quando le circostanze gli richiedono di presentarsi, Sono Tal dei Tali, non gli è mai servito a niente pronunciare il nome completo, visto che gli interlocutori trattengono nella memoria solo la prima parola, José, a cui poi verranno, o non verranno ad aggiungere, dipende dal grado di confidenza o di formalismo, la cortesia o la familiarità nel modo in cui gli si rivolgono. Che quel chiamarlo signore, sia detto subito, non vale tanto quanto parrebbe promettere, perlomeno qui in Conservatoria Generale, dove il fatto che tutti si trattino nella stessa maniera, dal conservatore al più giovane degli scritturali ausiliari, non ha sempre lo stesso significato nella prassi dei rapporti gerarchici, e si potrebbero addirittura osservare, nei modi in cui viene articolata questa breve parola e secondo i diversi scalini di autorità o gli umori del momento, modulazioni assai diverse, tipo quelle della condiscendenza, dell’irritazione, dell’ironia, dello sdegno, dell’umiltà, dell’adulazione, il che ben dimostra fino a qual punto possano giungere le potenzialità espressive di due cortissime emissioni di voce che, a prima vista, così riunite, sembrerebbero voler dire una

cosa sola. Con le due sillabe di José e le due di Signor, quando queste precedono il nome, succede più o meno lo stesso. Vi sarà sempre possibile distinguere, quando ci si rivolge a qualcuno, qui in Conservatoria o al di fuori di essa, un tono di sdegno, o di ironia, o di irritazione, o di condiscendenza. I rimanenti toni, quelli dell’umiltà e dell’adulazione, cullanti e melodici, all’orecchio dello scritturale ausiliario Signor José non sono mai risuonati, non hanno ingresso nella scala cromatica dei sentimenti che abitualmente gli sono manifestati. Va chiarito, tuttavia, che alcuni di questi sentimenti sono estremamente più complessi di quelli sopra elencati, in un certo qual modo elementari e ovvi, fatti tutti d’un sol blocco. Quando, per esempio, il conservatore ha dato l’ordine, Signor José, mi sostituisca quelle cartelline, un orecchio attento e affinato avrebbe riconosciuto nella sua voce qualcosa che, fatta salva la palese contraddizione dei termini, si potrebbe classificare come indifferenza autoritaria, cioè un potere tanto sicuro di se stesso che non solo aveva dimostrato di ignorare la persona a cui si dirigeva, non guardandola neppure, ma che fin da subito metteva in chiaro che non si sarebbe abbassato in seguito a verificare se l’ordine fosse stato eseguito. Per raggiungere le scaffalature superiori, lassù in cima, quasi rasente al soffitto, il Signor José doveva utilizzare un’altissima scala apribile e visto che, per sua disgrazia, soffriva di quel fastidioso squilibrio nervoso che normalmente chiamiamo attrazione dell’abisso, non gli restava altro da fare, per non fracassarsi le ossa sul pavimento, se non legarsi agli scalini con un robusto cinturone. Laggiù, in basso, a nessuno dei suoi colleghi pari grado, dei superiori non vale neanche la pena di parlare, passava per la testa di alzare gli occhi per vedere se tutto andava bene. Dare per sottintesa una risposta affermativa era un’ulteriore maniera di giustificare l’indifferenza. All’inizio, un inizio che risaliva a molti secoli addietro, gli impiegati risiedevano nella Conservatoria Generale. Per la verità non proprio dentro, in promiscuità corporativa, ma in alcune semplici e rustiche casette costruite all’esterno, lungo le pareti laterali, come piccole cappelle smarrite che fossero andate ad aggrapparsi al corpo robusto della cattedrale. Le case avevano due porte, quella normale che dava sulla strada, e una supplementare, discreta, quasi invisibile, che comunicava con la grande navata degli archivi, cosa che a quei tempi, e per molti anni, fu ritenuta estremamente vantaggiosa per il buon funzionamento dei servizi, perché gli impiegati non erano costretti a perdere tempo negli spostamenti attraverso la città né potevano addurre la scusa del traffico quando arrivavano in ritardo a firmare il registro delle presenze. Oltre a questi vantaggi logistici, era facilissimo mandare l’ispezione a controllare se per caso venissero meno alla verità quando passava loro in mente di darsi malati. Purtroppo, un cambiamento nei criteri municipali dell’ordinamento urbanistico del quartiere in cui era situata la Conservatoria Generale aveva costretto ad abbattere quelle interessanti casette, a eccezione di una, che le autorità competenti avevano deciso di conservare come documento architettonico di un’epoca e come ricordo di un sistema di rapporti di lavoro che, per quanto pesi alle critiche facilone della modernità, aveva anche i suoi lati buoni. Proprio in questa casa vive il Signor José. Non è stata una decisione mirata, non hanno certo scelto lui come ultimo depositario di un tempo passato, è andata così solo per via della posizione della casa, che si trovava in

un punto dove non avrebbe arrecato alcun pregiudizio alla nuova disposizione, non si trattava né di castigo né di premio, ché il Signor José non li meritava certo, né l’uno né l’altro, gli si è permesso di continuare a vivere in quella casa, nient’altro. Ad ogni modo, come segnale che i tempi erano cambiati e per evitare una situazione che facilmente sarebbe stata interpretata come di privilegio, la porta di comunicazione con la Conservatoria è stata condannata, e cioè hanno ordinato al Signor José di chiuderla a chiave e l’hanno avvisato che da lì non poteva più passare. Ecco il motivo per cui il Signor José deve entrare e uscire tutti i giorni dalla porta principale della Conservatoria Generale, come chiunque altro, anche quando sulla città si sta scatenando il più furioso dei temporali. C’è da dire, tuttavia, che il suo spirito metodico si sente sollevato nell’obbedire a un principio di uguaglianza, che pure va, in questo caso, a suo discapito, ancorché, a dir la verità, preferirebbe non dover essere sempre lui a salire sulla scala per sostituire le cartelline delle vecchie pratiche, soprattutto soffrendo di panico delle altezze, come si è detto. Il Signor José possiede l’encomiabile pudore di coloro che non se ne vanno in giro a lamentarsi dei propri turbamenti nervosi e psicologici, autentici o immaginari, e la cosa più probabile è che non abbia mai parlato di questa malattia ai colleghi, i quali, in caso contrario, non farebbero altro che osservarlo timorosi quando lui si trovasse lassù in cima, per paura che, malgrado la sicurezza della cinghia, si sganciasse dai gradini finendo per precipitargli addosso. Quando il Signor José ritorna finalmente a terra, ancora mezzo stordito, mascherando alla meglio gli ultimi capogiri della vertigine, agli altri impiegati, sia i pari grado che i superiori, non li sfiora neanche il pensiero del pericolo che avevano corso. È giunto adesso il momento di spiegare che, nonostante debba fare tutto quel giro per entrare nella Conservatoria Generale e ritornare a casa, al Signor José ha recato solo soddisfazione e sollievo la condanna della porta. Non era certo tipo, lui, da ricevere visite di colleghi nell’intervallo del pranzo, e se qualche volta si era ammalato, era lui che di sua spontanea volontà compariva nella sala e andava a presentarsi al vice del suo reparto per fugare ogni dubbio sulla propria onestà di impiegato e perché non dovessero mandargli la visita fiscale al capezzale. Con la proibizione di usare la porta, si erano ancor più ridotte le probabilità di un’intromissione inattesa nel suo rifugio domestico, nel caso in cui, per esempio, avesse lasciato in esposizione sul tavolo, casualmente, quello che tanto lavoro gli stava dando da un mucchio di anni, vale a dire la sua collezione di notizie sulle persone del paese che, tanto per buone come per cattive ragioni, erano divenute famose. Gli stranieri, qualunque fosse la portata della loro celebrità, non lo interessavano, i loro incartamenti erano archiviati in conservatorie distanti, sempre che altrove abbiano questo stesso nome, ed erano stati redatti in lingue che lui non avrebbe saputo decifrare, approvati da leggi che non conosceva, neanche usando la scala più alta di tutte sarebbe riuscito ad arrivarci. Persone così, come questo Signor José, le incontriamo dovunque, occupano il proprio tempo o il tempo che credono gli avanzi dalla vita a raccogliere francobolli, monete, medaglie, vasi, cartoline, scatole di fiammiferi, libri, orologi, magliette sportive, autografi, pietre, pupazzetti di terracotta, lattine vuote, angioletti, cactus, libretti d’opera, accendisigari, penne, gufi, cassette di musica, bottiglie, bonsai, dipinti, boccali, pipe, obelischi di cristallo, papere di porcellana, giocattoli

antichi, maschere di carnevale, probabilmente lo fanno per qualcosa che potremmo definire angoscia metafisica, forse perché non riescono a sopportare l’idea del caos come principio unico che regge l’universo, e perciò, con le loro deboli forze e senza l’aiuto divino, tentano di mettere un certo ordine nel mondo, e per un po’ di tempo ci riescono pure, ma solo finché possono difendere la propria collezione, perché quando arriva il giorno in cui questa si disperde, e quel giorno arriva sempre, o per morte o per stanchezza del collezionista, tutto ritorna all’inizio, tutto ritorna a confondersi. Orbene, essendo questa mania del Signor José palesemente fra le più innocenti, non si comprende il motivo per cui usi tante attenzioni affinché nessuno possa giungere a sospettare che fa collezione di ritagli di giornali e riviste con notizie e immagini di gente celebre, per nessun altro motivo se non quella stessa celebrità, visto che gli è indifferente che si tratti di politici o di generali, di attori o di architetti, di musicisti o di calciatori, di ciclisti o di scrittori, di speculatori o di ballerine, di assassini o di banchieri, di comici o di reginette di bellezza; Non sempre aveva avuto questo comportamento segreto. È pur vero che non ha mai voluto parlare di questo suo passatempo ai pochi colleghi con i quali aveva una certa confidenza, ma ciò è dovuto a quel suo carattere riservato, non a un timore consapevole di poter essere messo in ridicolo. La preoccupazione di difendere tanto gelosamente la propria intimità si è presentata solo poco tempo dopo la demolizione delle case in cui avevano vissuto gli impiegati della Conservatoria Generale, o, più esattamente, dopo essere stato avvisato che non avrebbe potuto più servirsi della porta di comunicazione. Forse si è trattato solo di una coincidenza accidentale, come ce ne sono tante, giacché non si vede quale rapporto immediato o prossimo possa esistere fra quel fatto e una necessità di segreto così repentina, ma è ben risaputo che lo spirito umano spesso prende decisioni di cui dimostra non conoscere le cause, e quindi c’è da supporre che lo faccia dopo aver percorso i cammini della mente con tale velocità da non essere poi capace di riconoscerli e tanto meno di ritrovarli. Così, o forse no, che la spiegazione sia questa o un’altra, a un’ora tarda di una certa notte, mentre se ne stava tranquillamente lavorando a casa sull’aggiornamento degli incartamenti di un vescovo, il Signor José ebbe l’illuminazione che gli avrebbe cambiato la vita. Può anche darsi che una consapevolezza repentinamente inquieta della presenza della Conservatoria Generale al di là della spessa parete, quelle enormi scaffalature cariche di vivi e di morti, la piccola e fioca lampada appesa al soffitto sopra il tavolo del conservatore, sempre accesa di giorno e di notte, le fitte tenebre che nascondevano i corridoi fra gli scaffali, l’oscurità abissale che regnava in fondo alla navata, la solitudine, il silenzio, può anche darsi che tutto ciò, in un attimo, per quei perplessi cammini mentali di cui si è detto, gli avesse fatto percepire che alle sue collezioni mancava qualcosa di fondamentale, e cioè l’origine, la radice, la provenienza, in altre parole il semplice atto di nascita di quelle persone famose della cui vita pubblica si era dedicato a compilare tutte le notizie. Non sapeva, per esempio, come si chiamavano i genitori del vescovo, né chi erano stati i padrini che l’avevano assistito nel battesimo, né dov’era nato precisamente, in quale via, in quale palazzo, a che piano, e quanto alla data di nascita, se era vero che casualmente risultava da uno dei ritagli, solo il registro ufficiale della Conservatoria ovviamente avrebbe fatto

fede, non certo un’informazione isolata desunta dalla stampa, chissà poi fino a qual punto esatta, il giornalista poteva aver sentito o copiato male, il revisore poteva aver corretto al contrario, non sarebbe stata certo la prima volta che nella storia del deleatur succedeva una cosa del genere. La soluzione ce l’aveva lì a portata di mano. L’indefettibile convinzione che il capo della Conservatoria Generale nutriva sul peso assoluto della propria autorità, la certezza che qualsiasi ordine uscito dalla propria bocca sarebbe stato eseguito con il massimo rigore e con il massimo scrupolo, senza il rischio di capricciose conseguenze o di arbitrarie derivazioni da parte del subalterno che l’avesse ricevuto, avevano determinato che la chiave della porta di comunicazione fosse rimasta in possesso del Signor José. Al quale non era mai venuto in mente di usarla e che non l’avrebbe mai ripresa dal cassetto dove l’aveva conservata, se non fosse che era giunto alla conclusione che i propri sforzi di biografo volontario sarebbero serviti, obiettivamente, a pochissimo senza l’inclusione di una prova documentale, o di una sua copia fedele, dell’esistenza, non solo reale, ma ufficiale, dei biografati. S’immagini adesso, se possibile, lo stato di nervosismo, l’eccitazione con cui il Signor José aprì per la prima volta la porta proibita, il fremito che lo bloccò all’entrata, come se avesse messo il piede sulla soglia di una camera dove fosse sepolto un dio il cui potere, al contrario di ciò che detta la tradizione, non provenisse dalla resurrezione, ma dal fatto di averla rifiutata. Soltanto gli dèi morti sono dèi per sempre. Le sagome tenebrose delle scaffalature cariche di carte sembravano perforare il soffitto invisibile e ascendere al cielo nero, il debole chiarore sopra la scrivania del conservatore era come una stella lontanissima e soffocata. Per quanto conoscesse bene il territorio in cui si sarebbe mosso, il Signor José capì, dopo aver riacquistato una certa serenità, che avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di una luce per non urtare contro i mobili, ma soprattutto per poter arrivare senza perdere troppo tempo ai documenti del vescovo, prima alla scheda, poi alla pratica personale. Teneva una torcia nel cassetto dove aveva riposto la chiave. Andò a prenderla e poi, come se possedere una luce gli avesse infuso nello spirito nuovo coraggio, avanzò quasi risoluto fra i tavoli, fino al bancone sotto cui era sistemato l’esteso schedario dei vivi. Trovò rapidamente la scheda del vescovo ed ebbe la fortuna che il ripiano dov’era archiviata la relativa pratica non era più distante della lunghezza del braccio. Non gli fu quindi necessario usare la scala, ma pensò con apprensione a come sarebbe stata la sua vita quando gli fosse capitato di dover salire fino alle regioni superiori degli scaffali, là dove cominciava il cielo nero. Aprì l’armadio degli stampati, prese una copia di ciascun modello e se ne tornò a casa, lasciando aperta la porta di comunicazione. Poi si sedette e, con la mano ancora tremante, cominciò a copiare sugli stampati in bianco i dati del vescovo, il nome completo, senza saltare né un cognome né una sua parte, la data e il luogo di nascita, i nomi dei genitori, i nomi dei padrini, il nome del parroco che l’aveva battezzato, il nome dell’impiegato della Conservatoria Generale che l’aveva registrato, tutti i nomi. Quando giunse alla fine del breve lavoro era esausto, gli sudavano le mani, aveva i brividi alla schiena, sapeva benissimo di aver commesso un peccato contro lo spirito di corpo impiegatizio, in effetti non c’è niente di più stancante del dover lottare, non con il proprio spirito, ma con un’astrazione.

Nell’esaminare gli incartamenti aveva commesso un’infrazione alla disciplina e all’etica, forse addirittura alla legalità. Non perché le informazioni che ne risultavano fossero riservate o segrete, come di fatto non erano, giacché chiunque avrebbe potuto presentarsi in Conservatoria a richiedere copie o certificati dei documenti del vescovo senza dover spiegare il motivo della richiesta e i fini a cui li destinava, ma perché non aveva rispettato la catena gerarchica agendo senza il necessario ordine o l’autorizzazione di un superiore. Per un attimo pensò di fare marcia indietro, di annullare l’irregolarità dell’atto strappando e facendo scomparire le impertinenti copie, di consegnare la chiave al conservatore, Signore, non voglio responsabilità se dovesse venire a mancare qualcosa in Conservatoria, e poi dimenticare i minuti per così dire sublimi che aveva appena vissuto. Ma furono più forti la soddisfazione e l’orgoglio di essere venuto a conoscenza di tutto, fu questa la parola che pronunciò, Tutto, della vita del vescovo. Guardò l’armadio dove teneva le scatole con le collezioni di ritagli e sorrise deliziato, pensando al lavoro che adesso l’aspettava, le sortite notturne, la raccolta ordinata dei formulari e delle pratiche, la copiatura con la sua miglior calligrafia, si sentiva talmente felice che neanche l’idea di dover usare la scala lo scoraggiò. Rientrò in Conservatoria e restituì i documenti del vescovo ai propri posti. Poi, con un sentimento di fiducia in se stesso che non aveva mai provato in tutta la vita, esaminò i dintorni con il fascio di luce, come se finalmente stesse prendendo possesso di qualcosa che gli era sempre appartenuto, ma che solo adesso aveva potuto riconoscere come suo. Si fermò per un attimo a guardare la scrivania del capo, scarsamente illuminata dalla squallida luce che scendeva dall’alto, sì, ecco cosa doveva fare, andarsi a sedere su quella sedia, da quel giorno sarebbe stato lui il vero signore degli archivi, soltanto lui avrebbe potuto, se l’avesse voluto, dovendo passarci le giornate per dovere, viverci di sua spontanea volontà anche le notti, mentre il sole e la luna giravano instancabilmente intorno alla Conservatoria Generale dell’Anagrafe, mondo e centro del mondo. Per annunciare l’inizio di qualcosa si parla sempre del primo giorno, mentre quella che dovrebbe contare è la prima notte, perché è la condizione del giorno, il giorno sarebbe eterno se non ci fosse la notte. Il Signor José è dunque seduto sulla sedia del conservatore e vi resterà fino all’alba, ascoltando il sordo rumoreggiare degli incartamenti dei vivi sovrastante il silenzio compatto degli incartamenti dei morti. Quando l’illuminazione della città si spense e le cinque finestre sopra la porta principale divennero di un colore grigio scuro, si alzò dalla sedia e rientrò in casa, chiudendo la porta di comunicazione dietro di sé. Si lavò, si sbarbò, fece colazione, rimise a posto le carte del vescovo, indossò il vestito migliore e, quando fu l’ora, uscì dall’altra porta, quella sulla strada, fece il giro dell’edificio ed entrò in Conservatoria. Nessuno dei colleghi si accorse di chi era arrivato, risposero tutti al saluto come al solito, dissero, Buongiorno, Signor José, e non sapevano con chi stavano parlando. 3. Per fortuna la gente famosa non è poi molta. Sia pure adottando criteri di selezione e di rappresentatività tanto eclettici e generosi come si è visto che sono quelli del Signor José, non è facile, soprattutto quando si tratti di un

piccolo paese, arrivare al centinaio di personaggi realmente celebri senza cadere nel ben noto lassismo delle antologie dei cento migliori sonetti d’amore o delle cento elegie più pungenti, dinanzi ai quali ci viene a pieno diritto da sospettare che gli ultimi a essere scelti vi siano rientrati solo per far tornare i conti. Considerata nella sua globalità la collezione del Signor José eccedeva di gran lunga il centinaio, ma per lui, come del resto per l’autore delle antologie di elegie e di sonetti, il numero cento era una frontiera, un limite, un nec plus ultra, o, per dirla con termini banali, come una bottiglia da un litro che, per quanto ci si provi, non potrà mai contenere più di un litro di liquido. Per questo modo di intendere il carattere relativo della fama non sarebbe male indicato, crediamo, l’aggettivo qualificativo dinamico, posto che la collezione del Signor José, necessariamente divisa in due parti, e cioè da un lato i cento più famosi e, dall’altro, quelli che non sono riusciti ad arrivare a tanto, è in costante movimento in quell’area che, per convenzione, chiamiamo frontiera. La fama, ahinoi, è un venticello che va e viene, è come una banderuola che tanto gira a nord quanto a sud, e proprio come capita di passare dall’anonimato alla celebrità senza capirne il perché, non è raro neppure che dopo essersi imbattuti nella calorosa aura pubblica si finisca senza sapere come ci si chiami. Applicate queste tristi verità alla collezione del Signor José, si capisce come anche qui vi siano gloriose ascese e drammatiche discese, chi è uscito dal gruppo dei supplenti ed è entrato nel gruppo degli effettivi, e chi non entrava più nella bottiglia e ha dovuto essere buttato fuori. La collezione del Signor José assomiglia molto alla vita. Lavorando con accanimento, talvolta fino a notte fonda, e persino fino all’alba, con le prevedibili conseguenze negative negli indici di produttività che era costretto a soddisfare nell’orario normale di lavoro, il Signor José concluse in meno di due settimane la raccolta e la trasposizione dei dati di origine nelle pratiche individuali delle cento persone più famose della sua collezione. Attraversò momenti di panico inenarrabile ogni volta che dovette appollaiarsi sull’ultimo gradino della scala per raggiungere i ripiani superiori, dove, come se già non gli bastasse la sofferenza dei capogiri, sembrava che tutti i ragni della Conservatoria Generale dell’Anagrafe avessero deciso di tessere le loro tele più fitte, polverose e avviluppanti che abbiano mai sfiorato volti umani. La ripugnanza o, con termine più crudo, il terrore, gli faceva agitare le braccia come un matto per allontanare il nauseante contatto, fortuna sua che c’era quella cinghia legata saldamente ai gradini della scala, ma ci furono momenti in cui mancò poco che capitombolassero tutti e due insieme, lui e la scala, trascinandosi appresso una nuvola di polvere storica e sotto una pioggia trionfale di carte. In uno di quei momenti di angoscia giunse perfino a pensare di slegarsi e accettare il pericolo di una caduta libera, e questo accadde quando immaginò la vergogna che avrebbe macchiato per sempre il suo nome e la sua memoria se il capo fosse entrato una mattina e avesse trovato lui, il Signor José, fra due scaffalature, morto, con la testa spaccata e le cervella di fuori, ridicolmente legato alla scala con una cinghia. Poi pensò che il fatto di slegarsi avrebbe potuto salvarlo solo dal ridicolo, ma non dalla morte, e quindi, stando così le cose, non ne valeva la pena. Lottando contro la natura paurosa con cui era venuto al mondo, quando ormai stava per concludere il suo compito, e malgrado il fatto di aver dovuto, di conseguenza, lavorare quasi al buio, riuscì

a creare e perfezionare una tecnica di localizzazione e manipolazione delle pratiche che gli permetteva di estrarne in pochi secondi i documenti di cui aveva bisogno. La prima volta che ebbe il coraggio di non usare la cinghia fu come se nel suo modestissimo curriculum di scritturale ausiliario avesse iscritto una vittoria immortale. Si sentiva esausto, sbalestrato, coi tremiti alla bocca dello stomaco, ma felice come non ricordava di essere mai stato, quando la celebrità classificata al centesimo posto, adesso identificata secondo tutte le regole della Conservatoria Generale, andò a occupare il proprio posto nella scatola corrispondente. Pensò allora il Signor José che, dopo un così grande sforzo, un po’ di riposo gli avrebbe fatto bene, e visto che il fine settimana iniziava il giorno seguente, decise di rimandare a lunedì la successiva fase del lavoro, e cioè, conferire regolare statuto civile ai quaranta e rotti famosi in retrovia che ancora si trovavano in attesa. Neanche se lo sognava che stesse per accadergli qualcosa di molto più serio del cadere semplicemente da una scala. L’effetto della caduta avrebbe potuto essere quello di porre fine alla sua vita, il che senza dubbio aveva la sua importanza da un punto di vista statistico e personale, ma che cosa rappresenta tutto ciò, ci domandiamo noi, se, essendo la vita biologicamente la stessa, vale a dire lo stesso essere, le stesse cellule, gli stessi lineamenti, la stessa statura, lo stesso modo apparente di guardare, vedere e notare, e senza che la statistica abbia potuto accorgersi del cambiamento, se questa vita, dicevamo, è diventata un’altra vita, così come un’altra persona quella persona lì. Gli fu molto penoso sopportare la lentezza anormale con cui si trascinarono i due giorni, quel sabato e quella domenica gli parvero eterni. Passò il tempo a ritagliare giornali e riviste, più volte aprì la porta di comunicazione per contemplare la Conservatoria Generale in tutta la sua silenziosa maestosità. Sentiva che quel suo lavoro gli piaceva più che mai, grazie ad esso era riuscito a penetrare nell’intimità di tante persone famose, scoprire per esempio cose che alcuni facevano di tutto per nascondere, come l’essere figli di padre o di madre ignota, o di entrambi i genitori ignoti, come in uno dei casi, o che affermavano di essere originari di un comune o di una provincia mentre invece erano nati in un paesino sperduto, in un crocevia di barbara risonanza, se non addirittura in un luogo che semplicemente odorava di letame e di stalla e che poteva benissimo non avere un nome. Con questi pensieri, e altri di simile tenore scettico, giunse il Signor José al lunedì alquanto ripresosi dagli immani sforzi compiuti e, malgrado l’inevitabile tensione nervosa provocata da un volere e un temere in permanente conflitto, deciso a confrontarsi con altre escursioni notturne e altre temerarie ascensioni. La giornata, però, gli si presentò storta fin dal mattino. Il vice a cui competeva la responsabilità dell’economato andò a comunicare al conservatore che, nelle ultime due settimane, aveva notato un consumo di moduli e di cartelline che, pur tenendo in considerazione la media di sbagli nella compilazione amministrativamente ammessa, non aveva, codesto consumo, corrispondenza con il numero dei nuovi nati iscritti alla Conservatoria. Il conservatore volle sapere quali misure avesse preso il subordinato al fine di appurare le ragioni dell’insolita disparità di consumo e a quali ulteriori misure stesse pensando perché il fatto non si ripetesse. Discretamente, il vice gli spiegò che, per il momento, nessuna, che non si era permesso di avere alcuna idea, e

tantomeno di promuovere iniziative, prima di avere esposto il caso alla considerazione superiore, come stava appunto facendo in quel momento. Seccamente, come sempre, il conservatore rispose, L’ha fatto, adesso agisca, e che io non debba più sentirne parlare. Il vice se ne tornò al proprio tavolo a pensare, e nel giro di un’ora ripresentò al capo la bozza di una comunicazione interna, secondo cui l’armadio degli stampati sarebbe stato messo sotto chiave, la quale chiave sarebbe stata perennemente in mano sua, quale economo responsabile. Il conservatore vi scrisse sopra Si esegua, il vice andò a chiudere ostentatamente l’armadio affinché tutti si accorgessero del cambiamento, e il Signor José, dopo un attimo di spavento, sospirò di sollievo giacché aveva avuto il tempo di terminare la parte più importante della sua collezione. Tentò poi di rammentare quanti moduli di ammissione avesse ancora di riserva a casa, forse una dozzina, o forse una quindicina. Non era certo una tragedia. Una volta finiti questi, avrebbe copiato su fogli di carta normale i trenta che ancora mancavano, la differenza avrebbe inciso solo sull’estetica. Non sempre si può avere tutto, pensò per consolarsi. Come ipotetico autore dello storno degli stampati, non c’era motivo perché si sospettasse di lui più che di un altro qualsiasi dei colleghi di pari grado, giacché soltanto loro, gli scritturali ausiliari, compilavano i moduli e le copertine delle pratiche, ma i fragili nervi del Signor José gli fecero temere per tutto il giorno che i sussulti della propria colpevole coscienza si potessero avvertire e notare all’esterno. Malgrado ciò, se la cavò elegantemente nell’interrogatorio a cui fu sottoposto. Con espressioni del viso e della voce che tentò di rendere adeguate alla situazione, dichiarò che usava il più rigoroso scrupolo nell’utilizzo degli stampati, in primo luogo perché tale maniera di comportarsi era propria della sua natura, ma soprattutto perché teneva ben presente, in tutte le circostanze, che la carta consumata nella Conservatoria Generale proveniva dalle imposte pubbliche, tante e tante volte pagate con sacrificio dai contribuenti, e che lui, quale impiegato coscienzioso, aveva il dovere di rispettare e di far rendere. Sia per il contenuto che per la forma, la dichiarazione fece breccia nell’animo dei superiori, al punto che i colleghi interrogati dopo di lui la ripeterono con minime modifiche di stile, ma fu la convinzione, tacita e generalizzata, con il passare del tempo instillata nel personale dalla peculiare personalità del capo, che niente nella Conservatoria, qualsiasi cosa accadesse, avrebbe potuto andare contro gli interessi del servizio, che impedì di notare come il Signor José, fin da quel suo primo giorno di lavoro, molti anni addietro, non aveva mai pronunciato tante parole di seguito. Se il vice fosse stato al corrente dei metodi indagatori della psicologia applicata, l’ingannevole discorso del Signor José sarebbe crollato in meno di un ba, come un castello di carte a cui fosse venuto meno il re di spade, o come una persona affetta da capogiri a cui avessero scosso la scala. Timoroso che una riflessione a posteriori del vice che aveva istruito l’inchiesta gli facesse sospettare la presenza di un gatto nascosto con la coda di fuori, il Signor José decise, per evitare mali peggiori, che quella sera sarebbe rimasto in casa. Non si sarebbe mosso, non sarebbe entrato in Conservatoria neanche se gli avessero promesso l’inaudita fortuna di scoprire il documento più ricercato da che mondo è mondo, né più né meno che l’atto di nascita di Dio. Il saggio è saggio secondo il grado di prudenza che lo esorni, si dice, e ancorché

sconsolatamente imprecisa e indefinibile, bisogna riconoscere nel Signor José, nonostante le irregolarità che va commettendo negli ultimi tempi, l’esistenza di una sorta di saggezza involontaria, di quelle che sembrano essere entrate nel corpo per via respiratoria o perché il sole ti ha dato alla testa, e che perciò non sono considerate degne di particolare plauso. Se adesso la prudenza gli consigliava la ritirata, lui, saggiamente, avrebbe dato retta alla voce della prudenza. Una o due settimane di sosta nelle indagini avrebbero contribuito a cancellargli dall’espressione qualsiasi traccia di timore o di ansia che poteva esservi rimasta. Dopo aver cenato frugalmente, com’era sua abitudine e come dettava la necessità, il Signor José si ritrovò con tutta una serata davanti senza niente da fare. Per una mezz’oretta riuscì a distrarsi sfogliando alcune delle vite più famose della collezione, vi aggiunse pure un certo numero di ritagli recenti, ma il suo pensiero non era lì, continuava a vagare nel buio della Conservatoria, come un cane nero che avesse trovato la pista dell’ultimo segreto. Cominciò a pensare che non poteva esserci alcun pericolo nell’usare semplicemente i moduli che aveva di riserva, sia pure un tre o quattro, solo per occupare in parte la sera e poi addormentarsi tranquillo. La prudenza tentava di trattenerlo tirandolo per la manica, ma, come tutti sanno, o dovrebbero sapere, la prudenza è buona solo quando si tratta di conservare quello che non interessa più, che male poteva fargli aprire la porta, andare rapidamente a prendere tre o quattro moduli, o magari cinque, che è cifra tonda, le cartelline delle pratiche le avrebbe rimandate a un’altra occasione, così evitava di doversi servire della scala. Fu soprattutto questa idea che lo fece decidere. Illuminando il cammino con la torcia nella mano tremante, penetrò nella caverna immensa della Conservatoria e si avvicinò allo schedario. Più nervoso di quanto avesse creduto, girava il capo da un lato e dall’altro come se sospettasse di essere osservato da migliaia di occhi nascosti nel buio dei corridoi fra gli scaffali. Non si era ancora ripreso dal colpo del mattino. Tanto in fretta quanto glielo permisero le dita doloranti, si mise ad aprire e chiudere cassetti, a cercare nelle varie lettere dell’alfabeto i moduli di quelli che gli servivano, si sbagliò un paio di volte finché, alla fine, riuscì a radunare i primi cinque famosi della seconda categoria. Adesso spaventato per davvero, tornò a casa di corsa, con il cuore che batteva all’impazzata, come un bambino che fosse andato a rubare un dolce nella dispensa e se ne tornasse inseguito da tutti i mostri delle tenebre. Sbatté loro la porta in faccia e diede due mandate alla chiave, non voleva neanche pensare che la stessa notte doveva rientrare in Conservatoria per ricollocare le maledette pratiche ai loro posti. Con l’intenzione di calmarsi, andò a bere un sorso dalla bottiglia di acquavite che teneva in serbo per le grandi occasioni, sia le buone che le cattive. Per la fretta e la mancanza di abitudine, giacché nella sua vita insignificante persino il buono e il cattivo erano stati una rarità, gli andò di traverso, tossì, continuò a tossire, quasi soffocandosi, un povero scritturale ausiliario che aveva in mano cinque moduli, lo credeva lui che fossero cinque, con gli accessi di tosse infine li aveva fatti cadere; e non erano cinque, ma sei, sparpagliati lì per terra, come chiunque potrà venire a vedere e contare, uno, due, tre, quattro, cinque, sei, un solo sorso di acquavite non ha mai provocato questo effetto.

Quando riuscì finalmente a recuperare il fiato, si abbassò per prendere i moduli, uno, due, tre, quattro, cinque, non c’erano dubbi, sei, e mentre li raccoglieva leggeva i nomi, tutti famosi, meno uno. Per la premura e l’agitazione nervosa, il modulo intruso era rimasto attaccato al precedente, erano talmente sottili che la differenza di spessore si notava a stento. È chiaro che, per quanto si voglia affinare e ritoccare una calligrafia, copiare cinque sommari atti di nascita e vita è un lavoro che si sbriga in poco tempo. In capo a una mezz’ora il Signor José poteva ritenere conclusa la serata e aprire di nuovo la porta. Controvoglia, radunò i sei moduli e si alzò dalla sedia. Non l’attirava affatto l’idea di entrare nella Conservatoria, ma non c’era altro da fare, il mattino seguente lo schedario doveva essere al completo e nel dovuto ordine. Se poi c’era bisogno di consultare uno dei moduli e questo non era al suo posto, la situazione poteva diventare grave. Di sospetto in sospetto, di indagine in indagine, qualcuno avrebbe finito per osservare che il Signor José vive praticamente attaccato alla Conservatoria Generale, la quale, come ben sappiamo, non gode della elementare protezione di una vigilanza notturna, a qualcuno poteva venire in mente di domandare dov’era quella chiave di accesso che non era stata più consegnata. Quello che dev’essere sarà, e ha molta forza, fu il pensiero ben poco originale del Signor José, che si avviò alla porta. A metà strada si fermò di colpo, È curioso, non mi ricordo se è di un uomo o di una donna quel modulo che si è appiccicato. Tornò indietro, si sedette di nuovo, ci sarebbe dunque voluto un po’ più di tempo per obbedire alla forza di ciò che dev’essere. Il modulo è quello di una donna di trentasei anni, nata proprio lì in città, e ne risultano due annotazioni, una di matrimonio, un’altra di divorzio. Come questo modulo ce ne sono di sicuro centinaia nello schedario, se non migliaia, non si capisce quindi perché il Signor José se ne stia lì a guardarlo con un’espressione tanto strana, che a prima vista sembra attenta, ma che è anche vaga e inquieta, probabilmente è il modo di guardare di chi, a poco a poco, senza desiderio né rifiuto, si sta distaccando da qualcosa e non vede ancora come potrà fare per riappropriarsene. Non mancherà di certo chi venga a suggerire ipotetiche e inammissibili contraddizioni fra inquieto, vago e attento, sono coloro che si limitano a vivacchiare, persone che non si sono mai trovate con il destino davanti. Il Signor José guarda e riguarda quello che è scritto nel modulo, la calligrafia, inutile dirlo, non è la sua, è uno stile passato di moda, trentasei anni fa un altro scritturale ausiliario ha scritto le parole che vi si possono leggere, il nome della bambina, i nomi dei genitori e dei padrini, la data e l’ora di nascita, la via, il numero e il piano dove la piccola vide la prima luce e sentì il primo dolore, un principio come quello di tutta la gente, le grandi e le piccole differenze vengono dopo, alcuni di quelli che nascono entrano nelle enciclopedie, nelle storie, nelle biografie, nei cataloghi, nei manuali, nelle collezioni di ritagli, gli altri, con un pessimo paragone, sono come la nuvola che è passata senza lasciare alcun segno del proprio passaggio, se ha piovuto non è riuscita neanche a bagnare la terra. Come me, pensò il Signor José. Aveva l’armadio pieno di uomini e donne di cui si parlava quasi tutti i giorni sui quotidiani, sul tavolo l’atto di nascita di una persona sconosciuta, ed era come se li avesse appena messi sui piatti di una bilancia, cento da questo lato, uno dall’altro, e poi, sorpreso, scoprisse che tutto il gruppo non pesava più del singolo, che cento erano uguali a uno, che uno

valeva quanto cento. Se qualcuno fosse entrato a casa sua in quel momento e di colpo gli avesse domandato, Crede davvero che quell’uno che è anche lei, signore, valga come cento, che i cento del suo armadio, per non andare troppo lontano, valgano quanto vale lei, avrebbe risposto senza esitare, Mio caro signore, io sono un semplice scritturale ausiliario, nient’altro che un semplice scritturale ausiliario di cinquant’anni che non è stato promosso a funzionario, se pensassi di valere tanto quanto uno solo di quelli che ho lì conservati, o come uno qualsiasi di questi cinque meno famosi, non avrei cominciato a fare la mia collezione, Allora perché non smette di guardare il modulo di codesta donna sconosciuta, come se all’improvviso lei avesse più importanza di tutti gli altri, Proprio per questo, mio caro signore, perché è sconosciuta, Beh, insomma, lo schedario della Conservatoria è pieno di sconosciuti, Sono nello schedario, non sono qui, Che vuol dire, Veramente non lo so, In tal caso, lasci perdere i pensieri metafisici perché mi pare che la testa lei non ce l’abbia, vada a rimettere a posto il modulo e dorma in pace, È quanto spero di fare, come tutte le notti, il tono della risposta fu conciliante, ma il Signor José aveva qualcosa da aggiungere, Quanto ai pensieri metafisici, mio caro signore, mi permetta di dirle che qualsiasi testa è in grado di concepirli, quello che tante volte non riesce a fare è trovare le parole. Al contrario di quanto desiderava, il Signor José non riuscì a dormire con la solita relativa pace. Inseguiva nel labirinto confuso della sua testa senza metafisica la traccia dei motivi che l’avevano portato a copiare il modulo della donna sconosciuta, e non riusciva a trovarne uno solo che avesse potuto determinare, consapevolmente, l’inopinata azione. Riusciva solo a rammentare il movimento della sua mano sinistra che prendeva un modulo in bianco, subito dopo la mano destra che scriveva, gli occhi che passavano da un cartoncino all’altro, come se in realtà fossero loro che stavano trasportando le parole da lì a qui. Si ricordava anche di come, sorpreso di se stesso, era entrato tranquillamente nella Conservatoria Generale tenendo saldamente la torcia in mano, senza nervosismo, senza ansia, di come aveva rimesso i sei moduli a posto, di come l’ultimo era stato quello della donna sconosciuta, illuminato fino all’estremo istante dal fascio di luce della torcia, che poi scivolava verso il basso dileguandosi, scomparendo fra il cartoncino di una lettera prima e il cartoncino di una lettera dopo, un nome su un modulo, nient’altro. Nel cuore della notte, spossato per l’insonnia, accese la luce. Poi si alzò, indossò l’impermeabile sul pigiama e andò a sedersi al tavolo. Si addormentò molto più tardi, con la testa sull’avambraccio destro e la mano sinistra posata sulla copia di un modulo. 4. La decisione del Signor José apparve due giorni dopo. Generalmente non si dice che una decisione ci appare, gli uomini sono talmente gelosi della propria identità, per vaga che essa sia, e della propria autorità, per poca che ne abbiano, che preferiscono darci a intendere di aver riflettuto prima di fare l’ultimo passo, di aver ponderato i pro e i contro, di aver soppesato le possibilità e le alternative, e infine, dopo un immenso lavorio mentale, di aver preso la decisione. C’è da dire che le cose non sono mai andate così. Non verrà mai in mente a nessuno l’idea di mangiare senza sentire abbastanza appetito,

e l’appetito non dipende dalla volontà dell’individuo, si crea da solo, è il risultato di obiettive necessità del corpo, un problema fisico-chimico la cui soluzione, in modo più o meno soddisfacente, si ritroverà nel contenuto del piatto. Persino un atto tanto semplice come quello di uscire di casa per andare a comprare il giornale presuppone, non solo un sufficiente desiderio di ricevere informazioni, il quale, è bene chiarirlo, essendo un desiderio, è necessariamente appetito, effetto di specifiche attività fisico-chimiche del corpo, ancorché di diversa natura, ma presuppone anche, quell’atto quotidiano, per esempio la certezza, o la convinzione, o la speranza, non consapevoli, che il veicolo addetto alla distribuzione non sia in ritardo o che il chiosco dei giornali non sia chiuso per malattia o assenza volontaria del proprietario. D’altro canto, se persistessimo nell’affermare che le nostre decisioni siamo noi a prenderle, allora dovremmo iniziare con il chiarire, con il discernere, con il distinguere chi è, in noi, quello che ha preso la decisione e quello che poi la eseguirà, operazioni impossibili, ove ci siano. A rigore, noi non prendiamo decisioni, sono le decisioni che prendono noi. La prova la ritroviamo nel fatto che, passando la vita a compiere successivamente i più svariati atti, ciascuno di essi non lo facciamo precedere da un periodo di riflessione, di valutazione, di calcolo, al termine del quale, e solo allora, ci dichiareremmo in condizioni di decidere se andare a pranzare, o a comprare il giornale, o a cercare la donna sconosciuta. Sono queste le ragioni per cui il Signor José, anche se lo sottoponessero al più serrato degli interrogatori, non saprebbe dire come e perché lo prese la decisione, azzardiamo la spiegazione che ne darebbe, So soltanto che è successo la sera di mercoledì, mi trovavo in casa, e mi sentivo talmente stanco da non aver neanche avuto voglia di cenare, mi girava ancora la testa perché avevo passato tutto il santo giorno su quella scala, il capo dovrebbe capirlo che non ho più l’età per questo tipo di acrobazie, che non sono più un ragazzino, oltre a quel mio disturbo, Quale disturbo, Soffro di capogiri, di vertigini, attrazione dell’abisso, o come lo si voglia chiamare, Non se n’è mai lamentato, Non mi piace lamentarmi, È bello da parte sua, continui, Stavo pensando di mettermi a letto, no, non è vero, mi ero già tolto le scarpe, quando all’improvviso ho preso la decisione, Se ha preso la decisione, saprà di certo perché l’ha fatto, Penso di non averla presa io, dev’essere stata lei a prendermi, Le persone normali prendono decisioni, non ne vengono prese, Fino alla sera di mercoledì lo pensavo anch’io, Che cos’è successo la sera di mercoledì, Quello che le sto raccontando, avevo il modulo della donna sconosciuta sul comodino, mi sono messo a guardarlo come se fosse la prima volta, Ma l’aveva già guardato prima, Quasi non facevo altro, in casa, fin dal lunedì, Stava dunque maturando la decisione, Oppure lei, la decisione, aveva maturato me, Avanti, avanti, non mi venga di nuovo fuori con questa storia, Mi sono infilato nuovamente le scarpe, ho indossato la giacca e l’impermeabile e sono uscito, non ho pensato neanche di mettermi la cravatta, Che ora era, Circa le dieci e mezzo, Dov’è andato poi, Nella strada dove la donna sconosciuta è nata, Con quale intenzione, Volevo vedere il posto, il palazzo, la casa, Finalmente comincia ad ammettere che una decisione c’è stata e che, come doveva essere, è stata presa da lei, No signore, semplicemente ne ho cominciato ad avere coscienza, Per essere uno scritturale ausiliario non c’è

dubbio che sa ragionare, In genere non si bada agli scritturali ausiliari, non gli si fa giustizia, Prosegua, Il palazzo era là, c’era luce alle finestre, Si riferisce alla casa della donna, Sì, Che cosa ha fatto dopo, Sono rimasto lì per qualche minuto, A guardare, Sissignore, a guardare, Soltanto a guardare, Sissignore, soltanto a guardare, E dopo, Dopo nient’altro, Non ha bussato alla porta, non è salito, non ha fatto domande, Ma che idea la sua, non mi è passato neanche per la testa, a quell’ora di notte, Che ora era, A quel punto dovevano essere circa le undici e mezzo, È andato a piedi, Sì, E com’è tornato, Sempre a piedi, Ciò vuol dire che non ha testimoni, Che testimoni, Qualcuno che le avrebbe aperto la porta se fosse salito, il conducente di un tram o di un autobus, per esempio, E sarebbero testimoni di che, Del fatto che lei sia andato veramente nella strada della donna sconosciuta, E a che cosa servirebbero codesti testimoni, Per provare che non è stato tutto un sogno, Ho detto la verità, soltanto la verità e nient’altro che la verità, sono sotto giuramento, la mia parola dovrà bastare, Potrebbe bastare, forse, se non ci fosse nel suo racconto un particolare altamente accusatorio, incongruente, per così dire, Quale particolare, La cravatta, Che cosa c’entra la cravatta con questa faccenda, Un impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe non va da nessuna parte senza essersi messo la cravatta, è impossibile, sarebbe una mancanza contro la stessa natura, Le ho già detto che non ero in me, che sono stato preso dalla decisione, Questa sarà un’ulteriore prova che si è trattato di un sogno, Non vedo proprio come, Non c’è via d’uscita, o lei ammette di aver preso la decisione, come tutti, e io sono disposto a credere che si è recato senza cravatta nella strada della donna sconosciuta, una trasgressione nel comportamento professionale che per il momento non intendo esaminare, oppure insiste nell’affermare di essere stato preso dalla decisione, e questo, più l’ineludibile questione della cravatta, solo in uno stato di sogno sarebbe ammissibile, Le ripeto che la decisione non l’ho presa, ho guardato il modulo, mi sono infilato le scarpe e sono uscito, Allora ha sognato, Non ho sognato, Si è coricato, si è addormentato e ha sognato di andare nella strada della donna sconosciuta, Posso descriverle la strada, Dovrebbe dimostrarmi di non esserci mai passato prima, Posso dirle com’è il palazzo, Via, via, di notte tutti i palazzi sono bigi, È dei gatti che si suol dire che di notte sono bigi, Anche i palazzi, Allora non mi crede, No, Perché, se sono autorizzato a domandarglielo, Perché ciò che sostiene di aver fatto non rientra nella mia realtà, e quello che non rientra nella mia realtà non ha esistenza, Il corpo che sogna è reale, e dunque, salvo opinioni più autorevoli, dev’essere reale anche l’eventuale sogno che stia sognando, Il sogno possiede realtà soltanto come sogno, Vuol dire che la mia unica realtà è stata quella, Sì, è stata quella la sua unica realtà vissuta, Posso tornare al lavoro, Certo, ma si tenga pronto, perché dovremo occuparci ancora della faccenda della cravatta. Visto che si era felicemente liberato dell’inchiesta amministrativa sugli stampati scomparsi, il Signor José, per non perdere le vittorie dialettiche che aveva conquistato, si inventò nella sua testa la fantasia di questo nuovo dialogo, dal quale, malgrado il tono ironico e comminatorio dell’argomentatore, uscì facilmente vincitore, come una nuova lettura, più attenta, potrà provare. E lo fece con tale convinzione da essere addirittura capace di mentire a se stesso e poi di sostenere la menzogna senza rimorsi di coscienza, come se non fosse

lui il primo a sapere che effettivamente era entrato nel palazzo e aveva salito le scale, che aveva appoggiato l’orecchio alla porta della casa dove, secondo il modulo, la donna sconosciuta era nata. Certo, non si era azzardato a suonare il campanello, su questo punto aveva detto la verità, ma era rimasto qualche minuto nel buio del pianerottolo, immobile, teso, tentando di percepire i suoni che provenivano dall’interno, talmente curioso da dimenticare quasi la paura di essere colto di sorpresa e scambiato per un ladro di appartamenti. Aveva udito il pianto stizzoso di un bimbo in fasce, Dev’essere il figlio, una dolce ninnananna femminile, Sarà lei, tutt’a un tratto la voce di un uomo aveva detto passando dietro la porta, Quel bambino non sta un attimo zitto, il cuore del Signor José aveva sussultato di paura, se la porta si fosse aperta, e poteva benissimo accadere perché magari l’uomo stava per uscire, Chi è lei, che cosa vuole, gli avrebbe domandato, Che cosa devo fare adesso, si domandava il Signor José, e invece, poveraccio, non fece proprio niente, rimase lì paralizzato, inerme, ma per sua fortuna il padre del piccino non era un amante di quella vecchia abitudine maschile di andarsene al bar dopo cena per chiacchierare con gli amici. Poi, quando di nuovo si udì solo il pianto del bambino, il Signor José cominciò a scendere le scale pian pianino, senza accendere la luce, sfiorando leggermente la parete con la mano sinistra per non perdere l’equilibrio, le curve del corrimano erano troppo strette, a un certo punto fu quasi soffocato da un’ondata di terrore pensando a cosa sarebbe successo se un’altra persona, silenziosa, invisibile ai suoi occhi, in quel momento si fosse trovata a salire le scale, sfiorando la parete con la mano destra, ben presto si sarebbero scontrati, la testa dell’altro avrebbe urtato contro il suo petto, sarebbe stato di sicuro molto peggio che trovarsi in cima alla scala con una ragnatela a lambirgli il viso, poteva anche essere qualcuno della Conservatoria Generale che l’avesse seguito fin lì con l’intento di coglierlo in flagrante delitto e di poter aggiungere così al procedimento disciplinare, probabilmente già in corso, il tassello incriminatorio inconfutabile che ancora mancava. Quando il Signor José raggiunse finalmente la strada le gambe gli tremavano, il sudore gli inondava la fronte, Sono tutto un fascio di nervi, si rimproverò. Poi, farneticante, come se il cervello gli si fosse all’improvviso sregolato e spinto in tutte le direzioni, come se il tempo si fosse tutto rannicchiato, da dietro in avanti e da davanti all’indietro, compresso in un istante compatto, pensò che quella creatura che aveva udito piangere al di là della porta fosse, trentasei anni prima, la donna sconosciuta, che lui fosse un ragazzo di quattordici anni senza alcun motivo di andarsene in cerca di qualcuno, tanto meno a quell’ora di notte. Immobile sul marciapiede, guardò la strada come se non l’avesse ancora vista, trentasei anni prima i lampioni dell’illuminazione pubblica davano una luce più pallida, la strada non era asfaltata, ma di sanpietrini, l’insegna del negozio all’angolo annunciava scarpe e non una rosticceria. Il tempo si mosse, riprese a dilatarsi a poco a poco, poi più velocemente, sembrava che desse dei violenti scossoni, come se si trovasse dentro un uovo e forzasse per uscire, le vie si susseguivano, si sovrapponevano, i palazzi apparivano e scomparivano, cambiavano colore, aspetto, tutte le cose ricercavano ansiose i loro posti prima che la luce dell’alba venisse a scambiarli di nuovo. Il tempo si era messo a contare i giorni fin dall’inizio, adesso con la tabellina delle moltiplicazioni per recuperare il ritardo,

e lo fece con tale precisione che il Signor José aveva di nuovo cinquant’anni quando giunse a casa. Quanto al bambino piagnucoloso, era più vecchio solo di un ora, il che dimostra che il tempo, ancorché gli orologi vogliano convincerci del contrario, non è lo stesso per tutti quanti. Il Signor José trascorse una notte difficile, che andò ad aggiungersi alle ultime che non erano state migliori. Tuttavia, malgrado le fortissime emozioni vissute durante la breve escursione notturna, non appena si era tirato la rovescina del lenzuolo sopra l’orecchio, com’era sua abitudine, era sprofondato in un sonno che chiunque, a prima vista, avrebbe definito profondo e riparatore, ma ne uscì ben presto, bruscamente, come se qualcuno, senza rispetto né considerazione, l’avesse scosso per le spalle. Lo risvegliò un’idea inattesa che gli fece irruzione in pieno sonno, in modo tanto fulminante che nel frattempo neanche un sogno vi si poté intrecciare, l’idea che forse la donna sconosciuta, quella del modulo, era in fin dei conti colei che aveva udito cullare il neonato, quella con il marito impaziente, in tal caso la sua ricerca sarebbe stata conclusa, e conclusa stupidamente, nel preciso momento in cui doveva cominciare. Un’angoscia repentina gli strinse la gola mentre la ragione rattristata tentava di resistere, voleva che lui mostrasse indifferenza, che dicesse, Meglio così, avrò meno da lavorare, ma l’angoscia non mollava, continuava a stringere, a stringere, e adesso era lei che stava domandando alla ragione, E che cosa farà, se non può più realizzare quello che ha pensato, Farà quello che ha sempre fatto, ritaglierà giornali, fotografie, notizie, interviste, come se non fosse successo niente, Poveraccio, non credo ci riesca, Perché, L’angoscia, quando arriva, non se ne va via tanto facilmente, Potrà scegliere un altro modulo e andare in cerca di quell’altra persona, Il caso non sceglie, propone, è stato il caso a portargli la donna sconosciuta, solo al caso compete avere voce in capitolo, Nello schedario gli sconosciuti non gli mancano di certo, Ma gli mancano i motivi per sceglierne uno e non un altro, uno in particolare, e non uno qualsiasi fra tutti gli altri, Non credo sia una buona norma di vita lasciarsi guidare dal caso, Buona norma o no, conveniente o meno, è stato il caso a mettergli in mano quel modulo, E se la donna fosse la stessa, Se la donna fosse la stessa, allora il caso sarebbe quello, Senza altre conseguenze, Chi siamo noi per parlare di conseguenze, se della loro interminabile fila che incessantemente ci viene incontro possiamo vedere solo la prima, Significa forse che qualcosa può ancora accadere, Non qualcosa, tutto, Non capisco, È solo perché viviamo tanto assorti che non ci accorgiamo come quello che via via ci accade lasci intatto, in ogni momento, ciò che ci può accadere, Questo vuol dire che quanto ci può accadere è in continua rigenerazione, Non solo si rigenera ma si moltiplica, ci basta paragonare due giorni successivi, Non ho mai pensato che fosse così, Sono cose che solo gli angosciati conoscono bene. Come se la conversazione non lo riguardasse, il Signor José si rivoltava nel letto senza riuscire a prendere sonno. Se la donna è la stessa, ripeteva, se dopotutto la donna è la stessa, straccio quel maledetto modulo e non ci penso più. Sapeva che stava solo tentando di mascherare la delusione, sapeva che non avrebbe sopportato di ritornare ai gesti e ai pensieri di sempre, era come se fosse stato sul punto di imbarcarsi alla scoperta dell’isola misteriosa e all’ultimo istante, con il piede già sul pontile, gli comparisse uno porgendogli la

mappa, Non vale la pena che tu parta, l’isola sconosciuta che volevi trovare è già qui, guarda, tanto di latitudine, tanto di longitudine, ci sono porti e città, montagne e fiumi, tutti coi loro nomi e le loro storie, è meglio che ti rassegni a essere chi sei. Ma il Signor José non voleva rassegnarsi, continuava a guardare l’orizzonte che sembrava perduto, e all’improvviso, come se una nuvola nera si fosse allontanata per far apparire il sole, capì che l’idea che l’aveva svegliato era ingannevole, si ricordò che dal modulo risultavano due annotazioni, una di matrimonio e una di divorzio, e quella donna del palazzo era certamente sposata, se fosse stata la stessa avrebbe dovuto esserci nel modulo la registrazione di un nuovo matrimonio, anche se è vero che a volte la Conservatoria si sbaglia, ma a questo il Signor José non volle pensare. 5. Adducendo ragioni private di incoercibile forza maggiore, ma che chiese il permesso di non spiegare, rammentando in ogni caso che in venticinque anni di onesto e sempre puntuale servizio era la prima volta che lo faceva, il Signor José richiese l’autorizzazione per uscire un’ora prima. Seguendo le disposizioni che regolavano i complessi rapporti gerarchici della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, cominciò con il formulare la richiesta al funzionario della sua ala, dalla cui buona o cattiva disposizione di spirito dipendevano i termini in cui la richiesta veniva trasmessa al vice corrispondente, il quale, a sua volta, omettendo o aggiungendo parole, accentuando questa sillaba o cancellando quella, poteva fino a un certo punto influire sulla decisione finale. A tale riguardo, però, sono molto più numerosi i dubbi delle certezze, in quanto i motivi che inducono il conservatore a concedere o negare queste o altre autorizzazioni sono noti solo a lui, giacché non esiste memoria né registrazione, in tanti anni di Conservatoria, di una sola comunicazione, scritta o verbale, suffragata da relativa documentazione. Si ignoreranno dunque per sempre le ragioni per cui il Signor José fu autorizzato a uscire mezz’ora prima invece dell’ora che aveva richiesto. È legittimo immaginare, benché si tratti di una speculazione gratuita, non verificabile, che il funzionario prima, o il vice poi, o entrambi, abbiano fatto presente che un’assenza tanto prolungata avrebbe influito negativamente sul servizio, è molto più probabile che il capo abbia solo deciso di cogliere l’occasione per umiliare di nuovo i subordinati con una delle sue esibizioni di autorità discrezionale. Informato della decisione dal funzionario, a cui l’aveva trasmessa il vice, il Signor José si regolò con il tempo e concluse che, se non voleva arrivare tardi a destinazione, se non voleva che gli spuntasse davanti il padrone di casa, di rientro dal lavoro, doveva prendere un tassì, un lusso più che raro nella sua vita. Nessuno lo stava aspettando, poteva anche darsi che a quell’ora non ci fosse nessuno in casa, ma lui desiderava soprattutto non essere costretto a confrontarsi con l’impazienza dell’uomo, sarebbe stato per lui molto più imbarazzante dover rendere conto ai sospetti di una persona così che rispondere alle domande di una donna con un figlio fra le braccia. Alla porta l’uomo non comparve, né in seguito se ne udì la voce dentro casa, quindi doveva essere ancora al lavoro o era sulla via del ritorno, e la donna non aveva il figlio fra le braccia. Il Signor José si rese conto immediatamente che la donna sconosciuta, che fosse sposata o divorziata, non

poteva assolutamente essere quella che aveva davanti a sé. Per quanto ben conservata fosse, per quanto il tempo l’avesse risparmiata, non era naturale che qualcuno avesse trentasei anni nel corpo e sembrasse averne meno di venticinque nel viso. Il Signor José avrebbe potuto semplicemente fare dietrofront, farfugliare una spiegazione rapida, dire per esempio, Scusi, mi sono sbagliato, cercavo un’altra persona, ma, in una maniera o nell’altra, un capo del suo filo di Arianna, per usare il linguaggio mitologico dell’ordine di servizio, si trovava proprio lì, senza contare, inoltre, la ragionevole probabilità che in casa potevano vivere altre persone, e che fra di loro poteva esserci l’oggetto della sua ricerca, anche se, come siamo venuti a sapere, lo spirito del Signor José rifiuta con veemenza tale ipotesi. Infatti tirò fuori di tasca il modulo, e intanto diceva, Buonasera signora, Buonasera, che cosa desidera, domandò la donna, Sono un impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe e mi hanno incaricato di investigare su certi dubbi che sono sorti relativamente all’iscrizione di una persona che sappiamo nata in questa casa, Né mio marito né io siamo nati qui, solo nostra figlia, che adesso ha tre mesi, suppongo non si tratti di lei, Che idea, la persona che sto cercando è una donna di trentasei anni, E io ne ho ventisette, Non può essere la stessa, dunque, disse il Signor José, e subito dopo, Lei come si chiama. La donna glielo disse, lui fece una pausa per sorridere, poi domandò, Vive da molto tempo in questa casa, Da due anni, Ha conosciuto le persone che vi risiedevano prima, queste, e le lesse il nome della donna sconosciuta e i nomi dei genitori, Non ne sappiamo niente, la casa era libera e mio marito ha trattato l’affitto con il procuratore del proprietario, C’è nel palazzo qualche vecchio inquilino, Al pianterreno a destra vive una signora di una certa età, a quanto ho sentito dire è l’inquilina più vecchia, Probabilmente trentasei anni fa non viveva ancora qui, oggi la gente si trasferisce spesso, Questo non glielo so dire, sarà meglio che le parli personalmente, e adesso devo andare, mio marito sta per arrivare e non gli piace vedermi chiacchierare con estranei, inoltre stavo preparando la cena, Sono un impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, non posso essere un estraneo, e sono venuto per servizio, se l’ho disturbata le chiedo scusa. Il tono urtato del Signor José addolcì la donna, Suvvia, nessun disturbo, volevo solo dire che, se ci fosse stato mio marito, per prima cosa le avrebbe chiesto la credenziale, Le mostro il mio tesserino da impiegato, guardi, Ah, benissimo, si chiama Signor José, ma quando ho detto una credenziale volevo dire un documento ufficiale in cui si facesse menzione della faccenda su cui è incaricato di indagare, Il conservatore non ha pensato che potessi incontrare delle diffidenze, Ognuno ha il proprio carattere, e la vicina del pianterreno, quella poi, non ne parliamo neanche, non apre la porta a nessuno, io sono diversa, a me piace chiacchierare con la gente, La ringrazio per la cortesia con cui mi ha ricevuto, Mi dispiace solo di non esserle stata più utile, Al contrario, mi ha aiutato molto, ha menzionato la signora del pianterreno e ha pensato alla credenziale, Meno male che la pensa così. La conversazione pareva dovesse continuare per qualche altro minuto, ma la tranquillità dentro casa fu improvvisamente interrotta dal pianto del bimbo, che doveva essersi svegliato, È il suo bambino, disse il Signor José, Non è un bambino, è una bambina, gliel’ho già detto, sorrise la donna, e sorrise anche il Signor José. In quel momento sbatté la porta della strada e si accese la luce delle scale, È mio

marito, lo riconosco dal modo di entrare, sussurrò la donna, se ne vada via e faccia finta di non avermi parlato. Il Signor José non scese. Senza rumore, in punta di piedi, salì rapidamente fino al pianerottolo di sopra e lì rimase, accostato alla parete, con il cuore palpitante come se stesse vivendo una pericolosa avventura, mentre i passi decisi di un uomo giovane aumentavano e si avvicinavano. Suonò il campanello, fra l’apertura e la chiusura della porta di casa si udì ancora il pianto del bambino, poi un grande silenzio riempì la tromba delle scale. Trascorso un minuto, si spense la luce generale. Solo allora il Signor José notò che quasi tutto il suo dialogo con la donna era avvenuto, come se entrambi avessero qualcosa da occultare, nella penombra complice dell’interno del palazzo, complice fu l’inattesa parola che gli venne in mente, Complice di che cosa, complice perché, si domandò, certo è che la donna non aveva riacceso la luce che, dopo le prime parole che si erano scambiati, si era spenta. Cominciò infine a scendere le scale, prima con la massima cautela, poi frettolosamente, si fermò solo un istante in ascolto davanti alla porta del pianterreno a destra, all’interno si udiva un suono che doveva provenire da una radio, non pensò di suonare il campanello, avrebbe rimandato la nuova indagine al fine settimana, a sabato o domenica, ma a quel punto non l’avrebbero colto in fallo, si sarebbe presentato con la credenziale in mano, investito di un’autorità formale che nessuno avrebbe osato mettere in dubbio. Una credenziale falsa, è chiaro, ma che gli avrebbe evitato, con l’irresistibile forza di un timbro ufficiale e di un sigillo a secco autentici, la fatica di dover fugare le diffidenze prima di entrare nel nocciolo della questione. Quanto alla firma del capo, si sentiva assolutamente tranquillo, non era credibile che l’anziana signora del pianterreno a destra avesse mai visto la firma del conservatore, i cui florilegi, a pensarci bene, grazie alla sua stessa fantasia ornamentale, non sarebbero stati molto difficili da imitare. Se tutto fosse andato bene questa volta, com’era sicuro che sarebbe accaduto, avrebbe continuato a usare il documento ogniqualvolta avesse incontrato o previsto qualche difficoltà nelle future indagini, poiché era convinto che la ricerca non sarebbe finita a quel pianterreno. Supponendo che l’inquilina fosse del periodo in cui la famiglia della donna sconosciuta abitava in quel palazzo, poteva darsi che comunque non si conoscessero, che tutto si riducesse, nella memoria stanca dell’anziana donna, a qualche vago ricordo, dipendeva dagli anni che erano trascorsi dal trasferimento della famiglia del secondo piano in qualche altro punto della città. O del paese, o del mondo, pensò preoccupato, mentre ormai si trovava in strada. Le persone famose della sua collezione, dovunque vadano, hanno sempre un giornale o una rivista che ne segue la pista e le fiuta per una fotografia in più, per una domanda in più, ma della gente normale nessuno vuol saperne, nessuno si interessa veramente, nessuno si preoccupa di sapere che cosa fa, né cosa pensa, né cosa sente, anche nei casi in cui si vuole far credere il contrario, è finto. Se la donna sconosciuta fosse andata a vivere all’estero, sarebbe stata fuori della sua portata, come se fosse morta, Punto, qui finirebbe la storia, mormorò il Signor José, ma subito dopo rifletté che forse non sarebbe stato così, che lei, nell’andarsene via, poteva aver lasciato almeno una vita dietro di sé, magari solo una vita breve, quattro anni, cinque, quasi nulla, oppure quindici, o venti, un incontro, un’infatuazione, una delusione, qualche sorriso, qualche lacrima, quello che a prima vista è uguale

per tutti ma in realtà è diverso per ciascuno. E diverso anche di volta in volta. Arriverò dove potrò, concluse il Signor José con una serenità che non sembrava appartenergli. Come se fosse la conclusione logica di ciò che aveva pensato, entrò in una cartoleria e comprò un quadernone a righe, di quelli usati dagli studenti per appuntare le materie di insegnamento a mano a mano che credono di apprenderle. La falsificazione della credenziale non gli portò via molto tempo. Venticinque anni di quotidiana pratica calligrafica sotto la vigilanza di funzionari zelanti e vicecapi esigenti gli erano valsi un pieno dominio delle falangi, del polso e del palmo della mano, un’assoluta fermezza sia nelle linee curve sia nelle linee rette, un senso quasi istintivo dei grossi e dei sottili, una nozione perfetta del grado di fluidità e viscosità degli inchiostri che, messi alla prova in questa occasione, diedero come risultato un documento che poteva resistere alle investigazioni della più potente delle lenti d’ingrandimento. Accusatorie, solo le impronte digitali e le invisibili tracce di sudore che rimasero sulla carta, ma la probabilità che venisse eseguito uno di questi esami era, ovviamente, infima. Il più competente perito in grafologia, chiamato a deporre, avrebbe giurato che il documento in questione era di pugno e calligrafia del capo della Conservatoria, e tanto autentico come se l’avesse scritto in presenza di testimoni. La redazione della credenziale, lo stile, il vocabolario usato, avrebbe addotto a sua volta uno psicologo a sostegno del parere del caro collega, mostrano ampiamente che l’autore è persona estremamente autoritaria, dotata di un carattere duro, senza flessibilità né apertura, sicuro delle proprie ragioni, sprezzante dell’opinione altrui, come persino un bambino potrebbe facilmente concludere dalla lettura del testo, che così recita, In nome dei poteri che mi sono stati conferiti e che sotto giuramento mantengo, applico e difendo, in qualità di Conservatore di questa Conservatoria Generale dell’Anagrafe, rendo noto a tutti coloro che, civili o militari, privati o pubblici, vedano, leggano e consultino questa credenziale scritta e firmata di mio pugno, che Tizio, scritturale ausiliario al servizio mio e della Conservatoria Generale che dirigo, governo e amministro, ha ricevuto direttamente da me l’ordine e l’incarico di accertare e appurare tutto quanto sia relativo alla vita passata, presente e futura di Caia, nata in questa città il giorno tot, figlia di Sempronio e di Sempronia, e che pertanto, senza ulteriori comprovazioni, si devono riconoscere in lui, come suoi propri e per tutto il tempo che durerà l’indagine, i poteri assoluti che, tramite la presente e per questo caso, delego alla sua persona. Così richiedono le convenienze del servizio di Conservatoria e così ha deciso la mia volontà. Si esegua. Tremante di paura, dopo aver finito di leggere a gran fatica l’impressionante foglio, il famoso bambino è corso a cercare protezione fra le braccia della mamma, domandandosi com’è possibile che uno scritturale ausiliario come questo Signor José, di natura tanto pacifica, dalle abitudini tanto riservate, abbia potuto concepire, immaginare, inventare nella sua testa, senza disporre di un modello precedente su cui basarsi, dal momento che di norma non si sono mai neanche verificate le necessità tecniche per cui la Conservatoria Generale abbia mai dovuto fornire delle credenziali, l’espressione di un potere a tal punto dispotico, che è il minimo che di questo si possa dire. Quella povera creatura spaventata dovrà mangiare ancora molto pane e molto sale prima di cominciare ad apprendere dalla vita, e

a quel punto non la sorprenderà più scoprire come, all’occasione, persino i buoni possono diventare duri e prepotenti, sia pure solo scrivendo una credenziale, falsificata o no. Diranno costoro per discolparsi, Ma quello non ero io, stavo solo scrivendo, agendo in nome di un’altra persona, e nel migliore dei casi vogliono solo illudere se stessi, giacché, in realtà, la durezza e la prepotenza, quando non la crudeltà, si stavano manifestando proprio dentro di loro, e non dentro l’altro, visibile o invisibile. Anche così, valutando quello che è successo fino a ora dai suoi effetti, è poco probabile che dalle intenzioni e dalle opere future del Signor José possano derivare seri pregiudizi al mondo, e dunque lasciamo provvisoriamente in sospeso il nostro giudizio mentre altre azioni, più chiarificatrici, sia nel buono che nel cattivo senso, non ne disegnino il ritratto definitivo. Il sabato, indossato l’abito migliore, con la camicia lavata e stirata, la cravatta più o meno giusta, quasi abbinata, dopo essersi infilato in una tasca interna della giacca la busta timbrata con la credenziale, il Signor José prese un tassì alla porta di casa, non per guadagnare tempo, la giornata era tutta sua, ma perché le nuvole minacciavano pioggia e lui non voleva presentarsi alla signora del pianterreno a destra gocciolante e con l’orlo dei pantaloni schizzato di fango, rischiando di farsi chiudere la porta in faccia prima di poterle spiegare il motivo per cui era lì. Si sentiva eccitato immaginando come l’avrebbe ricevuto l’anziana signora, l’effetto che avrebbe provocato sulla vecchia, il termine peggiorativo gli è venuto senza pensarci, la lettura di un foglio come quello, intimativo e intimidatorio, certuni reagiscono al contrario di come ci sarebbe da aspettarsi, speriamo non sia questo il caso. Forse aveva adottato nella redazione termini troppo duri e prepotenti, ma la verosimiglianza gli imponeva di essere fedele al carattere del conservatore tanto come lo era alla calligrafia, e inoltre tutti sanno che, come sicuramente le mosche non si prendono con l’aceto, altrettanto sicuramente alcune non si fanno prendere neanche con il miele. Vedremo, sospirò. La prima cosa che poté vedere di lì a poco, dopo aver risposto alle domande insistenti che provenivano dall’interno, Chi è, Che cosa desidera, Chi l’ha mandata, Che cosa c’entro io, fu che la signora del pianterreno a destra, in fin dei conti, non era tanto anziana quanto aveva immaginato, non erano da anziana quegli occhi vispi, quel naso diritto, quella bocca sottile ma decisa, senza gli angoli all’ingiù, l’età avanzata le si notava piuttosto nella flaccidità della pelle del collo, probabilmente si fissò su quel particolare perché già cominciava a notare in se stesso questo segnale ineludibile di deterioramento fisico, e aveva solo cinquant’anni. La donna non apriva completamente la porta, diceva e tornava a dire che le faccende del vicinato non le interessavano, una risposta peraltro del tutto pertinente, visto che il Signor José, prendendo una strada sbagliata, aveva iniziato con l’annunciare che stava cercando una persona del secondo piano a sinistra. L’equivoco parve risolto quando infine pronunciò il nome della donna sconosciuta, allora la porta si aprì un po’ di più, per tornare subito dopo alla posizione precedente, Conosce codesta signora, domandò il Signor José, Sì, l’ho conosciuta, disse la donna, Desidererei farle alcune domande, Ma lei chi è, Sono un impiegato autorizzato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, gliel’ho già detto, E come faccio a sapere se è vero, Ho una credenziale firmata dal mio conservatore, Io sono a casa mia, non voglio essere disturbata, In

questi casi è doveroso collaborare con la Conservatoria Generale, Quali casi, Il chiarimento di dubbi esistenti all’Anagrafe, Perché non gliel’andate a domandare piuttosto a lei, Non conosciamo il suo indirizzo attuale, se lei lo conosce me lo dica, e non la disturberò più, Sono quasi trent’anni, se non mi sbaglio nei conti, che non ho più notizie di codesta persona, Che allora era una bambina, Sì. Con quest’unica parola la donna fece capire che considerava la conversazione conclusa, ma il Signor José non desisteva, se doveva perdere per cento, allora tanto valeva perdere per mille. Tirò fuori di tasca la busta, l’aprì e ne estrasse, con una lentezza che avrebbe dovuto sembrare minacciosa, la credenziale, Legga, ordinò. La donna scosse il capo, Io non leggo niente, questa storia non mi riguarda, Se non legge tornerò accompagnato dalla polizia, poi sarà peggio per lei. La donna si rassegnò a prendere il foglio che lui le porgeva, accese una luce nel corridoio, inforcò un paio di occhiali che teneva appesi al collo e lesse. Poi restituì il foglio e liberò il passaggio, È meglio che entri, saranno già tutti lì ad ascoltarci dietro la porta. Dinanzi all’alleanza non dichiarata che il pronome personale sembrava rappresentare, il Signor José capì di aver vinto lo scontro. In qualche indefinibile modo, era la prima vittoria obiettiva della sua vita, una vittoria fraudolentissima, certo, ma se c’è tanta gente che continua a predicare che il fine giustifica i mezzi, chi era lui per smentirla. Entrò senza sfoggio, come un vincitore la cui generosità gli impedisse di cedere alla facile tentazione di umiliare il vinto, ma che, in ogni caso, avrebbe gradito che la propria grandezza fosse notata. La donna lo condusse in un salottino accuratamente ordinato e pulito, arredato con un gusto d’altri tempi. Gli offrì una sedia, si sedette anche lei e, senza dargli il tempo di rivolgerle altre domande, disse, Sono stata la sua madrina di battesimo. Il Signor José si sarebbe aspettato tutte le rivelazioni, tranne questa. Era andato lì come un semplice impiegato che esegue gli ordini dei superiori, e dunque senza alcun coinvolgimento di natura personale, così era necessario che lo vedesse quella donna seduta lì davanti a lui, ma solo lui seppe lo sforzo che dovette fare per non mettersi a sorridere beatamente deliziato. Tirò fuori dall’altra tasca la copia del modulo, la fissò lungamente come se stesse imparando a memoria tutti i nomi che vi erano scritti e infine disse, E suo marito è stato il padrino, Sì, Potrò parlare anche con lui, Sono vedova, Ah, nella sorda esclamazione ci fu un vero e proprio sollievo, ma anche un sentimento simulato, era una persona in meno con cui dover combattere. La donna disse, C’intendevamo bene, cioè le due famiglie, la nostra e la loro, eravamo amici, quando nacque la bambina c’invitarono a farle da padrini, Quanti anni aveva la bambina quando si trasferirono, Credo che andasse per gli otto anni, Ha detto poco fa che non ne ha più notizie da quasi trent’anni, Infatti, Vuole spiegarsi meglio, Ricevetti una lettera poco tempo dopo il loro trasferimento, Da chi, Da lei, Che cosa diceva, Niente di particolare, era la lettera che una bambina di non più di otto anni, con le poche parole che conosce, può scrivere alla madrina, Ce l’ha ancora, No, E i genitori, non le hanno mai scritto, No, Non l’ha trovato strano, No, Perché, Sono questioni intime, non c’è niente da indagare, Per la Conservatoria Generale dell’Anagrafe non esistono questioni intime. La donna lo guardò fisso, Chi è lei, Chi sono gliel’ha appena detto la mia credenziale, Mi ha detto solo come si

chiama, lei è il Signor José, Sì, sono il Signor José, Lei può farmi tutte le domande che vuole, e io non posso fargliene nessuna, Quanto a me, è competente a interrogarmi solo un impiegato della Conservatoria di grado superiore, Lei è una persona fortunata, può mantenere i suoi segreti, Non credo che uno sia fortunato solo perché può mantenere i propri segreti, È fortunato, Quello che sono io non interessa, le ho già spiegato che solo i superiori sono autorizzati a farmi domande, Ha dei segreti, Non rispondo, Ma io dovrò rispondere, È meglio che lo faccia, Che cosa vuole che le dica, Quali erano codeste questioni intime. La donna si passò la mano sulla fronte, abbassò lentamente le palpebre avvizzite, poi disse senza aprire gli occhi, La madre della bambina sospettò che avessi una relazione intima con il marito, Ed era vero, Sì, da lungo tempo, Fu il motivo per cui si trasferirono, Sì. La donna aprì gli occhi e domandò, Le piacciono i miei segreti, A me interessa solo quello che riguarda la persona di cui sono alla ricerca, d’altro canto non mi è stata concessa l’autorizzazione per altro, Allora non vuol sapere che cosa accadde in seguito, Ufficialmente no, Ma, privatamente, forse, Non è mia abitudine andare a spiare le vite altrui, disse il Signor José dimentico dei centoquaranta e passa che aveva nell’armadio, e poi soggiunse, Ma certamente non sarà accaduto niente di tanto straordinario, visto che mi ha detto di essere vedova, Ha buona memoria, È una condizione fondamentale se si vuole fare l’impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe; il mio capo, per esempio, solo perché lei se ne faccia un’idea, sa a memoria tutti i nomi che esistono e sono esistiti, tutti i nomi e tutti i cognomi, E questo a che serve, Il cervello di un conservatore è come un duplicato della Conservatoria, Non capisco, Visto che è capace, come in effetti è, di realizzare tutte le combinazioni di nomi e cognomi, il cervello del mio capo non solo conosce i nomi di tutte le persone che sono vive e di tutte quelle che sono morte, ma potrebbe anche dirle come si chiameranno tutte quelle che nasceranno da qui alla fine del mondo, Lei ne sa molto di più del suo capo, Neanche per sogno, in confronto a lui non valgo niente, ecco perché lui è conservatore e io non sono altro che un semplice scritturale ausiliario, Conoscete entrambi il mio nome, È vero, Ma lui, di me, non sa niente di più del mio nome, In questo ha ragione, la differenza è che lui lo conosceva già da prima, mentre io ne sono venuto a conoscenza dopo aver ricevuto questa missione, E con un balzo gli è passato avanti, ora si trova qui, a casa mia, può vedermi in faccia, mi ha sentita dire che ho ingannato mio marito e, in tutti questi anni, lei è l’unica persona a cui l’ho detto, cos’altro le serve per convincersi che il suo capo, in confronto a lei, non è che un ignorante, Non dica questo, è sconveniente, Ha qualche altra domanda da farmi, Che domanda, Se, per esempio, sono stata felice nel matrimonio dopo quanto era successo, È una faccenda estranea alla pratica, Niente è estraneo, così come tutti i nomi sono nella testa del suo capo, anche la pratica di una singola persona è la pratica di tutte, Lei la sa lunga, Naturale, ho vissuto a lungo, Io ho già cinquant’anni e, al suo confronto, non so nulla, Non immagina quanto si apprende fra i cinquanta e i settant’anni, È questa la sua età, Poco di più, È stata felice dopo quanto era successo, Alla fin fine, allora, le interessa, Il fatto è che so poco della vita della gente, Proprio come il suo capo, proprio come la sua Conservatoria, Suppongo di sì, Fui perdonata, se è questo quello che vuole sapere, Perdonata, Sì, capita spesso, perdonatevi l’un l’altro, come si suol dire, La frase non è proprio così, è

amatevi l’un l’altro, È la stessa cosa, si perdona perché si ama, si ama perché si perdona, lei è un bambino, ha ancora molto da apprendere, Mi pare di sì, È sposato, No, E non ha mai vissuto con una donna, Viverci, quello che si dice viverci, non l’ho mai fatto, Solo legami passeggeri, temporanei, Neanche questo, vivo da solo, quando il bisogno incalza faccio quello che fanno tutti, vado in cerca e pago, Ha notato che sta rispondendo ad alcune domande, Sì, ma adesso non m’importa, magari si impara proprio così, rispondendo, Le spiegherò una cosa, Mi dica, Comincerò con il domandarle se sa quante siano le persone coinvolte in un matrimonio, Due, l’uomo e la donna, Nient’affatto, nel matrimonio ci sono tre persone, c’è la donna, c’è l’uomo, e c’è quella che io chiamo una terza persona, la più importante, quella persona costituita dall’uomo e dalla donna insieme, Non ci avevo mai pensato, Se, per esempio, uno dei due commette adulterio, il più offeso, quello che riceve il colpo più profondo, per quanto le sembri incredibile, non è l’altro, ma questo nuovo altro che è la coppia, non è il singolo, ma i due insieme, E si può vivere davvero con quell’essere singolo fatto di due, per me è già tanto faticoso vivere con me stesso, La cosa più comune nel matrimonio è che si veda l’uomo o la donna, o entrambi, ciascuno per proprio conto, che vogliono distruggere quel terzo che essi sono, quello che resiste, quello che vuole sopravvivere comunque, È un’aritmetica troppo complicata per me, Si sposi, trovi una donna, e poi mi dirà, Via, via, ormai non è più tempo, Meglio che non scommetta, chi lo sa cosa troverà quando giungerà alla fine della sua missione, o come l’ha chiamata, I dubbi che mi hanno incaricato di chiarire sono dubbi della Conservatoria Generale, non miei, E quali sono questi dubbi, se non è chiederle troppo, Ufficialmente sono tenuto al segreto, non posso rispondere, Il segreto le frutta ben poco, Signor José, fra poco dovrà andarsene, e se ne andrà via sapendo le stesse cose di quando è entrato, niente, Questo è vero, e il Signor José scosse il capo avvilito. La donna lo guardò come se lo studiasse, e dopo gli domandò, Da quanto tempo si occupa di questa indagine, A rigor di termini, ho cominciato oggi, ma il conservatore sarà già arrabbiato quando mi presenterò a mani vuote, è una persona molto impaziente, Sarebbe una grave ingiustizia nei confronti di un impiegato cui non dispiace, a quanto pare, lavorare di sabato, Di mio non avevo niente da fare, era un modo per anticiparmi un po’ di lavoro, Ma, in realtà, non ha anticipato granché, Dovrò pensare, Chieda consiglio al suo capo, i capi ci sono apposta, Non lo conosce, lui non ammette che gli si facciano domande, dà ordini e basta, E adesso, Gliel’ho detto, dovrò pensare, Allora pensi, Ma lei, signora, non sa proprio niente, dove sono andati a vivere quando si sono allontanati da qui, nella lettera che ha ricevuto doveva esserci l’indirizzo di chi la spediva, Doveva esserci, è vero, ma la lettera non esiste più, E lei non ha risposto, No, Perché, Fra uccidere e lasciar morire, ho preferito uccidere, parlo in senso figurato, chiaro, Sono in un vicolo cieco, Forse no, Che cosa vuol dire, Mi dia un foglio di carta e qualcosa per scrivere. Con le mani tremanti, il Signor José le porse una penna, Può scrivere anche qui, sui bordi del modulo, è una copia. La donna si mise gli occhiali e scrisse rapidamente alcune parole, Ecco, ma guardi che non è il loro indirizzo, è solo il nome della strada dove c’era la scuola che frequentava la mia figlioccia quando si trasferirono, forse lì riuscirà ad arrivare dove vuole, ammesso che la scuola

ci sia ancora. Lo spirito del Signor José si trovò diviso fra la gratitudine personale per il favore e la contrarietà ufficiale per il fatto che avesse tardato tanto. Liquidò la gratitudine dicendo, Grazie, seccamente, e, sebbene in tono moderato, lasciò trasparire la contrarietà, Non riesco a capire perché abbia tardato tanto a darmi l’indirizzo della scuola, pur sapendo che qualsiasi informazione, per quanto insignificante potesse sembrare, sarebbe stata per me di vitale importanza, Non sia esagerato, Nonostante tutto le sono molto grato, e lo dico sia a nome mio personale che a nome della Conservatoria Generale dell’Anagrafe che rappresento, ma insisto, vorrei che mi spiegasse perché ha tardato tanto a darmi l’indirizzo, La ragione è molto semplice, non ho nessuno con cui parlare. Il Signor José guardò la donna, lei stava guardando lui, non vale la pena di spendere parole a spiegare l’espressione che avevano negli occhi l’uno e l’altra, importa solo ciò che lui fu capace di dire dopo un periodo di silenzio, Neanche io. Allora la donna si alzò dalla sedia, aprì un cassetto del mobile che aveva dietro di sé e ne tirò fuori quello che sembrava un album, Sono fotografie, pensò il Signor José agitatissimo. La donna aprì il libro, lo sfogliò, in pochi secondi trovò quello che cercava, la fotografia non era incollata, la tenevano solo quattro piccoli angoli di cartoncino attaccati alla pagina, Ecco, la prenda, disse, è l’unica che ho conservato di lei, e adesso spero non mi domandi se ho le fotografie anche dei genitori, Non glielo domanderò. Il Signor José tese la mano tremante, prese la fotografia in bianco e nero di una bambina di otto o nove anni, un visetto che doveva essere pallido, un paio d’occhi seri sotto una frangia che sfiorava le sopracciglia, la bocca voleva sorridere ma non c’era riuscita, era venuta così. Cuore sensibile, il Signor José sentì che gli occhi gli si inondavano di lacrime, Non sembra un impiegato della Conservatoria, disse la donna, È l’unica cosa che sono, disse lui, Vuole una tazza di caffè, E perché no. Parlarono ben poco mentre bevevano il caffè e spizzicavano qualche biscotto, solo poche parole sulla rapidità con cui il tempo crudele passa, Passa, e neanche ce ne accorgiamo, poco fa era ancora mattina ed ecco già la sera, per la verità si notava che il pomeriggio si stava concludendo, ma forse stavano parlando della vita, della loro vita, o della vita in generale, è quanto succede quando assistiamo a una conversazione e non vi prestiamo attenzione, ci sfugge sempre la cosa più importante. Finì il caffè, erano finite anche le parole, il Signor José si alzò e disse, Devo rientrare, ringraziò per la fotografia, per l’indirizzo della scuola, la donna disse, Se qualche volta si trova a passare da queste parti, poi l’accompagnò alla porta, lui le tese la mano, ripeté, Grazie mille, come un gentiluomo d’altri tempi portò la mano di lei alle labbra, fu allora che la donna sorrise maliziosamente e disse, Forse non sarebbe una cattiva idea cercare sull’elenco telefonico. 6. Il colpo fu talmente duro che il Signor José, dopo aver posato sulla strada i suoi disorientati piedi, ci mise un bel pezzo a rendersi conto che una pioggerellina sottile, quasi diafana, di quelle che inzuppano in verticale e in orizzontale, oltre che da tutti i lati obliqui, gli stava cadendo addosso. Forse non sarebbe una cattiva idea cercare sull’elenco telefonico, aveva detto malignamente la vecchia nel salutarlo, e ognuna di queste parole, in se stesse

innocenti, incapaci di offendere la più suscettibile delle creature, in un attimo si era trasformata in un insulto aggressivo, in un attestato di insopportabile stupidità, come se, durante la conversazione, tanto ricca di sentimenti a partire da un certo momento, lei fosse rimasta a osservarlo freddamente, per concludere che quel goffo impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, mandato alla ricerca di ciò che era lontano e occulto, fosse incapace di vedere quello che aveva davanti agli occhi e a portata di mano. Senza cappello e senza parapioggia, il Signor José si prendeva direttamente sulla faccia il pulviscolo d’acqua, vorticante e confuso come gli sgradevoli pensieri che andavano e venivano nella sua testa, ma tutti quanti, cominciò a notarlo subito, intorno a un punto centrale, ancora poco discernibile, ma che piano piano si faceva sempre più nitido. Era vero, non aveva pensato di fare qualcosa di tanto semplice e quotidiano come consultare l’elenco telefonico quando si vuole conoscere il numero di un telefono o l’indirizzo della persona sotto il cui nome si trova. Il suo primo gesto, se intendeva appurare la residenza della donna sconosciuta, avrebbe dovuto essere quello, in meno di un minuto sarebbe venuto a sapere dove trovarla, poi, con il pretesto di chiarire gli immaginari dubbi sull’iscrizione all’Anagrafe, avrebbe potuto combinare con lei un appuntamento fuori della Conservatoria adducendo che desiderava risparmiarle il pagamento di una tassa, per esempio, e subito, in quell’occasione, rischiando tutto in un gesto temerario, o qualche giorno più tardi, quando ormai fosse entrato in confidenza, chiederle, Mi racconti la sua vita. Non si era comportato così e, sebbene fosse molto ignorante nelle arti della psicologia e negli arcani dell’inconscio, cominciava adesso, con apprezzabile approssimazione, a capire il perché. Immaginiamo un cacciatore, si ripeteva fra sé e sé, immaginiamo un cacciatore che abbia preparato accuratamente il suo equipaggiamento, il fucile, la cartuccera, la bisaccia con le provviste, la borraccia d’acqua, il sacchetto di rete per la cacciagione, gli stivali da campagna, immaginiamolo mentre esce con i cani, deciso, infervorato, pronto a una lunga camminata, come si addice alle avventure cinegetiche, e dopo aver girato il primo angolo, proprio dietro casa, gli incroci la strada uno stormo di pernici disposte a farsi ammazzare, che si alzano in volo ma che da lì non se ne vanno per quanto le si spari addosso, con grande gioia e sorpresa dei cani, che in vita loro non hanno mai visto cadere tanta manna dal cielo. Quale sarebbe, per il cacciatore, l’interesse di una battuta di caccia facile a tal punto, con le pernici che vengono a offrirsi, per così dire, davanti alla canna del fucile, si domandò il Signor José, e diede la risposta che parrebbe ovvia a chiunque, Nessuno. La stessa cosa è successa a me, soggiunse, dev’esserci nella mia testa, e sicuramente nella testa di tutti quanti, un pensiero autonomo che pensa per conto proprio, che decide senza la partecipazione dell’altro pensiero, quello che conosciamo da quando ci conosciamo e a cui diamo del tu, quello che si lascia guidare da noi per condurci dove crediamo di volere andare consapevolmente, ma che, in fin dei conti, può darsi sia condotto su un’altra strada, in un’altra direzione, e non verso l’angolo più vicino, dove uno stormo di pernici ci aspetta senza saperlo, mentre noi, invece, sappiamo bene che il vero significato all’incontro lo dà la ricerca e che bisogna camminare a lungo per raggiungere quello che sta vicino. La chiarezza del pensiero, che fosse questo o quello, il pensiero speciale o il

solito pensiero, in realtà una volta che si è arrivati ha meno importanza il come si sia arrivati, fu tanto offuscante che il Signor José si fermò sbalordito lì sul marciapiede, avvolto dall’acquerugiola nebulosa e dalla luce di un lampione che per caso si era acceso in quel momento. Allora, dal profondo di un’anima contrita e grata, si pentì di quei cattivi e immeritati pensieri, quelli sì, del tutto consapevoli, che aveva rivolto all’anziana e benevola signora del pianterreno a destra, quando in realtà le era debitore non solo dell’indirizzo della scuola e della fotografia, ma anche della più perfetta e conclusa spiegazione di un procedimento che apparentemente non ne aveva. E visto che lei aveva lanciato quell’invito a tornare a trovarla, Se dovesse ripassare da queste parti, erano state queste le parole, chiare a sufficienza per dispensare il resto della frase, si ripromise di andare a bussare alla sua porta uno dei giorni successivi, sia per aggiornarla sull’andamento delle ricerche sia per sorprenderla con la rivelazione del vero motivo per cui non aveva consultato l’elenco telefonico. Chiaramente, avrebbe dovuto confessarle che la credenziale era falsa, che la ricerca non l’aveva ordinata la Conservatoria Generale, ma era un’idea sua e, inevitabilmente, parlare del resto. Il resto era la collezione di persone famose, la paura dell’altezza, le pagine annerite, le ragnatele, i monotoni scaffali dei vivi, il caos dei morti, il tanfo, la polvere, lo scoraggiamento, e infine quel modulo che per qualche ragione si era aggrappato agli altri, Perché non si dimenticassero di lui, e del nome, Il nome della bambina che ho qui con me, rammentò, e non tirò fuori di tasca la fotografia per guardarla solo perché il pulviscolo d’acqua continuava a venir giù dal cielo. Se mai fosse giunto a raccontare a qualcuno com’è la Conservatoria Generale dall’interno, questo qualcuno sarebbe stata la signora del pianterreno a destra. Col tempo si vedrà, decise il Signor José. In quel preciso istante il tempo gli fece arrivare l’autobus che l’avrebbe portato nelle vicinanze di casa, affollato di gente bagnata, uomini e donne di età e aspetto vario, alcuni giovani, altri vecchi, alcuni un po’ meno, altri un po’ di più. La Conservatoria Generale dell’Anagrafe li conosceva tutti, sapeva come si chiamavano, dov’erano nati e da chi, contava e ricontava i loro giorni uno per uno, quella donna per esempio, quella con gli occhi chiusi, che tiene la testa appoggiata al vetro del finestrino, quanto avrà, un trentacinque, trentasei anni, fu quanto bastò perché il Signor José liberasse le ali della fantasia, E se fosse la donna che cerco, impossibile, infatti non si poteva dire che lo fosse, persone sconosciute se ne incontrano a bizzeffe nella vita, e bisogna rassegnarsi, non possiamo certo andarcene in giro a domandare a tutti, Come si chiama, e poi tirar fuori di tasca il modulo per vedere se la persona è quella che cerchiamo. Due fermate dopo la donna scese, poi se ne rimase lì, ferma sul marciapiede, in attesa che l’autobus proseguisse, sicuramente voleva attraversare la strada e, visto che non aveva il parapioggia, il Signor José riuscì a vederle il viso nonostante le gocce che si aggrappavano al vetro, ci fu un momento in cui, forse impaziente perché l’autobus tardava a ripartire, lei alzò la testa, e fu allora che incontrò lo sguardo di lui. Si fissarono finché l’autobus si mise in movimento, e continuarono a fissarsi fintanto che riuscirono a vedersi, il Signor José allungando e girando il collo, la donna seguendone il movimento, mentre lei, forse, si domandava, Chi sarà, e lui si rispondeva, È lei.

Tra la fermata a cui doveva scendere il Signor José e la Conservatoria Generale, una premura oltremodo lodevole dei servizi di trasporto nei confronti di chi aveva bisogno di occuparsi dei propri documenti all’Anagrafe, la distanza non era grande. Malgrado ciò, il Signor José entrò in casa bagnato da capo a piedi. Si tolse rapidamente l’impermeabile, si cambiò i pantaloni, le calze e le scarpe, si strofinò con un asciugamano i capelli gocciolanti, e intanto proseguiva il suo dialogo interiore, È lei, Non è lei, Poteva essere, Sì, poteva essere, ma non lo era, E se lo era, Lo saprai quando troverai la donna del modulo, Se sarà lei, le dirò che ci conoscevamo già, che ci siamo visti sull’autobus, Non se ne ricorderà, Se non passerà molto tempo prima di incontrarla, se ne ricorderà di sicuro, Ma tu non vuoi incontrarla fra poco, né fra tanto, se veramente l’avessi voluto saresti andato a cercare il nome sull’elenco telefonico, si comincia sempre da qui, Non ci ho pensato, L’elenco è lì dentro, Adesso non mi va di entrare in Conservatoria, Hai paura del buio, Non ho affatto paura, conosco quell’oscurità come il palmo delle mie mani, Perché non mi dici, piuttosto, che non conosci neanche il palmo delle tue mani, Se è questo che pensi, lasciami pure nella mia ignoranza, anche gli uccelli cantano e non sanno perché, Sei lirico, Sono triste, Con la vita che fai, è naturale, Immagina che la donna dell’autobus fosse quella del modulo, immagina che io non la incontri mai più, che quella sia stata l’unica occasione, che il destino era lì e io l’ho lasciato andare, Hai solo un modo per mettere in chiaro le cose, Quale, Fare come ti ha detto l’inquilina del pianterreno a destra, la vecchia, Bada a come parli, per favore, È vecchia, È una signora di una certa età, Piantala con le ipocrisie, l’età ce l’abbiamo tutti, qui si tratta di sapere quanta, se è poca sei giovane, se è molta sei vecchio, il resto sono chiacchiere, Finiamola, Sì, finiamola, Vado a consultare l’elenco, Te lo sto dicendo da mezz’ora. In pigiama e pantofole, avvolto in una coperta, il Signor José entrò in Conservatoria. L’insolito abbigliamento lo faceva sentire poco a suo agio, come se stesse mancando di rispetto ai venerabili archivi, a quell’eterna luce giallastra che, tale e quale a un sole moribondo, aleggiava sopra la scrivania del conservatore. L’elenco era lì, in un angolo del tavolo, non era permesso consultarlo senza autorizzazione, anche se si trattava di una chiamata ufficiale, e adesso il Signor José, come aveva già fatto in precedenza, avrebbe potuto sedersi dietro la scrivania, per la verità era successo solo una volta, in un momento senza pari che gli era sembrato di trionfo e di gloria, ma adesso non si azzardava, forse per l’improprietà dell’abbigliamento, per l’assurdo timore che qualcuno potesse coglierlo di sorpresa conciato in quel modo, ma chi, se mai un essere vivente, se non lui, si è trovato da queste parti al di fuori delle ore di servizio. Pensò che forse era meglio portarsi via l’elenco, a casa si sarebbe sentito più tranquillo, senza la minacciosa presenza di quelle altissime scaffalature che sembravano voler precipitare giù dalle ombre del soffitto, là dove i ragni tessono e divorano. Rabbrividì come se quelle tele impolverate e vischiose gli stessero già cadendo addosso e per poco non commise l’imprudenza di afferrare l’elenco telefonico senza prima aver preso la precauzione di misurare esattamente le distanze che lo separavano, in altezza e in laterale, dai bordi del tavolo, e quando si dice le distanze, si intenderebbe anche gli angoli, se non si presentasse la favorevole circostanza che le inclinazioni geometriche e topografiche del conservatore propendono

apertamente per gli angoli retti e le parallele. Entrò in casa sicuro che, di lì a poco, una volta ricollocato al suo posto, l’elenco telefonico si sarebbe ritrovato di fatto nello stesso identico punto, senza neanche un millimetro di spostamento, e che il conservatore non avrebbe dovuto ordinare ai suoi vice d’investigare su chi l’aveva usato, come, quando e perché. Fino all’ultimo momento rimase in attesa che accadesse qualcosa in grado di impedirgli di portarsi via l’elenco, un mormorio, uno schiocco sospetto, un chiarore proveniente all’improvviso dalle profondità mortuarie della Conservatoria Generale, ma c’era una pace assoluta, non si udiva neanche lo stridere impercettibile delle mandibole dei bostrichidi, gli insetti divoratori del legno. Adesso il Signor José, con la coperta sulle spalle, è seduto al suo tavolo, ha davanti a sé l’elenco telefonico, lo apre alle prime pagine e si sofferma sulle istruzioni per l’uso, i codici, le tabelle dei prezzi, come se fosse quello il suo obiettivo. Trascorsi alcuni minuti, un impeto repentino, non pensato, gli ha fatto saltare le pagine, avanti, indietro, fino a fermarsi su quella che corrisponde al nome della donna sconosciuta: O non c’è, o i suoi occhi si rifiutano di vederla. No, non c’è. Doveva essere dopo questo nome, ma non c’è. Doveva essere prima di questo nome, ma non c’è. Lo dicevo io, pensò il Signor José, e non era vero che l’avesse mai detto, sono modi di darsi ragione contro il mondo, di sfogare in questo caso una gioia, un investigatore della polizia avrebbe manifestato la contrarietà dando un cazzotto sul tavolo, il Signor José no, il Signor José inalbera il sorriso ironico di chi, mandato a cercare qualcosa che sapeva non esistere, rientra dalla ricerca con la frase sulle labbra, Lo dicevo io, o non ha il telefono, o non vuole il nome sull’elenco. La sua soddisfazione fu tale che immediatamente, senza perdere tempo a pesare i pro e i contro, cercò il nome del padre della donna sconosciuta, e quello, invece, c’era. Neanche una fibra del suo corpo rabbrividì. Al contrario, deciso adesso a bruciare tutti i ponti dietro di sé, trascinato da un impulso che solo i veri ricercatori possono provare, cercò il nome dell’uomo da cui la donna sconosciuta aveva divorziato, e trovò anche quello. Se avesse avuto una pianta della città avrebbe già potuto annotare i primi cinque punti di passaggio verificati, due nella strada dove la bambina della fotografia è nata, un altro nella scuola, e adesso questi, l’inizio di un disegno come quello di tutte le vite, fatto di linee spezzate, di incroci, di intersezioni, ma mai di biforcazioni, perché lo spirito non va da nessuna parte senza le gambe del corpo, e il corpo non sarebbe capace di muoversi se gli mancassero le ali dello spirito. Prese nota degli indirizzi, poi si appuntò quello che doveva comprare, una pianta completa della città, un cartoncino spesso della stessa dimensione su cui fissarla, una scatoletta di spilli dalla capocchia colorata, rossi per essere visibili a distanza, perché le vite sono come i quadri, avremo sempre bisogno di guardarle facendo quattro passi indietro, anche se un giorno siamo arrivati a sfiorarne la pelle, a sentirne l’odore, a provarne il gusto. Il Signor José era tranquillo, per niente turbato dal fatto di essere venuto a sapere dove abitavano i genitori e il vecchio marito della donna sconosciuta, quest’ultimo, curiosamente, molto vicino alla Conservatoria Generale, è chiaro che prima o poi sarebbe andato a bussargli alla porta, ma solo quando avesse sentito che era giunto il momento, solo quando il momento avesse ordinato, Ora. Chiuse l’elenco telefonico, andò a rimetterlo sulla scrivania del capo, nel punto esatto da cui l’aveva preso, e se

ne tornò a casa. In base all’orologio era l’ora di cena, ma le emozioni dovevano avergli distratto lo stomaco, che non dava segni di impazienza. Tornò a sedersi, si strinse la coperta al corpo, tirandone le punte per coprirsi le gambe, e avvicinò il quaderno che aveva comprato in cartoleria. Era tempo di cominciare a prendere appunti sull’andamento della ricerca, gli incontri, le conversazioni, le riflessioni, i piani e le tattiche di un’investigazione che si preannunciava complessa. I passi di qualcuno in cerca di qualcuno, aveva pensato, e in verità, sebbene la processione fosse ancora all’inizio, aveva già molto da raccontare, Se fosse un romanzo, mormorò mentre apriva il quaderno, solo per la conversazione con la signora del pianterreno a destra ci vorrebbe un capitolo. Prese la penna per iniziare, ma, con la mano ancora per aria, i suoi occhi incontrarono il foglio su cui aveva scritto gli indirizzi, c’era qualcosa a cui non aveva pensato prima, l’ipotesi, del tutto plausibile, che la donna sconosciuta, dopo aver divorziato, fosse andata a vivere coi genitori, l’ipotesi, altrettanto possibile, che fosse stato il marito a lasciare la casa, anche se il telefono era rimasto a suo nome. In quest’ultimo caso, e considerando che la strada in questione si trovava nelle vicinanze della Conservatoria Generale, chi lo sa se la donna dell’autobus non poteva essere proprio lei. Fu come se il dialogo interiore volesse ricominciare, Era, Non era, Era, Non era, ma questa volta il Signor José non gli diede ascolto e, chinandosi sul foglio, cominciò a scrivere le prime parole, queste, Sono entrato nel palazzo, ho salito le scale fino al secondo piano e mi sono messo in ascolto dietro la porta d’ingresso dove la donna sconosciuta è nata, allora ho udito il pianto di un bimbo in fasce, ho pensato che poteva essere il figlio, e nello stesso tempo una donna che lo cullava, Sarà lei, e poi sono venuto a sapere che non lo era. 7. Al contrario di quel che si pensa quasi sempre vedendo le cose dall’esterno, solitamente non è facile la vita negli uffici pubblici, tantomeno in questa Conservatoria Generale dell’Anagrafe dove, da tempi che non potremmo definire immemorabili solo perché di tutto e di tutti vi si trova registrazione, grazie allo sforzo persistente di una linea ininterrotta di famosi conservatori, si sono riunite al massimo grado tutte le grandiosità e le piccolezze del servizio pubblico, quelle che fanno dell’impiegato un essere a parte, fruitore e nello stesso tempo dipendente dello spazio fisico e mentale delimitato dalla portata del suo pennino. In termini semplici, e in vista di una più esatta comprensione dei fatti generali astrattamente considerati in questo preambolo, il Signor José ha un problema da risolvere. Sapendo quanto gli sia costato strappare alle riluttanze regolamentari della gerarchia quella misera mezz’ora di permesso, grazie alla quale ha potuto non essere colto in flagrante dal marito della giovane donna del secondo piano a sinistra, possiamo immaginare in quali ambage si trovi adesso, giorno e notte, alla ricerca della giustificazione utile che gli permetta di richiedere non solo un’ora, ma due, non solo due ore, ma tre, che sono quelle di cui probabilmente avrà bisogno per portare a termine, con sufficiente profitto, la visita alla scuola e l’indispensabile ricerca nei suoi archivi. Gli effetti di questa inquietudine, costante, ossessiva, non tardarono a manifestarsi in errori nel lavoro, in mancanze di attenzione, in subitanee sonnolenze diurne dovute all’insonnia notturna, in sintesi il Signor

José, fino a oggi apprezzato dai vari superiori come un impiegato competente, metodico e devoto, cominciò a essere oggetto di ammonimenti severi, di rimproveri, di richiami all’ordine, che servirono solo a confonderlo ancora di più, senza contare che, dalla strada su cui si era incamminato, avrebbe avuto certissimamente una risposta negativa se mai fosse arrivato a richiedere l’anelato permesso. Giunse la situazione a tali estremi che, dopo essere stata analizzata, senza risultato, successivamente da funzionari e vicecapi, non ci fu altro da fare se non portarla all’alta considerazione del conservatore che, sulle prime, non riuscì a capire cosa stava succedendo, per quanto gli pareva assurdo. Che un impiegato avesse trascurato fino a quel punto i suoi doveri era qualcosa che rendeva impossibile qualsiasi benevola propensione che ancora potesse esistere per una decisione discolpante, era qualcosa che offendeva seriamente le tradizioni operative della Conservatoria Generale, qualcosa che solo una malattia gravissima avrebbe potuto giustificare. Condotto il delinquente al suo cospetto, fu proprio questo che il conservatore domandò al Signor José, È malato, Credo di no, signore, Se non è malato, come spiega allora il pessimo lavoro che sta facendo in questi ultimi giorni, Non so, signore, forse perché ho dormito male, In tal caso, dev’essere malato, No, dormo soltanto male, Se dorme male, è malato, una persona sana dorme sempre bene, a meno che non abbia un peso sulla coscienza, una mancanza censurabile, di quelle che la coscienza non perdona, la coscienza è importantissima, Sì signore, Se i suoi errori sul lavoro sono causati dall’insonnia e se l’insonnia a sua volta è causata da accuse della coscienza, allora bisogna scoprire la mancanza commessa, Non ho commesso nessuna mancanza, signore, Impossibile, l’unica persona, qui, che non commette mai mancanze sono io, e adesso cosa c’è, perché sta guardando l’elenco dei telefoni, Mi sono distratto, signore, Brutto segno, sa bene che deve guardare sempre verso di me quando le parlo, c’è nel regolamento disciplinare, io sono l’unico ad avere il diritto di sviare lo sguardo, Sì signore, Allora, qual è la mancanza, Non lo so, signore, In tal caso è ancora più grave, le mancanze dimenticate sono le peggiori, Ho compiuto regolarmente i miei doveri, Le informazioni di cui dispongo al suo riguardo erano soddisfacenti, ma questo, appunto, serve solo a dimostrare che la sua cattiva condotta professionale di questi giorni non è la conseguenza di una mancanza dimenticata, bensì di una mancanza recente, di una mancanza attuale, La coscienza non mi accusa, Le coscienze tacciono più di quanto dovrebbero, ecco perché sono state create le leggi, Sì signore, Devo prendere una decisione, Sì signore, E l’ho già presa, Sì signore, Le do un giorno di sospensione, E la sospensione, signore, è relativa solo allo stipendio, o anche al servizio, domandò il Signor José, che vide accendersi un barlume di speranza, Allo stipendio, allo stipendio, il servizio non può esserne pregiudicato più di quanto lo sia già stato, anche poco tempo fa le ho concesso mezz’ora di permesso, non mi dica che si aspettava che il suo pessimo comportamento fosse premiato con un giorno intero, No signore, Le auguro, per il suo bene, che le serva da lezione, che torni al più presto a essere l’impiegato corretto che era prima, nell’interesse di questa Conservatoria Generale, Sì signore, Nient’altro, torni al suo posto. Disperato, con i nervi a pezzi, quasi in lacrime, il Signor José se ne andò dove gli avevano ordinato di andare. Durante i pochi minuti che era durata

quella difficile conversazione con il capo, sul suo tavolo il lavoro si era accumulato, come se gli altri scritturali ausiliari, suoi colleghi, approfittando della pericolosa situazione disciplinare in cui lo vedevano, avessero voluto anche loro, per proprio conto, castigarlo. C’era, inoltre, un gruppo di persone che aspettava il proprio turno di essere ricevute. Si erano tutte piazzate davanti a lui, e non era stato per un caso, o perché, al momento di entrare in Conservatoria Generale, avessero pensato che l’impiegato assente poteva essere più simpatico e cordiale di quelli visibili lungo il bancone, ma perché proprio da questi ultimi erano stati informati che dovevano rivolgersi proprio lì. Visto che il regolamento interno fissava che il ricevimento del pubblico doveva avere priorità assoluta sul lavoro di scrivania, il Signor José si diresse al bancone, ben sapendo che alle sue spalle avrebbero continuato a piovere le carte. Era perduto. Adesso, dopo l’avvertimento irritato del conservatore e la susseguente punizione, anche se avesse inventato la nascita impossibile di un figlio o la morte dubbiosa di un parente poteva togliersi dalla testa qualsiasi speranza di essere autorizzato in tempi brevi a uscire prima o a entrare più tardi di un’ora, di mezz’ora, e neanche di un minuto. La memoria, in questa casa di archivi, è tenace, lenta a dimenticare, tanto lenta che non giungerà mai a scordare nulla completamente. Che si permetta, il Signor José, da qui a dieci anni, una distrazione, per quanto insignificante sia, e vedrà come qualcuno gli rammenterà immediatamente tutti i particolari di questi sventurati giorni. Probabilmente il conservatore si riferiva proprio a questo quando aveva detto che le peggiori mancanze sono quelle apparentemente dimenticate. Per il Signor José il resto della giornata fu come un penoso calvario, incalzato dal lavoro, angosciato dai pensieri. Mentre una parte della sua coscienza continuava a fornire spiegazioni sensate al pubblico, riempiendo e timbrando documenti, archiviando schede, l’altra parte, monotonamente, malediceva la sorte e il caso che avevano finito per trasformare in morbosa curiosità qualcosa che non avrebbe neanche lontanamente sfiorato l’immaginazione di una persona sensata, equilibrata. Il capo ha ragione, pensava il Signor José, gli interessi della Conservatoria vanno messi al di sopra di tutto, se vivessi in maniera assennata, normale, di certo non mi sarei messo, a questa età, a fare collezioni di attori, ballerine, vescovi e calciatori, è stupido, è inutile, è ridicolo, lascerò davvero una bella eredità alla mia morte, per fortuna non ho discendenti, ma forse il male sta nel fatto che vivo senza compagnia, se avessi una donna. Giunto a questo punto, il pensiero si è interrotto, poi ha preso un’altra strada, un cammino stretto, confuso, al cui ingresso si può vedere la fotografia di una bambina piccola, alla cui fine dovrà esserci, se ci sarà, la figura reale di una donna fatta, adulta, che adesso ha trentasei anni, divorziata, E perché dovrei desiderarla, a che scopo, cosa me ne farei dopo averla incontrata. Il pensiero si è interrotto di nuovo, ha ripercorso bruscamente i passi già fatti, E come credi di trovarla se non ti lasciano andare a cercarla, gli ha domandato, e lui non ha risposto, in quel momento era occupato a informare l’ultima persona della fila che il certificato di morte richiesto sarebbe stato pronto il giorno seguente. Certe domande, tuttavia, sono tenaci, non desistono, e questa riprese ad assalirlo quando lui, stanco nel corpo e spossato nell’animo, entrò finalmente a casa. Si era buttato sul letto come un cencio, voleva dormire, dimenticare la

faccia del capo, l’ingiusto castigo, ma la domanda andò a sdraiarsi accanto a lui, scivolando sussurrante, Non la puoi cercare, non te lo permettono, stavolta era impossibile fingere di essere distratto a parlare con il pubblico, tentò ancora di fare lo gnorri, disse che doveva trovare una maniera, che se non l’avesse trovata avrebbe lasciato perdere tutto, ma la domanda si incaponiva, Ti fai vincere con facilità, non valeva la pena di falsificare una credenziale e costringere quella povera e simpatica signora del pianterreno a destra a parlare del suo peccaminoso passato, è una mancanza di rispetto per gli altri fare irruzione a casa loro e indagarne l’intimità. L’allusione alla credenziale lo costrinse a sedersi sul letto di colpo, spaventato. Ce l’aveva nella giacca, l’aveva con sé da allora, immaginatevi se per un motivo o per l’altro l’avesse fatta cadere, o se, con i nervi in subbuglio, gli fosse venuta una sincope, di quelle che ti lasciano senza coscienza, e un collega, senza cattive intenzioni, mentre lo sbottonava per farlo respirare avesse visto la busta bianca con il timbro della Conservatoria Generale e avesse detto, Che cos’è, e poi un funzionario, e poi un vice, e infine il capo. Il Signor José non volle neanche pensare a cosa ne sarebbe seguito, si alzò d’un balzo, corse alla giacca che era appesa sulla spalliera di una sedia, tirò fuori la credenziale e ansioso, guardandosi intorno, si domandò dove diavolo poteva nasconderla. Nessuno dei mobili aveva la chiave, tutti i suoi pochi averi si trovavano a portata di qualsiasi spirito pettegolo fosse entrato. Fu allora che notò le collezioni allineate nell’armadio, ecco dov’era la soluzione. Cercò la cartellina del vescovo e v’infilò dentro la busta, un vescovo non stuzzica certo la curiosità per quanta fama di caritatevole possa avere, non è un ciclista né un corridore automobilistico di formula uno. Se ne tornò a letto, sollevato, ma la domanda era rimasta lì ad aspettarlo, Non hai risolto niente, il problema non è la credenziale, tant’è che tu la nasconda o la faccia vedere, non sarà questo che ti condurrà fino alla donna, Ti ho già detto, troverò una maniera, Ne dubito, il capo ti ha legato per benino, mani e piedi, non ti permette di fare un passo, Aspetterò che le acque si calmino, E dopo, Non so, dovrà pure spuntarmi un’idea, Potresti risolvere la faccenda all’istante, Come, Telefona ai genitori, di’ loro che parli a nome della Conservatoria, chiedigli di darti l’indirizzo, Questo non lo faccio, Domani vai a casa della donna, non riesco a immaginare quale potrà essere la vostra conversazione, ma almeno ti toglierai lo sfizio, Probabilmente non vorrò neanche parlarle quando ce l’avrò davanti, In tal caso, perché la stai cercando, perché continui a indagare sulla sua vita, Ma io sto raccogliendo documentazione anche sul vescovo e mica per questo sono interessato a parlargli prima o poi, A me sembra assurdo, È assurdo, ma sarebbe ora di fare qualcosa di assurdo nella vita, Vuoi forse dirmi che se riuscirai a incontrare la donna, lei non saprà che l’hai cercata, Questo è sicurissimo, Perché, Non saprei spiegarlo, In ogni modo, neanche alla scuola di quella ragazza riuscirai ad andare, le scuole sono come la Conservatoria Generale, durante i fine settimana sono chiuse, In Conservatoria posso entrare ogni volta che voglio, Non si può dire che sia un’impresa realmente straordinaria, vi si accede dalla porta di casa tua, Si vede che non hai mai dovuto andarci da sola, Io vado dove vai tu, assisto a quello che fai, Puoi continuare, Sì, lo farò, ma tu, nella scuola, non ci entrerai, Vedremo. Il Signor José si alzò, era l’ora di cena, ammesso che meritassero tal nome i frugalissimi

pasti che era solito consumare la sera. Mentre mangiava continuava a pensare, poi lavò il piatto, il bicchiere e la posata, raccolse le briciole che erano cadute sulla tovaglia, sempre pensando, e, come se il gesto fosse l’inevitabile conclusione di quello che aveva pensato, aprì la porta che dava sulla strada. Di fronte, sull’altro marciapiede, c’era una cabina telefonica, per modo di dire a portata di mano, in venti passi poteva arrivare al capo di quel filo che portava lontano la sua voce, quello stesso filo gli avrebbe riportato indietro una risposta, e lì, che fosse in un senso o che fosse nell’altro, si sarebbero concluse le ricerche, finalmente sarebbe potuto tornare a casa tranquillo, recuperare la fiducia del capo e dopo, rotolando nella propria invisibile scia, il mondo avrebbe ripreso l’orbita di sempre, la calma profonda di chi semplicemente aspetta l’ora in cui tutte le cose si devono compiere, ammesso che queste parole, tante volte pronunciate e ripetute, abbiano un significato reale. Il Signor José non attraversò la strada, andò a infilarsi la giacca e l’impermeabile e uscì. Dovette cambiare due volte autobus prima di arrivare a destinazione. La scuola era un edificio lungo, a due piani e mansarde, che un’alta inferriata separava dalla strada. Lo spazio intermedio, una striscia di terreno in cui si vedevano, qua e là, degli alberi di piccolo fusto, doveva servire da cortile per la ricreazione degli alunni. Non c’era nessuna luce. Il Signor José si guardò intorno, la via era deserta malgrado non fosse tardi, è il lato positivo di questi quartieri periferici, soprattutto se non è tempo di starsene con la finestra aperta, i vicini si rintanano nelle case, e perdipiù fuori non c’è niente da vedere. Il Signor José è arrivato fino alla fine della strada, ha cambiato marciapiede, adesso sta procedendo in direzione della scuola, lentamente, come uno a cui piace uscire a prendere il fresco notturno e non ha nessuno che l’aspetta. Accanto al cancello si abbassò con l’atteggiamento di chi si è appena accorto di avere la stringa di una scarpa slacciata, è un trucco vecchio e strausato, non inganna nessuno, si adotta in mancanza di meglio, quando l’immaginazione non riesce a inventarsi altro. Con il gomito spinse il cancello, che si mosse un poco, non era chiuso a chiave. Metodicamente, il Signor José fece un secondo nodo sul primo, si alzò e picchiò con il piede per terra per provare la solidità dei lacci, e proseguì per la sua strada, adesso più rapidamente, come se all’improvviso si fosse ricordato che in definitiva c’era pur sempre qualcuno ad aspettarlo. I giorni restanti della settimana il Signor José li visse come se fosse uno spettatore dei propri sogni. In Conservatoria non gli videro commettere un solo errore, non si distrasse, non scambiò un foglio per l’altro, sbrigò ingenti quantità di lavoro che in altri momenti l’avrebbero indotto a protestare, in silenzio naturalmente, contro il trattamento disumano di cui gli scritturali ausiliari sono da sempre vittime, e il tutto fu fatto e sopportato senza una parola, senza un mormorio. Il conservatore lo guardò per ben due volte da lontano, sappiamo che non è sua abitudine guardare i subordinati, tantomeno di bassa categoria, ma la concentrazione spirituale del Signor José raggiungeva un tale grado di intensità che era impossibile non percepirla nell’atmosfera perennemente incerta della Conservatoria Generale. Il venerdì, al momento di staccare dal lavoro, e senza che alcunché lo facesse prevedere, il conservatore infranse tutti i regolamenti, trascurò tutte le tradizioni, seminò lo sgomento fra tutti gli impiegati quando, nell’uscire, e passando accanto al Signor José, gli

domandò, Sta meglio. Rispose affermativamente il Signor José, stava molto meglio, non aveva più avuto l’insonnia, e il conservatore disse, Le ha fatto bene la conversazione che abbiamo avuto, parve sul punto di aggiungere qualcos’altro, un’idea che repentinamente gli fosse sovvenuta, ma chiuse la bocca e uscì, Ci mancherebbe altro, annullare la punizione imposta sarebbe stato come sovvertire la disciplina. Gli altri scritturali ausiliari, i funzionari, e persino i vice, guardarono il Signor José come se lo vedessero per la prima volta, quelle poche parole del capo ne avevano fatto una persona diversa, più o meno come succede quando si porta un bambino al battesimo, se ne accompagna uno e se ne riporta via un altro. Il Signor José finì di riordinare il tavolo, poi aspettò il proprio turno per uscire, dettava il regolamento che il primo ad allontanarsi doveva essere il vicecapo più anziano, poi i funzionari, subito dopo gli scritturali ausiliari, sempre secondo l’ordine dell’anzianità di servizio, all’altro vice spettava il compito di chiudere la porta. Contrariamente all’abitudine, il Signor José non fece il giro della Conservatoria Generale per entrare in casa, si infilò piuttosto nelle vie circostanti, entrò in tre negozi diversi e in ciascuno di essi fece un acquisto, mezzo chilo di grasso in uno, un asciugamano in un altro, e anche un oggettino, una cosa da nulla, che rientrava nel palmo della mano e che lui si infilò in una delle tasche esterne della giacca, perché non c’era bisogno di incartarlo. Soltanto dopo se ne andò a casa. Era già passata da un pezzo la mezzanotte quando uscì. A quell’ora erano pochi gli autobus in circolazione, ne compariva uno ogni tanto, e perciò il Signor José, per la seconda volta da quando era spuntato fuori il modulo della donna sconosciuta, decise di prendere un tassì. Sentiva una sorta di vibrazione alla bocca dello stomaco, come un ronzio, ma la testa si manteneva calma, o, semplicemente, era incapace di pensare. Ci fu un momento in cui il Signor José, rannicchiato sul sedile del tassì quasi avesse paura di essere visto, tentò ancora di immaginare cosa gli sarebbe potuto succedere, quali potevano essere le conseguenze nella sua vita se l’azione che stava per compiere fosse andata storta, ma il pensiero si nascose dietro una parete, Da qui non esco, disse, e lui comprese, perché si conosceva bene, che il pensiero voleva proteggerlo, non dalla paura, ma dalla vigliaccheria. Giunto quasi a destinazione, fece fermare il tassì, avrebbe percorso a piedi quel poco di strada che ancora gli mancava. Teneva le mani in tasca, stringendo sotto l’impermeabile abbottonato i pacchetti che contenevano il grasso e l’asciugamano. Nel momento in cui stava per svoltare un angolo ed entrare nella strada dove si trovava la scuola, gli caddero addosso alcune gocce di pioggia, sostituite immediatamente, mentre ormai si stava avvicinando al cancello, da uno scroscio che spazzò rumorosamente la strada. Si dice, fin dai tempi classici, che la fortuna protegge gli audaci, nel nostro caso l’intermediario incaricato della protezione fu la pioggia, o, in altre parole, il cielo direttamente, se mai ci fosse stato qualcuno in giro a quest’ora di notte, di sicuro si sarebbe preoccupato più di ripararsi dall’improvvisa inzuppata che di osservare le manovre di un individuo con l’impermeabile che, a giudicare dall’età apparente, si era sottratto all’acquazzone con una rapidità del tutto inattesa, un attimo fa era ancora lì, e adesso non c’è più. Al riparo sotto uno degli alberi all’interno dell’inferriata, con il cuore che gli batteva all’impazzata, il Signor José respirava affannosamente, stupefatto dall’agilità con cui si era mosso, lui che

in materia di esercizi fisici non andava al di là dell’arrampicarsi in cima alla scala della Conservatoria Generale, e lo sa Dio con quale forza di volontà. Si era sottratto agli occhi della strada e credeva che, passando accortamente da un albero all’altro, avrebbe potuto raggiungere l’ingresso della scuola senza che da fuori nessuno se ne accorgesse. Si era convinto che all’interno non c’era nessun guardiano, in primo luogo per l’assenza di luce, sia l’altro giorno che adesso, e poi perché le scuole, salvo per motivi del tutto particolari ed eccezionali, non sono cose che valga la pena di assaltare. Eccezionali e particolari le sue ragioni lo erano, e lui c’era andato apposta, armato con mezzo chilo di grasso, un asciugamano e un tagliavetro, perché era questo l’oggetto che non c’era stato bisogno di incartare. Doveva tuttavia pensare bene a quello che stava per fare. Entrare dalla parte anteriore sarebbe stata un’imprudenza, qualche vicino che abitasse in uno dei piani alti al di là della strada avrebbe potuto pensare di andare a guardare la pioggia che continuava a cadere fitta, e vedere quell’uomo forzare la finestra della scuola, c’è un mucchio di gente che non muoverebbe un dito per evitare la consumazione di un atto violento, al contrario, lascerebbe ricadere la tenda e se ne tornerebbe a letto dicendo, Fatti loro, ma ce n’è altra che non salva il mondo solo perché il mondo non si lascia salvare, questa gente qui chiamerebbe immediatamente la polizia e si affaccerebbe urlando, Al ladro, una parola dura che il Signor José non merita, al massimo falsificatore, ma questo lo sappiamo solo noi. Faccio il giro del palazzo, forse di là è più facile, pensò il Signor José, e probabilmente ha ragione, capita spesso che il retro dei palazzi sia malandato, con vecchi mobili ammonticchiati, cassette in attesa di un nuovo uso, barattoli che un tempo erano di vernice, mattoni spaccati di una ristrutturazione, quanto di meglio possa desiderare chiunque voglia improvvisare una scala, raggiungere una finestra ed entrare da lì. In effetti, alcuni di questi oggetti il Signor José li trovò, ma era tutto ordinato sotto una tettoia addossata al muro, e meticolosamente a quanto pareva tastando qua e là, ci sarebbero voluti un mucchio di lavoro e di tempo per scegliere e tirar fuori, al buio, quello che si poteva adattare meglio alle necessità strutturali della piramide tramite cui sarebbe dovuto ascendere, Se riuscissi a salire sul tetto, mormorò, e l’idea era teoricamente eccellente, visto che c’era una finestra proprio due palmi sopra la giunzione della parte superiore della tettoia con il muro, Comunque non sarà facile, il tetto è molto inclinato e con questa pioggia sarà scivoloso, sdrucciolevole, pensò. Il Signor José si sentì perdere d’animo, è quanto accade a chi non ha esperienza di furti, a chi non ha beneficiato delle lezioni di maestri scalatori, e lui non aveva neanche pensato di venire a ispezionare in anticipo il luogo, avrebbe potuto approfittarne l’altro giorno quando si è accorto che il cancello non era chiuso a chiave, allora dev’essergli sembrata una grande fortuna, tanto che ha preferito non abusare. Aveva in tasca la piccola torcia già usata nella Conservatoria Generale per illuminare i moduli, ma qui non voleva accenderla, un conto è una sagoma nell’oscurità, che può passare più o meno inosservata, tutt’altra cosa, ben diversa, e peggiore, è un fascio di luce che si muove e si denuncia, Guardate dove sono. Si era riparato sotto la tettoia, udiva la pioggia tamburellare instancabile sulla lamiera del tetto, e non sapeva cosa fare. Anche da questa parte c’erano alberi, più alti e frondosi di quelli sul davanti, se dietro gli alberi c’erano dei palazzi dal punto in cui si trovava non

poteva vederli, Dunque, neanche loro possono vedere me, pensò il Signor José, e, dopo un altro momento di esitazione, accese la torcia e si spostò da un punto all’altro, con rapido passaggio. Non si era sbagliato, il deposito dei ferrivecchi della scuola era disposto e sistemato con criterio, quasi fossero pezzi di macchinari incastrati gli uni negli altri. Riaccese la torcia, questa volta puntando il fascio di luce verso l’alto. Coricata sulle masserizie, isolata dal resto, come un pezzo di tanto in tanto necessario, c’era una scala. Che fosse per l’imprevisto della scoperta, o per una repentina e sconnessa rimembranza delle altitudini della Conservatoria Generale, al Signor José fu come se gli venisse qualcosa alla vista, un modo espressivo e corrente di dire che dispensa, con profitto comunicativo, dall’uso della parola vertigine da parte di bocche popolari che non sono nate per questo. La scala non era tanto alta da raggiungere la finestra, ma sarebbe bastata per salire sulla tettoia, e, da lì, che fosse la volontà di Dio. Così invocato, Dio decise di aiutare il Signor José nel frangente, nella qual cosa non c’è niente di straordinario se consideriamo l’enorme quantità di rapinatori che, da che mondo è mondo, hanno avuto la fortuna di rientrare dalle loro imprese, non solo stracarichi di beni, ma anche integri nel corpo, e cioè senza castigo divino. Volle quindi la provvidenza che le onduline che formavano il tetto della tettoia, non solo erano rugose per rifinitura, ma presentavano alle estremità inferiori un bordo saliente alla cui attrazione decorativa il disegnatore della fabbrica, imprudentemente, non aveva saputo resistere. Grazie a ciò, e nonostante la forte inclinazione della tettoia, un piede qui, una mano là, mentre gemeva e sospirava, raschiando con le unghie, scorticandosi le punte delle scarpe, il Signor José riuscì a trascinarsi fin lassù. Adesso non c’era che da entrare. Orbene, è il momento di chiarire che, come scalatore e scassinatore, il Signor José usa metodi assolutamente sorpassati, per non dire antichi, e addirittura arcaici. Tempo addietro, e neanche lui saprebbe dire quando né in quale libro o in quale pagina, ha letto che il grasso di maiale e un asciugamano sono i complementi obbligatori di un tagliavetro ogniqualvolta si intenda entrare con intenzione maliziosa da una finestra, e di codesti insoliti sussidi, con cieca fede, lui si era munito. Avrebbe potuto, ovviamente, per abbreviare la faccenda, sferrare semplicemente un pugno contro il vetro, ma aveva temuto, nel congegnare l’impresa, che l’inevitabile frantumazione susseguente al colpo mettesse in allarme il vicinato, e se era pur vero che il maltempo, con i suoi rumori naturali, era venuto in definitiva a ridurre il rischio, meglio ancora sarebbe stato attenersi rigidamente alla disciplina del metodo. Appoggiati dunque i piedi sul bordo provvidenziale, piantate le ginocchia nella ruvidità delle lastre, il Signor José si mise a tagliare il vetro con il diamante, rasente al telaio. Subito dopo, con il fazzoletto, ansimante per lo sforzo e la scomoda posizione, asciugò alla meglio il vetro per non pregiudicare l’auspicata aderenza del grasso, o di quanto ne restava, visto che i violenti sforzi che aveva dovuto compiere per arrampicarsi sul piano inclinato avevano reso il pacchetto una massa informe e appiccicosa, con le conseguenze che si immaginano per l’integrità degli abiti che aveva indosso. Riuscì comunque a spandere su tutto il vetro uno strato accettabilmente spesso di grasso, sul quale poi, con la meticolosità possibile, si applicò a fare aderire l’asciugamano che, dopo mille contorsioni, era riuscito a estrarre dalla tasca

dell’impermeabile. Adesso avrebbe dovuto calcolare con precisione la forza del colpo, che non doveva essere né tanto debole da doverlo ripetere, né tanto forte da poter annullare l’aderenza dei vetri al tessuto. Comprimendo con la mano sinistra contro il telaio, per non farla scivolare, la parte superiore della stoffa, il Signor José serrò il pugno destro, alzò il braccio all’indietro e sferrò un colpo secco che per fortuna risultò sordo, attutito, come lo sparo di un’arma munita di silenziatore. Ce l’aveva fatta al primo colpo, un’impresa notevole per un apprendista. Un paio di frammenti di vetro caddero all’interno, nient’altro, ma questo non aveva importanza, dentro non c’era nessuno. Per alcuni secondi, nonostante la pioggia, il Signor José se ne rimase disteso sulla tettoia, a recuperare le forze e ad assaporare il trionfo. Poi, raddrizzando il corpo, introdusse il braccio nell’apertura e trovò la maniglia della finestra, mio Dio, com’è faticosa la vita dei rapinatori, la spalancò e, tenendosi al parapetto, con l’aiuto dolente dei piedi che non trovavano più alcun punto di appoggio, riuscì a issarsi, alzare una gamba, poi l’altra, e finalmente a ricadere all’interno, dolcemente, come una foglia che si fosse staccata dall’albero. 8. Il rispetto per la realtà dei fatti e il semplice dovere morale di non offendere la credulità di chi sia disposto ad accettare come plausibili e coerenti le peripezie di una ricerca tanto inaudita reclamano l’immediato chiarimento che il Signor José non cadde dolcemente dal davanzale della finestra, come una foglia che si fosse staccata dal ramo. Al contrario, cadde invece rovinosamente, come sarebbe caduto l’albero intero, mentre gli sarebbe stato tanto facile scivolare a poco a poco dal momentaneo appoggio fino a toccare con i piedi per terra. La caduta, per la durezza del colpo e la successione di contatti dolorosi, e prim’ancora che gli occhi lo potessero confermare, gli mostrò che il luogo in cui si trovava era come un prolungamento della tettoia esterna, o più probabilmente all’inverso, due posti destinati entrambi a conservare le cose fuori uso, ma prima questo, e solo dopo, per mancanza di spazio, quello fuori. Il Signor José se ne rimase lì seduto per alcuni minuti, in attesa che il respiro gli si regolarizzasse e smettessero di tremargli le braccia e le gambe. Dopo di che accese la torcia, avendo cura di illuminare solo il pavimento davanti a sé, e vide che fra i mobili stipati da un lato e dall’altro avevano lasciato un corridoio che andava fino alla porta. Si agitò pensando che forse era chiusa a chiave, nel qual caso avrebbe dovuto forzarla senza strumenti adatti e con il conseguente e inevitabile rumore. Fuori continuava a piovere, il vicinato doveva essere già tutto a dormire, ma di questo non possiamo fidarci molto, c’è gente con un sonno talmente leggero che a svegliarla basta persino il ronzio di una mosca, poi si alza, va in cucina a bere un bicchiere d’acqua, guarda casualmente fuori e vede un buco rettangolare e nero nel muro dell’istituto, forse commenta, Quanto sono poco attenti quelli della scuola, con un tempo del genere lasciano la finestra aperta, oppure, Se ben ricordo, quella finestra era chiusa, sarà stata la forza del vento, nessuno penserà mai che dentro può esserci un ladro, oltretutto sbaglierebbero della grossa, perché il Signor José, ricordiamolo ancora una volta, non è venuto qui per rubare. Adesso gli è appena sovvenuto che dovrebbe chiudere la finestra perché da fuori non si accorgano dell’effrazione, ma poi ha qualche dubbio, si

domanda se non sarebbe meglio lasciarla come sta, Penseranno che sia stato per il vento, o per l’incuria di un bidello, se la chiudessi si noterebbe immediatamente la mancanza del vetro, tanto più che i vetri della finestra sono opachi, quasi bianchi. Fiducioso che il resto del mondo si serva del proprio spirito in maniera deduttiva come lui, il Signor José decise di lasciare la finestra aperta e subito dopo si mise a gattonare fra i mobili, fino a raggiungere la porta. Che non era chiusa a chiave. Tirò un sospiro di sollievo, da lì in poi non ci dovevano essere più ostacoli. Adesso gli serviva una sedia comoda, un divano meglio ancora, per trascorrere riposando il resto della notte, se i nervi gliel’avessero consentito avrebbe addirittura potuto dormire. Come un esperto giocatore di scacchi, aveva calcolato le mosse, per la verità non è molto difficile, quando si è alquanto sicuri delle cause obiettive immediate, procedere in prospettiva con il ventaglio degli effetti probabili e possibili e della loro trasformazione in cause, con il tutto che genera in successione effetti cause effetti e cause effetti cause, fino all’infinito, ma già sappiamo che nel caso del Signor José non si andrà tanto lontano. Ai prudenti sarà sembrata una mossa avventata che lo scritturale ausiliario sia venuto a mettersi così in bocca al lupo, e che adesso, come se fosse piccola l’audacia, voglia restarsene tranquillamente lì per quanto ancora manca della notte e per l’indomani, rischiando di essere colto in flagrante delitto da qualcuno più deduttivo di lui in materia di finestre aperte. Dobbiamo riconoscere, però, che un atto molto più avventato sarebbe stato quello di andarsene in giro da una sala all’altra accendendo le luci. Collegare finestra aperta e luce accesa, quando si sa che sono assenti i legittimi fruitori di una casa o di un istituto, è un’operazione mentale alla portata di chiunque, per quanto poco diffidente possa essere, in genere si chiama la polizia. Il Signor José sentiva dolori in tutto il corpo, doveva avere le ginocchia scorticate, forse sanguinanti, il fastidio prodotto dallo sfiorare dei pantaloni non voleva dire altro, e inoltre era bagnato e sporco dalla testa ai piedi. Si tolse l’impermeabile che gocciolava, pensò, Se ci fosse almeno un locale interno potrei accendere la luce, e un bagno, un bagno dove potermi lavare, almeno le mani. Facendosi strada a tentoni, aprendo e chiudendo porte, trovò quello che cercava, prima un piccolo locale senza finestre, con varie mensole su cui c’era materiale scolastico e di cartoleria, matite, quaderni, fogli di carta, penne biro, gomme per cancellare, bottigliette d’inchiostro, righelli, squadre, doppi decimetri, trasferelli, astucci da disegno, tubetti di colla, scatoline di graffette, e quant’altro non riuscì a vedere. Con la luce accesa, poté finalmente esaminare i danni causati dall’avventura. Le ferite alle ginocchia non sembravano tanto gravi quanto lui supponeva, le sbucciature erano superficiali, anche se dolorose. Alla luce del giorno, quando non avrebbe dovuto più accendere le luci, avrebbe cercato quello che c’è in tutte le scuole, l’armadietto bianco del pronto soccorso, il disinfettante, l’alcol, l’acqua ossigenata, il cotone, le fasce, la garza, il cerotto, né di tanto ci sarebbe stato bisogno. All’impermeabile, invece, codesti rimedi non potranno servire, il suo male è il luridume, è il grasso che impregna il tessuto, Forse con l’alcol riuscirò a toglierne un po’, pensò il Signor José. Poi si mise in cerca del bagno, ed ebbe fortuna, non dovette girare a lungo per trovarne uno che, a giudicare dall’ordine e dalla pulizia, doveva essere usato dai professori. La finestra, che

si affacciava pure sul retro della scuola, oltre ai vetri opachi, ovviamente più necessari qui che nel locale da cui era entrato, aveva degli scuri interni di legno, grazie ai quali il Signor José poté finalmente accendere la luce e lavarsi guardando quello che faceva. Poi, ritemprato nelle forze e più o meno ripulito, andò in cerca di un posto per dormire. Benché al tempo in cui era studente non fosse mai stato in un istituto del genere, così lussuoso e di queste dimensioni, sapeva che ogni scuola ha un suo direttore, che ogni direttore ha un suo ufficio, che ogni ufficio ha un suo divano, proprio quello che il corpo gli richiedeva in quel momento. Continuò dunque ad aprire e chiudere porte, guardò all’interno di sale a cui la soffusa luce esterna dava un’aria fantasmatica, dove i banchi degli alunni sembravano tumuli allineati, dove la cattedra dell’insegnante era come un tenebroso spazio per sacrifici, e la lavagna nera il posto su cui si facevano i conti di tutti. Vide, appese alle pareti, come se fossero le macchie confuse che il tempo lascia dietro di sé sulla pelle degli esseri e delle cose, le mappe del cielo, del mondo e dei paesi, le carte idrografiche e orografiche dell’essere umano, la canalizzazione del sangue, il transito digestivo, l’ordinamento dei muscoli, la comunicazione dei nervi, la struttura delle ossa, il mantice dei polmoni, il labirinto del cervello, la sezione dell’occhio, l’intreccio dei sessi. Le aule si susseguivano una dopo l’altra, lungo i corridoi che facevano il giro dell’istituto, si respirava dappertutto l’odore del gesso, quasi altrettanto antico di quello dei corpi, c’è persino chi sostiene che Dio, prima di mettersi a impastare la creta con la quale poi creò l’uomo, aveva cominciato col disegnare con un gessetto l’uomo e la donna sulla superficie della prima notte, ed ecco da dove ci viene l’unica certezza che abbiamo, quella che eravamo, siamo e saremo polvere, e che in una notte altrettanto profonda ci perderemo. In alcuni punti l’oscurità era fitta, totale, come se l’avessero avvolta in panni neri, ma in altri aleggiava un riverbero oscillante da acquario, una fosforescenza, una luminosità azzurrata che non poteva provenire dalla luce dei lampioni nella strada, o, se proveniva da lì, si trasfigurava attraversando i vetri. Ricordandosi della pallida luce eternamente sospesa sopra il tavolo del conservatore, che le tenebre circondavano e sembravano sul punto di divorare, il Signor José mormorò, La Conservatoria Generale è diversa, poi, come se avesse bisogno di rispondere a se stesso, soggiunse, Probabilmente, quanto maggiore è la differenza tanto maggiore sarà l’uguaglianza, e quanto maggiore è l’uguaglianza tanto maggiore sarà la differenza, in quel momento non sapeva ancora fino a qual punto avesse ragione. Su quel piano c’erano solo le aule, l’ufficio del direttore doveva essere al piano di sopra, lontano dalle voci, dai rumori fastidiosi, dal tumulto dell’entrata e dell’uscita delle classi. La scala di accesso presentava in cima un lucernaio, mentre si saliva si ascendeva progressivamente dall’oscurità alla luce, il che, in questa circostanza, non ha altro significato al di fuori del fatto che, prosaicamente possiamo vedere dove mettiamo i piedi. Volle la casualità della nuova ricerca che, prima di trovare l’ufficio del direttore, il Signor José fosse entrato nella segreteria dell’istituto, una stanza con tre finestre che davano sulla strada. Il mobilio era il solito nelle istituzioni di questo tipo, c’erano un certo numero di scrivanie, altrettante sedie, armadi, archivi, schedari, il cuore del Signor José sussultò nel vederli, era proprio quello che stava cercando,

schede, moduli, protocolli, verbali, annotazioni, la storia della donna sconosciuta al tempo in cui era bambina e adolescente, supponendo che dopo questo non ci siano stati altri istituti nella sua vita. Il Signor José aprì a caso un cassetto dello schedario, ma la luce proveniente dalla strada non era tale da fargli distinguere che tipo di registrazioni contenessero i moduli. Ho un mucchio di tempo, pensò il Signor José, adesso ho bisogno solo di dormire. Uscì dalla segreteria e due porte più avanti scovò finalmente lo studio del direttore. A paragone con l’austerità della Conservatoria Generale, qui non sarebbe esagerato parlare di lusso. Il pavimento era ricoperto da moquette, la finestra aveva un tendaggio di stoffa pesante, adesso chiuso, la scrivania, di stile antico, era ampia, la grande poltrona di pelle nera, moderna, e tutto questo il Signor José lo venne a sapere perché, aperta la porta e ritrovatosi nell’oscurità totale, non ebbe alcun dubbio nell’accendere prima la torcia e, subito dopo, il lampadario centrale. Visto che, stando lì dentro, non vedeva nessuna luce proveniente dall’esterno, anche quel qualcuno che si fosse trovato fuori non avrebbe visto la luce di dentro. La poltrona del direttore era comoda, poteva dormire lì, ma sarebbe stato meglio il lungo e profondo divano a tre posti che sembrava gli stesse aprendo affettuosamente le braccia per accoglierlo e riconfortare il corpo stanco. Il Signor José guardò l’orologio, mancavano pochi minuti alle tre. Vedendo quanto era tardi, non si era neanche accorto del trascorrere del tempo, si sentì improvvisamente stanchissimo, Non ce la faccio più, pensò, e senza riuscire a trattenersi, tant’era la spossatezza nervosa, cominciò a singhiozzare, un pianto sconnesso, quasi convulso, lì, in piedi, quasi fosse ritornato a essere, in un’altra scuola, il ragazzino delle elementari che ha commesso una birichinata ed è stato chiamato dal direttore per il meritato castigo. Abbandonò per terra l’impermeabile bagnato, tirò fuori il fazzoletto dai pantaloni e l’avvicinò agli occhi, ma il fazzoletto era bagnato come tutto il resto, come tutto il corpo, dalla testa ai piedi, e lui se ne accorgeva adesso, era come se stesse sprizzando acqua, come se non fosse altro che uno straccio strizzato, il corpo sporco, lo spirito addolorato, e tutti e due infelici, Cosa ci faccio qui, si domandò, ma non volle rispondere, ebbe paura che il motivo che l’aveva portato in quel luogo, messo così allo scoperto, gli sembrasse assurdo, insensato, roba da matti. Lo riscosse improvvisamente un brivido, Vuoi vedere che mi sono raffreddato, disse a voce alta, subito dopo fece due starnuti e poi, mentre si soffiava il naso, si ritrovò che rammentava, per le vie capricciose di un pensiero che va dove vuole senza dare spiegazioni, quegli attori di cinema che cadono sempre in acqua vestiti o si presentano inzuppati dal diluvio, e non si beccano mai una polmonite, neanche una semplice infreddatura, come capita tutti i giorni nella vita reale, quelli lì, al massimo, si avvolgono una coperta sugli abiti bagnati, un’idea che sarebbe del tutto stupida se non sapessimo che la ripresa sarà subito interrotta per consentire all’attore di ritirarsi nel camerino, di farsi un bagno caldo e indossare l’accappatoio con monogramma. Il Signor José cominciò con il togliersi le scarpe, poi la giacca e la camicia, si sfilò i pantaloni, che andò ad appendere a un attaccapanni a stelo che si trovava in un angolo, adesso gli mancava solo di potersi coprire con la coperta del film, un accessorio difficile da trovare nell’ufficio di un direttore di scuola, a meno che il direttore non sia una persona anziana, di quelle a cui si raffreddano le ginocchia quando stanno

molto tempo sedute. Lo spirito deduttivo del Signor José lo condusse ancora una volta alla conclusione giusta, la coperta era accuratamente ripiegata sotto il cuscino della poltrona. Non era grande, non bastava per coprirlo interamente, ma sarebbe stato meglio che dover rimanere tutta la notte a gelare. Il Signor José spense la luce centrale, si fece strada con la torcia e, sospirando, si distese sul divano, per poi rannicchiarsi in modo da rientrare tutto sotto la coperta. Continuava a tremare, la biancheria intima che aveva tenuto addosso era umida, probabilmente per via del sudore, dello sforzo, si tolse la maglietta e le mutande, si sfilò le calze, poi si avvolse nella coperta come se volesse farsene una seconda pelle e, arrotolato come un porcellino, si lasciò sprofondare nell’oscurità dell’ufficio, in attesa di un po’ di misericordioso calore che lo trasportasse alla misericordia del sonno. Tardò l’uno e tardò l’altro, allontanati da un pensiero che non voleva uscirgli di testa, E se viene qualcuno, e se mi sorprendono in questo stato, e cioè nudo, avrebbero chiamato la polizia, gli avrebbero messo le manette, gli avrebbero chiesto il nome, l’età, la professione, prima sarebbe arrivato il direttore dell’istituto, poi sarebbe comparso il capo della Conservatoria Generale, e tutti e due l’avrebbero guardato con severa condanna, Che cosa fa qui, avrebbero domandato, e lui non avrebbe avuto voce per rispondere, non sarebbe riuscito a spiegare di essere alla ricerca di una donna sconosciuta, non c’è alcun dubbio che sarebbero scoppiati tutti a ridere, e poi gli avrebbero domandato di nuovo, Che cosa fa qui, e insistito con la domanda fino a che lui non avesse confessato tutto, e la riprova di tutto ciò è che continuarono a ripeterla nel sogno quando, finalmente, mentre il mattino cominciava ad avvicinarsi al mondo, il Signor José poté abbandonare l’estenuante veglia, o lei abbandonò lui. 9. Si svegliò tardi, sognando che era di nuovo sulla tettoia, con la pioggia che gli si riversava addosso con fragore di cataratta, e che la donna sconosciuta, nella figura di un’attrice cinematografica della sua collezione, seduta sul davanzale della finestra e con la coperta del direttore ripiegata in grembo, l’aspettava mentre lui saliva, e intanto gli diceva, Forse era meglio bussare alla porta principale, al che lui, ansimando, rispondeva, Non sapevo che eri qui, e lei, Io ci sono sempre, non esco mai, poi sembrava che si stesse sporgendo per aiutarlo a salire, ma all’improvviso scomparve, insieme a lei scomparve anche la tettoia e rimase solo la pioggia, e pioveva, pioveva senza sosta sulla poltrona del capo della Conservatoria Generale dove il Signor José si vide seduto. Gli faceva un po’ male la testa, ma l’infreddatura non sembrava essersi aggravata. Fra i pannelli della tenda filtrava una lamina sottilissima di luce grigia, e quindi, al contrario di quanto gli era parso, non dovevano essere chiusi completamente, Non se ne dev’essere accorto nessuno, pensò, e aveva ragione, abbagliante che più non si può è la luce delle stelle, e non solo in gran parte si perde nello spazio, ma basta una semplice nebbia per occultare ai nostri occhi la luce rimasta. Un vicino al di là della strada, anche se fosse andato a sbirciare alla finestra per vedere com’era il tempo, avrebbe pensato al riverbero della pioggia vedendo quel filo luminoso ondeggiante fra le gocce che scivolavano sul vetro. Avvolto nella coperta, il Signor José scostò leggermente le tende, adesso toccava a lui sapere com’era il tempo. In quel

momento non pioveva, ma il cielo appariva coperto da un’unica nuvola scura, tanto bassa da sembrare che sfiorasse i tetti, come una immensa lavagna. Meglio così, pensò, quanta meno gente gira per la strada meglio è. Andò a tastare i vestiti che si era tolto, a verificare se non fossero già in condizione di essere indossati. La camicia, la maglietta, le mutande e le calze erano accettabilmente asciutti, i pantaloni molto meno, ma la giacca e l’impermeabile, per quelli ci volevano ancora un mucchio di ore. Indossò tutto tranne i pantaloni, per evitare che la stoffa indurita dall’umidità gli sfiorasse le ginocchia scorticate, e si mise in cerca dell’infermeria. In base alla logica, doveva essere ubicata a pianterreno, vicino alle elementari e agli incidenti che sono loro propri, accanto al cortile della ricreazione dove, negli intervalli fra le lezioni, in giochi più o meno violenti, gli alunni vanno a sfogare le energie, e soprattutto il tedio e l’ansia provocati dallo studio. Ci azzeccò. Dopo aver lavato le ferite con acqua ossigenata, le spennellò con un disinfettante che odorava di iodio e le bendò accuratamente, con una tale esagerazione di garze e cerotti che sembrava piuttosto si fosse infilato un paio di ginocchiere. Ciononostante, riusciva a flettere le articolazioni quanto bastava per camminare. Si infilò i pantaloni e si sentì un altro, non tanto, però, da dimenticare il malessere generalizzato del povero corpo. Ci sarà pure qualcosa contro l’infreddatura e questo mal di capo, pensò, e poco dopo, trovato quello che gli serviva, aveva già due compresse nello stomaco. Non aveva avuto bisogno di prendere alcuna precauzione per non farsi vedere dall’esterno, visto che anche la finestra dell’infermeria, come c’era da aspettarsi, aveva i vetri opachi, ma da quel momento in poi avrebbe dovuto prestare la massima attenzione ai movimenti che faceva, nessuna distrazione, evitare di uscire dal fondo delle aule, muoversi a quattro zampe nel caso di essere costretto ad avvicinarsi a una finestra, comportarsi, insomma, come se non avesse mai fatto altro nella vita se non rapinare case. Un bruciore subitaneo allo stomaco gli ricordò l’errore che aveva commesso nel prendere le compresse senza l’accompagnamento di un po’ di cibo, foss’anche solo un biscotto. Benissimo, e dov’è che ci sono dei biscotti qui dentro, si domandò, accorgendosi di avere adesso un nuovo problema da risolvere, il problema del cibo, visto che non avrebbe avuto la possibilità di uscire dall’edificio prima che facesse notte, E notte fonda, precisò. Ancorché, come sappiamo, si tratti di una persona facile da accontentare in fatto di alimentazione, con qualcosa doveva pur mettere a tacere l’appetito fino al rientro a casa, ma tuttavia il Signor José rispose al bisogno con queste parole stoiche, Insomma, si tratta di un giorno, non si muore mica se si passa qualche ora senza mangiare. Uscì dall’infermeria e, benché la segreteria, dove avrebbe condotto le ricerche, si trovasse al secondo piano, per pura e semplice curiosità decise di fare un giro per i servizi del pianterreno. Trovò subito la palestra, con i suoi guardaroba, le sue spalliere e gli altri attrezzi, la trave, il plinto, gli anelli, la cavallina, il trampolino, i materassi, ai suoi tempi nelle scuole certe raffinatezze atletiche non si vedevano, e del resto lui non le avrebbe neanche desiderate, visto che era, già allora e ancora oggi, quello che generalmente si definisce una figura gracile. Il bruciore allo stomaco si accentuava, gli salì alla bocca un’ondata acida che gli pizzicò la gola, se almeno fosse servito ad alleviargli il mal di testa, È l’infreddatura, probabilmente ho la febbre, pensò nel momento in cui apriva

un’altra porta. Era, benedetto sia lo spirito di curiosità, il refettorio. Allora il pensiero del Signor José mise le ali, si precipitò velocissimo appresso al cibo, Se c’è un refettorio, c’è una cucina, se c’è una cucina, non ebbe bisogno di continuare a pensare, ecco lì la cucina, con il suo fornello, i suoi tegami e le sue pentole, i suoi piatti e bicchieri, le sue credenze, il suo enorme frigorifero. Vi si diresse immediatamente, lo spalancò, gli alimenti gli comparvero illuminati da un’aureola, ancora una volta sia lodato il dio dei curiosi, e anche quello dei rapinatori, in alcuni casi non meno meritevole. Un quarto d’ora dopo, il Signor José era definitivamente un altro uomo, ricomposto nel corpo e nell’anima, con i vestiti quasi asciutti, le ginocchia curate e lo stomaco che lavorava su qualcosa di più nutriente e consistente che non due amare compresse contro l’infreddatura. Verso l’ora di pranzo sarebbe tornato in questa cucina, a questo umanitario frigorifero, ora si trattava di andare a esaminare gli schedari della segreteria, di fare un altro passo, chissà se lungo, se corto, nell’accertamento dei fatti della vita di quella donna sconosciuta che trent’anni addietro, quando era solo una bambina dagli occhi seri e dalla frangia che le sfiorava le sopracciglia, si era seduta su quel banco per mangiare la sua merenda di pane e marmellata, forse rattristata dalla macchia che aveva fatto nel copiare, forse felice perché la madrina le aveva promesso una bambola. L’etichetta sul cassetto era esplicita, Alunni in Ordine Alfabetico, altri cassetti presentavano distici diversi, Alunni di Prima, Alunni di Seconda, Alunni di Terza, e così via, fino all’ultimo anno di corso. Lo spirito professionale del Signor José valutò positivamente il sistema di archivio, organizzato in modo da facilitare l’accesso ai moduli degli alunni per due vie convergenti e complementari, una generale e l’altra particolare. Un cassetto a parte conteneva le schede dei professori, secondo quanto si poteva leggere sull’etichetta che vi era apposta, Professori. Guardare l’etichetta mise in movimento, di riflesso, nello spirito del Signor José, gli ingranaggi del suo efficace meccanismo deduttivo, Se, com’è logicamente presumibile, pensò, i professori che stanno nel cassetto sono quelli attualmente in servizio, allora i moduli degli studenti, per semplice coerenza archivistica, devono riferirsi alla popolazione scolastica attuale, chiunque si renderebbe conto che le schede degli alunni di trent’anni scolastici, e questo facendo i conti al minimo, non potrebbero mai rientrare in questa mezza dozzina di cassetti, per quanto sottile potesse essere il cartoncino impiegato. Senza speranza, solo per tranquillizzarsi la coscienza, il Signor José aprì il cassetto dove, secondo l’ordine alfabetico, avrebbe dovuto trovarsi il modulo della donna sconosciuta. Non c’era. Chiuse il cassetto, si guardò intorno, Dev’esserci un altro schedario con i moduli dei vecchi alunni, pensò, è impossibile che li distruggano quando arrivano a fine corso, sarebbe un attentato contro le regole più elementari dell’archivistica. Se un tale schedario esisteva, non era certo lì. Nervosamente, e malgrado immaginasse che la ricerca sarebbe stata inutile, aprì gli armadi e i cassetti delle scrivanie. Niente. La testa, come se non riuscisse a sopportare la delusione, cominciò a dolergli di più. E ora, José, si domandò. Ora bisogna cercare, rispose. Uscì dalla segreteria, guardò da un lato e dall’altro del lungo corridoio. Qui non c’erano aule, dunque i locali di questo piano, oltre all’ufficio del direttore, dovevano avere altre applicazioni, uno di essi, come vide subito,

era una sala professori, un altro serviva da ripostiglio per quello che pareva materiale scolastico ormai fuori uso, e gli altri due contenevano, finalmente, quello che apparentemente doveva essere, ordinato in varie casse sulle grandi mensole, l’archivio storico della scuola. Esultò il Signor José, ma, ecco il vantaggio di chi ha esperienza nel proprio mestiere, oppure, dal punto di vista della speranza che si è appena perduta, il penoso svantaggio, pochi minuti gli bastarono per verificare che neanche lì si trovava quello che lui cercava, l’archivio riguardava solo incartamenti burocratici, c’erano le lettere ricevute, c’erano i duplicati delle lettere scritte, c’erano statistiche, mappe di frequenza, grafici di profitto, raccolte di legislazione rilegate. Frugò un paio di volte, inutilmente. Disperato, uscì nel corridoio, Tanti sforzi per niente, disse, e poi, ancora una volta, costringendosi a obbedire alla logica, È impossibile, quei maledetti moduli dovranno pur essere da qualche parte, se questa gente non ha distrutto la corrispondenza di tanti anni, una corrispondenza che non serve più a niente, tantomeno distruggerebbe le schede degli studenti, sono documenti importantissimi per le biografie, non sarei affatto sorpreso se avessero frequentato questo istituto alcuni di quelli che ho nella mia collezione. In altre circostanze, forse il Signor José avrebbe pensato che, così come gli era sovvenuta l’idea di arricchire i ritagli con le copie degli atti di nascita, sarebbe stato interessante potervi allegare anche la documentazione relativa alla frequenza e al profitto scolastico. Comunque sia, non sarebbe mai stato altro che un sogno di difficile realizzazione. Una cosa era avere i documenti di nascita proprio lì a portata di mano, nella Conservatoria Generale, un’altra cosa era quella di andarsene in giro per la città a forzare scuole solo per sapere se tizia ha avuto un quattro o un otto in matematica al quarto anno e se tizio era tanto indisciplinato, come amava dichiarare nelle interviste. E se per entrare in ciascuna di codeste scuole avrebbe dovuto soffrire tanto quanto aveva già sofferto in questa, allora sarebbe stato meglio rimanersene in pace a casa, rassegnato a conoscere del mondo solo quello che le mani possono raggiungere senza mai uscirne, parole, immagini, illusioni. Risoluto a chiarire il caso una volta per tutte, il Signor José rientrò nell’archivio, Se la logica è ancora di questo mondo, i moduli devono essere qui, disse. Gli scaffali del primo compartimento, cassa per cassa, blocco per blocco, furono passati col pettine fino, un modo di dire che deve aver avuto origine al tempo in cui le persone avevano bisogno di usare questo pettine, detto anche pettine delle bestie, per riuscire a cacciare quello che il pettine normale lasciava scappare, ma la ricerca risultò di nuovo nulla, moduli non ce n’erano, o meglio, ce n’erano, sì, infilati confusamente in una grande cassa, ma relativi solo agli ultimi anni. Convinto adesso che tutti gli altri moduli, in definitiva, erano stati distrutti, stracciati, buttati nella spazzatura, se non bruciati, fu ormai senza speranza, con l’indifferenza di chi si limita a compiere un dovere inutile, che il Signor José entrò nel secondo locale. I suoi occhi però, ammesso che il verbo non sia del tutto improprio in questa frase, sentirono per lui una gran pena, per quanto la si cerchi non si troverà altra spiegazione per il fatto che gli abbiano messo davanti, immediatamente, quella porticina fra due scaffali, quasi sapessero fin dall’inizio che era lì. Credette il Signor José di essere giunto al termine dei suoi travagli, al coronamento dei suoi sforzi, e per la verità bisogna ammettere che l’inverso di tutto ciò sarebbe un’inammissibile

durezza del destino, qualche ragione il popolo ce l’avrà pure se persiste nell’affermare, nonostante le contrarietà della vita, che la cattiva sorte non sempre deve stare dietro la porta, dietro di questa, almeno, come negli antichi racconti, dev’esserci un tesoro, anche se per arrivarci bisogna ancora combattere il drago. Questi non ha le fauci che gli sbavano per il furore, non sprizza fumo e fiamme dalle narici, non emette ruggiti simili ai tremori della terra, è semplicemente un’oscurità immobile in attesa, fitta e silenziosa come il fondo del mare, ci sono persone che hanno fama di valorose ma che non avrebbero il coraggio di passarci, alcune addirittura fuggirebbero all’istante, terrorizzate, per paura di essere afferrate alla gola dalla bestia immonda con gli artigli. Pur non essendo il tipo da poter indicare come esempio o modello di valentia, il Signor José, con gli anni di servizio in Conservatoria Generale, ha acquisito una conoscenza di notte, ombra, scuro e tenebra che ha finito per compensare la sua timidezza naturale e che adesso gli permette, senza eccessivo timore, di allungare il braccio dentro il corpo del drago in cerca dell’interruttore dell’elettricità. Lo trovò, lo fece girare, ma non si accese nessuna luce. Trascinando i piedi per non inciampare, fece qualche passo avanti finché andò a sbattere con lo stinco destro contro uno spigolo duro. Si abbassò per tastare l’ostacolo e, mentre si accorgeva che si trattava di un gradino metallico, sentì nella tasca il volume della torcia di cui, in mezzo a tante e tanto contrastanti emozioni, si era dimenticato. Aveva davanti a sé una scala a chiocciola che saliva verso una tenebra ancora più fitta di quella della soglia della porta e che ingoiava il fascio di luce prima che questo potesse mostrare il cammino di sopra. La scala non ha un corrimano, proprio la cosa meno indicata per chi soffre tanto di vertigini, al quinto scalino, se mai riuscirà ad arrivarci, il Signor José perderà la nozione dell’altezza reale a cui si trova, si sentirà sul punto di cadere rovinosamente, e cadrà. Non è andata così. Il Signor José si sta comportando in maniera ridicola, ma non gliene importa, solo lui sa fino a che punto è assurdo e insensato quello che sta facendo, nessuno lo potrà vedere trascinarsi su per questa scala come una lucertola ancora non del tutto sveglia dall’ibernazione, con il corpo che cerca di accompagnare la curva elicoidale apparentemente senza fine, le ginocchia di nuovo martirizzate. Quando le mani del Signor José toccarono finalmente il pavimento liscio della soffitta, le forze del suo corpo già da tempo avevano perduto la battaglia con lo spirito spaventato, perciò non riuscì ad alzarsi subito, rimase disteso così, bocconi, con la camicia e la faccia poggiate sulla polvere che ricopriva il pavimento di legno, le gambe penzolanti sui gradini, quante sofferenze deve superare chi ha abbandonato la tranquillità della propria casa per ficcarsi in folli avventure. Trascorsi alcuni minuti, ancora sdraiato bocconi perché non era tanto carente di sensatezza da commettere l’imprudenza di mettersi in piedi nell’oscurità, con il rischio di fare un passo falso e di cadere disastrosamente nell’abisso da cui proveniva, il Signor José, con notevole sforzo, torcendo il corpo, riuscì a scovare di nuovo la torcia che aveva rimesso nella tasca posteriore dei pantaloni. L’accese e passò la luce sul pavimento davanti a sé. C’erano fogli sparsi qua e là, scatole di cartone, alcune spaccate, tutto coperto di polvere. Qualche metro più avanti scorse quello che gli si raffigurò come i piedi di una sedia. Salì leggermente il fascio di luce, era effettivamente una

sedia. Sembrava in buono stato, il sedile, lo schienale, e sopra, pendente dal soffitto basso, c’era una lampada senza paralume, Come in Conservatoria Generale, pensò il Signor José. Diresse il fascio di luce sulle pareti intorno, gli apparvero le sagome fugaci di scaffalature che sembravano fare il giro di tutto il locale. Non erano alte, né avrebbero potuto esserlo vista l’inclinazione del soffitto, ed erano sovraccariche di scatole e di informi cataste di carte. Dove sarà l’interruttore della luce, si domandò il Signor José, e la risposta fu quella che avrebbe dovuto aspettarsi, È là sotto, e non funziona, Solo con questa torcia non credo che riuscirò a trovare i moduli, e inoltre mi sa che la pila sta arrivando agli sgoccioli, Avresti dovuto pensarci prima, Può darsi che abbiano messo un altro interruttore qui, Anche se così fosse, abbiamo già visto che la lampadina è fulminata, Non lo sappiamo, Se non fosse fulminata si sarebbe accesa, L’unica cosa che sappiamo è che abbiamo azionato l’interruttore e la luce non si è accesa, Ma c’è, Può significare altre cose, Che cosa, Che giù da basso non c’è la lampadina, Allora continuo ad avere ragione, questa qui è fulminata, Nulla ci dice che non ci siano due interruttori e due lampadine, una per la scala e l’altra per la soffitta, quella di sotto sarà fulminata, quella di sopra ancora non lo sappiamo, Visto che sei riuscito ad arrivare a tale deduzione, scopri l’interruttore di questa. Il Signor José lasciò la scomoda posizione in cui si trovava ancora e si sedette per terra, Uscirò da qui con i vestiti in condizioni pietose, pensò, e puntò il fascio di luce sulla parete più vicina all’apertura delle scale, Se esiste, dev’essere qui. Lo scoprì nel preciso istante in cui si stava avvicinando alla conclusione scoraggiante che l’unico interruttore era quello giù da basso. Nel premere casualmente con la mano libera sul pavimento di legno per appoggiarsi meglio, la luce del soffitto si accese, l’interruttore, di quelli a pulsante, era stato montato sul pavimento, in modo da essere immediatamente a portata di mano di chi salisse la scala. La luce giallastra della lampadina a stento raggiungeva la parete di fondo, sul pavimento si vedevano segni di passi. Ricordandosi dei moduli che aveva visto al piano di sotto, il Signor José disse a voce alta, Sono perlomeno sei anni che qui non entra nessuno. Quando l’eco delle parole svanì, il Signor José notò che si era creato nella soffitta un grande silenzio, come se il silenzio che c’era prima contenesse un silenzio più grande, forse erano i tarli del legno che avevano interrotto la loro attività di scavo. Dal soffitto pendevano le ragnatele annerite dalla polvere, i proprietari dovevano essere morti da un mucchio di tempo per mancanza di cibo, qui non c’era nulla che potesse attirare una mosca smarrita, tanto più con la porta di sotto ben chiusa, e le tarme della carta, i pesciolini d’argento, proprio come i tarli nelle travi, non avevano alcun motivo per sostituire con il mondo esterno le gallerie di cellulosa in cui vivevano. Il Signor José si alzò, inutilmente tentò di scuotersi la polvere dai pantaloni e dalla camicia, la faccia sembrava quella di un pagliaccio stravagante, con una grande macchia da un lato solo. Andò a sedersi sulla sedia, sotto la lampadina, e cominciò a parlare da solo, Ragioniamo, disse, ragioniamo, se i vecchi moduli sono qui, e tutto sta a indicarlo, non è affatto probabile che siano riuniti alunno per alunno, e cioè che i moduli di ciascun alunno siano tutti insieme in modo da poterne seguire con un colpo d’occhio l’intero percorso scolastico, è sicuro come l’oro che la segreteria, alla fine di ogni anno, abbia fatto un bel fascio di tutti i moduli corrispondenti a quell’anno

e li abbia archiviati qui, non credo neanche che si siano mai presi la briga di metterli via nelle scatole, o forse sì, bisogna vedere, spero, in tal caso, che abbiano almeno pensato di scrivere all’esterno l’anno a cui si riferiscono, in un modo o nell’altro sarà questione solo di tempo e di pazienza. La conclusione non aveva aggiunto granché alle premesse, è fin dall’inizio della vita che il Signor José sa di aver bisogno solo di tempo per mettere a frutto la pazienza, è fin dall’inizio che aspetta che alla pazienza non venga a mancare il tempo. Si alzò e, fedele alla regola che in tutte le operazioni di ricerca è sempre meglio cominciare da un punto e procedere con metodo e disciplina, attaccò il lavoro dall’estremità di una delle file di scaffali, risoluto a non lasciare foglio su foglio senza aver verificato se, tra quello di sotto e quello di sopra, non ce ne fosse per caso un altro nascosto. Aprire una scatola, slegare un mazzo di incartamenti, a ogni movimento che faceva sollevava una nuvola di polvere, a tal punto che, per non morire asfissiato, dovette legarsi il fazzoletto sul naso e sulla bocca, un procedimento preventivo che agli scritturali ausiliari si consigliava di seguire ogniqualvolta dovevano recarsi nell’archivio dei morti della Conservatoria Generale. In pochi minuti le mani gli diventarono nere, il fazzoletto perse quel po’ di candore che aveva ancora, il Signor José si era trasformato in un minatore di carbone che si aspettava di trovare in fondo alla miniera il carbonio puro di un diamante. Il primo modulo comparve dopo mezz’ora. La bambina non usava più la frangia, ma gli occhi, in questa fotografia scattata a quindici anni, avevano ancora la stessa aria di dolente gravità. Con la massima cura, il Signor José andò a posarlo sulla sedia e continuò la ricerca. Lavorava in una specie di sogno, meticoloso, febbrile, fra le dita gli sgusciavano le tarme della carta spaventate dalla luce, e a poco a poco, come se stesse smuovendo i resti di un tumulo, la polvere gli si aggrappava alla pelle, talmente impalpabile da attraversargli gli abiti. All’inizio, quando compariva un blocco di moduli, andava immediatamente a quello che gli interessava, poi cominciò a soffermarsi sui nomi, sulle immagini, per niente, solo perché c’erano e nessun altro sarebbe entrato di nuovo in questa soffitta per allontanare la polvere che li copriva, centinaia, migliaia di volti di ragazzi e ragazze che guardavano l’obiettivo, l’altro lato del mondo, in attesa chissà di che cosa. Nella Conservatoria Generale non era così, nella Conservatoria Generale esistevano solo parole, nella Conservatoria Generale non si poteva vedere com’erano cambiate o come andavano cambiando le facce, mentre la cosa più importante sarebbe proprio questa, ciò che il tempo fa cambiare, e non il nome, che non varia mai. Quando lo stomaco del Signor José si fece sentire, c’erano sulla sedia sette moduli, due dei quali con fotografie uguali, la madre doveva aver detto, Porta questa dell’anno scorso, non c’è bisogno di andare dal fotografo, e lei aveva portato quella fotografia, dispiaciuta di non poterne avere quell’anno una nuova. Prima di scendere in cucina, il Signor José entrò nel bagno del direttore per lavarsi le mani, rimase sgomento quando si vide allo specchio, non aveva immaginato di poter avere la faccia in quello stato, sporchissima, solcata da strisce di sudore, Non sembro neanche io, pensò, e probabilmente non lo era mai stato tanto. Quando ebbe finito di mangiare, salì nella soffitta, in fretta, per quanto le ginocchia glielo permisero, gli era venuto in mente che, se fosse mancata la luce, ipotesi da tenere in conto con queste piogge, non avrebbe

potuto terminare la ricerca. Supponendo che non ci fosse stata nessuna ripetizione di anno, doveva trovare ancora solo cinque moduli, e se ora fosse rimasto al buio i suoi sforzi sarebbero andati in parte perduti, visto che non sarebbe potuto rientrare nella scuola. Assorto nel lavoro, si era dimenticato del mal di capo, dell’infreddatura, e adesso si accorgeva di essere peggiorato. Ridiscese per prendere altre due compresse, salì facendo forza sulla debolezza e riprese il lavoro. Il pomeriggio stava volgendo al termine quando trovò l’ultimo modulo. Spense la luce della soffitta, chiuse la porta e, come un sonnambulo, indossò la giacca e l’impermeabile, ripulì alla meglio tutte le tracce del proprio passaggio e si sedette ad aspettare la sera. 10. Il mattino seguente, era da poco iniziato l’orario d’ufficio nella Conservatoria Generale e gli impiegati erano già seduti ai propri posti quando il Signor José socchiuse la porta di comunicazione e fece pss pss per richiamare l’attenzione del collega scritturale ausiliario che si trovava più vicino. L’uomo volse il capo e vide una faccia congestionata che strizzava gli occhi, Cosa desidera, domandò a voce bassa per non turbare il servizio, ma lasciando trasparire dalle parole un tono di recriminazione ironica, come se lo scandalo dell’assenza avesse finito solo per dare ragione a chi del ritardo si era già scandalizzato, Sono malato, disse il Signor José, non posso venire a lavorare. Il collega si alzò contrariato, fece tre passi verso il funzionario della sua ala e lo informò, Scusi, signore, c’è lì il Signor José che dice di essere malato. A sua volta, il funzionario si alzò, fece quattro passi verso il rispettivo vicecapo e lo informò, Scusi, signore, c’è lo scritturale ausiliario Signor José che dice di essere malato. Prima di fare i cinque passi che lo separavano dalla scrivania del conservatore, il vicecapo andò ad appurare la natura della malattia, Che cosa accusa, domandò, Sono raffreddato, rispose il Signor José, Un raffreddore non è mai stato motivo per assentarsi dal lavoro, Ho la febbre, Come sa di avere la febbre, Mi sono messo il termometro, Qualche linea al di sopra della temperatura normale, No signore, ho trentanove, Con un semplice raffreddore non sale mai a tanto, Allora può darsi che abbia l’influenza, O una polmonite, Ma che bell’augurio, Sto solo prospettando un’ipotesi, non glielo sto augurando, Scusi, era un modo di dire, E come ha fatto a ridursi in questo stato, Credo sia per la tanta pioggia che ho preso, Le imprudenze si pagano, Ha ragione, Le malattie contratte per cause estranee al servizio non andrebbero considerate, In effetti non ero in servizio, Ne metterò al corrente il capo, Sì signore, Non chiuda la porta, può darsi che lui voglia darle alcune istruzioni, Sì signore. Il conservatore non diede alcuna istruzione, si limitò a guardare al di sopra delle teste chine degli impiegati e a fare un gesto con la mano, un gesto breve, come se non considerasse l’argomento perché insignificante o rimandasse a dopo l’attenzione che intendeva concedergli, a quella distanza il Signor José non poteva essere in grado di distinguere la differenza, supponendo che i suoi occhi lacrimosi e infiammati riuscissero a reagire. In ogni modo, probabilmente impaurito dallo sguardo, il Signor José, senza rendersene conto, aprì un po’ di più la porta, mostrandosi con tutto il corpo alla Conservatoria Generale, una vecchia vestaglia sul pigiama, i piedi infilati in un paio di pianelle scalcagnate, l’aria avvizzita di chi si è beccato un

brutto raffreddore, o un’influenza maligna, o una broncopolmonite di quelle mortali, non si sa mai, è successo tante volte nelle varie vite che una leggera brezza si sia trasformata in un ciclone devastante. Il vicecapo era tornato a dirgli che quello stesso giorno o l’indomani gli avrebbe fatto visita il medico fiscale, ma subito dopo, oh meraviglia, pronunciò quelle parole che nessun impiegato di livello inferiore della Conservatoria Generale, lui o qualcun altro, aveva mai avuto la fortuna di ascoltare, Il capo le fa tanti auguri di miglioramento, e a quello che stava dicendo pareva non crederci lo stesso vicecapo. Stupefatto, il Signor José ebbe comunque la presenza di spirito sufficiente per guardare in direzione del conservatore e ringraziarlo dell’inatteso augurio, ma questi teneva il capo chino, come se fosse intento al lavoro, il che, conoscitori come siamo dei costumi lavorativi di questa Conservatoria Generale, è più che dubbioso. Lentamente, il Signor José chiuse la porta e, tremante per l’emozione e per la febbre, andò a infilarsi a letto. Non si era beccato solo quella pioggia che gli era caduta addosso mentre, scivolando giù dalla tettoia, lottava per introdursi nell’istituto. Quando, giunta la sera, era uscito finalmente dalla finestra e aveva raggiunto la strada, non poteva immaginare, povero lui, che cosa l’aspettava. Le più che penose circostanze della scalata, ma soprattutto la polvere accumulata nell’archivio della soffitta, l’avevano lasciato, dalla testa ai piedi, in uno stato di sporcizia impossibile da descrivere, con la faccia e i capelli impastati di nero, le mani simili a ceppi di carbone, per non parlare poi degli indumenti, l’impermeabile impregnato di grasso che pareva uno straccio, i pantaloni come se fossero andati a strofinarsi sul catrame, la camicia che sembrava fosse servita a ripulire un camino dalla fuliggine di secoli, un qualsiasi vagabondo, pur vivendo nella più estrema delle indigenze, si sarebbe presentato per la strada con più dignità. Quando il Signor José, due isolati dopo la scuola, a quel punto aveva smesso di piovere, aveva fermato un tassì per rientrare a casa, era accaduto ciò che doveva accadere, il conducente, vedendo quella figura nera comparire all’improvviso dalle viscere della notte, si era spaventato e aveva accelerato, e questa non era stata l’unica volta, i tre tassì a cui il Signor José aveva poi fatto cenno erano scomparsi dopo aver svoltato l’angolo come se li stesse inseguendo il diavolo. Si era rassegnato, dunque, il Signor José a ritornare a casa a piedi, adesso neanche in un autobus si sarebbe azzardato a salire, pazienza, sarà un’altra faticaccia da aggiungere a questa che a stento gli consente di trascinare i piedi, ma il peggio era stato che, pochissimo tempo dopo, aveva ripreso a piovere e non aveva più smesso durante tutto l’interminabile tragitto, strade, traverse, piazze, viali, attraverso una città apparentemente deserta, e quell’uomo solo, gocciolante d’acqua, senza neanche un parapioggia a proteggerlo dal grosso, il motivo è comprensibile, nessuno va a fare una rapina con il parapioggia, è come in guerra, potrebbe ripararsi nel vano di un portone e aspettare una pausa del cielo, ma non vale la pena, più bagnato di com’è non è possibile. Quando il Signor José era arrivato a casa, l’unica parte compatibilmente asciutta del suo abbigliamento era una tasca della giacca, quella interna a sinistra, dove aveva infilato i moduli scolastici della ragazza sconosciuta, ci aveva tenuto per tutto il tempo la mano destra sopra, come a difenderli dalla pioggia, se qualcuno l’avesse visto avrebbe pensato, tanto più per quella sua faccia sofferente, che doveva avere

qualcosa al cuore. Battendo i denti, si era spogliato nudo, domandandosi vagamente come poteva risolvere il problema della pulizia di quegli indumenti ammucchiati per terra, non era poi tanto fornito di abiti, scarpe, calze e camicie al punto da poter mandare in tintoria, tutto in una volta, quasi fosse un benestante, un cambio completo, sicuramente gli sarebbe mancato qualcuno di questi indumenti quando l’indomani avesse dovuto vestirsi con quanto gli restava. Aveva deciso di rimandare la preoccupazione a dopo, ora doveva togliersi questa schifezza di dosso, e per giunta lo scaldabagno funzionava in maniera difettosa, l’acqua ne usciva bollente oppure fredda da gelare, al solo pensiero aveva rabbrividito, e poi, come se desiderasse convincersi da solo, aveva mormorato, Forse mi farà bene al raffreddore, uno spruzzo caldo, uno spruzzo freddo, l’ho sentito dire. Era entrato nello sgabuzzino che gli serviva da bagno, si era guardato allo specchio e aveva dato ragione allo spavento dei conducenti dei tassì, al loro posto avrebbe fatto lo stesso, fuggire da questo fantasma dalle orbite incavate e con gli angoli della bocca gocciolanti una specie di bava nera. Quella volta lo scaldabagno non si era comportato male, gli aveva sferrato solo due frustate fredde all’inizio, il resto era stato confortevolmente tiepido, mentre una rapida scaldata ogni tanto serviva addirittura a sciogliere la sporcizia. Nell’uscire dal bagno, il Signor José si sentiva ritemprato, come nuovo, ma non appena si era infilato a letto l’avevano riassalito i brividi, solo allora si era ricordato di aprire il cassetto del comodino dove teneva il termometro, e poco dopo diceva, Trentanove, se domani mattina starò come adesso non potrò andare a lavorare. Che fosse per effetto della febbre o della fatica, o di entrambi, questo pensiero non l’aveva messo in agitazione, non gli era parsa strana l’irregolare idea di mancare al servizio, in quel momento il Signor José non sembrava il Signor José; oppure c’erano due Signor José sdraiati a letto, con la coperta tirata fin sopra il naso, un Signor José che aveva perduto il senso delle responsabilità, un altro Signor José per cui ciò era divenuto del tutto indifferente. Con la luce accesa, era rimasto a sonnecchiare per alcuni minuti, e poi si era svegliato di soprassalto sognando che abbandonava i moduli sulla sedia della soffitta, che li abbandonava deliberatamente, come se in tutta quell’avventura il suo unico scopo non fosse stato quello di cercarli e trovarli. E sognava anche che qualcuno entrava in soffitta dopo che lui ne era uscito, che vedeva il mucchietto dei tredici moduli e domandava, Che mistero è mai questo. Mezzo intontito, si era alzato ed era andato a prenderli, li aveva già posati sul tavolo quando aveva svuotato le tasche della giacca, e poi se n’era tornato a letto. I moduli erano pieni di ditate nere, alcuni mostravano addirittura, con assoluta nitidezza, le sue impronte digitali, l’indomani avrebbe dovuto ripulirli per eludere qualsiasi tentativo di identificazione, Che stupidaggine, aveva pensato, su tutto quello che tocchiamo rimangono le impronte digitali, pulisco queste e lascio le altre, la differenza è che alcune sono visibili e altre no. Aveva chiuso gli occhi e poco dopo era ricaduto nella sonnolenza, la mano che già stentava a trattenere i moduli era ripiombata sulla coltre, alcuni fogli erano scivolati per terra, ecco lì le fotografie di una ragazza a varie età, ragazzina e adolescente, portate qui abusivamente, nessuno ha il diritto di appropriarsi di ritratti che non gli appartengano, a meno che non gli siano stati regalati, portare la foto di qualcuno in tasca è come portargli via un pochetto dell’anima. Il sogno del

Signor José, ma da questo non si era svegliato, era adesso diverso, si vedeva lì a ripulire le impronte digitali lasciate nella scuola, ce n’erano dappertutto, sulla finestra da cui era entrato, nell’infermeria, in segreteria, nell’ufficio del direttore, nel refettorio, in cucina, nell’archivio, di quelle in soffitta aveva pensato che non valesse la pena di preoccuparsi, lì nessuno sarebbe entrato per poi domandare, Che mistero è mai questo, ma purtroppo le mani che ripulivano la traccia visibile andavano lasciando dietro di sé una traccia invisibile, se il direttore dell’istituto avesse presentato una denuncia di effrazione alla polizia e ne fosse seguita un’indagine sul serio, il Signor José sarebbe finito in galera, tant’è vero come due più due fa quattro, immaginatevi il discredito e la vergogna che avrebbero poi macchiato per sempre la reputazione della Conservatoria Generale dell’Anagrafe. Nel cuore della notte il Signor José si era svegliato bruciante di febbre, sembrava che delirasse, e dicendo, Non ho rubato niente, non ho rubato niente, ed era vero che, propriamente parlando, non aveva rubato niente, per quanto il direttore ricerchi e indaghi, per quante ulteriori verifiche, conteggi e interviste si possano realizzare, inventario in pugno, scaricando una voce dopo l’altra, la sua conclusione finirà per essere la stessa, Furto, quello che si può definire furto, non c’è stato, senza dubbio l’incaricata della cucina si presenterà dicendo che manca del cibo nel frigorifero, ma, supponendo che sia stato codesto l’unico delitto commesso, rubare per mangiare, secondo un’opinione più o meno generalizzata, non è furto, su questo è concorde persino il direttore, è la polizia che coltiva per principio una diversa opinione, ma adesso non potrà fare altro che andarsene via borbottando, Ci dev’essere un mistero, nessuno si introduce in una casa solo per fare colazione. Ad ogni modo, siccome la dichiarazione formale del direttore, messa per iscritto, era che nella scuola non mancava niente di valore o senza valore, gli agenti decisero di non rilevare le impronte digitali, come ordinava la routine, Di lavoro ne abbiamo già d’avanzo, disse quello che comandava nel gruppo investigativo. Nonostante queste parole tranquillizzanti, il Signor José non era riuscito a dormire per il resto della notte, per paura che il sogno si ripetesse e la polizia tornasse con le lenti d’ingrandimento e la polvere per le impronte digitali. In casa non c’è niente per abbassare questa febbre e il medico si farà vedere solo nel pomeriggio, forse non verrà neanche quest’oggi, e non porterà medicine, si limiterà a scrivere la solita ricetta per i casi di raffreddore e di influenza. Gli abiti sporchi sono ancora ammucchiati in mezzo alla casa e il Signor José li guarda dal letto, con aria perplessa, come se non gli appartenessero, solo un residuo di buonsenso gli impedisce di domandare, Chi mai sarà venuto a spogliarsi qui, e fu lo stesso buonsenso che lo costrinse a pensare, finalmente, alle complicazioni, di natura personale e professionale, che sarebbero sopraggiunte se un collega gli fosse entrato in casa per informarsi di come stava, per ordine del capo o iniziativa personale, e si fosse trovato davanti tutta quella sporcizia. Quando si mise in piedi si sentì come se l’avessero scagliato di colpo dall’alto della scala, ma questo capogiro non era come gli altri, era dovuto alla febbre, e in parte anche alla debolezza, visto che quello che aveva mangiato nell’istituto, anche se al momento gli era sembrato sufficiente, gli era servito più per ingannare i nervi che per alimentare la carne. Con difficoltà, reggendosi alla parete, riuscì a raggiungere una sedia e a

sedersi. Aspettò che la testa gli tornasse alla normalità per pensare dove gli conveniva nascondere i vestiti sporchi, nel bagno no, i medici devono sempre lavarsi le mani all’uscita, sotto il letto impossibile, era una di quelle strutture antiche, con le zampe alte, chiunque, senza neanche doversi chinare, avrebbe notato quegli stracci, nell’armadio della gente famosa non ci sarebbe stato abbastanza spazio né sarebbe stato adatto, la triste verità è che la testa del Signor José continuava a funzionare male anche se non gli girava più, l’unico posto dove ovviamente la roba sporca poteva essere in salvo da indiscrezioni era quello dove stava quando era pulita, e cioè dietro la tenda che chiudeva il vano usato come guardaroba, bisognava che il collega o il medico fossero molto maleducati perché andassero a metterci il naso. Soddisfatto di se stesso per aver concluso, dopo una così prolungata ponderazione, ciò che in altre circostanze sarebbe stato più che ovvio, il Signor José si mise a spingere la roba, con il piede per non sporcare il pigiama, verso la tenda. Sul pavimento rimase una grande macchia di umidità che ci sarebbero volute alcune ore perché evaporasse completamente, se fosse entrato qualcuno prima e avesse fatto qualche domanda lui avrebbe spiegato che aveva rovesciato dell’acqua per disattenzione o che c’era una macchia sul pavimento e aveva tentato di ripulirla. Da quando il Signor José si era alzato, lo stomaco gli stava implorando la carità di una tazza di caffellatte, di un biscotto, di una fetta di pane e burro, qualsiasi cosa per calmare l’appetito repentinamente risvegliato, adesso che le preoccupazioni per il destino immediato dei vestiti erano sparite. Il pane era duro e secco, il burro era pochissimo, il latte era finito, c’era soltanto un po’ di caffè, e di mediocre qualità, si sa benissimo che un uomo a cui nessuna donna vuole tanto bene da accettare di venire a vivere in tale tugurio, un uomo di questo tipo, salvo pochissime eccezioni senza posto in questa storia, non sarà mai altro che un povero diavolo, è curioso, ma si dice sempre povero diavolo e non si dice mai povero dio, soprattutto quando si è avuta la cattiva sorte di uscirne tanto goffo quanto questo, attenzione, stavamo parlando dell’uomo, non certo di un dio. Malgrado lo scarso e sconsolante cibo, al Signor José avanzò ancora un po’ di spirito per farsi la barba, operazione da cui si convinse di esser venuto fuori con una faccia migliore, tanto che alla fine disse rivolto allo specchio, Mi sembra che la febbre sia scesa. Questa riflessione lo portò a pensare che non sarebbe stata buona e prudente politica presentarsi volontario al lavoro, con una mezza dozzina di passi poteva arrivarci, Il servizio della Conservatoria prima di tutto, sarebbero state le sue parole, e certamente il conservatore, tenendo conto del freddo che faceva fuori, gli avrebbe perdonato di non aver fatto il giro per la strada come doveva, e forse avrebbe addirittura annotato nello stato di servizio del Signor José una prova tanto chiara di spirito di corpo e dedizione al lavoro. Lo pensò, ma non lo fece. Gli dolevano le membra, come se l’avessero pestato, picchiato e scosso, gli dolevano i muscoli, gli dolevano le articolazioni, e non era per via di tutti quegli sforzi che aveva dovuto fare come scalatore e scassinatore, chiunque sarebbe in grado di capire che si tratta di dolori diversi, La verità è che ho l’influenza, concluse. Si era appena messo a letto quando udì bussare alla porta che dava nella Conservatoria, poteva essere un collega caritatevole, il quale prendeva sul serio il precetto cristiano di visitare gli infermi e i carcerati, no, un collega non

poteva essere, l’intervallo per il pranzo era ancora lontano, opere di carità soltanto al di fuori delle ore di servizio, Avanti, disse, non è chiusa a chiave, la porta si aprì e sulla soglia comparve il vicecapo al quale aveva comunicato la propria infermità, Il capo mi manda a chiederle se sta prendendo qualche medicina finché non viene il medico, No signore, in casa non ho nulla per l’occorrenza, Allora eccole qui alcune pastiglie, Grazie mille, se non le dispiace gliele pago dopo, così non mi devo alzare, quanto le devo, È un ordine del capo, e al capo non si domanda quanto gli si deve, Lo so bene, scusi, Le converrebbe prendere subito una compressa, e il vicecapo entrò senza attendere risposta, Sì, sì, grazie mille, troppo buono, il Signor José non poteva bloccarlo, dirgli, Alto là, lei qui non entra, questa è una casa privata, in primo luogo perché non si parla in codesti termini a un superiore, in secondo luogo perché non c’era memoria nella tradizione orale né alcuna registrazione scritta negli annali della Conservatoria che un capo si fosse mai interessato per la salute di uno scritturale ausiliario al punto da mandargli qualcuno con le pastiglie. Lo stesso vicecapo era perplesso dinanzi alla novità, di sua iniziativa non l’avrebbe mai fatto, in ogni caso non si lasciò disorientare, come se sapesse perfettamente il motivo per cui veniva e conoscesse gli angoli di casa, non c’è da stupirsi, prima dei cambiamenti urbanistici del quartiere ha vissuto in una casa come questa. La prima cosa che notò fu la grande macchia umida per terra, E questa cos’è, un’infiltrazione, domandò, il Signor José fu tentato di rispondere di sì per non dover dare altre spiegazioni, ma preferì parlare di una sua disattenzione, come aveva pensato prima, ci sarebbe mancato altro che gli venisse l’idraulico dentro casa e poi facesse un resoconto al capo dichiarando che i tubi, anche se vecchi, non avevano alcuna responsabilità per la comparsa della macchia di umidità. Il vicecapo si stava avvicinando con un bicchiere d’acqua e la compressa, la missione di infermiere designato gli addolciva un po’ l’abituale espressione autoritaria del viso, che però gli tornò immediatamente, accentuata da qualcosa che si sarebbe potuto classificare come una sorpresa offesa, quando, nell’avvicinarsi al letto, notò sul comodino quei moduli scolastici della ragazza sconosciuta. Il Signor José si accorse dello stupore dell’altro nell’attimo in cui si manifestò e fu come se gli crollasse il mondo intorno. Istantaneamente il cervello impartì un ordine ai muscoli del braccio di quello stesso lato, Metti via quella roba, stupido che non sei altro, ma subito dopo, con la stessa rapidità, impulso elettrico dopo impulso elettrico, corresse per così dire la mano, come chi ha appena riconosciuto la propria stupidità, Per favore non toccarli, fai finta di niente. Perciò, con una destrezza totalmente inaspettata per uno che si trovava in quello stato di depressione fisica e mentale che è la prima conseguenza nota dell’influenza, il Signor José si sedette sul letto fingendo di voler facilitare il gesto caritatevole del vicecapo, allungò un braccio per prendere la compressa, che si infilò in bocca, e l’acqua per farla passare attraverso l’oppressa e angosciata gola, ma nello stesso tempo, approfittando del fatto che il materasso su cui giaceva era all’altezza del comodino, copriva i moduli con il gomito dell’altro braccio, lasciando ricadere in avanti l’avambraccio, con il palmo della mano aperta, imperativa, come se stesse ordinando al vicecapo, Stia fermo lì. Per sua fortuna c’era la fotografia incollata sulla scheda, è la differenza più rilevante tra i moduli scolastici e gli atti di nascita e vita, ci mancherebbe altro che la Conservatoria

Generale ricevesse tutti gli anni una fotografia dei viventi iscritti, e quando si dice tutti gli anni, si potrebbe dire tutti i mesi, o tutte le settimane, o tutti i giorni, oppure una fotografia all’ora, mio Dio, come passa il tempo, e il lavoro che ci vorrebbe, quanti scritturali ausiliari bisognerebbe reclutare, una fotografia al minuto, al secondo, e poi la quantità di colla, il consumo di forbici, la cura nella selezione del personale, in modo da escludere i sognatori che potrebbero restarsene lì a guardare in eterno un ritratto, vaneggiando come idioti nel vedere una nuvola passare. La faccia del vicecapo mostrava l’espressione dei giorni peggiori, quando gli incartamenti si accumulavano su tutte le scrivanie e il capo lo chiamava per domandargli se fosse veramente sicuro di compiere il proprio dovere. Grazie al ritratto, non pensò che quei moduli sul comodino del subalterno appartenessero alla Conservatoria Generale, ma la fretta con cui il Signor José li aveva coperti, tanto più comportandosi come se lo stesse facendo per caso o distrattamente, gli parve sospetta. Già la macchia di umidità per terra gli aveva suscitato una certa diffidenza, e adesso c’erano quei moduli di tipo sconosciuto con fotografia incollata, di bambini, com’era riuscito anche a scorgere. Non riusciva a contare le schede, messe le une sulle altre, ma dal volume non dovevano essere meno di dieci, Dieci schede con fotografie di bambini, caso raro, che cosa ci faranno qui, pensò interdetto, e tanto più interdetto sarebbe stato se avesse potuto sapere che i moduli, in definitiva, appartenevano tutti alla stessa persona e che i ritratti degli ultimi due erano di una ragazza già adolescente, dall’espressione seria, ma simpatica. Il vicecapo lasciò la scatoletta di pasticche sul comodino e si ritirò. Mentre stava per uscire, si guardò indietro e vide il subalterno che con il gomito copriva ancora le schede, Devo parlarne al capo, disse fra sé e sé. Appena la porta fu chiusa, il Signor José, con un movimento brusco, quasi avesse paura di essere colto in fallo, infilò i moduli sotto il materasso. Non c’era nessuno a dirgli che era troppo tardi, e lui non voleva pensarci. 11. È influenza, disse il medico, tre giorni di congedo per malattia tanto per cominciare. Con la testa che gli girava, malfermo sulle gambe, il Signor José si era alzato dal letto per andare ad aprire la porta, Scusi se l’ho fatta aspettare fuori, dottore, succede quando si vive da soli, il medico entrò borbottando, Che tempo infame, chiuse il parapioggia che gocciolava, lo lasciò nell’entrata, Allora, cosa c’è che non va, domandò dopo che il Signor José, battendo i denti, si era infilato sotto le lenzuola e, senza aspettare che gli rispondesse, disse, È influenza. Gli prese il polso, gli fece aprire la bocca, gli applicò velocemente lo stetoscopio sul petto e sulle spalle, È influenza, ripeté, ed è fortunato, poteva essere una polmonite, ma è influenza, tre giorni di congedo per malattia tanto per cominciare, e poi vedremo. Si era appena seduto al tavolo per scrivere la ricetta quando la porta di comunicazione con la Conservatoria si aprì, non era chiusa a chiave, e comparve il capo, Buon pomeriggio, dottore, Dica piuttosto cattivo pomeriggio, signor conservatore, buon pomeriggio sarebbe se adesso mi trovassi al calduccio nel mio ambulatorio invece di andarmene in giro per le strade con questo tempo infame, Come va il nostro malato, domandò il conservatore, e il medico rispose, Gli ho dato tre giorni, è solo un’influenza. In quel momento non era solo un’influenza. Tappato fino al naso, il Signor José

tremava come se avesse un attacco di malaria, al punto da scuotere il letto di ferro su cui giaceva, ma il tremore, irreprimibile, non era dovuto alla febbre, bensì a una specie di panico, a un totale disorientamento di spirito, Il capo qui, pensava, il capo a casa mia, il capo che gli domandava, Come si sente, Meglio, signore, Ha preso le compresse che le ho mandato, Sì signore, Le hanno fatto effetto, Sì signore, Adesso smetterà di prenderle e le sostituirà con le medicine che le prescriverà il dottore, Sì signore, A meno che non siano le stesse, mi lasci vedere, infatti sono le stesse, in più ci sono soltanto delle iniezioni, me ne occupo io. Il Signor José a stento riusciva a credere che fosse realmente il capo della Conservatoria la persona che, davanti ai suoi occhi, stava piegando la ricetta e se la infilava accuratamente in tasca. Quel capo che lui, a gran fatica, aveva imparato a conoscere, non si sarebbe mai comportato in questa maniera, non sarebbe venuto di persona a interessarsi del suo stato di salute, e l’ipotesi che volesse pure incaricarsi in prima persona dell’acquisto delle medicine per uno scritturale ausiliario sarebbe stata semplicemente assurda. Poi avrà bisogno di un infermiere che le venga a fare le iniezioni, ricordò il medico lasciando il problema a chi fosse disponibile e in grado di risolverlo, non a quel povero diavolo influenzato, allampanato come un chiodo, con la barba grigia che stava ricrescendo, non gli bastava l’evidente scomodità della casa, quella macchia di umidità sul pavimento aveva tutto l’aspetto di essere stata causata da tubi difettosi, quante tristezze un medico potrebbe raccontare nella vita, se non fosse per il segreto professionale, Le proibisco tassativamente di uscire in questo stato, concluse, Me ne occuperò io, dottore, disse il conservatore, telefono all’infermiere della Conservatoria, acquisterà lui le medicine e verrà a fargli le iniezioni, Non se ne trovano più di capi come lei, signore, disse il medico. Il Signor José fece un debole cenno col capo, era il massimo che era riuscito a fare, obbediente e rispettoso, sì, lo era sempre stato, e con un certo paradossale orgoglio di esserlo, ma non certo strisciante e servile, lui non avrebbe mai pronunciato, per esempio, adulazioni imbecilli sul genere, È il miglior capo della Conservatoria, Non ce n’è al mondo un altro uguale, Si è rotto lo stampo dopo che l’hanno fatto, Per lui, nonostante i miei capogiri, salgo perfino su quella maledetta scala. Adesso il Signor José ha un’altra preoccupazione, un’altra angoscia, che il capo se ne vada via subito, che si ritiri prima del medico, e trema all’idea di trovarsi da solo con lui, alla mercé delle domande fatali, Che significa la macchia di umidità, Che cos’erano quei moduli che stavano lì sul comodino, Dove li ha presi, Dove li ha nascosti, Di chi è la fotografia. Chiuse gli occhi, diede al volto un’espressione di insopportabile sofferenza, Lasciatemi in pace nel mio letto di dolore, sembrava supplicare, ma di colpo li riaprì terrorizzato, il medico aveva detto, Me ne vado, chiamatemi se peggiora, in ogni caso possiamo stare abbastanza tranquilli, di polmonite non si tratta, La terrò al corrente, dottore, disse il conservatore mentre accompagnava il medico. Il Signor José richiuse gli occhi, udì sbattere la porta, Adesso, pensò. I passi decisi del capo si avvicinavano, venivano verso il letto, si trattennero, Adesso mi starà certamente guardando, il Signor José non sapeva cosa fare, avrebbe potuto fingere di essersi addormentato, addormentato pian pianino come si addormenta un malato stanco, ma il tremore delle palpebre denunciava immediatamente la falsità, avrebbe potuto anche, meglio o peggio, creare in gola un gemito lamentoso, di quelli che

spezzano il cuore, ma una banale influenza non ha mai provocato tanto, solo uno sciocco si lascerebbe ingannare, non questo conservatore, che conosce a memoria, di fila e a salti, i regni del visibile e dell’invisibile. Aprì gli occhi e lui era lì, a due passi dal letto, senza alcuna espressione sul viso, e semplicemente lo osservava. Allora il Signor José credette di aver avuto un’idea salvatrice, doveva ringraziare per le premure della Conservatoria Generale, ringraziare con eloquenza, con effusione, e così forse sarebbe riuscito a evitare le domande, ma nel preciso momento in cui stava per aprire bocca e pronunciare la frase concepita, Non so come ringraziarla, il capo gli voltò le spalle, nel mentre che pronunciava due parole, due semplici parole, Si curi, fu quanto disse in un tono in cui si avvertiva condiscendenza, ma anche imperio, solo i capi migliori sanno combinare in maniera tanto armoniosa sentimenti così contrastanti, ecco perché a loro è rivolta la venerazione dei subalterni. Il Signor José tentò almeno di dire, Grazie mille, signore, ma il capo era già uscito, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé, come si deve fare nella camera di un malato. Il Signor José ha mal di capo, ma il dolore è quasi niente a confronto con quel tumulto che ha dentro. Il Signor José è in uno stato di confusione tale che il suo primo movimento, dopo l’uscita del conservatore, fu di infilare la mano sotto il materasso per accertarsi che i moduli fossero ancora lì. Più offensivo per il buonsenso fu il suo secondo movimento, che lo spinse ad alzarsi dal letto per andare a dare due mandate alla chiave della porta di comunicazione con la Conservatoria, come chi mette disperatamente i paletti dopo che gli hanno rapinato la casa. Tornarsene a letto fu solo il quarto movimento, mentre il terzo c’era stato quando lui era tornato indietro pensando, E se al capo gli viene in mente di rientrare, in tal caso sarebbe stato più prudente, per eludere i sospetti, lasciare la porta chiusa solo con il chiavistello. Decisamente, il Signor José, se da un lato se la suona, dall’altro se la canta. Quando si presentò l’infermiere, era già buio. Rispettando l’ordine che aveva ricevuto dal conservatore, questi aveva portato le compresse e le fiale prescritte dal medico, ma, con sorpresa del Signor José, portava anche un fagotto che andò a posare con la massima cura sul tavolo mentre diceva, È ancora caldo, spero di non aver rovesciato niente, il che significava che dentro c’era del cibo, come le successive parole confermarono immediatamente, Lo mangi se no si raffredda, ma prima facciamo la nostra bella iniezioncina. Orbene, al Signor José non piacevano affatto le iniezioni, tantomeno le endovenose al braccio, da dove sempre doveva sviare lo sguardo, perciò fu tanto soddisfatto quando l’infermiere gli disse che la punturina gliel’avrebbe fatta sul gluteo, quest’infermiere è una persona educata, d’altri tempi, si è abituato a usare il termine glutei invece di natiche per non scioccare gli scrupoli delle signore, e ha quasi finito per dimenticare la designazione corrente, pronunciava gluteo anche quando doveva trattare con malati per cui natica non era altro che un ridicolo preziosismo linguistico e avrebbero preferito la variante volgare di chiappa. L’inattesa comparsa del cibo e il sollievo che non sarebbe stato punzecchiato sul braccio smontarono le difese del Signor José, o lui semplicemente non ci pensò, o più semplicemente ancora non aveva notato fino ad allora di avere i pantaloni del pigiama macchiati di sangue all’altezza delle ginocchia, conseguenza di quelle imprese notturne

come scalatore di istituti. L’infermiere, con la siringa già pronta per aria, invece di dire, Si giri, gli domandò, Che cos’è questa roba, e il Signor José, convertito da questa lezione di vita alla bontà definitiva delle iniezioni al braccio, rispose istintivamente, Sono caduto, Amico, lei è proprio scalognato, prima cade, poi si becca l’influenza, la sua fortuna è di avere quel capo lì, si volti, su, poi le do uno sguardo a quelle ginocchia. Debilitato nel corpo, nell’anima e nella volontà, contratto fino all’ultimo nervo, ci mancò poco che il Signor José scoppiasse a piangere come un bambino quando sentì la puntura dell’ago e la lenta e dolorosa entrata del liquido nel muscolo, Sono ridotto uno straccio, pensò, ed era vero, un povero animale umano febbricitante, disteso su un povero letto di una povera casa, con i vestiti sporchi del delitto nascosti e una macchia di umidità per terra che non si asciuga mai. Si giri di spalle, andiamo a vedere queste ferite, disse l’infermiere, e il Signor José, sospirando e tossendo, obbedì, faticosamente fece ruotare il corpo, e adesso, inclinando il capo in avanti, può vedere come l’infermiere gli rimbocca i pantaloni arrotolandoli fino a sopra il ginocchio, come gli toglie le garze sporche, vi gocciola sopra dell’acqua ossigenata e le scolla a poco a poco con la massima cura, fortunatamente è un professionista qualificato, la valigetta a mano che si porta appresso è un pronto soccorso al completo, ha medicine per quasi tutto. Alla vista delle ferite, assunse l’espressione di chi non credeva affatto alla spiegazione che il Signor José aveva dato, di essere caduto, la sua esperienza di sbucciature e contusioni lo portò a commentare con inconsapevole perspicacia, Amico, sembra addirittura che abbia strofinato le ginocchia contro una parete, Le ho detto che sono caduto, Ne ha messo al corrente il capo, Non è argomento di servizio, si può cadere senza doverlo comunicare ai superiori, Tranne quando l’infermiere chiamato per l’iniezione deve fare una medicazione supplementare, Che io non ho chiesto, Sissignore, infatti non l’ha chiesta, ma se domattina dovesse avere una grave infezione causata da queste ferite, poi chi ne avrebbe la colpa, per trascuratezza e mancanza di professionalità, sarei io, e inoltre al capo piace sapere tutto, è un suo modo quello di fingere che non dà importanza a niente, Glielo dirò domani mattina, Le consiglio vivamente di farlo, così il rapporto sarà confermato, Quale rapporto, Il mio, Non vedo che importanza possano avere delle semplici ferite, tanto da essere menzionate in un rapporto, Anche la ferita più semplice ha importanza, Le mie, una volta rimarginate, lasceranno delle cicatrici insignificanti che con il tempo scompariranno, Sì, nel corpo le ferite si cicatrizzano, ma nel rapporto restano sempre aperte, non si chiudono né scompaiono, Non capisco, Da quanto tempo lavora nella Conservatoria Generale, Vado per i ventisei anni, Quanti capi ha conosciuto fino ad ora, Contando anche questo, tre, A quanto pare non ha mai notato niente, Notare che cosa, A quanto pare non si è mai accorto di niente, Non capisco dove voglia andare a parare, È vero o non è vero che i conservatori hanno poco lavoro, È vero, lo dicono tutti, Allora sappia che la loro principale occupazione, nelle tante ore libere di cui godono mentre il personale sta lavorando, è di collezionare informazioni sui subalterni, informazioni di ogni tipo, lo fanno da quando esiste la Conservatoria Generale, uno dopo l’altro, da sempre. Il tremito del Signor José non passò inosservato all’infermiere, Ha avuto un brivido, gli domandò, Sì, ho avuto un brivido, Perché si faccia un’idea più chiara di quanto le sto dicendo, perfino quel brivido

dovrebbe risultare dal mio rapporto, Ma non risulterà, Infatti, non risulterà, Immagino il perché, E cioè, Perché allora dovrebbe scrivere che il tremore si è verificato mentre mi stava raccontando che i capi collezionano informazioni sugli impiegati della Conservatoria Generale, e quindi il capo vorrebbe necessariamente sapere a che proposito me ne ha parlato, e inoltre come sia riuscito un infermiere a venire a conoscenza di un argomento riservato, tanto riservato che in venticinque anni di servizio presso la Conservatoria Generale non ne aveva mai sentito parlare, Negli infermieri si trova spesso un confidente, anche se molto più di rado che nei medici, Intende forse insinuare che il capo è solito farle delle confidenze, Lui non me ne fa di certo, e io non sto affatto insinuando che ne faccia, semplicemente ricevo degli ordini, Allora deve solo eseguirli, Si sbaglia, devo fare molto di più che eseguirli, devo interpretarli, Perché, Perché fra ciò che ordina e ciò che vuole generalmente c’è differenza, Se le ha ordinato di venire qui è per farmi un’iniezione, Questa è l’apparenza, Cos’altro ha visto in questo caso, oltre all’apparenza, Lei non può neanche immaginare la quantità di cose che si scoprono guardando certe ferite, Che abbia visto queste è stata una pura casualità, Delle casualità bisogna sempre tener conto, aiutano molto, Quali cose ha scoperto, dunque, nelle mie ferite, Che ha strisciato su una parete con le ginocchia, Sono caduto, Me l’ha già detto, Un’informazione come questa, nell’ipotesi che fosse esatta, al capo non servirebbe granché, Che gli serva o non gli serva, la cosa non mi riguarda, io mi limito a presentare i rapporti, Dell’influenza che ho preso era già informato, Ma non delle ferite alle ginocchia, E neanche di quella macchia di umidità sul pavimento, Ma non del brivido, Se qui non le resta altro da fare, la supplico di andarsene, sono stanco, ho bisogno di dormire, Prima dovrà mangiare, non se ne dimentichi, speriamo che la sua cena, con tutte queste chiacchiere, non si sia raffreddata del tutto, Quando si sta a letto si sopporta meglio la fame, Ma non può sopportarla del tutto, È stato il capo a dirle di portarmi da mangiare, Conosce qualcun altro che avrebbe voluto farlo, Sì, se sapesse dove abito, E chi è costui, Una donna di una certa età che abita in un pianterreno, Ferite alle ginocchia, un repentino e inspiegabile tremore, una vecchia di un pianterreno, A destra, Questo sarebbe il rapporto più importante della mia vita, se lo scrivessi, Allora non lo scriverà alla fin fine, Sì, lo scriverò, ma solo per informare che le ho fatto un’iniezione nel gluteo sinistro, Grazie per avermi medicato le ferite, Di tutto quello che mi hanno insegnato è quanto ho imparato meglio. Dopo che l’infermiere uscì, il Signor José rimase a letto ancora qualche minuto, senza muoversi, a recuperare la serenità e le forze. Il dialogo era stato difficile, con trabocchetti e porte false che comparivano a ogni passo, la minima scivolata avrebbe potuto trascinarlo a una confessione completa se il suo spirito non fosse stato attento ai molteplici sensi delle parole che cautamente andava pronunciando, soprattutto quelle che sembrano avere un solo senso, è con loro che bisogna stare più attenti. Al contrario di quanto in genere si crede, senso e significato non sono mai stati la stessa cosa, il significato si percepisce subito, è diretto, letterale, esplicito, chiuso in se stesso, univoco per così dire, mentre il senso non è capace di starsene tranquillo, brulica di significati secondi, terzi e quarti, di direzioni raggianti che si vanno dividendo e suddividendo in rami e ramoscelli, fino a che si perdono di vista, il senso di ogni parola assomiglia a una stella quando si mette a

proiettare le maree vive nello spazio, venti cosmici, perturbazioni magnetiche, afflizioni. Insomma, il Signor José si alzò dal letto, infilò i piedi nelle pianelle, indossò la vestaglia che gli fungeva anche da coperta supplementare nelle notti fredde. Quantunque incalzato dalla fame, aprì la porta per guardare la Conservatoria. Avvertiva dentro di sé uno strano smarrimento, un’impressione di assenza, come se fossero trascorsi molti giorni dall’ultima volta che c’era stato. Eppure non era cambiato niente, c’era il lungo bancone dove si ricevevano i richiedenti e i postulanti, con sotto i cassetti in cui si custodivano le schede dei vivi, poi gli otto tavoli degli scritturali ausiliari, i quattro dei funzionari, i due dei vicecapi, la grande scrivania del capo con la luce accesa e penzolante dall’alto, le enormi scaffalature che raggiungevano il soffitto, l’oscurità pietrificata della zona morti. Nonostante nella Conservatoria Generale non ci fosse nessuno, il Signor José chiuse la porta a chiave, nella Conservatoria Generale non c’era nessuno, ma lui chiuse la porta a chiave. Grazie ai cerotti nuovi che l’infermiere gli aveva messo alle ginocchia, riusciva a camminare meglio, non si sentiva tirare le ferite. Si sedette al tavolo, scartò il fagotto, c’erano due tegami sovrapposti, quello di sopra con la minestra, quello di sotto con patate e carne, il tutto ancora tiepido. Mangiò la minestra avidamente, e poi, senza fretta, attaccò con la carne e le patate. La mia fortuna è di avere il capo che ho, mormorò, rammentando le parole dell’infermiere, se non fosse per lui sarei qui a morire di fame e di abbandono, come un cane smarrito. Sì, per mia fortuna, ripeté, quasi avesse bisogno di convincersi di quello che aveva appena detto. Ristorato, dopo esser passato per quello sgabuzzino che fungeva da bagno, si rannicchiò a letto. Stava per sprofondare nel sonno quando si ricordò del quaderno di appunti in cui aveva narrato i primi passi della sua ricerca. Scrivo domani, disse, ma questa nuova urgenza era quasi altrettanto pressante di quella del mangiare, perciò andò a prendere il quaderno. Poi, seduto sul letto, con indosso la vestaglia, la giacca del pigiama abbottonata fino al collo, rannicchiato fra le coperte, continuò il resoconto ripartendo dal punto in cui si era fermato. Il capo mi disse, Se non è malato come spiega allora il pessimo lavoro che ha fatto negli ultimi giorni, Non lo so, signore, forse perché ho dormito male. Con l’aiuto della febbre, continuò a scrivere per tutta la notte. 12. Non tre giorni, ma una settimana, fu quanto al Signor José fu necessario perché gli si abbassasse la febbre e si attenuasse la tosse. L’infermiere tornò tutti i giorni a fare l’iniezione e a portargli da mangiare, il medico un giorno sì e uno no, ma questa assiduità straordinaria, ci riferiamo a quella del medico, non dovrà portarci a giudizi affrettati su un’ipotetica efficacia abituale dei servizi sanitari pubblici di assistenza a domicilio, in quanto era una conseguenza, semplicemente, del chiarissimo ordine del capo della Conservatoria Generale, Dottore, mi curi quell’uomo come se stesse curando me, è importante. Il medico non immaginava le ragioni dell’ovvio trattamento di favore che gli veniva raccomandato e tantomeno la mancanza di obiettività dell’opinione valutativa espressa; da qualche visita professionale conosceva la casa del conservatore, la sua maniera comoda e civile di vivere, un mondo intimo che

non somigliava affatto al rozzo tugurio di questo Signor José perennemente mal rasato e che sembrava non avere neanche un ricambio di lenzuola. Sì, le lenzuola il Signor José ce le aveva, non era povero a tal punto, ma, per motivi noti a lui solo, respinse seccamente la proposta dell’infermiere quando questi gli si offrì di arieggiare il materasso e sostituire le lenzuola, che puzzavano di sudore e di febbre, In meno di cinque minuti le rinfresco il letto, Sto bene così, non si disturbi, Suvvia, fa parte del mio lavoro, Le ho già detto che sto bene così. Il Signor José non poteva rivelare agli occhi di nessuno che nascondeva fra il materasso e la rete i moduli scolastici di una donna sconosciuta e un quaderno di appunti con il resoconto del suo assalto all’istituto dove lei aveva studiato da bambina e poi da giovanetta. Conservarli in un altro posto, fra le cartelle con i ritagli della gente famosa per esempio, avrebbe risolto immediatamente il problema, ma l’impressione che stava difendendo un segreto come il suo stesso corpo era troppo forte, e persino esaltante, perché il Signor José fosse disposto a rinunciarvi. Per non doverne discutere di nuovo con l’infermiere, o con il medico che sia pure senza fare alcun commento, aveva già lanciato uno sguardo di riprovazione alle lenzuola stropicciate e corrugato ostensivamente il naso all’odore che emanavano, una di quelle notti il Signor José si alzò e, mettendocela tutta cambiò lui stesso le lenzuola. E perché né il medico né l’infermiere potessero trovare il minimo pretesto per ritornare sull’argomento e, chissà, andare a mettere al corrente il conservatore dell’incorreggibile trascuratezza dello scritturale ausiliario, si infilò nel bagno, si fece la barba, si lavò alla meglio e poi scovò in un cassetto un pigiama vecchio, ma pulito, e si rimise a letto. Si sentiva tanto soddisfatto e ricomposto che, quasi giocando con se stesso, decise di descrivere nel quaderno di appunti, esplicitamente, con tutti i particolari, le manovre e le cure igieniche a cui si era appena sottoposto. Era la salute che ormai voleva ritornare, come il medico non tardò ad andare ad annunciare al conservatore. Il nostro è guarito, tempo due giorni e potrà tornare in servizio senza pericolo di ricadute. Il conservatore disse solo, Benissimo, ma con aria distratta, come se stesse pensando ad altro. Per essere guarito il Signor José lo era, ma aveva perso molto peso, nonostante il pane e il companatico che l’infermiere gli portava regolarmente, solo una volta al giorno, questo è vero, ma in quantità più che sufficiente al mantenimento di un corpo adulto non soggetto a sforzi. C’è da tenere in considerazione, tuttavia, l’effetto logorante della febbre e dei sudori sui tessuti adiposi, tanto più quando non erano abbondanti già da prima, come in questo caso. Non erano ben viste nella Conservatoria Generale dell’Anagrafe le osservazioni di carattere personale, soprattutto quelle riguardanti lo stato di salute, perciò la magrezza e il brutto aspetto del Signor José non furono oggetto di alcun commento da parte di colleghi e superiori, di alcun commento orale, vogliamo dire, giacché gli sguardi di tutti furono alquanto eloquenti nella comune espressione di una sorta di commiserazione sdegnosa che altre persone, ignorando i costumi del posto, avrebbero erroneamente interpretato come una discreta e silenziosa riserva. Per far notare come in un certo senso si preoccupava del fatto di essere stato assente dal servizio per tanti giorni, il Signor José fu il primo ad andarsi a piazzare al mattino davanti alla porta della Conservatoria, aspettando l’arrivo del vicecapo di minore anzianità, che era quello incaricato di aprirla, com’era incaricato di assicurarsi che fosse chiusa a

fine pomeriggio. La chiave originale, un’opera d’arte di un antico cesellatore barocco e simbolo materiale di autorità, di cui la chiave del vicecapo era solo una copia austera e subalterna, era in possesso del conservatore, che apparentemente non la usava mai, vuoi per il peso e la complessità delle decorazioni che la rendevano scomoda da trasportare, vuoi perché, secondo un protocollo di gerarchie non scritte e in vigore da tempi remoti, era obbligatorio che fosse lui l’ultimo a entrare nell’edificio. Uno dei tanti misteri della vita della Conservatoria Generale, che realmente varrebbe la pena di appurare se il caso del Signor José e della donna sconosciuta non avesse assorbito totalmente le nostre attenzioni, era come si organizzavano gli impiegati per arrivare al posto di lavoro, nonostante le complicazioni del traffico che tormentano la città, sempre nello stesso ordine, per primi gli scritturali ausiliari, senza badare all’anzianità, poi il vicecapo che apre la porta, seguito dai funzionari, mantenendo la precedenza, e dal vicecapo più anziano, e infine il conservatore, che arriva quando deve arrivare e non dà conto a nessuno. In ogni modo il fatto l’abbiamo registrato. Il sentimento di sdegnosa commiserazione che, come si è detto, aveva accolto il rientro del Signor José al lavoro, durò fino all’entrata del conservatore, mezz’ora dopo l’apertura degli sportelli, e immediatamente fu sostituito da un sentimento di invidia, comprensibile in fin dei conti, ma per fortuna non palesato da parole o gesti. Visto che l’anima umana è quella che conosciamo, e non possiamo certo vantarci di conoscere tutto, non c’era altro da aspettarsi. In questi giorni si era già sparsa in Conservatoria la notizia, introdotta da porte traverse e sussurrata negli angoli, che il capo si era preoccupato in maniera inusuale dell’influenza del Signor José, arrivando addirittura a mandargli da mangiare tramite l’infermiere, oltre al fatto che era andato a trovarlo almeno una volta, e per giunta nelle ore di servizio, davanti a tutti, restava da sapere se avesse ripetuto la visita. È facile, dunque, immaginare lo scandalo sordo del personale, senza distinzione di categoria, quando il conservatore, prim’ancora di avviarsi al proprio posto, si trattenne accanto al Signor José e gli domandò se si fosse perfettamente ristabilito dopo la malattia. Più grande ancora fu lo scandalo perché questa era la seconda volta che accadeva, tutti avevano ben presente nella memoria quell’altra occasione, non molto tempo prima, quando il capo aveva domandato al Signor José se le sue insonnie erano migliorate, come se le insonnie del Signor José fossero, per il regolare funzionamento della Conservatoria Generale, una questione di vita o di morte. A stento riuscendo a credere a quello che udivano, gli impiegati assistettero a una conversazione da pari a pari, assurda da tutti i punti di vista, con il Signor José che ringraziava il capo per le gentilezze, spingendosi addirittura a fare esplicito riferimento al cibo, il che, nell’ambiente ristretto della Conservatoria, doveva giocoforza risuonare come una sconcezza, come un’oscenità, e con il capo che spiegava che non poteva lasciarlo in preda alla sorte tapina di tutti quelli che vivono da soli e non hanno nessuno che gli porti almeno una scodella di minestra e gli riassetti la rovescina del lenzuolo, La solitudine, Signor José, dichiarò solennemente il conservatore, non è mai stata una buona compagnia, le grandi tristezze, le grandi tentazioni e i grandi errori sono quasi sempre il risultato dell’essere soli nella vita, senza un amico prudente a cui chiedere consiglio quando qualcosa ci turba più di quanto

avviene normalmente tutti i giorni, Io, triste, quello che si dice rigorosamente essere triste, signore, non credo di esserlo, rispose il Signor José, la mia natura è forse un po’ malinconica, ma questo non è un difetto, e quanto alle tentazioni, beh, bisogna dire che non mi ci fanno propendere né l’età né la situazione, in altri termini, non sono io a cercarle né loro cercano me, E gli errori, Si riferisce, signore, agli errori di lavoro, Mi riferisco agli errori in generale, gli errori di lavoro, prima o poi, il lavoro li ha fatti, il lavoro li risolve, Non ho mai fatto del male a nessuno, perlomeno in coscienza, è tutto quanto le posso dire, Ed errori contro se stesso, Devo averne commessi molti, e forse è proprio questo il motivo per cui mi trovo da solo, Per commettere altri errori, Solo quelli della solitudine, signore. Il Signor José, che mentre il capo si avvicinava, com’era suo dovere, si era alzato, si sentì improvvisamente le gambe molli e un’ondata di sudore che gli inondava il corpo. Impallidì, le mani cercarono ansiose il sostegno del tavolo, ma quell’appoggio non fu sufficiente, il Signor José dovette sedersi sulla sedia mentre mormorava, Scusi, signore, scusi. Il conservatore lo guardò con espressione impenetrabile per qualche secondo e si avviò al proprio posto. Chiamò il vicecapo responsabile dell’ala del Signor José, gli diede un ordine a voce bassa, aggiungendo, in maniera udibile, Senza passare per il funzionario, il che significava che le istruzioni appena ricevute dal vicecapo, ma destinate a uno scritturale ausiliario, dovevano, contrariamente alle norme, all’abitudine e alla tradizione, essere eseguite di persona. Già in precedenza, quando il conservatore aveva mandato questo stesso vicecapo a portare le compresse al Signor José, la catena gerarchica era stata sovvertita, ma quell’infrazione poteva ancora giustificarsi con il sospetto che il relativo funzionario fosse incapace di sbrigare con riserva di gradimento la missione, che non consisteva tanto nel portare a un malato delle pasticche contro l’influenza quanto nel dare uno sguardo alla casa e poi riferire. Un funzionario avrebbe trovato perfettamente ammissibile, cioè, giustificata in sé e nel tempo invernale che allora faceva, la macchia di umidità sul pavimento, e, non prestando probabilmente attenzione ai moduli che c’erano sul comodino, sarebbe rientrato in Conservatoria soddisfatto del dovere compiuto per comunicare al capo, Tutto normale. C’è da dire, tuttavia, che i due vicecapi, e questo in particolare, perché si trova più direttamente implicato nel processo in quanto è stato chiamato a parteciparvi attivamente, si rendevano conto che il modo di procedere del conservatore doveva essere determinato da un obiettivo, da una strategia, da un’idea centrale. Non avrebbero potuto immaginare in che cosa poteva consistere codesta idea e quale il suo obiettivo, ma l’esperienza e la conoscenza della personalità del capo dicevano loro che tutte le sue parole e tutte le sue azioni, in questo frangente, dovevano fatalmente puntare a un fine, e che il Signor José, posto per sua volontà o per le circostanze del caso sul cammino per giungervi, o non era altro che un inconsapevole strumento utile, oppure era, egli stesso, la sua inattesa e a tutti gli effetti sorprendente causa. Ragionamenti tanto opposti, sentimenti tanto contraddittori, fecero sì che l’ordine, dal tono con cui fu poi comunicato al Signor José, assomigliasse molto di più a un favore che il conservatore gli faceva chiedere che non a chiare e conclusive istruzioni che effettivamente aveva dato, Signor José, disse il vice, il capo è dell’opinione che le sue condizioni di salute non siano ancora molto stabili perché lei riprenda il lavoro,

pensi al mancamento di poco fa, Non è stato un mancamento, non ho perso del tutto i sensi, è stata solo una debolezza momentanea, Debolezza o mancamento, momentaneo o duraturo, la Conservatoria Generale vuole solo che lei si ristabilisca del tutto, Lavorerò seduto il più possibile, fra pochi giorni starò come prima, Il capo pensa che la cosa migliore sarebbe se lei chiedesse un breve congedo per ferie, non i soliti venticinque giorni, chiaro, ma magari una decina, dieci giorni per riposare, con buona alimentazione, riposo, piccole passeggiate per la città, ci sono i giardini, i parchi, e il tempo si è messo al bello, una convalescenza sul serio insomma, quando tornerà non la riconosceremo neanche. Il Signor José guardò stupefatto il vicecapo, non era davvero una conversazione che si potesse avere con uno scritturale ausiliario, c’era addirittura qualcosa di indecente in questo discorso. Evidentemente il capo voleva che lui si mettesse in ferie, il che, di per sé, era già alquanto curioso, ma, come se ciò non bastasse, mostrava una preoccupazione insolita e sproporzionata per la sua salute. Niente di tutto ciò corrispondeva ai modelli di comportamento della Conservatoria Generale, dove i piani delle ferie erano calcolati sempre al millimetro, in modo da ottenere, grazie alla ponderazione di molteplici fattori, alcuni dei quali noti solo al capo, una giusta distribuzione del tempo riservato all’ozio annuale. Che senza mezzi termini, sorvolando sul piano già elaborato per l’anno corrente, il capo mandasse a casa uno scritturale ausiliario, era roba che non si era mai vista. Il Signor José era confuso, e gli si leggeva in faccia. Si sentiva sulla schiena gli sguardi perplessi dei colleghi, notava l’impazienza crescente del vicecapo davanti a quella che doveva sembrargli un’indecisione priva di fondamento, ed era sul punto di dire Sissignore come chi obbedisce semplicemente a un ordine, quando, all’improvviso, la faccia gli si illuminò tutta, aveva appena visto che cosa avrebbero potuto significare per lui dieci giorni di libertà, dieci giorni per portare avanti le indagini senza essere costretto alla servitù delle ore di servizio, all’orario di lavoro, macché parchi, macché giardini, macché convalescenza, sia lode a chi ha inventato le influenze, fu dunque sorridendo che il Signor José disse, Sissignore, avrebbe dovuto essere più discreto nell’espressione, non si sa mai che cosa un vice sia capace di andare a riferire al capo, A mio parere, ha reagito in modo strano, prima mi ha dato l’idea che fosse contrariato, oppure non doveva aver capito bene che cosa gli stavo dicendo, poi è stato come se avesse vinto al lotto, non sembrava neanche la stessa persona, Le risulta che giochi, Credo di no, È stato solo un modo di dire, Allora il motivo sarà stato un altro. Il Signor José stava già dicendo al vicecapo, Veramente questi giorni mi fanno un gran comodo, devo ringraziare il signor conservatore, Gli trasmetterò io i suoi ringraziamenti, Forse dovrei farlo personalmente, Sa benissimo che non è questo l’uso, Malgrado ciò, considerando l’eccezionalità del caso, e pronunciate queste parole, burocraticamente fra le più pertinenti, il Signor José volse il capo verso il conservatore, non si aspettava che lui stesse guardando nella sua direzione, e tantomeno che avesse percepito tutta la conversazione, la qual cosa intendeva senza dubbio dimostrare con quel gesto secco della mano, al tempo stesso incurante e imperioso, Lasci perdere questi ridicoli ringraziamenti, faccia la sua richiesta e se ne vada pure.

A casa, le prime attenzioni del Signor José dovettero rivolgersi agli abiti riposti nel piccolo vano che gli serviva da guardaroba. Se prima erano sporchi, adesso si erano trasformati in una vera porcheria, ed emanavano un odore acre mescolato con l’umidità dello stantio, perfino delle muffe verdi gli si vedevano nelle pieghe, un fagotto umido, giacca, camicia, pantaloni, calze, biancheria intima, tutto avvolto in un impermeabile che allora gocciolava, figurarsi in che stato poteva essere dopo una settimana. Infilò tutto a casaccio in un grande sacco di plastica, si accertò che i moduli e il quaderno di appunti fossero sempre lì fra il materasso e la rete, alla testiera del letto il quaderno, ai piedi i moduli, riprovò per vedere se la porta di comunicazione con la Conservatoria era chiusa a chiave, e infine, stanco ma con l’animo tranquillo, uscì per andare in una lavanderia vicina di cui era cliente, anche se non tra i più assidui. L’impiegata non riuscì o non volle evitare un’espressione di biasimo quando rovesciò e sparse il contenuto del sacco sul banco, Scusi, se questa roba non è stata a mollo nel fango, poco ci manca, Ha quasi indovinato, il Signor José, dovendo mentire, decise di farlo rispettando la logica delle probabilità, Due settimane fa, mentre le stavo portando questa roba per pulirla, all’improvviso mi si è rotto il sacco ed è finito tutto per terra, proprio in un punto dove c’era una pozzanghera per via di certi lavori stradali, si ricorda che in quei giorni ha piovuto tanto, E perché non me l’ha portata dopo, Dopo mi sono messo a letto con l’influenza, sarebbe stato rischioso uscire di casa, potevo prendermi una polmonite, Le costerà alquanto più caro, questa roba dovrà andare in macchina due volte, e anche così, Pazienza, E questi pantaloni, guardi in che stato sono questi pantaloni, non so se vuole veramente che glieli pulisca, noti che ginocchiere, sembra quasi che sia andato a strofinarsi su un muro. Il Signor José non aveva notato in che stato miserevole la scalata aveva ridotto i suoi poveri calzoni, mezzi logorati all’altezza delle ginocchia, con un piccolo strappo su una gamba, un danno serio per uno come lui, dal guardaroba tanto mal fornito. Non c’è niente da fare, domandò, Per esserci c’è, bisognerà mandarli da una rammendatrice, Io non ne conosco, Possiamo occuparcene noi, ma guardi che non le verrà affatto a buon mercato, le rammendatrici si fanno pagare bene, Sarà sempre meglio che ritrovarmi senza un paio di pantaloni, O metterci una toppa, Con la toppa solo se si trattasse di usarli in casa, non potrei mai indossarli per andare al lavoro, Chiaro, Sono impiegato alla Conservatoria Generale dell’Anagrafe, Ah, lei è impiegato alla Conservatoria, disse la donna della lavanderia con una nuova modulazione di rispetto nella voce su cui il Signor José ritenne meglio sorvolare, pentito di essersi lasciato andare a dire per la prima volta dove lavorava, un professionista di assalti notturni sul serio non se ne andrebbe certo in giro a seminare piste, immaginiamo che questa commessa di lavanderia sia sposata con il commesso del negozio di ferramenta dove il Signor José è andato a comprare il tagliavetro o della drogheria dove ha comprato il grasso, e che la sera stessa, in una di quelle banali conversazioni con cui i mariti e le mogli trascorrono la serata, vengano tirati in ballo questi piccoli episodi del quotidiano commerciale, per molto meno sono andati a finire in galera altri criminali quando ritenevano di essere in salvo da qualsiasi sospetto. In ogni caso, non sembrava ci fosse pericolo in questo senso, a meno che non occultasse un’intenzione di abietto denunciante il fatto che la commessa, con

un sorriso simpatico, gli stesse dicendo che questa volta poteva fare un prezzo speciale, visto che la lavanderia si assumeva il pagamento del lavoro di rammendo, È una nostra particolare attenzione perché lei è un impiegato della Conservatoria, precisò. Il Signor José ringraziò educatamente, ma senza effusione, e uscì. Era scontento. Stava lasciando troppe tracce per la città, stava parlando con troppe persone, non era questo il tipo di investigazione che aveva immaginato, a dir la verità non era arrivato a immaginare niente, l’idea gli era venuta in quel momento, l’idea di cercare e trovare la donna sconosciuta senza che nessuno potesse accorgersi delle sue attività, come se si trattasse di un’invisibilità alla ricerca dell’altra. Invece di quel rigido segreto, di quel mistero assoluto, già due persone, la donna del marito geloso e l’anziana signora del pianterreno a destra, erano a conoscenza di quello che stava facendo, e questo, di per sé, era già un pericolo, mettiamo per esempio che una di loro, con il lodevole proposito di aiutare nelle ricerche, come si addice a buoni cittadini, si presenti in Conservatoria durante la sua assenza, Desidero parlare con il Signor José, Il Signor José non è in servizio, è andato in ferie, Ah, che peccato, avevo per lui un’informazione importante circa la persona che sta cercando, Che informazione, che persona, il Signor José non voleva neanche immaginare che cosa ne sarebbe potuto seguire, il resto della conversazione fra la donna del marito geloso e il funzionario, Ho trovato sotto un’asse di legno della mia camera un diario, Un giornale, No signore, un diario, di quelli che certe persone amano scrivere, anch’io tenevo un diario prima di sposarmi, E che cosa c’entriamo noi con questa faccenda, qui in Conservatoria a noi interessa solo sapere chi nasce e chi muore, Forse il diario che ho trovato è di qualche parente della persona che il Signor José sta cercando, Non sono al corrente che il Signor José stia cercando qualcuno, comunque sia non è questione che riguardi la Conservatoria Generale, la Conservatoria Generale non s’impiccia della vita privata dei suoi impiegati, Non è vita privata, a me il Signor José ha detto che veniva in rappresentanza della Conservatoria, Aspetti che vado a chiamare il vicecapo, ma quando il vicecapo si avvicinò al banco l’anziana signora del pianterreno a destra stava già per andarsene, la vita le aveva insegnato che il modo migliore per difendere i propri segreti è quello di avere rispetto per i segreti altrui, Quando il Signor José tornerà dalle ferie, la prego di dirgli che è venuta la vecchia del pianterreno a destra, Non vuole lasciare il suo nome, Non è necessario, lui sa di chi si tratta. Il Signor José poteva tirare un sospiro di sollievo, la signora del pianterreno a destra era la discrezione in persona, non avrebbe mai detto al vicecapo di aver appena ricevuto una lettera della figlioccia, L’influenza mi ha dato di volta al cervello, pensò, sono fantasie che non si possono avverare, non c’è nessun diario nascosto sotto il pavimento, e non sarebbe adesso, dopo un silenzio di tanti anni, che la donna si potrebbe ricordare di scrivere una lettera alla madrina, e meno male che la vecchia ha avuto il buonsenso di non dire come si chiama, alla Conservatoria Generale basterebbe afferrare quel capo del filo per scoprire tutto in poco tempo, la copia dei moduli, la falsificazione della credenziale, per loro sarebbe tanto semplice come riunire vari singoli elementi guardando un disegno. Il Signor José se ne tornò a casa, questo primo giorno non ha voluto seguire i consigli che gli ha dato il vicecapo, quelli di passeggiare, di andare ai giardini a prendere il buon sole sulla sua pallida faccia di convalescente, in

poche parole, di recuperare le forze che la febbre gli ha consumato. Aveva bisogno di decidere quali passi gli conveniva fare da quel momento in poi, ma doveva soprattutto tacitare un’inquietudine. Aveva lasciato la sua casetta alla mercé della Conservatoria, attaccata alla ciclopica parete come se già fosse sul punto di venirne ingoiata. Qualche linea di febbre doveva ancora esserci nella sua mente svagata per avergli improvvisamente fatto pensare che era accaduto proprio questo alle altre case degli impiegati, tutte divorate dalla Conservatoria perché ne ingrossassero le mura. Il Signor José accelerò il passo, e se all’arrivo avesse trovato la casa scomparsa, se insieme a lei fossero scomparsi i moduli e il quaderno di appunti, non voleva neanche immaginare una tale disgrazia, annullati così gli sforzi di settimane, resi inutili i pericoli per cui era passato. Ci sarebbe stato un capannello di curiosi che gli avrebbero domandato se aveva perduto qualcosa di valore nel disastro, e lui avrebbe risposto di sì, Delle carte, e quelli avrebbero insistito domandando, Azioni, Obbligazioni, Titoli di credito, perché la gente comune e senza orizzonti spirituali pensa soltanto a questo, i suoi pensieri sono tutti rivolti agli interessi e ai guadagni materiali, e lui avrebbe risposto di nuovo di sì, ma dando mentalmente significati diversi a quelle parole, sarebbero state le azioni che aveva compiuto, le obbligazioni che aveva assunto, i titoli di credito che aveva guadagnato. La casa c’era, ma sembrava molto più piccola, oppure era la Conservatoria che era aumentata di dimensione nelle ultime ore. Il Signor José entrò abbassando il capo, eppure non c’era bisogno di curvarsi, lo stipite della porta che dava sulla strada era alla solita altezza, e lui non l’avevano certo fatto crescere in modo visibile, fisicamente, né le azioni, né le obbligazioni, né i crediti. Andò a origliare alla porta di comunicazione, non perché si aspettasse di udire al di là un suono di voci, nella Conservatoria c’era l’abitudine di lavorare in silenzio, ma per acquietare i sentimenti di confuso sospetto che l’occupavano da quando il capo gli aveva ordinato di chiedere le ferie. Poi andò a sollevare il materasso del letto, prese i moduli e li dispose per ordine di data sul tavolo, dal più antico al più recente, tredici piccoli rettangoli di cartoncino, una successione di volti che passavano da una bambina più giovane a una bambina più grande, da un’adolescente a una quasi donna. In quegli anni la famiglia aveva cambiato casa tre volte, ma non si era mai spinta tanto lontano da doverle cambiare scuola. Non valeva la pena di mettersi a elaborare complicati piani d’azione, l’unica cosa che il Signor José poteva fare adesso era andare all’indirizzo che risultava dall’ultimo modulo. 13. Ci andò il giorno seguente in mattinata, ma decise di non salire a domandare agli attuali occupanti della casa e agli inquilini del palazzo se avevano conosciuto la bambina della fotografia. Più che sicuramente gli avrebbero risposto che non la conoscevano, che vivevano lì da poco tempo, o che non se ne ricordavano, Capisce, le persone vanno e vengono, veramente non rammento nulla di quella famiglia, né vale la pena di scervellarsi, e se qualcuno gli avesse detto che sì, gli sembrava di ricordarla vagamente, di sicuro avrebbe soggiunto immediatamente che i loro erano stati solo i rapporti normali fra persone beneducate, Non li ha più rivisti, avrebbe domandato

ancora il Signor José, Mai più, dopo il loro trasferimento non li ho mai più visti, Che peccato, Le ho detto tutto quanto sapevo, sono spiacente di non poter essere più utile alla Conservatoria Generale. La fortuna di incontrare immediatamente all’inizio una signora del pianterreno a destra tanto bene informata, tanto prossima alle fonti originali del caso, non poteva capitare due volte, ma solo molto più tardi, quando nulla di ciò che si va raccontando qui avrà più alcuna importanza, il Signor José verrà a scoprire che la stessa beata fortuna, in questo episodio, era stata prodigiosamente a suo favore, risparmiandogli le più disastrose conseguenze. Non sapeva, infatti, che uno degli abitanti del palazzo era proprio, per diabolica casualità, uno dei vicecapi della Conservatoria, e si può dunque facilmente immaginare la scena terribile, il nostro fidato Signor José che bussa alla porta, presenta il modulo, forse anche la falsa credenziale, e la donna venuta ad aprirgli che gli dice perfidamente, Torni più tardi, quando ci sarà mio marito, di queste faccende si occupa lui, e il Signor José sarebbe tornato, con il cuore pieno di speranze, e si sarebbe ritrovato faccia a faccia con un furibondo vicecapo che immediatamente l’avrebbe minacciato di arresto, nel senso letterale del termine, non certo figurato, i regolamenti della Conservatoria Generale dell’Anagrafe non ammettono leggerezze né improvvisazioni, e la cosa peggiore è che non li conosciamo tutti. Quando aveva deciso questa volta, come se l’angelo custode gliel’avesse raccomandato con insistenza all’orecchio, di orientare le proprie indagini sugli esercizi commerciali dei dintorni, il Signor José si era salvato, senza saperlo, dal più grande disonore della sua lunga carriera di impiegato. Si accontentò dunque di guardare le finestre della casa dove la donna sconosciuta aveva vissuto da giovane, e, per immedesimarsi bene nelle spoglie di un autentico investigatore, immaginò di vederla uscire con la cartella dei libri diretta a scuola, camminare fino alla fermata dell’autobus e lì aspettare, non valeva la pena di starle alle calcagna, il Signor José sapeva benissimo dove lei stava andando, ne aveva le documentate prove nascoste fra il materasso e la rete. Un quarto d’ora dopo esce il padre, procede in direzione contraria, dunque non accompagna la figlia quando lei si reca a scuola, a meno che semplicemente questo padre e questa figlia non amino camminare insieme e prendano questo pretesto, oppure non l’hanno neanche preso, più facile che sia stato una sorta di accordo fra i due, per evitare che i vicini notino la reciproca indifferenza. Adesso il Signor José deve solo avere un altro po’ di pazienza, aspettare che esca la madre per andare a fare la spesa, come si usa nelle famiglie, e così verrà a sapere in quale direzione gli converrà orientare le ricerche, l’esercizio commerciale più prossimo, tre palazzi avanti, è quella farmacia, ma il Signor José dubita, subito dopo esservi entrato, di poter ottenere informazioni utili, l’impiegato è un uomo giovane, giovane di età e nell’azienda, lo dice lui stesso, Non so, sto qui da due anni. Per tanto poco il Signor José non si scoraggerà di certo, di giornali e riviste ne ha letti più che a sufficienza, oltre all’esperienza che gli continua a fornire la vita, per capire che queste investigazioni, fatte all’antica, costano un mucchio di fatica, è sempre lui che deve andare su e giù, è lui che deve battere le strade e le traverse, è lui che deve salire le scale, è lui che deve bussare alle porte, è lui che deve scendere le scale, le stesse domande ripetute mille volte, le risposte identiche, quasi sempre in tono riservato, Non la conosco, non ho mai sentito parlare di

questa persona, solo rarissime volte accade che entri un farmacista più vecchio che ha sentito la conversazione ed è un uomo molto curioso, Che cosa desidera, domandò, Sono in cerca di una persona, rispose il Signor José, mentre alzava la mano verso la tasca interna della giacca per esibire la credenziale. Non riuscì a completare il movimento, lo trattenne una repentina inquietudine, questa volta non fu opera di nessun angelo custode, fu lo sguardo del farmacista a fargli ritrarre la mano lentamente, uno sguardo che sembrava piuttosto uno stiletto, un trapano perforante, non si direbbe, con quella faccia rugosa e quei capelli bianchi, il risultato di uno sguardo con quel paio d’occhi è di fare immediatamente indietreggiare anche la più ingenua delle creature, probabilmente è questo il motivo per cui la curiosità del farmacista non si ritiene mai soddisfatta, quanto più vuole sapere tanto meno gli raccontano. Così accadde con il Signor José. Né presentò la falsa credenziale, né disse che veniva da parte della Conservatoria Generale, si limitò a estrarre dall’altra tasca l’ultimo modulo scolastico della ragazza, che in un momento felice si era ricordato di portare, Il nostro istituto ha necessità di trovare questa signora per via di un diploma che non è ancora venuta a ritirare in segreteria, il Signor José assisteva con piacere, quasi con entusiasmo all’esercizio di quelle capacità inventive che non aveva mai immaginato di possedere, tanto sicuro di sé da non lasciarsi disorientare dalla domanda del farmacista, E la state cercando dopo tanti anni, Può darsi che a lei non interessi, rispose, ma è dovere della scuola fare di tutto perché il diploma sia consegnato, E avete aspettato che si facesse viva per tutto questo tempo, A dire la verità, gli uffici non se n’erano accorti, è stata una nostra deprecabile mancanza di attenzione, un errore burocratico, per così dire, ma non è mai troppo tardi per rimediare, Se la donna è defunta, sarà davvero troppo tardi, Abbiamo ragioni per pensare che sia ancora viva, Perché, Abbiamo cominciato con il consultare il registro, il Signor José ebbe cura di non pronunciare le parole Conservatoria Generale, e fu la sua fortuna, perché evitò, almeno in quel momento, che il farmacista si ricordasse che un vicecapo della suddetta Conservatoria Generale era suo cliente e abitava tre palazzi più avanti. Per la seconda volta il Signor José era sfuggito all’esecuzione capitale. Certo è che il vicecapo solo rarissime volte entrava nella farmacia, quegli acquisti, come del resto tutti gli altri, a eccezione dei preservativi che il vicecapo aveva lo scrupolo morale di andare a comprare in un altro quartiere, li faceva la moglie, perciò non è facile immaginare una conversazione tra il farmacista e lui, benché non debba escludersi l’ipotesi di un altro dialogo, il farmacista che dice alla moglie del vicecapo, È stato qui un impiegato della scuola che andava in cerca di una persona che tanti anni fa abitava nella casa dove vivete voi, a un certo punto mi ha detto che avevano consultato l’anagrafe, ma solo dopo che se n’è andato via mi sono stupito che avesse detto anagrafe invece di Conservatoria Generale, sembrava che si stesse nascondendo, a un certo momento ha alzato addirittura la mano verso la tasca interna della giacca come se stesse per mostrarmi qualcosa, ma poi si è pentito e si è corretto, e ha tirato fuori dall’altra tasca un modulo di iscrizione alla scuola, mi sono scervellato per cercare di immaginare di cosa si poteva trattare, penso che lei, signora, ne dovrebbe parlare a suo marito, non si sa mai, con la cattiveria che gira a questo mondo, Potrebbe anche essere lo stesso uomo che l’altro ieri se

n’è rimasto fermo sul marciapiede a guardare le nostre finestre, Un tipo di mezza età, un po’ più giovane di me, con una faccia che sembrava essere stato malato da poco, Proprio lui, Lo dicevo io, il mio fiuto non mi ha mai ingannato, deve ancora nascere chi pensa di venirmi a menare per il naso, È un peccato che non sia venuto a bussarmi alla porta, gli avrei detto di tornare nel tardo pomeriggio, quando fosse rincasato mio marito, adesso sapremmo chi era quel tizio e cosa voleva, Terrò gli occhi bene aperti nel caso dovesse farsi rivedere da queste parti, E io non mancherò di raccontare questa storia a mio marito. Effettivamente non se ne dimenticò, ma non la raccontò completa, senza volerlo omise dal resoconto un particolare importante, forse il più importante di tutti, non disse che l’uomo che era stato lì a sorvegliare casa loro aveva una faccia come se fosse stato malato da poco. Abituato a mettere in relazione le cause e gli effetti, ché in ciò consiste, essenzialmente, il sistema di forze che regge fin dal principio dei tempi la Conservatoria Generale, là dove tutto era, è e dovrà continuare a essere per sempre legato a tutto, quello che ancora è vivo a quello che ormai è morto, quello che sta morendo a quello che sta nascendo, tutti gli esseri a tutti gli esseri, tutte le cose a tutte le cose, anche quando non sembra che a unirli, gli uni e le altre, abbiano più di quello che apparentemente li separa, il sagace vicecapo non avrebbe omesso di ricordarsi del Signor José, di quello scritturale ausiliario che negli ultimi tempi, dinanzi all’inspiegabile benevolenza del capo, si è comportato in un modo tanto strano. Di lì a dipanare il bandolo della matassa e subito dopo tutta la matassa, sarebbe stato un passo. Tuttavia non andrà così, il Signor José, da queste parti, non lo rivedranno più. Dei dieci negozi di vari rami dove entrò a fare domande, contando anche la farmacia, solo in tre trovò qualcuno che gli disse di ricordarsi della ragazza e dei suoi genitori, la foto sul modulo diede una mano alla memoria, è chiaro, a meno che semplicemente non ne prese il posto, è anche probabile che le persone interrogate avessero solo voluto dimostrarsi simpatiche, non deludere quell’uomo con la faccia da influenza mal curata che parlava di un diploma scolastico di vent’anni prima che non era stato ancora consegnato. Quando il Signor José giunse a casa, era esausto e scoraggiato, il primo tentativo della sua nuova fase di indagine non gli aveva indicato nessun cammino su cui proseguire, anzi, al contrario, sembrava avergli messo davanti un muro insormontabile. Si buttò sul letto quel pover’uomo, domandandosi perché mai non facesse come gli aveva detto il farmacista con malcelato sarcasmo, Io, se fossi al posto suo, avrei già risolto il problema, Come, aveva domandato il Signor José, Cercando sull’elenco telefonico, ai tempi moderni è la maniera più facile per trovare qualcuno, Grazie per il suggerimento, ma l’abbiamo già fatto, il nome di questa signora non risulta, rispose il Signor José credendo di tappargli la bocca, ma il farmacista tornò alla carica, In tal caso vada alle tasse, lì sanno tutto di tutti. Il Signor José rimase lì a guardare quel guastafeste, tentò di mascherare lo sconcerto, a questo non ci aveva pensato la signora del pianterreno a destra, infine riuscì a mormorare, È una buona idea, lo dirò al direttore. Uscì dalla farmacia furioso con se stesso, come se all’ultimo momento gli fosse venuta meno la presenza di spirito per rispondere a un’offesa, disposto a tornare a casa senza ulteriori domande, ma poi pensò rassegnato, Il vino è servito, devo solo berlo, non disse come si suol dire, Allontanatemi questo calice, voi volete

ammazzarmi. Il secondo negozio era casualmente una drogheria, il terzo una macelleria, il quarto una cartoleria, il quinto un negozio di materiale elettrico, il sesto una merceria, il solito giro dei quartieri, fino al decimo locale, ma per fortuna gli andò bene, dopo il farmacista nessun altro gli parlò più di tasse o di elenchi telefonici. Adesso, sdraiato supino, con le mani incrociate dietro la testa, il Signor José guarda il soffitto e gli domanda, Che cos’altro posso fare, e il soffitto gli risponde, Niente, l’avere scoperto il suo ultimo indirizzo, e cioè l’ultimo indirizzo del periodo in cui frequentò l’istituto, non ti ha fornito nessuna pista per continuare la ricerca, chiaramente potresti ricorrere anche agli indirizzi precedenti, ma sarebbe una perdita di tempo, se quei commercianti della strada, che sono i più recenti, non ti hanno aiutato, come potrebbero aiutarti gli altri, Allora pensi che debba desistere, Probabilmente non avrai altra via d’uscita, a meno che non deciderai di andare a domandare alle tasse, non dev’essere difficile con quella credenziale che hai, e inoltre sono degli impiegati come te, La credenziale è falsa, Infatti, sarà meglio per te non usarla, non vorrei essere nella tua pelle se uno di questi giorni ti colgono in flagrante, Nella mia pelle non ci potresti essere, tu sei solo un soffitto di stucco, Sì, ma anche quello che vedi di me è una pelle, e d’altro canto la pelle è tutto quanto vogliamo che gli altri vedano di noi, sotto la pelle neanche noi stessi riusciamo a sapere chi siamo, Nasconderò la credenziale, Al tuo posto la straccerei o la brucerei, La conserverò con le carte del vescovo, dove la tenevo, Fai un po’ tu, Non mi piace il tono con cui lo dici, mi suona di malaugurio, La saggezza dei soffitti è infinita, Se sei un soffitto saggio, dammi un’idea, Continua a guardarmi, a volte se ne cava qualcosa. L’idea che il soffitto diede al Signor José fu di interrompere le ferie e tornare in servizio, Comunichi al capo di aver riacquistato abbastanza forze e gli chiedi di riservarti il resto dei giorni per un’altra occasione, questo nel caso dovessi riuscire a trovare la maniera di venir fuori dal buco in cui ti sei ficcato, con tutte le porte chiuse e senza nessuna pista su cui orientarti, Il capo troverà strano che un impiegato si presenti in servizio senza averne l’obbligo e senza essere stato chiamato, Cose ben più strane hai fatto negli ultimi tempi, Vivevo in pace prima di questa assurda ossessione, andare in cerca di una donna che non sa neanche che esisto, Ma tu sai che lei esiste, il problema è questo, Sarebbe meglio desistere una volta per tutte, Può darsi, può darsi, in ogni caso ricordati che non è solo la saggezza dei soffitti a essere infinita, lo sono anche le sorprese della vita, Cosa vuoi dire con questa sentenza così stantia, Che i giorni si susseguono e non si ripetono, Questa è ancora più stantia, non mi dire che la saggezza dei soffitti consiste in questi luoghi comuni, commentò sdegnosamente il Signor José, Non sai niente della vita se credi che ci sia qualcos’altro da sapere, rispose il soffitto, e poi tacque. Il Signor José si alzò dal letto, nascose la credenziale nell’armadio, fra le carte del vescovo, poi andò a prendere il quaderno di appunti e si mise a narrare i frustranti avvenimenti del mattino, accentuando in particolare i modi antipatici del farmacista e il suo sguardo tagliente. Alla fine del resoconto scrisse, come se l’idea fosse stata sua, Credo sia meglio tornare in servizio. Mentre stava riponendo il quaderno sotto il materasso gli sovvenne che non aveva pranzato, glielo disse la testa, non lo stomaco, con il tempo e la trascuratezza nel mangiare si finisce per non sentire più l’orologio dell’appetito. Se il Signor José avesse continuato le ferie,

non gli sarebbe importato affatto di passare a letto il resto della giornata, di rimanere senza mangiare, di non cenare, di dormire tutta la notte se possibile, oppure di rifugiarsi nel torpore volontario di chi ha deciso di voltare le spalle ai fatti sgradevoli della vita. Ma doveva nutrire il corpo per lavorare il giorno seguente, detestava che la debolezza potesse di nuovo farlo sudare freddo o provocargli quei ridicoli capogiri davanti alla finta commiserazione dei colleghi e all’impazienza dei superiori. Sbatté due uova, vi aggiunse qualche rondella di salsiccia, una buona dose di sale grosso, versò un po’ d’olio in una padella, aspettò che si scaldasse al punto giusto, era questo il suo unico talento culinario, il resto si riassumeva nell’apertura di barattoli. Mangiò la frittata lentamente, a pezzettini tagliati geometricamente, facendola durare il più possibile, solo per occupare il tempo, non per delizia gastronomica. Ma, soprattutto, non voleva pensare. L’immaginario e metafisico dialogo con il soffitto gli era servito per occultare il totale disorientamento dello spirito, la sensazione di panico che gli provocava l’idea di non avere più nient’altro da fare nella vita se, come aveva ragione di temere, la ricerca della donna sconosciuta era terminata. Si sentiva un groppo in gola, come quando da bambino lo sgridavano per farlo piangere, e lui resisteva, resisteva, finché alla fine le lacrime sgorgavano, come gli cominciarono a sgorgare adesso. Allontanò il piatto, abbandonò il capo sulle braccia incrociate e pianse senza vergogna, almeno questa volta non c’era nessuno a ridere di lui. Questo è uno di quei casi in cui i soffitti non possono far nulla per aiutare le persone addolorate, devono limitarsi ad aspettare lassù che la tormenta passi, che l’anima si sfoghi, che il corpo si stanchi. Così accadde al Signor José. Trascorsi alcuni minuti si sentiva già meglio, si asciugò bruscamente le lacrime con la manica della camicia e andò a lavare il piatto e la posata. Aveva davanti a sé tutto il pomeriggio e niente da fare. Pensò di andare a trovare la signora del pianterreno a destra, di raccontarle a grandi linee quanto gli era accaduto, ma poi ritenne che non ne valesse la pena, lei gli aveva detto tutto quello che sapeva, e forse avrebbe finito per domandargli perché diavolo la Conservatoria Generale si desse tanto da fare per via di una semplice persona, di una donna senza importanza, sarebbe stata un’indecente falsità, oltre che una perfetta stupidaggine, risponderle che per la Conservatoria Generale dell’Anagrafe siamo tutti uguali, proprio come il sole che appartiene a tutti quando nasce, così certe cose è meglio non dirle davanti a un vecchio se non vogliamo che ci rida in faccia. Il Signor José andò a prendere in un angolo della casa un mazzo di riviste e di vecchi giornali da cui aveva già ritagliato notizie e fotografie, poteva essergli sfuggito qualcosa di interessante, o magari si cominciava a parlare di qualcuno che si poteva presentare come una discreta promessa nei difficili cammini della fama. Il Signor José tornava alle sue collezioni. Fra tutti, il meno sorpreso fu il conservatore. Siccome era entrato, come al solito, quando tutto il personale aveva già preso posto e stava lavorando, si fermò tre secondi accanto al tavolo del Signor José, ma non disse una parola. Il Signor José si aspettava di essere sottoposto a un interrogatorio diretto sui motivi di quel rientro anticipato in servizio, ma il capo si limitò ad ascoltare le spiegazioni prontamente presentate dal vicecapo dell’ala, che poi congedò con un movimento secco della mano destra, con l’indice e il medio uniti e tesi, e le altre dita semipiegate, il che, secondo il codice gestuale della Conservatoria,

significava che non era disposto ad ascoltare una parola in più sull’argomento. Confuso tra la prima aspettativa di essere interrogato e il sollievo per essere stato lasciato in pace, il Signor José cercava di schiarirsi le idee, di concentrare tutti i sensi sul lavoro che il funzionario gli aveva messo sul tavolo, due decine di dichiarazioni di nascita di cui si dovevano trasferire i dati nei moduli, da archiviare poi negli schedari del bancone, nel corretto ordine alfabetico. Era un lavoro semplice, ma di responsabilità, che per il Signor José, ancora debole di gambe e di testa, aveva almeno il vantaggio che lo poteva fare seduto. Gli errori dei copisti sono quelli per cui si accettano meno scusanti, non serve a niente che vengano a dirci, Mi sono distratto, al contrario, riconoscere una distrazione significa confessare che si stava pensando ad altro, invece di concentrare l’attenzione su nomi e date la cui suprema importanza deriva loro dal fatto che sono, nel nostro caso, quelli che conferiscono esistenza legale alla realtà dell’esistenza. Soprattutto il nome della persona che è nata. Un semplice errore di trascrizione, lo scambio della lettera iniziale di un cognome, per esempio, manderebbe il modulo a finire fuori del suo posto idoneo, e magari lontanissimo dal punto in cui dovrebbe stare, come alla fine succederebbe in questa Conservatoria Generale dell’Anagrafe dove i nomi sono molti, per non dire che sono tutti. Se lo scritturale ausiliario che, in passato, ha copiato nel modulo il nome del Signor José, avesse scritto Xosé, fuorviato mentalmente da una somiglianza di pronuncia che sfiora quasi la coincidenza, sarebbe un traffico dell’accidente ritrovare la disorientata scheda per iscrivervi una qualsiasi delle tre correnti e comuni verbalizzazioni, quella di matrimonio, quella di divorzio e quella di morte, due più o meno evitabili, l’altra mai. Per questo il Signor José va copiando con prudentissima cura, lettera per lettera, le documentazioni di vita dei nuovi esseri che gli sono stati affidati, ha già trascritto sedici dichiarazioni di nascita, adesso si sta avvicinando la diciassettesima, lui prepara il modulo, ma all’improvviso la mano gli trema, gli occhi vacillano, la pelle della fronte si ricopre di sudore. Il nome che ha davanti a sé, di un individuo di sesso femminile, è in quasi tutto identico a quello della donna sconosciuta, l’unica differenza sta nell’ultimo cognome, e comunque la prima lettera è la stessa. Ci sono dunque tutte le probabilità che questo modulo, recando il nome che reca, vada archiviato subito appresso all’altro, perciò il Signor José, come se non riuscisse più a dominare l’impazienza mentre si avvicinava il momento di un incontro tanto auspicato, si alzò dalla sedia appena ebbe completato la trascrizione, corse al relativo cassetto dello schedario, sfiorò con dita nervose le schede, trovò il posto. Il modulo della donna sconosciuta non c’era. La parola fatale lampeggiò immediatamente nella mente del Signor José, la parola fulminante, Morta. Perché il Signor José ha l’obbligo di sapere che l’assenza di un modulo dallo schedario significa irrimediabilmente la morte del suo titolare, non si contano le schede che lui stesso, in venticinque anni di servizio, ha tolto da qui e trasportato nell’archivio dei morti, ma adesso si rifiuta di accettare l’evidenza, che sia questo il motivo della scomparsa, un collega disattento e incompetente può avere spostato il modulo, forse è un poco più avanti, un poco più indietro, il Signor José per disperazione vuole ingannare se stesso, mai, in tanti e tanti secoli di Conservatoria Generale, una scheda di questo schedario è stata collocata fuori posto, c’è solo un’ipotesi, una soltanto, che la donna sia ancora viva, ed è che

il suo modulo si trovi temporaneamente nelle mani di un altro scritturale ausiliario per qualche nuova verbalizzazione, Forse si è risposata, pensò il Signor José, e per un attimo l’inattesa contrarietà che aveva suscitato l’idea attenuò il suo turbamento. Poi, a stento rendendosi conto di quello che faceva, mise il modulo che aveva copiato dalla dichiarazione di nascita al posto di quello scomparso e, con le gambe tremanti, se ne tornò al tavolo. Non poteva domandare ai colleghi se per caso avessero loro il modulo della signora, non poteva girare fra i vari tavoli per guardare di sottecchi gli incartamenti con cui stavano lavorando, non poteva fare nient’altro che sorvegliare il cassetto dello schedario per vedere se qualcuno andava a rimettere a posto quel piccolo rettangolo di cartoncino stornato per equivoco o per un motivo meno routiniero della morte. Trascorsero le ore, il mattino fece posto al pomeriggio, quello che il Signor José riuscì a mandar giù per pranzo fu quasi nulla, dovrà avere qualche cosa alla gola se gli vengono questi groppi, queste compressioni, queste angosce. Per tutta la giornata nessun collega andò ad aprire quel cassetto dello schedario, nessun modulo sperduto ritrovò la strada del ritorno, la donna sconosciuta era morta. 14. Quella notte il Signor José tornò nella Conservatoria Generale. Aveva con sé la torcia tascabile e un rotolo di cento metri di corda robusta. La torcia aveva una pila nuova, con durata per varie ore di uso continuo, ma il Signor José, più che edotto dalle difficoltà che era stato costretto a fronteggiare durante la sua pericolosa avventura di scalata e furto nell’istituto, aveva appreso che nella vita le attenzioni non bastano mai, soprattutto quando si abbandonano le rette vie dell’onesto procedere per imboccare i sentieri tortuosi del crimine. Immaginate se la minuscola lampadina si dovesse bruciare, immaginate se la lente che la protegge e intensifica la luce si dovesse staccare dall’incastro, immaginate se la torcia, con pila, lente e lampadina intatta, dovesse cadere in un buco dove non si può arrivare né con il braccio né con un gancio, allora, in mancanza dell’autentico filo di Arianna, che lui non si azzarderà a usare malgrado non venga mai chiuso a chiave il cassetto della scrivania del capo dove, insieme a una torcia potente, viene tenuto per le occasioni, il Signor José dovrà servirsi di un rustico e normale rotolo di corda acquistato in drogheria che ne farà le veci e che ricondurrà nel mondo dei vivi colui che, in questo momento, si accinge a entrare nel regno dei morti. Come impiegato della Conservatoria Generale, il Signor José è del tutto legittimato ad accedere a tutti i tipi di documenti anagrafici, che sono peraltro, non ci sarebbe bisogno di ripeterlo, la vera sostanza del suo lavoro, e quindi qualcuno potrà trovare strano che, accorgendosi della mancanza del modulo, non abbia semplicemente detto al funzionario da cui dipende, Vado a cercare la scheda di una donna che è morta. Il problema è che non gli sarebbe sufficiente annunciarlo, dovrebbe fornire una motivazione amministrativamente fondata e burocraticamente logica, il funzionario non tralascerebbe di domandare, A cosa le serve, e il Signor José non potrebbe rispondergli, Per avere la certezza che sia proprio morta, dove andrebbe a finire la Conservatoria Generale se cominciasse a soddisfare questa e altre curiosità, non solo morbose ma anche improduttive. La cosa peggiore che potrà scaturire dalla spedizione notturna

del Signor José sarà quella che non riesca a trovare gli incartamenti della donna sconosciuta in quel caos che è l’archivio dei morti. È chiaro che, teoricamente, trattandosi di un decesso recente, gli incartamenti dovrebbero stare in quella che comunemente viene designata come entrata, ma il problema, qui, si presenta immediatamente nell’impossibilità di sapere esattamente dove sia l’entrata dell’archivio dei morti. Sarà troppo semplice dire, come insistono gli irriducibili ottimisti, che lo spazio dei morti comincia necessariamente dove finisce lo spazio dei vivi e viceversa, e può darsi che nel mondo esterno le cose vadano in un certo senso così, dato che, tranne avvenimenti eccezionali, ma comunque non tanto eccezionali quanto questo, come potrebbero essere le catastrofi naturali e i conflitti bellici, non è d’uso che si vedano per le strade i morti mescolati con i vivi. Orbene, per ragioni strutturali, e non solo, nella Conservatoria Generale questo può accadere. Può accadere, e accade. Avevamo già spiegato prima che di tanto in tanto, quando il congestionamento causato dall’accumularsi continuo e inarrestabile dei morti comincia a impedire il passaggio degli impiegati per i corridoi e, di conseguenza, a rendere difficile qualsiasi ricerca documentale, non c’è altro da fare se non abbattere la parete di fondo e rialzarla di nuovo alcuni metri più avanti. Tuttavia, per una nostra involontaria dimenticanza, non si è accennato ai due effetti perversi di codesto congestionamento. In primo luogo, nel lasso di tempo in cui la parete viene ricostruita, è inevitabile che i moduli e le pratiche dei morti recenti, per mancanza di spazio adeguato nel fondo dell’edificio, si vadano avvicinando pericolosamente e sfiorino, da questo lato, le pratiche dei vivi che si trovano collocate all’estremità interna delle rispettive scaffalature, dando origine a una frangia di delicate situazioni di confusione fra coloro che ancora sono vivi e coloro che sono già morti. In secondo luogo, quando la parete è finalmente eretta e il soffitto prolungato, quando l’archiviazione dei morti può finalmente tornare alla normalità, quella stessa confusione, per così dire di frontiera, renderà impossibile, o almeno pregiudicherà notevolmente, il trasporto, verso le tenebre del fondo, della totalità dei morti intrusi, e scusate l’improprietà del termine. Si aggiunga a questi non piccoli inconvenienti la circostanza che i due scritturali ausiliari più giovani, senza che il capo e i colleghi lo sospettino, non hanno alcuna esitazione, di tanto in tanto, sia per insufficienza di formazione professionale sia per gravi carenze nella sfera personale dell’etica, ad abbandonare qua e là un morto, senza neanche prendersi la briga di andare a vedere se là dentro poteva esserci o meno uno spazio libero per lui. Se questa volta la fortuna non sarà dalla parte del Signor José, se il caso non lo favorirà, l’avventura dell’assalto alla scuola, a paragone con quello che l’aspetta qui, nonostante sia stata tanto rischiosa, sarà stata comunque una passeggiata. Ci si potrà domandare a cosa potrà mai servire al Signor José un filo tanto lungo, cento metri, se la lunghezza della Conservatoria Generale, nonostante le aggiunte successive, non ha ancora superato gli ottanta. È un dubbio legittimo di chi immagina che nella vita si possa fare tutto seguendo meticolosamente una linea retta, che sia sempre possibile andare da un luogo all’altro per la via più breve, e forse alcuni, nel mondo esterno, ritengono di esserci riusciti, ma qui, dove i vivi e i morti condividono lo stesso spazio, a volte ci sono da fare molti giri per trovarne uno, c’è da aggirare montagne di

carte, colonne di pratiche, pile di moduli, massicci di antichi resti, avanzare per vallate tenebrose, fra pareti di carta sporca che si toccano lassù in cima, sono metri e metri di corda che dovranno essere tesi, lasciati alle spalle, come una traccia sinuosa e sottile segnata nella polvere, non c’è altro modo per sapere dove non si è ancora passati, non c’è altro modo per ritrovare la via del ritorno. Il Signor José è andato a legare un’estremità della corda a una zampa del tavolo del capo, non certo per mancanza di rispetto, ma per guadagnare qualche metro, si è legato l’altra estremità alla caviglia e, abbandonato dietro di sé, per terra, il gomitolo che a ogni passo si va srotolando, ha imboccato uno dei corridoi centrali dell’archivio dei vivi. Il suo piano è di cominciare la ricerca dalla zona di fondo, là dove dovrebbero trovarsi la pratica e il modulo della donna sconosciuta, anche se, per le ragioni già esposte, è poco probabile che l’archiviazione sia stata fatta in modo corretto. Essendo un impiegato d’altri tempi, educato secondo i metodi e le discipline di una volta, al rigido carattere del Signor José ripugnerebbe scendere a patti con la mancanza di responsabilità delle nuove generazioni, iniziando la ricerca nel locale dove solo per una deliberata e scandalosa infrazione alle regole archivistiche fondamentali un morto potrebbe essere stato depositato. Sa che la difficoltà maggiore con cui dovrà lottare è la mancanza di luce. A parte la scrivania del capo, sopra la quale continua a brillare foscamente la lampadina di sempre, la Conservatoria è tutta al buio, immersa in fitte tenebre. Accendere altre lampadine nell’edificio, per quanto siano fioche, sarebbe troppo rischioso, un poliziotto attento nel fare la ronda nel quartiere, o un buon cittadino, di quelli che si preoccupano per la sicurezza della comunità, potrebbero scorgere attraverso le alte finestre il chiarore diffuso e darebbero l’allarme immediatamente. Il Signor José non avrà dunque altra luce ad aiutarlo se non quel flebile circolo luminoso che, alla cadenza dei passi, ma anche per via del tremore della mano che tiene la torcia, oscilla davanti a lui. Fatto sta che c’è una bella differenza fra l’introdursi nell’archivio dei morti durante le normali ore di servizio, con la presenza, alle proprie spalle, dei colleghi che, malgrado siano poco solidali, come si è visto, accorrerebbero comunque in caso di un pericolo reale o di un’irrefrenabile crisi nervosa, soprattutto se il direttore ordinasse, Andate a vedere cosa gli succede, e l’avventurarsi da solo, nel cuore di una notte fonda, fra queste catacombe dell’umanità, circondato da nomi, ascoltando il mormorio delle carte, o voci sussurrate, come si fa a distinguerle. Il Signor José ha raggiunto l’ultimo degli scaffali dei vivi, adesso sta cercando un passaggio per arrivare al fondo della Conservatoria Generale, teoricamente, e in base a come è stata progettata l’occupazione dello spazio, questa dovrebbe svilupparsi secondo la bisettrice longitudinale della pianta, quella che immaginariamente divide il tracciato rettangolare dell’edificio in due parti uguali, ma i crolli di pratiche, che continuano a verificarsi per quanto si puntellino le masse di carte, hanno trasformato qualcosa che era destinato a essere un accesso diretto e rapido in una rete complessa di carrarecce e sentieri, dove continuamente si presentano ostacoli e vicoli ciechi. Durante il giorno, e con tutte le luci accese, è ancora relativamente facile per il ricercatore mantenersi nella giusta direzione, basta che proceda attento, vigile, che abbia la cautela di proseguire per le vie dove si veda meno polvere, perché è il segnale che vi si passa con frequenza, e fino ad oggi, malgrado qualche

spavento e qualche preoccupante ritardo, non si è mai verificato che un impiegato non abbia fatto ritorno dalla spedizione. Ma la luce della torcia non merita fiducia, sembra che vada creando ombre per conto suo, per la verità il Signor José avrebbe dovuto piuttosto, giacché non osava servirsi della torcia del conservatore, comprarne una di quelle moderne, potentissime, che sono in grado di illuminare fino in capo al mondo. Certo è che la paura di perdersi non l’affligge granché, fino a un certo punto la tensione costante della corda legata alla caviglia lo tranquillizza, ma se si mette a fare giri, a gironzolare di qua e di là, ad avvolgersi nel bozzolo, finirà per non poter fare più un solo passo, dovrà tornare indietro, ricominciare da capo. E gli è già capitato di doverlo fare per altri motivi, quando la corda, troppo sottile, si è introdotta fra le pile di carte ed è rimasta impigliata negli angoli, e a quel punto né avanti né indietro. Da tutti questi problemi e intrecci si comprende come l’avanzata debba essere lenta, come sia di ben poca utilità per il Signor José la conoscenza che possiede della topografia dei posti, tanto più che proprio adesso è appena crollata un’enorme catasta di pratiche che ha ostruito fino all’altezza di un uomo quella che sembrava essere la via giusta, sollevando una fitta nuvola di polvere, in mezzo a cui si sono messe a svolazzare terrorizzate le tarme, rese quasi trasparenti dal fascio di luce della torcia. Il Signor José detesta questi animali, che a prima vista si direbbe siano stati messi al mondo per decorazione, proprio come detesta anche i pesciolini d’argento che qui proliferano, sono loro, tutti quanti, i voraci colpevoli di tante memorie distrutte, di tanti figli senza genitori, di tante eredità cadute nelle mani avide dello Stato per la mancanza di una dichiarazione legale, per quanto si giuri che il documento probatorio è stato smangiucchiato, macchiato, corroso, divorato dalle bestiole che infestano la Conservatoria Generale, della qual cosa si dovrebbe tener conto per una questione di semplice umanità, ma purtroppo non c’è modo di convincere il procuratore delle vedove e degli orfani, che dovrebbe essere dalla parte di questi e di quelle, ma che non lo è, O spunta fuori il documento, o niente eredità. Quanto alla popolazione topesca, non vale neanche la pena di ricordare quanto sia distruttiva. In ogni caso, nonostante i numerosi danni che causano, questi roditori hanno anche il loro lato positivo, se non ci fossero loro la Conservatoria Generale sarebbe già scoppiata, oppure sarebbe già il doppio della sua lunghezza attuale. Un osservatore sprovveduto potrà restare sorpreso di come non vi si siano moltiplicate le colonie di topi fino a divorare totalmente gli archivi, soprattutto considerando l’impossibilità più che evidente di una disinfestazione efficace al cento per cento. La spiegazione, ancorché vi sia chi nutra dubbi sulla sua totale pertinenza, risiederebbe nella mancanza di acqua o di una sufficiente umidità ambientale, risiederebbe nella dieta asciutta a cui le bestie sono soggette per l’ambiente in cui hanno scelto di vivere o dove la cattiva sorte le ha portate, la qual cosa avrebbe determinato una notevole atrofizzazione della muscolatura genitale con conseguenze molto negative nell’esercizio della copula. Opponendosi a questo tentativo di spiegazione, c’è chi insiste nell’affermare che i muscoli non hanno niente a che vedere con questa faccenda, il che significa che la polemica è tuttora aperta. Frattanto, ricoperto di polvere, con pesanti brandelli di ragnatele appiccicati ai capelli e alle spalle, il Signor José ha finalmente raggiunto lo spazio libero esistente fra gli incartamenti archiviati e la parete di fondo, che,

ancora separati da circa tre metri, formano un corridoio irregolare, più stretto ogni giorno che passa, il quale unisce le due pareti laterali. L’oscurità, in questo luogo, è assoluta. Il debole chiarore esterno, seppure riuscisse ad attraversare lo strato di sporcizia che copre dall’interno e dall’esterno le feritoie laterali, specialmente le ultime di ciascun lato, che sono le più vicine, non riesce ad arrivare fin qui per via dell’accumulo verticale dei blocchi legati di documenti, che sfiorano quasi il soffitto. Quanto alla parete di fondo, è tutta inspiegabilmente cieca, e cioè non presenta neanche un semplice occhio di bue che adesso potrebbe incrementare la scarsa luce della torcia. Nessuno è mai riuscito a capire la cocciutaggine della corporazione di architetti che, con la scusa di una poco convincente giustificazione estetica, ha rifiutato di modificare il progetto storico e di autorizzare l’apertura di alcune finestre sulla parete quando è necessario spostarla in avanti, nonostante il fatto che anche un profano in materia sarebbe in grado di accorgersi che si tratterebbe di soddisfare semplicemente una necessità funzionale. Dovrebbero esserci loro qui, adesso borbottò il Signor José, così saprebbero che fatica. Le cataste di carte disposte ai due lati del passaggio centrale sono di altezze diverse, il modulo e la pratica della donna sconosciuta potrebbero essere in una qualsiasi, ma comunque con maggiori probabilità che si trovino su una delle cataste più basse, se la legge del minimo sforzo è stata la prescelta dallo scritturale ausiliario incaricato di inserirli. Sfortunatamente non mancano in questa nostra disorientata umanità degli spiriti tanto contorti che non ci sarebbe affatto da stupirsi se l’impiegato venuto fin qui ad archiviare la pratica e il modulo della donna sconosciuta, ammesso che siano effettivamente qui, avesse avuto l’idea maliziosa, solo per un’incavolatura gratuita, di appoggiare proprio alla catasta di carte più alta l’enorme scala portatile usata per questo servizio e di andare a piazzarli lassù, in cima a tutto. Così vanno le cose a questo mondo. Con metodo, senza precipitazione, dando piuttosto l’impressione di ripercorrere i gesti e i movimenti della notte trascorsa nella soffitta dell’istituto, quando la donna sconosciuta probabilmente era ancora viva, il Signor José diede inizio alla ricerca. Qui c’era molta meno polvere a ricoprire gli incartamenti, il che è facilmente comprensibile se si tiene conto che non passa un giorno senza che siano portate pratiche e moduli di persone decedute, la qual cosa, in linguaggio fantasioso, ma di un evidente cattivo gusto, sarebbe come dire che nel fondo della Conservatoria Generale dell’Anagrafe i morti sono sempre ripuliti. Solo lassù in cima, dove le carte, come si è detto, sfiorano quasi il soffitto, il polverone sventagliato dal tempo continua tranquillamente ad assestarsi sul polverone che il tempo ha sventagliato, al punto che, se si vuole sapere chi riguardano, si rende necessario sbattere, scuotere con forza le cartelline delle pratiche che si trovano in cima. Qualora non dovesse scoprire ai livelli inferiori quello che cerca, il Signor José dovrà sacrificarsi nuovamente a risalire sulla scala, ma stavolta non avrà bisogno di starsene appollaiato più di un minuto, non ci sarà neanche il tempo che gli venga il capogiro, in un batter d’occhi il fascio di luce gli mostrerà se negli ultimi giorni vi hanno lasciato qualche pratica. Siccome il decesso della donna sconosciuta si situa, con forte probabilità, in un lasso di tempo assai breve, corrispondente giorno più giorno meno, secondo l’idea del Signor José, a uno dei due periodi in cui è stato assente dal servizio, prima la settimana

dell’influenza, poi le brevissime ferie, la verifica dei documenti in ciascuna delle cataste si può effettuare con notevole rapidità, e anche se la morte della donna fosse avvenuta prima, immediatamente dopo quel memorabile giorno in cui il modulo è andato a finire tra le mani del Signor José, comunque sia non è trascorso poi tanto tempo che i documenti si possano trovare archiviati sotto un numero eccessivo di altre pratiche. Questa reiterata disamina delle situazioni che si presentano, queste ponderate riflessioni, queste minuziose disquisizioni sul chiaro e lo scuro, sul diretto e il labirintico, sul pulito e lo sporco, stanno passando, tutte quante, tali e quali si riferiscono, nella testa del Signor José. Il tempo impiegato a spiegarle, o, parlando con più esattezza, a riprodurle, apparentemente esagerato, è la conseguenza inevitabile non solo della complessità, sia di contenuto che di forma, dei fattori menzionati, ma anche della natura molto particolare dei circuiti mentali del nostro scritturale ausiliario. Che adesso affronterà una dura prova. Passo dopo passo, avanzando lungo lo stretto corridoio formato, come si è detto, dalle cataste di documenti e dalla parete di fondo, il Signor José si è avvicinato poco a poco a una delle pareti laterali. In teoria, astrattamente, a nessuno verrebbe in mente di considerare stretto un corridoio come questo, con la sua comoda larghezza di quasi tre metri, ma se questa dimensione viene considerata in rapporto alla lunghezza del corridoio che, lo ripetiamo ancora una volta, va da un architrave all’altro, allora dovremo domandarci come ha fatto il Signor José, che sappiamo essere predisposto a serie turbe del foro psicologico, quali le vertigini e le insonnie, a non aver avuto adesso, in questo spazio chiuso e soffocante, un violento attacco di claustrofobia. La spiegazione si trova, forse, proprio nel fatto che l’oscurità non gli consente di percepire i limiti di quello spazio, che possono essere qui come lì, e che visibile davanti a sé ha solo la familiare e tranquillizzante massa di incartamenti. Il Signor José non si è mai trattenuto in questo luogo tanto tempo, normalmente arriva, inserisce i documenti di una vita conclusa e torna immediatamente alla sicurezza del tavolo da lavoro, e se è vero che in questa occasione, da quando è entrato nell’archivio dei morti, non è ancora riuscito a sottrarsi a un’impressione inquietante, come di una presenza che lo circondi, l’aveva attribuita a quel vago timore dell’occulto e dell’ignoto a cui ha diritto umanissimo anche il più coraggioso degli individui. Paura, nel senso letterale del termine, il Signor José non ce l’ha avuta fino al momento in cui è arrivato alla fine del corridoio e si è ritrovato con la parete davanti. Si era chinato per esaminare certi documenti caduti per terra, che avrebbero potuto essere benissimo quelli della donna sconosciuta, abbandonati lì dall’impiegato indifferente, e di colpo, prim’ancora di aver avuto il tempo di esaminarli, non era più il Signor José scritturale ausiliario della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, non ha più cinquant’anni, adesso è un piccolo José che ha cominciato ad andare a scuola, è il bambino che non voleva addormentarsi perché tutte le notti aveva un incubo, ossessivamente lo stesso, questo angolo di parete, questo muro chiuso, questa prigione, e al di là, all’altra estremità del corridoio, occultata dalle tenebre, nient’altro che una piccola e semplice pietra. Una piccola pietra che cresceva lentamente, che lui adesso non poteva vedere con gli occhi, ma che la memoria dei sogni sognati gli diceva che c’era, una pietra che si ingrandiva e si muoveva come se fosse viva, una pietra che si espandeva ai lati e verso l’alto, che saliva lungo le pareti e che gli andava

incontro trascinandosi, avvoltolata su se stessa, come se non fosse una pietra, ma fango, come se non fosse fango, ma sangue denso. Il bambino usciva dall’incubo urlando quando la massa immonda gli sfiorava i piedi, quando il cappio dell’angoscia era sul punto di strangolarlo, ma il Signor José, poverino, non può svegliarsi da un sogno che non gli appartiene più. Rannicchiato contro la parete come un cane spaventato, punta con la mano tremante il fascio di luce della torcia verso l’altro capo del corridoio, ma la luce non si spinge tanto lontano, si ferma a metà strada, più o meno là dove si trova l’accesso all’archivio dei vivi. Pensa che, facendo una rapida corsa, potrebbe sfuggire alla pietra che avanza, ma la paura gli dice, Fai attenzione, come puoi sapere se non è proprio lì ferma ad aspettarti, cadrai nella bocca del lupo. Nel sogno, l’avanzare della pietra era accompagnato da una strana musica che sembrava nascere nell’aria, ma qui il silenzio è assoluto, totale, talmente spesso da inghiottire il respiro del Signor José, proprio come la tenebra inghiotte la luce della torcia. Che in questo istante l’ha inghiottita del tutto. Fu come se l’oscurità, bruscamente, fosse avanzata per andare ad attaccarsi, come una ventosa, alla faccia del Signor José. L’incubo del bambino, però, era terminato. Per lui, vai un po’ a capire l’anima umana, il fatto di non vedere le pareti del carcere, quelle vicine e quelle lontane, era lo stesso che se fossero sparite, come se lo spazio si fosse allargato, libero, fino all’infinito, come se le pietre non fossero altro che il minerale inerte di cui sono fatte, come se l’acqua fosse semplicemente la ragione del fango, come se il sangue gli scorresse solo dentro le vene, e non al loro esterno. Adesso non è più un incubo dell’infanzia quello che sta spaventando il Signor José, a paralizzarlo per la paura è di nuovo il pensiero di poter rimanere lì morto in quell’angolo, come quando, tanto tempo addietro, ha immaginato di poter cadere da un’altra scala, morto qui senza documenti in mezzo ai documenti dei morti, schiacciato dalle tenebre, dalla valanga che sta per abbattersi dall’alto, e di poter essere ritrovato l’indomani, Il Signor José non si è presentato in servizio, dove sarà, Si farà vedere, e quando un collega fosse venuto a traslare altre pratiche e altri moduli, l’avrebbe trovato lì, esposto alla luce di una lampada migliore di questa, che tanto male l’ha servito quanto più lui ne aveva bisogno. Trascorsero i minuti che dovevano trascorrere perché il Signor José, a poco a poco, cominciasse ad avvertire dentro di sé una voce che diceva, Amico, finora, a parte la paura, non ti è successo niente di male, sei lì seduto, tutto intero, certo, la torcia ti si è spenta, ma a cosa ti serve una torcia, hai quella corda legata alla caviglia, attaccata con l’altro capo alla zampa del tavolo del conservatore, sei al sicuro, come un nascituro collegato dal cordone ombelicale all’utero della madre, non che il capo sia tua madre, né tuo padre, ma insomma, i rapporti fra le persone, qui, sono complicati, tu devi pensare piuttosto che gli incubi dell’infanzia non si avverano mai, e tantomeno si avverano i sogni, quella storia della pietra era veramente terribile, ma ci dev’essere una spiegazione scientifica, come quando sognavi di volare sopra i giardini, salendo, scendendo, volteggiando a braccia aperte, ti ricordi, era un segnale che stavi crescendo, magari anche la pietra ha avuto la sua funzione, se bisogna vivere l’esperienza del terrore, allora è meglio prima che poi, e inoltre hai più che l’obbligo di sapere che questi morti non sono morti sul serio, è una macabra esagerazione definire questo luogo il loro archivio, se le carte

che hai fra le mani sono quelle della donna sconosciuta, sono soltanto dei fogli di carta, e non ossa, sono fogli di carta, e non carne putrefatta, è proprio questo il prodigio compiuto dalla tua Conservatoria Generale, trasformare in meri fogli di carta la vita e la morte, certo, tu volevi ritrovare quella donna, ma non sei arrivato in tempo, neanche questo sei riuscito a ottenere, oppure lo volevi e non lo volevi, eri in dubbio fra il desiderio e il timore come succede a tanta gente, in definitiva bastava che fossi andato alle tasse, qualcuno te l’ha pure consigliato, è finita, la cosa migliore è lasciarla perdere, non c’è più tempo per lei e la fine del tuo tempo sta per arrivare. Rasente all’instabile parete formata dalle pratiche, con molta cautela perché non gli cadessero addosso, il Signor José lentamente cominciò ad alzarsi. La voce che gli aveva fatto quel discorso adesso gli diceva cose tipo questa, Amico, non aver paura, l’oscurità in cui ti ritrovi qui non è maggiore di quella che c’è dentro il tuo corpo, sono due oscurità separate da una pelle, scommetto che non ci avevi mai pensato, non fai che trasportare da un lato all’altro un’oscurità, e questo non ti spaventa, poco fa ci è mancato poco che ti mettessi a urlare solo perché hai immaginato dei pericoli, solo perché ti sei ricordato dell’incubo di quando eri piccolo, mio caro, devi imparare a vivere con l’oscurità di fuori come hai imparato a vivere con l’oscurità di dentro, adesso alzati, su, per favore, metti in tasca quella torcia, non ti serve a niente, e quei documenti, visto che ci tieni a portarteli via, infilali fra la giacca e la camicia, oppure fra la camicia e la pelle, che è più sicuro, afferra la corda con decisione, cerca di arrotolarla a mano a mano che avanzi perché non ti si intrecci fra i piedi, e adesso forza, non fare il vigliacco, che è la cosa peggiore di tutte. Sfiorando ancora leggermente la parete di carta con la spalla, il Signor José azzardò due timidi passi. Le tenebre si aprirono come acqua nera, gli si richiusero dietro, un altro passo, un altro ancora, cinque metri di corda erano già stati sollevati da terra e arrotolati, al Signor José gli ci sarebbe voluta una terza mano con cui tastare l’aria davanti a sé, ma il rimedio è semplice, basterà che sollevi all’altezza del viso le due mani che ha, una che continuerà ad arrotolare, l’altra che verrà arrotolata, è il principio dell’arcolaio. Il Signor José sta per uscire dal corridoio, qualche passo ancora e sarà in salvo da un nuovo agguato della pietra dell’incubo, adesso la corda ha fatto un po’ di resistenza, ma è un buon segno, significa che si è incastrata, rasente al pavimento, all’angolo del passaggio che conduce all’archivio dei vivi. Durante tutto il percorso fino all’arrivo, stranamente, come se qualcuno glieli stesse lanciando dall’alto, continuarono a cadere fogli e fogli di carta sulla testa del Signor José, lentamente, uno, un altro, un altro ancora, come un commiato. E quando, finalmente, giunse alla scrivania del capo, quando, prim’ancora di slegare la corda, tirò fuori da sotto la camicia la pratica che aveva raccolto da terra, quando l’aprì e vide che era quella della donna sconosciuta, la sua commozione fu talmente intensa da non fargli sentire la porta della Conservatoria che sbatteva, come se qualcuno fosse appena uscito. 15. Che il tempo psicologico non corrisponde al tempo matematico, il Signor José l’aveva appreso nella stessa maniera con cui aveva acquisito nella vita altre conoscenze di varia utilità, in primo luogo, naturalmente, grazie al proprio

vissuto, che non è certo il tipo, lui, nonostante sia rimasto un semplice scritturale ausiliario, di andarsene in giro per questo mondo solo per veder girare gli altri, ma anche per l’influsso formativo di un certo numero di libri e riviste di divulgazione scientifica degni di fiducia, o di fede, secondo il sentimento contingente, e inoltre, beh, con qualche romanzo del genere introspettivo popolare dove, con differenze di metodo e aggiunte di fantasia, si affrontava ugualmente l’argomento. In nessuna delle occasioni precedenti, però, aveva provato l’impressione reale, obiettiva, tanto fisica come una subitanea contrazione muscolare, dell’effettiva impossibilità di misurare quel tempo che potremmo definire dell’anima, come nel momento in cui, ormai a casa, guardando ancora una volta la data del decesso della donna sconosciuta, tentò vagamente di situarla nel tempo trascorso da quando aveva iniziato a ricercarla. Alla domanda, Che cosa stava facendo lei, quel giorno, potrebbe dare una risposta praticamente immediata, gli basterebbe andare a consultare il calendario, pensarsi solo come Signor José, l’impiegato della Conservatoria Generale che era stato assente dal servizio per malattia, Quel giorno mi trovavo a letto con l’influenza, non sono andato a lavorare, direbbe, ma se poi gli domandassero, Mi parli adesso della sua attività di investigatore e mi dica quando è stato, allora dovrebbe andare a consultare il quaderno di appunti che teneva sotto il materasso, È stato due giorni dopo la mia intrusione nell’istituto, risponderebbe. In effetti, prendendo per buona la data del decesso iscritta nel modulo con il suo nome, la donna sconosciuta era morta due giorni dopo quel deplorevole episodio che ha trasformato in un delinquente l’onesto fino ad allora Signor José, ma queste conferme incrociate, quella dello scritturale ausiliario con quella dell’investigatore e quella dell’investigatore con quella dello scritturale ausiliario, in apparenza più che sufficienti per fare coincidere il tempo psicologico dell’uno con il tempo matematico dell’altro, non li sollevavano, né questo né quello, da un’impressione di vertiginoso disorientamento. Il Signor José non si trova sugli ultimi gradini di una scala altissima, a guardare verso il basso e a osservare come si vadano restringendo sempre di più fino a ridursi a un punto quando toccano per terra, ma è come se il suo corpo, invece di riconoscersi uno e intero nella successione degli istanti, fosse ripartito nella durata di questi ultimi giorni, nella durata psicologica o soggettiva, non di quella matematica o reale, e al suo ritmo si contraesse e dilatasse. Sono decisamente assurdo, si rimproverava il Signor José, il giorno aveva già ventiquattr’ore quando fu deciso che le avesse, nell’ora ci sono e ci sono sempre stati sessanta minuti, i sessanta secondi del minuto vengono dall’eternità, se un orologio comincia ad andare avanti o indietro non è per un difetto del tempo, ma della macchina, e quindi sono io che devo avere la corda avariata. L’idea gli fece accennare un sorriso, Se il guasto non è, perlomeno che io sappia, nella macchina del tempo reale, ma nella meccanica psicologica che lo misura, allora dovrei cercare uno psicologo che mi riparasse la ruota dello scappamento. Sorrise di nuovo, poi si fece serio, La faccenda si risolve più facilmente, del resto l’ha sistemata la natura, la donna è morta, non c’è altro da fare, mi terrò la pratica e il modulo se voglio avere un ricordo palpabile di quest’avventura, per la Conservatoria Generale sarà come se questa persona non fosse mai nata, probabilmente nessuno avrà mai bisogno di questi incartamenti, potrei anche lasciarli da qualche parte

nell’archivio dei morti, magari all’entrata, insieme ai più vecchi, qui o lì è la stessa cosa, la storia è uguale per tutti, è nata, è morta, a chi interesserà più chi è stata, i genitori, se le volevano bene, la piangeranno per un po’ di tempo, poi piangeranno di meno, poi smetteranno di piangere, è la norma, per l’uomo da cui ha divorziato non ci sarà differenza, certo, forse poteva avere un altro legame sentimentale, convivere, o essere sul punto di sposarsi di nuovo, ma questa sarebbe la storia di un futuro che non potrà più essere vissuto, non c’è nessuno al mondo a cui interessi lo strano caso della donna sconosciuta. Aveva davanti a sé la pratica e il modulo, aveva anche i tredici moduli della scuola, lo stesso nome ripetuto tredici volte, dodici immagini diverse della stessa faccia, una ripetuta, ma tutte definitivamente morte nel passato, già morte prima che fosse morta la donna in cui si sarebbero trasformate, le vecchie fotografie sono davvero ingannevoli, ci danno l’illusione di essere vivi, e non è corretto, la persona che stiamo guardando non esiste più, e lei, se potesse vederci, non si riconoscerebbe in noi, Chi sarà questo signore che mi sta guardando con faccia afflitta, direbbe. Allora, improvvisamente, il Signor José si ricordò che c’era anche un’altra foto, quella che gli aveva dato la signora del pianterreno a destra. Senza aspettarselo, aveva appena trovato la risposta alla domanda a chi avrebbe potuto interessare lo strano caso della donna sconosciuta. Il Signor José non aspettò il sabato. Il giorno seguente, concluso il lavoro d’ufficio alla Conservatoria Generale, andò a ritirare in tintoria i vestiti che aveva lasciato a pulire. Ascoltò distratto la coscienziosa commessa che gli diceva, Guardi questo lavoro di rammendo, guardi, ci passi le dita sopra e mi dica se nota qualche differenza, è come se non fosse successo niente, così parlano di solito le persone che si accontentano delle apparenze. Il Signor José pagò, si infilò sottobraccio il fagotto e andò a casa a cambiarsi. Andava a trovare la signora del pianterreno a destra e voleva essere in ordine e presentabile, approfittare non solo del lavoro perfetto della rammendatrice, veramente meritevole di lodi, ma anche della piega perfetta dei pantaloni, della camicia stirata e inamidata, del recupero miracoloso della cravatta. Mentre si accingeva a uscire, un morboso pensiero gli passò per la mente, che è, a quanto si sa, l’unico organo pensante al servizio del corpo, E se fosse morta anche la signora del pianterreno a destra, per la verità non sembrava scoppiare di salute, e inoltre, per morire basta essere vivi, e a quell’età, si immaginò suonare il campanello, una, due volte, e dopo molta insistenza udiva aprirsi la porta del pianterreno a sinistra da cui si affacciava una donna che, infastidita dal rumore, diceva, Non si affatichi, non c’è nessuno, È fuori, È morta, Morta, Proprio così, E quando è successo, Una quindicina di giorni fa, e lei chi è, Sono della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, Eppure non sembra che il suo servizio funzioni molto bene, è della Conservatoria e non sa che è morta. Il Signor José si definì ossessivo, ma preferì chiarire la faccenda una volta per tutte, invece di dover sopportare le cattive maniere della donna del pianterreno a sinistra. Sarebbe entrato in Conservatoria e in meno di un minuto avrebbe controllato lo schedario, a quest’ora le due donne delle pulizie dovevano aver già finito il lavoro, né del resto hanno bisogno di molto tempo, si limitano a svuotare i cestini della carta, spazzano e lavano alla meglio il pavimento fino alla scaffalatura dietro la scrivania del capo, è impossibile convincerle, con le buone o con le cattive, a spingersi oltre, hanno paura,

dicono che lì non ci vanno neanche morte, anche loro sono persone che si accontentano delle apparenze, che ci si può fare. Dopo essere andato a rinfrescarsi sul modulo della donna sconosciuta il nome della signora del pianterreno a destra, sua madrina di battesimo, il Signor José socchiuse la porta con la massima cautela e sbirciò. Come previsto, le donne delle pulizie non c’erano più. Entrò, si avvicinò rapidamente allo schedario, cercò il nome, Eccolo, disse, e tirò un sospiro di sollievo. Se ne tornò a casa, finì di prepararsi e uscì. Per prendere l’autobus che l’avrebbe portato nelle vicinanze dell’abitazione della signora del pianterreno a destra doveva andare nella piazza davanti alla Conservatoria, la fermata era lì. Nonostante fosse pomeriggio inoltrato, aleggiava ancora sulla città molta della luce del giorno che restava nel cielo, prima di una ventina di minuti, almeno, non avrebbero cominciato ad accendersi i lampioni dell’illuminazione pubblica. Il Signor José aspettava l’autobus con qualche altra persona, era molto probabile che non sarebbe riuscito a salire sul primo che fosse passato. E infatti andò così. Ma subito dopo ne comparve un secondo, e non era pieno. Il Signor José salì, in tempo per trovare posto accanto a un finestrino. Guardò fuori, notando come la diffusione della luce nell’atmosfera, per un effetto ottico tutt’altro che comune, conferiva una tonalità di luce rossastra alle facciate degli edifici, come se il sole stesse nascendo in quell’istante su ognuna di esse. La Conservatoria Generale era lì, con la sua porta antichissima e i tre scalini di pietra nera che vi davano accesso, le cinque finestre oblunghe della facciata principale, un palazzo che aveva l’aria di un rudere immobilizzato nel tempo, come se l’avessero mummificato invece di restaurarlo quando il degrado dei materiali lo reclamava. Un qualche intoppo nel traffico impediva all’autobus di mettersi in movimento. Il Signor José si sentiva nervoso, non voleva arrivare troppo tardi a casa della signora del pianterreno a destra. Nonostante la conversazione che avevano avuto, tanto ricca, tanto franca, nonostante certe confidenze che si erano scambiati, talune inaspettate in due persone che si erano appena conosciute, non erano entrati in intimità tale da poterle andare a bussare alla porta a orari poco opportuni. Il Signor José guardò di nuovo la piazza. La luce era cambiata, la facciata della Conservatoria Generale si era fatta rapidamente grigia, ma di un grigio ancora luminoso che sembrava vibrare, fremere, e fu allora che, nel momento in cui finalmente l’autobus ripartiva, immettendosi lentamente nella scia del traffico, un uomo alto, corpulento, salì gli scalini della Conservatoria, aprì la porta ed entrò. Il capo, mormorò il Signor José, che cosa verrà a fare in Conservatoria a quest’ora. Spinto da un repentino e inspiegabile panico, si alzò bruscamente dal sedile, fece un movimento per uscire, provocando un gesto di sorpresa e irritazione nel passeggero al suo fianco, poi si risedette, sconcertato di se stesso. Capiva di aver avuto l’impulso di correre a casa, quasi dovesse proteggerla da un pericolo, il che, ovviamente, era un assurdo logico. Un ladro, e mettiamo per un altro assurdo che il capo lo fosse, non sarebbe entrato dalla porta della Conservatoria per raggiungere casa sua. Come d’altronde sfiorava l’assurdità che il capo, dopo aver concluso il lavoro d’ufficio, avesse voluto tornare in Conservatoria dove, come si è già chiarito nel presente resoconto a tempo debito, non avrebbe avuto alcun lavoro ad aspettarlo, e su questo il Signor José poteva metterci le mani sul fuoco. Supporre che il capo della Conservatoria facesse gli straordinari sarebbe stato

più o meno come pretendere di immaginare un circolo quadrato. L’autobus era ormai uscito dalla piazza, e il Signor José continuava a ricercare i motivi profondi che l’avevano spinto a comportarsi in quella maniera disorientata. Finì per decidere che la ragione doveva stare nel fatto che si era abituato, da un bel numero di anni, a essere l’unico residente notturno del complesso di edifici costituito dalla Conservatoria Generale e dalla sua casa, ammesso che quest’ultima si meritasse il nome di edificio, senza dubbio adeguato da un punto di vista rigorosamente linguistico, dato che edificio è tutto quanto è stato edificato, ma ovviamente improprio se paragonato a quella sorta di dignità architettonica che sembra emanare dal termine, soprattutto quando lo pronunciamo. La vista del capo che entrava in Conservatoria l’aveva colpito come l’avrebbe colpito, pensò, se, tornando a casa, l’avesse trovato seduto sulla sua sedia. La relativa tranquillità che questa idea suscitò nel Signor José, e cioè, senza contare le pertinenti e moralmente ostacolanti considerazioni, l’impossibilità fisica e materiale che il capo della Conservatoria Generale penetrasse nell’intimità delle stanze di quel subordinato al punto da usare una sua sedia, svanì di colpo quando il Signor José si ricordò dei moduli scolastici della donna sconosciuta e si domandò se li aveva nascosti sotto il materasso o se, per disattenzione, li aveva lasciati ben visibili sul tavolo. Anche se casa sua fosse stata altrettanto sicura della cassaforte di una banca, con serrature a combinazione segreta e pavimento, soffitto e pareti blindate, quei moduli non avrebbero mai, per nulla al mondo, dovuto essere lasciati in vista. Il fatto che non ci fosse nessuno a vederli non serviva come scusante alla gravissima imprudenza commessa, che cosa ne sappiamo noi, ignoranti come siamo, fin dove siano già potuti arrivare i progressi della scienza, le onde della radio, per esempio, che nessuno vede, sono riuscite a portare i suoni e le immagini attraverso l’aria e i venti, sovrastando montagne e fiumi, attraversando oceani e deserti, e quindi non ci sarebbe niente di straordinario se avessero già scoperto o inventato, o se le scoprissero domani, delle onde lettrici e delle onde fotografiche capaci di attraversare le pareti e registrare e trasmettere all’esterno vicende, misteri e vergogne della nostra vita che riterremmo in salvo da indiscrezioni. Nasconderli, le vicende, i misteri e le vergogne, sotto un materasso, è ancora il sistema di occultamento più sicuro, soprattutto se teniamo in considerazione la difficoltà sempre maggiore che manifestano i costumi di oggi quando vogliono capire quelli di ieri. Per quanto provette potrebbero essere questa famosa onda lettrice e quest’onda fotografica, mettere il naso fra un materasso e una rete è qualcosa che non gli passerebbe mai per la testa. È noto come i nostri pensieri, sia quelli dell’inquietudine che quelli dell’appagamento, e altri che non derivano né da questo né da quella, finiscono prima o poi per stancarsi e annoiarsi di se stessi, si tratta solo di dare tempo al tempo, di abbandonarli all’ozioso divagare che è dovuto alla loro natura, di non lanciare nel fuoco nessuna riflessione nuova, irritante o polemica, di avere soprattutto la suprema cura di non intervenire ogniqualvolta davanti a un pensiero già di per sé disposto a distrarsi si presenti una biforcazione attraente, una diramazione, una deviazione. Oppure intervenire, sì, ma al fine di spingerlo delicatamente per le spalle, soprattutto se è uno di quei pensieri che infastidiscono, come se gli stessimo consigliando, Suvvia prosegui, che stai

andando bene. È proprio quello che fece il Signor José quando gli venne quell’impetuosa e provvidenziale fantasia dell’onda fotografica e dell’onda lettrice, e immediatamente si abbandonò all’immaginazione, che gli mostrò le onde di invasione che frugavano tutta la camera in cerca dei moduli, che in definitiva non erano poi rimasti sul tavolo, perplesse e vergognose di non poter eseguire l’ordine ricevuto, Ormai lo sapete, o trovate i moduli, li leggete e li fotografate, oppure ritorniamo allo spionaggio classico. Il Signor José pensò ancora al capo, ma si trattò di un pensiero residuo, semplicemente quello che gli era utile per trovare una spiegazione accettabile per quel suo ritorno in Conservatoria al di fuori delle ore regolamentari di servizio, Si è dimenticato qualche cosa che gli serviva, non può esserci altro motivo. Senza rendersene conto, ripeté a voce alta l’ultima parte della frase, Non può esserci altro motivo, provocando per la seconda volta la diffidenza del passeggero che viaggiava al suo fianco, i cui pensieri, alla luce del movimento che gli fece cambiare di posto, divennero immediatamente chiari ed espliciti, Questo tipo è matto, c’è da scommetterci che l’ha pensato con queste o con parole simili. Il Signor José non badò alla ritirata del vicino di sedile, era passato direttamente a occuparsi della signora del pianterreno a destra, ce l’aveva già davanti, sulla soglia della porta, Si ricorda di me, sono della Conservatoria Generale, Certo, mi ricordo benissimo, Sono qui per la faccenda dell’altro giorno, Ha trovato la mia figlioccia, No, non l’ho trovata, o meglio, sì, cioè, no, voglio dire, vorrei fare due chiacchiere con lei, se non le dispiace, se ha un minuto disponibile, Entri, anch’io ho qualche cosa da raccontarle. Parola più parola meno, furono queste le frasi che il Signor José e la signora del pianterreno a destra pronunciarono nel momento in cui lei aprì la porta e vide l’uomo, Ah, è lei, esclamò, e quindi lui non avrebbe avuto nessun bisogno di domandare, Si ricorda di me, sono il Signor José della Conservatoria Generale, ma nonostante ciò non resistette al rivolgerle la domanda, a tal punto costante, a tal punto imperiosa, a tal punto esigente sembra essere questa nostra necessità di andare per il mondo a dire chi siamo, anche quando abbiamo appena sentito, Ah, è lei, come se per il fatto di averci riconosciuto ci conoscessero e di noi non ci fosse nient’altro da sapere, o quel poco che ancora restasse non meritasse l’impegno di una domanda nuova. 16. Niente si era modificato nel salottino, la sedia su cui il Signor José si era seduto la prima volta si trovava nello stesso posto, era identica la distanza fra la sedia e il tavolo, le tende pendevano nella stessa maniera, formavano le stesse pieghe, era lo stesso anche il gesto della donna che teneva le mani in grembo, la destra sulla sinistra, solo la luce centrale sembrava un po’ più pallida, come se la lampadina stesse arrivando alla fine. Il Signor José domandò, Allora, com’è andata dalla mia ultima visita, e immediatamente si rimproverò per la mancanza di sensibilità, peggio ancora, per l’enorme stupidità di cui stava dando mostra, aveva l’obbligo di sapere che le norme elementari di buona educazione non sempre vanno seguite alla lettera, bisogna tener conto delle circostanze, bisogna ponderare ogni caso, immaginiamo che adesso la donna gli risponda con un gran sorriso, Fortunatamente molto bene, di salute sto benissimo, l’umore è eccellente, era da tempo che non mi sentivo

tanto in forze, e lui le butti là senza pensarci due volte, Allora sappia che la sua figlioccia è morta, reggi un po’ questa. Ma la donna non rispose alla domanda, si limitò a stringersi nelle spalle con indifferenza, poi disse, S’immagini, per alcuni giorni ho pensato di telefonare alla Conservatoria Generale, poi ho lasciato perdere, ho riflettuto che prima o poi sarebbe venuto a trovarmi, Meno male che ha deciso di non telefonare, al conservatore non piace che riceviamo telefonate, dice che pregiudicano il servizio, Capisco, ma a questo si poteva ovviare facilmente, bastava che gli comunicassi, a lui direttamente, l’informazione che avevo da riferire, non c’era bisogno di far chiamare lei. La fronte del Signor José si ricoprì improvvisamente di sudore freddo. Era appena venuto a sapere che per settimane, ignorando il pericolo, inconsapevole della minaccia, si era trovato nell’imminenza dell’enorme disastro che sarebbe stato la rivelazione pubblica delle irregolarità del suo comportamento professionale, del continuo e volontario attentato che stava compiendo contro le venerande leggi deontologiche della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, i cui capitoli, articoli, paragrafi e commi, ancorché complessi, soprattutto per l’arcaismo del linguaggio, l’esperienza dei secoli aveva finito per ridurre a sette parole pratiche, Non ti mettere dove non sei chiamato. Per un attimo il Signor José odiò rabbiosamente la donna che aveva davanti a sé, la insultò mentalmente, la definì vecchia cachettica, cretina, imbecille e, come chi non ha trovato di meglio per vendicarsi di uno spavento violento e inatteso, fu lì lì per dirle, Ah, è così, e allora beccati questa, la tua famosa figlioccetta, quella della foto, ha tirato le cuoia. La donna gli domandò, Si sente male, Signor José, vuole un bicchiere d’acqua, Sto bene, non si preoccupi, rispose lui, vergognandosi dell’impulso malvagio, Le faccio subito un tè, Non c’è bisogno, grazie tante, non voglio disturbarla, a quel punto il Signor José si sentiva più frustrato e umiliato della polvere della strada, la signora del pianterreno era uscita dalla sala, la udiva trafficare con le stoviglie in cucina, trascorsero alcuni minuti, prima di tutto bisogna far bollire l’acqua, il Signor José si ricorda di aver letto da qualche parte, probabilmente in una di quelle riviste da cui ritagliava le foto di persone celebri, che il tè va fatto con l’acqua che ha bollito ma che non bolle più, certo, si poteva accontentare del bicchiere d’acqua fresca, ma l’infuso gli andrà molto meglio, lo sanno tutti che per risollevare l’animo afflitto non c’è niente come una tazza di tè, lo dicono tutti i manuali, sia in oriente che in occidente. La padrona di casa ricomparve con il vassoio, portava anche un piattino di biscotti, oltre alla teiera, alle tazze e alla zuccheriera, Non le ho neanche domandato se le piace il tè, disse, Sì, mi piace, signora, mi piace molto, Zucchero, Non lo metto mai, e di colpo impallidì, sudando, pensò di doversi giustificare, Devono essere ancora i postumi di un’influenza, In tal caso, se poi avessi telefonato, sicuramente non l’avrei trovato in Conservatoria Generale, avrei proprio dovuto raccontare al suo capo che cosa mi è successo. Questa volta il sudore inumidì solo le palme delle mani del Signor José, ma per fortuna la tazza era ancora sul tavolo, se in quel momento l’avesse avuta in mano sarebbe finita per terra, oppure il tè rinfrancante si sarebbe rovesciato sulle gambe dell’afflitto scritturale ausiliario, con le ovvie conseguenze, sul momento la bruciatura, poi il ritorno dei pantaloni in tintoria. Il Signor José prese un biscotto dal piatto, l’addentò lentamente, senza gusto, e, mascherando con il movimento della masticazione la difficoltà con cui gli

uscivano le parole, riuscì a formulare la domanda che tardava, E qual era l’informazione che aveva da darmi. La donna sorseggiò un po’ di tè, tese la mano esitante verso il piatto dei biscotti, ma non concluse il gesto. Disse, Si rammenta che le avevo suggerito, alla fine della sua visita, quando ormai se ne stava andando, di cercare sull’elenco telefonico il nome della mia figlioccia, Sì, me ne rammento, ma ho preferito non seguire il suo consiglio, Perché, È molto difficile da spiegare, Di sicuro avrà avuto le sue ragioni, Dare ragioni per quello che si fa o che si evita di fare è quanto c’è di più facile, quando ci accorgiamo di non averne o di non averne a sufficienza facciamo in modo di inventarle, nel caso della sua figlioccia, per esempio, adesso potrei dichiararle che ho ritenuto preferibile seguire la via più lunga e complicata, E codesta ragione, le domando, è una ragione vera, oppure è inventata, Concordiamo sul fatto che c’è tanto di verità come di menzogna, E qual è la parte della menzogna, Nel fatto che mi sto comportando in modo che la ragione da me fornita sia presa come pura verità, E non lo è, No, perché ometto la ragione per cui ho preferito quella via e non un’altra, diretta, La infastidisce il trantran del suo lavoro, Codesta potrebbe essere un’altra ragione, A che punto sono le sue investigazioni, Mi parli prima di quello che è successo, facciamo finta che, quando ha pensato di telefonarmi, io mi trovassi in Conservatoria Generale e che al mio capo non dispiaccia se chiamano gli impiegati al telefono. La donna portò di nuovo la tazza alle labbra, la riposò sul piattino senza far rumore e, mentre le mani tornavano a unirsi in grembo, disse, Ho fatto quello che ho suggerito a lei di fare, Le ha telefonato, Sì, Ci ha parlato, Sì, Quando è stato, Alcuni giorni dopo la sua visita, non ho potuto resistere ai ricordi, non riuscivo neanche a dormire, E cos’è accaduto, Abbiamo chiacchierato, Lei sarà rimasta sorpresa, Non mi è parso, Ma sarebbe naturale, dopo tanti anni di separazione e di silenzio, Si vede che lei conosce poco le donne, soprattutto se sono infelici, E lei era infelice, Ben presto abbiamo cominciato a piangere, tutte e due, quasi fossimo state legate l’una all’altra da un filo di lacrime, E dopo, le ha raccontato qualcosa della sua vita, Chi, La donna, a lei, Quasi nulla, che si era sposata, ma che adesso era divorziata, Questo lo sapevamo, risulta dal modulo, Abbiamo combinato poi che sarebbe venuta a trovarmi appena le fosse stato possibile, Ed è venuta, Fino ad oggi, no, Che vuol dire, Semplicemente che non è venuta, E non ha telefonato, E non ha telefonato, Quanti giorni fa è successo, Un paio di settimane, Poco più o poco meno, Poco meno credo, sì, poco meno, E lei, signora, che cosa ha fatto, All’inizio ho pensato che avesse cambiato idea, che in definitiva non volesse riallacciare i vecchi legami, che non volesse intimità fra di noi, che quelle lacrime fossero state un momento di debolezza e nient’altro, capita spesso, ci sono occasioni nella vita in cui ci lasciamo andare, in cui siamo capaci di raccontare i nostri dolori addirittura al primo sconosciuto che ci troviamo davanti, si ricorda, quando è stato qui, Mi ricordo, e non la ringrazierò mai abbastanza per la sua fiducia, Non pensi che si sia trattato di fiducia, è stata solo disperazione, Comunque sia, le prometto che non se ne pentirà, con me può stare sicura, sono una persona discreta, Sì, sono certa che non me ne pentirò, Grazie, Ma, in fondo, ho la certezza che non me ne pentirò perché tutto mi è divenuto indifferente, Ah. Passare da un’esclamazione sconsolata come questa a un’interrogazione diretta, sul genere, E poi che cos’ha fatto, non era facile,

richiedeva tempo e tatto, perciò il Signor José se ne rimase zitto, in attesa di quello che sarebbe venuto. Come se lo sapesse anche lei, la donna gli domandò, Gradisce un altro po’ di tè, lui accettò, Sì grazie, e le porse la tazza. Poi la donna disse, Alcuni giorni fa ho telefonato a casa di lei, E allora, Non ha risposto nessuno, solo una segreteria telefonica, Ha telefonato solo una volta, Il primo giorno sì, ma nei giorni seguenti l’ho fatto più volte e a orari diversi, ho telefonato di mattina, ho telefonato di pomeriggio, ho telefonato dopo cena, sono arrivata perfino a fare il numero a mezzanotte, E niente, Niente, ho pensato che forse era andata via, Le aveva detto dove lavorava, No. Il discorso non poteva più continuare a girare intorno al pozzo nero che nascondeva la verità, si sta avvicinando il momento in cui il Signor José dirà, La sua figlioccia è morta, del resto avrebbe dovuto dirlo appena entrato, e proprio di questo la donna l’accuserà fra breve, Perché non me l’ha detto subito, perché mi ha fatto tutte quelle domande se già sapeva che era morta, e lui non potrà mentire adducendo di aver taciuto per non rivelarle di colpo, senza preparazione, senza rispetto, la dolorosa notizia, in verità l’unica causa di questo lungo e lento dialogo erano state le parole che lei aveva pronunciato all’arrivo, Anch’io ho qualche cosa da raccontarle, in quel momento al Signor José era mancata la rassegnata serenità che gli avrebbe fatto respingere la tentazione di prendere conoscenza di quella piccola cosa inutile, qualunque fosse stata, gli era mancata la serena rassegnazione di dire, Non vale la pena, è morta. Era come se quello che la signora del pianterreno aveva da comunicargli potesse ancora, chissà poi come, far retrocedere il tempo e, nell’ultimo degli ultimi istanti, sottrarre alla morte la donna sconosciuta. Stanco, senz’altro desiderio adesso se non quello di ritardare per qualche secondo ancora l’inevitabile, il Signor José domandò, Non le è venuto in mente di andare a casa sua, di domandare ai vicini se l’avessero vista, Certo, ci ho anche pensato, ma non l’ho fatto, Perché, Perché sarebbe stato come intromettermi, lei avrebbe potuto non gradirlo, Ma ha telefonato, È diverso. Scese il silenzio, poi l’espressione del viso della donna cominciò a mutare, divenne interlocutoria, e il Signor José capì che lei, infine, gli avrebbe domandato quali problemi connessi all’argomento l’avevano portato quel giorno a casa sua, se erano riusciti a parlare e quando, se il problema con la Conservatoria Generale si era risolto e come, Cara signora, sono desolato di doverla informare che la sua figlioccia è morta, disse il Signor José frettolosamente. La donna spalancò gli occhi, alzò le mani dal grembo e le portò alla bocca, Che cosa, La sua figlioccia, le ripeto che la sua figlioccia è mancata, Come lo sa, domandò la donna senza riflettere, È questo lo scopo della Conservatoria, disse il Signor José, e si strinse leggermente nelle spalle, come se aggiungesse, Non è colpa mia, Quando è morta, Ho qui il modulo, se vuole vederlo. La donna tese la mano, avvicinò il cartoncino agli occhi, poi l’allontanò mentre mormorava, I miei occhiali, ma non li cercò, sapeva che non le sarebbero serviti a niente, anche volendo non poteva essere in grado di leggere quanto c’era scritto, le lacrime impastavano le parole. Il Signor José disse, Mi dispiace molto. La donna uscì dal salotto, si trattenne qualche breve istante, quando rientrò si stava asciugando gli occhi con un fazzoletto. Si sedette, si versò un altro po’ di tè, poi domandò, È venuto solo per informarmi della scomparsa della mia figlioccia, Sì, È stata una grande gentilezza da parte sua, Ho pensato, semplicemente, che fosse mio dovere,

Perché, Perché mi sentivo in debito con lei, Perché, Per la cortesia con cui mi ha ricevuto e dato ascolto, per come mi ha aiutato, per come ha risposto alle mie domande, Adesso che il compito di cui l’hanno incaricata è giunto al termine per forza di cose, non dovrà più affannarsi a cercare la mia povera figlioccia, Infatti, no, Magari le hanno già dato ordine alla Conservatoria Generale di cercare qualcun altro, No, no, casi come questo sono rari, È quanto possiede di buono la morte, con lei finisce tutto, Non è sempre così, ben presto iniziano le guerre fra gli eredi, la ferocia delle spartizioni, le tasse di successione che bisogna pagare, Mi riferivo alla persona che è morta, Quanto a lei, sì, ha ragione, è finito tutto, È curioso, non mi ha mai spiegato il motivo per cui la Conservatoria Generale cercava la mia figlioccia, le ragioni di un così grande interesse, Come le ho appena detto, la morte risolve tutti i problemi, Allora c’era un problema, Sì, Quale, Non vale la pena di parlarne, la faccenda non ha più importanza, Quale faccenda, La prego di non insistere, è confidenziale, tagliò corto il Signor José, disperato. La donna posò bruscamente la tazza sul piattino e, guardando negli occhi il visitatore, disse, Siamo stati qui, lei e io, l’altro giorno e oggi, uno di noi ha sempre detto la verità fin dall’inizio, l’altro fin dall’inizio non ha fatto che mentire, Io non ho affatto mentito, non sto affatto mentendo, Deve riconoscere che in ogni momento le ho parlato in maniera franca e chiara, apertamente, che non ha mai pensato che nelle mie parole ci fosse una sola menzogna, Lo riconosco, lo riconosco, Allora, se in questa stanza c’è un bugiardo, e sono sicura che c’è, non sarò certo io, Non sono un bugiardo, Sono convinta che non lo sia per natura, ma quando è entrato qui per la prima volta lei stava mentendo, e da allora ha sempre mentito, Lei, signora, non può capire, Capisco quanto basta per non credere che la Conservatoria l’abbia mai mandata a cercare la mia figlioccia, Si sbaglia, le assicuro che me l’ha ordinato, Allora, se non ha nient’altro da dirmi, se la sua ultima parola è questa, esca da casa mia immediatamente, all’istante, le due ultime parole furono quasi urlate, e la donna, poi, scoppiò a piangere. Il Signor José si alzò, fece un passo verso la porta, poi si sedette di nuovo, Mi perdoni, disse, non pianga, adesso le racconto tutto. 17. Quando ebbi finito di parlare, lei mi domandò, E adesso, cosa pensa di fare, Niente, dissi io, Tornerà a quelle sue collezioni di persone famose, Non so, forse, in qualcosa dovrò pur occupare il mio tempo, mi soffermai qualche istante a pensare e poi risposi, No, non credo, Perché, Pensandoci bene, la loro vita è sempre uguale, non varia mai, compaiono, parlano, si mostrano, sorridono ai fotografi, sono continuamente in arrivo o in partenza, Come chiunque di noi, Io no, Lei, e io, e tutti, anche noi ci mostriamo, anche noi parliamo, anche noi usciamo di casa e rientriamo, a volte sorridiamo perfino, la differenza è che nessuno fa caso a noi, Non potremmo essere tutti famosi, Buon per lei, immagini la sua collezione della dimensione della Conservatoria Generale, Dovrebbe essere molto più grande, alla Conservatoria interessa solo sapere quando nasciamo, quando moriamo, e poco più, Se ci siamo sposati, se abbiamo divorziato, se siamo rimasti vedovi, se ci siamo risposati, per la Conservatoria è indifferente se, in tutte queste vicende, siamo stati felici o

infelici, La felicità e l’infelicità sono come le persone famose, vanno e vengono, la cosa peggiore della Conservatoria è che non vuole sapere chi siamo, per lei non siamo altro che un foglio di carta con nomi e date, Come il modulo della mia figlioccia, O il suo, o il mio, Che cosa avrebbe fatto se fosse riuscito a incontrarla, Non so, forse le avrei parlato, forse no, non ci ho mai pensato, E ha pensato che, in quel momento, quando finalmente l’avesse avuta davanti a sé, di lei ne avrebbe saputo tanto quanto il giorno in cui ha preso la decisione di cercarla, e cioè niente, che se avesse voluto sapere chi era veramente avrebbe dovuto ricominciare a cercarla e che da quel momento in poi avrebbe potuto essere molto più difficile se, al contrario delle persone famose a cui piace mostrarsi, lei non avesse voluto essere ritrovata, Infatti, Ma, visto che è morta, potrà continuare a cercarla, alla mia figlioccia non importerà, Non capisco, Fino a ora, malgrado i tanti sforzi, lei è riuscito solo ad appurare che ha frequentato un certo istituto, quello stesso, peraltro, che le avevo indicato io, Ho delle fotografie, Anche le fotografie sono pezzi di carta, Possiamo dividerle, E così riterremmo di dividere la mia figlioccia, una parte a lei, una parte a me, Non si può fare nient’altro, le ho detto a quel punto, credendo così di ritenere l’argomento chiuso, ma la donna del pianterreno mi ha domandato, Perché non va a parlare con i genitori, con il vecchio marito, A che scopo, Per sapere qualcosa di più su di lei, come viveva, cosa faceva, Il marito non ne vorrà parlare, le acque passate non muovono i mulini, Ma i genitori, loro certamente sì, i genitori non si rifiutano mai di parlare dei figli, anche se sono morti, è qualcosa che ho notato, Se non ci sono andato prima, non lo farò certo adesso, prima avrei potuto ancora dire loro che mi mandava la Conservatoria Generale, Di che cosa è morta la mia figlioccia, Non lo so, Com’è possibile, la morte dev’essere registrata nella sua Conservatoria, Nel modulo annotiamo solo la data del decesso, non la causa, Ma ci sarà una dichiarazione, i medici sono obbligati per legge a certificare la morte, non si saranno limitati a scrivere Morta quando è morta, Negli incartamenti che ho trovato nell’archivio dei morti, la dichiarazione del decesso non c’era, Perché, Non lo so, sarà caduta strada facendo quando sono andati ad archiviare la pratica, oppure l’ho fatta cadere io, è andata smarrita, sarebbe come cercare un ago in un pagliaio, lei, signora, non può immaginare che cosa c’è là dentro, Da quello che mi ha raccontato, lo immagino, Non si può immaginare, è impossibile, bisogna solo starci, In tal caso, ecco una buona ragione per andare a parlare con i genitori, dica loro che la dichiarazione di morte è andata deprecabilmente smarrita nella Conservatoria, che lei deve ricostruire la pratica altrimenti il suo capo la punirà, si mostri umile e preoccupato, domandi il nome del medico che l’ha assistita, dove è morta, e di che malattia, se è successo a casa o in ospedale, domandi tutto, ha ancora con sé la credenziale, suppongo, Sì, ma è falsa, non lo dimentichi, Come ha ingannato me, potrà ingannare anche loro, se non c’è vita senza menzogne, potrà pur esserci qualche inganno in questa morte, Se lei, signora, fosse impiegata presso la Conservatoria Generale, saprebbe che non è possibile ingannare la morte. La donna deve aver pensato che non valesse la pena di rispondermi, e su questo punto aveva perfettamente ragione, perché quello che avevo detto era solo una frase a effetto, vuota, di quelle che sembrano profonde ma che non contengono niente. Siamo rimasti in silenzio per due minuti buoni, lei mi guardava con un’espressione di

riprovazione, come se io le avessi fatto una promessa solenne e all’ultimo momento fossi venuto meno. Non sapevo che pesci pigliare, avevo voglia di salutarla educatamente e andarmene via, ma sarebbe stata una stupida cafoneria, una mancanza di delicatezza che lei non si meritava, sono comportamenti che non rientrano affatto nel mio modo di essere, sono stato educato così, è vero che non mi ricordo di aver mai preso del tè da piccolo, ma il risultato è lo stesso. Mentre stavo pensando che la cosa migliore sarebbe stata quella di accettare l’idea, iniziare una nuova ricerca in senso contrario alla prima, e cioè dalla morte alla vita, la donna disse, Non ci faccia caso, sono sciocchezze che mi vengono in mente, quando diventiamo vecchi e ci accorgiamo che il nostro tempo sta finendo, ci mettiamo a immaginare di avere in mano il rimedio per tutti i mali del mondo e ci disperiamo quando non ci prestano attenzione, Non ho mai pensato cose del genere, Arriverà anche il suo momento, lei è ancora molto giovane, Giovane io, ho già cinquantadue anni, È nel fiore dell’età, Non mi prenda in giro, Solo dopo i settanta diventerà saggio, ma allora non le servirà a niente, né a lei né a nessun altro. Siccome mi manca ancora un bel po’ per arrivare a quell’età, non sapevo se dovevo essere d’accordo o meno, perciò ho ritenuto meglio stare zitto. A quel punto ormai potevo congedarmi, e quindi ho detto, Non la disturberò più, la ringrazio per la sua pazienza e per la sua gentilezza, e la prego di scusarmi, è stata quella mia follia a causare tutto quanto, un’incredibile assurdità, lei, signora, se ne stava tranquilla a casa sua e sono arrivato io con mascheramenti, con storie ingannevoli, mi sento arrossire di vergogna quando ripenso a certe domande che le ho fatto, Al contrario di ciò che ha appena detto, io non ero affatto tranquilla, ero sola, l’averle raccontato alcune delle vicende tristi della mia vita è stato come togliermi un peso di dosso, Se è così che la pensa, tanto meglio, Sì, la penso così, e non vorrei che se ne andasse via senza prima farle una richiesta, Dica pure, farò il possibile per accontentarla, Non c’è nessun altro che potrebbe farlo meglio, quello che devo chiederle è semplice, che di tanto in tanto mi venga a trovare, quando se ne ricorderà o ne avrà voglia, anche solo per parlare della mia figlioccia, Verrò a trovarla con il massimo piacere, Ci sarà sempre una tazza di caffè o di tè ad aspettarla, E questa sarebbe già una buona ragione per venire, ma ce ne sono tante altre, Grazie, e guardi, le ripeto di non fare caso a quella mia idea, in fin dei conti è altrettanto folle di quanto lo era la sua, Ci penserò. Le ho baciato la mano come la prima volta, ma a quel punto è successo qualcosa che non mi aspettavo, lei mi ha trattenuto la mano e l’ha portata alle labbra. Mai nella mia vita una donna mi aveva fatto questo gesto, ho sentito come uno choc all’anima, un tremito nel cuore, e ancora adesso, a notte fonda, dopo tante ore, mentre sto finendo di riportare sul quaderno gli avvenimenti di questa giornata, mi guardo la mano destra e la trovo diversa, benché non saprei dire in che cosa consista la differenza, dev’essere qualcosa all’interno, non all’esterno. Il Signor José smise di scrivere, posò la penna, inserì accuratamente nel quaderno i moduli scolastici della donna sconosciuta, che erano poi rimasti proprio sul tavolo, e andò a infilare il tutto fra il materasso e la rete, bene in fondo. Poi riscaldò lo stufato che era avanzato dal pranzo e si sedette a mangiare. Il silenzio era quasi assoluto, a stento si riusciva a individuare il rumore delle poche auto che ancora circolavano in città. Quello che si udiva meglio era un suono soffocato,

che aumentava e scemava, come un mantice distante, ma il Signor José ci era abituato, era la Conservatoria che respirava. Il Signor José se ne andò a letto, ma non aveva sonno. Rammentava gli eventi del giorno, la sorpresa irritante di vedere il capo entrare nella Conservatoria a ore insolite, l’agitata conversazione con la signora del pianterreno a destra, di cui aveva lasciato traccia nel quaderno di appunti, fedele nel senso, non tanto nella forma, il che è comprensibile e scusabile, giacché la memoria, che è suscettibile e a cui non piace essere colta in fallo, tende a riempire le dimenticanze con creazioni di realtà proprie, ovviamente spurie, ma più o meno contigue ai fatti accaduti di cui le era rimasto solo un ricordo vago, come ciò che resta del passaggio di un’ombra. Sembrava al Signor José di non essere ancora giunto a una conclusione logica di quanto era successo, di dover ancora prendere una decisione, oppure le ultime parole che aveva rivolto alla signora del pianterreno a destra, Ci penserò, non sarebbero state altro che una promessa vaga, una di quelle promesse che spuntano sempre nelle conversazioni e che nessuno si aspetta di vedere rispettate. Disperava il Signor José di entrare nel sonno quando all’improvviso gli si presentò davanti, sorgendo chissà da quali profondità, come il capo di un nuovo filo di Arianna, l’agognata soluzione, Sabato vado al cimitero, disse a voce alta. L’eccitazione lo fece sedere bruscamente sul letto, ma la voce pacifica del buonsenso accorse a consigliarlo, Dal momento che hai deciso cosa farai, sdraiati e dormi, non fare il bambino, non vorrai mica, a quest’ora di notte, scavalcare il muro del cimitero, si fa per dire, è chiaro. Obbediente, il Signor José si lasciò scivolare fra le lenzuola, si rimboccò le coperte fin sul naso, ma rimase ancora un minuto a occhi aperti pensando, Non riuscirò a dormire. Un minuto dopo già dormiva. Si svegliò tardi, quasi all’orario in cui apriva la Conservatoria, non ebbe neanche il tempo di farsi la barba, si vestì in un baleno e uscì di casa in una corsa forsennata, inadatta alla sua età e alla sua condizione. Tutti gli impiegati, dagli otto scritturali ausiliari ai due vicecapi, erano già seduti, con gli occhi fissi sull’orologio a muro, in attesa che la lancetta dei minuti si sovrapponesse esattamente al numero dodici. Il Signor José si diresse verso il funzionario del suo lato, a cui prima di tutto doveva rendere conto, e chiese scusa per il ritardo, Ho dormito male, si giustificò, pur sapendo, con tanti anni di esperienza, che una spiegazione del genere non sarebbe servita a niente, Si sieda, fu la secca risposta che udì. Quando, subito dopo, l’ultimo movimento della lancetta dei minuti fece transitare il tempo di attesa nel tempo di lavoro, il Signor José, imbarazzato per i lacci delle scarpe che aveva dimenticato di allacciare, non aveva ancora raggiunto il proprio tavolo, una circostanza osservata freddamente dal funzionario che annotò l’insolito fatto nell’agenda del giorno. Passò più di un’ora prima che arrivasse il conservatore. Entrò con un’espressione concentrata, quasi cupa, che fece intimorire l’animo degli impiegati, a prima vista si sarebbe detto che aveva dormito male anche lui, ma sicuramente era impeccabile come al solito, sbarbato a dovere, senza una grinza nel vestito o un capello fuori posto. Si fermò un attimo accanto al tavolo del Signor José e lo osservò con severità, senza una parola. Alterato, il Signor José accennò un gesto che sembra istintivo negli uomini, quello di alzare la mano al viso e strofinarsi la barba per vedere se è cresciuta, ma il gesto

rimase a metà, come se in questo modo potesse mascherare quello che era evidente, e cioè l’imperdonabile trascuratezza della propria persona. Il rimprovero, pensarono tutti, non sarebbe tardato. Il conservatore si diresse alla sua scrivania, si sedette e chiamò i due vice. L’idea generale fu che la faccenda si stava mettendo veramente brutta per il Signor José, altrimenti il capo non avrebbe convocato i suoi diretti congiuntamente, forse voleva sentire la loro opinione sulla pesante sanzione che intendeva applicare, Ha perso del tutto la pazienza, pensarono con gioia gli scritturali ausiliari, ultimamente scandalizzati per il trattamento di immeritato favore di cui il Signor José era stato oggetto da parte del capo, Era ora, sentenziarono mentalmente. Ben presto si accorsero, però, che le frecciate non erano dirette da quella parte. Mentre uno dei vicecapi dava ordine affinché tutti, funzionari e scritturali ausiliari, si voltassero verso il conservatore, l’altro aggirava il banco e andava a chiudere la porta d’ingresso, dopo aver affisso all’esterno un cartello che diceva Chiuso momentaneamente per questioni di servizio. Che sarà, che non sarà, si domandavano gli impiegati, compresi i vice, che ne sapevano tanto quanto gli altri, o solamente un pochino di più, unicamente che il capo aveva comunicato loro di avere qualcosa da dire. La prima parola pronunciata fu Sedetevi. L’ordine passò dai vice ai funzionari, dai funzionari agli scritturali ausiliari, ci fu l’inevitabile rumore prodotto dal cambiamento di posizione delle sedie, collocate di spalle ai rispettivi tavoli, ma il tutto avvenne rapidamente, in meno di un minuto il silenzio nella Conservatoria Generale divenne assoluto. Non si udiva una mosca, benché si sappia che ce ne sono, alcune posate in luoghi sicuri, altre agonizzanti nelle immonde ragnatele del soffitto. Il conservatore si alzò lentamente, con la stessa lentezza fece vagare lo sguardo sugli impiegati, uno dopo l’altro, come se li vedesse per la prima volta, o come se stesse tentando di riconoscerli dopo una lunga assenza, stranamente la sua espressione non era più cupa, o forse lo era in un altro senso, come se lo tormentasse un dolore morale. Poi parlò, Signori, in qualità di capo di questa Conservatoria Generale dell’Anagrafe, ultimo in attività di una stirpe di conservatori storicamente iniziata con la raccolta dei più antichi fra i documenti esistenti nei nostri archivi, nonché nell’esercizio delle competenze che mi sono state trasmesse e seguendo l’esempio dei miei predecessori, ho rispettato e fatto rispettare con il massimo scrupolo le leggi scritte che regolano il funzionamento dei servizi, senza ignorare, anzi, tenendola ben presente in ogni momento, la tradizione. Sono consapevole del cambiamento dei tempi, della necessità di un continuo aggiornamento di mezzi e di procedimenti nella vita sociale, ma credo, come hanno sempre creduto coloro che in questa Conservatoria hanno governato prima di me, che la salvaguardia dello spirito, di quello spirito che definirò di continuità e di autoriconoscimento organico, debba prevalere su qualsiasi altra considerazione, con il pericolo, se così non ci comportassimo, di assistere al crollo dell’edificio morale che, come primi e ultimi depositari della vita e della morte, continuiamo qui a rappresentare. Ci sarà di sicuro chi protesta perché non vede in questa Conservatoria Generale una sola macchina per scrivere, per non dire di strumenti ancora più moderni, perché gli armadi e le scaffalature continuano a essere di legno naturale, perché gli impiegati devono ancora intingere i pennini nei calamai e usare le carte assorbenti, ci sarà chi ci considera ridicolmente immobili nella storia, chi

richiede al governo la rapida introduzione nei nostri servizi di tecnologie avanzate, ma se è vero che le leggi e i regolamenti possono essere alterati e sostituiti in ogni momento, lo stesso non può accadere per la tradizione, che è, come tale, tanto nel suo insieme quanto nel suo significato, immutabile. Nessuno si trasporterà nel passato per cambiare una tradizione che è nata nel tempo e che dal tempo è stata alimentata e sostenuta. Nessuno ci verrà a dire che l’esistente non è esistito, nessuno oserà pretendere, come un bambino, che quanto è accaduto non sia accaduto. E se qualcuno lo facesse perderebbe il proprio tempo. Queste sono le fondamenta della nostra ragione e della nostra forza, questo è il muro dietro cui ci è stato possibile difendere, fino ai nostri giorni, sia la nostra identità sia la nostra autonomia. Così ci siamo sempre comportati. E così continueremo a comportarci se nuove riflessioni non venissero a indicarci la necessità di nuovi cammini. Fino a qui non era emersa nessuna novità dal discorso del capo, per quanto sicuro fosse che era la prima volta che nella Conservatoria Generale si udiva qualcosa di simile a una solenne dichiarazione di principî. La mentalità uniforme degli impiegati si formava soprattutto nella pratica del servizio, regolata nei primi tempi con rigore e precisione, ma consentendo nelle ultime generazioni, forse per stanchezza storica dell’istituzione, le gravi e reiterate negligenze che conosciamo, censurabili perfino alla luce del più benevolo dei giudizi. Toccati nella propria coscienza ottenebrata, gli impiegati pensarono che sarebbe stato questo il tema centrale dell’inattesa prelezione, ma non tardarono a disilludersi. Del resto, se avessero prestato un po’ più di attenzione all’espressione fisiognomica del conservatore, avrebbero capito subito che il suo obiettivo non era di carattere disciplinare, non tendeva a un rimprovero generale, nel qual caso le sue parole sarebbero risuonate come secche stoccate e tutto il suo viso si sarebbe ricoperto di sdegnosa indifferenza. Orbene, non c’era nessuno di questi segnali negli atteggiamenti del capo, solo una propensione simile a quella di chi, abituato a vincere sempre, si è trovato, per la prima volta nella vita, davanti a una forza maggiore della propria. E quei pochi, specialmente i due vice e qualche funzionario, che avevano ritenuto di poter dedurre dall’ultima frase proferita l’annuncio dell’introduzione immediata di ammodernamenti che erano già moneta corrente al di fuori delle mura della Conservatoria Generale, anche loro non tardarono a riconoscere, sconcertati, di avere equivocato. Il conservatore proseguiva il discorso, Non confondetevi, però, immaginando che le riflessioni a cui mi sto riferendo siano semplicemente quelle che ci porterebbero ad aprire le nostre porte alle moderne invenzioni, per questo non ci sarebbe bisogno di riflettere, basterebbe chiamare un tecnico dei vari campi e in ventiquattr’ore saremmo pieni di aggeggi di ogni tipo. Per quanto mi sia penoso dichiararlo e per quanto scandaloso vi sembri, le mie riflessioni sono giunte a mettere in causa, chi l’avrebbe mai detto, proprio uno degli aspetti fondamentali della tradizione della Conservatoria Generale, e cioè, la distribuzione spaziale dei vivi e dei morti, la loro separazione obbligatoria, non solo in archivi distinti, ma anche in differenti aree dell’edificio. Si udì un lievissimo sussurro, come se il pensiero comune degli stupefatti impiegati fosse divenuto udibile, né del resto poteva essere altro, visto che nessuno aveva osato pronunciare una sola parola. Capisco che ciò vi turbi, proseguì il conservatore, perché io stesso mi sono

sentito come responsabile di un’eresia quando l’ho pensato, o peggio ancora, colpevole di un’offesa alla memoria di tutti coloro che, prima di me, hanno occupato questa posizione di comando, nonché di quanti hanno lavorato nei luoghi adesso occupati da voi, ma la forza irresistibile dell’evidenza mi ha costretto ad affrontare il peso della tradizione, di una tradizione che, per tutta la vita, avevo considerato inamovibile. Giungere a questa consapevolezza dei fatti non è stata opera del caso né di una subitanea rivelazione. Per due volte da quando sono capo della Conservatoria ho ricevuto degli avvertimenti premonitori, ai quali al momento non ho attribuito particolare importanza, se non per avervi reagito in un modo che non mi esimerò dal classificare come elementare, ma che, oggi lo comprendo, hanno preparato il cammino affinché giungessi ad accogliere con spirito aperto un terzo e recente avvertimento di cui, per ragioni che ritengo di dover mantenere segrete, non parlerò in questa occasione. Il primo caso, di cui tutti certamente vi rammentate, si verificò quando uno dei miei vice, qui presente, propose che la classificazione degli archivi dei morti venisse fatta al contrario, vale a dire, più lontani gli antichi, più vicini gli attuali. Per via della quantità di lavoro che un tale cambiamento avrebbe richiesto, e tenendo conto della scarsità dei quadri di personale di cui disponevamo, il suggerimento era palesemente irrealizzabile, e proprio questo feci sentire al proponente, ma in termini che vorrei dimenticare, e soprattutto che potesse dimenticare lui. Il vice chiamato in causa arrossì di soddisfazione, si guardò indietro a presentarsi e, tornando a fissare il superiore, fece un leggero cenno con il capo, come se stesse pensando, Se prestassi più attenzione a quello che ti dicono. Il conservatore proseguì, Non capii allora che, dietro un’idea che mi sembrava assurda e che, osservata da un’angolatura operativa, di fatto lo era, c’era l’intuizione di qualcosa di assolutamente rivoluzionario, un’intuizione involontaria, inconsapevole, è vero, ma non per questo meno efficace. È chiaro che dalla mente di un vice non c’era da aspettarsi molto di più, ma il conservatore che io sono era obbligato, sia per i doveri della carica sia per le motivazioni dell’esperienza, a comprendere immediatamente ciò che l’apparente futilità dell’idea occultava. Questa volta il vicecapo non si guardò indietro, e se arrossì indispettito non lo notò nessuno perché teneva la testa bassa. Il conservatore fece una pausa per sospirare profondamente, e proseguì, Il secondo avvertimento fu il caso di quel ricercatore di temi araldici che scomparve nell’archivio dei morti e che riuscimmo a ritrovare solo una settimana dopo, quasi alla fine, quando ormai avevamo perduto tutte le speranze di ritrovarlo vivo. Trattandosi di un episodio dalle caratteristiche tanto comuni, realmente non credo ci sia qualcuno che, almeno una volta nella vita, non si sia perduto nel mondo esterno, mi limitai allora a prendere i provvedimenti che si imponevano, emanando un ordine di servizio in cui si decretava l’uso obbligatorio del filo di Arianna, designazione classica e, se mi consentite, ironica, della corda che conservo nel cassetto. Che la misura fu indovinata lo prova il fatto che non si è più verificato, dopo di allora, alcun caso simile o neppure somigliante. Ci si potrà domandare quali conclusioni, nel prosieguo della comunicazione che vi sto facendo, avrei dovuto trarre dal caso del ricercatore araldico smarrito, e io risponderò, in tutta umiltà, che se non fossero recentemente occorsi certi altri fatti e se questi non avessero suscitato in me certe altre riflessioni, non sarei mai giunto a

comprendere la duplice assurdità del separare i morti dai vivi. In primo luogo, è un’assurdità dal punto di vista archivistico, considerando che la maniera più facile di trovare i morti sarebbe quella di poterli ricercare dove si trovassero i vivi, posto che questi ultimi, in quanto vivi, li abbiamo perennemente davanti agli occhi, ma, in secondo luogo, è un’assurdità anche dal punto di vista mnemonico, perché se i morti non rimangono in mezzo ai vivi finiscono prima o poi per essere dimenticati, e poi, perdonate la volgarità dell’espressione, è una faticaccia dell’accidente riuscire a scoprirli quando ne abbiamo bisogno, come del resto prima o poi finisce sempre per succedere. A tutti coloro che mi stanno ascoltando, senza distinzione di categorie o di circostanze personali, dovrà essere ben chiaro che finora ho parlato unicamente di problemi relativi a questa Conservatoria Generale, e non del mondo esterno dove, per ragioni attinenti all’igiene fisica e alla salute mentale dei vivi, si usa seppellire i morti. Ma oso dire che proprio questa stessa necessità di igiene fisica e di sanità mentale dovrà determinare che noi tutti, impiegati della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, noi tutti che scriviamo e maneggiamo i documenti della vita e della morte riuniamo in un solo archivio, che d’ora in poi chiameremo semplicemente storico, i morti e i vivi, rendendoli inseparabili in questo luogo, giacché là fuori la legge, il costume e la paura non lo consentono. Farò emanare pertanto un ordine di servizio in cui si specificherà, primo, che a partire da questa data i morti permarranno nello stesso luogo dell’archivio che avevano occupato in vita, secondo, che gradualmente, pratica dopo pratica, documento dopo documento, dai più recenti ai più antichi, si procederà al reintegro dei morti del passato nell’archivio che da ora in poi sarà il presente di tutti. So che per la realizzazione del secondo punto ci vorranno molte decine di anni, che noi non saremo più vivi, né probabilmente lo sarà la generazione successiva, quando i documenti dell’ultimo morto, ridotti a brandelli, mangiati dalle tarme, anneriti dalla polvere dei secoli, rientreranno nel mondo da cui, per un’ultima e inutile violenza, erano stati sottratti. Come la morte definitiva è il frutto ultimo della volontà dell’oblio, così la volontà del ricordo potrà perpetuarci la vita. Ribatterete, forse, con ipotetica arguzia, se mi aspettassi da voi una qualche opinione, che una perpetuità come questa non servirà più a niente a coloro che sono morti. Sarebbe un argomento tipico di chi non vede al di là della punta del proprio naso. In tal caso, nonché nel caso in cui io ritenga necessario rispondere, dovrei spiegarvi che solo di vita ho voluto parlarvi qui, e non di morte, e che, se non l’avete capito prima, è perché non sarete mai capaci di capire niente. L’atteggiamento reverenziale con cui era stata ascoltata la parte finale del discorso fu brutalmente riscosso dal sarcasmo delle ultime parole. Il conservatore era tornato a essere il capo che conoscevano da sempre, tracotante e ironico, implacabile nei giudizi, rigoroso nella disciplina, come il prosieguo del discorso mise subito bene in chiaro, Unicamente nel vostro interesse, non nel mio, devo ancora dirvi che il peggiore degli errori della vostra vita sarebbe quello di considerare come un segnale di debolezza personale o di diminuzione di autorità ufficiale il fatto che vi abbia parlato con il cuore e la mente aperti. Se non mi sono limitato a ordinare semplicemente, senza spiegazioni, come sarebbe mio diritto, il reintegro o l’unificazione degli archivi, è stato solo perché volevo farvi capire le ragioni profonde della

decisione che ho preso, solo perché desidero che il lavoro che vi aspetta venga eseguito con lo spirito di chi sente che sta costruendo qualcosa e non con l’estraneità burocratica di chi è stato incaricato di aggiungere carte a carte. In questa Conservatoria Generale la disciplina continuerà a essere quella di sempre, nessuna distrazione, nessuna divagazione, nessuna parola che non sia direttamente connessa con il servizio, nessuna entrata fuori orario, nessuna manifestazione di trascuratezza nel comportamento personale, tanto nei modi come nell’aspetto. Il Signor José pensò, Questo è diretto a me di sicuro, perché non mi sono fatto la barba, ma non si preoccupò, era molto probabile che l’allusione si sarebbe fermata lì, in ogni caso abbassò il capo molto lentamente, come un alunno che non ha studiato la lezione e vuole evitare di essere chiamato alla lavagna. Sembrava che il discorso fosse giunto alla fine, ma nessuno si muoveva, dovevano aspettare l’ordine di riprendere il lavoro, perciò sussultarono tutti quando il conservatore chiamò con tono forte e duro, Signor José. L’interpellato si alzò rapidamente, Come mai vuole me, non pensava più che il motivo della brusca chiamata fosse la barba lunga, qualcosa di molto più grave di un semplice rimprovero stava forse per accadere, era questo ciò che la severa espressione del capo gli annunciava, era questo ciò che un’angoscia terribile cominciava a urlargli dentro la testa quando lo vide venirgli incontro, trattenersi lì davanti a lui, a stento il Signor José riesce a respirare, aspetta la prima parola come un condannato a morte aspetta la caduta della mannaia, o lo strattone della corda, o la scarica del plotone di esecuzione, allora il capo disse, Codesta barba. Poi gli voltò le spalle, fece un cenno all’indirizzo dei vice per riprendere il lavoro. Adesso gli si notava nel viso una certa pacatezza, un’aria di strana tranquillità, come se fosse giunto anche lui alla fine di un viaggio. Nessuno verrà a commentare con il Signor José queste impressioni, in primo luogo perché non gli si riempia ancora di più la testa di fantasie, in secondo luogo perché l’ordine è chiaro, Nessuna parola che non sia direttamente connessa con il servizio. 18. Si entra nel cimitero passando per un antico edificio la cui facciata è sorella gemella di quella della Conservatoria Generale dell’Anagrafe. Presenta gli stessi tre gradini di pietra nera, la stessa vecchia porta nel mezzo, le stesse cinque finestre oblunghe sopra. Se non fosse per il grande portone a due battenti contiguo alla facciata principale, l’unica differenza visibile sarebbe la targhetta sopra la porta d’ingresso, anch’essa a lettere smaltate, che dice Cimitero Generale. Il portone è chiuso da un mucchio di anni, da quando fu evidente che l’accesso da quella parte era divenuto impraticabile, che non soddisfaceva più adeguatamente il fine cui era stato destinato, e cioè di consentire un comodo passaggio non solo ai defunti e ai loro accompagnatori, ma anche ai visitatori che avrebbero avuto in seguito. Proprio come i cimiteri di questo o di qualsiasi altro mondo, aveva cominciato con l’essere una cosuccia minuscola, una breve porzione di terreno alla periferia di quella che era ancora un embrione di città, rivolto all’aria aperta dei campi, ma poi, con l’andare del tempo, come purtroppo dev’essere, ha continuato a crescere, a crescere, a crescere, fino a trasformarsi nell’immensa necropoli che è oggi. All’inizio era tutto circondato da mura e, per generazioni, ogni volta che la compressione

all’interno cominciava a pregiudicare sia la sistemazione ordinata dei morti che la circolazione pratica dei vivi, si faceva come per la Conservatoria Generale, si abbattevano le mura e si rialzavano un po’ più avanti. Un giorno, circa quattro secoli orsono, l’allora curatore del Cimitero ebbe l’idea di aprirlo su tutti i lati, eccetto nella parte rivolta sulla strada, adducendo che era l’unica maniera per rinvigorire il rapporto sentimentale fra chi stava dentro e chi stava fuori, a quei tempi molto ridotto, come chiunque avrebbe potuto verificare se avesse osservato l’abbandono a cui erano votate le tombe, soprattutto le più antiche. Riteneva costui che le mura, quantunque giovassero all’igiene e al decoro, finivano per avere l’effetto perverso di mettere le ali all’oblio, il che del resto non dovrebbe sorprendere nessuno, tenendo conto di quanto va ripetendo la saggezza popolare da che mondo è mondo, e cioè che lontano dagli occhi lontano dal cuore. Abbiamo molte ragioni per pensare che siano stati solo di matrice interna i motivi che indussero il capo della Conservatoria a prendere la decisione di unificare, contro la tradizione e la routine, gli archivi dei morti e dei vivi, in modo da reintegrare, nella specifica aria documentale abbracciata dalle sue attribuzioni, la società umana. Ragion per cui ci è più difficile capire il perché non fu subito applicata la lezione pioniera di un umile e primitivo curatore di cimitero, con pochi lumi, senza dubbio, com’era naturale per il mestiere e tipico del suo tempo, ma con intuizioni rivoluzionarie, e che per giunta, lo specifichiamo con tristezza, non ha sulla tomba, a segnalare l’impresa ai posteri, una degna lapide. Al contrario, sono quattro secoli che continuano ad abbattersi anatemi, insulti, calunnie e disonori sulla memoria dell’infelice innovatore, considerato il responsabile storico dell’attuale situazione della necropoli che viene definita disastrosa e caotica, soprattutto perché il Cimitero Generale non solo continua a non avere le mura intorno, ma è addirittura impossibile che un giorno le potrà mai avere. Spieghiamoci meglio. Si è detto qualche riga sopra che il Cimitero crebbe, ma non, è chiaro, per opera e per grazia di una sua virtù riproduttrice intrinseca, come se, ci sia permesso il macabro esempio, i morti avessero imprudentemente generato altri morti, ma solo perché la città finì per aumentare in popolazione, e dunque anche in superficie. Quando il Cimitero Generale era ancora circondato da mura, si verificarono più di una volta, in epoche successive, quelle che in seguito, in linguaggio burocratico municipale, sarebbero state denominate epidemie di espansione demografica urbana. A poco a poco, le estese campagne dietro il Cimitero cominciarono a popolarsi, sorsero piccoli agglomerati, paesi, borghi, seconde residenze, che a loro volta continuarono a crescere, toccandosi qua e là, ma lasciando ancora fra l’una e l’altra ampi spazi vuoti, che erano campi coltivati, oppure boschi, o pascoli, o zone arborate. Fu solo quando le mura furono abbattute che il Cimitero Generale avanzò. Come una piena che comincia con l’inondare prima le sponde ai livelli inferiori, serpeggiando attraverso le valli, e poi, poco alla volta, risale su per i pendii, così le sepolture presero a guadagnare terreno, molte volte con grave pregiudizio per l’agricoltura, quando i proprietari, forzati dall’assedio, non trovarono di meglio che vendere i propri campicelli, e tante altre volte aggirando frutteti, messi, aie e recinti di bestiame, sempre in vista degli abitati, e spessissimo, per così dire, porta a porta. Osservato dall’alto, il Cimitero Generale sembra un albero sdraiato, enorme, con un tronco corto e

grosso, costituito dal nucleo di tombe originarie, da cui partono quattro possenti rami, contigui alla nascita, ma che poi, in biforcazioni successive, si estendono a perdita d’occhio, formando, nelle parole di un poeta ispirato, una frondosa cima in cui la vita e la morte si confondono, come si confondono, negli alberi veri e propri, gli uccellini e il fogliame. Ecco la causa per cui il portone del Cimitero Generale ha cessato di essere usato per il passaggio dei cortei funebri. Si apre solo di tanto in tanto, quando un ricercatore di pietre antiche, dopo aver studiato sul campo una stele funeraria dei primi tempi, chiede l’autorizzazione di farne dei calchi, con il conseguente traffico di materiali grezzi, come il gesso, la stoppa e il fil di ferro, e, non di rado in maniera complementare, fotografie raffinate e precise, di quelle per cui servono obiettivi, riflettori, batterie, fotometri, parapioggia e altri artefatti, ai quali, gli uni e gli altri, per non turbare il servizio di registrazione non si permette di passare per la piccola porta che collega l’edificio al Cimitero. Nonostante questo esauriente accumulo di particolari, magari considerati insignificanti, nel qual caso, se volessimo ritornare a paragoni botanici, la foresta non consentirebbe di vedere gli alberi, è ben possibile che qualcuno degli ascoltatori di questo racconto, fra quelli che stanno attenti e vigili, non avendo perduto il senso di una necessità normativa ereditata da processi mentali determinati soprattutto dalla logica acquisitiva delle conoscenze, è ben possibile che quel tale del pubblico si dichiari radicalmente contrario all’esistenza e ancor più alla generalizzazione di cimiteri tanto privi di regole e deliranti come questo, che arriva al punto di andarsene a spasso, quasi spalla a spalla, fra i luoghi che i vivi avevano destinato a proprio uso esclusivo, e cioè le case, le vie, le piazze, i giardini e altri luoghi di svago, i teatri e i cinema, i bar e i ristoranti, gli ospedali, i manicomi, le stazioni di polizia, gli asili, i circoli sportivi, gli spazi destinati ai mercati e alle mostre, le traverse, i vicoli, i viali. Gente che, quantunque reputando irresistibile la necessità di crescita del Cimitero Generale in armonia simbiotica con lo sviluppo della città e l’aumento della popolazione, ritiene che lo spazio destinato all’estremo riposo dovrebbe continuare a essere cinto da limiti precisi e a sottostare a regole precise. Un normale quadrilatero con alte mura, senza ornamenti né fantasiose escrescenze architettoniche, sarebbe più che sufficiente, e non questa specie di polpo smisurato, veramente più polpo che albero, per quanto possa dolere alle fantasie poetiche, che distende all’esterno i suoi otto, sedici, trentadue, sessantaquattro tentacoli, come se volesse finire per abbracciare il mondo. Che nei paesi civili l’uso corretto con vantaggi certificati dall’esperienza, è che i corpi permangano sottoterra per un certo numero di anni, in genere cinque, al termine dei quali, salvo un miracolo di non corruzione, si toglierà quel poco che sarà avanzato dopo il lavoro di corrosione della calce viva e della digestione dei vermi per fare spazio ai nuovi occupanti. Nei paesi civili non esiste questa pratica assurda dei luoghi schiavi, questa idea di considerare per sempre intoccabile una sepoltura, come se, siccome non è potuta essere definitiva la vita, lo potesse essere la morte. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, questo portone condannato, l’anarchia della circolazione interna, il giro sempre più lungo che i funerali devono fare al di fuori del Cimitero Generale prima di giungere a destinazione, a un’estremità di uno dei sessantaquattro tentacoli del polpo, un punto che non riuscirebbero mai a raggiungere se non avessero

una guida in testa. Proprio come per la Conservatoria Generale, quantunque la corrispondente informazione, per una deplorevole dimenticanza, non sia stata data al momento opportuno, il motto non scritto di questo Cimitero Generale è Tutti i nomi, anche se va riconosciuto che, in realtà, queste tre parole aderiscono come un guanto proprio alla Conservatoria, in quanto è lì che si trovano effettivamente tutti i nomi, tanto quelli dei morti come quelli dei vivi, mentre il Cimitero, per la sua stessa natura di ultima destinazione e ultimo deposito, dovrà accontentarsi sempre dei nomi dei defunti. Questa prova matematica, però, non è sufficiente per ridurre al silenzio i curatori del Cimitero Generale che, di fronte a quella che definiscono la propria apparente inferiorità numerica, sono soliti fare spallucce e ribattere, Con il tempo e la pazienza qui ci finiranno tutti, la Conservatoria dell’Anagrafe, a ben vedere le cose, è solo un affluente del Cimitero Generale. Inutile dire che per la Conservatoria è un insulto essere chiamata affluente. Nonostante queste rivalità, questa emulazione professionale, i rapporti fra gli impiegati della Conservatoria e del Cimitero sono francamente amichevoli, di reciproco rispetto, perché in fondo, oltre alla collaborazione istituzionale cui sono obbligati dalla comunità formale e dalla contiguità obiettiva dei rispettivi statuti, sanno che stanno zappando alle due estremità della stessa vigna, questa vigna che si chiama vita ed è situata fra il nulla e il nulla. Non era la prima volta che il Signor José si presentava al Cimitero Generale. La necessità burocratica di procedere ad alcune verifiche, il chiarimento di certe discrepanze, il confronto di dati, la delucidazione su alcune differenze, obbligano gli impiegati della Conservatoria a spostarsi con relativa frequenza nel Cimitero, quasi sempre gli scritturali ausiliari, di rado i funzionari, e mai, né del resto ci sarebbe bisogno di riferirlo, i due vice o il conservatore. Anche gli scritturali ausiliari e qualche rara volta i funzionari del Cimitero Generale, per motivi simili, si recano in Conservatoria, dove li accolgono con altrettanta cordialità di quella riservata ora al Signor José. Proprio come la facciata principale, l’interno dell’edificio è una copia fedelissima della Conservatoria, anche se comunque bisogna precisare che gli impiegati del Cimitero Generale sostengono normalmente che sia la Conservatoria dell’Anagrafe a essere una copia del Cimitero, e per giunta incompleta, considerando che le manca il portone, al che quelli della Conservatoria rispondono che in definitiva è un bel portone davvero, quello, se sta sempre chiuso. Comunque sia, vi si trova lo stesso bancone lungo, per tutta la larghezza dell’enorme salone, le stesse altissime scaffalature, la stessa disposizione del personale, a triangolo, con gli otto scritturali ausiliari in prima linea, i quattro funzionari subito dopo, e poi i due vicecuratori, che qui si chiamano così, e non vicecapi, proprio come il curatore, al vertice, non è conservatore, bensì curatore. Il personale amministrativo, però, non è tutto il personale del Cimitero. Seduti su due lunghe panche, ai due lati della porta d’ingresso, di fronte al bancone, ci sono le guide. Qualcuno, crudamente, continua a chiamarle becchini, come nei primi tempi, ma la designazione della loro categoria professionale, nel bollettino ufficiale della città, è guida del cimitero, il che, a pensarci meglio, e al contrario di quanto si potrebbe immaginare, non corrisponde a un eufemismo bene intenzionato con cui mascherare la dolorosa brutalità di una zappa che fa una fossa rettangolare

nella terra, è piuttosto l’espressione corretta di una funzione che non si limita a far calare il morto in profondità, giacché lo conduce anche sulla superficie. Questi uomini, che lavorano in coppia, aspettano lì seduti, in silenzio, l’arrivo dei cortei funebri e poi, muniti del relativo foglio di marcia compilato dallo scritturale ausiliario a cui è toccato il defunto, montano su una delle macchine di servizio che sostano nel parcheggio, quelle che nella parte posteriore hanno un’insegna luminosa che si accende e si spegne e che dice Seguimi, come si usa negli aeroporti, perlomeno su questo punto ha perfettamente ragione il curatore del Cimitero Generale quando afferma che loro, nella moderna tecnologia, sono più avanzati di quanto non lo sia la Conservatoria dell’Anagrafe, dove per tradizione si scrive ancora con il pennino da intingere nel calamaio. Realmente, quando si vedono il carro funebre e i suoi accompagnatori che seguono obbedienti le guide per le curate vie della città e per le pessime strade dei sobborghi, con la luce lampeggiante fino all’arrivo nel luogo dove ci sarà la sepoltura, Seguimi, Seguimi, Seguimi, è impossibile non convenire che i cambiamenti del mondo non sono sempre in peggio. E ancorché il dettaglio non sia di particolare importanza per la comprensione globale del racconto, viene a fagiolo spiegare che una delle caratteristiche più significative della personalità di queste guide è il fatto che credono che l’universo sia retto effettivamente da un pensiero superiore perennemente attento alle necessità umane, perché se così non fosse, sostengono loro, le automobili non sarebbero state inventate proprio nel momento in cui cominciavano a essere più necessarie, ossia quando il Cimitero Generale era diventato talmente esteso che sarebbe stato un vero calvario accompagnare il defunto al golgota con i mezzi tradizionali, fosse la portantina o fosse il carrettino a due ruote. Quando sensatamente si osserva loro che dovrebbero essere più prudenti con le parole, visto che golgota e calvario sono una stessa e unica cosa, e che non ha senso usare termini che annunciano il dolore a proposito del trasporto di chi non dovrà più soffrire, è certo e garantito che ci risponderanno, con brutte maniere, che ognuno sa i fatti propri e Dio sa quelli di tutti. Entrò dunque il Signor José e andò diritto al bancone, lanciando di passaggio uno sguardo freddo alle guide sedute, con le quali non simpatizzava perché la loro esistenza squilibrava numericamente i quadri di personale a favore del Cimitero. Essendo conosciuto, non avrebbe avuto bisogno di presentare il tesserino che l’accreditava quale impiegato dell’Anagrafe e, quanto alla famosa credenziale, non gli era passato neanche per la testa di portarsela appresso, in quanto perfino il più inesperto degli scritturali ausiliari, con un semplice colpo d’occhio, sarebbe stato in grado di capire che era falsa dalla prima all’ultima riga. Degli otto impiegati che erano allineati dietro il bancone il Signor José ne scelse uno di quelli che gli andavano più a genio, un uomo un po’ più vecchio di lui, con l’aria straniata di chi non si aspetta più altra vita. Come del resto tutti gli altri, quale che fosse il giorno l’aveva sempre trovato lì. All’inizio aveva addirittura pensato che gli impiegati del Cimitero non usufruissero del riposo settimanale né di ferie, che lavorassero tutti i giorni dell’anno, fino a quando gli avevano detto che non era così, che c’era un gruppo di cottimisti ingaggiati per lavorare la domenica, Non siamo più al tempo della schiavitù, Signor José. Inutile dire che il desiderio degli impiegati

del Cimitero Generale, da un bel mucchio di tempo, è che i suddetti cottimisti s’incarichino anche dei pomeriggi del sabato, ma, per addotte ragioni di bilancio e fondi, la rivendicazione non è stata ancora soddisfatta, e non è servito a niente che il personale del Cimitero abbia invocato l’esempio della Conservatoria dell’Anagrafe, dove il sabato si lavora solo di mattina, in quanto, secondo il sibillino decreto con cui si negava la richiesta, I vivi possono aspettare, i morti no. Ad ogni modo, non si era mai visto che un impiegato della Conservatoria si presentasse lì in servizio proprio un sabato pomeriggio, quando si supponeva che stesse godendosi il riposo settimanale insieme alla famiglia, con una passeggiata in campagna, oppure alle prese coi lavori domestici che si riservano per quando si ha tempo, oppure solo a oziare o, ancora, domandandosi a cosa serva il riposo quando non sappiamo che farcene. Per evitare sorprese importune, che facilmente potevano diventare imbarazzanti, il Signor José ebbe l’accortezza di sottrarsi alla curiosità dell’interlocutore, dando la giustificazione che aveva già bell’e pronta, È un caso eccezionale, urgente, il mio vice ha bisogno di questa informazione lunedì mattina, perciò mi ha chiesto di venire oggi al Cimitero Generale, nelle mie ore libere, Ah, beh, mi dica di cosa si tratta, È molto semplice, volevamo solo sapere quando è stata sepolta questa donna. L’uomo prese il modulo che il Signor José gli tendeva, copiò su un foglio il nome e la data del decesso e andò a consultarsi con il rispettivo funzionario. Il Signor José non capì che cosa dicevano, qui, come in Conservatoria, si può parlare solo a bassa voce, e in questo caso c’è da tener conto anche della distanza, ma lo vide muovere il capo affermativamente e, dal movimento delle labbra, non ebbe dubbi che avesse detto, Può informarlo. L’uomo andò a cercare nello schedario che aveva sotto il bancone, dov’erano archiviati i moduli degli scomparsi negli ultimi cinquant’anni, gli altri riempiono le alte scaffalature che si prolungano all’interno dell’edificio, aprì uno dei cassetti, trovò il modulo della donna, copiò sul foglio la data necessaria e tornò dal Signor José. Eccola, disse, e soggiunse, come se avesse pensato che l’informazione poteva essere di una qualche utilità, È fra i suicidi. Il Signor José sentì una repentina contrazione alla bocca dello stomaco, che è, più o meno, il punto dove, secondo un articolo che aveva letto tempo addietro su una rivista di divulgazione scientifica, c’è una specie di stella di nervi a più punte, un nesso irradiante che chiamano plesso solare, ma riuscì a dissimulare la sorpresa dietro una finzione automatica di indifferenza, la causa della morte doveva risultare per forza dalla dichiarazione di decesso perduta, che lui non aveva mai visto, ma che, come impiegato della Conservatoria che ogni tanto veniva al Cimitero in missione di servizio, non poteva mostrare di ignorare. Con la massima cura ripiegò il foglio di carta e lo infilò nella cartella, ringraziò l’informatore, non dimenticandosi di aggiungere, fra impiegati con lo stesso incarico, si fa per dire, visto che erano entrambi dei semplici scritturali ausiliari, che si metteva a sua disposizione per qualsiasi cosa di cui potesse aver bisogno in Conservatoria e fosse in suo potere. Dopo aver fatto due passi verso la porta tornò indietro, Mi è venuta or ora un’idea, approfittare un po’ del pomeriggio per fare due passi nel Cimitero, se mi autorizzate a entrare da qui eviterei di dover fare il giro, Aspetti che vado a domandare, disse l’impiegato di concetto. Presentò la richiesta al funzionario con cui aveva parlato prima, ma questi, invece di rispondere, si alzò e si

diresse dal vicecuratore del suo reparto. Nonostante la distanza fosse maggiore, il Signor José poté capire dal cenno del capo e dal movimento delle labbra che lo autorizzavano a servirsi della porta interna. Lo scritturale ausiliario non tornò subito al bancone, aprì dapprima un armadio da cui prese un grande cartoncino che andò poi a mettere sotto il coperchio di una macchina con tante lucine colorate. Spinse un bottone, si udì il rumore di un meccanismo, si accesero altre luci e subito dopo uscì un foglio di carta più piccolo da una fessura laterale. Lo scritturale ausiliario ripose il cartoncino nell’armadio e finalmente ritornò al bancone, È meglio se si porta appresso una mappa, abbiamo già avuto vari casi di persone che si sono perdute, poi è una complicazione incredibile per ritrovarle, le guide devono andare a cercarle con le auto e di conseguenza il lavoro ne viene ostacolato, i funerali si ammucchiano là fuori in attesa, La gente si fa prendere facilmente dal panico, basterebbe procedere sempre in linea retta in una stessa direzione, da qualche parte si andrebbe a finire, mentre invece nell’archivio dei morti della Conservatoria sì che è difficile, linee rette non ce ne sono, In teoria ha ragione, ma qui le linee rette sono come quelle dei labirinti a corridoi, si interrompono continuamente, cambiano senso, si fa il giro intorno a una tomba e all’improvviso non sappiamo più dove siamo, Là nella mia Conservatoria siamo soliti usare il filo di Arianna, non fallisce mai, C’è stato un periodo in cui anche noi ce ne servivamo, ma è durato poco, il filo l’abbiamo trovato spezzato in varie occasioni e non si è mai venuto a sapere chi sia stato l’autore della birbonata né la ragione per cui l’abbia compiuta, I morti non sono stati di sicuro, Chi lo sa, Chi si è perduto era gente senza iniziativa, avrebbe potuto orientarsi con il sole, Qualcuno l’avrà fatto, gli è andata male se quel giorno il cielo era coperto, In Conservatoria non abbiamo di quelle macchine, Eppure le dico che aiutano molto il lavoro. La conversazione non poteva proseguire ancora, il funzionario aveva già guardato due volte, e la seconda con il sopracciglio aggrottato, fu lo stesso Signor José a osservare a voce bassa, Il suo funzionario ha già guardato da questa parte per due volte, non voglio farle avere dei problemi per causa mia, Le indico solo il luogo dov’è sepolta la donna, noti l’estremità di questa diramazione, la linea ondulata che vede qui è un ruscello che per il momento funge ancora da frontiera, la tomba si trova in questo angolo, la potrà identificare dal numero, E dal nome, Sì, se già ce l’hanno messo, ma sono i numeri che contano, i nomi non rientrerebbero nella pianta, ce ne vorrebbe una della stessa grandezza del mondo, Scala uno a uno, Sì, scala uno a uno, e comunque ci sarebbero delle sovrapposizioni, È aggiornata, L’aggiorniamo tutti i giorni, Ma adesso, mi dica, cosa le ha fatto pensare che voglio vedere la tomba di questa donna, Niente, forse perché io avrei fatto la stessa cosa se fossi stato al posto suo, Perché, Per averne la certezza, Del fatto che è morta, No, la certezza che prima era viva. Il funzionario guardò per la terza volta, fece per alzarsi, ma poi non concluse il movimento, il Signor José si congedò frettolosamente dallo scritturale ausiliario, Grazie, grazie, disse, mentre chinava leggermente il capo in direzione del curatore, entità a cui le riverenze andavano sempre rivolte, come quando si rende grazie al cielo, anche se è coperto, con l’importante differenza che in quest’ultimo caso il capo non si china, si alza.

La parte più antica del Cimitero Generale, quella che si allargava per svariate decine di metri nel retro dell’edificio amministrativo, era la preferita dagli archeologi per le ricerche. Le vetuste pietre, alcune talmente consumate dal tempo da consentire di distinguervi solo dei segni quasi svaniti che potevano essere resti di lettere come il risultato di uno scalpello inabile, continuavano a essere oggetto di animati dibattiti e polemiche in cui, perduta definitivamente, nella maggior parte dei casi, la speranza di sapere chi vi era stato messo sotto, si discuteva unicamente, quasi fosse una questione vitale, la probabile datazione dei tumuli. Differenze tanto insignificanti come un centinaio di miseri anni in meno o in più erano motivo di lunghissime controversie, sia pubbliche sia accademiche, da cui scaturivano quasi sempre non solo violente rotture di rapporti personali, ma anche inimicizie mortali. Le cose, se possibile, andavano però molto peggio quando comparivano gli storici e i critici d’arte e si impicciavano dell’argomento, poiché se era comunque relativamente facile far giungere a un accordo la corporazione degli archeologi su un concetto ampio di antico accettabile da tutti, tralasciando le date, già la questione del bello e del vero metteva gli uomini e le donne dell’estetica e della storia a tirare ciascuno dalla propria parte, ed era tutt’altro che raro vedere un critico cambiare improvvisamente opinione solo perché il cambiamento di opinione dell’altro critico le aveva fatte coincidere. Nel corso dei secoli, l’ineffabile pace del Cimitero Generale, con le sue file di vegetazione spontanea, i suoi fiori, i suoi rampicanti, i suoi fitti cespugli, i suoi festoni e le sue ghirlande, le sue ortiche e i suoi cardi, i possenti alberi le cui radici molte volte dissestavano le pietre tombali e riportavano alla luce del sole mucchietti di ossa sorprese, era stata bersaglio e testimone di feroci guerre di parole e di un paio di passaggi a vie di fatto. Ogniqualvolta si verificavano incidenti di questa natura, il curatore cominciava con l’ordinare alle guide disponibili di accorrere a separare gli eruditi litigiosi, giungendo addirittura, quando una situazione di imperiosa necessità lo richiese, a presentarsi di persona per rammentare ironicamente agli sfidanti che non valeva la pena di stare lì ad accapigliarsi per così poco in vita, dal momento che, prima o poi, avrebbero finito per riunirsi tutti lì, e calvi. Proprio come il capo della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, il curatore del Cimitero Generale coltiva brillantemente il sarcasmo, il che conferma la congettura che questa peculiarità di carattere sia ritenuta indispensabile per accedere alle loro alte e rispettive funzioni, di pari passo, ovviamente, con le competenti conoscenze pratiche e teoriche di tecnica archivistica. In qualcosa, tuttavia, storici, critici d’arte e archeologi riconoscono di essere in consonanza, il fatto evidente che il Cimitero Generale sia un catalogo perfetto, un campionario, una sintesi di tutti gli stili, soprattutto di architettura, scultura e decorazione, e dunque un inventario di tutti i modi di vedere, di stare e di abitare esistenti fino a oggi, da quel primo elementare disegno di un profilo di corpo umano, poi inciso e scavato nella pietra viva, fino all’acciaio cromato, ai pannelli riflettori, alle fibre sintetiche e ai vetri specchiati, usati a casaccio nell’attualità di cui si parlava. I primi monumenti funerari erano costituiti da dolmen e triliti, poi comparivano, come una grande pagina aperta, a rilievo, le nicchie, le are, i tabernacoli, i tini di granito, le vasche di marmo, i coperchi lisci e lavorati, le colonne doriche, ioniche, corinzie e composite, le cariatidi, i fregi, gli acanti, le

trabeazioni e i frontoni, le volte false, le volte vere, nonché le sezioni di muro create con mattoni sovrapposti, i pignoni di muraglie ciclopiche, le feritoie, i rosoni, i doccioni, le grandi finestre, i timpani, i pinnacoli, i lastricati, gli archi di spinta, i pilastri, le statue giacenti che rappresentavano uomini con elmo, spada e armatura, i capitelli con storie e senza storie, le melagrane, i gigli, le semprevive, i campanili, le cupole, le statue giacenti che rappresentavano donne coi seni strizzati, i dipinti, gli archi, i fedeli cani ai piedi, i bambini in fasce, le portatrici di doni, le prefiche con lo scialle sul capo, le guglie, i pinnacoli, le nervature, le vetrate, le tribune, i pulpiti, i balconi, altri timpani, altri capitelli, altri archi, angeli con le ali aperte, angeli con le ali chiuse, medaglioni, urne vuote, o scolpite a fiammate in pietra, o che lasciavano uscire languidamente un crespo, malinconie, lacrime, uomini maestosi, donne magnifiche, bambini amorosi falciati nel fiore degli anni, anziani e anziane che non potevano attendersi altro, croci intere e croci spezzate, scale, chiodi, corone di spine, lance, triangoli enigmatici, qualche insolita colomba marmorea, stuoli di colombe vere che volavano in circolo sopra il camposanto. E silenzio. Un silenzio interrotto solo di tanto in tanto dai passi di qualche occasionale e sospirante amante della solitudine che un’improvvisa tristezza spinge fin lì dai rumorosi dintorni dove ancora si sentono i pianti sull’orlo della fossa e vi si depongono rami di fiori freschi, per il momento umidi di linfa, che attraversano, per così dire, lo stesso cuore del tempo, questi tremila anni di tombe di tutte le forme, spiriti e nature, unite dallo stesso abbandono, dalla stessa solitudine, giacché i dolori che da esse nacquero un giorno sono troppo antichi per avere ancora degli eredi. Orientandosi con la pianta, e comunque lamentando talvolta la mancanza di una bussola, il Signor José cammina verso il settore dei suicidi dove è sepolta la donna del modulo, ma adesso il suo passo è meno rapido, meno deciso, di tanto in tanto si sofferma a contemplare un dettaglio scultoreo macchiato dai licheni o dallo scorrere della pioggia, alcune prefiche taciturne nell’intervallo fra due grida, alcune solenni deposizioni, alcuni ieratici pieghettati, o scandisce con difficoltà un’iscrizione la cui grafia, di sfuggita, l’ha attratto, è comprensibile che fin dalla prima riga ci metta tanto tempo a decifrarla, fatto sta che questo impiegato, nonostante gli sia capitato di dover esaminare qualche volta, là in Conservatoria, pergamene più o meno coeve di questi tempi, non è versato nelle antiche scritturazioni, perciò non è mai riuscito ad avanzare di grado. Sulla cima di un poggio tondeggiante, all’ombra di un obelisco che prima era un segnale geodesico, il Signor José si mette a guardare intorno, spingendosi fin dove la vista glielo consente, e non trova null’altro se non tombe che salgono e scendono per gli accidenti del terreno, che fiancheggiano un ripido versante e si spandono nelle pianure, Sono milioni, ha mormorato, allora pensa all’enorme quantità di spazio che si poteva risparmiare se i morti fossero stati sepolti in piedi, fianco a fianco, in formazione serrata, come un esercito sull’attenti, avendo ciascuno, come unico segnale della propria presenza lì, un cubo di pietra collocato sulla verticale della testa, su cui si potevano riportare, nelle cinque facce visibili, i fatti principali della vita del defunto, cinque quadrati di pietra come cinque pagine, riassunto dell’intero libro che era stato impossibile scrivere. Quasi a sfiorare l’orizzonte, laggiù, laggiù, laggiù, il Signor José vede alcune luci che si spostano lentamente, come lampi gialli che si accendono e si spengono a

intervalli regolari, sono le auto delle guide che richiamano la gente che gli va appresso, Seguimi, Seguimi, una si ferma all’improvviso, la luce scompare, vuol dire che è arrivata a destinazione. Il Signor José ha guardato l’altezza del sole, poi l’orologio, si sta facendo tardi, dovrà camminare di buon passo se vorrà raggiungere la donna del modulo prima del crepuscolo. Ha consultato la pianta, facendovi scivolare sopra l’indice per ricostruire, approssimativamente, il cammino già percorso dall’edificio dell’amministrazione fino al punto in cui si trova adesso, l’ha paragonato con quanto ancora gli restava da camminare, e stava quasi per scoraggiarsi. In linea retta, secondo la scala, saranno un cinque chilometri, ma la linea retta continua, nel Cimitero Generale, come si è già detto, non è che duri molto, a questi cinque chilometri a volo d’uccello sarà necessario aggiungerne altri due, o forse anche tre, viaggiando in superficie. Il Signor José ha fatto un rapido conto del tempo e del vigore che ancora gli restava nelle gambe, ha udito la voce della prudenza suggerirgli di rimandare a un altro giorno, con più calma, la visita alla tomba della donna sconosciuta, dal momento che, sapendo ormai dove sta, un qualsiasi tassì o un autobus di linea lo potranno portare, aggirando all’esterno il Cimitero, in prossimità del posto, come fanno le famiglie quando devono andare a piangere i propri cari e mettere dei fiori freschi nei vasi o rinnovarne l’acqua, soprattutto d’estate. Mentre il Signor José stava tentennando in questa perplessità gli è sovvenuto il ricordo dell’avventura nell’istituto, quella tenebrosa notte di pioggia, quell’erto e scivoloso fianco di montagna in cui si era trasformata la copertura della tettoia, e poi la ricerca ansiosa all’interno dell’edificio, fradicio dalla testa ai piedi, con le ginocchia sbucciate che strofinavano dolorosamente sui pantaloni, e di come, con tenacia e intelligenza, era riuscito a vincere le sue stesse paure e sovrapporsi alle mille difficoltà che gli avevano sbarrato il passo, fino a scoprire e finalmente a penetrare nella soffitta misteriosa, affrontando un’oscurità ancora più spaventosa dell’archivio dei morti. Chi è stato capace di osare tanto non ha il diritto di scoraggiarsi adesso, davanti allo sforzo di una camminata, per quanto lunga sia, soprattutto se la sta facendo alla luce franca del chiaro sole che, come sappiamo è amico degli eroi. Se le ombre del crepuscolo lo dovessero cogliere prima che sia riuscito ad arrivare alla tomba della donna sconosciuta, se la notte dovesse sopraggiungere a sbarrargli le strade, disseminandovi i suoi invisibili fantasmi e impedendogli di proseguire, potrà sempre aspettare la nascita del nuovo giorno sdraiato su una di queste lastre muschiose, con un triste angelo di pietra a vegliare il suo sonno. O sotto la protezione di alcuni archi di spinta come quelli laggiù, ha pensato il Signor José, ma poi si è ricordato che un po’ più avanti non troverà più gli archi di spinta. Grazie alle generazioni che stanno per venire e al conseguente sviluppo dell’edilizia, fra poco si cominceranno a inventare maniere meno dispendiose di reggere in piedi una parete, effettivamente è in un Cimitero Generale che i risultati del progresso sono più visibili agli studiosi o ai semplici curiosi, qualcuno afferma addirittura che un Cimitero del genere è come una specie di biblioteca dove il posto dei libri fosse occupato da individui sepolti, e in verità è indifferente, si può apprendere tanto da questi come da quelli. Il Signor José si guardò indietro, dal punto in cui si trovava riusciva a cogliere con lo sguardo, al di sopra degli alti monumenti funebri, la cima distante del tetto dell’edificio amministrativo, Non pensavo di essere arrivato così lontano, mormorò, e dopo

aver fatto questa osservazione, come se, per prendere una decisione, aspettasse solo di udire il suono della propria voce, si rimise di nuovo in cammino. Quando giunse infine al reparto dei suicidi, mentre il cielo cominciava a setacciare le ceneri ancora bianche del crepuscolo, pensò di aver sbagliato direzione o che la pianta doveva essere mal disegnata. Aveva davanti a sé una vasta estensione di campagna, con tanti alberi, quasi un bosco, dove le tombe, se non fosse stato per le pietre tombali a stento visibili, potevano sembrare piuttosto dei cespugli di vegetazione spontanea. Da quel punto il ruscelletto non si riusciva a vedere, ma si avvertiva il lievissimo fruscio che scivolava sui sassi, e nell’atmosfera, che era come cristallo verde, aleggiava una frescura che non era dovuta solo al primo imbrunire. Se era così recente, di pochissimi giorni, la tomba della donna sconosciuta doveva trovarsi per forza al limite esterno del terreno occupato, adesso il problema era sapere in quale direzione. Il Signor José pensò che, per non perdersi, faceva meglio a deviare verso il piccolo corso d’acqua e proseguire poi lungo la sponda fino a trovare le ultime tombe. L’ombra degli alberi lo coprì subito dopo, come se la notte fosse scesa di colpo. Dovrei aver paura, mormorò il Signor José, in questo silenzio, fra queste tombe, con questi alberi che mi circondano, e nonostante tutto mi sento tranquillo come se fossi a casa mia, mi fanno solo male le gambe per la lunga camminata, ecco il ruscello, se avessi paura potrei andarmene via all’istante, basterebbe attraversarlo, dovrei solo togliermi le scarpe e appendermele al collo, arrotolarmi i pantaloni e attraversarlo, l’acqua non dovrebbe arrivarmi nemmeno alle ginocchia, in poco tempo sarei di nuovo fra gente viva, con quelle luci laggiù che si sono appena accese. Mezz’ora dopo il Signor José raggiunse l’estremità del campo, quando la luna, quasi piena, quasi rotonda, stava per uscire dall’orizzonte. Le tombe non avevano ancora le lastre incise con i nomi a ricoprirle né ornamenti scultorei, le si poteva identificare solo grazie ai numeri bianchi dipinti su delle placche nere piantate lì, alla testa, come farfalle svolazzanti. Il chiaro di luna si diffuse a poco a poco sulla campagna, si insinuò lentamente fra gli alberi come un fantasma abituale e benevolo. In una radura, il Signor José trovò quello che cercava. Non prese di tasca il foglio che gli aveva dato lo scritturale ausiliario del Cimitero, non aveva fatto alcuno sforzo per memorizzare il numero, ma se ne accorse quando ne ebbe bisogno, e adesso ce l’aveva davanti, illuminato in pieno, come se fosse stato dipinto con inchiostro fosforescente. Eccola, disse. 19. Il Signor José sentì freddo per tutta la notte. Dopo aver pronunciato quelle parole ridondanti e inutili, Eccola, se ne rimase lì senza sapere cosa fare. Era sicuro, dopo tante e faticose peripezie, di essere riuscito finalmente a trovare la donna sconosciuta o, per meglio dire, il luogo dove giaceva, sette palmi sotto un terreno che ancora sosteneva lui, ma fra sé e sé pensava che sarebbe stato molto più naturale aver paura, essere spaventato per il posto, per l’ora, per il rumoreggiare degli alberi, per quel misterioso chiaro di luna, e specialmente per quel singolare cimitero che lo circondava, un consesso di suicidi, un raggruppamento di silenzi che da un momento all’altro poteva mettersi a urlare, Siamo venuti prima di aver concluso il nostro tempo, ci ha

portato qui la nostra volontà, ma invece avvertiva dentro di sé qualcosa di molto più simile a un tentennamento, a un dubbio, come se, credendo di essere giunto alla fine di tutto, la sua ricerca non fosse ancora terminata, come se l’essere venuto qui non rappresentasse altro che un punto di passaggio, non più importante dell’anziana signora del pianterreno a destra, o dell’istituto, o della farmacia dov’era entrato a fare domande, o dell’archivio dove, là in Conservatoria, si custodivano tutte le carte dei morti. L’impressione fu talmente forte da spingerlo a mormorare, quasi avesse l’intenzione di convincere se stesso, È morta, ormai non posso fare più niente, contro la morte non si può niente. Per lunghe ore aveva camminato nel Cimitero Generale, aveva attraversato tempi, epoche e dinastie, regni, imperi e repubbliche, guerre ed epidemie, infinite morti isolate, a iniziare dal primo dolore dell’umanità per finire con questa donna che si è suicidata pochi giorni fa, quindi il Signor José ha l’obbligo di sapere che contro la morte non si può niente. In un percorso fatto di tanti morti, nessuno si è alzato quando l’ha udito passare, nessuno l’ha implorato di aiutarlo a riunire la polvere sparsa della carne con le ossa staccatesi dai loro incastri, nessuno gli ha chiesto, Vieni a soffiarmi negli occhi l’alito della vita, lo sanno bene, loro, che contro la morte non si può niente, sì, lo sanno bene, e lo sappiamo tutti, ma in tal caso, da dove viene quest’angoscia che stringe la gola del Signor José, e questa inquietudine dello spirito, come se vigliaccamente avesse abbandonato un lavoro a metà e adesso non sapesse come riprenderlo dignitosamente. Al di là del ruscelletto, non molto lontano, si scorgono alcune case con le finestre illuminate, gli aloni smorzati dei lampioni di periferia, il chiarore fuggiasco di un’automobile che passa per la strada. E poco più avanti, a una trentina di passi appena, come del resto doveva esserci più vicino o più lontano, un ponticello collega le due sponde del fiumiciattolo, quindi il Signor José non dovrà togliersi le scarpe e arrotolarsi i pantaloni quando vorrà passare sull’altra riva. In circostanze normali l’avrebbe già fatto da un bel pezzo, tanto più che non lo conosciamo come persona di grandissimo coraggio, quel coraggio che sarà necessario per mantenersi impassibile in un cimitero di notte, con un morto sotto i piedi e un chiaro di luna che può far camminare le ombre. Le circostanze, però, sono queste e non altre, qui non si tratta di coraggio o di vigliaccheria, qui si tratta di morte e di vita, perciò il Signor José, nonostante sappia che più volte avrà paura stanotte, nonostante sappia che lo terrorizzeranno i sospiri del vento, che nelle prime ore del mattino il freddo che scende dal cielo si aggiungerà al freddo che sta salendo dalla terra, il Signor José va a sedersi sotto un albero, rannicchiandosi al riparo della cavità provvidenziale di un tronco. Si alza il bavero della giacca, si rannicchia più che può per conservare il calore nel corpo, incrocia le braccia stringendo le mani sotto le ascelle, e si appresta ad aspettare il giorno. Sente lo stomaco chiedergli da mangiare, ma non se ne cura, non è mai morto nessuno per aver prolungato l’intervallo fra due pasti, se non quando il secondo ha tardato tanto a essere servito da non giungere in tempo per servire. Il Signor José vuol sapere se veramente è tutto finito, o se, al contrario, è rimasta ancora qualche cosa che magari ha dimenticato di fare, o, cosa molto più importante, qualcosa a cui forse non ha mai pensato e che in fin dei conti poteva essere l’essenziale di questa strana avventura in cui la casualità l’ha portato. Aveva cercato la

donna sconosciuta dappertutto, e ha finito per trovarla qui, sotto quel monticello di terra che le erbacce non tarderanno a ricoprire, a meno che non arrivi prima il muratore a spianarlo per posare la lastra di marmo con la solita iscrizione di date, la prima e l’ultima, e il nome, ma potrebbe anche succedere che la famiglia sia di quelle che per i propri defunti preferiscono una semplice cornice rettangolare dentro cui si dovrà poi seminare un’erba decorativa, soluzione che offre il duplice vantaggio di essere meno costosa e di fungere da casa per gli insetti della superficie. La donna, dunque, è lì, per lei si sono chiusi tutti i cammini del mondo, ha percorso quello che doveva percorrere, si è fermata dove ha voluto, punto, ma il Signor José non riesce a liberarsi da un’idea fissa, quella che nessun altro, al di fuori di lui, potrà muovere l’ultima pedina che è rimasta sulla scacchiera, la pedina definitiva, quella che, se mossa nella direzione giusta, finirà per dare significato reale al gioco, con il pericolo, se non lo facesse, di lasciarlo bloccato per l’eternità. Non sa qual è questa magica mossa, se ha deciso di passare la notte qui non l’ha fatto perché aveva la speranza che il silenzio gliela venisse a sussurrare all’orecchio o che la luce della luna gliela disegnasse fra le ombre degli alberi, se ne sta lì come qualcuno che, dopo avere scalato una montagna per cogliere i paesaggi che si trovano al di là, resiste al ritorno a valle finché non sente che nei propri occhi abbagliati non possono entrare altre immensità. L’albero dove il Signor José si è rannicchiato è un vecchio ulivo da cui la gente del sobborgo continua a venire a raccogliere i frutti nonostante l’uliveto si sia trasformato in un cimitero. Per la vecchiaia, il tronco gli si è aperto tutto da un lato, da su a giù, come una culla che avessero messo in piedi per occupare meno spazio, ed è lì che il Signor José si appisola di tanto in tanto, è lì che all’improvviso si sveglia spaventato da una raffica di vento che l’ha colpito in faccia, o forse il silenzio e l’immobilità dell’aria sono divenuti talmente profondi che lo spirito in dormiveglia ha cominciato a sognare le grida di un mondo che scivolava nel nulla. A un certo punto, come chi si è deciso a medicare il morso del cane con il pelo dello stesso cane, il Signor José ha cominciato a usare la fantasia per ricreare mentalmente tutti gli orrori classici del luogo in cui si trovava, le processioni di anime in pena avvolte in bianchi sudari, le danze macabre degli scheletri che scuotono le ossa ritmicamente, la figura ominosa della morte che sfiora il suolo con una falce insanguinata affinché i morti si rassegnino a restare morti, ma, poiché nulla di tutto ciò avveniva nella realtà, poiché era solo frutto dell’immaginazione, il Signor José, a poco a poco, cominciò a scivolare verso un’enorme pace interiore, turbata solo di tanto in tanto dalle corsette irresponsabili dei fuochi fatui, capaci di spingere chiunque sull’orlo di una crisi di nervi, per quanto si possa essere duri d’animo o conoscitori degli elementi basilari della chimica organica. In definitiva, il timorato Signor José sta dimostrando un coraggio che i numerosi sconvolgimenti e patimenti per cui l’abbiamo visto passare prima non avrebbero consentito di aspettarci da parte sua, il che, ancora una volta, sta a dimostrare come lo spirito dia l’autentica misura della propria grandezza appunto nelle occasioni di maggiore impiccio. Verso l’alba, ormai quasi distaccato dalle paure, riconfortato dal dolce calore dell’albero che l’abbracciava, il Signor José si addormentò con grande tranquillità, mentre il mondo intorno a lui cominciava lentamente a risorgere dalle ombre malevole

della notte e dai chiarori ambigui di un chiaro di luna che si congedava. Quando il Signor José aprì gli occhi, ormai era giorno fatto. Era congelato, l’amichevole abbraccio vegetale doveva essere stato solo un sogno ingannevole, a meno che l’albero, ritenendo di aver compiuto il dovere di ospitalità a cui tutti gli ulivi, per natura, sono obbligati, l’avesse liberato anzitempo e abbandonato irrimediabilmente al rigore della finissima nebbiolina che aleggiava, strisciante, sopra il cimitero. Il Signor José si alzò con difficoltà, sentendo che gli stridevano tutte le giunture del corpo, e avanzò vacillando verso il sole, mentre si scuoteva le braccia con forza per riscaldarle. Accanto alla tomba della donna sconosciuta, mordicchiando l’erba umida, c’era una pecora bianca. Tutt’intorno, qua e là, altre pecore brucavano. E un uomo anziano, con un bastone in mano, si stava avvicinando al Signor José. L’accompagnava un cane, né grande né piccolo, che non dava segni di ostilità, ma che aveva tutta l’aria di aspettare un ordine del padrone per esprimersi. L’uomo si fermò al di là della tomba con l’atteggiamento inquisitorio di chi, senza chiedere spiegazioni, ritiene gli siano dovute, e il Signor José disse, Buongiorno, al che l’altro rispose, Buongiorno, Una bella mattina, Non c’è male, Mi sono addormentato, disse poi il Signor José, Ah, si è addormentato, ripeté l’uomo con tono dubbioso, Sono venuto qui per vedere la tomba di una persona amica, mi sono seduto a riposare sotto quell’ulivo e mi sono addormentato, Ha passato qui la notte, Sì, È la prima volta che trovo qualcuno a quest’ora, quando porto le pecore a pascolare, Per il resto del giorno, no, domandò il Signor José, Parrebbe brutto, sarebbe una mancanza di rispetto, con le pecore che si intrufolano fra le tombe o sparpagliano le cacchette, mentre le persone che vengono a ricordare i propri cari stanno pregando o piangendo, e inoltre le guide non vogliono essere disturbate mentre aprono le fosse, perciò non posso fare altro che portargli delle caciottine di tanto in tanto perché non vadano a lagnarsi dal curatore, Ma se il Cimitero Generale è, da tutti i lati, aperta campagna, ci può entrare chiunque, e quando dico chiunque intendo persone e animali, sono stupito di non aver visto neanche un cane o un gatto dall’edificio dell’amministrazione fino a qui, Cani e gatti randagi davvero non mancano, Io, però, non ne ho incontrati, Ha fatto tutti questi chilometri a piedi, Sì, Poteva venire con la corriera, oppure in tassì, o con la sua automobile, se ce l’ha, Non sapevo qual era la tomba, perciò prima ho dovuto informarmi in amministrazione, e poi, visto che la giornata era tanto bella, ho deciso di venire a piedi, È davvero strano che non le abbiano detto di fare il giro, come fanno sempre, Ho chiesto se mi lasciavano passare, e mi hanno autorizzato, Lei è archeologo, No, Storico, Neanche, Critico d’arte, Neanche per sogno, Ricercatore araldico, Ma per favore, Allora non capisco perché abbia voluto fare tutta questa camminata, né come sia riuscito a dormire in mezzo alle tombe, io, che pure sono abituato al paesaggio, non rimarrei qui un solo minuto dopo il calar del sole, È andata così, mi sono seduto e mi sono addormentato, Lei è un uomo coraggioso, No, non sono neanche un uomo coraggioso, Ha scoperto la persona che cercava, È quella che sta lì, proprio ai suoi piedi, È un uomo, o una donna, È una donna, Ancora non c’è il nome, Suppongo che la famiglia starà facendo preparare il marmo, Ho notato che le famiglie dei suicidi, più delle altre, trascurano quest’obbligo elementare, magari hanno dei rimorsi, probabilmente pensano di essere

colpevoli, È possibile, Se non ci siamo mai conosciuti, perché sta rispondendo a tutte le domande che le faccio, la cosa più naturale sarebbe se mi dicesse che io, con la sua vita, non c’entro niente, Io sono fatto così, quando mi fanno delle domande rispondo sempre, È un subalterno, un subordinato, un dipendente, un cameriere, un fattorino, Sono scritturale ausiliario presso la Conservatoria Generale dell’Anagrafe, Allora le viene proprio a fagiolo sapere la verità sul settore dei suicidi, ma prima mi dovrà giurare solennemente di non rivelare mai a nessuno il segreto, Lo giuro per quello che ho di più sacro nella vita, E cos’è per lei, adesso, quello che di più sacro ha nella vita, Non lo so, Tutto, O niente, Deve ammettere che sarà un giuramento un tantino vago, Non ne vedo altro di maggior valore, Amico, lo giuri sul suo onore, un tempo era il giuramento più sicuro, Va bene, lo giurerò sul mio onore, ma guardi che il capo della Conservatoria si sbellicherebbe dalle risate se udisse uno dei suoi scritturali ausiliari giurare sull’onore, Fra un pastore di pecore e uno scritturale ausiliario è un giuramento abbastanza serio, un giuramento che non fa venire voglia di ridere, quindi ci baseremo su questo, Allora, qual è la verità sul settore dei suicidi, domandò il Signor José, Che in questo luogo non tutto è ciò che sembra, È un cimitero, è il Cimitero Generale, È un labirinto, I labirinti si possono vedere da fuori, Non tutti, questo appartiene ai labirinti invisibili, Non comprendo, Per esempio, la persona che è qui, disse il pastore sfiorando con la punta del bastone il monticello di terra, non è quella che crede lei. Di colpo, il suolo si mise a oscillare sotto i piedi del Signor José, l’ultima pedina della scacchiera, la sua certezza estrema, la donna sconosciuta infine ritrovata, era appena scomparsa, Vuol dire che quel numero è sbagliato, domandò tremando, Un numero è un numero, un numero non sbaglia mai, rispose il pastore, se lo portassero via da qui e lo collocassero in un altro posto, sia pure in capo al mondo, continuerebbe a essere il numero che è, Non capisco, Lo capirà, Per favore, c’è una gran confusione nella mia testa, Nessuno dei corpi che sono qui sotterrati corrisponde ai nomi che si leggono sulle placche di marmo, Non ci credo, Gliel’assicuro, E i numeri, Sono tutti scambiati, Perché, Perché qualcuno li sposta prima che siano portate e collocate le pietre con i nomi, E chi è costui, Io, Ma questo è un crimine, protestò indignato il Signor José, Non c’è nessuna legge che lo dica, Andrò a denunciarla immediatamente all’amministrazione del Cimitero, Si ricordi che ha giurato, Ritratto il mio giuramento, in questa situazione non vale, Si può sempre mettere la parola buona sulla parola cattiva, ma né l’una né l’altra potranno mai essere ritrattate, una parola è una parola, un giuramento è un giuramento, La morte è sacra, No, è la vita che è sacra, mio caro scritturale ausiliario, o almeno così si dice, Ma dev’esserci, in nome della decenza, un minimo di rispetto per chi è morto, le persone vengono qui a ricordare i parenti e gli amici, a meditare o pregare, a mettere fiori o a piangere davanti a un nome caro, e vai a vedere che, per colpa della malizia di un pastore di pecore, il vero nome di chi sta lì è un altro, i resti mortali venerati non sono di chi si suppone, la morte, così, è una farsa, Non credo vi sia maggior rispetto che piangere per qualcuno che non si è mai conosciuto, Ma la morte, La morte che cosa, La morte dev’essere rispettata, Vorrei che mi dicesse in che cosa consiste, a suo parere, il rispetto per la morte, Prima di tutto non profanarla, La morte, come tale, non è profanabile, Lei sa benissimo che io sto parlando dei morti, e non della morte

in sé, Mi dica dove ritrova il più piccolo indizio di profanazione, L’avere scambiato i loro nomi non è una profanazione da poco, Capisco che uno scritturale ausiliario della Conservatoria dell’Anagrafe abbia simili idee circa i nomi. Il pastore si interruppe, fece un cenno al cane per mandarlo a riprendere una pecora che si era allontanata, poi proseguì, Ancora non le ho detto per quale motivo ho cominciato a scambiare le targhe su cui sono scritti i numeri delle tombe, Dubito che mi interessi saperlo, Dubito che non le interessi, Allora me lo dica, Se è vero, come è mia convinzione, che le persone si suicidano perché non vogliono farsi trovare, queste qui, grazie a quella che lei ha definito la malizia del pastore di pecore, sono ormai definitivamente libere dall’essere importunate, in realtà neanch’io, pure se lo volessi, sarei capace di ricordarmi i posti giusti, l’unica cosa che so è quello che penso quando passo davanti a uno di quei marmi con il nome completo e le relative date di nascita e morte, Che cosa pensa, Che ci è possibile non vedere la menzogna anche quando ce l’abbiamo davanti agli occhi. Già da un bel po’ di tempo la nebbiolina si era dissipata, adesso ci si poteva rendere conto di quanto fosse grande il gregge. Il pastore fece con il bastone un movimento sopra il capo, era un ordine al cane per andare a radunare il bestiame. Disse il pastore, È giunto il momento di andarmene con le pecore, non vorrei che cominciassero a spuntare le guide, vedo già le luci di alcune auto, ma non vengono da questa parte, Io mi fermo ancora, disse il Signor José, Sta pensando davvero di andare a denunciarmi, domandò il pastore, Sono un uomo di parola, quello che ho giurato, è giurato, Tanto più che di sicuro le consiglierebbero di tacere, Perché, Pensi al lavoro che ci vorrebbe per disseppellire tutta questa gente, identificarla, molti di loro non sono più che polvere fra polvere. Le pecore erano ormai quasi tutte riunite, qualche ritardataria saltava agilmente sopra le tombe per sfuggire al cane e unirsi alle sorelle. Il pastore domandò, Lei era un amico o un parente della persona che è venuta a trovare, Non la conoscevo neanche, E nonostante ciò veniva a cercarla, Proprio perché non la conoscevo la stavo cercando, Vede come in fondo avevo ragione io quando le ho detto che non c’è maggior rispetto del piangere per una persona che non si è conosciuta, Addio, può darsi che un giorno ci incontreremo, Non credo, Non si sa mai, Chi è lei, Sono il pastore di queste pecore, Nient’altro, Nient’altro. Una luce scintillò in lontananza, Quello sta venendo qui, disse il Signor José, A quanto pare, disse il pastore. Con il cane in testa, il gregge cominciò a muoversi in direzione del ponte. Prima di scomparire dietro gli alberi sull’altra riva, il pastore si voltò e fece un gesto di saluto. Anche il Signor José alzò il braccio. Adesso si vedeva meglio la luce intermittente dell’auto delle guide. Di tanto in tanto scompariva, nascosta dagli accidenti del terreno o dalle costruzioni irregolari del Cimitero, le torri, gli obelischi, le piramidi, poi riappariva più intensa e più vicina, e si avvicinava in fretta, segno evidente che gli accompagnatori non erano molti. L’intenzione del Signor José, quando aveva detto al pastore, Io mi fermo ancora, era unicamente quella di rimanere da solo per alcuni minuti prima di rimettersi in cammino. Voleva soltanto pensare un po’ a se stesso, scoprire la giusta misura della propria delusione, accettarla, pacificare lo spirito, dire una volta per tutte, È finita, ma adesso gli era spuntata un’altra idea. Si avvicinò a una tomba e vi si fermò davanti, come qualcuno che stesse meditando profondamente sull’irrimediabile precarietà dell’esistenza, sulla vanità di tutti i

sogni e di tutte le speranze, sulla fragilità assoluta delle glorie mondane e divine. Era talmente assorto e concentrato che non diede neanche mostra di essersi accorto dell’arrivo delle guide e della mezza dozzina di persone, o poco più, che accompagnavano il funerale. Non si mosse per tutto il tempo che durarono l’apertura della fossa, la discesa della cassa, il riempimento del buco, la formazione del solito monticello con la terra avanzata. Non si mosse quando una delle due guide piantò la targa di metallo nera con il numero della tomba in bianco. Non si mosse quando l’automobile delle guide e il carro funebre si allontanarono, non si mosse per quegli scarsi due minuti durante i quali gli accompagnatori si trattennero accanto alla tomba pronunciando parole inutili e asciugando qualche lacrima, non si mosse quando le due automobili su cui erano venuti si misero in movimento e attraversarono il ponte. Non si mosse fino a che non rimase da solo. Poi andò a prendere il numero che corrispondeva alla donna sconosciuta e lo collocò sulla tomba nuova. E il numero di quest’ultima andò a prendere il posto dell’altro. Lo scambio era fatto, la verità era divenuta menzogna. In ogni caso, potrà comunque accadere che il pastore, domattina, trovando una nuova tomba, sposti senza saperlo il numero che vi si legge sulla tomba della donna sconosciuta, un’ipotesi ironica in cui la menzogna, all’apparenza ripetendo se stessa, tornerebbe a essere verità. Le vie del caso sono infinite. Il Signor José si avviò verso casa. Strada facendo, entrò in una pasticceria. Prese un cappuccino e un toast. Non resisteva più alla fame. 20. Deciso a recuperare il sonno perduto, il Signor José si infilò a letto appena arrivato a casa, ma non erano ancora trascorse due ore che era di nuovo sveglio. Aveva fatto un sogno strano, enigmatico, si era visto nel cimitero, in mezzo a una moltitudine di pecore, talmente tante che a stento lasciavano vedere i rilievi delle tombe, e ciascuna di esse aveva in testa un numero che cambiava continuamente, ma erano tutte uguali, e quindi non si riusciva a capire se fossero le pecore a cambiare di numero o se fossero i numeri a cambiare di pecora. Si udiva una voce che gridava, Sono qui, sono qui, non poteva provenire dalle pecore perché hanno smesso di parlare un mucchio di tempo fa, né del resto potevano essere le tombe perché non c’è memoria che qualcuna abbia mai parlato, eppure la voce, insistente, continuava a chiamare, Sono qui, sono qui, il Signor José guardava in quella direzione e vedeva solo i musi sollevati degli animali, poi le stesse parole gli risuonavano alle spalle, o a destra, o a sinistra, Sono qui, sono qui, e lui si voltava rapidamente, ma non riusciva a scoprire da dove provenivano. Il Signor José si tormentava, voleva svegliarsi e non ce la faceva, il sogno proseguiva, adesso era il pastore che compariva con il cane, allora il Signor José pensò, Non c’è niente che questo pastore non sappia, sarà lui a dirmi di chi è questa voce, ma il pastore non parlò, si limitò a fare un gesto con il bastone sopra la testa, il cane andò ad aggirare le pecore obbligandole a muoversi verso un ponte su cui passavano silenziosamente delle automobili con certe insegne luminose che si accendevano e spegnevano e che dicevano, Seguimi, Seguimi, Seguimi, dopo un attimo il gregge scomparve, scomparve il cane, scomparve il pastore, rimase soltanto il suolo del cimitero ricoperto di

numeri, gli stessi numeri che prima si trovavano sulla testa delle pecore, ma adesso erano tutti riuniti, tutti attaccati in una spirale ininterrotta di cui egli stesso era il centro, e quindi non si poteva distinguere dove cominciava uno e dove finiva l’altro. Angosciato, in un bagno di sudore, il Signor José si svegliò dicendo, Sono qui. Teneva le palpebre chiuse, era semicosciente, ma ripeté due volte con forza, Sono qui, Sono qui, poi aprì gli occhi sull’angusto spazio in cui viveva da tanti anni, vide il soffitto basso, dall’intonaco crepato, il pavimento con le assi incurvate, il tavolo e le due sedie in mezzo alla stanza, ammesso che un tale termine abbia senso in un luogo come questo, l’armadio dove conservava le notizie e le immagini delle celebrità, il cantuccio che dava nella cucina, il vano che fungeva da bagno, fu allora che disse, Devo scoprire un modo per liberarmi da questa follia, si riferiva ovviamente alla donna, la casa, poveraccia, non ne aveva nessuna colpa, era soltanto una casa triste. Per paura che il sogno si ripresentasse, il Signor José non tentò di riaddormentarsi. Se ne stava sdraiato supino, a fissare il soffitto, in attesa che questo gli domandasse, Perché mi stai guardando, ma il soffitto non gli badò, si limitò a osservarlo senza cambiare espressione. Il Signor José rinunciò ad aspettarsi un aiuto dal soffitto, il problema doveva risolverlo da solo, e il modo migliore era forse quello di convincersi che non c’era nessun problema, Morta la bestia, fine della pestilenza, fu il detto poco rispettoso che gli uscì di bocca, chiamare bestia pestilenziale la donna sconosciuta, dimenticando per un momento che ci sono dei veleni talmente lenti che finiscono per produrre il loro effetto quando ormai non ci ricordiamo più della loro origine. Ma poi, ripresosi immediatamente, mormorò, Attenzione, tante volte la morte è un veleno lento, e poi si domandò, Ma quella donna, quando e perché avrà cominciato a morire. Solo a quel punto il soffitto, senza che apparentemente ci fosse alcun nesso, diretto o indiretto, con quello che aveva appena udito, uscì dalla sua indifferenza per ricordare, Ci sono perlomeno tre persone con cui non hai parlato, Chi sono, domandò il Signor José, I genitori e l’ex marito, Veramente non sarebbe una cattiva idea andare a parlare con i suoi genitori, all’inizio ci ho anche pensato, ma ho deciso di rimandarlo a un’altra occasione, O lo fai adesso o mai più, per il momento ti puoi ancora divertire a fare un altro po’ di strada, prima di sbattere definitivamente il naso contro il muro, Se non te ne stessi lì aggrappato tutto il tempo, da buon soffitto che sei, sapresti che non è stato un divertimento, Ma è stato pur sempre un diversivo, Qual è la differenza, Vai a cercarla nei dizionari, ci sono apposta, L’ho domandato tanto per domandarlo, chiunque sa che una manovra di diversione non è una manovra di divertimento, E cosa mi dici dell’altro, L’altro chi, L’ex marito, probabilmente sarà lui la persona che ti potrà raccontare più cose riguardo questa tua donna sconosciuta, immagino che la vita matrimoniale, la vita in comune, sia come una specie di lente di ingrandimento, immagino che non debbano esserci riserve o segreti in grado di resistere per lungo tempo al microscopio di un’osservazione continua, C’è chi dice, al contrario, che quanto più si guarda meno si vede, comunque sia non credo valga la pena di andare a parlare con quell’uomo, Hai paura che si metta a raccontarle delle cause del divorzio, non vuoi essere costretto a udire nulla che vada a scapito della tua donna, In genere le persone non riescono a essere giuste, né con se stesse, né con gli altri, e quindi quasi sicuramente mi racconterebbe la storia in modo da

avere tutta la ragione, Intelligente analisi, non c’è dubbio, Non sono stupido, In effetti, stupido non lo sei, il fatto è che ci metti troppo tempo a capire le cose, soprattutto le più semplici, Per esempio, Che non avevi nessun motivo per andare in cerca di quella donna, a meno che, A meno che, che cosa, A meno che non si trattasse di amore, Bisogna proprio essere un soffitto per avere un’idea tanto assurda, Credo di averti già detto che i soffitti delle case sono l’occhio multiplo di Dio, Non me ne ricordo, Se non te l’ho detto con queste precise parole, te lo dico adesso, Allora dimmi anche come poteva piacermi una donna che non conoscevo, che non avevo mai visto, La domanda è pertinente, senza dubbio, ma solo tu potrai darle la risposta, È un’idea che non ha né capo né coda, Che abbia il capo o abbia la coda è indifferente, io ti sto parlando di un’altra parte del corpo, del cuore, quello che voi affermate sia il motore e la sede degli affetti, Ti ripeto che non poteva piacermi una donna che non conosco, che non ho mai visto, se non in qualche vecchia foto, Potevi volerla vedere, volerla conoscere, e questo, che tu sia d’accordo o no, sarebbe già un piacere, Fantasie di soffitto, Fantasie tue, di uomo, non mie, Sei presuntuoso, credi di sapere tutto quanto mi riguarda, Non tutto, ma qualche cosa dovrò pure averla appresa dopo tanti anni di vita in comune, scommetto che non avevi mai pensato che tu e io viviamo insieme, la grande differenza fra noi è che tu mi presti attenzione solo quando hai bisogno di consigli e alzi gli occhi quassù, mentre io passo tutto il tempo a guardarti, L’occhio di Dio, Prendi le mie metafore sul serio se vuoi, ma non ripeterle come se fossero tue. Dopo di ciò il soffitto decise di tacere, aveva capito che i pensieri del Signor José erano già rivolti alla visita che avrebbe fatto ai genitori della donna sconosciuta, l’ultimo passo prima di sbattere con il naso contro il muro, espressione altrettanto metaforica che significa, Sei arrivato alla fine. Il Signor José si alzò dal letto, andò a vestirsi, si preparò qualcosa da mangiare e, dopo aver così recuperato il vigore fisico, fece appello a quello morale per telefonare, con l’indispensabile freddezza burocratica, ai genitori della donna sconosciuta, prima di tutto per sapere se erano in casa, poi per domandare se potevano, quel giorno stesso, ricevere un impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe che aveva bisogno di trattare con loro una questione relativa alla figlia scomparsa. Se si fosse trattato di un’altra chiamata qualsiasi il Signor José sarebbe uscito per parlare dalla cabina pubblica che si trovava sull’altro lato della strada, ma in questo caso c’era il pericolo che, nel rispondere, si accorgessero del rumore della moneta che cadeva nell’apparecchio, perfino l’individuo meno sospettoso avrebbe di certo voluto spiegazioni sul motivo per cui un impiegato della Conservatoria Generale stava telefonando da una cabina, e per giunta di domenica, su questioni di lavoro. Apparentemente la soluzione non era lontana dal Signor José, gli sarebbe bastato entrare furtivamente ancora una volta in Conservatoria e usare il telefono sul tavolo del capo, ma il rischio di un’azione del genere non sarebbe stato minore, visto che dal resoconto delle telefonate, inviato tutti i mesi dalla centrale e verificato numero per numero dal conservatore, sarebbe risultata per forza la comunicazione clandestina, Che cos’è questa chiamata, fatta da qui la domenica, avrebbe domandato il conservatore ai suoi vice, e senza neanche aspettare una risposta avrebbe ordinato, Si proceda con l’inchiesta,

immediatamente. Risolvere il mistero della chiamata segreta sarebbe stata la cosa più facile del mondo, si trattava solo di rifare il numero sospetto e ascoltare l’informazione, Sissignore, quel giorno ci ha telefonato un impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, e non solo ha telefonato, ma è pure venuto, voleva sapere le ragioni per cui nostra figlia si è suicidata, ha dichiarato che serviva per la statistica, Per la statistica, Sissignore, per la statistica, o perlomeno è stato quello che ci ha detto, Benissimo, adesso mi ascolti con la massima attenzione, A disposizione, In vista del completo chiarimento di questo caso è indispensabile che lei, signora, e suo marito, siate disposti a collaborare con l’autorità conservatoriale, Cosa dobbiamo fare, Presentatevi domani in Conservatoria a identificare l’impiegato che è venuto a farvi visita, Ci saremo, Verrà a prendervi una macchina. L’immaginazione del Signor José non si limitò a creare questo inquietante dialogo, una volta concluso quest’ultimo passò alle raffigurazioni mentali di quello che sarebbe successo dopo, i genitori della donna sconosciuta che entravano in Conservatoria e indicavano, È quello, oppure, dentro la macchina che era andata a prenderli, assistevano all’entrata degli impiegati e di colpo lo indicavano, Era lui. Il Signor José mormorò, Sono perduto, non ho nessuna via d’uscita. Sì, ce l’avrebbe avuta, e comoda, e definitiva, se avesse rinunciato ad andare a casa dei genitori della donna sconosciuta, o se ci fosse andato senza avvisare prima, se avesse bussato semplicemente alla porta e detto, Buonasera, sono un impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, scusate se sono venuto a disturbarvi di domenica, ma il lavoro in Conservatoria si è accumulato a tal punto, con tanta gente che nasce e muore, che abbiamo dovuto adottare uno schema lavorativo con gli straordinari permanenti. Sarebbe stato questo, senza alcun dubbio, il procedimento più intelligente, quello che poteva dare al Signor José il massimo di garanzia possibile quanto a sicurezza futura, ma le ultime ore vissute, quell’enorme cimitero con le sue braccia da polpo distese, la notte di luna livida e di ombre in movimento, il ballo convulso dei fuochi fatui, il pastore vecchio e le pecore, il cane, silenzioso come se gli avessero asportato le corde vocali, le tombe con i numeri scambiati, a quanto pare tutto ciò gli aveva confuso i pensieri, in genere abbastanza lucidi e chiari per tirare avanti, altrimenti non si capirebbe per quale motivo continui a incaponirsi in quella sua idea di telefonare, e tantomeno sarebbe comprensibile che, davanti a se stesso, pretenda di giustificarla con la puerile argomentazione che una telefonata previa gli faciliterà la strada per ottenere le informazioni. Pensa addirittura di possedere una formula capace di dissipare fin dall’arrivo qualsiasi diffidenza, che sarebbe quella di dire, come sta già dicendo, seduto sulla sedia del capo, Qui parla il servizio di Conservatoria Generale dell’Anagrafe, e quella parola, servizio, lo crede lui, è il grimaldello che gli aprirà tutte le porte, e in definitiva non sembrava avere del tutto torto, all’altro capo gli stanno rispondendo, Certamente, venga quando vuole, oggi non usciamo di casa. Un ultimo residuo di buon senso ha fatto ancora passare per la testa del Signor José il pensiero che molto probabilmente aveva appena fatto il nodo alla corda con cui si sarebbe impiccato, ma la follia l’ha tranquillizzato, gli ha detto che il rapporto delle chiamate tarderà di qualche settimana a essere inviato dalla centrale e che magari, chissà, in quel periodo il conservatore potrebbe essere in ferie, o

malato a casa, o semplicemente potrebbe decidere di ordinare a uno dei vice di verificare i numeri, non sarebbe la prima volta, il che significherebbe che quasi sicuramente il delitto non verrebbe scoperto, tenendo conto che a nessuno dei vice va a genio l’incarico, Insomma, finché c’è vita c’è speranza, ha mormorato il Signor José per concludere, rassegnato ai dettami del destino. Rimise l’elenco telefonico nel punto preciso del tavolo, allineandolo rigorosamente con l’angolo del ripiano, pulì il ricevitore con il fazzoletto per cancellare le impronte digitali ed entrò a casa. Cominciò con il lucidarsi le scarpe, poi spazzolò il vestito, indossò una camicia pulita, la cravatta migliore, e aveva già in mano il pomello della porta quando si ricordò della credenziale. Presentarsi a casa dei genitori della donna sconosciuta e dire semplicemente, Sono la persona che ha telefonato dalla Conservatoria, non avrà, di sicuro, quanto a forza di convinzione e autorità, lo stesso effetto che mettergli davanti al naso un foglio timbrato, bollato e firmato che conferiva al latore pieni diritti e poteri nell’esercizio delle sue funzioni e per la completa esecuzione della missione di cui era stato incaricato. Aprì l’armadio, cercò la pratica del vescovo e prese la credenziale, ma, nel darle uno sguardo, si rese conto che non serviva. In primo luogo per via della data, anteriore al suicidio, e in secondo luogo per gli stessi termini in cui era redatta, per esempio quell’ordine e quell’incarico di accertare e appurare tutto quanto riguardasse la vita passata presente e futura della donna sconosciuta, Non so neanche dove si trovi adesso, pensò il Signor José, e, quanto a una vita futura, in quel momento si ricordò di quella strofa popolare che dice, Quel che c’è al di là della morte, nessuno l’ha mai visto né lo vedrà, dei tanti che ci sono stati, non uno è mai tornato qua. Stava per rimettere la credenziale a posto, ma all’ultimo istante dovette obbedire ancora una volta allo stato d’animo che in questo periodo lo obbliga a concentrarsi in maniera ossessiva su un’idea e a persistervi finché non la vede realizzata. Dal momento che aveva pensato alla credenziale, doveva per forza portare con sé una credenziale. Rientrò in Conservatoria, si avvicinò all’armadio degli stampati, ma si era dimenticato che l’armadio, dall’inizio dell’inchiesta, era sempre chiuso. Per la prima volta nella sua vita di individuo pacifico provò un impeto di furia, al punto che gli passò per la mente di dare un cazzotto sul vetro e di mandare al diavolo le conseguenze. Per fortuna gli sovvenne in tempo che il vice incaricato di vegliare sul consumo degli stampati teneva la chiave dell’armadio relativo in un cassetto del tavolo, e che i cassetti del vicecapo, secondo la rigorosa norma della Conservatoria Generale, non potevano essere chiusi, L’unico, qui, che ha il diritto di avere dei segreti, sono io, aveva detto il capo, e la sua parola era legge, che almeno questa volta non si applicava a funzionari e scritturali ausiliari per la semplice ragione che costoro, come si è visto, lavorano su tavoli semplici, senza cassetti. Il Signor José si avvolse la mano destra nel fazzoletto per non lasciare ditate che l’avrebbero denunciato, afferrò la chiave e aprì l’armadio degli stampati. Prese un foglio di carta con il timbro della Conservatoria, chiuse l’armadio, andò a riporre la chiave nel cassetto del vice, in quel momento la serratura della porta esterna dell’edificio cigolò, si udì la stanghetta scivolare una volta, per un attimo il Signor José rimase paralizzato, ma immediatamente, come nei vecchi sogni dell’infanzia quando, senza peso, volava sopra i giardini e i tetti, si mosse pianissimo in punta di piedi, quando la stanghetta della serratura fu

completamente girata il Signor José era ormai dentro casa, ansimante, come se il cuore gli fosse balzato in gola. Un lungo minuto trascorse finché al di là della porta si udì qualcuno tossire, Il capo, pensò il Signor José, sentendo che le gambe gli si rammollivano, ce l’ho fatta per un pelo. Si udì nuovamente la tosse, più forte, forse più vicina, ma con la differenza che adesso sembrava deliberata, intenzionale, come se chi era entrato stesse annunciando la propria presenza. Il Signor José guardava terrorizzato la serratura della sottile porta che lo separava dalla Conservatoria. Non aveva avuto il tempo di girare la chiave, la porta era chiusa solo con il chiavistello, Se viene, se gira la maniglia, se entra, gridava una voce dentro la testa del Signor José, ti coglie in flagrante, con quel foglio in mano, la credenziale sul tavolo, la voce continuava a ripetere solo questo, quello scritturale ausiliario gli faceva pena, non gli parlava delle conseguenze. Il Signor José indietreggiò lentamente fino al tavolo, afferrò la credenziale e andò a nasconderla, insieme al foglio preso dall’armadio, fra la biancheria da letto, ancora in disordine. Poi si sedette e rimase ad aspettare. Se gli avessero domandato che cosa aspettava, non avrebbe saputo rispondere. Trascorse un’ora e il Signor José cominciò a spazientirsi. Dall’altro lato della porta non era più venuto alcun rumore. I genitori della donna sconosciuta probabilmente stavano già trovando strano quel ritardo del funzionario della Conservatoria, si parte dal principio che l’urgenza è la caratteristica più importante delle questioni di cui sia incaricato un servizio, di qualsiasi natura, acqua, gas, elettricità o suicidio. Il Signor José aspettò un altro quarto d’ora senza muoversi dalla sedia. Dopodiché si rese conto di aver preso una decisione, non si trattava solo di seguire un’idea fissa come al solito, questa era una vera e propria decisione, anche se non avrebbe saputo spiegare come l’aveva presa. Disse quasi a voce alta, Ciò che deve accadere, accadrà, la paura non risolve niente. Con una serenità di cui non era più sorpreso, andò a prendere la credenziale e il foglio di carta, si sedette al tavolo, si mise davanti il calamaio e, copiando, abbreviando e adattando, redasse il nuovo documento, Rendo noto, come Conservatore di questa Conservatoria Generale dell’Anagrafe, a tutti coloro che, civili o militari, privati o pubblici, vedano, leggano e consultino questa credenziale, che il signor Tal dei Tali ha ricevuto direttamente da me l’ordine e l’incarico di accertare e appurare tutto quanto sia riconducibile alle circostanze del suicidio della signora Tal dei Tali, in particolare le sue cause, sia prossime che remote, e da questo punto in poi il testo rimase più o meno identico, fino al tronfio imperativo finale, Si esegua. Purtroppo, sul foglio non poteva esserci il timbro a secco, reso inaccessibile dall’entrata del capo nella Conservatoria, ma ciò che contava era l’autorità espressa in ogni parola. Il Signor José nascose la prima credenziale fra i ritagli del vescovo, infilò nella tasca interna della giacca quella che aveva appena scritto e guardò con aria di sfida la porta di comunicazione. Al di là c’era sempre silenzio. Allora il Signor José mormorò, Tant’è che tu ci sia o che non ci sia. Avanzò sulla porta e la chiuse a chiave, bruscamente, con due rapidi giri del polso, zac, zac. Un tassì lo portò a casa dei genitori della donna sconosciuta. Suonò il campanello, gli aprì una signora che dimostrava una sessantina d’anni o giù di lì, più giovane dunque della signora del pianterreno a destra, con la quale il marito l’aveva tradita trent’anni prima, Sono la persona che ha telefonato dalla

Conservatoria Generale, disse il Signor José, Prego, si accomodi, la stavamo aspettando, Mi scusi se non sono venuto subito, ma ho dovuto occuparmi ancora di una questione molto urgente, Non ha importanza, entri, si accomodi, le faccio strada. La casa aveva un’aria cupa, pesanti tendaggi celavano le finestre e le porte, i mobili erano massicci, sulle pareti annerivano quadri con paesaggi che non dovevano essere mai esistiti. La padrona di casa fece entrare il Signor José in quello che sembrava essere uno studio, dove aspettava un uomo alquanto più vecchio di lei, È il signore della Conservatoria, disse la donna, La prego di accomodarsi, lo invitò l’uomo, indicando una sedia. Il Signor José estrasse di tasca la credenziale, tenendola in mano mentre diceva, Sono spiacente di essere venuto a disturbarvi nel vostro lutto, ma il servizio ce lo richiede, questo documento vi dirà con la massima precisione in cosa consiste la mia missione qui. Consegnò il foglio all’uomo, che lo lesse tenendolo molto vicino agli occhi e alla fine disse, Dev’essere importantissima la sua missione, per giustificare un documento redatto in questi termini, È lo stile della Conservatoria, anche quando si tratta di una missione semplice come questa, di indagare sulle cause di un suicidio, Le sembra poco, Non mi interpreti male, volevo solo dire che, qualunque sia la missione di cui ci incaricano e in cui si ritenga necessario presentare una credenziale, è codesto lo stile, Una retorica dell’autorità, Può anche definirla così. Intervenne la donna, domandando, E cosa vuol sapere da noi la Conservatoria, La causa immediata del suicidio, in primo luogo, E in secondo luogo, domandò l’uomo, Gli antefatti, le circostanze, gli indizi, tutto ciò che possa aiutarci a comprendere meglio l’accaduto, Non è sufficiente per la Conservatoria sapere che mia figlia si è ammazzata, Quando ho detto che avevo bisogno di parlare con voi per ragioni di statistiche, stavo semplificando la questione, Adesso potrà spiegarsi, È passato il tempo in cui ci accontentavamo dei numeri, oggigiorno si vuole invece conoscere, il più esaurientemente possibile, il quadro psicologico in cui si sviluppa il processo suicida, A che scopo, domandò la donna, se questo non restituisce la vita a mia figlia, L’idea è di stabilire dei parametri di intervento, Non capisco, disse l’uomo. Il Signor José sudava, le cose si stavano complicando più di quanto aveva previsto, Che caldo, esclamò, Vuole un bicchiere d’acqua, domandò la donna, Se non è troppo disturbo, Macché, la donna si alzò e uscì, per tornare dopo un minuto. Mentre beveva, il Signor José decise che doveva cambiare tattica. Posò il bicchiere sul vassoio che la donna teneva in mano e disse, Immaginate che vostra figlia non si sia ancora suicidata, immaginate che l’indagine in cui la Conservatoria Generale dell’Anagrafe si trova impegnata avesse già permesso di definire certi consigli e raccomandazioni capaci magari, purché applicati in tempo, di bloccare quello che prima ho designato come processo suicida, Sarebbero quei parametri di intervento di cui diceva, domandò l’uomo, Precisamente, disse il Signor José, e senza lasciare il tempo per altri commenti sferrò la prima stoccata, Se non abbiamo potuto impedire che vostra figlia si suicidasse, forse, con la collaborazione vostra e di altre persone in situazione identica, possiamo evitare molti dispiaceri e molte lacrime. La donna piangeva, mormorando, Povera figlia mia, mentre l’uomo si asciugava gli occhi passandovi sopra, con violenza repressa, il dorso della mano. Il Signor José sperava di non essere costretto a usare un ultimo rimedio, che sarebbe stata, pensò, la lettura della credenziale

a voce alta e severa, parola per parola, come porte che si chiudessero l’una dietro l’altra, fino a lasciare un’unica via d’uscita a chi stava sentendo, compiere immediatamente il dovere di parlare. Se questa possibilità fosse venuta a mancare, non gli sarebbe rimasto altro da fare che farfugliare in fretta una scusa per ritirarsi il più elegantemente possibile. E pregare perché a questo renitente padre della donna sconosciuta non venisse in mente di telefonare alla Conservatoria per chiedere chiarimenti sulla visita di un impiegato che si chiamava Signor José, il resto del nome non lo ricordo. Non fu necessario. L’uomo ripiegò la credenziale e gliela restituì. Poi disse, Siamo a sua disposizione. Il Signor José tirò un sospiro di sollievo, finalmente aveva trovato la strada per affrontare l’argomento, Sua figlia ha lasciato qualche lettera, Nessuna lettera, nessuna parola, Vuol dire che si è suicidata così, tanto per, Non sarà stato certo tanto per, avrà avuto di sicuro le sue ragioni, ma noi non le conosciamo, Mia figlia era infelice, disse la donna, Nessuno che sia felice si suicida, tagliò corto il marito impaziente, E perché era infelice, domandò il Signor José, Non lo so, già da ragazza era triste, io le chiedevo di dirmi che cosa aveva e lei mi rispondeva sempre con le stesse parole, non ho niente, mamma, In tal caso la causa del suicidio non è stato il divorzio, Al contrario, se mai ho potuto vedere mia figlia contenta è stato quando si è separata, Non stava bene con il marito, Né bene né male, è stato un matrimonio come tanti, Chi ha chiesto il divorzio, Lei, Per qualche motivo concreto, A quanto ne sapessimo noi, no, è stato come se fossero giunti tutti e due alla fine di una strada, Com’è lui, Normale, è una persona molto normale, con un buon carattere, non ci ha mai dato motivo di lamentele, E la amava, Credo di sì, E lei, lo amava, Credo di sì, E nonostante ciò non erano felici, Non lo sono mai stati, Che strana situazione, La vita è strana, disse l’uomo. Si fece silenzio, la donna si alzò e uscì. Il Signor José rimase interdetto, non sapeva se era meglio aspettare il rientro della moglie o proseguire la conversazione. Temeva che l’interruzione potesse aver turbato l’interrogatorio, la tensione nell’aria si poteva quasi toccare. Il Signor José si domandava se quelle parole dell’uomo, La vita è strana, non potessero magari essere un’eco della sua vecchia relazione con la signora del pianterreno a destra, e se la brusca uscita della donna non potesse essere stata la risposta di chi in quel momento non poteva darne altra. Il Signor José prese il bicchiere, bevve un altro sorso d’acqua per guadagnare tempo, poi fece una domanda a casaccio, Sua figlia lavorava, Sì, era insegnante di matematica, Dove, Nello stesso istituto dove aveva studiato prima di andare all’università. Il Signor José afferrò di nuovo il bicchiere, quasi lo fece cadere per la concitazione, farfugliò ridicolmente, Scusi, scusi, e di colpo gli mancò la voce, l’uomo lo guardava con espressione di sdegnosa curiosità mentre lui beveva, gli sembrava che la Conservatoria Generale dell’Anagrafe, a giudicare dal campione, fosse piuttosto malmessa quanto a impiegati, non valeva la pena di presentarsi lì con una credenziale come quella e poi comportarsi come un imbecille. La donna entrò nel momento in cui il marito stava domandando ironicamente, Vuole forse che le dia il nome dell’istituto, magari potrebbe esserle di qualche utilità per la buona riuscita della sua missione, La ringrazio molto. L’uomo si chinò sulla scrivania, scrisse su un foglio il nome dell’istituto e l’indirizzo, lo consegnò con un gesto secco al Signor José, ma la persona che adesso aveva davanti a sé non era più la

stessa di qualche minuto prima, il Signor José aveva recuperato la serenità nel momento in cui si era ricordato di conoscere un segreto di questa famiglia, un vecchio segreto che quei due non avrebbero potuto neanche immaginare che lui conoscesse. Proprio da questo pensiero nacque la domanda che fece subito dopo, Sapete se vostra figlia teneva un diario, Non credo, perlomeno non ho trovato niente del genere, disse la madre, Ma ci saranno pure dei fogli scritti, annotazioni, appunti, ci sono sempre, se mi deste l’autorizzazione per uno sguardo forse si potrebbe trovare qualcosa di interessante, Ancora non abbiamo tolto niente da casa, disse il padre, e non so neanche quando lo faremo, La casa di sua figlia era in affitto, No, era di proprietà, Capisco. Ci fu una pausa, il Signor José dispiegò lentamente la credenziale, la guardò da cima a fondo come per accertarsi dei poteri di cui si poteva ancora servire, poi disse, Se mi permetteste di entrare, in vostra presenza, è chiaro, No, la risposta fu secca, tagliente, La mia credenziale, ricordò il Signor José, La sua credenziale per adesso si accontenterà delle informazioni che ha già ottenuto, disse l’uomo, e aggiunse, Possiamo, se vuole, continuare la nostra conversazione domani, in Conservatoria, adesso mi scusi, ho altre questioni da risolvere, Non è necessario che venga in Conservatoria, quanto ho sentito sugli antefatti del suicidio mi sembra sufficiente, rispose il Signor José, ma ho ancora tre domande da fare, Dica, Com’è morta sua figlia, Ha ingerito una quantità eccessiva di pasticche di sonnifero, Si trovava da sola in casa, Sì, E il marmo sulla tomba, l’avete già messo, Ce ne stiamo occupando, perché questa domanda, Niente, per semplice curiosità. Il Signor José si alzò. L’accompagno, disse la donna. Quando furono nel corridoio, lei alzò un dito alle labbra e gli fece segno di aspettare. Dal cassetto di un tavolino che era lì, accostato alla parete, prese senza fare rumore un piccolo mazzo di chiavi. Poi, mentre apriva la porta, lo mise in mano al Signor José, Sono di mia figlia, mormorò, uno di questi giorni passo in Conservatoria a ritirarle. E avvicinandosi ancora di più, quasi in un sospiro, gli comunicò l’indirizzo. 21. Il Signor José dormì come un sasso. Dopo essere rincasato dalla rischiosa ma ben riuscita visita ai genitori della donna sconosciuta, voleva ancora riportare nel quaderno gli avvenimenti straordinari del fine settimana, ma tanto era il sonno che non riuscì ad andare oltre alla conversazione con lo scritturale ausiliario del Cimitero Generale. Se ne andò a letto senza cenare, si addormentò in meno di due minuti, e quando aprì gli occhi, al primo chiarore dell’alba, scoprì che, senza sapere né come né quando, aveva preso la decisione di non andare a lavorare. Era lunedì, proprio il giorno peggiore per mancare al lavoro, specialmente nel caso di uno scritturale ausiliario. Qualunque fosse il motivo addotto, e per quanto convincente potesse essere in altra occasione, era considerato sospetto di non essere altro che un falso pretesto, destinato a giustificare il prolungamento dell’indolenza domenicale in un giorno legale e solitamente dedicato al lavoro. Dopo le successive e sempre più gravi irregolarità di comportamento commesse da quando aveva cominciato a cercare la donna sconosciuta, il Signor José è consapevole che l’assenza dal servizio potrebbe convertirsi nella goccia che farà traboccare una volta per tutte la pazienza del capo. Questa minacciosa prospettiva, però, non

è bastata a diminuire la fermezza della sua decisione. Per due buonissime ragioni, quello che il Signor José deve fare non può aspettare un pomeriggio libero. La prima delle ragioni è che uno di questi giorni la madre della donna sconosciuta verrà in Conservatoria per recuperare le chiavi, la seconda è che l’istituto, come il Signor José sa benissimo, e lo sa per dura esperienza, nei fine settimana è chiuso. Nonostante la decisione di non andare a lavorare, il Signor José si è alzato molto presto. Voleva trovarsi ben lontano da lì all’apertura della Conservatoria, non sia mai che il suo vicecapo diretto pensi di mandare qualcuno a bussare alla porta, per domandargli se è di nuovo malato. Mentre si faceva la barba, si mise a riflettere se era preferibile cominciare andando a casa della donna sconosciuta, oppure all’istituto, ma finì per propendere per l’istituto, quest’uomo fa parte di quella massa di gente che rimanda sempre a dopo la cosa più importante. Si domandò anche se doveva portare con sé la credenziale, o se al contrario poteva essere pericoloso mostrarla, si tenga conto che il direttore di un istituto, per dovere del proprio incarico, dev’essere una persona istruita e informata, che ha letto molto, immaginiamo che i termini nei quali è redatto il documento gli sembrino insoliti, stravaganti, iperbolici, immaginiamo che pretenda di conoscere il motivo per cui gli manca il timbro a secco, la prudenza gli suggerisce di lasciare questa credenziale accanto all’altra, fra gli innocenti incartamenti del vescovo, Il tesserino che mi accredita come impiegato della Conservatoria Generale dovrà essere più che sufficiente, concluse il Signor José, in fin dei conti vado solo a confermare un dato concreto, obiettivo, fattuale, che è stata insegnante di matematica in quell’istituto una donna che si è suicidata. Era ancora molto presto quando uscì di casa, i negozi erano chiusi, senza luci, con le saracinesche abbassate, il traffico automobilistico si notava appena, probabilmente solo adesso il più mattiniero degli impiegati della Conservatoria Generale si starà alzando dal letto. Per non farsi vedere nelle vicinanze, il Signor José andò a nascondersi in un giardino che c’era due isolati più avanti nel viale principale, quello che aveva percorso l’autobus che l’ha portato a casa della signora del pianterreno a destra, quel tardo pomeriggio in cui aveva visto il capo entrare in Conservatoria. A meno di non sapere in anticipo che era lì, nessuno sarebbe riuscito a scorgerlo in mezzo agli arbusti, fra i rami bassi dei cespugli. Per via dell’umidità notturna il Signor José non si sedette su una panchina, passò il tempo passeggiando per i vialetti del giardino, si distrasse guardando i fiori e domandandosi che nomi potevano avere, non c’è da sorprendersi che di botanica ne sappia tanto poco chi ha passato tutta la vita infilato fra quattro mura a respirare l’odore pungente di vecchie scartoffie, tanto più pungente ogni volta che si sente nell’aria quella fragranza di crisantemo e di rosa di cui si è fatta menzione nella prima pagina di questo racconto. Quando l’orologio segnò l’ora di apertura al pubblico della Conservatoria Generale il Signor José, ormai in salvo da possibili cattivi incontri, si mise sulla via dell’istituto. Non aveva fretta, la giornata era tutta sua, perciò decise di andare a piedi. Visto che partiva dal giardino, ebbe qualche dubbio sulla direzione da seguire, pensò che se avesse comprato la pianta della città, com’era sua intenzione, adesso non avrebbe avuto bisogno di chiedere a un vigile un aiuto per orientarsi, ma la verità è che la situazione, la legge a dar consiglio al crimine, gli suscitò un

certo piacere sovversivo. Il caso della donna sconosciuta era arrivato alla fine, mancava solo questa indagine nell’istituto, poi l’ispezione a casa, se gli fosse rimasto un po’ di tempo sarebbe andato a fare una visitina alla signora del pianterreno a destra per raccontarle gli ultimi avvenimenti, e poi nient’altro. Si domandò come avrebbe vissuto da quel momento in poi, se sarebbe tornato alle sue collezioni di gente famosa, per qualche rapido secondo gli parve di avere davanti l’immagine di se stesso, seduto al tavolo la sera, a ritagliare notizie e fotografie con una pila di giornali e di riviste accanto, a intuire una celebrità che emergeva o che, al contrario, declinava, qualche volta, in passato, gli era accaduto di prevedere il destino di certe persone che poi erano diventate importanti, qualche volta era stato il primo a sospettare che gli allori di quest’uomo o di quella donna avrebbero cominciato ad avvizzire, a corrugarsi, a disfarsi in polvere, Tutto finisce nella spazzatura, disse il Signor José, senza capire in quel momento se stava pensando alle glorie perdute o alla sua collezione. Con il sole che batteva in pieno sulla facciata, gli alberi verdeggianti del cortile, le aiuole in fiore, niente faceva rammentare nell’aspetto dell’istituto quel tenebroso edificio dove questo Signor José è penetrato, in una notte di pioggia, con arrampicata ed effrazione. Adesso stava entrando dalla porta principale, diceva a una bidella, Ho bisogno di parlare con il direttore, no, non mi occupo di formazione, e non sono neanche un rappresentante di materiale scolastico, sono un impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, si tratta di una questione di servizio. La bidella comunicò con il telefono interno, informò qualcuno dell’arrivo del visitatore, poi disse, La prego di salire, il direttore è in segreteria, al secondo piano, Grazie tante, disse il Signor José, e cominciò a salire le scale tranquillamente, che la segreteria fosse al secondo piano già lo sapeva. Il direttore stava parlando con una donna che doveva essere la responsabile, le diceva, Ho bisogno del grafico domani stesso, e lei rispondeva, Ci conti pure, signor direttore, il Signor José si era fermato all’entrata, sperando che si accorgessero della sua presenza. Il direttore concluse la conversazione, lo guardò, solo allora il Signor José disse, Buonasera, direttore, poi, con il tesserino già in mano, fece due passi avanti, Come potrà verificare, sono un impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, vengo per una questione di servizio. Il direttore fece un gesto come per respingere il tesserino, poi domandò, Di cosa si tratta, È per via di un’insegnante, E cosa avrebbe a che vedere la Conservatoria Generale con gli insegnanti di questo istituto, Come insegnanti niente, ma con le persone che sono o sono state, La prego di spiegarsi, Stiamo lavorando a un’indagine sul fenomeno del suicidio, vuoi nei suoi aspetti psicologici vuoi nelle sue incidenze sociologiche, e io sono incaricato del caso di una donna che era insegnante di matematica in questo istituto e che si è suicidata. Il direttore assunse un’espressione contrita, Povera donna, disse, è una storia tristissima che nessuno di noi, fino a oggi, è riuscito a comprendere, Il primo atto a cui dovrò procedere, disse il Signor José, usando il linguaggio più ufficiale che poteva, sarà di confrontare gli elementi di identificazione che risultano dagli archivi della Conservatoria con l’iscrizione professionale dell’insegnante, Suppongo si riferisca al registro come elemento integrativo del nostro quadro di personale, Sissignore. Il direttore si rivolse all’incaricata della segreteria, Mi cerchi questo

modulo, Non l’avevamo ancora tolto dal cassetto, disse in tono di scusa la donna, mentre scorreva con le dita le schede, Eccolo, disse. Il Signor José sentì una brusca contrazione alla bocca dello stomaco, fu colto da un accenno di capogiro che per fortuna non andò oltre, in effetti il sistema nervoso di quest’uomo è in uno stato pietoso, ma dobbiamo riconoscere che ce n’è ben motivo, basta ripensare al fatto che ha avuto a portata di mano il modulo che gli sta per essere mostrato in questo momento, ah, se solo avesse aperto quel cassetto, quello con l’etichetta Professori, ma come poteva immaginare allora che quella ragazzina che stava cercando era venuta a insegnare matematica proprio nell’istituto in cui aveva studiato. Mascherando il turbamento, ma non il tremore delle mani, il Signor José finse di confrontare il modulo dell’istituto con la copia di quello della Conservatoria Generale, poi disse, È la stessa persona. Il direttore lo guardava con interesse, Non si sente bene, domandò, e lui rispose semplicemente, È naturale, non sono più giovane, Immagino che vorrà farmi alcune domande, Infatti, Venga con me, andiamo nel mio ufficio. Il Signor José sorrise dentro di sé mentre seguiva il direttore, Io non sapevo che il suo modulo era proprio lì, e tu non sai che ho passato una notte sul tuo divano. Entrarono nell’ufficio, il direttore l’avvisò, Non ho molto tempo, ma sono a sua disposizione, si accomodi, e indicò il divano che era servito da letto al visitatore, Desidererei sapere, disse il Signor José, se avete notato qualche alterazione nel suo abituale stato d’animo nei giorni precedenti il suicidio, Nessuna, è stata sempre una persona discreta, molto taciturna, Era una buona insegnante, Fra le migliori che l’istituto abbia avuto, Era in amicizia con qualche collega, Amicizia, in che senso, Amicizia, e basta, Era affabile, gentile con tutti, ma non credo che qualcuno qui possa dire di aver avuto con lei rapporti di amicizia, E gli alunni, la stimavano, Molto, Stava bene, A quanto credo di saperne io, sì, È strano, Che cosa è strano, Ho già parlato con i genitori, e tutto quanto ho udito dalle loro labbra, più quello che sto sentendo adesso, sembra indicare un suicidio senza spiegazione, Mi domando, disse il direttore, se il suicidio potrà mai avere spiegazione, Si riferisce a questo, Mi riferisco al suicidio in generale, A volte lasciano delle lettere, Certo, ma non so davvero se si potrà chiamare spiegazione ciò che vi si dice, la vita è piena di cose da spiegare, Questo è vero, Che spiegazione potrà avere, per esempio, quello che è successo qui pochi giorni prima del suicidio, E cos’è successo, Mi hanno forzato l’istituto, Sì, Come lo sa, Scusi, il mio sì voleva essere interrogativo, forse non gli ho dato l’intonazione sufficiente, in ogni caso questo genere di eventi sono generalmente facili da spiegare, Tranne quando il rapinatore sale da una tettoia, entra da una finestra dopo aver rotto il vetro, gira dappertutto, dorme sul mio divano, mangia quello che trova nel frigorifero, usa il materiale dell’infermeria, e poi se ne va senza portarsi via niente, Perché dice che ha dormito sul suo divano, Perché c’era per terra una coperta con cui ho l’abitudine di coprirmi le ginocchia per non prendere freddo, neanch’io sono più giovane, proprio come ha detto lei, Ha fatto la denuncia alla polizia, A che scopo, dal momento che non è stato rubato niente non ne valeva la pena, la polizia mi avrebbe detto che a loro tocca investigare sui delitti e non svelare dei misteri, È strano, non c’è dubbio, Abbiamo controllato dappertutto, tutte le stanze, la cassaforte era intatta, tutto era a posto, Eccetto la coperta, Sì, eccetto la coperta, e adesso mi dica lei se riesce a trovare una spiegazione,

Bisognerebbe domandarlo al rapinatore, lui dovrà saperlo, e dopo aver pronunciato queste parole il Signor José si alzò, Signor direttore, non le rubo altro tempo, la ringrazio per l’attenzione che si è degnato di prestare alla penosa questione che mi ha portato qui, Non credo di averla aiutata molto, Probabilmente aveva ragione quando ha detto che forse nessun suicidio può essere spiegato, Spiegato razionalmente, sia chiaro, È andato tutto come se la donna non avesse fatto altro che aprire una porta e uscire, O entrare, Sì, o entrare, a seconda del punto di vista, Eccole dunque un’eccellente spiegazione, Era una metafora, La metafora è sempre stato il miglior modo di spiegare le cose, Buongiorno, signor direttore, la ringrazio con tutto il cuore, Buongiorno, è stato un piacere parlare con lei, ovviamente non mi riferisco al triste argomento, bensì alla sua persona, Chiaro, sono modi di dire, L’accompagno alle scale. Mentre il Signor José stava già scendendo la seconda rampa, il direttore si ricordò che non gli aveva domandato come si chiamava, Non ha importanza, e subito dopo rifletté, è una storia conclusa. Non avrebbe potuto dire la stessa cosa il Signor José, lui doveva ancora fare l’ultimo passo, cercare e trovare a casa della donna sconosciuta una lettera, un diario, un semplice foglio di carta che avesse accolto lo sfogo, l’urlo, il non-ne-posso-più che ogni suicida ha il preciso dovere di lasciare dietro di sé prima di oltrepassare quella porta, perché chi rimane al di qua possa tacitare gli allarmi della propria coscienza dicendo, Poverino, aveva le sue ragioni. Lo spirito umano, tuttavia, quante altre volte bisognerà ripeterlo, è il luogo prediletto delle contraddizioni, né del resto si è osservato ultimamente che prosperino o semplicemente abbiano condizioni di esistenza possibili al di fuori di esso, e questa dev’essere la causa di quel girovagare del Signor José per la città, da una parte all’altra, da sopra a sotto, come sperduto senza una pianta né lo stradario, quando sa perfettamente cosa deve fare in quest’ultimo giorno, che domani sarà già un altro tempo, o che sarà lo stesso tempo ma diverso in un tempo uguale a questo, e la riprova che lui lo sa è il fatto che ha pensato, Dopo di ciò, chi sarò domani, che specie di scritturale ausiliario avrà la Conservatoria Generale dell’Anagrafe. Due volte passò davanti alla casa della donna sconosciuta, due volte non si fermò, aveva paura, non domandiamogli di cosa, questa contraddizione è tra le più frequenti, il Signor José vuole e non vuole, desidera e teme ciò che desidera, tutta la sua vita è stata così. Adesso, per guadagnare tempo, per rimandare ciò che sa inevitabile, ha pensato che prima deve pranzare, in qualche ristorante economico, come gli impone la magra borsa, ma soprattutto che sia lontano da questi posti, non sia mai che un vicino curioso possa sospettare delle intenzioni dell’uomo che è già passato due volte. Benché il suo aspetto non si distingua da quello che hanno abitualmente le persone oneste, certo è che non ci potranno mai essere solide garanzie su ciò che si vede, le apparenze ingannano molto, per questo le chiamiamo apparenze, ancorché nel caso in questione, prendendo in considerazione il peso dell’età e la fragile costituzione fisica, a nessuno verrebbe in mente di dire, per esempio, che il Signor José vive scalando case nottetempo. Dilungò il pranzo frugale più che poté, si alzò da tavola ben oltre le tre, e, senza fretta, come se trascinasse i piedi, cominciò ad avvicinarsi alla strada dove la donna sconosciuta aveva abitato. Prima di svoltare l’ultimo angolo si fermò, fece un respiro profondo, Non sono pauroso, pensò per farsi

coraggio, ma lo era come capita a tanta gente coraggiosa, valente per certe cose, codarda per altre, non sarà certo il fatto di aver passato una notte nel cimitero a togliergli adesso questo tremore alle gambe. Infilò la mano nella tasca esterna della giacca, palpeggiò le chiavi, una, quella della cassetta della posta, piccola, stretta, era da escludere per sua natura, le altre due erano quasi uguali, ma una era la chiave del portone d’ingresso, l’altra quella della porta dell’appartamento, speriamo che ci indovini subito, se nel palazzo c’è una portiera, è sicuramente una di quelle che mettono il naso fuori al minimo rumore, che spiegazione darà, potrà dire di essere lì con l’autorizzazione dei genitori della signora che si è suicidata, di essere venuto per l’inventario dei beni, Sono un impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, signora, eccole il mio tesserino e, come vede, mi hanno affidato le chiavi di casa. Il Signor José indovinò la chiave al primo tentativo, la custode della porta, se nel palazzo c’era, non comparve domandandogli, Dove va, signore, è proprio vero quello che si dice, che il miglior guardiano della vigna è la paura che venga il guardiano, e quindi si consiglia di cominciare con il vincere la paura, poi si vedrà se spunta il guardiano. Il palazzo, per quanto antico, ha l’ascensore, altrimenti il Signor José, con le gambe che cominciano a pesargli, non riuscirebbe mai a raggiungere il sesto piano dove viveva l’insegnante di matematica. La porta cigolò nell’aprirsi, facendo sussultare il visitatore, improvvisamente dubbioso sull’efficacia della giustificazione che aveva pensato di dare alla portiera qualora l’avesse interpellato. Scivolò rapidamente dentro casa, chiuse la porta con la massima attenzione, e si ritrovò in mezzo a una penombra densa, a cui mancava poco per essere oscurità. Palpeggiò la parete accanto allo stipite della porta, trovò un interruttore, ma prudentemente non lo fece funzionare, poteva essere pericoloso accendere le luci. A poco a poco gli occhi del Signor José si stavano abituando alla penombra, si direbbe che in una situazione simile lo stesso accade a chiunque, ma ciò che generalmente non si sa è che gli scritturali ausiliari della Conservatoria Generale, data la regolare frequentazione dell’archivio dei morti a cui sono obbligati, dopo un certo tempo finiscono per acquisire delle facoltà di accomodamento ottico fuori del comune. Arriverebbero ad avere occhi di gatto se non giungesse prima l’età della pensione. Benché il pavimento fosse ricoperto di moquette, il Signor José ritenne preferibile togliersi le scarpe per evitare qualsiasi colpo o vibrazione che potesse denunciare la sua presenza agli inquilini del piano di sotto. Con mille cure sganciò i saliscendi degli scuri interni di una delle finestre che davano sulla strada, ma li aprì solo quanto bastava per far entrare un po’ di luce. Si trovava in una camera da letto. C’erano un cassettone, un guardaroba, un comodino. Il letto, stretto, da singolo, come si suol dire. I mobili erano di linea semplice e chiari, tutto il contrario dello stile scialbo e pesante del mobilio della casa dei genitori. Il Signor José fece un giro per le altre stanze dell’appartamento, che si limitavano a un soggiorno ammobiliato con i soliti divanetti e una libreria che occupava da un capo all’altro una parete, un locale più piccolo che serviva da studio, la cucina minuscola, la stanza da bagno ridotta all’indispensabile. È qui che ha vissuto una donna che si è suicidata per motivi sconosciuti, che era stata sposata e che poi ha divorziato, che dopo il divorzio poteva andare a vivere con i genitori, ma che ha preferito rimanere

sola, una donna che come tutte è stata bambina e ragazza, ma che già a quei tempi, in una certa e indefinibile maniera, era la donna che poi è diventata, un’insegnante di matematica che, da viva, ha avuto il nome nell’Anagrafe insieme ai nomi di tutte le persone vive di questa città, una donna il cui nome da morta è ritornato nel mondo vivo perché questo Signor José è andato a riscattarlo dal mondo morto, soltanto il nome, non lei, ché tanto non era in potere di uno scritturale ausiliario. Con le porte di comunicazione interna tutte aperte, il chiarore del giorno illumina alla meglio la casa, ma il Signor José dovrà sbrigarsi nella sua ricerca se non vorrà lasciarla a metà. Aprì un cassetto della scrivania, scorse vagamente con lo sguardo quello che c’era dentro, gli parvero esercizi scolastici di matematica, calcoli, equazioni, niente che gli potesse spiegare le ragioni della vita e della morte della donna che si sedeva su questa sedia, che accendeva questo lume, che stringeva questa penna e scriveva. Il Signor José chiuse lentamente il cassetto, cominciò ad aprirne un altro ma non concluse il movimento, si trattenne a pensare per un lungo minuto, o furono solo pochissimi secondi che parvero ore, poi spinse il cassetto di colpo, poi uscì dallo studio, poi andò a sedersi su uno dei divanetti del soggiorno, e lì rimase. Si guardava i vecchi calzini rammendati che aveva indosso, i pantaloni senza piega un po’ saliti, gli stinchi bianchi e magri, con pochi peli. Sentiva che il corpo gli si accomodava alla soffice concavità del tessuto e delle molle del divano lasciata da un altro corpo, Non si siederà mai più qui, mormorò. Il silenzio, che gli era parso assoluto, era interrotto adesso dai rumori della strada, soprattutto dal passaggio di un’auto ogni tanto, ma nell’aria c’era pure una respirazione ritmica, un pulsare lento, forse era il respiro delle case quando si lasciano sole, questa, probabilmente, non ha ancora capito che c’è qualcuno dentro. Il Signor José riflette con se stesso che ci sono altri cassetti da esaminare, quelli del comò, dove solitamente si ripongono gli indumenti più intimi, quelli del comodino, dove generalmente si custodiscono intimità d’altra natura, il guardaroba, pensa che se andrà ad aprire il guardaroba non resisterà al desiderio di sfiorare con le dita i vestiti appesi, così, come se stesse accarezzando i tasti di un pianoforte muto, pensa che solleverà la gonna di uno di essi per aspirare l’aroma, il profumo, il semplice odore. E ci sono i cassetti della scrivania che non ha ancora esaminato, e i piccoli sportelli della libreria, in qualche posto dovrà pur essere custodito quello che è venuto a cercare, la lettera, il diario, la parola di congedo, il segnale dell’ultima lacrima. A che scopo, si domandò, supponiamo che un foglio del genere esista, che io lo trovi, che lo legga, non sarà certo perché l’ho letto che i suoi vestiti non saranno più vuoti, da ora in poi gli esercizi di matematica non avranno soluzione, non si scopriranno le incognite delle equazioni, la trapunta del letto non verrà scostata, la piega del lenzuolo non si accomoderà sul petto, il lume del comodino non illuminerà la pagina del libro, quello che è finito, è finito. Il Signor José si chinò in avanti, abbandonò la fronte sulle mani, come se volesse continuare a pensare, ma non era così, i suoi pensieri erano finiti. Improvvisamente la luce si smorzò, una nuvola sta passando nel cielo. In quel momento squillò il telefono. Prima non se n’era accorto, ma era lì, su un tavolinetto, in un angolo, come un oggetto che si usa di rado. Si mise in funzione la segreteria telefonica, una voce femminile disse il numero di telefono, poi aggiunse, Non sono in casa, lasciate il messaggio dopo

il segnale acustico. Chiunque avesse chiamato, riattaccò, c’è gente che detesta parlare a una macchina, oppure in questo caso si è trattato di un errore, in effetti, se non riconosciamo la voce registrata non vale la pena di proseguire. Questo bisognerebbe spiegarlo al Signor José, che in vita sua non ha mai visto da vicino un apparecchio del genere, ma è molto probabile che non presterebbe comunque attenzione alle spiegazioni, tanto lo hanno turbato le poche parole udite, Non sono in casa, lasciate il messaggio dopo il segnale acustico, sì, non è in casa, non sarà mai più in casa, è rimasta solo la sua voce, grave, velata, quasi distratta, come se mentre faceva la registrazione stesse pensando ad altro. Il Signor José disse, Può darsi che richiamino, e con questa speranza non si mosse dal divano per più di un’ora, a poco a poco si andava infittendo la penombra della casa e il telefono non squillò più. Allora il Signor José si alzò, Devo andarmene, mormorò, ma prima di uscire andò a fare un ultimo giro per la casa, entrò nella camera da letto, dove c’era più luce, si sedette un momento sul letto, più volte fece scivolare la mano sulla piega del lenzuolo, poi aprì il guardaroba, eccoli lì, tutti i vestiti della donna che aveva pronunciato quelle parole definitive, Non sono in casa. Si sporse su di essi fino a sfiorarli con il viso, l’odore che emanavano si poteva definire un odore di assenza, o forse sarà stato quel profumo misto di rosa e crisantemo che attraversa di tanto in tanto la Conservatoria Generale. La portiera non è spuntata domandandogli da dove veniva, il palazzo è silenzioso, sembra disabitato. Fu questo silenzio che fece nascere nella mente del Signor José un’idea, la più audace della sua vita, E se stanotte rimanessi qui, se dormissi nel suo letto, nessuno lo verrebbe a sapere. Bisognerebbe dire al Signor José che non c’è niente di più facile, che deve solo risalire di nuovo con l’ascensore, entrare nell’appartamento, togliersi le scarpe, può anche darsi che qualcuno sbagli di nuovo numero, In tal caso avrai il piacere di sentire ancora una volta la voce velata e grave dell’insegnante di matematica, Non sono in casa, dirà lei, e se, durante la notte, nel tuo lettino, un piacevole sogno ecciterà il tuo vecchio corpo, già lo sai, il rimedio è a portata di mano, dovrai solo stare attento alle lenzuola. Sono sarcasmi e volgarità che il Signor José non merita, la sua audace idea, ben più romantica che audace, così com’è venuta, se n’è andata, e lui non si trova più dentro il palazzo, ma fuori, pare che l’abbia aiutato a uscire il ricordo doloroso dell’immagine dei vecchi calzini rammendati e degli stinchi magri e bianchi, con pochi peli. Niente al mondo ha senso, ha mormorato il Signor José, e si è incamminato verso la strada dove abita la signora del pianterreno a destra. Il pomeriggio sta per finire, la Conservatoria Generale ha già chiuso, non sono molte le ore che restano allo scritturale ausiliario per inventare la storia che giustifichi quell’assenza di una giornata intera. Tutti sanno che non ha familiari da cui accorrere d’urgenza, e, anche se li avesse, per il suo caso non ci possono essere scuse, vivendo attaccato alla Conservatoria, bastava solo entrare e dire dalla soglia, Addio, a domani, ho una cugina che sta morendo. Il Signor José decide che è pronto a tutto, che possono anche destituirlo se vogliono, cacciarlo dall’impiego, forse il pastore di pecore ha bisogno di un aiutante per scambiare i numeri delle tombe, soprattutto se sta pensando di allargare il campo di attività, in effetti non c’è motivo per limitarsi ai suicidi, in fin dei conti i morti sono tutti uguali,

ciò che è possibile fare con alcuni può essere fatto con tutti, confonderli, mescolarli, tant’è, il mondo non ha senso. Quando il Signor José bussò alla porta della signora del pianterreno a destra i suoi pensieri erano rivolti solo alla tazza di tè che avrebbe preso. Bussò una volta, due volte, ma nessuno venne ad aprire. Perplesso, inquieto, andò a suonare il campanello del pianterreno a sinistra. Gli si presentò una donna che gli domandò con tono secco, Cosa desidera, Dall’altro lato non apre nessuno, E allora, Sa dirmi se è successo qualcosa, Che cosa, Un incidente, una malattia, per esempio, Può darsi, è venuta a prenderla un’ambulanza, E quando è stato, Tre giorni fa, E non ci sono altre notizie, sa per caso dove si trova, No, signore, mi scusi. La donna sbatté la porta, lasciando il Signor José al buio. Domani dovrò fare il giro degli ospedali, pensò. Si sentiva esausto, tutto il giorno a camminare da una parte all’altra, emozioni continue, e adesso questo colpo per concludere. Uscì dal palazzo e si fermò sul marciapiede domandandosi se poteva fare qualcos’altro, andare a domandare ad altri inquilini, non saranno tutti sgarbati come la donna del pianterreno a sinistra, il Signor José rientrò nel palazzo, bussò alla porta della casa della madre con il bambino e il marito geloso, a quest’ora sarà già tornato dal lavoro, ma non importa, il Signor José va a domandare solo se hanno qualche notizia della vicina del pianterreno a destra. La luce della scala è accesa. La porta si è aperta, la donna non ha il bambino in braccio e non riconosce il Signor José, Cosa desidera, ha domandato, Scusi il disturbo, sono venuto a trovare la signora del pianterreno a destra, ma non c’è e l’inquilina dirimpetto mi ha detto che l’hanno portata via tre giorni fa con un’ambulanza, Sì, è vero, Sa per caso dove si trova, in quale ospedale, o in casa di un familiare. Prima che la madre del bambino avesse il tempo di rispondere, una voce d’uomo ha domandato dall’interno, Chi è, lei ha girato la testa, È una persona che chiede della signora del pianterreno, poi ha guardato il Signor José e ha detto, No, non ne sappiamo niente. Il Signor José ha abbassato la voce e domandato, Non mi riconosce, lei ha avuto un attimo di esitazione, Ah sì, mi ricordo, ha detto in un sussurro, e lentamente ha chiuso la porta. Nella strada il Signor José chiamò con un cenno un tassì, Mi porti alla Conservatoria, disse distrattamente all’autista. Avrebbe preferito andarci a piedi, per risparmiare le scarse finanze e per concludere la giornata come l’aveva cominciata, ma la stanchezza non gli avrebbe permesso di fare un solo passo. Credeva lui. Quando l’autista annunciò, Siamo arrivati, il Signor José si accorse di non trovarsi davanti a casa sua, ma davanti alla porta della Conservatoria. Non valeva la pena di spiegare all’uomo che doveva fare il giro della piazza e proseguire per la via laterale, in definitiva avrebbe dovuto percorrere a piedi solo una cinquantina di metri, al massimo. Pagò con le ultime monete, scese e quando posò i piedi sulla strada e alzò la testa vide che le finestre della Conservatoria erano illuminate, Di nuovo, pensò, e immediatamente gli svanirono la preoccupazione per la sorte della signora del pianterreno a destra e il ricordo della madre con il bambino, il problema, adesso, è trovare una giustificazione per il giorno dopo. Svoltò dietro l’angolo, laggiù c’era casa sua, bassa bassa, quasi un rudere, accostata all’alta parete dell’edificio che sembrava la stesse schiacciando. Fu allora che delle dita brutali strinsero il cuore del Signor José. C’era luce dentro casa sua. Lui era sicuro di

averla lasciata spenta quando era uscito, ma, tenendo conto della confusione che regna nella sua testa da tanti giorni, avrebbe potuto ammettere di essersene dimenticato, se non fosse stato per quell’altra luce, quella della Conservatoria, le cinque finestre illuminate intensamente. Infilò la chiave nella toppa, sapeva chi avrebbe visto, ma si trattenne sulla soglia come se le convenzioni sociali gli imponessero di mostrarsi sorpreso. Il capo era seduto al tavolo, e davanti a sé aveva alcuni fogli accuratamente allineati. Il Signor José non aveva bisogno di avvicinarsi per sapere di cosa si trattava, le due false credenziali, i moduli scolastici della donna sconosciuta, il quaderno di appunti, la copertina della pratica della Conservatoria con i documenti ufficiali. Entri, disse il capo, è casa sua. Lo scritturale ausiliario chiuse la porta, avanzò verso il tavolo e poi si fermò. Non aprì bocca, si sentiva nel cervello un gorgo in cui si dissolvevano tutti i pensieri. Si sieda, le ho già detto che è casa sua. Il Signor José notò che sui moduli scolastici c’era una chiave uguale alla sua. Sta guardando la chiave, domandò il conservatore, e tranquillamente proseguì, Non creda si tratti di una copia fraudolenta, le case degli impiegati, quando esistevano, hanno sempre avuto due chiavi di comunicazione interna, una, è chiaro, per uso personale, e l’altra che manteneva la Conservatoria, tutto combacia, come vede, Tranne il fatto che lei è entrato qui senza la mia autorizzazione, riuscì a dire il Signor José, Non ne avevo bisogno, il padrone della chiave è il padrone della casa, diciamo che siamo entrambi padroni di questa casa, proprio come lei, a quanto pare, si è considerato ben padrone della Conservatoria per distrarre documenti ufficiali dell’archivio, Posso spiegarle, Non è necessario, ho seguito regolarmente le sue attività, e inoltre il suo quaderno di appunti mi è stato di grande aiuto, approfitto dell’occasione per complimentarmi per la buona redazione e la proprietà di linguaggio, Domani presenterò le mie dimissioni, Che io non accetterò. Il Signor José lo guardò sorpreso, Non le accetterà, Nossignore, non le accetterò, Perché, se posso domandarlo, Certo che può, visto che sto per diventare complice delle sue azioni irregolari, Non capisco. Il conservatore prese la pratica della donna sconosciuta, poi disse, Ora lo capirà, ma prima mi racconti che cos’è successo nel cimitero, la sua narrazione si ferma alla conversazione che ha avuto con quell’impiegato, Ci vorrebbe molto tempo a raccontarlo, In poche parole, per farmi il quadro completo, Ho attraversato a piedi il Cimitero Generale fino al reparto dei suicidi, mi sono addormentato sotto un ulivo, il mattino seguente, quando mi sono svegliato, ero in mezzo a un gregge di pecore, e poi ho saputo che il pastore si diverte a scambiare i numeri delle tombe prima che vi siano collocate le pietre tombali, Perché, È difficile da spiegare, gira tutto intorno al sapere dove si trovino realmente le persone che cerchiamo, lui pensa che non lo sapremo mai, Come quella che ha chiamato la donna sconosciuta, Sì signore, Che cos’ha fatto oggi, Sono andato nell’istituto dove la donna è stata insegnante, sono andato nella casa dove ha vissuto, Ha scoperto qualche cosa, No signore, e ho pensato che non vorrei scoprirlo. Il conservatore aprì la pratica, prese il modulo che era rimasto attaccato a quelli delle ultime cinque persone famose di cui il Signor José si era occupato, Sa che cosa farei se fossi al suo posto, domandò, No signore, Sa qual è l’unica conclusione logica di tutto quello che è successo fino a questo momento, No signore, Fare per questa donna un modulo nuovo, uguale al vecchio, con tutti i dati giusti, ma senza la

data del decesso, E dopo, Dopo inserirlo nello schedario dei vivi, come se lei non fosse morta, Sarebbe una frode, Sì, sarebbe una frode, ma niente di quello che abbiamo fatto e detto, lei e io, avrebbe senso se non l’avessimo commessa, Non riesco a capire. Il conservatore si riappoggiò alla sedia, passò lentamente le mani sul viso, poi domandò, Si ricorda di quello che ho detto là in ufficio venerdì, quando si è presentato in servizio con la barba lunga, Sì signore, Di tutto quanto, Sì, di tutto, Quindi si ricorda che ho fatto riferimento a certi fatti, senza i quali non sarei mai arrivato a capire l’assurdità del separare i morti dai vivi, Sì signore, C’è forse bisogno che le dica a quali fatti mi riferivo, No signore. Il conservatore si alzò, Le lascio qui la chiave, non intendo usarla di nuovo, e senza dare al Signor José il tempo di dire qualcosa aggiunse, C’è ancora un’ultima questione da risolvere, Quale, signore, Nella pratica della sua donna sconosciuta manca il certificato di morte, Non sono riuscito a trovarlo, dev’essere rimasto laggiù, in fondo all’archivio, oppure l’ho fatto cadere strada facendo, Finché non lo troverà quella donna non sarà morta, Sarà morta anche se lo troverò, A meno che non lo distrugga, disse il conservatore. Voltò le spalle dopo queste parole, poco dopo si udì il rumore della porta della Conservatoria che si chiudeva. Il Signor José rimase immobile in mezzo alla stanza. Non era necessario riempire un nuovo modulo perché ne aveva già la copia nella pratica. Era necessario, invece, stracciare o bruciare l’originale dov’era stata verbalizzata una data di morte. E poi c’era ancora il certificato di morte. Il Signor José entrò in Conservatoria, si avvicinò alla scrivania del capo, aprì il cassetto dove l’aspettavano la torcia e il filo di Arianna. Si legò un capo del filo alla caviglia e avanzò nell’oscurità.