Titulus Crucis. La scoperta dell'iscrizione posta sulla croce di Gesù [PDF]

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Zitiervorschau

MICHAEL HESEMANN

TITVLVS CRVCIS La scoperta dell'iscrizione posta sulla croce di Gesù Prefazione

di

CARSTEN PETER THIEDE

SAN fftOLO

Titolo originale dell'opera Die Jesus-Tafel. Die Entdeckung der Kreuz-Inschrift © Verlag Herder, Freiburg-Basel-Wien 1999 Traduzione dal tedesco di Olivia Pastorelli (Introduzione e capp. 1-6) e Marino Parodi (cap. 7 e Appendici) Foto: Michael Hesemann: figure 2 , 1 2 , 1 4 , 1 6 , 1 7 , 2 2 , 2 3 , 2 4 tavole II, IV, V, VII, X Ferdinando Paladini: tavola IX L'Osservatore Romano: tavola XI Tute le altre illustrazioni: archivio Herder

© EDIZIONI S A N PAOLO s.r.I., 2000 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) http://www.stpauls.it/libri Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 1 0 1 5 3 Torino

PREFAZIONE di Carsten Peter Thiede

Il famoso patrologo Hippolyte Delehaye osservò con sottile ironia che non ogni reliquia eminente sopra ogni dubbio deve necessariamente essere non autentica. In effetti molti semplificano eccessivamente la questione, il loro lavoro è guidato dall'interesse, rinunciano alle nuove analisi critiche o conoscono fin dall'inizio di un'indagine il suo risultato finale. Non dimenticherò facilmente le espressioni trionfanti dipinte sul volto degli scienziati che avevano sottoposto la Sindone di Torino alle analisi del radiocarbonio, mentre comunicavano all'opinione pubblica che la tela risaliva al XIV secolo. La soddisfazione era evidente: essi potevano presentare il risultato che, insieme a molti altri, auspicavano. E noto da tempo quanto quell'indagine sia stata discutibile, come pure la problematicità complessiva dell'analisi del C44; da tempo sono noti gli argomenti archeologici, biologici e storici a favore della provenienza della tela dal Levante e della sua datazione al I secolo d.C. Ma rimane lo sgradevole ricordo di un evento in cui si è avuta l'impressione che un metodo scientifico sia stato utilizzato con scopi ben precisi. È inoltre vero che, a indagare in maniera critica o a sollevare obiezioni quando le reliquie vengono dichiarate per principio oggetti della pietà popolare tardo-antica indegni di fede o stru-

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menti delle ambizioni di potere dei prìncipi della Chiesa, si corre il rischio di passare per ultraconservatori, fondamentalisti o semplicemente osservanti rigorosi. I mezzi sono tanto trasparenti quanto efficaci. Chi per esempio non ha mai letto l'argomentazione con cui viene liquidata ogni reliquia della croce, secondo cui con tutti questi frammenti si potrebbe mettere insieme un'intera foresta, e chi sa o osa replicare con semplicità che invece, assommando tutti i frammenti della croce, questi non basterebbero nemmeno a ricomporre il palo di una sola croce? In uno scenario come quello descritto, ha un effetto dirompente l'indagine meticolosa, da parte di uno storico e antropologo culturale che non fa mistero della sua fede cattolica intensamente vissuta, su ciò che noi oggi veramente sappiamo riguardo agli elementi centrali della tradizione correlati al Gesù storico. Al centro dell'indagine sta l'iscrizione della croce, il titulus, che secondo la prassi giudiziaria romana descriveva il reato per cui un delinquente veniva condannato alla morte in croce. Non solo i precedenti, che non mancano nell'ambito del diritto romano, ma anche i quattro Vangeli non lasciano dubbi a proposito dell'esistenza del titulus. Proprio le sfumature nel tenore dei quattro resoconti evangelici sottolineano la loro storicità: nessuno poteva avere l'intento di armonizzare le versioni o di fingere che, in quelle ore estremamente drammatiche, qualcuno fosse rimasto ai piedi della croce con un blocco da stenografo. Si tramandò ciò che si era visto, prima di bocca in bocca, poi per iscritto. E, com'era già accaduto per altri episodi, era Giovanni a mostrare il maggior interesse per questo particolare. Lo storico è subito colpito dalla precisione giuridica e dalle tre lingue in cui è riportato il testo dell'iscrizione, che molto probabilmente Giovanni conosceva. Ma anche le versioni ridotte del titulus fornite dai tre Vangeli sinottici conservano il nucleo comune: Gesù fu giustiziato dal prefetto romano, rappresentante del diritto imperiale vigente, perché non voleva negare di essere il re dei giudei, un titolo che solo l'imperatore romano poteva sancire e conferire. Era in grado Pilato di comprendere che tipo di re fosse Gesù? Gli bastò 8

attenersi ai fatti e renderli visibili a tutti. Perché proprio questo era importante: dovevano vederlo tutti, quel titulus', sulla collina del Golgota, nelle immediate vicinanze del muro cittadino da cui i curiosi si affacciavano a guardare, come pure sotto, dalla strada che dalla porta della città andava in direzione nordovest. Quel titulus esisteva, e i primi resoconti dei pellegrini cristiani che visitavano Gerusalemme lo menzionano. Nulla depone contro il fatto che si sia conservato dopo la crocifissione di Gesù; certo non gli accenni nelle fonti più antiche, secondo le quali fu rinvenuto in un antico pozzo: ogni archeologo sa che umidità e fango sono i migliori garanti della conservazione di iscrizioni in legno, come attestano per esempio anche le tavolette romane di Vindolanda, nei pressi del Vallo di Adriano. Non ultimo, l'impresa di Michael Hesemann sta anche nell'esame accurato e non superficiale delle diverse fonti della tradizione; anzi, egli ha affrontato un dispendioso, faticoso percorso, recandosi in loco, a Roma e a Gerusalemme, per conferire direttamente con gli esperti. L'aspetto più significativo di queste ricerche è che anche gli studiosi israeliani di epigrafia e paleografia ritengono probabile una datazione del frammento conservato oggi nella chiesa romana di Santa Croce in Gerusalemme a un'epoca precedente a quella dell'imperatrice madre Elena. È un percorso di conoscenza che aggiunge importanti contributi alle mie stesse indagini - cui Michael Hesemann rimanda in questo libro. Le particolarità della scrittura mi sono sempre parse deporre a favore di una sua collocazione temporale nel I secolo. E che ci siano buone motivazioni storiche per tali conclusioni di massima è stato dimostrato già alcuni anni or sono dallo svedese Stephan Borgehammar, che ha potuto ricostruire l'autentico reperto della storia di Elena. Tùtto ciò non è privo di conseguenze: perché se l'iscrizione risale a un'epoca precedente al viaggio di Elena a Gerusalemme, che segnò il rinvenimento della tavoletta, allora non c'è alcun momento storico in cui possa essersi verificato Un evento esterno tale da giustificare la

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sua «fabbricazione» - con un'unica eccezione, appunto: le ore precedenti alla crocifissione di Gesù. C'è da sperare che il libro di Hesemann infonda il coraggio necessario per affrontare di nuovo la questione di principio del valore storico da attribuire alle reliquie più antiche in modo obiettivo, corretto e con la disponibilità ad accettare che il Cristo della fede non è separabile dal Gesù della storia. Beer-Sheva e Basilea, Pentecoste 1999

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INTRODUZIONE

GESÙ: LA PROVA?

Roma, 19 maggio 1997 I festeggiamenti tradizionali per la Pentecoste erano terminati, e come tutti gli anni, alle 12, papa Giovanni Paolo lisi era puntualmente affacciato alla finestra della sua residenza per impartire la benedizione ai fedeli che attendevano in piazza San Pietro. Era un anno particolare, il primo di quegli ultimi tre del secondo millennio che il pontefice aveva dedicato alle tre persone della Santissima Trinità. Ma il Giubileo del 2000 proiettava la sua ombra sulla città anche in un altro modo. L'intera Roma si era trasformata in un cantiere, dappertutto erano in corso lavori di ristrutturazione e di restauro, le facciate degli edifici venivano rivestite e le strade ripavimentate, si ripuliva la città per VAnno Santo, in occasione del quale si attendevano fino a 30 milioni di visitatori. Allora tutte le strade avrebbero davvero portato a Roma, mentre gli abitanti della Città Santa temevano la grande confusione che si sarebbe potuta verificare in quei giorni, perché già prima il traffico era regolarmente al collasso e mancavano i posti letto negli alberghi. Anche la strada che conduce alla basilica di Santa Croce passa attraverso vie ampie ma per lo più intasate dal traffico. An-

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cora oggi il tracciato stradale e gli edifici della parte sudorientale di Roma conservano qualcosa della grandiosità con cui in passato fu edificato questo quartiere ricco di giardini e di palazzi. Anche davanti a Santa Croce si trova un ampio piazzale con un grande prato, palme isolate e numerosi parcheggi per i visitatori della chiesa e per i pullman dei pellegrini. Lo stile composito della chiesa mi irritava. La facciata barocca mal si armonizzava con il campanile romanico e con la semplice, grigia facciata del convento medievale. Questa «disomogeneità di stile» non è rara a Roma e ha un certo suo fascino. Molte chiese romane presentano aggiunte e «abbellimenti» accumulatisi nel corso dei secoli, pur coìiservando accuratamente intatto il nucleo originario. Ma questa, la basilica di Santa Croce in Gerusalemme - è questo il suo nome completo - è considerata sin dal medioevo una delle sette chiese principali di Roma e uno dei luoghi sacri più significativi di tutta la cristianità. Una fama indubbiamente da ascriversi anche alle preziose reliquie che io stesso ero venuto a visitare. Ciò nonostante, quando salii i gradini che conducevano al portale della basilica, non ero ancora consapevole di come questa visita avrebbe cambiato la mia vita. Oltrepassai il chiosco delle cartoline e delle guide turistiche ed entrai dal portale principale. Rimasi subito meravigliato dalla magnificenza degli affreschi della volta sovrastante l'altare maggiore. Mostrano, attorno a Cristo assiso in trono, alcune scene del rinvenimento della santa croce a Gerusalemme, di quella leggenda cui la veneranda basilica deve la propria fama e la propria importanza. Perché, stando a un'antica tradizione cristiana, sant'Elena, madre dell'imperatore romano Costantino il Grande, avrebbe portato la reliquia della croce di Cristo da Gerusalemme a Roma. Qui, sempre secondo la leggenda, l'avrebbe collocata nella propria cappella a palazzo, sul cui pavimento sparse del terriccio proveniente dalla collina del Golgota. Su questo luogo sacro sorse nel corso dei secoli la basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Ancora oggi le presunte reliquie della passione di Cristo sono esposte al pubblico in una cappella appositamente eretta a

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questo scopo e il cui ingresso si trova sul lato sinistro della navata. Quando entrai, il mio sguardo cadde subito sull'enorme trave di legno che si suppone sia appartenuta alla croce del buon ladrone, uno degli uomini che furono crocifìssi con Gesù in quel tetro venerdì sul Golgota. Piuttosto incredulo e irritato da cotanta sicurezza - come essere certi che non provenga invece dalla croce del suo sarcastico compagno? - oltrepassai quel reperto, protetto da robuste sbarre, e salii le tre rampe di scale, ognuna di tre gradini, che portavano alla cappella delle reliquie vera e propria. Questa scalinata marmorea, contornata dalle stazioni bronzee della via crucis, pareva una moderna reminiscenza del monte Calvario. Al centro della cappella cui conduceva la scalinata, c'era un altare sormontato da un baldacchino a cupola sorretto da quattro colonne marmoree. Dietro l'altare si trovavano allora, incastonate nella parete dell'abside, le reliquie della passione di Cristo (dal novembre 1997 le reliquie sono esposte sull'altare a cibolum in una teca di vetro antiproiettile). Aggirai l'altare per avvicinarmi il più possibile alle reliquie. Volevo vedere con la massima precisione possibile cos'era contenuto nei cinque sfarzosi reliquiari d'argento del XIX secolo, sormontati dal maestoso reliquiario della croce adornato d'oro. Secondo le descrizioni, si trattava di tre frammenti della croce, un chiodo, due spine della corona del Signore, pietrisco di Gerusalemme e di Betlemme, un dito dell'apostolo Tommaso e infine un frammento dell'iscrizione della croce: il titulus crucis/ Nella vita ci sono sempre situazioni in cui cuore e ragione, anima e intelletto entrano in conflitto tra loro: fu ciò che mi accadde in quel momento. Il cristiano dentro di me nutriva profondo rispetto dinanzi alle mute, forse autentiche testimonianze della passione del Signore; lo studioso invece era scettico ed esigeva delle prove. E lo sapevo: proprio da questa umana, fin troppo umana esigenza di prove, di conferme fisiche alla verità della fede, scaturiva la venerazione delle reliquie. A maggior ragione, fin dai tempi dei miei studi di storia medievale e di etnologia europea all'università di Gòttingen, sapevo che ci si deve accostare

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alla questione con la massima prudenza. Perché per tutto il medioevo il culto delle reliquie produsse i frutti più assurdi, divenendo terreno fertile per la creazione delle più singolari falsificazioni, le quali avevano un unico scopo: attirare persone ingenue che speravano in un miracolo verso i santuari, al cui fiorente rigoglio contribuivano attivamente. Questo almeno era riportato nei libri di testo ed era insegnato a noi studenti. Ora, effettivamente numerose reliquie non possono nemmeno essere prese in considerazione. Nel monastero di San Medardo a Soissons, in Francia, era venerato un dentino da latte del Bambin Gesù, perso quando aveva nove anni; nel Duomo di Aachen le sue fasce; altrove il cordone ombelicale; in parecchie chiese il suo prepuzio o resti del latte con cui si dice che la Madre di Dio l'avesse allattato. Inoltre nelle chiese medievali c'erano reliquie del pane per il pasto dei cinquemila (a Colonia), degli orci delle nozze di Cana (a Colonia e a Hildesheim), della tovaglia dell'ultima cena (a Vienna), dei peli della barba di Cristo (a Vienna), di una lacrima che Gesù versò su Gerusalemme (a Vendóme, in Francia) e di una piuma dell'ala dell'arcangelo Michele (a Liria e a Valencia, in Spagna). Di altre reliquie si registrò una vera e propria inflazione. Accanto a innumerevoli frammenti e particelle della croce, si esposero ben 36 presunti chiodi della croce di Cristo (tra gli altri, a Treviri, Colonia, Parigi, Vienna - addirittura due - Siena, Milano, Monza e via dicendo), due teste di Giovanni il Battista e dozzine di lenzuoli sacri. Umiche di Cristo sono venerate a Treviri, nella città francese di Argenteuil e in quella georgiana di Mzecheta. Solo nelle cattedrali spagnole si trovano ben 53 spine della corona di Cristo. A complicare le cose interviene la tradizione delle reliquie divenute tali «per contatto»: si credeva che, se una più o meno precisa riproduzione della reliquia era messa a contatto con l'originale, la copia ne assorbisse tutta il potere. Per gli uomini del medioevo le reliquie erano portatrici di forza e grazia divine. Questa convinzione era sfruttata anche dal punto di vista politico: nella Corona Ferrea dei longobardi - oggi conservata nel tesoro del duomo di Monza - è incasto-

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nato un chiodo che si ritiene appartenesse alla croce di Cristo; tra le insegne imperiali tedesche c'erano la croce imperial e - i n cui era incastonato un frammento della vera croce - e la sacra lancia. Questa all'inizio era considerata come la lancia di san Maurizio, protettore dell'impero; successivamente fantasticherie e religiosità popolare ne fecero l'arma con cui il legionario aveva colpito al fianco Gesù crocifisso. In realtà però il gioiello imperiale di Vienna è una lancia ad alette carolingia dell'VIII secolo. L'autentica lancia sacra - almeno a quanto possiamo supporre - faceva invece parte, insieme a molte altre reliquie, del tesoro degli imperatori bizantini. Dopo la conquista ottomana di Costantinopoli, la punta della lancia fu inviata a papa Innocenzo VIII (1484-1492) come dono da parte del sultano e da quel momento è conservata nella basilica di San Pietro a Roma. L'asta invece era già stata venduta nel XIII secolo dagli imperatori bizantini al re di Francia, nella cui cappella privata, la Sainte Chapelle, si trova da allora. Per ben due volte la «Roma d'Oriente» combatté guerre allo scopo di entrare in possesso di reliquie: la prima, per impadronirsi di un frammento della «vera croce», di cui i persiani si erano impossessati con la conquista di Gerusalemme, e la seconda per la misteriosa icona del volto di Cristo «non creata da mano umana» della città di Edessa. Non oro o altri tesori terreni, ma le reliquie dei tre Re Magi, fino a quel momento conservate a Milano, furono il bottino più significativo che l'imperatore Federico I Barbarossa riportò dalla campagna militare in Italia. Il cancelliere imperiale Reinald von Dassel le portò a Colonia in modo rocambolesco, facendo diventare la città uno dei più importanti santuari nordeuropei. Infine, grazie alle crociate e alla conquista di Costantinopoli (1204), l'Europa fu addirittura sommersa da vere e false reliquie, rendendo così il loro culto ancor più popolare 1 . 1

A. Angenendt, Heilige und Reliquien, MUnchen 1994; A. Legner, Reliquien in Kuns( und Kult, Darmstadt 1995; Sierra-Atienza, La Espafi& extrana, Madrid 1997; Kunsthistorisches Museum Wien, Weltliche und Geistliche Schatzkammer, guida illustrata, Wien 1987-1991.

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Non ci può dunque essere alcun dubbio sull'importanza del ruolo che le reliquie hanno giocato nella storia della religione e della cultura europea. Ma tutto ciò può davvero esser ridotto solo a un'autentica epidemia di autoillusione e fantasticherie, a un'enorme mistificazione condotta nelle diverse nazioni attraverso i secoli? Che nel medioevo si giungesse a un grossolano abuso della fede nelle reliquie, che ci fosse una marea di falsificazioni - furono spacciate per ossa dei santi persino ossa di animali - è incontestabile ed è stato riconosciuto in primo luogo dalla Chiesa stessa: già con il IV Concilio Laterano (1215) si mise in atto ogni possibile tentativo per fermare il commercio di reliquie e le relative truffe. Da quel momento, l'acquisto e la vendita di reliquie sono stati vietati dal diritto canonico ed è stata resa indispensabile una certificazione ecclesiastica della loro autenticità; per compiere pellegrinaggi, inoltre, bisognava disporre dell'autorizzazione del vescovo2. Ma come veniva verificata l'autenticità di una reliquia? Un miracolo o il giudizio divino erano allora considerati elementi di prova soprannaturali; inoltre l'origine della reliquia doveva essere documentata. Solo nel XX secolo sono stati introdotti metodi scientifici. Non ci può essere dubbio che esistano anche reliquie autentiche. Per reliquie autentiche si intendono, per attenerci al linguaggio ecclesiastico, solo reliquie «di prim'ordine», provenienti dal corpo di santi o martiri o che sono testimonianza delle gesta di Gesù. Reliquie «di second'ordine» sono quei capi d'abbigliamento e quegli oggetti religiosi usati da un santo nel corso della sua vita o riproduzioni di una «reliquia del Signore» che sono state a contatto con l'originale. Tra quelle «di terz'ordine» si annoverano reliquie per contatto in senso lato, per esempio teli che sono stati a contatto con tombe di santi. Già la Chiesa delle origini venerava le ossa dei martiri, considerate «inestimabili più dell'oro e delle pietre preziose»3; questa tradizione è dimostrabile a partire dal II secolo. Nello stesso periodo eb2 3

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Codex luris Canonici - Codex des Kanonischen Rechts, Kevelaer 1983, pp. 522s. T. Camelot (a cura di), Martyrium des Polykarp, 18,2, SC 10, Paris 1958*.

bero luogo i primi, per quanto sporadici, pellegrinaggi alle tombe degli apostoli e nei luoghi che erano stati teatro della predicazione di Gesù. Questa tradizione ha sicuramente radici ebraiche. Ancor oggi gli ebrei venerano le tombe di Abramo a Hebron, di Rachele a Betlemme e di Davide a Gerusalemme; già in epoca biblica alcune reliquie, come le tavole della legge di Mosè, la verga di Aronne e la brocca contenente la manna del deserto, erano conservate nel tempio, nell'arca dell'alleanza. I tre Vangeli sinottici raccontano la storia dell'emorroissa, la quale «si era detta: "Se riuscirò a toccargli anche solo le vesti, sarò salva"» (Me 5,28), fornendoci in questo modo una testimonianza biblica della fede nell'efficacia delle reliquie per contatto. Ne danno conferma gli Atti degli apostoli quando raccontano come i primi cristiani «applicavano su malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie si allontanavano da loro e gli spiriti maligni fuggivano» (At 19,12). Si noti che qui il riferimento è a indumenti appartenuti a san Paolo. Tanto più preziosi per loro dovettero essere quegli oggetti che erano stati a contatto con il corpo e con il sangue del Dio fattosi uomo. Già da ciò possiamo dedurre con sufficiente sicurezza che la giovane comunità cristiana - la quale, stando agli Atti degli apostoli, solo cinquanta giorni dopo la risurrezione di Cristo annoverava già 3000 membri (At 2,41) - si sia sforzata con gran zelo di entrare in possesso di tutte le testimonianze in qualche modo reperibili della vita e della passione di Gesù. Ma com'è possibile separare «il loglio dal grano»? Come identificare, nel profluvio di false reliquie, le poche autentiche? Il criterio decisivo è innanzitutto l'«albero genealogico» della reliquia stessa: fino a che punto può essere ripercorso a ritroso il suo cammino, com'è giunta nel luogo in cui è attualmente conservata, con quanta precisione è documentato il suo rinvenimento e in quali circostanze ebbe luogo. Ugualmente importante è la loro verificabilità scientifica: quanti anni ha in realtà la reliquia? Potrebbe risalire all'epoca in questione, nel caso delle reliquie del Signore ai tempi di Gesù? Tutti questi interrogativi mi passavano per la testa mentre,

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nella cappella delle reliquie di Santa Croce, osservavo con devozione e al contempo con cura le reliquie della passione. Lo sapevo: il frammento della croce, il titulus crucis (l'iscrizione della croce) e il chiodo sacro erano citati già nelle Storie della Chiesa coeve e nei resoconti, redatti anch'essi in quel secolo, della morte di sant'Elena, alcuni dei quali forse riconducibili ai racconti di testimoni oculari. Queste reliquie si differenziano così da numerose altre, il cui rinvenimento e trasporto in Europa è ugualmente attribuito alla madre dell'imperatore, come ad esempio la scala santa di Roma, i tre Re Magi di Milano e Colonia o la tunica di Cristo di Treviri, che tuttavia non sono menzionate da alcun autore coevo; in questi casi le tradizioni che ne descrivono il rinvenimento risalgono solo al medioevo. Anche le spine della corona e il dito di san Tommaso non sono citati da alcuna fonte antica e sono perciò di dubbia origine, in quanto quest'ultima non è documentata. L'esistenza delle autentiche reliquie della passione di Santa Croce - croce, chiodi, titolo - e le circostanze in cui Elena le fece trasportare nel suo palazzo a Roma sono invece attestate da oltre 1600 anni, per cui la tradizione che le riguarda è molto più antica di quella della maggior parte delle altre reliquie della cristianità. Questo naturalmente non esclude di per sé che si possa trattare di falsificazioni risalenti al IV secolo o al medioevo, in quest'ultimo caso forse come «reliquie di second'ordine» confezionate sulla base delle tradizioni riguardanti la vita di Elena; tuttavia la loro autenticità è almeno ipotizzabile. A questo punto si deve far ricorso alla metodologia scientifica, allo scopo di fornire un responso sulla loro età e origine. Tuttavia mi era noto che il metallo con cui è stato fabbricato il chio do non può essere datato, e sebbene, almeno nella sua parte centrale, corrisponda in pieno alla fattura dei chiodi da falegname romani, nulla di risolutivo può essere affermato riguardo alla sua origine o sul suo utilizzo. Il legno, anche quello dei frammenti della croce, può invece essere datato con facilità, e si può determinare persino la sua origine geografica: ma come dimostrare che sia davvero appartenuto alla croce di Cristo? Anche

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in questo caso un esame scientifico non può fornire alcuna risposta, anche solo parzialmente soddisfacente. Solo una delle reliquie della passione custodite in Santa Croce è così particolare da far sì che, se la sua autenticità fosse verificata, confermerebbe non solo i resoconti del rinvenimento della croce ma sottolineerebbe anche l'esattezza storica dei Vangeli e la loro descrizione della vita e della passione di Gesù: il titulus crucis, l'iscrizione della croce. L'osservai con estrema attenzione, studiai ogni singola scheggia del bruno legno eroso dal tempo. Effettivamente riportava l'iscrizione così come ci è stata tramandata da Giovanni: «"Gesù il Nazareno, il re dei giudei"... in ebraico, in latino, in greco» (Gv 19,19-20); o almeno una parte di quest'iscrizione. Il titolo della croce non mi parve un falso grossolano. È dunque autentico? è stato scritto da uno dei carnefici di Pilato poco prima della più spettacolare esecuzione della storia? si tratta dell'unica testimonianza scritta coeva dell'esistenza di Gesù, del documento giuridico della sua condanna ad opera del prefetto romano? o è un falso, per quanto buono ed estremamente ingegnoso? Solo di una cosa ero certo: dovevo raccogliere altri elementi sull'iscrizione della croce, perché, se fosse autentica, ciò riguarderebbe l'intera cristianità. Nessun'altra personalità storica ha tanto affascinato gli uomini negli ultimi duemila anni come Gesù di Nazaret. Disprezzato dagli avversari come falso profeta, imprigionato e condannato a morte come sobillatore, venerato dai seguaci come Messia c Tiglio di Dio, ha costituito lino ai nostri giorni una pietra dello scandalo. In suo nome, i martiri morirono o subirono persecuzioni; furono fondati stati, evangelizzati popoli, combattute guerre, bruciati eretici e costruita un'organizzazione mondiale, la Chiesa cattolica, che oggi conta più di un miliardo di fedeli. Rappresentato nell'iconografia cristiano-bizantina come «pantocratore», assiso sul trono celeste come «colui che domina su ogni cosa», ha effettivamente dominato almeno la storia occi-

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dentale degli ultimi 1700 anni. Dopo che l'imperatore Costantino fece del cristianesimo la religione di stato, è sopravvissuto alla caduta dell'impero romano, alle invasioni barbariche, al medioevo, alla guerra dei trent'anni, persino all'illuminismo e all'anticristiana rivoluzione francese, al comunismo e al fascismo hitleriano. Nessuna religione straniera, per quanto affascinante o aggressiva, nessuna moda spirituale ha mai potuto cambiare a lungo il volto cristiano dell'Europa. Nonostante l'immensa portata della promessa di Gesù di Nazaret, la redenzione e la vita eterna per chi l'avesse seguito, negli ultimi decenni sono stati sollevati in modo sempre più plateale seri dubbi sulla sua esistenza storica o sull'esattezza delle affermazioni attribuitegli. Questo approccio critico, nato con l'ateismo e l'illuminismo, è stato ripreso sempre più spesso anche dai teologi moderni. A finire regolarmente sotto tiro sono i quattro Vangeli, che non solo affermano di annunciare la lieta novella, ma anche di essere un resoconto autentico della vita del Nazareno: una rivendicazione sulla quale sempre più frequentemente sono stati espressi dubbi. Per quanto i primi frammenti dei Vangeli risalgano al II, forse addirittura al I secolo dopo la nascita di Cristo, e coincidano in massima parte con il testo delle versioni integrali di cui disponiamo, la loro storicità è continuamente messa in discussione. I detrattori sostengono che alla base dei Vangeli vi sono raccolte di detti di Gesù, abbelliti dal racconto delle sue azioni che avrebbe funzione di cornice narrativa, e che in realtà, a prestar loro fede, sarebbero solo un misto di pia leggenda e pura fantasia. A conferma di ciò, rimandano alle incongruenze effettivamente esistenti tra i quattro Vangeli, che possono comunque essere interpretate anche in altro modo. Il titolo della croce suggerirebbe invece che almeno il quarto Vangelo fu redatto da un testimone oculare, proprio come afferma la tradizione cristiana4. Ma, in ultima analisi, il Gesù storico è il Nazareno dei Vangeli? 4 L'unica trascrizione completa dell'iscrizione della croce si trova nel Vangelo di Giovanni; i tre sinottici ne riportano solo il contenuto: «Costui è Gesù, il re dei giudei» (Mt 27,37); «Il re dei giudei» (Me 15,26); «Questi è il re dei giudei» (Le 23,38).

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Già all'inizio raccontavo di come questa visita alla basilica di Santa Croce abbia cambiato la mia vita. Non è affatto un'esagerazione: ho trascorso i due anni successivi a documentarmi ulteriormente su Gesù di Nazaret, sul Gesù storico, sul Figlio dell'uomo divenuto carne e quindi storia. La ricerca su di lui è diventata, come ogni autentica ricerca della verità, un'odissea. Più volte sono tornato a Roma, in parte per seguire altre tracce, in parte per informare delle mie ricerche i rappresentanti della Chiesa - tra cui papa Giovanni Paolo II - o per ottenere la loro collaborazione, in parte per trovare ispirazione nell'incontro con il titolo della croce. Mi sono recato due volte a Gerusalemme, là dove tutto ebbe inizio. Volevo entrare in contatto con le radici, con i luoghi in cui Gesù agì storicamente e dove fu rinvenuta la sua croce. Ho consultato famosi esperti israeliani e tedeschi molto stimati nel mondo scientifico e ho raccolto perizie che hanno reso finalmente possibile una datazione. Inoltre ho studiato fonti antiche, ricerche storiche e archeologiche allo scopo di ricostruire l'albero genealogico della reliquia e trovare risposte alle mie domande: quale valore hanno i Vangeli come fonti storiche? quanto sono attendibili gli storici della Chiesa che descrissero il rinvenimento della croce? quant'è sicura la tradizione che localizza i luoghi dell'esecuzione e il sepolcro di Gesù? è confermata da reperti archeologici? E infine, ci sono collegamenti con altre reliquie, come ad esempio la misteriosa Sindone di Torino, che sono già state indagate dal punto di vista scientifico? Un rinvenimento così importante come quello dell'iscrizione della croce di Gesù richiede uno studio estremamente approfondito e scrupoloso, non solo delle circostanze concomitanti ma anche dell'intero contesto della tradizione neotestamentaria. Perciò questo libro segue un percorso molto ampio. Nel primo capitolo approfondiremo la questione dell'attendibilità dei Vangeli come fonti storiche. Li confronteremo con le tradizioni coeve, esamineremo gli argomenti dei loro critici e indagheremo sulle affascinanti prove che li potrebbero davvero ricondurre ai contemporanei di Gesù. Si tratta già di per sé di un passaggio im-

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portante, perché è dai Vangeli che veniamo per la prima volta a sapere dell'esistenza del titolo, e le loro affermazioni sarebbero a loro volta confermate dal reperto. Poiché ognuno dei quattro Vangeli riporta il testo dell'iscrizione con leggere differenze, il reperto, presupponendo la sua autenticità, potrebbe anche rivelarci quale di loro, approssimandosi maggiormente alla verità, sia stato effettivamente redatto da un testimone oculare. Nel secondo capitolo tenteremo, sulla base di fonti storiche e di dati archeologici, di ricostruire gli eventi gravidi di significato della festa di Pasqua dell'anno 30. Poiché l'iscrizione del titolo della croce definisce il Nazareno «re dei giudei», ci chiederemo cosa implicasse questo titolo e in che misura fosse in rapporto con la rivendicazione messianica di Gesù. Ricostruendo minuziosamente la pena della crocifissione giungeremo a comprendere la storia della passione in maniera più profonda. Ci soffermeremo al cospetto della croce, che da quel momento giacque sepolta nel suolo di Gerusalemme, mentre i discepoli di Gesù crocifisso annunciavano segretamente ai popoli il Vangelo, per poi rivolgerci, nel terzo capitolo, alle circostanze della sua riscoperta, avvenuta tre secoli più tardi. La ricerca della reliquia fu una diretta conseguenza della visione della croce dell'imperatore romano Costantino, con cui si concluse l'ultima sanguinosa persecuzione nei confronti della giovane Chiesa, ma non sarebbe mai stata possibile se non fosse esistita tra i cristiani di Gerusalemme una tradizione ininterrotta. Dimostreremo come fu possibile, per la Chiesa delle origini, mantenere nei secoli la memoria dei luoghi della passione di Cristo. Daremo anche uno sguardo alle radici della comunità delle origini e al suo ruolo nella società ebraica, gettando così luce, in ultima analisi, sulla «stirpe dei Nazareni» e sulla rivendicazione messianica di Gesù. Infine, vedremo come il reperto archeologico confermi la tradizione dei primi cristiani. Il quarto capitolo è dedicato alla storia del santo sepolcro che Costantino fece cercare, riportare alla luce e integrare in una costruzione monumentale. Questo capitolo tratterà inoltre delle tradizioni ebraiche riguardanti la sepoltura e l'inumazione dei defunti, di coloro

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che hanno presieduto alla sepoltura di Gesù, ma anche della trasformazione, a scopi di propaganda imperiale, del santo sepolcro in uno sfarzoso edificio. Il quinto capitolo descrive la scoperta delle reliquie della croce e del titolo nel corso dei lavori per la costruzione della chiesa del Santo Sepolcro alla presenza della madre dell'imperatore, Elena, la loro spartizione e il ruolo che hanno assunto nella storia di Gerusalemme, Costantinopoli e Roma. Al centro del sesto capitolo stanno la reliquia romana dell'iscrizione della croce e gli altri reperti. In esso è descritta la storia del luogo in cui sono custoditi, la basilica di Santa Croce a Roma, edificata nel luogo in cui sorgeva il palazzo di Elena, la loro riscoperta e i risultati dei nostri considerevoli sforzi per provare la loro autenticità con metodi scientifici. Un'appendice li pone in rapporto con la più famosa reliquia della passione di Cristo, la Sindone di Torino, e spiega perché questa potrebbe essere comunque autentica, nonostante la datazione suggerita dagli esami al radiocarbonio affermi il contrario. Dopo aver ascoltato la voce delle reliquie della passione, «muti testimoni del Golgota», grazie ai nuovi dati acquisiti ci interrogheremo ancora una volta sulla credibilità dei Vangeli, le nostre fonti sulla vita di Gesù. Giungeremo infine alla conclusione che uno di loro, proprio l'unico che cita letteralmente l'iscrizione, può essere opera soltanto di un testimone oculare, esattamente come la tradizione ecclesiastica ha affermato da sempre. Mentre scrivevo questo libro, sono stato indotto dalla morte del mio amato padre a confrontarmi, in modo più intenso di quanto avessi mai fatto in vita mia, con il dolore, la morte e la speranza nella risurrezione. Nel momento in cui questo libro viene pubblicato, il cristianesimo si sta avviando nel terzo millennio, avendo ancora vivo il ricordo dei festeggiamenti dell'Anno Santo che si sono svolti contemporaneamente a Roma e a Gerusalemme. L'opera vuol tener vivo questo ricordo e nello stesso tempo offrire almeno un modesto contributo a una migliore, più intensa comprensione delle radici del cristianesimo. Dusseldorf, 25 marzo 1999

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ALLA RICERCA DEL GESÙ STORICO

Gerusalemme, 7 aprile 30 d.C., ore 11:30 circa L'immagine d'orrore che si offriva agli occhi dei legionari romani era tale per cui anche il più incallito tra loro non l'avrebbe mai più potuta dimenticare in tutta la sua vita. L'uomo che dovevano condurre all'esecuzione era completamente coperto di sangue. Sul suo corpo, ricoperto da una veste marrone, erano visibili i solchi aperti dalla flagellazione, da quel terribile castigo cui era stato appena sottoposto. Lo avevano incatenato a un troncone di colonna poderoso e nero, e dai due lati lo avevano colpito con flagelli a più code, alle cui estremità erano fissati aculei di piombo che laceravano le carni. Sul capo avevano calcato un casco di spine, simili a lunghi chiodi acuminati che trafiggevano la pelle e facevano scorrere sul viso rivoli di sangue fresco. I suoi lunghi capelli bruni pendevano a ciocche, rese appiccicaticce dal sangue già rappreso. Alle braccia insanguinate avevano legato con ruvide funi una pesante trave di legno non levigato. «Perché?», chiese uno dei legionari, che non aveva assistito al più clamoroso processo della storia. «Crede di essere il re dei giudei, e loro non lo vogliono!», rispose beffardamente un altro. «Un re non mi sembra proprio!», replicò il commilitone. «Però potreb-

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be essere un filosofo. C'è qualcosa di nobile nel suo sguardo. E pare sopportare il dolore con grande dignità». Così, legato come un animale, fu condotto giù dalle scale del pretorio verso il luogo dell'esecuzione, assieme a due ribelli condannati prima di lui La colonna dei condannati serpeggiava tra la folla schiumante di rabbia, solcava la piazza dello Xystus, attraversava la passeggiata dei Re tra i due palazzi, lungo innumerevoli gradini su verso la città alta, per poi svoltare nella via superiore del Mercato, che tagliava la città da nord a sud, in direzione della porta di Efraim. Dovette fermarsi due volte, perché il terzo condannato - strattonato ~ aveva perso l'equilibrio sotto il peso della trave ed era caduto. Lungo le strade, centinaia di persone sembravano formare due cordoni:persone che lo deridevano e altre che lo confortavano o che cercavano di lenire il suo dolore. Ecco una donna che gli porgeva dell'acqua, o un'altra che cautamente gli asciugava con un fazzoletto il sudore e il sangue che colavano dal viso. Nei suoi occhi si leggeva tutta la sofferenza di quell'ora, ma anche la nostalgia di un mondo migliore. Poiché la fretta era d'obbligo - le esecuzioni dovevano concludersi prima che spuntasse l'alba del sabato ebraico -, alla terza caduta, davanti alla porta di Efraim, il centurione che comandava la coorte tagliò con la spada la corda con cui Gesù era legato alla trave della croce. La trave cadde a terra fragorosamente. Allora il centurione ordinò a un certo Simone di Cirene, nel Nordafrica, il più vicino dei numerosi pellegrini giunti a Gerusalemme per la Pasqua che ora si stavano riversando in direzione del tempio, di portare la trave al luogo dell'esecuzione. Il sole riscaldava un poco il corteo e i corpi sofferenti dei condannati, quando questi oltrepassarono la porta, solidamente fortificata, per dirigersi verso il luogo delle esecuzioni, una cava abbandonata. Della collina di roccia calcarea di una volta rimaneva solamente un cumulo di pietre inutilizzabili, dall'aspetto pauroso, che la gente aveva ribattezzato Golgota, il «cranio», perché sporgeva nudo e spoglio dal terreno. «Rinchiudetelo in una delle caverne!», ordinò il centurione indicando l'uomo che aveva appena liberato dalla trave. Rinchiuso nella caverna fresca e

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umida, il condannato, tremando e pregando, guardava in faccia la morte certa che lo attendeva, mentre i carnefici sollevavano i due rivoltosi sui pali delle croci e ve li legavano saldamente. I minuti parevano ore e giorni, sembravano durare un'eternità. Il «re dei giudei» fu rudemente strappato al raccoglimento della preghiera da due legionari e portato fuori, dove, sul terreno roccioso, giaceva la trave orizzontale della croce. Poco lontano si udivano le grida di dolore dei due ribelli appena crocifissi che, torcendosi, cercavano di immettere aria nei polmoni. «Sulla croce, giudeo!», gli urlò il centurione, e due legionari lo gettarono al suolo, cosicché cadde sulla schiena battendo la piaga provocata dal peso della trave contro la roccia calcarea. Il suo nobile viso si contrasse dal dolore, quando uno dei carnefici lo afferrò rudemente per le braccia, tendendole verso l'alto e facendo raggiungere ai palmi delle mani le estremità della trave orizzontale per fissarlo in questa posizione. Era troppo debole per opporre una qualche resistenza, e si era da tempo rassegnato al suo destino, al «calice amaro» che il Padre Celeste gli aveva porto. Così, come in trance, per metà privo di conoscenza, percepì soltanto che uno degli aiutanti porgeva al carnefice due chiodi per conficcarli all'altezza del carpo. Solo quando, con un sordo colpo di martello, il primo chiodo gli trapassò la carne, rinvenne pienamente. «Padre! Padre!» gli sfuggì dalle labbra, mentre un dolore disumano alterava Usuo viso, contraeva il suo corpo e gli faceva sgorgare lacrime dagli occhi: «Perdona loro!». Quasi svenuto, dovette sopportare che gli piantassero il secondo chiodo, che gli lacerò i nervi: non appena il dolore diventava insopportabile, la tortura procedeva oltre. «Ce l'hai?», gridò uno degli aiutanti dei carnefici all'altro, che assentì. «Su, allora!». Con la brutalità che gli era propria, inalberarono la trave cui era appeso il Crocifisso. Un terzo uomo stava dietro il palo e tirava una fune fissata alla trave che passava attraverso un foro scavato nel tronco, all'altezza di due metri e mezzo circa. Le articolazioni del polso del condannato parevano spezzarsi, mentre questi, quasi privo di conoscenza per il dolore, appeso per i chiodi, veniva sollevato in aria e la trave fissata allo stipite della croce. Poi, il carnefice gli premette le

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gambe contro il palo. Prese un chiodo particolarmente lungo e ; lo fece passare attraverso un'asse di legno che poggiò sui piedi J sovrapposti della vittima. «Uno deve bastare», disse con un ghigno beffardo prima di conficcarlo nei piedi del Crocifisso, i cuiì tormenti erano ormai testimoniati soltanto da un flebile gemito. > Mentre disperato annaspava in cerca d'aria, facendo perciò for- * za con l'intero peso sull'unico chiodo che gli trapanava i piedi, j gli aiutanti del carnefice procedettero all'ultimo atto di un esecu- J zione non diversa da tante altre. Si doveva fissare il titolo della f colpa, su in alto, in modo che fosse visibile a tutti. Era una tavo- \ letta di legno, lunga circa un cubito, alta un raggio, il cui testo era stato dettato da Pilato in persona e inciso nel legno da un uffi-% ciale che sapeva scrivere. La scritta costituiva l'ultima irrisionedel giustiziato, preceduto da quella tavoletta di legno lungo tut-\ to il percorso verso il luogo dell'esecuzione. Con una scrittura a*, scarabocchi, da destra verso sinistra - «alla maniera dei giu- \ dei», come ironizzava lo scribacchino - recava scritto: «Gesù, //[ Nazareno, re dei giudei», in ebraico, greco e latino, affinché tuttik potessero leggere di quale presunzione si fosse reso colpevole| quest'uomo, ridotto ormai a un'icona del dolore. r ì. | i La nostra ricerca inizia ai piedi del luogo di esecuzioni più fa- j; moso della storia, la collina del Golgota. Si tratta di rispondereiall'interrogativo se, all'incirca 1970 anni fa, i fatti si sono svoltiI proprio come li abbiamo appena descritti, o comunque in mo-f do analogo. Certo, la nostra ricostruzione si basa sui Vangeli, if quattro libri più letti della letteratura mondiale. Ma i Vangeli so- f no davvero biografie? quanto sono affidabili questi testi? con! quanta precisione gli autori hanno svolto le loro ricerche? quant'èw attendibile quello che crediamo di sapere sul loro protagonista,; Gesù di Nazaret? " Riguardo alla precisione con cui i Vangeli ripercorrono laj. vita di Gesù, molto dipende dall'effettiva conoscenza diretta* Ai piedi del Golgota

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di Gesù da parte degli evangelisti o almeno dai loro eventuali contatti con i testimoni oculari. La rivendicazione da parte di un autore di aver assistito a un evento storico accresce naturalmente la sua credibilità e l'autenticità della sua narrazione, sebbene al contempo cresca anche la soggettività del resoconto. Quanto meno, chiunque scriva di un evento contemporaneo dovrebbe avere intervistato un gran numero di testimoni oculari e aver posto alla base della sua ricostruzione le loro affermazioni. Chi si occupa di un evento storico passato ha il dovere di studiare tutte le testimonianze. Se esistono documenti coevi al fatto - resoconti ufficiali, comunicazioni, atti, rapporti - , i loro contenuti vanno confrontati con il racconto dei testimoni oculari e valutati attentamente. Nel caso si confermino o si completino a vicenda, lo storico ha la possibilità di ricostruire la storia in maniera credibile. Questo vale anche per la narrazione della storia della salvezza. Nel nostro caso, si tratta proprio di questo. Lasceremo qui ai teologi, e alla loro maggiore competenza in materia, l'importantissima questione della rilevanza salvifica degli eventi verificatisi a Gerusalemme nell'anno 30. Vogliamo invece verificare se il processo più gravido di conseguenze dell'intera storia mondiale ha avuto luogo nei termini che ci sono stati tramandati, e quindi, contemporaneamente, la credibilità dei resoconti esistenti: i Vangeli di Marco, Matteo e Luca e del controverso testimone oculare Giovanni. La chiave di volta della nostra ricerca è un documento storico, l'unico atto scritto conservatosi di quel processo di quasi 1970 anni fa, e può essere definito senza esagerazione come il documento-chiave: si tratta della «tavoletta della colpa», il titolo della croce recante la formulazione dell'accusa e affisso al palo verticale sopra il capo del Crocifisso. Esso ci rivela quanto precise e pregnanti siano le nostre fonti al riguardo. Al tempo stesso indagheremo, come in ogni solida ricerca storica, sull'autenticità del nostro documento. Ne ripercorreremo la storia e la provenienza. Infine, lo sottoporremo persino a un'indagine criminologica. Solo se tutti gli indizi deporranno a favo-

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re della sua autenticità, il titolo della croce potrà assurgere a tassello del grande mosaico che chiamiamo storia. E in questo quadro dobbiamo cercare anche lui, il Crocifisso. Può essere il «Cristo», il «Messia» solo se è vissuto veramente. La ricerca di Gesù può essere un'esperienza mistica, ma può anche aver inizio dalla storia. Se si confrontano le fonti su Gesù di Nazaret con quelle riguardanti altri personaggi storici dell'antichità, per esempio i grandi filosofi greci, ne emerge un quadro molto diverso. Non ci è noto un solo documento coevo che attesti, per esempio, l'esistenza storica di Pitagora, Socrate, Platone o Aristotele. Tutto ciò che sappiamo su di loro proviene da biografie redatte alcuni secoli dopo, il cui esemplare più antico pervenutoci spesso risale addirittura all'epoca araba. Conosciamo la vita di Pitagora (circa 569-471 a.C.) innanzitutto attraverso le biografie di Diogene Laerzio (attorno al 220 d.C.), di Giamblico (morto verso il 330 d . C ) e dalla Vita Pythagorae di Porfirio (232-304 d.C.), di cui rimangono solo frammenti: dunque mediante opere redatte sette secoli dopo la sua morte. Le uniche testimonianze del pensiero di Socrate (469-399 a.C.) sono rinvenibili negli scritti dei suoi allievi Senofonte e Platone, senza contare il fatto che quest'ultimo, come oggi ben sappiamo, le ha utilizzate prevalentemente per esporre la propria filosofia. La biografia di Apollonio di Tiana (circa 4-96 d.C.), filosofo e mago contemporaneo di Gesù, che aveva una folta schiera di seguaci tra gli strati sociali più elevati di Roma, è stata redatta da Filostrato attorno al 210 d.C., quindi 114 anni dopo la sua morte. Il manoscritto più antico pervenutoci (proveniente da E1 Escoriai, in Spagna) risale al X secolo. Anche le Antichità giudaiche redatte nel 94 d.C. dallo storico Giuseppe Flavio, sono state sì citate da Eusebio, autore cristiano del IV secolo, ma sono disponibili integralmente solo in una versione araba del X secolo 1 . Ciò nonostante, a nes1 G. Schischkoff, Philosophisches Wòrterbuch, Stuttgart 1991; Giuseppe Flavio, Bell. Iud.\ Id., Ani. lud.\Giamblico, Pythagoras, a cura di M. v. Albrecht, Zùrich 1963; Filostrato, Apolloniost a cura di V. Mumprecht, Mttnchen 1983; B.L. van der Waerden, Die Pythagoreer, Munchen 1979; G.Theissen-A. Merz, Der historische Jesus, Gòttingen 19972.

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, suno è mai venuto in mente di mettere in dubbio l'esistenza storica di Pitagora, Socrate, Apollonio o l'autenticità delle Antichità giudaiche. Crocifisso sotto Ponzio Pilato Gesù di Nazaret non è un mito, ma un personaggio storico. Questo - come sottolinearono gli apostoli - lo distingue dalle figure centrali dei culti misterici ellenistici, da Attis, Adone, Dioniso e Apollo. Da un punto di vista storico, la sua esistenza è meglio documentata di quella di Pitagora e Socrate ed è testimoniata, se non da tutti, almeno da un numero rilevante di cronisti e storici contemporanei. Solo i depositari del potere terreno, come gli imperatori romani, i loro governatori e i re vassalli, sono meglio attestati, perché hanno lasciato iscrizioni e monete e perché la loro vita è stata al centro dell'attenzione degli storici del tempo. È vero — come ha dimostrato il «critico della Chiesa» Peter de Rosa nel suo controverso libro Der JesusMythos - che noi conosciamo «probabilmente più fatti concreti sulla vita di Ponzio Pilato che su Gesù»2, perché il prefetto era il rappresentante in Palestina del potere terreno di Roma. Non a caso, fin dalle origini la Chiesa ha incluso nella professione di fede la formula «patì sotto Ponzio Pilato», ancoraggio alla storia dell'annuncio della salvezza. Su Ponzio Pilato, prefetto della provincia romana di Giudea dal 26 al 36 d.C., esistono resoconti dettagliati dello storico ebreo Giuseppe Flavio (37-100 d.C.) e del filosofo e teologo ebreo Filone d'Alessandria. Lo menziona anche Tacito, mettendolo in rapporto proprio con Gesù. Ritroviamo inoltre il suo nome c il suo titolo su un'iscrizione rinvenuta da archeologi italiani nel 1961 nel corso di alcuni scavi presso il teatro di Cesarea, sulla sponda israeliana del : Mediterraneo. La cosiddetta «pietra di Pilato» adornava originariamente il Tiberieum, un edificio pubblico dedicato all'im2

P. de Rosa,

Der Jesus-Mythos, Milnchen

1993, p. 30.

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peratore Tiberio. Solo più tardi fu riutilizzata per la ristrutturazione del teatro. Così dice l'iscrizione, ancora visibile (vedi riproduzione a colori): [...]STIBERIEVM «[Questo] Tiberieum [PONJTIVSPILATVS Ponzio Pilato, [PRAEF]ECTVSIVDE[AE] prefetto di Giudea, [FECITD]E[DICAVIT] costruì [e] consacrò». Colpisce il fatto che l'iscrizione sia redatta in lingua latina e non nel greco della koiné, lingua ufficiale dell'Oriente. Da essa veniamo inoltre a sapere che la carica ufficiale di Pilato era quella di «prefetto», e non di «procuratore». Pilato doveva dunque far riferimento a un procuratore, come conferma lo stesso Giuseppe Flavio. Anche i Vangeli non lo definiscono «procuratore» (epìtropos) ma, più genericamente, hègemón3. Tuttavia la «pietra di Pilato» ci rivela molto di più, dandoci informazioni sul carattere e sulla mentalità del prefetto. Il Tiberieum era un piccolo tempio che Pilato aveva fatto erigere in onore dell'imperatore a Cesarea, capitale della provincia e sede del governatore. Di solito gli imperatori venivano divinizzati solo dopo la morte; tuttavia a vassalli e alleati era consentito dedicare loro luoghi sacri quando erano ancora in vita, come segno di particolare fedeltà e attaccamento a Roma. Così Erode il Grande fece erigere, in onore dell'imperatore Augusto, una serie di templi denominati Kaisàreia. Uno di questi si trovava nella cittadina mediterranea di Torre di Stratone, che, più tardi, divenuta capoluogo della provincia, fu ribattezzata Caesarea Maritima. Probabilmente il Tiberieum di Pilato era situato proprio accanto al tempio erodiano di Augusto4. Tuttavia Tiberio rifiutò il culto personale. Come tramandatoci da Svetonio, proibì espressamente che gli venissero consacrati dei templi 5 . Che Pilato lo facesse ugualmente, forse prima del 3 4 5

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Cfr. Mt 27,2.11.14.15.21.27 e 28,14; Le 20,20. D. Flusser, Jesus, Jerusalem 1998, pp. 158s. Svetonio, Vite dei Cesari, Tiberio 26.

divieto, e che fosse l'unico prefetto ad aver eretto un luogo di culto consacrato a un imperatore vivente, ci rivela molto della sua personalità, del suo zelo, della sua venerazione esageratamente devota, persino servile nei confronti dell'imperatore. Pilato: un funzionario in carriera Pilato proveniva dalla gens Pontia, una famiglia di cavalieri. Un loro membro, L. Pontius Aquilius, era stato coinvolto nel. l'assassinio di Giulio Cesare6. Suo padre era probabilmente Marco Ponzio, un abile comandante che, sotto Augusto, guidò l'e; ; sercito nella campagna contro i cantabri. Per i suoi meriti milii: tari Marco Ponzio fu decorato con il pilum, un giavellotto onorifico, ed è da supporre che il nome dato al figlio traesse origine proprio da questa onorificenza. Possiamo dedurne che Pilato nacque poco dopo la campagna? In tal caso avrebbe avuto 44 anni quando giunse in Giudea, 48 all'epoca della condanna di Gesù, 54 quando dovette tornare a Roma - un'età del tutto realistica per un governatore. Pilato era un seguace di Seiano, uno degli uomini più potenti nella Roma dell'epoca, che iniziò ben presto a intercedere in suo favore. La lunga durata del suo incarico - il secondo per lunghezza di un governatore romano in Giudea - non dimostra tanto che a Roma lo si valutasse come «un capace e abile diplomatico con attitudini tattiche» (co^ me crede Bòsen7), quanto piuttosto che si fosse certi della sua . fedele sottomissione e lealtà. L'incarico in Giudea era ritenuto un terreno insidioso, data «l'insubordinazione del popolo e la sua naturale tendenza a disobbedire ai re»8. Nello stesso tempo Pilato si fece numerosi nemici tra gli ebrei. Filone d'Alessandria (circa 15 a.C.-45 d.C.), suo contemporaneo, lo descrive come «inflessibile, ostinato, intransigente di na4 J. Gnilka, Jesus von Nazareth, Freiburg 1993, p. 45. . 7 W. Bòsen, Der letzte Tag des Jesus von Nazaret, Freiburg 1994, p. 199. * Giuseppe Flavio, BelL lud., II, 6,2 (trad. it. La guerra giudaica, a cura di G. Vitucci, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 1974).

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tura» e gli rimprovera «corruttibilità e brutalità [...] Ruberie, maltrattamenti, offese, continue esecuzioni sommarie così come una crudeltà incessante e insopportabile». In breve, stando a quanto afferma Filone, era «un uomo malvagio e implacabile». Effettivamente, le monete coniate sotto Pilato testimoniano un certo gusto per la provocazione e l'arroganza romana. Un lepton di Pilato (una piccola moneta di rame) riporta la verga (lituus) degli àuguri, gli oracoli romani; un altro, un vaso per la bevanda sacrificale (simpulum): oggetti di culto pagani quindi, la cui sola vista non poteva non offendere ogni pio ebreo. Ciò coincide perfettamente con un aneddoto ricordato da Filone a dimostrazione delle sue accuse e che attesta ulteriormente l'eccesso di zelo del prefetto: in occasione dell'assunzione del suo incarico, Pilato fece appendere scudi dorati con iscrizioni sacre nel palazzo di Erode a Gerusalemme, in cui si insediava, «per offendere la folla». La folla si sentì provocata e inviò a Pilato una delegazione formata dai quattro figli di Erode e da altri dignitari, bruscamente respinta dal prefetto. Solo una petizione degli ebrei a Tiberio ebbe successo: l'imperatore si premurò che gli scudi venissero rimossi da Gerusalemme e appesi nel tempio di Augusto a Cesarea9. L'aneddoto trova conferma negli atteggiamenti di Pilato descritti dai Vangeli: egli cedette alla minacce dei dignitari ebraici solo quando questi, con le parole: «Se tu liberi costui, non sei amico di Cesare» (Gv 19,12), colpirono il suo punto debole. Non solo c'era il pericolo che un secondo reclamo a Tiberio gli potesse costare la tanto agognata carica di governatore; no, Pilato faceva di tutto per essere «amico di Cesare» e conquistarsi la benevolenza dell'imperatore, che venerava smisuratamente. Ciò nonostante, quando i membri del sinedrio criticarono il titolo scelto, volutamente provocatorio, di «re dei giudei» da affiggere sulla croce, Pilato reagì in maniera testarda e arrogante, con le parole: «Ciò che ho scritto, ho scritto» (Gv 19,22). 9

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Cit. da Bosen, op. cit., p. 203.

Forse l'episodio della provocazione narrato da Filone è il medesimo che Giuseppe Flavio descrisse come segue: «Pilato, governatore della Giudea, quando trasse l'esercito da Cesarea e 10 mandò ai quartieri d'inverno di Gerusalemme, compì un passo audace in sovversione delle pratiche giudaiche, introducendo in città i busti degli imperatori che erano attaccati agli stendardi militari, poiché la nostra legge vieta di fare immagini. È per questa ragione che i precedenti procuratori, quando entravano in città, usavano stendardi che non avevano ornamenti. Pilato fu il primo a introdurre immagini in Gerusalemme e le pose in alto, facendo ciò senza che il popolo ne avesse conoscenza, avendo compiuto l'ingresso di notte; quando il popolo ne venne a conoscenza una moltitudine si recò a Cesarea e per molti giorni lo supplicò di trasferire le immagini altrove. Ma egli rifiutò, in quanto, così facendo, avrebbe compiuto un oltraggio contro l'imperatore; e seguitando a supplicarlo, nel sesto giorno armò e dispose le truppe in posizione, ed egli stesso andò sulla tribuna. Questa era stata costruita nello stadio per dissimulare la presenza dell'esercito che era in attesa. Quando i giudei cominciarono a rinnovare la supplica, a un segnale convenuto, 11 fece accerchiare dai soldati minacciando di punirli subito di morte qualora non ponessero fine al tumulto e non ritornassero ai loro posti. Quelli allora si gettarono bocconi, si denudarono il collo e protestarono che avrebbero di buon grado salutato la morte piuttosto che trascurare le ordinanze delle loro leggi. Pilato, stupito dalla forza della loro devozione alle leggi, senza indugio trasferì le immagini da Gerusalemme e le fece riportare a Cesarea»10. In un'altra occasione Pilato decise di prendere «dal sacro tesoro [del tempio] il denaro per la costruzione di un acquedotto per condurre l'acqua a Gerusalemme, allacciandosi alla sorgente di un corso d'acqua distante di là ben duecento stadi». La cosa è comprensibile: a Gerusalemme si consumavano grandi ì0 Giuseppe Flavio, Ant. Iud., XVIII, 3,1 (trad. it. Antichità giudaiche, a cura di L. Moraldi, UTET, Torino 1998;.

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quantità d'acqua per le abluzioni rituali di centinaia di migliaia di pellegrini che, in occasione delle grandi festività ebraiche, facevano il loro ingresso nel tempio solo dopo essersi purificati. «I giudei però non aderirono alle operazioni richieste da questo lavoro e, raccoltisi insieme in molte migliaia, con schiamazzi gli intimavano di desistere da questa impresa. Taluni di costoro urlavano insulti, ingiurie e villanie, come suole fare l'adunanza di una folla. Pilato inviò perciò un forte raggruppamento di soldati in costume giudaico, con manganelli nascosti sotto i vestiti, in una piazza da dove era possibile circondare con facilità i giudei, e ordinò quindi a questi ultimi di disperdersi. Quando i giudei erano in un pieno torrente di villanie, diede ai soldati un segnale convenuto ed essi li colpirono molto di più di quanto ordinato da Pilato, colpendo ugualmente i cittadini pacifici e quanti protestavano... Così terminò la sommossa»11. Era questa la «sommossa scoppiata in città» a cui si riferisce Luca (23,19) e durante la quale Barabba fu «messo in prigione ... per omicidio». Solo un terzo episodio costò a Pilato la carica di governatore. Nell'anno 36 d.C. «un uomo bugiardo, che in tutti i suoi disegni imbrogliava la plebe» condusse gli abitanti di Samaria sul monte sacro di Garizim e «li assicurò che all'arrivo avrebbe mostrato loro il sacro vasellame, sepolto là dove l'aveva deposto Mosè». I samaritani prestarono fede a questo falso profeta, «presero le armi e, fermatisi a una certa distanza, in una località detta Tirathana, mentre congetturavano di scalare la montagna in gran numero, acclamavano i nuovi arrivati»12. Pilato subodorò una rivolta e fece occupare la strada che conduceva alla montagna sacra dalla sua cavalleria e dai fanti, che diedero l'assalto alla folla. La grande massa di quanti si erano lì radunati fu colpita mentre fuggiva, i loro capi presi prigionieri e giustiziati. " Ibid.,XVIII, 3,2. Secondo la traduzione di L. Moraldi, i romani non sarebbero stati armati di manganelli, ma di pugnali: «Egli allora collocò un buon numero di soldati in abiti giudaici sotto i quali ognuno portava il pugnale, e li inviò a circondare i Giudei con l'ordine che si trattenessero» (ibid., XVIII, 3,2,61 - ndt). 12 Ibid., XVIII, 4,1-2.

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Il Consiglio supremo dei samaritani protestò contro questo brutale modo di procedere presso Vitellio, il procuratore di Siria cui Pilato, in quanto prefetto, era subordinato. Vitellio inviò in Giudea il suo fido Marcello e ordinò a Pilato di recarsi a Roma senza indugio per rispondere davanti a Tiberio. Quando però Pilato, dopo una lunga e fortunosa traversata, approdò in Italia, Tiberio era già morto. Pilato non avrebbe mai più fatto ritorno in Giudea. Il nuovo imperatore, Caio Caligola, nominò un nuovo prefetto, Manilio, finché, nel 41 d.C., non incoronò re di Giudea il suo amico di gioventù Erode Agrippa I. II destino di Pilato dopo il ritorno a Roma è incerto. Secondo la tradizione, fu trasferito o esiliato a Vienne, in Gallia. Stando alle leggende, tormentato da sensi di colpa, si sarebbe suicidato nell'anno 39 gettandosi nel Rodano, nel Tevere o nel lago dei Quattro Cantoni, presso Lucerna, dove un massiccio montuoso porta ancora oggi il suo nome. Sebbene, nel caso dei disordini samaritani, il prefetto abbia fatto fronte alla rivolta con eccessiva durezza, dagli episodi tramandati non si può in alcun modo ricavare quell'immagine di Pilato estremamente negativa trasmessaci da Filone. Certo, egli era troppo zelante ed esageratamente devoto ai suoi superiori a Roma. Provocava invece volentieri i suoi sottoposti, era ostinato, arrogante, cinico e interveniva con durezza quando lo riteneva necessario. Oggi lo si descriverebbe forse come il prototipo del funzionario di un regime totalitario, come un arrivista che si inchina a chi sta in alto e calpesta chi gli è sottoposto. Ma si mostrò anche impressionato dalla fermezza degli ebrei che dimostravano a Cesarea; fece domare la sommossa di Gerusalemme con i manganelli invece che con le spade, e Giuseppe Flajvio ammette che in questa occasione i legionari esercitarono la violenza purtroppo «molto più di quanto ordinato da Pilato». Si è sempre rimproverato ai Vangeli di aver minimizzato le responsabilità di Pilato allo scopo di accattivarsi le simpatie di Roma, ma ciò si può sostenere solo accettando alla lettera il resoconto di Filone. In ogni caso, l'immagine di Pilato che si ricava dal resoconto di Giuseppe Flavio non è così estrema.

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La testimonianza di Giuseppe Flavio Tutte le fonti storiche, cristiane e non, sono concordi nell'indicare che Gesù visse e fu giustiziato sotto Pilato. Tuttavia queste fonti non sono del tutto incontestabili. Ecco cosa dice Giuseppe Flavio: «All'incirca allo stesso tempo visse Gesù, uomo saggio, se pure uno lo può chiamare uomo; poiché egli compì opere sorprendenti, e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli conquistò molti giudei e molti greci. Egli era il Cristo. Quando Pilato udì che era accusato dai principali nostri uomini, lo condannò alla croce. Coloro che fin da principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui. Nel terzo giorno, apparve loro nuovamente vivo: perché i profeti di Dio avevano profetato queste e innumerevoli altre cose meravigliose su di lui. E fino a oggi non è venuta meno la tribù di coloro che da lui sono detti cristiani»13. Effettivamente questa breve citazione pone degli interrogativi perché, se fosse autentica, potrebbe solo significare che lo stesso Giuseppe Flavio era un cristiano. «Egli era il Cristo» equivale alla confessione di fede «Egli era il Messia», perché «Cristo» altro non era che la traduzione greca della parola ebraica màsiah («l'Unto»). Questo però lo storico ebreo non lo credeva in alcun modo: per lui il «Messia» era l'imperatore romano Vespasiano, che aveva condotto la guerra contro gli ebrei. D'altra parte va anche esclusa una falsificazione, cioè un'interpolazione successiva perché, due capitoli oltre, si parla della condanna e della lapidazione di Giacomo decisa nel 62 d.C. dal Sinedrio guidato dal sommo sacerdote Anna II. In questo passo Giacomo viene definito, concordemente con gli Atti degli apostoli, «fratello di Gesù, che era soprannominato Cristo»14, il che presuppone che questi fosse già stato nominato dall'autore. Inoltre già lo storico della Chiesa Eusebio di Cesarea (260-339) ci13 14

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Giuseppe Flavio, Ant. Iud.y XVIII, 63s. Ibid., XX, 200.

tava il passo che da allora divenne famoso con il nome di Testimonium Flavium («testimonianza di Flavio»)15, in un'epoca dunque in cui il cristianesimo stava appena iniziando ad affermarsi e in cui non ci si poteva certo permettere una tale grossolana falsificazione di un autore così eminente. E ancora, formulazioni come «uomo saggio» e l'espressione ironica «accoglievano con piacere la verità» non corrispondono in alcun modo all'uso linguistico cristiano quanto piuttosto allo stile tipico di Giuseppe Flavio. Anche l'espressione «la tribù di coloro che ... sono detti cristiani» suona riduttiva. Il Testimonium

ha subito forse delle modifiche? A f a v o r e di

questa tesi si esprime una citazione del Padre della Chiesa Origene (185-254), il quale, un secolo prima di Eusebio, dichiarò espressamente che Giuseppe Flavio non aveva «riconosciuto che Gesù è il Cristo»16. Proprio sulla base di questa affermazione di Origene numerosi ricercatori hanno tentato di ricostruire il testo originario di Giuseppe Flavio. I passi controversi sono quelli qui riprodotti in corsivo. L'aggiunta «se pure uno lo può chiamare uomo» è univocamente cristiana e la sua libera invenzione è definitivamente accertata. Al posto dell'affermazione perentoria «Era il Cristo» potrebbe esserci stata la subordinata «i quali lo consideravano il Cristo». L'affermazione circa la risurrezione di Cristo può essere un'ulteriore aggiunta posteriore, perché altrimenti sarebbe stata più probabilmente introdotta da un «narravano che ...». In effetti Agapio, vescovo di Ierapoli (X secolo), nella sua Storia universale cristiana cita un manoscritto arabo delle Antichità giudaiche in cui il suddetto passo viene riportato nei seguenti termini: «... ma coloro che erano divenuti suoi discepoli, non rinnegarono il suo insegnamento e narravano che era loro apparso tre giorni dopo la sua crocifissione e che era vivo e che per questo era forse il Messia, di cui i profeti hanno detto cose miracolose»17. 15 Eusebio, tìist. Eccl., XI, 7-8 (trad. it. di G. DelTon, Storia ecclesiastica, Desclée, Roma-Parigi-Tournai-New York 1964). 16 ;: Contra Celsum, 1,47. " Cit. da G.Theissen-A. Merz, op. cit., p. 81.

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La sommossa di Cresto Anche le affermazioni degli storici romani sono state messe in dubbio, sebbene immotivatamente. Nei suoi Annali Tacito cita i cristiani solo perché l'imperatore Nerone li incolpò dell'incendio di Roma (64 d.C.) e li fece giustiziare in massa. Pur condannando la crudeltà di Nerone, anche Tacito li accusa di «odio contro il genere umano», perché «erano colpevoli e si erano meritati le pene più severe». In questo quadro, per spiegare l'origine della denominazione di «cristiani», aggiunge: «Questo nome deriva da Cristo, che fu giustiziato sotto Tiberio dal procuratore [sic] Ponzio Pilato. Questa perniciosa superstizione fu momentaneamente soffocata ma riemerse successivamente e si diffuse non solo in Giudea, dove aveva avuto origine, ma anche a Roma, dove confluiscono e vengono praticati tutti gli orrori e le nefandezze del mondo intero»18. Svetonio, nelle sue Vite dei Cesari, loda Nerone anche per le sue persecuzioni contro i cristiani: «Si procedette con la pena di morte contro i cristiani, una setta cioè che si era data a una nuova, pericolosa superstizione». Ma gli è anche nota una prima, azione contro i cristiani che ebbe luogo sotto il predecessore di Nerone, Claudio, che, probabilmente nel 49 d.C., emanò un. editto contro la comunità ebraica di Roma, cui appartenevano evidentemente i primi cristiani: «Scacciò da Roma gli ebrei che,: aizzati da Cresto, fomentavano continuamente disordini»19. Al contrario di Tacito, Svetonio non era evidentemente a conoscenza dell'origine del nome di «cristiani». Poiché Cresto («utile») era un nome frequente tra gli schiavi, ne dedusse che proprio uno schiavo dovesse essere stato il capo dei rivoltosi. Ugualmente disinformato era Plinio il Giovane (61-120), che fu inviato nell'anno 111 dall'imperatore Traiano come legato imperiale nella provincia di Bitinia e Ponto e chiese a Roma come dovesse comportarsi colà con i cristiani. Solo questo poteva riferire di Ann. 15,44,3. " Claudio, 25,4.

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loro: «che si radunano abitualmente in un giorno stabilito prima del calar del sole, cantano alternativamente le lodi a Cristo come al loro Dio e che si sono impegnati con un giuramento a non indulgere in reati ma a tralasciare furti, ruberie, adulteri, infedeltà e l'appropriazione di beni affidati loro»20. Quando venne appeso Jeshu Anche le fonti ebraiche si esprimono in maniera appena più circostanziata. «Alla vigilia della festa di Pesach fu appeso Jeshu», afferma laconicamente il Talmud21, non senza osservare che tutto questo si svolse secondo un procedimento giudiziario ordinario davanti al Sinedrio, il Consiglio supremo: «Quaranta giorni prima l'araldo aveva proclamato: "Sarà condotto fuori per la lapidazione perché ha commesso stregonerie e sedotto Israele e l'ha trasformato in un rinnegato; chi ha qualcosa da dire in sua difesa, venga e lo dica". Poiché però non fu addotto nulla in sua difesa, lo si appese alla vigilia della festa di Pesach». Alcuni ricercatori giudicano questa tradizione molto antica e la datano all'inizio del II secolo, quando il giudaismo iniziò a ridefinirsi dopo la grande sconfitta del 70 d.C. e la distruzione del tempio da parte dei romani. Naturalmente Gesù non fu lapidato perché, all'epoca dell'occupazione romana, le autorità ebraiche non potevano comminare la pena di morte, se non eccezionalmente. Ciò nonostante si deve supporre che egli venisse accusato dai membri del Sinedrio di aver bestemmiato il nome di Dio, colpa per cui, secondo la legge mosaica, era prevista la lapidazione, pena sconosciuta ai romani. Per ottenere che venisse giustiziato, i vertici del tempio, guidati dal sommo sacerdote Caifa, lo accusarono invece di fomentare una rivolta politica e accennò al fatto che i suoi discepoli lo ritenevano il Messia, il «re dei giudei». Di conseguenza Gesù fu «appeso», 20 21

Ep. 10,96s. bSanh 43a.

cioè crocifisso. In effetti i Vangeli confermano indirettamente che l'accusa dei membri del Sinedrio fu preparata con cura, forse addirittura, come prescrive la legge, per quaranta giorni. Matteo (26,60-61) e Marco (14,55) riportano che «molti falsi testimoni» erano stati convocati a casa del sommo sacerdote per essere interrogati. Entrambi sottolineano poi, assieme a Luca, che già ben prima della festa di Pasqua «i capi dei sacerdoti e i dottori della legge cercavano come sopprimerlo (Le 22,2)». II saggio re dei giudei Cosa avevano ricavato «i giudei dall'esecuzione del loro saggio re, visto che da quel momento il regno era stato loro tolto?»22, si domandava infine - per concludere il balletto dei riferimenti coevi a Gesù - il filosofo siriaco Mara Bar Sarapion, uno stoico del I secolo, in una lettera redatta, secondo gli esperti, poco dopo il 73 d.C È forse il riferimento più significativo: non solo un dotto pagano aveva sentito parlare di Gesù ed evidentemente l'aveva anche ammirato, ma aveva addirittura attribuito alla sua morte un significato tale per cui la catastrofe del 70 costituiva una sorta di punizione divina. Tanto è ben documentata l'esistenza storica di Gesù attraverso queste fonti coeve, quanto queste si rivelano insoddisfacenti riguardo alle loro affermazioni. Non possiamo infatti trarne altri elementi che questi: - nel corso della sua vita «compì fatti incredibili», predicò e fu considerato un «re di saggezza» o il Messia; - all'epoca dell'imperatore Tiberio, sotto il governatore Ponzio Pilato, cioè tra il 26 e il 36 d.C., su sollecitazione dei sommi sacerdoti, con l'accusa di aver commesso atti di stregoneria e di aver traviato il popolo, fu crocifisso a Gerusalemme alla vigilia della festa di Pasqua; 22 Cit. da F. Schulthess, Der Briefd.es Mara bar Sarapion. E'ui Beitrag zur Geschichte der syrischen Literatur, in Zeitschrift der deutschen morgenliindischen Gesellschaft, 51 (1897), pp. 365-391.

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- i suoi discepoli gli rimasero fedeli, diffusero il suo insegnamento nel mondo intero e in questo modo giunsero sino a Roma. Proprio questi fatti, lungi dal contraddire i Vangeli, sembrano piuttosto confermarli. Purtuttavia, quanto si possono considerare affidabili le «liete novelle» - questa la traduzione letterale del greco euaggélion - come fonti storiche, come «Vite di Gesù»? Liete novelle e biografie di Gesù Ben poco o niente, affermano i critici. «Sono teologia e non storia»23, assicura Peter de Rosa, autore del best-seller Der Jesus-Mythos. Ma questa teologia non è stata trasmessa attraverso la ricostruzione autentica della vita di colui che la originò? Anche la biografia di Pitagora redatta da Giamblico fu innanzitutto un tentativo di comunicare il pensiero del grande filosofo greco e di farlo assurgere a precursore di una nuova corrente filosofica, il neoplatonismo. Ciò nonostante, l'autore si è sforzato di ricostruire il percorso esistenziale del saggio di Samo, per quanto ciò fosse ancora possibile 900 anni dopo. Gli evangelisti, che hanno tutti inconfutabilmente redatto i loro scritti nello stesso secolo in cui visse Gesù, avrebbero potuto permettersi di falsificare la realtà storica? Non sarebbero in questo modo diventati automaticamente bersaglio degli attacchi dei critici, già allora così numerosi, e dei dichiarati avversari della nuova religione? In effetti gli avversari dei cristiani mettevano sì in dubbio la credibilità di singoli episodi descritti nei Vangeli, in particolare dei miracoli di Gesù e della rivelazione della sua natura divina, mai però il quadro complessivo. Un esempio di questo dibattito è il dialogo che ebbe luogo per iscritto tra il 177 e il 180 d.C. tra Celso, seguace degli antichi filosofi greci, e il Padre della Chiesa Origene. Celso difendeva la sua «dottrina antichissima, che esi22

P. de Rosa, op. citp.

20.

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steva fin dall'inizio» contro il cristianesimo «appena sorto». Per quanto l'opera di Celso La vera dottrina non si sia conservata, possiamo farci un'idea del suo modo di argomentare attraverso la risposta di Origene. Celso fa dire a un ebreo che si rivolge a Gesù: «Quando eri con Giovanni e ti sei immerso [nel momento del battesimo], dici di aver visto qualcosa che pareva un uccello discendere su di te dall'aria. Quale testimone attendibile può dire di aver condiviso questa visione, o chi altri udì una voce dal cielo dire che eri assurto a Figlio di Dio? Non c'è alcuna prova, al di fuori della tua parola e della testimonianza, che potresti addurre, di uno degli uomini che con te sono stati puniti»24. Celso non è quindi particolarmente colpito dalla testimonianza oculare di un discepolo e fa appello a dei testimoni indipendenti. Origene confessa «che il tentativo di trovare conferma a pressoché ogni episodio come fatto storico, anche quando questo episodio è vero, e di raggiungere una totale certezza in proposito, è uno dei compiti più difficili ed è in alcuni casi persino impossibile». Celso mette sì in dubbio l'oggettività storica dei quattro evangelisti, ma non avrebbe mai osato mettere in discussione l'esistenza storica di Gesù o il carattere biografico dei Vangeli. Incontrovertibilmente, i Vangeli appartengono alla tradizione biografica dell'antichità. Così spiega anche lo storico della forma K. Berger: «La biografia ellenistica... è talmente multiforme che anche i Vangeli potrebbero trovarvi posto»25. Già nel 1915 Clyde Weber Votaw chiarì che i Vangeli corrispondono per stile e struttura alla «letteratura biografica popolare greco-romana»26. Secondo E. Stanton, ciò che li caratterizza è l'assenza di tutti quegli elementi che noi oggi consideriamo importanti, come la cronologia o l'approfondimento deUo spessore psicologico del protagonista. Che i Vangeli siano «scritti secondo le modalità delle antiche biografie» è stato dimostrato in uno studio dettagliato anche dal teologo Richard Burridge, decano del Kings 24

Contra Celsum, 1,41. Cit. da G. Theissen-A. Merz, op. ciL, p. 107. 25 Cit. da Jesus Christus. Wort des Vaters, introduzione di R. Etchegaray, a cura della Theologisch-Historische Kommission fiir das Heilige Jahr 2000, Regensburg 1997, p. 68. 25

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College di Londra. Per giungere a questa conclusione, ha analizzato dieci biografie dell'antichità classica27 e le ha confrontate per forma, struttura e contenuto con i Vangeli. «Gli antichi avevano un interesse essenzialmente maggiore per il significato simbolico o psicologico della vita», ha appurato. Anche scrittori come Tacito, Svetonio o Giuseppe Flavio non descrivono l'aspetto esteriore dei loro protagonisti né sono interessati a presentare i momenti della loro esistenza, come farebbe un biografo moderno; importa loro piuttosto di trarre un bilancio da poche ma significative tappe esistenziali e da lunghi monologhi o dialoghi o di approfondire attraverso essi il ritratto caratteriale del protagonista. Inoltre, in quasi tutte le biografie dell'antichità, gli ultimi eventi della vita dell'eroe occupano uno spazio molto cospicuo: in Plutarco il 17,3%, in Cornelio Nepote il 15%, in Tacito il 10%, in Filostrato il 26%. Quindi, ai Vangeli, che dedicano alla passione di Gesù tra il 15% (Luca e Matteo) e il 19,1% (Marco), spetta una posizione intermedia28. Gli evangelisti, che volevano comunicare al loro pubblico specifico l'essenza della vita e dell'insegnamento di Gesù, hanno proceduto in maniera ugualmente selettiva a quella dei biografi dell'antichità, che sceglievano episodi dalla vita dei loro eroi per evidenziare attraverso questi il pensiero e il modo di essere dei protagonisti. Non è una contraddizione, bensì il tentativo «di trasmettere una verità più vera di quanto non potessero mai fare i fatti». Indubbiamente ogni Vangelo è un'interpretazione della figura di Gesù. Tuttavia, per quanto ognuno dei quattro evangelisti tratteggi gli avvenimenti della vita di Gesù in maniera del tutto personale, la storia narrata è essenzialmente sempre la stessa29. In conclusione, bisogna ammettere: «La co27 Vale a dire Evagoras di Isocrate (436-338 a.C.); Agesilaos di Senofonte (428-354 a.C.); Euripides di Satyros (III secolo a.C.);Atticus di Cornelio Nepote (I secolo a.C.) da De viris illustrìbus, primo esempio di biografia romana; Moses di Filone Alessandrino (30/25 a.G-45 d.C.); Agricola di Tacito (98 d.C.); Cato Minor di Plutarco (45-120 d.C) dalle Vite parallele; Le vite dei Cesari di Svetonio (nato nel 69 d.C.); Demonax di Luciano (120-180 d.C.); Apollonio di Tiana di Filostrato (170-250 d.C.). 28 Jesus Christus. Wort des Vaters, op. cit, p. 71. 29 M. Tully, Jesus: Prophet, Messias, Rebell?, Kòln 1997, pp. 19-23.

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munità cristiana delle origini non avrebbe prodotto i Vangeli sotto forma di Vite se non fosse stata interessata alla persona storica di Gesù, fonte e fondamento che giustifica la presenza di fede, preghiera, missione, servizio e testimonianza»30. La «ricerca crìtica sulla vita di Gesù» Ciò nonostante si è sempre cercato di mettere in dubbio il contenuto di verità dei Vangeli. La storia della «ricerca critica sulla vita di Gesù» ha inizio con l'illuminismo. Tra il 1774 e il 1778 Gotthold Ephraim Lessing curò la pubblicazione dell'opera Apologia dei ragionevoli adoratori di Dio delForientalista di Amburgo Hermann Samuel Reimarus (1694-1768), il quale sosteneva la necessità di occuparsi della vita di Gesù da un punto di vista puramente storico. Secondo Reimarus ciò implicava: la distinzione tra l'annuncio di Gesù e la fede in Cristo degli apostoli; il riconoscimento storico che l'annuncio di Gesù è comprensibile solo a partire dal contesto della religione ebraica di quel tempo; il riconoscimento della discrepanza tra il messaggio politico-messianico di Gesù e la fede dei discepoli nella risurrezione che, arguiva Reimarus, andrebbe fatta risalire a un «inganno», la sottrazione del cadavere del Crocifisso31. Come molti dopo di lui, anche Lessing si lasciò convincere da Reimarus del fatto che tra storia e fede esisteva «un fossato orribilmente ampio». Mentre all'«ipotesi dell'inganno» attinsero spesso in seguito gli scettici - con le variazioni del caso, come quella secondo la quale Gesù sarebbe sopravvissuto alla crocifissione e si sarebbe rifugiato in India - , le prime due premesse di Reimarus avrebbero continuato a improntare la discussione tra i teologi critici tedeschi, per lo più di confessione protestante.

30 31

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Jesus Christus. Wort des Vaters, op. cit., p. 73. G.Theissen-A. Merz, op. cit., p. 22.

Ma il manifesto razionalista forse più in grado di influenzare il prosieguo della discussione teologica è stato La vita di Gesù del filosofo e teologo David Friedrich StrauB, pubblicato tra il 1835 e il 1836. Per StrauB i Vangeli sono miti che devono essere interpretati da un punto di vista razionalistico. StrauB affermava che, in tutti quei passi dei Vangeli in cui le leggi della natura paiono essere messe fuori gioco, in cui le diverse tradizioni si contraddicono vicendevolmente o presso i quali alcuni eventi vengono interpretati come adempimento delle profezie vetero-testamentarie, lì è al lavoro il mito, «la saga che, senza averne l'intenzione, tesse una trama poetica»32. Attraverso centinaia di pagine StrauB cercò di spiegare i miracoli di Gesù e di esporre i motivi per cui la loro narrazione altro non era che il tentativo dei primi cristiani di trasmettere all'ambiente circostante la consapevolezza dell'azione salvifica di Gesù. In particolare, StrauB rifiutò al Vangelo di Giovanni, sulla base delle sue premesse teologiche, il carattere di fonte storica. Ancora oggi de Rosa riprende quasi integralmente le sue argomentazioni33. Il liberalismo teologico e la questione del Gesù storico conobbero il momento di massima fioritura durante l'impero guglielmino. L'obiettivo era lasciarsi alle spalle tutti i dogmi relativi al Cristo e riscoprire il «vero Gesù» attraverso una ricostruzione storico-critica dei suoi insegnamenti. Attraverso questo «ritorno alla fonte autentica del cristianesimo» si credeva di poterne operare il rinnovamento. Una questione decisiva a questo proposito era l'individuazione del Vangelo più antico, perché si riteneva che questo potesse maggiormente avvicinarsi a un ideale di autenticità. Già nel 1776 Johann Griesbach34 aveva tentato di compilare una sinossi evangelica, e ciò facendo aveva notato la relativa somiglianza tra i testi di Matteo, Marco e Luca, mentre il quarto Vangelo, quello di Giovanni, era un testo concepito diversamente e in maniera del tutto autonoma rispetto 32

Cit. da G.Theissen-A. Merz, op. cu., p. 23. " P. de Rosa, op. cit. 34 J.B. Griesbach, Synopsis Evangeliorum Matthaei, Marci et Lucae, Halle 1774-76.

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agli altri tre, e offriva un'immagine di Gesù del tutto particolare. Perciò operò il raffronto solo sui primi tre Vangeli, tralasciando il quarto. Giunse così alla conclusione che Matteo era il più antico dei tre Vangeli sinottici e che Marco era la sintesi successiva di Matteo. Solo nel 1835 Karl Lachmann35 notò che Matteo e Luca coincidono nella successione cronologica dei materiali solo quando seguono Marco, mentre divergono fortemente quando riportano passi non presenti in Marco. In particolare, Matteo sembrava essersi servito di una raccolta di detti di Gesù di cui Marco non era a conoscenza. Da questo Christian Wilke, nel 1838, dedusse la priorità temporale di Marco36: Marco era il più antico dei Vangeli, Matteo e Luca attinsero a questa fonte e la utilizzarono come base per testi ampliati grazie al ricorso a tradizioni autonome. Infine, Christian Weise formulò anch'egli nel 1838 la sua «ipotesi dei due documenti»: oltre al Vangelo di Marco, Matteo e Luca dovevano poter disporre anche di una seconda fonte scritta, una raccolta dei detti di Gesù.

Q Questa teoria non incontrò subito il favore della maggior parte dei teologi. Già la Chiesa delle origini considerava Matteo come il Vangelo più antico; inoltre l'immagine di Gesù che emergeva da questo Vangelo appariva più chiara e maggiormente conforme al contesto ebraico. Ciò nonostante, molti elementi deponevano a favore della teoria delle due fonti, che infine si impose grazie al contributo dell'influente teologo tedesco Heinrich Julius Holtzmann (1832-1910)37. In questo modo Marco e la raccolta di detti (loghia) che fu presto indicata come fonte Q (Q è l'iniziale del tedesco Quelle, «fonte») furono riconosciuti come le più antiche e autentiche testimonianze del Gesù stori35 K. Lachmann, De ordine narrationum in evangeliis synopticis, in Theologische Studien und Kritiken, 8 (1835), pp. 570-590. 36 C.G. Wilke, Der Urevangelist, Dresden-Leipzig 1838. 37 HJ. Holtzmann, Die synoptischen Evangelien, Leipzig 1863.

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co. Matteo e Luca furono considerati come compositori di nuove sinfonie su Gesù, Giovanni fu completamente tralasciato. Il quarto Vangelo - in questo gli studiosi erano tutti concordi - «riveste per molte ragioni una posizione particolare ed è molto poco appropriato come fonte storica», come affermava ancora nel 1996 ifpedagogo della religione Gerd Laudert-Ruhm38. In effetti, alcuni elementi depongono a favore della teoria delle due fonti. Nei Vangeli di Matteo e Luca troviamo 230 detti di Gesù che Marco pare non conoscere. Matteo li intreccia elegantemente nel tessuto del testo, mentre Luca li presenta in blocco; tuttavia l'85% di essi viene citato nella medesima successione, come afferma il teologo Johann Kloppenburg39. Allo storico della Chiesa Adolf von Harnack fu così possibile, nel 1907, identificare I discorsi di Gesù e pubblicarli in un opuscolo, una sorta di quinto Vangelo40. Tuttavia Holtzmann era incorso in una conclusione tragicamente erronea: limitando la sua ricostruzione di Gesù alle fonti più antiche, dimenticò che un ampliamento poteva anche costituire un arricchimento e che una rappresentazione posteriore di un evento poteva anche essere la più completa. Egli cercò di elaborare una biografia critica di Gesù sulla base della sua teoria della priorità temporale del Vangelo di Marco. Da questa «analisi critica delle fonti» si sviluppò nei successivi decenni la moderna «ricerca sulla vita di Gesù», che è sempre sfociata nel medesimo risultato: presentare un'immagine di Gesù «rivista», cioè ridotta per lo più a ciò che si suppone essere 1'«essenziale», colmando arbitrariamente le lacune. Ne consegue che, in ultima analisi, in quest'immagine si riflette la concezione ideale di quella che doveva essere stata la personalità di Gesù propria di quello studioso, che alla fine crede di poter distinguere tra quello che Gesù ha detto veramente e quello che non ha detto. Questa tendenza alla proiezione è stata stigmatizzata nel 1906 da Albert 38

G. Laudert-Ruhm, Jesus von Nazareth, Stuttgart 1996, p. 14. J. Kloppenburg, Theformation ofQ, Philadelphia 1987. 40 A. Harnack, Die Reden Jesus, 1907. 39

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Schweitzer - il futuro «dottore della foresta vergine» - nella sua ragguardevole Storia della ricerca sulla vita di Gesù. Gli autori trasformavano di volta in volta Gesù di Nazaret in un riformatore sociale radicale, un combattente per la libertà, un ribelle politico, una personalità in cui si incarnava l'etica ebraica, un carismatico errante, un profeta, un cinico stoico di impronta ellenistica, un mago egiziano o un monaco buddista girovago41. Tuttavia il nuovo Gesù decristianizzato era così pallido e disincarnato da poter fungere da modello per qualsiasi avventura teologica, come Albert Schweitzer osserva così acutamente neUa sua opera: «Alla ricerca sulla vita di Gesù è accaduto qualcosa di curioso. Si è messa in marcia alla ricerca del Gesù storico, e ha pensato di poterlo poi immettere nel nostro tempo così com'è, come maestro e Salvatore. Ha dissolto i legami con cui era rimasto incatenato da miUenni ai macigni della dottrina della Chiesa e ha gioito quando vita e movimento sono riafQuiti neUa figura e ha visto avanzare verso di sé la persona storica di Gesù. Ma questi non è rimasto immobile, ha solo sfiorato il nostro tempo ed è tornato nel suo»42. Ciò nondimeno, anche Schweitzer è caduto vittima della stessa tentazione. Per lui «il Gesù di Nazaret... che ha predicato l'etica del regno di Dio, che ha fondato sulla terra il regno dei cieli, non è mai esistito». Al contrario, Gesù sarebbe stato un profeta apocalittico, caduto vittima del suo stesso errore43.

Gesù storico o Gesù kerygmatico? Dalla metà degli anni sessanta, anche nella teologia universitaria cattolica si è imposta r«analisi della forma» (Formgeschi• chte) dei Vangeli, con le sue diramazioni di «analisi della tradi41 B.L. Mack, The Lost Gospel, New York 1993; J.D. Crossan, Der historische Jesus, Mùnchen 1994; E. Gruber-H. Kersten, Der Ur-Jesus, Munchen 1994; G. Laudert-Ruhm, op. cit.: L. Schottroff-W. Stegemann, Jesus voti Nazareth, Stuttgart 1978; S. Ben-Chorin, Bruder Jesus> Mttnchen 1967 e molti altri. 42 A. Schweitzer, Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, Miinchen-Hamburg 1966, p. 620.

43

50

lbid., p. 396.

:

: zione» e «analisi della redazione». Questa scuola si rifa origi\ nanamente ai teologi Martin Dibelius e Rudolf Bultmann, i qua/ li supponevano che la Chiesa delle origini (prima del 70) non U avesse bisogno di Vangeli, perché partiva dal presupposto del.•• l'imminente ritorno di Cristo. Disponeva solo di una raccolta di -£ detti, di alcuni racconti esemplari e di un brevissimo resoconto ; : della crocifissione. Per questi studiosi la forma e i nuclei con5; : tenutistici essenziali risalgono, per il tramite degli apostoli, a ; molti anni dopo la propagazione dell'annuncio: Marco dopo il p: 70, Matteo e Luca dopo l'80, Giovanni addirittura dopo il 90, • mentre le attribuzioni servivano unicamente allo scopo di con' ferire una patente di autenticità a opere originariamente ano^ nime. A quell'epoca l'autentica memoria del Gesù storico era :. andata abbondantemente persa, e al suo posto era subentrato il ;; ; Gesù kerygmatico, il Cristo dell'annuncio. In quel momento la dottrina degh apostoli era già mutata, assumendo contorni sin£ ;; eretici, mentre originariamente c'erano state differenze incol; mabili tra l'insegnamento di Pietro e quello di Paolo. Il Gesù di f Pietro sarebbe stato il Messia giudaico, quello di Paolo un figlio rj r di Dio ellenistico attorno al quale si intessevano i racconti dei \ miracoli44. Il contenuto dei Vangeli, come affermavano gli stori• ci di quella forma letteraria, era determinato principalmente dal i; «contesto vitale» (Sitz im Leben), quindi dalle impellenti pro}: blematiche con cui dovevano misurarsi le rispettive comunità. Questa tendenza interpretativa non prendeva in considerazio: - ne rivelazioni divine e interventi soprannaturali, e così la proM fezia di Gesù della distruzione del tempio di Gerusalemme (Mt J-; 24,1-3; Me 13,1-4; Le 21,5-7) nell'anno 70 assurse a criterio prin^ cipe di una così tarda datazione d«i t«sti. --

y- Uno stravagante di nome Gesù In questo modo, gli storici della forma dimenticano che le pre^ Jdizioni della distruzione del tempio appartenevano già all'epo44

R. Bultmann, Die Geschichte der synoptischen Tradition, Gòttingen 1921.

ca vetero-testamentaria ed erano quasi una costante del repertorio di tutte le profezie apocalittiche. Anche la predizione dell'assedio di Gerusalemme «cinta da bastioni» si trova già in Isaia (29,1-3), Ezechiele (4,2) e analogamente in Geremia (6,6). Nella sua Storia della guerra giudaica Giuseppe Flavio cita un «tale Gesù, figlio di Anania, un rozzo contadino», che «quattro anni prima che scoppiasse la guerra, quando la città era al culmine della pace e della prosperità» - quindi nell'anno 62 - era venuto a Gerusalemme in occasione della festa delle Capanne per annunciare improvvisamente e pubblicamente: «Povera Gerusalemme e povero il tempio!». Le sue maledizioni tuonarono giorno e notte, in tutte le strade e i vicoli della città, finché alcuni distinti cittadini non ne ebbero abbastanza: fu arrestato, malmenato, poi, poiché non desisteva, trascinato davanti al governatore romano Albino (62-64). Questi all'inizio procedette esattamente come Pilato 32 anni prima, facendo flagellare il profeta. Tuttavia, sebbene «dilaniato fino a mettere allo scoperto le ossa», Gesù Ben Ananus non implorò la grazia, non rispose alle domande del governatore, ma proseguì a gridare: «Povera Gerusalemme!». Alla fine Albino si convinse di trovarsi di fronte a un pazzo e lo lasciò andare. Sette anni più tardi questi continuava a proferire le sue stridule maledizioni: «Povera la città, e povero il popolo, e povero il tempio!», fino a che, infine, durante l'assedio di Gerusalemme, non fu colpito da una pietra scagliata da una catapulta romana e cadde al suolo morto45. Non abbiamo alcun motivo per dubitare del bizzarro aneddoto tramandatoci da Giuseppe Flavio sull'eccentrico profeta, che lui stesso descrive come « l u g u b r e » . Tuttavia ci chiediamo perché venga contestato a Gesù di Nazaret un carisma profetico che si attribuisce a Gesù Ben Ananus. In questo modo gli storici della forma evangelica trascurano di considerare un punto assolutamente decisivo: nella visione apocalittica di Gesù «i giorni delle tribolazioni» (Mt 24,29; Me 13,24) precedono immediatamente il ritorno del Figlio dell'uomo «sulle nubi del cielo con 45

52

Giuseppe Flavio, Bell, luci, VI, 5 3 .

grande potenza e splendore» (Mt 24,30). Poiché però questo, dopo la distruzione di Gerusalemme dell'anno 70, non avvenne, non si può nemmeno supporre che i Vangeli sinottici siano stati redatti così tardi. Avrebbero confutato da soli quella profezia da loro stessi costruita ad arte. Perciò è piuttosto da supporre che i Vangeli siano nati in un momento in cui gli eventi preannunziati erano ancora ben al di là da venire. Infatti Gesù aveva anche profetizzato: «Quando questo Vangelo del Regno sarà predicato in tutta la terra abitata, quale testimonianza a tutte le genti, allora verrà la fine» (Mt 24,14; cfr. Me 13,10). Anche da questa profezia, nel 70 si era ancora ben lontani. n seminario su Gesù Negli anni ottanta la «ricerca del Gesù storico» in contrapposizione con il «Cristo kerygmatico» dell'annuncio ha vissuto, in particolare negli Stati Uniti, una nuova rinascita. A partire dal 1985 e fino agli inizi degli anni novanta un piccolo gruppo di accademici si incontrò ogni sei mesi per discutere cosa ci fosse di autentico nei Vangeli e cosa in loro potesse essere ricondotto al «vero Gesù». Il «seminario su Gesù», organizzato dal Westar Institute di Sonoma, in California, era condotto dal Robert W. Funk e dal professor John D. Crossan della DePaul University di Chicago46. In queste occasioni Funk organizzava un vero e proprio circo mediatico attorno a questo autonominatosi Supremo Consiglio dei Giudici della Bibbia e dava in pasto all'opinione pubblica tesi sempre nuove e provocanti. Così, alla base dell'intero seminario su Gesù, stava come premessa l'idea secondo la quale «i Vangeli non sono narrazioni storiche accurate bensì racconti costruiti dal punto di vista letterario, artistico e teologico sulla base di materiale trasmesso dalla tradizione»47. Oppure, per citare Funk: «Vogliamo liberare Ge46

.

47

L.T. Johnson, The Real Jesus, San Francisco 1997, p. 4. Los Angeles Times, 24-2-1994, cit. da Johnson, op. cit., p. 7.

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sù. L'unico Gesù, cui la maggior parte degli uomini aspira, è quello mitico. Non vogliono il Gesù autentico. Ne vogliono uno che possano venerare. Il Gesù del culto»48. E ancora: «Matteo, Marco, Luca e Giovanni hanno commercializzato il Messia e l'hanno adattato alla dottrina cristiana sviluppatasi dopo la morte di Gesù ..., di un uomo cioè che - ironia della sorte! - si era ribellato contro le dottrine del suo tempo»49. Il seminario era volto a stabilire quali parti del Vangelo fossero riconducibili a materiale autentico, cioè alle effettive parole di Gesù. Per fare ciò si ricorreva a pubbliche votazioni degli esperti coinvolti, le quali, più che dibattiti scientifici, ricordavano le trasmissioni a quiz americane. Era stato così elaborato un codice basato sui colori; «rosso» significava: Gesù l'ha detto veramente; «rosa»: è possibile che Gesù abbia detto qualcosa di simile, nonostante le successive deformazioni della tradizione; «grigio»: queste non sono le sue parole, ma il pensiero che sottintendono potrebbe aver avuto origine da lui; «nero»: Gesù non l'ha detto; queste parole sono opera dei primi cristiani! Questo metodo, certo più sensibile ai risvolti mediatici che al rigore scientifico, è stato attaccato con veemenza e l'unico effetto che il «seminario su Gesù» ha potuto sortire è stata la violenta polemica teologica che ne è scaturita e che il New York Times ha battezzato «guerre di Gesù». Il quinto Vangelo Secondo Funk, il seminario su Gesù avrebbe stabilito che «molto meno del 25% di tutte le affermazioni attribuite a Gesù sono da ritenere effettivamente sue»50. In loro vece, Funk presentò un «quinto Vangelo», simile almeno nella forma alla raccolta di detti Q e a cui perciò accordava la preferenza: il Vanw

Washington Post, 9-3-1991, cit. da Johnson, op. cit, p. 7.

*9 Los Angeles Times, 5-3-1989, cit. da Johnson, op. cit, p. 12. 50

54

Ibid.

gelo di Tommaso. Questo fu rinvenuto da un fellah egiziano insieme ad altri manoscritti paleocristiani e gnostici presso Nag Hammadi, nell'Egitto Superiore. Dopo un'avventurosa odissea dalle mani del maestro del villaggio a un negozio d'antiquariato, i papiri approdarono infine al Museo copto del Cairo. Questo a sua volta pregò Jean Doresse, direttore del dipartimento egizio del Louvre di Parigi, di esaminarli insieme a studiosi egiziani. Nel 1956, conclusi gli esami preliminari, i testi poterono essere sottoposti al giudizio di settori più ampi del mondo scientifico; nel 1977 apparvero in un'edizione critica integrale. Il rinvenimento dei manoscritti di Nag Hammadi ha suscitato sensazione nella comunità scientifica. Proprio il Vangelo di Tommaso, una raccolta di 118 «parole del Signore», era conosciuto fino a quel momento solo attraverso fonti coeve. Il «Vangelo degli egizi» viene citato da Clemente Alessandrino (140-216), da Ippolito (160-235) e da Origene (185-254), il che significa che nell'Alessandria del II secolo doveva godere di grande popolarità. Mentre i manoscritti di Nag Hammadi sono originari del III secolo, la versione originaria del Vangelo di Tommaso risale quindi ad almeno 100 anni prima. Come anche altri «Vangeli segreti» dell'Egitto Superiore, sembra aver subito l'influenza gnostica, cioè di quella corrente cristiano-ellenistica che fondeva la nuova dottrina con la filosofia platonica e con la tradizione dei culti misterici egiziani. Nella forma sembra in effetti essere concepito sulla base del modello fornito da Q, e inoltre riporta proprio quelle parole di Gesù che venivano considerate importanti nei circoli gnostici. Tuttavia, solo 15 delle 118 citazioni di Gesù presenti nel Vangelo di Tommaso sono state classifica te come «rosse», cioè autentiche, dal seminario su Gesù, mentre per altre 25 il responso è stato il «rosa». In questo modo però il «quinto Vangelo», così fragorosamente sbandierato, non si dimostra in alcun modo «più autentico» degli altri quattro Vangeli canonici, e non fornisce alcun genere di informazioni sul Gesù storico51. 51

L.T. Johnson, op. cit., p. 21.

55

D frammento di Oxford Poco tempo dopo, il papirologo di Paderborn Carsten Peter Thiede52 ha reso noto di aver identificato alcuni frammenti di due manoscritti evangelici coevi «risalenti all'epoca dei testimoni oculari». Nel caso del primo manoscritto, si tratta di tre minuscoli frammenti di papiro conservati nel Magdalen College di Oxford e contenenti parole tratte dal XXVI capitolo del Vangelo di Matteo. Erano stati acquistati in Egitto nel 1901 da un giovane cappellano, Charles Huleatt, che li aveva inviati al college presso il quale aveva compiuto gli studi. I frammenti recavano scritte su entrambi i lati, e perciò non provenivano da un rotolo ma da un codice, quindi da un libro. Poiché si riteneva che i primi cristiani avessero iniziato a servirsi di codici solo verso la fine del II secolo, la datazione di quei frammenti fu stabilita di conseguenza. Al contrario Thiede, papirologo di fama, dimostrò che la caUigrafia del papiro di Magdalen è tipica della «scrittura a uncino» uno stile ornato del I secolo. Sulla base di questa argomentazione, ipotizzò una datazione precoce: Thiede è convinto che questi frammenti evangelici risalgano a un'epoca anteriore al 70 d.C. A suo parere, non solo provengono dal più antico manoscritto del Vangelo di Matteo di cui ci sia nota l'esistenza, ma attestano anche la redazione di questo Vangelo entro 40 anni dalla crocifissione di Gesù ed evidentemente la sua diffusione in tutto il mondo antico, dimostrando inoltre che l'autore del Vangelo di Matteo era lui stesso un testimone oculare della vita di Gesù o era in contatto con codesti testimoni. Marco a Qumran Ancora più antico - e questo inconfutabilmente - è un frammento di papiro rinvenuto in una delle caverne di Qumran, sul Mar Morto, e che, già prima di Thiede, il papirologo spagnolo di origine irlandese José O'Callaghan, curatore tra l'altro della col52

56

C.P.Thiede-M. d'Ancona, Der Jesus-Papyrus, Miinchen 1996.

lezione Palau-Ribes, aveva identificato come un frammento del Vangelo di Marco (Me 6,52-53). A differenza della maggior parte degli altri scritti di Qumran, questo non era redatto in ebraico o in aramaico, ma in greco53. Un vaso d'argilla, ritrovato in pezzi proprio accanto ai frammenti e che era servito alla conservazione dei rotoli, riporta per ben due volte la trascrizione ebraica della parola «Roma». L'iscrizione poteva alludere all'origine del papiro? In effetti la tradizione cristiana vuole che il Vangelo di Marco sia stato redatto a Roma54. Sulla base dello stile calligrafico - la caratteristica «scrittura ornata» O'Callaghan ha sostenuto la datazione del frammento in un'epoca «non posteriore al 50 d.C.», trovando Thiede pienamente concorde. O'Callaghan non può essere lontano dal vero, perché è stato appurato che i rotoli del Mar Morto furono nascosti nelle caverne soprastanti il «monastero esseno» di Qumran attorno all'anno 66, all'inizio della guerra giudaica. La più tarda datazione ammissibile è quella del 68, anno in cui la X legione romana Fretensis travolse le difese di Qumran 55 . Se dunque O'Callaghan, con la sua identificazione, coglie nel segno, ciò può solo significare che il Vangelo di Marco è stato redatto prima del 68, forse addirittura prima del 50. Era dunque a quell'epoca già così ampiamente diffuso che un esemplare potè perfino approdare nella biblioteca degli esseni? O la prima comunità cristiana aveva nascosto i propri scritti, al pari degli esseni, nelle caverne soprastanti il Mar Morto? Marco conosceva testimoni oculari In effetti, tutta una serie di indizi depone a favore di una datazione precoce del Vangelo di Marco. Quando Giuseppe Flavio scrisse il suo resoconto sulla guerra giudaica in un imprecisato momento tra il 75 e il 79 d.C., introdusse cautamente il letSÌ

IbicLy p.53." G. Stanton, Gospel Truth?, London 1995, p. 25. 55 GP.Thiede-M. d'Ancona, op. cit.y p. 53. M

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tore nel mondo ebraico del periodo anteriore alla distruzione di Gerusalemme. Poiché trattava del passato, dovette spiegare chi fossero i protagonisti e quali gli scenari. Marco invece dà per scontata la loro conoscenza da parte dei lettori, presupponendo che si sappia chi fossero farisei e sadducei e che si conosca la topografia di Gerusalemme. Nel suo Vangelo non viene indicato una sola volta il nome del sommo sacerdote che interrogò Gesù, evidentemente nella supposizione che i lettori sapessero a chi ci si riferiva, mentre Matteo e Luca lo identificano con Caifa. Tutto ciò allude a una probabile redazione del Vangelo non troppo distante nel tempo dagli eventi in esso narrati, in ogni caso prima della distruzione di Gerusalemme del 70 d.C. Le persone che si erano opposte all'arresto di Gesù - Pietro, che aveva sguainato la spada quando Gesù era stato condotto verso il carcere, e il giovane che era fuggito nudo dopo un tafferuglio - rimangono anonime in Marco, evidentemente per proteggerle. Invece Marco non solo cita il nome dell'uomo che fu costretto dai soldati a portare la croce di Gesù, ma allude anche al fatto che questo Simone di Cirene era il «padre di Alessandro e Rufo» (Me 15,21). I due figli erano forse conosciuti dalla comunità delle origini? Sembrerebbe così, perché che senso avrebbe altrimenti nominare non solo Simone, un ebreo che viveva nell'Africa del Nord e che evidentemente era venuto a Gerusalemme per la festa di Pasqua, ma anche i suoi figli? Di fatto, nella Lettera ai romani Paolo cita come membro della comunità di Roma un certo «Rufo, l'eletto del Signore» (16,13), membro cioè di quella comunità nel cui ambito Marco, secondo la tradizione, redasse il suo Vangelo. Lui e suo fratello erano forse venuti a Gerusalemme con il padre per la festa di Pasqua dell'anno 30? Rufo era forse stato un testimone della Passione di Gesù? si era forse verificato un incontro personale che aveva segnato la vita del giovane? era forse diventato, in seguito a tutto ciò, un membro della comunità cristiana di Gerusalemme? aveva finito per trasferirsi a Roma dove, secondo Svetonio, nel 49 c'erano già dei cristiani, secondo la tradizione cristiana già nell'anno 42 e forse ancora prima? Marco l'aveva conosciuto personalmente?

58

/KA^SM^VOC c IM w N OC. «Alessandro, figlio di Simone» (sopra), «Alessandro» e «Alessandro di Cirene» (sotto):

iscrizioni su ossari provenienti dalla Valle del Cedron.

Che questa supposizione non sia in alcun modo campata per aria, lo dimostra un sorprendente ritrovamento archeologico verificatosi nel 1941. In quell'anno fu dissigillata una camera sepolcrale situata nella valle del Cedron, tra Gerusalemme e il monte degli Ulivi. All'interno furono rinvenuti undici ossari, urne in pietra in cui venivano deposte le ossa dei defunti: tutte recavano iscrizioni e risalivano a un'epoca precedente alla distruzione del tempio (70 d.C.). L'iscrizione posta su una di queste diceva «Alessandro di Cirene» e «Alessandro, figlio di Simone»S6. Questo Alessandro, qui sepolto, era forse per l'appunto il figlio di quel Simone di Cirene che il Vangelo di Marco indica espressamente come padre di Alessandro e Rufo? Per quanto Simone e i suoi figli fossero venuti a Gerusalemme per la festa di Pasqua unicamente in veste di pellegrini, probabilmente nessuno di loro in seguito fece ritorno alla propria casa, 56

A. Willard, Discoveries from Bible Times, Oxford 1990, p. 117.

59

per rimanere invece in città. Possiamo dedurne che in quella festa di Pasqua dell'anno 30 si sia effettivamente verificato qualcosa di decisivo per loro, qualcosa che sconvolse i loro progetti esistenziali? si convertirono in seguito al loro incontro con Gesù e si unirono alla comunità delle origini? Alessandro rimase a Gerusalemme, dove infine morì, mentre Rufo si recò a Roma con Pietro e Marco? In ogni caso erano entrambi conosciuti ai primi cristiani, perché Marco li cita espressamente per nome. Che ne fu dei due fratelli? Forse Alessandro cadde vittima delle persecuzioni contro i cristiani volute dal re Erode Agrippa negli anni 41-42, prima che Pietro fuggisse a Roma accompagnato da Marco e Rufo. In ogni caso dev'essere morto precocemente, perché anche la loro madre non rimase a Gerusalemme, ma seguì Rufo a Roma, dove Paolo le invia espressamente un saluto (Rm 16,13), e comunque non viene più citato. Anche l'assenza totale di simboli cristiani sul suo ossario rimanda a una morte avvenuta nei primissimi tempi della comunità delle origini, quando questa aveva ancora una visione di sé come corrente particolare all'interno del giudaismo. E che ne fu di Rufo a Roma? In quanto «eletto del Signore» sarebbe stato sicuramente un degno successore di san Pietro alla guida della comunità di Roma. Tuttavia, poiché non c'è più traccia di lui nei testi trasmessi dalla tradizione, si deve supporre che perì nel corso delle persecuzioni volute da Nerone nell'anno 64. L'interprete di san Pietro Poiché Marco era evidentemente in confidenza con i due figli di Simone, deve aver redatto il suo Vangelo poco dopo il 42 d.C., come testimonia anche il rinvenimento a Qumran di un frammento risalente a un'epoca antecedente al 50. Ciò è confermato dalla tradizione: è certo che la persecuzione intentata da Erode Agrippa I fu interpretata dai discepoli di Gesù come il segno che era giunto il tempo di lasciare la Giudea e di calcare le strade del mondo per dare inizio all'opera di conversio-

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ne dei popoli. Come tramanda Apollonio, «il Salvatore ingiunse ai suoi apostoli di non allontanarsi da Gerusalemme per dodici anni»57, finché non fosse giunto il momento di andare in tutto il mondo per annunciare il Vangelo a tutte le creature, come Gesù esortava a fare (Me 16,15). Questi dodici anni, il cui computo iniziava a partire dalla risurrezione - quindi nel 30 d.C. -, scadevano attorno ai 41-42, ed era dunque giunto il momento di adempiere alla loro grande missione. Pietro, fuggito dal carcere in cui era rinchiuso a Gerusalemme, fece il passo più impegnativo e gravido di conseguenze: accompagnato da Marco, portò la buona novella da Gerusalemme a Roma, la capitale dell'impero. È possibile che in quel momento nella Città Eterna ci fossero già dei cristiani. Gli Atti degli apostoli citano espressamente dei romani come testimoni degli eventi della Pentecoste (At 2,10), alcuni dei quali forse si fecero persino battezzare. In ogni caso, attorno al pescatore di uomini della Galilea si coagulò ben presto una solida cerchia di proseliti, da cui sorse alla fine la prima comunità di Roma. È per questa che fu redatto, secondo la tradizione, il Vangelo di Marco, come scrisse attorno al 110 Papia, vescovo di Ierapoli (morto attorno al 120), richiamandosi a questo proposito nientemeno che all'apostolo ed evangelista Giovanni, spirato a tarda età solo pochi anni prima. «Il presbitero [l'anziano, come era rispettosamente chiamato Giovanni] diceva questo: "Marco, interprete di Pietro, scrisse con esattezza, ma senza ordine, tutto ciò che si ricordava delle parole e delle azioni del Signore; non aveva udito e seguito il Signore, ma, più tardi, come già dissi, Pietro. Orbene, poiché Pietro insegnava adattandosi ai vari bisogni degli ascoltatori, senza curarsi punto di offrire una composizione ordinata delle sentenze del Signore, Marco non c'ingannò scrivendo secondo che si ricordava; ebbe questa sola preoccupazione: di nulla tralasciare di quanto aveva udito, e di non dire veruna menzogna"»58. 57 38

Eusebio, Hist. Ecc., V, 18,14. Ibid., Ili, 39,15.

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Lo stile del Vangelo di Marco sembra confermare questa descrizione del processo che ha portato alla sua composizione: esso infatti non ha niente di letterario, e nella sua semplicità e laconicità corrisponde piuttosto alla lingua parlata, di cui conserva il ruvido fascino e il colorito locale tipico della Galilea. Consta di molti singoli episodi non collegati da un vero filo narrativo, come se fosse composto di frammenti emersi dalla memoria. Nello sforzo di evidenziarne l'autenticità, una sequenza di detti di Gesù viene riportata in aramaico, il che rimanda a una fonte che li aveva tramandati esattamente in questa lingua. Di sicuro Pietro, in quanto pescatore, non conosceva lingue straniere, ragion per cui dovette servirsi di Marco come interprete. La sua personalità tanto semplice quanto energica traspare comunque dalle righe del Vangelo. Nella sua prima Lettera Pietro stesso conferma di essere a Roma con l'evangelista, in quella Roma che lui definisce, secondo la tradizione apocalittica, «nuova Babilonia»: «Vi abbraccia la comunità radunata in Babilonia e Marco, figlio mio» (lPt 5,13). Anche Clemente Alessandrino (morto attorno al 215) ne era a conoscenza: «Quando Pietro predicava pubblicamente a Roma la parola di Dio e, assistito dallo Spirito Santo, promulgava il Vangelo, i numerosi presenti esortarono Marco, il quale da gran tempo era discepolo dell'apostolo e sapeva a mente le cose dette da lui, a mettere in iscritto la sua esposizione orale. Marco fece cosi e diede il Vangelo a coloro che glielo avevano chiesto. Saputa la cosa, Pietro, da parte sua coi suoi consigli né impedì né incoraggiò la iniziativa»59. A tutt'oggi la basilica romana di San Marco testimonia questa tradizione: è stata probabilmente eretta sulle fondamenta della casa in cui Marco redasse il Vangelo. È interessante segnalare che si trova proprio di fronte al Campidoglio, nel centro dell'antica Roma, e non, come l'abitazione di Paolo, nel ghetto ebraico sulla sponda del Tevere. Secondo la tradizione romana, citata anche dallo storico della Chiesa Eusebio, Pietro e Marco giunsero per la prima volta a Roma «al principio del regno di " Cit. da Eusebio, Hist. Ecc., VI, 14,6s.

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Claudio»60, quindi dopo il 41. Secondo Girolamo, Pietro fu per 25 anni vescovo di Roma, il che daterebbe la sua venuta a Roma all'anno 42, poiché nel 67, sotto Nerone, subì il martirio. È certo tuttavia che la sua prima permanenza a Roma non durò più di due anni, poiché, venuto a sapere della morte di Erode Agrippa, fece ritorno a Gerusalemme all'inizio del 44, dove nel 48 prese parte al concilio Apostolico (At 15,7) e dove, con tutta probabilità, rimase fino al 51. Successivamente, compì un lungo viaggio missionario che lo condusse fino ad Antiochia. È ugualmente certo che non aveva ancora rimesso piede a Roma quando Paolo scriveva la Lettera ai romani (nel 57 circa) e nemmeno quando questi faceva il suo ingresso nella capitale (nel 60 circa). Probabilmente ritornò nella Città Eterna dopo che Giacomo fu giustiziato nel 62 d.C.; è in ogni caso storicamente accertata la sua esecuzione sotto Nerone nell'anno 67. Secondo la tradizione ecclesiastica, Marco fu inviato da Pietro ad Alessandria, dove morì «nell'anno ottavo del regno di Nerone»61, quindi nel 62. All'incirca a quest'epoca risale il ritorno di Pietro a Roma, ma senza Marco e diversi anni dopo la redazione del Vangelo. Stando alla cronaca di Girolamo, era ancora l'anno terzo del regno di Claudio, quindi il 44, quando «Marco, evangelista e traduttore di Pietro, andava annunciando Cristo all'Egitto e alla città di Alessandria»62. È molto probabile quindi che abbia redatto il Vangelo subito dopo la partenza di Pietro e prima del proprio viaggio ad Alessandria, neU'estate del 44 d.C., una datazione confermata dal frammento di Qumran. 60

01Ibid.,U, 14,6. 62

Eusebio, Hist. Ecc., II,24,1.

Cit. da H. J. Schulz, Die apostoliche Herkunft der Evangelien, Freiburg 1997, p. 64. In ogni caso Marco rimase ad Alessandria meno di un anno perché, secondo gli Atti degli apostoli (12,25), dopo il 45 si trovava di nuovo a Gerusalemme, da dove sarebbe partito con Paolo e Barnaba per un viaggio che lo condusse prima ad Antiochia, poi a Cipro e da lì ad Antiochia di Pisidia. Quindi tornò a Gerusalemme. Leggiamo poi negli Atti (15,39) che, dopo il concilio Apostolico di Gerusalemme del 48, si recò a Cipro con Barnaba. Prima del 50 non poteva quindi aver fatto ritorno ad Alessandria. Secondo la Lettera ai colossesi (4,10) e a Filemone (24), fece una breve visita a Paolo, a Roma, nel 61 circa - dopo che l'apostolo nella lettera a Timoteo (4,11) aveva richiesto la sua presenza - e da lì si recò a Colosse, per essere ancora ad Alessandria nel 62.

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Anche un riferimento interno al testo rimanda a questo momento: «Quando vedrete l'abominio della desolazione posta là dove non dovrebbe... allora quelli che sono in Giudea fuggano sui monti» (Me 13,14). Marco cita la profezia di Gesù, non senza aggiungere: «Chi legge capisca», evidentemente come riferimento contemporaneo. Questo monito non poteva adombrare la distruzione del tempio, perché allora sarebbe stato troppo tardi per una fuga sui monti, ma potrebbe invece alludere a un'altra profanazione del tempio. Leggiamo in Giuseppe Flavio che nell'anno 39 l'imperatore Caligola inviò «Petronio con un esercito a Gerusalemme per collocarvi le sue statue nel tempio»63, provocando un'insurrezione: «Petronio, con tre legioni e con molte milizie ausiliarie della Siria, mosse da Antiochia contro la Giudea», mentre gli ebrei si preparavano alla guerra. Solo l'assassinio di Caligola impedì la catastrofe. È quindi possibile che Pietro, nelle sue prediche a Roma negli anni 42-44, non presentendo ancora l'imminente guerra giudaica, interpretasse come adempimento della profezia di Gesù quelle «guerre e quei sentori di guerre» e quell'«abominio della desolazione» che sta «là dove non dovrebbe». Pare certo che Marco abbia redatto il suo Vangelo in assenza di Pietro e su desiderio della propria comunità, come conferma Gemente Alessandrino64, il che fu più tardi equivocato. Il Padre della Chiesa Ireneo (morto attorno al 220), convinto di un ininterrotto soggiorno romano di Pietro, credeva che Marco avesse redatto il Vangelo dopo la morte di Pietro e Paolo65, dunque nell'anno 67-68. A quel tempo però Marco, come abbiamo visto, non era più in vita, e anche il frammento di Qumran è incompatibile con questa datazione. Una satira di Marco? In questo contesto sono di notevole interesse le ricerche di Ilaria Ramelli, una studiosa italiana di letteratura paleocristiaa

Giuseppe Flavio, Bell. Ind.,Il,10,1. Cit. da Eusebio, Hist. Ecc., VI, 14,6s. 65 Ireneo, Adv. haer.. Ili, 1.1. 64

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na, la quale sostiene che il Satyricon di Petronio conterrebbe chiare parodie del Vangelo di Marco. Autore del Satyricon fu Tito Petronio Nero, ambiguo membro della corte dell'imperatore Nerone, che all'inizio del 66 fu costretto al suicidio. Di lui scrive Tacito: «Trascorreva i suoi giorni sprofondato nel sonno, ma consacrava la notte agli affari e ai piaceri, e come altri si guadagnavano la fama grazie alla loro operosità, così faceva lui con l'ozio. E tuttavia non era un dissoluto scialacquatore, come la maggior parte di coloro che dissipano il loro patrimonio, ma un uomo di ricercato buon gusto nei piaceri... Fu accolto nella più intima cerchia degli amici di Nerone: era arbitro del buon gusto e l'imperatore non giudicava nulla di buon gusto e delizioso che non avesse incontrato l'approvazione di Petronio»66. Il Satyricon, un racconto picaresco pieno di frivolezze ma letterariamente brillante, è la prima opera romana in prosa composta secondo il modello greco. Già questo testimonia della grande cultura e della finezza di Petronio, che in questo modo non solo inaugurò una nuova corrente letteraria, ma diede vita al contempo al suo capolavoro. Il Satyricon è denso di scenari che mutano perennemente, di azioni comiche, grottesche, spesso anche oscene che s'incalzano, insaporite da allusioni sottilmente ironiche e di grande eleganza formale. Il suo motto sono le tre parole poste all'inizio: Lector, intende, laetaberis, «Lettore, sta' attento, ti divertirai!». Se Ilaria Ramelli avesse ragione, anche il cristianesimo farebbe le spese dei lazzi spesso grossolani di Petronio, perché il Satyricon conterrebbe parodie e allusioni al Vangelo di Marco. Questo però significherebbe che, all'inizio degli anni sessanta, il Vangelo era così conosciuto a Roma, persino alla corte imperiale, da essere addirittura parodiato. In effetti i parallelismi sono rilevanti. Marco racconta nel suo Vangelo (Me 14,3-9) che Gesù era ospite di Simone a Betania quando una donna entrò con un vaso d'alabastro colmo di un prezioso unguento, lo ruppe e versò l'olio sui capelli di Gesù. 66

Tacito, Ann., 16,18.

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Quando i discepoli si lamentarono dello spreco di olio prezioso, Gesù li rimproverò e disse: «Essa ha unto il mio corpo in anticipo per la sepoltura». Anche il noto personaggio di Trimalcione nel LXXVIII capitolo apre «un'ampolla di unguento balsamico» e incita gli ospiti del suo convivio a considerare il suo gesto di cospargersi d'olio come preannuncio della propria sepoltura. Si cercherebbe invano in tutta la letteratura latina un solo passo in cui il prezioso unguento è posto in relazione con la sepoltura o con la morte. Una tradizione di questo genere non esisteva affatto nel mondo romano. Inoltre, durante la famosa cena (LXXIV capitolo), Trimalcione ode un gallo cantare e trasale, perché lo interpreta come premonizione di disgrazia e di morte. Il gallo viene addirittura definito index, «testimone d'accusa». Anche nel Vangelo il gallo canta per accusare Pietro del tradimento e per annunciare la passione e la morte di Gesù. Presso i romani e i greci, al contrario, il canto del gallo era nn buon segno, messaggero del giorno novello e della vittoria. In un altro passo, nel CXLI capitolo, Eumolpo, compagno di Trimalcione, dichiara che lascerà in eredità le sue ricchezze a coloro che dopo la sua morte mangeranno della sua carne, il che pare una chiara irrisione all'Eucaristia. Nel CXI capitolo si fa accenno a un «governatore della provincia» che a Efeso aveva condannato alcuni uomini aUa crocifissione. Quando questi spirarono, il governatore ordinò a un soldato di montare la guardia ai cadaveri «perché nessuno deponesse le salme per la sepoltura». Ma il soldato si innamorò di una vedova che piangeva sulla tomba del marito, non lontano dal luogo dell'esecuzione, e si incontrava segretamente con lei ogni notte. «Il terzo giorno» vennero a saperlo i genitori di uno degli uomini crocifissi e approfittarono dell'assenza della guardia per calare il figlio morto dalla croce e rendergli l'ultimo servizio amoroso. Quando il soldato tornò al suo posto di guardia, si spaventò, poiché il cadavere mancava e lui rischiava la pena di morte. Ma la vedova gli venne in soccorso e gli permise di in-

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chiodare il cadavere del marito alla croce per salvarsi la vita. «Il giorno seguente», conclude Petronio, «il popolo si meravigliò e si chiese come un morto avesse potuto arrampicarsi sulla croce». Nel capitolo CXXVI, infine, la serva di Circe manifesta il suo profondo disprezzo per coloro che finiscono sulla croce e la sua intenzione di lasciare alle «dame distinte ... di abbracciare gli avvoltoi del patibolo ... [e] di baciare le cicatrici delle frustate». Effettivamente, negli Annali Tacito racconta della conversione al cristianesimo di una «distinta dama» della migliore società romana, e dalla Lettera di Paolo ai filippesi emerge la presenza di cristiani alla corte di Nerone; egli scrive infatti: «Vi salutano tutti i santi, in modo particolare quelli della casa di Cesare» (Fil 4,22). Nell'anno 57, prima quindi dell'irrigidimento della sua politica nei confronti dei cristiani, Nerone decise di rimettere il destino di Pomponia Graecina, dama sposa di un magistrato, proprio al tribunale presieduto dal marito. La matrona era accusata di superstitio externa, «superstizione straniera», come i romani definivano il cristianesimo. Fu rilasciata e rimase fedele al suo credo67. Carsten Peter Thiede 68 accenna inoltre a parallelismi tra i Vangeli e un'altra opera in prosa della prima età imperiale, il racconto amoroso Le vicende di Cherea e Calliroe del greco Caritone. Anche qui si ritrovano i motivi della crocifissione e del sepolcro vuoto, anche qui i curiosi gridano al Crocifisso kàtabethi/, «Scendi dalla croce!» - la stessa espressione che ritroviamo nei Vangeli (Mt 27,40) - , anche qui si diffonde la notizia (cfr. Mt 28,2) di un morto risuscitato. Le avventure furono redatte forse già «attorno al 40 d.C.»69, in ogni caso però prima della morte dell'autore nell'anno 62 d.C., ulteriore indizio di un'ancor più precoce comparsa del suo modello letterario. 47 S.M. Paci, Dos Evangelium zwischen den Zeilen des Petronius, in 30 Tage (1996), n. 6, p. 33. Anche CP. Thiede esamina in maniera particolareggiata questi parallelismi andando in parte oltre quanto acquisito dalle ricerche di Ramelli (C.P. Thiede, Ein Fisch fìir den ròmischen Kaiser, Munchen 1998, pp. 110-121). 68 C.P.Thiede, Ein Fisch..., cit., pp. 127-133. 69 Ibid., p. 131.

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Matteo: un nome per due Vangeli Se dunque il Vangelo di Marco è stato effettivamente redatto a Roma attorno al 44, quando nacque allora il Vangelo di Matteo? E come mai la tradizione ecclesiastica indica in Matteo il Vangelo più antico, sebbene questi attingesse inequivocabilmente al Vangelo di Marco e alla raccolta di detti Q? Ecco la risposta: quello che noi oggi conosciamo come «Vangelo di Matteo» è forse una versione, rielaborata e ampliata attraverso le informazioni fornite da Marco, di un vangelo originario opera per l'appunto di Matteo, il gabelliere che sapeva scrivere (Mt 9,9). Non si trattava però di un racconto, di una «biografia» di Gesù, ma di una raccolta di detti, proprio quella raccolta che i teologi chiamano Q. Forse fu trascritta quando Gesù era ancora in vita o subito dopo la sua morte. Così scriveva Papia, vescovo di Ierapoli, la fonte più antica che si pronunci sull'origine dei quattro Vangeli, attorno al 110: «Matteo raccolse le sentenze [del Signore] nel dialetto degli ebrei; ognuno però li traduceva come riusciva»70. Per i «discorsi» di Gesù, Papia ricorre al termine greco loghia, che può anche significare «parole» o «detti». E con «dialetto degli ebrei» intende la lingua colloquiale del I secolo, l'aramaico. Ciò che emerge da questa antichissima tradizione è che esisteva una raccolta di detti in aramaico e che Matteo ne era stato il redattore. Questo «proto-Matteo» fu il primo Vangelo ad avere diffusione a Gerusalemme, ma anche nelle comunità giudeo-cristiane e di lingua aramaica della Decapoli, a Damasco e ad Antiochia. Finché fu presente un numero sufficiente di testimoni oculari della vita di Gesù, la raccolta di detti bastava. Quando tuttavia il Vangelo di Marco, redatto in greco o forse in latino, si diffuse a partire da Roma - il ritrovamento di Qumran farebbe pensare che abbia raggiunto la Terrasanta prima del 50, forse addirittura prima del concilio Apostolico che ebbe luogo

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Cit. da Eusebio, Hist. Ecc. Ili, 39,16s. Cosi recita la traduzione di Giuseppe DelTon: «Matteo raccolse le sentenze [di Gesù] in lingua ebraica; e ognuno le traduceva come poteva» (ndt).

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nel 48 - , nacque il desiderio di un nuovo, più completo Vangelo che riportasse, integralmente e in lingua aramaica, sia le parole sia la vita di Gesù. Per impedire che colui che aveva redatto la raccolta di detti - e con lui il garante della sua autenticità - cadesse nell'oblio, s'intitolò a Matteo anche il nuovo Vangelo. Probabilmente nacque ad Antiochia o nella Decapoli, in ogni caso non in Giudea, perché questa viene espressamente localizzata come «al di là del Giordano» (Mt 19,1). Secondo il Padre della Chiesa Ireneo, vescovo di Lione morto intorno al 220, il Vangelo fu redatto «tra gli ebrei» - intendendo qui i giudeo-cristiani - , «nella loro lingua» - e qui il riferimento è all'aramaico - , «mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma, e vi fondavano la Chiesa»71, quindi in un arco di tempo che va dal 42 al 67, mentre noi lo datiamo al 50 circa. Matteo stesso, invece, lasciò probabilmente la Palestina già nel 42 per recarsi in missione in Etiopia e in Persia, dove subì il martirio.

Quando fu redatto Luca? Quando fu redatto il Vangelo di Luca? Una cosa è certa: do; po il Vangelo di Marco (nel 44 circa) e probabilmente anche dopo Matteo (nel 50 circa), prima però della compilazione degli Atti degli apostoli. All'inizio del suo Vangelo, Luca spiega al suo mecenate, l'«egregio Teofilo», che esistevano già altri Vangeli e resoconti della vita di Gesù, per quanto meno dettagliati. L'allusione è qui sicuramente alla fonte Q e a Marco, forse a Matteo, eventualmente anche al «Protovangelo» del «fratello del Signore» Giacomo, che fu redatto prima del 61 e tradisce un'ini tima conoscenza del servizio del tempio. Da questo scritto Luca attinse evidentemente molti particolari sulla storia precedente : alla nascita di Gesù. Rimandando, nell'introduzione agli Atti degli apostoli, al suo «libro precedente ... dedicato ... ad esporre 71

Cit. da Eusebio, Hist. Ecc.yV, 8,2. «In ebraico», riporta invece la traduzione di DelTon (ndt).

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tutto ciò che Gesù ha operato e insegnato dall'inizio» (At 1,1), l'evangelista fornisce la chiave della sua datazione. Dagli Atti degli apostoli possiamo dedurre che Luca fu testimone oculare dei viaggi di Paolo, perché li descrive parzialmente in prima persona, ricorrendo al pronome «noi». Anche la tradizione ecclesiastica, a partire dal 150 circa (nel Frammento Muratoriano), lo identifica come il medico che «Paolo condusse con sé come suo aiutante» e che avrebbe redatto «il terzo Vangelo probabilmente nel suo nome», cioè su sua sollecitazione. Ireneo confermò questa tradizione e lo stesso fece Eusebio, che indicò Antiochia come sua città d'origine e aggiunse: «Ebbe intima familiarità con Paolo e contatti tutt'altro che fuggevoli con i rimanenti apostoli»72. Ora, gli Atti degli apostoli non si concludono con il martirio di Paolo, ma con il suo arrivo a Roma, dove questi visse «due anni interi in un ambiente preso a pigione ... annunciando il Vangelo del Regno e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo con piena libertà e senza ostacoli» (At 28,30-31). Paolo giunse a Roma sotto l'imperatore Nerone, probabilmente nel 60, dopo una traversata piuttosto avventurosa. Tra il 54 e il 59, procuratore della Giudea era stato Antonio Felice, citato negli Atti degli apostoli e sotto il quale Paolo fu imprigionato a Cesarea, probabilmente dal 57 al 59. Non si sa con esattezza quando Paolo fu giustiziato durante il regno di Nerone, probabilmente però all'inizio del 65. Se quindi gli Atti degli apostoli si fermano nella loro cronaca aU'anno 62, se ne può dedurre che furono redatti poco tempo dopo, in ogni caso prima del 65. Ma allora il Vangelo di Luca dovrebbe risalire a un periodo precedente, probabilmente al 62 d.C.

L'iscrizione di Nazaret Un ritrovamento archeologico sembra confermare una datazione precoce dei Vangeli. Proprio a Nazaret, nel 1878 è stata " / ò t t i , III,4,6.

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rinvenuta una tavola di pietra recante un'iscrizione, inconfutabilmente autentica, che risale alla metà del I secolo73. Molti ricercatori la considerano una conferma della storicità delle voci che, stando al Vangelo di Matteo, circolavano tra ebrei e romani dopo la risurrezione di Gesù: Disposizione dell'imperatore: ho diramato la decisione secondo la quale camere funerarie e colline sepolcrali erette per rendere pii onori ad avi o figli o ad altri membri della famiglia devono rimanere intonse al loro posto per l'eternità. Abbia perciò luogo una denuncia d'ufficio contro colui che abbia danneggiato un luogo di sepoltura, in qualunque modo questo sia avvenuto, o che abbia disseppellito coloro che làriposavanoin pace, oppure contro chi abbia osato traslare in altri luoghi la salma di c o l o r o che lì riposavano in pace, con intento malvagio e astuto e con lo scopo di recare loro oltraggio oppure ... contro colui che osi rimuovere le pietre che ostruiscono l'ingresso dei luoghi di sepoltura o altre pietre che ne facciano parte. Ad ogni denuncia d'ufficio di questo tenore - questo è il mio ordine - deve seguire l'apertura di un processo contro un simile malfattore, nello stesso modo in cui si procede quando viene violata la pia venerazione dovuta agli dei, così quando vengono violati gli onori che spettano agli uomini là inumati. Perché tributare onore ancor più di quanto abitualmente avvenga a coloro che riposano in pace, è cosa che si addice in verità! Che non si permetta ad alcuno di operare modifiche non autorizzate ai luoghi di sepoltura. Ma se qualcuno dovesse agire contro queste disposizioni, allora - la mia decisione sia in questo modo resa nota allora questi, sulla base del titolo di reato: profanazione dei luoghi di sepoltura, sia senza alcuna indulgenza condannato a morte74. Se prestiamo fede a Matteo, la notizia dell'apparizione di Gesù ai discepoli era giunta ben presto ai membri della gerarchia del tempio, a coloro cioè che avevano messo in scena la sua condanna e la sua esecuzione. La loro reazione fu una vera e propria campagna di disinformazione: «Mentre esse erano per " G. Pfurmann, Die Nazareth-Tafel, Miinchen 1994. 74 Cit. da G. Pfirrmann, op. cit., pp. 183s.

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via, alcune delle guardie, recatesi in città, riferirono ai capi dei sacerdoti tutto l'accaduto. Essi, radunatisi insieme agli anziani, dopo essersi consultati, diedero ai soldati una cospicua somma di denaro dicendo: "Dite che di notte sono venuti i discepoli di lui e l'hanno portato via, mentre noi dormivamo. Se la cosa dovesse giungere per caso alle orecchie del governatore, lo convinceremo noi a non darvi noia alcuna". Essi, preso il denaro, fecero secondo le istruzioni che avevano ricevuto. Cosi questa diceria si è diffusa presso i giudei fino ad oggi». (Mt 28,11-15). Evidentemente queste voci erano giunte anche all'orecchio di Pilato, il quale le riferì all'imperatore. Di ciò è a conoscenza anche lo storico della Chiesa Eusebio, che nel IV secolo potè avere accesso agli archivi dei governatori romani della sua città d'origine, Cesarea: «La gloriosa resurrezione e l'ascensione al cielo del Salvatore nostro erano già note a moltissimi. Ma già da tempi remoti i governatori delle province riferivano all'imperatore regnante ciò che di nuovo e di straordinario era accaduto nel loro territorio, affinché nessun avvenimento gli sfuggisse. Così Pilato informò Tiberio della risurrezione da morte del Salvatore nostro Gesù, che era sulla bocca di tutti in Palestina. Lo rese consapevole anche degli altri prodigi da lui operati e com'egli, risuscitato, già da molti era creduto Dio»75. Naturalmente questa descrizione non è esente da elementi idealizzanti di matrice cristiana, perché è piuttosto improbabile che «molti»76 considerassero Gesù «Dio», visto che al testimone oculare Giuseppe Flavio non risultano simili conversioni di massa e che, anche secondo gli Atti degli apostoli, la comunità delle origini annoverava solo 3000 membri. Si può però ritenere che Pilato abbia effettivamente inoltrato un rapporto all'imperatore, riferendogli sia la convinzione di alcuni che Gesù fosse risorto sia la controcampagna condotta dai sommi sacerdoti e inaugurata con l'accusa della

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Eusebio, Hist. Ecc., 11,2. La traduzione tedesca del testo di Eusebio cui fa riferimento Hesemann riporta il termine Menge, > a i.on n:; o // Maoa'h -i>k A èri i lìAHHCinnucHC i kh^ik-iapm TÌH€H°YKKEih\rÌX$ HAI mvri>°rtoY c®m