Storia delle relazioni internazionali. Dal 1918 ai giorni nostri [5 ed.]
 8842087343, 9788842087342 [PDF]

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Zitiervorschau

Ennio Di Nolfo

Storia delle relazioni internazionali Dall918 ai giorni nostri

Libreremo Cosè libreremo? Con varie realtà p o litiche autorganizzate di tutt'Italia (collet tivi universitari, centri sociali e altri gr upp i po litici) abbiamo fatto nostro

e portato avanti un percorso di lotta per l'accesso alle conoscenze e alla formazione. 11 progetto consisteva nel c on div ide re tr amite u n s it o (che attualmente è offiine) un gran numero di testi universitari e

testi p o litici (di cui a lcu ni rar i). Durante questi anni abbiamo adottato varie altre forme di condivisione: dai CD regalati alle matricole con i libri del primo anno in pdf, a emule e ai torrent. Abbiamo scelto di mettere in condivisione proprio i libri di testo perchè i primi ad essere colpiti dal controllo della cultura da parte di SIAE, governo e multinazionali, sono la gran parte degli studenti che, considerati gli alti costì che hanno attualmente i libri, non possono affrontare spese eccessive, costretti già a fare i conti con affitti elevati,

mancanza di strutture, carenza di servizi e borse di studio, ecc... Ma LIBREREMO non è un semplice "servizio" di distribuzione gratuita di testi universitari! E' sì una forma di protesta contro il caro libri ma anche contro le restrittive leggi sui diritti di p ropri età intellettuale, a

favore della libera circolazione della cultura. l diritti di proprietà intellettuale (che siano brevetti o copyright) sono da sempre

·

e

sopr atutto

oggi -

grosse

fonti

di

profitt o per

multinazionali e grandi gruppi economici, che pur di tutelare i loro guadagni sono disposti a privatizzare le idee e tagliare fuori dalla cultura e dallo sviluppo la stragrande maggioranza delle persone. Inoltre impedire l'accesso ai saperi, reprim ere i contenuti culturali dal carattere emancipatorio e proporre solo contenuti inoflensivi o di' intrattenimento sono da sempre i me zz i del cap it ale per garantirsi un

controllo massiccio sulle classi sociali subalterne.

libreremo

portale di libero accesso alla cu.ltura

Proprio per reagire a tale situazione, senza stare ad aspettare nulla dall'alto, invitiamo tutti a far circolare il più possibile i libri. Il progetto prose gue s olo grazie alla libera iniziativa di collettivi e di singoli individui, è indipendente da qualunque organizzazione, non è a s copo di lucro

(è tutto gratis) e chiunque può partecipare: LIBREREMO è un progetto politico·culturale autogestito. Attenzione! Maneggiare con cautela E' evidente che i manuali universitari sono scritti e stampati da coloro che più di tutti vogliono

mantenere lo status quo (vedi approfondimento su case editrici e autori sul cd). Lontani dal pensare che il contenuto di questi sia utile alla comprensione delle reali dinamiche che muovono l'economia e la politica istituzionale, vi proponiamo alcuni testi critici relativi alle materie in questione e a consultare sul nostro blog la sezione di ebook resistenti scaricabili gra tuitamente

.

Come avere i libri (in .pdf) e come partecipare al progetto Come già accennato, nel corso degli anni i metodi di condivisione sono diventati molteplici: il più semplice (almeno per chi studia a Novoli) è quello di passare in Collettivo durante la settimana a ritirare il CD (non chiediamo nè firme, nè soldi, nè numeri di telefono): ci trovi sicuramente qui il lunedì pomeriggio, ma spesso anche gli altri giorni c'è qualcuno che studia/chiacchiera/discute. Altri metodi sono emule ed i torrent. Per chi usa emule basta cercare i titoli dei libri nella barra di ricerca.

Per

scaricare

tramite

torrent

invece

consigliamo di cercare su un motore di ricerca "libreremocolpol torrent" aggiungendo il titolo del libro. Per chi non è pratico dei torrent la procedura è la seguente: per prima cosa si deve installare sul computer un client torrent (programma che permette di condividere torrent, come f.Jtorrent, Bittorrent, Vuze ecc.). Poi si cerca su internet il torrent del file che ci interessa: ci sono siti fatti apposta che li ordinano per categorie come ad esempio http://forum.tntvillage.scambioetico.org http:/ /kat. ph.proxy. piraten partij. n1/

Altrimenti si può provare a cercare su un motore

di

ricerca

il

titolo

del

file

aggiungendo la parola "torrent" (nel caso dei

libri

aggiungiamo

anche

"libreremocolpol"). Una volta trovato (e scaricato)

il

file

torrent,

aprendolo

dovrebbe avviarsi il programma di prima. Basta dare l'ok e inizierà il download. Perchè tante spiegazioni? Come già detto Libreremo si basa sulla partecipazione di tutti. Il nostro invito è quello di lasciare i file in condivisione così che il progetto vada avanti, altrimenti presto i libri saranno introvabili.

DIFFONDI I LIBRI DIFENDI LA CULTURA!

Introduzione

Prima della «Grande guerra» 1914-18 il sistema internazionale era caratterizzato dal dominio europeo, dall'egemonia dei sistemi im­ periali, dal profilarsi del ruolo globale di due paesi (gli Stati Uniti e la Russia zarista), dal pluralismo della politica di potenza, dall'af­ fiorare delle spinte istituzion.alizzanti. All'inizio del secolo XXI tut­ to questo appare come un remoto passato, travolto da due guerre mondiali e dalla «guerra fredda» e avviato verso una transizione del­ la quale si intravvedono appena i contorni. Tuttavia il fatto che que­ sto scontro abbia riempito di sé gran parte del secolo XX consen­ ' te di dare alla ricostruzione storica della vita internazionale di que­ sto periodo una compattezza e w1'omogeneità prima impossibili. Proporsi di tracciare un discorso riguardante le relazioni inter­ nazionali nel secolo XX significa, in astratto, proporsi un compito senza confini, ovvero riguardante tutti gli aspetti della vita sociale. È diventato oggi ovvio ciò che sino a qualche decennio fa sembra­ va una forzatura voluta da pochi studiosi: non vi sono aspetti della vita sociale che sfuggano alle influenze o alle azioni internazionali: economia, politica, diritto, commercio, turismo, educazione, cultu­ ra, sport, tutti questi, e infiniti altri che non è il caso di enwnerare, sono i campi ai quali chi volesse esaurire l'analisi del reticolo inter­ nazionalistico dovrebbe dedicarsi. Per chiarezza e per ragioni di competenza è necessario operare una scelta che deve dirigersi ver­ so uno degli aspetti dominanti di tale complessità, l'aspetto politi­ co. n quadro che questo volwne si propone di comporre riguarda prevalentemente la storia politica delle relazioni internazionali: scel­ ta consapevole di autolimitazione che non esclude la considerazio-

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Introduzione

ne degli altri temi ma la utilizza ai fini della costruzione di un di­ scorso politico. È opportuno chiarire anche che, in questa sede, il termine «po­ litico» non viene usato come sinonimo o come ampliamento del ter­ mine «diplomatico». Una volta, probabilmente sino alla rivoluzione francese e, in molti casi, sino alla prima guerra mondiale, era possi­ bile limitare l'analisi al profilo «diplomatico», cioè all'azione inter­ nazionale in quanto sviluppata dalla diplomazia (uomini e metodi). La trasformazione della struttura dei gruppi nazionali di riferi­ mento; il mutamento di ruolo delle dinastie; il cambiamento della composizione sociale e della forza economica dei singoli paesi; il mutamento dei sistemi sociali e politici, �eguito dalla trasformazio­ ne dei processi decisionali mterni hanno privato la «diplomazia» del monopolio delle relazioni internazionali. Ciò significa che la pro­ pensione a esaurire all'interno dell'attività diplomatica l'analisi del­ la vita politica internazionale, se era verosimilmente fondata per gli inizi dell'età contemporanea, è divenuta meno esauriente con il mu­ tare dei tempi. Si tratta, in questo caso, di un tema che ha influen­ zato il dibattito metodologico sul carattere della storia delle rela­ zioni internazionali, suscitando critiche e risentimenti spesso mal ri­ posti. Le critiche a certe angustie della storia diplomatica tradizionale appaiono fondate quando si ritiene ancora possibile considerare og­ gi questi modelli di ricostruzione come espressivi di tutto il pro­ cesso politico del cambiamento internazionale; appaiono prive di fondamento quando i processi politici sono quelli dell'ancien régz"­ me. Bisogna aggiungere che non mancano i casi in cui la semplicità geometrica della ricostruzione puramente diplomatica, una sempli­ cità sinonimo di chiarezza e, spesso, per conseguenza, di sensazio­ ne d'aver colto i processi reali della vita internazionale, spinta fuo­ ri dal margine della credibilità proprio dall'affollarsi delle nuove evidenti motivazioni non diplomatiche dei processi internazionali, ha ceduto il passo a W1. diverso modo di affrontare il tema con un progetto semplificante: il modo cronologico, che suggerisce di usa­ re come criterio ordinatore della ricostruzione la sequenza indicata dal susseguirsi degli accadimenti nel tempo. Ma anche se l'ordine indicato dal susseguirsi delle cose nel tem­ po non può essere stravolto, poiché il posterz"us non può spiegare il prz"us, resta il fatto che l'adozione del metodo cronologico porta so-

Introduzione

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lo a mettere insieme cataloghi di eventi quasi sempre collegati dal loro susseguirsi, ma non da una loro composizione all'interno di un quadro problematico che li renda comprensibili. n criterio crono­ logico non è, infatti, un criterio esplicativo. Viceversa costruire un discorso comprensibile significa «isolare problemi», e, in questo caso, problemi di storia politica delle rela­ zioni internazionali. Ciò impone sacrifici di completezza (non di ac­ curatezza), ma consente di individuare temi emergenti, fasi della lo­ ro evoluzione, svolte nel loro modo di proporsi, problemi, insom­ ma, senza l'oneroso e assillante ricorso alla minuzia cronologica. Del resto, in questo ambito, anche le sequenze cronologiche si arric­ chiscono di senso e valore. Seguire i problemi nel loro evolvere significa seguire lo svilup­ po del rapporto fra dati esterni (una serie molteplice di variabili) e azioni umane o istituzionali (una variabile multidirezionale). Ciò spiega perché, in una ricostruzione problematica, i temi di fondo prevalgano sui singoli accadimenti, che ne costitUiscono le mo­ mentanee esemplificazioni. Questi rientrano in quelli e li illumina­ no. Un accordo o un trattato esprimono un momento di cristalliz­ zazione di una realtà in movimento. È importante capire i termini di questa realtà e èercare di intendere come quel determinato ac­ cordo (o accadimento) tenti di fissarla in maniera stabile, senza ov­ viamente riuscirvi, ma fòrnendo una sorta di filtro che illumina lo stato del problema in considerazione. Come ogni discorso storico, anche quello sviluppato nelle pagi­ ne che seguono impone sacrifici alla dea Verità. Ma è, questa, una dea che solo in termini mitologici può essere considerata. La verità storica è solo coerenza soggettiva. li passato, che ogni autore vor­ rebbe o narrare o ricostruire o spiegare o capire, è una trama irri­ petibile di eventi che stimolano la sua sensibilità culturale e politi­ ca. Occorre il gusto di ridar senso alla trama, non l'illusione di re­ cuperarne la totalità. Ciò presuppone scelte e organizzazione di temi attorno a inter­ pretazioni politiche. L'Autore non crede che esista solo una spiega­ zione dei f,atti del passato né crede che una sola dottrina serva a di­ sporli scientificamente. Questa speranza di verità e completezza, che qui viene consciamente abbandonata, appartiene ad altri tem­ pi. Molti cercarono di soddisfarla con discorsi che dessero spesso­ re concreto rispetto alle astrattezze del discorso politico. Una delle

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metodologie più attraenti parve quella, di mediata ispirazione marxiana, sviluppata da Pierre Renouvin come dottrina delle «for­ ze profonde», cioè come ricerca dell'intreccio fra la cronaca politi­ ca e alcuni sviluppi strutturali (demografia, commerci, opinione pubblica). Ora nessuno può negare che sotto la politica si agitino le masse: i numeri della demografia; le risorse della produzione, dei commerci e delle finanze: i numeri dell'economia; gli eserciti, le ma­ rine, le aviazioni, le testate missilistiche: i numeri militari. E meno ancora, oggi, è possibile negare il peso dell'opinione pubblica, giac­ ché uno dei mutamenti più profondi avvenuti durante il secolo è il passaggio della politica- e non solo quella internazionale- dall'età delle élite non responsabili a quella delle élite responsabili, o co­ munque costrette- nelle epoche o nei paesi sotto dittatura- a man­ tenere il consenso delle masse. Democratizzazione dei processi de­ cisionali e manipolazione delle opinioni di massa divengono due modi di essere speculari di W1 fei1omeno solo: il sorgere di un'età nella quale gli individui divengono soggetti che chiedono di conta­ re, anche quando si dà loro soltanto l'illusione di contare. Gli uo­ mini politici dei sistemi democratici e, non meno di loro, quelli che reggono i sistemi autoritari non sono più soli nella formazione del processo decisionale. Essi sono guardati, consigliati, controllati, ap­ provati, ammirati, idolatrati, criticati, odiati da masse che non ac­ cettano più di sentirsi l'oggetto passivo delle decisioni politiche. Gli strumenti di questo rapporto tendono ad assumere una loro auto­ nomia che li rende spesso protagonisti involontari della storia. La sequenza stampa, cinema, radio, televisione, multimedialità, e il po­ tere che questi mezzi di comunicazione acquistano per la loro ca­ pacità di diffondere in modo capillare e oggi istantaneo ciò che ac­ cade nel «villaggio globale», un potere indipendente dalla natura dei messaggi affidati ai singoli media, accompagna la trasformazio­ ne della vita internazionale. Ma per evitare che tutto ciò si compenetri in w1'esposizione o troppo generica o troppo densa (per essere possibile a un solo au­ tore e alla limitatezza delle sue conoscenze), diviene necessario iso­ lare un aspetto e seguirne i mutamenti: come del resto avviene in tutte le scienze, sia che esse si pongano come obiettivo la ricerca di «generalizzazioni» sia che si occupino di fenomeni o problemi de­ terminati. L'alternativa è il rischio di un'applicazione banalmente meccanica di schemi che in Renouvin hanno tuttavia portato a ri-

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sultati così innovativi. È, questa, la genesi del modo secondo il qua­ le il presente volume è impostato. La scelta di un discorso come pre­ dominante non significa poi che gli altri aspetti siano trascurati. Es­ si avranno il loro posto caso per caso, nell'economia di un'esposi­ zione che ha i suoi limiti obiettivi. Una scelta che presuppone astrazioni espone al rischio di con­ fluenza verso una trattazione prevalentemente teorica. L'Autore è ben conscio di questo rischio e vuol chiarire con il dovuto rilievo il fatto che il suo lavoro si colloca all'interno dell'ambito storico. Nel­ lo studio dei problemi internazionali - che solo da pochi decenni hanno acquistato un'evidenza tale da suggerire trattazioni autono­ me, ove si faccia eccezione per lo jus gentium che accompagnò la formazione del cosiddetto «Concerto europeo» verso la metà del secolo XVIII - non tutto è chiarito e spesso, anzi, la sovrapposi­ zione degli interessi di ricerca tende a creare una certa confusione di concetti. Come tutti i blocchi di conoscenze scientifiche - dalla fisica alla chimica, dalla fisiologia alla patologia, dall'economia alla politica economica, dalla letteratura alla storia della letteratura, dal­ la storia politica alla scienza della politica -, anche gli «studi inter­ nazionali» sono affrontati con propositi diversi da autori diversi. Ove si prescinda dal diritto internazionale, coevo alla nascita della comw1ità internazionale composta di soggetti separati e. non uni­ versalistici (cioè non retti da norme interne alla qualità del sogget­ to), gli «studi internazionali» offrono materia di indagine a econo­ misti, giuristi, strateghi, sociologi, psicologi, psicanalisti e politici. Ne offrono anche agli storici. La contiguità fra discorso storico e discorso di teoria politica ha portato e porta talora a una certa so­ vrapposizione tematica e linguistica. Ma la diversità dell'intenzione e della qualità scientifica dei due campi è ben evidente, anche se es­ sa non viene sempre percepita in modo cliiaro. n primo cerca nel­ la varietà dei casi la generalizzazione, il secondo studia la varietà dei casi e può valersi delle generalizzazioni per chiarire il caso singolo. La diversità di intenzioni e di funzioni rimane intatta. Come in tut­ te le scienze, un profilo teorico è accompagnato da un approccio sperimentale e storiografico e, come in tutte le scienze, può acca­ dere che uno dei due aspetti di questa conoscenza abbia una tradi­ zione o uno spessore diverso dall'altro, l'uno sia frutto di scoperte recenti, l'altro frutto di un affaticarsi antico. Giacché è facile rile­ vare, nel caso specifico, come la tradizione storiografica, pur divisa

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in varie scuole, abbia alle spalle un'esperienza assai più ricca di quel­ la teorica e risultati assai più numerosi delle limitate generalizza­ zioni che la teoria delle relazioni internazionali è riuscita sinora a fornire allo storico. Resta infine da riprendere il concetto iniziale di questa introdu­ zione. n periodo trattato in questo volume coincide quasi perfetta­ mente con tre mutamenti radicali nella vita internazionale. n primo di tali mutamenti riguarda l'irruzione delle masse nella vita inter­ nazionale. n secondo - del resto correlato in modo stretto al pre­ cedente- venne rappresentato dall'avvento palese degli Stati Uniti wilsoniani e della Russia rivoluzionaria come soggetti nuovi e po­ tenzialmente dominanti la scena internazionale. Nel1917 ebbe ini­ zio una contrapposizione ché, correndo prima sotterranea e poi aperta (dal 1947), condizionò gran parte della vita internazionale del globo, sino a che il tema proposto nel 1917 non venne risolto nel 1991 dalla crisi sovietica e dall'emergere di una fase radical­ mente nuova della politica internazionale. Sicché la ricostruzione tentata in questo volume acquista, non certo per suo merito ma gra­ zie alle circostanze esterne, una completezza circolare sino a poco fa imprevedibile e si apre ora a un ventaglio di osservazioni che con­ tribuiscono a chiarire il passato e immaginare il futuro. n terzo di tali mutamenti riconduce ai modi tecnici di attuazio­ ne dei processi politici in generale e di quelli internazionali in par­ ticolare. n secolo XX ebbe inizio nel pieno della seconda rivolu­ zione industriale, grazie alla quale i metodi produttivi erano tra­ sformati per l'uso crescente di nuove risorse energetiche- il petrolio e l'elettricità- in sostituzione di quelle tradizionali- il vapore com­ presso e il carbone. Dopo di allora il cambiamento tecnologico as­ sunse un ritmo così celere da rendere impossibile, se non sul piano della storia della scienza, il fissare ogni correlazione fra di esso e i mutamenti politici. La rivoluzione tecnologica divenne una costan­ te che accompagnò ogni aspetto del mutamento sempre più rapido delle forme di vita sociale, e anche delle forme delle relazioni in­ ternazionali. n modo secondo il quale queste si svolgevano venne profondamente alterato, e lo storico deve tenere presente tale cam­ biamento per poter meglio apprezzare il diverso variare del «fatto­ re tempo» nella vita politica. Se furono necessarie settimane perché dall'eccidio di Sarajevo esplodesse la prima guerra mondiale, ba­ starono pochi giorni perché, dopo l'aggressione hitleriana alla Po-

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lonia, nel settembre 1939, avesse inizio la seconda guerra mondia­ le; ma dopo di questa i tempi del cosiddetto equilibrio del terrore ridussero a ore e poi a una manciata di minuti i tempi di reazione rispetto alle ipotesi di conflitto. Bastano questi accostamenti, tutti relativi all'arco di tempo considerato in questo volume, per coglie­ re l'evidenza del processo di accelerazione e di interdipendenza del­ la vita internazionale. Resta infine da chiarire un punto. Un volume di sintesi non può essere, salvo occasionali eccezioni, il risultato di una ricerca origi­ nale. Esso può e deve solo riflettere il punto sino al quale la ricer­ ca storica ha offerto dati sufficientemente sedimentati. Alla data odierna (2008) , questa sedimentazione si può dire avvenuta solo per i decenni sin verso l'inizio degli anni Ottanta del secolo XX e, an­ che a proposito di questi, è prudente osservare che il rinnovamen­ to della storiografia suggerisce ora importanti mutamenti di rotta o di accenti anche rispetto a temi già oggetto di interpretazioni con­ solidate. Scrivere nel 2008 significa dire cose diverse da quelle che si potevano scrivere anche solo dieci anni prima. n periodo succes­ sivo è invece un terreno ricco di temi ancora poco -studiati, che so­ lo gradualmente potranno essere considerati in modo più comple­ to o più persuasivo, sebbene sin d'ora si possano avanzare plausi­ bili ipotesi interpn:tative sulla base del materiale disponibile e delle chiavi di lettura che esso ha suggerito. Nella stesura della prima edizione di questo lavoro e, oggi, nella re­ visione di non pochi passaggi critici, ho contratto molti debiti di gra­ titudine. In primo luogo questa gratitudine è rivolta verso tutti i col­ leghi della sezione storica internazionale del dipartimento di Studi sullo Stato della facoltà di Scienze politiche «Cesare Alfieri» di Fi­ renze; la spinta a superare le mie esitazionfè venuta dal clima di fer­ vore scientifico che vi si respira: W1 fervore che alimenta una ininter­ rotta «circolazione delle idee» alla quale partecipano i docenti, i più giovani ricercatori, i candidati al dottorato di ricerca e, non ultimi, gli studenti, in particolare i laureandi; un ringraziamento senza retorica ma ispirato dalla chiara consapevolezza di quanto w1o studioso non più giovane riesca a cogliere, più o meno direttamente, dal confron­ to con fresche e inesauribili curiosità, spesso alle loro prime prove. Diversi amici e colleghi hanno accettato di commentare, cor­ reggere, suggerire adattamenti, indicare errori concettuali o di fat-

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to presenti nella prima versione di questo volume. Sono sempre gra­ to a coloro che mi hanno aiutato, sia leggendo il manoscritto sia do­ po la pubblicazione (nel 1994 ) della prima edizione. Gli stimoli che ho tratto da questa amichevole collaborazione sono stati preziosi poiché mi hanno spesso consentito di evitare interpretazioni non persuasive o non chiare, errori o sviste. In particolare desidero an­ cora ringraziare Gianluca André, Giuseppe Are, Bruna Bagnato, Giovanni Buccianti, Fulvio d'Amoja, Maria Grazia Enardu, Marco Mugnaini, Leopoldo Nuti, Paola Olia, Pietro Pastorelli, Marta Pe­ tricioli, ilaria Poggiolini, Luciano Tosi, Antonio Varsori. Questi con­ tributi e queste opinioni sono stati per me un punto di riferimento e un'occasione di verifica rispetto a un layoro del quale mi assumo, com'è ovvio, tutta la responsabilità. Un ringraziamento speciale debbo al prof. Massimiliano Gu­ derzo e al dott. Renzo Rastrelli, che hanno validamente collabora­ to alla ricerca di base, rispettivamente sui temi della decolonizza­ zione e sui problemi dell'Asia orientale; al prof. Marco Mugnaini, che mi ha fornito indicazioni, suggerimenti e materiali di grande uti­ lità per la comprensione dei problemi dell'America Latina; ai dott. Sandra Cavallucci, Elena Dundovich, Laura Fasanaro, Marilena Gala, Maria Eleonora Guasconi, Lorenzo Mechi e Cristina Panerai, che hanno contribuito alla correzione delle bozze. Altri colleghi e amici mi hanno offerto l'occasione di discussio­ ni dalle quali ho tratto spunti di riflessione o suggerimenti molto utili. Mi è grato fra questi ricordare Bruno Arcidiacono, Danilo Ar­ dia, Lucio Cataldi, David Ellwood, Luigi Vittorio Ferraris. Questa edizione riveduta e aggiornata non sarebbe però stata possibile senza il contributo di molti lettori che mi hanno segnala­ to sviste o mende alle quali porre rimedio. Tra costoro un ringra­ ziamento particolare debbo al prof. Federigo Argentieri, all'amb . Massimo Castaldo, alla dott.ssa Sandra Cavallucci, al prof. Fabio Mognol, al dott. Alberto Tonini, al dott. Duccio Basasi, al dott. Mauro Campus, al dott. Matteo Gerlini e soprattutto ancora al prof. Massimiliano Guderzo, lettore attento, scrupoloso e intelligente, inesauribile suggeritore di proposte utili per chiarire alcuni passag­ gi oscuri o esporre in maniera più organizzata una materia com­ plessa. Ringrazio altresì la dott. ssa Annalisa Lombardo, la quale mi ha aiutato nell'aggiornamento cronologico relativo agli anni più re­ centi e il dott. Carlo Mainardi, che si è assunto l'onere non facile di

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Introduzione

compilare l'indice per argomenti. Un contributo concettuale di va­ lore inestimabile mi è stato dato dallo scambio di idee con il prof. Giampaolo Prandstraller. Infine, e soprattutto, la mia famiglia: le mie figlie Isabella e Fe­ derica, mia nipote Matilde, che ha reso più lieti gli anni recenti, e mia moglie, Alessandra, alla quale sono grato, per aver tollerato tut­ to questo e per aver steso attorno al mio lavoro una solida e conti­ nua rete di protezione che quasi sempre è riuscita ancora ad assi­ curarmi la tranquillità necessaria per compierlo.

Firenze, 2008

E.D.N.

Storia delle relazioni internazionali Dall918 ai giorni nostri

Parte prima

Vent'anni fra due guerre

Capitolo primo

La mancata ricostruzione del sistema europeo e le illusioni della stabilizzazione

l . Ricostruire il sistema europeo: aspetti generali All'indomani della prima guerra mondiale toccava ai vincitori (e in misura minore anche ai vinti) il compito di affrontare il problema della ricostruzione interna e internazionale. La guerra (e non solo la guerra) aveva provocato tanti cambiamenti, s'era lasciata dietro tante rovine che il compito di fare una pace appariva quanto mai impervio. Era stata una guerra diversa dalle precedenti. Per la prima vol­ ta (con l'eccezione circoscritta della guerra civile americana) si era trattato di una guerra non solo militare ma anche civile e di massa. Era finito il tempo in cui i conflitti, anche i più lunghi e laceranti, scomponevano l'assetto della società, la distribuzione del potere, le credenze religiose ma, nel momento dello scontro militare, riguar­ davano solo le ristrette fasce di territorio effettivamente attraversa­ te da eserciti affamati e predatori, .mentre il resto avvertiva solo un'eco lontana e indiretta. Fra il 1914 e il 1918 la guerra fu il pri­ mo grande scontro interno alla società industrializzata, e dunque la prima conflagrazione che potesse provocare distruzioni di massa. n fronte dei combattimenti si estese all'intero confine dei paesi in lot­ ta: tutta la regione renana; tutto il Veneto; immensi tèrritori lungo la frontiera tra gli imperi centrali e la Russia; chilometri di trincee, milioni di combattenti, centinaia di migliaia di bocche da fuoco, sempre più distruttive. E, di conseguenza, paesi rasi al suolo, vitti­ me a centinaia di migliaia e, infine, a milioni. Sul piano dei sentimenti e della cultura di massa, la guerra era sempre meno un fatto riguardante le classi dirigenti e i militari (più

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Parte I. Vent'anni fra due guerre

o meno costretti a combattere dall'arbitrio delle regole di leva) . Es­ sa toccava tutti i cittadini e suscitava le loro reazioni: esasperava il nazionalismo e l'odio verso il nemico; creava una partecipazione an­ gosciata alle vicende militari; faceva scoprire l'aberrazione del fare la guerra come mezzo per risolvere conflitti politici; faceva com­ prendere come la vita di tutti gli Stati fosse esposta ai calcoli sog­ gettivi di un gruppo limitato di dirigenti e poneva dunque il pro­ blema del controllo sull'operato di questi dirigenti. La prima guer­ ra mondiale, in sintesi, trasformava anche la politica internazionale da regno della diplomazia segreta in dominio aperto al controllo de­ mocratico o, quanto meno, alla rivendicazione di un controllo, pur difficile in pratica da ottenere. Opp�re, in senso opposto, creava nei governanti il bisognò di ricorrere a mezzi sempre più sofistica­ ti, e spesso ingannevoli, per conquistare un consenso pubblico di­ venuto indispensabile. Si finiva così per esaltare valori contrastan­ ti, come il pacifismo o l'internazionalismo, oppure il nazionalismo e il bellicismo, con il risultato di allontanare là cultura della gente comune e persino la stessa riflessione degli intellettuali dai valori realmente fondamentali per l'wnanità. Non meno importante fu la serie dei cambiamenti sociali. Per quattro o cinque anni, milioni di uomini, appartenenti alle genera­ zioni più giovani e perciò più produttive, furono allontanati dalle loro occupazioni abituali per vivere sotto le armi. Al loro ritorno avrebbero dovuto reinserirsi nella vita civile, dimenticando le con­ suetudini e la mentalità assunte durante la vita militare. Ma non sempre questo ritorno risultò facile; spesso fu accompagnato da lun­ ghi periodi di disoccupazione e disadattamento che spingevano al margine della vita sociale o esasperavano le passioni politiche. Na­ scevano il mondo dei «reduci» e il «reducismo» come nuove cate­ gorie sociali che non potevano essere trascurate, poiché interessa­ vano milioni di giovani, un paio di generazioni. Non tutti coloro che ritornavano dalla guerra ritornavano sani come quando erano partiti. I mutilati, vittime delle ferite riportate in combattimento, erano in Europa alcuni milioni: spesso inabili, e sempre meritevoli della solidarietà nazionale. Si ponevano proble­ mi assistenziali collettivi, dei quali doveva farsi carico tutta la so­ cietà, e che avevano costi altissimi, sia in termini finanziari sia in ter­ mini di normalità della vita sociale. Non diverso era il problema del­ le famiglie delle vittime di guerra. Spesso queste vittime lasciavano

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La mancata ricostruzione del sistema europeo

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solo genitori piangenti che perdevano con loro una giovane forza lavoro: era un reddito in meno, e un dolore in più, ma non tali da assumere il carattere drammatico che il fenomeno assumeva quan­ do le vittime erano mariti o padri di famiglia, che lasciavano mogli o figli, affidati a se stessi per il loro futuro. Quasi sempre mogli e figli giovanissimi, che dovevano ricostruire la loro esistenza. Era la nuova classe sociale (poiché la dimensione del fenomeno autorizza a usare questa definizione) degli orfani e delle vedove di guerra. Si­ no al 1914 nessuno aveva pensato che questo problema sarebbe di­ venuto uno dei motivi dominanti le conseguenze di un conflitto. Vi erano poi le conseguenze economiche. In ogni paese la du­ rata della guerra aveva imposto sacrifici pesanti dal punto di vista delle condizioni di vita. Più pesanti ancora erano le trasformazioni del sistema produttivo che aveva dovuto essere riconvertito alle esi­ genze dell'economia di guerra. In termini macroeconomici questa riconversione non era sempre stata un fenomeno strategicamente negativo, poiché essa aveva provocato l'irrobustirsi dell'industria pesante (specialmente produzione e manifattura dell'acciaio e me­ tallurgia) e la crescita dei profitti che nel dopoguerra avrebbero po­ tuto essere reinvestiti per finanziare la ricostruzione. Ma in senso più immediato, le esigenze della guerra avevano distorto la vita eco­ nomica di tutti i paesi, mutato la destinazione dei consumi, cam­ biato la composizione della manodopera. Per la prima volta i gio­ vani avevano dovuto essere sostituiti dai vecchi o dalle donne. Un fatto forse positivo, questo, dal punto di vista dell'emancipazione femminile, ma certo una declinazione non funzionale allo sviluppo di un sistema economico di pace. Allo stesso modo, poteva essere considerato positivo l'intenso sforzo di innovazione e modernizza­ zione degli impianti che la guerra esigeva e che, al momento della riconversione verso l'economia di pace e dopo il superamento del­ le difficoltà di tale riconversione, avrebbe potuto presentare un si­ stema di impianti industriali e di tecnologie più avanzate. Ma nell'insieme il sistema economico subì una forte scossa dal­ la quale esso stentò a riprendersi e che fu resa più complessa dalle tentazioni rivoluzionarie del dopoguerra. A ciò si aggiunsero i pro­ blemi della ricostruzione, che mai nel passato si erano presentati in modo così massiccio. Non furono ancora distruzioni paragonabili a quelle provocate fra il 1 93 9 e il 1945 dalla seconda guerra mondia­ le, ma già allora in tutte le regioni attraversate dagli eserciti, e in

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quelle, assai circoscritte, colpite da bombardamenti aerei, si pone­ va il problema di ricostruire case e infrastrutture. Prepararsi alla pa­ ce voleva dire affrontare i problemi della ricostruzione. Tutto ciò poneva questioni interne e internazionali. Le spese di guerra avevano costretto i singoli governi a un appesantimerÌto del­ la pressione fiscale. Ma soprattutto li avevano costretti a fare ricor­ so al mercato finanziario internazionale. La Gran Bretagna, il p ae­ se meno esposto al peso della guerra combattuta , era stata il primo mercato finanziario degli Alleati; in minor misura lo era stata la Francia. Entro la fine della guerra la Gran Bretagna concesse pre­ stiti agli Alleati per un totale di 17 40 milioni di sterline; la Francia per 355 milioni. A questo indebitamento interno all' alleanza si ac­ compagnò un p arallelo indebitamento britannico, francese, italiano e degli altri paesi del fronte antitedesco nei confronti degli Stati Uni­ ti. n problema di ripianare questa situazione si trascinò per un cer­ to numero d'anni e diede origine a una spirale yizios a nel momen­ to in cui i vincitori collegarono, in una triade inestricabile, la resti­ tuzione dei debiti di guerra con il p agamento, da p arte tedesca, di riparazioni adeguate a compensare i conti totali. Sullo sfondo (o sul proscenio? ) di tutto questo si stagliava la nuo­ va situazione creatasi in Russia dopo le rivoluzioni del 1 9 17 e spe­ cialmente dopo la rivoluzione d'ottobre. L'illusione che la rivolu­ zione fallisse, o comunque restasse circoscritta all'interno dell' anti­ co impero degli zar, se mai fu davvero nutrita d a qualcuno, si rivelò presto infondata. n movimento operaio aveva radici troppo profon­ de nelle società industrializzate perché p arti delle forze socialiste non subissero l'attrazione dell'appello lanciato d a Lenin. Gli echi germanici e balcanici della rivoluzione; il fascino che essa esercita­ va sulla sinistra socialista italiana e francese; il peso che essa aveva ancbe su quei p artiti socialisti - che respingevano, per ragioni di prin­ cipio, le forme violente e antitetiche alla tradizione democratica del socialismo occidentale e il concetto che la dittatura del proletariato fosse da imporre con colpi di mano come quelli usati da Lenin e dai suoi collaboratori contro l'Assemblea costituente russ a - non sce­ m avano l'attrazione esercitata su tutto il socialismo mondiale da un p artito che si proclamava rappresentante dei lavoratori. n problema del contagio non era dunque né immaginario né semplice. Ogni pae­ se europeo doveva fare i conti con situazioni interne proprie; tutti insieme i vincitori dovevano trovare un modo comune per fronteg-

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giare la situazione esistente in Russia, senza essere per nulla d' ac­ cordo su cosa fare nel merito. Sebbene alle conferenze della pace non prendesse parte alcun rappresentante del governo rivoluziona­ rio, il timore della rivoluzione fu presente sempre: come preoccu­ pazione di fopdo ma anche come problema concreto, che aveva ri­ flessi sul modo in cui la Germania avrebbe dovuto essere trattata e, più ancora, sul modo in cui avrebbero dovuto essere risolti i pro­ b Ìemi riguard anti l'Europa centro-meridionale. Infatti, dal punto di vista della situazione politica contingente, ciò che da ultimo caratterizzava il climà nel quale le paci sarebbe­ ro state negoziate e la ricostruzione del sistema politico europeo sa­ rebbe stata attuata era l'eccezionale portata dei cambiamenti poli­ tico-istituzionali che la guerra aveva lasciato dietro di sé nell'Euro­ pa €:entrale, orientale e meridionale. Quattro imperi erano scom­ pai'§i o si trovavano in piena agonia. L'Impero germanico era stato travolto dalla sconfitta e la Germania era diventata una repubblica democratica; l'Impero zarista era stato distrutto dalla rivoluzione. Tuttavia sia la Germania sia la Russia, e i territori du essa dipen­ denti, rimanevano abbastanza coesi (salvo le amputazioni che i vin­ citori avrebbero imposfb alla Germania e i dubbi che si potevano nutrire sul successo firlaie della rivoluzione bolscevica). Ben diversa era la §ituazione provocata dal crollo dell'Impero austro-ungarico, al quaie aveva fatto seguito una sistemazione prov­ visoria, caratterizzata da w1a serie di incertezze e perplessità. E al­ trettanto grave era la situazione provocata dalla crisi finale verso la quale si avviava l'Impero ottomano, che se non era ancora estinto sulla carta, era circondato da nemici, che lo avrebbero privato di gran parte dei suoi territori, sino a portarlo alla dissoluzione. Era una svolta istituzionale-dinastica quale forse mai si era potuta ve­ dere prima in Europa. Dinastie al potere da secoli venivano d'un tratto cancellate dalla sconfitta dei loro eserciti. Non dw1que solo la rivoluzione russa, ma anche tutti questi mutamenti istituzionali sollevavano nuovi problemi. In questo quadro generale si colloca­ vano le questioni concrete che la Conferenza di Parigi avrebbe do­ vuto risolvere. n compito degli statisti, che a partire dal 1 8 gennaio 1 9 1 9 si riu­ nirono a Parigi per negoziare i trattati di pace, va interpretato alla luce delle soluzioni che essi diedero all'insieme di questi problemi

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e, in concreto, al modo in cui tali problemi riflettevano i conflitti che avevano scatenato la guerra. Quando si isolano tali conflitti, cioè si ricercano le cause della prima guerra mondiale, si individuano i punti di attrito permanen­ ti o emergenti, ossia le rivalità generate dalla diversa crescita (o cri­ si) delle grandi e medie potenze nelle quali il sistema internazionale europeo era suddiviso. Più precisamente si percepisce la profon­ da rivalità suscitata dalla crescita tedesca: essa acuiva la contrappo­ sizione alla Francia; creava antagonismo marittimo e coloniale con la Gran Bretagna; suscitava la diffidenza russa rispetto al futuro del­ la penisola balcanica e dell'Impero ottomano; gareggiava con la po­ tenza economica degli altri paesi industrializzati europei e li supe­ rava con slancio. La Germania insotmna aveva costituito un fronte demografico robusto e compatto. Tanto più compatto in quanto la crisi dell'Impero asburgico, delineatasi fra il 1 85 9 e il 1866-67 , ave­ va dato vita dal 1 879 a un'alleanza stretta e duratura, che in prati­ ca condizionava la libertà di manovra dell'lmpt2ro austro-ungarico, vincolandola e subordinandola a quella germanica. Alla crescita germanica si contrapponevano rivali vecchi e nuovi. Vecchi, come la Francia che dal 1 87 1 meditava la revancbe; e nuovi, come la Russia panslavistica, che spingeva le nazioni balca­ niche minori, non legate dinasticamente a Berlino, a vedere nell' as­ se austro-tedesco l'ostacolo per la loro crescita e una minaccia po­ tenziale, dopo che la Germania ebbe assunto la protezione dell'Im­ pero ottomano. il progetto di una ferrovia Berlino-Baghdad espri­ meva quasi plasticamente l'estensione pensata per w1 dominio che da Berlino tendeva a raggiungere l'Oceano Indiano per trovare qui un nuovo punto di scontro (oltre a quelli esistenti nel Mare del Nord e nell'Atlantico in generale) con l'altro nuovo avversario, la Gran Bretagna, che in pochi lustri aveva visto l'antico alleato di tut­ to il secolo XIX trasformarsi in concorrente industriale, commer­ ciale, tecnologico, navale. Quando la potenza tedesca si era affac­ ciata sul mare e da questo aveva tratto nuovo alimento, la rivalità britannica era diventàta un fatto inevitabile. Esisteva sul continen­ te prebellico una nuova forza esplosiva, dotata dei mezzi e dei pun­ ti di riferimento necessari per darle credibilità come minaccia. Vec­ chi e nuovi avversari della Germania erano dunque stati spinti ver­ so un'intesa che delimitasse i rischi, erodesse la nuova forza, sconfig­ gendola.

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S e l e antiche rivalità erano scontate e preveclibili, erano quelle nuove che davano dinamismo alla coalizione antitedesca: la rivalità britannica, che esplose con la scoperta della dimensione globale del rischio, e quella russa, che ritrovava tradizionali contrapposizioni continentali ma soprattutto vedeva sorgere un ostacolo inatteso sia all'affermazione dei popoli slavi, come la Serbia e la Bulgaria, sia al secolare disegno di erosione dell'Impero ottomano. TI marchio teu­ tonico, divenuto ancora più evidente dopo la rivoluzione dei «Gio­ vani Turchi» del 1908, era sufficiente a far passare in secondo pia­ no (come era accaduto del resto già tra la Francia e la Gran Breta­ gna nel 1904) gli antagonismi coloniali e a favorire la ricerca eli compromessi ragionevoli in spazi importanti ma non eli prima linea (come la Persia, l'Afghanistan e gli altri oggetti delle convenzioni anglo-russe del 1907 ) . A questo insieme conflittuale centrale, dal quale scaturì l a guer­ ra nel 1914, altri momenti di crisi dovevano aggiungersi: alcw1i le­ gati al conflitto di base, come le tensioni balcaniche e i nazionali­ smi mitteleuropei (Polonia, Boemia-Moravia, Slovacchia); altri ten­ denzialmente oscillanti, per l'obiettiva ambivalenza degli interessi in gioco e la necessità eli misurarli secondo opportunità, come era il caso dell'Italia. La sconfitta subita dagli imperi centrali nel 1 9 1 8 consentiva in teoria il superamento delle tensioni prebelliche a spese della Ger­ mania e in senso antitedesco. In realtà le novità maturate o mani­ festatesi durante la guerra limitarono la libertà di manovra dei vin­ citori e diedero una prima indicazione di come tutte le potenze eu­ ropee non fossero più in grado di risolvere da sole i problemi legati ai trattati di pace e alla definizione dei nuovi rapporti eli forza sul continente. Nel loro insieme, infatti, i trattati di Parigi cancellarono solo in parte le ragioni della guerra. Forse ciò si spiega poiché la vittoria non aveva segnato la debellatio (cioè la scomparsa come Stato) del­ la Germania ma aveva assunto la forma di armistizio, firmato 1' 1 1 novembre 1 9 1 8 dalla Germania con gli Stati Uniti e le potenze del­ l'Intesa, sulla base dei 14 punti wilsoniani, ma con la riserva degli Alleati circa il problema delle riparazioni e quello della libertà eli navigazione. Oppure si spiega poiché a occidente i vincitori si im­ pegnarono meglio a chiarire la portata del loro successo, mentre la scomparsa dei tre imperi centro-orientali rese meno chiare le linee

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e le forze sulle quali costruire un nuovo ordine europeo. Col risul­ tato che un nuovo ordine europeo non fu costruito e vennero in­ vece creati nuovi motivi di antagonismo - magari minori ma non meno acuti e forse più pericolosi - che si aggiunsero alla massa del­ le insoddisfazioni, nutrite dalle attese inappagate. È sorprendente, a tanti anni di distanza, considerare come gli autori dei trattati di Parigi non si rendessero conto (tranne qualche eccezione, allora considerata polemica) di aver creato un nuovo «ordine», che ri­ spetto a quello travolto dalla guerra presentava anzi più numerosi e più gravi motivi di conflitto, che la Società delle Nazioni non sa­ rebbe certo stata in grado di risolvere. Infatti l'insieme di quei trat­ tati non fornì un risultato conclusivo ma rappresentò solo un mo­ · mento di sosta, una pausa, 'durante la quale le rivalità europee si ri­ proposero in maniera esasperata sino all'autodistruzione, e i cam­ biamenti esterni all'Europa maturarono sino a presentarsi come gli elementi dominanti della nuova situazione globale. '

2. La Società delle Nazioni Dal punto di vista del presidente americano Wilson, che condizionò i primi mesi della Conferenza di Parigi, il presupposto della rico­ struzione europea stava nell'attuazione di alcuni dei punti pro­ grammatici ai quali gli Stati Uniti avevano affidato il loro «manife­ sto» di guerra, cioè nella creazione di un'organizzazione che, isti­ tuzionalizzando i conflitti internazionali, rendesse più facile una loro soluzione pacifica o rendesse possibile una risposta collettiva tale da scoraggiare gli aggressori o da sconfiggerli. In passato que­ sto compito era stato affidato alle sottigliezze della diplomazia se­ greta ma dal 1 9 17 proprio contro di essa si era scagliata l'offensiva -spesso demagogica - di chi la indicava come principale respon­ sabile del concatenarsi di impegni che nel 1914 aveva reso fatale l'e­ stendersi della guerra. In ossequio alle pressioni tendenti a una for­ mazione più democratica delle decisioni di politica internazionale si badava al sintomo - pur importante - senza percepire che esso esprimeva a sua volta contraddizioni più profonde. E si credeva che, per rimuovere tale sintomo (nella fiducia di estinguere il «male» del­ la «politica di potenza») fosse necessaria una pseudo-diplomazia «aperta», come Wilson aveva chiesto nel primo dei suoi 14 punti,

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affidata a una «Società delle Nazioni», frutto dell'internazionalismo del presidente americano. Ma fu davvero la Società delle Nazioni l'organo capace di affer­ mare una visione mondiale dei problemi, oppure essa fu travolta su­ bito dalla prepotente realtà delle politiche di potenza? n Covenant, cioè il documento istitutivo della Società delle Nazioni, venne in­ serito nel trattato di Versailles come prima parte del testo. In 26 ar­ ticoli esso dettava le regole che avrebbero dovuto consentire la so­ luzione pacifica delle controversie, prima che qualsiasi paese mem­ bro si sentisse legittimato a ricorrere alla forza, e le regole che dovevano reprimere le aggressioni qualora uno degli Stati membri o altri Stati, non appartenenti all'organizzazione, si fossero posti «in violazione di patto», cioè avessero fatto ricorso alla guerra. Gli organi della Società erano l'Assemblea, il Consiglio, il Se­ gretariato permanente (art. 2). L'Assemblea era formata dai rap­ presentanti di tutti i paesi membri e non aveva poteri chìaramente delimitati. n Consiglio era composto dai rappresentanti delle «prin­ cipali potenze alleate e associate» e da quattro altri membri indica­ ti dall'Assemblea, a rotazione ma discrezlònalmèrite; ia sua compo­ sizione poteva essere modificata da un semplice voto dell'Assem­ blea stessa. n Consiglio era l'organo di gòvèi:rio della Società, poiché esso poteva occuparsi «di qualsiasi mai:eda rientrasse fiella sfera del­ le competenze della Società o riguardasse la pacerièi mondò». Sia il Consiglio sia l'Assemblea adottavano le loro delibèrazioni èon vo­ to w1anime, escluse le parti in causa in ùna controversia. I compiti del Segretariato non venivano precisati, ma erano implicitamente quelli del coordinamento organizzativo. n mantenimento della pace era affidato a misure preventive (ar­ bitrato, mediazione, intervento del Consiglio, sentenze giurisdizio­ nali della Corte internazionale permanente- di giustizia: artt. 1 1 - 14) oppure all'intervento politico del Consiglio o , nel caso di violazio­ ni non risolte in modo pacifico, all'adozione di una serie di sanzio­ ni che andavano dalle misure economiche e commerCiali sino all'u­ so della forza (artt. 15 e 16), che avrebbe dovuto essere fornita da­ gli Stati membri, secondo le richieste del Consiglio. Altre norme concorrevano alla salvaguardia della pace in modo indiretto. Esse riguardavano l'impegno a non stipulare trattati segreti, l'impegno a rivedere trattati divenuti inattuali o rivelatisi inapplicabili; l'impe­ gno al disarmo; l'istituzione dei mandati come modello di soluzio-

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ne riformistica e, in alcuni casi, di transizione pacifica verso l'indi­ pendenza dei paesi coloniali. li sistema della Società delle Nazioni, basato sul principio della sicurezza collettiva, era un nobile segno della propensione, così ca­ ratteristica della cultura che lo aveva ispirato, a tentare di istituzio­ nalizzare i rapporti di forza internazionali sino a inserirli in uno schema giuridico capace di dominare la potenza e di dare la garan­ zia di una risposta repressiva adeguata a bloccare le trasgressioni del diritto. Tuttavia la molteplicità dei volti che la politica di po­ tenza può assumere sfuggiva alle speranze di codificazione ed eb­ be, nel caso specifico, un rapido sopravvento sui desideri wilsonia­ ni. La mancata ratifica, d� pf!rte del Senato americano, del trattato di Versailles, del quale il Covenant costituiva la parte concettual­ mente dominante, privò la Società delle Nazioni dell'unica forza esterna all'Europa capace di mediare le rivalità tradizionali del vec­ chio mondo. La voluta esclusione dell'Unione S,ovietica e, più tar­ di, la sua assenza da un'organizzazione che essa considerò, sino al 1 93 3 -34, l'espressione della diplomazia capitalistica, sbilanciava la struttura giuridica anche in questa direzione. L' assenza della Ger­ mania sconfitta e il relativo disinteresse del Giappone rispetto a pro­ blemi esterni all'area del Pacifico fecero sì che la Società si trovas­ se sotto l'influenza delle principali potenze vincitrici, cioè la Gran Bretagna e la Francia, seguite, a distanza, dall'Italia. In altri tenni­ ni, l'organizzazione ginevrina (il Covenant aveva stabilito che la se­ de della Società fosse stabilita a Ginevra) sin dall'inizio non fu, par­ te per accidente parte per séelta, quell'organizzazione universalisti­ ca che la salvaguardia della pace universale presupponeva. Più ancora, il peso politico che la Gran Bretagna e la Francia esercita­ rono in essa le fece acquistare il carattere di organizzazione asser­ vita agli interessi delle maggiori potenze imperialistiche europee, anche quando ciò non fosse stato del tutto vero. Inoltre, il fatto che le deliberazioni non strettamente procedurali dovessero essere pre­ se all'unanimità praticamente assicurava Wl diritto di veto genera­ lizzato, che avrebbe potuto paralizzare l'organizzazione in qualsia­ si momento della sua attività. Così, quello di buono che sul piano tecnico dell'organizzazione internazionale la SDN riuscì a fare du­ rante la sua esistenza venne soffocato dalle macroscopiche carenze politiche che caratterizzarono la sua attività.

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3 . La pace /ranco-tedesca e il problema della sicurezza francese 3 . 1 . Il trattato di Versailles. Entro la cornice rappresentata dal con­ fronto tra il wilsonismo e il realismo degli statisti europei furono af­ frontati, durante la Conferenza di Parigi, tutti i temi critici riguar­ danti la riorganizzazione dell'Europa e, per prima, la questione te­ desca. n lungo negoziato su questo problema e le tensioni che portarono al compromesso finale furono sintetizzati nel trattato di Versailles del 28 giugno 1919 fra la Germania e le 27 potenze al­ leate e associate (Francia, Gran Bretagna, Italia, Stati Uniti e Giap­ pone e tutti gli altri paesi minori) . A prima vista, si trattava di una pace dura e punitiva, che i Tedeschi subirono come un diktat im­ posto loro con l'inganno e con la forza. Dal punto di vista formale, il giudizio tedesco non era così infondato come poi i vincitori vol­ lero far apparire. Infatti il negoziato si svolse solo fra i vincitori, sen­ za che i Tedeschi potessero far sentire in alcun modo la loro voce. Il testo del trattato venne loro presentato, insieme con la «conces­ sione» di formulare controdeduzioni scritte, che vennero quasi tut­ te respinte (tranne quelle riguardanti il futuro della Slesia e quelle relative a alcuni aspetti della situazione della Saar) , dopo di che, a metà giugno, essi ricevettero un ultimatum: se non avessero firma­ to entro sette giorni, senza chiedere altri emendamenti, la guerra sa­ rebbe ricominciata. La Germania era, fra l'altro, ancora esposta ai rischi del blocco navale alleato, e i suoi governanti perciò non po­ tevano permettersi di correre un rischio troppo azzardato. Dovet­ tero cedere, ma da allora la sensazione di avere subito un diktat bru­ tale e violento rimase radicata nella psicologia collettiva dei Tede­ schi, con il risultato di creare le condizioni perché ogni tentativo revisionistico apparisse giustificato. D'altra parte, a ben guardare, questo stato d'animo era fondato solo sulle circostanze immediate, poiché in realtà la pace lasciava intatto il potenziale produttivo della Germania e lasciava sussistere la possibilità che entro pochi anni i prodotti e i capitali tedeschi fos­ sero pronti a riconquistare mercati e controlli nel mondo, senza il compito di dover amministrare costosamente quei territori coloniali ai quali la Germania fu costretta a rinunciare. Nel 1919, i vincitori, per «punire» la Germania, la liberavano, per prima nella storia mondiale, del «fardello coloniale», sollevandola precocemente da oneri che altri scambiavano ancora per vantaggi, imponendole di _

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operare solo in termini di mercato mondiale, cioè nei termini più vantaggiosi per un sistema industriale e commerciale dinamico. Per la Francia, il Belgio, i Paesi Bassi, la Danimarca e per gli Sta­ ti nuovi come la rinata Polonia o le neonate Cecoslovacchia e Au­ stria, o, più indirettamente, per la Jugoslavia e per l'Italia, l'unica soluzione definitiva, cioè l'unica formula capace di far scomparire il pericolo tedesco, consisteva nella distruzione dell'unità territo­ riale della Germania. Non a caso fu, questo, il tema che suscitò gli scontri più aspri durante i negoziati di Parigi e in particolare in se­ no al Consiglio dei Quattro (Georges Clemenceau per la Francia, David Lloyd George per la Gran Bretagna, Vittorio Emanuele Or­ lando per l'Italia e Woodrow Wilson per gli Stati Uniti) che adottò le principali decisioni rigwardanti i trattati di pace. Questi negoziati (che secondo i principi della «diplomazia aper­ ta» predicata da Wilson avrebbero dovuto svolgersi pubblicamen­ te, ma che ebbero invece un andamento del tutto segreto) furono la sede in cui ebbe luogo lo scontro fra la tesi _,o la ragione politi­ ca - francese e quella americana. Wilson oppose il più netto rifiu­ to alle richieste dei Francesi (che contemplavano oltre alla restitu­ zione alla Francia dell'Alsazia-Lorena, già avvenuta con l'armistizio, la creazione di una Renania indipendente legata alla Francia e al Belgio da un possibile trattato di unione doganale) e li costrinse a cedere alla propria volontà, anche per il mancato appoggio britan­ nico e italiano. Clemenceau dovette accontentarsi di un mediocre palliativo, in parte sancito dal trattato di Versailles e in parte da un trattato di garanzia anglo-americano. li trattato di Versailles man­ terleva a occidente, in sostanza, l'unità della Germania. Dal punto di vista territoriale, a ovest concedeva alla Francia l' amministrazio­ ne sui territorio della Saar, la proprietà delle miniere in essa situa­ te, salvo referendwn da tenersi quindici anni dopo. Concedeva al Belgio alcune rettifiche territoriali nei distretti di Eupen e Malmedy, e a nord affidava a un plebiscito la definizione del confine con la Danimarca, nella regione dello Schleswig. Inoltre prevedeva che la Germania rinunciasse a tutte le sue colonie. Dal punto di vista mi­ litare, esso considerava le esigenze di sicurezza manifestate dai Fran­ cesi rispetto al pericolo di un attacco di sorpresa, imponendo la ri­ duzione dell'esercito tedesco a soli 100.000 uomini (compresi 4000 ufficiali) , arruolati su base volontaria e con proibizione della co­ scrizione obbligatoria; imponendo altresì la smilitarizzazione della

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riva sinistra del Reno e di una fascia di 50 chilometri lungo la riva destra del fiume, con l'accordo che in quest'area il governo germa­ nico non dovesse disporre né truppe né fortificazioni (un obbligo la cui violazione avrebbe dovuto far scattare il trattato di garanzia anglo-americano); imponendo, infine, che truppe alleate occupas­ sero la Renania-Palatinato divisa in tre settori, presidiati rispettiva­ mente per un periodo di cinque, dieci e quindici anni, salvo antici­ pazione dei termini nel caso di corretto adempimento del trattato da parte della Germania o proroghe, nel caso contrario. TI mancato accoglimento delle richieste massime francesi era compensato, sul piano astratto, dalla stipulazione di un trattato di garanzia che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sottoscrivevano in favore della Francia, contro le eventuali violazioni germaniche del trattato di Versailles. Ma la garanzia perdette quasi subito ogni va­ lore, a causa della mancata ratifica americana del trattato stesso (20 novembre 1 919), un voto che privava di senso il compromesso ac­ cettato dai Francesi. Al di là delle clausole specifiche, che pur avevano una loro ef­ fettiva importanza contingente, l'aspetto fondamentale del nego­ ziato sulla questione renana, e ciò che lo scontro franco-americano rivelava, fu proprio la necessità, nella quale Clemenceau si trovò, di subire la volontà del presidente Wilson, che si presentava a Parigi non come w1 normale alleato , ma,quasi come un deus ex machina che volesse esprimere una non dichiarata superpotenza americana. Wilson non dettava norme riguardanti un solo problema, ma inse­ riva questo problema (quello della sistemazione renana) nell'ambi­ to dell'affermazione di regole riguardanti tutta la vita internaziona­ le e lo faceva in modo così energico da mostrare che gli Stati Uniti non solo avevano dato un contributo risolutivo alla vittoria delle po­ tenze dell'Intesa sulla Germania, ma accompagnavano e condizio­ navano il loro intervento (con i 14 punti) e la loro partecipazione all'attuazione degli accordi di pace all'accoglimento dei nuovi prin­ cipi, cioè alla formazione di un presunto nuovo ordine internazio­ nale. La tesi francese era resa forte dal tributo che i Francesi ave­ vano p agato alla sconfitta della Germania e dalla forza della tradi­ zione storica, ma il principio di autodeterminazione (espresso so­ lennemente nel preambolo dei 14 punti wilsoniani) prevaleva sui fatti. Invero è opportuno chiedersi: era possibile che certi principi astratti prevalessero sui fatti? E certamente la risposta non può es-

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sere che negativa, poiché le astrazioni non hanno il dominio delle situazioni. Ma in quei giorni i principi wilsoniani apparivano meno astratti, anzi erano resi forti dall'intervento militare e finanziario americano a favore dell'Intesa. Così accadeva che gli interessi fran­ cesi fossero sacrificati alle idee americane. A una descrizione sommaria e preso nel suo insieme, il com­ promesso raggiunto a occidente per la questione tedesca non par­ rebbe poi così negativo come lo giudicavano coloro che avrebbero voluto soluzioni più radicali. n punto debole della situazione stava già allora in un aspetto che si sarebbe posto, e riproposto, più vol­ te durante tutto il secolo e specialmente dal 1 947-48 al 1 990. Que­ sto aspetto riguardava la credibilità della garanzia americana. Già vi era ragione di dubitare 'della radièata opposizione britannica a una ripresa revisionistica tedesca lungo il Reno. Perciò, da questo lato, la garanzia del trattato concesso alla Francia correva qualche pericolo. Ma vi erano molte più ragioni per dubitare della perseve­ ranza dell'impegno americano. Prima ancora che il Senato ameri­ cano negasse la sua ratifica al trattato di Versailles, le correnti iso­ lazionistiche guidate dal Partito repubblicano avevano manifestato il loro profondo dissenso. Più ancora di ciò contava lo spirito ge­ nerale e il disimpegno tradizionale degli Stati Uniti verso l'Europa. Gli USA erano forse già divenuti la guida del sistema globale, dal punto di vista dei principi politici, ma non da quello degli impegni effettivamente assunti. Sicché sarebbe bastato un momento di de­ bolezza o di crisi del potere presidenziale per rimettere in discus­ sione ciò che era stato già promesso. Come per l'appunto accadde. 3 .2 . Le riparazioni e i debiti interalleati. n coinvolgimento ameri­ cano nella soluzione del problema dei rapporti con la Germania era manifesto anche sotto il profilo economico, che d'altra parte rap­ presentava un caposaldo delle misure punitive imposte ai vinti. L'in­ serimento nel trattato di Versailles dell'art. 23 1 , con il quale i vin­ citori dichiaravano, e i Tedeschi «riconoscevano», la responsabilità della Germania e dei suoi alleati rispetto all'aggressione bellica e si impegnavano a rifondere i danni subiti dai paesi «alleati e associa­ ti», apriva la via alla questione delle riparazioni da imporre alla Ger­ mania (cfr. p. 3 9) . L a dimensione dell'onere e l a parte che l a Francia avrebbe do­ vuto ricevere - stabilita allora in via di principio e non anche nel

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suo ammontare - mostravano come lo strumento finanziario fosse allora concepito come un altro metodo per demolire la potenza ger­ manica. Tuttavia il fatto che le decisioni nel merito fossero adotta­ te dopo la mancata ratifica dei trattati di Parigi da parte del Sena­ to degli Stati Uniti consente di capire come i Francesi cercassero di recuperare su questo piano ciò che essi avevano perso su quello del­ le garanzie territoriali e politiche. Con la determinazione dell'im­ pegno a pagare, i Tedeschi avevano accettato, anche rispetto agli Stati Uniti, di vedersi accollare gran parte dei costi economici del­ la guerra. n che significava che di fatto si veniva a creare un rap­ porto assai stretto fra la situazione debitoria degli Alleati rispetto agli Stati Uniti e quella debitoria della Germania rispetto agli Al­ leati. Dopo la mancata ratifica, gli Europei disponevano ancora di un forte mezzo di pressione sugli Stati Uniti proprio grazie a tale col­ legamento: giacché era politicamente ovvio che il pagamento delle riparazioni fosse prioritario rispetto al pagamento dei debiti. E se la Germania non avesse pagato, nemmeno gli Stati Uniti avrebbe­ ro ricevuto. Donde una sorta di circolo vizioso per effetto del qua­ le la capacità tedesca di pagamento diventava un elemento impor­ tante per le finanze americane; in altri termini, l'applicazione del trattato di Versailles (e delle successive decisioni dei vincitori, pre­ se in assenza dei rappresentanti americani) aveva una rilevanza pra­ tica anche per gli Stati Uniti. Questi si erano isolati dal contagio del­ la politica europea ma erano a loro volta contagiati dall'economia europea e, di conseguenza, dalla politica europea, che non poteva certo essere dissociata dall'economia stessa. Sullo sfondo si proiet­ tava anche l'altro aspetto della situazione: se la Germania doveva pagare, essa doveva esser posta in condizione di pagare; perciò il suo sistema produttivo doveva riattivarsi, stiperando le crisi del do­ poguerra, per evitare che le conseguenze ricadessero anche sui vin­ citori. Clausole territoriali e clausole finanziarie formavano così un in­ sieme inscindibile dalla cui attuazione derivava il valore del succes­ so bellico della Francia sulla Germania. Tuttavia, dal momento in cui gli Stati Uniti misero in crisi il pilastro politico di tale successo e i Tedeschi, in piena crisi economica, misero in crisi il pilastro fi­ nanziario, iniziando di fatto, dopo i primi pagamenti, una politica mirante a dilazionare e modificare le soluzioni date al tema delle ri-

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parazioni, i Francesi videro cadere non parti marginali del loro bot­ tino di guerra bensì le parti principali di esso: incominciarono a pensare che, insoddisfatte le richieste massimalistiche presentate a Parigi dai militari, come il maresciallo Foch, nemmeno le soluzioni di compromesso avrebbero trovato attuazione e che, di lì a un cer­ to tempo, la questione della Germania si sarebbe riproposta in tut­ ta la sua minacciosa gravità. 3 .3 . Esecuzionismo francese e sicurezza europea. Su queste basi si delineavano i due temi che avrebbero ispirato per un certo tempo la politica estera francese: il tema dell'esecuzionismo e quello della sicurezza. Esecuzionismo era l' etichetta attribuita alla volontà fran­ cese di impedire che la Germania si sottraesse all'esecuzione anche minima delle clausole del trattato di pace. Era, in altri termini, una richiesta di rigore punitivo che doveva restaurare le lacerazioni su­ bite dal tessuto degli accordi giuridici. Ma, da sola, questa posizio­ ne non poteva certo bastare a placare timori che la cronaca quoti­ diana non smentiva. Basti pensare in proposito alle notizie ricor­ renti sui rigurgiti nazionalisti in Germania, e basti pensare alla continua polemica della destra conservatrice e reazionaria contro il governo di Berlino, per la sua presunta arrendevolezza rispetto al­ la Francia. L'ipotesi che una Germania solo marginalmente ridi­ mensionata dal punto di vista territoriale e dominata da violente on­ date nazionalistiche fosse un pericolo potenziale per la Francia po­ neva così l'altro tema della politica estera francese, il tema della sicurezza. Esso divenne l'asse centrale attorno al quale l'azione eu­ ropea delle Francia fu organizzata e sulla base del quale furono compiute le principali scelte di schieramento. A posteriori è possi­ bile dire che le preoccupazioni francesi non erano infondate, seb­ bene nel ventennio fra le due guerre la Francia desse poi anche un suo rilevante contributo a rendere possibile una nuova aggressione tedesca. La sicurezza non esisteva poiché la forza germanica era poten­ zialmente intatta, la gàranzia anglo-americana non era entrata in vi­ gore, la Società delle N azioni era troppo debole, la Gran Bretagna non era disposta a condividere il punto di vista francese rispetto al modo in cui erano stati risolti i problemi dell'Europa orientale e l'I­ talia seguiva una politica oscillante e poco credibile. Perciò la Fran­ cia doveva sviluppare una strategia propria, tutta tesa a costruire su

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basi unilaterali quella sicurezza che le garanzie internazionali non le avevano dato. Era una posizione che, con qualche sfumatura, non provocava dissensi tra le forze politiche francesi. Da Briand a Poin­ caré a Herriot, tutti i governi che si susseguirono a Parigi perse­ guirono il medesimo scopo: ottenere sul piano giuridico o median­ te l'opportuno uso della forza quella sicurezza che non era garanti­ ta sul piano internazionale. I tentativi compiuti da Millerand e da Briand nel 1921 per tro­ vare la soluzione del problema in un riavvicinamento economico al­ la Germania non portarono ad alcun risultato, nonostante le illu­ sioni suscitate dalla disponibilità del ministro degli Esteri tedesco, Rathenau. L'insuccesso della Conferenza di Cannes del gennaio 1922, e della Conferenza di Genova dell'aprile successivo (cfr. p. 40), non fecero che riattizzare i timori francesi. La crisi finanziaria tedesca costringeva il governo di Berlino a chiedere successive mo­ ratorie nei pagamenti delle quote di riparazioni dovute in termini finanziari e in natura. Ne discussero invano due conferenze, tenu­ te a Parigi nel dicembre 1 922 e a Londra nel gennaio 1 923. Dinanzi a questi insuccessi quasi scontati, il nuovo presidente del Consiglio francese, esponente della destra nazionalistica, Ray­ mond Poincaré, mise a punto i progetti per una soluzione unilate­ rale. L' I l gennaio 1 923 truppe francesi e belghe occuparono il b a­ cino carbosiderurgico della Ruhr, con l'intenzione dichiarata di prendere nelle loro mani «pegni produttivi» che servissero da ga­ ranzia del futuro comportamento tedesco e da segnale forte della determinazione francese a non recedere dai diritti sanciti dai trat­ tati e anzi, se possibile, a oltrepassarne la portata. L'azione france­ se ottenne l'acquiescenza del governo italiano (che era già passato nelle mani di Mussolini). Gli Inglesi, che dissentivano dal modo francese di concepire e affrontare i problemi della sicurezza e dif­ fidavano delle tentazioni egemoniche dei loro alleati, giudicarono invece l'occupazione come un funesto errore, che avrebbe provo­ cato solo ulteriori lacerazioni, senza risolvere nulla. Le prime rea­ zioni tedesche misero in evidenza la fondatezza delle tesi britanni­ che. Infatti il governo di Berlino enunciò la formula della «resi­ stenza passiva» rispetto a un atto deciso sulla base di pretesti legalistici ma dettato da un intento di sopraffazione. Resistenza pas­ siva significava rifiuto di far funzionare il sistema carbosiderurgico con lavoratori tedeschi e interruzione di ogni pagamento delle quo-

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te eli riparazioni. Se il pegno che i Francesi avevano occupato do­ veva essere «produttivo», cioè sostitutivo delle riparazioni non pa­ gate, occorreva che personale francese, belga e italiano prendesse il posto di quello germanico nel rendere possibile il fw1zionamento delle imprese della Ruhr, il che poneva problemi tecnici più che complessi e generava tensioni locali potenzialmente esplosive. In queste circostanze i Francesi non tardarono a rendersi conto che la loro iniziativa li aveva portati a w1a impasse tattica e strate­ gica, dalla quale non si intravvedevano le vie d'uscita nonostante i tentativi eli mediazione britannici, seguiti alle prime aspre reazioni contro ciò che appariva a Londra come la dimostrazione più evi­ dente della volontà egemonica della Francia su tutto il continente europeo. La via d'uscita ventae offerta dai Tedeschi. Quando, nell'a­ gosto 1923 , Gustav Stresemann divenne cancelliere e ministro de­ gli Esteri della Repubblica eli Weimar, egli impresse alla politica estera del suo paese un colpo di timone assai risoluto. Stresemann era un nazionalista nostalgico, ma era anche e soprattutto un reali­ sta. Egli non vedeva niente eli utile nella continuazione della ten­ sione in Germania. E riteneva che il compito eli fare il primo passo spettasse a chi da w1 allentamento della tensione avrebbe tratto i maggiori vantaggi, cioè dalla Germania stessa. In senso ancora più strategico, Stresemann era convinto che il problema di fondo della politica estera tedesca fosse quello di recuperare una posizione «normale» in Europa, cioè una posizione che spazzasse via timori e preoccupazioni derivanti dall'eredità imperialistica del Secondo Reich, rendendo possibile w1 ritorno della Germania nella comu­ nità delle Nazioni come uno Stato che non richiedeva speciale sor­ veglianza, poiché nulla sarebbe stato compiuto da esso se non in di­ rezione della pace generale. Paradossalmente, questa condizione era la sola possibile premessa che, secondo l'opinione di Stresemann, poteva restituire alla Germania in futuro una piena libertà d' azio­ ne. Recuperata la fiducia, sarebbero venute meno la sorveglianza e la diffidenza delle altre potenze europee e allora le proposte di re­ visione contro le clausole più stridenti dei trattati di pace avrebbe­ ro potuto essere avanzate senza il pericolo di suscitare reazioni e paure eccessive. Muovendo da questi presupposti, Stresemann ordinò il 26 set­ tembre 1923 la cessazione della «resistenza passiva» e mise in mo­ to un meccanismo di rielaborazione dell'intera situazione. A quel

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punto la ripresa dei negoziati sulla questione delle riparazioni di­ ventava inevitabile. A breve scadenza il governo tedesco dava co­ sì a Poincaré l'illusione di un successo. Gli Inglesi e, soprattutto, gli Americani abbandonarono le loro posizioni negative per dedi­ carsi alla ricerca di un compromesso economico e politico. Era un tentativo ispirato dalla volontà di fornire ai Francesi una soddi­ sfazione e una via d'uscita dall'impasse nella quale Poincaré li ave­ va cacciati. Poincaré perse la sua battaglia politica poiché nel mag­ gio 1924 venne sconfitto alle elezioni dal Carte! des Gaucbes e fu sostituito alla presidenza del Consiglio da Edouard Herriot, ma la Francia vide riconosciuti ancora i suoi diritti alle riparazioni. Tut­ tavia dal compromesso risultò in realtà vincitore Stresemann, che riuscì a imporre già sul piano economico la presenza germanica come quella di un soggetto con il quale non si potevano più se­ guire i criteri di imposizione al vinto del 1918, ma con il quale era necessario negoziare le vie d'uscita. Era dunque un passo in avan­ ti assai importante. 3 .4. Il piano Herriot e il protocollo di Ginevra. Herriot cercò di recuperare sul piano politico ciò che la Francia aveva perduto sul piano economico. L'occasione gli fu offerta dalla sessione dell'As­ semblea della Società delle Nazioni tenutasi a Ginevra, nel settem­ bre di quello stesso 1 924. Herriot confidava che le sue proposte avrebbero ricevuto un'accoglienza favorevole dal nuovo governo britannico, anch'esso orientato a sinistra e guidato, per la prima vol­ ta nella storia inglese, da un laburista, Ramsay MacDonald. Herriot pensava a un piano di «sicurezza assoluta» e, integrando le tesi bri­ tanniche, egli suggeriva, secondo una proposta del cecoslovacco Bend, un protocollo che sancisse il trittico «arbitrato, sicurezza e disarmo» come base di un sistema di garanzie fondato sull'arbitra­ to obbligatorio e al quale i membri della Società delle Nazioni avreb­ bero dovuto ricorrere, con l'impegno, in caso di inadempienza, di far entrare in vigore a maggioranza le norme repressive contenute nello stesso Covenant della Società delle Nazioni, le quali prevede­ vano (art. 16) il ricorso alla forza contro chi avesse violato il patto e, ora, il protocollo. In quello che venne sin da allora chiamato lo «spirito di Ginevra», il protocollo fu approvato e siglato rapida­ mente. sse entrato in vigore, esso avrebbe segnato il coronamen­ to delle ambizioni francesi, poiché avrebbe trasformato la Società



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delle Nazioni in un vero organismo per il mantenimento della pa­ ce e avrebbe davvero impresso una svolta alla politica eurol? ea. In­ fatti il fulcro del protocollo non stava tanto nella formula èh e esso sanciva (tenuto conto del fatto che in quel momento né la Germa­ nia né gli Stati Uniti facevano parte della Società delle Nazioni e che l'Itill.ia aveva appena messo in dubbio la propria preserlià in se­ guito alla crisi di Corfù e continuava a ostentare il proprio sdegno­ so distàcco dalla Società gmevrina); il fulcro del protocollo stava nel fatto che esso legàva la Gran Bretagna in modo esplicito al mante­ nimento dello staius qua europeo e, in altre parole, resuscitava la garanzia naufragata nel 1 920. Anche questo progetto finì in un insuccesso. n buon esito era condizionato dalla ratifica da parte dei paesi interessati. MacDonald governava grazie a un'esile maggioranza laburista-liberale. Sconfit­ to alle elezioni nel novembre 1 924, venne sostituito da Bonar Law con agli Esteri Austen Chamberlain, tradizionalista convinto e ben risoluto a rovesciare l'impegno preso dal suo predecessore. n para­ vento del necessario parere dei Dominions, rispetto a W1 impegno che aveva portata globale, era sin troppo agevole. Chamberlain si riparò dietro la richiesta di consultazioni e lasciò a Mussolini, nel dicembre 1924 , il compito di seppellire il protocollo ginevrino. L'i­ dillio itala-francese, durato dal dicembre 1 922 alla metà del 1 924, era stato spezzato dalla presa di posizione antifascista delle sinistre francesi in occasione dell'uccisione di Giacomo Matteotti; tino dei maggiori rappresentanti del sociill.ismo itill.iano, per opera di ambi­ gui esponenti dell'estremismo fascista, dai quill.i Mussoimi non riu­ scì a prendere le distanze. La dittatura in Italia incominciava a met­ tere radici e la Francia incominciava a diventare il rifugio degli an­ tifascisti perseguitati. Tra l'Itill.ia e la Francia si scavava un solco sempre più profondo. Ma proprio questo portava Mussolini verso le posizioni inglesi. Nel dicembre 1 924 Chamberlain, nel pieno del­ la crisi suscitata dall'assassinio di Matteotti, recandosi a Roma per l'Assemblea della Società delle Nazioni, incontrò Mussolini e di­ mostrò così che questi godeva ancora del credito britannico, otte­ nendo in cambio di essere sollevato dall'onere di seppellire in pri­ ma persona il protocollo ginevrino. Infatti Mussolini si prese l'in­ carico di dare il primo colpo di piccone contro i protocolli e da quel momento in Europa si formò un'intimità itala-britannica che durò, pur con qualche interruzione, sino al 1 935 e, per certi aspetti, sino

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alla secopda guerra mondiale. E i Francesi ebbero un altro motivo di preoccupazione. Infatti il tema della loro sicurezza non si pone­ va più solo rispetto alla Germania ma anche rispetto al confine al­ pitio con l'Italia.

} .§ . I trattati di Locarno.

La mancata ratifica del protocollo di Gi­ r).evra lasciava un vuoto e riproponeva pericoli eli conflitto più acu­ t�. Chamberlain riteneva che non si dovesse ritornare al clima del gennaio 1923 e pensava che le preoccupazioni francesi dovessero ricevere una risposta almeno parziale. Su questo piano, la sua azio­ ne internazionale tendeva a convergere con quella eli Stresemann. Se il progetto dello statista tedesco era la normalizzazione per la Germania (una normalizzazione che il protocollo di Ginevra avreb­ be reso assai più difficile, se non impossibile) nel clima determina­ to dalla politica eli Chamberlain si offrivano le occasioni per fare un altro passo in avanti, dopo il compromesso del piano Dawes sulle riparazioni (cfr. p. 43 ) . Nacque da tali considerazioni l'idea di sostituire il progetto di una garanzia generale con una garanzia parziale, limitata alla sola regione renana (come già il trattato anglo-americano, salvo, ora, la non marginale assenza degli Stati Uniti). L'iniziativa venne ancora da Stresemann, che raccolse un suggerimento dell'ambasciatore bri­ tannico lord d'Abernon, e si presentò in un momento propizio, quando la Germania stava per uscire dalla crisi economica, la Fran­ cia doveva rimediare alle sconfitte diplomatiche appena subite ma si preparava a una ritirata prevista anche dallo stesso trattato di Ver­ sailles, con la fine dell'occupazione di una parte della Renania, es­ sendo prossimo a scadere il primo dei tre termini quinquennali pre­ visti per l'evacuazione. In questo clima, nel febbraio 1 925 Stresemann lanciava l'idea che, completata la liberazione della Ruhr, la Germania potesse con­ cedere ciò che essa aveva sempre fino a quel momento rifiutato, cioè il riconoscimento del confine renano fissato a Versailles con la re­ stituzione dell'Alsazia-Lorena alla Francia, e l'impegno a non cer­ carne la modificazi�e con la forza. Si trattava eli concessioni im­ portanti, che mutavano i caratteri esterni della posizione tedesca e che Stresemann proponeva di completare mediante una garanzia in­ ternazionale. n dialogo franco-tedesco sarebbe stato in tal modo di-

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retto e controllato dall'esterno, in particolare dalla Gran Bretagna, la cui funzione arbitrale sarebbe stata esaltata. La proposta di Stresemann rappresentava un altro passo lungo la strada della costruzione di un clima di reciproca fiducia. Essa tut­ tavia aveva due lati oscuri, poiché non prendeva in considerazione i confini orientali della Germania e taceva dei confini meridionali. Con tali limiti, la posizione tedesca indicava implicitamente il si­ gnificato strategico della politica di Stresemann (del resto la lettera inviata il 17 settembre 1 925 da Stresemann all'ex Kronprinz diceva con chiarezza che la proposta renana era il primo passo di una tat­ tica temporeggiatrice, grazie alla quale sarebbe stato possibile re­ cuperare libertà di manovra in relazi9ne a un possibile Anschluss dell'Austria e a una revisione dei confini orientali; né questa lette­ ra era un esempio mirato a conquistare il consenso degli ambienti monarchici tedeschi, poiché le fonti della diplomazia tedesca han­ no poi rivelato quanto Stresemann fosse esplicito sulla portata rea­ le dei suoi progetti). Infatti rifiutare l' estensiorì'e della garanzia alle frontiere orientali e meridionali significava in un certo senso dare soddisfazione alle esigenze inglesi, cioè condividere le riserve bri­ tanniche rispetto a una sistemazione territoriale mai approvata, ri­ serve che nel 1925 vennero rafforzate dalla presa di posizione così poco lungimirante dei Dominions, che sconsigliavano la concessio­ ne di una garanzia verso terre tanto remote dal focus dei conflitti europei. Ma significava anche, e soprattutto, come osservò la di­ plomazia italiana durante i mesi del negoziato, quando Mussolini cercò di ottenere, in cambio dell'assenso italiano, sia concessioni sul piano coloniale sia l'estensione della garanzia al confine fra l'Italia e l'Austria al Brennero, in previsione di un non troppo immagina­ rio Anschluss, che in Europa potevano esistere due categorie di si­ stemazioni territoriali: quelle meritevoli di una garanzia specialissi­ ma, e di conseguenza non modificabili se non a condizione dell'e­ splosione di un conflitto generale; e quelle meritevoli di una garanzia semplice, la garanzia dei trattati di pace, le quali, per il fat­ to di non richiedere conferme supplementari, venivano retrocesse al rango di sistemazioni che potevano essere modificate, magari an­ che al prezzo di un conflitto, ma non necessariamente di un con­ flitto globale: come gli avvenimenti del 1 93 8 si incaricarono di rive­ lare, dimostrando insieme i limiti strategici della visione britannica della politica europea. Infatti l'accordo che Stresemann proponeva

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poteva apparire attraente per i Francesi, era utile per i Tedeschi ma esprimeva soprattutto il modo britannico di concepire i problemi della sicurezza nell'Europa continentale. D'altra parte Stresemann ebbe la fortuna di trovare in Francia l'interlocutore adatto, nella persona di Aristide Briand, già presi­ dente del Consiglio e ministro degli Esteri all'inizio degli anni Ven­ ti e dall'aprile 1925 nuovamente ministro degli Esteri (una carica che avrebbe tenuto sino al 1 932) nel governo Painlevé, che aveva sostituito quello guidato da Herriot. Briand credeva, in modo lun­ gimirante, nella necessità della riconciliazione. Pensava che, nono­ stante i limiti delle proposte tedesche, fosse utile compiere w1 pas­ so verso la normalizzazione, poiché riteneva che la Francia potesse muovere da sola in due direzioni: dare garanzie unilaterali a quei paesi dell'Europa orientale che non venivano compresi nella ga- · ranzia prevista da Stresemann così da rafforzare il proprio ruolo di guida della sicurezza europea e, al tempo stesso, costruire un ac­ cordo diretto con la Germania, che sottraesse i Tedeschi sia all'in­ fluenza nefasta della collaborazione con i Sovietici sia all'esclusivi­ smo della collaborazione con la Gran Bretagna. La Germania non doveva essere il contraltare europeo dell'egemonismo francese (se­ condo la visione britannica) ma doveva diventare un buon partner della Francia nella vita continentale, un partner che collaborasse a smussare gli angoli delle tensioni ereditate dalla guerra e, quindi, a favorire anche in senso generale la sicurezza francese. n negoziato si sviluppò abbastanza rapidamente sui temi criti­ ci che esso presentava. n rifiuto britannico di estendere a oriente la garanzia venne accettato dai Francesi con buona grazia per le ragioni appena indicate; con minor buona grazia da Mussolini, che sino alla vigilia della firma restò incerto spila posizione da far as­ sumere all'Italia. Ma l'occasione della firma dei patti era resa im­ portante dal ruolo di co-garante assegnato all'Italia e dal rischio che, in caso di assenza, l'Italia restasse isolata. Perciò, infine, il dit­ tatore fascista superò le .§.!J.e esitazioni. E così, il 16 ottobre 1 925 furono presenti a Locarno, per la parafatura dei nuovi accordi di garanzia, Stresemann, Briand, Austen Chamberlain, Mussolini e, per il Belgio, il ministro degli Esteri Emile Vandervelde (la firma ebbe luogo a Londra il l o dicembre). n trattato principale venne solennemente siglato in un clima che pareva voler rappresentare l'antitesi della firma del diktat di Versailles. La Francia e, quel che

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più contava, la Germania assumevano l'impegno di non modifica­ re con la forza la frontiera fissata fra i due paesi e con il Belgio nel 19 19. La Germania inoltre ribadiva di accettare la smilitariz­ zazione della Renania. La Gran Bretagna e l'Italia avrebbero svol­ to il ruolo di potenze garanti dell'intesa. Come avrebbero, se del caso, attuato tale garanzia era prudentemente taciuto, salvo il fat­ to che l'aggressione avrebbe dovuto essere riconosciuta come tale dalla Società delle Nazioni. Venne inoltre firmata una serie di trat­ tati di arbitrato fra la Germania da un lato e la Francia, il Belgio, la Polonia e la Cecoslovacchia dall'altro: poco più che parole che velavano la mancanza di una vera garanzia. In cambio di questa il governo francese firmava trattati di alleanza e mutua assistenza con la Cecoslovacchia e la Polonia, che concernevano il caso di un at­ tacco da parte della Germania. Erano, queste, due eccezioni al­ l'impegno generale francese, espresso con il trattato principale, di non attaccare la Germania. Si tratta di un particolare da tenere presente in relazione al trattato franco-sovieticò del 1 935 che, fa­ cendo salire a tre le eccezioni all'impegno di non aggredire la Ger­ mania, avrebbe consentito a Rider di protestare contro la viola­ zione del Patto di Locarno. Questo era, nell'insieme, il pacchetto di documenti poi conosciuti come patti di Locarno. È ovvio che solo il primo di essi aveva una portata politica reale. Gli altri o er�no veli pudichi su una realtà spiacevole o l'espressione di una speranza mal riposta o persino passi indietro rispetto ad accordi preesistenti. 3 .6. Dopo Locamo. Con questi patti ebbe inizio una fase di gran­ de ottimismo nella vita europea. Essi erano un altro compromesso. Anche questo era in apparenza orientato in senso antitedesco, poi­ ché la Germania mostrava ora di fare rinunce soggettive a ciò che le era già stato tolto. In realtà il compromesso segnava l'aspirazio­ ne di riaprire il dialogo. Ogni potenza presente confidava che i ri­ sultati di tale dialogo si sarebbero poi volti nel senso strategica­ mente auspicato da ciascuna di esse. Briand fece in tal senso passi assai risoluti per sottrarre le garanzie alla preponderanza britanni­ ca. Promise ai Tedeschi di anticipare la partenza delle forze d'oc­ cupazione da Colonia al 1 926, in cambio dell'entrata della Germa­ nia nella Società delle Nazioni, con un seggio permanente nel Con­ siglio, come pegno della partecipazione germanica al sistema di

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sicurezza generale. Più ancora, egli spinse verso una collaborazione più stretta fra i due ex nemici e suscitò vaste speranze quando vol­ le segretamente incontrare Stresemann in un piccolo centro presso Ginevra, a Thoiry, in territorio francese, in occasione della seduta che sancì l'entrata della Germania nella Società delle N azioni. Era come se egli volesse mostrare la nascita di un accordo a due dal va­ lore del tutto speciale per l'avvenire europeo. Ma non si può tace­ re il fatto che, per completare invece la propria libertà di movi­ mento, sin dal 24 aprile 1 926 la Germania aveva sottoscritto un trat­ tato di neutralità e non aggressione con l'Unione Sovietica, il quale mostrava come lo «spirito di Rapallo» (cfr. p. 40) fosse tutt'altro che tramontato: e tanto meno lo era in quanto gli accordi segretissimi per l'addestramento delle forze armate tedesche in territorio sovie­ tico, stipulati come riguardanti puramente gli apparati militari, con­ tinuavano a venire applicati. In tal modo, il 1 925 si presentò come un momento di svolta nelle tensioni europee. Come il momento del trionfo della volontà di ricostruzione sulle forze di autodistruzione. All'inizio del 1 926 la Società delle Nazioni pareva avviata verso una nuova epoca: essa non era più lo strumento dei vincitori per controllare i vinti, ma di­ ventava davvero la sede per costruire la pace e la sicurezza internazionale. Lo «spirito di Locarno» divenne una formula, buona an­ che in successive occasioni, per esprimere la volontà di superare conflitti antichi. In realtà una vera riconciliazione era impossibile. Locarno era solo una pausa. Sebbene nei progetti di Stresemann non vi fosse nulla di paragonabile alla esasperazione ultranazionalistica e carica di violenza che qualche anno dopo caratterizzò la politica di Adolf Hitler, tuttavia la direzione strategica che Stresemann si proponeva di imporre alla politica europea è ben nota e prevedeva la revisio­ ne dei trattati di pace. n che implicava, come premessa e come con­ seguenza, che gli accordi di Locarno potevano essere intesi come un momento di «normali�zione» formale della vita europea ma non anche come un momento di «riconciliazione» sostanziale. Essi non risolvevano alcun conflitto. Si limitavano a chiarire che, alme­ no per un certo tempo, sulla frontiera renana non sarebbero acca­ duti fatti traumatici. Tutti gli altri motivi di conflitto lasciati aperti o provocati dal modo in cui la prima guerra mondiale si era con­ clusa restavano aperti. E, anzi, venivano in un certo senso esaspe-



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rati, poiché la normalizzazione renana veniva pagata al prezzo di una accresciuta diffidenza franco-britannica rispetto alle reciproche in­ tenzioni di controllo continentale; dalla profonda insoddisfazione di Mussolini, per la mancata concessione della garanzia al Brennero, nella quale si poteva giustamente intravvedere il futuro disinteresse delle due grandi potenze occidentali, e soprattutto della Gran Bre­ tagna, verso l'indipendenza dell'Austria; dal senso di allarme e di in­ sicurezza che la nuova condizione della Germania (reso ancora più opprimente dal rinnovo dell'accordo con i Sovietici) proiettava in tutta l'Europa centro-orientale creata dai trattati di Parigi. 4 . I cambiamenti del sistema economz'co internazionale 4 . 1 . I limiti della ripresa europea. Durante i negoziati diplomatici, il peso dei problemi economici e di quelli finanziari e monetari che vi erano collegati era apparso in tutta la sua importanza non solo per i rapporti interni al sistema capitalistico ma anche in relazione ai pro­ blemi di fondo posti dal movimento rivoluzionario sovietico. La ri­ voluzione sfidava il sistema dell'economia di mercato; i protagonisti dell'economia di mercato dovevano mostrare di essere capaci di rac­ cogliere e vincere la sfida lanciata dalla rivoluzione, come modello alternativo di sviluppo per la società contemporanea. Ciò aveva aspetti politici e aspetti economico-finanziari, cioè strutturali, alme­ no secondo il dettato marxista: perciò aspetti attorno ai quali si sa­ rebbe sviluppato lo scontro vero. Il dopoguerra fu anche presa di coscienza di questa sfida e ten­ tativo di rispondervi, non certo progettualmente ma mediante azio­ ni coerenti e meditate, razionali rispetto al fine di dimostrare che il colpo ricevuto non era un colpo mortale ma solo una ferita rimar­ ginabile con il tempo. Quanto tempo e con quali difficoltà? Pochi si resero conto subito che sarebbero stati necessari alcuni lustri, e che le difficoltà sarebbero state inattese, segnate tutte dall'affiorare delle contraddizioni che il sistema capitalistico aveva al proprio in­ terno e rispetto alle quali la critica marxista aveva fondamento, seb­ bene la prassi marxista-leninista e, più ancora, lo stalinismo econo­ mico fossero solo veicoli per l'arretratezza civile e economica. Per la prima volta, negli anni successivi al 1919, diventava tan­ gibile il fatto che, al di là delle forme politico-diplomatiche che at-

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tutivano l'asprezza di certe collisioni o risolvevano, secondo gli equilibri di forza del momento, antiche controversie, le relazioni economiche fra Stati erano condizionate non solo dalla situazione economica specifica dei singoli paesi, ma anche dal sistema dei rap­ porti commerciali, monetari e finanziari che si era tessuto nel mon­ do a partire dagli ultimi decenni del secolo XIX sino alla prima guerra mondiale; un sistema che la rivoluzione sovietica aveva mes­ so in crisi e in parte frantumato ma che sopravviveva imponente co­ me sfondo rispetto alle vicende della politica. In altri termini, la concezione secondo la quale l'economia di mercato, nelle sue espressioni capitalistiche e in quelle riformisti­ che, abbia per sua natura una dimensione che valica i confini na­ zionali, pur senza riuscire a spezzarli, e che imponga condiziona­ menti o interdipendenze correlate alla natura delle proprie regole aveva trovato in quegli ultimi decenni un'attuazione che pareva su­ perare la ristretta realtà del nazionalismo politico-economico. Gli scontri derivanti dalle rivalità fra gruppi di interessi nazionali e fi­ nanziari avevano avuto un carattere pacifico, oppure erano stati tra­ sferiti nel campo della competizione colonialistica, per acquistare un carattere nazionalista dopo l'inizio del secolo, sotto la spinta del­ la competizione industriale, per trasferirsi, all'estremo, stÙ piano bellico nel 1 914. La ricerca sulle origini della prima guerra mon­ diale ha corso e percorre molti sentieri ma essa non può certo tra­ scurare il fatto che la guerra risultava anche dalla contrapposizione fra sistemi economici non perfettamente integrati in una logica glo­ bale e viceversa impegnati a cercare ciascuno il proprio spazio a de­ trimento dei concorrenti. La potenza della finanza tedesca si era contrapposta, nel mon­ do coloniale e nell'Impero ottomano, a quella britannica e france­ se; quella degli Stati Uniti tendeva a conglobare l'America Latina, a espandersi verso l'Asia e verso l'Europa; quella francese si svi­ luppava nel campo coloniale e negli invesJ;ialenti effettuati in Rus­ sia. Era, in altri termini, un sistema omogeneo per natura ma divi­ so in compartimenti, secondo linee esasperate dalle motivazioni na­ zionalistiche, che vanamente si tenterebbe di distinguere da quelle finanziarie, poiché il finanziere, come, in senso opposto, il politico, non è un uomo diviso e dominato soltanto dalla logica professio­ nale ma un uomo complesso, nel quale il tema del profitto si colle-

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ga, talora fragilmente talora indissolubilmente, con quello della na­ zionalità, secondo la diversa forza delle spinte interne. Insomma, come alla prova dei fatti l'internazionalismo proleta­ rio si mostrava percorso dalle profonde crepe generate dal senti­ mento dell'appartenenza nazionale (un sentimento che, alla lunga, ha dominato più di ogni altro la vita del XX secolo), così anche nel sistema finanziario le logiche di appartenenza nazionale interferiva­ no con quelle dell'opportunità economica, anche se non sempre riu­ scivano vincenti. La guerra aveva esasperato tali contraddizioni e nondimeno aveva messo in luce, attraverso innumerevoli canali, l'e­ sistenza di un sistema di rapporti commerciali, monetari e finanziari che gradualmente doveva ricomporsi in modo funzionale alle esi­ genze che il conflitto aveva sconvolto. Ciò non significava il sorgere d'incanto, dalle ceneri di uno scon­ tro tra rivalità capitalistiche e nazionali, di un diverso ordine eco­ nomico internazionale, omogeùeo e pronto a convergere attorno al­ la comune esigenza di respingere l'offensiva del comunismo. Signi­ ficava invece che il ritorno alla normalità passava anche attraverso scelte di politica economica interna e internazionale, scelte di poli­ tica commerciale, di politica monetaria e capacità del sistema del­ l'economia di mercato di riprendere la sua esistenza in modo sano, cioè in modo tale da assicurare ai soggetti capitalisti e ai consuma­ tori un benessere crescente e profitti del pari crescenti. n che pre­ supponeva il superamento di non pochi ostacoli. Si potrebbe quasi dire che la speranza di dare vita a un sistema rivoluzionario mondiale, guidato dai bolscevichi sovietici, rispec­ chiasse in un campo eguale e contrario la sfida, se non la speranza, dei protagonisti dell'economia e della politica capitalistica, nel sa­ per rimettere in ordine i tasselli di un mosaico che la guerra aveva scomposto, per avviare un'integrazione crescente e adeguata ad ali­ mentare la vitalità dell'economia di mercato. Vi erano contraddi­ zioni e problemi che rendevano e resero questo processo difficile. Esso ebbe inizio negli anni Venti, ma solo dopo la seconda guerra mondiale le sue regole e la sua direzione divennero chiare in modo abbastanza univoco. Nell'limnediato primo dopoguerra tutto era in­ vece reso più contraddittorio dai cambiamenti politici provocati dal conflitto e dal rivelarsi di situazioni nuove. Vi erano problemi di in­ fluenza culturale e di peso quantitativo; affiorava la questione del­ l' adeguatezza della «dimensione» europea rispetto al controllo del

I. La mancata ricostruzione del sistema europeo

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mercato finanziario. Londra, che era stata sino al 1 914 il centro fi­ nanziario del mondo, vedeva il suo primato messo in discussione, almeno in prospettiva, dalla crescente importanza di New York; la crescita di soggetti nuovi fuori del vecchio continente come, per l'appunto, gli Stati Uniti o, in misura allora meno rilevante, il Giap­ pone, proponeva situazioni diverse. Se il «sistema» dell'economia capitalistica doveva rinascere come modello organizzativo della vi­ ta economica mondiale (il che nei primi anni Venti poteva appari­ re almeno un oggetto di discussione e nel 1 929 divenne un ogget­ to di angoscia e di dubbio), ciò passava attraverso una verifica del­ le azioni conformi a questo risultato che le autorità politiche e quelle economiche (pubbliche o private) dei vari paesi avrebbero posto in essere. Al centro del quadro stavano gli Stati Uniti, il cui ruolo fu dominante almeno nella prima fase dei tentativi di normalizzazio­ ne. n che contraddiceva, sul piano sostanziale dell'economia, l'iso­ lazionismo che il Partito repubblicano aveva cercato di imporre su quello politico della diplomazia, ma rispetto al quale il terzo dei 14 punti di Wilson aveva ribadito la necessità di abbattere le barriere commerciali, a favore di una politica di «porta aperta». L'isolazionismo era un riflessO politico americano dinanzi al ten­ tativo degli Alleati europei di far gravare subito sugli Stati Uniti l'o­ nere del ripianamento dei debiti interalleati, facendo pagare in tal modo, di fatto, agli Americani stessi le riparazioni tedesche, grazie alla rinuncia a far valere i loro crediti verso i vincitori europei. In effetti, gli Americani erano disposti a discutere il problema ma a condizione che gli Europei accettassero subito il principio della «porta aperta» per quanto riguardava i regolamenti commerciali. Gli Europei invece attraversavano una crisi finanziaria troppo seria per adattarsi agli schemi americani e auspicavano che la normaliz­ zazione fosse basata su intese che tenessero conto di tale elemento. Questa posizione non considerava gli aspetti interni agli Stati Uniti del problema, cioè l'indisponibilità della finanza americana ad accollarsi, nel 1919-20, i costi di una guerra provocata dagli Euro­ pei e risolta solo grazie all'intervento americano, proprio mentre 1' e­ conomia degli Stati Uniti attraversava una fase di recessione tenni­ nata solo alla fine del 1 92 1 . La separatezza economica prevalse sin­ ché la crisi politico-economica del 1923 in Europa non costrinse il mondo finanziario americano a modificare le sue priorità. Ciò ebbe luogo dopo che le difficoltà europee vennero tutte al

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Parte I. Vent'anni fra due guerre

pettine. Alla fine del conflitto, nel l 9 1 9, non era stato posto il pro­ blema generale della ricostruzione. Sebbene la guerra fosse durata così a lungo e fosse stata combattuta su tanti fronti, il tema della ri­ costruzione si era posto in concreto solo per la Francia settentrio­ nale, per il Belgio, per il Veneto in Italia e lungo il confine russo per i territori investiti dalle operazioni militari e rimasti fuori dal controllo dei bolscevichi. Questi ultimi erano però dominati dalle esigenze correlate all'esistenza di un sistema economico caratteriz­ zato dalla prevalenza di un'economia agricola estensiva, che risen­ tiva in misura diversa e meno permanente delle distruzioni provo­ cate dagli eserciti. Così la concentrazione di interventi sulle infra­ strutture e sugli impianti industriili che si erano trovati nelle retrovie della lunga guerra di trincea sulla Marna (circa l 00 km di ferrovie, 6000 ponti, 9000 impianti industriali) fu il caso più mas­ siccio di ricostruzione. Nel volgere di pochissimi anni, le tracce ma' teriali della guerra furono cancellate. Invece almeno sino al 1924-25 (con un parallelismo eloquente e non casuale tra questo aspetto e quello politico-diplomatico) la ri­ presa produttiva stentò a consolidarsi. Vi erano le tensioni e i man­ cati profitti provocati dalle agitazioni sociali; quelli della riconver­ sione degli impianti dalla produzione bellica alla produzione civile; quelli derivanti dal ritorno della manodopera maschile già impe­ gnata al fronte. Accanto a questi problemi congiunturali, affiorava­ no problemi nuovi: la crescente presenza diretta dello Stato nella vita economica; una maggiore rigidità del mercato del lavoro, dove la libera contrattazione dei salari era ostacolata, ben più risoluta­ mente che in passato, dalla forza dei sindacati, mentre la necessità di una regolamentazione diventava patrimonio della mentalità co­ mw1e; l'affermarsi di bisogni produttivi nuovi, frutto dell'esperien­ za di guerra o del progresso tecnologico, come la crescente pro­ pensione alla ricerca di prodotti sintetici, che esaltava l'industria chimica e doveva servire da rimedio o da cuscinetto rispetto alle va­ riazioni dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale. Ac­ canto a questi, l'avvento di prodotti nuovi, che portava alla nascita di settori produttivi del pari nuovi, spesso sperimentati durante la guerra ma divenuti utili, e tendenzialmente indispensabili, anche in periodo di pace, come le automobili, gli aerei, gli apparecchi radio, il materiale collegato all'industria elettrica e alla diffusione dell'e-

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lettrificazione, diventata la principale risorsa energetica nei proces­ si produttivi e al tempo stesso un consumo di massa. La seguente tabella, tratta dal World Economie Survey della So­ cietà delle Nazioni, fornisce in modo sintetico il prospetto dell'an­ damento della produzione manifatturiera nei paesi di principale ri­ ferimento. Con la comprensibile eccezione dell'Unione Sovietica, il cui indice di produzione ha un andamento influenzato prima dalla situazione politica e poi dall' avvio dei piani quinquennali, questi da­ ti mostrano che la lieve ripresa produttiva del 1919-20, dovuta prin­ cipalmente alla necessità di ricostituzione delle scorte, venne segui­ ta da una sensibile caduta della produzione in tutti i paesi europei, con l'eccezione dell'Italia, che mostra un indice in continua e re­ golare crescita a partire dal 1 922, e fuori dell'Europa, del Giappo­ ne e degli Stati Uniti (tranne che per la recessione americana regi­ strata dal dato del 1 92 1 ) . Indici della produzione manifatturiera dal 1913 al 1930 (1913=1 00) Anno

1913

Mondo

100

UsA

100

Germ.

G.B.

100

100

Fr.

100

URSS

100

It.

Giap.

100

100

1920

93,2

122,2

59,0

92,6

70,4

12,8

95,2

176

1921

81,1

98,0

74,7

55,1

61,4

' ?' _:J,.J

98,4

167,1

1922

99,5

125,8

81,8

73,5

87,8

29,9

108, 1

197,9

1923

104,5

141,4

55,4

79,1

95,2

35 ,4

1 19,3

206,4

1924

1 1 1,0

133,2

8 1 ,8

87,8

1 17,9

47,5

140,7

223,3

1925

120,7

148,0

94,9

86;3

1 14,3

70,2

156,8

22 1,8

1926

126,5

156,1

90,9

78,8

129!.8

100,3

162,8

264,9

1927

134,5

154,5

122,1

96,0

1 15,6

1 14,5

161,2

270,0

1928

141,8

162,8

1 1 8,3

95,1

134,4

143,5

175,2

300,2

1929

153,3

180,8

1 17,3

100,3

142,7

1 8 1 ,4

1 8 1 ,0

324,0

1930

137,0

140,0

101,6

91,3

139,9

235,5

1 64,0

294,9

n punto più sensibile era rappresentato dalla difficoltà della Germania, della Gran Bretagna e, sebbene in misura meno netta, della Francia, cioè dei tre paesi dominanti la vita industriale euro­ pea, di avviarsi verso una solida ripresa. Solo dal 1 925 il sistema produttivo di questi paesi acquistò una maggior accelerazione, pur

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Parte I. Vent'anni fra due guerre

procedendo ancora a ritmi spesso stentati. Se in Francia la ripresa era ben accentuata, in Gran Bretagna e in Germania il respiro era assai più ansimante. Solo alla fine degli anni Venti, cioè alla vigilia della «grande depressione», il sistema industriale europeo mostrò per un momento di essere ritornato al suo dinamismo prebellico, del resto incomparabile con quello degli Stati Uniti, del Giappone e, ora, dell'Unione Sovietica. Queste difficoltà erano accompagna­ te da una persistente e generalizzata disoccupazione, che non po­ teva p1ù essere riassorbita dal settore agricolo, nel quale la raziona­ lizzazione e la meccanizzazione diminuivano il bisogno di addetti. In Germania la disoccupazione rimase sino al 1 922 attorno al 3 per cento della forza lavoro ma nel l 923 divenne quasi il lO e nel l 924 il l3 ,5 ; in Gran Bretagna, raggiunse· nel l921 il l5 per cento della forza lavoro e dal l 924 in poi restò ferma attorno al lO. In Francia e in Italia si assestò su livelli analoghi. Cosicché si può dire che uno dei prezzi pagati alla stabilizzazione attuata a partire dal 1 924 fu l'accettazione di un tasso di disoccupazione medio attorno al lO per cento, come dato normale per la vita economica di un paese. Non meno seria era la questione dell'inflazione. Anzi, proprio questo era il punto verso il quale i fenomeni finivano per conver­ gere. Prendendo come base il l 9 1 3 , indice 1 00, nel 1922 in Gran Bretagna i prezzi all'ingrosso erano pari a un indice di 150, in Fran­ cia di 420, in Italia di 580 e in Germania di 342.000. Nella Ger­ mania del l923 , quando i Francesi occuparono la Ruhr, giunse an­ che l'iperinflazione, che portò il valore del marco tedesco quasi a nulla, tant'è che quando, nel mese di novembre, la moneta tedesca venne stabilizzata, il cambio fra il vecchio e il nuovo marco venne fissato sulla base del rapporto di uno contro un miliardo. L'inflazione ebbe in Germania un effetto devastante. Essa offrì la possibilità di enormi mutamenti nella distribuzione del capitale reale, poiché consentì l'estinzione di vecchi debiti e una rapida cor­ sa a nuovi investimenti, sempre da finanziare con valuta forte e dun­ que tali da incrementare l'inflazione stessa. Dal punto di vista so­ ciale, questa ebbe un effetto dirompente sulle classi medie. Essen­ do direttamente collegata all'occupazione francese della Ruhr, venne percepita come un'ulteriore prova della volontà francese di far gravare solo sui Tedeschi i costi della guerra e contribuì dunque in maniera determinante alla formazione di una miscela esplosiva fra degrado sociale e francofobia: terreno di coltura ideale per il re-

I.

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La mancata ricostruzione del sistema europeo

vanscismo nazionalista, che si scatenò non appena, nel 1 928, un nuovo momento di crisi economica ripropose ai Tedeschi lo spet­ tro del 1923 , senza le speranze alimentate dalla politica di Strese­ mann. In tal senso, si può dare ragione agli storici che hanno indi­ cato nell'occupazione della Ruhr e nell'iperinflazione tedesca, a es­ sa collegata, la prima causa della crisi del 1 929 e, dunque, del momento più difficile vissuto dal sistema capitalistico. 4.2. Riparazioni e debiti interalleati. La questione delle riparazioni rinvia peraltro all'aspetto dominante la vita economica e finanzia­ ria del dopoguerra e alla diversa consapevolezza posta dalle élite politico-economiche nell'affrontarlo. Durante e subito dopo la guer­ ra, e in diretta connessione con il fabbisogno finanziario imposto dallo sforzo bellico, venne a crearsi una situazione del tutto parti­ colare, che non può essere spiegata con semplicità e deve pertanto essere schematizzata. Prendendo a prestito dal saggio di J.M. Key­ nes su Le conseguenze economiche della pace, pubblicato nel 1 91 9, i dati quantitativi (pur con il limite derivante dal fatto che l'anno di pubblicazione rende in piccola misura imprecise tali cifre), se ne de­ sume un quadro d'assieme efficace. Prestiti a (in milioni di sterline)

Gran Bretagna Francia Italia Russia Belgio Serbia e Jugoslavia Altri Totali

Dagli USA

Dalla G.B.

Dalla Fr.

Totale

842

842

1058

550

508

325

467

35

827

38

568

160

766

80

98 -

90

268

20

20

20

60

35

79

50

164

1890

1740

355

3985

Da questa tabella risulta che il totale dei debiti interalleati am­ montava a circa 4000 milioni di sterline; che gli Stati Uniti erano l'unico paese che fosse solo creditore; che la Gran Bretagna aveva prestato circa il doppio di quanto avesse ricevuto; che la Francia

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Parte I. Vent'anni fra due guerre

aveva ricevuto il triplo di quello che aveva prestato. Gli altri allea­ ti erano soltanto debitori. n regolamento di questi debiti poteva avvenire in diversi modi. Secondo Keynes, gli Stati Uniti potevano rinunciare ai loro crediti, a condizione che gli altri creditori facessero altrettanto. La Francia ne avrebbe tratto un vantaggio teorico di 700 milioni (teorico poi­ ché buona parte dei suoi crediti derivavano da prestiti alla Russia, inesigibili al momento) e l'Italia avrebbe guadagnato 800 milioni. L'economista britannico fondava la sua proposta di rinuncia ameri­ cal)a al pagamento del debito interalleato sul rapporto tra il peso proporzionale sostenuto dall'Europa e dagli Stati Uniti nella guer­ ra. Ma questa era una considerazione politica. Se gli Americani aves­ sero continuato (come fecero) a considerare i prestiti come investi­ menti, la loro restituzione avrebbe dovuto aver luogo comunque, secondo scadenze da definire. Si inseriva in questo pu!lto il problema delle riparazioni tede­ sche. Infatti i due temi erano collegati politicamente e finanziaria­ mente. Politicamente, poiché solo se i vinti avessero pagato i dan­ ni di una guerra della quale si erano riconosciuti responsabili sa­ rebbe stato possibile porre sullo stesso piano i prestiti fatti per combattere una causa comune. Finanziariamente, poiché i paga­ menti tedeschi avrebbero potuto alleviare l'onere dei versamenti in conto debiti fra i vincitori. In questa correlazione si scorge però già un problema di fondo: gli Stati Uniti avrebbero ottenuto il paga­ mento del loro credito verso l'Europa solo risolvendo la situazione finanziaria della Germania. n pagamento delle riparazioni era stato stabilito dal trattato di Versailles in linea di principio ma non in termini quantitativi per evitare di aggiw1gere difficoltà a quelle che la firma di un duro trat­ tato di pace e la successiva ratifica incontravano da parte tedesca. La questione, che provocava acute divergenze di opinioni fra i vin­ citori, venne discussa durante la Conferenza interalleata tenuta a Spa nel luglio 1920, nel corso della quale fu raggiunto un accordo sulla ripartizione dei pagamenti tedeschi, che sarebbero dovuti an­ dare per il 52 per cento alla Francia, per il 22 per cento alla Gran Bretagna, per il lO per cento all'Italia e per 1'8 per cento al Belgio. Non venne però raggiunto un accordo sull'ammontare complessi­ vo, la cui determinazione fu affidata a una Commissione per le ri­ parazioni, che ricevette il compito di determinare una cifra totale

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come risarcimento dei danni di guerra, basata sul criterio della ca­ pacità di pagamento della Germania. La Commissione concluse i suoi lavori solo alla fine dell'aprile 1 92 1 , stabilendo che la Germa­ nia doveva pagare, in denaro o mediante merci, una cifra comples­ siva di 132 miliardi di marchi oro (pari a 3 1 ,35 miliardi di dollari oro), oltre a tma tassa del 26 per cento sulle esportazioni tedesche dei successivi 42 anni. Ai 132 miliardi così definiti e ripartiti anda­ vano aggiunti 5 miliardi e mezzo per il debito di guerra del Belgio ma andavano sottratti 1 1 miliardi, quanto erano valutati i beni di Stato ceduti dalla Germania nei territori persi. il totale effettivo dunque scendeva a 126 miliardi e mezzo di marchi oro. L'insieme delle riparazioni era però diviso in tre serie di obbli­ gazioni, a scadenza diversa: la serie A ( 12 miliardi) e la serie B (38 miliardi), per le quali veniva previsto un calendario preciso di ver­ samenti, e la serie C (7 6 miliardi), per la quale non era prevista w1a data di emissione, il che generava incertezza sul risultato comples­ sivo dell'operazione e sull'ammontare delle riparazioni che la Ger­ mania avrebbe effettivamente pagato. I negoziatori tedeschi cerca­ rono di resistere contro la determinazione di cifre complessive co­ sì elevate ma, dinanzi a un ultimatum alleato del maggio 192 1 , do­ vettero cedere. Si rassegnarono con le parole ma certo nei fatti es­ si si preparavano ad agire in senso opposto e, di conseguenza, a met­ tere in discussione tutto il sistema dei debiti interalleati, sfruttando anche le divergenze esistenti fra i vincitori. Questo apparve evidente assai presto. Nel gennaio 1 922 i Tede­ schi riuscirono a ottenere che il Consiglio supremo interalleato riu­ nito a Cannes, tenuto conto della grave crisi economica in cui ver­ sava la Germania, discutesse una richiesta di moratoria nei paga­ menti e a strappare una moratoria provvisoria. Per tutto il 1922 la richiesta di w1a decisione defi11itiva si trascinò sinché l'occupazione francese della Ruhr non impresse una svolta a tutta la questione. In astratto, la soluzione più semplice del problema consisteva nel fatto che i Tedeschi possedessero la capacità e avessero la vo­ lontà di pagare, compensando in tutto o in parte i debiti dei paesi vincitori verso gli Stati Uniti. Questa era diventata una necessità im­ presci11dibile dal momento i11 cui le autorità americane incaricate di negoziare il pagamento di tali debiti avevano introdotto una nor­ mativa che espressamente vietava la riduzione degli importi dovuti dagli Alleati (febbraio 1 922). Proprio questa decisione metteva in

/

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evidenza il collegamento esistente fra i due aspetti dei problemi fi­ nanziari allora vissuti dall'Europa. Era infatti ovvio che gli Europei sarebbero stati tanto più riluttanti a pagare i loro debiti, quanto più difficile fosse apparso ottenere i pagamenti tedeschi, con il risulta­ to complessivo di un inestricabile disordine monetario. 4.3 . La Conferenza di Genova e il trattato di Rapallo. L'estremo ten­ tativo per far uscire il vecchio continente da questa situazione di marasma fu rappresentato dalla Conferenza di Genova, dell'aprile 1922. La conferenza venne convocata per iniziativa del Consiglio supremo interalleato tenutosi a Cannes, ma essa era il risultato di un progetto più vasto e ambizioso di ridiscussione di quasi tutti i problemi internazionali europei. n suo ispiratore era stato soprat­ tutto Lloyd George, che si proponeva, d'intesa con il ministro de­ gli Esteri tedesco, Walter Rathenau, di trovare una soluzione con­ giunta ai due grandi problemi che allora dominavano l'Europa: il problema del reinserimento completo della Germania nella vita eu­ ropea, in modo da facilitare una ripresa produttiva che rendesse me­ no aspra anche la questione delle riparazioni, e il problema dell'U­ nione Sovietica, il cui totale distacco dall'Europa non si dava anco­ ra per scontato e rispetto al quale, viceversa, il lancio della NEP (Nuova politica economica) lasciava sperare in un generale rilancio economico all'interno del quale molti problemi potessero trovare una soluzione di ragionevole compromesso. Questo progetto così ambizioso non riuscì, in parte proprio per la portata stessa della sua ispirazione, che presupponeva un radica­ le mutamento della politica francese verso la Germania, in parte perché le questioni affrontate erano troppo complesse per essere rj­ solte grazie a uno sforzo tutto sommato improvvisato. Come osser­ va Denise Artaud�', i progetti di Lloyd George sarebbero potuti riu­ scire solo se la Conferenza di Genova avesse affrontato anche la questione delle riparazioni, che condizionava la posizione francese. � Sin dagli ultimi mesi del 192 1 il governo di Parigi aveva affermato la priorità del pagamento delle riparazioni rispetto a quello dei de­ biti e aveva chiesto che i debiti fossero collegati con la serie C del­ le riparazioni, il che significava che la Francia non avrebbe versato '' Le indicazioni bibliografiche complete delle opere citate nel testo si trova­ no nei suggerimenti bibliografici elencati alle pp. 1441 sgg.

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nulla agli Stati Uniti s e non avesse prima ricevuto i pagamenti te­ des chi. Quanto meno la Germania avesse pagato, tanto meno la Francia avrebbe rimborsato. In questo clima di netta divergenza tra l'esecuzionismo francese e il cosiddetto ricostruzionismo britannico un'intesa era impossibi­ le. I Francesi avvertivano una perdita di forza all'interno della coa­ lizione alleata e si predisponevano a soluzioni unilaterali. Così, il ri­ sultato più importante della Conferenza di Genova non fu rag­ giunto nel suo seno ma al di fuori di essa e segnò il trionfo della politica di interesse nazionale rispetto a quella di concertazione in­ ternazionale. n 16 aprile infatti il mondo diplomatico fu scosso dal­ la notizia che quel giorno il rappresentante tedesco Rathenau e il commissario agli Esteri sovietico, Cicerin, avevano stipulato un trat­ tato che mirava a normalizzare le relazioni fra i due paesi, grazie al­ la reciproca rinuncia ai pagamenti di riparazioni e danni di guerra e al reciproco riconoscimento diplomatico. Ciò gettava una luce fu­ nesta sulle speranze dei governi creditori di vedersi rimborsare i de­ biti contratti con l'impero zarista, ma soprattutto mostrava l'effica­ cia con la quale i Sovietici utilizzavano metodi tradizionali della di­ plomazia, come quello di incunearsi nelle contraddizioni esistenti nel mondo capitalista tra vinti e vincitori, per affermare spregiudi­ catamente gli interessi nazionali sovietici. L'azione unilaterale francese si risolse nell'occupazione della Ruhr, motivata giuridicamente con il riconoscimento, da parte del­ la Commissione per le riparazioni, di un continuo ritardo tedesco nel pagamento di riparazioni in natura e in particolare di carbone e di pali telegrafici (sic ! ) . In realtà essa esprimeva la volontà fran­ cese di imporre con la forza la soluzione voluta a Parigi sia per le questioni politico-territoriali sia per quelle finanziarie, mettendo gli Alleati e i Tedeschi dinanzi alla ferma determinazione del governo di Parigi di non perdere i vantaggi conseguiti con la guerra e di non cedere dinanzi a proposte di compromesso giudicate ambigue. Tut­ tavia la politica di resistenza passiva ordinata dal governo tedesco produsse disastrose conseguenze e rese vano il progetto francese. n governo di Berlino si accollò l'onere di pagare i mancati redditi di coloro che rifiutavano di collaborare con i Francesi. I Francesi do­ vettero accollarsi a loro volta il peso di sfruttare le risorse della Ruhr a costi imprevedibilmente più alti. Alla fine del 1 923 in Germania l'iperinflazione raggiunse il pun-

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to culminante, quando per l'acquisto di un dollaro erano necessari 4 miliardi di marchi tedeschi. In altri termini, tutti risultarono per­ denti. Ciò nonostante, quel momento così difficile per il sistema mo­ netario mondiale produsse almeno un risultato positivo: quello di persuadere non solo i già persuasi governanti inglesi ma anche i go­ vernanti e gli uomini della finanza americana della necessità di una reazione che evitasse un tracollo, dal quale potevano scaturire con­ seguenze imprevedibili. Insomma, si trattava di mostrare che il go­ verno di un'economia di mercato era ancora possibile in un regime di finanze sane; di evitare che le profezie sovietiche allora in voga sull'autodistruzione del sistema capitalistico trovassero precoce conferma nei fatti. 4.4. Il piano Dawes. Nel dicembre 1 923 , Francesi, Inglesi, Tede­ schi e Americani si accordarono, dopo un serrato negoziato, per isti­ tuire due commissioni di lavoro. Una (che secondo lo storico ame­ ricano della finanza europea Charles P. Kindl�berger, non aveva al­ tra importanza se non quella di soddisfare l'amour propre francese), presieduta dal banchiere britannico Reginald McKenna, aveva il compito di indagare sulle esportazioni di capitali che i Tedeschi ave­ vano operato dopo la fine delle ostilità per sottrarsi all'onere dei pa­ gamenti; l'altra, presieduta da Charles G. Dawes, capo dello Uni­ ted States Bureau o/ the Budget, doveva studiare il modo per ricon­ durre sotto controllo il bilancio tedesco, stabilizzare il marco e definire un livello di pagamenti annuali in conto riparazioni, ade­ guato alla capacità di pagamento tedesca. Un aspetto importante della costituzione delle due commissioni fu l' asstmzione di responsabilità da parte americana. La presidenza Dawes era ufficiosamente appoggiata dal segretario di Stato Char­ les E. Hughes e con Dawes lavorava un altro finanziere americano, Owen D. Young, poi presidente della Generai Electric e direttore della Federa! Reserve Bank di New York, aiutati da rappresentanti della Banca Morgan. Sebbene il segretario di Stato insistesse sulla netta distinzione fra questione delle riparazioni e questione dei de­ biti interalleati, la massiccia presenza e il peso della partecipazione americana ai lavori della commissione Dawes mostravano come, al di là della mancata ratifica del trattato di Versailles, l'interdipen­ denza determinatasi fra il sistema finanziario europeo e quello sta­ tunitense fosse tale da imporre le sue esigenze.

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n piano presentato dalla commissione Dawes nell'aprile 1 924, dopo un lavorìo lungo e difficile di preparazione, si presentò come una tappa intermedia rispetto al riassetto definitivo dei temi stu­ diati. Tuttavia esso aprì la strada a sviluppi di grande portata. n pia­ no prevedeva che la Germania avrebbe ripreso i suoi pagamenti se­ condo quote annuali crescenti che partivano da l miliardo di mar­ chi oro per il primo anno e arrivavano a 2,5 miliardi nel quinto (salvo i margini di variazione derivanti dalle oscillazioni dei prezzi dell'oro). L'importo complessivo delle riparazioni dovute dall a Ger­ mania non venne precisato. La Banca nazionale tedesca venne rior­ ganizzata per sostenere la nuova valuta tedesca, cioè il Reichsmark, che avrebbe sostituito il Rentenmark. Una «Agenzia per le ripara­ zioni» venne stabilita a Berlino, con il compito di sovrintendere al­ la riscossione degli importi in conto riparazioni e di intervenire per posticipare i pagamenti in caso di crisi congiunturale. n passaggio centrale del compromesso era tuttavia costituito dal­ la decisione di collocare un prestito di 800 milioni di marchi oro nelle diverse capitali finanziarie dell'Occidente, dietro la garanzia (un «pegno produttivo», come volevano i Francesi) delle azioni del­ le ferrovie tedesche, e di un'ipoteca sulle entrate fiscali. n prestito doveva essere collocato anche sui mercati francese e inglese, il che non si presentava come un'operazione molto facile dal momento che di fatto esso si sarebbe tradotto in un finanziamento anglo-fran­ cese ai Tedeschi perché questi lo restituissero sotto la voce «ripara­ zioni». Le pressioni americane, e il fatto che gli stessi Americani si impegnassero a collocare sul loro mercato circa la metà del presti­ to, si trasformarono in costrizione alla quale i due paesi europei do­ vettero sottostare. Ma il risultato fu diverso dalle previsioni. Affi­ data alla Banca Morgan, la quota di prestito-da collocare sul mer­ cato degli Stati Uniti, pari a 1 10 milioni di dollari, venne sottoscritta per un ammontare pari a ben dieci volte i titoli offerti. n prestito, osserva Kindleberger, «rappresentò w1o spartiacque nell'attività fi­ nanziaria all'estero degli Stati Uniti». Esso fu seguito da un'ondata di esportazione di capitali americani: in Giappone, già prima del piano Dawes, poi in Francia, poi verso una serie di imprese indu­ striali (come Thyssen e Krupp) e di enti locali tedeschi. Era una svolta che tendeva a rendere la presenza finanziaria americana co­ me l'elemento dominante la vita economica europea ma più anco­ ra, sul piano politico generale, era una svolta grazie alla quale l'Eu-

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rapa cessava di considerare le conseguenze economiche della guer­ ra come un'eredità dalla quale fosse impossibile liberarsi e inco­ minciava a guardare al futuro con la prospettiva della ripresa di un ciclo di crescita generalizzata. Nell'agosto 1924, il piano Dawes entrò ufficialmente in vigore, dopo essere stato approvato da tutte le parti interessate; in questo ambito la Reicbsbank, che dal dicembre 1 923 era stata affidata alla direzione di Hjalmar Schacht, divenne indipendente, pur con l' ob­ bligo di un limite di copertura della passività del 40 per cento, per tre quarti in oro e il resto in valuta. Questo imponeva una politica deflazionistica che attirò capitali sul mercato tedesco e per la prima volta favorì una signifkativa ripresa della produzione industriale germanica. La stabilizzazione tedesca, in un clima politico più disteso, gra­ zie agli accordi di Locarno, fu il principale segno di normalizzazio­ ne economica nel quadro europeo, dove l'impegno per il ritorno al­ la normalità monetaria e per la sistemazione dei debiti di guerra era finalmente stato reso possibile dall'assunzione di responsabilità a­ mericana. E qui, ancora una volta, l'aspetto politico della svolta pre­ valeva su quello economico. Infatti, sebbene a breve termine il pia­ no Dawes fosse un grande successo e a medio termine si rivelasse marginale rispetto alla grande crisi economica che si scatenò nel 1 929, esso rappresentava la presa di coscienza del fatto che il be­ nessere dell'Europa - e di un'Europa considerata. nel suo insieme, senza tener conto delle rivalità nazionalistiche che continuarono a provocare i loro guasti - era necessario anche al benessere ameri­ cano, poiché il sistema dell'economia di mercato è un complesso di relazioni interdipendenti, nel cui seno i momenti di crisi devono e possono essere superati in vista del comune interesse. La stabilizzazione in Germania aprì la via a quella britannica. Vi era infatti nell'intervento americano il primo segnale del rischio che il controllo del mercato finanziario globale sfuggisse alla City (cioè al complesso di istituzioni finanziarie, banche, assicurazioni ecc., si­ tuato nel cuore di Londra) per spostarsi a New York. Ciò era ine­ vitabile a medio termine, come molti ben sapevano, e avrebbe se­ gnato la fine del predominio globale dell'Europa, ma nel 1 924-25 la situazione non aveva ancora subìto le modificazioni che portaro­ no a tale cambiamento, per cui la centralità londinese era un obiet­ tivo fermo della politica finanziaria britannica, al quale si provvide

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nel 1 925 , con l'emanazione, il 14 maggio, del Gold Standard Act, che ridefiniva la convertibilità della sterlina in oro al suo valore pre­ bellico, pari a un rapporto di 4,86 dollari per sterlina: un rapporto troppo alto, che avrebbe provocato una crescita dei prezzi della pro­ duzione inglese sul mercato internazionale se non fosse stato ac­ compagnato da una forte pressione per il contenimento dei costi e dei salari, pur con le inevitabili tensioni sociali (cfr. pp. 1 00 sg.). Ma la ragione di fondo di questa decisione era indicata dal cancelliere dello Scacchiere, Winston Churchill: «Se la sterlina inglese non de­ ve essere il metro che tutti conoscono e in cui tutti hanno fiducia, che dovunque ognuno comprende e su cui ci si può tutti basare, le transazioni dell'impero inglese e di tutta l'Europa potranno dover essere concluse in dollari invece che in sterline; ritengo che ciò sa­ rebbe di grave pregiudizio». n mantenimento della supremazia esi­ geva sacrifici alti ma questi consentivano alla Gran Bretagna di con­ tinuare a sviluppare una politica globale. I Francesi stabilizzarono il franco nell'estate-autunno 1 926 a un tasso inferiore e volutamente sottovalutato rispetto al mercato fi­ nanziario internazionale, cioè a un quinto della sua parità prebelli­ ca e a un tasso di 124 rispetto alla sterlina (3 ,92 rispetto al dollaro). In realtà la decisione, che riportava il franco tra le monete forti, creava una sproporzione fra il valore reale delle monete. Nel 1 929 ciò pose in parte la Francia al riparo della crisi, ma a danno del si­ stema monetario generale nel suo insieme. Meno importante dal punto di vista quantitativo fu il processo di . stabilizzazione della lira italiana, che ebbe un andamento sin­ crono a quello dei due maggiori paesi europei. n valore della lira sul mercato mondiale era diminuito a causa del più alto livello di inflazione interna e, nonostante l'espansion� economica registrata dal sistema industriale italiano, il deterioramento monetario era continuato nel dopoguerra. Su di esso gravava anche il peso delle mancate riparazioni tedesche e, soprattutto, austriache (cfr. pp. 3 9 e 56) e i l peso del debito con l a Francia, la Gran Bretagna e gli Sta­ ti Uniti. Le pressioni americane per la stabilizzazione della lira con­ vergevano con gli orientamenti generali della finanza americana e imponevano la regolamentazione della questione del debito, ciò che venne fatto tra la fine del 1 925 e il 1 926, aprendo la strada alla con­ cessione di crediti dalla Banca Morgan, che emise un prestito per la stabilizzazione della lira. Un insieme di circostanze relative alla

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situazione industriale e commerciale fece tuttavia gravare sulla mo­ neta italiana, dalla metà del 1 926, una pressione crescente, che co­ strinse Mussolini e in particolare il ministro delle Finanze, Volpi, a un radicale intervento. Nell'agosto 1926, Mussolini pronunciò a Pesaro un discorso nel quale, secondo il suo stile, diede alla «battaglia per la lira» un ca­ rattere demagogico. In realtà si trattava di far passare come prov­ vedimento di interesse generale ciò che riguardava in primo luogo il mondo finanziario, e che si sarebbe risolto in pesanti perdite sa­ lariali. Fu stabilito che la quotazione della lira non dovesse scende­ re al di sotto di 90 rispetto alla sterlina (nel momento del discorso di Pesaro essa era di 14.9,13). L'obiettivo venne raggiw1to median­ te un aumento del tasso di sconto al 5 per cento e la conversione forzosa del debito pubblico in obbligazioni a lungo termine. Una rivalutazione su questa scala e la deflazione necessaria a attenerla non erano volute, come osserva Charles Maier, da nessuno se non da Mussolini, ma poiché il tasso di scambio venne in effetti ripor­ tato a quota 90, non si fecero pressioni sul governo italiano perché modificasse una linea politica che anticipava i sacrifici imposti do­ po il 1929 dalla crisi. Nel loro insieme, il piano Dawes, il ritorno al Gold Standard e la normalizzazione finanziaria, benché accompagnati dal persistere di misure restrittive ai commerci, estese in pratica a tutti i paesi del mondo e tali da contraddire lo spirito liberista della Società delle Nazioni, contribuirono in modo risolutivo alla formazione di quel clima di ottimismo e speranza che gli eventi puramente politici ave­ vano suscitato. D'altra parte, sebbene qui i diversi aspetti della si­ tuazione siano stati esposti separatamente, ai fini di una loro mi­ gliore individuazione, va tenuto presente che nella realtà delle cose i vari piani d'azione furono sempre strettamente collegati e spesso dipendenti l'uno dall'altro. Normalizzazione franco-tedesca, solu­ zione almeno temporanea della questione delle riparazioni, que­ stione dei debiti interalleati, ritorno degli Stati Uniti sulla scena eu­ ropea, costituivano una sequenza non scindibile, se non a posterio­ ri e in astratto, e costituivano la cornice entro la quale si verificò la ripresa produttiva che, sebbene in modo diseguale, caratterizzò gli anni dal 1924 al 1 929. In questa sequenza si collocano anche gli svi­ luppi del piano Dawes. Nei cinque anni della sua applicazione, i Tedeschi pagarono sen-

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za difficoltà le rate crescenti loro imposte. Nel 1927 la Società del­ le Nazioni prese l'iniziativa di un nuovo dibattito generale sui pro­ blemi economici e convocò a Ginevra una conferenza economica mondiale dedicata alla questione del protezionismo. La conferenza non ebbe altro risultato se non quello di servire da sfondo al lancio del progetto del trattato Briand-Kellogg (cfr. p. 88), ma fu il segno della persistente attenzione verso i temi del sistema economico in­ ternazionale. 4.5. Il piano Young e la fine delle riparazioni. Nel 1 928 l'agente ge­ nerale delle riparazioni S. Parker Gilbert, che operava a Berlino se­ condo quanto era stato convenuto sulla base del piano Dawes, ri­ levò nel suo rapporto annuale la necessità di riconsiderare la situa­ zione dato che il piano si avvicinava alla scadenza e che sino a quel momento i pagamenti tedeschi erano stati prevalentemente soste­ nuti da prestiti esteri, il che poneva la questione di determinare la reale capacità della Germania di pagare in una situazione di nor­ malità. D'altra parte, l'interesse a risolvere in modo più completo la questione derivava dal fatto che i Francesi premevano perché fos­ se stabilito l'ammontare complessivo delle riparazioni da far anco­ ra pagare ai Tedeschi, mentre i Tedeschi pensavano a un alleggeri­ mento dei loro versamenti annuali e a trarre, da un'intesa definiti­ va, concessioni politiche in relazione ai controlli cui erano ancora sottoposti o alla permanenza di truppe d'occupazione sul loro ter­ ritorio. Era, questa, una convergenza di volontà che facilitò la convoca­ zione, nel febbraio 1 929 a Parigi, di una commissione di esperti, presieduta dall'americano Young, il quale già aveva partecipato al­ " la fo.rmazione del piano Dawes. il rapp ò rto della commissione Young fu discusso nell'agosto 1 929, adottato nel gennaio 1 93 0 ed entrò in vigore nell'aprile dello stesso anno. Politicamente esso pre­ vedeva la fine dell'Agenzia e della Commissione per le riparazioni; le forze di occupazione che ancora stazionavano in Germania sa­ rebbero state ritirate entro il giugno 1 93 0 , con cinque anni di anti­ cipo rispetto alle previsioni del trattato di Versailles (cfr. p. 17). Eco­ nomicamente esso stabiliva che i Tedeschi avrebbero pagato ripa­ razioni per un periodo di 59 anni (cioè sino al 1 988), per la quota restante di 109,6 miliardi di marchi oro. Per i primi 3 6 anni i Te­ deschi avrebbero versato rate di poco superiori ai 2 miliardi, un ter-

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zo a titolo incondizionato di riparazioni, gli altri due terzi a condi­ zione che non esistessero difficoltà correlate al pagamento dei de­ biti interalleati (il che rappresentava la prima ammissione da parte americana di un'interdipendenza che gli Stati Uniti avevano sem­ pre vigorosamente negato); in seguito i pagamenti sarebbero scesi a rate di 1 ,6- 1 ,7 miliardi di dollari, correlate alla continuazione dei pagamenti dei debiti (un punto, questo, sul quale mancava peraltro il consenso del governo degli Stati Uniti). Per controllare l'esecu­ zione degli accordi e rendere possibile tecnicamente il passaggio di valuta, veniva creata la Banca dei Regolamenti internazionali, con se­ de a Basilea; infine veniva lanciato un prestito di 300 milioni di dol­ lari, diviso in due parti; 200 per i pàesi creditori e 100 per i Tede­ schi, al fine di mettere in moto il meccanismo dei nuovi pagamen­ ti. Vale la pena di osservare che il piano Young venne discusso nel 1929 da Briand e Stresemann durante il loro ultimo incontro. TI mi­ nistro degli Esteri tedesco morì qualche me�e dopo, nell'ottobre 1929, quasi a segnare la fine di un'epoca. Per quanto concepito ingegnosamente, il piano Young si avvia­ va a navigare in acque tempestose. Gli Inglesi avevano concordato sin dal 1923 le modalità per il pagamento del loro debito verso gli Stati Uniti e, poco prima della approvazione del piano Young, an­ che la Camera dei deputati francese ratificò l'accordo Mellon-Bé­ ranger del 1926, che regolamentava in teoria il pagamento del de­ bito francese verso gli Stati Uniti. In apparenza, il collegamento de­ biti-riparazioni veniva spezzato. In pratica le cose andarono nel senso opposto. La crisi economica aveva colpito duramente gli Sta­ ti Uniti, la Germania, la Gran Bretagna e, in misura minore, la Fran­ cia. Quando il piano Young entrò in vigore, all'inizio del 1 93 0 , la crisi stava per investire l'Europa. Negato sulla carta, il collegamen­ to veniva confermato dai fatti. Non restava dunque che prendere atto della nuova situazione. Quando, infatti, la crisi economica investì in pieno la Germania, il presidente tedesco, Hindenburg, chiese agli Stati Uniti di inter­ venire. Herbert Hoover, il presidente americano, raccolse l'appello e propose che sia i pagamenti a titolo di riparazioni sia quelli per i debiti interalleati fossero sospesi dal l o luglio 1 93 1 al 3 O giugno 1 932. Con la sua proposta, divenuta subito operativa, Hoover ri­ badiva la tipica distinzione americana fra debiti e riparazioni ma al tempo stesso apriva la strada alla fine di queste ultime. L'intervallo

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di un anno venne impiegato per trovare una soluzione complessi­ va. Poi il tema fu demandato a una nuova conferenza internazio­ nale, che si tenne a Losanna tra il 26 giugno e il 9 luglio 1 932 e che decise di chiudere la questione ponendo termine ai versamenti te­ deschi con una cifra simbolica conclusiva di 3 miliardi di Reich­ smark, da pagare entro il 1 935, ma in effetti mai versata. Rimane­ va, e non solo teoricamente, aperta la questione dei debiti verso gli Stati Uniti che né Hoover né Roosevelt, eletto nel novembre 1 932 per la prima volta alla presidenza, vollero accettare di cancellare. Da parte britannica si riconobbe validità all'impegno verso gli Sta­ ti Uniti e finché possibile i pagamenti furono continuati; i France­ si, alla fine del 1932, decisero di interrompere i versamenti di ciò che da essi era dovuto. Mancavano pochi giorni all'ascesa al pote­ re di Hitler e anche questo aspetto della vita finanziaria europea non faceva che confermare la fragilità della normalizzazione. Alla fine del 193 2 si vedeva chiaramente che essa era stata solo l'illusio­ ne di qualche anno e che i conflitti ereditati dalla guerra stavano per riproporsi in forma aggravata. 5 . Il riassetto dell'Europa orientale e il problema sovietico 5 . l . La «paura» della rivoluzione. Divergenze /ra i vincitori. I temi legati alla sistemazione della frontiera renana, al problema dei rap­ porti franco-tedeschi, alla questione della sicurezza francese, nei suoi aspetti politici e in quelli finanziari, furono certamente le que­ stioni più clamorose dibattute a Parigi nel 1919 ma altrettanto im­ portante, e certo più ricco di variabili e incognite, era anche il te­ ma del riassetto dell'Europa centro-orientale, al quale la Conferen­ za di Parigi dedicò una serie di trattati separati: uno per ciascuno dei paesi alleati con la Germania. Ciò che dominava nell'insieme questi problemi era la crisi sovietica segnata prima dalla guerra ci­ vile ( 1 9 19-20) e poi dall'evidente affermarsi del potere rivoluziona­ rio ( 1 920-22). Proprio il successo di una forza che metteva al cen­ tro della sua azione politica la bandiera della rivoluzione mondiale, e proprio l'eco che questo appello suscitava nel resto dell'Europa condizionavano le percezioni degli statisti occidentali, che non av­ vertirono adeguatamente le difficoltà interne al potere sovietico e non colsero mai il fatto che il trionfo del leninismo fu sin dall'ini-

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zio il trionfo di un potere basato sulla forza e sull'apparato buro­ cratico. Questo potere, di conseguenza, era costretto in primo luo­ go a consolidare se stesso e solo subordinatamente a pensare alla ri­ voluzione mondiale, dove subordinatamente significava che il con­ cetto di rivoluzione mondiale, esaurita l'eco a breve termine dei fatti accaduti a Mosca e a Pietrogrado, aveva acquistato piuttosto che il valore di prospettiva politica reale soltanto w1 valore strumentale ed era diventato un'arma preventiva per paralizzare le iniziative che i paesi . dell'ordine capitalistico potevano prendere. Infatti, che co­ sa potevano attendersi da un allargarsi della rivoluzione i Sovietici, se non un aggravamento della pressione esercitata contro di loro e un accresciuto rischio di perdere la guerra civile contro w1a coali­ zione alla quale avrebberb partecipato tutti i paesi europei, unifi­ cando vinti e vincitori della guerra? Né realisticamente l'ipotesi che davvero W1 allargarsi della rivoluzione fosse possibile appariva fon­ data, poiché, spente le poche· fiammate, l'effetto era rimasto circo­ scritto ai dibattiti interni ai partiti socialisti europei, da allora do­ minati dal dualismo tra rivoluzione e riforme. Tuttavia la paura (il termine non è, in questo caso, esagerato) ebbe il sopravvento sul realismo e le scelte compiute a Parigi risentirono pesantemente di questa paura. Oltre a questo stato d'animo generale vi erano le radicali novità che la guerra aveva lasciato alle proprie spalle. La fine contempo­ ranea di tre imperi multinazionali (quello austro-ungarico, quello russo e quello germanico) e la crisi mortale verso la quale era av­ viato l'Impero ottomano davano un risalto superiore alla questione nazionale. n principio wilsoniano dell'autodeterminazione portò al­ l'estinzione dell'Impero asburgico e ispirò gran parte delle altre si­ stemazioni territoriali adottate a Parigi, benché l'applicazione del principio stesso si scontrasse immediatamente con la complessità delle situazioni esistenti sul territorio, generando altre contraddi­ zioni e nuovi elementi di contrapposizione. Nell'Europa centrale e in quella danubiano-balcanica la storia aveva lavorato in profondità e i gruppi etnici o le culture nazionali si erano così inestricabilmente mescolati che, qualsiasi soluzione fosse stata adottata, sarebbero rimaste rivendicazioni insoddisfatte e nuove ragioni di crisi sarebbero state seminate. Si creava così un sistema di Stati completamente nuovo o comunque distribuito se­ condo nuovi confini, perciò si creava una situazione precaria, do-

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minata dalla prospettiva dell'instabilità e dal timore (o dalla spe­ ranza) del cambiamento. Prima ancora che i trattati fossero appli­ cati, nascevano le propensioni revisionistiche e, in almeno un caso (quello della Turchia), esse avevano partita vinta. Ciò era strettamente collegato alla politica delle tre maggiori po­ tenze europee: la Francia, la Gran Bretagna e l'Italia. La Francia, baluardo di tutte le politiche di contenimento della Germania, era l'alleato naturale di chiunque nell'Europa orientale e nei Balcani po­ tesse contribuire a tale obiettivo. Sinché parve possibile una scon­ fitta delle forze sovietiche, i Francesi sperarono nella rinascita del loro tradizionale alleato, anche se ciò poteva ridar vita ai sogni di una «Grande Russia», dominante in tutta l'Europa orientale. Per la Francia questa sarebbe stata la salvaguardia contro ogni tentativo di rinascita della Germania. Ma quando, all'inizio del 1 920, il regi­ me dei soviet ebbe partita vinta sulle forze controrivoluzionarie, le cose cambiarono anche per la Francia e il tema della sicurezza nel­ l'Europa orientale acquistò un nuovo significato. Se prima si pote­ va pensare in termini di sicurezza rispetto alla rinascita di un peri­ colo tedesco, ora bisognava pensare anche in termini di sicurezza contro la presenza del comunismo sovietico e la sua presunta ca­ pacità di penetrazione nel resto dell'Europa. 5 .2. I trattati di pace miliari: la rinascita della Polonia, la creazione della Cecoslovacchia, l'enucleazione dell'Austria. In questa situa­ zione la posizione degli Stati intermedi, creati o riconosciuti dai trat­ tati di pace, diventava radicalmente diversa, poiché essi acquistava­ no il compito di baluardi nei confronti di due minacce potenziali: la Germania e la Russia sovietica. Ciò valeva specialmente per la Po­ lonia, rispetto alla quale furono più chiaramente visibili le conse­ guenze del mutamento di circostanze esterne. E poteva valere, seb­ bene in misura minore, anche per la Cecoslovacchia. Così la Fran­ cia poteva diventare, a certe condizioni, il riferimento per una politica di status qua in Europa orientale: qualora tale politica aves­ se acquistato il carattere di risposta a una ripresa della pressione russa o a una troppo attiva propensione dell'Italia a imporre il suo predominio nell' area danubiano-balcanica. La Gran_ Bretagna adottò rispetto a questi temi una linea politi­ ca assai reticente. L'ispirazione a guardare l'Europa dall'esterno, per governarne gli equilibri, come era stato possibile sino al 1914, im-

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pecliva agli Inglesi eli vedere che il conflitto renano era ormai stori­ camente risolto e sarebbe ritornato eli attualità solo nel caso eli una ripresa bellica generale, ma impediva loro anche eli vedere che i mo­ tivi eli w1a nuova guerra venivano creati dalla potenziale instabilità dell'area situata a est e sud-est della Germania. È vero che gli In­ glesi non avevano nascosto la loro insoddisfazione per il modo in cui i problemi (specialmente quelli riguardanti la Polonia) erano sta­ ti risolti; ma questa insoddisfazione fu accompagnata da un palese disimpegno in relazione alle iniziative pratiche da assumere per pre­ venire i rischi dell'instabilità, e sebbene da principio le conseguen­ ze eli questo disimpegno non fossero palesi, bastarono pochi anni perché gli accordi eli Locarno mettessero in luce l'esistenza del pro­ blema. Fu, questo, il clima'che domiriò l'insieme delle decisioni pre­ se per l'Europa centro-meridionale. A tre «certezze» (per quanto opprimenti esse fossero state) si sostituiva una generale incertezza, un blocco eli problemi da risolvere o risolti male. In termini territoriali, le deliberazioni assunte a Parigi, e cliret­ tamente attinenti alla Germania, riguardarono la rinascita della Po­ lonia, la creazione della Cecoslovacchia e la sopravvivenza eli un'Au­ stria indipendente ma ridotta a proporzioni territoriali minime. Quelle non direttamente attinenti alla Germania riguardarono la na­ scita dello Stato serbo-croato-sloveno (poi Jugoslavia); la creazione eli un'Ungheria indipendente; la creazione di una Romania quasi nuova eli zecca, poiché dilatata dal punto eli vista territoriale sin qua­ si al doppio della sua precedente superficie; il riconoscimento del­ l'indipendenza albanese; il ridimensionamento della Bulgaria; l'am­ pliamento del territorio greco e eli quello italiano. L'Impero ottomano non era più da qualche decennio un pro­ blema strategico in termini territoriali per l'Europa. Con le guerre b alcaniche del 1912-13 esso era stato quasi completamente estro­ messo dal continente. Tuttavia la questione degli Stretti riguardava da vicino gli interessi strategici europei e il destino dell'Impero ot­ tomano era stato uno degli argomenti più dibattuti dalla diploma­ zia degli anni eli guerra. La sorte che gli Alleati intendevano riser­ vargli, cioè il progetto di ridurlo allo stato eli potenza larvale, si scontrò tuttavia con la prima sollevazione anticoloniale del dopo­ guerra. Ciascuna eli queste sistemazioni creava nuovi problemi. li trattato eli Versailles e quello di Saint-Germain ( 1 0 settembre 19 19), riguardante la sistemazione dei territori già appartenenti al-

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l'Impero austro-ungarico, aprirono la via alla rinascita della Polo­ nia. Sebbene la determinazione fosse certa e riparasse a una delle grandi ingiustizie che la diplomazia dinastica aveva compiuto alla fine del XVIII secolo, i confini entro i quali tale determinazione avrebbe dovuto essere attuata erano assai meno certi. La Polonia nasceva acquistando la Galizia austriaca, la Pomerania, la Posnania e parte della Slesia. n suo confine orientale rimase indeterminato. Così, mentre il confine meridionale era abbastanza chiaramente de­ finito grazie alla geografia, che lo situava sul crinale della catena car­ patica, tutti gli altri confini erano materia di discussione. Come si poteva combinare la riparazione storica con il principio di autode­ terminazione, in terre dove il sovrapporsi dei gruppi etnici era di­ ventato inestricabile? Ciò riguardava sia la Slesia, sia la Pomerania, sia il confine con la Russia, la Bielorussia e l'Ucraina. Inoltre si po­ neva la questione dello sbocco al mare. Si poteva ridar vita a un grande Stato polacco senza prevedere che avesse uno sbocco sul Mar Baltico? Ma dove? Basta enumerare questi problemi per com­ prendere come in ciascuno di essi fossero presenti motivi di con­ trasto con i Tedeschi vinti, con gli Austriaci, del pari vinti, e con i Russi, vinti o rivoluzionari che fossero. La soluzione fu affidata a un plebiscito per l'Alta Slesia (esso fu tenuto nel 1 92 1 e in pratica fornì un dato obiettivo - se così si può dire - per la definizione del tracciato di confine secondo le prevalenze etniche); fu definita d'au­ torità per la Pomerania, dove il territorio tedesco venne tagliato per ricavare un «corridoio» che consentisse lo sbocco al mare per la Po­ lonia, alla quale veniva concesso anche il porto della città di Dan­ zica (oggi Gdansk), costituita in città libera sotto il controllo della Società delle Nazioni. A nord, per conseguenza, la Germania per­ deva la sua continuità territoriale con la costituzione di una Prus­ sia orientale, separata dal resto della Germania dai nuovi territori polacchi. Ancora più complessa fu la questione del confine orientale, la quale era indissolubilmente legata alla situazione sovietica. n go­ verno dei soviet aveva già rinunciato ai territori polacchi (come an­ che a quelli della Finlandia, della Lettonia, Estonia e Lituania) con il trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918, che aveva posto fine alla guerra con la Germania imperiale, in q4el momento vincitrice sul fronte orientale. La sconfitta tedesca aveva consentito la nasci­ ta di uno Stato polacco, retto dal marescialloJ6zef Pil:sudski, pre-

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sidente della Repubblica e comandante in capo dell'esercito. Que­ sto esercito aveva assistito inerte agli sviluppi della guerra civile, nel­ l' attesa che la situazione consentisse alle parti interessate di risol­ vere il problema del confine con la Russia rivoluzionaria. Pilsudski confidava, a torto, nella solidità dell'indipendenza dell'Ucraina, sancita a Brest-Litovsk. Questa infatti avrebbe dato ai Polacchi in­ dipendenti un forte aiuto nel resistere ai Russi. Quando però i suc­ cessi delle forze rivoluzionarie mostrarono che la fiducia era mal ri­ posta e che l'Armata Rossa si avvicinava al territorio polacco, Pilsudski passò all'attacco e fra l'aprile e l'agosto 1919 riuscì a con­ quistare il territorio già preso dai Sovietici, fino a giungere alla Bie­ lorussia. il successo gli suggerì tali ambizioni da indurlo a respin­ gere, nei mesi successivi ·e ìn particoliue fra il novembre 1 91 9 e il gennaio 1920, i suggerimenti di Lloyd George perché cercasse una soluzione di compromesso con le forze della rivoluzione. Al con­ trario, nella primavera del 1 920 egli si alleò con il capo ucraino Si­ mon Petliura rifugiatosi in Polonia, per un'azione comune contro l'Armata Rossa. L'offensiva ebbe un grande successo e portò i Po­ lacchi sino a Kiev ma la fulminea reazione sovietica rovesciò in mo­ do drammatico la situazione. Si profilò il pericolo che la rivoluzio­ ne, non esplosa spontaneamente, fosse per la prima volta esportata dall'esercito dei soviet, che tra il giugno e l'agosto 1 920 recuperò tutto il territorio perduto e giunse a minacciare persino Varsavia. Dinanzi alla gravità della situazione, Lloyd George ripropose la pro­ pria mediazione ma fu nuovamente contraddetto dalla fulminea controffensiva polacca (alla quale contribuì anche un certo aiuto militare francese) che, nell'agosto 1920, sconfisse in modo rovino­ so i Sovietici costringendoli a una precipitosa ritirata. Da una posizione di forza, Pilsudski accettò di trattare. La pro­ posta formulata dagli Inglesi, di una linea che corrispondeva gros­ so modo all'antico confine orientale del Granducato di Varsavia (e che fu poi nota come linea Curzon, dal nome del ministro degli Esteri britannico) ebbe perciò allora un valore effimero. Dopo la sconfitta e nell'avvicinarsi dell'inverno, il bisogno di pace ebbe la prevalenza. I Sovietici accettarono in ottobre un armistizio che la­ sciava loro gran parte dell'Ucraina (che essi avevano perso con il trattato di Brest-Litovsk) ma concedeva alla Polonia estesi territo­ ri, abitati da Ucraini e Bielorussi, lungo una linea di confine che durò sino alla seconda guerra mondiale (l'armistizio fu trasformato

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in accordo definitivo con il trattato di Riga, del 1 8 marzo 1921). Ve­ niva formato un grande Stato, sorretto da un energico sentimento nazionale, dall'ambizione di riaffermare la grandezza di un tempo e guidato da un uomo forte come Pil:sudski, che ispirava la sua azio­ ne politica ai modelli autoritari conservatori. In un certo senso, il perfetto baluardo rispetto ai Sovietici. Ma restavano aperti tutti i te­ mi di contrasto con la Germania e alcuni di contrasto con la Li­ tuania (per il possesso della città di Vilnius) e con la Cecoslovac­ chia, per il destino del distretto di Teschen. Al confine sud-orientale della Germania nasceva, sulle rovine dell'Impero asburgico, la Cecoslovacchia. Il nazionalismo boemo coronava la sua azione pluridecennale e l'attività svolta durante la guerra. Guidato da Edvard Bend (boemo) e Thomas Masaryk (boe­ mo ma di madre slovacca) e dallo slovacco Milan Stefanik, questo movimento aveva acquistato un impeto crescente nell'ultimo anno di guerra, quando era riuscito a persuadere le maggiori potenze del­ la necessità di distruggere l'Impero asburgico e lasciar via libera al­ la formazione di governi nazionali. In realtà, ciò che venne proclamato già alla fine di ottobre del 19 18 e nel successivo novembre si diede un governo provvisorio, sotto la presidenza di Masaryk, non era esattamente uno Stato na­ zionale. La Boemia-Moravia, dall'antica tradizione culturale e dal­ l'avanzato sviluppo industriale, si univa alla Slovacchia, ancora pre­ valentemente agricola e dominata dal clero cattolico. Alla base del­ l'unione era un impegno al riconoscimento dell'autonomia slovacca, che i Boemi non avrebbero poi molto rispettato e che fu motivo di permanenti contrasti fra le due comunità. Inoltre l'omogeneità del nuovo Stato era minata dal fatto che esso aveva inglobato tutti i ter­ ritori abitati da popolazione germanica e prima appartenenti al­ l'Impero asburgico, nella regione dei Sudeti. Questo era un altro motivo di potenziale instabilità che i ferventi demolitori dell'Impe­ ro austro-ungarico trascurarono. Del resto Bend e Masaryk erano stati capaci di conquistarsi un tale prestigio da presentarsi subito stilla scena internazionale come i rappresentanti del nuovo ordine istituito in Europa e come i garanti della cerniera territoriale che te­ neva la Germania lontana dai suoi vicini balcanici. I nuovi confini tedeschi erano poi delimitati (ma non modifica­ ti territorialmente) a sud dall'Austria. La nascita della Repubblica austriaca era il segno più vistoso della rottura rispetto al passato. La

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distruzione del vecchio sistema trovava il suo simbolo nella crea­ zione di questo piccolo Stato di poco più che 6 milioni e mezzo di abitanti, un quarto dei quali concentrato nella capitale, Vienna: fat­ ta per essere il centro di un impero territorialmente vasto circa quat­ tro volte più della piccola Repubblica che i vincitori creavano. An­ che l'Austria ricevette il trattamento di uno Stato vinto, sottoposto a misure di disarmo e al pagamento di riparazioni e, soprattutto, a una condizione politica di importanza determinante: la proibizione di unirsi alla Germania (enunciata sia dal trattato di Versailles sia da quello di Saint-Germain). Di tutte le «creazioni» volute dai vincitori nel 1919-20, questa della Repubblica austriaca era forse la più arbitraria e ricca di po­ tenziali conseguenze negative: si creava uno Stato sulla cui vitalità allora nessuno sarebbe stato in grado di fare previsioni realistiche; anzi, i più erano così persuasi dell'impossibilità della sua sopravvi­ venza da pensare che l'unica alternativa valida fosse l' annessione al­ la Germania. Ma questa era proibita. Sul piane internazionale l' Au­ stria si trovava circondata da potenziali nemici: i Cecoslovacchi, che si erano appena liberati del predominio asburgico; gli Jugoslavi, che avevano fatto altrettanto. Quanto agli Italiani, la cessione all'Italia dell'Alto Adige (Sud Tirolo), abitato da una popolazione in gran prevalenza austriaca, suggerita solo da ragioni strategiche, creava un motivo di attrito permanente, il cui risultato non avrebbe potuto es­ sere se non quello di spingere gli Austriaci a cercare appoggio pro­ prio in direzione della Germania. n tema acquista ancora più rilievo se si considera che la piccola Repubblica austriaca rappresentava (certo al di là di ogni previsio­ ne cosciente di coloro che presero le decisioni che la riguardavano) una delle cerniere più importanti di tutto il sistema di nuovi equi­ libri che i trattati di pace avevano costruito (o tentato di costruire). Infatti l'Austria indipendente (dalla Germania o, paradossalmente, dall'Italia) era il punto dove si incontravano tutte le possibili ten­ denze revisionistiche create dai trattati di Parigi. La sua indipen­ denza garantiva l'Italia rispetto a un'eccessiva pressione germanica sul confine del Brennero e rispetto alla ripresa della forte spinta po­ litica, commerciale, finanziaria che la Germania aveva già esercita­ to, prima del 1914, nella penisola balcanica. Lo stesso discorso ave­ va eguale significato per la Francia e per la Gran Bretagna, le qua­ li peraltro, non essendo territorialmente contigue all'Austria, erano · ''> ;:

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meno sensibili alla delicatezza del tema. D'altro canto era inevita­ bile prevedere (come la lettera di Stresemann all'ex principe eredi­ tario di Germania di lì a qualche anno dimostrò) che non appena la Germania avesse recuperato una certa qual libertà d'azione, avrebbe guardato in direzione dell'Austria, alla quale era legata dai vincoli della lingua, della cultura, dell'antica alleanza. Eppure, no­ nostante tutto questo, una funzione geopolitica così importante ve­ niva lasciata a uno Stato fragile, economicamente scosso dalla scon­ fitta, demoralizzato, insicuro: un capolavoro di imprevidenza, alle cui conseguenze qualcuno avrebbe dovuto badare. Ma chi? li fatto paradossale fu che tutte le potenze vincitrici, e specialmente la Fran­ cia e l'Italia, si palleggiarono il compito, con il risultato di aprire la strada, nel 193 8, al revisionismo hitleriano. 6. La fragilità del nuovo ordine nella regione danubiano-balcanica 6 . 1 . La creazione della Jugoslavia. La sistemazione data ai proble­ mi della penisola balcanica non era direttamente correlata alle ten­ sioni che avevano provocato la guerra, se si tiene fermo il concetto che la principale ragione del conflitto era stata la volontà di frena­ re l'egemonismo dell'Impero germanico. Resta però vero il fatto che la guerra era stata accesa da una scintilla balcanica, cioè dallo scon­ tro fra il nazionalismo serbo e l'Impero asburgico. L'idea di una «grande Serbia» o di uno Stato indipendente per tutti gli Slavi del Sud (Sloveni, Croati, Serbi, Montenegrini) era stata a lungo pre­ sente nella vita europea del secolo XIX e in quella dei primi anni del secolo XX . Diversamente dal caso tedesco, il quale si presenta­ va con un'evidenza che non richiedeva commenti, il nazionalismo serbo riguardava una regione sin troppo ricca di contraddizioni e di contrasti e poneva problemi che sfidavano realtà esistenti o am­ bizioni non latenti. I Serbi erano gli alleati naturali della Russia non sovietica sicché la loro causa era legata ai successi della politica za­ rista, cioè all'esistenza di una forte protezione, capace di contrasta­ re la dura ostilità dell'Impero asburgico e, in particolare, quella del­ l'Ungheria. Essi dovevano poi scontrarsi con l'altra grande realtà esistente, o ciò che rimaneva di essa: l'Impero ottomano, o gli Stati che ave­ vano preso il suo posto. Se i rapporti con la Bulgaria erano stati tra-

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dizionalmente buoni, fino alla pausa della seconda guerra balcani­ ca, che aveva mostrato il legame fra la Bulgaria e la Germania, quel­ li con la Romania a nord, con l'Albania a sud-ovest e con la Grecia a sud erano tutt'altro che stabili e solo in modo episodico conver­ genti. In relazione ai mutamenti radicali che si sarebbero verificati, la posizione della Serbia (piccola o grande che fosse) restava tutta da definire. E ciò tanto più in quanto ai soggetti già indicati e che com­ ponevano il quadro prebellico si doveva aggiungere l'Italia, con le sue aspirazioni al completamento dell'w1ità territoriale in Istria e, al di là di questa, in regioni a popolazione mista, come la Dalma­ zia, dove l'intento strategico prevaleva sulle giustificazioni demo­ grafiche, e a Fiume, dove 1e ragioni demografiche venivano sacrifi­ cate alle altrui esigenze strategiche. Quando l'Italia negoziò il Pat­ to di Londra (26 aprile 1 9 15), che stabilì le condizioni del suo intervento in guerra, essa ottenne la promessa del confine al Bren­ nero, dell'Istria e della Dalmazia sino a capo Planka, non chiese Fiu­ me, muovendo dal presupposto che questo fosse il necessario sboc­ co al mare dell'Impero austro-ungarico, una volta che esso fosse sta­ to privato di Trieste. Ristabilire una distribuzione territoriale nella penisola che era stata il primo teatro della guerra e che presentava una serie così co­ spicua di rivalità e di obiettive contraddizioni divenne solo appa­ rentemente più semplice quando la guerra fu conclusa con la dis­ soluzione dell'Impero austro-ungarico e la sconfitta di quello otto­ mano. La penisola balcanica restava, in un certo senso, carta bianca (fatta eccezione per gli impegni stipulati a favore dell'Italia) , rispetto alla quale molte sistemazioni erano possibili. Sullo sfondo si sta­ gliava tuttavia w1 problema non marginale: chi avrebbe svolto il ruolo geopolitico affidato dalla storia agli Asburgo? Bastava affi­ darsi al principio di nazionalità come elemento regolatore di un nuovo assetto balcanico? Era possibile applicare nei Balcani il prin­ cipio di nazionalità? L'Impero asburgico aveva mediato geopoliti­ camente sia rispetto alla penetrazione germanica, sia rispetto alla spinta russa, in presenza del progressivo indebolimento dell'Impe­ ro ottomano, svolgendo così una funzione di elemento frenante e di potere riequilibrante in una regione sottoposta a frequenti spin­ te verso il cambiamento. Inoltre esso aveva coordinato (sebbene in modo non esemplare a causa dell'ostilità ungherese verso nuovi

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cambiamenti istituzionali dopo quello del 1 867) nazionalità diver­ se, impedendo l'esplosione di conflitti laceranti. L'Impero aveva pa­ gato questa sua funzione ad alto prezzo poiché esso era stato dis­ solto dalla spinta centrifuga delle varie nazionalità. In luogo di un impero multinazionale, si creavano vari Stati nuovi, ciascuno dei quali aveva la pretesa di essere l'espressione del principio di nazio­ nalità. Ma nel caso della Cecoslovacchia questo non era certamen­ te vero. Lo stesso si può dire per la Jugoslavia. Gli esponenti dei gruppi etnici degli Slavi del Sud avevano con­ cordato (con il Patto di Corfù del 20 luglio 1 917) la creazione di uno Stato indipendente, la cui struttura etnica era caratterizzata dal­ la presenza almeno dei tre maggiori gruppi nazionali (Serbi, Croa­ ti e Sloveni) e da quella di Montenegrini, Macedoni, Albanesi, Un­ gheresi e Italiani, che davano al nuovo Stato un carattere di prov­ visorietà che solo dall'esterno avrebbe potuto essere sorretta. Del pari la Romania, che tuttavia era stata sconfitta sul campo dagli Au­ stro-Tedeschi e costretta alla pace umiliante del 7 maggio 1918, af­ ferrò al volo l'occasione della dissoluzione dell'Impero asburgico e della crisi russa per allargarsi a. tutta la Transilvania, abitata in gran parte da Ungheresi e Tedeschi, la Bessarabia e la Bucovina, tolte al­ l'Ucraina, e la Dobrugia meridionale, tolta alla Bulgaria. Nasceva così un altro Stato plurinazionale, dando luogo a una situazione quanto meno paradossale, quella per cui solo i paesi vinti diventa­ vano etnicamente omogenei: l'Ungheria e la Bulgaria (la cui sorte fu tracciata rispettivamente dai trattati del Tria,non - 4 giugno 1920 - e di Neuilly - 27 novembre 1 9 1 9) certo non erano attraversate da rivalità interne ma corrose dal sapore della sconfitta e dal desiderio della rivincita. Se un discorso a parte richiede la situazione della Grecia e del­ l'Albania, legate al destino dell'Impero ottomano, resta da chiarire, per definire il sistema balcanico, il nuovo peso che sulla penisola avrebbe esercitato la sola grande potenza (pur nei limiti entro cui tale definizione vale per il caso) direttamente confinante o affaccia­ ta verso la penisola, vale a dire il peso dell'Italia. TI Patto di Lon­ dra, il cui testo nel dopoguerra era ormai noto, prevedeva una si­ stemazione di confine che senza dubbio non rispettava il principio di nazionalità, per quanto riguardava la Slovenia; non lo rispettava nemmeno per quanto riguardava allora Fiume, abitata da una mag­ gioranza italiana.

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� �erritori occupati dalla Grecia. L Europa nel 1920

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dal 1919 al 1922 anno di definizione dei confini

UNIONE S O V l E T ·l C

Nel 1915 gli Italiani non avevano chiesto questa città, muoven­ do dal presupposto della sopravvivenza dell'Impero asburgico. Ca­ duto questo presupposto, le spinte nazionalistiche interne all'Italia portarono i delegati italiani alla Conferenza di Parigi a chiedere che oltre ai territori previsti dal Patto di Londra, l'Italia ottenesse an­ che Fiume. Wilson, che non aveva sottoscritto il Patto di Londra, si oppose sia alla cessione di tutta l'Istria e della Dalmazia all'Italia, sia alla cessione di Fiume. Ne nacque un aspro scontro il cui risul­ tato ultimo fu l'incapacità delle potenze di definire la questione del confine orientale dell'Italia. il trattato di Saint-Germain, che asse­ gnò Trieste e l'Istria ma non la Dalmazia all'Italia, lasciò che la que­ stione di definire il confine venisse rinviata a un negoziato diretto fra le due parti interessate.

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Questo negoziato si ebbe un anno appresso, in circostanze ben diverse, e con il trattato di Rapallo, del 12 novembre 1 920, venne stabilito che l'Italia avrebbe avuto tutta l'Istria, sino al Monte Ne­ voso, più la città di Zara in Dalmazia; la città di Fiume sarebbe sta­ ta trasformata in porto libero, sotto tutela della Società delle Na­ zioni. Era, questa, una soluzione provvisoria, vista la sproporzione delle forze in campo e la violenza con la quale i nazionalisti italiani avevano posto la questione di Fiume, dove un gruppo di volontari capeggiati dal poeta Gabriele d'Annunzio si erano recati nel set­ tembre 1919 e avevano istituito una «reggenza» autonoma quale premessa per l'annessione all'Italia e donde essi avrebbero dovuto essere sloggiati con la forza se il governo di Roma avesse voluto, co­ me volle, applicare il trattato di Rapallo. Ma che la situazione di Fiume come città libera fosse precaria era evidente a tutti e la Ju­ goslavia aveva ben più gravi problemi interni da affrontare per po­ tersi concedere una ferita aperta al confine con l'Italia. La questio­ ne fu risolta in modo per allora definitivo con il trattato di Roma del 24 gennaio 1 924, in virtù del quale lo Stato libero di Fiume fu diviso fra l'Italia, che .ottenne Fiume, e la Jugoslavia, che ottenne la baia di Susak. Una successiva convenzione avrebbe dovuto siste­ mare i rispettivi rapporti economici. Così come in relazione alla questione germanica i vincitori ave­ vano elaborato una serie di risposte contraddittorie e incapaci di la­ sciar soddisfatte le parti principali interessate al caso, forse con l'ec­ cezione della Polonia e della Cecoslovacchia, del pari nella peniso­ la balcanica i vincitori sostituirono all'ordine prebellico un sistema di rapporti che aveva il pregio di gonfiare a dismisura la Jugoslavia e la Romania, nessuna delle quali possedeva una capacità autono­ ma di consolidamento, e aveva il limite di lasciare piene di rancore le potenze sacrificate da questo nuovo assetto. Inoltre, questa sistemazione spezzava l'alleanza di guerra, poi­ ché scontentava profondamente l'Italia, una delle due potenze che avrebbe potuto, insieme alla Francia, contribuire a rendere stabile il nuovo assetto balcanico ma che, in seguito proprio alla vertenza adriatica e all'ostilità o indifferenza con cui le sue pretese vennero considerate durante la Conferenza di Parigi, fu sospinta verso il campo degli scontenti e dei potenziali revisionisti. Più ancora: fu sospinta a sviluppare una politica sua propria nei Balcani, senza te­ nere conto degli interessi francesi e spesso, anzi, contrastandoli. n

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compromesso del 1920 che non le riconosceva tutto ciò che era sta­ to garantito dal Patto di Londra, contribui ad alimentare l'ondata nazionalistica che portò al potere il fascismo. Mussolini fece poi del revisionismo una delle bandiere della sua politica estera. Ma que­ sto fu un altro elemento di instabilità in una regione che aveva bi­ sogno esattamente del contrario per trovare una vera pace. Vice­ versa, le insoddisfazioni e le rivalità seminate dagli autori dei trat­ tati del 1919-20 non fecero che provocare w1o stato di conflitto endemico. 7. La nomzalizzazione dei rapporti diplomatici con l'URSS 7 . 1 . Il riconoscimento dip!omatico. Nel 1922 tutti i governi europei si erano resi conto che il tentativo di impedire la creazione di uno Stato comunista e sovietico in luogo dell'in1pero zarista era fallito. Era, questa, la tesi sostenuta da Lloyd George, che la inseriva nel suo progetto inteso a ridiscutere i maggiori problemi lasciati in ere­ dità dai trattati di pace. Da questa pressione derivò l'invito ai Sovie­ tici perché inviassero un loro rappresentante (il ministro degli Esteri Cicerin) alla Conferenza di Genova, dell'aprile 1922 (cfr. p. 40). Anche i Sovietici erano divenuti più realisti, cioè avevano ri­ nw1ciato all'immediata applicazione del progetto di rivoluzione mon­ diale. La grave malattia che colpì Lenin nel maggio 1 922, e che lo portò alla morte nel gennaio 1 924, aprì tma dura contesa per la sua successione. Stalin, nominato segretario generale del Pcus nel 1 922, prevalse sugli esponenti delle altre frazioni del partito, districando­ si fra le rivalità personali e quelle politiche: eliminò dal potere (e in epoche successive anche fisicamente) uomini come Trotzky, Zino­ viev, Kamenev, Bucharin. Stalin era stato da principio fra i promo­ tori della NEP (la Nuova politica economica - NEP - consisteva in sostanza nella sostituzione del criterio della requisizione obbligato­ ria dei prodotti agricoli con wùmposta che lasciava ai contadini un surplus che essi avrebbero potuto commercializzare, ricostituendo un «mercato» dell'agricoltura). Tuttavia, dominato soprattutto da una prepotente spinta nazionalistica e dalla volontà di dominio dit­ tatoriale, egli piegò questa politica, a partire dal 1 924 (anno nel qua­ le la sua influenza incominciò a divenire dominante), verso il con­ cetto della possibilità di fare una rivoluzione sociale in w1 solo pae?:\�t;;�; :-':��··

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se, l'URSS, intendendo per rivoluzione sociale la trasformazione del sistema economico sovietico in un'economia rigidamente pianifica­ ta, scandita da successivi piani quinquennali e mirante a una rapi­ da industrializzazione che mutasse qualitativamente il prodotto na­ zionale, diminuendo la presenza e il peso politico del mondo con­ tadino (con particolare riguardo per i piccoli proprietari, che Stalin considerava nemici fatali della rivoluzione e, in quanto tali, una clas­ se da sterminare). Questi mutamenti rendevano possibile la ripresa delle relazioni con il resto del mondo. Stalin affermava che «la vittoria del socia­ lismo in tm solo paese, anche se questo paese è capitalisticamente meno sviluppato e il capitalismo continua a sussistere in altri pae­ si, sia pure capitalisticamente più sviluppati, [era] perfettamente possibile e probabile». Non mancava dunque nemmeno l'avallo del­ l'adeguamento ideologico verso la normalizzazione. Un processo, questo, al quale parteciparono in modo spregiudicato tutti i paesi europei: essi scorgevano nel nuovo sistema economico dell'Unione Sovietica un potenziale campo d'azione per esportare merci, capi­ tali o tecnologie, cioè reputavano ancora possibile ritessere i vinco­ li caratteristici del mercato internazionale con quell'enorme area geopolitica dalla quale solo momentaneamente il resto del mondo era stato separato ma che ora poteva riprendere il suo posto fra le nazioni interdipendenti. Stalin mostrò qualche tempo dopo che il mondo occidentale era mosso da un'interpretazione profondamente sbagliata circa il mo­ do in cui egli intendeva trasformare l'economia sovietica da econo­ mia arretrata e in via di sviluppo in economia capace di compiere un rapidissimo salto in avanti verso l'industrializzazione. Ma nel­ l'arco di tempo assai breve durante il quale tale illusione fu nutri­ ta, le potenze europee fecero una vera gara per aggiungersi alla Ger­ mania fra i paesi che avevano relazioni diplomatiche normali e, quando possibile, trattati di commercio con il regime dei soviet. La corsa fu vinta dai laburisti inglesi, il cui governo riconObbe de jure quello sovietico il 2 febbraio 1 924; seguì di pochi giorni l'Italia fa­ scista, che annunciò il suo riconoscimento il 7 febbraio. Tennero dietro, tra il 1924 e il 1 925 , nell'ordine, la Norvegia, l'Austria, la Grecia, la Svezia, la Danimarca, il Messico, l'Ungheria, la Francia, il Giappone. L'Unione Sovietica rientrò così nella comunità inter­ nazionale, pur scegliendosi una posizione appartata: essa non entrò

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nella Società delle N azioni e non ricevette il riconoscimento degli Stati Uniti, che venne solo nel 1933 , dopo l'elezione di Franklin D. Roosevelt alla presidenza. 7 .2. Una normalizzazione circoscritta. I limiti di questo mutamen­ to formale non tardarono a rivelarsi, poiché in effetti esso era stato provocato da ragioni di opportunismo, che non tenevano conto del­ le situazioni reali. Da un lato, l'idea che i paesi imperialisti volesse­ ro cogliere ogni buona occasione per riprendere l'offensiva contro l'URSS era profondamente radicata nella mentalità di Stalin (e vi sa­ rebbe stata sino al giorno della sua morte); dall'altro, l'illusione che il riconoscimento provocasse un mutamento dei metodi diplomati­ ci sovietici o la rinw1eia ai collegamenti con il movimento comuni­ sta mondiale si rivelarono infondati. Così la breve normalizzazione fu presto seguita da un periodo di crisi, nel corso del quale l'Unio­ ne Sovietica rimase quasi completamente appartata dalla grande po­ litica mondiale e dalle querele europee, assorbita in tutte le sue ener­ gie nell'attuazione del primo piano quinquennale ( 1 928-32). Un primo segno della crisi fu rappresentato dai patti di Locar­ no, che i Sovietici considerarono come un concerto diplomatico ri­ volto potenzialmente contro di loro, e ciò per due ragioni. In pri­ mo luogo nessuno si era preoccupato di tentare di coinvolgere l'URSS nel sistema di intese in corso di elaborazione, significando con ciò l'inutilità oppure la pericolosità di associare il governo di Mosca a un accordo che, modificando la posizione internazionale della Ger­ mania, modificava anche quella sovietica. In secondo luogo le clau­ sole di Locarno erano visibilmente (e notoriamente) sbilanciate per quanto riguardava l'assetto dell'Europa orientale, donde si poteva desumere l'intenzione, che in anni successivi sarebbe stata più volte riproposta come ispirazione di fondo della politica estera sovietica, di imprimere al revisionismo tedesco una direzione predeterminata. li che era verosimilmente poco probabile nel 1 925 , poiché presup­ poneva una rinuncia francese a tutelare le proprie posizioni nel­ l'Europa orientale, rinuncia che il governo di Parigi non era ancora pronto a compiere, ma poteva apparire credibile per chi guardava con sospetto a ogni iniziativa capitalistica in Europa. Altri segni della crisi si manifestarono poi nel 1 926, quando l'ac­ cordo franco-rumeno diede un primo colpo alle speranze sovieti­ che di impedire che la Romania annettesse definitivamente la Bes-

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sarabia. Poco dopo, l'accordo itala-rumeno diede l'ultimo avallo ne­ cessario a rendere applicabile il protocollo del 1 920 per l' annessio­ ne della Bessarabia alla Romania. Entrarono in crisi anche i rapporti itala-sovietici (ma frattanto l'URSS e la Germania avevano riaffer­ mato la loro amicizia con il trattato del 24 aprile 1 926, che contro­ bilanciava gli accordi di Locarno). Ancora più grave fu la serie de­ gli incidenti che portò alla rottura delle relazioni diplomatiche fra Mosca e Londra. I comunisti britannici avevano stretti legami con il Comintern e nel 1925 diedero vita a un Consiglio sindacale anglo-sovietico, che avrebbe dovuto servire da polo di attrazione per il movimen­ to dei lavoratori di tutta l'Europa. Nel maggio 1 926 le Trade Unions, trainate dal sindacato dei minatori, proclamarono uno sciopero generale. La confusione e le minacce di repressione go­ vernativa che seguirono indussero le Unions a revocare, dopo ot­ to giorni, la loro decisione. Ma i comunisti legati all'Internaziona­ le interpretarono lo sciopero come il preannuncio di un'imminen­ te grande esplosione rivoluzionaria. L'agitazione dei minatori non venne interrotta e durò oltre sei mesi, con il risultato di rafforzare la determinazione del governo Baldwin di adottare misure restrit­ tive del diritto di sciopero. Sul piano internazionale ciò provocò uno scontro diplomatico che portò quasi alle soglie della rottura con l'URSS, accusata di in­ terferire nella vita interna britannica in difformità con gli impegni assunti sin dal 192 1 , quando fra i due paesi era stato stipulato un primo accordo commerciale. Del resto la rottura fu solo rinviata e si verificò l'anno successivo, nel maggio 1 927 , quando la polizia bri­ tannica perquisì la sede della missione commerciale sovietica, alla ricerca di documenti capaci di provare la responsabilità sovietica nelle agitazioni sindacali. Sebbene la perquìsizione si rivelasse in­ fruttuosa, essa fu tuttavia l'occasione per interrompere i rapporti diplomatici fra i due paesi. E questo, insieme con gli altri elementi che avevano riprodotto l'isolamento diplomatico sovietico, fece na­ scere nell'Unione Sovietica la sensazione che un nuovo attacco «im­ perialistico» fosse imminente. Una sensazione rafforzata anche dal­ la crisi dei rapporti con la Germania provocata dall'arresto di alcu-· ni tecnici tedeschi che lavoravano nell'URSS. Era forse Stalin che voleva creare un clima da «fortezza assediata» per facilitare l'opera di compressione politica che accompagnava l'attuazione del primo

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piano quinquennale. Ma era un clima che rimetteva in discussione la forma, se non anche la sostanza, della normalizzazione. In realtà, infatti, la crisi segnò una fase di ripiegamento dell'URSS su se stessa, più che la ripresa dello scontro frontale. Questo era ormai un fatto del passato. La politica sovietica, pur nella sua eccezionalità rispetto ai criteri e ai temi del riassetto europeo, era ritornata a essere, per quegli anni, un elemento quasi normale della dialettica diploma­ tica fra paesi. Rispetto all'eredità della prima guerra mondiale, sebbe­ ne gli accordi con la Turchia nel l921 e con la Germania nel 1922 e nel 1926 mostrassero l'intenzione di sfruttare le «contraddizioni» del sistema capitalistico per volgere a proprio vantaggio la situazione in­ ternazionale, questo me�oqo (che lo stesso Lenin teorizzò come mo­ mento ispiratore dell'accordo di Rapallo) non fu che la ripetizione del­ le tattiche più collaudate della diplomazia tradizionale. 8. La situazion ; danubiano-balcanica fra stabzlizzazione

e revisionismo

8.1. I limiti di Locarno. La tregua franco-tedesca segnata dagli ac­ cordi di Locarno apparve come un momento di svolta e pacifica­ zione nella vita internazionale europea. Nei mesi precedenti gli ac­ cordi e negli anni che li seguirono, sino al 1 929 (morte di Strese­ mann e inizio della «grande depressione»), fu come se un clima di normalità si fosse ristabilito, e una nuova era di pace, contrassegnata dallo «spirito di Locarno», fosse iniziata. Risolta con un onorevole compromesso la diatriba franco-tedesca, che per secoli aveva do­ minato lo svolgersi dei rapporti internazionali in Europa, proiet­ tando le sue conseguenze su tutto il mondo, si poteva pensare che attorno a questo spirito di pacificazione si potessero riorganizzare tutti gli altri conflitti esistenti. In realtà il compromesso di Locarno era importante ma circo­ scritto. Fuori e dentro l'Europa si sviluppavano situazioni nuove che non erano nemmeno remotamente collegate con l'andamento dei rapporti franco-tedeschi. In tutti i continenti erano in atto cam­ biamenti allora non percettibili o poco appariscenti ma tali da mi­ nare in profondità l'idea che la pace potesse ruotare attorno al com­ promesso franco-tedesco e ai suoi aggiustamenti. Tenendo ben presente questa limitazione non si deve tuttavia tra-

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scurare il fatto che gli anni di Locarno segnarono davvero l'unico periodo fra le due guerre mondiali nel corso del quale l'illusione del­ la pace parve trasformarsi in realtà prossima e facilmente raggiungi­ bile. I protagonisti della vita internazionale non si rendevano conto del fatto che proprio le decisioni alle quali essi legavano la loro illu­ sione preparavano mutamenti in direzione opposta, cioè verso la creazione di nuovi centri di interesse o di conflitto esterni all'Euro­ pa e tali da minarne la speranza di una riconquistata egemonia. In questa cornice venne ritessuta una trama di accordi che teo­ ricamente avrebbe potuto favorire la nascita di una egemonia con­ tinentale della Francia. La Gran Bretagna, infatti, quasi come se i suoi governanti fossero appagati dallo sforzo diplomatico di aver promosso gli accordi di Locarno, dopo il 1 925 si interessò con par­ simonia delle intersezioni europee, salvo i casi in cui la sua presen­ za venne direttamente richiesta, e preferì la via di un quasi-isola­ zionismo, assorbito dai problemi coloniali, mandatari o imperiali (trasformazione dell'impero in Commonwealth) . Fu dunque sulle spalle francesi e italiane che in prevalenza ricadde il compito di completare ciò che i trattati di pace avevano stabilito, rendendo cre­ dibili, se e dove possibile, soluzioni disparate e contraddittorie. I due governi operarono in concordia discors almeno sino a tutto il 1923 , nonostante alcw1e oscillazioni provocate dall'instabilità in­ terna di entrambi i paesi e nonostante l'ascesa al potere di Musso­ lini nell'ottobre 1922. Fu solo nel 1924, dopo la vittoria elettorale del Carte! des Gaucbes in Francia, cioè dopo la vittoria di una coa­ lizione dichiaratamente antifascista, che Mussolini mutò la sua rot­ ta e si trasformò, almeno sino al 1 929-30, in perseverante collabo­ ratore e strumento della politica che gli Inglesi tendevano ad affi­ dargli per attuare la loro tattica di disimpegno. L'area rispetto alla quale le due potenze dovevano misurarsi era quella dell'Europa centrale e balcanica. In entrambi i settori l'azio­ ne francese, almeno sino al 1 922, fu assai più dinamica e, superate alcw1e incertezze non marginali ma di breve durata, lineare. Per la Francia la Polonia rappresentava un riferimento d'obbligo, poiché essa serviva a contenere la Germania e a impedire un'immediata pressione sovietica sull'Europa centrale. Una Polonia forte era l'an­ tidoto rispetto prima all'ipotesi e poi alla realtà della collaborazio­ ne tedesco-sovietica. L'unico limite di tale posizione era rappresen­ tato dal desiderio di non concedere troppo spazio al nazionalismo

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esasperato dei nuovi dirigenti polacchi, guidati dall'ambizioso Pil­ sudski. Ciò non impedì al governo di Parigi di stipulare sin dal 1 9 febbraio 192 1 un trattato di alleanza con l a Polonia, accompagna­ to due giorni dopo da un'intesa segreta di consultazione militare, entrambi concepiti per proteggere la Polonia dai rischi di un attac­ co sui due fronti e destinati a mettere le basi di un'intesa che Pari­ gi, sbagliando, considerava perenne. Parallelo, ma meno urgente, fu il trattato di alleanza firmato il 25 gennaio 1924 con la Cecoslovacchia, anch'esso accompagnato da clausole militari segrete, affidate a uno scambio di lettere, e tali da completare il reciproco impegno di consultazione e cooperazione regionale. I due trattati furono parzialmente svuotati della loro por­ tata militare dai patti di 'Locarno, cioè dai nuovi trattati, stipulati il 16 ottobre 1925, tra la Francia da un lato, la Polonia e la Cecoslo­ vacchia dall'altro, i quali sostituivano agli automatismi esistenti sul­ la base delle alleanze del 1921 e del 1 924 l'obbligo di consultazio­ ne con la Società delle Nazioni e i vincoli politici che la Francia ri­ conosceva nell'accettare la garanzia britannica e italiana sull' ac­ cordo renano. Più complesso era però il quadro danubiano-balcanico, poiché in questo settore la situazione era assai più fluida e all'interno stes­ so del governo francese esistevano divergenze strategiche al propo­ sito. La situazione ungherese racchiudeva in sé le maggiori inco­ gnite e divenne il parametro di scelta. In Ungheria infatti sin dal no­ vembre 1918 era stato costituito un governo repubblicano domina­ to dai partiti conservatori. Dopo il fallimento del tentativo comu­ nista di Béla Kun (cfr. p. 99) i Francesi ritennero opportuno ricor­ rere a w1' autorità forte e credibile, come quella di un Asburgo. Es­ si perciò appoggiarono il tentativo di ritorno al potere dell'ex im­ peratore Carlo, che nel 1 9 17 era succeduto al defunto Francesco Giuseppe e aveva poi dovuto abbandonare il proprio paese. Si de­ terminò una situazione tutt'altro che chiara, poiché le forze con­ trorivoluzionarie abolirono la repubblica e dichiararono che l'Un­ gheria avrebbe avuto w1 regime monarchico, proclamando come reggente l'ammiraglio Miklos Horthy. Questa reggenza (prevista co­ me provvisoria ma che invece durò sino a tutta la seconda guerra mondiale) preludeva in teoria a una restaurazione asburgica. Per qualche tempo questa fu la carta sulla quale, anche in funzione an­ ticomw1ista, puntarono i Francesi, quando incoraggiarono, nel mar-

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zo 192 1 , un breve tentativo dell'imperatore Carlo di insediarsi a Bu­ dapest. In quel modo però il governo di Parigi commetteva un se­ rio errore di valutazione poiché con un solo gesto raggiungeva pa­ recchi risultati contrari ai propri interessi: rendeva l'Italia più cre­ dibile come tutrice dei nuovi equilibri balcanici (vale la pena di rilevare che il compromesso sul confine giuliano, firmato a Rapallo il 12 novembre 1 920, coincise con questa fase) e disseminava fra i nuovi Stati dell'Europa orientale il timore di non poter contare in futuro sull'appoggio francese.

8.2. La Piccola Intesa. Nacque da tale timore il progetto della Ro­ mania, della Cecoslovacchia e della Jugoslavia, di tutelarsi a vicen­ da mediante una serie di accordi che diede vita alla cosiddetta «Pic­ cola Intesa», nata fra il 1920 e il 1 92 1 in funzione antirevisionisti­ ca, anti-asburgica e come risposta alle esitazioni o ambiguità francesi. Teoricamente la Piccola Intesa avrebbe potuto avere come miglior alleato l'Italia, ispiratrice della «Convenzione anti-asburgi­ ca» del 12 novembre 1 920. Tuttavia le relazioni fra l'Italia e la Ju­ goslavia erano di nuovo avvelenate dalla questione giuliana e dalla mancata applicazione di fatto del trattato di Rapallo, dato che la città di Fiume continuava a essere occupata da forze regolari italia­ ne, sebbene le elezioni tenute nell'aprile 1 92 1 avessero assicurato il successo ai gruppi autonomisti. Sul piano tecnico la Piccola Intesa fu creata mediante la stipu­ lazione di tre accordi bilaterali: un'alleanza difensiva fra la Ceco­ slovacchia e la Jugoslavia ( 14 agosto 1 920), un trattato fra la Ceco­ slovacchia e la Romania (5 giugno 1 92 1), mirante a prevenire il re­ visionismo ungherese e bulgaro e, a chiusura del sistema, un accordo fra la Romania e la Jugoslavia (7 giugno 1 92 1), orientato nella medesima direzione . La preminenza cecoslovacca in questo si­ stema era netta e ciò impedl un collegamento con la Polonia, a sua volta ostile alla Cecoslovacchia per le controversie riguardanti la de­ terminazione del confine nel bacino minerario prossimo alla città di Teschen, risolte con una divisione che aveva favorito Praga. La scel­ ta filoungherese fatta a Parigi, dove tale orientamento era argo­ mentato dalla diffidenza verso il non troppo esplicitato anticomu­ nismo di Bene8 e dalla persuasione che l'Ungheria fosse il punto di convergenza necessario per qualsiasi duratura ricostruzione nell'a­ rea danubiano-balcanica, concedeva all'Italia, fra il 1 920 e il 1 92 1 ,

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la possibilità di operare un avvicinamento alla Cecoslovacchia e al­ la Jugoslavia. Del resto, la notizia dell'accordo raggiunto il 2 agosto 1 920 dal governo italiano con quello albanese per lo sgombero delle truppe italiane che ancora occupavano Valona e il suo litorale, in cambio della concessione di occupare l'isola di Saseno, insignificante dal punto di vista strategico, operava nella medesin1a direzione, libe­ rando l'immagine balcanica dell'Italia dagli effetti della rivelazione degli accordi segreti stipulati nel luglio 1919 dal ministro degli Este­ ri Tommaso Tittoni con il ministro greco Eleuterio Venizelos, in ba­ se ai quali il territorio albanese veniva diviso in due parti, l'una as­ segnata alla Grecia, l'altra da affidare all'Italia come mandato (ma per comprendere la portata di questi accordi occorre tenere pre­ sente che essi precedevano il trattato di Sèvres e rappresentavano un tentativo di sistemare le divergenti aspirazioni italiane e greche rispetto a tutta l'eredità dell'Impero ottomano). L'ascesa al potere di Mussolini incrinò dapprima il clima di tali relazioni ma, superata l'ipotesi, caldeggiata per qualche tempo dal capo fascista, di fare la guerra alla Jugoslavia per impadronirsi di Fiume e operare cambiamenti anche più radicali rispetto a ciò che i trattati di pace avevano stabilito, l'Italia tornò a una nuova fase di buona collaborazione con la Jugoslavia, consolidata dalla stipula­ zione, oltre che delle intese per Fiume, di un trattato di amicizia e collaborazione (27 gennaio 1924), completato da un parallelo ac­ cordo con la Cecoslovacchia del luglio di quello stesso anno. li 1924 fu l'anno nel quale l'Italia sviluppò l'azione di maggior avvicinamento alla Piccola Intesa, in un clima non ancora avvele­ nato dalla tensione con la Francia. Frattanto il governo di Parigi aveva modificato le sue scelte balcaniche e avviato una nuova, più coerente, linea politica, contrassegnata formalmente dall'accordo del gennaio 1924 con la Cecoslovacchia. È difficile dire se questa iniziativa fosse alimentata dal desiderio di contrastare la crescita del­ l'influenza balcanica dell'Italia o se corrispondesse al disegno di rag­ gruppare attorno a un programma comune tutte le forze antirevi­ sionistiche. Certo è che, una volta normalizzati, dal punto di vista formale, i rapporti con l'Unione Sovietica, abbandonata la politica di sostegno alla guerra civile e mutati in modo sostanziale i dati del­ la politica interna ungherese, le motivazioni intrinseche agli inte­ ressi strategici francesi tendevano ormai a prescindere dagli orien-

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tamenti italiani che premevano verso l'allineamento s u posizioni an­ tirevisionistiche. L'interesse francese consisteva ora nel costruire un sistema di­ plomatico forte e continuo in tutta l'Europa centrale e danubiano­ balcanica. Esso doveva dunque essere completato negli anelli man­ canti, cioè la Romania, la Jugoslavia e, possibilmente, la Grecia. L'ac­ cordo con la Romania venne stipulato nel gennaio 1926 per iniziativa dei Rumeni, che chiesero il riconoscimento dell'annessione della Bessarabia attuato sulla base di un protocollo stipulato con le po­ tenze occidentali e il Giappone ma non ancora ratificato dalla Fran­ cia e dall'Italia stessa. n trattato francese, che contemplava il rico­ noscimento dei confini rumeni, fu un passo in questa direzione. n trattato che venne stipulato dalla Romania con l'Italia nel settembre del 1926 ebbe le medesime conseguenze e completò la legittimazio­ ne internazionale della sovranità rwnena sul territorio annesso. Muovendo in direzione della Romania, la politica di sicurezza francese nei Balcani non contrastava dunque con interessi italiani e, se mai, convergeva con essi, considerato che anche l'Italia accettava di aggiw1gere al trattato di amicizia del 1 926 una clausola segreta che la impegnava a stipulare accordi militari per la difesa dei confini ru­ meni. n vero punto che avrebbe rivelato la direzione della politica francese era rappresentato dalla Jugoslavia, vicina e amica/rivale del­ l'Italia. n tema delle relazioni fra questi tre paesi finì dunque per rap­ presentare l'elemento qualificante le rispettive scelte balcaniche. L'idea originaria della Francia, non respinta a priori dagli Italia­ ni, era quella di un trattato a tre: un accordo che non avrebbe com­ promesso la futura collaborazione e non avrebbe frantumato la coa­ lizione antirevisionistica che, dopo la parentesi filoasburgica, si era rapidamente costruita attorno all'Ungheria e alla Bulgaria. Ma l'at­ tuazione di W1 accordo a tre fu resa impossibile dall'evolvere della politica italiana in Albania, dalle reazioni jugoslave contro di essa e dal conseguente carattere che i rapporti franco-jugoslavi finirono per assumere rispetto all'Italia, con risultati a breve e lunga sca­ denza deleteri per la stabilità regionale. 8.3. La questione albanese. Alla base del trattato di amicizia itala­ jugoslavo del gennaio 1 924 - arricchito nel luglio 1 925 dalle con­ venzioni di Nettuno, che riguardavano la soluzione dei problemi economici e tecnici che il trattato di Roma aveva lasciato in sospe-

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so - vi era stata, fra l'altro, una reciproca intesa di non ingerenza in Albania. Nessuna delle due parti si era però conformata a tale pre­ supposto. Ciascuna, speculando sulle rivalità dei gruppi feudali e politici che si contendevano il predominio nel nuovo Stato, aveva continuato a ingerirsi per volgere la situazione a proprio favore con obiettivi che andavano dalla ricerca di collaboratori fedeli a quella di annessioni territoriali. n tutto era complicato dal frequente mu­ tare di schieramento delle varie parti, che si appoggiavano sull'Ita­ lia o sulla Jugoslavia, secondo le convenienze del momento. Già al­ la fine del l924 la lotta fra il vescovo ortodosso Fan Noli e il pre­ sidente del Consiglio, principe Ahmed bey Zogolli, poi noto come Zogu o Zog, rientrava in questo schema. Mussolini rimase da prin­ cipio neutrale, poi scelse il vescovo, infine incominciò a pagare Zo­ gu, per trascinarlo dalla parte italiana sebbene egli fosse stato pri­ ma tributario dei ben più poveri Jugoslavi. Gli accordi economici del marzo 1925 fra l'Italia e l'Albania, gra­ zie ai quali venivano costituite una «Banca d'Albania» e una «So­ cietà per lo sviluppo economico dell'Albania» (che avrebbe dovu­ to operare esclusivamente a cura di imprese italiane) spianarono la strada al completo avvicinamento di Zogu all'Italia. Tuttavia il pas­ so più importante compiuto in tale direzione fu il patto militare se­ greto del 25 agosto dello stesso anno, grazie al quale l'Italia acqui­ stava, come rileva Pietro Pastorelli, «la piazza d'armi albanese» e «legava più strettamente a sé l'Albania di Zogu» pur con il vincolo della segretezza dell'impegno, che lasciava al presidente albanese una certa libertà di interpretazione, evitandogli di esporsi in ma­ niera diretta alle ritorsioni jugoslave. Tuttavia il processo di conso­ lidamento dei rapporti fra i due paesi giunse alla sua palese con­ clusione durante il 1926, con la firma, il 22 novembre, di un'alleanza difensiva, che sanzionava in modo pubblico l'egemonia italiana sul piccolo paese balcanico e rendeva manifesta la scelta antijugoslava maturata nella politica di Mussolini. L'iniziativa italiana venne infatti considerata dagli Jugoslavi co­ me una violazione dell'amicizia sancita nel 1924. D'altra parte l'a­ zione politica del governo di Belgrado era resa più risoluta dal fat­ to che, ponendo fine a un lungo periodo di opposizione interna, nel 1925 il principale uomo politico croato, Stjepan Radié, aveva mu­ tato atteggiamento, dichiarandosi disposto a collaborare con i Ser­ bi, e accettando di far parte del governo diretto da Momcilo Nind.é.

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La prima vittima di questo mutamento furono le convenzioni itala­ jugoslave di Nettuno, che il parlamento jugoslavo rifiutò di ratifi­ care, per l'ovvia influenza che gli elementi croati avevano rispetto alla sistemazione di territori già appartenenti all'antico regno di Cro azia e contesi agli e dagli Italiani. All'insieme di questi elementi si aggiunse, il 5 aprile 1927, la fir­ a m di un trattato di amicizia e di un patto segreto di consultazione fra l'Italia e l'Ungheria, che si limitava a proclamare pace e amici­ zia perpetua fra i due paesi, ma che aveva implicazioni potenziali più vaste, poiché poneva la questione di una svolta revisionistica nella politica italiana. Nel complesso, questi mutamenti toglievano credibilità all'ipo­ tesi di un trattato di amicizia a tre. n governo di Parigi si trovò di­ nanzi alla necessità di scegliere se proseguire un negoziato bilatera­ le o ripensare la propria politica balcanica. Ma nel cambiamento di clima generale già allora avvenuto in Francia rispetto all'Italia fa­ scista, la questione era risolta. n trattato di amicizia, alleanza e ar­ bitrato franco-jugoslavo dell' l l novembre 1927 acquistò, in questo clima, un carattere assai preciso. Infatti esso chiudeva la serie degli accordi necessari alla sicurezza francese ma, al tempo stesso, ren­ deva palese ciò che sino a quel momento era stato solo un aspetto potenziale o non clamorosamente visibile della situazione balcani­ ca: il fatto che il nuovo assetto era caratterizzato non dalla collabo­ razione ma dalla rivalità itala-francese. 8.4. Il revisionismo italiano e la situazione danubiano-balcanica. La netta scelta filo-jugoslava della Francia provocava la ritorsione re­ visionistica dell'Italia, w1a ritorsione alla quale Mussolini era sin troppo disponibile, avendola predicata prima ancora della sua asce­ sa al potere. Ma il risultato era quello che a -una situazione caotica si sostituiva una rivalità il cui teatro sarebbe stato la penisola bal­ canica. n tutto era reso più complesso dalle contraddizioni di fon­ do che minavano questo schieramento e che si proiettavano sul fu­ turo. Nel giugno 1 928 Mussolini, in un discorso riassuntivo del suo primo quinquennio di politica estera, abbracciò apertamente la cau­ sa del revisionismo, e in particolare quella del revisionismo unghe­ rese, come w1a delle necessità di fondo della pace europea e come uno degli obiettivi principali della politica estera italiana. Ma ciò si­ gnificava che l'Italia si moveva e, al contempo, veniva spinta verso

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il fronte revisionista, mentre i suoi interessi di fondo erano domi­ nati dalla salvaguardia dei risultati conseguiti con i trattati di pace, in particolare dalla tutela dell'indipendenza austriaca. L'indipendenza austriaca era il perno del nuovo sistema europeo e dunque era anche il perno dell'impegno francese nell'Europa cen­ trale, se aveva un senso la politica orientale di sicurezza contro la Germania. Tuttavia la Francia e l'Italia, pur legate da questo comu­ ne interesse di fondo, si ponevano in rotta di collisione nei confronti del problema generale che doveva dominare la loro azione politica: se adempiere o modificare i trattati di pace; se adempierli a vantag­ gio dei vincitori oppure aprire finestre attraverso le quali più tardi sarebbe potuto entrate il ben più forte revisionismo germanico. n mancato accordo sulla politica jugoslava aveva dunque una portata più vasta di quanto a prima vista si potesse percepire. n que­ sito se la politica balcanica della Francia fosse ispirata alle esigenze della sicurezza francese oppure al proposito di contrastare la na­ scita di un sistema italiano riceve dunque una risposta complessa. Vi era certo nella politica francese come prioritario l'obiettivo del­ la sicurezza. Ma questo obiettivo veniva perseguito mediante un'a­ zione contrastante con gli interessi italiani e così, a scadenza meno vicina, contrastava con le stesse esigenze di fondo della politica este­ ra francese e già conteneva i futuri elementi del conflitto. Se poi si aggiunge a ciò l' attivismo revisionistico ungherese, che la diplomazia italiana non mancava di appoggiare in ogni possibile occasione; se si aggiunge il fatto che in Austria il regime democra­ tico stentava a consolidarsi; che la Bulgaria, isolata dal resto della penisola balcanica come nemico tradizionale, alimentava sia un ge­ nerale orientamento revisionistico, sia una vera e propria guerra di bande che operavano soprattutto nella Macedonia jugoslava e gre­ ca; e che lo storico conflitto fra Greci e Jugoslavi restava aperto e veniva reso più acuto dalla crescita greca, acquisita nonostante la sconfitta militare subita per opera dei nazionalisti turchi, si vede co­ me la stabilità fosse solo un'illusione, che non esprimeva un reale successo della politica balcanica della Francia e nemmeno un'affer­ mazione delle speranze italiane, lasciando aperti nuovi motivi di scontro, che rendevano l'avvenire sempre più incerto. In questo quadro occupava una posizione relativamente margi­ nale la Grecia, legata più alla Gran Bretagna che alla Francia e, di conseguenza, partecipe più della politica relativa al Mediterraneo

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orientale che alle vicende balcaniche. Tuttavia nemmeno la Grecia poteva essere separata dall 'insieme dei problemi peninsulari nei confronti dei quali seguiva linee politiche polivalenti. Tutto ciò di­ scendeva dalla sconfitta del sogno imperiale di Venizelos, il quale, intervenendo in guerra nel 1 9 17 a fianco dell'Intesa, aveva sperato di costruire sulle rovine dell'Impero ottomano una «grande Gre­ cia» padrona indisturbata dell'Egeo, dominatrice dell'Albania e del­ la Bulgaria. Gli accordi Tittoni-Venizelos del 1919 erano stati una delle espressioni di questo progetto, come lo fu il precipitoso sbar­ co a Smirne e il fatale errore di assumere una posizione di prima li­ nea nella guerra contro i nazionalisti turchi, con l'appoggio della Gran Bretagna. La sconfitta subita per opera dei Turchi di Ismet pascià, la precipitosa evacuazione di Smirne, la forzata e definitiva rinuncia al Dodecaneso, l'abbandono delle speranze sul territorio albanese meridionale, la rivalità con la Bulgaria e la restituzione al­ la Turchia della Tracia occidentale erano stati casi in ciascuno dei quali il governo di Atene poteva ravvisare il segno di una più o me­ no esplicita opposizione francese ma anche il segno dell'ostilità ita­ liana. Lo stesso successore di Costantino, Giorgio II, salito al tro­ no nel 1922, dopo la forzata abdicazione del padre, travolto dalla sconfitta, non poté impedire l'aggravarsi della situazione che portò, nel marzo 1 924, alla proclamazione della repubblica. Come paese che si affacciava sul Mare Adriatico e sullo Jonio, la Grecia fu umi­ liata dall'aggressione italiana a Corfù e non furono sufficienti le me­ diocri formule di compromesso escogitate dalla conferenza degli ambasciatori per salvare il prestigio greco dalla prevaricazione ita­ liana. Nemmeno qui, pertanto, si potevano vedere i sintomi di un assetto pacifico e definito . Tanto più che la contesa fra la Grecia e i suoi vicini si protrasse per anni, sino al ritorno al potere, nel 1928, dell'anziano Venizelos (che nel 1928 stipulò un accordo con l'Italia e nel 193 0 con la Turchia) , se non anche sino alla restaùrazione del­ la monarchia, nel 1932.

9. Crisi e fine dell'Impero ottomano. La Turchia kemalista. Il regime dei mandati nel Medio Oriente 9.1. Gli accordi segreti di guerra. Durante tutta la seconda metà del secolo XIX le potenze europee avevano speculato e negoziato se-

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gretamente sulla scomparsa dell'Impero ottomano. Sino all'inizio del secolo XX il sultano di Costantinopoli aveva trovato la forza p er resistere nell'appoggio concessogli dalla Gran Bretagna, in funzio­ ne della difesa dei traffici nel Mediterraneo orientale, verso l'India, e dalla Francia, in funzione dei suoi tradizionali interessi verso la costa orientale del Mediterraneo. Quando l'intesa anglo-francese e, più ancora, l'accordo anglo-russo ebbero s aldato un fronte diplo­ matico potenzialmente ostile agli interessi ottomani e, in particola­ re, al pieno controllo da parte del governo di Costantinopoli della navigazione attraverso gli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli, di­ venne evidente che si era formata una coalizione potenzialmente di­ struttiva rispetto a tale controllo. Maturarono così le condizioni al­ le quali venne complètato il riallineamento delle alleanze regionali: l'Impero ottomano , ancor prima della rivoluzione militare dei «Gio­ vani Turchi», avvenuta nel 1908, si avvicinò all'impero germanico e intraprese una collaborazione sempre più stretta, espressioni della quale furono la costruzione di una linea ferroviaria che congiunge­ va Berlino con B aghdad e, non meno importante, la dominante in­ fluenza che l'apparato militare tedesco acquistò nel tentativo di ri­ dare consistenza alle forze armate ottomane. Questo rovesciamento di alleanze non rifletteva soltanto la mu­ tata importanza degli Stretti agli occhi delle potenze occidentali, ma era espressione anche delle novità emergenti nel mondo arabo, an­ cora sottoposto alla formale sovranità della Porta. La nascita di un nazionalismo arabo, che in alcuni casi tendeva già anche ad assu­ mere forme anti-britanniche ma che certamente era orientato in sen­ so ostile all'egemonia del sultano di Costantinopoli e della nazio­ nalità turca, veniva alimentata dalla politica dei Giovani Turchi. Allo scoppio della guerra, questi precedenti portarono il gover­ no di Costantinopoli a optare per la partecipazione al conflitto a fianco degli imperi centrali, nella persuasione, non infondata, che quella fosse la sola strada per la salvezza. In realtà i tre maggiori al­ leati dell'Intesa si accordarono presto sul progetto di schiacciare l'Impero ottomano, rovesciare «l'antica regola» che a questo affi­ dava il controllo della navigazione degli Stretti, prevedere larghe concessioni territoriali in Armenia a favore della Russia zarista. Oltre a ciò la Francia e la Gran Bretagna si accordarono bilate­ ralmente per suddividersi la cosiddetta «Mezzaluna fertile», cioè l'intera area che va dal Mediterraneo orientale alla Mesopotamia, in

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due aree di influenza, che concedevano rispettivamente alla Fran­ cia il territorio oggi occupato dal Libano e dalla Siria e alla Gran Bretagna quello occupato oggi dall'Iraq e dagli Stati insediati nel territorio palestinese (accordi Sykes-Picot del maggio 1916). In ag­ giunta, per prevenire gli effetti della «guerra santa» che il sultano, in quanto «califfo» dei fedeli islamici, aveva dichiarato contro le po­ tenze occidentali, gli Inglesi stipularono una serie di intese con lo sceriffo (custode) della Mecca, l'emiro Hussein, capo della famiglia hashemita. Hussein era stato convertito alla causa del nazionalismo arabo e dopo una serie di scambi con l'alto commissario inglese in Egitto, sir Henry MacMahon, aveva concordato con questo che, schierandosi contro il governo ottomano in una guerra di libera­ zione araba, avrebbe reso possibile la costituzione di un grande Sta­ to arabo indipendente esteso a nord sino al 3r p arallelo, a est si­ no al confine iraniano e a ovest sino ai distretti di Damasco, Homs, Hama e Aleppo, con esplicita esclusione delle coste della Siria e del Libano ma non della Palestina, il cui destino non venne apertamen­ te determinato. Nel giugno 1916 Hussein proclamò la rivolta araba e nel no­ vembre egli si proclamò re degli Arabi. Nulla egli sapeva allora de­ gli accordi inglesi con la Francia. Né poteva prevedere che un an­ no dopo, il 2 novembre 1917, il ministro degli Esteri britannico, lord Balfour, avrebbe espresso, per conto del governo britannico, in una dichiarazione riguardante il popolo ebraico, l' auspicio che questo si costruisse una national home sul territorio della Palestina. Così, in relazione al medesimo territorio, veniva assunta una serie di impegni diplomatici strumentali e contraddittori, carichi di in­ cognite e ispirati a una rischiosa imprudenza. Tutto questo insieme venne poi completato dagli accordi dell'aprile 1 9 17 fra le potenze dell'Intesa e l'Italia, per la concessione di una larga zona di in­ fluenza oltre che nell'Anatolia meridionale (Adalia) , già considera­ ta dal Patto di Londra, a Smirne e al suo hinterland, in parte con­ traddetti dalla concessione di Smirne alla Grecia nel maggio 1919, come compenso dopo l'intervento in guerra del luglio 1917 (quan­ do gli accordi con l'Italia erano decaduti per la mancata ratifica rus­ sa, dovuta alla prima rivoluzione) . Anche in questo settore dunque si trattava di sostituire a un do­ minio sempre più debole ma definito e riconoscibile con precisio­ ne un nuovo sistema di Stati, adeguato a soddisfare gli interessi dei

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vincitori e gli impegni contraddittori assunti. Una situazione, que­ sta, alla quale si aggiungeva il fatto nuovo della rivoluzione d'otto­ bre, che poneva in termini del tutto diversi, rispetto al passato, la questione della libertà dell'accesso al Mar Nero, secondo che si pro­ gettasse di isolare al suo interno il contagio rivoluzionario o di far transitare nelle sue acque gli aiuti che le potenze anticomuniste in­ viavano o intendevano inviare alle forze controrivoluzionarie russe. 9.2 . Il trattato di Sèvres. n problema venne affrontato a Parigi in due modi diversi. Dal punto di vista formale, l'aspetto che riguar­ dava l'Impero ottomano fu affidato al trattato di Sèvres del lO ago­ sto 1920 (fu l'ultimo dei trattati di Parigi), il quale stabilì anzitutto che il territorio dell'Impeto ottomario fosse ridotto alla penisola anatolica e a quanto di esso, sulla carta, restava in Europa. Sulla car­ ta, poiché la Tracia orientale fu assegnata alla Grecia, insieme con tutte le isole dell'Egeo tranne il Dodecaneso, occupato dagli Italia­ ni, mentre la fascia di territorio prossima agli Stretti in Europa, co­ sì come una fascia analoga sul territorio asiatico, restava nominai­ mente all'Impero ma veniva smilitarizzata e posta sotto il controllo di una commissione internazionale, la quale avrebbe salvaguardato il diritto di libera navigazione in pace e in guerra attraverso gli Stret­ ti per ogni tipo di naviglio, sotto il controllo della Società delle Na­ zioni: il che significava che in quel momento gli Alleati ritenevlillo ancora utile di poter fruire liberamente degli Stretti per gli aiuti ai Russi bianchi. Ma anche il territorio asiatico dell'Impero veniva fra­ stagliato pesantemente. Smirne e la sua regione erano affidate alla Grecia, salvo plebiscito da tenere entro cinque anni; l'Armenia di­ ventava indipendente; il Kurdistan, autonomo; l'Anatolia meridio­ nale era assegnata all'Italia e alla Francia come sfera d'influenza (in base a un accordo a tre con la Gran Bretagna, stipulato contestual­ mente al trattato di Sèvres) . n secondo aspetto riguardava tutto il resto dell'antico Impero ottomano. Questo rinunciava a ogni diritto su Egitto, Sudan, Libia e Dodecaneso e riconosceva i protettorati francesi in Tunisia e Ma­ rocco. A sua volta, l'Egitto, divenuto nel 1914 protettorato inglese, lottava per ottenere la piena indipendenza (concessagli nel 1922 ) . Quanto alla Mezzaluna fertile e alla penisola arabica i nodi venne­ ro ben presto al pettine. Prima ancora del trattato di Sèvres, alla Conferenza di San Remo (aprile 1920) gli Alleati avevano deciso di

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applicare la formula del «mandato di tipo A», prevista dall'art. 22 della Carta della Società delle Nazioni, affidando la Siria e il Liba­ no come mandati alla Francia; la Mesopotamia (cioè l'Iraq) e la Pa­ lestina tutta (cioè le terre a oriente e a occidente del Giordano) al­ la Gran Bretagna. Se il mandato di tipo A fosse una forma di lar­ vata colonizzazione o, viceversa, un primo passo verso l'indipen­ denza è questione aperta e da discutere. Resta però il fatto che le decisioni di San Remo non coincidevano per nulla con gli impegni presi con l'emiro Hussein. Vi erano dunque nelle determinazioni assunte dagli Alleati (sia per ciò che riguardava l'Impero ottomano sia per i territori che gli erano stati tolti a causa della sconfitta) molte ragioni per dubitare che essi rispettassero il principio di autodeterminazione e che fos­ sero applicabili in concreto. Non suscita dunque sorpresa oggi il fatto che da quelle decisioni scaturissero invece i due primi episo­ di di aperta lotta anticoloniale non occasionali o non semplicemente ispirati a furia xenofobica, magari pilotata da autorità locali distur­ bate dal colonialismo nei loro interessi privilegiati. Ciò che accad­ de in Turchia nel 1 92 1 -23 , in Siria, Iraq e Palestina nel 1 920-2 1 fu viceversa la prima fase di un lungo scontro, tra le grandi potenze imperialistiche e i popoli che lottavano per la loro indipendenza, che si protrasse sino agli anni Sessanta e oltre. 9.3 . La riscossa kemalista e il trattato di Losanna. I nazionalisti tur­ chi, eredi del movimento dei Giovani Turchi che aveva già operato prima della sconfitta, si raccolsero sotto la guida di Mustafà Kemal, il quale riorganizzò l'esercito muovendo dalle province orientali del­ l'Anatolia e lo spinse in guerra contro i Greci, sbarcati a Smirne gra­ zie anche al consistente appoggio britannico,_mentre Italiani e Fran­ cesi avevano occupato le rispettive zone di influenza. Mustafà Ke­ mal riuscì a mobilitare forze ingenti, che dovevano affrontare o un esercito debole e lontano dalle sue basi operative, come quello gre­ co, o forze stanche di combattere dopo cinque anni di guerra, co­ me quelle dei maggiori alleati. Kemal raggiunse ben presto Anka­ ra, che divenne da allora la capitale della Turchia, e vi convocò un'Assemblea nazionale che rifiutò di ratificare il trattato di Sèvres. Subito dopo egli strinse rapporti diplomatici con l'altro governo che in quel momento lottava contro gli alleati occidentali, il governo so­ vietico.

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Le forze «antimperialiste» allacciavano un primo legame diplo­ matico con un trattato sottoscritto il 16 marzo 192 1 , grazie al qua­ le, con la restituzione alla Turchia dei distretti di Kars e Ardahan, venivano risolti i rispettivi problemi territoriali a danno dell'Arme­ nia, schiacciata dai potenti vicini e ridotta al rango di Repubblica interna all'Unione Sovietica in via di costituzione. Una secolare osti­ lità, quella russo-turca, veniva per qualche anno interrotta da un'al­ leanza che consentiva a entrambi i paesi di uscire dall'isolamento diplomatico per appoggiarsi di fatto a vicenda. Mentre per i Sovie­ tici questo era il primo passo importante nella costruzione della lo­ ro politica estera (e nel blocco dell'offensiva antirivoluzionaria sul fronte meridionale) , per i Turchi si �rattava veramente di una guer­ ra di liberazione contro lé estreme pretese della politica imperiali­ stica delle potenze europee. I Francesi, gli Italiani e gli Americani (che avevano appoggiato l'indipendenza armena) si resero conto per primi dell'impossibilità di far applicare il trattato di Sèvres. L'autorità del sultano soprav­ viveva ma era sempre più evanescente. Le truppe francesi furono ritirate dall'Anatolia meridionale e venne stipulato dal governo di Parigi con Kemal un accordo per la definizione di un confine con la Siria più a sud di quello previsto a Sèvres. Subito dopo anche le truppe italiane si ritirarono dall'Anatolia e il governo di Roma si ac­ cordò con quello di Kemal sui termini di una successiva collabora­ zione economica. Francesi e Italiani si preparavano a ritirare i ri­ spettivi contingenti dalla fascia degli Stretti, rendendo manifesta una visione del problema turco divergente da quella britannica. Restava aperto solo il fronte greco-turco. Nell'agosto del 1922 Ismet pascià inferse un durissimo colpo ai Greci e li costrinse a eva­ cuare precipitosamente Smirne. Un milione circa di profughi fuggì in Grecia, per sottrarsi alle sanguinose persecuzioni turche. Sul campo restavano di fatto solo gli Inglesi, pronti a contrastare il con­ trollo dei nazionalisti turchi sugli Stretti, ma costretti dalla situa­ zione militare a cercare una risposta diplomatica alla crisi. n go­ verno del sultano venne abbandonato alla sua sorte (e avrebbe ces­ sato di esistere con il successivo trattato di pace) e la guerra fu conclusa con la firma dell'armistizio di Mudania ( 1 1 ottobre 1922 ) , che apriva l a strada a u n nuovo negoziato, per un trattato di pace che avrebbe dovuto sostituire il trattato di Sèvres e che sarebbe sta-

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to firmato dai rappresentanti della Repubblica turca, ormai soli pa­ droni della situazione. I negoziati, iniziati a Losanna un mese dopo la fine delle ostilità, furono conclusi il 24 luglio 1923 nella medesima città con la firma del trattato che metteva fine a quest'ultima partita lasciata aperta dalla guerra. li trattato di Losanna esprimeva ovviamente la nuova realtà dei rapporti di forza determinatisi nella regione e il rovescia­ mento imposto alla politica dei paesi occidentali dalla fine della guerra civile russa. Dal punto di vista territoriale, la nuova Turchia recuperò i suoi confini europei del 1914, con rettifiche minori a fa­ vore della Bulgaria, lasciò le isole Egee alla Grecia, ma ottenne il controllo delle isole prossime agli Stretti. L'arcipelago del Dodeca­ neso fu definitivamente assegnato all'Italia (che lo teneva a titolo provvisorio dai tempi della guerra di Libia) ; Cipro fu confermata come colonia inglese. La definizione della frontiera con i mandati venne rinviata ad accordi successivi (e solo nel 1926 il vilayet di Ma­ sul, importante per la ricerca di risorse petrolifere, fu assegnato al territorio del futuro Stato iracheno). In cambio di tutto questo, la Turchia ottenne di non pagare ri­ parazioni; di veder finire il regime delle capitolazioni, che dal Cin­ quecento aveva limitato la potestà giurisdizionale dell'Impero otto­ mano nel caso di controversie riguardanti cittadini dei maggiori paesi europei; di recuperare una piena sovranità sugli Stretti, salvo le limitazioni previste nella speciale convenzione per il regime di na­ vigazione, sottoscritta contemporaneamente al trattato di Losanna, nella quale si prevedeva la smilitarizzazione della regione e la libertà di passaggio per le navi commerciali e per un certo tipo di piccolo naviglio da guerra in tempo di pace. In tempo di guerra la discipli­ na era stabilita sulla base della partecipazione turca al conflitto o meno: nel caso di neutralità, la navigazione· sarebbe stata comple­ tamente libera; nel caso la Turchia fosse parte belligerante, era con­ sentito il passaggio di navi neutrali ma con limitazioni di quantità e tonnellaggio. Queste clausole risentivano ovviamente e della posi­ zione ancora relativamente debole della Turchia e del desiderio oc­ cidentale di avere libero accesso al Mar Nero nel caso di un con­ flitto con l'Unione Sovietica. Più rapido, ma non meno carico di aspetti che preannunciava­ no un difficile futuro, fu l'insieme degli eventi collegato all'appli­ cazione degli accordi di San Remo per quanto concerneva i man-

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dati. La costituzione del grande Stato arabo, promessa dagli Ingle­ si, si rivelò un sogno fugace. Quali che fossero le reali intenzioni franco-inglesi, il sistema dei mandati rappresentava un tradimento delle promesse scambiate con Hussein pascià, promesse che i po­ poli arabi avevano cercato di attuare, prima ancora delle decisioni alleate. Uno dei figli di Hussein , l'emiro Feisal, era stato nominato alla fine delle ostilità governatore militare di Damasco. I nazionalisti si­ riani premevano fortemente su di lui, perché egli assumesse la gui­ da del movimento indipendentista. Nel marzo 1920 essi riunirono a Damasco un «congresso nazionale siriano», rappresentativo, al­ meno nelle intenzioni, anche della Palestina tutta, che proclamò Feisal re di Siria. Per q1,1anto condizionato dai negoziati diplomati­ ci in corso con i governi alleati, Feisal accettò l'offerta e non si preoccupò troppo di renderla compatibile con le intenzioni fran-· cesi. Ciò portò a uno scontro militare che, nell'agosto dello stesso 1920, finì in w1a rapida sconfitta per il principe hashemita e in una pesante umiliazione per il nazionalismo arabo. Anche in Mesopo­ tamia la popolazione cercò di contrastare le decisioni alleate, e i na­ zionalisti iracheni offrirono la corona del loro paese al fratello di Feisal, l'emiro Abdullah. In questo caso fu compito delle truppe in­ glesi restaurare l'ordine e ricondurre la situazione sotto controllo. Vi fu però una netta diversità di metodi fra la politica mandataria francese, fortemente interventista, e quella britannica, molto più in­ cline al governo indiretto e alla ricerca della collaborazione con il mondo arabo. Nel marzo 192 1 il Colonial Office di Londra, allora affidato a Winston Churchill, convocò una conferenza di esperti al Cairo, per deliberare sulla sistemazione politica dei mandati. Le decisioni prin­ cipali furono ispirate al desiderio di appianare almeno in parte il ri­ sentimento arabo. La corona irachena fu offerta allo stesso princi­ pe Feisal, il quale con l'aiuto del fratello si preparava a tentare la riconquista della Siria. La posizione di emiro della Transgiordania, cioè della parte di mandato britannico in Palestina posta a est del fiume Giordano e del Mar Morto, fu assegnata ad Abdullah (che sperava di potere in futuro diventare sovrano di tutta la Siria) . Ab­ dullah accettò, per quanto lo riguardava, sebbene il suo dominio, sotto il controllo britannico, fosse condizionato dai limiti di appli­ cazione e dall'efficacia pratica della dichiarazione Balfour.

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1 0. La situazione deltEstremo Oriente nel dopoguerra 10. 1 . Il Giappone alla Conferenza di Parigi. Durante la guerra, il Giappone, alleato delle potenze dell'Intesa, sviluppò un'azione pa­ rallela, che investiva direttamente la Cina repubblicana, indebolita dalla lotta tra le forze del Guomintang, i lealisti al potere imperia­ le e i cosiddetti «signori della guerra», cioè quei grandi latifondisti che armavano forze proprie per contrastare l'avanzata della rivolu­ zione. Questa lotta, che terminò solo nel 1927, interferì diretta­ mente con l'andamento della guerra poiché essa favoriva l'infiltra­ zione in Cina dei Giapponesi, alleati dell'Intesa. Solo gli Stati Uni­ ti contrastavano l'azione del Giappone, ma i loro legami con le stesse potenze dell'Intesa erano un limite rispetto all'ipotesi di un intervento diretto che tutelasse il principio della «porta aperta», da essi ripetutamente proclamato come presupposto della politica ver­ so la Cina (e in generale della politica commerciale mondiale). L'appoggio americano contribuì ad alleviare il peso della pressio­ ne giapponese sulla Cina, divenuto sempre più forte dopo che il governo di Tokyo, avendo riconosciuto gli accordi di guerra fra le potenze occidentali nel caso di una sconfitta tedesca e in riferi­ mento alle aspirazioni russe sugli Stretti e nei confronti dell'Impe­ ro ottomano, ottenne da queste il riconoscimento delle aspirazio­ ni giapponesi sia sullo Sliantung, allora controllato dai Tedeschi, sia sulle isole del Pacifico a nord dell'Equatore, anch'esse parte del­ l'impero germanico. L'entrata in guerra della Cina (il 17 agosto 1917), di poco suc­ cessiva a quella degli Stati Uniti (il 6 aprile 1917), modificò questi rapporti di forza così nettamente sbilanciati a favore del Giappone. I Cinesi avevano più di una ragione per considerare con allarme sia la politica russa sia quella giapponese nei loro confronti e avevano ritenuto che la Germania potesse contrastare tale pressione. Pro­ prio queste motivazioni avevano ostacolato una decisione cinese più tempestiva. Le profonde contrapposizioni all'interno del mondo politico cinese fecero sì che quando il governo di Pechino decise di proclamare la guerra si approfondisse in Cina la lotta endemica tra le forze in campo. La stessa unità politico-territoriale della Cina fu travolta dallo scontro tra le fazioni: uno scontro che, tra l'altro, di­ videva anche il Guomintang. I suoi principali dirigenti formarono

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un governo rivoluzionario con sede a Canton, mentre a Pechino un governo repubblicano conservava un potere sempre più fragile. In pratica le uniche azioni di guerra compiute dai Cinesi furono quelle condotte all'interno per sottomettere la ribellione, che si con­ clusero solo nel 1 927 con il successo del Guomintang, appoggiato dai comunisti. Tuttavia l'intervento cinese ebbe una notevole im­ portanza diplomatica poiché fece affiorare, al momento della sua proclamazione, le forze ostili all'imperialismo giapponese, prima fra tutte quella degli Stati Uniti. n governo di Tokyo si affrettò di con­ seguenza a cercare un chiarimento con gli Americani che portò, nel novembre 1917, a un accordo dall'interpretazione ambigua, poiché conteneva il riconoscimento americano degli interessi speciali del Giappone nella parte di Cina contigua ai suoi possedimenti ma riaf­ fermò l'intenzione dei due governi di rispettare l'integrità e l'indi­ pendenza della Cina stessa oltreché i principi della «porta aperta». La rivoluzione russa e la sconfitta tedesca resero possibile la par­ tecipazione del Giappone e della Cina alla Conferenza di Parigi in una situazione resa differente dal fatto che i territori giapponesi sul continente asiatico (la Corea) servivano da base di partenza per l' of­ fensiva contro il territorio russo (a Vladivostok) e come base per l'azione che le forze cecoslovacche (costituite da ex prigionieri asbur­ gici della Russia) tentarono di portare dalla Siberia verso ovest in aiu­ to ai Russi bianchi. La posizione giapponese a Parigi era dunque assai forte e certo molto più forte di quella cinese. Ciò si ripercosse sull'esito delle ri­ vendicazioni giapponesi. Le isole del P acifico a nord dell'Equato­ re, cioè gli arcipelaghi delle Marshall, delle Caroline e delle Ma­ rianne, furono tolte ai Tedeschi e assegnate al Giappone come man­ dato di tipo C (la categoria di mandato rispetto alla quale la potenza mandataria aveva i più estesi poteri di intervento) . La richiesta di ottenere il controllo dello Shantung urtò contro l'opposizione ci­ nese ma fu risolta a favore dei Giapponesi grazie agli accordi di guerra stipulati con gli alleati dell'Intesa e nonostante il tentativo di Wilson di ottenere una soluzione di compromesso, con il risultato di spingere la delegazione cinese ad abbandonare la conferenza e a non firmare il trattato di pace con la Germania. n Giappone usciva così come il grande vincitore della guerra per quanto riguardava il Pacifico. Le sue truppe controllavano, dalla Corea, la Siberia orientale e avevano occupato lo Shantung. Per de-

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limitare la portata di questo successo dopo i vani tentativi di Wil­ son, durante la Conferenza di Parigi, si adoperò anche con maggior risolutezza l'amministrazione Harding che, sebbene ispirata da pro­ positi isolazionistici, non mancò di impegnarsi a fondo contro il Giappone. n primo risultato di questo impegno fu quello di strap­ p are agli Inglesi un rinvio del rinnovo dell'alleanza con il Giappo­ ne che durava sin dall'inizio del secolo. L'intesa anglo-giapponese era stata provocata da due minacce, quella russa e quella tedesca, che ora avevano cessato di esistere. Invece, dinanzi al potenziale contrasto fra Stati Uniti e Giappone, i Britannici avevano tutte le buone ragioni per avvicinarsi alle posizioni americane. Alla metà del 192 1 l'alleanza anglo-nipponica veniva lasciata cadere. Ciò era anche l'espressione della volontà britannica, appoggiata da alcuni Dominions direttamente interessati alla situazione del Pa­ cifico, come il Canada e l'Australia, di evitare che il problema dei nuovi equilibri di forze in questo immenso bacino marittimo por­ tasse a una gara navale con gli Stati Uniti, nella quale il Giappone avrebbe potuto incunearsi e trarre i suoi vantaggi. 10.2. La Conferenza di Washùzgton. Per far collimare queste esi­ genze con un abbandono non traumatico dell'alleanza con il Giap­ pone, il gabinetto di Londra propose a quello americano di «invi­ tare le potenze direttamente interessate a prender parte a una con­ ferenza per discutere le questioni dell'Estremo Oriente e del Pacifico, allo scopo di giungere a un'intesa collettiva tale da assi­ curare con mezzi pacifici l'eliminazione della guerra e degli arma­ menti navali». La proposta fu accolta senza difficoltà e la conferenza si riunì a Washington dal 12 novembre 192 1 al 6 febbraio 1922, con la partecipazione di rappresentanti della Gran Bretagna, degli Sta­ ti Uniti, del Giappone, della Francia, dell'Italia, della Cina, del Bel­ gio, dell'Olanda e del Portogallo. I complessi negoziati cui la conferenza diede luogo portarono a una serie di accordi di notevole importanza sia per i problemi del Pacifico sia per il tema più generale del disarmo navale. n primo di questi accordi fu il Trattato delle quattro potenze ( Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Giappone) , firmato il 13 dicembre 192 1 . Esso doveva costituire una sorta di cornice diplomatica entro la quale in­ serire i nuovi rapporti tra le potenze vincitrici, assorbendo anche le esigenze dell'alleanza anglo-nipponica. Da parte britannica persi-

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steva una certa propensione a cercare dagli alleati il riconoscimen­ to di interessi speciali del Giappone e della Gran Bretagna stessa in alcune regioni della Cina. Questa tesi, sulla quale ovviamente con­ cordavano i Giapponesi, fu nettamente respinta dagli Americani, che riuscirono a far prevalere il loro punto di vista. n patto per il Pacifico, come venne chiamato l'accordo del 13 dicembre, impegnava i firmatari in pratica alla tutela dello status qua e alla consultazione sia per risolvere eventuali controversie sia per rispondere a eventuali minacce contro la situazione esistente. L'inclusione della Francia nel patto, che riguardava aree lontane dai possedimenti francesi nell'Asia sud-orientale, fu una concessione voluta dal segretario di Stato americano Hughes per compensare i Francesi delle rinunce chè Yaccordo navale loro imponeva. n trattato per il disarmo navale venne firmato il 5 febbraio 1922 da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Giappone e Italia. Esso pre­ vedeva reali misure limitative, poiché disponeva che per dieci anni le p arti contraenti avrebbero sospeso la costruzione di corazzate e incrociatori da battaglia. Prevedeva inoltre la distruzione di navi­ glio già costruito o in corso di costruzione in modo da far sì che il rapporto esistente in termini di tonnellaggio tra le flotte delle mag­ giori potenze rispettasse la seguente proporzione: Stati Uniti e Gran Bretagna 5 , Giappone 3 , Italia e Francia 1 ,75 . Stabiliva infine una serie di limitazioni per la stazza e gli armamenti delle navi da bat­ taglia. Non stabiliva nulla per quanto riguardava i sommergibili, in mancanza di un accordo nel merito . L'importanza dell'accordo stava soprattutto in tre punti: nel ri­ conoscimento britannico della parità navale con gli Stati Uniti; nel riconoscimento francese della parità navale con l'Italia (w1 ricono­ scimento che i Francesi giudicarono circoscritto e al quale si pie­ garono solo perché la Francia era in quel momento in condizioni di serio isolamento diplomatico); nel fatto che l'art. 29 del trattato sta­ biliva che le parti contraenti non avrebbero ulteriormente fortifica­ to le basi militari sotto il loro controllo in tutto il Pacifico. Era que­ sto che rendeva possibile al Giappone di accettare w1 rapporto di inferiorità rispetto alle due maggiori potenze navali, poiché l'impe­ gno a non rafforzare basi nelle acque prossime anche al Giappone assicurava alla marina giapponese la capacità di controllo delle ac­ que vicine al Giappone e in particolare del Mar della Cina. Infine, il 6 febbraio venne sottoscritto il documento potenzial-

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mente più impegnativo prodotto dalla conferenza, cioè il trattato delle nove potenze per la «porta aperta» (le nove potenze erano quelle che avevano sottoscritto gli accordi navali più il Belgio, l'O­ landa, il Portogallo e la Cina) . Lo avevano fortemente voluto gli Sta­ ti Uniti per impegnare i firmatari al rispetto della sovranità, del­ l'indipendenza e dell'integrità territoriale e amministrativa della Ci­ na; per impegnarli altresì ad assistere la Cina a raggiungere stabilità politica e sviluppo economico e astenersi dall'intraprendervi inizia­ tive contrarie agli interessi delle potenze amiche; per impegnarli in­ fine al rispetto del principio della «porta aperta», cioè alla rinuncia a chiedere speciali privilegi (preferenze commerciali o monopoli) nei commerci con la Cina. Da ultimo, accanto al trattato a nove e sotto gli auspici anglo­ americani, venne stipulato il 4 febbraio un accordo cino-giappone­ se grazie al quale il Giappone rinunciava alla sua presenza nello Shantung, restituendo alla Cina il territorio già tedesco di Kiao­ chow (mentre la Gran Bretagna rinunciava unilateralmente alla vi­ cina base di Wei-hai-wei) ; dal canto suo il Giappone riusciva a man­ tenere (a titolo di garanzia di un prestito fatto alla Cina) il control­ lo fino a quindici anni di tempo della ferrovia Tsinan-Tsingtao e a mantenere anche una gran parte delle concessioni ottenute in Man­ duria specialmente in materia ferroviaria. Così, con una serie di compromessi, veniva definito per un cer­ to numero d'anni il nuovo assetto del Pacifico e soprattutto veniva delineata la camice entro la quale l'espansionismo giapponese po­ teva forse essere controllato e la Cina poteva ricostituirsi come sog­ getto rinnovato e autonomo della vita asiatica. n compromesso la­ sciava strascichi di malcontento nel governo francese che aveva do­ vuto accettare una diminuzione di prestigio n�i confronti dell'Italia. Ma lasciava strascichi soprattutto per il fatto che le determinazioni adottate erano tutte troppo elastiche e ambigue per arginare davve­ ro un'azione risoluta quando una delle parti in causa (in altre paro­ e, il Giappone) avesse voluto affermare in modo più incisivo la pro­ pria volontà. In quel momento l'area del Pacifico era controllata in modo stretto dalla convergenza anglo-americana. Qualche anno più tardi l'interesse britannico fu però attratto in altre direzioni, men­ tre, dopo il 1929, la crisi interna degli Stati Uniti lasciò mano libe­ ra ai Giapponesi per riprendere la loro campagna contro la Cina.

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1 1 . Le ultime illusioni della sicurezza collettiva 1 1 . 1 . Il trattato Briand-Kellogg. A coronare l'impressione che lo «spirito di Locarno» avesse aperto la strada per una stabilizzazione duratura della situazione europea e della pace nel mondo si ag­ giunsero, fra il 1927 e il 193 0, altri avvenimenti diplomatici che muovevano nella stessa direzione. n primo di questi eventi fu il Pat­ to Briand-Kellogg, del 27 agosto 1928, che dichiarava l'illegittimità del ricorso alla guerra come strumento per la soluzione delle con­ troversie internazionali. n movimento pacifista e i movimenti che miravano alla dichiarazione di illegittimità della guerra erano nu­ merosi nel mondo e particolarmente diffusi negli ambienti anglo­ sassoni. Per andare i.ncqntro a un'opinione pubblica non partico­ larmente tenera verso la Francia, inadempiente in tema di restitu­ zione dei debiti interalleati, e spinto dal proposito di ritentare la tessitura di un legame fra gli Stati Uniti e la soluzione dei problemi europei, il 6 aprile 1 927, decimo anniversario qell' entrata degli Sta­ ti Uniti nella prima guerra mondiale, Briand rivolse al popolo ame­ ricano un appello ispirato e, in effetti, scritto dal prof. James T. Shotwell della Columbia University, nel quale il tema della rinun­ cia alla guerra veniva proposto come materia di un accordo bilate­ rale. n collegamento con il tema della sicurezza europea era evi­ dente e questo spiega la lentezza della risposta americana, dal mo­ mento che un trattato bilaterale, quale che ne fosse il contenuto, finiva per avvicinarsi a un trattato di alleanza. Poche settimane do­ po, nel giugno 1927, valutando i limiti obiettivi della proposta ini­ ziale, Briand formulò una proposta più analitica, dandole la forma di progetto di trattato fra le maggiori potenze. Solo sei mesi dopo aver ricevuto il testo di Briand, alla fine del dicembre 1927, il se­ gretario di Stato Frank B. Kellogg inviò la sua controproposta, se­ condo la quale il progetto di Briand poteva essere accolto ma a con­ dizione di diventare un accordo aperto e multilaterale. Ciò creava difficoltà giuridiche per quei paesi che, aderendo alla Società delle Nazioni, erano legati all'eventuale applicazione dell'art. 1 6 che, in tema di sanzioni contro l'aggressore, non escludeva il ricorso alla guerra. Fu necessario trovare una formula intermedia, che in prati­ ca lasciava i potenziali firmatari liberi di rispettare tale impegno. Quanto alla multilateralità, il caso fu risolto estendendo la propo­ sta alla Germania, all'Italia, alla Gran Bretagna, al Giappone e a una

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serie di paesi minori (in totale 15) che il 27 agosto 1928 sottoscris­ sero il documento finale a Parigi. Esso confermava la condanna del­ la guerra come strumento per la soluzione delle controversie inter­ nazionali e impegnava i firmatari a cercare sempre una soluzione p acifica di qualsiasi conflitto potesse contrapporli. Anche questo documento parve segnare l'inizio di un'epoca nuova. In rapida sequenza altri paesi vi aderirono, sino a un totale di 57 (non tutti appartenenti alla Società delle Nazioni) . Tuttavia la firma non fu sempre seguita dalla ratifica e le intenzioni dichiarate non corrisposero che raramente alle intenzioni reali. In termini cru­ di, si potrebbe affermare che il trattato era un consapevole ingan­ no posto in essere dai protagonisti della politica di potenza. Basta considerare ciò che avvenne a partire dall'Estremo Oriente nel 1929 e poi in tutto il resto del mondo, per comprendere come la mesco­ lanza di utopismo e cinismo, così caratteristica della politica estera di Briand, fosse priva di contenuti politici. Tuttavia questa valuta­ zione critica non deve essere portata sino alle sue conseguenze estre­ me, poiché il patto dava un fondamento giuridico efficace a tutti i movimenti pacifisti e metteva le basi logiche e ideologiche di qual­ siasi successiva condanna di atti aggressivi. Era un gesto simbolico, e come tale esso fu deriso dai realisti a oltranza, come Mussolini (sebbene l'Italia fosse tra i paesi firmatari), ma come tutti i simbo­ li durevoli, esso sarebbe stato raccolto con il tempo, quando l'idea della guerra fosse diventata sinonimo di distruzione generalizzata. D'altra p arte, anche la nozione di inefficacia pratica del Patto Briand-Kellogg va almeno perifericamente rettificata poiché, se es­ so non ebbe effetti direttamente derivanti dalla sua applicazione, il clima che esso contribuiva a consolidare favorì un altro passo avan­ ti della normalizzazione franco-tedesca. Durante la sua visita a Pa­ rigi per la firma del patto, Stresemann sollevò con Briand e Poin­ caré la questione dell'occupazione della Renania, in parte già supe­ rata dopo gli accordi di Locarno, ma in parte ancora legata alle clausole del trattato di Versailles, che prevedevano la fine del pe­ riodo di occupazione nel 193 5 . Secondo Stresemann, dopo il Patto Briand-Kellogg la presenza di truppe straniere sul territorio tede­ sco non aveva più alcun senso. L' argomentazione era formalmente ineccepibile, sebbene i Francesi considerassero l'occupazione anche come una garanzia della continuità nei pagamenti ancora dovuti co­ me riparazioni di guerra. Perciò quando la questione venne ripro-

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posta alla sessione di settembre dell'Assemblea della Società delle Nazioni, i Francesi accettarono di discuterne, in parallelo con la ri­ presa dei negoziati sulle riparazioni che portarono, nel 1929, al pia­ no Young (cfr. p. 47 ) . Durante la Conferenza dell'Aja, dell'agosto 1929, fu stabilito che l'evacuazione delle due zone della Renania an­ cora sotto occupazione alleata avesse inizio nel settembre 1929 per essere completata entro il 3 0 giugno 1930. Sarebbero partite per prime le truppe belghe e inglesi, poi quelle francesi (le forze d'oc­ cupazione americane erano state ritirate sin dal 1923 , dopo la man­ cata ratifica del trattato di Versailles da parte del Senato degli Sta­ ti Uniti) .

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1 1 .2. La proposta di Unioize europea di Briand. Alla medesima ispi­ razione può essere ricondotta un'altra iniziativa dello stesso Briand, il suo progetto di costituzione di una Unione federale europea. L'eu­ ropeismo utopistico era allora ai suoi primi passi (se si trascurano le profezie dei secoli precedenti). Nel 1923 il 'conte austriaco Ri­ chard Coudenhove-Kalergi pubblicò a Vienna un volume dal tito­ lo Pan-Europa e tre anni dopo diede vita a un movimento dall'e­ guale denominazione. L'obiettivo era quello di persuadere le élite politiche della necessità di unificare l'Europa per sottrarla alla spi­ rale autodistruttiva delle guerre interne e restituirle un ruolo nella politica mondiale. Kalergi non era un manipolatore di masse e la vi­ ta europea di quegli anni era pronta ad accogliere più la predica­ zione dell'estremismo nazionalista che quella del pacifismo euro­ peistico. n movimento ebbe dunque una scarsa efficacia pratica. Tuttavia l'opera di Kalergi toccò la sensibilità di molti uomini poli­ tici che ne condivisero l'ispirazione (forse si può annoverare fra que­ sti Winston Churchill) o che consideravano l'europeismo come un'idea-forza, utile per mobilitare la diplomazia in una direzione voluta e rassicurante. In questa seconda categoria rientrano Briand e il segretario generale del ministero degli Esteri francese, Alexis Léger. Unificare l'Europa sul finire degli anni Venti, nell'aura del­ l'intesa franco-germanica e del Patto Briand-Kellogg, poteva signi­ ficare l'aggiunta di un tocco sapiente al tema della sicurezza fran­ cese. Briand trasse l'ispirazione da Kalergi e il 9 settembre 1929 ten­ ne un discorso alla Commissione europea della Società delle N azioni, dove erano presenti allora 27 paesi, nel quale egli espose il grande ideale dell'unificazione europea come strumento per fa-

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vorire la pace. Tradusse poi il suo discorso (così gli era stato chie­ sto di fare) in un memorandwn che venne consegnato alla Società delle N azioni il 1 o maggio 193 0. La lettura del memorandum chia­ risce il progetto politico che Briand affidava alla forma dell'Unio­ ne federale d'Europa. Si trattava infatti di dare vita a un'Associa­ zione di Stati europei, interna e subordinata alla Società delle Na­ zioni, basata sul principio del rispetto dell'indipendenza e della sovranità nazionale (cioè una formula che contraddiceva in pratica la nozione di unione federale) , con il compito di regolamentare le questioni politiche riguardanti la comw1ità europea, mediante un'e­ stensione pratica delle garanzie internazionali avviate con i trattati di Locarno. Accanto a molti altri auspici di collaborazione in di­ versi settori della vita economico-sociale elaborati in formule giuri­ diche sfumate e imprecise, il cuore politico della proposta stava dunque nell'ampliamento delle garanzie ottenute a Locarno. Le for­ mule d'accompagnamento non potevano che parzialmente abbelli­ re questo aspetto del piano. Segno che se l'apparenza era quella di un clima di p acificazione universale, sotto di essa si avvertiva il for­ te riaccendersi delle preoccupazioni francesi in tema di sicurezza. Ma nel 193 0 ciò era più che giustificato. La situazione andava ra­ pidamente avvicinandosi a mutamenti di fondo e le idee di Briand dovevano restare sulla carta. La decisione di affidarle a una discus­ sione dinanzi all'Assemblea della Società delle N azioni portò a un dibattito, nel settembre 193 0 , durante il quale la diversità di con­ cezioni divenne manifesta. La questione fu rinviata ai lavori di una commissione in seno alla quale la proposta Briand si perse, dopo un anno di inutili dibattiti, come il ricordo di una speranza tra­ montata, simbolo di una stabilizzazione non avvenuta. 1 1 .3 . Il problema del disarmo. La Conferenza di Londra sul disarmo navale. L'ultimo tema politico rispetto al quale dopo Locarno e,

più ancora, dopo il Patto Briand-Kellogg parve possibile un com­ promesso utile a consolidare il clima generale di pacificazione ri­ guardava la Germania solo indirettamente e investiva viceversa in modo più diretto le relazioni itala-francesi. Questo tema era colle­ gato al progressivo definirsi della politica di destabilizzazione ten­ tata da Mussolini e rappresentò l'espressione dell'intenzione dei Francesi di ammorbidire almeno questo fronte delle loro relazioni con l'Italia, senza fare concessioni reali a Mussolini e, anzi, costrin-

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gendolo a subire la logica della supremazia degli interessi francesi in tema di sicurezza europea, quella medesima logica che aveva det­ tato le iniziative del Quai d'Orsay dopo la fine della guerra. L'articolo 8 della Carta della Società delle Nazioni affermava il principio della riduzione degli armamenti «al livello più basso, com­ patibilmente con la sicurezza nazionale e l'esecuzione forzosa di ini­ ziative comuni derivanti da obbligazioni internazionali>> . n Consi­ glio della Società delle Nazioni, aggiungeva l'articolo, avrebbe pre­ disposto i piani di disarmo da sottoporre ai diversi governi. Essendo la Carta una sezione del trattato di Versailles, ne derivava che gli Alleati, nel momento stesso in cui imponevano alla Germania di di­ sarmare, sottoponevano scz stessi all'impegno di adempiere il me­ desimo obbligo, sotto pena di legittimare eventuali inadempienze tedesche. La questione del disarmo si poneva allora in termini realistici so­ per gli armamenti convenzionali di terra e di mare. Quanto agli lo armamenti di terra, la Commissione per il disarmo, istituita nel 1925, iniziò i suoi lavori solo nel maggio 1 926, a causa della diffi­ coltà di definire intese preliminari. n suo compito consisteva nella preparazione di uno schema di trattato da sottoporre all'esame di una conferenza internazionale. Ma questo lavoro fu completato so­ lo alla fine del 1 93 0 , e la Conferenza per il disarmo generale fu con­ vocata nel 1 93 2 , quando l'efficacia del lavoro preparatorio risultò compromessa dai cambiamenti frattanto intercorsi nella situazione tedesca (cfr. p . 143 ) . Più rapido fu il cammino per quanto riguar­ dava gli armamenti navali. n tema era stato affrontato nel 192 1 -22, durante la prima Conferenza per il disarmo navale, tenuta a Wash­ ington. In quell'occasione, le cinque maggiori potenze navali (Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone, Francia e Italia) erano riuscite a raggiungere un accordo riguardante le navi da battaglia. n dissen­ so sugli altri punti aveva suggerito ai negoziatori di Washington un rinvio a ulteriori discussioni. Nel 1927 il presidente americano Coolidge propose la convoca­ zione di una nuova conferenza ma i lavori, iniziati a Ginevra, con la p artecipazione accanto agli Stati Uniti solo della Gran Bretagna e del Giappone, poiché l'Italia e la Francia preferirono assistere so­ lo in veste di osservatori, non fecero molti progressi a causa del dis­ sidio anglo-americano sul naviglio di stazza intermedia. Infine nel 1928, l'ottimismo creato dal trattato Briand-Kellogg fornì uno sfon-

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do più favorevole alla ripresa delle discussioni. Un serrato e diffici­ le dibattito fece da sfondo al progetto di convocare, per la terza de­ cade del gennaio 193 0, una Conferenza generale sul disarmo nava­ le, dopo che tutti i punti di contrasto fra le parti interessate fosse­ ro stati risolti mediante compromessi di lavoro riguardanti anche il tema del disarmo terrestre. Non servì da buon auspicio la rivelazione del fatto che, alla vi­ gili a della firma del Patto Briand-Kellogg, Francesi e Inglesi aves­ sero raggiunto a parte un'intesa segreta sulla base della quale, in cambio dell'appoggio britannico in materia navale, gli Inglesi si im­ pegnavano a condividere il punto di vista francese in materia di di­ sarmo t�rrestre. Mussolini ebbe la possibilità di protestare contro il metodo usato dalle due potenze e di assumere w1a posizione tatti­ camente comoda: l'Italia era disposta a accettare di limitare i pro­ pri armamenti al livello più basso, purché questo non fosse supe­ rato da alcuna altra potenza continentale europea. Quanto al di­ sarmo navale, l'Italia riteneva (contrariamente a quanto avevano concordato Inglesi e Francesi) che il parametro base di calcolo non fosse quello della suddivisione del naviglio per categorie, ma quel­ lo della determinazione di un limite globale di tonnellaggio. Questi due temi: la p arità con la potenza continentale più armata (cioè la Francia) e il calcolo in termini di tonnellaggio globale sarebbero ri­ masti come punti fermi della posizione italiana e avrebbero condi­ zionato l'andamento dei lavori della conferenza. D'altra parte il.go­ verno fascista non poteva accettare accordi che sanzionassero ri­ sultati inferiori a quelli conseguiti a Washington da un governo prefascista, e cioè la parità con la Franda. La Conferenza convocata a Londra il 2 1 gennaio 1 93 0 ebbe ini­ zio in questo clima poco promettente e continuò in un susseguirsi di polemiche che anticipavano, nella loro portata politica, l'avvio di una fase di conflitti sempre più profondi. Sullo sfondo vi erano le preoccupazioni suscitate in Francia dall'attivismo fascista nella pe­ nisola balcanica e nel Mediterraneo, e l'intenzione di Mussolini di dare un valore simbolico alla capacità della flotta italiana di con­ trollare il Mediterraneo (che di lì a qualche anno la retorica fasci­ sta avrebbe incominciato a chiamare con l' antica denominazione la­ tina, Mare Nostrum) . In questo clima la conferenza lavorò vana­ mente sino alla primavera quando venne deciso che sarebbe stata firmata solo una p arte degli accordi, quella che non riguardava i

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rapporti itala-francesi, e la firma ebbe luogo il 22 aprile 193 0 . Gran Bretagna e Stati Uniti raggiunsero un compromesso che conferma­ va la loro parità di fatto anche in materia di incrociatori mentre i Giapponesi ottenevano che la proporzione loro assegnata salisse di un punto da 6 a 7 per ogni 10 unità americane o britanniche. Ven­ ne stabilito anche un tetto massimo, che imponeva limitazioni ef­ fettive alla costruzione di nuove corazzate e incideva sui program­ mi già avviati, ridimensionandoli. Un accordo venne raggiunto an­ che per i sottomarini e i cacciatorpediniere, alla costruzione dei quali era imposto un limite massimo, con una distribuzione di for­ ze che confermava il rapporto di 10 a 7 fra i due paesi anglo-sasso­ ni e il Giappone. ll trattato sarebbe .entrato in vigore il l a gennaio 1 93 1 e avrebbe avuto là durata di cinque anni. Italiani e Francesi continuarono la ricerca di un compromesso, in un alternarsi di spe­ ranze e delusioni. Mussolini aveva lasciato la direzione del ministe­ ro degli Esteri a Dino Grandi, che aveva la funzione di mediare in­ ternazionalmente le mosse di propaganda interna del Duce. Resta­ va però il fatto concreto che, all'indomani della firma degli accordi di Londra, il governo di Roma aveva deciso un importante pro­ gramma di nuove costruzioni navali. I due responsabili del nego­ ziato, il francese René Massigli e l'italiano Augusto Rosso, lavora­ rono per quasi un anno su innumerevoli particolari tecnici e sotto la pressione americana e britannica perché fosse raggiunta un'inte­ sa. Venne elaborata una formula, secondo la quale le due potenze avrebbero indicato i loro rispettivi programmi di costruzione, te­ nendoli separati ma concordandone l'entità. In tal modo si evitava di prendere una decisione formale circa il principio della parità e tuttavia si formulavano previsioni che, pur mantenendo una lieve superiorità francese, prevedevano anche una diminuzione del ton­ nellaggio rispettivo, con il risultato finale di un maggior equilibrio a favore dell'Italia. Da un lungo dibattito usciva dunque, il 3 1 mar­ zo 193 1 , un mediocre compromesso, che consentiva ai Francesi di considerarsi soddisfatti e a Mussolini di vantare un certo successo. Ma, nel complesso, non era che un mesto epilogo. 12. La mancata stabilizzazione economico-sociale e la politica interna 12 . 1 . Questioni e contraddizioni. Non è possibile parlare di nor­ malizzazione limitandosi alle questioni internazionali e a quelle mi-

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litari. La guerra non era stata solo ru1o scontro di eserciti e il do­ poguerra non era stato solo un crogiolo diplomatico. La crisi era stata ben più profonda, poiché aveva investito ogni altro aspetto della vita economico-sociale. Sino a che punto le sistemazioni di pa­ ce avevano affrontato e risolto questi problemi? Sino a che punto i nuovi temi o i nuovi conflitti erano stati ricomposti? In primo piano vi era la questione dei nuovi rapporti fra i grup­ pi sociali dominanti. Fino al 1914 l'egemonia borghese era stata fuo­ ri discussione. L' avanzata del socialismo era stata repressa o assor­ bita dai primi esperimenti di politica sociale. In molti paesi i parti­ ti socialisti si erano integrati nel sistema parlamentare e avevano scelto la strada del riformismo. Lo stesso dibattito che aveva ac­ compagnato l'inizio della guerra, in relazione all'atteggiamento che i partiti socialisti avrebbero dovuto assumere nei confronti di una crisi che, per loro definizione, era stata provocata dall'imperialismo e dal nazionalismo borghese, getta luce sulle difficoltà del movi­ mento socialista, quando esso doveva affrontare la contraddizione fra internazionalismo e lealtà nazionale. Era, questo, un problema non risolto, che si trascinò almeno sino al secondo dopoguerra, ma che da solo dava l'immagine di uno dei punti di maggior frizione che le forze dirigenti prebelliche avrebbero dovuto affrontare. In­ fatti, terminato il conflitto, dopo che tutti i partiti socialisti ebbero, sebbene con varie sfwnature e in tempi diversi, collaborato alla lot­ ta combattuta dai rispettivi paesi, era difficile immaginare che i vec­ chi equilibri politici si ristabilissero presto e senza scosse. Tanto più difficile dopo i fatti russi del 1917. La rivoluzione d'ottobre aveva ridestato in tutti i partiti socialisti la forza delle correnti massim ali­ ste, che cercarono di trascinare nella direzione indicata da Lenin i rispettivi partiti o, quando ciò risultò impossibile, spezzarono l'u­ nità dei movimenti socialisti per dar vita a partiti comunisti rivolu­ zionari, subito collocati in fiero antagonismo dinanzi all'apparente limitatezza di prospettive di chi propugnava aggiustamenti gradua­ li rispetto all'impeto giacobino di chi propugnava l'insurrezione im­ mediata. Situazioni nazionali e mito rivoluzionario diventavano gli argini entro i quali il movimento socialista internazionale avrebbe dovuto muoversi. Ma era davvero possibile una rivoluzione mon­ diale? Era possibile che l'appello ai lavoratori di tutto il mondo, lan­ ciato da Lenin 1'8 novembre 1917, perché rovesciassero i rispettivi governi e dessero vita a un'internazionale dei popoli, ru1ica passi-

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bile garanzia eli pace, suscitasse eco nel resto del mondo o, quanto meno, in Europa? Sebbene in termini eli analisi teorica di derivazione marxista la rivoluzione fosse il prodotto della fase estrema del capitalismo e dell'autocoscienza del movimento del proletariato industriale, i fat­ ti accaduti in Russia dimostravano che la rivoluzione poteva anche imboccare strade diverse. Una prima distinzione in proposito vie­ ne suggerita dalla suddivisione fra paesi vincitori e paesi vinti. Nei paesi vinti, la delegittimazione dei governi intrinseca alla sconfitta fu sempre accompagnata dalla fine eli determinati regimi istituzio­ nali. In Germania, in Austria e in Ungheria la sconfitta era anche la caduta del regime .imperiale e la nascita eli un governo repub­ blicano. Repubblicano e borghese? La risposta non fu né facile né immediata. 12.2 . Gli sconfitti: Germania) Austria e Ungheria. Nella Repubbli­ ca eli Weimar, la sconfitta suscitò un travaglio acuto, che spesso eli­ venne lotta eli classe, e che si intrecciò con la lotta per l'istituzione eli un regime democratico e per il superamento della crisi econo­ mica. Dal 1919 al 1 924 la repubblica conobbe un susseguirsi eli scosse accompagnate dal contrappunto eli una crisi economica cui l'inflazione astronomica dava un'evidenza concreta. n primo scon­ tro politico, che accompagnò la nascita stessa della repubblica, si ebbe con il tentativo del gruppo «spartachista», cioè del gruppo co­ munista costituitosi in seno al Partito socialdemocratico sotto la gui­ da eli Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, e trasformato all'inizio del 1919 in Partito comunista tedesco, eli promuovere un tentativo rivoluzionario su modello leninista, dando vita a una repubblica dei soviet, costruita sulla base del movimento proletario più forte eli tut­ ta l'Europa. Sul piano internazionale era, questo, l'evento tanto at­ teso da tutte le forze rivoluzionarie europee e specialmente a Mo­ sca, come segnale del vero dilagare dell'ondata che doveva travol­ gere l'ordine borghese? All'inizio del gennaio 1 9 1 9 Berlino fu il teatro eli una rivoluzione tentata ma subito schiacciata nel sangue (anche quello dei due maggiori protagonisti) . n governo provviso­ rio capeggiato dal socialdemocratico Friederich Ebert non esitò a cercare l'appoggio delle forze armate. Da allora venne suggellato un patto eli collaborazione che tagliava la strada alle speranze rivolu­ zionarie e proponeva una dialettica più complessa. n Partito co-

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munista si collocò per un certo tempo all'esterno del sistema isti­ tuzionale e non partecipò alle elezioni per l'Assemblea costituente, che furono vinte dai socialdemocratici di Ebert, senza però che il partito avesse da solo la forza numerica sufficiente per governare. Ebbe inizio il periodo dei governi di collaborazione, con i partiti moderati cattolici e liberali, sui quali cadde l'onere di resistere alle tensioni che un paese, così lacerato dal trauma della guerra e dalla paura della rivoluzione, viveva. Tra il mese di febbraio e il mese di maggio, Monaco di Baviera fu teatro di tentativi analoghi. Kurt Ei­ sner formò un governo socialista che propugnava la separazione della Baviera dalla Germania ma egli fu assassinato il 2 1 febbraio. All'indomani del delitto venne proclamata a Monaco una repub­ blica dei soviet, che ebbe vita più lunga di quella berlinese, ma fu repressa con la forza militare alla fine di aprile, così come fu re­ presso un mese dopo un tentativo analogo in Sassonia. Oltre che dalla sinistra, il governo doveva guardarsi anche dal sorgere dei primi movimenti autoritari di destra. Dall'aprile 1919 al giugno 1 920 aveva dovuto far fronte alla rivolta delle truppe balti­ che del generale Rudiger von der Golz; nel marzo 1920 fu la volta di w1 colpo di mano tentato da esponenti ultranazionalisti guidati da Wolfgang Kapp e dal barone Walter von Liittwitz. Ben più pe­ ricolosa era però la fronda dei militari, alla cui testa era il mare­ sciallo Eric von Ludendorff. Alla base della politica della destra vi era un'altra concezione non meno pericolosa e assai più concreta di quella rivoluzionaria: la teoria che la Germania avesse perso la guer­ ra solo perché i politici che la guidavano avevano tradito il paese e si preparavano poi a subire il diktat irnposto dalle potenze vincitri­ ci come trattato di pace, un diktat che contraddiceva gli impegni assunti dagli stessi vincitori, quando avevano accettato la resa del­ la Germania non incondizionatamente ma sulla base dei 14 punti di Wilson. Vi era, in questo credo politico, un nazionalismo già esa­ sperato e violento che aveva radici nel mondo militare e in quello borghese e che rappresentava un terreno ideale di coltura per il re­ visionismo estremistico. Nel gennaio 1919 venne fondato il Partito nazionalsocialista (NSDAP) al quale poco dopo aderì un oscuro per­ sonaggio di nascita austriaca, Adolf Hitler. ll partito era un coacer­ vo di risentimenti e una miscela di motivi populistici, nazionalistici e autoritari. Allora nessw1o pensò che potesse ottenere consensi e ancor meno ciò venne creduto possibile dopo il fallito tentativo di

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putsch inscenato da Wolfgang Kapp (marzo 1920). Ma era, quello,

un segnale di pericolo circa i consensi che le forze reazionarie po­ tevano coagulare. Se per il momento l'Assemblea costituente pote­ va elaborare a Weimar la nuova costituzione federale per la Ger­ mania, sotto la cenere del malcontento e della crisi economica co­ vava un fuoco immenso. I Tedeschi non si rassegnavano alle umi­ liazioni della sconfitta né al ruolo di potenza messa sotto controllo che i vincitori e soprattutto i Francesi non si stancavano di reitera­ re. L'assassinio (giugno 1922) di Walter von Rathenau, ebreo e mi­ nistro degli Esteri, che aveva cercato, fino alla Conferenza di Ge­ nova, di percorrere la strada della normalizzazione nei rapporti con il resto dell'Europa, fu un segno in più di quel fuoco sotto la cene­ re. La rivoluzione in Gennania aveva consumato il suo insuccesso più clamoroso, ma dalla sua sconfitta era uscita vincitrice un'al­ leanza troppo fragile tra i socialdemocratici, le forze di centro e i partiti dichiaratamente nazionalisti. La borghesia celebrava il suo trionfo sulla tradizione aristocratico-militare e'per alcuni anni si sa­ rebbe nutrita della speranza generata da una vitalità culturale e po­ litica quale raramente in passato la Germania aveva conosciuto. Si può persino parlare di w1'atmosfera culturale frutto della Repub­ blica di Weimar. Ma questo trionfo borghese era minato dal di­ stacco sempre più netto delle gerarchie militari, dall'ambiguità de­ gli ambienti della grande finanza e dal fanatismo nazionalista, che uomini come Stresemann cercarono di mediare, senza poter na­ scondere, nemmeno a se stessi, i veri obiettivi della loro azione. La borghesia dominante era dunque pronta a riprendere il cammino egemonico che Guglielmo II le aveva lasciato in eredità e che solo l'incidente della sconfitta aveva per un certo tempo frenato. La struttura dello Stato era stata resa più fragile dal venir meno delle lealtà dinastiche e dalla difficoltà di comporre il consenso attorno a formule di governo che costringevano alla coabitazione partiti in­ timamente ostili, appoggiati da forze sociali altrettanto contrappo­ ste. Ma il graduale assottigliarsi della distinzione fra settore pub­ blico e settore privato, che la «resistenza passiva», la lotta contro l'inflazione e le esigenze della ricostruzione avevano determinato, creava una base sociale diversa, rispetto alla quale il nazismo avreb­ be trovato più facile mettere radici. Questa svolta era già nell'aria all'inizio del 1 925 , sebbene solo dopo un quinquennio incomin­ ciasse a manifestarsi. Morto il socialdemocratico Ebert, si tennero

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infatti allora le elezioni presidenziali e il vecchio maresciallo Paul Hindenburg, monarchico e candidato dei partiti conservatori, riu­ scì eletto di stretta misura sul candidato della coalizione di centro­ sinistra, Wilhelm Marx, del Zentrum cattolico, contro il quale vo­ tarono i comunisti che, presentando un candidato di bandiera, con­ segnarono la presidenza nelle mani dell'uomo che avrebbe chiamato Hitler al potere. In Austria e in Ungheria gli stessi problemi erano vissuti sotto la pesante condizione della frattura territoriale che la fine dell'Im­ pero asburgico aveva provocato . In Austria si viveva con amarezza la crisi del passaggio dalla guida di un grande impero a quella di un piccolo Stato. I socialdemocratici, guidati da Karl Renner e Otto Bauer, si misero alla testa del movimento per creare una repubbli­ ca democratica, parlamentare e progressista. Ma se la loro base era forte a Vienna, essi non potevano contare sul resto del paese, do­ minato dal Partito cattolico cristiano-sociale. Fu un equilibrio in­ stabile tra una capitale «rossa» e un paese moderato. Lo scontro tra il governo di destra e la municipalità socialdemocratica di Vienna divenne lo spettacolo abituale della vita austriaca. Sul piano inter­ nazionale ciò aveva una conseguenza importante. I socialdemocra­ tici guardavano alla Germania repubblicana e politicamente più avanzata, secondo il giudizio del tempo, senza nascondere l'auspi­ cio dell'Amcbluss come via d'uscita da w1a situazione provvisoria, nella quale le forze di destra avevano un peso sproporzionato. I po­ polari si opponevano a quella possibilità, che avrebbe annullato la loro capacità di governo. Diversamente che dalla Germania, qui il problema della stabilizzazione urtava contro ostacoli politici di fon­ do, che spingevano in direzioni contrapposte e riflettevano la nuo­ va realtà di un paese che non era basato su una struttura economi­ ca autonoma e definita. Società industriale e tradizione contadina non trovavano un compromesso e ciò creava incertezza all'interno e sul piano internazionale, poiché metteva in discussione la vitalità dello Stato repubblicano. In Ungheria non esistevano le condizioni sociali per una frattu­ ra altrettanto profonda. Nel marzo 1919 Béla Kun, il capo comu­ nista amico di Lenin, appena tornato da Mosca, dopo aver costi­ tuito un fronte comune con i socialisti, riuscì a impadronirsi del po­ tere e a imporre un regime di «terrore rivoluzionario», contro il quale nell'estate si mossero forze francesi, italiane, rumene e jugo-

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slave. Nell'agosto le forze controrivoluzionarie interne, grazie a que­ sti aiuti e in particolare all'intervento rumeno, riuscirono ad abbat­ tere il governo comunista avviando una fase di repressione altret­ tanto cruenta del «terrore rivoluzionario». Del resto il tentativo non ebbe che un modesto seguito nel paese, privo di un movimento so­ cialista realmente esteso, povero di una borghesia avanzata e de­ mocratica e ancora dominato dall'eredità sociale del regno asbur­ gico. Nostalgia aristocratica e risentimento per la durezza del trat­ tato del Trianon svolgevano forse un ruolo unificante in uno Stato che era divenuto forzatamente omogeneo, dal punto di vista etni­ co, ma che risentiva della perdita di tutti i territori ceduti alla Ju­ goslavia, alla Cecoslovacchia e, soprattutto alla Romania. In Tran­ silvania la popolazione di brigine ungherese era un motivo perma­ nente di frizione e instabilità. 12.3 . I vincitori: Gran Bretagna, Francia, Italia. Nemmeno il mon­ do dei vincitori visse il primo periodo del dopoguerra in un' atmo­ sfera di pace sociale. Certo, gli uomini che avevano portato i ri­ spettivi paesi alla vittoria godevano di un prestigio che i governan­ ti sconfitti potevano solo invidiare. E l'Inghilterra e la Francia attendevano dai loro ancor più vasti imperi le risorse per la rico­ struzione. Forse solo in Italia esistevano le condizioni per una crisi capace di scuotere le fondamenta del sistema. Perciò in questi pae­ si d'Europa la miscela fra rivoluzione e sconfitta non ebbe peso, e solo l'eco, più o meno remota, della rivoluzione di Russia si fece sentire, ma con accenti nettamente diversi. In Gran Bretagna, subito dopo la guerra, il leader liberale Da­ vid Lloyd George, chiusa l'esperienza del governo di coalizione con i laburisti e i conservatori, indisse nuove elezioni (dicembre 1918), per la prima volta a suffragio universale e con voto alle donne. n primo ministro uscì personalmente come un trionfatore dalla con­ tesa ma il suo partito, il Partito liberale, ne rimase quasi travolto e s'avviò all 'emarginazione dalla scena politica britannica. La vittoria elettorale toccò piuttosto al Partito conservatore, guidato da Stan­ ley Baldwin, che ottenne una maggioranza schiacciante. Anche i la­ buristi ebbero per la prima volta un consistente successo e diven­ nero il secondo partito britannico, conquistandosi così il ruolo di opposizione ufficiale alla Camera dei Comuni. Essi avevano supe­ rato le scissioni manifestatesi nelle loro file durante la guerra e ave-

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vano riorganizzato il partito sotto l'influenza d i u n gruppo di intel­ lettuali riformisti raggruppati nella Fabian Society. Nel 1 920 si die­ dero una nuova struttura, che riuniva organicamente il partito con il National Council o/ Labour, cioè con la confederazione dei sin­ dacati. L'influenza marxista fu sempre circoscritta dalla prevalenza del riformismo di stampo fabiano. Quando nel 1 920 venne costi­ tuito un Partito comunista britannico indipendente, che chiese di aderire al Labour Party, la risposta fu fermamente negativa. Nel 1924 il congresso laburista decretò l'incompatibilità fra l'apparte­ nenza al Partito laburista e quella al Partito comunista. Era una di­ visione chiara e netta che non impediva né ai socialisti inglesi di guardare con simpatia alla rivoluzione sovietica né al governo di promuovere l'allacciamento di relazioni diplomatiche fra la Gran Bretagna e l'URSS. Ciò che restava nettamente distinta era l'indivi­ duazione degli obiettivi politici e dei mezzi per conseguirli. Così l'a­ gitazione sociale che caratterizzò quegli anni anche in Gran Breta­ gna non acquistò mai il carattere eversivo che essa ebbe nei paesi sconfitti o in Italia. La transizione dall'economia di guerra all'economia di pace fu faticosa anche per i Britannici. Inflazione e disoccupazione provo­ carono una catena di scioperi in tutto il paese, senza che, tranne in casi sporadici, fosse necessaria una repressione violenta. I sindaca­ ti anzi accompagnarono gli scioperi con una forte pressione per ne­ goziati costruttivi, capaci di individuare la soluzione dei problemi immediati. Non sempre il governo conservatore-liberale fu all'altezza della situazione. Condizionato dall'andamento dei negoziati di Parigi o dall'impegno nel provvedere alla rielaborazione della politica colo­ niale, il governo di Lloyd George non riuscì � rimuovere le cause economiche e sociali dell'inquietudine. Nel 1919 scioperarono per­ sino le forze di polizia. n rimedio protezionistico adottato nel 192 1 non contribuì a far calare la disoccupazione e screditò Lloyd Geor­ ge, il quale del resto non riuscì nemmeno a far prevalere quei pro­ getti «ricostruzionistici» internazionali dai quali sperava derivasse una ripresa produttiva che avrebbe aiutato la rinascita economica del paese. Questi insuccessi portarono alla caduta del suo governo. Lo sostituì dapprima il conservatore Bonar Law, con Baldwin can­ celliere dello Scacchiere. Vennero indette nuove elezioni con il so­ lo risultato di veder crescere la forza parlamentare dei laburisti. La

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malattia e la morte di Bonar Law portarono alla formazione del pri­ mo governo Baldwin nel maggio 1 923 . Le successive, ulteriori ele­ zioni ebbero un risultato clamoroso, poiché un modesto sposta­ mento di voti, grazie agli effetti del sistema uninominale (lo 0, 1 per cento in meno per i conservatori e l'l per cento in più per i laburi­ sti) fece scendere i conservatori a una maggioranza relativa. I labu­ risti, con l'appoggio liberale, furono in grado di formare, nel gen­ naio 1924, il loro primo governo nella storia inglese, sotto la guida di MacDonald, che aveva acquistato il pieno controllo del suo par­ tito. Fu allora che la Gran Bretagna parve uscire dall'atmosfera cu­ pa degli anni di guerra. Sebbene il governo laburista non fosse che una parentesi, esso mostrò di voler affrontare per la prima volta con . risolutezza una serie di problemi sociali, come la disoccupazione, che sino a quel punto erano apparsi insuperabili. Si ebbe come la sensazione che la Gran Bretagna fosse nuovamente capace di ritor­ nare sulla strada del graduale riformismo socio-economico, secon­ do il processo che aveva caratterizzato la suà vita durante il secolo precedente. Tuttavia nell'ottobre 1924, sotto le pressioni dei con­ servatori, la debole maggioranza di MacDonald si dissolse. Furono indette ancora una volta le elezioni, durante le quali i laburisti pa­ garono il prezzo delle accuse di filosovietismo lanciate dai conser­ vatori contro di loro, sfruttando le ripercussioni di una lettera scrit­ ta da Zinoviev per conto del Comintern al Partito comunista ingle­ se, per invitarlo alla rivoluzione. Pubblicata alla vigilia del voto, la lettera proiettò non solo sui comunisti ma su tutta la sinistra bri­ tannica un'ombra di sospetto antinazionale. I conservatori vinsero le elezioni con una maggioranza schiacciante. Baldwin ritornò al po­ tere, con Austen Chamberlain agli Esteri. Tutto questo ebbe con­ seguenze dirette per la vita internazionale, poiché la disponibili­ tà mostrata da MacDonald verso Herriot nella firma del protocol­ lo di Ginevra fu abbandonata a favore del ritorno a criteri più tra­ dizionali. In Francia il tema dei negoziati di pace era meno facilmente se­ parabile da quelli di natura sociale. I socialisti della SFIO (Section Française de l'Internationale Ouvrière) avevano partecipato al go­ verno di unità nazionale (Union Sacrée) superando un grande tra­ vaglio interno. Alla fine delle ostilità essi uscirono dalla coalizione, che rimase guidata, sino alle elezioni del novembre 1919, da Geor­ ges Clemenceau, il protagonista dell'ultima fase di lotta contro la

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Germania e anche il protagonista della lotta contro il pericolo co­ munista e la minaccia del suo dilagare in Europa, una minaccia che doveva essere parata dalla creazione di un cordon sanitaire che de­ limitasse la diffusione del contagio, ma che doveva essere anche at­ tivamente combattuta con aiuti ai controrivoluzionari russi. Le mo­ tivazioni di politica nazionale ebbero nel 1919 il sopravvento su quelle d'ordine economico-sociale. Nelle elezioni del mese di no­ vembre i socialisti e i radical-socialisti, trionfatori del 1914, subiro­ no w1a netta sconfitta (più in seggi che in voti) a favore del Blocco nazionale, nel quale convergevano le forze nazionaliste tradizionali della borghesia laica francese e del radicalismo moderato. La gran­ de maggioranza di cui queste godevano fece parlare di una Came­ ra bleu-horizon, cioè ispirata dal colore delle divise dei numerosi mi­ litari eletti. Era w1a maggioranza che sia con Clemenceau sia, dal gennaio 1920, con Alexandre Millerand, affrontò i problemi della normalizzazione interna con mano dura. Le agitazioni sociali del gennaio-giugno 1919 furono contenute con energia. Del resto i so­ cialisti non riuscirono a estenderle oltre un certo limite, tanto che, nel luglio 1919, essi decisero di non aderire allo sciopero interna­ zionale di protesta contro l'intervento antirivoluzionario in Russia. n movimento socialista era forte ma reso fragile sia dall'egemonia borghese, sia dalla predominanza dei problemi di politica estera, sia dal contrasto interno che portò, nel dicembre 1920, alla scissione proclamata dal Congresso di Tours, quando venne fondato il Par­ tito comunista francese. In questa situazione politica, la maggio­ ranza parlamentare, benché eterogenea nella sua composizione po­ litica, restava compatta nella sua politica di deflazione e di proie­ zione stÙ piano internazionale delle tensioni interne. Quando l'alsa­ ziano Raimond Poincaré divenne primo minis!ro ( 1 922-24) l'offen­ siva per l'affermazione continentale della Francia ebbe il suo mo­ mento di maggior spinta. Nel gennaio 1923, l'occupazione della Ruhr diede corpo a tale tendenza. In Francia, dunque, la forza nu­ merica e parlamentare delle sinistre era contenuta dalla solidità del bastione laico-moderato centrista, che trovava il suo cemento nella campagna nazionalistica e nella diffidenza verso la Germania. In fondo, anche quando la fase eccezionale dell'immediato dopoguer­ ra venne superata e, nel 1924 , con la vittoria elettorale del Cartel des Gauches, formato dai radicali e dai socialisti, fu costituito il pri­ mo governo Herriot, con Aristide Briand alla guida del ministero

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degli Esteri, l'orientamento internazionale non cambiò, sebbene ten­ desse a manifestarsi in modi meno diretti. Non a caso Briand poté continuare a dirigere la politica estera francese, pur nel susseguirsi delle maggioranze di governo e anche dopo il ritorno al potere, nel 1926, di Poincaré. Era un segno di stabilità di fondo del blocco cen­ trale di potere e di interessi. Del resto anche in Francia, pur con qualche mese di ritardo rispetto alla Gran Bretagna, dal 1925 la ri­ presa economica aveva chiuso gran parte delle ferite di guerra e un periodo di prosperità materiale parve rendere tangibile la norma­ lizzazione. Fra i paesi vincitori, l'Italia era quello che più profondamente mostrava le conseguenze· della guerra. La lunga polemica che ave­ va preceduto l'intervento nel 1915 continuava a lasciare le sue trac­ ce e il modo in cui le rivendicazioni italiane venivano prese in con­ siderazione alla Conferenza di Parigi non faceva che esasperare, sui due fronti opposti, le tensioni esistenti nel paese: esasperava i na­ zionalisti poiché dava loro la sensazione che gli Alleati non voles­ sero mantenere gli impegni assunti con il Patto di Londra, facen­ dosi scudo dell'ostilità di Wilson verso gli accordi segreti; esaspe­ rava gli oppositori del governo, che imputavano ai rappresentanti italiani a Parigi (Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino) l'in­ capacità di fare valere il loro punto di vista e nell'insieme contri­ buivano a porre le basi del mito della «vittoria mutilata». Questa era un'espressione usata dal poeta Gabriele d'Annunzio per sinte­ tizzare la teoria secondo la quale gli Italiani avevano ottenuto una vittoria apparente e una sconfitta sostanziale, pagata con un alto prezzo umano ed economico-sociale e dunque avevano serie moti­ vazioni per schierarsi nel campo revisionistico piuttosto che solida­ rizzare con le potenze «soddisfatte» ( ammesso che ve ne fossero) . Ed esasperava, quella situazione, anche coloro che, specialmente nel campo della sinistra democratica e nel mondo socialista, avevano considerato un errore o addirittura un crimine la partecipazione al­ la guerra: un errore e un crimine la cui inutilità era confermata dai fatti. Da questa insoddisfazione usciva una serie di agitazioni poli­ tiche che rendevano ancora più difficile il ritorno a una normalità che in Italia non vi sarebbe forse più stata. L'impresa di d'Annun­ zio a Fiume non fu che il primo di una serie di episodi legati alla nuova posizione internazionale dell'Italia, un episodio che indicava

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la via dell'illegalità e dell'avventurismo che Mussolini avrebbe poi imitato negli anni successivi. D'altra parte anche la situazione politico-sociale interna non era da convergere verso un rapido recupero. I problemi esistenti in ale t tutti i paesi che avevano partecipato al conflitto erano vissuti, da un'economia debole e da una struttura politica fragile come quella italiana, in modi ancora più tesi. È vero che la struttura economica era stata irrobustita dalla guerra, la quale aveva imposto alti inve­ stimenti all'industria pesante, accelerando un ritmo di crescita e di profitti, secondo la tendenza del decennio precedente. Tuttavia la conversione industriale postbellica, la persistente povertà nelle cam­ pagne, la miseria del Mezzogiorno erano aggravate dopo la fine del­ le ostilità dal problema del reinserimento dei reduci nella vita pro­ duttiva. In questo clima economico erano maturate novità politiche im­ portanti. Nel gennaio 1919 don Luigi Sturzo aveva fondato il Par­ tito popolare, la prima organizzazione di ispirazione cattolica che entrava come soggetto autonomo nella vita italiana, senza lasciarsi condizionare dalle esigenze del trasformismo. ll Partito socialista, fondato nel 1 892 e divenuto già nel periodo prebellico una poten­ te forza di attrazione per le classi lavoratrici, si rafforzava ulterior­ mente sino a presentarsi come la principale organizzazione politica del paese. I partiti della democrazia prebellica stentavano a ade­ guarsi alla trasformazione. Quando, nel novembre 1919, si tennero per la prima volta elezioni a suffragio universale e con rappresen­ tanza proporzionale, i socialisti ebbero quasi il 32 per cento dei vo­ ti, i popolari poco più del 20 per cento. I partiti nuovi nell'insieme ricevevano più consensi di quelli discendenti dalla tradizione poli­ tica postunitaria. Era un mutamento che indicava soprattutto il rafforzamento della sinistra, rispetto alla quale il movimento catto­ lico non riusciva certo a restare indifferente, sebbene i suoi dirigenti propendessero verso un'alleanza con le forze borghesi. · In questo quadro politico-economico, la situazione sociale ri­ bolliva. Gli scioperi si susseguivano; il Partito socialista era formi­ dabilmente attratto dall'esperienza russa e si sentiva vicino alla ri­ voluzione. L'ala riformista divenne minoritaria rispetto ai massimalisti, che furono a loro volta aggirati a sinistra dal gruppo di «Ordine Nuovo» che nel gennaio 1 92 1 diede vita al Partito comunista ita­ liano. Questo però accadeva al culmine di un periodo di scioperi e

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incertezze politiche che avevano lasciato il segno. I governi di Nit­ ti ( 1919) e di Giolitti (191 9-2 1 ) cercarono di mediare le crisi fa­ cendo calare le tensioni degli scioperi secondo un metodo gradua­ le e di contrattazione. Nessw1o dei due riuscì ad avere appoggi suf­ ficienti per attuare programmi coerenti. Lo scontro sui temi di politica estera (e in particolare la questione giuliana) e il coerente laicismo di Giolitti circoscrivevano le forze politiche e il consenso del quale i due statisti potevano godere. n colpo più forte al siste­ ma fu dato però dall'acuirsi improvviso della crisi nazionale verso la metà del 192 1. A tale aggravamento contribuirono in modo ovviamente oppo­ sto due ordini di fatti: l'azione del movimento fascista e la spinta ri­ voluzionaria che nel màrz6-aprile 192 0 portò all'occupazione delle principali fabbriche settentrionali. n movimento fascista era stato fondato da Mussolini nel marzo 1919. Benito Mussolini era già sta­ to socialista massimalista, poi interventista acceso, poi esponente del mondo combattentistico. La sua persona' e il suo movimento rappresentavano e raccoglievano nel 1919 w1a serie contraddittoria di istanze: una violenta opposizione alle classi dirigenti tradiziona­ li, colpevoli di non aver fatto una politica sufficientemente energi­ ca nei confronti degli Alleati (Mussolini appoggiò, pur con qualche riserva, l'impresa dannunziana) , ma al tempo stesso un'altrettanto violenta avversione contro il socialismo, accusato di avere tradito i valori nazionali. Mussolini si dichiarava rivoluzionario, ma pensava in termini di rivoluzione politica, non di rivoluzione sociale. Egli scorgeva la decadenza delle forze politiche prebelliche e la difficoltà di creare nuove alleanze di potere e cercava di trovare in questa cri­ si lo spazio per affermare forze dirigenti nuove, dai programmi non chiari, ma animate tutte dalla volontà di imporre un cambiamento dell'élite politica e da un feroce antisocialismo. n limite del movi­ mento fascista, al di là degli atteggiamenti declamatori e demagogi­ ci del suo capo, era rappresentato dall'incapacità di raccogliere con­ sensi nel mondo medio e piccolo borghese, a causa dei metodi vio­ lenti usati dalle squadre fasciste nelle loro azioni contro i socialisti. Questo rapporto cambiò tra la fine del 1920 e il 192 1 . n 1920 l'anno nel quale si ebbe in Italia il maggior numero di scioperi. fu La grande paura che il movimento sindacale e i partiti di sinistra provocavano negli ambienti imprenditoriali rafforzò il movimento fascista (che a sua volta aveva definito meglio il suo carattere anti�

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socialista) . L'occupazione delle fabbriche, che Giolitti affrontò con metodi che sul piano storico sono largamente apprezzati per la lo­ ro abilità, non fu accolta dagli imprenditori e dal mondo borghese con eguale perspicacia. n rumore così prossimo della rivoluzione rafforzò coloro che premevano per la repressione violenta. n movi­ mento fascista incominciò a crescere. Le sue squadre si sparsero nel­ le città e nelle campagne contro gli operai e contro i braccianti agri­ coli. Divennero il braccio secolare della repressione imprenditoria­ le. Dal punto di vista politico Mussolini venne legittimato poiché i partiti borghesi pensavano che il fascismo fosse solo una malattia breve ma necessaria: una rapida applicazione di violenza repressi­ va avrebbe rimesso la situazione in ordine, in un ordine entro il qua­ le anche i fascisti avrebbero poi dovuto adattarsi. Fu così che in oc­ casione delle elezioni del maggio 1 92 1 candidati fascisti ve1mero in­ clusi nel «blocco nazionale», come esponenti dell'assetto borghese che essi avevano dichiarato di voler distruggere e del quale erano diventati difensori. Nel novembre 192 1 il movimento fascista di­ venne partito. In seno al Parlamento e al paese Mussolini riuscì a manovrare con abilità ed energia, sino a presentarsi come il solo uo­ mo capace di dare all'Italia quella scossa salutare che, purché di bre­ ve durata, la facesse uscire dalla perdurante confusione postbellica e dall'instabilità governativa. I socialisti non riuscirono a contrattac­ care con sufficiente determinazione. Nell'ottobre 1922, sulla scia di un movimento di forze fasciste verso Roma, orchestrato e accompa­ gnato da innumerevoli connivenze governative, Mussolini venne in­ caricato dal re, Vittorio Emanuele III di Savoia, di costituire un go­ verno di coalizione. Per l'Italia incominciava un nuovo periodo sto­ rico, sebbene molti non ne fossero perfettamente consapevoli. Mus­ solini infatti guidava un partito che alla Camera dei deputati aveva solo una trentina di deputati. Dovette costruirsi una maggioranza autonoma e lo fece adottando una legge maggioritaria iniqua e poi conducendo una campagna elettorale all'insegna dell'intimidazione. Dopo i risultati che gli confermarono la scontata vittoria (novem­ bre 1923 ) , il nuovo governo attraversò la sua fase più difficile. Pro­ prio i metodi elettorali fascisti avevano indignato sia gli avversari politici sia gli esponenti di molte forze filofasciste. Quando, nel giu­ gno 1924, venne ucciso il deputato socialista Giacomo Matteotti, che protestava per l'appunto contro l'illegalità del risultato eletto­ rale, Mussolini venne additato come il colpevole o, quanto meno,

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l'ispiratore del delitto. Per un semestre la sua posizione fu in bili­ co. Alla fine del 1 924 egli era riuscito a recuperare i consensi ne­ cessari e la fiducia del re. Nel gennaio 1 925 dava l'avvio a una se­ rie di provvedimenti legislativi che avrebbero trasformato lo Stato liberale italiano in un regime autoritario, e, qualche anno dopo, in una dittatura personale. L'Italia era il primo dei grandi paesi euro­ pei che subiva tale trasformazione. L'ascesa di Mussolini al potere in Italia non mostrò subito la sua portata eversiva per la vita internazionale. Sin dal 1 922 egli cercò di appagare due esigenze: quella di presentarsi all'interno come il vero artefice della grandezza e della potenza italiana; quella di ot­ tenere dalle altre potenze il riconoscimento del ruolo italiano in Eu­ ropa e nel mondo. Nel 1'923 egli dlede un breve saggio della pro­ pria capacità di recare disordine nella vita internazionale, ma pochi vollero prendere sul serio il significato della sua azione. Del resto l'episodio era circoscritto e si poteva anche fingere di non vederlo. Per rispondere all' uccisione del generale Enrico Tellini, che gui­ dava una commissione di esperti incaricata di tracciare sul terreno il confine greco-albanese (agosto 1923 ) , il governo italiano pose a quello greco un ultimatum dalle condizioni inattuabili (non foss' al­ tro perché esso chiedeva la cattura e la condanna dei responsabili entro pochi giorni) e, per rappresaglia rispetto all'inevitabile ina­ dempienza greca, fece occupare, dopo un bombardamento navale che provocò numerose vittime, l'isola di Corfù, lasciando intravve­ dere l'idea che tale occupazione potesse con il tempo diventare de­ finitiva, se le circostanze lo avessero consentito. Mussolini agiva in quel modo poiché, essendo al potere da meno di un anno, aveva bi­ sogno di successi di prestigio (o di clamore) che mostrassero all'I­ talia e al mondo il senso della svolta avvenuta con l'ascesa al pote­ re del futuro dittatore. A sua volta il governo greco, reduce dalla sconfitta subita contro la Turchia, reagì con energia, investendo del­ la questione il Consiglio della Società delle Nazioni, che avrebbe dovuto deliberare sia in merito alle richieste contenute nell'ultima­ tum italiano sia rispetto alle proteste della Grecia. Questa delibe­ razione tuttavia non ebbe luogo poiché il Consiglio preferì espro­ priarsi di ogni competenza, considerando che il compito di discu­ tere il problema spettasse in primo luogo alla Conferenza degli ambasciatori, cioè all'organismo creato dalle potenze per seguire l'attuazione pratica dei trattati di pace, dal quale gerarchicamente

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dipendeva anche il gen. Tellini. Questa rinuncia all'esercizio della propria autorità esprimeva però una situazione diversa da quella prospettata sul piano giuridico. Mussolini aveva ammonito gli altri membri del Consiglio che qualora essi avessero discusso nel meri­ to la protesta greca, l'Italia avrebbe anche potuto ritirarsi dalla So­ cietà delle Nazioni (riducendone ulteriormente il peso specifico), mentre la Francia, che ricambiava in quell'occasione l'appoggio ri­ cevuto dall'Italia durante l'occupazione della Ruhr, indicò la via d'uscita nel compromesso giuridico. Ma era anche un compromes­ so che non diceva nulla di incoraggiante rispetto all'efficacia della Società delle Nazioni nell'adempimento dei compiti che il Covenant le affidava, mentre diceva molto di scoraggiante sulla subordina­ zione degli interessi generali della pace e del diritto internazionale alle esigenze della politica delle potenze. Nonostante il sintomo preoccupante rappresentato dalla crisi di Corfù e la grossolana polemica con la quale, alla fine del 1924, Mus­ solini aiutò Chamberlain ad affossare il progetto di protocollo di Ginevra, elaborato da Herriot e MacDonald, per alcwu anni la po­ litica estera italiana parve dominata dalla volontà di collaborare al­ la restaurazione di un clima di normalità in Europa. In realtà, e a meglio guardare le cose, dietro il pacifismo mussoliniano si celava­ no sin dall'inizio ambiguità e risentimenti non dissimili da quelli av­ vertiti in altri paesi europei, ma che il capo fascista intendeva tra­ durre nei fatti al più presto. La principale di tali ambiguità consi­ steva nell'assoluta spregiudicatezza circa i mezzi mediante i quali pervenire all'obiettivo del rafforzamento mediterraneo, balcanico e imperiale dell'Italia. Mussolini ragionava in termini di pura politi­ ca di potenza e non aveva avvertito, se non per l'aspetto russo, la portata dei cambiamenti in corso. La sua viscerale avversione ver­ so Wilson, maturata durante la crisi del 19]9 sulla questione fiu­ mana, si traduceva sul piano psicologico in una forte difficoltà a considerare gli Stati Uniti altro che una potenza finanziaria, trascu­ rando il loro potenziale politico. Perciò la sua strategia diplomati­ ca si basava sulla contrapposizione latente nella vita europea tra for­ ze tendenti all'ordine e forze tendenti al cambiamento. Egli sce­ glieva la posizione italiana secondo le circostanze e non sulla base di un disegno continuo e articolato. Finché la situazione europea fu dominata dalle potenze vincitrici, la sua libertà di manovra rimase circoscritta. Ma il modo secondo il quale egli oscillò tra una posi-

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zione filo-francese nel 1923-24 e una posizione filo-inglese tra il 1924 e il 192 9 (salvo momentanee incrinature) anticipava la !abilità dei suoi impegni. Poteva forse servire alla diplomazia inglese con­ tare su una potenza che in Europa e nel Mediterraneo si contrap­ ponesse a quella che veniva considerata l'egemonia francese. Tutta­ via, al di là di questa strumentalizzazione, esisteva l'orientamento italiano, cioè la disponibilità a una spregiudicatezza che riassume­ va tutta la fragilità delle illusioni concepite in materia di normaliz­ zazione europea. Del resto, la politica italiana nella penisola balca­ nica e in materia di disarmo navale non faceva che confermare que­ ste tendenze. E dunque, nella meno forte delle potenze vincitrici, la restaurazione veniva condotta con metodi nuovi e con un affio­ rare di ambizioni antiche rria affermate con nuova energia, che get­ tavano nell'insieme una luce sinistra su ciò che sarebbe potuto ac­ cadere, al mutare delle circostanze.

Capitolo secondo

La grande depressione e la prima crisi del sistema di Versailles

l . Comiderazioni generali l . l . Il sistema finanziario internazionale. La depressione economi­ ca, che ebbe il segnale d'inizio nel crollo della Borsa di New York, il 24 ottobre 1929, e che raggiunse in Europa il momento culmi­ nante nel 1 932, per poi lasciare lentamente il posto a una ripresa che ebbe vario andamento nei diversi paesi e che durò sino alla se­ conda guerra mondiale, contraddice a prima vista l'accentuazione posta, nel capitolo precedente, sulla capacità del sistema finanzia­ rio internazionale di governare l'economia mondiale, grazie alla in­ telligente percezione dei problemi di fondo e dei loro collegamen­ ti politici, nutrita dai protagonisti della finanza internazionale. Inol­ tre essa richiede una definizione più precisa del confine fra temi finanziari, produttivi e vita politica internazionale; pone, in altri ter­ mini, il problema di stabilire eventuali rapporti di causa/effetto fra i diversi momenti della vita internazionale. In questo caso partico­ lare, essa richiede una risposta alla domanda, posta ripetutamente in sede storiografica, circa il rapporto tra collasso del sistema eco­ nomico mondiale e l'avvio di quella serie di mutamenti politici che portarono alla seconda guerra mondiale. In realtà, la crisi economica impone in particolare l'esigenza di sfuggire a un'interpretazione troppo schematica e rigida del rap­ porto tra fatti economici e aspetti politici delle relazioni interna­ zionali. La forma del sistema dell'economia di mercato risaliva agli anni della rivoluzione industriale e si era compiuta nel XIX seco­ lo, quando il termine aveva preso a coincidere con quello di eco­ nomia capitalistica. Mai tuttavia era stata possibile una completa

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sovrapposizione fra i due, ponendo l'accento il primo sull'esisten­ za del mercato come elemento regolatore della vita economica, il secondo sull'accumulazione capitalistica come carattere spesso do­ minante la qualità dell'economia di mercato ma risalente ai secoli precedenti. La prima guerra mondiale aveva messo in luce con­ traddizioni e problemi di varia natura, che dovevano essere risolti ripercorrendoli come esperienze da correggere e non come prassi da rovesciare. Se il modo secondo il quale gli autori del sistema di Versailles avevano operato era suscettibile di una diagnosi critica, dal punto di vista politico come da quello economico, le risposte che tale dia­ gnosi avrebbe dovuto formulare non potevano uscire preconfezio­ nate dall'intelletto di unò o ' più teorici del sistema. Ciò poteva es­ ser vero per le sfide anticapitalistiche, che derivavano dalla critica del sistema economico una serie di proposte soggettive per un si­ stema diverso, parzialmente o radicalmente modificato, senza aver bisogno di confrontarsi a priori con altri dati, se non quelli offerti dalla storia dell'economia passata. Chi, dopo il 19 19, doveva ri­ spondere dall'interno del sistema esistente alle sfide dei tempi, cioè ai problemi che di volta in volta emergevano, non poteva avere a propria disposizione un pacchetto di rimedi già pronti poiché i pro­ blemi erano nuovi e l'adattamento era un tentativo di soluzione, non un teorema di economia politica. In altri termini, il sistema della finanza mondiale veniva gover­ nato da personalità come i grandi banchieri privati, i responsabili delle maggiori banche di Stato, i ministri per gli affari finanziari del­ le grandi potenze, le quali per la prima volta si trovavano a dover reagire a una sfida globale senza possedere una terapia collaudata. TI piano Dawes era stato l'innesco di un processo di risanamento a breve termine. All'inizio del 1929, anno della sua scadenza, nessu­ no poteva prevedere se il rimedio temporaneo avesse trovato una soluzione anche per le situazioni strutturali e risolto i problemi nuo­ vi che la guerra aveva lasciato in eredità e che non si limitavano af­ fatto alla sola questione dei debiti e delle riparazioni. Ciò che più colpisce in questa situazione è, a dispetto delle interpretazioni uni­ voche, l'incapacità di far coincidere i momenti delle scelte econo­ mico-finanziarie con quelle politiche, l'abilità dei politici nell'esco­ gitare occasioni di crisi, l'incapacità degli operatori�economici di :