Storia della politica internazionale 1870-2001 [Nuova ed. ampliata] 8846456971, 9788846456977 [PDF]

Forse mai come in questi ultimi tempi, quando tutto sembra ormai svolgersi, sulla scena europea e mondiale, davanti agli

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Italian Pages 560 p. ; 22 cm. [562] Year 2004

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Table of contents :
Indice......Page 7
Avvertenza......Page 13
Parte prima: Da Sedan a Sarajevo (1870-1914)......Page 15
1. La guerra franco-prussiana......Page 17
2. La crisi nel Vicino Oriente ( 1875- 1878)......Page 21
3. Il congresso di Berlino (giugno-luglio 1878)......Page 27
4. La politica estera dell'Italia dall'Unità al 1882......Page 33
5. La Triplice Alleanza (20 maggio 1882)......Page 41
6. Il sistema di Bismarck......Page 43
7. L'espansione coloniale negli anni Ottanta: l'Egitto......Page 45
8. La crisi bulgara e le sue conseguenze......Page 48
9. La politica estera italiana dal 1882 al 1887......Page 52
1. Il licenziamento di Bismarck: l'alleanza franco-russa......Page 56
2. Isolamento dell'Inghilterra e rivalità coloniali......Page 59
3. Rivalità nel Mediterraneo, in Medio Oriente e in Egitto......Page 65
4. La spartizione dell'Africa......Page 70
5. La spartizione dell'Africa (seconda parte)......Page 75
6. Le rivalità nel Pacifico e il problema della Cina......Page 79
7. La politica estera di Francesco Crispi (1887-1896)......Page 85
1. La diplomazia nel decennio post-bismarckiano (1890-1900)......Page 92
2. Alla ricerca di nuove amicizie......Page 95
3. Le crisi marocchine. Da Tangeri ad Agadir. L'Entente Cordiale......Page 99
4. La crisi bosniaca riaccende i Balcani......Page 103
5. La politica estera italiana da Adua a Tripoli......Page 106
6. La vigilia della guerra......Page 114
7. La politica estera italiana dalla guerra di Libia alla guerra europea......Page 119
Parte seconda - Dalla guerra alla pace (1914-1921)......Page 125
1. Le operazioni militari......Page 127
2. Diplomazia e scopi di guerra......Page 129
3. Verso la vittoria......Page 134
4. La vigilia della pace......Page 137
1. I trattati di pace......Page 141
2. La Società delle Nazioni......Page 143
Parte terza - Tra le due guerre (1919-1939)......Page 147
1. I problemi del dopoguerra......Page 149
2. Il dopoguerra in Italia. Un triennio difficile......Page 153
3. Il fallimento di Wilson......Page 157
4. Le conferenze di Cannes, di Genova e il trattato di Rapallo......Page 160
5. La conferenza di Washington......Page 162
6. Il caso della Ruhr e il Piano Dawes......Page 165
1. Il «Protocollo di Ginevra»......Page 168
2. Locarno e il riavvicinamento franco-tedesco......Page 170
3. Il patto Briand-Kellogg......Page 173
4. L'evacuazione della Renania e il Piano Young......Page 175
5. La politica estera italiana dal 1922 al 1929......Page 177
6. Il Giappone dal 1921 al 1929......Page 181
1. La fine di un'epoca. La crisi economica mondiale......Page 184
2. La crisi mancese......Page 187
3. Tensioni in Europa alla vigilia dell'avvento di Hitler al potere. Il fallimento dei piani di disarmo......Page 190
4. La politica estera dell'Urss dal 1925 al 1933......Page 193
5. La politica estera degli Stati Uniti: l'era del nazionalismo (1921-1933)......Page 197
1. L'avvento di Hitler al potere. La fine delle illusioni......Page 203
2. La politica estera italiana dal 1929 al 1935......Page 208
3. Gli anni di Roosevelt. I fase: la neutralità 1933-1937......Page 214
4. Riflessi internazionali della guerra civile spagnola......Page 217
5. Tensioni in Estremo Oriente......Page 221
6. L'Urss tra pace e guerra: 1933-1939......Page 224
7. La politica estera italiana dal 1936 alla vigilia della seconda guerra mondiale......Page 228
8. Vienna, Monaco, Praga......Page 233
9. L'era di Roosevelt. II fase: l'abbandono della neutralità (1937-1940)......Page 237
Parte quarta - La seconda guerra mondiale (1939-1945)......Page 241
1. La crisi di Danzica e l'inizio della guerra......Page 243
2. Dalla disfatta polacca alla campagna di Francia......Page 245
3. Dalla battaglia d'Inghilterra all'invasione dell'Urss......Page 252
4. L'intensificazione dei rapporti anglo-americani......Page 256
1. La diplomazia della seconda guerra mondiale......Page 260
2. La ripresa della Francia e il crollo italiano......Page 264
3. Verso la conclusione della guerra. Le grandi conferenze internazionali......Page 268
4. Yalta, Potsdam e la fine della guerra......Page 273
Parte quinta - L'era del confronto est-ovest (1945-1973)......Page 279
1. La nascita delle Nazioni Unite......Page 281
2. L'assetto territoriale dell'Europa alla fine della guerra......Page 284
3. Preliminari di guerra fredda: Iran, Turchia, Grecia......Page 286
4. La «perdita» della Cina......Page 290
5. La formazione dei due blocchi......Page 291
6. Il problema tedesco dopo Potsdam......Page 297
7. La guerra fredda alla prova: la crisi di Berlino......Page 299
8. Il rilancio della politica estera italiana (1947-1949)......Page 302
9. Il Patto Atlantico......Page 304
10. Federalismo europeo: il Consiglio d'Europa, il Piano Schuman e il Piano Pleven......Page 307
11. Il blocco sovietico si rafforza. La vittoria dei comunisti in Cina......Page 310
12. La nascita dello stato d'Israele e le sue conseguenze......Page 312
13. La guerra di Corea......Page 314
14. L'Europa e la guerra di Corea......Page 318
15. Il processo di decolonizzazione......Page 320
16. La politica estera dell'Italia negli anni della guerra fredda......Page 324
1. I repubblicani alla Casa Bianca. Il new look diplomatico......Page 329
2. La morte di Stalin. Il new look diplomatico sovietico......Page 334
3. L'Europa occidentale tra i due blocchi......Page 338
4. Il conflitto indocinese come problema di politica internazionale......Page 342
5. La questione algerina......Page 344
6. Il Medio Oriente e la crisi di Suez......Page 346
7. L'Estremo Oriente e il sud-est asiatico......Page 349
8. Il XX congresso del Pcus e le sue conseguenze......Page 351
9. Il Mercato comune europeo......Page 354
1. Kruscev: i limiti di una politica estera......Page 358
2. Il conflitto cino-sovietico......Page 362
3. I «mille» giorni di Kennedy......Page 366
4. L'imbroglio vietnamita......Page 371
5. La seconda crisi cubana......Page 373
6. La crisi del blocco occidentale......Page 377
7. La crisi del blocco orientale......Page 383
8. Johnson alla Casa Bianca......Page 388
9. La politica estera italiana negli anni della distensione......Page 392
1. Pace in Vietnam......Page 397
2. L'anno dell'Europa......Page 402
3. Medio Oriente: dalla guerra al dialogo......Page 405
4. Una svolta nella distensione......Page 408
Parte sesta - Verso un nuovo equilibrio mondiale (1974-1992)......Page 411
1. Da Ford a Carter......Page 413
2. Un'incerta politica planetaria......Page 416
3. Carter e l'Europa......Page 419
4. Dalla crisi iraniana all'invasione sovietica dell'Afghanistan......Page 421
5. Reagan presidente......Page 423
6. Medio Oriente: la crisi libanese......Page 425
7. La politica estera sovietica nell'era Breznev......Page 426
1. Nuovi orientamenti nella politica estera sovietica......Page 431
2. Israele e il problema dei territori occupati......Page 432
3. La pace in pericolo: la Guerra del Golfo......Page 434
4. La dissoluzione dell'Unione Sovietica......Page 437
5. L'Europa e il trattato di Maastricht......Page 440
Parte settima - Problemi e crisi dei tempi recenti (1992-2001)......Page 443
1. Il conflitto nella ex Jugoslavia......Page 445
2. La crisi del Kosovo......Page 449
1. Gli attori......Page 453
2. Il quadro politico: 1992-2001......Page 458
1. Cina: nascita di una superpotenza......Page 467
2. Giappone: un colosso in declino......Page 473
3. L'altra Asia......Page 478
1. Sudafrica: verso la fine dell'apartheid......Page 482
2. L'Algeria e il fondamentalismo islamico......Page 484
3. Tra guerre e rivoluzioni......Page 487
1. Oltre Maastricht......Page 492
2. L'altra Europa......Page 496
3. Un caso particolare: l'Italia......Page 497
1. Gli Stati Uniti negli anni di Clinton......Page 504
2. Il difficile esordio di George Walker Bush......Page 508
3. La nuova Russia......Page 511
4. La Russia di Putin......Page 514
7. Alcune considerazioni finali......Page 516
Suggerimenti bibliografici......Page 523
Indice dei nomi......Page 547
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Storia della politica internazionale 1870-2001 [Nuova ed. ampliata]
 8846456971, 9788846456977 [PDF]

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Forse mai come in questi ultimi tempi, quando tutto sembra ormai svolgersi, sulla scena europea e mondia­ le, davanti agli occhi di tutti, le relazioni internaziona­ li sono state al centro dell'attenzione generale, non solo degli esperti e degli "addetti ai lavori". Ciò ha reso molto forte e diffuso il desiderio di cono­ scere a fondo una realtà tanto complessa come quella dei rapporti tra gli Stati, risalendo alle loro radici per meglio capirne l'incessante evoluzione. Questo libro

è stato scritto pensando soprattutto agli

studenti di Storia delle relazioni internazionali per i quali vuole essere una guida allo studio della storia con­ temporanea. Spero tuttavia che esso possa rivelarsi uti­ le anche a quanti, per diverse ragioni, portano interesse all'andamento delle relazioni internazionali che, in un mondo tanto strettamente integrato come l'attuale, hanno assunto un'importanza senza precedenti.

Giancarlo Giordano insegna Storia delle relazioni in­ ternazionali presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Roma "La Sapienza".

ISBN 88-464-5697-1

€ 38,00 [U)

9

� .

Scienza politica e relazioni internazionali

Giancarlo Giordano

STORIA DELLA

POLITICA INTERNAZIONALE 1870-2001 nuova edizione ampliata

FrancoAngeli

'

collana di Scienza Politica e Relazioni Internazionali, diretta da Umberto Gori

Il progresso delle scienze sociali è strettamente legato alla ricerca interdisciplina­ re. Tale indirizzo non ostacola però l'applicazione di un approccio e di un meto­ do rigorosamente unitari. L'approccio è quello dei sistemi, il metodo è quello della scienza politica più avanzata. L'uno e l'altro mirano a conoscere il reale nella sua complessità, a partire da dati e variabili fattuali, con l'ausilio, anche, di discipline diverse, teorie empiriche e quindi previsioni aventi valore probabi­ listico. C'è una fortissima domanda, oggi, di strumenti aggiornati atti ad interpretare fenomeni complessi e talora privi di precedenti ed a consentirne la previsione, data l'accelerazione dei tempi storici. · A questa domanda la l con favore ad una forte riduzione delle prime, come d'altronde auspicato dal piano Young. Gli europei accettarono i suggerimenti americani e alla conferenza di Losanna del giugno 1 9 3 2 ri­ nunciarono praticamente alle riparazioni tedesche. Si sperava che a ciò facesse seguito la fine dei debiti di guerra. Ma non fu così. Alla fine però la pressione delle opinioni pubbliche europee fu tale che la maggior parte dei paesi di fatto sospese il pagamento dei debiti a partire dalla rata del 1 5 dicembre 1 932. Gli americani, già incamminati verso l'isolazionismo a causa della crisi, intravidero in ciò una ragione di più per volgere le spalle all'Europa. Così, mentre il nazismo trionfava in Germania e il militarismo giap­ ponese sferrava i primi attacchi contro l'ordine mondiale, gli Stati Uniti si rinchiudevano in se stessi. L'isolazionismo degli americani era rivolto soprattutto verso l'Euro­ pa, mentre valeva assai di meno per l'Estremo Oriente. Ciò spiega perch é la politica di Hoover e di Stimson, suo segretario di Stato, fu così attiva in

quell'area. La crisi estremorientale scoppiò il 19 settembre del '3 1 quando le truppe giapponesi iniziarono l'occupazione della Manduria meridionale . 1 98

Durante la dittatura del filo-nipponico Chang Tso-lin la Manduria aveva gravitato nella sfera d'influenza giapponese. Ma alla sua morte, nel giu gno '28, in seguito ad un attentato, il figlio e successore, Chang Hsiie­

liang, si unì al governo di Chiang Kai-shek che stava tentando la riunifica­ zio ne della Cina. Ma bisognava fare i conti con i giapponesi, che in virtù d el trattato di Portsmouth occupavano Port-Arthur e la ferrovia sud­

mancese, nella cui area esercitavano un vasto potere amministrativo e di p olizia. I nazionalisti cinesi premevano per l'abolizione di tali trattati, bol­ lati come « ineguali» , ultimo residuo dell'imperialismo, mentre i giappo­ nesi miravano a conquistare tutta la Manduria. La prima reazione del governo americano alle notizie che proveniva­ no dalla Cina, fu improntata ad una certa cautela, non volendo fare passi

che potessero essere interpretati a Tokio come diretti contro il Giappone.

Il 24 settembre gli Stati Uniti si associarono al passo compiuto dalla So­

cietà delle Nazioni che invitava le due parti a sospendere le operazioni mi­ litari e a ritirare le loro truppe. Violando le assicurazioni- date, nel succes­

sivo mese di ottobre le truppe nipponiche avanzarono verso il nord della

Manduria che nel gennaio del 1 9 3 2 cadeva interamente nelle loro mani.

Senza dubbio il Giappone aveva mentito e Stimson ritenne che ciò non dovesse passare sotto silenzio. Cominciò così a pensare ad un in!��­ vento, se non militare almeno sotto forma di pressione diplomatica. Hoo­ ver, influenzato dall'opinione pubblica che nella stragrande maggioranza restava pacifista, sicuro anche che l'Inghilterra non si sarebbe mossa, ri­ fiutò di avallare il piano Stimson. D'altra parte, il vento isolazionista che soffiava sul Congresso consigliava scelte più modeste . . La soluzione elaborata dal presidente e dal suo segretario di Stato fu la famosa « dottrina Stimson» , che prevedeva la condanna morale ed il non-riconoscimento della conquista. Così, il 7 gennaio 1 9 3 2 , in una nota inviata alla Cina ed al Giappone, il governo americano faceva sapere che non avrebbe riconosciuto nessuno stato di fatto che contrastasse con i diritti americani in Cina o che fosse in violazione del patto Briand-Kellogg. L'Inghilterra, anche più pacifista de gli Usa, adottò una risoluzione ancora più blanda. Tanta indecisione e moderazione venne sfruttata dai nipponici i quali, pre ndendo a pretesto un presunto boicottaggio di prodotti giapponesi da parte dei cinesi, sul finire del gennaio 1 9 3 2 occuparono Shangai e i suoi sobborghi. La reazione di Stimson fu durissima; arrivò a prefigurare una azio ne navale congiunta anglo-americana. Ma ancora una volta Hoover a gì da freno e nemmeno il bombardame to di Shangai del 29 gennaio gli

?

fe ce cambiare atteggiamento.

1 99

Anche questa volta i giapponesi seppero approfittare .del momento favorevole e dopo avere evacuato Shangai nel maggio del ' 3 2, il 24 agosto riconobbero

de jure Io stato fantoccio del Manciukuò ( creato nel prece­

dente mese di marzo ) e a settembre lo occuparono.

La politica di Stimson falliva così, purtroppo, su tutta la linea. Gli in­

glesi fecero sapere che non erano disposti a fare la guerra su uno scacchie­ re così lontano. La Società delle Nazioni, sulla cui iniziativa pure aveva molto contato, nel febbraio 1 9 3 3 emetteva il suo verdetto finale limitan­ dosi a proclamare la sovranità della Cina sulla Manduria e a dichiarare il Manciukuò inesistente; ma non condannava il Giappone come stato ag­ gressore. Hoover, infine, affermò pubblicamente che gli Stati Uniti non sarebbero ricorsi alla forza, quando sarebbe stato m�glio tacere sull'argo­ mento ; non solo, ma il 22 giugno 1 9 3 2 propose alla conferenza sul disar­ mo, in corso a Ginevra, un taglio netto di un terzo di tutti gli armamenti esistenti, proprio mentre Stimson andava predicando il rafforzamento della marina, in vista di un possibile intervento. Stimson usciva di scena sull'onda di questi fallimenti; Hoover lo avrebbe presto seguito. Una politica estera timida e prudente, basata su una posizione morale, va bene solo se si vuole blandire l'opinione pubbli­ ca. Ma se si intende raggiungere un qualche risultato concreto, essa non va più bene. Al massimo si irrita inutilmente il paese che si vorrebbe fermare e che offeso e al tempo stesso sicuro di farla franca, raddoppia la propria tracotanza. Questa politica molle può solo condurre a dover fare delle scelte molto più dure e penose. L'era che stava per schiudersi, nel 1 9 3 3 , avrebbe ampiamente dimo­ strato proprio questa amara verità.

200

4.

L 'era di Hitler (1 933-1 939)

1. L'avvento di Hitler al potere. La fine delle illnsioni Mentre gli Stati Uniti si allontanavano dalla scena internazionale,

Adolf Hitler si apprestava a lanciare la Germania alla conquista del mon­ do e vi si accingeva preparandosi a demolire progressivamente e sistema­ ti camente l'odiato trattato di Versailles. Nel campo delle potenze della ex Intesa (Inghilterra, Italia e Francia),

la vittori a nazista suscitò contrastanti reazioni; preoccupate a Londra e Parigi, favorevoli a Roma dove Mussolini scorse in Hitler un alleato da sfruttare per fren�e l'estendersi dell'influenza francese nell'Europa Orientale e per controbilanciare il blocco degli stati controllati da Parigi in seno alla Società delle Nazioni. Tuttavia, agli inizi, anche Mussolini ebbe qualche motivo di allarme;

le mire tedesche sull'Austria erano arcinote e venivano continuamente sbandierate dalla propaganda nazista. Benché lusingato per la vittoria del fascismo tedesco, il Duce ancora non poteva rinunciare al suo patrocinio sull'Austria. Il problema piuttosto era un altro; come imbrigliare le mire r evisio ni sti ch e ed espansionistiche tedesche senza insospettire la diplo­ mazia berlinese. Nel marzo 1 9 3 3 , Mussolini credette di aver trovato la so ­ luzione nel patto a quattro. Questo prevedeva un direttorio delle quattro maggiori potenze europee, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia, avente lo scopo di realizzare un'effettiva politica di collaborazione inter­ nazionale per la conservazione della pace nello spirito del patto Briand­ Kellogg; in concreto, esercitare una azione comune di pressione sugli stati terzi per il raggiungimento di tale scopo. Inoltre, questo patto conteneva l'impegno ad attuare la parità dei dirittj con la Germania in materia di di­ sarmo e quello di avviare, sia pure corA tutte le cautele necessarie, il pro­ cesso di revisione dei trattati di pace. 201

Il tentativo mussoliniano di instaurare in Europa un ordine interna­ zionale più rispondente alla realtà politica di quegli anni falli . A tale falli­ mento doveva far seguito, ed era facilmente prevedibile, un insieme di reazioni deStinate non solo a far naufragare definitivamente la tenue spe­ ranza di una revisione pacifica dei trattati, ma soprattutto a dare il via alle scorribande naziste in Europa. La prima avvisaglia di ciò si ebbe in Austria dove l'attività e la viol�n­ za dei nazisti si intensificò. Il 7 agosto ' 3 3 Inghilterra, Francia e Italia, mol­ to allarmate, fecero un passo congiunto presso il governo di B erlino, met­ tendolo in guardia dallo spingersi troppo oltre e Mussolini garantì al can­ celliere Dollfuss l'appoggio militare italiano in cambio di una politica più decisamente conservatrice. Le mire naziste sull'Austria, insieme con il diffondersi delle notizie sul riarmo clandestino della Germania, dovevano avere importanti ripercus­ sioni sul destino della conferenza del disarmo. Il 1 6 marzo 1 9 3 3 , MacDo­ nald aveva proposto un piano che fissava a 200 .000 uomini gli effettivi dei principali paesi continentali. Una commissione internazionale di esperti avrebbe vigilato sulla sua applicazione. Al termine di un periodo transitorio di cinque anni la Germania avrebbe cominciato a beneficiare dell'effettiva uguaglianza. A maggio Hitler accettò in linea di principio questo progetto. Ma voci ricorrenti sul riarmo occulto tedesco, indussero Francia e Gran Bretagna, quest'ultima fortemente preoccupata per lo stato di debolezza delle proprie forze ar­ mate, ad accordarsi affinché il controllo degli armamenti precedesse il di­ sarmo. Inoltre, stabilirono di elevare ad otto anni il periodo transitorio e che solo nei secondi quattro anni sarebbe stata concessa alla Germania la parità dei diritti. Nell'ottobre ' 3 3 queste modifiche al piano MacDonald approdarono a Ginevra. Ma il 1 4 di quel medesimo mese Hitler annunciava il ritiro del­ la Germania dalla conferenza e il 1 9 dalla stessa Società delle Nazioni . Londra e Parigi valutarono in maniera alquanto diversa il doppio passo tedesco. Il governo inglese, volendo salvare il salvabile, si spinse fino a di-­ chiararsi disposto a legittimare il riarmo della Germania se Berlino avesse offerto garanzie per la sicurezza internazionale. Quello francese scelse invece la strada del contenimento della Ger­ mania, che nel maggio del 1 934 si sostanziò nella proposta di un patto per la sicurezza dei paesi orientali, sul tipo di quello di Locarno, che avrebbe avuto l'appoggio di un trattato di assistenza franco-sovietico. All'attivismo politico francese corrispondeva il dinamismo diploma­ tico della Wilhelmstrasse che il 26 gennaio 1 934 metteva a segno un colpo 202

molto importante: la firma di un patto di non aggressione con la Polonia, d ella durata di 10 anni. Tuttavia, nel corso di quell'anno la posizione in­ ternazionale della Germania subiva un peggioramento, non tanto a causa d el riavvicinamento franco-sovietico, quanto per il fallimento della politi­ ca di Hitler verso l'Austria. A partire dall'estate del 1 9 3 3 la pressione tedesca sulla piccola vicina era andata costantemente aumentando, con la conseguenza di spingere il cancelliere Dollfuss sempre di più nelle braccia di Mussolini, come si vide nel marzo 1934 quando furono firmati i Protocolli di Roma, in base ai quali l'Italia, l'Austria e l'Ungheria si facevano reciproche importanti concessioni economiche ma soprattutto stabilivano consultazioni con­ giunte. Roma si creava ·così una posizione molto solida nell'Europa cen­ trale, la cui stabilità poggiava ora su un precario equilibrio tra i soci revi­ sionisti dell'Italia e gli alleati francesi della Piccola Intesa. Una rottura tra Roma e Parigi avrebbe sicuramente posto questi paesi, senza eccezioni, alla mercé della Germania. L' A nschluss era, però, uno degli scopi principali della politica di Hi­ tler alla quale egli non intendeva rinunciare, neppure per un riguardo ver­ so Mussolini. Nell'incontro di Venezia del 1 5 e 16 giugno 1934, Hitler credette di essersi assicurato il consenso di Mussolini ai suoi piani. Equi­ vocò, probabilmente. Il Duce si vantava di parlar bene il tedesco, ma così non era. Lo capiva poco e si esprimeva anche peggio. Poiché non si servi­ rono dell'interprete ufficiale, i due uomini finirono coll'intendersi poco o niente. Comunque sia, Hitler decise di correre il rischio. Il 25 luglio i nazisti austriaci, con la complicità tedesca, passarono all'azione. Dollfuss venne assassinato. Mussolini si infuriò e inviò 4 divisioni al Brennero. Si profilò

la possibilità di una cooperazione diretta itala-francese contro la Germa­ nia. Per avviarla in concreto, non rimaneva che rimuovere l'unico grosso ostacolo che vi si frapponeva; cioè la paura che la Jugoslavia aveva dell'I­ talia. A questo scopo, Barthou e re Alessandro di Jugoslavia decisero di incontrarsi. Il monarca j ugoslavo si recò in Francia, ma non fece in tempo ad avviare nessuna discussione; il 9 ottobre 1 9 34, appena sbarcato a Mar­ siglia, venne assassinato assiem� al ministro degli Esteri francese da un ustascia, quasi sicuramente armato e finanziato dai fascisti. Il successore di Barthou fu Pierre Lavai, un deputato di centro-sini­ str a, che aveva già ricoperto diversi incarichi ministeriali. Pur dichiarando

?

i voler continuare sulla via tracciata d�l suo predecessore, egli in realtà m1presse una decisa sterzata alla politica'e stera della terza repubblica con un marcato riavvicinamento all'Italia fascista. Anche nei confronti della

203

Germania assunse un atteggiamento conciliatorio, com� si vide in occa­ sione della soluzione della questione della Saar, che il plebiscito del 1 3 gennaio 1 9 3 5 restituì alla Germania. Il riavvicinamento all'Italia era il compito più importante che si era as­ segnato Lavai. A questo scopo, il 7 gennaio 1 9 3 5 egli si recò a Roma dove ebbe lunghe conversazioni con Musso lini, colloqui che si conclusero con una serie di accordi, completati da contatti tra i rispettivi stati maggiori. Questi accordi furono seguiti, nel successivo mese di aprile, dalla confe­ renza e dal «fronte» di Stresa tra Inghilterra, Italia e Francia, costituito apposta per proteggere l'indipendenza dell'Austria e per opporsi al riar­ mo tedesco, annunciato pubblicamente da Hitler il 16 marzo del '35 . Completavano lo schieramento anti-tedesco : il trattato di mutua assisten­ za franco-sovietico, firmato a Parigi il 2 maggio 1 9 3 5 e il patto ceco-sovie­ tico di analogo contenuto, sottoscritto il 16 dello stesso mese a Praga. La firma del trattato franco-sovietico segnò il culmine della politica francese di resistenza alla Germania. Ma la firma dell'accordo navale an­ glo-tedesco del 1 8 giugno 1 9 3 5 minò le fondamenta di quella politica, co­ sì come la guerra d'Abissinia distrusse e vanificò il «fronte» di Stresa. Il patto navale anglo-tedesco, fortemente voluto da MacDonald e sir John Simon, entrambi molto preoccupati che una politica troppo marcatamen­ te anti-tedesca, quale era quella avviata dalla Francia con Stresa e con il trattato coi sovietici, potesse alla lunga rivelarsi pericolosa per la stabilità internazionale, prevedeva al 3 5 % la proporzione tra le due marine da guerra. Quando la conclusione di questa intesa divenne di dominio pub­ blico, Roma e Parigi reagirono con asprezza; nel cedimento inglese alle lusinghe di Hitler vi scorsero, giustamente, un condono gratuito della de­ nuncia unilaterale tedesca del trattato di Versailles. L' evoluzione in senso favorevole all'Italia della guerra d'Etiopia in­ coraggiò Hitler a proseguire nei suoi piani di smantellamento del trattato di Versailles, sicuro della sostanziale passività delle due grandi potenze occidentali. 11 7 marzo 1936, prendendo a pretesto la ratifica da parte del­ l' Assemblea Nazionale francese del patto franco-sovietico, Hitler denun­ ciava il trattato di Locarno, ritenuto ormai superato dai fatti, dando con­ temporaneamente il via alle operazioni di rioccupazione della Renania con l'invio di piccole guarnigioni nelle città della regione. Accompagnava questa mossa con la promessa di rientrare nella Società delle Nazioni e di concludere un patto di non aggressione con tutti i vicini della Germania. L'iniziativa tedesca provocò in Francia un brusco risveglio, infranse molte illusioni, la più grande delle quali, quella cioè che il reticolo di alle­ anze strette con i piccoli stati dell'Europa dell' Est potesse costituire un baluardo contro la Germania, un freno al suo dinamismo.

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Dei suoi alleati orientali, infatti, solo la Cecoslovacchia e la Romania promisero il loro appoggio in caso di necessità. La Jugoslavia si defilò. I polacchi fecero sapere che avrebbero onorato la loro alleanza; poiché questa diveniva operante solo nel caso che i tedeschi avessero oltrepassa­ to la frontiera francese, tale dichiarazione aveva un valore appena forma­ le . An che l'Unione Sovietica fu piuttosto tiepida. Il governo belga, dal canto suo, aveva annunciato, proprio il giorno prima dell'ingresso delle truppe tedesche in Renania, la rottura dell' alleanza con la Francia. Il col­ p o di grazia alle residue speranze di un'azione della Società delle Nazioni contro la Germania, venne dato dal fallimento delle sanzioni contro l'Ita­ lia. Anche i firmatari del patto di Locarno assunsero un atteggiamento ri­ nunciatario. La piena riuscita dei colpi di forza italiano e tedesco ebbe una conse­ guenza molto grave: i membri minori della Lega delle Nazioni abbando­ narono iri massa i sistemi collettivi di sicurezza cui avevano aderito fino ad allora. La Romania cominciò ad orientarsi verso la Germania e l'Italia. La Jugoslavia decise che era venuto il momento di cancellare la vecchia rug­ gine con l'Italia e l'Ungheria. La Grecia si chiuse in un isolamento regio­ nale, mentre la Turchia in tutti i modi cercò di migliorare la sua posizione riuscendo ad ottenere, alla conferenza di Montreaux del luglio 1936, la li­ bertà di fortificare i Dardanelli. Il Belgio, per finire, dopo la denuncia del­ l' alleanza con la Francia, avviò una politica estera esclusivamente belga, volta cioè a tener fuori il paese dai possibili conflitti dei suoi vicini. Nell'a­ prile !}el 1 9 3 7 Londra e Parigi sciolsero Bruxelles dagli impegni di Locar­ no, pur continuando tuttavia a garantire l'integrità del Belgio ; il l 3 otto­ bre a!}che la Germania fece lo stesso. A preoccuparsi di più degli eventi del 1 9 3 5-36 furono, però, l'Austria e la Cecoslovacchia. La prima, infatti, si vide abbandonata dall'Italia Ìa quale, impegnata .in Abissinia, non era più in grado di sostenerla. Vienna dovette allora volgere altrove gli sguardi supplichevoli e dopo avere fallito un approccio con Praga e Belgrado a causa della loro intransigenza nel pretendere una dichiarazione solenne e formale di rinuncia ad una even­ tuale restaurazione asburgica, di fronte al quasi disinteresse delle due grandi democrazie occidentali, non rimaneva che la Germania. Schuschnigg, il successore di Dollfuss, dovette perciò fare la pace con Hitler. L' l l luglio ' 3 6 venne firmato, con la benedizione di Mussolini, un acco rdo austro-tedesco. La Germania riconosceva l'indipendenza del­ l ' Austria e si impegnava a non intervenire n�uoi affari interni; il cancel­

liere austriaco, dal canto suo, accoglieva nel suo governo alcuni esponenti della destra non nazista e, cosa assai più importante, si impegnava a con­ durre una politica estera parallela a quella tedesca.

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Quanto alla Cecoslovacchia, la sua posizione si era fatta estremamen­ te difficile. Ora era del tutto isolata nell'Europa centrale; la sua unica pro­ tezione risiedeva nella disponibilità della Francia ad onorare, in caso di guerra, il trattato di alleanza che risaliva al 1 9 24. Ma visto come andavano le cose, considerata l'assoluta incapacità militare e psicologica dei princi­ pali garanti europei a difendere dalle revisioni unilaterali l'assetto conti­ nentale stabilito negli anni Venti, c'era ben poco da stare allegri.

2. La politica estera italiana dal 1929 al 1935 Dopo la firma del trattato di Locamo la politica estera fascista parve caratterizzarsi per due aspetti tra loro antitetici: come elemento di stabi­ lità e come fattore di destabilizzazio ne. Nel primo caso operò per la con­ servazione del sistema di Versailles, garantito sul piano generale e forma­ le dalla Società delle Nazioni; nel secondo, dato che il fascismo si era pro­ posto fin daU1inizio come il megafono della «vittoria mutilata» , il sosteni­ tore del dominio adriatico, il nemico della Jugoslavia, il portavoce delle aspirazioni imperialistiche mortificate dalla pace, imboccò la strada del revisionismo, appoggiando tutti quegli stati dell'area danubiano-balcani­ ca che avevano motivi di risentimento verso l'assetto del 1 9 1 9 . I l primo aspetto prevalse nel periodo 1 9 29-32, quando fu ministro degli Esteri l'abile e filo-societario Dino Grandi, la cui azione si indirizzò principalmente a consolidare i buoni rapporti con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Questa politica debuttò alla conferenza navale di Londra del genna­ io-aprile 1930. Convocata allo scopo di varare una proporzione, relativa­ mente al naviglio leggero, tra le maggiori potenze navali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Francia e Italia), Grandi riuscì a vanificare il tentativo francese di vedersi riconosciuta una superiorità sull'Italia e nel contempo fare apparire, agli occhi degli anglo-americani, la richiesta del­ la Francia come la causa principale del parziale fallimento della conferen­ za stessa che si chiuse, infatti, con la firma di un accordo che vincolava solo

le prime tre, mentre la questione del rapporto di forze tra Francia e Italia fu rinviato a successive discussioni, ma di fatto mai risolta per l' ostinazio­ ne del governo di Parigi. L'accorta politica di Grandi ricevette un premio nel luglio 1 9 3 1 al­ lorché, in vista dell'apertura della conferenza generale per il disarmo, pre­ vista per il febbraio 1 932, il segretario di Stato americano, Henry L. Stim­ son, cominciò da Roma il suo giro nelle capitali europee. Nel colloquio 206

c on l'esponente americano, Grandi avanzò la proposta di una moratoria generale degli armamenti, simile alla moratoria per riparazioni e debiti in­ teralleati proposta poco tempo prima da Hoover. A Washington piacque l'idea di Grandi; e quando questi si recò, nel novembre del 193 1 , negli Stati Uniti, trovò un clima favorevole al rafforzamento della collaborazio­ ne italo-americana nella prospettiva di una politica più attiva degli Stati Uniti in Europa, che appunto nella conferenza sul disarmo avrebbe dovu­ to trovare il terreno più propizio per svilupparsi. Il progetto di Grandi consisteva nel collegare la sicurezza della Fran­ alla richiesta tedesca della parità con le altre potenze attraverso una ri­ cia duzione generale e bilanciata degli armamenti_,_ In sostanza, questo pro­ gramma puntava ad una revisione concordata di alcune clausole dei trat­ tati di pace, quelle, in particolare, che decretavano l'inferiorità militare e l'obbligo delle riparazioni per i tedeschi, per ricreare in Europa una situa­ zione di sostanziale equilibrio tra le maggiori potenze. Le speranze di Grandi di veder nascere questo rinnovato quadro internazionale, in cui l'Italia sarebbe stata chiamata a svolgere un ruolo determinante, erano destinate a durare poco. Il primo colpo avverso l'inferse l'aggravarsi e l'e­ stend_ersi della grande crisi economica del 1 929, che costrinse Hoover e Stimson ad affrancarsi in larga misura dagli affari mondiali e il successore di Hoover, Franklin Roosevelt, sebbene non un isolazionista, a disimpe­ gnare gli Stati Uniti dalle questioni politiche ed economiche dell'Europa e ciò proprio quando in Germania saliva al potere Hitler, il campione della revanche tedesca. Ma la politica estera di Grandi incontrava serie difficoltà anche all'in­ temo. Era troppo filo-societaria, moderata e cauta per piacere ad un Mussolini sempre allettato e sedotto dai successi rapidi e rumorosi, anche se solo apparenti. Alla prima occasione favorevole avrebbe buttato giù il suo scomodo ministro per riappropriarsi della direzione degli affari esteri. Questa gli venne offerta, nel luglio 1932, dalla conferenza di Losan­ na, dedicata alle questioni delle riparazioni e dei debiti alleati. Gli esiti dell'assise, che stabilivano la cancellazione delle riparazioni in cambio di un pagamento forfettario da parte della Germania e l'annullamento tota­ le dei debiti alleati da parte degli Usa, furono approvati dal governo italia­ no. La posizione di Grandi uscì, però, indebolita dalla conferenza perché nel corso dei lavori si era creato un fronte franco-anglo-tedesco che aveva parzialmente emarginato l'Italia. Ciò non piacque al Duce, che ne appro­ fittò per licenziare il suo ministro, che mandò ambasciatore a Londra, e reinsediarsi a Palazzo Chigi. Riassumendo il Ministero degli esteri Mussolini intendeva imprimer� 207

all'azione internazionale dell'Italia un dinamismo ed una spregiudicatez­ za nuovi, liberarla dal torpore in cui, a suo dire, era precipitata durante la gestione del precedente inquilino. L'avvento di Hitler al potere offrì al Duce l'opportunità di misurarsi con le nuove possibilità di manovra che si prospettavano per la politica estera fascista, di verificare fino a che punto una guida della diplomazia più ardita e priva di scrupoli di quella esercitata da Grandi corrispondesse veramente alle esigenze dei tempi nuovi. La vittoria nazista in Germania poteva procurare all'Italia una libertà d'azione fino ad allora impensabile; occorreva però gestirla con molta accortezza, perché rischi non ne man­ cavano. Il progetto revisionista tedesco poteva allargare i margini di manovra della diplomazia italiana, ma poteva creare anche dei seri imbarazzi se es­ so fosse stato portato avanti con troppa fretta e troppo energicamente. Il problema, dunque, non era solo quello di sfruttare al massimo i vantaggi della presa di potere di Hitler; semmai doveva essere quello di ridurre al minimo gli svantaggi. Perché ce n'erano ed in una prospettiva di medio e lungo periodo questi avrebbero prevalso sui primi. Mussolini lo capì. Comprese che bisognava in qualche modo frenare la spinta revisionistica tedesca, incanalare il dinamismo nazista entro confini controllabili, evita­ re di lasciare troppa libertà di manovra a Hitler. Per tutti questi motivi, fin dal marzo 1 9 3 3 egli avanzò la proposta di un patto a quattro tra Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna, un direttorio delle quattro maggiori potenze europee che avrebbe dovuto addossarsi il difficile compito di procedere ad una revisione concordata e pacifica dei trattati di pace e nel contempo assicurare alla Germania, in modo graduale e bilanciato, la pa­ rità dei diritti, nel caso assai probabile del fallimento della conferenza sul disarmo. Questo patto Mussolini, come venne anche chiamato, poteva diveni­ re uno strumento importante per assicurare la pace all'Europa, ma esso non divenne mai operante, non solo perché la Francia e la Germania non lo ratificarono, ma perché fu ben presto superato dagli avvenimenti. Il più importante dei quali, la conferenza ginevrina sul disarmo, stava ormai av­ viandosi al suo inevitabile destino di fallimento. Dopo un inizio incerto e vari rinvii, uno dei quali per consentire lo svolgimento della conferenza economica internazionale di Londra di giugno del 1 9 3 3 , la ripresa dei la­ vori era stata fissata al 1 6 ottobre. A settembre, i delegati anglo-franco­ americani si erano accordati su un piano che prevedeva per la Germania il raggiungimento graduale della parità con le altre potenze. Mussolini ac­ cettò il progetto e si impegnò a farlo accettare dai tedeschi. Ma Hitler non

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n e volle sapere e il 1 4 ottobre, a due giorni dall'inizio della conferenza, an­ n unciò la decisione della Germania di non parteciparvi e di uscire dalla Società delle Nazioni. Queste due decisioni clamorose sorpresero sgradevolmente e impen­ sierirono Mussolini, perché stavano a dimostrare che Hitler intendeva p rocedere per la sua strada, non lasciandosi condizionare da nessuno, nem meno dal suo « idolo» italiano. E poiché, nel frattempo, stava sempre p iù peggiorando la questione austriaca, i motivi di preoccupazione erano destinati ad aumentare.

Per fronteggiare le pressioni naziste, che spesso erano accompagnate da atti terroristici, Dollfuss, il cancelliere cristiano-sociale in carica dal 1 9 3 2 , si era rivolto a Londra e a Parigi in cerca di aiuto, ma senza ottenere

molto. Aveva anche tentato di ammansire Hitler, ma questa era decisa­ mente un'impresa impossibile. Solo Mussolini si dichiarò disposto ad ap­ p oggiare l'Austria, ma a patto che Dollfuss fosse disposto a fascistizzare il paese e ad accettare l'Italia come unica protettrice. Non avendo altre al­ ternative, il cancelliere accettò. Il primo passo della satellizzazione dell'Austria all'Italia fascista fu la firma, il 1 7 marzo 1 9 34, di tre accordi politici ed economici, sottoscritti anche dall'Ungheria, noti come protocolli di Roma; dopo di che Mussoli­ ni garantì solennemente l'integrità e l'indipendenza dell'Austria. Ciò irritò Hitler, ma lo convinse anche della necessità di avere un ab­ boccamento chiarificatore con Mussolini. Nei giorni 14 e 1 5 giugno ' 34, i due si incontrarono a Venezia. Hitler disse che non intendeva assoluta­ mente rinunciare all'A nschluss; la sua realizzazione era solo rinviata. 1 Dollfuss doveva lasciare il potere ad una personalità gradita a Berlino ; dovevano essere indette libere elezioni e i nazisti locali partecipare al go­ verno in proporzione ai risultati ottenuti. Infine, tutti i problemi riguar­ danti il futuro dell'Austria dovevano essere discussi direttamente tra Ita­ lia e Germania. Hitler tornò a Berlino molto soddisfatto dell'esito dei colloqui vene­ ziani, convinto di avere strappato il ben� placito di Mussolini alle sue mire sull'Austria. Infatti, circa un mese dopo questo incontro, i nazisti austriaci te ntarono un colpo di mano per impadronirsi del potere. Il 25 luglio 1934, un manipolo armato penetrò nella cancelleria ed as­ sa ssinò Dollfuss. Le cose, però, non andarono come dovevano ; le forze governative, infatti, reagirono recuperando facilmente il controllo della situazione e in pochi giorni la crisi veniva superata. Schuschnigg, un catto­ li co come il suo sfortunato predecessore, fu chiamato alla cancelleria. Dopo il fallito putch vi ennese, il cliìna tra Roma e Berlino tornò a farsi

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pesante. Musso lini aveva mandato alcune divisioni al Brennero e a Tarvi­ sio con l'ordine di intervenire in Austria, se la crisi fosse precipitata. Hitler dovette rinunciare momentaneamente a realizzare l' A nschluss e rinviar­ ne l'esecuzione ad un momento più favorevole. La vicenda austriaca faci­ litò un riavvicinamento tra la Francia e l'Italia. Ai primi di settembre, in­ fatti, venne annunciato che in ottobre il ministro degli Esteri, Barthou, si sarebbe incontrato con Mussolini. Ma il progetto non si poté realizzare, perché il 9 ottobre 1 9 3 4 egli venne assassinato a Marsiglia assieme al re Alessandro di Jugoslavia. Questo delitto finì per tornare utile alla politica mussoliniana, perché il nuovo capo della diplomazia francese, Laval, sembrava più disponibile del suo predecessore verso l'Italia. Infatti, non esitò a mollare Belgrado, quando si avvide che le relazioni itala-jugoslave avevano preso una brutta piega, a causa delle accuse rivolte dai serbi ai fa­ scisti italiani di avere armato la mano degli assassini. In tali circostanze Laval ritenne opportuno abbandonare il progetto di Barthou di condizio­ nare la firma di un accordo italo-francese alla conclusione di una intesa itala-jugoslava, sgombrando, così, il campo dalle difficoltà che l'Italia avrebbe sicuramente sollevato. Dal 4 al 7 gennaio ' 3 5 , Laval e Mussolini ebbero una serie di colloqui a Roma, al termine dei quali vennero sottoscritti alcuni documenti molto importanti: una dichiarazione generale, un processo verbale, un proto­ collo sul disarmo, un trattato che fissava i confini della Libia e dell'Eritrea verso possedimenti francesi, un protocollo speciale sul problema tunisi­ no, un allegato al trattato sulla libera navigazione nello stretto di Bab el Mandeb, uno scambio di lettere riguardanti gli interessi fr�ncesi in Etio­ pia e la ferrovia Gibuti-Addis Abeba. I due interlocutori, inoltre, dichia­ ravano che in caso di minaccia all'indipendenza e all'integrità dell' Au­ stria, si sarebbero consultati tra loro e col governo austriaco sulle misure da prendere per impedire l' Anschluss.

È dubbio invece se nella conversazione privata avuta con il duce a pa­

lazzo Farnese, la sera del 6 gennaio, Lavai abbia concesso a Mussolini ma­ no libera sull'Etiopia, contemplando anche una conquista militare. La questione è ancora controversa, ma è probabile che Laval, che a differen­ za di Barthou aveva simpatie per il fascismo italiano, abbia concesso mol­ to a Mussolini per assicurarsi l'appoggio dell'Italia contro la riscossa ger­ manica. Partito Lavai, il governo italiano informò quello inglese degli esiti del­ l'incontro, proponendo l'apertura di negoziati sull'Etiopia. In febbraio , gli italiani ventilarono per la prima volta la possibilità di una azione milita­

re in Etiopia. Gli inglesi cercarono di dissuaderli e riguardo ai negoziati 210

cercarono di guadagnare tempo. Mussolini si convinse che Londra, benché non favorevole, non si sarebbe opposta in modo fermo alla sua impresa. Ci pensò Hitler a costringere indirettamente Mussolini a rinviare l'av­ ventura abissina annunciando, il 1 6 marzo ' 3 5 , la decisione di ristabilire il servizio militare obbligatorio, in palese violazione del trattato di Versail­ les. A Parigi, Roma e Londra la mossa tedesca suscitò forti apprensioni. Non avendo avuto esito un passo collettivo di protesta a Berlino, venne deciso di tenere a Stresa, tra 1' 1 1 e il 14 aprile 1 9 3 5 , una conferenza per con cordare una comune linea d'azione contro la decisione tedesca. l paesi protestavano contro la denuncia unilaterale dei trattati, riconfermavano la validità del patto di Locarno, dichiaravano di voler mantenere l'indi­ pendenza e l'integrità dell'Austria. Subito dopo l'annuncio del 16 marzo Hitler, volendo abbassare la tensione che si era creata in Europa, fece sapere al governo britannico di essere disposto a trattare un accordo navale. L'idea non dispiacque agli inglesi, tanto è vero che a Stresa fecero in modo di moderare la ventata an­ titedesca, soprattutto di marca francese. Comunque a Stresa, dove non si parlò di Etiopia, almeno a livello di ministri degli Esteri, si formò un fron­ te comune contro la Germania. Questa solidarietà venne prima incrinata dall'Inghilterra e poi rotta dall'Italia.

11 7 giugno 1 9 3 5 i conservatori tornarono al governo con Stan­

ley Baldwin primo ministro e Samuel Hoare ministro degli Esteri. Essi de­ cisero di firmare l'accordo navale con la Germania, annullando le clauso­

p

le navali del trattato di Versaill s. Malgrado le giustificazioni addotte, la decisione inglese assestava un colpo molto grave al «fronte» di Stresa e al sistema della sicurezza collettiva, sollevando le giuste proteste della Fran­ cia e dell'Italia. Il nuov.o governo inglese decise anche di affrontare il nodo etiopico con l'Italia �ulla base di questo piano : cessione di Zeila, nella Somalia bri­ tannica, all�Etiopia che a sua volta avrebbe dovuto retrocedere una parte dell'Ogaden all'Italia. Mussolini però lo rifiutò. Neppure la Società delle Nazioni, che convocò una commissione d'inchiesta per indagare sugli in­ cidenti di Ual Ual, che erano all'origine delle pretese italiane, valse a sco­ raggiare Mussolini dall'intraprendere l'avventura abissina. Infatti, alle cinque del mattino del 3 ottobre 1 9 3 5 , senza una formale dichiarazione di guerra, le truppe italiane di stanza in Eritrea entravano in territorio etiopi­ co, dando inizio alle ostilità. 11 7 e 1' 1 1 ottobre il Consiglio della Società delle Nazioni dichiarava l'Italia stato aggressore e deliberava le sanzioni economiche, che com211

prendevano le armi, ma non il petrolio, e altri materiali strategici. Ciò -irri­ tò Mussolini, ma non gli impedì di portare avanti le operazioni. Malgrado le sanzioni, le diplomazie di Francia e Inghilterra si misero in moto per studiare una soluzione concordata del conflitto. Nasceva il piano Laval-Hoare, messo a punto dai due ministri a Parigi il 7 dicembre e· comunicato lo stesso giorno a Mussolini. Esso prevedeva la cessione all'I­ talia del Tigré orientale, di parte della Dancalia e di parte dell'Ogaden; l'assegnazione di un'ampia zona d'espansione economica e di popola.: mento in ciò che rimaneva dell'impero etiopico che a titolo di compenso avrebbe ricevuto dall'Italia Assab e una piccola striscia di territorio eri­ treo. Mussolini non respinse l'iniziativa franco-inglese, llnche se sperava di migliorarla a sua favore. Aspramente contrario il governo di Addis Abe­ ba, che la bollò come un premio concesso all'aggressore. Il piano comun­ que falfi perché vi si schierarono contro le opinioni pubbliche francese e inglese. La conseguenza fu che prima Hoare e poi Lavai dovettero lascia­ re i loro incarichi. In seguito a ciò Francia e Inghilterra irriggidirono le loro posizioni, ma l'evoluzione della situazione europea, con Hitler che deci­ deva di rimilitarizzare la Renania, fece passare in secondo piano la-que­ stione etiopica. Mussolini ne approfittò per completare l'occupazione dell'Etiopia, che il 9 maggio '36 venne annessa all'Italia. In luglio vennero abolite le sanzioni. Il colpo di forza mussoliniano era perfettamente riu­ scito.

3.

Gli anni di Roosevelt. I fase: la ne �ralità 1933-37

Il primo provvedimento di F. Roosevelt in politica estera fuil ricono­ scimento de jure dell'Unione Sovietica. Gli Stati Uniti erano la sola gran­ de potenza che ancora non intrattenevano normali relazioni diplomatiche con l'Urss. Diverse le ragioni che fino ad allora avevano impedito a Wa­ shington di normalizzare i suoi rapporti con Mosca. Innanzitutto, la pro­ paganda comunista negli Stati Uniti che molto allarmava l'opinione pub­ blica; poi, la questione dei debiti zaristi che il nuovo regime non aveva ri­ conosciuto; ancora, la confisca delle proprietà americane in Russia; la violazione dei diritti umani e la persecuzione religiosa. Però, vi erano an­ che molti mot�vi che militavano a favore del riconoscimento, primo fra tutti la comune avversità verso la politica aggressiva del Giappone. N el 193 1 Tokio aveva ripreso la sua politica espansionistica in Estremo Oriente, occupato la Manduria che aveva organizzato nello stato mario212

n etta del Manciukuò. Gli Usa erano preoccupati per l'attivismo nipponi­ co , ma temevano che ogni loro intervento nel Pacifico potesse essere in­ te rpretato come una minaccia di guerra al Giappone. Il riconoscimento dell' Urss avrebbe potuto consentire un coordinamento tra le politiche delle due potenze, entrambe interessate a frenare il militarismo nipponi­ co.

A Londra, nel corso dei lavori della conferenza economica interna­ zionale del giugno 1 9 3 3 , il segretario di Stato, Cordell Hull, incontrò il suo collega sovietico, Maxim Litvinov. Fu un lungo e cordiale scambio di idee. Hull si convinse del1a convenienza del riconoscimento. Tornato in patria, ne discusse con il suo assistente speciale, W.C. Bullitt, già collabo­ ratore di Wilson, anch'egli favorevole alla normalizzazione delle relazioni con i sovietici. Egli aveva elaborato un piano secondo cui il nconoscimen­ to doveva avvenire sulla base delle seguenti tre condizioni: fine della pro­ paganda comunista negli Usa; protezione dei diritti civili e religiosi degli americani in territorio sovietico, non retroattività del riconoscimento, per evitare inutili e pericolose speculazioni. Roosevelt fece suoi i suggerimenti di Hull e di Bullitt. D'altronde, la pensava come loro. 11 10 ottobre 1 9 3 3 scrisse una lettera al presidente so­ vietico Kalinin per «porre fine a quelle che attualmente sono delle rela­ zioni anomale tra i 1 25 milioni di persone che abitano gli Stati Uniti e i 160 milioni di abitanti dell'Unione Sovietica. È veramente riprovevole che questi grandi popoli tra cui è esistita per più di un secolo una tradizione di amicizia, debbano adesso essere senza neppure un mezzo per comunicare tra loro » . Nella stessa lettera invitava il governo sovietico a mandare un suo rappresentante a Washington. La scelta gtdde su Litvinov che già 1'8 novembre venne ricevuto al Dipartimento di stato e successivamente dal presidente. I temi affrontati da Roosevelt e dall'inviato di Mosca riguar­ darono le proprietà americane confiscate dalla rivoluzione, il rifiuto so­ vietico di pagare i debiti zaristi, il rapporto tra l'Urss e la Terza Internazio­ nale, la condizione degli americani residenti in Unione Sovietica. Non tutte le difficoltà vennero superate, tuttavia le reazioni dei circoli econo­ mici e politici furono largamente positive. 11 1 6 dello stesso mese poté, pertanto, essere ratificato il riconoscimento e William Bullitt andare am­ basciatore a Mosca. Questa iniziativa non significava, tuttavia, una modifica dell'atteggia:­ mento isolazionista di Roosevelt. Malgrado, infatti, i cupi segnali che pro­ venivano dall'Europa: avvento di Hitler al potere, 1 9 3 3 ; assassinio di Dollfu ss, 1 934; riarmo della Germania, 1 9 3 5 ; aggressione all'Etiopia, 1 9 35 ; rimilitarizzazione della Renania, 1 9 3 6 ; guerra civile spagnola, 213

1936; la direttiva di politica internazionale predominante rimaneva anco­ rata alla dichiarazione, più volte enunciata, secondo cui «l'America re­ sterà al di fuori di ogni legame e libera» , che era anche la conseguenza del risentimento americano nei confronti degli europei, colpevoli di essersi ri� fiutati di pagare i debiti della grande guerra. L'esito più grave di questo acceso isolazionismo furono le leggi sulla neutralità votate nel 1935, 1936 e 1 937. La prima, approvata per l'ad­ densarsi delle nubi di guerra tra Italia ed Etiopia, stabiliva che, in caso di conflitto, il presidente doveva proclamare subito l'embargo sulle armi e le munizioni destinate a tutti i belligeranti. Una volta iniziate le ostilità, il 3 ottobre 1935, l'amministrazione Roosevelt precisò immediatamente l'atteggiamento degli Usa verso l'Ita­ lia: proibito fornirle armi; divieto all'Export-Import Bank di concederle prestiti; vietato aprirle crediti. Tuttavia, rimaneva la possibilità per l'Italia di acquistare sui mercati americani ingenti quantitativi di quelle merci che ìe sanzioni le vietavano di acquistare nei paesi membri della Lega ginevri­ na. Per ovviare in parte a ciò, il segretario di Stato, Cordell Hull escogitò l'embargo morale, cioè l'invito ai produttori americani a sospendere le vendite di tutte quelle materie essenziali per la guerra, quali petrolio, ra­ me, acciaio, ferro, ecc., sebbene non ricomprese nella categoria delle «ar­ mi e munizioni» . Era una violazione della stretta neutralità e Mussolini protestò. Ma Hull tenne duro e non ritirò il suo «embargo morale» , che anzi voleva tra­ sformare in una legge contro le esportazioni anormali. Non se ne fece nul­ la, ma le pressioni di Cordell Hull portarono alla seconda legge di neutra­ lità, promulgata il 29 febbraio 1936 e valida pet-quindici mesi, la quale, pur ricalcando i principi della precedente, tuttavia conteneva un'impor­ tante innovazione; l'embargo non si applicava più soltanto in caso di guerra, ma scattava « Qualora il Presidente ritenga che esista uno stato di guerra» . Ciò consentiva una maggiore libertà di manovra all'amministra­ zione, alla cui discrezione veniva lasciata la decisione di stabilire se tra due paesi vi fosse o meno uno stato di guerra e quindi la possibilità di fornire armi ad uno dei belligeranti. Nel luglio del 1936 scoppiava la guerra civile spagnola. Essendo ap­ punto una guerra «civile» , la legge di neutralità non scattò. Hull fece ri­ corso ad un nuovo « embargo morale» , che come il precedente portò al varo di una nuova legge di neutralità (gennaio 1937), speciale per la guer­ ra in corso in Spagna, la quale stabiliva l'embargo su tutti gli invii di armi e munizioni all'uno e all'altro dei contendenti. 11 1 o maggio 1937, Roosevelt firmava la terza ed ultima legge di neu214

tralità. Riguardo all'embargo non vi erano sostanziali innovazioni; vi si aggiungevano, però, due chiusole assai qualificanti: la prima proibiva ai cittadini americani di viaggiare su piroscafi dei belligeranti; la seconda in­ tro duceva la formula del caih and carry, che obbligava i contendenti che acquistavano merci negli Stati Uniti a pagare in contanti e a trasportare tali merci su navi non americane. Fu il punto più alto raggiunto dal neutralismo americano. Oltre il pre­ sidente Roosevelt non era disposto ad andare se voleva conservare un benché minimo margine di iniziativa politica. Così, egli si oppose alla pro­ posta di estendere sùbito l'embargo sulle armi all'Italia e alla Germania in quanto sempre più coinvolte nella guerra civile spagnola dalla parte del generale Franco, per non compromettere inevitabilmente i suoi sforzi in favore della pace. Nel febbraio 1 937 si schierò decisamente contro una proposta di emendamento costituzionale in materia di dichiarazione di guerra. La ri­ soluzione voleva che, salvo il deprecabile caso di un'invasione territoriale, la dichiarazione di guerra, oltre il voto favorevole del Congresso, fosse in più approvata da un referendum popolare. L'emendamento venne bocciato con soli venti voti di differenza, ma qualcosa stava cambiando nell'atteggiamento del capo della Casa Bianca e il discorso del 4 ottobre '37, noto come «Discorso della Quarantena» , n e fu i l più eloquente segnale. Roosevelt stava per abbandonare l'isola­ zionismo. 4. Riflessi internazionali della guerra civile spagnola

Alle origini dell'insurrezione armata dei generali spagnoli del 17 lu­ glio 1936 contro il governo del fronte popolare vi furono cause puramen­ te nazionali. Infatti, sebbene l'Italia avesse sostenuto la dittatura di Primo de Rivera e di Berenguer ( 1 923- 193 1), e nel 1 934 avesse inviato armi e munizioni agli estremisti della destra spagnola, non si può tuttavia dimo­ strare un suo coinvolgimento nella preparazione della rivolta. Ma una volta iniziate le ostilità, lo svolgimento e la soluzione del conflitto risenti­ rono della situazione internazionale degli anni Trenta, profondamente cambiata in peggio rispetto al decennio precedente. Nel 193J aveva fatto la sua comparsa il militarismo nipponico, rimet­ tendo in discussione gli equilibri politici in Asia e nel Pacifico. Nel 1933, la presa di potere di Hitler aveva avviato il processo di smantellamento dell'assetto di Versailles. Nel 1935, l'Italia di Mussolini aggrediva l'Etio21 5

pia. In tutti questi casi la Società delle Nazioni si dimostrò debole e impo­ tente. La Spagna era divenuta una repubblica nel 1 93 1 in seguito alla vitto­ ria elettorale dei partiti democratici, che aveva costretto re Alfonso XIII ad abdicare e a lasciare il paese. Nel febbraio 1936 il Fronte popolare, re­ pubblicani, radicali, comunisti e socialisti, vinse le elezioni e Azafia diven­ ne capo del governo. Il 1 7 luglio, alcuni reparti dell'esercito coloniale di stanza in Marocco si ribellarono al governo repubblicano, immediata­ mente sostenuti con massicci aiuti dagli italiani e dai tedesclìi. Il governo Azafia, verso il quale si dirigeva la simpatia delle potenze democratiche e dell'Urss, si rivolse alla vicina Francia per un sostegno mi­ litare. Léon Blum, alla guida di un governo di Fronte popolare dal giugno di quell'anno, avrebbe voluto intervenire, ma resistenze interne-e inviti-al­ la prudenza provenienti da Londra lo fecero desistere. La politica di non­ intervento adottata conseguentemente dal governo francese, ebbe l'ap­ poggio convinto dell'Inghilterra, che temeva un ripetersi di una crisi come quella che nel 1 870 aveva portato alla guerra franco-prussiana. Anche a Parigi si nutrivano timori, più reali. Il ministro degli Esteri, Yvon Delbos , che guardava con simpatia ai repubblicani spagnoli, paventava l'instaura­ zione nella vicina penisola di una dittatura di destra, che avrebbe rinserra­ to la Francia in un cerchio di regimi fascisti. Perciò, avanzò la proposta, . tendente ad evitare complicazioni ed a porre fine immediatamente alla guerra, di un accordo tra le potenze europee per il non intervento in Spa­ gna. L'idea venne fatta propria, il 9 settembre a Londra, da 26 stati, cui fe­ ce seguito la costituzione della «Commissione internazionale di non-in­ tervento» . Ma fu un fallimento, perché fu subito evidente che l'accordo non veniva rispettato. Italia e Germania continuarono ad armare i nazio­ nalisti e ben presto cominciarono ad arrivare armi e consiglieri militari so­ vietici ai governativi. La guerra civile spagnola apriva, così, una crisi internazionale in cui gli attori principali si prefiggevano obiettivi che andavano ben al di là del­ l' esito dello scontro fratricida. Il calcolo dei tedeschi era piuttosto semplice; speravano che il conflit­ to spagnolo si trasformasse in una guerra nel Mediterraneo tra Francia e Italia, perché ciò avrebbe permesso loro di chiudere definitivamente, e senza rischiose interferenze, la partita con l'Austria e con la Cecoslovac­ chia. Anche i motivi dell'intervento sovietico erano abbastanza chiari. La guerra di Spagna aveva favorito il sorgere e consolidarsi di un fronte anti­ fascista nell'Europa democratica, ciò che consentiva loro di svolgere una 216

efficace propaganda tendente a provocare uno scontro diretto tra Francia e Gran Bretagna contro la Germania, in modo da dirottare ad ovest lo sfo rzo militare tedesco. Ciò era specialmente necessario nel momento in cui iniziavano le grandi purghe, che dovevano portare alla eliminazione di quasi tutti i maggiori esponenti delle forze armate, che avrebbe grave­ mente pregiudicato l'immagine d�a potenza militare sovietica all'estero . .Alla base della politica seguita dai governi di Inghilterra e Francia nel­ la Commissione di non-intervento, vi era la speranza di indurre Germania e Italia a lasciare la Spagna, passo preliminare e necessario per negoziare successivamente un accordo europeo. Tale speranza si doveva, però, ri­ velare illusoria, perché l'aiuto fascista al generale ribelle Francisco Franco diveniw ogni giorno più massiccio. Ciò aveva l'effetto di provocare ten­ sioni e �atture all'interno dei governi di Londra e di Parigi. Eden, per esempio, e con lui diversi esponenti francesi, cominciarono ad assumere un atteggiamento sempre più decisamente anti-italiano; altri elementi, in particolare Neville Chamberlain, primo ministro dal maggio '37, spera­ vano di riuscire ad intavolare nuove trattative, magari anche sulla testa della Spagna. Il movente ideologico aveva spinto Mussolini ad intervenire nella pe­ nisola iberica e a lasciarsi sempre più coinvolgere nella lotta. Ma il prezzo che dovette pagare fu enorme, sia in termini materiali che politici. Gli alie­ nò la Francia e l'Inghilterra e lo gettò, bon gré mal gré, nelle braccia di Hi­ tler e proprio quando la Germania stava ormai per soppiantare l'Italia nella posizione economica e politica fino a quel momento goduta nella re­ gione danubiana. Fino alla primavera del 1936, i rapporti italo-tedeschi, quando non furono tesi, non andarono mai comunque oltre una formale correttezza. Co11 la guerra abissina, però, le cose cambiarono. L'isolamento in cui s'era cacciata l'Italia costrinse Mussolini a volgersi verso la Germania, ad ac­ cettare la corte di Hitler e a pagarne i relativi costi. Il primo dei quali fu l'accordo austro-tedesco dell' 1 1 luglio '36 che in pratica, tacitamente consenziente Mussolini, consegnava l'Austria alla Germania. Infatti, se­ condo tale accordo: la Germania riconosceva la piena sovranità dell'Austria; la Germania � l'Austria si impegnavano reciprocamente a non interfe­ rire nei rispettivi affari interni; la politica austriaca nei confronti di Berlino avrebbe tenuto conto del fatto che l'Austria era uno «Stato tedesco» . Il secondo e più alto prezzo pagato, quello sicuramente più pregno di gravi conseguenze, fu la formazione dell'«Asse Roma-Berlino» . Musso21 7

lini era ossessionato dall'incubo di un accordo anglo-tedesco che avrebbe isolato l'Italia. Tale paura fu all'origine del viaggio a Berlino nell'ottobre del 1936 di Galeazzo Ciano, genero del Duce e ministro degli Esteri. I protocolli firmati il 23 ottobre, rappresentavano in gran parte il risultato dei tentativi esperiti dall'Italia di vincolare la Germania su questioni quali i rapporti con la Società delle Nazioni e averla al suo fianco nelle trattative per un eventuale patto di sicurezza dell'Europa occidentale. Ma lo scopo principale del viaggio era stato quello di gettare un macigno tra la Germa­ nia e l'Inghilterra - a questo scopo Ciano aveva portato a Berlino, per consegnare personalmente al fiihrer, un dossier preparato da Eden, il cui titolo, «il pericolo tedesco» , suscitò le ire dei tedeschi - e gettare le basi di una più stretta collaborazione itala-tedesca. Nasceva così quello che Mussolini definì, in un discorso pronunciato a piazza del Duomo a Milano il 1 o novembre 1936, l' «asse attorno al quale possono collaborare tutti gli Stati europei animati di volontà di collaborazione e di pace» . Nel medesimo discorso, Mussolini accennò alla Gran Bretagna per sottolineare i contrasti che dividevano Roma da Londra a proposito del Mediterraneo, per i quali non vi era che una soluzione: «L'intesa schietta, rapida, completa, in base del riconoscimento dei reciproci interessi» . Era un invito ed una minaccia per Londra. I l Foreign Office le prese entrambi per buoni, così Eden decise di avviare un'offensiva diplomatica per ristabilire buone relazioni con Roma. Mussolini, scongiurato ormai il pericolo di rimanere isolato con la costituzione dell'asse, accolse con pia­ cere l'iniziativa britannica tanto da concludere, 2 gennaio 1937, il Gent/e­ men 's Agreement sul mantenimento dello status quo nel Mediterraneo. Dopo il ritiro delle sanzioni, avvenuto nel luglio 1936, la firma di questo accordo segnava un momento importante nel processo di distensione eu­ ropea. Ma il segreto invio di forti contingenti di «volontari» in Spagna da parte dell'Italia, vanificava tutti quegli sforzi. Dal febbraio al giugno 1 937 i rapporti anglo-italiani presero nuovamente a peggiorare, per divenire addirittura aspri quando Mussolini tentò di sfruttare la rivolta araba in Palestina inviando armi e denari ai ribelli. In luglio vi fu una schiarita a se­ guito di uno scambio di lettere Chamberlain-Mussolini per l'avvio di nuo­ ve conversazioni, ma gli attacchi di sottomarini «pirati» , in realtà italiani, a navi dirette ai porti spagnoli in mani governative, fecero naufragare l'i­ niziativa. Eden, allora, decise di riunire a Nyon per il 1 0 settembre, una confe­ renza di tutti gli stati rivieraschi del Mar Nero e del Mediterraneo ( Spagna esclusa) ; 1' 1 1 venne presa la decisione di affidare alle flotte francese e in­ glese il pattugliament o navale del Mediterraneo. Improvvisamente, i 218

« misteriosi» sottomarini scomparvero ma Mussolini, per rappresaglia, concentrò truppe in Libia da dove poteva attaccare gli inglesi in Egitto e i :fiancesi in Tunisia. Malgrado ciò, i fautori del non-intervento speravano ancora di potere avviare dei negoziati diretti tra le potenze per risolvere il nodo spagnolo. Il 22 settembre 1 9 3 7 , Yvon Delbos vide Ciano in un estremo tentativo di separare l'Italia dalla Germania. Ma la visita di Mussolini a Berlino, alla fine di quello stesso mese, mise fine alle illusioni. Germania e Italia, ma p er la verità anche l'Unione Sovietica, non erano disposte a ritirare le loro fo rze. Ciò significava che la guerra civile spagnola sarebbe durata ancora a lungo.

5. Tensioni in Estremo Oriente Negli anni 1 9 3 1 - 3 3 si era rotto l'equilibrio in Estremo Oriente. La Manduria era divenuta giapponese, anche se Tokio, con una mossa lungi­ mirante, non l'aveva annessa direttamente, ma aveva preferito creare uno stato satellite, il Manciukuò, che

fu dapprima una repubblica e poi,

dal

1934, un impero sul cui trono era stato posto Pu Yi, l'ultimo imperatore della Cina. Il disegno strategico nipponico era evidente: Pu Yi avrebbe potuto rivendicare i suoi diritti su tutta la Cina. Così il Giappone, tramite suo, l'avrebbe posta sotto il suo controllo, come faceva con il Manciukuò. N el 1 9 34 gli inglesi, preoccupati per la piega che avevano preso gli av­ venimenti, avevano tentato di negoziare un nuovo accordo per il Pacifico, ma il rifiuto degli Stati Uniti di accettare sia una soluzione favQrevole al Giappone, sia ad unirsi con l'Inghilterra per creare un fronte comune con­ tro ulteriori colpi di mano del Mikado, avevano fatto abortire il tentativo. Nello stesso anno, l'Unione Sovietica aveva stabilizzato la sua frontiera asiatica vendendo al Giappone le proprie azioni della ferrovia orientale cinese, eliminando così un potenziale elemento di scontro. Alla fine del 1 9 3 5 , la posizione del Sol Levante appariva notevolmente rafforzata. Ora poteva rivolgere tutte le sue energie contro la Cina.

A partire dal

biennio 1 9 3 5 - 3 6 la diplomazia nipponica si impegnò

nel duplice compito di impedire che le potenze occidentali venissero in aiuto della Cina e di fare della Cina stessa un proprio satellite, manovran­ do con molta accortezza la leva della pressione economica. Nell'ottobre 1 9 3 5 , il primo ministro nipponico, Hirota, rese pubbliche le condizioni per un accordo con la Cina. Esse prevedevano : una alleanza anticomuni­ sta, una politica estera subaltema, una collaborazione economica vantag._

21 9

giosa per il Giappone. Giudicato un accordo capestro, fu respinto dal go­ verno cinese. Il piano Hirota non piacque, comunque, neppure alla fazione più estremista dell'esercito, che lo giudicò del t\,ltto inadeguato a soddisfare le mire espansionistiche dei militari. Le ambizioni frustrate dei circoli più ra­ dicali del militarismo nipponico trovarono ascolto presso alcuni esponen­ ti dell'ala più dura dell'esercito, che nel febbraio '36 tentarono un putch a Tokio. Il golpe venne sventato e i capi della rivolta portati davanti alla cor­ te marziale, processati, condannati e giustiziati. Paradossalmente, però, la repressione dell'insurrezione del 26 feb­ braio spalancò la porta del potere all'esercito e agli uomini politici dell'e­ strema destra, che potevano finalmente imprimere una sterzata in senso totalitario all'esecutivo. Hirota mantenne la carica di primo ministro, ma a pesare nel governo erano i ministri militari, come apparve chiaro nei programmi di politica estera. Infatti, Hirota adottò sia i piani strategici dell'esercito, rivolti al nord contro l'Urss, che quelli della marina, indiriz­ zati al sud-est asiatico, contro l'Inghilterra e gli Stati Uniti. Inoltre, veni­ vano ripresi i contatti con la Germania, già avviati in segreto prima del tentato colpo di stato, per un accordo che doveva avere quale obiettivo primario la lotta al comunismo internazionale. Il 23 novembre ' 36, veniva firmato a Berlino il patto anticomintern, al quale aderì nel '37 anche l'Ita­ lia. Un protocollo segreto del 24 ottobre impegnava le parti contraenti al mutuo sostegno in caso di difficoltà con l'Urss. Malgrado ciò, la situazione giapponese in Cina era peggiorata perché tra il governo nazionalista cinese e i comunisti era stata conclusa un& tre­ gua, dopo la strana vicenda della cattura di Chiang Kai-shek per mano di cinesi dissidenti nel dicembre 1936. La tregua era stata firmata con lo sco­ po precipuo di creare un fronte comune antinipponico. La tensione, sempre più alta, sfociava il 7 luglio 1937, in uno scontro armato tra truppe cinesi e contingenti giapponesi nei pressi del ponte Marco Polo, nel nord della Cina. Il primo ministro, il principe Fumimaro Konoe, un nobile di corte, ben visto dai circoli vicini all'imperatore e dai militari, falliti tutti gli sforzi per comporre pacificamente l'incidente, deci­ deva di iniziare la guerra contro la Cina, pensando di vincerla facilmente e di costringere i cinesi a cedere il controllo delle province settentrionali, già conquistate dall'armata del Kwantung. Chiang Kai-shek incitò i cinesi alla lotta, ma l'esercito giapponese era troppo forte; in poche settimane occupava Pechino e Tientsin. 11 1 3 ago­ sto Shangai era nuovamente investita dai combattimenti. 11 1 3 settembre il governo cinese faceva ricorso alla Società delle N azioni. 220

Il passo cinese riapriva la questione delle sanzioni, al quale bisognava aggiungere la difficoltà di organizzare una efficace pressione sul Giappo­ ne, senza il preventivo nulla osta degli americani, perché Roosevelt e Cor­ dell Hull avevano assunto un ruolo frenante. Quando Londra, infatti, su­ bito dopo l'inizio delle ostilità, si era rivolta al governo di Washington c�n l a proposta di varare una comune linea d'azione per porre fine rapida­ mente all'incidente, Cordell Hull aveva risposto negativamente. L'Inghil­ terra, però, non si dette per vinta; appellandosi al trattato delle nove po­ tenze del 1922, convocò una conferenza internazionale, che si riunì a Bruxelles ai primi di novembre. Nel frattempo la posizione della Cina si era appesantita ulteriormen­ te. A più riprese, tra il settembre e il novembre 1937, il governo di Tokio aveva offerto a Chiang un accordo in base al quale si impegnava a confer­ mare il governo cinese nella parte settentrionale del paese e a ritirare le truflpe, contro l'impegno a cessare ogni attività antinipponica in Cina, creare un fronte unico contro il comunismo e infine, allacciare relazioni .de fa cto con il Manciukuò. Ovviamente Chiang rifiutò, provocando una nuova offensiva dei giapponesi che ai primi di dicembre prendevano Nanchino. 11 14 gennaio 1 938, i giapponesi ruppero i negoziati con Chiang Kai­ shek, annunciando nel contempo che avrebbero favorito in Cina la for­ mazione di un governo collaborazionista. Per tutto il 1 938 la situazione non sÙbì modifiche sostanziali. La Cina continuò a fare assegnamento sull'aiuto russo, in base al patto cino-sovietico di mutua assistenza del 1 937, senza che ciò tuttavia impedisse nell'estate 1938 l'apertura di una nuova fase di contatti cino-giapponesi. Riprendevano anche le conversa­ zioni germano-nipponiche, tese, negli intendimenti del governo di Tokio, a trasformare il patto anticomintern in una vera e propria alleanza milita­ re. Il nuovo clima delle relazioni nippo-tedesche, convinse il governo di Berlino a cessare gli aiuti militari alla Cina e a ritirare la missione che da al­ cuni anni collaborava con Chiang. Il passo successivo fu la proposta di una alleanza, eh� il Giappone accolse a due fondamentali condizioni: che fos­ se diretta cQptro l'Unione Sovietica e che fosse a carattere difensivo. Ma l'aggravarsi della situazione in Europa e i «venti di guerra» che avevano ripreso a soffiare con nuova forza sul vecchio continente, fecero passare in secondo piano le vicende estremorientali. L'opinione pubblica mondiale stava col fiato sospeso, in attesa delle mosse di Hitler, dalle quali poteva venire la pace, ma più sicuramente la guerra. 221

6. L'Urss tra pace e guerra: 1933-1939

Nel 1933-'34, la politica estera sovietica era dominata dalla convin­ zione che una guerra fosse ormai molto vicina e che tutti gli sforzi della di­ plomazia dovessero essere pertanto indirizzati ad allontanare il pericolo dalle frontiere dell'Unione Sovietica. In Estremo Oriente era il Giappone l'avversario più temibile, quello che bisognava neutralizzare o ammansi­ re, eliminando le possibili fonti di contrasto. In questa prospettiva rientrò la vendita ai giapponesi, nel 1935, delle azioni russe nella ferrovia orien­ tale cinese. In Europa la minaccia era costituita dalla Germania. Per affrontare in modo adeguato il pericolo nazista, Barthou aveva pensato ad un piano, una «Locarno orientale» , che avrebbe dovuto costituire una garanzia re­ ciproca delle frontiere orientali, sul modello del patto renano. Germania, Unione Sovietica, Finlandia, Estonia, Lettonia, Polonia, Cecoslovacchia, si sarebbero promesse aiuto militare immediato in caso di aggressione. Un accordo franco-russo avrebbe consentito l'adesione della Francia a questo patto e parallelamente dell'Urss a quello occidentale. Interpellate, Inghilterra e Italia si dichiararono favorevoli, senza tuttavia impegnarsi in prima persona. Adesione piena manifestarono Cecoslovacchia e Russia. Nettamente ostili, benché con motivazioni diverse, Germania e Polonia. La prima sostenendo che il patto orientale in sostanza non serviva che a mascherare un'alleanza franco-russa; la seconda, che non nascondeva la propria avversione per la Russia sovietica, dichiarando di non volersi im­ pegnare in una eventuale coalizione antigermanica. La preoccupazione principale di Litvinov in quegli anni era stata di evitare che si creasse una situazione per cui l'Urss si potesse trovare a do­ ver fronteggiare da sola una Germania potentemente riarmata. Il falli­ mento del piano di Barthou rese più consistente questo pericolo. Biso­ gnava assolutamente uscire dall'isolamento in cui si trovava l'Urss e pre­ sto. L'ingresso, nel 1 934, nella Società delle Nazioni, con un seggio per­ manente nel Consiglio, fu il primo e significativo passo in questa direzio­ ne. Il secondo fu il patto di mutua assistenza firmato il 2 maggio 1935· con la Francia. Benché privo di una convenzione militare, esso era comunque importante perché, a1meno sulla carta, bloccava le spinte aggressive tede­ sche ad est contro l'Urss. Hitler ora non poteva più escludere del tutto l'i­ potesi che in caso di attacco i paesi occidentali si schierassero con la Rus­ sia. 11 1 6 maggio di quello stesso anno veniva concluso un analogo trattato con la Ceéoslovacchia. Sebbene l'aiuto previsto scattasse solo dopo che la 222

Francia, che aveva concluso anni prima un patto simile con Praga, avesse onorato il suo impegno, tuttavia il trattato ceco-sovietico era rilevante, perché stava a dimostrare che la politica antisovietica procurava alla Ger­ mania più difficoltà del previsto. Alla fine del 1935 l'Unione Sovietica aveva stabilizzato la sua posi­ o n . zi e sia in Estremo Oriente con la vendita della ferrovia orientale cinese, cosa che aveva fatto diminuire le tensioni con i giapponesi, sia ad ovest co n la firma dei trattati con la Francia e con la Cecoslovacchia e l'ingresso nella Società delle Nazioni. A metà del 1 936, questo paziente lavorio diplomatico teso a creare, in Europa soprattutto, una situazione di equilibrio sostanziale, veniva in lar­ ga misura compromesso dall'involuzione repentina del quadro interna­ zionale. La conquista mussoliniana dell'Etiopia, a dispetto della Società delle N azioni e delle sanzioni, non solo blande ma che stavano anche per essere abbandonate, aveva alterato lo scenario europeo. Mussolini si era inimi­ cato Francia e Gran Bretagna e per sfuggire all'isolamento si sarebbe vol­ to sempre di più verso la Germania hitleriana, il cui fiihrer sarebbe appar­ so un prezioso alleato per il futuro. Hitler, dal canto suo, si apprestava a sfruttare la crisi. Il 7 marzo '36 rioccupava la Renania, in violazione non solo di Versailles ma di tutto il si­ stema di Locarno, azione giustificata con il pretesto che l'alleanza franco­ russa, violando appunto Locamo, aveva sciolto la Germania dai suoi ob­ blighi. Francia e Inghilterra non reagirono e l'Urss tornò a preoccuparsi. La distruzione del sistema di Versailles ed il venir meno di ciò che rimane­ va della sicurezza collettiva, erano visti dai russi come una minaccia per il loro paese. La firma del patto anticomintern, il 25 novembre 1 936, tra Germania e Giappone sembrò confermare i timori dei sovietici. Archiviata la rimilitarizzazione della Renania, Hitler poteva accin­ gersi ad elaborare i piani per le imprese successive, elencate con precisio­ ne nel famoso memorandum di Hossbach del 5 novembre '37, contro l'Austria e la Cecoslovacchia. Nel frattempo, però, un altro evento era de­ sti nato a sconvolgere gli assetti diplomatici europei, cioè il conflitto civile spagnolo. La guerra di Spagna procurò molte difficoltà alla politica estera mo-. scovita. Stalin e i suoi collaboratori dovevano barcamenarsi tra il deside­ rio di aiutare la repubblica e gli impegni assunti con l'adesione al «Comi­ tato del non intervento» , volti a favorire una soluzione pacifica e negozia­ ta della crisi spagnola. Stalin non desiderava la vittoria di Franco, ma nemmeno voleva compromettere i tentativi di concludere un'alleanza e di stabilire buone relazioni con l'Inghilterra. 223

Nel 1937 tornava a farsi pesante anche la situazione in Estremo Oriente. Nel dicembre 1936 Chiang Kai-shek era &tato fatto prigioniero, in circostanze oscure e mai del tutto chiarite, da Chang Hsiie-liang, un si­ gnore della guerra suo alleato. Dopo estenuanti trattative, Chiang era sta­ to liberato dietro l'impegno a porre fine alla lotta contro i comunisti e ad assumere un atteggiamento più deciso verso il Giappone. Ciò spinse il go­ verno di Tokio a rompere ogni indugio e il 7 luglio 1937 ad aggredire la Cina. Il riaccendersi delle ostilità tra i due paesi asiatici, allontanando il pericolo di un attacco giapponese contro l'Urss, permetteva ai dirigenti di Mosca una maggiore libertà di manovra. Mutava così il loro atteggiamen­ to nei confronti dell'impero del Sol Levante. Se, infatti, fino a quel mo­ mento i sovietici avevano fatto del tutto per non inasprire i rapporti con i giapponesi, dopo il 7 luglio la musica cambiava. In agosto il governo cine­ se e l'Urss firmavano un trattato di amicizia e non aggressione che consen­ tiva di riprendere le forniture di armi, munizioni e crediti al Kuomintang. Tuttavia, questi aiuti non raggiunsero mai un livello tale da provocare il ri­ sentimento giapponese verso l'Urss. Nel 1938, il pericolo di una guerra russo-giapponese si era molto atte­ nuato e sebbene la frontiera continuasse ad essere considerata calda, tut­ tavia era l'Europa che, ancora una volta tornata alla ribalta, impensieriva ora i dirigenti del Cremlino. In marzo i tedeschi si erano impadroniti del­ l' Austria, senza incontrare ostacoli o resistenze di sorta. I sovietici aveva­ no reagito all' Anschluss proponendo il 17 marzo, per bocca di Litvinov, una conferenza dove esaminare i mezzi per impedire nuove aggressioni. Il pensiero era ovviamente rivolto alla Cecoslovacchia, sicuramente la pros­ sima vittima di Hitler. Il passo di Litvinov cadde, però, nel vuoto. L'aggravarsi della crisi ceca durante tutto il '38 poneva seri problemi al governo di Mosca. L'Unione Sovietica era legata alla Cecoslovacchia da un trattato di assistenza, ma l'aiuto in esso previsto era subordinato al­ l'intervento francese e alla possibilità di fare avanzare le sue truppe attra­ verso la Polonia, una eventualità che Varsavia scartava categoricamente, in quanto essa stessa aveva rivendicazioni territoriali nei confronti di Pra­ ga. Comunque, Litvinov dichiarò, dalla tribuna ginevrina, che l'Unione Sovietica avrebbe adempiuto agli obblighi derivanti dal trattato con la Cecoslovacchia e avrebbe fornito il suo aiuto insieme alla Francia, nei modi in cui ciò sarebbe stato possibile. Un segnale di questa disponibilità fu l'avvertimento al governo polacco di non inviare truppe contro la Ce­ coslovacchia, pena la denuncia del trattato di non aggressione del 1932 . L'ultimo atto della crisi cecoslovacca si recitò, comunque, senza la partecipazione di Mosca. Alla conferenza di Monaco del 29 settembre 224

;38 non partecipò, infatti, l'Unione Sovietica. L'indignazione fu il senti­ mento dominante nei palazzi del Cremlino per tale esclusione, insieme al­ l a preocèupazione per l'esito del conclave monegasco; Daladier e Cham­ b erlain avevano svenduto la Cecoslovacchia a Hitler. Era questo il signifi­ cato di Monaco e i russi ne trassero le debite conseguenze: una diminuita stima per i due governi democratici e la convinzione che fosse necessario ri pensare il modo di garantire la sicurezza del paese. Quel che restava della Cecoslovacchia andava intanto rapidamente disfacendosi. Nel novembre 1938, con !'«arbitrato di Vienna» , Ribben­ trop e Ciano riconobbero la fondatezza delle pretese ungheresi su una parte della Slovacchia (l'Ucraina carpatica). Pochi mesi dopo, esatta­ mente il 1 5 marzo 1939, Hitler invadeva la Boemia e la Moravia trasfor­ mandole in protettorati tedeschi. La Slovacchia diveniva indipendente, ma di fatto satellite del Reich, e l'Ungheria si annetteva la Rutenia subcar­ patica. Il governo sovietico protestò per questa nuova aggressione che mette­ va fine all'esistenza della Cecoslovacchia. Dal canto suo il governo inglese il 3 1 marzo dichiarava che avrebbe fornito il massimo aiuto alla Polonia in caso di un attacco. Il 1 3 aprile, Chamberlain estendeva la garanzia unila­ terale inglese alla Romania e alla Grecia. La reazione ufficiale sovietica a queste iniziative fu una cauta apertura verso Londra e Parigi (la politica estera francese era completamente subordinata a quella inglese in questa fase), nell'intento di avviare negoziati per la costruzione di un argine con­ tro l'aggressione tedesca. 11 1 8 Litvinov precisava le proposte russe: Fran­ cia, Gran Bretagna e Unione Sovietica avrebbero dovuto garantire mili­ tarmente tutti «i paesi dell'Europa orientale situati fra il Baltico e il Mar Nero e che confinavano con l'Urss» . A tale scopo, dovevano al più presto essere avviati colloqui tra i rispettivi stati maggiori e doveva essere dichia­ rato ufficialmente che in caso di guerra nessuno dei tre avrebbe chiesto una pace separata. Mentre i franco-inglesi si accingevano a studiare la si­ tu azione, i sovietici decidevano di avviare tr,attative segrete con la Germa­ nia. A ridosso di queste conversazioni, pubbliche con gli occidentali riser­ vate con i tedeschi, si verificò a Mosca un fatto molto significativo: la so­ stituzione di Litvinov con Molotov. L'arrivo del nuovo inquilino al Com­ mìssariato del popolo per gli affari esteri indusse gli occidentali ad accele­ rare i negoziati e impresse nuovo slancio a quelli con la Germania. Infatti, a meno di tre mesi dal cambio di gestione, il 23 agosto '39 Ribbentrop ri­ ceveva l'invito a recarsi a Mosca per firmare il patto di non aggressione germano-sovietico. 225

Questo trattato era simile ad altri dello stesso tenore, salvo per la mancanza della clausola che consentiva ad uno dei firmatari di denuncia­ re il patto nel caso l'altro aggredisse un terzo stato. Vi era anche allegato un protocollo segreto il quale stabiliva che nel caso di una «modificazione politica e territoriale» della Polonia, le rispettive «sfere d'interesse» delle due parti avrebbero compresa ciascuna circa metà del paese. In questo modo l'U rss si sarebbe accaparrata l'U craina e la Bielorussia, la provincia di Lublino e parte della regione di Varsavia. In base agli accordi, avrebbe anche avuto mani libere in Estonia, Lettonia, Finlandia e nella Bessarabia romena. Due giorni dopo, in concomitanza con l'annuncio ufficiale della con­ clusione del patto russo-tedesco, Molotov chiuse i colloqui con gli occi­ dentali, la cui missione riprese la via di casa sconfitta e amareggiata. Hitler poteva cantare vittoria, ma la sua gioia fu velata dal fatto che gli inglesi ri­ badirono gli obblighi contratti con la Polonia e anzi firmarono con Varsa­ via un patto di alleanza. Ma il destino della pace era ormai segnato. Il primo settembre i tedeschi attaccarono la Polonia e il 3 la Francia e l'Inghilterra, contrariamente a quel che pensava Hitler, che lo aveva spe­ rato fino all'ultimo momento, dichiararono guerra alla Germania.

7. La politica estera italiana dal l936 alla vigilia della seconda guerra mondiale

La conquista dell'Etiopia fu certamente un gran successo per Musso­ lini, ma segnò anche una svolta fondamentale nella politica estera fascista che cominciò a perdere, proprio da allora, il suo primato e la sua autono­ mia di fronte al dinamismo avventuristico della diplomazia hitleriana. Il primo significativo segnale di ciò si ebbe il 6 gennaio 1936 quando Mussolini, allarmato per l'incerta situazione internazionale venutasi a de­ terminare dopo il naufragio del piano Lavai-Hoare, decise di fare una démarche verso la Germania, con la proposta che l'Austria e la sua più potente vicina si accordassero direttamente fra di loro per seguire en­ trambe una politica parallela, specialmente nelle relazioni estere, ferma restando, almeno formalmente, l'indipendenza della piccola repubblica. Il secondo sintomo del franamento della politica estera fascista si verificò quando Hitler, approfittando della crisi internazionale provocata dalla guerra africana, decise di riprendersi la Renania. Era una violazione dei trattati di pace e una spallata al patto di Locarno. Mussolini condannò la rimilitarizzazione della Renania, ma non poté andare oltre le parole. 226

Nell'estate 1936, la comune decisione di Italia e Germania di interve­ nire con uomini e mezzi a fianco dei ribelli nell'appena iniziata guerra civi­ le spagnola, fu un ulteriore scivolamento di Mussolini verso l'abbraccio tedesco. 11 22 ottobre del 1936, i ministri degli Esteri italiano e tedesco, Ci ano e Neurath, firmavano un accordo per la fattiva collaborazione dei due paesi nella questione austriaca, per la quale il governo italiano appro­ vava l 'intesa austro-tedesca dell' 1 1 luglio; nella lotta contro il bolscevi­ smo; per l'appoggio ai generali golpisti in Spagna; per l'atteggiamento da tenere verso i paesi danubiani. Era l'atto di nascita dell'Asse, anteprima della vera e propria alleanza militare che sarà sanzionata dal «patto d'ac­ ciai o» del 22 maggio 1 939. Mussolini, però, desiderava raggiungere un accordo anche con l'In­ ghilterra con la quale vi erano ancora diverse questioni pendenti, in gran p arte legate alla coesistenza nel Mediterraneo. Se per la Gran Bretagna era una delle vie con cui raggiungere i suoi possedimenti periferici, per l'I­ talia era la vita. Questo almeno sosteneva Mussolini, che però non inten­ deva minacciare questa strada; esigeva solo il rispetto dei diritti e degli in­ teressi vitali degli italiani. Fu in quest'ottica che il l o novembre 1936, du­ rante un discorso tenuto a Milano concernente il nuovo indirizzo impres­ so alla politica estera fascista, propose al governo di Londra un' «intesa schietta, rapida, completa sulla base del riconoscimento dei reciproci in­ teressi» . Sarebbe stato un buon passo, utile anche alla distensione generale. Senonché, Mussolini stesso lo vanificava, perché proprio in quegli stessi giorni si apprestava ad allargare l'intervento militare italiano in Spagna. I nazionalisti avevano bisogno, per proseguire con successo le ostilità, di poter trasportare le loro truppe dal Marocco alla madrepatria. Perciò Franco chiese, il 19 luglio a Mussolini e a Hitler, che il 24 accoglievano la richiesta, un invio di aerei in Africa per attuare un ponte aereo. Il governo repubblicano andava incontro, invece, a sconfitte militari e roves ci politici. Il massacro indiscriminato di elementi moderati, di reli­ giosi e di suore, nonché la distruzione ingiustificata di chiese e conventi ad opera degli estremisti di sinistra, gli alienarono molte simpatie e non solo dell' opinione pubblica internazionale. I governi di Londra e di Parigi pre­ sero le distanze, anche se quello francese di Léon Blum avrebbe voluto, p er affinità ideologica, correre in aiuto di Madrid. Blum non voleva, però, rimanere alla finestra a guardare; perciò ela­ borò, insieme al ministro degli Esteri, Delbos, e presentò a tutte le poten­ ze, che in 28 l'accettarono, un piano generale di non intervento nella guerra civile spagnola. 22 7

Il «Comitato del non intervento» , sorto subito dopo, poté fare ben poco, boicottato come fu dalla Germania e dall'Italia che continuarono indisturbate ad aiutare i ribelli. La vittoria dei nazionalisti non fu più in di­ scussione, tant'è che il 1 9 novembre '36 il governo del generale Franco venne riconosciuto dalle due potenze fasciste come l'unico governo legit­ timo della Spagna. La guerra continuò, comunque, per altri due anni, ma altri e più gravi fatti cominciarono ad attirare l'attenzione generale. Il sempre più massic­ cio impegno di Mussolini nel conflitto spagnolo rendeva tesi i rapporti ita­ la-francesi e difficile l'accordo con l'Inghilterra, pure tanto auspicato dal Duce, mentre Hitler perfezionava i piani per l'assimilazione dell'Austria e per la distruzione della Cecoslovacchia. È anche vero, tuttavia, che Mussolini e Ciano, pur dopo l'accordo dell'ottobre 1936 con la Germania, cercarono di praticare, nei limiti del possibi le, una politica autonoma, volta al conseguimento di tre obiettivi minimi: contenere l'espansionismo tedesco nell'area danubiana; evitare un'alleanza formale con la Germania stessa; concludere un'intesa gene­ rale con la Gran Bretagna. Quanto al primo punto, la posizione italiana sembrava ed era alquan­ to scossa, per non dire compromessa. L'asse Roma-Vienna-Budapest del '34 aveva perduto gran parte della sua importanza, con l'Austria che gra­ vitava sempre più nell'orbita germanica e con una Ungheria che in caso di A nschluss si sarebbe gettata nelle braccia accoglienti di Hitler, abbando­ nando l'Italia. Un miglioramento, invece, fecero registrare i rapporti ita­ la-jugoslavi, favoriti dall'ascesa al potere di Stojadinovic, che portarono alla firma di un accordo economico nel '36 e uno politico nel '37, e diven­ nero più cordiali anche le relazioni con la Romania. Ma nel complesso, l'influenza italiana nel settore appariva ampiamente superata da quella del colosso tedesco. Benché gli inviti di Hitler per una formale alleanza militare venissero lasciati cadere fino al '38, in realtà la politica di avvicinamento alla Ger­ mania non si arrestò mai. Infatti, appena un anno dopo il discorso di Mila­ no, in cui Mussolini aveva tenuto a battesimo la nascita dell'Asse Roma­ Berlino, il 6 novembre '37 l'Italia aderiva al patto anticomintern, stipula­ to giusto un anno prima dalla Germania e dal Giappone, che impegnava le parti contraenti a «informarsi sull'attività dell'internazionale comuni­ sta, consigliare sulle misure da prendere, ecc. » . Subito dopo, il governo di Roma riconosceva il Manciukuò e l' 1 1 dicembre annunciava l'uscita del­ l'Italia dalla Società delle Nazioni. La diplomazia fascista non aveva certamente spianato la strada alla 228

distensione con l'Inghilterra, alla quale Mussolini pure tanto teneva. Do­ po il Gentlemen 's Agreementde1 2 gennaio 1937, con cui i governi di Ro­ m a e Londra avevano riconosciuto il reciproco interesse alla libertà di na­ vigazione nel Mediterraneo, si erano impegnati a non modificare lo status quo territoriale dei paesi rivieraschi, l'Italia, dal canto suo, a non alterare l'integrità territoriale della Spagna, accordo reso vano dalla politica av­ venturistica di Mussolini nella guerra spagnola e a causa dei persistenti contrasti riguardanti il Mediterraneo orientale e il Mar Rosso, nessun passo avanti era stato fatto per migliorare i rapporti reciproci. Con l'arrivo di Neville ChamberlaiP al potere i rapporti itala-inglesi subivano, però, una netta trasformazione, facilitata, per la verità, dall'at­ tuazione dell' A nschluss da parte di Hitler. Quasi contemporaneamente agli avvenimenti austriaci, Mussolini apriva, infatti, al governo di Londra, reso più ricettivo alle a vancesitaliane dalla presenza del duttile lord Bali­ fax, che aveva sostituito il più duro Eden al Foreign Office. La buona di­ sposizione del nuovo ministro degli Esteri britannico consentiva di perve­ nire piuttosto rapidamente alla firma, a Roma, dei cosiddetti a ccordi di Pasqua del 16 aprile 1938, in base ai quali l'Italia avrebbe ritirato dalla Spagna tutti i suoi volontari subito dopo la vittoria di Franco, mentre l'In­ ghilterra avrebbe riconosciuto l'impero italiano, cosa che fece il 16 no­ vembre '38, e si sarebbe adoperata per convincere altri paesi a fare lo stes­ so e infine confermato il Gentlemen 's Agreement. Se Mussolini avesse inteso perseguire seriamente una politica di pace, gli accordi di Pasqua avrebbero potuto esserne la migliore base di parten­ za. Ma Mussolini aveva nella testa ben altri disegni e il progetto di annes­ sione dell'Albania ne costituiva la prova più eloquente. Frattanto, lo scac­ chiere internazionale tornava in movimento. Dopo la facile conclusione dell Anschluss, Hitler si apprestava a colpire la Cecoslovacchia. L'accordo di Monaco, con cui Praga cedeva alla Germania la regione dei Sudeti, abitata in larga prevalenza da tedeschi, determinava \l.JJ, pro­ fondo cambiamento nel clima generale dell'Europa. Hitler e Mussolini furono spinti a tentare altri colpi di mano; Stalin, impressionato da ciò che era avvenuto, cominciò a rivedere la sua politica estera; Chamberlain e Daladier furono costretti a riconsiderare laloro politica di pace a tutti i co­ sti. La successiva azione di forza di Hitler fu l'occupazione della Boemia e della Mora via, eretti in protettorati della Germania, che cancellava la Ce­ coslovacchia dalla carta geografica dell'Europa. La mossa tedesca irritò Mussolini, che decideva di avviare i piani per la conquista dell'Albania, a · '

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ciò spinto anche da una crisi interna j ugoslava, dove il reggente, principe Paolo, aveva licenziato il primo ministro, il filo-fascista Stojadinovic. Im­ mediatamente, le relazioni itala-jugoslave subivano un peggioramento e Mussolini temette che ciò potesse compromettere l'azione italiana in Al­ bania. Ottenuto da Hitler il riconoscimento che il Mediterraneo era un'a­ rea di prevalente interesse italiano, il 1 2 aprile del 1939 poté occupare il piccolo stato adriatico. La dissoluzione della Cecoslovacchia e la conquista dell'Albania mi­ sero le potenze democratiche dell'Occidente di fronte alla dura realtà di dover reagire in modo nuovo alla politica di forza dei due dittatori Dazi­ fascisti. 11 1 3 aprile 1 9 3 9 , il governo di Londra decideva, infatti, di conce­ dere una garanzia unilaterale alla Grecia ed il 1 2 maggio di firmare un patto di mutua assistenza con la Turchia. Intanto, poiché cominciava a delinearsi il contrasto tedesco-polacco per Danzica, Chamberlain faceva anche sapere che il suo governo non avrebbe lasciato sola la Polonia. L'ul­ timo atto di quella triste primavera del 1 9 3 9 fu la firma, il 22 maggio 1 9 3 9 , del «patto d'acciaio» . D i fronte alla nuova strategia varata dall'Inghilterra, subito seguita dalla Francia, si apriva ora il problema dei rapporti con Mosca. Dopo Mo­ naco, la diplomazia sovietica era divenuta molto guardinga nei confronti delle due potenze democratiche per cui, quando Londra propose ai sovie­ tici di garantire, come aveva già fatto l 'Inghilterra, la Polonia, la Grecia, là Romania e la Turchia, la risposta fu alquanto evasiva.

Le delegazioni inglese e francese si trovavano già nella capitale per le conversazioni con i dirigenti del Cremlino sul tema di una possibile alle­ anza, quando il 1 9 agosto si diffuse la notizia che Urss e Germania aveva­ no firmato un accordo commerciale. Gli occidentali, ovviamente, sospe­ sero subito i negoziati in attesa di precisazioni, mentre si intensificavano i contatti nazi-sovietici che si concludevano, il 23 agosto, con la firma del patto Molotov-Ribbentrop. La notizia ebbe un'eco drammatica in Italia rendendo più difficile a Mussolini la decisione circa l'atteggiamento da tenere nell'ormai prossi­ ma ed inevitabile guerra. Non voleva entrare subito nel conflitto, ma non voleva deludere né irritare Hitler, nella prospettiva di una possibile e anzi certa vittoria tedesca. La soluzione escogitata dal duce fu quella di non prendere subito parte alle ostilità, dichiarandosi, comunque, fin dall'ini­ zio pienamente d'accordo con la decisione del fiihrer. Così, quando il 1 o settembre 1939 Hitler dette fuoco alle polveri della seconda guerra mon­ diale, egli poté cavarsela con l'annuncio della « non belligeranza» .

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s. Vienna, Monaco, Praga Alla fine dell'ottobre ' 3 7 , la situazione europea si presentava così: l ' Unione Sovietica era alleata della Cecoslovacchia e della Francia, ma in m ancanza di accordi militari il valore di questa alleanza era alquanto dub­ bio, sicché la Cecoslovacchia si trovava praticamente da sola a dover fare fr onte all'aggressivismo tedesco e al revanscismo polacco e ungherese. La Germania si rafforzava ogni giorno di più, di contro l'Italia sembrava es aurita dopo la guerra d'Africa e l'impegno in Spagna, a causa del quale er a, tra l'altro, in forte tensione con le due democrazie occidentali. Il Bel­ gio aveva assunto una posizione neutrale e così i paesi scandinavi. Infine l' Inghilterra e la Francia, che alle prese con una situazione economica piuttosto pesante, avevano dovuto rallentare di molto i rispettivi pro­ grammi di riarmo, con grave pregiudizio per la loro politica estera. Chamberlain in particolare, scosso da quanto gli avevano riferito gli esperti sullo stato degli armamenti del paese al termine di una lunga inda­ gine, aveva impresso una sterzata decisamente moderata all'atteggiamen­

to inglese verso i paesi dell'Asse. Nel novembre 1 9 3 7 , spedì lord Halifax, il capo del Foreign Office, a Berlino a dire a Hitler che il suo governo non avrebbe ostacolato un cambiamento della situazione in Europa centrale,

se fosse avvenuto senza l'uso della forza. Il passo inglese, che i francesi dovettero avallare, anche se di contro­

voglia, convinse Hitler che gli obiettivi a cui puntava erano a portata di mano. La prima crisi scoppiò in Austria, preparata da un complotto tede­

sco contro il governo austriaco. Schuscbnigg pensò di fronteggiare il peri­ colo richiamando i tedeschi al rispetto degli accordi > , sa­ rebbe sorta una Algeria indipendente legata alla Francia da tutta una serie di accordi di cooperazione economica e finanziaria firmati ad Évian. Il pacchetto prevedeva delle concessioni in favore dei francesi d'Algeria; per tre anni gli algerini avrebbero mantenuto la doppia nazionalità e solo dopo avrebbero potuto optare per una delle due. Il petrolio sahariano sa­ rebbe stato sfruttato in comune. L'Algeria sarebbe rimasta nell'area del franco. Questa, fuio alla primavera del 1962, la situazione. Ma militari e civili ultras considerarono un tradimento di de Gaulle gli accordi di Évian, e vi risposero con atti d'insubordinazione e di aperta rivolta. Dilagò da allora un impressionante contro-terrorismo antiarabo dei coloni, organizzato e diretto da una potente e agguerrita associazione segreta, l' «Organizzazio­ ne dell'armata segreta» ( Oas). Tale tremenda attività mirava a fare «terra bruciata» dell'Algeria e non si arrestò neppure dopo la cattura e la con­ danna dei capi, i generali E. Jouhaud e R.A. Salan. Le atrocità del terrorismo, gli spargimenti di sangue e le distruzioni 343

non fermarono il cammino degli avvenimenti. Infatti, iniziarono ugual­ mente ad essere applicati gli accordi del 1 8 marzo. 11 1 o luglio si tenne il re­ ferendum algerino che diede un'enorme maggioranza in favore dell'indi­ pendenza, proclamata ufficialmente il 3 luglio 1962. Finiva così la guerra d'Algeria e con essa la dominazione francese che era durata 1 3 2 anni. Si apriva una nuova fase nella vita dell'Algeria, che fu segnata fin dagli esor­ di dalla profonda crisi apertasi con l'aspro scontro tra le principali fazioni politiche e militari provenienti dalla lotta di liberazione, per la conquista del potere.

6. Il Medio Oriente e la crisi di Suez

Lo smantellamento dei grandi imperi coloniali doveva avere gravi ri­ percussioni in tutta l'Europa occidentale che, alla fine del processo, vide restringersi la sfera dei propri interessi ad un ambito regionale, proprio mentre gli Usa assurgevano al rango di superpotenza globale, estendendo la loro presenza politica, militare ed economica a quelle regioni da cui la vecchia Europa si stava ritirando. Rientrava in questo quadro l'estromissione degli inglesi dal monopo­ lio dei petroli iraniani, divenuta formale nel ' 5 1 con la nazionalizzazione dell' Anglo-lranian O il Company voluta dal primo ministro nazionalista Mossadegh, che aveva tra l'altro costretto all'esilio lo scià Reza Pahalavi. 11 1 9 agosto 1953, un colpo di stato militare restaurava Muhammad Reza sul trono; Mossadegh veniva imprigionato. Alla fine della vicenda gli americani, che avevano appoggiato il colpo di stato, non solo si assicura­ rono una rilevante presenza nel nuovo consorzio destinato a sostituire la vecchia compagnia inglese nello sfruttamento dei pozzi petroliferi, ma posero le basi della loro influenza politica e militare destinata a protrarsi fino alla rivoluzione komeinista. Ma il più grave contrasto di interessi fra americani ed europei si mani­ festò a proposito della crisi di Suez, attorno alla quale gravitarono due questioni nodali della politica mondiale: il conflitto arabo-israeliano e la lotta di influenza in Medio Oriente fra Usa e Urss. L'Egitto aveva conquistato la sua piena indipendenza nel '54 con l'accordo del 19 ottobre sul canale di Suez, che aboliva quello del l 936. In base ad esso gli inglesi si sarebbero ritirati entro venti mesi dalla firma del trattato, riservandosi tuttavia la facoltà di rioccupare il canale «nel caso di aggressione da parte di un'altra potenza» . Ma le mire del colonnello N as­ ser, divenuto padrone incontrastato del paese dopo avere eliminato defi344

nitivamente dalla scena politica, il 1 9 novembre 1954, il moderato gene­ rale Neghib, andavano ben oltre. Egli mirava a unificare il mondo arabo sotto la sua guida e mettersi a capo di una crociata anti-lsraele. Nel set­ tembre 1955, il Cairo annunciava di avere accettato una fornitura di armi da parte dell'Urss; la notizia allarmò gli americani, la cui azione rimase tuttavia ambigua ed incerta. Il governo egiziano aveva da tempo messo allo studio un progetto as­ sai ambizioso: quello della diga di Assuan, che avrebbe dovuto arrecare grandi vantaggi all'agricoltura e all'economia del paese. Gli Stati Uniti avevano promesso di sostenere finanziariamente l'impresa, ma la svolta filo-sovietica impressa alla politica egiziana da Nasser e l'accettazione di forniture militari dal patto di Varsavia convinsero il Dipartimento di stato a revocare l'impegno. Come risposta Nasser, il 26 luglio 1956, nazionaliz­ zò la Compagnia del canale di Suez. Gran Bretagna e Francia protestaro­ no vivacemente contro l'atto di forza del governo egiziano e chiesero l'in­ tervento delle Nazioni Unite. Foster Dulles, a nome del suo governo, pro­ pose la convocazione di una conferenza internazionale degli utenti del ca­ nale che, fatta salva la sovranità egiziana sull'importante via d'acqua, reintroducesse una qualche forma di controllo internazionale nel suo fun­ zionamento. L'Urss spalleggiò apertamente il colonnello Nasser. L'iniziativa americana non ebbe successo. La conferenza degli utenti, che aprì i suoi battenti a Londra il 16 agosto, si rivelò un fallimento, sia per l'intransigenza egiziana, sia a causa dell'atteggiamento ambiguo assunto dalla diplomazia statunitense. Maturava così, a Londra e a Parigi, l'idea di un'azione di forza contro N asser, in concomitanza con una spedizione mi­ litare israeliana contro l'Egitto che esercitava una pressione sempre più pericolosa ai confini dello stato di Israele. Nella notte tra il 29 e i1 30 ottobre le truppe israeliane passarono al­ l'attacco e in pochi giorni occuparono la penisola del Sinai. Subito dopo entravano in azione i franco-inglesi che il 5 novembre sbarcarono a Porto Said. Le manifestazioni contrarie degli Usa, dell'Urss e delle Nazioni Unite imposero uno stop alla guerra. In dicembre, inglesi e francesi dovet­ tero abbandonare, senza condizioni, tutti i punti occupati. Poi fu la volta degli israeliani a sgomberare il Sinai, ottenendo però in cambio qualche li­ mitato vantaggio. N asser, umiliato militarmente, trionfò sul piano diplo­ matico. Forte del sostegno sovietico, si dette ad organizzare unilateral­ mente la gestione del canale, garantendone tuttavia il funzionamento in­ ternazionale. Francia e Inghilterra uscirono fortemente ammaccate dall'avventura di Suez. Dovettero rinunciare ad ogni diritto sulla compagnia del canale e 345

accettare tutte le condizioni poste dal rais per il suo utilizzo. Ma a risentire maggiormente della vicenda furono soprattutto i rapporti interalleati. La Francia fu percorsa da una violenta ondata di antiamericanismo. La Gran Bretagna accusò gli Usa di avere messo in seria difficoltà l'alleanza atlan­ tica. Gli Stati Uniti avevano tratto qualche vantaggio atteggiandosi a so­ stenitori della causa araba contro i paesi ex coloniali. Ma dovettero ben presto accorgersi che il movimento antioccidentale panarabo non li ri­ sparmiava e che la penetrazione comunista in un'area nevralgica come il Medio Oriente era una realtà estremamente pericolosa e che minacciava di estendersi. Perciò, il 5 gennaio 1957, il governo americano annunciava la «dottrina Eisenhower» , in base alla quale il presidente poteva interve­ nire in caso di attacco comunista diretto contro un paese del Medio Oriente e distribuire ai paesi arabi che avessero accettato tale dottrina un aiuto di 200 milioni di dollari. La «dottrina Eisenhower» venne interpretata dal mondo arabo come un tentativo americano di rafforzare la propria influenza in Medio Orien­ te e pertanto sollevò forti sospetti tra i nazionalisti arabi. Ma dopo la quasi totale sparizione dell'influenza francese e inglese in questa regione, l'A­ merica non poteva permettere all'Urss di occupare tutti gli spazi lasciati dagli ex imperi coloniali. Giusta preoccupazione, perché l'ondata antioccidentale fu galvaniz­ zata dal successo di Suez. N asser se ne giovò per instaurare, il 1 o febbraio 1958, la Repubblica araba unita di Egitto e Siria, cui quasi subito aderì lo Y emen, sotto la sua presidenza. Ma più allarmante fu la conferenza afro­ asiatica, tenuta al Cairo dal 26 dicembre 1957 al 1 o gennaio 1958, perché vi partecipò l'Urss, che entrò con la Cina nel Consiglio permanente creato in quell'occasione. Poi bisognava mettere nel conto la perdurante campa­ gna contro Israele, della cui distruzione Nasser si era eretto a campione. Ma il sovversivismo panarabo del rais aveva acceso tutto il mondo islami­ co provocando instabilità e tensioni difficilmente controllabili. Il Libano cristiano-musulmano precipitò in uno stato di semianarchia e gli Stati Uniti, per evitare che tutto il Medio Oriente prendesse fuoco, dovettero intervenire. Su richiesta del presidente Chamoun gli americani inviarono forze da sbarco, il 1 5 luglio 1958, che ristabilirono l'ordine, ritirandosi il 1 5 ottobre. In Giordania furono gli inglesi a salvare la monarchia hascemita dalle manovre destabilizzanti del nasserismo. Il governo giordano aveva avver­ tito la creazione della Repubblica araba unita come un colpo diretto con­ tro l'indipendenza del paese. In risposta a quella minaccia, il 14 febbraio 1958 era stata creata l'effimera « Unione araba» tra Giordania e Iraq a ba346

se dinastica, destinata a durare molto poco. Il colpo di stato irak:eno del 14 luglio del generale Karim Kassen, spazzò via definitivamente la monar­ chia col massacro della dinastia, compreso il giovane re Faysal Il, e fece per un momento vacillare il trono hascemita di Giordania. Hussein tutta­ via, grazie all'aiuto britarinico e alla separazione della Siria dall'Egitto il 28 settembre 196 1 , riuscì a consolidare il suo potere, continuando a fron­ teggiare sia Israele, sia le sollecitazioni panarabiche di Nasser. L'Unione Sovietica aveva tentato di sfruttare a proprio favore le crisi libanese e giordana. Kruscev aveva proposto che l'Onu intimasse lo sgombero alle due potenze occidentali, ma gli stati arabi moderati non lo seguirono, preoccupati della soffocante ingerenza russo-comunista; 1'0nu così non fece nulla e le due potenze si ritirarono di propria iniziativa. Seguì allora un periodo di relativa calma in Medio Oriente, che tenne no­ nostante gli incidenti di frontiera fra Rau e Israele e il persistente illegale divieto imposto da Nasser alla navigazione israeliana nel canale di Suez, in parte ovviato dalla via marittima del golfo di Aqaba.

7. L'Estremo Oriente e il sud-est asiatico

In materia di rapporti internazionali la politica estera della Cina co­ munista si allineò da principio interamente su quella dell'Urss, ponendosi tuttavia su un piede di parità e non di dipendenza da Mosca, e contraddi­ stinguendosi per un maggior dinamismo contro le posizioni occidentali in Estremo Oriente. 11 4 febbraio '50, la firma nella capitale sovietica di tre importanti accordi aveva posto le basi dei rapporti tra i due paesi comuni­ sti. Si trattava di un trattato di amicizia, alleanza e mutua assistenza; di un accordo per il trasferimento alla Cina, senza compenso, di tutti i diritti sul­ la ferrovia sud-mancese da effettuarsi entro i1 3 1 dicembre 1952; di un impegno a sgombrare Port Arthur entro il 1952 e a trasferire per quella data l'amministrazione di Dairen alla Cina. Questa alleanza, ideologica e politica, era diretta soprattutto contro gli interessi statunitensi in Asia, ma non risparmiava neppure le posizioni delle altre potenze occidentali in Estremo Oriente. Nella guerra di Corea Pechino, sin dall'inizio, fornì aiuto in uomini e mezzi, d'accordo con l'Urss, ai nord-coreani, intervenendo poi apertamente sino alla conclu­ sione dell'armistizio del 1953, come principale soggetto di parte comuni­ sta. In Indocina appoggiò le forze comuniste del Vietminh, contro la Francia, sino all'armistizio del 1954. Nell'aprile del 1955, alla conferenza di Bandung cercò di sostituire al neutralismo di stampo nehuriano un 34 7

fronte antiimperialista e anticolonialista dei paesi afroasiatici. Negli anni seguenti si impegnò, anche attraverso una politica di aiuti economici e tecnici, ad allargare quel fronte a tutti i paesi che erano in contrasto con le potenze occidentali. Durante la crisi di Suez del 1956 so­ stenne Nasser; nel 1957-58 fàvorì le forze rivoluzionarie in Siria e nell'I­ raq; nel settembre 1958, precedendo l'Urss, riconobbe de jure la repub­ blica algerina. Questa politica di destabilizzazione del quadro internazio­ nale continuò successivamente con l'appoggio offerto alla Cambogia, al­ l'Indonesia, a Cuba, al Ghana, al Senegal, alla Somalia, alla Guinea, al­ lorché questi paesi accentuarono la loro polemica antioccidentale. Ma nel 1959 soffocò nel sangue una rivolta scoppiata nel Tibet e occupò territori di frontiera in contestazione con l'India nel Ladak e lungo la linea Mac Mahon, causando un rapido deterioramento dei rapporti con Delhi. Nel­ l'autunno del 1 962 la tensione dette luogo ad un breve conflitto armato, che permise ai cinesi di impossessarsi dei territori contesi, ma che soprat­ tutto inflisse un grave colpo al prestigio dell'India e alla sua politica di non allineamento tra i paesi del terzo mondo. Fin dal 1947 - anno della proclamazione dell'indipendenza - l'U­ nione indiana fu presente attivamente nei problemi mondiali: di fronte ai contrasti e ai blocchi contrapposti, per iniziativa del Pandit Nehru essa svolse una politica definita di «non allineamento» o di neutralità attiva. Paese anticolonialista e antirazziale, contrario quindi alla presenza in Asia di potenze in veste ancora coloniale, fece suo lo slogan «l'Asia agli asiatici» , già lanciato dal Giappone prima della guerra. La notevole possi­ bilità di movimento che offriva questa posizione, permise al governo di Nuova Delhi di giocare un ruolo di mediatore tra Occidente e Unione So­ vietica; questa politica di «equidistanza» tra i due blocchi trovò conferma alla conferenza di Bandung. Convocata nel 1955, questa conferenza si riunì dal 1 8 al 24 aprile con la partecipazione di trenta stati: India, Pakistan, Ceylon, Birmania, Indo­ nesia, Egitto, Libia, Irak, Libano, Siria, Giordania, Arabia Saudita, Ye­ men, Turchia, Iran, Afghanistan, Etiopia, Costa d'Oro (il futuro Gana) , Liberia, Sudan, Federazione dell'Africa centrale, Cambogia, Laos, Viet­ nam del sud, Vietnam del nord, Thailandia, Filippine, Nepal, Cina comu­ nista e Giappone. Il principale tema affrontato fu quello dei rapporti est-ovest. Nehru propose la creazione di una terza forza internazionale, che avrebbe dovu­ to favorire la coesistenza tra i due blocchi. Questa idea venne accettata, ma risultò alquanto annacquata dal riconoscimento del principio secondo cui ciascuna nazione aveva il diritto di difendersi, individualmente e col348

lettivamente, in conformità alla carta delle Nazioni Unite. Le posizioni russe e americane non venivano così affatto scalzate e il neutralismo, tan­ to voluto da Nehru, ne risultò pertanto fortemente ridimensionato. A differenza della Cina, il Giappone non fu particolarmente attivo in campo internazionale nel quinquennio 1952-1956. Contestualmente alla firma del trattato di pace nippo-americano, 1'8 settembre 195 1 , era stato raggiunto un «patto di sicurezza reciproca» , con il quale gli Stati Uniti si erano assicurati il diritto di mantenere forze armate sul territorio giappo­ nese, il quale a sua volta si impegnava a non concedere basi militari ad al­ tre potenze. L'accentuato legame alla politica degli Stati Uniti che ne derivava fu causa, però, di moti di insofferenza sia tra i nazionalisti e i conservatori, che tra i socialisti e i comunisti. D'altronde, il Giappone rivendicava dagli Usa le isole Bonin e O kinawa nelle Ryukyu. Dai sovietici le isole Curili, la parte meridionale di Sakhalin e soprattutto le isole Habomai e Scikotan, a nord di Hokkaido. Nel dicembre 1954, la pressione delle opposizioni causò la caduta del governo presieduto dal liberale Y oscida, che fu sostituito dal democratico Hatoyama. Questi avviò, ai primi del 1 956, negoziati con l'Urss per giun­ gere alla firma di un trattato di pace. In ottobre fu raggiunto un primo ri­ sultato: la sigla di un accordo per porre fine allo stato di guerra, la rinunzia alla richiesta di riparazioni da parte dell'Unione Sovietica, il rimpatrio dei prigionieri di guerra giapponesi e la ripresa delle relazioni diplomatiche. Quanto ai problemi territoriali, una dichiarazione rendeva noto che «l'Urss accetta di restituire al Giappone le isole Habomai e Scikotan», ma tale restituzione sarebbe divenuta operativa solo dopo la conclusione del trattato di pace. 11 18 dicembre 1956 il Giappone fu ammesso alle Nazioni Unite.

8. Il XX congresso del Pcus e le sue conseguenze

Con la morte di Stalin, il 2 marzo 1953, si era aperta per l'Urss una nuova fase, sia come regime che come politica estera. Tramontato il prin­ cipio della dittatura personale, era tornata di moda la direzione collettiva. La lotta per il potere, iniziata all'indomani stesso della scomparsa del vec­ chio tiranno, aveva portato alla ribalta, dopo l'eliminazione il 23 dicem­ bre di Berija e dei suoi seguaci, Malenkov sostituito, 1'8 febbraio 1955, da Bulganin e da Kruscev, il dinamico segretario del comitato centrale. La nuova dirigenza sentiva come un peso intollerabile e un freno alla 34 9

propria ascesa il persistere del «culto della personalità» . Il ricordo di Sta­ lin premeva ancora troppo su tutto e tutti perché non si avvertisse la ne­ cessità di ridimensioname la figura. Questo fu il compito del XX congres­ so del partito comunista che si tenne dal 14 al 25 febbraio 1956, nel quale Kruscev si applicò ad abbattere il «mito» di Stalin. Benché le accuse rivolte da Kruscev a Stalin riguardassero soprattutto la politica interna del defunto autocrate, gli effetti della requisitoria kru­ sceviana antistalinista furono, tranne che per la Cina, a dir poco sconvol­ genti negli altri paesi comunisti. In Polonia la «destalinizzazione» prese subito un indirizzo radicale. In giugno, a Poznan, importante nodo ferroviario, commerciale e mani­ fatturiero, uno sciopero del settore industriale, causato dal «profondo malcontento della classe operaia» , come affermerà più tardi Gomulka, si trasformò in una grave sommossa di importanza nazionale, tesa a rimette­ re in discussione il regime stesso, che il governo dovette reprimere facen­ do ricorso alle forze armate. Ciò tuttavia non spense la crisi; anzi, incorag­ giò la resistenza dei «liberali» , facenti capo a Cyrankiewicz e a Ochab, contro il gruppo di Natolin, dal nome del luogo dove si riunivano, di No­ wak e Rokossovskij . Mentre l a tensione cresceva, il 1 9 ottobre il comitato centrale polacco si riunì per nominare primo segretario Gomulka, già segretario generale del partito operaio, arrestato nel 195 1 per «deviazionismo nazionalisti­ co» . Non appena la notizia giunse a Mosca, Kruscev, Kaganovic, Mikojan e Molotov partirono per Varsavia, mentre unità militari sovietiche co­ minciarono ad avanzare verso nord, dalla Slesia, e verso est, dalla Germa­ nia orientale. Anche truppe polacche, agli ordini del maresciallo Rokos­ sovskij , il ministro della Difesa polacco, marciarono in direzione della ca­ pitale. Per un momento sembrò materializzarsi lo spettro di un intervento armato. Le conversazioni subito avviate tra la delegazione sovietica e i polac­ chi allontanarono il pericolo di una repressione militare. Gomulka riuscì a convincere gli interlocutori moscoviti che non c'erano alternative alla si­ tuazione venutasi a creare nel paese. Il leader polacco rassicurò Kruscev che egli non intendeva portare la Polonia fuori dal patto di Varsavia. La delegazione sovietica, tranquillizzata, se ne tornò in patria. Il 2 1 ottobre Gomulka fu eletto membro dell'ufficio politico e confermato nella carica di primo segretario, mentre l'inviso maresciallo Rokossovskij , non rielet­ to nel Politburo, fu costretto alle dimissioni e a fare ritorno a Mosca. Varsavia aveva vinto la sua battaglia per l'emancipazione da Mo sca, ma i polacchi fecero tutto il possibile per convincere i russi che la conqui350

stata autonomia non voleva significare distacco dall'Urss, a fianco della quale la Polonia sarebbe rimasta per quanto riguardava la politica estera e la difesa. 11 1 8 novembre 1956, venne finnato a Mosca un accordo con cui i due governi riconoscevano che la loro politica perseguiva «obiettivi mol­ to simili» ; truppe sovietiche sarebbero rimaste in territorio polacco, ma sotto il controllo del governo di Varsavia. L'Urss aprì una linea di credito a lungo termine a favore della Polonia e cancellò alcuni debiti contratti nel precedente periodo di sfruttamento economico, riconoscendo implicitamente che sotto Stalin la Polonia era stata sottoposta ad un brutale sfruttamento, come d'altronde tutti gli altri paesi satelliti. In Ungheria la crisi ebbe un andamento del tutto diverso. Le notizie provenienti dalla Polonia sull'esito favorevole della sommossa avevano suscitato l'entusiasmo dei riformisti ungheresi. La Polonia socialista sem­ brava essersi incamminata su una strada nuova. 11 23 ottobre, una enorme folla si ammassò nella piazza del parlamento a Budapest per chiedere maggiore libertà. Erno Gera, un ex-stalinista, che a giugno era stato no­ minato segretario generale al posto di Rakosi, ordinò alla polizia di spara­ re sui manifestanti. Il giorno dopo uno sciopero generale paralizzò il pae­ se. Il 25 ottobre, una delegazione sovietica volò a Budapest e consigliò a Gero e ad alcuni dei suoi seguaci di lasciare il paese al più presto. Janos Kadar, che era stato anch'egli come Gomulka, vittima delle epurazioni staliniane, venne nominato primo segretario del partito. Egli promise un governo di coalizione e il ritiro delle truppe sovietiche, nel frattempo en­ trate nel paese. Al governo salì Imre Nagy, già presidente del Consiglio nel 1953, pa­ dre di un «nuovo corso» politico ed economico, durato fino al febbraio 1955, quando fu costretto alle dimissioni da Rakosi, tornato alla ribalta dopo la caduta in disgrazia di Malenkov, grande protettore di Nagy. Il nuovo governo, costituitosi il 27 ottobre, ottenne il ritiro delle truppe so­ vietiche da Budapest. Sospinto da una piazza, a dir poco scatenata, Nagy non seppe distinguere esattamente, al contrario di Kadar, i limiti entro i quali andava interpretata la dichiarazione di Mosca che tutti i paesi della grande comunità delle nazioni socialiste avevano completa parità di diritti e indipendenza politica. Così si spinse a chiedere il ritiro dell'Ungheria dal p atto di Varsavia, la neutralità del paese, sul modello della Finlandia, del­ l ' Austria e della Jugoslavia, l'abolizione del sistema del partito unico, la li­ ber azione del cardinale Mindszenty, libere elezioni. L'esercito, guidato da Pal Maleter, si schierò con gli studenti e gli operai in rivolta. La milizia comunista venne travolta. 351

11 1 o novembre i rinforzi sovietici cominciarono ad affluire in Unghe­ ria. 11 4, all'alba, i carri armati sovietici cominciarono a sparare sulle barri­ cate degli insorti. La radio trasmise la registrazione di un discorso di'J ano s Kadar, che si era dissociato da Nagy, nel quale annunciava la creazione di un nuovo governo ungherese, presieduto da lui stesso, in nome del quale aveva chiesto al «comando supremo dell'esercito sovietico di aiutare il nostro paese a sconfiggere le sinistre forze della reazione e a riportare l'or­ dine e la calma nel paese». La lotta durò alcuni giorni. La repressione sovietica vinse, schiaccian­ do facilmente la resistenza delle milizie operaie, male armate, e delle po­ che unità militari ungheresi. Scioperi e altri atti di resistenza vennero an­ cora segnalati qua e là nel paese, ma il governo Kadar poté facilmente ri­ stabilire nel paese una dittatura totale, al prezzo di migliaia di morti e feriti e di 200.000 esuli volontari. Imre Nagy e Pal Maleter furono arrestati, condannati a morte e giustiziati. I fatti d'Ungheria distrussero alla radice tutte le speranze, germogliate dopo il XX congresso, di una possibile «desatellizzazione» dei paesi del­ l'est europeo. Ma la crisi ungherese dimostrò anche un'altra cosa; che i comunisti locali chiedessero una maggiore indipendenza da Mosca pote­ va anche essere accettabile, molto di meno che i partiti comunisti potesse­ ro venire praticamente spazzati via da una insurrezione popolare. Perciò i leader comunisti dell'Europa orientale, Tito compreso, preoccupati per la piega che avevano preso le cose in Ungheria, salutarono favorevolmen­ te l'intervento sovietico. La soluzione data alla crisi d'Ungheria segnò un ritorno dell'Urss ai metodi staliniani, cosa che lo stesso Kr{!.scev sottolineò il 1 o gennaio 1957, quando ricordò che: «Stalin schiacciava i nostri nemici. Personalmente io sono cresciuto sotto Stalin. Possiamo essere fieri di avere cooperato alla lotta contro i nostri nemici per il progresso della nostra grande causa. Sot­ to questo profilo, sono fiero che noi siamo staliniani» .

9. Il Mercato comune europeo

Il fallimento della Ced, nell'agosto del '54, aveva fatto capire che una larga fetta dell'opinione pubblica europea non era ancora pronta ad ac­ cettare l'unità politica del vecchio continente, e in pari tempo che un ri­ lancio dell'idea d'Europa era possibile solo percorrendo altre strade, a cominciare da quella per l'integrazione economica. L'uscita di scena in Francia di Mendès-France, il 6 febbraio 1955, e la 352

formazione di un governo di «filo-europeisti» , Faure presidente del Con­ siglio e Pinay ministro degli Esteri, sembrava l'occasione favorevole per riprendere l'iniziativa. 11 1 o giugno 1955 si apriva, infatti, a Messina la conferenza dei sei ministri degli Esteri della Ceca, la quale fissò, in una ri­ soluzione ormai divenuta storica, gli estremi del processo di integrazione che si sarebbe sviluppato, nonché il metodo da seguire per giungere a ri­ sultati definitivi. La conferenza scelse due campi essenziali per l'azione futura; quello nucleare e quello del mercato comune. La risoluzione di Messina affermava che era «giunto il momento di raggiungere una nuova tappa sulla via dell'integrazione europea» , esprimendo così l'opinione che tale tappa dovesse essere realizzata innanzitutto nel campo economi­ co. I lavori proseguirono poi secondo una procedura che era stata elabo­ rata a Messina. Il ministro degli Esteri belga, Spaak, fu posto alla guida di un comitato intergovernativo, assistito da esperti, al quale era demandato il compito di redigere gli strumenti internazionali relativi alle suddette materie. La risoluzione di Messina aveva altresì prefigurato uno stretto coordinamento fra i lavori del comitato e gli organismi europei esistenti ed aveva invitato il governo di Londra a prendere parte ai lavori. Alla fine di maggio del 19 56 i sei si rividero a Venezia dove discussero le proposte elaborate dalla commissione di Bruxelles. Il rapporto degli esperti riteneva possibile che fra i sei paesi potesse attuarsi, in un periodo transitorio di dodici-quindici anni, un'unione doganale completa ed una Comunità atomica europea. Il documento conteneva anche indicazioni abbastanza precise per la soluzione dei problemi istituzionali, il coordina­ mento delle politiche economiche nazionali, l'applicazione di clausole di salvaguardia e la unificazione della politica commerciale verso i paesi ter­ zi. Fecero poi seguito altri incontri, nel corso dei quali vennero superati gli ultimi ostacoli. La complessa trattativa si concluse, infine, a Roma, in Campidoglio, dove il 25 marzo 1957 vennero firmati i trattati che istitui­ vano il Mercato comune e l'Euratom. I due trattati creavano una nuova struttura istituzionale: un Consiglio dei ministri, che nel Mercato comune sarebbe stato assistito da una com­ missione di nove membri designati di comune accordo dai ministri ( cin­ que per l'Euratom) , che aveva il compito di preparare il lavoro per il Con­ siglio. Un'assemblea di 142 parlamentari, eletti dai parlamenti nazionali ( dal 1979 a suffragio popolare ) , avrebbe funzionato da organo di control­ lo. Erano anche previste una corte di giustizia ed una banca europea di in­ vestimenti. La creazione del Mercato comune prevedeva la libera circolazione 353

dei beni, della manodopera, dei servizi e dei capitali, secondo uno scaden­ zario che fissava al 1969 il completamento di questo processo di liberaliz­ zazione. La realizzazione di tutti questi obiettivi comportava un processo di armonizzazione di leggi, regolamenti e politiche, oltre alla creazione di vari altri organismi specializzati, indispensabili per attuare in concreto le direttive della nuova istituzione. L'Europa occidentale si apprestava ad affrontare la sfida del Mercato comune in condizioni economiche e finanziarie abbastanza soddisfacenti. Da un decennio, infatti, l'economia europea stava crescendo ininterrotta­ mente e a ritmi particolarmente elevati; il dollar gap era stato annullato, tanto che ora erano gli Stati Uniti ad avere in rosso i loro conti con l'estero. Dal punto di vista politico le cose, invece, non si presentavano in ma­ niera così rosea. Se Germania, Italia e paesi del Benelux ratificarono sen­ za grosse difficoltà i trattati di Roma, in Francia il dibattito parlamentare fece registrare una forte opposizione alla ratifica, che tuttavia passò, no­ nostante si contassero ben 235 voti contrari. In concomitanza con la realizzazione del Mec, il governo britannico avviava il progetto di una «zona di libero scambio» , con la partecipazione dei paesi scandinavi e del Portogallo. Il piano inglese limitava l'intesa di li­ bero scambio ai soli prodotti industriali, con esclusione di quelli agricoli, dei servizi e di ogni altra misura integrazionista che in una qualche misura potesse portare ad una comunità economica europea. Tra il Mec e l' area di libero scambio gli Stati Uniti si pronunciarono a favore del primo, benché non senza riserve. La tariffa doganale comune prevista dai trattati di Roma era una possibile minaccia per le esportazioni americane in Europa e la Casa Bianca non mancò di farlo rilevare, ma una Europa avviata verso forme più strette di integrazione rappresentava, agli occhi degli americani, un vantaggio politico potenzialmente superiore ai rischi commerciali. Malgrado l'ostilità americana e il rifiuto dei «sei» di aderire al proget­ to di unione doganale, l'Inghilterra decideva ugualmente di realizzare il piano per l'area di libero scambio, !imitandolo a sette paesi. Nel luglio 1959 nasceva così l'Efta (European Free Trade Association ), cui parteci­ pavano la Gran Bretagna, la Svezia, la Svizzera, l'Austria, la Danimarca, la Norvegia e il Portogallo. L'organizzazione cominciava a funzionare nel maggio 1 960. Benché ciò comportasse la divisione in due dell'Europa - da una parte «sei» paesi decisi a raggiungere l'integrazione economica come fase di passaggio a quella politica; dall'altra un gruppo che se ne distanziava ­ l'idea di una Comunità politica europea su base federalista non era da 354

considerarsi tramontata, ma soltanto temporaneamente accantonata. A pochi sfuggiva il fatto che solamente una Europa unita sul piano politico oltreché economico avesse la possibilità di sopravvivere, mentre, al con­ trario, un'Europa legata ai miti di un passato di egoismi e di lotte intestine mai avrebbe potuto recuperare il suo antico ruolo di primaria importanza nella storia mondiale. Il cammino tuttavia si annunciava difficile e irto di ostacoli. Il primo, quasi all'indomani della firma degli accordi di Roma, fu il crollo della Quarta repubblica francese e l'ascesa al potere del generale De Gaulle, che sull'Europa aveva concezioni assai differenti da quelle dei federalisti.

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3. Un decennio difficile (1 958-1 968)

1. Kruscev: I limiti di una politica estera

A partire dal 1 957-58, la politica estera sovietica, oltre che con gli Stati Uniti, dovette confrontarsi anche con la Cina. Questo fatto nuovo influenzò notevolmente le scelte di politica internazionale del Cremlino. La distensione continuava ad essere al centro di tale politica; tuttavia, il crescente contrasto con i comunisti cinesi, i quali rifiutavano di considera­ re la coesistenza pacifica come fine generale del movimento comunista, come linea strategica e politica permanente, costringeva gli uomini di Mosca, per non lasciare ai cinesi il monopolio dell'antiimperialismo mili­ tante, a continui aggiustamenti, spesso ad imprimere alla loro azione un dinamismo a cui forse avrebbero preferito rinunciare, senza per questo rinnegare lo scontro politico-ideologico con l'avversario storico. Il soste­ gno alle lotte di liberazione nazionale dei popoli asiatici, africani e latino­ americani non poteva essere rinnegato, ma doveva assumere forme nuo­ ve, come competizione economica, politica ed ideologica e molto meno come lotta armata. Era un'impostazione «moderata» , un silenziatore im­ posto all'azione rivoluzionaria mondiale che doveva costituire, ad un tempo, il banco di prova della distensione e della riaffermazione del ruolo guida dell'Urss nel campo comunista. Fu spesso la miopia degli occiden­ tali a costringere l'Urss a dover cambiare tale atteggiamento. Suez fu un esempio emblematico di come quella strategia poteva mutare per adattar­ si alle circostanze. E quando, prima in Medio Oriente e poi in Africa, si presentarono delle occasioni, la tentazione per l'Urss di giocare pesante fu forte, a prescindere dalla Cina. Nel 1957 la Siria fu al centro di una nuova crisi mediorientale. Si parlò di piani militari siriani diretti contro i suoi vicini filoccidentali con il soste­ gno di Mosca. Corsero voci di una concentrazione dell'esercito turco al confine con la Siria e di aiuti militari americani alla Giordania. Kruscev fe356

ce la voce grossa. Avvertì gli americani di non spingere la Turchia ad at­ taccare la Siria e mise in guardia Ankara dall'assecondare i piani ameri­ cani. Tali minacce ebbero successo; la tensione calò rapidamente di to­ no. Kruscev aveva metabolizzato la lezione del 1956. Poteva creare delle difficoltà agli Stati Uniti con una certa facilità, senza correre gravi rischi e impegnandosi quanto bastava. L'altra faccia della medaglia era che così facendo l'Urss si stava impegolando in una parte del mondo in perenne crisi, che l'avrebbe costretta ad un confronto assai costoso con gli occi­ dentali. Nel 1958 il Libano e la Giordania furono investite da un terremoto politico, con epicentro nell'Egitto di Nasser. Il colonnello era considerato il volano dei torbidi che tenevano costantemente in ebollizione la tormen­ tata regione. Il colpo di stato in Iraq del generale Kassem ne fu ben più di un campanello d'allarme. Decisi ad impedire che il fuoco si estendesse fi­ no ad incendiare i loro ultimi amici in Medio Oriente, inglesi e americani furono lesti ad agire. I primi inviarono paracadutisti in Giordania, i secon­ di sbarcarono truppe · nel Libano. La reazione di Kruscev fu immediata; non solo ricordò minacciosa­ mente agli anglo-americani che l'Unione Sovietica disponeva di un po­ tente arsenale nucleare, come i necessari vettori, missili intercontinentali compresi, ma li mise anche in guardia dal giocare col fuoco, perché una volta attizzato un incendio non era poi tanto facile spegnerlo. Gli anglo­ americani non si lasciarono intimorire; Kruscev propose allora una con­ ferenza dei Quattro grandi, più l'India. Non se ne fece nulla e anche que­ sta crisi, come la precedente, si sgonfiò abbastanza rapidamente, anche perché gli alleati non avevano nessuna intenzione di attaccare l'Iraq. Non s'era ancora spenta l'eco di questa crisi che un altro incendio scoppiava in Estremo Oriente. Questa volta furono i comunisti cinesi a prendere l'iniziativa, decidendo di sottoporre ad un pesante bombarda­ mento le isole di Quemoy e Matsu. Il governo americano, benché contro­ voglia, si sentì obbligato a riconfermare a Chiang l'appoggio promesso in caso di un attacco cino-comunista. Altrettanto controvoglia - al governo sovietico non arrideva affatto l'idea di venire coinvolto in una guerra sca­ tenata dai cinesi -, Kruscev dovette ricordare agli americani che un'azio­ ne di forza contro la Cina popolare sarebbe stato considerato un attacco diretto contro l'Urss. Fortunatamente, nel novembre 1958, la tensione nel mare di Formosa cominciò ad allentarsi. Finora Kruscev aveva recitato una parte tutto sommato di comprima­ rio nei più recenti avvenimenti internazionali. Era venuto il momento di prendere delle iniziative, rese necessarie anche per dimostrare alla Cina, 357

che manifestava segni di insofferenza, che l'Urss non si era appiattita sulla politica della distensione. Il 27 novembre 1958, il primo segretario del Pcus pensò bene così di aprire una nuova crisi in Occidente rilanciando il problema tedesco, con l'intimazione agli anglo-franco-americani di sgombrare entro sei mesi Berlino Ovest o di riconoscere la Germania orientale. In caso di rifiuto, il governo di Pankow avrebbe potuto impedi­ re loro l'accesso a Berlino; la rottura del blocco sarebbe stata causa di guerra. Per scongiurare che la situazione si deteriorasse pericolosamente, Macmillan propose una conferenza dei ministri degli Esteri dei Quattro grandi. Kruscev accolse l'idea, sebbene a malincuore. La riunione si svolse nell'estate del '59 a Ginevra e si concluse con un nulla di fatto perché le tesi dei due fronti contrapposti risultarono inconci­ liabili. Gli occidentali volevano la riunificazione della Germania attraver­ so libere elezioni; i russi la volevano realizzare per mezzo di negoziati di­ retti da stato a stato fra le due Germanie. L'unico risultato concreto rag­ giunto fu il ritiro, da parte sovietica, dell'ultimatum dei sei mesi. Un altro fatto contribuì poi a gettare acqua sul fuoco e cioè l'invito rivolto dal go­ verno americano a Kruscev di recarsi in visita negli Stati Uniti, invito subi­ to accolto dal leader sovietico. La visita ebbe inizio il 15 settembre e si protrasse per due settimane. Il momento più importante fu il soggiorno di due giorni a Camp David, du­ rante il quale Eisenhower accettò un incontro al vertice, da tenersi prima della fine dell'anno e di recarsi in visita in Russia nel 1 960. Il clima cordia­ le in cui maturarono questi due accordi fecero parlare di uno «spirito di Camp David» , di un'atmosfera cioè che sembrava rendere finalmente possibile una soluzione concordata della questione tedesca, una netta di­ stensione tra est ed ovest e forse qualcosa d'altro ancora. Le speranze nate a Camp David si dissolsero quando il l o maggio 1 960 un U2, un aereo spia americano, venne abbattuto all'interno del ter­ ritorio sovietico. Questo spiacevole incidente avrebbe avuto pesanti con­ seguenze sulla conferenza al vertice. Infatti, quando il 1 6 maggio i Quat­ tro grandi si riunirono a Parigi, un Kruscev molto irritato minacciò di far fallire i lavori se Eisenhower non si fosse scusato, non avesse promesso la sospensione definitiva dei voli e la punizione dei responsabili. Il presiden­ te, a cui le richieste erano state fatte in un tono a dir poco ingiurioso, si li­ mitò a garantire che i voli sarebbero stati sospesi per il restante periodo della sua presidenza. Ciò non fu sufficiente a salvare la conferenza, che in­ fatti fu chiusa ancora prima di cominciare. La situazione divenne nuovamente pesante. Kruscev tornò a minac­ ciare di fare una pace separata con la Rdt, a sparare violente bordate con358

tro gli Stati Uniti, bugiardi e perfidi, a sproloquiare sui successi dell'Urss in campo economico, vaticinando per gli anni settanta-ottanta il sorpasso dell'America in termini di produzione per abitante. Fu in questo clima surriscaldato che venne escogitata una soluzione al problema di Berlino. 11 1 3 agosto del 196 1 , i governanti della Germania orientale, col pretesto di frenare il massiccio esodo di loro concittadini verso Occidente, decisero di chiudere il limite tra il settore sovietico e quelli occidentali e contemporaneamente iniziarono la costruzione di un muro lungo il confine della Germania orientale. L'edificazione del muro mise fine alla crisi di Berlino. Interruppe l'emorragia di popolazione, per lo più elementi qualificati, di cui soffriva la Germania est; i sovietici mise­ ro in soffitta la minaccia di apportare modifiche allo statuto di Berlino ovest e non parlarono quasi più di firmare un trattato di pace separata con la Rdt. Tuttavia, il problema tedesco non scomparve dalla scena politica internazionale. Incidenti, note diplomatiche, difficoltà di ogni genere provocate dai sovietici tenevano desta l'attenzione del mondo. Kruscev se ne serviva come arma di pressione per ottenere qualcosa di più importan­ te dagli occidentali: la garanzia che Bonn non avrebbe mai posseduto ar­ mi atomiche. Dopo l'erezione del muro di Berlino, il problema tedesco era divenuto quello della «proliferazione nucleare» . I sovietici temevano l a proliferazione nucleare quanto e più degli oc­ cidentali e quando questo pericolo divenne concreto, cominciarono ad interessarsi al disarmo atomico. Fino a quel momento si erano sempre ri­ fiutati di prendere in considerazione proposte come quella della sospen­ sione degli esperimenti nucleari; ma ora, la prospettiva di poter impedire ad altri paesi, Cina e Germania occidentale in primis, l'accesso alle armi atomiche, li induceva a rivedere quella posizione. 11 19 dicembre 1 962, Kruscev propose agli americani «di porre fine una volta per tutte ad ogni esperimento» , dicendosi pronto, per raggiun­ gere tale obiettivo, a fare concessioni. Iniziava un difficile negoziato che, tra alti e bassi, si protrarrà fino al 5 agosto 1963, quando venne firmato da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica, un accordo per la messa al bando a tempo indeterminato degli esperimenti nucleari nell'atmosfera e sott'acqua, mentre per quelli sotterranei si rinviava ad un successivo ne­ goziato. Il trattato era aperto all'adesione di altri stati. Ciò significava che chi lo avesse sottoscritto, avrebbe automaticamente rinunciato a fabbri­ care bombe atomiche. Per questa via i sovietici speravano che l'accordo si potesse trasformare in un ferreo trattato di non proliferazione impegnan­ do le potenze nucleari a non trasmettere le loro armi e le loro conoscenze tecnologiche a terzi stati intenzionati a costruire la bomba. 359

La Francia rifiutò di sottoscrivere il patto argomentando che tale ac­ cordo non modificava affatto la situazione esistente, dal momento che le due superpotenze continuavano «a mantenere il potere di distruggere l'u­ niverso» , altresì dimostrando di «non avere alcuna intenzione di rinun­ ciare a quel potere». Anche la Cina disse di no al trattato bollandolo come «una sporca frode perpetrata da Gran Bretagna, Unione Sovietica e Stati Uniti per consolidare il loro monopolio nucleare e legare le mani a tutti i paesi amanti della pace soggetti al trattato» . Secondo Pechino, i sovietici, firmando l'accordo, avevano inoltre «svenduto gli interessi della Cina» . Era un altro tassello del contrasto che ormai da anni opponeva i comunisti cinesi alla dirigenza sovietica.

2. Il conflitto cino-sovietico

I primi anni dopo la presa del potere da parte dei comunisti in Cina nel 1 949 furono caratterizzati da una stretta collaborazione con l'Unione So­ vietica, come testimoniava il trattato di alleanza cino-sovietico, puramen ­ te difensivo ed essenzialmente diretto contro il Giappone, sottoscritto il 14 febbraio '50 dopo un viaggio di Mao Tse-tung a Mosca. Ma negli anni immediatamente successivi alla morte di Stalin, la politica cinese verso il mondo esterno cominciò a discostarsi da quella di Mosca, a farsi più auto­ noma. Alla conferenza di Bandung del 1955, i cinesi si schierarono con i governi neutralisti contro l'imperialismo e sottoscrissero i cinque principi cui avrebbero dovuto ispirarsi i rapporti internazionali: il rispetto della sovranità e dell'indipendenza nazionale, l'eguaglianza fra gli stati, la non interferenza negli affari interni e l'autodeterminazione, in anticipo sui russi. Nel '56 la sfida prese più decisi contorni; i cinesi non apprezzarono la denuncia di Kruscev degli orrori staliniani pronunciata al XX congresso del Pcus, ma ancor di meno condivisero i due radicali emendamenti al ca­ none leninista: il primo negava l'inevitabilità della guerra, mentre il se­ condo la necessità della rivoluzione violenta nella marcia per l'instaura­ zione del comunismo mondiale. I russi intendevano forse abbandonare la lotta rivoluzionaria per timore di una guerra nucleare? I cinesi erano sconcertati, ma non osarono ancora sfidare pubblicamente le decisioni del XX congresso. Apparentemente, il monolitismo del campo socialista sembrava ancora intatto. Nell'ottobre e novembre 1956, il partito comu­ nista cinese approvò la repressione sovietica in Ungheria. Nel novembre 1957, la delegazione cinese presente alla conferenza di Mosca sottoscris360

se la Dichiarazione conclusiva dei lavori, nella quale veniva ribadito il concetto che la guerra non era fatalmente inevitabile, che in alcuni casi il comunismo poteva essere realizzato con mezzi pacifici, mentre in altre re­ altà, come nei paesi sottosviluppati d'Africa, Asia e America latina pote­ va essere necessario il ricorso alla violenza. Vi era inoltre affermato il so­ stegno ai movimenti di liberazione nazionale che agivano nei paesi ancora coloniali. Infine, veniva messa la sordina alla tesi delle « differenti vie al socialismo» . Dunque, l a Dichiarazione del 1957 aveva riaffermato, pur annac­ quandole, le tre tesi enunciate da Kruscev al XX congresso del Pcus (non inevitabilità della guerra; rivoluzione senza violenza e differenti vie al so­ cialismo) . I cinesi ne furono i coautori e ovviamente la firmarono. Ma la valutavano in maniera differente dai sovietici. A differenza di Kruscev che la riteneva un mezzo della politica dello stato sovietico, Mao la consi­ derava strumentale al processo rivoluzionario. Il contrasto interpretativo apparve in tutta la sua portata in occasione della crisi mediorientale del­ l'estate del 1958, durante la quale i cinesi fecero pressioni sui russi perché si opponessero, anche con l'uso della forza, alla presenza militare occi­ dentale in Libano e in Giordania. Superata la crisi del '58, Kruscev cominciò a intravedere la possibilità di intendersi con Washington. La Cina, al contrario, accentuò il suo atteg­ giamento ostile ai paesi capitalisti. Nell'estate del 1959 il dissenso cino­ sovietico ebbe un'improvvisa impennata. Nel mese di agosto i cinesi oltre­ passarono il confine indiano per inseguire i ribelli tibetani che nel marzo precedente avevano capeggiato una rivolta armata contro gli occupanti cinesi. L'Unione Sovietica si schierò dalla parte dell'India, alla quale fornì un sostanzioso aiuto finanziario, che i cinesi interpretarono come un atto ostile. In settembre Kruscev visitò l'America da dove tornò tutto permeato dallo «spirito di Camp David» . Era un altro motivo di tensione tra i due paesi socialisti, che nemmeno la visita di Kruscev a Pechino nel successivo mese di ottobre, in occasione del decimo anniversario della rivoluzione cinese, riuscì ad allentare. Ad aumentare l'asprezza del contrasto contri­ b uì, nel febbraio 1 960, una riunione delle potenze del patto di Varsavia, nel corso della quale Kruscev attaccò violentemente la politica cinese e da cui emerse in modo estremamente chiaro che l'Unione Sovietica non era più intenzionata ad aiutare la Cina a costruirsi armi nucleari. Subito dopo venne deciso di ritirare i tecnici dalla Cina e in seguito di sospendere la fornitura di pezzi di ricambio e di petrolio. Si era ormai alla rottura, che divenne pubblica ed ufficiale per il movi361

mento comunista internazionale durante il congresso del partito comuni­ sta romeno a Bucarest, nel giugno del 1 960, dove Kruscev affrontò perso­ nalmente i delegati cinesi, sui quali riversò tutto l'astio covato per tanto tempo. Tuttavia, dato che le discussioni erano state segrete, nel novembre 1 960 venne fatto un tentativo per cercare di ricomporre l'unità del campo socialista. Allo scopo, una conferenza di 8 1 partiti comunisti si riunì a Mosca dall' 1 1 al 25 di quel mese. Questa si concluse con un documento, adottato all'unanimità, di condanna dell' «imperialismo americano» , «baluardo principale della reazione mondiale e nemica dei popoli del mondo intero» . Malgrado ciò, questa seconda Dichiarazione di Mosca, resa pubblica il 6 dicembre, non sanò affatto le divergenze e risultò essere soltanto un precario compromesso. In effetti il rifiuto dei cinesi di accettare le posizio­ ni sovietiche, soprattutto la rinuncia alla guerra totale per ottenere la vit­ toria sugli «imperialisti» , apriva un nuovo capitolo internazionale, in coincidenza con le grandi lotte di liberazione in Asia, Africa e America la­ tina, delle quali la Cina si faceva strenua sostenitrice. Nell'ottobre 1 9 6 1 si aprì a Mosca il XXII congresso del Pcus. Kruscev vi sferrò un nuovo attacco a Stalin, accusato di avere dilatato fino all'inve­ rosimile il culto della personalità, di avere tradito i principi del leninismo, di avere perpetrato orrendi crimini contro l'umanità. In seguito a ciò, il congresso ordinò di togliere la mummia di Stalin dal mausoleo sulla Piaz­ za Rossa. Poi Kruscev si scagliò contro un gruppo di oppositori interni, il noto «gruppo anti-partito» , di cui facevano parte Molotov, Kaganovic, Malenkov e Voroscilov, tutti staliniani e perciò contrari alla politica kru­ sceviana. Ciò irritò i cinesi, ai quali non era mai andata giù la condanna di Stalin. Ad aumentare il malumore dei cinesi contribuì poi l'anatema contro l'Albania, lanciato da Kruscev il 17 ottobre. I contrasti con il piccolo pae­ se adriatico datavano dalla metà degli anni cinquanta, quando vi era stato il riavvicinamento fra l'U rss e la Jugoslavia. I dirigenti albanesi non aveva­ no mai smesso di temere che il loro paese potesse essere assorbito dalla più forte e potente vicina. Perciò cominciarono ad accusare gli jugoslavi di mire imperialistiche, né valse a mitigare la loro ostilità e la loro diffidenza la visita che Kruscev compì a Tirana nel maggio del 1959. La tensione tra Mosca e Tirana si acuì nel gennaio-maggio 196 1 , quando i russi decisero di sospendere l'invio di materiali necessari all'am ­ modernamento dell'apparato industriale albanese, di rimpatriare gli esperti petroliferi e di ritirare la flotta di stanza nel porto di Valona. Era inevitabile che l'Albania, sentendosi isolata, andasse alla ricerca di ap­ poggi e che Pechino fosse ben lieta di fornirle. 362

Albanesi e cinesi avevano marciato di comune accordo sia alle assise di Bucarest che di Mosca, coordinando le accuse contro Kruscev. Ora il leader sovietico si rifaceva rinfacciando ai comunisti albanesi le loro «er­ ronee opinioni» e li invitava paternamente a «ritornare sulla via dell'unità e della stretta collaborazione nella famiglia fraterna dell'intesa sociali­ sta» . Rivolgendosi ali' Albania, Kruscev per la verità intendeva riferirsi al­ la Cina. Ma i cinesi non avevano nessuna intenzione di fare marcia indie­ tro e se ne tornarono a casa sbattendo la porta. Nell'aprile e maggio 1962 scontri armati surriscaldarono la lunga (7.000 km) frontiera tra Urss e Cina. Nell'ottobre dello stesso anno Pe­ chino stigmatizzò il ritiro dei missili da Cuba, definendo la ritirata dall'iso­ la una nuova Monaco. Contemporaneamente ripresero le scaramucce tra Cina e India lungo la frontiera dell'Himalaya. Mosca promise di inviare caccia a reazione in India, un vero affronto per Pechino. Ormai si era giunti ai ferri corti. Dopo inconcludenti scambi diploma­ tici tra comunisti cinesi e sovietici, si arrivò nell'estate del 1963 alla resa dei conti. 11 14 giugno veniva diffusa una Proposta per una linea generale del movimento comunista internazionalein 25 punti, un attacco ideologi­ co in pieno stile, nella quale si accusavano i comunisti sovietici di tradire, con la loro politica, la rivoluzione mondiale. La disputa aveva poi modo di trasformarsi in contrasto tra stati quando venne firmato a Mosca, il 25 lu­ glio 1963, l'accordo per la messa al bando degli esperimenti nucleari nel­ l'atmosfera, che per i sovietici costituiva un importante contributo al di­ sarmo, mentre per i cinesi era solo un mezzo con cui le potenze nucleari intendevano assicurarsi il monopolio atomico. La polemica ideologica tornò alla ribalta quando, il 14 luglio 1964, venne reso noto a Pechino un testo intitolato: Lo pseudo comunismo di Kruscev e le lezioni storiche che dà al mondo. Il leader sovietico veniva ac­ cusato di essere revisionista, di avere incoraggiato il formarsi di una nuova casta borghese, fatta di dirigenti di partito, di uomini di governo, di ammi­ nistratori, di intellettuali e di scienziati. Secondo le tesi cinesi, «Il comuni­ s mo di Kruscev è nella sua essenza una variante del socialismo borghese» . In agosto Mao Tse-tung rincarò la dose definendo l'Urss uno stato imperialista. In Europa si era impossessata di una parte della Romania, aveva ceduto la Germania orientale alla Polonia dopo essersi presa la Po­ lonia orientale. Ovunque, «l russi si sono presi tutto quello che hanno po­ tuto» . Come le Curili, che avrebbero dovuto essere immediatamente re­ stituite al Giappone, come la Mongolia o i territori portati via alla Cina nel corso del XIX secolo. La provocazione era inaudita e avrebbe meritato una adeguata rispo363

sta. Ma l'era di Kruscev volgeva alla fine e la replica sarebbe spettata ai suoi successori.

3. I