Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 [PDF]

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Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 di Federico Chabod

Storia d’Italia Einaudi

Edizione di riferimento: Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, Roma-Bari 1971

Storia d’Italia Einaudi

II

Sommario Prefazione

1

Avvertenza

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Parte prima. Le passioni e le idee

17 17

Capitolo Primo. La guerra franco-prussiana e l’Italia I. L’insegnamento della Prussia II. La lezione della «realtà»

17 86

III. Contro la «realtà» bismarckiana Capitolo Secondo. L’idea di Roma

110 165

I. La «missione» di Roma

165

II. Scienza o renovatio ecclesiae?

191

III. L’ombra di Cesare

258

IV. Gli antiromani

289

Capitolo Terzo. L’ordine e la libertà

299

I. Il programma conservativo

299

II. Il mondo dei savi

325

III. La libertà e la legge

360

Capitolo Quarto. Presente e avvenire Parte seconda Capitolo Primo. Le cose.. I. Finanza ed esercito

408 437 437 437

Storia d’Italia Einaudi

III

II. L’apatia politica III. Grande politica o politica della tranquillità? Capitolo Secondo. ... E gli uomini

457 474 508

I. Emilio Visconti Venosta

508

II. Costantino Nigra

537

III. Il Conte de Launay

551

IV. Il Conte di Robilant

555

V. Lanza e Minghetti

575

VI. Vittorio Emanuele II

577

Storia d’Italia Einaudi

IV

PREFAZIONE

Le origini di questo lavoro risalgono, ormai, lontano. Nel 1936, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, per iniziativa di Alberto Pirelli, suo presidente, di Pier Franco Gaslini, segretario generale, e di Gioacchino Volpe, affidò infatti il compito di scrivere, su base documentaria nuova, una Storia della politica estera italiana dal 1861 al 1914, al compianto Carlo Morandi – alla cui memoria rivolgo il mio pensiero – a Walter Maturi, ad Augusto Torre e a me, che assunsi l’impegno per il periodo dal 20 settembre 1810 al marzo 1896. L’aiuto che avemmo dall’Istituto fu, sotto ogni riguardo, prezioso: e sia, perciò, espressa qui la mia viva gratitudine ad Alberto Pirelli e ad Alessandro Casati, a Gioacchino Volpe, a Pier Franco Gaslini, a Gerolamo Bassani, attuale segretario generale dell’I.S.P.I. E anzitutto: per quell’aiuto ci fu possibile ottenere libero accesso all’Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, esplorandolo compiutamente, con un lavoro continuo durato oltre sei anni, fra il 1936 e il 1943; ci fu possibile, cioè, assicurare al nostro lavoro la indispensabile base documentaria, necessaria premessa che era stata all’origine stessa dell’iniziativa. Questa base documentaria non è rimasta, tuttavia, la sola. Sempre più nel corso delle ricerche emergeva la necessità di integrare i carteggi ufficiali con quei carteggi personali, privati, i quali – per la storia d’Italia non meno che per la storia degli altri paesi – ne costituiscono l’indispensabile complemento, quello che solo, talora, permette di veder chiaro e preciso negli sviluppi di una situazione e nell’atteggiamento di un governo. Certi giudizi e certi perché non si troveranno mai in nessun carteggio ufficiale. Quindi, non solo necessità di estendere le

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ricerche ad altri archivi pubblici, dove pure sono depositati carteggi e diarî o, comunque, documenti interessanti direttamente la politica estera italiana (valgano, come solo esempio, le carte Visconti Venosta e Depretis dell’Archivio Centrale dello Stato, a Roma); ma anche, quando fosse, possibile, ad archivi privati. Pure qui la fortuna mi fu amica: ché, nella quasi totalità, i discendenti o congiunti di antichi ministri e ambasciatori mi apersero, con signorile larghezza, i loro archivi. Anche questo materiale, raccolto – oso dire – con paziente ricerca di vari anni, verrà da me inserito nella gran raccolta a stampa dei Documenti Diplomatici Italiani, di cui escono ora i primi volumi. Chiamato a far parte della Commissione che a tale pubblicazione attende, curerò infatti l’edizione dei Documenti fra il 1870 e il 1896; e confido che l’inserimento in essa di documenti di archivi privati – per la prima volta, nel confronto con le analoghe raccolte straniere – gioverà assai ad offrire un quadro quanto più possibile completo, non solo dell’azione, sì anche degli intendimenti che all’azione mossero gli uomini di governo italiani in quel periodo. E siano, dunque, ricordati con gratitudine il compianto marchese Giovanni Visconti Venosta di Sostegno, che mise a mia disposizione le carte di Emilio Visconti Venosta; e il compianto senatore Francesco Salata, che mi consenti di valermi delle sue copie di fascicoli di documenti dell’Archivio di Vienna, che a me non era stato possibile consultare in loco. Sia espresso il mio ringraziamento al Capo della Casa di Savoia, che, con grande liberalità, mi ha consentito di valermi dei documenti dell’archivio personale di Vittorio Emanuele II. E sono grato alla marchesa Dora Daniele di Bagni; per le carte Mancini; a donna Maria Pansa, per il diario del consorte, Alberto; al conte Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon, per le carte Nigra.

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Agli archivi italiani, pubblici e privati, occorreva infine affiancare, per quanto fosse possibile, gli archivi esteri. Anche quando la pubblicazione ufficiale per gli atti del periodo 1871-1896 era già avvenuta, la ricerca appariva necessaria: non potendosi nelle grandi raccolte pubblicare tutto, era ovvio che molta parte del materiale riguardante direttamente l’Italia giacesse ancora inesplorata negli archivi – siccome mi doveva pienamente confermare la ricerca negli archivi del Quai d’Orsay, e il confronto fra il materiale ivi da me raccolto e quello – pochissimo – pubblicato nei Documents Diplomatiques Français per gli anni dal 1871 al 1876. Né v’è da insistere sul fatto che nella Grosse Politik tedesca le tracce della corrispondenza diretta fra Berlino e Roma sono nulle, fino al 1880. Riuscito vano il tentativo di ottenere il permesso di consultare le carte degli archivi tedeschi, mi fu invece possibile la ricerca completa, per tutto il periodo fino al 1896 nell’Archivio di Vienna; e nell’Archivio del Quai d’Orsay, qui nei limiti di tempo prescritti dalle disposizioni vigenti. Dei documenti inglesi spero di poter prendere visione per l’ulteriore corso del lavoro e i problemi specifici che in esso si presenteranno. E anche qui desidero concludere ringraziando i funzionari dei vari archivi, segnatamente i funzionari dell’Archivio del Ministero degli Affari Esteri, a Roma; l’ambasciatore Raffaele Guariglia e il prof. Ruggero Moscati, che mi hanno trasmesso i documenti e le notizie dall’archivio di Vittorio Emanuele II, di cui mi valgo; i colleghi ed amici che mi hanno dato prezioso aiuto, nel corso delle ricerche o durante la collazione delle bozze sugli originali, per i documenti e i testi a stampa: la prof. Maria Avetta e la prof. Emilia Morelli, l’on. prof. Roberto Cessi, i proff. Giorgio Cencetti, Luigi Bulferetti, Carlo Cipolla, Armando Saitta, i dott. Rosario Romeo e Giuseppe Giarrizzo che si sono anche addossato l’one-

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re della compilazione dell’indice dei nomi del presente volume1 , con cui ha inizio la pubblicazione della Storia animosamente assunta dall’editore Laterza. Il quale presente volume non è, né intende essere, dedicato già all’analisi, cronologicamente condotta, dei problemi specifici e delle varie fasi della politica estera italiana fra il 1870 e il 1896. Se certo vi sono accenni a tali problemi – e talora, anche, più che accenni, destinati d’altronde ad essere ripresi e svolti compiutamente a tempo e luogo – ciò avviene soltanto per chiarire le linee fondamentali, direi l’impostazione stessa della ricerca. La narrazione distesa e continua verrà fatta nel corso di una serie di volumi – quattro, presumo – che seguiranno. Perché, prima di tessere l’ordito minuto di quella politica, prima di immergermi nella parte più specifica, più tecnica direi del mio assunto, mi è sembrato indispensabile chiarire quali fossero le basi, materiali e morali, su cui quella parte specifica e tecnica necessariamente posava, quale il complesso di forze e di sentimenti ond’era avvolta ed entro cui doveva muoversi, in quel momento storico, anche la iniziativa diplomatica. Vale a dire, passioni e affetti, idee e ideologie, situazione del paese e uomini, tutto ciò in una parola che fa della politica estera nient’altro che un momento, un aspetto di un processo storico assai più ampio e complesso, abbracciante tutta quanta la vita di una nazione, e non consente compartimenti stagni, e il momento dei rapporti con l’estero lega strettamente e indissolubilmente all’altro, della vita morale, economica, sociale, religiosa all’interno. La politica estera di uno Stato – quale esso sia – non si compendia nelle sole trattative diplomatiche, nei carteggi fra il ministro degli Esteri e gli ambasciatori, così come – e questo è pacifico, più universalmente ammesso – la politica interna non si riassume nella corrispondenza dei prefetti col ministro, e nemmeno soltanto nella lotta dei partiti valutati esclusivamente in correlazione ai proble-

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mi interni, senza nessi con le ripercussioni di eventi internazionali, e con le vicende di altri partiti in altri paesi. Presumere di chiudersi nell’uno o nell’altro di questi due astratti compartimenti, e, ben chiusi dentro, presumere di cogliere il significato e il valore delle vicende, sarebbe un tentativo simile a quello di chi ritenesse di provvedere all’illuminazione delle grandi metropoli odierne con qualche lume a petrolio. Per vero, se nelle maggiori e più significative tendenze della storiografia moderna, in Italia come fuori d’Italia, s’è avvertita e s’avverte tuttora certa insofferenza, a non dir fastidio della cosiddetta storia diplomatica, ciò è dovuto, per molta parte, all’essere tale storia condotta, non sempre senza dubbio (esempi insigni in contrario non mancano), ma pur troppe volte ancora, se anche tecnicamente in modo eccellente, tuttavia con una certa angustia sostanziale di visione: nel migliore dei casi, ancora e sempre, in pieno Novecento, s’osserva il permanere di una valutazione che ci riconduce alle origini della storiografia moderna, ai criteri – allora legittimi e fecondi di novità – puramente politico-diplomatico-militari degli scrittori fra Cinquecento e Seicento. È ben vero che, per coonestare un simile modo di valutare, s’invocano i cosiddetti «interessi permanenti» di un paese, sorta di divinità ascosa che dovrebbe star al disopra di tutto quanto costituisce la vita concreta di un popolo, lotte politiche, ideali e ideologie, cozzar di passioni, per costituire il presupposto e lo scopo della politica estera, la stella polare a cui tener l’occhio fisso durante la navigazione perigliosa, senza curar il resto. Ma se il dire che l’interesse di uno Stato deve costituire il motivo centrale delle preoccupazioni e dell’azione dei politici di quello Stato, è dir cosa perfin banale talmente è ovvia – e ben ribadita da una tradizione secolare anche in sede dottrinaria, cominciando dal Machiavelli e dal duca di Rohan – l’aggiungere il «permanente», non fa che por-

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re in piena luce le strettoie fra cui ci si dibatte nel vano sforzo di costituire una sfera «politica estera», indipendente da tutto il resto e sovrastante la sfera della cosiddetta politica interna. Gli interessi permanenti sono una pura astrazione dottrinaria: di simili interessi, immutabili e fissi, nessuna storia di nessun paese ha mai offerto esempio, quando ne offre invece, a iosa, di più o meno repentini «capovolgimenti delle alleanze», di clamorosi spostamenti nei rapporti fra le varie potenze, fine di quel che si denomina sistema politico ed inizio di un nuovo sistema a sua volta destinato poi a scomparire. Per il politico assai prima che per lo storico, il difficile sta nel valutare esattamente quali siano, in «un» determinato momento, gli interessi preponderanti; perché a credere alla necessità e fatalità per esempio di certi contrasti, può capitare come ai politici della Germania guglielmina che ritenevano impossibile l’accordo tra Inghilterra e Russia, e poi si vide come le cose andassero a finire. Continuo movimento, processo storico sempre differenziato e mai misurabile sul metro del passato, anche la vicenda dei rapporti internazionali non conosce le permanenze immutabili. Vero è anche che, ai tempi nostri, s’è cercato di costituire un saldo fondamento fisico a quelle supposte permanenze; e ricoprendo con nomi nuovi e pomposi cose di vecchio buon senso, ma spesso soffocando il buon senso e le vecchie cose buone sotto il peso di sciocchezze moderne, s’è scoperta la geopolitica. Dal fatto, tanto ovvio anch’esso ch’è banale il ripeterlo e antico quanto il pensare umano, dell’importanza fondamentale che la posizione geografica di un paese ha agli effetti dei suoi rapporti con l’estero, si è cercato di far nascere un nuovo determinismo su basi geografiche, un meccanicismo fatalistico per cui la natura condizionerebbe la storia di un paese. Quel che conti il «sito» sapevano già assai bene i teorici e i pubblicisti di molti secoli fa; e ne parlaro-

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no largamente poniamo i cinquecentisti, assai più accorti tuttavia nel lasciare amp io campo libero alla virtù umana, non schiava nemmeno del sito: ma i moderni dottrinari han creduto di poter ridurre quel campo aperto, in un vano anelito alla scoperta di leggi fisse a cui far sottostare le vicende di un paese. Né si riflette che uno Stato ha sempre avuto dinnanzi a sé almeno due vie diverse da seguire: e il difficile – al politico nel decidere, allo storico poi nel comprendere – è tutto qui e soltanto qui, quale scegliere in quel determinato momento, in quella precisa situazione. Del che pure son piene le storie, dai tempi di Carlo VIII – a non risalir più su – dalla mainte disputation alla sua corte fra i sostenitori dell’impresa d’Italia e le gens saiges et experimentéz che la trovavano invece très deraisonnable e non volevano saperne des fumées et gloires d’Italie; o dai tempi di Carlo V e delle contese, anche qui, tra i fautori e gli avversari della sua politica italiana. Polemiche e contrasti poi trapassati assai arbitrariamente anche nella storiografia, ad opera di studiosi i quali, persuasi che l’interesse politico prevalente dell’epoca in cui essi scrivevano fosse un Assoluto, e facendo delle loro preoccupazioni politiche un criterio di valutazione storiografica anche per il lontano passato, condannarono per esempio come vana, dispersiva e innaturale la politica italiana di Carlo VIII e di Luigi XII, mentre unica naturale politica per la Francia sarebbe dovuta essere la politica renana: trasposizione illegittima di preoccupazioni francesi dell’Ottocento e del Novecento nel mondo di fine Quattrocento. Oppure – esempio tipico – la lunga polemica in terra tedesca, dal von Sybel al von Below e oltre, contro la italienische Kaiserpotitik del Medioevo, che sarebbe stata anch’essa una innaturale, deplorevole dispersione di forze tedesche verso il sud, causa di logoramento della monarchia germanica, della mancata creazione di un saldo Stato nazionale germanico, e ostacolo ad una più naturale e fruttuosa Ostpolitik: anche qui

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con una indebita trasposizione di preoccupazioni e problemi germanici dell’Ottocento e del Novecento ai secoli X-XIII. Tanto facilmente si è indotti a qualificare da permanenti, eterni, interessi ed aspirazioni del momento politico in cui si vive! Ora, è bene nel momento della scelta che sulle decisioni propriamente di carattere internazionale pesa – almeno dai tempi della Rivoluzione Francese in poi – tutta la vita di un popolo, nelle sue aspirazioni ideali e nelle ideologie politiche, nelle condizioni economiche e sociali, nelle possibilità materiali come nei contrasti interni d’affetti e di tendenze. E qui la storia diplomatica pura – come storia tecnica di relazioni fra governi – ha il suo limite. I diplomatici puri, fermi ancora all’ideale degli arcana imperii dell’Antico Regime, possono bensì sdegnarsi per le intrusioni «indebite» nel calcolo diplomatico di elementi nient’affatto diplomatici, e soprattutto delle ideologie politiche; possono sognare un nuovo Stato di Utopia ove questi impuri contatti non avvengano: tali chimere vengono regolarmente spazzate via dalla storia, che non conosce gli schemi astratti di una politica estera e di una Politica interna, nettamente distinte l’una dall’altra, come non conosce «primati» dell’una o dell’altra, ma vede l’una e l’altra strettamente associate, fuse insieme, talora fattori di carattere più specificamente interno riverberandosi con maggior forza sull’atteggiamento verso l’estero, talora invece fattori di carattere internazionale più modellando anche le vicende interne, a cominciare dalla stessa lotta fra i partiti. Del che, s’altra mai, è classico esempio proprio la storia dell’Italia unita. Impossibile, perciò, a chi voglia studiare la politica estera italiana non rendersi conto, prima, che cosa fosse quest’Italia nella sua formazione unitaria, non riconoscere i molti elementi che le avevano dato vita e la cui presenza si faceva – oh quanto chiaramente! – avverti-

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re anche nelle varie impostazioni e soluzioni vagheggiate per la politica estera. Soltanto su questo sfondo gli eventi internazionali possono poi assumere il loro giusto rilievo. Così come sarebbe opportuno – sia lecito auspicarlo – che coloro i quali attendono a ricerche specifiche sui problemi della cosiddetta politica interna, non dimentichino che essi sono, a loro volta, strettamente allacciati con quelli esterni e ne subiscono variamente l’influsso: siccome capita invece di osservare anche troppo di frequente, quando si leggono ricostruzioni storiche in cui l’Italia appare un po’ come una nuova Luna, mondo a sé, perfettamente isolato, capace di regolare da sé solo la sua vita; e perciò anche s’ascoltano ammonimenti sul come si sarebbero dovute svolgere le cose, poniamo nel Risorgimento (e, naturalmente, non si sono svolte così), senza che mai sembri affiorare almeno il dubbio se nell’Europa, costituita com’era allora, sarebbero state possibili, anche solo per l’Italia, certe soluzioni; senza che mai il ricordo del ’48-’49 e del fallimento generale della rivoluzione europea serva a mettere in guardia, almeno, sulla necessità di tener ben presente, anche nel giudizio sulla sola storia d’Italia, quel che, allora, fosse possibile in Europa. Rendersi, dunque, conto di quali forze ideali e morali, di quali interessi, di quali aspirazioni si componesse la vita dell’Italia unita: forze, interessi, aspirazioni che avrebbero condizionato, di volta in volta, lo stesso procedere diplomatico, così come sulla situazione internazionale dell’Italia avrebbero pesantemente gravato – più forse che per altri paesi – atteggiamenti, manifestazioni e agitazioni all’interno. La rumorosa, violenta esplosione di malcontento e di proteste, nell’estate del 1878, dopo il Congresso di Berlino, o le accresciute manifestazioni anticlericali nel 1881 – la prima e le seconde strettamente collegate con tradizioni, passioni e tendenze dell’anima italiana d’allora – significarono qualche cosa anche

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per la posizione dell’Italia di fronte all’Europa; e le preoccupazioni di politica interna giocarono assai più che non si sia spesso creduto nella conclusione della Triplice Alleanza. Tutto ciò – che significa cogliere oltre che atteggiamenti e fatti, anche impressioni e stati d’animo, oltre che l’azione del governo anche le opinioni – consente altresì di rendersi meglio conto del perché di certo agire di governanti, anche se a distanza di tempo quell’agire sia poi apparso erroneo. È troppo comodo giudicare a distanza di cinquanta o sessant’anni, allo storico che, post facta, può conoscere intenzioni e mosse anche segrete delle varie parti che agiscono sulla scena internazionale, cioè dei vari Sfiati; troppo comodo, quando non ci si chieda anche se, allora, quel che si poteva sapere degli intendimenti di un altro governo e le impressioni che s’avevano e i giudizi comuni non giustificassero, invece, un atteggiamento poi risultato sbagliato. Da errori simili nemmeno i grandissimi fra gli uomini di Stato, nemmeno un Cavour e un Bismarck, furono immuni; e a ragion maggiore gli altri. E basti, al riguardo, quel grosso errore di prospettiva politica che consisté, ancora dopo il ’70, nell’attribuire al Bismarck sempre il segreto pensiero di annettere l’Austria tedesca al Reich: grosso errore, ma condiviso da molti, italiani e stranieri, politici e giornalisti, e la cui generalità occorre dunque tener presente, quando ci si trovi dinnanzi, per esempio, alla frase del Crispi al Bismarck, nel colloquio del 17 settembre 1877. In tutto questo, saper infine vedere gli uomini, le singole personalità con i loro pensieri ed affetti: la storia, almeno fino ad oggi, è stata fatta dagli uomini e non da automi, e dottrine e cosiddette strutture, che in sé e per sé dal punto di vista della valutazione storiografica sono pure astrazioni, acquistano valore di forza storica solo quando riescono a infiammare di sé l’animo degli uomini – dei singoli come delle moltitudini – quando diven-

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tano una fede, una religione interiore capace anche di creare i martiri; quando cioè ideologie o rapporti sociali diventano un fatto morale, che schiera attorno al programma di questo o quel partito politico, dietro a questa o quella bandiera i molti che solo ora per quell’improvvisa accensione di una nuova fede – sentono come ingiustizia da combattere quel che per l’innanzi essi stessi o i loro padri avevano riguardato come una fatalità a cui rassegnarsi o addirittura accettato come un fatto normale e ovvio – sia che l’ingiustizia appaia nell’essere l’Italia divisa e serva dello straniero, sia che appaia in un determinato ordinamento economico e sociale. Tanto più necessario questo cercare gli uomini quando s’abbia a trattare, come nel caso nostro, di storia politica e, soprattutto, di storia dei rapporti politici internazionali: laddove, cioè, non soltanto la personalità generale del singolo politico o diplomatico, le sue idee e il suo programma, ma il suo stile d’azione costituisce elemento mai trascurabile nelle vicende. Il modo di impostare e condurre innanzi una certa politica, il modo di avvicinare e trattare le singole questioni, il modo di reagire – in una parola, lo stile – per uomini come i nostri che sono uomini d’azione e non teorici da tavolino valgono almeno quanto i cosiddetti programmi generali. Per meglio dire, impossibile distinguere, in una determinata azione politica, quella che è la sostanza e quello che è il modo di mettere innanzi la sostanza: come nell’artista, così nel politico – quest’altro artista, che procede per intuizioni e non per logica astratta, e, quand’è veramente tale, lo è per grazia di Dio e non per dottrina – forma e contenuto fanno tutt’uno, e a voler valutare solo il secondo, trascurando la prima, si fa uno studio di ideologie e non di azione politica. Perciò, dunque, cercar di cogliere gli uomini che diressero o furono i maggiori esecutori di una politica an-

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che nelle diversità del loro stile, diversità ricche di conseguenze concrete. So bene che molta parte della storiografia moderna disdegna l’uomo, come tale, e, confondendo i pettegolezzi mondani con la ricostruzione morale e spirituale di una personalità, aborre dal cosiddetto psicologismo, per correr dietro alle dottrine pure, alle pure strutture o a quell’ultimo meraviglioso portato di certa storiografia recentissima, le tavole statistiche, le percentuali, le medie, i grafici – tutte cose utilissime entro certi limiti, ma nelle quali, con qualche diagramma e qualche media statistica, si vorrebbe racchiuso il segreto della storia. A leggere simili cose, mi vien fatto sempre di pensare al bravo generale Cartier de Chalmot, da Anatole France effigiato mentre è intento a porre la sua divisione in schede: ogni fiche è un soldato, ogni fiche è una realtà; e il bravo generale manovra, dispone, comanda, studia piani tattici, imperturbabile nella convinzione che la realtà sia li, nelle sue fiches, mai assillato, nemmen per un attimo, dal dubbio che, sul terreno, quella vera realtà che sono i suoi fanti in carne ed ossa possa reagire agli ordini in modo affatto imprevisto. Parecchi studiosi di storia sono oggi dei generali Cartier de Chalmot: e lasciamoli, dunque, al loro comandar le truppe manovrando fiches. Con il che, non s’intende certo, nemmeno qui, ritornare alla cinquecentesca virtù del principe solo artefice di storia. Ma sì affermare che, in una determinata situazione, l’opera del singolo uomo di Stato interviene sempre incidendo sul corso degli eventi: o che, mediocre, si lasci infine sommergere dagli eventi, o che, grande, riesca invece a incanalarli in un certo modo, a farli svolgere con un ritmo anziché con un altro, a condurli verso certi sbocchi anziché verso altri, rallentando o spronando, e in ultima analisi facendo sì che nella situazione ch’egli lascerà ai suoi successori rimanga impressa anche la sua orma-maggiore o minore, questo è di volta in volta il se-

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greto della storia. Come, data la situazione geografica di uno Stato, non esiste l’arbitrium indifferentiae, ma bene la scelta fra l’una e l’altra via – e la scelta è opera dell’uomo, cioè libera; così, in una certa situazione storica nemmeno al maggiore degli uomini di Stato sarà concesso di agire a suo capriccio, ed egli dovrà sempre muovere dalla realtà che gli sta innanzi – ma questa realtà gli consente poi sempre le scelte e i modi differenti di procedere oltre. Dove è appunto la indistruttibile libertà della storia e il segreto del suo sempre imprevedibile dispiegarsi futuro.

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AVVERTENZA

Le abbreviazioni di cui si fa uso nelle note dono le seguenti: t.

= telegramma

d.

= dispaccio

r.

= rapporto

l.

= lettera

s. d.

= senza data

l. p.

= lettera personale; lettera particolare o lettre particulière

s. n.

= senza numero

f. n.

= fuori numerazione

conf.

= confidenziale

ris.

= riservato

F ONTI D ’ ARCHIVIO

I documenti citati senza riferimento archivistico si trovano nell’Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, a Roma, e appartengono alle serie ordinarie: cioè, ai registri dei telegrammi in partenza e in arrivo, ai registri dei dispacci, alla corrispondenza politica (rapporti) delle varie Ambasciate e Legazioni. Ai documenti del medesimo Archivio, che sono compresi in serie speciali, è, invece, aggiunta l’indicazione archivistica generale: AE

= Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, con l’indicazione del fondo specifico, abbreviata nei casi seguenti:

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Federico Chabod - Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 Ris

= Riservato

Cas. Verdi

= Cassette Verdi

Si avverte che questi ultimi riferimenti sono basati sull’ordinamento dell’Archivio negli anni 1936-43, quando cioè fu compiuta la ricerca. In questi ultimi anni l’Archivio è stato riordinato (il riordinamento è anzi ancora in corso); e alle antiche distinzioni in Riservato ecc., è stato sostituito un solo complesso sotto la denominazione di: Archivio del Gabinetto e del Segretariato Generale (1861-87), che comprende dunque le serie speciali distinte dalla corrispondenza politica ordinaria, telegrafica ed epistolare. Dalle antiche indicazioni si passa tuttavia, grazie alle apposite concordanze, senza difficoltà alle nuove; perciò, si sono mantenuti i riferimenti precisi del momento della ricerca. Si avverte infine che nelle carte Robilant (che stanno a sé, fuori anche dall’Archivio del Gabinetto), le lettere del Robilant al Corti sono in copia dattiloscritta. Per altri archivi, le abbreviazioni sono le seguenti: ACR

= Archivio Centrale dello Stato, Roma

ABP. CP

= Archives du Ministère des Affaires Étrangères, Paris, Correspondance Politique.

Si avverte, anche qui, che i riferimenti ai volumi sono fatti secondo la classificazione vigente fino a questi ultimi tempi: classificazione per cui la corrispondenza con il rappresentante francese presso il Re d’Italia aveva continuato la numerazione del precedente fondo Sardaigne. Proprio di recente, la serie Italie ha avuto numerazione a sé, cominciando con 1 nel gennaio 1861. I volumi 379-393, a cui si fa riferimento, sono quindi ora i volumi 29-43. BCB

= Biblioteca Comunale di Bologna

MRP

= Museo del Risorgimento di Pavia

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Federico Chabod - Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 MRR MRT Saw, P.A.

= Museo e Archivio del Risorgimento di Roma = Museo e Archivio del Risorgimento di Torino = Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Wien, Politisches Archiv. Per i fasc. III/112, XI/76 e rot. 459 mi sono valso delle copie dattiloscritte del Sen. Salata.

Per altri archivi, infine, non si hanno abbreviazioni. F ONTI A S TAMPA A.P.

= Atti Parlamentari, Discussioni

D.D.F

= Documents Diplomatiques Franqais (1871-1914)

G.P.

= Die Grosse Politik der Europàischen Kabinette 1871-1914

Libro Verde 17

= Documenti Diplomatici relativi alla Questione Romana comunicati dal ministro degli Affari Esteri (Visconti Venosta) nella tornata del 19 dicembre 1870 [il numero d’ordine 17, secondo l’elenco generale a stampa dei Libri Verdi, Documenti Diplomatici (Libro Verde), presentati al Parlamento Italiano da l 27 giugno 1861, Biblioteca del ministero degli Affari Esteri (Ufficio Intendenza)].

Salvo espressa avvertenza in contrario, le parole e le frasi in corsivo, riportate da documenti o da testi a stampa, s’intendono sottolineate nell’originale o in corsivo nel testo a stampa.

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PARTE PRIMA LE PASSIONI E LE IDEE

Capitolo Primo La guerra franco-prussiana e l’Italia

I L’insegnamento della Prussia «Le génie italien va se formuler ici avec une expression neuve, originale, propre. Les touchantes habitudes de l’exil, les attaches du coeur pour les maîtres de la jeunesse de la génération aujourd’hui mûre, les conceptions progressivement formées à chaque étape de la nation depuis cinquante ans, le guelphisme, le catholicisme libéral, l’Italie et la Papauté collaborant en politique, l’alliance des races latines, gardons-les comme souvenirs émouvants et corame preuves de notre bonne foi et de notre bon vouloir dans chaque situation par où nous avons passé, – mais rompons – en les liens dans notre pensée et dans notre action présente. L’Allemagne, après l’Angleterre et l’Amérique a pris une telle avance sur le reste du monde, qu’il faut hâter le pas et courir à la réalité, laisser là les affections, les réves et l’idéal sentimental, et se saisir vigoureusement des seules choses solides et sûres, la science positive, la production et la force qui provient de l’unee ét de l’àutre. J’aime à vous redire ces choses que vous avez dites et depuis longtemps, parce que je sens à Rome un esprit, un milieu qui sans être d’une supériorité intellectuelle ou morale incontestable, me semble devoir donner à notre activité politique et sociale une tenue plus

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sérieuse et plus. élevée que nous ne l’avons eue à Florence, et moins exclusive que nous ne l’avions trouvée à Turin. Cet effet de l’enthousiasme grave, de l’ardeur réfléchie, de la confiance sans jactance, du désir honnête de faire beaucoup et bien, dont je suis témoin ici, tout le monde le ressent, tous les Italiens des autres provinces font éprouvé. Tachons qu’il ne soit pas trompeur ... Heureux qui pourra se trouver dans les parties vives de la grande aurore qui commence pour l’Italie!» Con tali auspici il segretario generale del Ministero degli Affari Esteri, Alberto Blanc, allora in missione a Roma, conchiudeva, il 12 ottobre 1870, una lunga lettera a Marco Minghetti, in quei giorni a Vienna2 Roma italiana e supremazia della Prussia in Europa: i due grandi eventi di quel drammatico settembre del ’70 destinato a non eclissarsi nell’oblio «sinché il moto lontano»3 , venivano così strettamente associati; nell’uno e l’altro s’intravedeva l’inizio di un novus ordo, e anzitutto la grande aurora della terza Italia che, affrancata dai legami del passato, doveva marciar risoluta verso l’avvenire, fidando nel ricordo e nel genio di Roma e nell’amicizia della potenza germanica. E veramente per conto suo il Blanc già sembrava plasmarsi ad un modo di sentire del tutto appropriato al nuovo indirizzo politico ch’egli vagheggiava. Savoiardo e cresciuto su alla scuola diretta del Cavour4 ; poi sempre legato con gli uomini della Destra, capo di gabinetto del La Marmora, segretario generale del Visconti Venosta, e dunque per queste sue origini e consuetudini di lavoro uomo che avrebbe potuto – al pari appunto di un La Marmora, di un Lanza, di un Visconti Venosta – sentir ancora, come valori vivi e reali, i souvenirs émouvants, Blanc dava invece un risoluto addio alle attaches du coeur, alla tradizione del passato, per orientarsi verso nuovi ideali, e non di sola politica spicciola, bensì di vita morale. Bando agli ideali sentimentali, e viva le sole cose

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«solide e sicure», la scienza, la produzione, la forza: non era ancora la parola, ma era già il concetto della Realpòlitik di gran moda poi, cioè valutazione delle pure forze tangibili e percepibili, con l’occhio fisico e il calcolo matematico; era il trionfar di una concezione di vita attenta soprattutto ai problemi economici, allo sviluppo, su base meccanico-industriale, della civiltà, trasferendosi in secondo piano le preoccupazioni morali e culturali che avevano, invece, costituito motivo dominante per le generazioni fra il ’20 e il ’50. Non per nulla, in altra lettera al Minghetti, egli insisteva sull’influsso ogni giorno crescente dei fattori economici nella politica internazionale, sulla necessità di lasciar che le grandi leggi economiche producessero liberamente i loro effetti, sempre condannando «les tendances de sentimentalité ou de classicisme qui dominent encore tant d’esprits distingués chez nous»5 . Il suo se saisir vigoureusement des seules choses solides et sûres era bene espressione di un nuovo modo di porre i problemi della vita politica: e non già perché prima fossero mancati il senso del concreto, del politicamente possibile, delle forze vive, che sarebbe supremamente ridicolo nonché affermare, neppur pensare, quando appunto si rammenti che «prima» c’era stato un Cavour; ma perché solo ora si riducevano, così decisamente e così apertamente, le forze vive alla tecnica, alla produzione, alla potenza materiale. Politica come pura forza, quantitativamente precisabile: per questo – si diceva – già affacciarsi di concetti e idee alla prussiana, e assomigliarsi della réalité propugnata dal segretario generale degli Esteri, al Reelle a cui, una volta, il Re Sergente aveva brutalmente richiamato il figlio, l’allora ancor sognante Federico6 , e affinità fra le sue choses solides e la réalité che poi, divenuto re, Federico II aveva, a sua volta, posto a base del suo agire e che ora appariva nuovamente il criterio di giudizio del conte di Bismarck – l’uomo del giorno. Anzi, una realtà ancora più corposa e massiccia,

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costituita non soltanto di battaglioni ben inquadrati e armati ma di molte ciminiere di sonanti officine, e di gran copia di balle di mercanzie accumulate in magazzini e via via poi per il mondo7 . Era, cioè, di già nel Blanc non solo un’aspirazione generica a volger la politica italiana nel senso dell’amicizia con la Prussia, come avrebbero poi fatto molti degli stessi più ostinati «francofili» del ’70; bensì, un modo di prospettare i problemi politici che doveva trovar il suo logico coronamento in una propensione di carattere morale e dottrinario verso la nuova Germania. Che era, certo, fatto di gran momento, come quello dal quale, al disopra dei singoli episodi diplomatici, sarebbe sorta, vie più rafforzandosi, l’aspirazione ad accomunare i propri destini con le sorti dell’Impero centro-europeo: e l’aspirazione avrebbe dato i suoi frutti, undici anni più tardi, in quell’inquieta estate del 1881 che avrebbe visto proprio nel Blanc uno dei primi e massimi artefici del riavvicinamento all’Austria e alla Germania, e quindi della Triplice Alleanza. Per il momento, la parola alleanza non gli veniva ancor sulle labbra; egli sembrava anzi propendere per una politica di attesa, salvo a decidere secondo il futuro dettasse, o per una triplice Austria-Italia-Francia, se proprio la nuova Germania mostrasse tendenze soverchiamente espansionistiche, o per un’alleanza con la Germania, ove questa, paga dei suoi trionfi militari, si adattasse a diventare «notre base d’opération continentale pour nos destinées futures dans la Méditerranée, où la France, et même l’Autriche pour l’Adriatique, sont nos rivales naturelles»8 . Ma già l’accentuare la necessità di attivare «les courants naturels qui doivent s’établir entre l’Allemagne, les ports italiens et l’Orient», e, per converso, il sottolineare che, prima di costituire un pericolo per le nostre frontiere, la Germania avrebbe dovuto far scomparire l’Austria9 , già questo stava ad indicare verso qual

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parte si rivolgessero, in maniera non dubbia, le simpatie del Blanc; e più lo confermavano il tono generale del suo discorso e quel suo ripetuto affermare la necessità di tenersi ben stretti ad una realtà solida, e la polemica contro le tendenze sentimentali degli Italiani: le quali altro non erano che le tendenze cosiddette filofrancesi da cui la politica italiana appariva dominata, da oltre un decennio. Il motivo polemico antifrancese, in un con il senso della forza economica e militare prussiana, avviava l’animo e il pensiero verso nuovi modi di sentire e nuove aspirazioni: e il Blanc lo ribadiva apertamente. Egli non condivideva i rimpianti dei suoi amici, di non esser intervenuti a fianco di Napoleone III, perché, mantenendosi neutrale, l’Italia aveva acquistata un’indipendenza morale prima contestatale dall’Europa. Come la morte di Cavour aveva, un giorno non lontanissimo, provato che l’esistenza dell’Italia non riposava su di un solo uomo, così ora la caduta di Napoleone provava che le sorti del regno non dipendevano da una dinastia straniera10 . Sedan e il 4 settembre erano, insomma, il crisma apposto all’esistenza dell’Italia unita: e non tanto perché ne fosse stata resa possibile l’occupazione di Roma, quanto perché l’Italia aveva dimostrato coi fatti di non essere un protettorato francese, uno Stato vassallo, ma di avere, anzi, personalità propria finalmente chiara a tutti. Questo tema, ripreso anche da altri uomini della Destra, ispirante la campagna a pro d’un deciso avvicinamento alla Germania che il Civinini conduceva nella fiorentina Nazione11 , riappariva con particolar vivacità in un altro dei diplomatici che avevano parte attiva nella politica estera italiana. Savoiardo anche lui e da tale origine reso acre, assai più del Blanc, contro la Francia che l’aveva fatto straniero alla terra dei suoi avi12 ; uomo dalle subite e impetuose reazioni, il conte Edoardo de Launay,

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ministro d’Italia a Berlino, era già assai più in là del suo collega sulla via dell’amicizia e alleanza prussiana. Forse ancora gli risuonavano all’orecchio le affermazioni cavouriane, che egli stesso un tempo aveva per primo lette: «nous marchons à la téte du grand parti national italien, comme le gouvernement prussien s’est placé à la téte de l’idée nationale allemande»13 ; certo, egli era risoluto, accanito, insistente fin alla monotonia nel sostenere la necessità dell’alleanza con la Prussia. Bisognava una buona volta romperla con la Francia, con le pretese smodate all’egemonia, con le arie di protezione di Parigi. Sin dall’inizio della guerra franco-prussiana, egli aveva espresso chiaro e netto il proprio pensiero, quando il Visconti Venosta lo aveva avvertito, il 23 luglio, esser suo intendimento circoscrivere il conflitto e quindi rimanere neutrale, ma dover pure precisare che, nel caso divenisse impossibile mantenere la neutralità, l’Italia «non potrebbe direi quasi materialmente uscirne che per porsi colla Francia»14 . E qui il bollente savoiardo era scattato: «Mon sentíment national se révolte à l’ ídée que nous ne puissions pas être nous-même: que nous soyons accouplés au sort de la France: que, le cas échéant, nous tournions le dos à l’Allemagne, à laquelle l’avenir appartient». Per il bene d’Italia e della dinastia era necessario «rompre avec l’affectation française de nous protéger et de nous traîner à sa remorque»; non fare «la pire des politiques sentimentales, en nous rangeant, nous plus faibles, du côté du vaincu». Non ci si lasciasse suggestionare dal vecchio motivo del pericolo teutonico, perché i tempi del Sacro Romano Impero erano ormai lontani e quanto al pangermanismo (come al panslavismo) «ce sont là de grands mots. Comme les feux follets, quand on court sus, on, les fait reculer»15 . Erano, dunque, idee simili a quelle del Blanc, espresse con più forza e perentorietà e, anche, continuità, come che da allora, e per anni, il de Launay non desistesse mai,

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nei molti rapporti e lettere private che da Berlino rivolgeva al ministero o ai colleghi, come il Robilant, dal ritornare sul suo chiodo fisso: mostrar i denti alla Francia, farle smettere le arie di superiorità che ancora affettava16 . Convinto, fin dal luglio del ’70, della vittoria prussiana17 ; convinto pure – e mal non s’apponeva – che l’Austria avrebbe finito col ricercare l’amicizia germanica18 , egli poteva con particolar calore e forza di persuasione dar presso che ebdomadario sfogo al suo rancore contro la Francia: dove, certo, agiva sotto anche il molto umano risentimento personale, ma dove però il motivo privato veniva riassorbito in una motivazione assai più generale, la necessità di riscattarsi dalla soggezione francese, che a sua volta faceva del de Launay uno dei molti esponenti di una gran corrente che attraversava tutta la storia italiana dell’Ottocento. Se nel Blanc trionfo della Prussia e trionfo della civiltà industriale facevano tutt’uno; se dunque in lui il motivo economico già emergeva in primo piano e la sua realtà somigliava assai alla realtà dell’uomo d’affari, nel de Launay quell’apprezzamento mancava, ma risorgeva invece con maggior veemenza il ben più antico motivo gallofobo che aveva contrassegnato tana parte del pensiero italiano nell’età del Risorgimento. Come agli albori della nazione germanica erano state, nel ’700, da Justus Möser allo Herder, la reazione contro la civilisation francese e le sue pretese di tutto uniformare a sé, e l’esaltazione dei Germani primitivi, dei vecchi e buoni costumi dei Sassoni; così, con indubbio parallelismo, anche agli albori della nazione italiana era rifluita, tra molte polle sorgive, quella della gallofobia: ch’era, nuovamente, un mezzo per difendere la propria personalità nazionale e impedire ch’essa venisse soffocata in sul nascere dalla pedissequa imitazione di cose altrui. Questo aveva detto l’Alfieri, esaltando non pur in genere la necessità degli «odî» nazionali, ma, proprio per

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l’Italia, la necessità dell’odio contro la Francia, presupposto indispensabile della sua politica esistenza, quale si fosse per essere19 ; e questo aveva anche significato, con molto minore eccesso di parola, il Saggio Storico del Cuoco. Ed eran poi succeduti il Mazzini e il Gioberti del Primato e il Pisacane20 : ora predominando nella polemica anti-francese i motivi puramente culturali, tanto vivi in un Leopardi, ora già passando in primo piano i motivi propriamente politici. Lo stesso insistere su antichi primati italiani aveva una evidente intenzione anti-gallica, rivelava questo bisogno di salvar se stessi e la propria vita spirituale, difendendosi da quella che sembrava fatalità in Europa, l’imitazione degli esempi francesi, buoni o cattivi che fossero21 . Cavour e l’alto apprezzamento della civiltà franco-inglese, di cui si era nutrito il pensiero liberale italiano; il ’59 soprattutto sembravano dovessero far tacere quel vecchio motivo. Ma non era così: il filone antifrancese, sempre rinfocolato da Mazzini, aveva ricevuto nuovo alimento dopo il ’60, anche fuor delle ire mazziniane, e non solo a cagion di Mentana, bensì per il complesso generale degli eventi, in cui la personalità morale e politica del giovane regno appariva dominata, umiliata, oppressa da quella della più vecchia, grande, potente Francia. Il protettore e il vassallo. Onde non solo il Mazzini persisteva nell’avversione alla Francia ma anche un uomo di sentire diversissimo come il Ricasoli riteneva gran guaio l’influenza francese sull’Italia. «La Francia sotto ogni forma di governo ci fu di molestia e danno; e or con la sua politica, or con le sue rivoluzioni, or con i suoi interventi militari, tenne avvinto al suo carro volubile e irrequieto il pensiero politico e sociale del popolo italiano, per cui fu sempre servile di Francia, mentre più gridava contro Francia. È questo un fato maledetto per noi. E questo non sapere essere Italiani, questo mancare del proprio nostro genio, questo ferire di continuo nei nostri procedimenti l’indo-

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le vera nostra, per imitare come fanciulli le cose francesi, e lo spirito degli ordinamenti francesi, è cagione perenne di debolezza e di scontento per noi.»22 . Il Ricasoli, che non era certo un anti-francese di indirizzo politico23 , che ben riconosceva il valore degli affetti «suggellati col sangue nel 1859»24 , ma che voleva salvaguardare la personalità della nazione italiana, l’animo e lo spirito del proprio popolo, sulle orme di Alfieri e Leopardi, come tutti i moderati toscani, dal Capponi al Lambruschini, era avverso all’imitazione delle foggie straniere25 : tanto è vero, dopo il ’70 si sarebbe allarmato per il prevalere delle dottrine germaniche in Italia, ancor più lontane delle francesi dall’anima italiana26 . Così, nella preoccupazione per la servilità alla Francia potevano, un momento, concordare tendenze per tanti altri riguardi diversissime, il rivoluzionarismo di Mazzini, che alla Francia dell’89 rimproverava di esser stata non l’inizio di una nuova epoca, ma la conchiusione di un periodo storico, e il conservatorismo di Ricasoli, che deplorava la scomparsa di fede e di autorità dopo la rivoluzione, avversava lo spirito giacobino e si inquietava per la «esagerazione insipiente data ai principii dell’89»27 . A questa gran corrente si ricollegava dunque anche il conte de Launay, conservatore, conservatorissimo, amante dell’autorità e immalinconito nel constatare la carenza di essa ai suoi giorni, convinto con il Guizot che «de nos jours ce n’est pas la liberté qui a besoin de défenseurs, mais l’autorité»28 . È, il suo, un antifrancesismo poco vario di elementi, spoglio di valori culturali e morali, circoscritto unicamente al più immediato ed elementare dei problemi, quello politico. I dodici anni da Plombières a Sedan pesano duramente, per lui, come per molti altri, sulla individualità del giovane regno: sentite la rivolta che prorompe infine, non appena si presenti l’occasione propizia, contro uno stato di cose sempre più malamente tolle-

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rato, la stessa rivolta vibrante nel detto, assai in voga nell’agosto del ’70, «ci ho gusto che ai Francesi sia toccata una buona lezione; erano troppo superbi»29 , e che, accresciuta da nuovi motivi di astio, Tunisi, la guerra economica, Aigues Mortes, continuerà a fermentare nel cuore di tanti Italiani, sempre in sospetto di esser trattati dalla Francia come pupilli, sempre più acerbi verso la «sorella latina» e finalmente tratti a desiderare l’occasione di poter non solamente assistere alle «buone lezioni» da altri impartite alla Francia, bensì addirittura di poter dare, essi stessi, «una buona legnata ai Francesi», secondo ebbe ad esprimersi, un giorno, la regina Margherita, tanto cara per la sua bionda mitezza al Carducci30 . Si aggiungeva in lui quel che era pure in molti Italiani, allora, in tutti anzi i patrioti, e rimase a lungo ed è nuovamente motivo che profonda nel passato e si connette con le vicende di formazione dell’Italia unita: un senso cioè di dolore cocente, di amarezza e di rabbia, al ricordo delle vicine sconfitte militari, di Custoza e di Lissa che, con Novara, eran destinate a pesare assai duramente sulla riputazione internazionale del regno. Ingenerosamente spesso, e spesso anche ingigantendo le proporzioni, se ne valeva l’opinione pubblica europea non disposta a riconoscere meriti militari agli «amabili» Italiani, anzi disposta semmai a proclamare, con Ippolito Taine, che l’Italia, troppo latina e municipale nella sua storia, era rimasta estranea alla fedeltà del vassallo, di germanica scaturigine, all’onore del soldato che aveva formato i grandi Stati moderni, e priva dunque di spirito militare31 ; o, al massimo, con i più benevoli come il Treitschke, che l’Italia per divenire davvero una grande potenza aveva bisogno di battersi32 . Ma anche l’Italia si sentiva «più fortunata che grande»33 ; sentiva che certe ferite non si rimarginano facilmente, che un popolo giovane non può accettar certe sconfitte, senza desiderare di poter conseguire anche la

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gloria militare, consacrazione dell’esistenza di una nazione giovane34 ; e non tutti pensavano, come il Jacini, che se era naturale ci cuocesse il ricordo del ’66 e si desiderasse di avere un giorno o l’altro occasione «di fornire al mondo prove decisive dell’intrepidezza italiana sui campi di battaglia a pro di una causa giusta», non si doveva però cercare ad ogni costo di far nascere tale occasione, «scorgere in ogni mosca che vola una occasione, quasiché l’occasione fosse indispensabile per seguitare a vivere»35 . Più d’uno, invece, se n’arrovellava36 , già disposto a desiderare, assai prima del dannunzianesimo, il «lavacro degli eroi, il tiepido fumante bagno di sangue»37 , come l’unico mezzo per far grande davvero un paese che usciva da secoli di schiavitù. Ci voleva una grande vittoria38 : ma intanto si sentiva di essere sotto il peso di un non lusinghiero ricordo: «checché si dica e checché si faccia – avvertì un giorno il Nigra, che non era sicuramente un guerrafondaio – noi siamo ancora, in Europa, sotto l’impressione di Custoza e di Lissa. E questa situazione può durare pur troppo finché l’Italia abbia avuto la fortuna di cancellare su altri campi di battaglia gli errori di La Marmora e le colpe di Persano. Il che vuol dire che l’Italia per causa di quegli eventi, si covò d’allora in poi e si trova anche ora nell’alternativa di rimanere sotto il peso di immeritate sconfitte o di desiderare d’essere travolta in una grossa guerra, per aver l’occasione d’affermare la sua forza militare»39 . Palestro e San Martino, Calatafimi e il Volturno, Castelfidardo e il Tirolo non possono far dimenticare le nostre sconfitte, ammoniva Crispi; le stupende pagine della storia militare italiana sono sublimi episodi in un poema, ma non sono un poema40 . Perfino uomini noti per il loro antimilitarismo in genere sentivano che qualcosa mancava all’Italia nuova, ed era per l’appunto la gloria delle armi: e non ultimo lo osservò il bardo della democrazia, il Cavalloni, il quale esortò i colleghi deputati a non dimenticare «che l’Italia da quindici

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anni sconta antera nella sua posizione in Europa, sconta ancora e amaramente il castigo della mancata fortuna delle armi; e finché questa fortuna un giorno non le sorrida in qualche battesimo cruento, non avrà mai tra le nazioni quel posto che sia degno dei suoi nuovi destini41 . Più d’uno dunque credeva che soltanto «una complicazione europea, che conducesse alla guerra, potrebbe suscitare nel nostro paese le forze che restaurano e dan vigore alla vita dei popoli»42 ; credeva che lo Stato organico, la convivenza riposata, per ora vagheggiabili come una augurata visione, si sarebbero potuti ottenere «solo quel giorno che una grande e nuova riscossa virile, una seconda pruova di armi e di sangue abbia ridato all’Italia il vigore che ora par che le manchi, di risentirsi tutta, e di provvedere con ordini e con riforme vitali al suo più degno avvenire»43 , Oriani non era ancor giunto, con la sua invocazione alla guerra «forma inevitabile della lotta per la vita», al sangue «la migliore delle rugiade per le grandi idee», con il suo auspicare un conflitto, unica arra dell’avvenire d’Italia, che, rendendole i confini naturali, cementasse all’interno con la tragedia di pericoli mortali l’unità del sentimento nazionale44 : e già le idee di Oriani erano nell’aria. E non era nemmeno uno stato d’animo totalmente nuovo, di dopo il ’66, se già a far desiderare quell’altra guerra e a render popolare l’alleanza prussiana nella primavera dell’anno di Custoza, era stata potente la speranza in un’occasione «di affermare anche militarmente l’esistenza della nazione», mentre l’acquisto della Venezia per semplici accordi diplomatici «avrebbe lasciata l’Italia rassegnata, ma non soddisfatta»45 . Bisogno di creare un’anima guerriera, e cioè di alzare il tono della vita morale di un popolo da secoli avvilito: per questo, prima ancora del ’66, prima ancora del ’59, s’era così frequentemente evocata la antica grandezza militare degli Italiani, maestri di guerra al mondo, co-

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me monito per guarire con più nobili passioni le molli passioni che avevano fomentato le piaghe dei secoli di servitù46 ; per questo il Pisacane aveva visto nel problema militare il necessario punto di partenza per la creazione di un’Italia capace di vera e duratura rivoluzione47 , per questo era salito a poesia il ricordo degl’Italiani in Russia nel 1812, ne’ quali era riapparso l’antico valore italico pur se in lontane contrade e per una causa altrui, o compiacentemente s’era ripetuto il detto di Napoleone sugli Italiani che sarebbero stati, un giorno, i primi soldati del mondo; per questo il d’Azeglio aveva contrapposto a’ quadri e alle statue delle altre regioni d’Italia la «Galleria di battaglie» del Piemonte, battaglie «ora vinte ora perdute, ma le sole che impedissero l’occupazione d’Italia dallo straniero, quelle, che terminando con S. Martino, hanno spezzate finalmente le catene comuni»48 ; per questo, Cesare Balbo avrebbe dato tre o quattro Alfieri o Manzoni o anche Danti o altrettanti Michelangeli e Raffaelli «per un capitano che si traesse dietro dugento mila Italiani, a vincere od anche a morire»49 . Ma l’esperienza recente troppo era stata distruggitrice di sogni; né solo per Custoza e Lissa, bensì anche per la non grande volontà di combattere in molte parti dimostrata, per quella riluttanza all’andar soldato largamente diffusa e non ultima fonte di guai anche interni per il nuovo regno50 . Tanto più acre e premente perciò il fantasma della grande prova bellica, come necessario e non ancora conseguito suggello morale dell’unità materiale d’Italia. E ancora: un Crispi poteva almeno trovar conforto nelle prove di eroismo popolaresco, evocare le grandi date luminose dell’iniziativa popolare nel Risorgimento, le Cinque Giornate, Roma, Venezia, Calatafimi, il Volturno. Ma simili conforti mancavano al monarchico conservatore de Launay; il quale non poteva, nemmeno lontanamente, far la debita parte ai movimenti insurrezionali

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e popolari, a Mazzini e a Garibaldi. Il Risorgimento per lui era l’azione politico-militare della monarchia sabauda, e nient’altro: il resto, anzi, eran quelle tendenze libertarie così dannose al principio di autorità e da tener ben in freno. Tanto più pertanto l’Italia unita gli appariva scarsa di gloria militare. Stato vassallo della Francia, sino a quei giorni, e senza riputazione bellica; bisognoso dunque di riscattare, di fronte all’Europa, la lunga soggezione e di provare in maniera inconfutabile la sua virtù guerresca, il regno aveva per il de Launay una sola via maestra innanzi a sé, l’avvicinamento alla potente Germania, la nazione dell’avvenire, e l’allontanamento dalla Francia, sino a porlesi contro. Sì, fino a porsi contro la Francia: il pensiero del savoiardo era bene riassunto in un’affermazione che gli sgorgava dal cuore all’inizio del 1872: «l’Italie ne sera vraiment atnalgamée, le prestige de l’Autorité ne sera vraiment constitué sur desbases à solide épreuve, que par une grande guerre contre la France»51 . Necessità di una grande guerra, che saggiasse a dura prova e perciò cementasse l’unità morale del popolo italiano: ciò intuiva il de Launay, e l’avvenire gli avrebbe, in questo, dato ragione, anche se per vie e modi del tutto diversi da quelli ch’egli vagheggiava, anche se la lotta si sarebbe svolta, e a più gran distanza di tempo di quanto egli non sospettasse, non già contro la Francia, bensì contro l’Austria-Ungheria e la Germania stessa, saldando vittoriosamente sul Piave il conto malamente aperto, cinquantadue anni prima, sul Mincio. Ma anche questo precisare il grande evento bellico dell’Italia, anche l’appello alla guerra contro la Francia non eran proprio caratteristici del solo de Launay: nuovamente, l’atteggiamento e le parole del ministro di Vittorio Emanuele II a Berlino non erano – oh, certo, a sua insaputa! – che episodi di una più ampia e generale sequela di pensiero, tanto che l’espressione di un conservatore accanito, odiator

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di socialismo quale egli era, poteva richiamare un monito consimile sgorgato invece dall’anima del patriota che più di tutti era stato nel Risorgimento l’annunziatore di socialismo e aveva asserito che il secolo XIX sarebbe stato famoso nei fasti dell’umanità «non già per la servile e codarda schiera dei dottrinanti scaturiti dal suo seno, ma perché in tal epoca il socialismo, d’aspiratione fattosi sentimento, ebbe partito, ed avrà attuazione»52 . Già il Pisacane, vivacemente polemizzando contro coloro i quali additavano nella Francia la protettrice dell’Italia e predicavano la fratellanza delle due nazioni, aveva infatti concluso: «perché si attui la nostra fratellanza con la Francia, bisogna combatterla e vincerla, o almeno è indispensabile, che in parità di circostanze e di forze, sul medesimo campo di battaglia, contro un nemico comune, meritassimo la palma in una nobile gara di gloriose gesta»53 . Certo, non per prostrarsi alla Prussia il de Launay gioiva che l’Italia avesse smessi gli inchini alla Francia: per quanto grande fosse la sua ammirazione per il sole nascente, egli non avrebbe mai voluto, deliberatamente, far la parte del vassallo del re di Prussia: ammoniva, anzi, che se mai la Germania avesse voluto esercitare in Italia un’influenza eccessiva, sarebbe stato egli il primo a consigliare una certa rigidezza, per opporre una diga a qualsiasi pretesa, da parte sua come di ogni altra potenza: «Avec un caractère tel que le comte de Bismarck et des hommes d’Etats qui seraient formés à son école, on se perd par une condescendance au delà des limites du fuste et du raisonnable»54 . Chacun maître chez soi55 . E ancor più tardi ribatté ch’era meglio non legarsi alla Germania con un trattato formale di alleanza, essendo assai pericoloso navigar di conserva con un uomo come il Bismarck, dai grandi meriti, ma di uno scetticismo capace di improvvisi mutamenti di giuoco, tali da scompigliare tutti i calcoli: un uomo ch’egli ammirava assai, ma

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senza illudersi su di un suo presunto filoitalianismo, e in questo tanto più acuto giudice degli uomini della Sinistra convinti, invece, che il Cancelliere di ferro spasimasse d’amore per l’Italia56 . Meglio lasciar lavorare le cose, attendere i risultati dalla forza degli eventi: l’alleanza era in re, esisteva virtualmente, ciò ch’era assai preferibile ad un trattato su pergamena. Ed era, fuor di dubbio, sincero in queste sue affermazioni. Soltanto, il difficile sta poi sempre nel fissar i limiti del juste et raisonnable; e il pericolo c’era che l’ammirazione per il nuovo astro e soprattutto la avversione a Francia57 non protraessero per avventura quei limiti troppo più in là di quel che non fosse nel preciso interesse dell’Italia. Tant’è vero che, pur in quei giorni del febbraio 1871, quando i rapporti tra Berlino e Roma erano freddi, il de Launay dimostrava di non credere non solo alla possibilità di tendenze egemoniche da parte del Cancelliere, allora tanto temute, ma nemmeno alla minaccia di immistioni germaniche nella politica interna degli altri Stati, sull’esempio napoleonico58 : dando per tal modo prova di un robusto ottimismo, che gli eventi del ’74 e del ’75 e le vicende d’allora dei rapporti italo-germanici avrebbero messo a dura prova. Così, anche nel de Launay veniva in luce, assai più fortemente calcato anzi, lo stesso orientamento fondamentale del Blanc: soddisfazione per il crollo dell’egemonia francese che aveva tenuto al laccio l’Italia unita, e per l’indipendenza morale che quest’ultima si acquistava; ammirazione e compiacimento per l’opera del Bismarck, verso il quale dunque si doveva indirizzare la politica dei ministri di Vittorio Emanuele II59 . E anche in lui, logicamente, si potevano avvertire i chiari segni di un modo di pensare tendente ad apprezzare sempre più la «realtà», solida e vigorosa, contro i sentimentalismi: ond’è ch’egli riferisse col tono di chi ammonisce, le decisioni bismarekiane di cercar la «sicurez-

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za» pel futuro non nelle disposizioni del popolo francese, ma in precise garanzie materiali, Alsazia-Lorena e indennità di guerra schiacciante. Un politico «realista» di più. Spogliata della passionalità del de Launay e investita di un contenuto, ancor più che politico, morale e culturale, con più profonda e larga aderenza quindi alla gran corrente di cui s’è detto, la preoccupazione per una soverchia influenza francese in Italia aveva determinato anche l’orientamento di un ben più robusto ingegno, qual’era quello di Quintino Sella. Non un diplomatico, come il Blanc e il de Launay, ma un uomo di governo, anzi una tempra vera di uomo di Stato: nel quale, pertanto, il motivo meramente istintivo e passionale veniva relegato completamente nello sfondo, senza capacità duratura di influire sul giudizio. E non erano quindi tanto le simpatie, pur vivissime, per la Germania e i suoi dotti60 , ad ispirare il suo atteggiamento politico, così come le sue previsioni le quali, e ognuno lo sa, avevano colto nel segno, facendo di lui uno dei non molti Italiani che avessero in anticipo intuito il vincitore del duello franco-prussiano61 : ché anzi quelle stesse simpatie erano germogliate su un fondo già diffidente verso la Francia e per ben calcolate ragioni. Risaliva infatti agli anni del perfezionamento a Parigi, presso la Scuola mineraria, il giudizio – nettissimo e deciso – sul pericolo che l’influenza francese costituiva per l’Italia: pericolo non solo dal punto di vista dei rapporti politici, sì anche e soprattutto dal punto di vista della formazione morale e spirituale del popolo italiano62 . Giudizio maturato sotto l’impressione degli eventi del ’48-’49, delle non mantenute promesse francesi, anzi dell’«assassinio»compiuto contro la repubblica romana; forse, non immune da qualche reminiscenza diretta della gallofobia culturale del Gioberti e degli ambienti dal Gioberti dominati. Ma giudizio destinato a pesare anche

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inseguito sull’atteggiamento del Sella, nonostante i debiti di gratitudine che il ’59 imponeva, e ch’egli lealmente non avrebbe mai negati63 : e, già presso il termine di sua vita, il sentire antifrancese ancora riappariva, fomentato da altri nuovi eventi contemporanei, ma confortato pure da ricordi storici, non ultimi il Vespro Siciliano e la antipatia che il suo caro Codice Mlabayla gli ispirava contro gli Angiò64 . La simpatia per la Germania, alimentata dalla conoscenza diretta degli uomini e del paese, l’entusiasmo per la scienza, così caratteristico in lui, e quindi necessariamente per quel gran centro di scienza ch’erano i paesi tedeschi, facevano il resto. La risoluta e notissima opposizione del laniere di Biella alle velleità di Vittorio Emanuele d’intervento affianco della Francia, traeva così lunga origine e andava anch’essa – come quella del de Launay, ma con ben altra ampiezza di vedute – assai al di là del momento singolo e dell’episodio diplomatico. E, anche in lui, scienza, economia, industria, progresso; e senso della forza «che va rispettata» e ripugnanza alle fantasticherie, al sentimento, a cui eran troppo proclivi gli Italiani; e ammirazione per gli «uomini fatali», per i «popoli fatali»che nulla arresta65 . Pure al di là del momento politico e dell’episodio cercava di andare un altro italiano, uomo non di governo né di diplomazia, e nemmeno, in allora, partecipe attivo della vita politica, ma uomo di milizia e di studi, ingegno acuto, colto, proclive a cercar di risalire dall’episodio e dal particolare all’universale, e a scoprire le leggi della storia nonché le direttive generali di un’azione politica: Nicola Narselli, allora non ancora celebre per La Scienza della storia e per La guerra e la sua storia66 ; non ancora parlamentare, semplice maggiore dell’esercito, insegnante alla Scuola Superiore di guerra, e autore de’ due libri su Gli avvenimenti del 1870-71; ne’ quali l’opinione dei «prussofili» – secondo si diceva – trovava la sua formulazione più pensata, sostanziosa e aper-

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ta. Un uomo che, una volta deputato, si sarebbe collocato nel centro e, come parecchi altri dei suoi coetanei, avrebbe vagheggiato e cercato di costituire un grande partito liberale-nazionale, di centro, con elementi della Destra progressista e della Sinistra moderata; un uomo, dunque, non propriamente della Destra, alla quale anzi non avrebbe risparmiato dure critiche: ma, e poteva essere sintomatico, grande ammiratore del Sella, per cui nutriva «una specie di venerazione»67 . E col Sella, infatti, si accordava pienamente il Marselli ne’ giudizi su Francia e Germania. Anche qui, il sostrato primo delle considerazioni era fornito dalla rivolta, politica, contro «lo spirito prepotente e conquistatore della Francia», contro la soggezione italiana nel decennio post-cavouriano; e il primo sbocco del ragionamento, era, quindi, la proposta dell’alleanza dell’Italia con la Germania e la Spagna. Ma il carattere puramente politico-diplomatico del problema veniva ben presto superato, anche nel Marselli: il predominio francese deve tramontare, perché la Francia, troppo irrequieta, con le sue incessanti convulsioni e rivoluzioni minaccia continuamente la tranquillità europea, e «dopo aver reso all’Europa l’eminente servigio di svegliarla quando sonnecchiava, ora la disturba col far fracasso mentre ella vuole studiare, lavorare, ordinarsi e progredire saggiamente». La Comune, l’ultima delle convulsioni in che la Francia vive dal 1789, con le sue fasi incendiarie ammonisce giunta l’ora, per l’Europa, di esser lieta che la direzione sfugga dalle mani francesi, e che l’antico direttore dell’orchestra europea scenda dal suo seggio per frammischiarsi tra i suonatori68 . Non più unicamente trapasso di egemonia politica, bensì, addirittura, mutamento potrebbesi dire di ritmo della civiltà europea: «... se sotto le ruote del carro sociale a sistema francese, noi non porremo una scarpa a sistema germanico, il carro andrà in mille frantumi»69 :

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cioè, in altri termini, abbandonare «l’ideale francese di un progresso vorticoso, di una democrazia plebea», per «lavorare di conserva colla Germania al trionfo della Democrazia armonica e del Progresso regolare»70 . In che dovesse propriamente consistere la Democrazia armonica, di stampo germanico soprattutto, non riesce ben chiaro, ed è da dubitare riuscisse molto chiaro all’autore medesimo, nonostante le sue premesse storicopolitiche, il suo ricorrere, secondo uno schema allora e poi assai di moda, ai caratteri essenziali delle due civiltà, la latina, che aveva espresso con Roma la sovranità dello Stato, e la germanica, che aveva apportato «la signoria dell’Individuo eslege»; nonostante il suo constatar compiaciuto che, con lo sposalizio della cultura e dello Stato – forza ellenica l’una, latina l’altra – con l’individualismo germanico e l’orientalismo cristiano, l’individualismo era stato reso da quelle altre molecole del corpo europeo socievole, in modo da perdere le sue asprezze e pecche, e da trasformarsi nel nuovo individualismo, quello civile «vero capolavoro moderno». Il nuovo impero, torreggiante nel mezzo del continente, usciva «dalla fusione della Coltura sviluppata, dello Stato rafforzato, dell’Individualismo limitato», sì da rappresentare l’armonia tra la forza di conservazione e quella di progresso, tra la libera investigazione e il rispetto alla legge71 ; e avrebbe dunque potuto dare all’Europa l’esempio della contemperanza fra la libertà dell’individuo e l’autorità della legge, fra lo sviluppo della libertà della scienza e la libertà della vita, fra l’unità del centro e la vitalità delle membra, la forza militare e i diritti dell’agricoltura, dell’industria, del benessere72 . Dunque, l’aurora di un nuovo periodo nella storia della civiltà: l’armonia pacata in luogo dell’altalena continua e violenta di rivoluzioni e reazioni, prodotta dal predominio francese; la serietà trionfante sulla frivolezza ... sì, la serietà germanica, vera vincitrice della guerra e final-

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mente sopravvenente a riportar l’ordine nel caos73 . E un periodo, nel quale l’Italia avrebbe potuto avere larga parte, contrappesando il conservatorismo un po’ troppo accentuato dell’impero germanico, il suo procedere un po’ lento secondo la natura delle persone gravi: quale avrebbe potuto essere, se non il popolo italiano, l’amico della Germania capace di spingere un po’, di accelerare i tempi, di costituire il necessario elemento progressivo bene accordato con il necessario elemento conservativo? Ecco l’ora è giunta: spunta la terza civiltà italiana; si schiude il terzo periodo storico per la penisola ... e questo periodo vedrà Italia e Germania proceder congiunte, aprendo ai popoli europei le vie del progresso armonico74 . La missione dell’una si allaccia strettamente alla missione dell’altra. Così, dal motivo contingente della vittoria delle armi prussiane il Marselli, che proprio allora stava maturando la sua nuova professione di fede positivistica, pur senza mai riuscire a strapparsi di dosso la camicia di Nesso della metafisica, e quindi, come il Sella, univa il rispetto alla scienza con il rispetto alla forza, il Marselli risaliva ad una visione generale della civiltà europea, presente ed avvenire. Visione, certo, piena di luoghi comuni, indulgente di soverchio a viete formule della scienza tedesca, come quella dell’individualismo germanico75 ; tutt’altro che chiara anzi nebulosa parecchio in taluni dei concetti informatori; troppo corriva a far propri dei vecchi luoghi comuni e ad assumere tono moraleggiante, secondo avveniva con l’esaltazione della serietà germanica in luogo della frivolezza francese: poiché qui riappariva il vecchio schema, caro già alle settecentesche polemiche antifrancesi contro la politesse, fatta sinonimo di superficialità e corruzione76 , riapparivano gli ormai rituali precetti della corruzione francese, a cui avrebbero fatto contrasto i puri e innocenti costumi dei Germani, che non erano più quelli di Tacito, ma che venivano ancora adornati

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di molte delle virtù da Tacito già generosamente donate ai discendenti di Arminio per fustigare la corruttela della corte imperiale romana. Forse che proprio di quei giorni tali schemi non venivano generalmente rimessi a nuovo come spiegazione moralistica del crollo del Secondo Impero, anzi della nullità e impotenza della Francia, che alla dissoluzione morale doveva anche l’instabilità degli ordinamenti politici e il trapassar dalle rivoluzioni al dispotismo?77 Da gran tempo Parigi, la vecchia Babilonia, ostentava le sue grazie imbellettate per eccitare i sensi dei suoi adoratori78 ; Berlino era la serietà, la morigeratezza, la virtù: e non era anche il puritano risentimento contro la corruzione e l’immoralità di Babilonia che aveva ispirato alla rigidissima regina Vittoria la sua avversione contro la Francia napoleonica?79 . E il vecchio e sempre moralistico Gino Capponi non trovava forse bene che il demi-monde parigino ricevesse una lezione80 ; e un altro storico, non più di Firenze ma delle Compagnie di ventura e della monarchia sabauda, non scopriva forse anch’egli che causa del crollo francese erano i vizi morali «vivere disordinato, folli spese, speculazioni temerarie, passioni che quà mettono al concubinato e all’adulterio, colà al suicidio e al duello, calcolato restringimento della prole, libri e spettacoli corruttori»?81 . Anche, quella visione era assai pervasa di senso militaresco della forza, ricopriva quindi certa tendenza autoritaria, certo vagheggiamento dello Stato forte, che in effetti il Marselli avrebbe poi pienamente rivelato nelle sue critiche alla politica italiana; e già poco più tardi, sdegnato per il «dormire» di tutti in Italia, egli avrebbe augurato all’Italia metodi bismarckiani per guarire le piaghe del paese, scettico, impassibile anche di fronte ai più gravi problemi82 . Ma insomma un tentativo di inquadramento d’insieme c’era, riuscito o meno che fosse. Il de Launay era ri-

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masto sul terreno strettamente politico: il Blanc ne usciva già parzialmente, con la sua ammirazione per le forze nuove, e cioè l’economia, in cui c’era come l’aperto presentimento di nuovi modi di vita e di pensiero; il Sella vedeva il problema della reazione all’influsso francese su di un piano generale italiano, culturale e politico. Ma solo il Marselli poneva, esplicitamente, il problema come problema di civiltà europea, come necessità di un ordine nuovo per tutti: nella mente di questo intelligente è colto militare di mestiere, dallo studio dei fatti darmi succedutisi tra l’agosto 1870 e il gennaio 1871 sgorgava tutt’un sistema nuovo, politico culturale morale. Non si trattava più di semplice spostamento dell’equilibrio politico della vecchia Europa, bensì di un profondo rinnovamento ab imis di tutto l’edifizio. Una siffatta elevatezza di tono, possibile d’altronde ad uno studioso ancora al di fuori della polemica politica e delle lotte di parte, era certo difficile da riscontrare quando si ritornasse in mezzo ai partiti, nel pieno della battaglia politica, e si passasse soprattutto nel campo della Sinistra, laddove le correnti filoprussiane avevano maggiormente attecchito. Senza dubbio, nella gioia per la caduta dell’impero napoleonico e nel perdurante odio contro l’imperatore vinto, si facevan luce anzitutto motivi ideologici di partito. Mentre, cioè, per un de Launay e anche per un Blanc, l’influsso francese era stato deleterio non perché bonapartistico, bensì perché francese, e deleterio sarebbe stato pur se, al posto dell’uomo del 2 dicembre, ci fosse stato un sovrano «legittimo» o un presidente di repubblica; mentre per un Ricasoli la Francia era stata dannosa all’Italia sotto ogni forma di governo, ed anzi proprio alla mentalità giacobina democratica repubblicana irreligiosa eran da attribuire i guai maggiori, per gli uomini della Sinistra in genere a non dir del partito d’azione, l’ostilità alla Francia era anzitutto ostilità al bonapartismo.

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Che la Francia si fosse interposta tra la volontà nazionale e Roma, questo aveva offeso un de Launay non meno di un Crispi e di un Cairoli83 ; ma che tal fatto si fosse verificato adopera del «tiranno» Napoleone, dell’uomo del 2 dicembre, del conculcatore della libertà, questo aveva esasperato soltanto i Crispi, Cairoli e compagni. A’ quali, anzi, poteva fin dolere che il bonapartismo fosse caduto sotto i colpi dello straniero, in seguito ad una guerra, dato che sarebbe spettato alla Francia il liberarsene84 : stabilendo dunque, essi, una netta distinzione tra il popolo francese e il suo tanto avversato tiranno, tra le colpe dell’imperiale usurpatore e la Francia, quella almeno erede dei princìpi dell’8985 , sino a giungere all’affermazione che «la Francia soffre; ma la democrazia ha vinto una grande causa»86 . Qui, dunque, non si trattava più dei soli rapporti di potenza Francia-Italia, bensì di un problema generale ideologico, d’ideologia di partito: il bonapartismo voleva significare, infatti, non solo opposizione all’andata dell’Italia a Roma, bensì imposizione, alla stessa Francia in primo luogo e poi all’Italia, serva delle Tuileries, di un «sistema morale», di tutto un complesso di idee e di consuetudini, di un modo particolare di giudicare, di pensare, di sentire, insomma di tutta un’educazione, il cui frutto era l’anima da «schiavo» del partito moderato italiano87 e la sua politica servile verso lo straniero, secondo sfuggì detto al Crispi ancora nel 1891, in una celebre seduta alla Camera88 . Si era nuovamente – seppur con assai diverso spirito – sullo stesso terreno su cui il Marselli portava per conto suo la discussione; si parlava di sistemi morali e politici; si contrapponevano due mondi, di valori inconciliabili fra loro. Ma da simile punto di vista sarebbe poi dovuta sgorgare una logica e immediata conseguenza: caduto Napoleone III, crollato il bonapartismo, separatasi la causa del-

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la Francia da quella del vinto di Sedan, come mantenersi ostili alla risorgente repubblica, cui Gambetta animava con il suo possente eloquio? Come non simpatizzare con la Francia, dato che essa, non fosse stata la violenza usurpatrice del Napoleonide, si sarebbe fin dal 1852 pacificamente riordinata nella libertà, rendendo lieti e fortunati di sua amicizia i popoli dell’Europa?89 . Questo rivolgimento avveniva infatti nell’animo di Garibaldi e del Carducci: l’uno e l’altro, il semplice e magnanimo uomo d’azione, e il poeta allora più che mai tutto irruenza caduto l’uomo del 2 dicembre non avevano visto più altro che la Francia dell’89, la rigeneratrice del genere umano, la nazione sorella. Già nel luglio, quando pure tutto il partito d’azione era decisamente prussofilo, pronto magari a collaborare col Bismarck e ad offrirgli il prezioso aiuto di movimenti insurrezionali all’interno della penisola, qualora il governo di Vittorio Emanuele minacciasse davvero di voler intervenire a fianco di Napoleone III, già nel luglio Garibaldi non aveva taciuto del «dispotismo mascherato» del governo di Berlino90 ; ora, il 7 settembre, si rivolgeva agli amici, per dichiarare «Ieri vi dicevo: guerra ad oltranza a Bonaparte. Vi dico oggi: sorreggere la Repubblica Francese con tutti i mezzi»91 , e poi partiva, per sostenere il «solo sistema» atto ad assicurare la pace e la prosperità delle nazioni, per difendere la patria dei princìpi dell’89 in pericolo. Scomparso Napoleone, diventava «dovere dell’Italia di volare in soccorso della Francia»92 . Con la sua istintiva e lineare, ma tanto più profonda sensibilità per i fattori morali, l’uomo di Caprera traeva senza esitare le conseguenze logiche del suo atteggiamento di prima. E come lui mutava completamente fronte il poeta, che voleva tener dritta, nel campo dell’arte, la bandiera di Roma e di Marsala, di Aspromonte e Mentana93 , e che avrebbe ricordato, sempre, il «triste» novembre del

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«triste» anno 1870, quando i prussiani circondavano Parigi e a lui morì il bimbo94 . Alla imprecazione contro il «masnadier di Francia», l’imperial Caino, al brindisi pel dì che tingere dee di tremante e luteo pallor l’oscena guancia95

succedeva l’esaltazione del 78° anniversario della Repubblica Francese, proprio il 21 settembre 1870; e tiranno, contro la Francia, diventava il governo regio di Prussia. Ma il ferro e il bronzo è de’ tiranni in mano; E Kant aguzza con la sua Ragion Pura il fredd’ago del fucil prussiano, Kórner strascica il bavaro cannon.

Un anno e mezzo più tardi, ricordando l’epopea garibaldina in terra di Francia, il Carducci dava forma di discorso ragionato a quei suoi impulsi e fantasmi poetici, contrapponendo alla vecchia casa feudale di Brandeburgo, avida di conquista, la democrazia, che non poteva dimenticare il 1789, non poteva porre in non cale il fatto che la libertà e la filosofia avevan preso le mosse da Parigi per correr tutta l’Europa, e che «dovunque un soldato francese è sepolto, poniamo pure che morto per la violenza del momento anzi che per la libertà ... ivi la terra ha ribollito poi sempre di rivoluzione ...». E, procedendo oltre, sulla base dei princìpi della democrazia, vedeva nuovamente il poeta, come certezza del futuro, la confederazione, morale-ideale in un primo tempo, delle genti latine, sorelle nella lingua, nelle tradizioni, nelle istituzioni, nell’arte, confederazione che era «un fatto di natura»: e così sognando e vagheggiando salutava in Garibaldi e nei suoi compagni di Digione la primavera sacra italica96 .

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A questi due uomini, che in un certo senso potrebbero dirsi al di fuori dei partiti, e sicuramente erano fuori della disciplina formale di partito, a Giuseppe Ferrari, che convinto inizialmente della vittoria francese97 , in dieci giorni, nell’agosto del ’70, si sentiva invecchiato di dieci anni98 , altri s’univano, di minor nome ma già di più stretti vincoli con l’azione parlamentare della Sinistra: e tale era Riccardo Sineo, il cui intervento a favore della Francia, nella discussione alla Camera il 21 gennaio 1871, era così pronunziato da indurre un altro dei deputati della Sinistra, Luigi La Porta, a precisare che quelle erano le opinioni personali del Sineo, e non di tutti i suoi amici della Sinistra99 . Lo stesso Agostino Bertani, che nella seduta della Camera, il 20 agosto 1870, aveva battezzata la Germania «antesignana del progresso e della civiltà»100 , mutava poi opinione di fronte alla Francia repubblicana e finiva con lo scandalizzare il Mazzini, scrivendogli, nel gennaio del 1871, che «se v’è scintilla di speranza per l’Italia è dalla Francia»101 . Più importante di tutti, per i futuri sviluppi della politica italiana e la parte che in essa avrebbe avuto, l’atteggiamento di Felice Cavalloni, il cui fratello Giuseppe, garibaldino in Francia, morena in seguito a ferite il 23 gennaio 1871. Il suo giornale, Il Lombardo, fissava infatti con la massima chiarezza l’antitesi tra la Francia generosa, madre di civiltà e di libertà, e l’usurpatore Napoleone. I moderati avevano simpatie per la Francia imperiale, la Francia che ci umiliava, con la servilità più obbrobriosa; noi questa Francia, ossia «questo pugno di miserabili che ne bestemmiava il nome e mercanteggiava il sangue», l’abbiamo combattuta. «Sì, noi abbiamo aspettato che la Francia vera si presentasse, purificata e fatta grande dall’espiazione e dalla sventura, per far causa comune con lei. Abbiamo aspettato che la sua fosse una causa di una nazione, e non di un uomo; della giustizia e non del-

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la conquista, della libertà e non del dispotismo. Abbiamo aspettata per dir benedette le armi francesi, che esse fossero le armi di un popolo e le armi della civiltà.»102 . Benedette, ora, le armi francesi; benedetta la repubblica francese; che rappresenta il diritto e la libertà dei popoli, ripetevano altri minori103 . Tutti d’altronde gli uomini dell’opposizione dovevano attenuare, dopo il 4 settembre del ’70, le loro simpatie prussiane: vuoi perché sinceramente e profondamente fossero venute meno le loro ragioni d’odio contro la Francia, una volta caduto l’Impero, e il fascino della parola repubblica su parecchi di essi trasformasse la guerra in guerra di principi, di libertà repubblicana contro la monarchia prussiana invaditrice, secondo avrebbe invece deplorato il Mazzini104 ; vuoi anche perché, di fronte al crescente determinarsi di simpatie popolari per la Francia, dopo Sedan, giudicassero poco opportuno, ai proprî fini politici, sembrar chiusi in una pregiudiziale rigidamente e totalmente antifrancese; vuoi infine perché la gioia dei borbonici e dei clericali nel veder crollare il sostegno europeo dell’«usurpatore» italiano, ammonisse «che ci doveva essere qualcosa di guasto in ciò che a’ lor nemici piaceva tanto»105 . Non solo in Italia, dove l’opinione pubblica, filo-prussiana all’inizio, aveva subito rapida evoluzione106 , ma in tutta Europa la prosecuzione della guerra faceva pender la simpatia pubblica a pro dei Francesi: sia perché era generale persuasione che la causa del conflitto fosse da ricercare esclusivamente nell’ambizione e nella prepotenza di Napoleone III, e che pertanto, caduto il gran responsabile, nessun legittimo motivo più giustificasse la sanguinosissima mischia107 , sia perché l’opinione pubblica europea avvertiva, con sgomento, una durezza e consequenziarietà della volontà tedesca di vittoria, come sin allora non s’era mai veduto. Il bombardamento di Strasburgo, quello, più tardi, di Parigi sembrarono mostruosità ad una generazione che nul-

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la di simile aveva visto, né ricordava108 : non certo la campagna del 1859 e nemmeno quella del 1866, così prontamente conchiusa, potevano aver preparato gli animi ad una tanto implacabile, fredda e logica persistenza nella lotta, con tutte le crudeltà che ne derivano. A siffatte preoccupazioni sentimentali si aggiungevano e sovrapponevano le preoccupazioni di carattere politico, presso tutte le grandi potenze: ora la vittoria prussiana passava i limiti desiderabili; Bismarck eccedeva, divenendo troppo potente, lui e il suo impero. L’Europa perdeva una maîtresse, come si disse, ma acquistava un maître. Così è che l’opinione pubblica veniva rapidamente evolvendo a favore della Francia, anche nei paesi inizialmente meglio disposti per la causa prussiana, quali la Russia e l’Inghilterra109 . In Italia, dove già le propensioni della stragrande maggioranza del paese per la neutralità – che andava a favor della Prussia – non avevano tuttavia impedito, sin dall’inizio, che si facesse luce un movimento di simpatia per la Francia, gli eventi bellici successi a Sedan accrescevano il senso d’orrore per quella che si giudicava ormai inutile strage. E all’idea del bombardamento di Parigi si commuovevano privati, giornali ed enti culturali110 : nella seduta del 24 novembre 1870 era l’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere ad esprimere il desiderio che nelle imminenti operazioni belliche si avesse riguardo ai tesori d’arte racchiusi nella capitale francese; e vi faceva seguito, il 31 dicembre, la Società Reale di Napoli, che pregava il Visconti Venosta d’interporre i suoi buoni uffici presso il Bismarck, allo stesso fine111 . Voti e pratiche destinati, s’intende bene, a restar senza effetto alcuno: voto uguale a quello dell’Istituto Lombardo aveva emesso l’Accademia di Dublino, ma l’Università di Gottinga, invitata ad associarvisi, aveva risposto, a mezzo del vice-rettore Riccardo Dove, in modo così brusco e tron-

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fio ad un tempo, che lo stesso segretario prussiano agli Esteri, von Thile, doveva ammetterne l’eccesso «par l’àpreté de sa parole»112 . Il mito della solidarietà degli uomini di scienza, uniti nel culto del bello e del vero al disopra delle barriere politiche, subiva, anch’esso, rudi colpi in quei mesi d’un inverno rigidissimo, pel fisico come pel morale113 . Ma tuttoché infruttuose, simili proteste erano segno chiaro di quel che pensassero e sentissero i più di fronte al proseguire della guerra e al cannoneggiamento delle città, e di una città come Parigi114 . Non foss’altro che per calcolo di opportunità politica, o, se meglio piace, elettorale, anche i più accesi antifrancesi della Sinistra dovevan, dunque, come suol dirsi, versar acqua nel loro vino. Ed ecco così la stessa Riforma osservare, sin dal settembre del ’70, che ormai la guerra non aveva più ragion d’essere: il 16 luglio la Germania aveva giusto motivo di insorgere e di riversarsi sulla Francia per impedire a Napoleone di passare il Reno con le sue truppe; oggi questa necessità è cessata «ed ogni spargimento di sangue sarebbe un atto di lesa umanità»115 . Ed eccola, ancora, insistere sul concetto che la Germania corre il rischio di trascendere i limiti dalla giustizia assegnati al diritto di difesa, male opererebbe se cercasse di annichilire a Francia, di spingerla ad una umiliazione intollerabile, strappandole l’Alsazia-Lorena, anziché accontentarsi della soluzione più equa, quella cioè di erigere tali province in libero stato, indipendente e neutrale116 , soluzione che il Crispi aveva già proposta sin dalla fine di agosto, rifacendosi al Cattaneo117 . Ma già nell’articolo del 29 settembre che esprimeva tali idee, allato dell’appello alla generosità del vincitore, allato di pensieri che si sarebbero potuti ritrovare fin sotto la penna dell’antiprussiano Bonghi118 o, per lo meno, del Dina: allato di questo tema umanitario a pro della Francia, già nell’articolo si potevano rintracciare altri moti-

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vi di tono ben diverso, che fermavano a principio di via qualsiasi rivolgimento d’affetti a favore della Francia. E non era tanto il diniego di qualsiasi solidarietà di razza. In quei giorni, in cui in Europa era già un gran discorrere di questioni etniche e a molti veniva fatto di scorgere negli avvenimenti l’espressione di un fatale contrasto tra mondo latino e mondo germanico, e molti ancora profetavano la decadenza inevitabile dei popoli latini, sopraffatti dai più freschi e giovani popoli germanici e slavi119 , e in Italia Francesco Montefredini anticipava d’assai le profezie di Guglielmo Ferrero120 e oltr’Alpe Flaubert gemeva sulla fine del mondo latino, vale a dire di tutto quel che si amava121 , altri invece propugnavano la riscossa, vaticinando l’alleanza politica delle tre grandi nazioni latine. L’idea della fratellanza latina tornava in voga: accesamente ripresa dal Carducci, veniva assunta da Cesare Orsini a base di un progetto di alleanza italo-franco-spagnuolo122 , mentre fuori d’Italia trovava un difensore pieno di pathos in Jules Favre, nell’uomo cioè che altra volta aveva difeso Felice, il maggior fratello di Cesare Orsini123 . E trapelava anche in altri commenti di uomini e giornali della Sinistra124 ; ma l’ambiente Crispino la ripudiava esplicitamente come «un grave errore etnografico e storico, e un pregiudizio della educazione soverchiamente francese che dopo il secolo passato si è infiltrata in Italia»125 . Ben più importante era invece il rimprovero alla stessa Francia repubblicana di non aver avuto «il difficile coraggio di separare assolutamente la causa dell’impero da quella della nazione»: poiché in tal modo s’apriva la via ai dubbi sulla effettiva validità della distinzione tra bonapartismo e nazione francese, si minava quindi alla base la tesi dei democratici divenuti favorevoli alla Francia, e, annullando il distinguo, ricacciando nello sfondo il transitorio fenomeno Bonaparte, si rendeva invece colpevole la Francia istessa. Garibaldi e Carducci, caduto l’u-

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surpatore, avevano risalutato la Francia dell’89, apportatrice di libertà al genere umano; Crispi e i suoi amici non credevano più nella Francia, relegando tra le favole il consueto assioma della Francia donna di civiltà e di libertà126 . Non maestra alle penti di una nuova fede politica, bensì «una vigorosa, forse la più vigorosa che mai sia stata, affermazione d’unità nazionale»; bensì dunque, un magnifico organismo statale, che non solo non era necessariamente amico dell’Italia, ma anzi poteva esserne nemico, e non occasionalmente. Il motivo ideologico, antibonapartista e democratico, svanisce; e in luogo dei fantasmi carducciani dell’imperial Caino o dei Sanculotti del ’92, sottentra la visione di una Francia intenta a tessere non anche l’altrui, ma unicamente la propria storia, che è non redenzione altrui ma conquista per sé127 , occorrendo, rapina e crudeltà; una storia che è scritta in nome del proprio egoismo, l’egoismo di una Francia che è ostile all’Italia, nemica dell’unità nazionale italiana, quale si sia il governo insediato a Parigi128 . Semmai, anzi, l’odiatissimo tiranno del 2 dicembre era personalmente stato il più favorevole o il meno sfavorevole all’Italia, fra tutti i reggitori francesi del passato e del presente129 . Apparentemente, in una concezione siffatta sembrava continuare l’atteggiamento del Mazzini, chiaramente insorto contro l’idolatria francese già assai prima del 1851, già dal 1834 tenacissimo nel richiedere che altri popoli, e anzitutto l’italiano, assumessero l’iniziativa sfuggita di mano ai Francesi130 , esplicito nel dichiarare che il progresso dei popoli stava nell’emanciparsi dalla Francia131 . L’influsso troppo premente della cultura e delle ideologie francesi aveva trovato in lui, come nel Gioberti, un’energica ripulsa: o non era stato proprio lui, che vedeva nel 1789 il compendio del lavoro intellettuale di diciotto secoli, non l’inizio di una nuova èra, e protestare contro la venerazione dei passato francese, a scrivere nel 1835:

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«il passato ci è fatale. La Rivoluzione francese, io lo affermo convinto, si schiaccia. Essa preme, quasi incubo, il nostro core e gli contende di battere. Abbagliati dallo splendore delle sue lotte gigantesche, affascinati dal suo sguardo di vittoria, noi duriamo anch’oggi prostrati davanti ad essa»?132 . Era la vigorosa reazione che assicurava il posto dell’Italia nell’Europa, le impediva di gravitare come semplice satellite nell’orbita della Francia, salvava la individualità nazionale133 : perciò appunto, una reazione che andava al di là delle contingenti vicende politiche e delle transeunti forme di governo, per fissare il problema della esistenza di due diverse, nette individualità nazionali, ciascuna degna di viver di vita propria; anche se poi, più tardi, pure il Mazzini acuisse i suoi strali contro il bonapartismo e accennasse, anch’egli, ad una distinzione tra le due Francie, quella buona e quella cattiva, la pura Francia repubblicana e il covo della tirannide e delle sètte traviate comunisteggianti134 . Tanto profonda, organica, coerente era stata da decenni l’azione di Mazzini contro il timor reverentialis per la Francia e l’adorazione per un idolo ormai incapace di iniziativa, che nessuno poteva meravigliarsi se, nel ’70-71, anche dopo Sedan egli continuasse a dimostrare diffidenza per la repubblica del 4 settembre e disistima per gli uomini del governo di Parigi-Tours-Bordeaux. Non mai, forse, o rarissime volte almeno, la sua irritazione contro i «francofili» d’Italia fu più viva e trovò accenti più accorati, che pervadono sia le lettere sia gli scritti e segnatamente quello di proposito dedicato alla Guerra Franco-Germanica. Preghiera agli amici di non esser «troppo francesi», ché non lo meritano135 ; esortazioni a non guardar più alla Francia, ormai incapace d’iniziativa136 ; rimpianto, anche in lui, come negli uomini della Riforma e nel Cairoli, che tante promettenti energie siano state trascinate da quell’illuso di Garibaldi a morir

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per la Francia, mentre si sarebbe dovuto agire in Italia, e per l’Italia soltanto137 ; monito ai sentimentali che si commuovono per i bombardamenti di Strasburgo e di Parigi e lanciano parole «stoltamente conciate» contro i nuovi Unni, senza tener a mente che ogni guerra è duello più o meno feroce, e che fino a quando non verranno soppresse le cagioni delle guerre, mediante la confederazione repubblicana dei popoli e una istituzione internazionale di arbitrato, «ciascuno dei combattenti ha dovere, in nome della propria Nazione, di vincere»: questo gli suggerivano gli eventi della guerra. E non era ch’egli, a simiglianza degli uomini della Riforma e di altri italiani, vedesse nel movimento germanico proprio attuati gli stessi suoi ideali, anche solo quello di nazionalità: aveva, sì, mutato parere da quando, alla vigilia ancora della guerra del ’66, trovava che l’alleanza dell’Italia con la Prussia era «vergognosa, ed in contrasto con tutte le nostre naturali tendenze nazionali»138 , e che, se già conclusa, una simile unione avrebbe dovuto essere trascinata nel segreto «come la colpa». «L’Italia non deve contaminare più oltre la santità della propria bandiera, non deve proclamare all’Europa ch’essa non cerca alleati se non tra gli uomini che rappresentano il dispotismo il Governo Prussiano era, tre anni addietro e solo in Europa, satellite federato dello Czar a danno dell’insurrezione Polacca: violava poco dopo ogni principio di giustizia e di dritto a danno della Danimarca: rompeva, in quell’opera nefanda, ogni fede di trattati e mentiva sfrontatamente alle Potenze d’Europa, alle popolazioni conquistate, alla Confederazione Germanica: conculcava recentemente e tuttora conculca Parlamento e Libertà nella propria terra: rappresenta, nella questione attuale, la parte peggiore»139 . Le vicende della guerra del ’66, e dunque lo scacco grosso inferto all’odiatissimo imperatore de’ Francesi avevano non solo attenuato l’ostilità mazziniana per

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il Bismarck140 , ma anzi condotto all’avvicinamento del ’67-’68 tra l’agitatore genovese e il governo prussiano. Eppure, non c’era, nemmeno ora, simpatia vera, piena rispondenza di sentimenti e d’idee. Ché anzi, come già nel 1867, quando si rivolgeva al Bismarck per offrirgli l’alleanza del partito d’azione e averne in cambio denaro e armi, non aveva esitato a premettere di non condividere le idee politiche del prussiano, pur desiderando l’unità tedesca, così ora non si peritava dal trovare, non solo nel Bismarck la venerazione della forza e dei fatti, bensì «non buona» la via per cui la Germania combatteva in difesa della sua nazionalità141 . Soprattutto, il Mazzini – in perfetta conformità d’idee, questa volta, con i moderati Dina e Bonghi – trovava che l’impadronirsi «senza libero voto dei cittadini» dell’Alsazia-Lorena era «triste insegnamento di libertà al popolo che compie quel fatto», era proceder per via di «conquista», decretando inevitabilmente una seconda guerra, tra le due nazioni, a breve scadenza; e conchiudeva in un monito severo: «Guidata da una cupida Monarchia, la Germania ha traviato alla sua volta dai confini del Retto che la riverenza al pensiero ingenita in essa le insegnava di non varcare e sostituito al diritto di proteggersi un concetto di vendetta che semina i germi di nuove guerre»142 . Ma, al disopra di tutte queste riserve così simili per tanta parte a quelle dei moderati, stava una ferma considerazione: non solo la Francia pagava il fio delle sue colpe, colpe di un popolo tutto, e non puramente di una dinastia o di un uomo143 , ma era giunto per l’Italia il momento di assumere l’iniziativa, di sedersi sul trono dell’iniziativa europea, vacante dal 1815, e di dar inizio alla sua missione. Insurrezione in Italia e proclamazione della Repubblica, la bandiera della libertà issata trionfalmente in Roma redenta dal giogo papale, sì come la nazione tutta era, infine, redenta dalla soggezione alla Francia: mai, come in quei giorni dell’estate 1870, l’agitatore

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sognò vicino il momento dell’avveramento della sua profezia, e credette giunta l’ora in cui l’Italia si sarebbe posta a capo di un’«Epoca europea»144 . Poi, fu sì il crollo delle speranze e l’accasciamento morale e il veder sfumato il «duplice sogno»145 e il sentirsi nuovamente solo, fra Italiani degeneri. Ma anche dopo lo svanire delle illusioni, anche quando vide Roma profanata dalla monarchia e, in Francia, una parvenza di repubblica, senz’anima di repubblica146 , anche allora il Mazzini rimase fermo nelle sue convinzioni; e continuò ad insistere – lo faceva da trentacinque anni – su alcune delle sue idee fisse: che cioè la Rivoluzione francese aveva rappresentato non l’inizio di una nuova epoca, ma la conclusione, se pur mirabile, e come l’ultima formula di un’epoca ormai finita147 ; che la Francia non solo non aveva più l’iniziativa in Europa, dal 1815148 , ma anzi aveva tralignato dalla propria missione, lasciandosi trascinare dalle tendenze dominatrici, conculcando i diritti delle nazioni sorelle, arrogandosi diritti di perenne primato tra le nazioni, ond’era giusta, se pur severa oltre il giusto, l’espiazione149 ; infine, che l’Italia doveva, essa, assumere l’iniziativa. Perciò egli era contro la Francia, e non solo contro il bonapartismo: contro, perché temeva, dall’influsso francese così profondo e perdurante150 , conseguenze deleterie per la capacità d’azione, la volontà, i propositi stessi degli italiani in ispecie e degli europei in genere; contro, perché doveva forzatamente esser polemico per salvare l’individualità italiana, per destar nel suo popolo la volontà di assumere l’iniziativa, vale a dire quella coscienza di sé che gli sembrava ancor totalmente mancare151 . Perciò, dopo aver predicato nel ’67 al Bismarck che bisognava combattere il «bonapartismo», pericolo permanente per l’Europa152 egli affermava ora la colpa di tutta la Francia, troppo sollecita a cercar un capro espiatorio e

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a riversar su di un uomo solo – giusta un antico costume – le colpe di tutti153 . In lui, dunque, la posizione era netta, di fronte alla Francia come nazione, non di fronte alla sola Francia del Secondo Impero. E sarebbe egli stato non meno reciso e deciso anche di fronte alla Germania, quando l’influsso tedesco fosse sembrato minaccioso come lo era stato quello francese; non per nulla il Mazzini deplorava, nell’agosto del 71, il «servile avvicendarsi come d’antico» di influenze francesi e germaniche154 d’accordo in questo con il Carducci, il quale, pochi mesi appresso, nel gennaio del ’72, aggrediva «la borghesia ben pensante, che ammira sempre la forza e il successo», la quale «vestiva i suoi bimbi alla foggia degli ulani come pochi anni avanti gli avea vestiti alla foggia degli zuavi», comportandosi con la Francia, la maggior parte degl’italiani, «come lo schiavo recente di servitù il quale esulta su la sventura del padrone che teme»155 . Ma nella contrapposizione Francia-Italia, che il Crispi e i suoi amici cercavan d’imporre, s’insinuavano ormai motivi diversi da quelli mazziniani. Eran, quest’ultimi, esigenze morali, assai prima che politiche nel senso stretto della parola, in connessione con un programma alla cui cima splendeva l’ideale dell’Umanità, e che richiedeva quindi il concorde lavoro di tutti156 , la fratellanza, per il trionfo di un principio, per il «nuovo fine sociale d’una sintesi europea che trasporti l’iniziativa dal seno d’un solo popolo al di sopra di tutti e comunichi a tutti l’attività ch’oggi manca». Gli altri, erano sì in parte considerazioni di principio, come che si ritrovasse identità di sviluppo, comunanza d’idee e di fini nel movimento nazionale germanico e in quello italiano, avvinti pertanto in un solo destino e con l’ovvia conseguenza che, per contrapposto, la fortuna d’Italia non coincideva con quella di Francia157 . Ma in parte notevole erano invece già considerazioni di pura politica pratica, si nutrivano di sem-

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plici rivalità statali. Dal sogno dell’Europa dell’avvenire si ritornava nella più angusta e concreta Europa dell’oggi, con i suoi interessi di potenza, territorialmente, politicamente, economicamente ben percepibili, di una materialità immediata e corposa; dai princìpi si scendeva alla pratica. Era l’abbandono sostanziale da pensiero mazziniano: come dalla repubblica il Crispi era passato alla monarchia, così passava dal programma europeo di Mazzini alla valutazione, consueta a politici e diplomatici, dei «necessari» contrasti di interessi fra Stati vicini, in attesa di trascorrere anche – e fu l’ultima fase della sua esperienza – dall’esigenza originaria di libertà, teoricamente sempre mantenuta, alle tendenze praticamente autoritarie nell’interno del paese. È una concezione già quasi nazionalistica, che vede interessi specifici in lotta gli uni con gli altri e solo questi, parla di potenza e non vuol più concedere nulla al «sentimentalismo» e, come nel Blanc, ripudia i «vieti principî» e le dottrine del passato158 ; una concezione per cui i crispini e, anche, altri uomini della Sinistra, non escluso talvolta il Mancini159 , si trovano, senza volerlo, sullo stesso piano del conservatore de Launay160 , e lontani assai da Garibaldi e da Carducci. La caduta del Secondo Impero e l’avvento della Repubblica non bastano quindi più per decidere pro e contro la Francia; e invece questi uomini, che proclamano la necessità di una politica puramente italiana161 , nel senso di una politica non influenzata da memorie del passato, da preconcetti di razza, di religione, di storia, e puramente attenta agli interessi propri, razionalmente soppesati e valutati, che si atteggiano dunque anch’essi a realpolitici, secondo il tono generale dell’epoca, questi uomini mantengono verso la Francia, pur dopo il 4 settembre, un atteggiamento pieno di riserva. Mentre della Germania si può dire senz’altro esser «quella che per molti punti si manifesta in contatto con

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l’Italia», per la Francia bisogna attendere maggiormente: «quando essa receda completamente dalle velleità papiste e dal pregiudizio di credersi la nazione prevalente nel Mediterraneo e la tutrice dell’Italia, quando la sua forma di governo ci garantisca dai pericoli di reazioni, essa potrà divenire per noi egualmente che la Germania un’alleata sul cui concorso nello sviluppo dei principi liberali potremo fare assegnamento». Bel miraggio ultimo: ma da quante premesse cautelatrici, da quali condizioni e se e ma non viene accompagnato, sì da sembrar proprio solo un miraggio! C’è qui, in nuce, tutto l’atteggiamento della Sinistra nei prossimi anni, allorché proprio le velleità papiste e la minaccia di movimenti reazionari in terra di Francia insorgeranno, talora con preoccupante violenza, a dar corpo alle ombre intraviste nell’articolo de La Riforma del 22 ottobre. Un passo ancora e si poteva giungere all’idea della «naturalità» dell’alleanza italo-tedesca e, per converso, della «naturale» opposizione tra Italia e Francia. Che la Prussia fosse la «naturale» e provata alleata dell’Italia, poteva ben dire e ripetere il signore di Bismarck162 troppo scaltrito politico per lasciarsi prendere nella pania e credere alla realtà di una frase ch’egli pronunziava quando gli tornava comodo, salvo a lasciarla cadere quando più non gli importasse cattivarsi il governo di Roma. Poteva ripetere, con maggior sincerità forse, il Mommsen163 . Ma certo, il giorno in cui a qualche italiano fosse saltato in mente di scorgere la naturalità dell’alleanza tra Germania e Italia, l’affermazione sarebbe stata fatta con tutta serietà e calore di convinzione: il momentaneo accordo di interessi fra Berlino e Roma avrebbe assunto la fissità duratura del fatto naturale, e, per contrapposto, buttato via ogni relitto di anti-bonapartismo, tra Francia e Italia si sarebbe aperto un «naturale» dissidio, incomponibile per volontà di uomini, fatale, poiché lo sviluppo della vita italiana faceva presagire per il giovane re-

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gno «una grandezza e una potenza politica, nel mezzodì d’Europa, che non può aver luogo senza che la Francia abbia a sentirsene colpita nelle sue tradizionali ambizioni di prevalenza»164 . Queste cose dunque furono dette in Italia e assai più in Francia, dove i nemici dell’unità italiana avevano invocato anch’essi, da tempo, la «naturalità» del contrasto fra le due nazioni165 ; anzi, banditori della naturalità dell’alleanza italo-prussiana s’eran già trovati sin dal ’66, prima ancora di Mentana, e n’era venuta la scoperta che i cuori delle due nazioni, Italia e Germania, destinati a battere all’unisono nell’avvenire, avevano già battuto all’unisono nel passato, sempre, senza che i due popoli lo sapessero «perché avevano comuni le aspirazioni, i desideri, i timori, le speranze»166 . Qual meraviglia dunque se, con siffatto modo di sentire, la spedizione garibaldina in Francia riuscisse poco accetta a molti della Sinistra167 ; se poi, con il suo esito e la mala accoglienza fatta dall’Assemblea di Bordeaux al generale e le tribolazioni delle camicie rosse dopo l’armistizio, essa divenisse anzi motivo di più per affermare che la Francia, ingrata, superba pur nella débacle, aveva dimostrato il suo odio – suo, dell’intera nazione – contro tutto ciò che sapesse d’Italia; se dunque l’ultima impresa del magnanimo di Caprera si convertisse, contro il suo proposito, in argomento di propaganda anti-francese? Tanto lontano ormai, in questi uomini, il proposito di associare Francia e libertà, di veder in essa la nazione eletta, solo fuggevolmente bruttata dal tiranno, che anzi cotali attributi venivano generosamente abbandonati alla Germania, proclamata difenditrice del principio d’indipendenza e di autonomia nazionale168 , della civiltà e libertà europea169 e perfino della vera e sana democrazia170 . Né, d’altronde, almeno per taluno degli uomini della Sinistra che così opinavano, e in primis per il Crispi, sarebbe stato necessario attendere proprio che in Francia

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si delineassero le velleità clerico-monarchiche. Assai prima del manifestarsi aperto di tali tendenze nell’Assemblea di Bordeaux, quando la Francia sembrava incarnata nel repubblicanissimo Gambetta, e, a Firenze, l’inviato francese Senard si congratulava col re e col suo governo per l’occupazione di Roma, le tendenze di Crispi e dei suoi amici verso la Francia erano divenute nuovamente, dopo una fuggevole schiarita, diffidenti ed ostili. Non si trattava del permaner di dubbi sulla reale capacità di risurrezione di una Francia «libera»: que’ dubbi, vivi anche nell’animo di parecchi che avrebbero voluto una forte Francia repubblicana, e temevano insicuro l’avvenire dell’appena nata e mal nata repubblica; onde un Cairoli, esultante per il crollo del Secondo Impero, per la scomparsa nel disprezzo della «vergogna europea da tanto tempo inchinata», e lieto dell’onor di Francia in parte riparato, e auspicante là risurrezione della «vera» Francia dei diritti dell’uomo, rimaneva tuttavia incertissimo del futuro e perciò, con tutti gli auguri, dubbioso e sostanzialmente diffidente171 . Si trattava invece di ben altro, che di una Francia saldamente e sicuramente repubblicana. Lo stesso giorno in cui proclamava la necessità che la guerra cessasse, e in cui dunque sembrava assumere posizione favorevole alla Francia, La Riforma toccava infatti la questione di Nizza – di Nizza italiana172 . Non unica questione ancor da risolvere, in omaggio al «diritto nazionale»italiano; anzi, una fra le rivendicazioni, destinate fatalmente a venir in luce aperta, diceva il quotidiano, ogni qualvolta l’occasione si presentasse, se la preveggenza dei governi non avesse saputo sitcemarle a tempo. Una fra le rivendicazioni, allato del Trentino, allato della stessa Savoia, per la quale veramente il giornale richiedeva non più il ritorno al Regno, bensì la «neutralizzazione», così come aveva chiesto la neutralizzazione delle province renane, per separare, mediante una linea

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continua di territori inviolabili, la Francia dalla Germania e dall’Italia, e creare una garanzia solida della pace europea. Dove, fra l’altro, colpisce, ancor una volta, l’analogia fra le idee dei circoli crispini173 , in questo tutt’altro che concordi con gli altri ambienti della Sinistra174 , e quelle del conservatore de Launay, il quale pure, rifacendo a modo suo la carta d’Europa dopo la sognata vittoria italo-germanica sella Francia, avrebbe più tardi osservato esser preferibile forse neutralizzare la Savoia unendola alla Svizzera175 : tanto il fervore antifrancese dell’uno e degli altri li avvicinava sostanzialmente, e senza che essi nemmeno lo sapessero, in politica estera, al disopra di divergenze grandissime sui problemi di politica interna. Vicini, nei sogni di grandezza per il proprio paese e di una grandezza concepita anzitutto come affermazione di forza militare: quei sogni che il sempre avveduto Bismarck aveva cercato di accarezzare, incoraggiare, spronare, soprattutto nei riguardi di Nizza, proprio nell’estate del ’70176 , che ancora più tardi avrebbe ricordato, a mezze frasi, al de Launay177 , così come ad altri italiani di rango elevato li avrebbe ancor sempre fatti balenare taluno fra i maggiori uomini responsabili della vita germanica, e fra essi il Moltke178 . Seducente esca, senza dubbio, per chi avesse dimenticato Magenta e Solferino: e non disdegnava di giovarsene fin un uomo come il Mommsen, pronto a sostenere, con la sua autorità di scienziato, anche la politica bismarckiana, nell’estate del ’70179 , e un altro dotto, l’indianista Alberto Weber, tra un rimprovero e t’apro, per l’«ingratitudine» degli italiani verso la Prussia, cercava, anche lui, di prospettare il miraggio di Nizza. Vero è che l’Italia aveva pure obblighi di riconoscenza verso la Francia, e più antichi che verso la Prussia: ma in politica tali sentimenti non contano, «la camicia ci sta più vicina del soprabito»180 .

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Con la questione di Nizza – che il gruppo raccolto attornoa Crispi avrebbe cercato, nei mesi seguenti, di sfruttare in vista di una vagheggiata soluzione definitiva e, ben s’intende, italiana – risorgeva dunque, e il bonapartismo era appena sepolto e le truppe francesi non erano più a Roma, un germedi dissensi profondi, rancori da parte italiana e diffidenze da parte francese181 : donde un rinnovato ostacolo, per gli amici della Riforma, ad un vero riavvicinamento italo-francese182 . Al disopra delle questioni ideologiche, dell’usurpazione del 2 dicembre e dell’immoralità del bonapartismo, stava dunque una questione territoriale: la quale a sua volta poi non veniva fuori se non perché nell’animo inquieto del vecchio cospiratore balenavano quei fantasmi di grandezza e di potenza, dei quali più tardi si sarebbe alimentata la sua azione di capo del governo italiano. «Spingere il nazionalismo fino al più alto grado di austerità, in tutto e verso tutti: ecco il nostro bisogno indeclinabile dopo di aver per tanti anni subìto una politica di preponderanza straniera; non altrimenti si riacquisterà la coscienza intiera della nostra personalità nazionale, non altrimenti dimostreremo al mondo che l’Italia è e deve e vuole essere degli italiani.». Così, La Riforma del 23 ottobre 1870183 : ed era veramente, qui, il grido dell’anima. Nazionalismo, proprio il «gretto geloso ostile nazionalismo» che il Mazzini, un anno più tardi, nell’ottobre del 1871, supplicava non si confondesse con la santa parola «Nazionalità»184 ; grandezza, potenza, dignità nazionale: e poiché la dignità nazionale sembrava offesa, anzi, per parlare il linguaggio di quegli uomini, prostituita da un decennio di predominio e ingerenza francese, quasi fatalmente que’ fieri sentimenti si volgevano contro la vicina di occidente. Crispi poteva bene affermare in piena Camera, «l’animo mio è lacerato e sanguina nel vedere le crudeli sventure onde è stata colpita la Francia»185 : in verità, anche

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se il moto di commozione era sincero e spontaneo, esso non significava nulla più di una fuggevole effusione sentimentale, mentre l’istinto, prima ancora che il ragionamento politico, lo conduceva, quasi per fatalità, contro la Francia. Nel suo atteggiamento e nei pensieri di quei drammatici mesi del ’70-71 erano già, in nuce, l’atteggiamento e i pensieri del periodo 1887-’96: ripetute, e certo sincere, dichiarazioni di amicizia per la Francia; ma, in sostanza, e sia pure grandemente facilitata, assai spronata anzi dalle animosità e cattiverie d’oltr’Alpe, una politica profondamente diffidente verso la Francia e, in ultima analisi, dunque, ostile. Ora, si trattava di Nizza: più tardi, messe da parte anche se non abbandonate le rivendicazioni ai confini delle Alpi186 , si tratterà di Biserta, di Tripoli e dell’equilibrio mediterraneo: ma nell’un caso e nell’altro, la rivale «naturale» del giovane Regno appare essere proprio la nazione che ne ha pure aiutati, anzi sorretti i primi passi. Sempre più svanirà il fascino dei principi dell’89 e della patria loro; e sempre più quest’ultima apparirà nella luce di una calcolatrice utilitaria. L’ideologia scompare, per lasciare luogo alla pura considerazione dei fattori di potenza, delle entità nazionali, bene armate, ispirate solo dal proprio egoismo e intente a disputarsi l’egemonia in questa e in quella parte del mondo. Politica realistica o alla Bismarck, come si disse, quale proprio Francesco Crispi avrebbe cercato di tradurre in pratica, molto più tardi, una volta assunto il comando della nave italiana; politica nella quale sempre meno si dava peso ai princìpi, alle cosiddette idealità e sempre più alla forza materialmente calcolabile e pesabile. Che il valore dei principi subisse pericolose alterazioni, in questo primo affacciarsi di nazionalistica austerità, dimostrava proprio La Riforma, in quei mesi sul finire del 1870.

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Era senza dubbio continuo, insistente il ritornello del principio di nazionalità, come della base su cui avrebbe dovuto poggiare tutta la politica italiana: tanto più insistente in quanto l’occupazione di Roma richiedeva, appunto in quei giorni, che si ripetesse, esaltasse fino al possibile il principio di nazionalità e dell’autodecisione dei popoli, come quello che legittimava la breccia di Porta Pia e l’insediamento a Roma. Era il motivo ideale che con quello di libertà politica aveva dato luce e respiro al Risorgimento: motivo profondissimo, e ancora potente a commuovere i cuori e le fantasie, e ancora necessario per legittimare l’Italia unita di fronte soprattutto al mondo cattolico. Ond’è che, come in piena Camera lo aveva riaffermato il Crispi187 , così lo esaltava La Riforma: l’idea di nazionalità – diceva l’articolista – prima ancora di essere un principio politico è come un «grande ed operoso principio morale»; essa acquista un qualche cosa di mistico, di religioso, assumendo i caratteri «di una vera religione civile»; è il presupposto necessario dell’idea di umanità, che mancherebbe della sua prima condizione essenziale ove non ci fosse l’idea di patria188 . E nazione vuol dire missione: ad ogni popolo tocca la propria, ma a nessuno una più alta che alla nazione italiana, cui la Provvidenza della storia chiama ad «affermare il principio di nazionalità sui ruderi della teocrazia, – glorificare la libertà religiosa e i diritti della civiltà sulla terra del Sillabo e del dogma»189 . Erano dunque i princìpi mazziniani190 , ancora una volta ripresi anche se del binomio nazione-umanità l’accento si spostasse, di preferenza, sulla prima parte, e la menzione della seconda mancasse del calore e della fede ond’era stata avvolta nella predicazione mazziniana191 . Anche in questo, cominciava a trapelare l’incipiente nazionalismo, che avrebbe poi disdegnato, a maturazione av-

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venuta, la «santa famiglia dell’umanità» come un vaneggiamento di imbelli. Ferma, dunque, nel considerare il principio di nazionalità un grande principio morale, La Riforma era parimenti decisa nel volerlo applicato «in tutte le sue logiche conseguenze, senza eccezioni, senza restrizioni», nel non ammettere ch’esso potesse mai essere subordinato «a princìpi che lo neghino in qualsiasi modo o in tutto o in parte, e possano arrestarne, o modificarne l’esercizio e lo sviluppo»192 , convinta che «sorti dal principio di nazionalità, abbiamo il dovere di sorreggere sempre con la simpatia e con la benevolenza, ed ove ne sia il caso, con più validi aiuti, le nazioni oppresse, che ... si affaticano a raggiungere la medesima meta, che noi più fortunati di loro, abbiamo raggiunto»193 . Così, dopo averlo tirato in ballo per Nizza, il veemente giornale di sinistra cercava, nell’estate del ’71, di propugnare l’applicazione de: principio nazionale in quello che, con l’impero ottomano, era stato, era e sarebbe rimasto sino al suo tramonto il teatro d’azione preferito dai rivendicatori dei popoli oppressi o almeno non rispettati nella loro personalità nazionale: vale a dire, l’impero asburgico. I dissensi violentissimi in seno alla duplice monarchia pro e contro il federalismo, pro e contro la politica del ministero Hohenwart, offrirono allora facile spunto alle notazioni dei Crispi e degli Oliva194 . Né soltanto era amore per i fratelli trentini195 , per Trieste196 , iniziale espressione del movimento così noto di poi sotto la denominazione d’irredentismo. L’amore della Riforma per il principio di nazionalità abbracciava – mazzinianamente – tutti i popoli, soprattutto i popoli dell’impero asburgico; si soffermava compiaciuto sulle supposte velleità di annessione all’impero germanico dell’Austria tedesca, sul programma della «Grande Germania» che, con nebulosa conoscenza delle cose e scarso intuito politico, si riteneva gradito anche al Bismarck197 ; si

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effondeva in previsioni di grandiosi rivolgimenti, e culminava – o sancta simplicitas! – nell’affermazione «che l’interesse e la logica della politica di nazionalità dovrebbero aver scritto nel programma germanico la ricostruzione della nazionalità polacca, la indipendenza della nazionalità tzeca e l’ingresso dell’Alemagna austriaca nel patto dell’impero»198 . Sembrava veramente che un soffio messianico aleggiasse nel petto de’ redattori della Riforma, i quali, come per la libertà, così per la nazionalità continuavano ad imprestar, generosamente, al Bismarck le proprie idee e il proprio sentire: tanto messianico, da non far loro avvertire il ridicolo di supporre tendenze favorevoli alla nazione polacca nonché in tutti i patrioti tedeschi, taluni dei quali erano invece stati così espliciti, sin dal ’48 e dall’Assemblea di Francoforte, a ripetere nettamente, proprio verso i Polacchi, «la Germania innanzi tutto»199 , addirittura in un uomo come il Bismarck che già nell’aprile del ’48 s’era sdegnato per il sentimentalismo romantico dei Berlinesi a favor dei Polacchi200 , che nel ’63 aveva pienamente appoggiata la politica russa e che doveva veder sempre nel «polonismo» uno dei maggiori pericoli per la sua opera. E nemmeno avvertivano, guardando con compiacimento al federalismo austriaco, non più il ridicolo, ma il danno sicuro, questa volta, che all’Italia avrebbe arrecato, in quel particolare momento, l’eventuale trionfo dei federalisti in Austria. Con la questione romana aperta, una Francia dominata dalla maggioranza clerico-conservatrice dell’Assemblea Nazionale, un Belgio clericale; in simili condizioni avere ancora, in Austria, il trionfo della reazione clericofeudale, a tendenze nettamente, dichiaratamente papaline e anti-italiane201 – e tale era il significato politico internazionale del federalismo austriaco – sarebbe stato, davvero, un grosso pericolo per l’Italia.

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Ma Crispi e gli altri, sognando il prossimo congiungimento alla madrepatria del nucleo italiano dell’impero asburgico, convinti che fosse imminente il congiungimento della parte tedesca al Reich202 , non badavano più a simili inezie, e continuavano a lumeggiare ai loro lettori la necessità, fatalità, imminenza di una profonda trasformazione dell’impero asburgico203 . Continuavano, anche, ad attaccare il governo della Destra, di quei moderati che affettavano ora di ritener chiuso il periodo dei grandi movimenti, e che alla poesia del periodo eroico ’59-’61, movente «di meraviglia in meraviglia e di prodigio in prodigio, con realtà superante l’immaginazione», avevano fatto sottentrare «una nuda, una gretta, una gelida prosa come cappa di piombo»204 . Ma, insomma, erano ancora, formalmente almeno, i princìpi mazziniani. Ora, quei principi s’erano fondati, a lor volta, sull’assioma della nazione come fatto morale, cioè come «volontà» di essere nazione, come espressione della libera decisione dei cittadini. Se la formula del plebiscito di tutti i giorni doveva esser coniata, nel 1882, dal Renan, la sostanza di essa era già stata del Mazzini205 ; riappariva a tratti persino nel Mancini, anche se assai più frammischiata qui con elementi giusnaturalistici206 . Il predominio del fattore volontà, coscienza, spirito, era la nota caratteristica del pensiero italiano sulla nazione, diversamente da quello germanico ch’era sempre stato, per più larga parte, natura: era la fede di un’età, di un popolo i cui stessi riformatori sociali battevano sul «volontarismo» e non accettavano i concetti – cari poi al marxismo – del dispiegarsi di forze e leggi economiche necessarie e fatali207 . Il richiamo alla storia e alle glorie passate, cioè alla creazione degli uomini, non al ceppo etnico, cioè alla creazione della natura, era stato il motivo dominante nei più alti appelli allo spirito nazionale italiano, perché si ridestasse.

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Senonché, bruscamente, ad una concezione così alta, che tutto riponeva in interiore homine, e da siffatta forza d’interiorità derivava la sua superiore ampiezza di orizzonte nell’ambiente Crispino minacciava di sostituirsi un modo di vedere di tutta diversa natura, tale da trasferire l’elemento decisivo dal campo morale e dalla vita interna degli uomini ad una presunta oggettività esteriore, a dati di «fatto» geografici, etnografici e linguistici, preesistenti e condizionanti, in via assoluta, il volere degli uomini. Nel dicembre del ’70 l’opinione, per avere contestato alla Germania il diritto di annettersi l’Alsazia e parte della Lorena contro il «voto dei popoli e la coscienza delle nazioni», sulla base pura e semplice della conquista, e dunque contro il diritto nazionale, scatenava le ire di un «tedesco»; onde nella risposta l’organo moderato (a cui si aggiungeva La Perseveranza del Bonghi) toglieva motivo dalla polemica per precisare il concetto «italiano» di nazione e nazionalità, fondato precisamente sulla libera volontà dei popoli»208 . Fosse il furor polemico ad uso puramente interno, di partito; fosse la vecchia ostilità, di stile mazziniano, contro il «plebiscito» di bonapartiana e dittatoriale origine; fosse la preoccupazione, comprensibile in quel momento, con Roma appena appena entrata nell’orbita nazionale, che la teoria dei plebisciti potesse poi essere invocata contro il giovane Regno209 o almeno potesse venire praticamente contestata, come che si dicesse il voto essere stato praticamente «non libero» estorto con l’intimidazione e simili mezzi mentre proprio i Romani erano ancora in maggioranza «neri»210 ; fosse il desiderio di spalleggiare la politica germanica, sempre vedendo nella Francia il nemico: certo, La Riforma intervenne nella polemica, per negare valore alle idee esposte dai due giornali moderati e affermare, invece, la dottrina, per vero singolare assai nel paese di Mazzini e proprio quando Mazzini deplorava l’annessione dell’Alsazia «senza libero voto dei citta-

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dini», che il carattere della nazionalità è, di sua natura, anteriore e superiore a ogni volontà singolare e collettiva; che il principio di nazionalità è un a priori, un diritto «naturale» rovente in ogni italiano; che la volontà dei cittadini deve essere interrogata per la forma dello Stato, ma non per altro, mentre sarebbe ingiusto ed assurdo far decidere da una parte della nazione se intende essere italiana, tedesca, francese211 . Antitesi più recisa alla formula «Roma dei Romani», così in voga dal 1861, non potrebbe immaginarsi212 . Come era allora possibile riconoscere le nazionalità se non dai segni esteriori, geografia, razza e linguaggio essenzialmente, cioè da quei segni ai quali il Mazzini aveva negato valore in sé e per sé? L’a priori era determinato dalla natura e anche, certo, dalla storia di un paese; ma da una storia ormai pur essa diventata un dato oggettivo, preesistente alla coscienza e volontà dei singoli, dato dunque di carattere del tutto naturalistico. E, tosto o tardi, dottrine di tal genere avrebbero condotto alla identificazione dell’a priori col fattore razza, tramutato, nonostante tutto quel che di equivoco e di dubbio v’ha in esso, in un imperativo categorico, a cui andrebbe subordinata la vita dei singoli come dei popoli; l’idea di nazione sarebbe affogata in quella di stirpe213 . Era un principio gravido di pericolosi sviluppi, tale da legittimare ogni forma di conquista o, come più tardi si disse, di imperialismo; un principio certo dissueto al pensare e al sentire degli Italiani. Vero è che, poche settimane più tardi, La Riforma mutava repentinamente tono: al giungere delle notizie sulle elezioni francesi del febbraio 1871, che avevano condotto al trionfo del partito italiano in Nizza, l’organo di Crispi proclamava distrutto, dalla nuova manifestazione della volontà popolare, il fittizio plebiscito del 1860, facendo così appello, come a criterio decisivo di valore, a

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quella volontà dei singoli cittadini un mese e mezzo innanzi cacciata perentoriamente fuor dell’arengo. Contraddizioni sino ad un certo punto comprensibili col fervore polemico e le necessità sempre varie e mutevoli della tattica politica; ma solo sino ad un certo punto, oltre il quale veramente si faceva palese il variar sostanziale dei principi. Nel nostro caso, si trattava proprio di un mutare, lento ma certo, di principi, dell’avviarsi verso concezioni nazionalistiche, profondamente diverse dalle idee che avevano predominato nell’età della lotta per il riscatto: ch’era, appunto, uno dei segni caratteristici del gruppo Crispino nei confronti degli altri gruppi della stessa Sinistra, ancor ben fermi nel volere l’autodecisione dei popoli, e quindi avversi alle dottrine germaniche della nazionalità naturale e incosciente214 . A mettersi su di una tal via eran di potente stimolo l’esempio della Germania trionfante e l’influsso, non ancora imperioso e diffuso come pochi anni più tardi, ma già percepibilissimo, di idee e dottrine germaniche. Se l’Italia fra il 1830 e il 1850 aveva derivato molta parte della sua cultura e dei suoi pensamenti dalla civiltà francese della Restaurazione e della Monarchia di Luglio, tanto che gli stessi atteggiamenti polemici antifrancesi erano un po’ come certa insofferenza dei figli per i padri; ora si accingeva a derivare modi e forme della sua vita spirituale dalla nuova dominatrice dell’Europa. E i primi segni si potevan vedere già qui, nell’oggettivarsi deciso per cosa dire del principio di nazionalità, ch’era pure la più alta affermazione ideologica italiana del secolo; nel suo porsi a priori, come una categoria kantiana, ma una categoria che avrebbe reso lecita, anzi provocatala politica di forza: nel suo naturalizzarsi, essa che era stata invece spirito, animo, fede. Non per nulla, gli scrittori e pubblicisti tedeschi sostenevano infatti, quasi unanimi, il diritto della Germa-

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nia sull’Alsazia, perché terra tedesca, per razza, lingua e tradizione di tempi lontani, anche contro il volere attuale degli abitanti: e Treitschke ammoniva che l’Alsazia e la Lorena erano territori tedeschi «per diritto di spada, e noi ne disporremo in virtù d’un diritto superiore, il diritto della nazione tedesca, la quale non permetterà che i suoi figli perduti rimangano estranei all’Impero germanico. Noi tedeschi, che conosciamola Germania e la Francia, sappiamo meglio di quei miseri sventurati, ciò ch’è buono per gli abitanti d’Alsazia, i quali, sotto l’influenza pervertitrice del loro legame coi francesi, sono rimasti estranei alle simpatie della nuova Germania. Contro il lor volere noi li faremo risensare»215 . Il diritto superiore della nazione: com’era sintomatico che di un sol parere fossero, in quei giorni, uomini come Mommsen, Treitschke e Crispi! E d’altro ancora certo non puramente di origine germanica216 , ma ormai di diffusione soprattutto germanica, cominciavano a imbeversi gli animi di questi italiani. Cominciava infatti a serpeggiare il principio della necessità della guerra; e nella Riforma si poteva cosa leggere quel che per gl’Italiani poteva allora sembrare quasi una novità, e che le generazioni future si sarebbero poi sentito ripetere da molti pulpiti, che la guerra cioè fa il suo giro, anch’essa compiendo «le sue crudeli ma necessarie missioni pel progresso morale dello spirito umano»217 . E poiché, come s’è detto, proprio soprattutto per l’Italia molti vedevano la necessità di una grande vittoria, tutta sua, che consolidasse il suo prestigio e la sua potenza, così il suggerimento teorico cadeva in terreno propizio. Era il primo avviarsi verso le concezioni che avrebbero dominato l’età battezzata appunto dell’imperialismo, con le grandi unità politiche in conflitto permanente, anche se non aperto, per il predominio continentale e marittimo, per la conquista di colonie e mercati, fra gli osanna di una letteratura anch’essa fontana ormai dalle invo-

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cazioni alla libertà e all’umanità, care al Romanticismo, e anelante invece al dominio e alla forza, da Kipling a D’Annunzio: età in cui il nazionalismo avrebbe completamente trasformato senso e valore antichi dell’idea di nazionalità, in attesa di lasciar luogo, a sua volta, all’affermazione piena delle tendenze naturalistiche, trionfanti con la dottrina della razza. Nella qual dottrina l’oggettivarsi, il porsi a priori della nazione avrebbero trovato la loro logica conclusione: ché, dissociate nazione e libera volontà degli uomini, altro non restava che cercare il fondamento della nazione e la sua legittimità nell’a priori etnico, nel sangue. Blut und Boden. Per allora, indubbiamente, nemmeno gli uomini della Riforma volevano sentir parlare di razza: idea, questa che riconduceva alla fratellanza latina tanto detestata dal Crispi e compagni, o faceva pensare al professorale sussiego della scienza germanica, alle già note affermazioni sulla superiorità innata dei Germani – che non erano, nemmeno queste, parole di gusto dei redattori del giornale Crispino218 . Ma, togliendo il nesso strettissimo fra nazione e volontà nazionale, essi aprivano la via, senza avvedersene e senza volerlo, all’affermarsi delle aborrite tendenze razzistiche. Né si trattava di un momentaneo vacillare delle convinzioni di un tempo. Che invece le affermazioni della Riforma, d’altronde più volte ripetute219 , non fossero fuggevole apparizione per amor di polemica, bensì espressione di un nuovo, diverso modo di sentire, provavano le, massime care all’uomo politico che di quel giornale era, nel 1870, uno degli ispiratori. Il concetto di nazione come di un a priori, indipendente dalla volontà degli uomini, precostituito, immutabile nel tempo, assoluto, indistruttibile, eterno, venne infatti più volte riaffermato, prima e dopo il ’70, da Francesco Crispi. Già nella sua celebre lettera al Mazzini, del 18 marzo 1865, la nazione appariva come un dato di fatto preesi-

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stente alle manifestazioni della volontà popolare: «la nazione, come l’uomo, esiste, e non è necessario che un popolo o un Parlamento lo proclami perché esista. Epperò io non poteva far dipendere da un sì o da un no, dalle sottigliezze dei retori e dal sillogismo dei giuristi, l’unità d’Italia, la quale ha base nella sua geografia, nella sua lingua e in tutte quelle condizioni morali che nessuno dovrebbe ignorare ... Mia opinione era dunque che il popolo non dovesse affermare l’unità nazionale, non costituirla, ma dichiarare di volerla. Poscia le assemblee, cui il plebiscito doveva esser legge, seguirebbero per istabilire le condizioni di libertà e di forza, affinché la volontà popolare fosse attuata»220 . Con gli anni, sempre più nettamente s’affermò la «naturalità» della nazione; onde il presidente del Consiglio poteva dire, nel discorso di Palermo, il 14 ottobre 1889: «se il plebiscito fosse stato necessario, avrebbe dato l’ultima sanzione alla sua legittimità [occupazione di Roma]. Ma anche senza di esso il diritto nazionale non temeva contestazioni. La nazione esiste per virtù propria entro la cerchia de’ suoi confini. Ora, nessuna nazione al mondo ha confini così definiti e sicuri come l’Italia. Natio quia nata»221 . La «virtù propria» della nazione, come forza naturale ed eterna: «l’esistenza e l’indipendenza delle nazioni non possono essere soggette allo arbitrio dai plebisciti. Le nazioni vivono di diritto naturale, eterno, immutabile, né per forza di armi, né per volontà di plebi cotesto diritto può ricevere alcuna mutazione»222 . Natio quia nata: la formula crispina applicava alla nazione i princìpi giusnaturalistici, scorgeva un diritto naturale, razionale ed eterno, valido per i popoli come per gli individui; dottrinalmente era dunque ancora Settecento, quando pure non si rifugiassi in un appello a Dio e alla creazione divina, con un balzo al di là delle solite premesse razionalistiche223 . Ma un tale insistere sulla naturalità della nazione e denegare l’elemento volontaristi-

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co non poteva alla lunga reggersi su di un astratto diritto di natura o su vaghi accenni teistici; e si sarebbe dunque dovuto ricercare più solida, corposa e massiccia base nell’appello al sangue, cioè all’unico elemento che potesse effettivamente distinguere, ex initio, una nazione dall’altra prima che fosse intervenuta la storia, e cioè l’opera dell’uomo, la volontà dell’uomo, a imprimere diversi caratteri alle diverse nazioni. Così stava succedendo in effetti nel pensiero tedesco il quale, per avere troppo fortemente calcato sulla naturalità della nazione, s’avviava fatalmente a trovare nel ceppo etnico l’elemento differenziatore e caratteristico. Perciò anche l’appello del Crispi alla naturalità, alla eternità e immutabilità della nazione suonava assai diverso dal riconoscimento con cui anche altri uomini, come il Minghetti, ammettevano che i plebisciti non avessero creato il diritto, ma piuttosto lo avessero riconosciuto, e s’appellavano alla geografia sì, ma anche alla storia, alla cultura, al sangue dei martiri224 – che era nuovamente volontà di uomini e fede. Diventando un fatto naturale, antecedente al volere degli uomini, la nazione acquistava per cosa dire anche una fatalità di movimento, ch’era proprio quel che ci voleva quando si cominciassero a vagheggiare ingrandimenti ed espansioni. Ma, dissociandosi essere stesso della nazione e volontà nazionale, si dissociavano pure nazione e libertà: onde la formula natio quia nata, adatta a giustificare i programmi politici come s’usa dure di grandezza, sarebbe stata pure adattissima per le tendenze autoritarie, le quali all’interno sempre più dovevano sentire come un inciampo le lotte di partito e le contese parlamentari, al cui posto doveva sottentrare l’uomo forte, padrone all’interno proprio per essere in grado di compiere la missione di grandezza che la nazione imponeva, e che era «fatale», «naturale» anch’essa. Ed era, nuovamente, un deciso abbandono della tradizione italiana del Risorgimento, così tenace sin

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dall’Alfieri225 nell’insistere sulla indissolubilità del binomio nazionalità-libertà226 , così saldamente ancorata all’identificazione dei concetti di nazione e di civiltà-libertà. Concordi erano stati, in questo, Mazzini e Cavour, quest’ultimo anzi primamente scosso dall’esigenza liberale e soltanto poi, a differenza dell’altro, condotto a volere l’indipendenza e da ultimo anche l’unità della patria227 . Pur lasciando da parte il Pisacane, in cui il problema della libertà s’investiva di già di un contenuto sociale, incerto e contraddittorio nelle formulazioni, ma ben certo e preciso nell’aspirazione, pur lasciando da parte il Pisacane, le grandi e diverse correnti di che s’era nutrito il Risorgimento erano state fermamente concordi su tal punto. Eredi di questo credo, tutti i moderati, di cui bene poteva ritenersi interprete il Bonghi quando il 3 febbraio 1879 affermava alla Camera che i popoli per esser capaci «dell’applicazione pura e semplice del principio di nazionalità, bisogna che abbiano raggiunto un altissimo grado di macerazione interna e di civiltà ... se queste esigenze di civiltà non sono soddisfatte ... il principio di nazionalità non può essere base di ricostituzione vigorosa»228 . Il principio di nazionalità, diceva il Mancini, è nel diritto internazionale quel che nel diritto pubblico interno si chiama sovranità nazionale e si realizza nel suffragio universale229 ; o, ripeteva un meno noto uomo politico, con una formula invero assai felice «non è altro che quello della libertà politica applicato alle circoscrizioni territoriali; esso è la seconda fase del diritto pubblico dell’89, è il riferimento dei grandi princìpi della Rivoluzione Francese alle relazioni fra popolo e popolo»230 . Onde, se avesse dovuto temere un giorno così infausto da mettere in pericolo la libertà del pensiero, allora, dichiarava il 10 dicembre 1878, alla Camera, un non dubbio patriota quale Francesco De Sanctis, dal suo seggio

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di ministro della Pubblica Istruzione, allora egli avrebbe negato l’Italia231 . Necessaria identità di nazionalità e libertà, quando la nazione fosse ricercata nel volere e nella fede degli uomini e si nutrisse continuamente del libero voto dei popoli. Ma staccate la nazione dalla volontà dei cittadini; fatene un a priori, preesistente a quel volere e da esso indipendente: l’identità scompare, il binomio si spezza, la libertà politica non è più condizione necessaria di vita sana e forte per una nazione, anzi può divenire un ostacolo al pieno dispiegarsi dello spirito di conquista a cui la nazione «naturale» è dalla natura chiamata. Nazionalismo e autoritarismo, riconoscimento della provvidenzialità della guerra e avversione decisa agli umanitari: poco o molto, ma ciascuno di questi elementi del clima politico europeo ed italiano dell’ultimo settantennio era già percepibile, in nuce, nelle discussioni e nei commenti degli zelatori della Prussia. Si offuscava anche in essi, fatalmente, il senso dell’Europa, della comunità civile tanto forte già nell’Illuminismo settecentesco e, con ancora accentuato valore politico, nell’età romantica, motivo centrale nel pensiero dei Montesquieu e dei Voltaire, dei Sismondi e dei Mazzini, degli Adam Múller e degli Heeren; e riprendevan vigore invece, le tendenze nazionalitarie, o, per dirla con espressione dei giorni nostri, autarchiche, già torbidamente accennate dall’antieuropeo Rousseaú insistente nel consigliare l’attaccamento agli antichi usi e costumi nazionali, perché solo così si affezionavano i cittadini al proprio paese e s’infondeva in loro «una naturale ripugnanza a mescolarsi con lo straniero»232 . Gli odi nazionali, esaltati un tempo dall’Alfieri, riapparivano233 ; quegli odi nazionali, che fra il 1815 e 1848 il pensiero europeo s’era affaticato ad attenuare, anzi a cancellare, ricongiungendo patria ed Europa, trovando nella predicazione mazziniana i più alti accenti per salva-

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re ed armonizzare ad un tempo l’amore al proprio paese e l’amore alla maggior comunità civile ch’era, appunto, l’Europa. Per un trentennio, nazione ed Europa, come nazione e libertà, eran stati termini indivisibili. Ma gli antichi motivi di divergenza riprendevano ora forza e capacità di influsso: come in Europa, così in Italia i grandi eventi del 1870 approfondivano, allargavano, rendevano solidamente durature le crepe già aperte dal ’48 nel mondo ideale di prima il ’48; e ne usciva spezzato il trinomio nazione-libertà-Europa, la nuova trinità della storia tanto accesamente profetizzata dal Mazzini; e anzitutto s’infrangeva il nesso tra la nazione e l’Europa e per primo il nazionalitarismo spezzava il quadro armonico, dando l’avvio ad una nuova età234 . Tracciando il bilancio politico del 1870, e prendendo lo spunto dalla celebre frase del conte di Beust «je ne vois plus d’Europe», La Riforma non rimpiangeva la presunta fine della vecchia Europa, anzi esultava perché tale tramonto lasciava libero corso alle forze sprigionantisi dalle «potenze che hanno un avvenire», dagli stati in cui fermentava «un moto di emancipazione, per così dire, personale, che tende a dare il massimo sviluppo alla iniziativa delle politiché nazionali»235 . La nazione singola, lo stato singolo lanciati verso l’avvenire, seguendo il solo impulso delle proprie forze e senza più preoccuparsi di limiti che non fossero quelli del proprio interesse e della propria grandezza: questi erano i nuovi valori che si sarebbero affermati nell’avvenire. Intanto, cominciavano a riapparire motivi che richiamavano all’Alfieri del Misogallo; e se Mazzini aveva predicato per tanti anni l’amore fra i popoli, e dell’amore fra i popoli s’era commosso fin lo scanzonato Giusti, di fronte ai Croati in Sant’Ambrogio, ora un ben più modesto uomo, ma tipico antesignano del prossimo nazionalismo, ripeteva il detto alfieriano dell’odio. «Oh sì, è l’odio ciò che fa grande i popoli», proclamava fra applausi,

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il 2 luglio 1882, nel teatro Castelli di Milano, Rocco de Zerbi236 . Forse, in luogo della vecchia Europa dei governi la nuova Europa dei popoli vaticinata da Mazzini e da Cattaneo? la rivoluzione generale, il sovvertimento profondo dell’ordine internazionale, sulla base dell’applicazione integrale del principio di nazionalità? Presso al termine della sua vita, in quello che si può considerare il suo testamento politico in fatto di rapporti internazionali, Mazzini ribadiva, proprio nel 1871, il valore di «principio» della nazione, come mezzo per salire all’Umanità; così che la missione dell’Italia, il motivo ispiratore di tutta la sua politica estera doveva essere lo «sviluppo del principio di Nazionalità come regolatore supremo delle relazioni internazionali e pegno sicuro di pace nell’avvenire», il «rimaneggiamento della Carta d’Europa», l’alleanza con la famiglia slava in guisa da sottrarla al gigantesco tentativo russo di far cosacca l’Europa, e da accelerare la morte dell’impero turco e – dell’impero asburgico, irrevocabilmente condannati a perire per mano delle popolazioni slave. A queste, giungesse la parola dell’Italia: «Sorti in nome del Diritto Nazionale, noi crediamo nel vostro, e vi profferiamo aiuto per conquistarlo. Ma la nostra missione ha per fine l’assetto pacifico e permanente d’Europa. Noi non possiamo ammettere che lo Tsarismo Russo sottentri, minaccia perenne alla Libertà, ai vostri padroni; e ogni vostro moto isolato, limitato a uno solo dei vostri elementi, inefficace a vincere, incapace s’anche vincesse di costituire una forte barriera contro l’avidità dello Tsar, giova alle sue mire d’ingrandimento. Unitevi: dimenticate gli antichi rancori: stringetevi in una Confederazione e sia Costantinopoli la vostra Città Anfizionica, la città dei vostri Poteri Centrali, aperta a tutti, serva a nessuno. Ci avrete con voi»237 .

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E il Crispi del ’71 e ’72, e La Riforma e molti altri ancora della Sinistra sembrava continuassero ad accogliere tale insegnamento; e nuovamente alcuni anni più tardi, in piena crisi di Oriente, s’ebbero rinnovate esaltazioni del principio delle libere nazionalità. Pieni di pathos taluni appelli al principio «santissimo» di nazionalità238 , il quale «forma la nostra religione politica, è quasi un Dio che portiamo in noi stessi, agitante calescimus illo»239 , frequente il rammentare che l’Italia «antesignana del fecondo principio della indipendenza dei popoli sulla base del diritto nazionale» non poteva partecipare a discussioni attorno alla sorte di altri popoli, e cioè i popoli balcanici, se non con un programma «rigorosamente consentaneo alle basi della sua esistenza, che sono i princìpi di nazionalità e di libertà per effetto dei quali essa ha potuto risorgere e sedersi nel banchetto delle grandi nazíoni»240 . Ma già in quegli anni, in cui pure il sacro senso della nazione pareva destinato ad accendere ancora una volta gli animi, e il ricordo di Legnano e la nostalgia dei fratelli trentini e triestini, gementi sotto il giogo asburgico, s’alleavano con l’esaltazione dei cristiani gementi sotto il giogo turco, sempre confluendo in una larga visione europea e rivoluzionaria, già in quegli anni era agevole scorgere come s’andassero profondamente trasformando gli antichi ideali. Che negli uomini della Sinistra allora al potere, con responsabilità di governo, il tono si smorzasse d’assai, quest’era ovvio. Se ai Depretis e ai Cairoli mancava il senso europeo dei Minghetti e dei Visconti Venosta, le difficoltà pratiche dell’ora bastavano per imporre prudenti limitazioni, alla parola come all’azione; e se non v’avessero pensato loro, vi avrebbe provveduto Vittorio Emanuele II, che proprio in quei giorni viveva una ultima ripresa delle sue velleità di governo personale241 . Fu così messa la sordina agli inni patriottici, e l’attuazione dell’ideale nazionale italiano fu saggiamente rimandata a tem-

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pi migliori e il trionfo generale, e in ispecie balcanico, del principio di nazionalità fu relegato in secondo piano, di fronte alla necessità di non mettere a soqquadro l’Europa. La difesa degli «interessi di ordine generale», cioè la formula cara alla diplomazia europea dalla Restaurazione in poi, finì, con l’essere enunciata anche dai ministri degli Esteri della Sinistra; e nel suo primo colloquio come ministro degli Esteri con l’ambasciatore d’Austria, il Mancini distinse anch’egli fra passato e presente: professore di diritto internazionale, io ho sostenuto il principio di nazionalità; ma comprendo benissimo la differenza che v’è fra la teoria e la pratica, e so che se si volesse applicare quel principio ai rapporti fra i vari Stati, si finirebbe col renderli impossibili e col distruggerli242 . Certo, riaffiorava ogni tanto il ricordo dei grandi princìpi di un tempo243 , non senza che tali apparizioni, sia pur meramente verbali, servissero a chi, soprattutto all’estero, accusava il governo italiano di duplicità o, almeno, di oscillazioni e incertezze: proprio perché il senso della comunità europea antico regime non era in questi uomini, a differenza dei moderati, profondamente radicato e costituiva anzi l’accomodamento alla situazione politica contingente, sulle rovine dei princìpi una volta professati, proprio per questo a parole identiche diverso riusciva il tono della canzone cantata ora dal Cairoli e dal Depretis, di quel che non fosse riuscito quando la canzone era fraseggiata dal Visconti Venosta244 . Ma insomma la parola d’ordine nel campo governativo’ fu prudenza, pace, concerto europeo, tanto che forse l’accenno più deciso ai diritti delle nazionalità doveva esser pronunziato da un ministro certo non di sinistra per idee e sentimenti, e prudentissimo e alieno da ogni avventura quale il Corti245 : ed era pur sempre un accenno assai vago, per nulla compromettente. Più sintomatico era già che anche fuor del governo parecchi dei campioni della Sinistra mutassero radicalmen-

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te tono; che uno dei più fedeli, devoti e disciplinati militi del Depretis, quale l’on. Musolino, sostenesse la Turchia, dichiarandosi più turco dello stesso Sultano e negando che in Oriente fosse allora questione di nazionalità e di libertà, bensì puramente delle ambizioni russe246 . Nella primavera del 1878 l’on. Musolino tornava alla carica, propugnando l’alleanza con l’Austria, convinto di compiere «un atto di vero patriottismo», ritenendo «una miseria, un vero nonnulla» le piccole divergenze territoriali fra Roma e Vienna nei confronti «della grande causa comune che deve collegarci»247 . E il giorno appresso toccava addirittura al bardo della democrazia, a Felice Cavallotti, pronunziare alla Camera dichiarazioni che avrebbero anche potuto far strabiliare: nella questione d’Oriente identici sono gli interessi dell’Italia e dell’Austria, dell’Austria odierna, difenditrice dei Rumeni e tanto poco somigliante all’Austria di Metternich, quanto poco l’Inghilterra di Disraeli, difenditrice dei Greci, somigliava all’Inghilterra di Castlereagh; e l’Italia doveva essere amica dell’Austria, una volta che questa avesse dato soddisfazione agli interessi nazionali italiani, restituendo le terre irredente. «Siamo amici dell’Austria»: era proprio l’ideale mazziniano ad andare in frantumi; il problema si riduceva ad una questione specificamente italiana e di limitate proporzioni; per il resto, rimanesse in piedi la duplice monarchia e discendesse la valle del Danubio e si aprisse la via dei Balcani, dell’Oriente, come aveva ragione di volere, ché del principio di nazionalità per i popoli balcanici «non si può parlare senza certe restrizioni e ... certe riserve», essendo spesso confuso, incerto, mal distinto, troppo vago per dar «vigore, solidità, coesione a ciascuna di queste piccole agglomerazioni». Solo l’Austria, inorientandosi, è in grado di opporre una valida barriera contro il minaccioso traboccar della Russia, contro il pericolo della unificazione zarista dei Balcani, da cui l’Italia sarebbe direttamente minacciata nel

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Mediterraneo e nell’Adriatico248 : dov’era l’ombra di Cattaneo che, sul dissolversi dei fortuiti imperi dell’Europa orientale, aveva profetizzato il sorgere di federazioni di popoli liberi?249 Non l’ombra di Mazzini e di Cattaneo, ma l’ombra di Cesare Balbo riappariva; e il focoso democratico lombardo seguiva le orme del moderatissimo conte piemontese, anche accogliendo i moniti giobertiani contro il pericolo russo, e accettava le direttive politiche della Destra tanto combattuta. Mazzini aveva detto: incapaci, ognun di per sè, i popoli balcanici di resistere all’avidità dello Czar; e quindi, unitevi tutti in libera confederazione, sulle rovine dell’impero asburgico, ch’era un’amministrazione, non uno Stato, e dell’impero turco, accampamento straniero isolato in terre non sue. Cavallotti rispondeva: ciascuno dei piccoli indipendenti stati slavi non solo, ma anche la loro «sedicente» confederazione sarebbero, impotenti contro l’assorbimento moscovita; e quindi, avanti l’Austria, ad innalzar barriera gagliarda che arresti il pericolo russo. Eran cresciuti, dopo la pace di Santo Stefano, i timori per l’avanzata cosacca; le decennali paure s’inasprivano per i nuovi eventi: e così, lasciamo l’ideale dei popoli liberi affratellati e corriamo al sodo di una forza militare già organizzata l’Austria-Ungheria. E ancora. Per un Cavallotti, in fondo, i problemi di assetto internazionale erano del tutto secondari: quel che faceva veramente vibrare il suo animo eran le parole libertà, democrazia, anzi repubblica; ma lo sguardo non era, e nemmeno pretendeva di essere, europeo. Si guardava a Francia e Italia, proprio perché nell’una e nell’altra nazione identici o quasi apparivano i grandi problemi interni, perché il radicalismo francese serviva da maestro e guida; ma niente più dello spaziare mazziniano su tutto il continente, niente appelli alla nuova èra dell’Europa dei popoli, perché dell’Europa, nel suo insieme, al Cavallotti non molto premeva. Il problema sentito era

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il problema ideologico, di partito; e lo sguardo abbracciava solo que’ paesi, per l’appunto come la Francia, dove la situazione politica appariva identica o assai simile. La potenza rivoluzionaria del principio di nazionalità si restringeva dunque alla questione di Trento e di Trieste, diventava semplicemente irredentismo, e un irredentismo non generale, ma sempre più precisato in Trento e Trieste, con radi accenni ad altre contrade250 . Ma un Crispi voleva sempre vedere l’insieme, aveva sempre lo sguardo fisso ai grandi problemi dei rapporti fra gli stati: da ultimo, anzi, contrariamente al Cavallotti, la politica interna si sarebbe ridotta per lui in funzione di quella estera, e alle preoccupazioni per la grandezza e la potenza della patria sarebbero state subordinate le preoccupazioni interne di partito e di ideologia politica. Ora, appunto, Crispi e i suoi amici non accettavano più la vecchia Europa dei governi ed esultavano per la sua fine: ma credevano ancora nella mazziniana Europa dei popoli? O veramente, lontani dall’antica fede europea dei moderati, lasciavan cadere la nuova fede europea del loro maestro Mazzini, sicché non sussistessero più che le forze sprigionantisi dalle potenze ricche di avvenire, vale a dire le individualità delle singole nazioni, ciascuna marciante per conto proprio? A leggere le dichiarazioni de La Riforma nel 1871 sembrava che la fiaccola mazziniana fosse ancora accesa. Vaticinio della prossima trasformazione dell’impero asburgico, con l’annessione dei Tedeschi alla madre Germania; ma anche, vaticinio della prossima caduta dell’impero ottomano. Si ricaccino i Turchi in Asia e si emancipino le popolazioni dell’Oriente. È caduto Napoleone III, che nel vecchio continente rappresentava la violenza; è crollato il potere temporale, è scomparso il Papa-re, ch’era la negazione della ragion civile: giustizia vuol che sparisca anche il Sultano, che rappresenta l’assurdo. Dopo Sedan, il 20 settembre; dopo il 20 settembre ... un’al-

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tra gran data occorre, un ulteriore passo innanzi. Si integri la Grecia, si dia completa autonomia agli Albanesi, ai Bulgari, ai Serbi, ai Rumeni; e con una confederazione di coteste genti, legate da un governo centrale a Costantinopoli, ecco risolta la questione d’Oriente251 . Così, nella fase più acuta della crisi determinata dalla denunzia russa delle stipulazioni riguardanti il Mar Nero, il circolo crispino prospettava la sua soluzione, che era indubbiamente ancora di pretto stampo mazziniano e sembrava anticipare lo scritto, di poco posteriore, dell’apostolo. Ma già assai poco mazziniano era l’atteggiamento di pieno favore alla Russia che La Riforma assumeva: preoccupatissimo dei piani di espansione dello zarismo e avverso a tutto ciò che sapesse di immistione russa nei Balcani, il Mazzini; esultante invece il giornale, per il quale la circolare Gorciacov, che aveva gettato lo scandalo nei crocchi della vecchia diplomazia, aveva dimostrato con un chiaro esempio «ciò che uno Stato ha il dovere di fare per custodire e rivendicare il proprio diritto»252 . Vale a dire, nuovamente l’esaltazione dei diritti degli Stati, delle forze giovani, degli stati che hanno un avvenire, né più né meno che di fronte ai gesti di forza della Prussia bismarckiana; e in tale compiacimento, si lasciassero pure cadere le questioni di principio, libertà contro zarismo e autocrazia. In verità, l’ulteriore svolgimento delle idee di Francesco Crispi doveva dimostrare che l’Europa dei popoli di Mazzini era tramontata. Continuò, sì, ad inneggiare nei discorsi pubblici alla libera vita delle «quattro nazionalità distinte» dei Balcani253 ; e della Grecia cercò sempre di favorir le aspirazioni concrete; e negli ultimi anni, ormai lontano dal potere, ritornò all’antico ideale mazziniano, proclamando nuovamente la necessità della confederazione balcanica e il Turco in Asia254 , cosi come cercava di riallacciarsi a Cattaneo auspicando gli Stati Uniti d’Europa255 . Ma

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dichiarazioni e progetti degli ultimi anni erano del vinto politico, non dissimili pertanto dal liberalismo postumo di un Bismarck, gran nemico del Parlamento quand’era lui al potere e poi, cacciato dal potere, d’improvviso tramutatosi in un fervido assertore della libertà e del parlamentarismo. E Crispi al potere aveva sì pensato sempre alla Grecia, ma non aveva affatto disdegnato di inserire nel sogno mazziniano delle libere nazionalità balcaniche qualcosa che arieggiava assai da vicino gli ormai consueti progetti di spartizione della Turchia, cari alla tradizione diplomatica delle grandi potenze europee256 : vale a dire, cercar di assicurarsi una fetta dell’impero turco in questa o in quella parte, secondo i dettami della politica di potenza257 . Di fronte al grande malato, anche gli ex-mazziniani finivano col convertirsi ai princìpi classici della diplomazia dei governi: inevitabile certo la caduta dell’impero ottomano, ma non bisognava affrettarla per non esporsi a gravi pericoli «che le grandi potenze hanno uguale interesse ad evitare»258 . E quindi prudenza, attenzione, vigilanza per non lasciarsi cogliere alla sprovvista dagli eventi: ma niente fiaccole rivoluzionarie. Lo dissero i Cairoli e gli Zanardelli; ma lo pensò anche Crispi. Con molto maggior chiarezza ancora il mutar di idee si rivelava, quando dal mostro turco si passasse all’altro mostro contro cui Mazzini aveva imprecato. Perché anche Crispi, dopo Cavallotti, pur semplice deputato e senza responsabilità di governo, affermò in piena Camera, il 15 marzo 1880, la necessità dell’esistenza dell’Austria259 : una bestemmia per il Crispi di dieci, venti anni innanzi. E lo ripeté, presidente del Consiglio, il 4 maggio 1894260 , accettando così compiutamente la tesi che nel 1871 era stata difesa dai moderati della Perseveranza e dell’Italie contro i vagheggiamenti della Riforma, cioè del suo giornale, sul fatale e augurabile smembramento imminente dell’impero degli Asburgo261 . Uno Stato come

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l’Austria-Ungheria bisognerebbe crearlo se non esistesse già262 . Presidente del Consiglio, agì come il conte di Robilant aveva per tanti anni invocato, contro le agitazioni antiaustriache; e sciolse il comitato per Trieste e Trento, e dimissionò il ministro Seismit-Doda, suo antico collega di direzione della Riforma, e battezzò pubblicamente l’irredentismo «il più dannoso degli errori in Italia»263 . Più su ancora delle questioni specifiche, impero asburgica e impero ottomano, era il principio stesso di nazionalità che veniva avvolto dallo statista siciliano di molte riserve e consigli di prudenza, giacché esso «nella sua ultima espressione, non può infatti, qualunque sia il desiderio ideale, essere costantemente la norma esclusiva del diritto politico e diplomatico». Assurdo l’avventurarsi, in nome di quel principio, a distruggere l’unità d’Italia, col provocare guerre europee e potenti coalizioni anti italiane, e quindi precipitando «follemente» a rovina: di fronte al principio di nazionalità, occorreva da parte dei governi «una moderazione sapiente»264 . Che erano i concetti medesimi e suppergiù gli stessi termini, che subito dopo il 1870 erano stati messi innanzi dai Visconti Venosta, dai Dina, dai Bonghi. Senza rinunziare ai principi santissimi di nazionalità, occorreva confessare che il mondo si trovava, ora, su di un’altra via265 . Che il mondo fosse cambiato, era verissimo; ed era non meno vero che altri pensieri ed altro linguaggio si addicevano all’uomo di governo responsabile che non al cospiratore del 1860 e al deputato d’opposizione del 1870. Lo svolgersi degli eventi europei sempre più induceva a prudenza, a relegare in soffitta vecchi ideali: proprio quand’era presidente del Consiglio, Crispi aveva dinnanzi a sé l’alleanza anche con l’Austria e, per contrapposto, con la Russia una difficile situazione, sempre più tesa anzi con gli anni, parecchio anche per le paure che lui, Crispi, nutriva della grande congiura contro l’I-

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talia fra il Vaticano, la Francia e la Russia. In simili condizioni l’Austria veramente diventava un baluardo protettivo, e lo sfacelo dell’impero ottomano un pericoloso salto nel buio. Ma non era soltanto la prudenza del presidente del Consiglio a temperar le passioni dell’uomo: ché a tanto l’inquieto ed impulsivo Crispi non sarebbe mai giunto, ove l’ideale suo del 1890 fosse ancora stato l’ideale del 1860; né avrebbe potuto mai riconoscere, in quel caso, in Francesco Giuseppe il principe «che per mente e cuore primeggia su gli altri principi di Europa»266 . Qualcosa invece era mutato, in interiore homine, sia pur per effetto dell’esperienza, della pratica di uomo di governo, della lezione dei tempi: ed era, per l’appunto, l’abbandono dei princìpi rivoluzionari e del programma mazziniano. Lo dichiarò egli stesso, esplicitamente, in un discorso alla Camera: sbagliano i signori dell’Estrema Sinistra quando parlano come Mazzini nel 1854: «in quarant’anni si è fatto tale e tanto progresso, che le questioni che, a noi giovani, a noi cospiratori, ci facevano sollevare l’animo e preparare alle grandi lotte, oggi non si sentono più»267 . Nulla vi è di assoluto in politica; «l’uomo deve acconciarsi alle mutate circostanze dei tempi, alle condizioni diverse»268 che era la negazione recisa dello spirito stesso della predicazione mazziniana, in alto i princìpi, sempre e ovunque, e l’accettazione, almeno teorica, della politica del giusto mezzo. Nella politica pratica bisogna prendere il mondo qual è, non perder il tempo nella discussione di ipotesi che, per realizzarsi, ri chiedono secoli269 . Niente più rivoluzione generale, niente più l’Europa dei popoli di Mazzini. Ma nemmeno il senso europeo dei moderati, nemmeno la vecchia Europa dei Visconti Venosta e dei Bonghi. L’abbandono del principio rivoluzionario non voleva ancor dire far proprio, intus, il principio conservatore. All’Europa della rivoluzione Crispi non credeva più;

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ma non per questo poteva tramutarsi in un convinto e sincero propugnatore dell’Europa classica. Il «sistema europeo» lo poteva accettare nella prassi politica, in sede tattica: farsene un ideale, come accadeva ai moderati, gli era impossibile, innanzi com’era negli anni e con tutta una esperienza di pensieri e di affetti a quell’ideale ripugnanti. Tramontò così un ideale universale, e al suo posto rimase solo l’ideale particolare della grandezza del proprio paese; il programma di rinnovamento generale dell’Europa si ridusse ad un programma di potenza italiana. Persa la fede nel concorde, fraterno avanzar di tutte le nazioni giovani e ricche di vitalità, rimase, solo, l’anelito all’avanzar della propria nazione giovane. Che era, certo, cosa assai consona ai tempi e all’esempio del maggior politico, il signore di Bismarck, sempre ostilissimo ad una Europa rivoluzionaria ma non meno scettico sull’Europa della tradizione e convinto che di ideali ce ne dovesse essere uno solo, quello della grandezza del proprio paese. Onde restringersi dei programmi non fu solo prudenza di governo, ma fece tutt’uno con l’incipiente sentire nazionalistico: più ristretti, i programmi divennero anche più corposi, acquistando una precisione e sodezza di contorni non prima avute, tanto che l’irredentismo stesso, di origine rivoluzionaria e mazziniana, nazionalità e libertà fuse insieme nell’attesa messianica del grande rinnovamento generale dei popoli, poté poi da ultimo esser coltivato dal nazionalismo, che delle speranze nel rinnovamento generale dell’umanità faceva a meno, per affisarsi unicamente nella potenza, grandezza, prestigio del proprio paese.

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II La lezione della «realtà» Così, se già di per sé la creazione di un potente impero nell’Europa centrale doveva naturalmente determinare, ovunque, il rinascere dello spirito di forza e di grandezza anche ai danni dello spirito di libertà e di pace, e nella terra stessa di Cobden e di Gladstone eccitava il risveglio di orgoglio nazionale e l’appello di Disraeli, allo «spirito dominatore di queste isole»270 , l’affermazione trionfante del Bismarck e del Moltke e il modo di tale affermazione conducevano ad un profondo sconvolgimento di valori, trasferendosi dal piano politico-militare a quello morale e spirituale, dai problemi singoli della vita internazionale al modo stesso di impostare quei problemi. In Germania, la lezione della forza era già stata accolta prima; il prussianizzarsi del sentire e del pensare risaliva all’esperienza del.’48, che aveva avviato le menti a concepimenti assai diversi da quelli dell’età romantica, come aveva documentato fra tutti il Droysen, con la sua evoluzione dal più ricco e complesso contenuto morale della prima maniera all’esaltazione della politica, come pura forza della seconda maniera271 . Ora, le nuove esperienze si allargavano, non limitandosi certo all’Italia e agli Italiani; ché anzi persino in Francia, nella nazione-vinta, gli eventi bellici si ripercuotevano nell’intimo delle coscienze, non solo per le ovvie reazioni di dolore e di sdegno, di ripensamento dei casi passati e di ricerca delle responsabilità, ma anche per un tormentoso rimescolarsi d’idee e dì credenze, attraverso a cui moriva tanta parte della vecchia Francia e una nuova nasceva, non soltanto nel regime politico e nell’assetto istituzionale; ma anche nello spirito e nella fede. La Francia culturale e morale della Restaurazione e della Monarchia di Luglio aveva resistito sotto l’Impero, nei suoi ideali e nei suoi propositi; non

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resistette alla guerra del ’70, alla sconfitta, alla lezione di «realtà» che le armi germaniche avevano impartito. Svanì per primo, definitivamente, l’ideale della collaborazione franco-germanica, di che, s’era così riccamente alimentato il pensiero francese per più di mezzo secolo, da quando M.me de Staël, additando nella Germania il cuore dell’Europa, aveva affermato che la grande associazione continentale non avrebbe potuto ritrovare la sua indipendenza che attraverso l’indipendenza germanica272 . E Saint-Simon aveva fatto seguito immediato, con il suo programma di una società anglo-francotedesca come base necessaria della riorganizzazione dell’Europa, anch’egli salutando nel popolo tedesco il popolo destinato ad esercitare il primo ruolo nel continente non appena riunito sotto un governo libero273 ; e fu poi l’irrompere del pensiero tedesco in Francia, l’affisarsi dei maggiori rappresentanti della cultura francese nei grandi padri della spiritualità germanica, Lessing, Herder, Kant, e furono Victor Cousin e la passion allemande di Michelet274 e gli auspici di una stretta collaborazione culturale e politica fra le due nazioni e l’augurio di una Germania saldamente liberale, sostegno con la Francia di un’Europa liberale, illuminata, tutta scienza e progresso275 Scienza e libertà andavano per mano, su questo vagheggiato cammino dell’avvenire; e il luglio 1830 rinfocolò speranze, accese entusiasmi di qua e di là dal Reno, movendo d’amore per la Francia i giovani liberali tedeschi, ai quali, come ai liberali italiani, la Francia delle trois glorieuses sembrò nuovamente apportatrice di libertà ai popoli oppressi d’Europa. Vero è, che ben presto dietro al comune ideale di libertà erano apparse le prime, grosse discrepanze di nazionalità, onde nuovamente minacciosa, a molti dei liberali tedeschi, si profilò la nazione che era pur sempre l’erede di Napoleone e che già una volta, mettendo innanzi la parola libertà, aveva imposto la sua egemonia; mentre, dall’altro lato,

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Edgar Quinet, inizialmente anche lui, come Michelet, sedotto dalla Germania di Herder, lanciava il primo grido d’allarme, denunziando il collerico nazionalismo tedesco e la minaccia contro l’Alsazia-Lorena276 . Vero è, soprattutto, che la grave crisi diplomatica europea del 1840, attorno alla questione d’Oriente, aveva scavato un primo solco, grosso, con le invocazioni dei nazionalisti francesi ad una guerra sul Reno e l’immediato scattare della coscienza germanica, nuovamente una nel sentir la passione nazionale al di sopra delle ideologie politiche277 . Allora, Becker e De Musset avevan tradotto in versi quel che di irreparabile si stava compiendo; nell’esaltazione del libero Reno tedesco e nel ricordo del Reno già contenuto nel bicchiere francese, era riapparso brutalmente e bruscamente il fondo secolare di un contrasto che nemmeno un comune ideale politico era capace di sanare. Allora, al dir dello Heine ch’era pure, anche lui, un propugnatore dell’amicizia franco-tedesca, «il signor Thiers col suo fragoroso tamburinare svegliò dal suo sonno letargico la buona Germania e la fece entrare nel gran movimento della vita politica dell’Europa; egli batteva la diana così forte, che noi non potevamo più riaddormentarci, e, dopo di allora, siamo rimasti sempre alzati. Se un giorno noi diventeremo un popolo, il signor Thiers potrà ben dire di non avervi contrastato, e la storia tedesca gli terrà conto di tale merito»278 . Tuttavia, per quanto grave di conseguenze lontane fosse stata la crisi del ’40, non essa aveva potuto distruggere veramente il sogno; e se già in quei difficili giorni Victor Cousin, filosofo e allora ministro, continuava a parlare con entusiasmo dell’arte e della scienza germanica, della profondità d’animo e di spirito, dell’amore per la giustizia e dell’umanità propri dei Tedeschi279 , passata la crisi gli antichi entusiasmi eran riapparsi, soprattutto fra gli uomini di cultura francesi, nei quali l’episodio politico, poco compreso nel suo significato profondo, non

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aveva potuto scalfire la passione per il genio scientifico dei Tedeschi. Leggendo per la prima volta Goethe e Herder, Renan credette d’entrare in un tempio: e da quel momento tutto ciò che prima gli era sembrato ornamentodegno della divinità gli fece l’effetto di fiori di carta ingialliti e consunti280 ; ed egli propose come scopo alla sua vita di lavorare per l’unione intellettuale, morale, politica di Francia e di Germania281 . Gli rispondeva, dall’altra parte, Ludwig Börne, che, nel ’44, dichiarava di amar la Germania più della Francia perché la Germania era infelice, ma, per il resto, di sentirsi tanto francese quanto tedesco e di veder indissolubilmente legate libertà e felicità della Francia e libertà e felicità della Germania: le colonne della libertà francese dovevano trovare la loro ferma base non sulla piazza della Bastiglia, ma sulle rive dell’Elba282 . Nuovamente il ’48, almeno all’inizio, come una volta il 1830, aveva recato lievito per una comune passione: libertà e democrazia, rivoluzione europea, affrancamento dei popoli avevano costituito una parola d’ordine ovunque diffusa, e che si rivolgeva a Francia e Germania non meno che ad Italia e Polonia soltanto la Russia e l’Inghilterra restando estranee, al di fuori283 . Forse che a Francia e Germania anzitutto non si era già volta da tempo l’attenzione del Marx, dai giorni degli effimeri Deutsch-Französische Jahrbücher e dei suoi entusiasmi per il principio gallo-germanico, caro al Feuerbach, cuore francese e testa tedesca284 ; non si volgeva ora lo stesso appello dei comunisti, la Germania, come una volta per Saint-Simon ma in ben diverso modo, presentandosi quale terreno decisivo della lotta per l’avvenire285 nella continua ricerca di motivi comuni e di ideali identici per l’uno e per l’altro popolo? Herwegh e Bornstedt non avevano forse rivolto un appello ai cittadini francesi perché dessero armi ai Tedeschi emigrati e democratici,

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«che marciano in aiuto dei lorofratelli», per proclamare insieme la repubblica tedesca dopo quella francese?286 . Così è che nonostante il 1840; nonostante il rinnovarsi di accenti altamente nazionalistici nel ’48, quando spirito di libertà e spirito nazionale dopo una prima ora di illusioni si trovarono a cozzare l’un contro l’altro, Polacchi e Cechi e Italiani si scoprirono lontanissimi dai Tedeschi già irrigiditi nel loro esclusivismo patriottico, e la spedizione di Roma contrappose brutalmente Italiani e Francesi; quando nell’Assemblea di Francoforte, sia di fronte alla questione italiana, sia, soprattutto, di fronte a quella polacca, l’egoismo nazionale trionfò sulle rovine dell’ideale generale dei popoli liberi, e Wilhelm Jordan esclamò libertà per tutti, ma la potenza e la prosperità della patria tedesca al di sopra di tutto287 : nonostante dunque tali fratture l’aspirazione ad una intima collaborazione culturale e politica franco-germanica era continuata. E ancora trovava credito largo l’assioma, di tacitiana origine e divenuto luogo comune nella pubblicistica e nella letteratura tedesca, da Hutten a Möser a Herder, e poi divenuto luogo comune nella letteratura europea dell’età romantica, delle altissime qualità della nazione tedesca «la morale più pura, una sincerità che non inganna mai, una probità a tutta prova»288 , della libertà come affermazione dello spirito germanico nata nei boschi, a dirla col Montesquieu, frammezzo a rudi guerrieri germanici «i nostri padri»289 . L’amore per la Germania, per la cultura tedesca, per la razza tedesca, aveva trovata in Francia, nuovi, strenui difensori, massimo fra tutti Ernest Renan, gran pontefice del verbo «la razza gallica necessita di esser ogni tanto fecondata dalla razza germanica per poter produrre tutto ciò che in essa è», onde se’ la Restaurazione aveva posto le basi del vero sviluppo intellettuale della Francia nel secolo XIX, ciò era dovute alla libera invasione del germanesimo, più benefica nei suoi effetti dell’invasione

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culturale italiana nel Cinquecento, troppo legata al volere dei sovrani290 ; Renan che, non trovando nulla di «urtante» nella conquista di un paese di razza inferiore ad opera di una razza superiore, anzi attribuendo all’ordine provvidenziale dell’umanità la rigenerazione delle razze inferiori ed imbastardite ad opera delle razze superiori, e invocando così il ver sacrum europeo verso l’Asia e l’Africa, con un popolo di soldati e signori – gli Europei – uno di lavoratore della terra – i negri – uno di artigiani – i cinesi –291 , accettava proprio le più pericolose premesse del germanesimo e diveniva apostolo anche del colonialismo e dell’imperialismo; Renan, sempre dominato dall’ormai convenzionale schema del profondo idealismo tedesco292 , e ancora nel ’66 convinto della necessità dell’alleanza franco-tedesca, culturale e politica293 ; Renan, che in questa alleanza, a cui si sarebbe aggregata anche l’Inghilterra, vedeva «una forza capace di governare il mondo, e cioè di dirigerlo sulla via della civiltà liberale, a ugual distanza dalle impazienze ingenuamente cieche della democrazia e dalle puerili velleità di ritorno ad un passato che non potrebbe rivivere»294 . Ogni illusione fu troncata dalla guerra; ogni sogno svanì. E se Michelet sentì colpito a fondo dal militarismo prussiano trionfante il suo lungo, romantico e democratico amore per la Germania e cadde nel pessimismo delle Origines du XIX siècle295 , e morì di lì a poco, moralmente e spiritualmente ucciso dagli eventi del ’70296 ; se Taine, anch’egli pieno di ammirazione, prima, per la Germania, usciva dalla tragedia sconvolto e «risvegliato» dal suo sogno297 , Renan stesso dichiarava che la sua era stata una chimera ormai distrutta per sempre, ed un abisso s’era scavato fra le due nazioni, difficilmente colmabile anche attraverso secoli. Svaniva il mito del tedesco tutto purezza idealità rigidità morale, e appariva il prussiano in uniforme soldatesca, simile alla soldataglia di ogni tempo, cattivo, ladro, ubriacone, vandalico non meno degli

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avventurieri del Wallenstein; ciò che s’era amato nella Germania, la sua alta concezione della ragione e dell’umanità non esisteva più e la Germania era soltanto una nazione, la più forte delle nazioni del momento ma nulla più298 . Finito il compito universale, che aveva fatto grande la Germania di Kant e di Goethe, di Lessing e di Herder, cominciava il dominio della politica, e cioè del signore di Bismarck; si conchiudeva il regno della Germania spirito e cominciava il regno della Prussia forza299 . Lo pensava anche Jakob Burckhardt, una sera del dicembre 1870, quando, interrotta la lettura di Mörike e posto da canto il libro: una tal cosa, disse, sarà ora impossibile in Germania. Non si può voler essere un popolo importante civilmente e nello stesso tempo politicamente. La Germania ha ora scelto la politica come suo principio: ne sopporterà le conseguenze300 . La guerra seminava un odio violento fra le due parti d’Europa, la cui unione più importava al progresso dello spirito umano; rompeva l’armonia intellettuale, morale, politica dell’umanità, introducendo per secoli un’acre dissonanza nel concerto della società europea; spezzava la triplice alleanza anglofranco-tedesca, unica garanzia dell’Europa contro gli Stati Uniti d’America e soprattutto contro gli smodati appetiti della Russia e del suo barbarico mondo asiatico301 . E ancora, Renan non sapeva staccarsi completamente, nemmeno ora, dal suo vecchio sogno. Aveva lanciato appelli al senso di moderazione dei Tedeschi, per una pace giusta che non scavasse l’abisso fra i due popoli, aveva profeticamente ammonito vae victoribus!; s’era rivolto al collega di studi tanto ammirato, David Strauss302 , sempre esortando contro l’eccesso di patriottismo; aveva pronunziato sconsolatamente il suo nunc dimitte, lui, l’uomo dell’amicizia franco-germanica, ora costretto a ritirarsi e a tacere, non potendo più consigliare l’amore ai suoi compatriotti e non volendo consigliare l’odio303 .

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«Anche coloro che sono filosofi prima di essere patrioti non potranno rimanere insensibili al grido di due milioni di uomini, che noi siamo stati costretti a buttare a mare per salvare gli altri naufraghi, ma che erano legati a noi per la vita e per la morte304 » Eppure, eppure parecchio rimaneva in lui, se non dell’antico ideale europeo, almeno dell’antico germanesimo: questo, anzi, usciva involontariamente ancor rafforzato dalla terribile prova, rafforzato, intendiamo, come potenza suggestiva di dottrine e forme germaniche sul brettone dal mite sguardo: e n’era prova La réforme intellectuelle et morale de la France, che finiva con l’additare, per modello, ancora e sempre lo spirito germanico, ed esaltava lo spirito militare; di germanica origine, di cui la Francia s’era malauguratamente privata con l’Illuminismo e la Rivoluzione, sostituendovi una concezione filosofica e ugualitaria della società305 ; n’era prova il già accentuato razzismo306 , che precisava ancora più atteggiamenti degli anni precedenti307 e conduceva il Renan completamente fuori dall’orbita della grande tradizione liberale francese, dalla tradizione del Tocqueville308 ; n’era prova l’ammirare sempre, direttamente o meno, la stessa organizzazione politica, sociale e militare prussiana309 . Ma erano proprio questi gli ultimi e affiochiti bagliori di quella che per cinquant’anni era stata una gran fiamma; e non più solo contro la Germania bismarckiana, bensì contro il mito stesso germanico, contro il «cieco» entusiasmo da cui quasi ogni Francese era stato pervaso per le cose d’oltre Reno, fra il 1815 e il 1870, grazie all’odio del secolo liberale per Napoleone I e alla predilezione per i suoi nemici, contro la tradizionale raffigurazione dei Germani puri ed onesti, contro la scienza germanica, presentata ora non più nella sua luce di pura e disinteressata ricerca del vero, ma quale organizzazione utilitaria a pro della patria, contro tutti questi idoli insorgeva dunque la grande voce di Fustel de Coulanges, vibrante an-

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cora delle sì vicine lezioni a Strasburgo, la città perduta. Qui, veramente, tutto crollava del mito di un tempo, nel passato e nel presente: dall’attacco alla storiografia tedesca, nel ’72310 , Fustel de Coulanges trascorreva a combattere l’esaltazione dei Germani nelle lontane istorie; e ne nacque l’Histoire des institutions politiques de l’ancienne France, una, e la maggiore, delle tre grandi opere storiografiche in cui il rivolgimento di idee e di affetti determinato dalla guerra trovò la sua compiuta espressione311 . Da tale pathos mosso, dall’amor di patria tanto più fiero quanto più dolorante la patria, dalla volontà di smascherare i funesti errori propagati dalla scienza germanica, lo storico della Cité antique divenne lo storico che prese di petto le concezioni germanistiche sulla fine del mondo antico dominanti da più di un secolo, e demolì i miti della purità germanica originale, della libertà germanica primitiva, della salvazione dell’umanità grazie alle orde degli invasori. Così, svanì il gran sogno della cooperazione morale e spirituale tra i due popoli di qua e di là dal Reno; e tramontò l’idea dell’alleanza anglo-franco-germanica, di quella gran base comune per fondarvi su la civiltà europea e il progresso avvenire, che Mazzini aveva cercato di modificare, sin dal 1832, progettando invece l’alleanza morale italo-franco-germanica, come nucleo della grande fratellanza e Alleanza dei Popoli, cercando cioè di far assumere anche all’Italia la parte di inziatrice, ma senza far veramente breccia profonda nel pensiero europeo. Ora, non rimaneva più nulla: anziché avvicinarsi fondersi, l’una e l’altra cultura si allontanarono sempre più, la rivalità politica franco-germanica si complicò con una assai più grave e profonda lotta di tendenze spirituali, e dunque la contesa prettamente politica finì per diventare contesa di «civiltà», siccome dovevano dimostrare gli appelli e le polemiche che caratterizzarono poi la guerra del 1914-’18.

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In luogo di amore e gentilezza si predicò l’odio fra i popoli: ogni gentilezza, scriveva Flaubert nei giorni dell’invasione, è persa per molto tempo; comincia un mondo nuovo; si educheranno i bambini all’odio del prussiano312 , Non a caso l’alfiere della revanche e padre del nazionalismo francese, Paul Déroulède, divenne tale per la profonda scossa morale prodotta in lui dalla guerra; ond’egli, prima del ’70 «cosmopolita» a suo stesso dire, disdegnoso delle armi e zelatore delle arti, incapace di comprendere la grandeur militaire alla De Vigny, sin dal ’72 intonava i Chants du soldat, esaltando l’odio ormai nato e la forza che stava per nascere, e preannunziando la revanche ... lente peut-être, mais en tout cas fatale, et terrible à coup sûr313 .

E mentre nel 1814 la reazione al crollo del Primo Impero era stata anche reazione allo spirito di conquista o, detto in termini odierni, al militarismo, ora succedeva precisamente l’opposto; la grandeur militaire ridiventò motivo dominante per tutti, Gambetta e radicali compresi, el’assillo di riscattare Sedan e Metz tormentò da allora l’anima francese, con ancor più acre costanza di quel che l’assillo di riscattare Lissa e – Custoza tormentasse l’anima italiana. Nessun indizio più eloquente di tal rivolgimento profondo, degli atteggiamenti di un Renan, che nel ’49 aveva inveito contro la scuola esclusivamente nazionalista, come negazione dell’ideale dell’umanità314 che ancora nel 70 in piena guerra si ergeva pubblicamente, contro il patriottismo esasperato e lo spirito nazionalista315 , che in cuor suo non fu mai dimentico dell’antica fede e bàttezzò il patriottismo nuovo stile come una moda destinata a durar cinquant’anni e poi, quando avrebbe ben bene insanguinata l’Europa, a non esser più compresa316 ; ma che pubblicamente non disdegnò di secondar l’aura popola-

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re, assumendo atteggiamenti da patriota benevolo per i Déroulède317 . Così è, che se già nei rapporti internazionali propriamente politici la questione dell’Alsazia-Lorena era destinata a costituire il pomo della discordia europea, anche fuor della politica, nella vita della cultura, il fato delle due province pesò come la maledizione da cui le genti non poterono liberarsi. «Noi ci eravamo illusi – scriveva l’Amari quando appena il cannone aveva cessato di tuonare – sperando che la dottrina e la civiltà avessero tanto ammansita l’umanità, almeno tra i popoli cristiani, da rendere men frequenti le guerre, men facili, meno ingiuste, meno crudeli», e invece! «le nazioni vivono tuttavia nello stato di natura, non dico la natura dei selvaggi dell’Oceania, ma di certo quella delle tribù arabiche»318 . Ma già prima, quando appena il cannone aveva fatto udire la sua voce, già prima Flaubert aveva riassunto, un un grido dell’anima, tutte le disillusioni e gli sgomenti di uomini brutalmente strappati ad un roseo sogno: «Ah! lettrés que nous sommes! l’humanité est loin de notre idéal! et notre immense erreur, notre erreur funeste c’est de la croire pareille à nous et de vouloir la traiter en conséquence»319 . Fossato aperto e incolmabile con la Germania, dunque. Ma nello stesso tempo la lezione delle cose, il peso della sconfitta, l’onta della Francia invasa come influivano su idee e ideali dei politici e degli scrittori francesi, inducendoli ad accogliere principi e modi di essere del vincitore prussiano, e sia pure per rivoltarli contro di lui! Sì, contro il germanesimo, contro l’idea della forza e per la libertà insorgevano gli uomini nuovi, quelli che avrebbero creata la Francia repubblicana, i Gambetta e i Ferry; e il radicalismo fu veramente, in quegli anni dopo il ’70, il fermento ideale attraverso cui si salvarono, progredendo e sviluppandosi, i più fruttuosi motivi della vita politica francese del sec. XIX; e la stessa difesa gambet-

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tiana della latinità, dell’idea latina come della sola idea «generosa», contro lidea germanica320 , ebbe questo indiscutibile valore, di reazione decisa contro il pernicioso influsso del «realismo» di stampo germanico. Insorgeva, ancora, un Fustel de Coulanges, che trovava elevati accenti per protestare contro il diritto di invasione e lo spirito di conquista, contro la valutazione puramente materiale dei fatti, rivendicando la vita interiore, la moralità e spiritualità delle nazioni, e acutamente presagendo i guai futuri della Germania, che il bismarckismo avrebbe provocato321 . Alta sempre si levava la voce di Edgar Quinet, il vecchio combattente della libertà, anch’egli ora con l’animo volto alla cattedrale di Strasburgo322 : vecchio, ma non fiaccato, salutava il riapparire della libertà, quasi unico tra i grandi intellettuali a difendere il radicalismo, vale a dire la forma in cui la libertà doveva essere allora difesa in Francia323 . E lungi dal ricorrere ai rimedi della forza, della «autorità», dal concedere alcunché ai conservatori, ne attaccava con veemenza animo e pensieri, contraddicendo quasi punto per punto alle idee di un Renan324 . Ma, accanto, quanto declinar di fede e dileguar di speranze, quanto abbandono di forze ideali, sacrificate alla forza cosiddetta reale e positiva! Il «realismo» venne di moda anche lì e consigliò ripudio di princìpi e generò pessimismi e irrigidì su posizioni di forza uomini che erano pure di alto sentire e di raffinata cultura. Il realismo, la forza, di fronte a cui è ridicolo affisarsi nelle nuvole dell’ideale: com’era triste veder accogliere simili idee proprio da un Renan, infatuato a ripetere, agli amici dei rituali pranzi presso Brébant, in piena guerra, la sua convinzione della superiorità della razza germanica, eccitato sino al punto da accogliere, lui, lo storico di Gesù, la formula della forza che sovrastà al diritto, come una legge eterna325 .

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Erano i motivi che rendevano ancora più acre la condanna democrazia, già per l’innanzi malamente vista dal Renan326 , che la rendeva responsabile della decadenza francese, del materialismo trionfante, della platitude bourgeoise327 ; la condanna del suffragio universale che aveva reso padroni della vita pubblica i contadini, cioè l’elemento inferiore della civiltà328 : e l’epilogo di un tal modo di sentire era La réforme intellectuelle et morale de la France, cioè il processo alla Rivoluzione francese e alla repubblica, alla democrazia e al suffragio universale, nel nome del realismo e della volontà di potenza329 . Triste scritto, di cui il Mazzini avvertiva subito il male segreto; triste ritorno verso l’esaltazione della potenza militare, espressa ormai solo dalla Prussia330 , sul cui modello, vigoroso e feudale, con una forte monarchia e una forte nobiltà, anche la Francia avrebbe dovuto ricostruire sé sessa, sempre che ne fosse ancora capace e non fosse invece già agonizzante331 . Sedan e Metz e la capitolazione di Parigi ispiravano il giudizio finale sui mali di cui soffriva la Francia: la guerra è l’opposto di quella mancanza di abnegazione, di quella asprezza nella rivendicazione dei diritti individuali, che costituisce l’essenza della democrazia moderna. Con questo spirito non c’è guerra possibile. La democrazia è il più forte dissolvente dell’organizzazione militare; la vittoria tedesca è stata la vittoria dell’uomo disciplinato su colui che non lo è, dell’uomo rispettoso, attento, metodico, su colui che non lo è; è stata la vittoria della scienza e della ragione; ma è stata anche, simultaneamente, la vittoria dell’antico regime, del principio che nega la sovranità del popolo e il diritto delle popolazioni di decidere del loro destino. Queste ultime idee, lungi dal rafforzare una razza, la disarmano, la rendono inadatta ad ogni azione militare e, per colmo di sventura, non la preservano dall’abbandonarsi nelle mani di un governo che le faccia commettere i più grossi errori332 . La

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civiltà è opera aristocratica, di un piccolo numero; l’anima di una nazione è pura cosa aristocratica. Il suffragio universale è un mucchio di sabbia, non una nazione333 . Corollario ultimo, la necessità della guerra, unico mezzo per evitare l’avvilimento dell’uman genere: la guerra, condizione del progresso, frustata che impedisce ad una nazione di addormentarsi, tanto che il giorno in cui l’umanità divenisse un grande impero romano pacificato e senza nemici esterni, quel giorno la moralità e l’intelligenza correrebbero í più grandi rischi334 . Come una volta Pietro il suo Signore, così ora lo storico di Gesù rinnegava con tali affermazioni cinquant’anni di pensiero europeo, del suo stesso pensiero, rinnegava i sogni di un progresso pacifico grazie al concorde lavoro delle nazioni, e anzitutto al concorde lavoro di Francia e Germania. E Renan non era solo. Taine, che anch’egli da tempo aveva avuto des idées grises riguardo alla Francia e vedeva ora il grigio diventar nero335 , smarrita ogni fede nei sistemi politici fondati sull’eccellenza della natura umana, anch’egli diventato fieramente antidemocratico336 , pur rimanendo lontano dal germanesimo persistente di un Renan, e anch’egli avverso all’idolatria del numero, convinto che la Francia non avesse ancora trovato, da ottant’anni, l’assetto politico conveniente337 , e convinto che fosse dovere di ciascuno occuparsi di politica e dover suo, in particolare, di far della politica sotto forma istorica338 Taine dava inizio alle Origines de la France contemporaine, questa requisitoria solenne contro la Rivoluzione, spogliata del manto poetico e mistico da cui era stata avvolta e resa colpevole, in ultima analisi, dei disastri del ’70339 . Più violento ancora l’irascibile, tormentato e cupo Flaubert nimicissimo di ogni idea di democrazia340 , senza più illusioni e scettico ormai sulle possibilità di progresso, sulla civiltà, sulla funzione stessa della letteratura341 ,

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convinto che il primo rimedio per assestare le cose sarebbe stato di farla finita con il suffragio universale, «la honte de l’esprit humain»342 , persuaso che la grande Rivoluzione era stata un aborto343 , avverso al 4 settembre, alla guerra, alla Comune, alla Repubblica, disperante di tutto e di tutti344 e con la sensazione che s’entrasse, dopo Paganesimo e Cristianesimo, nella terza grande fase dell’evoluzione umana, nella fase del muflisme345 . E con lui, Edmond de Goncourt disorientato, antidemocratico, antirepubblicano346 e altri ancora che davanti alle schiaccianti vittorie della forza militare prussiana non sapevano più qual valore attribuire alle idee come fattori di storia. Insomma, un crollo morale, un disorientamento grande pur negli spiriti magni del pensiero francese347 : crollo e disorientamento che la Comune doveva ancora accrescere348 , sempre più spingendo quei letterati e pensatori verso princìpi di conservazione pura, di fobia della rivoluzione e della democrazia, di apprezzamento del Dio degli eserciti e della polizia, che solo assicura la vittoria sul campo di battaglia e l’ordine nelle vie delle città. Già una volta, dopo la dittatura del primo Napoleone, il pensiero francese si era rivoltato contro le teorie della sovranità popolare e del suffragio universale, che avevano praticamente condotto agli pseudo plebisciti napoleonici e al dissolversi della sovranità democratica nel dispotismo349 . Ma allora, almeno, c’era stata la gloire, che nemmeno il 1814 e Waterloo potevano offuscare perché il 1814 e Waterloo eran sentiti come sconfitta di Napoleone, non della Francia, e a Vienna la Francia non era stata umiliata: e avevan voglia i pubblicisti della Restaurazione di odiare la gloria militare e di respingerne le seduzioni350 , essa rimaneva cara a tanta parte del popolo, come retaggio visibile del Primo Impero, inciso nel cuore delle moltitudini e destinato infatti, di lì a non molto, ad essere nuovamente esaltato e sbandierato. Ora, inve-

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ce, non solo la dittatura all’interno, bensì anche una catastrofe esteriore mai verificatasi nella luminosa storia di Francia; non solo dispotismo, a conseguenza dei plebisciti e della sovranità popolare, ma, in fine della vicenda, una sconfitta ignominiosa, la Francia corsa e calpestata, Metz e Strasburgo perdute: e questa volta non una sconfitta del solo usurpatore, ché dopo Sedan il vinto non era più Napoleone III ma la Francia istessa, la Francia di Gambetta e di Jules Favre e di Thiers, la Francia di Parigi assediata bombardata costretta alla capitolazione e a veder sfilar nei Champs Elisées i soldati prussiani, la Francia forzata a chieder pace e a subirla nella forma dura e umiliante voluta dal nemico. Occorreva dunque una riforma: magari una riforma alla Renan, il quale dunque diveniva portavoce di quei medesimi sentimenti che, sul concreto piano politico, si esprimevano attraverso il trionfo elettorale delle forze conservatrici, monarchiche, nostalgiche del passato monarchico nobiliare militare: singolare beffa del destino che riavvicinava, in quel momento, lo scrittore tanto detestato e tanto detestante, e il clericalismo, così strettamente legato proprio con il monarchismo la nobiltà l’esercito! Almeno l’aristocrazia legittima che sognava Flaubert, per governare il popolo, eterno minorenne, era l’aristocrazia dei «mandarini», e cioè degli uomini di scienza e di cultura351 : illusione assai più grossa, ma almeno illusione assai più consentanea all’animo e allo spirito di un chierico delle lettere. Diversamente che in Italia, la lezione delle cose conduceva qui dunque non pure all’apprezzamento della forza e al distacco dai vecchi sogni europeistici, ma anche ad un’aspra polemica antidemocratica e persino antiliberale. Diversamente che in Italia, dove realisti si proclamavano soprattutto uomini della Sinistra e vecchi rivoluzionari alla Crispi, il realismo politico allignava in Francia soprattutto fra i conservatori e parve significare, in quei

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giorni, nostalgia di un certo passato, così che si venne accentuando il distacco fra il vecchio alto ceto e le nouvelles couches sociales, il distacco che politicamente si espresse nella lotta attorno al radicalismo e contrassegnò i primi tempi della Terza Repubblica. Ma se, nel contrasto, i radicali erano destinati a vincere sul terreno propriamente politico e parlamentare, qualche cosa tuttavia sopravvisse di quell’atmosfera di crisi in cui era piombata, per effetto di Sedan e di Metz, tanta parte dell’alta intelligenza francese: e fu il bisogno della forza, come forza non più di idee, ma di armi e di uomini; e fu l’invocazione ad una politica realistica, che sapesse astrarre anche dai desideri e dai voti delle moltitudini e, sul modello prussiano, confessato o inconfessato, guidasse con mano ferma la cosa pubblica e si attenesse non alle vane declamazioni ideologiche, ma agli interessi concreti e ben precisi. Potente lievito per il formarsi delle dottrine nazionalistiche. Allo stesso risultato ultimo doveva condurre un’altra tendenza, pure ben delineata dopo il ’70 e tuttavia di assai diversa origine. Il subitaneo crollo dell’impero napoleonico, legittimando l’opposizione condotta tenacemente contro l’Impero anche in politica estera, sembrava dar valore di verità assoluta alla critica del, principio di nazionalità. Aver voluto seguire quest’ultimo, era stato il massimo errore di Napoleone III, fuorviatosi ai danni della Francia e a favore dell’Italia e fin della Prussia: i veri interessi francesi erano stati sacrificati a quel principio «assurdo»352 . Ora, dunque, il vecchio astio degli oppositori al Secondo Impero, da Thiers a Broglie, trovava finalmente facile motivo di giustificazione nel crollo di Sedan e, insieme, nel mancato aiuto dell’Italia, questa creatura di Napoleone III che al momento buono si era sottratta al suo benefattore, dimostrando come la politica di sentimento fosse la più stolta delle politiche. Solo un sognatore alla Napoleone III aveva potuto illudersi su ciò: un sognatore a cui si accoppiava il dilettante, l’uo-

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mo non esperto. Ci voleva l’ignoranza napoleonica delle tradizioni politiche della Francia, per cascare così malamente in un trabocchetto, quale era il principio di nazionalità. Taine spogliava la Rivoluzione della sua veste mistica; Albert Sorel toglieva al principio di nazionalità l’alone ideale di che avevano circonfuso Mazzini e Michelet, presentandolo come semplice arma tattica nelle mani dei governi, strumento atto a servire tanto grandi disegni e nobili iniziative quanto grossolani appetiti di dominio. La forza – sempre essa! – rimaneva la ragion sovrana dei re e delle nazioni353 . Ma la forza richiede di essere ben impiegata; e per ben impiegarla occorre la lunga lezione delle cose antiche, e cioè la conoscenza sicura delle tradizioni diplomatiche e politiche che, sole, possono dare la sensazione esatta degli interessi reali di un paese e fornire all’uomo di stato la giusta misura per modellare la sua azione. I politicanti del Secondo Impero avevano condotta la Francia alla catastrofe, perché non avevano conoscenze sicure354 ; l’accusa, da tutti condivisa, legittimisti e repubblicani, nobili e plebe355 , era stata formulata sin dal 5 settembre 1870 dal primo ministro degli Esteri della Repubblica, da Jules Favre che pure non era un reazionario né un nazionalista: «la Francia aveva intrapreso la guerra isolata in mezzo a un’Europa ostile. Il governo che l’aveva follemente precipitata in questa formidabile avventura non aveva immaginato nessuna combinazione, offerto nessun trattato, previsto nessun riavvicinamento». Per risollevare la Francia, era necessario ricreare questa sapienza perduta. E così, nello sforzo grandioso di quegli anni di dopoguerra, quando ognuno non mediocre anelava a servire alla ricostruzione della patria vinta e depressa, e i più giovani ed impetuosi si spartivano il compito, quali nella storiografia, quali nel romanzo, quali nella poesia356 ; e così mentre un Taine rinunciava alle ricerche puramente speculative e dava inizio alle Origines, per ammaestrare il

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suo paese, un Sorel si prefiggeva il compito di richiamare la Francia alle sue luminose tradizioni di politica estera e poneva mano a L’Europe et la Révolution française, l’altra grande opera in cui la storiografia francese della fine dell’Ottocento sottoponeva a revisione tutto quanto s’era detto e pensato sull’evento rivoluzionario357 . La continuità fra il prima e il dopo la Rivoluzione Tocqueville l’aveva ricercata, un trentennio innanzi, nella struttura interna del paese, sotto l’assillo delle preoccupazioni del pensiero liberale del primo Ottocento; Sorel, ora, guardava ai rapporti internazionali e diveniva il precettore dei diplomatici del Quai d’Orsay. Ma da un siffatto ritorno sul passato, alla luce di una dura esperienza vissuta, della forza e della potenza militare che s’impongono sul diritto – tale essendo il fermo convincimento di ogni francese, dopo la pace di Francoforte e la perdita dell’Alsazia-Lorena – che cos’altro poteva derivare se non l’apprezzamento dei vecchi criteri di politica di equilibrio, di politica delle alleanze, di politica volta a creare un «sistema» francese in Europa contro le potenze rivali? In luogo dello stupido e vago principio di nazionalità, causa di tanti guai, nel cui nome, alla fin fine, s’era strappata alla Francia l’Alsazia-Lorena358 , restituire, alla buon’ora, il principio dell’equilibrio europeo, Vangelo diplomatico d’un tempo e auspicato Vangelo per l’avvenire359 . Era la vecchia lezione della storia di Francia, da secoli, storia di potenza, di prestigio, di grandeur; e l’animo di chi vi ci si tuffava per chiedere ammaestramento al presente, n’era inebriato360 . Non più amare tutte le patrie, come aveva detto Michelet, che guardava alla «sua» Germania, alla «sua» Italia, alla «sua» Polonia361 ; amare la propria patria, amare la Francia, e soltanto essa. Così, a poco a poco, il desiderio di star ben aderenti alla realtà, senza perdersi dietro ad ideali fumosi, ma con la vigile guida del passato, a cui ci si ricollegava saltando l’intermezzo vacuo del Secondo Impero, condu-

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ceva al vagheggiamento di una politica di potenza, sulla base dei vecchi canoni dell’equilibrio, delle sfere d’influenza, degli stati vassalli, una politica tutta nutrita di sacro egoismo, che evitasse gli «errori» sentimentali362 , e nuovamente ne riceveva alimento continuo e sottile l’incipiente spirito nazionalistico. Da Taine poteva derivare lo spirito antidemocratico; da Sorel, gran maestro ideale dei diplomatici francesi di un cinquantennio, lo spirito di grandezza, la volontà di potenza, il senso dei risultati a «positivi» e delle opere durature363 il convincimento, alla tedesca, del «primato» della politica estera: agli uni e agli altri finì con l’attingere il nazionalismo fin de siècle364 . Realismo, forza, scetticismo per le grandi affermazioni ideali, utili solo come strumento tattico: questi erano i frutti delle vittorie prussiane del ’70. Declinavano gli ideali, anche quello della libertà, che a far amare assai più cautamente, sopravveniva ancora la Comune; signoreggiava la realtà365 : comprendre et apprendre pour agir, era la nuova parola d’ordine che indicava nell’azione il fine, tutto il resto, anche la cultura, servendo da mezzo366 . Da una parte, come aveva detto il Blanc, la scienza positiva, cioè la scienza applicata all’industria, e gli incredibili progressi di questa, la produzione e la forza della tecnica367 ; dall’altra la politica anch’essa come scienza di cose solide e sicure, banditi gli affetti e gli ideali, messi da canto i princìpi, cioè la politica come forza e potenza numericamente calcolabili. L’una e l’altra cosa si davano la mano, progresso tecnico, e gigantesco sviluppo industriale, implacabile razionalità nella condotta degli affari, ed evolversi della vita politica verso forme statali sempre più quantitativamente forti, per ricchezza armi organizzazione estensione colonie. Tramontava la piccola azienda artigiana, e tramontava l’ideale del piccolo stato, così caro all’Illuminismo e al Romanticismo, ai Montesquieu Rousseau Si-

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smondi Adam Miiller, il cui posto era preso ora dal grande Stato368 . Fenomeni, d’altronde, l’uno e l’altro, che non erano se non i due aspetti di un solo processo storico in cui la quantità tendeva sempre più a prevaler sulla qualità, la grande industria sull’artigianato, il grande Stato sul piccolo, le masse di elettori sui valori personali, il peso del numero sui raffinati valori della cultura e dell’intelligenza. Ma l’età del commercio non solo non si sarebbe sostituita all’età della guerra, secondo il vaticinio di Benjamin Constant369 , che aveva anticipato l’ottimismo cobdeniano sul nuovo spirito commerciale diffonditore di prosperità e pace nel mondo, anzi si sarebbe associata alla guerra; i popoli manifattori e commercianti, contrariamente al detto del Minghetti giovane370 , non sarebbero stati alieni dal venir al sangue, e le guerre avrebbero acquistato in terribilità di distruzione quel che avrebbero perso in lunghezza di tempo, a fronte delle prolisse guerriglie medievali. Trionfo del commercio, per quegli ottimisti, aveva voluto significare trionfo dello spirito di pace e abbandono degli appetiti di conquista militare, disdegno della gloria guerresca; ma la gloria militare mantenne il suo fascino e lo spirito di conquista cercò anzi giustificazione e pretesti e trovò spesso motivi anche in considerazioni di utile economico, per sopravanzare rivali e schiacciar concorrenze troppo pericolose. L’antico e detestato spirito politico di conquista non fu assorbito, anzi assorbì in sé lo spirito economico dell’affare: onde, in un mondo che allacciava ogni giorno più rapporti strettissimi di interdipendenza economica e in cui sembrava che le piccole vecchie questioni europee di frontiera dovessero ridursi a episodi di scarso valore, le questioni europee di frontiera rimasero invece il fattore decisivo che poté travolgere l’umanità intera in conflitti mai prima visti. Lo spirito nazionalitario irruppe nella storia e scatenò i popoli l’uno contro l’altro; come aveva intui-

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to Mirabeau371 , le guerre dell’antico regime divennero un giunco da ragazzi in paragone delle nuove. Commercio e libertà, aveva proclamato la scuola di Manchester: ma il trionfo del protezionismo avrebbe, di lì a non molto, fatto comprendere che i sogni di un’armonia universale erano finiti. Questo era il succo della nuova realtà: una realtà contessuta di molteplici elementi, a mano a mano sempre più prementi per il rapidissimo evolversi della vita moderna in tutte le sue forme, sempre più accentuanti il valore del numero, di guisa che la stessa Realpolitik alla Bismarck finiva con l’essere solo una manifestazione dello spirito avviato a signoreggiare il mondo nelle prossime generazioni, e il Cancelliere prussiano diveniva l’incarnazione politica di uno sviluppo storico che trascinava con sé tutte le forme di vita372 . Vecchio, stanco e sfiduciato, il Minghetti lo riconobbe: «noi credevamo alla giustizia e alla libertà, oggi si crede alla forza, ed al numero»373 . La forza: e in luogo della predicazione in nome dell’umanità di un Mazzini, degli appelli agli Stati Uniti d’Europa di un Cattaneo, dell’identità fra morale pubblica e privata di un Balbo e di un d’Azeglio, risuonarono le voci di un Droysen ad ammonire che nel mondo politico vale la legge della potenza, come in quello fisico la legge di gravità374 , o di un Treitschke, che lo stato è forza e il suo obbligo è la conservazione della potenza e chi non è abbastanza virile per guardar bene in faccia tale verità si occupi di altro, ma non di politica375 . La forza: indifferente anche ai sentimenti di avversione che provocava, pur di sentirsi materialmente sicura. L’oderint dum metuant diveniva più che mai assioma di politica; e ne dava esempio il Bismarck con l’affermare assai preferibile ai riguardi verso i Francesi il garantirsi frontiere ben fortificate, e anche con il suo mal velato disprezzo per gli uomini in genere, vero «homme massue» destinato ad esse-

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re «l’étonnement, la terreur de tous, mais pas au delà»376 . E ne davan prova anche i suoi luogotenenti, fra gli altri lo Schweinitz, ambasciatore a Vienna, il quale, constatando nel 1872 l’animosità ovunque regnante contro la Germania, invidia, timore, odio, conchiudeva che, pur essendo moderati e accomodanti, bisognava diventare ancora più forti. Ad incrementare anche dottrinalmente l’anelito alla potenza, a far della lotta l’ideale di vita delle giovani generazioni, avvezzando gli uomini all’indifferenza per i principi onde renderli idonei alla durezza del sentire richiesta dai tempi, stava intervenendo anche l’influsso dell’evoluzionismo darviniano e del sociologismo evoluzionistico alla Spencer377 ; e fu di gran presa sugli animi, come che la lotta per l’esistenza, la necessità dell’adattamento all’ambiente e simili cose traducessero perfettamente in termini scientifici quanto stavano operando su terreno pratico la politica di forza dei grandi stati e la spietata concorrenza dei grandi complessi industriali e commerciali. Anche in Italia il nuovo verbo avrebbe presto trovato banditori convinti, nella cui parola tramontava il Risorgimento e cominciava una nuova età. «Le grandi fratellanze, sognate già da’ filosofi italiani e francesi, tentate già da Napoleone III, tramontano tra gli ideali del secolo; che già si rende ferreo per le gare economiche, pe’ sospetti sempre più fieri, per lo studio delle armi: risorgendo ed allargandosi da poche città in vaste nazioni quella virile necessità che facea tutti soldati i Greci ed i Romani. Ogni nazione sogguarda alla possibile nemica. Ogni grande Stato attende in fretta attorno al Mediterraneo a togliersi quanto più e quanto prima può di ciò che rimane senza forti signori: ognuno degli altri; anche la Francia, seppe quel che volea, e l’ottenne a Tunisi, o in Egitto. E l’Italia sa di voler ciò che meno importa, o di non voler nulla; e si sforza, tra il sorriso degli altri, a vestir di pudore la sua irresolutezza,

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colpevole verso i posteri. E si afferma custode del diritto e della pace, giudice imparziale delle altre nazioni, senza aver provveduto né alla sua autorità, né al vigore delle sanzioni»378 . Così sentenziava, nel 1882, Pasquale Turiello, nel cui discorrere ritornava spesso, appunto, il ritornello della lotta per la vita fra le nazioni, dei popoli destinati a decadere nella lotta vitale mentre progredivano quelli «più accomodati a’ nuovi adattamenti», e fin la profezia del «periodo imminente d’una lotta mondiale per la vita»379 ; il Turiello che non a caso doveva divenire, di lì a poco, il primo cosciente, sistematico imperialista italiano380 . Quattro anni più tardi il Novicov concludeva che «la politica internazionale è l’arte di condurre la lotta per l’esistenza tra organismi sociali»381 ; e sopraggiungeva l’Oriani a trarre anch’egli dalla moda evoluzionistica la formula della lotta per la vita, che tra i popoli vuol dire la guerra382 . E anche qui, come già contro le idee razzistiche, protestava il Crispi, che, nazionalista di animo e in questo già pienamente all’unisono con i tempi nuovi, rimaneva concettualmente uomo del primo Ottocento383 . Ma anche qui la logica interiore delle cose dava torto al Crispi; ed egli non s’avvedeva che il soverchio orgoglio nazionale era proprio uno dei fattori, il massimo fattore anzi, della durissima lotta per l’esistenza fra i popoli, quello che più d’ogni altro rischiava di scatenare sugli uomini la brutalità della natura fisica, quasi per dar ragione al tristo motto del Grillparzer «dall’umanità, attraverso la nazionalità, alla bestialità»384 .

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III Contro la «realtà» bismarckiana A sconvolgimenti del proprio sistema intellettuale e morale si opponevano invece recisamente i più degli uomini della Destra, di quelli che erano allora al governo e di quelli che, nel Parlamento e nel giornalismo o, comunque, nella vita pubblica ne assecondavano le fortune. Non è che questi uomini, pur respingendo con sdegno l’accusa di servilismo385 , avessero chiuso gli occhi di fronte all’indiscutibile dato di fatto che la politica italiana s’era svolta nell’orbita di quella francese, perfino nel ’66, e che pertanto il giovane regno aveva avuta ridotta d’assai la sua libertà d’azione e diminuita la sua personalità. Lo riconosceva, molto esplicitamente, il Visconti Venosta quando, ai primi di marzo del ’71, esaminava in una lunga lettera al de Launay i rapporti italo-tedeschi: «la quistione romana è stata il vincolo che ha diminuito la nostra libertà di azione, ed ha resa dipendente, per lungo tempo, la nostra politica, dalla politica francese. Ora questo vincolo è rotto, è nell’interesse di tutti ch’esso non abbia a riannodarsi. La quistione romana sciolta, la neutralità conservata durante questa guerra, hanno reso indipendente la situazione politica dell’Italia»386 . Lo aveva già detto prima l’Artom, deciso fautore della neutralità proprio perché se si fosse commesso «il gravissimo errore di legar le sorti nostre a quelle della Francia in questa occasione, il risultato sarebbe stato questo: il nostro soccorso non avrebbe impedito le sconfitte francesi, ma il regno d’Italia sarebbe considerato dall’Europa come un’appendice dell’edificio napoleonico, destinato a scomparire coll’Impero»387 . Le pretese della Francia su Roma erano «il simbolo del vassallaggio che tutta l’Europa ci rinfaccia verso la Francia»388 .

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Preoccupazioni di simil genere, unitamente all’altra di non render generale la guerra, trascinandovi anche Austria e quindi Russia, e dando origine ad un conflitto europeo i cui risultati avrebbero potuto esser paurosi per l’esistenza stessa del Regno d’Italia, avevano per vero ispirato la politica del Visconti Venosta il quale, guadagnando tempo, molto grazie al Sella, aveva potuto uscir senza guai da una situazione fra le più difficili389 . Neutralità durante la guerra franco-prussiana e Roma capitale erano dunque, per tutti, anche per i moderati, la prova decisiva che l’Italia unita non era una semplice ed effimera creazione napoleonica. O ancora, della smania di seguire la Francia e di prenderla pedissequamente a modello, si dolevano, al pari di uomini della Sinistra, dei moderati come Stefano Jacini, a non dir del Ricasoli390 . E nemmeno si taceva che nello scoppio della guerra la Francia aveva gravi responsabilità: lo stesso Nigra, a cui una simile ammissione più doveva costare, non si peritava dall’affermare: «la guerra fu cominciata dalla Francia ingiustamente e contro i princìpi della propria politica. Parlando della Francia, inchiudo non solo l’imperatore Napoleone e il governo francese, ma il paese, giacché il Corpo legislativo, eccetto alcuni membri della Sinistra, il Senato, la stampa, le pubbliche riunioni furono unanimi o quasi unanimi nel volere e nell’approvare la guerra»391 . Ma simili constatazioni non sboccavano, come nel de Launay e nel Crispi, in un atteggiamento ostile alla Francia e di aperta simpatia per la Prussia. I Visconti Venosta, i Nigra, i Lanza, i Dina, i Bonghi potevano bene riconoscere questo ed altro; potevano bene concordare pienamente con i Blanc, i de Launay e i Crispi che la guerra franco-prussiana ed i suoi risultati chiudevano una fase di storia e un’altra ne aprivano, per tutta Europa392 ; potevano richiamare il virgiliano novus ab incepto saeclorum nascitur ordo393 .

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Ma laddove gli uni salutavano con gioia il levarsi del nuovo sole europeo, gli altri guardavano con preoccupazione. Sentimentalmente, essi rimanevano ancora legati alla Francia, la grande maestra di civiltà, che aveva così potentemente influito sulla formazione del pensiero italiano in genere e dei moderati in ispecie, fra il 1830 e il 1848, e al vinto di Sedan, all’uomo a cui nonostante tutto gli Italiani dovevano Magenta e Solferino, e cioè il primo passo decisivo nell’impresa della loro liberazione, il passo che tutti gli altri aveva reso possibili e senza del quale tutto quel che poi avvenne non sarebbe stato neppure pensabile. «Figli di Magenta e di Solferino»: la frase poté più tardi apparire brutto fiore retorico e non dir più nulla, soprattutto quando a sentirla ripetere furono generazioni che l’Italia avevano trovata bell’e compiuta, né potevano rivivere le ore di ansia, le speranze e i dubbi e l’entuiasmo finale dei giorni della riscossa, e pertanto, come suol accadere ai figli e ai nipoti, trovarono fuori luogo la gratitudine dei padri. Già allora, anzi, la sua verità veniva contestata dagli uomini della Sinistra, i quali, o trovavano che il debito di gratitudine era stato lautamente pagato con Nizza e la Savoia394 , a non parlare di Mentana che aveva distrutto qualsiasi vincolo sentimentale395 ; o addirittura negavano, sulle orme di Mazzini, che ci fosse mai stato debito alcuno di gratitudine. E qui il dissidio tra i filofrancesi e gli antifrancesi, a dirla con termini comunemente accolti, s’innestava non soltanto sulle lotte interne di partito, per cui il vinto imperatore, dagli uni e dagli altri riconosciuto sostenitore, protettore, autore anzi delle fortune dei moderati396 , veniva amato e odiato a seconda appunto dello spirito di parte; bensì su di un contrasto di vedute assai più profondo e generale: gratitudine a Napoleone III, secondo coloro a’ quali il Risorgimento d’Italia appariva creazio-

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ne della monarchia sabauda, opera di governo che era potuta riuscire in quanto, ad un certo momento, il re di Sardegna aveva trovato un potente alleato nell’imperatore dei Francesi; nessuna gratitudine, secondo coloro che vedevano invece nel Risorgimento la creazione delle forze rivoluzionarie, lo sbocco di una lunga opera di propaganda e di una passione trionfanti a malgrado delle battute di arresto imposte da Napoleone III, a Villafranca prima, ad Aspromonte e a Mentana poi. La profonda eterogeneità di forze del Risorgimento, l’iniziativa regia, come si disse, e l’iniziativa rivoluzionaria, una eterogeneità le cui conseguenze si sarebbero ben presto rese palesi nelle discussioni sui problemi stessi della politica estera, e che aveva fatto del movimento nazionale italiano, una cosa del tutto diversa dal movimento nazionale germanico, bene e completamente accentrato, questo, attorno al monarca e al governo; siffatta eterogeneità veniva nettamente in luce anche nel problema che ci riguarda ora, stabilendo delle posizioni aprioristiche da cui né l’uno né l’altro dei disputanti era più in grado di intendere il contraddittore. Crispi si era, sì, convertito alla monarchia: ma nell’animo era sempre il vecchio cospiratore – amava ripeterlo egli stesso – convinto che l’Italia l’avessero fatta soprattutto Mazzini, Garibaldi397 e un po’ anche lui stesso, con tanto d’inchino, ora sentito, a Vittorio Emanuele II, e che l’egoistico intevento di Napoleone III avesse più complicato che favorito le cose. Momento decisivo dell’unità era stato non il ’59, bensì il ’60 con la spedizione dei Mille. Lo scarso apprezzamento dell’opera del Cavour, del quale Crispi, presidente del Consiglio, non pronunziò nemmeno il nome, tra non pochi commenti sdegnati, quando il 20 settembre 1895 inaugurò il monumento a Garibaldi sul Gianicolo e disse dei padri dell’unità398 ; tale scarso apprezzamento a più riprese dimostrato sia dal Crispi399 , sia dai suoi amici400 , era il si-

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gnificativo indizio di un modo di vedere il Risorgimento che era in antitesi assoluta con il modo di vedere dei moderati. Non per nulla nei giorni critici del luglio-agosto del 1870, La Riforma ricordava il «vizio» della politica cavouriana, cioè l’accordo con Napoleone III, mettendo invece innanzi, quale protagonista, la «Rivoluzione» italiana401 ; e pochi mesi più tardi rivendicava a sé ed ai suoi amici il compito di essere i custodi dell’idea unitaria contro gli stessi moderati402 , nell’un caso e nell’altro ribadendo la tesi della priorità e necessità dell’idea rivoluzionaria, sola vera artefice del patrio riscatto. Ma queste non erano, al certo, le idee dei Visconti Venosta e dei Lanza, dei Nigra e dei Dina e dei Bonghi! E come per essi il Risorgimento era l’azione della monarchia sabauda, sia pure con l’aiuto prima della preparazione morale mazziniana403 , e poi delle forze rivoluzionarie incarnate in Garibaldi, che avevano servito in quanto erano state sfruttate o si erano poste volontariamente al servizio della politica piemontese404 , così quell’azione appariva possibile solo mercè l’aiuto francese: donde la gratitudine, di cui, contrariamente al detto della Sinistra, nemmeno Mentana aveva spento l’obbligo405 ; donde la non retorica e non banale rievocazione di Magenta e di Solferino. Libero da vincoli sentimentali per tutto il suo modo di pensare e per il suo passato, un Crispi poteva fin pensare ad approfittare del momento per ritogliere Nizza alla Francia; un uomo come il Visconti Venosta arretrava sdegnato di fronte ad un’idea simile come di fronte a cosa ingiuriosa per la lealtà del governo italiano. Una questione di Nizza non esisteva, non poteva esistere per l’Italia: Nizza era stata ceduta alla Francia in virtù di un trattato, sanzionato da un plebiscito: e non c’era da tornarci su406 . Lo doveva scrivere soltanto sette anni più tardi: ma il sentimento era bene lo stesso, nel ’70 come nel ’77: «se la Germania aggredisse la Francia per

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un proposito deliberato, e noi ci fossimo impegnati a seguirla per avere Nizza o la Savoia, noi faremmo una politica che sarebbe la diretta negazione di quella di Cavour e che getterebbe nell’avvenire del nostro paese un germe funesto. Non parlo di ciò che vi sarebbe di odioso nella nostra condotta nel farci noi, figli di Magenta e di Solferino, i ministri di un fato beffardo, non già per difenderci da un’aggressione o da una minaccia, ma solo per riprendere, appoggiati a un più forte, il prezzo liberamente dato del sangue sparso per noi»407 . In siffatta disposizione d’animo le notizie di Francia dovevano suscitare dolore e sgomento. Tra l’agosto del ’70 e il gennaio del ’71, da Weissenburg e Wörth all’armistizio, la gran maggioranza dei moderati, dal Visconti Venosta al Lanza al Bonghi, ebbe amareggiata perfino la gioia di Roma dalle notizie d’oltr’Alpe: costernati alla notizia di Sedan408 , anche più tardi erano in uno stato d’animo tale da far apparire poco convenienti i festeggiamenti al re in Roma quando i Francesi stanno «in lutto»409 . La ragion politica aveva persuaso i più che sarebbe stato impossibile per l’Italia entrare nel conflitto a fianco di Napoleone III; ma il dolore per l’inazione forzata ulcerava profondamente il La Marmora, che come generale e uomo politico aveva sconsigliato l’intervento italiano, pur reclamando l’onore di mettersi alla testa di una compagnia per passar subito la frontiera e combattere a fianco dei Francesi, qualora il governo avesse deciso di scendere in campo. «Pensare che quella Francia, senza della quale noi non potevamo costituirci a nazione, è minacciata di venire smembrata senza che da noi riceva il benché minimo aiuto, e che l’imperatore rischia perdere la sua corona, forse anche per avere nel 1866 compromessa la sua politica perché noi avessimo Venezia, sono tali riflessi e congiunture da profondamente addolorare chi ha sensi d’onestà e di gratitudine»410 . Cialdini avrebbe vo-

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luto un intervento diretto a fianco di Napoleone III e La Marmora lo aveva sconsigliato: ma uno era il sentire in questi due uomini, così dissimili e così poco amici. Come nei due maggiori capi militari, così negli uomini di governo, Sella eccettuato: dal Lanza, che si sentiva spezzare il cuore nell’assistere allo spettacolo «straziante» della rovina francese e non tratteneva le lacrime alla notizia di Sedan411 e s’indignava per l’insensibilità dell’Europa di fronte al bombardamento di Parigi412 , al Visconti Venosta, allo stesso Minghetti che fra tutti era pure il meno incline ai Francesi é non stupiva troppo per la catastrofe del Secondo Impero413 ed era scettico sull’avvenire di un paese «profondamente corrotto»414 , ma si sentiva «fortissimamente» commosso dalle parole del Thiers, di passaggio a Vienna per implorare, anche lì vanamente, l’aiuto austriaco, e deplorava come inumana l’inerzia delle potenze neutrali415 , a tal segno da ammettere almeno la possibilità teorica di un intervento armato a pro della Francia, sol che esso potesse riuscire proficuo416 . Attorno a questi eminenti tra i moderati, le figure minori, ma talune minori solo ufficialmente ed esercitanti invece un influsso continuo e notevole sulla cosa pubblica: da Giacomo Dina, il perspicace e molto ascoltato direttore dell’Opinione, sin dall’inizio favorevole a Napoleone e poi affranto al pensiero di «sì immensa sventura», anche se dovesse riconoscere la sventatezza francese417 ; a Michelangelo Castelli, influente consigliere segreto non solo di Vittorio Emanuele II, ma anche dei capi della Destra, che non poteva soffocare il suo sentimento favorevole all’intervento a fianco della Francia418 ; a Ruggero Bonghi, che più di tutti effondeva nella stampa la sua preoccupata tristezza e assumeva atteggiamento risolutamente antiprussiano, sia nelle cronache quindicinali della Nuova Antologia, sia nella milanese Perseveranza; a Michele Amari, a cui la gioia del Campidoglio conqui-

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stato era turbata dai disastri francesi419 ; al conte Guido Borromeo, grande amico del Minghetti420 . Fra i diplomatici, era il Nigra, naturalmente, a condividere dolore e preoccupazione per le sorti del paese dove si era acquistata fama e aveva contratte amicizie grandi e sicure: egli, che già nel ’68 aveva desiderato lasciar Parigi e aver il posto di Londra, perché vedeva le cose di Francia andare sempre peggio e gli era «doloroso l’assistere alla rovina di questo grande edilizio dell’Impero francese, col quale si collega tutta la politica da noi fatta sin qui»421 , e che ancora il 7 agosto del ’70, pur dopo Weíssenburg e Wörth, aveva telegrafato al Visconti Venosta per indurlo a intervenire immediatamente a fianco dell’imperatore422 . Com’è naturale, la commiserazione per la Francia cresceva quanto più crescevano le sue sventure: dopo Sedan, affermava lo Artom, altro dei consiglieri di primo piano che si era pronunziato recisamente per la neutralità423 , si era fatta più viva la memoria di Solferino e di Magenta424 ; e veramente se la stessa Riforma trovava parole per invocare la fine della «inutile strage», negli uomini e negli organi del partito moderato l’amarezza per il crollo della Francia cresceva, sino a toccar le alte note negli articoli roventi con cui il Bonghi deprecava la caparbia ferocia del vincitore. E come dall’una parte il Carducci, così dall’altra s’alzava nuovamente la voce dell’artista grande ad esprimere d’impeto quel che in molti solo con riluttanza era stato compresso dalla voce della ragion pratica: Giuseppe Verdi, politicamente così lontano dal Carducci, amico dei moderati e del Visconti Venosta425 , ma in quell’occasione così simile anche al Carducci, piangendo il disastro della Francia e la rovina, per esso, della civiltà moderna, non esitava a dichiarare preferibile, per l’Italia, la sconfitta con la Francia all’inerzia in cui ci s’era ridotti426 .

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Sarebbe tuttavia puerile non vedere in questi uomini altro che la espressione dolorosa di un sentimento, ridurre la loro visione politica entro i ristrettissimi limiti che, allora come sempre, avrebbero potuto essere dettati dal solo fattore sentimentale. Questo agiva, indubbiamente; era il primo impulso, lo scatto immediato di fronte alle notizie amare; costituiva come un fondo su cui potevano fiorire pensieri e considerazioni: ma, per l’appunto, senza pensiero e senza idee gli uomini della Destra, gente, se altra mai, per abito mentale e dottrina adusata alla meditazione talora fin eccessiva prima di agire – e n’era esempio tipico il ministro degli Esteri, il molto riflessivo, molto cauto, molto soppesante i pro e i contro Emilio Visconti Venosta – non sarebbero mai, nonché saliti sulla scena politica, nemmeno vissuti. I loro portavoce ufficiosi affermavano sì la necessità, per un grande Stato, di un ideale senza cui non vi sarebbe politica positiva, ma semplice empirismo diplomatico, alla giornata; ma si dichiaravano pure recisamente avversi a qualsiasi politica «sentimentale»427 . E da Milano già un anno innanzi identico modo di vedere aveva espresso La Perseveranza, annotando che non le simpatie debbono tracciare la linea di condotta di un popolo, «ma bensì l’interesse proprio, l’interesse bene inteso, l’interesse previdente, che, pur tenendo conto dei fatti dell’ieri, non si ferma a considerare soltanto le combinazioni dell’oggi, ma investiga anche le eventualità del domani e del posdomani»428 . Se tali erano già le manifestazioni pubbliche, ancor più attento alla realtà era l’uomo di governo; e il Visconti Venosta si impazientiva, quando udiva parlare in termini sentimentali: «l’Italia ama la Francia, l’Italia non ama la Francia, queste discussioni appartengono piuttosto alle dispute degli innamorati che alla politica»429 ; il Visconti Venosta, che già allora riteneva esser passati per un pezzo i giorni dell’intimità tra Italia e Francia e non si

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abbandonava affatto, quindi, ad effusioni emotive, ma basava la sua condotta su di una ben precisa valutazione politica, vale a dire sul convincimento «che il giorno in cui fra i due paesi si fosse stabilita una causa necessaria e permanente di ostilità, un gran punto d’interrogazione rimarrebbe sospeso sui nostri destini»430 . I fautori di un nuovo indirizzo politico e di un deciso avvicinamento alla Germania parlavano di realismo proprio, contrapponendolo al sentimentalismo altrui, cioè dei moderati; ma tanto poco si trattava di un contrasto fra realismo e sentimentalismo, quanto poco avevano ragione i critici francesi del Secondo Impero di attribuirgli una politica dettata esclusivamente dal sentimento, come se anche Napoleone III non avesse cercato di fare gli interessi suoi e del popolo francese esatti o sbagliati che i suoi calcoli fossero stati. Senso della realtà, apprezzamento della realtà: ma era tutta la tradizione moderata che parlava in tal senso, su su fino ai padri del moderatismo, i Balbo, i d’Azeglio, i Durando, che tanto avevano insistito sulla necessità di un sodo realismo politico, sul senso pratico della realtà, sul buon senso!431 E che cos’era stata la soluzione del Risorgimento, voluta, attuata dai moderati, se non proprio il trionfo dello spirito della realtà, il trionfo della politica del giusto mezzo, contro il mito quarantottesco della rivoluzione democratica universale? Che cosa l’apostolo dell’idea, il Mazzini, aveva rimproverato agli avversari, se non precisamente il compromesso, cioè l’adattarsi alla realtà, che spegne la fiamma ideale? La stessa simpatia per il Secondo Impero, il difendere la causa di Napoleone III, non erano forse un grosso compromesso col principio della libertà, così energicamente difeso in patria, ma non più difeso, per la Francia, contro il dittatore: compromesso ch’era dettato dal convincimento il miglior baluardo della causa italiana in Europa esser sempre, per necessità e per interesse pro-

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prio, quel dittatore, e che dunque anteponeva decisamente l’interesse nazionale italiano al principio ideologico? Altro che sentimentalismo e amore dei princìpi astratti! Piuttosto, si poteva ripetere, entro certi limiti, anche dei luogotenenti di Cavour quel che era stato detto del Cavour, che cioè il suo sguardo non oltrepassava mai i confini del reale, ma il reale era per il suo genio orizzonte ben più vasto che non fosse per gli altri uomini432 . Il genio non c’era più; il senso preciso della realtà, momento per momento, il fiuto politico, l’abilità manovriera potevano anche non esser grandissimi nei generali di Alessandro: e qui entravano in gioco i valori individuali, le singole personalità degli attori politici; e qui, precisamente, un uomo di stato come il Bismarck sovrastava di troppo i suoi colleghi italiani inglesi austriaci francesi russi. Ma i canoni dell’agire erano sempre quelli dell’occhio alla realtà, per gli uni come per gli altri. Soltanto, appunto, la realtà dei moderati abbracciava più elementi, si presentava assai più complessa che non quella dei neorealisti. Puro calcolo politico, soppesamento delle sole forze che potessero tradursi in termini politici, cioè di potenza, per un Bismarck e i suoi imitatori in sedicesimo; per i moderati, la realtà costituita non soltanto dalle forze materialmente precisabili e calcolabili, bensì anche dalle forze cosiddette morali, movimenti di idee e di affetti, atteggiamento dell’opinione pubblica e simili. Consenso e non timore, a base dell’azione di governo: quindi apprezzamento di molti elementi che i politici alla Bismarck lasciavan da parte o disprezzavano; quindi, anche, a prescindere dalle maggiori o minori abilità personali, un’azione più lenta e cauta, un assai meno pronunziato forzar le situazioni, ch’erano la necessaria conseguenza del ripudiar l’autoritarismo e del ricercar il consenso.

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Già nel Cavour, almeno l’atteggiamento di fronte al problema religioso e della Chiesa aveva dimostrato come la realtà s’arricchisse in lui di motivi non consueti nei politici che amano battezzarsi realisti; e la diversità doveva venire in luce chiaramente, poco più tardi del ’70, con l’azione e le parole del Bismarck durante il Kulturkampf. Negli eredi del Cavour, tanto meno spregiudicati di lui, tanto meno politici d’istinto, tanto più tormentati da preoccupazioni morali alla d’Azeglio, il peso delle forze morali nella valutazione degli eventi s’accentuò d’assai. E qui dunque, il realismo dei moderati era altra cosa, veramente; dal realismo predicato dai propugnatori del nuovo verbo. Ma nemmeno i più rigidi e moralistici fra i luogotenenti di Alessandro intesero mai fare una politica dottrinaria o sentimentale: del che offriva sicura testimonianza proprio la soluzione del problema di Roma, sino ai primi di settembre del ’70 voluta esclusivamente a mezzo delle forze morali, e d’improvviso, con il precipitar della situazione europea e l’aggravarsi delle polemiche in Italia e il pericolo di gravi perturbamenti interni, decisa con le armi. Gratitudine, moralità dell’agire politico, sì, ma contemporaneamente, occhio alla realtà, occhio attento agli interessi ben concreti. Politica, ancora, del giusto mezzo, il vecchio ideale ereditato dai tempi della Monarchia di Luglio e ch’era un ideale non solo di equidistanza fra i due partiti estremi, i neri e i rossi, i giacobini e gli ultra, ma anche di equidistanza fra il dottrinarismo puro e l’empirismo puro, fra la politica del caso per caso, la politica come pura tattica e con una sola direttiva strategica, la grandezza dello stato, e la politica che cercasse di sovrapporre alle vicende quotidiane gli schemi preconcetti di un astratto corpo di dottrine. Così è che il solo ricordo di Magenta e di Solferino e dei vincoli di gratitudine che legavano il Regno all’Impero, non sarebbe mai stato sufficiente per ispirare in uo-

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mini di solida struttura intellettuale e morale, com’erano nell’insieme quelli di cui si discorre, tante e così gravi diffidenze e preoccupazioni di fronte alla Prussia e alla politica bismarckiana. Forse il solo Vittorio Emanuele II si sarebbe mosso d’impeto, dando ascolto al prepotere dei sentimenti personali e dinastici: e ancora ci si può ben chiedere se anche a lui non si presentassero alcuni almeno dei dubbi, di carattere per così dire realistico, che assillavano i suoi consiglieri! Dubbi di carattere politico: e vale a dire timori di una troppo profonda alterazione dell’equilibrio europeo, di uno spostamento di forze a vantaggio di una potenza, che era stata sì nostra alleata quattro anni innanzi, ma di cui non si riuscivano ad afferrare bene le mire e i propositi ultimi: o meglio, si credevano di intuire, ma con non poca preoccupazione, scorgendosi in essi una precisa ambizione egemonica. È dunque il motivo dell’equilibrio europeo spezzato, che trova ampia, precisa formulazione in una lettera del Visconti Venosta al de Launay: «Prima delle vittorie prussiane si sarebbe detto che [in Italia] il Governo era francese e il paese prussiano. Ora invece l’opinione del paese si è grandemente modificata, esso è inquieto, si sente impegnato in una certa solidarietà delle razze latine, vede l’equilibrio europeo rotto, teme che le vittorie prussiane abbiano in sé il germe di futuri pericoli per l’Italia, e riannodino la tradizione delle antiche invasioni germaniche, vede il sacro Impero a Trento e a Trieste, pensa che il Mincio fu dichiarato un fiume tedesco ... l’Italia ... si sentirebbe minacciata coll’intera Europa dall’abuso della vittoria»433 . Se non proprio la Germania sul Mincio, per lo meno a Trento e a Trieste molti la temevano proprio allora, quando da ogni parte si parlava della inevitabile, prossima annessione dell’Austria tedesca all’Impero germanico; e se gli ambienti crispini la auspicavano in quei gior-

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ni, salvo più tardi il Crispi a mutar parere e a convincersi che la diletta Germania era meglio non averla troppo vicina, sin da allora i moderati, con assai più avveduto senso politico, arretravano spaventati all’idea del signore di Bismarck che potesse mandar ordini ad un qualche governatore nel castello del Buon Consiglio. Ma c’era di peggio. La Prussia era l’amica, l’alleata della Russia; il sopravanzare dell’una voleva dire anche il sopravanzare dell’altra potenza in Europa: e, di fatto, alle vittorie prussiane in terra di Francia faceva seguito la circolare Gorciacov, con cui la Russia denunciava le clausole del trattato di Parigi del ’56 che le avevano legate le mani nel Mar Nero. Qual prova migliore che l’Europa andava sossopra, per far posto ad un’egemonia russo-tedesca, cioè ad un giuoco di forze formidabili dalle quali gli altri Stati sarebbero stati schiacciati? Michelet lo gridava, ben alto, che il conflitto francotedesco apriva le vie allo Czar in cupida attesa e significava la futura vittoria della Russia sull’Europa e sul mondo, onde tutto l’accanimento tedesco nel distruggere la Francia spianava la via agli eserciti russo-tartarici. Vae victoribus! attenta la Germania stessa che, prussianizzandosi, apriva a sé stessa il baratro in cui sarebbe precipitata ad opera dei Cosacchi!434 . Meno apocalittico, ma ancor prima, qualche altro aveva pure visto profilarsi, dietro alla concentrazione della stirpe germanica, la concentrazione della stirpe slava, e dietro all’uno e all’altro fatto la fine di ogni possibilità politica per l’Italia: «in coteste enormi agglomerazioni, che non sarebbero maneggevoli che da governi assoluti, quale spazio resterebbe a’ geni singoli delle nazioni storiche, come è, per esempio, l’italiana; e a questa non sarebbe succeduto d’essere rinata appunto per ritrovarsi, avanti a cotesti nuovi aggruppamenti di popoli, più piccola di quello che era, in una diversa distribuzione del-

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le forze dell’Europa, ciascuno dei singoli Stati, nei quali era prima divisa?»435 . Fantasie di pubblicisti? Niente affatto. Lo spettro dell’alleanza russo-prussiana turbava i sonni dello stesso ministro degli Esteri, al quale pure destava spavento un’Europa di cui l’Occidente appartenesse alla Germania e l’Oriente alla Russia, dato che l’Italia «è uno di quei paesi, che non possono farsi il loro posto e svolgere il proprio avvenire che in una Europa dove esista un certo equilibrio di forze»436 . Tanto preoccupato il Visconti Venosta, da ispirar la politica dell’Italia di fronte alla questione del Mar Nero, fra il novembre del ’70 e il marzo del ’71, appunto al proposito fondamentale di impedire la formazione di una vera e propria alleanza, anche formale, fra la Prussia e la Russia437 . Il pubblicista esprimeva dunque concetti che stavano a base della politica estera italiana, quando affermava e ripeteva le sue preoccupazioni per il minaccioso profilarsi di colossali imperi, troppo simili alle monarchie universali già combattute secoli innanzi nel nome della libertà dell’Europa: «è nata, per l’errore degli uni e per l’oscitanza degli altri, una condizione di cose, nelle quali la Prussia, seguita dalla Germania, diventa padrona dell’Occidente d’Europa, e la Russia padrona dell’Oriente. È l’intima unione delle due, durata più anni, quella che rende possibile a ciascuna un disegno, la cui effettuazione richiederà anche più anni, ma del quale i primi tratti potranno essere già posti ora siffattamente da non v’essere più modo d’impedire di continuarli438 . È utile questa consumazione alle potenze, che non sono né la Russia né la Prussia? All’Inghilterra, all’Italia, all’Austria, alla Spagna e qualunque altra? A noi pare che sia dannoso per tutte sotto ogni rispetto, non perché giovi loro di impedire l’unità germanica, o paia possibile di sostenere in eterno l’integrità della Turchia; ma perché l’unità germanica, per il bene suo e l’altrui, non deve diventare

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enorme, e all’Impero ottomano bisogna non surrogare la Russia, ma uno Stato, che, per vivere e per reggersi, si deva e possa sviluppare indipendente da essa. Se gli uomini di Stato che reggono l’Italia, l’Austria, l’Inghilterra hanno questo pensiero, badino che ogni giorno più che continua e cresce la prostrazione della Francia, aumenta anche la difficoltà di opporsi in un avvenire più o meno lontano alle ambizioni della Prussia e della Russia»439 . Si lasciassero pure le previsioni sul futuro, e si lasciasse pure la Russia: ma un fatto era certo, che la situazione politica europea andava per aria, veniva meno il decennale appoggio della politica italiana, il continente era alla mercè del conte di Bismarck e del Moltke – anche a non voler tener conto di pericoli più direttamente e strettamente minaccianti l’Italia, in Francia il partito clericale non più tenuto a freno dall’imperatore e la Germania ... la Germania di cui sino alla primavera del ’71, dicessero i Sinistri quel che volevano, non si sapeva bene qual partito avrebbe preso di fronte alla questione romana. Non tutti certo temevano come Lodovico Frapolli «questa novella inondazione di barbari», che oggi schiacciava la Francia, mentre domani si sarebbe rovesciata sugli altri440 ; né parlavano dei Tedeschi come di una «innumerabile accolta di vandali, che col ferro e col fuoco lasciano di sé traccia ovunque pongono il piede»441 . Ma anche uomini di più pacato sentire, pur rifiutando di credere ad una nuova era di barbarie in Europa442 ; anche questi uomini non vedevano senza preoccupazione lo sprofondare della potenza francese, il vuoto fatto laddove sino a pochi mesi innanzi era una delle forze massime della politica europea, e, invece, nel centro Europa, un solo, potente impero la cui marcia sembrava irresistibile e alla cui buona grazia era dunque affidata la tranquillità degli altri stati. Persino il Minghetti, che non era tra gli atterriti dalla nuova imminente barbarie e che tra i caporioni della Destra era stato dei meno accesi a favor di Fran-

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cia, persino il Minghetti riteneva che la mancanza di una Francia vigorosa e ben ordinata poteva creare dei grandi pericoli all’Europa443 quella benedetta Francia, che era come la carne del mercante di Venezia, da non potersene cavare una libbra senza che facesse sangue444 . Nessuno poteva in quei giorni prevedere che la Francia si sarebbe ripresa con tanto mirabile celerità; che di lì a pochissimi anni sarebbe stata nuovamente una forza viva e ben presente nel concerto europeo, avrebbe anzi ricominciato a tessere le fila di una politica non solo nazionale, ma imperiale, di espansione oltremare, e avrebbe turbato, ancora e sempre, i sonni del principe di Bismarck. Del quale Bismarck nessuno parimenti osava assicurare quel che poi invece avvenne: che, cioè, compiuta l’unificazione germanica, egli avrebbe allontanato da sé ogni idea di ulteriore espansione, di conquista nuova e avrebbe atteso soltanto a conservare lo status quo, a mantenere la pace in Europa, quella pace che esaudiva tutti i suoi voti per essere la pace della Germania trionfante. Nulla di tutto ciò, per allora: ché anzi dal settembre del ’70 alla primavera del ’71, le inquietudini crescevano di fronte alle esigenze di pace del Bismarck445 . Se pur si fosse voluto ricorrere ai trattati del 1814-15, non si trovava nulla che potesse essere paragonato alla attuale richiesta tedesca dell’Alsazia-Lorena446 ; nulla, s’intende, ai danni di una grande potenza vinta, com’era stata, anche allora, la Francia, ché, per quanto concerne gli scambi di territori o le annessioni ai danni di piccoli paesi, in vista del generale equilibrio europeo, e cioè per quanto concerne le sistemazioni territoriali in Italia e in Germania, le transazioni avvenute a Vienna erano rientrate perfettamente nella mentalità e nel clima morale dell’epoca, senza che nessuno in Europa se ne fosse troppo stupito447 .

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Solo più tardi, nel pieno affermarsi dell’idea di nazionalità, si sarebbe sentita come ingiustizia e sopraffazione l’opera dei diplomatici di Vienna, in alcune parti d’Europa: e a distruggere l’ingiustizia sarebbe stata rivolta l’azione dei patrioti. Ma coloro stessi i quali avevano, per decenni, combattuto Metternich e il suo sistema, cercando di dar fuoco alle polveri in Italia come in Ungheria e in Polonia, avevano sempre legittimato la loro azione sulla base del principio di nazionalità e di autodecisione dei popoli: dunque, non «conquista», nel senso imperialistico della parola, era la loro, sì distruzione di ingiuste conquiste del passato, restituzione dei suoi diritti a chi n’era stato un giorno privato con la violenza. Tant’è che il vittorioso epilogo del movimento nazionale italiano, e la Lombardia e la Venezia strappate ad una delle grandi potenze europee, non erano sembrate «conquiste» nemmeno ai più accaniti nemici dell’idea unitaria italiana. Si poteva deplorare il fatto, come lo deploravano i reazionari e i clericali di tutta Europa; si poteva bene vedere in esso la vittoria di un principio pericolosissimo per la quiete generale, quello della rivoluzione interna contro l’ordine costituito: non si poteva affermare – e nessuno affermò, ché sarebbe stato sovranamente ridicolo – che Cavour Mazzini Garibaldi significassero una ripresa dello spirito di «conquista», un riavvampare di aspirazioni egemoniche sul continente. Il Risorgimento italiano appariva pericoloso come forza rivoluzionaria, come lievito che correva il rischio non solo di alterare lo stato di cose territoriali in Italia, bensì, traboccando oltr’Alpe, tutto quanto l’ordre social europeo, secondo le fosche previsioni metternichiane, e cioè di alterare in senso liberale la vecchia Europa ancora reazionaria, con una conversione del principio di nazionalità in liberalismo448 . Ma l’equilibrio europeo, la pace generale del continente, il movimento nazionale italiano di per sé non li minacciava: troppo impari le forze. Una mi-

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naccia all’equilibrio generale poteva venire solo per il fatto che un’altra grande potenza cercasse di sfruttare il movimento italiano ai propri fini, scacciando l’Austria dalla penisola per stabilirvi la propria egemonia: e così s’era temuto a Londra e a Berlino449 , non meno che a Vienna, di fronte all’alleanza franco-piemontese. Ma Villafranca egli eventi successivi, soprattutto la questione romana che s’era interposta, come una muraglia, tra le aspirazioni italiane e la politica napoleonica, avevano ridato tranquillità all’Europa: non dalla valle del Po sarebbero venuti i pericoli gravi per l’equilibrio europeo450 . Preso in sé, e a prescindere dunque dall’alleanza del governo piemontese con la Francia napoleonica, il movimento nazionale italiano aveva potuto suscitare allarmi perché di origine rivoluzionaria, quell’origine di cui il Cavour per l’appunto cercava di avvalersi onde strappare il consenso delle grandi potenze alla sua azione di «ordine»; era sembrato pericoloso, per quel suo appellarsi all’autodecisione dei popoli, e così alle costituenti e, fin ad opera della monarchia sabauda, ai plebisciti: non era, né avrebbe mai potuto sembrare propriamente minaccioso per l’Europa intera. Ancora dopo il ’59 non s’era sentita minacciata la pace generale del continente: il ’66 aveva dimostratola moderazione bismarckiana, e una guerra così duramente combattuta, dal punto di vista militare, s’era conclusa con una pace ch’era stata veramente singolare per mitezza di condizioni451 . E poi, ancora, il ’67 e la questione del Lussemburgo e la rinunzia prussiana alla forza: tutti esempi, dunque, di temperato calcolo politico. Ora, improvvisamente, il quadro mutava totalmente. Non erano solo giornali e uomini politici italiani a chiedere che, dopo Sedan, scomparsa la causa della guerra (come molti ingenuamente ritenevano), si ponesse fine ad una lotta che appariva gigantesca; né solo in quegli ambienti ci si preoccupava degli smodati appetiti prus-

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siani. Ma, certo, in essi le preoccupazioni erano vivissime. Non più guerra di difesa, ma di offesa; non più – come nel ’59 – lotta per l’affermazione del principio di nazionalità, bensì lotta di conquista, e cioè ritorno ai tentativi egemonici alla Napoleone I. E qui cominciava a farsi luce un sentimento, assai profondo, che andava oltre il particolare del momento – condizioni di pace, ferocia bellica – per assurgere ad una valutazione d’insieme del movimento nazionale tedesco nei confronti di quello italiano. Perché, dopo tutto, si sarebbe anche potuto obbiettare agli antiprussiani d’Italia che in fondo non essi potevano biasimare nella potenza teutonica quel che avevano approvato e continuavano ad approvare un giorno nel Piemonte e ora nell’Italia unita: Bismarck faceva quel che aveva fatto Cavour; la Prussia conduceva a termine il processo unitario tedesco, così come aveva fatto il Piemonte m Italia. Ed era, infatti, l’argomentazione adoperata largamente dai filoprussiani – di destra o di sinistra che fossero – e, fuori dalla penisola, dai giornali tedeschi nelle loro polemiche con L’Opinione e La Perseveranza452 : argomentazione che gli storici hanno poi ripreso, sotto altra forma, quando hanno dissertato sull’identità di sviluppo della storia tedesca e italiana nel secolo XIX, sulle affinità sostanziali, evidenti, fra Risorgimento italiano e unificazione germanica. Senonché – obbiettavano i Dina e i Bonghi – una simile vantata affinità era puramente immaginaria, e, al massimo, si limitava al particolare, all’accessorio, lasciando sussistere una abissale diversità di sostanza. L’uno dei movimenti – il nostro – aveva nome «libertà», l’altro – il germanico – «forza»453 ; l’uno aveva fatto appello e continuava anche ora ad appellarsi alla libera espressione della volontà popolare – il plebiscito di Roma del 2 ottobre ne era la prova – l’altro rifiutava brutalmente di ascoltare la voce delle popolazioni che intendeva, per amo-

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re o per forza, inquadrare nella ferrea struttura del nuovo Reich; l’uno aveva proceduto quasi senza sangue, tra l’esultanza delle popolazioni454 , l’altro bombardava Strasburgo e Parigi, e conduceva una guerra, ormai senza fini legittimi, con un’ostinazione degna della più selvaggia delle tribù africane455 ; l’uno schiudeva le porte ben grandi dell’avvenire, l’altro significava il brutale ritorno al diritto del più forte, all’idea originaria di «conquista», giusta l’indole della gente germanica «lenta, ma persistente ad invadere sull’altrui»456 . Diversissimi i fondamenti e diversissimo il modo di attuazione dei due movimenti: in Italia all’unità di tradizione, di storia, di lingua, alla precisa delimitazione del territorio, alla natura degli stati in cui si divideva, s’era aggiunto «il sentimento attuale, la coscienza reale della nazione a cui appartenevamo tutti, sentimento e coscienza attestati dalle votazioni popolari, che ... sono state ne’ plebisciti il fondamento e la ragione della costituzione d’Italia». Il surrogare a questi quattro elementi veri e concreti, il solo elemento astratto, incerto, vago, antico dell’unità di linguaggio, torna al convertire una questione politica in speculazioni d’archeologia e di filologia, e il consegnare l’Europa alle passioni, che si coprono sotto di esse. Intendiamo, che a quel tanto di saldezza che manca al fondamento dell’unità del linguaggio i Tedeschi dicono di poter supplire ... col più solido degli argomenti, cioè dire, colla forza. Ma se è questo il mezzo, noi usciamo da tutte quante le norme e le ragioni del diritto moderno, e risaliamo a quel diritto di conquista, del quale ci pareva che cotesta civiltà nostra oramai arrossisse; diritto di conquista, che bisogna allora accettare in tutta la nudità sua, e non isforzarsi di covrirlo con quel velo d’una parentela primigenia, che non ne scema punto il danno e l’onta ne’ popoli su’ quali è esercitato, nell’ora che la mano s’estende sovra di essi, straniera e nemica, poi-

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ché sono immemori de’ tempi nei quali si presume che fosse di fratelli e di consanguinei». In Italia, il plebiscito; in Germania, il rifiuto del plebiscito allo Schleswig. Né certo Bismarck interrogherebbe più volentieri la popolazione polacca della Posnania, alla quale non serve parlar slavo «poiché gl’interessi dello Stato Prussiano impediscono che qui abbia riguardo alla diversità del linguaggio, come al contrario richiedono, che non consideri se non l’unità del linguaggio nell’Alsazia e nella Lorena che vuole strappare alla Francia. In questo è davvero la differenza principale, sostanziale, tra il modo in cui la nazione italiana s’è formata, e quello, in cui, secondo la passione dell’erudizione germanica, s’avrebbe a fermare la tedesca. L’italiana ha cercato nel sentimento attuale, reale dei limiti suoi secondo traspariva dalla coscienza de’ popoli, il titolo suo; la tedesca non lo cerca soltanto in questo, non lo trova principalmente in questo, ma risale a’ tempi e a’ criteri, che più le giovano ad estendersi da ogni parte con scapito ed urto di più d’uno degli Stati d’Europa. Dalla qual differenza deriva, che come l’italiana ha potuto dire ed affermare di sé, ch’essa era augurio di pace e di concordia in Europa, così la tedesca, se non trova un freno in sé od in altrui, dovrà riconoscere, ch’essa è augurio di guerra e di commozione duratura». E in questo diverso orientamento l’Italia aveva dimostrato «di possedere assai più di quel senno e di quel senso reale delle cose e dell’avvenire, ch’è il frutto delle vecchie culture, già posate da gran tempo, e distillatesi da gran tempo nell’animo dei popoli»457 . La Riforma crispina cominciava ad accettare un concetto di nazione estraneo alla tradizione comune italiana, e già modellantesi invece su idee e pensieri di stampo germanico; gli organi della Destra reagivano con estrema energia e talora anche – come nell’impetuoso Bonghi – con violenza di linguaggio singolare, contrapponendo,

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netta, l’idea italiana di nazione e diritti nazionali al modo di pensare germanico. Spontaneità, ed essenzialmente «volontà» di essere uniti; dunque, ancora e sempre, come nel Mazzini, assoluta primazia del fattore morale-spirituale. Noi Italiani, affermava il Bonghi, amicissimi del principio di nazionalità, siamo sgomenti nel vedere qual concetto falso se ne siano formato i Tedeschi. Per noi, appartengono ad una nazione «tutti i popoli i quali nella loro coscienza sentono d’appartenervi», e riteniamo ingiusto voler con la forza l’unione ad uno stato di genti «le quali non si credono, non si sentono intimamente collegate in un vincolo nazionale». I Tedeschi, invece, cercano i limiti di una nazione nella storia passata e nei destini avvenire: ora, nel passato ognuno cerca quel che più lusinga la sua ambizione; e per l’avvenire, ciascuno si ferma a quelle combinazioni di territori da’ quali spera maggior utilità politica ed economica. In tal modo, mentre il principio di nazione doveva esser pegno di un assetto tranquillo e pacifico, diventerà l’inizio di una guerra lunga e crudele fra i popoli458 . Questo il succo della dottrina italiana, concordi essendo in ciò rivoluzionari e moderati, ad eccezione del Durando e della sua teoria della nazionalità geo-strategica, dipendente cioè dalla natura del terreno459 : ed è strano che della sua profonda diversità da quella germanica, in cui sempre più il fattore «nazionalità-natura» emergeva sull’altro «nazionalità-volontà», non si accorgesse proprio il codificatore italiano del diritto della nazionalità, il Mancini. La polemica si accendeva così, asperrima, circa l’Alsazia: francese di animo, e quindi non appetibile dal Bismarck e dallo Stato Maggiore prussiano, dicevano i nostri; tedesca di razza e linguaggio, ergo – per quel tale imperativo a priori della nazionalità, di cui La Riforma si faceva così brillante difenditrice in Italia – ergo tedesca anche politicamente, piacesse o no agli abitanti di Stra-

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sburgo e Mulhouse, ribattevano i polemisti germanici. Il carattere «intimo» delle due regioni era perfettamente tedesco, diceva il Gervinus al Gregorovius 439, per conto suo convinto della naturalità tedesca dell’Alsazia; non era conquista, sì rivendicazione, retroazione, diceva quel grand’uomo del Mommsen, dopo aver ammesso che, certo, «ogni conquista è delitto di lesa nazionalità, e chi calca a’ piedi un popolo gli offende tutti»: ma anche lui doveva consentire che il processo di transizione sarebbe stato «duro e lungo» e che durante tale processo gli Alsaziani sarebbero stati Tedeschi più di nome che di realtà ... , consentendo cioè che l’animo di tali Tedeschi di razza e di lingua non era precisamente tedesco460 . Appunto per questo, rispondevano i nostri, è conquista, quando non si ha rispetto al desiderio delle popolazioni; e cercare di camuffare l’una con l’altro, diritto della forza e idea di nazionalità, era, semmai, triste indizio di quale scadimento di senso morale la guerra già fosse stata foriera, presso i Tedeschi461 . Il diritto di nazionalità, c’era: ma a favore della Francia, non della Germania462 . Più schietto almeno, quell’altro gran dotto dello Strauss, il quale, dimentico dei Vangeli e della vita di Gesù, anzi rivivendo l’Arminio caro al suo nuovo eroe, Ulrico di Hutten, volle dire anch’egli la sua parola sulla politica del giorno, e affermò chiaro e tondo che l’Alsazia e la Lorena la Germania doveva tenersele, come vincitrice, per la propria «sicurezza». La tesi del suo illustre collega di studi, ma francese, Renan, sui vantaggi per la Germania stessa e per l’Europa di una pace che lasciasse alla Francia le due province e sui pericoli della soluzione annessionistica, veniva rifiutata dal professore germanico, che già attorno al 1866 si era fatto beffe dei progetti dei pacifisti ed era venuto fuori col paragone tra guerra e temporale, necessari perché purificano l’atmosfera463 , e che ora ribatteva non giovare alla Germania i riguar-

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di per la Francia, ma giovarle bensì il dettare la pace come vincitrice, in guisa da chiuder bene l’uscio di casa tedesco, fra Basilea e il Lussemburgo464 . Né diversamente opinava un terzo, illustre storico, il nazional-liberale von Sybel, il quale, nelle colonne della Kölnische Zeitung, constatando anch’egli come non fosse facile ridur di nuovo Tedeschi gli Alsaziani, dati i loro sentituenti, chiedeva l’Alsazia e la Lorena tedesca, con il distretto di Metz, rifiutando i consigli di coloro che, all’estero, propugnavano la pace disinteressata per ingraziarsi il popolo francese e porre così le basi di una pace duratura: «sarebbe più che leggerezza se fondassimo la nostra sicurezza avvenire sulla riconoscenza della Francia e non unicamente ed esclusivamente sulla nostra forza propria»465 . Non poteva, naturalmente, esprimere direttamente e chiaramente un pensiero polemico il ministro responsabile della politica estera italiana: ma anche il Visconti Venosta, pur nella forma prudente e impersonale, pur con solo riferimento diretto alla questione romana, ripeteva il pensiero ispiratore che i polemisti della Destra seguivano nella discussione sulla pace e sui rapporti franco-tedeschi, quando, nel suo discorso di Milano del 9 novembre 1870, insisteva sul valore delle «forze morali»466 : contro coloro che credevano sommo liberalismo in politica estera non tener conto dell’opinione europea, il valtellinese si appellava al grande esemplo del conte di Cavour, uno dei cui meriti – e non il minore – era certo quello di aver dato al nostro Risorgimento la tradizione, sinceramente liberale, di una politica sempre intenta a procurarsi l’appoggio delle grandi forze morali dell’opinione. Certo, era possibile rompere «il vincolo di questa potenza morale» con un appello puro e semplice alla forza, la quale semplifica molte questioni nei rapporti internazionali: ma con quali risultati? Anche per bocca del Visconti Venosta, diplomatico tutto sfumature e

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finezze, ma uomo dalla solida tempra morale, incrollabile nella sua fede nella libertà e perciò così poco gradito al signore di Bismarck, anche per bocca del Visconti Venosta veniva dunque pubblicamente riaffermata la tradizione italiana delle forze morali, proprio mentre l’Europa assisteva al trionfare orgoglioso della forza armata. L’idea italiana – continuerà, pochi mesi appresso, il Bonghi in un saggio famoso sul bismarckismo – fondata sulla «interrogazione della coscienza attuale de’ popoli», apriva un’aurora di pace e di giustizia nell’Europa; e se, di colpo, l’idea della forza, che per cinquant’anni l’Europa aveva cercato di assoggettare all’idea del diritto, tornava a rizzarsi innanzi agli illusi, con la beffa sulle labbra, se il nuovo sistema prendeva nome dal ferro e dal fuoco, quest’era l’opera delconte di Bismarck, l’uomo che giocherellava coi princìpi, e, con lui, del suo popolo, un popolo litigioso, cocciuto e invadente più di ogni altro, un popolo che legge più e meglio degli altri, ma senza che dalla cima dell’intelletto alcuna luce gli soglia discendere nell’animo467 . Spogliata del fervore polemico, che accentuava soverchiamente e poneva contrasti troppo crudi e semplificava, schematizzando, mentre né di prove di pura forza era stato privo il movimento italiano, né certo vuoto di conforti ideali era il movimento tedesco anche nella sua fase bismarckiana, spogliata di quegli eccessi e presa nel suo nocciolo sostanziale, la tesi dei Bonghi, dei Dina, dei Bon Compagni, a cui accedeva il ministro degli Esteri in persona, era vera e coglieva il fondo delle cose assai più di quanto non l’abbiano, di poi, colto gli sforzi di storici che hanno voluto affaticarsi a mettere in luce le affnità dei due grandi movimenti europei del sec. XIX. Come questi italiani avevano ragione nel predire che da un trattato come quello imposto alla Francia non poteva uscire una vera pace, sl solo una tregua, e ben armata, destinata a preparare un nuovo, più tremen-

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do conflitto468 ; come essi consideravano giustamente un funesto errore l’incorporazione dell’Alsazia-Lorena nel nuovo impero469 , un errore la cui conseguenza sarebbe stata un’Europa in continua, diffidente veglia d’armi prima, e poi un’Europa dilacerantesi in una tragica lotta – e lo storico di oggi non può che confermare quel modo di vedere espresso ancora nei giorni della mischia470 così il giudizio sulla sostanziale diversità fra Risorgimento italiano e Risorgimento germanico, nella loro fase risolutiva, coglieva anche esso nel segno. Sin dall’inizio, era stato percepibilissimo un differente orientamento di pensiero di fronte ai problemi «nazione e missione nazionale», da una parte già trapelando la infrenàbile tendenza a trasferire l’elemento determinante della nazionalità fuori dalla volontà dell’uomo, in un a priori naturalistico, da cui più tardi si sarebbe fatalmente svolta in pieno l’idea di razza condizionante ex-initio la vita di un popolo471 ; mentre dall’altra parte, già col Foscolo e col Cuoco, si insisteva sul fattore volontà, quindi educazione, il motivo dominante poi della predicazione mazziniana. Nel successivo svolgersi degli eventi quella differenziazione ideologica s’era per così dire incarnata nella diversità di forme e di modi attraverso cui i due movimenti erano giunti al successo. Tutto serrato attorno all’iniziativa statale, monarchica, l’uno: il fallimento dell’iniziativa rivoluzionaria del ’48 era stato qui, vetamente, totale, come che essa non avesse lasciato dietro a sé più alcun residuo capace di una qualche azione, anzi legittimasse, con i suoi «errori», l’appello alla pura forza. Col sangue e col ferro aveva detto Bismarck, contrapponendo l’uno e l’altro ai discorsi e alle decisioni di maggioranza stile ’48: la Germania guarda non al liberalismo della Prussia, ma alla sua potenza472 . L’unità deve essere creata non dalla libertà, non da decisioni nazionali, ma dalla potenza di uno Stato contro altri Stati: è un problema di politica estera, aveva ammonito il Droysen, ri-

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credutosi – molto ricredutosi – dei suoi ideali del ’48473 . Scisso invece il movimento italiano in due forze, ben diverse inizialmente e non sempre né bene fuse nemmeno di poi: l’iniziativa rivoluzionaria e quella regia, il repubblicanesimo mazziniano e il sabaudismo del Cavour; vittoriosa sì la seconda, dopo essersi accortamente giovata della prima, ma non al punto da non lasciare più scorgere le due diverse origini, e soprattutto costretta, anch’essa, ad accettare molte delle idee e de: sentimenti dei rivoluzionari. Il Piemonte sabaudo aveva potuto assumere e mantenere l’iniziativa solo accettando, sia pure entro certi limiti e con alcune riserve, le idealità che, prima, la propaganda mazziniana aveva piantato nel cuore degli Italiani, e anzitutto l’ideale dell’indipendenza e dell’unità; la Prussia bismarckiana non accettava un bel nulla dai «faziosi», né mutava interiormente volto, com’era successo invece al Piemonte, da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele II. La Prussia di Guglielmo I compiva la sua opera, fra il ’64 e il ’70, rifiutando qualsiasi connessione con gli uomini del ’48; il Piemonte di Vittorio Emanuele II aveva compiuto la sua, fra il ’59 e il ’61, sviluppando anzi dallo Statuto il regime parlamentare, accettando e ricercando la collaborazione di Garibaldi, sotto la guida di un primo ministro come il Cavour che dell’esigenza della libertà politica aveva fatto la sua fede, prima come dopo il ’48, e tale esigenza manteneva inalterata pur ricorrendo poi, com’era ovvio, alla manovra diplomatica e alla forza per sciogliere i nodi. E, senza dubbio, era stata, questa, anche una necessaria conseguenza della assai minor potenza militare e politica del Piemonte, che da solo era stato vinto a Novara, rispetto alla Prussia, subito vittoriosa: ma la conseguenza n’era bene, che il primo s’era valso larghissimamente di quelle armi morali che la seconda spesso e volentieri amava disdegnare, e aveva fatto appello all’opinione pubblica in una misura di cui l’altra non s’era mai so-

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gnata. La stessa diversità, fisica e morale, tra i due condottieri, tra il piccolo rotondetto vivace e allegro Cavour, e il gigantesco quadrato duro irritabile Bismarck, poteva acquistare valore simbolico delle diversità fra i metodi di azione e lo spirito dell’azione stessa. All’uno, profondamente liberale, era stato necessario il plebiscito; l’altro, disposto a servirsi delle idee e dei movimenti liberali solo in quanto giovassero, in un determinato momento, ai suoi calcoli politici, andava avanti con folgoranti vittorie e costringendo alla resa intere armate nemiche. Da una parte, la forza, che da mezzo finiva, come suole, col divenir ideale; dall’altro il ripudio della forza in sé, come quella che troppo a lungo aveva soffocato la libera espressione della vita nazionale474 . L’identificazione fra nazione e libertà operatasi nel Risorgimento e l’alta spiritualità dell’idea di nazione traevano come conseguenza che il principio di nazionalità avesse, per gli Italiani, valore universale, non limitato alla propria terra, sì abbracciante tutte le contrade dove gemevano popoli oppressi: con molta maggior passione, certo, nella predicazione mazziniana, che di tale universalità s’era fatta banditrice, da questa appunto attingendo la sua forza rivoluzionaria; ma con indubbi riconoscimenti da parte di quelli che mazziniani e rivoluzionari non erano, e tuttavia credevano nella nazione libera, ovunque si trovasse, anche se non intendessero poi, praticamente, buttarsi allo sbaraglio per gli altri. Il movimento italiano poté così facilmente collegarsi con analoghi movimenti o tendenze; né fu il solo Mazzini a cercar di unire strettamente Italiani e Ungheresi e Slavi del sud e Polacchi, ma fu, talora, la stessa diplomazia regia, da lui riprendendo anche in questo caso idee e concepimenti, e sia pur commisurandoli più parsimoniosamente alle necessità tattiche della lotta. Dal che poi nacque quella tipica espressione generosa del Risorgimento, che fu il volontarismo anche a pro delle cause altrui; e molti,

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noti e meno noti, andarono a combattere e a morire per la libertà e l’indipendenza di altre patrie, fedeli al motto mazziniano di amar la propria patria perché si amavano tutte le patrie: gran cosa, questa, che avvolge in una calda commozione umana i fatti del Risorgimento, e che giustamente l’anima popolare riconobbe ed esaltò nella figura di Garibaldi, e consacrò nell’appellativo di eroe dei due mondi. Mentre, per contrasto, tenaci e forti nel cercar di attuare l’ideale della nazione germanica, i Tedeschi rimasero, in stragrande maggioranza, indifferenti, quando non ostili di fronte alle altrui cause nazionali: e se ne eran dovuti accorgere proprio gli Italiani, nel ’48, quando nell’Assemblea stessa di Francoforte s’era dichiarata la necessità della linea del Mincio per la difesa della Confederazione475 . Lo aveva riconosciuto, in un momento critico, nel dicembre del ’58, proprio il de Launay, il gran filogermanico del ’70: «I Prussiani sono appassionati seguaci del principio di nazionalità solo in casa proria ... Si ricordi l’atteggiamento del Parlamento di Francoforte nel 1848-’49, che proclamando altamente i diritti delle nationalità, si guardava bene dall’applicarli ai Polacchi ed ai Boemi, e non aveva una parola per il movimento dell’indipendenza italiana, applaudendo invece alla tesi dei circoli militari, della necessità della linea del Mincio per la difesa della confederazione»476 . E poi il ’59, che aveva visto, sì, alcuni calorosi consensi alla causa italiana, e quello soprattutto del Lassalle – cioè di un rivoluzionario – ma assai più frequenti ostilità, nella stampa come nella pubblicistica477 . Certo, dalla tanto più popolosa e bellicosa Germania non mossero giovani a combattere per la libertà l’indipendenza di estranee contrade; caddero, quelli che dovettero cadere, per la propria, non per l’altrui causa, e alla nazione che ebbe Moltke mancò Garibaldi.

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Che cosa sarebbe stata Giovanna d’Arco fuori di Francia, si chiedeva il Treitschke, tipico rappresentante di questo patriottismo tedesco? Una sciocca edicola. E così Garibaldi, uno di quegli uomini «mit grossem Herzen und leeren Kopfe», la cui forza sta soltanto nella fedeltà all’idea che li infiamma: infedeli all’idea, essi appaiono deboli ed insensati478 . Né il Treitschke sospettava, neppur di lontano, che proprio per esser fedele alla sua idea Garibaldi combatteva in terra di Francia. Potente, ma chiusa in sé, l’idea di nazione germanica visse come idea germanica, tanto da finir appunto per apparire, ai moderati italiani, ormai confusa con il rinascente spirito di conquista. Ma non la sola idea di nazionalità, quale l’intendeva la tradizione italiana, veniva in contrasto con le richieste e le affermazioni politico-ideologiche della Germania vittoriosa. Le preoccupazioni dei Dina, Bonghi, Bon Compagni e – nella sfera dei politici responsabili – dei Visconti Venosta e dei Nigra, non erano infatti esclusivamente preoccupazioni di italiani, che avvertivano il profondo divario tra la propria e l’altrui ideologia, sì anche preoccupazioni di europei che vedevano infranta la base su cui riposava la tranquillità del continente e la sua civiltà, il diritto della forza, il principio della «conquista», quali si venivano attuando ad opera delle armate del Moltke e dalla politica del Bismarck, erano un colpo diretto all’equilibrio europeo, alla «società»europea, alla comunità degli stati, senza di cui non era possibile pensare ad una vita ordinata delle nazioni, ma si rischiava di tornare all’età delle invasioni, degli sconvolgimenti generali. La guerra franco-prussiana lascia in pessime condizioni «questa fabbrica scossa e mezzo diruta di tutta Europa»479 : e il male è stato enormemente aggravato, anzi è divenuto propriamente tale per l’ignavia delle grandi potenze e la loro incapacità a farsi ascoltare in un conflitto che, coinvolgendo gli interessi generali, interessando

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tutto quanto «le corps politique de l’Europe», avrebbe dovuto essere frenato e composto per tempo dall’intervento collettivo480 . Nulla invece ha funzionato: e come sono rimasti assenti i princìpi di umanità e di generosità politica, così è miseramente fallito, alla prova, il concerto europeo, quello che mezzo secolo di esperienza, dalla pace di Vienna in poi, aveva costituito come un anfizionato europeo481 . L’Europa ha dato prova di uno spensierato egoismo, di fronte alle vicende di una guerra in cui erano pure impegnati i suoi vitali interessi482 . Colpa massima dell’Inghilterra, dimentica delle tradizioni gloriose di Palmerston, chiusasi, col Gladstone, nel suo splendido isolamento, insensibile – pareva – al rapido decrescere della sua influenza nella vita internazionale e paga della sua prosperità interna, delle sue manifatture e commerci e della sua libera vita interiore483 , impegnata in una politica «mezzo mistica e mezzo mercantile» che, alla lunga, avrebbe finito con lo spogliare il carattere inglese di ogni vigore e il nome inglese di ogni prestigio. L’effacement of England, che parecchi degli stessi scrittori e politici britannici deploravano484 , era la causa prima dell’effacement of Europe. Ma colpa anche delle altre potenze, non esclusa l’Italia: incapacità, ignavia, cui particolari condizioni potevano parzialmente scusare, non giustificare compiutamente. Erano preoccupazioni gravi, frammiste a sdegno per la prepotenza del vincitore e la passività complice degli altri; e ne derivavano i progetti di far intervenire i neutri, allo scopo di por fine alla guerra, e le richiese di una politica più energica, del genere di quella che il 1° ottobre del ’70 il Nigra, da Tours, rivolgeva al Visconti Venosta: «... non posso dispensarmi dal parteciparvi le gravi preoccupazioni che desta in me lo stato presente di cose in Francia ed in Europa. Parmi che sia pur giunto il tempo in cui le potenze neutre si concertino per tentare seriamente di por fine a questa guerra sciagurata e mici-

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diale. La Francia ebbe la grave colpa della rottura della pace; ebbe quella egualmente grave di lasciarsi vincere. Che debba subire la pena dell’una e dell’altra, nessuno lo contesta. Ma est modus in rebus. Anche la vittoria ha i suoi limiti. La Prussia ha certamente diritto a premunirsi contro attacchi futuri. Ma per ciò è veramente necessario che si pigli l’Alsazia e la Lorena? È necessario, è utile alla Prussia stessa ed all’Europa che si crei una nuova questione di nazionalità sulla riva sinistra del Reno e sulla Mosella? Non sarebbe sufficiente guarentigia alla Germania, oramai unita e formidabilmente organizzata per la guerra, lo smantellamento delle fortezze francesi dell’Est? Sembra a me che l’Europa non si mostra abbastanza previdente, e che va preparando a sé stessa colla sua indifferenza un avvenire pieno di pericoli e di inquietudini. Né posso ammettere in nessuna guisa che la Prussia venga a dire alle potenze neutre: «Voi non avete preso parte alla guerra, dunque non avete diritto a pigliar parte alla pace». Questa massima è contraria agli interessi dell’equilibrio europeo, è contraria all’umanità, è contraria al principio della localizzazione e della limitazione delle guerre. E d’altra parte essa tenderebbe a favorire le coalizioni armate ...»485 . Mesi più tardi, lo ripeteva Anselmo Guerrieri Gonzaga anch’egli rivolgendosi al ministro degli Esteri: «Tutte le previsioni furono sorpassate. Le condizioni tutelati dell’equilibrio europeo che la Lega dei neutri doveva proteggere dove sono? Erano queste insieme ai princìpi di nazionalità e di libertà che noi dovevamo sostenere d’accordo coll’Inghilterra ... Non sarebbe almeno il caso di disdire il famoso obbligo che ci siamo assunti coll’Inghilterra e riprendere ognuno la nostra libertà d’azione? Almeno non avremo l’aria di essere compari di una politica alla quale non ho ancora trovato un epiteto conveniente volendo che sia tale. Le giornate di Parigi mi fischian terribilmente negli orecchi»486 .

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Certamente, in queste e simili idee affiorava anche l’intento per così dire polemico, l’intento, cioè, da parte degli amici della Francia, di smuovere i governi dalla loro inazione rappresentando sotto colori assai foschi l’avvenire: più o meno coscientemente, chi gridava esser l’Europa minacciata obbediva anche – com’è ovvio – alle sue affezioni, a quel che gli sgorgava dal profondo dell’animo di sentimenti e di ricordi, obbediva insomma anche ad un motivo sentimentale e ad un’inclinazione di parte. Ed era infatti di argomenti di cotal genere che si avvaleva la propaganda francese, per fioca che allora si fosse la sua voce; era ad un ragionamento del tutto analogo che si affidavano scrittori e governo francesi, nel loro disperato sforzo di trovar aiuto alla patria devastata487 . Soprattutto, le preoccupazioni per l’equilibrio europeo sconvolto derivavano ovviamente dal fatto che si temeva e si giudicava dannoso per l’Italia un tale sconvolgimento488 . Saltava il perno della politica estera dell’Italia, da dodici anni, un perno che, nonostante Mentana, aveva pure consentito grandi vantaggi al Regno; e ci si trovava di fronte un uomo, il Bismarck, la cui politica, fra il settembre del ’70 e il marzo del ’71, era tutt’altro che rassicurante per l’Italia, proprio nella questione per essa più viva, la questione di Roma, fra i clamori dei clericali e dei circoli vaticani che sembravano talora vaticinare nel protestante Guglielmo I il salvatore, il nuovo presidio contro l’usurpazione sabauda. Ovvio, pertanto, che negli ambienti di governo e in quelli vicini e amici al governo, l’alterazione dell’equilibrio europeo sembrasse grave di minaccia per l’Italia. Era un po’ anche il disorientamento di chi vede mutar tutto l’ambiente in cui era avvezzo a muoversi, e deve, ora, crearsi una nuova linea di condotta diversa dalla precedente: fatto tanto più grave, per i moderati, perché, significava non poter più fare affidamento, ormai, sulla sola esperienza cavouriana, non aver più come stella polare, a circostan-

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ze troppo mutate, l’insegnamento del gran conte – quinto Vangelo per i moderati, loro conforto e ausilio in tutte le grandi questioni, fosse la politica estera, fosse Roma capitale, fosse libera Chiesa in libero Stato. Ora, bisognava crear qualcosa di nuovo, assumere atteggiamenti, orientarsi senza più poter ricorrere ai consigli di quella antica genialità489 . Ma, al disopra del motivo puramente emotivo e passionale, e allacciata con le preoccupazioni dirette per il proprio paese, c’era, in questi uomini, tutta una parte del proprio modo di essere e di pensare, tutto un programma politico-ideologico ad essere urtato, ferito dalla «conquista»: ed era, per l’appunto, la coscienza «europea» dei moderati. Per quanto forte fosse l’idea nazionale, non lo era ancora tanto da sommergere ogni altro pensiero, da soffocare l’aspirazione ad una comunità più ampia, dove le singole nazioni, mantenendo ben netta, intatta la propria fisionomia, politica e morale, vivessero tuttavia una vita resa comune da alcuni princìpi generali, e meglio che da princìpi teorici da una certa uniformità di criteri generali d’azione. L’idea di nazione, a cui quegli uomini si appellavano, non era ancora il nazionalismo, non si era ancora dilatata fuor di misura, facendo il deserto attorno a sé e proponendo, glorificando la lotta per la lotta, la conquista per la conquista come il supremo degli ideali. All’idea di nazione restava tuttora indissolubilmente congiunta l’idea del «consorzio europeo»; né solo nella tendenzafilo-francese e negli uomini di Destra, sì anche in uomini di diverso atteggiamento, primo fra tutti il Marselli, uomo di centro e assai simpatizzante per la Germania, per il quale pure «il principio di nazionalità va sposato con quello di equilibrio» inteso come legge di conservazione generale, e il diritto nazionale non poteva essere affermato che armonizzandolo con quello europeo, con quello dell’umanità; per il quale gli eventi

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andavano giudicati da italiani sì, ma anche da europei490 . E l’interesse dell’Europa poteva, anzi doveva imporre, eventualmente, i limiti all’interesse della singola nazione. Affermare, sì, il principio di nazionalità, per cui il principio dell’equilibrio non ritornava «colle antiche vesti, ma rinnovato dal connubio» con il diritto delle nazioni: e però sfuggire alla licenza e alla tirannide di quello stesso principio. Davanti ai problemi che solleva l’unificazione germanica, scrivevano i moderati, «noi – fautori costanti del principio di nazionalità – restiamo perplessi davanti a codesta esagerazione di esso, e pensiamo che, come nella vita privata nessuno può ingrandirsi a danno degli altri, così più ancora nel concerto delle nazioni non deve essere lecito ad una di esse ottenere un allargamento, che pregiudichi la sicurezza delle altre, e sia necessario, se si vuol mantenere l’equilibrio delle forze e scemare le occasioni di guerra, che ciascuna nazione venga posta in condizioni di poter vivere e mantenere il suo»491 . Quest’era tanto più necessario con una Germania la quale, appena potente, sempre s’era vista avviata a espandersi sull’altrui, senza conoscer confini, e, con le sue dottrine sulla nazione naturale, per ora si fermava al fattore lingua, predicando che la patria abbracciava tutti i paesi ove suonasse parola tedesca, ma tosto, raggiunti i confini di lingua, si sarebbe sentita spronata a cercar un’altra sorta di frontiere, le frontiere «naturali»; onde l’unità germanica avrebbe potuto minacciare la libertà dell’Olanda e della Danimarca, la sicurezza dell’Austria, l’indipendenza dell’Italia492 . Ma anche a prescindere dal caso specifico, e più grave, della Germania, occorreva porre dei limiti precisi al dispiegamento del principio di nazionalità, che come ogni altro principio umano, traeva con sé effetti buoni, ma anche parecchi effetti cattivi, e in certe situazioni finiva con l’eccitare «desideri, presunzioni e pregiudizi, che alzano

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una insuperabile barriera contro ogni pacifico e costante ordinamento»493 . E Gino Capponi, anch’egli perplesso e turbato di fronte alle esigenze di pace di Bismarck, recitava il mea culpa, di noi liberali, che, a forza di gridar contro alle guerre di gabinetto dell’antico regime, abbiamo fatto una bella cosa, abbiam fatto nascere le guerre di nazioni, passime fra tutte494 – riprendendo, a cose fatte, un motivo che Mirabeau aveva per primo intuito, a cose non ancora avvenute. Fin il Sella, così reciso nel sostenere il diritto delle nazioni, così italiano nel suo agire, fin il Sella riconosceva apertamente che vi erano «questioni superiori a quelle di patria e di nazionalità, le quali, come quelle del comune, della famiglia, dell’individuo, sono soltanto parte della umanità»495 . Qualche altro, facile alle effusioni sentimentali, ma patriota di non dubbia fede, alcuni anni più tardi, di fronte allo spettacolo dato dal Congresso di Berlino, condotto tra «cupi avvolgimenti» diplomatici e riconoscente solo l’impero della forza e dell’astuzia, avrebbe potuto rievocare nostalgicamente il Medioevo «più generoso, più magnanimo ... colle sue spensierate esaltazioni» con il suo senso cristiano totalmente smarrito nel secolo XIX; avrebbe potuto deplorare che l’idea angusta della nazionalità prevalesse sull’idea umana e sublime della cristianità496 , ritornando così ai sogni che già avevano ispirato a Federico Novalis, nel 1799, fra il tumultuare delle guerre, il suo inno alla cristianità medievale e il suo vaticinio della nuova cristianità. Era un avviamento caratteristico superare il mito della nazionalità come principio esclusivo della politica internazionale; era l’atteggiamento che avrebbe consentito, sul terreno pratico, gli accordi con l’Austria e la rinunzia, almeno temporanea, all’irredentismo, che avrebbe, cioè, permesso la Triplice Alleanza e lo sviluppo del-

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la politica estera italiana dal 1882 al 1914: tant’è, proprio il Marselli già proclive nel 1871 a limitare l’onnipotenza del diritto nazionale, nel 1881, propugnando l’alleanza con l’Austria e la Germania, avrebbe affermato che per l’Italia l’impero asburgico era un antemurale preziosissimo contro la possibilità di un impero tedesco sulle Alpi e a Trieste, un antemurale che occorreva sorreggere, uno Stato contrario sì al principio di nazionalità, ma non senza giovamento per la causa dell’umanità, come quello che evitava «quei contatti immediati fra grandi masse elettrizzate, che producono le più rovinose scosse della storia»497 . Certo, nemmeno ora i moderati rinnegavano la fede della loro giovinezza che continuava a imporre loro obblighi morali, anche quando si proclamasse compiuta l’Italia e si mettese perciò da canto, almeno per il momento, ogni ulteriore aspirazione su regioni italiane di lingua e di stirpe, non di governo. E sarebbe toccato allo stesso Visconti Venosta, così costante e sincero propugnatore degli «interessi generali» dell’Europa, riaffermare, in piena Camera, in un momento in cui nuovamente era un gran discorrere e disputar dei diritti delle nazioni, il rispetto de’ moderati – se non proprio più la passione – per il principio di nazionalità498 . Ma ormai era chiuso per essi il periodo rivoluzionario, finita l’età in cui «l’Italia nelle complicazioni europee vedeva e cercava l’occasione opportuna per coronare l’edificio della sua indipendenza, e della sua unità»499 , e iniziato invece il periodo nel quale occorreva anzitutto difendere gli «interessi di ordine generale»500 , secondo la formula classica della tradizione diplomatica da Metternich in poi, e ispirarsi a criteri europei e non puramente nazionali501 , sì da far apprezzare il vantaggio e l’utilità per gli interessi europei della presenza dell’Italia nel concerto delle grandi potenze502 .

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E quindi, la loro preoccupazione sarebbe stata, all’atto pratico, cercar di evitare le scosse violente, le perturbazioni belliche, per facilitare, invece, il graduale sviluppo de’ singoli movimenti nazionali, che avrebbero finito col conchiudersi felicemente, senza mettere a soqquadro il continente, conciliando così i due princìpi, della nazionalità e dell’ordine europeo503 . Politica, diciamo da riformisti e non più da rivoluzionari, qual era stata quella italiana sino al Venti Settembre; o, si potrebbe aggiungere, tentativo di applicare alle parti d’Europa ancora non libere nazionalmente, quel programma riformistico, gradualistico, prima le ferrovie, gli asili d’infanzia, le casse di risparmio, e poi la libertà politica e magari anche l’indipendenza, ma buoni buoni e non fracassando porte e finestre, che un trentennio innanzi gli stranieri avevano predicato all’Italia504 , che gli stessi moderati italiani avevano auspicato, e che l’impetuosa fiammata del ’48 con le insurrezioni di popolo aveva buttato per aria, costringendo anche i moderati e la monarchia sabauda a mettersi sulla via dell’azione diretta. Il principio di nazionalità veniva contenuto, svuotato del suo lievito rivoluzionario generale; rimaneva un altissimo ideale, ma non sempre suscettibile di pratica, immediata attuazione, un principio di grande valore morale, ma non sempre né ovunque di valore politico; si precisava nell’«irredentismo», parola di grande fortuna dopo il ’76, ma che sostituì l’altra di rivoluzione europea, e significò appunto il surrogarsi di uno specifico e ben determinato problema territoriale all’appello generale e non territorialmente limitato di prima. Anche qui, l’ideale assunse forme più corpose e definite, ma ristrette, divenne questione assai meglio disciplinabile ad opera de’ governi: e v’ebbe l’occhio, appunto, la politica ufficiale italiana, che da tali premesse lontane trasse, ancora nel 1915 e oltre, il motivo della grande guerra non dallo sfa-

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sciamento dell’impero asburgico riproposto dagli eredi di Mazzini, ma, più limitatamente, dalla liberazione di Trento e Trieste, onde poi il gran fatto della scomparsa dell’impero danubiano trovò impreparata e disorientata la maggioranza del ceto dirigente italiano. A questo punto, con simili appelli all’Europa e all’umanità, potrebbe venir fatto di pensare al Mazzini, alla connessione strettissima ch’egli aveva posto tra la nazione singola e l’umanità (e l’umanità era per lui ancora essenzialmente Europa), alla Giovine Italia e alla Giovine Europa. Ricondurre l’Italia all’Europa era stato il sogno del genovese sin dagli anni giovanili e dal saggio D’una letteratura europea505 ; risospingere innanzi l’Europa, la giovane e nuova Europa che doveva sostituirsi alla vecchia Europa agonizzante, farle riconquistare l’iniziativa, smarrita dal 1814, e con ciò dare inizio all’epoca nuova, quella sociale che portava scritto sulla sua bandiera Dio e l’umanità506 era stato il pensiero ispiratore del suo apostolato, nel periodo della sua maggiore intensità e forza507 . E dunque, potrebbe sembrar ovvio pensare anzitutto a lui, al più grande agitatore d’idee che l’Italia del Risorgimento avesse avuto, all’unica, anzi, personalità veramente europea nel campo dell’ideologia, come Cavour lo era stato nel campo dell’azione. Nulla di tutto ciò. L’appello all’Europa degli uomini della Destra non serbava nemmeno il più lontano resto del lievito rivoluzionario che era invece alla base dell’appello di Mazzini; non mirava ad un’Europa futura, recante nel suo grembo i popoli nuovi affratellati dalla generale rivoluzione, politica e morale, ma ancora e sempre guardava all’Europa quale era stata modellata da un augusto passato, da una secolare tradizione culturale, religiosa, politica, quale era stata modellata dal pensiero del Settecento e del primo Ottocento.

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È, invece, ancora l’europeismo della vecchia scuola moderata, dei Balbo e dei Durando, e dello stesso Cavour: un europeismo culturale-politico di largo orizzonte, ben nutrito di studi e, anche, di esperienze personali, tra viaggi ed amicizie, un europeismo nutrito di senso della libertà, ma senza lievito rivoluzionario. Per Mazzini, s’era trattato non solo di ricongiungere l’Italia all’Europa, sì di rivoluzionare anche l’Europa, quella attuale essendo assolutamente impari al compito, reliquia del passato, non prodromo dell’avvenire (proprio com’era l’Italia dei principi); per i moderati e per lo stesso Cavour si era trattato di innalzare l’Italia al livello dei grandi popoli occidentali, Francia e Inghilterra essenzialmente508 , non certo di mutare le basi su cui ancora era assisa la civiltà europea, perché anzi quelle basi apparivano sicurissime e necessarie. Nell’uno, l’Europa attuale doveva morire; per gli altri rappresentava il più alto fiore di civiltà, il modello verso cui innalzare anche lo spirito e la vita della nuova Italia. Mazzini aveva gridato «rivoluzionare Italia ed Europa»; i moderati avevano risposto «modifichiamo l’Italia», portandola al livello delle grandi potenze europee. L’Europa di Mazzini era un’Europa uscente dalla rivoluzione; l’Europa degli altri era l’Europa del «fuste milieu», del giusto mezzo tanto caro ai moderati d’Italia e di Francia509 . Due linguaggi profondamente diversi, di gente che non era fatta per intendersi: l’uno, sognando il rinnovamento universale delle gemi, vedendo nella rivoluzione d’Italia solo la parte di un più ampio complesso, anzi l’inizio della redenzione universale510 ; gli altri limitando le loro aspirazioni al problema italiano. Risolto questo, conseguita l’indipendenza e l’unità, con Venezia e Roma, l’europeismo di questi colti italiani diveniva un europeismo pacifico, ria conservatori e amanti dello status quo. Essi non chiedevano di buttare sossopra la casa europea: una volta sistemate le faccende nel proprio appartamen-

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to, trovavano che l’edifizio, nel suo complesso, così com’era, non meritava affatto di essere demolito, anzi era ancora bello e solido e degno di essere abitato. Qualcuno aveva fin detto, e prima ancora che lo affermasse il Balbo: proprio per tenere in piedi la casa europea, è bene si compia l’indipendenza dell’Italia, del paese che, spezzettato com’è, non serve a nulla, mentre invece, indipendente, servirebbe, in Europa, da bilancia tra Francia e Austria, e in Levante tra Russia e Austria511 . E qualche altro, come il Manzoni, anch’egli esaltante «l’animatissima e insieme pacifica prevalenza e quasi unanimità di liberi voleri», del Risorgimento italiano, contrapposto, questa volta, alla Rivoluzione francese, qualche altro osservò, a conclusione della vicenda, che «l’altre Potenze, che, quarantacinque anni prima, s’erano trovate d’accordo nel raffazzonare una divisione dell’Italia, che, nella loro sapienza, doveva essere una dalle condizioni fondamentali d’uno stabile ordine distruzione, in questa sovvertire un ordine vero, non aveva fatto altro che levar di mezzo una causa di guerre rinascenti, di vantaggi passeggieri e di disinganni costosi per alcune, e di pensieri molesti per l’altre; e si trovarono, senza saperlo, meno lontane da quell’ideale equilibrio messo in campo così spesso da loro ...»512 . Quel po’ di lievito rivoluzionario generale che poteva ancora esservi nell’europeismo dei moderati, durante gli anni della lotta, era comunque destinato a svanire come nebbia al sole non appena si fossero concretate le aspirazioni ultime: la presa di Roma chiudeva, in effetti, il ciclo, placava le aspirazioni e faceva desiderare, d’attorno a sé, lo status quo513 sì per il timore che da un rivolgimento generale europeo potessero derivare gravose incognite ai danni dell’Italia appena costituita, sì anche per l’istinto di conservazione, per la riluttanza, diremmo di temperamento, a metter per aria le cose e a provocar sconquassi generali ch’era caratteristica di quegli uomini. Ottenu-

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to il proprio scopo, ben preciso, ci si adattava volentieri alla parte dei beati possidentes, senza più poter comprendere – se mai lo si fosse potuto – l’irrequietezza e lo scontento del Mazzini, che non sembrava mai pago e quindi appariva pericoloso e «sovversivo», ora più che mai. Il principio di nazionalità era, per i moderati, nello stesso tempo «un gran principio di conservazione», e sia pure di conservazione illuminata, secondo aveva affermato lo stesso Cavour514 : conservazione interna contro i fermenti rivoluzionari, ma anche conservazione esterna, di un ordine europeo, di europeo, ebbero poi ad accorgersi che la parte, della loro grand’opera, lungi dal una «comunità europea». Forse che uno dei massimi rimproveri che gli stessi amici di Francia rivolgevano alla nazione d’oltr’Alpe non consisteva nelle troppo frequenti mutazioni di governo, nell’instabilità d’umore del popolo, nel non sapersi accontentare mai e posare, ad un certo punto, paghi dei risultati raggiunti, e quindi nell’esser causa di instabilità generale in Europa? L’idea di Europa che questi uomini difendevano era dunque sempre l’idea di quella che il Mazzini aveva chiamato la vecchia e agonizzante Europa, e che ancora il Carducci mazzinianamente condannava come marcia, marcia, marcia, putrescat et resurgat515 . «L’unità Europea come l’intese il passato è disciolta; essa giace nel sepolcro di Napoleone», aveva scritto il ligure516 , ma i Bonghi, i Dina, i Visconti Venosta, i Nigra pensavano proprio a quella che non unità, sì più propriamente andrebbe definita società, o, come si diceva, «consorzio» dell’Europa. La loro era ancora «l’Europa governativa», degenerata, dal genovese violentemente combattuta517 . Il consorzio politicamente aveva trovato le sue leggi pratiche nella dottrina dell’equilibrio e del concerto delle grandi potenze; e i due principi dovevano salvare l’Europa dalle avventure imperialistiche e dai tentativi egemonici al-

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la Napoleone I, da quei tentativi, cioè, che soffocando i singoli Stati e la vita propria dei vari popoli, avrebbero significato la morte della civiltà europea, il gran frutto che, a farlo maturare, occorrevano i molti e diversi succhi forniti dalle varie nazioni. Ed ecco allora, dietro a queste idee dei nostri uomini della Destra, apparire, lontano deux ex machina, una figura a cui essi, una volta, non avrebbero certo creduto di doversi mai avvicinare: la figura di Clemente Venceslao Lotario principe di Metternich. Già rconoscere la mitezza dei trattati di pace del 1815 in confronto a quello che il Bismarck intendeva imporre alla Francia518 , e il rinvenire in quei lontani patti «una base omogenea», di cui sarebbero invece stati preti quelli attuali519 , già siffatti accenni, che pur ricorrevano sotto la penna dei maggiori pubblicisti della Destra, erano caratteristico indice della mentalità conservatrice, dal punto di vista europeo, del nostro partito di governo. Ma sulle lontane origini metternichiane dell’europeismo politico propugnato nell’Opinione, nella Perseveranza e nella Nuova Antologia gettava luce completa, sul finire del 1871, uno degli uomini eminenti della Destra, Carlo Bon Compagni, uno dei più fidi collaboratori del Cavour520 , uomo che il 27 marzo 1861, in pieno accordo col Cavour, aveva presentato, nel giovanissimo Parlamento italiano, l’ordine del giorno che proclamava Roma capitale d’Italia. Non un codino, dunque, né, certo, un austriacante del passato. Eppure, era proprio lui a celebrare l’elogio, dal punto di vista europeo, del sistema metternichiano. L’ultima guerra, osservò egli nella IX lettera su Francia e Italia521 , ha mutato le condizioni di tutto il consorzio europeo. Che cos’è questo consorzio? «I popoli dell’Europa moderna entrano in uno stesso sistema politico, come entrano in uno stesso sistema planetario tutti i corpi celesti che girano intorno al sole.» Proprio nell’esistenza di un simile sistema è riposta la sostanziale dif-

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ferenza fra medioevo e età moderna da quando, col secolo XVI, si ebbero «le origini di un equilibrio politico ordinato a limitare la potenza di qualunque sovrano accennasse a soverchiare gli altri Stati. Oggi il sistema dell’equilibrio politico è riguardato quale un vecchiume da parecchi che sono in grande errore. Il concetto dell’equilibrio politico procede da un fatto che succede pur troppo dappertutto, e per cui suol divenire prepotente colui che è oltrepossente». Ora è vero che i vincitori del 1815 hanno assassinato l’Italia e instituita un’associazione contro la libertà. «È questa la storia della Santa Alleanza quale l’abbiamo imparata in gioventù, e pur troppo è storia vera. Ma non è storia compiuta.» I vincitori lasciavano alla Francia già napoleonica tutto quel territorio che l’aveva resa potente ai tempi della monarchia, dando prova di una moderazione, «se non singolare, certo rarissima nella storia. Per questa moderazione poteva riguardarsi come compiuta l’abolizione del diritto di conquista, promulgata dall’Assemblea costituente con dichiarazioni solenni, che rimasero parole vane». E altro beneficio arrecò la Santa Alleanza: «quello di riconoscere che, in tutte le questioni di diritto internazionale, l’interesse de’ singoli Stati deve conciliarsi coll’interesse generale dell’Europa». Le cinque grandi potenze hanno, da allora, costituito un «anfizionato europeo», la cui intromissione fu per lo più benefica, quando ebbe smesso di presentarsi quale nemico implacabile di ogni libertà; e in tal guisa l’Europa poté godere di uno dei più lunghi e benefici periodi di pace. Equilibrio europeo, sistema politico che caratterizza l’età moderna, pentarchia delle grandi potenze: come questi concetti ci riportano nell’atmosfera del 1814-15, tra Metternich e Castlereagh e Friedrich von Gentz! Espressamente, nel parlare di «sistema europeo», il Bon Compagni citava, con lo Ancillon, lo Heeren, l’autore cioè dello Handbuch der Geschichte des europäischen

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Staatensystems und seiner Kolonien, il massimo formulatore dell’idea del «sistema europeo»522 caro alla scuola di Gottinga, su cui si erano formati dottrinalmente gli uomini di stato tedeschi dell’età napoleonica e della Restaurazione, compreso lo Hardenberg, e su cui s’era formato, attraverso il Koch a Strasburgo, lo stesso Metternich: volutamente, cioè, egli accettava l’Europa cara a tutti i conservatori. Qual meraviglia, dunque, se, senza saperlo, il Bon Compagni adombrasse idee e fin si servisse di espressioni quasi identiche a quelle che ci colpiscono quando apriamo i Mémoires di Metternich: «... il n’y a plus d’État isolé ... on ne doit jamais perdre de vue la société des États ... ce qui caractérise le monde moderne, ce qui le distingue essentiellement du monde ancien, c’est la tendance des États à se rapprocher les uns des autres et à former une sorte de corps social ... La société moderne ... nous montre l’application du principe de la solidarité et de l’équilibre entre les États, et nous offre le spectacle des efforts réunis de plusieurs États pour s’opposer à la prépondérance d’un seul»523 . Anche lui, il Cancelliere tutto preso dal desiderio di ordine, aveva dovuto polemizzare contro i negatori del principio di equilibrio: «L’idée de l’équilibre politique a été souvent attaquée depuis la paix générale (1814-15) et reprochée au cabinet impérial lui-même comme une folie patronnée par lui. L’idée, comprise somme elle doit l’être, n’en est pas moins la seule juste. Le repos sans l’équilibre est une chimére»524 . O, ancora, ascoltando il Bon Compagni dissertare sull’anfizionato europeo, veniva fatto di pensare alle osservazioni del collega e amico di Metternich, il Castlereagh, sull’unione delle grandi potenze, come presupposto indispensabile della pace europea, salvaguardia sicura della libertà e tranquillità del Commonwealth of Europe525 , e a tutto quel che la prima metà dell’Ottocento europeo aveva detto e scritto sulla funzione delle grandi potenze,

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dal saggio del Ranke che trasportava il novello termine526 nel passato e faceva del concetto di grande potenza un criterio d’interpretazione della storia527 , alle annotazioni del Thouvenel, ministro francese degli Esteri, che nel 1860 precisava, con burocratica esattezza, compiti, prerogative e doveri delle grandi potenze528 . Né, certo, erano questi pensieri del solo Bon Compagni; ché da non molto diverso sentire muovevano altri rimpianti per la fine del vecchio «consorzio» politico, sorto dopo la tempesta delle guerre napoleoniche. Certo, anch’esso, aveva avuto i suoi inconvenienti; ma ora s’era giunti ad un’intera e dannosa «dissociazione» fra gli Stati: «dall’essere dispotica e perpetua la comunanza dei consigli e degl’interessi tra’ più potenti, noi siamo trapassati al negarle affatto ogni autorità, ogni possibilità d’esercitarsi; alla prepotenza unita e calma de’ molti s’è surrogata oramai la prepotenza solitaria e guerriera di quello che si trova in ogni caso il più potente»529 . E anche il Marselli se n’usciva, undici anni appresso, in considerazioni assai simili. Ché, dopo aver affermato non potersi applicare il principio del lasciar fare, lasciar passare nemmeno a proposito delle nazionalità quando la costituzione loro in imperi autonomi, ultrapossenti ed ambiziosi divenisse una minaccia per altri stati, necessari all’«organismo generale dell’Europa»; dopo aver ammesso che la politica europea della seconda metà del secolo XIX non poteva distinguersi da quella del secolo XVIII e della prima metà del XIX perché al principio dell’intervento si dovesse sostituire l’assoluta negazione di esso, ossia «l’indifferentismo delle nazioni», ma perché si dovevano restringere e in parte mutare «le regole applicative dell’intervento»: anch’egli, l’acuto storico e teorico delle istituzioni militari nella loro connessione con tutta la vita di un popolo, anch’egli ritornava al sistema metternichiano. E citava, per disteso, le celebri pagine dei Mémoires, poco prima pubblicati, dove il can-

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celliere austriaco aveva teorizzata la necessità del sistema europeo, caratteristico della società moderna di fronte a quella medievale; e annotava, sì, che «la pratica» di Metternich non spirava l’«amor cristiano» della teoria, anzi riconosceva il «diritto della conquista compiuta» e che quindi «un abisso dovrebbe separare la politica internazionale dei nostri tempi da questo metodo del cancelliere Metternich»; ma per affermare, subito dopo, la sua adesione ai princìpi europei del Metternich: «possiamo ugualmente dire che un abisso debba pure separarla dal principio della solidarietà fra gli Stati e degli sforzi riuniti di parecchi Stati per opporsi alla preponderanza di un solo, per arrestare i progressi della sua supremazia? Se così fosse, non vi sarebbe più ragione per parlare di una politica internazionale pratica, e l’Europa diventerebbe davvero un’espressione geografica». Come per il Bon Compagni, così per il Marselli la colpa della Quadruplice alleanza del 1814-15 era stata quella di aver negato ai popoli di governarsi liberamente; oggi, la solidarietà internazionale ammette «che ogni nazione abbia la libertà di costituirsi e governarsi a suo modo; ma a condizione che non diventi un elemento perturbatore del tutto sociale, un elemento minaccioso alla pace, alla libertà, all’indipendenza delle altre nazioni. In questo secondo caso anche alla costituzione di un Impero nazionale si può legalmente opporre un limite»530 . Siamo proprio, per questo lato, nel mondo caro ai conservatori europei e ai professionisti della diplomazia: un mondo che affondava le sue radici nelle lunghe discussioni secentesche e settecentesche sull’equilibrio europeo, già allora considerato come una specie di «costituzione» dell’Europa531 , ma che aveva trovato la sua inquadratura precisa, compiuta, ben rifinita in ogni parte e, soprattutto, rivolta ad uno scopo di pace generale soltanto dopo la grande tempesta napoleonica nel sistema metternichiano.

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Curioso destino, che poneva in un certo senso nella scia del cancelliere di Francesco I d’Austria uomini la cui opera era stata indirizzata a rovesciare il dominio asburgico in Italia! Curioso, se non fosse che poi, come il Metternich era stato l’esponente massimo e l’assertore più eminente di un modo generale di porre il problema politico europeo alla fine dell’avventura napoleonica, così dopo di lui la formulazione era divenuta d’uso comune, quasi proprietà collettiva dei diplomatici europei e della pubblicistica politica internazionale. Alla quale formula, senza dubbio, ci si poteva sottrarre: ma a condizione di portare la rivoluzione su piano europeo, di uscir fuori dal singolo ambito nazionale, per spaziare tra tutte le nazioni. Allora, ma soltanto allora, si potevano buttar a mare le formule dell’equilibrio, rifiutare – in omaggio al principio, morale e giuridico, della parità fra tutte le nazioni, grandi piccole, perché tutte egualmente volute da Dio – rifiutare il concetto istesso di «grande potenza», tipico del conservatorismo internazionale; come poteva fare, per l’appunto, il Mazzini, che alla Giovine Italia aveva congiunto la Giovine Europa e per il quale il nuovo «equilibrio» che si sarebbe stabilito fra le nazioni, associate per un fine comune, non doveva conservar più nulla dell’antico equilibrio fra i governi532 . Ma non i moderati! Per essi, il Risorgimento era stato ed era Italia, e Italia solo; non Italia ed Europa insieme. Assolto il compito all’interno, ci si poteva assidere, contenti, al «banchetto delle nazioni»533 , entrare nel cosiddetto concerto delle grandi potenze, ultimi per anzianità e importanza, ma insomma sempre ammessi nell’Aeropago: e nessun rimorso di coscienza avrebbe turbato i loro animi, che non s’eran mai commossi per la «Santa Alleanza dei popoli». L’Europa di Mazzini era l’Europa dei popoli; la loro, era sì, culturalmente, l’Europa dell’intelligenza, ma politicamente era ancora l’Europa dei

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governi. Né essi avrebbero mai sognato di rivoluzionare la «mente europea», ai loro occhi assai ben congegnata, laddóve proprio allora al Mazzini essa appariva «destituita di qualsiasi fede comune, di qualunque concetto di una mèta comune capace di raggiungere l’unione fra le nazioni ed assegnare a ciascuna di esse il suo compito pel bene di tutti, destituita, altresì, di qualsiasi unità di legge atta a dirigere la sua vita morale, politica ed economica»534 . Né certo si vuole qui rimproverare agli uomini della Destra di non essere stati dei mazziniani, di non aver voluto la rivoluzione generale, morale e politica, e di essersi acconciati volentieri, finita l’opera in Italia, a rientrar di buon grado nel rango dei paesi amanti dell’ordine e dello status quo. Essi assolsero la loro missione, e fu grande missione; e fu già mirabil cosa che sapessero combattere per il proprio paese senza cader nell’eccesso di non veder più che questo, senza chiudersi in una egoistica e limitata visione dei puri interessi nazionali, anzi sapessero, sempre, vedere e apprezzare e amare la grande collettività civile europea. L’ideale di Mazzini, era stato, anch’esso, un ideale dei tempi535 : anzi, lo era stato più assai dell’altro, che profondava le sue radici già lontano, nelle antiche tradizioni dell’equilibrio politico. Era sbocciato su, in piena età romantica, attorno al 1830; ed egli, sollevandolo dal piano puramente letterario in cui rimaneva, spesso, confinato dalla scapigliatura romantica536 , ne aveva fatto volontà politica, fede politica – la fede della Sinistra romantica, che adorava la propria patria ma voleva amare tutte le patrie. Ora questa fede, la fede sua e di Michelet, tramontava: dell’adorazione perla propria patria e per tutte le patrie, rimaneva semmai solo la prima. Si vuol soltanto far vedere come questo europeismo dei moderati non fosse di carattere novatore, sì conservatore, e affondasse le sue radici nel ricco humus del-

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le concezioni politiche dell’Europa della Restaurazione, e, ancor, più lontano, nel razionalismo settecentesco537 e come il Risorgimento italiano, nella sua forma vittoriosa, e cioè di stato liberale-monarchico, avesse limitato il suo forzo e l’anelito sovvertitore e rinnovatore entro i confini del proprio paese, lasciando intatta l’Europa nel suo complesso. Era, senza dubbio, quel declino della politica dei «principi», che il Mazzini aveva rinfacciato al Cavour come abbandono opportunistico, ma che era stato imposto e che continuava ad essere imposto dalla realtà delle cose e che conduceva forzatamente a scindere, ad un certo momento, politica estera e politica interna se non si voleva rischiare di fracassar tutto538 . Onde, mentre il senso della libertà restava come punto fermo incrollabile, su cui nessun compromesso era possibile, si attenuava invece il senso della nazionalità, che, a volerlo seguire sino in fondo, avrebbe fatto assumere all’Italia la parte della grande rivoluzionaria permanente, e cioè l’avrebbe cacciata in avventure dal pericolosissimo esito; o, almeno, se ne limitavano le possibilità di applicazione pratica, si da poter collaborare, su piano internazionale, anche con stati come l’impero asburgico e l’impero ottomano, che del principio di nazionalità costituivano, a dirla col Mazzini, la negazione vivente. Era stata la grande manovra del liberalissimo Cavour, deciso a ricercar l’appoggio della dittatura napoleonica per ricostruire l’Italia; era, in mutata situazione e sotto altre forme, la linea di condotta dei suoi epigoni, così fedeli al suo insegnamento e assai più di lui inclini d’istinto al «conservare», molto disposti a metter la parola fine al periodo delle rivoluzioni e dei grandi gesti per far vivere l’Italia una, e permetterle, nella pace, di procedere all’assestamento e al consolidamento interno. Lo disse ripetute volte, con estrema chiarezza e sincerità, il Visconti Venosta: sia che, nel discorso al Senato sulla legge delle Guarentigie, il 22 apri-

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le 1871, egli affermasse che il movimento nazionale italiano aveva avuto l’ambizione altamente civile «di considerarsi come un progresso per la causa generale dell’ordine e della libertà in Europa» e di un popolo turbolento e ribelle avesse fatto «uno dei popoli più tranquilli e più conservatori d’Europa»539 ; sia che, il 27 novembre 1872, insistesse sulla comunità d’interessi fra l’Italia e l’Europa: «Oggi in Europa il bisogno precipuo più altamente sentito e confessato è quello della conservazione della pace. L’Europa è e vuol essere liberale ... Ebbene ... per l’Italia la pace è e sarà sempre uno dei suoi grandi e permanenti interessi ... la nostra causa è solidale della causa della libertà in Europa ... non v’è dunque ... non vi è alcun paese che sia meglio in grado di associare i suoi particolari interessi a quelli che oggi sono gli interessi generali dell’Europa, vale a dire la conservazione della pace, il progresso liberale e la conservazione sociale»540 . Più tardi ancora, nel discorso elettorale tenuto a Tirano il 25 ottobre 1874, egli ritornava su quegli stessi concetti, affermando che lo scopo della politica estera dell’Italia dopo il ’70 era stato quello «di affrettare il momento in cui finalmente le riuscisse di far parlare poco di sé. Il che significa di far sì che l’Italia potesse finalmente avere dinanzi a sé quel periodo di tempo, al quale aveva pure gran bisogno di giungere; in cui, con un sentimento di sicurezza e senza essere distolto da altre più vive sollecitudini, il paese nostro avesse agio, pace e tempo necessario per occuparsi delle sue questioni interne»541 . E infine, non più ministro degli Esteri, ma dai banchi dell’opposizione, il 23 aprile del 1877, riassumeva ancora una volta il suo credo politico: «Quando ... la nostra costituzione nazionale non era compiuta, l’Italia nelle complicazioni europee vedeva e cercava l’occasione opportuna per coronare l’edificio della sua indipendenza, e della sua unità. Ora l’Italia è fatta, l’Italia è uno Stato costituito, ed io credo che la sola politica che ci convenga è una poli-

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tica prudente, leale, scevra da ogni spirito di avventure, che faccia considerare il vantaggio e l’utilità per gli interessi europei della presenza e dell’azione morale di questo giovine Stato nel concerto delle grandi potenze»542 . Che era poi il credo politico non del solo Visconti Venosta, sì di tutti gli uomini della Destra: dal Dina, pronto ad affermare finito il tempo della politica «agitatrice»543 , al Minghetti, anch’egli convinto si dovesse modificare il programma di governo rispetto all’Italia, sì da farlo diventare «conservativo»544 , al Bonghi, per il quale occorreva «circondare l’Italia di pace»545 , al conte Guido Borromeo invitante a «camminare ora sulla punta dei piedi per non far rumore»546 , riportavano il mondo alla prova del ferro e del fuoco»584 : e già il gran maestro, Cavour, aveva presagito ed ammonito contro il pericolo del germanesimo, sin dal ’48585 . Schiacciar la Francia, come voleva il Bismarck, equivaleva a far della Germania la padrona dell’Europa, il sistema dell’equilibrio essendo così congegnato che l’improvviso venir meno di uno dei pezzi maggiori del giunco sconvolgeva, da capo a fondo, il gioco medesimo. E la situazione era tanto più grave in quanto – fatale conseguenza della troppo completa disfatta – all’interno la Francia non riusciva a ritrovarsi e ricementarsi, oscillando paurosamente tra reazione e anarchia, tra il legittimismo di Enrico V e i petrolieri della Comune. Strappar alla Francia l’Alsazia-Lorena significava creare un motivo permanente e potente di conflitto in Europa, trasformare la pace in semplice tregua, tregua armata; e al giudizio dei moderati italiani faceva riscontro quello di un uomo tanto lontano da loro, il MarY, pur egli convinto che l’annessione dell’Alsazia-Lorena era il mezzo più sicuro per trasformare la guerra franco-prussiana in una istituzione europea586 . Perfino la vita economica europea era minacciata nel suo regolare svolgimento dal germanesimo trionfante:

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l’enorme indennità di guerra richiesta dal Bismarck – una cifra astronomica per l’epoca – faceva temere gravi difficoltà finanziarie e perturbamento di mercati, di cui avrebbero subito le non piacevoli conseguenze tutti quanti gli Stati. Ancora una volta, era una preoccupazione non italiana soltanto; la manifestava anzi per primo il governo inglese, già innanzi la firma dei preliminari di pace, nel febbraio587 , la riprendeva poi il cancelliere austro-ungarico, conte Beust, vi si associava il Visconti Venosta588 , e nella stampa la esprimeva L’Opinione589 . E anche qui, al disopra del fatto specifico c’era antitesi di principi e di metodi, fra il liberismo economico, caro ai moderati e culminante addirittura in taluni nel sogno di una lega doganale fra le nazioni, garanzia anche di pace politica, e il chiudersi nel mercato proprio, a difesa dell’interesse proprio, che il bismarckismo già minacciava e che in effetti avrebbe poi condotto al trionfo del protezionismo590 . Così, violente polemiche antiprussiane e l’atteggiamento di molti degli uomini della Destra, pur sbocciando grazie ad una affezione sentimentale per la Francia, assurgevano a valore di opposizione di principi e di metodo. Aveva ragione Engels quando osservava che questa era la vera guerra, la guerra di nazioni, di cui l’Europa aveva perso il ricordo da un paio di generazioni: la guerra di Crimea, quella d’Italia, quella austro-prussiana, erano state tutte guerre di pura convenzione, guerre di governi che conchiudevano la pace non appena il loro meccanismo militare fosse in panne o cominciasse ad usarsi591 . Questa no, era guerra di popoli, per la prima volta dopo l’età della Rivoluzione francese e di Napoleone; era «la» guerra, che spazzava via illusioni sogni e miti di un cinquantennio. Per questo, la vicenda franco-prussiana appariva grave di conseguenze per tutti, neutri compresi; per questo,

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il Ricasoli, attonito, scosso, sdegnato, intravedeva nella guerra, quasi sin dall’inizio, il «pomo di una discordia europea»592 ; per questo il Bonghi, che sedici anni più tardi avrebbe nuovamente definito il 1870 l’anno fatale per la pace, la civiltà, l’unità europea593 , non si peritava allora di affermare – e poteva sembrare bestemmia in bocca ad un italiano – che in mezzo a così difficile e complicata condizione di cose, qual era quella dell’Europa minacciata dall’eccessivo ingrandimento della Prussia, «la questione romana sulla quale gl’Italiani paiono fissar solo i loro sguardi e le loro menti, ci appare d’una importanza saremmo per dire, secondaria»594 .

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Capitolo Secondo L’idea di Roma

I La «missione» di Roma E tuttavia, quali profonde e durature conseguenze non recava con sé l’andata a Roma! Non solo quelle che erano ovvie, a tutti manifeste, anche all’uomo della strada: compimento dell’unità nazionale, da un lato, e dall’altro esacerbato il conflitto con la Curia romana, tanto da doversi temere le estreme conseguenze, con la partenza del Papa dalla città di Pietro. Tutto ciò costituiva l’effetto immediato, scoperto del Venti Settembre, formava per così dire l’oggetto della prossima politica italiana, che rimaneva accentrata intorno a Roma, dopo non meno di prima il Venti Settembre, come intorno al porro unum della vita nazionale. Pertanto, a quella guisa in cui la politica estera sarebbe stata per parecchi anni dominata si può dire esclusivamente ancora dalla questione di Roma, divenuta banco di prova per saggiare le amicizie e le inimicizie, così in politica interna la preoccupazione di gran lunga prevalente, allato o almeno subito dopo il gravissimo problema finanziario, sarebbe continuata ad essere, per parecchi anni, quella dei rapporti con la Chiesa, o, a dirla con espressione cara allora non soltanto ad accesi tribuni dei partiti di sinistra, sì anche a più calmi e ponderati uomini di Destra, del pericolo clericale. E nemmeno sarebbero state unicamente le altre conseguenze, ovvie, che pure balzavano, già allora, all’occhio dell’osservatore anche mediocre, dando origine da una parte al giubilo di giornali e uomini politici meridionali595 e a fieri propositi di por fine all’egemonia

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piemontese, perpetuatasi se non più nel governo almeno nell’amministrazione596 ; e dall’altra parte a corruccio, rimpianto e fosche previsioni di più d’uno dei politici del Settentrione, che vedeva con preoccupazione il tramonto del predominio subalpino, perché convinto che le altre regioni d’Italia mancassero troppo di preparazione morale e politica per poter fornire buoni quadri allo Stato597 – non ultimo motivo per coloro i quali si opponevano al trasferimento della capitale a Roma e motivo nuovo per coloro che chiedevano un largo decentramento amministrativo598 . Trasformazione, questa, tutta interiore, meno appariscente dell’altra; ma di assai lata portata e di profonde ripercussioni sulla vita futura del Regno, destinato a passare, in pochi decenni, da un’amministrazione piemontese o piemontesizzata, ad un’amministrazione reclutata in buona parte nel Mezzogiorno. Al quale processo si sarebbe sempre più accentuatamente contrapposto il correlativo ritrarsi dei settentrionali dalle carriere statali, il loro rivolgersi verso le libere attività industriali e commerciali, che proprio nei decenni seguenti e proprio nel Settentrione avrebbero assunto ampiezza di ritmo veramente moderno, offrendo ai giovani prospettive più seducenti non soltanto dal punto di vista finanziario, si anche per quel che promettevano alla libera iniziativa personale, al gioco autonomo delle volontà e delle forze singole. E ne poté nascere quel dissidio, profondo anche se non sempre espresso, fra paese «produttore» e burocrazia o, come si è sentito dire, paese «improduttivo»; dissidio analogo a quell’altro fra paese legale e paese reale, di cui tanto si disse e si scrisse dopo il ’70, meno grave certo, ma non senza pericoli anch’esso come che abbia spesso fatto riaffiorare contrasti regionalistici e accuse e polemiche reciproche fra il Nord, pronto a vantar la sua produttività, le fabbriche e le aziende commerciali e i miliardi depositati in banca

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o investiti in nuove opere e affari, e il Sud, accusato di accontentarsi del tavolo d’ufficio, di voler trascinare una magra vita, mal retribuita ma anche lenta e scarsa di iniziative, e a sua volta replicante di dover sopportare, esso, con la sua già povera economia agraria il peso della protezione dai governi accordata a industrie e traffici del Settentrione. L’iniziativa individuale, come si disse, parve localizzarsi nel Settentrione; nel Mezzogiorno, ogni aspettativa sembrava volta allo Stato, da cui solo, annotava il Turiello, s’usava attendere il bene collettivo599 . Vecchia consuetudine dei tempi borbonici; e tanto più facilmente, dunque, i figli della borghesia dell’antico Regno convogliavano verso il cursus honorum della burocrazia statale. Più su ancora della sfera amministrativa, lo spostarsi del centro di gravità del Regno si sarebbe ripercosso, alla lunga, in modo sensibile, sul terreno pienamente e propriamente politico, nel senso che la capitale a Roma e l’assurgere a maggior peso del Mezzogiorno avrebbero dato importanza preminente a questioni, come quelle mediterranee, meno sentite nella valle padana. Quassù, l’interesse primo sarebbe stato sempre rivolto alle questioni continentali, ai problemi propriamente europei: campo di battaglia, e per secoli, delle grandi potenze contendenti per l’egemonia in Europa, levatosi a libertà in gran parte precisamente grazie ad una favorevole congiuntura internazionale e perché diventato elemento primo di certi calcoli di politica europea, il Settentrione non poteva non rimanere essenzialmente continentale nel modo di porre e risolvere i problemi politici. Come in Lombardia, nonostante tutto quel che sarebbe successo tra il 1870 e il 1914, nonostante il germanesimo economico e i frequentissimi, amichevoli contatti con tedeschi commercianti, banchieri industriali, giornalisti, doveva rimanere incancellabile il ricordo delle Cinque Giornate e dei «tedeschi» dominatori dell’età di Ra-

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detzky, nessuno distinguendo, di fatto, tra austriaci e tedeschi; così l’Italia settentrionale in genere avrebbe considerato il problema politico sempre con mentalità continentale, che vede il nocciolo dei problemi nei rapporti che si svolgono, in Europa, fra i vari organismi statali. Poco sensibile a questi rapporti, in massima, e più pronto invece a sentir l’importanza e il fascino del problema mediterraneo, il Mezzogiorno avrebbe apportato, nella vita politica del Regno, per l’appunto il senso dell’Africa e anzitutto l’aspirazione a Tunisi, non fosse altro perché meridionali erano nella stragrande maggioranza i coloni italiani che vi dimoravano, e interessi, affetti e ricordanze legavano il territorio africano con le terre del Mezzogiorno. Maggior rilievo, in Roma capitale, del Mezzogiorno, e sua più attiva e larga partecipazione alla vita pubblica, volevano dunque dire anche tendenza, latente forse ma alla lunga non inavvertibile, verso una maggior considerazione dei problemi mediterraneo-coloniali: non per puro caso fu un napoletano, il Mancini, ad iniziare la politica coloniale italiana, andando a Massaua; e nemmeno per caso le aspirazioni mediterranee furono incarnate nel siciliano Crispi. Tutte queste sarebbero già state conseguenze più che sufficienti per vedere nel 1870, anche a prescindere dal gran conflitto europeo, una svolta decisiva della storia d’Italia. Ma non erano le sole. L’ingresso a Roma, nella città in cui «spira un’aura che inebbria»600 avrebbe maturato frutti di ancor maggior gravità, destinati ad essere avvertiti soltanto dopo un lento, intenso lavorio nell’intimo dell’anima italiana: perché un cotal rivolgimento non portava più su questioni determinate, su questo e quell’oggetto di discussione politica, sì sul modo stesso di essere e di pensare degl’Italiani, e significava quindi non l’inizio di un problema, storicamente e politicamente ben

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circoscritto e precisato, anzi l’avvento di una mentalità nuova, che avrebbe considerato i singoli problemi sotto luce diversa e con aspirazioni differenti da quelle delle generazioni ormai trascorse. Roma capitale voleva dire, a più o meno lunga scadenza, il determinarsi di un nuovo modo di valutare i problemi, morali e politici, almeno presso larghi ceti: e questa sarebbe stata la conseguenza maggiore e più duratura della breccia di Porta Pia. Non a tutti, certo, in sui primi momenti l’aura di Roma sembrava inebriante; non tutti vi trovavano il milieu, che aveva così gradevolmente sorpreso il Blanc; e anzi, passato il primo istante di giubilo, svanito il momento in cui il motto «Roma è nostra»aveva agito come «una scintilla elettrica, da un capo all’altro d’Italia, eccitando un entusiasmo profondo»601 cominciavano dubbi, perplessità, recriminazioni, non soltanto sull’opportunità di trasferire, e di trasferire subito, la capitale da Firenze alla Città Eterna, bensì anche sui vantaggi che l’acquisto di Roma avrebbe apportato al paese. Dubbi e recriminazioni, s’intende, presso gli stessi uomini che avevano voluto la soluzione del Venti Settembre, o almeno avevano condiviso e approvato e condividevano e approvavano la politica del governo: ché, per quanto è dei clericali, sarebbe superfluo anche solo il rammentare con qual animo essi vedessero i soldati di Vittorio Emanuele a Roma e di quali lai e invettive e profezie di sciagura peggio che bibliche si affaticassero a far rintronar l’aria. Erano le prime, inevitabili difficoltà d’ordine pratico, materiale; erano anche, nei primi accorsi alla città, il contrasto fra sogno e realtà e l’ombra di delusione che suole accompagnare il compimento di un voto lungamente nutrito in cuore. Nel caso particolare, era il constatar che molta parte della popolazione romana rimaneva papalina di animo, più sgomenta e seccata che lieta di una novità tale da sommuovere profondamente abitudini e pensieri di una gente da secoli avvezza a non voler essere

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disturbata nella sua placida, indifferente e scettica vita, tra sole feste processioni, tra preti donne forestieri602 , o che, nei ceti alti, nella cosiddetta aristocrazia nera, era legata da troppi vincoli d’interesse, oltre che di sentimento, con il governo pontificio, per non avvampare di rancore contro gli «usurpatori». E negli altri, nei patrioti romani, si dovevan ben presto constatar pretese, richieste, impazienze603 , certa alterigia di sentire fatte apposta per urtare chi, venendo a Roma, vi veniva con il ricordo di tanti anni di lotte sostenute – e non propriamente dai Romani – per poter raggiungere quest’ultima meta604 : quasi che gran degnazione dei moderni Quiriti fosse stata l’accogliere nelle proprie mura l’Italia e Casa Savoia, e il merito fosse tutto loro e soltanto loro605 . Alle quali recriminazioni rispondevano le lagnanze dei romani, offesi dai modi troppo spesso militareschi e perentori de’ nuovi venuti, dalle arie di conquistatori che ufficiali e soldati, burocrati e politici regi assumevano606 : proprio le arie e i modi meno adatti per avvicinare una popolazione scettica ma intelligente, priva sostanzialmente di energia politica, fuor che nel ceto, rude ma fiero, de’ popolani repubblicani di Trastevere, ma di vivace sensibilità per la dignità formale, facile ad essere ferita nell’amor proprio, suscettibilissima quindi e pronta, con la esperienza plurisecolare di generazioni che tutto avevan visto e conosciuto, a cogliere subito il lato ridicolo di uomini e cose, specialmente quando questi uomini avessero la gravità pedantesca di certi burocrati di stampo piemontese. Si aggiungevano gli interessi offesi607 , ora come lo erano stati anni innanzi a Napoli, per le nomine a importanti uffici pubblici di elementi non romani, che davan motivo – e talora, certo, giusto motivo di gridare, ancora, alla conquista; e il gravame delle nuove e ben maggiori imposte608 di questa camicia di Nesso che le popolazioni d’Italia avevan dovuto indossare, l’una dopo l’altra, con l’unificazione, e che, come altrove, così anche

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a Roma offriva naturale e facile motivo ai lodatori del buon tempo antico609 . Danni economici insomma: e vi calcavano su volentieri la mano gli amici del Papato e rappresentanti di Stati esteri, per far vedere l’errore commesso dal governo italiano col venti Settembre610 . Da un lato, dunque, sorta di stupore amaro nel constatare come la terra promessa fosse tutt’altro che un paradiso611 come l’entusiasmo dei Romani non giungesse a quel grado ch’era stato immaginato; alti lai sulla corruzione che s’asseriva allignasse più profonda di quanto non si fosse per avventura immaginato612 ; duri giudizi, soprattutto ad opera dei molto antiromani fiorentini, per i quali l’indolenza de’ Romani e la loro avversione al lavoro superavano ogni limite pensabile613 . E, dall’altra, lamentele e ironie sui «buzzurri», settentrionali in genere, ma piemontesi in ispecie. Condizione di cose perfettamente comprensibile, in cui il torto e la ragione erano, manzonianamente, un po’ dall’una e un po’ dall’altra parte; che poteva, allora, improntare d’una nota di pessimismo il carteggio del luogotenente del re a Roma, il rigido La Marmora614 , ma che, insomma, era fatto se non transeunte, essendo poi anche in tempi successivi piene le cronache di lamentele contro i romani e contro la Roma burocratica e ministeriale, quanto meno di non soverchia gravità. Quest’era ancora la piccola vita cittadina di Roma, piccola e soggetto di cronaca aneddotica come quella di tutte le altre città. Ma, a Roma, al disopra della vita di tutti i giorni, con le sue miserie e i suoi contrasti pratici, c’era dell’altro, ed era l’idea di Roma: l’idea per cui uomini di alto sentire, dopo tanti anni di desideri e di speranze, attendevano con animo in tumulto di potervi entrare615 , e s’abbandonavano all’empito della commozione616 , dopo aver varcato la Porta del Popolo trepidi e quasi adorando617 , reverenti innanzi alla

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potenza, al palpito «dell’immensa eterna vita di Roma al di là della superficie artificiale che a guisa di lenzuolo di morte preti e cortigiani avevano steso sulla grande dormiente»618 . Riappariva, quest’idea, com’era riapparsa in altri grandi momenti della storia d’Italia, sia che l’avessero agitata, nelle sue manifestazioni d’impero e di potenza politica, gli imperatori tedeschi medievali, sia invece che fosse stata bandita, ad opera questa volta di uomini d’italica origine e anima, soprattutto quale espressione suprema di vita civile. Come nel Rinascimento, così sorgeva ora, dopo la parentesi dell’età barocca e di quella settecentesca, già percorsa tuttavia, quest’ultima, da sempre più frequenti e notevoli accenni alla grandezza, anzi alla missione di Roma, unico centro pensabile sin d’allora per l’unione di tutti gli Italiani619 . L’idea si imponeva: l’idea in cui la vita contingente, povera e meschina magari, della città e dei suoi abitanti, spariva, e rimaneva solo il significato morale, religioso, politico e culturale della millenaria tradizione. E che altro significava se non un richiamo alla necessità e fatalità di essa, il concitato richiamo che il prepotente Mommsen rivolgeva al Sella una sera del 1871: «Ma che cosa intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti: a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti. Che cosa intendete di fare?»620 . A nessuno degli stranieri sfuggiva questa duplicità di Roma, idea universale prima ancora che città italiana; e come e più del Mommsen, e in pari tempo, invocava l’antica aria cosmopolitica di Roma un altro tedesco, innamorato di Roma, il Gregorovius, che era stato assai benevolo amico del movimento nazionale italiano621 , che aveva salutato con gioia la «liberazione» dell’umanità dal giogo papale, il secondo incubo di megalomania crollato dopo il crollo del primo incubo, l’impero napoleonico622 ; e che, ciò nonostante, s’immalinconiva nel veder l’Ur-

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be discesa da centro morale dell’umanità, da repubblica mondiale, a capitale d’un regno di mediocre forza623 , messo su dalla fortuna e dalle vittorie tedesche, ma intimamente debole e impari ai doni della sorte624 . E ancora alcuni anni più tardi, nel ’77, incalzava di sulle colonne del suo Diario un terzo grande scrittore, di diversissima origine e mente, il Dostoievskij, anch’egli poco persuaso di quel che l’Italia unita avrebbe potuto fare, anch’egli in traccia della «grande idea romana dei popoli uniti», l’idea universale di cui il popolo italiano era depositario e che, certo, non era attuata dal «piccolo regno di second’ordine ... senza ambizioni, imborghesito»625 . Più benevolo il Renan: ma anche per lui il «modesto e onorevole» rinascer dell’Italia a nazione era fausto evento per l’umanità in quanto, uccidendo il papato temporale, avrebbe provocato infallibilmente anche la fine dell’unità cattolica, dell’unità papale, della deplorevole istituzione causa dei maggiori guai del cattolicesimo dai giorni del concilio di Trento626 ; anche per lui, l’unità d’Italia, trascurabile evento in sé, poteva assumere valore generale solo per le sue ripercussioni non italiane627 . Per gli stranieri, avvezzi a veder in Roma il centro del cattolicesimo e cioè di un’idea universale, e freddi innanzi al problema puramente nazionale italiano, l’Italia politica a Roma doveva trovarsi un fine più che nazionale, quando non intendesse rimaner piccina, piccina di fronte al Vaticano; e ben pochi si sarebbero accontentati della semplice bonifica dell’Agro Romano, che Guglielmo I di Germania indicava, nel ’75, a Milano, a re Vittorio come il miglior modo per «giustificare la presenza del vostro governo in Roma»628 . Giustificarsi dunque bisognava, di fronte all’estero: e certo, in una città piena di tanti e tanto grandi ricordi, in un luogo tutto memorie di una storia universale, anzi, con il Vaticano tutto storia universale ancora, Re, Parlamento, Governo d’Italia sembravan

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piccoli e incapaci di contrappesare, da soli, i molti secoli di gloria. Il Papato era là, vivo e potente e universale: e l’incubo di esser troppo impari al Vaticano, di dover cercar dei palazzi, ma tutti «più bassi» del Vaticano, come diceva Gino Capponi629 , nessuno lo poteva scacciare. Tanto più necessariamente l’idea di Roma doveva risorgere, in quanto sembrava creata apposta per dar soddisfacimento all’ideale, ignoto al Rinascimento, ma tanto caro al romanticismo dell’Ottocento, di una «missione» dei vari popoli. Aspirazione, questa, nata quasi ad un parto con l’idea stessa di nazione, tal che se ne potevano ritrovare le tracce un po’ dovunque, tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento: viva con particolare intensità, inizialmente, in Germania, dove dallo Humboldt allo Schiller allo Schlegel era stato lanciato al mondo il grido della missione germanica, l’essere lo specchio più puro dell’umanità, il vivere a contatto con lo spirito del mondo, nella giornata che sarebbe stata la messe di tutte le altre giornate vissute dagli uomini630 ; ma ben forte anche nella Francia della Rivoluzione e della Restaurazione, dal de Maistre, teorico della «magistratura» francese sull’Europa631 , al Guizot e al Michelet632 e ai sansimoninni633 , e forte, sempre, nell’Inghilterra la cui missione, ai tempi di Cromwell divina, s’era ora umanizzata in una missione imperiale e di dominio, che stava per essere esaltata da Tennvson Froude e Seeley634 . Era come se, nel momento in cui sorgeva a frantumare definitivamente ogni anche lontana reminiscenza della vecchia respublica christiana, l’individualità nazionale, la nuova idea-forza dei tempi moderni, abbisognasse di una giustificazione morale di valore universale, che ne legittimasse la nascita. Nel campo della politica internazionale l’elevar a teoria, a dignità di principio la prassi dell’equilibrio europeo, secondo era avvenuto già dalla secon-

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da metà del ’600, aveva anche significato il tentativo di mantenere un quadro unitario generale, al disopra della molteplicità dei singoli Stati, sostituendo una unità nettamente articolata all’unità idealmente massiccia di prima; e ora, in questo ulteriore svolgimento della vita europea verso le forme differenziate pur sul terreno culturale e morale, si continuava a cercare un motivo comune, un principio che servisse a tener ben salda l’idea di quest’Europa laica, a individualità nazionali nettamente definite, e potesse fungere da ponte di trapasso fra la nazione singola e la civiltà comune, di cui mai come nell’età dell’Illuminismo e del Romanticismo si esaltarono grandezza, forza e dignità. Residuo, sotto certi aspetti, del cosmopolitismo settecentesco; fortunata eredità di quel possente sviluppo ideologico che aveva portato, nel centro della vita europea, i valori uomo ed umanità, e però forgiata propriamente dal Romanticismo, che sulle orme di Rousseau e di Herder aveva invece amorosamente accarezzata l’individualità della nazione; quindi di duplice e diversa origine, senso del particolare e aspirazione ad una comunione generale di destini frammischiandosi, talora in felice accordo, talora invece urtandosi e negandosi a vicenda, l’idea di missione diveniva, a sua volta, precorritrice da un lato dell’umanitarismo e dall’altro del nazionalismo moderno. Nell’invocare la missione di una nazione si offriva infatti lo spunto per accentuare sempre più il «dovere» di quella missione, e quindi per porre in primo piano, a dirla col Mazzini, il fine, cioè l’umanità, contenendo a «mezzo» la nazione: e lo avrebbe dimostrato proprio l’evoluzione ulteriore di parecchi originariamente nutriti di idee mazziniane e poi passati alla predicazione di tipo umanitario e pacifistico, o tramutati in apostoli di Internazionali, con ira del Maestro, sempre preoccupato di salvare i due termini del binomio e di non sacrificare l’umanità, ma né meno, anzi tanto meno la nazio-

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ne, ch’era e rimaneva sempre il motivo centrale e soprattutto più chiaro, netto, lucido del suo pensiero. Ma era d’altro canto possibilissimo accentuare, nella missione, il «diritto», portando insensibilmente il mezzo al di sopra del fine, la patria più su dell’umanità, sì da sboccare in ultimo nel pieno nazionalismo. Possibilità, quest’ultima, tanto più facile a verificarsi in quanto la parola missione tendeva, già inizialmente, a trasformarsi, spesso e volentieri, nell’altra «primato»: e veramente, perché un popolo avrebbe avuto una particolare missione, se non avesse dimostrato attitudini, capacità, e vantato tradizioni superiori a quelle degli altri popoli, almeno in un certo campo? E così già nello Schiller e nello Schlegel l’idea di missione tedesca s’era congiunta con l’idea della superiorità tedesca, non senza qualche disdegno per gli altri popoli635 , alimentando così non solo la intera coscienza di sé, ma anche l’ambizione che la Germania avendo creato il mondo moderno il mondo moderno spettasse a lei636 ; ed era gran ventura quando l’idea di superiorità non cercasse una base apparentemente oggettiva, continua e duratura, nel fattore etnico, nel criterio razziale, secondo cominciava a tralucere nello Schlegel. Proprio in Italia, la missione di Mazzini era stata preceduta da una cospicua, anche se spesso scolastica, serie di richiami a primati italiani; dall’abate bolognese Pietro Tosini, che sin al 1718-20 trovava l’Italia esser stata sempre il paese più cospicuo del mondo e gli Italiani aver dominato su tutte le nazioni, all’Algarotti al Genovese al Bettinelli e al Verri637 , e, almeno per primati in particolari discipline, al Deniva e al Galeani Napione638 . Si rivolgesse ad illustrare l’antico primato, sulle orme della vichiana esaltazione della antiquissima Italorum sapientia, giù giù fino al Platone in Italia del Cuoco; si limitasse a sostenere, alfierianamente, che in Italia la pianta uomo nasce di più robusta tempra e più atta a grandi cose: nell’un

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caso e nell’altro era ormai una vecchia melodia, questa della originaria primazia italiana in civiltà e della penisola donna di provincie e maestra agli altri popoli, quando per controbattere l’idea del primato francese la assunse e la svolse compiutamente e le diede risonanza e celebrità mai prima avute, l’abate Gioberti. Con il quale si aveva, appunto, l’accentuazione in senso già nazionalistico di uno dei due motivi contenuti in germe nell’idea di missione, proprio mentre il Mazzini stava accentuando parecchio il motivo «dovere» e abitava all’Italia e alle altre nazioni schiave il compito europeo che loro spettava, e parlava dell’iniziativa di uno in favore di tutti. Più tardi, per reazione al neocosmopolitismo degli odiaitissimi «internazionali» avrebbe, anche il Mazzini, insistito di più sul motivo «diritto»639 : e allora, anche, nella missione italiana da lui delineata si sarebbe avvertita – fin nel Mazzini! – una indubbia nota particolaristica, l’accenno ad una politica di potenza, secondo i dettami – della tanto esecrata prassi dei governi europei. Anch’egli, l’europeo di un’Europa di assai più largo spirito e comprensione dell’Europa metternichiana, l’apostolo dell’umanità come fine, anch’egli non sfuggì sempre alla tentazione dei problemi nazionali, nelle loro forme più di potenza, diplomatiche e militari; e come si compiacque del vecchio tema della civiltà italica anteriore alla greca640 , così vagheggiò non solo l’Italia che aprisse la via alla civiltà moderna e iniziasse nuova Epoca della storia umana, si anche l’Italia che, conseguiti i veri confini nazionali, s’arrotondasse con domini coloniali e, insediata a Tunisi, tornasse a dominare il Mediterraneo641 , secondo avevan fatto, una volta, le aquile di Roma. Ma insomma, sfumasse in senso umanitario o in senso nazionalistico, l’idea di missione era stata ed era tuttora un’idea di fronte presa sugli animi. Ed ecco dunque quest’idea riempirsi, per così dire, di un valore concreto,

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preciso, quasi tangibile e visibile, dal nome e dai fatti di Roma. L’antico richiamo rinascimentale a Roma-madre, ch’era stato allora congiunto con il disprezzo per i «barbari» oltramontani, si allacciava, sino a far tutt’uno, con il romantico concetto di missione, che, nelle sue più alte manifestazioni, cercava di trasformare il senso della forza e dignità nazionale in iniziativa a vantaggio di tutti, di far servire ad una causa comune le doti e le glorie de’ singoli gruppi. Mancava, in questa ripresa ottocentesca dell’idea di Roma, il postulato della imitazione, così caro ai letterati e artisti del Quattrocento: e non poteva non mancare, come che le menti fossero ora dominate dalla fede nel progresso umano e non potessero pertanto più acconciarsi alla persuasione che il Vero e il Bello s’erano già rivelati, una volta, nella storia passata, costituendo il momento-modello a cui l’umanità avrebbe dovuto sempre rivolgere gli occhi, per trarne guida e conforto642 . V’era, in più, il senso del lavoro comune, a pro di tutta l’umanità, a cui non avevano certo pensato troppo né i Ghiberti e gli Alberti, né i Valla e i Poliziano: com’era ovvio, dopo che il pensiero settecentesco aveva così profondamente radicato negli animi il senso della colleganza di natura e di destino fra gli uomini, senso rinnovato ora con tonalità laica e non più religiosa secondo era successo molti secoli innanzi, al momento della predicazione cristiana. Era la Roma di Mazzini: la terza Roma, la Roma del Popolo, dopo quella dei Cesari e dei Papi. Universale, come che la sua tradizione storica avesse insegnato all’Italia più che all’altre nazioni la «missione d’universalizzare la propria vita», onde la vita della penisola era sempre stata, nelle sue grandi epoche, vita d’Europa: «da Roma, dal Campidoglio e dal Vaticano, si svolge nel passato la storia dell’umana unificazione»643 .

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E al ramingo apostolo dell’Italia una, che aveva in sé «il culto di Roma»644 , che di Roma aveva fatto la «religione dell’anima» 51, la visione di questa imminente terza vita d’Italia dettava una di quelle pagine tutte pathos religioso e profetico, potenti anche quando l’enfasi stilistica ne sminuisca l’efficacia: «Sostate e spingete fin dove vale lo sguardo verso mezzogiorno, piegando al Mediterraneo. Di mezzo all’immenso, vi sorgerà davanti allo sguardo, come faro in oceano, un punto isolato, un segno di lontana grandezza. Piegate il ginocchio e adorate: là batte il core d’Italia: là posa eternamente solenne R OMA. E quel punto saliente è il Campidoglio del Mondo Cristiano. E a pochi passi sta il Campidoglio del Mondo Pagano. E quei due Mondi giacenti aspettano un terzo Mondo più vasto e sublime dei due che s’elabora tra le potenti rovine. Ed è la Trinità della Storia il cui Verbo è in Roma»645 . Roma: missione di grandezza, nel futuro come nel passato, allora quando l’Europa era semibarbara e le aquile romane volavano di trionfo m trionfo insegnando «ai popoli conquistati una sapienza di leggi che dura tuttavia riverita, i conforti della vita civile, e quella tendenza all’Unità che preparò un mondo a Gesù»; e, una seconda volta, quando in una Europa «ravvolta fra la tenebra del servaggio feudale ... , voi, sorti a seconda vita, affermaste nei vostri Comuni la libertà répubblicana dell’uomo e del cittadino e diffondeste alle più lontane contrade i beneficii della civiltà, delle lettere e del commercio»646 . Nel tumultuante animo di Mazzini si fondevano così tutti i motivi della tradizione italiana, di Roma e di primato, da lui riplasmati e sublimati nell’alto concetto di missione europea, ma non senza che permanessero e affiorassero, tratto tratto, le venature fortemente nazionali, e fin le lagnanze per l’ingratitudine altrui come sarebbe accaduto più tardi di frequente647 .

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Ed era in lui un’idea forza, una potentissima fiamma d’azione, sentita e vissuta con la religiosità delle cose grandi. E vivamente sentita, nonostante che anche qui talora l’enfasi rettorica sembrasse prender la mano alla serietà del proposito, era pure, questa idea, in tutti i devoti di Mazzini, a cominciar dal Tirteo italico, il Mameli, che un anno e più innanzi l’inno celebre, nel maggio del ’46, aveva ne L’alba visto risorgere la donna latina Furor del feretro armata s’affaccia Ha trovato il valore primiero, Ritrovò la sua lucida traccia Della gloria nel noto sentiero Non ne spenser mille anni le impronte L’elmo antico s’adatta alla fronte Roma è sorta, dinnanzi ci sta648

E riviveva pur sempre il mito anche in coloro che dal Mazzini avevano primamente tratto il loro bagaglio ideologico e che, poi staccatisi dal genovese, rimanevano tuttavia vicini, per ispirazione, a taluni motivi fondamentali del suo credo. Così succedeva per il Crispi e i suoi amici della Riforma: tratti – come s’è visto – ad accentuare in senso nazionalistico la nazionalità di Mazzini, ma per ciò appunto tanto più pronti a riprendere, dall’apostolo, quel mito di Roma che così facilmente si convertiva in lievito di acceso nazionalismo. Non stupiva, pertanto, trovare nella Riforma il richiamo alla missione che incombe a chi detta leggi dalla città un giorno maestra di civile sapienza649 ; alla missione dell’Italia nel mondo delle nazioni. «Nei rivolgimenti attuali che riordinano il mondo politico, a nessun popolo fu dato dalla provvidenza della storia un più alto ufficio di civiltà, come al popolo italiano. Affermare il principio di nazionalità sui ruderi della teocrazia, – glorificare la libertà religiosa e i diritti del-

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la civiltà sulla terra del Sillabo e del dogma: è una missione degna di un gran popolo e che la storia a traverso le sue mirabili elaborazioni, riservava all’Italia. Occupando Roma colle sue armi essa ha assunto in faccia al mondo civile l’impegno formale di risolvere il problema in modo corrispondente agli interessi e al voto della civiltà universale.»650 . Momento solenne, quello del plebiscito del 2 ottobre, nella vita non dell’Italia soltanto, sì dell’umanità intera: «il medio evo crolla, l’età moderna splende sulle rovine della teocrazia». Fraseggiare sovente retorico: eppur sarebbe ingiusto negare, per ciò solo, vivezza e sincerità di quella fede, divenuta tanto più ferma perché, notava l’articolista e non a torto, «abbiamo potuto vedere alla prova quanto la nostra antica convinzione circa la possanza dell’idea di Roma nella coscienza e nella mente degli Italiani si apponesse al vero: abbiamo veduto quanta forza morale possieda questa idea in ogni parte della nazione, in ogni ceto, in ogni ordine di persone: essa appare fornita di uno straordinario vigore, ha evocato dalla profondità della coscienza nazionale quelle grandiose manifestazioni che attestano le leggi essenziali della vita: essa è la vita stessa della nazione651 . Non a torto: ché veramente il fascino dell’idea di Roma-madre s’estendeva assai al di là dei circoli mazziniani; e se finiva col toccare persino un uomo come Carlo Cattaneo, così alieno da ogni afflato retorico e così solidamente ancorato alla realtà pratica e tanto varia delle regioni italiane, eppure anche egli indotto ad accomunare, nel ’48 e dopo il ’48, Italia e Roma, ad esaltare il risorgimento della libera Italia in Roma e lo splendore, la potenza di questi due nomi congiunti652 , irraggiava poi largamente negli stessi ambienti dei neoguelfi. Se il Mazzini, infatti, con la sua predicazione appassionata era da gran tempo il massimo apostolo dell’idea

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di Roma e della missione di Roma, altri, molti altri, che pur ripugnavano alle dottrine politiche del mazzinianesimo, sentivano di Roma con non diverso animo. Allato della parola del genovese, c’era l’eredità giobertiana che, con l’esaltazione di un primato italiano fondato essenzialmente, nonostante tutti i Pelasgi, su Roma e la gloria cristiana di Roma653 , con l’appello al Campidoglio, eterna cittadella delle nazioni, con l’ammonimento che senza Roma l’Europa occidentale e australe sarebbe aperta alle alluvioni dei nuovi barbari, era sopravvissuta al fallimento dei progetti politici dell’abate piemontese, largamente influendo sugli spiriti: onde, chi deplorava la «irragionevole superbia», cresciuta nell’animo degl’italiani, la «funesta passione» che aveva precipitato l’Italia «nella superbia, nella stoltezza, della sua superiorità naturale e riconquistabile, su tutte le altre nazioni europee», non a Mazzini, bensì a Gioberti attribuiva la colpa, a Gioberti, la cui parola fatale «corse e rimase, a malgrado del suo autore, nel suo senso più lato, più estremo, più dannoso»654 . Roma era idea base nell’una come nell’altra delle due maggiori correnti ideologiche del pieno Risorgimento; e su questo punto potevan trovarsi d’accordo giobertiani e mazziniani, nonostante tutte le divergenze d’interpretazione del passato e tutti i contrasti in merito alla soluzione per l’avvenire. Tra l’uno e l’altro, questi due movimenti avevan finito col padroneggiare, in tal senso, l’opinione pubblica italiana. «Non più primati, non più superbie, non più sogni, per l’amor di Dio e della patria» aveva gridato l’antiromano Cesare Balbo655 . Basta con le grandezze degli avi, con l’idolatria verso l’antico mista ai sogni dorati di un lontanissimo avvenire; basta voler rinverdire il presente con gli stillicidi del passato. La storia degli insuccessi nel risorgimento della nazionalità italiana è la storia del continuo riaffiorare degli idoli dell’antichità, cioè

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dell’imporsi del genio artistico sul genio politico, a danno della patria, aveva dichiarato Giacomo Durando656 . L’idolatria dell’antichità fuorvia il buon senso. Ma, appunto, quest’era troppo buon senso e troppo poco immaginazione, troppo realtà e poco passione, in un momento in cui il buon senso non bastava più, e ci voleva fantasia e passione. Perciò i dettami del buon senso, ripetuti dai moderati Balbo Durando d’Azeglio, erano stati soverchiati dalla fantasia e dalla passione che animavano la tanto più calda predicazione mazziniana o anche la più cattivante parola giobertiana. Perfino nel Cavour, così lontano da influssi mazziniani e, anche, dall’oratoria turgida di un Gioberti, così indifferente ai ricordi classici657 , così poco fantasticante di risurrezioni, primato, terze età, così desideroso di mostrarsi antiletteratura, non senza una certa qual nota di civetteria658 , tanto da arrischiare in piena Camera la confessione del dolore con cui egli, personalmente, sarebbe andato a Roma659 ; perfino nel Cavour, da ultimo, l’idea di Roma era cominciata a balenare non più soltanto nella sua fatale connessione con l’unità d’Italia, bensì anche nella sua luce di missione universale che imponeva all’Italia unita un gran dovere di fronte al mondo. E il dovere era di por fine alla battaglia fra la civiltà e la Chiesa, fra la libertà e l’autorità; ed egli si sentì sicuro di raggiungere la meta, e sognò il giorno in cui avrebbe firmato, sull’alto del Campidoglio, una «nuova pace di religione, un trattato che recherà alle sorti avvenire dell’umana società effetti ben più grandi che non ebbe la pace di Vestfalia!». Il sogno lo accendeva di sempre nuovo entusiasmo; la sua parola s’innalzava allora, ne’ privati conversaci, sino alla poesia, e lo Artom che l’ascoltava rimaneva attonito «vedendo quell’economista, quel politico avveduto, quella mente così pratica esprimersi con tanto calore sull’alleanza possibile, anzi prossima, fra il cattolicismo e la libertà»660 .

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L’arte ci uccide, aveva esclamato il Durando661 , e nel prevaler della cultura e della forma pura sulla virtù, cioè della letteratura sulla morale, dell’arte sulla coscienza civica, Balbo aveva visto il decader dell’Italia, fra Trecento e Settecento. Cavour era, solitamente, di identico sentire662 . Ma di fronte a Roma anch’egli andò oltre la ragione tanto cara ai moderati piemontesi; e fu passione la sua e fu poesia, mentre la voce dei Durando e dei Balbo continuava a risuonare in quella del d’Azeglio, pittore e scrittore, ma in questo molto più attento alle considerazioni della ragione di stampo moderato. Con non minor fermezza di convinzione e serietà d’intenti, se pur già con ben diversi propositi che non l’alleanza fra cattolicesimo e libertà, Roma parlava al cuore e alla mente di uno dei maggiori fra gli uomini politici apparsi dopo la morte del Cavour, Quintino Sella. Lontanissimo, anch’egli, dal pathos mazziniano e giobertiano; certo non suscettibile di subitanei, facili e passeggeri impeti di entusiasmo, anzi tutto ponderatezza, chiarezza d’idee, organicità di visione, continuità di volere; stile secco e disadorno, com’era stato lo stile di Cavour e come sarebbe stato poi lo stile di Giolitti, uno stile che non aveva nulla in comune con l’oratoria della tradizione italiana663 , il tessitore biellese trovava anch’egli che, come Roma era stata la gran maestra dell’amor di patria664 , così il suo era un gran nome, un nome terribile, che impegnava la nazione per l’avvenire. «Noblesse oblige; e in Roma vi è un formidabile retaggio di nobiltà. Io non so esprimere quello che sento in me davanti a questo nome ... Non è soltanto per portarvi dei travet che siamo venuti in Roma ... Io sono certo che in fondo dei nostri animi vi sono pensieri assai più elevati.»665 . Quali fossero questi pensieri più elevati, egli stesso indicava nella formula della missione o, com’egli diceva, del proposito cosmopolita della scienza666 .

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Pertinacissmo era stato nel volere l’andata a Roma, e ostinato doveva essere anche, tra l’ottobre e il novembre del ’70, nel volere l’immediato trasferimento della capitale e la venuta del re a Roma, nel «romaneggiare» secondo gli venne rimproverato dai moderati di altro sentire, soprattutto dai moderati fiorentini667 egli vedeva in Roma, e lo scrisse al Minghetti, il fata trahunt668 . Ora, del fato credeva si dovesse essere all’altezza anche nell’avvenire, rendendosi conto della posizione che si occupava davanti al mondo civile da che s’era a Roma669 . La capitale del regno doveva corrispondere «all’alto ufficio a cui la storia, il voto pressoché unanime della nazione, e le più alte ragioni di progresso, non solo del popolo nostro, ma osiamo dire deil’intiera umanità, fatalmente la chiamavano»670 . Quando nel 1870 egli s’era adoperato in tutti i modi perché l’Italia venisse a Roma e vi portasse la sua capitale, aveva sempre pensato «non solo a dare all’Italia la sua eterna capitale, ma agli effetti che nell’interesse della nazione e della umanità sarebbero derivati dalla abolizione del potere temporale, e dalla creazione in Roma di un centro scientiifico»671 . E pertinacissimo fu così, ancora, nel promuovere il culto della scienza, nuova missione di Roma, soprattutto mediante l’attività di quell’Accademia dei Lincei che da lui ebbe veramente nuova vita, e grazie a lui poté rifiorire, porsi al livello dei maggiori corpi scientifici dell’Europa, svolgere opera gloriosa e non peritura: insistendo e premendo, lui, il più tirchio dei politici italiani672 , per ottenere gli indispensabili aiuti finanziari673 , insistendo con gli amici scienziati perché collaborassero intensamente ai lavori dei Lincei, quasi dovere imposto dall’amor di patria674 . «La lotta per la verità contro l’ignoranza, contro il pregiudizio e contro l’errore, suscita la stessa unanimità

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che si trova nei giorni di combattimento per la difesa della Patria675 . Mutava così il fine della missione di Roma: dall’alleanza tra cattolicesimo e libertà, vagheggiata dal Cavour, si trascorreva all’affermazione dell’impossibilità di quell’alleanza, dopo il Sillabo, e quindi della necessità di impegnare la lotta contro il clericalismo in nome della Scienza. E dal clima del Risorgimento si passava nel clima del positivismo italiano ed europeo. Giacché lo stesso substrato alimentava la fede del Sella nella missione della scienza, come libero esame ed insegnamento sperimentale contrapposti al dogma676 , e le invocazioni dei giornali ed uomini della Sinistra al compito dell’Italia in Roma, di schiudere nuove vie alla civiltà umana, distruggendo gli ultimi avanzi della teocrazia medievale: substrato di natura inizialmente razionalistica, eredità del ’700, ma ormai ‘già assumente modi e forme di positivistico conio, ne’ quali si sarebbero sperse le ultime tracce della vaga religiosità mazziniana, ch’era, ancora, prima metà dell’Ottocento. Voltaire s’ispessiva, sperimentalmente precisato e rifinito attraverso Comte, Littré e ora anche Darwin e Spencer. V’era, indubbiamente, una notevole differenza di tono, che nel biellesse manteneva estrema precisione e serietà di parole e d’intento, mentre nella stampa di sinistra troppo spesso si tramutava in enfasi tribunizia senza solidità di cose concrete; v’era anche la differenza che l’accento anticlericale diveniva, nei Sinistri, assolutamente predominante, sicché la scienza diveniva più mezzo per sbaragliare altrui che ideale a sé stante. Ma anche nel Sella l’accento anticlericale non mancava: la scienza a Roma era per gl’Italiani un dovere supremo, proprio in un momento in cui la scienza camminava rapidissimamente in un senso, e il cattolicesimo, dalla fine del Settecento e soprattutto dopo il Sillabo, in senso diametralmente opposto. «Fuori i lumi! Fari elettrici

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anzi devono essere; imperocché abbiamo a fare con gente che si chiude gli occhi e si tappa le orecchie; abbiamo a fare con gente che vuol pigliare i giovani fino dalla infanzia, avviarli alle proprie scuole secondarie, e poi vuol dare a costoro i più alti uffici che si possono affidare all’umanità, come la direzione delle coscienze e l’educazione della gioventù.»677 Roma centro di scienza equivaleva ad una Roma laica, solidamente costruita di fronte al Vaticano e alla tradizione chiesastica: tant’è, le sue proposte per il palazzo dell’Accademia delle Scienze in Roma fecero, a momenti, del dibattito a Montecitorio un dibattito pro e contro la fede, pro e contro la scienza e la ragione umana678 . Alla voce del Sella s’accomunò quella del Cairoli, che ammoni: «dove è la cattedra della Chiesa che insegna i dogmi e non domanda che la fede, ivi deve essere protetta la scienza, la quale cammina alla perfettibilità colla spinta della ragione»679 ; e seguì l’enfasi tribunizia dell’Oliva, che propugnò l’editto pretorio della scienza, cioè delle verità accertate, da opporsi al Sillabo e da promulgarsi in Roma680 . Soltanto, nel Sella c’era sempre una riserva, grossa riserva: il Dio della religione doveva per forza ritirarsi a misura che s’avanzava la scienza dell’osservazione; ma non certo per scomparire, giacché «l’infinito, il principio, il fine delle cose, Dio, il concetto di Dio non cade sotto la osservazione dei naturalisti; il certo si è che questa libertà che noi sentiamo dentro di noi, se corrisponde a una continuazione della responsabilità anche dopo la vita, cioè la questione della immortalità dell’anima, non casca sotto nessun goniometro, sotto nessun dinamometro, sotto nessun microscopio o telescopio ... è chiaro dunque che il concetto di Dio e quello della immortalità dell’anima non appartengono al dominio delle scienze positive», le quali non è vero che di per sé distruggano tali concetti e quindi distruggano il concetto della religione681 . Gli anticlericali, i laici di professione

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superavano invece questa sostanziale riserva e ammonivano finita la religione con l’avanzare della scienza e si preparavano a salutare, con il Guyau, «l’irreligione dell’avvenire». Ma, questa diversità ben precisata, è pur vero che nel problema Scienza-Chiesa il Sella era spiritualmente più affine agli uomini della Sinistra che non a molti dei suoi colleghi della Destra, i vecchi moderati alla Jacini e all’Alfieri di Sostegno, i quali invece recalcitravano proprio di fronte al dogma del progresso in nome e per virtù della Scienza e con esclusione del movente religioso, e riaffermavano la necessità del dogma cattolico, soprattutto per popoli come i latini, ai quali «piace dare amplissimo luogo all’autorità, al precetto, tanto in politica, quanto in religione»682 . Lontano dai moderati piemontesi lombardi e toscani; vicino invece ai napoletani come Spaventa, non tocchi da ínfiussi rosminiani o lambruschiniani e, in genere, dalle correnti europee del cattolicesimo liberale, sorretti dalla loro antica tradizione anticurialistica che gl’influssi dell’idealismo germanico stavano trasformando in coscienza laica della vita: allo Spaventa, per il quale pure rifare gli Italiani significava «svestirsi del vecchio uomo, e fare di noi degli uomini moderni», dal pensiero nutrito di soda e larga scienza, che potesse essere la mente di un grande e libero Stato683 . E se i cattolici liberali s’erano, a lor tempo, mossi in un’atmosfera europea, a sua volta il Sella si muoveva nella gran corrente europea di quei giorni, nuova e diversa rispetto alle precedenti: anche in lui s’avvertiva la consonanza fra l’uomo e i tempi. Per vero, la sua affermazione sulla missione di Roma nella Scienza, che trent’anni prima avrebbe fatto sorridere i Gioberti e i Balbo usi ad esaltare la cristianità di Roma, e un cinquantennio più tardi avrebbe fatto sorridere i realpolitici, usi a valutare soltanto le missioni di forza e di conquista, non fece allora sorridere nessuno: né il Mommsen,

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che l’ascoltò, ed era pure uomo mordacissimo e sprezzantissimo d’altrui684 , né gli Italiani che la conobbero. Così, il senso politico della necessità di Roma capitale si alleava in molti all’afflato mistico per Roma, al bisogno di credere nella missione della città eterna, nuovamente esaltata da Mazzini e da Gioberti. Anche uomini ch’erano tutt’altro che ciechi sugli inconvenienti a cui s’andava incontro, venivan trascinati da quest’ondata; e così Michele Amari, al quale i guai prossimi apparivano ben evidenti685 , polemizzando in Senato con Stefano Jacini, non solo poteva accennare al gran nome di Roma, che li aveva infiammati e commossi tutti, gli ora canuti senatori, a’ bei tempi della giovinezza, bensì affermare reciso che tali magici effetti del nome dell’Urbe non erano affatto dileguati, ribattendo al moderato lombardo che la tradizione di Roma non era «trastullo da scolare, né da antiquario», ma parte indissolubile della vita italiana e origine del rinnovamento nazionale686 . La fede che ne derivava era schietta, piena, seria; era un’idea-forza, uno stimolo necessario all’azione, un presupposto indispensabile per affermare, di fronte alle nazioni straniere da secoli costituite, la propria individualità nazionale. Eran le conseguenze felici del mito: e veramente certi ricordi classici, certi enncsiasmi di archeologi e di letterati costituivano uno dei legami che tenevan, in allora, strette insieme levarle parti d’Italia, da tante altre questioni tuttora divise687 . L’Italia unita viveva, sotto questo riguardo, di una vita spirituale parecchio diversa da quella dei giorni dell’attesa nel riscatto, dai giorni del primo Ottocento, quando Roma era stata relegata nello sfondo e, in sua vece, entusiasmi e affetti s’eran riversati verso l’Italia medievale, l’Italia dei Comuni, di Pontida, della Lega Lombarda e di Legnano, l’Italia di Gregorio VII e di Alessandro III, o, ancor più su, l’Italia di Arduino, nella quale s’eran visti

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gli albori della nazione italiana688 . Non a Roma, ma a Firenze, culla della civiltà italiana nell’età di mezzo, s’erano volti gli sguardi; non i colli fatali, ma Santa Croce e le sue glorie aveva cantato il Foscolo; e a Firenze s’eran dati convegno gli spiriti magni, primo fra tutti il Manzoni, per attingere ivi alle radici profonde della vita spirituale della nazione. La risurrezione di Roma, propugnata informe diversissime dal Mazzini e dal Gioberti, era stata sancita dagli eventi del ’48 e ’49: la repubblica romana e soprattutto l’epica difesa garibaldina, ad opera di giovani accorsi da ogni parte d’Italia, avevano riportato l’Urbe nel cuore degli Italiani, innalzandola alla vetta del Risorgimento689 , facendone il santuario della libertà690 ; mentre, d’altro lato, il fallimento pratico delle prime guerre per l’indipendenza, dimostrando insufficiente l’impeto rivoluzionario di popolo e facendo palese l’inanità delle speranze riposte nell’accordo tra i principi italiani, apriva bensì la via all’iniziativa piena di Casa Savoia, ma costringeva anche quest’ultima a proporre, tosto o tardi, un fine ultimo che non fosse semplicemente l’egemonia di Torino, anzi facesse tutt’uno dell’unità d’Italia e di Roma capitale. Il che faceva tutt’uno col trapassar dai progetti di confederazione alla tesi unitaria. Roma aveva parlato, primamente, al cuore di Mazzini, perché Mazzini era stato l’apostolo dell’unità; i comuni medievali, le piccole repubbliche avevano parlato al cuore di coloro che riluttavano all’unità. Ovunque, in Italia come fuori d’Italia, nel Cattaneo come nel Sismondi e nello Heeren, l’esaltazione dei piccoli gloriosi Stati medievali era andata di pari passo con la ripugnanza verso i grandi Stati unitari centralizzati; e se Cattaneo contrastava l’idea mazziniana di un’Italia unificata alla francese, lo Heeren aveva vaticinato la fine della civiltà tedesca e della libertà dell’Europa il giorno in cui la Germania si fosse unita in un solo Stato691 .

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Ora, su questo punto essenziale della sua predicazione, Mazzini aveva vinto: ben lontana dai suoi ideali e dalle sue predizioni setto tanti altri riguardi, l’Italia che era sorta era, sotto questo aspetto, la sua Italia, una, stretta in un sole organismo e non articolata federativamente. Sua era la vittoria; e la proclamazione del regno nell’aula del Parlamento Subalpino, il 17 marzo 1861, era stata ad un tempo l’affossamento di un suo miraggio e il trionfo di un’altra e anche per lui più sostanziale idea. E l’unità traeva con sé, quasi legata da invisibile filo, l’idea di Roma, perché il ceto dirigente «solo nella tradizione classica e romana poteva trovare il concetto dell’unità della patria con Roma capitale»692 . Tale collegamento, il Cavour lo aveva bene intuito; e dopo di lui l’accento politico della vita italiana s’era ancor più fermato su Roma, non solo attraverso il «Roma o morte» di Garibaldi, ma pure attraverso la «Permanente» dei piemontesi. Così, dopo il ’48 Roma aveva occupato nei cuori degli Italiani un posto mai avuto nei primi decenni del Risorgimento; il mito tornava a rifulgere di nuova luce. II Scienza o renovatio ecclesiae? Roma era dunque la missione, l’idea universale, il proposito cosmopolitico. Roma, missione, primato, terza età del mondo, tutte queste idee s’erano svolte insieme, in un viluppo strettissimo; le grandi ombre del suo passato torreggiavano nuovamente sulla città dai sette colli. Più tardi, sarebbero state le ombre di Scipione e di Cesare; ma in quegli anni subito dopo il ’70 era l’ombra di Pietro a incombere sugli animi, con la sua secolare continua presente gloria e potestà, che gli uni erano eccitati a difendere, egli altri s’accanivano a voler ridurre,

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sino a farne una parvenza esangue. Non la Roma pagana e imperiale, bensì la Roma cristiana, segnacolo di fede nel mondo, era ancor viva e ben viva; con essa s’aveva a misurare direttamente, ora, lo Stato italiano. Entrar a Roma, significava trovarsi fronte a fronte il Papato, cioè un’idea universale: alla quale, cosa contrapporre per non essere moralmente dominati e schiacciati? La Scienza, diceva Sella; la libertà religiosa e cioè la separazione fra Stato e Chiesa, secondo la formula cavouriana, rispondevano gli uomini di governo e molte delle maggiori personalità della Destra. Riuscire a tanto; far trionfare anche in Italia, sede del Papato, il principio che il problema religioso va lasciato alla libera coscienza dei cittadini e «che la convivenza della Chiesa libera accanto allo Stato libero si fonda non in un trattato di conciliazione tra quella e questo, ma nella natura delle leggi di questo, quando essa sia tale da rendere possibile, senza incaglio, la fondazione dell’ente morale, e dell’associazione religiosa»; non intervenire quindi nei problemi della Chiesa, limitandosi a restringerne i mezzi a quelli morali, liberamente accettati dai credenti, e togliendole il sussidia secolare della coazione esterna693 : questo fu allora il programma della maggior parte dei capi della Destra, ai quali l’assolvere tale compito, semplice in apparenza e in sostanza irto di difficoltà formidabili, apparve compito degno veramente dell’Italia e di Roma, tale da segnare la via migliore ai destini morali e religiosi dell’uomo694 . Era ancora il programma cavouriano, a cui essi vollero tener fede, nonostante le situazioni mutate, nonostante il Sillabo e il Concilio Vaticano; e la via seguita, attraverso la legge delle Guarentigie, condusse al successo, qualunque cosa si potesse dire in mento alle deficienze e alle contraddizioni di quella legge, perché attraverso tale politica si venne consolidando la coscienza dello Stato non confessionale, sopravvissuta a tante e tanto grandi tempeste e che con l’unità nazionale e il senso della libertà

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costituì il retaggio dell’Italia ottocentesca ai posteri. E se altri eminenti pensatori, soprattutto Bertrando Spaventa, trovavano insufficiente e provvisoria la formula cavouriana e vagheggiavano, al posto della Chiesa Stato lo Stato-Chiesa, o, come si disse più tardi, lo Stato etico695 , rispondevano i nostri che, ad andar oltre il principio della libertà, c’era da surrogare al vecchio governo teologico che faceva a laico un governo laico che s’impancasse a teologo696 , rovinando e Stato e Chiesa, impedendo sia il formarsi di una vera e salda coscienza politica, sia il rifiorire del sentimento religioso, pur tanto invocato come premessa necessaria ad una vita nazionale moralmente salda. Perché, per i più dei moderati, anche per coloro che non vagheggiavano, alla Ricasoli, la riforma religiosa e il trionfo del cattolicesimo «puro», impossibile appariva una vita di popolo sana e robusta ove una forte interiorità non sorreggesse gli ordini statali; e la forte interiorità poteva essere data solo dalla religione. Anche questa era un’eredità del primo Ottocento, dell’età romantica, che aveva posto in interiore homine l’origine e la base della vita collettiva e voleva far vivere la legge nel cuore dell’uomo sulle orme di Rousseau e contrariamente alla tendenza politicizzante alla Montesquieu che aveva invece fatto dipendere dalle forme di governo, dal sistema di diritto pubblico anche la moralità e la sostanzialità della vita interiore dei cittadini697 . Ed era un motivo comune alle più varie tendenze, fede e volontà richiedendo un Mazzini, e cioè sempre interiorità, fede e volontà richiedendo ugualmente quegli altri, i quali, lungi dal vaticinare la fine del Papato, continuavano a credere nella missione del cattolicesimo. L’educazione dell’uomo, cioè la preparazione degli animi ai grandi compiti della vita collettiva, valeva tanto per Mazzini quanto per i moderati, diversi che fossero i fini e diverse le forme attraverso cui l’educazione doveva compiersi. Ora, appunto, per i moderati il fattore religioso restava preminente: o forse lo

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stesso Cavour che ammirava Rousseau e avversava Voltaire, non aveva dimostrato, assai prima di enunciare la formula famosa, prima cioè che la ragion politica lo inducesse ad affrontare pubblicamente il problema, non aveva dimostrato vivissimo interesse per il movimento religioso in Europa, per le idee religiose «le grandi mystère du siècle», solo augurandosi che la religione non si alleasse alla reazione politica?698 E nella stessa formula non c’era forse la speranza, la certezza che in regime di piena libertà la religione rifiorisse e la Chiesa rimanesse potente, nel campo suo, ma potente: la stessa speranza, dunque, che continuavano ad accarezzare i suoi epigoni?699 . Or dunque niente Stato etico, per le maggiori figure nel campo dei moderati; ma rinvigorimento dello Stato, sperando che si rinvigorisse pure il sentimento religioso e per vie autonome, senza interventi politici dall’esterno, dal quale rinvigorimento lo Stato stesso avrebbe in definitiva tratto grande e diretto vantaggio, con la coscienza dei cittadini moralmente ben temprata. Separazione dunque, che non voleva dire guerra, ma escludeva – almeno in molti escludeva – i progetti di una conciliazione a mezzo di atti ufficiali di governo, secondo la vecchia prassi concordataria. Conciliazione, sì; ma se per la moltitudine essa si presentava naturalmente sotto le forme di un accordo preciso e concreto, com’era raffigurato nella litografia del Vaticinio, che andava a ruba dopo il Venti Settembre e dove Pio IX benedicente dava il braccio a Vittorio Emanuele appoggiato all’elsa della sciabola700 , per i capi assumeva forme meno semplicistiche e assai più complesse. «Quando dunque noi parliamo di conciliazione», dichiarava alla Camera il Visconti Venosta, «non intendiamo certo parlare di quei patti che confondono la politica con la religione, e che compromettono in egual modo e l’una e l’altra; la conciliazione non intendiamo crearla per altra via che per quella della libertà; di quella libertà che non è già uno spirito di intolle-

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ranza o di violenza rivoluzionaria, ma che si ispira al rispetto di tutti i diritti, e quindi al rispetto del più incoercibile, del più sacro fra essi, che è quello della coscienza religiosa». Scopo della politica italiana per il governo era dunque «di non rendere impossibile nell’avvenire la pacificazione, e la tranquilla coesistenza in Roma del papato, e del governo italiano»; per raggiungerlo, niente accordi legali, ma nemmeno la via della coazione su cui era entrato il Bismarck con il Kulturkampf e su cui avrebbe voluto entrare la Sinistra, una via che avrebbe apportato all’Italia «la felicità del conflitto religioso in permanenza» e che, con la rinunzia ai princìpi liberali e l’adozione dei metodi autoritari, avrebbe semplicemente allontanata la pacificazione701 . All’anticlericale principe Gerolamo Napoleone che gli rimproverava di esser troppo moderato nella questione romana e lo incitava a «pousser le pape hors de Rome», meno pericoloso essendo un pretendente fuori che dentro, il Visconti Venosta rispondeva, questa politica non è la mia, io farò ogni sforzo per render possibile l’intesa del Papato e della Monarchia in Roma, lo stabilimento di un modus vivendi accettabile per tutti702 . E più tardi, in un momento assai difficile per le relazioni italo-germaniche, quando ovunque si parlava di proteste e pressioni bismarckiane sul governo di Roma – come sul governo belga – dall’uomo di Varzin imputato di eccessiva condiscendenza verso il Papato, il Visconti Venosta affermava al ministro di Francia pur eludendone le domande specifiche, il suo profondo orrore per le lotte religiose, sino a rievocare addirittura, quale fantasma ammonitore, le guerre di religione del Cinquecento703 . Di fatto, sulla via prussiana della forza il governo italiano rifiutò di entrare tra il ’73 e il ’75, in pieno Kulturkampf, nonostante i violenti attacchi della Sinistra, e peggio, il malcontento del Bismarck, nonostante si compromettessero così le possibilità di accordo, formale e sostanziale, con quella Germania che pure appariva co-

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me l’unica sicura alleata contro possibili colpi di testa dei reazionari francesi: ed è il più alto elogio che s’abbia a tessere di quel governo e di quegli uomini: Ma sulla via della conciliazione concordata, anche solo come prospettiva teorica, rifiutarono di entrare, allora e poi, non diciamo gli uomini della Sinistra, ma anche molti della Destra: alcuni, di sentire tanto spiccatamente anticlericale da sembrar uomini di Sinistra accesa, perché preoccupati per ben altri motivi come sarebbe stata l’elezione di un pontefice troppo benigno che avrebbe imprigionato nelle sue reti la nobiltà e anche parte della borghesia, dominando così esso, con le armi morali, lo Stato704 ; ma i più per la convinzione di che s’è detto, della necessità cioè che Stato e Chiesa procedessero ciascuno per conto suo, unico modo per l’uno e l’altra di rinvigorir sé e, ad un tempo, di cooperare al rinvigorimento dell’altra parte. Niente interventi politici nella vita religiosa, come nella vita economica: era lo stesso ottimismo fondamentale del lasciar fare, lasciar passare che aveva nutrito il liberalismo occidentale della prima metà dell’Ottocento. Al Visconti Venosta s’era già unito in anticipo il Bonghi, poco dopo il 20 settembre, anch’egli parlando di una conciliazione naturale, e non per negoziati diplomatici705 , s’univa il Massari che anch’egli esponeva ai colleghi della Camera la sua persuasione nella conciliazione non concordata: «io anelo al giorno in cui l’amore della patria e l’amore della religione possano confondersi in un solo ed unico sentimento; ma, appunto perché io voglio, e sinceramente voglio, questa conciliazione, io desidero che non si facciano opere, non si diano passi i quali, volendo affrettarla, finirebbero per allontanarla. Io credo ... che la conciliazione dello Stato colla Chiesa non debba essere il frutto artificiale di negoziati, di trattative, di disposizioni legislative, ma debba essere il frutto spontaneo d’una politica illuminata e liberale, che essa debba

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essere la conseguenza del tempo confortato dal nostro tatto e dalla nostra operosa pazienza»706 . E se taluno più tardi, come il Bonghi nel famoso ’87, abbandonò per un momento il vecchio principio della conciliazione naturale per vagheggiare la conciliazione legalizzata, altri, di pensiero meno facilmente influenzabile dagli eventi del giorno, rimase fermo e incrollabile sino all’ultimo; e Silvio Spaventa ancora nel suo ultimo grande discorso, il 20 settembre 1886, ribadì a Bergamo i punti fermi del pensiero liberale che, per bocca di Camillo di Cavour, aveva proclamato finita l’èra dei concordati707 . Anche qui, dunque, nel problema più delicato che uomo politico avesse ad affrontare, misura, equilibrio, calma, attesa fiduciosa nell’effetto salutare del tempo, che il Visconti Venosta chiamava a collaboratore in questa come in ogni altra questione di politica estera708 : convincimento profondo dei frutti benefici della libertà, operante di per sé: gli essi criteri, dunque, che costituivano le caratteristiche dell’azione generale di governo della Destra dopo il ’70. Ma era politica a largo respiro, che guardava l’avvenire e non si chiudeva nell’attimo fuggente; tutta discrezione, finezza, senso del limite e quindi richiedente grande saggezza ed equilibrio interiore; politica troppo sottile, come si disse una volta alla Camera della Politica estera del Visconti Venosta, a troppo lunga scadenza, e poco adatta a calmar le impazienze e le attese in successi immediati e visibili. Tanto più, che, a determinare una siffatta linea di condotta, erano stati indubbiamente decisivi i principi, ma non senza che v’interferissero fortemente anche considerazioni dettate più specificamente dalle circostanze del momento, e di assai, assai minor respiro ideale. Perché tra i campioni della Destra, Sella e Spaventa eccettuati, v’era un po’ come la sensazione di averla fatta grossa col Venti Settembre: cattolici, e quindi non senza gran trepi-

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dazione di coscienza di fronte al capo della Chiesa cattolica, siccome chiaramente si avvertiva anzitutto e soprattutto nel Re, pien di rimorsi e di timori; uomini di governo, e quindi preoccupatissimi che, appena cessato il conflitto franco-prussiano, il mondo cattolico non insorgesse a chieder conto all’Italia dell’affronto fatto al Pontefice. Forse che al Minghetti, l’ex ministro di Pio IX, al primo annunzio del Venti Settembre ch’egli pure aveva decisamente voluto, non era passato per capo un pensiero, a lui stesso apparso così ardito da non osar esprimerlo neppure all’amicissimo Visconti Venosta: «che il Re corresse immediatamente a buttarsi ai piedi del Santo Padre (uso la frase romana per eccellenza)»?709 L’atto di contrizione dopo l’atto di forza: questo, uno Spaventa, a non dir di un Sella, non l’avrebbe mai potuto immaginare, e ci volevano le vecchie reminiscenze neoguelfe per suggerirlo710 . L’evitare ogni atto che potesse sembrare immistione nelle cose interne della Chiesa rispondeva dunque ai princìpi, ma non meno alle convenienze dell’ora e alle preoccupazioni d’evitare ulteriori sconquassi. Già per il Venti Settembre s’eran dovuti abbandonare, all’ultimo momento i «mezzi morali» per la forza; e il Visconti Venosta, sia pur con estrema riluttanza, aveva dovuto rinunziare alla via lunga, da lui preconizzata ancora il 19 agosto, e seguir la via breve711 . Lo strappo era stato grosso; e per quello, almeno, c’era la scusante del precipitare della situazione europea, la repubblica in Francia, le incognite di un avvenire scuro scuro, il pericolo di guai anche in Italia, ove non si togliesse la questione di Roma dalle mani della Sinistra e il governo, ancora una volta, non si ponesse, esso, alla testa della rivoluzione. Ma era più che sufficiente. Un ultimo sforzo, conseguenza inevitabile del grosso strappo, la legge delle Guarentigie: e poi, basta. Ritornare, ora, alla via dei mezzi morali, badare soprattutto ad evitare tempeste: la politica italiana do-

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veva aver per scopo «di non dare al partito clericale alcuno di quei plausibili pretesti finora abbiamo avuto l’accorgimento di non fornirgli, di far sì che esso non possa parlare in nome dei veri interessi religiosi ... È d’uopo che la questione non possa diventate una questione religiosa; facciamo si che essa rimanga ... una questione puramente politica. Ed allora a queste passioni che ora si agitano ... voi vedrete presto mancare ogni eco dintorno, e ad esse medesime mancherà più tardi l’alimento»712 . La libertà di Cavour, sì; ma tanto più accetta in quanto significava anche non far più nulla dopo il Venti Settembre, rimaner a guardare, lasciar che le cose andassero per il loro verso senza doversi gravar la coscienza di nuovi dubbi e nuovi rimorsi. Ci ai rifaceva, tra i moderati, in questa come in tante altre questioni, alla formulazione del gran Conte, divenuta come una sorta di quinto Vangelo: ma a coloro i quali dicevano, badate Cavour aveva profferito l’intera libertà alla Chiesa, per indurre Pio IX a rinunciare spontaneamente al potere temporale, e ora, dopo il Sillabo e l’Infallibilità, di fronte alle scomuniche e alle insidie papali, alla lotta del clero contro l’Italia, anch’egli non avrebbe più disarmato totalmente lo Stato713 , gli uomini di governo rispondevano con l’interpretazione letterale, rifiutando chiose e postille. Di qui la sensazione di incertezza e trepidezza, di un oscillare barcamenandosi empiricamente un colpo al cerchio uno alla botte, che quella politica poté dare, sollevando già allora le ire della Sinistra e, all’opposto, il malcontento di cattolici alla Tommaseo e alla Capponi, o l’ironia del Toscanelli che all’azione del governo applicava i versi del Giusti: Quell’occhio dal ti vedo e non ti vedo, Quel tentennìo, non so se tu m’intenda, Che dice sì e no, credo e non credo714

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e sollevando più tardi critiche severe di storici eminenti715 . Ma certo, quale che potesse essere il giudizio sull’azione pratica del governo, momento per momento, una cosa era sicura, ed è che una tale linea di condotta non soddisfaceva né punto né poco all’idea della missione di Roma. Urtava una parte degli stessi moderati, già entrati in gran collera per il Venti Settembre, turbati nella loro coscienza716 , e risoluti oppositori, poi, del trasferimento della capitale a Roma, come di un progetto che rischiava di incagliare la soluzione della questione romana, e, ponendo faccia a faccia Papa e Re, Vaticano e Quirinale, Statuto e Sillabo, di provocare urti tremendi ad ogni ora717 . Ma era del tutto insufficiente per coloro, cattolici e anticattolici, che sognavano la nuova missione di Roma. Anche ammesso il successo finale che cosa ne sarebbe risultato? La buona armonia fra lo Stato italiano e la Chiesa; la composizione di un dissidio interno; il consolidamento dello Stato italiano; il trionfo in Italia dello spirito di libertà, operante per forza propria: cioè, sempre, una soluzione puramente nazionale, italiana, onorevole ma modesta. Dei due, messe così le cose, dei due a giganteggiare sarebbe stata sempre la Chiesa, il Papato: Roma capitale d’Italia non avrebbe aggiunto nulla alla vecchia Roma pontificale. Niente missione cosmopolitica dell’Italia. E ancora: lasciar la Chiesa a sé, non significava lasciar che continuasse nella via già battuta e sanzionata dal Sillabo e dell’Infallibilità? Ora fra gli stessi cattolici più d’uno ve n’era che, se ripugnava totalmente dall’anticlericalismo di conio giacobino e positivistico, ripugnava pure al veder continuare il cattolicesimo quale era, senza rinnovamenti interiori. La Chiesa quale era, sostanzialmente, salvo l’abbandono delle tendenze politicamente reazionarie, accettavano il Lanza e il Visconti Venosta, a

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non dir del Capponi, del Jacini, dell’Alfieri718 ; la Chiesa quale doveva essere, propugnava un Ricasoli, e valea dire con un gran movimento di riforma interiore ripristinasse il «puro e vero cattolicesimo»: ebbene anche ad un Ricasoli l’azione di equilibrio del governo sembrava fiacchezza, debolezza, pavidità. Lo Stato estraneo ad ogni immistione nella vita della Chiesa, per gli uomini di governo; lo Stato che doveva invece cooperare alla riforma della Chiesa, per il Ricasoli. Due concezioni in totale antitesi: e se ancora fra un Visconti Venosta, un Lanza, un Massari da una parte e un Jacini, un Alfieri di Sostegno, un Casati dall’altra la differenza era più sul modo di comportarsi di quanto non fosse sul fine ultimo, più tattica che strategica, come che gli uni e gli altri volessero la Chiesa lasciata a sé, fra tutti quegli uomini e un Ricasoli il contrasto era già sul fine ultimo, sulla sostanza stessa delle cose. L’anelito alla riforma, che operasse dentro la Chiesa, non mai fuori e contro la Chiesa719 , ma che operasse, e urgentemente, il romito del Chianti720 l’aveva derivato dal magistero del romito di San Cerbone721 ma persisteva anche ora, tenacissimo, nel ’70 e dopo il ’70. Una volta, il Ricasoli aveva scritto al Giorgini, di aver la coscienza «che siamo alla vigilia di una grande rivoluzione nel cattolicismo romano a prò del vero cattolicismo, ed io la desidero ardentemente e prima di morire vorrei vederla. Mi struggo di porci lo zolfanello ma non so dove sia il punto più vivo alla esplosione»; e da tale desiderio eccitato, aveva diretto, nel ’65, i lavori della commissione parla tare che erano sboccati nel rivoluzionario progetto Corsi722 . Ora in Roma egli vedeva, più che il fatto di una capitale che si trasloca «la futura trasformazione del Papato, che non può non essere, ne spero, che a bene, del vero sentimento religioso, oggi compromesso dall’indifferentismo e dalla immobilità»723 .

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Qui, nel saper operare saggiamente era riposta «l’anima d’un avvenire nuovo della società umana»724 ; e il saggiamente operare voleva dire spiegare la bandiera della libertà della Chiesa, della completa e assoluta separazione della Chiesa dallo Stato, porgendo al mondo la base di una grande rivoluzione politico-sociale, di un fatto storico che dopo la fondazione del Cristianesimo «non saprei addurne un secondo egualmente benefico e splendido»725 . Ma libertà della Chiesa, separazione fra Stato e Chiesa significavano altra cosa, per il Ricasoli come per il Lambruschini, dalla formula cavouriana, almeno dall’interpretazione dei moderati di governo726 : volevano dire, invece, offrire alla Chiesa il mezzo di riformar sé stessa, aiutarla a riformar sé stessa, cioè intervenire soprattutto agendo in modo che la Chiesa ridiventasse la comunione dei fedeli, laicato e sacerdozio uniti. La grossa questione delle temporalità della Chiesa offriva a ciò immediato e facile modo. Non lo Stato che guarda la Chiesa vivere, ma lo Stato che aiuta la Chiesa a riformarsi: eran pensieri che riconducevan su su negli anni, quando il Ricasoli leggeva e spiegava il Vangelo alla piccola Betta727 o istruiva il canonico Parronchi sul come svolgere il Quaresimale a Brolio, per aprire i cuori e l’intelletto dei contadini a verità e dolcezze inusitate728 , o quando egli stesso, venuto di città in campagna e trovatala popolazione moralmente abbandonata, aveva cominciato a riunire di domenica in casa sua i contadini, per legger loro parabole e cavarne quanti più insegnamenti fosse possibile729 . Roma quindi era problema religioso; la sua missione ira sempre missione religiosa, alla rivoluzione politica doveva seguire la rivoluzione religiosa730 , e soltanto con l’avverarsi della seconda la prima avrebbe potuto dire di aver assolto veramente il suo compito. Perché Roma in sé e per sé, come fatto politico, come semplice capitale del Regno d’Italia, diceva poco al Ricasoli, d’accordo in

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questo senza saperlo con Mommsen, Gregorovius e Dostoievskij. «Si è voluto Roma perché ci apparteneva; perché il non averla ci era nocivo più che averla; e se si è fatta Capitale, egli è perché era indicato dalle nostre convenienze politiche interne, e non già perché Roma rappresenti alcuna cosa più che il centro del Governo di una Nazione, che repugna tutta concorde dall’accentramento, e dal farsi assorbire dalla sua Capitale ...»731 Niente missione di Roma in senso laico; niente Roma faro di luce nel mondo perché capitale d’Italia: tanto poco nel Ricasoli Roma italiana doveva assolvere una missione cosmopolitica, ch’egli combatteva gl’intendimenti del Sella di farne un grande centro di cultura e di scienza, dando in ciò libero sfogo anche alla diffidenza verso Roma accentratrice, dove sfociavano sia l’antiromanesimo d’allora dei moderati toscani, sia le antiche preoccupazioni del Ricasoli stesso come del Salvagnoli e di altri amici per la eccessiva centralizzazione della vita pubblica e il complicarsi della macchina governativa732 . Ma missione di Roma, questo sì, della Roma cristiana, cattolica, alla quale appunto l’evento politico di Roma italiana doveva servir da stimolo, motivo, occasione per una trionfale ripresa nel mondo. E se v’era una prova decisiva del basso livello morale a cui eran caduti gli Italiani, la costituiva il fatto che i più non scorgevano in Roma se non un evento materiale, neppur presentendo «che vi sta riposta l’anima d’un avvenire nuovo della società umana»733 . Così dalla realtà presente l’anima si protendeva verso l’avvenire; dal problema puramente politico del contegno da tenere di fronte al Papato, l’immaginazione si lanciava in arditi voli verso un grande evento futuro, il rinnovamento della Chiesa per forza interiore, il riapparire del puro cristianesimo, che non era altro se non il «puro cattolicesimo», e l’umanità avviata, con rinnovato abbandono nella ristoratrice parola del Signore, ver-

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so più alte forme di vita morale, che soverchiassero finalmente il sordido materialismo del secolo. Né erano soltanto cattolici italiani a sognarlo; voci abbastanza simili, e non molto meno accese di zelo riformatore, si levavano oltre frontiera, e tra le altre quella di uno dei prelati di maggior nome nella cattolicità europea di allora, il vescovo di Djakovo, Giuseppe Giorgio Strossmayer, uno dei capi del movimento nazionale slavo, ch’era stato uno dei risoluti avversari del dogma dell’infallibilità. Legato da personale amicizia col Minghetti734 e col Visconti Venosta, e grado di far discutere dal Consiglio dei ministri memoriali suoi, al momento della legge delle Guarentigie735 ; pronto a servir da intermediario fra Italia e Francia nelle questioni attinenti a Roma papale e soprattutto a predisporre il terreno per l’eventualità di un conclave736 , lo Strossmayer non soltanto auspicava sul terreno politico la collaborazione fra latini e slavi737 , ma in campo religioso propugnava la riforma interna della Chiesa: e in questo anch’egli vedeva la missione dell’Italia politica, chiamata a cooperare, a favorire, a spronare. Occupando Roma e distruggendo il potere temporale, il governo italiano ha fatto cosa utile a sé «ma eziandio benefica alla Chiesa e a tutta l’umanità. E difatti tale dominio aveva allontanato il Papato dalla sua divina destinazione convertendolo in una istituzione meramente politica. A tale dominio si deve ascrivere se il Papato venne meno al suo carattere di universale, e se lo troviamo avverso a tutte le più savie, rette e generose intenzioni d’Italia. Però l’Italia occupando Roma diede solo principio alla sua grande missione, e molto le resta ancora da fare. Dopo ha un compito e ardisco dire una missione provvidenziale che non potrebbe dimenticare senza sua gran disonore e pericolo, cioè il compito e la missione di far sì che il Papato ritorni alla sua primaria e immortale destinazione, e che riconciliatosi coll’Italia e per essa con tutta la civile società, si studi efficacemente a purificare

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e santificare in conformità ai precetti della divina legge i cambiamenti avvenuti e riconoscendo con lealtà e franchezza come la indipendenza e la libertà del Primate dei cattolici sia sufficientemente costituita e garantita dalle libere istituzioni del Regno d’Italia, divenga per essa un elemento poderoso di grandezza morale anziché un germe funesto di debolezza e d’infermità. La Provvidenza divina coll’avere designato Roma quale sede del Papato impose all’Italia l’obbligo di essere custode della libertà della Chiesa e protettrice del Papato, e la costituì in tal qual modo la mediatrice naturale tra il Papato e la civile Società.»738 . Perciò lo Strossmayer, approvando pienamente la legge delle Guarentigie, trovava che in un sol punto il governo italiano aveva ecceduto – in debolezza – abbandonando al Papa e alla Curia la nomina dei vescovi mentre si sarebbe dovuto tornare all’antica disciplina «clerus et populus o, riservando Papa solo il ius confirmationis. Toccava all’Italia prender l’iniziativa su questo punto capitale; così come era interesse dell’Italia e del mondo intero che si attuasse il programma ferito caro al vescovo di Djakovo: che, cioè, il Papato cessasse di essere un’istituzione esclusivamente italiana, come voleva la Curia, per ridiventare un’istituzione cattolica e mondiale739 . Più alla buona, era pensiero comune in quei giorni e di frequente affiorante nelle discussioni in Parlamento, che l’aver perso il dominio temporale anziché nuocere avrebbe giovato al Papato, liberandolo dalle scorie terrene e lasciandolo tutto al suo alto compito spirituale740 . E ne convenivano i Lanza i Visconti Venosta i Minghetti i Borghi. Soltanto, nell’opinione comune il compito dell’Italia era stato appunto quello, puramente negativo, di liberale il Papato dalla soma terrena; ed era compito esaurito. Il resto, ci pensasse a farlo la libertà, operante come grazia efficace; la sua vita interna la Chiesa se la regolasse da sé, senza che lo Stato v’avesse più ad in-

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tervenire: che fu appunto il concetto cardine del titolo secondo della legge delle Guarentigie. Compito nient’affatto esaurito, per coloro che la pensavano come un Ricasoli; missione che cominciava proprio soltanto allora, per coloro che attorno al 1870 vivevano ancora di sentimenti e di pensieri sbocciati nell’Europa della prima metà dell’Ottocento, in quel clima così ricco di senso religioso e di attesa quasi messianica nel nuovo trionfo della fede, dove avevano potuto operare Lamennais e, in Italia, Rosmini e Lambruschini. Accordo tra fede e scienza, tra Chiesa e libertà, tra Chiesa e pensiero moderno: era la tradizione dei Rosmini, dei Manzoni, dei Lambruschini, che, per un Ricasoli, sulle orme el Lambruschini, doveva divenir fede operante, anche da parte dei laici, e non rimaner fede puramente contemplativa, siccome predicava il governo. Idee e affetti ancora di prima il ’48, dunque, del cattolicesimo romantico. Ma i tempi non erano più quelli; al bisogno di riforma religiosa e età romantica sottentrava, era già sottentrato il bisogno di scienza dell’età positivistica, come avrebbe dimostrato il rapido declino del movimento dei Vecchi Cattolici in Germania e dell’eco europea di un Döllinger, così in auge, per un momento, proprio nel ’71. E quindi di scarsa risonanza ormai le voci di un Lambruschini vecchio e di un Ricasoli già praticamente fuori dei tempi, e trionfante invece la missione di Roma alla Sella. Alla voce del ministro delle Finanze, rispondevano infatti altre voci di uomini che, politicamente, appartenevano pure alla Destra; rispondeva soprattutto il coro concorde degli uomini della Sinistra. Roma capitale del Regno, inizio di un’èra nuova nella storia dell’umanità intera: e se l’Italia non aveste adempiuto al compito assegnatole dal destino, non avrebbe avuto più ragione di essere nel mondo. «L’Italia non può ripudiare una missione, direi mondiale, di cui la Provvidenza la incarica,

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e che le sta dinanzi. A lei spetta presentarsi davanti a tutte le nazioni civili del mondo con questo insigne titolo al loro rispetto, alla loro riconoscenza, di essere cioè pervenuta, abbattendo il potere temporale del pontefice, ad emancipare e rendere più autorevole e venerando il potere spirituale, liberandolo dalla soma di una men che apparente sovranità politica, e sciogliendo, dopo secolari conflitti, un infausto connubio, che non a noi soltanto nuoce, ma nuoce ai grandi e generali interessi della civiltà e della libertà del mondo.»741 . Ma nella perorazione del Mancini, alla vigilia del Venti Settembre, c’era una formula convenzionale, di cortesia, di opportunità politica, che altri uomini non condividevano certo, e forse nemmeno il Mancini professava sinceramente: il rendere più autorevole e veneranda la potestà spirituale del Pontefice, era proprio soltanto una formula a scopo tattico, in un, discorso parlamentare, e niente più. Quel che s’era fatto sino allora, non bastava; L’abbattimento del potere temporale non era fine a se stesso, ma semplice mezzo: come per il Ricasoli, anche se con intenzioni del tutto opposte, il Regno d’Italia non doveva «stare a vedere», ma operare sulla Chiesa. Operare, questa volta, in senso distruttivo: l’Italia nuova e il cattolicesimo vecchio non potevano più stare insieme; l’Italia, creatrice del Papato, doveva distruggere il Papato, doveva spaparsi742 : e anche qui si accordavano voci dall’interno e dall’estero e si predicava, oltr’Alpe, l’obbligo dell’Italia di sfasciare il cattolicesimo romano per riparare a tutto il male causato dall’Italia all’umanità con la restaurazione cattolica del Cinque e Seicento743 . Non più il rinnovamento della Chiesa, il rinato fervore religioso delle genti; ma, esattamente all’opposto, la fine della «superstizione», cioè dell’idea religiosa, il crollo del Papato anche come potere spirituale dopo il crollo del potere temporale; la fine del «vecchio cancro» che

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aveva roso per secoli il bel corpo dell’Italia744 , e il trionfo del libero uman pensiero. In luogo del messianismo religioso dell’età romantica, in luogo del cattolicesimo liberale, razionalismo settecentesco e giacobinismo rivestiti a nuovo e scientificizzati dal positivismo trionfante. In luogo della fiducia nell’accordo tra fede e scienza, Chiesa e libertà, la convinzione della inconciliabilità assoluta tra Chiesa e libertà, tra Papato e pensiero moderno. Non più dogmi, ma scienza; la scienza che apportava la luce, debellando l’oscurantismo clericale, e custodiva la verità nutrice della nuova morale. Altissimo fine per alcuni, come i Sella, fine a sé e in sé, anche se servisse contemporaneamente per la lotta contro il Papato reazionario e anti-italiano, la scienza ben s’intende valeva per altri soprattutto come mezzo, in quanto serviva per la lotta contro la Chiesa: era la parola d’ordine del giorno, ed è ovvio quindi se ne valessero, per i loro attacchi al Papato, anche uomini che della scienza avevano concetti assai assai nebulosi e, contrariamente al Sella, non sognavano minimamente di dedicarsi al suo culto. Soprattutto nelle polemiche giornalistiche e nei dibattiti parlamentari, era sovente un nome pomposo che mal mascherava la scarsa dimestichezza al pensare; e far di Roma la capitale dello spirito moderno e così per la terza volta la regina del mondo civile aveva per un De Sanctis745 evidentemente, un significato di altra profondità e sostanzialità che non per i redattori del Gazzettino Rosa. Ma, più o meno profondamente e puramente sentita che fosse, la scienza fu allora l’appello che ebbe il potere di entusiasmare i molti, corbe un cinquantennio prima l’avevan avuto invece altre idee e, fra esse, anche l’appello al rifiorir religioso dell’umanità; né mai un simile grido ebbe più vasta e profonda risonanza che in quegli anni, dopo il Sillabo e il decreto sull’Infallibilità, quando i governi di mezza Europa erano in rotta col Papato, persino il governo della cattolicissima Austria, e quando il trion-

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fo prussiano nella guerra appariva anche come il trionfo della scienza sfruttata a fini bellici. La morte stessa celebrava il progresso scientifico746 . La religione del progresso, al posto della religione dei dogmi. Poco più tardi, lo si poté ascoltare dai pubblicisti bismarkiani, una voce dicentes, e fra le varie voci dei cantori squillante soprattutto quella del Treitschke: che la Germania, la grande patria della libertà del pensiero, non combatteva per l’onnipotenza statale, ma per una più libera concezione del cristianesimo, per la libertà del pensiero e della scienza, per una nuova vita spirituale germanica e quindi dell’umanità747 . Ma in quei giorni tra settembre 1870 ed estate 1871, prima che il Bismarck, dissotterrata l’ascia fatidica, lanciasse il grido di guerra «nach aussen wie nach innen»748 , e dopo ancora anche in pieno Kulturkampf Italiani e Tedeschi disputandosi l’onore749 , l’essere i liberatori del genere umano dalla schiavitù spirituale dei preti lo reclamarono per sé i laici italiani. E di Roma capitale questo divenne il compito più largamente e intensamente celebrato; e all’Italia venivano additati della dea Roma ... le colonne e gli archi: non più di regi, non più di cesari e non di catene attorcenti braccia umane su gli eburnei carri; ma il tuo trionfo, popol d’Italia su l’età nera, su l’età barbara750

La Scienza, gli istituti di alta cultura, l’Accademia dei Lincei e l’Università, baluardo del nuovo pensiero contro il pensiero teocratico; i congressi degli scienziati, le libere discussioni che, avvenendo nella antica capitale della scienza ortodossa, e cioè della falsa scienza, costituivano un evento nella storia dello spirito umano751 : qui il pensiero acquistava forma concreta, anzi la sola forma

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concreta che l’idea del rinnovamento laico dell’umanità potesse assumere. Scienza, discussione critica e non più accettazione cieca di dogmi: 1 grido si levava, alto, di qua e di là dalle Alpi. Entrer dans la science, dans l’examen, tuonava l’iracondo Flaubert, grande artista e come tale deprecante l’inizio dell’età utilitaria e positivistica, ma d’altro canto furibondo contro i dogmi, anticlericalissimo e quindi apostolo della scienza, della discussione critica, del predominio dei mandarini cioè del sapere752 . La regina legittima del mondo e dell’avvenire non è ciò che nel 1789 si chiamava la Ragione, è ciò che nel 1878 si chiama la Scienza, esclamava Taiine753 . E Renan poi, che intonava nuovamente il motivo del progresso della ragione, vale a dire della scienza, già accarezzato sin dal ’48 ne L’avenir de la science e ripreso con grande ottimismo nel ’69, alla vigilia della guerra754 ; Renan, che modernizzava l’Ecclesiaste; affermando la vanità di tutto fuorché della scienza, l’arte stessa apparendogli ormai un po’ vuota755 ; Renan dimenticava le più assennate considerazioni del novembre 1849 sulla naturale cattolicità del popolo italiano756 , per proclamare che la fine del potere temporale avrebbe provocato anche uno scisma simile al grande scisma d’Occidente e con ciò la fine dell’unità cattolica757 . Proprio per questo, il «modesto e onorevole» rinascer dell’Italia a nazione era anche un fausto evento per l’umanità758 . Così, nel 1881 egli affidava alle mani degli anticlericali romani il gran problema del secolo XIX, della assoluta libertà religiosa e dell’agnosticismo statale in materia di fede: che voleva dire cacciar dal mondo le ultime vestigia di un regime opposto ai princìpi più saldi della civiltà moderna, e garantire i diritti della causa santa, la causa della coscienza limana, dello spirito umano, della scienza759 . Sfiduciato, spesso, della Francia; a momenti attanagliato da torbide visioni sull’avvenire dell’umanità; pieno di contraddizioni interiori, e anzitutto proprio tra nostal-

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gie del passato aristocratico e inni alla scienza, che significava una società industrializzata, democratica e nazionalista; indeciso e oscillante tra gli intimi ideali artisticoreligiosi e l’ideale scientifico assai più mutuato dai tempi, Renan tornava l’ideale a riprendere animo solo pensando al trionfo avvenire della scienza e alla fine dell’unità spirituale della Chiesa romana. Qual prova migliore del viaggio in Sicilia, nell’estate del 1875, quando la nave che trasportava il novello apostolo delle gemi era stata attorniata, nei pressi di Selinunte, da uno sciame di barche cariche di Siciliani acclamanti «viva la Scienza!», e lui, il grassoccio e sorridente Renan, era passato attraverso l’isola simile ad un trionfatore, tra le continue ovazioni di un popolo intero, modesto nell’incedere e pur compiaciutissimo che dopo Empedocle a nessuno, Garibaldi eccettuato, fossero state tributate accoglienze simili? Veramente, dopo l’Ungheria, la Sicilia era il paese più prossimo a spezzare i vecchi legami con Roma papale e ad iniziare la riforma religiosa760 . Roma centro di scienza, di pensiero laico rinnovatore del mondo: fu un motivo intonato allora da una folto coro761 e continuamente riecheggiante nei decenni che seguirono, si affermasse in Parlamento, da maggiori e minori, che in Roma occorreva laicizzare lo Stato di fronte alla Chiesa, o dal Crispi, presidente del Consiglio, che bisognava affermarsi con la scienza di fronte al Vaticano, per dar modo alla terza Italia di combattere i pregiudizi del passato762 ; si esaltasse, in campo de’ Fiori, Giordano Bruno; si ripetesse in Senato, nel 1913, a proposito della cattedra di filosofia della storia nell’Università di Roma, che all’Ateneo dell’Urbe incombevano maggiori doveri per essere «il vero segnacolo dell’emancipato spirito moderno, di fronte al secolare dominio teocratico»763 . Né fra gli stranieri era solo Renan a credervi: ancora all’inizio del secolo XX il Novicov esaltava la missione intellettuale dell’Italia, destinata a divenire non soltan-

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to il «sanatorio intellettuale e morale del mondo», armonioso asilo di tutte le anime delicate, ma, come una volta, anche la rinnovata educatrice del genere umano nella scienza, la madre delle scienze e delle arti764 . È naturale che nel gran coro intonato da pubblicisti e uomini politici, soprattutto della Sinistra, e dai liberi pensatori di professione, l’ideale della scienza, pur sempre riaffermato, sfumasse in assai più vaghi accenti in cui al principio positivistico della scienza si frammischiava il ricordo della predicazione mazziniana, con le sue indefinite attese messianiche, i suoi slanci oratori, il suo anelito ad una nebulosa religione del Vero e del Buono. Tipicamente uomo della seconda metà del d’Ottocento, il Sella, e di una chiarezza e precisione veramente consona al suo ideale; a mezza via spiritualmente tra prima e seconda metà, tra predicazione mazziniana e positivismo alla Littré, tra ateismo e un confuso teismo, gli altri. E su parecchi, i meridionali in genere, il Mancini in ispecie, urgeva ancora l’antica mentalità dei giurisdizionalisti settecenteschi; e, su altri, in primis il Crispi, premevano gli influssi massonici e il verbo del grande architetto dell’universo: su tutti, lo spirito giacobino, vivo e agitantesi ora proprio essenzialmente nel problema dei rapporti con la Chiesa. Così è che nelle apostrofi e invocazioni di quegli uomini il tono s’accendesse; come nell’oratoria parlamentare, così nella pubblicistica, al più contenuto e secco e riguardoso eloquio di un Sella succedeva il pathos di derivazione mazziniana, l’immagine grandiloquente, l’invettiva contro il Papato. Lotta contro il nemico interno dell’Italia, che era ad un tempo il cancro dell’umanità, il Papato; lotta contro la teocrazia, per erigere sulle ceneri del trono dei papi un edilizio che, basato sulla morale e sulla scienza, fosse degno di essere il tempio dell’umanità765 ; ricondurre la religione cattolica «ai modesti princìpi onde nacque», senza

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di che l’Europa liberale, non avrebbe mai avuto pace766 : questo il programma della battagliera Riforma. Un’occhiata di quando in quando a Nizza e a Trento e un’altra all’Oriente: ma, per il momento, soprattutto e sempre, occhio al Papato e quindi alle mene dei reazionari francesi, procedendo concordi con il Titano che sfidava il Papato e tutelava la libertà dell’Europa, con il principe di Bismarck. Crispi l’aveva già affermato anche prima che bisognava mirare a Roma «necessaria al popolo per essere la vera capitale d’Italia, e necessaria all’umanità per essere il termine logico dalla cui conquista dipende la conquista della libertà di coscienza»767 . E dalla missione emancipatrice di Roma nel cancellare la tirannia dei preti, nemici della patria e della civiltà, prendeva le mosse l’Appello alla Democrazia che Garibaldi e Cairoli lanciavano il 1° agosto 1872768 : e l’eroe dei due mondi incalzava, sia che deplorasse di non poter ottenere dal governo e dalla maggioranza della Camera un decreto che liberasse l’Italia dal Papato anche spirituale769 , sia che invitasse il popolo, da Frascati, ad iniziare il terzo periodo dell’incivilimento di Roma, sostituendo a tutte le religioni rivelate o mentitrici «la religione del vero, religione senza preti basata sulla ragione e la scienza»770 . Dietro ai grandi padri del laicismo, la gente minore, convinta che la rivoluzione fosse giunta a Roma per combattere il cattolicesimo faccia a faccia, e che fora di morte del Papato fosse suonata771 ; cupida di trar le conseguenze dalla presa di possesso dell’Urbe, non sterile atto conchiuso in sé, bensì inizio di un’èra nuova772 ; spesso anche, come suole, proclive ad esteriorizzare il proprio sentire in manifestazioni rumorose e, non infrequentemente, peggio che rumorose sconvenienti o ridicole773 : proclive, per esempio, a parodiare, il giovedì grasso per il Corso di Roma, la «Crociata cattolica del 1871»774 , o a banchettare pubblicamente il Venerdì Santo a Pisa775 , o a trasformare la cerimonia nu-

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ziale di un ex sacerdote in una festa del «progresso»776 . Né valevano gli ammonimenti di chi, patriota ma cattolico, avrebbe voluto gran delicatezza di modi riguardo al Papa, soprattutto nella stampa, per attenuare il suo allarme e non dar motivo ai cattolici di tutto il mondo di gridare contro l’Italia777 ; o di chi già prima aveva ammonito che i preti andavano tenuti a freno quando trascendessero, ma che i pretofobi erano per lo più ancora peggiori e avevano guastato parecchio le cose d’Italia778 . Dilagò l’anticlericalismo, con le sue Unioni dei liberi pensatori dagli ambiziosi e ottimistici programmi779 : e in quelle forme e modi fu, sì, ovvia reazione all’atteggiamento politico iella Curia romana e dell’alto clero e dei Gesuiti di fronte all’unità d’Italia, e da questo punto di vista fu dunque collegato con una situazione specificamente italiana, così da vendicare a sé, molto al di là del presente, lontane, gloriose scaturigini e da presentarsi quale nuovo ghibellinismo che invocava il ghibellino Dante, trasformato in un gran laico780 e contrapposto al Vaticano781 ; ma fu anche espressione della credenza in una prossima, inevitabile trasformazione della vita morale dell’umanità, sulle rovine del credo religioso innalzantesi al culto della scienza e del progresso, e quindi s’intrecciò e fuse strettamente con l’anticlericalismo europeo, segnatamente con quello francese, di identico stampo culturale e di identiche radici illuministiche positivistiche massoniche, e con l’anticlericalismo francese festeggiò, nel 1878, il centenario della morte di Voltaire, apostolo della guerra contro il fanatismo, la superstizione, la religione782 . Perché molti credettero sinceramente che fosse giunta l’ora, del tramonto della Roma «hedificata ... super Christum petram per Petrum et Paulum»783 ; e all’Aleardi, inviperito contro la «immondizia volpina» regnante nel Vaticano, parve sul serio che il dominio della Croce sulle coscienze fosse terminato, tanto che, finito «questo

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tumulto delle anime», i popoli non avrebbero forse più voluto la Croce «né anche sulla loro fossa»784 . Alti voli dell’immaginazione, dunque; fervore di speranze, di quelle speranze e attese messianiche che, nonostante tutto, apportavano ancora nell’atmosfera già più dura degli ultimi decenni dell’Ottocento un po’ dell’atmosfera vibrante di fede nel futuro dei primi decenni del secolo, allora libertà, armonia dei popoli, rifiorire del sentimento religioso, perfezionamento delle sorti umane, ora, almeno, scienza e progresso. Nonostante tutte le furie scatenate, clero, Internazionale, imperatori ed ex-imperatori, il XIX secolo trionfa785 : lavoriamo dunque, uomini di scienza, per la soddisfazione del nostro spirito, per la verità, per l’umanità786 . L’ideale viene oggi non dal prete, non dal filosofo, ma dalla scienza: «avremo un’ideale scientifico, e il secolo XIX, le siècle d’enfantement, lo porta nel suo grembo. L’ideale è morto: viva l’ideale!»787 . E sicuramente la coscienza dello Stato non confessionale, fondato sulla scuola laica, che i moderati consolidavano ne’ modi consoni al loro pensiero, s’alimentò e s’irrobustì per altre vie in quell’atmosfera, anche se carica di intemperanze ed eccessi: non diversamente, se pure in minor misura, da quel che accadeva allora in Francia, dove, in stretto rapporto anche lì con le passioni politiche dell’ora e la lotta contro il clericalismo reazionario, la passione anticlericale si accentuava, il positivismo diveniva sempre più antireligioso788 , e lo stato laico riceveva la sua definitiva consacrazione con le leggi Ferry sulla scuola. Anche in Italia, la legge sull’obbligatorietà dell’istruzione elementare, fatta votare dalla Sinistra, nel 1877, ebbe questo preciso valore; e già prima, l’abolizione delle facoltà di teologia, nel 1872, suonò come una recisa affermazione della laicità allo Stato789 : tanto è vero, che l’avversione del Bonghi al provvedimento era dettata dal ri-

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sorgere delle speranze, di rosminiana origine, in una riforma interna della Chiesa, e cioè da un motivo lontanissimo da quegli altri suoi pensieri sui diritti dello Stato moderno, di cavouriana e tocquevilliana radice790 ; e l’avversione del Bon Compagni nasceva dal ricordo del neoguelfismo, di Pio IX, del ’46 e del ’47, del periodo, cioè, in cui il cattolicesimo libertà nazionalità eran sembrati fondersi in uno, e quest’uno non era sicuramente lo Stato laico di vita postquarantottesca in Piemonte prima e in Italia poi791 . Fu, nell’insieme, un’evoluzione concorde con l’assestamento e consolidamento dello Stato italiano in tutti i campi, dalla finanza alla coscienza pubblica, attraverso un lento, faticoso lavorio, frammezzo a difficoltà gravi di ogni genere; concorde con il generale progressivo elevarsi al livello della civiltà dell’Occidente europeo, non pur nelle libere istituzioni politiche e nel regime parlamentare, ma nell’economia e nella vita spirituale e morale: ed era civiltà laica. E vi contribuirono gli uni e gli altri, moderati e non moderati, ciascuno a modo suo, anche, se sul momento, le polemiche fra gli uni e gli altri fossero vivacissime e il tono anticattolico, e non solo anticlericale, degli ambienti della Sinistra accentuasse il contrasto fra la gran maggioranza dei moderati e tutti gli uomini della Sinistra. Idealmente, anzi, divenne questo il punto d’attrito più forte. Convertiti alla monarchia quasi tutti gli uomini politici già repubblicani; venuto meno dunque il primitivo dissidio in merito alle forme istituzionali, e accingendosi ora i Crispi e i Cairoli a diventar ministri del Re e presidenti del Consiglio, il motivo ideale di dissenso fu costituito, dopo il ’70, dai rapporti fra Stato e Chiesa, siccome dovevano dimostrare le vicende degli anni fra il ’ 71 e il ’76 e l’assoluta antinomia di posizione dinnanzi al Kulturkampf tedesco e un suo eventuale corollario in Italia. Il resto, contrasti rissimi sul sistema tributario alla Sella, indirizzo di politica interna, perfino

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urti in merito alla politica estera, erano ancora dissidi di carattere politico pratico, quando pure non si limitassero ad essere motivi di offensiva parlamentare ed elettorale; questo invece fu propriamente un principio, un’idea in discussione. Per i moderati, lungo tutto il Risorgimento e ancor ora, da un Minghetti ad un Visconti Venosta ad un Bonghi, per non dir di un Ricasoli e di un Capponi, il sentimento religioso aveva e doveva mantenere valore fondamentale ai fini della società umana792 . La religione faceva tutt’uno con la vita morale dei popoli: su questo, erano stati d’accordo quasi tutti, ad eccettuarne il gruppo napoletano degli Spaventa e alcuni altri, come il violento Amari, i quali, se politicamente militavano nelle file parlamentari della Destra, non potevano essere considerati, e in effetti non erano considerati dei moderati o almeno dei moderati classici. Per gli uomini della Sinistra, con cui s’accordavano in parte anche i Sella e compiutamente gli Amari, tutti quelli erano veramente sogni funesti; e lo Stato italiano sarebbe stato saldamente costruito soltanto quando il timor reverentialis di fronte alla Chiesa fosse svanito. Che fu, ancora, fatto italiano in stretta connessione con un più generale fatto europeo, e soprattutto francese. Ma, appunto, fu un fatto nuovo per l’Italia. Ché dei sogni universali, delle attese in una Roma che annunziasse nuovamente il verbo rinnovatore della civiltà umana, di consimili speranze e attese invece la fallacia apparve sempre più manifesta man mano che trascorrevano gli anni. Svanì, assai rapidamente, non pure il fugacissimo sogno di una Chiesa nazionale, in un’Europa religiosamente tutta divisa in Chiese nazionali793 , ma anche il ben più radicato sogno di una riforma interna della Chiesa, il gran mito di quella che potrebbe essere chiamata la Si-

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nistra del romanticismo cattolico: era già un pallido ricordo, anzi, nei giorni stessi dell’ingresso dei bersaglieri in Roma, dopo il Sillabo e il decreto sull’Infallibilità, le due risposte massicce che la Chiesa aveva dato agli apostoli del suo rinnovamento. Dopo questo, non c’era più nulla da sperare, salvo a mettersi risolutamente fuori e contro la Chiesa, seguendo l’esempio già offerto da Piero Guicciardini794 : le vie di mezzo, le soluzioni conciliative all’interno avevano fatto il loro tempo. Nella vita veramente «progressiva» l’Italia doveva entrare, contrariamente al detto del Sismondi, non già dopo una profonda riforma che restaurasse il sentimento religioso795 bensì esclusivamente per virtù del sentimento laico, delle forze laiche; e quando le forze cattoliche avrebbero ripreso a partecipare alla vita pubblica, come tali, apportando il loro contributo, a mano a mano più fattivo e cospicuo, di pensieri e di opere, l’avrebbero esse stesse apportato su tutt’altra base che su quella del Sillabo, accettando invece non solo l’Italia-unita con Roma capitale ma anche l’idea della libertà, e cioè accettando l’eredità dei laici. Svanì il sogno dei Rosmini e dei Lambruschini, in Italia, così come in Germania sarebbe rapidamente svanito il sogno dei vecchi cattolici e del Döllinger, al quale taluni avevan potuto guardare come a sicura promessa di cose future796 . Riprendendo il vecchio detto sulla scarsa sensibilità degli Italiani per i problemi religiosi, vi fu chi osservò che il contrasto fra l’Italia e il Vaticano era puramente politico, e ammonì a non illudersi sulla possibilità di movimenti alla Döllinger797 . Ma anche coloro i quali non sapevano rinunziare alle illusioni su di una prossima, inevitabile, profonda trasformazione della Chiesa, e non condividevano il presupposto del «naturale» indifferentismo italiano, alle illusioni univano ora una assai più acre ostilità contro il Papato, contro la Chiesa ufficiale da cui non c’era da sperare più nulla: siccome succedeva al Ricaso-

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li, sempre convinto, anche dopo il Sillabo e l’Infallibilità, di vivere in uno di quei periodi storici in cui un’età tramonta e un’altra s’avanza, ma agitato da immagini che richiamavano le intemperanze degli anticlericali e dei liberi pensatori, da lui assai odiati; e così, riguardando dall’alto del Gianicolo Roma distesa ai suoi piedi e abbracciando in uno sguardo Vaticano, Quirinale, Colosseo, trovava «très admissible l’imagination de contraposer aux ruines de la Rome payenne les ruines de la Rome papale. Un jour viendra, je suis bien loro de la prétention d’en calculer la distance, destiné à nous montrer le Vatican dans de telles conditions que, comparées aux actuelles, on pourra dire de lui ce qu’on dit de tout monument ancien, dont l’âme n’existe plus que dans les souvenirs, et dans les pages de l’histoire»798 . Anch’egli dunque, convintosi dell’impossibilità che il Papato intendesse i tempi e rinnovasse se stesso, convinto della «ostilità del curato verso la società civile»799 , finì col ripiegare dal sogno di una palingenesi religiosa universale all’appello a Roma come centro di sapienza civile almeno per il presente e lasciando solo lontano futuro aperto allo spaziar dell’immaginazione. La Roma papale era finita per sempre; restava la capitale d’Italia e nulla più: «ma per questo lato sarà nella realtà molto più che non fu, e che non era, e non è attualmente, perché sarà sede di una Nazione viva per la libertà e per l’indipendenza, e quindi in Roma sarà il fuoco sacro, ben altrimenti sacro di quello delle Vestali, del progresso civile»800 . A differenza dei liberi pensatori, egli non intendeva certo escludere dal fuoco sacro del progresso la Chiesa; ma ormai era costretto a ritener «lontano ancora il giorno in cui si realizzerà questo bel quadro di un Papato fattore di civiltà»801 . Con il maggior sogno di una palingenesi religiosa, rovinarono i più concreti e limitati miraggi, che di essa tuttavia avrebbero dovuto costituire proprio l’inizio pratico.

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Niente più «preziose novità» alla Lambruschini nel reggimento interno della Chiesa; niente sistema rappresentativo nella Chiesa, vescovi eletti a clero e popolo, alla Rosmini, oppure dai deputati dei parroci delle diocesi, alla Lambruschini, o comunque eletti con la partecipazione dal basso, e non imposti dall’alto, come su ispirazione del Minghetti aveva accettato di proporre, sia pur con molte cautele, lo stesso Cavour802 ; niente più compartecipazione attiva del laicato alla vita della Chiesa, da parecchi sognata ancora alla vigilia del Concilio Vaticano803 . Qualche ultima eco di tali velleità riformatrici si ebbe, veramente, ancora dopo il ’70. Già durante le discussioni sulla legge delle Guarentigie era stato apertamente espresso il timore che, con la rinunzia totale dello Stato ad ogni ingerenza nella vita della Chiesa, quando la Chiesa s’irrigidiva sempre più in un organismo dominato dall’alto, si sacrificassero i diritti dei fedeli: a’ quali timori e alla preoccupazione di impedire che un parroco turbolento sia installato nella pieve, e un tranquillo cacciato via804 , il Bonghi si ispirava, con successo, per mantenere l’exequatur e il placet, pieno di fiducia che poi, nella magica aura della libertà, il Papa stesso avrebbe restituito a clero e popolo gli originari diritti elettivi, e quindi la Chiesa avrebbe emendato se stessa per propria virtù, non per funesta coazione esterna; mentre il Peruzzi, col Minghetti e il Ricasoli, proponeva, nel suo controprogetto, senza successo, di affidare l’amministrazione dei beni della Chiesa a congregazioni diocesane e parrocchiali, miste di chierici e laici805 . Dall’amministrazione dei beni il laicato avrebbe potuto partecipare «a qualche cosa di più nell’avvenire», ricordava il Minghetti nel 1875, sull’esempio dei Parlamenti, i quali «hanno cominciato col tenere i cordoni della borsa, e poi sono arrivati ad ottenere delle grandi prerogative politiche»806 : e cioè si sarebbe giunti alla

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partecipazione dei fedeli nel governo della Chiesa807 , alle elezioni miste, al trionfo del sistema rappresentativo anche nella società ecclesiastica808 . Sarebbe stata una rivoluzione pacifica, con la definitiva disfatta della fazione reazionaria, aveva osservato già nel ’65 il Serra Gropelli, gran propugnatore anch’egli del sistema delle congregazioni parrocchiali e diocesane di laici809 ; e il Minghetti, sempre preoccupato del problema religioso, memore anch’egli dell’insegnamento del Rosmini810 , attentissimo al movimento dei Vecchi Cattolici e a tutto ciò che sapesse di fervor religioso in Europa, cercava cosa di salvare quelle possibilità di rinnovamento religioso in cui anch’egli sperava, e sia pur senza la passionalità e l’impeto del Ricasoli, sia pure, soprattutto, escludendo recisamente ogni intervento del potere politico nella vita della Chiesa e rimanendo fedele al principio della separazione assoluta fra Stato e Chiesa811 . Altri, pur non vagheggiando future riforme cattoliche, erano anche essi d’accordo nel sostenere la necessità di non lasciare il Pontefice solo e padrone dispotico alle prese con clero e laicato: altrimenti, basso clero e popolo sarebbero stati schiacciati dall’accentramento papale e dai vescovi, e una legge a fine liberale avrebbe avuto la conseguenza nient’affatto liberale di instaurare la «tirannia dei Preti sui laici», e cioè il «più insopportabile fra tutti i despotismi»812 . Ch’erano, naturalmente, le idee sostenute dalla Sinistra, e soprattutto dal Mancini, preoccupatissimo che la libertà della Chiesa non significasse il predominio e l’esclusiva potenza di una casta, cioè dell’alto clero, e conducesse a un dispotismo papale, a tale «un autocratico accentramento di potere nel Pontefice, quale non è mai nella storia della Chiesa in egual misura esistito»; e sostenitore quindi della libera elezione dei vescovi a clero e popolo o almeno della formazione di terne per libero voto dei capitoli813 .

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Nella legge delle Guarentigie rimasero l’exequatur e il placet e non si parlò di congregazioni diocesane e parrocchiali: solo l’art. 18 del titolo II lasciò aperto un valico, poi non percorso, per una successiva riforma dell’amministrazione dei beni, che avrebbe potuto anche condurre all’attuazione del progetto Peruzzi. E furono, poco più tardi alcune piccole parrocchie del Mantovano a risollevare tutto il problema e a dargli una soluzione radicale, quasi ultima improvvisa e crepitante favilla prima dell’estinguersi del fuoco. L’origine, era da ricercare nell’azione della Santa Sede, nella dura intransigenza che ogni giorno più la caratterizzava di fronte allo Stato italiano, in cui si ravvisava non soltanto l’usurpatore del potere temporale, ma anche, e anzi ancor più, lo Stato laico erede delle leggi Siccardi, il continuatore dell’odiata legislazione ecclesiastica subalpina di dopo il ’50814 , questione politico-nazionale e questione propriamente di rapporti Stato-Chiesa intrecciandosi strettamente e la seconda rendendo assai più difficile il componimento della prima815 . Dalla qual durezza di propositi derivava la precisa volontà di immettere, nell’alta e bassa gerarchia ecclesiastica, elementi fidati e intransigenti: il sacerdote buon patriota, il parroco che era ad un tempo fedele cittadino, dovevano scomparire per lasciar posto al vescovo e al parroco chiusi in sé, ostili alla gerarchia civile, propagandisti non a favore dello Stato, ma contro lo Stato816 . E fu altra e non piccola differenza di tono fra la vita italiana d’attorno la metà del secolo e il periodo di fine secolo: allora, soprattutto nell’Italia settentrionale e centrale, non pochi i sacerdoti accesamente patrioti, validi cooperatori del movimento nazionale e fin martiri dell’idea di libertà e di nazione italiana; ora, rarissime e tanto più notate le eccezioni dei chierici che apertamente professassero il loro civismo e patriottismo, un padre Tosti ancora, erede degli entusiasmi del ’46 e ’47, e, nuovo, un

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Bonomelli. Allora, un Cavour, sia pur forzando le tinte a scopo tattico817 , aveva potuto vedere il carattere distintivo del Risorgimento, di fronte alle rivoluzioni inglesi francesi e spagnuole, nell’appoggio e nella cooperazione della gran maggioranza del clero «sinceramente religioso, schietto amico della libertà»818 , e, nel campo opposto, un Radetzky aveva ammonito i comandi militari che vigilassero acciò i soldati austriaci adempiessero al loro dovere di buoni cattolici presso il rispettivo cappellano di reggimento, non mai presso i sacerdoti italiani, i quali appartenevano quasi tutti «ai più aperti e pericolosi nemici» dell’Austria819 . Allora i seminaristi di Milano e di Monza avevan chiesto subito di combattere contro gli Austriaci, perché il posto della Croce era sul campo; e avevano combattuto820 . Ma già l’allocuzione di Pio IX e lo svanire del mito neoguelfo avevano inferto colpi decisivi all’ottimismo dei primi mesi del ’48; le leggi Siccardi la successiva legislazione ecclesiastica Castelfidardo e ora il Venti Settembre avevan fatto tramontare completamente quell’ottimismo e quella collaborazione. Dei tempi in cui si pubblicavano dichiarazioni di sacerdoti a favore dell’indipendenza e libertà della Patria821 e in cui padre Passaglia riusciva a mettere insieme 9000 firme tra il clero, per supplicar Pio IX che annunziasse la pace tra l’Italia e il Papato, tra Roma metropoli del nuovo Regno e Roma cristiana 228, rimase il ricordo. La gerarchia ecclesiastica venne reclutata ora tra elementi di ben diverso sentire; e cominciarono i vescovi, nominati in gran numero dalla S. Sede dopo la legge delle Guarentigie, e tutti di parte nerissima822 ; e i vescovi premettero decisamente sul basso clero, allontanando gli ecclesiastici sospetti di patriottismo e liberalismo, anche se cari alle popolazioni, e insediando al loro posto uomini di fiducia, anche se men graditi ai parrocchiani. Venne su così la generazione dei giovani sacerdoti fanatici,

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nemici dichiarati del governo, i quali s’adoperavano con zelo grande «per introdurre e diffondere le moderne pratiche divote, credendo con ciò di concorrere nel più efficace modo al risorgimento ed all’agognato trionfo della Chiesa Cattolica Romana, ed alla confusione e distruzione dell’odierna empietà»823 ; e al vecchio clero, collaboratore o non molto avverso, si sostituivano, annotava il Guerrieri Gonzaga, i «neofiti del gesuitismo» un clero che viveva segregato affatto dalla società civile824 . Anziché la collaborazione con i patrioti, s’ebbero le punizioni ai sacerdoti che benedicevano le armi italiane, le richieste di ritrattazioni e il diniego dei conforti religiosi supremi ai complici «dell’usurpazione»825 o il diniego, almeno momentaneo, a che il tricolore delle società operaie entrasse in chiesa827 . Senza dubbio, v’erano ancora sacerdoti cresciuti nel fiducioso clima del Risorgimento, che rimanevano nell’animo patrioti e avrebbero magari voluto manifestarlo; ma come fare, di fronte alla dura continua pressione dei vescovi a cui facevan riscontro l’indifferenza del governo, fermo sulla sua linea di condotta di non immischiarsi nelle cose della Chiesa, e, peggio ancora, l’indifferenza o l’ostilità di parte notevole del ceto liberale e patriota, convinto ormai che il clero fosse un nemico e agisse da nemico? L’una cosa s’intrecciava con l’altra, irrigidirsi della Curia romana e dell’alta gerarchia ecclesiastica, e irrigidirsi di considerevole parte dell’opinione pubblica posizioni anticlericali: divenivan rari i sacerdoti alla ’48 e la nota antireligiosa s’accentuava e la massoneria riprendeva forze e prestigio, in Italia come in Francia, dove pure eran scomparsi i Lamennais e trionfava l’ultramontanesimo reazionario del Veuillot, ma i difensori della libertà si chiamavano ora i radicali che portavano nella lotta una volontà anticlericale non conosciuta dai liberali della Monarchia di Luglio. Il basso clero, in quella parte che poteva aver velleità di resistenza, si sentiva iso-

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lato, premuto dall’alto della sua gerarchia e non sostenuto dalle popolazioni: avvolto in un’atmosfera greve, esiziale, annotava un rosminiano, il teologo Clemente Tacchini, «da per tutto fatto segno a disistima a diffidenza», vedeva ai suoi piedi spalancarsi un abisso e al disopra del suo capo udiva i Gerarchi e i Politici «contendere per potestà e dovizie. E mentr’egli attonito cerca le cagioni dello straordinario imperversare della contesa, sente i loro colpi piombare su di lui stesso, e piombarvi così spessi e così pesanti, che il meschino ne va pesto, spogliato e fatto ludibrio alle genti, quasi egli appunto, egli solo fosse il colpevole di tanto orrendo battagliare»828 . «Se per l’addietro un Parroco aveva una gamba legata, e l’altra libera per metà – scriveva un parroco di campagna – ora le avrà legate ambedue.»829 . Come pretendere che questo clero minore resistesse, anzi insorgesse da solo contro i vescovi, senza appoggio alcuno, aveva esclamato già nel ’64 il Serra Gropelli?830 Come esigere manifestazioni di patriottismo da un povero sacerdote che da un momento all’altro poteva essere buttato sulla strada dai suoi superiori, quando governo e paese avevano dimostrata tanta noncuranza per il clero liberale?831 . Nessun sacerdote osa più levare una voce di calma e di pace, osservava qualcuno: onnipotenza del Papa e dei Vescovi da un lato, indifferenza del laicato dall’altro inducono al silenzio832 . Molti ecclesiastici che in passato erano stati favorevoli all’Italia e al suo governo, continuava il vescovo Strossmayer, ora si voltano contro il governo, dato che «per la legge delle Guarentigie veggono abbandonato ogni affare della Chiesa e persino ogni loro avvenire ed interesse materiale in balìa assoluta del Papa e dei Vescovi»833 . Alcuni anni più tardi, al termine di una sua inchiesta che gli aveva fruttato più di 400 risposte al questionario, Leone Carpi traeva le somme sulle condizioni del bas-

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so clero, definendolo irresistibilmente avvinto, volente o nolente, alla politica del Vaticano, abbandonato e trascurato dal governo, avversato dai liberali, povero nella più gran parte d’Italia, in preda a sofferenze materiali e a crudeli torture morali. A vescovi e parroci venivano eletti i più intolleranti, anche a costo di lasciar da parte sacerdoti integri e colti; l’episcopato pesava con mano di ferro sul basso clero per costringerlo ad eseguire rigorosamente le istruzioni della Curia romana: come pretendere in tali condizioni amore delle istituzioni liberali nei poveri parroci? Il basso clero era il capro espiatorio della prepotenza del Vaticano e delle esigenze dello Stato: come stupirsi se esso, che nelle guerre dell’indipendenza non era stato secondo al laicato per patriottismo, nella maggior parte d’Italia, ora avesse tralignato?834 . Così trionfavano gli ultra, che attendevano la punizione dell’Italia ad opera dei legittimisti e clericali oltramontani, Francesi e Spagnuoli, Enrico V e don Carlos; trionfavano i codini, desiderosi che tutto andasse a soqquadro per ripristinare sulle rovine d’Italia i vecchi regimi Poi di retrogradi vidi un concilio che vanno in estasi in visibilio Sognando prossima, anzi imminente una catastrofe un incidente, Che a casa il diavolo manderà tutti della Penisola i farabutti835

I sacerdoti patrioti dovevano tacere; e tutta una parte del clero, animata da senso civico e da amor di patria, ma di non grandissima energia, sfiduciata e disorientata, per schivar gli urti da una parte e dall’altra, si rimetteva

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alla Provvidenza senza magari far molto per meritarne l’aiuto. Dal quale abbandono del basso clero trassero motivo, anche più tardi, aspre critiche alla politica ecclesiastica della Destra: il basso clero, che era anch’esso popolo, s’era lasciato diventar schiavo dell’alta gerarchia ecclesiastica, per colpa del governo che aveva trascurato «quel primo dovere d’ogni statista italiano», rafforzando invece «con false e speciose teorie di libertà» le armi della tirannia papale, il lavoro di sedizione antinazionale e di propaganda gesuitica. Se una colpa v’era stata nell’azione del governo italiano dopo il ’70, anzi già dopo la morte di Cavour, era bene questa836 . Con l’aver abbandonato a sé il clero che meritava la maggior sollecitudine, perché non fazioso, perché animato da spiriti civili, il governo aveva conseguito il bel risultato che anche i sacerdoti il cui patriottismo aveva a lungo resistito alle suggestioni dei retrivi, spaventati ed irritati dall’immeritato abbandono, passavano ora a frotte nel campo nemico; e così seguitando, fra qualche anno si sarebbe estinta, con l’attuale generazione sacerdotale, anche la memoria dei dolori e delle gioie, che preti e laici avevano avuto in comune quando si trattava di procurarsi una patria837 . E, correlativamente, diventò più fioca assai anche la voce del cattolicesimo liberale dei laici, che il clero vaticano combatteva aspramente come vaso d’iniquità838 ; sicché mancarono nel laicato degli ultimi decenni dell’Ottocento quei generosi impulsi e quel fervor religioso che avevano tanto arricchita la stessa coscienza liberale della prima metà dell’Ottocento, e a destra furoreggiarono i codini, i quali, effigiato»un ritratto spaventoso del Cattolico liberale, peggiore dell’eretico, del turco e del diavolo, appiccano poi quel sonaglio con facilità meravigliosa a chiunque ardisce non pensare come loro. Da ciò è nato che ogni Cristiano, il quale goda di una qualche

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riputazione, per non esporsi a quegli insulti, crescendo confusione e forse anche scandali, si sta cheto; ed i codini di quel silenzio si valgono per puntellare i loro sogni coll’autorità del senso cattolico»839 . Così, con rimpianto, parlava un sacerdote; e gli rispondeva dall’estrema destra la voce di un altro sacerdote, lombardo e non più toscano, tutto infervorato dalle sue dottrine della battaglia contro il liberalesimo e il governo italiano, il quale esultava invece per la morte del cattolico-liberale840 come esultavano i partecipanti al congresso cattolico di Firenze nel settembre 1875, acclamando le severe parole di Pio IX contro i falsi fratelli e cioè i cattolici liberali che patteggiavano con l’errore841 . Or dunque a Mantova, nella terra di don Tazzoli, che sino al 1868 era stata retta da un cattolico-liberale, mons. Corti, senatore, del Regno842 , e poi, in qualità di vicario capitolare, da mons. Luigi Martini, un ben noto della schiatta dei sacerdoti liberali e patrioti, «l’angelico» confortatore dei martiri di Belfiore (fra gli altri, di Pier Fortunato Calvi)843 e inviso alla Curia romana proprio per il Confortatorio, non appena il campo era rimasto libero per la rinunzia dello Stato italiano alla nomina dei vescovi, la Santa Sede s’era affrettata ad inviare, da Guastalla, un vescovo intransigentissimo, mons. Rota. Come altrove, anche a Mantova l’incarico del nuovo presule era di reggere con pugno di ferro una diocesi tanto inquinata di sentir liberale e nazionale, e di far mettere la testa a posto ai discoli: donde, osservò un americano, William Chauncy Langdon, lo strano fenomeno di un vescovo reazionario circondato da un clero liberale844 . Ma l’antitesi doveva essere di breve durata; perché il vescovo, non fornito di exequatur, condannato il 2 maggio 1874 dalla Corte d’Assise di Mantova quale colpevole d’abuso nell’esercizio delle sue funzioni per aver letto ai fedeli, nella cattedrale, l’Epifania del ’73, un’omelia che censurava la legge di annessione di Roma al Regno d’Italia845 , il vescovo in-

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transigentissimo cominciò ad allontanare gli ecclesiastici sospetti, anche se cari alla popolazione, sostituendoli con uomini di fiducia, piacessero o no ai parrocchiani. E accadde che mons. Rota nominasse un parroco a S. Giovanni del Dosso, dov’era un vicario, don Lonardi, bene accetto alla popolazione, mentre il nuovo pastore non lo era; e poi, ancora, a Frassine, un altro sacerdote, anch’esso non benviso ai parrocchiani. La risposta dei fedeli fu pronta e decisa: adunatisi pubblicamente, dinnanzi ad un notaio, con tutta calma e perfetto ordine si elessero il proprio parroco che, per S. Giovanni del Dosso, fu lo stesso don Lonardi846 . Era l’autunno del 1873; e il 14 gennaio 1874, a Palidano, dove era morto il vecchio don Carlo Pavesi, buon prete e buon cittadino, vissuto sempre con in cuore l’Italia, i parrocchiani, diffidando delle intenzioni di mons. Rota, seguirono l’esempio ed elessero, solennemente e regolarmente, il nuovo parroco847 . Intervenne Carlo Guerrieri Gonzaga, che nel ’48 aveva militato fra i Garibaldini della compagnia Medici a fianco del Visconti Venosta, e come il Visconti Venosta si era poi risolutamente sottratto, con il fratello Anselmo, all’influsso mazziniano, convertendosi al culto di Cavour: altro tipico gentiluomo di campagna, preoccupatissimo di migliorare i suoi fondi, di razionalizzare l’agricoltura, di portar a più alto livello le condizioni di vita dei contadini, ma anche tutto preso dal problema religioso, dall’elevazione morale del popolo, e, perciò, ministeriale nelle questioni finanziarie, d’accordo invece con l’opposizione sul problema ecclesiastico, dato che il governo dei moderati gli sembrava fosse venuto meno e continuasse a venir meno al decoro, alla dignità, al dovere morale dello Stato848 . Intervenne dunque questo Ricasoli del Mantovano; ed interpellò il ministero, e fece di tutto perché aiutasse un movimento ch’egli, Guerrieri Gonzaga, non aveva mosso, ma in cui scorgeva un buon au-

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gurio per l’avvenire d’Italia, risvegliandosi la volontà dei laici in cose ecclesiastiche. Accorse poi, a difesa dei parrocchiani e del Lonardi citati a giudizio dal partito del vescovo, il gran patrono ufficiale della libertà di coscienza, il Mancini; e lo stesso Guardasigilli Vigliani espresse, alla Camera, il suo personale compiacimento per tal risveglio di uno schietto sentimento religioso, dal quale avrebbe potuto uscire «come da causa piccola un grandissimo effetto», e l’augurio di un rapido sopravvenire di tempi in cui fosse possibile affidare alle mani del popolo le temporalità ecclesiastiche, mettere il clero in presenza del laicato, obbligarlo a trattar coi fedeli, costringerlo a diventar nazionale così da conseguire finalmente la pace tra società civile e società religiosa. Se ne interessò perfino il Gladstone, già nel ’71 preoccupato per l’eccessiva larghezza della legge delle Guarentigie nei riguardi dei vescovi849 , e ora, non più primo ministro di Sua Maestà Britannica, tornato alle sue predilette meditazioni religiose; ed espresse la sua cordiale simpatia per quei «poveri e coraggiosi contadini», per la loro resistenza al «sistema di dispotismo, derivante dalla Corte Romana, e che, imposto al clero italiano, fa una guerra mortale alla libertà in tutti i suoi aspetti»850 . Dalla Germania giunse nata naturalmente, in appoggio al Guerrieri Gonzaga, la voce del battagliero von Treitschke851 . Ma fu rapida fiammata, anche se il tribunale di Mantova prima e poi la Corte d’Appello di Brescia assolvessero don Lonardi, nella causa promossa contro di lui e il suo coadiutore, don Seleuco Coelli, da quarantasette contadini, dipendenti da due grandi proprietari di ortodosso sentire852 . Già nello stesso campo liberale all’azione del Guerrieri Gonzaga e alle simpatie del Bonghi, riportato alle sue reminiscenze rosminiane853 , facevano riscontro le preoccupazioni dell’ufficioso Dina che ci si incamminasse verso una nuova costituzione civile del clero, detesta-

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to ricordo del giacobinismi francese, e si rompesse così la moderazione della politica sino allora seguita854 . E di fatto il governo, per nulla voglioso di mutare le sue direttive d’azione, finì col tenere un atteggiamento alla Ponzio Pilato, anzi sostanzialmente ostile, parecchio scettico, e non a torto, sulle possibilità di un ampio movimento di stile mantovano855 il prefetto di Mantova, dapprima, ingiunse al Cognetti De Martiis, direttore della Gazzetta di Mantova, che difendeva i parrocchiani, di smetterla, lasciando cadere una «questione inconsultamente sollevata» e ammonì il sindaco di Gonzaga, reo di essere intervenuto al banchetto in onore del parroco eletto di Palidano; e il Vigliani, una volta espressi i suoi calorosi voti personali per il risveglio della coscienza religiosa, cantò ben altra canzone come guardasigilli, ammonendo che il Governo non poteva svolgere se non azione negativa, contro i ministri del clero avversi allo Stato italiano, ma non era in grado di riconoscere gli eletti del popolo, e doveva limitarsi a sussidi finanziari, temporanei ove non si trattasse di sacerdoti già rivestiti prima della qualità di economi spirituali della parrocchia. Imporre dall’esterno il principio dell’elezione popolare? Lo stesso Guerrieri Gonzaga, che aveva difeso le elezioni là dove il popolo le aveva volute, era contrario a qualsiasi idea di simil genere!856 . Intervenire di forza nella vita della Chiesa, contro l’alta gerarchia ecclesiastica – e questo avrebbe significato il riconoscimento dei parroci eletti? Coloro stessi che avevano auspicato le elezioni popolari del clero e l’amministrazione dei beni a congregazioni miste, come il Minghetti, avrebbero visto in questo un’offesa mortale al principio della libertà. Le elezioni popolari, sì, ottima, auspicabilissima riforma: ma perché volute dai fedeli, per risveglio spontaneo efficace e generale, e pattuite di comune accordo, fra l’alto e il basso in seno alla Chiesa stessa857 ; non imposte, e nemme-

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no solo spronate o favorite dal di fuori della Chiesa, dal potere politico. E lasciando la teoria per star al pratico, che guai avrebbero potuto sorgere, proprio in quel momento, a volersi cacciare nel pasticcio delle elezioni popolari! Bastava un Kulturkampf in Europa: il governo italiano lo aveva evitato, finora, nonostante i corrucci del Bismarck, e non intendeva, certo, tirarsi addosso nuova tempesta col Papato858 . Così, quando i parroci eletti, fidando nelle promesse verbali del Guardasigilli al Guerrieri Gonzaga, assunsero il loro posto nella primavera del ’74, cominciarono i guai: solo a stento, dopo mesi di attesa, giunsero i magri assegni del subeconomo. Alla lunga, diventava impossibile resistere; e così l’episodio mantovano rimase un episodio, di rinnovamento interno della Chiesa ad opera dei fedeli non restò che il ricordo e la Chiesa insisté sempre più sulle forme organizzative interne centralizzate e dominate dall’alto. Lo stesso articolo diciotto della legge delle Guarentigie ebbe mai applicazione. Lo si invocò sovente859 ; una commissione parlamentare si pose al lavoro per studiarne i modi860 : ma la questione si esaurì lì, tra discorsi e commissioni di studi. Presto detto, affidar l’amministrazione dei beni ecclesiastici a congregazioni miste: ma se la Chiesa avesse posto il suo veto alla partecipazione dei cattolici? Oppure, non v’era da temere l’indifferenza di gran parte del laicato, che si sarebbe facilmente lasciata prendere la mano dal clero, nelle stesse congregazioni parrocchiane e diocesane?861 Il laicato ridotto in pillole con il sistema delle congregazioni, sarebbe stato più facile a digerirsi dal clero, aveva scritto il Giorgini sin dal 1867, e ripetevano altri dopo di lui862 . Questo, a prescindere anche dal convincimento che in tale materia a nulla servisse la coazione esterna, e il problema religioso dovesse esser lasciato all’intimo del-

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le coscienze; prescindere infine dai più modesti, ma sempre necessari calcoli di opportunità parlamentare, quando nessuna discussione poteva eccitar maggiormente il Parlamento di una proposta di legge in materia religiosa. Lo dichiarò apertamente il Visconti Venosta alla Camera: «allo stato attuale delle cose se si vuol gettare la confusione nella Camera, scomporre i partiti, disciogliere la maggioranza, esporsi a udire dei commiati dolorosi, non v’ha mezzo più sicuro ed efficace che di portare in questo recinto una legge di carattere ecclesiastico»863 . Più di vent’anni dopo, quando si tornò a parlare dell’art. 18, il Visconti Venosta espresse compiutamente le preoccupazioni che già dopo il ’70 avevano premuto sull’animo dei moderati: «per parte mia, se la Chiesa potesse acconsentire a queste Congregazioni, non ci avrei a ridire. Ma se il Papa proibisse ai cattolici di prendervi parte, come ad una perturbazione dei diritti della Chiesa, di chi si comporrebbero le Congregazioni? Si creerebbe la causa di molti conflitti e di una perturbazione religiosa che, questa volta, potrebbe penetrare nelle parocchie, nei villaggi, in fondo alle nostre tranquille popolazioni. Sarebbe il risultato opposto a quello che ci proponiamo. Ed è la ragione per la quale vedrei, non senza timore, nello stato ancora immaturo della quistione, posta dinanzi al Parlamento una legge che sarebbe causa di divisione del nostro stesso partito. Ho nella memoria la faticosa discussione della legge delle Guarentigie su questo argomento. L’Italia ha dinanzi a sé tante difficoltà, tanti problemi che questo della trasformazione del beneficio non mi pare il più urgente»864 . Senonché, il mancato rinnovamento nelle forme vagheggiate dai cattolici alla Ricasoli e alla Guerrieri Gonzaga non significò affatto, come essi temevano, decadimento del cattolicesimo, venir meno del senso religioso, trionfo assoluto dell’indifferenza e dell’incredulità. Dalla lunga crisi durata più di mezzo secolo la Chiesa si rieb-

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be; respinti gli assalti dei novatori riprese il suo cammino, riacquistò le forze perdute e ne guadagnò di nuove, riottenendo universale prestigio, autorità, grandezza e ridiventando una grande potenza mondiale. I fedeli non erano elettori nell’organizzazione ecclesiastica, eppure seguivano; seguivano anzi in rinnovata e più forte schiera, i battaglioni dell’Azione Cattolica fornendo la base laica devota e sottomessa, non più riottosa alla maniera dei Riasoli. Il clero tenuto rigidamente in pugno dal potere centrale, onde non si ripetessero gli sbandamenti dei decenni precedenti, e costretto ad una ferrea disciplina dal dogma dell’infallibilità; i laici convocati ad agire, sin d’allora, in quelle associazioni cattoliche, consigliate subito dalla Civiltà Cattolica e rapidamente estese in tutto il Regno, a cominciare dalla Società per gli interessi cattolici costituitasi in Roma e onorata di un Breve di Pio IX nel febbraio 1871865 ; i giovani già organizzati sin dal ’68 nella Gioventù Cattolica; l’«Opera dei Congressi», l’arma più potente866 : su questi saldi pilastri la Chiesa, temporalmente vinta, riprese spiritualmente la lotta, quasi a dar ragione a coloro che nella perdita del potere temporale avevano riconosciuto non diminuzione, bensì accrescimento di potenza della Chiesa nel campo che era suo. Già taluno aveva ammonito, ancora nel ’70, che s’ingannavano coloro i quali ritenevano fiaccata per sempre la potenza della Chiesa e tramontato il sentimento religioso nelle masse867 : e l’avvenire dimostrò quanto fosse esatto tale giudizio e fallace invece la previsione di chi credeva di aver seppellito per sempre il Papato con la breccia di Porta Pia. Parecchi infatti s’erano illusi, prima e dopo il ’70, che la Monarchia italiana a Roma avrebbe cacciato, anzi ucciso il Papato868 , e fra essi l’immaginoso Renan869 ; e a nessuno certo era dato prevedere che, in un lontano giorno di giugno, al finir di uno dei periodi più tristi e tormen-

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tosi della sua storia millenaria, la popolazione romana si sarebbe raccolta nella piazza di S. Pietro per osannare al Pontefice benedicente come al nuovo defensor urbis, al protettore e salvatore della capitale abbandonata dalla Monarchia e costretta à volgere lo sguardo angosciato verso le sacre basiliche cristiane, come quando, ai tempi remotissimi dello sfasciarsi di Roma imperiale, fra le ondate dei barbari, «martyrum loca et basilicae apostolorum ... in illa vastatione Urbis ad se confugientes suos alienosque receperunt ... unde captivandi ulli nec a crudelibus hostibus abducerentur»870 . Nessuno poteva, allora e poi, prevederlo; ma qualche dubbio sulla solidità rispettiva di Monarchia e Papato cominciò a germogliare, un decennio dopo Porta Pia, anche nell’animo di fierissimi anticlericali; e l’Amari; ora non più convinto del mito del progresso continuo, pessimista sull’umanità che gli appariva destinata ad essere eternamente divisa fra credenti sciocchi e savi increduli871 , si chiese quale delle due fiaccole si sarebbe spenta per prima, Vaticano o Quirinale, e temette che fra un secolo o due la Monarchia avrebbe potuto crollare, ma si sarebbe sempre trovata una vile moltitudine, di ricchi e di poveri, per andar a baciare i piedi al preteso successore degli Apostoli872 . Taluno, anche fra gli uomini di Stato esteri, aveva ritenuto ormai indissolubilmente legate le sorti della Monarchia italiana e del Papato, in Roma: se cadeva l’una, anche l’altro si sarebbe trovato in posizione insostenibile, entrambi rappresentanti del principio di autorità contro la rivoluzione repubblicana873 . Ma qualche altro più avveduto politico osservava – e assai prima che fosse bandito da parte ecclesiastica il ralliement alla Francia repubblicana – che forse non sarebbe stato così, il Papato avrebbe retto anche se fosse caduta la Monarchia, si sarebbe accomodato anche di una repubblica, e forse anzi più che di una monarchia874 .

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Moltissimi avevano creduto che fine del potere temporale e fine dell’autorità politica del Papato facessero tutt’uno, commisurando la forza della Curia romana con i criteri validi per ogni altro organismo politico, territorio sudditi armi, e dimenticando di adattare ai tempi il vecchio monito machiavelliano sui principati ecclesiastici «sustentati dagli ordini antiquati nella religione, quali sono suti tanto potenti e di qualità che tengono e’ loro principi in stato, in qualunque modo si procedino e vivino»; e s’accorsero ben presto che, conforme al detto di alcuni più savi875 , la potenza politica della Chiesa non solo continuava anzi cresceva ancor più, già nei tempi di papa Leone XIII, sì che non sarebbe mai venuto il giorno vaticinato perfino dalla cauta Opinione876 – in cui i govenni esteri non avrebbero più avuto rappresentanza diplomatica presso il Vaticano, affidando tutte le pratiche alle legazioni presso il Quirinale o a speciali addetti ecclesiastici presso quelle legazioni. Altri ancora avevano affermato che la colpa del decadere dei popoli latini, a fronte dei popoli anglosassoni e germanici, fosse non già della razza, secondo si affermava generalmente, bensì del culto cattolico soffocatone di energie, laddove le religioni riformate avevano eccitata l’attività umana, favorendo nazione e libertà: del che, anticipando Max Weber, essi adducevano le prove concrete anche della superiorità industriale dei protestanti, del loro più spiccato bisogno di attività pratica in confronto ai cattolici chiusi nel tradizionalismo classicistico877 . Ma, decadenza o non decadenza, certo è che il sentire cattolico non diminuiva; e ammoniva il Villari a non disprezzar troppo le forze del clero, che erano immense, a star attenti alla gran battaglia che si preparava, impadronendosi per ora i sacerdoti delle scuole salvo a passar poi alla riscossa politica878 ; e incalzava il Sella nell’81, che contro le troppo facili asserzioni sul tramonto dello spirito cattolico teocratico «l’influenza del pontefice è in real-

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tà maggiore oggi nel mondo di ciò che lo fosse quando aveva il potere temporale»879 . Il Papa era qualcosa di più di un semplice canonico del Duomo, come molti avevan creduto fosse diventato880 , né era possibile farne semplicemente un «onesto cittadino» al par di tutti gli altri881 ; e perfino il deista Crispi882 , gran propugnatore dei diritti della ragione, illuminista e giacobino, ebbe a momenti l’intuizione del fallimento di un sogno di tutta la vita, capì che la redenzione di Roma dal potere temporale non voleva ancor dire la vagheggiata redenzione del genere umano dal potere spirituale del Papa. Vecchio, stanco, amareggiato, notò nei suoi ultimi anni, con crescente preoccupazione, i sintomi di ripresa della Chiesa, si accorse del movimento «che da qualche tempo avviene nel mondo, anche a suo favore», e parlò nuovamente di onnipotenza della Curia e degli sforzi del diabolico consorzio di gesuiti per incatenare ancora lo spirito umano883 . Se una colpa la borghesia italiana aveva, questa non era l’avversione alle plebi di cui vociferavano i socialisti, sì di averle abbandonate alle sètte ed ai preti, senza preoccuparsi della loro educazione morale884 . E col Crespi si sfogava l’amico Adriano Lemmi, gran maestro della massoneria, che gli additava il dilagar della lue clericalesca, tutto contaminante, la baldanza eccessiva dei neri ormai padroni di quasi tutta l’educazione della gioventù, a tal che, non provvedendosi, fra pochi anni si sarebbe avuto nonun popolo di cittadini ma di chierici, grazie anche alle colpe dei prefetti i quali, invece di arginare la marea, aiutavano i clericali a combattere la massoneria885 . Vero è che, da Leone XIII in poi, la Chiesa stessa dovette mutar parecchio tono, acconciandosi in parte al mariage de raison con l’esprit du siècle previsto in altro senso dall’Amari886 : inesorabile sull’infallibilità, lasciò man mano cadere, nell’applicazione pratica, parecchio del Sillabo, accettò la libertà e il progresso, rinunziò a puntella-

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re rigidamente «la veneranda maestà e l’impero dei Re», a cui pareva indissolubilmente legata ancora fra il ’70 e l’80887 , e, comprendendo la sterilità della loro incantagione sulla forma monarchica888 , patteggiò con la repubblica incitando i cattolici francesi al ralliement; anziché contrastare conservativamente ad ogni movimento sociale, parlò essa di questioni sociali; concordò poscia con governi liberi e men liberi; perfino, e fu momento decisivo, fece buon viso, oltre che alla libertà politica, anche alla scienza, cercando e trovando, con l’antica saggezza, le formule di accordo, dimentica che l’ultima opinione erronea condannata nel Sillabo, l’ottantesima, era stata l’opinione di coloro i quali ritenevano che «il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e colla moderna civiltà». E se fra il 1870 e il 1880 aveva detto o lasciato dire dai suoi fedelissimi, o Controrivoluzione o niente, sputiamo sulla Rivoluzione, senza far distinzione fra il 1789 e il 1793889 , poi accettò l’89: del che la politica di Leone XIII verso la Francia fu la visibile prova. La Chiesa distruggerà la Rivoluzione, la Rivoluzione distruggerà la Chiesa, erano stati i clamori dell’una e dell’altra parte. Ma chi si sollevi al di sopra delle polemiche vede non certo distrutto il Papato dalla Rivoluzione, ma né meno il liberalismo, il progresso, la civiltà moderna fermati e risospinti indietro dal Papato. Caute et prudenter, nel suo stile, la Chiesa romana fini con l’accettare la lezione dei tempi; e la sua riforma la fece, non nei modi vagheggiati dai Rosmini, dai Lambruschini, dai Ricasoli, ma non meno sicuramente, tanto dal finir col riconoscere non soltanto l’unità d’Italia con Roma capitale, avallando «l’usurpazione», ma con l’accettare anche uno Stato che non era certo più lo Stato confessionale alla Carlo Felice e alla Carlo Alberto. Gli estremismi dell’una e dell’altra parte, come suole, non si realizzarono; ma l’una e l’altra

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parte, anche la Chiesa, dovette riconoscere qualche cosa e patteggiare col suo contraddittore890 . La scienza, che era apparsa un dì inconciliabile con la fede, si conciliò largamente con la fede; e la Chiesa ebbe talora per alleato lo stesso formidabile progresso delle ricerche: spalancandoglisi dinnanzi mondi sconosciuti, salendo ad altezze vertiginose, lo scienziato, preso nell’incontenibile successione dei suoi esperimenti di cui sempre meno la ragione poteva calcolare con esattezza i risultati ultimi e dominar gli sviluppi, scrutò sempre più a fondo nei segreti della natura ma, quasi sopraffatto, chiese poi a Dio il perché dei segreti. Onde, già in quel declinar di secolo il mite e grande Pasteur opponeva, tranquillo, la sua ferma credenza religiosa al positivismo del Taine; e i due uomini non si intendevano più, l’uno erede ancora della mentalità di mezzo il secolo, la scienza come libero pensiero sciolto dai nessi con l’ineffabile religioso, anzi alla religione ripugnante, e l’altro esempio di un nuovo tipo di scienziato, arditissimo nelle concezioni tecniche, ma non più libero pensatore anzi solidamente ancorato alla fede degli avi. Taine credeva ancora di poter trovare nella scienza la soluzione dei problemi eterni dell’uomo e di risolver con essa la maggior questione dell’immortalità dell’anima; ma Pasteur, sorridendo, «ah! Monsieur, à certe question, vous ne trouverez pas une solution dans nos cornues»891 . La fede nei trionfi della scienza, come trionfi di una concezione del mondo alla quale fosse lecito prescindere dalla religione, questa fede si oscurò anch’essa, lentamente, lentissimamente, ma non meno sicuramente, tra Ottocento e Novecento, sino a quando le grandi catastrofi belliche non sopraggiunsero a ridar definitiva presa sugli animi al verbo di Dio, e la consolazione della Croce riebbe tutto il suo antico fascino. Così fu che, lungi dal vedere Papato e Chiesa pencolare, piegarsi e cadere come vecchia rovina, i propugnatori della Scienza-Libero

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Pensiero, che si erano illusi il tempo lavorasse a favor loro, con i progressi incessanti delle scienze naturali e della critica storica892 , poterono assistere ad un progressivo rinvigorimento di Chiesa e Papato. La scienza non distrusse la fede, non divenne «la sola religione, la sola legge, la sola consolatrice degli uomini», adempiendo a questi uffici «in modo ben più compiuto, più efficace e più costante non abbiano fatto infino ad ora tutte le religioni positive del mondo», secondo aveva auspicato, nel 1874, Giovanni Maria Bertini893 . A scemar vigore al mito della scienza non fu propriamente soltanto e nemmeno in prima linea la controffensiva della Chiesa: ché anzi, nell’interno stesso della comunità dei sapienti si avvertivano sin d’allora esitazioni, dubbi, rimorsi; e con ciò le prime incrinature del tempio, le quali offrivano arra di successo sicuro alla controffensiva della Chiesa. La cultura, la scienza in sostituzione della fede: e la cultura volle dire anche sforzo per l’istruzione del popolo, che doveva esser posto in grado di capire, di discernere il vero dal falso, di rifiutare le superstizioni; volle dire cioè lotta contro l’analfabetismo. La scuola fu battezzata perfino dal Depretis solitamente così privo di pathos «la chiesa dei tempi moderni»894 ; apparve come l’unico mezzo d’azione da contrapporre all’influenza della Chiesa sulle moltitudini895 : e non a caso la legge sulla obbligatorietà della istruzione elementare gratuita venne approvata solo nel 1877 sotto il governo della Sinistra, vale a dire della parte più nettamente anticlericale, di cui fu la prima grande riforma, precedendo di quattro anni la stessa riforma della legge elettorale politica. Con essa, l’insegnamento religioso nelle scuole divenne puramente facoltativo, dopo che Benedetto Cairoli aveva affermato, in piena Camera, la necessità che ogni buon padre di famiglia impedisse ai figli persino la lettura del catechismo896 .

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L’istruzione: parve il toccasana di tutti i mali e lo «spaventevole spettro di diciassette milioni di analfabeti» fu agitato come lo spettro dell’onta italiana ma pur fra i ceti alti ma anche, e forse soprattutto fra gli stessi operai897 , i quali sin dall’ottobre del 1856, nel congresso di Vigevano delle Società Operaie, avevano chiesto l’obbligatorietà dell’istruzione elementare, ripetendo il loro voto nel congresso di Roma dell’aprile 1872898 . Ma ben presto apparve a più d’uno che diffusione della cultura, educazione del popolo significavano anche dare alle plebi armi per la loro lotta contro il persistente predominio degli alti e medi ceti, alimentando socialismo, anarchismo e simili conati di rivolta contro il mondo borghese. L’incredulità poteva condurre alla rovina della Chiesa, ma simultaneamente anche alla rovina della serietà esistente, siccome da tempo affermavano i padri della Civiltà Cattolica; a far perdere la fede in Dio alle masse, si correva il rischio di non poterle più trattenere, nemmeno fuori di chiesa, nelle tradizionali forme di vita. L’istruzione obbligatoria era necessariamente connessa, tosto o tardi, con suffragio universale e democrazia: Flaubert lo aveva compreso subito, nemico dell’uno e dell’altra e quindi anche della prima e convinto della necessità dei «mandarini»; Flaubert, al quale poco importava che molti contadini sapessero leggere e non dessero più ascolto al loro parroco, ma importava assai che molti uomini come Renan e Littré potessero vivere e fossero ascoltati899 . E anche Renan, pur illudendosi che il razionalismo ben inteso fosse lungi dal condurre alla democrazia, deplorava che le scuole francesi divenissero focolai di spirito democratico poco riflessivo e di una incredulità che si traduceva in una sciocca propaganda popolare900 ; e vedeva la via di salvezza, proprio lui, il nemico del Papato, in un accomodamento con la Chiesa, sulla base delle verità progressive. Ai parroci di campagna l’educar il contadino, accordando Chiesa e scuola; ai

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dotti, invece, piena, assoluta libertà di pensare. Prendetevi il gregge e rispettate gli eletti: libero pensiero ai secondi, sillabario e catechismo ai primi901 . Aristocraticismo culturale, nell’uno come nell’altro dei due scrittori francesi; disdegno del volgo, consapevolezza che i valori raffinati della cultura sono per pochi eletti? Anche questo, certo902 : ma non senza che v’interferissero, appunto, preoccupazioni di altro genere, e cioè insofferenza anche della democrazia politica, timore di sommovimenti dal basso che turbassero la quiete e togliessero l’uomo di studi dalla sua tranquillità e dal pacifico discorrere con le proprie idee. Legittimista per natura, Renan odiava le rivoluzioni, quelle rivoluzioni che gli avevano reso il compito così difficile903 . Conservatore, avversava il suffragio universale, le masse brute dei contadini, a cui era meglio dar calci nel sedere che il diritto di voto: e stessero quindi, questi bruti pericolosi, con il parroco che, solo, poteva tenerli buoni. Un secolo innanzi, gli illuministi – e massimo fra tutti il Voltaire – avevano anch’essi parlato della necessità delle luci progressive, graduate: e quelle della plebe sarebbero state sempre confuse, ed era bene che così fosse e che solo ai buoni borghesi, agli honnétes hommes venisse riservata la rivelazione del vero904 . Nei nuovi illuministi della seconda metà dell’Ottocento, quel principio rimaneva saldo, pur variando i motivi per cui lo si invocava: Voltaire aveva temuto che contadini istruiti divenissero teologi, e cioè aveva temuto l’istruzione di seminario; Renan temeva ora che contadini ed operai trovassero nella mezza scienza delle scuole elementari laiche l’incentivo a tramutarsi in adepti del socialismo e dell’Internazionale. E non erano nemmeno novità assolute, queste del Renan; si poteva rammentare il «corriamo a gettarci nelle braccia dei vescovi; essi soli possono oggi salvarci», che sarebbe stato pronunziato, dopo la rivoluzione parigina

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del febbraio ’48, da Victor Cousin, gran pontefice ufficiale della filosofia universitaria francese, ex-carbonaro e liberale, già prima del ’48 per vero assai prudente, solito a impartire ai suoi discepoli che andavano ad insegnare in provincia il consiglio di star in buon accordo con i vescovi, anzi di recarsi subito da monsignore per dirgli che la filosofia non avrebbe mai avuto influenza che sulle classi colte, mentre la religione era necessaria per il popolo; e dopo il ’48 divenuto talmente prudente da abbandonare i suoi allievi alle vendette del clero905 . Molto più importante, il deciso aiuto dato nel 1849-1850 dal Thiers all’approvazione della cattolica legge Falloux, che riapriva al clero, con la libertà d’insegnamento, larghe possibilità d’influsso sulla formazione dei futuri ceti dirigenti francesi906 . L’uomo, che nel 1845 aveva difeso contro la Chiesa il monopolio universitario laico ed era stato, con il Dupin, l’autorevole interprete dell’anticlericalismo ed antigesuitismo francese, quattro anni appresso, spinto dal terrore dei «rossi», eccitato dalla «sorte de rage» da cui era sito invaso di fronte ai moti del giugno ’48907 e che lo avrebbe ripreso nel ’71 di fronte alla Comune, quattro anni appresso mutava totalmente fronte e, fra lo stupore dei suoi ammiratori di oltre frontiera908 , apriva le braccia al clero, incitando a dargli perfino il monopolio dell’istruzione elementare e andando così assai oltre gli stessi desideri del clero e del suo amico, il più accorto abate Dupanloup, che doveva calmare gli eccessi di zelo del neofita909 . Il vivacissimo e mobilissimo Tarmerlan à lunettes del 1871910 , ammetteva francamente di aver cambiato idea: non per una rivoluzione nei suoi convincimenti, ma per una rivoluzione nello stato sociale del paese. «Oggi che tutte le idee sociali sono pervertite, e che in ogni villaggio ci si vuol dare un maestro di scuola giacobino, io considero il parroco come un indispensabile rettificatore delle idee del popolo. Egli gli insegnerà almeno, nel nome di

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Cristo, che il dolore è necessario in ogni condizione sociale, che è la condizione della vita, e che quando i poveri hanno la febbre non sono i ricchi che la inviano loro ... Quando l’Università rappresentava la buona e saggia borghesia francese, educava i nostri figli secondo i metodi di Rollin, anteponeva i vecchi e sani studi classici agli studi fisici e puramente materiali dei fautori dell’insegnamento professionale, oh! allora io le sacrificavo la libertà d’insegnamento. Oggi, non sono più della stessa idea. E perché? perché nulla è più come prima. L’Università, cadendo nelle mani dei materialisti e dei giacobini, pretende insegnare ai nostri figli un po’ di matematica, di fisica, di scienze naturali, e molta demagogia ... Io sono quel che ero; ma non faccio che puntare i miei odii e la mia forza di resistenza là dov’è oggi il nemico. Questo nemico, è la demagogia, e io non gli abbandonerò l’ultimo resto dell’ordine sociale, vale a dire l’istituzione cattolica» E quindi, niente istruzione gratuita e obbligatoria, che sarebbe stata un’applicazione del «sistema comunista»; e attacchi violenti contro i maestri di scuola «veri antiparroci nei comuni, parroci dell’ateismo e del socialismo». Così la paura del socialismo guidava verso nuove amicizie ed alleanze politiche il borghese Thiers che, quando invece si trattava dell’istruzione secondaria, degli istituti dove venivan su i figli degli honnétes hommes, e cioè della borghesia, e dove quindi non c’erano, o almeno si pensava non ci fossero pericoli di sovversivismo911 e, ritrovava i suoi antichi spiriti e, anticipando Renan, chiedeva libertà di discussione filosofica e cercava di limitare l’influsso di quello stesso clero chiamato in aiuto contro i bassi ceti; e il Dupanloup doveva nuovamente replicargli che la religione è buona tanto per i ricchi quanto per i poveri. Il terrore del sovversivismo, un momento sopito durante la bonaccia del Secondo Impero, era stato rincru-

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dito, nella primavera del ’71, dalla Comune, che aveva mostrato come il fuoco covasse tra le fondamenta dell’edificio; e vedeva giusto Taine, nel 1851-52 vittima della reazione clericale, quando temeva che di fronte al dilagar della democrazia le classi alte e medie poggiassero a destra, divenissero clericali, cercando la gendarmerie dove credevan di poterla trovare, e cioè nel cattolicesimo, non rifuggendo al caso dal cercar nuovamente riparo anche nel bonapartismo, vale a dire nella dittatura912 . Taine stesso, d’altronde, sul tramonto della sua operosa vita di sacerdote della scienza, diventava scettico sull’efficacia del culto tanto a lungo professato; e vide anch’egli nell’anticristianesimo un potente ausiliare del socialismo egualitario, ormai entrato nel sangue della Francia come l’alcool nelle vene di un alcoolizzato o la morfina nelle vene di un morfinomane, e se n’uscì in una sconsolata affermazione: «i nostri libri servono alla storia, alla scienza; ma il nostro influsso sulla pratica è infinitamente piccolo»913 . Divenne così d’uso comune il detto che, a spegnere il sentimento religioso, e cioè anche la rassegnazione al patire, si otteneva soltanto di scatenare l’amarezza e la violenza delle folle affamate, non più contenute dalla reverenza per gli arcani decreti di Dio e sollevate dalla speranza nella vita eterna, dolce per chi avesse sofferto nella vita terrena914 : nel vedere i contadini miseri e afflitti che non si ribellavano al loro duro destino, ma l’accettavano come castigo di Dio e si recavano in chiesa a pregare con ferma fede, si capiva quanto avesse torto Proudhon nel proclamare l’inutilità di Dio915 . Non dissimili pensieri passarono pel capo di non pochi Italiani, e perfino di liberi pensatori, a mano a mano che le condizioni interne del Regno si complicarono per il fermento che saliva dal basso. Anche qui, già dopo il ’48 molto ottimismo era caduto; e si poteva rammentare quel che il Lambruschini aveva detto nell’Accade-

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mia dei Georgofili, il 4 agosto 1850, prendendo spunto dall’«impensato e lagrimevole fatto» sopravvenuto a porger nuove armi ai nemici delle scuole per il popolo, e cioè «la propagazione di dottrine sovvertitrici, fatta recentemente in Francia da un certo numero ... di maestri delle scuole primarie divenuti evangelisti del socialismo». Così ad antiche ire, ad antichi dubbi, si sono aggiunte nuove ire e nuove dubbiezze «e a dubitare hanno cominciato alcuni di coloro che combattevano già con noi» indotti a temere «che l’istruzione possa meno, per infondere nel popolo il rispetto alla religione e alle leggi, per inculcargli l’osservanza dei propri obblighi nella famiglia, nella città, nella chiesa, e per meglio ammaestrarlo nell’esercizio delle arti, di quel ch’ella valga a disamorarlo della semplice e tranquilla vita del campo, della bottega, della casa, a inorgoglirlo per vana opinione di sapere, ad agitarlo di smodati appetiti, e a preparare quelle cieche e servili turbe che con uno o con altro vessillo conturbano poi lo Stato e manomettono gli stessi ordini sociali». Trepidazione di uomini di poca fede, osservava il Lambruschini che, per conto suo, non rinnegava la fede e non si lasciava sopraffare né abbattere da questi nuovi fantasmi916 . Ma i fantasmi non s’erano dispersi; e dopo la Comune e con l’infittire successivo dei segni di malessere sociale, anche in Italia, affollarono le immaginazioni più di prima, e gli uomini di poca fede crebbero di numero e talora anche di autorità. Già nel 1871 Ruggero Bonghi, protestando contro l’associazione degli studenti universitari di Pisa, rea di aver esaltato le gesta dei comunardi di Parigi e di intorbidare l’anima della gioventù studiosa, con un pessimo spirito, malsano, vizioso, facendo della scolaresca uno strumento dell’Internazionale, e contro l’associazione degli studenti medi di Jesi, anch’essa sospetta di inquietanti tendenze, rivendicava ai padri di famiglia il diritto di

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non tollerare «che i loro figliuoli tornino a casa presumendo di avere diritto, prima d’essersi affacciati, son per dire, alla vita, d’insegnare agli uni il modo di reggere l’azienda privata, agli altri il modo di governare l’azienda pubblica»917 . Ed erano, ancora, Unversità e scuole medie, le pupille degli occhi della borghesia! Quando dunque si passasse all’insegnamento elementare, che toccava anzitutto le plebi, c’era da rifletterci ancora di più. Lo si poté veder bene nelle discussioni sul progetto di legge per l’obbligatorietà dell’istruzione elementare: nel ’74, era l’on. Lioy a lanciare un grido d’allarme contro coloro che facevano i maestri in mancanza di meglio ed erano «gli apostoli di quelle idee sovversive con cui i membri corrotti della società vagheggiano lo scompiglio del consorzio civile», mentre l’on. Castiglia insisteva sui danni della legge la quale, gravando sui poveri, avrebbe condotto i «figli della miseria» soltanto a leggere i giornali umoristici e quegli altri «dove si trova quella sapienza che trascina al socialismo, e dal socialismo vi gitta alla materialità, alla materialità che finisce al più sfrenato scetticismo»918 . Così che, nel ’77, il ministro Coppino, nella relazione al disegno di legge, doveva poemizzare contro coloro i quali troppo temevano dalla «mezza scienza» la creazione di un proletariato malcontento e inquieto, affermando di non veder per conto suo, nell’insegnamento dell’alfabeto, un nemico così spaventoso dell’ordine e della pace sociale919 ; e i deputati Incagnoli e Fambri s’associavano nel ritenere esagerati i pericoli della mezza scienza, atta soltanto a creare degli spostati e a intristire gli animi920 . Motto non infrequente, soprattutto nelle campagne, fra i codini, era che la scuola essendo fonte di socialismo, se la gente non sa leggere e scrivere è tanto di guadagnato921 ; e più passò il tempo e più inquietante apparve, agli occhi dei benpensanti, la figura del maestro di scuola, dimesso nei panni e acceso di animo, di que’ maestri tra i quali in effetti il socia-

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lismo trovò larga messe di reclute, propagandisti e quadri direttivi, onde a un certo momento la Milano socialista fu, anche, la Milano dei molti e bene organizzati e attivi maestri elementari. Così che, dopo l’attentato Passanante, quando tutta Italia conservatrice insorse contro la politica del reprimere, non prevenire alla Cairoli e alla Zanardelli, il Bonghi poté rivolgere i suoi attacchi anche contro i professori i quali annunciavano dalla cattedra le dottrine più sbrigliate e contro i maestri elementari di opinioni estreme, i quali s’associavano naturalmente nel paese con tutti gli altri sovversivi922 . L’istruzione non bastava; occorreva l’educazione, cosa diversa e non identificabile senz’altro con la prima, anzi923 . Il feticismo dell’alfabeto voleva dire lo Stato «in mano alle plebi cittadine, all’elemento più scontento, più presuntuoso per la sua mezza dottrina, più spostato, più sovversivo della nostra società»924 ; la mezza dottrina era il più pericoloso dei fermenti925 , e meglio dunque la crassa ignoranza delle moltitudini al presuntuoso restar sulla soglia con l’illusione di esser già in fondo al tempio della scienza926 . Codesta cieca fede nella scuola e nei libri di lettura, rosea illusione di pedagogisti superficiali e di vecchi retori, superstizione del secolo conduce a questo – tuonava alla Camera, fra i bravo e i benissimo della Destra, l’on. Lioy contro il progetto di legge elettorale nel 1881: che voi concedete il voto alle folle corrotte della città, ai fuchi scioperati e violenti dell’alveare sociale, solo perché sono stati a scuola e sanno sbraitare nelle taverne spropositate dottrine religiose, politiche e sociali: e lo negate alla pura e sana democrazia dei campi che nell’alveare sociale rappresenta gli operai continui e utili. Date voto ai faziosi; e lo negate a coloro che, come soldati, incaricate di sorvegliare i faziosi. Via questi feticismi, queste superstizioni del sec. XIX! La scienza non è pane per la plebe; il proletariato anarchico della scienza accetta solo le coriclusioni che possano confer-

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mare terribili negazioni e demolizioni brutali. La scienza è eminentemente aristocratica927 . Il progresso della civiltà risiede nelle classi colte, la cui educazione è la sola ad aver importanza per il genere umano: la teoria dei «mandarini», cara al Flaubert, reclutava seguaci anche in Italia928 , non ultimo il Carducci, ufficialmente democratico in quegli anni e amico del Cavallotti, eppure ostile all’istruzione obbligatoria, questi «avori forzati del saper leggere un po’ più che per il suo consumo», e declamante contro «questa stupida volontaria materiale e morale degradazione e torttura del secolo», contro l’alfabeto «il più ipocrita strumento di corruzione e delitto che l’uomo, questo animale eminentemente falso, abbia inventato»929 . Per parecchio tempo, certo, a trattener molti dal gettarsi nelle braccia dei vescovi e dall’abbandonar ai parroci la scuola, intervenne la particolar situazione dell’Italia, con Papato e parte del clero, soprattutto dell’alto clero, avversi all’unità nazionale, sì che il loro trionfo avrebbe segnato nuovamente la fine della patria; e il pericolo clericale, di ben altra portata in Italia che in Francia, apparve ancora per lunghi anni più grave di quello socialista, o, come diceva il Sella, l’Internazionale nera si presentò assai più minacciosa di quella rossa. Dei due pericoli che potevano minacciare le istituzioni pubbliche, per l’assai minore gravità del problema sociale e per la ben diversa natura del conflitto con la Chiesa, l’Italia doveva risentire il pericolo della reazione nera assai più della stessa Francia, dove pure esso costituiva già un motivo di tanta forza nello sviluppo della Terza Repubblica: così, la battaglia parlamentare per l’obbligatorietà dell’istruzione primaria fu condotta dagli uomini della Sinistra nel nome del libero pensiero contro la teocrazia, e fu una grande battaglia politica contro la Curia. Il fondo della questione, aveva detto già il Correnti, relatore sul progetto di legge nel ’74, era propriamen-

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te questo, scuole laiche contro scuole clericali, due secoli l’un contro l’altro armati930 ; e, continuava il Coppino, ministro nel ’77, consisteva nel decidere se l’Italia dovesse essere uno Stato veramente e compiutamente moderno, o continuare a vivere oscillando fra vecchio e nuovo, nella più contraddittoria e pericolosa delle situazioni. «... coltivando nel medesimo tempo il vecchio ed il nuovo, quello per effetto di abitudine, questo costrettivi dal moto di tutta la civiltà che ci attornia e ci invade, si generano nel paese antagonismi, contrasti e contraddizioni, per cui una parte della popolazione vive colla testa in un secolo, e un’altra in un altro, e in mezzo alle quali in ultimo non può assiderai arbitra se non la violenza ... Dove, per forza di tradizioni tenaci, è tardo e restio lo svolgimento della coscienza religiosa, la scuola rimane l’unico mezzo di elevar gli uomini alla pari colle istituzioni liberali e di mettere nel modo di pensare e nell’animo di tutti il fondameto di riforme, che altrimenti non penetrano nei costumi e mangono alla superficie a modo di piante senza radici»931 . A Roma staremo, dichiarava Benedetto Cairoli, «malgrado le evidenti cospirazioni e le possibili aggressioni, non solo colla forza morale del diritto, ma colla demolizione progressiva del pregiudizio fatta dall’insegnamento»932 la legge sull’istruzione obbligatoria, continuava un acceso tribuno della Sinstra, l’on. Michelini, è una legge di polizia, di salute pubblica: salviamo la patria, e tiriamo un velo sulla statua del diritto costituzionale offeso dal nuovo obbligo. Il nostro nemico è quello della libertà e dell’incivilimento è la Chiesa; ad essa noi dobbiamo opporre l’arma dell’istruzione, la sola da cui sia vulnerabile933 . Abbiamo ereditato dei cattolici, concludeva il Petruccelli della Gattina, tramandiamo ai posteri liberi pensatori ed uomini. «Il cattolico non è né cittadino né uomo» Facciamo nell’ordine morale ciò che già si è compiuto nell’or-

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dine politico, e dopo aver abolito la teocrazia temporale, facciamo crollare la teocrazia spirituale esautoriamo la Chiesa con la scuola laica934 . Compiliamo un «catechismo civile», insegnando le massime di giustizia e di morale sociale, aveva proposto il 28 gennaio 1874 l’on. Mazzoleni, anch’egli convinto che bisognasse contrapporre al dogma la scienza935 . Insegnamento obbligatorio, niente libertà d’insegnamento ch’era una bella cosa m teoria, ma non doveva convertirsi in libertà di avvelenare gli animi936 . A lungo ancora, dunque, la paura del clericalismo previa sulla paura dei rossi; la fede nella scienza fu quasi un coi Lario della fede nella patria e, in molti, fece tutt’uno con il sentimento nazionale. Ma lentamente, con progressione continua e sicura, l’orrore della «superstizione» perdette forza e meno morse gli animi, e più cominciò a morderli la paure dei moti di piazza ad opera delle plebi. E se già fra il 1874 e il 1877 s’eran levate voci a combatter il principio stesso della obbligatorietà dell’istruzione elementare, come fonte di pericolo sociale; se nel 1881 qualcuno aveva detto che sostituire la scienza alla fede era il programma dei nihilisti russi937 , nel 1883 altri chiese in Parlamento che il governo intervenisse a migliorare le condizioni del clero, di quei «poveri dello spirito ... i quali ... nei comunelli rurali sono i soli che abbiano parole di conforto per le derelitte popolazioni, e le sollevino all’altezza di qualche sentimento morale, che invano cercherebbero altrove»938 . Perché, quali erano i frutti della scuola nuova? Quale la sua efficacia educativa, la sua opera nel formar uomini dabbene, morali e cioè buoni cittadini, devoti alle istituzioni? Bastava a ciò l’istruzione sola; o non avevano ragione, invece, coloro che da tempo battevano sulla necessità di porre a base dell’insegnamento la credenza religiosa, di bandir dalle aule il verbo materialistico e ateo, seminatore non di verità ma di corruzione e di disordi-

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ne, rovina della collettività come dei singoli? La morale sociale o civile o indipendente, e cioè laica, non era «la morale del sacrifizio, della subordinazione volontaria dell’uomo a un fine superiore a lui»; non questa rendeva l’individuo capace di azioni grandi e di cittadini educati a tale scuola lo Stato non poteva accontentarsi. «Rendere indipendente la morale dalle credenze religiose, in quanto a noi non lo comprendiamo di più di quello che rendere indipendente un edilizio da’ suoi fondamenti.» E perciò, affermava un giurista come Giuseppe Piota, e perciò chiudiamo le cattedre delle scuole primarie e secondarie «all’ateo, al materialista, allo scettico, ed anche al semplice deista. Lungi dal sacerdozio di quell’insegnamento chi ha castrato l’anima sua dell’idea e del sentimento religioso. A siffatti eunuchi noi non dobbiamo affidare l’educazione morale e intellettuale de’ nostri figli»939 . La difficoltà comune a tutti i partiti liberali d’Europa, segnatamente nei paesi cattolici, è proprio questa, dicevano altri: essi tendono a dissolvere il sistema di disciplina, di dottrina, di sanzioni proprio della Chiesa cattolica, sistema che può essere oggetto di molte censure, ma che è efficace e consolante per le classi che ne sono persuase; e che cosa vi sostituiscono? Nulla. Nessuna dottrina morale che compensi quella religiosa940 . Si aprano pure scuole e casse di risparmio: ma la malattia terribile di cui l’Europa soffre non si sana né con le une né con le altre, né con qualsivoglia simile mezzo. Tali cure non avranno altro effetto che quello dell’acqua sul petrolio. Le classi popolari che hanno dato così terribili esempi a Parigi non sono le più incolte, bensì le più colte. Occorre un profondo rinnovamento intimo e morale, da cima a fondo; ma dove trovare una fonte di educazione morale che non sia anche religiosa? Dove può ricercarla lo Stato, se ricusa l’aiuto di qualunque Chiesa? Solo ottenendosi l’unione dell’influenza religiosa è di quella intellettuale, l’i-

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struzione delle classi povere sarà il balsamo della società; altrimenti, ne sarà il verme roditore941 . Nel ’74, ministro, il Bonghi lamentava «questa tragedia morale dello spirito umano», la dilacerazione nella coscienza semplice del popolo tra istruzione civile e istruzione religiosa942 nel febbraio del 1882 deplorava lo scetticismo dei giovani, non riguardo alla certezza della scienza, ma di fronte all’al di là, ai problemi eterni su cui la scienza nulla poteva dire «e quando qualcosa ne afferma o nega, lo fa, sto per dire, di nascosto; e richiamata a sé, ringoia le parole», e i giovani si trovano abbandonati e soli943 . E il 1° marzo 1883, lumeggiando alla Camera le gravi condizioni morali dell’insegnamento elementare, da cui uscivano giovani non molto docili e tristi, ritornava sul tema prediletto, che era una sciagura il dissidio tra scuola e fede in un paese «nel quale tutte le plebi che voi volete mandare a queste scuole sono religiose», senza nemmeno aver supplito alla mancanza dell’insegnamento religioso fornendo ai giovani gli elementi morali una volta procacciati dalla religione. E lamentava che i maestri e professori troppo spesso invece di educare i fanciulli s’intrattenessero di politica e di partiti, qua discussioni materialiste, e là ateistiche, e guidassero dimostrazioni in piazza, generando scetticismo nei ragazzi, disordine morale e sociale nelle masse, onde tosto o tardi il governo avrebbe dovuto stringere i freni e ricondurre sulla retta via gli educatori del popolo944 . Nelle Università, libera ricerca anche fuor della religione; ma nelle altre scuole, attenti a non toccar le cose di fede: erano, ancora, Thiers e Renan. Dubbi e rimorsi di tal genere s’annidavano anche nell’animo di molti altri degli uomini della Destra; e Giovanni Lanza, sempre tenacemente fermo sul principio della separazione fra Chiesa e Stato, esprimeva tuttavia, non più ministro, le sue perplessità sull’efficacia dell’in-

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segnamento e ammoniva che il divorzio, e peggio l’antagonismo fra religione e scienza poteva riuscire fatale alla società moderna945 . Altri proponeva che, mancando il Vangelo nelle scuole, si educassero i giovani con Epitteto, Marc’Aurelio e la fiera morale degli antichi stoici946 : ma uno era il sentire, la paura del vuoto morale che la scuola lasciava negli animi. Anche a parlare in nome della scienza, qual contraddizione voler praticarne il culto e, ad un tempo, con il suffragio universale, abbandonare il potere politico alle classi che erano agli antipodi della scienza, a quei greggi di bipedi ancora immersi nelle tenebre dell’età della pietra!947 . Perfino Crispi, nei suoi ultimi anni, amareggiato e pessimista, constatava che la ragione dovrebbe essere più potente della fede, ma non lo è948 , e si doleva che i governi avessero trascurato l’educazione del popolo, accrescendo sì il numero delle scuole, ma senza che in esse s’inculcassero efficacemente i doveri dell’uomo e del cittadino, si coltivasse il cuore, si alimentasse la mente con princìpi di morale capaci di dare uno scopo alla vita: donde lo scetticismo, l’incredulità dei giovani949 , e, in alcune parti del Regno, il cader delle plebi stanche e sconfortate nelle braccia del prete950 . Perfino lui, di così forte spirito anticlericale, nei torbidi anni di fine secolo fini col dire meglio i clericali che i socialisti951 , invocando nel discorso di Napoli del settembre 1894 l’unione della potestà civile e della religiosa, con Dio, col Re, per la patria, contro la setta infame sbucata dalle più nere latebre della terra952 . Uomini di Destra e uomini di Sinistra, cattolici liberali e massoni, si trovavano dunque d’accordo nelle deplorazioni e nei timori: e toccò ad uno della nuova generazione, non sospetto certo di simpatie nere, di esprimerli con tutta chiarezza. La legge del ’77 ha tolto il catechismo dal novero delle materie oggetto di esame; e fece bene. Ma, continua-

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va Ferdinando Martini, relatore della giunta del bilancio sulla Pubblica istruzione, s’era pure raccomandato al ministro di provvedere con regolamento perché l’istruzione religiosa venisse impartita a tutti gli alunni i cui genitori ne facessero richiesta. Ciò non è stato fatto; e resta in balia dei municipi il far impartire o no l’insegnamento religioso. Bisogna uscire da tal confusione. «Se certi ideali vi paiono tramontati, se siete capaci di sostituirne altri, se credete ciò sia in vostra facoltà, affrettatevi a cotesta sostituzione. Egli è certo ... che, senza ideali, non c’è uomo di Stato per esperto che sia, che possa, alla lunga, governare; non c’è popolo, per docile che sia, che si lasci governare alla lunga. Senza alti ideali non prosperano nazioni, non fioriscono civiltà.» Ora, che dà la scuola italiana anche dopo la legge del ’77? Scarsi frutti, minori assai di quelli che s’era sperato, pensava il Martini, pienamente consenziente con altri colleghi per i quali la scuola era ridotta ad una fabbrica di cattivi elettori953 : e la colpa è del sistema. «Se voi non formate il cittadino nella scuoia, voi avrete un bell’empire gli arsenali di armi; esse non serviranno a nulla se voi non le affidate a mani mosse da cuori forti e generosi che sentano profondo l’affetto alla patria.» Bovio ha detto, finché non si risolve la questione sociale, non vi sarà una buona scuola popolare: «io inverto i termini ... e dico: finché non ci sarà una buona scuola popolare, la questione sociale sarà insolubile, e Per quanto voi siate disposti a concedere colle vostre leggi di riforma sociale, non farete che inasprire gli appetiti, perché mancherà, in colui che deve ottenere, la educazione suffciente a pregiare il beneficio. Finché voi non abbiate insegnato a distinguere le sembianze austere del vero, e le parvenze lusinghiere dell’utopia, finché [non] avrete buona scuola popolare, la questione sociale non sarà altro che un’alterna vicenda di speculazioni infeconde da una parte, e di cieche violenze dall’altra»954 .

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I volteriani avevan paura che il volterianesimo trascinasse il popolo, la populace aborrita dal maestro; si allarmavano nel constatare che il secolo XVIII stava diventando fatto delle moltitudini, anziché privilegio di una schiera chi eletti, di saggi di illuminati. Già il non papalino Villari sin dal ’75 aveva espresso la sua paura che si stesse allevando un popolo di volteriani e di clericali955 ; con assai maggior chiarezza di linguaggio e con preoccupazioni molto più precise, il Martini si doveva sfogare, nel torbido clima di fine secolo, con un amico che nemmen lui poteva esser tacciato di clericalismo. Né tu Carducci, né Crispi riuscirete a nulla: «bada, che tu predichi a un convertito: di ciò che il Quinet dice con grande efficacia di parole e dimostra con grande autorità di esempi, che cioè le rivoluzioni politiche, le quali non accompagnino un rinnovamento religioso, perdono di vista l’origine loro e i primi intenti e finiscono a scatenare ogni cattivo istinto delle plebi; di ciò io sono convinto da un pezzo. Ma dopo il male che noi, tutti noi, caro Giosuè, abbiamo fatto, siamo in grado di provvedere a’ rimedi? A chi predichiamo? Noi, borghesia volteriana, siam noi che abbiam fatto i miscredenti, intanto che il Papa custodiva i male credenti; ora alle plebi che chiedono la poule au pot, perché non credono più al di là, ritorneremo fuori a parlare di Dio, che ieri abbiamo negato? Non ci prestano fede: parlo delle plebi delle città e de’ borghi: le rurali, di un Dio senza chiesa, senza riti, senza preti, non sanno che farsi. A tutto il male che noi (non tu od io, noi ceto), abbiamo fatto per spensierata superbia, le tombe son troppo scarso compenso: abbiam voluto distruggere e non abbiamo saputo nulla edificare. La scuola doveva, nelle chiacchiere de’ pedagoghi, sostituire la chiesa. Una bella sostituzione! Te la raccomando..»956 . Dov’era più l’ideale della Scienza in Roma proclamato dal Sella? Dove la fede nella scuola laica, sola educa-

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trice ad alto sentire, madre di un popolo rinnovato nel costume e nell’animo? Certamente, non tutti cadevano nello scetticismo del Martini, poco incline di sua natura a custodire in sé fedi profonde; alle fosche profezie di chi vedeva imminente il nuovo sovvertimento universale, ad opera di barbari non più calanti dal Settentrione ma emergenti dal fondo stesso della società, e unica salvezza la Chiesa, altri opponeva il suo ottimismo e la convinzione dell’impossibilità di un nuovo universale diluvio che stesse per ricoprire la Civiltà957 . Ma era, per così dire, più un permanere su posizioni acquisite che un avanzare; più un riecheggiare motivi ormai ben noti al pensiero europeo che non un crear germi nuovi d’idee: ché anzi, proprio in Italia, la successiva fase di pensiero fu storicistica, aliena perciò dal mito della Scienza come liberatrice dell’uman genere, nel senso caro ai profeti di tra il 1850 e il 1900; i passi innanzi della cultura italiana furono compiuti su quest’ultima via, che affinava il senso storico, ma rendeva impossibile il fanatismo della ragione e della scienza. E se questo avveniva nel campo propriamente speculativo, nella vita pratica il miraggio su cm s’appuntarono gli sguardi di folle sempre crescenti non fu, certo, quello della’ cultura liberatrice, ma quello della società socialistica, di cui scienza e cultura erano elementi tutt’affatto secondari. Se anche il socialismo fu anticlericale e parve condividere atteggiamenti e tono dei vecchi liberi pensatori, in realtà il suo obbiettivo non era più la sola Roma papale, ma tutt’un mondo di cui il Vaticano non era che una parte; lo scopo non fu più di contrapporre alla religione dei preti la religione del vero, ma alla società borghese la società proletaria. La lotta abbracciava più ampia sfera, il suo centro si spostava; l’attacco alla fede rivelata perdette intensità di forza, quanta ne guadagnò l’attacco all’ordine sociale costituito. Così che se, per un verso, la paura del socialismo finì col trascinare parecchi

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già liberi pensatori verso atteggiamenti più accomodanti col Vaticano e fece amare un po’ meno il Vero e un po’ più la tranquillità sociale, dimostrando che in Italia, più ancora che in Francia, l’anticlericalismo era per la borghesia non connaturale ma occasionale, di contingenza più che di principi958 ; per altro verso l’imporsi del socialismo fini col rendere meno diretto almeno, meno continuo l’assalto al mondo della «superstizione e della barbarie nera» in nome del mondo della luce e della ragione – ch’erano pur sempre, per quei socialisti, luce e ragione «borghesi». Come ai contrasti di principi della prima metà dell’Ottocento, libertà e nazionalità contro legittimismo e ordine europeo, si sostituiva ovunque, dopo il ’70, anche dottrinalmente, una più corposa lotta di interessi, espansione commerciale potenza coloniale prestigio, così ai contrasti tra ragione e fede, verità ed oscurantismo, si surrogò la più palpabile antitesi fra le classi e la lotta per la giustizia sociale. La missione universale di Roma come centro di scienza svanì pertanto rapidamente: se pur già non fosse bastata, a troncar le illusioni, la evidente sproporzione fra il sogno e le possibilità di concretarlo, in un’Italia faticosamente avviata non che a sopravanzare altre nazioni, semplicemente a raggiungerle anche in fatto di studi e di progresso scientifico. III L’ombra di Cesare Niente renovatio Ecclesiae, in nome della Chiesa; niente renovatio Romae, nel nome della Scienza. L’un dopo l’altro svanivano i miraggi. E allora? Adattarsi alla più modesta realtà, riconoscere i limiti, acconciarsi di buon animo ad assolvere be-

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ne non missioni universali, ma semplicemente il compito di costruire su solide basi il nuovo Stato, trasformando l’Italia in un grande paese moderno – che era poi il vero modo di adempiere ad una missione e di collaborare fattivamente alla vita dell’umanità? Riconoscere, come voleva il Bonghi fin dal settembre 1870, che la vera Roma consisteva nel creare la fibra morale degli Italiani, suscitando l’operosità intellettuale, ravvivando la coscienza dei diritti e il sentimento del dovere959 , rendersi conto, con Silvio Spaventa, che l’acquisto di Roma non poteva infondere negli animi, né doveva, alcuna pretesa di dominio fuori di casa, le ragioni e le possibilità di simili domini non potendosi desumere dalle memorie del passato, ma da bisogni e necessità attuali e da forze vive e capaci di soddisfarvi960 ; dimenticare il passato, secondo auspicava nuovamente il Bonghi; e vivere in tutto e per tutto nel presente, che pub sembrar meno glorioso, perché lo si vede da vicino e urta e contrista, mentre il passato lo si legge nella storia, spogliato di tutte le debolezze umane che lo accompagnarono?961 Accettare, insomma, anche idealmente, quel che praticamente si veniva facendo, paghi di mettere bene in assetto la casa propria? Molti, senza dubbio, l’accettarono. Fra gli stessi stranieri che, un momento, avevano additato alla terza Italia l’ideale della grande rivoluzione religiosa, fuori il Papato e viva la Scienza, col venir meno di queste speranze si pensò ad un’Italia di second’ordine, felice a suo modo nella mediocrità: e nessuno lo disse più apertamente del volubile Renan, che passava dagli incitamenti contro il Papato a giudizi assai lusinghieri962 . Ma era difficile, impossibile che tutti l’accettassero. Troppo a lungo, per decenni, si era parlato da ogni parte di missione di terza Italia, di rinnovamento universale963 ; troppo si era insistito sul compito immenso che toccava all’Italia in Roma, perché improvvisamente ci si potesse adagiare in un’azione di carattere puramente ammini-

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strativo ed economico. Da ogni parte a Roma si guardava come a qualche cosa di assai più grande di una normale capitale; ché agli squilli della Sinistra rispondeva, con ben altro tono ed intenti, senza dubbio, ma sempre esaltando la missione universale della città, la voce del Pontefice che si appellava «a questa Nostra alma Città, sede del Pontificato, la quale sentì per essi [i Papi] tale singolarissimo vantaggio da divenire non solo rocca inespugnabile della fede, ma anche asilo delle arti belle, domicilio di sapienza, maraviglia ed invidia del mondo»964 . O non era proprio il continuo assillo polemico contro la Roma cattolica che eccitava i «naturalisti e razionalisti», condannati nelle encliche papali, a cercare altrove il segno della nuova missione dell’Urbe? Dunque, l’animo pieno di Roma. E i ricordi recenti del patrio riscatto erano di audaci imprese, di improvvisi e mirabili eventi; erano poesia: e come fare ad accettare ora unicamente la prosa del pareggio e dei lavori pubblici? Solo le alte idealità e le forti passioni avevano reso possibile il Risorgimento: come scendere ora dal cielo in terra, quando invece l’Italia, uscita dall’inferno965 , doveva dar prova al mondo della sua risurrezione? Di questo e simil genere erano i sentimenti che agitavano l’animo alto ed inquieto dei Carducci e dei Crispi e travagliavano pure uomini di più temperato sentire e modesto pensiero, preoccupati anch’essi che alla patria, finalmente una, non toccasse la sorte della cenerentola fra le nazioni. Lo stesso dibattito attorno alla guerra franco-prussiana, il compiacimento per la caduta della Francia e la fine del vassallaggio italiano di fronte al tenebroso del 2 dicembre non rivelavano forse, chiaramente, il bisogno profondo di additare alte mete politiche all’Italia? Tutto questo, ancora, era fermento puramente interno. Ma, oltr’Alpi, quale altro ribollir di passioni, accendersi di entusiasmi e di speranze per la grandezza,

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la missione del proprio paese! Anelito alla potenza sempre più accentuato; dispiegarsi che dottrinario dell’imperialismo, ad Occidente come ad Oriente; vita internazionale sempre più basata sulla forza, sempre più attenta al prestigio, ciascuna grande nazione corroboorando l’azione politica concreta con la rivendicazione dei propri titoli di nobiltà e delle proprie qualità da primato. Assai prima che in Italia, in Germania Francia Inghilterra la missione da morale e civile diventava politica: al regno dello spirito per opera tedesca, auspicato da Humboldt e Schiller, si sostituiva il regno terreno dei pangermanisti; il magistero della Francia alla de Maistre e alla Guizot indossava l’uniforme da generale dai brillanti galloni dorati. La missione perdeva il suo carattere di universalità civile, dovunque, e diveniva missione di signoria particolare sulle genti. Oltre Manica, nella terra stessa da cui era stato annunziato al mondo d verbo manchesteriano, Disraeli invocava, già nel ’72, lo «spirito dominatore di queste isole», Tennyson, imperialista dal ’70, rielaborava nel 1882 Hands all Round per sciogliere un inno alla grandezza imperiale britannica, Froude e Seeley davano concretezza storiografica alle dottrine dell’imperialismo, eventi spettacolari, come l’esposizione coloniale dell’86 e il giubileo della regina Vittoria nell’87, accendevano l’entusiasmo delle folle966 , sinché Kipling riassumeva tutta la vecchia e nuova anima imperiale britannica, di qua e di là dai mari, imperiale nel nome del Signore biblico. Fair is our lot – O goodly is our heritage! (Humble ye, my people, and be fearful in your mirth!) For the Lord our God Most High He hath made the Jeep as dry, He hath smote for us a pathway to the ends of all The Earth!967

Lontano, s’affacciava la Santa Russia protettrice dei fratelli slavi e cristiani dei Balcani; la Russia dalle vergini,

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intatte forze destinate a rinnovare il mondo, nei proclami dei panslavisti. A giustificar la missione, venivano evocati i grandi eventi e le figure eroiche del passato: un passato molto vicino, per i vinti di Sedan, agli occhi dei quali tornavano a risplendere di viva luce le figure di Richelieu e dei costruttori francesi d’impero968 ; un passato lontanissimo, evanescente nella preistoria, per i Tedeschi i quali, sulle orme di Ulrico di Hutten e di tutta una tradizione pubblicistica secolare, continuavano a guardare, ma con inusitata fierezza ormai, verso Arminio il Salvatore. Alfredo Oriani voleva il monumento a Vittorio Emanuele II sul Campidoglio, il primo Re d’Italia sul piedistallo di Marc’ Aurelio, per dimostrare al mondo che tutte le epoche storiche si verificano solamente sul Campidoglio, l’idea civile che nemmeno l’idea cristiana aveva osato occupare; e si sdegnava che nessuno v’avesse pensato e non si fosse scorta la necessità di riannodare la nostra storia all’antica, mantendo la grande tradizione romana che era la sorgente di tutta la vita moderna969 . Ma già il 16 agosto 1875 40.000 Tedeschi avevano salutato con fragoroso entusiasmo il monumento ad Arminio sul Grotenburg, là dove un tempo lontanissimo i fieri Germani avevano salvato l’unità e la libertà dal giogo romano: Arminio il Salvatore, araldo della gandezza tedesca realizzata ora da Guglielmo I, il nuovo Salvatore che aveva trionfato della doppiezza latina; in alto Arminio di 55 piedi, che brandiva con la destra una spada colossale, e sotto il profilo del re di Prussia ed imperatore di Germania, passato e presente accomunati in una sola apoteosi di potenza e di gloria militare970 . Questa era l’Europa di fine Ottocento; e l’Italia era, anch’essa, Europa. E dunque, tra ricordi e speranze dei giorni del vicinissimo Risorgimento e incitamenti che provenivano dalla realtà europea presente, era tanto più difficile accettare

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il consiglio che da più parti veniva rivolto agli Italiani, e spesso anche con sentimento amichevole, non per dispetto o tracotanza: accontentarsi di una posizione simile a quella della Svizzera e del Belgio, la più favorevole alla sicurezza e alla prosperità delle nazioni971 ; rinunziare a svolgere una politica da grande potenza, per chiudersi nel proprio guscio rendendolo il più comodo modo possibile. A consigli di questo genere rispondeva un giorno il Minghetti che «un gran paese non può concentrare in questo modo in sé stesso la sua attività. Il bisogno di espansione della giovinezza, se non gli si aprono talune grandi prospettive, si inacidirà, si svolgerà in corruttela e malcontento. Un membro ragguardevole del Parlamento inglese, Courtney, diceva ultimamente che bisogna lasciar gli Egiziani cuocere nel loro sugo. Vi confesso, che, pel mio paese, un avvenire simile non mi sorride: lo stufato potrebbe sentir di bruciato». Ch’era, con una battuta scherzosa, una risposta giusta. Chiedere all’Italia unita di accontentarsi della parte di un Belgio senza carbone, e quindi – oltre a tutto – di uno Stato agricolo in mezzo ad un mondo industrializzato972 era un ingenuità, anche per chi non si lasciasse suggestionare dai fanatiasmi liviani e dal Campidoglio973 . Il ricordo della grandezza passata, l’attesa di una grandezza futura avevano costituito la forza motrice del Risorgimento, dal Foscolo al Mazzini: suggerire ora di accontentarsi della posizione di Stato neutrale, anche se questo fosse possibile ad un’Italia che già solo la lotta col Papato e l’Internazionale nera trascinava forzatamente nella grande politica europea, avrebbe significato buttarsi dietro le spalle proprio l’idea forza che aveva consentito di raccogliere in unità le sparse membra della patria. Avrebbero avuto ragione gli antipatrioti che avevano battezzato di mattane le idealità e le generose azioni dei cospiratori: ciascuno a casa sua, far bene le proprie cose e non lasciarsi stornare dai fumi di un’unità as-

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surda, dannosa, mentre nei vecchi Stati si poteva vivere tanto comodi e tranquilli. Impossibile dunque pretendere che l’Italia si estraniasse dalla politica internazionale, rinunziasse a qualsiasi aspirazione anche per l’avvenire. L’opera dei saggi doveva essere di non lasciarsi trascinare troppo oltre dai ricordi del passato, di contenere irrequietezze e vanità; non poteva essere quella di rinunziare senz’altro ad aver parte attiva nelle vicende europee. Ma, appunto, l’Europa, avviandosi alla distruzione di se stessa, intonava allora concorde il canto della potenza e della gloria: l’eco si ripercosse in Italia e vi trovò l’antica voce di Roma974 . Così fu che, tra il dileguar dei sogni nel trionfo finale della scienza e l’imporsi di una realtà europea sempre più grandezza, forza, prestigio, a poco a poco all’immagine di Roma maestra di Vero cominciò a sostituirsi l’immagine di Roma antica, donna di province; e alla missione universale di natura culturale e civile si sovrappose il compito assai meno universale della grandezza politica del proprio paese. Riappare la Roma dell’imperio, non disdegnosa del libro e pronta a rendere ancora omaggio alla scienza; ma accomunante libro e spada, scienza e forza militare, grandezza spirituale e potenza terrena. La scuola, si, ma la scuola che educasse ad alto sentir patriottico e creasse valorosi soldati. Toccò a Guido Baccelli, all’eloquentissimo Baccelli, di delineare tra i primi, conferenziere deputato ministro, tale nuovo compito della istruzione pubblica. Che la scuola fosse necessaria premessa ad ogni grandezza, anche politica e militare questa non era una novità, anzi un luogo comune, dopo l’esaltazione della Germania vittoriosa a Sadowa e a Sedan, s’era detto, per virtù dei suoi maestri elementari più ancora che per virtù dei suoi generali, la dotta Germania essendo stata la creatrice della potente Germania. Già Francesco De Sanctis ne aveva fat-

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to ricordo alla Camera, avvertendo pure che lo stesso impulso, che spingeva a riformare l’esercito e la marina, era quello che induceva a riformare l’istruzione. Coscrizione militare, coscrizione scolastica975 . Già egli, ministro, aveva propugnato l’educazione fisica nelle scuole, come fondamento necessario del coraggio fisico e morale, educazione della volontà origine delle virtù militari, sempre ricordando la Germania e il Moltke976 . La scuola e le armi, l’insegnamento e il servizio militare, indissolubili: erano gli avvenimenti, l’evolversi della politica internazionale a suggerirlo. Nel pieno della crisi tunisina, sotto l’assillo della sconfitta morale dell’Italia, della «dura lezione che c’infligge la Francia, e che ci conferma l’Europa», perché l’Italia era debole, un uomo come Cesare Correnti, che, primo aveva cercato come ministro della Pubblica Istruzione di imporre il principio della obbligatorietà dell’istruzione elementare in omaggio al credo democratico977 , pensò anche lui che occorreva essere forti e temuti; per il che, occorreva riprender vigore dalla stessa vergogna, dalla stessa disgrazia, come aveva fatto la Prussia dopo Jena. «La generazione liberatrice, che ora si spegne, venne su sotto le bastonature dei Croati; la generazione, che adesso matura, sarà educata dalle ingiurie francesi. Scuole, armi, prudenza e concordia ... Scuole popolari e armi intelligenti. L’elettore esca dalla scuola, la scuola sia militare, cittadina, cristiana. Non ti spaventare caro Cairoli. Il Cristianesimo è la forma democratica del pensiero religioso: il culto degli umili, dei poveri, di quelli che non cercano la vita se non per le cose eccelse, di quelli che non temono la morte. Ricordati, ricordati di quello che colla sua cinica retorica disse un giorno Guerrazzi, me presente, a Cavour. Il prete è un cane che si può avvelenare col boccone Vangelo. Cavour sorrise e non capì. Tu sei atto a capire.»978 . Ma soltanto nel clinico romano il credo comune si illuminò della visione di Roma antica che ammoniva i tar-

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di nipoti. Anche a lui sorrideva il trionfo della Scienza in Roma; e, avvampando di spirito profetico, intravvedeva il giorno in cui il Policlinico di Roma sarebbe stato il primo del genere mondo e per esso l’Italia segno di nobili invidie979 . Ma la scienza doveva allearsi con la spada; scienza ed armi dovevan trovare unite Italia e Germania sulla via sacra che conduce alla prosperità e al decoro nazionale980 . La scuola forgiasse i caratteri, preparasse i bravi soldati pronti al sacrificio supremo per la patria, fosse fabbrica del cittadino e del soldato; per ottenere tale scopo s’ispirasse di continuo alle grandi memorie dell’alma mater, quando «questa città era ammirata dal mondo, per l’educazione del cittadino e del soldato». Torriamo alla tradizione dei padri, e saremo i primi educatori del mondo; facciamo rivivere le virtù della patria «che ne fecero la grandezza antica e le additano fra le ombre del futuro la linea certa di una grandezza nuova». Perché non ritornare «a quella stoffa di soldati che vinsero il mondo, lasciando nella storia nostra un’orma ch’è grande ancora, una pagina imperitura di gloria e di magnanimi esempi»? A sentir taluni, sembrerebbe che l’epoca romana sia un’epoca quasi preistorica, mentre le siamo assai più vicini di quanto non s’immagini. Perché dunque non facciamo rivivere, nuovamente, il tipo perfetto dell’antico romano, che «doveva avere il braccio di un gladiatore e la testa di un giureconsulto»? Noi ci lamentiamo dello scarso senso di disciplina dei giovani, del patriottismo che vacilla, delle dottrine sovversive e dell’insofferenza alle leggi, che s’insinuano nell’animo dei giovani invece di sentimenti devoti alle patrie istituzioni: e non facciamo nulla per opporci ai tristi che s’impadroniscono delle teste esaltate dei giovani. Ci pensò lui, ministro, a far qualcosa; e presentò il suo progetto di una scuola popolare o complementare, che avviasse i giovani, fra i sedici e i diciannove anni, ad una

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educazione civica, soprattutto a mezzo della «ginnastica militare generalizzata», affidata di preferenza ai sottufficiali dell’esercito. Compito dell’opera educatrice del governo era preparare i cittadini per il giorno in cui avessero dovuto pagare alla patria il loro tributo; quindi, aver sempre presente il modello della legione romana, m guisa che il giorno del pericolo i soldati sappiano che è altissima gloria morir per la patria. La religione della patria dev’essere universale, dev’essere inculcata nei giovani sin dai primi anni di scuola. L’ideale del secolo è il cittadino soldato; il modello, Roma antica; oggetto dell’educazione quella età che «superato il limite delle forze necessarie alla pura conservazione, entra con un rigoglio dinamico fra i contribuenti della società»981 . La scuola trovava il suo fine supremo non più nella lotta contro l’ignoranza per l’elevazione delle plebi, come s’era dichiarato un decennio innanzi, ma in una futura possibile taglia contro un nemico esterno; l’esercito diveniva «l’Università educatrice del popolo», le armi sostituendo l’alfabeto nel compito formativo di un popolo982 , tanto da far pensar preferibile un analfabeta buon soldato ad un cittadino colto ma militarmente imperito983 . E allora, non appena s’abbandonava l’idea della scienza per la scienza o il mito della scienza come strumento di lotta contro la religione, e vi si sostituiva la scienza come strumento della grandezza politica della patria, ecco la rievocazione dei fatti gloriosi di Roma antica e il proposito di imitarli. E s’aveva un bel dire, noi vogliamo grandezza civile e non pensiamo più ad impossibile imperio politico, come affermavano allora anche i più accesi fra i romanisti: i fantasmi, una volta evocati, non si sarebbero più allontanati, e quei fantasmi parlavano soprattutto di gloria militare e politica, e a lasciarli aggirare fra i ruderi del Palatino e del Foro potevano sopravvenire giorni ne’ quali, situazione generale italiana euro-

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pea permettendolo, il loro richiamo avrebbe riacquistato tutto il suo fascino e il suo preciso valore. Con la scienza patriottica nuovamente trionfava il senso della forza, della forza militarmente organizzata: «Il dinamometro politico d’un popolo più assai del numero misura la forza; e la forza consiste nell’animo temprato dei cittadini e nella salda e gagliarda organizzazione degli ordini militari. Le scienze nobilitano, le belle arti adornano, l’agricoltura e l’industria arricchiscono un popolo; ma un popolo nobile, adorno e ricco potrebbe essere schiavo. Per converso un popolo meno nobile ... ma forte per sua educazione e per armi, può trionfalmente combattere per la sua indipendenza»984 . Proprio solo per l’indipendenza, proprio solo a santa difesa di sé: anche per quel «rigoglio dinamico» auspicato dal medico romano, che negli inusitati termini esprimeva pensieri già diversi dall’appello alle armi caro a tutto il Risorgimento dal Foscolo al D’Azeglio al Cattaneo, e simili assai, nivece, all’esaltazione, cara alla Riforma e a Crispi, delle forze giovani, prorompenti, delle forze vitali ricche di avvenire? Non a caso alla voce di Guido Baccelli s’univa, ma molto maggiore autorità e forza sostanziale di pensiero, la voce di Crispi. In Roma non bisogna essere solo materialmente, diceva Crispi nel Collegio Romano il 23 marzo 1884; e la stessa scienza non basta più. «... la nuova missione d’Italia qui comincia, e se insediatici nella eterna città abbiamo abolito il principato civile dei pontefici, abbiamo proclamato liberi i culti e le coscienze, è incompleta l’opera nostra finché con gli studi e con le armi, con la scienza e con la forza, non avremo provato allo straniero che noi non siamo minori dei padri nostri.»985 E pochi giorni più tardi, parlando al Circolo Universitario di Palermo, incalzava esortando i giovani a rammentarsi dei Tedeschi, delle loro vittorie dovute anzitutto alla scienza che non

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solamente sviluppa e rinforza la mente, ma rende il braccio più forte, così che «ampliando col patrimonio della scienza le dottrine nelle quali ciascuno di noi si versa, potrete arrecare il vostro tributo alla potenza scientifica della pania, e, rendendovi utili come uomini di scienza, ponete esserlo come uomini di spada»986 . Non la Germania di Bismarck avevano sognato i cultori della scienza, fiduciosi in una Roma la quale, «per ammenda dell’oppressione armata dell’antichità e delle male arti de’ tempi appresso», promuovesse nel mondo «la giusta libertà dell’opera e la illimitata libertà del pensiero»987 : ma la gloria delle armi, anche a costo di opprimere, stava ridiventando la dea dell’Europa di fine secolo, e il resto era ricordo di illusioni perdute. Sorgeva, nell’immaginazione, la nuova Roma potente e magnifica, magnifica anche per fasto di monumenti nuovi: «chiunque entra in quella grande città vi trova la sintesi di due grandi epopee, l’una più meravigliosa dell’altra. I monumenti che celebrano queste epopee sono l’orgoglio del mondo; sono per gl’Italiani un pungente ricordo dei loro doveri. Bisogna instaurare Roma ed innalzarvi anche noi i monumenti della civiltà, affinché i posteri possano dire che fummo grandi come i nostri padri»988 . L’immagine di Roma era sempre rimasta viva nella mente degli stranieri; per questo il risorgimento dell’Italia era temuto «come il possibile ritorno ad una grandezza e ad una potenza, le quali avevano lasciato profonde vestigia sulla terra»989 . Già solo il contrapporre l’Italia e lo straniero, già questo solo accenno bastava a dimostrare come si fosse ormai fuori dalla pura missione di civiltà e s’entrasse nel sogno di grandezza politica, al quale bene si confaceva la distinzione fra il proprio e l’altrui. E se è vero che Crispi continuava a ripetere le formule della missione italiana di civiltà, e a dichiarare di non volere l’imperio di Roma, coppo scontato nei secoli dagli Italiani, è anche vero che ormai tali affermazioni si alter-

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navano con quelle, più sentite, sugli alti destini della patria, il governo non servendo che «all’esplicazione della vita nazionale, al benessere popolare, all’ingrandimento della potenza dello Stato»; e l’essere amati dal resto del mondo non bastava più, occorreva anche esser temuti990 . Ancora legato per tanta parte al passato, concettualmente; uomo della prima metà dell’Ottocento come struttura dottrinale, Crispi viveva già con l’animo nella nuova età: e l’animo e gli impulsi e l’immaginazione contavano in lui più che le dottrine. E dunque le immagini di Roma antica suscitavano naturalmente gli appelli alla potenza e alla grandezza politica e militare dell’Italia risorta; e l’insistere su Roma e l’augurarsi di poter ottenere per il cittadino italiano «che non indarno ci possa ripetere di fronte agli altri popoli il Civis romanus sum», e il ribattere che il passato doveva rivivere nella coscienza nazionale per i fatti gloriosi, per le virtù dei padri che ci diedero fama, e che dobbiamo rinnovare a grandezza d’Italia991 , creavano l’atmosfera nuova, accesa di senso della potenza, in cui il mito di Roma assumeva anch’esso nuovo significato. Non un motivo ornamentale, fiore retorico appiccicato a lustro e decoro; ma un qualcosa che sgorgava dai precordi, quasi istinto naturale che faceva tutt’uno con la personalità di un Crispi, sacerdote continuo e sincero dell’unità e della grandezza della patria. L’esortazione alle storie, rivolta da Ugo Foscolo agli Italiani per creare la loro coscienza nazionale, e rinnovata insistentemente dal Crispi992 , che altro significava se non l’immedesimare presente e passato, fondare il primo sulle glorie antiche che segnavano i doveri dell’avvenire, e quindi far tutt’uno del senso della patria con le grandi memorie dei tempi trascorsi? Foscolo aveva vagheggiato le glorie della itala gente, Machiavelli, Michelangelo, Galileo; ora, risorgeva a nuova vita Roma antica, la Roma degli Scipioni e di Cesare.

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Senza dubbio, il vecchio amore risorgimentale per i liberi Comuni non era ancor spento; e nello spirito patriottico degli Italiani fra 70 e ’80 era ancora continuamente presente l’Italia dei secoli XII e XIII, marinara e donna di colonie per gli uni, antitedesca per gli altri: onde da un lato le aspirazioni mediterranee si alimentavano dei ricordi della Quarta Crociata, e dall’altro l’irredentismo suonava la tromba di Legnano993 . Ma sempre maggiormente si inclinava, ad opera propugnatori della grandezza italica, ad esaltare l’espansione delle repubbliche marinare in Oriente più che le lotte contro gl’imperatori, Venezia e Genova più che Milano, le navi più che il carroccio. Le tradizioni dell’antico splendore marittimo994 cominciavano a servire da stimolo per il domani: riapparivano, ammonitori, anzi erano già apparsi i fantasmi dei Dandolo e degli Spinola quando ... l’itala vergine apparìa ringiovanita per la terza volta: ... . e se lo scettro avito avea perduto, fe del remo uno scettro, e fu temuto995

Fu il richiamo più frequente negli anni fra il ’70 e l’80, quello che, primo, solleticò l’orgoglio nazionale provocando le grosse delusioni del ’78 e l’ondata di recriminazioni e improperi contro l’opera dei nostri plenipotenziari al congresso di Berlino996 ; e s’intromise ovunque, nelle considerazioni commerciali sui porti di Marsiglia e di Genova997 , come nei giudizi politici, sulla condotta del governo italiano di fronte ad Inghilterra e Russia, Francia ed Austria; e ispirò i lamenti sul decadere del regno d’Italia non soltanto di fronte alla grande Venezia medievale, bensì anche di fronte ai più modesti staterelli italiani della prima metà del secolo XIX, i quali – si diceva – avevano saputo tener alta la loro bandiera, in Oriente e nel Mediterraneo, più e meglio di quanto non sapesse fare il governo dell’Italia unita.

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Non è ora il momento di esaminare simili accuse e di osservare che il paragone non reggeva, essendo assai più difficile per una grande nazione, sospettata e combattuta, competere nel Mediterraneo con le maggiori potenze europee, dopo che l’apertura del canale di Suez aveva nuovamente ridato al mare interno tutta la sua importanza internazionale, di quanto non fosse stato al regno delle Due Sicilie e al regno di Sardegna, potenze di second’ordine e poco temute politicamente, mantenere un buon posto nel Mediterraneo ante 1859, di assai minor importanza nel commercio internazionale e pertanto meno disputato e sorvegliato998 . Qui interessa solo l’osservare quanto vivo fosse, ancor dopo il ’70, questo ricordo, che per i moderati trovava conferma nell’esaltazione di Cesare Balbo del secondo primato italiano, del Mediterraneo ridiventato lago italiano per merito di Venezia, Genova e Pisa999 , e per gli altri nelle predizioni mazziniane, in quella parte cioè del pensiero dell’apostolo più suscettibile di interpretazioni nazionalistiche. Ma, con ciò non è che la memoria dei Comuni medievali si opponesse più a quella di Roma antica, che tra le due ci fosse antitesi come era successo, spesso, nei primi decenni dell’Ottocento. Allora, l’esaltazione dei liberi Comuni era stata esaltazione di forze nuove, fresche, originali: l’Italia s’era vista sorgere dopo una gran parentesi buia, che aveva spezzato ogni continuità storica con Roma lontana. Ora, nella gran ripresa post-quarantottesca del mito di Roma, l’uno e l’altro motivo si ricongiungevano insieme, la civiltà medievale italiana apparendo come il secondo grande germoglio sbocciata sul robusto e ampio tronco da cui era già una volta sbocciato il germoglio della civiltà latina: secondo germoglio che gli studiosi avrebbero cercato di ricollegare, attraverso la scoperta di di linfe segrete, col primo1000 . Le radici dell’istoria moderna si abbarbicavano negli imi ruderi delle età

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primitive; la storia d’Italia era una e continua, non aveva principio se non coll’Italia1001 . E se il primo Risorgimento sino a Mazzini aveva lasciato da parte Roma, riluttando ad accettare una troppo gravosa eredità di gloria militare e di potenza politica, ora, ad unità nazionale compiuta, quando l’Europa intera si abbandonava al miraggio della potenza esteriore, ora era possibile accogliere nuovamente nella propria anima Roma antica e i Comuni, gli Scipioni e i Dandolo: Roma, con Venezia, era il gran ricordo di gloria mediterranea, che eccitava a nuove glorie. «Qual’è l’Italiano che conscio di una così magnifica eredità di memorie, davanti ad un così splendido avvenire non si senta commuovere, agitare da un desiderio febbrile di attività?»1002 . L’idea di un primato italiano anche in certi periodi della storia più vicina s’imponeva in quanto c’era, profondo, il ricordo di un antico primato, quello romano, che aveva costituito l’apogeo della gloria di una stirpe anche in seguito rivelatasi non indegna di tanto grandi avi. A base di ogni concezione di primato – italico stava il primato di Roma antica, permesso da Dio per le virtù civiche dei Romani «qui causa honoris laudis et gloriae consuluerunt patriae»1003 e presupposto terreno del secondo, più alto primato, quello di Roma cristiana; il punto di partenza era sempre l’iniziale gloria mondana e felicità terrena dell’Urbe: e lo era stato perfino per un S. Agostino, molti secoli prima che per un Mazzini, e lo era poi stato per un Dante. Questa era la pietra su cui il sentimento nazionale italiano aveva edificato la sua casa, dall’iniziale esaltazione del nome romano trascorrendo poi a ricercar le tracce delle romane virtù attraverso i secoli della storia italiana. Roma antica era continuamente presente, anche quando si esaltassero le gesta di Genova, nel cui poema ricorreva, perenne, il grido «fida a Roma: alla Roma dei Cesari, alla Roma di Cristo, alla Roma nova d’Italia»1004 .

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Era una forma mentis particolare, quella foggiata in tal modo. Il sentimento nazionale italiano era stato creazione di pensatori e scrittori e non aveva avuto, per troppo tempo, il sostegno di una realtà politica concreta, com’era successo a Francia e Inghilterra. Aveva quindi dovuto cibarsi quasi esclusivamente di ricordi storici, fondare i suoi diritti soprattutto sui vincoli morali e spirituali, cioè su vincoli creati dalla storia1005 e, in ultima analisi, tutti risalenti a Roma, pagana e cristiana. Il volgersi al passato era stato, per tanto tempo, l’unico elemento atto a sostenere le speranze nell’avvenire; e l’esortazione foscoliana alle storie aveva fatto tutt’uno con l’esaltazione della santità della patria1006 . Una forma mentis pervasa di letteratura, con i pregi e i difetti della letteratura: slancio spirituale, appello alle forme superiori, pensiero, arte, cultura, e non alle inferiori, razza, sangue, territorio; ma anche e spesso vanità, orgoglio determinato dal tempo che fu e sproporzionato al tempo che è, misero orgoglio già aveva esclamato il Manzoni; e mancanza quindi di senso del limite e della misura, e predominio del fantasma storico sulla conoscenza e valutazione attenta della realtà effettuale delle cose. «Qualche avanzo d’idolatria verso l’antico, misto ai sogni dorati di un lontanissimo avverare; l’attualità, il presente non mai», aveva esclamato il Durando, per il quale l’arte si era eretta tiranna in Italia e uccideva gli italiani1007 . L’arte e la letteratura erano state principio di cose grandi, e potevano essere principio di funesti sogni; avevano dato la vita e potevano uccidere. E, all’origine, Roma, sempre Roma, sempre il cemento romano di più tarda invocazione dannunziana1008 . Così che se nel primo periodo dopo il Venti Settembre il ricordo dei Quiriti non fu frequente e acceso come sarebbe diventato poi, l’orgoglio del gran nome vibrava ugualmente nelle altre evocazioni di grandezza italica: il Venti Settembre cominciava a influire sugli spiriti anche attra-

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verso la celebrazione delle glorie marinare dei Dandolo e dei Morosini; e il lievito romano, cioè il lievito dell’orgoglio nazionale, fermentava sotto sotto anche se l’oggetto ne fosse Venezia nelle Cicladi o Genova alla prima crociata. Quest’era, anche, un ricordo più adatto al momento, come che parlasse soprattutto di espansione commerciale, secondo permettevano i tempi; più tardi, col crescere delle forze, sarebbero cresciute le aspirazioni e allora si sarebbe invocato soprattutto il dominio di Roma. Ma anche allora, anche pieno dispiegarsi della gloria militare, anche allora Venezia e Genova avrebbero nutrito la fiamma nazionalistica: non più mercantili, ma guerresche l’una e l’altra, la Genova di Guglielmo Embriaco e la Venezia di Enrico Dandolo, continuatori ed eredi del romano Duilio, tutti servendo all’invocazione Italia, alla riscossa, alla riscossa! Ricanta la canzone d’oltremare come tu sai, con tutta la tua possa, come quando sorgeva sopra il mare in sangue e in fuoco un sol clamor selvaggio «Arremba! arremba!» e ne tremava il mare1009

Sangue e fuoco, evocati dal passato come auspicio per il sangue e il fuoco dell’avvenire quando un giorno l’Italia, potesse vedere ... il mare latino coprirsi di strage alla tua guerra1010

e a Dio, sopra il mare, i viventi offrissero mirra e sangue dall’altare che porta rostro1011 . La tradizione di Venezia Genova Pisa Amalfi divenne grido di guerra, e disse da sola quanto fosse mutato lo spirito italiano dai giorni in cui era stata esaltata quale gloria civile di traffici.

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L’uno e l’altro motivo dunque, quello romano e quello dei liberi Comuni, si allacciavano insieme; ispiravano sin da allora il vate della Terza Italia, che continuava lo spirito del Risorgimento, celebrando dei Comuni la rustica virtù e Alberto da Giussano, vale a dire la libertà interna e là lotta contro il Tedesco, ma salutava pure, rapito, la Dea Roma e ripeteva l’oraziano Nihil visere maius; e Roma antica e Genova e Venezia medievali accomunava, auspicio per l’avvenire, tra i rauchi gridi di gioia dell’aquila romana, tornata a distendere la larghezza delle ali tra il mare e il monte, innanzi al Mediterraneo per la terza volta italiano1012 . E Crispi trovava nomi d’eroi nelle nostre storie; ma quando non ne offrissero l’età moderna e il Medioevo, chiedete nomi ed esempi alla Roma antica, alla inesauribile Roma1013 ; anch’egli legando insieme le varie età dell’unico spirito italiano, e accomunando nello stesso orgoglio il civis romanus sum e i grandi tempi di Venezia coloniale1014 . Alfredo Oriani a sua volta, vide la continuità ideale, quando la bandiera italiana tornò minacciando sui mari che sembravano averla dimenticata, e sventolando sull’asta delle antiche aquile romane riprese la loro via. «Dacché le aquile romane erano state uccise dallo stormo degli sparvieri nordici, il mondo non ne aveva viste altre, e nulameno eternamente memore del loro volo le aveva eternamente cercate sulla cima di tutti i pennoni e di tutti i vessilli, che lo percorrevano trionfando ... Tutti gli sforzi millenari d’Italia per costituirsi in nazione, il sangue dei suoi eroismi e le tragedie del suo genio non miravano che a questo giorno nel quale rientrando, attrice immortale, nella storia dopo essersi circoscritta nei confini del proprio diritto, veleggerebbe un’altra volta sui mari portatrice di nuova civiltà. Il popolo sentì, senza dubbio, la grande ora quando fremente d’inesprimibile emozione si accalcò sul porto salutando con epico orgoglio i soldati che tornavano in Africa. Sì, tornavano un Africa, perché da tremila anni

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durava la lotta fra l’Africa e l’Italia, e l’Italia vi aveva già vinto Annibale, imprigionato Giugurta, sottomessi i Tolomei, vinti i Saraceni, dissipati i Barbareschi; perché l’Italia, altra volta sintetizzando tutta l’Europa e profetandone l’avvenire, vi si era battuta contro tutto lo sforzo dell’Oriente e aveva vinto.»1015 . Ecco perché sotto le grandi ali della Dea Roma riparavano ormai anche le esaltazioni marinaresche e comunali di fine secolo. Roma papale rimase in piedi; ma qualcosa di grande a Roma ci voleva: «il re di Sardegna è troppo piccola cosa per Roma. Roma, capitale del mondo, dev’essere la sede di una grande monarchia, o del pontificato»1016 . E quindi, si pensò alla Roma della grande monarchia. Del tramutare di ideali nessuno fu interprete più aperto di Alfredo Oriani. Erede del Risorgimento nel sentir anch’egli, potentemente, la necessità della missione dell’Italia: una terza Italia senza un significato ideale nel mondo, sarebbe il più assurdo miracolo della storia moderna, una risurrezione senza vita, una riapparizione di fantasmi che passano soltanto. Ma voce di tempi nuovi e presagio di futuri, nel constatare la grandezza incrollabile di Roma papale, nell’assegnare all’Italia un ben altro compito che non quello della riforma religiosa o del culto della scienza. L’Italia è cattolica: il non più volteriano romagnolo strappava il velo dell’illusione, cogliendo nel segno. «L’odio ai preti e il disprezzo della religione non sono ancora che molto superficiali: nel sentimento delle masse il matrimonio vero è quello ecclesiastico, unica religione il cattolicismo; si battezzano pressoché tutti i bambini, si affidano al clero per la prima educazione, s’iniziano in tutti i gradi della religione. Si diffida dei collegi laici, si amano tuttavia i conventi mutati in educandati; tutte le Madonne e i Santi miracolosi sono più che mai vivi nella illusione del popolo, un sottinteso scinde tutte le coscienze: si vuole la libertà della vita pubblica e si

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crede ancora nella servitù della vita spirituale. La scienza, incerta nei metodi, dubbia nei risultati, contraddittoria nelle affermazioni, rimane in alto, retaggio e culto di pochi: la filosofia è quasi sconosciuta, la letteratura disertata dai campi dell’ideale per una irreflessiva passione scientifica non è più che pittura di superficie. La rivoluzione nata e vissuta d’istinto non si è ancora mutata in riflessione. La maggior parte di coloro che l’hanno sostenuta, morendo la sconfessano, onde i preti se ne vantano affermando che la sua verità non resiste in faccia alla morte. Il sogno esposto da pochi, accarezzato da quasi tutti è di una conciliazione, che accordando la coscienza religiosa colla coscienza politica induca quella calma, che altri secoli hanno conosciuto.»1017 . Il papato era sempre una grande cosa, l’ultima forma imperiale d’Italia, che certamente costò alla nazione la schiavitù verso gli stranieri e ne impedì l’unificazione, ma che rimane ancora il solo vanto dell’Italia contro le massime nazioni. Vedova del papato, Roma non sarebbe che una grossa ed insignificante città di provincia; e invece la sua fiera e nobile testa sovrasta ancora al mondo. «Che cosa vi rappresenterebbero soli i re di Savoia? La loro montanara fortuna fra il Panteon e San Pietro, il Colosseo e il Vaticano, non vi ha che un significato provvisorio: sono troppo antichi come conti della Savoia, troppo recenti come monarchi d’Italia, troppo estranei alla grande tradizione nazionale per dare davvero a Roma una incancellabile impronta di modernità. Eppure i tempi assegnano all’Italia mediterranea una funzione ed un primato. Bisogna guardare in alto e lontano. Bisogna essere forti per diventare grandi: «espandersi, conquistare spiritualmente, materialmente, coll’emigrazione, coi trattati, coi commerci, coll’industria, colla scienza, coll’arte, colla religione, colla guerra. Ritirarsi dalla gara è impossibile: bisogna dunque trionfarvi.

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L’avvenire sarà di coloro, che non lo hanno temuto; la fortuna e la storia sono donne, e amano soltanto i gagliardi capaci di violentarle, che accettano i rischi dell’avventura per arrivare alla dominazione dell’amore ... L’imperialismo non è sogno che nei deboli, e diventa vizio soltanto negli incapaci al comando: i nostri ultimi eroi erano tutti grandi avventurieri, i nostri recenti viaggiatori vedevano tutti nell’avventura un lineamento d’impero»1018 . La lotta dello Stato colla Chiesa passava dalla politica alla scienza, dopo il Venti Settembre «giacché il diritto nazionale, ormai invincibile sul Campidoglio, avrebbe rispettato e imposto rispetto al diritto religioso»: il compito dell’Italia era altrove, era nell’Africa, su cui premeva ora l’Europa che non poteva essere scopo a se stessa. La terza risurrezione italica non era stata consentita dalla storia nel solo interesse degl’Italiani: «se l’Italia è ridivenuta nazione, il secreto di questo fenomeno storico sta nella necessità che la storia mondiale può avere della sua opera e nella facoltà del nostro popolo a prestarla». Missione dell’Europa, e quindi anzitutto dell’Italia, puntare sull’Africa e l’Asia, chiamando le razze inferiori alla propria civiltà, condannando quelle che non rispondono, distruggendo quelle che resistono1019 . Il mare nostro diventava cosa lo scopo di una grande politica estera italiana; l’anelito alla potenza distoglieva lo sguardo dalle Alpi e lo rivolgeva sul mare. E vi si accompagnò la polemica contro la borghesia vile ed egoista, incapace di alte cose: polemica che non aveva più nulla in comune con quella dei socialisti, e accusava nel borghese non il detentore della proprietà e lo sfruttatore del proletario, ma l’anima gretta di chi non sapeva sollevarsi ad ideali di gloria e di potenza e soprattutto rifuggiva dalle armi e dalla guerra. Borghese oggetto di disprezzo fu, non il possidente, ma il «filisteo» amante della pace e rifuggente dal rischio, l’uomo incapace di comprendere l’eroico: e già prima dell’Oriani, a bollar di

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viltà la borghesia s’era alzata non solo la voce tonante del Carducci, ma anche quella, di assai più modesta eco, di Pietro Ellero che imprecava contro la tirannide borghese, contro la plutocrazia, ma ad un tempo contro il socialismo e i deliri dei rossi minaccianti l’intera Europa, e imprecava contro gli «averi», solo perché avevano usurpato il posto delle forze morali e civili, spento il culto delle grandi virtù e il senso dell’eroico. Bisognava uccidere la grettezza borghese, per far rientrare l’umanità nel regal sentiero e riacquistare all’Italia l’antico splendore. Bisognava passare «dall’Italia vituperata da’ faccendieri e assassinata da’ pubblicani all’Italia vaticinata da’ profeti e benedetta da’ martiri, dall’Italia bastarda ... all’Italia legittima e santa, dall’Italia presente e falsa all’Italia futura e vera». Bisognava esaltare l’orgoglio nazionale, anzi il pregiudizio nazionale; bisognava ricordare il primato dell’Italia e di Roma1020 . Così, mentre svaniva pían piano il mito di Roma scientifica e anticattolica, sbocciava il nuovo mito di Roma guerriera, non più ostile anzi ricercante l’alleanza della Chiesa1021 , e se, fra fra il ’70 e il ’90, gli uomini di più acceso discorrer patriottico avevano avuto per motto «guerra al Prete – in alto il diritto e il nome italiano!»1022 , il più tardo nazionalismo dottrinario si professò altamente, oltre che guerriero, cattolico apostolico romano, e vagheggiò il Papato collaboratore della grandezza politica dell’Italia, riprendendo e sviluppando, senza saperlo, pensieri già balenati attorno al ’70 ad alcuni dei cattolici liberali. Eran balenati infatti al Ricasoli, per il quale una Roma unica sede del Pontefice e del Re, avrebbe avuto conseguenze felici «mercé le istituzioni connesse col Papato, che possono dare un’influenza grandissima alla Nazione nostra. Piglia ad es., la Propaganda fide che col mezzo dei Missionari porta il nome d’Italia nei paesi più remoti e stabilisce corrispondenze e relazioni che aprono la via ai commerci nelle più lontane regioni»1023 . Ed

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eran balenati all’immaginoso Diomede Pantaleoni, che volle – si disse – passare ai fatti, recandosi senz’altro, dopo il Venti Settembre, da Propaganda Fide per invitarla ad abbandonare in Oriente la protezione della Francia, nazione finita, e sostituirla con la protezione dell’Italia, a cui passava ormai l’influenza latina nel Mediterraneo orientale1024 . Proudhon non aveva forse motivato, sin dal ’61, la sua recisa opposizione all’unità d’Italia anche con i sogni dei patrioti italiani di un’Italia pontificale e imperiale, che si servisse del Papato per conferire al Regno il protettorato della cattolicità?1025 E i diplomatici francesi non s’allarmavano molto, subito dopo il Venti Settembre, proprio temendo le pretese di dominio degli Italiani, che – a loro dire – avrebbero voluto far della Chiesa il docile strumento delle loro prepotenti ambizioni, e soprattutto in Oriente?1026 . Queste erano dunque conseguenze lontane e oscure dell’idea di Roma: oscure, perché l’anelito ad agire rischiava di prescindere dalle condizioni dei tempi e del paese, tramutandosi in desiderio di avventura. Per arrivare alla dominazione occorre accettare i rischi, diceva l’Oriani; ma già solo la similitudine, conturbante lui come il D’Annunzio, del piegar la donna in un violento amplesso, stava ad indicare quale pericoloso ebriamento potesse alterare la chiarezza del pensare politico. Era il rischio additato, già nel 1865, oltre che dai moderati italiani alla d’Azeglio, anche dal ginevrino Rodolfo Rey: «Roma con i suoi ricordi può schiacciare tutti i governi d’Europa, e a più forte ragione quello d’uno Stato recente, appena formato, obbligato ad ogni genere di riguardi. Roma è un’eredità onerosa, un nome magnifico ma troppo pesante da portare»1027 . E tuttavia, non era ancor questo l’aspetto più preoccupante. Una politica di espansione, di conquista: ma che almeno fosse sostanza e tutta cose. Ma quando il sogno di grandezza si riducesse alle forme esterne della

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grandezza, all’apparenza fatua, ad alti clamori e a trombe squillanti Quando il ricordo di uno stupendo passato agisse non sull’orgoglio, ma sulla vanità! Quando il ricordo degli avi si limitasse a rendere gli Italiani, secondo aveva già deprecato il Foscolo, «simili in tutto agl’Israeliti, a cui bastava il ricordarsi boriosamente ch’erano discendenti di Abramo»1028 : ed essi dei Romani antichi! Era, questo, il maggior pericolo che la missione di Roma i recava in sé. Idea di formidabile efficacia nell’animo de’ grandi, poteva tramutarsi, nei mediocri, in fastidiosa figura retorica; nella stessa persona, anzi, ove proprio non si trattasse di uomini di solidissima tempra, poteva agire ora come forza benefica, ora come fuoco d’artificio, provocando oscillazioni tra il lavoro serio e l’atteggiamento istrionico, tra la fede sincera e il bluff propagandistico. Già una volta, essa aveva agito con duplice e alternante effetto, da un lato provocando l’appello del 7 giugno 1347 di Cola di Rienzo alle città d’Italia e il decreto del 1° agosto, sulla sovranità del popolo romano e il riordinamento dell’impero, e dall’altro le cerimonie per la consacrazione a cavaliere del tribuno, con buffoni senza fine «chi sona tromme, chi cornamuse, chi caramelle, chi miesi cannoni» e, con «tromme de ariento», con le enfatiche parole di Cola al popolo acclamante: «Scacciate che questa notte me deo fare Cavalieri. Crai tornarete, cha odirete cose le quali piaceraco a Dio in Cielo, all’huomini in terra»1029 , con il bagno nella vasca di Costantino e poi ancora, il 15 agosto, la incoronazione con le sei corone, proprio in omaggio ai ricordi classici del tribunto, che voleva rinnovare «gli antichi titoli delle cariche romane con gli antichi riti»1030 . Ora la pericolosa tendenza alle celebrazioni formali riappariva; e trovava modo di farsi notare già poche settimane dopo l’ingresso delle truppe italiane nella città.

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Erano entrate le truppe, ma non ancora il Re; e pensando a questo evento prossimo – si sperava – la Commissione romana per la conservazione dei monumenti, biblioteche e archivi faceva sua la proposta di C. Rusconi, perché Vittorio Emanuele II salisse sul Campidoglio per la via Sacra, attraverso il Foro Romano, tra il Colosseo e gli archi di Costantino, di Tito e di Settimio Severo. Abbattendo il potere temporale dei papi, non aveva egli riportato un trionfo a petto del quale erano poca cosa i trionfi degli antichi? Non si gridava forse già dal popolo «il Re in Campidoglio», volendosi con ciò significare «come nel concetto della nazione s’identifichi già questo connubio delle meraviglie d’un tempo con quelle dell’età nostra»? Bando alle considerazioni «da mercante», al filisteismo: «in Roma tutto deve avere un’impronta di grandezza». Era un’espressione simile apparentemente a quella di Quintino Sella; ma la grandezza diventava, ora, teatralità, spettacolo, mortaretti e fuochi d’artifizio e cavalieri caracollanti in bella mostra di sé, Vittorio Emanuele II a cavallo col gran pizzo e l’elmo da generale ambicrinito, e dietro a lui i generali al galoppo, magari il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri, i borghesissimi Lanza e Visconti Venosta, anch’essi su di un focoso e scalpitante destriero. A uomini come il Lanza, il Visconti Venosta, il Sella queste dovevano sembrare follie; e, di fatto, contro la proposta si schierava subito il portavoce del ministero, L’Opinione. «Ridevole anacronismo», quello del comitato romano; il Re deve entrare a Roma come «Re cittadino e non qual conquistatore romano»; l’Italia non deve procedere verso l’avvenire per le vie del passato, e deve guardarsi dal voler risuscitare le età trascorse, ché ogni civiltà deve avere i suoi segni rappresentativi; e si badi bene che la

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via Sacra, s’era la via dei trionfatori, era pure, ai tempi di Orazio, il passeggio degli sfaccendati e degli oziosi1031 . Re cittadino: qui era colto, assai bene, il momento nuovo, che rendeva o avrebbe dovuto rendere impossibili le anacronistiche esumazioni del passato, anche se non vi avessero ostato motivi d’indole contingente, ma gravissima, e cioè la necessità di non esasperare inutilmente il Papa, con imprevedibili conseguenze1032 . Veramente, in un episodio di poca importanza si scontravano due mentalità agli antipodi: la mentalità dell’italiano nuovo, venuto su attraverso una dura esperienza di lotte e di sacrifizi, culturalmente e moralmente preparato ai nuovi gravosi compiti che la storia imponeva al suo paese, avvezzo, quale si fosse il suo partito politico1033 , a cercar respiro europeo, e ben convinto che l’età delle sagre dovesse considerarsi chiusa se si voleva procedere innanzi; e la mentalità dell’italiano rimasto uguale al se stesso degli ultimi due, tre secoli, venuto alla libertà e all’unità troppo in fretta e troppo per virtù di fortuna, poco preparato politicamente e con la testa piena di ricordi scolastici e di letteratura, dell’elmo di Scipio e del Campidoglio, respirante un’atmosfera falsa e viziata. La tendenza alla festa, alla divagazione coreografica, già soverchiamente radicata in molti italiani, e fra essi anche ne’ Romani che, i primi anni, dovevano stupire e scandalizzare i nuovi venuti come popolo ancor sempre amico de’ baccanali1034 , troppo pronto a cogliere il minimo pretesto per far baldoria e scialare1035 , si trovava così rafforzata e in apparenza nobilitata dai nuovi eventi, dalle date solenni del patrio riscatto, che occorreva celebrare. In più della semplice festività tradizionale, la festività patriottica, e spesso, se non sempre, l’evocazione dei Quiriti d’un dì lontano: quale incitamento a spogliare il dizionario degli epiteti più altosonanti, a trarre dall’arsenale dei ricordi quel che di più tronfio e di più barocco v’era, sino a giungere alle iperboli di coloro i quali non

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esitavano a definire gli italiani «i primi soldati del mondo» per l’assalto a Porta Pia, e ciò mentre tra Weissenburg e Sedan alquanto più serie battaglie avevano impegnati gli eserciti di Prussia e di Francia!1036 . E quanto facile il parlar d’eroi e di grandezza, ad agitar, furiosamente quasi, i fantasmi del passato contro le voci dell’assennatezza e della moderazione e del buon senso: siccome aveva fatto, nel 1865, contro le tendenze antiromane alla Giorgini il «difensore» dei Romani, Antonio Stefanucci Ala, con l’invocazione alla grandezza formale, l’esaltazione della propria superiorità e il dispregio per gli altri popoli1037 ; e avrebbe ripetuto, nel 1883, Francesco Coccapieller che dicevan matto ed era propriamente farneticante di grandezza romana e dunque nelle sue stramberie era l’eco fragorosa di un sentire proprio non soltanto di un matto come lui1038 . Il guaio si è che alla retorica ammantata di toga curule non resistevano sempre nemmeno uomini di alta levatura spirituale. Che la commissione romana per la conservazione dei monumenti, biblioteche e archivi avesse pensato la gloriosa idea di far entrare Vittorio Emanuele a cavallo per la via Sacra non era grosso male; né gran male che la voce di cantori d’occasione rievocasse, e sia pur dal teatro comunale Argentina, l’insuperabile aquila latina dal volo sublime o ammonisse i deputati giungenti a Montecitorio a parlar alto linguaggio, degno di Tullio, di Papirio, di Catone, di Regolo e Fabrizio, le terribili e grandi alme latine assurte, con il lauro al crine, per giudicarli nel novello agone1039 . Ma alla fioca voce dei cantori romani rispondeva da Bologna ben altra voce. Proprio il Carducci doveva infatti entrare di lì a poco in lizza, per scagliar la sua invettiva contro l’Italia ufficiale; rea di aver condotto il Re a Roma in modo ignominioso, rea di aver dato Bisanzio all’Italia, quand’essa aveva chiesto Roma. Zitti, zitti, piano piano, sembrava dicessero Lanza e Visconti Venosta:

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Oche del Campidoglio, zitte! Io sono L’Italia grande e una. Vengo di notte perché il dottor Lanza Teme i colpi di sole ... Deh, non fate, oche mie, tanto rumore Che non senta Antonelli1040

Anche lui, dunque, il grande poeta, che non sempre sfuggiva al fascino della retorica e spesso, poetando, soggiaceva soverchiamente al ricordo archeologico, proprio per Roma; tutto passione e furore politico1041 ma non certo testa politica, anche lui avrebbe dunque voluto un altro ingresso, qualcosa di trionfale, e se non proprio la via Sacra almeno un ben alto squillar di trombe. Che l’entrata del Re dovesse anzi essere semplice e composta, senza inutili parate, per non render piú difficile una situazione già assai delicata, nei rapporti col Papato e quindi con le potenze europee1042 : che il grande merito del governo, al disopra e nonostante tutte le sue incertezze dubbiezze, oscillazioni, fosse stato allora anche di esser riuscito, con il suo modesto incedere, ad entrare in Roma riducendo la caduta del potere temporale alle proporzioni di un fatto non maggiore della guerra franco-Prussiana1043 , e guadagnando così m durevolezza e solidità di acquisto quel che perdeva in splendore e fasto di conquista; che da un simile spettacolo di compostezza e riguardo l’Italia non solo non scapitasse nella sua dignità di fronte alle estere nazioni, anzi ci guadagnasse in considerazione1044 : tutto questo sfuggiva all’iracondo Giosuè, torvo contro se stesso e contro l’Italia, bestemmiante Italia, papa, re, democratici1045 , proclive a veder tutto nero e, della patria, a non scorgere che Custoza e Lissa e le piccole miserie1046 . E ancora, altre sue sfuriate erano contro la sostanza dell’Italia nuova, la miseria in cui al poeta sembrava cadesse la vita nazionale: sfuriate, dunque, per un profondo motivo, giustificato o meno ch’esso fosse. Ma nell’evocar le oche e il dottor Lanza e Antonelli il poeta, ahi-

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mé, soggiaceva anche lui alle stesse impressioni e aspirazioni che avevano, prima, dato corpo alla proposta del più modesto e men tempestoso Rusconi: anche il poeta aveva bisogno di fragore esterno. Brutto segno, proprio perché il Carducci era tra gli uomini in cui l’idea di Roma viveva in profondità e sincerità e agiva sovente, come forra feconda. Anche in lui, il mito di di Roma ... madre de i popoli, che desti il tuo spirito al mondo, che Italia improntasti di tua gloria.

La voce di Roma, ch’era risuonata sl pura e fresca nel Mameli dell’inno, togliendo all’elmo di Scipio, quella volta, la patina retorica per farne un’immagine di immediata naturalezza e spontaneità, nel Carducci trovava alti accenti di poesia vera; ma s’affiorava pure non infrequentemente in un esclamar retorico e in brutti versi. Brutti versi; ma più spiacevole, per noi che non siamo critici di poesia, il constatar come, nonostante la sincerità dell’uomo e la sua forra intellettuale, venissero fuori immagini che troppo palesavano il gusto del teatrale. E si metta pure, che nel Carducci questo bisogno di antichità anche nelle forme, di trionfi pagani e di cortei, venisse fuori come reazione contro la Roma papalina «una plebe di mendicanti ... una borghesia di affittacamere, di coronari, di antiquari, che vende di tutto, coscienza, santità, erudizione, reliquie false di martiri, false reliquie di Scipioni, e donne vere; un ceto di monsignori e abati in mantelline e fogge di più colori, che anch’esso compra e vende e ride di tutto; un’aristocrazia di guardiaportoni; una società che in alto e in basso, nel sacro e nel profano nel tempio e nel tribunale, nella famiglia e nella scuola, vive in effetto quale è tratteggiata nelle satire di Settano e del Belli, come la più impudicamente scettica, la più squisitamente immorale, la più serenamente

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incredula e insensibile a tutto che di sublime, di nobile, di virtuoso, d’umano possibile credere, vagheggiare, adorare o sognare le altre genti»1047 ; si metta pure che il fantasticar trionfi romani e cocchi e aquile legionarie, nascesse spontaneo per contrasto non facilmente evitabile con la Roma presente che appariva piccina piccina, a chi non volesse riguardar verso San Pietro, anzi sdegnasse e odiasse il simbolo dell’oscurantismo. Il poeta sognava cose grandi; il presente gli sembrava detestabile, ed ecco l’evocazione non solo degli antichi spiriti, sì anche degli antichi riti. Si conceda tutto questo; ma non è men vero che anche nel Carducci l’idea di Roma veniva fuori con quel doppio carattere di cui s’è parlato, Giano Bifronte con un volto tutto luce, idealità, sostanzialità e l’altro oscurato dai troppi fumi di incenso e vuoto al di dentro. Il potente senso nazionale del Carducci non era ancora il nazionalismo gretto di più tardo conio; ed egli, in questo uomo del Risorgimento, vedeva l’Italia nel mondo, non contro il mondo, e amava eroi e glorie di altre nazioni, esaltando soprattutto la Francia dell’89; e la grandezza d’Italia era, anzitutto, per lui, come per gli uomini del Risorgimento, altezza di sentire civico dei suoi cittadini1048 . Ma le immagini corpose della sua romanità non erano più soltanto Risorgimento e piuttosto segnavano il primo trapasso dalla romanità mistica del Mazzini alla romanità politica, materialmente concreta, tanto cara più tardi; e poiché era sovente romanità di sfarzo, poté poi avvenire che, per molti ci quelli che vennero dopo di lui e già si nutrivano di altri degli, i suoi appelli alla gloria e potenza d’Italia in Roma inducessero piuttosto a chiudere l’Italia in sé e servissero da motivo nazionalistico. La festosità esteriore sembrava fatalmente collegata con la grandezza interiore: madre di grandi cose e incitatrice ad alti pensieri, Roma di necessità pareva richie-

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desse i panni curiali e il tono solenne. N’eran persuasi anche uomini tutt’altro che animati dal sacro fuoco del vate, moderati nel pieno senso, politico-morale, della parola, che normalmente erano refratteri all’incanto dei bei gesti e delle frasi: così, uno degli amici del Minghetti, il lombardo conte Guido Borromeo, ch’era un po’, senza dubbio, un Bastian contrario, e borbottava e brontolava su questo e su quello, e vedeva il mondo, generalniente, sotto fosca luce, ed era non benevolo critico del Lanza e del ministero in genere, ma che insomma non era un letterato facile ad accendersi per le belle parate. Eppure, anche lui, che pur non aveva nascosto la sua disistima pe’ Romani e anzi aveva chiaramente espresso il timore che Roma capitale accrescesse, cosa non augurabile, l’influenza del Mezzogiorno nella vita politica italiana, pure anche lui, un antiromano, masticava amaro pel modo come s’andava a Roma, e gli pareva «dolorosa cosa veder l’Italia compire l’opera sua in modo così poco degno di Lei, ed entrare in Roma con tanta poca anzi nessuna dignità. Dopo aver aperta una breccia a cannonate fa dolore assistere allo spettacolo d’una presa di possesso quasi fatta a spintoni di Sinistra, con un Re che andrà forse per 24 ore a stento, con una Camera che non vi sarà in numero»1049 . Segno che l’aria di Roma inebriava davvero, anche chi ne stesse lontano. IV Gli antiromani Pericolo evidente, dunque. E se ne rendeva pienamente conto uno spirito sottile, il lombardo Stefano Jacini. Nel celebre discorso del 23 gennaio 1871, in Senato, contro il progetto di trasferimento della capitale da Fi-

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renze a Roma, il motivo fondamentale era indubbiamente costituito dalla preoccupazione che, cosa facendo, non si distruggesse il «piedistallo» di quel grande potere religioso la cui influenza mondiale era tuttora così forte – ed era un potere con sede in Roma, nel cuore della terra italica; che non si aprisse, appena al chiudersi della questione romana (terminata, per lui, col Venti Settembre), una minacciosa «questione papale». Preoccupazioni di cattolico praticante, d’accordo col politico nel ritenere nocivo e pericolosissimo il nuovo passo innanzi, e in ciò d’accordo con uomini quali il Menabrea e l’Alfieri di Sostegno1050 . Ma, nell’argomentazione, il momento centrale era quello costituito dall’attacco, reciso e duro contro il «mito» di Roma1051 . Tutto il resto; discussioni pro e contro la posizione geografica, il clima, la sicurezza militare, era di valore assai secondario; poteva anzi stupire di vedere un uomo quale il Jacini soffermarsi, nella polemica attorno ad un problema come della capitale, su argomenti di ben scarso valore e che si prestavano ad immediata e facile replica: la replica già data, un decennio in anticipo, dallo stesso conte di Cavour – in base ai criteri climatici topografici e militari, certamente Londra non sarebbe capitale dell’Inghilterra e forse nemmeno Parigi della Francia1052 . Il «più formidabile» dei motivi addotti a favore di Roma capitale era ben altro: l’opinione pubblica, vale a dire il «dogma» della necessità del trasferimento del governo nazionale sul Tevere. E contro questo dogma volgeva dunque il suo tagliente ragionare il cattolico-liberale lombardo, con tutta l’aggressività ch’era caratterisica di lui1053 . Era proprio l’idea letteraria di Roma ad essere impugnata, svuotata di contenuto, presentata in una sola delle sue due facce, e, naturalmente, in quella negativa. Idea da «antiquari»; relitto di un tempo che fu e che non doveva più mai ritornare; «prodotto della rettorica, di quel-

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la rettorica la di cui influenza, ad Italia costituita, dovrebbe essere la prima cosa da abolire, se vogliamo veramente prendere posto fra le nazioni moderne più civili ... belletto di una Italia decrepita e che ha fatto il suo tempo, e non l’ornamento di quell’Italia che vagheggiamo e che deve percorrere le vie della libertà e del progresso se vuole assidersi da pari a pari colle nazioni più incivilite del mondo»: la concezione di Roma che il pieno Risorgimento aveva nutrito, pur nelle diversità delle tendenze politiche, e che proprio in quei giorni trovava concordi sostenitori in uomini di Destra e di Sinistra, nei Sella come nei Crispi, nell’Opinione come nella Riforma e nel Diritto, questa concezione usciva malconcia assai dall’atto di accusa del senatore lombardo. Nelle sue parole riecheggiava la tendenza antiromana che aveva trovato, forse, la sua più cruda espressione, prima del ’48, nel Durando1054 , ma che, ancor pochi anni innanzi, si era rivelata aspramente nella parola del d’Azeglio: il discorso del 23 gennaio 1871 discendeva per via diretta dalle Questioni Urgenti, in cui dieci anni puma il cavalier Massimo aveva recisamente combattuto il programma di Roma capitale d’Italia, negando che l’ambiente dell’Urbe «impregnato de’ miasmi di 2500 anni di violenze materiali o di pressioni morali esercitate dai suoi successivi governi sul mondo» fosse adatto per un’Italia giovane, nuova, un’Italia che non doveva aver più nulla a che fare con le memorie dell’antico mondo romano1055 . Concetto informatore e immagini erano identici; fin le obbiezioni di carattere igienico e strategico passavano dallo scritto del piemontese nel discorso del lombardo1056 . Di lì, e dal discorso che il d’Azeglio aveva fatto leggere in Senato il 3 dicembre 18641057 , ormai vecchio e stanco ma sempre «cocciuto come un rospo», amaro e dispettoso e sempre polemico contro il Cavour anche morto1058 , era nata la corrente che aveva trovato altri sostenitori, decisi nel dichiarare, con Gian

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Battista Giorgini, che Roma era priva di tutte le idee su cui s’è fondata la società moderna e quindi era al di fuori della civiltà moderna1059 ; espliciti nel ritenere, secondo dichiarava, tra il ’70 e il ’71, il marchese Carlo Alfieri, un errore funesto il trasferimento della capitale a Roma, come che tutti i motivi della gloria romana fossero «ricordo del passato, d’un passato, dal quale la libertà moderna non ha nulla a ritrarre, del quale anzi sarà suo dovere e suo onore mostrarsi il perenne e trionfante contrapposto»1060 . Roma per il suo cosmopolitismo tradizionale, era la meno italiana fra tutte le città, la meno adatta ad essere la capitale di una nazione appena nata: a trovar necessaria Roma capitale avevan dovuto venire i piemontesi, proprio dei quali era non intender mai nulla della storia d’Italia1061 . E non erano soltanto i d’azegliani: anche altri di ben diverso orientamento politico muovevano all’attacco contro dogma di Roma, e fra essi nessuno di più violento linguaggio di Francesco Montefredini, che nell’ostinazione per Roma rinveniva un nuovo mzio della irrimediabile decadenza delle nazioni latine. La colpa, era di Mazzini «mosso da quelle sue allucinazioni, da quelle meravigliose credenze sue politico-religiose, dalla grande speranza di poter da Roma, nuovo apostolo e pontefice massimo, predicare alle genti, che hanno ben altro a fare che ascoltar Roma, il nuovo suo vangelo». Roma sarebbe stata la sicura rovina di tutta la nazione, com’era già stata, nel passato, la tomba della patria italiana1062 . L’odio anticlericale del Montefredini era tutt’altra cosa dalla riverenza cattolica del Jacini; ma ad entrambi erano comuni gli strali contro l’educazione di collegio e i riflessi retorici di Livio. E altri ancora si associavano, sino al punto da vagheggiare la creazione di una Washington italiana, una capitale costruita ex-novo, di sana pianta, per esempio nella mediana conca umbra, sotto Assisi, m un sito centrale, sicuro, bello sano, in guisa che il cen-

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tro dello Stato fosse scevro da ogni gravame d’influenze e tradizioni di altre età: a Roma, piantar la bandiera italiana, porre un presidio, insediare un prefetto, e lasciarla come museo d’antichità e d’arte, serbatoio di antiche memorie e metropoli cattolica1063 . Roma capitale retorica degli Italiani: nella formula d’azegliana, ripresa dal Jacini, era tutt’ un modo di sentire il problema politico, tutta una tradizione non indifferente di pensiero politico moderato, che dava battaglia aperta, in Parlamento, alla trionfante tendenza romana1064 . Né certo si può contestare che nelle preoccupazioni di questi uomini nella paura di Roma1065 , nel chiedersi con trepidazione non esente da sdegno «se ha da durare eternamente questo Campidoglio»1066 , v’erano alcuni motivi tutt’altro che infondati. Ma era una battaglia disperata e votata all’insuccesso sicuro; e a rialzarne le sorti non giovavano davvero le intemperanze degli antiromani. Nelle parole del Jacini, per vero, parecchio v’era di unilaterale e di capzioso; soprattutto, nella palese secchezza di tono, pienamente consona allo stile dell’uomo1067 , colpiva l’atteggiamento eccessivamente razionalistico e ad un tempo pragmatistico del pensiero. Dire, in una questione come quella, che il problema della capitale era «così eminentemente pratico, così eminentemente positivo e di competenza esclusiva della riflessione, del ragionamento e di accurati studi», significava tagliare alle radici non soltanto la retorica di Roma, sì anche quel momento passionale, emotivo, lirico saremmo per dire, ch’era pur stato all’origine di tutto il gran moto nazionale e senza del quale il Risorgimento o non sarebbe avvenuto o sarebbe stato tutt’altra cosa. Ridurre a pura retorica l’idea di Roma, era dimenticare che in essa gli Italiani avevano trovata una parola d’ordine, a tutti comune, quando di un principio comune c’era bisogno: e lo stesso Jacini l’aveva riconosciuto otto anni innanzi,

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accettando intero, allora, il giudizio di Cavour e scrivendo che l’idea di Roma capitale d’Italia faceva vibrare da molte generazioni il cuore di ogni Italiano, con tutta potenza da agire nella storia anche per semplice enunciazione, prima ancora che la realtà vi corrispondesse; Roma sola città italiana dalle tradizioni non municipali, Roma associata a tutte le tradizioni della patria, alla educazione dei giovani del Risorgimento1068 . E veramente, altri aveva osservato, si potevan trovare cento buone ragioni per opporsi a Roma capitale: non centralità, né geografica né intellettuale, né economica; atmosfera morale probabilmente peggiore di quella di ogni altra città italiana; grandezza del teatro sproporzionata alla mediocrità degli uomini destinati a farvi da attori. Eppure, nonostante tutto questo, il sentimento generale affermava la necessità di andare a Roma, in ciò vedendo come l’ultima e definitiva sanzione del Risorgimento, il suggello all’Italia, una, indipendente e libera. O bene o male che fosse, la necessità del trasferimento della capitale a Roma era politicamente innegabile1069 . Era caratteristico che proprio da un lombardo muovesse, nel momento decisivo, la parola più dura contro Roma capitale: quasi che per uno di quei misteriosi disegni della storia, che appaiono soltanto a prospettiva lontana, sin da quel momento si dovesse avvertire il prossimo antagonismo tra la capitale politica e la «capitale morale», quest’ultima mal rassegnata a cedere ora, così com’era stata un tempo mal rassegnata a cedere la Chiesa ambrosiana di fronte alla Chiesa di Roma1070 , e sempre pronta a contrapporre a Montecitorio e al Campidoglio le sue officine, le sue banche, i conti correnti dei suoi cittadini, riprendendo la secolare contesa per il primato con tutti gli orgogli dell’antico Stato1071 e con i nuovi orgogli della potenza produttrice. Un lombardo: e men fatto di pensare al nessun fascino che Roma aveva avuto per un altro lombardo, tanto

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maggiore, per il Manzoni, cattolico eppure mai recatosi, in vita sua, nella sede del successore di Pietro, mentre era andato spesso in riva alla Senna1072 , politicamente favorevole a Roma capitale, anche a costo di urtarsi col genero d’Azeglio, e pronto ad accettare la cittadinanza onoraria di Roma, nel ’721073 , spiritualmente non mai tocco dalle grandi memorie di Roma e ripugnante anzi a Roma classica1074 . O, ancora, al nessun influsso che il Campidoglio aveva esercitato, fino al ’48, sul robusto pensiero politico di un altro grande lombardo, il Cattaneo diverso anche in questo dal Mazzini. Era una tradizione regionale che riviveva nel Jacini, e che accentuava ancora e quasi inacerbiva la tradizione generale dei moderati di cui Jacini era l’erede: erede non soltanto nel rifiuto della retorica e del mito di Roma, ma, più generalmente nell’appello al lato positivo delle cose, alla competenza «esclusiva» della riflessione e degli studi accurati, nel bandire dalla vita politica, come un guastafeste, l’elemento emotivo e passionale, non diversamente da come la folle du logis, la fantasia, era stata bandita dal razionalismo settecentesco, tanto vivo ancora nella mentalità dei moderati in genere e in ispecie del cattolico Jacini. Positività, raziocinio, studio: un po’ come sé la vita delle nazioni potesse essere regolata col puro calcolo della ragione, quasi una macchina ben congegnata. E a percepire la differenza tra un simile modo di vedere quello del grande politico, bene attento, certo, a non lasciarsi fuorviare da fantasie e da facili miti, ma pure sensibile alle voci dell’immaginazione e agli imponderabili della storia, bastava raffrontare il discorso del Jacini con quello del Cavour, dieci anni innanzi: niente affatto succube delle idee da antiquari, il Cavour; pronto a dichiarare, quasi con compiacenza, la sua personale insensibilità al fascino artistico di Roma, eppure altrettanto pronto ad affermare la forza delle «grandi ragioni morali» e di conseguenza, l’ineluttabilità di capitale. Pura

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riflessione, diceva Jacini; e Cavour gli aveva, in anticipo, ribattuto essere il sentimento dei popoli a decidere questioni come quella della scelta della capitale1075 . Due concezioni antitetiche circa il modo stesso di porre il problema politico. Né varrebbe l’osservazione del Jacini, esser stato quello del Cavour un abile atteggiamento polemico, per seppellire ogni velleità di federalismo in Italia, senza che però egli pensasse seriamente a trasportare la capitale a Roma1076 . Al disopra di ogni discussione di tal genere, d’altronde inutile perché campata per aria, costruita su ipotesi più o meno arbitrarie ed in cui poi all’interpretazione Jacini si contrapponevano le interpretazioni completamente opposte di molti altri amici, discepoli e collaboratori del Cavour, stava il fatto che tra il modo di impostare la discussione del gran conte, il suo appello ai fattori spirituali e morali, all’immaginazione e al sentimento, e la positività del lombardo c’era un abisso. Abisso che separava il grande politico aperto ad ogni voce, capace di intuire il valore concreto anche di quel che non fosse buon senso comune, dall’uomo pur di notevole ingegno ma chiuso in un troppo rigido schema, troppo studio e poco intuito. La polemica coraggiosa, ma troppo aspra e unilaterale, contro l’idea di Roma «belletto di una Italia decrepita» dimenticava quel che di fruttuoso, di molto fruttuoso i patrioti avevano pur trovato nell’idea, trascurava anzi offendeva ideali vivi e profondamente sentiti da uomini non sospetti né di retorica né di amor dell’antiquariato. E così, svanita la sensazione prima provocata in Senato dalle sue parole, la sua battaglia contro la retorica di Roma, che coglieva così crudamente uno de’ grandi pericoli parati innanzi alla nuova Italia, rimase sterile di risultati. A presentar l’idea di Roma come un’idea da antiquari, si guadagnava soltanto di suscitar una reazione che non avrebbe poi più fatto il debito conto nemmeno degli utili avvertimenti; ad esagerare nelle diatribe, si

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correva soltanto il rischio di suscitar per reazione gli incensamenti a tutto spiano da altra parte – anche se, per allora, questi incensamene dovessero rimanere contenuti in innocue proposte di feste o parate trionfali, in progetti immaginari, in discorsi, o, al più, potessero ascendere a dignità letteraria ad opera del Carducci. Di tal genere erano dunque le conseguenze del Venti Settembre. Una nuova forza s’imponeva, con Roma capitale, nella appena iniziata storia dell’Italia unita, una forza capace di bene e di male; potente incitamento e vessillo di raccolta e segno di individualità nazionale ne’ giorni in cui la patria non era ancor una, e sempre atta ad ispirar alte idealità, chi volesse accoglierla a guisa di comandamento morale che una grande tradizione imponeva alla nuova Italia; ma pure capace di influire sinistramente sui destini della patria, chi si lasciasse invece abbagliare e insuperbire e sognasse ritorni impossibili. Idee, tutte, che solo con il materiale possesso di Roma potevano sorgere. Vano infatti il credere che il senso di Roma potesse rivivere in altra città, che Milano potesse essere una seconda Roma; assurda l’invocazione dell’immaginoso De Zerbi che o a Milano o altrove fosse Roma – purché fosse! «... però che la fede nella lancia del Quirite e nei destini altissimi incrollabili della patria, l’orgoglio della propria stirpe e della propria cittadinanza, l’insofferenza della cerchia ristretta, e la forza di espansione che fa guardare sempre più in là, sempre più in là, sempre, sempre più in alto, sempre più in alto, e l’indomabile pertinacia nel volere sovra ogni cosa la maestà del popolo romano, – questo, che è Roma – questo non è ancora in alcun luogo d’Italia!»1077 . Vano e assurdo: perché solo nel luogo stesso dell’antica gloria, tra gli avanzi della magnificenza d’un tempo, potevan davvero e con continuità rifiorire i sogni della romana grandezza. Solo tra i monumenti che celebravano le grandi epopee del passato ed erano, per gli Italia-

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ni, «un pungente ricordo dei loro doveri»1078 , nascevano i pensieri di esser grandi come i lontani padri. L’espansione che il De Zerbi, nazionalista anzi tempo, sognava, movendo da Milano avrebbe avuto tutt’altro carattere modi affatto diversi dall’espansione che si cercò poi di far muovere da Roma. Solo a Roma si poteva sul serio e continuativamente pensare a’ fantasmi antichi, che altrove avrebbero, rapidamente, perso forza ed efficacia. Per rinnovare l’invocazione goethiana alle pietre ed agli alti palazzi, per attendere da loro la parola incitatrice, bisognava, anzitutto, aggirarsi tra quelle pietre e quei palazzi. Ora, il ceto politico a cui erano affidati i destini dell’Italia unita stava per trasferirsi definitivamente tra le antiche pietre.

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Capitolo Terzo L’ordine e la libertà

I Il programma conservativo Tuttavia, per il momento era sempre la cattedra di Pietro ad eccitare gli animi, a difesa e a offesa. Gli archi e le colonne non parlavano ancora bastantemente di potenza militare. Intanto, per parecchi anni alla capitale sarebbe mancata forza di assorbimento, nei confronti delle altre città della penisola: non solo le condizioni dei pubblici uffici facevano apparire l’Urbe come una locanda1079 , un accampamento provvisorio, senza assetto né apparenza di capitale1080 ; ma dallo stesso punto di vista politico s’aveva spesso l’impressione che il vero centro continuasse ad essere altrove, magari – annotava Il Diritto1081 – magari sulle ferrovie continuamente percorse in su e in giù dai ministri. Discorsi programmatici dei capi partito, tutti pronunziati altrove a Torino o a Legnago o a Cotogna Veneta o a Stradella o a Cossato; trattative importanti di carattere internazionale condotte altrove, e non nella capitale1082 ; frequenti fughe dei deputati, smaniosi di tornare il più presto possibile a casa, e insofferenti anche del clima e delle poco salubri condizioni degli immediati dintorni dell’Urbe1083 ; lunghissime assenze del Re dalla Città Eterna1084 , a Vittorio Emanuele non gradita vuoi per il clima1085 , vuoi soprattutto per i rimorsi che inquietavano la sua sempre cattolica coscienza1086 e il disagio morale di dover contemplare, dal Quirinale S. Pietro e il Vaticano1087 in quegli anni s’ebbe sovente l’impressione che Roma fosse la capitale proforma, ma che il vero centro politico fosse altrove1088 . La grande capitale di tem-

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pi più vicini a noi, Roma non lo era ancora: né i moderati al potere, Sella eccettuato, desideravano lo diventasse, chi più chi meno preoccupati che una capitale alla francese non risucchiasse troppa la vita della nazione, testa enorme sproporzionata al corpo. Ma anche a prescindere da simile lento affermarsi della capitale nuova, a smorzare ogni possibile velleità di brandir nuovamente l’asta dei Quiriti c’erano non solo la situazione europea – e sarebbe ampiamente bastato – ma anche il desiderio della popolazione e la volontà degli uomini di governo di concentrare ogni sforzo nelle grosse e gravi questioni interne, svolgendo una politica estera di tutta tranquillità. Perfino per i più agitati degli uomini politici d’allora e i più facili ad infiammarsi al ricordo delle grandi memorie, l’ora attuale non era quella di una risurrezione della Roma di Scipione e di Cesare, bensì l’ora della lotta contro il nemico interno dell’Italia, che era ad un tempo il cancro dell’umanità: il Papato. E quanto agli uomini della Destra il conservare diventava la parola d’ordine. Conservare dopo un dodici anni di improvvisi, insperati acquisti; trasformarsi da lievito rivoluzionario d’Europa in elemento d’ordine e di pace: questo era il nuovo ideale, sinceramente sentito, altamente proclamato anche con appelli diretti all’azione e al pensiero del Cavour1089 . La rivoluzione era finita: bisognava ora mettere in ordine la casa1090 , restaurare «molti principi molte idee, molti affetti che nel corso della rivoluzione abbiamo dovuto necessariamente disconoscere o ferire»1091 , rinfrancare anzitutto il principio d’autorità1092 , sì da mettere la parola fine allo spirito giacobino. Già lo diceva, da Vienna, il 22 ottobre 1870, il Minghetti al fido Pasolini1093 ; il Minghetti il quale, allo scopo di consolidare definitivamente le istituzioni e di seppellire così per sempre qualsiasi idea di una Costituente, consigliava addirittura di affrontare subito la questione della riforma dello Statu-

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to, togliendo motivo dalla necessità di regolare la situazione del Papa in Roma e introducendo tale regolamento nello Statuto, in titolo apposito, ma non in una legge a parte1094 . Pochi mesi più tardi, nella discussione in Senato sulla legge delle Guarentigie, il Visconti Venosta ancora una volta dava espressione ufficiale e definitiva al pentimento suo e dei colleghi di governo, riaffermando che la causa italiana era per tutta l’Europa una causa di libertà sì, ma anche di tranquillità e di equilibrio, che il movimento nazionale italiano aveva avuto «questa ambizione altamente civile, di considerarsi come un progresso per la causa generale dell’ordine e della libertà in Europa», che il popolo italiano poteva essere considerato uno dei più tranquilli e conservatori di Europa. E dichiarava che il compito politico della rivoluzione italiana era finito1095 , sicuro di raccogliere il consenso non solo dell’alta Assemblea, bensì dell’opinione pubblica quasi unanime, non contraddicendo in ciò, sostanzialmente, nemmeno la maggior parte degli nomini della Sinistra, Depretis, Rattazzi, Zanardelli, Cairoli. Suggello supremo alle parole del ministro degli Esteri, il discorso della Corona per l’inaugurazione dell’XI Legislatura, il 5 dicembre 1870: dove pure l’Italia libera e concorde diventava per l’Europa un elemento di ordine, di libertà e di pace1096 . Ordine, pace, conservazione; prender posto nella famiglia europea, nel concerto delle potenze come una persona ammodo, dopo esser stati per tanto tempo il guastafeste. Ma ordine e conservazione nella vita europea presupponevano ordine e conservazione nella vita interna de’ singoli paesi, e quindi anche dell’Italia; il conservatorismo in politica estera faceva tutt’uno con il desiderio di conservazione e di stabilità anche in politica interna; e affermare l’uno significava affermare l’altro. Come si desi-

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derava che l’assetto europeo rimanesse inalterato quanto più a lungo possibile, così si desiderava evitare qualsiasi disturbo e novità in casa propria. Poter fermare la situazione al punto in cui era, sia nei confronti degli altri Stati, sia, all’interno, nei rapporti fra i vari partiti e ceti: era il desiderio dei novelli Giosuè che per tal modo ripiegavano sempre più su posizioni nettamente conservatrici. Gli interessi dell’Italia, identici a quelli dell’Eumpa, erano «la conservazione della pace, il progresso liberale e la conservazione sociale», affermava nuovamente il Visconti Venosta alla Camera il 27 novembre 18721097 : conservazione, dunque, anche nel campo interno, oltre che in quello internazionale. E vari uomini molto autorevoli condividevano le idee che il La Marmora esprimeva, a Firenze, al ministro di Francia Fournier, nel marzo del ’72: ci si può rammaricare per il «modo» con cui l’Italia si è costituita a grande nazione, ci si rammarica anche da noi; quel modo, quei «procédés ... sont embarassants pour ceux qui gouvernent et qui veulent et doivent étre conservateurs, après s’étre servi de la révolution pour en arriver où nous sommes: mais ce qui est fait est fait: le temps, la sagesse, la prudence, les ménagements, la force au besoin contre ceux qui ... voudraient continuer à être révolutionnaires ... consoliderons petit à petit notre état et social»1098 . Era un vecchio motivo, questo dell’ordine tutelato dall’iniziativa di casa Savoia. Risaliva su fino al ’481099 . Ma soprattutto da quando il conte di Cavour si era genialmente avvalse delle preoccupazioni che la propaganda mazziniana ispirava alle Cancellerie europee per proclamarsi tutore dell’ordine in Italia e reclamar quella libertà di mosse che, negata a lui, sarebbe stata strappata con ben altri intenti dall’agitatore genovese; da quando egli aveva fruttuosamente cercato di tacitare le potenze conservatrici, anche di fronte agli atti suoi più rivoluzionari, affermando e facendo affermare dai suoi in-

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viati «qu’il n’y avait eu pour nous aucun moyen d’agir autrement sans nous laisser déborder par les véritables révolutionnaíres, et sans mettre en péril l’ordre et la sûreté générale au dedans et même en dehors de l’Italie»1100 , o lasciar agire Cavour o l’anarchia repubblicana nella penisola e l’incendio acceso nel continente, l’agitar lo spettro della rivoluzione dinanzi agli occhi dell’Europa per strappar consensi nella questione romana era ormai una prassi costante, quasi una ricetta quotidiana. Forse che, nel settembre del ’70, il Visconti Venosta non aveva cercato di legittimare l’azione del governo presentandola come tutrice dell’ordine in un momento pericolosissimo1101 , e suscitando così le critiche sia di conservatori come Gino Capponi1102 ; sia, soprattutto, degli uomini della Sinistra insorti a negare che alcun pericolo ci fosse stato1103 , ma trovandosi in perfetto accordo con altri rappresentanti dell’opinione pubblica?1104 Lo stesso Re non aveva forse dichiarato direttamente a Pio IX ch’egli agiva per mantener l’ordine di fronte ai tenebrosi progetti del partito della rivoluzione cosmopolita?1105 E forse che, ancor più tardi, nella diuturna fatica di impedire ogni ritorno offensivo degli oltramontani dei vari paesi il ministro degli Esteri non si serviva, costantemente, dello stesso motivo, essere cioè il governo italiano a Roma un pegno sicuro di ordine e di tranquillità contro l’anarchia?1106 Era l’argomento di cui si giovavano, ne fossero o meno convinti, i pubblicisti stranieri favorevoli al nuovo ordine di cose1107 e persino – come già nel ’481108 – i governi esteri che avevano assunto contegno benevolo verso l’Italia e che in tal modo cercavano di tranquillizzare i cattolici o, addirittura, di evitare che l’azione violenta degli Italiani contro Roma servisse di pretesto ad altre perturbazioni dello status quo internazionale; così, nel novembre 1870, quando la Russia s’era dichiarata sciolta dalle clausole del trattato di Parigi relative al Mar Nero, al-

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l’ambasciatore dello Zar a Vienna che tentava di giustificare l’operato del suo governo richiamandosi all’esempio del Venti Settembre, cioè ad un’altra asserita violazione di impegni internazionali, prima ancora del Minghetti rispondevano il Beust e l’Andrássy, col far osservare anche che la mossa italiana «cagionata da fortissimi ed urgenti motivi interni ... aveva altresì un obbietto speciale d’ordine pubblico, e pur distruggendo il dominio temporale del Papa non cessava di mantenere al cospetto dell’Europa un carattere conservativo»1109 . Tanto più necessario l’insistere sull’ordine, la tranquillità, il rispetto dell’autorità costituita, e l’assumere agli occhi dell’Europa la funzione del buon guardiano, in quanto il governo italiano era accusato dagli oltramontani, francesi belgi austriaci tedeschi irlandesi spagnuoli, di minar alle basi i sacri principi d’ordine e di autorità, di dar l’avvio, con i suoi atti di violenza, a perniciosi sconvolgimenti nell’ordine morale, politico e sociale, di scuotere – siccome diceva monsignor Ledochowski – il principio monarchico stesso»au point qu’il sera difficile d’inspirer au peuple le respect de ce qui est sacré et honorable, quand dans Rome les Italiens le foulent impunément aux pieds»1110 . Codino e pauroso per gli uomini della Sinistra, il governo italiano appariva un mostro di empietà, un abbominevole sovversivo agli occhi dei reazionari europei: tale essendo la sua sorte, ora come ai tempi di Cavour, di dover operare equilibrandosi fra due impulsi estremi ed antitetici, l’uno interno soprattutto, l’altro soprattutto esterno, e di dover cercare la via del successo giovandosi alternativamente dell’uno contro l’altro, agitando lo spettro della rivoluzione mazziniana per garantirsi diplomaticamente Roma, e mettendo innanzi lo spauracchio di un intervento europeo per strappare al Parlamento italiano le Guarentigie al Papa, contro le pretese di chi lo avrebbe voluto ridurre un vescovo come gli altri1111 .

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Ma non erano soltanto necessità di mera tattica politica a tendere gli uomini della Destra proclivi verso le affermazioni di conservatorismo, interno ed esterno; né la loro era soltanto la posizione di chi, enunciando princìpi e programmi ad uso altrui, finisce poco o molto con il rimaner egli stesso impigliato nelle sue reti, e col persuadersi progressivamente della verità e santità di affermazioni destinate da prima a consumo altrui. Già per il Cavour l’avvrsione alla rivoluzione, al buttar tutto per aria e far piazza pulita dei vecchi istituti e anzitutto dell’istituto monarchico, era stata tutt’altro che una mera lustra diplomatica; e per i suoi successori il desiderio di conservazione era naturalmente ancor più forte, come che si ritenessero ormai raggiunti tutti gli scopi del movimento nazionale, unità indipendenza libertà. Sinceri erano nell’affermare il loro desiderio di pace, la volontà di costituire un elemento di orme per l’Europa; e sinceri continuavano ad essere quando proclamavano di costituire l’unico valido presidio della tranquillità interna, di contro al temuto irrompere delle dottrine estremiste. Proprio da questo timore reale e profondo del sovvertimento generale, nascevano le preoccupazioni maggiori: bisognava strappare alla rivoluzione le sue parole d’ordine, mettersi a capo di essa per imbrigliarla, servirsene fino ad un certo limite ma impedire che passasse oltre e sfuggisse di mano1112 , ma questo appunto era il difficile, saper cogliere l’attimo in cui la spinta rivoluzionaria rendesse il massimo dei vantaggi e offrisse il minimo pericolo, l’attimo giusto, non prima né dopo, per causare guai. Occorrevano, a ciò, il fiuto e l’occhio del grande pilota: e non è dunque meraviglia se più volte ai generali di Alessandro fossero mancati il fiuto e l’occhio che Alessandro, cioè Cavour, aveva avuto in misura suprema, se la politica dei moderati si fosse incagliata in secche che avevano avuto nome Aspromonte e Mentana, e desse anche ora, nel ’70, l’impressione di essere indecisa, oscillante, sen-

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za nerbo. Né deve stupire che un simile indirizzo, turco alterno giunco fra reazione e rivoluzione, eccitasse, allora e poi, lo sdegno di uomini come il Crispi, il Carducci, l’Oriani, che erano rivoluzione e scorgevano viltà là dove era uria ricerca continua e difficile di equilibrio fra le forze opposte. Ma, nonostante tutti gli errori le esitazioni le incertezze, quella ricerca riuscì: l’Italia andò a Roma monarchica, l’Europa accettò il fatto compiuto, antichi repubblicani si accinsero a diventare ministri del Re d’Italia. Perché il primo estremismo che spaventava era ancora, in quei giorni, il repubblicanesimo. La conservazione doveva cominciare proprio di qui: mantener salda la monarchia contro ogni propaganda di origine mazziniana, e dal 4 settembre 1870 anche di coloritura francese. Era, questo, un vecchio tema, che si perdeva lontano, almeno almeno nel ’48; e la polemica non diceva ora nulla di nuovo nei suoi motivi ideologici e continuava a riportare ai tempi dei grandi contrasti fra governativi e cospiratori; e l’avversione dei monarchici per Mazzini, il cui nome non veniva pronunziato senza farlo precedere da un aggettivo ingiurioso o seguire da un improperio1113 , era comunque meno terribile dello sdegno che, tra ’48 e ’49, aveva eccitato perfino un Cavour a proporre fa fucilazione immediata di ogni sedizioso1114 . Qualcosa di nuovo sopravveniva però col settembre del 1870 a rinfocolare sì inquietudini monarchiche, ma anche ad aggiungere argomenti all’ormai vecchio precetto della monarchia che unisce e della repubblica che divide. Da un lato, era l’instaurazione della repubblica in Francia. Conservatrice, anzi, dal febbraio del ’71, reazionaria nella maggioranza dell’Assemblea; ma sempre repubblica, e col fascino delle idee francesi era cosa da pensarci su. Moriva di lì a poco Mazzini; ma oltr’Alpi c’era un esempio, avrebbero anche potuto trovarsi incitamenti ed aiuti più pericolosi forse della parola del grande

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agitatore senz’armi. Così è, che fin dal 7 settembre 1870, tre giorni dopo gli eventi di Parigi, la fiorentina Nazione lanciava il grido d’allarme, proclamando che «da oggi» l’Italia era un popolo essenzialmente conservatore, che essere conservatori significava salvare l’unità e l’indipendenza dell’Italia, salvare la patria e la’ società minacciate da coloro i quali volevano nuovamente infrancesare l’Italia in nome della repubblica; che i tentativi repubblicani, fin qui combattuti in nome degli ideali di partito, ora andavano combattuti in nome della indipendenza della nazione, e pertanto chi avesse sollevato il grido di repubblica in Italia avrebbe dovuto esser trattato come un traditore, anelante a far della patria uno strumento della politica straniera1115 . Non per nulla da allora il giornale fiorentino diventava filoprussiano accanito, cioè sostenitore del paese in cui la vita pubblica era saldamente imperniata sulla monarchia! Ma non era solo la Nazione a temere i contraccolpi in Italia del repubblicanesimo francese; e non era nemmeno solo la milanese Perseveranza ad affermare, il 7 settembre, che ora veramente non c’era più da esitare e bisognava andare a Roma. Perché la decisione su Roma fu presa il 5 settembre, dal Re e dal Lanza; e a farla prendere fu certo di gran peso la scomparsa di Napoleone III, e vale a dire il venir meno dei riguardi dovuti all’imperatore; ma v’interferì fortemente, e molto più, il timore di quel che in Italia avrebbe potuto succedere, non muovendosi il governo, ad opera dei rivoluzionari incoraggiati dal 4 settembre1116 . Gli eventi del febbraio parigino del ’48, con le loro ripercussioni europee ed italiane, non erano poi preistoria, e il Re e i suoi ministri se ne rammentavano bene. La scarna prosa del verbale del Consiglio dei Ministri del 5 settembre diceva tutto e collegava, da sola, gli eventi: «Il Consiglio delibera di nominare ad inviato straordinario a Parigi il Barone Ricasoli e di spedire in missione straordinaria a Roma il Conte Ponza di San Martino

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per esporre al Pontefice la risoluzione del Governo Italiano di occupare Roma ed il territorio [sic! ] pontificio offrendo tutte le garanzie possibili per la sua sicurezza e per il libero esercizio del potere spirituale. Il Consiglio delibera d’incaricare il nostro inviato a Parigi a riconoscere la Repubblica. Delibera pure di dare al suo Presidente la facoltà di fare tutti i provvedimenti necessari per preparare ed agevolare l’ingresso delle nostre truppe nel territorio pontificio. Delibera poi di chiamare sotto le armi una classe di seconda categoria»1117 . Senonché, andata a Roma l’Italia più che mai aveva bisogno del Re. Di fronte al Papa, soltanto un Re poteva difendere l’Italia vittoriosa. Parecchi anni più tardi lo disse, con molta chiarezza, Domenico Zanichelli: ma il pensiero suo era già stato sentimento comune, più o meno chiaro che fosse: «Noi crediamo fermamente che l’Italia forse adottando l’idea repubblicana avrebbe potuto, però attraverso molte sventure e pericoli, cacciare gli stranieri e i tiranni interni, ma d’altra parte siamo convinti che nella lotta col papato sarebbe sempre rimasta, se repubblicana, soccombente. Noi dobbiamo immensa gratitudine al re Vittorio Emanuele per l’aiuto dato al risorgimento d’Italia, ma non la gratitudine sola, anche la necessità deve stringerci attorno a quell’istituzione che egli confuse coll’Italia e a quella dinastia che la personifica. Guai se il nostro paese abbandonasse la monarchia; compirebbe un suicidio perché la patria risorta dopo tanti secoli ritornerebbe, nel sepolcro e i posteri direbbero che gl’Italiani non seppero conservare la preziosa eredità degli avi. Per noi nella lotta col papato l’Italia avrà fondata speranza di vittoria, solamente se rimarrà monarchica.» Monarchia e Papato sono due forme di ordinamenti che fatalmente tendono a primeggiare e che possono

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esistere soltanto a patto di occupare il primo posto: di qui, il naturale contrasto fra di loro. Soprattutto in Italia, dove la contesa era diretta, più grave assai che non in qualsiasi altro paese, la monarchia non si sarebbe mai indotta ad accordi che po tessero menomare la sua supremazia, avrebbe sempre combattuto il Papato almeno sino a quando le sue pretese avessero importanza politica e sociale. «Noi possiamo immaginare che una reazione cattolicoclericale prevalga in Italia per una causa qualunque, o generale all’Europa o locale nel nostro paese, si impadronisca del corpo elettorale e popoli la camera dei deputati di una maggioranza proclive ad accordi col Vaticano, vogliosa di accontentarlo; ognun vede come in questa ipotesi nessuna autorità o forza legale potrebbe salvare lo stato laico e nazionale all’infuori della monarchia, la quale, essendo per le ragioni sopradette, naturalmente contraria alle pretese politiche della Chiesa, troverebbe in se stessa la energia sufficiente per resistere alla corrente clericale. Ora se deve, come non è dubbio, essere cura degli italiani di costituire delle difese valide e inespugnabili contro i possibili attacchi del Vaticano è certo che dovranno consolidare la monarchia e guardarsi dall’indebolirla perché in essa troveranno sempre, quando sia necessario, una guida nella battaglia, una fortezza imprendibile, protetti dalla quale potranno combattere sicuri, riunirsi se dispersi, riaversi se una momentanea sconfitta o un timor panico, o un inganno ne avessero abbattuti gli spiriti.» S’aggiunga, il fascino della monarchia sulla immaginazione popolare: di fronte al Papato, l’istituzione più imponente del mondo, che figura ci farebbe un presidente di repubblica? «La repubblica può essere nel desiderio di molti, ma però tutti dovranno ammettere che un’assemblea e un

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presidente in Roma vicino e accanto al papato farebbero una ben meschina figura e che il pontefice apparirebbe agli occhi e alle menti dell’universale immensamente più grande del rappresentante l’autorità politica. Un presidente, comunque eletto, sarebbe sempre un uomo come gli altri, un semplice delegato della nazione senza forza propria, senza tradizioni, destinato a tornare nel nulla da cui è uscito, sarebbe discusso, appoggiato e combattuto; come potrebbe reggere di fronte a quell’augusta autorità che domina sulla terra, pretendendo un’investitura dal cielo, che sorpassa i limiti degli stati, che ha a suo sussidio la forza d’una tradizione due volte millenaria e di una religione che è dominante in Italia? Mettiamo di fronte il papa bianco-vestito col triregno In testa, sulla sedia gestatoria, circondato dalla sua corte che è la più maestosa del mondo, e un presidente vestito in borghese, circondato da ministri ed alti funzionari; immaginiamo questo spettacolo e vedremo subito come, qualunque sia la sostanza delle cose, il presidente appaia inferiore al papa. E non solo nell’apparenza, ma anche nella natura intimi delle istituzioni il pontefice apparirebbe sempre più alto del capo del governo d’Italia e si concilierebbe colla riverenza l’obbedienza del popolo. Che cosa rappresenta un presidente di repubblica? Null’altro all’infuori della volontà di quelli che, più o meno espressamente, più o meno liberamente lo abbiano eletto. Il suo potere non ha altra base che il consenso; quando questo gli venga a mancare, tanto in apparenza che in realtà, egli non è più nulla. Quindi in Italia egli sarebbe non un’autorità per sé stante, ma semplicemente un mandatario il cui ufficio dipenderebbe ad ogni momento dalla volontà del mandante; forse dotato d’un potere effettivo ma privo di ogni potere morale. Perché quest’uomo potesse essere creduto uguale al pontefice bisognerebbe che il popolo italiano dimenti-

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casse tutta la sua storia, mutasse del tutto natura, bisognerebbe che a lui unisse immediatamente l’idea della maestà della patria e quindi fosse capace di un’astrazione, la quale può essere concepita da menti colte e spregiudicate, non lo può certo dal popolo. Il popolo non capisce la sovranità altro che se è incarnata e si mostra cogli attributi esterni, quindi per lui, mancando il re, di sovrani d’Italia, rispettati e riveriti come tali, non vi sarebbe che il papa.»1118 . L’aveva già detto Renan, divenuto col tempo repubblicano per la Francia, ma sempre convinto sostenitore della causa monarchica per l’Italia1119 ; poco più tardi lo ripeteva il già repubblicano Crispi, imprecando contro l’imborghesimento della dinastia e l’abbassarsi del Re, che determinava l’innalzarsi del Papa1120 . E certo in quel momento storico le osservazioni coglievano nel segno: dal prestigio formale della monarchia, che l’indubbia azione esercitata su molti cuori dalla regina Margherita corroborava di un esempio probante, alla necessità di un regime monarchico per fronteggiare con successo, all’interno e all’estero, l’offensiva di parte clericale per decenni scatenata su piano internazionale contro l’Italia. Un’Italia repubblicana, con tutto quel che era successo fra il ’60 e il ’70 l’Europa monarchica e conservatrice non l’avrebbe tollerata; e che le argomentazioni del Cavour e dei suoi eredi fossero state accolte, era gran prova dell’impossibilità, allora, di una soluzione rivoluzionaria, mazziniana del problema italiano. La monarchia presidio, garanzia della libertà, dell’indipendenza, dell’unità della patria: questo fu vero, e il giorno in cui l’istituzione non resse più al compito che le era stato assegnato dalla storia, fu anche giorno di sciagura per la patria; e, scomparsa essa, più alto ancora rifulse lo splendor della tiara. Ora, all’interno il pericolo repubblicano poteva sembrar superato: Mazzini solo, al tramonto, con pochi fede-

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lissimi; gli altri, i maggiori tra gli uomini politici che erano stati repubblicani o anche solo tendenzialmente repubblicani, i più eminenti tra i vecchi cospiratori, ormai guadagnati alla causa monarchica, da Crispi a Cairoli, e presto ministri di Sua Maestà. Garibaldi, nonostante i non infrequenti malumori e le esplosioni verbali di tono repubblicano, anzi socialistico, non nemico sul serio. Ma fuori si addensavano i nuvoloni: repubblica in Francia, e pazienza la repubblica di Thiers e quella dei duchi, ma dietro c’era Gambetta e il radicalismo; minacciosi sommovimenti repubblicani in Spagna, e quindi alimento d’oltre frontiera alla propaganda interna e rinfocolamento della predicazione mazziniana. E c’era dell’altro ancora. Dietro alla lotta politica pro e contro l’istituzione monarchica, si cominciava a profilare un’altra lotta, contro tutto l’assetto sociale; dietro ai repubblicani, appariva l’ombra dell’Internazionale; dopo il 4 settembre parigino veniva la primavera parigina del 71, e l’estremismo repubblicano minacciava di scolorire di fronte ad un ben più radicale estremismo che, travolgendo anche l’istituzione monarchica, avrebbe però travolto tutto l’assetto sociale. Ora, questo nuovo e più pericoloso estremismo vedeva schierato, in linea di battaglia, tutto il ceto dirigente italiano, Destri e Sinistri finalmente concordi quasi a dar ragione al detto del Cavour che, ove davvero l’ordine sociale fosse stato minacciato, i primi a schierarsi tra i conservatori sarebbero stati i frondeurs e i repubblicani1121 . Uomini in cui il culto della libertà era veramente, profondamente religione. Ma uomini, anche, in cui la libertà si riassumeva nei suoi aspetti morali e giuridici, senza che si scendesse molto a vedere quali basi di fatto occorressero perché la libertà di pensare e di agire potesse veramente essere di tutti e per tutti. Sacra la libertà della personalità umana; ma come assicurare le condizio-

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ni perché tutti potessero, sul serio, divenire personalità, questo rimaneva ancora sovente oscuro. E invece, il ricordo del ’48 sorgeva di continuo ad ammonire contro le pretese della piazza, a spaventare con il fantasma della rivoluzione sociale, a render guardinghi verso i bassi strati ch’erano già stati capaci di accomunare il grido di lotta contro la reazione politica e contro lo straniero con il grido avverso i signori, avverso i padroni. Il ’48, l’anno fatale destinato a rimaner famoso nelle storie «e per la grandezza del suo primiero impulso a pro di tutte le indipendente nazionali, e per le mattezze di esagerata libertà che vi si frammisero, e l’impicciolirono dappertutto»1122 : e il fatto solo che quella data rimanesse nella tradizione popolare come sinonimo di disordini e anarchia, e che far un ’48 diventasse espressione popolaresca per designare gran subbuglio, la gente in piazza e il saccheggio nelle case, è sufficiente prova di quanto profonde fossero state le impressioni. L’esperienza francese di quell’anno aveva avuto influsso decisivo nell’orientare in senso nettamente conservatore, dal punto di vista sociale, il pensiero liberale italiano ed europeo1123 ; e se un Thiers aveva favorito la presidenza di Luigi Napoleone, perché aveva avuto «paura», paura del socialismo, paura dei moti di piazzia1124 , perfino un Cavour, pur disposto a riconoscere la gravità e l’importanza della questione sociale1125 , s’irrigidiva di fronte al pericolo dell’estremismo operaio, sì da salutare nella repressione parigina del giugno ’48 la salvezza della civiltà moderna da una nuova invasione di barbari1126 . E Cavour riusciva ancora a salvare la sua anima liberale, a portar fuori intatta la sua fede nella libertà, pur attraverso i timori e gli sdegni del ’48 e ’49. Ma molti altri uscivano invece dal biennio tormentoso con assai intiepidito sentire. «Tutti i possidenti, per quanto amanti della libertà e nemici del, despotismo, per quanto si sfiatino e parlino e gridino per la prima e contro il se-

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condo, amano un po’ meno la libertà ed odiano un po’ meno il despotismo dopo l’apparizione della repubblica socialista. A poter ricevere da tutti i liberali d’Europa quelle arcane confidenze che ha soltanto il guanciale, si formerebbe forse una statistica dalla quale apparirebbe un notabile ribasso nelle azioni del liberalismo»1127 . Così aveva francamente scritto Massimo d’Azeglio, che continuava a credere fermamente nella libertà e paventava la reazione conservatrice, pur trovando che «trattandosi di padroni, meglio quello che ha lo stomaco pieno e buoni panni indosso, che chi è ignudo e digiuno, e s’ha a rifare alle spalle mie»1128 ; e ancora il Cavour si ricordava di aver veduto partire da Torino, nell’inverno del ’48, «uomini che si dicevano molto più liberali di me, e di averli veduti ritornare infinitamente più conservatori di quello che io non sia»1129 . Delle quali diffidenze e paure offriva di lì a poco testimonianza sicura l’atteggiamento dei più di fronte al colpo di Stato del 2 dicembre, atto prepotente ma che salvava dall’anarchia1130 ; e continuavano a dar prova, anche in seguito, certe simpatie di moderati italiani per la dittatura napoleonica e il suo tener a freno i «cattivi umori» in Francia1131 . Senza dubbio, a quasi nessuno veniva in mente di negare la importanza teorica del problema, o di invocare contro le masse soltanto l’ausilio dei carabinieri, anche se da più parti si cominciasse a reclamar maggior considerazione per il principio di autorità, che le plebi dovevano avvezzarsi a guardare con riverente affetto1132 . Coloro i quali pensavano soltanto alla forza e vagheggiavano «il formidabile apparecchio d’una repressione spietata», erano – diceva un liberale sì, ma non certo di sinistra, il marchese Carlo Alfieri di Sostegno – i feroci della scuola empirica, laddove i mansueti «quando si vedessero alla vigilia d’essere sopraffatti, o per un certo ribrezzo in extremis a spargere sangue, soprattutto il proprio, transigerebbero sacrificando qualche porzione del diritto di

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proprietà, non certo a saziare, ma ad acquietare per qualche tempo il proletariato irruente»1133 . Ma anche questi ultimi erravano; occorreva invece, proseguiva lo scrittore, studiare i mezzi per impedire il rinnovarsi della guerra sociale. E il Sonnino, allora all’inizio della sua attività politica, aperto alle voci nuove della storia, non ancora chiuso in sé e, quasi fuori del mondo, cocciutamente irrigidito su posizioni immutabili, il Sonnino ch’era tra i pochissimi a non cullarsi nell’ottimismo generico e generale dell’Italia priva di materia incendiaria, perché priva d’industria, deprecava risolutamente il sistema delle repressioni alla Thiers, come quello che spingeva i colpiti semprepiù in là, creava i martiri, trasformava in fede una iniziale passione. Il rispondere con le fucilazioni agli incendi, non risolveva nulla1134 . Cercar dunque di migliorare le sorti delle classi meno abbienti: a parole, s’era tutti sostanzialmente d’accordo, fin il conservatore de Launay. E s’ebbero discussioni pubbliche, già nella primavera del ’71, e il Giornale di Modena fu centro di una discussione tra il suo direttore Pietro Sbarbaro, l’Alfieri di Sostegno, il laniere Alessandro Rossi e Cesare Cantù. Ma, ne’ fatti, quella preoccupazione si conchiudeva soprattutto in un più largo e generale appello alla beneficenza e alla carità1135 , cioè all’empiastro con cui i ceti alti cercavano da tempo e avrebbero ancora a lungo cercato di medicare le piaghe sociali, illudendosi con ciò di sanare un male che ne avrebbe anzi ricevuto nuovo alimento, con una più decisa ribellionemorale contro l’idea dell’elemosina. Si diffondeva, è vero, la convinzione che fossero necessarie leggi a difesa degli operai; e si assisteva alle iniziative promosse da uomini della Destra e specialmente dal Luzzatti, sulla previdenza sociale e sulla tutela del lavoro; il problema gravissimo che l’economista patavino cercava di imporre all’attenzione dei circoli dirigenti italiani1136 . Ma precisamente in queste e simili discussio-

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ni veniva chiaramente in luce come l’atteggiamento della grandissima maggioranza dei benpensanti fosse ancora quello di una quasi totale incomprensione del problema, nei suoi veri ed essenziali termini1137 . Paternalismo, filantropismo, beneficenza: era il limite massimo a cui giungevano gli uomini delle classi dirigenti, a tanto indotti poi non puramente da ragioni umanitarie, bensì anche – e molto – dalla convinzione che ciò fosse richiesto da un illuminato spirito di conservazione, per rendere impotenti i partiti anarchici e sovvertitori1138 . Taluno trovava ch’era necessario migliorare retribuzioni e condizioni di vita degli operai; e qualche altro come il Minghetti, da tempo preoccupato dei pericoli dello sviluppo capitalistico e convinto che lo scopo supremo del secolo dovesse essere la redenzione delle plebi1139 , si rendeva conto diretto della miseria di larghe masse di contadini1140 e comprendeva che la miseria era ormai un grave problema politico1141 . Ancora, il De Sanctis osservava che la questione sociale era il massimo problema per la classe dirigente italiana, il problema che solo avrebbe consentito di andar oltre il limite formale-giuridico della libertà e di creare un vivo e armonico organismo politico, trionfando dell’indifferenza e dell’apatia che dominavano nella vita pubblica di fronte al permanere di partiti e di formule ormai svuotati di contenuto1142 . Ma se taluno cominciava dunque ad aprire gli occhi; altri non si peritava dall’affermare che in Italia la ricchezza non era male distribuita e che era vano cercare oppressi e oppressori in un paese già fortunato per le condizioni generali «che si attengono alla ricchezza del suolo, alla bontà del clima, alla sobrietà degli abitanti, alla fortuna di non essere né accentrati né divisi»1143 . E mentre il Luzzatti sosteneva tenacemente la necessità di una legge per la tutela dei fanciulli e delle donne nelle fabbriche e nelle miniere, Alessandro Rossi negava decisamente che nelle fabbriche italiane gli operai patissero, per inumani rego-

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lamenti o per eccessivo lavoro; e la direzione della Nuova Antologia, così rappresentativa allora delle opinioni medie del ceto colto italiano, appoggiava le idee del laniere di Schio, e gli industriali italiani saltavano addosso al Luzzatti, che veniva invitato dal direttore del Sole a non scrivere più nulla in argomento, per evitar guai1144 . Erano, queste ultime, posizioni estreme; ma anche quando le grandi inchieste del Jacini e del FranchettiSonnino avrebbero rivelato le reali condizioni agrarie d’Italia e soprattutto la desolazione del Mezzogiorno, e anche quando la denutrizione dei bassi ceti e le condizioni primordiali di loro vita avrebbero trovato dolorose e troppo frequenti conferme di esempi, anche allora, posti di fronte ad una cruda realtà di fatti, gli uomini politici italiani avrebbero sempre ritenuto possibile uscirne mediante quei palliativi che si chiamano filantropia e beneficenza. Destri e Sinistri, quasi tutti, erano ancora fermi all’ideale della carità: la carità dovere sociale, obbligo politico, virtù pubblica, aveva detto il de Tocqueville, che vedeva in questola più notevole innovazione dei moderni nel campo morale, la nuova forma assunta da idee già predicate dal cristianesimo1145 ; la carità, dovere non solo privato ma pubblico delle nazioni cristiane, aveva ripetuto il Balbo, con Gino Capponi, proponendo all’umanità come scopo primo l’introduzione della carità nell’economia, nella politica, nelle leggi1146 . E anche il Cavour aveva fissato i suoi sguardi sulla carità legale come sul solo vincolo capace di unire le diverse classi e l’unico sistema atto a salvare la società dai pericoli incombenti1147 ; e la sua legislazione sociale era stata ancora la legge inglese contro il pauperismo. Che il problema fosse ormai ben diverso e non più sanabile con le semplici briciole della mensa di Epulone, ma necessitasse una completa revisione di tutte le idee e pregiudizi correnti sui rapporti fra capitale e lavoro;

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che la carità ’fosse, secondo aveva osservato già il Mazzini, «virtù d’un’Epoca oggimai consunta e inferiore moralmente alla nostra»1148 , spettava al movimento socialista sostenere e dimostrare, così come toccava al Giolitti l’abbandonare la vecchia arma, cara ancora sul tramontar del secolo al Crispi e al Rudinì, dei carabinieri e delle truppe in servizio repressivo e dello stato d’assedio. L’auspicio di Giuseppe Ferrari, di far il socialismo col governo e con i conservatori1149 , era bene un auspicio di stampo giolittiano, ma cadeva per allora nel vuoto: quasi che il pensiero liberale non avesse più la freschezza, forza, capacità di veder alto e lontano, che aveva avuto nella prima metà del secolo, e non potesse, esso stesso, che mantenere il già acquisito senza conquistar di nuovo1150 . E se fin qui s’è parlato dei moderati, come di quelli a’ quali incombevano le responsabilità di governo nel periodo di cui trattiamo, non è da credere che presso gli uomini della Sinistra fosse molto diverso il sentire. Tutt’all’opposto, anche questi ultimi erano fondamentalmente conservatori dal punto di vista sociale; e rari erano coloro i quali, come Agostino Bertani protestassero contro l’egoismo borghese, ammonendo che anche in Italia si potevano ormai distinguere due razze d’uomini «quella del pane bianco e quella del pane di colore»1151 . Soprattutto nel proporre i rimedi, Destri e Sinistri andavano d’accordo: uomini tutti ideologicamente figli della prima metà del secolo, e tutti concordi nella difesa della struttura sociale esistente. La carità, avevan detto Balbo e Capponi; ma Crispi non era poi tanto lontano, anch’egli, da tale rimedio, e invocava la beneficenza e ricordava i modi di cui usano i preti per rendersi grati alle moltitudini, accumulando grandi ricchezze per mezzo dell’obolo e giovandosene alla propagazione delle loro idee1152 . Divisi in tante altre questioni, Destri e Sinistri si ritrovavano sul piano della difesa della società attualmente costituita: con maggior secchezza di tono e risolutez-

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za di espressione i primi, con maggior blandizia verbale verso le masse i secondi; ma tutti d’accordo nel ritenere sacra la proprietà e la borghesia colonna della vita sociale e politica1153 . L’inno alla borghesia lo innalzava infatti, alla fine di marzo del ’71, e proprio in polemica contro l’Internazionale e la Comune parigina, non un giornale moderato, bensì uno dei due organi massimi della Sinistra, Il Diritto, che non solo constatava «la coesione, l’influenza legittima e meritata della classe borghese e proprietaria», ma sosteneva la piena legittimità di tale influenza, come che nessuna rivoluzione si fosse mai «identificata alla borghesia, al terzo stato, come quella che si è svolta in Italia dal 1848 ad oggi: questa classe di cittadini ha pagato e largamente il suo tributo alla patria, cospirando, studiando, combattendo per essa». Tanto più che questa borghesia non si è separata dal paese, formando una casta a parte, ma ha dischiuso invece alla classe operaia e campagnola la via di una completa emancipazione1154 . È vero, cioè, che i borghesi dicevano e in buona fede pensavano che il loro regno non era esclusivo, anzi aperto a quanti lavorassero seriamente e intelligentemente. La recisa impostazione classista, la divisione del mondo indue, era sempre ripugnata e continuava a ripugnare al pensiero liberale. Borghesia? ma una borghesia non esiste più dopo il 1789, appartiene alla paleontologia, aveva scritto nel 1831 Saint-Marc Girardin. L’uguaglianza civile, sancita nel 1789, fa sì che ora gli uni ora gli altri possano godere dei beni della società: ciascuno crea il suo destino con la sua buona o cattiva condotta, combinata con il corso degli eventi. Tout le monde est peuple, et tout le peuple est bourgeois. Popolo e borghesia sono due vecchi nomi che non significano più nulla, dei mots de passe di cui ciascuno si serve secondo le circostanze; e non vi sono che due classi in realtà, la gente che lavora e la gente che vuole agitarsi, gli uomini che bada-

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no ai loro affari e i rivoluzionari di professione. Fra l’alto e il basso della vita sociale, vi è movimento continuo, a va e vieni, chi sale e chi scende: sale l’uomo intelligente, economo, attivo, che ignora le coalizioni turbolente e le dichiarazioni di princìpi, e conosce più la strada della cassa di risparmio che quella dell’osteria. Tutte le possibilità dischiuse quindi per gli operai, questi barbari della società moderna che la devono ritemprare con la loro energia e il loro coraggio: soltanto, appunto, le possibilità si dischiudono ai singoli individui, perché il ceto non esiste; e gli individui bisogna ammetterli nella società soltanto dopo che siano passati attraverso il noviziato della proprietà, perché soltanto allora avranno interesse a mantenere l’ordine sociale1155 . Il problema era dunque non di un blocco contro un altro blocco, ma di individui verso altri individui; si trattava di filtrare per così dire i singoli, e i mezzi erano educazione personale, buona volontà, capacità, risparmio1156 . E nemmeno ora, pur dopo le esperienze francesi del ’48 e del ’71, con l’Internazionale in piedi e Marx e Bakunin predicanti alle masse, si rinunziava ad impostare in tal modo la questione: lo diceva Il Diritto e lo ripetevano molti altri che il regno dei possidenti era aperto a tutti gli uomini di buona volontà, e che tutto stava nell’inculcare alle plebi le virtù classiche del cosiddetto borghese. Problema pedagogico, dunque: di fatto, si cercarono validi esempi di uomini del popolo divenuti proprietari, saliti in alto nella scala sociale grazie alle loro virtù, e poiché sulla vecchia tradizione italiana dell’esempio incarnato nel signore di campagna- specchio di alta vita morale per i suoi dipendenti-si veniva innestando proprio allora, fra ’60 e ’80, la predicazione angloassone del self-made man, che era invece uomo di città, le buone fattezze borghesi di Beniamino Franklin vennero proposte anche agli operai italiani, perché giungessero là dove egli era giunto con il lavoro, l’onestà, il risparmio. La-

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vora, fa la tua fortuna, innalzati; volere è potere; sapere è potere: i grandi motti furono predicati agli operai come sicuro e unico modo per risolvere il gran problema sociale, senza scosse e senza urti, nel migliore dei mondi possibili; e fiorirono nei libri di lettura gli ammirevoli esempi di poveri operai i quali col lavoro, l’istruzione, il risparmio, la Perseveranza, erano diventati padroni1157 , e si esaltarono le generose conciliazioni dopo i torbidi fra operai e padroni, finalmente affratellati e amici1158 . Sulle orme del più popolare tra gli esaltatori stranieri del lavoro intelligente e perseverante, che aveva condotto uomini, nati nella povertà e cresciuti fra stenti ed ostacoli d’ogni sorta a cospicue posizioni sociali, sulle orme dunque, di Samuele Smiles si posero vari italiani, primo fra tutti e più noto Michele Lessona; e non gli mancò nemmeno prima ancora del successo enorme, l’alto appoggio del ministro degli esteri, il Menabrea, desideroso che si facesse un libro del genere in Italia, con esempi tratti solo dalla vita di cittadini italiani, e perciò spronante i consoli all’estero a raccogliere dei cenni biografici «intorno agli Italiani che onestamente arricchirono in codeste contrade, accennando segnatamente agli ostacoli della loro prima vita, agli sforzi ed ai mezzi da essi adoperati persuperarli»1159 . Sotto sotto, c’era ancora traccia di quella condanna della povertà, come risultato – generalmente – del vizio, e certo di mancanza di iniziativa e di capacità, ch’era apertamente affiorata nel Guizot e su su, ancora, in piena Rivoluzione1160 . Ma se tali erano i precetti del liberalismo classico, niente divisione della società in strati rigidamente contrapposti, continuo intrecciarsi fra gli uni e gli altri, cominciavano lentamente ad emergere le concezioni affatto nuove che insistevano, invece, sull’esistenza di quegli strati contrapposti, e al concetto di classe o di «stato», svuotato nel suo contenuto giuridico tipo antico regime,

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davano ora contenuto schiettamente economico. Cominciavano ad emergere, e ad imporsi all’attenzione di molti pure decisamente ostili ad accogliere socialismo, marxismo e simili; onde, nello stesso pensiero liberale italiano che continuava a muoversi nella scia del pensiero liberale occidentale e soprattutto francese, e si muoveva con ritardo, alla società di individui cominciava ad affiancarsi, fra ondeggiamenti continui, la società per ceti. Era già l’accettazione di posizioni nuove e di premesse diverse della lotta politica, potentemente contribuendo a ciò lo sbocciante nazionalismo, che tendeva anch’esso a classificare una borghesia costituita dagli averi e dalla brama di averi ridotta a viltà d’animo e a mancamenti di fronte alla patria. Molti anni più tardi l’inno alla borghesia del Diritto, nuovamente un uomo della vecchia Sinistra, il Crispi anch’egli sempre convinto del dogma della proprietà sacra1161 , riprendeva l’elogio della borghesia, alla quale gli Italiani dovevano tutto quel che si era fatto per dare ai non abbienti qualità di cittadini, dovevano istituzioni politiche, indipendenza della Patria, libertà dei cittadini1162 : ma rimproverava alla borghesia non egoismo di classe di fronte alle plebi, bensì egoismo di materialisti di fronte agli alti ideali della patria, non conservatorismo sociale, ma pavidità nazionale. La borghesia pensava al ventre e non all’onore, simile in ciò alle plebi che erano anch’esse afflitte dalla malattia del ventre e non dalle preoccupazioni dello spirito1163 . Ma, fosse nazionalistico l’impulso o socialistico, nell’un caso e nell’altro la società cominciava ad apparire realmente divisa in blocchi, perdendo la mobilità estrema con cui l’aveva caratterizzata il liberalismo classico del primo Ottocento: le due forze nuove del mondo contemporaneo, risolutamente dispiegantisi dopo il 1870 e così affini nel contrapporre all’individuo una superiore entità complessiva, patria o classe che fosse, cominciavano a investire da destra e da sinistra il mondo libera-

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le. Così, l’affermare che il proprio regno non era esclusivo non impediva che il ceto dirigente sentisse di costituire un regno, e sia pure un regno non di carattere economico, bensì morale-politico, non di struttura sociale, bensì di funzioni civiche, dovendosi intendere «borghesia» non alla francese, ma all’italiana, e cioè come «accolta di tutti gli uomini nei quali alla coscienza individuale si unisce una coscienza politica spiccata così forte che li rende atti, non solo a giudicare della cosa pubblica, ma a informarla, a reggerla, a inspirarla in modo diretto e perfettamente consciente»1164 . Che tal regno potesse essere anche ingiusto affermavano taluni degli stessi uomini d’ordine. Correvan parole che sembravan riprendere l’aspra sentenza del Pisacane: «la parola democrazia, di cui si servivano, suonava per essi il regno della borghesia, la quale benché oppressa politicamente, regnava per la costituzione sociale», onde, nonostante le «nobilissime vittime» della classe media per il patrio riscatto, non v’erano stati mutamenti sostanziali rispetto alle «sterili dottrine» già trionfanti nella Rivoluzione francese, che avevano costituita in Francia una società inegualissima, una nuova tirannide, per cui la classe media «che aveva compita la rivoluzione, potente di mente e di mezzi, oppresse il popolo che mancava di tutto»1165 . Tornavano a risuonare parole simili, ad opera di chi proclamava che il popolo italiano aveva compiuto la rivoluzione politica per un fine economico molto preciso, cioè il miglioramento delle proprie condizioni di vita, mancando il quale era ridicolo parlare di morale, di istruzioni di virtù civiche1166 ; o di chi dichiarava pubblicamente che finora della libertà avevano goduto principalmente le classi benestanti, le quali in alcune provincie se ne erano servite per mantenere e accrescere il loro dominio su plebi ignoranti e misere. La gran maggioranza delle popolazioni non conosce il governo se non come un esattore di uomini e di denaro; in molti luoghi è

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cresciuta la ricchezza delle classi più favorite, e il popolo ha guadagnato poco o nulla1167 . Incalzava il Sonnino, in piena Camera: «oggi i possidenti usano citare la condizione misera dei contadini per valersene a proprio vantaggio, per farsene scudo di fronte all’irrompere degli interessi cittadini, per impietosire sulla propria sorte e sulla gravezza delle imposte che pesano sulla proprietà fondiaria. Ma quando si trovano essi posti di fronte a questa classe dei contadini, sia nell’interno delle amministrazioni locali, sia negl’infiniti rapporti privati, allora, o signori, quel sentimento di solidarietà non viene più alla luce, non se ne vede più traccia. Informino, a mezzogiorno come a settentrione, le torme affamate dei contadini che emigrano, e i centomila pellagrosi delle contrade più fertili e meglio coltivate d’Italia, e l’odio dei cafoni contro la classe detta dei galantuomini, e gli squallidi abituri e le condizioni fisicamente e moralmente compassionevoli dei paisani della bassa valle del Po»1168 . Aveva voglia Benedetto Cairoli di assumere egli la difesa della borghesia, contro il Sonnino, di ricordarne «le manifestazioni di una provvida, spontanea e mai stanca filantropia», di esaltarne l’ultima; generosa prova di abnegazione, e vale a dire l’estensione del diritto elettorale che era un sacrifizio simile a quello compiuto dalla nobiltà il 4 agosto 17891169 . Al di sopra delle polemiche e dell’atteggiamento pro e contro, stava il gran fatto ché la società cominciava ad apparire divisa in strati sociali diversi, anzi contrapposti. L’additare ai singoli le porte aperte non bastava più: il problema stava diventando un problema di ceti. La borghesia italiana aveva avuto il suo 18301170 : e cominciavano, dunque, le recriminazioni sul 1830.

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II Il mondo dei savi Ora, ad impedire che dalla beneficenza e dalla carità pubblica – rimedio adatto per i singoli – i pensieri salissero verso decise riforme nella stessa organizzazione del lavoro – rimedio necessario quando si trattava di ceti – c’era anzitutto l’attaccamento ai beni ereditari o acquisiti, e cioè, della proprietà, radicato nel profondo dell’animo di coloro c e costituivano il ceto dirigente. Erano tradizioni millenarie; e perfino i rivoluzionari di Francia le avevano ribadite nell’art. 17 della Dichiarazione dei diritti dell’89, e ancor più tardi, in pieno giacobinismo, nel ’93, avevano ripetuto che la proprietà è uno dei diritti dell’uomo e ciascuno è libero di disporre a suo arbitrio della propria fortuna. Questo era il limite invalicabile, che Thiers aveva ancora una volta ribadito; nel settembre del ’48, in un’opera ben accolta dai maggiorenti italiani1171 ; e anche i meglio disposti a muovere incontro ai nullatenenti, insorgevano non appena si profilasse una anche minima scalfittura del loro diritto di proprietari. Il Ricasoli, così sinceramente sollecito del benessere dei suoi contadini, preoccupato e tormentato delle loro sorti, spesso trascinato da movimenti di umana compassione e comprensione che vincevano anche i dettami dell’interesse personale1172 , il Ricasoli, sol che s’accennasse ad anche timidi tentativi di innovare in materia di consuetudine e si delineasse una volontà dei contadini diversa da quella del padrone, il Ricasoli scattava e impartiva al fattore di Brolio uno di quei suoi bruschi ordini per rimettere a sesto le cose, subito, e far chiaro a tutti che il padrone era lui, la roba era sua, lui solo poteva disporne, e il primo dei contadini che s fosse permesso di parlar male di lui sarebbe stato licenziato1173 .

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Quando poi minacciassero eventi più foschi e in periodi torbidi e inquieti, nel febbraio del 1849, corresser voci su perquisizioni a Brolio, il barone di ferro non stava alle mezze misure: se si presenta l’autorità pubblica, con tanto di mandato in regola, s’aprano le porte; ma contro chi si presenti senza veste legale, si usi la forza. Armi pronte; e se vengono i «briganti», si spari senza scrupoli. Brolio è proprietà privata; nessuno può fare atto contro di essa; e quando l’autorità preposta alla tutela del vivere sociale non sappia adempiere al suo dovere «la nostra persona e la nostra roba bisogna saperla difendere da sé»1174 . Migliorare le condizioni dei ceti men favoriti dalla sorte; migliorarli materialmente e moralmente: quest’era il primo dovere dei possidenti, e lo ripetevano da tempo, su tutti i toni, Lambruschini, Ricasoli, Minghetti. Ma non lasciarsi tor di mano le redini, non permettere che i predicatori d’iniquità, la mala genìa «venuta dall’inferno a sciupare tutto quello che tocca o di che parla»1175 , travolgessero le masse con nefanda opera di sobillazione, precipitando a rovina il vivere civile e apportando nuova barbarie. Perché questo avrebbe significato il prevalere dei ceti inferiori, contadini e soprattutto operai. Rispettabili, gli operai, in quanto creature umane; benemeriti per il loro lavoro, da cui la vita veniva resa più facile e più comoda1176 ; ma come insieme, come ceto, non ascoltavano in fatto di politica «che le passioni e gl’istinti, quando invece ci vorrebbe la calma, la tradizione ed anche un po’ il sapere»1177 . L’educazione degli operai non sembrava ancora così progredita «da portare una fusione di classi»1178 ; il loro senso morale non abbastanza sicuro per deficienza di educazione1179 . L’impreparazione delle masse, la loro incapacità a collaborare su piano politico con i ceti alti: è un punto fermo, su cui son tutti d’accordo1180 ora come quando Cesare Balbo aveva affermato che conta solo il ceto delle per-

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sone educate1181 . Su su, si risaliva fino al disdegno degli illuministi per la populace. IL me paraît essentiel qu’ il y ait des gueux ignorants, aveva scritto il Voltaire1182 : ora, più d’uno si augurava, talora anche apertamente, che i gueux rimanessero ignoranti1183 ; ma anche quelli che auspicavano e volevano l’elevazione delle plebi, continuavano a ritenere che per il momento almeno lo stacco fosse troppo netto, di preparazione morale e culturale, perché gli uni si fondessero con gli altri. Gli operai lo sentivano: noi non siamo considerati, nemmeno dopo la Rivoluzione francese, pur essendo la base di ogni ordinamento sociale; «lavoriamo sempre e siamo perturbati ancor noi nell’animo nostro», oggi come gli operai del mondo antico e dell’età feudale; dobbiamo acquistare dignità nella coscienza di essere necessari1184 . L’istruzione, l’istruzione obbligatoria e gratuita, reclamavano le società operaie. Non basta nemmeno la semplice istruzione, rispondevano parecchi dei maggiorenti: occorre l’educazione morale. Era questo il gran tema prediletto su cui avevano insistito da decenni, con diverso accento e diverso fine, Mazzini e d’Azeglio, Lambruschini e Ricasoli: ma gli uni, con Mazzini, ritenevano l’educazione legata a coscienza ed eventi rivoluzionari, egli altri la volevano come epilogo di un lento, graduale processo evolutivo, senza scosse né urti. S’accontentassero, per ora, i ceti inferiori delle ponderate elargizioni dei savi, dei beneveggenti; s’affidassero alla loro guida, prudente e saggia, e sotto la loro guida procedessero, passo passo, come i fanciulli che la mano del pedagogo conduce pian piano dall’alfabeto al racconto continuato e dai numeri alle operazioni aritmetiche. I popoli sono come i bambini che piangono e strepitano quando la mamma gli lava la faccia, e poi tutti belli le sorridono, diceva quel vecchio cospiratore d’un Settembrini (Epist., pp. 283, 285), che sentiva nell’aria certo odore

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non piacevole. Né sarebbe valso l’obbiettare che anche in questo campo era vero quel che già perfino un Balbo aveva osservato per l’educazione politica1185 : non potersi cioè raffrontare l’educazione pubblica con la privata, né esser completamente adattabile, alla prima, il saggio criterio dell’a poco a poco. E come non era riuscito il dar la libertà a centellini, ma s’era poi dovuta dare tutta ed intera, sotto la pressione della piazza, così anche di quest’altra libertà era difficile pensare che potesse essere acquistata passo passo buoni buoni, e soprattutto potesse subordinarsi ad una compiuta educazione del popolo, secondo intendevano i maggiorenti, la quale, quando s’avesse a ritener perfezionata nel senso loro, sarebbe stato mistero di Dio il decidere. Certo è che il motivo del popolo immaturo risuonò costantemente: le plebi sono la futura speranza, la futura risorsa della patria, ma bisogna lasciare che questi germi crescavo naturalmente, non spossarli e rovinarli con l’affidare loro uffici sociali di cui non sono ancora capaci1186 . Trapassando fatalmente dal campo sociale al campo politico, esso ispirò l’avversione non diremo al suffragio universale, battezzato a gran voce dai conservatori italiani, come dai loro maestri francesi, gran delirio1187 del secolo, ma anche solo ad un allargamento del suffragio che andasse oltre certi limiti, molto ristretti. Si voleva proprio affidare alla cieca le sorti del paese alla imperfettissima educazione degli operai, non preparati alla vita pubblica, o mal preparati dai giornali più spregevoli, facile preda degli armeggioni rossi, pronti a trasformarsi «in compagnie e in battaglioni serrati di votanti, i quali saranno a disposizione di chi li vorrà e saprà condurre» ?1188 Gli operai si dimostravano ogni giorno più riottosi, incanagliti, di turpe linguaggio e attitudine, tanto che città una volta famose per la gentilezza dei costumi erano ora avvilite dal linguaggio osceno e provocante di una plebe sfrenata1189 . E abbassare i limiti di età, dai venticin-

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que ai ventun anni, significava semplicemente accrescere la clientela dei partiti sovversivi, dei rossi1190 . Bella parola, la democrazia, ma spesso significava semplicemente «lo spostamento di quella insolenza antica dei baroni feudali; rivoltata dal basso all’alto», onde, liberatasi dall’insolenza dell’aristocrazia, la società tollerava oggi l’insolenza della piazza1191 . Attenti, dunque, a non lasciare in balia della imperita moltitudine le redini del governo: perché «l’eccitazione politica nelle classi inferiori tumultuariamente chiamate al reggimento della cosa pubblica» tendeva sempre a divenir «egoistica», assumendo un carattere di lotta sociale1192 e facendo così divampare, anche in Italia, quel conflitto di classi, a base economica, tuttora inesistente. Accordare il suffragio universale significava scatenare in Italia la questione sociale di cui per i il momento, grazie al cielo, in Italia non v’erano tracce al dir del sempre loquace Diomede Pantaleoni. «La proprietà ava dietro al voto»: si facciano accedere alle urne le masse, e tosto o tardi le proprietà passeranno in mano ai nullatenenti1193 . In questa affermazione, o in quella del Lampertico relatore al Senato, che la causa della proprietà e dell’ordine sociale voleva dire infine la causa stessa della libertà1194 , o, alla Camera, in quella del Codronchi che non bisognava travolgere gli interessi della proprietà così negletti anzi dimenticati in Italia1195 , veniva scopertamente fuori il timore del proprietario. In altri avversari dell’estensione del suffragio, siffatto timore era certo meno immediato e meno premente, e lasciava luogo alle preoccupazioni per la solidità degli istituti politici e la stessa libertà e unità della patria che apparivano minacciate da un eventuale predominio delle masse. Né questi altri timori erano semplice schermo alla paura del ventre; né le preoccupazioni per gli ideali erano pura lustra messa innaffi per ricoprire gli interessi minacciati. Ché se taluno temeva le masse operaie, docile strumento dei faziosi rossi e quindi

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minaccianti l’ordine sociale e la proprietà, altri paventava invece le masse campagnole, docile strumento dei faziosi neri e quindi non nemiche della proprietà, bensì della patria libera e una. Ancor una volta, la classe dirigente italiana si trovava a dover fronteggiare due estremismi, di destra e di sinistra, l’internazionale rossa e l’internazionale nera, Carlo Cafiero e don Margotti; e chi più temette l’una e chi più l’altra, e i conservativi della Destra calcarono a preferenza sul pericolo rosso auspicando, anzi, la partecipazione alle urne dei cattolici, i quali «per condizione sociale, per interessi e per abitudini sono gli alleati naturali di un governo regolare»1196 ; e i men conservativi della Destra e, naturalmente, tutti gli uomini della Sinistra insistettero sul pericolo nero. Donde, l’esaltazione da una parte dei contadina, apparsi già al Lambruschini molto necessari per reprimere la baldanza dei «matti» della città1197 nuovamente invocati a sostegno dell’ordine costituito, a baluardo contro i sovversivi1198 ; e l’additare pericoli delle città, vivaci e pronte al progresso, ma anche più facile preda delle novità pur se «non buone»1199 e l’insistere perché Il diritto elettorale fosse esteso a molti piccoli fittavoli e simili, ad uomini cioè «i quali hanno caro l’ordine sociale, quanto il risparmio delle loro lunghe fatiche, il quale non vogliono che il soffio di un’ora disperda»1200 . Oppure, ancora, il sostenere che il progetto di legge era ingiusto, perché assicurava la prevalenza delle classi urbane, turbolente, contro le popolazioni rurali, dividendo il paese anziché unirlo1201 . E dall’altra parte, invece, l’insistere sui pericoli di una prevalenza dei rurali, ignoranti, superstiziosi, strumento dei clericali, dei sacerdoti maledicenti la patria, di chi voleva la restaurazione dell’antico ordine di cose sulle rovine dell’unità italiana1202 : e se gli uni citavano Taine e i suoi duri giudizi sui rurali francesi, gli altri si appellavano a Vacherot e al suo tutt’opposto giudizio, esaltando nei contadi-

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ni l’elemento di stabilità e di ordine della Francia nelle sue tormentose vicende1203 . Più spesso, si temevano gli uni e gli altri, pericolo grave per la patria1204 , tanto più grave in quanto gli uni e gli altri avrebbero anche potuto darsi la mano, i rossi servendo praticamente ai più sottili calcoli dei neri, il socialismo diventando strumento del Papato1205 . E anche senza questo, che brutto giorno quello in cui don Margotti sguinzagliasse nei comuni rurali di tutt’Italia i suoi amici a prepararvi le elezioni nere, e oratori da trivio e giornalisti da ricatto lavorassero per elezioni rosse; che spettacolo «l’apertura del Parlamento in Montecitorio con 300 deputati abbonati all’Unità Cattolica e 200 redattori di quei certi sudici fogli che non leggo e non nomino»!1206 Così, nella paura delle masse confluivano, in un connubio non sempre non facilmente distinguibile nei suoi vari elementi, amor della libertà e senso della proprietà, amor della patria e attaccamento alle istituzioni, e anzitutto alla monarchia minacciata perché il suffragio universale conduceva diritto e filato alla repubblica1207 , ora predominando l’istinto di conservazione propriamente sociale ora invece predominando la preoccupazione puramente politica; e solo un considerevole semplicismo storiografico potrebbe identificare senz’altro l’uno e l’altro timore, anzi far dipendere il secondo dal primo, perché nella paura dei neri assai poco interferiva il motivo del ventre e tutto diceva, invece, il motivo ideale. Ora, il timore dei neri fu ancor prevalente su quello dei rossi, per molti anni dopo il ’701208 : bisognava far testa contro il nemico comune, che era il Papato, ammoniva Crispi nel ’721209 , e due anni appresso Quintino Sella incalzava, che l’internazionale nera, più benigna all’apparenza, in sostanza minacciava assai di più come quella che, pur di conseguire il suo intento parricida a rovina della unità e libertà patria, non esitava ad affilare a danno nostro armi straniere, preparando intanto nel paese quanto

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avrebbe potuto contribuire alla loro vittoria1210 . Anziché deplorare l’assenteismo elettorale dei cattolici, il Visconti Venosta si rallegrava, nel 1871, che Pio IX disdegnasse la democrazia: altrimenti, il Quirinale sarebbe stato costretto a fare i conti col Vaticano1211 . Ed era logico che i neri preoccupassero assai di più, solo che si pensasse alle forze internazionali della reazione, potente in Francia ed in Austria e, fra il ’73 e il ’74, minacciante di sopravanzare in Spagna, con la violenta ripresa carlista. Privi affatto di appoggi internazionali pubblici, i rossi erano allora, e dovunque, minoranze di eretici; ma sempre potenti i neri e in grado di influire, in più d’un paese, sulla politica ufficiale riguardo l’Italia. Vi si aggiunga la convinzione diffusa che in Italia, mancando i grandi agglomerati operai, mancasse la materia incendiaria per agitazioni rosse: convinzione alla quale ris i dava, secondo il suo costume, perentorietà di «giammai»1212 , continuando ancora per parecchi anni a rifiutar fede allo spettro del socialismo e solo da ultimo scoprendo che la materia combustibile c’era anche in Italia e il fuoco v’era stato appiccato da un pezzo. Le moltitudini in Italia, da non confondersi con i monelli che fanno le dimostrazioni in piazza, sono eccellenti, diceva in Senato Jacini fautore addirittura del suffragio universale indiretto1213 , e Zanardelli, risolutamente ottimista, convinto che fra noi non esistessero quei profondi antagonismi, quegli odi, quei rancori di classe, che travagliavano le altre maggiori nazioni d’Europa, ad ascoltare i foschi presagi di alcuni senatori si chiedeva «se dalle tombe scoperchiate fossero sorti spiriti da secoli dormienti»1214 . Del quale ottimismo dei progressisti di allora era testimonianza aperta lo scegliere l’istruzione elementare come requisito più acconcio per l’allargamento del suffragio: fede nella Scienza, popolarmente concretata nella scuola, e fede in un pacifico e progressivo sviluppo armonico della società, senza scosse né tumulti, fecero tutt’uno1215 .

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Ora, la riscossa dei clericali voleva dire non attentato alla proprietà, almeno in linea di principio1216 , bensì unicamente attentato alla patria. E fu dunque il sentimento della patria ad insorgere, anche quando l’istinto del proprietario potesse riposar tranquillo; e nelle masse rurali, in quel caso, si temettero i possibili sanfedisti, non i petrolieri della Comune. Certo, anche i petrolieri minacciavano, oltre la proprietà, la patria: il nome solo della Internazionale significava, allora, la negazione degli ideali nel cui nome s’era combattutto e vinto. E in questo propriamente era uno dei più intimi motivi di travaglio della vita italiana. La patria resa una e indipendente, i patrioti l’avevano offerta alle masse, certi di averne con ciò appagato gli ideali: ma il grande fatto politico era, per avventura, dalle plebi scarsamente sentito e, spesso, fin vilipeso come lustra di cui i padroni si avvalessero per tener quieto il gregge ribelle1217 . I vantaggi dell’unità apparivano riservati al ceto dei possidenti, mentre l’asino, cioè il popolo, doveva continuare a portare il basto come prima, e forse peggio di prima1218 ; e qualcuno dei contadini che aveva gridato viva la libertà, sperando l’avvento di un’epoca in cui anche i poveri potessero star meglio e lavorar meno, poi aveva crollato il capo: «libertà, eguaglianza, ma chi non ne ha gratti la pancia»1219 . La patria, la libertà, gran belle cose, ma quando s’aveva fame non bastava: e un anonimo di Lodi diceva al Carducci, nel 1881, «basta col parlare della libertà! occorre parlare della miseria»1220 . Qui c’era, nuovamente, un vuoto tra ceti dirigenti e masse. Già una volta Giuseppe Mazzini aveva bene avvertito il distacco verificatosi fra ideologi e dottrinari da una parte e popolo dall’altra, in Italia come in Francia; e perciò aveva posto a base del suo apostolato l’educazione del popolo e aveva, sia pur assai vagamente, intravisto il problema sociale dietro la questione politica1221 . Dopo

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di lui, Andrea Luigi Mazzini, sulle orme del Saint-Simon e delle correnti socialistiche francesi e belghe, aveva assai più nettamente insistito sulla necessità che la rivoluzione italiana fosse largamente sociale1222 , e il Pisacane aveva voluto che la rivoluzione fosse fatta non «per cambiare i ministri o riunire una Camera ... ma per far sparire dalla società i ricchi oziosi ed i poveri che mancano del pane, e fare che ogni cittadino possa godere il frutto dei propri lavori senza assoggettarsi ad altri, e che nessuno più viva oziando nei ricchi palazzi col sangue della povera gente che lavora»1223 . Ma il Risorgimento s’era effettuato per altre vie e con altri risultati secondo era nelle possibilità della storia d’allora che non poteva essere la storia del secolo ventesimo; e nuovamente fra ceto dirigente e masse c’era un vuoto che tendeva ad aggravarsi sempre più. Turbolenze e disordini, di cui cominciavano a risuonar le cronache, non facevano che accrescere le diffidenze e i timori del ceto dirigente, spingendolo a considerare minacciosi per la libertà stessa e per la patria i sommovimenti sociali. Patria e libertà rischiavano di porsi su piano antitetico a quello delle aspirazioni sociali: il sopravvento della plebe avrebbe condotto all’egualitarismo e al dispotismo; rivoluzione sociale, livellamento, e come risultato ultimo una dittatura confortata da facile plebiscito, con la rinunzia delle plebi alla libertà politica pur di viver meglio in servitù. Predominio del popolaccio, anarchia e in ultimo la dittatura militare, il dispotismo: era l’aborrita evoluzione delle cose già condannata nella Rivoluzione francese dalla storiografia liberale del primo Ottocento che aveva contrapposto l’89 e il ’93 come la luce e le tenebre. L’antisocialismo sgorgava di necessità da tali premesse del pensiero liberale ottocentesco; e anche nei nostri l’atteggiamento teorico trovava conferma di esempi, non soltanto nell’esperienza francese delle due dittature napoleoniche, ma anche nel «socialismo» del governo

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p fido che negli ultimi anni aveva cercato di far dimenticare i «bisogni governativi», diceva Pio IX, ossia politici, soddisfacendo quanto più possibile i bisogni locali, con lavori pubblici e larghezze a favore dei ceti meno abbienti1224 . Libertà politica minacciata, dunque; e la patria, la patria aggredita dall’internazionalismo dei movimenti sociali, dall’atteggiamento polemico che i novatori assumevano verso quella che era la parola sacra per il ceto dirigente. Il socialismo di ora non era più il socialismo patriottico, nazionale, di un Pisacane1225 ; era internazionalismo, appello alle classi contro le nazioni. Patriottismo contro internazionalismo: questo distaccava lo stesso Mazzini dal movimento nascente; questo era destinato a scavare per decenni, un fossato profondo tra i partiti socialisti e i patrioti, nella furia polemica accentuandosi man mano da una parte le note prettamente nazionalistiche, e dall’altra gli inutili anzi dannosi atteggiamenti che ferivano un sentimento vivo e profondo. Sul quale doloroso dissidio, grave di conseguenze, s’imperniò gran parte della storia italiana dalla fine del secolo XIX al 1922. Qualcos’altro ancora, tuttavia, nutriva la diffidenza verso le masse. Tornava in ballo l’educazione, l’istruzione: ora però non come incitamento ad innalzare gli altri, bensì come distacco, disprezzo verso gli altri. Veniva fuori il disdegno del savio verso la imperita moltitudine, verso la massa amorfa tutta istinto e niente ragione. «Noi dobbiamo restar noi, e noi puri, noi savi, noi antiveggenti» aveva gridato il Lainbruschini nel ’491226 ; e nel grido era bene racchiuso tutto quel che ergeva una invisibile ma formidabile barriera fra due mondi, e non poteva nemmeno esser racchiuso in una formula ben definita ed era qualcosa di più che non il puro senso del proprietario o il senso del patriota. I savi e il volgo o, guicciardinianamente, i pazzi e i savi1227 : quel volgo che anche i meno avversi avevan proclamato si dovesse sem-

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pre prendere «con quello che pare, e con lo evento della cosa»1228 , e che i più avversi avevano battezzato «uno animale pazzo, pieno di mille errori, di mille confusione sanza gusto, sanza deletto, sanza stabilità»1229 ; la belua illa innumerorum capitum1230 , la bestia senza pensieri da tener a freno1231 , costantemente sospettata dalla tradizione culturale europea e anzi tutto proprio dalla tradizione del pensiero politico, la vile populace alla quale, in pieno Settecento, anche il Voltaire aveva guardato con disdegno e con disdegno guardavano ancora i savi dell’Ottocento, tanto più allarmati per i recenti, improvvisi, cruenti scatti d’ira di quelle plebi che «sentono la malattia del ventre, non quella dello spirito»1232 . Prima ancora che contro socialismo e comunismo la diffidenza e l’ostilità si volgevano contro la democrazia. La democrazia: vale a dire, la legge del numero, la quantità contro la qualità, il peso bruto della massa contro l’intelligenza e la dottrina, la passione, il fanatismo e lo istinto contro la raragione. Di queste paure s’alimentava l’atteggiamento antidemocratico di un Flaubert, di un Renan, e, ugualmente, degli scrittori e uomini di parte moderata in Italia, a ciascuno de’ quali, vincendo la democrazia, l’avvenire si presentava sotto i foschi colori del grande Stato di masse militarista, imprenditore, tutto schiacciante con la sua mole, e di masse inquadrate, una misura precisa e controllata di Misère mit Avancement und in Uniform di rulli di tamburo regolanti militarescamente ogni movimento della collettività1233 . Filisteismo, ignoranza, indifferenza ai problemi morali e spirituali e, sola superstite, la preoccupazione del proprio benessere materiale: si camminava «nell’ora del tramonto»1234 . Tendenza agli interessi materiali del secolo presente: era un atto d’accusa svolto e ripreso, da decenni, di là e di qua delle Alpi, proprio ad opera di coloro i quali, politicamente, volevano il moderatismo. Gli animi sono occupati, soverchiamente, dal benessere economico; l’egoi-

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smo e l’avidità, l’amor dei piaceri e il lusso dominano il mondo contemporaneo, onde, perfino nei consigli dello Stato gli interessi del commercio e dell’industria vengono ascoltati «a preferenza della dignità e dell’onore»: l’aveva scritto Minghetti giovane1235 , che addebitava alla Monarchia di Luglio il gran torto di aver materializzata la Francia e che allo stesso Pio IX, convinto di dover favorire «gli interessi materiali» per guarire i mali dello Stato pontificio, opponeva la necessità di non farne scapitare le «idee più elevate»1236 . E Minghetti era uno dei tanti preoccupati che ben mangiare, ben bere e ben vestirsi stesse diventando lo scopo supremo dell’umanità1237 ; perfino al Sella, così alieno dalle romanticherie, l’eccessivo culto degli interessi materiali delle nuove generazioni faceva talvolta rimpiangere le quarantottate1238 . Avevan voglia di protestare Luigi Blanch, che la sentenza era troppo severa1239 , o Francesco de Sanctis, che nel ’69 benediceva la nuova generazione se impiegasse nell’industria, nei commerci, negli studi positivi, l’energia dai vecchi impiegata nelle cospirazioni e nella speculazione1240 : il motto aveva fortuna, diveniva quasi formula stereotipa quando non riacquistasse improvviso calore e impeto nello sdegno di un Flaubert. L’età del commercio, aveva vaticinato ottimisticamente Benjamin Constant; ma altri ritenne che il commercio significasse, con la ricchezza, avvilimento del sentire umano, bruttura di affetti e di pensieri e fu scettico di fronte le magnifiche sorti e progressive

dell’umana gente e pensò con il poeta della Palinodia che la virile età ... volta ai severi ... economici studi, e intenta il ciglio nelle pubbliche cose ...

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rifuggisse ormai dall’esplorare la propria anima e cercasse fuori di sé quel che in sé non riusciva più a trovare. Sorse così sin dai tempi della Monarchia di Luglio e divenne oggetto di perenni discussioni il quesito se il progresso tecnico non sopravanzasse quello morale, con grossi pericoli per il futuro; e si disputò come far procedere di paro l’uno e l’altro e, in particolare, come ricondurre l’economia pubblica ad una stretta coordinazione e anzi subordinazione ai princìpi morali1241 . Tra le quali discussioni e polemiche l’anima candida di Luigi Luzzatti cercò di confutare le asserzioni del Buckle, allora in gran voga e con ben altra vigoria di pensiero già combattute prima dal Droysen1242 : di provare, cioè, che la morale e la virtù erano le basi necessarie di ogni progresso tanto che, ove mancassero, lo stesso avanzare nelle scienze e nella tecnica poteva condurre a risultati infelici1243 . E il Minghetti cercava l’accordo tra progresso tecnico e progresso morale e disegnava i suoi connubi tra economia pubblica, diritto e morale, tentando di volgere a buon fine anche la cupidità, vizio dei tempi, e sottolineando la necessità che il principio morale informasse l’industria, perché durasse vigorosa1244 . Tra gli uni e gli altri dibattiti affiorava largamente la questione sociale; e ci si chiedeva se l’uomo fosse oggi più contento di prima e, negativa riuscendo la risposta, come fare ad alleviare i bisogni delle classi povere, a tutelare i diritti degli infimi; e si affermava con il Minghetti la necessità di una legislazione sociale, che fosse un quid medium fra la teoria della libertà bastante a sé stessa, ormai non più sostenibile integralmente, e l’opposta teoria del diretto e continuo intervento statale. Dunque, ancora, una via di compromesso, un giusto mezzo economico-sociale dopo il giusto mezzo politico: non senza che trapelasse più di una volta qualche residuo dell’ottimismo pre-quarantottesco, pre-marxista, sulla virtù del buon esempio, giacché «quando il popolo vede un

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uomo rispettabile, onorato nella sua famiglia e nella società, che si occupa di lui, che studia i suoi bisogni, che s’ispira all’amore della sua classe, credo che il popolo ha l’intuito assai fino, e, se incontra quest’uomo benefico, è a lui che si rivolge, e respinge gli agitatori nelle tenebre, donde mai non dovrebbero uscire»1245 . Dunque, ancor sempre la virtù dell’esempio alla Lambruschini e alla Ricasoli: il signore che doveva ripigliare il suo antico potere nello Stato, ma in modo diverso, ottenendo col sapere e con l’autorità d’una vita incorrotta quel che prima otteneva col denaro e con la clientela, guidando il popolo con l’esempio1246 ; l’uomo benefico, che risolveva con la sua virtù morale i grossi problemi dei tempi. Agli operai, scrittori di minor nomea additavano il self-made man; al ceto dirigente, e soprattutto ai signori di campagna Lambruschini Ricasoli Minghetti avevano additato e continuavano ad additare l’esempio classico del signore padre dei suoi sottoposti. Cacciato lungi dall’agone politico, almeno temporaneamente e nelle sue forme estreme, il mito dell’eroe riappariva nei problemi sociali, non diversamente da come l’assolutismo illuminato, ripudiato in politica e sostituito dalla volontà della nazione, manteneva intatte le sue posizioni nei rapporti fra le classi, e cioè tra i proprietari e i dipendenti1247 . O non scopriva forse anche il Bonghi, fra le cause della Comune, lo scemare del valore intellettuale e morale delle classi alte, quindi il decrescere del loro consorzio con le plebi cittadine e rurali e della loro influenza sana e gagliarda sopra di esse: che era proprio lo scemare della virtù dell’esempio?1248 Ora, in tutta quest’ansia per l’affermato tramonto del senso morale e trionfo dell’egoismo, declino dello spirito e avvento della materia, fine dell’ideale e vittoria del tornaconto, il dibattito propriamente politico e sociale si slargava d’assai, esprimendo il tormento di una parte cospicua del ceto dirigente italiano non pure di fronte ad

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un determinato problema, bensì alla civiltà moderna in genere. Perché in quel volere l’incremento della ricchezza, ma ad un tempo paventarne gli effetti e ricorrere ai vecchi motivi antilusso e anticorruzione; nell’esaltare l’economia pubblica, come allora dicevasi, ma temendone ad un tempo gli sviluppi ove non fossero coronali da un non minore progresso morale e culturale, v’era bene nel fondo una sorta di diffidenza e di paura di fronte allo sviluppo così rapido e formidabile, della società moderna. Politicamente, era il rinato spirito di conquista che i moderati, una voce, deploravano nella sua incarnazione presente, e cioè nel bismarckismo; economicamente, la concorrenza sfrenata la produzione la circolazione di ricchezza lo scambio a ritmo vertiginoso e sconvolgente. Nell’un caso e nell’altro, unico ideale la potenza, la forza, il peso del numero: press’a poco come in politica interna miravano a fare i democratici, imponendo anch’essi la massa degli elettori, la quantità sulla qualità. Turbava e lasciava perplessi il prevaler del problema economico, il suo incidere profondamente su quello politico. Turbava il sopravanzare deciso nell’Europa dell’industria, il suo campeggiare ricacciando in secondo piano altre, più consuete e amate, forme di produzione; e lo si confessava di rado, esplicitamente, un cotal turbamento, ma lo si effondeva negli inni all’agricoltura, la vecchia nutrice dei popoli a cui una millenaria tradizione aveva sempre assegnato il primo posto e conferito dignità e riputazione mai conseguite da industria e commercio, nonostante i Comuni medievali e i traffici degli Italiani nel periodo più splendido della loro storia. Qualcosa di nuovo si insinuava, senza dubbio, nelle lodi della vita rustica, nell’incitamento a dar opera e senno ai lavori agricoli. Era lo sforzo di migliorare tecnicamente la produzione, di modernizzare metodi e sistemi, di porsi a paro anche qui di Francia e Inghilterra; donde il risveglio degli studi di agraria e il fervore di discussioni

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in giornali associazioni e congressi, che era tra i maggiori segni del rifiorir italiano a nuova vita1249 . Donde l’avvicinarsi, su questo piano, di uomini così diversi come un Cattaneo un Cavour un Ridolfi un Capponi un Lambruschini un Ricasoli: e l’uno si preoccupava di cercar i merinos a Villach o di allevar maiali di razza inglese o di impiantar trebbiatoi da riso1250 , e l’altro – mortificato di farlo tardi – andava in giro per le vigne e le cantine della Borgogna e del Médoc, assaggiando i vini e traendo confronti e ammaestramenti per il suo Chianti1251 . Ma la concordia nella parte tecnica nascondeva sostanziali divergenze di vedute generali. Nessuna antinomia fra l’agricoltura e l’industria il commercio la finanza moderni, per un Cavour e un Cattaneo, anzi perfetta sincronicità di sforzi; e l’agricoltura vista essenzialmente come fatto economico, con occhi da economista, da produttore, da tecnico. Nessun senso bucolico; non essenziale nemmeno il finalismo di carattere educativo-morale1252 , il vagheggiamento dell’agricoltura come dell’unica, grande educatrice dei popoli e soprattutto nessuna esaltazione di essa come dell’unica base per la struttura politica del paese. Così accadeva, per l’appunto, con un Cavour, inizialmente agricoltore par raison e poi, senza dubbio, sedotto anche lui dal fascino della terra, trascinato e inviluppato nei molteplici continui pensieri del lavoro agricolo, e quindi agricoltore pargoût1253 , ma non mai sino al punto da non tener l’occhio ben aperto e l’animo pronto alle imprese industriali e ai problemi dell’alta finanza: Cavour, spinto dalla necessità a crearsi una posizione, a diventar ricco, a rendersi indipendente sottraendosi alla spiacevole condizione del cadetto1254 costretto a sfogare la sua volontà «ardente e tormentata»1255 in altro campo da quello primamente vagheggiato, in un paese dove l’industria era vista con sospetto dal governo, quale ausiliaria del liberalismo, e dove a lui Cavour, sotto Carlo Al-

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berto, non restava che piantar cavoli e coltivar vigne1256 ; Cavour, per il quale l’agricoltura era dunque il momentaneo surrogato della politica e quasi il rifugio dei vinti della politica. Privo della sensibilità idillica per il divino silenzio verde della campagna1257 , Cavour vedeva nei campi una fonte di produzione, nell’agricoltura una industria e perfino una fonte di speculazione finanziaria, col gioco sulla differenza di prezzi ne’ vari mercati d’Europa. Il gentiluomo di campagna antico regime badava, al massimo, a sfruttar bene i suoi fondi: ma il suo orizzonte economico era tutto lì, in quei fondi. Cavour vedeva i suoi campi, ma, assai, oltre, il mercato di Odessa e quello francese; e seguiva il variar de’ prezzi, dal Baltico al Mar Nero, innestandovi su acquisti o vendite a seconda del momento1258 . Perciò, niente più pregiudizi, niente più «pretensioni primogeniali dell’agricoltura» connesse con il vecchio ordine politico ormai crollante e, più generalmente, con una tradizione millenaria che nei paterna rura aveva esaltata la base del viver civile; niente superiorità dell’agricoltura, ciò che aveva costituito un «funesto errore a molti fatale» e, nel passato, aveva indotto commercianti e industriali, appena saliti in ricchezza, ad investire i capitali nella terra «come se una tale qualità conferisse loro maggior dignità, gli elevasse nell’ordine sociale», anziché impiegarli ad accrescere gli opifici e ad estendere i traffici. Nulla più di tutto questo, ma riconoscimento che «tutte le arti industriali, figlie del lavoro, hanno pari titoli ai riguardi del governo, alle simpatie del paese», tutte conferendo ugualmente al pubblico bene, tutte su di uno stesso piano di dignità, continuava il Cavour che con tali affermazioni buttava per aria, prima ancora che l’assetto politico italiano, la vecchia mentalità di stampo nobiliare-rurale1259 . Il primo effetto della nuova vita pubblica, della libertà, doveva essere un’industria potente, giacché l’industria per svilupparsi «abbisogna a segno

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tale di libertà, che non dubitiamo affermare, essere i suoi progressi più universali e più rapidi in uno Stato inquieto sì, ma dotato di soda libertà, che in uno tranquillo, ma vivente sotto il peso di un sistema di compressione e di regresso»1260 . Ma Cavour era un rivoluzionario, ne’ fatti se non a parole. E invece per molti altri dei maggiorenti italiani, la qualità del proprietario terriero era veramente quella che conferiva maggior dignità nell’ordine sociale, e l’agricoltura era e doveva rimanere la primogenita. Così parlava la tradizione secolare che risaliva su su fino all’antica Roma agraria, e si era rinverdita tra Cinquecento e Seicento, soprattutto, quando la corsa alla proprietà terriera e al titolo nobiliare che le era connesso aveva distolto capitali e animi dall’attività industriale-commerciale, in Italia come in Francia e altrove, salvo che in Italia non s’era trovato il correttivo dei gruppi di eretici per causa di religione, i quali assumessero su di sé industria e commercio1261 . Non a torto il Salvagnoli deplorava nel 1834 che in Toscana la proprietà stabile fosse «sì pazzamente stimata che per antonomasia proprietario è il possessore di beni fondi», e scherniva le «belle tradizioni castigliane» che i Toscani dell’Ottocento continuavano1262 . In Lombardia, nel ’37 il Cattaneo constatava che «moltissimi dei commercianti stessi non hanno quasi stima del commerciante se non in quanto non sia commerciante», e cioè possedesse terre o case, radicatissimo pregiudizio, per cui anticipi di credito venivano ottenuti soltanto da colui che aveva qualcosa al sole1263 ; e ancora nel 1855 uno dei propugnatori del rinnovamento economico, il Frattini, doveva constatare che lo spirito del proprietario terriero, con la sua prudenza e cautela, dominava tuttavia, rinvenendone anch’egli, come il Salvagnoli, una delle cause in «quella specie di obbrobrio in cui l’ignoranza castigliana tenne per alcuni secoli quelli che si dedicavano a speculazioni commerciali»1264 . Del che, in effetti, eran prova,

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in Piemonte, le diffidenze e le cattive voci contro il Cavour, uomo d’affari e giocatore in borsa, e cioè venuto meno alla tradizione del suo ceto. E già per un Ricasoli l’agricoltura era tutt’altro che il surrogato forzoso della politica; e anzi, costretto poi a darsi alla politica, contrariamente al Cavour1265 ne sentì sempre con fastidio il peso, sognando in cuor suo Brolio e i suoi vigneti e quelle plaghe solitarie ed inospiti «con cui l’animo mio si pone senz’altro in piena rispondenza di pensiero e di affetto, lasciando la cura al mio accorto animale di posare piede in terra, per vivere a conto mio negli spazi senza confine delle memorie, e della immaginazione, finché dopo quattro o cinque ore di un lungo viaggio spirituale, quello fisico trova confine e mèta nella porta della casa cui io mi ero diretto»1266 . Che se poi si trascorresse ad altri dei moderati, soprattutto ai Toscani, allora il divario col Cavour appariva veramente in luce solare1267 : nei Capponi e amici, nella «Chiesa dei Capponi»1268 , la passione per la terra era esclusiva e tendeva a contrapporre agricoltura ed industria, di quest’ultima additando bensì le opere gigantesche e le officine poderose, ma anche i grossi guai e pericoli, ch’erano soprattutto di carattere morale e sociale. I troppo rapidi progressi meccanici, cioè dell’industria, sconvolgevano troppo subitamente, apportavano disordini e inquietudini, creavano la miseria. Costantemente mosso da preoccupazioni morali, Gino Capponi vedeva nell’operaio la semplice macchina, il braccio senza mente, mentre nell’agricoltore mente e braccio andavano congiunti; cieco il lavoro del primo, sempre intelligente quello del secondo. E, continuando nel raffronto, richiamava i suoi amici alle «pitture lacrimevoli della condizione disperata, in cui per rapide vicende è posto gran numero di manifattori in que’ paesi, dove le opere gigantesche e le officine poderose ... stanno accaparrate in pochi», alle «mani alzate verso il cielo», mani armate contro il fratello; e vede-

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va il mondo industriale, creazione nuova, cercare faticosamente il suo equilibrio, cercar di istituire «una società somigliante a quella che l’agricoltura, arte coeva del primo umano incivilimento, compose da tempo antico tra il proprietario e il lavoratore»1269 . La servitù del telaio generava la guerra servile, sfociava nell’urlo della passione, nella «romba di vicina tempesta» che spaventava ormai tutta l’Europa; la mezzadria, gran vanto dell’agricoltura, era il modo di spegner l’odio pronto a diventar furore1270 . La macchina, voleva dire uno strascico di miserie umane1271 ; carattere «grande e terribile, immenso in bene e in male»1272 del secolo, era progresso estrinseco e materiale, che abbrutiva l’anima anziché innalzarla a Dio come faceva la campagna aperta; e il sarcasmo leopardiano sulle ferrate vie e i molteplici commerci e le macchine al cielo emulatrici trovava larga eco anche in chi rifiutava il suo pessimismo cosmico e cercava invece rifugio in un rinnovato fervore religioso e morale1273 . Che era questa nuova educazione, eguale per tutti, avviata a produrre una generazione d’artefici? si chiedeva Gino Capponi1274 . Il popolo macchina, quest’era il supremo voto dei politici e il pensiero di quei filosofi che più si chiamavano progressivi: «edera forse questa la libertà che i padri nostri volevano, per la quale contendevano?». L’industria era lo studio, la gloria, l’arma dei tempi, «il sacerdozio d’un secolo che ha per divinità il danaro»: dove le accuse consuete contro il materialismo e il basso animo del secolo salivano su, su, dagli uomini contro la macchina e contro il progresso tecnico. Meccanico, voleva dire senz’anima, e fu spregiativo1275 . Quella che era la potente molla dello sviluppo industriale, produrre, produrre sempre di più, non accontentandosi delle richieste tradizionali del mercato, anzi eccitando nuove richieste, e creando nuovi mercati; questo soffio di poesia della grande industria moderna, che già allora induceva il Cattaneo a parlar di arte per la vita

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civile1276 , e che molti decenni più tardi avrebbe trovatola sua apoteosi in un Ford, spaventava: «ciò solo che oggi si cerca e si vuole è il produrre: ma questa produrre già vince il bisogno soprattutto in Inghilterra e in Francia, e quindi già una cosa contraria alla natura stessa dell’industria e delle arti»1277 . Perciò, si innovasse tecnicamente nell’agricoltura, ma si conservasse al primo posto l’agricoltura, si conservasse la tradizione paesana, ormai rurale, e niente o quasi manifatturiera: ch’era poi anche l’unico modo di servire la causa della civiltà, della moralità, della agiatezza nazionale, come chela mezzadria fosse retaggio d’inveterati costumi, causa di non grande ma generale agiatezza, pegno di cristiana carità e di civile progresso, quasi congenita e inseparabile condizione di nazionale carattere1278 . L’agricoltura «miglioratrice»1279 . Il problema, da economicosociale diveniva politico-morale; il conservatorismo economico faceva tutt’uno con il conservatorismo politico, e la paura dell’industria diveniva paura delle masse operaie. Quanto sostanziali potessero essere i contrasti di vedute complessive anche fra uomini che si ritrovavano poi d’accordo nel propugnare migliorie tecniche e maggior produttività, dimostravano le discussioni dei Georgofili toscani, fra il 1833 e il 1834, e il contrasto fra Gino Capponi, grande ammiratore di Pietro Leopoldo e delle sue riforme agrarie, convinto della primazia dell’agricoltura, e il Salvagnoli, il quale, andando oltre il problema specifico della mezzadria, voleva si studiasse anzitutto la condizione della proprietà terriera di fronte a industria e commercio e deplorava che la Toscana, prima manifatturiera e commerciante, si fosse poi prostrata sulla terra come a idolo, sacrificandole tutti i capitali e l’attività industriale «e quando si scuote dalla superstizione geofila, non trova più capitali mobili, non più manifatture, non più commercio, e va nel mercato universale a recar ma-

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gre spighe o poche bacche di olivo, mentre i concorrenti recano ogni maniera di prodotti»1280 . Dallo stato d’animo dei conservativi sgorgava così la celebrazione dell’agricoltura come della grande educatrice morale, della terra madre di virtù familiari e civiche, sola arra sicura di un progresso tranquillo e regolare. Qui si era in tutt’altro mondo da quello di un Cavour e di un Cattaneo; e che le giovani generazioni propendessero ormai per la macchina nulla toglieva al fatto che tra i vecchi, ma non solo tra essi, i più rimanessero ancora avvinti ai secolari ideali di vita. La natura riconduceva l’uomo a Dio; l’officina, lo rendeva ateo: non casualmente, i grandi esaltatori dell’agricoltura auspicarono anche, tutti, un rinnovato fervore religioso, onde natura e Dio, lavoro dei campi fede educazione morale del popolo si confusero in un solo sentire. Anche nel Minghetti, quest’altro agricoltore, l’agricoltore si fondeva col credente seppure con minor pathos che non nel Ricasoli; e come l’economia pubblica alla morale e al diritto, così l’industria egli voleva subordinata «alle buone leggi, alle buone istituzioni, all’istruzione, alla educazione, alla religione»1281 . Cavour ammirava il Bentham e il suo utilitarismo; Minghetti lo riprovava1282 . E se i matti, come diceva il Lambruschini, stavano nelle città e occorrevano i savi del contado a tenerli a posto, non era forse prova sufficiente, questa, che la meccanica volgeva a male l’animo, mentre la terra lo manteneva nei sani precetti della vita cristiana? Il tanto discusso problema dei rapporti fra economia e morale, fra progresso tecnico e progresso spirituale, trovava il suo pieno concretamento nelle discussioni sull’agricoltura e l’industria, sul potere educativo della prima e sul deprimente influsso morale della seconda: l’uno e l’altro erano due momenti formalmente distinti, sostanzialmente identici, di un solo atteggiamento di fronte ai

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grossi quesiti che la civiltà moderna stava sollevando e che andavano ben oltre il puro fatto politico. Corroborava un siffatto stato d’animo la tradizione culturale umanistica, che dominava ancora l’Italia dell’Ottocento, parlando con i suoi accenti di antica saggezza; ed era la saggezza classica, e quindi, appunto, non l’esaltazione dell’invenzione meccanica, bensì dell’opera d’arte e della bellezza della natura. Dalle Georgiche virgiliane giù giù le lodi della vita rustica avevano tenuto il campo, laddove la fatica del mercatore affannantesi pel mondo dietro la sua mercanzia non era mai assurta a dignità di esempio di vita, nemmeno nel periodo in cui le città italiane erano state commercio e manifattura; onde, nella stessa Firenze quattrocentesca, Leon Battista Alberti aveva fatto esaltare da Gianozzo e Lionardo il vivere in villa, «in aere cristallina, in paese lieto, per tutto bello occhio ... sano et puro ogni cosa», orazianamente lontani dal travaglio delle altre faccende «in comperare cura, in condurre paura, in serbare pericolo, in vendere sollicitudine, in credere sospecto, in ritrarre fatica, nel commutare inganno». La villa sola era «conoscente, gratiosa, fidata, veridica»1283 , opera «de’ veri buoni uomini et giusti massari», tutta diletto e serenità, niuna invidia, niuno odio, niuna malevolenza. Risuonavano ancora e sempre simili accenti, financo in bocca al fiero Ricasoli, al quale la quiete agreste sembrava «quiete vigorosa ed elevata perché è l’effetto di un inalzamento del nostro spirito, come se si ritraesse da una specie di prostrazione in cui fosse giaciuto fino allora. Quante sono mai le cose che ci diventano indifferenti, o non le degnamo d’un pensiero, che nella città ci angustiano sdegnandoci!»1284 . Ora, questa tradizione culturale dove le alte mura di Roma e gli archi antichi e gli eroi mitologici s’alternavano con i quadretti di vita campestre, imperava tuttavia. Manzoni se n’era staccato, Manzoni che, non a caso, metteva innanzi l’economia sociale a fondamento di ogni al-

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tro studio1285 . Ma Carducci l’aveva ripresa, proprio negli anni di che discorriamo: Carducci, che trovò le note alte della sua poesia più ancora che nei grandi affreschi storici, nell’abbandono alla voce della natura. Ancora a lui il silenzio verde del piano e il biondeggiar delle spighe e il trifoglio rosso su’ declivi dei prati infondevano pace e gioia nell’anima; né destavano il suo genio i bagliori delle fonderie, avvampanti nelle tenebre, che sollecitavano allora la musa di Walt Whitman, e nei suoi canti che più colpirono per l’audacia di contenuto e parvero rompere con lo stile classico, la massima modernità fu la vaporiera dal fischio flebile, acuto, stridulo, i carri foschi, il nero convoglio, il «mostro», l’empio mostro dall’anima metallica. Ma era cosa straordinaria, come indicava già solo il termine classico, e cosa che recava dolore al poeta sia che gli portasse via Lidia, sia che lo strappasse ai cipressi di Bòlgheri; e anche quando al bello e orribile mostro s’alzasse il saluto del poeta, come a Satana il grande1286 e il vapore, anelando nuove industrie in corsa per l’Umbria verde, dicesse il risorger dell’anima umana dopo i foschi giorni del dissolvimento cristiano, anche allora erano rapide fugaci apparizioni, e, soprattutto, semplice mezzo per celebrare ancora la settecentesca forza vindice della ragione. Nulla dell’esaltazione attivistica dell’americano, al quale la potenza del vapore, le grandi e celeri linee, il gas, il petrolio, la terra diventata una rete di rotaie di ferro gonfiavano il petto d’orgoglio: ed egli invitava le Muse ad abbandonare Grecia, Italia, Europa, per cercar un mondo migliore più nuovo e più affaccendato, a lasciar cadere le favole su Troia e i castelli medievali per cantare l’industria, il frastuono del meccanismo, gli acquedotti i gasometri i concimi artificiali. Due poeti e due mondi, l’uno cantore di una civiltà industriale in potente sviluppo, l’altro, poeta di un mondo ancor legato alla terra madre di bionde messi e nutrice di familiari virtù1287 .

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E già il Carducci passava per mezzo eretico e scandalizzava! A voler esser liberi e pronti ad accogliere tutte le voci del mondo moderno bisognava essere come il Cavour, lontano dalla tradizione culturale italiana, talora, come un Guicciardini per il ballo, anch’egli rammaricantesi di non aver appreso bene le lettere, ma generalmente indifferente e fin disdegnoso dei letterati e della letteratura, incurante del lavoro da tornitore e cioè della rifinitura stilistica, tutto preso dall’economia e dalla politica, e convinto di essere adatto soltanto alle discussioni di puro ragionamento1288 . Per la tradizione umanistica italiana, Cavour era un eretico: e che altro potevasi dire di un uomo il quale, recatosi a vedere la tomba di Romeo e Giulietta la battezzava «un abbeveratoio di buoi al quale si è dato un nome pomposo», o rinunziava ad annotare le sue impressioni su Venezia perché «l’ultima delle guide di viaggio basterà a farmi ricordare le cose viste in questa città», o dichiarava di non annettere grande importanza ai ricordi classici in sé?1289 Ma già l’eclettico Minghetti, pur largamente aperto ai problemi del suo tempo, pur capace di ammirare i ritrovati della scienza e dell’industria, già il Minghetti restava ancorato alle vecchie tradizioni; umanista di garbo scrittore di cose d’arte, oratore tornitissimo a differenza del Cavour, non fu mai sciolto dalla reverenza per il classico – e nel classico c’era la terra, non la macchina – e non s’abbandonò mai del tutto alla esaltazione per la febbrile attività moderna, com’era successo al Cavour e succedeva alSella1290 , né all’esaltazione della scienza come della nuova divini; anzi ne riaffermò nettamente i limiti e, al par di un Lambruschini e di un Capponi, le ripose di contro la necessità della vita interióré dell’uomo, che era poi sentimento religioso1291 . Il positivismo, certo, stava per irrompere anche nella cultura italiana, portandovi un soffio nuovo, spezzando vecchi schemi e aprendo così – nonostante tutte le sue

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debolezze speculative– più larghi spazi a quella cultura: non dovevano trascorrer molti anni, e c’era chi osservava che, come una volta non accadeva d’udire un discorso senza il pericolo d’imbattersi nella tela di Penelope, nella spada di Damocle, nel masso di Sisifo, così, ora non si poteva più evitare il pericolo di incespicare nella evoluzione, nella selezione naturale, nello struggle for life1292 . Oppure, a promuovere un referendum sulle letture preferite, c’era da veder Spencer e Darwin scavalcare quasi tutti gli antichi dei dell’Olimpo letterario, solo soggiacendo all’immensa autorità di Dante, della Bibbia e di Shakespeare1293 . Ma, tuttoché al suo tramonto, l’antica cultura combatteva ancora. Il culto del «bello ideale» e del «bello morale» fu contrapposto, così, all’industrialismo e al materialismo; il passato, con le sue virtù umane e la sua finezza culturale al sormontare attuale della volgarità e della rozzezza1294 ; lo stile eletto alla brutalità degli appetiti scatenati: e ne derivarono le discussioni in cui il tema dei rapporti fra progresso tecnico e progresso morale assunse questa altra forma, della difesa del bello letterario quale correttivo alle tendenze materialistiche del secolo. Il bello letterario salvava il bello morale, altrimenti minacciato di morte1295 «la bellezza è il più alto salire della natura e dell’umano intelletto, e vi trovo il più grande argomento contro tutto ciò che tende a materializzare questa o quello»1296 . E le polemiche sull’insegnamento, così vive allora e poi, fra coloro che reclamavano maggiore praticità, maggiore modernità e meno classicismo1297 , e coloro che insistevano invece sulla assoluta necessità di tener fede alla tradizione umanistica, superiore essendo il «merito morale» delle lettere e delle arti1298 , furono ancora un riverbero di un più generale contrasto, in cui mondo vecchio e mondo nuovo si combattevano ovunque. Amore della cultura classica, amore del bello secondo la tradizione, vagheggiamento dell’artista come staccato dalle misere lotte ter-

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rene e risanatore, con le sue immagini, di quelle lotte, fecero tutt’uno, nei conservatori italiani ed europei, con la riluttanza alla civiltà moderna, razionale e industriale, di masse e non più di singoli1299 . Amor della tradizione, dunque; e, come già ai tempi del Burke e del Cuoco, vi si fondava su il conservatorismo che, nell’esaltare le tradizioni e cioè le caratteristiche dei singoli paesi, ripudiava la metafisica rivoluzionaria, l’ideale della politica essendo non un’astrazione generica, ma un dato ordine di istituzioni che conviene ad un dato luogo e ad un dato tempo. Lo ripeteva, ora, il Minghetti, che di quella vecchia metafisica rivoluzionaria affermava sfatate completamente le grandi e generiche affermazioni, sovranità popolare, uguaglianza non solo civile ma anche politica di tutti, infallibilità del numero, e via dicendo1300 . La tradizione: e bisognava esser ben fermi ora nel proteggerla contro il rigurgito gonfio e minaccioso della plebe «corrotta e violenta», che era cosa ben diversa dal vero e pacifico popolo1301 . Lotta di classe, diritti del proletariato: questi e simili motti di guerra davano corpulenta e massiccia forma ai timori generici, indirizzavano contro un movimento preciso, che non era più il romanticismo sociale di assai incerto e sentimentale tono1302 , ma la dura e serrata polemica marxistica o il moto perpetuo rivoluzionario di stampo bakuniniano. Il volgo si muoveva: e tornavano alla mente le agitazioni di piazza, tanto esecrate dai moderati dopo che proprio il ’48 aveva dimostrato come, una volta accesa la miccia, non si potesse più sapere dove e con quanta forza l’esplosione avvenisse; le dimostrazioni, che, a trovarcisi di fronte anche all’estero, il sangue bolliva per l’ira al Ricasoli, pensando «a che ci hanno condotto, noi Italiani, quelle dimostrazioni, in prima spontanee, poi divenute mezzi d’iniquità»1303 . La plebe corrotta, significava la congrega dei comunisti che avevano già fatto tutte le ripartizioni delle proprie-

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tà, prima ancora di averle occupate1304 ; il popolo in piazza era «sempre cattiva cosa»1305 e voleva dire Pellegrino Rossi assassinato1306 , o, almeno, Lambruschini braccato dai Livornesi a San Cerbone e costretto a star fuori casa mentre «que’ masnadieri» scalavano il muro dell’orto1307 . Era il giacobinismo, la demagogia, la sopraffazione di chi schiamazza su chi pensa, le vie leali abbandonate, mentre la libertà significava, anzitutto, rispetto della legalità; era scambiare ogni furor di plebe per volontà di popolo e chiamar popolo ogni turba che passasse per le strade e soverchiasse i poteri legittimi; era tutto ciò, insomma, che ripugnava al pensiero liberale almeno quanto gli ripugnava l’arbitrio di uno solo1308 . La ferocia dei volghi, armata di odio e di rancore, s’avventava contro la libertà come una nera tempesta1309 . Nei tumulti e fra le violenze non potevano trionfare i princìpi dei moderati, che erano princìpi di ragione; tranquillo sviluppo delle riforme, sì, ma niente rivoluzioni, quest’era sempre stato, era tuttora il programma dei moderati1310 , o il bosco di Marco Minghetti, a Settefonti, tagliato e portato via1311 , ma ormai non più di essi soltanto, come che anche la Sinistra, conseguita l’unità e Roma capitale, di rivoluzioni non volesse più sentir parlare e considerasse chiusa la fase dell’azione diretta. Perciò, era naturale la ritrosia a concedere il diritto elettorale alle masse. Noi puri, noi savi, pensavano veramente gli uomini della Destra, e a renderli ostili a che nella vita pubblica penetrassero larghi strati nuovi di elettori, non erano solo le preoccupazioni di partito, vale a dire la paura di esser sbalzati di seggio e di dover soggiacere, nella contesa elettorale, a partiti non logorati dal peso del potere e quindi più freschi di energie e più popolari. C’era il partito, ma c’era anche qualcosa di più: precisamente, il timore dell’ignoto, di un pericolo grosso e oscuro a cui s’andava incontro, senza poterne misurare nemmeno tutta l’estensione. «Nella affannosa previ-

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sione di futuri mali» l’animo sbigottiva e si rifugiava, ancora una volta, nel grido «Iddio protegga l’Italia», quasi disperando degli uomini1312 . Ma anche nei più ottimisti, l’avvenire appariva fosco; il Minghetti che, come tutti i moderati europei, vedeva nel suffragio universale un male, e difendeva il censo come criterio elettorale, in quanto rappresentava non solo la proprietà «ma il lavoro, il risparmio, la operosità, la previdenza», si sentiva anch’egli «molto pauroso» per gli effetti della legge elettorale e temeva giorni tristi per la patria minacciata di disordine, confusione, immoralità, avvilimento1313 . Il Visconti Venosta, a sua volta, vedeva nella legge elettorale del 1881 una «enorme avventura»1314 : che era l’espressione più consona a definire lo stato d’animo di quegli uomini e diceva qualcosa di più del timore, pur chiaramente confessato, di un trionfo dei radicali nelle future elezioni. E il Sella, che anche lui aveva battezzato di politica delle avventure quella del suffragio universale, già parecchi anni innanzi1315 , il Sella deplorava che senza necessità «fuorché quella di una gara pazza di apparente liberalismo» ci si fosse lanciati in una grande incognita, allargando d’un tratto il suffraggio1316 . Gara pazza di apparente liberalismo; la deplorava anche Pasquale Villari, sdegnato che taluni moderati, all’ultima ora, per non farsi battere troppo apertamente, avessero addirittura proposto il suffragio universale, non voluto né dal Depretis, né dallo Zanardelli, rassegnandosi «a dare il paese in mano di quelle moltitudini, prima di levarle dal loro abbrutimento, prima di calmare i loro odii», così che i liberali morivano «come retrogradi, e ... avendo l’aria di fare i faziosi per non morire»1317 . Uomini di Destra, conservatori? Sì; ma il timore che le cose andassero a rotoli per effetto dell’allargamento del suffragio s’affacciò anche nell’animo di uomini della Sinistra, i quali pure di quella legge erano stati artefici; e proprio il Depretis, come finemente gli aveva predetto

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il Minghetti, proprio il Depretis ebbe a spaventarsi delle conseguenze, a temere che la partecipazione dei «nuovi strati sociali» avesse per logica conseguenza un profondo sovvertimento nelle istituzioni, onde, al dir di chi lo conobbe bene, egli pose da allora in poi ogni cura nel provvedere ai ripari, opponendo robusti argini alle paventate fiumane1318 . Di qui il trasformismo, cioè la ricerca di una maggioranza parlamentare, di centro, ottenuta corrodendo i partiti come tali, manovrando sugli uomini e attraverso gli uomini, sostituendo alle opposizioni di principio il problema tattico del momento per momento; e poiché la fiumana spaventava Minghetti come Depretis, l’appoggio dato dallo statista bolognese all’uomo di Stradella, per far argine alla «demagogia invadente»1319 , e il suo andar oltre le prevenzioni di molti dell’antica Destra, per parare al pericolo incombente1320 . Unica via di salvezza, onde non essere travolti dal torrente repubblicano o socialista, l’unione di tutti gli amici delle attuali istituzioni1321 : dunque, il trasformismo, con cui il Depretis riuscì a tradurre abilmente in pratica quel che già altri, di Destra, aveva pensato e tentato, giacché gli sforzi del Sella per metter su un ministero con Nicotera e la Sinistra moderata, tra giugno e luglio del ’79 e nuovamente nell’aprile dell’81, significavano bene trasformismo in anticipo1322 , tentativo di creare cavourianamente una base di centro superando i classici schemi di Destra e di Sinistra1323 . Più tardi, di fronte al pieno affermarsi del socialismo anche altri uomini della Sinistra, tenaci fautori della legge elettorale dell’81 e avversi al trasformismo, finirono anch’essi col chiedersi se non avessero a pentirsi «di avere allargato il suffragio popolare prima di aver educato le plebi. Abbiamo dato un’arma pericolosa in mano a coloro che non sanno servirsene, preparato il disordine morale e la corruzione»1324 .

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Timore delle masse, avversione decisa ad accettare divisioni in blocchi contrapposti e appello agli individui, ai singoli, appunto per impedire le contrapposizioni rigide, caratterizzavano già l’agire politico del ceto dirigente. A più forte ragione, quelle esigenze dovevano farsi valere nei rispetti sociali. Perché qui poi, a volere affrontare il problema come problema di struttura, e cioè ammettendo la divisione per classi, si sarebbe dovuto forzatamente far intervenire lo Stato: e se lo Stato interveniva nei rapporti economici e sociali, legiferava, limitava, costringeva, non era questa una flagrante, totale contraddizione con la libertà dei singoli, vale a dire col principio base della libertà? Lo Stato: garante dell’ordine, della tranquillità, della sicurezza di tutti e di ciascuno, ma non coartatore della volontà e degli interessi dei singoli. A fondamento dell’idea ottocentesca di libertà stava sempre l’individualismo che Benjamin Constant aveva fortemente accentuato, rinnegando perfino il vecchio mito, tanto caro al Montesquieu, della antica libertà greca1325 ; e già s’era in allarme per la crescente invadenza dello Stato, per il moltiplicarsi delle sue funzioni, per il suo penetrare a poco a poco negli orti chiusi delle varie attività umane, e già era desta la diffidenza contro la «statolatria», spesso rimproverata anche dai loro compagni di parte e, più, dagli avversari agli Spaventa e ai Sella1326 . Si trattasse del riscatto delle ferrovie, e dell’esercizio statale di esse che parve la negazione dei princìpi liberali, e condusse in effetti alla crisi parlamentare in seno alla stessa Destra; si trattasse dell’istituzione delle casse di risparmio postali, battezzata un’indebita ingerenza dello Stato nel campo economico, una nuova prova del funesto progresso di idee che conducevano a sempre più larghi interventi governativi laddove avrebbe dovuto regnare, sovrana, la libertà1327 ; si trattasse della stessa obbligatorietà dell’istruzione elementare, contro cui si levarono voci a reclamar per i padri la libertà di mandare o no i

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propri figli a scuola1328 , l’avversione allo Stato regolatore era profonda. L’interesse sociale limitante la libertà del singolo: questa era una mostruosità dei «novatori», perché nessuno avrebbe altrimenti ammesso che la società potesse dire ad un proprietario che lasciasse incoltivato un suo podere ... «tu devi coltivare quelle prode, vuotare quelle fosse, incanalare quelle acque, affinché una parte della ricchezza nazionale non sia deteriorata, se no, andrai soggetto a pene pecuniare, e, se occorra, anche alla prigione»1329 . La libertà voleva dire sempre, il diritto per ognuno «di dire la propria opinione, di scegliere il proprio lavoro e di esercitarlo; di disporre della sua proprietà, di abusarne perfino; di andare e venire, senza chieder permessi, e senza render conto dei propri motivi o delle proprie iniziative»1330 . Ancora ci si appellava all’esempio del Cavour, ostilissimo a qualsiasi intervento pubblico nella vita economica, tanto da schierarsi perfino contro i poderi modello1331 ; ancora s’aveva dinanzi agli occhi quell’Associazione Agraria Subalpina, ch’era stata, forse, il teatro dei maggiori trionfi dello spirito liberista in Italia1332 . Ed ecco, si chiedeva allo Stato di intervenire anche nella vita economico-sociale, con leggi protettive, assistenziali o che di simile: massima lesione ai principi della libertà individuale, al sacro diritto di proprietà. Dove s’andava, mettendosi su di una tal via? S’andava difilato al socialismo e al comunismo, di cui la statalizzazione non sarebbe stata che l’avvio. Lo Stato, doveva rimanere quello della Dichiarazione dei diritti del 27 agosto 1789; e non esorbitasse dai suoi limiti di tutela e di garanzia giuridica1333 : fosse caserma delle truppe per la difesa della patria, caserma dei carabinieri per la tutela dell’ordine pubblico; ma guai a volere che tutto divenisse caserma! L’intervento dello Stato al posto dell’iniziativa privata, era the coming slavery, diceva Spencer; e i moderati italiani, anche se non posi-

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tivisti, la pensavano come lui «che si parla di accrescere le ingerenze dello Stato? Che lo Stato, limitato al suo legittimo ufficio di regolatore dei servizi generali veri, non ha esso un’opera immensa, complessa da compiere? ... Le ingerenze che si sono date allo Stato e gli si vogliono dare fuori della ragione di sua esistenza, sono deleterie prima per lo Stato, poi pei singoli cittadini»1334 . Perciò, l’intervento dello Stato nelle questioni sociali, sia pure in forme che sembrerebbero oggi blandissime, trovò fierissimi e tenaci oppositori; l’impero germanico, che per la sua legislazione sociale poté essere battezzato addirittura impero socialista, apparve non già prototipo di libertà, secondo il detto della Sinistra nel 1870, anzi a parecchi dei moderati, prototipo dell’autoritarismo nell’Europa contemporanea, un autoritarismo che tentava di compensare al popolo la privazione della libertà con la elemosina imperiale del benessere1335 . I fedeli del verbo di Cavour vedevano contrapporsi ad esso «una specie di Statolatria alla Bismarck, che ora appare come Socialismo dello Stato, ora come tirannia dello Stato sulla Chiesa»1336 : nel che la diffidenza politica verso lo «spirito di conquista» del Bismarck e il suo anti-parlamentarismo si rivelava per quel che era in realtà, e cioè elemento di un’opposizione più complessa e radicale che contrapponeva due mondi. Polemizzando contro il socialismo della cattedra, i professori tedeschi e i loro primi seguaci italiani, Francesco Ferrara esclamava anch’egli «ci si è spento il senso della libertà, che direbbesi seppellito insieme alla salma di quel Cavour, il quale lo aveva eccitato sì bene, e sorretto, e lasciato a’ suoi posteri qual sacro voto da sciogliere»1337 . Nel confronto, era già un mezzo socialista il Minghetti che propugnava almeno la «teorica media», alla Romagnoli: conservar sempre l’iniziativa individuale, ma leggi sociali per il lavoro delle donne e dei fanciulli anzitutto, vero e unico modo d’intervento dello Stato al quale incombeva il dovere della tutela e del soccorso1338 .

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Rimedio naturale e massimo ai mali sociali appariva perciò sempre l’azione dei singoli, la beneficenza, la carità, l’esempio dato dalla persona di alto lignaggio che stendeva la mano pietosa ai miseri e li aiutava moralmente e materialmente ad uscir dai loro tormenti. Ancora sempre le istituzioni filantropiche come nel Piemonte carloalbertino, la marchesa di Barolo il canonico Cottolengo don Giovanni Bosco1339 ; e vale a dire, con rinnovato fervore; l’opera di assistenza sociale inaugurata e insegnata dalla Controriforma, San Filippo Neri e San Camillo de Lellis, le Case di Misericordia gli ospizi gli orfanotrofi le Opere per le Convertite, le regole per ben servire gli infermi e «l’affetto materno verso il suo prossimo acciò possiamo servirli con ogni charità così dell’anima, come del corpo»1340 . Tant’è, che taluno, ricercando i mezzi per opporsi alla terribile minaccia dei rossi e propugnando, appunto, la carità, suggeriva di esercitarla possibilmente a mezzo del clero «e così il popolo lo riconoscerà non solamente come un consolatore spirituale ma anche come un benefattore materiale»1341 . La carità, nome sacro, divino, indisputabile, incorruttibile, traente tutti i cristiani ad unanimità teorica, aveva detto Cesare Balbo, per il quale il più bel libro che si potesse scrivere sarebbe stato una Storia della Carità1342 , proprio mentre stava nuovamente trionfando la «carità col Cristianesimo», sulle rovine di quegli altri nomi, di filantropia, socialismo, sentimento sociale, umanitario, che avevan voluto surrogarsi alla cristiana carità1343 . Unica nota nuova, nei progressivi di allora, nota laica e tipica del periodo, l’appello oltre che alla beneficenza, alla scuola «la fonte più bella ed efficace per incivilire e educare le plebi bisognose, sollevarle, procacciare pane e decoro» e scaldare il cuore di nobili affetti1344 . La stessa fede nell’istruzione che ispirava gli alti disdegni e i fieri propositi contro il Vaticano, ispirò anche il convincimento di porre rimedio alla questione sociale

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mediante il libro, che avrebbe dovuto essere quindi il vittorioso debellatore del pericolo rosso e del pericolo nero: e non sempre giovava che qualcuno ammonisse, prima si migliorino le condizioni economiche del popolo e poi si parli dell’istruzione, difficile essendo esigere la virtù di andare a scuola in chi campa di stenti1345 . Tale, dunque, nel suo complesso l’atteggiamento del ceto dirigente italiano. Di contro, le affermazioni dei ribelli: lotta di classe, diritti del proletariato, guerra contro la società nella sua attuale struttura. III La libertà e la legge I sovversivi apparivano dunque la genìa d’iniquità; e mentre sin verso il 1870 il termine era servito ad indicare i mazziniani e talora anche l’estremo opposto, cioè i legittimisti e i clericali1346 coloro cioè che intendevano metter sossopra l’ordine politico, ora cominciava a designare anche questa nuova setta, che avrebbe addirittura voluto sovvertire l’ordine sociale. Continuarono le preoccupazioni per la propaganda repubblicana; ma cominciarono le preoccupazioni per la propaganda rossa, che già tentava d’insinuarsi nell’esercito1347 e talvolta addirittura nell’arma fedelissima dei reali carabinieri1348 . Il caso Barsanti, nel marzo del 1870, aveva costituito un brusco campanello d’allarme per gli alti comandi1349 : e si trattava, ancora, di un moto repubblicano. Ma gli anni appresso furono Andrea Costa, Errico Malatesta, Carlo Cafiero, Tito Zanardelli a tener desta l’attenzione delle autorità, politiche e militari, in attivo carteggio fra di loro per segnalare i sospetti1350 . Ora, a richiamar seriamente l’attenzione su questi più pericolosi sovversivi furono, ancora una volta, gli avvenimenti di Francia. Le manifestazioni di disagio popola-

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re, non infrequenti ormai dal 1860, la stessa rivolta dei contadini tra, la fine di dicembre del ’68 e il gennaio del ’69, erano ancora state esplosioni di miseria e di reazione contro provvedimenti specifici, soprattutto contro la tassa sul macinato1351 : e nell’ultima soprattutto a fomentare la rivolta era stata, assai più dell’estrema sinistra, l’estrema destra, il clero. Qualche preoccupazione c’era già, senza dubbio. Negli stessi tumulti di Milano, il 24 luglio 1870, e di Genova il 3 e il 4 agosto, che avevano messo in allarme i conservatori, pronti a rinfacciare al governo la sua debolezza e inerzia, si era notata la «strana concomitanza» di un movimento politico con uno sociale, di un tentativo repubblicano e di un tentativo contro la proprietà1352 . A Napoli, il governo aveva dovuto constatare come la sezione dell’Internazionale all’inizio del ’70 contasse buon numero d’iscritti; si era trovato di fronte ad uno sciopero, quello dei pellettieri, apertamente sostenuto dagli internazionali, e aveva dovuto procedere a perquisizioni e arresti1353 . Che qualche preoccupazione fosse già allora negli uomini di governo, dimostrava l’incarico dato al Nigra; prima che scoppiasse la guerra, di trasmettere i rendiconti del processo che si svolgeva, innanzi il tribunale correzionale di Parigi, contro un considerevole numero di membri dell’Internazionale1354 . Iniziato il conflitto franco-prussiano, i timori avevano però ripreso altra forma, più consona saremmo per dire alle antiche tradizioni. Che dai casi di Francia potessero derivare ripercussioni spiacevoli nella penisola, quest’era stato infatti temuto, sin dall’inizio, dai moderati, e previsto dalle autorità che avevano dato mano a misure preventive1355 . Ma erano stati esclusivamente timori di possibili tentativi repubblicani, ai quali avrebbe anche potuto non mancare segreto appoggio bismarckiano1356 : «se l’Impero di Napoleone è indebolito o fiaccato, quel partito, che ha fatto le rivol-

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te militari di Pavia e Piacenza, la sedizione di Milano e le barricate di Genova, leverà assai più il capo, e ripeterà sul serio l’opera sinora buffa ... Le bande repubblicane si moltiplicheranno ... La monarchia italiana ha posto, più che non si crede e si vuole, le sue fondamenta sull’Impero francese; e scosso questo, non sarebbe già messa a un pericolo, da cui non si potesse salvare, ma certo avrebbe bisogno di guardare molto a sé medesima»1357 . I timori, dunque, che dopo il 4 settembre parigino inducevano il re e il Lanza a metter da parte ogni dubbio e ad ordinare alle truppe italiane di marciare su Roma. Ed ecco invece, superato il periodo critico da tal punto di vista, ecco sopravvenire, nella primavera del ’71, le notizie sulla Comune di Parigi. A distanza di tempo, non è stato difficile vedere che il movimento scoppiato il 18 marzo 1871 nella capitale francese non era, in realtà, un movimento propriamente sociale, almeno nella prima fase, e scorgere le cause molteplici, generali e particolari, durature e occasionali, che vi diedero l’avvio: soprattutto, la ribellione del senso nazionale repubblicano municipale dei parigini, esacerbato dalla sconfitta e dalle sofferenze dell’assedio, offeso dalla arrogante sfilata delle truppe prussiane attraverso i Champs Elisées1358 ulteriormente irritato dalla scelta di Versailles a sede dell’Assemblea e, forse specialmente, irrigidito contro le tendenze monarchiche dell’Assemblea stessa. Ma l’impressione che i contemporanei ebbero, quasi tutti1359 , di quei fatti, fu di un movimento essenzialmente, anzi esclusivamente sociale1360 : e accentuò tale carattere lo stesso governo francese quasi a giustificare, con ciò, la repressione spietata e feroce e a preparare la legislazione repressiva1361 . Sui nostri uomini di governo doveva pur fare impressione profonda il modo reciso con cui il Nigra, loro collaboratore di fiducia e uomo non proclive, in genere, alla eccessiva perentorietà dei giudizi, commentava gli eventi

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sin dall’inizio. Se già il 21 marzo egli segnalava l’opinione prevalente a Parigi, che la molla della sedizione fosse l’Internazíonale1362 , il giorno appresso egli si esprimeva con un esclusivismo in lui assai poco frequente: «ho inteso emettere l’opinione che il movimento di Parigi sia opera di questo o di quel partito politico. È possibile, è anche probabile che i partiti politici tentino di sfruttare a loro pro’ i tristi eventi di cui siamo spettatori. Ma non v’è dubbio a’ miei occhi che il movimento Parigino è opera esclusiva dell’Internazionale e che il suo carattere più spiccato, anzi il carattere determinante è sociale e comunista e nient’altro»1363 . Altre volte, l’assolutezza di un siffatto giudizio venne temperata, e l’opera «esclusiva» si ridusse ad opera «prevalente»: ma sempre, e con insistenza, il diplomatico piemontese tornò sui neri disegni della setta, che vagheggiava la rivoluzione mondiale e lo scombussolamento dell’ordine di cose esistente, politico e sociale1364 . È ben vero che il Nigra affermava non voler egli invogliare a semplici mezzi di polizia, anzi inviare la Notice historique o simili informazioni per consentire «quella spontanea iniziativa di miglioramenti e di possibili concessioni della quale il Governo del Re si mostra in ogni occasione geloso», maggiore essendo l’onore del prevenire che quello del reprimere; vero, dunque, ch’egli assumeva, anche in questo, atteggiamento e tono diverso da quelli del conservatore de Launay, il quale, da Berlino, tuonava contro gli «héros de la fusillade et de l’assassinat»1365 che tenevano Parigi sotto il terrore, facendone il «rendez-vous de la démagogie universelle»1366 , già con tale violenza di linguaggio rendendo palese con quale aborrimento egli, vero nobile savoiardo, vedesse il pericolo d’uno sconvolgimento sociale. Ma, insomma, anche il Nigra riteneva che le dottrine dell’Internazionale, vittoriose in que’ giorni a Parigi, potessero diffondersi con più o meno forza in altre contra-

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de; e a lui, ch’era un uomo d’ordine e il diritto di proprietà aveva scolasticamente difeso svolgendo il tema di economia politica nel concorso per l’accesso alla carriera diplomatica1367 , pericoloso sembrava soprattutto «oltre alla propaganda ordinaria, il ritorno nei loro paesi degli uomini che dopo la dottrina videro già e praticarono l’esempio»1368 . A tale previsione sembravano dar peso gravissimo le cifre fornite dal de Launay, secondo cui l’Internazionale avrebbe contato già 1.200.000 aderenti in Inghilterra e 800.000 in Francia, senza calcolare quelli, pur abbastanza numerosi, di altri paesi e fin della Germania1369 ; davano, certo, gran sostegno di autorità indiscussa le parole che lo stesso Bismarck pur pronto a cogliere nella Comune anche il motivo ragionevole, il vernünftige Kern, della lotta fra centralizzazione e desiderio di autonomie locali, pronunziava al Reichstag, il 2 maggio, nei riguardi de’ fatti di Parigi, contro i repris de justice, i malfattori e i partigiani della repubblica internazionale europea che si erano dato convegno a Parigi e avevano impresso al movimento un carattere «pericoloso per la civiltà»1370 . Che se poi Lanza e Visconti Venosta porgevano orecchio alle voci della stampa, dopo quelle dei diplomatici, anche allora pervenivano loro alti lai e grida d’indignazione: «disordine morale che atterrisce»1371 , provocato dalla Internazionale, che minaccia una barbarie senza riscontro in nessun periodo della storia1372 , determinato non già dalla miseria, sì dall’odio contro le classi elevate, e proprio mentre c’era affettuosa premura in queste «di soccorrere alle vere miserie del povero» con istituti di beneficenza e di previdenza1373 ; pericolo da cui nessun paese poteva ormai dirsi al sicuro1374 , che avrebbe dovuto far seriamente meditare sulla propria imprevidenza coloro i quali nel ’48 si eran beffati dello spettro rosso, mentre invece gli incendi di Parigi erano opera dei continuatori dell’insurrezione del giugno 18481375 ; pericolo momenta-

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neamente sopito dalla vittoria dei Versagliesi, ché di tregua si trattava e non di pace. Non illudiamoci. Siamo in tregua; ma la guerra sociale non è stata resa impossibile. Il torrente minaccia di travolgere la civiltà moderna1376 . Così L’Opinione, l’organo magno degli uomini al governo, su cui Giacomo Dina talora traduceva gli intendimenti degli amici Lanza e Sella, ma di cui talora si serviva per eccitare Lanza e consorti, giornale dunque che parte esprimeva lo stato d’animo dei dirigenti moderati e parte contribuiva a crearlo1377 . E da Milano incalzava La Perseveranza con la sua invettiva del 26 marzo contro la «bordaglia ... immemore d’ogni affetto di patria, pazza di furore, avida di lucri, insofferente di freni, invidiosa, pervertita»1378 ; e la fiorentina Nazione ammoniva esser giunto il fatale momento della nuova barbarie minacciante l’Europa, ad opera dei nuovi Bagaudi, ed esser perciò necessario che i popoli si stringessero attorno ad un gran principio di conservazione e di civiltà, respingendo sotto qualunque forma e pretesto le idee francesi, divenendo antifrancesi per mantenersi civili1379 ; e sulla rubrica della Nuova Antologia Ruggero Bonghi dava ulteriore sfogo al raccapriccio dei benpensanti di fronte al tentativo delle classi operaie di Parigi di Scomporre la gerarchia naturale di tutte le classi sociali, sovvertendo l’ordine «non solo presente, ma essenziale e perpetuo, della società umana»1380 . Né la stampa della Sinistra contraddiceva a simili giudizi. La Riforma, concorde in anticipo con il Bismarck, trovava sì che alla radice dell’insurrezione parigina stava l’eccessiva centralizzazione e la mancanza di libertà de’ municipi1381 , rinveniva dunque anch’essa-un che di ragionevole nel programma della Comune o, come ebbe a dire ancor più tardi, «elementi degni della più alta considerazione»1382 ; ma finiva anch’essa, sulle orme di Mazzini, per condannare il movimento a causa del suo cosmopolitismo rifiutandone nel contempo le dot-

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trine sociali1383 . Assai più deciso, Il Diritto inveiva contro l’anarchia1384 , contro la più sinistra delle lotte interne, la lotta sociale: «sì, lotta sociale; giacché la ribellione di Parigi non può avere altro carattere ... è l’emancipazione del proletariato, è il quarto Stato che scende nell’arena». Una emancipazione che, nel modo con cui si svolge, costituisce una «minaccia alla società»1385 , una «sciagurata anomalia»1386 . Significativo l’imbarazzo dei giornali repubblicani, i quali dovevano finire col trovarsi, assai nolenti, vicini ai conservatori1387 ; più significativo di tutto, agli occhi della parte moderata, che lo stesso Mazzini, il sovversivo di ieri, condannasse la Comune e le sue dottrine1388 . Segno che queste dovevano essere, davvero, cosa abbominevole. Un coro nutrito di imprecazioni e di lai. Non è, quindi, ragion di meraviglia se il governo italiano, al par degli altri, s’insospettisse e preoccupasse; e tanto maggiormente, in quanto la rivolta parigina non costituiva poi, allora, l’unico sintomo dell’attività sovversiva, anzi non era se non il più clamoroso tra vari episodi, ne’ quali avevan parte anche uomini e associazioni d’Italia. Nella stessa Francia, a contorno dei fatti di Parigi, stavano, sempre nel marzo del ’71, quelli di Lione, SaintEtienne, Tolosa, Narbonne, Limoges e soprattutto di Marsiglia; e a’ rapporti preoccupanti del Nigra il ministro degli Esteri poteva aggiungere gli altri dei vari consoli, dal console di Chambéry, il quale sin dal settembre 1870 aveva segnalato come attivissimo il lavorio dell’Internazionale1389 , al console di Marsiglia1390 . Fuori di Francia c’erano stati i fatti di Zurigo, il 9, 10 e 14 marzo del ’71, prima ancora della Comune, che erano anch’essi attribuiti all’Internazionale1391 ; e c’erano gli eventi torbidi di Spagna, dove pure si diceva intrigassero gli agenti della rossa associazione, in combutta con i repubblicani accusati dell’assassinio di Prim1392 .

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Quanto all’Italia informazioni confidenziali dell’11 marzo facevano sapere che a Parigi si era organizzata clandestinamente una legione garibaldina che si sarebbe già fusa con l’Internazionale, per proclamare la repubblica in Italia e in Spagna e poi, unitamente alla Francia, prender la rivincita contro la Germania1393 . Si spiega così come, all’annunzio della Comune, si turbassero assai gli uomini di governo; e fra essi, il pacato valtellinese che reggeva il dicastero degli Esteri non fu il meno preoccupato. A lui personalmente non era forse accaduto di ascoltarlo; ma indubbiamente doveva poi averlo ben conosciuto, da’ racconti del fratello e della madre, il ritornello che i contadini della Brianza avevano cantato nel ’48 Né a Marian né a Cantù I tedesch ghe tornen pù E crepa i sciori1394

E le grida di morte ai signori, come sugli uomini di parte moderata1395 , così dovevano aver fatta profonda impressione anche sull’allora mazziniano Visconti Venosta, poi staccatosi dal maestro e divenuto un moderato tipico, per il quale già solo i radicali erano «rossi», e cioè asini e imbroglioni1396 . Certo è che nella primavera del ’71 egli era profondamente turbato per la piega che prendevano gli eventi a Parigi; e a tanto giunsero le sue preoccupazioni da indurlo, prudentissimo e cautissimo quale era, a fare gravi dichiarazioni all’incaricato d’affari austro-ungarico a Firenze, conte Zaluski1397 . Très alarmé, nella forza di resistenza di cui il partito rivoluzionario dava prova sulla Senna il Visconti Venosta scorgeva «un danger réel pour l’Europe. En rayonnant de leur foyer, les principes subversifs acclamés par la Commune pourraient causer de sérieuses perturbations au dehors. L’Italie en est plus particulièrement me-

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nacée, en raison de sa proximité d’abord, et aussi à cause des nombreux éléments socialistes qu’ elle renferme». S’era in presenza di un pericolo generale; e perciò «en présence d’un ennemi commun, les Puissances devraient ... s’entendre sur les moyens de le réduire et de le désarmer. Il y va de la sûreté des Etats autant que du progrès de la civilisation. Le souffle impie qui a éteint chez ces masses tout sens moral tout sentiment d’honneur, après avoir poussé fatalement une grande cité vers la ruine et la désolation, passera encore sur d’autres pays, si l’on ne lui oppose des digues suffisantes». L’inquietudine del ministro,assez généralement partagée, attingeva in quel momento nuovi motivi da informazioni particolarmente pessimistiche: un uffciale italiano di stato maggiore, reduce da Parigi, e il barone Adolfo Rothschild, di passaggio a Firenze, erano concordi nel ritenere quasi inevitabile un intervento delle truppe tedesche, data l’impotenza del governo di Versailles a dominare la situazione. Momento, dunque, di umore particolarmente nero. Le riflessioni del Visconti Venosta non sfociarono in una proposta precisa sugli accordi fra governi e rimasero contenute nell’ambito di una conversazione privata: e tuttavia erano sufficiente indizio del turbamento in cui gli eventi della Comune avevano buttato i moderati italiani. Che un uomo come il Visconti Venosta, solitamente così misurato e soppesante ben bene le sue parole, potesse pensare anche solo in via d’ipotesi e per un istante ad accordi internazionali, cioè ad una Santa Alleanza di carattere sociale, bastava a dimostrare quanto gravi fossero le preoccupazioni. Per fortuna, né il Visconti Venosta, né i suoi colleghi potevano indursi sul serio a farsi, essi, iniziatori di una politica reazionaria europea. Quali che fossero i loro timori, più su ancora stava l’amore per la libertà: quella libertà che era non solo senso della legalità, del limite

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giuridico, ma anche e soprattutto senso della forza delle idee che nessuna compressione materiale può, alla lunga, soffocare. Appellandosi di continuo all’esempio del Cavour, essi non potevano dimenticare le parole di lui proprio nei riguardi della scuola socialista, di lui che perfino nel giugno ’48 aveva detto non bastare le armi del Cavaignac per toglier definitivamente di mezzo la questione sociale, e che poi, uscito fuori dai timori immediati del ’48, aveva ripreso tutta l’antica fiducia nella libertà, sola e sicura risanatrice. L’unico mezzo di combattere questa scuola socialistica che minaccia di invadere l’Europa «è di contrapporre ai suoi princìpi altri princìpi. Nell’ordine economico, come nell’ordine politico, come nell’ordine religioso, le idee non si combattono efficacemente se non colle idee, i princìpi coi princìpi; poco vale la compressione materiale. Per qualche tempo sicuramente i cannoni, le baionette potranno comprimere le teorie, potranno mantenere l’ordine materiale, ma se queste teorie si spingono nella sfera intellettuale, credete ... che tosto o tardi queste idee, queste teorie si tradurranno in effetto, otterranno la vittoria nell’ordine politico ed economico»1398 . Troppo intuito politico avevano anche quegli uomini per non avvertire il pericolo che la causa della libertà avrebbe potuto correre ove si fosse soverchiamente insistito sulla minaccia rossa. La paura degli eventi di Parigi veniva infatti immediatamente sfruttata dai reazionari di ogni paese, i quali approfittavano dell’occasione favorevole per riaprire, al disopra dell’Internazionale, una più ampia polemica contro tutto il secolo XIX, nelle sue conquiste fondamentali, e dunque anzitutto contro l’idea di libertà ma, sia pur meno direttamente, anche contro il principio di nazionalità, le due forze rivoluzionarie che avevano dato l’avvio alla storia europea degli ultimi cinquant’anni. Ad esse si faceva risalire la colpa anche degli eccessi dell’Inter-

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nazionale, raffigurata come logica, ma non voluta, conseguenza di liberalismo e patriottismo nazionale: avete voluto, o borghesi, la libera espressione della volontà nazionale, le assemblee deliberanti, le discussioni parlamentari, i ministri responsabili; avete scosso il sacro principio di autorità, su cui la società era riposata tranquilla per secoli; e godetevi, dunque, anche i petrolieri di Parigi e pregustate la divisione dei beni. Era il tema su cui in Italia ricamava la stampa clericale. Vecchia consuetudine, d’altronde: seguendo l’esempio degli ultra francesi della Restaurazione, accaniti nel presentare il terzo stato come sfruttatore del popolo e nel dir che le chimere della Rivoluzione erano utili solo alla classe media1399 , già da tempo anche in Italia i reazionari avevano cercato di sfruttare anzi eccitare risentimenti di classe, pur di combattere i liberali e i patrioti. Sin dal ’48 essi avevano agitato lo spettro del comunismo per farne, diceva il Brofferio, «simbolo di fraterna discordia ed evocare il funereo simulacro, che, collo spavento dell’avvenire, persuadesse il ritorno al passato»1400 . Sulle masse rurali, soprattutto, s’era tentato di far leva, dal Metternich prima ancora del ’48, come dai clericali, per scagliarle contro i «signori», patrioti e liberali: non senza certo successo, d’altronde, fra lo sdegno di chi, come l’Aleardi, aveva inveito contro il villano vecchio seme degenerato1401 . Il patriottismo dei «signori» arma di sfruttamento, era stata la gran parola per controbattere il movimento nazionale: per un Metternich e uno Schwarzenberg, prima e dopo il ’481402 per Austriaci e clericali1403 . E poi ancora, s’era insistito sul tema per creare imbarazzi al governo dell’Italia unita, sì che alla fine del ’68 la propaganda clericale aveva potentemente contribuito a crear l’atmosfera e a render possibile la rivolta dei contadini contro la tassa sul macinato, innestando una speculazione politica su una questione di miseria1404 . Demagogismo cleri-

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cale, ripreso pure in Francia dal Veuillot, per cui molti pensarono, in quegli anni, ad un segreto accordo fra i neri e i rossi, tra il Vaticano e l’Internazionale, per rovesciare l’ordine di cose esistente; e taluni portarono fin sulle scene la figura del chierico che cercava di aizzare gli operai contro i padroni e di provocare scioperi1405 ; e indubbiamente si assistette ad una significativa coincidenza di motivi polemici contro il nuovo ordine di cose nei giornali d’ispirazione anarchica o socialista e nei giornali clericali. Ci ricamava dunque su la stampa clericale, sempre abile nel cogliere al balzo le occasioni offerte dalle titubanze dei liberali per riproporre il problema delle origini dei mali presenti1406 . Solo allo spaventoso chiarore delle fiamme che si levavano alte dalle Tuileries conveniva rileggere le opere di Voltaire e rimeditare i princìpi dell’89, inizio di tutti i guai1407 . Socialismo, anarchismo della Comune e liberalismo italiano rivelavano una medesima origine, derivavano dagli stessi princìpi di ribellione all’autorità morale della Chiesa, si collegavano con la Riforma protestante e il razionalismo settecentesco1408 si svolgevano con un identico materiale sviluppo1409 , qui in Italia eccitandosi la rivolta dei popoli contro i loro legittimi governi, là, a Parigi, eccitandosi la rivolta contro l’Assemblea di Versailles1410 ; e le conseguenze ne erano la mancanza di pace e di ordine, la ridda dei tumulti, l’instabilità dei governi, le convulsioni periodiche che avevano travagliato, dopo l’89, non pur la Francia, madre del peccato, ma quella parte d’Europa insensatamente trascinatasi nella scia della Francia, e che avrebbero continuato a travagliare i popoli sino a quando non fossero state ripristinate «le norme salutari ed inviolabili del cattolicismo e del buon diritto»1411 . Le stesse disavventure in politica estera, le invasioni e i crolli erano frutto dell’insania dei princìpi: dacché ai canti religiosi s’era sostituita la Marsigliese, per tre

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volte la Francia, una volta invitta, era stata invasa dallo straniero!1412 ; e qual contrasto non si percepiva oggi tra Parigi, ove tutto era confusione, sgomento, orrore, e Berlino, dove tutto offriva il sembiante della giocondità, dell’unione, della concordia e della fiducia nell’avvenire1413 Stolti e incauti i liberali italiani se credevano di poter, con le loro vacue declamazioni a proposito degli infernali disordini parigini, evitare in Italia tragedie consimili1414 : l’Italia era già sulla china verso l’abisso, stava precipitando, e possibile (anzi anzi probabile) era una Comune a Roma e giorno sarebbe potuto venire, in cui la basilica di S. Pietro avrebbe seguito o, almeno, avrebbe avute minacciate le sorti della colonna Vendôme1415 : i comunisti italiani avrebbero tripudiato, tra il chiarore degli incendi, sulle rovine di S. Pietro. E di tutto era colpevole il governo italiano, che era il primo e più formidabile nemico del proprio paese, come quello che aveva cercato di distruggere nel popolo la fede e la riverenza per il capo e per i ministri della religione cattolica1416 ; e usurpando sul potere dei papi aveva minato alle basi il senso dell’autorità e del dovere. Trionfava la Civiltà Cattolica nell’impartire, il 6 maggio, una lezione a coloro i quali rimproveravano ai comunardi «di essere troppo dialettici nell’applicare gl’insegnamenti e troppo attivi nello imitare gli esempi delle loro Signorie liberali e conservatrici» – noi soli che abbiamo sempre detto o cattolici col Papa o barbari col socialismo, abbiamo il diritto di giudicare e vituperare Parigi, senza mutare improvvisamente il nostro nodo di pensare; trionfava nell’affermare che l’infernale sistema socialistico era parto legittimo del liberalismo, conseguenza necessaria dei due princìpi della separazione dello Stato dalla Chiesa e della sovranità popolare. «Lucentissima» tesi era, per l’organo dei gesuiti, che il liberalismo costituisse «naturale famiglia e scuola del comunismo»,

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liberalismo e socialismo non fossero se non due momenti diversi, esplicazioni successive di uno stesso concetto1417 . Pietoso, dunque, il tentativo dei liberali di rinnegare i comunisti: conveniva ripulire la società dal morbo del liberalismo e dalla sua influenza pestifera, se si voleva davvero impedire l’avvento della nuova età di ferro, ad opera di barbari non irrompenti dal di fuori, anzi sorgenti dal seno stesso della società, come i vermi dal putridume di un cadavere1418 . Ma venisse pure l’universale rovina: la Chiesa sola sarebbe sopravvissuta, incrollabile; e l’Internazionale, armata di fiaccole e di petrolio, sarebbe stata ministra dell’ira di Dio e strumento per punire governanti e governati, principi e popoli1419 . O con il Papa o con L’Internazionale: questo il dilemma che i fogli clericali ponevano. Pochi anni più tardi, si sarebbe levata la voce dello stesso Pontefice, Leone XIII, ad ammonire contro coloro i quali, «con nomi barbari e diversi» chiamatisi socialisti comunisti e nichilisti «sparsi per tutto per tutto il mondo e legati tra sé coi vincoli di iniqua cospirazione, ormai non ricercano più l’impunità dalle tenebre di conventicole occulte, ma apertamente usciti alla luce del giorno si sforzano di colorire il disegno, già da lunga mano concepito, di scuotere le fondamenta medesime del consorzio civile»; ad esortare principi e popoli perché «accolgano ed ascoltino come maestra la Chiesa, tanto benemerita della pubblica prosperità dei regni; e si persuadano che le ragioni della religione e dell’impero sono sì strettamente congiunte, che quanto vien quella a scadere, tanto dell’ossequio dei sudditi e della maestà del comando si scema. Che anzi conoscendo che la Chiesa di Cristo possiede tanta virtù per combattere la peste del socialismo, quanta non ne possono avere le leggi umane, né le costrizioni dei magistrati, né le armi dei soldati; ridonino alla Chiesa quella condizione di libertà, nella quale possa

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efficacemente dispiegare i suoi benefici influssi a favore dell’umano consorzio»1420 . Di questa virtù della Chiesa, della necessità di optare, o con il Papa o con l’Internazionale, erano convinti molti fra i laici. E come già fra il 1848 e il 1850, quando non solo Victor Cousin e Thiers avevano cercato l’aiuto dei vescovi, ma anche in Italia uomini di minor nome avevano pensato al clero come unico argine efficace contro il socialismo1421 così nuovamente ora coloro che vedevano imminente il diluvio universale tornavano a predicar l’accordo con la Chiesa. Fin dai ranghi degli uomini di governo, o che tali erano stati in un recentissimo passato, si levavano voci preoccupate e preoccupanti, che non intendevano, certo, sacrificare l’unità italiana, ma sostenevano esser gran tempo di smetterla con la diffidenza verso il clero e il Papato e di cercare invece l’alleanza di questi solidi pilastri dell’ordine contro il pericolo rosso. Collaborazione con la Chiesa, necessaria non solo per sanare i dissidi delle coscienze, ma anche per costituire una salda barriera contro ogni minaccia dei ceti inferiori: così la pensava un personaggio non di secondo piano, già presidente del Consiglio legatissimo al Re, di cui era per così dire il Rattazzi di destra1422 , Luigi Federico Menabrea. Il quale, nel suo discorso al Senato sulla legge delle Guarentigie, il 25 aprile 1871, riprendendo tutti i motivi polemici da gran tempo addotti contro il secolo degenere trovava modo di sfogare le preoccupazioni, sue e di altri, di fronte ai torbidi tempi: tempi di immoralità, di materialismo, anche nelle scuole, gravi di conseguenze funeste; tempi che sembravano far rivivere l’agitatissimo ultimo periodo di Roma repubblicana, allora il trionfo delle dottrine epicuree, Lucrezio e il De rerum natura da un lato e dall’altro la rivolta di Catilina, ora il rinascere del vecchio sistema di Epicuro e, contemporaneamente, l’insorgere degli appetiti brutali, il dilagare dell’immoralità, la ribellione degli operai1423 . La Francia, culla del rin-

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novato materialismo, pagava per prima gli errori, con la Comune; ma anche l’Italia non poteva ritenersi al sicuro dalle torve mene dell’Internazionale, che, ben organizzata, non aspettava se non l’istante propizio. Noi, continuava il Menabrea, discutiamo sull’ingerenza governativa nella Chiesa e facciamo come i Bizantini nel 1453: «invece di continuare la guerra ad un ceto che oramai non può più essere pericoloso [il clero], uniamoci per scongiurare il comune pericolo, e per ridonare la pace alle nostre popolazioni che non domandano altro che di vivere sicure e tranquille sotto la protezione delle leggi»1424 . Il Menabrea era, notoriamente, se non uomo dai tempi borgiani come aveva detto Garibaldi, e neppure proprio il torvo reazionario combattuto dalla stampa di sinistra1425 , un conservatore deciso, che nel ’50 aveva votato contro le leggi Siccardi; ma questo non toglieva importanza alle sue parole, accolte – dice il resoconto parlamentare – da vivissimi segni di approvazione. Ch’egli caricasse forse le tinte, ai fini polemici del suo discorso di opposizione al progetto governativo, può anche essere1426 . Ma nel suo dire c’era, ben viva, una preoccupazione sostanziale di fronte ai problemi sollevati dalla Comune; e molti altri, fra i patrioti, la condividevano, tanto che il Ricasoli si chiedeva se, di fronte a «sì terribile e sfolgorante luce infernale», ci si sarebbe intestati ancora a batter la via «che con tante esagerazioni e tanta deficienza di senso pratico, gli assolutissimi visionari democratici dell’89-93 ci apersero, e per la quale con un’avventatezza inarrivabile noi stessi, con sventura ognora più minacciosa ci ponemmo)»1427 . Processo alla Rivoluzione francese, in Italia come in Francia come in Germania, ricerca delle responsabilità storiche dei mali presenti?1428 Anche questo: non a caso, alcuni anni più tardi, il Carducci protestava contro il vezzo di abbassare e impiccolire la Rivoluzione e riaffermava che il settem-

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bre del 1792 restava pur sempre il momento più epico della storia moderna1429 . Ma, si facesse o no il processo all’89, cresceva il numero di coloro i quali, per difendere lo status quo, invocavano «il connubio cordiale del principio di autorità col sentimento religioso; principio e sentimento che debbono essere, e sono, per l’essenza loro, collimanti e cospiranti in ogni civile società»1430 ; crescevano, allora e poi, le esortazioni ai cattolici perché partecipassero alle elezioni politiche, a fine di costituire con i moderati una solida diga contro i nemici dell’ordine sociale, contro i rivoluzionari che combattevano non soltanto lo Stato italiano ma anche la Chiesa e la religione1431 : e venivano fuori gli appelli ai retrogradi, agli uomini dei principi spodestati, che, avendo ormai tutelato la loro dignità personale, dovevano ora provvedere agli interessi comuni a tutti, ad essi e ai loro ex-nemici, cioè alla salvezza dell’intera compagine civile1432 ; o le raccomandazioni si provvedesse alla stampa, troppo sbrigliata in fatto di religione: «attenti, perché per questa via si va al petrolio»1433 . Perfino dai delegati di Pubblica Sicurezza s’alzavano lamentele sul disaccordo fra Stato e Chiesa, sulla fine del «dolce giogo del Vangelo», che lasciavano aperta la via alle teorie del socialismo, contro cui la legge riusciva impotenxe1434 . Parecchi trai moderati sembravano veramente condividere ora il giudizio espresso sin dal ’59 dall’acre Tommaseo «che mal si scherza colle cospirazioni, e che chi vuole fare altri strumento, fa di sé men che arnese»1435 ; né del tutto ingiustificati apparivano i timori della Sinistra, che si cercasse di legare il trono all’altare1436 o, com’altri ebbe a ripetere ancor più tardi, si chiamasse il sacerdote per esorcizzare il demonio internazionale1437 . La paura era forte; e se a Parigi, nell’aprile del ’71, troppa gente aveva addirittura pensato ai Prussiani pur di domare il «mostro» scatenato, tradendo in ispirito

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la patria pur di salvare il ventre1438 , in Francia e in Italia molti dei ceti medi volsero gli sguardi angosciati alla Chiesa romana, invocata come una sorta di gendarme morale per salvare le persone e gli averi, secondo aveva predetto Taine1439 e doveva ripetere il Sonnino alla Camera, il 30 marzo 1881, con duro giudizio sul clericalismo della borghesia e delle classi agiate «le quali, benché esse stesse scettiche e miscredenti, considerano la religione come un mezzo di governo, e la vogliono e la sostengono, non per sé medesime, ma per il popolo. Esse vedono nell’organizzazione, nella forza civile della Chiesa, un potente alleato pei loro interessi di classe, il quale permette loro di riposare sicuri nel loro gretto individualismo; e sperano che per effetto delle predicazioni della Chiesa la classe più infelice della società si persuada che anche i patimenti che le provengono dall’opera loro, libera di ogni freno, vengono da Dio; che si rassegni, cioè, non solo al male inevitabile che tocca in sorte all’umanità per legge di natura, ma anche a quello evitabile che deriva dalla parzialità delle leggi, degli ordinamenti nostri e del cieco e spietato egoismo di classe»1440 . Per i clericali, proprio questa era la caratteristica del liberalismo borghese: «il borghese grasso non vuole incommodi, vuole fàre alto e basso, e se il prete lo disturba colle voci della coscienza e col ricordare il nome di Dio, lo pone in disparte; salvo poi a richiamarlo e a chiedere perdono quando il petrolio lo minaccia nelle sostanze e gli toglie la quiete del benessere»1441 . Salvo però – occorre aggiungere – a dar nutrimento essi stessi, i clericali, a tali attese delle classi agiate, alternando le deprecazioni sui poveri contadini oppressi dal governo italiano con dichiarazioni più tranquillanti per la borghesia: come quando si affermava che il suffragio universale, «di natura sua rivoluzionario», diventava se non benefico almeno innocuo quando il popolo fosse profondamente imbevuto di princìpi religiosi, giacché «la religio-

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ne imprimendo negli animi il santo timor di Dio, reprimendo in essi lo smo dato appetito dei godimenti materiali, innamorandoli della virtù e confortandoli colla speranza dei beni eterni, rende l’uomo contento dellà propria condizione, e l’induce ad operare sempre secondo i dettami dell’onesto ed a rispettare gelosamente gli altrui diritti»1442 – che era proprio quel che Vittorio Emanuele II e Thiers avevano atteso dalla predicazione del clero, fra ’48 e ’50. Bisognava dominare la paura. Perché, naturalmente, la soluzione vagheggiata dal Menabrea sarebbe andata a tutto vantaggio delle forze retrive: se egli si illudeva di poter ottenere la collaborazione del clero contro l’Internazionale, pur mantenendo le conquiste fatte a scapito del potere temporale e della Chiesa, bisogna dire che tempra di politico non era. La collaborazione avrebbe significato subordinazione alla Chiesa, Menabrea a rimorchio della Civiltà Cattolica, che già una volta, proprio nei suoi riguardi personali, aveva chiaramente detto come fosse vano sperare di ottenere Roma e salvare al contempo l’amicizia con la Chiesa1443 . Tanto più pericoloso un simile tentativo di coalizione conservatrice, in quanto l’atmosfera generale d’Europa tirava già verso il conservatorismo, dopo le vittorie prussiane e il trionfo del Bismarck1444 : e anche qui le impressioni e previsioni andavano per avventura assai più in là di quanto poi non dovesse succedere; ma quelle impressioni e previsioni avevano pure il loro peso, e già assai prima della Comune avevano fatto cullare in rosei sogni i conservatori delle stesse nazioni latine, i quali – illudendosi – speravano che l’esempio della monarchia prussiana e della sua nobiltà così salda servisse a ripristinare anche tra i latini molto di quel che s’era perso e smarrito; e così a parecchi borghesi avevano istillato fiducia in un avvenire quieto e ben ordinato grazie allo Junkertum prussiano1445 .

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La reazione trionfava già in Francia con quell’Assemblea nazionale contro cui era insorta Parigi: e reazione voleva dire in Francia, facilmente, monarchia legittimista e certamente opposizione all’Italia insediata in Roma, lotta contro lo stesso principio dell’unità e dell’indipendenza italiana. La causa dell’Italia era, ancora e sempre, la causa della libertà; il trionfo delle tendenze reazionarie in Europa era pericolo imconparabilmente maggiore che non una rivolta di plebi: e lo riconobbe apertamente quello stesso Visconti Venosta, pure tutt’altro che tranquillo sulle conseguenze della Comune: «un periodo di tendenze fortemente conservatrici s’apre con molta probabilità per tutta l’Europa. L’Italia, desiderosa di raccogliersi in se stessa e negli affari suoi, potrebbe attraversare con abbastanza sicurezza un tale periodo. Ma sinché la questione romana resta aperta, essa non può considerarsi siccome al coperto dalle conseguenze di questa situazione»1446 . Era un po’ come dopo il ’48-49: il trionfo della Prussia; militare monarchica nobiliare, faceva le veci, in parecchie. immaginazioni, della ripresa postquarantottesca dell’Austria, militare monarchica nobiliare, anche in questo dunque dimostrandosi le profonde diversità tra movimento italiano e movimento germanico; e quel che c’era di assai meno retrivo nella Prussia bismarckiana di fronte all’Austria di Francesco Giuseppe, era ampiamente compensato dalla assai maggiore gravità della Comune di fronte alle giornate del giugno ’48. Come dopo il ’48-49: e la esperienza di quegli anni provava, con ricordo ben vivo nell’animo di molti dei maggiorenti di oggi, quanto facilmente la reazione riuscisse a trionfare sfruttando le paure e i residui di paura; e i fedeli di Cavour bastava si richiamassero ai moniti di lui, una sola esser la questione fondamentale a cui tutto occorreva sacrificare, il mantenimento cioè della libertà contro la fazione reazionaria-clericale1447 .

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Cavour non c’era più; ma i suoi fedeli non tralignarono dal suo insegnamento. E come, poco più tardi, rifiutando di iniziare un Kulturkampf in Italia tennero fede alla libertà di fronte al Papato, e cioè al maggior nemico dell’ora; così anche di fronte ai rossi seppero contenere il timore, nell’un caso e nell’altro dando alta prova di quel che fosse lo spirito della libertà. Non furono quindi soltanto uomini della Sinistra o anticlericali convinti a deprecare allora e poi il tentativo di legare il trono all’altare; furono gli uomini di governo, i capi stessi dei moderati a non volere che i fatti della Comune servissero da pretesto per una sterzata a destra. Bisognava evitare che l’Internazionale fungesse da donna dello schermo per coprire la più pericolosa «cospirazione papalina»1448 ; e si poté pertanto assistere al lavorio dei giornali, di destra e di sinistra, per tranquillizzare l’animo degli Italiani. Gli organi moderati, polemizzando con i fogli clericali negavano una qualsiasi parentela o affinità tra il comunismo e il «gran moto nazionale» del Risorgimento, negavano che gli orrori presenti fossero da addebitarsi alla storia stessa del pensiero moderno, cioè ai grandi tentativi, con cui, dalla Riforma alla Rivoluzione francese, l’intelletto umano aveva cercato di snebbiarsi dalle tenebre del Medioevo. Il loro moderatismo, essi lo proclamavano altamente quando asserivano che il Partito liberale aveva fatto la guerra ai troni dei piccoli sovrani che stavano in Italia, non mai al principio di autorità in sé: si era trattato di una «espropriazione forzata, indispensabile per far l’Italia e nulla più»1449 . Cioè, in piena conformità a tutto il loro modo di pensare, niente più spirito rivoluzionario, ora che la casa è costruita; niente più nuove avventure. Ma nemmeno ritorno all’indietro: e perciò, continuavano i moderati, occorre far argine di fronte al prevedibile riaffiorare in Europa di tendenze conservatrici, per effetto delle vittorie prussiane e della Comune, colti-

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vando sinceramente le idee liberali, alla maniera inglese, svizzera, americana1450 . Più decisi, s’intende, gli organi della Sinistra, nel mettere in guardia contro gli allarmi ingiustificati ed eccessivi1451 ; concordi, per altro, con la stampa moderata nel ritenere non meno pericoloso l’ultramontanismo o gesuitismo, capace di delitti orribili esso che si presentava come il riparatore degli eccessi della Comune1452 . E concordi, gli uni e gli altri, nel ritenere minacciato il principio stesso di nazionalità, oltre che quello di libertà, sia dalla setta rossa, sia dalla setta nera, dagli internazionalisti come dai gesuiti, pronti a darsi la mano per combattere liberalismo e nazionalità, salvo poi a combattersi a vicenda: tra i due, il gabbato non sarebbe stato il partito clericale1453 . Considerazioni, queste ultime, che sarebbero state più volte ripetute negli anni seguenti, quando si favoleggiò di segrete intese degli ultra-clericali coi rossi1454 e perfino s’ebbero comunicazioni diplomatiche da governi esteri che accennavano alle attese del Vaticano nell’anarchia generale1455 ; quando, certo, si assistette al compiacimento degli intransigenti ogni qual volta il governo italiano parve messo in impiccio dalla opposizione – che era poi semplicemente la Sinistra!– ben lieti questi nerissimi se attraverso un grosso sconquasso generale riuscisse loro di far riemergere trionfante sui flutti agitati della guerra civile la bandiera papale1456 . Tra gli stessi diplomatici stranieri, residenti a Roma, taluno denunciò «certains joueurs» che non nascondevano il loro giunco e dicevano «par la commune au Syllabus»1457 ; e qualche altro, accreditato presso la Santa Sede, e deciso nel battezzar calunniose tutte le voci su di un’intesa fra il Vaticano e i repubblicani, osservava tuttavia che v’erano due fatti molto spiacevoli i quali, abilmente sfruttati dai nemici del Papato, davano qualche apparenza di ragione a quelle voci: il primo, che il

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clero e i clericali gridavano alto e forte, da due anni, che la restaurazione piena ed intera del Papato non sarebbe potuta avvenire, se non dopo una rivoluzione e una ripubblica rossa, di effimera durata; il secondo, il linguaggio della stampa clericale in Italia. Essa rendeva dei pessimi servizi alla causa che patrocinava: così come quando nel novembre del 1872, in vista del molto atteso meeting al Colosseo, insisteva nel predire, per quel giorno, una grande catastrofe, lo scoppio della rivoluzione a Roma e la proclamazione della repubblica rossa, fornendo per tal modo argomenti alla stampa dell’altra parte per accusare il Vaticano di complotti con gli estremisti1458 . Un atteggiamento da disperati, da rompitutto, che cercando la salvezza nell’eccesso del male muoveva a sdegno cattolici sicuri come il Tommaseo1459 , e, certamente, ripugnava allo stesso Pio IV non mai totalmente dimentico del ’47: Pio IX che intendeva protestare sino all’ultimo respiro contro l’usurpazione dei suoi diritti, ma dichiarava che in fondo sarebbe stato molto imbarazzato se gli venissero resi i suoi Stati: «mi ci troverei come in un palazzo senza porte né finestre, di cui non saprei che farmi»1460 . Ma era un atteggiamento di molti, allora e ancora per parecchi anni; onde, agli appelli ai cattolici perché partecipassero alla vita pubblica, nell’interesse comune, si rispondeva «il nostro centro, non solo religiosamente, ma anche politicamente parlando, è il Papato»1461 e tutto il resto non importava nulla; e s’esultava quando si poteva constatare che la Rivoluzione lanciava ai cattolici un «grido disperato»1462 , la Rivoluzione, cioè tutti quanti, Destra compresa. I moderati dicevano, noi siamo ordine, legalità, e aiutateci dunque a respingete i rossi; ma la risposta era, voi siete padri dei mostri, e rispondete anche delle colpe dei figli, che sono possibili solo perché voi avete scosso le fondamenta sacre della società.

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In Italia come in Germania, allora e poi, si rimbalzarono le accuse dei liberali che accusavano rossi e neri di lavorar concordi alla rovina della società, i primi servendo ai più abili secondi, tanto che, se il partito clericale spesso era simile a chi tira la castagna dal fuoco con le zampe del gatto, per conto suo era sicuro di non aver mai fatto la parte del gatto1463 ; e le accuse dei clericali che dipingevano i liberali come gli alleati naturali dei rossi, i preparatori del disordine sociale1464 , e dimostravano l’inconciliabilità fra il Vangelo e il comunismo1465 . Alle quali polemiche dava alimento, almeno in Germania, anche il primo dispiegarsi del socialismo cristiano, con il Ketteler, i Christlich-Soziale Blätter, le «Società sociali cristiane», che sembravano a molti mascheratura per ricoprir ben altri fini politico-ecclesiastici: tanto che non più solo il von Sybel accusava i clericali, virtuosi in demagogia, di servirsi di tutte le arti del radicalismo e del socialismo, ma Bismarck in persona denunciava l’accordo dei rossi e dei neri, al Vaticano e in pieno Parlamento1466 . Né in Francia mancarono, ancora più tardi, fin nell’85, accuse di socialismo contro La Tour du Piti e gli altri propugnatori del cattolicesimo sociale1467 . Per tal modo, attorno, ai fatti della Comune, sul cadavere della Comune, non solo s’impegnava la lotta fra lo spirito vecchio e il nuovo, cioè fra conservatorismo sociale e iniziativa rivoluzionaria sociale, traendo gli auspici, i novatori, dal sangue dei trucidati1468 , ma tornava a divampare, ancora una volta, il grande conflitto d’idee del primo Ottocento, libertà e reazione politica; e ancor una volta i maggiori de’ liberaliitaliani, nonostante i timori, rimasero fermi nella difesa del loro ideale. E senza dubbio erano anche la necessità polemica e il desiderio di sventare in anticipo l’ondata reazionaria, ad ispirare ai giornalisti di parte liberale, destri o sinistri che fossero, un’altra constatazione: quella, cioè, che per l’Italia l’Internazionale non costituiva un pericolo serio.

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Per gli organi della Sinistra, fin dall’inizio; per quelli della Destra, solo dopo le prime sfuriate contro l’Internazionale, ma ad un certo punto per quasi tutti i giornali liberali il pericolo – orrendo, mostruoso fin che si vuole – non concerne l’Italia1469 . Da noi, nemmeno l’ombra di un rivolgimento sul tipo della Comune, perché, in complesso, la nostra situazione interna è abbastanza buona, sentenzia L’Opinione nel numero del 1° giugno 1871, finita cioè la Comune1470 : e in tale ottimismo l’aveva preceduta di parecchio uno dei due organi magni della Sinistra, Il Diritto, che sin dal 31 marzo aveva cercato di combattere le preoccupazioni delle «anime timorate», osservando che, da noi, non avevan ragione d’essere le paure di un minaccioso scoppio della questione sociale. Manca, in Italia, la gran piaga del proletariato che affigge Francia ed Inghilterra; da noi, non è il lavoro che sovrabbonda, sono le braccia che mancano1471 : come si vede, nell’ottimismo del Diritto c’era, almeno per l’affermazione sulle braccia che mancano, molto di volutamente eccessivamente roseo. Impedire una reazione che, al disopra dell’Internazionale avrebbe colpito, in ultimo, gli stessi princìpi di libertà e di nazionalità; a tale scopo, servirsi anche dell’argomentazione che in Italia il pericolo non esisteva: il motivo venne ripreso e sviluppato ulteriormente, tra l’estate e l’autunno del ’71 e, ancora, nel ’72. Il ministro degli Esteri francese, Jules Favre, additava al mondo, come causa della Comune, il governo napoleonico e l’Internazionale? Si contrapponeva alla sua diagnosi una più lata diagnosi, per cui il male aveva sede «nella violenza de’ partiti, nell’indifferenza de’ mezzi per riuscire, nella forza brutale anteposta alla libertà, nella sorpresa sostituita al voto popolare, nello spirito rivoluzionario che giustifica tutti i colpi di Stato»1472 . I governi spagnolo e francese tentavano di promuovere accordi internazionali contro la setta?1473 Si affermava che non la forza poteva impedi-

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re il lavoro delle idee, ma solo altre idee, più Bennate. Il sistema più saggio è sempre quello della libertà1474 ; il nodo della questione sociale sta soltanto nell’adempimento, da parte di ciascuno, del proprio dovere, e in un maggiore slancio dell’iniziativa individuale, unico vero rimedio alla maggior parte dei mali, politici, economici, sociali da cui l’Italia è ancora afflitta1475 . Per un anno e mezzo, insomma, fu un coro concorde. Solo dopo gli scioperi dell’estate 1872, i primi scioperi su larga scala dell’Italia moderna1476 , solo allora qualche apprensione cominciò ad insinuarsi di nuovo, per la prima volta dopo la Comune. Nei fogli liberali si continuava, sì, a manifestar fiducia e sicurezza che nulla sarebbe avvenuto di grave1477 ; e lo si faceva tanto più in quanto era necessario non lasciar attecchire le paurose predizioni dell’Osservatore Romano che, il 20 agosto, aveva vaticinato imminente il tempo della dissoluzione, il giorno della vendetta di Dio e dell’esterminio, affrettato dai governi colpevoli, vedendo nel «codice dell’Internazionale» con i suoi eccessi, il mezzo con cui la giustizia divina avrebbe colpito le gemi ribelli a Dio1478 . Ma già si cominciava ad ammettere che qualche progresso i rossi l’avevan fatto, in Italia1479 ; che qualche connessione tra gli scioperi italiani e quelli del Belgio, della Francia, di Berlino e di Trieste c’era1480 ; che, insomma, se da noi c’era da temere meno che negli altri paesi, tuttavia non bisognava addormentarsi ché «se siamo meno minacciati, non siamo però lontani da ogni pericolo»1481 . Il palese diffondersi dell’Internazionale in Italia, documentato, se non altro, dai molti giornali e giornaletti per ogni dove pullulanti, e con titoli spesso ben adatti a far rabbrividire i benpensanti1482 ; i nuovi, aperti tentativi compiuti altrove, nella Spagna meridionale e occidentale, durante l’estate del 18731483 ; e, finalmente, i casi di Romagna dell’estate ’74, in cui veniva facilmente confuso il sovversivismo nel vecchio senso, cioè repubblicano

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mazziniano, col sovversivismo nuovo, cioè bakuniniano e simile1484 , davano, ormai, seriamente a pensare, non consentendo più di credere che quello della Comune fosse stato un episodio, grave ma senza seguito, e facendo anche temere, contro l’ottimismo d’un giorno, che l’Italia potesse diventare facile campo per le mene dei rossi1485 . Ed ecco nella stampa, almeno in quella moderata, trapelare una tendenza verso qualche forma d’intervento dell’autorità pubblica: sempre, si intende, salvaguardando pienamente la libertà politica, che nessuno dei liberali avrebbe voluto toccata per nessun motivo1486 , ma già con prime restrizioni all’assoluta libertà economica di manchesteriana memoria. Il congresso di Eisenach, nell’ottobre del ’72, dove, con l’intervento di molti dei più illustri economisti tedeschi, s’era discusso della questione sociale e dei modi di prevenirne i pericoli, offriva lo spunto all’Opinione per affermare che lo Stato non poteva rimanere indifferente dinanzi alle grosse questioni dei rapporti di lavoro fra operai e padroni, e che il vecchio principio del laisser faire cominciava a subire limitazioni nel campo sociale1487 ; quasi un anno più tardi il congresso, dei dissidenti dell’Internazionale a Ginevra dava al giornale l’opportunità di riprendere la polemica contro i liberisti assoluti, convinti che lo Stato dovesse starsene in disparte, mentre era ormai necessario che lo Stato intervenisse nelle questioni sociali, le studiasse e ne apparecchias se la soluzione1488 . Che erano, come si vede, i prodromi per le prime forme di tutela del lavoro, per le leggi sulla previdenza e il lavoro delle donne e dei fanciulli, non a caso così accanitamente propugnate dal Luzzatti, che dell’Opinione proprio di lì a poco doveva diventare magna pars1489 . Ma non ci si fermava lì; e allato de’ consigli allo Stato per un intervento a tutela dei lavoratori, affioravano consigli o, meglio, riflessioni di carattere, diremo, più propriamente poliziesco. Già nel parlar dell’Internazionale,

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dopo l’ottimismo ch’era stato di moda fra il giugno del ’71 e l’estate del ’72, tornava in luce una malcelata preoccupazione: lo stesso incitamento allo Stato perché intervenisse, muoveva dal presupposto che «sarebbe follia» il credere che gli Stati potessero non occuparsi di società come l’Internazionale, in lotta «contro l’intelligenza». Sì che quando cominciarono a fioccare pene, assai gravi, contro alcuni internazionalisti, accusati di cospirazione contro la sicurezza interna, qualche giornale, e fra essi la autorevolissima Opinione, non esitò ad approvare il rigore della sentenza, convinto che quanto più frequenti saranno gli avvertimenti simili a quello che venne dato dalla Corte d’Assise di Roma, tanto più rare sorgeranno le occasioni d’invocare quelle leggi [penali] a salutare sgomento dei nemici dello Stato»1490 . Leggi igieniche e assicurative a tutela del lavoro, ma anche mano forte contro i «settari»: erano i due rimedi, nell’uno dei quali si celava il pericolo che, anche inconsciamente, nel gravar la-mano si venisse poi trascinati più in là di quanto non si fosse voluto primamente andare, e che dalle proposte di reciproci contatti e scambi d’informazioni tra le polizie dei vari paesi1491 , si rischiasse di finire in una sorta di nuova Santa Alleanza. Pericolo tanto maggiore quanto più andassero scemando le paure di un trionfo europeo del clericalismo: meno grave apparirà la minaccia degli «ultramontani», Enrico V don Carlos e i Gesuiti, meno insidiata l’unità d’Italia con Roma capitale, e tanto più preoccupanti appariranno i sovversivi, i due colori stendhaliani, il rosso e il nero, sempre costituendo lo sfondo cupo del quadro su cui spiccava il bianco rosso verde dell’unità e della libertà. Come nella stampa, così anche negli uomini di governo si succedettero in quegli anni paura per la Comune, ottimismo sincero ma anche ostentato per ragioni tattiche, e nuovi timori; e cominciò un’alternativa di assicurazioni formali sull’assenza di pericolo vero in Italia e,

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sotto sotto, di preoccupazioni man mano crescenti e non mai più sopite. Nelle confessioni del Visconti Venosta all’incaricato d’affari austriaco, s’insinuava l’affermazione che il governo italiano, vigilante, si riteneva in grado di reprimere ogni movimento sovversivo; e il ministro la ripeteva al conte de Launay, assicurandolo che in Italia, come in Germania, la vigilanza del governo era stata sufficiente finora «a rendere impotenti le mene degli agitatori, a sventare gli intrighi ed a premunire il paese da così gravi pericoli»1492 . E tuttavia, in quei giorni il ministro degli Esteri non nascondeva che anche per l’Italia il pericolo c’era, e grave; e allo Zaluski aveva parlato dei nombreux éléments socialistes che il paese racchiudeva. Due mesi e mezzo più tardi, il tono è d’assai mutato. In Italia, paese agricolo dagli scarsi centri industriali, non vi sono che tracce quasi insignificanti dell’Internazionale; il pericolo non è, quindi, per essa né grave, né imminente: così il Visconti Venosta, nella sua risposta all’invito bismarckiano per misure comuni contro gli addetti alla setta1493 . L’unico pericolo vero potrebbe essere costituito dal raggrupparsi attorno ai nuclei dell’Internazionale di tutti i malcontenti del regime, cioè anzitutto dei mazziniani, dei «pochi settari che ancor sognano presso di noi di rovesciare l’attuale governo»1494 : Ma anche questo è un pericolo assai relativo, perché la tranquillità di cui l’Italia gode, conseguenza naturale della soddisfacente soluzione data alle grandi questioni nazionali, e l’attaccamento alla dinastia voterebbero all’insuccesso i tentativi mazziniani e socialisti. Preoccupazioni, dunque, semmai per una possibile alleanza tra i gruppi mazziniani e l’Internazionale, sempre diffuse negli uomini di governo, nonostante il dissidio ormai apertissimo fra il Mazzini e i seguaci di Bakunin e di Marx1495 . Ora un simile ottimismo serviva mirabilmente ai fini della vecchia tattica: raffigurar l’Italia tranquilla, solo in

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conseguenza della possibilità di applicare il programma del regio governo. Come era opportuno far notare all’Europa che l’Italia, il tanto temuto focolaio di spirito rivoluzionario, il terrore dei benpensanti europei un decennio innanzi, era un paese d’ordine e di tranquillità, laddove altre grandi nazioni, Francia e Spagna per prime, ondeggiavano fra anarchia e reazione! Come adatto l’argomento per suffragare le dichiarazioni ufficiali del re e dei suoi ministri i quali cercavano in ogni modo di presentare il regno nella veste di un ordinato e ormai tranquillo e soddisfatto membro del concerto europeo! Ma era anche un ottimismo sincero, dovuto alle inchieste e alle informazioni del ministero dell’Interno. Se, conversando con lo Zaluski, il Visconti Venosta aveva dato l’impressione di essere sotto il peso «d’informations particulières des moins satisfaisantes», poco appresso dal suo collega dell’Interno gli pervenivano notizie tali da ricondurre il sereno nel suo animo. Mentre infatti dalla Francia gli perveniva notizia d’indirizzi e messaggi inviati da associazioni italiane alla Comune1496 , il Ministero dell’Interno gli comunicava, il 22 maggio, che dalle indagini a più riprese praticate ci si era potuti convincere della infruttuosità dei tentativi compiuti per far attecchire l’Internazionale in Italia1497 . Poco più tardi, il ministero dell’Interno, pur pregando quello degli Esteri di far seguire a Londra le opportune indagini, dichiarava che il prefetto di Milano riteneva menzognera l’apposizione di 2540 firme ad un preteso indirizzo della sezione milanese dell’Internazionale al Comitato centrale di Londra1498 ; e, da ultimo, ancora il 18 novembre Giovanni Lanza assicurava il suo collega valtellinese che, in Italia, la setta non aveva se non «pochi aderenti sparsi e di poca influenza»1499 , proprio mentre, dalla parte opposta, il troppo entusiasta Riggio assicurava lo Engels ancora un anno e poi «i destini della penisola che saranno nelle nostre mani»1500 .

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Affermazioni che possono destare qualche meraviglia, ove si pensi che, almeno per Napoli, la polizia aveva già dovuto seriamente occuparsi della locale sezione dell’Internazionale, arrestandone i capi sin dal febbraio del ’701501 ; che tuttora si preoccupava assai del più noto e attivo fra essi, l’avv. Carlo Gambuzzi, cercando di seguirlo passo passo ne’ suoi viaggi all’estero, dov’egli appariva allora come uno dei capi del movimento italiano1502 , e, con lui, faceva pedinare con insistenza Carlo Cafiero1503 , il nobile barlettano, che da quei giorni sarebbe stato spesso causa di seccature e di uggiose pratiche per í diplomatici di Sua Maestà all’estero. Anzi cominciava sin d’allora a profilarsi la necessità di stipendiare apposito agente di polizia privata che a Londra, gran centro de’ capi sovversivi e sempre più frequentata anche dagli Italiani1504 , seguisse le tracce de’ Gambuzzi, La Cecilia, Cafiero, Zanardelli e compagni: necessità prospettata, com’è logico, dalla Legazione di Londra, poco atta e anche poco propensa a far essa la parte del gendarme, e messa in difficile situazione dal fatto che, contrariamente a quanto si poteva fare ad esempio a Parigi, col prefetto di polizia generalmente ben disposto a fornire ai colleghi italiani notizie riservate su questo o quel personaggio, la polizia inglese rifiutava nettamente la sua collaborazione e lasciava liberi gli stranieri, fino a quando almeno non ledessero le leggi britanniche1505 ; ma riconosciuta dal ministero dell’Interno e tradotta in atto sulla fine del 1871, con ulteriori proposte poi per l’organizzazione di un vero e proprio servizio italiano di polizia nella capitale britannica1506 . Ma evidentemente, nonostante queste preoccupazioni in casi singoli, nel complesso il governo riteneva ancora non pericoloso il lavorio dei rossi: o meglio continuava ad aver l’attenzione rivolta massimamente al partito d’azione ed a Mazzini, fomite sempre di preoccupazioni, anche morto, tanto da ispirar provvedimenti di assai di-

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scutibile legalità1507 . I Gambuzzi ed i Cafiero eran considerati, soprattutto, possibili anzi robabili fiancheggiatori dell’assai più antico e radicato movimento mazziniano. I progetti «sovversivi» nel maggio del ’71, erano ancora, per Giovanni Lanza, quelli del partito d’azione1508 : ancora il termine manteneva il suo primitivo significato, né era giunta l’ora, per il ministero dell’Interno, di veder spuntar, con pienezza di forze, dietro all’adusato «sovversivismo» dei repubblicani il più pericolosa «sovversivismo» dei rossi, sempre valutato nei più modesti limiti di aiutante di battaglia dell’altro. Si spiega così l’ottimismo del Visconti Venosta, rapidamente succeduto allo sconforto dell’aprile. Ad alimentarlo, sopravveniva anche il fatto che il temuto ritorno dalla Francia dei garibaldini, sospettati come agitatori rossi dai due governi di Francia e d’Italia, filava via liscio liscio, senza disordini1509 . Ond’è che, lungi dal promuovere degli accordi internazionali contro la setta, il ministro degli Esteri di Vittorio Emanuele si limitò, nei mesi che seguirono, a dare il suo assenso alle proposte pervenutegli da Berlino, nel luglio, su alcuni provvedimenti che i vari governi avrebbero dovuto prendere (cioè, comunicarsi reciprocamente i dati di cui venissero in possesso sull’internazionale e i suoi agenti, come, in effetti, accadde dipoi); e a dichiararsi in linea di massima d’accordo sul principio che attentati alla vita e alla proprietà, quali s’erano verificati a Parigi, rientravano nella categoria dei reati comuni, non di quelli politici, ed erano quindi soggetti all’estradizione1510 . Veramente, anzi, su questo secondo punto il Visconti Venosta non s’impegnava per una dichiarazione generale di principio; si limitava ad osservare di aver già comunicato alla Francia di esser pronto ad applicare la convenzione di estradizione agli autori degli omicidi e degli incendi di Parigi, e di esser disposto a rinnovare siffatta dichiarazione alla Germania; o a qualsiasi altra potenza1511 ;

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e restando sul terreno di un, fatto specifico, le devastazioni parigine, evitava così, di dover compromettersi con una dichiarazione generale, di principio, che sarebbe, d’altronde, andata assai oltre i suoi poteri, passando invece nella sfera addirittura del Parlamento. Sfumature, certo: ma sfumature che davano la esatta misura sì del mutamento avvenuto, in senso ottimistico, nelle valutazioni del nostro ministro degli Esteri, sì, e forse soprattutto, della riluttanza sostanziale sua (e con lui, dei moderati di governo) a mettersisulla via della reazione. Analogamente, faceva sì conoscere al governo francese la «ferma volontà» di quello italiano di cooperare con esso alla tutela dell’ordine sociale, prevenendo «la diffusione delle dottrine perniciose che minacciano all’Europa una nuova barbarie»: ma i provvedimenti dovevano essere «compatibili colle nostre istituzioni e coi nostri costumi»1512 ; e poiché istituzioni, e più ancora che le istituzioni, costumi e spirito con cui s’intendevano le istituzioni erano francamente, recisamente liberali, così il governo del re non sarebbe andato troppo lontano nella repressione. In quell’ora, il Visconti Venosta assumeva dunque un atteggiamento complessivamente assai più liberale non solo di quello francese, ovviamente premuto dall’incubo degl’incendi e dei massacri parigini, ma altresì di quello russo-tedesco: ché la proposta Bismarck era il risultato dei colloqui, a Berlino, tra il cancelliere e il principe Gorciacov, l’uno e l’altro animati da sacro zelo contro il banditismo internazionale1513 , cui attribuivasi a Berlino e a Pietroburgo eccessiva diffusione e potenza1514 , e spalleggiati nelle loro convinzioni anche dai sovrani e dagli altri uomini di Stato prussiani, uno dei quali, il conte di Eulenburg, segretario di Stato all’Interno, si dichiarava convinto che il pericolo d’una rivolta generale non era se non aggiornato e che sarebbe venuto il giorno «où il faudrait livrer bataille rangée à certe vermine sociale»1515 .

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Dalle idee del cancelliere russo, sulla necessaria solidarietà di tutti i governi contro la setta, era derivato l’invito bismarckiano1516 . Egli rimaneva, invece, assai più vicino all’atteggiamento del governo inglese, francamente e decisamente liberale, il quale per bocca del Granville, consentiva, in linea di massima, «à concourir par un échange de vues à s’éclairer mutuellement sur les ménées et les moyens d’action de l’association internatinnale»; ma declinava, siccome questione assai delicata e di pertinenza più dei tribunali che del governo, l’invito a considerare alla stregua di delitti ordinari i delitti dei membri dell’Internazionale1517 , e riaffermava, invece, il diritto d’asilo e la «libertà» inglesi. Era, ritenevasi a Berlino, «une fin de non recevoir»1518 ; e praticamente a conclusioni non diverse conduceva l’atteggiamento del cancelliere austriaco, il Beust, quale aveva, sì, fatto buona accoglienza formale, ma aveva chiesto informazioni sulla setta, la sua organizzazione, il numero dei suoi aderenti, e una volta in possesso dei dati non aveva più aperto bocca coll’ambasciatore germanico, Schweinitz: salvo, poi, a proporre nel convegno di Gastein dell’agosto, di fronte all’insistenza del Bismarck sui pericoli dell’Internazionale, un programma di lavoro, ma in senso di miglioramenti sociali più che di repressione. Di fronte all’azione combinata russo-tedesca stava un fronte liberale, che aveva come sentinella avanzata l’Inghilterra, ma poteva sostanzialmente contare anche sull’Italia e perfino sull’Austria1519 . Ed era parimenti notevole che anche il ministro inglese, al pari del suo collega italiano, ricorresse, per coonestare la sua risposta, all’argomento della scarsa pericolosità dell’associazione1520 : opinione sin allora condivisa generalmente nel Regno Unito1521 , con un robusto e, per l’Inghilterra, fondato ottimismo di fronte all’avvenire. Uguale, anzi più accentuato atteggiamento di sostanziale liberalismo, il governo italiano manteneva ancora

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in seguito, non solo per incidenti particolari di minor importanza1522 , si anche quando la questione dell’estradizione veniva, nei primi mesi del 1872, rimessa sul tappeto dai governi di Spagna e di Francia, le due nazioni cioè che, l’una per i ricordi della Comune, l’altra per le mene anarchico-rivoluzionarie alternantisi a quelle carliste, più sembravano dovessero paventare, in quei giorni, l’attività dei rossi. La circolare che il governo di Madrid rivolgeva, il 9 febbraio 1872, alle sue legazioni all’estero perché ne informassero le varie potenze europee, prospettava infatti la necessità di mettersi d’accordo per esaminare e decidere le misure più adatte allo scopo di combattere l’Internazionale, suggerendo, fra l’altro, di comprendere nei trattati di estradizione o in accordi speciali il caso di appartenenza all’associazione1523 ; poco appresso, in Francia, l’Assemblea Nazionale discuteva e votava, il 13 e 14 marzo 1872, la legge contro l’Internazionale, promossa sin dall’agosto del ’71 e solo ora presentata dalla Commissione; e alla legge seguiva, nell’aprile, una nuova richiesta al governo di Roma – come agli altri – perché venisse concessa la ormai tanto discussa estradizione di chi risultasse appartenere alla associazione1524 . Due iniziative che confluivano in un unico sbocco: e si poté assistere ad una netta antitesi di atteggiamento fra le tre corti del Nord, ora concordi, il governo tedesco disposto, non ad ammettere l’estradizione degli affiliati dell’Internazionale, per il solo fatto di tal loro qualità, bensì ad accettare l’estradizione per gli autori di delitti commessi «in conseguenza» di affiliazione alla setta1525 , quello russo, il più reazionario, sempre pronto a misure di rigore1526 , quello austriaco, con l’Andrássy al posto del liberale Beust, ben disposto ad approvare la proposta spagnola1527 , nei limiti in cui l’accettava Berlino; e dall’altra, il governo inglese, che nuovamente declinava l’invito madrileno1528 .

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Ancora una volta, il governo di Roma mostrò di inchinare sostanzialmente verso il lasciar fare all’inglese e non verso le misure di rigore preventivo e generale: e dapprima il ministro dell’Interno, Lanza1529 , e successivamente il Guardasigilli, De Falco1530 , fecero presente al loro collega degli Esteri l’impossibilità di dar seguito alle richieste spagnola e francese. Certo, dal punto di vista strettamente formale l’atteggiamento di Roma non era dissimile da quello tedesco, siccome notava «con soddisfazione» il Lanza, almeno di fronte alla richiesta spagnola: anche Berlino infatti, rifiutava di accettare l’estradizione per il semplice fatto dell’appartenenza alla setta. Ma l’animo dei politici di Roma era d’assai più vicino all’atteggiamento del Granville e del Gladstone, prettamente, profondamente liberale, tutto imbevuto di quel che, in fatto di politica interna, poteva bene essere considerato il principio informatore del liberalismo inglese e quindi europeo, il principio, cioè, del reprimere e non del prevenire. Lo dovevano proclamare apertamente, più tardi, due uomini della Sinistra, il Cairoli1531 e, soprattutto, lo Zanardelli1532 , anche contraddicendo al Crispi che, futuro zelatore del governo forte, già reclamava il prevenire1533 ; ma, in quei giorni del ’71-72, almeno, fu pure il principio a cui si ispirarono gli uomini della Destra. L’alta perorazione di Francesco De Sanctis, alla Camera, il 10 dicembre 1878, sulla necessità assoluta della libertà di pensiero e d’insegnamento1534 , era anch’essa già sostanzialmente contenuta nella dichiarazione del Lanza al suo collega degli Esteri, che lasciava ad ogni associazione facoltà di raccogliersi intorno ad un programma economico-politico «inspirato anche ai più assurdi sofismi della Scuola socialista». Insomma, ancora e sempre era il convincimento che occorreva valersi solo di «quelle forze morali, che formano la sanità delle nazioni»1535 ; e «rispettare la legalità e la giustizia».

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Noi abbiamo tanto sofferto a causa dell’arbitrio – dichiarava uno degli uomini di Stato italiani al ministro di Francia, Fournier, nell’estate del ’72 – quando vivevamo a seconda dei capricci dei nostri numerosi governi, che vogliamo credere alla legalità, ora che ci sentiamo abbastanza forti per essere una nazione, una e libera; e siamo abbastanza chiaroveggenti per non credere alla libertà che nella legge. Commentava il Fournier, che in Italia non c’erano da temere misure speciali contro i Gesuiti, a seguito della violenta politica bismarckiana: ai Gesuiti, come all’Internazionale1536 , contro cui il governo italiano aveva rifiutato di predisporre una legislazione speciale, verrà applicata la legge comune. Gli Italiani hanno troppo l’esperienza delle società segrete e della forza di propaganda loro procurata dalle leggi violente ed eccezionali, per voler creare dei martiri; i loro uomini di Stato hanno una gran fiducia nel tempo e nella legalità, per risolvere le difficoltà apparentemente più compromettenti e complicate. Nel Parlamento, nel paese quel che domina è lo spirito di legalità1537 . Era una prova certa della profonda serietà e saldezza delle convinzioni liberali di quegli uomini. Giacché questo riaffermare il diritto di libera associazione non era più dovuto alla sicurezza di non aver nulla da temere. Lanza poteva bensì ripetere nella primavera del ’72 che l’«associazione internazionale, massime in Italia, è tuttavia in uno stato di formazione assai rudimentale, e si travaglia ancora faticosamente intorno alle vie da scegliere per concretare un sistema di condotta, ed estrinsecare la sua azione» poteva assicurare il ministro di Francia presso il Quirinale, ch’egli, assai esattamente informato sull’attività dell’Internazionale in Italia, era molto tranquillo e non ne temeva le possibilità di propaganda, con i suoi appena 3 o 4000 affiliati, con il dissidio fra internazionali e mazziniani, con Garibaldi – desideroso di unire gli uni e gli altri privo delle necessarie qualità di or-

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ganizzatore, unico eventuale non grave pericolo essendo quello di un avvicinamento fra l’Internazionale e la massoneria priva oggi delle sue ragion d’essere cospirative di una volta1538 : ma egli stesso non si sentiva forse così tranquillo come era apparso nell’estate e ancora nell’autunno dell’anno precedente. Non erano infatti solo notizie dall’estero a confermare la diffusione dell’Internazionale in altri paesi o i legami fra le sezioni estere e quelle italiane1539 . Sin dal gennaio del 1872 il ministero dell’Interno rilevava un’inconsueta attività dei mazziniani e degli internazionalisti, per una comune e imminente azione rivoluzionaria, in concomitanza con analogo movimento francese1540 ; e sebbene la data annunziata (il 24 febbraio) trascorresse senza perturbamento alcuno, al di qua come al di là delle Alpi, pur tuttavia al Lanza continuavano a pervenire notizie allarmanti, talora, come suole, fantastiche1541 , e venivan segnalati, anche dalle autorità francesi e austriache, i frequenti viaggi di veri o presunti agenti della setta1542 : donde l’intensificarsi del carteggio di carattere poliziesco fra il Ministero dell’Interno e quello degli Esteri, fra quest’ultimo e gli agenti diplomatici all’estero, probabilmente assai poco soddisfatti di vedersi affibbiare un nuovo e, certo, non gradito compito1543 . E nell’estate sopravvenivano gli scioperi: 31, in 25 località diverse, quasi tutte dell’Alta Italia, dall’inizio di luglio alla fine di agosto; più importanti fra tutti quelli, scoppiati contemporaneamente il 24 luglio, di Verona (operai delle officine ferroviarie, per cinque giorni) e di Torino (sciopero generale per nove giorni), e quello di Milano (pure generale), iniziato il 5 agosto. Sempre fedele alla tattica di ostentare sicurezza e tranquillità per non fare il giuoco degli avversari1544 , il governo parve continuare a ritenere, come molti altri Italiani, che la questione operaia non presentasse, nella penisola, gli stessi pericoli che altrove, e non volle aver l’aria di attri-

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buire eccessiva importanza a quanto accadeva nei centri industriali1545 ; ma, quasi sin dall’inizio, si preoccupava invece di possibili connessioni fra gli scioperi italiani e quelli che, contemporaneamente, avvenivano in Francia, come determinati, gli uni e gli altri, da un’unica parola d’ordine lanciata da uno stesso potere direttivo1546 . E il risultato ultimo delle indagini compiute dal ministero dell’Interno fu che, per gli scioperi più importanti, sebbene mancassero elementi per affermare che tutti fossero stati preparati esclusivamente dall’Internazionale, pure si avevano prove sufficienti per ritenere che essa li avesse promossi e favoriti, e altresì per affermare che, dopo il Congresso tenuto dalla Federazione Italiana dell’Internazionale in Rimini, il 4, 5, 6 di agosto, la setta avesse fatto sforzi per organizzare nuovi scioperi. A Torino, Milano, Verona, indubbia la sua influenza1547 . Dunque, non era più possibile, come l’anno innanzi, ostentare assoluto ottimismo: ora, e nonostante gli screzi profondi tra sezioni italiane e Consiglio Generale di Londra1548 , che culminavano nel distacco delle prime dal secondo proprio nel Congresso di Rimini, l’Internazionale aveva messo piede in Italia1549 e cominciava ad agire in modo indubbio e non privo di efficacia. E finalmente, nel novembre del 1872, il grande meeting al Colosseo, per il 24 – che pur non era dell’Internazionale! – suscitava allarmi ancor più vivi: questo appariva un vero e proprio tentativo rivoluzionario, che si proponeva di mutare le istituzioni fondamentali dello Stato1550 . Scapparono dalla capitale, in buon numero, i forestieri, timorosi di un vero e proprio conflitto cruento; si diffusero, come suole, le voci più inquietanti, non ultima quella – pure raccolta dal ministro di Francia presso il Quirinale – che il clero sperasse, sovreccitando gli animi, di provocare un conflitto aperto e quindi un atto di forza del governo, e nuovi odii contro di esso: certo l’allarme fu grande, e il nome dell’Internazionale cor-

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se di bocca in bocca, e il pacifico cittadino rabbrividì incontrando qua e là per le strade «de ces figures qui ne sortent de terre que les jours où il se prépare un mauvais coup»1551 . Un anno più tardi, nuovi scioperi: e sempre più si rafforza negli uomini di governo «il sospetto gravissimo che gli scioperi delle classi operaie fossero promossi dalle fazioni sovversive e specialmente dall’Associazione internazionale. Ad avvalorare questo sospetto ... concorrono ora i nuovi disordini avvenuti in alcune provincie e le successive notizie pervenute ...»1552 . Infine, il ’74, villa Ruffì da una parte, e dall’altra il tentativo insurrezionale di Andrea Costa, Cafiero e Malatesta. All’ottimismo cominciava dunque a subentrare una certa inquietudine. Negli uomini di governo, come nella stampa. E bisognava andare in cerca di rimedi. Di iniziative collettive delle potenze – d’altronde così pericolose e tali che, se si fossero realmente attuate, avrebbero nuovamente posto Lanza e consorti a fronte a fronte col proprio vigile senso di libertà – non era più il caso di sperare o temere l’avvento. Passata era l’ora in cui non pure certa stampa, ma perfino il ministro di Svizzera a Roma poteva temere addirittura che Francia Germania Italia cercassero di accordarsi per occupare militarmente i cantoni svizzeri loro confinanti, e mettere così fine al concentramento degli internazionalisti su suolo elvetico1553 . La proposta spagnuola del febbraio era caduta nel vuoto; un po’ il fatto che, emanando da una potenza di second’ordine e allora in piena crisi, era venuta fuori senza la necessaria autorità iniziale per imporsi veramente all’attenzione dei gabinetti europei; un po’ l’opposizione inglese e un po’ la difficoltà di mettere d’accordo legislazioni assai diverse avevano fatto fallire questa, come già la proposta francese dell’anno precedente e, ancora, la stessa rinnovata proposta francese della primavera del

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’72. Sin dall’inizio delle discussioni sulla proposta spagnuola, sin da allora era affiorato in taluno de’ capi di governo un sostanziale scetticismo sulla possibilità pratica di giungere ad un accordo generale europeo1554 ; e lo stesso governo di Madrid era ben consapevole della debolezza iniziale della sua proposta, quando aveva espresso il desiderio che qualcuna delle grandi potenze la facesse sua, con ben altra autorità, assumendosi il compito di concretare le basi dell’accordo1555 . L’unico uomo di Stato che avrebbe avuto prestigio sufficiente per costringere ad un accordo almeno le potenze continentali, il Bismarck, non era già più ora nello stato d’animo che gli aveva ispirato i passi presso i governi europei del giugno ’71: ora, si stava iniziando il Kulturkampf e in luogo dell’Internazionale rossa l’incubo del cancelliere diventava l’Internazionale nera, l’ultramontanismo. Il ricordo della Comune svaniva, e restava invece, ben fermo dinnanzi ai suoi occhi, il fantasma del Vaticano: in luogo dei rossi petrolieri parigini, le nere vesti de’ preti. Non solo ad accordi di carattere internazionali egli non avrebbe d’ora in poi pensato, con i colleghi di Russia e Austria, nemmeno nel grande convegno di Berlino che fu pure una spettacolosa dimostrazione di conservatorismo europeo1556 ; ma neppure a provvedimenti interni: il Sozialistengesetz sarebbe stato preceduto dalle leggi di maggio, avrebbe dovuto attendere il 1878 e i due consecutivi attentati contro la persona stessa dell’imperatore Guglielmo per esser concretato. E rimaneva, per il momento, pure senza costrutto il lavoro preparatorio delle commissioni tedesca ed austriaca che avevano cercato di elaborare piani per risolvere la questione sociale, non accontentandosi di reprimere, ma anche di prevenire. Era stato, questo, il risultato delle discussioni fra il Bismarck e il Beust, nei convegni di Gastein e di Salisburgo, l’agosto e il settembre del ’71, il cancelliere germa-

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nico d’accordo ora che misure repressive contro l’Internazionale non bastavano a risolvere la questione sociale, di cui la prima era soprattutto un sintomo1557 ; il Beust più che convinto che la repressione sola non bastava, e occorreva invece organizzare anche una «controinternazionale» che lavorasse al di fuori dei governi1558 , «studiare i modi migliori per opporre una diga di interessi conservatori alle passioni di chi vuol distruggere ogni ordine governativo». Occorreva «favorire e proteggere le pretese degli operai, nel limite della giustizia, promuovere le associazioni in cui essi trovino vantaggi reali e duraturi: togliere, così in una sola parola, dalle mani dei sovvertitori l’arma di cui si valgono per mantenere ed usufruttare il malcontento nato da molteplici cause nello sviluppo odierno delle imprese e delle industrie»1559 . Su questa base, accettata dal Bismarck, si sarebbero dovuti svolgere i lavori di commissioni austro-tedesche, come preparazione di una vera e propria commissione internazionale da proporsi agli altri governi. In realtà, anche i due memorandum del Beust erano rimasti senza seguito immediato1560 ; e solo nella primavera del ’72, dopo la proposta spagnuola, si passava all’attuazione pratica, mediante la creazione di due commissioni, una tedesca e una austriaca, le quali, dopo lavori preliminari separati, dovevano riunirsi in una conferenza a Berlino1561 . La conferenza ebbe luogo, dal 7 al 29 novembre, a Berlino, e concluse, in effetti, per misure preventive e non repressive1562 ma tutto finì lì, senza traccia immediata nemmeno nella legislazione interna dei due paesi, e senza naturalmente che fosse mai più questione di convocare attorno ad un tavolo i rappresentanti delle altre grandi potenze1563 . Così, non c’era proprio da sperare o temere alcuna azione generale europea: bisognava che ciascuno se la sbrogliasse da sé, siccome faceva d’altronde il governo italiano, che procedeva, specie sulla fine del 1872, a scio-

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glimenti di circoli e associazioni repubblicane e socialiste nelle Marche, a Genova, in Toscana soprattutto. E ad accrescere le inquietudini, cominciavano a sopravvenire, oltre gli scioperi, oltre le informazioni dall’estero accennanti a grossi pericoli per l’Italia1564 , anche altri eventi o annunci di eventi particolarmente atti ad impressionare uomini di governo dalla sincera ed ardente fede monarchica: vale a dire, gli attentati ai sovrani. Proprio quando gli scioperi in Italia stavano per giungere al punto massimo, proprio allora, a sera tarda del 18 luglio 1872, il re di Spagna, un Savoia, sfuggiva per miracolo alle fucilate sparategli contro da cinque individui. E come per gli scioperi le inchieste sboccavano nella constatazione dell’indubbio intervento dell’Internazionale, così per l’attentato pochi giorni appresso perveniva da Londra la notizia ch’esso era stato preparato nella capitale inglese, senza dubbio ad opera dell’Internazionale la quale, col regicidio, voleva provocare una rivolta in terra iberica1565 . Quest’era un fatto, una realtà che dava valore anche alle altre frequenti voci di preparativi di attentato, contro questo o quel sovrano1566 : nessuna meraviglia che, sul finire del 1872 e ai primi del ’73, a Roma si prendessero molto sul serio le notizie da Londra su di un imminente attentato contro Vittorio Emanuele II, e si ordinasse la massima vigilanza su tutti i sovversivi – anche sui movimenti di Ricciotti Garibaldi, proprio allora in Inghilterra e sempre sospetto di trame con l’Internazionale1567 . Così si alimentavano i timori; e s’alternavano fiducia e ansie, ottimismo e primi dubbi. Tra questi due poli, il senso fortissimo della libertà e le apprensioni di fronte alle oscure forze che si agitavano in basso, tra l’alternarsi de’ timori e delle considerazioni ottimistiche sulla mancanza di materia infiammabile in Italia1568 doveva d’ora innanzi muoversi la politica italiana: anche la politica estera, per quanto almeno su di essa rifluissero i grandi problemi interni. Ond’è che come nella stampa

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crescevano le preoccupazioni per l’Internazionale e dall’animo di molti uomini del ceto dirigente non s’estirpava più la diffidenza per quel che poteva, anche improvvisamente, erompere dal basso1569 , e agli ormai vecchi epigoni dell’immaginoso fraseggiare romantico la mano dell’Internazionale appariva tratto tratto sulle pareti della moderna società, simile alla mano tragica della cena di Baldassarre1570 e quando s’avevano in pugno operai colpevoli di «cospirazione», dopo i tentativi insurrezionali del ’74, si colpiva duramente, e il Pubblico Ministero ne parlava come di «melma sociale»1571 ; così sempre più s’infittivano i carteggi mínisteriali, in cui venivan innanzi i nomi dei grandi agitatori – talora, anche di presunti grandi rivoluzionari – segnalati da Palazzo Braschi alla Consulta e da questa alle legazioni all’estero, soprattutto a Londra: nomi di persone che dovevan essere vigilate e pedinate, perché a Roma si potesse essere tranquilli. E pertanto oggi a chi consulti gl’incartamenti della corrispondenza ordinaria fra Roma e Londra, vien fatto di osservare, non senza una iniziale meraviglia, come, sovente, una parte non esigua, quantitativamente, dei dispacci e dei rapporti non contempli grandi problemi di politica internazionale, e tralasci i nomi di Gladstone e Granville, per soffermarsi invece sull’andirivieni Londra-Parigi-Ginevra e Londra-Bruxelles o Milano-Londra di uno fdi questi errabondi propugnatori del verbo proletario. V’era così il pericolo che, senza ripudiare i princìpi della libertà, anzi riaffermandoli con fermezza, e senza dunque passare minimamente nel campo della reazione, la politica estera del giovane Regno risentisse, tuttavia, di diffidenze, di sospetti e di un’inquietudine vaga ma reale, tali nell’insieme da inclinare i governanti con maggior simpatia verso le cosiddette potenze dell’ordine, garanti sicuri della conservazione dello status quo politico-sociale, cioè monarchico-borghese, dell’Eu-

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ropa. Il conservatorismo auspicato dal Minghetti diventava, insensibilmente, una realtà: un motivo di più per il riavvicinamento alla Germania imperiale e il distacco dalla Francia. La quale, senza dubbio, era conservativa assai, anzi reazionaria nella maggioranza dell’Assemblea Nazionale eletta nel febbraio del 71; era conservativa e reazionaria nei suoi ceti rurali, nella nobiltà e in parte stessa della borghesia: tant’è, essa doveva apparire minacciosa al giovane Regno, negli anni immediatamente seguenti il ’70, come centro della reazione cattolica, ch’è come dire minacciosa all’unità d’Italia. Ma se in quei primi anni dopo il ’70 la Francia appariva nel complesso conservatrice, c’era sempre l’ombra sinistra della Comune, sul fondo; e poi, rapidamente, fu Gambetta, fu l’appello alle nouvelles couches sociales, fu la repubblica del ’76, fu l’apparire trionfante del radicalismo, agli occhi dei moderati italiani parente prossimo, assai assai più di quanto non fosse in realtà, del socialismo e del sovversivismo. E risorse quasi subito l’immagine della Francia come della nazione che passava, a sbalzi improvvisi, dalla reazione all’anarchia, dal terrore rosso al terrore bianco, atta a tutti gli estremi, irrequieta e instabile, capace di alimentare in un prossimo futuro nuovo fuoco rivoluzionario. Fille aînée de l’Eglise et mère de la Révolution1572 ad un tempo, la Francia spaventava allora nell’una veste, quella clerico-reazionaria, tutti indistintamente i partiti italiani, e, nell’altra, quella radicale, almeno gli uomini della Destra, i moderati1573 , che potevano sentirsi più tranquilli, dal punto di vista dell’ordine e della tranquillità interna, guardando a Berlino e a Vienna. Non a caso il più feroce antiinternazionalista fra i diplomatici italiani era, anche, il più accanito sostenitore dell’alleanza prussiana. Il conte de Launay, infatti, non nascondeva mai al Visconti Venosta il suo modo di vedere, assai spiccio e perfettamente analogo a quello del suo

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collega francese di Pietroburgo, il generale Le Flô, ch’era stato d’altronde il ministro della Guerra nel governo versagliele durante la Comune1574 agire con la forza. Altro che le sedute delle commissioni di tecnici e di professori universitari e di giuristi, che studiassero il rimedio al male!1575 Dati i tempi e i costumi, unica cosa salutare era sévir avec énergie1576 . Pugno di ferro. Atteggiamento logicissimo in un uomo che, prima ancora si parlasse dell’Internazionale, già deplorava le soverchie discussioni alla Camera italiana, di cui accusava l’esprit aussi peu pratique, è già profetizzava funeste cose al parlamentarismo e a chi su di esso poggiasse1577 ; in un uomo il quale si associava al parere del Guizot: «de nos jours ce n’est pas la liberté qui a besoin de défenseurs, mais l’autorité» Autoritario e antisocialista, il de Launay dimostrava, con il suo esempio personale, come avessero ragione coloro che temevano, per effetto della Comune, l’ondata reazionaria. Certamente, nessuno degli uomini al potere in Italia, e nessuno anche di quegli altri moderati che ne avrebbero raccolta la successione nel ’73, nessuno fra i Lanza, i Minghetti, i Visconti Venosta, a tacere dei Sella, avrebbe mai fatto suo l’autoritarismo del savoiardo: solo un altro savoiardo, il Menabrea, avrebbe potuto sottoscrivere ad espressioni del genere, sicuro, anche, di trovarsi in piena conformità d’idee col suo re, il quale aveva temuto che Thiers non si lasciasse trascinare da tendenze alla conciliazione, da riguardi verso le «bande» di Parigi. «Nous avons ... trente ou quarante mille de ces misérables chez nous, et je sens qu’il faut être énergique contre eux»1578 . Ma che nessuna sfumatura in senso conservatore s’infiltrasse nella politica italiana e anche nella politica estera, d’ov’era facile che il conservatorismo si ammantasse di altre motivazioni e fosse confortato da ragionamenti di interesse diplomatico e finisse quindi con l’essere accolto, in perfetta buona fede, da uomini sinceramente devo-

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ti all’idea e alle istituzioni liberali: che questo non avvenisse, proprio in nessun modo, era altra questione. Tanto più perché coloro che cominciavano ad agitare fra le masse il problema sociale, agitavano anche quello istituzionale, la monarchia apparendo baluardo degli interessi dei ceti cosiddetti privilegiati e la repubblica una necessità per la vittoria dei lavoratori e l’attuazione del nuovo ordine. Riappariva così, sempre, lo spettro della repubblica la quale, sorgesse pure ad opera dei mazziniani, era sempre la rivoluzione, l’anarchia, la rovina di tutto. Il pericolo repubblicano, più antico, apparve ancora sempre maggiore, assai maggiore del pericolo sociale vero e proprio: e questa fu la preoccupazione più grave, sin verso il ’90; e la preoccupazione anzi salì di tono dopo il 1878, condusse, fra il ’79 e l’81, ai giudizi pessimistici di Italiani e di stranieri sulle sorti prossime della monarchia, ripercuotendosi anche direttamente sulla situazione internazionale dell’Italia. Ma non v’eran da attendere il 1882 e la conclusione della Triplice Alleanza per scorgere il peso delle preoccupazioni conservatrici sulla stessa politica estera. Già negli ultimi mesi del 1870, la repubblica in Francia volle dire parteggiare dei cavallottiani per essa e, invece, un certo intiepidire delle simpatie filofrancesi nei moderati, anzitutto nel Bonghi1579 , e addirittura il passar deciso di altri a simpatie filoprussiane1580 . Né era questione soltanto di giornali e di opinione pubblica. Nell’autunno del 1870, proprio in sull’inizio della vicenda storica di cui ci occupiamo, le preoccupazioni di politica interna avevano pesato concretamente sulla politica estera, con l’accettazione della corona regale di Spagna da parte del duca d’Aosta. L’argomento che aveva vinto le molte esitazioni del Visconti Venosta era stato infatti lo spauracchio della repubblica, in cui altrimenti la Spagna sarebbe precipitata. Una repubblica spagnuola di per sé non era cosa da commuovere; ma

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la situazione generale europea era mutata dal momento del primo rifiuto del duca, era mutata anche dal luglio, quando il governo italiano sarebbe già stato disposto ad accettare, per salvare la pace europea, seppellendo l’incidente Hohenzollern1581 . «... la repubblica a Parigi e la. Repubblica a Madrid costituiscono un fatto di cui un governo prudente deve preoccuparsi. Né vale il dire che la repubblica in Francia sarà del tutto effimera. Le varie frazioni dei partiti moderati francesi, sono ora disposte a unirsi intorno alla forma repubblicana siccome a quella che meno li divide ed è quindi più atta ad assumere la responsabilità della pace e a sanare le piaghe della guerra. Se ciò avviene la repubblica durerà in Francia per un periodo alquanto prolungato di tempo. Che se la repubblica cade del tutto nelle mani del partito estremo essa si farà allora propagandista e se non ci creerà dei serii pericoli, per lo meno ci solleverà degli imbarazzi e delle difficoltà considerevoli.»1582 . Questi, dunque, i motivi della decisione del Visconti Venosta1583 , che non pensava nemmeno lontanamente di porre in tal modo le premesse di una politica di grandezza mediterranea, ch’era tutto preoccupato, specialmente dopo l’ingresso a Roma, di non «andare incontro ad alcun rimprovero, ad alcuna accusa di ambizione inquieta ed incontentabile»1584 , che non si sognava nemmeno di svolgere una politica di accerchiamento dalle Alpi ai Pirenei, creando difficoltà alla Francia, anzi, prima di decidere, si preoccupava di ottenere l’assenso anche del governo francese alla candidatura del duca Amedeo1585 . Già allora, dunque, preoccupazioni in senso monarchico-conservatore, confortate dall’appoggio dell’Inghilterra1586 , avevano ispirato la decisione, con gran piacere del duca desiderosissimo della corona regale1587 e con plauso dei moderati, ai quali sembrava proprio necessario impedire che la Spagna si ordinasse a repubblica1588 .

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Capitolo Quarto Presente e avvenire

Motivi vecchi e motivi nuovi s’intrecciavano così nella vita morale e spirituale degli Italiani, gli uni collegando le giovani e le vecchie generazioni, il ’48 e il ’70, gli altri preannunziando diversi sviluppi e differente futuro. Per meglio dire, i vecchi ideali continuavano a signoreggiare, libertà e nazionalità sempre costituendo il fulcro della vita italiana: ma già si avvertivano, nella interpretazione di essi, accenti da’ quali trasparivano, come l’imporsi di nuovi problemi e l’avvento di forze storiche almeno parzialmente diverse da quelle del ’48 e del ’59, così le possibilità di sviluppi anche ideologici capaci di portare assai lontano dalle antiche mète. La libertà: era sempre il motivo che dava il tono d’insieme all’epoca. Che gli stessi ammiratori della potenza germanica ritenessero, così pensando e scrivendo, di servire la causa della libertà, dianzi conculcata dal tirannico figlio d’Ortensia, era gran prova di quali fossero gli ideali degli Italiani attorno al ’70; e che la loro fosse illusione, nulla toglie alla serietà del convincimento, così come poco importa che nuovamente essi s’ingannassero nel considerare il Kulturkampf come affermazione del libero pensiero e del libero volere umano in lotta contro l’oscurantismo cattolico, e nel volere, perciò, un Kulturkampf anche in Italia. Nell’un caso e nell’altro essi imprestarono al cancelliere germanico i loro sentimenti e le loro idee: cosa, appunto, di gran peso nel dichiarare quale fosse la loro vita spirituale. Libertà, sovranità popolare: e parlando di sovranità popolare la si interpretava ancora nel vecchio senso rousseauiano, e parlando di democrazia, la si volesse o la si avversasse, si credeva ancora all’azione diretta, immediata del popolo, siccome dimostrava lo stesso insistente ap-

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pello ai plebisciti come espressione della libera volontà nazionale. Gaetano Mosca non era ancor giunto a negar fede a questi miti e a parlare delle minoranze organizzate e capaci, della classe politica unica vera attrice di storia. Fede nella libertà: e gli uomini di governo, i moderati, ne offrirono prova decisiva in un momento particolarmente difficile per la nazione italiana, in pieno infuriare di agitazioni clericali, rifiutando di porsi sul terreno della lotta violenta contro il Papato su cui pure voleva spingerli il Bismarck. In quei due critici anni, fra la primavera del ’ 7 3 e la primavera del ’75, gli uomini della Destra mantennero fede alla religione della libertà; e per mantenere tal fede non esitarono a correre il certo rischio di alienarsi l’animo del cancelliere germanico, che pure appariva loro, in quei frangenti, l’unico sicuro e solido sostegno dell’Italia nell’Europa. Analoga prova essi diedero, rinunziando a ricorrere ad una legislazione restrittiva nei confronti dei seguaci dell’Internazionale. E pure, questo era un detestatissimo mostro. Di fronte alla Chiesa cattolica e al Papato, la grandissima maggioranza dei moderati, di animo cattolico, convinta della necessità della forza del sentimento religioso per una società bene ordinata, era nell’atteggiamento di chi debba sopportare un doloroso e fatale periodo di contrasti, ma senza dismettere mai la speranza di un avvenire senza contrasti, con le due parti pacificate e rispettose l’una dell’altra. Ma di fronte alla propaganda dei sovversivi, l’avvenire se mai impauriva assai più del presente: qui, nessun accordo possibile, né ora né mai; qui, veramente, la prospettiva di una lotta indefinita e senza quartiere. Qui anche, perciò, il primo evidente irrigidirsi del pensiero liberale, com’era stato elaborato dall’Ottocento occidentale; qui, il precisarsi delle sue colonne d’Ercole, almeno per qualche decennio e nonostante le voci di chi premeva perché s’andasse oltre; qui, l’abbando-

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no di ogni lievito rivoluzionario e il conservare come parola d’ordine; qui, i primi dubbi se proprio gli ideali del 1789 dovessero considerarsi come ideali di valore assoluto, eterno, da far trionfare sempre e dovunque, traendone tutte le conseguenze, oppure se non fosse necessaria minore assolutezza di principi, minore consequenziarietà logica, e invece discrezione senso della misura equilibrio, cioè ancor sempre giusto mezzo. L’avevano già detto i liberali francesi della Monarchia di Luglio e i moderati italiani prima del ’48; e ora, chiuso il ventennio rivoluzionario, in cui anche i moderati avevano dovuto procedere più rapidi di quel che non fosse stato nei loro programmi, si tornava ai vecchi amori, a metà strada tra rivoluzione e reazione. La Comune di Parigi era lì ad ammonire che bisognava far presto a porre degli argini. Soltanto, crescevano le nuove forze sociali che avrebbero voluto fare alla borghesia quel che la borghesia aveva fatto alla nobiltà dell’891589 ; la Comune, era già qualche cosa di molto più grave del giugno ’48, Mare era altro combattente dei sansimoniani e del Fourier: e perciò, dunque, anche il principio del giusto mezzo accentuava ora il suo carattere conservatore, si nutriva di preoccupazioni più forti e rischiava di diventare assai più rigido e fermo su posizioni preordinate di quanto non convenisse alla sua stessa natura di ricerca elastica delle soluzioni medie fra i vari estremi. Qualcosa di simile avveniva anche per l’altra grande parola del Risorgimento. Il principio di nazionalità rimaneva certo ancora, nelle questioni internazionali, l’unico capace di suscitare entusiasmi, di far avvampare passioni popolari. Questo, era stato il motivo a cui aveva fatto appello e in cui aveva trovato la sua giustificazione il patrio riscatto; questo, continuava a risplendere come da un alto faro. L’antica fiamma rimaneva viva, anche se non intendesse più illuminare la via a tutte le genti, bensì soltanto alla

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gente italica; e lo documentò, per gli anni di cui ci dobbiamo occupare, l’irredentismo, che da questo punto di vista volle dire il continuare nell’Italia di fine secolo dell’Italia del ’59 e del ’66 e, tenendo desto l’ideale della nazionalità, anche in contrasto con la politica ufficiale dei governi, mantenne il terreno propizio per l’ultima grande impresa dell’Italia liberale e nazionale del Risorgimento, la guerra contro l’Austria-Ungheria del 1915-18. Ma anche quest’ideale stava perdendo il suo impulso rivoluzionario primitivo, rinunziando agli antichi sogni di un’Europa completamente nuova; anche esso lasciava cadere ogni estremismo e si acconciava al giusto mezzo. Il quale giusto mezzo aveva nome, ora, equilibrio europeo, necessità generali della vita internazionale, pericolo di rovinar tutto a voler esser troppo consequenziari nell’applicazione dei principi: bisognava sposare il principio di nazionalità con quello di equilibrio, diceva apertamente il Marselli e ripetevano quasi tutti gli altri. Per i moderati, era atteggiamento logicissimo, invece della rivoluzione il riformismo e star contenti ora che s’era messa a posto casa propria. Per molti uomini della Sinistra l’abbandono dei sogni universali di Mazzini e di Cattaneo era meno logico e coerente con l’antico sentire: ma era proprio questa la prova che lo spirito rivoluzionario era finito. Lucido puro e perenne era apparso al Cattaneo il principio della nazionalità1590 ; ma anche di esso ora si dubitava che potesse proprio esser preso sempre a guida assoluta dell’agire politico, e purezza e perennità si trasformavano in compromesso e in momentaneità; caso per caso, patteggiando con l’equilibrio europeo e la situazione internazionale dell’ora. Che in Francia Albert Sorel valutasse il principio di nazionalità alla stregua di uno dei tanti mezzi di cui si vale la politica, per coprire con un manto ideale interessi molto precisi e concreti, non era poi gran meraviglia: troppa parte del pensiero e dell’opinione pubblica fran-

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cese era stata sempre o indifferente o avversa alle nazionalità, Michelet Quinet e i democratici erano stati anche per questo aspramente combattuti, e un quindicennio prima del Sorel il principio di nazionalità era già stato battezzato une grosse blague, una semplice macchina da guerra e da rivoluzione, un luogo comune da un uomo di diversissimo sentire quale il Proudhon1591 . Ma in Italia, dove anche i moderati avevano dovuto accettare la parola di Mazzini, diventando da federalisti unitari e sventolando il diritto della nazione, sino a Roma; in Italia, dove il principio di nazionalità costituiva la ragion d’essere della nuova vita comune, in Italia ebbero suono inconsueto le scettiche parole con cui nel 1882 Gaetano Mosca non solo insisteva sulla forza, la forza brutale, come uno dei maggiori fattori della costituzione delle nazioni, ma, soprattutto, svuotava anch’egli? il principio di nazionalità del suo valore assoluto e ideale, per farne una macchina da guerra. I governi lo applicano come torna loro comodo. Quando si deve fare la guerra, ci vuole una ragione; in mancanza di meglio, il principio di nazionalità potrà sempre interpretarsi in modo da fornire qualche ragione: «così va il mondo nel secolo decimonono»1592 . Erano senza dubbio, le nuove esperienze europee di dopo il ’70, soprattutto il giuoco troppo visibile di interessi delle grandi potenze attorno alle nazionalità balcaniche, i patteggiamenti e i compromessi e il Congresso di Berlino del ’78; era, parimenti, l’essere arrivati per proprio conto, la volontà di conservare l’acquisito senza comprometterlo in avventure rischiose: ma, comunque, fosse la lezione delle cose fosse il naturale desiderio di conservare, la fede nel principio s’intiepidì e cominciò a smarrire quel carattere di assoluto che ne aveva fatto, in Mazzini, una religione. La lezione della realtà induceva ad abbandonare il messianismo rivoluzionario generale; indusse invece a guardar soltanto a sé stessi, a pensare alla propria forza e

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potenza. Dal principio di nazionalità la via era aperta per lo sbocciare del futuro nazionalismo, che era tutt’altra cosa e che trovò zelatori focosi anche nei paesi che, in effetti, meno avevano esaltato il diritto delle nazioni, a cominciare da Francia e da Inghilterra. Tale, dunque, il confluire dei motivi vecchi e nuovi. Come essi si sarebbero configurati e precisati, questo era il segreto dell’avvenire. Vogliamo dire, che non era ancora fatalisticamente deciso che proprio la nazionalità divenisse nazionalismo e la missione di Roma dalla scienza trascorresse alla potenza; la via non era tracciata ex aeterno, e soprattutto non era una via che potesse svolgersi soltanto fra le Alpi e gli Appennini. I vari motivi potevano svolgersi, intrecciarsi, signoreggiare l’uno e declinare l’altro, a seconda si svolgessero le cose anche al di là delle Alpi; ideali e forze dovevano commisurarsi non solo alla vita italiana ma anche alla vita europea: come la paura del prossimo diluvio universale veniva nuovamente eccitata, nel ’71, da un fatto non italiano, la Comune di Parigi, così lo scetticismo sui grandi principi e il riconoscere come ultima dea la forza erano ripercussioni anche italiane di un più generale atteggiamento europeo. Gli uni e gli altri motivi, che si sono partitamente analizzati, traevano alimento dall’esperienza generale dell’Occidente, non solo da quella italiana, e s’intrecciavano poi insieme, agivano l’uno sull’altro nel fluire generale del processo storico divenuto veramente, come pronosticava Renan sin dal 1870, una specie di oscillazione tra questioni patriottiche e questioni democratiche e sociali1593 . E poté pure succedere che certe tendenze, idee, sentimenti che nel ’70-’71 e ancora negli anni immediatamente successivi erano quasi proprietà di una determinata parte politica divenissero poi, col tempo, retaggio della parte opposta; che, cioè, ferme restando quelle tendenze e idee, esse venissero abbandonate dai primitivi propugnatori e passassero in dominio di coloro che,

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una volta, le avevano avversate. Era proprio il caso per l’atteggiamento pro e contro Germania e Francia. Già nel 1870 la proclamazione della Repubblica a Parigi, se aveva conciliato alla causa francese i democratici cavallottiani, aveva talora leggermente intiepidito, ma talora addirittura fatte svanire le simpatie francesi di parecchi moderati. Bonghi e La Perseveranza avevano soltanto deplorato la leggerezza e sventatezza francese; ma Civinini e La Nazione eran passati risolutamente nel campo opposto. Furono le prime evidenti ripercussioni dei motivi ideologici sull’atteggiamento dei partiti in fatto di relazioni internazionali; e lo sviluppo ulteriore degli eventi doveva accentuare assai di più questo inevitabile intreccio tra problemi interni e problemi esteri. Taluni rimasero certo fedeli agli antichi ideali, nell’uno e nell’altro campo: Bonghi e Visconti Venosta al ricordo di Magenta e di Solferino e alla diffidenza radicale verso il bismarckismo1594 ; Crispi, alla sua antica avversione contro le pretese di superiorità francese e all’antico convincimento che l’Italia, per essere grande, dovesse scuotersi di dosso la soggezione alla politica e alla civiltà di Francia. Ma i più, come suole, mutarono tendenze col mutar dei tempi. Le simpatie per la Germania bismarckiana, così vive nei gruppi di Sinistra ancora al tempo del Kulturkampf, alimentate, fra il ’71 e il ’74, dalle manifestazioni clerico-reazionarie dell’Assemblea nazionale francese, vennero poi rapidamente scemando, tosto che alla Francia del duca di Broglie successe la Francia di Gambetta, alla Francia dell’ordre moral la Francia del libero pensiero e della democrazia; e fini che la Triplice Alleanza raccolse i suoi maggiori suffragi tra i conservatori, mossi da preoccupazioni interne a guardare con gran premura alle monarchie dell’ordine e con timore alla Francia repubblicana e radicale, e che i democratici brindarono invece alla fratellanza latina, una volta invocata dai moderati1595 .

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Altri ancora, preoccupati anzitutto del pericolo clericale e della questione romana, timorosi che di lì potessero ancor sempre derivare pericoli mortali per l’unità d’Italia, mutarono a più riprese il loro atteggiamento a seconda che la Francia sembrasse più o meno favorevole alla Curia romana, dando pratica dimostrazione della verità di quanto già in sede diplomatica aveva affermato il Visconti Venosta, essere cioè tutta la situazione politica italiana nei rapporti internazionali dominata dalla questione romana1596 : e così Domenico Farini, avverso prima all’ordre moral, poi si convinceva e cercava convincere delle simpatie della Francia liberale verso l’Italia, si assumeva il compito di intermediario fra Gambetta, Depretis e Cairoli, cercava di indurre Umberto I a recarsi all’esposizione universale di Parigi, nel 1878, anche perché così il re si sarebbe persuaso che la monarchia italiana non aveva nulla da temere dalla repubblica francese, né dalle sue espansioni; anzi l’unione dei due popoli poteva tutelare la causa della libertà in Europa, difendere ed assicurare gli interessi delle potenze mediterranee1597 ; e poi, dopo Tunisi e forse soprattutto dopo il riavvicinamento fra Leone XIII e la repubblica francese, secondo documenta il Diario, mutava la sua fede nella «causa» comune in una diffidentissima, implacabile avversione alla Francia rea per lui, come per Crispi, di congiurare col Vaticano contro l’unità stessa d’Italia. Ma queste sono le segrete vie della Provvidenza nella storia, per cui di volta in volta idee e aspirazioni trovano il portatore più adatto e, come fiaccola di Maratona, passano di mano in mano senza mutare esse natura. Quel ch’era invece di notevole gravità per il futuro sviluppo della storia d’Italia era, nelle controversie del ’70-’71, una divisione di gruppi politici legata anche ad una diversità di alleanze con l’estero; e non su una diversità in casi concreti, specifici, bensì in genere e in astratto, quasi che si trattasse di un a priori della vita politi-

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ca. Allora i moderati in genere erano, per dirla alla popolaresca, francofili e gli altri germanofili; ma, contrariamente a quel che pensava l’Amari, illuso che in Italia fosse passata la moda degli amori e odi di là delle Alpi e del mare1598 , rimase costante il fatto di una profonda divisione di animi riguardo alle amicizie da cercare o da respingere con questo o quello Stato estero. Infelicissimo fatto, notava sin da allora il Bonghi «perché è una corruzione e un pericolo grande, una divisione tra’ partiti la quale non dipende dalla diversità dei fini che si vogliono raggiungere o dei mezzi che si vogliono cercare, ma dall’alleanza estera, alla quale s’è risoluti di rimanere fedeli. Le alleanze sono istrumenti i quali devono parere indifferenti per se medesimi a qualunque partito nazionale, ed essere usate l’una o l’altra secondo l’opportunità»1599 . L’opinione pubblica italiana fu veramente, allora e poi, divisa nelle simpatie per la Germania e per la Francia. Presupposti sentimentali, questioni di princìpi, motivi ideologici di politica interna, determinazione a priori degli obbiettivi della politica estera, gli uni riguardando solo l’ampia distesa del Mediterraneo e la sponda africana, e gli altri pensando solo alle Alpi, tutto ciò interferiva nel determinare un siffatto schierarsi in parti opposte. La Francia, voleva dire non soltanto i vecchi legami culturali, il ricordo di Magenta e di Solferino, la borsa di Parigi e i Rothschild, ma anche, e soprattutto, somiglianza di sviluppo politico interno e ripercussioni continue delle vicende dei partiti dell’un paese su quelle dell’altro. «S’ha un bel gridare contro la Francia», scriveva il Nigra al Minghetti. «Quelli che più gridano contro essa, ne subiscono, anche inconscia, l’ineluttabile influenza. Il 18 marzo [1876] è in gran parte il prodotto delle ultime elezioni francesi e dello stabilimento della Repubblica in Francia»1600 . Un po’ come diceva il Tommaseo del Manzoni, che la Francia gli stava sempre negli occhi come esempio o da seguire o da fuggire1601 .

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Tanto che se la politica estera dell’Italia si svolse poi essenzialmente nell’orbita germanica, la politica interna, sviluppo di partiti e di ideologie, subì invece sempre, l’influsso francese: con una stridente contrapposizione, dunque, i cui effetti si poterono valutare pienamente nel 1914-19151602 . Assai più lontana la vita politica germanica, che poteva al più offrire motivo di meditazione e suscitare desideri nei conservatori malcontenti del parlamentarismo e vagheggianti anche per l’Italia una qualche forma di cancellierato. Anche la cultura germanica, se poteva far presa sul mondo universitario, come fece, non era né fu mai in grado di controbattere il tradizionale e popolare influsso della cultura francese sulla più vasta cerchia dei ceti dirigenti italiani; e l’economia germanica anch’essa solo tardi prese posto di primissimo piano nella vita italiana1603 e la finanza germanica solo sul finir del secolo contrastò nella penisola l’antica finanza francese. Ma un motivo bastava a contrappesare tutti gli altri insieme: ed era la forza militare tedesca, il mito ormai diffuso della invincibilità germanica. Francia e Germania furono così veramente i due poli da cui dipendevano la pace e la guerra per il popolo italiano. Nessuna delle altre potenze europee poteva incidere così profondamente sulla sua vita. Non l’Inghilterra. La guerra franco-prussiana era un duro colpo per il prestigio britannico: neghittosa e impotente appariva la condotta del governo di Londra; e nessuno si rendeva ben conto, almeno, delle grosse difficoltà in cui esso si era contemporaneamente trovato per la vertenza dell’Alabama con gli Stati Uniti, che aveva determinato la decisa campagna dei giornali statunitensi a favore della Russia, al momento della denuncia da parte di quest’ultima delle clausole relative al Mar Nero, e perfino le profferte di appoggio del governo di Washington a quello di Pietroburgo1604 . Queste ripercussioni europee

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della politica mondiale della Gran Bretagna erano sfuggite; e rimanevano i fatti, l’Inghilterra che incassava colpi da tutte le parti, non riusciva a far deflettere di un pollice il Bismarck e doveva sostanzialmente avallare il gesto di forza della Russia ad Oriente. L’impressione era dunque che l’Inghilterra avesse finito di dirigere la politica europea: «e ... uno ... degli effetti dell’ultima guerra sarà questo, che le Potenze continentali non conteranno, o per fare o per impedire, che sopra sé medesime». La vecchia scuola «di quelli statisti inglesi, che mettevano la gloria del loro paese nell’essere sempre a capo delli avvenimenti europei è morta, e in suo luogo sono sorti uomini massaj e riguardosi, che ripongono il rule Britannia in una balla di cotone»1605 . Queste impressioni dovettero poi dissiparsi, quakido al Gladstone successe il Disraeli e al disinteressamento in politica estera del primo il programma imperiale del secondo. Lo stesso Gladstone, ritornato al potere, mutò atteggiamento, e fra l’80 e l’85 fu il più sicuro, anche se non molto deciso sostegno della politica estera italiana; e sopravvennero, poi, Salisbury e l’accordo italo-inglese del 12 febbraio 1887. Ma anche nei momenti di maggiore intimità diplomatica fra i due governi, l’Inghilterra non ebbe mai nella vita italiana un’influenza concreta paragonabile a quella francese o tedesca. Francia e Germania interferivano ogni giorno nella vita anche dei singoli, nella vita spicciola quotidiana, con le mode o i libri e le polemiche dei giornali: l’Inghilterra era lontana. Rimase come una sorta di tabù, idolo a cui tutti rivolgevano un rispettoso inchino, come alla patria della libertà e delle istituzioni parlamentari e, contemporaneamente, alla dominatrice dei mari: l’incenso l’avvolgeva, ma la faceva anche più estranea. Io sono uomo all’inglese1606 , dichiarava Crispi, e tutti i fedeli dell’idea liberale avrebbero potuto ripeterlo: ma si era inglesi per principio, e in pratica, mentre i dottrinari continuavano a vagheggiare la lotta politica a due parti-

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ti sul modello britannico, chi influiva concretamente sulle contese interne in Italia erano radicali e socialisti francesi. Quello dell’amicizia coll’Inghilterra e del rispetto per l’Inghilterra era ormai un dogma, che trovava piena espressione nella dichiarazione ministeriale del 22 maggio 1882, questa appendice al primo trattato della Triplice, in cui il governo del Re dichiarava che le stipulazioni del trattato «in nessun caso» avrebbero potuto considerarsi come dirette contro l’Inghilterra. E avrebbe potuto sorprendere che proprio la Francia, prima e maggiore cooperatrice alla felice conclusione del Risorgimento, e la Germania, fondata su quella Prussia alla cui alleanza, dopo tutto, era dovuta la Venezia italiana, fossero oggetto d’inestinguibil odio e d’indomato amor, laddove reverenza soltanto accompagnava l’Inghilterra, tutt’altro che cooperatrice nel ’59, e certo mai impegnatasi direttamente: avrebbe potuto sorprendere, diciamo, chi avesse dimenticato non soltanto le considerazioni politico-militari sulle lunghe e indifese coste d’Italia e le città sul mare e la flotta britannica onnipotente, ma anche il fatto che il tempio della libertà era, da quasi due secoli, per il pensiero occidentale, l’isola da cui pur di recente era uscito il verbo di Manchester e continuava ad uscire la parola del Gladstone, incarnazione politica del liberalismo di contro al Bismarck. Francesi e Tedeschi erano, anche, ricordo secolare di rapporti continui, di amori e di odi, di contrasti e di guerre; erano tutta la tradizione italiana, dall’età del Barbarossa dei Comuni e degli Angiò, che continuava nell’Italia unita, dando alla nuova vicenda aria quasi d’antica. Questa vivezza di passioni mancava di fronte all’Inghilterra; il farla sorgere era destino dell’avvenire lontano quando l’incenso si dissolse e il tabù acquistò anch’esso la forma dei comuni mortali. All’altra estremità dell’Europa, la Russia. Era lontana, geograficamente; perciò, le due nazioni non potevano farsi «né molto bene, né molto male»1607 , annotava il

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Nigra ambasciatore a Pietroburgo. C’era stato sì, fra il ’76 e l’80, in un periodo di asprezze italo-austriache, come un serrarsi di rapporti, tanto da far spesso favoleggiare, nella stampa italiana e straniera, di segreti accordi e addirittura di alleanza italo-russa, di cui sarebbe stato propugnatore il Tornielli. Ma, nell’insieme del periodo di cui ci occupiamo, questa fu una parentesi: più tardi, invece, lontani geograficamente i due governi lo furono ancor più politicamente. Ma se fra l’86 e il ’95 la situazione giunse a tanto da costringere il Crispi infine a cercar una via d’uscita, ancor una volta ricorrendo al Nigra che, con la sua magia, ripristinasse quel che non c’era più e cioè relazioni amichevoli1608 , già all’inizio del nostro periodo, nell’inverno ’70-71, il governo italiano aveva chiaramente dimostrato come la Russia gli apparisse più che possibile amica e cooperatrice, come un grosso pericolo mediterraneo contro il quale occorreva erger barriere1609 . I tempi di Salvatore Contarini e del programma di un’Italia equidistante tra Inghilterra e Russia, per la salvaguardia proprio dei suoi interessi mediterranei1610 , erano ancora assai di là da venire; e invece le diffidenze verso una qualsiasi politica mediterranea dell’impero russo eran tenute vive di continuo, non soltanto dal dogma dell’Inghilterra tradizionale amica e dalla necessità di star con l’Inghilterra sempre, ma dal ricordo della guerra di Crimea e dalle parole del Cavour sul pericolo per l’Europa, per l’Italia, per il Piemonte, di un predominio russo nel Mediterraneo. Ora, proprio ora, l’improvvisa denunzia russa delle clausole relative al Mar Nero, a fine ottobre del ’70, ’dimostrava come il colosso lontano si protendesse nuovamente innanzi, a conquista e dominio1611 . Niente Russia nel Mediterraneo, soprattutto ora che la guerra del ’70 aveva disvelato gli intimi rapporti fra le corti idi Berlino e di Pietroburgo, e, c’era quindi da temere il predominio russo-germanico sull’Europa e la fine della libertà europea. Un cinquantennio prima, Alessan-

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dro I era stato salutato come novello Messia dai popoli lottanti contro l’egemonia napoleonica, le fiamme di Mosca apparendo l’aurora della libertà nel mondo1612 ; egli aveva difeso mirabilmente l’indipendenza della sua patria e mirabilmente rivendicata l’indipendenza dell’Europa, ma, tornato in patria, era stato risoggiogato dalla patria tanto meno incivilita di lui1613 : e da allora l’impero degli Zar anziché difenditore di libertà era apparso come una nuova incarnazione dello spirito di conquista, e cioè un nuovo Napoleone in agguato. «La mia ambizione è vasta, come lo spazio, ma paziente come il tempo»1614 : le parole che Lamartine aveva messo in bocca alla Russia avevano bene riassunto quale fosse l’atteggiamento dell’opinione pubblica occidentale e anche italiana di fronte al grande Stato slavo. Il pericolo in cui l’Occidente versava per la moscovita ingordigia d’impero, il Russo in marcia attilesca alla volta di Costantinopoli e di li dittatore selvaggio dell’Europa, era da tempo cagion di spavento; per uscirne, proprio in Italia c’era chi aveva pensato a «riguadagnare gli aiuti del papato latino», come aveva detto nel ’44 il neoguelfo Carlo Troya1615 , mentre altri salutava ora con gioia la creazione della Germania unita, perché la sua emissione internazionale non era già quella di violare le nazionalità europee, ma al contrario di proteggerle dalle invasioni slave, rigettando la Russia verso l’Asia1616 . La Russia, era non soltanto una enorme forza politica, a la barbarie in marcia: l’8 febbraio 1855 Cesare Correnti aceva della guerra di Crimea anche una guerra ideologica, l’Europa contro la Russia, la civiltà contro la barbarie, la libertà contro l’eroismo della servitù1617 , ma anche qui la sua voce era l’eco di altre e molte voci che da tempo avevano intonata la stessa canzone. L’Inghilterra contro la Russia voleva dire le due tendenze opposte della civiltà, il progresso e la barbarie, la civiltà progressiva e la marcia retrograda, aveva detto Cesare Balbo1618 ; e lo stes-

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so Cavour, prima ancora di additare al Parlamento subalpino, il 6 febbraio 1855, il pericolo mortale di un trionfo russo, che era la reazione, il principio opposto a quello del progresso, della costituzione, della nazionalità nuovo sangue vitale del Piemonte e dell’Italia, sin dal ’48 aveva indicato nello Zar un aperto e potente nemico del Risorgimento italiano, pronunziando anch’egli il «guai a noi» se non si fosse posto un argine insuperabile «al torrente barbarico che ci minaccia dal settentrione»1619 . È ben vero che il Cavour poi, tra il ’59 e il ’60, aveva diversamente giudicato, apprezzando l’indubbio e grande aiuto dato dal governo di Pietroburgo alla causa italiana grazie soprattutto al trattato segreto del 3 marzo 1859 con Napoleone III1620 ; tanto che uno dei suoi più fidi collaboratori, Isacco Artom, in suoi appunti poteva rivolgersi agli storici futuri perché segnalassero alla perenne riconoscenza degli Italiani i grandi servizi resi dalla politica russa e dalla intera famiglia slava alla causa dell’indipendenza italiana1621 . È vero anche che già nelle stesse dichiarazioni del 6 febbraio ’55 c’era, molto, l’intento di far avallare con appelli altosonanti la cambiale in bianco ch’egli aveva firmato aderendo all’alleanza di Crimea. Ma i vantaggi diplomatici dell’atteggiamento russo nel ’59 erano consapevolezza di pochi; e che per premere sulle immaginazioni Cavour avesse dovuto evocare il pericolo russo, era prova sufficiente di quel che si sentisse e pensasse generalmente dell’impero moscovita. Quelle dichiarazioni pubbliche erano rimaste e continuavano a suggestionare, tanto più che anche dalla parte opposta, dal Mazzini, giungevano non diverse affermazioni sul pericolo che i cosacchi e lo knut rappresentavano per la causa della libertà e delle nazionalità1622 . La Russia: una immensa, massiccia forza di cui si sapeva e non si sapeva, ma che appariva sempre un miscuglio di Europa e di Asia, di Occidente e di Oriente, di civile e di barbaro, corpo vestito all’europea ed animato

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da spirito tartarico1623 ; non ancora cittadina di pari diritto nel consorzio civile delle altre nazioni, nella comunità culturale europea in cui Tolstoi, Dostoievskij e Moussorski non avevano ancora introdotto la cultura russa1624 . La Russia era ancora Genghiz Khan; l’apocrifo testamento politico di Pietro il Grande veniva ancora preso per buono e tirato fuori ogni qualvolta s’avesse da temere qualche mossa politica del governo di Pietroburgo1625 ; anche quando non s’accettasse più per formalmente autentico, si riteneva che sostanzialmente esprimesse sempre bene i segreti pensieri degli autocrati di Pietroburgo. Se non è vero, è ben trovato, s’era detto nel ’64: e s’ammetteva, sì, che la Russia si fosse fatta paziente e si sforzasse di essere civile, ma la si riteneva più formidabile nel suo raccoglimento che nella sua politica di espansione e di provocazione, più pericolosa ora che giuocava essa pure con la rivoluzione e con le idee «accarezzando le passioni popolari, e parlando parole di emancipazione alla gente che predestina a sue vittime. Prima si chiamava, con orgoglio, la Santa Russia; oggi si chiama la Slava; prima si ammantava con alterezza del suo manto di barbara e di cosacca; oggi si proclama parte di di una gran razza, la redentrice di tutta la razza slava»1626 . Ancora alla fantasia dell’Oriani giovane il cavaliere Sarmata dal galoppo fantastico, ultimo vincitore nella storia dell’Europa, appariva sgraziato come tutti i colossi, bruscamente passato dalla infanzia alla virilità, dalla crudeltà della selvatichezza alla ferocia della civiltà, privo di tradizioni e quindi di ideali, cresciuto ai confini della vera Europa, e ora impadronitosi di qualche idea europea quasi di contrabbando. La sua era una civiltà artificiale; e prima che il sole la schiudesse naturalmente sulla sua immensa superficie, avrebbero dovuto passare altri secoli, né forse il sole vi sarebbe mai stato caldo abbastanza. 1627

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Taluno cominciava a mutare atteggiamento, aspettandosi di vedere ringiovanito il «marcio» Occidente dall’afflusso delle forze slave, vergini e nuove1628 ; taluno dunque cominciava a porgere attento orecchio alle voci che dal mondo slavo s’alzavano a sua difesa ed esaltazione. Lo aveva già detto un trentennio prima il Mickiewicz: inferiori dal punto di vista del progresso meccanico, gli Slavi erano superiori dal lato morale; la loro anima si era allargata, in nessun luogo v’erano cuori così caldi, un’attesa dell’avvenire così ferma. Erano in un’attesa solenne; tutti attendevano un’idea nuova1629 . Ora, la parola dell’esule polacco, che aveva contrapposto allo spirito terribile della Russia lo spirito cristiano della sua patria, veniva ripresa proprio dai Russi: e il grande archimandrita del movimento slavo, il Katkoff, aveva annunziato l’imminente rivelazione della Russia sotto un aspetto nuovo, il suo cessare di essere una cupa potenza asiatica per diventare una forza morale indispensabile all’Europa, realizzando quella civiltà greco-slava destinata a completare la civiltà latino-germanica che, altrimenti, sarebbe rimasta fatalmente imperfetta ed inerte nel suo sterile esclusivismo1630 . E Dostoievskij incalzava proclamando che la Russia era non la vecchia Europa, ma la nuova, giovane, forte Europa in cammino, e che ad essa spettava di pronunziare la parola nuova per consacrare finalmente la fraternità di tutti gli uomini1631 . Ma queste appunto erano le parole di emancipazione che, agli Occidentali, sembravano semplice e tenue velo per ammantare le smisurate ambizioni politiche e la volontà di dominio. Gli appelli alla nuova civiltà mascheravano ancor sempre il vecchio spirito di Genghiz Khan; il panslavismo era l’ultima incarnazione dello spirito di conquista. Come tale, esso minacciava direttamente anche l’Italia: brindisi come quello portato, in una festa al casino croato di Fiume all’inizio del ’71, all’imperatore di Russia, che solo avrebbe potuto assicurare col suo do-

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minio la prosperità del litorale adriatico1632 , provavano che la propaganda russofila attecchiva fra gli Slavi, persino sull’Adriatíco. Non solo quindi timori di una generica supremazia russo-tedesca sull’Europa; nemmeno solo i timori già più precisi per l’irrompere della Russia nel Mediterraneo orientale; ma, addirittura, il pericolo di una Russia nell’Adriatico. L’avversione ideologica alla Russia degli Zar e dei deportati in Siberia, la diffidenza contro lo spirito tartarico, le génie asiatique, la semibarbarie della vita russa, tutti questi motivi generali del pensiero dell’Occidente europeo acquistavano così precisione di contorni politici, divenivano problema vivo e grave di rapporti internazionali. La grande Russia e il più grande panslavismo piacevano assai poco agli uomini politici italiani, Minghetti Visconti Venosta e Crispi non dissimili nel giudizio1633 . Il Robilant fu, in questo, interprete di un pensiero comune: «... non nutro malanimo di sorta contro la Russia: ma ... non posso guardare con indifferenza il suo avanzarsi nella penisola balcanica, perché un solo nuovo passo di più ch’essa avesse a fare in quella direzione, avrebbe per noi le più gravi, forse anche irreparabili conseguenze. Ciò salta agli occhi di chiunque non sia cieco»1634 . Balbo l’aveva già detto: ad una Russia padrona dell’Oriente europeo, preferibile, molto preferibile l’Austria, sia in nomedell’interesse italiano, sia in nome dell’interesse cristiano, cioè della comunità dei popoli1635 . Il programma delle Speranze d’Italia, via libera all’Austria verso Oriente e l’Austria fuori d’Italia, aveva strettamente allacciato preoccupazioni di italiano e preoccupazioni di europeo, la causa specifica dell’indipendenza della penisola e la causa generale della cristianità, minacciata di un grandissimo regresso in caso di preponderanza russa in Europa per l’evidente inferiorità della civiltà moscovita che avrebbe voluto ridurre al proprio livello le altre civiltà1636 . L’interesse dell’Italia faceva tutt’uno con quel-

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lo dell’Europa: ed era di opporre una barriera alla Russia. Perciò, allontanare l’Austria dall’Italia, ma tenerla bene in piedi, a guisa di antemurale che nella valle del Danubio e nei Balcani proteggesse l’Europa dalla marea slava. Ora, nel generale venir meno dello spirito rivoluzionario e nel sovrastare del moderatismo, che con i suoi metodi e fini acquistava a sé gli uomini della Sinistra, le idee del Balbo trionfavano. Non solo perché inorientarsi dell’Austria e suo abbandono delle terre ancora irredente vennero, da allora in poi1637 , costantemente abbinati, sia nei comizi popolari e nei commenti dei giornali fra il ’76 e il ’78, sia, addirittura, in quell’articolo I del trattato separato italo-austriaco del 20 febbraio 1887, negoziato proprio dal conte di Robilant, e destinato a diventare l’articolo VII della Triplice edizione definitiva, che era bene, con la formula dei compensi, l’applicazione diplomatica del vecchio principio delle Speranze d’Italia. Ma anche perché la necessità dell’esistenza dell’Austria, il mostro tanto odiato da Mazzini, la grande nemica del Risorgimento, diventò un assioma per tutti gli uomini politici italiani, Crispi e Cavallotti compresi. L’Austria elemento di civiltà verso l’Oriente, lo ripeteva Crispi sulle orme di Balbo. Alla vecchia paura del dilagare russo sull’Europa s’aggiungeva ora, dopo la guerra franco-prussiana, il timore per una troppo schiacciante potenza germanica. Lo disse apertamente, sin dal ’71, La Perseveranza. L’Austria, certo, rappresenta la negazione del principio di nazionalità; e noi non abbiamo mai avuto molta simpatia per essa. Ma oggi la situazione impone un giudizio che prescinda anche dalle simpatie, perché «li straordinarj eventi delli ultimi dieci mesi hanno per tal modo mutato faccia al mondo e sconvolto l’equilibrio delli Stati, da far riguardare come un pericolo serio la eventuale scomparsa

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della monarchia delli Asburgo, o anche solo il suo ulteriore indebolimento»1638 . Se i Tedeschi dell’Austria si congiungessero alla Germania, questa ultima, già troppo poderosa, acquisterebbe una forza eccessiva, mentre lo stato asburgico, ridotto alle sue parti ungaro-slave, cadrebbe al rango di potenza di second’ordine e l’equilibrio europeo, così enormemente sbilanciato dall’ultima guerra, ne sarebbe sconvolto affatto, e l’Italia si troverebbe ad avere presso a sé, sull’Adriatico, la giovane e vigorosa Germania, colla quale ogni gara pacifica, come ogni eventuale ostilità, sarebbe assai più ardua che coll’Austria. Ecco quindi come nell’interesse di tutta l’Europa, e più specialmente nell’interesse nostro, noi non possiamo vedere senza apprensioni il progressivo decadimento della potenza austriaca»1639 . Queste idee, nel ’71 erano solo dei moderati; ma non passarono molti anni e anche i più accesi amici della Germania, Crispi per primo, si convinsero che dell’impero tedesco era meglio essere amici sì, ma non a immediato contatto. Alla vecchia funzione antislava che i moderati del Risorgimento avevano assegnato all’impero asburgico, s’aggiunse dunque una funzione se non proprio antitedesca, almeno di servir da cuscinetto tra l’Italia e il troppo vigoroso impero degli Hohenzollern1640 . Dunque, necessità dell’Austria. Non molti, forse, avrebbero pensato come il conte di Robilant che per nessun’altra questione «sarebbe tanto necessario all’Italia il tirar la spada e l’impegnare tutte le sue forze quanto per quella, se mai fosse sorta, di difendere l’esistenza e la potenza dell’Austria»1641 ; ma convinti che l’impero asburgico rispondesse ancora ad un’alta necessità europea e anche italiana, questo si lo pensarono quasi tutti1642 . C’era bensì, con l’Austria, la questione di Trento e Trieste, sempre aperta anche quando non se ne parlasse. L’ideale della nazionalità poteva essere limitato, at-

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tenuato, svuotato del suo valore rivoluzionario generale; ma era ancora l’unico principioideale che potesse essere evocato a sostegno morale di una politica. Non ancora i sogni d’impero e lo spazio vitale, non la necessità di respiro sull’Oceano; ma, sempre, la nazione, lo Stato nazionale, completo di tutte le sue terre e di tutti i suoi figli: e dunque, nonostante tutto, l’Italia del Risorgimento che continuava, i padri che additavano la via ai figli e ai nipoti. Come uno di quei corsi d’acqua carsici– irredenti – che appaiono e scompaiono, ma continuano a fluire anche sotterra1643 , così il motivo delle terre ancora da redimere poteva esplodere nei comizi popolari, nelle invocazioni e invettive carducciane, nella propaganda dei circoli irredentistici, o poteva essere taciuto, talvolta anzi ufficialmente sconfessato dagli organi responsabili di governo: nessuno poteva ignorarlo, e nessuno infatti lo sconfessò nel suo intimo, anche coloro i quali ritenevano follia sbandierarlo sulle piazze e si affidavano al tempo che apportasse la soluzione. Una soluzione, che appagasse l’Italia ma senza far crollare l’Austria. Perciò, quando occorresse perfino un’occhiata amichevole alla Russia la quale, a sua volta, contenesse gli Asburgo; perciò preoccupazioni e avversioni a che l’Austria da sola si ingrandisse ulteriormente nei Balcani e dilatasse ancora la sua potenza sull’altra sponda adriatica, perché simili ingrandimenti e accrescimenti rischiavano di rendere sempre più aleatoria la possibilità del compromesso finale. Status quo, in attesa del momento propizio per conciliare l’una e l’altra cosa, espansione ad oriente dell’Austria e rettifica dei confini verso l’Italia. Soltanto, questa linea politica che, tutto sommato, aveva una sua logica e coerenza intima, cercava di conciliare senso dell’equilibrio europeo e spirito di nazionalità, ragionamentoe passione; e il calcolo politico doveva continuamente urtare contro la immediatezza del sentimento, l’opera di governo contro il grido di passione

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italica per Trento e Trieste. Il calcolo voleva un’Austria forte, non tanto da poter respingere, in date circostanze, l’amicizia italiana anche a costo di cessioni in Val d’Adige e oltre Isonzo, ma abbastanza per impedire uno sconvolgimento generale della situazione danubiana. Il sentimento, parlava non solo di Trento e di Trieste, ma anche della vecchia nemica del Risorgimento: l’Austria, nella immaginazione popolare, erano sempre i «Tedeschi» del ’48 e del ’59, le Cinque Giornate, Venezia, Palestro e San Martino e, da ultimo, Lissa e Custoza. I fantasmi del passato erano vicini e vivi e si protendevano sull’avvenire. Andar d’accordo con l’Austria, significava andar d’accordo con «l’imperatore degli impiccati»: e questo poteva rientrare nel calcolo dei politici, non mai nel sentimento popolare. S’illudeva il Minghetti quando affermava, alla Camera, nel ’72, che i sentimenti di avversione per l’Austria egli non li sapeva più comprendere, non avendo essi più ragione alcuna di esistere: deposti gli antichi rancori, bisognava vedere nell’Austria soltanto una nazione sorella, guardare ad essa, ormai nostra amica, con benevolenza ed affetto1644 . Già solo quattro anni più tardi la commemorazione a Milano del settimo centenario della battaglia di Legnano, con le bandiere di Trento e Trieste avvolte in veli neri in testa al corteo1645 , dimostrava come l’antica avversione fosse sempre viva. Era la fatale contraddizione, per cui, appena conclusa la Triplice Alleanza, due diplomatici italiani, e non dei minori, disapprovarono il patto anche «perché il giorno in cui fossimo invitati a marciare in nome del casus foederis, non si marcerà ...»1646 . Tali erano i rapporti italo-austriaci. Qui, non interferire di vicende ideologiche e di partito, non influssi culturali, e nemmeno particolari allacciamenti finanziari; ma una valutazione propriamente di politica internazionale, complicata però e sempre contraddetta da una passione,

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che era un’antica passione e che, in fine, fu più forte di ogni altro calcolo. Una vivezza quindi di sentire, come non era non solo nei riguardi della Russia, ma anche nei riguardi dell’Inghilterra; e però una vivacità di passione tutta concentrata su di un solo punto, non abbracciante l’intera vita della nazione in tutte le sue forme, come accadeva con Francia e Germania. Non a Vienna era il perno della politica italiana1647 . Francia e Germania erano dunque i due poli tra i quali si muoveva l’opinione pubblica italiana, i due punti obbligati di riferimento dei pensieri e delle polemiche. Fuori discussione l’amicizia con l’Inghilterra, tutto il resto si muoveva lì, riceveva luce e colore dal diverso parteggiare per l’una o per l’altra delle due nazioni: quasi che anche il sentire comune fosse consapevole che il problema essenziale della politica europea era, dopo il ’70, quello dei rapporti Francia-Germania, attorno a cui tutti gli altri, questioni balcaniche e questioni coloniali, venivano a sovrapporsi, accrescendo i motivi di litigio, ma sempre presupponendo quella iniziale impostazione del litigio europeo. L’Italia si diceva ereditasse dallo Stato sabaudo e dalla tradizione diplomatica piemontese la politica dell’equilibrio tra le forze in contesa per l’egemonia sull’Europa. Grande potenza di nome, ma non di fatto, di per sé incapace di agire con successo sulla scena continentale, doveva riporre il segreto della sua fortuna, si ripeté spesso, nell’accorto bilanciarsi fra gli uni e gli altri: l’equilibrio dell’Europa, diceva il Visconti Venosta, era condizione necessaria alla felicità dell’Italia, alla quale nulla poteva essere più dannoso del soverchiare di una parte sola. La tradizione sabauda, insomma, dell’equilibrio tra Francia e Spagna prima, Francia ed Austria poi. Questi erano i calcoli secondo la cosiddetta diplomazia pura, il giunco

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rationale, matematico, soppesato mossa per mossa come su di una scacchiera. Ma gli Italiani del Regno unito ereditavano anche dagli avi qualcos’altro che non fosse il giunco razionale dell’equilibrio; ereditavano passioni che risalivano su su nel tempo, passioni e spirito di arte, onde, sin dall’inizio della nostra vicenda, un profondo scindersi di interessi, tendenze ideologiche, affetti ed aspirazioni che guardarono come ad una stella fissa all’una o all’altra delle due maggiori potenze continentali. L’animo di molti Italiani fu da allora diviso fra lo zuavo francese e l’ulano tedesco, come diceva il Carducci; e veramente sembrava avesse ragione Giuseppe Verdi che noi non si potesse camminare «senza essere appoggiati al braccio dell’uno o dell’altro»1648 . Così i diplomatier puri dovettero fare i conti con le passioni popolari e con gli interessi dei partiti; e sulla politica estera italiana gravò, nei vari momenti, questo formidabile peso che era la divisione a priori dell’opinione pubblica contro Francia o contro Germania. Fu il motivo più continuo, costante della politica italiana. Gli altri che si sono analizzati, idea di Roma e preoccupazioni conservatrici, non solo non riuscivano ancora a soffocare i vecchi ideali di libertà e di nazionalità, ma erano anche assai meno continui, più legati al vario svolgersi degli eventi, più soggetti quindi ad adattamenti e trasformazioni secondo che i tempi richiedessero. L’idea di Roma, pur già fermentando nel profondo, fu ancora a lungo l’idea della Roma civile, laica; le sue ripercussioni concrete sulla politica estera italiana furono sempre collegate con il vecchio problema dei rapporti tra Regno e Papato, della lotta contro il Vaticano e l’internazionale nera. Fu, sempre, la questione romana: questa pesò profondamente sulla politica internazionale dell’Italia; questa determinò in gran parte, almeno quanto le preoccupazioni mediterranee e anche più, l’atteggiamen-

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to del Crispi verso la Francia, per lui cupa tessitrice di intrighi con il Vaticano ai danni dell’unità d’Italia, e aggravò la sua naturale ombrosità e sospettosità, facendogli vedere e spesso immaginare il Vaticano e i Gesuiti intenti ad annodare ovunque trame contro l’Italia1649 ; questa determinò, nel 1899, il veto reciso del governo italiano contro l’intervento della Santa Sede alla prima conferenza per la pace dell’Aja1650 ; questa determinò, nell’articolo 15 del patto di Londra, il veto del Sonnino alla ammissione della Santa Sede ad ogni trattativa di pace. Al confronto, senza presa furono ancora i fantasmi di Duilio e di Scipione, i quali perché divenissero forza politica efficiente, occorrevano altri uomini e altro clima generale. Il mito di Roma domina gentium era riservato all’avvenire, anche se gettasse le sue radici in quei decenni di fine Ottocento. Inversamente, le preoccupazioni conservatrici pesarono concretamente sulla politica estera proprio dopo il ’70 e soprattutto fra l’80, e il 96, per poi attenuarsi grandemente sino a svanire con l’inizio del nuovo secolo, con la politica giolittiana e cioè con il diverso atteggiamento del ceto dirigente di fronte alla questione sociale e al movimento socialistico, d’altronde anch’esso divenuto riformismo lontano dalla rivolozione perpetua di stampo bakuniniàno. Il propendere per Francia o Germania rimase invece motivo sempre presente. Che poi posizioni di uomini e di partiti mutassero da quel che erano nel 70-’71, non è cagion di meraviglia, chi pensi quanto complesse fossero e da quanto vari motivi determinate, onde, per esempio, i laici del ’71-75 dovevano vedere nella Germania bismarckiana la nemica del Papato, mentre i laici dell’inizio del Novecento dovettero rivolgere gli sguardi verso la Francia di Waldeck Rousseau e di Combes. Molte cose mutavano, uomini ed eventi, lasciando tuttavia inalterati taluni motivi fon-

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damentali che avrebbero contrassegnato lo sviluppo storico avvenire. Mutava persino lo stato d’animo generale dell’Europa da quel ch’era stato nella primavera del ’71. Allarmi e paurose profezie allora; inquieto chiedersi quali sarebbero state le nuove conquiste della Germania, ormai tesa a invader sull’altrui1651 ; perfino in Inghilterra, nel ’71, le fantasticherie su di una possibile aggressione germanica contro l’isola e l’immenso successo del racconto della immaginaria battaglia di Dorking1652 . Ancora, la Comune di Parigi e il raccapriccio di fronte agli orrori che i nuovi barbari, usciti dalle viscere stesse della società, minacciavano. Chi vedeva i nuovi Unni nei Tedeschi del Bismarck, chi nei petrolieri di Parigi, e molti in tutti e due. Dopo tutto questo, il vedere la sostanziale calma conservatrice della politica bismarckiana, nessun’altra colonna Vendôme a terra e, anche, l’effetto naturale del tempo condussero ad una distensione degli animi invero assai grande. Si era temuto che sopraggiungesse sull’umanità una nuova èra del ferro e del fuoco e che fosse ormai inutile parlare di diritti e di morale internazionale: ma già il 25 settembre del ’71 la Ligue Internationale de la paix et de la liberté apriva, a Losanna, il quarto Congresso della pace. S’era disperato dell’Europa come consorzio civile: ma otto giorni prima della pace di Francoforte Garibaldi parlava agli amici di Nizza di una unione europea con Nizza capitale1653 ; e poco dopo veniva alla luce l’opera di Charles Lemonnier sugli Stati Uniti d’Europa. Tornarono a riapparire gli ideali europei alla Saint-Simon e alla Càttaneo; e più tardi taluno auspicò per l’Italia il gran compito di iniziatrice della federazione europea, con Roma rinnovato centro di civiltà e il Campidoglio aperto ai delegati dell’Europa unita1654 . Molto più importante di tutti questi congressi, discorsi e scritti, il giudizio arbitrale per la questione dell’Alabama, nel 1872. Gran fatto, insperato e nuovo,

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che due potenti nazioni come l’Inghilterra e gli Stati Uniti accettassero di risolvere pacificamente una controversia fattasi coli minacciosa ad un certo punto da sembrar condurre alla guerra; grande esempio per gli Stati continentali, anche se non facile da seguire subito, trovandosi l’Europa in fase di transizione dai vecchi Stati basati sulla forza ai nuovi Stati fondati sul principio di nazionalità. Se non ora, almeno al termine del cammino presente dell’Europa stavano l’arbitrato internazionale e la pace1655 . Grande esempio, gradito agli Italiani che avevano dato al tribunale arbitrale il presidente, conte Federico Sclopis; salutato con gioia dai moderati, come il Bonghi, i quali, in perfetta coerenza con tutto il loro pensiero di settecentesca origine, credevano nel disarmo, nell’arbitrato internazionale, nell’organizzazione della pace mondiale1656 , anche se la Sinistra, allora sotto l’incubo dei clericali francesi, non intendesse abbandonarsi a rosei sogni e, pur rallegrandosi del risultato, ammonisse che non bisognava farsi illusioni e che l’Italia specialmente aveva l’obbligo di prepararsi pel giorno inevitabile in cui, provocata, avrebbe dovuto «contare sulla ragione della scimitarra»1657 . C’era, in Inghilterra, Henry Richard che sollecitava il governo a farsi promotore dell’arbitrato internazionale; c’era la petizione presentata al Parlamento con più di un milione di firme e, finalmente, la vittoriosa discussione alla Camera dei Comuni l’8 luglio 18731658 . E in Italia, il 24 novembre del ’73, la Camera dei Deputati approvava unanime la proposta Mancini, accettata dal Visconti Venosta, perché «il Governo del Re nelle relazioni straniere si adoperi a rendere l’arbitrato mezzo accettato e frequente per risolvere, secondo giustizia, le controversie internazionali nelle materie suscettive d’arbitramento; proponga, nelle occasioni opportune, d’introdurre nella stipulazione dei Trattati la clausola di deferire ad Arbitri le questioni che sorgessero nella interpretazione ed

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esecuzione dei medesimi; e voglia perseverare nella benemerita iniziativa, da più anni da esso assunta, di promuovere convenzioni tra l’Italia e le altre nazioni civili per rendere uniformi ed obbligatorie, nell’interesse dei popoli rispettivi, le regole essenziali del Diritto Internazionale Privato». Non era, certo, il miraggio della pace perpetua, respinto dallo stesso giurista napoletano; non era nemmeno l’imposizione del principio di arbitrato anche «nelle questioni di vita e di morte che sorgano tra due nazioni»1659 . Ma erano pur sempre passi notevoli, soprattutto perché indicavano che tornava la fiducia nella vita collettiva delle nazioni. Dal suo seggio di presidente del Consiglio Marco Minghetti dovette, quel giorno, rammentare giudizio di quindici anni prima, quando aveva battezzato un utopia la speranza di comporre i litigi degli Stati mercè un tribunale di arbitri1660 : almeno l’Alabama gli aveva dato torto. L’umanità tornava a sperare; dopo l’abbattimento e le paure gli uomini ripresero a credere in un futuro migliore, in unavvenire, chissà, finalmente senza guerre, senza lutti e senza rovine. L’Europa si adattava alla sua nuova condizione. E rifiorì il «roseo sogno» già accarezzato dagli uomini del primo Ottocento e che era parso infranto dalla lotta di distruzione franco-germanica: il portentoso sviluppo economico, la ricchezza, l’entusiasmo per le conquiste della tecnica, il piacere di vivere una vita sempre più comoda e facile trassero l’uomo medio fuori d’angoscia e lo adagiarono in una immensa sicurezza di sé e del futuro. Ritornarono, per l’Europa, i giorni felici della Monarchia di Luglio per la Francia; e l’Europavisse, tra l’uno e l’altro secolo, i suoi ultimi giorni di splendore, in quel mondo di ieri che, nei tempi della miseria, Stephan Zweig ha rimpianto come il nuovo Paradiso perduto. Fu quindi un gran mutamento d’atmosfera dai giorni dell’inverno 1870-71. E in siffatto variar di luci dell’oriz-

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zonte europeo è naturale si colorissero anche variamente tendenze sentimenti e idee in Italia. Ma come l’ottimismo nel progresso e il compiacimento della propria vita non riuscirono mai a togliere dalla coscienza degli uomini di governo e dei più chiaroveggenti politici europei le preoccupazioni per lo stato di cose determinato dalla guerra franco-prussiana, e i progetti di federazione europea e di arbitrato internazionale non impedirono che, praticamente, si iniziasse allora la corsa agli armamenti, in proporzioni mai viste; come dunque la fiducia generica dell’uomo della strada non impedì che l’epoca avesse veramente il carattere di una pace armata e l’Europa politica fosse nervosa, eccitabile, fondamentalmente inquieta assai più che altre volte, e più certo che tra il 1815 e il 1848: così anche il vario atteggiarsi di uomini e di partiti e lo sfumare o accentuarsi di tendenze, non impedirono che i motivi profondi della vita italiana rimanessero, fondamentalmente, quelli che s’erano dispiegati nei giorni del trionfo prussiano e dell’ingresso a Roma. Libertà e nazionalità, ma già con preoccupazioni che potevano intiepidirne la fede, sia di fronte all’avanzare delle masse, sia di fronte alle esigenze dell’equilibrio europeo, e certo, comunque, con il sostanziale abbandono di ogni lievito rivoluzionario; idea di Roma che cominciava a fermentare negli animi, e sia pure per il momento di una Roma laica contrapposta alla Roma papale; netto pronunciarsi di atteggiamenti nei confronti delle due potenze rivali sul continente, Francia e Germania: tale era il bagaglio di affetti e di pensieri con cui il ceto direttivo dell’Italia unita iniziava da Roma capitale il lavoro di assestamento dello Stato territorialmente compiuto.

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PARTE SECONDA

Capitolo Primo Le cose..

I Finanza ed esercito Era un lavoro di assestamento e consolidamento: quindi, anzitutto un lavoro nel campo interno. Poiché, finita la guerra franco-prussiana anche gli avventurosi non avrebbero potuto sognare, allora, nuove imprese e altri allori. Già le condizioni dell’Italia fra le grandi potenze erano tali da troncar netto ogni possibile sogno che non fosse proprio di mente malata. Ultima venuta, in ordine di tempo, nel concerto europeo – ché, anche prima della creazione dell’impero germanico, la Prussia era da lunga pezza, dall’età di Federico il Grande, una grande potenza –, l’Italia era anche l’ultima per potenzialità demografica, economica, militare, tanto da essere «grande potenza» di nome e di forma assai più che di fatto. I suoi 26.801.154 abitanti – tale la popolazione del Regno al 31 dicembre del 18711661 – la lasciavano a notevole distanza non pure dalla Russia e dalla Germania, con i loro 78 e 41 milioni, ma anche dalla Gran Bretagna, con i suoi 32 milioni, e dai suoi vicini di occidente e d’oriente, la Francia la quale, nonostante la perdita dell’Alsazia Lorena, poteva ancora annoverare 36.150.262 abitanti1662 , e l’Austria-Ungheria, che ne contava 35.000.000. Ma ancor più notevole il distacco e di profonde conseguenze, ove dal campo demografico si passasse a quel-

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lo economico. Qui nonostante i progressi, indubbi, che venivan annualmente fatti, si percepiva di primo acchito quanto giovane fosse, dal punto di vista della tecnica e della produzione,la nazione, così vecchia culturalmente, e quanto arretrate le condizioni di troppe regioni ond’era rallentato il progresso d’insieme1663 ; e balzava all’occhio anche dei più tardi la diversità di forza e di ricchezza non solo a petto degli Stati di più anziana e solida ossatura, Francia e Inghilterra, ma ben anco dell’Impero germanico, che era pure di recente nascita politica. Come dal punto di vista dei valori morali e spirituali, così dal punto di vista della ricchezza ed attrezzatura materiale era agevole scorgere quanto lontane fossero, al disotto della apparente somiglianza di destini, le due creazioni statali del secolo XIX, Germania e Italia. Senza dubbio si progrediva: Quintino Sella poteva con legittima soddisfazione far rilevare, nella sua esposizione finanziaria alla Camera, il 12 dicembre 18711664 , come tra il ’61 e il ’71 le ferrovie fossero passate da 2200 chilometri a 6200, il telegrafo da 16.000 a 50.000 chilometri di filo, il reddito delle imposte dirette da 175 milioni a 503, quello dei monopoli da 175 a 296. Questi e simili dati erano testimonianza sicura del progressivo e anche rapido avviarsi della vita economica italiana, proprio dopo il ’701665 , verso una fase di assai più intensa e larga attività, per la quale erano presupposto necessario i grandi lavori pubblici, e soprattutto il miglioramento del sistema di comunicazioni, che finalmente creasse un mercato nazionale. Al quale miglioramento l’inaugurazione del traforo del Cenisio, gloria dell’ingegneria italiana, apportava, proprio nel settembre del ’71, una consacrazione di valore internazionale, dopo che, pochi mesi innanzi, l’approvazione della convenzione per il traforo del Gottardo, da parte della Camera italiana, aveva aperto nuove prospettive di scambio anche tra la valle padana e l’Europa centrale. E, d’altra parte, i lavori

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portuali perseguiti dal 1861, con una spesa, sino al 1870, di 68.000.000 lire, col prolungamento dei moli a Genova, Napoli, Palermo, Ancona e il cantiere di raddobbo a Livorno e il bacino di carenaggio a Messina e la riattivazione del porto di Brindisi, per non rammentare se non una parte delle opere compiute1666 , costituivano pure una buona arra per il futuro sviluppo commerciale della penisola. Il quale sviluppo già si annunziava, con l’incremento notevole del commercio di importazione ed esportazione; da 830 milioni di lire nel 1862 a 964 nel ’71, e da 577 a 1085 rispettivamente; nel complesso, un balzo da un totale annuo di 1.407.000.000 a 2.049.000.0001667 . Ma per quanto già incoraggianti in rapporto alle passate condizioni della penisola e a quelle tuttora assai arretrate di una parte degli ex Stati Italiani1668 , queste cifre suonavano ancora assai modeste di fronte alle corrispondenti cifre delle altre grandi potenze. Vinta e duramente piegata, la vicina d’Occidente, la Francia, manteneva ancora sul giovane Regno una superiorità schiacciante, con i suoi 18.000 km. di ferrovie e un volume commerciale complessivo di più di 6 miliardi di franchi, tre volte tanto1669 . Le 477 società italiane per azioni del 1871, con i loro 1.722 milioni di capitale, pur rappresentando di già un considerevole aumento di fronte alle 392 dell’anno precedente1670 , erano ancora poca cosa di fronte alle consimili società francesi, inglesi, germaniche, così come poca cosa era ancora il risparmio pubblico di fronte a quello estero; e il reddito medio degli Italiani, di gran lunga inferiore a quello dei Francesi, Inglesi e Tedeschi, era l’eloquente simbolo della assai diversa situazione in cui l’Italia si trovava nei confronti delle altre grandi potenze1671 . Trasferita sul piano della finanza pubblica, la ancora scarsa potenzialità economica del Regno trovava piena

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espressione nel deficit, che sembrava destinato a diventar cronico, del bilancio statale, e nel corso forzoso. Secondo i dati che il Minghetti presentava alla Camera, nell’esposizione finanziaria del 27 novembre 1873, il disavanzo era stato di 338 milioni nel ’68, 216 nel ’69, 307 nel ’70, 112 nel ’71, 113 nel ’721672 ; e anche sulla base di più recenti ed elaborati calcoli, la continuità del deficit era sempre grave, 266 milioni nel ’68, 195 nel ’69, 249 nel ’70, 79 nel ’71, 117 nel ’72, 139 nel ’731673 . E non era solo il bilancio statale a soffrire della necessità di turare senza requie grosse falle: anche i bilanci dei Comuni, vale a dire della cellula organica base della vita collettiva, cominciavano a presentare, dal ’68 in poi, caratteristiche simili, anche se di minor entità1674 , ond’è che il 29 gennaio del ’71 L’Opinione poteva lanciare un grido d’allarme constatando che nel ’69 soltanto 219 Comuni (9 urbani e 210 rurali) avevano chiuso il bilancio in avanzo, mentre 432 (21 urbani e 411 rurali) si limitavano al pareggio e tutti gli altri chiudevano in deficit. Non c’era dunque di che stupire se, di fronte ad una simile situazione, la rendita 5% quotasse, nell’agosto del ’71, a 60 lire oro e 64 lire carta1675 ; se la grande piaga dell’aggio crescesse ogni anno1676 e, di conseguenza, anche il cambio sull’estero si mantenesse sempre sfavorevole alla lira1677 . Era, questa, la grande prova che l’Italia unita doveva superare per convincere davvero all’estero tutti, ma molti anche all’interno, di essere una creatura vitale, capace di reggersi pur quando fosse svanito l’eccitamento patriottico dei giorni dell’azione armata. Disavanzi nel bilancio statale, altre e grandi e ricche nazioni avevano avuto prima d’allora e avrebbero ancora avuto senza che nessuno traesse da ciò oroscopi di morte; e la stessa Italia, una volta superata la fase iniziale e assestatasi all’interno, avrebbe potuto permettersi il lusso, diciamo, di chiudere in deficit il proprio conto finanziario annuale senza che più si pensasse a decretare, su

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quella base, l’imminente fine del regno. Già un ventennio dopo, nella pur gravissima crisi finanziaria d’intorno il 1890-1896, già allora, per seria che apparisse la situazione, i profeti di morte e gli affossatori in anticipo o non esistettero più o furono trascurabile cosa. Ma in quegli anni immediatamente seguenti l’unità, e forse specialmente dopo il ’70; dopo l’acquisto di Roma, e nel nuovo clima generale europeo, assai meno propizio agli ideali in genere e, in particolare, all’ideale di nazionalità e anche a quello di libertà1678 , certo meno propizio all’Italia per la scomparsa della potenza napoleonica, spesso sospettata dagli Italiani e sospettosa verso gli Italiani, ma in fondo non mai più dimentica dei giorni di Magenta e di Solferino: in questo ambiente, politicamente meno emotivo, dominato dalla chiara e fredda logica del cancelliere germanico, molto attento ai «fatti» e, tra i fatti, anche alla finanza pubblica, in quest’ambiente occorreva che l’Italia desse prova di saper vivere e di essere un’unità reale, solida, nell’animo generoso di una minoranza di patrioti decisi e nell’alto e profetico spirito di talune personalità di eccezione non solo, né solo nel fervore di una lotta cruenta e accesa di speranze di inni di poesia, sì anco nella dura vita quotidiana di tutto un popolo, nella pratica di affari e di imprese in cui la poesia non aveva più nulla da suggerire, e tutto diceva invece il tornaconto e il calcolo. Era venuta su, quest’Italia, troppo d’improvviso, quasi miracolosamente: ché i contemporanei non avevano l’obbligo di saper troppo di storia e di andar a ricercare le cosiddette origini del Risorgimento sin nei primi decenni del Settecento; bastava loro stare ai fatti, alla realtà ben percepibile e riconoscer l’improvviso accendersi di una questione italiana dopo il 1815. Nel che poi, forse, dimostravan d’avere, essi, più intuito storico-politico di parecchi futuri professori di storia,come che cogliessero nel vivo il momento veramente e propriamente rivo-

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luzionario, quel che insomma costituisce il Risorgimento, senza confonderlo con le riforme e il pensiero riformistico, che erano stati il necessario presupposto della rivoluzione, ma erano pur sempre tutt’altra cosa da essa. Ora, a questo miracolo, in cui larga parte attribuivasi alla fortuna, ben diversa essendo la stima per le qualità militari degli Italiani e per le qualità belliche dei Tedeschi, autori dell’altro, contemporaneo miracolo; a questo miracolo si chiedeva di dimostrare ch’esso posava effettivamente su basi solide, e non di creta: anche fuor della poesia, bisognava che l’Italia dimostrasse di saper fare, anzi di saper semplicemente vivere – e ciò a parecchi appariva da qualche anno piuttosto dubbio, considerandosi perfino che dopo il ’61 e soprattutto dopo il ’66 l’Italia, in sostanza, più regrediva che progrediva1679 ; e che la nazione se ne stava «immobile nelle nicchie del suo passato»1680 . Nessuna prova più atta a saggiare se ne fosse o no capace, di quella finanziaria: prova che stava particolarmente a cuore ad una società, qual era la società europea di dopo il ’70, lanciata in piena epopea capitalistica e in cui l’apprezzamento dei valori economici soverchiava, sempre di più, la valutazione dell’elemento spirituale e lo stesso fattore politico veniva sempre maggiormente connesso e talora fin subordinato a quello economico. E prova difficile per un paese come il nostro, povero, economicamente arretrato, la cui finanza pubblica era la risultante di diverse finanze statali, per lo più zoppicanti1681 , era tecnicamente ancora in una condizione assai disordinata e spesso caotica con i sette diversi sistemi di riscossione delle imposte unificati solo tra il ’72 e il ’73, grazie ad un «lavoro diabolico»1682 . Era dunque una prova decisiva: molti erano gli scettici, e coloro che pensavano che sullo scoglio finanziario naufragasse la navicella italiana, appena appena lanciata in alto mare; e molti, anche all’interno, fra clericali e

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reazionari di ogni genere, che speravano l’andasse così e si sfasciasse, alla prova dei soldi, l’edificio messo su, tra violenza e prepotenza, da quei mali uomini dei patrioti. Ma anche fra costoro v’eran parecchi perplessi e timorosi che la costruzione politica non reggesse al vaglio della finanza; e ne dava prova, tra altri, Michelangelo Caetani, l’uomo che aveva apportato a Vittorio Emanuele II il plebiscito di Roma, e che ora temeva «il fallimento di finanza» e vedeva nero nero per il proprio paese, non a causa di reazioni politico-religiose ma della «piaga» della finanza, e presagiva «demolizione del passato, e rovina dell’avvenire»1683 ; e così, da tali apprensioni mosso, investiva i suoi capitali in titoli francesi, «perdendo ancora non poco nel cambio presente, per non perdere tutto nell’avvenire»1684 , seguendo d’altronde in ciò l’esempio di quegli altri italiani i quali, nel ’72, avevano sottoscritto 620 milioni nei titoli del prestito francese di tre miliardi, vale a dire una somma pari ad un decimo circa di quella che avevano impegnata nei titoli del debito pubblico del loro paese1685 . Il duca romano, spirito caustico sempre, prima a’ danni della Curia Pontificia ed ora a’ danni dei nuovi governanti1686 ; gran liberale di fama ma non tanto saldo di convinzioni da non ritrattarsi in punto di morte e chiedere ammenda al confessore dei trascorsi patriottici1687 ; tormentato dal dolore fisico della cecità e dall’angoscia morale per la scomparsa della seconda moglie, era uno spirito irrequieto ed inquieto e troppo spesso il suo era ormai pessimismo di abitudine e bisogno di mormorar su tutto1688 ; ma sul punto finanza, le sue querimonie erano allora di molti, che si raccomandavano a Dio o allo «stellone»1689 , e penetrante e sostanzioso era il giudizio ch’egli esprimeva, il 2 agosto 1874, all’amico de Circourt: che l’Italia, quale era fatta, non poteva presumere «di fare la conquista violenta di sé stessa», anzi non poteva «sussistere, durare e corroborarsi, se non per

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universale consenso, per comune benessere e per vero miglioramento»1690 . Proprio così: l’Italia non poteva fare la conquista violenta di sé stessa, non poteva cioè agire sul suo corpo economico e morale come avevano agito le divisioni piemontesi contro l’Austria, i Mille contro la monarchia borbonica, con la forza; fatta l’unità, cacciato lo straniero e cacciate le dinastie locali, le armi non servivano più, e bisognava mantenere l’unità, procedere cioè con i mezzi e per le vie della pace e delle arti della pace. Mutavan completamente gli obbiettivi della politica, e dovevan mutare i mezzi: tesa, fino al ’70, nella volontà di completare il Regno con la Venezia e Roma prima, con Roma poi, la classe dirigente doveva ora irrigidire le energie in una tensione non meno accentuata e forse ancora più aspra, ma per altre mete. A quella guisa in cui cambiava totalmente il clima politico europeo, con la caduta del Secondo Impero e l’avvento della potenza germanica, e, in Italia, con Roma capitale penetrava addentro nella vita nazionale un nuovo, potente germe d’idee e di sentimenti, alla stessa guisa cambiavan motivi e ragioni dell’attività politica: le questioni, nelle quali aveva a provarsi il valore degli uomini e dei partiti, divenivan questioni di ordine interno, amministrativo ed economico; non erano più – annotava l’organo magno della Destra al potere1691 – le quistioni d’un tempo, capaci di appassionar così vivamente gli animi, non potevano più risolversi con discorsi enfatici, e né meno con la sola audacia de’ fatti, ma richiedevano studio, senso pratico, spirito di sacrificio. Solo col senso pratico poteva farsi la nuova Roma, la Roma della civiltà moderna e della libertà, la Roma insomma vagheggiata dal Cavour, non la Roma dei Cesari e della retorica tribunizia. E se la questione finanziaria costituì in ogni tempo e costituisce sempre un problema politico, esulando dal ristretto campo tecnico per investire tutta quanta la vita

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nazionale, in quel particolare momento di vita italiana essa diventava il problema politico, il problema nazionale per eccellenza, quello dalla cui risoluzione dipendeva l’essere stesso della nazione1692 . Tutto si riconduceva e si riduceva lì1693 : salvare il bilancio statale, riuscire infine al pareggio, dar la prova, coi fatti, ad un mondo che al pareggio del bilancio pubblico teneva ancora come ad un assioma incrollabile e non era avvezzo ai colossali deficit dei nostri tempi, dar la prova, dicevamo, che l’Italia anche passata l’euforia delle cosiddette giornate radiose era capace di vivere la vita di ogni giorno, disadorna forse, dura e faticosa certo, che non presentava gli allettamenti esteriori, i colori e i suoni delle imprese belliche, che da troppa gente, tirata su fra la retorica e allattata al «latte di eloquentia», correva anche il rischio di esser stimata come prosaica imbelle e da poco, ma che era in verità assai più difficile da combattere e non meno meritoria da vincere delle stesse battaglie militari. Una prova, che affollava di incubi certe notti del pur quadrato Sella, condotto a veder in sogno, come in ridda, centinaia di milioni di titoli...1694 . Il fallimento finanziario avrebbe significato, in quel periodo storico, la fine dell’Italia unita; e nessun prodigio in camicia rossa e nessuna abilità diplomatica alla Cavour avrebbero più potuto rimettere insieme uno Stato che si fosse dimostrato incapace di assicurare la propria vita finanziaria di ogni giorno. Questo dissero, in quegli anni, molto chiaramente e a più riprese, uomini politici e giornali stranieri, amici e nemici dell’Italia; e ammoniva un non dubbio amico, il Gladstone, una volta che a Firenze s’eran dati convegno uomini politici e altre personalità per onorarlo, ammoniva il Gladstone, pur rallegrandosi dei vantaggi conseguiti, che gli Italiani avevano in casa un nemico più terribile degli eserciti stranieri, ed era l’enorme deficit gravante sulla finanza pubblica1695 .

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E a chi per avventura avesse mostrato disdegno per l’ammonimento come che venisse da un uomo tacciato di umanitarismo e di scarsa sensibilità per i problemi della potenza e della forza, si poteva rispondere ricordando che anche un altro grande uomo di Stato, non sospetto certo di pacifismo o, per dirla con espressione dei nostri tempi, non sospetto di preferire il burro ai cannoni, anche il Bismarck dunque, tra le cose dette al Minghetti ed al Visconti Venosta nel settembre del ’73 a Berlino, aveva ammonito a sua volta: «Voi avete un solo nemico da debellare a ogni costo; è il disavanzo», insistendo che a toglier di mezzo tale nemico dovesse il governo rivolgere tutte le sue cure, e non ad accrescere gli armamenti, la forza di una nazione risiedendo anzitutto nel suo credito1696 . E nell’estate del ’74 tornava alla carica, sempre riprendendo pensieri già affiorati nel ’68, col palesare il suo stupore perché il governo di Roma, sicuro dell’appoggio tedesco in caso di aggressione della Francia, non riducesse le spese militari per equilibrare il bilancio1697 . I due maggiori uomini di Stato europei, così fondamentalmente diversi, erano dunque concordi nel valutare la situazione dell’Italia1698 ; concordi erano gli organi della stampa europea nel consigliare, ammonire talora minacciare i politici italiani; e dall’apprezzamento sulla situazione finanziaria del giovane regno, alla quale era così fortemente interessato il capitale estero1699 , molto variava nel contegno dei maggiori giornali e riviste, sicché quando, nel marzo del ’74, la Camera approvò nuovi stanziamenti di circa 80 milioni per le spese militari, a pareggio non raggiunto, fu un coro solo. Dallo autorevolissimo Times in quegli anni già spesso poco benevolo all’Italia per ragion di finanza1700 , secondo cui meno di ogni altro paese l’Italia poteva permettersi il lusso di spendere il denaro pubblico in modo inutile ed improduttivo, allo Standard, altro de’ riputati giornali ingle-

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si e organo del partito conservatore, che invitava gli italiani a guarir dalla mania per le spese militari e dalla impiegomania – la mania per cui l’ideale di vita di un italiano era di esser impiegato dello Stato e di aver uno stipendio iscritto in bilancio – per lavorar di più e spender di meno, alla Pall Mall Gazette, soffermantesi sulla mancanza di coraggio dei successori di Cavour nel far fronte vigorosamente alla situazione finanziaria e sulla impossibilità per l’Italia di tener in piedi un esercito di 360.000 uomini: la stampa inglese era unanime e vi tenevan bordone giornali e uomini politici statunitensi, a cominciare da quel senatore Boutevell che accomunava l’Italia alla Spagna, alla Grecia e ad altre nazioni «disonorate»1701 . Ma anche da parte germanica risuonavano voci simili, che riprendevano, amplificavano l’ammonimento dato dal Bismarck nel settembre dell’anno precedente; e della bisogna s’incaricavano la Augsburger Allgemeine Zeitung, il più importante giornale della Germania meridionale1702 , all’Italia ostile per lunga tradizione, e soprattutto la Spenersche Zeitung, anch’essa non sempre benevola per il governo del Re1703 . Dalle colonne di quest’organo della stampa tedesca si levavano avvertimenti del tutto analoghi a quelli di cui s’erano incaricati i portavoce della City e del mondo finanziario anglosassone: gli italiani non riflettono abbastanza che non c’è forza militare dove non c’è forza pecuniaria, e non c’è forza pecuniaria dove non ci sono floride finanze; essi devono persuadersi che, per ora almeno, e giocoforza rinunziare ad avere un esercito uguale a quello delle grandi potenze, e devono cercar invece di assicurarsi per ogni casa un alleata sicuro, che permetta loro di diminuire le spese militari e ristabilire le finanze; e devono riflettere bene su tali problemi, anche se molti in Italia vogliono armare ancora di più, perché uno Stato in fallimento non è mai un forte alleato1704 . Nelle quali considerazioni si svelava, certo, il dispetto tedesco versa il governo italiano,

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in quell’ora; così come negli inviti – e più aperti di così non potevan essere – ad un’alleanza con la Germania trapelava ancora e sempre la volontà bismarckiana di piegare il Minghetti ed il Visconti Venosta ai suoi desideri in fatto di politica generale e particolarmente ecclesiastica. Ma, dispetto o no, anche le voci tedesche suonavano all’unisono con quelle del mondo anglosassone, all’unisono con le voci francesi per le quali l’Italia era senz’altro il paese del deficit1705 ; ed era un coro non gradevole, ammonimento minaccioso che svelava, ed avrebbe dovuto svelare anche ai più accesi sostenitori della «grande politica», senza troppi riguardi al bilancio, quale fosse l’importanza del problema finanziario. Era veramente la questione politica per eccellenza, la questione vitale per il Paese, tanto vitale che, a non superarla, l’Italia sarebbe o crollata o almeno scesa alla condizione dell’Egitto, terra sotto controllo finanziario altrui e quindi colonia, non libera nazione. Del che s’era già avuto aperto indizio il giorno in cui il rappresentante diplomatico di un governo straniero, esprimendo brutalmente quel che anche in altri ambienti si pensava, s’era recato dal Sella a proporgli formalmente di sottoporre la finanza italiana a controllo internazionale. Il ministro estero fu messo alla porta; ma il problema rimase e da allora il Sella mosse deciso alla restaurazione della finanza pubblica1706 . E fu quindi giusto cercare il pareggio ad ogni costo anche gravando pesantemente sull’economia di un paese povero, anche sollevando ire popolari, malcontento del nuovo Stato e perfino rimpianto dell’antico ordine di cose. Tutti i ragionamenti validi per i tempi ordinari, necessità di sviluppare l’attività economica, non opprimendola con soverchi balzelli1707 erano ora quasi senza valore di fronte allo imperativo politico, che esigeva di urgenza il raggiungimento del pareggio, per dimostrare al mondo la vitalità dello Stato italiano: l’unica dimostrazione di si-

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curo effetto, che potesse in quei giorni essere contrapposta alle violenze verbali, alle accuse ed alle manovre degli ambienti clerico-reazionari della penisola e dell’Europa. L’imperativo politico era categorico; e perciò anche, in un periodo in cui il sistema tributario era ancora incompiuto, gli accertamenti assai imperfetti, gli stessi metodi di esazione vari e discordanti, la equa razionale distribuzione dei pubblici carichi rimase un sogno ed anzi si affastellarono spesso i tributi gli uni sugli altri, al solo scopo di raccogliere le somme occorrenti all’erario1708 , ed il Sella dovette rinunziare alla sua idea di una imposta globale sul coacervo dei redditi, con aliquota progressiva1709 . Il fardello fu così assai pesante soprattutto per le classi meno abbienti, di grama vita già e pertanto maggiormente colpite dalle sperequazioni tributarie sul tipo di quella sancita dalla imposta di ricchezza mobile che incideva nella egual misura del 13,20% su qualsiasi reddito meritando di essere definita l’imposta sulla immobile povertà1710 ; donde aspetto e in parte sostanza di finanza di classe della politica finanziaria dei moderati, anche se l’accusa, tante volte ripetuta, allora e poi, si attenui quando si consideri che proprio nel periodo fra il 1871 ed il 1875 la percentuale delle imposte sui redditi e sui patrimoni, nel complesso delle entrate tributarie, fu la più alta mai avutasi nella storia d’Italia, mentre quella delle imposte indirette fu la più bassa, nonostante l’imposta sul macinato1711 . Aver compreso questo imperativo, averne percepito la terribile importanza, costituisce gran titolo di gloria della Destra nei suoi ultimi anni di governo e, in particolare, la prova indubbia delle qualità di uomo di Stato di Quintino Sella, la testa forte e secca1712 che fu allora la testa adatta, anche se impopolare. Non finanziere per studi e pratica, divenuto uomo di finanza pubblica per necessità1713 , egli vide chiaramente e chiaramente affermò con la parola e con fermissima azione che il vero pro-

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blema politico d’Italia era quello finanziario1714 e che occorreva affrontare qualsiasi impopolarità pur di salvare il paese dal dissesto economico e dal disonore1715 , a cui sarebbe fatalmente seguito il disastro politico; e trascinò dietro a sé tutta la vecchia Destra, uomini di lui assai meno energici come il Minghetti, a sua volta convinto che la breccia ancora aperta nelle finanze fosse quella «per la quale entrano le rivoluzioni col codazzo dell’anarchia e del dispotismo»1716 , e che se ogni giorno aveva il suo affare, l’affare dell’Italia era allora il riordinamento delle finanze, ancor più importante e preoccupante della stessa questione ecclesiastica1717 . Perciò, giustamente, l’opinione pubblica vide in lui una forza politica d’assai superiore a quella di un ordinario ministro delle Finanze; e uomini politici e partiti videro un capo, anche quando non lo amassero, nell’uomo che non fu mai presidente del Consiglio ed ebbe sempre un ministero tecnico, non politico in stretto senso come i due più ambiti dell’Interno e degli Esteri, e in un Parlamento ricco di raffinati e letteratissimi oratori, come il Cavour prima ed il Giolitti poi fu oratore disadorno e fin stentato, anche se efficace1718 , e tuttavia dal suo seggio di tecnico e con la sua parola non forbita esercitò un influsso politico decisivo e fu il valore più alto ed incontestato del ministero Lanza1719 . Tali dunque erano le condizioni dei tempi: l’Italia doveva dimostrare, secondo annotava nell’agosto del ’72, con benevolenza questa volta, la Saturday Review, in genere poco benevola appunto per la questione finanziaria, «a costo di quali sacrifizi ai nostri giorni una nuova nazione cerca di stabilirsi e di elevarsi al grado di potenza indipendente»1720 , anche conclusa la lotta armata; e doveva esperimentare a sue spese che più dolorose delle prove belliche riescono spesso, nella vita dei popoli, le prove della vita civile.

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Così il problema finanziario rimaneva al centro delle preoccupazioni degli uomini di governo. E ne era influenzata direttamente, s’intende, in premo luogo proprio l’organizzazione militare del Regno, quella potenza guerresca che ha costituito, sempre nella storia dei rapporti internazionali il fattore ultimo e decisivo dell’azione politica e diplomatica: onde s’era facile, come fu detto, far l’ambasciatore a chi aveva dietro di sé la Home Fleet, meno agevole riusciva a chi non poteva contare su di una pari forza, terrestre o marittima. E fu il caso dell’Italia, logicamente ultima fra le grandi potenze anche dal punto di vista della forza militare. La necessità assoluta di economie, che non potevano esser fatte sui bilanci dei lavori pubblici o dell’istruzione, necessitanti invece di continui maggiori stanziamenti acciò la vita della nazione potesse svolgersi con ritmo più celebre e moderno, si ripercosse anzitutto sui bilanci militari, sottoposti a grosse falcidie a partire dal 1867. Le spese per il bilancio della guerra fra il 1867 e il 1870 diminuirono fortemente nei confronti degli anni 1861-1865; ed anche dopo l’allarme determinato dalla guerra franco-prussiana e la ripresa europea degli armamenti e le riforme del generale Ricotti, non superarono mai più, sino a pareggio raggiunto, i 200 milioni annui; quelle per la Marina diminuirono ancor maggiormente, quasi della metà, sì che le spese militari toccarono la percentuale più bassa, nel complesso delle spese statali, che si sia mai avuta nella storia dello Stato italiano, il 18,66%1721 . E anche qui siffatta contrazione di spese era particolarmente grave per un paese il quale, nonché poter fare insegnamento su di una soda attrezzatura iniziale, avrebbe dovuto spendere in proporzione assai più delle altre grandi potenze, trovandosi di fronte al problema di un completo riassetto delle forze armate. A cominciare dalla introduzione effettiva e completa del servizio militare obbligatorio, di fatto ancora assai teo-

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rico nel 1870 date le molte esonerazioni e surrogazioni, l’organismo militare era da rifare; né ci si poteva accontentare dell’esserci già lo scheletro nell’esercito piemontese, perché quel che era difficile era appunto il rimpolpare questo scheletro e farlo divenire corpo grosso e robusto. Lavori di fortificazione alle frontiere, dopo che la cessione della Savoia aveva lasciata scoperta la linea delle Alpi occidentali, dal Cenisio in su, e dopo che l’acquisto della Venezia aveva condotti i confini in zone prive, sino allora, di qualsiasi appressamento a difesa: era un primo grosso problema, preoccupante soprattutto dopo lo spettacolo dello straripamento de’ Tedeschi in Francia, che faceva pensare nuovamente alle grandi invasioni, agli spostamenti di popolazioni intere1722 e, quindi, induceva a cercar un sistema protettivo sicuro e continuo. «Scoperti alle offese», com’erano, gli Italiani dovevano scuotersi, se non per vero e profondo patriottismo, almeno per il «presentimento dei nostri materiali pericoli», ammoniva il Marselli1723 , incitando a risolvere il problema della difesa dello Stato e, fra l’altro, a fortificare Roma; e un altro tecnico, il maggior generale del genio G. B. Bruzzo, incalzava, in un opuscolo, sulla necessità di studiare la questione della difesa generale dello Stato «in tutta la sua generalità, partendo non da idee impicciolite da considerazioni di attualità, ma da idee larghe, che abbraccino anche l’avvenire»1724 e proponeva un suo piano per dividere il paese in tre grandi scompartimenti – valle Padana, Italia centrale, Mezzogiorno – attrezzati in modo che l’Italia non dovesse darsi per vinta anche dopo aver perduta la stessa capitale, e fosse «come una grande nave, che non sommerge ancora quando le acque l’hanno invasa in alcune delle sue parti»1725 . Nel quale progetto, nuova suonava l’affermazione che l’Italia, esposta ad invasioni nel Nord, poteva anche esserlo al Centro e al Sud, cioè dal mare; che roba vecchia da porre in magazzino, andava considerato il consueto ritornello della

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valle del Po arbitra delle sorti d’Italia1726 ; e che, pertanto, più gravoso assai e complesso risultava il problema della difesa, estesa dalla linea delle Alpi alle coste lunghissime. Se poi dal problema del reclutamento e delle fortificazioni si passava a quello dell’armamento, per terra e per mare, del reclutamento degli ufficiali, della divisione del regno in riparti territoriali, insomma della struttura stessa dell’esercito, ovunque il senso di dover ricominciar da capo o quasi, ora soprattutto che c’era da imitare non più la Francia, bensì la Prussia e l’organismo militare modello era diverso da quello esaltato per tanti anni; e lo testimoniavano le appassionate discussioni sui progetti Ricotti, nella primavera del ’71, i Quattro Discorsi del La Marmora e le polemiche di stampa ed il gran dibattito parlamentare dal 15 al 21 giugno. Discussioni e polemiche che dovevano durare un pezzo, lungo tutto il ministero Lanza e poi ancora lungo il ministero Minghetti, e che giunsero al diapason nel ’73-’74, quando gli accresciuti timori per una aggressione francese contro l’Italia spinsero la Sinistra a premere sul governo, con la proposta Nicotera del18 marzo 1873, perché accelerasse ed accrescesse gli armamenti, preoccupando nel contempo anche parecchi degli uomini di Destra. E fu un batter, soprattutto della Riforma1727 , sulla necessità di esser pronti, di esser protetti da un buon parafulmine, di tener asciutte le polveri secondo aveva predicato Oliviero Cromwell1728 ; e, come doveva poi accadere altre volte più tardi, così anche allora contro la politica alla Sella si levarono le voci di coloro che, protestandosi zelatori del bene patrio e, naturalmente, accusando gli altri di tiepido senso dell’onore nazionale, chiedevano armi, armi, armi, anche a costo di maggior disavanzo di bilancio1729 . Il ritornello che nell’Europa di oggi il diritto delle nazioni aveva bisogno di rendersi visibile per mezzo della forza1730 , o quell’altro che l’Europa si stava tramutando in una immensa caserma e quindi guai ai deboli1731 ,

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servivano egregiamente da punto di partenza alle invettive contro la politica delle economie fino all’osso. Era il gruppo crispino della Riforma, era Crispi che invocava si facesse presto, presto, presto ad armare, ogni giorno, ogni ora perduti costituendo un pericolo grave per le istituzioni e la libertà1732 ; erano militari di mestiere, come il Cialdini aspro ed acre pur nella compostezza formale1733 , il quale, dopo di aver già rischiato di far fallire la composizione del ministero Lanza nel dicembre del 1869 con la sua opposizione alle riduzioni di spese militari1734 , dopo di aver tuonato contro la politica delle economie nella agitatissima seduta al Senato del 3 agosto 18701735 , ammoniva nuovamente i colleghi senatori, il 4 giugno 1874, che la prosperità finanziaria non basta per uno Stato e che non era vero che l’Italia dovesse prima diventar ricca per poter poi essere forte – semmai più vero che bisognava aver la forza per divenire ricchi1736 . Riappariva così più che mai falsa nel mondo moderno, la celebre sentenza del Machiavelli, già, errata ai tempi del suo autore, che «gli uomini e il ferro truovano i danari e il pane, ma il pane e i danari non truovano gli uomini e il ferro»1737 . Era il Marselli a lamentare che gli Italiani si sarebbero continuati ad illudere, nella convinzione «che le umili riverenze possano scongiurare una guerra fatale. La politica della debolezza e della superficialità porta le sue conseguenze sugli apparecchi guerreschi: noi non abbiamo la febbre che dovremmo avere, e che avremmo se pensassimo che la guerra con la Francia è inevitabile e potrebbe non essere lontanissima. Né fortificazioni, né flotta, né ordini solidi nell’Esercito. Pochi quattrini, poco patriottismo, poca elevazione morale. Non dispero dell’Italia, anzi credo che il tempo possa rifarla; ma se non ne avessimo il tempo?»1738 . Perfino il mite cassinese Luigi Tosti, preoccupatissimo per un intervento francese a favore del Papa, che egli riteneva probabile, e quindi fau-

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tore dell’alleanza con la Prussia, voleva che si pensasse seriamente all’esercito, essendo questi tempi non di dispute, ma di fatti1739 . Cotali e di simil genere erano le argomentazioni dei paladini del riarmo sollecito ed integrale, agli occhi dei quali la politica alla Sella era una politica diciamo rinunciataria. E non può affatto disconoscersi il molto di vero di quelle affermazioni; che cioè nell’Europa di dopo il ’70, nell’Europa della pace armata, per far sentire le proprie ragioni occorreva più che mai essere forti, e che, cominciando quel fenomeno nuovo nella storia dei popoli della corsa agli armamenti, il problema dell’organizzazione e potenza militare assumeva, se possibile, ancor maggior peso nei rapporti internazionali. Questo era vero: né lo negavano gli uomini di Destra1740 , fra i quali il Bonghi soprattutto batteva e ribatteva sul tasto dei pericoli presenti e futuri della situazione europea, in conseguenza dell’esito della guerra franco-prussiana; e ammoniva che l’esperienza del ’70 aveva dimostrato come il «corpo politico» l’Europa non esistesse e ciascuna nazione dovesse, pertanto, fidare soltanto nelle sue forze e nelle sue armi. Tanto più pensasse alle armi l’Italia la quale, non avendo potuto vincere una grande battaglia nel suo formarsi, non aveva potuto perciò acquistare il sentimento fiero, sicuro, altero del suo diritto, e doveva acquistar piena coscienza ora dell’efficacia delle sue forze di terra e di mare. D’accordo dunque gli uni e gli altri, nel constatare che l’età era di ferro: d’accordo nel richiamarsi a Cromwell e al suo «tener asciutte le polveri»1741 , anche se il riconoscere che l’Europa ritornava «ad un tempo di violenza e d’armi»1742 trasformandosi in un vasto campo militare, e che erano passati i tempi del Cobden e dei suoi amici, onde non trovavan più base que’ loro ragionamenti rivolti ad uomini pacifici e ragionevoli, suonasse per i moderati triste e doloroso1743 , mentre nel gruppo crispino ispirava

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apprensioni sì, ma ad un tempo un mal velato compiacimento per il trionfante senso della forza e della potenza. «Noi credevamo alla giustizia e alla libertà, oggi si crede alla forza, ed al numero», doveva scrivere molti anni più tardi, presso al termine di sua vita, Marco Minghetti stanco, amareggiato, pessimista1744 ; ma fin dal ’71La Riforma gli aveva risposto in anticipo, esaltando proprio la forza, il numero, lo slancio vitale dei popoli giovani che hanno un avvenire. Ma ancor più vero era che in quel momento il problema salvezza per l’Italia era il problema finanziario, tutto il resto passando in secondo piano, anche la questione della forza militare; e che, tra il perpetuarsi del disavanzo con alcune divisioni di più, ed il pareggio con alcune divisioni di meno, la forza dell’Italia, pur di fronte all’estero, stava nel pareggio1745 . Vittorioso pertanto, per fortuna della nazione, l’indirizzo Sella, la riorganizzazione dell’esercito e il riarmo ebbero insufficiente appoggio finanziario. E fu, ripetiamolo pure, una necessità: ma ciò non toglie che dal punto di vista militare, l’Italia rimanesse ancor più indietro alle altre grandi potenze1746 , e che da tale situazione di inferiorità troppo grande non ne venisse influenzata profondamente la sua politica estera, perché era difficile giocar serrato nel gioco diplomatico quando non s’aveva, alle spalle, la Home Fleet o la Guardia prussiana Per vero, pochissimi erano quelli che auspicassero allora un gioco serrato in politica estera da parte del governo italiano. La nazione era tutta presa dai grossi problemi interni, primo fra tutti quello finanziario, ma non esclusivo. Ché, anche a riguardare verso altre parti, c’eran gran ragioni di cruccio: come chi ponesse mente alle condizioni della sicurezza pubblica e fosse condotto, dai fatti, alle tristi considerazioni che venivano espresse dai Bonghi e dai Dina, sull’aumento impressionante della criminalità, sulla progressione costante dei reati di

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sangue, sulla limitata efficienza della polizia, oppure sullo stato di pericolo continuo dominante in più di una regione, e soprattutto nella Romagna e nella Sicilia1747 . Anche questa, grossa piaga sì per la gravità delle ripercussioni interne sì per la risonanza all’estero; risonanza particolarmente spiacevole nella stampa britannica sempre pronta a pubblicare lettere di protesta di sudditi di Sua Maestà la regina Vittoria in viaggio di piacere nella penisola e svaligiati da banditi o, molto più semplicemente, seccati nella loro albagia dalle formalità di pubblica sicurezza e dalle richieste dei Carabinieri1748 . Con il dissesto finanziario, era questo l’argomento che più pesava ai danni dell’Italia e faceva apparire urgente «lavarsi in faccia al mondo da questo obbrobrio dei ricatti, dei grassatori e degli assassini»1749 : basso corso della rendita nelle borse europee e quadro stereotipo dell’Italia come paese di ladri e di briganti, il quadro che doveva offrire lo spunto al De Amicis per il fiero gesto del piccolo patriota padovano, erano i due grossi pericoli per un paese che voleva organizzarsi a Stato moderno ed essere riconosciuto ed apprezzato come tale. Tutto questo bastava ampiamente, dunque, per occupar l’animo ed il pensiero degli italiani. Erano i fatti ad imporsi da sé: quei fatti che costringevano perfino il battagliero de Launay a riconoscere che le condizioni interne dell’Italia erano tali da non permettere il lusso di una politica che non avesse per oggetto esclusivo ed immediato la difesa del territorio nazionale1750 . II L’apatia politica Ma oltre ai fatti v’erano le impressioni; allato della realtà diciamo oggettiva, lo stato d’animo soggettivo. E questo

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meno che mai avrebbe voluto, allora, preoccupazioni e difficoltà nei rapporti con gli altri paesi. Era un po’ la naturale conseguenza del rilassarsi della tensione estrema che, dal ’59 alla presa di Roma, aveva continuamente resa agitata la vita di molti Italiani. Gli uomini del ceto dirigente che erano allora nella piena maturità, avevano per lunghi anni vissuto in una atmosfera febbrile; come annotava taluno, l’italiano quarantenne «avrà sentito parlare della tranquillità pubblica, della prosperità che si sviluppa sotto l’influenza di essa... ma in sostanza, questo stato di tranquillità non lo ha mai goduto. Non è forse naturale il supporre che desideri di provarlo anch’esso?»1751 . Press’a poco lo stesso sentimento vibrava nelle parole del ministro degli Esteri, il Visconti Venosta, avvezzo sin dal ’48 alle inquietudini delle lotte, anzi delle congiure per la libertà, e anch’egli ora convinto che il paese anelasse a riposarsi ed a rifarsi, appunto, dalle lunghe agitazioni che lo avevano per tanti anni travagliato1752 . Più su ancora del desiderio personale di tranquillità, era la convinzione che bisognasse finalmente porre una sosta al passar da un desiderio all’altro, dall’una all’altra voglia, per non consumar tutte le energie in simile rincorrersi incessante di sempre nuove aspirazioni ed attendere una buona volta al consolidamento interno dello Stato, alla educazione degli italiani, allo sviluppo economico1753 . Come avrebbe ripetuto parecchi anni più tardi uno della Sinistra, Michele Coppino, commemorando l’amico Depretis «alla questione dell’essere si sovrapponeva nell’Italia una, quella del ben essere»1754 . Desiderio di quiete naturalissimo, come un grande respiro di sollievo, ora che sul Campidoglio si era chiuso il ciclo, ed un affrettar con l’animo l’èra di tranquillità, grigia e monotona magari, ma senza sussulti ed apportatrice di calma, di benessere, di serenità.

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Naturalissimo, per quanto poi ad esso si mescolasse anche un meno apprezzabile sentimento, purtroppo largamente diffuso; vale a dire una notevole indifferenza per la vita pubblica, il fastidio di essere stati per tanto tempo tormentati da questioni come Venezia e Roma, da appelli come Roma o morte, buoni a metter sossopra l’ambiente, cittadino e familiare, a perturbar gli affari, amareggiare le gioie della vita; e l’intenzione, ora che il turbine era passato, di lasciar correre le cose per il loro verso e di occuparsi ciascuno del proprio «particulare». Se ancor pochi anni prima, quando c’eran Venezia e Roma da liberare, uno straniero era colpito dalla passione politica degli italiani, ed ogni considerazione cadeva subito lì, sul solito tasto, e dalla politica non s’usciva1755 ; se un quindicennio più tardi, al dir del jacini, tutti strologavano di politica estera e nei circoli e nei caffè si sistemava l’Europa1756 , ora, in questi anni di mezzo, di politica moltissimi non avevano più nessuna voglia di parlare e sentir parlare. Delle controversie pubbliche s’occupasse chi voleva: e non erano, certo, in molti a volersene occupare, se il più diffuso quotidiano, Il Secolo di Milano ch’era poi giornale di informazione, attorno al 1880 superava appena le 30 mila copie, mentre dei maggiori organi politici Il Diritto non superava le 4 mila, La Riforma le 2500, L’Opinione le 7000, La Perseveranza le 3000, solo il Popolo Romano raggiungendo le 12.5001757 . Era, cioè, quel saper poco ed anche meno volerne sapere di polemiche e di ideali politici, che il «poeta e storico» del minuto popolo italiano ha notato come tratti distintivi di quel popolo1758 : soltanto che qui non si trattava del popolo minuto, legittimamente preoccupato del duro e penoso problema del vivere quotidiano, da tale asprezza di vita reso estraneo alla vita morale e politica dello Stato, sì da essere disposto a barattare il diritto elettorale amministrativo con un bicchiere d’acquavite1759 privo d’altronde del diritto elettorale politico e quindi tenuto forzata-

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mente lontano dalla vita pubblica nelle sue più alte manifestazioni; bensì proprio dello stesso ceto dirigente, delle classi medie, che avevano i diritti e avrebbero dovuto sentir i doveri. Era – annotava qualche contemporaneo, pur non traendone affatto conclusioni pessimistiche – mollezza che stava dentro nell’ossa e cullava tranquillamente, languore intellettivo e morale, stanchezza che non si riusciva a scuotere1760 . Era finito il ciclo eroico delle lotte per l’unità; e sino a quando l’irrompere delle masse sulla scena e l’affermarsi del movimento socialista non avessero proposto un altro grande tema di battaglia, dando nuovamente agli occhi dei più un significato preciso e concreto alla vita politica e destando sentimenti vivi laddove prima era indifferenza, quando non peggio, per la vita normale dello Stato, sembrava venissero a mancare negli italiani e la voglia e la materia di ardenti lotte politiche1761 , ove se ne eccettui la questione dei rapporti con la Chiesa, acutissima sì, ma infiammante all’azione i circoli degli estremisti, clericali sfegatati o liberi pensatori, meno la massa del popolo e della stessa borghesia che soffriva del dissidio, ma proprio per questo desiderava accentuarlo il meno possibile e riluttava a portarlo in piazza. Veniva a mancare la voglia della lotta politica anche perché, raggiunti gli scopi su cui si era concentrata febbrilmente l’anima nazionale nel dodicennio trascorso, molti erano come disorientati, né sapevano scegliere d’un subito altri e nuovi ideali, anzi avvertivano un senso di vuoto: ora che s’era avuto tutto, l’orizzonte invece di allargarsi sembrava restringersi, annotava il Villari, e gli italiani erano come uomini sfiducîati e disillusi, per non sapere che altro fare né che altro desiderare1762 . E se perfino in Germania, nel paese dei maggiori trionfi, un von Sybel si chiedeva che cosa faremo ora1763 , nella tanto meno trionfante Italia è naturale che il pro-

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porsi nuovi ideali sgomentasse. Così, troppa gente desiderava di non occuparsi più, o il meno possibile, dei problemi nazionali, lasciandone la cura ai politici, già acconciandosi sentimentalmente a che potesse esistere per davvero, in uno Stato moderno, una categoria di politici di professione ed il resto della popolazione fosse libera di disinteressarsi della cosa pubblica per attendere unicamente al proprio lavoro; e si diffondeva l’inclinazione, diceva il Bonghi, a pensare al sodo, a non confondersi il cervello, a lasciar correre, sopportando più o meno contenti il presente per trarne il miglior avvenire possibile1764 ; o, annotava uno straniero, una volta che s’era cessato di aver l’occhio fisso allo scopo comune – Roma – ognuno s’abbandonava alle proprie personali preoccupazioni e alle sue passioni individuali1765 . Rivelava un siffatto stato d’animo il fenomeno, assai notato allora e poi: della indifferenza degli elettori per il loro compito. Pure, il corpo elettorale, dato il sistema vigente, era già un corpo scelto: sui 27 milioni circa di Italiani, fra cui 7 milioni di maschi maggiorenni, appena 528.932 – vale a dire l’1,97% – godevano nel 1870 del diritto di voto1766 . Una élite; un paese legale tanto ristretto di fronte al paese reale1767 : e per di più un paese legale dai forti squilibri interni, come che la qualità di elettore dipendesse dalla varia distribuzione della proprietà fondiaria non solo, ma altresì dai diversi sistemi di catasto e di imposta, o addirittura dalla riduzione del limite d’imposta, onde ai 30 elettori su 1000 abitanti della Liguria si contrapponevano gli appena 15 dell’Umbria1768 . Una élite, che dimostrava come, ad unità compiuta, la partecipazione alla vita pubblica avvenisse su basi non già più estese, bensì assai più ristrette di quanto non fosse avvenuto nel periodo di formazione, delle lotte, dei plebisciti: perché in tutta la Lombardia v’erano, nel 1870, 68.371 elettori iscritti, ma quando s’era trattato, nel ’48, di votar la fusione col Piemonte, erano stati 661.6261769 ; nel-

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l’Emilia, gli elettori iscritti sommavano ora a non più di 42.248, ma quando s’era trattato del plebiscito per l’annessione, avevan votato ben 426.764, e così via. Che era una contraddizione intima sostanziale, e bastava a spiegar il distacco fra ceto dirigente – cioè un’oligarchia – e paese. Un corpo elettorale, dunque, così ristretto, da suscitar l’impressione fondata che i due partiti in disputa per il potere fossero due brillanti stati maggiori alla testa di minuscoli eserciti e con numerosi generali sempre in conflitto1770 : e non v’era da invocare l’impreparazione, l’immaturità delle masse. Eppure, nelle elezioni del novembre 1870 votarono solo, a primo scrutinio, 238.448 iscritti, cioè il 45,8%1771 . Che era, e rimase, il limite più basso raggiunto dalla costituzione del Regno in poi, dato che le precedenti elezioni generali, pur non dimostrando nemmeno esse grandissima ansia di lotta politica, s’erano tuttavia mantenute su percentuali più alte: il 57% nel ’61, il 54% nel ’65-66, il 52% nel ’671772 . Dunque, un continuo regredire di interesse politico, tanto più notevole forse in quanto il maggior assenteismo notavasi nei collegi di assai cospicui centri cittadini, là dove la lotta politica avrebbe dovuto essere più accesa: a Milano votava il 35,07%, a Genova il 39,12%, a Padova il 32,63%, a Bologna il 28,26%, a Firenze il 28,95%, a Livorno il 16,21%1773 . Non fossero state le province del Mezzogiorno che il malcontento aveva spinto maggiormente alle urne ancor credute vaso di possibili rimedi, giungendosi al 61,15% di votanti in Sicilia, il risultato delle elezioni sarebbe stato ancora più sconfortante. E le elezioni generali politiche non erano le sole a rivelare lo scarso interesse alla cosa pubblica. Come già per le questioni finanziarie, dove al disavanzo del bilancio statale occorreva aggiungere i disavanzi dei bilanci comunali e provinciali, così anche qui all’assenteismo dal voto politico bisognava aggiungere l’assenteismo dal-

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le elezioni comunali e provinciali: nelle elezioni amministrative del 1872, la percentuale dei votanti fu di appena il 39%1774 . Nelle elezioni comunali in molti luoghi i votanti erano il 10%, e fin l’8 ed il 6 %1775 . A Parma, nelle ultime elezioni prima del ’70, su 4000 elettori se ne erano presentati alle urne 108 e a Firenze, su 8200, 8791776 ; a Milano, nel giugno del ’72, si poteva assistere al «non bello spettacolo» che su 9366 elettori soli 2014 partecipassero alle elezioni, il 21,5%1777 . Ed era la città delle Cinque Giornate, il focolaio di tanta parte del Risorgimento! Magro contrappeso a questa indifferenza nelle maggiori città era il più vivace e battagliero interessamento nei piccoli centri, perché qui la lotta rischiava di rimanere circoscritta, soprattutto allora, a questioni di interesse puramente locale, per non dir a beghe personali e familiari1778 . Veramente, il popolo sembrava essersi ritirato sull’Aventino1779 . Non era possibile consolarsi col dire che le astensioni erano quelle dei clericali, fedeli al motto: «né eletti né elettori»: cioè che le astensioni eran quelle di coloro i quali rimpiangevano l’antico ordine di cose ed avversavano il nuovo, onde per i reazionari la scarsa affluenza alle urne comprovava che i gruppi nazionali ancora nel 1870 erano una minoranza, mentre la maggioranza della popolazione sarebbe stata sempre contraria all’unità ed al nuovo regime1780 . Intanto, il regredir continuo del numero dei votanti dal ’61 al ’70 contraddiceva di per sé ad una tale spiegazione, come che le ostilità al nuovo ordine fossero state, in genere, assai più forti all’inizio, mentre gli anni avevano cominciato a dissipar prevenzioni e a piegar riluttanze; e se è vero che proprio nel novembre del ’70 non solo i clericali arrabbiati, nemici della unità, potevano essere indotti ad astenersi dalle urne in segno di protesta, sì anche uomini di fede italiana il cui sentimento cattoli-

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co trepidava per il modo con cui s’era andati a Roma e per l’urto aperto con il Pontefice; se è vero dunque che il Venti Settembre aveva potuto provocare le astensioni degli «uomini di timorata coscienza religiosa e onesti»1781 è altrettanto vero che non s’era ancora udita la parola di Pio IX e l’affermazione non esser lecito «andar a sedere in quell’aula», cioè a Montecitorio1782 . S’era ascoltato di già, indubbiamente, don Margotti e s’era appresa da lui la formula famosa; ma l’accordo era tutt’altro che unanime su quel punto fra gli stessi zelanti cattolici, e se perfino dopo il ’74, quando ormai Roma locuta erat, continuarono le dispute e più di un cattolico continuò a sostenere pubblicamente la necessità di non estraniarsi dalla vita pubblica1783 e qualche parroco piemontese fu assai esplicito «andate tutti a votare, perché ‘né eletti né elettori’ sono tutte balle!»1784 , a maggior ragione prima del ’74 le astensioni erano state tutt’altro che generali. Proprio a Roma, nel gennaio del ’71, per le elezioni a due seggi in Parlamento, in ballottaggio, fu in lizza un candidato cattolico, l’avv. Pietro Venturi, rappresentante dei gruppi antiastensionisti1785 . Comunque, poi, il sistema dell’astensione era pr le elezioni politiche: per quelle amministrative invece, proprio nel ’72 v’era un gran spiegamento di forze clericali, a Roma, il 4 agosto, e segnatamente a Napoli il 1° settembre. Votarono allora non tutti, ma molti cattolici militanti, ufficialmente autorizzati, anzi incitati dalle alte gerarchie ecclesiastiche, capeggiati da sacerdoti e frati che affluirono in buon numero alle urne1786 impegnando asprissima battaglia contro la lista liberale e per una propria lista: nella capitale, lo stesso Pio IX aveva dimostrato favore alla partecipazione dei cattolici1787 , e i direttori dei giornali cattolici, L’Osservatore Romano, La Voce della Verità, La Stella avevano seguito l’altissimo esempio, incitando con insistenza e calore i fedeli a votare compatti per opporre una barriera contro il «torrente invadito-

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re dell’empietà»1788 ; a Napoli la campagna elettorale era stata patrocinata dallo stesso arcivescovo cardinale Riario Sforza con la piena approvazione del Pontefice e della Curia Romana1789 . La lotta aveva così assunto un evidente colore politico: le elezioni amministrative fornivano l’occasione per uno schieramento politico in forze dei clericali, il fatto amministrativo scivolava inevitabilmente nel politico, così che una vittoria dei cattolici avrebbe significato, nelle speranze di più d’uno, uno scacco dei più gravi per il governo1790 e, in genere, per il ceto dirigente italiano. Liberali e clericali: ad esser più precisi, annotava il ministro di Francia presso il Quirinale, si sarebbe dovuto dire fautori e nemici dell’unità italiana1791 – come pensava anche Crispi, che invocava l’unione degli «unitari», senza gradazione di partito, contro i clericali1792 . Eppure anche in questi casi solo a mala pena s’era superato, a Roma, il 50% di votanti1793 . A smentire la facile credenza che l’astensionismo fosse soltanto di color nero, stava il fatto che nelle successive elezioni generali, dopo la proclamazione ufficiale della formula né eletti né elettori, la percentuale dei votanti anziché abbassarsi ancora risaliva; stava comunque il fatto, già nel novembre 1870, che le percentuali più alte di votanti erano date dalle province del Mezzogiorno, in cui non può certo sostenersi che i cattolici fossero scarsi di autorità e di numero1794 , mentre province largamente anticlericali, quali Piacenza, Parma, Modena, Reggio Emilia, Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna, Livorno, il gruppo cioè emiliano-romagnolo e il centro dell’estremismo toscano, l’uno e l’altro focolai vivi allora del repubblicanesimo e focolai prossimi dell’Internazionale prima, del socialismo e fin dell’anarchismo poi, erano fra quelle dalla percentuale più bassa di votanti1795 . Per vero, tra gli astenuti figuravano largamente i repubblicani, la cui parola d’ordine era stata, astenersi dall’urna per «incutere un salutare terrore alla monarchia

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rendendola conscia del suo isolamento», dimostrando la propria irriducibile ostilità alla istituzione monarchica, evitando qualsiasi atto che potesse sembrare di consenso e togliendo al regime costituzionale un mezzo indispensabile alla sua vita; più che dai giornali cattolici, l’astensione era stata consigliata dai giornali repubblicani, e alla fine l’indifferenza e la stracchezza degli elettori avevano offerto facile motivo non solo alle velenose e tripudianti polemiche dei neri, ma anche a quelle dei repubblicani. Alle lodi dell’Osservatore Cattolico per i credenti che s’eran astenuti, facevan riscontro, all’estremo opposto, le osservazioni della Gazzetta di Milano per la quale si era affermata, con le astensioni, la volontà di radicali cambiamenti e s’era avuta la dimostrazione che la legge elettorale non traduceva più i sentimenti della nazione1796 : sul che meditava Agostino Bertani, poco convinto dei vantaggi di una simile tattica e indotto a proporre una «lega degli astensionisti» per poter decidere di volta in volta se recarsi o no alle urne1797 , mentre Alberto Mario paragonava i repubblicani – troppo contemplativi – ai monaci del monte Athos, i quali si contemplavano l’ombelico nella fede di vederne uscire la luce dal monte Tabor1798 . Come non si poteva addurre a scusante la presunta passività della plebe, che non ci aveva a che vedere, così non si poteva imputare soltanto alle astensioni dei cattolici la percentuale bassissima dei votanti; e anche sommando i repubblicani che volevano isolar la monarchia, il conto non tornava ancora. Per vero, i liberali di allora non si fecero alcuna illusione al riguardo. Di Destra o di Sinistra che fossero, essi accusarono invece apertamente l’apatia e la poca compattezza dei liberali stessi1799 , l’inerzia di coloro i quali si lamentavano, magari, che gli altri non facessero il loro dovere, salvo poi a lavarsi le mani, alla Ponzio Pilato, nel momento di scegliere fra i partiti ed i candidati1800 , l’indifferenza insomma di tanta

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parte del ceto dirigente per i grandi problemi della vita nazionale1801 : ed avevano tutt’altro che torto. Fenomeno di rilassamento potremmo dire nervoso, dopo un decennio così agitato quale era stato il primo decennio seguito alla costituzione del Regno, o, secondo si esprimeva il ministro austro-ungarico a Firenze «lassitude blasée qui suit les surexcitations trop vives»1802 . «Dall’entusiasmo, dalle commozioni dei grandi avvenimenti – annotava Michelangelo Castelli – siamo arrivati a questi giorni nei quali la soddisfazione di tante aspirazioni e desideri di libertà, d’indipendenza, di unità ha prodotto il suo effetto naturale, non dirò la sazietà, ma quella indifferenza, quelle disillusioni che sono le consegerenze del tranquillo possesso di quel bene sospirato che credevasi fonte inesauribile di ogni felicità»1803 . Come suole accadere, gli ideali non trovavano subita e totale rispondenza nella realtà: donde da un lato l’indifferenza di molti e la stracchezza, e dall’altro giudizi severissimi allora e poi pronunciati sullo Stato italiano e la fiacchezza e l’atonia politica, giudizi che vedevano nuovamente concordi due uomini così diversi come il Mazzini ed il Ricasoli, e, fra poco, avrebbero visto concorde anche il De Sanctis1804 , ma che si ripeterono poi anche sotto la Sinistra e durarono, sì può dire, almeno sino all’affacciarsi sulla scena del socialismo come partito organizzato1805 . L’Italia avrebbe voluto cose grandi, subito, grandi riforme interne, grandi lavori, grande benessere; e poiché le cose grandi s’avevan a costruir lentamente, faticosamente, attraverso decenni, per i nipoti e non per le generazioni d’allora, l’inappagamento cresceva. E vi si aggiungevano delusioni e scontento per quelli che sono gli inevitabili guai del regime parlamentare: troppo frequenti mutamenti di governo e fantasmagorie di ministri, che davano l’impressione del soverchiar di interessi passioni ambizioni personali sulle preoccupazio-

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ni per il bene pubblico; lungaggini alla Camera, molte discussioni apparentemente senza costrutto, ire di parte sterili e dissolventi1806 ; quindi riluttanza di molti ad immergersi nella «cloaca delle passioni politiche»1807 . Ed era certamente vero che ambizioni ed interessi personali si agitassero, allora come sempre, nei partiti; che non tutto fosse puro amore del bene pubblico, che bizze personali, intrighi, contrasti, minacciassero la efficacia dell’azione politica: anche nella Destra, pur tanto esaltata per la severità di stile e la generale dirittura dei suoi uomini, anche nella Destra c’eran guai a tale che un animo iracondo come quello del Ricasoli rifiutava la presidenza del Comitato Parlamentare dei moderati, non volendo sapere «di capitanare gente che vi guizzano di mano peggio che anguille, che non ricordano il giorno dopo quello che dissero e promossero il giorno innanzi, che troppo ciarlano, e poco pensano, e non sono per conseguenza mai fermi nei propositi loro»1808 . Ancora, la troppa politica, vale a dire il far di ogni questione motivo di dibattito politico, tirandoci dentro partiti e parlamentari, con l’effetto di rallentare e di inceppare il funzionamento dell’amministrazione, di trasferire pericolosamente le lotte politiche su di un piano da cui avrebbero dovuto rimanere escluse. Era proprio per combattere un tale andazzo che Stefano Jacini proponeva di restringere le competenze del Parlamento ai grandi problemi nazionali, decentrando il resto1809 ; e, più tardi, il Minghettí e Silvio Spaventa riaffermavano la necessità che l’alternarsi di partiti al governo non mettesse in pericolo le istituzioni, né pregiudicasse i diritti della giustizia e i legittimi interessi, e che le amministrazioni locali fossero indipendenti dall’arbitrio e dalle passioni politiche1810 . Tutto questo, dunque, spiega come si creasse uno stato d’animo largamente diffuso di sfiducia e riluttanza ad occuparsi della cosa pubblica, di sospetto ed anche d’i-

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ra contro l’andamento delle cose, di un tetro pessimismo del genere di quello che improntava i giudizi di uomini così diversi come il Carducci ed il Ricasoli. Gli iracondi ed i pessimisti coglievano il vero di molti particolari, ma non erano più in grado di riabbracciar l’insieme né s’accorgevano che l’ideale di una Italia nazione moderna veniva, pur lentamente, concretandosi nei modi e nelle forme che erano possibili: Sella aveva ragione di confutar le accuse generiche di apatia, osservando che mai s’era lavorato tanto in Italia1811 ; e più e meglio del politico Ricasoli, uomo selvatico1812 , coglieva il succo delle vicende il non politico Lambruschini, che, lontano dalle piccole beghe quotidiane della politica, vedeva le cose proprio nel loro insieme, e quindi grandi, anche se gli uomini fossero per avventura piccoli: «gli uomini si travagliano per mandare a lor guisa la inevitabile rinnovazione delle cose umane. Ma v’è una mano occulta che scompone e ricompone senza che paia, e prepara un ordine morale che può parere cosa da nulla, e sarà cosa maravigliosa poi suoi effetti. Non so se noi li vedremo almeno tutti; ma qualcuno sì, e grande e inaspettato. Io ammiro la sapienza divina che per operare le grandi mutazioni, si serve di strumenti che paiono insufficienti al bisogno. Se fosse vivo il Cavour, e avesse operato quel che ha fatto il Lanza, si direbbe: ecco la mano del grande uomo di Stato. Invece dobbiamo dire (e me ne rallegro): ecco la mano di Dio. Queste considerazioni mi consolano e mi danno coraggio a sperar bene delle cose nostre»1813 . Meglio che non nelle diatribe epistolari e negli sfoghi con gli intimi coglieva la sostanza delle cose il Ricasoli stesso, in un discorso pubblico, quando era cioè costretto ad innalzarsi al di sopra delle polemiche minute, riuscendo ad un giudizio che quelle polemiche non annullava, ma certo rendeva di peso non decisivo: «verrà giorno in cui sarà riconosciuto e consacrato nei fasti d’Italia che il Ministero attuale ha guidato la nazione a Roma, e ve

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l’ha mantenuta in un periodo difficilissimo. Sarà questo un glorioso periodo della storia contemporanea»1814 . La vera grande debolezza dello Stato italiano non consisteva nelle diatribe dei partiti, nelle lotte personali e simili, ma in quella estraneità delle masse alla vita pubblica che il Sonnino doveva additare parecchi anni più tardi, in piena Camera, discutendosi della riforma elettorale «la grandissima maggioranza della popolazione, più del 90 per cento... si sente estranea affatto alle nostre istituzioni; si vede soggetta allo Stato e costretta a servirlo con il sangue e con i denari; ma non sente di costituirne una parte viva ed organica e non prende interesse alcuno alla sua esistenza ed al suo svolgimento»1815 . Il resto, eran motivi tutt’altro che caratteristici della vita politica italiana, analoghe deplorazioni contro gli intrighi parlamentari, la decadenza del costume, le eccessive crisi ministeriali levandosi, allora e poi, in tutti i paesi del continente a regime parlamentare; eran motivi, soprattutto, che con il loro moralismo e pedagogismo nascondevano il vero e grande problema politico, che era di tutt’altra natura e voleva invece dire render pienamente partecipi de’ diritti e de’ doveri pubblici, e cioè della vita dello Stato, tutti gli Italiani e non una ristretta cerchia di privilegiati. Con ciò, non si vuol certo sostenere che quelle lagnanze non avessero loro ragioni d’essere; che non si minacciasse talora di superar quel limite, entro cui devono pur contenersi le inevitabili manchevolezze della vita pubblica quando si voglia che lo Stato rimanga, come diceva il Machiavelli, bene ordinato. E lo superavano, questo limite, non soltanto gli elettori che non si curavano delle urne, ma anche parecchi uomini politici, deputati e senatori, il cui assenteismo dalle sedute formava oggetto di frequentissimi ammonimenti nella stampa, anche qui unanime, di Destra o di Sinistra che fosse, e costretta per anni a ripetere il suo

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incitamento1816 : ed era magra consolazione il rammentare che anche altrove, e perfino nell’Inghilterra, l’alma parens della libertà, non era infrequente lo spettacolo di aule parlamentari semi deserte, fosse il caldo a far sospirar le fresche aure marine e montane, fossero, a dirla con Pitt, le quaglie e le volpi ad attirar maggiormente gli onorevoli rappresentanti della nazione1817 . Altri uomini politici, più correttamente dichiaravano di rinunciare al mandato nelle elezioni generali del novembre 1870, quasi che allora si fosse chiuso per sempre un periodo di storia, sì da lasciar liberi coloro i quali avevano lottato proprio soltanto per fare una patria e potevano quindi intonare il nunc dimitte. Che era la motivazione addotta da una delle maggiori personalità dell’Italia del Risorgimento, uomo di alto e rigido sentire, al quale non potevano imputarsi accidia o mancanza di senso del dovere: ma stanchezza, fastidio della vita politica, desiderio di far ritorno a vita serena e riprendere un’attività più conforme alle inclinazioni del proprio spirito1818 , erano anche nel barone Bettino Ricasoli, che rinunziava alla candidatura tra il dolore e un po’ lo sdegno dei moderati1819 , già allarmati per altre, cospicue defezioni, dal Peruzzi a Guido Borromeo, a Carlo Alfieri di Sostegno. Vari i motivi di siffatta «fuga ragguardevole» di parlamentari del partito moderato1820 : ma gravi le conseguenze, soprattutto per lo spettacolo della diserzione di uomini i quali avevano pure ammonito che la libertà è un dovere, il primo dei doveri, che il cittadino «non può rifiutare la sua partecipazione ai pubblici servizi, non può per pigrizia o per egoismo disinteressarsi... degl’interessi comuni e generali della sua patria», e che se in Italia la libertà non aveva ancora arrecato tutti i suoi frutti, ciò era dovuto alla indifferenza di troppa parte della nazione per i problemi di interesse generale1821 . E se è vero che alcune di quelle rinunzie non avevano poi effetto pratico, perché di fronte al voto degli elettori, ostinati nel rieleggere l’antico loro

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rappresentante, il primo proposito del Ricasoli cedeva ed egli ripigliava il suo seggio in Parlamento; è pur vero che quel rimettersi per la solita via era stracco e fiacco, dettato non da convincimento ma semplicemente dal non voler essere scortese verso gli elettori, tale insomma da indurre a fare il deputato «alla meglio, o alla peggio»1822 . Il vecchio ceto di governo si rarefà, vuoti notevoli si aprono nelle sue file non solo per il naturale destino degli uomini, ma anche per volontario allontanamento allora che le forze fisiche sono intatte o quasi; donde, anche, governi composti in larga parte di uomini tolti dalla amministrazione pubblica, anziché di uomini politici veri e propri1823 . A chi li guardi a distanza di tempo e contempli quegli anni nell’insieme della storia d’Italia, tali improvvisi ritiri e defezioni non rappresentano nulla di allarmante: sono i segni del mutar del ceto di governo, del trapasso di indirizzo politico, i segni che precorrono, costituendone una delle necessarie premesse, la cosiddetta rivoluzione parlamentare del marzo 1876. È quel rinchiudersi anziché ampliarsi dei quadri della Destra, quel perdere anziché acquistare uomini ed energie, in che s’avverte la imminente crisi del partito moderato ed il suo tramonto come ceto di governo1824 . Ma anche questo è vero sino ad un certo punto, o più precisamente, non è tutto il vero: ché, al di sotto delle contese fra le due parti per l’esercizio del potere, giù nel fondo fondo s’avvertiva pure assai più grosso pericolo, l’estraneità della gran maggioranza della popolazione alla vita pubblica e il ridursi di questa a una battaglia fra generali. Comunque, allora quelle defezioni e quei ritiri parvero gran cosa, suonarono per molti non già come segno di trapasso da un gruppo di governo ad un altro, bensì come segno di decadimento puro e semplice della classe politica e fin come segno di decadimento degli istituti

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liberali, primo fra tutti il Parlamento, e come sfiducia nell’avvenire della patria1825 . Allora, simili spettacoli di indifferenza non solo degli elettori ma anche degli eletti, e conseguenti lungaggini di vita parlamentare poterono servire ad alimentare la polemica antiparlamentaristica già forte e varia in quegli anni1826 : una polemica determinata non già da un atteggiamento antiliberale, come un cinquantennio più tardi, ma anzi dal rammarico che le istituzioni liberali non funzionassero abbastanza bene, non fossero abbastanza forti e rispettate1827 . Allora, confluendo in uno sbocco solo tedio personale, stanchezza delle lunghe lotte passate e desiderio di quiete, sdegno di fronte all’amore del proprio particolare e all’indifferenza di molti per le grosse questioni del paese; allora ci furono valenti uomini a cui venne a fastidio la vita pubblica; e a tacer del Ricasoli, c’era il De Sanctis che, al vedere incancrenire la cosa pubblica, almeno momentaneamente si isolava e si chiudeva nella letteratura1828 . Allora taluno dei moderati poté far sua l’invocazione di Odilon Barrot «rendez-moi l’enthousiasme de 1830», e chiedere il ritorno all’entusiasmo dei giorni passati, l’entusiasmo non da piazza ed effimero, ma calmo, schietto, perseverante, senza del quale l’Italia non si sarebbe sollevata a dignità di nazione colta ed operosa, né sarebbe diventata, come doveva, la provvidenza della civiltà latina1829 . Allora e anche poi uomini di alto ingegno e di forte sentire morale poterono immalinconirsi ed amareggiarsi per «la ignavia delle menti che vi rattrista e vi snerva... la pigrizia di molti dei così detti liberali che sono in fondo tradizionalisti... il difetto di quella cultura che rende atti gli uomini a discutere anche quello che non si accetta o si respinge»: siccome doveva capitare, più tardi, ad Antonio Labriola, indotto a chiedersi se per gli Italiani, rosi com’erano dal tarlo del Cattolicesimo, non fosse destino essere tardi a pensare e svogliati nel progredire, buoni a sentir compiaci-

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mento della vanità dei ricordi classici e delle commemorazioni retoriche, non a prender parte al moto generale del progresso1830 ; siccome capitava, sin da quei giorni, al Marselli che continuava ad arrovellarsi, sempre, sulla questione se noi siamo vecchi o se siamo giovani con grande avvenire dinanzi, e tendeva spesso a dubitar della gioventù e dell’avvenire1831 . Allora, si poté avere l’impressione che il motto degli italiani fosse diventato chacun pour soi, Dieu pour tous1832 . Gli Italiani sentivano che s’era chiuso un periodo storico; e lo cingevano di rimpianto e guardavano immalinconiti al presente1833 . III Grande politica o politica della tranquillità? Situazione di fatto, realtà diremmo obbiettiva e stato d’animo generale facevano dunque sì che non fosse l’ora dopo il ’70, per una attiva politica estera dell’Italia. Conseguita l’unità, occupata Roma, l’Italia non chiedeva se non pace e tranquillità per curare il suo interno. E quanto poco la politica estera in sé, come intreccio di relazioni con le altre grandi potenze e azione nel concerto europeo, premesse agli uomini degli anni dopo il ’70, di ben altro preoccupati che non dell’intessere le fila di una illusoria politica di grandezza, per cui mancavano le basi stesse, dimostrava il fatto che le maggiori personalità del mondo politico italiano eran note per il loro interesse e la loro preparazione, culturale e pratica, in questo e quel settore della politica interna – finanze, amministrazione, rapporti fra Stato e Chiesa –, non per la loro bravura diplomatica: divenuto uomo di finanza il Sella, più vario ma sostanzialmente intento anzitutto ai problemi dell’amministrazione interna il Minghetti, e come lui quegli che era allora la più robusta mente di teorico

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del liberalismo della Destra, lo Spaventa, uomo lontano da un qualsiasi interesse fattivo per i problemi internazionali, giustamente pago di costruire all’interno del suo paese1834 . Non diverse attitudini nei campioni della Sinistra, dal Depretis, che vedeva nella politica estera una seccatura e nei diplomatici la gente men gradita dopo i professori1835 , al Cairoli allo Zanardellí al Nicotera al Baccarini al De Sanctis, tutti preoccupati essenzialmente di amministrazione finanza allargamento del suffragio rapporti StatoChiesa e simili problemi di vita interiore. Lo stesso Crispi era preso, allora, soprattutto da problemi di politica interna; e non era senza significato che nelle discussioni alla Camera sulla politica estera la Sinistra mandasse all’attacco non i suoi capi, ma figure di secondo piano, il Miceli, il La Porta, il Colonna di Cesarò. Fatto caratteristico, la politica estera restava nelle mani della diplomazia piemontese, o venuta su direttamente alla scuola piemontese. Lombardo, certo, il Visconti Venosta, ministro: ma cresciuto alla scuola del Cavour, e anch’egli navigante in pieno nella scia delle vecchie tradizioni diplomatiche subalpine. E, attorno a lui, piemontesi e parecchi savoiardi1836 : dal segretario generale, lo Artom, al direttore della divisione politica, il Tornielli, ai principali capi missione all’estero: Nigra a Parigi, de Launay a Berlino, Cadorna e più tardi Menabrea a Londra, fra pochi mesi di Robilant a Vienna, de Barral a Madrid, Blanc a Bruxelles. Facevano eccezione il Caracciolo di Bella a Pietroburgo e il Barbolani a Costantinopoli: ma erano, anche, fra i meno autorevoli. Uno stato di cose, insomma, che non trovava riscontro in nessun altro settore dell’amministrazione italiana1837 , nemmeno nell’esercito, pure così legato alla dinastia e alle tradizioni sabaude, perché in esso, allato dei Ricotti, stavano ora in posizione di primissimo piano i Pianell e i Cosenz; e ch’era destinato a durare ancora assai a lungo, anche

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dopo la caduta della Destra, con il Tornielli e il Maffei di Boglio – piemontesi entrambi – veri ispiratori, dietro le spalle rispettivamente del Depretis e del Cairoli, della politica internazionale dell’Italia dal ’76 all’81, sino a quando l’avvento del Mancini alla Consulta non portò, per la prima volta, mentalità, preoccupazioni e stile non piemontesi nella trattazione degli affari. Era un’altra, evidente prova che per il momento i rapporti internazionali non accaparravano l’attenzione e l’interesse dei più. L’Italia voleva esser lasciata tranquilla, e lavorar senza preoccuparsi troppo di quel che succedeva attorno a lei, intenta alle sue cose interne e poco sensibile ai grandi eventi che si svolgevano allora oltre le sue frontiere, e che non producevano più, annotava uno straniero, se non «une impression voilée par cette impassibilité qui résulte chez les Etats de leurs préoccupations intérieures en présence des malheurs d’autrui»1838 . Se è vero che, attorno al 1889, in tutti i convegni e ritrovi del ceto di media cultura non si sentiva discorrere d’altro, a detta del Jacini, che di politica estera – alleanze, combinazioni diplomatiche, guerre possibili, rettificazioni di confini –, e assai poco o nulla invece delle questioni interne1839 , è ben certo che negli anni seguenti la presa di Roma le conversazioni e i dibattiti familiari e di circolo vertevano su tutt’altro argomento, e che i problemi propriamente internazionali – eccezion fatta di quello specialissimo problema ch’era la questione romana – lasciavano freddi gli animi. Quel che l’Italia chiedeva e di cui abbisognava, il governo della Destra lo diede, nella misura del possibile. Alcuni anni più tardi, colui ch’era direttamente responsabile della politica estera del paese, e tale responsabilità aveva assunta sin dal ’69, alcuni anni più tardi il Visconti Venosta affermava che lo scopo della politica estera dell’Italia dopo il ’70 era stato quello di «affrettare il momento in cui finalmente le riuscisse di far parlare po-

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co di sé. Il che significa di far sì che l’Italia potesse finalmente avere dinanzi a sé quel periodo di tempo, al quale aveva pure gran bisogno di giungere; in cui, con un sentimento di sicurezza e senza essere distolto da altre più vive sollecitudini, il paese nostro avesse agio, pace e tempo necessario per occuparsi delle sue questioni interne»1840 . Era, condensato in una formula assai incisiva, lo stesso pensiero che il valtellinese aveva costantemente espresso, dal settembre del ’70, sia che lo raffigurasse a guisa di principio e direttiva base nelle lettere personali ai suoi più fidati collaboratori all’estero1841 , sia che ne facesse oggetto di solenni dichiarazioni alla Camera, quando doveva difendersi dalle critiche acerbe dei vari Miceli e La Porta1842 . Ed era un programma in cui i moderati convenivano sostanzialmente tutti: gli uni, come il Minghetti, parlando di conservatorismo; altri, meno noti, come Guido Borromeo, servendosi di immagini quasi identiche a quella del discorso di Tirano, e prospettando la necessità «di camminare ora sulla punta dei piedi per non far rumore»1843 ; altri, come lo Spaventa, ammonendo che l’acquisto di Roma, la città dove aveva avuto sede il governo dell’impero del mondo «non deve né può infondere negli animi nostri alcuna arroganza o pretensione di dominio fuori di casa nostra», giacché «le ragioni e le possibilità di dominio al di là del proprio territorio non si possono desumere dalla memoria d’un potere, che non è più da secoli e che niun secolo vedrà rinascere, ma da bisogni e da necessità attuali e da forze vive e capaci di soddisfarvi. Tale non è il nostro caso»1844 . Tutti, dunque concordi che bisognasse «circondare l’Italia di pace»1845 ed essere modesti, almeno per mezzo secolo, come fu più tardi ripetuto1846 . Nella stampa diffondevano la direttiva comune le grandi firme del partito, soprattutto il Dina nell’Opinione; e tornava insistente il motivo, primamente svolto dal Dina, ripreso più tardi dal Jacini nelle

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sue celebri note sulla politica italiana1847 , che ormai doveva ritenersi chiuso il periodo in cui gli Italiani cercavano ogni occasione di perturbamento europeo per sfruttarla a’ propri fini; febbrilmente ansiosi di giungere alla mèta, ch’era l’unità nazionale: questa raggiunta, si entrava in una nuova fase in cui all’agitazione doveva sottentrar la calma, al desiderio di veder le acque mosse e torbide, il desiderio contrario, di veder tutto tranquillo limpido e senza vento, e al continuo sogguardar oltr’Alpi, spiando gli anche minimi incidenti della politica europea, la concentrazione nelle cose proprie, negli affari interni. Il tempo della politica «agitatrice» era finito: chi sognasse ora «una politica estera di supremazia e di primato, una politica tumultuaria e scapigliata, sarebbe un pazzo da mandare a Bonifazio. Dopo l’acquisto di Roma, la politica nostra è di osservazione e di raccoglimento»1848 . Motivo che, svolto nella stampa dagli amici del Ministero, era dunque comune a tutti i moderati; e il Visconti Venosta lo avrebbe poi formulato, con tutta chiarezza e in termini quasi identici a quelli di cui s’era servito il Dina, quando, non più ministro, anzi parlando dai banchi dell’opposizione, interrogava il governo del Depretis sulla sua politica estera, il 23 aprile del 1877. «Quando... la nostra costituzione nazionale non era compiuta» dichiarava il valtellinese quel giorno «l’Italia nelle complicazioni europee vedeva e cercava l’occasione opportuna per coronare l’edificio della sua indipendenza, e della sua unità. Ora l’Italia è fatta, l’Italia è uno Stato costituito, ed io credo che la sola politica che ci convenga è una politica prudente, leale, scevra da ogni spirito di avventure, che faccia considerare il vantaggio e l’utilità per gli interessi europei della presenza e dell’azione morale di questo giovine Stato nel concerto delle grandi potenze. Io credo che solo per questa via l’Italia potrà consolidare la sua situazione internazionale, potrà renderla si-

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cura nel presente e nell’avvenire, ottenere il vantaggio di fide alleanze ed amicizie, e assicurarsi quella legittima influenza che ogni popolo ha ragione di ambire»1849 . Questo non voleva dire né chiudersi nell’isolamento, più che mai deprecabile, né rinunziare ad un’azione regolare e continua nella grande politica generale1850 , né avvilire la propria dignità: era proprio L’Opinione ad incitare, un giorno, gli Italiani ad avere un po’ di coscienza di se stessi, per non esser sempre raffigurati con un tovagliolo sul braccio, dinanzi alla porta di un albergo, in attesa di forestieri1851 . Voleva bensì dire che, decisissimo nel difendere ad ogni costo l’unità compiuta e, in particolare, il più recente acquisto, Roma; deciso a non indietreggiare d’un passo dalle posizioni raggiunte, a non retrocedere, secondo scriveva il Visconti Venosta al Nigra il 27 febbraio del ’711852 , il governo del Re avrebbe cercato in ogni modo di prevenire gli incidenti, di accomodarli quando fossero successi e non rivestissero gravità tale da costringere ad abdicazioni di dignità o a rinunce ad interessi vitali: soprattutto, che avrebbe evitato ogni avventura all’estero. Avrebbe, per riprendere la colorita espressione del ministro degli Esteri, cercato di far parlare poco di sé. Il che era tutt’altro che facile, anzi difficilissimo compito date le circostanze: clamori europei e più che europei della parte clericale, alti lai e violentissime proteste contro la «prigionia» del Papa, e bellicosi propositi che fiorivano nelle parrocchie francesi, belghe e spagnole, in Irlanda e anche altrove, dovunque insomma un abito talare fosse presente ad esortare i fedeli alla nuova crociata. Era però compito del tutto insufficiente, impari alla dignità dell’Italia insediata in Campidoglio, a sentir le voci dell’opposizione. La parola d’ordine della Destra era «pareggio», e la Sinistra replicava che un uomo non vive di solo pane e un popolo non vive solo di pareggio1853 ; il ministro

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degli Esteri diceva che era giunto il momento di non far parlare di sé, e l’opposizione insorgeva come se questo fosse un insulto alla dignità patria1854 , così com’era, due anni innanzi, insorta contro altre parole attribuite al Visconti Venosta, che avrebbe detto ai suoi elettori di Tirano, nell’estate del ’72 «noi non siamo ricchi, noi non siamo forti»1855 . L’umiltà «più che cristiana» del valtellinese eccitava il santo sdegno dei custodi dell’onor nazionale, stretti attorno alla Riforma o al Diritto o a qualsivoglia altro de’ fogli di opposizione; più su ancora del Visconti Venosta, era l’intero governo della Destra a svolgere una politica pietosa, avvilente per l’Italia una, indegna della maestà del Campidoglio. Era una musica, che si levava alta e squillante attraverso i versi e le prose sdegnose del Carducci, tutto preso dal fascino dei grandi ricordi, trascinato a battezzar «vile» l’Italia dei suoi giorni, a buttar in faccia ai suoi contemporanei l’elmo di Scipio del martire santo Mameli e quelle «fisime liviane, che ebbero pur tanta forza da spingere i conservatori al Quirinale, e li spingeranno, per avventura, anche più là»1856 ; e che grazie all’iracondo Giosuè è giunta familiare all’orecchio delle generazioni del secolo XX. Né il Carducci era solo a parlar sotto l’impulso de’ grandi fantasmi del passato affollantisi nell’animo e nella mente: anche un ben più modesto uomo, ma politico attivo e uomo di parte, Michele Coppino, commentando la sfiducia, la tristezza generale, si meravigliava che il Campidoglio non avesse infuso negli Italiani, dopo il Venti Settembre, le virtù degli antichi Romani1857 . L’esser giunti a Roma, avrebbe dovuto guarir tutti i mali, por rimedio a tutte le manchevolezze dell’edificio statale, quasi fosse, in Roma, la fata che trasforma i cenci di Cenerentola in un risplendente abito da ballo. Stato d’animo miracolistico, contro cui i più sagaci ed assennati avevano messo in guardia prima che s’entrasse

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a Porta Pia1858 ; ma le saggie osservazioni non giovavano e il miracolismo continuava a fluttuar nell’aria, avvincendo persino un uomo, bizzarro sì, ma d’ingegno e ricco di esperienza europea come Giuseppe Ferrari1859 . Senza dubbio, in simili polemiche bisognava far larga parte alle necessità tattiche della lotta che l’opposizione conduceva contro il partito al potere. Molte cose venivano dette che, una volta la Sinistra al governo, sarebbero state prestamente dimenticate; e fra le cose dette contro i ministeri Lanza e Minghetti quelle concernenti la politica estera eran proprio, in massima, fra le meno impegnative per i più degli uomini della Sinistra1860 . Gridavano allora contro l’ignavia del governo che non alzava abbastanza la voce in Europa, soprattutto contro la proterva Francia de’ preti e de’ reazionari, e dimenticava gli eroici fatti del ’59 e i Mille e la grandezza d’Italia, l’elmo di Scipio e la camicia rossa e Vittorio Emanuele a cavallo fra gli zuavi, a Palestro; e finirono poi, anch’essi, col dichiarare solennemente alla Camera, il 23 aprile 1877, e sia pur per bocca del ministro degli Esteri, l’ex mazziniano ma da gran tempo moderato Melegari1861 , quel ch’era apparso grave sacrilegio, anni innanzi, in bocca ai Visconti Venosta, Jacini, Dina, Bonghi e consorti. «L’onorevole Petruccelli mi chiede perché si sia abbandonata da noi la politica che ha preceduto la costituzione della unità italiana. Questa è una domanda molto grave, ed io penso che la Camera consentirà qui nella mia opinione. Gli Stati hanno una politica propria del periodo di formazione, qual è stata quella seguita sino al momento in cui ci impossessammo della nostra capitale. Ma, secondo l’avviso degli uomini più savi ed esperti, questa politica doveva cessare quando quel periodo fu chiuso; e guai a chi cercasse di riaprirlo! Perché si affaccerebbero allora tutti i pericoli che potrebbero minacciare la nostra esistenza politica.

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Dunque, a questo riguardo, abbiamo seguito la politica dei nostri predecessori; cioè abbiamo cercato di rassicurare l’Europa, di mostrare a tutti gli Stati che la nostra politica estera sarà fondata, da ora innanzi, essenzialmente sulle condizioni della pace e sul rispetto di tutti i legittimi interessi e diritti degli Stati che ci circondano»1862 . Parole dette – ironia della sorte! – proprio poco dopo che, nella stessa seduta, il Visconti Venosta aveva pronunziato il suo credo politico, perfettamente identico, ma pensato e professato, a parole e a fatti, da tutta la Destra dopo il ’70. Polemiche, dunque, dovute puramente alle necessità della lotta parlamentare e così transeunti: e n’era prova, ancora, il fatto che, pur di attaccare la politica del ministero in generale e del Visconti Venosta in particolare, mentre solitamente la si accusava di timidezza, fiacchezza, servilismo di fronte alla Chiesa e alla Francia, insomma di paura congiunta con intenti oltramontani e reazionari1863 , non si esitava, altra volta, a far del Visconti Venosta, d’improvviso, un prepotente, smanioso di atti di forza «corrivo alla soverchieria ed alla prepotenza verso gli Stati deboli»1864 . Era, questa, infatti l’accusa mossagli dal deputato Englen, e sostanzialmente anche dal «ministro degli Esteri della Sinistra»1865 , il Miceli, quando, nella seduta del 25 novembre 1872, si venne a discutere alla Camera di due vertenze in cui il governo italiano era o era stato impegnato: l’una, la vertenza con la Grecia a causa delle miniere del Laurium e della contestazione sorta, per esse, fra il governo di Atene e la società franco-italiana Roux-Serpieri; l’altra, la cosiddetta vertenza della Gedeida col Bey di Tunisi nel 1871. Per questa parte era dunque facile prevedere che, una volta al governo, l’opposizione avrebbe mutato registro e che, al disotto delle polemiche contro l’ignavia del governo, non c’eran poi idee generali molto diverse, ad eccettuarne la questione dei rapporti con il Papato,

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dove veramente l’opposizione di vedute era sostanziale e grossa. Ma non tutta l’opposizione era compendiata nei nomi di Depretis, Zanardelli, Nicotera, Cairoli, o in quello di Rattazzi, allora capo della Sinistra, ma che più di ogni altro dei suoi gregari era in opposizione al governo proprio per ragioni di lotta parlamentare ed anzi di autorità personale. C’era Crispi con il suo gruppo; e c’eran, fuori della Sinistra come partito ed in opposizione anzi alla Sinistra su parecchie questioni, uomini eminenti i quali dissentivano profondamente dall’indirizzo che il governo aveva adottato in fatto di politica estera. E qui l’opposizione perdeva il suo carattere di mezzo tattico momentaneo per assumere valore di antitesi di principi e di ideali. Per Depretis, Zanardelli, Cairoli, il dissenso con i moderati era sostanzialmente di politica interna: liberalismo più pronunziato o, come dissero, democrazia, e cioè allargamento del suffragio ed avvento di un ceto dirigente a reclutamento più largo; anticlericalesimo grandemente accentuato; contrasti sul problema finanziario e sul sistema tributario alla Sella. Per un Crispi, tuttoché in quegli anni ancora poco attivo parlamentarmente in questioni internazionali e come gli altri capi della Sinistra assai più attento alle questioni interne preoccupato com’era di lottare per la libertà ora che l’unità era compiuta1866 , di rafforzare l’edificio statale e di ottenere che gli Italiani divenissero i Sassoni della razza latina «fondando e facendo funzionare con verità le istituzioni parlamentari»1867 ; per un Crispi ed i suoi amici l’opposizione era già, nell’intimo, sostanziale anche in politica estera: ed era opposizione non tanto su questa o quella questione specifica, bensì di stile e di animo. Non che la mente del Crispi fosse già quella di un imperialista o anche solo di un nazionalista del ventesimo secolo. Figlio spirituale della Rivoluzione francese, pur così odiata talora, da lui come dal Mazzini come da al-

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tri, per il suo schiacciare l’anima italiana1868 ; giacobino, giusnaturalista1869 , non ancora capace di respingere tutti i sogni umanitari, ad onta del conclamato realismo politico, e in ciò diversissimo dal Bismarck, che di quei sogni aveva sempre riso, il Crispi rimase sempre lontano da qualsiasi dottrina di conquista per la conquista, da ogni nazionalismo concettuale. In politica interna continuò a predicare libertà libertà «il nostro idolo, la nostra vita», a negare l’onnipotenza dello Stato, ad invocare l’Inghilterra come paese modello e a definirsi liberale progressista, avverso ad ogni dittatura e riluttante a ricorrere al carabiniere1870 . Solo negli ultimi tempi, dopo il ’94, cominciò a pensare che in Italia il regime parlamentare non fosse possibile; ma anche allora protestò che egli non avrebbe mai fatto nulla contro il Parlamento, lasciando tal briga a chi fosse venuto dopo di lui: e, comunque, fra gli stessi senatori e deputati erano in molti allora a cinguettare contro il parlamentarismo, e la sua non era, certo, voce isolata1871 . Il regime costituzionale alla tedesca ch’egli auspicò dopo il ’96, non era poi cosa talmente insolita nelle discussioni di quei giorni, e non ad opera del solo Sonnino1872 . In politica estera rimase dottrinalmente fermo all’ideale delle nazionalità, e sinceramente protestò il suo amore per la pace e il suo riluttare dalla guerra, anche dalla guerra con la Francia che sarebbe stata una guerra civile1873 . I tempi del totalitarismo, Führer-prinzip e spazio vitale, non erano ancora giunti; il suo pensiero fu sempre imperniato sui grandi motivi del Risorgimento, unità, libertà, nazionalità, e dunque lontano non diciamo dalla dottrina fascista ma anche dal nazionalismo alla Corradini e perfino dagli accenti antiumanitari e antidemocratici di un Oriani o di un Turiello. Fu autoritario in pratica; ma ideologicamente non giunse mai a rinnegare i princìpi che aveva additati alla Sinistra del 1876: «spesso gli autoritari parlano dei diritti dello Stato. Questo è un

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errore. Lo Stato non ha diritti e non può averne. Esso riceve una delegazione dal popolo per lo adempimento delle funzioni che gli vengono attribuite...»1874 . Praticamente, la sua fu una politica estera dominata dal miraggio della grandezza del proprio paese; concettualmente; non osò mai rinnegare l’ideale della fratellanza dei popoli e frammischiò talora curiosamente, ne’ suoi giudizi, la valutazione di pura potenza e l’ideologismo liberale1875 . Per converso, nei moderati c’erano ben altre aspirazioni che quelle, come s’usò poi dire, di un’Italietta modesta modesta e chiusa nelle sue faccende interne. Già la risposta del Minghetti al de Laveleye, l’insistere sul bisogno di espansione della giovinezza e sull’impossibilità per un gran paese di contenere la sua attività in se stesso, erano eloquente indizio di quel che pensassero i maggiori tra i moderati. La grandezza del suo paese, anche un Minghetti la voleva: un Minghetti che, per il varo della Morosini, rammentava anch’egli le antiche glorie di Venezia, commovendosi secondo era nell’indole sua, cioè senza forzare i toni; che, con tutte le sue simpatie per il Gladstone, ne deplorava la politica estera come troppo umanitaria; che si chiedeva cosa avrebbe fatto l’Italia di fronte all’espansione coloniale altrui e s’impazientiva, nel 1886, al pensiero che l’Italia assistesse, semplice spettatrice, alla spartizione della penisola balcanica, dopo avere già assistito all’occupazione francese di Tunisi: a che pro, allora, la Triplice Alleanza?1876 Un Minghetti, un Visconti Venosta, tuttoché ben fermi nella loro volontà di concentrare, per allora, gli sforzi del paese nella ricostruzione interna e di evitare ogni complicazione esterna, sognavano, anch’essi, giorni avvenire in cui la nazione risorta e consolidata potesse svolgere intensa attività anche fuori delle frontiere, non tanto sotto forma di conquiste e di spedizioni militari, così estranee in genere al loro modo di pensare, quanto sotto

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forma di espansione economica e di influenza politica e morale. Un’eccezione a siffatta avversione per le conquiste poteva esserci: ed era Tunisi. È ben vero che, rievocando dinnanzi alla Camera, il 28 novembre 1880, le linee direttive della politica estera della Destra nella questione tunisina, il Minghetti escludeva vi fosse stata, in lui e nei suoi colleghi di parte, l’intenzione di far dell’Italia la padrona della Reggenza, accontentandosi essi, invece, della sola indipendenza del Bey, dello status quo insomma, che, questo sì, eran stati decisi a non lasciar violare per non veder compromessa la «legittima influenza» dell’Italia1877 . È, vero anche che rievocando i progetti di spedizione del ’641878 , li connetteva, secondo era stato nel fatto con la previsione «dell’ingresso di altre potenze a Tunisi... affinché non potesse esservi occupazione permanente a danno dell’indipendenza di quel paese». Ma il Minghetti diceva queste cose in pubblico, in un momento in cui la questione tunisina era già gravemente compromessa e in cui, nonché avanzar richieste di dominio proprio, l’ottenere il mantenimento sicuro dello status quo sarebbe stato un bel successo per l’Italia; e può esser quindi lecito dubitare che i suoi progetti fossero sempre stati così modesti. Il suo amicissimo Visconti Venosta, ch’era con lui in così intimo contatto d’idee, riduceva anch’egli d’assai l’importanza dell’episodio del 1864, posto nella vera luce in una sua lettera al Nigra del 29 maggio 1894. «Voi rammentate gli avvenimenti di Tunisi, nel 1864, l’invio della squadra, la politica nostra nella eventualità di uno sbarco della Francia o d’altre Potenze. Di tutto questo ho ricordi precisi. Ricordo anche che, nell’estate del 1864, credo nel giugno, a Fontainebleau, quando si fecero le prime trattative per la Convenzione di Settembre, l’Imperatore Napoleone, parlando tra le altre questioni an-

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che della tunisina, vi deve, aver detto qualcosa di simile a questo – che, senza giudicare dell’interesse che potevamo averci in quel momento, se l’Italia avesse creduto di andare a Tunisi, egli non si sarebbe opposto. Io, però, di questo incidente non ho, come vi dicevo, un’esatta memoria. Pepoli, molti anni dopo, lesse in un suo discorso al Senato, un brano d’una sua relazione a Minghetti, nella quale era riferita una risposta consimile dell’Imperatore come fatta a lui, nel 1864. Le parole di Pepoli le troverete nel libro di Chiala Pagine di storia contemporanea – Fascicolo II – Tunisi, pagina 223. Blanc, nel suo discorso di pochi giorni sono alla Camera, parlò del ‘consenso ad una spontanea occupazione della Tunisia notificatoci già ufficialmente da Napoleone III nel 1867’. E qui non so se egli intese parlare dei tempi del Ministero Rattazzi successo nel 1867 a Ricasoli o dei primi mesi del Ministero Menabrea, perché nulla di simile vi fu durante il governo di Ricasoli, oppure se, per errore, scambiò il 1864 col 1867. Ma se quest’ultimo è il caso, mi pare che Blanc ed altri prima di lui abbiano singolarmente esagerato l’incidente, considerandolo come una occasione nella quale la Tunisia fu messa a disposizione dell’Italia e questa rifiutò d’occuparla. L’impressione che mi rimase, da quella epoca lontana in poi, fu sempre che se da alcune parole dette sotto gli alberi di Fontainebleau si fosse voluto passare ai fatti, la dichiarazione un po’ vaga dell’Imperatore avrebbe trovato dei grandi ostacoli ne’ Ministri di lui, sopratutto in Drouyn de Lhuys, custode delle antiche tradizioni. Il momento poi bastava, di per sé, a rendere vano questo discorso. Noi cercavamo allora di impegnare l’Imperatore, se era possibile, ad una alleanza franco-inglese per la questione danese, alleanza che ci doveva condurre alla liberazione della Venezia. E se nessuna combinazione di questa natura poteva avverarsi, cercavamo di concludere coll’Imperatore qualche accordo importante, decisivo nella quistione ro-

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mana. Insomma la guerra coll’Austria o la Convenzione di Settembre. Mi pare un po’ difficile che il Governo italiano avesse a scegliere quel momento per andare invece in Africa e sostituire Tunisi a Venezia od a Roma.»1879 . Ma se non nel ’64 certo successivamente a Tunisi si pensò come ad augurabile terra italiana; e proprio il Visconti Venosta ebbe a dichiarare, in pieno Consiglio dei ministri, il 21 novembre 1870, parlando dei supposti progetti turchi di occupare la Tunisia, ch’era interesse italiano opporvisi «giacché un giorno Tunisi dee toccare all’Italia»1880 . Non v’è da insistere sulla minore o maggior precisione di aspirazioni volte al futuro e perciò appunto necessariamente assai elastiche e vaghe, soggette ad alterne vicissitudini, anzi, contraddizioni1881 , in stretta connessione d’altronde con il variar della situazione internazionale: onde se il Visconti Venosta, in sul finir del 1870, poteva anche pensare a Tunisi italiana di fronte ai disastri della Francia e alle pessimistiche previsioni sull’avvenire della Francia, che non avrebbe più potuto occuparsi del Mediterraneo e dell’Africa1882 , già poco più tardi, di fronte al rapido, quasi miracoloso risorger della stessa Francia, è naturale mutasse tono e pensieri, come che entrar in urto con la Francia per Tunisi non potesse esser stato mai ne’ suoi divisamenti. Comunque, è certo notevole che perfino il cauto Visconti Venosta, così vicino d’animo, oltre che al Minghetti, a que’ conservatori lombardi tipo Jacini tanto fieramente avversi ad ogni «megalomania», non solo non escludesse, anzi auspicasse l’influenza italiana a Tunisi, dopo di aver già nel ’64 dichiarato che nessun avvenimento in Tunisia poteva rimanere «estraneo» agli interessi italiani1883 ; e s’augurasse anche che il «gâteau turco» fosse servito solo quel giorno in cui l’Italia dalla «petite table» fosse passata alla grande1884 , in modo da poter avere la sua buona porzione di torta.

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Affiorava dunque anche in lui il sogno già del Mazzini e del Cattaneo1885 , di tanto diversa parte politica, che avevano guardato a quel «grande baluardo e grande vedetta nel Mediterraneo» come ad un grosso pericolo per l’Italia, se in mani altrui, e quindi come ad un necessario, futuro centro italiano: Mazzini, anzi, venendo fuori proprio ne’ riguardi di Tunisi con quell’evocazione di Roma antica, destinata ad essere classico ritornello di poi in ogni conato espansionistico italiano. Tunisi e l’Oriente: quell’Oriente nel quale era riposto, in gran parte, l’avvenire dell’Italia, diceva il Minghetti, appunto perciò additando il pericolo che il Mar Nero divenisse un lago russo1886 ; quell’Oriente verso cui doveva volgersi la legittima espansione dell’Italia, per la quale era interesse essenziale che le altre grandi potenze non spadroneggiassero nel Mediterraneo e nel Levante, ripeteva Giovanni Lanza1887 . Crispi, poteva appellarsi per i suoi programmi mediterranei alla predicazione mazziniana, che, nel 1871, additava anche l’Asia all’Italia; Minghetti Visconti Venosta e Lanza risalivamo invece alla gran parola di Cavour che a sua volta si collegava a Balbo: ma quale che fosse la fonte, il miraggio dell’Oriente attraeva anche i moderati, e così il Visconti Venosta, lamentando nel 1878 che la politica di completa astensione proclamata dal Corti somigliasse molto all’assenza di una politica, lamentava pure con molta finezza di giudizio che l’idea di Trento avesse tratto fuori strada la politica della Sinistra durante la crisi d’Oriente, e deplorava che il trattato di Berlino con le sue conseguenze compromettesse la situazione dell’Italia in Oriente1888 . E così, accadde che in questioni gravi Crispi pensasse esattamente come Minghetti e Visconti Venosta: il mancato intervento italiano in Egitto nel 1882 a fianco dell’Inghilterra, fu deplorato dall’uno come dagli altri, e il

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Minghetti fu solito dire esser stato quello il maggiore errore di politica estera compiuto dal governo italiano1889 . In quell’occasione, altri s’era opposto con tutte le sue forze all’intervento italiano, e continuò a ritenere, sempre, che gli Italiani avrebbero dovuto esser ben contenti di non essersi lasciati rimorchiare in Egitto, cioè in una trappola, in cui era facile entrare ma difficile uscire, cacciandosi in un pasticcio senza gusto né vantaggi di sorta1890 . Ma anche il conte di Robilant che così pensava, era poi tutt’altro che disposto ad una politica di disinteressamento mediterraneo; e prima ancora di dare la più alta e fruttuosa prova dei suoi intendimenti imponendo quei trattati separati italo-austriaco e italo-germanico, congiunti alla Triplice del 1887, e stringendo quell’intesa con l’Inghilterra, che tutti insieme furono la prima e la grande salvaguardia degli interessi mediterranei dell’Italia, pensava si dovessero metter le mani, senza esitare, su Tripoli che era non un problema coloniale, bensì un problema vitale per la posizione mediterranea e quindi europea dell’Italia1891 . Analogamente, se il conte di Robilant voleva gran rigore contro le manifestazioni irredentistiche per evitare che l’Italia si venisse a trovare in situazione difficilissima, Crispi, presidente del Consiglio, applicò le vedute del suo antico avversario; e tra le idee da cui era «rinvenuto», poche mutò così pienamente come l’antico programma rivoluzionario del dissolvimento dell’impero asburgico, e, in genere, della costruzione di una nuova Europa sulla base del principio di nazionalità applicato senza dubbi e senza compromessi. Non dunque da una parte la rinuncia preventiva e dall’altra il nazionalismo programmatico di stile Novecento; non due poli opposti nelle dottrine, l’eroe e il bottegaio in antitesi l’Italia imperiale e l’Italia dei camerieri; non il bianco e il nero crudamente contrapposti.

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Ma tra Crispi e la Destra, soprattutto il Visconti Venosta, la differenza c’era, sostanziale, profonda, irriducibile. Pensieri e dottrine potevano non essere diversissimi, potevano derivare tutti da un’iniziale fonte comune, diritti dell’Uomo, libertà, nazionalità. Ma l’animo, il modo di sentire e d’agire, lo stile erano agli antipodi; e poiché erano uomini politici e non filosofi, l’azione soltanto e lo stile dell’azione valevano come misura. Ora, pronto a proclamare nei discorsi la sua avversione allo spirito di conquista e il suo pacifismo, nell’animo il Crispi era roso dall’ansia della immediata grandezza della patria, e nell’azione, inquieta ed eccitata, nervi sempre tesi, scatti e diffidenza ombrosa, finiva col precorrere di fatto il nazionalismo. Non ne aveva ancora la chiarezza concettuale; ne aveva già lo stile. Era come nella politica interna, dove le sue dichiarazioni di ossequio assoluto al principio di libertà, alla legge, all’onnipotenza del Parlamento erano belle e ortodosse, ma la sua pratica di capo del governo e di ministro degli Interni non era già sempre di sicura ortodossia liberale. Lo accusarono un giorno alla Camera di far leggi di Sinistra e politica di Destra1892 ; e, lasciando da parte que’ due concetti ormai molto equivoci, si potrebbe dire che il pensiero in astratto era liberale e l’animo autoritario. L’azione risentì assai più dell’animo che del pensiero. La teoria del reprimere, cara allo Zanardelli e al Cairoli, era messa da parte e sostituita da quella del prevenire; e anche nel prevenire il modo Crispi fu sovente assai spiccio, e restrittiva l’interpretazione pratica del «prudente arbitrio del governo di vedere se in un dato giorno, in una data città, il permettere una pubblica adunanza possa esser causa di disordine»1893 . Redini strette in pugno e tirate continuamente, e non redini larghe, alla Giolitti, salvo a tirarle abilmente quando la svolta fosse proprio pericolosa. Significativo, il frequente ricorrere nei discorsi parlamentari di lui del motivo ordine pub-

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blico, tutela dell’ordine pubblico, vale a dire del motivo sempre invocato e invocabile a giustificazione di una politica di polizia. Oppure, erano espressioni che colpivano per la loro durezza, franca, ma inabile e autoritaria, come quando, a proposito delle guardie municipali, avvertiva la Camera che avrebbe potuto fare anche a meno di essa, procedendo per decreto reale1894 . Quel che lo caratterizzava, non erano dottrine e schemi teorici, ma l’azione concreta; e l’azione concreta fu, e apparve allora a tutti, amici e nemici, azione di una potente personalità, fin troppo conscia della sua vigoria e proclive a disprezzare altrui1895 , spesso imperiosa nel fare1896 , secca nel tono, facilmente irritabile e collerica, risoluta anche a passar sopra con soverchia facilità, all’ortodossia costituzionale, anteponendo di fatto autorità a libertà. Sempre più si accentuava la convinzione che non era questione tanto di regime quanto di uomini, e che «il regime, qualunque esso sia, è uno strumento che giova o nuoce secondo l’azione dell’uomo che lo maneggia»1897 ; sempre più cresceva la imperiosità pratica sino a prorogare la Camera, nel ’94, quando essa doveva pronunciarsi sulla relazione del Comitato dei Cinque concernente lui Crispi: cosa che in pratica era la decisa negazione dell’essenza stessa del regime parlamentare, e cosa certo mai vista1898 . Era, anche, il timore continuo di non far mai abbastanza presto, di poter esser soverchiato dagli eventi: dal quale timore, derivavano le preoccupazioni del prevenire e le misure cautelari di polizia e l’attenzione sospettosa di cui il diritto di riunione e di associazione veniva fatto segno. In politica estera, identica ansia di fare, far presto, e la paura di arrivare troppo tardi, in un’Europa lanciata in piena gara di potenza: onde, se Visconti Venosta Lanza Sella Spaventa dicevano, prima mettiamo a posto la casa

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e poi ci faremo innanzi. Crispi diceva facciamoci innanzi subito, anche se la casa non è ancora assestata. Il dissidio, anzi, toccava qui più a fondo; era dissidio connaturato con tutto il modo di vedere, con il sentire stesso di quegli uomini e, ancora una volta, riportava su su alla fondamentale eterogeneità di forze del Risorgimento. L’Italia fattasi da sé, per virtù di soffio rivoluzionario potente – quindi, Mazzini e Garibaldi – che si sarebbe fatta, e meglio ancora, anche senza Napoleone III; l’Italia, dunque, già grande per virtù propria, già potente d’ispirazione, già atta a svolgere una splendente parte nel consorzio dei popoli, che se non l’avesse svolta subito, la colpa sarebbe stata solo dei governanti, antiunitari e mediocri ieri, pusillanimi e mediocri oggi1899 : questo era Crispi. La grandezza della patria, era «peccato originale per noi... il peccato di quanti, Mazzini alla testa, lavorarono per la costituzione di tutto il bel paese in unità di Stato... per esser forti e potenti, basta, volerlo, e saperlo»1900 . Gli altri, i moderati, convinti, e talora anche eccedendo1901 , che l’unità d’Italia era stata concretamente possibile grazie soprattutto o addirittura grazie soltanto ad un fortunatissimo insieme di circostanze esterne, situazione europea, Secondo Impero prima, poi anche Prussia, e che il merito degli Italiani era stato di aver colto al balzo l’ora propizia – quindi, Cavour e Vittorio Emanuele, il governo e non l’iniziativa rivoluzionaria: ma l’aver raggiunto lo scopo non significava ancora che l’Italia fosse già tanto potente di virtù propria, da poter pronunziare l’adsum qui feci di fronte ai vecchi colossi della politica europea. S’era stati fortunati; bisognava ora crescere all’altezza della fortuna, vale a dire consolidare ben bene lo Stato. Fare gli Italiani, aveva esclamato il pedagogo d’Azeglio, esprimendo perfettamente il modo di pensare dei moderati. Gli Italiani ci sono, facciamo un governo de-

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gno di loro, rispondeva Crispi, e lanciamoci arditamente verso l’avvenire. Per l’uno l’Italia era già una grande potenza, di nome e di fatto, tale da poter imporre il suo volere, purché un volere ci fosse in chi la governava; per gli altri, l’Italia era formalmente una grande potenza, ma non ancora nella realtà effettuale delle cose. Perciò, anche, in questi ultimi, il desiderio di un lungo periodo di pace, che solo avrebbe potuto consentire all’Italia di farsi le ossa e diventare una grande potenza anche di fatto. Una guerra europea, ora, quale ne fosse l’esito, sarebbe per la nuova Italia un disastro, annotava un giorno il Nigra, sapendo bene di esprimere idee comuni anche al Visconti Venosta1902 : e per quale motivo quest’ultimo avrebbe deprecato, un giorno, che la crisi d’Oriente fosse scoppiata troppo presto per l’Italia1903 , se non perché convinto che il suo paese non era ancora in grado di presentarsi nell’arengo internazionale con forti possibilità di azione? A sua volta, il conte di Robilant, proprio all’inizio di quella crisi d’Oriente, non aveva forse riconosciuto anch’egli che sarebbe convenuto all’Italia la questione dormisse placidi sonni per altri dieci anni?1904 Né erano preoccupazioni solo dei moderati: gli sforzi ostinati della diplomazia italiana, nel ’76, governando la Sinistra, per impedire il dilagar dell’incendio nei Balcani, per ottenere che le grandi potenze procedessero sempre d’accordo e che il «concerto» europeo funzionasse, avevano obbedito alla stessa fondamentale preoccupazione, evitare una grande crisi europea in un periodo in cui l’Italia non sarebbe stata in grado di fronteggiare situazioni difficili; e ancora, le ansie del Depretis – proprio del Depretis, a torto ritenuto poco sollecito dei problemi internazionali – nel 1882, al momento della crisi d’Egitto, sempre per ottenere che essa fosse considerata da tutte le potenze, Germania e Austria comprese, una questione assolutamente «europea», muovevano dallo stes-

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so timore, che l’Italia, lasciata sola questa volta di fronte ad Inghilterra e Francia (come prima di fronte ad Austria e Russia), vedesse sacrificati i suoi interessi vitali nel Mediterraneo1905 . Dire che nessuna potenza in Europa aveva bisogno di pace più dell’Italia, come dissero concordemente i moderati dopo il ’70 e ripeterono poi i Depretis e i Cairoli guanti al potere, non era soltanto riluttanza sentimentale alla guerra, fede liberale nello sviluppo pacifico dell’umanità, residuo di ottimismo alla Cobden sulla pacifica gara dei commerci sostituita alla gara cruenta delle armi: era anche convinzione precisa che, proprio in omaggio al realismo politico, l’Italia non sarebbe stata ancora in grado di tutelare efficacemente i suoi interessi, quando il dio della guerra riprendesse nelle sue mani i destini dell’Europa. Proprio gli eventi fra ’78 e ’81, Congresso di Berlino e Tunisi, l’Italia uscita da una grande crisi europea per la prima volta dal ’56 senza successi materiali o morali – anzi, con la sensazione bruciante dell’insuccesso –, e poi ancora costretta a subire lo smacco di Tunisi, avrebbero rafforzato in molti, sin anco all’eccesso, la sensazione che l’Italia dovesse andare piano nel valutare le sue possibilità di politica internazionale. Con inconsueta brutalità lo dichiarò un giorno del 1881 l’ambasciatore di Russia, Uxkull, al Mancini: l’Italia non doveva considerarsi una grande potenza; se le grandi potenze avevano ammesso l’Italia nei loro consigli, ciò era stato fatto per cortesia, non già perché si ritenesse indispensabile il suo consenso1906 . Anche se non lo dicevano tanto apertamente, gli altri lo pensavano; e Bismarck lo fece capire con sufficiente chiarezza tra il ’79 e l’821907 . E dei nostri, parecchi parvero spesso non alieni dal condividere, sia pure con animo amareggiato, quelle idee: tanto che un giorno fu il Blanc, segretario generale agli Esteri, a dichiarare sia all’incaricato d’affari austro-ungarico, sia a quello

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germanico, che l’Italia non voleva per sé la parte di una grande potenza, per cui le mancavano i mezzi1908 ; e altra volta fu il re in persona ad auspicare il giorno in cui, cresciuta la forza interna del paese, l’Italia potesse elevarsi al rango delle grandi potenze1909 . Perfino nella stampa non mancava chi affermasse che «noi entravamo nel concerto europeo quasi per grazia, e vi dovevamo portar pretese e contegno modesti»1910 , e che il conseguimento della potenza era frutto naturale e legittimo di un lavoro pacifico e secolare, vale a dire del rassodamento delle istituzioni e dello sviluppo economico e intellettuale – il lavoro a cui l’Italia era ora intenta1911 . Sempre, all’origine dei consigli di modestia per il presente, la valutazione storica che il Risorgimento era stato possibile grazie alla favorevole congiuntura internazionale; onde, in quella stessa Rassegna che predicava la modestia, si poteva anche leggere una rapida digressione storica che ricordava la «fortuna» nel Risorgimento: «tutti assorti nel problema dell’essere... noi siamo andati bene innanzi perché il costituirsi a nazione, se urtava alcuni interessi, ne favoriva altri, e noi ci siam saputi destreggiare fra questi e quelli. La collisione dell’interesse imperiale francese con l’austriaco, ci diè il primo potente aiuto: il secondo ci venne dalla collisione dell’interesse prussiano con l’austriaco: il terzo da quella dell’interesse germanico col francese. E il prevalente liberalismo, in Europa, e la tendenza anti-papale degli Stati protestanti videro nella vittoria della rivoluzione italiana, sotto una monarchia leale e rispettabile, un interesse civile da non ostacolare; anzi da favorire. Così fummo...»1912 . Di simil genere erano anche i pensieri che inducevano a parlare della «precipitosa conquista da noi fatta dell’unità, della libertà e dell’indipendenza contemporaneamente»1913 ; oppure della fortuna la quale aveva arriso all’Italia in modo affatto singolare per molti anni mentre ora

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il consolidamento dell’edifizio si chiariva assai più laborioso del lavoro fatto per innalzarlo1914 . Il giudizio storico era la necessaria premessa di quello politico; e quest’ultimo tendeva dunque, verso l’80, a farsi ancor più pessimistico, giustificando per reazione dinnanzi al paese gli appelli crispini alla grandezza e creando l’attesa nel suo avvento. Ma Depretis, uomo della Rivoluzione non era certo stato mai; e Cairoli, era stato sì Rivoluzione, ma senza potenza personale di accenti, e perciò non urgevano in lui, come in Crispi, le grandi memorie. Ma appunto perché nella valutazione politica del compito spettante all’Italia dopo il ’70 era implicito il giudizio su quel che fosse stato il Risorgimento, appunto per questo il dissidio tra i moderati e un Crispi era incomponibile. Si parlasse al Crispi, l’uomo dei Mille, di un Risorgimento dovuto alla favorevole congiuntura europea e alla diplomazia! Il Risorgimento era la Rivoluzione, non meno grande di quella francese1915 , che aveva trascinato tutti, volenti e nolenti; era passione, virtù di cospirazione che Cavour aveva potuto diplomatizzare, ma che recava in sé stessa tutti i motivi del successo. L’Italia di Mazzini e di Garibaldi era già potente; la marcia in avanti era fatale, la grandezza sicura solo che non mancasse l’animo ai reggitori. Muoversi, dimostrare subito di essere ben vivi e presenti sulla scena europea; far sì che la grandezza sognata divenisse realtà immediata, unico modo per riscattare la iniziale inferiorità italiana, per far dimenticare l’asservimento alla Francia bonapartista, per tener fede agli ideali dei giorni eroici del Risorgimento, anzi per dimostrare la grandezza tutta italiana, la virtù tutta interiore del Risorgimento stesso, della nostra Rivoluzione. La missione dell’Italia nel mondo aveva perso la sua universalità alla Mazzini; l’Europa dei moderati non diceva nulla all’animo del siciliano, e dunque, come s’è detto, nello svani-

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re dei motivi universali, rivoluzionari o conservatori che fossero, sola dea restava la propria nazione, la propria patria: ma questa era una grande dea e Crispi la adorò e l’adorazione tradusse in accenti mazzinianamente ancora turgidi di pathos, in una eloquenza formale tanto lontana dalla disadorna parola di un Cavour o, più tardi, di un Giolitti. I fantasmi di Roma eterna parlavano al suo cuore; altri erano sazi di lotte ritenevano giunta infine l’ora del lavoro pacato e tranquillo, Crispi dall’unità conseguita e da Roma capitale volgeva lo sguardo alla grandezza europea da conseguire, al più presto. E poiché la realtà delle cose contrastava con tali sogni, ne veniva come una suscettibilità ombrosa, pronta sempre a vedere menomata la dignità nazionale da fatti e parole altrui, sempre proclive a credere che metà del mondo stesse complottando contro l’unità d’Italia. Perciò, opposizione risoluta al metodo, ai propositi della Destra. Il lasciar tempo al tempo, il voir venir, tipici della diplomazia alla Visconti Venosta, gli apparvero incapacità, ignavia, servilismo; e il suo stile fu, come l’azione, nervoso e a scatti, a salti di quinta1916 ; capace di sorriso e di seduzione, ma più spesso brusco e imperioso e addirittura scortese nella forma1917 . Nella sostanza, sempre inquietudine, sempre trasalimento per l’incombere del pericolo, sempre sospetto per qualche affronto alla dignità d’Italia e, contrariamente al detto di Cavour, l’innalzare a grosse questioni di prestigio nazionale piccole questioni. Mancanza di misura e di equilibrio; politica a urti e spintoni1918 . Era ancora, molto, uno stato d’animo, un agire da cospiratore. Lo ripeté, presidente del Consiglio, lo disse allo stesso Nigra, siamo dei vecchi cospiratori1919 . Vecchi cospiratori! A modo suo, se si vuole, anche il Nigra lo era stato, col Cavour: ma era stato, per così dire, un cospiratore ufficiale, governativo, che cospirava per l’Italia ma nell’uniforme del diplomatico, onde sin da quei tempi i

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suoi erano stati l’animo e lo stile dell’uomo di governo. Certamente lo era stato il Visconti Venosta, dai giovanili entusiasmi mazziniani: ma dal Visconti Venosta del ’48 era venuto fuori il ministro degli Esteri del ’70, moderatissimo fra i moderati, tutto equilibrio discrezione finezza, tutto arte del chiaroscuro, che non aveva più nulla a spartire con l’aria della congiura. Crispi era rimasto, rimase veramente sino all’ultimo un vecchio cospiratore. Giovane, lo era stato assai, assai più degli altri; e continuò ad esserlo, vecchio e presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Del cospiratore ripudiò molte idee, la repubblica e la distruzione dell’Austria; ne serbò l’animo e l’istinto, la facile eccitabilità ed impressionabilità ad ogni rumore, che gli faceva accogliere senza troppi dubbi informazioni allarmistiche, quando toccassero in lui le corde sempre tese e pronte al suono pericolo clericale e pericolo francese; ne serbò l’ansia di agire e di concludere; ne serbò la mancanza di equilibrio e di misura. Ancora, il bisogno quasi fisico di tenersi vicino alla piazza, di lavorare direttamente l’opinione pubblica, cercandovi conforti e consensi più ancora che nel Parlamento: donde i grandi discorsi a Torino a Palermo a Firenze1920 , e il trattare distesamente di politica estera non soltanto nell’aula di Montecitorio, anzi il parlarne talora prima in teatro che a Montecitorio come quando, nell’87, la congiura per la pace ordita a Friedrichsruh fra lui e il Bismarck fu annunziata ai cittadini torinesi al Regio. In fine l’uomo, il sentire altamente di sé, e la fede nel proprio genio; quindi, l’ansia di far presto, già innanzi negli anni come era1921 , per poter lui associare il proprio nome alla gloria d’Italia. I capi dei moderati potevano sentirsi indispensabili all’Italia come gruppo, come classe dirigente, non come singoli: la Destra era indispensabile all’Italia. Crispi, che apprezzava assai poco i colleghi di parte, vedeva in sé stesso il salvatore: non diversamen-

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te che del Gioberti, si poteva dire di lui che pensasse: «Il male d’Italia è di non avere sempre seguito i consigli di Crispi, il rimedio? Mettetevi nelle mani di Crispi»1922 . Così è che senza essere ancora propriamente nazionalismo stile Novecento, soprattutto senza averne la risoluta chiarezza di princìpi, l’atteggiamento di Crispi in politica estera aveva già un’impronta nazionalistica: nazionalismo di stato d’animo, che era il necessario presupposto del più tardo nazionalismo dottrinario. Grandezza, prestigio della patria; poesia dei fatti eroici, contrapposta alla prosa vile dei massai. Lo disse, conchiudendo il discorso alla Camera del 10 marzo 1881: «è un fatto che più noi ci allontaniamo dai giorni della grande rivoluzione e più gli animi diventano gelidi e meschini! quasi antipatriottici! Ritorniamo alle nostre origini, a quei concetti, a quelle grandi idee senza le quali non saremmo insorti, senza le quali non avremmo giammai atterrato i sette principi, non avremmo atterrato il papato, non saremmo a Roma!»1923 . Ma sin da prima lo aveva dichiarato la sua Riforma. Poesia, contrapposta alla «prosa» dei moderati. Poesia: cioè, nei campo politico, entusiasmo e fede, slancio e risolutezza, grandi propositi e grande animo. Quel che aveva fatta l’Italia; la poesia «che audacemente, ma sicuramente, calcolatrice, dopo la campagna d’Italia, spiccandosi dai fumanti campi di Varese e di San Martino si assise al governo degli avventurosi navigli di Quarto, e con in cuore, se non sul labbro, il famoso: quid times? Caesarem vehis, assicurò il periglioso sbarco, e da Marsala, a Calatafimi; da Palermo a Milazzo; e da Napoli a Capua, di meraviglia in meraviglia e di prodigio in prodigio, con realtà superante l’immaginazione, non fe’ mossa in guerra che non riscuotesse il plauso della più meditata strategia, non fe’ un passo in politica che non sovrastasse ai più profondi calcoli della diplomazia», e che ora «quasi estremo sforzo del genio italiano, parve sva-

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nire o ritrarsi nell’umile scoglio, ove si ravvolse la bandiera che l’aveva ispirata», per lasciar luogo ad «una nuda, una gretta, una gelida prosa come cappa di piombo», che pesa «sugl’istinti e sulle aspirazioni nazionali»1924 . Prosa, dovuta proprio anzitutto alla mancanza di poesia nei moderati: e poesia era da ricercar «in quell’entusiasmo creatore, in quell’affetto pel bene e pel progresso, in quella ispirazione intuitiva che sa afferrare nel suo assieme un’epoca, una situazione e dirigerla potentemente alla vera mèta che si prefigge, infondendo in quanto la circonda l’attività e l’energia che l’infiamma. Noi chiamiamo poesia quella che non permettea il sonno a Temistocle pensando alla gloria di Milziade, che non dava riposo a Bolivar innanzi alla fama di Washington, che arse le fibre del primo Bonaparte... poesia insomma i più felici momenti di Cavour, e le meravigliose imprese compiute da Garibaldi». Ch’eran parole adattissime ad esprimere lo stato d’animo dell’ambiente Crispino, innanzi all’Italia e al suo governo. «Entusiasmo», «ispirazione», «potenza» di direzione: e, in pari tempo, il gran lievito personale, l’ambizione, che non consente il sonno a chi ripensi gli allori altrui: in altri termini, sul piano politico, azione. E a chi opponesse che non sempre eran tempi d’azione – s’intende, di azione febbrile e turbolenta – e che, proprio dopo il tormentosissimo periodo dell’Unità, dopo il dodicennio ’58-70, occorreva quiete e calma; e, ancora, a chi avesse chiesto quali dovevano essere le mete di tale azione, una prima risposta sarebbe stata, da parte del Crispi e dei suoi amici, che l’azione vale anche per se stessa, come generatrice di energia, suscitatrice di forti pensieri e incitatrice a magnanime gesta in un popolo – proprio il contrario di quanto capitava all’Italia, dove l’inettitudine dei governanti e la loro fiacchezza generavano attorno a sé sfiducia, scetticismo, e sordido materialismo1925 . Così che lo spettacolo offerto dall’Italia d’oggi era triste

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e penoso; era, per dirla ancora col Carducci, lo spettacolo d’un paese dominato da Trissotino: «Uno scetticismo profondo, un’indifferenza, uno sprezzo per tutto ciò ch’è bello, nobile e grande; un correr soltanto dietro alle cifre ed a quanto possa soddisfare i sensi e riempire le borse, a detrimento del cuore e dell’intelletto, sono i caratteri distintivi dell’Italia attuale»1926 . Che se, per scender dalle epoche e uomini straordinari a più umile sfera, una buona e vigorosa amministrazione aveva pure diritto a battezzarsi «poesia», ciò era vero solo in quanto «sapesse dar anima e vita a tutte le forze latenti d’una nazione, non solo nell’ordine materiale, ma nello sviluppo morale che ne dev’essere effetto e compimento». Invece, gli amministratori della Destra «... uomini prudentissimi al certo, ma prosaici, preferenti le minuzie dell’analisi, anziché le complesse intuizioni della sintesi, studiano molto, ma fanno poco, sanno ad ogni questione creare una commissione, ma nulla che possa tramandare il loro nome alla posterità, pietrificando la nazione nel gelo dell’anima loro»1927 . Dunque, ancora e sempre, azione, azione, azione; e azione di «sintesi» per intuizione, non di analisi e studio; azione, per crear entusiasmi, suscitar passioni, perfino nel caso della ordinaria amministrazione. Quest’era propriamente attivismo, a qualunque costo, anche senza mèta precisa. Muoversi, fare, creare o anche solo gridare – spesso la prima cosa si risolveva nella seconda; qui era lo stato d’animo inquieto e inquietante di una parte dell’opinione pubblica italiana, allora numericamente assai modesta, ma non trascurabile per importanza di uomini, e che doveva costituire il primo nucleo dei più grossi futuri plotoni di volontari dell’entusiasmo e dell’azione. In politica interna, quello stato d’animo avrebbe, tosto o tardi, reso praticamente insofferenti di limiti giuridici, vale a dire insofferenti della tradizione liberale in quanto

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aveva di più genuino e puro, e avrebbe indotto l’animo agitato e incline agli estremi ad accettare ad un certo momento lo Stato «forte», quale appunto volle e cercò di attuare il Crispi, perché esso prometteva azione e fede, ed irrideva al cosiddetto scetticismo materialone dei savi ed esaltava l’intuizione, la sintesi. In politica estera, l’inquieto cercar di qua e di là dove poter iniziare un’azione qualsiasi, anche a costo di rischio, ch’era bello appunto perché rischio; quel ficcarsi in mente l’inevitabilità di un prossimo grande evento, bellico s’intende1928 , e da quella premessa mossi accrescer ogni dì inquietudine e tramestio, contribuendo così sul serio a crear le ragioni di conflitti. Ch’era appunto l’atmosfera torbida, inquieta, tesa e gonfia anche pel minimo incidente, che si veniva creando, tra il ’71 e il ’73, in Italia e in Francia, ad opera dei nazionalisti o – come si diceva allora – chauvinisti d’ambo le parti: nemmeno i Francesi, infatti, scherzando al riguardo, e anch’essi annoverando molti, tra preti e nobili e borghesi di provincia, convinti, come di un dogma, della fatalità e necessità di un conflitto coll’Italia, e trepidanti, vociferanti, ingiurianti, assai, assai più dei loro avversari d’oltr’Alpe. Per gli Italiani alla Crispi, pieno l’animo dei ricordi dolorosi di un lontano passato di smembramento politico della penisola e di quelli, ancor più cocenti, di alcune non brillanti pagine militari del patrio riscatto, per questi Italiani l’anelito al fare diveniva, proprio soprattutto per l’Italia, condizione necessaria a dimostrare di non essere deboli né servi di nessuno: era come un necessario attestato di nobiltà che bisognava conquistarsi. E si complicava pertanto con una ombrosa diffidenza verso l’estero, una suscettibilità esagerata, pronta a veder menomata la dignità nazionale dal minimo gesto men che cortese dall’estero proveniente: che era la testimonianza – annotava il Visconti Venosta – di non maturità di un popolo.

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Eran tutte cose che creavano un abisso fra la Destra e l’ambiente crispino: e lo confermava anche l’avversione al Cavour del secondo1929 , che di tradizione cavouriana non voleva sentir parlare, quella tradizione – Vangelo dei moderati – che aveva sì nei momenti decisivi tutto osato e tutto giuocato, non arretrando certo di fronte agli atti di forza, ma che era stata anzitutto miracolo di tempestività, di senso dell’ora, niente programmi troppo rigidi a lunga scadenza, ma porre ben saldo il punto di partenza e poi dilatare il programma sin dove la realtà lo consentisse. Ma la gran colpa di Cavour per il Crispi, era appunto di non essere stato unitario della vigilia1930 . Qui il dissidio era dunque fondamentale; e si comprende come il pareggio scopo supremo del governo suonasse per un Crispi prosa, gelo, meschinità. E se la Destra diceva, conteniamo per il momento le spese militari perché uno Stato deve avere prima le finanze a sesto, la Riforma batteva, come Catone il Vecchio, sul ceterum censo della assoluta necessità di armare, armare, armare ond’essere pronti per il momento della non lontana prova suprema. D’altronde non era solo amor dell’azione per l’azione a spronare coloro che volevano poesia e non prosa, e battezzavano indegna d’un grande Stato la politica delle economie sino all’osso. Tra l’affannarsi attorno alla inevitabile, prossima guerra con la Francia, e il trepidar perché l’Italia dovesse aver contegno e animo e forza da grande potenza, tra il vago generico attivismo, dunque, cominciava già a spuntar qualche obbiettivo più preciso: ed era il sogno del predominio italiano nel Mediterraneo. Sogno di origine mazziniana1931 : e insinuantesi, lento, lento, nell’animo di parecchi, e già travagliante nel profondo lo spirito inquieto di Francesco Crispi. E all’Oriente accennava appunto la Riforma nell’agosto del ’72: all’Oriente e alla politica propria che vi doveva aver l’Italia: «... a preferenza d’ogni altra potenza d’Europa;

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perocché non ve ne ha nessuna che per la sua posizione geografica, per le tradizioni antiche, e per la somma degli interessi presenti, abbia tanti rapporti e contatti quanti essa ne ha con le popolazioni che si stendono oltre l’angusto mare che ne bagna le sponde». Inevitabile essendo la caduta o trasformazione completa dell’impero ottomano, l’Italia avrebbe dovuto «esercitare una decisiva influenza sugli avvenimenti», solo che al governo fossero uomini all’altezza del compito1932 . E venivano fuori, dunque1933 , le tradizioni di Venezia e Genova; e la storia era chiamata a sussidio della politica, con un procedimento divenuto poi familiare ai nazionalisti, ancilla docile delle pretese di potenza dei grandi Stati moderni, dopo essere stata, lungo il Medioevo, ancilla theologiae e strumento dell’edificazione delle anime cristiane. Ma assai più chiaramente ancora il sogno di un’Italia arbitra del bacino mediterraneo, almeno diplomaticamente, veniva enunciato dal Cialdini. Era un uomo che divergeva parecchio, su questioni fondamentali, dall’ambiente crispino; che, partigiano dell’alleanza francese e della lotta a fianco della Francia contro la Prussia, ancora il 3 agosto del ’70, si trovava, su questo problema capitale della politica estera italiana, esattamente al polo opposto del Crispi. Ma anche nel Cialdini, autoritario e suscettibile non certo meno del Crispi, anche nel Cialdini eran poi insofferenza militaresca dell’ordinato viver civile, sprezzo per i «contabili» dell’amministrazione e aspirazioni a grandezza, potenza, forza militare. Quest’ultimo problema lo vedeva accanitissimo, in Senato, contro i programmi alla Sella: militare e con tutta la consueta alterigia nei confronti de’ problemi finanziari, battezzava il programma delle «economie sino all’osso», che doveva salvare lo Stato, come un «monumento della nostra politica insufficienza», nel mentre lanciava patetici appelli al governo perché coprisse di ferro «anche questa povera Italia per difenderla dai prepotenti della ter-

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ra, per salvarla dai fulmini del cielo»; e non disdegnava nemmeno di servirsi di un argomento destinato a diventar poi trito e rancido in mano ai nazionalisti, rinfacciando ai civili scarso amore per l’esercito, ammonendo di cessar dal rinfacciargli il pane che mangia, dal presentarlo come un vampiro che divora le sostanze dell’erario1934 . Tali i suoi pensieri nel ’70, tali nel ’74, quando aggrediva nuovamente, in Senato, la politica del governo, che voleva far diventar ricca la nazione, mentre occorreva non meno farla diventar forte1935 – con la differenza, però che nel ’74 anch’egli era diventato sospettoso di Francia e de’ Francesi1936 . E anche per lui, cavouriano, come per gli anticavouriani scrittori della Riforma, i tempi volgevano a male, con il trionfo della prosa sulla poesia. «Siamo lontani – scriveva al Castelli – da quell’epoca di fede e di entusiasmo, rappresentata dal genio di Cavour. Ora nuotiamo nel dubbio, nella freddezza, nella prosa, nel cinismo politico.»1937 . Sul problema espansione, grandezza, potenza, concordi eran dunque le vedute del Cialdini e del Crespi: anche il duca di Gaeta sognava orizzonti d’impero per il suo paese. E lo diceva con quella chiarezza e nettezza ch’erano un suo indubbio merito. Trovandosi, il 28 febbraio del ’71, a Madrid, in ambasceria straordinaria presso re Amedeo1938 , il Cialdini telegrafò al Visconti Venosta che in una questione sorta fra Spagna ed Egitto, per via dell’interprete del consolato spagnolo maltrattato dalla polizia egiziana, il console inglese si era intromesso come mediatore. Ed era spiacevole che il console italiano si fosse lasciato strappar l’iniziativa dal collega britannico: spiacevole «d’autant plus que j’ai lieu de croire que tôt ou tard l’Espagne pourra nous rendre service dans la question romaine et que d’ailleurs apres l’abaissement de la puissance française l’Italie doit aspirer à la suprematie diplomatique dans les bassins de la Méditérranée».

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Qui, almeno, non c’eran dubbi, e lo scopo era ben chiaro. Supremazia nel Mediterraneo; il sogno mazziniano che diveniva patrimonio comune di molti anche antimazziniani. Lo nutriva, s’è visto, lo stesso Blanc, di cavouriana scuola1939 . E certo era difficile con simili miraggi innanzi agli occhi accontentarsi del pareggio e dei programmi tributari del Sella. Così, l’indirizzo di governo della Destra trovava, contro di sé, anche al di fuori dell’opposizione per tattica parlamentare, la tendenza alla poesia, cioè all’azione: un’azione magari senza una precisa mèta; vaga irrequieta, ma azione. E se non era da sopravalutare la forza numerica degli innamorati della poesia – pochi essendo in allora –, non era nemmeno da guardar con indifferenza al loro agitarsi, forti com’erano di alcuni nomi d’indiscutibile prestigio e valore. Per fortuna, l’Italia ebbe come nocchiero nel mare grosso della politica internazionale, in quegli anni dopo il ’70, l’uomo adatto alle circostanze de’ tempi, l’uomo che nessuna accusa di prosa avrebbe mai turbato: e fu Emilio Visconti Venosta.

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Capitolo Secondo ... E gli uomini

I Emilio Visconti Venosta Il bel ragazzetto, occhi celesti e lunghi capelli biondi inanellati che gli scendevano sulle spalle1940 , s’era trasformato in un personaggio grave già nell’aspetto, alto, magro, dai lunghi favoriti rossicci che la mano accarezzava frequentemente, con un gesto all’inglese da cui veniva accentuata la prima impressione di calma e di controllo interiore, anzi addirittura di flemma britannica1941 . E il molto tenero e facile a piangere Emilio, che pareva l’angelo del dolore quando supplicava la madre dietro la porta chiusa, era divenuto un uomo di Stato che poteva apparire, agli occhi di molti e, fra gli altri, di un giovane addetto di legazione come Bernardo di Bülow, tra i più calcolatori e i più cauti che vi fossero. Certo, l’uomo poco più che quarantenne aveva ormai compiuto, intera, la sua evoluzione morale e spirituale: dal seguace di Mazzini del ’48 era venuto fuori lo zelatore di Cavour, e dallo scolaro che non aveva «la testa a casa», pensando più alla rivoluzione e alle congiure di quanto non pensasse alla filosofia del diritto, era uscito un politico che aveva invece sempre la testa bene a casa. Ma chi poi scrutasse più nel profondo s’accorgeva che quest’uomo – dal Mazzini battezzato infedele al sogno dei primi anni, dalla Sinistra sempre considerato come un transfuga e perciò particolarmente osteggiato1942 – pur mutando sembianze fisiche, come natura voleva, e pur avendo mutato anche parte politica, aveva serbato inalterate le caratteristiche fondamentali. E lasciamo pure che il fanciullo già sognasse di fare il diplomatico, come

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che si trattasse di fantasie giovanili, anche se l’avvenire doveva tramutare la fantasia in realtà. Ma il raziocinare volentieri, l’appellarsi nei momenti critici al calcolo della ragione anziché abbandonarsi alla piena del sentimento e alle illusioni dell’immaginazione, il mantenere la calma in ogni evento: tutto questo, che colpiva parenti, amici, conoscenti, nel giovane poco più che ventenne e gli assicurava autorità sui coetanei lombardi, appena passata la gran furia rivoluzionaria del ’481943 , costituiva pur sempre la prima e fondamentale caratteristica della personalità del ministro degli Esteri del Regno d’Italia. Tutt’altro che freddo di animo, anzi capace di profondi affetti, sensitivo ed impressionabile1944 , ma capace pure di assoluto dominio sul sé stesso esteriore; tutto dignità, nell’aspetto e nell’accento, sobrio di g