Storia della ontologia
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Zitiervorschau

Studi Bompiani

STORIA DELL’ONTOLOGIA A cura di Maurizio Ferraris

Bompiani

978-88-58-70079-2

0. INTRODUZIONE

di Maurizio Ferraris

0.1. Novantiqua Facciamo un giro su Google, confrontando le occorrenze di “ontologia” con quelle di “ermeneutica”, ossia con un indirizzo fi losofico di cui si è detto giustamente, nel secolo scorso, che aspirava a essere una koiné, un linguaggio comune e un orientamento egemone. Oggi, 15 maggio 2008, le occorrenze di “ontologia” e di “ontology” sono rispettivamente 737.000 e 10.800.000, contro le 208.000 e 1.870.000 di “ermeneutica” e “hermeneutics”. Lo stesso rapporto si mantiene passando al più accademico “Google scholar” e cercando la lista degli articoli pubblicati, rispettivamente, su “ontologia” (22.100), “ontology” (655.000), “ermeneutica” (5.320), “hermeneutics” (151.000). La situazione appare molto cambiata anche semplicemente rispetto a una dozzina d’anni fa, quando citavo1 l’Oxford Companion to Philosophy (1995), alla voce “Ontology”, in cui si leggeva che la disciplina, dopo un lungo discredito, stava ultimamente conoscendo un “modesto revival”. Il revival, si direbbe, non è affatto modesto. E queste banali circostanze di fatto ci danno la misura di quanta acqua sia passata sotto i ponti, anche in un periodo di tempo tanto breve. La definizione di “novantiqua”, che tradizionalmente spetta alla retorica, sembra oggi applicarsi particolarmente bene all’ontologia. Una disciplina che nel continente era data come spacciata, ora torna a farsi sentire, al punto che un libro di Habermas, Il pensiero post-metafisico, che è del 1988, e che allora appariva perfettamente alla moda, tradotto nel 2006 risulta invecchiato almeno nel titolo. Questo fenomeno vale su scala mondiale, ed è molto vivo in Italia, dove si moltiplicano i centri, le pubblicazioni, i convegni2. È ovviamente nel quadro di queste trasformazioni 1 2

Ferraris 1996. Per una rassegna complessiva, si veda Raul Corazzon (2006) L’ontologia in Italia. Una guida per gli studenti di filosofia http://www.formalontology.it/ontologia.htm (dove si avranno ricche informazioni bibliografiche e il riferimento ad altri siti di interesse ontologico).

che trova la propria ragion d’essere il nostro volume, e sembra naturale, in sede introduttiva, chiedersi il perché di questa rinascita. A questo interrogativo si possono dare due risposte, una molto facile, l’altra un po’ più lunga e difficile. Quella facile riguarda l’informatica e gli sbocchi pratici dell’ontologia, e suona così. Da trent’anni a questa parte, il mondo si è riempito di nuovi oggetti fisici, i computer, che danno vita a nuovi oggetti virtuali, come ad esempio i siti web. Proprio per far funzionare il web, e per evitare l’effetto-Babele, gli informatici hanno avvertito l’esigenza di un’ontologia, ossia di ciò che, sin dal Seicento, era una maniera per organizzare e classificare gli oggetti presenti nel mondo. Nell’età barocca si compilavano dei “cataloghi ontologici” che classificavano, per esempio (e rispondendo a loro modo a esigenze di modernizzazione) tutto ciò che si trovava in uno Stato o in una regione: dalle stoviglie ai titoli nobiliari, dagli animali da cortile alle città e ai sobborghi. Una specie di mappa dell’impero che (avremo modo di verificarlo in più occasioni anche in questa introduzione) avrebbe fatto la felicità di Borges; e del resto già Baumgarten, il filosofo che nel Settecento ha coniato il nome di “estetica”, consigliava all’artista a corto di argomenti di trarre ispirazione da un catalogo ontologico. Ora questi cataloghi hanno trovato una nuova attualità. I Siti, nuovi Stati dei cataloghi ontologici, sono connessi tra loro (“web”, “net”, “rete”, significano proprio questo) e si riferiscono a una grandissima quantità di oggetti o di eventi: i medicinali prodotti da una casa farmaceutica, le sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione, i pacchetti di viaggio tutto incluso per una settimana in Finlandia, gli acquisti dei clienti in un supermercato, gli evasori fiscali della Provincia di Belluno... Come si organizzano questi oggetti? Sembra ovvio che se ci si rivolgesse all’ermeneutica, in breve tempo cadremmo nella notte in cui tutte le mucche sono nere, e nulla escluderebbe che dalla ricerca su “Google” con cui abbiamo iniziato questa introduzione potremmo ricavare un sacco di cose bizzarre, ma non quelle che chiedevamo. Questa è la risposta facile. Veniamo a quella un po’ più difficile, che riguarda la fi losofia. Come è possibile che un vecchio arnese, l’ontologia, abbia trovato un nuovo smalto dopo che per almeno due secoli era stato tacciato, insieme alla metafisica, di tutte le colpe (teoriche, e qualche volta anche pratiche) del mondo, dall’astratto apriorismo alla collusione con la violenza? Qui per capire le ragioni del ritorno e della riabilitazione diviene necessario anzitutto dare uno sguardo

ai motivi del declino, incominciamo dai filosofi continentali, dove le posizioni che hanno determinato l’appannarsi del prestigio dell’ontologia e della metafisica sono state tre. Prima di tutto, dopo Kant, la metafisica è stata criticata come fonte di saperi astrusi e non più in linea con i tempi, e in questo si è manifestato il sottile scientismo che attraversa l’idealismo postkantiano, che non scrive Ontologie o Metafisiche, bensì Dottrine della scienza. Nel momento in cui assumiamo che la scienza è il paradigma fondamentale sia della conoscenza, sia dell’esperienza, la metafisica va in soffitta, e cede il passo all’epistemologia. Chiamiamo questa posizione “postmetafisica”. Tuttavia, proprio questa condizione residuale può aver costituito una tentazione per chi volesse edificare una filosofia anti-idealista, o antiscientifica, o più semplicemente religiosa, e di qui si è avuto lo sviluppo di una metafisica su basi dapprima antikantiane, poi spiritualiste ed esistenzialiste. Chiamiamo questa posizione “neometafisica”. Infine, e anche questo è tipico della tradizione continentale, il rinnovamento in filosofia, che passasse da Bergson a Nietzsche a Heidegger, ha significato sistematicamente una critica della trascendenza tradizionale, e dunque con l’attacco dei neometafisici e dei postmetafisici (accusati di scarsa radicalità). Chiamiamo questa posizione “antimetafisica”. Nel mondo inglese e americano le cose sono andate molto diversamente. Rispetto ai Postmetafisici, fossero pure giganti come Hegel, c’è stata un’adesione non incondizionata, e velata dall’ironia di Carlyle in Sartor Resartus (1831), che parodiava un idealista tedesco dei tempi, il Professor Teufelsdrockh, che sembrava poco meno acchiappanuvole del metafisico Pangloss (cioè Christian Wolff) parodiato da Voltaire in Candide (1759). Rispetto ai Neometafisici, è poi mancata una forte tradizione di riferimento come la Chiesa Cattolica, capace di motivare le ricerche in quel senso. E i novatori sono stati tutti Pragmatisti (in positivo) e non Antimetafisici (in negativo). Questo ha fatto sì che la metafisica potesse continuare a crescere e a venire insegnata senza apparire un arcaismo. Indipendentemente dalle interpretazioni, rimane che non solo tra gli informatici, ma anche tra i filosofi, la metafisica oggi rialza le proprie quotazioni dove era ancora sul mercato (analitici), e ritorna là dove ne era praticamente uscita (continentali). Da cosa dipende? I motivi sono più d’uno. Per gli analitici, è il desiderio di confrontarsi con grandi temi, quelli tradizionali della metafisica, non limitandosi alle analisi di dettaglio. Caratteristicamente, il libro che più aperta-

mente ha dato il là in questa direzione, Spiegazioni filosofiche di Robert Nozick (1981) si apriva con una sezione dedicata alla metafisica. Nella tradizione continentale, che di Grandi Temi non era mai stata a corto, il ritorno della metafisica (o dell’ontologia, affronteremo più avanti la questione terminologica) ha coinciso invece con un richiamo al realismo dopo la stagione ermeneutica. C’è qualcosa lì fuori, anzi, il mondo è pieno di oggetti che non si risolvono semplicemente nel linguaggio, ci sono fatti che non si dissolvono nelle interpretazioni. Ed è qui che il percorso filosofico si imbatte nello stesso problema dell’informatica, ossia nella necessità, non tanto di una fondazione (che non sempre è possibile e in molti casi non è neppure necessaria o auspicabile) ma piuttosto di una classificazione e di una organizzazione del mondo e dei suoi oggetti. Di fronte a questa esigenza, che era stata spesso trascurata dalla filosofia del Novecento, si scoprono due cose interessanti sebbene ovvie, e cioè, in primo luogo, che non si può classificare e organizzare se si muove da presupposti scettici, sicché un assunto realistico è indispensabile se non altro per ragioni pragmatiche. In secondo luogo, si scopre che se non ci pensiamo noi a classificare, altri lo faranno per noi, e non è detto che i risultati saranno poi soddisfacenti.

0.2. Relativismo e antirelativismo Per mettere a fuoco questo punto si tratta di dare un’occhiata a una querelle che tiene banco negli ultimi anni, e non solo in filosofia, vale a dire la disputa tra relativismo e antirelativismo. Il relativismo sarebbe il permissivismo morale e il politeismo dei valori della società novecentesca; l’antirelativismo la reazione a questa situazione, il recupero della tradizione, il rispetto della legge di natura e all’occorrenza della rivelazione. Si tratta, come è ovvio, di una questione che ha implicazioni anzitutto politiche, ma che, per sorprendente che possa talora apparire, trae origine da questioni teoriche. Cerchiamo di dipanare la matassa facendo ora riferimento non alla storia degli ultimi due secoli, bensì alla cronaca degli ultimi trent’anni, quelli che potremmo fare iniziare con la pubblicazione, nel 1979, di due opere davvero epocali: un grosso libro del fi losofo americano Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, e di un piccolo libro del filosofo francese JeanFrançois Lyotard, La condizione postmoderna.

In particolare, il libro di Rorty dava voce e forma a un sentimento fi losofico diffuso, e cioè che il realismo avesse fatto il suo tempo, e che oramai da secoli la filosofia e la scienza abbiano a che fare con il confronto tra schemi concettuali, e non con il riscontro tra, poniamo, parole e concetti, da una parte, e il mondo, dall’altra. Stando così le cose, osservava Rorty, forse è ora di concludere che l’oggettività, e l’assunto che ci sia un mondo “lì fuori”, sono ossessioni o superstizioni della fi losofia tra il Seicento e il Novecento, e che vanno sostituite da idee più utili e produttive, come, per esempio, la solidarietà sociale, il dialogo tra le persone e le culture, la tolleranza. In fondo, osservava Rorty (che di formazione era pragmatista, e si vedeva), la “verità” è una cosa frivola, una specie di pacca sulla spalla, un complimento che si fa a una proposizione o a una situazione che ci è utile o ci piace per altri motivi. Per parte sua, Lyotard si misurava pionieristicamente con l’informatica che incominciava proprio allora a far sentire la propria presenza nella società, e sosteneva che si stava andando verso un mondo immateriale, in cui le cose sparivano a vantaggio di un orizzonte virtuale. La prospettiva non era troppo chiara, ma nella confusione qualcosa si stagliava in modo netto: la realtà non sarebbe più stata quella di una volta, e forse non sarebbe stata più affatto; tipicamente, una grande mostra che Lyotard organizzò nel 1984 al Centre Georges Pompidou per dar conto delle trasformazioni in corso si intitolava “Gli immateriali”. I filosofi, anche di valore, possono sbagliarsi come chiunque altro. Abbiamo visto che ben lungi dallo sparire, gli oggetti non hanno fatto che moltiplicarsi, e non parlo soltanto delle discariche di computer e di altri relitti generati quotidianamente dal mondo che Lyotard chiamava “immateriale”, ma penso soprattutto alla proliferazioni di oggetti nel web a cui mi riferivo più sopra, e che si tratta, come ricordavo, di organizzare con una ontologia invece che di sparpagliare con una ermeneutica. Se le cose stanno in questi termini, sembra abbastanza difficile sostenere, da un punto di vista storicistico, che l’oggettività costituisce niente più che una fisima transitoria, oppure, da un punto di vista pragmatistico, che si tratta di un ornamento futile. In effetti, sono infiniti i campi della vita – dalla scelta dei medici al mercato immobiliare – in cui preferiamo l’oggettività alla solidarietà, ed è ben dubbio che il dialogo possa costituire una valida alternativa alla verità, e che soprattutto possa costituire un ideale regolativo; casomai, come insegna la pratica del patteggiamento nei contenziosi,

costituisce un ripiego talvolta indispensabile. Ma non si vede proprio perché trasformare un ripiego in un ideale, che d’altra parte in molti casi appare inapplicabile, come chiunque può verificare qualora si cimenti nel determinare per stipulazione l’altezza del Monte Bianco. Quanto poi all’ideale di una “teoria ironica”, di un’adesione sempre parziale alle proprie affermazioni e credenze, che Rorty raccomandava come rimedio contro il dogmatismo, l’esperienza, poniamo, di qualcosa come un “testimone ironico postmoderno” in tribunale ci farebbe rimpiangere i testimoni di una volta. Questo anche a prescindere dal fatto che il generale discredito ermeneutico e postmoderno nei confronti della verità e dell’oggettività ha dato argomenti e fiato a critiche del relativismo condotte in nome di una “razionalità superiore”, per esempio quelle oggi molto correnti in Benedetto XVI e nei suoi seguaci. In effetti, nel mondo postmoderno, la struttura argomentativa dei papi antirelativisti e dei fi losofi postmodernisti condivide un robusto elemento comune, l’idea che gli schemi concettuali abbiano un valore costitutivo rispetto alla realtà. Nella fattispecie, per gli schemi concettuali di Bellarmino, la Terra è al centro dell’universo, e la tesi di Bellarmino è corroborata dalla Bibbia, da Aristotele e da Tolomeo, cioè da evidenze testuali autorevolissime. Dal momento che, d’accordo con Derrida, “nulla esiste al di fuori del testo”, si tratta di elementi che non possono essere scacciati con il semplice ricorso al fatto che “lì fuori”, nel mondo fisico, la Terra non è al centro dell’Universo, e questo semplicemente perché un simile “lì fuori” non esiste. Sin qui l’elemento comune. A questo punto, le vie del fi losofo postmodernista e del pontefice antirelativista divergono. Il fi losofo postmodernista concluderà da queste premesse che il geocentrismo è culturalmente giustificato tanto quanto l’eliocentrismo, e incomincerà ad avvoltolarsi nelle contraddizioni del relativismo quanto alla realtà (che è molto diverso dal relativismo quanto alla morale), suscitando domande come: se Tolomeo e Galileo hanno ugualmente ragione, dobbiamo mettere sullo stesso piano Esculapio e Pasteur? L’evoluzionismo e il Disegno intelligente? Le leggi di natura e i miracoli? Diverso è il caso del pontefice antirelativista, che si trova in una posizione più vantaggiosa, e può superare l’alternativa fra Tolomeo e Galileo (così come tutte le altre) facendo appello a una “ragionevolezza più grande”, una ragionevolezza fondamentale rispetto a cui le dispute del sapere secolare si riducono a conflitti regionali.

Il problema, dunque, non è affatto serio per il pontefice antirelativista, mentre è serissimo per il filosofo postmodernista, che si fa alfiere di un soggettivismo politicamente motivato, appunto l’affermazione della superiorità della solidarietà rispetto all’oggettività. Che fare? A mio parere, la soluzione non sta affatto nella critica al relativismo morale (che è una posizione nobile, rispettabilissima, e in moltissimi casi inevitabile). Si tratta, piuttosto, di insistere sul fatto che ci sono ampie sfere della realtà che sono indipendenti da teorie e da condizionamenti culturali; e di porre l’accento sulla circostanza per cui questa autonomia del mondo reale fa valere i suoi diritti persino nella sfera del mondo sociale. Nel momento in cui si rischia di cadere dalla padella del soggettivismo politicamente motivato alla brace dell’antirelativismo altrettanto politicamente motivato (gli esempi sono così numerosi che non vale la pena di insistere), il realismo ha una parte importante da giocare in una partita che ci riguarda tutti. Ora, proprio in questa circostanza troviamo l’elemento caratteristico dell’ontologia. Se la koiné postmoderna asseriva che nulla esiste al di fuori degli schemi concettuali, il ritorno dell’ontologia consiste proprio nell’affermare che il mondo ha le sue regole e le fa osservare. Dopo due secoli di primato dei soggetti e degli schemi concettuali, che ha toccato l’iperbole con le nozze tra postmodernisti e antirelativisti, l’iniziativa ritorna agli oggetti e alle categorie che essi stessi generano. Insomma, Aristotele si rifà vivo dopo Kant. Non per caso, la sopravvivenza dell’ontologia nella scena fi losofica del Novecento, nell’epoca in cui era più direttamente presa di mira dalle istanze della prima filosofia analitica e dall’anti-metafisica di molte filosofie continentali, deve molto alla scuola antikantiana di Franz Brentano, a cui abbiamo, proprio perciò, dedicato uno spazio molto ampio in sede di trattazione storica. Come in Aristotele, e diversamente che in Kant, gli oggetti hanno leggi immanenti, e dunque l’idea di cercare delle categorie nel mondo, e non nella mente, non appare così bizzarra e censurabile come si legge nella Critica della ragion pura. I due più grandi risultati di questa cultura sono stati una generalizzazione e una formalizzazione: la teoria dell’oggetto di Meinong e l’ontologia formale di Husserl, che sono altrettante maniere per trovare una legalità e una necessità dalla parte dell’oggetto invece che da quella del soggetto.

0.3. Ontoteologia e metafisica Con questo, però, non ho presentato che una versione dell’ontologia, quella che per l’appunto la concepisce come una teoria dell’oggetto, e a cui personalmente aderisco insieme a molti autori tra Otto e Novecento, da Natorp a Twardowski, da Meinong a Pichler. Ma così non era per uno dei primi ontologi del Seicento, Johannes Clauberg, che concepiva l’ontologia come studio dell’ente in quanto tale, dove l’“in quanto tale” significava “in quanto intelligibile”. Questo a prescindere dal fatto che la tradizione ha visto intrecciarsi l’ontologia con la teologia, o ha assistito a discussioni filosofiche volte a differenziare l’ontologia dalla metafisica. Ma non c’è dubbio che la coscienza filosofica comune, soprattutto nella filosofia continentale, si è assuefatta, nel secolo scorso, a considerare l’ontologia come una sorta di teologia. Alla base, come spesso avviene nella fi losofia continentale, è il largo successo della filosofia di Heidegger, che da una parte ha sostenuto che la tradizione fi losofica del passato è stata in larga parte un’onto-teologia, cioè un discorso che identificava l’essere con Dio, e dall’altra ha proposto un percorso ontologico alternativo che di fatto si presentava come una teologia negativa, per cui il “vero essere”, l’“essere autentico” e non nascosto sarebbe “l’essere che non è l’essere dell’ente”. Il ragionamento può apparire tortuoso, ma l’identificazione (positiva o negativa) dell’essere con Dio è molto potente e intuitiva. In effetti l’equivoco ontoteologico si impone con molta facilità perché la nozione di “sommo tra gli enti” è molto più chiara che quella di “ente in quanto tale”. Ora, che la scienza dell’ente debba anche occuparsi del sommo tra gli enti è una idea del tutto ricevibile, e probabilmente (d’accordo con il suggerimento di Alessandra Saccon) una formulazione come “onto-teo-logia” avrebbe il valore di appianare subito molte difficoltà: c’è una scienza dell’ente che si occupa anche del sommo tra gli enti3. Ma, in effetti, la formula a un solo trattino, o peggio senza alcun trattino (“ontoteologia”) sembra segnalare una confluenza totale dell’ontologia nella teologia. La vera storia, come spiega Enrico Berti nel capitolo che apre il nostro volume, è diversa. A un certo punto, in conseguenza dell’elleni3

Anche se poi, come vedremo tra pochissimo, qualcuno potrebbe avere ragione di asserire che qui abbiamo a che fare con una metafisica, visto che il sommo tra gli enti è già una specificazione del genere “ente” in generale.

smo, si ha, nell’ambiente alessandrino in cui maturò nel primo secolo avanti Cristo la traduzione greca della Bibbia, un incontro fra l’essere greco e il Dio ebraico, creatore, e rivelatosi con una sintassi sorprendente: “Io sono Colui che è”. Sembra un’affermazione iper-ontologica, anzi, iperbolica tout court, comportando l’idea che Dio, rivolgendosi da un roveto ardente a un patriarca con scarsissimi interessi teoretici, si attribuisse una eccellenza d’essere. Si può tuttavia immaginare che più semplicemente Dio intendesse “io sono colui che sono”, “io sono qui”, “eccomi qui”. Come spesso accade, abbiamo a che fare con un malinteso. La vicenda non pare diversa da quella di Cook che chiede a un indigeno australiano come si chiami uno strano animale, quello risponde “non lo so”, che nella lingua dell’aborigeno è “kangaroo”, e Cook crede che si chiami “canguro”. Se questo fu l’equivoco australe, qui abbiamo a che fare con un equivoco boreale: alcuni filosofi di lingua greca pensarono che Dio si fosse rivelato ad Abramo come l’essere stesso, anche se la convergenza fra le due tradizioni non era ovvia, dal momento che il dio ebraico è creatore e i greci non possedevano una nozione di “creazione”, sicché si ricorse alla nozione più vicina, quella del demiurgo platonico che fabbrica il mondo applicando le idee alla materia. Su queste basi non solidissime, ma evidentemente corrispondendo a un bisogno culturalmente forte, si pone appunto la domanda: la metafisica tratta dell’ente in genere, o dell’ente sommo, di Dio? Malgrado le apparenze, tanto nell’antichità quanto nel Medio Evo la risposta prevalente è la prima, anche se è più facile la seconda, giacché, come ricordavo poco fa, la nozione di “ente sommo” risulta intuitivamente ben più chiara di quella di “ente in quanto tale”. Ma è in ogni caso in questo clima spirituale lungo secoli che si escogitano le riflessioni sull’Essere al di là dell’Intelletto, sull’Uno al di là dell’Essere, sull’Essere che si emana nel mondo, che hanno dato vita nel tempo a un vero e proprio genere filosofico. Non è il solo effetto. Personificandosi, l’essere incomincia a diventare molte cose: non solo Dio, ma anche l’Imperatore, il Padre ecc. E si preparano da lontanissimo le rivolte antiedipiche e gli indebolimenti dell’essere confusi con la morte di Dio e con la rivolta contro il padre. In seguito a queste circostanze, molti – e anzitutto tantissimi filosofi – hanno continuato a dire “ontologia” per “teologia” anche nel Novecento, con una favolosa incuranza di tutto che è il bello di questo mestiere. Quello dell’onto-teologia non è il solo equivoco della nostra storia. Ce ne è almeno un altro, e riguarda la metafisica. Come è noto, si tratta

di una parola che Aristotele non adoperò mai per designare quella che lui chiamava “filosofia prima”, e che si impose anche in questo caso solo nel primo secolo avanti Cristo, quando si trattava di riordinare gli scritti esoterici di Aristotele (gli appunti che adoperava a lezione). Questi rotoli che componevano diversi libri furono collocati dopo i libri sulla fisica, e di qui venne fuori il nome di metà ta physikà (biblia), dopo i libri sulla fisica, dunque “metafisica”. La circostanza di venire dopo i libri sulla fisica si trasformò nell’idea che la metafisica si occupasse di ciò che trascende la natura, e questo, in effetti, è ciò che “metafisica” significa nel linguaggio ordinario. La storia ha la potenza di un racconto di Borges: un equivoco sul significato di una classificazione dettata da esigenze biblioteconomiche comporta la nascita di un mondo, quello delle entità trascendenti la fisica, e di una disciplina che se ne occupa. D’altra parte, se la metafisica evoca nel linguaggio comune cose come l’anima, Dio, la vita dopo la morte, le fi losofie orientali e il New Age, l’ontologia non evoca niente del tutto. In questo libro, la genesi dell’ontologia viene affrontata analiticamente da Pietro Kobau, che ripercorre le vicende di questa specialità filosofica che nasce tra Sei e Settecento, insieme a tante altre cose (la fenomenologia, l’estetica, l’ermeneutica), ma che, diversamente da queste, muore subito dopo, per rinascere in modo imprevisto. La nuova scienza si occupa dei concetti sommamente astratti, ed è per questo che la parola “ontologia” appare, all’inizio del Seicento, sempre con riferimento all’astrazione. Ritroveremo questa fisionomia negli scolastici tedeschi del Settecento, e in Kant, che, nella prima parte della Critica della ragion pura, si occupa proprio di questi “predicati astratti e generali delle cose”, tranne che nella sua filosofia trascendentale i predicati non riguardano le cose, bensì il pensiero. È qui che si origina la distinzione, difesa da molti autorevoli fi losofi contemporanei (compresi alcuni contributori del presente volume, come Achille Varzi), tra l’ontologia come dottrina di ciò che c’è, e la metafisica come determinazione di che cos’è quello che c’è, o tra l’ontologia come dottrina che si riferisce a proposizioni non contingenti e la metafisica come dottrina che si riferisce a proposizioni che comportano elementi empirici. Personalmente, pur essendo fautore di una distinzione tra ontologia ed epistemologia (come vedremo tra un istante) ossia di una differenziazione tra essere e sapere, ho qualche difficoltà a sottoscrivere la partizione ontologia/metafisica, non essendo chiaro come si possa rispondere alla domanda se ci sia qualcosa

senza anche dire che cos’è quella cosa che c’è o non c’è. Insomma, per dire se esistono gli unicorni bisogna sapere che cosa sono, altrimenti la domanda “esistono gli unicorni?” risulterebbe indistinguibile dalla domanda “esistono le mucche?”. Proprio considerando questa circostanza credo che ci sia un vantaggio oggettivo nel definire l’ontologia anzitutto in rapporto con l’epistemologia. Muovendo da qui, credo, si potrà inoltre trovare la ragione teorica di quel fenomeno che abbiamo esaminato sin qui in termini di storia e di cronaca, il discredito postmoderno della realtà, nato da una confusione tra ontologia ed epistemologia. E si capirà anche, mi auguro, perché l’ontologia sia il migliore candidato per rimediare a questo stato di cose.

0.4. Ontologia ed epistemologia Nella scienza greca, che è immutabile, l’ontologia è la stessa cosa che l’epistemologia. Ma le cose cambiano. Noi sappiamo che la scienza oggi, la nostra, è una delle cose più mutevoli che ci siano. Ed è per questo che si tratta di separare l’ontologia dall’epistemologia. Grosso modo, la distinzione funziona così: da una parte, abbiamo l’ontologia, quello che c’è, e che non dipende dai nostri schemi concettuali, per esempio l’acqua che c’è nel mare, nel rubinetto, nel bicchiere; d’altra parte, abbiamo l’epistemologia, ossia per l’appunto quello che sappiamo su quello che c’è, e che dipende dai nostri schemi concettuali (H 2O, delibere del Tar, nouvelle cuisine). Ovviamente, questa distinzione è solo tendenziale. Nell’esperienza, l’essere e il sapere sono inestricabilmente connessi, e il sapere si dice in molti modi, visto che può indicare tanto il senso comune, quanto la storia, o la tradizione, o le punte più avanzate della ricerca scientifica. Tuttavia, è importante essere consapevoli del fatto che c’è sempre, in ogni esperienza, qualcosa che ha a che fare con l’essere e qualcosa che ha a che fare con il sapere, e che le due sfere non si identificano. Il vantaggio principale di questa distinzione sta a mio avviso nel segnalare la differenza tra il mondo e gli schemi concettuali con cui ci riferiamo al mondo, e nel suggerire che in moltissimi casi la condivisione del mondo dipende dalle caratteristiche degli oggetti, non dalla condivisione degli schemi concettuali. In effetti, su uno stesso prato può strisciare una lumaca, camminare un cane, posso passeggiarci io, che so pochissimo di piante, può passarci un giardiniere, che se ne in-

tende, oppure un botanico. Ecco, suggerirei di considerare che il solo a possedere scienza, ad adoperare in senso proprio epistemologia e schemi concettuali per rapportarsi al prato è il botanico. Il giardiniere può benissimo disporre soltanto delle regole pratiche, cioè può agire senza conoscere (o credere di conoscere) i principi di quello che fa, e io, il cane e la lumaca passiamo sul prato con esperienze diverse (la lumaca non vede, il cane vede in bianco e nero, io vedo a colori e posso anche pensare fra me e me “ecco un quadrifoglio!”), ma senza avere scienza. L’esercizio deliberato di linguaggio e di schemi concettuali, la sfera dell’attività, riguarda solo una parte minima di tutti questi passanti sul prato, e si tenga presente che anche il botanico, se vuole che i suoi schemi concettuali siano veridici, deve appoggiarsi a qualcosa che concettuale non è, ossia la visione che condivide quantomeno con me e con il giardiniere. Per il resto vale quello che in un libro di qualche anno fa, Il mondo esterno, ho chiamato “argomento della ciabatta”: un uomo, un cane, un verme, un filo d’edera e persino un’altra ciabatta condividono pezzi importanti dell’incontro con una ciabatta, che rimane la stessa quali che siano gli schemi concettuali e gli organi di senso che si rapportano ad essa, e persino se (come nel caso dell’incontro fra due ciabatte) non ci sono né schemi concettuali né organi di senso. È proprio su questa base che si può trovare il modo di costruire una teoria dell’esperienza, ossia di ciò che accomuna, in un unico mondo, esseri con dotazioni intellettive e percettive così diverse. Tornerò su questo punto nel prossimo paragrafo; ora è necessario piuttosto illustrare ciò che viceversa è avvenuto, e cioè il collasso tra ontologia ed epistemologia caratteristico della fi losofia degli ultimi due secoli, che sta alla base della situazione di irrealismo postmoderno che ho descritto all’inizio, e che propongo di chiamare “fallacia trascendentale”. Di che si tratta? Mi piacerebbe presentarla come una sorta di corrispettivo dell’“oblio dell’essere” di cui ha tanto scritto Heidegger. Per lui, il colpevole era Platone, e poi tutti i suoi eredi, rei di aver confuso l’essere con l’ente, cioè (ricordavo poco fa) di aver pensato alle cose (gli enti, gli oggetti) e non alla non-cosa non oggettivabile, trascendente, inafferrabile se non con speciali esercizi mistici e (aggiungo io) incredibile che le rende possibili, l’Essere, appunto. A mio parere, invece, il colpevole è Kant, e il reato è più semplice, consistendo per l’appunto nella confusione tra ciò che sappiamo delle cose e il fatto che le cose ci siano. Una confusione molto naturale, del resto, che si intrufola nella esperienza più comune, per esempio quando, com-

mettendo ciò che gli psicologi chiamano “errore dello stimolo”, sosteniamo che a occhi chiusi non vediamo niente, senza considerare che invece qualcosa (fosfeni o vaghi lucori) vediamo, ma decidiamo che non conta perché – dal momento che alle elementari ci hanno insegnato che l’occhio è come una macchina fotografica – stabiliamo che se il diaframma è chiuso non si vede niente. Questo, dicevo, è molto naturale, forse anche più naturale della tendenza metafisica che Kant attribuisce all’uomo. Il problema, però, è che molti filosofi, e più di tutti Kant, hanno conferito a questa specie di illusione ottica il crisma della verità concettuale. Il nocciolo della fallacia consiste, infatti, nel pensare che la scienza costituisca un’esperienza più raffinata, e che l’esperienza sia una scienza in potenza. Si tratta di un assunto molto classico e, ripeto, perfettamente naturale, visto che a noi pare del tutto ovvio che la scienza entri nella nostra vita, e che d’altra parte tragga origine dalla nostra vita – tipicamente, da un accumulo di esperienze organizzate, d’accordo con una immagine del sapere che è già aristotelica. Inoltre, alla base della fallacia c’è sicuramente la circostanza che una scienza relativamente semplice appare vicina all’esperienza, per distaccarsene quanto più diviene sofisticata: la scienza aristotelica è in larga misura una fenomenologia dell’esperienza, quella newtoniana se ne discosta un poco, quella einsteiniana la contraddice in molti modi. Come spesso accade alle fallacie, quella di Kant era dettata dalle migliori intenzioni. Kant muoveva dalla constatazione che il terreno dell’esperienza (il solo che potesse fornire delle conoscenze ampliative) stava sfaldandosi sotto i colpi della critica empiristica: tutte le nostre conoscenze provengono da generalizzazioni induttive dell’esperienza, che però sono fragili, giacché l’esperienza non possiede alcuna necessità assoluta. Presto o tardi, le lampadine si fulminano e la legge “premi l’interruttore, si accende la luce” va incontro a uno scacco. Che fare? Kant ritenne di salvare la conoscenza facendo dipendere l’esperienza da una serie di categorie a priori e di schemi concettuali. Non ripeto un ragionamento che ho sviluppato nel capitolo su Kant e vengo al risultato, ossia appunto alla fallacia, che consiste nel totale assorbimento dell’ontologia nell’epistemologia, secondo una strategia in tre mosse. Primo, si assume che quello che c’è (ontologia) è determinato da quello che sappiamo (epistemologia): “le intuizioni senza concetto sono cieche”. Secondo, si asserisce che quello che sappiamo è determinato dai nostri schemi concettuali: “l’io penso deve accom-

pagnare tutte le mie rappresentazioni”. Terzo (e si tratta di una mossa successiva a Kant, e databile pressappoco con Nietzsche) si scopre, o si crede di scoprire, che questi schemi a loro volta sono determinati da altri schemi (tradizioni, testi, usi e costumi), con un regresso all’infinito il cui risultato è: “non ci sono fatti, solo intepretazioni”. Diversamente dalle bugie, le fallacie hanno le gambe lunghe e possono tener banco per decenni, con risultati non entusiasmanti, perché, partiti con l’idea di salvare l’esperienza, si arriva a un mondo vagamente fantastico. Così, la fallacia fa vacillare la certezza primitiva e irriflessa con cui ci rapportiamo al mondo (sono sicuro, per esempio, che il mondo continua alle mie spalle) senza offrire in cambio una diversa certezza. Ma sbagliando si impara, o altri imparano.

0.5. Teorie dell’esperienza Così, dopo tante critiche, veniamo alla pars construens. Riconoscere la fallacia trascendentale è utile almeno in due sensi, quello di un uso dell’ontologia come base per la formulazione di teorie dell’esperienza, e quello di un’ontologia finalizzata alla costituzione di classificazioni ben formate. Entrambe queste funzioni sono bene attestate storicamente (e il libro ne dà ampiamente conto), sicché vorrei limitarmi a fornire alcune indicazioni generali, capaci però di rendere meno evasivo il riferimento al realismo come tratto proprio del ritorno dell’ontologia con cui ho aperto questa introduzione. Per quanto riguarda il problema della teoria dell’esperienza, il primo gesto è riconoscere quei caratteri nativi dell’esperienza che sono irriducibili alla scienza, e in particolare il fatto di essere inemendabile e in larga parte impermeabile all’azione degli schemi concettuali. Questa circostanza, ben lungi dal depotenziare la scienza, ne costituisce il vero fondamento: si ha scienza quando si ha scienza di qualcosa, e non autoreferenza di schemi concettuali. D’altra parte, riconoscere un’esperienza indipendente dalla scienza ci permette anche di risolvere il problema, altrimenti insolubile, del fatto che possiamo avere un rapporto soddisfacente con il mondo anche con conoscenze molto modeste, o addirittura sbagliate. In questo quadro, proporrei di riconoscere, con una struttura ispirata all’ontologia di Hartmann, quattro strati. Il primo strato è la definizione dello sfondo non teorico della teoria. Che si tratti della base non teorica che viene presupposta dalle nostre

azioni o dai nostri giudizi (per esempio, che il mondo continua anche al di là della porta di casa) o di un mondo “precategoriale” nel senso che non è ancora segmentato dalle categorie di cui ci serviamo per conoscere, abbiamo a che fare con un elemento onnipresente nella nostra esperienza, ma che costituisce anche il fondamento per la teoria e per la scienza, che – lo ricordavo un momento fa – non avrebbe senso se non potesse riferirsi a uno strato reale e pre-teorico. Anche in questo caso (e lo si potrà vedere in particolare nel capitolo dedicato all’apriori materiale), il tema fenomenologico del mondo della vita sembra un buon ambito per definire uno strato di esperienza immune dalla scienza, anteriore o indipendente rispetto a essa. Il mondo della vita, vorrei suggerire, è l’erede di quella misteriosa “sinossi del senso” che Kant faceva precedere alle sintesi (attive) attraverso le quali il pensiero era chiamato a dare ordine alla realtà. Ora, il punto è proprio questo. Non solo la realtà è già molto ordinata per conto suo, ma soprattutto – ricorda Vincenzo Costa nel suo capitolo husserliano – si dà un’esperienza del mondo (kennenlernen) che è diversa dalla conoscenza del mondo (erkennen). Difficilmente diremmo che chi passeggia per strada pensando ai fatti suoi stia conoscendo qualcosa, ma altrettanto difficilmente negheremmo che la passeggiata sia un’esperienza. Insomma, l’esperienza non è l’antefatto della scienza, e anzi (di qui il rilievo che si è deciso di dare ai saperi ingenui nella nostra ricostruzione) può costituire qualcosa di impermeabile ad essa, proprio come le illusioni ottiche, che non vengono corrette dal riconoscimento della loro natura ingannevole. Il secondo strato di una dottrina dell’esperienza è una teoria della credenza. Uno dei problemi maggiori del collasso tra ontologia ed epistemologia è l’assunzione implicita che il sapere costituisca una condizione imprescindibile del nostro rapporto con il mondo, quando chiaramente non è così, se non altro perché se davvero il nostro comportamento mondano dovesse venire determinato dal nostro sapere non faremmo quasi nulla. Ora, la nostra vita non è permeata dal sapere, che non è ancora oggettivamente conseguito in molti ambiti, e che sebbene, in molti altri ambiti sia oggettivamente conseguito, lo è per i pochi specialisti che effettivamente ci hanno accesso. Specialisti che d’altra parte, nel novantanove per cento degli altri casi, sono dei perfetti profani, e che quindi si fanno guidare da credenze. Il credere, dunque, è imparentato con ciò che Leibniz chiamava “analogo della ragione”, ossia il fatto che generalmente gli uomini agiscono, esattamente come gli animali, con quella che è “un’ombra di ragionamento”,

alimentata da un misto di abitudini e opinioni, e non per scienza certa. Ci sono più cose fra la terra e il cielo che in tutte le nostre fi losofie, e avere per ognuna di queste cose un’opinione vera accompagnata da ragione (lo standard della conoscenza secondo Platone, e secondo la maggior parte dei filosofi dopo di lui) è impossibile; per questo entra in azione il credere, che tappa le falle lasciate aperte dal sapere e ci permette di tirare avanti, il più delle volte con perfetta soddisfazione nostra e altrui. Il credere appare così come l’attuazione del pensiero debole. Si tratta di un quasi-sapere superficiale ma utile, con questa caratteristica, però (che mancava nel pensiero debole), e cioè che vale solo fino a un certo punto, e che prima o poi bisogna fare i conti con il sapere vero e proprio, altrimenti ogni credenza appare giustificata, e a sua volta giustifica tutto. Il terzo strato di una teoria dell’esperienza è quello della descrizione. Si tratta di un progetto variamente perseguito nella filosofia del secolo scorso, dalla filosofia del linguaggio ordinario alla fenomenologia, dall’analitica dell’esistenza al progetto esplicito di una metafisica descrittiva. Quello che caratterizza tutti questi tentativi è l’idea che esista uno strato di esperienza non catturato in modo essenziale dalle spiegazioni della scienza, e che si coglie meglio attraverso delle descrizioni. La legittimità di una teoria descrittiva è però tutt’altro che ovvia, e l’ampia sezione di questo volume dedicata alla filosofia analitica è caratterizzata da questa tensione. Ambiziose ricostruzioni scientifiche (spesso con basi pragmatistiche), o descrizioni e fenomenologie? A partire da questi confronti essenziali, che si consumano nella prima metà del secolo scorso, troviamo il panorama filosofico che sta alla base dell’ontologia contemporanea, vale a dire appunto la contrapposizione fra una metafisica descrittiva e una metafisica prescrittiva, o revisionista, o (d’accordo con la proposta di Roberto Casati) “revisionaria”. Ora – ed esprimo anche qui un parere che so non essere condiviso da molti dei contributori al presente volume – pensare che le teorie scientifiche siano la migliore versione della realtà, che è per esempio il nocciolo della filosofia di Quine, appartiene probabilmente a un mondo che non è più il nostro. È probabile che Rorty avesse ragione quando affermava che l’epistemologia aveva fatto il suo tempo, non però nel senso di risolversi in una teoria della solidarietà e in una fuga inconcludente negli schemi concettuali, bensì in quello di ritrovare una ontologia sotto lo strato dell’epistemologia. E qui, per l’appunto, l’ideale di una metafisica descrittiva sembra conservare la sua validità.

Si potrebbe insomma applicare al mondo dell’esperienza ciò che Austin diceva del linguaggio ordinario: le parole del linguaggio ordinario sono spesso inappropriate, incoerenti, possono accreditare entità vaghe o inesistenti, però sono le prime parole, il primo livello su cui, per continuità o più spesso per negazione, si costruisce tutto il resto. Il quarto strato di una teoria dell’esperienza è la tassonomia. Descrivere ha per fine fornire dei criteri di classificazione, e queste classificazioni devono essere in grado di render conto non solo del mondo fisico e di quello percettivo, ma anche di quello ideale e soprattutto di quello sociale e storico, tradizionalmente il più riottoso a farsi catturare dalla scienza. Questa fabbricazione di cataloghi è a mio avviso il massimo servigio che l’ontologia può fornire al mondo sociale, e non mi sembra una cosa da poco. Dopotutto, con gradi diversi di approssimazione, le scienze dello spirito ottocentesche così come le scienze umane del secolo scorso, in particolare progetti come quello della semiotica, miravano per l’appunto a rendere utile la filosofia nella organizzazione del mondo sociale.

0.6. Cataloghi del mondo Avviamoci alla conclusione. Nel mondo sociale il principio frustra fit per plura quod fieri potest per paucora si rivela palesemente inadeguato. Il fatto che ci siano classificazioni ridondanti, o che in Italia ci siano troppe leggi, non va confuso con un argomento a favore dell’uso indiscriminato del rasoio di Ockham, ma piuttosto con un motivo per fabbricare delle classificazioni meglio formate e più razionali, che si impegnino comunque nella gestione di una molteplicità di enti. Il motivo è abbastanza intuitivo: una classificazione che considerasse come esistenti solo gli oggetti fisici avrebbe qualche difficoltà a rendere conto dei confini artificiali tra gli stati, una classificazione che contemplasse solo la distinzione tra vero e falso non saprebbe rendere conto della finzione, dell’arte, dell’ironia, che sono elementi con cui si ha quotidianamente a che fare nel mondo umano. Questo senza considerare che nel mondo sociale la reificazione è un elemento indispensabile per dare consistenza ad atti e intenzioni da cui dipende il buon funzionamento della nostra vita di relazione. Banalmente, se non si reificasse la promessa, considerandola come un ente che si aggiunge nel mondo, e non semplicemente come una manifestazione

della volontà, non si saprebbe come render conto del fatto che non mantenere una promessa è una cosa più grave che decidere di non fare una passeggiata solitaria perché ce ne è passata la voglia. È in questo spirito che ho ritenuto di proporre la distinzione tra oggetti fisici, ideali e sociali, che – come cerco di illustrare a suo luogo – sembra capace di correggere molti degli equivoci postmodernisti senza cedere a un riduzionismo che si rivelerebbe incapace di rendere conto del mondo in cui viviamo. In particolare, se non è vero che nel caso degli oggetti fisici e ideali l’ontologia è subordinata all’epistemologia, questo è completamente vero nel caso degli oggetti sociali. In effetti, in ambiti come le norme, i titoli, le relazioni sociali, l’ontologia è sempre subordinata a una epistemologia (il che non significa, ovviamente, a una conoscenza completa). In questo senso, si può dire degli oggetti sociali ciò c he non si può dire degli oggetti fisici e ideali, ossia che esistono perché noi pensiamo che esistano (senza per questo essere soggettivi: se non ne siete convinti, provate ad autoridurvi il prezzo del caffè). Così, molte asserzioni kantiane, irricevibili nel campo degli oggetti fisici, sono perfettamente ricevibili nel campo degli oggetti sociali. Si potrebbe addirittura provare a riscrivere la Critica della ragion pura riferendosi agli oggetti sociali invece che agli oggetti naturali. Si scoprirebbe che affermazioni ardue e indimostrabili come “L’io penso deve sempre accompagnare le mie rappresentazioni” sono perfettamente contemplate nei codici sociali, per esempio quando la preterintenzionalità costituisce una circostanza attenuante, questo vale complessivamente per le scuse: “Scusa, l’ho fatto senza pensarci” vuol dire “Scusami perché mentre facevo l’azione x l’io penso non accompagnava le mie rappresentazioni”. Lo stesso vale per quelle affermazioni così complicate e implausibili nel mondo fisico come “Le intuizioni senza concetto sono cieche”: se si può tranquillamente sbattere in uno sgabello e provare dolore anche in assenza di qualsiasi concetto, non c’è dubbio che in assenza di concetti non potremo mai capire di trovarci a lezione, o a una esecuzione, o a una incoronazione. In effetti, il detto di Kant, così difficile da applicare al mondo naturale, si illustra bene pensando a un castoro che va a un concerto, a un uomo del Settecento con in mano un biglietto della metropolitana, a ognuno di noi quando si trova, a una cena, una posata misteriosa (un evisceratore di triglie? Un tritagranchi? Un coltellino per sbucciare il mango?). Ecco il punto. La tesi di Berkeley secondo cui un albero cadendo senza osservatori non fa rumore è solo parzialmente vera, giacché

l’albero produce in ogni caso quelle vibrazioni che, se ci fosse un osservatore, si tradurrebbero in un rumore. La tesi secondo cui un atto sociale di cui si è persa qualunque memoria o registrazione non esiste si dimostra invece pienamente vera; il che comprova quanto l’ontologia degli oggetti sociali sia dipendente dall’epistemologia. Sì, davvero nel mondo sociale le intuizioni senza concetto sono cieche, e questo è bene illustrato dall’immagine del maleducato come “elefante in un negozio di porcellane”. Il maleducato si muove nel mondo sociale con la stessa goffaggine con cui, nel mondo naturale, un animale grosso e inesperto si aggira tra oggetti delicati. Ma di qui a dire che Galileo e Bellarmino hanno la stessa probabilità di aver ragione, ne corre, perché loro parlano del mondo naturale, in cui l’epistemologia non è costitutiva dell’ontologia. Per molto tempo non ci si è pensato, e questo ha fatto danni. Quando un grande filosofo come Derrida ha detto che “nulla esiste fuori del testo” non avrebbe mai immaginato di fornire argomenti a un pontefice antirelativista. Avrebbe fatto meglio a dire che “nulla di sociale esiste fuori del testo”: sarebbe stato meno sexy, ma più vero e meno pericoloso.

0.7. Questo libro Due parole per chiudere, su questo volume4. La formulazione originaria del lavoro risale a quelli che con qualche enfasi si potrebbero chiamare “i primi anni del secolo”, quando, con il gruppo di lavoro che ha in larga misura scritto il libro, si affrontavano i problemi di definizione e applicazione dell’ontologia attraverso una serie di convegni 4

Fra i testi qui presentati, una versione lievemente differente del saggio di Enrico Berti era già apparsa nel volume di Berti In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Roma-Bari, Laterza, 2007, e viene ripubblicata per gentile concessione dell’autore e dell’editore. Il saggio di Barry Smith era già apparso in traduzione italiana, in una versione considerevolmente diversa, sul numero della rivista on line Networks dedicato all’ontologia (http://lgxserve.ciseca.uniba.it/lei/ai/networks/06), a cura di Margherita Benzi. La traduzione è di Carlo Penco, e viene ristampata per gentile concessione della curatrice e dell’autore. Infine, una versione più estesa del saggio di Pietro Kobau sull’ontologia dell’arte è uscita nel volume a cura di Paolo D’Angelo, Introduzione all’estetica analitica, Roma-Bari, Laterza, 2008, e anche in questo caso viene pubblicata per gentile concessione dell’autore e dell’editore.

promossi dal Centro Interuniversitario di Ontologia teorica e applicata e dal Laboratorio di ontologia della Università di Torino. L’esigenza di uno studio complessivo si era concretizzata con il progetto Canone Ontologico. Un approccio integrativo alla organizzazione della conoscenza, PRIN (Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale) 2004-2006, di cui questo volume è la realizzazione. Ora, è sconfortante pensare che un volume di questa estensione, e la cui elaborazione ha preso così tanto tempo, avvalendosi del contributo di tante persone sia pieno di omissioni, e possa dare enormi soddisfazioni nel gioco del chi c’è e chi non c’è; eppure è così. Anche senza contare grandissimi come Cartesio, Spinoza, Leibniz, che sono all’orizzonte anche se non hanno tematizzato direttamente l’ontologia, mancano filosofi come Rosmini o Herbart, Sartre o Lévinas, Lukács o Natorp, per non parlare poi di quello che è forse il massimo ontologo del Novecento, Nicolai Hartmann, e che ha, come ho ricordato poco fa, ispirato l’organizzazione dell’esperienza per strati che ho suggerito in questa introduzione. Come si spiegano tante omissioni? Per un verso, con la circostanza che la parte storica del volume è costituita dalle prime tre sezioni, mentre le ultime due, che corrispondono però, quantitativamente, a quasi metà del volume, sono destinate allo scenario contemporaneo e alle questioni aperte, nelle quali argomenti come gli universali e i tropi, il tridimensionalismo e il quadridimensionalismo, l’impegno ontologico o la vaghezza occupano uno spazio molto maggiore, come è naturale che sia, di grandi autori del passato. Per altro verso, anche la parte storiografica è molto selettiva. La prima sezione è orientata a illustrare le alternative tra ontologia e teologia, ontologia e metafisica, ontologia ed epistemologia, che ho brevemente discusso in questa introduzione, mentre le seconde due seguono una divaricazione molto netta tra la fenomenologia e la filosofia analitica, che rende conto, a mio parere, dello status quaestionis dell’ontologia contemporanea, anche se comporta delle esclusioni onerose, e parzialmente compensate dal fatto che molti degli autori non compresi erano stati già affrontati in precedenti ricerche sviluppate dal Laboratorio di ontologia5. 5

Rinvio in particolare, oltre al breve volume antologico Ontologia (Napoli, Guida, 2003), ai seguenti fascicoli della “Rivista di Estetica”: Oggetti fiat, a cura di Luca Morena e Achille Varzi, n. 20 (2/2002); Storie dell’ontologia, a cura di Tiziana Andina e Carola Barbero, n. 22 (1/2003); Ontologia dell’arte, a cura

Ciò detto, le lacune restano; per non parlare, poi, di tutti gli errori di cui non abbiamo nemmeno consapevolezza. In teoria, non c’è dubbio, potevamo far meglio, e soprattutto potevo far meglio io, come curatore che ha la responsabilità dell’insieme. Ma, appunto, in teoria. Però, come è noto, in teoria fra teoria e pratica non c’è differenza, ma in pratica sì.

di Pietro Kobau, n. 23 (2/2003); Ontologie analitiche, a cura di Massimiliano Carrara e Pierdaniele Giaretta, n. 26 (2/2004); Il pregiudizio a favore del reale, a cura di Carola Barbero e Venanzio Raspa, n. 30 (3/2005); Semantica e ontologia, a cura di Luca Morena e Giuliano Torrengo, n. 32 (2/2006); Nuove ontologie, a cura di Luca Angelone, n. 39 (3/2008).

1. ORIGINI E SVILUPPO

1.1. ESSERE di Enrico Berti

1.1.1. La questione dell’essere La filosofia greca è stata la prima forma di cultura che ha esplicitamente tematizzato l’essere, inaugurando quel tipo di riflessione che poi, in età moderna, è stato chiamato “ontologia”, cioè studio sull’essere1. La prima tematizzazione esplicita dell’essere, nella fi losofia greca, si è avuta a opera di Parmenide (515-450 a.C.), per il quale il pensare e il dire sono necessariamente pensare e dire l’essere. In Parmenide, tuttavia, non si può parlare di una “questione dell’essere”, perché l’essere non costituisce un problema, ma è l’unica possibilità che si offre al pensiero e al discorso umano; né, per la stessa ragione, si può parlare di “regioni dell’essere”, perché l’essere è l’unica realtà esistente, omogenea, indivisa, tutta uguale in ogni sua parte. La questione dell’essere è stata formulata esplicitamente da Aristotele (384/383-322 a.C.) nei seguenti termini: “Ciò che, sia in antico che oggi, è sempre ricercato e sempre discusso, ossia che cos’è l’essere”2. Con tale formulazione Aristotele ha riconosciuto che la medesima questione si era posta in antico e che continuava a porsi anche al tempo suo. Anche Parmenide, infatti, aveva implicitamente risposto a tale questione, indicando, come abbiamo detto, un’unica realtà, l’essere stesso. A seconda che tale questione abbia ricevuto una risposta semplice, cioè univoca, oppure una risposta complessa, cioè articolata, l’essere è stato considerato una realtà unica o molteplice, omogenea o divisa in una pluralità di regioni. I filosofi greci immediatamente posteriori a Parmenide e anteriori a Platone (427-347 a.C.) hanno condiviso la concezione parmenidea 1 2

Cfr. infra 1.3. Aristotele, Met. VII 1, 1028 b 2-4.

dell’essere, sottolineando l’unità e l’immutabilità di questo (Zenone, 495-430 a.C.) o attribuendogli un carattere materiale (Melisso, 490-430 a.C.); oppure hanno infranto l’unità dell’essere, conservando tuttavia l’omogeneità e l’immutabilità delle sue parti, fossero queste i quattro elementi (Empedocle, 492-430 a.C.), i semi di tutte le cose (Anassagora, 500/496-428 a.C.) o gli atomi (Leucippo, 450 ca.-370 ca. a.C., e Democrito, 460-360 a.C.). La concezione di Parmenide è stata poi capovolta, e quindi rifiutata, ma conservata intatta in tale rifiuto, da Gorgia (485/483-375 ca. a.C.), il quale ha negato che il pensiero e il discorso abbiano per oggetto l’essere, e ha fatto del logos una realtà assoluta, capace di produrre un’apparenza di essere, e quindi di prenderne il posto. Platone è il primo che ha distinto più regioni dell’essere, o meglio ha distinto un essere in senso pieno, completo, assoluto, e un essere, per così dire, dimezzato, cioè a metà strada tra l’essere pieno e il nulla; più in generale egli ha introdotto nell’essere una distinzione di gradi, cioè di intensità, di valore, di perfezione, distribuendo le regioni dell’essere in una gerarchia di piani digradanti tra l’essere assoluto e il nulla. Aristotele ha fatto un altro tipo di operazione, cioè ha distinto non diversi gradi, ma diversi sensi dell’essere, e corrispondentemente diverse regioni, costituite da generi di essere diversi l’uno dall’altro, anche se pur sempre dipendenti l’uno dall’altro. Dopo Aristotele, tuttavia, e con l’eccezione degli Stoici, si è avuto nella fi losofia greca sostanzialmente un ritorno alla concezione dell’essere di Platone, la quale, attraverso il medioplatonismo e il neoplatonismo, si è imposta ai filosofi delle grandi religioni monoteistiche, cioè il giudaismo (Filone), il cristianesimo (Agostino e poi la Scolastica medioevale) e l’islamismo (la fi losofia medioevale araba).

1.1.2. La “scoperta” dell’essere e la sua negazione: Parmenide e Gorgia La prima tematizzazione esplicita dell’essere, e perciò la sua “scoperta”, è avvenuta, come abbiamo detto, a opera di Parmenide. Questi ha presentato, infatti, come rivelazione di una “dea”, da ritenersi quindi espressione della verità, l’affermazione che, in linea di principio, due sole “vie”, cioè due possibilità, sarebbero aperte al pensiero: l’una consistente nel pensare “che è (estin) e che non è possibile che non sia”, l’altra consistente nel pensare “che non è (ouk estin) e che è necessario

che non sia”. Ma subito dopo ha aggiunto, sempre per bocca della dea, che la prima via è quella conforme a verità, della quale dunque si deve essere persuasi, mentre la seconda è impercorribile, perché “il non essere (to mê eon)” non può essere né pensato né detto3. Probabilmente, identificando la prima via, cioè la via della verità, col pensare “che è”, Parmenide si riferiva a tutti i pensieri espressi da affermazioni vere e aventi il verbo essere in posizione tanto di copula quanto di predicato. Sarebbe anacronistico, infatti, supporre che egli avesse già chiara la distinzione tra copula e predicato, o quella tra predicato di tipo semplicemente attributivo, predicato di tipo esistenziale e predicato di tipo veritativo. Inoltre, come si desume dal motivo per cui giudicava impercorribile la seconda via, Parmenide riteneva che tali pensieri, o affermazioni, equivalessero a pensare e, rispettivamente, dire “l’essere (to eon)”. In tal modo la copula o il predicato “è” venivano, per così dire, trasformati nell’indicazione di un oggetto esistente in sé, ovvero di una realtà oggettiva, la quale diventava a sua volta soggetto del verbo essere. Ciò risulta chiaramente da un frammento successivo, dove Parmenide afferma: “È necessario dire questo e pensare questo: che l’essere è (eon emmenai); poiché è possibile [solo] che [l’essere] sia, mentre non è possibile che il niente [sia]”4. Qui il pensare e dire “che è” diventa pensare e dire “che l’essere è”, dove l’“essere”, o “ente”, è ciò che è, cioè è il soggetto di cui viene affermato, come predicato, l’essere inteso come verbo. Il motivo per cui si deve pensare e dire che l’essere è, è l’impossibilità di pensare e dire il nulla, ovvero il non-ente, anzi di pensare e dire che il nulla è. Ciò è ribadito da un altro frammento, famoso perché citato alla lettera tanto da Platone quanto da Aristotele, il quale recita: “Infatti mai non domerai questo, che i non-enti siano”5. Qui non è chiaro che cosa significhi “domare”: può significare tanto “imporre con la forza” quanto “rendere accettabile”. In ogni caso il significato complessivo della frase è l’impossibilità che i non-enti siano. Se poi ci si chiede per quale ragione Parmenide avesse individuato nel verbo “essere” l’unico verbo capace di esprimere la verità, e quindi nell’essere l’unico oggetto possibile del pensiero, si può forse rispon3 4 5

Parmenide, B 2. Parmenide, B 6. Parmenide, B 7.

dere che questo verbo è l’unico, nella lingua greca, capace di esprimere, come predicato o come copula, tutte le verità. Dirà infatti più tardi Aristotele che espressioni come “uomo cammina” o “uomo taglia” sono perfettamente equivalenti a espressioni come, rispettivamente, “uomo è camminante” e “uomo è tagliante”6. Questo fatto, cioè la funzione, per così dire, di vicario universale di tutti i verbi, propria del verbo “essere”, doveva essere nota già a Parmenide. Ciò che colpisce, tuttavia, nella dottrina di Parmenide non è solo questa scoperta, cioè la scoperta che il pensare vero e il dire vero sono sempre un pensare e un dire l’essere, ma anche l’affermazione, a essa immediatamente connessa, che la verità del pensare e del dire è sempre e soltanto una verità necessaria, cioè che il pensare e il dire l’essere non solo affermano come stanno le cose, ma anche affermano che esse non possono stare diversamente. Abbiamo visto, infatti, che per il fi losofo di Elea la prima via, l’unica percorribile dal pensiero e dotata di verità, consiste non solo nel pensare “che è”, ma anche nel pensare “che non è possibile che non sia”. Ora, se tale pensare si esprime nella formula “l’essere è” (fr. 6 già citato), tale formula significa, in base alla precedente dichiarazione, anche che “l’essere non può non essere”, cioè è necessariamente. Insomma Parmenide, nel momento in cui scopre l’essere, lo concepisce come un essere necessario, sia che si tratti dell’essere copulativo sia che si tratti di quello esistenziale o veritativo. Non è chiaro quale sia la ragione di questa concezione, cioè che cosa abbia indotto Parmenide a pensare che l’essere, ossia tutto ciò che è, sia necessario, ossia non possa non essere. Qualcuno ha ritenuto che ciò dipenda dal fatto che il verbo essere in greco, come i verbi equivalenti nelle lingue indoeuropee, possiede un significato – nato forse da una contaminazione delle sue diverse radici – che si lascia sintetizzare intorno all’idea di “presenza perdurante”, o di “permanenza”, per cui si oppone al divenire7. È possibile che, parlando di “verità”, e contrapponendo la verità all’opinione, Parmenide pensasse a quel tipo di verità che è proprio della scienza (epistêmê), intesa in senso rigoroso, cioè come conoscenza di verità necessarie. A ciò potrebbe averlo indotto l’esempio dell’unica scienza forse pienamente sviluppata nella cultura del suo tempo, cioè la geometria. 6 7

Aristotele, Met. V 7, 1017 a 27-30. Aubenque 1987, II: 132-133.

In ogni caso questa concezione ha delle conseguenze molto importanti, che fanno della filosofia di Parmenide una filosofia del tutto particolare e diversa da ogni altra. L’essere di cui egli parla, infatti, è un essere eterno, di cui non si può dire né che era né che sarà, ma solo che “è ora”, cioè in un presente intemporale; esso, inoltre, non si genera né si corrompe, perché dovrebbe generarsi dal non essere o corrompersi nel non essere, il quale invece non è. Tale essere inoltre è “uno”, “continuo”, cioè senza intervalli, “omogeneo”, cioè tutto uguale, “compatto”, “immobile”, “permanente”, cioè sempre uguale a sé stesso, “finito”, nel senso di perfetto, cioè non mancante di nulla, “simile alla massa di una sfera ben rotonda”8. Si comprende come, a causa di queste caratteristiche, l’essere di Parmenide sia stato considerato una specie di Dio, unico ed eterno, simile a quello delle religioni monoteistiche (questo del resto era il pensiero di Senofane, 570-475 a.C., maestro o amico di Parmenide), con la differenza però che accanto a questo Dio, per Parmenide, non esiste niente altro, e quindi in un certo senso tutto è Dio. Il mondo, infatti, della molteplicità e del divenire, di cui abbiamo esperienza attraverso i sensi, per Parmenide è oggetto non di vera conoscenza, ma soltanto di opinione (doxa) del tutto priva di verità, cioè non possiede alcuna vera realtà, ma è soltanto apparenza. Di tale apparenza Parmenide cerca di rendere ragione, elaborandone, nella seconda parte del suo poema, una complessa spiegazione che la riconduce a due principi opposti, la luce e le tenebre. Tra i discepoli di Parmenide qualcuno, come Zenone, tenterà di dimostrare, mediante i famosi argomenti di Achille e la tartaruga, della freccia, dello stadio ecc., che il movimento non esiste e che non esiste nemmeno la molteplicità, perciò tutte le cose si riducono a una sola, l’essere immobile e unico; qualcun altro, come Melisso, interpreterà l’eternità dell’essere di Parmenide come durata in un tempo infinito e vi aggiungerà l’infinità nello spazio, rivelando in tal modo la tendenza a considerare tale essere come materiale. Perciò Aristotele dirà che, mentre l’essere di Parmenide è “uno secondo la nozione”, cioè ha un unico significato, ma non è materiale, quello di Melisso è “uno secondo la materia”, cioè è un’unica massa di materia9. In tutte queste dottrine non è il caso di parlare di “regioni” dell’essere e, se si deve 8 9

Parmenide, B 8. Aristotele, Met. I 5, 986 b 18-21.

cercare una risposta alla domanda, che sarà formulata da Aristotele, “che cos’è l’essere?”, tale risposta non può che essere: “l’essere è una cosa sola, cioè l’essere stesso”. Questa concezione dell’essere come unico, omogeneo e tutto uguale, che si accompagna in Parmenide alla scoperta di esso, è anche ciò che ha reso possibile, nell’ambito della stessa fi losofia precedente a Platone, la negazione più radicale dell’essere, della sua pensabilità e della sua dicibilità, che si sia mai avuta nella storia della fi losofia occidentale, cioè quello che potremmo chiamare il “nichilismo” di Gorgia. Questi, in un trattato che già nel titolo si contrapponeva a quelli dei filosofi eleati, cioè Sul non essere, ovvero sulla natura, sostenne appunto tre famose tesi, che sono il contrario esatto di quelle sostenute da Parmenide, vale a dire: 1) l’essere non è; 2) se anche fosse, non potrebbe essere pensato; 3) se anche potesse essere pensato, non potrebbe essere detto, cioè comunicato. Come si desume dal trattato attribuito ad Aristotele De Melisso, Xenophane et Gorgia, che è la più antica testimonianza relativa al suo pensiero, Gorgia sosteneva la prima tesi, cioè che l’essere non è, con vari argomenti, desunti per lo più dai fi losofi precedenti e consistenti nel mostrare le contraddizioni tra le concezioni dell’essere da questi professate. Ma prima di addurre questi argomenti Gorgia aveva formulato una propria dimostrazione di tale tesi, la quale suonava così: “Se il non essere è non essere, il non essere non sarà nulla di meno dell’essere. Il non essere, infatti, è non essere, così come l’essere è essere, sicché le cose non saranno per nulla essere più che non essere”10. Da ciò Gorgia traeva la conseguenza che, se il non essere non è nulla meno dell’essere, allora esso è allo stesso titolo per cui è l’essere; ma, poiché l’essere è l’opposto del non essere, se il non essere è, allora l’essere non è, come volevasi dimostrare. Qui, come si vede, Gorgia argomenta partendo esattamente dalle premesse poste da Parmenide, ossia che l’essere è essere, che il non essere è non essere, e che essere e non essere sono tra loro opposti. Il suo argomento consiste nel rilevare che la semplice identità con sé stesso non conferisce all’essere nessun primato rispetto al non essere, perché essa vale anche per quest’ultimo, e dunque consente in definitiva l’identificazione tra i due opposti, ossia proprio ciò che Parmenide voleva evitare. È singolare la coincidenza tra questa argomen10

Gorgia, A 3 = De M., X. et G. 979 a 25-28.

tazione e quella messa in atto da Hegel all’inizio della sua Logica, dove l’essere e il non essere vengono ugualmente identificati. Hegel tuttavia indica anche la ragione di questa identificazione, cioè l’assoluta indeterminatezza del concetto di essere, che equivale all’assoluta indistinzione dei suoi significati. In Parmenide infatti, come in Gorgia, non esiste alcuna distinzione tra i diversi significati che possono appartenere all’essere e al non essere: ciò consente a Gorgia di confondere il significato copulativo con quello esistenziale, cioè di concludere che, se il non essere è non essere, esso è qualcosa, dunque esiste. Tale confusione sarà smascherata solo da Aristotele, grazie proprio alla sua teoria della distinzione tra i significati dell’essere. Questi infatti osserverà, con probabile allusione a Gorgia: “L’essere qualcosa (to einai ti) e l’essere [puro e semplice] non sono lo stesso, poiché non è vero che, se il non essere è qualcosa, esso sia anche semplicemente (kai estin haplôs)”11. La seconda tesi di Gorgia, cioè che l’essere non può essere pensato, veniva poi da lui dimostrata nel modo seguente: ciò che non è, può essere pensato, come ad esempio Scilla o la Chimera, che non sono e tuttavia sono da noi pensate; ma ciò che è, essendo l’opposto di ciò che non è, deve avere proprietà opposte, perciò, se ciò che non è, può essere pensato, ciò che è non può essere pensato12. La stessa dimostrazione è riferita nel De Melisso, Xenophane et Gorgia come segue: se solo l’essere può essere pensato, allora tutto ciò che può essere pensato, deve essere, compreso il non essere; infatti noi possiamo pensare dei cocchi che corrono a gara sulla superficie del mare, dunque questo deve essere, mentre esso è manifestamente falso, cioè non è13. Insomma, secondo Gorgia, la tesi di Parmenide, che identifica l’essere con ciò che può essere pensato, porta a negare l’esistenza del falso, il che è assurdo. Dunque non è vero che solo l’essere può essere pensato. Infine la tesi che l’essere non può essere detto, cioè comunicato, è dimostrata da Gorgia mediante l’osservazione che le parole non comunicano le cose, perché sono anch’esse cose e, come tali, sono diverse dalle cose che dovrebbero comunicare: per esempio la parola che dovrebbe comunicare un colore è diversa dal colore, perché questo si vede, mentre quella si ode. Dunque gli uomini non possono comuni11 12 13

Aristotele, Soph. el. 25, 180 a 36-38. Gorgia, A 3 = Sesto Empirico, Adv. math. VII 80. Gorgia, A 3 = De M., X. et G. 980 a 9-14.

carsi tra di loro le cose che percepiscono14. Come si vede, qui Gorgia ignora, o deliberatamente trascura, il carattere semantico delle parole, cioè la loro capacità di significare cose diverse da sé stesse. Questo lo induce a fare del linguaggio, anzi del discorso (logos), una realtà per così dire chiusa in sé stessa, che non allude ad altro, e ha pertanto un valore assoluto, come si desume dalla famosa affermazione contenuta nell’Encomio di Elena, secondo la quale Elena di Troia non fu colpevole dell’abbandono del marito, perché fu sedotta dal discorso di Paride, e “il discorso è un grande signore (dunastês mega), che con un corpo piccolissimo e invisibilissimo riesce a compiere cose divinissime”15. Questa dottrina giustifica la grande importanza attribuita da Gorgia alla retorica, che è appunto l’arte di produrre discorsi, i quali non comunicano l’essere, ma per così dire lo creano, e quindi ne prendono il posto. Se Parmenide, insomma, ha creato l’ontologia, Gorgia vi sostituisce, come è stato detto, la “logologia”16.

1.1.3. Le regioni dell’essere e la partecipazione: Platone La concezione dell’essere proposta da Parmenide viene in parte ripresa da Platone, nel senso che anche per questo filosofo l’essere in senso proprio è soltanto ciò che non muta, ma rimane stabile. Ma Platone introduce nella sua concezione dell’essere due importanti differenze rispetto a quella di Parmenide: l’essere in senso proprio, pur essendo immutabile, non è tuttavia uno, bensì è molteplice, cioè è costituito da una molteplicità di enti, diversi l’uno dall’altro; inoltre ciò che non è in senso proprio, vale a dire ciò che muta, ciò che diviene, non è puro nulla, o semplice apparenza, come per Parmenide, bensì è anch’esso essere, sia pure in un senso improprio, o in un grado inferiore. In Platone pertanto, o almeno nei suoi dialoghi della maturità, in cui è esposta la cosiddetta dottrina delle Idee, l’essere viene a essere diviso in due regioni: quella dell’essere immutabile, che ha diritto a essere considerato essere di per sé stesso, e quella dell’essere mutevole, che può essere considerato essere solo a causa del suo rapporto con il primo. 14 15 16

Gorgia, A 3 = De M., X. et G. 980 a 20-b 20. Gorgia, B 11, § 8. Cassin 1995.

Platone riesce a concepire l’essere in senso proprio come immutabile e al tempo stesso come molteplice, perché considera l’essere non soltanto come essere puro e semplice, senza ulteriori specificazioni, bensì come “essere qualcosa (einai ti)”, per esempio essere bello, essere buono ecc. Ora, ciò che è bello, può essere bello sempre, oppure essere bello in un momento e non esserlo in un altro. Solo il primo di questi due enti, per Platone, è veramente bello, cioè è “il bello stesso (auto to kalon)”, quello che può essere detto bello con verità. In generale, per Platone, una cosa è quello che è, solo quando lo è sempre, e quindi può essere conosciuta come tale in modo sicuro, mentre di ciò che non è mai allo stesso modo, non si può nemmeno dire che sia veramente quello che è, né si può avere conoscenza sicura, cioè stabile17. Le cose che sono sempre quello che sono, cioè “il bello stesso”, “il buono stesso”, “il giusto stesso”, cioè tutte quelle di cui possiamo dire che sono “ciò stesso che [la cosa] è (auto ho esti)”, sono chiamate da Platone “Idee” e formano la cosiddetta “ousia”, sostantivo astratto derivato dal participio presente del verbo “essere”, traducibile con “essenza”, o “sostanza”, o “realtà”. Di esse Platone afferma che “sono quanto più è possibile (einai hôs oion te malista)” ciò che sono, ossia che possiedono la caratteristica di cui sono espressione nel grado più alto, ovvero in modo perfetto18. Ad esempio “il bello stesso” è bello quanto più è possibile, cioè in grado massimo. Evidentemente esso è tale rispetto a ciò che, pur essendo bello, non è il bello stesso, e dunque è bello in un grado inferiore. Quest’ultimo è il bello mutevole, cioè le cose belle esistenti nel mondo sensibile. Per Platone esistono quindi “due generi di enti (duo eidê tôn ontôn)”, l’uno invisibile e l’altro visibile. Il primo è “la realtà stessa (autê hê ousia) della quale diamo il discorso dell’essere (logon [...] tou einai)”, ossia la definizione, la quale sta sempre nello stesso modo, ad esempio “il bello stesso”, o in generale “ciò stesso che ciascuna cosa è (auto hekaston ho esti)”, indicato da Platone anche semplicemente come “l’essere (to on)”; il secondo è “ciascuna delle molte cose belle, uomini, cavalli, vestiti o altre cose simili”, che hanno lo stesso nome delle prime e sono percepite per mezzo dei sensi19. 17 18 19

Platone, Cratilo 439 c-440 c. Platone, Fedone 75 c-d, 76 d-77 a. Ivi: 78 d-79 a.

Il rapporto tra questi due generi è espresso da Platone mediante il concetto di “partecipazione (methexis)”, ovvero di “presenza (parousia)”, o di “comunanza (koinônia)”. Egli infatti afferma che, “se c’è qualche altra cosa bella all’infuori del bello stesso, per nessun’altra ragione essa è bella, se non perché partecipa (metekhei) di quel bello”; oppure che “niente altro la rende bella, se non la presenza o la comunanza di quel bello”20. Non è chiaro che cosa significhi esattamente “partecipare”: probabilmente prendere parte a qualcosa, o avere in sé una parte di qualcosa, o avere qualcosa in comune con qualcosa. Ma è chiaro che le cose sensibili hanno certi caratteri perché, in un certo senso, li ricevono, o ne ricevono una parte, dalle Idee, le quali li possiedono in grado perfetto e dunque superiore. La differenza, tuttavia, che si stabilisce in virtù della partecipazione, è una differenza di grado, non di qualità: per esempio ciò che distingue il bello stesso dalle cose belle percepibili con i sensi, è il grado di bellezza, che nel primo è massimo e nelle seconde è inferiore, non una qualità diversa dalla bellezza. Altrove Platone caratterizza il rapporto tra le Idee e le realtà sensibili in altro modo, cioè mediante il concetto di “imitazione (mimêsis)”. Ad esempio nel Timeo egli distingue “ciò che è sempre e non diviene mai”, ossia il mondo delle Idee, da “ciò che diviene sempre e non è mai”, ovvero da “ciò che si genera e si corrompe, e non è mai realmente (ontôs de oudepote on)”, ossia il mondo sensibile, e afferma che il primo costituisce il modello (paradeigma) di cui si è servito il Demiurgo per fabbricare il secondo, il quale è immagine (eikôn) del primo21. Ma non sembra che tra la partecipazione e l’imitazione ci siano molte differenze: si può dire, infatti, che l’immagine partecipa del modello, nel senso che possiede i medesimi caratteri che il modello ha in grado massimo, ma li ha in grado inferiore. La differenza tra i due generi di essere è esposta con la massima chiarezza nella Repubblica, dove Platone indica l’insieme delle Idee con l’espressione “ciò che è perfettamente (pantelôs on)”, o anche “ciò che è puramente (eilikrinôs on)”, aggiungendo che esso è “perfettamente conoscibile (pantelôs gnôston)”, cioè è oggetto di scienza (epistemê), e lo contrappone a “ciò che non è per nulla (to mêdamei on)”, cioè al non essere, il quale è “completamente inconoscibile (pantêi agnôston)”. Le cose sensibili invece sono qualcosa di intermedio (me20 21

Ivi: 100 c-d. Platone, Timeo 27 d-28 a, 29 b-c.

taxu) tra l’essere perfetto e il non essere, e sono oggetto di una conoscenza che è a sua volta intermedia tra la scienza e l’ignoranza, cioè l’opinione (doxa)22. Rispetto a Parmenide, dunque, Platone in qualche misura rivaluta il mondo sensibile, perché lo distingue dal non essere, facendone una specie di via di mezzo tra l’essere e il non essere, cioè una realtà dimidiata. D’accordo con Parmenide, invece, egli considera solo l’essere come oggetto di scienza, cioè di conoscenza necessariamente vera, e il mondo sensibile come oggetto di opinione, cioè di una conoscenza che può essere tanto vera quanto falsa. Forse proprio in quest’ultima distinzione sta la ragione per cui Platone (ma prima di lui Parmenide) concepisce l’essere come immutabile. La scienza, infatti, è conoscenza di rapporti immutabili, che non solo stanno in un certo modo, ma non possono stare diversamente, e dei quali ha senso soltanto dire che “sono”, mentre non avrebbe senso dire che “erano” o “saranno”. Per esempio la geometria sa che, in un triangolo rettangolo, la somma dei quadrati dei cateti è uguale al quadrato dell’ipotenusa (teorema di Pitagora). Qui non avrebbe senso dire che “era” uguale o che lo “sarà”: bisogna dire che lo “è”, e che non può non esserlo, esattamente come insegnava la dea di Parmenide nella sua prima via. Ma nella Repubblica Platone allude anche a qualcosa che è “al di sopra dell’essere”, cioè all’Idea del bene, “il più grande oggetto di conoscenza (megiston mathema)” per i filosofi, la quale svolge nei confronti delle Idee le stesse funzioni che il sole svolge nei confronti delle realtà sensibili, cioè è causa del loro essere (einai) e del loro essere conosciute (gignôskesthai). Per le realtà conosciute – afferma Platone – non solo il loro essere conosciute deriva dal bene, ma anche il loro essere e la loro essenza (to einai te kai ten ousian) derivano da quello, non essendo il bene un’ousia, ma qualcosa che ancora al di là dell’ousia la supera per anzianità e potenza23.

L’Idea del bene non è solo un’Idea, ma è anche principio di tutte le Idee, cioè appunto causa del loro essere, perciò, se le Idee sono l’essere, essa è al di sopra dell’essere, non nel senso che non sia, ma nel senso che è più dell’essere. Più avanti, infatti, Platone dichiara esplicitamente che essa è “il principio del tutto (tên tou pantos arkhên)”, cioè non solo 22 23

Platone, Repubblica V, 477 a-b. Ivi: VI, 504 e-509 b.

il principio delle Idee, ma anche, attraverso queste, che sono causa delle cose sensibili, il principio della realtà sensibile. Ma, poiché l’Idea del bene è pur sempre un’Idea, cioè qualcosa che possiede in grado massimo il carattere della cui presenza essa è causa nelle altre cose, nella fattispecie la bontà, la sua differenza rispetto a ogni altro essere è pur sempre una differenza di grado. Se essa fosse un essere, sarebbe l’essere supremo, ed essendo causa dell’essere per tutti gli esseri, avrebbe lo stesso essere in grado massimo, cioè sarebbe l’essere stesso. E nel Timeo Platone allude anche a un “terzo genere (triton genos)”, oltre al modello intelligibile e all’immagine sensibile, cioè al mondo delle Idee e al mondo delle cose, che sembra essere anch’esso, come i primi due, un genere di essere: si tratta del “ricettacolo (hupodochê)” di tutto ciò che si genera24, ossia dello “spazio (chôra)” in cui si collocano le realtà sensibili. Anche questa realtà “è sempre”25, per cui potrebbe essere una terza regione dell’essere, ma Platone ci avverte che essa è “difficile e oscura”, attingibile non per mezzo dei sensi, ma di un “ragionamento bastardo”, per cui è meglio astenersi dal precisare quale sia il suo tipo di realtà. Il dialogo in cui Platone tematizza più esplicitamente la questione dell’essere è il Sofista, che per questa ragione fu indicato tradizionalmente anche col titolo Sull’essere. Qui Platone sembra riallacciarsi direttamente alla critica rivolta da Gorgia a Parmenide, per difendere l’esistenza, la pensabilità e la comunicabilità dell’essere contro quella critica, anche a costo di alcune importanti correzioni alla dottrina di Parmenide, che inducono il protagonista del dialogo, un Eleate e quindi un figlio ideale di Parmenide, a parlare di “parricidio”. L’ultima, e conclusiva, definizione del “sofista”, cui Platone giunge nella prima parte del dialogo, è infatti quella di “creatore di apparenze”, cioè di incantatore capace di fare apparire ciò che non è, ovvero di produrre il falso26. Sembra il ritratto di Gorgia, delineato da lui stesso mediante la sostituzione del logos all’essere. A ciò Platone contrappone la dottrina di Parmenide, citando esplicitamente il fr. 7: “Infatti mai non domerai questo, che i non-enti siano”27; ma si rende conto che, sulla base di essa, non è possibile ammettere l’esistenza del falso, cioè di un 24 25 26 27

Platone, Timeo 48 e-49 a. Ivi: 52 a. Platone, Sofista 236 c-e. Ivi: 237 a.

discorso che pensa e dice ciò che non è, discorso la cui possibilità invece è attestata dall’esistenza stessa del sofista. Perciò Platone fa dire all’Eleate che, “per difenderci”, evidentemente dalla critica di Gorgia, bisogna infrangere il divieto di Parmenide, che è come compiere un parricidio, “e imporre con la forza che il non essere in un certo senso (kata ti) è, e l’essere in un certo senso (pêi) non è”28. Ma, per mostrare come ciò sia possibile, è necessario anzitutto esaminare che cos’è l’essere (ecco la “questione dell’essere”), cioè vedere come nella filosofia precedente sia stato definito “quanti e quali siano gli enti”. Per quanto riguarda il primo problema, cioè quanti siano gli enti, Platone riferisce e critica sia la posizione dei monisti (gli Eleati), sia quella dei dualisti (che riducono tutte le cose a due contrari), manifestando una preferenza per quella dei pluralisti (Empedocle). Per quanto riguarda il secondo, egli riferisce e critica sia la posizione degli “amici delle Idee”, cioè di coloro che concepiscono l’essere esclusivamente come incorporeo e immobile, sia quella dei “figli della terra”, cioè di coloro che lo concepiscono esclusivamente come corporeo e mobile. A entrambi questi ultimi schieramenti Platone oppone la sua concezione dell’essere come ciò che possiede la potenza sia di fare che di subire, dalla quale consegue che i corpi, per poter agire, devono possedere l’anima, la quale è incorporea, e che le Idee, per poter essere conosciute, devono presupporre anch’esse l’esistenza dell’anima, la quale è mobile. Dunque, conclude Platone, “in ciò che è perfettamente (to pantelôs onti)” devono essere presenti il pensiero, perché le Idee devono poter essere conosciute, la vita, perché il pensiero è una forma di vita, e il movimento, perché la vita è una forma di movimento; cioè, in altre parole, deve essere presente l’anima29. “Ciò che è perfettamente” non può essere che il mondo delle Idee, come nella Repubblica. Il fatto che Platone introduca in esso l’anima, e quindi il pensiero, la vita e il movimento, non deve stupire, perché anche nel Timeo, dove egli considera il mondo sensibile come un’immagine del mondo delle Idee, concepisce il primo come animato, e pertanto deve concepire come animato anche il secondo, cioè lo stesso mondo delle Idee, che viene perciò a essere un “vivente perfetto (tôi

28 29

Ivi: 241 d. Ivi: 248 d-249 a.

pantelêi zôôi)”30. Entrambe le prime due regioni dell’essere, dunque, sono per Platone animate, cioè viventi. Ora, se nell’essere perfetto ci sono le Idee, che sono in quiete, e l’anima, che è in movimento, si dovrà dire che nell’essere ci sono tanto la quiete quanto il movimento, cioè che tanto la quiete quanto il movimento sono generi dell’essere. E se ciascuno di questi due generi è diverso dall’altro, ma identico a sé stesso, si dovrà dire che nell’essere ci sono anche l’identico e il diverso, cioè che anche l’identico e il diverso, oltre alla quiete e al movimento, sono generi dell’essere. L’essere dunque è costituito, in tutto, da cinque sommi generi, cioè l’essere stesso, che comprende tutti gli altri, l’identico, il diverso, la quiete e il movimento31. L’ammissione del diverso come genere dell’essere, ossia come qualcosa che è, appare a Platone come un modo per ammettere che anche il non essere è. Egli osserva infatti che, “quando noi parliamo di ‘ciò che non è’ (to mê on legômen), è evidente che noi non parliamo di un opposto di ‘ciò che è’ (tou ontos), ma solo di una cosa diversa”. Dunque la negazione, indicata in greco da particelle come mê e ou, non significa opposizione (o contrarietà), ma soltanto diversità32. E tuttavia, se il diverso è, e il non essere coincide col diverso, allora si deve concludere che anche il non essere è. Ma questa conclusione è precisamente la violazione del divieto di Parmenide, il quale prescriveva, come abbiamo visto, di tenere lontano il pensiero dalla via che fa essere ciò che non è. Come tale, infatti, la percepisce Platone, che a questo punto cita di nuovo il fr. 7 di Parmenide e fa dire all’Eleate-parricida: “Non solo abbiamo dimostrato che sono le cose che non sono, ma siamo giunti persino a scoprire quel genere che è proprio di ciò che non è (tou mê ontos)”33. Si può dire che, per mezzo di questa dottrina, Platone ha superato la concezione dell’essere propria di Parmenide? In un senso sì e in un altro no. L’ha certamente superata, per il fatto di avere concepito l’essere non più come uno, cioè indifferenziato e omogeneo, ma come molteplice, cioè differenziato, eterogeneo. Tuttavia le differenze interne all’essere sono dovute, secondo Platone, alla partecipazione di ciò che è al diverso, inteso come genere distinto dall’essere, e quindi come 30 31 32 33

Platone, Timeo 31 b. Platone, Sofista 254 b-255 e. Ivi: 257 b-c. Ivi: 258 c-d.

non essere. È dunque il non essere ciò che differenzia l’essere. Del non essere, sia pure inteso come diverso, Platone infatti afferma: “La natura del diverso come quinto fra i generi da noi prescelti [...] è diffusa attraverso tutti gli altri; infatti ciascuno di essi è diverso dagli altri non per sé, ma per il fatto che partecipa al carattere proprio del diverso”34. Dunque l’essere è differenziato non per sé stesso, ma in quanto partecipa del non essere. Sotto questo aspetto Platone sembra mantenere la concezione dell’essere propria di Parmenide, secondo la quale l’essere, di per sé stesso, è uno e indifferenziato. Per poterlo differenziare, Platone è costretto a ricorrere al non essere, cioè a compiere il “parricidio”.

1.1.4. La multivocità dell’essere e la predicazione: Aristotele La prima esplicita affermazione della molteplicità dei significati dell’essere, cioè di quella che possiamo chiamare la sua “multivocità” (l’opposto dell’“univocità”, cioè della concezione parmenidea, la quale di fatto suppone che l’essere abbia un unico significato), si è avuta con Aristotele, ed è stata fatta in esplicita polemica contro gli Eleati, la cui dottrina rendeva impossibile la fisica come scienza della natura, cioè del movimento. Nel libro I della Fisica infatti, proprio per difendere l’esistenza della natura, Aristotele critica Parmenide e Melisso affermando che “l’essere si dice in molti sensi (pollachôs legetai to on)”35, così come “in molti sensi si dice anche l’uno (to hen), allo stesso modo dell’essere”36. Anzi egli afferma che l’errore di Parmenide sta anzitutto nelle premesse del suo discorso, poiché egli “assume che l’essere si dica semplicemente (haplôs, cioè indistintamente, indifferenziatamente), mentre esso si dice in molti sensi”37. La multivocità dell’essere a cui Aristotele qui allude non è semplicemente il fatto che il verbo “essere” è usato nei quattro modi enumerati in quella specie di ‘dizionario’ filosofico che è il libro V della Metafisica, cioè: 1) l’essere per accidente (to on kata sumbebêkos), vale a dire il verbo “essere” usato come sinonimo di “accadere (sumbebêkenai)”; 2) l’essere per sé (to on kath’hauto), vale a dire il verbo “essere” usato 34 35 36 37

Ivi: 255 e. Aristotele, Fisica I 2, 185 a 21. Ivi: 185 b 6. Ivi: I 3, 186 a 24-25.

per dire proprio ciò che una cosa è; 3) l’essere come vero, cioè il verbo “essere” usato per indicare che un enunciato è vero (hoti alêthes), e il non essere usato per indicarne che è falso; 4) l’essere da un lato in potenza e dall’altro in atto (to on to men dunamei to d’entelecheiai). La multivocità cui Aristotele allude nella sua critica a Parmenide è quella che riguarda l’essere per sé, cioè quello di cui in Met. V egli afferma: “sono dette essere per sé (kath’hauta einai) tutte quelle cose che le figure della predicazione significano, poiché in quanti modi l’essere si dice, in altrettanti esso significa”38. Qui evidentemente Aristotele allude all’uso del verbo “essere” come predicato, ovvero come copula seguita da un predicato nominale, mirante a dire ciò che una cosa è, ossia a indicare il modo di essere che le appartiene. Ciò risulta chiaro dagli esempi da lui portati, quando afferma: “non c’è differenza infatti tra l’enunciato ‘uomo è fiorente di salute’ e l’enunciato ‘uomo fiorisce di salute’, né tra l’enunciato ‘uomo è camminante o tagliante’ e l’enunciato ‘uomo cammina o taglia’”39. Insomma il verbo “essere”, di per sé stesso, cioè proprio come verbo “essere”, a seconda del predicato con cui viene unito, può avere lo stesso significato di qualsiasi altro verbo, dunque ha necessariamente una molteplicità di significati, tanti quanti sono i tipi di predicazione, cioè i generi di predicati a cui esso si unisce. La funzione, che abbiamo chiamato di “vicario universale”, propria del verbo “essere”, non conduce così all’affermazione della sua unità, come in Parmenide, bensì proprio a quella della sua molteplicità. Aristotele sembra dare per scontata questa molteplicità dei significati del verbo “essere”: egli infatti la menziona diverse volte nei suoi scritti, per lo più senza darne una giustificazione, il che significa che la considera evidente, altrettanto evidente quanto è l’esistenza, nel modo dell’esperienza, di enti fra loro diversi. C’è tuttavia un passo della Metafisica, l’unico in tutto il corpus aristotelicum, in cui è contenuta una giustificazione di questa tesi. Si tratta del passo in cui Aristotele critica la tesi platonico-accademica secondo la quale l’essere e l’uno sarebbero dei generi, precisamente i generi primi, o sommi, cioè più universali. In questo passo probabilmente egli si riferisce alle cosiddette “dottrine non scritte”, nelle quali – come si apprende dalla relazione fattane dallo stesso Aristotele nel I libro della Metafisica – Platone avrebbe posto 38 39

Aristotele, Met. V 7, 1017 a 22-24. Ivi: 1017 a 27-30.

come principio delle Idee, e attraverso queste di tutte le cose, il principio dei numeri, cioè l’Uno (presumibilmente identificato con l’essere, oltre che col bene), proprio a causa del fatto che esso è il più universale di tutti i generi, cioè la più universale di tutte le Idee40. Ma non è difficile riconoscere in questo principio l’Idea del bene della Repubblica, o l’essere come genere del Sofista, o l’“uno che è” del Parmenide. Concepire l’essere come un genere, secondo Aristotele, equivale a concepirlo come un predicato dotato di un unico significato. Il significato filosofico di “genere”, infatti, distinto da quello comune di “stirpe”, è “costitutivo primo delle definizioni, contenuto nell’essenza, le cui qualità si dicono differenze”41, per cui, ad esempio, “animale” è il genere di “uomo”, di “cavallo” e di “bue”. Inteso in questo senso, il genere è una specie di sostrato, o di materia, a cui le differenze si aggiungono; esso dunque di per sé stesso è indifferenziato, unico, ossia è ciò che unisce specie di cose tra loro diverse, ciò che le accomuna, ciò che esprime quanto esse hanno di identico. L’argomento con cui i Platonici, sempre secondo Aristotele, identificavano il principio di tutto con l’essere e l’uno, intesi come generi, è il seguente: se principi a maggior titolo sono sempre gli universali – premessa che sta alla base già della dottrina delle Idee –, è evidente che principi saranno i generi più elevati, poiché questi si predicano di tutte le cose. Di conseguenza l’Essere e l’Uno – che a questo punto è giusto scrivere con l’iniziale maiuscola – saranno principi delle cose, perché soprattutto questi si predicano di tutte42. E la critica che Aristotele oppone a tale argomento è la seguente: Ma non è possibile che né l’Uno né l’Essere siano un genere unico degli enti. È necessario, infatti, che le differenze di ciascun genere siano, e che ciascuna differenza sia una. D’altra parte è impossibile che [...] il genere senza le sue specie si predichi delle sue differenze. Ne segue che, se l’Essere e l’Uno sono generi, nessuna differenza potrà né essere né essere una43.

Aristotele, insomma, concorda con Platone sul fatto che l’essere e l’uno si predicano di tutte le cose, ma proprio per questo egli 40 41 42 43

Ivi: I 6, 987 b 18-24. Ivi: V 28, 1024 b 4-6. Ivi: III 3, 998 b 17-21. Ivi: 998 a 22-27.

esclude che possano essere dei generi, perché l’essere e l’uno, predicandosi di tutto, si predicano anche delle proprie differenze, mentre ciò non è consentito ai generi. Se l’essere e l’uno fossero dei generi, argomenta per assurdo Aristotele, essi non potrebbero più predicarsi delle proprie differenze, dunque queste non sarebbero più né essere né una, cioè non esisterebbero affatto, e di conseguenza tutte le cose verrebbero a essere indifferenziate, cioè si ridurrebbero a una sola, precisamente come accadeva nella concezione di Parmenide. Ciò significa che l’essere e l’uno non sono sostrato, o materia, di differenze che si aggiungano, o si sovrappongano a essi, ma sono di per sé stessi differenziati, cioè non esprimono solo ciò che accomuna tutte le cose, come fanno i generi, ma anche ciò che le distingue, come fanno le differenze. Un’importante conseguenza di questa dottrina, che avrebbe avuto una portata enorme per la metafisica, è il fatto che per Platone l’Essere e l’Uno, proprio perché sono dei generi, cioè esprimono sempre lo stesso aspetto delle cose, possono essere ipostatizzati, cioè concepiti come enti sussistenti in sé stessi, così come lo sono tutti gli altri generi nel momento in cui vengono a essere delle Idee, mentre per Aristotele ciò non è possibile. È sempre Aristotele che ci riferisce questa dottrina platonica, ovviamente per criticarla. Secondo Met. III 4, infatti, “Platone e i Pitagorici affermano che l’Essere e l’Uno non sono nient’altro che Essere e Uno, e che appunto questa è la loro natura, ritenendo che la loro sostanza sia l’essenza stessa dell’Uno e dell’Essere”44. In tal modo l’Essere e l’Uno vengono a essere “l’Essere stesso (auto on, in latino esse ipsum)” e “l’Uno stesso (auto hen, unum ipsum)”, così come le altre Idee sono il bello stesso, il bene stesso ecc. Di essi Aristotele afferma: Se esistono l’Essere stesso e l’Uno stesso, è necessario che la loro sostanza (ousia, che vale anche come “essenza”) sia l’uno e l’essere; infatti ciò di cui essi si predicano non è altro da essi, ma è lo stesso uno e lo stesso essere45.

Ci troviamo così di fronte a quella che forse è la prima formulazione storica della dottrina secondo la quale esiste un ente, il quale è per 44 45

Ivi: III 4, 1001 a 9-12. Ivi: 1001 a 27-29.

essenza l’Essere stesso, o l’Uno stesso, la cui essenza, cioè, è costituita dallo stesso essere, per cui esso non può non essere, ma è necessariamente, è l’Essere necessario. Tale dottrina, come è noto, avrà una fortuna immensa nella storia della fi losofia. Essa sarà ripresa infatti da Filone di Alessandria (che interpreterà l’“io sono” di Esodo III 14 come identificazione di Dio con l’Essere), dal platonismo medio (per Plutarco “essere” è il nome di Dio), dal neoplatonismo (dove Plotino ipostatizzerà l’Uno e Porfirio l’Essere), e infine dai Padri della Chiesa (Agostino, pseudo-Dionigi) e dai filosofi musulmani (Avicenna) e cristiani (Tommaso d’Aquino), che concepiranno tutti Dio come l’Esse ipsum subsistens46. Ma ciò che non viene sempre ricordato, nemmeno da quei filosofi medievali, sia musulmani che cristiani, i quali si richiamano esplicitamente ad Aristotele, è che Aristotele respinse decisamente questa dottrina, come risulta ugualmente da Met. III 4. Qui infatti egli afferma: D’altra parte, se esiste qualcosa che è l’Essere stesso e l’Uno stesso, sarà molto difficile comprendere come possa esistere qualcos’altro oltre i medesimi, cioè come gli esseri possano essere più di uno. Infatti, ciò che è altro dall’essere, non è: di conseguenza, si verrà necessariamente a cadere nella dottrina di Parmenide, per cui tutti quanti gli esseri costituiscono un’unità e questa è l’essere47.

Nell’osservare che ciò che è altro dall’essere (heteron tou ontos), cioè il diverso, non è, Aristotele sembra riecheggiare Platone, il quale nel Sofista aveva affermato: “la natura del diverso [...] proprio essa è realmente ‘ciò che non è’”48. Ma la ragione per cui il diverso dall’essere non è, è il fatto che esiste qualcosa che è l’Essere stesso, cioè il fatto che l’Essere è considerato come un genere, e quindi è inteso come univoco. La conseguenza di questa dottrina, additata da Aristotele, è terribile: è infatti la ricaduta nel monismo parmenideo, che Platone aveva cercato in tutti i modi di evitare, moltiplicando l’essere e differenziandolo. Il rimedio platonico, cioè il famoso “parricidio” nei confronti di Parmenide, è giudicato da Aristotele del tutto insufficiente, per il persistere, in Platone, di una concezione univocistica dell’essere, la 46 47 48

Cfr. infra 1.2. Aristotele, Met., 1001 a 29-b 1. Platone, Sofista 258 d-e.

quale lo induce a far dipendere le differenze, e quindi la molteplicità, dal non essere. Ciò che non tutti i filosofi “aristotelici” della scolastica, sia musulmana che cristiana, hanno percepito con chiarezza, è che alla stessa conseguenza va incontro, certamente contro l’intenzione dei suoi sostenitori, l’ammissione di un Esse ipsum subsistens, perché, per poter ipostatizzare l’essere, essa deve presupporre che l’essere sia un genere, cioè che abbia un solo significato. La conferma che questa critica a Platone esprime veramente il pensiero di Aristotele e non è soltanto un artificio dialettico, come potrebbe far pensare la sua collocazione nel libro III della Metafisica, il libro aporetico e quindi dialettico per eccellenza, è il fatto che essa ritorna in altri passi di Aristotele, ma soprattutto nel libro XIV, dove è accompagnata da un riferimento inequivocabile al Sofista. Quivi infatti, criticando la dottrina platonico-accademica che pone come principi delle Idee, e quindi delle cose, l’Uno e la Diade indefinita, Aristotele afferma: Le ragioni della deviazione verso queste cause sono molte, la principale però sta nel fatto che essi hanno posto il problema in termini antiquati (to aporêsai arkhaikôs). Infatti, essi ritennero che tutte le cose si sarebbero dovute ridurre a un’unità, cioè all’essere stesso (auto to on), se non si fosse risolta e confutata l’affermazione di Parmenide “infatti non riuscirai mai a far sì che il non essere sia”, e ritennero che fosse necessario dimostrare che il non essere è: in tal caso, infatti, gli esseri deriveranno dall’essere e da un qualcos’altro diverso dall’essere, se, appunto, sono molti49.

Il riferimento al Sofista è rivelato dalla citazione del fr. 7 di Parmenide, lo stesso che, come abbiamo visto, Platone nel Sofista cita ben due volte. E la critica che Aristotele rivolge a questa posizione è sempre la stessa, cioè: “l’essere si dice in molti sensi”50, questa volta arricchita dall’ulteriore osservazione che “anche il non essere si dice in molti sensi, poiché così si dice anche l’essere”51. I molti significati dell’essere, secondo Aristotele, corrispondono alle categorie, cioè alle “figure della predicazione”, ai generi dei predicati. A proposito dell’essere per sé, infatti, egli afferma:

49 50 51

Aristotele, Met. XIV 2, 1088 b 35-1089 a 6. Ivi: 1089 a 7. Ivi: 1089 a 16.

Poiché, dunque, alcuni dei predicati significano l’essenza, altri la qualità, altri la quantità, altri la relazione, altri l’agire e il patire, altri il dove ed altri il quando: ebbene, l’essere ha significati corrispondenti a ciascuno di questi 52.

Queste dunque sono le “regioni” dell’essere distinte da Aristotele, diverse tra loro e irriducibili a un genere unico, anche se, come vedremo subito, non completamente prive di unità e di ordine. In ogni caso esse non sono gradi diversi di una stessa realtà, né quindi livelli di realtà digradanti verso il non essere, ma sono realtà tra loro qualitativamente diverse, di cui l’essere si predica sempre a pieno titolo. L’unità esistente, secondo Aristotele, tra le diverse categorie, la quale impedisce al termine “essere” di essere puramente equivoco, e quindi impedisce agli enti di essere totalmente “omonimi” (vale a dire aventi in comune nient’altro che il nome), è il fatto che tra le categorie ve n’è una, quella dell’essenza, o della sostanza (ousia), la quale funge da punto di riferimento comune per tutte le altre, nel senso che tutte le altre sono in relazione a essa, ovviamente stando ciascuna in una relazione diversa. Questa è la celebre dottrina della “relazione a uno (pros hen)”, che Aristotele, subito dopo avere affermato l’esistenza di una scienza la quale studia l’essere in quanto essere e le proprietà che gli appartengono per sé stesso, enuncia nei termini seguenti: L’essere si dice in molti sensi, ma sempre in riferimento a una unità (pros hen) e a una realtà determinata. L’essere, quindi, non si dice per mera omonimia, ma nello stesso modo in cui diciamo “sano” tutto ciò che si riferisce alla salute [...] o “medico” tutto ciò che si riferisce alla medicina [...]: alcune cose sono dette essere perché sono sostanza, altre perché affezioni della sostanza, altre perché vie che portano alla sostanza, oppure perché corruzioni, o privazioni, o qualità, o cause produttrici o generatrici, sia della sostanza sia di ciò che si riferisce alla sostanza53.

La sostanza, dunque, gode di un primato rispetto alle altre categorie, per cui può essere detta anche “ciò che è a maggior ragione (mallon on)”, “ciò che è primariamente (prôtôs on)”, o “ciò che è semplice-

52 53

Ivi: V 7, 1017 a 24-27. Ivi: IV 2, 1003 a 32-b 9.

mente (on haplôs)”, vale a dire senza ulteriori qualificazioni (ou ti on)54. Essa tuttavia non è l’essere stesso, cioè non è il genere di cui le altre categorie siano le specie, non è insomma l’universale “essere”, bensì è soltanto il primo dei generi dell’essere. Il suo primato si configura anzitutto come priorità ontologica, o “naturale”, nel senso che l’essere della sostanza è la condizione dell’essere di tutte le altre categorie; ma anche come priorità logica, nel senso che nella definizione di tutte le altre categorie è contenuto un riferimento alla sostanza55. Se la priorità ontologica significa che nessuna delle altre categorie può esistere separatamente dalla sostanza, la priorità logica significa che nessuna delle altre categorie può essere pienamente compresa senza la sostanza. La sostanza dunque è condizione dell’essere e dell’intelligibilità delle altre categorie, è il primo ontologico e logico insieme56. Tuttavia anche le sostanze sono molte, non solo nel senso che ce ne sono molte specie, ma anche nel senso che ce ne sono molti generi, precisamente tre: le sostanze mobili corruttibili, cioè i corpi terrestri, le sostanze mobili e incorruttibili, cioè i corpi celesti, e le sostanze immobili e immateriali, cioè i motori dei cieli 57. Questi ultimi, in quanto cause di movimenti eterni, sono puro atto, perciò sono detti “sostanze prime”58. Il primo di essi, cioè il motore del primo cielo, in quanto è anche causa del movimento di tutti gli altri, i quali sono a loro volta causa della generazione e della corruzione delle sostanze corruttibili, è detto da Aristotele “il primo tra gli enti (to prôton tôn ontôn)”59. È chiaro che si tratta di un primato ontologico, cioè concernente l’essere, nel senso che il primo motore immobile, che per Aristotele è anche il dio supremo, è condizione dell’essere di tutti gli altri enti. Si tratta, naturalmente, non di un essere assoluto, cioè della semplice esistenza, perché Aristotele rifiuta la nozione di creazione, bensì di un essere sempre qualificato, cioè l’essere eternamente mossi, nel caso dei corpi celesti, e l’essere generati, nel caso dei corpi terrestri. Alcuni interpreti hanno tuttavia sostenuto che il primato del primo motore immobile sarebbe anche una priorità di tipo logico, cioè dello stesso tipo di quella posseduta dalla sostanza in generale nei confronti 54 55 56 57 58 59

Ivi: VII 1, 1028 a 26-31. Ivi: 1028 a 33-36. Questa dottrina è stata chiarita soprattutto da Owen 1960. Ivi: XII 1, 1069 a 30-34; 6, 1071 b 3-5. Ivi: XII 8, 1074 b 9. Ivi: 1073 a 24.

delle altre categorie, cioè una priorità fondata sulla “relazione a uno”. In tal modo il primo motore immobile sarebbe causa non solo dell’essere, ma anche dell’intelligibilità di tutte le altre sostanze e, attraverso queste, di tutti gli altri enti. Esso sarebbe inoltre l’essere nel senso più puro e perciò paradigmatico60. Io non sono persuaso da questa interpretazione, che mi sembra per un verso riportare Aristotele sulle posizioni di Platone, facendo del primo motore immobile una specie di Idea dell’essere, o Essere stesso, e per un altro verso fare di Aristotele un precursore del neoplatonismo, per il quale il primo ontologico coincide col primo logico. Per essere infatti la condizione dell’intelligibilità di tutti gli altri enti, il primo motore immobile dovrebbe essere l’ente più intelligibile di tutti. Ora, in base alla nota distinzione aristotelica tra cose più note e più chiare, cioè più intelligibili, per noi e cose più note e più chiare per natura, si può dire che le cause prime, e quindi anche i motori immobili, sono le più chiare, cioè le più intelligibili, per natura, ma non per noi61. Le sostanze invece sono più intelligibili delle altre categorie non solo per natura, ma anche per noi62. Dunque la priorità dei motori immobili rispetto alle altre sostanze è diversa dalla priorità delle sostanze rispetto alle altre categorie, cioè è essenzialmente una priorità ontologica, causale, nel senso della causalità efficiente, non nel senso della causalità formale63.

1.1.5. L’Essere è Dio: Filone e il medioplatonismo Nel II secolo a.C., in pieno periodo ellenistico, il re Tolomeo II Filadelfo incaricò un gruppo di intellettuali ebrei emigrati ad Alessandria d’Egitto in seguito alla diaspora, i cosiddetti Settanta, di tradurre dall’ebraico in greco la Bibbia. In tal modo la cultura ellenistica venne a conoscenza di questa raccolta di libri, i più antichi dei quali gli Ebrei ritenevano scritti da Mosè: si tratta del cosiddetto Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio), chiamati dagli Ebrei la “Legge (Torah)”. Nell’Esodo si racconta che Dio parlò a Mosè da un roveto ar60 61 62 63

Patzig 1960-61. Aristotele, Fisica I 1, 184 a 16-21. Aristotele, Met. VII 1, 1028 a 36-b 2. Ho illustrato più ampiamente questa tesi in Berti 1973 e più recentemente in Berti 2001.

dente, dichiarandogli di essere il Dio dei suoi padri, cioè di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e promettendo a lui e al suo popolo la liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Al che Mosè disse: “Ecco, io andrò dai figli di Israele, e dirò loro: ‘il Dio dei padri vostri mi ha mandato a voi’. Se mi domanderanno: ‘qual è il suo nome?’, che dirò loro?”. Dio allora, secondo la traduzione più tradizionale derivata dal greco dei Settanta, avrebbe risposto: “Io sono Colui che è (egô eimi ho ôn)”, e avrebbe aggiunto: “ai figli d’Israele dirai così: ‘Colui che è, mi ha mandato a voi’”. In realtà pare che l’espressione ebraica “‘ehjeh ‘aser ‘ehjeh” sia un tentativo di spiegare il nome “Jahwè” riconducendolo alla radice “hajâ”, che significa “essere”, e, ripetendo due volte la stessa parola, voglia dire semplicemente “io sono quello che sono”, cioè io sono sempre con voi, io sono qui. A rigore anche il greco dei Settanta, che usa il participio presente del verbo “essere” nella forma maschile (ho ôn), non in quella neutra (to on), cerca di esprimere a suo modo la ripetizione, infatti fu tradotto in latino da san Girolamo con “Ego sum qui sum”, che in italiano corrisponde a “io sono colui che sono”. Tuttavia è innegabile che la traduzione dei Settanta introduce nel passo un riferimento al participio del verbo “essere”, il quale nella cultura greca, come abbiamo visto, era carico di significato filosofico. Di conseguenza i primi filosofi di lingua greca che vennero a conoscenza di questa espressione non esitarono a interpretarla come se Dio avesse rivelato a Mosè di essere l’Essere stesso, cioè avesse detto che il suo nome, vale a dire l’espressione della sua stessa essenza, fosse “l’Essere”. Questa interpretazione fu inaugurata, per quanto ne sappiamo, da Filone di Alessandria, filosofo di lingua e cultura greca, ma di fede ebraica, vissuto tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., il quale, volendo conciliare la rivelazione biblica con la filosofia greca, ritenne che la filosofia platonica fosse quella che più si prestava a tale conciliazione, essendo Platone, come abbiamo visto, l’unico fi losofo greco che ammetteva un’origine del mondo interpretabile come una specie di creazione. Anzi sembra che proprio Filone, come prima di lui altri fi losofi di fede ebraica (un certo Aristobulo, che si ritiene sia stato uno dei Settanta), fosse convinto che Platone aveva attinto la sua dottrina della creazione dalla Bibbia, cioè da Mosè. Platone, come testimonia Aristotele, ammetteva un’Idea dell’essere, l’“Essere stesso (auto to on)”, consistente in una sostanza, cioè un ente, la cui essenza era lo stesso essere, cioè un essere per essenza. In base al concetto di creazione, introdotto dalla religione ebraica, poteva sembrare perfettamente legit-

timo concepire Dio, in quanto creatore, cioè causa dell’essere, come lo stesso Essere, cioè l’Essere per essenza, l’Essere per eccellenza, così come Platone aveva concepito l’Idea del bello, in quanto causa del bello, come “il Bello stesso (auto to kalon)”, o l’Idea del bene, in quanto causa del bene, come “il Bene stesso (auto to agathon)”. Scrive infatti Filone nell’opera Il mutamento dei nomi, per spiegare che Dio è inconoscibile e ineffabile: Era logica conseguenza che non potesse neppure venire assegnato un nome proprio a Colui che veramente è. Non vedi che al profeta desideroso di sapere quale risposta debba dare a coloro che vogliono conoscere il Suo nome, Egli dice: “Io sono Colui che è (egô eimi ho ôn)”, il che equivale a: “la mia natura è di essere, non di essere nominato”?64

E nell’opera I sogni sono mandati da Dio: Quando il legislatore indaga se vi sia qualche nome da attribuire a Colui che è, riconosce chiaramente che non esiste alcuna denominazione appropriata e che qualsiasi nome gli si dia, si cade in un’improprietà di linguaggio, perché l’Ente (to on) per Sua natura non può essere nominato, ma può soltanto essere. Ne è prova la risposta oracolare data a Mosè che domandava se Egli avesse un nome: “Io sono Colui che è”; una risposta così formulata affinché, non essendovi in Dio alcuna cosa che l’uomo riesca ad afferrare, egli ne conosca almeno l’esistenza65.

Il fatto che Filone usi le due forme del participio, il maschile e il neutro, come equivalenti, indica che l’aspetto principale del suo concetto di Dio è la più alta denominazione dell’intelligibile inteso al modo di Platone, cioè il vero essere, o l’Essere in senso proprio. Il nome “Colui che è” non è quindi un nome proprio, nel senso che renda dicibile Dio, l’Indicibile in sé, ma rimanda piuttosto al fatto che Dio solo, al contrario degli altri enti, è in senso proprio, mentre ciò che è stato creato da lui sembra soltanto essere66. Analogamente Platone nel Timeo, dialogo ben noto a Filone, aveva detto che “solo alla sostanza eterna conviene, 64

65 66

Filone di Alessandria, L’uomo e Dio, introd., tr. it., pref., note e apparati di C. K. Reggiani, Milano, Rusconi, 1986: 311-312. Ivi: pp. 506-507. Così osserva Beierwaltes 1972 (tr. it. 1987: 19).

secondo il discorso vero, l’‘è’ (to estin), mentre le cose che si generano nel tempo conviene si dicano ‘era’ e ‘sarà’”67. Dunque “essere”, per Filone, significa essere sempre, esistere eternamente, come si addice, secondo Platone, alle Idee e soprattutto all’Idea dell’essere, l’“Essere stesso”. Malgrado la critica di Aristotele a questa dottrina – critica peraltro ignota a Filone, il quale non disponeva della Metafisica –, il filosofo ebreo la riprende, e la riprende proprio nella forma attestata da Aristotele nella Metafisica, il che evidentemente significa che essa era nota anche per altra via o era tradizionalmente attribuita a Platone. Ma la stessa concezione, secondo cui Dio è l’Essere, e quindi c’è un Essere per essenza, che deve essere concepito come un Dio, ricorre anche in filosofi non ebrei, né cristiani, cioè “gentili” o “pagani”, che si ispiravano ugualmente a Platone e cercavano di conciliare il platonismo con le esigenze di carattere religioso, emerse dall’incontro tra la filosofia greca e la Bibbia e dalla contemporanea nascita e diffusione del cristianesimo. Si tratta di filosofi come Plutarco di Cheronea e Numenio di Apamea, vissuti entrambi nel II secolo d.C. e ritenuti esponenti del cosiddetto “medio-platonismo”, cioè di un platonismo diverso da quello antico di Platone e dei suoi immediati discepoli, nonché da quello che, un secolo più tardi, sarebbe stato il “neo-platonismo”, e caratterizzato appunto dall’intento di conciliare il platonismo con la varie altre dottrine, tra cui l’aristotelismo, lo stoicismo e una concezione religiosa di carattere monoteistico. Plutarco infatti scrisse un’opera sulla lettera E incisa sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, sostenendo che essa significa Ei, cioè “tu sei” e nomina quindi l’essenza di Dio, cioè l’essere. Questo essere anche per Plutarco è l’essere propriamente detto, cioè l’essere eterno. Il Dio – egli scrive – è; ed è non secondo un tempo, ma secondo l’eternità: eternità immobile, atemporale, immutabile, nella quale non v’è né prima né dopo, né futuro né passato, né più vecchio né più giovane; ma una soltanto è essa, e col suo unico Ora ha riempito il Sempre; soltanto ciò che è nel senso di questa eternità è veramente68. 67 68

Platone, Timeo 37 e. Plutarco, De E ap. Delphos, 20, 393 A (ripreso da Beierwaltes 1972; tr. it. 1987: 23).

Per sottolineare ulteriormente la coincidenza di questa concezione di Dio, che Plutarco attribuisce alla religione greca olimpica (il cui centro era appunto a Delfi), con la fi losofia di Platone, Plutarco identifica Dio non solo con l’Essere, ma anche con l’Uno, che nelle dottrine non scritte di Platone, riferite da Aristotele (a Plutarco ormai noto), era il principio delle Idee e coincideva con l’Essere e col Bene. Secondo Plutarco, infatti, l’apostrofe “Tu sei”, incisa nel tempio di Apollo, significa anche “Tu sei Uno (ei hen)” e spiega il nome di Apollo, cioè “Non-molti (a-pollôn)”69. Quanto a Numenio, anch’egli riprende la tesi fi loniana secondo cui i filosofi greci, in particolare Platone, avrebbero attinto la loro idea di Dio dalla Bibbia, e distingue tre divinità, o “principi”, disposti gerarchicamente. La prima di queste divinità, cioè il primo Dio, è da lui concepito come “l’Ente stesso (autoon)”, ovvero come la vera realtà (ousia), intesa nel senso platonico; esso coincide – secondo Numenio – col Bene e con l’Intelletto, ma un intelletto in quiete, cioè identico all’intelligibile70. Il secondo Dio invece è intelletto che pensa sé stesso, cioè pensa il proprio pensare71: evidente riferimento al primo motore immobile di Aristotele, da questi concepito come “pensiero di pensiero”, che Numenio identifica anche col Demiurgo del Timeo platonico. Infine la terza divinità è l’Anima del mondo, che Platone riteneva fabbricata dal Demiurgo. È significativo che l’identificazione del Dio dell’Esodo con l’Essere stesso di Platone si ritrovi anche nei filosofi cristiani, probabilmente influenzati da Filone, ad esempio in un autore del III secolo, scambiato per l’apologista Giustino, il quale scrive: Mosè disse “Colui che è (ho ôn)”, Platone disse “ciò che è (to on)”: entrambe le espressioni sembrano convenire al Dio che sempre è; questi infatti è Colui che, solo, è sempre (monos ho aei ôn), non avendo generazione72.

Il riferimento a Mosè allude evidentemente a Esodo 3, 14, mentre il riferimento a Platone allude a Timeo 27 d: la convergenza tra le due 69 70

71 72

Ivi: 393 b. Numenio, frr. 25 e 26; in E.-A. Leemans, Studie over den Wijsgeer Numenius van Apamea met Uitgave der Fragmenten, Brussels, Palais des Académies, 1937. Id., fr. 24. Pseudo-Giustino, Cohortatio ad Graecos 22, in Patrologia Graeca 6, 281 A.

dottrine è perfetta, con l’unica differenza che il Dio di Mosè è un Dio che parla, cioè è una persona, da cui il participio al maschile, mentre l’Essere di Platone è impersonale, da cui il participio al neutro. Di entrambi, tuttavia, è ritenuto essenza l’essere stesso, inteso platonicamente come essere eterno.

1.1.6. L’Essere è inferiore all’Uno: Plotino La triplice divinità ammessa da Numenio prelude chiaramente alla dottrina delle tre ipostasi (realtà sussistenti in sé), che sarà il nucleo centrale della filosofia di Plotino (205-270 d.C.), col quale si inaugura il neoplatonismo. Qualcuno infatti dovette accusare Plotino di essersi ispirato a Numenio, se è vero, come riferisce Porfirio, che Amelio, discepolo di Plotino, scrisse un trattato Sulla differenza delle dottrine di Plotino e di Numenio per difendere il maestro da tale accusa73. Tra la dottrina di Numenio e quella di Plotino ci sono tuttavia differenze importanti, la prima delle quali riguarda precisamente la prima divinità, cioè il Dio supremo. Plotino infatti, pur rifacendosi a Platone, concepisce il primo principio come l’Uno, ovvero come il Bene, ma, sulla base dell’affermazione platonica secondo la quale il Bene è “al di là dell’essere (epekeina tês ousias)”74, egli ritiene che l’Uno sia superiore all’essere e allo stesso pensiero, cioè non sia l’intelligibile, ma sia al di là di ogni intelligibilità e dicibilità. L’Essere, inteso come intelligibile, e l’Intelletto, inteso come pensiero, sono invece per Plotino la seconda ipostasi, cioè il secondo principio sussistente in sé, generato dall’Uno, e coincidono perfettamente tra di loro, cioè sono un Intelletto che pensa sé stesso come Essere, cioè come realtà eterna contenente in sé tutte le Idee; infine la terza ipostasi, anche per Plotino, è l’Anima del mondo. L’Uno – scrive Plotino – è al di là dell’essenza (epekeina ousias). L’Uno è la potenza del tutto; il generato, invece, è già il Tutto. E se questo è il Tutto, Egli è al di là del Tutto, e perciò al di là dell’Essere. E poi, se l’Intelletto è tutto, l’Uno è anteriore al Tutto e col Tutto non ha nulla in comune: perciò, anche per questa ragione, Egli deve essere al di là 73 74

Porfirio, Vita Plotini, 17. Platone, Repubblica VI, 509 B.

dell’essenza, e quindi anche dell’Intelletto; c’è dunque qualcosa al di là dell’Intelletto75.

Con questa dottrina Plotino rompe con la tradizione platonica che identificava Dio con l’Essere e preferisce chiaramente, come “nome” di Dio – nome per modo di dire, perché Dio è innominabile – all’Essere l’Uno. Egli tuttavia ha una concezione originale dell’Essere, che non è più quella di Platone ma gli deriva invece da Filone e dal medioplatonismo, quella per cui l’Essere è anche Intelletto, cioè pensiero, pensiero che, pensando sé stesso (aristotelismo), pensa tutte le Idee eterne e intelligibili che formano la vera realtà (ousia). Indubbiamente – scrive infatti Plotino – l’essere non è un cadavere, né è una non-vita e nemmeno un non-pensante. Perciò Intelletto ed Essere sono la stessa cosa. L’Intelletto non è in rapporto coi suoi Intelligibili come il senso con i sensibili, come se quelli fossero a lui anteriori; ma l’intelletto è esso stesso i suoi intelligibili, poiché le Idee non sono acquisite. Infatti, donde deriverebbero? Qui, fra i suoi Intelligibili, l’Intelletto è uno e identico ad essi: così come anche la scienza delle cose immateriali è identica ad esse76.

1.1.7. L’Essere è l’Uno: Porfirio La concezione di Dio come Essere, propria di Filone e del medioplatonismo, ritorna invece in Porfirio di Tiro (233-305 d.C.), discepolo anch’egli di Plotino, ma orientato a conciliare la filosofia di Plotino con quella dei più grandi filosofi greci del passato, Platone e Aristotele, presumibilmente allo scopo di dar vita a un sistema filosofico il più potente possibile, talmente potente da poter fronteggiare con successo il cristianesimo che stava ormai diffondendosi nel mondo di cultura ellenistica. Non bisogna dimenticare, infatti, che Porfirio scrisse un trattato di ben 15 libri, cioè lunghissimo, dal titolo Contro i Cristiani, confermando in tal modo che il neoplatonismo è, in fondo, la più grande reazione della filosofia pagana contro il cristianesimo. Ebbene, Por75

76

Plotino, Enneadi V, 4, 2, 37-42, tr. it. di G. Faggin, Milano, Rusconi, 1992, leggermente modificata. Ivi: 42-48.

firio – noto a tutto il medioevo soprattutto come autore dell’Isagoge, o introduzione, alle Categorie di Aristotele, in cui pose per la prima volta il problema degli universali – pare essere stato l’autore anche di un Commentario al “Parmenide” di Platone, in cui si pone come prima ipostasi, cioè come principio supremo, l’Uno, come voleva Plotino, ma lo si identifica con l’Essere, secondo la tradizione del medioplatonismo, e si pone come seconda ipostasi, generata dall’Uno-Essere, l’Ente, e lo si identifica con l’Intelletto, come ugualmente voleva Plotino. Il passo decisivo a questo riguardo è il seguente: Guarda ora se Platone non sembra lasciar intendere questo, cioè che l’Uno che è al di sopra della sostanza e dell’ente, non sia né ente, né sostanza, né attività, ma piuttosto agisca e sia lui stesso l’agire puro (to energein katharon); di conseguenza lui stesso sarebbe l’Essere che è prima dell’ente (to einai to pro tou ontos). Partecipando di questo Essere dunque, il secondo Uno possiede un essere derivato, e questo è il “partecipare dell’ente”. Ne consegue che l’Essere è duplice: il primo preesiste all’ente, il secondo è quello che è prodotto dall’Uno che è al di là, che è l’Essere in senso assoluto (to apoluton) ed è in qualche modo l’Idea dell’ente. Dunque il secondo Uno è stato generato partecipando di questo essere, e ad esso è abbinato l’essere (secondo) derivante dall’Essere (primo)77.

Qui l’autore, che Pierre Hadot ha identificato in Porfirio, interpreta l’“Uno che è uno” della prima ipotesi del Parmenide come l’Essere, e l’“Uno che è” della seconda ipotesi del Parmenide come l’Ente. Rispetto al medioplatonismo, dunque, egli introduce la distinzione tra “Essere” (einai, espresso dal verbo all’infinito) ed “Ente” (on, espresso dal verbo al participio), e concepisce il primo come “puro agire”, cioè, verrebbe da dire, come puro atto, ma non atto di pensiero, quale è il primo motore immobile di Aristotele, bensì atto di essere. Se prescindiamo da quest’ultima precisazione, che secondo alcuni anticiperebbe la famosa dottrina dell’actus essendi formulata nel medioevo da Tommaso d’Aquino, dobbiamo riconoscere che siamo in presenza della concezione platonica dell’Idea dell’essere come essere per essenza, identificata con l’Idea del bene e con l’Uno, cioè con Dio. 77

Porfirio, Commentario al “Parmenide” di Platone, saggio introduttivo, testo e note di P. Hadot, Milano, Vita e Pensiero, 1993: XII, 22-35, tr. it. di G. Girgenti leggermente modificata.

Ebbene, questa stessa dottrina si ritrova nei filosofi cristiani del IV secolo, cioè sia nei Padri della Chiesa orientali, quali sono i famosi “luminari di Cappadocia”, sia nei Padri occidentali, il più grande dei quali è Agostino. Gregorio di Nazianzo (330-390 d.C.), città della Cappadocia, considera l’espressione mosaica “Colui che è (ho ôn)” come quella che meglio definisce l’essenza (ousia) di Dio. Egli scrive infatti: Cerchiamo una natura cui l’essere appartiene in quanto tale e non in quanto è congiunto con qualcos’altro; l’essere infatti appartiene veramente e interamente a Dio, perché esso non è determinato o delimitato né da un prima né da un dopo, Dio infatti non è né sarà; egli è78.

E ancora: Dio era sempre ed è e sarà. O piuttosto: egli è sempre. Perché l’“era’” e il “sarà” sono segmenti del nostro tempo e della natura mutevole; egli però è colui che sempre è, e questo è il nome che egli stesso si dà quando parla a Mosè sulla montagna. Egli infatti possiede raccolto in sé l’essere (to einai) come un tutto, che non ha incominciato né finirà: mare dell’essere (pelagos ousias) infinito e illimitato, che va oltre ogni concetto di tempo e di natura79.

E suo fratello Gregorio di Nissa (335-394 d.C.) gli fa eco, sostenendo che nella frase “Io sono colui che è” Dio nomina sé stesso mediante l’indicazione della sua essenza atemporale o eterna, propria di Colui che “è sempre allo stesso modo”, cioè rimane sempre “lo stesso (autos)”80. Dio è essere che è “realmente (ontôs)”, “veramente (alêthôs)” e “totalmente (pantôs)”81; “soltanto Dio è”, perché Dio è “illimitato nell’essere (aoriston en tôi einai)”82. Questa dottrina probabilmente deriva ai Padri orientali più dal medioplatonismo, che aveva una sua diffusione nel mondo greco, che dal neoplatonismo, il quale, almeno ai suoi inizi, si diffuse soprattutto a Roma, cioè in Occidente.

78 79 80 81 82

Greg. Naz., Oratio 30, 18, in Patrologia Graeca 36, 128 A. Ivi: 45, 3, in Patrologia Graeca 36, 625 C. Greg. Niss., Contra Eunomium III 3 (ed. Jaeger, vol. II, 186, 13). Ivi: 186, 25; 189, 1, 11, 12. Ivi: 186, 13; 188, 14.

Nei Padri occidentali l’influenza di Plotino e di Porfirio, vissuti entrambi a Roma, è esplicita, a riprova che nell’antichità i fi losofi cristiani attinsero a piene mani dal pensiero di quelli che erano stati i loro principali nemici, i neoplatonici, come nel medioevo avrebbero attinto dal pensiero dei fi losofi musulmani. In un celebre libro, Porfirio e Vittorino, Hadot83 ha infatti mostrato che l’africano Mario Vittorino (III-IV secolo d.C.) – professore di retorica a Roma, traduttore in latino di Plotino e di Porfirio, le cui traduzioni sarebbero state lette da Agostino –, riprende proprio da Porfirio la dottrina secondo cui Dio è unum per eccellenza, e in quanto tale supra omnia, ma appunto per questo è anche “essere puro (esse purum)”, e quindi anche pensiero84. Anzi Vittorino identifica la triade esistenza-vita-intelligenza, che secondo Porfirio caratterizza il primo Principio, con la Trinità del cristianesimo, interpretando il Padre come esse, il Figlio come vivere e lo Spirito Santo come intellegere85. Anzi, proprio per influenza di Porfirio, egli scivola nell’eterodossia interpretando il Figlio anche come “l’Ente”, cioè il secondo Uno86, che in Porfirio è inferiore al primo Uno, mentre nel dogma cristiano il Figlio è uguale al Padre. Più libero dal linguaggio neoplatonico è Agostino, il quale si rifà direttamente all’Esodo, intepretandolo secondo la tradizione platonica. Questo era quel che Mosè si aspettava da Dio, perché proprio questo gli aveva domandato: come ti chiami? Da chi dirò che sono stato mandato per rispondere a coloro che me lo domanderanno? “Io sono” (Ego sum)”; E chi? “Colui che sono (Qui sum)”. Questo è dunque il tuo nome? Tutto questo per dire come ti chiami? Ed avresti tu per nome proprio l’essere (esse), se tutto quanto è al di fuori di te non si rivelasse realmente, confrontato con te, come non essere? Sì, questo è il tuo nome87.

L’essere di Dio, sempre identico a sé stesso, e quindi eterno, è chiamato da Agostino, con espressione platonica, “l’essere stesso (ispum esse)”88, 83 84

85 86 87 88

Hadot 1968. Marius Victorinus, Adversus Arium, IV, 23, 22 (ed. a c. di P. Henry e P. Hadot, Paris, Les éditions du cerfs, 1960); II, 4, 43; IV, 27, 8. Ivi: I, 60, 1 ss. Marius Victorinus, Ad Cand. 14, 22 ss. August., Enarrationes in Psalmos, CI, sermo 2, 11. August., De Trin. V, 2, 3.

o anche “l’essere che è sommamente o massimamente (summe o maxime esse)”89. Infine l’influenza della distinzione porfiriana tra “Essere” ed “Ente” è ravvisabile, secondo Hadot, persino in Boezio (480-524 d.C.) – l’ultimo filosofo antico, destinato a influenzare a sua volta profondamente il medioevo latino –, precisamente nella distinzione che questi fa tra l’“essere (esse)” e “ciò che è (quod est)”90. È singolare che la questione dell’essere, apertasi con Parmenide all’inizio della filosofia antica, nel V secolo a.C., ritorni di prepotenza più di un millennio dopo, a conclusione del ciclo della filosofia antica, avendo attraversato quasi tutti i momenti più importanti di quest’ultima e avendo incontrato per lo più la stessa risposta: c’è un Essere per essenza, cioè un essere che non può non essere, con la sola grande eccezione di Aristotele.

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1.2. METAFISICA di Alessandra Saccon

1.2.1. Di cosa parla la metafisica? Prima di arrivare in Occidente, la Metafisica di Aristotele migra attraverso i commentatori greci e poi quelli arabi; questa traslazione culturale non è un fatto secondario né per la trasmissione del testo (le traduzioni arabe sono più antiche dei manoscritti greci della Metafisica che possediamo) né per la storia dei suoi influssi (le parafrasi di Avicenna ai testi di Aristotele giungono in Occidente prima del corpus aristotelico e ne determinano profondamente la comprensione). Questa storia di traduzioni e tradizioni è più che una mera trasmissione di contenuti da un contesto culturale all’altro: può spiegare l’interazione (se si vuole la ‘contaminazione’) dell’aristotelismo con la teoria neoplatonica dell’uno di cui si è detto nel capitolo precedente, ma anche il progressivo affermarsi della “filosofia prima” e l’ampliarsi dei suoi contenuti rispetto alle finalità aristoteliche. Lo sviluppo e l’elaborazione della metafisica in epoca medievale e primomoderna ha dunque la sua origine, come per altre discipline, nel dibattito iniziato nel mondo arabo. È soprattutto Avicenna (980-1037)91 91

Ibn SìnÂ, più noto con il nome latino di Avicenna, nacque in Persia, ad Afshana, presso Buchara. Grande estimatore di Aristotele, si dedicò allo studio della medicina e della fi losofia, ma fu anche attivo politicamente, come visir del principe. La sua cultura enciclopedica si esprime in una produzione letteraria vastissima, tra cui ricordiamo il Canone di Medicina (QanĬn fì tibb) – in cinque libri tradotti in latino da Gerardo da Cremona, che sarà il principale manuale delle facoltà di medicina occidentali fi no al XVI secolo – e il Libro della guarigione (KitÂb al-ŠifÂ’), un’enciclopedia fi losofica che si occupa di metafisica, fisica, logica, geometria, aritmetica e astronomia. Della parte sulla metafisica o “scienza delle cose divine” sono disponibili due traduzioni in italiano, curate rispettivamente da Olga Lizzini (Metafisica. La scienza delle

a mettere a fuoco la questione fondamentale di quale sia il “soggetto” della filosofia prima, ovvero l’oggetto proprio e adeguato che serve a definirla e a distinguerla dalle altre scienze. Dopo aver scartato varie possibilità, egli opta per “l’ente in quanto ente”, escludendo formalmente Dio, che non può essere l’oggetto proprio e adeguato perché la metafisica ha il compito di dimostrarne l’esistenza. Da questo punto in poi, la discussione si animerà, dividendosi tra i difensori di una metafisica come scienza dell’essere e i fautori di una metafisica come ousiologia (scienza della sostanza), oppure come teiologia (scienza del divino), o ancora come ontoteologia (scienza dell’essere e del divino), per concludere con una visione nominalista, che intende con “ente” un termine mentale e con “Dio” uno dei molteplici significati (anche se eminente) di esso. In questo dibattito, non esiste ‘una’ visione metafisica medievale, ma un’intera gamma di progetti metafisici, irriducibili tra loro, di fronte a cui qualsiasi semplificazione unificante – si tratti dell’accusa heideggeriana di aver oscurato l’essere, identificandolo con Dio, ente sommo, o di un’interpretazione rigidamente costruita sul percorso Avicenna-Scoto-Suárez – non può che naufragare.

1.2.2. Avicenna e il primato ontologico Dopo esser giunto a padroneggiare la logica, la fisica e la matematica, approdai infine alla scienza divina e lessi la Metafisica di Aristotele, ma senza comprendere cosa contenesse; lo scopo dell’autore continuava a sfuggirmi, al punto che la rilessi quaranta volte, fino a impararla a memoria. A dispetto di ciò continuavo a non capire né l’opera né la sua finalità e disperando di me stesso dissi: “questo è un libro che non c’è modo di comprendere!92

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cose divine (al-IlÂhiyyÂt), dal Libro della Guarigione (KitÂb al-ŠifÂ), testo arabo a fronte, Milano, Bompiani, 2002) e Amos Bertolacci (Libro della guarigione. Scienza delle cose divine, Torino, Utet, 2007). Autobiografia, in Gutas 1988: 28. Il testo dell’autobiografia di Avicenna è edito e tradotto in inglese da Gohlman 1974: 16-42. In Gutas 1988, oltre alla traduzione del testo (ivi: 22-30), si trova una sua interpretazione (ivi: 149-198) e un’analisi del problema del contenuto della Metafisica di Aristotele (ivi: 238-254); cfr. inoltre Gutas 1998 e Bertolacci 2001c; 2002.

Con queste parole Avicenna descrive l’impatto a 17 anni con il testo di Aristotele e la fatica interpretativa cui questa lettura lo costringe. Quale che sia il suo valore (se biografico, retorico, filosofico), questo episodio offre lo spunto per alcune considerazioni. Aristotele risuona come una voce oscura nel mondo culturale arabo, ma nello stesso tempo attrae con la forza della sua razionalità; se l’integrazione delle altre scienze si mostra abbastanza semplice, per la “scienza divina” è necessaria una rivisitazione, non tanto dei contenuti, quanto delle finalità. Una svendita al mercato dei libri e un venditore insistente risolvono le ambasce di Avicenna, ponendogli tra le mani un testo di alFÂrÂbì (870 ca.-950 ca.) sugli scopi della metafisica93. Ma cosa si trova di tanto straordinario in questo opuscolo da illuminare il senso di un’opera che le innumerevoli letture di Avicenna non erano riuscite a decifrare? Non un compendio, né un’introduzione alla metafisica, ma una sua interpretazione ontologica che ne chiarisce la collocazione rispetto alla teologia. È una questione estranea ad Aristotele, che deriva però dall’ambiguità delle formulazioni della Metafisica, e non tanto per il disinteresse o l’elusività, quanto per l’eccessiva dovizia di risposte che vi si trovano: ciò di cui di volta in volta si occupa la fi losofia prima sono le cause e i principi (Met. I, 2), l’ente nei suoi molteplici significati (Met. IV, 1-2 e VI, 2) e in primo luogo inteso come sostanza (Met. VII, 1 e XII, 1), l’essere immobile e le cause eterne (Met. VI, 1, 1026a 15-23; XI, 7, 1064b 1-6)94. A queste determinazioni dell’oggetto della metafisica corrispondono i diversi nomi con cui essa viene de93

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“Un pomeriggio mi trovavo nel quartiere dei librai quando un ambulante mi si avvicinò con un volume in vendita. Me lo offrì, ma io infastidito lo rifiutai, ritenendo che non ci fosse alcuna utilità in questa scienza particolare. Ma egli mi disse: ‘compralo; il suo proprietario ha bisogno di denaro e costa poco; te lo darò per tre dirham’. Così lo acquistai e vidi che era il libro di AbĬ Na˪r al-FÂrÂbì Sugli scopi della metafisica. Tornai a casa e mi affrettai a leggerlo, e di colpo lo scopo del libro di Aristotele mi divenne evidente, dato che lo conoscevo già a memoria. Me ne rallegrai molto e il giorno dopo feci una grande elemosina ai poveri, per ringraziare Dio altissimo” (Gutas 1988: 28). L’opuscolo di alFÂrÂbì è edito da F. Dieterici, Alfarabi’s philosophische Abhandlungen, Leiden, 1890: 34-38. Sono disponibili alcune traduzioni in lingue moderne (tr. ted. di F. Dieterici, Die Abhandlung von den Tendenzen der aristotelischen Metaphysik von dem zweiten Meister, in Alfarabi’s philosophische Abhandlungen, Leiden, 1892: 54-60; Le traité d’al-Farabi sur les buts de la Métaphysique d’Aristote, tr. fr. di Th.-A. Druart 1982; tr. ing. parziale in Gutas 1988: 240-242). Cfr. supra 1.1.4.

finita (sapienza, fi losofia prima, scienza divina o teologia), senza che Aristotele si ponga il problema dell’unità di questa scienza. Come si è visto nel capitolo precedente, i primi commentatori greci tendono a elaborare un’interpretazione teologica, e i commentatori arabi ne seguono il cammino: è nelle sostanze separate – e in Dio in maniera eminente – che l’essere in quanto essere si realizza in senso proprio. Soprattutto nel mondo arabo si sviluppa un ambiente sincretistico, in cui il neoplatonismo è inteso come il più coerente completamento della metafisica aristotelica, così da conferire al primo motore immobile i caratteri propri dell’Uno plotiniano. L’esempio più eloquente di tale lettura è offerto da due compilazioni di testi neoplatonici, la Teologia di Aristotele e il Libro delle cause, che circolano sotto la falsa paternità di Aristotele: si tratta nel primo caso di una collazione composta da brani delle Enneadi IV-VI di Plotino e da testi di Proclo, nel secondo di un rimaneggiamento degli Elementi di Teologia di Proclo95. Anche se si discute sulla possibilità di una raccolta greca anteriore, l’ambiente di composizione sembra quello della Baghdad dell’VIII secolo, all’interno della cerchia di al-Kindì († 870 ca.). Con il suo opuscolo al-FÂrÂbì intende contestare proprio questa interpretazione teologica di Aristotele, rideterminando la metafisica come la scienza universale, che si occupa di quanto è comune a tutti gli enti e non può essere perciò confusa con il kalÂm, la teologia islamica. Su questo sfondo Avicenna elabora il suo progetto di filosofia prima, definendone l’unità e lo scopo sulla base della questione – che diventerà paradigmatica per tutto il Medioevo – dell’individuazione del suo “soggetto”. Questo termine non si riferisce semplicemente agli argomenti trattati all’interno di una disciplina, ma è ciò che determina l’ambito di indagine di una scienza e ne assicura l’unità, distinguendola formalmente dalle altre96. Tutte le questioni di cui una scienza si occupa devo95

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Il Liber de causis (o de bonitate pura), tradotto in latino verso la fine del XII secolo da Gerardo da Cremona avrà un’influenza enorme in Occidente (ben superiore a quella esercitata sul mondo arabo): commentato e citato dai maggiori autori, sarà Tommaso d’Aquino a contestarne la paternità aristotelica dopo averlo confrontato con la traduzione dell’Elementatio theologica di Proclo curata da Guglielmo di Moerbeke. Per l’edizione critica del testo si veda A. Pattin (a c. di), Le Liber de causis - Édition établie à l’aide de 90 manuscrits avec introduction et notes, “Tijdscrift voor Filosofie”, XXVIII (1966): 90-203. Il termine “soggetto (arabo: mawdu‘, latino: subjectum)” è la trasposizione del concetto aristotelico di hypokeimenon e significa letteralmente “ciò che

no perciò riferirsi a questo “soggetto”, ma non vanno confuse con esso: per poter definire un’indagine disciplinare rispetto alle altre, il soggetto dev’essere presupposto, la sua conoscenza e la certezza della sua esistenza devono essere fornite apriori, o come dato di per sé evidente o in seguito a una dimostrazione offerta in un’altra scienza97. È per questo motivo che – con una mossa che sarà il modello per le successive discussioni latine – Avicenna rifiuta la tesi teologizzante secondo cui la fi losofia prima sarebbe anzitutto scienza divina: poiché l’esistenza di Dio non è evidente, ma è dimostrata proprio dalla metafisica, Dio non può essere il soggetto proprio di questa scienza. Dio, l’ente sommo, rientra tra gli oggetti trattati dalla filosofia prima – ed essendo quello più eminente giustifica la denominazione di “scienza divina” – ma non è ciò che le conferisce unità formale e la definisce nella sua specificità. Dopo aver preso in considerazione e immediatamente respinto la tesi che individua nelle cause e nei principi primi ciò che determina l’ambito di ricerca della metafisica, Avicenna conclude che solo l’ente in quanto tale può rivestire la funzione di soggetto.

1.2.3. L’ente in quanto ente Nell’ambiguità provocata dalla multivocità dell’essere nella Metafisica aristotelica, Avicenna privilegia l’essere in quanto tale, considerato nella massima generalità della sua accezione: Dio rientra nella metafisica come causa degli enti contingenti, che ricevono il loro essere da altro da sé, ma non può essere il soggetto della metafisica,

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è posto”; fino alle soglie dell’età moderna viene usato in maniera antitetica al significato attuale: ciò che esiste subjective è ciò che è dotato di una certa autonomia e sussiste al di fuori del nostro universo mentale, mentre “obiectum” e “obiective” indicano sempre la relazione a una facoltà mentale (e in questo senso corrisponde in qualche modo al termine aristotelico antikeimenon in De an. 402 b 15; 415 a 18-21). Cfr. Tommaso, S. Th. I, q. 1, art. 7: “il soggetto ha con la scienza la stessa relazione che l’oggetto ha con una facoltà o disposizione”. Solo con Suárez (cfr. infra 1.3.2.) la terminologia inizierà a modificarsi e la questione della natura della metafisica sarà riformulata nei termini della ricerca di un “oggetto adeguato” di tale scienza (DM I, 1, 26). Sull’inversione del significato dei termini soggetto/oggetto cfr. Kible 1998: 374-383. La distinzione tra soggetto e oggetti di una scienza rinvia – in ultima analisi – alla teoria di Aristotele espressa in Anal. Post. I, 10, 76 b 11-22.

perché il fatto di essere principio è meno generale del fatto di esistere. L’ente in quanto ente diventa dunque un concetto così generale e onnicomprensivo, da non essere di per sé né causato né incausato, né particolare né universale, né creato né increato, ma la condizione per poter pensare tutte le distinzioni successive. Avicenna lo chiama l’“esistente” senza altra condizione più generale98, che è immediatamente dato all’intelletto. In quanto comune a tutti e generale, non include direttamente neppure l’atto di essere, che è sempre l’esistere di un ente individuale e determinato. Ciò che però significa l’ens inquantum ens viene chiarito in riferimento alla distinzione fondamentale tra essenza ed esistenza, vale a dire tra ciò che una cosa è in quanto tale e il fatto stesso di esistere99. Per Avicenna, l’ens in quanto tale si applica soprattutto all’essenza, e ha una certa autoreferenzialità per il fatto che la domanda su che cosa sia (quid sit) una “res”, una cosa, cioè quale sia il suo contenuto essenziale, “quidditativo”, può essere posta a prescindere dalla domanda sulla sua esistenza (an sit). Ciò per cui, ad esempio, un triangolo è un triangolo e non un’altra figura geometrica è indipendente dall’effettiva esistenza concreta anche di un solo triangolo. Poiché la scienza mira a definire quale sia la natura degli enti che indaga, e non in primo luogo a mostrarne la posizione esistenziale, l’essenza viene colta come contenuto oggettivo che non dipende dall’atto di essere. È la celebre tesi dell’indifferenza dell’essenza all’essere, che è stata accostata alla teoria dell’oggetto di Meinong100 o al “terzo regno” di Frege101, anche se il confronto dev’essere posto con la necessaria cautela102: l’esistenza diventa un indice di realtà esterno all’essenza (intesa come entità astratta), qualcosa di accidentale rispetto alla res in quanto tale. Ciò non significa però che ci sia un regno di essenze, ma solo che la forma di esistenza non modifica la definizione (l’intentio) della cosa: ciò per cui una cosa è quella che è (la natura o quiddità) è indipendente dalla sua effettiva esistenza mentale o extramentale, ma la cosa esiste sem-

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Avicenna, Met. I, 2. Sulla distinzione tra essenza e esistenza cfr. Goichon 1937 (per Avicenna) e Gilson 1948 (per il mondo latino, e in particolare Tommaso). Cfr. infra 2.2. Cfr. infra 3.2.6. Cfr. de Libera 1996 (tr. it. 1999: 208-213); 1999: 515-543; Porro 2002: XXIVXXVI.

pre o negli individui o nella mente103. Indifferenza dell’esistenza non implica quindi il costituirsi di qualcosa di ‘inesistente’. Alla base c’è la distinzione tra l’essere necessario, che riceve da sé la propria esistenza (esse a se) e non può che essere unico, e gli enti contingenti (esse ab alio) che ricevono il loro essere da un altro, al di fuori di ogni necessità. Su questo Avicenna fonda una prova dell’esistenza di Dio propriamente metafisica (dall’essere contingente al necessario) e non fisica come quella che partendo dall’osservazione del movimento conclude a un primo motore immobile. Ma soprattutto tale teoria consente di pensare un oggetto della filosofia prima che sia indifferente all’esistenza reale: in nuce sono già poste le basi per una considerazione noetica (e non esistenziale) del concetto di ens, che perdendo il valore verbale del participio (l’esistente), verrà impercettibilmente a trasformarsi in sinonimo di res, ciò che possiede un’essenza senza per questo necessariamente esistere.

1.2.4. L’alternativa di Averroè Con Averroè (1126-1198)104 viene inaugurato un nuovo modello di lettura dei testi aristotelici: alle parafrasi e ai riferimenti solo impliciti di Avicenna si sostituisce la forma del commento, dove il brano originale è riportato all’inizio di ogni capitolo e ripreso passo per passo in maniera più letterale. Per la mole dei suoi commenti e il successo di questo genere letterario in Occidente, Averroè diviene per i Latini il Commentatore per antonomasia105. 103 104

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Avicenna, Met. I, 5. Ibn Rushd, noto nell’Occidente latino come Averroè, è l’ultimo grande fi losofo arabo medievale: nato a Cordova, studiò giurisprudenza, fi losofia, medicina, teologia, e ricoprì diverse cariche pubbliche alla corte del califfo almohade. Nel 1195 fu esiliato e la sua dottrina fu condannata come miscredente; sembra sia stato riabilitato e riaccolto a corte, poco prima della morte. I commenti di Averroè, che abbracciano tutta l’opera di Aristotele tranne la Politica, sono di tre tipi: i Grandi Commenti, i Commenti medi e i Compendi (Epitomi). Se questi ultimi esprimono più direttamente il pensiero dell’autore, nei Grandi Commenti viene fissato in maniera canonica il genere del commento letterale, con il testo originale separato anche graficamente dall’interpretazione e analizzato parola per parola o frase per frase (diversamente dai Commenti Medi, più sintetici, dove il testo aristotelico è citato solo con le prime parole del brano preso in esame).

Anche per la definizione della metafisica, come per altre principali questioni filosofiche, i Latini ereditano la posizione di Averroè come alternativa a quella di Avicenna e riconoscono nel suo lavoro il tentativo di emendare la lettura di Aristotele da commistioni neoplatoniche. Sulla base dell’identica definizione di scienza, ricavata dagli Analitici Posteriori, Averroè perviene a una definizione del soggetto della metafisica che è antitetica rispetto a quella del suo precursore persiano: Dio rientra a pieno titolo nel soggetto di tale scienza, perché la sua esistenza è presupposta e non è oggetto di dimostrazione in essa. Non è infatti la metafisica, ma la fisica a dimostrare la necessità di un primo motore che sia origine del movimento dell’universo. La formulazione di Averroè risulta quindi una ripresa dell’interpretazione teologica della fi losofia prima. Soggetto della metafisica per Averroè è la sostanza, che è aristotelicamente il riferimento principale per la multivocità dei significati del termine essere; diversamente dalla fisica, la metafisica studia però le sostanze separabili o separate dalla materia, ovvero in primo luogo Dio e le intelligenze celesti. Da questo punto di vista, la metafisica di Averroè è piuttosto una “ousiologia”, una scienza della sostanza (ousia) in quanto tale, che culmina nelle sostanze immateriali, piuttosto che una “scienza divina” in senso stretto. Rispetto ad Avicenna, il criterio per l’individuazione del soggetto proprio di questa scienza non è più la massima generalità, ma l’eminenza: non l’essere nel suo significato più ampio, ma ciò in cui l’essere si realizza nel modo più perfetto ed eccellente, perché non solo separabile dalla materia tramite l’atto cognitivo dell’astrazione, ma ontologicamente separato nella sua esistenza. Ne segue che Averroè non può condividere la tesi dell’accidentalità dell’esistenza che nella sua prospettiva è insostenibile: la tesi per cui Dio e le sostanze separate sono soggetto della metafisica non può basarsi sulla riduzione al concetto di essenza, ma solo su una diversificazione delle modalità di esistenza, da cui l’essenza non può prescindere. Aver collocato Dio al centro della definizione della metafisica non rappresenta tuttavia uno spostamento d’interesse verso la teologia filosofica, né viceversa l’esclusione di Dio dal soggetto della metafisica da parte di Avicenna implica un deprezzamento della sua componente teologica, ma vale in un certo senso il contrario. Nella comprensione ontologica di Avicenna la trattazione delle “cose divine” è il coronamento della filosofia prima e l’identificazione dell’ens inquantum ens come suo soggetto non limita, ma amplia la possibilità di una metafi-

sica come scienza divina, perché a essa è affidato il compito di dimostrare l’esistenza di Dio e le sue proprietà. L’impostazione averroista, al contrario, finisce per produrre una concezione quasi fisicalista del discorso teologico: Dio è soggetto della metafisica, ma la sua esistenza è adeguatamente dimostrata nella filosofia naturale, che lo considera unicamente come principio primo, necessario per spiegare il movimento dell’universo.

1.2.5. L’ingresso della metafisica in Occidente A eccezione di alcune opere logiche, il corpus aristotelicum rimane sconosciuto in Occidente fino al XII secolo, quando viene tradotto insieme ai suoi maggiori interpreti arabi, che operano da filtro per la sua interpretazione. Fino ad allora le questioni ontologiche affrontate dai Latini seguivano il solco delle riflessioni di Porfirio e di Boezio sulle diverse modalità di predicazione e di categorizzazione della realtà, insieme al motivo, tutto cristiano, dei limiti dell’applicazione delle categorie alla realtà divina. La Metafisica compare per la prima volta in latino nella faticosa traduzione dal greco di Giacomo da Venezia (Vetustissima translatio, 1125-1150) che si ferma a metà del quarto libro106; a essa segue la traduzione anonima detta Media, che a sua volta manca di tre libri107; negli anni 1220 ca.-1230 Michele Scoto esegue la prima traduzione dall’arabo (Nova translatio). I primi commentatori latini si basano dunque su testi significativamente diversi, che essi utilizzano senza preoccupazioni filologiche comparative e scegliendo semplicemente la 106

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Aristoteles Latinus, vol. 25.1.1a, Metaphysica lib. 1.-4.4: translatio Jacobi sive ‘vetustissima’ cum scholiis et translatio composita sive ‘vetus’, edidit Gudrun Vuillemin-Diem, Bruxelles-Paris, Desclée de Brouwer, 1970. Tale edizione riporta anche il testo della Vetus translatio, ovvero di quella revisione anonima e parziale (che si ferma a Met. III, 938 b 23) della Vetustissima, collocabile negli anni 1220-1230. Il progetto editoriale Aristoteles Latinus, a cura del “De Wulf-Mansion Centre” di Lovanio, si propone di fornire l’edizione e un ampio apparato critico di tutte le traduzioni medievali di Aristotele dal greco. In 50 anni di lavoro sono stati fi nora pubblicati 25 volumi. Precisamente i libri K, M, N. Cfr. Aristoteles Latinus, vol. 25.2., Metaphysica lib. 1.-10., 12.-14.: translatio anonyma sive ‘media’, edidit Gudrun VuilleminDiem, Leiden, Brill, 1976.

versione meglio rispondente alla loro interpretazione; ma soprattutto il testo di Aristotele viene anticipato dalla traduzione dei sei libri della Philosophia Prima di Avicenna, compiuta da Domenico Gundissalino già alla fine del XII secolo108, e accompagnato dal commento di Averroè nella traduzione di Scoto109. Infine, nella seconda metà del Duecento (prima del 1272), Guglielmo di Moerbeke fornisce la prima traduzione dal greco della Metafisica, condotta con criteri più attendibili di critica testuale e di revisione delle precedenti traduzioni110. Il diffondersi di questo materiale inedito produce un ‘risveglio’ metafisico, che è direttamente attestato dalla diffusione dei testi e dal fiorire quasi immediato di commenti all’opera di Aristotele, ma anche dalla preoccupazione dell’autorità ecclesiastica che nel 1210 e nel 1215 proibisce di insegnare la metafisica e la filosofia naturale di Aristotele nell’università di Parigi111. Tuttavia, dalla seconda metà del Duecento gli statuti universitari registrano un lento ma inequivocabile imporsi della “fi losofia prima” a livello istituzionale, così che da materia marginale – e in alcune università, come Oxford, addirittura non contemplata nell’ordinamento – la metafisica diventa una disciplina portante: a Parigi nel XIV secolo la frequenza al corso di metafisica è condizione necessaria per ottenere la licenza e in generale tale corso diventa il più lungo e costoso112. Insieme ai testi, l’Occidente eredita dai commentatori arabi le questioni metafisiche fondamentali e, in particolare, la formulazione della domanda sul soggetto di questa scienza e l’indagine sul rapporto di Dio con tale soggetto, il che equivale a interrogarsi sul “senso dell’essere”, e sull’identità e definizione della disciplina che se ne occupa. La 108 109

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Avicenna Latinus, Liber de philosophia prima, ed. van Riet. L’edizione latina del Grande Commento di Averroè alla Metafisica è in preparazione a cura di N.D. Hasse. L’epitome si può leggere nell’edizione rinascimentale delle opere di Aristotele: Aristotelis Metaphysicorum, libri XIIII cum Averrois Cordubensis in eosdem commentariis, Venezia, 1562, ripr. anast. Frankfurt a.M., Minerva, 1962: VIII, 356-396. Aristoteles Latinus, voll. 25.3.1-2., Metaphysica lib. 1.-14.: recensio et translatio Guillelmi de Moerbeka, edidit Gudrun Vuillemin-Diem, Leiden, Brill, 1995; vol. 1: praefatio (Wilhelm von Moerbekes Übersetzung der aristotelischen Metaphysik); vol. 2: editio textus. Cfr. Bianchi 1997; 1999. Tali divieti, limitati all’università di Parigi, cadono presto in disuso. Cfr. Gabriel 1963; de Libera 1997; de Rijk 1997.

questione del soggetto risponde anche a un’esigenza di unificazione della metafisica come scienza, che nasce in riferimento alla collazione di trattati diversi accorpati e catalogati come “libri dopo la fisica” da Andronico di Rodi. Naturalmente ogni interpretazione unitaria – nel mondo arabo come in quello latino – di un corpus dal carattere originariamente polivoco rappresenta una riscrittura e una riorganizzazione teorica, che tende a integrare elementi non autoctoni. Nell’Occidente latino si ripropone quasi la stessa alternativa che abbiamo visto esemplificata da Avicenna e Averroè, tra una concezione astratta e generale della nozione di essere e una che ne illustra le diverse gradazioni fino al significato più eminente. I due progetti più rilevanti sono quelli di Tommaso d’Aquino (1221-1274) e di Giovanni Duns Scoto (1265 ca.-1308), spesso interpretati alla luce della contrapposizione tra la dottrina dell’analogia dell’essere e quella dell’univocità113. La questione ha tuttavia dei contorni più ampi e il ruolo di Dio rispetto al soggetto della metafisica diversifica il dibattito almeno su tre fronti114. 1) Da una parte c’è chi ritiene che il soggetto della metafisica sia molteplice, così da potervi legittimamente includere non solo l’ente in quanto tale, ma anche la sostanza e Dio. È una posizione che si trova già nei primi commenti del XIII secolo, e tra i più importanti sostenitori trova Ruggero Bacone (1214 ca.-1292) ed Egidio Romano (1247 ca.-1316): la soluzione di fatto si limita a riproporre la pluralità aristotelica, senza forzare l’interpretazione in vista di una maggiore semplificazione e unità. La tesi che la metafisica abbia più soggetti si ripresenta però nel tardo Medioevo, all’interno della corrente nominalista che sperimenta un nuovo modello di scienza, defi nito non tanto dagli oggetti a cui si riferisce, ma dalla sua organizzazione formale. Si tratta di una concezione proposizionale della scienza, in cui il termine “soggetto” cambia significato: non è più il principio di unità e di ordine all’interno di una disciplina, ma solo il soggetto della predicazione, cioè il significato del termine a cui ci si riferisce nelle proposizioni che compongono un sapere. “Soggetto” perde la funzione unificante per ridursi in ultima analisi al suo significato logico-grammaticale. Non esiste quindi un soggetto eminente o primo, perché la metafisica è solo una scienza le cui proposizioni seguono 113

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In questa alternativa, si rischia però di applicare ai due autori i conflitti successivi delle due scuole che a essi si ispirano. Per questa tripartizione si veda A. Zimmermann 1965 (19982).

un certo ordine, ma che – trattando come ogni conoscenza di proposizioni e non direttamente di cose – può essere destrutturata e ricomposta secondo un ordine diverso. 2) Un secondo gruppo di filosofi – fra cui vanno annoverati Alberto Magno (1205 ca.-1280)115 e Tommaso d’Aquino – si mostra più attento a salvaguardare l’unità della scienza che deriva dall’unità del soggetto, l’ente in quanto ente. Ma questi filosofi si spingono più avanti rispetto ad Avicenna e considerano Dio in qualche modo entro il soggetto della metafisica, non perché incluso nel concetto di ente, ma come suo principio: l’ente ha infatti bisogno di una causa per esistere e tale principio non può essere che Dio. Oltre all’essere, nel soggetto della metafisica rientrano così a pieno titolo le sue proprietà e i suoi principi, intrinseci ed esterni. Senza frantumare l’unità della metafisica, né ripudiare la sua vocazione propriamente ontologica, Dio viene compreso all’interno del suo soggetto in quanto principio e fondamento dell’essere. 3) La terza posizione risolve infine l’ambiguità aristotelica intendendo Dio come parte del soggetto della metafisica, secondo un’elaborazione che accentua l’universalità dell’essere in senso avicenniano. Mentre la posizione precedente recupera Dio all’interno della metafisica come principio dell’essere causato, qui si pone a fondamento di questa scienza una nozione di essere così generale, da non avere né causa né principio in quanto non ancora determinato come essere finito o causato. Ma nulla può rimanere al di fuori di una nozione di essere così estesa (altrimenti non esisterebbe), così Dio ne diventa una parte, una volta che il concetto generale si è specificato nella distinzione tra ente finito ed ente infinito. Nel XIII secolo i sostenitori di questa posizione sono soprattutto Robert Kilwardby (inizio XIII sec.-1279), Sigieri di Brabante (1235 ca.-1282) ed Enrico di Gand (1217 ca.-1293), ma l’esponente più autorevole e significativo per gli sviluppi successivi è Giovanni Duns Scoto. Come si vede, non è possibile parlare di una concezione unitaria della metafisica nella filosofia medievale; per esigenza di sintesi ci limiteremo però a presentare le posizioni di Tommaso e di Scoto, come 115

La posizione di Alberto è però difficilmente catalogabile, per le prospettive diverse a cui egli aderisce nelle opere filosofiche (come il Commento alla Metafisica) e in quelle teologiche (come la Summa Theologiae). Gli studi sulla concezione metafisica di Alberto si riferiscono prevalentemente ai testi fi losofici: cfr. Wieland 1972; Bertolacci 1998a; 1998b; 2001a; 2001b; de Libera 2005.

esempi più significativi di un’alternativa di lunga durata, i cui tratti fondamentali sono rintracciabili ancora in età moderna.

1.2.6. Metafisica e teologia in Tommaso d’Aquino116 Nel proemio al suo commento alla Metafisica Tommaso presenta un sistema organico dei saperi, dove tutte le scienze teoriche e pratiche sono ordinate alla perfezione dell’uomo, alla beatitudine naturale che consiste nella sapienza. Come nell’uomo l’anima governa il corpo e la parte intellettiva dell’anima orienta le facoltà inferiori, così la metafisica è posta al vertice dello scibile umano come scienza regale e ordinatrice, imponendosi sulle altre scienze per il grado di intellettualità. Gli oggetti della sua considerazione sono sommamente intelligibili secondo una triplice accezione117. 1) In riferimento alla validità epistemologica del sapere, che è sempre riconoscimento delle cause di un fenomeno, la fi losofia prima ricerca le cause prime. 2) Se si considera la differenza tra l’intellezione (universale) e la percezione sensibile (particolare), questa scienza deve occuparsi dei principi universali, ovvero dell’ente in quanto ente e delle sue proprietà (ciò che qualifica l’ente in senso quantitativo o modale, come l’uno e i molti, la potenza e l’atto, l’universale e il particolare). 3) Dal punto di vista dell’intelletto in sé, si osserva infine che è massimamente intelligibile ciò che è separato dalla materia, sia in quanto concettualmente astratto (l’ens commune) sia in quanto ontologicamente immateriale (Dio e le sostanze spirituali)118. 116

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Nato nel 1225 a Roccasecca, nel Lazio meridionale, entrò nell’ordine domenicano, costituitosi solo pochi anni prima. Allievo di Alberto Magno, studiò teologia all’università di Parigi e allo Studio generale domenicano di Colonia, ed ebbe una carriera rapida e brillante: fu chiamato più volte a insegnare a Parigi e divenne in seguito teologo della corte pontificia e di vari studi domenicani. Convocato al concilio di Lione nel 1274, morì durante il viaggio. Oltre ai numerosi commenti fi losofici e biblici e alle diverse Questioni disputate, le sue opere maggiori sono la Summa Theologiae, enorme sintesi teologica in tre parti (rimasta però incompiuta) e la Summa contra Gentiles. Tommaso, In Met., prooem. Cfr. Mansion 1978. Per i medievali l’astrazione è l’atto intellettivo con cui si separa la forma dalla materia, di un ente che è però un sinolo e nella realtà empirica non si dà mai

Queste tre considerazioni si riflettono nei nomi attribuiti alla scienza somma, che è rispettivamente filosofia prima, metafisica, scienza divina o teologia. In questa distinzione non viene ancora però formulata l’unità di tale conoscenza (determinata dal suo soggetto) e il rapporto tra i diversi ambiti di indagine così strettamente correlati fra loro. La risposta di Tommaso riafferma la centralità dell’ente in quanto ente, inteso nella sua massima generalità come soggetto della metafisica, ma si allontana dalla formulazione avicenniana ponendo Dio strutturalmente all’interno di questa scienza come principio d’essere. Ma la relazione tra i termini in gioco – Dio ed essere – è più articolata di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Ad arricchire il contesto interpretativo entrano due preoccupazioni peculiari di Tommaso, una di ordine teologico e l’altra propriamente ontologica: l’attenzione a non sovrapporre la teologia sacra e quella fi losofica, e la necessità di distinguere l’ente comune non solo dall’essere di Dio, ma anche dall’ente concretamente esistente. Per quanto concerne il primo punto, la questione si pone nel momento in cui la teologia assume i connotati della scienza aristotelica119. Proprio per garantire una reciproca autonomia fra la sacra doctrina120 e la teologia fi losofica, Tommaso respinge la possibilità che Dio entri nella metafisica come suo tratto costitutivo: è l’ente in quanto ente che è soggetto della metafisica e non Dio, che è invece soggetto della teologia sacra121. La fi losofia prima, non essendo più ordinata alla trattazione di Dio, è liberata da una vocazione teologica vincolante, e d’altra parte la scientificità della teologia non deriva

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senza determinazioni materiali; le sostanze separate (Dio, le intelligenze celesti, gli angeli) sono invece enti dotati di pura forma, che in quanto tale non si trova mai in una materia. S. Th. I, q. 1, art. 2: “Se la sacra dottrina sia scienza”. Tommaso – come del resto i suoi contemporanei – usa raramente il termine “theologia” (che spesso riferisce alla scienza divina aristotelica), preferendo per la scienza teologica espressioni come “sacra doctrina”, “sacra pagina”, “scientia Dei”. La duplicità della considerazione riguarda in particolare quei principi che, oltre a fungere da principi (ad esempio l’unità come principio del numero), sono anche delle nature in sé complete, considerate in una scienza a sé: “le realtà divine, poiché sono i principi di tutti gli enti e sono nondimeno nature in sé complete, possono essere considerate in due modi: in quanto sono principi comuni di tutti gli enti e in quanto sono in sé determinate realtà” (Sup. Boet. de Trin., q. V, a. 4, resp., 154a).

dalla metafisica, ma dalla sua dipendenza da una scienza superiore, la scientia Dei et beatorum, inaccessibile all’uomo in questa vita se non per rivelazione122. Tale aspetto, però, invece che inficiarne la scientificità, ne è piuttosto una conferma: nella teologia, infatti, le principali affermazioni della fede non sono elementi extrascientifici ma occupano il posto che nelle altre scienze hanno i principi della conoscenza, anch’essi indimostrabili123. Nella metafisica, invece, Dio entra solo in riferimento alla nozione di essere, che definisce l’unità e la specificità della disciplina: Dio è l’unico essere che deve a sé la propria esistenza (ipsum ens subsistens), è l’ente sommo, assolutamente perfetto e semplice, senza alcuna distinzione reale tra la sua natura essenziale (quid sit) e il fatto di esistere (an sit), e tra le diverse proprietà che gli ineriscono, così che ad esempio nella predicazione su Dio non si può affermare che “Dio è buono, giusto, santo...”, ma solo che “Egli è la bontà, la giustizia, la santità...”. In quanto atto primo Dio è causa e principio dell’esistenza di tutti gli enti (e da questo punto di vista la metafisica incrocia il concetto di creazione della sacra doctrina), ma non può essere il soggetto proprio. Dio partecipa l’esistenza a tutti gli enti, ma non si comporta come un genere sommo che contiene implicitamente tutta la realtà: l’essere divino non è la totalità degli enti, né corrisponde all’ente comune. Si è giunti così al secondo punto, ovvero alla distinzione ontologica, che chiarisce il senso dell’essere. 122

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La teoria della subalternazione è applicata a tutte le scienze, i cui principi derivano da una scienza superiore (‘subalternante’), come la musica rispetto alla matematica e l’ottica rispetto alla geometria. La peculiarità dell’oggetto della teologia, però, apre una duplice prospettiva: da una parte una considerazione umana (quoad nos) di Dio, inadeguata perché la nostra conoscenza deve partire dalle realtà sensibili, ma possibile in quanto coadiuvata dalla rivelazione; dall’altra una conoscenza perfetta, che è quella che Dio ha di sé stesso, condivisa dai santi ammessi alla visione beatifica. La teologia viene così a essere scientia Dei, nel duplice significato – soggettivo e oggettivo – del genitivo. Cfr. S. Th. IIa IIae, q. 1, art. 7, resp.: “Nella teologia gli articoli di fede si trovano come i principi noti di per sé in una conoscenza che si ricava dalla ragione naturale”. L’equivalenza tra principi della scienza e articoli della fede sembra esser stata introdotta da Guglielmo d’Auxerre: “Come le altre scienze hanno i loro principi e le loro conclusioni, così la teologia ha i suoi principi e le sue conclusioni. E i principi della teologia sono gli articoli della fede. La fede infatti è argomento e non conclusione”. (Summa aurea, a c. di J. Ribaillier, Paris-Grottaferrata, Quaracchi, 1985, III, tr. 12, c. 1, p. 199).

1.2.7. L’ente comune L’ens è il “primo conosciuto” per l’intelletto umano, recita Tommaso con Avicenna124: l’ente è ciò che per primo “cade sotto la considerazione dell’intelletto”, il che significa che l’ente è la condizione del pensare, che non si acquisisce discorsivamente a partire da altre nozioni, ma si imprime nell’anima e si mostra in maniera evidente. Non si tratta di un concetto, ma di una prima impressio dell’anima, una nozione intuitiva prima e comune che è principio della conoscenza e oggetto formale dell’intelletto: l’ente è infatti ciò in cui si risolvono tutti i contenuti concettuali125. Questo apriori, condizione della conoscenza, è necessariamente universale e indeterminato; l’essere è l’atmosfera in cui avviene il pensiero, è sempre già dato come ciò che accomuna tutto ciò che esiste, ma non può essere tematizzato se non come nozione astratta, in una riflessione seconda126. L’ente comune, che è il soggetto della metafisica, è presupposto, ma anche derivato: il suo concetto è frutto di un’astrazione con cui viene considerato anteriormente alla sua individuazione nei singoli esistenti, anche se senza 124

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Tommaso, De ver., q. 1, a. 1, resp.: “Ciò che per primo l’intelletto concepisce quasi fosse evidentissimo e in cui risolve ogni concetto è l’ente, come dice Avicenna all’inizio della sua metafisica”; cfr. anche Ent., prol.; In de causis, prooem. 6; In Met. IV, lectio 6, n. 605; In Met. X, lectio 4, n. 1998; Avicenna aveva collocato insieme all’ens anche le nozioni di res e di necesse, che però la scolastica tende a tralasciare, unificando la prima impressione dell’intelletto nell’ente. Cfr. Avicenna, Phil. Prima: I, 31 s.: “Diciamo dunque che le nozioni di cosa, ente e necessità sono tali che si imprimono immediatamente nell’anima con una impressione originaria, che non viene acquisita da altre nozioni”. De ver., q. 1, a. 1, c. Si può osservare la differenza tra la posizione di Tommaso e l’interpretazione teologica che Bonaventura dà dell’adagio di Avicenna: all’interno di una teoria dell’illuminazione di stampo agostiniano, il maestro francescano infatti identifica con Dio l’essere da sempre noto all’intelletto, e ritiene così che il concetto di Dio sia necessariamente implicato in ogni atto di conoscenza fi nita. Cfr. Itinerarium mentis in Deum V, 3, p. 205: “L’essere è ciò che per primo si fa presente all’intelletto, e questo essere è atto puro. Ma quest’ultimo non è l’essere particolare [...] né l’essere analogo [...]. Resta perciò stabilito che quell’essere è l’essere divino”. Sulla metafisica come scienza prima in Bonaventura si veda Speer 1990. Per l’edizione dell’Itinerarium, si veda Itinerarium mentis in Deum, in S. Bonaventurae, Opera theologica selecta, editio minor, Ad Claras Aquas, 1934-1964, vol. V, 1964: 179-214; Itinerario dell’anima a Dio, tr. it. di L. Mauro, Milano, Rusconi, 1996.

di essi non sarebbe possibile (come si può considerare un genere a prescindere dalla divisione in specie, e parlare ad esempio di animali, senza richiamare la distinzione tra vertebrati e inverterbrati, benché ogni animale esistente appartenga o al primo o al secondo gruppo). D’altro canto, la teoria dell’essere come primum notum, come primo oggetto del conoscere, non esclude che l’inizio della conoscenza sia nei sensi: qui “primum” non rappresenta un primato temporale né empirico, ma è principio e possibilità della conoscenza; proprio il carattere intuitivo e non ulteriormente riducibile dell’essere consente che esso debba darsi in concomitanza a ogni atto conoscitivo. L’ancoraggio a una prospettiva realista da parte di Tommaso traspare soprattutto nel senso esistenziale che egli attribuisce alla prima nozione dell’intelletto: la prima evidenza di una cosa è il suo esserci, anteriore a ogni contenuto essenziale. Il termine “ente” rinvia qui in primo luogo all’atto di esistere, prima che all’essenza, perché è l’esistenza attuale e non il suo concetto che è fondamento della conoscibilità di una cosa127. Per questa ragione, l’ente comune, che si predica di tutti gli esistenti, non si identifica con essi: il primato dell’essere nell’ordine della conoscenza non coincide con ciò che è primo nell’ordine dell’esistenza; una cosa è l’essere, astrattamente inteso, come primo noto all’intelletto, e una cosa è l’ente concreto, attualmente esistente, e un’altra cosa ancora Dio, come principio di tutto ciò che esiste. Il passo successivo consiste nel considerare l’esistente come ciò che non ha in sé la causa del proprio esistere, ma la riceve da Dio, ed è dunque finito e limitato: ente creato. Sulla base di ciò, Tommaso può sviluppare una metafisica partecipativa: l’ente comune è un concetto astratto, derivato, e non coincide con l’ente creato (quello che concretamente esiste), ma senza quest’ultimo non avrebbe senso. Così l’essere, ricondotto all’ente creato, trova in Dio il proprio principio, la propria ragion d’essere: Dio comunica alle creature l’atto di essere in misura della diversa partecipazione alla sua perfezione128. Un’ultima osservazione può chiarire meglio come il discorso di Tommaso si snodi su livelli diversi: definendo i principi che sono comuni a ogni ente in quanto tale, egli distingue tra principi “comuni” per praedicationem, che si possono predicare di ogni essere (secondo 127

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Cfr. S. Th. I, 5, 2, in cui appare chiaramente che l’oggetto primario dello spirito sia l’ens inteso come ‘ente in atto’. Cfr. Quodl. XII, q. 5, art. 5.

un’analogia di partecipazione) e per causalitatem, in quanto tutti gli enti si riconducono a principi comuni, con un processo di riduzione che risale dagli accidenti alla sostanza, e dalle sostanze materiali a quelle immateriali (seguendo piuttosto il movimento dell’analogia di attribuzione)129. Nel primo caso, si perviene alla struttura dell’ente in quanto ente (e si parla di principi come materia e forma), ovvero si chiarisce il senso dell’ente comune; nel secondo il punto finale è il principio causale di tutto l’essere: l’ente sommo che è atto puro privo di potenza e di materia, cioè Dio. Tale raddoppiamento dell’indagine sui principi è un’ulteriore riprova della duplicità della prospettiva metafisica di Tommaso, che da un lato è scienza dell’ente in quanto ente, dall’altro risale fino a Dio come atto e principio di essere, senza mai sovrapporre i due piani: se l’ente è il soggetto della metafisica, Dio è in qualche modo il fine, cui il sapere umano tende per la sua perfezione. Ma in entrambe queste diramazioni, sia che si prediliga l’aspetto più propriamente ontologico, sia che si rivolga l’attenzione soprattutto a quello teologico, i principi hanno modalità e gradi di realizzazione diversi in ciò che esiste. Ciò implica che l’essere non possa dirsi univocamente dei singoli enti, ma sempre e solo in maniera analoga: la dottrina dell’analogia, che è il risvolto necessario della metafisica tomista, assume così il carattere di segno distintivo nella contrapposizione alla teoria dell’univocità dell’essere difesa da Scoto.

1.2.8. Duns Scoto: metafisica trascendentale Secondo una linea interpretativa che si è imposta nell’ultimo trentennio130, Duns Scoto131 rappresenta un ‘secondo inizio’ nella storia della 129 130 131

Sup. Boet. de Trin., q. V, art. 4, 153b. Cfr. Courtine 1990 (tr. it. 1999: 40-42). Honnefelder 1979; 1985; 1987; 1990; 2003; Courtine 1990; Boulnois 1999. Giovanni Duns Scoto, uno dei maggiori esponenti dell’ordine domenicano, nacque in Scozia intorno al 1265, studiò a Oxford e a Parigi, università che lo videro in seguito nel ruolo di docente. Morì prematuramente, nel 1308, pochi mesi dopo il trasferimento a Colonia, dove è sepolto. L’opera di Scoto è multiforme e complessa, spesso sottoposta a interruzioni e revisioni da parte dell’autore. Il Commento alla Metafisica, che riflette la sua attività di insegnamento, è frutto di una stratificazione complessa, di cui si sono conservate sia le Questioni (Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis), sia

metafisica, un rovesciamento nella concezione dell’essere che si pone come ineludibile punto di raccordo con l’ontologia primomoderna. Se pure una storia di lunga durata non registra mutamenti violenti ed evidenzia piuttosto la persistenza delle problematiche, nei loro legami sommersi e attraverso indefinite riprese, è pur vero che la figura di Scoto può esemplificare con chiarezza lo spostamento della riflessione dal piano esistenziale a quello della conoscibilità dell’ente. Rispetto alla questione del soggetto della metafisica, Scoto ripropone l’alternativa rappresentata dalle posizioni di Avicenna e di Averroè, e prende posizione per il primo: la metafisica ha per soggetto l’ente in quanto ente e non Dio, ente supremo, né la sostanza o le intelligenze separate132. L’apparente consonanza con la soluzione di Tommaso non deve però trarre in inganno. Scoto stabilisce il primato della considerazione generale dell’essere in quanto tale, rispetto a qualsiasi esistente particolare, fosse pure Dio, ente sommo. Diversamente da Tommaso non possiamo più passare dall’ente comune all’ente creato, e da questo risalire a Dio, causa e principio dell’esistenza della realtà, perché in Scoto viene alla luce una vocazione più spiccatamente ontologica e non teologica della metafisica, che esplica più il concetto di essere che il suo carattere esistenziale133. Non è perciò una metafisica dell’atto di essere,

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le considerazioni su alcuni passi notevoli (Notabilia), che costituivano parte integrante della spiegazione del testo. Sulla composizione e la datazione del Commento alla Metafisica cfr. Pini 2002: 16-22; sui Notabilia cfr. Pini 1996. Anche la principale opera teologica, il Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, è stata sottoposta a diversi rimaneggiamenti e ne esistono tre versioni: la prima basata sull’insegnamento tenuto a Oxford (detta Lectura), la seconda costituita dagli appunti degli studenti di Parigi (i Reportata Parisiensia) e l’ultima e più importante – l’Ordinatio – che rappresenta un’ulteriore revisione rimasta incompiuta. Per l’edizione delle opere di Scoto ci si riferisce alle seguenti edizioni: 1) Opera omnia, studio et cura Commissionis Scotisticae ad fidem codicum edita, Civitas Vaticana, 1950ss, che comprende i primi due libri dell’Ordinatio (voll. I-VII) e i primi due libri della Lectura (voll. XVIXIX); 2) Opera Omnia, ed. L. Wadding, Lyon, 1639 (12 voll.), ripr. anastatica Hildesheim, Olms, 1968 (vol. IV: Expositio in Metaphysicam. Conclusiones Metaphysicae. Quaestiones in Metaphysicam; 3) Opera Philosophica. St. Bonaventure, The Franciscan Institute, 1997-2006 (voll. III-IV: Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis). Scoto, Ordinatio, Prol.; I, d. 3; Met. I, q. 1. Ma l’interlocutore da cui Scoto prende le distanze con la sua posizione non è Tommaso, bensì Enrico di Gand.

ma dell’essenza, in una tradizione filosofica che parte da Avicenna, ma non manca di porsi in continuità con Agostino e Anselmo134. L’ente in quanto ente non rappresenta la totalità degli esistenti, ma definisce il concetto astratto di essere, che si ricava risalendo al di là di ogni distinzione fino al concetto più generale e comprensivo. Essendo un concetto non determinato, comprende in sé l’essere finito e quello infinito, il possibile e il necessario, ma è a essi anteriore e in sé non è né finito, né infinito, né causato né incausato: il debito verso Avicenna non potrebbe essere più chiaro. L’essere è al di là e prima delle categorie, le ‘trascende’ grazie alla sua generalità e ha quindi un primato nella conoscenza: ciò che è più comune è infatti appreso per primo dall’intelletto ed è perciò condizione che rende possibile la conoscenza del particolare135. L’ente in quanto ente è quindi il primo e più adeguato oggetto dell’intelletto e la metafisica, la conoscenza più desiderabile, è la scienza prima e somma, superiore a tutte le altre. Nessuna scienza particolare può infatti indagare l’ente nella sua generalità: la scienza che ha per soggetto l’essere che trascende tutte le determinazioni particolari è universale ed è “scienza trascendentale, in quanto si occupa dei trascendentali”136. Questa scientia transcendens non è una scienza del divino: “transcendens”137 non indica un trascendimento in direzione di un ente superiore (trascendente), ma verso ciò che è primo e più generale nell’ordine della conoscenza. La prima conseguenza è la sostituzione di una metafisica partecipativa, ordinata all’atto di essere e sorretta dall’analogia, con una concezione ‘trascendentale’ e rappresentativa dell’essere, che – avendo come punto di riferimento non l’esistenza attuale, ma il contenuto intellettuale – mira a una sua comprensione univoca. Il concetto di ente deve applicarsi univocamente ai diversi esistenti, agli enti finiti come a quel134 135

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Cfr. Gilson 1927; 1952: 387. Scoto, Met. I, Prol. n. 17, 8: “Per il fatto che le nozioni più comuni si comprendono per prime – come è stato dimostrato con Avicenna – ne segue che non si possono conoscere nozioni più specifiche se non si sono apprese prima quelle comuni”. Scoto, Met. I, Prol. n. 18, 9: “perciò è necessario che ci sia una qualche scienza universale, che considera per sé quei trascendentali (trascendentia), e chiamiamo questa scienza metafisica, una scienza quasi trascendentale (transcendens scientia) perché si occupa dei trascendentali”. Il termine transcendentalis non era ancora in uso ai tempi di Scoto.

lo infinito, pena l’impossibilità di conoscere la sostanza e di fondare la metafisica come scienza. Ciò non vuol dire che il finito sia identico all’infinito, o il possibile al necessario, ma che il concetto di essere che è in grado di abbracciare queste realtà deve essere predicato univocamente e non tramite un’analogia che rasenta l’equivocità. L’univocità è tutta interna al concetto di ente: l’intelletto apprende l’essere di cose diverse come una nozione che possiede un unico e lo stesso significato. Questo primo oggetto del pensiero non è quindi il divino, il trascendente – che è una determinazione ulteriore, conosciuta solo in seconda battuta – ma un concetto generale e, in questo senso, trascendentale. Il “primo noto” deve essere univoco, altrimenti tutta la conoscenza sarebbe incerta e i suoi principi infondati. Prima che una questione ontologica (il rapporto dei diversi esistenti), la critica alla dottrina dell’analogia riguarda dunque il fondamento della conoscenza in un unico concetto generale e il modo con cui questo concetto viene appreso. Scoto distingue attentamente il piano della realtà da quello logico-semantico: il modo di significare la realtà con il termine “essere” non è direttamente speculare alle modalità di esistenza e non può riflettere a livello concettuale i legami di dipendenza ontologica (come quello che sussiste, ad esempio, tra gli accidenti e la sostanza). È da questo punto di vista che si esclude ogni via di mezzo tra univocità ed equivocità: un concetto analogo rappresenterebbe contemporaneamente due concetti, uno principale e uno secondario, e sarebbe perciò equivoco o metaforico (che è un caso particolare di equivocità, che tuttavia non riguarda la nozione di essere) 138. L’ente in quanto ente, nella sua astrazione che prescinde da ogni determinazione, rappresenta qualcosa che è contenuto univocamente sia nel concetto dell’ente creato sia nel concetto di Dio. Se quindi il soggetto della metafisica è l’ente nella sua universalità, Dio non può essere causa di questo stesso soggetto, ma è piuttosto incluso in esso. Ciò è alla base della possibilità di una conoscenza filosofica di Dio, una volta tenuto conto della divisione dell’ente in finito e infinito; ma questa strategia ontologica nasconde anche la preoccupazione teologi138

Un’ampia disamina del problema, con attenzione particolare al rapporto tra logica e ontologia, in Pini 2002: 51-73. Suárez segue Scoto anche nella teoria dell’univocità dell’essere, che pure corregge nominalmente inserendola all’interno dell’analogia. Per la contestualizzazione storica della teoria dell’analogia di Suárez, cfr. Ashworth 1995.

ca di salvaguardare la trascendenza divina, affidando alla filosofia una comprensione di Dio solo mediante il concetto di ente (sub ratione entis). La stessa volontà di preservare l’alterità di Dio, che aveva portato Tommaso a escludere Dio dal soggetto della metafisica e a praticare l’analogia per mantenere la maior dissimilitudo tra l’essere comune e l’Ente sommo, produce in Scoto esiti antitetici: Dio è compreso nel concetto di essere, ma la sua essenza è inaccessibile, se non parzialmente per rivelazione, al nostro intelletto finito.

1.2.9. Scienza in sé e per noi Affermare che l’essere si possa distinguere in finito e infinito non significa possedere un concetto adeguato dell’infinito, che è colto solo tramite una negazione e non può essere rappresentato positivamente. I rapporti tra l’essere e Dio, e tra le scienze di cui sono rispettivamente soggetto (metafisica e teologia), vanno però precisati, per definire i contorni della posizione ontologica di Scoto e rendere ragione dei successivi sviluppi storici139. Nonostante l’inclusione dell’ente infinito nel concetto di ente, non c’è alcuna subalternazione tra le due discipline che trattano di Dio: la metafisica, che si fonda su principi naturalmente evidenti, rimane pienamente autonoma e la teologia, che pure si serve della fi losofia, si fonda invece sulla rivelazione, priva di evidenza naturale e oggetto di fede. Nella sua trascendenza Dio è inaccessibile all’intelletto finito dell’uomo, che non può cogliere direttamente la sua essenza. Non può darsi per noi un discorso su Dio in quanto tale, a partire dalla sua essenza (in termini tecnici: di Dio non abbiamo una dimostrazione propter quid, che proceda apriori, deducendo in modo necessario gli effetti dalla causa); l’uomo deve limitarsi a un’argomentazione che risale alla causa tramite gli effetti (demonstratio quia, aposteriori), e tali effetti non vanno considerati come esito di un processo causale necessario, ma solo in riferimento alla libera volontà di Dio140. In nessun modo è possibile colmare lo scarto tra l’essere infinito della causa e quello finito degli oggetti creati. 139 140

Cfr. soprattutto Boulnois 1998. La questione della volontà e delle cause contingenti all’interno della metafisica di Scoto è affrontata da Sylwanowicz 1996.

La vera teologia è la theologia Dei, scienza perfetta di Dio, in senso soggettivo e oggettivo, assolutamente evidente e necessaria, per l’identità di essere e conoscere in Dio. La teologia fatta dall’uomo (che è viandante in cammino verso la beatitudine futura) non può conoscere l’essenza divina nella sua singolarità e deve accontentarsi del concetto più perfetto che in questa vita l’uomo riesce a formulare per descrivere Dio: l’ente infinito, che la teologia prende in prestito dalla metafisica e che per ora sostituisce una visione adeguata del suo soggetto. La distinzione interna alla teologia tra la conoscenza divina e quella umana non è esclusiva di Scoto e può richiamare la subalternazione della sacra doctrina alla scientia Dei et beatorum teorizzata da Tommaso, nonostante la diversa caratterizzazione che la scienza sacra assume nei due autori. In Duns Scoto però tale distinzione non ha esclusivamente valore teologico, ma acquista un significato epistemologico: non si applica solo alla teologia come caso unico di scienza, il cui oggetto supera per definizione le possibilità cognitive umane, ma viene estesa a ogni conoscenza umana, di cui si dà una duplice definizione se considerata in sé o in riferimento alla nostra capacità di conoscere. È una distinzione in qualche modo ‘trascendentale’, almeno nel senso kantiano di “conoscenza che si occupa non tanto degli oggetti, quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti, nella misura in cui questo deve essere possibile a priori”141. Ciò che distingue una scienza in sé e per noi non è una differenza di soggetti, ma del modo in cui il soggetto viene considerato. Per poter conferire unità e ordine in una scienza, il soggetto deve includere virtualmente tutte le conoscenze che ne derivano e che costituiscono il campo di indagine della scienza stessa. Considerata in sé, a prescindere dai vincoli di un intelletto finito, la scienza rappresenta per definizione la conoscenza adeguata del suo soggetto, di tutti i predicati che vi sono contenuti e delle loro relazioni; è una conoscenza assoluta, che si compone solo di conclusioni propter quid, perché tutte le verità comprese nel soggetto sono dedotte in modo evidente. La scienza a cui l’uomo può aspirare in questa vita possiede invece un concetto incompleto e indeterminato del suo soggetto, perciò non può ricavare in modo deduttivo le verità in esso contenute, ma deve procedere con ragionamenti che vanno dall’effetto alla causa (quia). Così la nostra metafisica può arrivare a conoscere l’ente come finito e infinito, 141

KrV B 25.

ma non può pervenire a un concetto adeguato di ente infinito, che viene rappresentato solo indirettamente e tramite una negazione, senza alcun contenuto positivo. Di fatto l’uomo conosce solo l’ente finito, ma tale conoscenza lo porta a ritenere che il soggetto della metafisica sia più che questo: è necessario dunque che l’ente in quanto ente sia un concetto indeterminato, privo di limitazioni, per poterle includere tutte. In riferimento alla metafisica (e alla teologia) si deve rilevare la funzione critica che ha in Scoto questa distinzione interna tra scienza “in sé” e “per noi”: in virtù della sua finitezza il nostro intelletto non possiede un’intuizione intellettuale e non può considerare Dio in sé, ma solo mediante il concetto di essere (sub ratione entis). La duplice considerazione (in sé e rispetto al nostro modo di conoscere) non è un raddoppiamento disciplinare, perché il soggetto rimane lo stesso: non ci sono due scienze, ma due modi di considerare lo stesso soggetto, due modi di acquisizione (completa o incompleta) della stessa scienza, che evidenziano possibilità e limiti della conoscenza. La scienza considerata in sé rappresenta l’ideale – non raggiungibile in questa vita – della scienza perfetta, poiché è necessario poter considerare realizzabile (o realizzato in un’altra condizione) ciò a cui si mira. Un tale ideale non è un semplice punto asintotico della conoscenza, ma può essere realizzato da uno spirito assoluto, come Dio e le sostanze spirituali; pur non essendo alla portata dell’intelletto umano, ha tuttavia un valore regolativo142. Si tratta di una visione del sapere ancora dipendente da una concezione finita della scienza (omologa all’idea di un cosmo finito), intesa come insieme di proposizioni che un intelletto perfetto può acquisire in una conoscenza perfetta e completa; tuttavia rappresenta una riprova ulteriore dello spostamento della metafisica da un interesse ontologico a uno gnoseologico, che si focalizza sul concetto trascendentale di essere. Per concludere, si possono intravedere nella metafisica di Duns Scoto almeno tre punti rilevanti per il costituirsi dell’ontologia moderna. 1) L’idea di una metafisica come scientia transcendens, che anticipa e prepara una disciplina trascendentale in senso moderno143. Nell’in142

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Si può osservare che, nell’universo mentale medievale, Dio e le sostanze spirituali (angeli, intelligenze...) non sono temi circoscritti alla riflessione teologica, ma svolgono, come in questo caso, una funzione epistemologica, rappresentando in un certo senso il caso limite di una conoscenza perfetta, non dipendente dalla realtà sensibile. Un’ampia ricostruzione di come la concezione di Duns Scoto sia stata ripresa nella fi losofia moderna in Honnefelder 1990; 2003.

terpretare la filosofia prima come la scienza che non si occupa dell’ente sommo, ma del “primo noto”, conoscibile al massimo grado perché più comune, Scoto apre la via alla definizione di una disciplina veramente “ontologica”. Qui si trova una delle fonti più significative per le Disputazioni metafisiche di Suárez e, per suo tramite, nella nascita disciplinare dell’ontologia, di cui si dirà nel prossimo capitolo. 2) Un nuovo concetto di oggettività. In linea con questo spostamento noetico, l’essere perde spessore esistenziale per essere considerato anzitutto come contenuto di una rappresentazione: è l’esse obiectivum144, oggetto dell’intelletto e perciò indifferente al concretizzarsi nell’esistenza di esseri particolari145. Emerge un nuovo modo di concepire l’oggetto (la res, la cosa), che non ha più un’immediata realtà extramentale, ma consiste in primo luogo nell’essere contenuto di pensiero, nel possedere quella “esistenza intenzionale” che tanta importanza rivestirà nel pensiero di Kant146 e poi, con più diretto richiamo alla Scolastica, nella filosofia tra Otto e Novecento147. Nel percorso che porta fino a Suárez e da lì si dirama nella filosofia moderna si rende possibile ampliare il concetto di realtà fino a eliminare solo quanto è logicamente contraddittorio148. 3) L’articolazione della metafisica in una parte generale e una speciale. Un concetto generale di essere, che include le sue successive specificazioni, è il quadro teorico in cui sorge la distinzione classica tra metaphysica generalis (scienza dell’essere) e metaphysica specialis (teologia razionale), che si ritrova, a livello di struttura, sia nella distinzione tra Analitica e Dialettica della Critica della ragion pura149, sia nella distinzione, corrente in molti autori contemporanei, fra ontologia e metafisica150. Questa bipartizione non è letteralmente presente in Scoto, né nei suoi contemporanei151, ma si trovano nei suoi scritti degli spunti 144

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L’espressione viene ripresa e ulteriormente puntualizzata da Suárez nella distinzione tra concetto formale e concetto oggettivo. Cfr. infra 1.3. Cfr. Boulnois 1999; Courtine 1990; Coujou 1999. Cfr. infra 1.4. Cfr. infra 2.1.2, 2.4.2, 2.5.4, 4.4.4. Su questo concetto di essere è costruita l’ontologia di Wolff, cfr. infra 1.3. Cfr. infra 1.4. Cfr. supra 0.3. Per la prima volta la distinzione tra metaphysica communis e metaphysica specialis (intesa come teologia naturale) si trova in Francesco d’Appignano (sec. XIV), ma si tratta di un caso isolato. Cfr. A. Zimmermann 1965 (19982: 348-373).

teorici e anche lessicali che possono suggerirla152. Va ricordato però che il momento teologico che confluisce come parte speciale entro la metafisica generale non è, almeno per Scoto, la teologia sacra, ma solo un discorso naturale su Dio, che si svolge tutto entro il concetto di essere, senza poter attingere all’ente infinito nella sua essenza. Questa specificazione è importante per illustrare se e in che modo la riflessione metafisica degli scolastici sia inestricabilmente compromessa con un presupposto “ontoteologico”.

1.2.10. Ontoteologia medievale? Il termine “ontoteologia” viene usato da Kant153 per etichettare ogni teologia razionale che pretende di dimostrare l’esistenza dell’essere originario mediante un argomento ontologico, prescindendo cioè dall’esperienza e fondandosi su semplici concetti. Nella prospettiva kantiana si tratta di un tentativo infruttuoso, com’è del resto quello di qualsiasi conoscenza naturale di Dio, anche se basata sull’esperienza (cosmo-teologia). Ma la fortuna del termine non deriva da Kant, bensì da Heidegger, che ne ha fatto una parola d’ordine per decostruire tutta la storia della metafisica occidentale, in cui la scienza dell’essere sarebbe divenuta in primo luogo una teologia dell’ente divino154. Poiché a prima vista il pensiero medievale è il primo imputato chiamato in causa, è necessario contestualizzare l’accusa e rispondere alla sua provocazione. La critica di Heidegger è ambigua e scivolosa, cambia di segno anche solo con l’aggiunta di un trattino nella grafia del vocabolo: se si passa cioè da “onto-teologia”, dove il campo di tensione è costituito dai due poli “essere” e “dio” portati illegittimamente a sovrapporsi, a “onto-teo-logia”, dove l’introduzione del pensiero logico segnala un’ulteriore commistione indebita155. Questa stessa ambiguità serve agli scopi di Heidegger, che può estenderne a poco a poco il senso polemico: da critica di un particolare pensiero filosofico (precisa152

153 154 155

Cfr. Scoto, In Met. I, 1 [47], 155 (69): “perciò la metafisica trascendentale (metaphysica transcendens) sarà primariamente scienza divina, e così ci saranno quattro scienze speculative, una trascendentale (transcendens) e tre speciali (speciales)”. KrV B 660. Sull’ontologia di Kant cfr. infra 1.4. Heidegger 1950 (tr. it. 1968: 177). Sull’ontologia di Heidegger cfr. infra 2.4. Così Heidegger 1930-31 (tr. it. 1988: 150).

mente quello di Hegel, che sarebbe irretito in un legame anomalo tra logica e teologia), il concetto si allarga per stigmatizzare tutta la metafisica156 e infi ne tutta la fi losofia per la disponibilità ad accogliere un discorso sul divino157. Cercando di assegnare al termine un significato medio, non ristretto a un caso in particolare, ma neppure così esteso da diluirsi e svuotarsi di contenuto, la costituzione ontoteologica della metafisica può essere riletta in una duplice direzione: da un lato dall’essere verso Dio, nella misura in cui la scienza dell’essere è orientata e strutturata in riferimento all’ente primo e sommo, dall’altro da Dio verso l’essere, nella misura in cui l’essere è il nome adeguato di Dio. Il secondo aspetto è più facilmente rintracciabile nel Medioevo, a partire da quella che Gilson ha chiamato la metafisica dell’Esodo158: l’essere è il nome più conveniente per Dio, tanto da esser stato scelto da Lui stesso nella celebre rivelazione a Mosè (“Ego sum qui sum”, Esodo 3, 14), di cui si è detto nel precedente capitolo159. Ma non c’è unanimità tra i medievali in questa interpretazione, né nell’attribuire l’essere a Dio (alcuni autori lo negano)160, né nel significato (analogo o univoco) di questa attribuzione. Inoltre si tratta di un problema che il metafisico potrebbe ‘scaricare’ sul teologo, concernendo più la comprensione di Dio, che quella dell’essere161. 156 157 158

159 160

161

Heidegger 1949 (tr. it. 1982: 16). Heidegger 1957. L’espressione si trova in Gilson 1932: 54, 231 (nota 14), ma è lungi dall’essere condivisa dagli studiosi: cfr. Kremer 1966: 383-384; Beierwaltes 1972: 9-10, 27 (n. 99), 38 (n. 154); Albert 1974. Cfr. supra 1.1.5. La negazione dell’essere come attributo di Dio è per lo più in linea con la tradizione della teologia negativa e con alcune affermazioni neoplatoniche. Una posizione diversa considera invece il termine “essere” inadeguato per Dio, in virtù del primato dell’intelletto. Tra le affermazioni più suggestive di questa specie di idealismo ante litteram, vale la pena segnalare Meister Eckhart: “Dio è pensiero e pensare, e il pensare è fondamento dell’essere” (LW V, 40, 6-7), e ancora “se chiamassi Dio essere direi il falso come se dicessi che il sole è nero” (Pred. 9, DW I, 146, 1-2). Tuttavia Heidegger fa valere anche un argomento ‘teologico’ per contestare la deriva ontoteologica che perde di vista il Dio personale della fede: “a questo dio l’uomo non può né rivolgere preghiere, né offrire sacrifici. Davanti alla causa sui l’uomo non può né cadere in ginocchio pieno di reverenza, né può davanti a questo dio produrre musica e danzare. Così, il pensiero privo di un dio, il

È invece sul primo significato, che vede nella metafisica una teologia dell’ente che è in senso vero e proprio, che la tesi diventa provocante e aggressiva. Ma, se si prende sul serio il percorso fin qui seguito sul rapporto di Dio al soggetto della metafisica, l’idea che la scienza dell’ente sia come tale in sé stessa onto-teologica è valida solo per una delle interpretazioni latine di Avicenna, quella di Duns Scoto, che tramite la neoscolastica del XIX secolo ha permeato la visione heideggeriana162. Peraltro, se si prende il termine in senso kantiano, la posizione di Scoto non cade sotto l’accusa di ontoteologia, perché – come Kant – evidenzia i limiti del nostro intelletto umano, che non può mai avere, nella condizione attuale, una conoscenza naturale di Dio propter quid. Inoltre, per Scoto, Dio e l’essere non stanno in un rapporto necessario di causa/effetto, anzi proprio nella concezione scotista del soggetto della metafisica si osserva il ritrarsi di Dio in una scienza soprannaturale o rivelata, insieme all’esaltazione della sua libertà e trascendenza contro le leggi naturali della necessità logica e del determinismo fisico. Dio trova spazio nella metafisica solo sub ratione entis, considerato come essere, concetto univocamente applicato al tutto, che nella sua generalità precede la distinzione tra ente finito ed ente infinito. Certamente, se per “ontoteologia” si intende una qualsiasi implicazione di metafisica e teologia, tutto il pensiero medievale può esserne tacciato; ma a ben vedere finché la teologia (come teologia rivelata, scienza sacra e non teologia fi losofica) rimane autonoma, e ci si adopera per collocarla a pieno titolo tra le scienze, usando gli stessi parametri aristotelici di scientificità delle altre discipline, non c’è pericolo di una sovrapposizione. La scienza teologica si serve della filosofia, ma non deriva da essa la sua struttura, anzi rivendica per sé l’autentica trattazione di Dio e cerca piuttosto di limitare un’interpretazione teologica della metafisica, che le faccia concorrenza. È solo nella tradizione che si riferisce a Duns Scoto che si può cominciare a pensare un concetto generale di ente inclusivo di Dio, ente sommo, ovvero una metafisica generale che è logicamente anteriore alla metafisica speciale, che tratta dell’ente infinito; non a caso questa elaborazione è parallela alla marginalizzazione scientifica della teolo-

162

pensiero che deve fare a meno del dio della filosofia, del dio come causa sui, è forse più vicino al dio divino” (Heidegger 1957; tr. it. 1982: 35-36). Cfr. de Libera 1989 (tr. it. 1999: 68); Boulnois 2001.

gia vera e propria. L’ontoteologia inizia così con il pensiero moderno, quando la teologia propriamente detta perde terreno e si fissa in una manualistica, e il compito di un discorso filosofico-razionale su Dio viene lasciato esclusivamente alla scienza dell’essere. È il declino della teologia, la rinuncia a una scienza sul divino che non sia puramente dogmatica o apologetica, che porta a declinare teologicamente l’essere e ontologicamente il divino, dimenticando lo scarto tra Dio e l’essere che qualsiasi autore medievale mira a salvaguardare.

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1.3. ONTOLOGIA di Pietro Kobau

1.3.1. La nascita dell’ontologia: due storie Con la pubblicazione, nel 1729, dell’Ontologia di Christian Wolff (1679-1754), una nuova disciplina filosofica può considerarsi consolidata. Grazie all’influenza del suo autore, sia la “scienza dell’ente in generale”163, sia un corpus di questioni metafisiche ricondotte a questo titolo trovano da questo momento in poi stabile collocazione in una specifica trattatistica che rimarrà a lungo, e non solo in Germania, la base di appositi insegnamenti universitari. Su come questo sia successo, si possono raccontare due storie diverse. La prima storia – più semplice, almeno a uno sguardo superficiale – racconta di come tra Seicento e Settecento si sarebbe trovato il nome per qualcosa che esisteva già (il contenuto fondamentale della Metafisica aristotelica), meritando perciò di esistere anche in futuro. Così, la nuova parola “ontologia” sarebbe diventata, dopo “metafisica”, quella più utilizzata per individuare un plesso organico di questioni che sarebbero state messe a fuoco, più o meno implicitamente, già da Aristotele e quindi dalla scolastica medievale. L’altra storia è più complicata, ma sfugge ad alcuni difetti della prima, e innanzitutto a quello di presentarsi come una caccia a precorrimenti più o meno imperfetti dell’attuale stato dell’arte. Racconta, infatti, di come si sia sviluppato – in un sempre meno costante riferimento all’autorità aristotelica – il progetto di una metafisica moderna, di cui l’ontologia doveva poi costituire una parte specifica. Questa vicenda appare più complessa: innanzitutto, dal punto di vista cronologico e geografico, a un simile approccio risulta difficile fissare dei limiti precisi, tanto che le sue trattazioni hanno dovuto assumere per 163

Wolff 1728: § 73.

lo più la forma di storie ‘di lungo periodo’. In secondo luogo, specie se si sceglie un punto di vista che non sia meramente cronachistico, occorre ammettere che il suo nucleo non è affatto monotematico, ma è animato da diversi problemi filosofici non sempre riconducibili a un unico denominatore.

1.3.2. Gli “scolastici moderni” e la canonizzazione della metafisica Il limite inferiore della storia che qui interessa non conosce una data precisa; prima di delinearla, sarà quindi utile soffermarsi sull’etichetta storiografica di “scolastica moderna”, riferita agli sviluppi della filosofia scolastica tra Cinquecento e Seicento entro cui maturano le questioni che qui interessano. L’adozione storiografica di tale denominazione ha, oltretutto, istituito un felice equivoco con un’altra etichetta, Schulphilosophie (alla lettera: “filosofia di scuola”), normalmente riferita alla corrente principale della fi losofia illuministica tedesca. Per quanto lontani (cronologicamente, e non solo) questi due ambiti risultano infatti accomunati dal fatto che lo sviluppo della fi losofia ha luogo, in entrambi i casi, in contesti fortemente determinati da interessi didattici e pedagogici. Non si tratta di una circostanza estrinseca, bensì di uno dei primi motivi per cui le forme della speculazione filosofica diventano quelle del manuale, del trattato e del sistema – entro cui, dunque, meglio potevano maturare una prima e una seconda canonizzazione della metafisica, dovute rispettivamente a Francisco Suárez (1548-1617) e al già citato Wolff. Benché la maggior parte degli ormai numerosi studi recenti dedicati al rapporto fra i massimi esponenti della modernità matura (Cartesio, Spinoza, Locke, Leibniz ecc.) e il pensiero scolastico guardi principalmente alla scolastica medievale, rimane vero che non era questa la scolastica che essi più frequentavano. Più che con i medievali, questi moderni hanno intrattenuto un fitto commercio di idee (magari fortemente critico) con pensatori coevi legati alla scolastica, ma che avevano già segnato un sensibile distacco tra sé e il pensiero medievale, rispondendo sia alle drammatiche trasformazioni intervenute nell’ambito religioso e confessionale, sia agli imponenti sviluppi delle scienze naturali. Soprattutto, sarebbe scorretto ridurre al solo tomismo la fi losofia di scuola rilevante per la storia che qui interessa: occorrerà infatti guardare con uguale attenzione (almeno) anche allo scotismo, nonché

all’aristotelismo moderno (in particolare cinquecentesco) che sotto vari rispetti si distacca dalle appartenenze medievali, sviluppando originalmente temi che saranno decisivi per lo sviluppo della metafisica. Guardando poi in particolare a quello che è chiamato il “secondo” tomismo (quello che va dal Cinquecento al Settecento) si può osservare che, per quanto dal Concilio di Trento (1545-1563) fosse derivato un forte impulso alla sistematizzazione della dottrina cattolica in cui il riferimento a Tommaso (dichiarato Dottore della Chiesa nel 1568) assume un ruolo centrale, da tale impulso va ben distinto il crescente incoraggiamento allo studio di teologia e filosofia nelle scuole e università cattoliche, nutrito di istanze diverse da quella della sola autorità di Tommaso: ed è propriamente quest’ultima la vera spinta a una profonda revisione dei testi d’insegnamento qui adoperati. Se la scolastica moderna va dunque intesa latamente come si è appena detto, uno spunto iniziale per attaccare le vicende che porteranno alla prima canonizzazione moderna della metafisica viene offerto dalle circostanze (in senso ampio) geografiche entro cui matura il ruolo di punta che assumono i gesuiti della cosiddetta “scolastica barocca”164. Un primo centro di diffusione delle trasformazioni della metafisica che qui interessano può essere scorto, così, nella Penisola Iberica, prima ancora della rigorosa accettazione delle direttive impresse dal Concilio di Trento. Qui, la stessa riflessione teologica praticata nelle università intendeva fornirsi di basi filosofiche (e poi, più esplicitamen164

Tra Cinque e Seicento, alla tradizione domenicana dell’esegesi e della trasmissione fedele dell’opera tommasiana (praticate specialmente in Italia) si affianca per l’appunto il diverso progetto di un’appropriazione innovativa di essa da parte dei gesuiti, che si radica soprattutto in Spagna. (In qualche misura, sarà particolare la situazione in Francia, dove si faranno strada altri generi fi losofici, fra cui i manuali provenienti dall’ambiente della Sorbona, e dove si darà il caso della Philosophia, 1609, di Eustachius a Sancto Paulo, 1573-1640, che diventerà un esempio seguitissimo di esposizione di dottrine ordinata a fini didattici e presentate in assenza del testo aristotelico). E quando – presto – fra domenicani e gesuiti si aprirà uno scontro (fra il 1590 e il 1610, intorno ai temi della natura della grazia, del libero arbitrio e della precognizione divina, in cui spicca la figura di Luis de Molina, 1535-1600), sarà questo il momento in cui i gesuiti iniziano a mostrare una crescente supremazia. Questi ultimi, e non solo nell’interpretazione di Aristotele, si riveleranno capaci di sviluppare soluzioni non legate al lascito di Tommaso anche e soprattutto in altre circostanze, ad esempio nel recepire le ultime novità scientifiche, o nell’affrontare il processo a Galileo e le polemiche con Cartesio.

te, metafisiche) adeguate ai tempi nuovi: nel periodo che va tra l’inizio del Cinquecento e il Seicento inoltrato si formava così (specie nella sede di Coimbra) un corpus dottrinale basato sul commento di Aristotele destinato ad affermarsi rapidamente anche nei paesi protestanti centroeuropei165. Rispetto ad altri testi aristotelici, il lavoro di rielaborazione della Metafisica, tuttavia, risultava più difficile, anche perché tale disciplina aspirava al ruolo di disciplina filosofica dominante – e proprio l’interpretazione corretta del significato di tale suo dominio era la questione maggiormente delicata. In età moderna, per i commentatori di Aristotele era opinione consolidata che il contenuto della Metafisica fosse costituito dalle nozioni basilari delle Categorie e della Fisica, raccolti in quest’opera (benché non presentati in modo sistematico) in quanto presupposti da ogni singola scienza speciale. Al di là di altre difficoltà esegetiche esibite localmente dal testo aristotelico, tuttavia, la scienza così esposta riceveva nella Metafisica denominazioni che la caratterizzavano in maniera diversa: 1) “sapienza”; 2) “filosofia prima”; 3) “scienza dell’ente”; 4) “teologia”. E, in ogni caso, i nuovi commentatori (specie quelli più sensibili alla questione del rapporto tra “fi losofia prima” e “teologia”) non abbandonano l’ulteriore denominazione (come si è visto, mai usata da Aristotele) di “metafisica”. Cercano, semmai, di accordarla alle altre, suggerendo il trattarsi di una scienza che studia ciò che ‘sta oltre’ o ‘viene dopo’ lo studio delle cose naturali, oscillando tra l’intendere queste ultime come entità astratte (appartenenti cioè a un ordine più generale di quello delle entità fisiche, ovvero intese grazie 165

Si tratta degli autori portoghesi detti “Conimbricenses”, attivi specialmente al Collegio delle Arti (affidato nel 1555 alla direzione della Compagnia di Gesù) dell’Università di Coimbra. I loro principali esponenti furono Emmanuel de Goes (1542-1597), Cosmas de Magelhães (1551-1624), Balthasar Alvarez (1561-1630), Sebastian de Couto (1567-1639). Stimolati dai superiori, e particolarmente da Pedro da Fonseca (1526-1599), tra il 1502 e il 1606 pubblicarono otto commentari, tutti recanti nel titolo la dizione Commentari Collegii Conimbricensis Societatis Jesu. I primi sei interpretavano Physica, De caelo, Meteorologica, Parva naturalia, Ethica Nicomachea, De generatione et corruptione; quello dedicato al De anima recava in supplemento una Tractatio aliquot problematum ad quinque sensus spectantium, di Magelhães, e un De Anima Separata, di Alvarez; l’ultimo, intitolato alla Dialectica, rimase a lungo uno dei più apprezzati commentari ai trattati dell’Organon. Diffusi dai gesuiti, ebbero un’enorme influenza non soltanto in Europa, ma anche in America e nell’Estremo Oriente, Cina e Giappone compresi.

a un precedente studio di queste), oppure come entità ulteriori nel senso di esterne (ovvero superiori) all’ordine naturale. In tale prospettiva, la prima delle denominazioni genuinamente aristoteliche non viene affatto a cadere a favore delle altre. Attorno al termine “sapienza” riferito alla metafisica, al contrario, si disegna un particolare punto di contatto e di scambio tra i sistematori moderni della metafisica e quelli della logica aristoteliche. Mentre gli altri nomi, ugualmente aristotelici, della scienza in questione mirano a sottolineare quale ne sia l’oggetto (ovvero il “soggetto”)166, il nome di “sapienza” tende, invece, a caratterizzare tale scienza di per sé stessa. In tal modo, evidenzia innanzitutto la centralità delle opere logiche di Aristotele in funzione di una corretta esegesi della Metafisica, e senza ancora indirizzare in senso realistico, o meno, l’interpretazione della seconda: la “fi losofia prima” qui esposta potrebbe cioè intendersi come eminente in quanto “sapienza” a prescindere da ogni qualificazione del suo oggetto, sino a permettere derive francamente nominalistiche167. E ancora, per un verso differente ma correlabile al primo, la denominazione di “sapienza” pone il tema delle “virtù intellettuali”168, sviluppato in riferimento a un corpus testuale ben più ampio di quello logico in senso stretto169. In ogni caso, la denominazione della metafisica come “sapienza” rimane centrale per quell’aristotelismo ‘puro’ che costituisce una tradizione “scolastica” ancora 166 167

168 169

Cfr. supra 1.2.1. In tale quadro, occorre almeno ricordare, tra le questioni più specifiche, una famosa discrepanza tra Categorie – 1b 25-7 – e Topici – I, 9 – che propongono rispettivamente una classificazione di tutti i tipi di essere basandosi sulla nozione di sostanza e, in maniera apparentemente alternativa, su una teoria della predicazione intesa come attribuzione di caratteristiche significative a un soggetto tendenti a produrne, al limite, una definizione reale. Cfr. in proposito Pozzo 2004. Come suo personaggio centrale, va qui citato almeno Giacomo (Jacopo) Zabarella (1533-1589), che segue Averroè nel distinguere una logica universale (riferendovi Categorie, Dell’interpretazione, Analitici primi) da una logica particolare (cui riferisce Analitici secondi, Topici, Confutazioni sofistiche); quanto alla formazione del canone logico, soprattutto, vi comprende anche Retorica e Poetica, giacché la logica viene da lui intesa né come arte produttiva né come scienza, bensì come uno strumento utile a distinguere il vero dal falso, localmente dipendente dall’ambito applicativo (ad esempio dal carattere necessario o contingente degli oggetti su cui verte) nonché dagli scopi del discorso che si tratta di perfezionare mediante essa.

diversa e, soprattutto, autonoma sia rispetto alla scolastica medioevale, sia a quella moderna, sia alla Schulphilosophie, e che affiorerà in diversi momenti decisivi nello sviluppo sia dell’enciclopedismo, sia della metafisica moderna. Benché le questioni appena accennate risultino ancora sfuggenti anche nella storiografia meglio avvertita, l’intreccio fra le altre tre denominazioni della metafisica fornite da Aristotele viene invece da tempo considerato costituire un unico (e consistente) problema reale, cui la scolastica moderna avrebbe trovato una prima risposta, ossia quello della “ontoteologia”. Agli interpreti moderni non pare esservi cioè una stretta incompatibilità fra la denominazione di “fi losofia prima” (in quanto studia i primi principi e le cause supreme presupposti da tutte le scienze) e quella di “scienza dell’ente” (datale in quanto riferita alla nozione di ente in generale, presupposta da ogni altra scienza che studia un qualche tipo più specifico di entità). Con la denominazione di “scienza dell’ente”, però, sembra più difficilmente conciliarsi quella di “teologia”, datale da Aristotele in quanto scienza della sostanza suprema, quella divina, e perciò oggetto (di nuovo, ma in altro senso) della scienza “prima” 170. Il primato qui inteso, in effetti, appare equivoco rispetto a quello inteso dall’altra denominazione: risulta determinato dall’eccellenza di un’entità specifica, e non dall’universalità del tema, né dal fatto di trattarsi dei presupposti (logici o metafisici, qui non importa) che deve assumere qualsivoglia scienza per essere tale171. Si tratta di un problema dell’esegesi aristotelica di lunghissimo periodo, risalente forse già ai dibattiti fra i primi peripatetici, reimpostato però da Heidegger con una terminologia tale da farne una questione storiografica (e, nelle intenzioni, teoretica) di ben più ampia portata. Egli cioè sposta il problema dal piano dell’esegesi aristotelica a quello di un preteso sviluppo effettivo della metafisica, stimolando così la ricerca dei momenti storici in cui questa – chiamata perciò, senza riguardo per i dati testuali, “ontoteologia” – si sarebbe deter170 171

Cfr. specialmente il libro E della Metafisica. Più precisamente, Aristotele (Met. VI, 1) svolge una distinzione della fi losofia in teoretica, pratica e produttiva, per poi tripartire ulteriormente la teoretica. Qui, la fi losofia prima (diversamente dalla fisica e dalla matematica) viene definita come scienza dell’“immutabile e sussistente di per sé”, e le viene dato perciò il nome di “teologia”. Il luogo costituisce un importante sfondo della partizione delle scienze teoretiche in base al loro diverso uso dell’astrazione esposta da Goclenio (Goclenius 1613).

minata come un accorpamento estrinseco di una trattazione dell’ente “primo” inteso come universale e di una trattazione dell’ente “primo” inteso invece come eccellente172.

1.3.3. Suárez Mantenendo allora come filo conduttore il problema della “ontoteologia”, e andando agli autori della “scolastica barocca”, meriterà in primo luogo attenzione l’“Aristotele portoghese” Pedro da Fonseca (1526-1599). Oltre ai suoi testi di logica, che furono stampati in innumerevoli edizioni in tutta Europa costituendo una robusta base didattica per più di un secolo dopo la sua morte, Fonseca consegna infatti un commento alla Metafisica di Aristotele (1594-95) altrettanto influente. Qui, adoperando come equivalenti il termine “metafisica” e la formula “filosofia prima”, Fonseca afferma in particolare l’indivisibilità di tale disciplina, pur riconoscendo una pluralità di scienze metafisiche173. E quando si tratta di decidere se l’oggetto primo e adeguato di questa disciplina sia l’essere in quanto comune a Dio e alle creature – motivo 172

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Cfr. in proposito supra 1.2.10. A tale spunto, la storiografia recente – e in special modo quella rivolta alla scolastica moderna – ha più volte reagito. Per un verso, si è risposto a Heidegger ricercando, per contro, i momenti e i motivi per cui si sarebbe realizzata una separazione tra metafisica intesa come scienza dell’ente in generale e teologia (a questo schema rispondono Courtine 1990 e in parte Boulnois 1999). Secondo una linea meno sensibile al fascino, fosse pure negativo, di Heidegger, altri hanno invece proceduto sciogliendo il significato heideggeriano di “ontoteologia” in due sensi distinti: come trattazione unitaria dell’ente comune e dell’ente primo (in senso eminente) basata sull’indagine di quest’ultimo, o (pressoché all’inverso) come trattazione dell’ente primo basata sull’indagine dell’ente universale – per poi verificare in quale misura le due possibilità interpretative abbiano rispettivamente avuto un ruolo nell’evoluzione della metafisica moderna. E si può dire che quest’ultima linea si è rivelata, infine, meglio capace di dare ragione di sviluppi la cui complessità non era accordata alle esigenze speculative di uno Heidegger. Per questo gruppo di autori, soprattutto, assume un peso decisivo la figura di Duns Scoto, sia per la sua dottrina della modalità (Honnefelder 1979; 1990), sia per quella dell’univocità dell’essere (Boulnois 1999); quest’ultimo fa addirittura risalire a Scoto l’articolazione tra una “metafisica generale” che si occupa dell’ente come trascendentale e dunque come concetto ‘neutrale’, indifferente ai singoli esistenti, e una “metafisica speciale” in cui viene a confluire la tradizionale “scienza divina”. Fonseca 1594-95, Comm. in IV: 648.

per cui la filosofia prima precederebbe tutte le altre scienze metafisiche, teologia compresa – dà una precisa risposta positiva174. Siamo, dunque, già al di là della semplice distinzione tra filosofia prima come scienza dell’ente e metafisica come scienza di Dio175 – e se proprio si vuole chiamare anacronisticamente “ontoteologia” la teologia naturale (ma non certo la metafisica) di Fonseca, sarà meglio richiamarsi all’uso del termine da parte di Kant (che così chiama la speculazione teologica che ritiene di poter conoscere l’esistenza di Dio “mediante semplici concetti”)176 piuttosto che a quello introdotto da Heidegger. Con ciò, tuttavia, non si era ancora giunti al momento in cui, per trovarsi di fronte all’ontologia moderna, sarebbe bastato semplicemente inventare un nome per una metafisica sistematicamente sviluppata come scienza dell’ente in generale. Tale elaborazione, ai cui scopi risultava peraltro del tutto adeguato il vecchio nome di metafisica, non era ancora giunta al suo vertice. Da questo punto di vista, sempre tra gli esponenti della “scolastica barocca” si guadagna sicuramente uno spazio centrale Francisco Suárez177. I due volumi della sua opera principale, le Dispute metafisiche (1597)178, non rappresentano solo un’opera di erudizione che raccoglie l’intera tradizione antico-medievale. Si estendono infatti come un compendio di opinioni proprie e antecedenti riguardo a numerosissime questioni179, ordinate però in 174 175

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Ivi: 1, 1, 3. Affermata peraltro già da Benito Perera (Pererius, Pereira, Pérez, 1535-1610) nel trattato Sui principi e le affezioni comuni (1562). Senza fare dunque ricorso all’esperienza, a differenza della “cosmoteologia” (KrV B 660). Nato a Granada nel 1548, studia legge a Salamanca, finché nel 1564 entra nella Compagnia di Gesù e inizia gli studi fi losofici e poi teologici, inizialmente sotto la guida di maestri domenicani. Ordinato sacerdote nel 1572, inizia nel 1574 a professare teologia, prima a Valladolid, quindi in una serie di sedi via via più prestigiose, sino a ricoprire la cattedra di teologia a Coimbra. Prende parte alla disputa teologica sulla grazia scoppiata tra domenicani e gesuiti a fine Cinquecento ponendosi sul medesimo fronte di Luis de Molina e Roberto Bellarmino (1542-1621), nonché a quella sull’immunità ecclesiastica entro la più ampia polemica fra il papato e Giacomo I di Inghilterra. Muore a Lisbona nel 1617. Ma quella che diventerà un manuale di riferimento per almeno due secoli sarà l’edizione pubblicata a Mainz nel 1600 e più volte ristampata. Le opinioni riportate toccano il numero di 22 per una singola questione; Suárez considera fonti greche, arabe, patristiche e scolastiche: Iturrioz 1948 ha

54 “dispute” in maniera da disegnare sistematicamente l’ambito della metafisica. Scegliendo questo stile espositivo, Suárez rompe con la forma dei precedenti trattati metafisici, estesi di norma come opere brevi o come commenti alle opere di Aristotele. Perciò nel nuovo genere filosofico hanno ben diverso peso (e spicco) le posizioni assunte circa la definizione disciplinare che qui interessa, mentre la forma letteraria delle Dispute permette di verificare facilmente quale fosse la vera agenda delle questioni metafisiche dibattute nella scolastica moderna, al di là dell’interesse novecentesco (importato da istanze teoretiche più che storiografiche) per la disputa sugli universali180 o per la questione dell’ontoteologia. Nella prima “Disputa”, oggetto della metafisica viene dichiarato l’ente “in quanto ente reale”: si tratta di un’importante (e, come presto vedremo, influente) specificazione avanzata da Suárez appoggiandosi su due distinzioni correnti. La prima è quella tra il “concetto formale” in quanto atto della mente e il “concetto obiettivo” in quanto oggetto immediatamente inteso con un tale atto, ovvero rappresentato mediante il primo. Dei due, il concetto appropriato all’oggetto della metafisica sarà il secondo, essendone il contenuto quella che Suárez, seguendo una linea che da Avicenna porta a Duns Scoto, chiama una “essenza reale” – e che può ugualmente riferirsi sia a entità individuali, sia a caratteri comuni a esse, ovvero universali (ratio). La seconda distinzione tracciata nella prima “Disputa” circa l’oggetto della metafisica corre tra l’“ente (ens)” inteso grammaticalmente come participio (ossia riferito ad alcunché di attualmente esistente) ed “ente” inteso “come nome” (ossia non necessariamente riferito ad alcunché di esistente, ma solo ad alcunché di non fittizio, ossia almeno vero in sé stesso e atto a esistere realmente). E in quest’ultimo senso, di nuovo, con “ente” è significata qualsivoglia entità possieda una “essenza reale”. Nella seconda “Disputa” l’oggetto della metafisica può venire dunque definito come il “concetto obiettivo comune dell’ente in quanto nome”, poiché un tale concetto di ente: 1) intende realmente un oggetto (è “obiettivo”)181; 2) trascende ogni classificazione degli enti per

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raccolto una lista di 7.709 citazioni per 245 autori, i cui più frequentati sono Aristotele (citato 1.735 volte) e Tommaso (1.008). Cfr. infra 5.4. Sullo sviluppo dell’opposizione metafisica soggettivo/oggettivo in età kantiana a partire dalla distinzione scolastica tra concetto formale e obiettivo cfr. Karskens 1992.

comprendere tutto ciò che è reale, andando da ciò che possiede una qualità per una relazione estrinseca (ad esempio: “essere conosciuto”), alle entità meramente possibili (interpretate da Suárez come intese da concetti non contraddittori)182, alle sostanze e agli accidenti effettivamente creati, alla realtà sussistente di Dio che è puramente attuale e necessaria (è “comune”)183; 3) prescinde dall’esistenza dell’oggetto inteso (vi si riferisce come un “nome”)184. Determinato così l’oggetto della metafisica, Suárez è in grado di fornire nelle rimanenti “Dispute” una trattazione generale delle proprietà trascendentali di ogni ente in quanto tale185, e poi di sollevare una serie di questioni metafisiche cui dà spesso risposta in maniera indipendente dall’ortodossia tomista, tanto da aver fatto parlare di “suarismo” come di una dottrina a sé. Ma poiché si tratta forse del tema più presente nella letteratura attuale, converrà soffermarsi ancora sulla questione della “ontoteologia” suareziana. Anche accantonando l’impostazione heideggeriana del problema, rimane in effetti possibile riconoscere due accezioni di ontologia, intesa come specificazione della metafisica, rispetto a cui Suárez pare effettivamente porre e risolvere una questione, ossia: 1) come studio dell’ente in quanto entità di ragione reale (ratio) priva di legami con l’esistenza e ridotta a puro oggetto di pensiero186; 2) come studio dell’ente considerato come ratio trascendentale (ossia irriducibile a qualsiasi categoria, ovvero indeterminabile se non come attitudine a essere qualcosa, nonché incluso essenzialmente in ogni altro ente determinato) e di ogni altra ratio in quanto in essa si rinviene l’ente considerato come trascendentale187. In entrambe tali prospet182 183

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Cfr. in proposito Doyle 1967; 1987. A questo tema è (solamente) apparentato quello della analogicità: cfr. Doyle 1969; Ippolito 2005. Cfr. in proposito Wells 1962. Innanzitutto unità, verità e bontà, i predicati tradizionalmente considerati applicabili a qualsivoglia entità conoscibile, che appunto trascendono in universalità le stesse categorie della tradizione aristotelica. A questa accezione fanno riferimento Gilson 1948 e poi Courtine 1990 (per quest’ultimo, l’ontologia è in tal senso una “onto-logica”, e il suo eventuale discorso su Dio ne è una specificazione “onto-teo-logica”). A questa diversa accezione si riferiscono Honnefelder 1990 e, in qualche misura, Gracia 1991 (per il primo, da questo punto di vista, la metafisica di Suárez non si configura come divisa tra studio delle proprietà trascendentali e delle determinazioni categoriali dell’ente, bensì come dedicata comunque allo studio dei trascendentali).

tive, infatti, l’indagine dell’ente non appare pregiudicata da interessi immediatamente teologici – ma si dispone ad articolarsi nel senso di un rapporto fra un’ontologia come metafisica generale e una pluralità di metafisiche speciali, tra cui la teologia naturale. Proprio da tale punto di vista Suárez ha fornito una risposta già considerevolmente articolata, mediante la tesi fondamentale secondo cui la ratio dell’ente reale presuppone il darsi di enti spirituali. Questo, perché solamente il darsi di sostanze spirituali rende l’ente davvero astratto dalla materia “secondo l’essere”, e solamente la conoscenza effettiva di tali sostanze garantisce che la ratio cercata sia reale188. Per questo motivo, la metafisica di Suárez risulta inclinata a una precisa dissimmetria quando si tratta di rivolgersi alla totalità dell’essente, che la spinge a occuparsi nel dettaglio di tutte le rationes proprie delle sostanze spirituali, e a occuparsi solo indirettamente delle rationes proprie degli enti materiali189. In questo senso, se si vuole, siamo di nuovo dinanzi a una “ontoteologia” in senso kantiano, ovvero a una scienza concettualistica dell’ente in generale, ma predisposta sin dal suo principio a sviluppare una pneumatologia190 e una teologia naturali. Se si considera tale circostanza, non stupirà che in nessuno dei corsi seicenteschi influenzati da Suárez si sostenga la distinzione tra scienza di Dio e una generica scienza dell’essere191 – mentre, come si vedrà tra poco, sarà proprio la questione dell’astrazione dalla materia implicata dall’indagine sull’ente “in quanto ente” a rivestire un ruolo importante nella nascita dell’ontologia entro la scolastica moderna, non appena questa inizia a ricevere un nome proprio.

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Suárez 1597: I. 1. 16. Di tale dissimmetria tratta analiticamente Forlivesi 2004. Prima della ridefinizione disciplinare promossa da Wolff con l’introduzione della psicologia tra le discipline metafisiche, la parte speciale della metafisica dedicata allo studio degli spiriti – in quanto entità immateriali dotate di vita intellettiva, diverse cioè dalle anime dei bruti o dei vegetali – era normalmente detta pneumatica, o pneumatologia, e si riferiva agli spiriti increati, ossia divini, oppure a quelli creati – nell’angelologia, demonologia ecc. –, nonché psicologia, quando riferita all’anima umana in quanto indagabile nel suo stato di unione o separatezza con un proprio corpo vivente. Cfr. in proposito Grabmann 1926.

1.3.4. Comparsa del neologismo L’influenza delle Dispute suareziane sulla scolastica cattolica postrinascimentale sarà imponente; ma, soprattutto, appoggiandosi all’influenza dei gesuiti, l’intera metafisica della scolastica barocca passerà dalla Penisola Iberica all’Europa del Nord, penetrando profondamente le università della Germania. Qui, le opere da ricordare sarebbero moltissime192; tra gli autori, invece, meritano speciale attenzione almeno Johann Hermann Alsted (1588-1638, su cui si tornerà fra poco), nonché Daniel Stahl (1585-1654), autore di un Compendio metafisico (1655) annotato da Leibniz. Quest’ultimo diede infatti vita a una scuola a cui appartennero Jacob Thomasius (1622-1684, padre di Christian, 1655-1728, altro autore che verrà menzionato di nuovo tra poco) e Adam Scherzer (1628-1683), maestri entrambi di Leibniz. Per l’influsso sulla generazione ulteriore a quest’ultimo, saranno invece importanti anche i testi dell’intera ultima generazione della scuola spagnola193, oltre naturalmente a Suárez, le cui Dispute in Germania conobbero diciassette edizioni apparse tra il 1597 e il 1636. Sarebbe tuttavia fuorviante tirare un filo diretto tra la metafisica suareziana e la nascita dell’ontologia, trascurando due importantissime circostanze che movimentano di parecchio il quadro della sua ricezione nella Germania del Seicento. La prima è quella della riforma degli studi, specie di quelli superiori, promossa da tempo nella Germania luterana194. La seconda è l’appoggiarsi di tale movimento pedagogi192

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Si possono almeno ricordare i Teoremi metafisici (1604) di Jacobus Martini (1570-1649); il Sistema metodico di metafisica (1604) di Clemens Timpler (1567-1624); la Metafisica (1617, ristampata più volte sino al 1657, anche a Oxford, 1633) di Christoph Scheibler (1598-1653, il “Suárez protestante”). Vanno citati almeno la Disputa sull’intera filosofia (1617) di Pedro Hurtado de Mendoza (1578-1651), il Corso di filosofia (1640) di Francisco da Oviedo (1602-1651), nonché il Corso filosofico (1632) e la Disputa teologica (1651, ma prefata già nel 1643) di Rodrigo de Arriaga (1592-1667). In particolare da Filippo Melantone (Melanchton, Philipp Schwar[t]zerd[t], 1497-1560). Forse, il motivo principale di quel dogmatismo che rimarrà una costante nelle università tedesche dei due secoli successivi va ricercato nella convinzione melantoniana che la certezza del sapere derivi dal possesso di principi immediatamente evidenti, innati nella mente umana, posti alla base del sapere universale: una convinzione che deriva tanto dalle affermazioni aristoteliche circa il darsi di principi primi e indimostrabili, quanto dalla dottrina stoica delle “nozioni comuni” fi ltrata attraverso Cicerone.

co a una letteratura a sua volta modernamente distaccatasi in maniera definitiva dall’ambito scolastico-medievale da cui comunque deriva, ossia quella enciclopedica195. A questa letteratura offre un particolare impulso Bartholomäus Keckermann (1571? 1573?-1608). Come Melantone, egli considera il “sistema” aristotelico (svincolato, certo, da troppo stretti legami con la scolastica) il migliore strumento per formare dei sapienti capaci di riconoscere l’accordo tra le scienze sacre basate sulla Scrittura e la conoscenza del ‘libro’ divino del mondo. Editore delle sue opere fu il già citato Alsted che, pure apprezzandolo, nutriva più ampi interessi filosofici196. Tra i numerosi manuali che compose da poligrafo, la sua Enciclopedia (1620) era costituita da una serie di trentotto tavole che dovevano dispiegare visibilmente l’ordine e la perfezione propri del mondo. Tale enciclopedia doveva perciò mediare una comprensione metodica di tutto lo scibile, distinto nelle partizioni costituite dalla filologia, dalla filosofia, dalla teologia, dalla giurisprudenza, dalla medicina, dalle arti meccaniche. Era così disegnato un percorso di fondo dove le tecniche del discorso, intese ad assicurarne la perfezione, vengono collocate tra le cognizioni preliminari a ogni sapere possibile e quelle proprie delle singole scienze, sia teoretiche, sia pratiche197. Tra le scienze vere e proprie, per Alsted viene quindi al primo posto la metafisica, in quanto indaga “l’ente in quanto ente”, ovvero l’ente nella sua massima generalità – e a nominarla compare la parola “ontologia”198 che tuttavia già aveva iniziato a circolare in quegli anni199. Tale articolazione costituisce una mossa importante in questi 195

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È questo il momento per ricordare come in Leibniz l’unica occorrenza di “ontologia” si ritrovi proprio in un contesto in cui si discute dell’enciclopedistica, ossia nella Introduzione all’Enciclopedia arcana, dei primi anni Ottanta: qui l’ontologia viene introdotta dubitativamente, in coda a una teoria di discipline come la gnostologia, la noologia, l’“arte delle acutezze”, la “cabala dei sapienti” ecc. Cfr. Sämtliche Schriften und Briefe, VI 4, 525 ss. Alsted fu anche editore di Bruno, e a differenza di Keckermann stimava le dottrine di Lullo e di Ramo. Per un suo inquadramento cfr. Hotson 2000. Viene così data una nuova sistemazione alla protheoria degli scolastici, ossia a quel corpo di dottrine – sia logiche sia metafisiche, e variamente circoscritto – che era inteso come una dottrina genericamente preliminare all’esercizio positivo della scienza, e che diventerà la “logica” ovvero la “dottrina della ragione (Vernunftlehre)” in età preilluministica. Alsted 1620: V, I, I (“Ens”). In particolare, poi, Alsted distingue qui tra metafisica “generale” e “speciale” in quanto intesa, rispettivamente, come dottrina dei trascendentali (di cui Al-

primi decenni del Seicento, quando si assiste a una proliferazione di nuovi termini per designare ‘nuove’ discipline: in filosofia, infatti, simili battesimi hanno luogo specialmente nell’ambito delle scienze teoretiche, ovvero “reali”, intendendole con ciò distinte dalla “logica” in quanto disciplina che le precede, ma che non ha propriamente oggetto (fino a venire talvolta giudicata incapace di conseguire conoscenze genuine), poiché considera soltanto i modi in cui altre scienze studiano i rispettivi oggetti. Dunque, la grande partizione che si afferma – con Alsted e al di là di lui – è quella che riconosce due discipline “prime”, logica e metafisica, intesa quest’ultima talvolta come scienza posta al vertice delle scienze reali, talvolta come sostantivo collettivo per designare l’insieme di quelle più squisitamente teoretiche. Poter inseguire, a questo punto, la carriera di una nuova parola segna una prima tappa importante della storia che ci interessa. Le risultanze testuali sono relativamente facili da elencare, ma percorrono vie disciplinari e conoscono forme espositive diverse. Il termine “ontologia”, infatti, compare nel Seicento in autori che non appartengono univocamente a partiti filosofici ben precisi, ma che appaiono influenzati, in varia misura, sia dalla tradizione scolastica, sia dalla corrente moderna del razionalismo (da Cartesio innanzitutto), sia da istanze enciclopedistiche (quando non francamente pansofistiche), variamente intrecciati con il dibattito moderno sulla logica e sul metodo scientifico. Fino a tempi recenti, un buon numero di storici200 riconosceva in Johann Clauberg (1622-1665) il primo filosofo ad avere utilizzato in maniera pienamente matura una variante terminologica di “ontologia”, negli Elementi di filosofia, ovvero Ontosofia (1647), pur non ignorando affatto che la prima occorrenza di queste parole compare in opere anteriori. Per ricordare il caso più citato in letteratura, il termine “ontologia” compare infatti già in una nota a margine alla voce “Astrazione”

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sted arricchisce comunque l’elenco rispetto a quello tradizionale di uno, vero, buono) e dottrina dei predicamenti (categorie). In ciò sarà seguito da Johannes Scharf (1595-1660), nella Teoria trascendentale della filosofia prima, chiamata metafisica (1624) e nella Metafisica esemplare (1625) – e poi da numerosi altri autori, come ancora Franz Maria Ulrich Theodosius Aepinus (1724-1802) nella Introduzione alla filosofia (1714), arrivando così all’età kantiana. (Ma la distinzione tra metafisica generale e speciale che tenderà a imporsi effettivamente sarà un’altra, come si vedrà tra poco). Cfr. Eucken 1879, Pichler 1937, Wundt 1939, Gilson 1948, Heimsoeth 1956, École 1961.

del Lessico filosofico (1613) del logico e fisico Rudof Göckel (Goclenius, 1547-1628), dove si tratta di caratterizzare una delle scienze teoretiche che in modi diversi astraggono dalla materia (ovvero non considerano in quanto entità specificamente fisiche) i possibili oggetti della conoscenza. L’appunto rimane occasionale (e relegato anzi dal suo stesso autore fra le “sottigliezze” erudite), tanto che nel Lessico non compare nemmeno una voce “Metafisica”201. In prima battuta, dunque, tale novità terminologica sembrerebbe da interpretarsi come una curiosità di valore episodico. Tuttavia, il contesto del Lessico merita di venire considerato più da vicino: alla voce “Astrazione”, infatti, viene introdotta una tripartizione dell’astrazione dalla materia di cui si servono le scienze teoretiche, cui corrisponde una distinzione dei loro rispettivi oggetti. E tra l’astrazione dalla materia singolare o sensibile (che caratterizza la considerazione della realtà materiale da parte della fisica) e quella totale (che concerne Dio e le “intelligenze”, di per sé immateriali, oggetto rispettivamente della teologia e della pneumatica) si collocano la matematica e – appunto – l’ontologia. Quest’ultima è intesa come “filosofia dell’ente o dei trascendenti”, cioè la scienza che astrae concettualmente dalla materia sia singolare sia universale, mentre la matematica astrae soltanto da quella universale. Qui, dunque, l’ontologia, più che caratterizzarsi come filosofia prima dal punto di vista del suo oggetto (in quanto scienza dell’ente in generale) sarebbe vista e considerata di per sé, come una delle scienze teoretiche che si serve di uno specifico modo dell’astrazione202. Se si guarda a questo episodio lessicografico entro tale prospettiva, appare allora meno misteriosa anche l’introduzione del termine in un’altra opera, anteriore al Lessico di Goclenio. Si tratta di un breve manuale scolastico (1606) stilato da Jacob Lorhard (1561-1609), dove il termine “ontologia” vale come sinonimo di “metafisica”, ma di nuovo non in quanto “filosofia prima” per201

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Soprattutto, il termine “ontologia” non appare affatto nella sua Isagoge (1612): qui, anzi, Goclenio rimane ancorato alla terminologia più tradizionale che, riconosciute la logica e la metafisica come le due “discipline liberali” sommamente universali, si limita a trattare come sinonimi “metafisica” e “fi losofia prima” in quanto ugualmente riferibili alla “scienza dell’ente in quanto ente” (Goclenius 1612: “Praefatio Auctoris”, 4). Probabilmente abbagliato dal problema dell’ontoteologia, Courtine (1990: 410) afferma che Goclenio separerebbe radicalmente la fi losofia prima dalla metafisica (essendo la prima universale, mentre la seconda conterrebbe indagini speciali fra cui quella teologica).

ché “scienza dell’ente in quanto ente”, bensì proprio in quanto scienza dell’“intelligibile in quanto intelligibile”, ossia dei concetti sommamente astratti203. Tale accezione, a sua volta, ha motivazioni anteriori, più o meno dirette, anche nella scolastica moderna204: in ogni caso, alla sua luce, lungi dal costituire eccentricità prive di adeguate spiegazioni, i battesimi di Lorhard e Goclenio potrebbero essere considerati entrambi come emersioni di una linea di pensiero sotterranea. Esterna al formarsi di un’ontologia che si imporrà come scienza dell’ente declinata in senso realistico, tale linea continuerà comunque a riproporre una definizione dell’ontologia come scienza dei concetti sommamente astratti (intesa spesso in senso francamente logicistico, come sarà per molti antiwolffiani nella Schulphilosophie)205 – e insomma legata all’accezione aristotelica della metafisica come “sapienza”. 203

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Lorhard 1606: 157 (“Metaphysicae seu ontologiae Diagraphe”, Tav.). Su Lorhard cfr. Freedman (1985), Courtine (1990: 410, n. 6), École (2001a: 96), i quali però fi no alla recente ‘scoperta’ della Ogdoas da parte di Corazzon (2005) conoscevano di Lorhard il solo Theatrum philosophicum (1613, seconda edizione della Ogdoas). Innanzitutto, la definizione di metafisica come scienza universale in quanto considera gli enti “astrattamente” (cioè a prescindere dalla loro considerazione sensibile) data da Lorhard alcuni anni prima (1597: 75). P. Øhrstrøm (cfr. Corazzon 2005) ritiene di poter affermare che Goclenio fosse poi stato ispirato da Lorhard durante una loro reciproca frequentazione a Marburg nel 1607. Più sicuro pare affermare che l’ispiratore di entrambi possa essere stato il già citato Timpler, con la sua defi nizione dell’oggetto della metafisica (critica verso Suárez) come “intelligibile in quanto intelligibile” (1604) cui accenna lo stesso Courtine (1990: 410, n. 6, riferendosi però al Theatrum lorhardiano del 1613; su Timpler, cfr. Freedman 1988). Ancora, circa la precisazione di Lorhard secondo cui l’ontologia così intesa sarebbe conseguibile mediante il solo “lume della ragione naturale” (1606: 157), un precedente importante può essere visto forse già in Suárez, che nel suo commento postumo (ma ampiamente circolante) al De anima introduce la distinzione, relativa alla conoscenza intellettuale, tra oggetto “adeguato” dell’intelletto in quanto tale – l’ente in quanto ente, comprendente tutti gli intelligibili – e l’oggetto “proporzionato” all’intelletto umano nel suo stato presente – le sole cose sensibili ovvero materiali –, ammettendo altresì una conoscenza diretta e immediata del singolare (cfr. Suárez 1621: IV, 1-2). In ciò Suárez rimane comunque nella scia di Perera (cfr. Courtine 1990: 410). Ma poi anche nelle metafisiche dell’idealismo classico: si pensi anche solo all’indice della Scienza della logica hegeliana, o ai contenuti del Mondo schopenhaueriano.

Del resto, a mostrare la sospensione dell’ontologia fra tale accezione logicistica e le accezioni derivabili da quello che, aposteriori, può essere chiamato il dibattito sull’ontoteologia valgono gli autori successivi. Qui, vanno ricordati almeno un paio di casi notevoli. Si tratta, in primo luogo, del Lessico filosofico (1653) di Micraelius (Johannes Lütkeschwager, 1597-1658), dove alla voce “Filosofia” si incontra una partizione della metafisica in “Gnostologia” (disciplina che riguarda ogni conoscibile in quanto tale), “Exologia” (riguardante gli abiti intellettuali produttivi di conoscenza), “Tecnologia” (riferita alla natura e all’ordine delle diverse discipline), “Archiologia” (che considera i principi delle discipline), “Didattica” (riferita alla trasmissione del sapere). Le singole voci di tale partizione hanno riscontro nel ben più ampio elenco generale di discipline (reali e non) reperibile nel “Compendio” premesso alla Enciclopedia (1620) del già citato Alsted, però Micraelius vi sovrappone ancora un’ulteriore e differente partizione della metafisica, che qui assume il senso di prima tra le scienze reali: quella tra metafisica “generale”, che considera l’ente “in maniera astrattissima”, e “speciale”, che lo considera secondo le diverse specie di sostanze “sciolte da ogni materia”. In questa sede, Micraelius cita (senza nominarli) autori che parlano di “ontologia” – ma è evidente e significativa la sua incertezza circa la differenza tra la sua “gnostologia” e l’“ontologia” di costoro, indice del dubbio (o dell’indifferenza) circa la possibilità di considerare l’“ente in quanto ente” sotto il duplice profilo del suo essere in sé e del suo essere conoscibile. Tale dubbio, maturato nella trattatistica precedente, è però meglio leggibile già nella Metafisica divina (1636) di Abraham Calovius (Calan, Kalan, 1612-1686) e nella Filosofia razionale e reale (1642) di Juan Caramuel de Lobkowitz (1606-1682). Tali autori, avendolo affrontato e avendone tentato uno scioglimento (certo, ancora non pienamente sistematico) prima di Clauberg, possono venire perciò a buon diritto considerati coloro che hanno posto il problema di dover indirizzare, o meno, il battesimo dell’“ontologia” su una scienza dell’ente più strettamente intesa come scienza reale206. Calovius non è affatto originale nell’intendere la metafisica come “scienza dell’ente”, ma tale risulta invece la sua particolare spiegazione in proposito: la metafisica è scienza dell’ente in quanto riferita all’“ordine delle cose”, ossia a un ordine reale come proprio oggetto scientifico, meritando per questo specifico 206

Sono fra l’altro citati da Clauberg al termine del suo trattato (1647; 16643: § 89).

motivo di venire detta “ontologia”207. Anche più esplicito era stato Caramuel nell’affermare che solo in quanto “ontosofia” la metafisica merita di venire detta una filosofia prima, anteposta cioè a tutte le altre discipline e non dipendente da nessuna di esse, teologia compresa 208. Calovius, per parte sua, presenterà successivamente sotto il nome di “noologia” una disciplina molto simile all’“ontosofia” di Caramuel, nonché a quella che egli stesso aveva chiamato ontologia 209.

1.3.5. Il cartesianismo e Clauberg Il nodo di quella che appare come una collocazione oscillante dell’ontologia tra le due scienze prime – logica e metafisica – viene definitivamente sciolto da Clauberg, appoggiandosi alle innovazioni intanto apportate dal cartesianismo210. Va osservata, per cominciare, la maniera in cui Clauberg modifica man mano i titoli della sua opera nelle tre edizioni: l’accento passa da una definizione dell’“ontosofia” come scienza degli elementi filosofici, e quindi come filosofia prima (1647), alla denominazione che fa equivalere “ontosofia” e “metafisica” (16602), intendendo però quest’ultima etichetta come meno precisa, alla denominazione che fa più ristrettamente equivalere la prima alla metafisica che tratta dell’ente (16643). L’uso del neologismo – va sottolineato – ha qui un valore sostanziale, che non si ritrova negli esempi precedenti, dove ci si limitava ad assegnare una denominazione retoricamente più efficace a discipline già consegnate tutte dalla tradizione. 207

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Tuttavia, rimane sempre un forte accento sull’ontologia come scienza dell’intelligibile e, in quanto tale, denominata “sapienza prima”, ancora nella riedizione aumentata della Metafisica divina (Calovius 1651: 129). Cfr. Caramuel 1642: 65. Caramuel, inoltre, è il primo a elencare una serie di principi specificamente “ontologici”, ossia applicabili al massimo livello di generalità della riflessione metafisica: ad esempio, l’impossibilità del darsi di due contraddittorie insieme vere oppure false, o l’inopportunità di moltiplicare gli enti senza necessità – raccogliendoli tuttavia chiaramente dall’ambito della logica. Questa, infatti, proprio come la già citata “archiologia” di Micraelius (il quale per questo motivo la denomina pure “noologia”), è intesa come la scienza dei “principi supremi” e assorbe quindi in sé la metafisica tradizionale in quanto fi losofia prima, e cioè in quanto precede tutte le altre scienze reali; cfr. Calovius 1636: 286. Sull’importanza di Clauberg per Wolff cfr. École 2001b.

Clauberg, infatti, già variando i titoli delle riedizioni della sua Ontosofia, tiene presto a sottolineare che tale disciplina è impropriamente denominata metafisica: rispetto a questo nome, il neologismo vale a sottolineare come il suo oggetto non sia l’universo esaminato in una prospettiva transfisica, o oltrefisica, o altrimenti “astratta”, bensì l’ente inteso nel suo senso più generale, considerabile tuttavia sotto tre diverse prospettive. Si parla di ente, innanzitutto, in quanto semplicemente pensabile, ma poi, più precisamente, in quanto è un “qualcosa” (a cui si oppone il “nulla”); e, infine, nel senso più ristretto, in quanto equivale alla “cosa (res)” che “esiste di per sé”, ovvero è inteso come sostanza (cui si oppongono gli accidenti)211. In questa progressione di significati, Clauberg fa proprie alcune precise opzioni teoriche. Considerando i capitoli II-IV, che dettagliano le tre accezioni di “ente” fin qui delineate, si trova innanzitutto la forte sottolineatura della semplice pensabilità (equivalente per Clauberg alla dicibilità) dell’ente212, retta dalla premessa che distingue e mette in parallelo, in vista di tale sua qualificazione, il “Thema” come oggetto della logica (chiamata pure “dialettica”) e lo “Ens” come oggetto della filosofia213. Nel successivo capitolo III la restrizione del significato di ente comporta l’attribuzione a esso non della mera assenza di contraddizioni, cui corrisponde la semplice “intelligibilità”, ma anche della realtà, ciò che appunto permette di qualificarlo come “qualcosa”214. Il capitolo nodale è però quello ancora successivo, dove si sostiene la tesi della mera differenza di ragione tra l’ente reale e i suoi attributi, per poi istituire l’equivalenza tra sostanza e cosa esistente e, quindi, distinguere tra attributi essenziali e accidentali delle sostanze215. Tutto ciò permette a Clauberg di impostare la sua ontologia in senso non aristotelicamente sostanzialistico, bensì ponendosi nella scia di un Cartesio interpretato in senso essenzialistico216. Altro snodo importante dopo l’ultimo appena individuato è qui infatti la coda del 211 212

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Clauberg 1647 (16643: § 4). Clauberg (Ivi: §§ 7-8) traccia un duplice parallelo etimologico, tra “Sache” e “sagen”, nonché “Ding” e “denken”; ancora, sostiene da questo punto di vista l’indifferenza tra il “cogitabile” inteso come intelligibile, sensibile o appetibile (Ivi: § 8). Ivi: § 6. Ivi: § 18. Ivi: §§ 42-44. Per una presentazione delle differenze tra essenzialismo aristotelico ed essenzialismo moderno e contemporaneo cfr. Klima 2002.

capitolo IV, dove, identificati gli attributi con ciò per cui siamo in grado di intendere un ente in modo chiaro e di distinguerlo da altri enti217, si traccia una classificazione generale degli enti basata sul principio della massima opposizione dei loro attributi 218, la cui partizione fondamentale sarà quella tra cose corporee, ovvero materiali, dotate innanzitutto di estensione, e intellettuali, comprendenti innanzitutto le operazioni dell’anima e, quindi, gli esseri spirituali con al loro vertice la divinità 219. Di qui, dedicati due capitoli (V-VI) ai temi dell’essenza e dell’esistenza, si trattano gli attributi (e in primo luogo quello della durata) spettanti all’esistenza (VII), per poi impegnarsi nella trattazione dei trascendentali veri e propri (VIII-XI, dove ai tre tradizionali – unità, verità, bontà – viene aggiunto quello della perfezione); infine, trattato il concetto di relazione (XII), si svolge la serie delle proprietà relazionali (ad esempio rapporti causali, di priorità, di identità e differenza, parte e tutto ecc.: XIII-XXIII)220. Considerare tale progressione permette allora di comprendere meglio l’ultima precisazione consegnata al capitolo iniziale, secondo cui premettere la trattazione dell’ente nei suoi significati più generali a quella che lo tematizza nel suo significato più ristretto è necessario in quanto la “fi losofia universale” inizia presso l’ente in quanto pensabile, mentre la “filosofia prima” inizia presso un ente singolare e, segnatamente, presso la “mente che pensa” come suo primo oggetto221. Clauberg si premura qui di sottolineare in un’apposita nota come la “filosofia prima” vada dunque chiamata in tal modo non per l’universalità del suo oggetto, bensì per il suo ruolo metodicamente cruciale, che impone di iniziare non tanto presso un oggetto che sia universale, quanto piuttosto un oggetto eminente, come sono (dal punto di vista epistemologico) la “cognizione della propria mente” da parte del fi losofo e (per la sua eccellenza) Dio, secondo le indicazioni provenienti dalle Meditazioni cartesiane222. Se si vuole, la questione dell’ontoteolo217 218 219

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Clauberg 1647 (16643: § 47). Ivi: § 48. Ivi: §§ 49-54. Cruciale dal punto di vista metafisico risulterà inoltre la compresenza nell’uomo di entrambi questi generi di entità (Ivi: § 53). L’ultimo capitolo, il XXIV, espone brevemente una dottrina della “compensazione”, ovvero dell’analogia universale vigente tra tutte le cose che compongono il cosmo. Ivi: § 5. Ivi: 88 (nota al § 5).

gia viene risolta da Clauberg separando nettamente filosofia generale e filosofia prima: di quella viene accettata la definizione maturata nella scolastica moderna, mentre di questa è ammesso lo sdoppiamento, una volta recepito l’apporto dell’epistemologia cartesiana nel dibattito di tradizione aristotelica. In tale prospettiva, l’ontosofia non si limita a presentarsi come sinonimo di metafisica, bensì, proprio perché la “scienza dell’ente” non risulta detta in modo univoco, ne disegna l’intera articolazione sistematica. L’ontosofia di Clauberg è, dunque, parecchio diversa dalla scienza dell’ente ovvero dalla metafisica generale della tradizione scolastica: semmai, Clauberg – pur ritenendo della tradizione scolastica i contenuti che sceglie di salvare – riprende il nome nuovo di ontologia per denominare qualcosa di altrettanto nuovo rispetto alla tradizione, ossia un sistema metafisico (e latamente enciclopedico) di impianto cartesiano. Tale circostanza è rispecchiata nei lessici che fanno la fortuna del nuovo termine disciplinare, accogliendo (pur con diverse oscillazioni) la parola nel suo significato più ampio, ovvero cercando di armonizzare per quanto possibile il vocabolario moderno con quello scolastico. Lo si vede bene opponendo la soluzione di Clauberg al già citato lessico di Micraelius (1653), in cui non appare una voce apposita, ma di ontologia si parla alla voce “Filosofia” come di una delle parti della metafisica – pur accennando anche all’uso che le identifica. Nel successivo e altrettanto fortunato lessico (1692) di Étienne (Stephanus) Chauvin (1640-1725), invece, è presente una voce apposita, dove la “ontosofia” (riconosciuta anche la variante di “ontologia”) è detta più decisamente scienza dell’ente, mentre alla voce “Metafisica” la denominazione e la definizione ritornano, venendo giudicate le più appropriate223. Di fatto, il solo termine ad affermarsi sarà quello di “ontologia” – ma con ciò si è giunti ormai in età illuministica, quando, segnatamente nella Schulphilosophie, la canonizzazione di una metafisica comprendente l’ontologia si realizzerà in un avvenuto oltrepassamento della tradizione scolastica.

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Infine, Chauvin distingue addirittura tra “ontosofia” come “scienza dell’ente” senza ulteriori determinazioni e “ontologia” come “sistema, dottrina dell’ente che comprende una metodica”, quasi rimarcando (ma variando la terminologia) il suggerimento di Clauberg. Nessuno tenterà però di riprendere questa distinzione lessicale.

1.3.6. La Schulphilosophie e Wolff Di oltrepassamento della scolastica nella Schulphilosophie si può parlare rispetto a un complesso ben più ampio di quello delle dottrine metafisiche. Questa è infatti certamente una filosofia accademica, ma ormai non più affatto ‘di scuola’, come mostra la piena coscienza del proprio ruolo di innovatori224 esibita dai suoi massimi ispiratori iniziali, Christian Thomasius (1655-1728)225 e Wolff226. L’interpretazione concre224

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Dal punto di vista della coscienza del proprio ruolo innovativo, si è affermata la tendenza a distinguere almeno due illuminismi: l’uno prevalente dapprima in Inghilterra e Olanda (e poi in Francia, Italia e Spagna), l’altro in Germania e Scandinavia (cfr. Tonelli 1971b). Tra le loro principali differenze, spicca una diversa coscienza prospettica: mentre nel secolo dei lumi inglese e francese prevale la coscienza che la vera rivoluzione del pensiero moderno sia stata compiuta dalla generazione precedente (Bacone, Newton, Locke, Cartesio), in quello tedesco la coscienza dell’innovazione appartiene alle generazioni nuove. (Va inoltre considerato come l’influsso di Leibniz sulla fi losofia dell’Aufklärung si faccia effettivamente sentire, per emersioni successive, solo dal secondo decennio del Settecento in avanti; la pubblicazione postuma dei Nuovi saggi cade appena nel 1765). A Thomasius la storiografia ricorre infallibilmente quando si tratta di fermare dei momenti e dei tratti emblematicamente illuministici e nuovi per la Germania: è il docente che fa scalpore rompendo con il monopolio del latino come lingua didattica oltre che scientifica (nel 1687, data convenzionale da cui si fa iniziare l’Aufklärung, tiene per la prima volta un corso universitario in tedesco), è il giusnaturalista che prende una dura posizione contro i processi alle streghe e la pratica della tortura, è il pensatore religioso che si avvicina al pietismo per poi ritrarsi dagli eccessi degli “entusiasti”. A lui si deve l’avvio della corrente minoritaria della Schulphilosophie, legata comunque all’ideologia del pietismo e in generale caratterizzata da un empirismo ispirato da un Aristotele letto in maniera eclettica e rafforzato dalla lettura di Locke. La sua principale prestazione fi losofica consiste in una revisione della logica tradizionale (il primo dei suoi trattati dedicati alla “dottrina della ragione” è del 1688), basata su una critica sistematica dei pregiudizi (tema che è centrale nell’intera Aufklärung, cfr. Schneiders 1983) e sull’esercizio del dubbio dogmatico (ossia non scettico, ovvero cartesiano) che presuppone la possibilità della conoscenza del vero. Per un suo inquadramento generale e una ricognizione dello stato degli studi, cfr. Schneiders (a c. di) 1989. Nato a Breslau nel 1679, Wolff si forma familiarizzandosi con la teologia luterana, calvinista e cattolica; conosce le diverse scuole aristoteliche, scolastiche e cartesiane; approfondisce il metodo empirico della scienza newtoniana. Subisce, soprattutto, l’influenza di Leibniz, grazie al cui aiuto personale diventa

ta dell’ispirazione illuministica, però, in Thomasius e in Wolff dà luogo a due atteggiamenti ben diversi rispetto alla tradizione metafisica. La posizione di Thomasius risulta la più aperta alle influenze delle coeve correnti illuministiche extratedesche, e in quanto tale non particolarmente favorevole alle dottrine della metafisica tradizionale. Sotto tale profilo, risulta decisiva la sua interpretazione di uno stretto rapporto fra importanza dell’esperienza (a monte di ogni opzione strettamente gnoseologica in favore dell’empirismo) e riconoscimento dei limiti della capacità della ragione nell’acquisire conoscenze. In tale quadro, ciò che trascende totalmente l’esperienza viene escluso dall’ambito della conoscenza razionale: tutta una parte della metafisica tradizionale – ad esempio angelologia, demonologia, scienza della condizione delle anime umane dopo la morte – se ne trova esclusa, mentre la considerazione della divinità viene impostata in quanto necessaria come fondamento dell’universo di fatto esistente e indagabile mediante il metodo sperimentale, e non sulla base di una metafisica generale. Perciò, come nell’illuminismo anglo-francese, l’ontologia di derivazione scolastica viene colpita da un “antimetafisicismo” che la considera riferita a termini astratti e perciò arbitrari, non collegati a cose reali. L’unica “metafisica” ammessa sarà quella che riguarda lo studio delle operazioni dell’anima umana. Seguendo questa linea di pensiero, Thomasius e i suoi primi allievi declassano decisamente l’ontologia a una sorta di dizionario puramente strumentale, composto di termini convenzionali227.

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professore di matematica e scienze naturali a Halle an der Saale nel 1706 – mantenendosi tuttavia sempre su posizioni indipendenti. Conosce il successo con un trattato sulla “dottrina della ragione” (1713, esteso in tedesco e dunque chiamato comunemente dagli studiosi “Logica tedesca”) che fornisce di una base sistematica e inaugura una serie di opere le quali compongono via via un’enciclopedia fi losofica, a partire dalla “Metafisica tedesca” (così chiamata per le stesse ragioni della precedente “Logica”) del 1719. Implicato presto in gravi dispute con i pietisti, accusato di fatalismo, viene esiliato da Halle, ma questo accresce la sua popolarità; pubblica da allora in latino opere di logica, ontologia, cosmologia, psicologia empirica e razionale, teologia naturale, fi losofia pratica, diritto naturale, diritto internazionale, etica ed economia. Nel 1740 viene richiamato a insegnare a Halle, dove muore nel 1754. Qui, va citato almeno Johann Franz Budde (Buddeus, 1667-1729), la cui logica (1703) nella sua quarta parte sviluppa in effetti un’ontologia definita come “scienza dell’ente”, intitolata però alla trattazione dei “termini fi losofici”, con l’intento di fornire un semplice lessico utile agli studi.

Quanto a Wolff, è lecito parlare di un atteggiamento diametralmente opposto a quello di Thomasius, di certo riguardo alla tradizione metafisica: l’ontologia, insieme alla logica, sarà da lui ritenuta la scienza filosofica fondamentale, che si occupa non di mere parole, bensì delle verità e delle realtà sommamente universali. A ogni modo, non è possibile presentarne le tesi qui pertinenti senza affrontare in via preliminare due questioni storiografiche, che in realtà coinvolgono problemi genuinamente teoretici. Si tratta, rispettivamente, della valutabilità di Wolff come “scolastico” e della sua riducibilità a mero divulgatore del sistema di Leibniz. Circa la prima questione, va ricordato come siano sempre state forti le tentazioni di celebrare Wolff come l’ultimo dei grandi scolastici228. Tuttavia, accertata la conoscenza da parte di Wolff di questi ultimi, è con il contesto degli scolastici minori del Seicento che occorre fare i conti. Inoltre, va ricordato come rispetto alle dottrine scolastiche in tema di metafisica, filosofia della natura e psicologia Wolff si sia sempre espresso in modo critico, specificamente per la loro carenza metodica. Guardando in particolare all’Ontologia, l’opera in cui forse più si confronta con gli scolastici, Wolff li accusa perciò di avere elaborato sì una “ontologia naturale”, ma appunto sterile, perché basata su concetti confusi e talvolta persino oscuri, nonché di non essersi basati su principi logici sufficientemente accertati. In tale prospettiva, però, la sua scelta non è quella di rigettare tale metafisica, bensì – accogliendo le proposte di fondo provenienti in tal senso da Leibniz – di operarne una emendazione sistematica 229. Già ai tempi di Wolff, poi, si era diffusa l’opinione che questi si fosse limitato a sistematizzare l’insieme delle tesi di Leibniz. Tale opinio228 229

Cfr. in proposito École 2001c: 115. Cfr. Wolff 1729: “Prolegomena”. In quest’opera troviamo esplicitate numerose fonti, tra cui spiccano Leibniz (ossia lo scritto sulla Emendazione della filosofia prima, “Acta eruditorum”, 1694) e gli aristotelici: non solo quelli di appartenenza tomistica o gesuitica, ma anche diversi metafisici luterani che seguono Suárez (Jakob Martini, 1570-1649; Daniel Stahl, 1589-1654; Christoph Scheibler, 1598-1653). Tra gli “scolastici minori”, in particolare, Clauberg (citatissimo) viene lodato per il suo progetto di emendazione dell’ontologia tradizionale (1729: § 7), mentre a Goclenio si rinvia per il chiarimento di molte nozioni centrali. Per inciso, le citazioni testuali di Suárez sono solo cinque nell’intera opera latina di Wolff, e tutte nella sola Ontologia (cfr. École 1985: ad voc. “Suarezius”).

ne, specie grazie al credito datole da Kant, si è tramandata quasi sino a oggi, nonostante la reazione dello stesso Wolff, prima, e gli studi storiografici in contrario, dopo. Certo, è grazie ad argomenti leibniziani che Wolff ha rifiutato (ad esempio) le dottrine correnti sulle essenze arbitrarie e sulle cause occasionali; e da Leibniz ha ripreso diverse tesi, segnatamente cosmologico-metafisiche230. Ma, soprattutto, si è ripetutamente affermato che Wolff ne avrebbe ripreso le dottrine circa l’armonia prestabilita e la monadologia – però Wolff non ha sostenuto né la prima 231, né la seconda, che sarebbe dovuta risultare cruciale in sede di ontologia, come si tratterà ora di vedere. Per incontrare le tesi ontologiche di Wolff, conviene esaminare innanzitutto la “Logica tedesca” (1713)232. Di questa va segnalata la breve sezione preliminare, dove è fornita la definizione della filosofia come “scienza del possibile” (in maniera dunque solidale con il futuro impianto dell’ontologia) ed è poi argomentata la divisione sistematica delle parti dell’intera filosofia. Qui l’ontologia o “scienza fondamentale” viene dichiarata la parte primaria della metafisica in quanto “conoscenza generale” delle “cose (Dinge)” basata sui loro reciproci rapporti di somiglianza e differenza 233. Tale qualificazione disciplinare offerta in sede di logica va rimarcata non soltanto perché la “Logica tedesca” sarà un veicolo decisivo per l’apprezzamento di Wolff presso illuminismi non altrettanto favorevoli alla tradizione metafisica della scolastica, ma anche perché il reperimento del tema dell’ontologia nella “cosa” (“Ding”, termine che rimarrà centrale nella “Metafisica Tedesca” e poi nell’Ontologia latina con l’equivalente “res”) si lega già qui (sempre sul versante gnoseologico) al tema della sua definibilità reale in termini di essenza, intesa come “ciò che innanzitutto può venire pensato di una cosa” e che costituisce la “ragione (Grund)” di tutto ciò che le pertiene234. In tal modo, la nozione ontologica centrale per Wolff, quella di possibilità235, richiede di procedere risalendo dalla posizione esistenziale di un’entità qualsiasi all’estensione del catalogo dei predicati più generali che essa, in quanto entità possibile, 230

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Ad esempio circa il modo di intendere l’universo, lo spazio e il tempo, il possibile, la causalità delle leggi del moto. Cfr. tuttavia Paz 2001. Per un suo inquadramento, cfr. Arndt 1965. Wolff 1713: “Vorbericht”, §§ 10-14. Ivi: I, § 48. Cfr. in proposito Marcolungo 1982.

deve poter sostenere – ciò che originerà una dettagliata dottrina del rapporto tra essenza ed esistenza 236. Andando alla “Metafisica tedesca” (1719), si incontra però un impianto fondativo diverso. L’opera infatti risponde alle esigenze sistematiche espresse nei preliminari della “Logica tedesca” articolandosi in sei capitoli, i cui cinque successivi a quello iniziale trattano, nell’ordine, dei “primi principi della nostra conoscenza e di tutte le cose in generale” (corrispondendo dunque all’ontologia, intesa però secondo una duplice accezione), dell’“anima in generale, ossia di ciò che ne esperiamo”, del “mondo”, dell’“essenza dell’anima e di uno spirito in generale”, di “Dio”. Ciò che risalta è il titolo del secondo capitolo, che non promette di fornire semplicemente una trattazione dell’ente in generale. Inoltre, non soltanto questa parte della metafisica, da cui deriverà la futura Ontologia, bensì tutte quante vanno interpretate alla luce del primo breve capitolo di quest’opera, intitolato “Come conosciamo che esistiamo, e a che cosa sia utile tale conoscenza”. Il primissimo paragrafo della “Metafisica tedesca” espone infatti un argomento metodico simile a quello cartesiano del cogito, ma con alcune differenze notevoli237. È esposto, intanto, facendo uso della prima persona plurale238, in modo da fare appello al sapere comune; e una volta esclusi dal novero del “noi” i “folli” che dubitano dell’essere “coscienti di noi e di altre cose”, ricava la dimostrazione della nostra esistenza dall’autoidentità di ogni persona che sia cosciente di qualcosa, fosse pure per dubitarne o per negarla. Siamo dunque dinanzi non a un’intuizione, come è nel cogito cartesiano, bensì a un’esperienza fin da subito esprimibile e comunicabile, la cui verità è certa, 236

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Queste linee di fondo passeranno alla Logica (latina) del 1728, la cui prima parte (“Discorso preliminare”) arricchisce e amplifica la breve introduzione della “Logica tedesca”, proponendosi come base dell’intero impianto dell’opera fi losofico-enciclopedica matura. Qui, di nuovo, la defi nizione della fi losofia come “scienza del possibile” (Wolff 1728: I, § 29) comprende strettamente quella dell’ontologia come “scienza dell’ente in generale” (ivi: I, § 73; e cfr. Wolff 1729: § 1) e la “fi losofia prima” intesa come scienza delle proprietà comuni a tutti gli enti (ossia delle loro “affezioni generali”, Wolff 1728: I, § 73) trova il proprio centro teorico nella nozione della possibilità di ogni “qualcosa” in generale. Cfr. in proposito Stolzenberg 2005. Tanto da venire efficacemente etichettato come argomento del “cogitamus”: cfr. Arnaud 2002: 44.

pena la contraddizione nel non volerla riconoscere ed esprimere come esperienza comune – tanto da prestarsi naturalmente a una messa in forma discorsiva, ciò che Wolff subito esplicita trasformandola in un sillogismo239. La funzione di questo paragrafo consiste allora, in primo luogo, nell’introdurre il criterio normativo basilare della certezza, individuato nel caso in cui questa è massima, che importa a Wolff in quanto può venire assunta come il metro ultimo di ogni altra certezza razionale240 – pur restando un fatto empirico di cui occorrerà rendere ragione nella sede disciplinare appropriata, ossia nel capitolo successivo. L’argomento non mira però a determinare un impegno ontologico particolare e fondamentale, come è quello relativo alla “sostanza pensante” cartesiana241: semmai, l’evidenza in questione, cioè l’essere coscienti di cui ognuno può avere certezza, pur non avendo (o proprio perché non ha) alcun oggetto privilegiato, appare sempre strutturalmente riferito a un qualcosa, allorché rivela una struttura della coscienza che non sarebbe scorretto definire intenzionale. In altre parole, insieme al criterio dell’evidenza incontrovertibile otteniamo che qui non ne va del semplice fatto di essere coscienti, bensì proprio dell’essere coscienti “di noi e di altre cose” – secondo un’impostazione che riprende per intero la critica leibniziana a Cartesio242. In tal modo, Wolff assicura alla metafisica il suo oggetto proprio, la “cosa” che – prima ancora di specificarsi negli oggetti della metafisica speciale: l’anima, il mondo, Dio – può proporsi all’indagine “su tutte le cose in generale”. 239 240 241

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Wolff 1719: § 5. Ivi: §§ 3-4. Wolff, piuttosto, considera la nostra esistenza un’ovvietà indubitabile, da cui non è il caso di trarre conseguenze sostanzialistiche (ivi: § 2). Ad esempio, osservando come la differenza tra la cosa rappresentata e il soggetto che la rappresenta appaia come un sussistere di tale cosa in quanto “esterna” al soggetto, e riportando la differenza tra le cose rappresentate come fra loro distinguibili alla validità del principio di contraddizione (per uno sviluppo di tale argomento cfr. Thümmig 1729: § 49). Ne va, grosso modo, della differenza tra una psicologia ‘cartesiana’, che considera la coscienza come carattere distintivo del pensiero, e una psicologia ‘leibniziana’, che considera, invece, l’attività rappresentativa come peculiare dell’anima capace di accedere alla realtà; in Wolff, così come nei suoi prosecutori, l’interpretazione di tale psicologia non verrà comunque sviluppata in chiave intenzionalistica, ma, in un’ottica che mantiene al proprio centro la nozione di rappresentazione, sarà variamente accentuato il carattere di esteriorità dell’oggetto di esperienza.

Passando dunque al secondo capitolo, quello che apre l’“ontologia” della “Metafisica tedesca”, troviamo, al paragrafo iniziale243, una riformulazione dell’argomento che vuole rendere ragione di ciò che è appena stato posto alla base della metafisica. Vi si afferma che tale ragione è l’impossibilità di pensare di essere al contempo coscienti e non coscienti di noi stessi. Risulta così ricavato il principio di contraddizione, fondamento della certezza, sia per le argomentazioni logiche, sia per le conoscenze fornite dall’esperienza. Tuttavia, Wolff non intende trattarne come di un mero fenomeno mentale: piuttosto, anche come fatto psicologico, tale impossibilità va intesa come manifestazione di un criterio epistemologico, e va infine riportata alla nozione ontologica di “essenza” come “possibilità interna” dell’oggetto su cui verte una credenza qualsiasi. Appunto su questa base il secondo capitolo della “Metafisica tedesca” passa a trattare della differenza tra possibilità ed esistenza, per poi appoggiare sulla prima le nozioni di realtà e di “cosa”. L’introduzione del principio di ragione sufficiente244 consente poi di introdurre la nozione di essenza e di affermarne quindi la necessità, eternità, immutabilità e impartecipabilità 245. Di qui in avanti, articolati sui “primi principi della nostra conoscenza” i caratteri comuni a “tutte le cose in generale”, la prima ontologia di Wolff continua discutendo gli attributi più generali che si possono predicare degli enti, divisi secondo la partizione basilare tra enti composti (corporei) e semplici (spirituali). L’Ontologia latina (1729) non sarà una semplice estensione del secondo capitolo della “Metafisica tedesca”. Per Wolff è cambiata, intanto, la partizione complessiva della metafisica, grazie innanzitutto all’accoglimento delle proposte di rettifica provenienti da Georg Bernhard Bilfinger (o Bilffinger, 1693-1750) e Ludwig Philipp Thümmig (1697-1728), che riguardano essenzialmente la progressione delle parti della metafisica speciale246. La struttura definitiva dell’enciclopedia 243 244

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Wolff 1719: § 10. Si tratta del principio, mutuato da Leibniz, in base al quale per ogni effettivo stato di cose si dà una “ratio” che ne garantisce altresì l’intelligibilità; cfr. ivi: § 30. Ivi: §§ 38 ss. In particolare, nelle già citate Istituzioni di Thümmig (1729), a differenza che nelle opere tedesche di Wolff, la cosmologia viene trattata prima della psicologia, e quest’ultima viene divisa in empirica e razionale – suddivisione e dizione poi stabilmente adottate dallo stesso Wolff nelle opere latine.

filosofica di Wolff risulta comunque fondata nel suo intero su una metafisica che, metodicamente garantita dalla logica, comprende una parte minima (l’ontologia) e una serie di discipline reali generalissime (cosmologia, psicologia, teologia naturale) la cui fondazione è data dall’ontologia 247. Scorrendo l’opera del 1729, si ritrovano poi il ductus e i contenuti del capitolo equipollente della “Metafisica tedesca”, ma assai più rigorosamente strutturati. I “Prolegomeni” sono brevissimi; nella parte prima, tre capitoli sono dedicati rispettivamente ai principi fondamentali (di contraddizione e di ragione sufficiente), alla determinazione in senso essenzialistico del significato di “ente”, alle sue “affezioni generali” (identità e similitudine, singolarità e universalità, necessità e contingenza, quantità, qualità, perfezione). Quanto all’essenzialismo qui professato, bisogna sottolineare come circa la distinzione tra essenza (definita come ciò che contiene la causa sufficiente di tutto ciò che le pertiene)248 ed esistenza (“complemento” della prima)249 Wolff non si accontenti di una distinzione di ragione (quale affermata ad esempio da Suárez), ma riconosca tra le due una qualche distinzione reale. Infatti, non solo è diverso conoscere il fondamento della possibilità di un ente (ovvero di uno stato di cose) e il fondamento dell’esistenza di un ente (ovvero del darsi di uno stato di cose)250. Oltre a ciò, tale differenza di tipo logico251 ha un fondamento effettivo. Da un lato, vale il principio per cui è valida ogni conclusione che porti dall’esistenza alla possibilità 252 (il che implica l’utilizzo di giudizi aposteriori nei procedimenti conoscitivi che permettono di 247

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Tutte le discipline teoretiche delineate nella metafisica, a loro volta, conoscono per Wolff uno svolgimento scientifico in senso stretto, ovvero ipoteticodeduttivo, e uno svolgimento sperimentale, ovvero empirico-osservativo – con il caso macroscopicamente di maggior spicco costituito dalla psicologia, suddivisa in due trattazioni distinte ai capitoli III e V della “Metafisica tedesca” e poi sviluppata in due distinte opere latine, la Psicologia empirica (1732) e la Psicologia razionale (1734). Wolff 1729: § 168. Ivi: §§ 172-174. In tal senso, Wolff precisa efficacemente che due questioni come sono ad esempio “perché un tavolo, che prima era di forma quadrata, adesso è di forma rotonda?” e “perché un tavolo, che era di forma quadrata, ha potuto ricevere una forma rotonda?” sono del tutto differenti, e che una sola e medesima risposta non è sufficiente per soddisfare entrambe; cfr. ivi: § 172. In proposito, cfr. Cataldi Madonna 2005. Wolff 1729: § 171.

acquisire cognizioni essenziali)253, mentre non vale concludere dalla mera possibilità (ovvero da una cognizione essenziale) all’esistenza di un ente254. D’altro canto, però, questo principio ha per Wolff una base reale. L’essenza, infatti, si compone per Wolff di elementi primi (gli “essentialia”), i quali, oltre a non contrastarsi fra loro, la determinano ovvero ne costituiscono la ragion sufficiente255, ed è a questi che corrispondono concetti semplici che si combinano senza contraddirsi tra loro: ad esempio, il numero di tre e l’uguaglianza dei lati per il triangolo equilatero256. Tuttavia, benché l’essenza abbia sempre una “ragione” conoscibile, questa non sarà mai “intrinseca”: gli elementi primi, cioè, non si determinano reciprocamente257, né sul piano logico, né – ancor prima – su quello reale, proprio per la loro semplicità258. Tale considerazione porta all’esclusione delle “essenze necessarie” dall’ontologia, nonché all’esclusione dell’esistenza dal novero delle “affezioni generali” dell’ente – mentre un valore del tutto particolare assume fra queste l’ultima a venire trattata da Wolff, ossia la “perfezione”259, basata com’è sulla nozione di “ordine” inteso come dominio sul piano reale (vale a dire: della possibilità) dei principi logici supremi (di contraddizione e di ragione sufficiente). Rispetto a 253

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Cfr. in proposito Pimpinella 2003. Più in generale, sulla posizione di Wolff rispetto all’empirismo cfr. Cataldi Madonna 2001. Wolff 1729: § 171. Ivi: § 114. Ivi: § 143. Ivi: § 156. Tornando sull’esempio precedentemente citato: non si dà ragione intrinseca del perché un triangolo equilatero abbia tre lati uguali, così come non si dà ragione intrinseca del perché un orologio abbia questa struttura e non un’altra; cfr. ivi: § 156. D’altronde, quando fornisce la propria versione della “prova ontologica” dell’esistenza di Dio, Wolff si mostra bene attento a non basarsi sulla nozione “scolastica” di “necessità assoluta delle essenze” (cfr. ivi: § 303; in particolare sulla distinzione wolffiana tra “necessità assoluta” e “ipotetica” cfr. Ciafardone 2005). Va altresì rilevato come la Teologia naturale wolffiana (prima ed. 1736-1737; cfr. Wolff 1739 e 17412) risulti suddivisa in una “Prima parte” in cui vengono dimostrati aposteriori l’esistenza e gli attributi di Dio e in una “Seconda parte” in cui l’esistenza e gli attributi di Dio vengono dimostrati in base alla nozione di ente perfettissimo e alla natura dell’anima umana. Tale divisione, palesemente, articola meglio quella già data nella “Metafisica tedesca”, assegnando un primato alle dimostrazioni aposteriori dell’esistenza di Dio.

questo tema (cap. VI) si ritrova qui lo sviluppo di un’ulteriore presa di posizione critica da parte di Wolff rispetto al Cartesio delle Meditazioni metafisiche (già peraltro ben presente nella “Metafisica tedesca”), la quale produce uno dei motivi centrali della sua metafisica, cioè la nozione di “verità trascendentale” (che sta oltretutto alla base della definizione disciplinare della “cosmologia generale” o, appunto, “trascendentale”)260. Riguardo a tale nozione, Wolff, innanzitutto, non raccoglie la tesi suareziana della natura trascendente delle proprietà dell’ente, e preferisce la tesi sostenuta dai “minori” che raccolgono semplicemente tali proprietà sotto il titolo di “affezioni”261. Wolff preferisce, dunque, assumere una nozione di “verità trascendentale” come verità propria di ogni mondo possibile262. In tale prospettiva, l’ordine (osservabile) dei fenomeni è per Wolff un elemento di cui Cartesio non avrebbe tenuto conto, mentre occorre ammettere che (almeno) nel sogno tale ordine viene meno, e segnatamente non valgono i principi di contraddizione e di ragione sufficiente263. Sicché l’ordine che vale nel mondo reale (e l’ordine minimo che deve valere in ogni mondo possibile, a differenza che in un mondo sognato) si determina come rispetto di entrambi questi principi fondamentali. Soprattutto, la verità trascendentale che si manifesta nell’“ordine e nella varietà di cose che contemporaneamente sono e che conseguono l’una dall’altra”, in quanto “inerente alle cose stesse”264, vale a definire la verità dell’ente “in senso assoluto”265, ossia quella verità “metafisica” 260

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Wolff 1728: § 78. Sulla mediazione operata da Wolff tra il significato di “trascendentale” in tale sua dottrina e nelle dottrine dei trascendentali esposte dagli scolastici cfr. Carboncini 1991: 103-112. Wolff 1729: § 502. In tale prospettiva, i trascendentali della tradizione sono collocati sullo stesso piano delle “affezioni generali”. Tale nozione è stata dettagliatamente ricondotta alla discussione di un argomento all’epoca molto dibattuto, originato dalla trattazione del problema della distinguibilità, o meno, del mondo del sogno rispetto alla realtà – discussione che provenendo dalla prima Meditazione cartesiana attraversa l’intera Aufklärung, arrivando sino a Kant; cfr. in proposito Carboncini 1991. Wolff 1729: § 493. Qui Wolff si premura di precisare che il sogno di cui sta trattando va inteso in senso “oggettivo”, cioè in quanto al soggetto che sogna “appaiono delle cose”, e non “soggettivo”, cioè in quanto il soggetto che sogna “produce delle idee di cose apparenti” in base a sole circostanze psicologicobiografiche, magari rette da una più o meno peculiare legalità; cfr. ivi: § 493. Ivi: § 495. Ivi: § 496.

di cui nella scolastica (compresa quella moderna, e specialmente da Suárez in avanti) si sarebbe data soltanto una “nozione confusa” nella teoria della convertibilità dei trascendentali 266. Sicché, più che salvare tale dottrina, Wolff preferisce derivare la qualificazione tradizionale della “bontà” dalla propria concezione della verità trascendentale, in quanto interpretabile come “perfezione”267. Svolto l’elenco completo delle affezioni generali dell’ente, la seconda parte dell’Ontologia tratta delle diverse specie degli enti e dei loro rapporti reciproci, in tre capitoli dedicati rispettivamente all’ente composto (materiale), a quello semplice (comprendente anime e spiriti), e alle relazioni fra gli enti. Da questo punto di vista, alla definizione disciplinare wolffiana dell’ontologia come scienza dei predicati sommamente generici delle “cose” si lega intimamente il problema dell’individuazione delle diverse parti della “metafisica speciale” in quanto subordinate all’ontologia intesa come “metafisica generale” – posto che l’essenza determini, oltre alla conoscibilità, la specificazione reale dei diversi enti 268. In sintesi: il massimo contributo leibniziano all’ontologia di Wolff consiste, prima ancora che nell’introduzione del principio di ragione come unico ‘nuovo’ rispetto alla tradizione scolastica, nella revisione dell’argomento del cogito alla luce di una psicologia che assume come primario il carattere rappresentativo del fatto di coscienza – revisione che, pur occultata, continua a costituire il fondamento dell’opus metaphysicum latino. D’altro canto, se è vero che il punto di massimo distacco di Wolff dalla metafisica di Leibniz consiste nel rifiuto della teoria delle monadi, tale distacco potrebbe essere interpretato con una semplice formula: le sostanze spirituali di Wolff hanno finestre, ossia dispongono di contenuti rappresentativi determinati da leggi che, benché non determinabili in quanto leggi di tipo causale, vanno intese come ragioni metafisiche necessarie, sicché tali sostanze si trovano collocate entro un mondo comune, ordinato e fatto di “cose”269. 266 267 268

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Ivi: § 502. Ivi: §§ 503 ss. Wolff 1719: § 33; Wolff 1729: § 145. L’accento posto sulla “somiglianza di essenza” in quanto ragione dell’ordinarsi degli enti in specie via via più universali (Wolff 1719: § 177; Wolff 1729: § 233) può essere visto come una costante derivata della primissima definizione dell’ontologia data nella “Logica tedesca”. L’indagine di tali ragioni, per Wolff, è innanzitutto questione legittima della psicologia, che non può dunque limitarsi a essere una scienza dell’anima, ma

1.3.7. L’età di Kant: eliminazione o occultamento dell’ontologia Una delle prime storie dell’ontologia può essere incontrata, sotto forma di annotazioni sparse ma coerenti, in un repertorio di larga e costante diffusione nell’ambito dell’illuminismo tedesco, il Lessico filosofico (1726) di Johann Georg Walch (1693-1775), teologo coinvolto sul fronte pietistico nelle prime dispute antiwolffiane che qui complessivamente registra i molti contrasti teorici non solo fra aristotelismo e cartesianismo, ma ormai anche fra la scuola illuministica di Thomasius e quella dei “leibniziani”270. Ancora nell’ultima edizione271, alla voce “Ontologie” troviamo che Walch esibisce una certa indifferenza, se non un vero e proprio scetticismo, circa la necessità di una distinzione disciplinare tra ontologia e metafisica, almeno laddove quest’ultima venga intesa (come è appunto da “alcuni nuovi metafisici”) nei termini

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deve piuttosto intendersi più radicalmente come scienza delle “cose” che sono “possibili mediante le anime” (cfr. Wolff 1728: § 58). Per le interpretazioni della centralità della psicologia wolffiana, cfr. Arnaud 2002, Kobau 2004, Marcolungo 2005; in particolare, sui tratti ‘pittoricistici’ del rappresentazionismo wolffiano cfr. Rumore 2005. A ogni modo, le posizioni personali di Walch, entro un’esposizione sistematica dei caratteri della conoscenza fi losofica e delle articolazioni delle sue diverse discipline, sono più chiaramente leggibili nella Introduzione alla filosofia (1727), pensata per costituire con il Lessico un manuale unitario. Per un inquadramento, cfr. Wille 1998. Inizialmente, l’opera era prevista in due parti: la prima contenente tutte le dottrine fi losofiche rappresentate nella loro terminologia, la seconda una storia della fi losofia e una serie di biografie. Ancora nella seconda edizione – l’ultima pressoché interamente dovuta a Walch – il progetto rimane incompleto: la seconda parte, anonima (ma forse dovuta allo storico Johann Jacob Brucker, 1696-1770, sotto la supervisione di Walch), comprende infatti soltanto un indice biografico, in cui il nome di Wolff è peraltro assente. La quarta edizione del 1775 è estesamente riveduta e integrata da Justus Christian Hennings (1731-1815) nella parte lessicografica, mentre l’indice biografico è sostituito da una breve storia della fi losofia ricavata dalla Storia critica della filosofia (1742-44) di Brucker (diventata fonte basilare degli enciclopedisti francesi). È in questa forma, comunque, ben diversa da quella delle prime edizioni, che il Lessico ha esercitato la propria influenza sulla terza generazione illuministica tedesca, quella che sta sotto il segno di Kant, nonché sul postkantismo e il primo idealismo – perdendo il proprio peso solo verso la fi ne del secolo. A esercitare un deciso influsso sulla fi losofia tra Wolff e Kant (compreso, in qualche misura, il Kant precritico) furono invece le prime tre edizioni.

di una scienza “dell’ente in generale e delle sue proprietà”: a parte la separazione tra metafisica e “pneumatica”, si tratterebbe di un mero aggiustamento nominale. E, in effetti, per trovare altre sintomatiche note sulla storia recente di questa scienza converrà indirizzarsi alla voce “Metafisica”. Qui, dopo averne registrato il senso eminentemente teologico nell’antichità, nonché la decadenza dal punto di vista del valore scientifico nella scolastica (un regresso unito peraltro a un’espansione della relativa trattatistica), osserva che nei tempi moderni “la parola metafisica” ha dovuto sopportare ancora altre e diverse vicissitudini. Alcuni l’hanno trattata come “la dottrina dell’essenza, o dell’ente e delle sue proprietà”, distinguendone la teologia naturale, rinviata alla “pneumatica”; altri l’hanno chiamata ontologia, oppure ontosofia, e ugualmente ne hanno distinta la dottrina degli spiriti; altri ancora ne hanno ricavato la religione naturale, e alcuni intendono per essa una scienza “dell’essenza generale di tutte le cose e della differenza fondamentale tra spirito e materia”. Walch non fa nomi (che tuttavia, giunti a questo punto, sarebbe facile interpolare), ma la sua trama storiografica è bene informata e chiara: dopo una sorta di soluzione del problema dell’ontoteologia aristotelica (che ha implicato il distacco della pneumatica dalla metafisica), l’intervento del cartesianismo ha generato una molteplicità di sistemi metafisici entro cui la definizione dell’ontologia funge da chiave di lettura complessiva. In ogni caso, oltre il rimescolamento di carte (se non la vera e propria confusione, almeno dal punto di vista di Walch) rimane l’abbandono del sostanzialismo aristotelico in favore dell’essenzialismo che permane acquisito anche nei non wolffiani – ciò che si tratterà ora di mostrare rispetto alle linee principali della ricezione dell’ontologia di Wolff. La forma in cui il sistema wolffiano è stato consegnato alla seconda metà del Settecento non è stata, innanzitutto, quella delle sue versioni più ortodosse272. Mentre la fortuna delle opere di Wolff – ormai cano272

Tornando su due autori già citati, le Istituzioni (1725-26) di Thümmig costituiscono il primo compendio della fi losofia wolffiana, la cui completezza le raccomanda come introduzione, tanto che lo stesso Wolff vi si riferisce spesso nei suoi trattati latini. E le Delucidazioni di Bilfinger (1725), volendo assumere lo stesso ruolo, si dedicano subito alla questione della ontoteologia. Nel preambolo dell’opera (particolarmente ricco nel citare autorità, fra cui appaiono Cartesio e soprattutto Leibniz, mentre Wolff è presentato come il sistematore di quest’ultimo), al primo paragrafo si legge infatti della metafisica come “disciplina superiore” che si può intendere in un duplice senso: come

nizzate in lingua latina – intorno alla metà del secolo cala, i due rami maggiori della sua filosofia, logica e metafisica, conoscono una rielaborazione il cui peso rimarrà forte sino in età kantiana, a opera rispettivamente di Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762) e del suo allievo Georg Friedrich Meier (1718-1777). A quest’ultimo273 si deve soprattutto la stesura di una “logica”274 che non consiste solamente nella trattazione degli aspetti “formali” e più strettamente “epistemologici” di tale disciplina, bensì punta a individuare gli elementi del pensiero e del linguaggio che rendono possibile non solo la scoperta, ma anche l’efficace comunicazione della verità275. È in tale prospettiva che Meier pubblica, ancora, una propria metafisica (1755-1759) che però si colloca interamente nella scia di quella di Baumgarten (1739): ne è in effetti una sorta di parafrasi e compendio divulgativo, in attesa di fornirne la traduzione (1766), poi ulteriormente riveduta (1783) da Johann August Eberhard (1739-1809), fi losofo e lessicografo appartenente alla successiva generazione dei leibniziani.

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teologia, aristotelicamente, in quanto in Dio va cercata la ragione ultima sia dell’esistenza sia dell’essenza di tutte le cose – oppure in quanto non si tratti solo di ripetere le dimostrazioni delle regole della logica ricavandole dalla dottrina della mente umana, ma anche di presentare i principi delle dottrine fisiche, morali e politiche, ovvero di ricavare i concetti sommamente generali di tutte le cose (e qui ci si riferisce all’Aristotele dell’Organo). Sulla stessa linea, va ricordato ancora Friedrich Christian Baumeister (1709-1785), autore di diverse opere metafisiche. In particolare, la Filosofia definitiva (1735), numerose volte ristampata (in diverse edizioni a partire dal 1762), alleggerisce il proprio ductus delle dimostrazioni talvolta pedanti di Wolff, evita gli esempi matematici e si arricchisce, per contro, di esempi ricavati dal vivere quotidiano e dalla letteratura classica. Sempre tra gli ortodossi, vanno citati infine due compendi in tedesco: il Lessico filosofico tratto dagli scritti tedeschi di C. Wolff (1737) di Heinrich Adam Meißner (1711-1782) che, corredato di una prefazione estesa da Carl Günther Ludovici (1707-1778; gli si deve una precoce e influente storia del wolffismo, 1735-1738), fu uno dei principali veicoli della diffusione della terminologia fi losofica wolffiana; e i Primi fondamenti dell’intera filosofia (1762) di Johann Christoph Gottsched (1700-1766), autore che è presente soprattutto nelle storie letterarie. Fu scrittore prolificissimo: autore scientifico, si impegnò ugualmente sul fronte della pubblicistica e della critica letteraria. Per una presentazione complessiva di Meier cfr. Schenk 1994. Estesa in forma di trattato e di manuale, entrambi del 1752; Kant li adoperò come falsariga per le proprie lezioni di logica nell’arco di quarant’anni. Cfr. in proposito Pozzo 2000.

Con queste ultime annotazioni, si è già data la misura della pervasiva presenza della Metafisica di Baumgarten nella seconda metà del Settecento276. Questi, noto soprattutto per gli innovativi sviluppi che imprime alla logica (integrata ora dalla “gnoseologia inferiore”, battezzata “estetica” nelle Meditazioni filosofiche su alcuni aspetti del poema, del 1735, e di cui offre per primo una trattazione disciplinare autonoma nella Estetica del 1750-58), è un autore la cui ortodossia wolffiana (specie per l’accoglimento di tesi più genuinamente leibniziane) è ancora oggetto di discussione – mentre sotto gli occhi dei contemporanei poteva bene stare la differenza di impianto tra la sua ontologia (ossia il primo capitolo della Metafisica) e quella di Wolff. Baumgarten accetta infatti la partizione wolffiana dell’enciclopedia filosofica, di cui tratta dettagliatamente nella Filosofia generale (1770). Nella divisione interna della Metafisica, così, le singole parti (ontologia, cosmologia, psicologia, teologia razionale) seguono semplicemente una breve introduzione che definisce complessivamente tale disciplina come la “scienza dei primi principi conoscitivi”, i quali constano dei concetti sommamente generali e astratti (ovvero non pertinenti alla conoscenza dei sensi)277. Sparisce quindi interamente, rispetto all’impianto della “Metafisica tedesca” di Wolff, la premessa (anti)cartesiana, e si ritorna a una concezione logicistica dell’ontologia. Di più: andando ai contenuti, cade dall’indice baumgarteniano l’intero procedimento con cui Wolff aveva introdotto, sulla base dei principi di contraddizione e di ragione sufficiente, le nozioni di ente in quanto possibile e di essenza, per poi costruire un sistema dei predicati che tenesse conto della fondamentale partizione in enti composti e semplici. Né ci si riallaccia più alle definizioni tardoscolastiche della “scienza dell’ente”: al primo paragrafo dell’introduzione all’ontologia vera e propria si incontra, invece, una definizione che la vuole “scienza dei predicati più generali o astratti delle cose”278– un probabile ulteriore portato della riforma della logica comportata dalla fondazione dell’estetica, dacché per Baumgarten alla cognizione rispettivamente sensitiva e intellettiva corrispondono i domini metafisici dell’individuale e dell’universale. E l’intero suo sviluppo tratta di tali predicati. Questi sono bipartiti in “interni” (intesi 276

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L’opera verrà adoperata da Kant come manuale per l’insegnamento delle diverse discipline teoretiche in essa implicate. Baumgarten 1739: § 1. Ivi: § 4.

grosso modo come proprietà intrinseche), sia universali (“possibile”, “connesso”, “ente”, “uno”, “vero”, “perfetto”), sia disgiuntivi (necessario vs contingente, mutabile vs immutabile, reale vs negativo, singolare vs universale ecc.); ed “esterni”, ovvero “relativi”, grosso modo nel senso di proprietà relazionali (identico e diverso, simultaneo e successivo, causa e causato, segno e segnato)279. Siamo comunque, ormai, fra la seconda generazione dei wolffiani, i quali potevano tanto più permettersi deviazioni dall’ortodossia, quanto più non dovevano preoccuparsi, come la prima generazione, di difenderla di fronte agli esponenti della linea thomasiana ovvero pietistica. D’altro canto, gli stessi avversari del wolffismo avevano iniziato a produrre “metafisiche generali” che non si riducevano più programmaticamente all’estensione di un mero vocabolario strumentale. Tale circostanza merita di essere brevemente ricostruita, a partire dal violento scontro tra Wolff e i pietisti di Halle in seguito alla pubblicazione della “Metafisica tedesca”. Il contenzioso non era affatto soltanto ideologico e confessionale, ma coinvolgeva problemi basilari della metafisica, come quello dell’influsso reale tra anime e corpi e, soprattutto, quello del determinismo che pareva implicato dall’essenzialismo wolffiano, basato sul principio di ragione sufficiente280. Tali motivi percorrono poi le opere di altri autori che lasciano cadere le riserve antimetafisiche iniziali e che, risultando enormemente influenti nell’età kantiana, sono spesso ormai labilmente inquadrabili nello schieramento thomasiano-pietistico. Tra questi, va citato innanzitutto Christian August Crusius (1715-1775), il quale, benché erroneamente caratterizzato come wolffiano in molta storiografia influente, è in realtà uno dei principali critici del wolffismo281. In particolare nel suo Pro279

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È notevole, poi, che nell’ontologia di Meier, cioè nel primo volume della sua Metafisica (1755), sia operata una ancora più spinta semplificazione, secondo cui i predicati disgiuntivi di Baumgarten diventano predicati interni che “non sono del tutto universali”. Tali motivi si possono incontrare, ad esempio, nelle Note su alcune dottrine della metafisica wolffiana (1748) di Joachim Georg Darjes (1714-1791), su cui cfr. Albrecht 2005. Si tratta di problemi intorno ai quali Wolff si esprime in dettaglio consegnando alle stampe un volume di annotazioni alla sua metafisica (1724) altrettanto corposo che l’opera oggetto di controversia. Formatosi a Lipsia sotto l’influenza thomasiana, diventerà qui professore di teologia, raggiungendo una particolare fama negli anni Cinquanta e Sessanta, specie come autore di manuali in cui avversa la fi losofia di Wolff, considerato

getto (1745) espone un’epistemologia che unisce una dottrina delle idee semplici di ascendente lockeano con una versione originale dell’innatismo leibniziano, ma accetta uno schema generale che riprende la partizione wolffiana di ontologia, teologia, cosmologia e psicologia. Altro autore che merita di venire ricordato è Johann Heinrich Lambert (1728-1777), matematico e scienziato naturale, il quale consegna due opere filosofiche principali. Oltre al Nuovo organo (1764), che, pur evidenziando influenze da Leibniz, Wolff, Locke, si pone nella scia delle logiche pietistiche (innanzitutto quella di Crusius), vanno menzionati qui soprattutto i Fondamenti dell’architettonica (1771), in quanto si propongono come una propedeutica a una fondazione filosofica delle scienze nella tradizione dell’ontologia wolffiana intesa come teoria generale dell’ente. Il procedimento lambertiano è però quello di un’analisi di concetti fondamentali, seguita dalla costruzione assiomatica di un corpo di proposizioni da applicarsi all’esperienza, secondo il modello dell’applicazione della matematica alla realtà fisica. Va ricordato, infine, Johann Nicolaus Tetens (1736-1807), lo “Hume tedesco”282. Insieme con Lambert e Moses Mendelssohn (1729-1786) segna il passaggio dalla fase dell’Aufklärung dominata da Leibniz, Wolff e Crusius a quella dominata dal criticismo kantiano. Autore eclettico e informato sulle ultime tendenze dell’empirismo inglese e del materialismo francese, le sue opere principali sono composte negli anni Settanta sotto l’influenza dei Nuovi saggi leibniziani e degli scritti precritici di Kant. Fornisce soprattutto nei Saggi filosofici sulla natura umana e il suo sviluppo (1776-77) un dettagliato resoconto descrittivo delle operazioni mentali, sostenuto da considerazioni psicologiche, epistemologiche e metafisiche283. In ogni caso, tiene fermo il progetto wolffiano di una ontologia come filosofia prima, scommettendo però su una sua fondazione in termini psicologistici. Nello scritto Sulla filosofia speculativa generale (1775), in particolare, si mostra decisamente favorevole a una scienza fondativa universale, anteriore alla biparti-

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come un (autonomo) sistematizzatore di Leibniz. La sua influenza su Kant (e su altri autori, sino a Fichte) attende ancora di venire studiata, pur essendo accertato il suo ruolo nel distacco kantiano dal wolffismo in età precritica. Questi conosce una duplice carriera: inizialmente fi losofo, matematico e fisico, passa al servizio del governo danese come ministro delle finanze nel 1789. Per quanto influenzato dall’empirismo, rigetta i modelli materialistici e associazionistici e insiste sul carattere spontaneo delle operazioni psichiche nella formazione ed elaborazione dei contenuti mentali.

zione principale della metafisica in quanto dedicata rispettivamente alle realtà spirituali e corporee. Questa dovrebbe avere come tema i concetti e i principi più generali di qualsiasi scienza e, superando ogni conoscenza di oggetti specifici, meriterebbe il nome di “filosofia trascendente”. Rispetto alla metafisica anteriore supererebbe così le indebite influenze dovute al privilegio di caratteristiche proprie di oggetti particolari, in primo luogo spirituali o fisici, e dimostrerebbe che i propri concetti non sono meri costrutti mentali, ma si riferiscono a oggetti esteriori alla mente che li formula. Nonostante i contributi di Tetens alla riforma della metafisica risultassero presto superati dall’impatto della prima Critica kantiana, di cui si dirà nel prossimo capitolo, il suo modello di approccio psicologico a problemi filosofici – epistemologici e metafisici – rimase influente a lungo in età post-kantiana, riflettendosi su autori come Jakob Fries (1773-1843) e Johann Friedrich Herbart (1776-1841), Ernst Laas (1837-1885) e Franz Clemens Brentano (1838-1917). (In effetti, la distinzione kantiana tra una dimensione psicologico-descrittiva e una dimensione non-psicologica e giustificativa della trattazione del problema della conoscenza non divenne canonica prima della fine dell’Ottocento e dell’avvento dell’antipsicologismo in logica)284. Con gli ultimi autori ricordati, fra i quali la distinzione tra wolffiani e antiwolffiani diventa sempre meno pertinente quando occorra discriminarne le posizioni teoriche in sede di ontologia, si è giunti al primo limite superiore della storia che ci interessa: al criticismo di Kant, infatti, si deve in larga misura l’eliminazione dell’ontologia maturata nella Schulphilosophie dal novero delle discipline filosoficamente accettabili. Kant ha certo insegnato a lungo ontologia, intendendola come sinonimo di metafisica nella scia della tradizione tardoscolastica – ma già nella sua fase precritica inizia a determinarla negativamente come scienza dei limiti dell’intelletto e, poi, in senso squisitamente logicistico, come scienza dei concetti puri dell’intelletto. Quanto alla sua fase matura, benché Kant dedichi appositamente una sezione della prima Critica, la “Dialettica trascendentale”, all’annullamento delle discipline della metafisica speciale, tale sua valutazione riprende alcune delle accuse già formulate sia nella “Estetica” sia nella “Analitica”. E, in effetti, due dottrine centrali che sono qui espresse (l’idealità trascendentale dello spazio e del tempo, la limitazione di ogni applicazione 284

Si pensi qui ad autori come Frege e Husserl, cfr. infra 2.1, 3.2, 4.8.2.

dei concetti dell’intelletto ai fenomeni) comportano di per sé il rigetto dell’ontologia in quanto metafisica generale. Rispetto a ciò, alla “Analitica trascendentale” spetta soltanto di trarne le conseguenze contro ogni tentativo di acquisire una conoscenza di “oggetti in generale” mediante i soli concetti formali e i principi dell’intelletto. Qui Kant nega che qualsivoglia regola o principio logici (ad esempio il principio di contraddizione), compresi quelli propri della “logica trascendentale”, comporti di per sé una conoscenza di oggetti. Tale pretesa si scontra infatti sia con la distinzione tra facoltà estetiche e intellettive, sia con la dottrina della necessaria cooperazione di entrambe per dare origine a conoscenze genuine. L’uso di concetti formali e di principi logici, separatamente dalle condizioni sensibili entro cui ci è dato qualsivoglia oggetto, è considerato da Kant “dialettico”, si configura cioè come un uso improprio dell’intelletto che pretende di generare conoscenze indipendentemente da ogni esperienza285. È qui che Kant afferma che “il presuntuoso nome” di “ontologia”, la quale pretende di fornire conoscenze genuine delle cose in generale, deve cedere il proprio spazio “al modesto nome di una semplice analitica dell’intelletto puro”286. In caso contrario, la sua presenza rimarrà il sintomo di tutti i sistemi di pensiero bollati come “realismo trascendentale”. L’espansione dell’idealismo postkantiano, come pure quella del positivismo francese e inglese, non avrebbero concesso occasioni di recupero alle tradizioni, scolastica e illuministica tedesca, da cui era nata l’ontologia. Tuttavia, anche fuori dalla Germania, e nonostante la diffusione dell’idealismo in area non tedesca, il limite superiore della nostra storia appare ancora sfumato, innanzitutto per le differenze tra gli sviluppi dell’Aufklärung che hanno segnato la fine della Schulphilosophie e quelli degli illuminismi francese e inglese. Intesa, intanto, come la disciplina posta alla base dell’albero delle scienze fi losofiche, l’ontologia consolidata da Wolff attecchisce in qualche misura nell’illuminismo francese, e in maniera tale da poter poi migrare nel successivo positivismo. Lo testimonia bene la definizione che ne è data nell’Enciclopedia (1751-1765) da Alembert (Jean-Baptiste Le Rond, detto d’Alembert, 1717-1783), il quale pone l’accento sulle proprietà generali possedute da tutti gli esseri, sia spirituali, sia materiali, la cui considerazione è compito di un ramo della filosofia da cui tutti gli altri 285 286

Cfr. KrV B 303 / A 246. Cfr. KrV B 304 / A 247.

derivano in parte i loro principi287. Si tratta di una ripresa quasi letterale della definizione offerta già dalla “Logica tedesca” di Wolff288; la circostanza non è strana, se si pensa a come, nonostante l’ostilità delle Lumières per la filosofia di scuola, il cartesianismo avesse consentito precisamente il rinnovamento della scienza dell’ente, interpretata (si pensi a Clauberg, prima ancora che a Wolff) come imperniata su una metodica che poneva al primo posto la considerazione della mente e delle sue operazioni289. In area inglese, analogamente, tracce di ontologia si possono incontrare nella scia della sua defi nizione logicometodica, nei termini cioè di una scienza delle cognizioni astratte. Qui, vanno menzionati il filologo e pedagogo Nathan Bailey (?-1742), che nel suo Dizionario britannico (1730 [1721]) riporta la definizione di ontologia come “dottrina dell’essere inteso in senso astratto”, nonché Isaac Watts (1674-1748), che nella sua Logica intende l’ontologia come prima parte della metafisica “nelle scuole peripatetiche” e scienza necessaria come preliminare alle scienze speciali 290. Su scala europea, dunque, più che con un’eliminazione dell’ontologia da parte delle fi losofie ultimoilluministiche e poi ottocentesche, si ha forse più esattamente a che fare con un suo occultamento per tratti di tempo più o meno brevi, visto il migliore rapporto con la prima stagione illuministica vigente a lungo in Francia e in Inghilterra e visto – per un altro verso – che in aree centroeuropee diverse dalla Germania (si pensi all’area austrotedesca) lo stesso illuminismo si è sviluppato in maniera ancor meno ostile alla tradizione scolastica. Ed è, questa, un’impressione che ritorna più forte quando i temi di fondo delle ontologie considerate fin qui (ossia il significato minimo della “scienza dell’ente condiviso da un Suárez così come da 287 288 289

290

Encyclopédie, “Discours préliminaire”: § 71. Peraltro presto tradotta in francese (nel 1736). Di fatto, insieme alla logica, è proprio la psicologia di Wolff che trova precocemente ricezione in Francia grazie a un’opera (Anonimo 1745) che la compendia e che pure è ampiamente sfruttata dagli estensori della Enciclopedia. Watts 1725: I, VI, § 9. La Logica conobbe presto una traduzione tedesca che ebbe un forte impatto, specie nell’ambiente di Königsberg. Watts è altresì autore del primo libro in inglese a riferirsi all’ontologia nel titolo (1733) – libro che, peraltro, si colloca decisamente nel dibattito britannico sulla “way of ideas”. (Per converso, come una tarda acquisizione di Wolff al dibattito britannico sulla “way of ideas” può essere considerata l’anonima e ottima traduzione inglese della sua logica, 1770).

un Wolff: considerazione dell’ente in generale, inteso come reale in quanto possibile) riemergono a fine Ottocento, segnatamente nella scuola di Brentano291.

Bibliografia ragionata 292 1. Inquadramenti disciplinari e storie di lungo periodo E. Gilson, L’être et l’essence, Paris, Vrin, 1948; ed. riv. ivi, 19622 L. Honnefelder, Ens inquantum ens: der Begriff des Seienden als solchen als Gegenstand der Metaphysik nach der Lehre des Johannes Duns Scotus, Münster, Aschendorff, 1979 N. Kretzmann, A. Kenny, J. Pinborg, a c. di, The Cambridge History of Later Medieval Philosophy. From the Rediscovery of Aristotle to the Disintegration of Scholasticism 1100-1600, Cambridge, Cambridge University Press, 1982 L. Honnefelder, Scientia transcendens. Die formale Bestimmung der Seiendheit und Realität in der Metaphysik des Mittelalters und der Neuzeit (Duns Scotus - Suárez - Wolff - Kant - Peirce), Hamburg, Meiner, 1990 M. Ferraris, Ontologia, “Rivista di estetica”, n.s., n. 1-2, (1996): 149-258 O. Boulnois, Être et représentation. Une généalogie de la métaphysique moderne à l’époque de Duns Scot (XIIIe-XIVe siècle), Paris, P.U.F., 1999 J.-F. Courtine, Suárez et le système de la métaphysique, Paris, P.U.F., 1990; Il sistema della metafisica. Tradizione aristotelica e svolta di Suárez, tr. it. di C. Esposito, prefazione di G. Reale, Milano, Vita e Pensiero, 1999 1.1 Sugli sviluppi della scolastica moderna J. Ferrater Mora, Suárez and Modern Philosophy, “Journal of the History of Ideas”, 14 (1953): 528-547 P. Di Vona, Studi sulla Scolastica della Controriforma. L’esistenza e la sua distinzione metafisica dall’essenza, Firenze, La Nuova Italia, 1968

291

292

Su cui cfr. infra 2.1. Per la lettura di versioni precedenti di questo contributo ringrazio Costantino Esposito, Enrico Pasini e Alessandra Saccon. Naturalmente, tutte le sue debolezze e imperfezioni rimangono a carico dell’autore. Trattandosi di argomenti meno discussi a livello di storiografia fi losofica generale, si è ritenuto di fornire una bibliografia ragionata più estesa che negli altri capitoli.

J.A. Trentman, Scholasticism in the Seventeenth Century, in N. Kretzmann, A. Kenny, J. Pinborg, a c. di, The Cambridge History of Later Medieval Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 1982: 818-837 1.2 Sugli sviluppi della logica moderna W. Risse, Die Logik der Neuzeit, Bd. I (1500-1640), Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann - Holzboog, 1964 W. Risse, Bibliographia Logica. Verzeichnis der Druckschriften zur Logik mit Angabe ihrer Fundorte, Bd. I, 1472-1800, Hildesheim, Olms, 1965 W. Risse, Die Logik der Neuzeit, Bd. II 1640-1780, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann - Holzboog, 1970 2. L’ontoteologia 2.1 Sulle origini del dibattito M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt Endlichkeit Einsamkeit (Freiburger Vorlesungen WS 1929-30), in M. Heidegger, Gesamtausgabe, a c. di F.W. von Herrmann, Frankfurt/M, Klostermann, 1983, XXIX-XXX E. Conze, Der Begriff der Metaphysik bei Franciscus Suárez. Gegenstandbereich und Primat der Metaphysik, Leipzig, Meiner, 1928 J.P. Doyle, Heidegger and Scholastic Metaphysics, “The Modern Schoolman”, 49 (1972): 201-220 C. Esposito, Heidegger, Suárez e la storia dell’ontologia, in C. Esposito - P. Porro, a c. di, Heidegger e i medievali, Atti del Colloquio di Cassino, fasc. monogr. “Quaestio Annuario di storia della metafisica”, 1 (2001): 407-430 2.2 Sulla distinzione tra fi losofia prima come scienza dell’ente e come scienza di Dio J.S.J. Iturrioz, Fuentes de la Metafísica de Suárez, “Pensamiento”, 4 (1948): 31-89 E. Vollrath, Die Gliederung der Metaphysik in eine Metaphysica Generalis und eine Metaphysica Specialis, “Zeitschrift für Philosophische Forschung”, 16 (1962): 265-266 E. Rompe, Die Trennung von Ontologie und Metaphysik: der Ablösungsprozess und seine Motivierung bei Benedictus Pererius und anderen Denkern des 16. und 17. Jahrhunderts, diss., Bonn, 1967 B. Ippolito, Analogia dell’Essere. La metafisica di Suárez tra onto-teologia medievale e filosofia moderna, con una prefazione di M. Cristiani e G. Marramao, Milano, FrancoAngeli, 2005

3. Su Suárez N.J. Wells, Suárez, Historian and Critic of the Modal Distinction between Essential Being and Existential Being, “The New Scholasticism”, 36 (1962): 419-444 J.P. Doyle, Suárez on the Reality of the Possibles, “The Modern Schoolman”, 44 (1967): 29-40 J.P. Doyle, Suárez on the Analogy of Being, “The Modern Schoolman”, 46 (1969): 219-249; 323-241 J.P. Doyle, Suárez on Beings of Reason and Truth, “Vivarium”, 25 (1987): 47-75 - 26 (1988): 51-72 J.J.E. Gracia, Suárez’s Conception of Metaphysics: A Step in the Direction of Mentalism?, “American Catholic Philosophical Quarterly”, 65 (1991): 287-309 C. Esposito, Ritorno a Suárez. Le “Disputationes metaphysicae” nella critica contemporanea, in A. Lamacchia, a c. di, La filosofia nel Siglo de oro. Studi sul tardo Rinascimento spagnolo, Bari, Levante editori, 1995: 465-573 C. Esposito, Existence, relation, efficience. Le nœud Suárez entre métaphysique et théologie, in V. Carraud - C. Esposito, a c. di, L’existence, fasc. monogr. “Quaestio Annuario di storia della metafisica”, 3 (2003): 139-161 M. Forlivesi, Ontologia impura. La natura della metafisica secondo Francisco Suárez, in Francisco Suárez. “Der ist der Mann”. Momenaje al prof. Salvador Castellote, Valencia, Faculdad de Teologia “San Vicente Ferrer”, 2004: 161-207 3.1 Sulla ricezione di Suárez J. Iriarte, La proyección sobre Europa de una gran metafísica, o Suárez en la filosofía de los días del barroco, “Razón y fe”, 138 (1948): 229-265 Robinet, Suárez dans l’oeuvre de Leibniz, “Cuadernos Salmantinos de Filosofía”, 7 (1980): 269-284 4. Il panorama centroeuropeo 4.1 Sulla scolastica in Germania B. Duhr, Geschichte der Jesuiten in den Ländern deutscher Zunge, 4 voll., I-II Freiburg/Br, Herder, 1907-1913, III-IV München, Manz, 1921-1928 P. Petersen, Geschichte der aristotelischen Philosophie im protestantischen Deutschland, Leipzig, Meiner, 1921 K. Eschweiler, Die Philosophie der spanischen Spätscholastik auf den deutschen Universitäten des siebzehnten Jahrhunderts, Münster, Aschendorff,

1928: 252-285 („Spanische Forschungen der Görresgesellschaft“, I. Reihen, Gesammelte Aufsätze zur Kulturgeschichte Spaniens, vol. 1, 1928) 4.2 Sull’enciclopedismo U. Dierse, Enzyklopädie. Zur Geschichte eines philosophischen und wissenschaftstheoretischen Begriffs, Bonn, Bouvier, 1977 C. Vasoli, L’enciclopedismo del seicento, Napoli, Bibliopolis, 1978 W. Schmidt-Biggemann, Topica universalis. Eine Modellgeschichte humanistischer und barocker Wissenschaft, Hamburg, Meiner, 1983 4.3 Su lessici e strumenti lessicografici W. Killy, Grosse deutsche Lexika und ihre Lexikographen, 17111835. Hederich, Hübner, Walch, Pierer, München, Saur, 1993 G. Tonelli, A Short-title List of Subject Dictionaries of the Sixteenth, Seventeenth and Eighteenth Centuries as Aids to the History of Ideas, London, The Warburg Institute, 1971 (“Warburg Institute Surveys”, vol. IV, a c. di E.H. Gombrich e J.B. Trapp); A Short-title List of Subject Dictionaries of the Sixteenth, Seventeenth and Eighteenth Centuries. Extended Edition, a c. di E. Canone - M. Palumbo, Firenze, Olschki 2006 H. Henne, a c. di, Deutsche Wörterbücher des 17. und 18. Jahrhunderts, Hildesheim - New York, Olms, 1975 K. Aso et al., Onomasticon philosophicum latinoteutonicum et teutonicolatinum, Tokio, Tokiensi e typographia philosophica, 1989 D. von Wille, Lessico filosofico della Frühaufklärung. Christian Thomasius, Christian Wolff, Johann Georg Walch, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1991 4.4 Sulla nascita dell’ontologia J. Ferrater Mora, On the Early History of ‘Ontology’, “Philosophy and Phenomenological Research”, 24 (1963): 36-47 J. École, Une étape de l’histoire de la métaphysique: l’apparition de l’Ontologie comme discipline séparée, in J. École, a c. di, Autour de la philosophie Wolffienne. Textes de Hans Werner Arndt, Sonia Carboncini-Gavanelli et Jean École, Hildesheim - Zürich - New York, Olms, 2001: 95-116 4.5 Sulle differenze tra illuminismi nazionali R. Porter - M. Teich, a c. di, The Enlightenment in National Context, New York, Cambridge University Press, 1981 G. Sauder - J. Schlobach, a c. di, Aufklärungen. Frankreich und Deutschland im 18. Jahrhundert, Heidelberg, Winter, 1986

S. Jüttner - J. Schlobach, a c. di, Europäische Aufklärungen. Einheit und nationale Vielfalt, Hamburg, Meiner, 1992 4.6 Sulle peculiarità dell’illuminismo tedesco G. Tonelli, La “debolezza” della Ragione nell’età dell’Illuminismo, in G. Tonelli, Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, a c. di C. Cesa, Napoli, Prismi, 1987 N. Hinske, Die tragenden Grundideen der deutschen Aufklärung, in R. Ciafardone, a c. di, Die Philosophie der deutschen Aufklärung. Texte und Darstellung, Stuttgart, Reclam, 1990: 407-458 4.7 Sulla Schulphilosophie M. Wundt, Die deutsche Schulphilosophie im Zeitalter der Aufklärung, Tübingen, Mohr, 1939; ivi, 19452; riprod. Hildesheim - Zürich - New York, Olms, 1992 5. Wolff 5.1 Inquadramento generale N. Hinske, Wolffs Stellung in der deutschen Aufklärung, in W. Schneiders, a c. di, Christian Wolff 1679-1754. Interpretationen zu seiner Philosophie und deren Wirkung, Hamburg, Meiner,1986: 306-319 W. Schneiders, a c. di, Christian Wolff 1679-1754. Interpretationen zu seiner Philosophie und deren Wirkung, Hamburg, Meiner, 1986 J. Stolzenberg - O.P. Rudolph, a c. di, Christian Wolff und die Europäische Aufklärung. Akten des 1. Internationalen Christian-Wolff-Kongresses in Halle 4.-8. April 2004, 5 voll., Hildesheim, Olms, 20075.2 Su Wolff “scolastico” S. Carboncini, L’ontologia di Wolff tra scolastica e cartesianismo, in J. École, a c. di, Autour de la philosophie Wolffienne. Textes de Hans Werner Arndt, Sonia Carboncini-Gavanelli et Jean École, Hildesheim - Zürich - New York, Olms, 2001: 70-94 J. École, Christian Wolffs Metaphysik und die Scholastik, in H.P. Delfosse, M. Oberhausen, R. Pozzo, a c. di, Vernunftkritik und Aufklärung. Studien zur Philosophie Kants und seines Jahrhunderts, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann - Holzboog, 2001: 11 -128

5.3 Su Wolff e Leibniz C.A. Corr, Christian Wolff and Leibniz, “Journal of the History of Ideas”, 36 (1975): 241-262 J. École, War Christian Wolff ein Leibnizianer?, “Aufklärung”, 10 (1998): 29-46 B. PaĻ, Christian Wolff Ontologie. Ihre Voraussetzungen und Hauptdimensionen (mit besonderer Berücksichtigung der Philosophie von Gottfried Wilhelm Leibniz), “Aufklärung”, 12 (2001): 27-49 5.4 Sulla prima versione dell’ontologia C.A. Corr, Cartesian Themes in Christian Wolff ’s German Metaphysics Volumes, in W. Schneiders, a c. di, Aufklärung und Vorurteilskritik. Studien zur Geschichte der Vorurteilstheorie, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann - Holzboog, 1983: 113-120 T. Arnaud, Dans quelle mesure l’Ontologie est-elle fondamentale dans la Métaphysique allemande de Wolff?, “Revue Philosophique de la France et de l’Etranger”, 3 (2003): 323-336 5.5 Sull’Ontologia latina J. École, La Philosophia prima sive Ontologia de Christian Wolff: Histoire, doctrine et méthode, “Giornale di metafisica”, 1 (1961): 114-125 J. École, Editoris introductio, in Ch. Wolff, Ontologia, WGW II, 3, 1962 J. École, Introduction a l’Opus metaphysicum de Christian Wolff, Paris, Vrin 1985 5.6 Per lo studio delle sue fonti J. École, Index auctorum et locorum Scripturae Sacrae ad quos Wolffius in opere metaphysico et logico remittit, con una prefazione di Y. Belaval, Hildesheim - Zürich - New York, Olms, 1985 5.7 Sull’opus metaphysicum J. École, La métaphysique de Christian Wolff, 2 voll., Hildesheim - Zürich New York, Olms, 1990

6. Sviluppi ulteriori 6.1 Baumgarten M. Casula, La metafisica di A.G. Baumgarten, Milano, Mursia, 1973 P. Kobau, Estetica e logica nel razionalismo tedesco, “Rivista di estetica”, n.s., 13 (2000): 5-58 E. Witte, Logik ohne Dornen. Die Rezeption von A.G. Baumgartens Ästhetik im Spannungsfeld von logischem Begriff und ästhetischer Anschauung, Hildesheim - Zürich - New York, Olms, 2000 6.2 Sullo sviluppo del metodo analitico in età prekantiana G. Tonelli, Analysis and Synthesis in XVIIIth Century Philosophy Prior to Kant, “Archiv für Begriffsgeschichte”, 20 (1976): 178-193 H.-J. Engfer, Philosophie als Analysis. Studien zur Entwicklung philosophischer Analysiskonzeptionen unter dem Einfluß mathematischer Methodenmodelle im 17. und frühen 18. Jahrhundert, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann Holzboog, 1982 H.-J. Engfer, Zur Bedeutung Wolffs für die Methodendiskussion der deutschen Aufklärungsphilosophie: Analytische und synthetische Methode bei Wolff und beim vorkritischen Kant, in W. Schneiders, a c. di, Christian Wolff 1679-1754. Interpretationen zu seiner Philosophie und deren Wirkung, Hamburg, Meiner, 1986 6.3 Sulla “way of ideas” J.W. Yolton, Perceptual Acquaintance from Descartes to Reid, Oxford, Oxford University Press, 1984 J.W. Yolton, Locke and French Materialism, Oxford, Oxford University Press, 1991 J.W. Yolton, Realism and Appearances. An Essay in Ontology, Cambridge, Cambridge University Press, 2000

1.4. EPISTEMOLOGIA293 di Maurizio Ferraris

1.4.1. Ontologia e critica Nel capitolo precedente abbiamo osservato le evoluzioni della ontologia moderna, dalla scolastica barocca sino all’ambiente in cui Immanuel Kant (1724-1804) ha potuto maturare le proprie concezioni. Come si è visto, sin dalla fase precritica Kant matura un sospetto nei confronti della ontologia, con un atteggiamento che culminerà con la Critica della ragion pura (1781). Proprio nella misura in cui questo libro si concepisce come un superamento delle vecchie ontologie, non stupirà che ne rechi le tracce, e risponda in modo nuovo ai loro vecchi problemi. Incominciamo analizzando questo punto; vedremo poi come il modo specifico di affrontare la questione della ontologia risolvendola in una epistemologia, ossia in una teoria della scienza, sia divenuto uno standard per la linea principale della filosofia degli ultimi due secoli. Per i nostri scopi, può tornare utile uno schema a cui ci riferiremo anche in altre occasioni. Estetica Elementi CRP

Analitica Logica Dialettica

Metodo

293

Una trattazione più dettagliata di quanto esposto nel presente capitolo si può trovare in Ferraris 2004. Per ciò che attiene invece alla distinzione tra ontologia ed epistemologia, mi permetto di rinviare a Ferraris 2001.

Come si vede, la Critica della ragion pura si divide in due sezioni molto disuguali per articolazione ed estensione: gli Elementi, che descrivono le parti di cui è composta la nostra facoltà di conoscere e insieme gli oggetti che possono (o non possono) essere conosciuti, ripartita nell’Estetica (che tratta della sensibilità) e nella Logica (che tratta dell’intelletto), a sua volta suddivisa in Analitica (ciò che possiamo conoscere) e in Dialettica (ciò che non possiamo conoscere pur pretendendo di farlo); e il Metodo, che parla del modo in cui dobbiamo procedere per organizzare le nostre conoscenze. Qui l’assunto fondamentale è che la conoscenza sia “architettonica”, cioè sistematica: Kant insiste molto su questo punto, che è di sostanza, dal momento che fa pendant con l’idea che l’esperienza sia, a sua volta, sistematica, il che finisce per motivare la necessità di una fortissima griglia concettuale sovrapposta alle esperienze spaziotemporali. L’appello al ruolo della metafisica e del trascendentale sorge proprio da questo assunto, che non è ovvio, e che poggia sull’ipotesi che – come vedremo – “esperienza” e “conoscenza” siano essenzialmente la stessa cosa. Il peso dato alla sistematicità dell’esperienza dimostra che, tutto sommato, Kant è molto più razionalista di quanto non sia empirista; ed è per questo motivo che si pone ancora il problema di una ontologia. Tuttavia, che la Critica della ragion pura sia un trattato di metafisica è una tesi non del tutto ovvia. Infatti, l’appartenenza di Kant alla metafisica sembra oscurata dal fatto che Kant veda la metafisica come il campo di una lotta senza fine (e le metafisiche di Wolff e di Crusius in particolare come “castelli in aria”); che consideri l’ontologia come un nome troppo orgoglioso, cui preferisce sostituire quello di “filosofia critica”; e che la filosofia trascendentale ci venga presentata già licealmente come una cosa tutta diversa rispetto ai trascendentali degli scolastici, di cui si è detto nel secondo capitolo. Ma non è difficile mostrare che si tratta di fenomeni superficiali, che non toccano il fatto che la Critica della ragion pura discende direttamente, nell’ambito e nei problemi, dalle metafisiche e ontologie della Schulphilosophie, laddove, per quanto riguarda l’impostazione e la scelta dei problemi, sarebbe molto difficile trovare una parentela con i vari trattati sulla natura umana degli empiristi. Dagli empiristi, infatti, vengono due elementi importantissimi, ma che non toccano la struttura di fondo: in primo luogo, l’idea (che alla lontana risale a Locke, ma attraverso la mediazione di Wolff e di

Baumgarten, che l’avevano recepita nelle loro metafisiche) che si tratti di combinare la tradizionale indagine ontologica sugli attributi generali degli enti con una indagine psicologica sull’intelletto umano; in secondo luogo, l’idea (che invece viene da Hume) per cui l’esperienza è, insieme, la base di ogni conoscenza e un fondamento insufficiente, visto che la conoscenza empirica è sempre induttiva e dunque solo probabile, il che restituisce legittimità, almeno in linea di principio, alle esigenze razionalistiche. Il confl itto tra l’idea che si debba fare una critica della ragione come facoltà di conoscere, più o meno secondo il modello dei trattati di psicologia e antropologia fi losofica degli empiristi, e il fatto che quei trattati fossero, per Kant, semplicemente delle psicologie empiriche, incapaci di spiegare la genesi delle nostre conoscenze (o, meglio, inclini a vedere nelle nostre conoscenze, anche molto astratte, il risultato di percezioni) dà vita alla prima grande opzione teorica di Kant, ossia la rivoluzione copernicana. Per questa via, non si tratta di chiedersi come siano fatte le cose in sé stesse, ma come debbano essere fatte per venire conosciute da noi. Attraverso una simile trasformazione, che sta alla base della distinzione tra fenomeni (le cose come si presentano a noi nell’esperienza) e noumeni (le cose come sono in sé), Kant, che sottolinea come questa distinzione difettasse sia agli empiristi sia ai razionalisti, ritiene di avere disinnescato il potenziale scettico dell’empirismo, e la tendenza del razionalismo a procedere per pura analisi di concetti. La critica della ragion pura non sarà né una psicologia razionale, dove l’esperienza viene fatta dipendere dalla logica, né una psicologia empirica, dove la logica viene fatta derivare dall’esperienza, bensì una ricerca sistematica dei principi apriori, cioè indipendenti dall’esperienza, che stanno alla base della nostra conoscenza del mondo come totalità dei fenomeni. Dai razionalisti, invece, derivano le implicazioni più decisive a livello strutturale. In primo luogo, per l’appunto, l’idea che una conoscenza certa possa essere soltanto apriori, e che un modello esemplare di una simile conoscenza, completamente distinta dall’esperienza, venga offerto dalle proposizioni matematiche, impermeabili agli attacchi dell’empirismo. In secondo luogo, il modo di impostare i problemi: la topica e la stessa organizzazione materiale della Critica della ragion pura sono impostate sul modello delle metafisiche leibniziane, in particolare di quella di Baumgarten, che Kant adoperava a lezio-

ne294. Il vino nuovo versato in quelle vecchie botti consiste in una modica quantità di empirismo e in forti dosi di fisica matematica. Il conflitto tra l’idea che solo l’esperienza possa fornire delle autentiche conoscenze ampliative, cioè, nella terminologia di Kant, sintetiche e non analitiche, e l’idea che la conoscenza empirica sia insufficiente perché soltanto probabile, sta alla base della seconda grande opzione teorica di Kant, ossia dell’idea che il compito di una metafisica consista nell’isolare un certo numero di giudizi sintetici apriori, cioè ampliativi rispetto all’esperienza ma indipendenti da essa. La miscela di questi due apporti costituisce la metafisica di Kant, dove, per l’appunto, gli empiristi mettono il riferimento alla psicologia e all’esperienza, e i razionalisti il riferimento all’ontologia e all’apriori. Su quest’ultimo punto, anche nel dettaglio formale, la struttura della Dottrina degli Elementi (ossia della parte preponderante della Critica della ragion pura) rispecchia le partizioni tradizionali della metafisica moderna così come sono state esposte nel capitolo precedente: l’Analitica corrisponde alla metafisica generale, la Dialettica alla metafisica speciale (cosmologia, teologia e psicologia razionali). Dunque, occuparsi dell’Analitica significa, letteralmente, esaminare l’ontologia di Kant. Se questa interpretazione è accettabile, allora l’ontologia di Kant, come metafisica generale, è contenuta nelle parti segnate in grigio scuro nella tavola posta nella pagina successiva. Quelle in grigio chiaro sono miste, cioè inerenti sia alla metafisica generale sia alla metafisica speciale (di cui non parlerò, con l’eccezione della tesi sostanziale dell’Io penso, che gioca un ruolo decisivo anche nella ontologia).

294

Una compatta raccolta delle trascrizioni delle lezioni di metafisica di Kant, tradotte in inglese sulla base della Edizione dell’Accademia, in cui si potranno trovare tutte le definizioni di “metafisica” e “ontologia” in Kant, è I. Kant, Lectures on Metaphysics, a c. di K. Ameriks e di S. Naragon, Cambrigde, Cambridge University Press, 1996. Per una sintetica presentazione del problema, cfr. Ameriks 1992.

Estetica Spazio e tempo

CRP

Elementi (della conoscenza e del mondo)

Logica Io penso

Analitica Sostanza Causa Dialettica Anima Mondo Dio

Metodo Come si usano gli elementi

Concentrare l’attenzione sull’Analitica non è una scelta originale. È l’opzione di Heidegger295, e così pure di Strawson296, che non a caso sono i due autori che, nel Novecento e con orientamenti diversissimi, hanno rilanciato una lettura della Critica della ragion pura in termini di ontologia e non semplicemente di teoria della conoscenza, come avevano fatto i neokantiani.

1.4.2. Tesi fondamentali Tuttavia, per Heidegger l’ontologia di Kant sarebbe una ontologia dell’esistenza, una indagine dell’essere umano finito autorizzata dalla rivoluzione copernicana. Per Strawson, invece, una teoria dell’esperienza ordinaria, che si riassume in una serie di tesi che ritiene austere e accettabili (la controparte sarebbe invece un idealismo trascendentale che non condivide)297. In sintesi: l’esperienza si organizza come una successione temporale (1), che fa riferimento a una unità necessaria della coscienza (2), si esercita su oggetti che sono distinti dall’esperienza che ne abbiamo (3) e che sono essenzialmente spaziali (4), che 295 296 297

Heidegger 1929. Sull’ontologia di Heidegger cfr. infra 2.4. Strawson 1966. Sull’ontologia di Strawson cfr. infra 3.4.7. e 3.4.8. Strawson 1966: 13-14.

rientrano in un sistema di unità spaziotemporale coerente (5), e che rispettano certi principi di permanenza e di causalità (6). Con questa descrizione, Strawson si impegna a omettere i lati più estremistici della teoria kantiana. Scelta condivisibilissima se ci si propone di delineare un contenuto minimale e ragionevole della filosofia trascendentale, ma che rischia di oscurare alcune implicazioni che viceversa Kant riteneva centrali, sebbene sconfinino in quella che Strawson definisce, disapprovandola, “metafisica trascendente”. Conviene dunque non trascurare queste spigolosità, se si ha di mira una ricostruzione meno indulgente della ontologia kantiana, e in questo caso alle sei tesi di Strawson se ne possono sostituire delle altre un po’ più forti, cinque di tipo ontologico (che riguardano ciò che c’è) e due di tipo gnoseologico-epistemologico (che riguardano il modo in cui conosciamo ciò che c’è). Ecco (nella versione di Kant), le cinque tesi ontologiche della Critica della ragion pura. 1. Tesi dello Spazio. “Per mezzo del senso esterno (che è una proprietà del nostro animo), noi ci rappresentiamo gli oggetti come fuori di noi e come tutti assieme nello spazio”298. 2. Tesi del Tempo. “La simultaneità o la successione non potrebbero neppure mai costituirsi come percezioni se non ci fosse apriori [...] la rappresentazione del tempo”299. 3. Tesi della Sostanza. “In ogni cambiamento dei fenomeni, la sostanza permane”300. 4. Tesi della Causa. “Tutti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto”301. 5. Tesi dell’Io. “L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni”302. Non è difficile rintracciare l’origine polemica di queste tesi, che hanno tutte un bersaglio: la tesi dello spazio e quella del tempo hanno di mira Leibniz e Berkeley; quelle della sostanza e della causa 298 299 300 301 302

KrV B 37 / A 22. KrV B 46 / A 30. KrV B 224 / A 182. KrV B 232 / A 189. KrV B 131.

Locke e Hume; quella dell’Io, Hume. Si potrebbe sostenere che non sono tesi ontologiche, sull’essere, ma epistemologiche, su come lo conosciamo. Però, la rivoluzione copernicana ha per l’appunto decretato il collasso di quello che c’è su come si conosce quello che c’è, come è dimostrato dal fatto che a queste tesi corrisponde l’atteggiamento di quello che Kant chiama “realismo empirico”, ossia la tesi secondo cui le cose che incontriamo nell’esperienza, attraverso la mediazione delle forme pure della intuizione, delle categorie e dell’Io, sono realmente esistenti, e non si limitano a essere dei semplici contenuti di coscienza. Le tesi ontologiche si appoggiano, attraverso lo snodo della tesi dell’Io, a due tesi epistemologiche. 1. Tesi degli Schemi Concettuali: “I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”303. Kant è stato il primo a sostenere che per avere delle esperienze è necessario possedere degli schemi concettuali (Idealismo trascendentale); probabilmente, è stato anche il primo – in ontologia – a sostenere che esiste solo ciò che c’è nello spazio e nel tempo (Realismo empirico). 2. Tesi del Fenomeno: “L’oggetto indeterminato di una intuizione empirica prende il nome di fenomeno”304. Noi non abbiamo a che fare con cose in sé, ma con cose che appaiono a noi attraverso la mediazione dello spazio, del tempo, dell’Io e degli schemi concettuali. Tuttavia, i fenomeni non sono apparenze, ma esistono con una forza non minore dell’Io (che, a sua volta, viene conosciuto solo come fenomeno). Per restare allo schema che ho adoperato più sopra, ecco di seguito l’ubicazione delle tesi sostanziali.

303 304

KrV B 75 / A 51. KrV B 33 / A 19.

Estetica Spazio Tempo Elementi CRP

Logica Io penso

Analitica Sostanza Causa Dialettica

Metodo

1.4.3. La trasformazione dell’ontologia Il modo più semplice per cogliere le specificità della ontologia di Kant è chiedersi che cosa cambi tra le ontologie pre-critiche e la Critica della ragion pura, una volta che si siano riconosciute le continuità a livello terminologico e di impianto. Molti elementi restano immutati. Baumgarten Estetica, 1750-58

Locke Saggio sull’intelletto umano, 1690

Clauberg Elementi di filosofia, Suárez cioè ontosofia, 1647 Dispute Metafisiche, Wolff Ontologia, 1729 1597 Cartesio, Discorso sul metodo, 1637 Lambert, Disegno dell’architettonica, 1771

In breve, l’idea di una critica della ragione è debitrice della svolta soggettivistica in filosofia introdotta da Cartesio e sviluppata, ma

in termini di psicologia empirica, da Locke; il raggruppamento delle parti ontologiche sotto il titolo di “elementi” richiama un uso che è bene attestato, per esempio, in Bacone o in Clauberg; battezzare “estetica” la parte che tratta della sensibilità recepisce l’indicazione di Baumgarten, che per l’appunto aveva chiamato con quel nome la scienza della conoscenza sensibile perfetta; la distinzione tra Analitica e Dialettica riflette la distinzione, sviluppatasi nella metafisica moderna, tra metafisica generale (ontologia) e metafisica speciale; e la dottrina trascendentale del metodo è una sorta di Discours de la méthode posto dopo la trattazione ontologica invece che prima, come avviene in Cartesio; infine, il carattere architettonico (cioè, sistematico e finalistico) del metodo della ragion pura deve qualcosa a Lambert. Sotto la continuità formale, però, ci sono molti elementi nuovi, in gran parte legati alle tesi sostanziali che ho isolato più sopra. Estetica Spazio Tempo Fenomeni

CRP

Elementi Giudizi sintetici apriori

Analitica Giudizi Categorie Logica Deduzione Io penso Schemi concettuali Schematismo Principi Dialettica Antinomie

Metodo Come si usano gli elementi

In primo luogo, scompaiono tutti i giudizi analitici apriori, perché in quel caso avremmo un vocabolario, cioè una pura lista di definizioni. In secondo luogo, non appaiono tutti i giudizi sintetici aposteriori di cui si componevano i trattati sulla natura umana degli empiristi, che del resto non si proponevano di comporre delle ontologie. In terzo luogo, appare la strana famiglia dei giudizi sintetici apriori, che Kant aveva inventato considerando che la matematica ne è pie-

na. Sono questi giudizi che costituiscono i trascendentali della Prima Critica, i principi senza cui non potremmo fare esperienza, e che non dipendono dall’esperienza. Senza dipendere dalle incertezze del reale (giacché sono necessari), essi ci mettono in contatto con il reale, che è la sola cosa che interessa a Kant in sede ontologica. Il reale è situato nello spazio e nel tempo, è accessibile ai sensi ed è conosciuto dalla fisica, che applica a esso la necessità matematica. Il compito dell’ontologia, nel quadro della fi losofia critica, è dunque generalizzare la fisica e insieme naturalizzarla, e di qui viene l’uso sistematico della contrapposizione tra fenomeno e noumeno dettato dalla rivoluzione copernicana. Già i fenomeni e i noumeni non si trovano nei leibniziani e negli empiristi; figuriamoci poi quei veri e propri ornitorinchi che sono la Deduzione e lo Schematismo, in cui Kant cerca, faticosamente, di giustificare la naturalizzazione, così come il ricorso alla immaginazione trascendentale, deus ex machina chiamato a offrire la campata centrale del ponte. Queste parti, che sono di gran lunga le più atipiche nella tradizione – e le più problematiche nella impostazione kantiana – testimoniano delle peculiari difficoltà della impresa di Kant, che si trova, senza precedenti cui rifarsi, a saldare una psicologia empirica, una metafisica razionalista, e degli elementi di fisica newtoniana. Ma tutte queste trasformazioni avvengono sul fondo di un assunto fondamentale, quello che Meinong chiamerebbe un “pregiudizio nei confronti del reale”305, l’idea cioè che “esistere” significhi in modo focale “essere nello spazio e nel tempo”; concezione che sta alla base della elezione della fisica come scienza di riferimento per la metafisica. Molti autori hanno insistito sul carattere troppo logico della prospettiva di Kant; altri invece, hanno voluto riconoscere in lui una via tedesca all’empirismo. La prima tesi è smentita per l’appunto dal fatto che per Kant la fisica gioca un ruolo centrale nella metafisica, la seconda dal fatto che l’esperienza in Kant è intrisa di matematica. Fisica e matematica guidano segretamente le selezioni logiche, e del resto Kant lo ammette apertamente nella distinzione tra la logica generale (che riguarda solo l’intelletto) e la logica trascendentale (che riguarda l’intelletto in quanto si applica al sensibile, cioè, per Kant, all’esistente). Le ragioni della sostituzione della matematica e della fisica alla logica sono facili da capire. Quando Kant incomincia a lavorare, due 305

Cfr. infra 2.1.3, 2.2.

dati sono acquisiti almeno in certi ambienti filosofici, e in particolare in quelli critici nei confronti della scuola di Leibniz e Wolff in cui Kant stesso si è formato. Il primo è che delle conoscenze ampliative possono venire solo dall’esperienza sensibile (e questo non è ovvio, dal momento che ancora in pieno Settecento si scrivevano delle logiche che nutrivano l’ambizione di accrescere le conoscenze, e rinverdivano la tradizione della logica come ars inveniendi). Il secondo è che l’esperienza, malgrado la sua ricchezza conoscitiva, e anzi proprio in forza di essa, non può fornire lo stesso grado di certezza necessaria che viene dalla logica e dalla matematica, giacché abbiamo a che fare con catene induttive invece che con catene deduttive. La legge per cui se premo l’interruttore si accende la lampadina è limitata dal fatto che la lampadina finirà per fulminarsi; gli empiristi avevano usato questo genere di argomento con motivazioni sottilmente antiscientifiche, visto che si trovavano già sotto lo schiaffo delle scienze naturali e cercavano uno spazio residuale per la filosofia. Per Kant, tuttavia, diversamente che per i razionalisti, si ha conoscenza solo quando si ha esperienza, e si ha esperienza solo perché ci sono i sensi. Kant lo dice apertamente306: chiedersi se il reale sia meno vasto del possibile è certo una buona domanda, a cui si può rispondere affermativamente, perché il reale è una determinazione in più che, dal punto di vista logico, si aggiunge al possibile. Solo, prosegue Kant, la domanda non ha senso, dal punto di vista ontologico, perché a questo livello esiste solo il reale, e il possibile, semplicemente, non esiste. Infatti, se si aggiunge l’esistenza a qualcosa non si aggiunge nulla di rilevante sotto il profilo conoscitivo: se ordino un piatto di spaghetti alla carbonara reali, ho chiesto esattamente la stessa cosa che se avessi ordinato degli spaghetti alla carbonara; del tutto altrimenti accade se chiedo degli spaghetti alla amatriciana. Così, il reale non è una determinazione in più che si aggiunge al possibile, ma il punto da cui si muove per dire che cosa c’è, e la differenza tra 100 talleri reali e 100 talleri ideali, ossia tra ontologia e logica, appare ben più decisiva. Per Kant, dunque, esiste soltanto il reale, ed è di lì che si deve incominciare. La partizione tra Analitica e Dialettica si fonda su questo assunto, sicché Dio, l’Anima e il Mondo come totalità escono dalla ontologia allo stesso modo in cui escono dalla fisica, e acquisiscono lo statuto di idee soltanto razionali. Così, i leibniziani proponevano una 306

KrV B 282-284 / A 230-231.

partizione tra Ente come tutto ciò che è chiaro e distinto e Non Ente come ciò che è oscuro e confuso: Ente (chiaro e distinto)

Non ente (oscuro e confuso)

Kant distingue piuttosto tra Ente Reale (con collocazione spaziotemporale) ed Ente Razionale, che finisce nella Dialettica, fermo restando che poi ci sono degli Enti Irrazionali, come il cerchio quadrato, di cui non si dà alcuna trattazione, appunto perché sono contraddittori e rientrano nella categoria residuale dei concetti vuoti senza oggetto. Ente Reale (Analitica)

Ente Razionale (Dialettica)

Ente Irrazionale (escluso)

L’appello alla fisica e alla esperienza (e più profondamente – vedremo tra poco le implicazioni di questo assunto – alla fisica come esperienza) incontra tuttavia, come abbiamo visto, l’ostacolo opposto dall’incostanza di ciò che i nostri sensi incontrano nel mondo, che rende molto difficile la costituzione di una metafisica dell’esperienza, anzi, rende l’espressione contraddittoria, almeno in un contesto postcartesiano, in cui si è sviluppato un dubbio sistematico nei confronti della stabilità e certezza del mondo esterno, che rende per l’appunto difficile attribuire al reale accessibile ai sensi quel carattere di necessità che si attribuisce alla metafisica. Su questo punto convengono sia gli empiristi sia i razionalisti. Per i primi, abbiamo a che fare con l’incertezza della induzione (la legge “se premo l’interruttore si accende la lampadina” non ha un carattere di necessità assoluta). Per i secondi, invece, l’esistenza è solo contingente, e la necessità reale appare molto meno forte di quella logica, tanto è vero che le selezioni cruciali, in metafisica, vengono svolte da un principio logico, quello di non contraddizione. Per conferire necessità all’esistenza, occorre mostrare che almeno certi suoi elementi generalissimi sono dotati di un carattere assoluto, e questo può darsi solo apriori, per cui Kant imbocca la via della

matematica (in effetti, è difficile sostenere che “2 + 2 = 4” è una proposizione solo più probabile di “se premo l’interruttore si accende la lampadina”). Visto poi che la fisica applica la matematica al reale, la filosofia trascendentale dovrà presentarsi come una metafisica fisica. Il ragionamento di fondo, presentato nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, ha quattro momenti. Primo, i matematici si sono accorti sin dall’antichità che non traevano i loro teoremi dall’esperienza, ma li costruivano, in base ai loro concetti, nell’intuizione. L’idea di Kant è che quando i primi geometri studiarono le proprietà dei triangoli si accorsero che non si trattava di copiare dei triangoli né di descrivere le proprietà di oggetti triangolari così come un botanico descrive le caratteristiche di una pianta, bensì di costruire, a partire da dei concetti, delle figure che risultassero conformi a quei concetti. Secondo, la matematica, tuttavia, non è una conoscenza, perché pensare una cosa non è ancora conoscerla, e la conoscenza viene dall’incontro con qualcosa che è situato nello spazio e nel tempo, dunque non dal pensiero o dalla immaginazione, bensì dalla esperienza. Terzo, la fisica moderna è stata capace, con la rivoluzione copernicana che perfeziona la scoperta dei matematici greci, di interrogare la natura come un giudice e non come uno scolaro, cioè di irreggimentare l’esperienza dentro a un reticolo apriori di proposizioni matematiche; avremo così proposizioni certe come la matematica, e cognitivamente dense come quelle che ci sono fornite dai sensi. Quarto, alla metafisica che si voglia scientifica non resta che naturalizzare la fisica, mostrando che non si tratta solo di un modo di conoscenza del reale, ma del modo in cui sono fatti i nostri sensi e il nostro intelletto, e questo avviene nell’Analitica; la Dialettica servirà invece a revocare ogni pretesa conoscitiva di proposizioni che non hanno un contenuto empirico accertabile, e a rinviare le esigenze che stanno alla base di queste proposizioni a un’altra sfera, quella dell’agire morale (non posso dimostrare che l’anima è immortale, o che Dio esiste, o che siamo liberi, però devo assumere queste due proposizioni come presupposti perché l’agire morale abbia un senso). In questo modo, si ottiene, almeno negli intenti, la quadratura del cerchio. Ci si può riferire all’esperienza sensibile, che è il reale, ma con una certezza che viene dalla matematica, e più esattamente dalla scienza matematizzata della natura (Cartesio e Newton), i cui successi sono presentati da Kant come un fatto incontestabile, che ne rac-

comanda senz’altro la trasposizione in metafisica. La contropartita è però che i principi metafisici di Kant sono per l’appunto tratti dalla fisica, come risulta in modo lampante dalla tesi della Sostanza, prima307 attribuita alla fisica poi308 alla metafisica. La scelta è obbligata, d’altra parte, una volta che si sia determinato l’oggetto della metafisica dell’esperienza nel reale quale è accessibile ai sensi. In effetti, se non avesse compiuto quella scelta preliminare, Kant avrebbe potuto trovare un gran numero di giudizi apriori, cioè di proposizioni indipendenti dall’esperienza, e dunque aggirare lo scoglio della induzione sollevato dall’empirismo. Per esempio, “ogni corpo è esteso” è indipendente dall’esperienza, perché l’estensione è un attributo necessariamente connesso a un corpo; così, avrebbe anche potuto sostenere che “l’anima è inestesa”, appunto perché, per definizione, l’anima non è un corpo. Il problema è però che simili giudizi sono delle semplici definizioni di vocabolario, ossia non accrescono in nessun modo la nostra conoscenza. L’idea è che se ci fosse un corpo, allora, per definizione, sarebbe esteso, e se ci fosse un’anima, allora, per definizione, sarebbe inestesa. Tranne che il problema è sapere quando e dove ci siano anime e corpi, non stabilire come sarebbero anche se non ci fossero. E questa, di nuovo, è una grande differenza rispetto alla concezione della metafisica come scienza del possibile. Lambert, il matematico amico e corrispondente di Kant, aveva per l’appunto criticato la Metafisica di Baumgarten sostenendo che forniva delle definizioni nominali e nulla di più, di modo che si trattava di un semplice dizionario. Kant vuole invece fornire una enciclopedia, ed è in questo quadro che diventa cruciale la possibilità di giudizi ampliativi che, però, siano apriori. Dunque, escono dalla metafisica tutte le definizioni empiriche che neanche Baumgarten aveva mai pensato di includere (un ornitorinco non farà mai parte della metafisica, non più di quanto vi rientrino gli argomenti trattati da Kant nei suoi corsi di geografia o di antropologia). Ne escono anche tutte le definizioni puramente nominali, cioè analitiche, che sono sottomesse al principio di non contraddizione, ma che si collocano nella sfera della logica generale invece che in quella della logica trascendentale. E rimangono solo i giudizi sintetici apriori, cioè i giudizi che non dipendono dall’esperienza (sono meta307 308

KrV B 17. KrV B 795 / A 767.

fisici) e rendono possibile l’esperienza (cioè sono trascendentali) e che Kant, come ho detto, riduce a una lista ben più succinta di quella delle ontologie leibniziane: le cinque tesi ontologiche enumerate più sopra. Ma sono possibili dei giudizi sintetici apriori in metafisica? È ovvio infatti che ce ne sono in matematica e in fisica, visto che tutte le proposizioni matematiche sono sintetiche, secondo Kant, così come sintetici sono i principi fisici della permanenza della sostanza sotto le varie trasformazioni, e della causa come origine del cambiamento. In metafisica, però, si tratta di dimostrare che queste proposizioni sintetiche apriori sono delle conoscenze (e non è il caso della matematica) e dipendono non da un approccio metodologico alla natura (come nella fisica) ma, per l’appunto, dalla maniera in cui sono fatti i nostri sensi e il nostro intelletto. Sotto questo profi lo, che non può essere giustificato da considerazioni di fatto, tratte dalla storia delle scienze, come possiamo sapere che non apprendiamo le categorie dall’esperienza, come supponeva Aristotele che le aveva raccolte “rapsodicamente”, e che anche lo Spazio, il Tempo, l’Io, la Sostanza e la Causa si formano per esperienza e abitudine, come ritenevano gli empiristi? Esaminiamo un poco più in dettaglio la questione riprendendo il caso della matematica, quello della fisica, e infine venendo alla soluzione proposta per la metafisica. Per ciò che attiene alla matematica, secondo Kant, la proposizione aritmetica “7 + 5 = 12” è un giudizio sintetico giacché il 12 non è pensato necessariamente né nel 7 né nel 5 (si potrebbe ottenere lo stesso risultato anche con 8 + 4, o 6 + 6); ed è un giudizio apriori dal momento che noi non lo ricaviamo dall’esperienza (per esempio dal contare degli oggetti o dall’uso delle dita per numerare), giacché allora non si capisce in che modo si possa procedere all’addizione mentale di numeri elevati (è difficile pensare che 7541 + 5471 = 13.012 sia ottenuta con le dita o con l’osservazione attenta di oggetti). Stesso discorso per la geometria; una proposizione come quella secondo cui la retta è la distanza più breve tra due punti non la si impara dall’esperienza, al massimo la si verifica nell’esperienza. Come abbiamo visto, l’idea di Kant è che quando i primi geometri studiarono le proprietà dei triangoli si accorsero che non si trattava di descrivere le proprietà di oggetti triangolari così come un botanico descrive le caratteristiche di una pianta, bensì di costruire, a partire da dei concetti, delle figure che risultassero conformi a quei concetti. È sulla base di questi due modelli, la geometria e l’aritmetica, che Kant ricava, in sede di metafi-

sica, le sue due prime tesi sostanziali, quella dello Spazio (considerato come apriori e naturalmente geometrico) e quella del Tempo (considerato come apriori e naturalmente aritmetico; anche se il legame tra il tempo e l’aritmetica non è affermato con la stessa esplicitezza che il legame tra lo spazio e la geometria). Per ciò che attiene alla fisica, Kant è pienamente convinto che il principio della permanenza della sostanza, quello secondo cui ogni mutamento ha una causa, e quello secondo cui in ogni comunicazione di movimento azione e reazione si equivalgono, non sono proposizioni che la fisica possa trarre dall’esperienza, e questo non è dimostrato soltanto dal fatto che adoperandole la fisica abbia fatto passi da gigante solo in epoche recenti, quando questi principi sono stati sfruttati con tutte le risorse che vengono dalla matematizzazione, ma anche, paradossalmente, dal fatto che se ci si attiene solo all’esperienza, come fanno gli empiristi, questi principi non possono essere affermati come tali. È sulla base della fisica e dei suoi successi di fatto che Kant ricava le sue due tesi sostanziali rispetto alla Sostanza e alla Causa, che sono poi ciò che gli preme più da vicino, visto che servono a controbattere alla dissoluzione di queste nozioni, ridotte a una psicologia dell’abitudine e della associazione di idee, da parte degli empiristi (Locke per ciò che riguarda la Sostanza, Hume per ciò che riguarda la Causa). La tesi della equivalenza tra azione e reazione, che Kant ribattezza come Azione Reciproca, possiamo lasciarla da parte, visto che lo stesso Kant la considera come un misto delle prime due. La naturalizzazione della fisica attraverso la metafisica viene svolta grazie alla introduzione della tesi dell’Io penso, che ovviamente non interessava ai fisici, i quali erano impegnati in una descrizione obiettiva della natura. L’idea di fondo di Kant è che, per l’appunto, il mondo non sia un agglomerato di cose in sé, indipendenti dallo spettatore, come vogliono i fisici, bensì un insieme di fenomeni (di cose per uno spettatore); e che l’io non è un semplice supporto, una pagina bianca su cui si inscrivono le sensazioni, come vogliono gli empiristi, bensì l’unità senza cui non si può avere esperienza (senza cui, cioè, non si possono incontrare fenomeni), che al proprio interno è attrezzata di due forme pure della intuizione, Spazio e Tempo, e di dodici categorie, che si riassumono in ultima istanza nella tesi della Sostanza e in quella della Causa. Da questo punto di vista, la possibilità di giudizi sintetici apriori è il volto palese della naturalizzazione della fisica che sta al centro della filosofia trascendentale: le cinque tesi ontologiche

non sono ipotesi euristiche, sono le maniere in cui ogni essere simile a noi si rapporta al mondo. Sullo statuto dell’Io, tuttavia, Kant è abbastanza ambiguo. I suoi continuatori maggiormente interessati alla psicologia (cioè al realismo empirico), come Jakob Friedrich Fries (1773 - 1843) e Johann Friedrich Herbart (1776 - 1841), trascrissero la tesi dell’Io in una fisiologia dell’intelletto, cosa che Kant non avrebbe sicuramente sottoscritto. Gli idealisti trascendentali ci videro il principio di una costruzione del mondo a partire dall’Io, e neanche questa soluzione avrebbe ricevuto l’approvazione di Kant. Strawson ci vede piuttosto una collezione di requisiti minimali indispensabili per poter avere un’esperienza, che è probabilmente una interpretazione che avrebbe ottenuto l’approvazione di Kant, anche se molti svolgimenti del suo pensiero (per esempio, il fatto che lo Spazio sia inglobato dal Tempo e questo dall’Io) danno incontestabilmente man forte alla interpretazione degli idealisti trascendentali, e altri svolgimenti (per esempio, il ruolo conferito a una facoltà eminentemente psicologica come l’immaginazione) forniscono un sostegno non arbitrario alla interpretazione dei realisti empirici. Tuttavia, con questo progetto, Kant incorre in quella che propongo di chiamare “fallacia trascendentale”.

1.4.4. La fallacia trascendentale A prima vista, per ciò che concerne l’esistenza, abbiamo a che fare con una declinazione realistica dell’empirismo. Tutto incomincia con l’esperienza, e ciò che merita di essere trattato in una ontologia è per l’appunto quanto è accessibile ai sensi. Le battaglie della metafisica nascevano invece dalla pretesa di parlare di cose che non sono accessibili all’esperienza. A questo proposito, Strawson ha scritto che il “criterio di significanza” delle proposizioni metafisiche, in Kant, è dato dal fatto che simili proposizioni abbiano una controparte empirica. In altri termini, posso dire che il calore provoca l’ebollizione dell’acqua se e solo se esistono fonti di calore e acqua, e cioè se risultano accessibili ai sensi miei e di esseri simili a me. Ma mentre gli empiristi del Settecento concludevano con lo scetticismo, e quelli del Novecento rimetteranno alla scienza la verifica di queste proposizioni, Kant, per l’appunto, interiorizza la scienza nelle forme pure della intuizione e delle categorie. Abbiamo qui il tono spe-

cifico dell’empirismo di Kant. Hume aveva fatto dipendere la scienza dall’esperienza, concludendo che la scienza è solo probabile; Kant capovolge la prospettiva, e fonda la certezza e necessarietà dell’esperienza sul fatto che essa è fondata dalla scienza. Il punto è interessante, perché qui troviamo l’assunto per cui Scienza ed Esperienza sono due poli tra cui intercorre una reversibilità completa. Un assunto tanto più facile da sostenere in quanto, ancora all’epoca di Kant, il mondo della scienza appariva molto simile a quello dell’esperienza. In questo modo, ciò che sappiamo delle cose si confonde sistematicamente con l’esperienza che ne abbiamo. Quanto poco sia giustificata la confusione tra scienza ed esperienza, e tra epistemologia e ontologia, lo si può tuttavia verificare con un semplice esperimento, ossia applicando all’esperienza le tesi fondamentali di Kant che abbiamo isolato in precedenza.

1.4.5. Verifica delle tesi epistemologiche Incominciamo con le due tesi epistemologiche, quella degli schemi concettuali e quella dei fenomeni. La tesi degli schemi concettuali pone anzitutto dei problemi di fatto. È davvero così? Davvero le intuizioni senza concetto sono cieche? Non si tratta di sostenere che posso urtare contro qualcosa senza prevederlo o senza averne un concetto, ma di notare che posso avere delle visioni molto complesse senza capire esattamente quello che sto vedendo (o, inversamente, che posso vedere un conigliopapero, sapere che nella figura c’è sia un coniglio sia un papero, ma poter cogliere solo un rendimento percettivo alla volta). Dietro al problema di fatto, si nasconde un problema concettuale, che riguarda precisamente che cosa si intenda con “concetto”. Una nozione chiara e distinta? Una parola? Uno schema cosciente? (Probabilmente questo è il senso di Kant, per via della tesi dell’Io penso). In realtà, Kant eredita questa confusione. Quando Cartesio sostiene che se noi non avessimo il concetto della cera non potremmo stabilire la continuità tra la cera solida e odorosa e la cera liquida e inodore, è in questa stessa linea di ragionamento; e lo è anche Locke quando gli ribatte che il re del Siam non stabiliva una continuità tra l’acqua e il ghiaccio. Cartesio suppone che l’identità sia data dal concetto, sottostimando le volte che avrà visto una candela consumarsi; Locke che sia data dall’abitudine, sottostimando che forse non abbiamo mai veramente assistito alla

glaciazione di una pozzanghera. Sarebbe stato molto più facile spiegare il riconoscimento della identità sotto le trasformazioni attraverso il richiamo alla identità della ubicazione spaziale, quella che ci fa supporre, a ragione, che da un bozzolo può venire fuori una farfalla, e, a torto, che dalla putrefazione della carne possono sorgere degli insetti. In altri termini, il criterio concettuale di “identità” adoperato da Cartesio è troppo forte, e sembra comportare una conoscenza interna degli oggetti; laddove quello adoperato da Locke è, polemicamente, troppo debole, e si spinge a sostenere che noi non vedremmo delle trasformazioni se l’esperienza non ci avesse abituati a riconoscerle. In buona sostanza, l’idea che le intuizioni senza concetto siano cieche rientra ancora a tutti gli effetti in questo orizzonte, reso possibile da una forte indeterminatezza del concetto di “concetto”. Dietro a questo problema si nasconde un punto più vasto, che riguarda l’intera questione della tesi degli Schemi Concettuali. Si crede che il mondo esterno non possa esserci accessibile al di fuori del ricorso a schemi, ma non è detto, visto che per provarlo bisognerebbe ricorrere a un esperimento impossibile, quello di vedere che cosa succederebbe a un soggetto che non avesse schemi concettuali. Ciò che invece si può concretamente dimostrare è che in moltissimi casi si può spiegare il nostro comportamento nel mondo senza ricorrere a schemi, e che in molti altri casi quello che vediamo è in contrasto con quello che pensiamo. Alla domanda circa la necessità di categorie nell’esperienza si può dunque rispondere in molti modi, e sostenere che ci vogliono 12 categorie, 120, 1200, nessuna. Connessa con la tesi degli schemi concettuali, come suo corrispettivo estetico, è la tesi del Fenomeno. Sembra in prima approssimazione molto accettabile, ma a guardarla un po’ da vicino le cose cambiano. Prendiamo questo passo: I predicati del fenomeno possono essere attribuiti all’oggetto stesso, in relazione al nostro senso; ad esempio, alla rosa può essere attribuito il color rosso o il profumo. Ma la parvenza non può mai essere attribuita all’oggetto come suo predicato, appunto perché si attribuirebbe all’oggetto per sé ciò che gli spetta solo in relazione ai sensi o in generale al soggetto: come accadde, ad esempio, con i due anelli attribuiti un tempo a Saturno309.

309

KrV B 69-70.

Questa impostazione suscita almeno tre interrogativi: perché le cose dovrebbero essere diverse da come appaiono? Perché distinguiamo le cose dalle rappresentazioni delle cose? Se il rosso non è nella rosa, dov’è?

1.4.6. Verifica delle tesi ontologiche Veniamo alle tesi ontologiche, e procediamo anzitutto alla verifica delle tesi dello Spazio e del Tempo. Sono tesi facilmente accettabili perché non urtano con la nostra intuizione più di tanto (grosso modo, come l’apprendere che la terra gira intorno al sole). Per Strawson, nella interpretazione austera, la tesi dello Spazio e quella del Tempo affermano semplicemente che qualunque esperienza coerente ha un ordinamento temporale e che molte esperienze hanno un ordinamento spaziale310. Tuttavia, Kant non è così austero. Sia rispetto allo Spazio, sia rispetto al Tempo, vuole dimostrare tre cose: che sono apriori, cioè indipendenti dall’esperienza; che sono trascendentali, cioè che rendono possibile l’esperienza; che sono intuizioni (singolari e immediate) e non concetti (universali e mediati). C’è poi una quarta cosa che Kant non pensa di dimostrare perché ritiene che sia ovvia, e cioè che lo spazio sia uguale alla geometria euclidea (questo punto è espresso esplicitamente) e che il tempo sia uguale alla aritmetica (questo punto è assunto implicitamente). Verifichiamo anzitutto le affermazioni di Kant sullo spazio. Quanto alla natura apriori, che lo spazio preceda gli oggetti viene dimostrato sostenendo che possiamo pensare uno spazio senza oggetti ma non degli oggetti senza spazio. Chiaramente, Kant non si è chiesto se davvero sia possibile pensare uno spazio senza almeno un colore, e dunque argomenta la sua tesi in base a una nozione troppo specifica di “oggetto”. Quanto alla natura trascendentale. Lo spazio percettivo non coincide interamente con quello della geometria euclidea; in realtà, siamo geometri superdotati e sottodotati rispetto alla geometria euclidea. Il caso degli opposti incongruenti è abbastanza eloquente da questo punto di vista, ed è interessante perché Kant lo ha registrato senza trarne le conseguenze rispetto alla propria teoria: 310

Strawson 1966: 61.

se davvero noi fossimo geometri naturalmente ed esclusivamente euclidei, non dovremmo essere capaci di riconoscere l’identità tra figure non sovrapponibili come, per esempio, la mano destra e quella sinistra, o due triangoli disegnati su due emisferi. In realtà, l’operazione ci riesce, dunque siamo superdotati. In altri casi, invece, ci appaiono plausibili solidi che in realtà non lo sono, dunque siamo sottodotati. Quanto poi al fatto che lo spazio sia una intuizione e non un concetto, bisogna intendersi. Dal punto di vista geometrico, lo spazio è una intuizione, o può essere considerato tale. Dal punto di vista ecologico, noi abbiamo obbiettivamente a che fare con spazi differenti (aperto e chiuso, aereo e terrestre, mentale e reale), che sono poi raccolti, esattamente come esemplari empirici, sotto il concetto generale di spazio. Veniamo al tempo. Quanto alla apriorità. Ci accorgeremmo del tempo senza il movimento e il cambiamento? In fin dei conti, la tesi secondo cui se non avessimo il tempo non percepiremmo il movimento non è più forte della tesi secondo cui in assenza di movimento non percepiremmo il tempo. La situazione è analoga al caso dello spazio e degli oggetti, e la tesi di Kant si basa sia sull’esperimento impossibile da cui trae la negazione della percezione diretta, sia sulla varietà dei sensi in cui adopera la parola “tempo”. Quanto alla trascendentalità. Il tempo non pare trascendentale per gli oggetti, ma solo per gli eventi. Se dico che un tavolo è presente, dico che è presente nello spazio; che lo sia anche nel tempo, non aggiunge niente; viceversa, la caduta di un foglio non potrebbe essere percepita senza il tempo. Perché Kant non ha preso in esame questa considerazione? Qui c’è un punto che viene a giusto titolo sottolineato da Strawson311: se seguiamo Kant, il tempo è per noi qualcosa di molto più immediato dello spazio, senza considerare che l’orologio è per noi uno strumento di uso molto più frequente che non il metro. Che il tempo preceda e inglobi lo spazio, e intervenga dappertutto, è allora l’oggetto di una petizione di principio: visto che tutte le cose per essere conosciute chiedono di essere sottoposte all’unità sintetica della appercezione, che è l’Io, il quale è fatto di tempo, allora il tempo precede e ingloba lo spazio. Di qui risulta anche che Kant tratta il tempo sia come una intuizione (il senso interno) sia come un concetto (l’Io), e che dunque l’assunto secondo cui il tempo è una intuizione si appoggia, di nuovo, su un uso ambiguo della parola “tempo”. Ma l’inclusione dello spazio nel 311

Strawson 1966: 11.

tempo contrasta con l’argomento che Kant312 adopera per confutare l’idealismo, e cioè che la percezione di un flusso temporale nell’io dimostra che c’è qualcosa di fermo fuori dell’io, ossia un mondo esterno e indipendente. Ancora una volta, è manifesta l’estrema instabilità del concetto di tempo in Kant, che è sia il tempo fisico esterno, sia il senso interno, sia la materia di cui è fatto l’Io, ed è per questo che, apparentemente senza notarlo, Kant sostiene sia che il mondo è nell’Io, sia che l’Io è nel mondo. Quello che più ci interessa è il fatto che Kant trascrive lo Spazio nella geometria, e il Tempo nell’aritmetica, preparando così la sua mossa: omogeneizzare l’esperienza e imprimerle una necessità che la metta al riparo dalla critica empiristica. A questo punto, abbiamo un mondo sensibile matematizzato e non bruto e casuale, ma resta da capire se l’intelletto abbia davvero dei principi apriori di carattere ampliativo e non solo analitico. Anche qui, la matematica gioca un ruolo prioritario. Si tratta però di dimostrare che ci sono giudizi sintetici apriori che non sono matematici, cioè appunto la Sostanza e la Causa, e che questi giudizi, come tali, non stanno nelle cose, ma nell’Io che le conosce. Sono le tre tesi ontologiche contenute nella Analitica. Incominciamo con la tesi dell’Io. Strawson osserva che le Categorie non “scaturiscono” dai Giudizi così naturalmente come pretende Kant313; e a giusto titolo ci si può chiedere perché a lui, invece, la derivazione apparisse così semplice. Credo che il motivo vada cercato nel condizionamento di un senso comune rispetto a cui Kant non è molto consapevole. In apparenza, abbiamo un passaggio logico dai Giudizi alle Categorie agli Schemi ai Principi. In realtà (d’accordo con il privilegio della fisica, visto che la logica trascendentale è di fatto la logica generale più la fisica, che orienta le inclusioni e le esclusioni), abbiamo un movimento che parte dai Principi, viene agli Schemi e di qui alle Categorie e ai Giudizi. Diciamo che se non ci fossero i Principi, sarebbe ben difficile ricavare proprio quelle categorie dalla tavola dei giudizi, o che comunque se ne potrebbero ricavare moltissime altre. La Deduzione trascendentale, che deve dimostrare come le categorie non solo siano indipendenti dall’esperienza, ma siano anche un ingrediente indispensabile per l’esperienza, si appoggia sistematicamente sulle risorse della fallacia trascendentale. Si può anzi dire 312 313

KrV B 275 ss. Strawson 1966: 65.

che ne è la versione esplicita. Strawson osserva a giusto titolo che la deduzione non è solo una argomentazione, ma anche “una spiegazione, una descrizione, una storia”314. Con questo sottolinea la stranezza di questa parte del libro di Kant, che mescola agli elementi logici di una argomentazione elementi psicologici ed epistemologici. Questo carattere misto, che la Deduzione condivide con lo Schematismo e con i Principi, può essere evidenziato dal seguente schema dello svolgimento dell’Analitica:

Giudizi Logica generale

Categorie Deduzione Schematismo Logica Epistemologia Psicologia trascendentale

Principi Ontologia

L’assunto manifesto di Kant è per l’appunto che dopo aver ricavato le categorie non dall’esperienza bensì dai giudizi, cioè dalla logica, si tratta di dimostrare la legittimità della applicazione delle categorie all’esperienza. L’argomento che viene svolto è che le condizioni di possibilità della conoscenza degli oggetti dell’esperienza sono condizioni di possibilità dell’esperienza. In questo, Kant si inoltra in una tesi che vale solo per una teoria della scienza e non per una teoria della esperienza, e questo è particolarmente visibile nella versione del 1781. Qui, con un argomento che richiama la tesi di Platone nel Teeteto, Kant sostiene che perché un oggetto sia conosciuto è necessario che sia percepito (sintesi della percezione), contenuto nella memoria o, come dice Kant, nella immaginazione (sintesi della riproduzione), e infine concettualizzato (sintesi della ricognizione). Nella sua presentazione, si tratta per l’appunto di un argomento di tipo epistemologico, che definisce i criteri minimali di una conoscenza. Tuttavia, visto che Kant muove da una identità non dimostrata tra scienza ed esperienza, ossia, come suggerisco, tra Epistemologia e Ontologia, l’argomento è anche una descrizione di come effettivamente le categorie rendano possibile l’esperienza. A livello di descrizione, tuttavia, la Deduzione non è affatto persuasiva. Non solo dà spago all’Idealismo trascendentale, ma provoca un conflitto tra Idealismo trascendentale e Realismo empirico. Da idealista 314

Strawson 1966: 74.

trascendentale, infatti, Kant sostiene che senza le categorie il mondo sarebbe un caos; ma da realista empirico afferma che se il mondo non fosse ordinato in maniera stabile, allora non potremmo conoscerlo315. Sempre in questo orizzonte, Kant parla316 della “sinossi del senso”, che fornisce una specie di quadro generale del mondo prima dell’intervento delle categorie. Questo spiega, per esempio, il comportamento animale, ma non si vede in che senso non dovrebbe spiegare il comportamento umano, se è vero che il tollerante Leibniz, con tutto che era razionalista, sosteneva che gli uomini agiscono senza ragionamento nel 99% dei casi, proprio come gli animali, mentre Kant prevede l’intervento dell’opinione vera accompagnata da ragione nel 100% dei casi. La Deduzione A è dunque un pezzo di teoria della scienza, e non è conclusiva quanto alla necessità delle categorie per l’esperienza. Nella Deduzione B, invece, Kant sviluppa i riferimenti alla immaginazione come mediazione tra percezione e intelletto presenti nella Deduzione A, e dà una base maggiormente psicologica al suo discorso, che risulta, a questo punto, più strettamente integrato con il capitolo sullo schematismo che segue la Deduzione. Il punto centrale della Deduzione B è il § 24, dove Kant dispiega il suo argomento psicologico. L’idea è che se l’unità dell’oggetto è anche unità della coscienza nella conoscenza di quell’oggetto317, allora esiste una facoltà, l’immaginazione, che media tra il soggetto e l’oggetto, unificando i concetti (che sono nel soggetto) e le sensazioni (che manifestano la presenza dell’oggetto). Kant insiste sul fatto che questa facoltà non è solo una risorsa empirica e riproduttiva, ma è produttiva, ossia è capace di determinare gli oggetti sovrapponendo su di essi l’unificazione che viene dall’intelletto. In effetti, Kant è abbastanza vago sulla natura di una simile immaginazione318, come lo sarà, lo vedremo tra poco, sul funzionamento dello schematismo. Questa facoltà è chiamata a dare una visibilità ai concetti, cioè produce una sintesi figurata (figürlich) che colora, 315

316 317 318

Come risulta, in modo manifesto, dal passo che segue: “Se il cinabro fosse ora rosso ora nero, ora leggero, e ora pesante [...] ne verrebbe che la mia immaginazione empirica non avrebbe mai l’occasione di accogliere, nel pensiero, con la rappresentazione del colore rosso il cinabro pesante” (KrV A 100-101). KrV A 97. Come Kant afferma nel § 16 e come ribadisce nel § 26. “Per ciò che l’immaginazione possiede di spontaneità, io la designo talvolta anche col nome di immaginazione produttiva” (KrV B 152).

diciamo così, la sintesi intellettuale, ossia l’unificazione concettuale dell’esperienza che viene dalle categorie. Ma troppi sono gli interrogativi aperti. Che cos’è questa immaginazione produttiva? Chi mette la figura individuale? Chi mette i colori nelle figure? Se i colori e le forme vengono dall’intelletto, non si tratta di un caso analogo alla costruzione geometrica? Se invece vengono dagli oggetti, in che modo si può parlare di una produttività della immaginazione e di un carattere determinante dei concetti? L’impressione complessiva è che la Deduzione, anche in questa versione, giochi troppo sul triplice significato dell’Io in Kant, come tempo, come forma del senso interno, come cogito, e che la spiegazione sia semplicemente rinviata allo Schematismo. A proposito degli schemi, cioè dei modi attraverso cui gli oggetti sono determinati da certi caratteri dei concetti, Kant ha tre tesi fondamentali: gli schemi sono diversi dalle immagini; sono metodi di costruzione; sono forme del tempo. Con la prima tesi, Kant risolve un problema tipico dell’empirismo, quello delle Idee Generali. Come Berkeley aveva obiettato a Locke, non si riesce a capire che cosa possa essere l’immagine generale di un cane. Al massimo, si può trattare di un “diagramma”, ossia di una immagine particolare che viene fatta valere come esempio per altri casi; Kant in sostanza riprende questo argomento, e parla dello schema come di un “monogramma”. Con la seconda tesi, si richiama alla questione della costruzione matematica. Noi partiamo da concetti e li costruiamo nella immaginazione così come i geometri costruiscono le loro figure. Teniamo intanto presente che il problema ha due volti. Da una parte, c’è il problema della sussunzione (come passo da un tavolo alla Sostanza?); dall’altra c’è il problema della costituzione (come passo dalla Sostanza a un tavolo?). Con questo si viene all’idea che gli schemi siano forme del tempo, il che in generale si capisce (Sostanza come permanenza, Causa come successione). La tesi però diventa meno chiara se cerchiamo di applicarla. Nella versione austera riferita a Sostanza e Causa, che è quella accettata da Strawson, si tratta di principi generalissimi il cui assunto di fondo è che se non disponessimo apriori di questi schemi temporali, la nostra esperienza, diversamente da ciò che sostiene Hume, non sarebbe possibile319. 319

Strawson 1966: 73.

Tuttavia, Kant, nel capitolo sullo schematismo320 e poi in altre considerazioni sparse nella Dottrina trascendentale del metodo321 dice parecchie altre cose che non si armonizzano con l’interpretazione austera. In particolare, tre riferimenti appaiono problematici: il richiamo allo schema come “monogramma”, l’esempio del piatto e del circolo, e quello dello schema del cane. Ciò che accomuna questi riferimenti è in primo luogo il fatto di rispondere a una esigenza molto meno astratta di quella enunciata nella interpretazione austera, e che di fatto risponde al bisogno, centrale per Kant come in generale per ogni teoria che voglia spiegare il modo in cui i concetti si riferiscono a oggetti, di passare dall’universale al particolare. In secondo luogo, gli esempi sono accomunati dal fatto che non si capisce proprio in che modo si possa parlare, a proposito di monogrammi, piatti e cani, di “forme del tempo”. Affrontiamo la questione più da vicino. Lo schema, sostiene Kant, sarebbe per l’appunto un “monogramma”, cioè – spiega – una di quelle silhouette che adoperano i fisionomisti, un cartoncino nero ritagliato da cui si ricava un profi lo. Qui Kant, come poi negli altri esempi, sta misurandosi con il problema di rendere meno vago lo schema, ma il risultato è di farne una idea generale solo un po’ camuffata. La stessa impressione si ha con il riferimento al piatto e al circolo, dove Kant, proprio all’inizio del capitolo sullo schematismo, sostiene che la rotondità del piatto lo rende omogeneo al concetto puro di circolo. E l’impressione si rafforza con il richiamo allo schema del cane, che sarebbe lo schema di un “quadrupede in generale” con cui posso riferirmi a cani concreti. È talmente palese che qui abbiamo a che fare con una idea generale che nel § 59 della Critica del giudizio, per i concetti empirici (come per l’appunto quello di piatto o di cane), Kant ritornerà a dire che non si tratta di schemi, ma di esempi, cioè, per l’appunto, di diagrammi e non di monogrammi. Ora, nella versione della Terza Critica, tutti i concetti empirici sono sensibilizzati attraverso esempi, mentre i concetti astratti, come “sostanza” e “dipendere” (cioè, “causa”) sono semplicemente regole per la riflessione; Kant ha dunque indebolito il ruolo del concetto, rendendolo una semplice funzione epistemologica, necessaria non per l’esperienza, ma per la riflessione su di essa. 320 321

KrV A 141 / B 180. KrV A 569-570 / B 597-598.

Ma nella Critica della ragion pura non può agire così, visto che sostiene che almeno alcuni concetti determinano apriori l’esperienza. Per cui, da una parte, fornisce delle determinazioni molto generali degli schemi, che sono quelli che corrispondono alla interpretazione austera322, e che si limitano a enunciare le definizioni di Sostanza, Causa, Azione Reciproca, Possibilità, Realtà ecc., aggiungendo che si tratta di forme del tempo. D’altra parte, dà per l’appunto delle indicazioni del tipo “piatto” o “cane” che vogliono spiegare il passaggio da questi principi astrattissimi all’esperienza. Questa tensione attraversa tutto il capitolo sullo schematismo, ed è aggravata dal fatto che, per motivare il riferimento dell’astratto al concreto, Kant si richiami di nuovo all’immaginazione, di cui peraltro dice che – così come del reale funzionamento dello schematismo – non sappiamo niente e forse non ne sapremo mai niente. Il problema, in generale, è che non è difficile pensare a un passaggio dal concetto puro di sostanza allo schema di quel concetto puro, sino all’individuo. Ma non è difficile nemmeno pensare al passaggio da concetto empirico di cane allo schema di quel concetto e di lì al cane. Quello che è difficile capire è in che modo il primo modello serva per l’esperienza, e il secondo abbia qualcosa a che fare con l’apriori, e soprattutto come il primo si attacchi al secondo, sicché il problema dello schematismo resta aperto a meno che non si voglia prendere per buona la storia della immaginazione trascendentale, che si può facilmente trascrivere nell’affermazione secondo cui può darsi che un giorno la scienza risolverà il rompicapo, ma per il momento non ne sappiamo assolutamente niente. Dopo questa lunga digressione sullo schematismo, veniamo alla tesi della Sostanza. Anche qui, si può dare una interpretazione austera, che ci vede l’espressione di un principio epistemologico per cui “l’esperienza dell’oggettivo richiede la possibile determinazione di rapporti temporali oggettivi”323. Ma, se si vuole entrare nel dettaglio, sorgono almeno tre tipi di problemi. Primo, la sostanza è sottodeterminata: buchi, ombre, riflessi, fosfeni e ritornelli sarebbero sostanze, nella ipotesi di Kant, visto che permangono nel tempo. Secondo, non vien detto né che cosa esattamente significhi “permanere nel tempo” (spesso sembra equivalere a “essere situato nello 322 323

KrV A 144-145 / B 183-185. Strawson 1966: 119.

spazio”), né esattamente quanto una cosa debba durare nel tempo per essere una sostanza (il che fa collassare la distinzione tra sostanza e accidenti). Terzo, “Sostanza” è una caratterizzazione chimica e fisica, non ecologica, giacché nell’esperienza noi non troviamo mai delle sostanze allo stato puro; inoltre, e soprattutto, chi non sappia nulla di sostanze può facilmente assistere a trasformazioni senza supporre che qualcosa permanga nel mutamento324. A proposito della tesi della Causa, infi ne, c’è, ed è molto forte, l’obiezione di Strawson, che mostra come Kant confonda la necessità materiale con la necessità intellettuale, cioè il fatto che ci siano cause nel mondo con il fatto che noi siamo capaci di riconoscerle e di spiegarle325. Si potrebbe aggiungere una seconda considerazione. Il fatto che si possano percepire delle pseudocausalità (per esempio, batto un pugno sul tavolo e fuori si accende un lampione, ciò che io avverto come causalità pur non credendoci) dimostra che la causalità non è una categoria intellettuale, dal momento che la vediamo senza pensare che sia vera, il che contraddice l’ipotesi dell’apriori. Se davvero fosse pensata e non intuita, noi non dovremmo sperimentare delle causalità che urtano con quanto sappiamo e pensiamo, o con la nostra esperienza. Si noti di passaggio che questa considerazione contraddice anche la versione empiristica, per cui la causalità sarebbe un’abitudine (in questa versione, per un po’ di tempo, mentre si crea l’abitudine, saremmo portati a non riconoscere nemmeno delle causalità vere).

1.4.7. L’ombra di Kant Non si tratta di prendere di mira uno dei più grandi libri della storia della filosofia, ma piuttosto di rivelarne l’influenza profondissima. Come si è già detto nella Introduzione326, la confusione tra ontologia ed epistemologia decretata da Kant – ma che di fatto traeva le somme di due secoli di riflessione della filosofia moderna da Cartesio in avanti – era destinata a far scuola almeno per i due secoli successivi. Gli 324 325 326

Strawson 1966: 118. Strawson 1966: 125. Cfr. supra 0.4.

idealisti, i positivisti, e anche figure atipiche come Nietzsche daranno per scontata l’identificazione tra essere e conoscere che aveva trovato una sistemazione così efficace (se non altro dal punto di vista formale) nella filosofia trascendentale, e questa identificazione permarrà anche in filosofie critiche nei confronti della scienza, come, tipicamente, l’ermeneutica del secondo Novecento. Non ripercorreremo in dettaglio le tappe di questa vicenda, che esula dagli intenti del nostro volume. Basterà, a titolo di esempio, dar conto brevemente delle ricadute della fallacia kantiana nella filosofia di Nietzsche.

Bibliografia ragionata 1. Studi generali sull’opera di Kant E. Cassirer, Kants Leben und Lehre, Berlin, Cassirer, 1918; Vita e dottrina di Kant, tr. it. di G.A. De Toni, Firenze, La Nuova Italia, 1977; ivi 19842 H. Rickert, Kant als Philosoph der modernen Kultur, Tübingen, Mohr, 1924 M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, Bonn, Klostermann, 1929; Kant e il problema della metafisica, tr. it. di M.E. Reina e V. Verra, Milano, Silva, 1962; Roma - Bari, Laterza, 1981; ivi, 19892 H.J. De Vleeschauwer, L’évolution de la pensée kantienne, Paris, Alcan, 1939; L’evoluzione del pensiero di Kant, tr. it. di A. Fadini, Roma-Bari, Laterza 1976 E. Husserl, Kant und die Idee der transzendentalen Philosophie, I (1923-1924), a c. di R. Boehm, Den Haag, Nijhoff, 1956; Kant e l’idea della filosofia trascendentale, tr. it. di Claudio La Rocca, Milano, il Saggiatore, 1990 P.F. Strawson, The Bounds of Sense. An Essay on Kant’s Critique of Pure Reason, London, Methuen, 1966; Saggio sulla critica della ragion pura, tr. it. di M. Palumbo, Roma - Bari, Laterza, 1985 N. Hinske, Die historischen Vorlagen der Kantischen Transzendentalphilosophie, “Archiv für Begriffsgeschichte”, 12 (1968): 86-113 A. Lamacchia, Le origini del pensiero critico da Wolff a Kant, Bari, Adriatica, 1972 M.S. Gram, a c. di, Interpreting Kant, Iowa City, University of Iowa Press, 1982 R.C.S. Walzer, a c. di, Kant on Pure Reason, Oxford, Oxford University Press, 1982 O. Höffe, Immanuel Kant, München, Beck, 1983; Immanuel Kant, tr. it. di S. Carboncini, Bologna, il Mulino, 1986; ivi, 20022

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2.3 L’analitica trascendentale L. De Coninck, L’Analytique trascendentale de Kant, Louvain-Paris, Nawelaerts, 1955 F. Barone, Logica formale e logica trascendentale, I, Da Leibniz a Kant, Torino, Edizioni di “Filosofia”, 1957 J. Bennett, Kant’s Analytic, Cambridge, Cambridge University Press, 1966 J. Hintikka, Logic, Language-Games and Information. Kantian Themes in the Philosophy of Logic, Oxford, Oxford University Press, 1973; Logica, giochi linguistici e informazione, tr. it. di M. Mondadori e P. Parlavecchia, Milano, Il Saggiatore, 1975 L. Scaravelli, L’analitica trascendentale. Scritti inediti su Kant, Firenze, La Nuova Italia, 1980 2.4 La deduzione trascendentale H.J. De Vleeschauwer, La déduction transcendantale dans l’oeuvre de Kant, 3 voll., Antwerpen - Paris - Den Haag, De Sikkel, 1934-37; riprod. New York, Garland, 1976 P. Chiodi, La deduzione nell’opera di Kant, Torino, Taylor, 1961 D. Heinrich, Identität und Objektivität: eine Untersuchung über Kants transzendentale Deduktion, Heidelberg, Winter, 1976 G.H. Lorenz, Das Problem der Erklärung der Kategorien. Eine Untersuchung der formalen Strukturelemente in der “Kritik der reinen Vernunft”, Berlin, de Gruyter, 1986 E. Forster, a c. di, Kant’s Transcendental Deductions. The Three Critiques and the Opus Postumum, Stanford, Stanford University Press, 1989 W.H. Bossart, Apperception, Knowledge and Experience, Ottawa, University of Ottawa Press, 1994 2.5 Immaginazione, schematismo trascendentale e analitica dei principi P. Salvucci, La dottrina kantiana dello schematismo trascendentale, Urbino, S.T.E.U., 1957 M. Heidegger, Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von der transzendentalen Grundsaetzen, Tübingen, Niemeyer, 1962; La questione della cosa: la dottrina kantiana dei principi trascendentali, tr. it. di V Vitiello, Napoli, Guida, 1989 G. Nagel, The Structure of Experience. Kant’s System of Principles, Chicago, University of Chicago Press, 1983 Y.A. Kang, Schema and Symbol. A Study in Kant’s Doctrine of Schematism, Amsterdam, Free University Press, 1985

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1.5. CRITICA di Tiziana Andina

1.5.1. Metafisica e morale Quanto forte sia la sovrapposizione tra ontologia ed epistemologia nel pensiero successivo a Kant è illustrato in modo esemplare dalla fi losofia di Friedrich Nietzsche (1844-1900)327, un outsider (di formazione era fi lologo) che, sotto l’impulso di libri diversamente ispirati al kantismo come Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) di Arthur Schopenhauer (1788-1860) e la Storia del materialismo (1866) di Friedrich Albert Lange (1828-1875), si è impegnato in una critica della metafisica tradizionale, considerata come “moralistica”, e ha successivamente abbozzato le linee di una ontologia fisicalistica, ispirata alle scienze del suo tempo. 327

Friedrich Wilhelm Nietzsche nasce a Röcken, presso Lipsia, il 15 ottobre 1844. Studia dapprima nel ginnasio di Pforta, per poi seguire i corsi universitari a Bonn e Lipsia sotto la guida del fi lologo Friedrich Ritschl, che procura al giovane studioso (Nietzsche nel 1869 non aveva ancora venticinque anni) una cattedra di lingua e letteratura greca presso l’Università di Basilea. Nietzsche insegna a Basilea dal 1869 al 1879. Al periodo di Basilea risalgono, oltre agli studi di carattere fi lologico, i suoi primi lavori fi losofici: La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872), Considerazioni inattuali (1873-1876), Umano, troppo umano (1878). A partire dal 1879 – anno in cui lascia l’insegnamento per ragioni di salute – vive con la pensione assegnatagli dall’Università, soggiornando sulla riviera italiana e francese e in Alta Engadina. Trascorre i mesi che precedono il crollo psichico (gennaio 1889) a Torino. Di questo periodo sono le opere della maturità: Il viandante e la sua ombra (1880), Aurora (1881), La gaia scienza (1882), Così parlò Zarathustra (1883-1885), Al di là del bene e del male (1886), Genealogia della morale (1887), Il caso Wagner (1888), Crepuscolo degli idoli (1888), L’Anticristo, Ecce Homo e Nietzsche contra Wagner (pubblicati postumi). La follia si manifesta in modo defi nitivo nei primi giorni del 1889.

L’impianto kantiano è manifesto tanto nella pars destruens quanto nella pars construens: sospettare la metafisica di moralismo è l’esito di una interpretazione maliziosa della Critica della ragion pratica, e del detto di Kant secondo cui aveva dovuto abbandonare il sapere per far spazio alla fede; rifondare la metafisica come scienza e attraverso la scienza, a sua volta, è il risultato di una interpretazione sin troppo rispettosa della Critica della ragion pura. Se si considera che Nietzsche non lesse mai né la Critica della ragion pura né la Critica della ragion pratica (a quanto pare, lesse solo una volta, e molto tardi, la Critica del giudizio), si ha modo di considerare quanto larga sia stata l’influenza della filosofia kantiana sul pensiero ottocentesco, e si capisce per quale motivo il ritorno a una ontologia non sistematicamente intrecciata con una epistemologia sia avvenuto, sullo scorcio del secolo, in ambienti fortemente venati di antikantismo, come la scuola fenomenologica che nasce in Austria sotto l’impulso di Franz Brentano328. Possiamo verificarlo facilmente. A partire da Umano, troppo umano (1878), Nietzsche prende a riflettere sulle contraddizioni intrinseche alla forma di vita platonico-cristiana 329 (per Nietzsche, infatti, il cristianesimo non sarebbe che un “platonismo per il popolo”) come mortificazione dell’esistenza terrena in nome di una vita ultraterrena330. Da questo atteggiamento di fondo – che Nietzsche analizzerà diffusamente nelle opere del decennio successivo, sino alla Genealogia della morale (1887) – è nato un “mondo morale” a cui gli uomini hanno affidato la ricerca di un fondamento stabile, di un riparo nei confronti delle incertezze della vita e del sapere. L’alternativa a questo mondo morale viene ricercata, non a caso, nella scienza. La scienza è stata finora l’eliminazione della mescolanza totale fra le cose, mediante ipotesi che “spiegano” tutto partendo dalla ripugnanza dell’intelletto per il caos. [...] La fisica risulta benefica per lo spirito; la scienza (come via per la conoscenza) riceve un nuovo fascino dopo l’eliminazione della morale331.

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Cfr. infra 2.1. Cfr. su questo tema Clark 1990 e Clark 1998-2004 (http://www.rep.routledge.com/article/DC057SECT4), Poellner 1995: 10 ss. e Schacht 1995: 356-357. Su questo tema cfr. Müller-Lauter 1971: 66-68 e Ferraris 1999: 53 e ss. Nietzsche 1906 (tr. it. 1992: § 594, 331-332).

1.5.2. Metafisica e scienza In effetti, la parte più consistente di quello che potremmo definire “l’abbozzo di una teoria” a cui Nietzsche affidava la pars construens del suo pensiero è contenuta in un testo pubblicato postumo dalla sorella, Elisabeth Förster Nietzsche, e dal suo discepolo Peter Gast: La volontà di potenza (1906)332. I concetti tradizionali di sostanza, causa, spazio e tempo vengono criticati in nome delle acquisizioni del sapere positivistico e, d’accordo con l’assunto di base della polemica nietzschiana, vengono messi sul conto di una commistione tra metafisica e morale. La nuova concezione del mondo. 1. Il mondo sussiste. Non diviene, non passa. O piuttosto: diviene, passa, ma non ha mai cominciato a divenire, né ha mai cessato di passare – si conserva nel divenire e nel passare [...]. 2. All’ipotesi di un mondo creato non dobbiamo badare neppure un istante [...]. L’ultimo tentativo di concepire un mondo che inizi fu compiuto recentemente e più volte con l’ausilio di un procedimento logico – per lo più, come ben s’indovina, per una recondita intenzione teologica333.

D’accordo con la scienza del suo tempo, che in questo riprendeva analisi proprie dell’empirismo britannico del diciottesimo secolo, Nietzsche avversa l’idea di una sostanza che funzioni come una sorta di “base di appoggio”, di substratum, per gli accidenti. Se la critica è banale, l’alternativa proposta da Nietzsche non manca di originalità, visto che si appoggia alla critica di Rudiger Boscovich (1711-1787)334 alle tesi di Newton in merito alla struttura della materia e alle leggi dell’interazione tra le particelle microscopiche. Nella teoria di Boscovich, che si richiama a Leibniz, quando parliamo della sostanza 332

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Per una trattazione approfondita dei problemi (e delle relative polemiche) relativi al materiale postumo nietzschiano si rimanda a M. Ferraris - P. Kobau, La questione dei testi, in Ferraris 1999: 279-304. Sul problema della Volontà di potenza in particolare, cfr. M. Ferraris, “Storia della volontà di potenza” in appendice a Nietzsche 1906: 597-732. Nietzsche 1906 (tr. it. 1992: § 1066, 559). Il gesuita Rudiger Boscovich è autore di una Theoria philosophiae naturalis (1758) a cui Nietzsche fa costante riferimento per la formulazione della sua idea di sostanza. Per una trattazione approfondita dell’importanza della fisica boscovchiana per Nietzsche cfr. Gori 2007.

ci riferiamo a dei centri di forza, privi di estensione, su cui la forza di gravità esercita l’attrazione a distanza. Così, per Nietzsche lettore di Boscovich, non esiste una sostanza estesa, ma esistono soltanto i centri di forza che vengono – essi soli – percepiti dai nostri organi di senso. Tutto il resto – per esempio la nostra idea delle cose e della loro permanenza nello spazio335 – è frutto di una costruzione mentale. La “cosa” in cui crediamo è solo inventata, un fermento aggiunto a diversi predicati. Se la cosa “agisce”, ciò significa: noi comprendiamo tutte le altre proprietà presenti ma momentaneamente latenti come una causa del fatto che ora appaia una singola proprietà; ossia, prendiamo la somma delle sue proprietà – x – come causa della proprietà x: il che è completamente stupido e folle!336.

Dopo aver sostituito la forza alla sostanza, si rende necessaria una spiegazione della natura della forza. Nella ricostruzione nietzschiana la forza è ciò che rimane dopo che il mondo esterno è stato privato della sostanza, almeno nel senso che la sostanza non è più l’oggetto diretto delle nostre percezioni, ma diventa al più – come del resto emerge dalle ricerche del fisico e fisiologo Hermann von Helmholtz (1821-1894) – un’utile ipotesi mentale. La forza costituisce l’oggetto proprio delle nostre percezioni: nello specifico, stando alle conclusioni helmholtziane accolte da Nietzsche, gli organi di senso entrano in contatto con forze che non forniscono informazioni qualitative sugli oggetti, ma che permettono comunque al cervello di elaborare le inferenze che sono alla base delle nostre conoscenze337. Le cose, al di là della loro conformazione visibile, sono la risultanza dei rapporti tra le forze o, anche, dei rapporti tra i centri di forza. La “cosa in sé” è un controsenso. Se immagino di abolire tutte le relazioni, le “proprietà”, le “attività” di una cosa, la cosa non rimane: infatti, la cosalità è una nostra finzione, è aggiunta da noi per bisogni logici, allo scopo di definire, di intenderci338.

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Cfr., per esempio, Nietzsche 1906 (tr. it. 1992: § 561, 309). Nietzsche 1906 (tr. it. 1992: § 561, 309). Nietzsche 1882 (tr. it. 1970: § 111, 121); Id. 1906 (tr. it. 1992: § 569, 313). Nietzsche 1906 (tr. it. 1992: § 558, 308).

Ne deriva che l’io è interpretabile come un aggregato di forze che tentano reciprocamente di imporsi; nel linguaggio nietzschiano il soggetto dunque è “volontà di potenza”. Soggetto è fingere che molti nostri stati uguali siano l’effetto di un sostrato: ma noi abbiamo prima creato la “uguaglianza” di questi stati: il dato di fatto è il rendere uguali e sistemare questi stati, non la loro uguaglianza339.

Veniamo ora brevemente al concetto di causalità. L’idea nietzschiana consiste – anche in questo caso in un accordo forse inconsapevole con l’empirismo britannico – nel negare che in natura esista una qualche forma di connessione causale tra gli eventi. Nietzsche considera la causa come un evento, isolato dal continuum, che ha la possibilità di influenzare un altro evento, separato ed esterno rispetto al primo. Perciò è dell’idea che gli esseri umani non sperimentano mai causalità reali, ma soltanto interazioni tra fenomeni che vengono interpretate come cause ed effetti. I concetti di “spazio” e di “tempo” sono affrontati in modo analogo. Dopo aver eliminato la sostanza, Nietzsche non ha più la necessità di presupporre uno spazio che contenga la materia. Lo spazio dunque, inteso come un contenitore (finito o infinito) degli oggetti, non esiste all’infuori della nostra attività rappresentativa; esiste invece la rappresentazione che ce ne facciamo. È solo per le necessità della nostra organizzazione della realtà che siamo costretti a introdurre il concetto di divisione spaziale, altrimenti le cose verrebbero percepite come un continuum indefinito e indistinto. Che dalla soluzione di questi problemi relativi alla struttura fisica dell’universo Nietzsche ritenesse di trarre delle indicazioni morali e addirittura politiche, fa riflettere su quanto l’epistemologia fosse penetrata nel mondo filosofico post-kantano. Il realismo fenomenologico che si manifesta pressappoco nello stesso periodo, nella forma non di un “ritorno a Kant”, ma addirittura di un risalimento dietro a Kant, si presenterà, sotto il profilo ontologico, come una ventata di aria fresca.

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Nietzsche 1906 (tr. it. 1992: § 485, 273).

Bibliografia ragionata 1. Introduzioni generali G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Roma-Bari, Laterza, 1985 M. Ferraris, Nietzsche e la filosofia del Novecento, Milano, Bompiani, 1989 C. Gentili, Nietzsche, Bologna, il Mulino, 2001 2. Scienza e metafisica A.C. Danto, Nietzsche as Philosopher, New York, MacMillan, 1965; Nietzsche as Philosopher. Extended Edition, New York, Columbia University Press, 2005 W. Müller-Lauter, Der Organismus als innerer Kampf. Der Einfluss von Wilhelm Roux auf Friedrich Nietzsche, “Nietzsche Studien”, 7 (1978): 189-223; L’organismo come lotta interna, tr. it. di F. Iurlano, in G. Campioni - A. Venturelli, a c. di, La “biblioteca ideale” di Nietzsche, Napoli, Guida, 1992 M. Clark, Nietzsche on Truth and Philosophy, Cambridge - New York, Cambridge University Press, 1990 A. Moles, Nietzsche’s Philosophy of Nature and Cosmology, New York, Lang, 1990 B.E. Babich, Nietzsche’s Philosophy of Science, Albany, State of New York Press, 1994; Nietzsche e la scienza: arte, vita, conoscenza, tr. it. di F. Vimercati, Milano, Cortina, 1996 P. D’Iorio, La linea e il circolo. Cosmologia e filosofia dell’eterno ritorno in Nietzsche, Genova, Pantograf, 1995 P. Poellner, Nietzsche and Metaphysics, Oxford, Oxford University Press, 1995 B.E. Babich - R.S. Cohen, a c. di, Nietzsche and the sciences, 2 voll., Dordrecht-London, Kluwer, 1999 F. Moiso, Nietzsche e le scienze, Milano, CUEM, 1999 T. Andina, Il problema della percezione nella filosofia di Nietzsche, Milano, AlboVersorio, 2005 M. Ferraris, a c. di, Nietzsche, Roma-Bari, Laterza, 20052 R. Nola, Abandoning Science and Truth, or Reclaiming Science and Truth from Nietzschean Ascetic Ideals?, in T. Andina, a c. di, Nietzsche dopo il postmoderno, fasc. monogr. “Rivista di estetica”, n.s., 28 (2005): 199-223 E. Steinhart, Nietzsche on Identity, in T. Andina, a c. di, Nietzsche dopo il postmoderno, fasc. monogr. “Rivista di estetica”, n.s., 28 (2005): 241-255

2. FENOMENOLOGIA

2.1. STATI DI COSE di Alessandro Salice

2.1.1. La scuola di Brentano All’espressione “scuola di Brentano” possono venire ascritti due differenti significati. Il primo è di natura prettamente storica e mira a circoscrivere l’insieme degli autori che in modo più o meno diretto sono entrati in contatto con Franz Brentano (1838-1917). A tal riguardo vanno menzionati soprattutto: Christian von Ehrenfels (1859-1932), Anton Marty (1847-1914), Alexius Meinong (1853-1920), Edmund Husserl (1859-1938), Carl Stumpf (1848-1936), Kazimierz Twardowski (1866-1938). In questo primo senso la scuola di Brentano ha dominato la scena filosofica nell’impero asburgico tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo e costituisce – insieme alla più tarda filosofia del Wiener Kreis1 – una componente basilare di quella che viene ormai comunemente denominata “filosofia austriaca”2. In quest’espressione l’attributo “austriaco” non deve essere inteso in senso meramente geografico, tant’è che, ad esempio, molti filosofi ‘austriaci’ non sono di nazionalità austriaca. È proprio questo il caso di Brentano che nasce nel 1838 a Marienberg am Rhein, nell’attuale Land tedesco del Rheinland-Pfalz, e che si forma dapprima a Monaco e poi a Berlino, presso Adolf Trendelenburg (1802-1872). Brentano si sposta successivamente a Würzburg, dove nel 1864 prende gli ordini e dal 1866 inizia a insegnare (tra gli allievi di questo periodo vanno ricordati Marty e Stumpf). Anche a causa della sua avversione alla tesi dell’infallibilità papale (alla quale dà voce in un pamphlet del 1869) egli abbandona nel 1873 il sacerdozio e si trasferisce l’anno seguente a Vienna, rinunciando così alla cattedra ottenuta a Würzburg. Durante il ventennio d’insegnamento viennese, 1 2

In merito al circolo viennese, cfr. anche infra 3.3. Cfr. B. Smith 1994.

Brentano, sebbene nel ruolo di semplice Privatdozent, riuscirà a riunire attorno a sé altre brillanti personalità, le quali ebbero per lo più maggiore successo accademico del loro maestro: Twardowski3 fu attivo a Leopoli, Ehrenfels4 e Marty5 a Praga, Meinong6 a Graz, Stumpf7 a Berlino, Husserl8 a Halle, Gottinga e infine Friburgo. Anche dal punto di vista delle pubblicazioni, gli allievi furono più produttivi del maestro. Buona parte delle opere di quest’ultimo sono state infatti pubblicate postume e spesso sono riedizioni di lezioni o di annotazio3

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Twardowski nasce a Vienna nel 1866. La sua formazione accademica incomincia nella capitale austriaca insieme a Brentano, con cui si addottora nel 1892. Dopo due periodi di studio a Lipsia con Wundt e a Monaco con Stumpf, consegue la venia legendi a Vienna nel 1894. Dal 1895 inizia a insegnare a Leopoli prima come professore straordinario, poi dal 1898 come professore ordinario. Muore a Leopoli nel 1938. Nato nel 1859 a Rodaun, in Austria, Ehrenfels entra in contatto con Brentano e Meinong durante i suoi studi viennesi. Nel 1885 si addottora a Graz sotto la supervisione di quest’ultimo. Lungamente indeciso se perseguire una carriera da compositore, decide infine di abilitarsi a Vienna nel 1888. Dal 1896 è attivo come professore all’Università di Praga. Muore nel 1932 a Lichtenau in Bassa Austria. Marty nasce nel 1847 a Schwyz, in Svizzera. Inizia gli studi seminariali a Mainz, per poi proseguire la formazione fi losofica a Würzburg a fianco di Brentano con cui per tutta la vita intratterrà uno stretto legame d’amicizia. Presi gli ordini nel 1869, segue le scelte del maestro e abbandona anch’egli il sacerdozio nel 1870. Nel 1875, dopo aver conseguito l’abilitazione a Gottinga con la supervisione di Rudolph Hermann Lotze (1817-1881), diventa professore prima all’Università di Czernowitz e in seguito all’Università di Praga, dove muore nel 1914. Per la biografia di Meinong, cfr. infra 2.2. Stumpf nasce a Wiesentheid, in Baviera, nel 1848. A Würzburg segue i corsi di Brentano con cui stringe amicizia. È sotto consiglio di quest’ultimo che sceglie di proseguire gli studi a Gottinga: qui si addottora nel 1868 con Lotze e sempre qui consegue due anni dopo l’abilitazione. Successore alla cattedra di Brentano a Würzburg dal 1873, la sua attività di professore si sviluppa poi a Praga (dal 1879), a Halle (dal 1884) e a Monaco (dal 1889). Dal 1894 insegnerà infine a Berlino dove muore nel 1936. Husserl nasce a Proßnitz, in Moravia, nel 1859. Dopo una formazione orientata prevalentemente alla matematica e alle scienze esatte, dal 1883 al 1886 approfondisce i suoi studi di fi losofia prima a Vienna in stretto contatto con Brentano e, poi, dal 1886, a Halle insieme a Stumpf. A Halle consegue la venia legendi e insegna fino al 1901 come Privatdozent. Dal 1901 è professore straordinario a Gottinga e dal 1916 professore ordinario a Friburgo, dove succede al neokantiano Heinrich Rickert (1863-1936). Muore a Friburgo nel 1938.

ni. Tra i lavori di maggiore rilevanza per i temi che verranno trattati in questa sede vanno evidenziati: La psicologia dal punto di vista empirico (1874), Verità ed evidenza (1930), La dottrina del retto giudizio (1956). Lo sviluppo delle tesi principali avanzate in questi testi sarà posto in confronto con gli scritti di Meinong9 e di Husserl10. A fianco di questo primo significato, puramente storico, ne va tuttavia riconosciuto un altro. Tutti gli autori sopra citati hanno dato vita a loro volta a scuole di pensiero che in modo più o meno marcato si distanziano dalle tesi di Brentano11. In che senso, allora, è possibile ricondurli tutti a un minimo comune denominatore e raggrupparli sotto un’unica scuola? A tal fine non bastano di certo circostanze storiche o coincidenze cronologiche, ma risulta necessario rintracciare dei criteri di natura filosofica e sistematica. A questo proposito, va sottolineato che non è tanto la comunanza delle teorie elaborate o dei temi trattati a dare unità alla scuola – questi ultimi sono peraltro molto ampi e ricoprono ambiti disciplinari differenti come, per esempio, la psicologia, la logica, la linguistica, la gnoseologia, la teoria dei valori, oltre, ovviamente, all’ontologia – quanto soprattutto il particolare tipo d’approccio all’analisi di queste problematiche. Il metodo d’analisi di tutti questi fi losofi è infatti ben delineabile e si ispira fortemente all’impostazione brentaniana. Esso si può riassumere nella condivisione dell’ideale di una filosofia scientifica, nel realismo ontologico di fondo, nell’attenzione al fondamento empirico della riflessione e all’esattezza del linguaggio e, infine, in un antikantismo radicale. Tutti aderiscono pertanto all’idea per la quale il soggetto riflettente si trova di fronte una realtà ordinata e stabile, di cui la ricerca filosofica deve rendere conto nel modo più preciso possibile e con un ricorso costante e qualificante all’osservazione empirica. Questi caratteri distintivi contrappongono la scuola di Brentano alla filosofia classica tedesca di matrice speculativa e vengono in buo9

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Di rilievo i suoi: Sulla teoria dell’oggetto (1904), Sulle Assunzioni (1902; 19102), Su possibilità e probabilità (1915). In particolare, con Oggetti intenzionali (1894), Ricerche Logiche (1900-1901) ed Esperienza e giudizio (1939). Twardowski diede vita alla scuola logica di Leopoli e Varsavia (cfr. infra 2.6.1), Ehrenfels e Stumpf contribuirono alla nascita della Gestaltspsychologie berlinese, Meinong fondò la scuola di Graz e Husserl la fenomenologia tedesca, Marty influenzò le ricerche linguistiche di Karl Bühler (1879-1963) e Roman Jakobson (1896-1982).

na parte fatti propri anche da autori, che, sebbene lavorino nel seno della filosofia brentaniana, non hanno mai intrattenuto un contatto diretto con Brentano stesso. È il caso di Adolf Reinach (1883-1917)12, l’ultimo autore di cui verranno ricostruite le tesi in merito alla teoria del giudizio di stampo brentaniano. In quanto allievo di Husserl, Reinach non viene solitamente incluso nella scuola di Brentano, e ciò trova giustificazione unicamente se si considera la prima accezione di quest’espressione e non la seconda. In Reinach si ritrovano infatti tutti gli elementi che caratterizzano la riflessione di declinazione brentaniana, anche se molti di questi non riescono a trovare un’adeguata trattazione per la morte prematura dell’autore13.

2.1.2. Brentano Tanto il ritorno ad Aristotele e all’aristotelismo medioevale, quanto i lavori di Cartesio e di Locke14 sono i punti di riferimento scelti da Brentano per il suo progetto filosofico di elaborare una psicologia capace, da un lato, di raggiungere i criteri di esattezza delle scienze empiriche e, dall’altro, di adempiere una funzione fondativa per la riflessione metafisica. Il compito di elaborare una tale psicologia presuppone innanzitutto la definizione del suo oggetto di studio: questo è l’ambito dello psichico, il cui carattere essenziale è costituito dall’intenzionalità. Con “intenzionalità” si intende quella particolare proprietà tale per cui un fenomeno si dirige, mira o tende a un altro fenomeno. Ad esempio, la percezione di un oggetto è un fenomeno intenzionale nella misura in

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Reinach nasce nel 1883 a Mainz. La sua formazione accademica comincia a Monaco dove studia diritto e fi losofia e dove entra a far parte del circolo di discussione fondato da Theodor Lipps (1851-1914). Dopo il conseguimento della Promotion nel 1904, decide di proseguire la carriera fi losofica a fianco di Husserl a Gottinga, abilitandosi nel 1909 e iniziando a svolgere attività didattica in veste di Privatdozent. Arruolatosi allo scoppio della prima guerra mondiale, cade al fronte nel 1917. Di Reinach tre opere in particolare possono essere indicate come fondamentali per i nostri temi: Sulla teoria del giudizio negativo (1911a), L’interpretazione di Kant del problema humeano (1911b) e I fondamenti a priori del diritto civile (1913). Antonelli 1996: 330-336; B. Smith 1994: 35-45.

cui la percezione, quale vissuto psichico, è diretta o mira all’oggetto15. Dal momento che l’intenzionalità definisce lo psichico, lo psichico è intenzionale ed esso si dirige verso qualcosa. Ciò a cui l’intenzionalità mira può essere chiamato il correlato oggettuale dell’atto intenzionale. Quando, ad esempio, si percepisce, si desidera o si giudica una rosa, la percezione, il desiderio e il giudizio sono atti intenzionali che mirano al medesimo correlato oggettuale (la rosa). La tesi brentaniana dell’intenzionalità lascia sfortunatamente adito a diverse interpretazioni. Brentano non chiarisce infatti in maniera definitiva quale natura ascrivere all’intenzionalità e al suo correlato oggettuale: egli dapprima la ritiene una relazione, per poi connotarla solo come una finzione di relazione16. Se l’intenzionalità è una relazione a due termini, allora essa richiede due termini reali: da un lato la coscienza e dall’altro un oggetto trascendente alla coscienza. Se invece l’intenzionalità non è una relazione, allora essa richiede un contenuto dell’atto solo immanente alla coscienza. A seconda quindi di come si interpreta la natura dell’intenzionalità, il suo correlato oggettuale può essere inteso come un oggetto o come un contenuto. Tale confusione (agevolata inoltre dall’uso ambiguo dei termini di “contenuto” e “oggetto”) rischia di inficiare di psicologismo i risultati di Brentano; essa – in altre parole – non permette di comprendere se le nostre conoscenze sono state ottenute dal mondo oppure soltanto dalla nostra coscienza del mondo. Sarà per evitare il rischio di psicologismo che gli allievi di Brentano distingueranno – tutti in modo differente, come vedremo – tra contenuto e oggetto nella struttura del vissuto intenzionale. Affermare che psichico e intenzionale hanno la stessa estensione non significa che all’interno della sfera psichica non esistano differenze di specie. Brentano infatti rileva tre tipi fondamentali di atti intenzionali che sono tra di loro interdipendenti, eppure diversi: si tratta della rappresentazione, del giudizio e dei vissuti di amore e odio17. Egli stabilisce inoltre il cosiddetto principio del necessario fondamento rappresentazionale, per il quale sia il giudizio sia i vissuti di amore 15

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Viene spesso sottolineato il legame della tesi brentaniana della intenzionalità con tesi affi ni tardo-medioevali. A riguardo cfr. Tachau 1988; Perler 2002. Brentano 1874 (1924-19282: 134; tr. it. 1997: 118). Per una ricostruzione delle posizioni di Brentano e delle loro varie letture interpretative, cfr. Antonelli 1996: 367-389. Brentano 1874: 256-265 (tr. it. 1997: 38-45).

e odio presuppongono sempre una rappresentazione18. Questo risulta intuitivamente evidente, se si pensa che non si può giudicare: (1) la rosa è rossa senza presupporre la rappresentazione di una rosa, così come non si può amare o odiare un oggetto senza che tale oggetto sia stato prima rappresentato. La rappresentazione è quindi la base necessaria e fondamentale per la realizzazione degli altri atti intenzionali ed essa può essere sensibile o concettuale: un esempio del primo caso è la rappresentazione della rosa, un esempio del secondo caso è la rappresentazione del rosso. Se ogni atto intenzionale presuppone una rappresentazione, si potrebbe in prima battuta pensare che il giudizio non sia altro che la sintesi di due rappresentazioni: quella del soggetto e quella del predicato. Questa teoria, che potrebbe essere chiamata “teoria combinatoria del giudizio” – sostenuta tra i contemporanei di Brentano soprattutto da John Stuart Mill (1806-1873) – viene tuttavia radicalmente criticata da Brentano19. Secondo tale concezione il soggetto, nel giudicare, collega o separa due rappresentazioni. Così, ad esempio, le due rappresentazioni della rosa e del colore rosso possono essere collegate dal soggetto tramite la copula – è il caso del giudizio (1) – oppure separate tramite una negazione. Se il collegamento o la separazione corrispondono a come stanno le cose, il giudizio sarà vero, altrimenti sarà falso. Ebbene, afferma Brentano, un’attenzione maggiore al fenomeno psichico del giudizio ci può facilmente mostrare come questa posizione non sia quella corretta. Il soggetto infatti, nel giudicare, non compie alcun atto di sintesi. Questo risulta evidente nei casi di predicazioni esistenziali come (2) esiste una rosa o anche nei casi dei cosiddetti giudizi impersonali, ad esempio (3) piove. In (2) non compare un predicato (e vedremo a breve in che senso), mentre in (3) non compare un soggetto. La considerazione di questi 18 19

Ivi: 348-350 (tr. it. 1997: 112-114). Ivi: 271 ss. (tr. it. 50 ss.).

due casi mette fuori gioco la prospettiva combinatoria. Il giudicare è piuttosto un vissuto che si realizza su una rappresentazione, esso è un altro modo di rapportarsi all’oggetto della rappresentazione e consiste nell’essere convinti e affermare (o anche accettare, riconoscere – Anerkennen) l’oggetto della rappresentazione oppure nel negarlo (o anche rifiutarlo – Verwerfen). Affermazione e negazione sono una forma di credenza (Brentano usa il termine inglese “belief ”) e questa è la caratteristica principale di un atto di giudizio di contro a un atto di rappresentazione. I giudizi (ma non le rappresentazioni) sono pertanto sempre positivi o negativi a seconda che un oggetto venga affermato o negato. Sulla base di questa premessa psicologica ogni giudizio categorico può essere riformulato nei termini di un giudizio esistenziale, così che sulla rosa rossa, in quanto oggetto di rappresentazione, possono articolarsi due giudizi contraddittori quali (4) la rosa rossa esiste e (5) la rosa rossa non esiste. Questa posizione si contrappone chiaramente alla teoria combinatoria, dal momento che essa nega che due rappresentazioni vengano associate da un soggetto, ma prevede unicamente che su un atto di rappresentazione si sovrapponga un atto di giudizio. La rosa rossa viene rappresentata e su di essa si muove un altro tipo di riferimento intenzionale che la può affermare (4) o negare (5). “Esiste” ha pertanto solo un uso sinsemantico, ovvero, preso isolatamente, non denota alcunché, ma esprime unicamente la qualità positiva o negativa del giudizio20. Oltre a rifiutare la prospettiva combinatoria, Brentano rifiuta anche l’idea che il giudizio sia un atto proposizionale: il giudicare infatti mira unicamente all’oggetto della rappresentazione e non esiste alcuna ulteriore entità astratta di natura proposizionale a cui esso si rapporti 21. 20 21

Ivi: 284 (tr. it. 59). Brentano tuttavia ammetterà – sebbene solo in una breve fase della sua riflessione – l’esistenza di oggetti proposizionali, cfr. Chrudzimski e Smith 2004: 208 ss.

D’altra parte, se quella esistenziale è la forma fondamentale del giudizio, allora ogni giudizio (sia esso categorico o ipotetico) deve poter essere trasformato in forma esistenziale. Nel caso di un giudizio universale affermativo: (6) tutti gli S sono P. Brentano argomenta che la forma originaria di (6) è una negazione: (7) S che non sono P non esistono. Nel caso poi di un giudizio particolare affermativo: (8) Alcuni S sono P Brentano individua (9) un S che è P esiste come la parafrasi adatta per (8). Queste parafrasi esistenziali vengono infine applicate anche alle negazioni di entrambi i giudizi (universali negativi e particolari negativi). Partendo da questa posizione epistemologica e cognitiva, Brentano getta quindi le basi per una riforma della sillogistica classica: di questo progetto si farà carico un altro suo allievo, Franz Hillebrand (1863-1926), nel suo Le nuove teorie delle deduzioni categoriche (1891). Ci si può chiedere a questo punto in virtù di che cosa un giudizio possa essere ritenuto vero o falso. Se infatti la rappresentazione e il giudizio si dirigono verso il medesimo oggetto, quale sarà l’elemento che rende un giudizio vero o falso? Brentano non fa propria una teoria corrispondentista della verità e risponde al problema introducendo un carattere d’atto capace di rendere conto della verità di un giudizio. Quando un giudizio viene infatti enunciato in modo evidente, esso deve essere considerato come un giudizio vero. L’evidenza può essere tuttavia garantita soltanto per giudizi riguardanti la percezione interna – ma non quella esterna – e per gli assiomi (giudizi che possono essere considerati come verità di ragione, e che sono evidenti unica-

mente in forza dei concetti presenti in essi22). Il principio di evidenza corrisponde, infine, a un criterio di verità: l’evidenza infatti – secondo Brentano – è in grado di rivelare quali giudizi sono veri, mentre il principio corrispondentista elabora tutt’al più una definizione della verità, ma esso non è in grado di presentarne alcun criterio.

2.1.3. Meinong23 Già nel 1890 nella Logik che Alois Höfler (1853-1922) scrive sotto la supervisione di Meinong si rileva il problema seguente: mentre con il termine “contenuto” di un atto intenzionale si intende sempre un’entità interna al soggetto, con quello di “oggetto” si può intendere a un tempo questa entità immanente e l’oggetto trascendente all’atto24. È però solo nel 1894 che, per la prima volta, Twardowski farà valere nel saggio Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle rappresentazioni: una ricerca psicologica una differenza teorica fondamentale tra atto, contenuto e oggetto in un vissuto intenzionale. Al lavoro di Twardowski si richiama anche Meinong nel suo testo del 1899 (Sugli oggetti di ordine superiore e il loro rapporto con la percezione interna)25, dove egli fornisce una nuova definizione per la distinzione operata dal filosofo polacco. La teoria di quest’ultimo ascrive infatti al contenuto un valore semantico precipuo (esso corrisponde al modo con cui un oggetto si presenta alla coscienza), ma soffre d’un fraintendimento di fondo: il contenuto viene infatti descritto come un’immagine dell’oggetto (quest’ultima tesi verrà criticata con forza soprattutto da Husserl 26). A Meinong risultano estranee entrambe le posizioni. Il contenuto è una parte dell’intero vissuto psichico e, in quanto tale, esso ha natura psichica e serve all’apprensione dell’oggetto (per questo motivo Meinong parla di contenuto “psichico” o anche “psicologico” e non di contenuto logico27), ma non corrisponde a un modo del riferimento all’oggetto. Esso viene definito unicamente come quella parte del 22 23 24

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Brentano 1956: 141 ss. Per un’esposizione più generale delle posizioni di Meinong, cfr. infra 2.2. Per una ricostruzione storica di questo intreccio teorico, cfr. Marek 2001: 262-263. Meinong 1899: 185 (GA II: 381; tr. it. 2002: 159). Cfr. Husserl 1894. Meinong 1902; 19102: 277 (GA IV: 277); 1915: 163, n. 3 (GA VI: 163, n. 3).

vissuto che varia o resta costante a seconda del variare o del restare costante dell’oggetto appreso28 e viene inoltre ascritto non soltanto alla rappresentazione, bensì a tutti gli atti intenzionali. A prescindere quindi da quale interpretazione si vuole dare alla tesi dell’intenzionalità di Brentano, la distinzione tra contenuto e oggetto nella struttura del vissuto ne costituisce una chiarificazione, dal momento che permette di concludere che il correlato oggettuale di un atto intenzionale è un elemento trascendente la coscienza, evitando così di incorrere nella confusione psicologista. In quanto atto intenzionale, anche il giudizio ha un contenuto psichico. Eppure, se il giudizio si rapporta al medesimo oggetto della rappresentazione – come ha argomentato Brentano – il contenuto del giudizio deve essere identico al contenuto della rappresentazione. È però proprio vero, allora, che il giudizio ha come suo oggetto precipuo il medesimo oggetto della rappresentazione? Si immagini che una persona A comunichi a una persona B che la rosa non è rossa. Di cosa propriamente è venuto a conoscenza la persona B? Certamente la sua conoscenza coinvolge un qualche fatto riguardo a una rosa. Eppure quale è questo fatto? Secondo Meinong si può rispondere a questa domanda soltanto enunciando una subordinata oggettiva: B sa “che la rosa non è rossa”. La predicazione riguardante l’essere della rosa non si può inoltre ridurre a una predicazione esistenziale29, in essa non è messa in discussione l’esistenza della rosa o la sua non esistenza, bensì unicamente il fatto che essa (nel nostro esempio) non è rossa. Questa posizione risulta evidente nei casi di giudizi che vertono su oggetti che non esistono30. Enunciare che (10) il cerchio quadrato è quadrato non significa affermare l’esistenza di un cerchio quadrato, ma solo il suo essere quadrato. Eppure, a cosa si riferisce la subordinata “che la rosa non è rossa”, che cosa viene, in altri termini, appreso da un atto di giudizio? Secondo Meinong si tratta di un oggetto particolare che 28 29

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Meinong 1917: 63 (GA III: 347). Una tesi presente in Meinong già prima dell’elaborazione della sua teoria degli oggetti e dell’accettazione di oggetti non esistenti, cfr. Meinong 1892: 450-452. A questo riguardo, cfr. infra 5.3.

egli chiama “obbiettivo”. L’obbiettivo è l’oggetto eminente dell’atto di giudizio ed esso non può essere afferrato da un atto di rappresentazione (rappresentazioni possono afferrare unicamente obbietti)31. Il giudicare viene inteso da Meinong come la somma di due momenti differenti: da un lato la convinzione che innerva l’intero vissuto, dall’altro l’asserzione con cui l’atto di giudizio si compie e che può essere o una affermazione o una negazione. La convinzione ha una natura graduale, giacché si può affermare qualcosa con più o meno forza. Nel caso in cui un’affermazione o una negazione venga realizzata senza una convinzione che l’accompagni, allora la coscienza non realizza più un atto di giudizio, bensì un atto di assunzione32. Giudizio e assunzione sono pertanto due atti differenti, il primo richiede necessariamente un grado di convinzione, il secondo non ne presenta alcuno, entrambi però hanno obbiettivi come correlati oggettuali. Si proceda ora alla descrizione dell’obbiettivo: Meinong ne individua due tipi fondamentali. Il primo viene chiamato “obbiettivo di essere-così” e ha la forma linguistica “che A è B”, il secondo viene chiamato “obbiettivo di essere” e ha la forma linguistica “che A è”. Il termine di “essere” assume in Meinong due differenti significati, essere è o esistenza (che è propria di tutti gli oggetti temporali) oppure sussistenza (che è propria di tutti gli oggetti atemporali). Esempi per oggetti esistenti sono la rosa, il tavolo, il sole ecc. Esempi per oggetti sussistenti sono il numero 4, il quadrato, il diverso tra rosso e blu33, ma anche l’obbiettivo “che la rosa è rossa” (nel caso in cui si stia parlando di un fatto, ovvero, di un obbiettivo fattuale o sussistente). Nell’introdurre due tipi di obbiettivi si nota che Meinong dà una base teorico-oggettuale al suo rifiuto della tesi esistenzialista di Brentano: non tutti i giudizi sono giudizi esistenziali, perché non tutti gli obbiettivi sono obbiettivi di essere. Oltre a ciò, Meinong ritiene che gli obbiettivi di essere-così sono indipendenti dagli obbiettivi di essere34 (una tesi che passa sotto il nome di “principio di indipendenza dell’esser-così 31

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Il termine generale di “oggetto (Gegenstand)” denota quindi in Meinong tanto la classe degli obbietti (Objekte) quanto quella degli obbiettivi (Objektive). Meinong 1902; 19102: 1-20; 106-130 (GA IV: 1-20; 106-130). Da non confondersi con la diversità tra rosso e blu, che – invece – è un obbiettivo, cfr. Meinong 1902; 19102: 282 s. Non vale il contrario: obbiettivi di essere sono dipendenti da obbiettivi di essere-così. Un cerchio quadrato non può essere a causa delle sue determinazioni contraddittorie di essere-così.

dall’essere”35), dal momento che molti oggetti non sono (non esistono e non sussistono), eppure di essi si può comunque predicare un essere-così36. Cosa significa però predicare un essere o un essere-così di un oggetto? Ciò significa predicare determinazioni degli oggetti: proprietà degli oggetti. Gli obbiettivi sono queste proprietà e costituiscono a fianco degli obbietti le fondamenta ontiche del mondo. Essi infatti possono essere trattati epistemologicamente come significati di enunciati assertivi, ma onticamente essi sono, a fianco degli obbietti, oggetti costitutivi del mondo37. Insomma, il mondo è costituito di oggetti (tutto è oggetto38), ma non tutti gli oggetti sono uguali, a fianco degli obbietti troviamo anche gli obbiettivi. Queste due classi di oggetti sono ovviamente connesse. L’obbiettivo designato da “che la rosa è rossa” concerne infatti la rosa: la rosa è un obbietto e su di esso si fonda l’obbiettivo che la rosa è rossa. Quest’ultimo presuppone come suo necessario fondamento la rosa quale obbietto e in questo senso esso può essere considerato un oggetto di ordine superiore. Meinong rinviene come oggetti di ordine superiore tanto gli obbiettivi quanto alcune classi di obbietti, che però non presentano un carattere proposizionale come gli obbiettivi. Esempi di obbietti di ordine superiore sono obbietti come il diverso tra rosso e blu o il simile tra nero e grigio, o anche tutte le Gestaltsqualitäten – le qualità gestaltiche, o figurali – così come esse sono state denominate dall’altro brentaniano e collaboratore di Meinong: Christian von Ehrenfels39. Oggetti di ordine superiore sono anche detti “oggetti fondati”40. Differenze specifiche vigono nei confronti di queste due classi di oggetti fondati. Mentre solo l’obbiettivo può essere positivo o negativo, per gli obbietti questa dicotomia non vale. Inoltre, l’obbiettivo è un oggetto di ordine superiore ideale, esso può soltanto sussistere, mentre gli obbietti di ordine superiore sono sia ideali che reali (a seconda che la loro fondazione avvenga con o senza 35 36

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Meinong 1904: 8 (GA II: 489; tr. it. 2002: 242). È il caso del già citato giudizio (10), in cui viene predicato un essere così (essere quadrato) di un oggetto che non è (il cerchio quadrato). Meinong 1902; 19102: 60 (GA IV: 60). Meinong 1921: 102 (GA II: 14; tr. it. 293). Cfr. Ehrenfels 1890. Con “qualità gestaltiche” si intendono quelle formazioni unitarie che, pur essendo costituite a partire da una molteplicità di elementi, non possono essere ridotte agli elementi costituenti stessi. Ad esempio, una melodia non è la mera somma delle note che la costituiscono. Meinong 1899: 200 ss. (GA II: 396 ss.; tr. it. 2002: 171 ss.).

carattere di necessità) e possono pertanto sia sussistere che esistere. Soltanto gli obbiettivi, poi, sono portatori di proprietà modali, ovvero soltanto un obbiettivo può essere possibile, probabile o necessario, non così gli obbietti. Infine, solo un obbiettivo può essere vero. Ora, quando un obbiettivo può essere indicato come vero? Un obbiettivo vero è un obbiettivo fattuale o, anche, un fatto. La fattualità è anch’essa una proprietà modale degli obbiettivi41. Un obbiettivo solo fattuale non può però ancora essere propriamente detto “vero”. Affinché ciò accada, serve infatti che il soggetto giudichi questo obbiettivo, che l’obbiettivo entri in relazione con un soggetto giudicante. Meinong argomenta che, quando un obbiettivo fattuale viene giudicato con evidenza, esso può essere caratterizzato come un obbiettivo “vero”. Egli sostiene insomma l’idea che la verità è una nozione di natura parzialmente soggettiva: solo quando i fatti entrano in relazione con una coscienza giudicante essi possono essere definiti in modo accessorio come “veri”42. Questa posizione è ancora legata alla nozione epistemologica di evidenza e risulta di conseguenza vicina alla tesi di Brentano.

2.1.4. Husserl Nella teoria di Edmund Husserl ritroviamo una struttura del vissuto simile a quella presente in Meinong e Twardowski. Un atto si dirige tramite un contenuto (che Husserl chiama tecnicamente la “materia” di un atto43) verso un correlato oggettuale. È tuttavia importante rilevare che in un punto fondamentale la descrizione fenomenologica husserliana si discosta da quella di Meinong. Mentre per Meinong il contenuto ha una natura puramente psichica e non assolve ad alcun ruolo semantico precipuo, per Husserl la materia di un atto ha una valenza logica e semantica basilare: essa è infatti l’esemplificazione di un oggetto ideale e corrisponde al modo con cui il correlato oggettuale viene intenzionato. Si può approfondire in cosa consiste questa posizione teorica, iniziando prima da alcuni esempi nominali per poi passare a esempi con enunciati44. Si considerino le due espressioni: 41 42 43 44

Meinong 1902; 19102: 80 ss. (GA IV: 80 ss.). Meinong 1915: 41 (GA VI: 41). Husserl 1900-1901: 386 (Hua XIX/I: 425 ss.; tr. it. 1968: 197 ss.). Cfr. ivi: 47 s. (Hua XIX/I: 53 ss.; tr. it. 1968: 313 s.).

(11) il vincitore di Jena e (12) il perdente di Waterloo. In (11) e (12) si intende la medesima persona, in altre parole, il correlato oggettuale dell’atto significante è il medesimo: Napoleone. Il significato di (11) è però diverso dal significato di (12), il modo con cui il correlato oggettuale viene appreso risulta pertanto differente. Quanto detto vale per espressioni nominali, ma non è difficile trovare esempi anche per enunciati, così ad esempio: (13) a è più grande di b e (14) b è più piccolo di a hanno due significati differenti sebbene il correlato oggettuale – l’entità su cui vertono gli atti significanti – è il medesimo. Un medesimo significato può essere inoltre pensato da una pluralità di coscienze in modi e in vissuti psichici differenti (con un atto di domanda, di desiderio, di giudizio...), eppure la struttura di tutti questi molteplici vissuti richiederà una materia d’atto, che, in quanto materia di uno specifico atto, è sempre esemplificazione dell’identico significato ideale che viene pensato. Per il tramite della relazione di esemplificazione l’atto trova quindi un contatto con un significato ideale e ciò rende possibile che tutti i vissuti di tutte le coscienze che lo pensano possano entrare in relazione con il medesimo, identico, significato. Ci si chiederà a questo punto che cos’è propriamente un significato. Esso è un oggetto ideale la cui caratteristica principale è quella di essere atemporale e di potere venire esemplificato in diversi altri oggetti45. La relazione che intercorre tra l’oggetto ideale e le sue esemplificazioni è intesa da Husserl come una relazione tra il tutto e le parti, relazione che sta alla base 45

Husserl abbandonerà questa posizione nella sua riflessione matura e considererà il significato come un oggetto ideale non più generale (specifico), bensì individuale, cfr. Husserl 1939: § 64d (tr. it. 1995: 239-241).

della teoria mereologica sviluppata dall’autore nella sua Terza ricerca logica46. Un’ultima caratteristica del significato ideale è quella di riferirsi all’oggetto che l’atto intende. (11) e (12) hanno infatti diverso significato ma intendono il medesimo oggetto temporale, Napoleone. (13) e (14) sono enunciati con diverso significato, essi però non intendono più un oggetto, bensì un’oggettualità più complessa corrispondente a quel particolare essere in relazione di a e b, a quel particolare fatto per cui a e b stanno fra loro così e così, ovvero, in termini tecnici, a uno stato di cose47. La complessità sintattica (proposizionale o nominale) dell’atto significante, ovvero il suo articolarsi in parti non indipendenti è direttamente connesso con la complessità del correlato oggettuale mirato. Generalizzando, si può sostenere che termini singolari si riferiscono a oggetti e hanno concetti quali loro significati, mentre enunciati si riferiscono a stati di cose e hanno proposizioni (Sätze) quali loro significati. Questo riferimento semantico, infine, non richiede necessariamente l’esistenza dell’oggettualità intesa. In ogni giudizio devono quindi essere distinti l’atto di giudicare, il significato dell’enunciato (l’enunciato in senso logico, la proposizione) e il correlato dell’atto di giudizio (lo stato di cose). Terminologicamente, l’uso dell’espressione di “stato di cose (Sachverhalt)” non è una novità di Husserl48. Già Stumpf lo aveva utilizzato nel senso specifico di Gebilde49, ovvero di configurazione o formazione (in altri termini: di oggetto di ordine superiore), intendendo con esso lo specifico correlato di un atto di giudizio. Tale uso avviene però in un assetto teorico ancora immanentistico: lo stato di cose trovava posto solo all’interno della coscienza50. Lo stesso Meinong prende in considerazione l’idea di usare quest’espressione per indicare il suo obbiettivo, ma precisa di non scegliere questa opzione, sia perché non condivide l’uso imma46

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Cfr. Husserl 1900-1901: 222-285 (Hua XIX/I: 227-300; tr. it. 1968: 17-82). A questo riguardo cfr. anche infra 2.6. Husserl rileverà in seguito che stati di cose presuppongono un altro tipo di oggettualità complesse – le situazioni (Sachlagen) – che fondano gli stati di cose, cfr. Husserl 1939: § 59 (tr. it. 1995: 219-221). Esiste, di nuovo, una relazione tra la nozione di stato di cose nella scuola di Brentano e le teorie tardo-medioevali del complexe significabile, cfr. Tachau 1988; Elie 1936. Il termine “Gebilde” viene probabilmente mutuato da Georg Cantor (1845-1918). Cfr. Rojszczak e B. Smith 2001: 24. Stumpf 1907: 11 (tr. it. 1992: 94).

nentistico che Stumpf ne fa, sia perché il termine di “stato di cose” – sebbene abbia il vantaggio di avere un significato “vivo (lebendig)”51 – sarebbe limitato unicamente a denotare gli obbiettivi positivi, ma non quelli negativi 52. È quindi con Husserl che lo stato di cose trova un posto trascendente alla coscienza e che viene stabilita quella differenza semantica fondamentale tra significato e riferimento di un enunciato che non viene colta da Meinong. In Meinong questi due differenti oggetti collassano – per così dire – in un unico oggetto. La distinzione operata da Husserl tra il significato di un atto e il suo riferimento ricorda inoltre da vicino quella di Gottlob Frege (1848-1925) tra senso (Sinn) e riferimento (Bedeutung) con la fondamentale differenza, però, che mentre per Frege la Bedeutung di un enunciato è un valore di verità (il Vero o il Falso)53 per Husserl essa è uno stato di cose. Va infine domandato in che modo si possa cogliere uno stato di cose. Husserl ritiene che diversi tipi di atti possono provvedere all’apprensione di quest’oggettualità. Egli differenzia tra la rappresentazione di uno stato di cose ed il giudizio su uno stato di cose. La rappresentazione di uno stato di cose corrisponde al vissuto del comprendere che non coincide però con il giudicare lo stato di cose che si è compreso. Così, quando sentiamo (1) e lo comprendiamo, noi propriamente non ci impegniamo ancora a credere a (1), ma ci rappresentiamo unicamente lo stato di cose intenzionato da (1). Il giudizio è invece un vissuto di belief, giacché presuppone sempre una convinzione. Husserl ritiene pertanto che la rappresentazione possa avere anche natura proposizionale e che possa quindi apprendere uno stato di cose; questo vissuto si differenzia però dal giudizio in quanto non presuppone alcuna convinzione. Si è evidenziato che per Meinong solo assunzioni e giudizi possono apprendere obbiettivi, ma non le rappresentazioni (che secondo Meinong possono afferrare unicamente obbietti). Che cos’è allora per Husserl un’assunzione? Essa non è una qualità d’atto sui generis, non corrisponde – in altre parole – a una classe di vissuti per sé, come invece è il caso in Meinong54. Piuttosto, l’assunzione consiste in una forma modificata di belief: il soggetto assume uno stato di cose quando accompagna l’apprensione di questa oggettualità con 51 52 53 54

Meinong 1905: 33 (GA I: 589). Meinong 1902; 19102: 101 (GA IV: 101). Frege 2002: 30. A questo riguardo, cfr. anche infra 3.2. In questo Husserl concorda con Marty 1906.

una particolare forma di convinzione (io sono convinto che – oppure non so se – A non sussiste, eppure lo assumo consciamente come sussistente e viceversa)55. L’assunzione è quindi per Husserl, al contrario di Meinong, un atto di belief, infatti esso presuppone una convinzione, sebbene in una veste modificata.

2.1.5. Reinach La massima precisione rispetto alla teoria del giudizio e degli stati di cose nella scuola di Brentano viene raggiunta da Adolf Reinach. Egli riesce con successo a proporre una sintesi della posizione husserliana e di quella meinonghiana. Considerando l’atto del giudizio, Reinach rileva che tale vissuto può essere descritto sia in quanto asserzione, sia in quanto convinzione56. Ogni atto di asserzione presuppone una convinzione, ma non viceversa57. Tra queste due classi d’atto vigono molteplici differenze, la più vistosa consiste nel fatto che, mentre la convinzione non ha bisogno di avere un rivestimento linguistico (io sono convinto che la rosa è rossa, senza dover enunciare “la rosa è rossa”), all’asserzione risulta invece essenziale essere linguisticamente rivestita. Sebbene, infatti, la convinzione venga fondata normalmente da atti di rappresentazione sensibile o categoriale (o anche da atti di riconoscimento nel caso in cui il correlato oggettuale sia uno stato di cose), l’asserzione viene fondata unicamente da atti d’intendere che non richiedono la presenza immediata dell’oggetto e che per questo possono rivolgersi all’oggetto soltanto in modo simbolico-linguistico. Dall’insieme dei nessi di fondazione tra questi vari atti risulta che, se un atto d’intendere viene accompagnato da una convinzione (quest’ultima può essere a sua volta – come si è visto – variamente fondata), esso dà vita a un’asserzione, ovvero a un atto di giudizio stricto sensu. Il correlato oggettuale di un atto di giudizio è uno stato di cose. Solo stati di cose possono essere creduti o asseriti (anche se è possibile che essi vengano intenzionati da altri atti come quelli di riconoscimento). Reinach ha il merito di elaborare per primo una teoria degli stati di cose all’interno del paradigma semantico husserliano. Husserl infat55 56 57

Husserl 1994: 91 s. (Hua XXII: 322-329; tr. it. 101-107); Ivi: 143. Reinach 1911a: 196-213 (SW: 95-108). Reinach 1911a: 211 s. (SW: 107).

ti, pur avendo parlato diffusamente di stati di cose nelle sue Ricerche Logiche, rimane piuttosto vago nel fornire una descrizione adeguata di questo tipo di entità58. Nello sviluppare la sua ontologia degli stati di cose, Reinach si rifà all’analisi che Meinong aveva già condotto per i suoi obbiettivi. Egli peraltro non manca di criticare Meinong per la sua confusione tra stato di cose e proposizione59 e marca la sua distanza teorica dall’autore di Graz utilizzando, nel nominare stati di cose, infiniti sostantivati piuttosto che subordinate oggettive. Ad esempio, per nominare lo stato di cose dell’enunciato (1), Reinach adopera l’espressione “l’esser rosso della rosa” piuttosto che la subordinata oggettiva, usata da Meinong, “che la rosa è rossa”. L’uso della subordinata può infatti indurre a confondere lo stato di cose inteso con l’oggetto proposizionale significato – con la proposizione – assegnandogli un valore di verità e ulteriori caratteristiche di natura a esso eterogenea. Analizziamo quindi il modo con cui Reinach descrive queste entità. Pur individuando stati di cose di essere o di essere-così, Reinach rileva che questi due tipi non esauriscono tutte le specie di stati di cose. Accettando la posizione di Brentano, Reinach ritiene infatti che i giudizi impersonali (“piove” o “si balla”) siano giudizi a cui autenticamente manchi il soggetto e che quindi mirano a stati di cose che, in quanto impersonali, non possono essere ridotti né a stati di cose di essere né a stati di cose di essere-così60. Stati di cose non sono portatori di qualità primarie e secondarie. Solo queste oggettualità possono inoltre sussistere o non sussistere61 e solo esse sono positive o negative: a tal riguardo vale il principio per cui, se uno stato di cose positivo sussiste, non sussiste lo stato di cose negativo-contraddittorio e viceversa, se uno stato di cose negativo sussiste, non sussiste lo stato di cose positivo-contraddittorio62. Ad esempio: se sussiste lo stato di cose positivo esser-rosso della rosa, non sussiste lo stato di cose negativocontraddittorio non-esser-rosso della rosa (e viceversa: la sussistenza del non-esser-rosso della rosa implica la non sussistenza dell’esser-rosso della rosa). Solo stati di cose stanno in nessi di motivo-conseguenza (e non in nessi di causalità)63 e, infine, solo stati di cose possono essere 58 59 60 61 62 63

Mulligan 1997: 128. Reinach 1911a: 220; 223 (SW: 114; 116). Cfr. anche Manotta 1997. Ivi: 230 (SW: 121 s.). Ivi: 223 s. (SW: 116 s.). Ivi: 223 (SW: 116). Ivi: 221 s. (SW: 114 s.).

portatori di proprietà modali. Quest’ultima caratteristica ha un valore fondamentale, dal momento che Reinach ascrive alle proprietà modali anche la necessità e definisce apriori tutti quegli stati di cose che sono necessari e generali64. La teoria dell’apriori materiale, già messa in luce da Husserl65, trova così un suo fondamento ontologico nella nozione di stato di cose: l’apriori ha uno statuto ontologico proprio che lo colloca nel mondo ed è il mondo a essere strutturato tramite connessioni necessarie e non il soggetto che lo organizza necessariamente. È già stato detto che Reinach non incorre nell’errore di Meinong e distingue nel vissuto del giudizio l’enunciato logico – il significato di un enunciato grammaticale – dallo stato di cose. Le conseguenze di questa distinzione vengono rilevate in tutta la loro portata teorica. Nel giudizio il portatore di verità (il Wahrheitsträger) è unicamente la proposizione, essa viene resa vera o falsa dallo stato di cose a cui essa si riferisce. Se lo stato di cose inteso sussiste, la proposizione è vera, altrimenti essa sarà falsa. Lo stato di cose è quindi il fattore di verità (il Wahrmacher), dei cui sviluppi teorici contemporanei si dirà estesamente più avanti66. Proponendo una teoria correspondentista della verità, Reinach esclude definitivamente dalla teoria della verità la trattazione di elementi soggettivi (come l’evidenza) e la emancipa da ogni trattazione di tipo psicologico. Sempre sulla base di questa impostazione Reinach definisce poi il campo disciplinare della logica e dell’ontologia. La logica ha infatti come compito lo studio delle leggi delle proposizioni e dei concetti, essa si costituisce pertanto come una logica intensionale, interessata allo studio dei significati67. L’ontologia invece ha come oggetto di studio le strutture ontiche sottese alla logica. Solo nella differenziazione di questi due campi si riesce a rendere conto fino in fondo della natura delle leggi logiche: così, ad esempio, il principio di bivalenza (secondo cui una proposizione è o vera o falsa) non è altro che la formulazione in chiave logica del principio ontologico di non contraddizione sopra citato per il quale – presi due stati di cose contradditori – ne può sussistere soltanto uno68. 64 65 66 67

68

Reinach 1911b: 180 (SW: 70). Cfr. infra 2.3. Cfr. infra 5.2. Questo progetto sarà portato avanti, seppur con qualche modifica, da Alexander Pfänder (1870-1941) nella sua Logik (1921). Reinach 1911a: 252 (SW: 138).

2.1.6. Conclusione La scoperta della nozione di stato di cose all’interno di una teoria generale del giudizio attraversa tutto lo sviluppo della scuola di Brentano. Essa si contraddistingue innanzitutto per essere il risultato di una riflessione psicologico-descrittiva sull’atto di giudizio. È infatti partendo dall’analisi di questo vissuto che la domanda in merito al suo correlato oggettuale viene primariamente posta. Non appena il giudizio viene riconosciuto come un vissuto proposizionale, si deve rendere conto delle oggettualità complesse con le quali esso entra in relazione. L’interesse primario che viene rivolto a queste oggettualità consiste soprattutto nella loro portata ontologica: stati di cose (o obbiettivi) costituiscono infatti, a fianco degli obbietti o oggetti69 la seconda classe di oggettualità dell’ontologia formale o teoria generale degli oggetti, di cui si dirà estesamente nei prossimi capitoli. Gli stati di cose, insomma, sono entità basilari per l’assetto ontico del mondo e una descrizione adeguata della struttura ontica mondana non può prescindere dal rendere conto di questo tipo di entità. Non unicamente sulla loro funzione di render-vero70, ma anche sul loro essere entità fondamentali, sul loro costituire la trama profonda del mondo si muove l’interesse ontologico dei brentaniani. I modi d’accesso a questa trama, che sono originariamente studiati sul versante psicologico-descrittivo (è l’atto psichico del giudizio che afferra uno stato di cose), vengono in seguito approfonditi da un’analisi delle strutture linguistiche e sintattiche che presiedono alla costituzione dell’atto di giudizio (dove il linguaggio preso in considerazione è e rimane quello naturale). Questo intreccio di psicologia e analisi linguistica è un tratto distintivo forte della trattazione brentaniana, che si carica di maggior significato se si pensa che l’utilizzo tecnico di termini quali “giudizio”, “proposizione” e “stati di cose” non è una prerogativa della scuola di Brentano: qualche decennio più tardi essi ricorreranno, assumendo un ruolo preponderante, nelle opere di Ludwig Wittgenstein (1889-1951; soprattutto nel Tractatus) e di Ber69

70

A seconda del nome che le differenti scuole adoperano: Meinong parla di “obbietti (Objekte)”, Husserl e i fenomenologi tedeschi di “oggetti (Gegenstände)”. Sulla relazione del render-vero e sugli stati di cose come fattori di verità, cfr. infra 5.2.

trand Russell (1872-1970; in particolare nella fi losofia dell’atomismo logico)71. Sebbene forme di contatto – spesso profonde (si pensi al carteggio Husserl-Frege72 o al dibattito tra Russell e Meinong73) – non possono essere negate, è difficile delineare fino a che punto le due tradizioni filosofiche inaugurate da Frege e da Brentano si siano vicendevolmente influenzate. Resta fermo che, per quanto le tipologie d’approccio alla tematica siano caratteristicamente diverse, esse non risultano inconciliabili. Tutt’altro: dalla vicinanza terminologica e sistematica che accomuna le due scuole in merito a tali temi, si trae ancora una volta l’idea che dirimenti per l’analisi fi losofica restano e devono restare le “cose stesse” e che la varietà dei modi con cui esse possono venir descritte ne conferma solo la complessità e ricchezza.

Bibliografia ragionata 1. Sulla fi losofia austriaca e la scuola di Brentano R. Haller, Studien zur österreichischen Philosophie, Amsterdam, Rodopi, 1979 B. Smith, Austrian Philosophy: The legacy of Franz Brentano, Chicago - La Salle, Open Court, 1994 L. Albertazzi, M. Libardi, R. Poli, a c. di, The school of Franz Brentano, Dordrecht - Boston - London, Kluwer, 1996 2. Opere sull’ontologia e la teoria del giudizio di Brentano e dei suoi allievi F. Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt, 2 voll., Leipzig, 1874; nuova ed. a c. di O. Kraus, 3 voll., Leipzig, 1924-19282; La filosofia dal punto di vista empirico, a c. di L. Albertazzi, tr. it. di G. Gurisatti e R. Latanza Dappiano, 3 voll., Roma - Bari, Laterza, 1997 C. Ehrenfels, Über Gestaltqualitäten, “Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie”, 14 (1890): 242-292; Le qualità figurali, tr. it. di E. Melandri, Faenza, Faenza Editrice, 1979 F. Hillebrand, Die neuen Theorien der kategorischen Schlüsse, Wien, Hölder, 1891 E. Husserl, Intentionale Gegenstände, 1894, in Id., Aufsätze und Rezensionen (1890-1910), a c. di B. Rang, Den Haag - Boston - London, Kluwer, 1979 71 72 73

A questo riguardo cfr. anche infra 3.2. Cfr. Frege 1980. Cfr. Meinong 1965.

(Hua XXII); Oggetti intenzionali, tr. it. di S. Besoli, in Id., Logica, psicologia e fenomenologia, a c. di S. Besoli e V. De Palma, Genova, Il Melangolo, 1999 K. Twardowski, Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellungen, Wien, 1894; Contenuto e oggetto, tr. it. a c. di S. Besoli, Torino, Bollati Boringhieri, 1988 E. Husserl, Logische Untersuchungen, Halle, 1901/19132; Logische Untersuchungen. Zweiter Band, erster und zweiter Teil: Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, a c. di U. Panzer, Den Haag Boston - London, Kluwer, 1984 (Hua XIX/I-II); Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, 2 voll., Milano, Il Saggiatore, 1968 A. Meinong, Über Gegenstandstheorie, in Id., Untersuchungen zur Gegenstandstheorie und Psychologie, a c. di A. Meinong, Leipzig, 1904; Meinong Gesamtausgabe, a c. di R. Haller et. al, Graz, Akademische Druck- u. Verlagsanstalt, 1968-1978, I; Sulla teoria dell’oggetto, in Id., Teoria dell’oggetto, tr. it. di V. Raspa, Trieste, Parnaso, 2002: 235-273 C. Stumpf, Erscheinungen und psychische Funktionen, Berlin, 1907; Apparenze e funzioni psichiche, in Id., Psicologia e metafisica: Sull’analiticità dell’esperienza interna, tr. it. a c. di V. Fano, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992 A. Marty, Untersuchungen zur Grundlegung der allgemeinen Grammatik und Sprachphilosophie, I, Halle, Niemeyer, 1908 A. Meinong, Über Annahmen, Leipzig, 19102; Meinong Gesamtausgabe, a c. di R. Haller et. al, Graz, Akademische Druck- u. Verlagsanstalt, 1968-1978, IV A. Reinach, Zur Theorie des negativen Urteils, in Münchener Philosophische Abhandlungen. Festschrift für Theodor Lipps, a c. di A. Pfänder, Leipzig, 1911; Adolf Reinach: Sämtliche Werke, a c. di K. Schuhmann e B. Smith, München-Hamden-Wien, Philosophia, 19893, I; Sulla teoria del giudizio negativo, tr. it. di A. Salice, in Id., La visione delle idee. Il metodo del realismo fenomenologico, a c. di S. Besoli e A. Salice, Macerata, Quodlibet, 2008 A. Reinach, Kants Auffassung des Humeschen Problems, “Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik”, 141 (1911): 176-209; Adolf Reinach: Sämtliche Werke, a c. di K. Schuhmann e B. Smith, München - Hamden Wien, Philosophia, 19893, I; L’interpretazione kantiana del problema del giudizio negativo, tr. it. di S. Besoli, in Id., La visione delle idee. Il metodo del realismo fenomenologico, a c. di S. Besoli e A. Salice, Macerata, Quodlibet, 2008 A. Reinach, Die apriorischen Grundlage des bürgerlichen Rechtes, “Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung”, I, 2 (1913): 685-847; Adolf Reinach: Sämtliche Werke, a c. di K. Schuhmann e B. Smith, München - Hamden - Wien, Philosophia, 19894, I; I fondamenti a priori del diritto civile, tr. it. di D. Falcioni, Milano, Giuffrè, 1990

A. Meinong, Über Möglichkeit und Wahrscheinlichkeit. Beiträge zur Gegenstandstheorie und Psychologie, Leipzig, 1915; Meinong Gesamtausgabe, a c. di R. Haller et. al, Graz, Akademische Druck- u. Verlagsanstalt, 1968-1978, VI A. Meinong, A. Meinong [Selbstdarstellung], in R. Schmidt, a c. di, Die deutsche Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, Leipzig, Meiner, 1921, I; Meinong Gesamtausgabe, a c. di R. Haller et. al, Graz, Akademische Druck- u. Verlagsanstalt, 1968-1978, VII; A. Meinong [Autopresentazione], in Teoria dell’oggetto, tr. it. di V. Raspa, Trieste, Parnaso, 2002: 235-273 A. Pfänder, Logik, Halle, Niemeyer, 1921 F. Brentano, Die Lehre vom richtigen Urteil, a c. di F. Mayer-Hillebrand, Bern, Francke, 1956 F. Brentano, Wahrheit und Evidenz. Erkenntnistheoretische Abhandlungen und Briefe, a c. di O. Kraus, Hamburg, Meiner, 19622 F. Brentano, Deskriptive Psychologie, a c. di R.M. Chisholm e W. Baumgartner, Hamburg, Meiner, 1982 E. Husserl, Erfahrung und Urteil; Untersuchungen zur Genealogie der Logik. Redigiert und hrsg. von Ludwig Landgrebe, Hamburg, Meiner, 1985; Esperienza e Giudizio, Ricerche sulla genealogia della logica, redatte e edite da Ludwig Landgrebe, tr. it di F. Costa e L. Samonà, Milano, Bompiani, 1995

2.2. TEORIA DELL’OGGETTO di Venanzio Raspa

2.2.1. Che cos’è la teoria dell’oggetto La teoria dell’oggetto (Gegenstandstheorie) di Alexius Meinong (1853-1920)74 intende essere una scienza dell’oggetto in quanto tale e degli oggetti nella loro totalità75. Per contestualizzare la filosofia di 74

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Meinong nasce a Leopoli, il 17 luglio 1853. Compie l’intera formazione a Vienna: dal 1862 al 1868 studia come privatista, dal 1868 al 1870 come scolaro regolare del Ginnasio Accademico, nell’autunno 1870 si iscrive all’Università in storia e filologia tedesca, nell’estate 1874 si addottora in storia con una tesi su Arnaldo da Brescia (1100 ca.-1155). L’anno successivo decide di dedicarsi alla filosofia e, a partire dal semestre invernale 1875/76, frequenta le lezioni di Brentano. Conseguita l’abilitazione alla docenza nel 1878 con gli Studi su Hume I. Per la storia e la critica del nominalismo moderno (1877), Meinong insegna per circa quattro anni come Privatdozent all’Università di Vienna, finché nel 1882, dopo la pubblicazione degli Studi su Hume II. Sulla teoria delle relazioni, è nominato professore straordinario di fi losofia a Graz. Qui rimane fino alla fine della sua vita e fonda la cosiddetta Scuola di Graz, che annovera, fra gli altri, Rudolf Ameseder (1877-1937), Vittorio Benussi (1878-1927), Christian von Ehrenfels (1859-1932), Alois Höfler (1853-1922), Ernst Mally (1879-1944) e Stephan Witasek (1870-1915). Verso la fine degli anni Ottanta comincia a incrinarsi il suo rapporto con Brentano. Nel marzo 1889 Meinong è nominato ordinario di filosofia, nel 1894 fonda il Laboratorio di psicologia di Graz, il primo del genere in Austria, e nel 1897 il Seminario di filosofia (l’attuale Istituto di Filosofia dell’Università di Graz reca il nome di “Alexius-MeinongInstitut”). Negli ultimi anni di vita Meinong, la cui vista è sempre stata molto debole, diventa cieco. Il 27 novembre 1920 muore a Graz. L’Autopresentazione, che è al contempo sintesi del suo pensiero e testamento filosofico, esce postuma nel 1921. Una biografia di Meinong è offerta da Dölling 1999. Le opere di Meinong, eccetto Sulle assunzioni (1902, I ediz.), sono citate dalla Alexius Meinong Gesamtausgabe (GA). In assenza di rinvii espliciti, le traduzioni sono di chi scrive.

Meinong, si ricordi che, come si è visto nel capitolo precedente, fu allievo di Franz Brentano, partecipò attivamente al movimento di ricerca che portò alla nascita della psicologia come scienza, condivise un tratto di strada con Edmund Husserl, stimolò in maniera decisiva la riflessione logico-filosofica del primo Russell. Di quest’ultimo si guadagnò la stima, oltre che le critiche, di Husserl solo la disistima, essendo di ben altro valore e tenore le critiche76. In una più ampia cornice storicofilosofica, specifiche teorie teoretico-oggettuali (il concetto di oggetto quale genere sommo, la distinzione di essere ed esistere, essenza ed esistenza, l’assunzione degli oggetti non-esistenti, l’obbiettivo come significato della proposizione) sono già presenti – fatte le dovute distinzioni – in alcuni filosofi che si sono esaminati in precedenza: i medievali, Suárez, Wolff, oltre che in Thomas Reid (1710-1796) e persino negli immediati ‘predecessori’ di Meinong, Bernhard Bolzano (1781-1848) e Twardowski, di cui si è detto, e su cui si tornerà meglio tra poco77. 76

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Sul confronto fra Meinong e Husserl, cfr. Schermann 1970; Rollinger 1993; 1999: 155-208. Tra la vasta letteratura sulla controversia fra Meinong e Russell, cfr. Cocchiarella 1982; J.F. Smith 1985; Simons 1988; Di Francesco 1991: 173 ss.; Voltolini 2001; Orilia 2002. Le controversie che Meinong ebbe con Russell e con Husserl presentano caratteri totalmente diversi. La prima consiste in un effettivo confronto su questioni fi losofiche, che coinvolgono due diverse concezioni ontologiche, le nozioni di esistenza, oggetto, portata esistenziale delle proposizioni, la validità dei principi di contraddizione e del terzo escluso, la corretta analisi della forma logica della proposizione. Nonostante le divergenze, Russell ha sempre mostrato stima e apprezzamento per la produzione filosofica di Meinong, anche a distanza di anni. Nel secondo caso, invece, il dissidio e la conseguente rottura – fra Meinong e Husserl si era sviluppato un rapporto personale, testimoniato da un carteggio più che decennale (1891-1904) – si consumano su futili questioni di priorità: all’indomani della pubblicazione del libro Sulle assunzioni nel 1902, Husserl accusò Meinong di non aver dato il giusto rilievo alle Ricerche logiche, di averle citate in maniera tale da dare un’immagine falsata delle loro rispettive ricerche parallele e, soprattutto, di non aver rilevato che diversi temi da lui trattati erano in realtà già stati affrontati nelle Ricerche logiche (cfr. la lettera di Husserl a Meinong del 5.IV.1902, in Kindinger 1965 (a c. di): 103-108; Husserl 1994: 139-145). In seguito, seppur raramente, Husserl si esprimerà su Meinong, sia in pubblico che in privato, in termini molto negativi, quando non addirittura ostili. Cfr. Élie 1936, che pone a confronto le dottrine di Gregorio da Rimini (1300 ca.-1358) con quelle di Meinong e Russell; de Libera [1991; 1996: 201 ss. (tr. it. 1999: 208 s.) e passim; 1997; 2002] e Tabarroni (2005) mostrano come teorie oggi ritenute tipicamente meinongiane fossero già state esposte da autori me-

Al duplice compito della teoria dell’oggetto come scienza dell’oggetto in quanto tale e degli oggetti nella loro totalità corrispondono altrettante caratteristiche fondamentali: l’essere una scienza apriori e, allo stesso tempo, della massima generalità ed estensione. La teoria dell’oggetto unisce l’aspirazione totalizzante propria della metafisica e la considerazione astratta apriori degli oggetti quale si ritrova in matematica; ma, stando alle parole di Meinong, si spinge ancora più avanti: per un verso include come teoria speciale dell’oggetto la stessa matematica78, per un altro è più generale della metafisica. La metafisica, infatti, avrebbe a che fare con la totalità di ciò che esiste, o è reale, ma una simile totalità è di gran lunga meno estesa della totalità degli oggetti di conoscenza79, mentre è di questa totalità che si occupa la teoria dell’oggetto. Apriorità e generalità sono sintetizzate nella nozione di “libertà dal presupposto esistenziale (Daseinsfreiheit)”: una scienza libera dal presupposto esistenziale è apriori, ossia indipendente dall’esperienza, ed è la più generale, perché include, oltre al reale, l’irreale essente, il non-ente, il possibile e perfino l’impossibile80. L’elaborazione della filosofia meinongiana attraversa tre fasi. Negli scritti e nelle lezioni dei primi anni di insegnamento a Graz, Meinong si occupa, oltre che di psicologia, di pedagogia, logica, teoria del valore e teoria della conoscenza; le sue principali pubblicazioni sono Sulla scienza filosofica e la sua propedeutica (1885), Rappresentazione fantastica e fantasia (1889), Sulla psicologia delle complessioni e delle relazioni (1891), Contributi alla teoria dell’analisi psichica (1894a), Ricerche etico-psicologiche di teoria del valore (1894b), Sul significato della legge di Weber (1896). A cavallo fra i due secoli, Meinong intraprende una nuova linea di ricerca, che non segna una frattura nello sviluppo del suo pensiero: nasce la teoria dell’oggetto. Con il saggio Sugli oggetti di ordine superiore e il loro rapporto con la percezione interna (1899) si chiude la fase preteoretico-oggettuale e si apre la fase di fondazione della teoria dell’oggetto, che può a sua volta essere divisa in due periodi. Durante il quinquennio di concepimento della teoria, Meinong sin-

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79 80

dievali; contra Perszyk 1993: 67 ss. Courtine 1999 e Cantens 1999 si occupano del rapporto fra Suárez e Meinong. Su Bolzano e Twardowski, cfr. supra 2.1. e infra 2.2.3. Cfr. Meinong 1904, GA II: 508-509 (tr. it. 2002: 256-257); 1906-1907, GA V: 307. Cfr. Meinong 1904, GA II: 486; 517 (tr. it. 2002: 239; 263-264). Cfr. ivi: 519 (tr. it. 2002: 265); 1921, GA VII: 15 (tr. it. 293).

tetizza le ricerche precedenti e elabora le linee programmatiche della nuova disciplina; importanti sono il libro Sulle assunzioni (1902) – che è all’origine della rottura con Husserl – e le Osservazioni sul corpo cromatico e la legge di mescolanza (1903). Tale periodo si chiude nel 1904, quando, per celebrare il decennale della fondazione del Laboratorio di psicologia dell’Università di Graz, Meinong pubblica, insieme ad alcuni allievi, il volume collettivo Ricerche di teoria dell’oggetto e psicologia; il suo contributo è il saggio Sulla teoria dell’oggetto, che apre al contempo il quinquennio successivo, quello dell’elaborazione consapevole della teoria. A dicembre ha inizio lo scambio epistolare con Russell e quindi il dibattito pubblico con quest’ultimo. Per rispondere alle critiche dei contemporanei, Meinong scrive Sulla posizione della teoria dell’oggetto nel sistema delle scienze (1906-1907). Una seconda edizione di Sulle assunzioni (1910) si rende necessaria, per adeguare le tesi ivi contenute alla teoria dell’oggetto. Ha così inizio la fase matura della teoria dell’oggetto, nel corso della quale vedono la luce opere fondamentali come Su possibilità e probabilità (1915) e Sulla presentazione emozionale (1917). Ripercorriamo ora analiticamente le tre fasi.

2.2.2. La fase preteoretico-oggettuale Nelle Osservazioni sul corpo cromatico e la legge di mescolanza e poi nel saggio Sulla teoria dell’oggetto, Meinong sostiene di aver mosso i primi passi verso la nuova scienza con la distinzione di contenuto e oggetto, elaborata nell’articolo Sugli oggetti di ordine superiore, e con quella di obbietto e obbiettivo, presentata per la prima volta nel libro Sulle assunzioni81. Accanto a questa lettura ristretta, egli ne offre una più ampia, che intende gran parte della sua produzione preteoreticooggettuale come mirante sostanzialmente alla teoria dell’oggetto82. Per valutare la seconda lettura che Meinong ha fornito del proprio percorso filosofico, sarà utile accertarsi se sia possibile individuare 81

82

Cfr. Meinong 1903, GA I: 499; ibid., n. 2; 1904, GA II: 503 (tr. it. 2002: 253). In Sulle assunzioni compaiono per la prima volta il sostantivo “Gegenstandstheorie” (1902: 284) e l’aggettivo “gegenstandstheoretisch” (ivi: 65; 159); cfr. Schermann 1970: 40-41; ma anche Meinong 1921, GA: VII, 8, n. 1 (tr. it. 285, n. 3). Cfr. Meinong 1904, GA II: 525-526 (tr. it. 2002: 270); 1921, GA VII: 6, 8 (tr. it. 284-285).

nella fase preteoretico-oggettuale, che va dagli anni universitari al 1899, una linea di ricerca che giunge alle soglie della teoria dell’oggetto. Nei suoi primi scritti (1875-1882), Meinong è interessato alla fi losofia inglese e, al contempo, impegnato in un confronto critico con Kant e la tendenza, allora prevalente nella filosofia tedesca, di un “ritorno a Kant’. Entrambi gli aspetti si lasciano ricondurre all’apprendistato filosofico presso Brentano, ma anche a un clima politico-culturale di rifiuto del kantismo e dell’idealismo tedesco, abbastanza generalizzato in Austria nel XIX secolo e favorito dalla Studien-Hofkommission, che aveva censurato i libri di Kant, Fichte, Hegel e Schelling, perché ritenuti portatori dello spirito della Rivoluzione francese, e promosso la diffusione di idee antikantiane e herbartiane83. È in tale contesto che, nel 1874, Brentano viene chiamato a Vienna e, successivamente, Meinong ne diventa allievo. I principali scritti meinongiani di questo periodo sono i due Studi su Hume. I primi si occupano del nominalismo nell’empirismo inglese (in Locke, Berkeley, Hume e J.S. Mill), e specificamente della formazione dei concetti: Meinong mostra come la formazione delle idee generali sia il risultato di un processo astrattivo. Gli Studi su Hume II trattano della teoria delle relazioni, di come i concetti si rapportano l’un l’altro. Le relazioni (di somiglianza, identità, compatibilità, comparazione, causalità) sono il prodotto di un’attività psichica che ha luogo fra i cosiddetti fondamenti, ossia fra i contenuti delle rappresentazioni84. Accanto a questa classe di relazioni, denominate “ideali”, stanno quelle “reali”, entrambe sono fatti psichici, ma differiscono quanto al modo in cui si producono. Per le prime, dati due contenuti rappresentazionali (come il bianco e il nero), basta la semplice attività rappresentativa per avere i fondamenti e la relazione (in tal caso di diversità); per le relazioni reali – Meinong adduce come esempi quelle sussistenti tra il rappresentare e i contenuti della rappresentazione, oppure tra i fondamenti e la relazione che su questi si fonda – le cose stanno diversamente: se tengo presente che mi sto rappresentando il bianco e il nero, occorre considerare, oltre all’atto del rappresentare, 83

84

Johann Friedrich Herbart (1776-1841) è stato il maggiore avversario dell’idealismo in età idealistica. Sulla situazione culturale in Austria, cfr. Neurath 1935: 12 ss.; 33 ss. (tr. it. 1977: 52 ss.; 78 ss.); Bauer 1966; Haller 1979: 8 ss.; Lindenfeld 1980: 38 ss. Cfr. Meinong 1882, GA II: 42-43; 128; 142, 155 (tr. it. 1991: 104-105; 165; 175; 184).

le rappresentazioni del bianco e del nero, e i rispettivi oggetti quali loro parti integranti; la relazione sussistente fra il rappresentare e i suoi contenuti è una relazione reale, non prodotta ma percepita85. Nel 1885 Meinong pubblica Sulla scienza filosofica e la sua propedeutica. Negli anni seguenti è fra gli esponenti del movimento di pensiero che porta alla nascita della psicologia come scienza. Non trascura però la ricerca epistemologica, etica e teoretica: dedica vari corsi alla teoria della conoscenza, su cui inizia a scrivere un libro, che realizzerà anni dopo con Sui fondamenti empirici del nostro sapere (1906); collabora alla Logica (1890) di Höfler; pubblica le Ricerche etico-psicologiche di teoria del valore (1894b); continua a lavorare a una teoria delle relazioni. Data una simile varietà di interessi e ricerche, a permettere di parlare di un’unica fase preteoretico-oggettuale non è un’unità tematica, ma metodologica. Il metodo di lavoro utilizzato da Meinong è l’analisi psicologica, che denuncia un’inclinazione per lo psicologismo, allora invalso in gran parte della filosofia europea. Lo psicologismo di Meinong, lungi dall’essere una riduzione delle questioni filosofiche a questioni psicologiche, è caratterizzato dall’attribuzione alla psicologia di una posizione di preminenza rispetto alle altre discipline: essendo costituita da un insieme di scienze, la fi losofia non si identifica con la psicologia, ma questa ne è la parte fondamentale86. Se ora, tralasciando parte dei temi cui si è accennato, seguiamo le fasi di sviluppo della teoria delle relazioni, vediamo emergere una linea di ricerca che conduce di fatto alla formulazione della teoria dell’oggetto. L’elaborazione di una teoria delle relazioni pervade gli scritti del decennio 1889-99. In Rappresentazione fantastica e fantasia (1889) compare la nozione di produzione rappresentazionale, ossia l’atto psichico che, ponendo in relazione determinati elementi nella coscienza, produce spontaneamente rappresentazioni. Ciò che viene prodotto è sempre una complessione di elementi, distinti sì l’uno dall’altro, ma tenuti insieme da una o più relazioni. Tuttavia, perché una produzione sia possibile, è necessaria la previa percezione almeno degli elementi semplici che compongono la rappresentazione, i quali non possono essere prodotti, ma semmai riprodotti (ovviamente, dopo essere stati percepiti). La complessione non si lascia ridurre alla somma dei suoi elementi, in quanto un ruolo importante è svolto dalla forma: i mede85 86

Cfr. ivi: 137-142 (tr. it. 1991: 172-175). Cfr. Meinong 1885, GA V: 19.

simi elementi possono infatti dar luogo a complessioni diverse quanto alla forma (lo stesso gruppo di note a diverse melodie). Proseguendo sulla via intrapresa con gli Studi su Hume II, Meinong distingue fra complessioni reali e complessioni ideali, le une sono percepibili, le altre no; a tale distinzione corrisponde quella fra complessioni di rappresentazioni date e complessioni di rappresentazioni producibili: le prime possono essere prodotte dalla fantasia solo in seguito a un atto percettivo – in tal caso, è più appropriato parlare di riproduzione –, mentre le altre sono il risultato della produzione rappresentazionale, che – si diceva – esige la previa percezione solo degli elementi semplici di cui sono composte. Nel primo caso il soggetto ha un ruolo passivo, nel secondo è attivo, come quando rileva la somiglianza fra due oggetti, che, a differenza di questi, non è percepibile87. Nel 1890 esce il saggio di Ehrenfels Sulle “qualità figurali”, che spinge Meinong ad approfondire la teoria delle relazioni. Le qualità figurali sono “contenuti positivi di rappresentazione”, unità consistenti di elementi separabili gli uni dagli altri, che non si esauriscono nella loro somma, così come una melodia non è la mera somma delle note di cui è costituita88. In un saggio-recensione, Sulla psicologia delle complessioni e delle relazioni (1891), Meinong interpreta le qualità figurali come contenuti fondati, le cui rappresentazioni si basano su fondamenti, o contenuti fondanti, rispetto ai quali sono non-indipendenti (nel senso in cui una melodia dipende dalle singole note); le rappresentazioni non-fondate, o percettive, sono invece indipendenti89. Questi concetti, ripresi nei Contributi alla teoria dell’analisi psichica (1894a), poiché Meinong, come altri esponenti della scuola di Brentano, conduce le proprie ricerche sia sul piano psicologico sia su quello ontologico, vengono sottoposti a una duplice elaborazione: da una parte, grazie anche ai contributi di Ameseder, Benussi e Witasek, si strutturano nella teoria della produzione rappresentazionale, dall’altra in quella degli oggetti di ordine superiore (come tali saranno appunto intese le relazioni). Nel periodo preteoretico-oggettuale, la prevalenza della prima linea di ricerca non è soltanto una prevalenza di ordine quantitativo, ma è l’espressione di un chiaro punto di vista filosofico, che subisce un’evoluzione tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento con il 87 88 89

Cfr. Meinong 1889, GA I: 200 ss. Cfr. Ehrenfels 1890: 262-263 (tr. it. 1979: 121). Cfr. Meinong 1891, GA I: 288 ss.

passaggio progressivo dallo studio dei vissuti psichici che apprendono gli oggetti allo studio degli oggetti stessi; tale passaggio sta a significare non un definitivo rifiuto dell’analisi psicologica, bensì un suo ridimensionamento a favore della prospettiva teoretico-oggettuale90.

2.2.3. I primi passi Esaminiamo ora gli scritti con cui Meinong, stando alla lettura ristretta del proprio percorso filosofico, ha mosso i primi passi verso la teoria dell’oggetto. Cercheremo di chiarire (i) che cosa significa “oggetto di ordine superiore” e in cosa consiste la distinzione di contenuto e oggetto; quindi (ii) che cosa significa “assunzione” e in cosa consiste la distinzione di obbietto e obbiettivo. Dal 1899 e per i dieci anni successivi, Meinong pone le basi della teoria dell’oggetto. Il saggio Sugli oggetti di ordine superiore segna il passaggio dalla prima e alla seconda fase del suo pensiero: vi confluiscono teorie psicologiche precedentemente elaborate, ma fornite di una base ontologica, che prelude agli sviluppi successivi. L’apprendistato presso Brentano fu determinante per Meinong, il quale considera un punto fermo, che non necessita particolari spiegazioni, la tesi brentaniana del carattere intenzionale dei fenomeni psichici91. Come si è visto nel capitolo precedente, secondo il primo Brentano ogni rappresentazione, giudizio, sentimento o desiderio è indirizzato verso qualcosa; questo carattere intenzionale dei fenomeni psichici permette di distinguerli da quelli fisici e garantisce un ambito specifico allo psichico92. La novità di Meinong consiste nell’individuare una terza sfera di oggetti, né fisici né psichici, gli oggetti ideali. A ciò egli giunge collegando, come aveva già fatto Twardowski in Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle rappresentazioni (1894), la tesi dell’intenzionalità con la distinzione di atto, contenuto e oggetto. (1) L’atto è il vissuto psichico che intenziona un oggetto; (2) il 90

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Sul periodo preteoretico-oggettuale fi no alla fondazione della teoria dell’oggetto, cfr. Manotta 2005. Cfr. Meinong 1899, GA II: 381 (tr. it. 2002: 159); 1904, GA II: 483 (tr. it. 2002: 237); 1921, GA VII: 15 (tr. it. 2002: 293). Cfr. Brentano 1874 (1924-19282: I, 124 ss.; 136 ss.; II, 32; tr. it. 1997: I, 154 ss.; 163 ss.; II, 41). Su ciò si veda supra 2.1.

contenuto quella parte del vissuto psichico che muta, o rimane costante, a seconda che muti o meno l’oggetto93 – ne deriva che non si dà atto senza contenuto –; (3) l’oggetto è il referente extramentale che si dà indipendentemente dal fatto che venga rappresentato o meno. In un senso più generale, l’oggetto è il summum genus, ossia il qualcosa cui non è sovraordinato nessun concetto94. Dall’unione di tesi dell’intenzionalità e tricotomia di atto, contenuto e oggetto discende l’assunzione degli oggetti non-esistenti. Una rappresentazione, poniamo del Monte Bianco innevato, è rivolta all’oggetto extramentale Monte Bianco: in essa l’atto, che permane identico anche se mi rappresento un altro monte, è distinto dal contenuto mentale, quel “pezzo” della rappresentazione che invece varia nel momento in cui mi rappresento un altro monte. Sostituiamo ora al Monte Bianco innevato la montagna d’oro: anche in tal caso abbiamo un atto insieme con un contenuto psichico, e ugualmente abbiamo un oggetto extramentale, che però, a differenza del Monte Bianco, non esiste. Cosa significa che c’è un oggetto che non esiste? È davvero questo presunto oggetto diverso dal contenuto, oppure non è altro che il contenuto stesso, per cui abbiamo una rappresentazione, sì, ma senza oggetto? Alla prima domanda Meinong risponde con la distinzione dei modi di essere. Quanto alla seconda, egli ritiene del tutto ovvio che si rappresenti qualcosa o si giudichi su qualcosa che non esiste, e infatti in tale contesto introduce una prima classificazione di oggetti non-esistenti. La non-esistenza può essere (a) di tipo logico, come nel caso di oggetti impossibili (il quadrato rotondo); (b) fattuale (come per la già menzionata montagna d’oro); (c) essenziale, qualora si tratti di oggetti che per loro natura non possono esistere, in quanto non sono per nulla reali (è il caso degli oggetti ideali quali l’uguaglianza fra 3 e 3 o la differenza fra rosso e verde); infine, può essere (d) di carattere temporale, nel senso della non-attualità, come accade per oggetti reali che sono esistiti in passato o esisteranno in futuro, ma non esistono al presente95. Ora, se di questi oggetti esiste la rappresentazione, esisterà senz’altro il contenuto, in quanto parte della rap93 94

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Cfr. Meinong 1899, GA II: 384 (tr. it. 2002: 161); 1917, GA III: 339 ss.; 347. Cfr. Twardowski 1894: 37-38; 40 (tr. it. 1988: 90; 92); Meinong 1904, GA II: 484 (tr. it. 2002: 237); 1921, GA VII: 14 (tr. it. 2002: 293). In realtà, la temporalità manca a tutti i tipi di oggetti non-esistenti elencati, ma mentre ai primi tre manca per natura, l’ultimo tipo comprende oggetti che possono avere una determinazione temporale.

presentazione. D’accordo, ma esiste anche l’oggetto corrispondente di simili rappresentazioni? Twardowski aveva definito l’oggetto come ciò che è rappresentato per mezzo della rappresentazione, il contenuto come ciò che è rappresentato nella rappresentazione96. Se tale distinzione è valida, deve applicarsi anche agli oggetti non-esistenti; occorre allora dimostrare che non si danno rappresentazioni senza oggetto, come sosteneva invece per casi simili Bolzano, di cui si dirà fra poco. Meinong adduce due argomentazioni volte a dimostrare la validità assoluta della distinzione di contenuto e oggetto, entrambe desunte da Twardowski, il quale le aveva sviluppate proprio in un confronto serrato con la teoria bolzaniana delle rappresentazioni senza oggetto. La prima argomentazione concerne l’esistenza: mentre al contenuto è essenziale l’esistenza e la realtà psichica nella mente di chi compie l’atto di rappresentazione, l’oggetto si dà invece indipendentemente dal fatto di esistere, di essere reale o meno. Si prendano i primi tre tipi di oggetti non-esistenti menzionati sopra (a, b, c), ai quali manca la realtà: ebbene, l’atto di rappresentazione di una montagna d’oro, un quadrato rotondo o un qualsiasi oggetto ideale, esige l’“esistenza nella rappresentazione” della montagna d’oro ecc., ciò che, ovviamente, non significa l’esistenza reale della montagna (dell’oggetto); in tal caso, esiste solo la rappresentazione, ossia l’atto insieme con il contenuto. Quanto agli oggetti passati o futuri di rappresentazioni presenti (d), è di nuovo chiaro che, a differenza dell’oggetto – che si è dato in passato o si darà in futuro –, il contenuto non può non essere presente insieme con la rappresentazione. La seconda argomentazione concerne la natura del contenuto e dell’oggetto, vale a dire che l’oggetto di una rappresentazione possiede proprietà che non sempre ineriscono o possono inerire al contenuto: per il primo caso valgono gli oggetti ideali come i numeri e le relazioni, che non esistono, mentre il corrispondente contenuto, in quanto fatto psichico, è sempre esistente e reale; per il secondo caso gli oggetti fisici, poiché, mentre questi hanno un certo colore, temperatura e peso, il contenuto corrispondente non è ugualmente colorato, caldo e pesante (la rappresentazione di un ghiacciolo non è fredda, così come quella di un quadrato non è quadrata). Ma allora, quando rappresentiamo qualcosa, attribuiamo le proprietà all’oggetto, non al contenuto. In breve, il contenuto 96

Cfr. Twardowski 1894: 18 (tr. it. 1988: 71), che rimanda a R. Zimmermann 1853 (18602: §§ 18 e 26).

è esistente, reale, presente e psichico; l’oggetto rappresentato per suo tramite, invece, può anche essere non-esistente (a, b, c, d), non-reale (a, b, c), non-presente (d), non-psichico (oggetti fisici e – vedremo più avanti – oggetti ideali)97. Quanto detto finora presuppone una storia, cui accenno solo brevemente98. Twardowski aveva distinto fra contenuto e oggetto di un atto psichico, postulato gli oggetti non-esistenti quali referenti di rappresentazioni come la montagna d’oro o il quadrato con gli angoli obliqui, inteso l’oggetto come summum genus, enunciato in una forma ancora embrionale il principio di indipendenza dell’esser-così dall’essere (di cui si dirà in seguito). Egli aveva elaborato le proprie teorie sulla base di tesi brentaniane, ma anche confrontandosi con la Dottrina della scienza (1837) di Bolzano. Ed è con Bolzano che inizia propriamente la storia dell’emergere e affermarsi, nella fi losofia austriaca, di una linea di ricerca sugli oggetti non-esistenti. Bolzano concepisce un universo al cui interno si danno, oltre agli oggetti reali, anche oggetti che non esistono, come quelli della matematica e della logica. L’ambito dell’essere è quindi più ampio di quello dell’esistenza, intesa come una proprietà che non tutti gli oggetti possiedono. Gli oggetti logici si dividono in rappresentazioni in sé e proposizioni in sé, che sono i contenuti dei concetti e delle proposizioni linguistiche o pensate; una sottoclasse delle rappresentazioni in sé è quella delle rappresentazioni senza oggetto, rappresentazioni alle quali non corrisponde nessun oggetto, poiché contengono attribuzioni di proprietà fra loro contraddittorie o che non si ritrovano nell’esperienza99. A causa della censura, in un primo tempo le idee bolzaniane si diffusero in maniera indiretta, attraverso un manuale in uso nei ginnasi, la Propedeutica filosofica di Robert Zimmermann (1824-1898). La mediazione di Zimmermann ha però un significato più che altro storico, il vero anello di congiunzione fra Bolzano e Meinong, relativamente allo sviluppo di idee che avrebbero portato quest’ultimo a concepire la teoria dell’oggetto, è costituito da Twardowski, il quale intende le rappresentazioni senza 97 98

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Cfr. Meinong 1899, GA II: 381-384 (tr. it. 2002: 159-161). Per maggiori dettagli, cfr. Raspa 1995-1996; 1999a: 200-247. Potrà apparire strano che Bolzano e Twardowski siano considerati “predecessori” di Meinong; preciso che non intendo ridurre le loro fi losofie a stadi preliminari della teoria dell’oggetto, bensì sostenere che ne rendono possibile l’elaborazione da parte di Meinong. Cfr. Bolzano 1837: I § 67.

oggetto non come rappresentazioni prive di estensione, ma come rappresentazioni la cui estensione è un oggetto non-esistente, che, pur non esistendo, è portatore di proprietà100. Teorizzando il corrispettivo ontologico delle cosiddette rappresentazioni senza oggetto, ciò che presuppone la distinzione di contenuto e oggetto, e asserendo che un oggetto possiede proprietà, quindi è, anche se non esiste, si compie un passo decisivo verso la formulazione della teoria dell’oggetto. È chiaro allora perché il saggio sugli oggetti di ordine superiore prelude alla teoria dell’oggetto, tanto da essere poi inglobato in questa: perché attraverso la distinzione di contenuto e oggetto Meinong perviene a riconoscere il valore fondamentale degli oggetti non-esistenti per una teoria che intenda fornire una spiegazione complessiva del mondo. La nozione di oggetti di ordine superiore dà ragione della dipendenza che alcuni oggetti hanno rispetto ad altri. Meinong parla di una non-indipendenza intrinseca, insita nella natura di certi oggetti, che non possono essere pensati se non in riferimento ad altri che ne sono alla base. “Inferiora” si dicono gli oggetti sui quali si costruiscono gli oggetti di ordine superiore, “superiora” gli oggetti costruiti sugli inferiora. Un superius che si basa su determinati inferiora ha bisogno di questi sempre; al contrario, gli stessi inferiora possono fondare diversi superiora. In base a quanto detto in precedenza101, oggetti di ordine superiore sono le relazioni (la differenza o la somiglianza fra due oggetti), i cui membri fungono da inferiora, e le complessioni (come una melodia, che è più di un collettivo di note), i cui inferiora sono i rispettivi elementi. Relazioni e complessioni sottostanno al principio di coincidenza, “dove complessione, ivi relazione e viceversa”102. Si tratta di una “coincidenza parziale”, ovvero di un rapporto non biunivoco di parziale identità e reciproca dipendenza: la relazione è una parte della complessione, la complessione è la relazione insieme con i suoi membri. Un’altra caratteristica degli oggetti di ordine superiore permette di chiarire il significato delle nozioni, già utilizzate, di “reale” e “ideale”. Data, ad esempio, una relazione di somiglianza fra una copia e l’originale, risulta evidente che le due cose esistono, mentre la somiglianza non esiste come una terza cosa accanto a esse, ma – affer-

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Cfr. Twardowski 1894: §§ 3; 5 (tr. it. 1988: 63-65; 73-82). Cfr. supra 2.2.2. Cfr. Meinong 1899, GA II: 386-389 (tr. it. 2002: 162-165).

ma Meinong – sussiste103. Lo stesso vale per una complessione come, poniamo, quella di “quattro noci”, laddove la quadruplicità non esiste accanto alle noci, ma certo sussiste. Cosa significa che qualcosa non esiste ma sussiste? Significa che l’essere si dà in due modi: come esistenza, ossia come essere temporalmente determinato, e come sussistenza, come essere atemporale; è in tal senso che i numeri e le relazioni sono, ma non esistono, bensì sussistono104. Da un punto di vista gnoseologico, la distinzione sta nel fatto che l’esistente viene conosciuto aposteriori, il sussistente apriori105. Anche la coppia concettuale reale-ideale può essere caratterizzata in termini gnoseologici: reali si dicono gli oggetti che sono percepibili per natura, ideali quelli che sempre per natura, non potendo esistere, non sono nemmeno percepibili. È importante rilevare che esistenza e realtà non sono sinonimi; fondamentale al riguardo è la nozione di possibilità: è reale non soltanto ciò che esiste, ma anche ciò che può esistere (come una casa, un cronografo, un libro), mentre è ideale ciò che non può esistere, ma può sussistere. Di nuovo, accanto alle complessioni ideali si danno quelle reali, con cui coincidono, secondo il principio di coincidenza, relazioni reali (come le determinazioni di tempo e luogo)106. Gli oggetti di ordine superiore sono denominati da Meinong “oggetti fondati”, in quanto sono il risultato di un processo di fondazione, che ha luogo per necessità logica una volta dati i fondamenti, ossia gli inferiora: posti due colori, ad esempio il rosso e il verde, ne segue necessariamente la relazione di diversità. Gli oggetti fondati corrispondono alle qualità figurali di Ehrenfels; e qui è evidente, in seguito all’introduzione della distinzione di contenuto e oggetto, la distanza dalla 103 104

105 106

Cfr. ivi: 395 (tr. it. 169). Cfr. ivi: 442 (tr. it. 207); 1902: 189; 19102, GA IV: 64; 75. Secondo Meinong, ciò che esiste sussiste anche, ma non vale l’inverso [1904, GA II: 519 (tr. it. 2002: 265); 19102, GA IV: 74; 1915, GA VI: 63; 1921, GA VII: 20 (tr. it. 2002: 298)]; pertanto, come osserva K. Lambert (1983: 4), è corretto dire che gli oggetti sussistenti sono atemporali, a condizione di intendere oggetti esclusivamente sussistenti. Cfr. Meinong 1902; ed. 19102, GA IV: 77. Cfr. Meinong 1899, GA II: 394-397 (tr. it. 2002: 169-171). In base alle definizioni date, si potrebbe ritenere che la montagna d’oro vada classificata fra gli oggetti reali, in realtà – come osserva Mally (GA I: 494, Zusatz 17) – un oggetto che possiede le uniche determinazioni di essere una montagna e di essere d’oro, ed è per il resto ontologicamente incompleto sotto tutti gli altri rispetti, non può esistere né quindi essere reale (cfr. infra 2.2.5.).

concezione precedente. I superiora possono essere a loro volta inferiora di altri superiora, vale a dire che la serie dei livelli di ordine è aperta verso l’alto, invece, se scendiamo verso il basso, alla fine raggiungiamo necessariamente degli elementi ultimi non ulteriormente divisibili. È questo il principio degli infima obbligatori. La fondazione è il pendant ontologico della produzione rappresentazionale107: questa spiega come si producono dalle rappresentazioni degli inferiora le rappresentazioni dei superiora, la prima come si originano gli oggetti di ordine superiore da oggetti di ordine inferiore. Una differenza sostanziale fra le due sta nell’esistenza di un rapporto di necessità logica nella fondazione, che invece manca alla produzione rappresentazionale: due oggetti A e B fondano necessariamente la relazione di diversità, che sussiste anche se non viene colta da nessun soggetto; invece, date delle rappresentazioni elementari, non necessariamente queste devono dar luogo alla rappresentazione di un determinato superius, potendo produrre rappresentazioni di diversi superiora oppure esistere anche senza di esse108. Un oggetto di ordine superiore è anche l’obbiettivo, alla cui teorizzazione Meinong giunge nel libro Sulle assunzioni (1902; 19102), attraverso una riflessione su un tipo di vissuti intermedi fra le rappresentazioni e i giudizi. I giudizi – da distinguere dalle proposizioni quali loro espressioni linguistiche – sono caratterizzati dal momento della posizione, l’essere o affermativi o negativi, e da quello della convinzione, l’essere asseriti con pretesa di verità109. In base a queste due caratteristiche, essi si distinguono nettamente dalle rappresentazioni, che non possono essere né vere o false, né affermative o negative. Essendo le rappresentazioni i fondamenti indispensabili di qualsiasi evento della vita psichica, i giudizi sono vissuti non-indipendenti. Inoltre, un giudizio non deve consistere necessariamente di un soggetto e un predicato, perché anche la proposizione “A è” esprime un giudizio110. Fin qui Meinong non si discosta dalla concezione di Brentano111: lo fa invece con la teoria delle assunzioni. 107 108

109 110 111

Cfr. supra 2.2.2. Cfr. Meinong 1899, GA II: 398-399 (tr. it. 2002: 172-173); 1902: 9; 19102, GA IV: 15-16; 251 s. Per maggiori dettagli sui temi trattati qui e in 2.2.2, cfr. W.G. Stock 1995; Raspa 1999b; 2005a. Cfr. Meinong 1902; ed. 19102, GA IV: 357; 1917, GA III: 305. Cfr. Meinong 1902: 1-3; 256; 19102, GA IV: 1-4; 46; 339; 1917, GA III: 290; 294. Cfr. Brentano 1874 (1924-19282, II: 34; 38 ss.; 48 ss.; tr. it. 1997, II: 42; 46 ss.; 53 s.); 1956: 33 s.

Non sempre le nostre asserzioni sono formulate con pretesa di verità; si pensi ai ragionamenti ipotetici, alle proposizioni interrogative, ottative, imperative – che esprimono una richiesta di informazione, un desiderio, un comando, ma non un giudizio –, oppure alle subordinate che occorrono in proposizioni del tipo “temo, suppongo, contesto che p”, e si pensi anche alla menzogna, al gioco, alle opere narrative112. La posizione è quindi indipendente dalla convinzione: può esserci affermazione o negazione senza convinzione, ma non convinzione senza posizione. Un vissuto psichico che possiede solo il momento della posizione è un’assunzione. Ma se “l’assunzione è il giudizio senza convinzione”, è vera anche la reciproca, che “il giudizio è l’assunzione con l’aggiunta della convinzione”113. Qui ci soccorre la tricotomia di atto, contenuto e oggetto. Giudizi e assunzioni hanno in comune il contenuto e l’oggetto, poiché ciò che può essere giudicato – che A (non) è, o che un certo A (non) è B – può anche essere assunto, ma si distinguono per la qualità dell’atto, caratterizzato da un “momento quantitativo” consistente nel più e meno di certezza del giudicare, che ammette variazioni di grado114. Se la convinzione implica la posizione e ammette gradazioni fi no al limite zero, allora l’assunzione può essere defi nita come “un tipo di caso limite del giudizio, caratterizzato dal valore nullo dell’intensità della convinzione”115, ossia come il limite inferiore di una serie continua di gradi, in cui alla fine resta solo la posizione. Meinong chiama gli oggetti delle rappresentazioni (come una casa, un albero, un numero) “obbietti”, gli oggetti dei giudizi e delle assunzioni “obbiettivi”. Con la nozione di obbiettivo, che lo pone di nuovo in disaccordo rispetto a Brentano116, egli affronta in primo luogo la questione: che cosa corrisponde a un giudizio negativo vero? L’esame della risposta fornita da Meinong – un obbiettivo sussistente – ci permette di illustrare le proprietà principali dell’obbiettivo quale oggetto di ordine superiore, al massimo sussistente, portatore di verità. Consideriamo la proposizione “non c’è stato nessun attentato a Baghdad”. Per suo tramite viene conosciuto “qualcosa”, ma cosa? Non 112 113 114 115 116

Cfr. Meinong 1902: 26 ss.; 40-51; 19102, GA IV: 33 ss.; 110-120; 359. Meinong 1902: 257; 19102, GA IV: 340; 368; 1921, GA VII: 33 (tr. it. 2002: 310). Cfr. Meinong 1902; 19102, GA IV: 341 ss.; 377-378. Ivi: 344. Cfr. Brentano 1874 (1924-19282: II, 160; 234; tr. it. 1997: 139; 191-192).

l’attentato a Baghdad, del quale non si dice nulla, se non che non c’è stato. Questo “qualcosa” – sostiene Meinong – non può essere espresso da un termine singolare, sia pure composto, che esprimerebbe una rappresentazione con un obbietto come oggetto, ma solo da una proposizione introdotta da “che”: “che non c’è stato nessun attentato a Baghdad”. Non si tratta di “un pezzo di realtà”, poiché se ne nega l’esistenza, e nemmeno – l’abbiamo appena visto – di un obbietto. Per spiegare cos’è questo qualcosa che non è un obbietto, o almeno non solo un obbietto, occorre ampliare il senso del termine “oggetto del giudizio”, e accettare che oltre all’oggetto su cui si giudica, nel nostro esempio l’obbietto “attentato a Baghdad”, c’è anche l’oggetto che viene giudicato, ossia l’obbiettivo “che non c’è stato nessun attentato a Baghdad”. Sembra che il giudizio abbia due oggetti, in realtà l’obbiettivo non sta separato accanto all’obbietto, anzi solo esso è il vero oggetto del giudizio, mentre l’obbietto che viene appreso, e di primo acchito emerge in primo piano, si trova sempre nell’obbiettivo, di cui costituisce “un tipo di componente integrante”. Tuttavia, il giudizio è primariamente rivolto all’obbietto in forza di un “interesse naturale” – lo stesso su cui si fonda, vedremo, il pregiudizio a favore del reale –, che porta a far retrocedere sullo sfondo l’oggetto che si giudica a favore dell’oggetto su cui si giudica117. Se l’obbiettivo esige obbietti quali fondamenti così come il giudizio esige rappresentazioni, allora esso è un oggetto di ordine superiore. Un obbiettivo espresso dal giudizio “A è B” è un superius, che si costruisce sugli obbietti A e B; l’obbiettivo “che A è B” è l’oggetto immediato del giudizio, mentre gli obbietti A e B sono, malgrado la loro posizione dominante, gli oggetti mediati su cui si giudica. Un obbiettivo può anche occupare il posto di un obbietto, ovvero di ciò su cui si giudica. Nel giudizio “è vero che A non esiste”, sia l’oggetto immediato sia quello mediato sono obbiettivi: l’oggetto mediato è “che A non esiste”, quello immediato l’obbiettivo di ordine superiore “che è vero che A non esiste”. A ogni obbiettivo spettano infiniti obbiettivi di ordine superiore, ciò significa che la serie di ordine è aperta verso l’alto, mentre è chiusa verso il basso, in quanto (per il principio degli infima obbligatori) termina sempre con elementi ultimi, corrispondenti a uno o più obbietti118. 117 118

Cfr. Meinong 1902: 150-153; 19102, GA IV: 42-44; 47. Cfr. Meinong 1902; 19102, GA IV: 49 ss.; 62-63; 135; 1917, GA III: 389-390; 1921, GA VII: 17 (tr. it. 2002: 295).

Oltre alle negazioni, anche le affermazioni e i giudizi falsi hanno come oggetto un obbiettivo. In “fuori c’è la neve”, la “neve” è l’obbietto, “che fuori c’è la neve” è l’obbiettivo; ciò vale anche se fuori non c’è neve, poiché, come non si dà rappresentazione senza obbietto, e il fatto che questo non esista non rende la rappresentazione priva di oggetto, così non si dà giudizio (o assunzione) senza obbiettivo, anche nel caso in cui questo non sussista. Cosa significa che c’è un obbiettivo che non sussiste? Gli obbiettivi non sono un pezzo di realtà – reali sono tutt’al più gli obbietti che occorrono in essi – e non sono nemmeno nella mente di chi giudica (come i giudizi e le assunzioni); e se non sono né fisici né psichici, possono essere solo oggetti ideali, che, come tutti gli oggetti ideali, possono sussistere ma non esistere. A differenza degli obbietti ideali, gli obbiettivi sono portatori di verità. Data una proposizione come “è vero che ci sono gli antipodi”, la verità è attribuita non agli obbietti (gli antipodi), ma all’obbiettivo “che ci sono gli antipodi”119. Ne deriva che un obbiettivo vero è semplicemente un obbiettivo sussistente, e un obbiettivo sussistente è un fatto120; di contro, un obbiettivo falso è un obbiettivo non sussistente. Gli obbietti – abbiamo detto più sopra – possono esistere (come gli alberi e le case), sussistere (come le figure geometriche) o nemmeno sussistere (come il quadrato rotondo), in tal caso – vedremo in 2.2.4 – sono al-difuori-dell’essere (außerseiende); agli obbiettivi è preclusa l’esistenza, per cui possono sussistere o meno. Ma se i fatti non sono altro che obbiettivi sussistenti, allora – stando a Meinong – i fatti non esistono ma sussistono, e la nostra conoscenza, che consiste fondamentalmente di obbiettivi, è in linea di principio conoscenza del non-esistente, che tutt’al più sussiste. Una simile concezione si oppone chiaramente al cosiddetto “pregiudizio a favore del reale”; ed è per evitare di cadere in tale pregiudizio che è necessaria la teoria dell’oggetto.

2.2.4. La fondazione Il 1904 segna l’effettivo atto di nascita della teoria dell’oggetto. Non si tratta di una cesura nel percorso filosofico di Meinong, bensì di un passaggio di livello. Il saggio Sulla teoria dell’oggetto raccoglie e inte119 120

Cfr. Meinong 1904, GA II: 487 (tr. it. 2002: 240). Cfr. Meinong 1902; 19102, GA IV: 69.

gra i risultati di un lungo processo di elaborazione teorica: nel nuovo quadro concettuale, le tesi precedentemente esaminate si caricano di ulteriori significati e trovano un più ampio campo di applicazione. Ma l’intento di Meinong non è tanto mostrare le connessioni fra le nuove ricerche e le precedenti, quanto giustificare l’introduzione, accanto alle scienze tradizionali, di quella che ritiene sia a pieno titolo una nuova disciplina filosofica121. A tal fine, Meinong inizia col mostrare i problemi che sorgono in sede di suddivisione delle scienze: a volte i rispettivi ambiti di ricerca si sovrappongono, altre volte non si toccano, fino a dare origine a una zona intermedia non presa in esame; nel primo caso, è un gran guadagno che la medesima regione del sapere sia studiata da più scienze particolari, nel secondo, invece, lo svantaggio che ne deriva è proporzionale all’ampiezza e importanza della “zona neutrale”. Condizionate da un pregiudizio insito nella nostra natura, il “pregiudizio a favore del reale”122 – Meinong scrive anche “dell’esistenza”123 e “dell’essere”124 –, secondo cui per parlare di qualcosa, per potergli attribuire delle proprietà, è necessario presupporre che esso sia, le scienze tradizionali hanno considerato l’irreale come un semplice nulla e si sono occupate solo del reale; pertanto, ampi e importanti gruppi di oggetti sono rimasti “senza patria”125. Nasce di qui l’esigenza di una scienza “dell’oggetto in quanto tale e degli oggetti nella loro totalità”, non una somma delle scienze particolari, bensì “una scienza comprensiva accanto alle scienze singole”, che colmi i vuoti sussistenti fra di esse126. Una simile scienza non tratterà solo le classi di oggetti finora trascurati, sarà invece abbastanza generale da includere anche questi oggetti; ed è ovvio che, nel fare ciò, si sovrapporrà in parte ad altre scienze. Qual è dunque questa scienza e quali sono le scienze affini, da cui essa si distingue o pretende di distinguersi? 121

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Cfr. Meinong 1904, GA II: 526; 529 (tr. it. 2002: 270; 273); 1921, GA VII: 8; 13; 14 (tr. it. 285; 291; 292). Meinong 1904, GA II: 485 ss.; 505 (tr. it. 2002: 238 ss.; 254); 1906-1907, GA V: 235; 255; 1902; 19102, GA IV: 60; 218. Meinong 1904, GA II: 489; 494 (tr. it. 2002: 241; 246); 1915, GA VI: 181; 201. Meinong 1904, GA II: 494 (tr. it. 2002: 246); su ciò cfr. Barbero e Raspa 2005 (a c. di): 7-8. Meinong 1906-1907, GA V: 214 ss.; 1921, GA VII: 15 (tr. it. 2002: 293). Cfr. Meinong 1904, GA II: 486 (tr. it. 2002: 239); 1921, GA VII: 15 (tr. it. 294).

Essendo, quella di cui si è in cerca, una scienza della massima generalità e estensione, il confronto si porrà in primo luogo con la metafisica, che ha da sempre aspirato al più alto grado di universalità: se infatti la scienza ricercata esiste già, il tutto si riduce a un’operazione di carattere nominale. Ebbene, la metafisica si è da sempre occupata della totalità di ciò che esiste o è reale, ma la classe degli oggetti di conoscenza – sostiene Meinong – è di gran lunga più estesa della classe degli oggetti esistenti, poiché sono oggetti non soltanto i realia, ma anche gli irrealia. Quali esempi egli adduce oggetti ideali come le relazioni di somiglianza e diversità, ossia oggetti di ordine superiore127, gli obbiettivi128 e gli oggetti della matematica, che non esistono, ma tutt’al più sussistono; i numeri, infatti, non esistono in aggiunta alle cose contate. La matematica non si occupa dunque dell’esistenza, ma al massimo della sussistenza; eppure, se si considerano le sue innumerevoli applicazioni pratiche, è difficile sostenere che essa sia totalmente estranea alla realtà129. Tuttavia, essendo il suo campo d’indagine molto circoscritto, non può essere la matematica la scienza ricercata; e nemmeno può esserlo la metafisica, in quanto neppure essa è abbastanza generale. Ciò che qui si esige è una scienza che alla trattazione aprioristica degli oggetti propria della matematica unisca, senza esclusioni, l’aspirazione totalizzante della metafisica, e tratti quindi anche oggetti che, come quelli della matematica, non sono reali. Una simile scienza è possibile alla sola condizione che sia libera dal pregiudizio a favore del reale; tale è e vuole essere la teoria dell’oggetto. La critica del pregiudizio a favore del reale e l’elaborazione di una scienza libera dal presupposto esistenziale, una scienza apriori, indipendente dall’esperienza130, trovano espressione nel principio di indipendenza dell’esser-così dall’essere e nel principio dell’extraessere (Aussersein) dell’oggetto puro. “Esser-così” vuol dire “avere proprietà”131; e se conoscere un oggetto significa conoscerne le proprietà, allora significa conoscerne l’esser-così. Secondo il punto di vista teoretico-oggettuale, l’esser-così di un oggetto non è toccato dal 127 128 129 130

131

Cfr. supra 2.2.3. Ibid. Cfr. Meinong 1904, GA II: 487-488 (tr. it. 2002: 240); 1906-1907, GA V: 246 ss. Cfr. ivi: 239; 256-257. Secondo Meinong, un sapere libero dal presupposto esistenziale è possibile non soltanto per gli oggetti matematici e quelli “senza patria”, ma anche per gli oggetti esistenti (cfr. ivi: 241-242). Cfr. Meinong 1902; 19102, GA IV: 79.

suo non-essere, non occorre cioè, perché un oggetto possieda delle proprietà, che esso esista e nemmeno che sussista. Certo, in pratica non ha molto senso dire di una casa che è piccola o grande, se non esiste; d’altra parte, di oggetti che non esistono (come le figure geometriche) vengono studiate le proprietà, il loro esser-così. Dal punto di vista della conoscenza aposteriori, l’affermazione di un esser-così si basa sul sapere di un essere; e ugualmente, un esser-così cui manca l’essere può perdere per noi ogni interesse naturale – come accade per gli oggetti impossibili –, ma per una scienza apriori quale vuole essere la teoria dell’oggetto, tutto ciò non inficia la validità del principio di indipendenza. Se dunque si può parlare dell’esser-così di un oggetto indipendentemente dal suo essere, dal fatto che esista o sussista, allora – e ciò susciterà la ferma reazione di Russell132 – oggetti non-esistenti possono occorrere come soggetti genuini in proposizioni vere. Inoltre, se a tale principio sottostanno non soltanto gli oggetti nonesistenti sussistenti, ma anche quelli impossibili, che non possono né esistere né sussistere, è lecito affermare: “Non solo la tanto celebrata montagna d’oro è d’oro, ma anche il quadrato rotondo è certamente tanto rotondo quanto quadrato”. Per conoscere che A non c’è, è necessario esprimere un giudizio su A, e un giudizio non può non vertere su qualcosa; pertanto, rispetto ai giudizi che apprendono un certo non-ente, questo deve poter fungere da oggetto, ed è irrilevante che sia un non-ente necessario (come il quadrato rotondo) oppure fattuale (come la montagna d’oro). Meinong giunge così a formulare il paradosso: “ci sono oggetti, per i quali vale che simili oggetti non ci sono”133, un paradosso che viene sciolto introducendo la nozione di extra-essere dell’oggetto puro. Se, per poter predicare di un oggetto determinate proprietà, non è necessario presupporre che esso esista o sussista, tuttavia, affermare che un certo oggetto non esiste, presuppone che esso “in un certo modo” ci sia, ovvero – precisa Meinong – sia “dato antecedentemente” in una maniera pura, anteriore all’accertamento del suo eventuale essere o non-essere – altrimenti non si potrebbe neanche porre la questione del suo essere o non-essere. Come sappiamo, un obbiettivo vero, che afferma il non-essere di un certo oggetto, sussiste, ma di qui non si può dedurre la sussistenza 132

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Cfr. Russell 1905a/1973: 107-108; 115-117 (tr. it. 1976: 96; 103-104); 1905c/1973: 77-81 (tr. it. 70-74). Meinong 1904, GA II: 490 (tr. it. 2002: 242).

del relativo obbietto (si ricordi l’esempio “che non c’è stato nessun attentato a Baghdad”); d’altra parte, se l’obbiettivo è un oggetto di ordine superiore, com’è possibile che esso sussista, non però i suoi inferiora? La soluzione escogitata da Meinong consiste nel postulare un oggetto puro, che sta “al di là dell’essere e del non-essere”. È così introdotto l’extra-essere: non un terzo tipo di essere accanto all’esistenza e alla sussistenza, bensì una sorta di denominatore comune a tutti gli oggetti di cui si può parlare o che possono essere appresi. In tal senso, l’extra-essere spetta a tutti gli oggetti134, a tutte le possibili combinazioni di proprietà, anche a quelle arbitrarie e stravaganti. Che un oggetto è al-di-fuori-dell’essere significa, dal punto di vista del soggetto, in primo luogo che può essere appreso e, quindi, giungere all’espressione, e che solo successivamente gli si attribuisce o meno l’esistenza, la sussistenza o un’altra determinazione. Tutto ciò che può essere appreso è dato, e qui la datità è intesa come una qualità più generale dell’essere135. Possiamo ora fissare la classificazione ontologica data sopra: ci sono oggetti che sono solo (a) al-di-fuori-dell’essere, altri che – in aggiunta – (b) sussistono, e altri ancora che (c) esistono. Il principio dell’extra-essere è il pendant del principio di indipendenza; insieme esprimono la nozione di Daseinsfreiheit. Il paradosso di Meinong, “ci sono oggetti, per i quali vale che simili oggetti non ci sono”, si scioglie in questo modo: si danno oggetti, che non ci sono nel senso dell’esistenza o della sussistenza, oggetti che sono solo aldi-fuori-dell’essere. Un primo effetto delle nuove tesi teoretico-oggettuali si ha riguardo alla concezione degli oggetti fittizi come Pegaso, Amleto o l’Eldorado: essi non sono creati, ma tirati fuori, scelti dall’infinita totalità degli oggetti al-di-fuori-dell’essere136. Inoltre, Meinong può riconsiderare il problema da cui era partito: la classificazione delle scienze. Quella corrente distingue fra scienze della natura e scienze dello spirito, ma in questo modo, tenendo cioè conto solo del sapere che ha a che fare con il reale, esclude la matematica, la scienza più sviluppata. In base al criterio della Daseinsfreiheit, invece, abbiamo da un lato le scienze dell’esistente o del 134

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Cfr. Meinong 1917, GA III: 306; 1921, GA VII: 21 (tr. it. 2002: 298). Farebbero eccezione gli oggetti difettivi, su cui cfr. Meinong 1917, GA III: 304-309; Jacquette 1996: 37 ss. Cfr. Meinong 1904, GA II: 491-494; 500 (tr. it. 2002: 243-246; 250-251); 1902; 19102, GA IV: 80, 277; 1915, GA VI: 181. Cfr. Meinong 1905, GA I: 603; 1902; 19102, GA IV: 274.

reale, che possono essere ricondotte sotto quella scienza somma che è la metafisica, dall’altro le scienze libere dal presupposto esistenziale, riconducibili sotto la teoria generale dell’oggetto137.

2.2.5. Sviluppi maturi Nelle opere della maturità, a partire dalla seconda edizione del libro Sulle assunzioni, fino a Su possibilità e probabilità e Sulla presentazione emozionale, la prospettiva teoretico-oggettuale, esposta in termini generali nel decennio precedente, diventa una lente attraverso la quale Meinong osserva, comprende e spiega il mondo. Tali opere sono sì ulteriori contributi all’edificazione della teoria dell’oggetto, ma anche applicazioni del metodo teoretico-oggettuale a specifici ambiti tematici: dall’esame di singole problematiche, apparentemente non rilevanti, Meinong giunge a prendere posizione su questioni di ampia portata e, all’inverso, l’esame di specifiche questioni esige che le si collochi in contesti più generali. Fin qui è emersa una predilezione di Meinong per le distinzioni e le classificazioni, vediamo ora come, accanto a questo aspetto, la teoria dell’oggetto ne mostri un altro ugualmente caratterizzante, che privilegia, al fine di dare ragione dell’imperfezione del mondo, le nozioni di variabilità, gradualità, incrementabilità. I due aspetti si integrano a vicenda: il primo è necessario per fare chiarezza, il secondo per evitare di cadere in attraenti e ‘chiare’ semplificazioni138. A questo secondo aspetto abbiamo già accennato parlando dei giudizi che ammettono una gradualità del momento della convinzione, il cui limite infimo è dato dalle assunzioni139; ma anche le assunzioni ammettono una simile gradualità. Per comprendere questo punto, esaminiamo brevemente la classificazione meinongiana dei vissuti psichici principali. Essi sono o intellettuali o emozionali; il primo gruppo comprende rappresentazioni e pensieri (ossia giudizi e assunzioni), il secondo sentimenti e desideri. Meinong divide i vissuti in seri e fan137

138 139

Cfr. Meinong 1904, GA II: 488; 520-521 (tr. it. 2002: 241; 266) e il Kolleg über Wissenschaftslehre (1978, GA, Ergänzungsband: 161-208, spec. 167-168; 181-183), su cui ha richiamato l’attenzione Haller 1979: 67-77. Per maggiori dettagli sui temi trattati in questo paragrafo, cfr. Raspa 2005b. Cfr. supra 2.3.3.

tastici, distinguendoli non per il contenuto, ma per la qualità dell’atto. Di fronte alle rappresentazioni percettive (o serie), che ci vengono dalla percezione interna o esterna, stanno le rappresentazioni fantastiche; queste sono rappresentazioni composte, consistenti di elementi posti fra loro in una tale relazione reciproca da costituire dei complessi intuitivi, che si fondano in ultima analisi sulle rappresentazioni percettive. Le assunzioni si rapportano ai giudizi come le rappresentazioni fantastiche alle serie, perciò possono essere dette “giudizi fantastici”. Parimenti ci sono sentimenti e desideri fantastici – come quelli che si provano leggendo un romanzo o assistendo a uno spettacolo teatrale – contrapposti ai sentimenti e ai desideri veri e propri140. Meinong suddivide i vissuti fantastici in “umbratili” e “simili-ai-seri”, in base alla maggiore o minore lontananza dai corrispondenti vissuti seri; ne deriva che tali concetti ammettono variazioni di grado. I giudizi – abbiamo visto – possono essere intesi come assunzioni, cui si aggiunge la convinzione secondo gradi di intensità; ebbene, anche l’assunzione può presentare un momento che non è ancora convinzione, ma le è così simile, da far apparire l’assunzione simile al giudizio, sebbene non cessi di essere assunzione; una tale assunzione si dice “simileal-giudizio”, diversamente “umbratile”. Che anche il momento simile alla convinzione varii in misura crescente o decrescente è attestato dal fatto che Meinong non esclude il darsi di livelli intermedi fra questi due tipi di assunzioni. Abbiamo così un continuo dalle assunzioni più umbratili a quelle simili-ai-giudizi, in cui varia il momento simile alla convinzione, fino alle assunzioni con convinzione, ossia ai giudizi, in cui varia il momento della convinzione. Come ci sono assunzioni umbratili e simili-ai-giudizi, così ci sono rappresentazioni, sentimenti e desideri fantastici più o meno umbratili o simili ai vissuti seri141. Un punto fermo della filosofia meinongiana è che l’oggetto è il “logicamente primo”142, che sussiste indipendentemente dal fatto di essere appreso. L’origine etimologica del termine “Gegenstand (oggetto)” da “gegenstehen (stare di fronte)” è quindi fuorviante, perché all’oggetto non è essenziale stare di fronte a un soggetto; essa rimanda però indirettamente ai vissuti che apprendono gli oggetti, e infatti ogni oggetto può essere appreso. Ma allora – argomenta Meinong – si 140 141 142

Cfr. Meinong 1902; 19102, GA IV: 309 ss., spec. 312-313; 335-336; 377 ss. Cfr. Meinong 1917, GA III: 332-335. Cfr. ivi: 300-301; 354; 1921, GA VII: 22; 45; 47 (tr. it. 2002: 300; 321; 322).

possono determinare le classi principali di oggetti a partire dalle classi principali dei vissuti apprendenti: al rappresentare, pensare (giudicare e assumere), sentire e desiderare corrispondono, rispettivamente, obbietti, obbiettivi – che già conosciamo, ai quali si aggiungono ora – dignitativi e desiderativi. È questa la classificazione degli oggetti di carattere gnoseologico, riguardo alla quale Meinong precisa che non c’è, “al momento”, garanzia di completezza143. Se all’oggetto non è essenziale essere appreso, d’altra parte ogni vissuto (per la tesi dell’intenzionalità) ha un oggetto verso il quale è indirizzato. Limitandoci a trattare obbietti e obbiettivi, vediamo in che senso si può parlare, anche per gli oggetti, di “un più o un meno di determinatezza”. Abbiamo visto144 che un obbiettivo vero è un obbiettivo sussistente e che un obbiettivo sussistente è un fatto; l’essere fattuale è quindi una proprietà degli obbiettivi sussistenti o veri. Gli obbiettivi falsi, invece, la cui negazione è fattuale, non sussistono e sono non-fattuali. Fra i due limiti della fattualità e della non-fattualità si stende la linea della “subfattualità”, che ammette variazioni di grado e – in maniera imprecisa – coincide sostanzialmente, anche se non completamente, con la possibilità145, che è appunto “‘fattualità di grado inferiore’, fattualità diminuita o, per così dire, ancora incompiuta”146. Esempi di obbiettivi subfattuali sono “che il triangolo è equilatero”, oppure “che Lucia Mondella ha gli occhi neri”, ossia obbiettivi il cui soggetto è un oggetto incompleto. Nel definire gli oggetti incompleti, incontriamo un’altra classificazione degli oggetti, più precisamente degli obbietti. Questi possono essere (a) completamente determinati in tutti i loro aspetti, vale a dire, conformemente al principio kantiano della determinazione completa147, essere tali che di una coppia di predicati opposti, dati o possibili, uno dei due appartiene loro necessariamente; ciò significa che per essi vale il principio del terzo escluso. Oggetti completi sono gli oggetti concreti, effettivamente esistenti, e quelli sussistenti. Un oggetto preso in abstracto non è invece determinato rispetto a tutte le sue possibili proprietà: l’oggetto “qualcosa di blu” non lo è rispetto all’estensione, 143 144 145 146 147

Cfr. Meinong 1917, GA III: 397; 1921, GA VII: 14; 16 (tr. it. 2002: 293; 295). Cfr. supra 2.2.3. Cfr. Meinong 1915, GA VI: 94 ss.; 147. Ivi: 92. Cfr. KrV B 599-600 / A 571-572. Cfr. anche Haller 1986: 76.

così come il triangolo in astratto non lo è rispetto all’equilateralità, ma solo alle determinazioni di cui gode un triangolo in astratto. Oggetti non determinati riguardo a una o più proprietà, per cui a essi non sempre si applica il terzo escluso, si dicono (b) incompleti, in quanto sono ipodeterminati. Gli oggetti impossibili come il quadrato rotondo sono per contro (c) sovradeterminati, perché possiedono un surplus di almeno una proprietà, incompatibile con una (o più) proprietà del medesimo oggetto. Tutto ciò che esiste o sussiste è completamente determinato quanto all’esser-così, e quel che è completamente determinato riguardo all’esser-così lo è anche riguardo all’essere; oggetti indeterminati quanto all’esser-così sono invece indeterminati quanto all’essere, a meno che la loro natura non escluda l’essere (come accade per gli oggetti impossibili)148. Ma se solo gli oggetti completi esistono o sussistono, esaurendo l’ambito dell’essere149, che tipo di essere spetta agli oggetti incompleti? Una risposta ovvia è: l’extra-essere; ma così si porrebbero sullo stesso piano il triangolo in generale e il quadrato rotondo. Esaminiamo meglio gli oggetti incompleti, ai quali Meinong attribuisce funzioni gnoseologiche, semantiche e modali. Gli oggetti incompleti svolgono un ruolo fondamentale per l’apprensione degli oggetti150: in quanto ogni oggetto consiste in un insieme di determinazioni di esser-così, il cui numero varia fra 1 e ∞151, ne viene che non possiamo mai conoscere interamente un oggetto completo, che possiede infi nite proprietà, mentre possiamo conoscere uno incompleto, se il numero dei suoi attributi è sufficientemente piccolo; gli oggetti incompleti sono pertanto oggetti “ausiliari”, mediante i quali apprendiamo oggetti “finali”, i quali possono essere completi o anche incompleti. I significati delle parole sono spesso oggetti ausiliari, che vengono “completati”: se si parla “del” triangolo, non si intende l’oggetto incompleto più povero, bensì quello dotato di tutte le proprietà individuate dalla geometria, ossia completato; più precisamente, il significato delle parole consiste in un nucleo minimo di proprietà “costitutive”, da cui le altre, cosiddette “consecutive”, possono essere dedotte152. 148 149 150 151 152

Cfr. Meinong 1915, GA VI: 168-174; 178-180. Cfr. ivi: 185; 191; 202. Cfr. ivi: 182. Cfr. ivi: 168. Cfr. ivi: 196; 198; 203-204.

Meinong mutua da Mally la distinzione fra proprietà costitutive e consecutive così come l’individuazione di proprietà che non sono né costitutive né consecutive153, chiama queste ultime “extracostitutorie (außerkonstitutorische)”, per distinguerle dalle prime due, “costitutorie (konstitutorische)”. Per chiarire tale distinzione, facciamo degli esempi. “Una cosa rossa” è un oggetto semplice, che possiede una sola determinazione; se viene ulteriormente determinata in “una palla rossa d’avorio”, continua a essere una cosa rossa, ma non è più semplice. Un triangolo ha per definizione tre lati e può essere ulteriormente determinato come triangolo equilatero, continuando ad avere tre lati. Avere tre lati è allora una determinazione costitutiva del triangolo, essere semplice non lo è per il rosso; essere semplice è una determinazione extracostitutoria. La peculiarità dell’extracostitutorio è connessa alla maggiore o minore completezza dell’oggetto: se “una cosa rossa” è meno completa di “una palla rossa d’avorio”, e l’oggetto più determinato non prende da quello incompleto l’incompletezza allo stesso modo delle proprietà costitutorie, allora anche l’incompletezza è una proprietà extracostitutoria154. Veniamo all’essere degli oggetti incompleti. L’oggetto incompleto (ad esempio la palla) non esiste nelle singole cose individuali (nelle specifiche palle da biliardo esistenti) come una parte nel tutto, poiché tutte le parti di un oggetto completo sono a loro volta complete. L’oggetto incompleto è un oggetto implicato (implektiert) da parte di un implicante (Implektant, l’oggetto completo); nel nostro esempio, la palla è implicata in ciascuna delle singole palle da biliardo esistenti. Un oggetto incompleto è implicato in tutti gli oggetti completi che possono essere pensati per suo tramite, e ciò significa che esso non esiste o sussiste nel suo implicante, ma che il suo essere è determinato mediante l’esistenza o la sussistenza di tale implicante. Questo essere è un essere implicito (implexives Sein), ovvero un’esistenza o una sussistenza implicita: un oggetto incompleto non esiste separatamente, ma esiste o sussiste in modo implicito, se esistono o sussistono i suoi implicanti. Un oggetto impossibile come il quadrato rotondo non risulterà mai implicato, a differenza di uno possibile come il quadrilatero rettangolare. Gli oggetti incompleti hanno l’attitudine di occorrere come soggetti in obbiettivi subfattuali, e in quanto gli obbiettivi possibili sono obbiettivi subfattuali, gli oggetti 153 154

Cfr. Mally 1909: 882-883; 1912: 63-64; 75-76. Cfr. Meinong 1915, GA VI: 175-177; cfr. anche Mally 1912: 73.

incompleti sono i portatori della possibilità155. Ma oggetti incompleti sono anche gli oggetti fittizi, gli oggetti che occorrono nei testi letterari; quanto detto offre effettivamente molti elementi per un’ontologia del discorso narrativo, ed è in tale direzione che si è sviluppata gran parte della riflessione contemporanea su Meinong156. Per concludere, riprendiamo l’idea centrale da cui siamo partiti: Meinong presenta la teoria dell’oggetto come una nuova scienza, che tratta l’oggetto in quanto tale e nella sua generalità. Il confronto con la metafisica, intesa come scienza del reale, è stato condotto secondo una determinata accezione, e non esaminando la metafisica nella sua realizzazione storica. In tal modo – viene da obiettare – Meinong si è palesemente facilitato il compito: basta leggere l’incipit del quarto libro della Metafisica per trovare che “c’è una certa scienza che studia l’ente in quanto ente”157. Inoltre, se si considerano i precedenti storici della teoria dell’oggetto – cui si è accennato all’inizio di questo capitolo –, diventa difficile sostenere che essa è una nuova disciplina filosofica: rimanendo fermi ad Aristotele, già nelle Categorie è posto il problema degli oggetti non-esistenti158, né sono mancati autori che hanno assunto oggetti impossibili come il quadrato rotondo159. Da parte sua, Meinong sa bene che la metafisica è stata spesso accusata di essersi occupata piuttosto del non-esistente che del reale160, la qual cosa mette in questione la stessa definizione di metafisica da lui discussa. Infine, come si può porre a confronto una scienza ricercata con una che c’è da secoli? In quanto – risponde Meinong – la prima è stata da sempre praticata, sebbene non esplicitamente: ciò sarebbe avvenuto con la matematica, con le scienze che hanno cercato (e cercano) di applicare la trattazione more mathematico ai diversi ambiti del sapere, con la logica, la teoria della conoscenza, la scienza del linguaggio, soprattutto con la 155 156 157 158

159

160

Cfr. Meinong 1915, GA VI: 210 ss. Su ciò cfr. infra 5.3. Cfr. anche Orilia 2002. Aristotele, Met. IV 4, 1003 a 20. In Cat. 10, 13 b 12-35 Aristotele si chiede come si comportano le diverse forme di opposizione qualora il soggetto di una proposizione sia un oggetto nonesistente come Socrate, che, al tempo in cui egli scriveva, era già morto; su ciò cfr. Raspa 1999a: 38-40. Cfr. inoltre De int. 1 riguardo al tragelaphos, su cui cfr. Sillitti 1980. Cfr. ad esempio Clauberg 1647 (ed. 16643/1691: I, 289); su cui cfr. supra 1.3., oltre a Mancini 1960: 78; Ferraris 2003a: 22. Cfr. Meinong 1904, GA II: 521-522 (tr. it. 2002: 266-267).

metafisica a partire da Aristotele161. Ma allora la teoria dell’oggetto è un momento di un’ampia linea di ricerca, secondo cui, per poter dare ragione del mondo nella sua totalità, vanno presi in considerazione anche il non-esistente e le connessioni fra esistente e non-esistente; la peculiarità della teoria dell’oggetto sta nella centralità attribuita a questa idea, che è fondante di un discorso strutturato, e non accessoria.

Bibliografia ragionata 1. Opere di Meinong 1.1 Opere complete Alexius Meinong Gesamtausgabe, 7 voll., a c. di R. Haller, R. Kindinger, R.M. Chisholm, Graz, Akademische Druck- und Verlagsanstalt, 1968-1978 1.2 Scritti più significativi del lascito, consultabile presso la Universitätsbibliothek della Karl-Franzens-Universität Graz sotto la collocazione I 2065 (URL=http://www.uni-graz.at/sosa/nachlass/person/meinong/index.php) Kolleghefte und Fragmente. Schriften aus dem Nachlaß, a c. di R. Fabian e R. Haller, Graz, Akademische Druck- und Verlagsanstalt, 1978 1.3 Carteggio fi losofico Philosophenbriefe, a c. di R. Kindinger, Graz, Akademische Druck- und Verlagsanstalt, 1965 Alexius Meinong und Guido Adler. Eine Freundschaft in Briefen, a c. di G.J. Eder, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1995 1.4 Opere disponibili in traduzione italiana Empirismo e nominalismo. Studi su Hume, a c. di R. Brigati, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991 (contiene gli Studi su Hume I e II) Teoria dell’oggetto, a c. di V. Raspa, Trieste, Parnaso, 2002 (contiene Sugli oggetti di ordine superiore e il loro rapporto con la percezione interna, Sulla teoria dell’oggetto e Autopresentazione) Teoria dell’oggetto, a c. di E. Coccia, Macerata, Quodlibet, 2003 (contiene Teoria dell’oggetto e Presentazione personale) 161

Cfr. ivi: 515 (tr. it. 262).

2. Opere critiche e siti web che contengono repertori bibliografici M. Lenoci, La teoria della conoscenza in Alexius Meinong. Oggetto, giudizio, assunzioni, Milano, Vita e Pensiero, 1972: 305-369 W.L. Gombocz et al., a c. di, International Bibliography of Austrian Philosophy. Internationale Bibliographie zur österreichischen Philosophie, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1986M. Stock - W.G. Stock, Psychologie und Philosophie der Grazer Schule, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1990 A. Meinong, Teoria dell’oggetto, a c. di V. Raspa, Trieste, Parnaso, 2002: 79-145 R. Corazzon, a c. di, Ontology. A Resource Guide for Philosophers, URL = http://www.formalontology.it/ 3. Letteratura critica 3.1 Esposizioni complessive classiche della teoria dell’oggetto J.N. Findlay, Meinong’s Theory of Objects and Values, Oxford, Oxford University Press, 19331; ivi, 19632 R. Grossman, Meinong, London-Boston, Routledge&Kegan Paul, 1974 3.2 Testi di carattere critico G. Bergmann, Realism. A Critique of Brentano and Meinong, Madison - Milwaukee - London, University of Wisconsin Press, 1967 K.J. Perszyk, Nonexistent Objects. Meinong and Contemporary Philosophy, Dordrecht-Boston-London, Kluwer, 1993 3.3 Saggi di particolare rilevanza R. Haller, Studien zur österreichischen Philosophie. Variationen über ein Thema, Amsterdam, Rodopi, 1979 R.M. Chisholm, Brentano and Meinong Studies, Amsterdam, Rodopi, 1982 3.4 Ricerche di carattere storico D.F. Lindenfeld, The Transformation of Positivism. Alexius Meinong and European Thought, 1880-1920, Berkeley - Los Angeles - London, University of California Press, 1980 E. Dölling,“Wahrheit suchen und Wahrheit bekennen”. Alexius Meinong: Skizze seines Leben, Amsterdam - Atlanta, Rodopi, 1999

3.5 Volumi collettivi R. Haller, a c. di, Jenseits von Sein und Nichtsein. Beiträge zur Meinong-Forschung, Graz, Akademische Druck- und Verlagsanstalt, 1972 R. Haller, a c. di, Meinong und die Gegenstandstheorie. Meinong and the Theory of Objects, “Grazer Philosophische Studien”, 50 (1995) L. Albertazzi, a c. di, The Philosophy of Alexius Meinong, “Axiomathes”, 7 (1996), 1-2 L. Albertazzi, D. Jacquette, R. Poli, a c. di, The School of Alexius Meinong, Aldershot-Burlington-Singapore-Sydney, Ashgate, 2001 C. Barbero - V. Raspa, a c. di, Il pregiudizio a favore del reale. La teoria dell’oggetto di Alexius Meinong fra ontologia e epistemologia, “Rivista di Estetica”, n.s., 30 (2005) A. Schramm, a c. di, Meinong Studies / Meinong Studien, 1, Frankfurt/M., Ontos Verlag, 2005 V. Raspa, a c. di, Meinong Studies / Meinong Studien, 2. Meinongian Issues in Contemporary Italian Philosophy, Frankfurt/M., Ontos Verlag, 2006 3.6 Principali testi in italiano su Meinong M. Lenoci, La teoria della conoscenza in Alexius Meinong. Oggetto, giudizio, assunzioni, Milano, Vita e Pensiero, 1972 R. Brigati, Il linguaggio dell’oggettività. Saggio su Meinong, Torino, Thema, 1982 M. Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong, Macerata, Quodlibet, 2005 F. Modenato, La conoscenza e l’oggetto in Alexius Meinong, Padova, Il Poligrafo, 2006 3.7 Sulla linea di ricerca rappresentata dalle semantiche meinongiane H.-N. Castañeda, Thinking and the Structure of the World, “Philosophia”, 4 (1974): 3-40 W.J. Rapaport, Meinongian Theories and a Russellian Paradox, “Noûs”, 12 (1978): 153-180 T. Parsons, Nonexistent Objects, New Haven - London, Yale University Press, 1980 R. Routley, Exploring Meinong’s Jungle and Beyond, Canberra, Australian National University, 1980 K. Lambert, Meinong and the Principle of Independence. Its Place in Meinong’s Theory of Objects and its Significance in Contemporary Philosophical Logic, Cambridge, Cambridge University Press, 1983

E.N. Zalta, Abstract Objects. An Introduction to Axiomatic Metaphysics, Dordrecht-Boston-Lancaster, Reidel, 1983 E.N. Zalta, Intensional Logic and The Metaphysics of Intentionality, Cambridge (Mass.) - London, The MIT Press, 1988 D. Jacquette, Meinongian Logic. The Semantics of Existence and Nonexistence, Berlin - New York, de Gruyter, 1996 J. PaĜniczek, The Logic of Intentional Objects: A Meinongian Version of Classical Logic, Dordrecht-Boston-London, Kluwer, 1997 F. Orilia, Ulisse, il quadrato rotondo e l’attuale re di Francia, Pisa, ETS, 2002; ivi, 20052

2.3. A PRIORI MATERIALE di Vincenzo Costa

2.3.1. Apriori materiale e fondazione fenomenologica Sia pure nelle differenze di fondo, l’orientamento verso l’oggetto appare un tratto comune della scuola di Brentano, e caratterizza anche il suo esponente più celebre, Edmund Husserl162. In queste pagine vorremmo discutere la nozione husserliana di apriori materiale e la sua funzione all’interno del complessivo progetto fenomenologico-trascendentale. Si tratta di mostrare come il problema fenomenologico della fondazione non riguardi il raggiungimento di un soggetto presente a sé, privo di ombre, trasparente da parte a parte, ma la costruzione di una teoria dell’esperienza trascendentale, di un’estetica trascendentale che, nella sua radice ultima, rimanda all’analisi della costituzione originaria, cioè delle strutture fondamentali che regolano la vita di coscienza in quanto vita trascendentale in cui si costituisce un mondo. L’epoché, il riferimento ai fenomeni in quanto tali, a prescindere dall’esistenza degli oggetti che si manifestano, si limita a rendere possibile il lavoro fenomenologico, a delimitare il suo ambito rispetto a ricerche di altro ordine, soprattutto psicologiche e psicofisiche, quando non addirittura biologiche, aprendo così il campo della ricerca trascendentale. A differenza del dubbio cartesiano, l’epoché fenomenologica non mira a ottenere conoscenze da porre alla base di una catena deduttiva, né offre “nuovi principi fondamentali, cioè premesse maggiori e punti di partenza”163. Per Husserl, al contrario di Cartesio, non si tratta di costruire un’immagine deduttiva della ragione. Fondare criticamente la razionalità significa invece ricostruire 162

163

Per la biografia di Husserl, cfr. supra 2.1.1; per un inquadramento del suo pensiero nella scuola di Brentano, supra 2.1.4. Hua XXIV: 189.

il nesso che lega le oggettualità ideali, quindi il pensiero, all’esperienza, al mondo così come ci è offerto dall’intuizione. Ma dire che le oggettualità dell’intelletto sono collegate alla sensibilità significa già rivendicare, rispetto alla logica trascendentale o all’ontologia formale, il primato dell’estetica trascendentale, e dunque rivendicare il primato dell’apriori materiale rispetto a quello formale. Nell’estetica trascendentale fenomenologica devono infatti trovare la loro chiarificazione molti dei problemi che nell’impostazione kantiana riguardavano invece l’analitica trascendentale164. In generale, secondo Husserl, nel mondo della vita troviamo le stesse strutture che le scienze obiettive presuppongono nel mondo in sé, soltanto prive di quell’esattezza che vige nell’apriori obiettivo. Mentre l’esperienza è però costantemente aperta a correzioni, “la conoscenza scientifica del mondo è soggetta all’idea della definitività”165. La calcolabilità del mondo operata dalla scienza deve infatti trovare il suo fondamento in una universale struttura matematica presente, come apriori materiale, nel mondo della nostra esperienza. Il tempo del mondo, in quanto tempo in cui vi sono delle cose reali, “in quanto universale forma ontica, forma degli onta reali, è un ‘continuo’ (da non intendere ancora in senso matematico) di posizioni temporali (punti)”166. Le dimensioni fondamentali del tempo in quanto forma degli onta reali sono la successione e la simultaneità, ed è proprio seguendo queste sue dimensioni fondamentali che giungiamo presto allo spazio, o meglio alla spazializzazione originaria del tempo. Infatti, “la forma della coesistenza simultanea che attraversa, restando identica, ogni successione, è il continuo spaziale”167. Da queste forme intuitive prendono le mosse i processi di idealizzazione che conducono alle determinazioni scientifiche.

164

165

166 167

Per una discussione più ampia della questione dell’estetica trascendentale in Husserl cfr. Costa 1999. Per una ripresa teoretica del problema, cfr. Ferraris 1997. Ms. A VII 14/6b. I manoscritti inediti (Ms.) citati sono consultabili presso l’Archivio-Husserl di Lovanio, e vengono citati secondo la segnatura e il numero di pagina adottati dallo stesso Archivio. Segnaliamo, tuttavia, che i rimandi di pagina tra parentesi uncinate si riferiscono alla trascrizione e non ai manoscritti stenografati. Ms. B I 5 IV/. Ivi .

Il “mondo intuitivo” – scrive Husserl –, il mondo dell’esperienza “quotidiana” è il mondo e in particolare la natura anticipata conformemente alla normale sfera della vicinanza e costruita, di conseguenza, nelle “esperienze possibili”. Qui ci imbattiamo quindi nello spazio intuitivo in quanto spazio del mondo della vita quotidiano. Esso ha in sé delle formelimite intuitive, dei gradi ideali intuitivi [...]168.

Da questi ultimi le idealizzazioni scientifiche prendono le mosse. L’apriori universale comprende dunque al suo interno un apriori “estetico-trascendentale”, materiale, e uno “analitico-trascendentale”. Quest’ultimo produce la struttura “analitica” del mondo, la quale ha il carattere di una molteplicità matematica, anzi di una molteplicità definita ideale. Il primo apriori è però l’apriori universale del mondo in quanto mondo della pura esperienza e contiene in sé, riguardo alla natura, appunto la natura come natura esperita. A partire da esso ottiene senso e validità il secondo apriori, quello analitico. Muovendo dalla nozione di apriori materiale l’estetica trascendentale fenomenologica risulta, di conseguenza, molto più ampia di quella kantiana. Essa circoscrive, in primo luogo, il proprio ambito rispetto all’“analitica” o “logica trascendentale” in quanto non si occupa degli oggetti della spontaneità, della specifica attività giudicativa, e tuttavia abbraccia, in un certo senso, la stessa logica trascendentale, dato che la percezione e i suoi paralleli modi di coscienza dell’intuizione sono le prime forme fondamentali di coscienza che vengono in questione per la costruzione della coscienza specificamente logica, essi sono i fondamenti primi nella costruzione logica che devono essere posti e compresi. Noi non divaghiamo quindi, ma siamo già logici senza saperlo169.

A differenza dell’estetica trascendentale kantiana, l’estetica trascendentale fenomenologica non mira dunque soltanto a mettere in luce le strutture del mondo sensibile, ma si configura anche come una scienza che deve chiarire le categorie logiche mostrando il loro radicamento e la loro genesi nel mondo dell’esperienza sensibile: le categorie non devono essere dedotte, ma legittimate riconducendole al terreno antepredicativo, cioè anteriore alla logica e alla categorizzazione, da cui sono sorte. 168 169

Ms. A VII 14/11a. Hua XI: 319.

2.3.2. Rappresentazione sensibile e pensiero Rifarsi alla nozione di apriori materiale significa allora in generale ricondurre i prodotti del pensiero alla struttura della sensibilità, e cioè alle forme determinate che la caratterizzano. Circoscrivendo l’ambito dell’estetica trascendentale Husserl scrive: Noi effettuiamo [...] la restrizione all’estetica trascendentale, escludiamo l’intero sapere giudicativo, in generale l’intera sfera del pensare predicativo e determinante che si fonda sull’intuizione. Ci limitiamo quindi esclusivamente all’intuizione e, più precisamente, alla percezione, quindi anche al fenomeno del mondo in quanto fenomeno percettivo170.

Il punto di partenza è dunque costituito dalla distinzione tra il rappresentare sensibile, per esempio il percepire, il ricordare, il fantasticare da un lato e il pensare dall’altro. Nel pensare noi realizziamo rappresentazioni concettuali, giudichiamo, comprendiamo significati, deduciamo, abbiamo in generale a che fare con concetti, quindi con qualcosa di non sensibile. Al contrario, “la sintesi dell’esperienza sensibile (la sintesi sensibile) non è una sintesi intellettuale”171. Si tratta di un tema che emerge molto presto nella fi losofia di Husserl. Già nel § 4 della Prima ricerca logica Husserl scrive che ogni unità di esperienza come unità empirica della cosa, dell’evento, dell’ordine e della connessione delle cose, è un’unità fenomenale in virtù dell’inerenza sensibile (fühlbare Zusammengehörigkeit) degli aspetti e delle parti, che emergono unitariamente, dell’oggettualità che si manifesta172.

Sviluppando questa delimitazione Husserl distinguerà, negli anni successivi, tra il fare esperienza del mondo (kennenlernen) e il conoscere il mondo (erkennen). Nella misura in cui mi muovo nel reale “io faccio esperienza del mondo in quanto reale o possibile, ma non conosco nulla”173. Camminando per la strada ho costantemente, a ogni rotazione dello sguardo, qualcosa di percettivamente dato, ma 170 171 172 173

Hua XI: 295. Ms. A VII 14/4a. Hua XIX/1: 36. Ms. A VII 14/4a.

non per questo conosco qualcosa. Anche quando la mia esperienza è determinata da quella degli altri, attraverso loro comunicazioni, essa resta sempre esperienza e non pensiero. L’esperienza rappresenta infatti, per Husserl, la coscienza che qualcosa è originariamente presente, e non soltanto simbolicamente, tramite dei segni, come accade nel pensiero. Solo la percezione è dunque autenticamente esperienza originale, e tutto il resto è una sua modificazione ripresentante. Il pensare – scrive Husserl – crea pensieri e determina l’esperito anticipandolo attraverso pensieri, mediatamente. Più o meno mediatamente esso si riferisce ai sostrati dell’esperienza174.

Ci sono del resto delle differenze fondamentali tra il modo di darsi degli oggetti del pensiero e di quelli dell’intuizione. In primo luogo, gli oggetti del pensiero, come per esempio i numeri, ci sono dati soltanto nell’azione del contare, cioè grazie a una specifica attività egologica, mentre al contrario, gli oggetti dell’esperienza sono dati al soggetto prima e indipendentemente da ogni atto egologico, e cioè attraverso atti della passività e della ricettività. In secondo luogo, mentre gli oggetti del pensiero sono delle generalità, delle formazioni derivanti dall’attività dell’io, gli oggetti sensibili sono oggetti individuali.

2.3.3. Sensibilità e razionalità Che la sensibilità possa offrire un punto di partenza come quello richiesto dall’impostazione fenomenologica non è però affatto ovvio. Al mondo della vita, inteso come mondo della verità relativa e soggettiva, è stato da sempre contrapposto un mondo in sé che non può essere attinto attraverso i sensi, ma soltanto attraverso il logos. Da Parmenide ai nostri giorni l’unica via per stabilire una scienza è stata vista nella possibilità di andare oltre le apparenze, oltre i fenomeni. La fi losofia nasce anzi come un invito a non percorrere quella via dell’errore che consiste nell’“usare l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba di suoni illusori”175, giudicando invece col raziocinio. Platone notava con decisione come, affermando che la conoscenza è solo sensazione, 174 175

Ms. A VII 14/5a. Parmenide B 8.

si segua da una parte “Omero ed Eraclito e tutta la tribù dei loro seguaci: tutte le cose sono in movimento come flussi continui; dall’altra, il sapientissimo Protagora: l’uomo è misura di tutte le cose”176. Del mondo della sensibilità non può dunque esserci scienza, da un lato, per un motivo di carattere ontologico, e cioè in quanto il mondo della sensibilità è un eterno flusso eracliteo dove tutto passa, privo di strutture stabili; dall’altro, per un motivo di carattere gnoseologico, e cioè in quanto ogni soggetto esperimenta in maniera diversa la stessa cosa, il cui “esse” viene quindi dissolto nel “percipi”. Una posizione che facesse leva sul mondo della sensibilità sarebbe dunque, secondo questo modo di pensare, condannata allo scetticismo e al relativismo. Nel campo della sensibilità ogni cosa sembra infatti diversa a ognuno e anche lo stesso soggetto, in circostanze diverse, avverte in maniera diversa la stessa cosa, per cui non c’è qui alcun criterio per distinguere il falso dal vero. La sfida scettica alla fi losofia può allora essere riassunta in questa esposizione platonica delle dottrine di Protagora: Dimostra, se puoi, che per ciascuno di noi non si generano sensazioni sue proprie, oppure che, benché siano proprie di ciascuno, non ne conseguirebbe che quello che appare si generi, oppure sia (se è necessario usare la parola “essere”) soltanto per quell’individuo al quale appare177.

Nella prospettiva scettica l’essere viene cioè risolto nell’apparire, e l’apparire soggettivo, individuale è tutto ciò che si dà. “L’uomo è misura di tutte le cose” significa che tutto dipende dalla struttura psicologica della soggettività, che non esiste altro criterio del falso e del vero tranne quello momentaneo, instabile e soggettivo dell’“a me sembra così”. Una ragione oggettiva, cioè intersoggettivamente valida, non può sussistere perché “per uno esistono e appaiono certe cose, per un altro esistono e appaiono cose diverse”178. Di conseguenza, attraverso la sensibilità ci si disperde in un caos di eventi, ed è anche per questo che Platone ritiene di doversi rifugiare “nei concetti (logoi) e 176 177

178

Platone, Teeteto, 160 D. Platone, Teeteto, 166-c. “Le idee di ragione in tutte le loro forme — nota Husserl — parvero screditate dalle argomentazioni dei sofisti. Essi avevano presentato il vero in sé in ogni senso — il buono, il bello, l’essere in sé — come un’illusione ingannatrice, dimostrando con brillanti argomentazioni che tutto si risolveva in credenze erronee” (Hua VII: 9). Platone, Teeteto, 166-d.

considerare in questi la verità delle cose”. Si tratta quindi, per Platone, di cogliere attraverso i ragionamenti la struttura invariabile che si cela dietro l’apparente mutevolezza dei fenomeni, di cogliere quindi la struttura Sovrasensibile. Al di sotto dell’apparire, della sua mutevolezza e della sua diversa determinazione soggettiva c’è una struttura intelligibile che non si modifica e che è valida in sé, una struttura che può essere raggiunta non attraverso la sensibilità, ma attraverso il ragionamento. Solo a queste condizioni c’è scienza.

2.3.4. Estetica trascendentale e costituzione originaria Di qui possiamo misurare la posta in gioco presente nel tentativo husserliano e nell’idea di apriori materiale. Si tratta di mostrare che all’interno del mondo intuitivo ci sono regole, che l’esperienza non è un caos di eventi. Si tratta, quindi, di tornare all’idea platonica della scienza, ma accettando la sfida scettica e dimostrando che il mondo della sensibilità non è un caos. Esso ha già una struttura, e l’idealizzazione e il dominio sulla natura non sarebbero possibili se il mondo della vita non contenesse in sé le stesse strutture che troviamo idealizzate nel procedere scientifico. Sorge così l’idea di un’estetica trascendentale fenomenologica, che può essere intesa secondo una duplice direzione di senso. In Logica formale e trascendentale essa viene definita come un grado della ricerca che tratta del problema eidetico di un mondo possibile in generale come mondo “dell’esperienza pura”, in quanto essa precede tutte le scienze di senso “superiore”; dunque descrizione eidetica dell’apriori universale, senza di cui dalla mera esperienza e prima delle azioni categoriali [...] non potrebbero apparire oggetti unitari e così in generale non potrebbe costituirsi l’unità di una natura, di un mondo come passiva unità sintetica179.

In quanto soggetti dell’esperienza, noi costantemente ci riferiamo a un mondo, al nostro mondo della vita, come mondo esperito o in linea di principio esperibile. Questo mondo è sì in un mutamento costante, ma in questo mutamento esso mantiene un’identità di senso. Nonostante tutte le possibili modalizzazioni e correzioni che la nostra 179

Hua XVII: 297.

appercezione del mondo può subire resta sempre un essere universale del mondo che permane quale struttura invariabile in tutte le modalizzazioni. Il compito dell’estetica trascendentale fenomenologica consisterà allora nel descrivere “quale stile, quale figura (Gestalt) o ‘forma’ (‘Form’) invariante possegga il mondo dell’esperienza in quanto tale”180. Si tratta in altri termini di indagare la “natura della mia propria sensibilità pura e semplice”181.

2.3.5. Estetica trascendentale e strutture invariabili Questa analisi della struttura dell’esperienza è possibile perché c’è uno strato dell’esperienza che non è né culturalmente né linguisticamente determinato. Il mondo della vita, “malgrado la sua relatività, ha una propria struttura generale. Questa struttura generale, a cui è legato tutto ciò che è relativo, non è a sua volta relativa”182. Noi possiamo quindi riplasmare liberamente nel pensiero e nella fantasia la nostra esistenza storica e umana e così “tematizzare quell’elemento apodittico di cui era in grado di disporre, nell’ambito del mondo prescientifico, il fondatore originario della geometria”183, e cioè “lo stile generale invariabile in cui questo mondo intuitivo persiste nel flusso dell’esperienza totale”184. Ciò che nella variazione rimane immodificato attraverso tutte le modificazioni possibili rappresenterà qualcosa che non varia, una struttura stabile e permanente senza la quale nessun mondo sarebbe possibile. Se il nostro mondo circostante è costituito da cose note e cose ignote, se forse esistono animali che non abbiamo mai visto, se forse su altri pianeti le forme di vita sono diverse, se quindi ciò che è ignoto lo inferiamo induttivamente sulla base di quanto è già noto, tuttavia “non tutto è noto o da rendere noto grazie all’induzione: non lo è la spaziotemporalità”, che rappresenta “una forma invariante di un possibile mondo in generale”185. Il mondo della vita non è dunque un caos di eventi, ma “ha uno stile empirico complessivo” che può 180 181 182 183 184 185

Ms. A VII 14/3b. Hua I: 197-8. Hua VI: 142. Hua VI: 383. Hua VI: 29. Ms. A VI 21/3a.

essere portato alla luce attraverso la libera variazione, per cui l’epoché delle scienze obiettive è resa possibile dal fatto che il mondo circostante umano è per essenza sempre lo stesso, oggi e sempre. Se da un lato si tratta però di esibire l’ontologia di un possibile mondo in generale, lo stile del mondo della vita, dall’altro bisogna descrivere – come abbiamo già accennato – i possibili tipi di atti e i possibili tipi di riempimenti delle diverse forme di appercezione della soggettività che allestisce in sé questo mondo della vita. Riguardo allo spazio, per esempio, mentre per il geometra si tratta di prendere in considerazione l’idea pura di spazio, [...] il tema del fenomenologo trascendentale non consiste invece in uno spazio ideale esistente, ma nell’idea di una coscienza in generale nella quale un’oggettualità può giungere a datità nella forma della spazialità. Egli non formula alcun giudizio geometrico, ma giudizi su tutte le possibilità trascendentali sulle quali si basa anche la possibilità dei giudizi geometrici e dei giudizi geometricamente veri186.

Si tratta di chiarire come sia possibile che una cosa da noi percepita non lo sia soltanto relativamente a ciò che di essa si vede effettivamente, ma anche relativamente a ciò che di essa non è autenticamente percepito. Indipendentemente dalla sua genesi, la cosa ha una determinata struttura intenzionale che può essere dipanata dall’analisi fenomenologica. Da un lato c’è dunque un’analisi ontologica, che tende a mettere in luce le strutture della cosa187, dall’altro un’analisi noetico-noematica che tende a mettere in luce le strutture senza le quali una soggettività in generale non potrebbe avere un mondo. Si tratta di mostrare come, attraverso i modi di datità soggettivi, emerga – sotto l’apparenza di un soggettivismo estremo attribuito al momento dell’apparire nel mondo della vita – una struttura scientificamente indagabile costituita dalla correlazione tra l’apparire e ciò che appare, perché “nessun uomo pensabile, comunque possa trasformarsi, potrebbe esperire il mondo attraverso modi di datità diversi da quelli che noi abbiamo delimitato in generale”188. In altri termini, c’è uno strato invariante dell’esperienza perché la maniera in 186 187 188

Hua XI: 222. E che vengono sviluppate nella ontologia formale su cui infra 2.2.6. Hua VI: 168.

cui si costituisce l’esperienza non dipende dalle strutture del soggetto, perché le leggi di connessione tra gli elementi dell’esperienza sono interne all’esperienza stessa.

2.3.6. Materia e forma nella filosofia kantiana Questa idea secondo cui ci sono relazioni contenutistiche interne all’apparire in quanto tale, e che dunque non dipendono dal modo in cui è strutturata la soggettività si presenta a Husserl assai presto, e nasce in diretto contrasto con l’impostazione kantiana e neokantiana, a cui l’idea di apriori materiale si contrappone. È noto che alla base dell’intero impianto della sua Critica della ragion pura Kant poneva proprio la distinzione tra contenuti sensibili e forme dell’intuizione. All’interno del fenomeno (Erscheinung) Kant distingue infatti tra la sensazione e “ciò invece, per cui il molteplice del fenomeno [può] essere ordinato in determinati rapporti”189, cioè la forma del fenomeno. Quest’ultima, essendo “quello in cui soltanto le sensazioni si ordinano e possono esser poste in una forma determinata, non può essere da capo sensazione”, deve trovarsi apriori nell’animo “e però potersi considerare separata da ogni sensazione”190; proprio in virtù di tale autonomia, merita di essere chiamata intuizione pura. Una di queste intuizioni pure è il tempo, l’altra lo spazio. È su quest’ultima che dobbiamo dirigere la nostra attenzione, cercando di comprendere che cosa significhi che la forma spaziale deve “potersi considerare separata da ogni sensazione” e chiedendoci se ciò sia in generale possibile. Sotto questo riguardo sono i primi due argomenti di Kant ad attirare la nostra attenzione. Il primo cerca di mostrare la necessità di una considerazione apriorica e soggettiva, e cioè che “lo spazio non è un concetto empirico, ricavato da esperienze esterne”191. Secondo Kant, infatti, perché delle sensazioni possano essere rappresentate come l’una fuori dall’altra e l’una accanto all’altra, “quindi non soltanto come differenti, ma anche in luoghi differenti, deve già esserci a fondamento la rappresentazione dello spazio”192, 189 190 191 192

KrV B34 / A20. KrV B 34 / A 20. KrV B 38 / A 23. Ibid.

che quindi deve precedere l’esperienza. Il secondo argomento a favore del carattere apriorico-soggettivo consiste nel sostenere che nessuna rappresentazione esterna è possibile senza lo spazio, mentre si può benissimo pensare che nello spazio “non si trovi nessun oggetto”193. Le conseguenze soggettivistiche di questa maniera di impostare il problema sono note e su di esse non è il caso di insistere poiché il nucleo teoretico che le sostiene è già stato esposto nell’essenziale, ed è stato discusso e criticato nel capitolo kantiano del presente lavoro194. Basterà rammentare che, secondo Kant noi possiamo [...] solo dal punto di vista umano parlare di spazio, di esseri estesi ecc. Ma se uscissimo dalla condizione soggettiva nella quale soltanto possiamo conseguire un’intuizione esterna, dal modo, cioè, in cui possiamo venir modificati dagli oggetti, l’idea di spazio non significherebbe più nulla195.

Si tratta di conseguenze che saranno intese da Husserl come vere e proprie conclusioni scettiche. In un appunto del 1903, paragonando la filosofia di Kant con quella di Hume, egli scrive infatti che Kant respinge sdegnosamente ogni fondazione della teoria della conoscenza sulla psicologia intesa come scienza empirica dell’attività psichica. Ciò è senz’altro corretto. Però, anche alla base della sua teoria delle forme si trova un tal genere di psicologia. Alla natura dell’intelletto umano, non del singolo uomo, certo, né del popolo o della razza, ma alla natura dell’uomo in generale, appartengono determinate forme-funzioni la cui legalità è quindi tale da assumere valore universale, da riguardare ogni uomo come tale. Anche Hume direbbe: all’essenza della natura umana appartengono le leggi dell’abitudine, le quali sono le fonti ultime delle scienze di dati di fatto. L’uomo sviluppa abitudini perché è uomo e così si forma l’unità del mondo dell’esperienza e della scienza sperimentale. Se Kant, invece del principio dell’abitudine, introduce altri principi di formazione dell’esperienza che sono altrettanto soggettivi e genericamente umani, fa forse una grande differenza?196 193 194 195 196

KrV B 38-39 / A 24. Cfr. supra 1.4. KrV B 42 / A 26. Hua VII: 354.

Se dunque la posizione kantiana è inaccettabile a causa del suo carattere soggettivistico, è sul suo nucleo teoretico che bisognerà però portare l’attenzione, è questo che bisognerà sottoporre all’analisi e alla critica fenomenologica. In ciò Husserl non comincia da zero, ma innesta le sue analisi originali all’interno di una direzione di ricerca già aperta dal suo maestro, Carl Stumpf197, che – in Sulla origine psicologica della rappresentazione dello spazio198 – aveva attirato l’attenzione proprio sui due primi argomenti menzionati in precedenza e criticato, in maniera pacata ma rigorosa, l’impostazione kantiana. È dunque dalla critica di Stumpf che dobbiamo prendere le mosse nell’esposizione della nostra problematica. Naturalmente, alla base dell’impostazione kantiana sta l’idea che la rappresentazione dello spazio non sia un contenuto assoluto, qualcosa di materialmente dato nella sensazione, e ciò emerge con chiarezza allorché Kant afferma: Così, se dalla rappresentazione di un corpo separo ciò che ne pensa l’intelletto, come sostanza, forza, divisibilità ecc., e a un tempo ciò che appartiene alla sensazione, come impenetrabilità, durezza, colore ecc., mi resta tuttavia qualche cosa di questa intuizione empirica, cioè l’estensione e la forma. Queste appartengono alla intuizione pura, che ha luogo apriori nello spirito, anche senza un attuale oggetto dei sensi, o una sensazione, quasi semplice forma della sensibilità199.

Si tratta di un’affermazione importante perché definisce le distinzioni e la struttura della fi losofia trascendentale kantiana: da un lato ci sono le sensazioni che di per sé sono prive di ordine, di forma e di estensione, dall’altro le intuizioni pure che ordinano questo materiale originariamente caotico, e infine le forme dell’intelletto che operano una messa in forma categoriale dei dati offerti dalla sensibilità. È questo schema che molti psicologi di fine Ottocento cominciano a mettere in discussione, cercando di mostrare – in contrapposizione a Kant – che l’estensione è un contenuto assoluto essenzialmente inerente alla qualità delle sensazioni, per esempio al colore, per cui queste sarebbero originariamente estese. 197 198 199

Cfr. supra 2.1. Stumpf 1873; 19652. KrV B 35 / A 20-21.

Secondo Stumpf, una critica a Kant che attribuisse a quest’ultimo l’idea secondo cui noi abbiamo delle forme che solo successivamente vengono riempite non coglierebbe il nucleo del problema. Kant vuole infatti semplicemente sostenere – nota Stumpf – che “tutte le nostre conoscenze emergono con l’esperienza, ma non tutte scaturiscono da essa”200. La caratteristica della posizione kantiana è quindi quella di proporre, di diritto, una contrapposizione tra forma (spazio) e materia (qualità sensibili). È proprio sulla legittimità di una tale distinzione essenziale che Stumpf nutre molti dubbi, chiedendosi se “una tale contrapposizione sia pensabile e in quale senso lo sia”201, problematizzando quindi il carattere apriorico-soggettivo della forma spaziale e il suo poter essere considerata “separata da ogni sensazione”, l’idea cioè che la forma spaziale non sia un contenuto di sensazione. Per fare ciò è necessario chiedersi che cosa possa fondare la distinzione tra forma e contenuto nella rappresentazione spaziale. Se con ciò si intendesse dire che lo spazio è apriori perché “noi non possiamo rappresentare una diversità di luoghi (oppure diversi luoghi) senza rappresentare anche i due luoghi”202, allora questa argomentazione sembrerebbe non essere sufficiente a fondare una contrapposizione tra forma e contenuti tale da indurci a considerare lo spazio come una forma indipendente. Infatti, continua Stumpf, “io non posso rappresentare la diversità di colori o suoni senza rappresentare anche i relativi colori o suoni”203, e in questo caso naturalmente non facciamo appello a un altro contenuto, ma la relazione si basa semplicemente sui contenuti assoluti, i quali permettono tanto le relazioni tra colori quanto le differenze spaziali, e se le cose stanno così dovremo allora dire che l’estensione inerisce ai contenuti sensibili e l’ordinamento spaziale si basa su di essi. Il secondo argomento di Kant consisteva nel sostenere che mentre non si può pensare una rappresentazione priva di spazialità, noi possiamo al contrario immaginare che nello spazio non si ritrovi alcun oggetto, poiché è possibile rappresentare lo spazio senza co-rappresentare delle qualità, ma non viceversa. Giungiamo così al nucleo centrale, quello poi ripreso da Husserl, della critica di Stumpf a Kant. Richiamandosi a Berkeley che – nei Principi della conoscenza umana – 200 201 202 203

Stumpf 1873 (19652: 13). Ivi: 14. Ivi: 16. Ibid.

aveva notato che “estensione, figura e moto, astratte da ogni altra qualità, sono inconcepibili”204, Stumpf fa infatti notare l’illusorietà del fatto cui Kant si richiama, poiché “la differenza indicata, di fatto, non esiste; non si può affatto rappresentare lo spazio senza rappresentare la qualità”205. Non c’è uno spazio visivo senza colori né uno spazio tattile senza sensazioni di contatto. Se si elimina mentalmente il colore, allora si elimina anche lo spazio, e ciò mostra che le rappresentazioni di qualità non possono essere separate dalla rappresentazione spaziale. E se le cose stanno così, allora è la distinzione kantiana tra sensazione e forma che deve essere rifiutata: non è da essa che dovrà prendere le mosse un’indagine fenomenologica. Se prendiamo in considerazione una superficie verde ci rendiamo conto di essere coscienti di due contenuti: un colore e una determinazione spaziale, e la nostra questione sarà dunque quella di chiarire “come si rapportano reciprocamente spazio e qualità nella rappresentazione”206. Naturalmente, i contenuti della rappresentazione vengono rappresentati secondo diverse forme di collegamento, a seconda delle loro affinità e della loro co-appartenenza. In generale, però, possiamo distinguere i contenuti rappresentati in due grandi classi: i contenuti indipendenti (selbständige Inhalte) e i contenuti parziali (Theilinhalte). I contenuti indipendenti — spiega Stumpf — sono presenti laddove gli elementi di un complesso rappresentazionale, conformemente alla loro natura, possono anche essere rappresentati separatamente; i contenuti parziali sono presenti laddove ciò non è possibile207.

Non c’è dubbio quindi che contenuti come estensione, colore, intensità rientrino nei contenuti parziali, poiché [...] non è possibile rappresentare una qualità cromatica senza una qualche intensità, un movimento senza una qualche velocità; e più precisamente ciò sarebbe in contraddizione con la loro natura 208.

204 205 206 207 208

Berkeley 1710: § 10 (tr. it. 2004: 299). Stumpf 1873 (19652: 22). Ivi: 107. Ivi: 109. Ibid.

Né si può pensare, empiristicamente, che quella tra colore ed estensione sia un’associazione divenuta stabile attraverso l’abitudine. L’essenza di una relazione associativa consiste infatti per Stumpf “nel fatto che una delle due rappresentazioni richiama l’altra”209, mentre questa caratteristica è del tutto assente nel nostro caso: “L’estensione non viene riprodotta grazie al colore, ma deve in ogni caso agire per ognuno dei due una causa specifica”210. Dunque, in primo luogo, “la relazione tra qualità cromatica ed estensione co-rappresentata non è un’associazione”211, e in secondo luogo, la dipendenza dei due momenti si manifesta nel fatto che “la qualità partecipa alla modificazione dell’estensione”212: riducendo il colore si riduce anche l’estensione e viceversa. La rappresentazione spaziale non è dunque né un apriori soggettivo né il risultato dell’esperienza, ma “viene originariamente e direttamente percepita allo stesso modo della qualità”213, e ciò accade immediatamente, nella prima fanciullezza come adesso. È data. Queste idee sono alla base della nozione di apriori materiale.

2.3.7. La ripresa husserliana della prospettiva di Stumpf e la nozione di apriori materiale Alla differenza tra contenuti indipendenti e contenuti parziali Husserl si richiama espressamente nelle Ricerche logiche adottando però le espressioni “contenuti indipendenti” e “contenuti non-indipendenti”: Si hanno dei contenuti indipendenti – scrive Husserl – quando gli elementi di un complesso rappresentazionale [complesso di contenuti] possono per loro natura essere rappresentati separatamente, quando ciò non accade si hanno invece dei contenuti non-indipendenti 214.

Riprendendo e citando molti esempi di provenienza stumpfiana, Husserl opera una radicalizzazione della posizione di Stumpf. La nonindipendenza tra qualità ed estensione, la loro inseparabilità, “non è 209 210 211 212 213 214

Ivi: 49. Ivi: 50. Ivi: 49. Ivi: 112. Ivi: 115. Hua XIX/1: 233.

evidentemente un fatto empirico, ma una necessità apriori che si fonda nell’essenza pura”215, il che lo porta a parlare, in contrapposizione a Kant, di apriori materiale. Le distinzioni effettuate vanno infatti intese come distinzioni oggettive, poiché “non è necessario alcun ricorso alla coscienza, per esempio alle differenze relative alla ‘modalità del rappresentare’ per definire la differenza qui in questione”216. Le differenze strutturali tra contenuti indipendenti e contenuti non-indipendenti non riguardano cioè un fatto soggettivo, una caratteristica psicologica della nostra capacità rappresentativa o la caratteristica di uno spirito finito. Si tratta invece di differenze oggettive (sachlich), intrinseche, che si fondano nell’essenza pura delle cose, ma che – poiché sussistono e ci sono note – ci costringono ad asserire che un pensiero che prescinda da esse è impossibile ovvero che è assurdo un giudizio che non ne tenga conto. Ciò che noi non possiamo pensare, non può essere, ciò che non può essere noi non lo possiamo pensare: questa equivalenza defi nisce la differenza tra il concetto pregnante del pensare e quello del pensare e del rappresentare in senso comune e soggettivo217.

Ci troviamo così di fronte non a un non poter pensare diversamente, a una incapacità di ordine soggettivo, bensì alla “necessità ideale oggettiva del non poter essere altrimenti”218, una necessità fondata su una legge oggettiva. Questa legge oggettiva e questa necessità non sono meramente logiche, basate sulla contraddizione formale. Infatti, “le necessità o le leggi che definiscono una classe qualsiasi di oggetti non-indipendenti, si fondano [...] nella particolarità dei contenuti, nella loro natura propria”219, per cui esse non possono essere delle leggi analitiche, ma sintetiche. Si tratta però di leggi sintetiche che vanno intese in un senso interamente diverso da quello kantiano. È noto che quest’ultimo definiva la nozione di apriori sintetico negativamente rispetto a quella di apriori analitico. Secondo Kant abbiamo un giudizio analitico se “il predicato 215 216 217 218 219

Hua XIX/1: 237. Hua XIX/1: 40. Hua XIX/1: 242. Hua XIX/1: 242-3. Hua XIX/1: 255.

B appartiene al soggetto A”, mentre saranno giudizi sintetici quelli nei quali “B si trova completamente al di fuori del concetto A, sebbene sia in connessione con questo”220. Di contro, Husserl propone una nuova nozione di analiticità: Possiamo definire come proposizioni analiticamente necessarie le proposizioni che hanno una verità pienamente indipendente dalla natura intrinseca delle loro oggettualità (pensate in modo determinato o in una generalità indeterminata)221.

In quanto tali esse si lasciano formalizzare completamente, e la formalizzazione consiste nel fatto che nella proposizione analitica tutte le determinazioni concrete possono essere sostituite con oggettualità indeterminate. La legalità formale che caratterizza le proposizioni analitiche è quindi indifferente rispetto alle peculiarità concrete delle relazioni e dei loro membri. La logica, in quanto ontologia formale, è di conseguenza del tutto indifferente rispetto ai contenuti, essa “non è soltanto superiore a ogni fattualità empirica, bensì anche a ogni sfera eidetica iletico-concreta”222. Le leggi sintetiche apriori si fondano al contrario “nella natura specifica dei contenuti”223. Esse sono sì svincolate dalla natura fattuale dell’elemento empirico, ma non dalla loro natura iletico-contenutistica. La nozione di apriori sintetico assume quindi in Husserl un senso interamente diverso da quello kantiano e definisce proprio il superamento di quel soggettivismo che finiva per considerare il mondo una strutturazione del soggetto. Attraverso la nozione di apriori materiale vengono infatti poste le basi per un superamento dell’idea secondo cui l’esperienza si costituisce grazie a forme soggettive o grazie alle attitudini psicologiche della soggettività, delineando invece una problematica attinente allo strutturarsi autonomo dei contenuti dell’esperienza possibile224, una direzione “strutturalistica” dell’indagine fenomenologica in cui il soggettivismo viene superato attraverso l’esibizione di modalità di autostrutturazione dei dati di esperienza, alludendo così a 220 221 222 223 224

KrV B 10 / A 7. Hua XIX/1: 259. Hua XVII: 33. Hua XIX/1: 260. Cfr. Piana 1977.

un’esperienza le cui leggi di connessione non sono delle forme meramente soggettive fondate sulla maniera particolare in cui è organizzata la natura umana (Hume) o il soggetto trascendentale (Kant). Per Husserl si tratta infatti di costruire una teoria della ragione capace di distinguere tra ragioni buone e ragioni meno buone, quindi di giustificare l’idea di una ragione universale capace di andare oltre la limitatezza della particolarità delle culture locali. Infatti, secondo Husserl, diversamente dalle posizioni prima ricordate, alla base delle nostre teorizzazioni scientifiche e delle rappresentazioni del mondo da parte dei diversi gruppi umani c’è lo stesso unico mondo. Alla prospettiva relativistica Husserl contrappone dunque il proprio trascendentalismo fenomenologico. Già nell’udire una melodia per la prima volta – nota Husserl –, per noi adulti, sono all’opera dei rimandi associativi immanenti ai fenomeni, dei rimandi che non dipendono dalle apprensioni che si sono formate storicamente. Se noi astraiamo dal fatto che ogni nuova melodia si basa già su un’eredità musicale e viene appercepita soltanto sulla base della nostra educazione musicale in quanto tipo particolare all’interno del nostro sistema musicale europeo e specialmente all’interno dello sviluppo del presente stesso, noi possiamo fingere di ascoltare assolutamente per la prima volta una molteplicità di suoni successivi, e possiamo chiederci “come bisogna intendere il fatto che noi non udiamo soltanto singoli suoni, ma una successione unitaria di suoni”225. Diremo forse anche qui che si tratta di un’apprensione fondata in una certa situazione culturale? Oppure ci chiederemo come sia possibile che “suoni successivi si organizzino in unità, in figure temporali della successione nell’unità della coscienza?”. Husserl si orienta dunque verso un oggettivismo fenomenologico secondo cui i suoni si organizzano in unità attraverso l’associazione originaria, contenutisticamente: nella misura in cui “i suoni in quanto suoni hanno una somiglianza oggettiva”226, l’associazione in quanto forza che crea un’unità induttiva e intenzionale è attiva già nel percepire per la prima volta227. Si sviluppano così una serie di analisi minuziose che cercano di portare alla luce le strutture di questo mondo della sensibilità, analisi che costituiscono l’essenza stessa della fenomenologia, il suo tentativo di portare alla luce le leggi che presiedono allo strutturarsi della nostra esperienza. 225 226 227

Hua XXXII: 154. Ibid. Ibid.

Bibliografia ragionata 1. Per una panoramica generale sulla fenomenologia G. Piana, I problemi della fenomenologia, Milano, Mondadori, 1966; ed. online con aggiornamenti bibliografici e integrazioni di V. Costa, URL = http://www.fi losofia.unimi.it/~piana/problemi/p-idx-01.htm V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La Fenomenologia, Torino, Einaudi, 2002 2. Opere di carattere introduttivo su Husserl R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, Bologna, il Mulino, 1992 B. Smith - D.W. Smith, a c. di, The Cambridge Companion to Husserl, Cambridge, Cambridge University Press, 1995 V. Costa, Edmund Husserl. Un’introduzione, Roma, Carocci, 2008 3. Estetica trascendentale e apriori materiale P. Spinicci, I pensieri dell’esperienza: Interpretazione di “Esperienza e Giudizio” di Edmund Husserl, Firenze, La Nuova Italia, 1985 B. Rang, Husserls Phänomenologie der materiellen Natur, Frankfurt/M, Klostermann, 1990 R.D. Rollinger, Meinong and Husserl on Abstraction and Universals: from Hume Studies I to Logical Investigations II, Amsterdam, Rodopi, 1993 V. Costa, L’estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Edmund Husserl, Milano, Vita e Pensiero, 1999 T. Piazza, Esperienza e sintesi passiva. La costituzione percettiva nella filosofia di Edmund Husserl, Milano, Guerini e associati, 2001 R. Lanfredini, a c. di, A priori materiale. Uno studio fenomenologico, Milano, Guerini e associati, 2006 V. Costa, Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007 P. Spinicci, Analitico e sintetico, Milano, Cuem, 2007 G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza. Saggio di filosofia fenomenologica, Milano, Il Saggiatore, 1978

2.4. ESSERE NEL MONDO di Vincenzo Costa

2.4.1. La manifestatività dell’essere Con l’apriori materiale di Husserl siamo giunti a una forte riduzione del ruolo della soggettività nell’esperienza. Martin Heidegger228, il maggiore allievo di Husserl, orienta la sua riflessione in un senso significativamente diverso. Che cosa significa che qualcosa esiste? A quali condizioni saremmo disposti a dire che c’è qualcosa? Sono queste le domande a partire dalle quali può essere interrogata l’ontologia di Heidegger, e forse interpretata la tanto discussa questione del senso dell’essere che, a volte, assume contorni tanto affascinanti quanto vaghi e indeterminati. Se prendiamo le mosse da quelle domande, e ne facciamo la cifra attorno a cui sviluppare il nostro discorso, allora emergono immediatamente alcune direzioni sufficientemente determinate dalle quali si possono prendere le mosse per delineare l’ontologia e la concezione della metafisica di Heidegger. Sulle prime, infatti, il suo orientamento è fondamentalmente realistico. Seguendo l’impostazione aristotelico-scolastica, il giovane Heidegger si fa guidare dall’idea secondo cui le cose esistono in sé, e la loro esistenza non dipende dal soggetto a cui si manifestano. Tuttavia, il realismo ontologico può assumere molte direzioni. Fra queste c’è 228

Nato a Messkirch (Baden) il 26 settembre 1889, studia a Friburgo dal 1909, dove diviene allievo di Heinrich Rickert; si laurea nel 1913. Dal 1915 è libero docente presso la stessa Università e dal 1916 stretto collaboratore di Husserl, con cui allenterà i rapporti dopo il 1927, anno di pubblicazione della sua opera più celebre, Essere e tempo. Dal 1933, con l’ascesa al potere di Hitler, aderisce al nazismo e diviene Rettore dell’Università di Friburgo, e per questo motivo, dopo la fine del conflitto, viene sospeso dall’insegnamento per alcuni anni. Muore il 26 maggio 1976 a Messkirch.

quella secondo cui qualcosa esiste quando è un evento collocato all’interno delle leggi di natura, e questi eventi (per esempio quelli soggetti all’attrazione gravitazionale) esistono in sé, indipendentemente dal soggetto che li percepisce e che li pensa a partire da una certa concettualità scientifica. In fondo, le leggi della gravitazione universale non hanno certo cominciato a esistere quando sono stato scoperte. Si tratta di una concezione dell’essere che tuttavia, per Heidegger, rappresenta un realismo troppo ingenuo e che, comunque, non può certo dare ragione dei termini “essere” ed “esistere” nella loro integralità. Senza allargare eccessivamente il nostro discorso, è infatti chiaro che anche le leggi ideali della logica esistono, e per Heidegger sarebbe del tutto fuorviante intendere in questo caso il termine “esistere” nello stesso senso in cui diciamo che esiste un evento fisico. Pensare le leggi della logica a partire da questa concezione naturalistica dell’essere era del resto, sulla fine dell’Ottocento, la pista battuta da quello che sarà poi denominato “psicologismo”, un’impostazione fi losofica secondo la quale le leggi della logica non hanno in fondo un’esistenza molto diversa da quella delle cose naturali. Esse sono, infatti, leggi riconducibili alla nostra costituzione psicofisica. Contro questa riduzione del senso dell’essere, Heidegger è sulle prime attratto dalla posizione di Hermann Lotze (1817 - 1881), che aveva elaborato quella teoria dei due mondi che tanta importanza doveva avere nella filosofia tedesca a cavallo tra Ottocento e Novecento229. Secondo Lotze, gli eventi del pensiero (le leggi logiche, i significati) sono irriducibili alla complessione psicofisica. Per esempio, la necessità che mi costringe a trarre certe conseguenze da determinate premesse è di ordine diverso da quella che fa sì che un sasso non più sostenuto dalla mano cade per terra. C’è dunque un’alterità radicale tra gli eventi della realtà e il modo di essere delle verità ideali: i primi sono nel tempo e soggetti al vincolo causale, le verità ideali sono, invece, sovratemporali e necessarie secondo una legalità ideale e non causale. Di qui la concezione del senso dell’essere di Lotze, secondo cui da una parte vi è il mondo delle cose temporali e contingenti, dall’altro quello delle idee, il cui essere consiste nel loro valere:

229

Su questo punto, e per una più ampia dello sviluppo del pensiero di Heidegger e dei suoi rapporti con la cultura dell’epoca, rimandiamo alla prima sezione di Costa 2003.

Una proposizione non esiste allo stesso modo delle cose, né accade come gli eventi; persino che il suo contenuto esista come una relazione può essere detto solo se esistono le cose tra le quale essa enuncia un rapporto; in sé, però, e prescindendo da ogni applicazione che essa può subire, la sua realtà consiste in ciò, che essa vale (gilt) e che il suo contrario non vale230.

Da questa posizione del problema avevano preso le mosse tanto il neokantismo quanto la fenomenologia di Husserl. Il giovane Heidegger si inserisce all’interno di questa tendenza antipsicologista e dell’ontologia in essa implicita. A suo parere, infatti, il limite di una direzione psicologista consiste nel ricondurre le leggi logiche a “una legalità della nostra natura psichica. Su questa via non sarà possibile indicare delle norme con la loro legittimità, ma soltanto dati di fatto”231. Infatti, solo il giudizio in senso logico può essere vero o falso, e dunque rilevante per definire che cosa esiste o non esiste, mentre, riguardo al giudizio in quanto evento psichico, ci si può solo domandare che cosa accade nella mente da un punto di vista fattuale, e non se a esso competa un valore di verità. Proprio per questo, lo psicologismo confonde ciò che viene pensato con gli atti che lo pensano, e dunque due settori ontologici fondamentalmente diversi. Di conseguenza, in opposizione allo psicologismo, si tratterà per Heidegger di mostrare che “la necessità logica non ha il minimo rapporto verso il soggetto attivo nel pensiero [...] Essa è una relazione oggettuale, il cui ‘essere’ si afferma indipendentemente da un’attività di pensiero, che la coglie”232. Questa è la base ontologica da cui prende le mosse Heidegger, determinando sulle prime il senso dell’essere come idealità, per cui qualcosa esiste se c’è un giudizio al cui interno si manifesta una verità che pretende di essere riconosciuta come atemporalmente vera, come vero essere. E tuttavia, da questa impostazione si allontanerà radicalmente nella sua fase matura e, in particolare, in Essere e tempo. Da quest’opera, infatti, alla domanda “che cosa significa esistere?” possiamo trarre una risposta del tutto diversa, e questo proprio perché in essa il rapporto tra le leggi del pensiero e il soggetto giudicante viene determinato in maniera differente da quanto l’ontologia dei due mondi di Lotze indicava. In Essere e tempo, riguardo alla distinzio230 231 232

Lotze 1874 (19282: 512). Heidegger 1914: 39. Ivi: 65.

ne tra “il giudicare come processo psichico reale e il giudizio come contenuto ideale”233, Heidegger si chiede: “Non avrà forse ragione lo psicologismo quando si oppone a questa scissione, benché anch’esso non chiarisca ontologicamente e addirittura non assuma a problema il modo di essere del pensiero del pensato?”234. In questo modo Heidegger suggerisce l’opportunità di ricondurre il giudizio ideale al soggetto concreto, alla fatticità, senza tuttavia con ciò volere ricadere in una posizione psicologista. Infatti, se vogliamo capire il modo di esistere di ciò che viene pensato, dobbiamo interrogarci sul soggetto che pensa, e questo non è una psiche, ma un esistente in un mondo. Questa è la direzione che secondo Heidegger bisogna seguire se vogliamo rispondere alle domande da cui abbiamo preso le mosse. Infatti, la teoria dei due mondi lascia indeterminato come l’ideale (sia esso rappresentato dai principi logici fondamentali o dai significati) possa realizzarsi in un vissuto psichico concreto e come possa essere presente nella realtà oggettiva. In fondo, se qualcosa viene pensato, questo può avvenire solo perché c’è qualcuno che lo pensa. Del resto, se qualcosa esiste, deve annunciarsi in una soggettività, e allora per costruire un’ontologia complessiva sarà necessario innanzitutto determinare l’essere della soggettività, e dunque sviluppare un’ontologia del soggetto. In questa direzione Heidegger sviluppa un’analitica dell’esistenza, poiché l’essere che pensa è un esistente nel mondo, un ente che si muove all’interno di una determinata concezione del mondo, di un’apertura storica che non può oltrepassare per raggiungere un essere posto al di là dell’apparire, determinando così che cosa esiste o non esiste in sé. Per esempio, nella cultura greca la fisica aristotelica non poteva essere criticata a partire dalla nozione di massa, perché questa in quel contesto non esiste né poteva esistere. In generale, non poteva esistere perché non poteva apparire. Per questo, “non c’è alcuna ontologia accanto a una fenomenologia, ma l’ontologia scientifica non è altro che fenomenologia”235. L’ontologia deve essere ricondotta alla fenomenologia, l’essere deve essere ricondotto alle condizioni del suo apparire: qualcosa esiste e può esistere se una certa apertura interpretativa ne consente l’apparire. 233 234 235

Heidegger 1927: 267. Heidegger 1927: 268. Heidegger 1979: 91.

Per questo, una certa organizzazione dell’apparire non può mai essere criticata, né riferita a un ideale teleologico a essa esterno, per esempio a un ideale regolativo quale è per Husserl l’idea di verità. L’ideale infinito della verità, essendo prodotto dal contesto, è anch’esso finito. E proprio questo mostra, secondo Heidegger, che l’essere stesso, e dunque la ragione, sono finiti, poiché nello stabilire che cosa esiste e come esiste siamo, in quanto soggetti concreti gettati in un mondo, determinati da questo stesso mondo e dalla sua apertura di senso. Emerge così in che senso Heidegger riconduca le determinazioni ideali alla concretezza del soggetto senza per questo ricadere in una nuova forma di psicologismo: quando pensiamo siamo determinati dalla nostra concretezza, ma questa concretezza non allude alla psiche del singolo uomo, alla sua costituzione psicofisica, perché non è questa che determina l’ordine dei significati a partire da cui pensiamo. La nostra concretezza è invece determinata dai rimandi strutturali tra i significati, all’interno dei quali ci troviamo a vivere. I significati, che determinano che cosa esiste e che cosa non esiste, non si trovano in un mitico terzo regno, ma neanche nella testa o peggio nel cervello degli individui: si trovano (esistono) all’interno di un’apertura di senso che Heidegger chiama mondo, e che è una struttura olistica 236.

2.4.2. Che cosa c’è Questo percorso ha delle giustificazioni che dobbiamo adesso comprendere meglio, richiamando innanzitutto l’attenzione sul fatto che qualcosa esiste per noi nella misura in cui esso entra nel nostro pensiero, dunque se possiamo pensarlo attraverso categorie. Questa era, del resto, l’impostazione caratteristica del neokantismo, da cui Heidegger prende le mosse. Così, secondo Heinrich Rickert (1863 1936), che a Friburgo fu maestro di Heidegger, qualcosa esiste quando viene posto come esistente in un giudizio. Prima di allora, per noi la cosa è un nulla. Per questo, il giudizio si caratterizza come il luogo del disvelamento dell’essere. Un oggetto viene all’essere all’interno di una 236

Sull’idea del mondo come struttura olistica si veda la terza sezione del nostro La verità del mondo. Sulla differenza che separa l’olismo di Heidegger da concezioni affini quali, per esempio, la concezione di Donald Davidson, si veda il capitolo quarto di Costa 2006.

formulazione giudicativa. Così, la nozione di massa, o un certo ente geometrico, esiste quando si presenta in un giudizio. Da questa prospettiva Heidegger si allontana grazie all’incontro con Husserl, e soprattutto attraverso la propria interpretazione dell’intuizione categoriale. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, secondo Husserl le categorie e in generale le cose si danno prima del giudizio, e il giudizio si limita a esprimere in una forma logica ciò che si è già reso manifesto nell’esperienza antepredicativa. Heidegger si appropria di questa idea, ma nello stesso tempo la modifica profondamente, perché intende diversamente la nozione di esperienza: mentre per Husserl l’esperienza antepredicativa allude alla nostra percezione degli oggetti, a una percezione che non si modifica nel mutamento delle epoche, per Heidegger la nozione di esperienza rimanda al nostro mondo circostante, e dunque alla maniera in cui comprendiamo le cose. Le cose non vengono all’esistenza dandosi nella percezione, ma manifestandosi nella comprensione: è in questa che si rende manifesto l’essere delle cose. Qualcosa non c’è quando viene percepita, ma quando viene compresa. Emerge allora che le categorie non sono date dall’eternità e per l’eternità. Se vogliamo spiegare l’emergere di certe categorie non dobbiamo analizzare le strutture della mente, perché la mente di un greco e quella di un uomo del nostro secolo potrebbero essere simili, e tuttavia potrebbe darsi che questi due esseri umani vivano in un mondo di categorie e concetti completamente diversi. Se, ad esempio, si manifesta qualcosa come il concetto di massa, la genesi di questo concetto non deve essere cercata attraverso analisi di carattere psicologico, ma interrogandosi sul mondo in cui si radica, un mondo inteso come una totalità di significati al cui interno il significato “massa” diviene comprensibile. Di conseguenza, quel mondo diviene la condizione di possibilità senza cui la massa non potrebbe darsi, esistere per noi. Per comprendere l’ontologia di Heidegger dobbiamo allora comprendere com’è articolato un ambito di manifestatività al cui interno le cose possono manifestarsi come esistenti. In questa direzione, Heidegger assume in primo luogo che l’essere delle cose è puramente intenzionale: qualcosa esiste solo in quanto è il correlato di un atto che ne pone l’esistenza. Parlare di un essere che non si manifesta in un atto intenzionale, di cui nessuno sa niente, sarebbe assurdo. Proprio per questo, l’intenzionalità permette a Heidegger di costruire un’ontologia che dovrebbe poter superare il

baratro tra il soggettivo e l’oggettivo, perché indica che la relazione tra l’apparire e ciò che appare è originaria. Esistere e apparire al soggetto sono la stessa cosa. In generale, l’essere della validità deve essere interpretato in senso intenzionale, come qualcosa che si costituisce nella vita del soggetto, di un soggetto che, però, Heidegger, per evitare l’equivoco coscienzialistico, chiama Dasein, esserci, essere nel mondo, proprio per indicare che la comprensione attraverso cui le cose vengono all’essere per lui dipende dalla totalità di significati al cui interno esso si trova. Se dunque Heidegger usa il termine “esserci”, piuttosto che “coscienza”, un motivo c’è: il termine coscienza implicava nella cultura dell’epoca l’idea secondo cui l’apparire degli enti rimandava ai conferimenti soggettivi di senso, poiché è l’operare della coscienza soggettiva che trasforma i dati sensibili, di per sé privi di senso, nella manifestazione di qualcosa. Un’operazione che, dunque, avviene all’interno del soggetto, mentre Heidegger vuole enfatizzare il fatto che la manifestazione di un senso avviene all’interno di un mondo. Heidegger mette del resto in luce che “l’oggetto non è dato nell’impressione sensibile, la sua oggettualità non può essere percepita sensibilmente”, per cui “il fatto che l’oggetto sia oggetto, non scaturisce da un’intuizione sensibile”237. Il fatto che si manifesti un senso oggettuale non può essere spiegato ricorrendo a un’operazione della coscienza. Esso non è derivabile da come è fatta la coscienza, e in questo senso è dato alla coscienza, è qualcosa che la eccede. In una lettera allo psicologo Medard Boss del 19 giugno 1963 Heidegger noterà che “anche la più grande accumulazione di stimoli non produce mai lo ‘è’. Questo resta in ogni essere-stimolato – già dato preliminarmente (vorgegeben)”238. Possiamo comprendere meglio questo passaggio se riflettiamo sul fatto che noi non vediamo mai “sensazioni”, e allo stesso modo non vediamo neanche oggetti meramente percettivi, ma abbiamo originariamente a che fare con oggetti d’uso, con cose che servono a un qualche fine, con mezzi dunque, e ciò significa – scriverà Heidegger in Essere e tempo – che “il modo più immediato del commercio intramondano non è il conoscere semplicemente percettivo, ma il prendersi cura maneggiante e usante, fornito di una propria ‘conoscenza’”. Gli oggetti dell’esperienza sono dunque originariamente pragmata, cioè cose atte a essere usate in vista di un certo scopo. L’essere umano non 237 238

Heidegger 1986: 148. Heidegger 1987: 375.

si rapporta a cose percepite, ma a significati pratici, e lo fa a partire da un’apertura interpretativa (una totalità di rimandi, dunque un mondo) all’interno della quale ogni cosa ha un certo significato. Immaginiamo di mostrare una lavagna a un essere umano che appartiene a una cultura tribale. Secondo Heidegger la lavagna “esiste” quando di essa conosciamo il suo uso possibile, e il suo essere consiste proprio in ciò. Di conseguenza, essa ha il suo essere solo all’interno di un certo contesto d’uso, di un mondo all’interno del quale ha una funzione, serve cioè a qualcosa, mentre, al contrario, chi appartiene a una cultura tribale “pur vedendola, non la vedrebbe in quel che essa è”239. E non la vedrebbe nel suo essere, “in quel che essa è”, perché vedendo un oggetto percettivo, con una certa forma e dotato di certi colori, non ne comprenderebbe l’uso possibile. Per comprendere quest’ultimo dovrebbe cogliere i nessi che lo collegano a una totalità, dunque entrare nel nostro mondo. Per questo Heidegger può scrivere che l’intenzionalità, “in quanto trascendenza ontica, è possibile soltanto sul fondamento della trascendenza originaria: sulla base dell’essere-nel-mondo”240. Questo significa che un ente appare nel suo essere nella misura in cui viene colto nel suo uso possibile all’interno di una totalità di rimandi. E se le cose stanno in questo modo, allora la possibilità stessa del giudizio non va cercata nella percezione, ma nel mondo pratico, nella struttura di rimandi che costituisce un mondo storicamente determinato. Il termine “essere aperto”, o anche il “ci” di Esserci, che rappresenta dunque l’autentica condizione di possibilità dell’intenzionalità, deve allora essere inteso nel senso che qualcosa fa parte del mondo di un essere umano (c’è) solo quando di esso se ne comprende il possibile uso, dunque quando sappiamo interpretarne la funzione pratica all’interno di una rete di rimandi. Noi abbiamo infatti visto che ogni cosa dell’esperienza è un mezzo, ma “un mezzo isolato – nota Heidegger in Essere e tempo – è ontologicamente impossibile”. Il martello è un martello solo perché serve per piantare il chiodo, che serve a sua volta per tenere appeso il quadro ecc., e ciò significa che “prima del singolo mezzo, è già scoperta una totalità di mezzi”. Questa totalità di rimandi costituisce un’apertura di senso al cui interno le cose appaiono e ottengono il loro significato e senza di essa 239 240

Heidegger 1976: 70. Heidegger 1928: 161.

non apparirebbe niente: per questo il mondo, e non la soggettività, è trascendentale, cioè condizione di possibilità dell’apparire dell’essere, del fatto che qualcosa c’è.

2.4.3. Metafisica antirealistica Possiamo cogliere meglio questo aspetto e la peculiarità della posizione di Heidegger se prendiamo in considerazione l’essere dei concetti scientifici, se ci chiediamo che tipo di essere spetti a nozioni quali massa, inerzia ecc. Se dobbiamo spiegare perché una comprensione della fisica quantistica era impossibile in una cultura non alfabetizzata, possiamo certo dire che ciò deriva da certe strutture di coscienza che non erano presenti, e dove mancano certi tipi di atti intenzionali non possono apparire i relativi oggetti. Ma la mancanza di certi tipi di atti non derivava da una struttura della coscienza o della mente, bensì da un’apertura all’interno della quale divengono possibili contemporaneamente certi tipi di atti e certi tipi di significati. Emerge in questo modo come ogni asserzione presupponga l’apertura di un contesto apriori che regola le possibilità di manifestazione. Così, secondo Heidegger, “le scienze stesse non sono altro se non possibilità concrete dell’esserci umano stesso di pronunciarsi riguardo al suo mondo, al mondo cioè in cui si trova, e riguardo a sé stesso”241. Per questo, le scienze non determinano un essere eterno, ma un essere che si è reso fenomeno nella comprensione. Il pensiero stesso delle scienze, e l’esistenza degli enti che popolano il suo universo di discorso, esistono solo a partire da una certa struttura olistica di significati. Al contrario del positivismo e del neokantismo, per esempio di quello molto raffinato di Ernst Cassirer (1874-1945), secondo cui l’oggetto su cui si esercita la riflessione filosofica ci deve essere fornito dallo stato di volta in volta dato delle scienze, cosicché “il contenuto di ogni settore particolare della conoscenza si determina nella specifica forma predicativa e interpretativa da cui parte la conoscenza”242, secondo Heidegger la fi losofia non ha il compito di cercare di ricostruire aposteriori l’ordine del sapere, determinando che cosa c’è 241 242

Heidegger 1979: 11. Cassirer 1921: 43.

(l’ontologia) a partire dai risultati delle scienze empiriche. Al contrario, è solo a partire dall’ontologia, cioè dal rendersi disponile dell’essere nella comprensione che le cose possono poi essere determinate predicativamente in enunciati scientifici243. Le scienze si installano cioè su fondamenti che le precedono e che rappresentano la loro apertura, o se vogliamo la loro condizione di possibilità. Rispetto a Cassirer che riconduceva l’emergere di un certo tipo di concettualità all’apparire di certi simboli attraverso cui possiamo dirigerci in modo nuovo verso l’esperienza, cosicché, a suo parere l’esatta comprensione dei concetti della fisica galileiana fu raggiunta solo quando mediante l’algoritmo del calcolo differenziale fu determinato, per così dire, il luogo universalmente logico di questi concetti e fu creato un simbolo matematico universalmente valido per essi244,

secondo Heidegger la scienza moderna non è caratterizzata dal fatto di fare uso della matematica, bensì dal fatto che “i problemi sono stati posti in modo tale che conseguentemente si è dovuto impiegare la matematica in senso stretto”245. Se prendiamo in considerazione un principio così controintuitivo come quello di inerzia questa legge sino a tutto il XVII sec. non fu affatto evidente. Nei millecinquecento anni precedenti non solo era ignota, ma neppure avrebbe avuto un qualche senso, data la concezione che in quel tempo si aveva della natura e dell’ente in generale246.

Una tesi che intende appunto indicare che qualcosa per noi esiste solo a partire da un ambito di significato. Così, per esempio, è comune l’esperienza primaria che l’ente, nel senso della natura che tutto abbraccia – terra, cielo, stelle –, è in movimento e in quiete [...] Pure non è né evidente né sempre uguale il modo in cui il movimento, il corpo e la loro relazione vengono concepiti. E dalla generale e indeterminata esperienza del mutamento delle cose, del loro sorgere e tramontare, quindi 243 244 245 246

Heidegger 1979: 8. Cassirer 1923: 20. Heidegger 1962: 105. Ivi: 108.

del loro movimento, alla determinazione dell’essenza del movimento e del modo in cui questo si partecipa alla cosa – il passo è lungo247.

Il che significa: se vogliamo interrogarci sull’origine del pensiero e delle categorie attraverso cui interroghiamo la natura, allora il terreno dell’esperienza percettiva non è più sufficiente: dobbiamo passare alla comprensione. E questo significa che l’identità dell’oggetto è data all’interno di contesti definiti e circoscritti. In questo senso, in Essere e tempo Heidegger chiarisce che l’ente è indipendente dall’esperienza, dall’apprensione e dalla conoscenza attraverso cui esso è aperto, scoperto e determinato. Viceversa l’essere “è” soltanto nella comprensione di quell’ente al cui essere appartiene qualcosa come la comprensione dell’essere 248.

L’indicazione che possiamo trarre da simili passi è che la cosa c’è solo nella comprensione, e può essere oggetto di giudizio solo qualcosa che viene compreso nel suo significato. Questo implica un’ontologia fondamentalmente antirealistica, poiché il giudizio si radica nella comprensione, al cui interno le cose “esistono” per noi, e la comprensione si radica, a sua volta, in contesti di senso (mondo) che rappresentano non costellazioni fisse e stabili di significato, ma solo un’apertura storica, con il cui tramonto svaniscono anche le risorse di significato in essa implicite. Le categorie sono dunque lo sfondo di senso all’interno del quale qualcosa appare e può in generale apparire. Perché si possa giudicare su qualcosa questo deve essere già dato, cioè essere divenuto comprensibile, cosicché la condizione di manifestatività che rende possibile l’apparire della cosa nel suo essere è anche la radice delle condizioni di asseribilità, e dunque del giudizio. E questo implica una modificazione della nozione stessa di apriori materiale, che stava al centro della fenomenologia di Husserl. Per Heidegger l’apriori in senso fenomenologico non è un titolo del comportamento, bensì un titolo dell’essere. L’apriori non è soltanto alcunché di immanen-

247 248

Ivi: 111. Heidegger 1927: 230.

te, che appartiene primariamente alla sfera del soggetto, e non è neanche alcunché di trascendente, che inerisce specificamente alla realtà 249.

Esso è appunto relativo a un mondo, è l’aprirsi stesso di un mondo, l’ambito al cui interno le cose possono apparire, e dunque essere qualcosa, esistere. È l’ambito di senso al cui interno le diverse ontologie particolari si possono sviluppare, ma perimetra anche i margini che la comprensione non può oltrepassare: la finitezza stessa dell’essere e della verità, una finitezza radicata in una concezione che fa della comprensione il nucleo stesso dell’ontologia in quanto tale.

Bibliografia ragionata 1. Introduzioni generali O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, Pfullingen, Neske, 1963; ivi 19903; Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, tr. it. di G. Varnier, Napoli, Guida, 1991 G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Roma-Bari, Laterza, 1971; ivi, 20054 A. Cimino - A. Fabris, Martin Heidegger. Un’introduzione, Roma, Carocci, 2008 2. Heidegger e la fenomenologia P. Chiodi, Esistenzialismo e fenomenologia, Milano, Comunità, 1963 H.-G. Gadamer, Die Phänomenologische Bewegung, Tübingen, Mohr, 1963; Il movimento fenomenologico, tr. it. di C. Sinigaglia, Roma - Bari, Laterza, 1994 R. Cristin, a c. di, Heidegger e Husserl, “aut aut”, 223-224 (1988) J. Taminiaux, a c. di, Heidegger et l’idée de la phénoménologie, Dodrecht, Springer, 1988 J.-F. Courtine, Heidegger et la phénoménologie, Paris, Vrin, 1990 M. Ferraris, Cronistoria di una svolta, in M. Heidegger, La svolta, tr. it. di M. Ferraris, Genova, il Melangolo, 1990: 35-11 C. Esposito, Heidegger e la fenomenologia del possibile, Bari, Levante, 1992 E. Husserl, Randbemerkungen zu Heideggers Sein und Zeit und Kant und das Problem der Metaphysik, “Husserl Studies”, 11 (1994): 3-63; Glosse a Heidegger, tr. it. di C. Sinigaglia, Milano, Jaca book, 1997 249

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H-H. Gander, Selbstverständnis und Lebenswelt. Grundzüge einer phänomenologischen Hermeneutik im Ausgang von Husserl und Heidegger, Frankfurt/M, Klostermann, 2006 3. L’ontologia di Heidegger V. Costa, La verità del mondo. Giudizio e teoria del significato in Heidegger, Milano, Vita e Pensiero, 2003 A. Cimino, Ontologia, storia, temporalità, Pisa, Ets, 2005 M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger, Macerata, Quodlibet, 2005 V. Costa, Esperire e parlare, Interpretazione di Heidegger, Milano, Jaca Book, 2006

2.5. TEORIE INGENUE di Yuri Berio Rapetti e Daniela Tagliafico250

2.5.1. Teorie ingenue e ontologia Un filo continuo unisce la riflessione husserliana sull’apriori materiale e la riflessione heideggeriana sull’essere nel mondo con la tematizzazione, sviluppatasi nella filosofia e nelle scienze cognitive degli ultimi decenni, delle teorie ingenue. Con l’espressione “teoria ingenua” si intende comunemente un sapere di tipo prescientifico o protoscientifico, che può essere ascritto a tutti gli esseri umani e che rappresenta il modo in cui essi interpretano e concettualizzano un certo ambito d’esperienza 251. Ad esempio, è naturale per noi prevedere il movimento di una palla da biliardo in base alla semplice percezione della velocità e della direzione della boccia con cui essa viene colpita, così come tendiamo a prevedere il comportamento altrui sulla base dell’ascrizione di stati mentali quali credenze, desideri, emozioni e intenzioni. Nel primo caso abbiamo a che fare con una fisica ingenua, nel secondo con una psicologia ingenua. Alcuni studiosi 252 sostengono, sulla base di dati empirici, che questi saperi – o almeno alcuni di essi – siano il prodotto di “moduli”, ossia di capacità cognitive altamente specializzate e deputate all’elaborazione di specifiche informazioni. Così potremmo possedere un modulo della fisica ingenua che, a partire dall’elaborazione di certi dati relativi agli oggetti – la velocità, la grandezza, il peso ecc. – ci permetterebbe di formulare delle previsioni circa il loro movimento, il 250

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I §§ 2.5.1, 2.5.9 e 2.5.10 sono di Daniela Tagliafico; i §§ 2.5.2 - 2.5.8 di Yuri Berio Rapetti. Si vedano ad esempio McCloskey 1983, Medin e Atran 1999, Guttenplan 1994: 300-316 e Ian Ravenscroft 2004. Chomsky 1993; Sperber 1996.

loro potere causale su altri oggetti e così via. Nel caso della psicologia ingenua, l’idea che essa consista in un modulo, o meglio, in un insieme di moduli specializzati nell’analisi delle informazioni riguardanti il comportamento degli agenti, è ben più che un’ipotesi, ma una vera e propria teoria scientifica sostenuta da importanti dati sperimentali253. Un aspetto ampiamente discusso riguardo alle teorie ingenue è poi il loro rapporto con le teorie scientifiche. Da una parte, infatti, si sostiene che le teorie ingenue possano essere considerate come teorie proprio perché possiedono una serie di rilevanti analogie con le discipline scientifiche, quali ad esempio la coerenza interna e l’alto valore predittivo; dall’altra, è innegabile che alcune descrizioni e predizioni ingenue si rivelino false o infondate, basti pensare alla convinzione secondo cui sarebbe il sole a ruotare intorno alla terra, così difficile da abbandonare, tant’è vero che tutt’oggi, pur essendo convinti della bontà della teoria copernicana, è molto più semplice e naturale per noi esprimerci in termini “tolemaici”, dicendo ad esempio che “il sole si alza o si abbassa sull’orizzonte” o che “il sole si muove più o meno velocemente”. La questione dello statuto scientifico delle discipline ingenue, quindi della loro capacità di fornire una descrizione adeguata della realtà, possiede delle implicazioni ontologiche rilevanti: se, infatti, com’è opinione comune – e molto spesso, a sua volta, ingenua – soltanto le scienze esatte sono in grado di penetrare la natura delle cose, di descrivere la realtà come essa è, che posto hanno allora le teorie ingenue? Si tratta semplicemente di concettualizzazioni inesatte e grossolane, oppure colgono254 una struttura della realtà che sfugge invece alle cosiddette ‘scienze dure’? Qual è, dunque, lo statuto ontologico delle entità e delle leggi che presuppongono? In questo capitolo prenderemo in considerazione le due discipline che più hanno attirato l’interesse di filosofi e psicologi a partire dalla seconda metà del secolo scorso, ossia, per l’appunto, la fisica e la psicologia ingenua, cercando di fornire un’esposizione sistematica delle principali opzioni concettuali formulate riguardo a esse.

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Baron-Cohen 1995; Leslie 1987. Cfr. Bozzi 1990.

2.5.2. Che cos’è la fisica ingenua? Immaginate di trovarvi seduti su un prato di campagna, assorti in una profonda meditazione, quando tutt’a un tratto dall’albero che vi sovrasta, e alla cui ombra cercavate ristoro dalla calura estiva, si stacca un frutto maturo, una mela ad esempio, che va a cadere proprio davanti al vostro naso. Poniamo poi che dobbiate descrivere a qualcuno l’accaduto: come pensate di esprimervi? Potreste in primo luogo raccontare di esservi ridestati dai vostri pensieri all’imprevisto passaggio di un oggetto nel vostro campo visivo e, come il Newton della leggenda, esservi improvvisamente resi conto di una fondamentale legge della fisica. In questa prospettiva, dunque, il resoconto più attendibile della vostra esperienza consisterebbe nel descrivere l’evento come la caduta di un grave approssimativamente sferico, che si è spostato con un movimento accelerato, secondo le leggi della meccanica, e che è atterrato a cinque centimetri dalla punta dei vostri piedi. C’è però un secondo modo, decisamente più comune, di descrivere l’accaduto. In questo caso affermereste con tutta probabilità di aver visto una mela rossa cadere non molto lontano dai vostri piedi, muovendosi con una velocità sostanzialmente uniforme. Nell’alternativa tra queste due possibili risposte possiamo ritrovare, un poco condensata forse, la differenza che sussiste tra la fisica classica e quella ingenua. L’autore che per primo ha valorizzato l’interesse filosofico della fisica ingenua è stato lo psicologo Paolo Bozzi (1930-2003), il quale verso la fine degli anni Cinquanta si è occupato di studiare il modo in cui l’uomo comune percepisce il moto pendolare e la caduta dei gravi255. Il termine “fisica ingenua” è stato diffuso, è vero, solo molti anni più tardi, da studiosi americani256 che hanno indagato, senza conoscere i lavori di Bozzi, problemi analoghi. La sostanza del problema è comunque che noi tutti, in quanto osservatori ingenui della realtà (e gli stessi scienziati quando escono dal laboratorio), vediamo gli oggetti in caduta libera spostarsi 255 256

Bozzi 1958; 1959. Cfr. ad esempio Shanon 1976; Hayes 1985a; McCloskey 1983, anche se, a rigor di termini, soltanto il secondo si è avvalso esplicitamente della dicitura “fisica ingenua (naïve physics)”, mentre gli altri due autori hanno preferito utilizzare espressioni come fisica intuitiva o fisica dell’uomo comune. Come fa notare Bozzi, tuttavia, la prima attestazione del termine è da ricercare in un testo di stampo gestaltista molto anteriore a quelli qui citati, ovvero Lipmann e Bogen 1923.

con una velocità costante, quelli più pesanti cadere più velocemente di quelli leggeri e, osservando le oscillazioni di un pendolo, le percepiamo come più frequenti su archi minori che su archi maggiori, in barba a tutte le leggi fisiche257 che abbiamo appreso sui banchi di scuola. Non si tratta di una semplice stranezza, né di una specie di illusione ottica, e il riferimento ad Aristotele non ha mancato di attirare l’attenzione dei filosofi 258 che hanno scelto di approfondire ed estendere la riflessione ad altri aspetti della questione. Ritorniamo all’esempio della mela. Le due descrizioni possibili della sua caduta danno luogo a vere e proprie immagini alternative del mondo: l’una scientifica, l’altra che potremmo chiamare, per l’appunto, ingenua o manifesta 259. Descrivere la mela come un frutto di un bel rosso acceso sembra infatti del tutto naturale al nostro ipotetico osservatore comune, ma non altrettanto a quello di stampo newtoniano, che non mancherà di rilevare come ciò che viene comunemente chiamato “rosso” non sia affatto una proprietà intrinseca (o primaria) della mela ma, semmai, una proprietà soggettiva (o secondaria), risultante dall’interazione tra gli organi di senso e i raggi luminosi riflessi dall’oggetto. Quanto poi al fatto che sia “bella”, si tratta di una qualità ancora più soggettiva, di una qualità terziaria 260. Infine, siamo proprio sicuri che sia lecito chiamare la mela “mela”, distinguendola da altre entità che riteniamo del tutto differenti? Non si tratta in fin dei conti di un semplice aggregato di atomi, del tutto simili a quelli che com257

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Secondo le leggi scoperte da Galileo, le oscillazioni di un pendolo seguono la regola dell’isocronismo, ovvero si effettuano con frequenze invariate al variare dell’arco di cerchio percorso. Due gravi invece, lasciati cadere nel vuoto e in ipotetica assenza di attrito, impiegherebbero esattamente lo stesso tempo a percorrere il medesimo tratto, indipendentemente dalle eventuali differenze di peso e acquisendo una velocità sempre maggiore. Cfr. in particolare Feyerabend 1978, Smith e Petitot 1990 e Smith 1992. Traiamo qui ispirazione dalla distinzione, teorizzata dal fi losofo americano Wilfrid Sellars, tra un’immagine manifesta e una scientifica del mondo; la prima basata sull’osservazione diretta della realtà che ci circonda, la seconda mediata dall’assunzione di entità discrete, impercettibili e qualitativamente neutre (quali sono gli atomi della fisica), poste a fondamento della realtà manifesta e che dovrebbero spiegarla. Cfr. Sellars 1962. Vengono chiamate “qualità terziarie” o “espressive” quelle qualità degli oggetti a cui si attribuisce comunemente (e indebitamente) un carattere meramente soggettivo, come l’essere lugubre del nero e l’essere vivace del rosso, oppure la particolare armonia di una composizione musicale.

pongono qualsiasi altro oggetto, disposti semplicemente secondo una particolare configurazione? Come si vede, per cogliere il senso fondamentale di una disciplina come la fisica ingenua bisogna risalire fi no alle origini della scienza moderna e alla formazione del suo metodo. Partendo dalle considerazioni ormai storiche di Alexandre Koyré (1892-1964)261 e di alcuni autori contemporanei 262 che si collocano sulla sua scia, è possibile individuare nel corso del XVII secolo il verificarsi di una rivoluzione concettuale, che ha scavato una profonda frattura tra le credenze di senso comune e le nuove idee scientifiche. Come ha sostenuto l’epistemologo Paul Karl Feyerabend (1924-1994)263 la vera differenza tra la concezione aristotelica del mondo e quella post-galileiana risiede nel diverso ruolo che si attribuisce all’errore percettivo nel sistema della nostra conoscenza. Per Aristotele l’errore è sempre e soltanto locale, non mette mai in discussione cioè l’affidabilità generale del sistema dei sensi, che è proprio ciò che viene messo in discussione dalla scienza dopo Cartesio e Galileo. Inoltre, come il pensiero antico, la fisica ingenua focalizza la sua attenzione sulle proprietà fenomeniche, dette anche secondarie, che la scienza aveva tralasciato in favore di quelle primarie, ovvero le figure, i moti e i numeri, per usare le parole stesse di Galileo264, ossia quelle qualità passibili di misurazione matematica. Si sarebbe forse tentati, a questo punto, di interpretare la storia del conflitto tra scienza e fisica ingenua come quella dell’opposizione tra quantità e qualità, tra universo della precisione e mondo del pressappoco265. Ma così facendo si commetterebbe un grave errore, misconoscendo alla realtà quotidiana quella serie di tratti stabili e ben strutturati di cui si occupa appunto la fisica ingenua. Gli studi di fenomenologia sperimentale condotti da Bozzi e dal suo maestro Gaetano Kanizsa (1913-1993)266, così come lavori ormai 261 262

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Koyré 1965: 23-24. Il già citato saggio di Sellars può essere fatto rientrare in questo fi lone, per la sua tendenza a riconoscere una cesura fondamentale tra descrizione scientifica e manifesta della realtà. Cfr. anche Rossi 1973: XIV; Shea 1983: 2. Feyerabend 1978: 148. Galilei 1623: 348. Si tratta della prima esplicita formulazione della distinzione tra qualità primarie e secondarie. In modo eminente Koyré 1948. Kanizsa 1980.

classici nella psicologia della Gestalt, tra cui quelli di David Katz (1884-1953)267 e di Edgar Rubin (1886-1951)268, hanno dimostrato che anche il mondo fenomenico fatto di colori, forme e qualità terziarie obbedisce a vere e proprie leggi, dotate di una precisione e una necessità non inferiori a quelle proprie delle leggi fisiche. Una certa tonalità di rosso, per esempio, ci apparirà visibilmente più scura o più chiara a seconda che la poniamo su uno sfondo bianco o su uno nero: e questo nonostante la scienza ci assicuri che si tratta del medesimo colore fisico, ovvero di un’onda elettromagnetica dotata della stessa frequenza. Sembrerebbe dunque di aver individuato un metodo caratteristico della fisica ingenua, ritagliandolo in contrapposizione a quello della fisica “esperta”269. Ma siamo sicuri che questo basti a far convivere pacificamente sotto uno stesso tetto prospettive tanto diverse? Abbiamo infatti accomunato, in questa breve trattazione, autori che appartengono a filoni di pensiero lontanissimi tra loro (da Aristotele agli psicologi della Gestalt, agli studiosi di scienze cognitive e intelligenza artificiale) dando per scontato, un po’ ingenuamente, che esista una sola fisica ingenua. In realtà, ce n’è più d’una, e proprio da queste differenziazioni possiamo gettar luce non solo sulla mela del nostro esempio, ma anche sull’ontologia soggiacente a questo frutto maturo dell’apriori materiale.

2.5.3. Quante fisiche ingenue? Abbiamo perciò scelto di suddividere questo campo di studi in cinque tipologie fondamentali, che rappresentano altrettanti modi di rispondere alle domande: (1) che posto occupano le leggi, le proprietà e le entità della fisica ingenua nella realtà che ci circonda e, in particolare, rispetto alla concezione che di essa hanno le scienze esperte? (2) Come dobbiamo considerare l’immagine scientifica e quella ingenua della realtà: la descrizione di due mondi inconcilia267

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Lo studio sul colore fenomenico di Katz 1930 è tuttora un riferimento imprescindibile per chiunque voglia occuparsi della questione. Il saggio di Rubin 1921 analizza principalmente il rapporto tra figura e sfondo mettendo in evidenza le rigorose leggi che determinano il loro modo di presentarsi nella percezione comune. D’accordo con la definizione proposta da Ferraris 2001.

bili e in conflitto tra loro, oppure quella di mondi in qualche modo riconducibili a un quadro unitario?

2.5.4. L’approccio agnostico Un primo modo di intendere questa disciplina è quello che può essere definito l’approccio agnostico alla fisica ingenua. Possiamo considerare il maggiore rappresentante di questo indirizzo lo stesso Husserl. Husserl non ha mai parlato di “fisica ingenua”, ma, con la sua rivalutazione del mondo-della-vita270, che precede e fonda lo stesso terreno delle concettualizzazioni scientifiche, il filosofo tedesco deve essere considerato il principale ispiratore del metodo peculiare della fisica ingenua e della sua analisi dei fenomeni percettivi. Abbiamo chiamato “agnostica” la concezione husserliana in quanto (così come sarà poi nel caso di Kanizsa) esclude dal suo orizzonte qualsiasi interesse per questioni di carattere ontologico271. Per Husserl si tratta semplicemente di tutelare il campo della coscienza dalle invadenti interpretazioni naturalizzanti delle scienze positive, che la riducono ai suoi correlati materiali e fisiologici272. Gli agnostici si accontentano di circoscrivere un ambito di dati certi e immediati e di analizzarlo attraverso raffinate descrizioni delle sue strutture generali. A esse però potranno attingere a piene mani quegli studiosi di fisica ingenua con interessi più spiccatamente ontologici.

2.5.5. Gli approcci psicologico e strumentale Passiamo ora a occuparci di due modi di concepire la fisica ingenua che, per quanto si sviluppino in ambiti di ricerca alquanto diversi tra loro, possono essere trattati insieme, giacché condividono un presupposto comune. Entrambi infatti considerano le strutture fondamenta270

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Ossia quello dell’esperienza pre-scientifica in cui l’uomo si trova a vivere e ad agire quotidianamente. È pur vero che in Hua VI: § 51 troviamo il progetto di una vera e propria ontologia del mondo-della-vita, ma essa appartiene ancora all’atteggiamento naturale, ossia a un livello che precede l’epoché trascendentale e si situa pertanto fuori dal campo proprio della fenomenologia. Cfr. Hua VI: §§ 68-71; Kanizsa 1980: 25-34.

li messe in luce dagli studi di fisica ingenua come appartenenti all’apparato cognitivo dell’uomo piuttosto che alla realtà esterna. Al primo gruppo appartengono tutti quei lavori, svolti per lo più da psicologi americani, che, come si è già avuto modo di osservare, a partire dagli anni Settanta hanno istituzionalizzato la fisica ingenua come disciplina teorica, affrontando l’indagine della percezione comune del moto degli oggetti. Essi hanno rivelato che la maggior parte delle persone, e spesso anche quelle che hanno seguito corsi di fisica all’università, conservano credenze aristoteliche sulle leggi che regolano la caduta dei gravi, come ad esempio quella secondo cui i corpi più pesanti cadrebbero più velocemente di quelli leggeri 273. La fisica ingenua concepita da questi autori è sostanzialmente una teoria coerente, ma sbagliata, del modo in cui si comportano gli oggetti intorno a noi. Essa è interpretata come una struttura stabile della nostra mente e del nostro bagaglio cognitivo e, come tale, si allontana di molto dalla concezione che ne aveva avuto Husserl, che avrebbe bollato queste considerazioni come “psicologistiche”. Dell’approccio agnostico fenomenologico e gestaltista questa prospettiva conserva invece il sostanziale disinteresse per ogni considerazione di carattere ontologico. Il fine di queste ricerche è strettamente pedagogico e mira all’elaborazione di strategie di insegnamento della fisica newtoniana che riescano più agevolmente a superare gli ostacoli opposti al suo apprendimento dall’ostinata persistenza di una simile fisica “intuitiva” nel senso comune. A finalità ugualmente pragmatiche sono improntati anche gli studi di fisica ingenua avviati nel campo dell’intelligenza artificiale274, che costituiscono l’indirizzo che abbiamo denominato “strumentale”. Essi si basano infatti sulla semplice constatazione che, se si vuole rendere un robot in grado di interagire adeguatamente con l’ambiente esterno, si rivelano molto più utili quelle leggi che l’uomo comune utilizza per muoversi nel mondo circostante (la sua fisica ingenua appunto), che non quelle tipiche della fisica esperta. Da questo punto di vista, assunto che la fisica ingenua è una teoria presente da qualche 273

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Cfr. il già citato Shanon 1976. Ulteriori ricerche (McCloskey 1983) hanno messo in risalto come le concezioni fisiche ingenue più diffuse aderiscano piuttosto alla teoria dell’impetus, elaborata durante il medioevo da fi losofi come Filopono e Buridano. Cfr. Shanon 1976, McCloskey 1983 e Hayes 1985.

parte nella nostra testa e constatato che grazie a essa l’uomo si muove con successo nell’ambiente esterno, si tratta soltanto di “estrapolarla” e renderne possibile l’implementazione su un computer. Il carattere pragmatico di tale prospettiva sovrasta dunque, ancora una volta, qualsiasi interesse di tipo ontologico275.

2.5.6. L’approccio dualista Un primo passo in direzione opposta all’agnosticismo è riscontrabile nei testi prodotti negli anni Trenta del secolo scorso dalla scuola gestaltista di Berlino, tra i quali spicca il nome di Wolfgang Köhler (1887-1967). Köhler formula una teoria decisamente dualista del rapporto tra realtà fisica e fenomenica276. Il mondo della fisica ingenua, quello che ci appare nell’esperienza di tutti i giorni, trova così posto di fianco a quello della fisica esperta, senza che tra di essi esista il benché minimo punto di contatto. Tuttavia, per spiegare come si arrivi dall’esperienza alla scienza, formula la teoria dell’isomorfismo tra fisico e fenomenico277. Sebbene tra i due mondi non ci sia contatto o inclusione, presentano una somiglianza strutturale di fondo: l’organizzazione che assumono gli elementi del nostro campo percettivo è analoga al modo in cui si distribuiscono i processi neuronali all’interno del nostro cervello, i quali a loro volta riproducono le strutture proprie di alcune entità del mondo esterno studiate dai fisici (come i campi elettromagnetici). La debolezza di questa teoria sul piano scientifico e le sue difficoltà filosofiche278 sembrano aver convinto alcuni studiosi di fisica ingenua a ritenere la soluzione dualista insoddisfacente e a ricercare nuove posizioni che integrino più efficacemente il mondo fisico e quello fenomenico, riconducendoli a una realtà unitaria.

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Cfr. esplicitamente Hayes 1985a: 3, in cui le preoccupazioni ontologiche svolgono un ruolo decisamente secondario. Già Köhler 1938: 102, ma poi più approfonditamente in Köhler 1947: 138-143. Köhler 1938: cap. 6. L’affermazione dell’isomorfismo tra i due mondi presuppone già, in effetti, una conoscenza della realtà fisica (che al mondo fenomenico dovrebbe assomigliare), e dunque vien meno l’assunto dell’isomorfismo tra fisico e fenomenico come condizione di possibilità della conoscenza della realtà fisica.

2.5.7. L’approccio iperrealista279 In questa direzione si orientano i lavori di fenomenologia sperimentale di Bozzi e quelli di James J. Gibson (1904-1979) sulla percezione ecologica. Essi rappresentano quella ‘linea dura’ della fisica ingenua che sostiene, in maniera radicale, che la realtà descritta dalla fisica ingenua, corrispondendo alle nostre evidenze percettive, è l’unica davvero esistente. Se giro attorno a un edificio e lo osservo attentamente noterò alcune proprietà, per così dire, più persistenti di altre: il suo essere quadrato e rigido, per esempio, ma anche la particolare tonalità del suo colore sono aspetti che resistono al continuo mutare delle ombre, della luminosità e di una serie di altri parametri fuggevoli e incostanti. Sono proprio queste proprietà a costituire la realtà di quell’edificio e non un qualsiasi aggregato di atomi o l’insieme dei rapporti tra grandezze misurabili che la scienza pone “al di sotto” e “al di là” dei fenomeni 280. Questo realismo fenomenico intransigente, come si vede, se presenta il vantaggio di una netta semplificazione del problema ontologico della fisica ingenua, sembra affermarsi a totale discapito dell’immagine scientifica della realtà281. Qual è infatti il ruolo che a quest’ultima spetterebbe ancora nella descrizione del mondo esterno? La risposta di Bozzi è netta e provocatoria. Le entità e le leggi descritte dalla fisica non sarebbero altro che aspetti limite, ipersemplificati, del mondo immensamente più ricco e complesso dell’esperienza fenomenica in cui noi abitiamo. La linea, il punto e la superficie, così come il nesso di causalità, nell’astratta neutralità con cui li caratterizzano la fisica e la geometria, esistono solo nella descrizione scientifica. Questa soluzione282 tuttavia, per quanto affascinante, sembra trascurare il ruolo fondamentale che giocano gli strumenti di misurazione nella nostra interazione col mondo e la conflittualità che talvolta le misurazioni indirette, con essi effettuate, presentano nei confronti della percezione diretta. Partendo dalle indagini sulla percezione visiva svolte da Gibson ci sembra invece possibile tentare una soluzione a questo importante 279

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Devo le espressioni “approccio iperrealista” e quella di “approccio ecumenico” (che si troverà in seguito) a Varzi e Casati 2002. Bozzi 1990: 94. Per una presentazione del realismo bozziano, cfr. Ferraris 2007f. Presentata in due versioni distinte per quanto riguarda la geometria, in Bozzi 1989: 79-81 e, in riferimento alla meccanica classica, in Bozzi 1990: 190.

nodo teorico e apportare, per così dire, alcune correzioni alle fondamentali intuizioni di Bozzi. Gibson ritiene che gli esperimenti condotti sinora, compresi quelli di stampo gestaltista, imponendo limitazioni e costrizioni innaturali alla percezione dell’uomo, ne travisino completamente il funzionamento. Da qui un nuovo modo di intendere il processo visivo, definito “ecologico” perché i suoi esperimenti si effettuano concedendo all’osservatore piena libertà di esplorazione dell’ambiente e, cosa fondamentale, all’esterno del laboratorio. Da questo punto di vista, gli stessi esperimenti di Bozzi sulla percezione del moto sarebbero, se sottoposti alla critica gibsoniana, sospetti di ipersemplificazione, di purificazione in laboratorio283. Queste osservazioni ci permettono di superare almeno due delle difficoltà ancora presenti nel pensiero di Bozzi. In primo luogo una certa dose di dualismo latente per cui, come abbiamo detto, solo alcune percezioni, quelle più stabili e permanenti messe in luce dall’analisi di laboratorio, andrebbero alle cose stesse, mentre tutte le altre apparterrebbero a un non meglio identificato mondo di apparenze. In questo caso l’iperrealismo di Gibson è più radicale: per lui la percezione va sempre alle cose stesse, in quanto specifica tanto gli aspetti stabili e permanenti, quanto quelli che mutano e che appartengono allo stesso titolo alla realtà oggettiva 284. In secondo luogo, si può ipotizzare che i presunti paradossi, che ancora sussistono nel pensiero di Bozzi tra percezione diretta e misurazione, possano venir superati proprio tramite un concetto più ampio di “percezione”. Una forte iniezione di ecologia alla concezione bozziana consentirebbe infatti di includere nella categoria della percezione anche quelle operazioni di misura indiretta di cui si avvale la scienza. Non dimentichiamoci che per Gibson la percezione non è altro che una serie di strategie cognitive che l’uomo utilizza per muoversi e sopravvivere in un ambiente. In questa prospettiva anche veri e propri espedienti di correzione percettiva, come l’utilizzo di

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Cfr. ad esempio la rigorosa formulazione del metodo della fenomenologia sperimentale contenuta in Bozzi 1989: 63. Gibson 1979 (19862: 131-132). Nell’esempio dell’edificio, il variare di ombre e illuminazione sarebbe per Gibson tutt’altro che arbitrario, in quanto ci fornisce informazioni esatte e oggettive sul movimento dell’osservatore in rapporto alla posizione dell’oggetto.

un righello, potrebbero entrare a far parte a pieno titolo della percezione ecologica 285. La teoria ecologica di Gibson sembrerebbe dunque essere la migliore candidata per la creazione di un’ontologia a basso tasso di conflittualità tra ciò che ci appare e ciò che c’è, ovvero tra fisica ingenua e fisica esperta.

2.5.8. L’approccio ecumenico Gibson stesso, tuttavia, non ha mancato di rilevare la distanza che separa l’immagine scientifica da quella fenomenica del mondo, se non relativamente alla misurazione, per lo meno per quanto riguarda la scelta della “taglia” di ciò che viene indagato. È innegabile infatti che il mondo microscopico di cui si occupa la fisica atomica mal si concili con quella realtà fatta di superfici colorate e oggetti di taglia media che costituiscono il nostro ambiente quotidiano, come case, mele e valli alpine. Uno dei collaboratori del presente volume, Barry Smith286 ha proposto, per risolvere il problema, un approccio che si può chiamare “ecumenico”, in quanto cerca di integrare le prospettive della scienza e della fisica ingenua in un quadro unitario. Esso consiste sostanzialmente nel mostrare che il mondo fisico e quello fenomenico possono essere considerati due aspetti, distinti ma conciliabili, di un’unica realtà. Questo tentativo prosegue dunque, radicalizzandole, quelle tendenze “conciliatrici” che abbiamo riconosciuto nel pensiero di Gibson e, in parte, in quello di Bozzi. Rispetto a essi tuttavia (e a maggior ragione nei confronti di quegli autori agnostici o dualisti che abbiamo preso in considerazione precedentemente) riscontriamo qui per la prima volta un chiaro progetto ontologico nei confronti della fisica ingenua, ovvero il fermo proposito di costruire, a partire dai dati ottenuti in questo campo, una mappa che riproduca la struttura essenziale dell’intera realtà. 285

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Gibson non parla mai esplicitamente della misurazione a questo proposito. Tuttavia si trovano accenni in questa direzione in Gibson 1979 (19862: 288), quando descrive le vere e proprie “strategie corporee” attuate dai soggetti di un esperimento per svelare l’esistenza di pseudo-ambienti e risolvere così le apparenti contraddizioni causate dalle illusioni ottiche. Cfr. infra 4.6.

Inoltre, notiamo l’inserimento esplicito di un nuovo ingrediente costitutivo: quello del senso comune. Ciò che deve entrare a far parte di un’ontologia del reale non è più solamente l’analisi delle strutture percettive e cognitive dell’essere umano, ma sono anche i contenuti positivi delle sue credenze di senso comune, come quelle nell’esistenza degli oggetti esterni e nella suddivisione della realtà in sostanze e accidenti 287. Come si può ben capire, da un lato questo nuovo aspetto contrasta fortemente con una concezione strettamente fenomenologica della fisica ingenua, in quanto inserisce un elemento di credenza nella realtà esterna totalmente in contrasto con l’epoché caratteristica di questo metodo. Dall’altro la sua acquisizione lancia una sfida ancora più ambiziosa alla visione scientifica, se è vero che questa spesso si pone in contrasto con le concezioni del senso comune (ripensiamo ancora una volta all’esempio della mela presentato all’inizio di questo capitolo). Per risolvere quest’ultimo problema Smith si affida a un’interpretazione della fisica ingenua mediata dal campo della filosofia della mente: l’idea fondamentale è quella di considerare la realtà descritta dalla fisica ingenua come un aspetto emergente rispetto a quello descritto dalla fisica esperta288. Come le proprietà mentali possono essere considerate un livello emergente rispetto a quello dei processi fisico-neuronali sottostanti (ovvero legate a essi da un rapporto di dipendenza, ma a essi non riducibili)289, allo stesso modo sarebbe possibile, secondo Smith, concepire i caratteri fenomenici della realtà (suoni, odori, colori, ma anche entità di senso comune, come una bicicletta o lo Stato del Canada) come formazioni di tipo emergente rispetto al substrato microscopico descritto dalla fisica.

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Per una lista completa cfr. Smith 1992: 517-524. I saggi in cui Smith si riallaccia direttamente alla teoria dell’emergentismo sono concentrati nella prima metà degli anni Novanta: Smith e Petitot 1990; Smith 1992: 514; 1995a. Si pensi a proprietà mentali come il desiderio di prendersi una vacanza o quella di provare un forte mal di testa. Secondo la teoria emergentista è certo corretto dire che non esisterebbero se non avvenissero determinati processi neuronali nel cervello del soggetto senziente, ma sarebbe scorretto inferirne che il mal di testa è identico a un determinato processo fisiologico. Esso è qualcosa di essenzialmente distinto e con caratteristiche irriducibili a quelle descritte dalle neuroscienze.

Una prima interpretazione di questo rapporto di emergenza è stata formulata da Smith in analogia con il concetto di Gestalt290. La realtà percepita e incontrata nel nostro commercio quotidiano col mondo sarebbe paragonabile a un intero che, pur abbracciando elementi di per sé privi di qualità fenomeniche (gli atomi inodori, incolori e insapori della fisica) ne è invece dotato, così come una melodia possiede una sua peculiare forma o struttura perfettamente riconoscibile a prescindere dal materiale sonoro di cui è costituita (le note, il timbro ecc.). Il problema di questa ipotesi risiede nella difficoltà di considerare il legame tra realtà fisica e fenomenica come un rapporto di parte-intero. In che senso infatti le proprietà quantificabili della scienza (come le lunghezze d’onda di cui parla la fisica) sarebbero parti proprie di una qualità fenomenica (come questa particolare tonalità di rosso che ho sotto gli occhi)? Sembra che la cesura tra fisico e fenomenico sia ben più profonda e risieda, piuttosto, in una sostanziale eterogeneità tra questi due livelli di descrizione, come hanno recentemente sostenuto alcuni studiosi di filosofia della mente291. Di fronte a simili difficoltà si direbbe che Smith si sia gradualmente avviato verso un indebolimento della sua tesi emergentista originaria e abbia finito per interpretarla da un punto di vista epistemologico e linguistico piuttosto che ontologico292. In altre parole, non è più una realtà fenomenica indipendente a emergere sul mondo della fisica, ma sono piuttosto le descrizioni della fisica ingenua a emergere su quelle della fisica esperta. Le teorie messe a punto dagli scienziati, al pari di quelle elaborate dagli studiosi di fisica ingenua, non sono altro che differenti nicchie linguistiche in grado di ritagliare aspetti diversi di un’unica realtà senza però moltiplicare i mondi 293. Descrivere la 290 291

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Smith 1988: 47-48. Cfr. tra i tanti lavori su questo argomento Kim 1998: 130 e l’analisi di Stephan 2002: 89. Esempi di un simile “emergentismo debole” o epistemologico si trovano significativamente in una fase successiva dell’opera smithiana, spesso improntata a un’analisi del linguaggio e del suo rapporto con la realtà: Smith 1999c: 317; 2001a. Come due specie animali possono occupare, nel medesimo territorio fisico, due nicchie ecologiche distinte (in quanto utilizzano differenti risorse ambientali), allo stesso modo, secondo Smith, esistono indefi niti modi di descrivere la medesima realtà esterna senza per questo postulare l’esistenza di altrettanti mondi o livelli corrispondenti. Una posizione molto simile è stata

mela in termini di atomi e masse gravitazionali o considerarla nei suoi aspetti percettivi e legati al senso comune sono due modi altrettanto validi di suddividere la realtà esterna, selezionando dei parametri e trascurandone altri. Il risultato è dunque un’ontologia decisamente pluralista che, postulando una realtà talmente ricca da non poter venire esaurita da un’unica griglia concettuale, ammette una molteplicità di strategie conoscitive complementari che contribuiscono a una migliore comprensione del mondo che ci circonda 294.

2.5.9. La psicologia ingenua295 Rispetto ai problemi ontologici della fisica ingenua, quelli della psicologia ingenua sono nettamente meno complicati. Già a poche ore dalla nascita i neonati mostrano reazioni differenziate verso gli oggetti inanimati e quelli animati, con un particolare interesse per i volti altrui296. Distinguere le persone dalle cose significa considerare le prime come entità speciali sul piano ontologico, ossia come entità dotate di una proprietà peculiare, la mente, quindi di stati mentali quali credenze, desideri, emozioni, in breve, di una vita cosciente del tutto

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sostenuta in Varzi e Casati 2002: 141-142. Per i due fi losofi italiani la fisica ingenua e la fisica esperta non sarebbero altro che modi differenti per riferirsi alla medesima realtà. In questa prospettiva la fisica ingenua rimane comunque una descrizione della realtà adeguata solo da un punto di vista pragmatico (per interagire col mondo) e composta di leggi per lo più false. Smith 1997. Alcuni autori distinguono tra psicologia ingenua e psicologia del senso comune, identificando la prima con una facoltà cognitiva specializzata, per mezzo della quale il comportamento proprio o altrui viene interpretato in termini intenzionali, e utilizzando la seconda per indicare invece quella teoria o proto-teoria che viene sviluppata proprio a partire da tale facoltà (Paternoster 2002: 210-211). In questo senso, la prima sarebbe una struttura di conoscenze tacita, che si colloca al livello sub-personale, mentre la seconda consisterebbe in ciò che della prima emerge al livello della coscienza e delle nostre generalizzazioni psicologiche ordinarie (Marraffa 2005: 127-128). Questa distinzione tuttavia è figlia di una precisa impostazione teorica rispetto alla teoria della mente, quella che sostiene la natura modulare della psicologia di senso comune. Al di fuori di quest’ambito le due espressioni sono impiegate perlopiù come sinonime. Bloom 2004; Gopnik e Meltzoff 1997 (tr. it. 2000: 116).

simile alla nostra. A differenza degli oggetti, le persone ci appaiono come agenti razionali, soggetti cui è possibile attribuire pensiero, volontà e azione, capacità di dare consapevolmente e volontariamente inizio a un evento. Così, ad esempio, se osservo qualcuno avvicinarsi al frigorifero, posso dire che egli sta andando verso il frigo perché sa che dentro c’è dell’acqua fresca e, avendo sete, desidera bere. L’attribuzione di stati mentali ci permette inoltre di formulare previsioni attendibili sul comportamento futuro degli agenti: se ritengo che il soggetto in questione abbia sete, allora posso facilmente prevedere che aprirà il frigo in cerca di acqua e non di un panino e che utilizzerà l’acqua appunto per dissetarsi e non per riempire la ciotola del cane o per innaffiare le piante del terrazzo. Descrizioni di questo tipo ci mostrano altri aspetti peculiari della nostra psicologia ingenua. Innanzitutto si tratta di ricostruzioni in cui agli stati mentali è conferito un ruolo causale: il fatto di avere sete comporta il desiderio di bere e questo desiderio, a sua volta, genera la decisione di andare verso il frigo. In secondo luogo, è evidente che ciò che riveste un ruolo causale determinante non è semplicemente lo stato mentale, ma più precisamente il suo contenuto intenzionale, ciò cui lo stato si riferisce. È il desiderio di bere dell’acqua e non del vino che mi spinge ad andare verso il frigo anziché verso l’enoteca più vicina. Gli stati mentali sembrano dunque possedere una peculiare proprietà, l’intenzionalità, la capacità di vertere su qualcosa, di essere diretti verso un oggetto297. Ancora, quando noi attribuiamo stati mentali, nella maggioranza dei casi attribuiamo una coscienza fenomenica di tali stati, cioè diamo per scontato che possedere un certo stato comporti necessariamente un aspetto fenomenico, una certa sensazione, che trovarsi in un certo stato mentale “faccia sempre un qualche effetto”298. Questa interpretazione delle azioni proprie o altrui scaturisce perlopiù in modo immediato, spontaneo, spesso senza che noi ne siamo coscienti, si impone, come dice Daniel C. Dennett (n. 1942), in modo ‘irresistibile’: così come non ci è possibile superare un’illusione ottica, allo stesso modo non possiamo vedere due bambini che si contendono il medesimo orsacchiotto senza pensare che entrambi lo vogliano299. L’interpretazione avviene cioè nel momen297 298 299

Brentano 1874; cfr. supra 2.1. Nagel 1974. Dennett 1987: 21.

to stesso in cui noi osserviamo un certo comportamento, lo stato mentale sembra essere presente nell’azione nello stesso modo in cui suoni, colori e altre proprietà percepibili sono presenti nel mondo intorno a noi. Come la fisica ingenua, dunque, anche la psicologia ingenua o psicologia del senso comune si presenta come una teoria di tipo prescientifico, che tutti gli esseri umani adulti e sani possiedono e grazie alla quale sono in grado di comprendere e prevedere il comportamento proprio e altrui in termini di stati mentali quali credenze, desideri, emozioni, intenzioni300. Nel paragrafo che segue prescinderemo dal dibattito – interno soprattutto alla psicologia – relativo alla natura della psicologia ingenua, che vede contrapporsi coloro che la considerano come una vera e propria teoria della mente a coloro che ritengono si tratti piuttosto di un’abilità di tipo pratico, fondamentalmente una capacità di immedesimarsi nei vissuti altrui. Ci proponiamo invece di fornire una breve panoramica delle posizioni più importanti che sono state assunte nell’ambito della fi losofia della mente rispetto allo statuto ontologico delle categorie psicologiche del senso comune.

2.5.10. Lo statuto ontologico della psicologia ingenua Dal punto di vista ontologico la psicologia ingenua pone un problema fondamentale, ossia, la questione del posto occupato dal mentale – così come esso è concepito dal senso comune – nell’ordine naturale del mondo. In questo senso possiamo tracciare una prima distinzione fondamentale tra coloro che considerano la psicologia del senso comune come una teoria sostanzialmente vera e coloro che invece la ritengono una concettualizzazione falsa e destinata a essere sostituita da descrizioni più adeguate della realtà. A questo secondo fi lone appartiene l’eliminativismo, secondo cui quella del mentale sarebbe appunto un’ontologia radicalmente falsa: termini come “credenza”, “desiderio”, “intenzione” sono privi di denotazione, concetti vuoti, che non si riferiscono ad alcunché di reale nel mondo. Nella sua versione oggi più affermata, sostenuta in particolare da Patricia (n. 1943) e Paul Churchland (n. 1942), l’eliminativismo con300

Meini 2001: XI.

sidera gli stati mentali del senso comune alla stregua di entità come il flogisto o il calorico: essi sono cioè concetti introdotti per razionalizzare il comportamento degli agenti, per rendere ragione delle loro azioni, destinati però a essere superati in futuro da descrizioni scientificamente più adeguate. Con il progredire della scienza – quando riusciremo a spiegare il comportamento in termini strettamente neurofisiologici – nozioni come quella di “credenza” o “desiderio” verranno abbandonate e sostituite da altre, scientificamente più corrette301. In questo senso, dunque, l’eliminativismo contrappone nettamente l’ontologia della scienza a quella del senso comune, non riconoscendo a quest’ultima alcun valore: le descrizioni intenzionali non si riferiscono a nulla di realmente sussistente, non esiste nessuna realtà a livello neurofisiologico che corrisponda a tali entità teoriche. L’idea secondo cui la psicologia del senso comune sarebbe una teoria sostanzialmente vera ha avuto invece uno dei suoi più importanti sostenitori in Jerry Fodor (n. 1935), che ha elaborato uno dei modelli funzionalisti di maggior successo, la cosiddetta “teoria computazionalrappresentazionale della mente”. Per Fodor302 le spiegazioni intenzionali sono vere in senso letterale: se così non fosse, saremmo di fronte, egli dice, a una delle più grandi catastrofi intellettuali dell’umanità. Ciò significa non solo che tali spiegazioni sono irrinunciabili – in quanto senza di esse non avremmo modo di comprendere le ragioni delle azioni e di prevederne le conseguenze – ma anche che hanno un riferimento reale nel mondo – in questo senso la sua posizione è stata definita anche come “realismo intenzionale”. Ai termini mentalistici corrispondono effettivamente delle entità, più precisamente, termini come “credenza” e “desiderio” denotano, secondo Fodor, stati computazionali della nostra mente. Senza scendere nei dettagli della teoria fodoriana, ciò che preme sottolineare è che per Fodor la psicologia del senso comune è vera e può aspirare allo statuto di scienza nella misura in cui le entità da essa supposte trovino un’adeguata formalizzazione scientifica. Interpretare gli stati mentali come stati computazionali comporta però inevitabilmente l’accettazione della tesi della realizzabilità multipla di tali stati, ossia la possibilità che essi siano realizzati, almeno in linea di principio, da più di un sostrato materiale. Ciò significa affermare l’irriducibilità della psicologia alla neurologia: 301 302

P.M. Churchland 1979. Fodor 1987.

non esiste una corrispondenza perfetta tra le entità individuate dalla psicologia e quelle individuate dalla neurologia, benché ciò non significhi che le prime siano meno vere delle seconde. Psicologia e neurologia sono due livelli di spiegazione diversi e le leggi dell’una non sono traducibili – quindi riducibili – in quelle dell’altra: lo psicologo deve ricostruire l’organizzazione funzionale del cervello, laddove il neurologo deve individuarne le strutture neurologiche. Per questo motivo nella visione di Fodor, contrariamente a quanto sostenuto dagli eliminativisti, la neurologia non potrà mai soppiantare la psicologia. Una posizione del tutto peculiare è poi quella di Dennett, variamente definita come “funzionalismo omuncolare”303 o anche “funzionalismo neocomportamentista”304. Sulla scorta della tradizione comportamentista ed eliminativista, infatti, Dennett ritiene che, da un punto di vista strettamente neurologico, gli stati mentali individuati dalla psicologia ingenua siano termini privi di riferimento: parole come “credenza” o “desiderio” sono concetti vuoti, nel senso che non è possibile identificare nulla, a livello neurofisiologico, che corrisponda a essi. Ciò non significa, tuttavia, che tali entità siano semplici fantasie; al contrario, in contrasto con l’eliminativismo e in accordo con Fodor, Dennett ritiene che le descrizioni intenzionali siano vere, dal momento che possiedono, ad esempio, una forte coerenza interna e un alto valore predittivo. Di più, le descrizioni intenzionali sono assolutamente necessarie, in quanto senza di esse noi non saremmo in grado di razionalizzare il comportamento, di dare senso alle azioni nostre o altrui. Tuttavia Dennett non è neppure un realista intenzionale: al contrario di Fodor, infatti, ritiene che gli stati mentali individuati dal senso comune non possano in alcun modo venir messi in corrispondenza con quelli individuati dal funzionalismo computazionale, e perciò nega che le nostre spiegazioni psicologiche ordinarie possano mai costituire le leggi di una psicologia scientifica. Psicologia scientifica e psicologia del senso comune si collocano a due livelli irriducibili l’uno all’altro: la prima opera al livello del “progetto” e si deve occupare di descrivere l’architettura funzionale della mente, laddove la seconda appartiene al livello personale e serve per comprendere e prevedere il comportamento di un agente attribuendogli stati mentali quali credenze e desideri e interpretando il suo comportamento come se 303 304

Lycan 1990: 57 ss. Nannini 2002: 169.

fosse causato da essi. Si tratta, dice Dennett, di un atteggiamento innato, che assumiamo spontaneamente, in quanto ne siamo stati dotati dall’evoluzione biologica. In questa prospettiva, gli stati mentali del senso comune potrebbero sembrare nient’altro che costrutti teorici introdotti per rendere intelligibile il comportamento degli agenti, ma privi di qualunque consistenza ontologica. In questo senso, la posizione di Dennett è stata definita in passato come “strumentalista”305, proprio perché la spiegazione intenzionale, per quanto vera, non sembra descrivere alcunché di reale, non avendo un fondamento né a livello funzionale né tanto meno a livello neurofisiologico. Questa interpretazione però non coglie in modo appropriato la posizione di Dennett. Ritenere, come fa l’eliminativismo, che se qualcosa non è riducibile a un sostrato fisico non ha alcuna realtà, è per Dennett una grossa ingenuità. E considerare gli stati mentali come costrutti teorici analoghi al concetto di numero, di equatore o di baricentro, non significa privarli della loro realtà. Concetti di questo tipo sono pienamente ammessi all’interno delle scienze “dure” poiché la loro legittimità è determinata dal ruolo esplicativo che svolgono all’interno della teoria e non semplicemente dal fatto di avere un referente fisico reale: non si vede perché lo stesso discorso non dovrebbe valere per le entità della nostra psicologia ingenua. Insomma, per Dennett gli stati mentali sono strutture reali, che esistono sì soltanto in riferimento a un soggetto, ma che emergono tuttavia con regolarità, ogni volta che noi percepiamo determinate proprietà degli oggetti306. In questo senso il loro statuto ontologico può essere paragonato a quello delle proprietà secondarie. Nel caso di un colore, noi sappiamo che il fatto di percepire un certo oggetto come rosso dipende non solo dalle caratteristiche fisiche dell’oggetto, ma anche dalla particolare struttura del nostro sistema percettivo: per questo diciamo che la proprietà di essere rosso è una proprietà osservatore-dipendente. Tuttavia essa non è qualcosa di arbitrario, frutto della nostra libera interpretazione, giacché qualunque soggetto dotato dello stesso sistema percettivo (integro) non potrà che percepire tale oggetto come rosso. L’essere rosso è dunque, in questo senso, una proprietà reale di un oggetto. Lo stesso discorso vale per le proprietà mentali: l’attribuzione 305 306

Block 1980. Paternoster 2002: 82.

di uno stato mentale a un sistema dipende tanto dal comportamento esibito dal sistema quanto dal soggetto che lo osserva. Di nuovo, ciò non significa che questa attribuzione sia un’interpretazione arbitraria; al contrario, come dice Dennett, l’interpretazione è “irresistibile”: chiunque veda un uomo che tira un pugno a un altro non potrà non pensare che il primo sia infuriato con il secondo. Dal momento che l’interpretazione intenzionale scaturisce con regolarità nell’osservazione del comportamento, essa può essere considerata a buon diritto una proprietà reale di tale comportamento. È indubbio che la partita si giocherà nei prossimi anni soprattutto sul campo della neurofisiologia: sarà possibile trovare i correlati neurologici delle entità mentali del senso comune o delle corrispondenti entità formalizzate dalla psicologia cognitiva oppure si verificherà davvero quella “rivoluzione culturale” pronosticata dagli eliminativisti? Tra cinquanta o cent’anni la psicologia del senso comune esisterà ancora? In definitiva, sarà possibile naturalizzare, dunque ridescrivere in termini non mentalistici, il mentale?

Bibliografia ragionata 1. Per una panoramica generale sulla fisica ingenua P. Bozzi, Fisica ingenua, Milano, Garzanti, 1990 (in particolare il cap. 2) M. Ferraris, Ontologia come fisica ingenua, “Rivista di estetica”, n.s., 6 (1998): 33-43 A. Varzi - R. Casati, Un altro mondo?, “Rivista di Estetica”, n.s., 19 (2002): 131-159 2. Sui precursori della fisica ingenua P. Bozzi, Sulla preistoria della fisica ingenua, “Sistemi intelligenti”, 1 (1989): 61-74 B. Smith - J. Petitot, New Foundations for Qualitative Physics, in J.E. Tiles, G.T. McKee, C.G. Dean, a c. di, Evolving Knowledge in Natural Science and Artificial Intelligence, London, Pitman, 1990: 231-239 B. Smith - R. Casati, Naive Physics: an Essay in Ontology, “Philosophical Psychology”, 7/2 (1994): 225-244 M. Ferraris, Ontologia, “Rivista di estetica”, n.s., 1-2 (1996): 149-258

3. Sulla rivalutazione di Aristotele e dei medievali per l’analisi delle nostre conoscenze ingenue del mondo P. Bozzi, Analisi fenomenologica del moto pendolare armonico, “Rivista di Psicologia”, 52 (1958): 281-302 P. Bozzi, Le condizioni del movimento naturale lungo i piani inclinati, “Rivista di Psicologia”, 53 (1959): 337-352 B. Shanon, Aristotelianism, Newtonianism and the physics of the layman, “Perception”, 5 (1976): 241-243 P. Feyerabend, In Defence of Aristotle: Comments of the Conditions of Content Increase, in G. Radnitzky - G. Andersson, a c. di, Progress and Rationality in Science, Dordrecht, Reidel, 1978: 143-180 M. McCloskey, Intuitive Physics, “Scientific American”, 248 (1983): 114-122 B. Smith, Zum Wesen des Common sense: Aristoteles und die naive Physik, “Zeitschrift für philosophische Forschung”, 46 (1992), 4: 508-525 4. Sulle ricerche di fisica ingenua nel filone dell’intelligenza artificiale P.J. Hayes, The Naive Physics Manifesto, in D. Michie, a c. di, Expert Systems in the Microelectronic Age, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1979: 242-270 J.R. Hobbs - R.C. Moore (a c. di), Formal Theories of the Commonsense World, Norwood, Ablex, 1985 5. Introduzioni alla fi losofia della mente in cui è trattato il tema della psicologia ingenua M. Di Francesco, Introduzione alla filosofia della mente, Roma, Carocci, 19961; ivi, 20022 S. Nannini, L’anima e il corpo. Un’introduzione storica alla filosofia della mente, Roma - Bari, Laterza, 2002 A. Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, Roma - Bari, Laterza, 2002 6. Sul dibattito relativo alla natura della psicologia ingenua M. Davies - T. Stone, Folk Psychology, Oxford, Blackwell, 1995 M. Davies - T. Stone, Mental Simulation, Oxford, Blackwell, 1995 P. Carruthers - P.K. Smith, Theories of Theory of Mind, Cambridge, Cambridge University Press, 1996 C. Meini, La psicologia ingenua. Un’ipotesi evolutiva, Milano, McGraw-Hill, 2001

7. La più vasta bibliografia sulla psicologia ingenua si trova invece on-line: D. Chalmers - D. Bourget, a c. di, MindPapers. A Bibliography of the Philosophy of Mind and the Science of Consciousness, URL = http://consc.net/ biblio.htm

2.6. ONTOLOGIA FORMALE di Giuliano Torrengo

2.6.1. I vari sensi di “ontologia formale” Il progetto di una logica applicata all’esistenza stava anche alla base della “logica trascendentale” kantiana307. Ma il modo in cui le implicazioni ontologiche della logica sono svolte dalla scuola di Brentano, soprattutto da Husserl, prende l’avvio non dall’Io puro, bensì dagli oggetti. L’ontologia formale è il risultato di una tematizzazione che abbiamo visto in opera nella definizione degli “stati di cose” e dell’ “apriori materiale”, che costituiscono probabilmente gli acquisti ontologici più importanti nella tradizione fenomenologica. Tale tematizzazione è “formale” in quanto aspira a una massima generalità, ossia viene perseguita astraendo da un qualsiasi ambito particolare, e si differenzia dunque dalle ontologie “materiali”, incentrate su un qualche dominio particolare (ad es. l’ontologia degli oggetti materiali, l’ontologia della biologia, o l’ontologia del tempo). Distingueremo due grandi filoni che possono essere ricondotti all’ontologia formale fi losofica odierna. Un modo di intendere la massima generalità dell’ontologia formale è di porla in relazione all’uso di formalismi: utilizzare sistemi di simboli per rendere il discorso sull’esistenza il più generale possibile. Ci sono almeno due possibili letture di questa idea. La prima, di ispirazione realista, consiste nell’identificare categorie sintattiche di un linguaggio con categorie generali dell’esistenza. Un rappresentante significativo di tale concezione è l’ontologo austriaco, a lungo attivo negli Stati Uniti, Gustav Bergmann (1906-1987)308, il quale chiamava tale strategia “metodo 307 308

Cfr. supra 1.4. Gustav Bergmann nasce a Vienna nel 1906. Nel 1928 si laurea in matematica e nello stesso periodo inizia a frequentare il gruppo di fi losofi in seguito co-

del linguaggio ideale” e riteneva che Brentano fosse stato il primo a usarla in filosofia. L’altra lettura, di ispirazione nominalista almeno in origine, si può far risalire al logico polacco Stanisław LeĜniewski (1886-1939), personaggio di spicco della cosiddetta scuola di Leopoli e Varsavia, fondata da Kazimierz Twardowski (1866-1938), il quale a sua volta fu allievo di Brentano309. Stando a questa lettura, una teoria generale dell’essere va formulata all’interno della logica, come teoria delle espressioni nominali310. Rappresentante odierno di questo modo di intendere l’ontologia formale è l’americano Nino Cocchiarella (n. 1933), che condivide con i sostenitori del metodo del linguaggio ideale la corrispondenza fra categorie sintattiche e categorie dell’esistenza, e ritiene – come già LeĜniewski – che l’aspetto più generale di una ontologia sia costituito da una teoria della predicazione, ossia una teoria del modo in cui le diverse categorie logiche si combinano così da rappresentare diversi aspetti della realtà311. Un secondo modo di intendere la generalità dell’ontologia formale – più vicino alla tradizione brentaniana e husserliana – è di pensarla

309 310

311

nosciuti come il “circolo di Vienna”, mostrando un particolare interesse nei confronti del pensiero di Rudolf Carnap. Dopo aver conseguito una seconda laurea in legge, nel 1938 lascia l’Europa per gli Stati Uniti, a causa delle sue origini ebraiche. Negli Stati Uniti trova lavoro nell’Università dell’Iowa, inizialmente presso la facoltà di psicologia, poi in quella di fi losofia. Qui inizia la sua produzione di scritti filosofici, dapprima come critico dell’impostazione antimetafisica del positivismo carnapiano (The Metaphysics of Logical Positivism, 1954), e in seguito sfruttando gli strumenti logico-linguistici del positivismo per affrontare i problemi metafisici tradizionali (Meaning and Existence, 1959). Partendo da questi presupposti metodologici, nella sua opera più matura (Realism. A Critique of Brentano and Meinong, 1967) egli elabora una forma di realismo ontologico che non abbandonerà, nelle sue linee fondamentali, fino alle sue ultime opere. Per una raccolta di saggi in italiano sull’opera di Bergmann e una bibliografia completa, cfr. Bonino e Torrengo 2004. Cfr. supra 2.1. Altri esponenti della scuola di Leopoli e Varsavia (cfr. supra 2.1.1.), come Jan Łukasiewicz (1878-1956), Alfred Tarski (1902-1983) e soprattutto Kazimierz Ajdukiewicz (1890-1963), hanno un atteggiamento meno favorevole verso l’ontologia, dal momento che ritengono l’uso del formalismo essenzialmente legato a questioni di convenzione. Un atteggiamento simile nei confronti dei rapporti fra logica e ontologia è rappresentato da Rudolf Carnap (1891-1970). Si veda il capitolo su Carnap del presente volume (cfr. infra 3.3.). Si vedano anche le posizioni di W.V.O. Quine; al riguardo, cfr. infra 3.5. Cocchiarella 1988; 1996.

in relazione alla neutralità dei suoi principi rispetto alle entità a cui vengono applicati. Nelle Ricerche Logiche Husserl concepiva l’ontologia formale come un ampliamento e generalizzazione delle leggi apriori riguardanti i contenuti di coscienza, di cui si erano interessati soprattutto Brentano e Stumpf312. Tale approccio all’ontologia, da cui Husserl in qualche modo si allontanò negli anni successivi, è stato riproposto all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso dando origine a diversi progetti di ricerca313. Si distinguono almeno tre fondamentali gruppi di problemi che animano quest’ultimo modo di intendere l’ontologia formale. In primo luogo c’è il problema di chiarire quali siano e come si comportino le categorie dell’esistenza più generali e comprensive. Concezioni dell’ontologia che rimangono in qualche modo ancora all’interno della tradizione fenomenologica intendono l’ontologia formale come incentrata su tale problema314. Ad esempio, Roderick Chisholm (1916-1999), studioso americano di Brentano, riteneva che l’aspetto formale dell’ontologia dovesse consistere in una teoria generale delle categorie. Tale problema è centrale anche per approcci che si interessano al ruolo delle categorizzazioni nei processi cognitivi umani come strumento di analisi ontologica315, e a quelle interpretazioni dell’ontologia formale che la mettono in relazione con l’informatica316. In secondo luogo, c’è il problema di caratterizzare le proprietà e le relazioni formali in quanto tali. In questo senso l’ontologia formale si intreccia con la fi losofia della logica, che ha affrontato nozioni come quelle di “esistenza” e di “identità” concentrandosi sul loro ruolo nei ragionamenti validi317. In terzo luogo, c’è il problema di formulare una teoria rigorosa, unitaria e possibilmente assiomatica318 a partire da un numero limitato di concetti di base. Quest’ultimo problema ha portato spesso l’ontologia formale a intrecciarsi con talune aree

312 313 314 315 316 317 318

Cfr. supra 2.3. B. Smith 1982a. Poli 1992; Ferraris 2003a: Introduzione. Casati 2003b. Guarino e Welty 2004. Cfr. infra 4.6. Mulligan 1992. Si definisce assiomatica qualunque teoria che possa essere formulata a partire da un insieme determinato di proposizioni (gli assiomi), da cui sia possibile generare tutte le conseguenze mediante una procedura ‘automatica’.

della matematica, come la teoria degli insiemi e la topologia319. È soprattutto in riferimento a questi tre gruppi di problemi che le tematiche fondamentali dell’ontologia formale fi losofica odierna verranno affrontate nel presente capitolo.

2.6.2. La legittimità dei principi Le dispute sui principi fondamentali dell’ontologia formale sono imperniate spesso attorno a questioni che chiamerò di legittimità formale: ci si chiede se un principio esclude l’esistenza di alcune entità che una qualche ontologia materiale potrebbe ammettere e, in caso affermativo, la sua legittimità è messa in discussione. I principi formali, infatti, dovrebbe essere neutrali rispetto al loro contenuto, ossia dovrebbero essere validi indipendentemente dal tipo di entità a cui si applicano. Sorge qui però un problema. I principi dell’ontologia formale sono formulati come condizioni su entità. Ad esempio, un principio che prenderemo in considerazione è quello di auto-identità o della riflessività dell’identità: ogni cosa è identica a sé stessa. Assumere il principio di auto-identità come principio ontologico formale vuol dire assumere che non si possa esistere senza, con ciò, essere identici a sé stessi. Il problema è dunque il seguente: se per esistere occorre soddisfare le condizioni espresse dai principi dell’ontologia formale, allora tali principi operano, in fin dei conti, una qualche selezione. Ma allora nessun principio, per quanto formale, sembrerebbe essere davvero neutrale. Per trovare un controesempio alla neutralità del principio, infatti, è sufficiente ipotizzare un’ontologia che ammetta entità per le quali tali condizioni non sussistono. La portata di questo problema non va però esagerata. Per quanto ci possa essere una certa arbitrarietà nella scelta dei concetti primitivi di base (e quindi dei principi in cui è formulata), l’ontologia formale, alla pari di qualsiasi disciplina che si qualifichi come ontologia, aspira a essere una teoria delle strutture della realtà, piuttosto che un semplice gioco di astrazione. Un controesempio alla teoria non può pertanto essere semplicemente costruito ipotizzando un mondo in cui il principio non vale: forse riusciamo anche a immaginarci come è fatto un oggetto non identico a sé stesso, ma ciò non vuol automaticamente dire 319

Simons 1987; D.K. Lewis 1991; Casati e Varzi 1999.

che oggetti per cui non vale la legge di riflessività dell’identità siano anche solo possibili. Occorre dunque fornire un criterio per stabilire quali siano i controesempi ‘buoni’ e gli argomenti che si possono portare a favore o meno di un principio di ontologia formale. Per continuare con l’esempio scelto, consideriamo il dibattito attorno al principio della riflessività dell’identità. I suoi detrattori si sforzano in genere di mostrare come un’ontologia che contenga oggetti diversi da sé stessi sia intelligibile, e che non ci siano motivi indipendenti dal principio stesso per escludere l’esistenza di oggetti diversi da sé stessi320. I sostenitori del principio affermano invece che c’è una differenza fra l’accettare l’esistenza di oggetti diversi da sé stessi e accettare l’esistenza di molti altri tipi di entità come – per fare un esempio su cui esiste un dibattito millenario – gli universali platonici. Un’ontologia che ammette gli universali e una che li rifiuta in favore dei tropi (ossia delle qualità particolarizzate, che, a differenza degli universali, non sono ripetibili in luoghi e tempi diversi, ad esempio la particolare rossezza di una certa mela321) mantengono costanti delle “caratteristiche strutturali”, per così dire, che invece un’ontologia che ammettesse oggetti diversi da sé stessi non manterrebbe. E questo perché il principio coglie una caratteristica centrale dell’esistenza, una caratteristica che non varia al variare del dominio di entità che consideriamo. Risulta però molto difficile dare una formulazione precisa all’intuizione sottostante un simile ragionamento. Si può obiettare che esso nasconde una certa circolarità: se sosteniamo che il principio rispetta una caratteristica strutturale di ogni dominio, non possiamo allo stesso tempo sostenere che tale caratteristica è stabile perché il principio è valido; ma d’altro canto, in virtù di cos’altro possiamo giustificare tale invarianza, dal momento che al riguardo non dovrebbe esserci nulla di più fondamentale di ciò che asserisce il principio stesso? Se la stabilità del principio è dovuta a qualcos’altro, ad esempio, alla formulazione della teoria, potremmo fornirne al massimo una giustificazione pragmatica: accettandolo la teoria è più semplice ed elegante322. Va però detto che criteri di ispirazione parzialmente pragmatica, almeno quando si considerano i principi formali nel loro insieme, 320 321 322

Priest 1997. Cfr. infra 5.4. Anche in fi losofia della logica si incontrano problemi simili di giustificazione dei principi da un punto di vista “extrasistematico”, cfr. Haack 1978: cap. 2.

non sembrano del tutto fuori luogo. A favore di una posizione globalmente conservatrice, almeno rispetto agli assiomi tradizionali su cui vige più consenso, si potrebbe argomentare che, anche ammettendo che principi come la riflessività dell’identità o la transitività dell’esser parte discriminano su base non interamente formale, costituiscono comunque una base sufficientemente generale per non escludere dal dibattito la maggior parte delle entità che le diverse ontologie materiali accettano. I vari atteggiamenti eliminativisti nei confronti di ciascun principio, per contro, possono venire difesi solo singolarmente e al prezzo di un forte e ampio intervento revisionista dell’apparato concettuale tradizionale323. Rifiutare qualsiasi criterio di adeguatezza e legittimità formale, del resto, non significherebbe ancora accettare che in ontologia è ammesso tutto, e potrebbe comunque restare una base, anche se più ristretta, di consenso. Anche il detrattore del criterio di adeguatezza formale (e del principio di auto-identità, per restare nell’esempio) ammetterebbe che non esistono entità che sono sia identiche a sé stesse sia non identiche a sé stesse. Mettere in discussione tale esclusione significa rinunciare alla validità di un principio logico tradizionale come il principio di non contraddizione. Se si assume questo consenso sui principi logici standard, l’idea di estenderlo in maniera coerente sulla base di principi ontologici (riguardanti le relazioni fra oggetti) piuttosto che logici (riguardanti i ragionamenti validi) appare giustificata. La questione non è così semplice però, perché nel campo della filosofia della logica si discute sull’opportunità di accettare universalmente principi tradizionali come appunto la legge di non contraddizione o il principio di bivalenza (secondo cui ogni enunciato è o vero o falso)324.

2.6.3. Esistenza e oggetto Ci sono buoni motivi per considerare la nozione di esistenza come centrale più per l’ontologia materiale che per quella formale. Certo, 323 324

Cfr. infra 3.5. Il logico australiano Graham Priest, ad esempio, rifiuta sia il principio di non contraddizione sia la riflessività dell’identità. Per avere un’idea ad esempio sul dibattito riguardante il principio di non contraddizione cfr. la raccolta di saggi Priest, Beall, Armour-Garb 2005.

se ci chiediamo che cosa significhi in generale “esistere”, e se ci siano diversi sensi in cui qualcosa può esistere, ci stiamo in qualche modo ponendo al di fuori di considerazioni specifiche, ma non è chiaro in che senso tale domanda possa essere formulata non vacuamente senza riferimento a un particolare dominio di discorso325. Una sua formulazione in termini generali sembrerebbe rientrare nella filosofia della logica, dal momento che diverse concezioni di esistenza danno luogo a diversi tipi di inferenze che coinvolgono enunciati quantificati, ossia enunciati in cui si asserisce l’esistenza di qualcosa. La questione è problematica, però, poiché le aree della logica dove la questione dell’esistenza è più rilevante – in primo luogo la logica modale, ossia la logica che si occupa di espressioni come “è necessario che...” – sono spesso imbevute di questioni di metafisica326. C’è, comunque, almeno un ruolo preliminare svolto dal concetto di esistenza nell’ontologia formale. Essa ci permette di chiarire due nozioni a cui abbiamo fatto già ricorso implicitamente nei precedenti paragrafi, quella di ammettere un’entità in una ontologia, e quella di ontologia ammissibile. Non sempre siamo disposti a dire che le entità che fanno parte del dominio di un’ontologia esistono allo stesso modo. Per avere principi di ontologia formale validi in ogni ontologia materiale, però, dobbiamo intenderci su cosa sia ammettere un’entità in una ontologia, indipendentemente poi da come le varie entità ammesse si comportino nei confronti dei diversi modi in cui differenziamo la nozione di esistenza: realtà, mera possibilità, sussistenza, ecc327. Ed è in riferimento a una nozione estremamente ampia di esistenza, o di essere, applicabile a qualsiasi entità ammessa in una ontologia, che i principi formali vanno intesi, indipendentemente dai vari modi di essere o esistere delle entità in questione. Ad esempio, se accettiamo la transitività della relazione di parte328, dovremmo accettarla per entità 325 326 327

328

Fine 2001. Per lo meno dal punto di vista di logici come Saul Kripke (n. 1940); cfr. infra 5.5. Ad esempio, si può distinguere fra ciò che esiste in senso pieno e che quindi costituisce la realtà, dalle alternative possibili che però non si sono realizzate, che esistono solo in un senso derivato, ossia sussistono. Una relazione si dice transitiva se viene ‘trasferita’ fra le entità tra cui sussiste. In altri termini, se una relazione transitiva sussiste fra una prima entità x e una seconda y, e sussiste anche fra y, e una terza entità, z, allora sussiste anche fra la prima entità, x e la terza, z. Un esempio di relazione transitiva è la relazione di essere maggiore di fra i numeri.

esistenti così come per entità possibili o semplicemente sussistenti, indipendentemente da come intendiamo nei dettagli queste nozioni. Similmente, se i principi dell’ontologia formale devono godere della massima neutralità, occorrerà avere una nozione di ontologia ammissibile sufficientemente ampia da comprendere domini che sono esclusi da particolari posizioni. Questo secondo punto è però molto più delicato, poiché spesso nei dibattiti su cosa ammettere all’interno delle varie ontologie materiali, ad esempio entità teoriche in fisica o numeri in matematica, non è chiaro come distinguere cosa costituisca un’alternativa ammissibile, per quanto falsa nel mondo reale, e cosa invece sia escluso anche dal novero delle possibilità329. Infine, c’è un altro senso in cui le questioni sull’esistenza rientrano almeno indirettamente nell’ontologia formale. Sono nozioni di ontologia formale tutte quelle che servono a caratterizzare le relazioni fra le varie categorie di entità. In alcuni casi, però, vorremo dire che una categoria è in qualche senso ‘meno reale’ di altre, ad esempio, perché può essere ricondotta, ridotta o fatta derivare da altre. In tal caso la nozione di esistenza, insieme ad altre come in particolare quella di dipendenza può avere un ruolo sostanziale nella nostra spiegazione330. Anche la nozione di oggetto ha – come quella di esistenza – un ruolo preliminare nell’ontologia formale. In un senso molto ampio, come nozione di qualsiasi cosa rientri in un dominio, essa può avere grosso modo lo stesso ruolo della nozione ampia di esistenza: un oggetto è un’entità ammessa da una ontologia. Certe nozioni dell’ontologia di LeĜniewski, come ad esempio la sua nozione di “identità debole”, possono essere viste come caratterizzazioni formali di tale nozione, che la pongono in relazione con altre nozioni dell’ontologia formale come l’identità e l’essere parte331. Tentativi interessanti di caratterizzare la nozione di oggetto si incontrano anche in ambito cognitivo. L’ipotesi è che la nozione di oggetto sia un costituente del nostro apparato concettuale essenzialmente aspecifico. La concezione tradizionale in psicologia cognitiva considera il concetto di oggetto come un concetto sortale – ossia come un concetto che individua una “sorta” o “tipo” di entità332. Il concetto di oggetto è però un concetto sortale molto ge329 330 331 332

Cfr. il dibattito su concepibilità e possibilità in Gendler e Hawthorne 2002. Fine 1991; Fine 2001. Cocchiarella 2001. Strawson 1959.

nerico e probabilmente è parte di capacità cognitive innate333. Alcuni filosofi e studiosi caratterizzano invece il concetto di oggetto come un costituente del pensiero di natura essenzialmente diversa dai concetti sortali. Per il filosofo inglese David Wiggins (n. 1933), ad esempio, il concetto di oggetto è formale perché non è un costituente di alcun concetto più specifico, anche se dalla capacità di applicarlo dipende essenzialmente la possibilità di possedere concetti sortali come quello di tavolo, tazza o gatto. Il filosofo americano Jerry Fodor ne ha una concezione “dimostrativa”: il concetto di oggetto non ha nessun contenuto, ma è piuttosto un modo di rappresentare ciò che in genere può esser il riferimento di un’espressione come “questo”, “quello” o un gesto. Lo scienziato cognitivo canadese Zenon Pylyshyn (n. 1937), infine, rintraccia l’origine della nozione di oggetto in una struttura cognitiva non-concettuale, un “indice” che serve ad ‘agganciare’ i nostri processi cognitivi (concettuali e non) a porzioni di mondo esterno334.

2.6.4. Identità Con l’identità lasciamo il campo delle nozioni preliminari e iniziamo a prendere in considerazione una nozione di cui l’ontologia formale si preoccupa di dare una caratterizzazione esplicita. Va comunque precisato che considerare l’identità parte dell’ontologia formale non va da sé, dal momento che la teoria dell’identità è solitamente considerata una parte della logica. A favore dell’introduzione della teoria dell’identità nell’ambito dell’ontologia formale giocano due fattori. In primo luogo, una teoria dell’identità può essere formulata definendo l’identità in termini di nozione di parte o altre nozioni vicine, che indubbiamente rientrano nell’ontologia formale335. In secondo luogo, e come fattore più rilevante, il tentativo di formulare dei principi caratterizzanti la nozione di identità suscita immediatamente questioni di legittimità formale, almeno se si considera l’identità come una relazione fra oggetti. Si considerino le relazioni che sussistono fra oggetti ordinari, come essere padre di o contenere più arachidi 333 334

335

Spelke 1990. Si vedano Wiggins 1997; Fodor 1998; Pylyshyn 2003 rispettivamente. Per una discussione al riguardo si veda Casati 2004c. B. Smith 1982b: 59.

di. Tali relazioni sussistono solo fra gli oggetti che troviamo in certi ambiti – quello delle persone e dei cesti di frutta, piuttosto che dei numeri o dei redditi pro capite. L’identità, per contro, è una relazione caratterizzabile in modo adeguato solo se prescindiamo da ogni ambito particolare. Se proponessimo un assioma per l’identità che risulta vero se applicato a un certo dominio di discorso, ma falso o insensato in altri domini, difficilmente potremmo sostenere di aver dato una teoria adeguata dell’identità. Si prenda ad esempio un principio come il seguente (dove “=” è il simbolo per la relazione di identità, e “x” e “y” sono variabili su entità di un dominio qualsiasi): (F) Per ogni x e y, x = y se e solo se x si trova all’immediata destra di ciò che sta all’immediata sinistra di y Per quanto sia probabilmente auspicabile che (F) risulti vero in una teoria che prenda in considerazione nozioni spaziali come destra e sinistra e contenente l’identità, non sarebbe sicuramente adeguato assumere (F) come assioma caratteristico dell’identità. Se lo facessimo, infatti, potremmo dedurre di un’entità spaziale, ad esempio una persona, che è identica a sé stessa, ma non sarebbe chiaro se entità che normalmente non si considerano esistere nello spazio, come il reddito di Michael Jackson o il numero 34 (se ne ammettiamo l’esistenza) siano rispettivamente identici a sé stessi. Questo basta a rendere l’identità interessante per l’ontologia formale, indipendentemente dall’etichetta sotto la quale si decida di collocarla. Veniamo ora a una formulazione assiomatica della teoria dell’identità, ossia a una formulazione esplicita dei principi riguardanti l’identità. La relazione di identità è normalmente caratterizzata da almeno tre proprietà: riflessività, simmetria e transitività. Rispettivamente: (R I) Per ogni x, x = x (SI) Per ogni x e y, se x = y allora y = x (TI) Per ogni x, y e z, se x=y e y=z, allora x=z Abbiamo già preso in considerazione (R I), la riflessività dell’identità, ossia la tesi che ogni cosa è identica a sé stessa, come esempio di contenzioso sulla legittimità formale di un principio ontologico. Aggiungere (SI) e (TI) significa caratterizzare l’identità come una di quelle relazioni che in matematica sono chiamate relazioni di equivalenza. Una

relazione di equivalenza determina delle classi di oggetti all’interno di ognuna delle quali la relazione sussiste fra tutti gli oggetti. Nel caso dell’identità tali classi sono ovviamente costituite da una singola entità e null’altro. Ci sono però relazioni di equivalenza che determinano classi contenenti più di un individuo. Ad esempio, le relazioni di somiglianza, chiamate anche di “identità relativa” a una o più proprietà: avere la stesso colore di capelli, esser nati nello stesso comune, e aver avuto lo stesso fidanzato al liceo, per citarne alcune. Come possiamo differenziare l’identità da tutte queste altre relazioni? Si potrebbe pensare che non occorra aggiungere molto altro, poiché in un certo senso gli assiomi sembrano caratterizzare più propriamente l’identità delle altre relazioni. Le relazioni di somiglianza sono sempre relative a un qualche dominio, e se volessimo caratterizzare relazioni come avere lo stesso colore di capelli di in un dominio contenente automobili, assiomi come (R I), (SI) e (TI) risulterebbero senza senso in molti casi: cosa vuol dire che “una Maserati ha lo stesso colore di capelli di una Duna?”. Il problema, però, è che gli assiomi devono caratterizzare univocamente l’identità in ogni dominio, per caratterizzarla adeguatamente come relazione formale, e chiaramente non è così. Rispetto a domini come quello degli esseri umani con i capelli, i nostri assiomi caratterizzeranno tanto l’identità quanto la relazione di avere lo stesso colore di capelli, insieme a molte altre. Inoltre, che l’identità sia l’unica relazione di equivalenza per cui, dato un dominio qualsiasi, sia sensato chiedersi per ogni x e y del dominio se sussista, non è di per sé evidente – almeno se si esula dalle relazioni che normalmente siamo in grado di esprimere nel linguaggio naturale. Il modo tradizionale di procedere, dovuto a Leibniz, per differenziare l’identità dalle altre relazioni di somiglianza è di interpretare l’identità di un’entità come eguaglianza di tutte le sue proprietà: x e y sono la stessa entità se e solo se condividono tutte le proprietà. (IdL) Per ogni x, y e proprietà Q, x=y œ (Qx œ Qy)336 336

“Q” è un simbolo che sta per un predicato, e seguito da un simbolo di variabile come “x” sta per l’enunciato che afferma che l’oggetto a cui assegniamo il valore della variabile ha la proprietà denotata dal predicato, quindi “Qx” vuol dire “x è un Q”. “œ” è il simbolo del bicondizionale, inserendolo fra due enunciati asseriamo che i due enunciati sono veri o falsi esattamente negli stessi casi; “œ” normalmente si legge come “se e solo se”.

(Id L, cioè quello che potremmo definire il principio di identità leibniziano) e (R I) costituiscono gli assiomi della teoria standard dell’identità, in cui (SI) e (TI) sono tesi dimostrabili. La teoria standard dell’identità riesce a differenziare l’identità dalle altre relazioni di somiglianza indipendentemente da come restringiamo il nostro dominio di discorso, ma ci impegna a molto di più che non una semplice teoria dell’equivalenza337. Il problema è di vedere se i suoi principi soddisfino i criteri di legittimità formale. Il rischio è che (Id L) escluda l’esistenza di entità sulla base di motivazioni dovute a qualche posizione metafisica particolare. (Id L) è equivalente alla congiunzione di due principi tradizionalmente noti come indiscernibilità degli identici e identità degli indiscernibili: (IndID) Per ogni x, y e proprietà Q, se x = y, allora (Qx œ Qy) (IdIND) Per ogni x, y e proprietà Q, se (Qx œ Qy), allora x = y (IndID, cioè il principio della indiscernibilità degli identici) ci dice che se x e y sono identici allora hanno in comune tutte le proprietà. In altri termini, ciò che si esclude è che qualcosa abbia proprietà diverse da quelle che ha. Ovviamente, chi volesse rifiutare il principio di non contraddizione e ammettere oggetti contraddittori, come un oggetto che è e non è quadrato, sarebbe in una posizione favorevole per rifiutare (IndID). Ma il principio di indiscernibilità degli identici è comunque indipendente da quello di non contraddizione, e chi volesse negare quest’ultimo dovrebbe portare argomenti ulteriori per escludere che se x e y sono identici allora condividono tutte le proprietà, anche quelle che si contraddicono. Il sostenitore del principio può dunque argomentare che (IndID) coglie una caratteristica universale profonda di qualsiasi ontologia ammissibile e non opera nessuna esclusione ‘di parte’. Si trovano però spesso nella letteratura338 obiezioni contro la validità indiscriminata di (IndID) piuttosto che contro il principio come tale. In particolare, è il fatto che in (IndID) non vi sia riferimento al 337

338

Il fatto che (IdL) sia una formula del second’ordine, ossia quantifichi direttamente sulle proprietà solleva ulteriori problemi che però qui non prenderò in considerazione. Cfr. Hirsch 1982, Johnston 1987, van Inwagen 2000a, Merricks 1987 Hinchliff 1996.

tempo ad essere sotto accusa. Se non vogliamo escludere né che le cose cambino, né che la relazione di identità sussista fra un oggetto e sé stesso in un momento diverso della sua esistenza, è facile vedere come (IndID) ci possa dare dei grattacapi. Mettiamo che nel mio frigo lunedì ci sia un panetto di burro da 125 grammi. Dopo aver preparato un risotto lunedì sera, martedì mattina nel mio frigo c’è un panetto di burro che pesa 75 grammi. Stando all’intuizione più plausibile: il panetto ha cambiato peso e forma, ma è pur sempre rimasto lo stesso. Usando una terminologia fi losoficamente più accreditata, ma non per questo più precisa: il panetto è rimasto numericamente, anche se non qualitativamente, identico. Applichiamo (IndID) a questo caso e assegniamo a x il panetto del lunedì, e a y il panetto del martedì: se diciamo che x e y sono identici, dovremmo allora concludere che qualcosa che pesa 125 grammi pesa 75 grammi e viceversa. Per evitare tali assurdità occorre dunque qualificare temporalmente il principio e sostenere che se x e y sono identici, allora, ad ogni istante, hanno le stesse proprietà: (t-IndID) Per ogni x e y, se x = y allora, per ogni istante t e proprietà Q, all’istante t (Qx œ Qy) Mentre (IndID) implica che non ci possano essere differenze qualitative senza differenze numeriche, (t-IndID) ci permette di distinguere un senso di essere identici (quello numerico) che è compatibile con l’avere proprietà contrastanti, se esemplificate a tempi diversi. In altri termini, stando a (t-IndID), essere identici non comporta essere indiscernibili attraverso il tempo, sebbene rimanga vero che ad ogni momento qualcosa sia indiscernibile da sé stessa. Come interpretare più precisamente (tIndID) dipende da quale teoria della persistenza degli oggetti materiali e da quale metafisica del tempo in generale abbracciamo339. Anche una volta abbracciata l’idea che occorre inserire qualche fattore temporale nel formulare il principio di indiscernibilità degli 339

In particolare, dipende da come intendiamo la relativizzazione dell’esemplificazione a un tempo, e dal nostro abbracciare una visione statica o dinamica della temporalità. Mi permetto qui di rinviare al mio Torrengo 2008: Cap 2. Un’opzione più radicale è relativizzare non l’esemplificazione soltanto, ma l’identità stessa a un tempo; cfr Gallois 1998. Per avere un’idea del dibattito sulla metafisica del tempo cfr. Lepoidevin 1998. Cfr anche Oaklander 2001 e infra 5.1.

identici, però, si potrebbe sostenere che (IndID), ossia il principio nella sua versione non temporalizzata, coglie un aspetto fondamentale dell’identità che va perso nel tentativo di riformularlo in termini di (t-IndID). L’idea di un cambiamento qualitativo che mantiene l’identità numerica, si potrebbe argomentare, non è che un modo approssimativo di descrivere ciò che capita agli oggetti materiali ordinari, ma non si deve per ciò pensare che questo modo di parlare colga qualche caratteristica profonda dell’esistenza340. Non si ha mai propriamente identità (numerica) di un’entità attraverso il cambiamento di proprietà, anche se nel linguaggio ordinario parliamo dello stesso panetto di burro, così come della stessa macchina e della stessa persona. Piuttosto, si ha una successione di entità – normalmente chiamate “parti temporali”341 – differenti numericamente, oltre che qualitativamente, che assieme costituiscono l’oggetto. La parte temporale del lunedì mattina del panetto pesa 125 grammi, mentre quella del martedì mattina pesa 75 grammi: le due entità sono numericamente distinte, e dunque non c’è contraddizione, e nel contempo entrambe sono parti della stessa successione di entità che costituiscono il panetto di burro dall’inizio alla fine della sua esistenza. L’obiezione a questa difesa ‘indiretta’ di (IndID) è che per quanto la nozione di parte temporale sia sensata quando applicata ad alcune categorie di entità, come ad esempio gli eventi – si pensi a una partita di calcio e ai suoi due tempi – sia assurda se applicata agli oggetti ordinari342. Il fatto che si parli di parti temporali di un oggetto, del resto, suggerirebbe che la nozione di identità numerica attraverso il tempo sia più basilare e non vada sacrificata tanto facilmente343. Il dibattito sulla identità degli indiscernibili (IdIND) riguarda questioni di legittimità formale ugualmente centrali. Ciò che (IdIND) esclude è che ci siano entità distinte che condividano tutte le proprietà. Il problema è dunque di stabilire se ci possano essere domini con simmetrie qualitative totali, ad esempio un universo composto solo da due sfere perfettamente indistinguibili344. Se ovviamente si ammettono proprietà che caratterizzano univocamente ciascuna entità, ciò 340 341

342 343 344

Chisholm 1976; Baxter 1988. O “controparti temporali” in una versione più raffinata della teoria, cfr. Sider 2001; cfr. infra 5.1. per una panoramica. Van Inwagen 2000a; Lowe 1998. Simons 1987: 121-128. Black 1952; Hacking 1975; Forrest 2002.

che i medievali chiamavano ecceità (il fatto di essere proprio quella cosa), il principio diventa banalmente vero. Se ogni entità gode di una proprietà del genere, un’entità x che condivide tutte le proprietà di un’entità y possederà la ecceità di y e dunque non sarà altro che y345. Questo modo di porre la questione, però, sembra solo un modo di riformulare il problema, perché a questo punto diventa lecito chiedersi se si possa trattare le ecceità come proprietà. I sostenitori dei cosiddetti “particolari nudi”346, ad esempio, sostengono che esista in ogni entità un costituente che la individua, indipendentemente dalle proprietà che possiede, e che tale costituente non sia a sua volta una proprietà, ma sia piuttosto ciò di cui le proprietà si predicano. Nel caso delle entità spaziali il particolare nudo corrispondente può essere visto come una sezione spaziotemporale ‘spogliata’ di tutte le qualità che esemplifica347. Altri principi formali che riguardano l’identità sono il principio di necessità dell’identità: (NecID) Per ogni x e y, se x=y allora è necessario che x=y L’idea sottostante tale principio è che non abbia senso pensare a una relazione di identità che sia contingente: se qualcosa è identico a sé stesso non può diventare, o essere in qualche mondo possibile348 alternativo al nostro, diverso da sé stesso. Pochi filosofi accettano, in effetti, l’idea della contingenza dell’identità349. Un ulteriore principio è quello di determinatezza: (DetID) Per ogni x e y, è sempre determinato se x=y o no Il principio non va inteso in senso epistemico, nel senso che siamo sempre in una posizione di determinare il valore di verità di un enunciato che esprime un’identità, o semantico, nel senso che i nostri termini sono sempre così precisi da permetterci – almeno in linea di principio – di stabilire il valore di verità di un enunciato come “x = y”. Ciò 345 346 347 348 349

Adams 1979. O “meri particolari”, cfr. infra 5.4. L’espressione inglese è “bare particulars”. Bergmann 1967. Cfr. infra 5.5. Cfr. ad esempio Gallois 1998.

che il principio asserisce è che non possono esserci “oggetti vaghi”, oggetti per cui è indeterminato se siano identici a sé stessi o no.350

2.6.5. Parte-intero Con la mereologia, ossia lo studio della relazione parte-intero, arriviamo al fulcro tradizionale dell’ontologia formale. Essa è infatti al centro delle considerazioni del primo Husserl – l’intera ontologia formale delle Ricerche Logiche può essere vista come una mereologia ‘arricchita’ di altre nozioni rilevanti sul piano formale, come quella di dipendenza. Le prime formulazioni rigorose della mereologia si trovano in LeĜniewski che la concepisce come un ampliamento della sua ontologia (ossia teoria delle espressioni nominali), e in Tarski. Inoltre, anche filosofi come gli americani Henry Leonard (1905-1967) e Nelson Goodman (1906-1998), che non si appellano a una chiara distinzione fra logica e ontologia, hanno presentato la mereologia come una teoria che caratterizza una relazione fra oggetti, le cui proprietà non variano rispetto al domino che consideriamo351. Al di là di questi dati storici, ci si può comunque chiedere se davvero la nozione di parte sia sufficientemente generale da poter essere applicata in qualsiasi dominio. Almeno per una certa varietà di domini non sembrano esserci dubbi: non solo gli oggetti materiali ordinari, come sedie e pappagalli, ma anche eventi, oggetti matematici e geometrici hanno parti. Per alcuni oggetti non materiali si potrebbero però nutrire dei dubbi; ad esempio per i concetti non è chiaro se la relazione di parte sia distinguibile dalle relazione di implicazione, e nel caso non lo fosse, se i principi mereologici non trovino un controesempio nel domino concettuale. Husserl aveva una nozione molto generale di “parte” – come qualsiasi cosa sia “presente” in un’entità, comprese le sue qualità, colore e dimensioni ad esempio – ma non sempre i principi della mereologia così come è stata formalizzata in seguito sembrano rispettarla. Procediamo per passi, comunque, e iniziamo a considerare gli assiomi di base della mereologia, ossia il principio della riflessività della nozione di parte (RP), il principio 350

351

Anche sulla legittimità di (DetID) così inteso c’è attualmente un vivace dibattito: Evans 1978; van Inwagen 1988; D.K. Lewis 1988b. Cfr. rispettivamente LeĜniewski 1916; Tarski 1929; Leonard e Goodman 1940.

dell’asimmetria della nozione di parte propria (aSPP) e il principio della transitività della nozione di parte (TP). (RP) Per ogni x, Pxx352 (aSPP) Per ogni x e y distinti, non si da il caso che sia Pxy sia Pyx (TP) Per ogni x, y e z, se Pxy e Pyz, allora Pxz (RP) stabilisce la riflessività della relazione P: ogni cosa è parte di sé stessa. Il principio può lasciare un po’ perplessi se abbiamo in mente molti usi ordinari del termine “parte”. Ad esempio, un organo interno come il pancreas è parte del mio corpo, ma in che senso il mio corpo è una parte di sé stesso? Il problema terminologico si dissolve se consideriamo l’identità come un caso limite della nozione mereologica di parte e definiamo “essere parte propria di qualcosa” come essere parte di qualcosa, ma non identici a questa. Alternativamente, si può assumere la nozione di “parte propria” come primitiva (è del resto la nozione più vicina al nostro uso ordinario del termine) e definire P in termini di parte propria e identità: x è parte di y se e solo se o x è parte propria di y o x è identico a y. Dal momento che i casi problematici riguarderebbero appunto i casi di identità, il principio non presenta ulteriori difficoltà rispetto a quelli visti per (R I). (aSPP) ci dice che la relazione di parte propria è antisimmetrica, ossia, a meno di non trovarci nel caso limite dell’identità, nessuna cosa è parte di una sua parte. Raramente il principio è stato messo in questione. L’assioma (TP) ci dice che la relazione di parte è transitiva e solleva dubbi analoghi a quelli sollevati da (RP). Anche in questo caso, prestare attenzione al fatto che alcune volte usiamo il termine “parte” in maniera più ristretta, qualificata, dissolve il problema353. Più seria è l’obiezione per cui entità astratte, come le entità sociali (esempio: la famiglia di Ponzio) possono avere parti (il figlio di Ponzio), che a loro volta non sono parti di altre entità sociali di cui sono parti (l’associazione delle famiglie del quartiere). L’obiezione è più seria perché in questo caso ciò che ‘blocca’ la transitività non sembrerebbe essere una limitazione quanto al significato di parte, ma piuttosto il fatto che il modo in cui 352

353

“P” è il simbolo che sta per la relazione di essere parte. L’affermare che tale relazione sussiste fra x e y si simboleggia facendo seguire a “P” i due simboli “x” e “y”. Casati e Varzi 1999: 34.

certi oggetti sociali354 vengono istituiti risulta sensibile a certe entità, ma indifferente alle loro parti: lo statuto dell’associazione delle famiglie del quartiere associa famiglie, e non i loro componenti. Si potrebbe però obiettare che è dubbio che una famiglia possa entrare in una relazione qualsiasi senza che vi rientrino anche i suoi componenti. Mettendo per ora da parte quest’ultimo problema, (RP), (aSPP) e (TP) stabiliscono semplicemente che P è una relazione di ordine parziale, stando alla corrente terminologia in matematica. Come in precedenza per l’identità, abbiamo ora il problema di distinguere P dalle relazioni che si comportano allo stesso modo, ad esempio quella di essere maggiore o uguale di fra i numeri. Quali altri principi bisogna dunque aggiungere ai primi tre per qualificare in modo più adeguato P? Leonard e Goodman facevano notare come senza prendere in considerazione la relazione di parte fra gli elementi di un dominio di un linguaggio formale si sarebbe dovuto ricorrere a teorie empiriche per rendere conto di alcune relazioni fra oggetti che – come l’identità – non sembrano a loro volta dipendere da teorie specifiche355. Ad esempio, gli oggetti che sono finestre sono tutti parte di oggetti che sono case, ma a meno di non ridurre gli uni e gli altri a insiemi di particelle fisiche (o magari di dati di senso) fra cui determinate relazioni di inclusione insiemistica sussistono, non potremmo rendere conto di tale relazione. In generale sarebbe opportuno avere strumenti formali con cui spiegare in che modo in un dominio ontologico alcune entità entrano nella costituzione di altre entità, visto che in ogni dominio ci possono essere entità “costruite” a partire da altre entità356. Per fare ciò una mereologia deve dirci qualcosa su come l’esistenza degli interi e delle parti sia in relazione; ma è facile vedere che gli assiomi considerati finora sono compatibili con diverse assunzioni al riguardo. Un modo di procedere potrebbe essere aggiungere un assioma che ci dice che se due entità sono parti di qualcosa, allora esiste qualcosa costituito unicamente da quelle due entità: (CS) Per ogni x e y, se x e y sono parti di una stessa cosa, allora esiste uno z tale che ogni w che ha una parte in comune con z ha anche una parte in comune con x o con y 354 355 356

Cfr. infra 4.4. Leonard e Goodman 1940: 45-6. Fine 1991.

e un altro che stabilisca che se due entità hanno una parte in comune, allora esiste qualcosa che è la loro parte in comune: (CP) Per ogni x e y, se x e y hanno parti in comune allora esiste uno z tale che ogni w che è parte di z è anche parte di x e di y. (CS) e (CP) sono detti “assiomi di chiusura”, perché assumerli equivale ad avere nella teoria due operazioni algebriche, di somma e prodotto rispettivamente, e a “chiuderla” sotto di queste – ossia considerare tutte le conseguenze che ne derivano. (CS) e (CP) non sono però tesi prive di complicazioni fi losofiche. A mettere in dubbio la legittimità formale è ad esempio il fatto che dato un certo numero di entità che ammettiamo nella nostra ontologia, se accettiamo (CS) e (CP) ci troviamo costretti ad accettarne una moltitudine di ulteriori altre. Questo soprattutto se ammettiamo che qualsiasi collezione di entità costituisca una somma, come è assunto nelle teorie mereologiche classiche e nell’ontologia del fi losofo americano David K. Lewis (1941-2001). Siamo qui in presenza di una violazione effettiva di criteri di legittimità formale? Da un lato è chiaro che stando a un criterio tradizionale di impegno ontologico357 ci stiamo impegnando a un numero maggiore di entità di quelle che potremmo volere, alcune delle quali inoltre molto bizzarre, ad esempio la somma del mio cappello e della cupola del Taj Mahal. Dall’altro, non è chiaro in che senso accettare la somma di due entità x e y costituisca un impegno maggiore rispetto a quello di accettare soltanto x e y. Si può dunque cercare di articolare una nozione non standard di impegno ontologico, sensibile non solo a cosa abbiamo nel dominio, ma anche alle relazioni formali fra oggetti del dominio, in primo luogo alla relazione di parte358. Del resto, a meno di negare che almeno in alcuni casi una somma di entità costituisce un’entità359, su che basi formali potremmo formulare dei criteri per limitare la proliferazione ontologica? Intuitivamente è chiaro quali interi probabilmente vorremmo salvare: quelli costituiti dalle parti di un corpo umano, dalle parole di una frase, forse dai mattoni di una casa, e così via. La mereologia, però, ci può fornire una 357 358 359

Cfr. infra 5.6. D.K. Lewis 1991: 81. Sull’impegno ontologico cfr. infra 3.5 e 5.6. Rosen e Dorr 2002.

nozione di intero solo relativa alle proprie parti, e quindi dobbiamo ricorrere a qualche nozione esterna ad essa per formulare una qualche restrizione in maniera non circolare. Un modo in cui si può pensare di estendere ‘naturalmente’ ed elegantemente la mereologia per risolvere tale problema è quello di aggiungervi nozioni topologiche, ad esempio quella di connessione fra le parti 360. È facile però rendersi conto che qualsiasi formulazione che ricorra unicamente alla nozione di connessione non risulterebbe meno relativa di una formulazione interamente in termini di parti, dato che un intero connesso è comunque relativo alle proprie parti connesse361. Al di là dei problemi di circolarità, e anche supponendo che la nozione di connessione si possa formalizzare senza implicitamente o esplicitamente ricorrere all’idea di intero, sembrerebbe comunque arbitrario e parziale sostenere che solo tutto ciò che è internamente connesso compone un’unità. Si escluderebbero così, anche rimanendo nell’ambito spaziale, molte entità che normalmente vorremo trattare come interi composti di parti, per quanto le loro parti non siano connesse: un mazzo di carte, un bikini, o il Portogallo – costituito da una parte di territorio sul continente europeo, le isole Azzorre nel mezzo dell’Atlantico e (prima del 1998) un lembo di terra, Macao, circondato dalla Cina362. In generale, il problema di stabilire su che criteri può essere basata una partizione della realtà in interi ‘genuini’ sembrerebbe un problema di metafisica refrattario a una trattazione interamente formale363. Ciononostante è del tutto lecito porsi la questione se vi siano relazioni fra interi genuini e parti, che godano di proprietà formali diverse da quelle godute dalle relazioni che sussistono fra una composizione arbitraria di parti e le parti che la compongono – ossia se esista una nozione formale di intero distinta da quella di somma mereologica. La nozione di “confine”, ad esempio, o la nozione di “dipendenza”, come già pensava Husserl, possono essere sfruttate in tal senso. 360

361 362 363

Un problema collegato è: la topologia fa parte dell’ontologia formale, o è applicabile unicamente al dominio spaziale? Peter Simons ha recentemente argomentato a favore della topologia come disciplina formale, sostenendo che la nozione di topologica di spazio e quella matematica di struttura possono essere viste come due facce della stessa medaglia. Cfr. Simons 2004. Varzi 1996. Cartwright 1975. Hirsch 1993: cap. 1.

Infine, c’è da prendere in considerazione un problema in un certo senso complementare. Se, oltre ad assumere i principi di chiusura, assumiamo la tesi apparentemente innocua che ogni parte propria di qualcosa debba essere accompagnata da almeno un’altra parte propria (il cosiddetto “principio debole di supplementazione”364) la teoria che otteniamo ha come teorema la tesi che Goodman ha chiamato il principio di “iper-estensionalità”: (IE) Nel caso in cui x e y abbiano parti proprie, se hanno tutte le parti proprie in comune, allora x = y365 Questa tesi compare in tutte le prime formulazioni rigorose della mereologia, e rispecchia l’idea nominalista stando a cui solo entità concrete esistono, dato che per le entità concrete è plausibile che qualsiasi diversità sia riconducibile a una differenza di parti. Ciò che rende tale tesi ontologicamente non neutrale, almeno a prima vista, è che esclude l’esistenza di oggetti diversi, ma composti delle stesse parti, e ci forza dunque a un’ontologia insensibile alle relazioni di ordine e disposizione interne delle parti. Almeno per quanto riguarda gli oggetti astratti non è chiaro se questo sia desiderabile. I controesempi classici366 a tali tesi sono ad esempio due diverse proposizioni composte dalle stesse parti come “Braccobaldo ama Pippo” e “Pippo ama Braccobaldo”. Certo si potrebbe obiettare che questo non è un vero contro-esempio, dal momento che ci sarebbe una differenza di parti fra le due proposizioni: il sintagma verbale “ama Pippo” è una parte della prima proposizione, mentre non lo è della seconda367. Ma nel contempo non è chiaro come chi sostenga (IE) possa a sua volta distinguere il sintagma verbale “ama Pippo” dalla semplice sequenza composta dagli elementi “Pippo” e “ama”, la quale è parte della seconda proposizione. Un problema analogo è costituito dal cambiamento mereologico nel tempo, dal momento che stando a (IE) un capello lasciato sul cuscino basterebbe a rendere me la sera prima e me al mattino entità non identiche. Ma io sono la stessa persona (o il 364

365 366 367

Su cui esistono comunque delle controversie già indipendentemente dalla sue conseguenze in presenza dei principi di chiusura. Cfr. Casati e Varzi 1999: 38-42. Goodman 1958: 66. Cfr. ad esempio Hempel 1953: 110. Varzi 2005a: 110.

mio corpo è lo stesso corpo, stando alla biologia per esempio) di ieri, anche se quell’insieme di cellule di cui ero costituito ieri è diverso dall’insieme di cellule che fa colazione il giorno dopo. E dunque io (o il mio corpo) non sono la stessa cosa di quell’insieme di cellule, anche se ovviamente condividiamo tutte le parti368. Ci sono due atteggiamenti nei confronti di (IE) particolarmente interessanti rispetto alle questioni di legittimità formale: il primo consiste nel giustificarlo raffi nando la strategia nominalista. Occorre distinguere fra il modo in cui descriviamo un’entità e l’entità stessa, per non incorrere in attribuzioni di proprietà, come quella di rimanere invariati nonostante cambiamenti di parti, che risultano giustificate solo rispetto a certi modi di descrivere la stessa entità piuttosto che ad altri 369. Ad esempio, quell’entità costituita da un certo ammasso di cellule a un certo momento di tempo avrà necessariamente le sue parti se descritta come ammasso di quelle parti, ma potrà perderne molte senza cessare di esistere, se descritta come un corpo o una persona. Non è chiaro però come tale strategia possa venire applicata ad alcuni tipi di entità astratte, come le proposizioni, dove la struttura sembra avere un ruolo sostanziale nel defi nire le condizioni di identità piuttosto che essere relegabile al modo in cui descriviamo l’entità in questione. La strategia alternativa consiste invece nel rigettare (IE) e accettare che ogni disposizione di ordine delle parti corrisponde a una nuova entità, e in generale qualsiasi entità in quanto (“qua” stando alla terminologia del fi losofo inglese Kit Fine370) una certa cosa avrà essenza e identità diversa dall’entità considerata qua qualcos’altro. È dubbio però che un simile richiamo alle essenze possa qualificare tale posizione come ontologicamente neutra. Inoltre, questa posizione risulta incompatibile con il principio debole di supplementazione, che alcuni autori, come un altro filosofo inglese, Peter Simons, reputano ontologicamente neutro371.

368 369 370 371

Noonan 1976. Varzi 2000. Fine 1982. Varzi 2005a: 109; Simons 1987: 116.

2.6.6. Dipendenza Anche se certamente esistono sensi di “dipendenza” che risultano dominio-specifici, ad esempio dipendenza economica di una persona da un lavoro, o la dipendenza da una droga, è plausibile sostenere che esiste una nozione più fondamentale di dipendenza che incontriamo in ogni ambito. Chisholm, ad esempio, definisce dipendenza sulla base della sua teoria generale delle categorie: un’entità dipendente è qualcosa di contingente che non è una sostanza; stati di cose, confini e su372 perfici, ad esempio, rispondono a questa caratterizzazione . Husserl sfrutta la nozione di dipendenza per distinguere diversi tipi di parti; le parti dipendenti, o “momenti” e quelle indipendenti, o “pezzi”. Una parte dipende da altre parti, quando queste formano interi la cui unità sia in qualche modo intrinseca. Ad esempio, il colore e l’estensione di una bottiglia di vino sono parti (momenti) di questa, che a differenza di altre parti (pezzi), come il suo tappo, non possono esistere indipendentemente da essa. L’unità a cui si fa riferimento non è dunque definibile semplicemente in termini topologici, ma è appunto costituita dalla (reciproca o meno) necessità di essere completati da qualcos’altro. Il modo consueto di dare una prima caratterizzazione della nozione di dipendenza è il seguente: (Dip) Un oggetto x dipende da un oggetto y, se e solo se è necessario che y esista se x esiste Non può darsi il caso che un’entità da cui un’altra dipende esista senza che la prima entità a sua volta esista. Tale caratterizzazione solleva problemi analoghi a quelli che si trovano in filosofia della logica nei confronti degli enunciati condizionali, ossia enunciati della forma “se..., allora...”. Nella logica proposizionale, i condizionali373 sono considerati vero-funzionali, ossia il valore di verità di un condizionale è calcolabile a partire dai valori di verità delle proposizioni che lo ‘compongono’: l’antecedente e il conseguente. Ad esempio, nel condizionale “se piove, 372 373

Chisholm 1996. Più precisamente, i condizionali materiali, ossia grosso modo quelli espressi con l’indicativo (“se piove, prendo l’ombrello”) piuttosto che i condizionali controfattuali, ossia grosso modo quelli espressi con il congiuntivo e il condizionale (“se piovesse, prenderei l’ombrello”).

prendo l’ombrello” l’antecedente è “piove” e il conseguente è “prendo l’ombrello”. In particolare, se il conseguente di un condizionale è vero, l’intero condizionale è vero, e quindi una proposizione vera è implicata da qualsiasi altra proposizione. Così, la proposizione vera che io sono italiano è implicata sia dalla proposizione vera che sono scapolo, sia da quella falsa che sono sposato; ossia tanto “se sono scapolo, allora sono italiano” quanto “se sono sposato, allora sono italiano” sono proposizioni vere, dato che è vero che io sono italiano. In entrambi i casi se pensiamo all’implicazione come a un legame concettuale fra il conseguente e l’antecedente, il risultato è in contrasto con le intuizioni. Si è suggerito allora di ricorrere alla cosiddetta “implicazione stretta”: interpretare il condizionale come un enunciato che asserisce che una certa implicazione è necessaria. “Se sono scapolo, allora sono italiano” e “se sono sposato, allora sono italiano” risultano falsi in questa lettura, perché anche se è vero che sono italiano, questo non segue necessariamente né dall’essere scapoli, né dall’essere sposati. In tal modo evitiamo che qualcosa di vero sia implicato da qualsiasi altra cosa, ma non che una proposizione necessariamente vera sia implicata da qualsiasi altra proposizione. La proposizione che 2+2=4, che stando all’interpretazione comune degli enunciati matematici risulta essere necessariamente vera, è implicata in modo stretto tanto dalla proposizione che sono scapolo quanto dalla proposizione che sono sposato. Nuovamente, il risultato ci può lasciare perplessi. Il problema evidentemente è che se cerchiamo una connessione specifica fra antecedente e conseguente non potremmo mai trovarla nella definizione formale di condizionale, che è insensibile al contenuto delle proposizioni coinvolte. Nel dare una spiegazione del legame di dipendenza di un’entità da un’altra in termini di esistenza condizionata incontriamo problemi analoghi. Se diciamo semplicemente che l’enunciato “x dipende da y” vuol dire che se x esiste, allora y esiste, allora ogni x dipenderà da ogni cosa attualmente esistente. Risulterebbe ad esempio che io dipendo dalla mia camicia. (Dip) è un modo per evitare tale conclusione assurda, ma se interpretato stando alle usuali definizioni di implicazione e degli operatori di necessità avremo sempre come conseguenza che qualsiasi entità dipende da un’entità la cui esistenza è necessaria. Se i numeri esistono necessariamente, come chi ammette l’esistenza dei numeri in genere pensa, allora tanto io quanto il mio migliore amico dipendiamo

dal numero 37374. Una strategia per evitare queste conclusioni assurde è sviluppare una logica delle essenze in cui la nozione di dipendenza venga specificata come necessità relativa all’essenza dell’entità nondipendente. La questione è complessa perché occorre distinguere una nozione specifica di dipendenza, che sussiste fra generi di cose (un colore e un’estensione, ad esempio), e una nozione individuale, che connette individui appartenenti a determinate specie (questo colore a questa estensione particolare). Non è inoltre del tutto chiaro come ci si debba comportare nei confronti di interi che sembrerebbero dipendere da loro parti (anche spaziali), ad esempio una persona dal proprio cervello. I problemi su cui la letteratura attuale si confronta sono in primo luogo quelli di dare una caratterizzazione formale adeguata di questa necessità “condizionata” dall’essenza375. Inoltre, da una caratterizzazione semantica più precisa di (Dip) sarebbe auspicabile ricevere almeno delle direttive per formulare assiomi che pongano la relazione di dipendenza in connessione con le altre nozioni centrali dell’ontologia formale376. Si potrebbe però pensare che connettere così strettamente la nozione di dipendenza alla nozione di essenza non sia un modo formalmente neutro di trattarla, dal momento che tale mossa ci forza a un tipo di metafisica, quella essenzialista, che chi avesse ad esempio simpatie nominaliste difficilmente accetterebbe. Caratterizzare la dipendenza direttamente tramite assiomi è probabilmente un modo più neutro di procedere. D’altro canto, senza ricorrere esplicitamente o implicitamente ad assunzioni essenzialiste sembra difficile distinguere fra collezioni di parti e interi unitari, così come fra proprietà che non si possono perdere senza cessare di esistere e proprietà “accidentali”. Se il ricorso alla topologia rischia di fornire una soluzione circolare al problema degli interi, il ricorso alla nozione di dipendenza sembrerebbe risolverlo solo al prezzo di abbracciare una metafisica ben precisa.

374 375

376

Simons 1987: 295. Fine 2000; Correia 2000. Per ulteriori sviluppi e approfondimenti cfr. Correia 2005. Cfr. ad esempio Fine 1995.

Bibliografia ragionata 1. Classici F. Brentano, Kategorienlehre, a c. di A. Kastil, Hamburg, Meiner, 1933; The Theory of Categories, tr. ingl. di R.M. Chisholm e N. Guterman, Den Haag, Nijhoff, 1981 E. Husserl, Logishe Untersuchungen. Zweiter Band, Halle, Niemeyer, 1900-1901; ivi, 19132 S. LeĜniewski, Podstay ogolnej teornyi mnogosci. I, Moskwa, Prace Polskiego Kola Naukowego w Moskwie, Sekcya matematyczno-przyrodnicza, 1916; Foundations of the General Theory of Sets. I, tr. ingl. di D.I. Barnett, in S. LeĜniewski, Collected Works, a c. di S.J. Surma et al., Dordrecht, Kluwer, 1992, I H.S. Leonard - N. Goodman, The Calculus of Individuals and Its Uses, “Journal of Symbolic Logic”, 5 (1940): 45-55 2. Sull’ontologia formale come teoria fondamentale delle categorie B. Smith, Logic and Formal Ontology, in J.N. Mohanty - W. McKenna, a c. di, Husserl’s Phenomenology: A Textbook, Lanham, University Press of America, 1989 R. Chisholm, A Realistic Theory of Categories: An Essay on Ontology, Cambridge - New York, Cambridge University Press, 1996 R. Poli - P. Simons, a c. di, Formal Ontology, Dordrecht, Kluwer,1996 M. Ferraris, Ontologia, Napoli, Guida, 2003 3. Sulla ‘riscoperta’ delle Terze Ricerche Logiche di Husserl e di altre opere di ontologia formale B. Smith, An Essay in Formal Ontology, “Grazer Philosophische Studien”, 6 (1978): 39-62 B. Smith, a c. di, Parts and Moments. Studies in Logic and Formal Ontology, München, Philosophia, 1982 B. Smith - D.W. Smith, a c. di, The Cambridge Companion to Husserl, Cambridge, Cambridge University Press, 1995 4. Su mereologia e topologia J.T.J. Srzednicki - V.F. Rickey, a c. di, Lesniewski’s Systems. Ontology and Mereology, Den Haag, Nijhoff, 1984

P.M. Simons, Parts. A Study in Ontology, Oxford, Oxford University Press, 1987 D.K. Lewis, Parts of Classes, Oxford, Blackwell, 1991 R. Casati - A.C. Varzi, Part and Places, Cambridge (Mass.), The MIT Press, 1999 5. Sulla nozione di relazione formale e i rapporti tra fi losofia della logica e ontologia K. Mulligan, a c. di, Language, Truth and Ontology, Dordrecht, Kluwer, 1992 F. Correia - P. Keller, a c. di, Formal Concepts, fasc. monogr. “Dialectica”, 58/3, 2004 6. Sulla nozione di dipendenza ontologica P.M. Simons, The Formalisation of Husserl’s Theory of Wholes and Parts, in B. Smith, a c. di, Parts and Moments. Studies in Logic and Formal Ontology, München, Philosophia, 1982 K. Fine, Part-Whole, in B. Smith - D.W. Smith, a c. di, The Cambridge Companion to Husserl, Cambridge, Cambridge University Press, 1995 F. Correia, Existential Dependence and Cognate Notions, München, Philosophia, 2005

3. FILOSOFIA ANALITICA

3.1. MONISMO E PLURALISMO di Luca Angelone ed Elena Casetta1

3.1.1. La critica al neoidealismo britannico Come si è anticipato nella Introduzione, il ritorno della ontologia sulla scena filosofica di fine Novecento è dovuto alla tradizione analitica almeno altrettanto (se non più) che alla tradizione fenomenologica. In questa circostanza, è possibile ravvisare una qualche ironia, giacché, come avremo modo di verificare nei prossimi capitoli, la filosofia analitica nasce proprio dalla critica delle metafisiche proposte a cavallo tra Otto e Novecento dal neoidealismo britannico, e cresce nella contrapposizione polemica nei confronti della metafisica in generale. Esaminare le metafisiche britanniche, in questo quadro, ha una duplice funzione. Si tratta infatti tanto di mostrare, per così dire, il fondamento avverso della filosofia analitica, quanto di indicare un repertorio di temi e problemi a cui la filosofia analitica farà ritorno, con nuove prospettive, nella seconda metà del secolo scorso. Ma cerchiamo intanto di guadare la cosa più da vicino. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento il monismo di Francis Herbert Bradley (1846-1924), di cui diremo estesamente nel prossimo paragrafo, aveva rappresentato la teoria metafisica dominante nella cultura anglosassone. A partire dai primi anni del Novecento questa teoria è fatta oggetto di critica da punti di vista differenti. Successivamente alle reazioni antiidealiste di Bertrand Russell2 (1872-1970) e George Edward Moore (1873-1958), fanno la loro comparsa sulla scena filosofica anglo-americana opere dedicate alla metafisica le quali sostengono – in opposizione a Bradley – l’esistenza di una pluralità di entità: 1

2

I §§ 3.1.2-5 sono a cura di Elena Casetta; i §§ 3.1.1, 3.1.6-8 sono a cura di Luca Angelone. Cfr. infra 3.2.

Spazio, tempo e deità (1920) di Samuel Alexander (1859-1938), La natura dell’esistenza (1921-1927) di John Ellis McTaggart (1866-1925) e Processo e realtà (1929) di Alfred North Whitehead (1861-1947). Nonostante l’opposizione alle tesi di Bradley, Alexander, McTaggart e Whitehead non rientrano a pieno titolo nella tradizione analitica inaugurata da Russell e Moore. Essi infatti – come Bradley – propongono sistemi metafisici di stampo tradizionale3, intendendo la metafisica come una disciplina universale che assume la forma di una indagine razionale e non empirica intorno alla struttura fondamentale della realtà intesa come un tutto. Concependo la realtà come un tutto, fra i temi fondamentali comuni alla speculazione dei quattro autori in questione troveremo in particolare quello delle relazioni e della loro natura, nonché il problema dell’uno e del molteplice. Inoltre, le loro metafisiche hanno un carattere correttivo4: esse, cioè, si presentano come una critica della realtà quale è concepita dal senso comune, e come un tentativo di pervenire a una descrizione delle sue strutture che risulti migliore o perché in sintonia con i risultati della scienza, come in Whitehead, o perché conforme a certi principi apriori, come in McTaggart.

3.1.2. La metafisica monista di Bradley La fama di Bradley5, figura dominante nella filosofia britannica tra Otto e Novecento, inizia rapidamente a oscurarsi subito dopo la sua morte. Questo per motivi sia politici6, sia più strettamente filosofici, come il crescente successo di Russell e di Moore, che contribuì al diffondersi di un’interpretazione stereotipata e fuorviante dell’opera bradleyana, che merita dunque una diversa riconsiderazione. Essa trae ispirazione dalla filosofia di Kant e di Hegel ma presenta anche influssi 3 4

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6

Cfr. Lowe 2002: cap. 1. Cfr. l’introduzione a Strawson 1959. Cfr. anche Simons, 2004. Sulla alternativa tra metafisica descrittiva e metafisica correttiva, cfr. infra 3.4, 3.5, 4.1. Francis Herbert Bradley nasce nel 1846 e studia allo University College di Oxford. Nel 1870 diventa fellow del Merton College, incarico che tiene fino alla morte nel 1924. In seguito alla Grande Guerra si andava diffondendo un sentimento fortemente critico nei confronti dell’imperialismo britannico, la cui “missione” spirituale e morale era stata, a vario titolo, sostenuta da alcuni dei rappresentanti dell’idealismo. Cfr. Candlish 2002.

berkeleyani e sfocia in una forma di idealismo assoluto dal carattere fortemente scettico7. È dunque possibile riconoscere, nell’idealismo di Bradley, alcuni caratteri tipicamente britannici, per il valore assegnato al ruolo dell’esperienza rispetto a quello del pensiero, per la asistematicità e per lo scetticismo. Inoltre alcune idee della sua logica sopravvivono tutt’ora, proprio attraverso la loro tacita assunzione da parte di Russell. Bradley definisce la metafisica come il tentativo di conoscere la realtà contro la mera apparenza, lo studio dei principi primi o delle verità ultime, o – ancora – come lo sforzo di comprendere l’universo come un tutto8. Solo attraverso la critica del pensiero e il riconoscimento della sua intrinseca impossibilità di ‘dire’ la realtà, è possibile scorgere la realtà ‘vera’ che si trova al di là del pensiero stesso. Metafisicamente, il difetto principale del mondo così come esso ci viene dato attraverso il pensiero risiede nel suo carattere pluralistico e relazionale: noi non possiamo pensare il mondo come una singola massa omogenea, dal momento che è diversificato, né possiamo guardare a esso come a una collezione di elementi separati, dal momento che è al tempo stesso un intero unificato. Il mondo è un insieme di elementi in relazione, e l’intima problematicità del concetto di “relazione” è al centro di Apparenza e realtà (1893), l’opera in cui si dispiega il sistema metafisico di Bradley, che egli continuerà a rivedere, elaborare, e a difendere dagli attacchi critici (di Russell, in particolare) per i trenta anni successivi. Bradley riconosce una contraddizione tra pensiero ed esperienza, o, se vogliamo, fra ontologia ed epistemologia9. Se rimuoviamo tutte le concettualizzazioni operate dal pensiero, ciò che rimane è uno stato di esperienza immediata primitiva, una innocenza precognitiva – il “feeling” o “esperienza immediata” – in cui siamo in contatto con la realtà, intuendone i caratteri di non contraddittorietà, armoniosità e onnicomprensività. Conseguentemente, la realtà non potrà consistere in una pluralità di entità indipendenti, ma solo nell’Assoluto, di cui non abbiamo pensiero, giacché il pensiero implica la distinzione tra un pensante e un pensato, tra realtà e contenuto ideale e, pertanto, ovunque ci sia pensiero c’è contraddizione. 7

8 9

Non mancano tuttavia tentativi di una lettura realista del suo pensiero. A questo proposito cfr. ad esempio G. Stock 1998: 1-18. Bradley 1893 (19689: 1). D’accordo con la caratterizzazione proposta in Ferraris 2001. Cfr. anche supra 1.4.

3.1.3. Il regresso all’infinito L’intera “revisione”10 della realtà quale ci viene data attraverso il pensiero, operata nel primo libro di Apparenza e realtà, si basa sull’argomento del regresso all’infinito11. La domanda che genera l’argomento può essere formulata come segue: le relazioni e i loro termini sono reali (vale a dire, sono sostanze)? Se le relazioni sono legate essenzialmente ai loro termini, allora non esistono indipendentemente da questi ultimi, e quindi sono irreali. Se invece si ammette che siano reali, si genera un regresso all’infinito: se A e B stanno tra loro nella relazione R, quest’ultima, a sua volta, dovrà essere in qualche relazione, poniamo R' (diversa da R) con A e nella relazione R'' (diversa da R e da R') con B. Ma, a questo punto, sarà necessario ammettere quattro ulteriori relazioni tra R' e R, R' e A, R'' e R, R'' e B, e così via, all’infinito. Il regresso è vizioso dal momento che richiede il completamento di infinite serie, prima che qualche cosa possa effettivamente essere relato. La conclusione è che le relazioni non sono reali, vale a dire che non sono elementi a partire dai quali vengono costruiti interi complessi, ma piuttosto sono “astrazioni” da quegli interi, prodotti della concettualizzazione12. E lo stesso vale per i termini: i termini, con o senza le loro relazioni, sono inintelligibili se considerati come entità autonome, autosussistenti. Ritroviamo l’argomento di Bradley nel panorama filosofico contemporaneo nel quadro del dibattito sugli universali13. Una delle maggiori difficoltà che un filosofo realista circa l’esistenza degli universali si trova a dover affrontare risiede infatti nel chiarire la natura del legame di esemplificazione che sussiste tra particolari e universali: se il nesso di esemplificazione è una relazione, allora – come nel caso di tutte le altri 10

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Ci riferiamo qui a quella operazione, propria di una metafisica correttiva o “revisionaria”, appunto, che consiste nel “rivelare le categorie basilari in cui si articola la realtà, indipendentemente dall’immagine che ce ne facciamo” (Varzi 2005a: 43, corsivo aggiunto). In realtà, Bradley formula non uno ma tre argomenti: Bradley 1893 (19689: 17-18; 22; 26). La negazione della realtà delle relazioni non comporta però che Bradley sposi una teoria internista delle stesse (secondo cui le relazioni verrebbero ridotte a proprietà possedute dai relata). A proposito di questi temi ebbe luogo, tra Russell e Bradley, un’accesa disputa sulle pagine di Mind del 1909-1910, ora disponibile nei Collected Papers (vol. VI) di Russell 1992. Cfr. infra 5.4.

relazioni – si tratta di un universale, che deve a sua volta essere “esemplificato” da una relazione ulteriore e così via, all’infinito (il problema può essere fatto risalire all’argomento del “terzo uomo” contenuto nel Parmenide di Platone: se l’idea è la forma unica sotto cui si raccolgono più oggetti, allora sarà necessaria un’idea ulteriore di cui partecipino quegli oggetti più la loro idea, e così via all’infinito). Alcuni filosofi, sulla base dell’insuperabilità dell’argomento, hanno rinunciato a concepire il legame di esemplificazione come una relazione ordinaria: Gustav Bergmann14 (1906-1987), ad esempio, sostiene che l’esemplificazione non sia una relazione bensì un “nesso”, cioè un’entità ontologicamente distinta tanto dagli universali quanto dai particolari la cui unica funzione è di connettere ciò che connette15; Peter Frederick Strawson16 (1919-2006), invece, parla di “legami non-relazionali”17. Tuttavia sembra difficile non vedere in tali tentativi delle soluzioni ad hoc, giacché la natura di simili legami sembra restare un po’ oscura.

3.1.4. La metafisica pluralista di McTaggart Come abbiamo visto, dunque, Bradley nega la realtà, facendone apparenza, sulla base della impossibilità delle relazioni; McTaggart18, al contrario, riconosce, l’intimo carattere relazionale della realtà e oppone dunque al monismo di Bradley una prospettiva radicalmente pluralista, e una risoluzione della ontologia nella epistemologia. L’intero sistema metafisico di McTaggart si basa infatti sulla sconfinata fiducia nel potere della ragione umana di penetrare il livello dell’esperienza e del senso comune per raggiungere la realtà sottostante. La nostra esperienza ordinaria è infatti, secondo McTaggart, quasi completamente erronea. L’errore percettivo è sistematico e globale ed è la fonte dell’intero universo (apparente): dallo spazio al tempo agli oggetti 14 15 16 17 18

Cfr. supra 2.6.1. Cfr. Bergmann 1967: I, 43-44. Cfr. infra 3.4. Strawson 1959: 167-178. John Ellis McTaggart nasce a Londra nel 1866. Consegue la laurea in fi losofia morale al Trinity College di Cambridge dove, nel 1891, ottiene una fellowship per una dissertazione sulla dialettica di Hegel. Nel 1897 succede a James Ward come Lettore di Scienze Morali, incarico che manterrà fi no al suo ritiro, nel 1923, due anni prima della morte.

materiali. Compito della metafisica19 è quello di indagare le strutture ultime di tutto ciò che esiste o, meglio, dell’esistenza come un tutto. Il metodo è quello deduttivo: McTaggart parte da principi che forniscono quelle che devono essere, a suo avviso, le condizioni apriori che ogni metafisica plausibile deve soddisfare. Tutto ciò che non soddisfa tali requisiti viene escluso dalla realtà. Ciò che resta è – con buona probabilità, anche se non con certezza – la realtà ‘vera’. McTaggart presenta il suo sistema in due parti. Nel primo volume di La natura dell’esistenza (1921), costruisce un argomento quasi interamente apriori, che fa ricorso alla testimonianza della percezione due sole volte (per affermare che qualcosa esiste, e che più di una cosa esiste) e che intende dimostrare che tutto ciò che esiste deve avere una certa natura e, pertanto, soddisfare certi requisiti. Punto di partenza è il dato percettivo che qualcosa esiste. Questo “qualcosa” possiede delle qualità (altrimenti sarebbe una pura non entità), e le qualità devono essere qualità di qualcosa, ossia devono possedere una sostanza cui inerire. Inoltre, le sostanze sono più di una, dal momento che, oltre al percepito, deve esserci almeno un percipiente. L’argomento procede poi in questo modo: dal momento che le sostanze sono tra loro discriminabili20, ogni sostanza deve possedere una “descrizione sufficiente” che la identifichi. Ogni sostanza è però divisibile in parti (che sono a loro volta sostanze) ed è infinitamente complessa; pertanto non è possibile fornirne una descrizione sufficiente che la discrimini dalle altre (essendo le sue parti infinite, ogni sua descrizione sufficiente è necessariamente incompleta). L’unico modo per superare l’impasse è che dalla natura di ogni sostanza seguano le descrizioni sufficienti di tutte le sue parti. Più precisamente: la realtà sarebbe articolata, secondo McTaggart, in un insieme di sostanze (o parti) “primarie” che includerebbero, quali loro parti, altre sostanze, a loro volta articolate in parti e così via, all’infinito. Tra le varie parti sussisterebbe una relazione peculiare, quella della “corrispondenza determinante”21. Tale relazione, facendo sì che – a grandi linee – le serie infinite di parti secondarie siano delle “riproduzioni”, via via più piccole, delle 19 20

21

McTaggart 1921: I, cap. 1. McTaggart si basa sul principio dell’identità degli indiscernibili, che risale a Leibniz (1646-1716), secondo cui se A e B sono uguali sotto tutti gli aspetti allora A e B sono lo stesso ente. McTaggart 1921: IV, cap. XXIV.

parti primarie, permetterà che dalle descrizioni sufficienti di queste ultime seguano le descrizioni sufficienti di tutte le loro infinite parti. Cerchiamo di chiarire con un esempio. Poniamo che la realtà sia articolata in un insieme di due sottoparti primarie, un quadrato e un rettangolo. Ora immaginiamo che quell’insieme primario sia a sua volta articolato in una serie di quadrati e triangoli sempre più piccoli, disposti a piramide. Ogni sottoinsieme composto di un quadrato e un triangolo sarà rappresentativo (in quanto riproduzione in scala) – direttamente – del sottoinsieme di quadrato e triangolo che si trova al livello immediatamente superiore rispetto al proprio nella piramide e – indirettamente – dei sottoinsiemi che si trovano ai livelli superiori. Gli elementi del sottoinsieme primario avranno quale loro descrizione sufficiente quella di essere, rispettivamente, il triangolo più grande e il quadrato più grande, nell’Universo. Ma anche ogni elemento dei sottoinsiemi della piramide avrà una descrizione sufficiente – vale a dire una qualità che appartiene a quell’elemento e a nessun altro – e proprio sulla base delle relazioni (di corrispondenza determinante) che lo legano, direttamente o indirettamente, agli elementi dei sottoinsiemi appartenenti al livello immediatamente superiore22. La conclusione dell’argomento è che, qualunque cosa esista, quella cosa dovrà essere nella relazione di corrispondenza determinante con le sue parti. Nel secondo volume (1927), McTaggart procede alla negazione dell’esistenza di una serie di entità presunte (oggetti materiali, spazio, dati di senso, inferenze, giudizi...) sulla base del mancato soddisfacimento della condizione della corrispondenza determinante, giungendo, alla conclusione della sua opera, a esiti quasi mistici, con l’affermazione della natura puramente spirituale della realtà: l’Universo è composto di “io” spirituali ed eterni che si percepiscono l’un l’altro nella forma dell’amore, e ciò assicura il rispetto del criterio della corrispondenza determinante.

3.1.5. L’irrealtà del tempo Come Bradley è stato consegnato alla storia della fi losofia soprattutto per l’argomento del regresso all’infinito, McTaggart deve la sua 22

Per un approfondimento si veda Wisdom 1928.

maggiore notorietà (così come le critiche maggiori) all’argomento della irrealtà del tempo. Le uniche cose reali, come abbiamo visto, sono gli io e le loro percezioni, ma queste ultime vengono ordinariamente percepite (come scrive McTaggart, anche se forse sarebbe più corretto dire “concepite”) come oggetti materiali, atti mentali e così via. Il fondamento di questo errore risiede per l’appunto, secondo McTaggart, nell’illusione del tempo. McTaggart distingue due modi in cui gli eventi sembrano susseguirsi nel tempo e costituire delle serie temporali: la serie A e la serie B. In breve: gli eventi cadono nella serie A in virtù del loro occorrere nel presente, nel passato o nel futuro e, pertanto, la “posizione” di un evento nella serie A è essa stessa soggetta a cambiamento; cadono nella serie B in virtù della loro posizione (precedente, contemporanea o successiva) rispetto a un altro evento. Questa la forma dell’argomento: (i) il tempo comporta essenzialmente il cambiamento; (ii) il cambiamento può essere spiegato solo mediante caratterizzazioni della serie A (la sola serie B, infatti, non fornisce reale cambiamento ma solo un sistema di relazioni statiche); (iii) le caratterizzazioni della serie A comportano contraddizione, pertanto non possono descrivere la realtà (i predicati che determinano la serie A sono reciprocamente incompatibili: non si può dire, di uno stesso evento, che è presente, passato e futuro; né risolve la contraddizione sostenere che lo stesso evento è passato/presente/futuro in tempi diversi: tale caratterizzazione sarebbe adeguata solo se i “tempi” cui si fa riferimento potessero a loro volta essere caratterizzati senza fare implicitamente ricorso a espressioni della serie A, e questo non sembra possibile); quindi (iv) il tempo non è reale. Per dar conto dell’apparenza del tempo, McTaggart ipotizza l’esistenza di una “serie C”, vale a dire di una configurazione non-temporale in cui gli eventi si troverebbero disposti: ogni io, spirituale ed eterno, sarebbe strutturato in parti dentro parti, come una scatola cinese, ognuna delle quali sembrerebbe essere un momento della vita dell’io stesso, tale che le parti contenenti esperiscano quelle contenute come il loro passato e anticipino quelle che le contengono come il loro futuro.

L’argomento23 ha suscitato un vivo dibattito nella fi losofia del tempo contemporanea, ove si possono approssimativamente distinguere due posizioni: quella sostenuta dai cosiddetti “A-theorist”, che accettano (ii) e negano (iii), e che coincide – a grandi linee – con la posizione sostenuta da coloro che difendono una concezione tridimensionalista degli oggetti; e quella dei cosidetti “B-theorist” che negano (ii) e accettano (iii), sostenendo invece una posizione quadridimensionalista24. Inoltre, generalmente, mentre le teorie del tempo dei B-theorist vengono considerate “statiche” (il passaggio del tempo è, al più, un’illusione), quelle degli A-theorist sarebbero “dinamiche”. Secondo le teorie dinamiche, le varie parti del tempo avrebbero uno statuto ontologico diverso, alcune, cioè, sarebbero ‘più reali’ di altre (per il “presentismo”, ad esempio, solo il presente è reale).

3.1.6. La metafisica dello spaziotempo di Alexander La riflessione di Alexander25 è caratterizzata da un atteggiamento di tipo naturalistico in quanto filosofia e scienza condividerebbero lo stesso metodo di indagine: il metodo empirico. Tuttavia, se è chiaro che cosa significhi utilizzare tale metodo nelle scienze empiriche, è meno chiaro che cosa si debba intendere quando ci si riferisce alla metafisica. Infatti, da un lato la metafisica non prevede l’utilizzo di esperimenti o osservazioni, e dall’altro sarebbe assai difficile fornire una dimostrazione empirica delle tesi sostenute da Alexander. Riteniamo che sia più opportuno definire il metodo di Alexander come “analitico” dal momento che egli stesso descrive il procedere della metafisica come un “dissezionare le esperienze” fino a raggiungerne i costituenti ultimi e le loro relazioni. 23 24

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McTaggart 1927: V, cap. XXXIII. Ma è già contenuto in McTaggart 1908. Secondo il tridimensionalismo, gli oggetti concreti si estendono solo nello spazio, permanendo nella loro interezza nel tempo; per il quadridimensionalismo, invece, gli oggetti avrebbero anche un’estensione temporale, persistendo nel tempo in virtù del possesso di parti temporali distinte. Per il dibattito fra tridimensionalisti e quadridimensionalisti cfr. infra 5.1. Samuel Alexander nasce a Sydney, in Australia nel 1859 e si trasferisce in Inghilterra per completare la sua formazione. Si occupa inizialmente di fi losofia morale per poi approdare ai temi metafisici di Spazio, tempo e deità, pubblicato nel 1920. Muore nel 1938.

Alexander definisce i compiti della metafisica in maniera tradizionale: la metafisica è la scienza che si occupa dell’essere in quanto tale e dei suoi attributi essenziali ed è in primo luogo identificata con la ricerca delle proprietà comuni a tutto ciò che esiste. È proprio la generalità a rappresentare la nota caratteristica che distingue la metafisica dalle altre scienze: mentre queste ultime delimitano, all’interno di ciò che esiste, un ambito determinato, la metafisica ha come ambito di indagine l’essere in generale. Ma la distinzione tra metafisica e scienze empiriche non è rigida, giacché le scienze sono nate da un processo di autonomizzazione rispetto alla metafisica. Reciprocamente, quando una scienza empirica acquista un certo grado di generalità assume un carattere filosofico. Alexander articola il suo sistema in due parti: si tratta prima di individuare gli elementi costitutivi del reale, poi di analizzare la relazione tra le cose di cui l’esperienza ci attesta l’esistenza e questi elementi costitutivi. Per quanto riguarda il primo aspetto, Alexander afferma che esiste una sostanza originaria, lo spaziotempo, che è “la stoffa di cui sono tessute tutte le cose”26. Spazio e tempo sono indissolubilmente uniti, come la mente e il corpo: il tempo è la mente dello spazio così come lo spazio è il corpo del tempo. Tuttavia, l’analogia è limitata, poiché l’unione tra lo spazio e il tempo è quella dell’identità, e quindi è più stretta di quella sussistente tra mente e corpo, dove le proprietà mentali costituiscono qualcosa di nuovo – benché non siano prodotte da qualcosa di diverso – rispetto alle proprietà fisiche. Oltre allo spaziotempo, l’analisi dei costituenti ultimi del reale rintraccia una serie di proprietà generali condivise da tutte le cose: le “categorie” o “apriori”. La lista delle categorie include l’esistenza, l’universalità, la relazione, l’ordine, la sostanza, la causalità, la reciprocità, l’essere un insieme di parti e il movimento. Tali proprietà sono dette “categoriali” dal momento che si applicano a tutte le cose che esistono: l’esistenza è una categoria perché tutte le cose esistono, l’universalità lo è perché tutte le cose esemplificano universali, la relazione perché tutte le cose sono in relazione con qualcos’altro, e così via.

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Alexander 1920: I, 342.

3.1.7. L’emergentismo Le cose possiedono però anche proprietà non categoriali, cioè che si applicano ad alcuni oggetti ma non ad altri. È per dar conto della “provenienza” di tali proprietà che Alexander introduce la tesi dell’emergentismo27. Con “emergenza” si intende la possibilità che un insieme organizzato di parti possieda proprietà che gli elementi costituenti presi singolarmente non possedevano. In breve, quando la composizione fisica di un sistema raggiunge un adeguato grado di complessità, essa dà vita a comportamenti tali da giustificare il riferimento a proprietà emergenti, dotate di efficacia causale. Le proprietà emergenti sono nuove e impreviste: sono nuove dal momento che non esistono quando gli elementi non sono organizzati, e vengono in essere solo con la realizzazione di tale organizzazione; sono impreviste perché non si poteva prevedere che l’organizzazione di quegli elementi le avrebbe prodotte: è possibile prevedere la proprietà posseduta da un cesto di ciliege di pesare un chilogrammo conoscendo il peso dei componenti di base, mentre non è possibile prevedere le proprietà dell’acqua conoscendo le proprietà dell’idrogeno e dell’ossigeno. Tuttavia le proprietà emergenti non sono qualcosa di diverso dagli elementi che le costituiscono, essendo esclusivamente il risultato della loro organizzazione. Per questo motivo la tesi emergentista si presenta come una via media tra monismo e pluralismo: infatti, nonostante esistano entità di un solo tipo – le particelle elementari – le proprietà godute dagli aggregati di queste particelle stratificano il mondo degli oggetti introducendo differenze rilevanti dal punto di vista ontologico. È bene mettere in rilievo ancora un aspetto delle proprietà emergenti: a differenza, ad esempio, degli epifenomeni, che godono di una esistenza solo parassitaria (per esempio, gli occhi arrossati per la stanchezza o il colorito giallo dell’itterico), tali entità possiedono poteri causali e, pertanto, uno statuto ontologico in senso proprio. L’argomento di Alexander a sostegno di una esistenza in senso “for27

Ci siamo già imbattuti in una ripresa contemporanea dell’emergentismo nel § 2.5.8. Storicamente, l’emergentismo è una tesi diffusa negli ambienti fi losofici anglosassoni degli anni Venti: oltre che in Space, Time and Deity, lo ritroviamo in Emergent Evolution (1923) di C. Lloyd Morgan e The Mind and Its Place in Nature (1925) di C.D. Broad. Per una presentazione generale dell’emergentismo britannico che ne contestualizzi le tesi all’interno del dibattito tra meccanicismo e vitalismo si veda McLaughlin 2003.

te” delle proprietà emergenti muove dalla intuizione secondo la quale è inutilmente sovrabbondante ammettere l’esistenza di qualcosa che non svolge alcuna funzione28. In Spazio, tempo e deità viene espressa la convinzione che sia l’esistenza di proprietà emergenti, sia la loro capacità di essere efficaci causalmente avrebbero ricevuto conferme empiriche dalla ricerca scientifica29. Un esempio di emergenza cui abbiamo già accennato è rappresentato dalle proprietà mentali che appunto sono l’esito di una certa organizzazione delle proprietà fisiche sottostanti. La mente non è qualcosa che esista oltre i processi fisiologici, ma la coscienza e la consapevolezza sono qualità nuove, che i singoli processi fisiologici non possiedono; quindi, se da un lato la mente è identica ai processi fisiologici, dall’altro è qualcosa di nuovo e diverso. Ma la tesi emergentista non riguarda solo la relazione tra proprietà fisiche e proprietà mentali. Tutte le cose sono, secondo Alexander, articolazioni via via più complesse di un’unica sostanza – lo spaziotempo – che si ordina gerarchicamente in livelli. Alla base della gerarchia troviamo, come abbiamo detto, lo spaziotempo, articolato in elementi discreti definiti “punti-istanti”, di cui si predicano le categorie. Al secondo livello abbiamo le “proprietà materiali” che emergono quando i punti-istanti si organizzano in insiemi dotati di un certo grado di complessità. Segue un terzo livello in cui incontriamo le qualità che si producono nelle sintesi chimiche e nelle strutture fisiche e che sono l’esito di organizzazioni materiali sufficientemente complesse. A sua volta l’organizzazione delle proprietà fisico-chimiche dà come risultato esseri viventi e, infine, alcuni esseri viventi – quelli dotati di una struttura sufficientemente complessa – possiedono le proprietà più sofisticate che si trovino in natura, quelle mentali. Sebbene si possa sostenere che l’emergentismo classico chiuda la sua stagione negli anni Trenta del secolo scorso dopo avere raggiunto il suo apice con l’opera di Alexander, di Charlie Dunbar Broad (1887-1971) e di Conwy Lloyd Morgan (1852-1937), si sta assistendo oggi a un vero e proprio ritorno all’emergentismo in settori non marginali del dibattito 28

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Secondo J. Kim 1992: 134-135, l’intuizione alla base dell’argomento di Alexander, cui Kim si riferisce con l’espressione Alexander’s Dictum, si può riassumere nel modo seguente: esistere significa essere dotati di poteri causali. Per un approfondimento si veda il numero monografico di Topoi dedicato all’Alexander’s Dictum a partire da Mills 2003. Alexander 1920: II, 8.

sulla causalità mentale e sulla natura della relazione psicofisica. Tale ritorno appare favorito dal fatto che la ricerca empirica sembra, almeno in alcuni casi, mettere in luce l’esistenza di fenomeni emergenti30.

3.1.8. La metafisica degli eventi di Whitehead Con Whitehead non abbiamo più a che fare con un esponente, per dir così, della vecchia guardia, destinato a essere scalzato dalla nuova generazione analitica, ma con un protagonista a pieno titolo delle trasformazioni filosofiche del Novecento. Secondo Whitehead31, il compito della metafisica32 è quello di ricercare i principi generalissimi della realtà e i concetti comuni a tutto ciò che esiste. Il suo sistema è contenuto in Processo e realtà (1929), in cui Whitehead presenta uno schema di categorie che contiene i principi primi e le nozioni comuni a tutto il reale. Inoltre, sulla base della teoria della relatività, Whitehead critica le categorie tradizionali contrapponendo a queste la tesi della processualità del reale, sviluppata attraverso la nozione di “evento”. Il punto di partenza è il confronto con la tesi che identifica gli oggetti concreti con sostanze che durano nel tempo e subiscono cam30

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Il recupero della nozione di emergenza è avvenuto sia in ambito fi losofico sia in ambito scientifico. Al recupero si è, d’altro lato, accompagnata la ripresa della polemica contro l’emergentismo (Kim 1990; 1999). Per una presentazione introduttiva si veda Di Francesco 1996/2002²: 111-122. Alfred North Whitehead (1861-1947) si è occupato inizialmente di matematica difendendo la tesi logicista secondo la quale la matematica è riducibile alla logica; frutto di questo primo periodo sono i tre volumi dei Principia Mathematica (1910-1913), scritti insieme a Russell. A partire dalla seconda metà degli anni Dieci, Whitehead comincia a occuparsi della scienza e dei suoi fondamenti. Un ruolo centrale nella sua riflessione è rivestito dalla teoria della relatività e dalla ricerca delle sue implicazioni fi losofiche. Ne sono testimonianza la Ricerca sui principi della conoscenza naturale (1919), Il concetto della natura (1920) e Il principio della relatività, (1922). Nel 1924 si trasferisce a Harvard e la metafisica diviene il tema principale della sua riflessione, intrecciandosi all’interesse per i rivolgimenti concettuali della scienza. Si vedano La scienza e il mondo moderno del 1925 e Il divenire della religione del 1926, ma soprattutto Processo e realità del 1929. Whitehead formula questa concezione del compito della metafisica già nelle prime opere del periodo americano (La scienza e il mondo moderno e Il divenire della religione).

biamenti qualitativi – tesi tipica del senso comune e della metafisica tradizionale. Nonostante la fortuna di cui ha goduto, questa concezione degli oggetti si rivela secondo Whitehead, a una analisi più attenta, inadeguata e inapplicabile per due motivi. In primo luogo, questa tesi si scontra con le teorie della fisica. Non è possibile considerare una pietra come la ‘stessa’ pietra, in momenti successivi del tempo, se si accetta che una pietra è un aggregato di atomi, i quali sono a loro volta un aggregato di quanti, che non possono essere pensati come un oggetto che permane nel tempo. Il secondo argomento si basa invece sulla nozione di “proprietà necessarie”. Se vogliamo che un oggetto duri nel tempo, allora almeno alcune proprietà devono appartenere a esso in ogni momento della sua esistenza. Queste proprietà sono necessarie e individuano l’essenza di quel particolare oggetto. Whitehead mostra però che proprietà siffatte non esistono. Si consideri, ad esempio, un uomo: le proprietà che sono tipicamente indicate come sue proprietà necessarie, la razionalità e la mortalità, non sono effettivamente tali. Infatti, quando un uomo dorme non è razionale; inoltre, fino a quando quell’uomo non morirà, non sapremo se possiede effettivamente la proprietà di essere mortale dal momento che l’attribuzione di tale proprietà deriva da una generalizzazione per induzione33. La critica del concetto di identità attraverso il tempo condurrà Whitehead a proporre la nozione fondamentale della sua metafisica, quella di “entità attuali”. Nessun oggetto permane identico nel tempo, essendo costituito da entità attuali differenti in tempi differenti. Le entità attuali sono prive di durata nel tempo: infatti cessano di esistere subito dopo essere venute all’esistenza, e gli oggetti non sono altro che sequenze di entità attuali successive. Per segnalare, a livello terminologico, la distanza dalla concezione degli oggetti come sostanze che permangono identiche nel tempo, Whitehead afferma che gli oggetti sono “eventi” o “processi”34. 33

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Mentre l’argomento per l’eliminazione della razionalità dal novero delle proprietà necessarie di un uomo suona convincente, quello che esclude la mortalità risulta meno efficace dal momento che tratta la proprietà di “essere mortale” come se fosse equivalente alla proprietà “essere morto” riferita a un momento futuro di qualcosa attualmente esistente. Sembrerebbe più opportuno identificare la proprietà di “essere mortale” con una proprietà disposizionale, benché queste ultime siano entità a loro volta problematiche. Sotto molti punti di vista, iniziando proprio con il ricorso alla nozione di “evento”, la teoria degli oggetti di Whitehead trova analogie con le posizioni quadri-

Per completare la presentazione della teoria degli eventi, sono necessarie alcune precisazioni. In primo luogo, quanto detto per gli oggetti concreti vale anche per le persone. Commentando il cogito cartesiano, Whitehead asserisce che “Ogni volta che egli [Cartesio] pronuncia ‘Io sono, io esisto’, l’occasione reale, che è l’io, è differente”35. Inoltre, pensare gli oggetti come eventi al cui interno si susseguono differenti entità attuali modifica la nozione stessa di “cambiamento”. Il cambiamento propriamente parlando non esiste: con quella parola ci riferiamo alla diversità qualitativa tra due entità attuali successive. Le entità attuali sono caratterizzate da Whitehead come sostanze immobili: così come non possono mutare le loro proprietà, non possono cambiare neanche la loro posizione.

Bibliografia ragionata 1. Per un’introduzione alle metafisiche anglo-americane G. Bonino, Apparenza e realtà, in P. Rossi - C.A. Viano, a c. di, Storia della filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1997, V P. Rossi, La natura e l’esperienza, in P. Rossi - C.A. Viano, a c. di, Storia della filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1997, V A. Santucci, La natura e la mente, in P. Rossi - C.A. Viano, a c. di, Storia della filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1999, VI 2. Per un’introduzione al pensiero di Bradley W.J. Mander, An Introduction to Bradley Metaphysics, Oxford, Oxford University Press, 1994 S. Candish, Francis Herbert Bradley, in E.N. Zalta, a c. di, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, Fall 2002 Edition, URL = http://plato.stanford. edu/entries/bradley/

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dimensionaliste all’interno dell’attuale dibattito sulla persistenza degli oggetti concreti (cfr. infra 5.1.). Altri elementi avvicinano Whitehead ai filosofi quadridimensionalisti: la critica della tesi che gli oggetti permangano numericamente identici nel tempo nonostante i cambiamenti qualitativi, e l’appello alla coerenza con la fisica quantistica per sostenere la revisione della metafisica del senso comune. Nonostante i distinguo e le prese di distanza, Whitehead è così tra i primi ad articolare una concezione quadridimensionalista degli oggetti. Whitehead 1929: parte II, cap. 2, sez. 4.

3. Per il tentativo di interpretarne il pensiero in senso realista W.J. Mander, a c. di, Perspectives on the Logic and Metaphysics of F.H. Bradley, Bristol, Thoemmes Press, 1996 G., Stock, a c. di, Appearance versus Reality. New Essays on Bradley’s Metaphysics, Oxford, Oxford University Press, 1998 4. Per una introduzione al pensiero di McTaggart C.D. Broad, Examination of McTaggart’s Philosophy, 2 voll., Cambridge, Cambridge University Press, 1938 P.T. Geach, Truth, Love and Immortality, London, Hutchinson and Co., 1979 5. Sull’argomento contro la realtà del tempo e il relativo dibattito M. Dummett, A Defence of McTaggart’s Proof of the Unreality of Time, in Id., Truth and Other Enigmas, London, Duckworth, 1978 N. Oaklander, Temporal Relations and Temporal Becoming: a Defense of Russellian Theory of Time, Lanham, University Press of America, 1984 N. Oaklander - Q. Smith, a c. di, The New Theory of Time, New Haven, Yale University Press, 1994 E.J. Lowe, A Survey of Metaphysics, Oxford, Oxford University Press, 2002 6. Per un’introduzione al pensiero di Alexander B.D. Brettschneider, The Philosophy of Samuel Alexander. Idealism in “Space, Time and Deity”, New York, Humanities Press, 1964 D. Emmet, Foreward to the 1966 Reprint Edition, in S. Alexander, Space, Time and Deity, 2 voll., London, Macmillan, 1966² 7. Sulla sua teoria delle proprietà emergenti B.P. McLaughlin, The Rise and Fall of British Emergentism, in A. Beckermann et al., a c. di, Emergence or Reduction? Essays on the Prospects on Nonreductive Physicalism, Berlin - New York, de Gruyter, 1992 8. Per una introduzione al pensiero di Whitehead e una valutazione storiografica delle sue posizioni L.S. Ford, The Emergence of Whitehead’s Metaphysics 1925-1929, Albany, State University of New York Press, 1984

G.R. Lucas jr., The Rehabilitation of Whitehead: An Analitical and Historical Assesment of Process Philosophy, Albany, State University of New York Press, 1989 V. Lowe, Alfred North Whitehead: The Man and His Work, 2 voll., Albany, Johns Hopkins University Press, 1985-1990

3.2. ANALISI di Guido Bonino e Fabio Minocchio

3.2.1. Il problema Gottlob Frege (1848-1925), Bertrand Russell (1872-1970) e Ludwig Wittgenstein (1889-1951) costituiscono quella che tradizionalmente è considerata la triade dei padri della fi losofia analitica. Come sempre accade con questo genere di formule, si tratta naturalmente di una valutazione discutibile. Anche altri nomi, infatti, potrebbero meritare lo stesso onore: può qui bastare l’esempio di George Edward Moore (1873-1958). Appare comunque corretto affermare che Frege, Russell e Wittgenstein siano i classici a cui più frequentemente fanno riferimento coloro che si riconoscono in una tradizione in senso lato analitica. Per quanto riguarda in particolare l’ontologia, Frege, Russell e Wittgenstein hanno associato strettamente la sua trattazione a quella della logica. Sebbene questa impostazione non costituisca certamente una novità, è soprattutto a questi autori che si deve la sua diffusione nella fi losofia del Novecento. Altrettanto stretta è l’associazione delle questioni ontologiche a quelle semantiche, o più in generale di fi losofia del linguaggio, anche se i modi di intendere tale associazione sono diversi – come si vedrà – da un autore all’altro. L’assunzione della logica e della semantica come strumenti fondamentali di indagine teorica indirizza a una concezione dell’ontologia come individuazione delle diverse categorie di entità (necessarie, possibili, impossibili, astratte, concrete, fittizie, vaghe, teoriche...) e alla valutazione del loro status.

3.2.2. Frege: logica e filosofia Uno dei principali contributi tecnici di Frege36 alla nascita e all’evoluzione della filosofia di tradizione analitica consiste nell’elaborazione di una logica che per la prima volta fornisce una trattazione soddisfacente degli enunciati quantificati. Frege infatti nella Ideografia37, sviluppando un linguaggio artificiale adatto a ricostruire in modo rigoroso i passaggi del ragionamento matematico, gettò al contempo le basi per la logica moderna. È stata inoltre molto influente l’idea che la costruzione di un linguaggio artificiale dotato di particolari caratteristiche sintattiche e semantiche potesse costituire uno strumento potente anche per l’indagine filosofica. Forte delle sue conquiste in campo logico, nei Fondamenti dell’aritmetica38 Frege attaccò le concezioni della matematica all’epoca prevalenti, ovvero il formalismo (secondo cui la teoria matematica coincide sostanzialmente con un sistema linguistico regolato da un insieme di assiomi)39 e lo psicologismo (che considerava compito della matematica e della logica la descrizione delle leggi del pensiero)40, contrapponendo a queste dottrine il logicismo, ossia l’idea che la matematica coincida con la logica e possa da essa essere dedotta. A questo tentativo di ricondurre la matematica alla logica sono dedicati i I principi dell’aritmetica41. Nel corso dell’elaborazione di queste teorie Frege si imbatté in problemi semantici, ontologici e di filosofia del linguaggio, che affrontò in vari articoli, tra i quali si possono ricordare Funzione e concetto42, Senso e significato43 e Concetto e oggetto44. Abbandonato il progetto logicista dopo la scoperta (comunicatagli da Russell) che il suo sistema dava ori36

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Frege insegnò matematica all’università di Jena a partire dal 1874 e intrattenne serrati e proficui dialoghi (quasi sempre sotto forma epistolare) con i matematici Giuseppe Peano (1858-1932), David Hilbert (1862-1943) e P.E.B. Jourdain (1879-1919), così come con Husserl, Russell e Wittgenstein: tuttavia il riconoscimento per la sua opera di logico, fi losofo della matematica e del linguaggio fu soprattutto postumo. Frege 1879. Frege 1884. Cfr. ivi: § 86 ss. Cfr. infra 4.8. Frege 1893 e 1903. Frege 1891. Frege 1892a. Frege 1892b.

gine ad antinomie45, continuò a occuparsi dei problemi filosofici che già lo avevano impegnato; Frege chiamava “ricerche logiche” questi suoi articoli della vecchiaia, che dopo la sua morte furono raccolti in un volume che reca quel titolo; tra essi spiccano per l’originalità e per il profondo impatto sullo sviluppo della filosofia analitica Il pensiero46 e Le connessioni di pensieri 47. Frege è poi stato anche considerato il principale promotore di quella “svolta linguistica” che secondo alcuni caratterizzerebbe la fi losofia (non solo di stampo analitico) del Novecento48. Tale svolta consisterebbe tra l’altro nello spostamento del centro focale dell’impresa fi losofica: disciplina fondamentale non sarebbe più l’epistemologia (o teoria della conoscenza), secondo l’impostazione tipica della tradizione post-cartesiana, ma piuttosto la logica, o la teoria del significato, o più in generale la filosofia del linguaggio. Questo spostamento è legato alla radicale critica dello psicologismo condotta da Frege, secondo cui i significati delle espressioni linguistiche non possono essere identificati con rappresentazioni mentali o psicologiche, ma consistono piuttosto nel contributo che tali espressioni apportano al senso degli enunciati in cui occorrono. Frege ha parlato a questo proposito di principio di contestualità: per comprendere il significato di un’espressione linguistica è necessario prendere in considerazione il contesto (anch’esso linguistico) in cui essa viene utilizzata.

3.2.3. Oggetti e funzioni Nell’ontologia di Frege ciascuna entità è un oggetto o una funzione. La nozione di “funzione” gode di una priorità logica su quella di “oggetto”, dal momento che l’unica definizione che si può fornire di “oggetto” è quella secondo cui è da considerarsi un oggetto tutto ciò che non è una funzione. Per chiarire che cosa siano le funzioni Frege prende le mosse da un’analisi della nozione matematica di “funzione”. L’espressione “x + 2” designa una funzione, cioè una regola, una procedura di calcolo, che permette di associare un valore a ogni argomen45 46 47 48

Su questo punto cfr. infra 4.8.2. Frege 1918. Frege 1922-23. Cfr. Dummett 1973.

to (il cui posto è indicato dalla variabile49): per esempio, la funzione x + 2 assume come valore il numero 5 per l’argomento 3. L’espressione “x + 2” e la funzione che designa sono secondo Frege entrambe insature, cioè incomplete: esse richiedono di essere “saturate” da un argomento. Se saturiamo l’espressione funzionale “x + 2” con il numero 3, otteniamo “3 + 2”, che non designa una funzione, ma il numero 5. Il numero 3 e il numero 5 sono entità complete, cioè oggetti. “1 + 2”, “2 + 2”, “3 + 2” sono espressioni che designano i valori (rispettivamente 3, 4, 5) di una medesima funzione (x + 2) per diversi argomenti (rispettivamente 1, 2, 3). L’espressione “x + 2”, dunque, potrebbe anche essere vista come la forma comune a “1 + 2”, “2 + 2”, “3 + 2”. Ciò non significa però che la funzione “x + 2” possa essere concepita come una parte di ciò che è designato, per esempio, dall’espressione “3 + 2”, cioè il valore della funzione stessa. E inversamente, neanche gli argomenti e i valori di una funzione possono essere considerati sue parti. Si deve inoltre osservare che il numero 5, ad esempio, può essere designato da espressioni diverse, come “3 + 2” e “7 – 2”, che sono il risultato della saturazione di espressioni funzionali differenti, come per esempio “x + 2” e “7 – x”. L’insieme dei valori di una funzione per i suoi argomenti è detto decorso di valori di una funzione50. Il decorso di valori di una funzione non è, come la funzione, un’entità incompleta, bensì qualcosa di completo, e quindi un oggetto.

3.2.4. Funzioni e concetti Frege osserva che non solo i linguaggi artificiali, ma anche le lingue naturali sono in grado di produrre espressioni linguistiche funziona49

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Ciò che può occorrere come argomento di una funzione è tutto ciò che può essere sostituito alla x o termine variabile. Una funzione può avere uno o più posti d’argomento indicati da rispettive variabili. Il ruolo di una variabile è di indicare che essa può essere sostituita da una qualsiasi fra le entità facenti parti dell’estensione del suo dominio, ovvero dell’insieme di entità su cui la variabile è intesa spaziare. Intuitivamente si può comprendere questo fatto pensando all’uso dell’espressione “qualsiasi” nella lingua italiana: nel dire che “quando si è affamati qualsiasi vivanda è ben accetta” ciò che s’intende dire è che a saziarci non potrà che essere una particolare vivanda (e non una bevanda) rimanendo però indeterminato quale essa sia. Il decorso di valori di x + 2 è {2, 3, 4, 5...}, quello di x2 è {0, 1, 4, 9...}.

li: “la capitale di x”, “il padre di x” ecc. sono infatti espressioni che indicano, rispettivamente, la funzione che a ogni paese associa la sua capitale51, e quella che a ogni persona associa suo padre. Anche città, paesi, persone devono dunque essere considerati oggetti. Un altro modo per ampliare la categoria degli oggetti che possono fungere da argomenti o valori di una funzione è quello di creare un nuovo tipo di funzione introducendo simboli operazionali come = (uguale a), > (maggiore di), < (minore di). Tutte le espressioni come “x > 3”, “x2 = 1”, “x < y” designano funzioni che una volta completate da argomenti numerici hanno sempre per valore il Vero o il Falso, ossia uno dei due oggetti logici che Frege chiama valori di verità. Se completiamo la funzione a un posto x2 = 1 con −1, 0, 1 ecc. otteniamo le seguenti eguaglianze: (−1)2 = 1, 02 = 1, 12 = 1 ecc. La prima e la terza di queste eguaglianze sono vere, le altre sono false: altrimenti detto, il valore che la nostra funzione associa all’argomento −1 è il Vero, quello che associa all’argomento 0 è il Falso e così via. Il fatto che la funzione x2 = 1 per l’argomento −1 abbia come valore il Vero si può esprimere dicendo che – 1 cade sotto il concetto numero che elevato al quadrato è identico a 1; che essa per l’argomento 0 abbia come valore il Falso si può esprimere dicendo che 0 non cade sotto il concetto numero che elevato al quadrato è identico a 1. La possibilità di esprimersi in tal modo mostra, a giudizio di Frege, la connessione tra la nozione di concetto e quella di funzione: ogni concetto è una funzione il cui valore è sempre un valore di verità. I concetti sono dunque designati dalle espressioni predicative: il concetto “cavallo”, ad esempio, dall’espressione “(essere) un cavallo”; gli oggetti che costituiscono gli argomenti di tali concetti sono invece designati da espressioni collocate in posizione di soggetto. Ciò dà origine a un apparente paradosso: nell’enunciato “Il concetto di cavallo è esemplificato”, l’espressione “il concetto di cavallo” occorre in posizione di soggetto, e in quanto tale dovrebbe designare un oggetto. Inoltre espressioni come questa, che sono generalmente chiamate “descrizioni definite”, vengono da Frege trattate come nomi propri, dal momento che “Aristotele” (nome proprio) e “il maestro di Alessandro Magno” (descrizione definita) sembrano svolgere un ruolo semantico simile. Dunque l’espressione 51

Ad esempio la funzione capitale di (x), se ha per argomento la Francia avrà per valore Parigi, e il suo decorso di valori sarà l’insieme delle capitali: {Parigi, Mosca, Tokio,...}.

“il concetto di cavallo”, contrariamente alle apparenze, non designa un concetto, ma un oggetto. Secondo Frege questa difficoltà è in ultima analisi imputabile ai limiti espressivi del linguaggio. Le relazioni sono definite da Frege come quelle funzioni a più di un posto il cui valore è sempre un valore di verità: x < y e x2 + y2 = 10 sono ad esempio relazioni, che designano il Vero per certe coppie di argomenti e il Falso per altre. Ci sono poi funzioni che hanno valori di verità non solo come valori, ma anche come argomenti 52: nell’espressione funzionale “x se e solo se y” le variabili x e y stanno per enunciati, che designano valori di verità; la funzione a due posti se e solo se ha dunque come argomenti valori di verità, e assume come valori valori di verità (il Vero se entrambi gli argomenti sono il Vero o se entrambi sono il Falso, e il Falso negli altri casi). La precedente discussione ci permette di formulare il principio generale secondo cui ogni volta che un oggetto cade sotto un concetto, il concetto in questione è vero di quell’oggetto, mentre quando un oggetto non cade sotto un concetto il concetto in questione è falso di quell’oggetto. Questo modo di esprimersi è utile per comprendere in che cosa consista l’estensione di un concetto. Prendiamo nuovamente come esempio il concetto numero che elevato al quadrato è identico a 1. Dal momento che −1 e 1 sono gli unici due oggetti che cadono sotto tale concetto, si potrebbe pensare che l’estensione del concetto sia appunto formata da −1 e 1, sia cioè l’oggetto {−1; 1}. Per Frege l’estensione di un concetto coincide invece con un oggetto (più precisamente con una classe) del tipo {, , , ,...}, dove “a”, “b”,... stanno per valori di argomenti e “V” e “F” per valori di verità53. Questa mossa permette a Frege di assegnare un’estensione anche a quei concetti sotto cui non cade nessun oggetto, come ad esempio numero intero positivo minore di – 6, undicesimo pianeta del nostro sistema solare ecc.: poiché tali concetti sono falsi di qualsiasi oggetto, la loro estensione sarà un oggetto del tipo {, ,}. I concetti danno luogo a una gerarchia e possono avere una struttura ontologica più o meno complessa. Il concetto numero intero po52 53

Come si vedrà, si tratta di quelle che Wittgenstein chiamerà funzioni di verità. L’estensione di un concetto è cioè per Frege, almeno fi no a I principi dell’aritmetica esclusi, in tutto e per tutto identica al suo decorso di valori ed è una classe di coppie ordinate, in cui il secondo elemento è sempre un valore di verità. Per una ricostruzione delle varie posizioni freghiane su questo punto cfr. infra 4.8; Mariani 1994: 90; Kenny 1995: 116-117, 159-62.

sitivo minore di 10 è un concetto composto dai concetti numero intero, numero positivo, numero minore di 10, che secondo Frege sono le note caratteristiche del concetto numero intero positivo minore di 10. Se sotto un concetto cadono degli oggetti, le note caratteristiche del concetto sono allo stesso tempo proprietà degli oggetti che cadono sotto quel concetto. Anche i concetti hanno delle proprietà che devono essere però distinte dalle loro note caratteristiche: infatti il concetto numero intero positivo minore di 10 non è né un numero intero, né un numero positivo, né un numero minore di 10, ma possiede, ad esempio, la proprietà di cadere entro il concetto concetto sotto su cui cadono nove oggetti, oppure entro il concetto concetto esemplificato. Il rapporto tra il concetto numero intero positivo minore di 10 e il concetto numero intero è invece un rapporto di subordinazione. La subordinazione riguarda dunque concetti dello stesso livello (nel nostro caso di primo livello), mentre un concetto cade entro concetti di livello superiore. Nella terminologia di Frege, mentre i concetti cadono entro altri concetti, gli oggetti – come si è già visto – cadono sotto concetti. Quando un oggetto cade sotto un concetto di primo livello, e questo a sua volta cade entro un concetto di secondo livello, non necessariamente l’oggetto cade sotto il concetto di secondo livello. Per esempio l’Everest cade sotto il concetto montagna più alta del mondo, e questo concetto cade entro il concetto concetto sotto cui cade un solo oggetto, ma l’Everest non cade sotto quest’ultimo concetto. Frege tratta la nozione di esistenza come un concetto di secondo livello, ossia come una proprietà di concetti e non come una proprietà di individui (oggetti). Ad esempio è lecito affermare che esistono tigri albine solo se sotto il concetto tigre albina cade almeno un oggetto (ovvero se la funzione tigre albina (x) ha come valore il Vero per almeno un argomento); solo, cioè, se il concetto tigre albina possiede la proprietà di cadere entro il concetto concetto esemplificato; e ciò equivale appunto a considerare l’esistenza come una proprietà di concetti e non di oggetti. In conclusione, Frege concepisce tutto ciò che tradizionalmente era considerato un universale come un particolare tipo di funzione: satellite della terra e rosso sono concetti, amare, (essere) a sinistra di sono relazioni. Dunque le parole che nel linguaggio naturale indicano i concetti e le relazioni (i predicati a uno o più posti) saranno espressioni linguistiche funzionali, ovvero incomplete: ad esempio il predicato

“essere rosso” designa la funzione rosso (x) che ha come valore il Vero se l’argomento è un oggetto rosso e il Falso altrimenti 54.

3.2.5. Senso e riferimento A ogni espressione linguistica, a giudizio di Frege, sono associati un senso (Sinn) e un riferimento (o significato, Bedeutung). Il riferimento dell’espressione è l’entità designata mentre il senso è il modo in cui tale entità viene presentata dall’espressione: ossia, come afferma Frege, ogni espressione indica (o sta per) un riferimento ed esprime un senso. Partiamo dal caso dei nomi propri. Preliminarmente bisogna osservare che per Frege espressioni funzionali saturate come “3 + 2” o “l’autrice delle Sette storie gotiche”, malgrado la loro complessità, devono essere considerate grammaticalmente alla stregua di nomi propri, in virtù del fatto che designano oggetti. La nozione di “nome proprio” ha dunque presupposti ontologici: un nome proprio è un’espressione linguistica completa, ma un’espressione linguistica è completa solo se designa un’entità completa, cioè un oggetto. È chiaro che uno stesso oggetto può essere designato da più nomi propri: ad esempio, il numero 3 può essere designato mediante le espressioni “2 · 13 + 1” e “4 – 1”; lo stesso riferimento viene però presentato dalle due espressioni in modo diverso (come il risultato di operazioni di calcolo differenti). Questi diversi modi di presentazione sono i sensi delle due espressioni. Analogamente il maestro di Aristotele può essere designato mediante le espressioni “Platone”, “l’allievo di Socrate”, “l’autore del Cratilo”: anche in questo caso tutte le espressioni hanno lo stesso riferimento, ma ciascuna di esse esprime un senso differente. Il fatto che sensi diversi ci permettano di identificare lo stesso oggetto grazie a più processi di pensiero autorizza a concepire il senso come il contenuto cognitivo associato a un’espressione, in virtù del quale essa ha il riferimento che ha. Dunque la relazione di riferirsi a che intercorre fra un nome e il suo riferimento non è diretta ma mediata da un senso (il senso, cioè, determina il riferimento). Infatti Frege sostiene che, perlomeno in un linguaggio logicamente perfetto (come quello sviluppato nella Ideografia), la connessione fra un nome proprio, il suo 54

In Bergmann 1958 è stato osservato che l’identificazione degli universali con funzioni favorisce una concezione per certi aspetti nominalistica.

senso e il suo riferimento è quella secondo cui al nome corrisponde un senso determinato, cui corrisponde a sua volta un riferimento determinato. Lo stesso riferimento può invece, come abbiamo già visto, essere designato da più nomi propri, ciascuno dei quali avrà un senso determinato. Ognuno di questi nomi mediante il suo senso “illumina”, come afferma Frege, un certo aspetto dello stesso riferimento. Nei linguaggi naturali la connessione regolare fra un nome proprio, il suo senso e il suo riferimento è invece violata perché allo stesso nome possono essere associati più sensi: ad esempio possiamo identificare il portatore del nome “Platone” con colui che è stato l’allievo di Socrate oppure con colui che è stato il maestro di Aristotele. Detto altrimenti possiamo pensare a Platone in molti modi: l’importante per Frege è che alle oscillazioni di senso non corrispondano oscillazioni di riferimento e che ogni senso in linea di principio possa essere afferrato da tutti i parlanti competenti. Perché la comunicazione sia possibile i sensi (contenuti cognitivi) espressi dai nomi devono cioè essere entità oggettive esterne alla mente dei parlanti. Per Frege infatti i sensi dei nomi devono essere tenuti distinti dalle rappresentazioni, ossia dalle entità mentali che i nomi possono evocare nella mente di ogni parlante. Tali rappresentazioni sono inevitabilmente soggettive perché la loro formazione dipende dalle diverse esperienze di ciascun parlante. Benché afferrare il senso (o i sensi) di un nome sia un evento mentale, ossia un processo psicologico, il senso è tuttavia oggettivo. Infine espressioni linguistiche diverse possono avere lo stesso senso come ad esempio “l’autore della Divina Commedia” e “l’auteur de la Divina Commedia”. Anche gli enunciati possiedono secondo Frege un senso e un riferimento: il senso di un enunciato è il pensiero che esso esprime mentre il suo riferimento è il suo valore di verità. Ad esempio l’enunciato “Socrate è un uomo” esprime il pensiero che Socrate è un uomo e designa il Vero. Dunque tutti gli enunciati veri, e tutti gli enunciati falsi, hanno lo stesso riferimento, ossia rispettivamente il Vero e il Falso. Dal momento che il Vero e il Falso sono oggetti, gli enunciati funzionano da un punto di vista semantico come nomi propri. Gli enunciati sono infatti espressioni linguistiche complete e dunque, secondo Frege, non possono che designare oggetti, anche se di un tipo particolare come i valori di verità. Tuttavia anche nel caso degli enunciati, come in quello dei nomi propri, è il senso dell’espressione linguistica a permetterci di identificare il riferimento: è in virtù del fatto che il pensiero espresso da un enunciato possa essere giudicato vero o

falso che l’enunciato designa il Vero o il Falso. Abbiamo già visto che le espressioni predicative designano funzioni (concetti): i loro riferimenti sono perciò funzioni. I loro sensi saranno di conseguenza i vari modi di presentazione delle funzioni, per quanto Frege sia piuttosto reticente sull’argomento. Sia il riferimento che il senso di un’espressione linguistica complessa sono composti a partire dai riferimenti e dai sensi delle espressioni linguistiche più semplici che la costituiscono. Questo principio semantico assume generalmente il nome di principio di composizionalità, che è alla base della moderna semantica formale. Da esso si può ricavare il cosiddetto principio di sostituibilità. Se in un’espressione linguistica complessa A sostituiamo un costituente a con un altro costituente b che abbia lo stesso senso o riferimento di a, otteniamo un’espressione B che ha rispettivamente lo stesso senso o riferimento di A55. Come abbiamo visto un enunciato deve essere considerato come un nome proprio il cui riferimento è un particolare tipo di oggetto logico, ossia uno dei due valori di verità. Dal momento che però secondo Frege il riferimento di un enunciato è composto a partire dai riferimenti dei costituenti da cui è formato, quando uno di tali costituenti, pur avendo un senso, manca di riferimento, allora anche l’intero enunciato, pur esprimendo un pensiero, è privo di riferimento, ossia privo di valore di verità. Quindi nella teoria di Frege enunciati come “L’attuale re d’Italia è sardo” sono privi di valore di verità, poiché l’espressione “L’attuale re d’Italia” è priva di riferimento, pur avendo un senso. Anzi proprio perché essa ha un senso possiamo stabilire che è priva di riferimento. In conclusione, per Frege, anche se nel linguaggio naturale alcune descrizioni definite e alcuni nomi propri genuini (ad esempio “Odisseo”, “Zeus” ecc.) sono privi di riferimento, tuttavia ogni volta che ci imbattiamo in un’espressione linguistica che sintatticamente funziona 55

In alcuni contesti, ad esempio quelli di atteggiamento proposizionale, l’applicazione di questi principi richiede tuttavia alcune manovre correttive. Non è infatti immediatamente chiaro in che modo tali principi possano determinare il valore di verità di enunciati come “A crede che p”, ad esempio “Gianni crede che Fiume sia in Italia” oppure “Gianni crede che Rijeka sia in Croazia”, dal momento che in questi casi, da un lato il valore di verità dell’intero enunciato non sembra dipendere da quello dell’enunciato incassato (introdotto dal “che” dichiarativo), dall’altro la sostituzione di termini coreferenziali all’interno dell’enunciato incassato sembra modificare il contenuto della credenza e dunque anche il valore semantico dell’enunciato.

come un nome proprio, di fatto presupponiamo che tale espressione abbia un riferimento, ossia che essa stia per un particolare oggetto.

3.2.6. I tre regni Nell’articolo Il pensiero Frege torna a riflettere su alcune delle questioni ontologiche ed epistemologiche che erano sorte nel corso dell’elaborazione della propria filosofia. In particolare cerca di chiarire quale sia la natura dei pensieri (sensi degli enunciati) e le loro relazioni con altri generi di entità. Frege giunge così a una tripartizione che riconosce le cose del mondo esterno (ovvero gli oggetti materiali), le rappresentazioni e i pensieri56. Gli oggetti materiali sono caratterizzati dall’oggettività, o intersoggettività (si tratta cioè di entità accessibili allo stesso modo da parte di tutti i soggetti), e dall’attualità (Wirklichkeit), cioè la capacità di agire causalmente gli uni sugli altri. Le rappresentazioni sono invece entità mentali, o psicologiche, e comprendono impressioni sensibili, prodotti dell’immaginazione, sensazioni, umori, sentimenti ecc. Esse, contrariamente alle cose del mondo materiale, sono soggettive, nel senso di essere necessariamente legate a un soggetto che ne è il portatore. Mentre un bicchiere esiste indipendente da qualunque osservatore, l’impressione sensibile di un bicchiere esiste solo se qualcuno (un portatore) ha questa rappresentazione sensibile, che risulta inoltre essere privata, ovvero non accessibile ad altri soggetti. I pensieri devono essere nettamente distinti sia dagli oggetti materiali, sia dalle rappresentazioni. A differenza degli oggetti materiali, i pensieri non sono attuali: non hanno la capacità di agire causalmente sugli oggetti materiali stessi, perlomeno non direttamente (Frege riconosce infatti la possibilità di un’azione indiretta, tramite i soggetti che afferrano i pensieri). Ma contrariamente alle rappresentazioni, i pensieri sono oggettivi: la loro esistenza e la loro natura non dipendono in nessun modo dai soggetti. Questi possono entrare in relazione con i pensieri, ma tale relazione non crea né modifica i pensieri stessi, che rimangono i medesimi per tutti i soggetti (sono cioè intersoggettivi). L’oggettività dei pensieri è 56

Non è difficile cogliere in questa tripartizione una parentela (motivata dalla polemica con lo psicologismo) con ciò che, in ambiente fenomenologico, era stato a vario titolo tematizzato nella tripartizione fra atto, contenuto e oggetto. Cfr. supra 2.1, 2.2.

secondo Frege necessaria per garantire la possibilità della conoscenza, e in particolare della conoscenza scientifica. Se i contenuti di questa fossero semplici rappresentazioni, essi sarebbero irrimediabilmente soggettivi: come osserva Frege, non esisterebbe il teorema di Pitagora, ma il mio teorema di Pitagora, il tuo teorema di Pitagora, e così via, che a causa del loro carattere privato non potrebbero nemmeno essere confrontati tra loro. Accanto agli oggetti materiali e alle rappresentazioni mentali occorre dunque riconoscere una terza categoria di entità, astratte e perciò prive di collocazione spaziotemporale; in questo senso si può dire che i pensieri abitino in una sorta di terzo regno, distinto da quelli delle cose del mondo esterno e delle entità mentali.

3.2.7. Russell: filosofia, logica e ontologia L’opera di Russell nelle sue varie fasi57 è alla base di un rinnovato interesse nel corso del Novecento per classici problemi di carattere ontologico quali, ad esempio, la disputa sull’esistenza degli universali o quella sullo statuto ontologico delle entità matematiche e geometriche. Ma essa ha anche innegabilmente contribuito alla nascita e allo sviluppo delle discussioni (tutt’ora aperte) sulle entità astratte come, ad esempio, le proposizioni e gli oggetti logici; su quelle teoriche (o ipotetiche), ossia le entità non osservabili cui si riferiscono le teorie scientifiche58; su quelle vaghe, ossia entità di cui non è semplice 57

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Come si è accennato nel capitolo precedente, il giovane Russell, formatosi sulle opere degli empiristi inglesi e di John Stuart Mill, durante gli studi di matematica e di fi losofia a Cambridge venne a essere influenzato dalla fi losofia idealistica di Bradley e di McTaggart, da cui si allontanò negli ultimi anni del XIX secolo, seguendo l’esempio di G.E. Moore. Questa nuova fase del suo pensiero culminò con i Principles of Mathematics (1903), opera in cui viene sviluppata un’ontologia radicalmente realista. Negli anni successivi, che condurranno alla stesura dei Principia Matematica (1910-13), in collaborazione con Whitehead, l’ontologia dei Principles subì profonde modifiche. Una vera e proprio svolta si ebbe poi intorno al 1919, quando Russell si avvicinò alle posizioni di William James (1842-1910) ed Ernst Mach (1838-1916). Nuove concezioni, oggi spesso dimenticate, vennero infi ne avanzate nelle opere degli anni Quaranta. Ricordiamo che un’entità teorica come, ad esempio, un atomo, pur non essendo astratta (se per astratto s’intende privo di collocazione spaziotemporale), può tuttavia avere delle proprietà astratte come il coefficiente di probabilità del

stabilire se ricadano o meno sotto un dato concetto, o se siano descritte (o definite) efficacemente dalle espressioni linguistiche di cui dovrebbero essere il significato, o – infine – quale sia il loro criterio d’identità59; su quelle contraddittorie (o impossibili), in genere considerate “inesistenti” poiché proprio la loro contraddittorietà logica, almeno a prima vista, ne escluderebbe necessariamente l’esistenza60. Per comprendere le ragioni di tale approccio logico a questioni ontologiche bisogna tenere conto del fatto che Russell, a partire dai primi anni del Novecento, e ispirandosi in parte a Leibniz61, difende l’idea secondo cui l’oggetto della fi losofia in generale (e in special modo dell’ontologia) è molto simile – se non identico – a quello della logica62, nel senso che i principi di quest’ultima devono essere considerati come fondamento per elaborare criteri che regolino l’ammissione di entità nel catalogo del mondo (criteri ontologici), oltre che altri tipi di criteri (ad esempio epistemici, semantici e di verità). Per quanto

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suo urto con altri atomi oppure quella di essere considerata non osservabile (un secolo fa) e di non esserlo più (oggi). Alcuni classici esempi di entità vaghe sono: un uomo che ha una capigliatura tale per cui non può essere descritto né come calvo né come non-calvo, perché, come direbbe Frege, entrambi i concetti sono falsi dell’oggetto in questione; la linea di confi ne fra due mari (e più in generale i riferimenti dei termini geografici); l’estensione di alcuni predicati come “disgustoso”, e lo stesso predicato “vago”. Sulle riflessioni di Russell circa il problema della vaghezza rimandiamo a 3.2.8, mentre per lo sviluppo di questo tema nella ontologia contemporanea rimandiamo a infra 5.7. Classici esempi di entità contraddittorie sono: i numeri primi pari maggiori di 2; i quadrati rotondi; la classe di tutte le classi che non contengono se stesse come elemento. Per una trattazione degli oggetti impossibili come sottoinsieme di quelli inesistenti cfr. supra 2.2. Cfr. Russell 1900. Ricordiamo che la logica, nel periodo compreso tra la stesura dei Principles of Mathematics e grosso modo gli anni Venti del Novecento, non è considerata da Russell come una disciplina linguistico-formale, il cui scopo sia la scoperta dell’insieme delle regole (sintattiche e semantiche) di costruzione dei nostri linguaggi, ma, piuttosto, come il modo di descrivere il più esattamente possibile le relazioni oggettive che sussistono tra qualsiasi tipo di entità attraverso lo studio delle leggi del pensiero, ossia dei vari tipi generali di deduzione. Cfr. Russell 1903: §§ 11 ss. A riprova della quasi totale coincidenza fra l’oggetto della logica e quello dell’ontologia può essere utile ricordare come Russell, in una lettera del 1904, spieghi a Meinong di chiamare “logica” ciò che il fi losofo austriaco chiamava “teoria degli oggetti”. Cfr. Russell 1904b.

ci riguarda più da vicino (ossia per l’ontologia) Russell considera la violazione di alcuni principi logici fondamentali – basti qui ricordare quelli di non contraddizione, del terzo escluso e d’identità – come ragione per l’eliminazione di alcuni tipi di entità. Come si è anticipato, la gran parte degli scritti di Russell costituisce, da un punto di vista non solo teorico ma anche storico, una delle fonti principali della tradizione filosofica comunemente nota come “analitica”. Tuttavia per molti aspetti Russell è lontano dalla “svolta linguistica”. Nella filosofia di Russell rimangono infatti centrali preoccupazioni di carattere epistemologico e psicologico che sono in genere state ridimensionate dalla svolta linguistica e che semmai sono, almeno in parte, riconducibili alla cosiddetta “svolta cognitiva”63. Infatti l’interesse di Russell per il linguaggio non è mai primario, né egli ritiene che i problemi filosofici abbiano carattere prevalentemente linguistico o che comunque debbano essere risolti esclusivamente attraverso un’analisi di tipo linguistico, come emerge chiaramente dall’importanza che egli attribuisce a un’attenta analisi delle relazioni cognitive tra la mente e il mondo nelle sue teorie del giudizio nonché alla comprensione (intesa come processo cognitivo) delle espressioni linguistiche allo scopo di determinarne il significato. Sua è tuttavia una delle prime formulazioni efficaci della nozione di “analisi logica”, presente soprattutto nella teoria delle descrizioni defi nite e storicamente molto influente, un procedimento che mira a scoprire la forma logica soggiacente alle forme grammaticali superficiali. A riguardo è opportuno ricordare nuovamente come la critica di Russell all’idealismo, soprattutto nelle forme monistiche che aveva assunto in Bradley64, costituisca una premessa indispensabile del metodo analitico, che cerca di scomporre le entità in costituenti semplici: se la verità – come sosteneva Bradley – risiedesse solo nel Tutto indiviso, qualunque procedimento di analisi condurrebbe necessariamente a una falsificazione del proprio oggetto e sarebbe dunque inaccettabile. A un livello più generale è stata molto influente anche la costante attenzione per i dati della ricerca scientifica. Nelle parole di Russell: In fi losofia c’è stato un abuso di soluzioni eroiche; si è trascurato troppo il lavoro di dettaglio; si è stati troppo poco pazienti. Come un tempo 63 64

Cfr. Casalegno 1997: cap. 11; Marconi 2001. Cfr. supra 3.1.1-3.

in fisica, si inventa un’ipotesi e sulla base di essa si costruisce un mondo bizzarro, che non ci si preoccupa di confrontare con il mondo reale. Il vero metodo, in fi losofia come nelle scienze, sarà induttivo, minuzioso, rispettoso del dettaglio, senza credere che sia il dovere di ciascun fi losofo di risolvere da solo tutti i problemi65.

L’attenzione per i dati della scienza, la trasposizione dei suoi metodi in ambito fi losofico, e la conseguente enfasi sulla necessità di scomporre i problemi complessi in questioni rigorosamente delimitate costituiscono nell’impostazione di Russell un coerente complemento dell’analisi logica.

3.2.8. L’ontologia dei Principi della matematica Negli ultimi anni dell’Ottocento, influenzato anche da Moore66, Russell inizia a elaborare una concezione fi losofica realista, intesa sia come opposizione all’idealismo (negando, ad esempio, l’esistenza di intermediari mentali tra il soggetto e il mondo), sia come realismo ontologico (ovvero il riconoscimento dell’esistenza degli universali). Queste posizioni costituiscono allo stesso tempo punto di partenza e oggetto di riflessione dell’ontologia dei Principi della matematica, opera che da un punto di vista generale deve essere considerata come uno dei più ambiziosi e complessi tentativi di attuazione del logicismo. All’interno del più ampio progetto dei Principi Russell presenta un’elaborata ontologia, basandosi sull’idea che la grammatica del linguaggio naturale rappresenti una guida affidabile per l’analisi ontologica (sebbene non sia sempre fedele a questo principio). Secondo i Principi, infatti, tutto ciò che può essere menzionato ha essere (being), e tutto ciò che ha essere è un termine: dunque negare che un termine abbia essere è sempre falso. Ma non lo è invece negare che un termine esista: infatti, secondo Russell, benché tutto ciò che ha essere sia un termine, tuttavia l’esistenza è una prerogativa di alcuni termini (le cose e le proposizioni vere, di cui si parlerà più avanti). Dunque affermare di 65

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Russell 1911b: 304. Si veda anche Russell 1914c. Per una sintesi critica del rapporto tra il metodo scientifico e quello fi losofico nel pensiero di Russell cfr. Coffa 1991 (tr. it. 1998: 332-33). Cfr. G.E. Moore 1899; cfr. anche Russell 1903: § 47.

un termine che esso non esiste non è contraddittorio perché non implica ipso facto che esso non abbia uno status ontologico: ad esempio Apollo, Amleto, il rosso (inteso come universale), i connettivi logici (congiunzione, disgiunzione, implicazione...) sono, per il Russell dei Principi, termini che, pur non esistendo, hanno comunque essere. I termini possono essere semplici o complessi. I termini semplici si dividono in cose e concetti (corrispondenti, rispettivamente, a particolari e universali nella terminologia tradizionale, che in seguito sarà adottata anche da Russell); le cose sono indicate da nomi propri, i concetti da aggettivi (se sono proprietà) o da verbi (se sono relazioni)67. Socrate è dunque una cosa68, umano e amare sono concetti. I termini complessi sono invece le proposizioni, come ad esempio Socrate è umano, che non devono essere intese come entità linguistiche69: esse sono invece collezioni di termini semplici di cui almeno uno è un concetto, che assicura l’unità della proposizione. Una proposizione non è dunque una mera lista di entità, ma possiede una propria unità ed è perciò un individuo, ossia, come dice Russell, può essere contato come uno. La semplice somma di Socrate e dell’umanità dà origine a una classe, ma non alla proposizione che Socrate è umano; perché questo avvenga è necessario che l’umanità sia esemplificata da Socrate. Esclusivamente in virtù della sua unità, ad esempio, una proposizione può a sua volta comparire come soggetto logico di altre proposizioni: ad esempio nella proposizione Socrate è un uomo implica che Socrate è mortale i due termini tra cui sussiste la relazione di implicazione sono appunto le due proposizioni Socrate è un uomo e Socrate è mortale. La prova che le proposizioni siano termini complessi risiede nel fatto che solo esse possono venire analizzate, ossia scomposte nei loro costituenti semplici. Le cose possono comparire nelle proposizioni solo in posizione di soggetto, mentre i concetti possono comparirvi sia in posizione di

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Oggi diremmo da predicati monadici o poliadici: Russell però nei Principi non considera i predicati entità linguistiche perché usa “predicato” come sinonimo di “proprietà”. Nella categoria ontologica delle cose, secondo Russell, rientrano anche entità che comunemente non sono giudicate tali: punti e istanti, parti di materia, stati cognitivi, classi ecc.; di conseguenza le parole che indicano tali cose devono essere considerate nomi propri. Né come entità astratte quali i pensieri di Frege.

soggetto70 sia in posizione di predicato. Consideriamo le proposizioni indicate dai seguenti enunciati: (1) Pietro è simile a Giovanni (2) La somiglianza implica la diversità Nella proposizione indicata da (1) Pietro e Giovanni compaiono in posizione di soggetti, mentre la relazione di somiglianza compare in posizione di predicato, e rela effettivamente gli altri due termini, assicurando l’unità della proposizione. Nella proposizione indicata da (2) la relazione di somiglianza compare invece in posizione di soggetto, e non svolge perciò alcuna funzione relante o unificatrice, che in questo caso è svolta dalla relazione di implicazione. Per Russell le relazioni (o più in generale i concetti) possono dunque occorrere secondo due modalità: come relazioni relanti (quando sono in posizione di predicato) e come relazioni in sé (quando sono in posizione di soggetto)71. Gli esempi precedenti mostrano che, se le parole “somiglianza” e “simile” indicano lo stesso concetto, allora è del tutto ininfluente, ai fini dell’analisi, il fatto che dal punto di vista della superficie linguistica si possa ricorrere a due parole grammaticalmente differenti – esse da un punto di vista logico indicano infatti la stessa entità. Ogni proposizione, secondo Russell, può essere interpretata come il valore di una funzione proposizionale per un certo argomento: ad esempio Socrate è umano è il valore della funzione proposizionale x è umano per l’argomento Socrate. Le funzioni proposizionali di Russell non devono essere confuse né con i concetti né più in generale con le funzioni di Frege. Per quanto riguarda i concetti, basti osservare che il valore di una funzione proposizionale è una proposizione, mentre il valore di un concetto (freghiano) è un valore di verità. Inoltre, l’argomento di una funzione proposizionale è un costituente del valore della funzione per quell’argomento: Socrate è un costituente della proposizione Socrate è umano, che è il valore della funzione proposi70

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Russell si discosta dunque dalla posizione di Frege, secondo cui i concetti non possono mai occorrere in posizione di soggetto. È da notare che la differenza tra relazioni relanti e relazioni in sé scompare una volta che la proposizione sia stata analizzata e dunque scomposta nei suoi costituenti. In un certo senso, sembrerebbe dunque che l’unità della proposizione vada perduta nel corso del processo dell’analisi e che questo non sia perciò in grado di rendere conto in modo soddisfacente di tale unità.

zionale x è umano per l’argomento Socrate. Nel caso delle funzioni di Frege ciò non avviene: quando Platone è l’argomento della funzione maestro di x, non per questo è un costituente di Socrate, che è il valore di quella funzione per quell’argomento. Le funzioni proposizionali, infine, non devono essere considerate come costituenti delle proposizioni: costituenti della proposizione Socrate è umano sono infatti Socrate e l’umanità. La funzione proposizionale x è umano non va perciò confusa con l’universale umanità; la loro natura ontologica risulta piuttosto oscura ed è equiparata da Russell a quella di altri oggetti logici come i numeri e i connettivi proposizionali. Russell nei Principi sostiene che l’unico valore semantico delle espressioni linguistiche sia il riferimento: le parole possono dunque riferirsi direttamente alle cose senza alcun bisogno di entità come i sensi di Frege. C’è però un’eccezione a questa posizione semantica. Espressioni linguistiche come “un uomo” o “l’attuale presidente della Repubblica Italiana” secondo Russell non si riferiscono direttamente a un singolo individuo della specie umana e a Giorgio Napolitano, ma indicano, rispettivamente, il concetto un uomo il quale denota un individuo indeterminato, e il concetto l’attuale presidente della Repubblica Italiana che denota Giorgio Napolitano. I concetti in questione, che Russell chiama appunto denotativi, sono termini complessi formati dalla combinazione di concetti tramite le operazioni logiche di quantificazione associate alle espressioni linguistiche “tutti”, “ogni”, “qualche”, “qualsiasi”, “un”, “il”. La relazione che sussiste fra i concetti denotativi e ciò che essi denotano è dunque di tipo logico ed è diversa da quella che sussiste fra ogni tipo di espressione linguistica (comprese quelle che indicano gli stessi concetti denotativi, ossia descrizioni indefinite e definite) e il suo riferimento. Inoltre la teoria dei concetti denotativi permette a Russell di eliminare dal catalogo ontologico dei Principles entità scomode come quelle meramente possibili e quelle impossibili: infatti, secondo Russell, così come la descrizione definita “l’attuale re di Francia” indica il concetto denotativo l’attuale re di Francia, il quale non denota nulla72 poiché attualmente la Francia è una repubblica, allo stesso modo la descrizione “il quadrato rotondo” indica il concetto denotativo il quadrato rotondo, il quale non denota nulla poiché non è possibile ammettere in un’ontologia oggetti che violino principi logici fondamentali (in questo caso quello di non contraddizione). 72

Cfr. Russell 1905b.

In conclusione è ancora opportuno ricordare come il Russell dei Principi avesse una scarsa considerazione dell’aspetto simbolico delle espressioni linguistiche (come si evince tra l’altro dalla sua incertezza nel servirsi della distinzione uso/menzione). Ad avvalorare quest’idea è lo stesso Russell quando anni dopo affermerà che “in fi losofia la teoria del simbolismo ha grandissima importanza, molta di più di quel che pensavo un tempo”73 e individuerà tale grandissima importanza nel fatto che ove non si rifletta attentamente sulla teoria del simbolismo “quasi certamente si confonderanno le proprietà del simbolismo con le proprietà della cosa [simbolizzata]”74. A suo giudizio, cioè, chi, non riflettendo sui principi del simbolismo, attribuisce al mondo le proprietà del linguaggio cade nella cosiddetta fallacia del verbalismo, la quale consiste, appunto, “nel confondere le proprietà delle parole con le proprietà delle cose”75. Un caso lampante di tale fallacia è, ad esempio, quello di inferire la vaghezza ontologica di alcune cose del mondo dalla vaghezza semantica di alcune parole usate per indicare quelle cose. Il fatto che alcune espressioni linguistiche del linguaggio ordinario (ad esempio “calvizie”, “confine”, “Monte Bianco”; “calvo”, “disgustoso”, “simpatico” e così via) siano vaghe non dipende dal fatto che ciò a cui esse si riferiscono sia ontologicamente vago, ma deriva dalle proprietà semantiche (tra le quali c’è, appunto, la vaghezza) delle espressioni in questione. Ma, dal momento che le proprietà semantiche delle espressioni linguistiche sono appunto proprietà di simboli e non di cose simboleggiate, allora, secondo Russell, è lecito attribuire le proprietà della vaghezza o della precisione soltanto ai simboli e non alle cose. Prendiamo, ad esempio, il celebre paradosso della calvizie secondo cui si arriva a sostenere che un uomo non è calvo finché ha ancora almeno un capello. Secondo Russell, non sembra esserci nessun valido motivo di sostenere che un uomo con un solo capello non sia calvo, eccetto, forse, quello di non violare il principio del terzo escluso. Ma, ove non si confondano le proprietà delle parole con quelle delle cose, sarà chiaro che “il principio del terzo escluso è vero quando vengono usati simboli precisi, ma non è vero quando i simboli sono vaghi, come, di fatto, tutti i simboli sono”76. Il fatto, cioè, che 73 74 75 76

Russell 1918-19: 167. Ibid. Russell 1923: 147. Ivi: 148.

sia il nostro concetto di calvizie, sia i predicati “calvo” e “non calvo” siano vaghi, non implica l’attribuzione della proprietà della vaghezza a colui a cui capiti di non cadere sotto il nostro concetto di calvizie o di non esemplificare le proprietà indicate dai predicati “calvo” e “non calvo”: infatti sebbene “alcuni uomini siano certamente calvi e alcuni altri siano certamente non calvi, tuttavia fra di essi ci sono uomini di cui non è vero dire che devono essere o calvi o non calvi”77.

3.2.9. Le descrizioni definite Per comprendere la teoria russelliana delle descrizioni defi nite, la cui prima formulazione risale all’articolo Sulla denotazione 78, è utile confrontarla con l’analisi freghiana degli enunciati in cui occorrono descrizioni defi nite, che Russell giudica errata e che rappresenta dunque uno dei suoi principali bersagli polemici. Consideriamo i seguenti enunciati: (1) L’attuale presidente della Repubblica Italiana è napoletano (2) L’attuale presidente della Repubblica Italiana è sardo (3) L’attuale re d’Italia è sardo Secondo Frege (1) è un enunciato vero; (2) è un enunciato falso; (3), infine, è privo di valore di verità, ossia non è né vero né falso. Frege sostiene che non sia possibile calcolare il valore di verità di (3) in quanto attribuisce agli enunciati in cui occorrono descrizioni defi nite in posizione di soggetto grammaticale la stessa forma logica degli enunciati in cui occorrono nomi propri in posizione di soggetto grammaticale. Secondo Russell questa analisi è fuorviante perché gli enunciati: (1) L’attuale presidente della Repubblica Italiana è napoletano (1*) Giorgio Napolitano è napoletano pur avendo la stessa forma grammaticale (soggetto-predicato), non hanno la stessa forma logica. La forma grammaticale superficiale de77 78

Ibid. Russell 1905a.

gli enunciati (1), (2) e (3) nasconde la loro forma logica profonda, che non è quella soggetto-predicato, ma quella della quantificazione esistenziale. Tale forma logica può essere esplicitata per mezzo di una parafrasi in enunciati in cui le descrizioni definite non compaiono più come costituenti dell’enunciato. Nel caso di (1) si ha perciò: (1a) Esiste un x che è attualmente presidente della Repubblica Italiana; esiste un solo x siffatto; e x è napoletano (1a) è un enunciato vero perché c’è un unico individuo, Giorgio Napolitano che è attualmente presidente della Repubblica e che è napoletano; ossia, come direbbe Russell, (1a) è vero perché le funzioni proposizionali x è attualmente presidente della Repubblica Italiana e x è napoletano sono entrambe soddisfatte dal medesimo argomento. La parafrasi di (3) è invece: (3a) Esiste un x che è attualmente re d’Italia; esiste un solo x siffatto; e x è sardo Diviene così chiaro che è possibile attribuire un valore di verità a (3), che non è dunque né vero né falso, ma semplicemente falso poiché non c’è nessun individuo che è attualmente re d’Italia (ossia perché la funzione proposizionale x è attualmente re d’Italia non è soddisfatta da nessun argomento). Per Russell, inoltre, alla luce dell’analisi di (3) non ha alcun senso sostenere che una descrizione definita come “l’attuale re d’Italia” si riferisca a un individuo possibile che attualmente non esiste (la posizione di Meinong), oppure che indichi il concetto denotante l’attuale re d’Italia che non denota nulla (la posizione di Russell stesso nei Principi). È dunque possibile eliminare dal catalogo ontologico oggetti inesistenti e concetti denotanti. Secondo Russell, il fatto che le descrizioni scompaiano nelle parafrasi (in quanto “assorbite” dal meccanismo della quantificazione esistenziale) è la prova che le descrizioni definite non funzionano semanticamente come nomi propri: esse non possono cioè possedere un valore semantico al di fuori di un contesto enunciativo, o come dice Russell sono simboli incompleti che possono essere definiti solo contestualmente.

3.2.10. Esistenza e costruzioni logiche La teoria delle descrizioni definite permette secondo Russell di concludere che l’esistenza deve essere considerata come una proprietà di concetti e non di individui. Infatti se l’esistenza è ciò che viene espresso dall’apparato della quantificazione esistenziale, allora l’attribuzione di esistenza a qualcosa consiste nell’attribuzione a una funzione proposizionale della proprietà di essere soddisfatta, ossia nell’attribuzione a un concetto della proprietà di essere esemplificato. Secondo Russell si può parlare sensatamente di esistenza solo a proposito delle entità che conosciamo per descrizione (by description) e non di quelle che conosciamo in modo diretto (by acquaintance)79: solo delle prime (indicate dalle descrizioni definite) è cioè lecito domandarsi se esistano o no. Per Russell, infatti, una parola è un nome proprio, in senso strettamente logico, solo quando è usata da un parlante per indicare un particolare di cui egli ha conoscenza diretta (acquaintance), ossia qualcosa della cui esistenza non si può dubitare80. Ecco perché secondo Russell è insensato domandarsi se il riferimento di un nome (logicamente) proprio esista o meno: associare a un nome un’asserzione di esistenza sarebbe pleonastico, associarvi una negazione di esistenza sarebbe in qualche modo contraddittorio; in un caso si ripeterebbe e nell’altro si negherebbe ciò che l’uso stesso del nome presuppone. Il fatto che sia del tutto lecito domandarsi se Socrate, Omero, Dio ecc. esistano vuol dire che “Socrate”, “Omero”, “Dio” ecc. non sono nomi propri genuini ma devono essere interpretati come descrizioni defi nite camuffate o abbreviazioni di esse (“il maestro di Platone”, “l’autore dell’Odissea”, “l’Essere supremo” ecc.). E ciò equivale a dire che la nostra conoscenza di tali entità è per descrizione e non diretta. Inizialmente Russell riteneva che i nomi propri grammaticali potessero essere considerati nomi logicamente propri se usati in presenza dei loro riferimenti: ad esempio, se potessimo discutere con Socrate o se Socrate stesse parlando di sé in terza persona, il nome “Socrate” sarebbe un nome logicamente proprio. Successivamente Russell difese la tesi secondo cui i soli nomi logicamente propri sono parole come i pronomi dimostrativi “questo” o “quello” quando sono usati per nominare dati sensoriali attuali (ad esempio quando diciamo “questo 79 80

Cfr. Russell 1911a. Cfr. Russell 1918-19: lezione II.

è rosso e quello è verde”)81. L’austerità di questa teoria semantica è l’immediata conseguenza dalla particolare concezione epistemologica elaborata da Russell in quel periodo, ossia del suo cosiddetto costruzionismo fenomenista82 secondo cui i particolari (individui, oggetti del mondo esterno) non devono più essere concepiti come sostanze ma come complesse costruzioni logiche a partire da dati sensoriali: un albero o una persona devono perciò essere concepiti come classi (di classi) di dati sensoriali. La proposta di Russell è cioè quella di concepire gli oggetti del mondo esterno come funzioni dei dati sensoriali, e non questi ultimi come funzioni degli oggetti: ad esempio non inferiamo i colori, intesi fenomenologicamente come dati sensoriali, dai colori intesi come proprietà fisiche (lunghezze d’onda); semmai accade proprio il contrario: solo assumendo i dati sensoriali come punto di partenza epistemologico siamo in grado, per via inferenziale, di acquisire nuove conoscenze di tipo scientifico. Questa concezione costruzionista del mondo esterno è un aspetto del più esteso metodo del costruzionismo logico, secondo cui ovunque sia possibile bisogna sostituire le costruzioni logiche alle entità inferite. Concepire, poniamo, i numeri come costruzioni logiche (il numero 2, per esempio, come la classe di tutte le coppie) permette tra l’altro di essere certi della loro esistenza, ciò che non sarebbe possibile se li si identificasse con qualche altro tipo di entità metafisica, oggetto di inferenza a partire dai dati sensoriali.

3.2.11. Il giudizio Nei Principi i termini vengono definiti da Russell come ciò che può diventare oggetto di pensiero. Ciò non significa che essi siano oggetti mentali (idee o rappresentazioni), nel senso che la loro esistenza e la loro natura dipendano dalle menti. I termini vanno considerati come esterni alle menti e perciò ontologicamente indipendenti da esse. Tutte le relazioni cognitive (percepire, ricordare, credere, dubitare ecc.) sono secondo il Russell dei Principi relazioni a due posti. Esse sussi81

82

Altri esempi di nomi logicamente propri potrebbero essere i pronomi personali (ad esempio “io”) e alcuni avverbi spaziotemporali (ad esempio “qui” o “adesso”), ossia i cosiddetti ‘indicali’. Cfr. Russell 1914a; 1914b.

stono dunque tra una mente (soggetto) e un singolo termine (semplice o complesso), di cui non ha senso domandarsi se esista o meno: se non ci fosse non ci sarebbe neanche la relazione cognitiva. Nel caso del giudizio il soggetto è dunque in relazione con un’entità singola, che è una proposizione, della cui esistenza non si può dubitare. Le proposizioni possono essere vere o false. Le proposizioni vere sono identificate con i fatti: giudicare ad esempio che la proposizione Socrate è umano è vera equivale ad affermare che è un fatto che Socrate sia umano. Le proposizioni false non possono invece essere identificate con nessun fatto. Pur essendo prive di esistenza, esse hanno tuttavia essere (come tutti i termini), sebbene la loro natura appaia quantomeno dubbia. L’identificazione delle proposizioni vere con i fatti costringe Russell a sostenere una teoria della verità come identità, secondo la quale non esiste una distinzione tra portatori di verità (le entità che possono essere dette vere o false) e fattori di verità (ciò che rende veri i portatori di verità)83. Di conseguenza non si può dire che una proposizione sia vera (o falsa) perché corrisponde (o non corrisponde) a qualche altra entità: l’ontologia dei Principi esclude cioè una teoria corrispondentista della verità. La verità e la falsità devono essere concepite come proprietà primitive delle proposizioni, il cui possesso non può essere ulteriormente spiegato: “Alcune proposizioni sono vere e altre sono false, così come alcune rose sono rosse e altre sono bianche”84. Negli anni successivi alla pubblicazione di Sulla denotazione le posizioni di Russell su questi temi subirono una profonda modifica, il cui esito fu la teoria del giudizio come relazione multipla, adottata anche nei Principia Mathematica85. Spinto dalle esigenze di una polemica contro la teoria coerentista della verità proposta dagli idealisti, Russell iniziò probabilmente a sentirsi insoddisfatto della propria concezione della verità, implicita nei Principi della matematica, secondo cui verità e falsità sono proprietà primitive e inanalizzabili delle proposizioni. Si indirizzò verso una teoria di tipo corrispondentista, in base alla quale la verità possa essere definita come una corrispondenza tra un’entità (il portatore di verità) e ciò che la rende vera (il fattore di verità). Secondo la teoria del giudizio come relazione multipla i portatori di 83 84 85

Cfr. infra 5.2. Russell 1904a: 75. La versione più elaborata della teoria del giudizio come relazione multipla si trova in Russell 1913.

verità non sono più le proposizioni, ma i giudizi, ovvero fatti i cui costituenti sono il soggetto del giudizio, la relazione di giudizio e i vari oggetti del giudizio. Nel caso in cui Otello creda che Desdemona ami Cassio, i costituenti del giudizio sono Otello (soggetto), la relazione di credenza (o di giudizio), Desdemona, la relazione di amare e Cassio (gli oggetti del giudizio). La relazione di credenza è in questo caso una relazione a quattro posti, che ha come termini gli altri quattro costituenti del giudizio. Se oltre a questo fatto sussiste un altro fatto i cui costituenti sono Desdemona, la relazione di amare e Cassio (se cioè Desdemona ama Cassio), allora il giudizio è vero; se invece tale fatto non sussiste (se cioè Desdemona non ama Cassio), allora il giudizio è falso. Questa teoria presenta alcune difficoltà di carattere tecnico (e sarà abbandonata da Russell dopo il 1918), ma offre anche alcuni importanti vantaggi. In primo luogo fa dipendere la verità o la falsità di un giudizio dalla sua corrispondenza (o mancata corrispondenza) con un altro fatto, evitando dunque di considerare verità e falsità come nozioni inanalizzabili. In secondo luogo permette di eliminare la categoria ontologica delle proposizioni: ora il mondo è costituito di fatti, alcuni dei quali sono giudizi, e per spiegare l’esistenza di giudizi falsi non è più necessario (contrariamente a quanto avveniva nella teoria dei Principi della matematica) postulare l’esistenza di proposizioni false, un genere di entità di natura assai dubbia.

3.2.12. Opere tarde Dopo il 1919 Russell si disinteressò progressivamente di questioni di carattere strettamente logico, che avevano costituito nelle opere fin qui esaminate il centro focale della sua attività. Possono tuttavia essere individuate alcune linee di continuità con le riflessioni precedenti. L’impostazione costruzionista viene per esempio mantenuta in L’analisi della mente86, secondo la quale il soggetto (che Russell aveva sempre considerato come un’entità semplice e primitiva) è in realtà una finzione o costruzione logica. Il dualismo tra entità materiali e mentali deve essere abbandonato, e l’intera realtà – o esperienza – va considerata come costituita da un solo genere di sostanza, né materiale né mentale, secondo il suggerimento del “monismo neutro” 86

Russell 1921.

elaborato da William James. Di conseguenza, la psicologia e la fisica non si distinguono per l’oggetto di studio, ma solo per la natura delle leggi causali da esse individuate e che connettono tra loro i fenomeni osservati, di per sé né materiali né mentali. L’ambito del mentale è costituito dai fenomeni raggruppati secondo le leggi causali psicologiche, l’ambito del fisico dai medesimi fenomeni raggruppati secondo le leggi causali della fisica87. In L’analisi della materia88 Russell affronta invece la questione del rapporto tra il mondo percettivo dell’esperienza e quello descritto dalle teorie scientifiche, apparentemente assai diversi. Tale diversità costituisce un problema, dal momento che le teorie scientifiche stesse, per poter essere considerate vere, devono in ultima analisi basarsi sull’esperienza. Anche in questo caso il soccorso proviene dal monismo neutro e dalla sua tendenza ad attenuare la distinzione tra mondo della fisica e mondo della percezione. Il loro riavvicinamento può avvenire secondo Russell grazie a un’analisi di tipo strutturale, che indaghi cioè la struttura dei fenomeni osservati piuttosto che la loro sostanza. Anche nelle opere degli anni Quaranta, dedicate prevalentemente a temi epistemologici, si possono trovare spunti ontologici interessanti. In Significato e verità89 Russell, che era sempre stato un convinto assertore dell’esistenza degli universali, si spinge a negare l’esistenza dei particolari come entità primitive: secondo questa concezione i particolari non sono nient’altro che un fascio di universali legati tra loro da una relazione di compresenza.

3.2.13. Wittgenstein: ontologia e linguaggio Ludwig Wittgenstein fu condotto dai suoi studi tecnici a interessarsi dei fondamenti delle scienze (matematica, logica, fisica teorica ecc.)90: nel 1911 dopo aver incontrato per la prima volta Frege a Jena, 87 88 89 90

Si sono qui tralasciate alcune complicazioni della trattazione russelliana. Russell 1927. Russell 1940. Wittgenstein è nato e cresciuto a Vienna, in una delle più altolocate, ricche e influenti famiglie di origine ebraica, attiva nell’industria dell’acciaio e nel mecenatismo. Dopo aver compiuto studi di ingegneria meccanica in patria e a Berlino, sfumata la possibilità di approfondire i suoi studi in Austria sotto la guida di Ludwig Boltzmann (che morì suicida nel 1906), scelse di specia-

decise di andare a studiare con Russell a Cambridge, dove rimase fino al 1913. Qui iniziò immediatamente a occuparsi del genere di problemi che nello stesso periodo stava impegnando anche Russell: la natura dei giudizi e delle proposizioni, la teoria dei tipi, i caratteri propri delle verità logiche e degli oggetti logici ecc. Le sue prime riflessioni su questi temi sono testimoniate dagli appunti raccolti nelle Note sulla logica91 e nelle Note dettate a G.E. Moore in Norvegia92. Negli anni della prima guerra mondiale, a cui partecipò, Wittgenstein continuò a riflettere sugli stessi temi, ma cercò anche di istituire un collegamento tra questi e questioni di carattere etico e religioso. Stava nel frattempo lavorando a un’opera che potesse presentare i risultati delle sue ricerche: tali materiali preparatori formano i Quaderni 1914-191693. Dopo la guerra pubblicò quella che considerava la summa dei suoi sforzi, il Tractatus Logico-Philosophicus94. Le indagini sulla natura della logica, sul funzionamento del linguaggio e sull’ontologia costituiscono la maggior parte delle riflessioni del Tractatus Logico-Philosophicus95. Una delle caratteristiche precipue del Tractatus, come si avrà modo di vedere più dettagliatamente nei prossimi paragrafi, è quella di saldare strettamente la trattazione dell’ontologia a quella delle questioni semantiche, un’impostazione che avrà in seguito ampia fortuna nella filosofia analitica. Questo legame risulta particolarmente evidente nel caso della dimostrazione dell’esistenza di oggetti semplici, che assume la forma di un argomento trascendentale: partendo dalla constata-

91 92 93 94 95

lizzarsi in Inghilterra in ingegneria aeronautica: ed è proprio nel corso della progettazione di alcune eliche che incomincerà ad avvicinarsi al problema dei fondamenti della matematica. Wittgenstein 1913. Wittgenstein 1914. Wittgenstein 1916. Wittgenstein 1921. Con quest’opera Wittgenstein riteneva infatti di aver formulato una soluzione definitiva ai problemi di cui si era occupato, e per diversi anni non si interessò più di fi losofia. Solo verso la fine degli anni Venti riprese a discutere problemi fi losofici, dapprima con alcuni esponenti del Circolo di Vienna (che consideravano il Tractatus Logico-Philosophicus una fonte importante delle loro stesse posizioni) e poi nuovamente nell’ambiente di Cambridge, dove accettò un incarico di insegnamento e dove rimase per il resto della vita. Ma le concezioni elaborate da Wittgenstein in questa seconda fase della sua attività sono oggetto di un altro capitolo, cfr. infra 3.4; in questa sede ci si concentrerà dunque sulle teorie esposte nel Tractatus Logico-Philosophicus.

zione di un dato di fatto riguardante il funzionamento del linguaggio (di fatto comprendiamo le proposizioni, e di fatto queste hanno un senso determinato), se ne deduce una condizione di possibilità di carattere ontologico, ovvero l’esistenza di oggetti semplici. Nel Tractatus il legame in questione assume addirittura la forma di una parallelismo generale tra linguaggio e mondo, tra categorie linguistico-semantiche (nomi, proposizioni...) e categorie ontologiche (oggetti, fatti...). Anche questa è un’idea che troverà una diffusa applicazione, soprattutto tra i fautori del cosiddetto metodo del linguaggio ideale, secondo i quali l’elaborazione di un linguaggio artificiale dotato di caratteristiche sintattiche ben definite costituisce per l’ontologia un mezzo di indagine di straordinaria potenza96. Infine si può osservare come il fatto che Wittgenstein attribuisca la verità e la falsità alle proposizioni, anziché – come accade nella teoria del giudizio come relazione multipla di Russell – ai giudizi, gli permetta di sviluppare una filosofia del linguaggio e una connessa ontologia quasi del tutto svincolate da questioni di carattere epistemologico o addirittura psicologico, contrariamente a quanto avviene nella riflessione di Russell. A tale proposito, dato che per il Wittgenstein del Tractatus le entità mentali (immagini, rappresentazioni e così via) eventualmente associate alle espressioni linguistiche non sono i significati delle espressioni, e la comprensione delle espressioni linguistiche (intesa come processo mentale) non è rilevante per la determinazione dei loro significati97, egli apparterrebbe pienamente, a differenza di Russell, al quadro della “svolta linguistica”.

3.2.14. La teoria raffigurativa del linguaggio Uno dei punti di partenza della riflessione di Wittgenstein è la questione della natura e del funzionamento del linguaggio, e più in particolare della proposizione, che ne costituisce in un certo senso l’unità minima. Wittgenstein osserva una profonda differenza tra i nomi e le proposizioni. I primi stanno per qualcosa, cioè per ciò a cui essi si riferiscono; non è possibile che un nome non stia per nulla, perché in tal caso non si tratterebbe di un nome, ma di un mero suono. Le propo96 97

Cfr. supra 2.6. Cfr. Marconi 1995: § 4.

sizioni, invece, possono asserire qualcosa di vero o qualcosa di falso; perciò il rapporto tra le proposizioni stesse e ciò che asseriscono non può essere semplice come quello tra i nomi e ciò a cui essi si riferiscono. Mentre un nome a cui non corrisponda nulla non è un nome, una proposizione falsa (a cui dunque in un certo senso non corrisponde nulla) è sempre una proposizione. La duplicità di direzione – per così dire – che una proposizione può assumere rispetto a ciò che asserisce è indicata da Wittgenstein con il termine di bipolarità. Un’utile metafora per comprendere la differenza tra nomi e proposizioni è quella secondo cui i primi sono come punti, le seconde come frecce (che hanno una direzione). Questa dicotomia tra espressioni linguistiche trova secondo Wittgenstein una corrispondenza a livello ontologico. Come i nomi stanno per oggetti, così le proposizioni rappresentano o raffigurano stati di cose98 o fatti (torneremo più avanti su quest’ultima distinzione). A partire da queste osservazioni viene sviluppata nel Tractatus la cosiddetta “teoria raffigurativa del linguaggio”. Secondo questa teoria le proposizioni funzionano come immagini (anzi, sono un tipo particolare di immagini). Scegliamo un esempio proposto dallo stesso Wittgenstein. In un tribunale viene ricreata su un plastico la scena di un incidente stradale; alcuni modellini, che stanno per automobili reali, sono collocati in determinate posizioni l’uno rispetto all’altro. L’intera scena del plastico costituisce un’immagine, e raffigura l’incidente reale. All’interno dell’immagine si possono individuare alcuni elementi (i modellini), che naturalmente sono diversi da ciò per cui stanno (le automobili reali). Possiamo chiamare questo aspetto della situazione raffigurativa – gli elementi dell’immagine e ciò per cui essi stanno – la materia della raffigurazione (non si tratta però di un termine wittgensteiniano). Ma nella situazione raffigurativa c’è anche qualcosa che, contrariamente a quanto accade per la materia, è condiviso dall’immagine e dal fatto raffigurato, ed è ciò che Wittgenstein chiama forma della raffigurazione. Nel caso in questione la forma della raffigurazione comprende certe relazioni spaziali tra un modellino e l’altro e tra un’automobile reale e un’altra. Almeno alcuni aspetti di queste relazioni spaziali sono identici nell’immagine e nel fatto raffigurato (presumibilmente non gli aspetti metrici, dal 98

Per la nozione di “stato di cose” nella tradizione fi losofica austriaca, cfr. supra 2.1.

momento che il plastico sarà in scala, ma per esempio gli angoli a cui modellini, e automobili, sono collocati gli uni rispetto agli altri). Per comprendere l’immagine, cioè per sapere quale sia la situazione che essa raffigura, abbiamo bisogno di sapere per che cosa stanno gli elementi dell’immagine; per quanto riguarda la materia della raffigurazione abbiamo cioè bisogno di sapere quale sia la relazione proiettiva che stabilisce la corrispondenza tra ciascun elemento dell’immagine e ciò per cui esso sta. Non così per la forma della raffigurazione, che è letteralmente la stessa nell’immagine e nella situazione raffigurata: se un modellino è collocato a un angolo di 30 gradi rispetto a un altro, ciò indica che le automobili corrispondenti sono collocate l’una rispetto all’altra secondo lo stesso angolo. Naturalmente la forma della raffigurazione può variare da un’immagine all’altra, e ciò che in un’immagine è forma in un’altra può essere materia. In una rappresentazione tridimensionale di un oggetto fisico, come per esempio una statua, la forma della raffigurazione è più ricca che in una rappresentazione bidimensionale, come una fotografia; e in una fotografia a colori è più ricca che in una fotografia in bianco e nero, perché quest’ultima condivide un minor numero di aspetti con ciò che raffigura. Ci possono essere immagini molto astratte, in cui cioè la forma della raffigurazione è assai povera. Un esempio di Wittgenstein è quello della notazione musicale in quanto immagine della musica (intesa come sequenza di suoni). Il fatto che la nota A sia a destra della nota B sul pentagramma indica che il suono per cui la nota A sta viene dopo (temporalmente) il suono per cui la nota B sta. E la relazione di successione temporale ha certamente delle proprietà formali comuni con la relazione sinistra-destra. Questi aspetti comuni costituiscono anche in questo caso la forma della raffigurazione. Le proposizioni sono secondo Wittgenstein le immagini più astratte possibili, ovvero quelle in cui la forma della raffigurazione è più povera. E per Wittgenstein la più povera tra le forme di raffigurazione è la cosiddetta forma logica. Non è facile comprendere che cosa sia esattamente la forma logica, perché nel Tractatus non ne viene fornita alcuna caratterizzazione diretta. È però possibile farsene un’idea partendo dalla considerazione che la forma logica è quella che nessuna immagine può fare a meno di condividere con ciò che raffigura. Ora, dal punto di vista della loro struttura ontologica, tutte le immagini – comprese le proposizioni – sono fatti, nel senso che sono costituite dal combinarsi di elementi, che nel caso delle proposizioni vengono

chiamati nomi. Ciò che dunque tutte le immagini hanno in comune con i fatti che esse raffigurano consiste nell’essere anch’esse fatti. In questa prospettiva la forma logica si riduce alla struttura ontologica comune a tutti i fatti, che consistono nel combinarsi (o eventualmente nel non combinarsi) di oggetti.

3.2.15. Linguaggio e realtà L’articolazione ontologica della realtà corrisponde perciò a quella riscontrabile a livello delle espressioni linguistiche. Come tra queste si distinguono proposizioni e nomi, in ontologia si distinguono fatti (e stati di cose) e oggetti. Le proposizioni possono raffigurare fatti proprio perché sono anch’esse fatti (possiedono la medesima forma logica di ciò che raffigurano). Analogamente i nomi, che sono funzionalmente semplici, in quanto si limitano a stare per qualcosa, stanno per oggetti, anch’essi semplici. Come gli oggetti si combinano a formare fatti, così i nomi si combinano a formare proposizioni (che infatti sono concepite da Wittgenstein come concatenazioni di nomi). Questa concezione permette di rendere agevolmente conto anche dei concetti di verità e falsità. Quando gli oggetti per cui i nomi di una proposizione stanno sono combinati così come sono combinati i nomi nella proposizione, allora la proposizione è vera; quando gli stessi oggetti non sono combinati (in quel modo), allora la proposizione è falsa. A questo punto Wittgenstein introduce però una complicazione. In un certo senso, ciò che è raffigurato (o rappresentato) da una proposizione non sembra variare a seconda che la proposizione sia vera o falsa. Infatti noi comprendiamo una proposizione, e perciò in qualche modo conosciamo ciò che essa rappresenta, anche senza sapere se la proposizione stessa sia vera o falsa: come afferma Wittgenstein, “Ciò che conosciamo quando comprendiamo una proposizione è questo: noi conosciamo che accade se essa è vera, e che accade se essa è falsa”99. Ma quando una proposizione è falsa, ciò che essa rappresenta in un certo senso non sussiste. Prendiamo come esempio la proposizione “Il gatto è sul tappeto”. Se la proposizione è vera, raffigura evidentemente il fatto che il gatto è sul tappeto; ma se è falsa, allora il gatto non è sul 99

Wittgenstein 1913: 98 (tr. it. 19983: 245-46); cfr. anche Wittgenstein 1921: 4.024.

tappeto, e quindi tale fatto non c’è, lasciandoci così privi dell’oggetto della raffigurazione. Per risolvere queste difficoltà Wittgenstein introduce la distinzione tra fatti e stati di cose. Gli stati di cose sono possibili combinazioni di oggetti (per esempio che il gatto sia sul tappeto); un fatto viene invece definito come il sussistere o il non sussistere di uno stato di cose, ovvero il combinarsi o il non combinarsi degli oggetti (nel primo caso si parla di un fatto positivo, nel secondo di un fatto negativo). In questo modo possiamo dire che una proposizione, vera o falsa che sia, rappresenta sempre lo stesso stato di cose, e che è vera nel caso che questo sussista (che si dia cioè un fatto positivo), falsa nel caso che questo non sussista (che si dia cioè un fatto negativo). L’ontologia di Wittgenstein prevede dunque tre categorie di entità: i fatti (che sono il sussistere o il non sussistere di stati di cose), gli stati di cose (che sono possibili combinazioni di oggetti) e gli oggetti. È opportuno precisare che gli oggetti di cui si parla nel Tractatus non devono essere confusi con gli oggetti della vita quotidiana, e questo perché gli oggetti della vita quotidiana sono complessi, mentre quelli del Tractatus devono essere semplici. Wittgenstein ritiene infatti che ci debbano essere oggetti assolutamente semplici (tali cioè che non siano ulteriormente scomponibili in altri oggetti) e che essi siano ciò a cui i nomi si riferiscono. La dimostrazione dell’esistenza di oggetti assolutamente semplici costituisce uno dei pochi veri e propri argomenti del Tractatus, un’opera che procede per lo più per affermazioni apodittiche. Punto di partenza dell’argomento è l’osservazione secondo cui noi comprendiamo una proposizione quando sappiamo che cosa accade se essa è vera e che cosa accade se essa è falsa, quando cioè ne conosciamo le condizioni di verità, o – come dice anche Wittgenstein – il senso. Si consideri ora il caso di una proposizione come “L’orologio è nel cassetto”, e si supponga che “l’orologio” sia un nome che sta per un oggetto. Naturalmente diremmo che la proposizione è vera se l’orologio è effettivamente nel cassetto e che è falsa se l’orologio non è nel cassetto. Che cosa accadrebbe però se l’orologio in questione non esistesse? L’orologio è certamente un oggetto complesso, nel senso che è costituito da varie parti, connesse tra loro secondo certe modalità; se queste parti non fossero connesse tra loro secondo quelle modalità, l’orologio stesso non esisterebbe. In questo caso, applicando la teoria russelliana delle descrizioni defi nite – che Wittgenstein accetta – si dovrebbe dire che la proposizione “L’orologio è nel cassetto” è falsa, poiché l’orologio in questione non esiste. Si noti però che le

condizioni che rendono vera o falsa la proposizione si sono complicate: la proposizione è vera se le varie parti dell’orologio sono connesse in un certo modo e il complesso che ne risulta (l’orologio) si trova nel cassetto, falsa in caso contrario. Questo ragionamento può però essere applicato nuovamente alle parti dell’orologio, che presumibilmente sono anch’esse complesse, e possono essere scomposte in parti ancora più piccole. A ogni passaggio le condizioni di verità (il senso) mutano e si fanno più complesse. Wittgenstein ritiene che si debba infine raggiungere un livello in cui gli oggetti siano assolutamente semplici. In caso contrario il processo di scomposizione continuerebbe all’infinito, e il senso della proposizione non potrebbe mai essere fissato in modo definitivo. Ciò equivale a dire che non saremmo in grado di comprendere la proposizione; ma poiché di fatto comprendiamo le proposizioni, allora esistono oggetti assolutamente semplici. I nomi del Tractatus stanno appunto per oggetti semplici. Contrariamente all’esistenza degli oggetti complessi, che dipende dal combinarsi di oggetti più semplici, l’esistenza degli oggetti assolutamente semplici è, per così dire, assicurata, tanto che Wittgenstein definisce tali oggetti come la “sostanza del mondo”, alludendo alla loro immutabilità. È proprio perché si riferiscono a oggetti semplici, la cui esistenza è assicurata, che i nomi – come si è visto – stanno sempre per qualcosa. Le proposizioni, invece, che raffigurano stati di cose o fatti, possono essere vere o false, in quanto gli stati di cose possono sussistere o non sussistere, e i fatti essere positivi o negativi. Una conseguenza di questa concezione è che le proposizioni di cui si parla nel Tractatus non possono essere analoghe a quelle della vita di tutti i giorni, poiché queste ultime non sono concatenazioni di nomi che stanno per oggetti semplici. Dunque le espressioni “il gatto” o “l’orologio” non sono in realtà veri e propri nomi, in quanto non stanno per veri e propri oggetti (semplici). È però possibile, almeno in linea di principio, procedere a un’analisi come quella a cui si è accennato per il caso dell’orologio, scomponendo la proposizione di partenza in altre proposizioni più semplici, finché si giunga a quelle che Wittgenstein chiama proposizioni completamente analizzate, in cui cioè compaiono solo nomi che stanno per oggetti semplici.

3.2.16. Gli oggetti semplici Si presenta a questo punto un interrogativo sulla natura degli oggetti (semplici) del Tractatus. Se essi non hanno nulla a che vedere con gli oggetti ordinari, è legittimo domandarsi che genere di entità siano. Il Tractatus non fornisce però risposte chiare e univoche; gli scarsi esempi di Wittgenstein ricorrono spesso a oggetti ordinari, considerati come se fossero oggetti semplici. Secondo alcuni interpreti gli oggetti devono essere concepiti come dati sensoriali epistemologicamente semplici; in questo caso la concezione wittgensteiniana dei nomi sarebbe molto simile a quella russelliana dei nomi logicamente propri. Altri ritengono che gli oggetti siano piuttosto da concepire come punti materiali. Altri ancora hanno proposto un’interpretazione funzionale, secondo la quale le entità che si devono considerare come oggetti non sono fissate una volta per tutte, ma dipendono dal linguaggio che viene utilizzato, così che ciò che in un caso è un oggetto, in un altro può non esserlo. È dubbio però che questa interpretazione sia compatibile con la dimostrazione da parte di Wittgenstein dell’esistenza di oggetti assolutamente semplici. Un’altra domanda intorno alla natura degli oggetti che è spesso stata sollevata è se gli oggetti siano solo particolari, oppure comprendano anche degli universali. Sembra molto difficile trovare nel Tractatus affermazioni sufficienti a confermare in modo definitivo l’una interpretazione piuttosto che l’altra, e forse Wittgenstein rifugge deliberatamente dal prendere posizione rispetto a tali questioni, preferendo mantenere la trattazione a un livello di astrazione estremamente elevato. Forse il massimo che si può ricavare dal Tractatus è un criterio per la semplicità degli oggetti: secondo questa impostazione verrebbero considerati oggetti quelle entità che soddisfano determinate condizioni, indipendentemente dal fatto che siamo o non siamo in grado di fornire esempi di tali entità. Per Wittgenstein, infatti, sono oggetti (semplici) le entità che costituiscono i riferimenti dei nomi veri e propri, e questi compaiono solo nelle proposizioni elementari. Per comprendere tale criterio è dunque necessario chiarire che cosa siano le proposizioni elementari. Abbiamo visto precedentemente come gli oggetti ordinari (gatti, orologi ecc.) non siano veri e propri oggetti nel senso del Tractatus, ma piuttosto combinazioni di oggetti (cioè fatti). Analogamente, espressioni come “il gatto” e “l’orologio” non sono veri e propri nomi nel senso del Tractatus. Le proposizioni in cui compaiono espressioni come “il gatto”

o “l’orologio” sono tuttavia vere e proprie proposizioni, per quanto non siano proposizioni completamente analizzate. Per comprendere meglio come funzioni il processo di analisi, consideriamo l’esempio (1) Il coltello è grigio Assumiamo per semplicità che il grigio sia un oggetto semplice (in questo caso un universale); ma il coltello è ovviamente complesso, in quanto – se non altro – è composto da un manico e da una lama, connessi tra loro in un certo modo. Naturalmente anche il manico e la lama sono a loro volta complessi, ma per semplicità assumiamo che si tratti in questo caso di due oggetti semplici; assumiamo infine che anche la relazione (che chiameremo R) che sussiste tra manico e lama in un coltello sia un oggetto semplice (di nuovo un universale). Un’analisi completa della proposizione (1) potrebbe dunque essere: (2) Il manico è grigio, e la lama è grigia, e il manico e la lama sono connessi dalla relazione R Date le assunzioni iniziali, (2) è una proposizione completamente analizzata, in cui tutti i nomi stanno per oggetti semplici. Si tratta però di una proposizione complessa, che può essere scomposta in tre proposizioni che Wittgenstein chiama elementari: (3) Il manico è grigio (4) La lama è grigia (5) Il manico e la lama sono connessi dalla relazione R Ciò che secondo Wittgenstein contraddistingue una proposizione elementare è la sua indipendenza logica rispetto a tutte le altre proposizioni elementari, ovvero il fatto che ciascuna proposizione elementare può essere vera o falsa indipendentemente dal fatto che qualunque altra proposizione elementare sia vera o falsa. All’indipendenza logica delle proposizioni elementari corrisponde naturalmente un’indipendenza a livello ontologico: ciascuno stato di cose può sussistere o non sussistere indipendentemente dal sussistere o non sussistere di qualunque altro stato di cose. È facile verificare che le proposizioni complesse non possiedono questa proprietà: la proposizione (2), per esempio, implica logicamente la proposizione (3).

Il criterio dell’indipendenza logica delle proposizioni elementari permette quindi, almeno in linea di principio, di approntare una sorta di test per scoprire se una certa entità è un oggetto (semplice). Applicare praticamente questo test può tuttavia risultare un’impresa piuttosto difficoltosa.

3.2.17. Le funzioni di verità Tutto quanto è stato detto a proposito della teoria raffigurativa del linguaggio riguarda a rigore solo le proposizioni elementari; solo queste infatti sono concatenazioni di nomi. Ma le proposizioni elementari sono certamente molto diverse da quelle che pronunciamo nella vita di tutti i giorni, e rimane dunque da spiegare come funzionino queste ultime. La spiegazione di Wittgenstein è basata sull’idea che tutte le proposizioni siano funzioni di verità di proposizioni elementari. Ciò significa che per conoscere le condizioni di verità (il senso) di una proposizione è sufficiente conoscere le condizioni di verità delle proposizioni elementari costituenti e il modo in cui queste ultime sono connesse tra loro. La proposizione (2), per esempio, è vera nel caso in cui sussistano i tre stati di cose raffigurati dalle proposizioni elementari (3), (4) e (5), ed è falsa nel caso che anche solo uno di questi stati di cose non sussista. Rimane a questo punto da chiarire in che modo debbano essere considerate, da un punto di vista ontologico, le particelle che connettono tra loro proposizioni diverse. Nell’esempio (2) si tratta di due “e”, ma in altri casi potremmo avere “o”, “se... allora” ecc., ovvero l’intera serie dei connettivi proposizionali (anche la negazione, “non”, viene considerata un connettivo proposizionale, benché un po’ particolare, dal momento che si applica a una sola proposizione). Secondo Frege e Russell (seppure con qualche incertezza e oscillazione, soprattutto nel caso di Russell), i connettivi proposizionali hanno un ruolo semantico per certi aspetti simile a quello dei nomi: essi stanno per qualcosa. Naturalmente non possono stare per oggetti simili a quelli della vita di tutti i giorni, ma neanche agli oggetti semplici del Tractatus, che dopo tutto si suppone che in qualche modo entrino a costituire gli oggetti ordinari. In questa prospettiva si è dunque costretti a postulare l’esistenza di una categoria peculiare di oggetti, gli oggetti logici, a cui i connettivi proposizionali (ed eventualmente altri tipi di espressioni logiche) si riferirebbero. Wittgenstein si oppone

decisamente a questa concezione: secondo lui i connettivi proposizionali non stanno per nulla, e dunque non esistono oggetti logici in aggiunta a quelli non logici. I connettivi proposizionali non entrano direttamente nel processo raffigurativo, ma piuttosto ci forniscono indicazioni sul modo in cui dobbiamo calcolare i valori di verità delle proposizioni complesse a partire da quelli delle proposizioni elementari. Essi non rappresentano aspetti del mondo, ma riguardano il modo in cui il linguaggio si rapporta al mondo.

Bibliografia ragionata 1. Origini della fi losofia analitica J.A. Coffa, The Semantic Tradition from Kant to Carnap. To the Vienna Station, Cambridge, Cambridge University Press, 1991; La tradizione semantica da Kant a Carnap, tr. it. di G. Farabegoli, a c. di A. Peruzzi, Bologna, il Mulino, 1998 M. Dummett, Origins of Analytical Philosophy, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1993; Origini della filosofia analitica, tr. it. di E. Picardi, Torino, Einaudi, 2001 W.B. Tait, a c. di, Early Analytic Philosophy. Frege, Russell, Wittgenstein, Chicago - La Salle, Open Court, 1997 2. Frege 2.1 Opere generali su Frege I. Angelelli, Studies on Gottlob Frege and Traditional Philosophy, Dordrecht, Kluwer, 1967 H.D. Sluga, Frege, London, Routledge & Kegan Paul, 1980 M. Dummett, Frege. Philosophy of Language, London, Duckworth, 19812; Filosofia del linguaggio. Saggio su Frege, tr. it. parz. di C. Penco e S. Magistretti, a c. di C. Penco, Casale Monferrato, Marietti, 1983 G.P. Baker - P.M.S Hacker, Frege. Logical Excavations, Oxford, Oxford University Press, 1984 A. Kenny, Frege, London, Penguin, 1995; Frege. Un’introduzione, tr. it. di M. Mazzone, Torino, Einaudi, 2003

2.2 Raccolte di saggi su Frege E.D. Klemke, a c. di, Essays on Frege, Champagne, University of Illinois Press, 1968 A. Newen, U. Nortmann, R. Stuhlmann-Laeisz, a c. di, Building on Frege. New Essays on Sense, Content, and Concept, Stanford, CSLI, 2001 N. Vassallo, a c. di, La filosofia di Frege, Milano, Angeli, 2003 2.3 Sull’ontologia di Frege E.W. Kluge, The Metaphysics of Gottlob Frege. An Essay in Ontological Reconstruction, Den Haag, Nijhoff, 1980 2.4 Su funzioni, concetti e oggetti E. Picardi, La chimica dei concetti, in E. Picardi, La chimica dei concetti. Linguaggio, logica, psicologia 1879-1927, Bologna, il Mulino, 1994: 181-210 2.5 Su senso e riferimento W. Carl, Frege’s Theory of Sense and Reference. Its Origins and Scope, Cambridge, Cambridge University Press, 1994 E. Picardi, Senso e significato, in E. Picardi, La chimica dei concetti. Linguaggio, logica, psicologia 1879-1927, Bologna, il Mulino, 1994: 108-180 E. Napoli, Names, Indexicals, and Identity Statements, in W. Künne, A. Newen, M. Anduschus, a c. di, Direct Reference, Indexicality, and Propositional Attitudes, Stanford, CSLI, 1997: 185-211 2.6 Sul terzo regno R. Stuhlmann-Laeisz, Gottlob Frege’s “Logische Untersuchungen”. Darstellung und Interpretation, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1995 3. Russell 3.1 Opere generali su Russell D. Pears, Bertrand Russell and the British Tradition in Philosophy, London, Fontana, 1967 A.J. Ayer, Russell and Moore: The Analytical Heritage, London, Macmillan, 1971 M. Di Francesco, Introduzione a Russell, Roma - Bari, Laterza, 1990

P. Hylton, Russell, Idealism, and the Emergence of Analytic Philosophy, Oxford, Oxford University Press, 1990 3.2 Raccolte di saggi su Russell A.D. Irvine - A.G. Wedeking, a c. di, Russell and the Analytic Philosophy, Toronto, University of Toronto Press, 1993 R. Monk - A. Palmer, a c. di, Bertrand Russell and the Origins of Analytical Philosophy, Bristol, Thoemmes, 1996 N. Griffin, a c. di, The Cambridge Companion to Bertrand Russell, Cambridge, Cambridge University Press, 2003 3.3 Sui Principi della matematica M. Di Francesco, Il realismo analitico. Logica, ontologia e significato nel primo Russell, Milano, Guerini, 1991 3.4 Su Sulla denotazione P. Hylton, The Significance of “On Denoting”, in C.W. Savage - C.A. Anderson, a c. di, Rereading Russell: Essays in Bertrand Russell’s Metaphysics and Epistemology, “Minnesota Studies in the Philosophy of Science”, 13, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1989: 88-107 3.5 Su proposizioni e funzioni proposizionali B. Linsky, Russell’s Metaphysical Logic, Stanford, CSLI, 1999 3.6 Sulla teoria del giudizio come relazione multipla N. Griffin, Russell’s Multiple Relation Theory of Judgment, “Philosophical Studies”, 47 (1985): 213-247 N. Griffin, Wittgenstein’s Criticism of Russell’s Theory of Judgment, “Russell”, n.s., 5 (1986): 132-145 G. Bonino, The Arrow and the Point. Russell and Wittgenstein’s “Tractatus”, Frankfurt a.M., Ontos, 2008 4. Wittgenstein 4.1 Introduzioni alla fi losofia di Wittgenstein A. Kenny, Wittgenstein, London, Penguin, 1973; Wittgenstein, tr. it. di E. Moriconi, Torino, Boringhieri, 1984

D. Marconi, a c. di, Wittgenstein, Roma - Bari, Laterza, 1997 4.2 Dizionari wittgensteiniani H.-J. Glock, A Wittgenstein Dictionary, Oxford, Blackwell, 1996 4.3 Introduzioni al Tractatus P. Frascolla, Tractatus logico-philosophicus. Introduzione alla lettura, Roma, Carocci, 2000 4.4 Commentari al Tractatus M. Black, A Companion to Wittgenstein’s “Tractatus”, Cambridge, Cambridge University Press, 1964; Manuale per il “Tractatus” di Wittgenstein, tr. it. di R. Simone, Roma, Ubaldini, 1967 S. Soleri, Note al “Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein, Napoli, Bibliopolis, 2003 4.5 Sugli oggetti nel Tractatus D. Marconi, Gli oggetti nel Tractatus, in D. Marconi, L’eredità di Wittgenstein, Roma - Bari, Laterza, 1987 D. Pears, The Logical Independence of Elementary Propositions, in I. Block, a c. di, Perspectives on the Philosophy of Wittgenstein, Oxford, Blackwell, 1981: 74-84 5. Confronti tra gli autori trattati J. Levine, The What and the That: Theories of Singular Thought in Bradley, Russell, and the Early Wittgenstein, in G. Stock, a c. di, Appearance vs. Reality. New Essays on Bradley’s Metaphysics, Oxford, Oxford University Press, 1998: 19-72 G. Makin, The Metaphysicians of Meaning. Russell and Frege on Sense and Denotation, London, Routledge, 2000

3.3. SUPERAMENTO di Alessandro Gatti

3.3.1. Scienza vs. Metafisica Sul fi nire dell’Ottocento, Nietzsche accusava la metafisica di moralismo100. In un altro ambiente, e a due generazioni di distanza, tra gli intellettuali che animarono le discussioni del Circolo di Vienna101, era invece diffusa una forte insoddisfazione per l’assenza di 100 101

Cfr. supra 1.5. Nel 1922, la cattedra di fi losofia delle scienze induttive presso l’Università di Vienna, che era già stata di Ernst Mach (1838-1916) e di Ludwig Boltzmann (1844-1906), fu assegnata al berlinese Moritz Schlick (1882-1936). La formazione di Schlick era scientifica (si era laureato in fisica sotto la guida di Max Planck), ma egli aveva ben presto rivolto la propria attenzione a questioni epistemologiche, dedicandosi in particolare a un’analisi della teoria della relatività di Einstein, che ne metteva in luce il significato fi losofico attraverso una articolata critica alla concezione kantiana dello spazio e del tempo. Al suo arrivo nella capitale austriaca Schlick trovò un gruppo di fi losofi, scienziati e matematici già attivo (fin dal 1907) e impegnato a discutere con regolarità su questioni di fi losofia della scienza. Tra i membri di questo primo nucleo figuravano il fisico Philipp Frank (1884-1966), il matematico Hans Hahn (1879-1934) e il sociologo ed economista Otto Neurath (1882-1945). A partire dal 1924, questo gruppo si raccolse e crebbe nell’ambito del seminario organizzato da Schlick, dove prese forma il cosiddetto Circolo di Vienna. Tra gli altri membri del Circolo figuravano Friedrich Waismann (1896-1959), Herbert Feigl (1902-1988) e Victor Kraft (1880-1975). Nel 1926, Schlick chiamò a Vienna Rudolf Carnap (1891-1970), in qualità di suo assistente. A partire dal 1930, Carnap fu condirettore insieme a Hans Reichenbach (1891-1953), che a Berlino era alla guida di un gruppo analogo a quello viennese, della rivista Erkenntnis, che divenne l’organo di stampa ufficiale dell’indirizzo di pensiero noto sotto il nome di “empirismo logico” (etichette alternative che è possibile incontrare sono “positivismo logico”, “neopositivismo” e “neoempirismo”). Durante tutto questo periodo, Carnap si segnala per i costanti sforzi di sin-

progressi che si doveva registrare nelle dispute fi losofiche tradizionali, ossia, nella loro prospettiva, “metafisiche” (realismo/idealismo, determinismo/libero arbitrio ecc.) ormai gravate di una storia secolare e infruttuosa. L’impressione era che, lungi dall’essere in vista di soluzioni, non si fosse neppure in chiaro sull’impostazione corretta da dare a simili discussioni, che, di conseguenza, si perpetuavano grazie a una sistematica incomprensione tra i partecipanti. La situazione nella quale versava la fi losofia sembrava inoltre essere in vistoso contrasto con quella della scienza. Come si poteva spiegare una disparità tanto evidente? Doveva sembrare chiaro che le “sensate esperienze” e le “certe dimostrazioni” (ossia il ricorso sistematico all’osservazione sperimentale e l’applicazione dei metodi rigorosi della geometria e della matematica nella formulazione delle teorie) che già Galilei aveva indicato come fondamenti del metodo della scienza erano gli ‘ingredienti’ la cui mancanza aveva determinato lo stato di stagnazione che si osservava nel dominio della metafisica. Ma i filosofi e gli scienziati del circolo di Vienna non si accontentarono di una intuizione così vaga, e anzi si può affermare che molta parte della loro attività, specie agli inizi, fu finalizzata a trovare una risposta precisa e soddisfacente al quesito: “Come si può discriminare la scienza dalla metafisica?”. All’interno del gruppo, c’era anche chi, come l’economista e sociologo di orientamento marxista Otto Neurath, tendeva a spiegare questa situazione in termini socio-economici: le fi losofie speculative e metafisiche circolanti nei paesi di lingua tedesca erano un residuo sovrastrutturale riconducibile a una struttura economica e sociale appartenente al passato. La lotta contro la metafisica e la promozione della scienza come forma di sapere adeguato alle condizioni materiali dell’epoca industriale erano dunque essenzialmente compiti da intraprendersi in vista del progresso sociale e politico. Ma la posizione di Neurath era minoritaria all’interno del Circolo, i più condividevano l’idea di Schlick secondo la quale la fi losofia doveva dare un contributo propriamente teorico, che consisteva nel determinare con precisione che cosa fosse la metafisica e nel portare tesi e di elaborazione tecnico-formale delle tesi fondamentali dell’empirismo logico. Nel 1936, stesso anno in cui Moritz Schlick venne assassinato da uno studente, Carnap lasciò la Germania nazista per gli Stati Uniti, dove la sua intensa attività fi losofica proseguì per oltre un trentennio.

prove sufficienti a legittimare una defi nitiva sentenza di condanna nei suoi confronti. Un passaggio decisivo in questo percorso di ricerca fu rappresentato dall’incontro con l’opera (e successivamente con l’insegnamento diretto) di Ludwig Wittgenstein. Come si è visto102, il Tractatus LogicoPhilosophicus contiene, tra le altre cose, una teoria della proposizione, che viene abitualmente detta “raffigurativa”. Secondo questa teoria, una proposizione (ossia l’espressione, percepibile mediante i sensi, di un pensiero) è l’immagine di uno stato di cose. Se lo stato di cose di cui la proposizione è immagine sussiste (è un fatto), allora la proposizione è vera, in caso contrario è falsa. Per Wittgenstein una proposizione è sensata, dice qualcosa sul mondo, solo se la sua negazione può essere vera. Questo equivale a dire che le proposizioni sono sensate solo in quanto sono immagini di fatti, ossia “modi in cui il mondo è” del tutto contingentemente. Un’importante conseguenza di questa teoria è che le proposizioni della logica, che Wittgenstein chiamava tautologie, avendo la caratteristica di essere sempre vere, sono insensate. Esse semplicemente mostrano le proprietà del simbolismo. Questo parve a Schlick e agli altri membri del Circolo di Vienna un modo molto efficace di dare conto della differenza tra verità fattuali (che dipendono da come il mondo è fatto) e verità formali (che dipendono solo da come funziona il linguaggio). Sempre nel Tractatus di Wittgenstein si legge che “comprendere una proposizione vuol dire sapere che cosa accade se essa è vera”103. Quando, a partire dal 1927, alcuni membri del Circolo (Schlick e Waismann più a lungo e con maggiore assiduità) poterono incontrare di persona l’autore del Tractatus, appresero il modo in cui, in quel periodo, Wittgenstein era incline a interpretare quel punto. L’interpretazione in questione suggeriva che il significato di una proposizione è il metodo della sua verificazione. Quest’ultima frase posta in corsivo è nota sotto il nome di “principio di verificazione”, e a questo principio i fi losofi del Circolo di Vienna, in primis Schlick, attribuirono un’importanza capitale. Non è difficile capire il perché. Un “metodo di verificazione” è un atto, mediante il quale al linguaggio è garantita una connessione con il mondo, per il tramite dell’esperienza. Conoscere il significato di una proposizione vuole dire che si sa, almeno in 102 103

Cfr. supra 3.2.14. Wittgenstein 1921: § 4.024.

linea di principio104, indicare quali esperienze percettive dovrebbero aver luogo per poter accertare la verità o falsità della proposizione stessa. Dal punto di vista del progetto antimetafisico, ciò che ha più importanza non è il principio stesso, ma una sua diretta conseguenza: il criterio di verificabilità. Si tratta di un criterio di significanza delle proposizioni che ci dice appunto che una proposizione è dotata di significato se e solo se è verificabile. Se per una data proposizione non disponiamo di un metodo di verificazione, siamo autorizzati a decretarla priva di significato. Il criterio di verificabilità si presentò dunque come lo strumento adatto a compiere in modo rigoroso e pienamente soddisfacente una discriminazione tra scienza e metafisica, cosa che rappresentava uno dei principali desiderata teorici di molti componenti del Circolo. Le proposizioni della scienza, si diceva, soddisfano il criterio di verificabilità: mediante l’osservazione sperimentale siamo in grado di stabilire se siano vere o false, e questa caratteristica contribuisce a spiegare i suoi costanti progressi. Sul versante della metafisica troviamo invece proposizioni sull’Essere, l’Assoluto, Dio e così via, che non soddisfano il criterio di verificabilità, dunque non sono né vere né false, ma semplicemente prive di significato. A ben guardare il loro status è meglio catturato dal parlare di pseudoproposizioni, esse infatti non sono immagini di alcun fatto nel mondo. Tuttavia questa soluzione pone, fi n da una prima analisi, dei seri problemi. Si dà infatti il caso che proprio quelle proposizioni cui noi guardiamo come l’espressione tipica della conoscenza scientifica, le leggi scientifiche, siano proposizioni di carattere generale e pertanto non verificabili da un numero fi nito di osservazioni. Per evitare l’inaccettabile conseguenza che, al pari delle proposizioni metafisiche, le leggi scientifiche siano prive di significato, Moritz Schlick proporrà di considerare queste ultime anziché come proposizioni, 104

La formula non è ornamentale: essa serve ad evitare alcune ovvie difficoltà del principio di verificazione. Si pensi alla proposizione “A Torino alle ore ventidue del 16 maggio 1765 nessuno zufolava”. È evidente che di fatto non abbiamo alcun modo di accertare se la proposizione sia vera oppure falsa, eppure ci sembra avere senza dubbio un significato. La risposta del verificazionista è che in effetti essa ha significato, in quanto, in linea di principio, sapremmo come fare per accertarne la verità (o falsità). Per una descrizione degli altri, insormontabili, problemi del principio di verificazione si vedano Hanfling 1981: cap. 2 e Misak 1995.

come istruzioni per produrre proposizioni empiriche verificabili. Ma si trattò solamente dell’inizio di una lunga storia di riformulazioni, reinterpretazioni e indebolimenti cui il criterio di verificabilità andò incontro, anche in vista della sua utilizzabilità a fini antimetafisici. È una storia complessa da ricostruire, e in ogni caso non ha un lieto fine: nessuna teoria antimetafisica stabile fu costruita sulla base del criterio di verificabilità. Del resto, l’intensa dialettica interna al Circolo di Vienna e la permanente disponibilità ad affidarsi a nuovi strumenti teorici non esercitarono la propria azione corrosiva unicamente sul principio di verificabilità. Con gli anni Trenta, la spinta antifondazionalista esercitata da Otto Neurath105 e la scoperta da parte di Carnap delle possibilità aperte dalla metalogica condussero a un significativo allontanamento dalle tesi originarie del Circolo.

3.3.2. Il superamento della metafisica Nel 1932, prima che le forze cui si è accennato nella conclusione del precedente paragrafo producessero completamente i loro effetti, Rudolf Carnap fece in tempo a consegnare a uno scritto intitolato Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio alcune formulazioni che hanno in seguito goduto di una considerevole fortuna, andando in un certo senso a costituire la vulgata del pensiero antimetafisico degli empiristi logici. In queste pagine Carnap, dopo avere ribadito che le enunciazioni metafisiche non sono autentiche proposizioni passibili di essere giudicate vere o false, ma pseudoproposizioni prive di significato, introduce una suddivisione delle pseudoproposizioni metafisiche in due generi, sulla base della diversa origine della mancanza di significato che le contraddistingue. Un linguaggio si compone infatti di un voca105

Mi riferisco con questa espressione alle accese critiche di Neurath (1) contro l’idea (cara a Schlick e a Waismann, per esempio) che nell’esperienza si abbia qualcosa come un “contatto diretto” con la realtà, che si manifesterebbe anche nello status di certezza di cui godono gli enunciati (detti anche protocollari) che descrivono esperienze immediate, e (2) contro l’interpretazione della verificazione come confronto tra enunciato e realtà: una nozione assoluta di “realtà” è palesemente in odore di metafisica, gli enunciati si possono confrontare solo con altri enunciati. Sulla questione si veda Coffa 1991 (tr. it. 1998: 578-589).

bolario e di una sintassi, ed entrambe queste parti possono, per così dire, ‘rendersi responsabili’ della formazione di sequenze di parole che, nonostante abbiano l’aspetto di proposizioni, un’adeguata analisi riconosce invece come prive di significato. Nel caso delle pseudoproposizioni di origine lessicale è piuttosto facile comprendere la diagnosi: talvolta è una singola parola (“Dio”, “Assoluto”, “Infinito”, ad esempio) all’interno di una sequenza a essere metafisica, a non avere significato e a determinare, di conseguenza, l’insensatezza dell’intera espressione. Che una parola “ha significato” vuol dire semplicemente che è stato specificato il suo criterio di applicazione. Una volta che si sia introdotta la nozione di proposizione elementare di una parola, dicendo che si tratta della più semplice forma proposizionale in cui essa può comparire (nel caso di “gatto” la proposizione elementare sarebbe qualcosa come “Questo animale è un gatto”), secondo Carnap ci sono diversi modi equivalenti di spiegare in che cosa consiste il criterio di applicazione di una parola “x”: 1) si sa da quali proposizioni protocollari106 sia deducibile la proposizione elementare di “x”, 2) le condizioni di verità della proposizione elementare di “x” sono fissate, 3) il metodo per la verificazione della proposizione elementare di “x” è noto, 4) sono note le caratteristiche empiriche che ci consentono di distinguere un x da un non-x. In base a questa definizione molti termini metafisici (di nuovo: “Dio”, “Assoluto”, “Infinito” ecc.) non soddisfano i requisiti richiesti e sono pertanto privi di significato. Secondo Carnap è inoltre plausibile pensare che l’uso metafisico di certi termini si sovrapponga a loro precedenti usi non metafisici o, in alcuni casi, li soppianti. Un esempio è rappresentato da una parola come “principium”, che, strappata al suo uso legittimo nel quale significa qualcosa che è primo nel tempo, viene usata per indicare qualcosa di primo e originario in un presunto senso specificamente metafisico. Per quanto riguarda poi le pseudoproposizioni metafisiche di origine sintattica, sono da imputarsi a una specifica carenza del linguaggio naturale, ossia alla insufficiente restrittività delle normali regole della sintassi (quelle che si imparano quando si apprende una lingua naturale). Le regole della sintassi dell’italiano, ad esempio, sono in 106

Si dice “protocollare” un enunciato con il quale si registra una specifica osservazione empirica.

grado di prevenire la formazione di enunciati privi di significato come “Giulio Cesare è e”, ma non di altri come “Giulio Cesare è un numero”. Volendo caratterizzare con maggiore precisione il problema si può dire che esso consiste nella mancanza di certe distinzioni a livello delle categorie sintattiche (“condottiero” e “numero” non dovrebbero appartenere alla stessa categoria). Tale discrepanza tra sintassi grammaticale e sintassi logica, inoltre, fa sì che la costruzione di quest’ultima si configuri come un compito filosofico positivo. Nello scritto del 1932 trova inoltre espressione un più che legittimo interrogativo, che può essere così formulato: “Come è possibile che tanti filosofi, alcuni dei quali di considerevole ingegno, si siano dedicati a qualcosa che è riducibile, in fin dei conti, a una collezione di pseudoproposizioni prive di significato?”. Nel rispondere a tale quesito, Carnap sostiene che il problema nasce da un malinteso sulla natura del contenuto che, in effetti, la metafisica possiede. Il punto cruciale è che non si tratta di un contenuto teorico: la funzione di rappresentare stati di cose, di dire qualcosa (di vero o di falso) sulla realtà è appannaggio esclusivo delle proposizioni autentiche che appartengono alla scienza; la poesia, la musica e l’arte in generale, d’altro canto, non sono vuote di contenuto, giacché danno espressione ai sentimenti degli uomini, svolgendo così, senza alcun equivoco, una funzione del tutto diversa rispetto a quella della scienza. L’equivoco sussiste invece nel caso della metafisica, che è anch’essa una forma di espressione del “sentimento della vita”, consegnata tuttavia a una forma ingannevole di discorso che pretende di avere un contenuto teorico, ossia di esprimere delle peculiari verità. La metafisica è insomma il modo più infelice di esprimere il sentimento della vita e i metafisici, secondo un’affermazione carnapiana divenuta famosa, “non sono che dei musicisti senza talento musicale”107.

3.3.3. Pseudoproblemi Per varie circostanze, Carnap si confronterà lungo tutto il suo percorso filosofico con questioni relative all’ontologia108. I primi episodi 107 108

Carnap 1932 (tr. it.1969: 531, modificata). È il caso di introdurre qui un’annotazione terminologica: parole come “ontologia” e “ontologico” erano tutt’altro che in voga presso il Circolo di Vienna.

significativi da questo punto di vista109 si hanno già nella sua prima grande opera sistematica, La costruzione logica del mondo del 1928, e in uno scritto coevo, intitolato Pseudoproblemi nella filosofia110. In quest’ultimo saggio, in particolare, Carnap sostiene che i problemi ontologici, quelli che ci poniamo nel domandarci se una certa cosa esista (o se sia reale), possano divenire apparentemente insolubili soltanto quando ci si allontani dalla nozione innocua e non controversa di “realtà” che è in circolazione nell’ambito delle diverse scienze empiriche (Carnap parla appunto di “realtà empirica”). L’esempio che viene fatto per illustrare questa tesi è quello di due geografi che intraprendono una spedizione in una certa regione dell’Africa con lo scopo di accertare se una certa montagna della quale si hanno vaghe notizie esista realmente oppure sia soltanto un nome leggendario. Ebbene, finché i due geografi si attengono alla nozione empirica di realtà, nessuna controversia può sorgere: è ovvio per entrambi quali siano i fatti sulla base dei quali stabilire se l’esito della ricerca sia stato positivo o negativo. Nell’ipotesi che la montagna in questione sia stata trovata (e che quindi la “questione di esistenza” nel senso innocente si sia risolta in senso positivo), possiamo immaginare che i due esploratori si mettano allora a parlare da filosofi e non più da geografi: l’uno, realista, dirà che non solo la montagna trovata ha certe caratteristiche geografiche ma che essa è anche reale, l’altro, idealista, affermerà che solo le nostre percezioni sono reali e non invece la montagna. Con ciò siamo proiettati eo ipso in una discussione senza uscita, il vecchio pseudoproblema metafisico della realtà del mondo esterno. Possiamo essere certi di trovarci di fronte a uno pseudoproblema perché nessuno dei proponenti delle due sottotesi opposte è in grado, neppure in linea di principio, di indicare un esperimento cruciale o qualsiasi altro metodo di verificazione empirica tale da risolvere la controversia a favore dell’una o dell’altra. Il criterio di verificabilità menzionato qualche pagina addietro ci autorizza dunque a ritenere entrambe le sottotesi dell’idealismo

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Negli scritti dell’epoca, Carnap si affida ad espressioni come “problemi di esistenza o realtà”. Soltanto molto più tardi, nel suo periodo statunitense, Carnap adotterà (con riluttanza, peraltro) questa terminologia, la cui riabilitazione in quel contesto fi losofico si dovette essenzialmente all’influenza del fi losofo statunitense Willard Van Orman Quine (1908-2000), vedi infra 3.3.5. QAnche questa ricostruzione è adombrata dallo stesso Carnap, in Carnap 1963 (tr. it. 1974: 845-851). Cfr. Carnap 1928a; 1928b.

e del realismo come pseudoproposizioni prive di significato, alle quali non è possibile attribuire legittimamente verità o falsità. È interessante notare che a distanza di vent’anni Carnap si affiderà ancora a formulazioni affi ni a quelle contenute in Pseudoproblemi nella filosofia111, ma ciò non deve oscurare i significativi arricchimenti e mutamenti che segnano la storia del pensiero di Carnap intorno all’ontologia.

3.3.4. Sintassi A partire dagli anni Trenta, tanto per cominciare, Carnap viene a contatto con i lavori metamatematici112 di David Hilbert (1862-1943), Kurt Gödel (1906-1978) e Alfred Tarski (1901-1983)113, che lo conducono progressivamente a convincersi della necessità di assumere un nuovo e diverso punto di vista nelle questioni filosofiche in generale: quello della sintassi114. L’affermazione secondo la quale i problemi fi losofici sono problemi sintattici va intesa in due sensi: da un lato la ricostruzione razionale del linguaggio della scienza, nell’ambito della quale la sintassi logica 111

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“I tradizionali problemi ontologici circa la ‘realtà’, in un presunto senso metafisico, dei numeri, delle classi, dei punti spaziotemporali, dei corpi delle menti ecc., sono pseudo-problemi senza alcun contenuto conoscitivo. C’è viceversa un senso accettabile della parola ‘reale’, quello implicito cioè nel linguaggio ordinario e scientifico”, Carnap 1947 (19562: 273). Cfr. anche Carnap 1935: 18-22. La metamatematica è la branca della logica che studia le proprietà delle teorie matematiche considerate come sistemi formali, ossia sistemi di simboli e di regole per la loro combinazione. Per un’introduzione a questi autori si vedano Borga e Palladino 1997: cap. 6, Potter 2000: capp. 9 e 10, Sher 1996 e Künne 2003: cap. 4. La scelta di Carnap, originariamente, era caduta sul termine “metalogica”. La scelta terminologica alludeva a un aspetto importante, ossia al congedo definitivo dall’idea wittgensteiniana della ineffabilità della sintassi logica del linguaggio. Per Carnap l’impasse è ora superata: la sintassi logica di un dato linguaggio può venire descritta in un appropriato metalinguaggio (per un’articolata discussione di questo punto si veda Awodey e Carus 2007). Un’ulteriore avvertenza terminologica: è bene tenere presente che ciò che Carnap chiamava “sintassi” non coincide con quello che oggi abitualmente si intende con questo termine nelle presentazioni standard della logica. Per i dettagli, si veda Ricketts 1996: 234.

di quest’ultimo possa venire esplicitata in modo compiuto e rigoroso, è il compito positivo che spetta alla fi losofia; dall’altro Carnap è ora convinto di disporre di risorse teoriche adatte a spiegare in modo più organico l’insorgenza di molti pseudoproblemi metafisici facendo ricorso a una distinzione che può essere colta una volta che si sia assunto il punto di vista sintattico: quella tra modo materiale e modo formale di parlare. Tanto nel discorso ordinario quanto in quello scientifico, ci si riferisce, perlopiù, direttamente a cose, a certe entità, alle loro proprietà e alle relazioni intercorrenti tra esse. Nel caso di quegli enunciati che Carnap chiama “oggettuali” (esempi: “Il posacenere è verde”, “9 è maggiore di 5”) questo non comporta alcun problema o confusione. Ma accanto agli enunciati oggettuali ce ne sono altri, che con i primi condividono solo una somiglianza del tutto superficiale. In alcuni casi ci imbattiamo infatti in enunciati come quelli che Carnap etichetta come “pseudo-oggettuali” e “quasi-sintattici”115 (esempi: “Il posacenere è un oggetto”, “9 è un numero”) e qui l’impressione di stare “parlando di cose” è del tutto ingannevole: il fatto che questi enunciati siano espressi in quello che Carnap chiama “modo materiale” maschera la loro effettiva natura di enunciati che si riferiscono non a oggetti ma a forme linguistiche. Ma quando si costruisce un metalinguaggio con l’esplicito scopo di descrivere la sintassi di un certo linguaggio oggetto, passando eo ipso al modo formale di parlare, diviene trasparente che gli enunciati metalinguisitici116 si riferiscono a espressioni linguistiche (esempi: “‘Posacenere’ è un termine cosale”, “‘9’ è un’espressione numerica”, ma anche “L’enunciato ‘piove e non piove’ è contraddittorio”, “Le espressioni ‘3+2’ e ‘6-1’ sono sinonime”). Tirando le somme, dunque, enunciati come “Il posacenere è un oggetto”, oppure “L’amicizia non è una proprietà ma una relazione” sembrano dire qualcosa rispettivamente del posacenere e dell’amicizia, ma, sostiene Carnap, non sono che modi fuorvianti per parlare delle parole “posacenere” e “amicizia”, nella fattispecie per indicarne la categoria sintattica di 115

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Come ebbe opportunamente a sottolineare Wilfrid Sellars, già la scelta terminologica “[...] dava espressione alla sua [di Carnap] convinzione filosofica che questo parallelismo di categorie quasi-sintattiche (ontologiche) e sintattiche rinforzava e illuminava la convinzione del Circolo di Vienna che i problemi tradizionali dell’ontologia fossero pseudo-problemi” (Sellars 1963; tr. it.: 428). Nel cui novero si troveranno anche tutte le appropriate riformulazioni metalinguistico-sintattiche degli enunciati pseudo-oggettuali di un dato linguaggio.

appartenenza117. Il modo materiale di parlare in questi casi può dar luogo a pseudoquestioni sulla “natura degli oggetti” o su “universali” quali le proprietà e le relazioni, e la traduzione nel modo formale è per Carnap un metodo affidabile per dissolvere simili illusioni di profondità metafisica. Un altro importante aspetto che Carnap sottolinea nel contesto di questa discussione è il seguente: quando parliamo nel modo materiale usiamo i termini in modo assoluto, come se non appartenessero ad alcun linguaggio particolare, e questo può essere fonte di confusioni; nel modo formale invece noi parliamo sempre di un’espressione in quanto parte di questo o quel sistema linguistico. Si considerino, ad esempio, le seguenti formulazioni118: (1) I numeri sono classi di classi di individui (2) I numeri sono individui di un tipo speciale primitivo Qui ci troviamo chiaramente nel contesto di una discussione sui “fondamenti della matematica”. Questi modi di esprimersi sembrano portare dritti verso una inconcludente disputa su che cosa i numeri siano. Si presti attenzione ora alle traduzioni nel modo formale di (1) e di (2), ossia, rispettivamente: (3) I termini numerici sono espressioni che denotano classi di classi (4) I termini numerici sono espressioni primitive119 Nel caso delle traduzioni formali (3) e (4) è chiaro che stiamo parlando di due sistemi linguistici distinti e, soprattutto, costruiti diversamente, nei quali le espressioni numeriche assumono proprietà sintattiche differenti. Poiché di fatto il linguaggio dell’aritmetica può essere costruito in entrambi questi modi, la presunta questione teorica relativa alla verità o falsità di certe tesi sulla natura dei numeri si dissolve, lasciando il posto alla questione pratica su quale tra due forme di linguaggio disponibili sia più appropriata per certi scopi. 117

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Le traduzioni nel modo formale dei due enunciati sarebbero infatti qualcosa come “La parola ‘posacenere’ è un termine di oggetto” e “La parola ‘amicizia’ non è un termine di proprietà ma un termine di relazione”. Carnap 1934 (tr. ing. 1937: 300). Ossia non definite in termini di altre espressioni del linguaggio.

3.3.5. Semantica Nello scritto più importante dedicato da Carnap a questioni di ontologia, l’articolo del 1950 intitolato Empirismo, semantica e ontologia, non è difficile scorgere una continuità di fondo con le posizioni raggiunte dal suo autore nel suo “periodo sintattico”. Il progetto che viene perseguito è sempre quello di una rigorosa neutralità ontologica e metafisica: le presunte questioni teoriche nelle quali è apparentemente in discussione l’esistenza o la natura ultima di certe entità, una volta correttamente intese e riformulate come questioni pratiche relative all’adozione di strutture linguistiche, rendono superfluo qualsiasi pronunciamento di carattere metafisico. Questa nuova puntualizzazione in materia di problemi ontologici ha tuttavia la propria origine in corrispondenza di un significativo punto di snodo del pensiero carnapiano: il passaggio dalla sintassi alla semantica120. L’arricchimento introdotto dalla considerazione della semantica di un linguaggio sembra comportare un prezzo troppo alto per qualsiasi empirista: quando diciamo che i simboli di un linguaggio appartenenti alle diverse categorie sintattiche (nomi, predicati, enunciati) significano o si riferiscono a certi oggetti, proprietà, relazioni e proposizioni, ci compromettiamo fatalmente con l’ammissione di tutte queste entità astratte nel dominio di ciò che esiste. Basterà che il nominalista o, in generale, lo scettico rispetto a simili entità astratte ci domandi “Esistono davvero cose come le proprietà o le proposizioni?” e ci troveremo coinvolti in una disputa ontologica, oltretutto come avvocati di qualcosa di assai discutibile da un punto di vista empiristico, come delle entità astratte. Carnap rifiuta, ovviamente, questa interpretazione del problema. L’analisi alternativa che egli articola si fonda su di una cruciale distinzione tra questioni interne e questioni esterne di esistenza o realtà. È il caso di illustrare di che cosa si tratta. Chiunque voglia costruire una teoria che parla di qualcosa, siano atomi, animali o numeri, deve adottare una struttura linguistica adeguata per i propri scopi. Una struttura linguistica è costituita da certe espressioni e da un insieme di regole. Una volta che la scelta è stata compiuta, si possono formulare questioni di esistenza interne alla struttura stessa quali “Esistono atomi 120

Per una discussione del significato e dell’effettiva importanza di tale passaggio si vedano Ricketts 1996 e Creath 1999.

senza nucleo?”, ”Esistono animali che respirano sott’acqua?” oppure “Esistono numeri primi maggiori di un milione?”. È chiaro che queste domande hanno un contenuto conoscitivo preciso e che le risposte a esse si possono trovare compiendo certe ricerche empiriche oppure anche soltanto applicando alcune regole di calcolo, a seconda che si tratti di strutture fattuali o logico-matematiche. È da notare il fatto che entro una struttura possiamo giungere anche a formulare domande massimamente generali come “Esistono i numeri?”. Nella sua accezione interna la domanda, tuttavia, riceve una risposta positiva, ma in modo del tutto banale: di norma, in qualsiasi struttura linguistica atta a esprimere l’aritmetica elementare, l’enunciato “Esiste un n tale che n è un numero” segue dall’enunciato “5 è un numero”; entrambi gli enunciati sono analitici, ossia veri semplicemente in virtù di come è stato costruito il linguaggio che abbiamo deciso di usare. Ma non è questo, evidentemente, il modo in cui i fi losofi per lo più intendono le questioni di esistenza. Essi le interpretano piuttosto come questioni esterne, che non vengono poste all’interno di nessuna determinata struttura linguistica e anzi riguardano l’esistenza dell’intero sistema di entità che una data struttura pretende di descrivere. Si tratterebbe di una quesito teorico che verte sulla realtà di determinate entità (numeri, oggetti fisici, proprietà ecc.), un quesito al quale si dovrebbe cercare di dare una risposta che preceda e giustifichi l’eventuale adozione di una struttura linguistica. Secondo Carnap si tratta di un fraintendimento: la questione relativa all’adozione di certe forme linguistiche è di natura pratica e rispetto a essa sono pertinenti unicamente considerazioni di efficienza, di semplicità e di fecondità. Si può tranquillamente parlare di “accettazione di un sistema di entità” a patto che non si perda di vista il fatto che si tratta di un modo per parlare dell’adozione di certe forme linguistiche. In questo senso, accettare certe entità non comporta affatto una esplicita credenza nella realtà delle entità stesse, né tanto meno una teoria metafisica che ne sia l’espressione. È proprio per il fatto di ritenere che si tratti, in ultima analisi, di una questione di scelta di forme linguistiche che Carnap giudica fuorviante l’impiego da parte del suo maggiore allievo, l’americano Willard Van Orman Quine (1908 - 2000) del termine “ontologia”121 in un simile contesto.

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Cfr. Carnap 1950: nota 5.

3.3.6. Quine vs. Carnap Ma il dissidio tra Carnap e Quine relativo all’ontologia non si riduce certo a una questione di preferenze terminologiche122. Non solo infatti Quine ha sviluppato una precisa e circostanziata critica alle tesi carnapiane relative ai problemi ontologici123, ma nell’ambito della comunità filosofica analitica si è generalmente ritenuto (e i più continuano a ritenere) che le obiezioni sollevate dall’autore di Due dogmi dell’empirismo costituiscano un ostacolo insuperabile per la teoria di Carnap in materia di ontologia. Sullo sfondo del discorso consegnato all’articolo del 1950, si può chiaramente scorgere la teoria delle parole universali (Allwörter), che Carnap aveva formulato nel quinto capitolo della Sintassi logica del linguaggio. Le parole universali erano per Carnap predicati estremamente generali come “numero”, “proprietà”, “proposizione”, “evento” e così via. La caratteristica principale di queste parole è che tutti gli enunciati che possiamo produrre introducendole in posizione predicativa saranno, senza eccezione, del tipo “quasi-sintattico” appartenente al modo materiale di parlare, cui abbiamo già avuto modo di accennare. La funzione di parole come “oggetto” o “numero” è dunque soltanto quella di delimitare il dominio dei valori di certe variabili, in un linguaggio in cui questa stessa funzione non sia già assolta dalla struttura sintattica, come accade nei linguaggi formali che contengono stili di variabili distinti124. Gli enunciati quasi-sintattici nei quali figurano parole universali possiedono due caratteristiche importanti: (1) sono analitici, in quanto asserendoli non si registra alcun fatto extralinguistico125, ma si segnala semplicemente una proprietà struttura122 123 124

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Per la teoria di Quine in materia di ontologia cfr. infra 3.5. In Quine 1951b. Una variabile è un’espressione di un linguaggio che non ha un valore definito (uno specifico oggetto che ne sia il referente) ma può assumere come proprio valore uno qualsiasi degli oggetti di un dato dominio (si usa dire, a tale proposito, che le variabili spaziano su un dato dominio di oggetti). Si parla inoltre di “stili di variabili distinti” per indicare tipi di variabili che spaziano su domini differenti e distinti (come ad esempio un dominio di oggetti e un altro di proprietà di oggetti). Di solito questa distinzione è segnalata anche da una differenza nell’aspetto tipografico delle variabili. Carnap stesso si esprime spesso in modi affi ni, premurandosi tuttavia di aggiungere sempre che si tratta di caratterizzazioni intuitive, informali e, in

le di un linguaggio; (2) la questione relativa alla loro accettazione nel linguaggio della scienza è di natura pratica, dal momento che vengono usati per esprimere la decisione che un certo linguaggio sia strutturato in un certo modo126. Quine mostra di interpretare le tesi sostenute da Carnap nell’articolo sull’ontologia del 1950 sullo sfondo della vecchia teoria delle parole universali. La connessione è piuttosto evidente: semplicemente volgendo in forma interrogativa uno dei vecchi enunciati quasi-sintattici contenenti una parola universale, possiamo formulare la domanda “Esistono i numeri?”, ossia esattamente una di quelle questioni ontologiche che secondo Carnap, una volta correttamente intese, finiscono per dissolversi: interpretate nell’accezione interna esse ricevono infatti risposte analitiche, ossia enunciati derivabili dalle sole regole costitutive della struttura linguistica alla quale appartengono127 e nell’accezione esterna ricevono una risposta di tipo pratico, come la decisione di adottare o no una certa struttura linguistica. L’affondo critico di Quine muove dalla seguente domanda: su quali basi Carnap può sostenere che ci siano esattamente due insiemi disgiunti, il primo costituito dai predicati che danno luogo all’ambiguità interno/esterno (come “oggetto” o “numero”) e il secondo da tutti gli altri predicati (come “gatto” o “numero primo”)? E la risposta di Quine è: nessuna, o almeno, nessuna sufficientemente solida. Di fronte alla possibilità di giustificare questa dicotomia affermando che i predicati “ambigui” nel senso appena visto sono tutti e soli i predicati la cui estensione coincide con l’intero dominio di quantificazione di uno stile di variabili, Quine mostra come, nella scelta di una base logico-matematica per il linguaggio della scienza, l’adozione di diversi stili di variabili e, corrispondentemente, di domini di quantificazione distinti sia del tutto superflua128 e non rivesta alcuna importanza

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ultima analisi inesatte, in quanto esse stesse palesemente espresse nel modo materiale (si consideri, ad esempio, come nella espressione “fatto extralinguistico” si parli di “fatti”). Simili formulazioni sono accettabili agli occhi di Carnap solo in quanto delucidazioni preliminari alla precisa caratterizzazione formale dello status di “analiticità” di una classe si enunciati all’interno di una data struttura linguistica. Cfr. Alspector-Kelly 2001: 97-98. Cfr. infra § 5. Nel senso che da essa non dipende nessun incremento delle risorse espressive di tipo matematico introducibili nel linguaggio. Per delucidazioni sulla nozione logica di quantificazione cfr. infra 3.5.1.

sostanziale. In un linguaggio formale con un unico stile di variabili (e un unico dominio onnicomprensivo) le linee di demarcazione così importanti per la teoria di Carnap vengono fatalmente cancellate. Quine, d’altro canto, ritiene che l’origine filosofica profonda della dicotomia in questione sia da ricercare nell’accettazione di un’altra dicotomia: la distinzione tra analitico e sintetico, che Carnap esplicitamente accoglieva e che Quine, per ragioni in parte indipendenti dalla questione dell’ontologia, rifiutava129. Il principale problema che, secondo Quine, affliggeva il progetto fi losofico di Carnap, sia per quanto concerne il caso particolare della distinzione tra questioni di esistenza non problematiche (come “Esistono minerali?” e “Esistono numeri primi maggiori di dieci?”) e questioni di esistenza “ontologiche” (come “Esistono oggetti?” e “Esistono numeri?”) che nella loro accezione esterna darebbero luogo a infondate dispute metafisiche130, sia in merito alla distinzione generale tra enunciati analitici ed enunciati sintetici, era la fondamentale arbitrarietà delle distinzioni stesse131. Anche nel caso della nozione di analiticità, infatti, la strategia adottata da Carnap consisteva nel fornire quella che egli chiamava una “esplicazione”: si trattava, nel costruire il proprio linguaggio formale, di stipulare le relazioni “logiche” intercorrenti tra i suoi predicati descrittivi, dotandolo di una classe di enunciati che venivano etichettati con il nome di “postulati di significato”132, procedendo poi con il definire gli enunciati analitici come la classe di tutti gli enunciati che fossero conseguenze logiche della congiun129 130

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Cfr. Quine 1951a; 1963. Infondate, lo ricordiamo, in quanto ritenute erroneamente di natura teorica anziché pratica. In effetti, si può riformulare in questi termini anche l’obiezione esaminata poco fa, relativa alle cosiddette “parole universali”: in un linguaggio formale del tipo appropriato possiamo sempre attribuire a questo o quel predicato lo status di parola universale. Non ci sono tuttavia ragioni sostanziali che ci vincolino in questa scelta e tale carattere di arbitrarietà rende quanto meno dubbio che le operazioni di “ingegneria linguistica” raccomandate da Carnap mettano in luce qualche proprietà intrinseca importante dei predicati in questione e degli enunciati esistenziali nei quali essi figurano. L’esempio classico di postulato di significato è l’enunciato “Nessuno scapolo è sposato”. Tale enunciato esprime una “postulazione di significato” nel senso che stabilisce che le estensioni delle espressioni “scapolo” e “sposato” sono disgiunte (ossia che si tratta di insiemi che non hanno nessun elemento in comune).

zione dei postulati di significato. Ma, dal punto di vista di Quine, i postulati di significato non sono che una sottoclasse degli enunciati di un dato linguaggio che si ritengono veri, i cui elementi sono semplicemente stati scelti e inseriti in una lista, sotto il titolo di “postulati di significato”. Tutto ciò che li distingue è il fatto di comparire in tale lista133. Questa mossa a disposizione del costruttore di linguaggi formali è del tutto legittima, ma ciò non è affatto sufficiente a renderla un explicans della nozione preteorica di analiticità, intesa genericamente come verità in virtù del solo significato delle parole. Rispetto poi alla possibilità di sostanziare la nozione di analiticità attraverso quella di apriorità, ossia sostenendo che ci sono particolari enunciati la cui verità è conoscibile indipendentemente da qualsiasi esperienza, Quine poteva far notare che soltanto chi ritenga che i singoli enunciati posseggono un contenuto empirico determinato e indipendente può poi accogliere anche il caso limite rappresentato da certi enunciati privi di tale contenuto empirico. A questa tesi, Quine opponeva una concezione olistica della conferma empirica secondo la quale sono le teorie nella loro interezza e non i singoli enunciati ad affrontare il tribunale dell’esperienza134.

Bibliografia ragionata 1. Per una prima introduzione all’empirismo logico A. De Palma, Il linguaggio della scienza, in P. Rossi - C.A. Viano, a c. di, Storia della Filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1999, VI, 1 A. De Palma, La revisione dell’empirismo, in P. Rossi - C.A. Viano, a c. di, Storia della Filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1999, VI, 2 2. Testi più ampi ma sempre di carattere introduttivo O. Hanfling, Logical Positivism, Oxford, Blackwell, 1981 R. Haller, Neopositivismus: eine historische Einführung in die Philosophie des Wiener Kreises, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1993 133

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Un’obiezione dello stesso tipo si applica alla trattazione carnapiana della distinzione cruciale tra espressioni logiche ed espressioni descrittive. A tale proposito si veda Ricketts 2007: 225. Cfr. Quine 1951a: § 6.

A. Richardson - T. Uebel, a c. di, The Cambridge Companion to Logical Empiricism, Cambridge, Cambridge University Press, 2007 3. Antologie A.J. Ayer, a c. di, Logical Positivism, New York, Free Press, 1966 A. Pasquinelli, a c. di, Il neoempirismo, Torino, UTET, 1969 M. Trinchero, a c. di, Il neopositivismo logico, Torino, Loescher, 1978 M. Ferrari, a c. di, Il Circolo di Vienna, Firenze, La Nuova Italia, 2000 4. Per una contestualizzazione storica e una discussione delle influenze operanti sul pensiero del Circolo di Vienna P. Parrini, Empirismo logico e convenzionalismo: saggio di storia della filosofia della scienza, Milano, Angeli, 1983 R. Giere - A. Richardson, a c. di, Origins of Logical Empiricism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1996 M. Friedman, Reconsidering Logical Positivism, Cambridge, Cambridge University Press, 1999 M. Friedman, A Parting of the Ways. Carnap, Cassirer and Heidegger, Chicago - La Salle, Open Court, 2000; La filosofia al bivio. Carnap, Cassirer, Heidegger, tr. it. di M. Mugnai, Milano, Cortina, 2004 5. Scritti di Carnap di particolare rilevanza rispetto ai problemi della metafisica e dell’ontologia R. Carnap, Der Logische Aufbau der Welt, Berlin-Schlachtensee, Weltkreis, 1928 (In particolare il capitolo “D”); La costruzione logica del mondo. Pseudoproblemi nella filosofia, tr. it. di E. Severino, Torino, UTET, 1997 R. Carnap, Scheinprobleme in der Philosophie: Das Fremdpsychische und der Realismusstreit, Berlin-Schlachtensee, Weltkreis, 1928; La costruzione logica del mondo. Pseudoproblemi nella filosofia, tr. it. di E. Severino, Torino, UTET, 1997 R. Carnap, Logische Syntax der Sprache, Wien, Springer, 1934; The Logical Syntax of Language, tr. ingl. di A. Smeaton con integrazioni, London, Routledge & Kegan Paul, 1937; La sintassi logica del linguaggio, tr. it. di A. Pasquinelli, Milano, Silva, 19662 R. Carnap, Empiricism, Semantics, and Ontology, “Revue internationale de philosophie”, 11 (1950): 20-40; ed. riv. in appendice a R. Carnap, Meaning and Necessity, Chicago, University of Chicago Press, 19562 R. Carnap, Replies and Systematic Expositions, in P.A. Schilpp, a c. di, The Philosophy of Rudolf Carnap, La Salle, Open Court, 1963; Risposte ed es-

posizioni sistematiche, tr. it. a c. di M.G. de Cristofaro Sandrini, in La filosofia di Rudolf Carnap, 2 voll., Milano, Il Saggiatore, 1974 6. Per le critiche ‘storiche’ mosse a Carnap sulle sue posizioni in materia di ontologia W.V.O. Quine, On Carnap’s Views on Ontology, “Philosohical Studies”, 2 (1951): 11-15; poi in W.V.O. Quine, The Ways of Paradox, New York, Random House, 1966; Carnap sull’ontologia, tr. it. di M. Santambrogio, in Id., I modi del paradosso, Milano, Il Saggiatore, 1975 G. Bergmann, Logical Positivism, Language, and the Reconstruction of Metaphysics, “Rivista Critica di Storia della Filosofia”, 8 (1953): 453-481; poi in G. Bergmann, The Metaphysics of Logical Positivism, Madison, University of Wisconsin Press, 19672 W. Sellars, Empiricism and abstract entities, in P.A. Schilpp, a c. di, The Philosophy of Rudolf Carnap, La Salle, Open Court, 1963; Empirismo ed entità astratte, tr. it. di M. Pacifico, in P.A. Schilpp, La filosofia di Rudolf Carnap, 2 voll., Milano, Il Saggiatore, 1974 7. Per approfondimenti su Carnap P.A. Schilpp, a c. di, The Philosophy of Rudolf Carnap, La Salle, Open Court, 1963; La filosofia di Rudolf Carnap, 2 voll., tr. it. a c. di M.G. de Cristofaro Sandrini, Milano, Il Saggiatore, 1974 J. Hintikka, a c. di, Rudolf Carnap, Logical Empiricist. Materials and Perspectives, Dordrecht, Reidel, 1975 A.J. Coffa, The Semantic Tradition from Kant to Carnap: To the Vienna Station, Cambridge, Cambridge University Press, 1991; La tradizione semantica da Kant a Carnap, tr. it. di G. Farabegoli, Bologna, il Mulino, 1998 R. Cirera, Carnap and the Vienna Circle: Empiricism and Logical Syntax, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1994 M. Friedman - R. Creath, a c. di, The Cambridge Companion to Carnap, Cambridge, Cambridge University Press, 2007

3.4. DESCRIZIONE di Alessandro Gatti

3.4.1. Il ‘secondo’ Wittgenstein. Linguaggio e realtà Nel gennaio del 1929 Ludwig Wittgenstein ritornò a Cambridge e qui, dopo una pausa durata diversi anni, riprese la propria attività filosofica, insegnando, con alcune interruzioni, dal 1930 al 1947. Fin dai primi scritti che testimoniano questa nuova fase del suo pensiero è evidente il profondo cambiamento di prospettiva rispetto al Tractatus logico-philosophicus135. In termini estremamente generali si può affermare che la ricerca di una presunta essenza del linguaggio in generale, che consisterebbe nel suo essere immagine del mondo, lascia il posto, nelle Ricerche Filosofiche, la seconda grande opera pubblicata, postuma, nel 1953, a un’attività che ha il suo fondamento nell’attenzione verso la multiforme varietà degli usi che vengono effettivamente fatti del linguaggio. La stessa immagine unitaria di un linguaggio con una sua unica e peculiare modalità di funzionamento (il modo in cui le proposizioni raffigurerebbero gli stati di cose) si dissolve nell’idea di una pluralità di giochi linguistici le cui regole debbono essere, caso per caso, fatte oggetto di una scrupolosa indagine chiarificatrice. La dottrina espressa nel Tractatus è costantemente fatta oggetto di un’intensa autocritica, parallelamente alla quale viene a delinearsi un’intera, nuova concezione del compito del filosofo: un’attività puramente descrittiva finalizzata alla rappresentazione perspicua delle regole che governano i diversi giochi linguistici nei quali i nostri concetti hanno la loro patria, regole alle quali Wittgenstein prese a riferirsi collettivamente con il termine “grammatica”. Anche l’ontologia del Tractatus, ossia la “teoria della realtà” che si evince dall’insieme di tutte le definizioni e le specificazioni relative 135

Per l’ontologia del Tractatus, cfr. supra 3.2.13. ss.

a che cosa siano gli oggetti, gli stati di cose, i fatti, viene smantellata, pezzo per pezzo, insieme con la teoria della raffigurazione136. Gli oggetti semplici escono di scena perché le nozioni stesse di “semplice” e “composto” vengono relativizzate ai singoli giochi linguistici: non c’è affatto bisogno di cercare qualcosa che valga come “semplice” in senso assoluto, dal momento che ciò che conta come tale è determinato in modi differenti nel contesto dei diversi giochi linguistici. Cade anche l’idea che l’esser vera di una proposizione consista unicamente nel suo essere immagine di un fatto (uno stato di cose sussistente). Relativamente a questo aspetto, la nuova concezione di Wittgenstein sulla relazione tra linguaggio e realtà va nella direzione di una radicale liberalizzazione. In termini del tutto generali, egli accetta ancora che l’esser vera o falsa di una proposizione dipenda, in un qualche senso, dalla sua relazione con la realtà, ma l’idea che l’isomorfismo tra la struttura delle combinazioni di oggetti semplici che stanno nel mondo e la struttura delle proposizioni concepite come concatenazioni di nomi, sia l’unica, essenziale modalità che assume la relazione tra realtà e linguaggio, è invece del tutto abbandonata. Si pensi ad esempio alla proposizione “Egli ha dolore”: essa può, al pari di altre proposizioni, essere vera o falsa, ma non c’è in questo caso alcuno stato di cose, alcuna connessione tra oggetti con la quale confrontarla, quanto a forma logica. Il gioco linguistico che ospita un concetto come “dolore” è semplicemente un gioco nel quale i giudizi di verità o falsità sono governati dal riconoscimento di certe espressioni caratteristiche del dolore, che vengono anche dette “criteri”. Ora Wittgenstein ritiene, dunque, che la relazione linguaggio-realtà assuma forme diverse entro i diversi giochi linguistici, giungendo ad affermare, tra l’altro, che “Tutto può essere la raffigurazione di qualcos’altro”137. Con una nozione di raffigurazione così prodigalmente estesa, perdeva utilità l’intero armamentario di nozioni ontologiche che erano servite ad allestire un ‘mondo’ fatto in modo tale da esibire una struttura della quale il linguaggio del Tractatus potesse essere l’immagine logica.

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Per una presentazione del ‘primo’ Wittgenstein si veda infra 3.2. In particolare i §§ 3.2.13.-3.2.17. contengono informazioni il cui possesso agevola considerevolmente la comprensione del presente capitolo. Cfr. Kenny 1973: 258.

3.4.2. Il ‘secondo’ Wittgenstein. Metafisica e grammatica Una tesi fondamentale del pensiero di Wittgenstein, che risale al Tractatus e che egli non abbandonò neppure in seguito al suo radicale cambiamento di prospettiva è quella secondo la quale esiste solo necessità logica. Questa tesi, che si può esprimere anche affermando che non si danno fatti necessari, è rilevante per il modo di concepire le categorie ontologiche tradizionali (oggetto, proprietà, relazione ecc.) che, nella prospettiva di Wittgenstein, divengono infatti concetti formali, ossia concetti che non esprimono proprietà del mondo, ma del simbolismo. In base alla teoria semantica del Tractatus, in realtà, questi concetti non mettono capo all’espressione sensata di alcunché. Le proprietà del simbolismo infatti non possono essere dette, ma semplicemente si mostrano nel simbolismo stesso: una proposizione come “‘Cammina’ è un predicato”, è per Wittgenstein priva di senso, in quanto attribuisce a un simbolo (ossia a un segno usato in un modo determinato entro un dato linguaggio) una proprietà che non potrebbe non appartenere a esso. Ma sempre in base alla teoria del Tractatus questo equivale a una sentenza di insensatezza: una proposizione è l’immagine di uno stato di cose che può sussistere o non sussistere ed è di conseguenza contingentemente vera o contingentemente falsa, altrimenti è priva di senso138. Ed è esattamente questo confine di sensatezza che il metafisico è sistematicamente incline a violare, sostenendo appunto che si danno fatti necessari. In questo senso è importante segnalare che la concezione wittgensteiniana dei concetti formali dà conto in questi stessi termini anche di proposizioni che a prima vista paiono non parlare affatto di simboli; “I coltelli sono oggetti”, ad esempio, ha tutto l’aspetto di una proposizione fattuale. È altresì chiaro che noi non possiamo concepire qualcosa che sia un coltello ma che non sia anche un oggetto: la proposizione in questione dovrebbe quindi esprimere una verità necessaria, la cui negazione è inconcepibile, o, in altri termini, raffigurerebbe il fatto necessario che certe cose non possono non avere una certa proprietà. Anche in questo caso è evidente l’incompatibilità con la teoria semantica illustrata poco sopra. 138

Wittgenstein sosteneva infatti, coerentemente, che sono prive di senso tanto le contraddizioni, cioè le proposizioni sempre false, quanto le tautologie, ossia le proposizioni che sono sempre vere.

Nella sua seconda ‘stagione filosofica’, Wittgenstein tornò spesso a riflettere sulla natura di quel peculiare errore che ai suoi occhi era la metafisica. L’accusa fondamentale che torna puntualmente è che il metafisico equivoca la natura di certe questioni concettuali affrontandole come se si trattasse di questioni fattuali. Le asserzioni di carattere ontologico e più in generale metafisico, infatti, attribuiscono alla natura ciò che appartiene invece alla nostra forma di rappresentazione. Si rifletta, ad esempio, su di una proposizione come “Il rosso esiste”: essa potrebbe venire impiegata per dire che la parola “rosso” ha significato139, oppure per fare un’affermazione di tipo empirico alquanto banale, ossia per dire che ci sono cose di colore rosso140. Ma non sono queste le affermazioni che il metafisico ha in mente quando enuncia le proprie tesi, dirette a cogliere la “realtà ultima delle cose”. È possibile riscontrare qui un significativo aspetto di continuità nel pensiero di Wittgenstein: in alcune riflessioni degli ultimi anni, egli mostrava di ritenere ancora, proprio come ai tempi del Tractatus, che proposizioni quali “Esistono oggetti fisici” non rientrino nei confini di ciò che è sensato141. Un significativo elemento di novità è invece quello riconducibile alla nozione di grammatica. Wittgenstein ora riconosce infatti che la proposizione “A è un oggetto fisico”, in particolari circostanze, può venire impiegata in modo del tutto sensato, non per compiere un’asserzione tuttavia, bensì come una istruzione riguardante l’uso della parola “A”142, ossia come espressione di una norma appartenente alla “grammatica dei concetti”, nella quale l’apparente riferimento a tratti necessari della realtà non fa che rinviare alla sua natura di norma costitutiva della nostra forma di rappresentazione: violando tali norme, infatti, non si descrive scorrettamente il mondo ma si esce dal dominio di ciò che si può pensare e dire sensatamente.

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Un significato che, nelle appropriate circostanze, potremmo illustrare (a qualcuno che sta imparando l’italiano, ad esempio) in maniera ostensiva, ossia indicando qualcosa di rosso nelle vicinanze. Un presunto quesito ‘ontologico’ troverebbe dunque risposta nella semplice defi nizione ostensiva del significato di una parola. Cfr. Arrington 1996: 202-203. Cfr. Wittgenstein 1953: § 58. Quello di oggetto fisico sarebbe infatti, nella terminologia del Tractatus, un “concetto formale”. Cfr. Wittgenstein 1969: § 35-37.

3.4.3. Austin. La filosofia come analisi del linguaggio comune L’attenzione agli usi concreti del linguaggio determinò quel modo di concepire e praticare l’attività filosofica che va sotto il nome di “filosofia del linguaggio ordinario” e che fu dominante in Gran Bretagna nel secondo dopoguerra, almeno fino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. L’espressione che il suo più autorevole rappresentante, John Langshaw Austin143 prediligeva per caratterizzare il proprio metodo di lavoro filosofico era “fenomenologia linguistica”. Ciò che, secondo Austin, un filosofo deve fare come prima cosa, qualora si accinga ad affrontare un qualsiasi problema, è individuare un esauriente gruppo di espressioni del linguaggio comune che appartengano all’area semantica pertinente per l’argomento in questione (se il problema che diviene oggetto di analisi fosse, ad esempio, quello della volontà, tra le espressioni linguistiche da prendere in considerazione ci dovrebbero essere avverbi come “involontariamente” e “deliberatamente” e locuzioni come “per sbaglio” ecc.). Quando si sia individuato un nucleo di espressioni ben definito e sufficientemente ricco, l’analisi vera e propria può avere inizio, e il metodo raccomandato da Austin è quello del “che cosa diremmo quando”, ossia di un esame puntuale di come differenti formulazioni linguistiche siano di volta in volta adeguate in base alle intenzioni del parlante e alle circostanze del proferimento. Procedendo in questo modo si ottiene il risultato di evidenziare la grande quantità di distinzioni e sfumature, magari anche sottili, che il linguaggio ordinario incorpora e la cui scrupolosa annotazione dà forma a una sorta di mappa concettuale relativa a una certa regione linguistica. Ma non è forse vero che il senso comune e il linguaggio ordinario che ne è espressione contengono anche aspetti di errore e di superstizione? E non è d’altro canto ragionevole pensare che il linguaggio comune sia così com’è essenzialmente per rispondere alle esigenze pratiche della comunicazione? Austin accoglie entrambe queste osservazioni, senza tuttavia ritenere che esse possano in qualche modo 143

Austin (1911-1960) è stato, verso la metà del secolo scorso, il fi losofo di maggior spicco in attività a Oxford, dove insegnò Filosofia morale a partire dal 1952, presso il Corpus Christi College. Austin pubblicò in vita soltanto articoli (tra i più importanti Other Minds del 1946 e A Plea for Excuses del 1956), mentre uscirono postumi, entrambi nel 1962, i volumi How to do Things with Words, dove venivano poste le basi della teoria degli atti linguistici e Sense and Sensibilia, dove veniva sottoposta a critica la teoria dei “dati di senso”.

sminuire il valore dei risultati dell’analisi linguistica del fi losofo: da un lato si tratta semplicemente di fare una ragionevole professione di modestia e riconoscere che, poiché nulla garantisce che le classificazioni implicite attestate dagli usi linguistici ordinari siano le migliori possibili, su molte questioni la fi losofia non ha l’ultima parola, benché abbia senz’altro la prima, dall’altro è sufficiente far notare che le distinzioni che il filosofo mette in luce si sono depositate e consolidate nel linguaggio comune in un lunghissimo arco di tempo e questo sembra davvero sufficiente per concludere che si tratta di distinzioni rivelatesi in generale utili e importanti.

3.4.4. Analisi linguistica senza metafisica In un quadro filosofico di questo tipo, qualsiasi pronunciamento metafisico direttamente vertente sulla “realtà ultima delle cose” sembra già escluso dall’idea stessa di un ricorso sistematico alla ‘intermediazione’ del linguaggio comune nella trattazione di qualsiasi questione filosofica e dalla disponibilità a rinunciare (talvolta) ad avere l’ultima parola che viene raccomandata al fi losofo. In mancanza di una esplicita tematizzazione da parte di Austin di una simile questione, sarà utile considerare due luoghi della sua opera dai quali emerge con evidenza l’atteggiamento elusivo e diffidente nei confronti di tutto ciò che possa meritare la qualifica di “metafisica”. Il primo caso illuminante in tal senso è rappresentato dalla discussione che Austin dedica alla nozione di “realtà”144. L’interesse di Austin si rivolge, come era lecito attendersi, all’uso di parole come “reale” e “realmente”. Il risultato fondamentale dell’analisi consiste nel rendersi conto del fatto che ogni volta che le parole “reale” e “realmente” possono essere impiegate nel discorso in modo efficace, questo avviene perché c’è un modo specifico, che solitamente risulta chiaro nel contesto, in cui qualcosa può non essere reale e che noi vogliamo escludere. A cose di tipo diverso sono chiaramente associati modi diversi di non essere “reali”: un’oasi può non essere reale perché è un miraggio, una pistola può non essere realmente tale perché è solo un giocattolo e così via. Le cose possono poi farsi più complicate perché anche un singolo 144

Austin discute di “realtà” in Austin 1946 (1961: cap. 4, §1) e in Austin 1962b: cap. 7. Cfr. anche Graham 1977: 173-182.

oggetto può, dati diversi contesti, essere non-reale in diversi modi. Al di là di queste complicazioni, ciò che conta è che il nostro parlare della “realtà” di questa o di quella cosa ha senso, e di volta in volta un senso diverso, proprio in virtù di ognuna di queste particolari possibili opposizioni. Nell’ambito di questo discorso, Austin assesta una stoccata al metafisico: egli è appunto colui che cerca di trascendere i differenti casi particolari e tutte le specificazioni che conferiscono a essi una fisionomia precisa, per tentare di proporre una versione generale e completamente decontestualizzata dell’opposizione reale/non-reale. Agli occhi di Austin, il metafisico ambisce insomma a costruire questa antitesi in un senso assoluto, illudendosi di poter additare qualcosa come “il mondo reale” o “gli oggetti materiali”, ossia il dominio di tutte le cose che condividono il fatto di essere “reali”, in un senso univoco e profondo. Austin si premura per l’appunto di rimarcare l’illusorietà di un simile disegno, reso possibile, secondo la sua analisi, solo dall’inavvertenza di certi importanti aspetti del discorso ordinario sulla “realtà”. Un altro episodio significativo è rappresentato dalla disputa sulla nozione di “verità”, che vide Austin contrapporsi a un altro fi losofo britannico, Peter Frederick Strawson (del quale avremo modo di parlare diffusamente in seguito). Austin, in un articolo del 1950, aveva delineato una teoria che si collocava consapevolmente nel solco della lunga tradizione filosofica secondo la quale la verità è corrispondenza del pensiero (o del linguaggio) alla realtà. Il compito di ogni teorico della verità come corrispondenza è, come minimo, quello di spiegare in che cosa consista la relazione di corrispondenza, specificando nel contempo che tipo di cose siano i due relata tra i quali intercorre la relazione. Nel caso della teoria di Austin abbiamo un relatum linguistico (i cosiddetti “portatori di verità”, ossia ciò cui attribuiamo la proprietà di essere vero) che sono “affermazioni”, ossia singoli enunciati dichiarativi effettivamente usati da qualche parlante in un determinato contesto, che certe convenzioni145 pongono in relazione, qualora determinate condizioni siano soddisfatte, con il relatum extra-linguistico, che per Austin può indifferentemente essere descritto in termini di “fatti”, “situazioni”, “cose”, “stati di cose”, “eventi”146. 145

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Per i dettagli qui tralasciati si veda Kirkham 1992: 124-130, oltre, ovviamente, a Austin 1950 (1961: Cap. 5). Per la trattazione contemporanea delle teorie corrispondentiste della verità, cfr. infra 5.2.

Proprio nei confronti di questa liberalità della caratterizzazione austiniana del relatum extra-linguistico Strawson muove una critica rilevante per la nostra discussione. Strawson ritiene infatti che tutto lo sforzo compiuto da Austin per sottolineare la natura puramente convenzionale della relazione di corrispondenza, non dia affatto modo di sfuggire a un problema che colpisce in generale qualsiasi teoria corrispondentista della verità: la necessità di disporre di un relatum extra-linguistico, di qualcosa che renda vere le affermazioni vere, conduce irrimediabilmente alla reificazione dei “fatti”, ossia alla loro assimilazione alle “cose” o agli “eventi”. Quello che, secondo Strawson, si commette in questo caso è “un errore-di-tipo logicamente fondamentale”147, che tuttavia potrebbe legittimamente meritare anche la qualifica di “ontologico”. Il problema sollevato da Strawson può essere illustrato così: i fatti sono pseudo-entità, essi sono semplicemente ciò che le affermazioni affermano quando sono vere, e sono qualcosa di ben diverso dalle entità sulle quali le affermazioni vertono. L’affermazione “La mia auto si trova in garage”, ad esempio, verte su due entità, due cose che sono autenticamente nel mondo, la mia auto e il garage, mentre ciò che essa afferma, il fatto che la mia auto si trovi in garage, non è a sua volta qualcosa nel mondo. Austin, nel replicare a queste obiezioni, non raccoglie l’invito a inoltrarsi sul terreno di una discussione di carattere ontologico, preferendo mettere in discussione la correttezza delle analisi strawsoniane dell’uso linguistico comune. Sullo sfondo è chiaramente avvertibile la diffidenza nei confronti di un’espressione come “essere qualcosa che è autenticamente nel mondo”: Austin non contempla minimamente la possibilità che un simile modo di esprimersi possa nascondere qualcosa come un compito filosofico preciso, ossia la specificazione di un’ontologia. Conseguentemente, la tesi di Strawson secondo la quale i fatti sono pseudo-entità è respinta con un certo stupore da Austin, sulla base della considerazione che normalmente si usa dire di qualcosa che “è un fatto” appunto per affermare che si tratta di “qualcosa che è nel mondo”, in un senso generico ma innocuo. Più in generale l’autorità invocata da Austin a dirimere la questione è ancora una volta quella del linguaggio ordinario. A fronte della differenza segnalata da Strawson, che pure è legittimo riconoscere, tra “fatto” da un lato e “cosa” e “evento” dall’altro, non si debbono trascurare anche alcune 147

Strawson 1971: 194.

importanti somiglianze, affinità e sovrapposizioni negli usi di queste espressioni148. In conclusione: Austin non ritiene in alcun modo di dovere difendere i fatti, in quanto presunta nozione teorica cruciale dell’ontologia implicita nella propria teoria della verità, impegnandosi invece a mostrare quanto le distinzioni (questa volta sì, ontologiche) introdotte da Strawson trascendano l’evidenza reperibile a livello di analisi del linguaggio comune.

3.4.5. Ryle. Uno “zelo occamizzante” Gilbert Ryle149 ebbe a descrivere l’atteggiamento che pervadeva i suoi primi scritti, risalenti al periodo tra gli anni Venti e Trenta con la felice espressione “zelo occamizzante”150. Con queste parole, Ryle allude al programma di applicare in modo sistematico, nell’ambito di diverse discussioni filosofiche, il principio di economia, legato al nome di Guglielmo di Ockham, che prescrive di non moltiplicare gli enti senza necessità. Ryle riteneva infatti che spesso logici e filosofi fossero incorsi nell’errore di ipostatizzare i propri “strumenti di lavoro” (proposizioni, entità platoniche ecc.), quasi a volersi garantire in questo modo degli specifici oggetti d’indagine. Il migliore esempio di questo “zelo occamizzante” all’opera, si può trovare in un fortunato scritto del 1932, intitolato Espressioni sistematicamente fuorvianti. L’idea di fondo è che molte tentazioni di “moltiplicare gli enti”, cui talvolta i fi losofi cedono, abbiano la loro origine nelle caratteristiche di espressioni linguistiche la cui forma logica non è aderente ai fatti registrati, e che Ryle etichetta pertanto come “sistematicamente fuorvianti”. I tre tipi di espressioni che Ryle enumera sono: 1) le proposizioni quasi ontologiche (ad esempio “Dio 148

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Ecco alcuni esempi che secondo Austin illustrano queste sovrapposizioni: “La marina tedesca è una cosa e un fatto”, “la battaglia di Waterloo è un evento e un fatto”. Gilbert Ryle (1900-1976) fu un’altra figura di grande spicco della fi losofia di Oxford, dove insegnò dal 1945 al 1968. Il suo saggio del 1932 intitolato Espressioni sistematicamente fuorvianti è considerato un classico della fi losofia linguistica. La sua opera più importante e influente è il libro Il concetto di mente del 1949, che pose le basi per la discussione di diversi problemi centrali della fi losofia della mente. Cfr. Ryle 1971: VII; Ramoino Melilli 1997: 28-42.

esiste”), 2) le proposizioni quasi platoniche (ad esempio “La puntualità è una cosa lodevole”) e 3) le proposizioni quasi descrittive (come “Il figlio maggiore di Jones è biondo”). Questi modi di esprimersi non producono alcuna confusione nella normale comunicazione linguistica, ma il loro effetto fuorviante può emergere qualora si svolgano su di essi ragionamenti di tipo astratto. La loro forma suggerisce infatti che si stia sempre parlando di una cosa, di uno specifico soggetto di attributi, con l’intento di affermare che esso possiede o non possiede un certo carattere o status. Ciò che Ryle si premura di fare notare è che tutte queste espressioni possono essere parafrasate con successo eliminando del tutto l’apparente riferimento a certe presunte entità151. In questo senso, la posizione di Ryle è analoga a quella assunta da Russell in Della denotazione152. In quelle pagine Russell compendiava il proprio credo metafisico assumendo come guida nella propria analisi delle descrizioni semplicemente un “robusto senso della realtà”. Ryle, non diversamente, ritiene di non dover portare alcun argomento a sostegno di una ontologia parsimoniosa, limitandosi a predisporre alcuni strumenti di analisi linguistica la cui applicazione possa tornare utile al conseguimento di tale scopo.

3.4.6. Ryle. Errori categoriali ed esistenza Proseguendo su questa linea, Ryle giunse a indicare, quale compito principale della filosofia, l’individuazione degli errori categoriali, errori, per intenderci, simili a quelli che potrebbe commettere un bambino domandando se l’Equatore possa andare a fuoco, ma non sempre così facili da riconoscere e correggere. Una teoria che permettesse di individuare la totalità delle categorie esistenti costituirebbe una sorta di definitiva “forma di prevenzione” di ogni 151

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Per tornare agli esempi fatti poc’anzi: “Dio esiste” può essere parafrasato con “Esiste una singola cosa che è onnisciente, onnipotente ecc.”, “La puntualità è una cosa lodevole” con “Chiunque sia puntuale è degno di lode” e infine “Il figlio maggiore di Jones è biondo” con “Esiste una sola persona che è il primo figlio avuto da Jones e questa persona è bionda”. Le proposizioni così parafrasate potranno essere vere o false, ma in ogni caso la loro semplice comprensione non comporta in alcun modo il riferimento a qualche specifica entità di cui si debba ammettere l’esistenza. Cfr. supra 3.2.9., 3.2.10.

possibile errore categoriale. A tal proposito Ryle, nell’esaminare gli illustri precedenti di collezioni fi losofiche di categorie (Aristotele e Kant), ne mette in luce gli aspetti di incompletezza e arbitrarietà. Per avere invece un’idea del metodo di analisi linguistica che, nelle intenzioni di Ryle, dovrebbe consentire di superare i limiti delle teorie precedenti, riuscendo a garantire il necessario grado di generalità, è utile considerare uno dei suoi esiti più significativi: l’indicazione di un parziale criterio (una condizione sufficiente) per la differenza di categoria. Ryle definisce innanzitutto come “fattore proposizionale” tutto ciò che è designato da qualsiasi espressione semplice o complessa che possa essere impiegata per completare un posto vuoto entro un determinato schema enunciativo (ad esempio “_____ fischietta”) e indica quindi la seguente condizione: due fattori proposizionali A e B appartengono a categorie differenti se c’è almeno uno schema enunciativo che completato da A dà luogo a un enunciato sensato, mentre quando è completato da B o non dà luogo a nessun enunciato o dà luogo a un enunciato assurdo153. La nozione di “errore categoriale” conserva la sua centralità anche in Il concetto di mente154, l’opera più nota e importante di Ryle, che concentra la propria attenzione sul dualismo mente/corpo con l’esplicito scopo di mostrare come esso abbia origine proprio in una fitta trama di errori categoriali. Nel contesto di questa discussione Ryle formulò una tesi importante per quanto riguarda l’ontologia, quella relativa alla natura polisemica del verbo “esistere”. Il discorso di Ryle prende le mosse da una considerazione chiaramente riconducibile alla teoria degli errori categoriali: il fatto che certe espressioni appartengano a categorie differenti può essere testimoniato dall’assurdità di certe congiunzioni o disgiunzioni di enunciati in cui le espressioni stesse occorrono (esempi: “Ugo ha comprato un guanto destro, un guanto sinistro e un paio di guanti”, “Mario è tornato dal lavoro in

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Ecco, a scopo di chiarimento, alcuni esempi: si considerino sempre lo schema enunciativo “____ fischietta” e tre possibili candidati al suo completamento, (1) “Camminereste”, (2) “L’equazione”, (3) “La ragazza”. Procedendo al completamento dello schema si ottiene nel caso di (1) un enunciato non grammaticale, nel caso di (2) un enunciato grammaticale ma assurdo e nel caso di (3) un enunciato grammaticale e sensato. Questa teoria è ricalcata sulla grammatica categoriale formulata da Husserl nelle Ricerche Logiche. Ryle 1949.

autobus oppure in silenzio”). Il dualismo mente/corpo155 si fonda su di un errore di questo tipo, perché ci dice che esistono menti ed esistono corpi (oppure che si danno processi fisici e processi mentali). Poiché Ryle non vuole affatto sostenere che i due congiunti sopra menzionati, presi singolarmente, siano falsi156, si affida alla tesi secondo la quale il verbo “esistere” ha due significati differenti in enunciati come “I corpi esistono” e “Le menti esistono”, un po’ come accade con il verbo “crescere” in “Il mio geranio cresce” e “L’età media degli Italiani cresce”. In quest’ultimo caso, nessuno sarebbe tentato di concludere che dai due enunciati segue che ci sono due cose che crescono (esattamente nello stesso senso), ossia il mio geranio e l’età media degli Italiani. Ugualmente, non può essere preso sul serio neppure chi costruisca congiunzioni categorialmente scorrette come “Esistono numeri primi, venerdì ed eserciti” o “Esistono menti e corpi”.

3.4.7. Strawson. Metaontologia Peter F. Strawson157 è una figura di prima grandezza nell’ambito della filosofia analitica contemporanea. Questa annotazione acquista particolare interesse qualora si tengano nel dovuto conto le significative divergenze di metodo e di impostazione che separano il pensiero di Strawson dalla corrente principale della filosofia anglo-americana del Novecento. Strawson intende infatti la nozione di “analisi” cui l’espressione “filosofia analitica” allude in un senso particolare, sostenendo che l’analisi concettuale che è compito del filosofo è un’analisi 155

156

157

“Il dogma dello spettro nella macchina” secondo la fortunata espressione di Ryle. Il che equivarrebbe a dire che i corpi oppure le menti non esistono. Per Ryle gli enunciati “I corpi esistono” e “Le menti esistono” sono entrambi veri, ma in essi la parola “esistere” è impiegata con due sensi differenti. Peter Frederick Strawson (1919-2006) è stato l’ultimo grande rappresentante della fi losofia oxoniense del secondo dopoguerra. Il suo articolo del 1950 On Referring costituisce una tappa fondamentale della discussione sulle descrizioni definite di cui si è detto in 3.2. Gli svariati contributi di Strawson alla discussione su altri temi della fi losofia del linguaggio sono raccolti nel volume Logico-linguistic Papers del 1971. Altre opere importanti di Strawson sono Introduction to Logical Theory del 1952, Individuals del 1959 e The Bounds of Sense del 1966, che tratta della Critica della Ragion Pura di Kant.

connettiva e non invece riduttiva. Non si tratta di analizzare i concetti nel senso di “smantellarli” mediante una riduzione a certi elementi più fondamentali e non ulteriormente analizzabili, bensì di mettere in luce la trama delle connessioni, dirette o indirette, tra i concetti che formano la struttura del nostro pensiero sul mondo. A tal proposito Strawson fa notare come la semplice padronanza dei concetti in questione ai fini pratici della vita quotidiana non sia affatto equivalente a una conoscenza esplicita e sistematica dei medesimi e delle relazioni che tra essi intercorrono, proprio come il saper parlare correttamente una lingua non implica la conoscenza esplicita della sua grammatica. Questa esplicitazione chiarificatrice è per Strawson il compito dell’analisi filosofica. La scelta di uno stile di analisi di tipo connettivo ha ripercussioni dirette anche sul modo in cui Strawson concepisce gli scopi e i metodi dell’indagine ontologica (la sua metaontologia, per l’appunto). Infatti, se per la dominante concezione di matrice quiniana158 il compito dell’ontologia consiste nell’includere o escludere certe entità dal novero di “ciò che esiste” (di una qualsiasi cosa si può dire solo che esiste oppure no, tertium non datur), per Strawson l’ontologia può, meno drasticamente, configurarsi come la delineazione di una gerarchia, o, in altri termini, come l’individuazione di un ordine di priorità. Qualora si concepisca l’indagine ontologica in questo modo, si potrà affermare, ad esempio, che le proprietà sono ontologicamente secondarie rispetto agli oggetti cui vengono attribuite, senza per questo essere costretti a cancellarle dal nostro “inventario del mondo”. Affrontare il problema ontologico nei termini di un’analisi concettuale intesa in questi termini aiuta inoltre, secondo Strawson, a rendersi conto dell’inscindibile legame che unisce logica, ontologia ed epistemologia, tre aspetti interrelati (e non indipendenti) di una singola indagine unitaria. Per Strawson, infatti, noi non siamo in grado di articolare compiutamente un discorso sulle nostre più fondamentali e sistematiche assunzioni relative alla realtà oggettiva (ossia di illustrare di quali cose diamo costantemente per scontata l’esistenza nei nostri discorsi o nelle nostre teorie), senza fare appello alla nozione epistemologica di esperienza. In modo più articolato: disporre di concetti vuol dire essenzialmente poterli usare per formulare giudizi, e delle forme generali delle proposizioni che usiamo per esprimere 158

Cfr. infra 3.5.

questi giudizi si occupa la logica159. Oltre a ciò, in molti casi non abbiamo dubbi sul fatto che i nostri giudizi vertano su qualcosa che è parte della realtà oggettiva e che siano anche veri, e dell’estensione e della natura della nozione di “realtà oggettiva” si occupa l’ontologia. Ma la forma fondamentale dei nostri giudizi affermativi è quella nella quale riconosciamo che un certo concetto generale si applica in qualche caso particolare che si incontra nell’esperienza e anzi la definizione stessa di cosa sia un “concetto generale” contiene un’ineliminabile riferimento all’esperienza, ovvero a quella che per Strawson è la nozione centrale dell’epistemologia.

3.4.8. Strawson. Ontologia Con Individui (1959), Strawson diede vita a un progetto filosofico che egli stesso etichettò con il nome di “metafisica descrittiva” e che consisteva in una descrizione di alcuni aspetti estremamente generali della struttura del pensiero umano. Con questa indicazione Strawson si poneva in contrasto sia con la metafisica correttiva di cui si dirà nel prossimo capitolo, sia con la fenomenologia linguistica di Austin, che si concentrava su singoli concetti per la chiarificazione dei quali era sufficiente un esame di certi specifici dettagli che giacciono, per così dire, sulla superficie del linguaggio. Muovendo dall’assunzione che esistano invece degli elementi strutturali generali che costituiscono il nucleo profondo e sostanzialmente invariante del nostro pensiero, Strawson riteneva necessario intraprendere un’indagine il cui oggetto non erano certi usi linguistici particolari, ma piuttosto l’analisi delle funzioni fondamentali svolte nel discorso dalle espressioni linguistiche (cioè il riferimento e la predicazione). Una caratteristica essenziale della metafisica descrittiva strawsoniana consiste nella sua impostazione trascendentale: essa affronta problemi che esistono solo perché la loro soluzione è possibile, secondo l’efficace formulazione dello stesso Strawson160. I nostri discorsi ordi159

160

Per Strawson è particolarmente importante, al livello della logica, esaminare la distinzione tra soggetti logici e predicati. Essa rappresenta infatti una via d’accesso alla comprensione della distinzione, questa volta di natura metafisica, tra particolari e universali. Cfr. Strawson 1959; tr. it.: 35.

nari testimoniano continuamente il fatto che noi pensiamo il mondo in un certo modo e l’indagine trascendentale del metafisico descrittivo ha inizio col domandarsi quali risorse concettuali debbano essere all’opera perché ciò avvenga. È del tutto evidente, ad esempio, che nei nostri discorsi ci riferiamo continuamente a specifici oggetti, persone ed eventi (tutti esempi di ciò che Strawson chiama particolari, almeno inizialmente in un’accezione intuitiva e pre-filosofica) per attribuire a essi certe proprietà. La nostra struttura di pensiero deve quindi essere costituita un modo tale da metterci in condizione di fare tutto questo. Il punto di fuga verso il quale converge l’intera indagine trascendentale di Strawson è rappresentato dalla nozione di identificazione di particolari161. Che cosa significa esattamente “identificare un particolare”? In generale si può parlare di riferimento identificante (ossia di casi nei quali, usando il linguaggio, si ha successo nell’identificazione) quando un parlante impiega una certa espressione per riferirsi a un dato particolare (oggetto, evento, persona, luogo ecc.) che l’ascoltatore è in grado di individuare correttamente. Strawson fa anche notare come spesso si identifichino particolari in modo indiretto, ‘passando’, per così dire, per il riferimento ad altri particolari che si suppone l’ascoltatore sia già in grado di identificare indipendentemente (ad esempio: parlando con qualcuno che conosce Mario, possiamo riferirci in modo identificante a una certa persona usando la descrizione “La moglie di Mario”). Le espressioni di tipo dimostrativo come “Questo” o “Quell’automobile” possono venire usate in modo univocamente identificante solo se i particolari cui ci si vuole riferire sono attualmente disponibili per via percettiva sulla scena nella quale si trovano tanto il parlante quanto l’ascoltatore. Strawson ritiene che una simile identificazione “dimostrativa” sia fondamentale: un particolare è sempre qualcosa che può, almeno in linea di principio, divenire oggetto di un atto di identificazione dimostrativa e questo, a ben vedere, ci informa anche del fatto che un particolare è sempre collocato nello spazio e nel tempo. Nel caso di espressioni referenziali di natura diversa, come i nomi e le descrizioni, chiaramente l’identificazione non ha luogo in modo 161

Strawson faceva spazio nella propria teoria anche alla trattazione della reidentificazione dei particolari, e con ottime ragioni: “[I] nostri metodi di reidentificazione devono tener conto di fatti come questi: che il campo della nostra osservazione è limitato, che andiamo a dormire, che ci muoviamo” (Strawson 1959; tr. it.: 29).

diretto e per via percettiva, bensì sulla base della conoscenza di un fatto individuante riguardante il particolare in questione, un fatto linguisticamente catturato da una descrizione che è vera unicamente di quel particolare162. Queste analisi conducono direttamente a una tesi centrale della metafisica descrittiva strawsoniana: l’identificazione dei particolari, che è così evidentemente pervasiva del nostro modo di parlare, può aver luogo soltanto a condizione di pensare (seppur in un modo del tutto implicito) alla realtà come a un unico sistema di relazioni spaziali e temporali nel quale ogni particolare può essere posto in connessione con qualsiasi altro. Quando, nei nostri discorsi, riusciamo a riferirci in modo da identificare questo o quel particolare, ciò avviene perché siamo stati in grado di orientarci entro quel sistema onnicomprensivo, del quale siamo noi stessi parte. Non è difficile, a questo punto, indicare quale sia nel quadro della teoria di Strawson la domanda fondamentale per quanto riguarda più specificamente il problema ontologico: esiste una classe di particolari che sia fondamentale ai fini del funzionamento del ‘meccanismo’ del riferimento identificante? In altri termini: c’è un tipo di particolari che sono oggetti di riferimento imprescindibili per il nostro discorso (e per la struttura di pensiero che esso esprime)? La risposta a questa domanda è positiva ed è sorretta ancora una volta da un’argomentazione trascendentale: una volta che si sia riconosciuta come adeguata una certa caratterizzazione del nostro schema concettuale (una caratterizzazione che mette in evidenza la centralità dell’identificazione dei particolari), allora segue che un certo tipo di entità, i corpi materiali, devono essere i particolari di base del sistema. I particolari di una certa classe possono dirsi “di base” se e solo se sono identificabili in modo indipendente, ossia se e solo se si possono identificare senza bisogno di dover preliminarmente identificare particolari di un tipo differente. Questa conclusione si può raggiungere perché, una volta descritto il modo in cui, di fatto, funziona il riferimento identificante, siamo anche in grado di elencare le proprietà delle quali i nostri particolari di 162

Questo ci permette anche di cogliere un aspetto significativo della concezione strawsoniana del linguaggio: i nomi sono espressioni che svolgono la propria funzione referenziale solo per il fatto di essere associati a certe descrizioni. Soltanto le descrizioni, infatti, possono essere vere di qualcosa e a fortiori essere vere di uno e un solo particolare.

base devono godere per essere congruenti con quelle stesse modalità di funzionamento, ossia: 1) si deve trattare di oggetti tridimensionali che hanno una certa durata nel tempo, e 2) devono risultare accessibili agli strumenti di osservazione a nostra disposizione163. È evidente che la categoria di oggetti che è in possesso di questi requisiti è precisamente quella dei corpi materiali. Nella teoria di Strawson, tuttavia, i corpi materiali non sono le uniche entità fondamentali. L’autore di Individui ha infatti costruito un’articolata argomentazione per sostenere la tesi della primitività logica del concetto di persona intesa come un tipo di entità cui sono ugualmente applicabili predicati esprimenti caratteristiche fisiche (come l’avere una certa statura) e predicati esprimenti stati di coscienza (come l’avere intenzione di fare una certa cosa). Per Strawson il riconoscimento della primitività del concetto di “persona” da un lato sembra dare effettivamente conto del modo in cui pensiamo e parliamo di noi stessi e dei nostri simili e, dall’altro, rappresenta un’efficace soluzione ai problemi del dualismo mente/corpo di stampo cartesiano. In conclusione: nell’ontologia implicita nel discorso ordinario le persone sono entità fondamentali alla stessa stregua dei corpi materiali.

Bibliografia ragionata 1. Per una introduzione generale P. Leonardi, La filosofia del linguaggio ordinario, in M. Santambrogio, Introduzione alla filosofia analitica del linguaggio, Roma-Bari, Laterza, 1992 2. Sul ‘secondo’ Wittgenstein A. Kenny, Wittgenstein, London, Penguin, 1973; Wittgenstein, tr. it. di E. Moriconi, Torino, Boringhieri, 1984 (Capp. 7-11) P.M.S. Hacker, Wittgenstein’s Place in Twentieth-Century Analytic Philosophy, London, Blackwell, 1996 (Cap. 5) 163

Strawson aggiunge anche che “[...] poiché l’efficacia di questi strumenti è rigorosamente limitata, devono avere nel loro insieme abbastanza diversità, ricchezza, stabilità e durata da rendere possibile e naturale proprio quella concezione di una singola struttura unitaria che abbiamo” (Strawson 1959; tr. it.: 34).

M. Andronico, Giochi linguistici e forme di vita, in D. Marconi, Guida a Wittgenstein, Roma-Bari, Laterza, 20022 3. Su Austin K. Graham, J.L. Austin. A Critique of Ordinary Language Philosophy, Harvester, Hassocks, 1977 4. Su Ryle G. Ramoino Melilli, Filosofia e analisi in Gilbert Ryle, Pisa, ETS, 1983 5. Su Strawson R. Corvi, La filosofia di P.F. Strawson, Milano, Vita e Pensiero, 1979 L.E. Hahn, a c. di, The Philosophy of P.F. Strawson, Chicago - La Salle, Open Court, 1998

3.5. REVISIONE di Sascia Pavan

3.5.1. “Essere è essere il valore di una variabile” In Carnap abbiamo registrato un netto rifiuto della metafisica, e in Strawson il progetto di una metafisica descrittiva. A mezza via, per così dire, tra i due, si trova il progetto di Quine164 (1908-2000) di una ontologia correttiva o revisionaria. Per poter presentare il suo criterio ontologico è necessario introdurre alcune nozioni elementari di logica. I linguaggi naturali contengono delle espressioni comunemente chiamate “quantificatori”, per esempio in italiano abbiamo “tutti”, “ogni”, “qualche”, “alcuni”, “nessuno” e molte altre. I quantificatori si trovano solitamente uniti a espressioni nominali e possono essere al singolare o al plurale, con o senza articolo, a seconda delle proprietà sintattiche di ciascuno, come in “tutti gli uomini”, “qualche filosofo”. Possono occupare la posizione di soggetto o di complemento, come in “Tutti gli uomini sono mortali”, “Mario ammira qualche filosofo”. Particelle come “e”, “oppure”, “non”, “se_allora_” vengono invece chiamate “connettivi”. Esse possono unire sia enunciati, per formare enunciati più complessi, come in “Piove e fa freddo”, sia termini, generando termini composti, come “i cani e i gatti”. Possiamo semplificare la forma degli enunciati in vari modi. Innanzitutto i quantificatori possono venire ridotti alla coppia “ogni” 164

I primi lavori di Willard Van Orman Quine sono di logica matematica, in particolare di teoria degli insiemi. Come fi losofo si è formato all’incrocio di due tradizioni di pensiero: il pragmatismo americano, in particolare quello di John Dewey (1859-1952), e il neopositivismo di Rudolf Carnap e Otto Neurath (supra 3.3). È stato uno dei protagonisti indiscussi della fi losofia analitica. Le sue tesi ontologiche sono enunciate in alcuni articoli, quali Su ciò che vi è (1948), Relatività ontologica (1968a), Il destino degli oggetti fisici (1976a) e nel settimo capitolo della sua opera principale, Parola e oggetto (1960).

e “qualche”. Inoltre possiamo separare i quantificatori dai termini generali che li accompagnano, inserendo il termine surrogato “cosa” per rendere grammaticalmente accettabili le frasi. “Ogni uomo è mortale” diventa “Ogni cosa è tale che, se essa è un uomo allora essa è mortale”, dove un quantificatore isolato è seguito da un condizionale. Invece da “Qualche fi losofo corre” si ottiene “Qualche cosa è tale che, essa è un fi losofo e corre”, cioè un quantificatore seguito da una congiunzione. Possono inoltre essere eliminate le occorrenze dei connettivi che non servano a collegare enunciati, così al posto di “Gianni ama i cani e i gatti” abbiamo “Gianni ama i cani e ama i gatti”165. In uno stesso enunciato possono occorrere più quantificatori, come in “Ogni fi losofo ammira qualche psicologo”, ma quest’enunciato riscritto secondo i metodi sopra indicati si trasforma nell’espressione poco comprensibile “Ogni cosa è tale che, se essa è un fi losofo, allora qualche cosa è tale che, essa è uno psicologo ed essa ammira essa”. I logici evitano il pasticcio sostituendo i pronomi come “essa” con delle variabili graficamente distinte “x”, “y”, “z”,...: “Ogni cosa x è tale che [se x è un fi losofo allora qualche cosa y è tale che (y è uno psicologo e x ammira y)]”. A questo punto si può sopprimere il termine “cosa” e fare seguire il quantificatore direttamente da una variabile. Il ruolo delle variabili in questo linguaggio semi-formalizzato è del tutto analogo a quello dei pronomi come “essa”, “egli”, “lui” del linguaggio naturale, ma senza di esse lo sviluppo della logica e della matematica sarebbe stato praticamente impossibile. Ulteriori semplificazioni sono possibili se, come i più fanno, si accetta quella che si chiama logica classica e con essa il principio di bivalenza, per cui ogni enunciato è o vero o falso166. Ognuno dei due quantificatori può allora essere defi nito in funzione dell’altro: se ad esempio “ogni” viene preso come primitivo, allora ogni enunciato della forma “Qualche x è tale che Fx” può essere riscritto come “Non ogni x è tale che non Fx”. Anche il numero dei connettivi primitivi può essere ridotto: sono sufficienti “non” e uno a scelta tra “e”, “oppure”, “se_allora_”. Ad esempio “p oppure q” equivale a “non [(non p) e (non q)]”; “se p 165

166

C’è qualche trabocchetto che mostra che le cose sono un po’ più complicate di quanto sembrerebbe da questa esposizione. Ad esempio “Gianni e Mario sono fratelli” non equivale a “Gianni è fratello e Mario è fratello”. Enunciati in cui occorrono dei pronomi non interpretati, come quelli di cui si parla nel capoverso seguente, non vanno considerati delle violazioni di questo principio.

allora q”, a “(non p) oppure q”. Questo linguaggio austero viene comunemente chiamato linguaggio del prim’ordine167. In “Ogni x è tale che, se x è un uomo, allora x è mortale” si dice che la seconda e la terza occorrenza di “x” sono vincolate dal quantificatore “ogni x”. Una variabile che occorra non vincolata è detta libera. Un’espressione che contenga almeno una variabile libera, come “x è un uomo”, viene detta formula aperta. L’espressione “Egli è un filosofo” non è né vera né falsa, a meno che non venga assegnato un riferimento a “egli”. Allo stesso modo, a una formula aperta con una variabile libera “x” si può attribuire un valore di verità solo se si assegna un valore a “x”. Assumiamo che Fido sia un cane; assegnando Fido come valore di “x” in “x è un cane”, rendiamo vera questa formula aperta, allora diciamo che Fido soddisfa la formula aperta. Con un po’ di ingegno la definizione di soddisfazione viene estesa per coprire formule aperte con più di una variabile libera. Adesso possiamo dire in quali condizioni un enunciato con un quantificatore è vero: se “Fx” è una qualsiasi formula aperta, allora “Ogni x è tale che Fx” è vero se e solo se ogni cosa soddisfa “Fx”. L’insieme delle entità che devono soddisfare “Fx” perché “Ogni x è tale che Fx” sia vero, viene chiamato dominio di quantificazione. In maniera analoga, l’enunciato “Qualche x è tale che Fx” è vero se e solo se c’è almeno una cosa nel dominio di quantificazione che soddisfa “Fx”. È ora possibile presentare il criterio ontologico di Quine. Esso è condensato nello slogan “Essere è essere il valore di una variabile”168. Più che dirci che cosa c’è là fuori, serve a indicare che cosa una data teoria dice che c’è, in altre parole a misurarne l’impegno ontologico169. Le due cose sono però collegate perché, per stabilire che cosa esiste, il modo migliore è avere una teoria vera sul mondo e determinare che cosa essa dice che c’è. In base al criterio ontologico di Quine, la verità di una teoria comporta l’esistenza di tutte e sole le cose che devono essere presenti nel dominio di quantificazione delle variabili vincolate dei suoi enunciati. L’idea è che il senso del verbo esistere sia espresso 167 168 169

Per una breve presentazione di questo campo cfr. Haack 1978. Quine 1948: 15 (tr. it. 2004: 29). In Quine 1968b: 96 (tr. it. 1986: 119); 1969: 315, Quine introduce una distinzione tra ontologia e impegno ontologico. Personalmente la ritengo abbastanza oscura, comunque può essere tralasciata in questa esposizione. Cfr. Gochet 1986: 70. Per una trattazione approfondita dell’impegno ontologico, cfr. infra 5.6.

dal quantificatore “qualche” e che il senso di una forma quale “Esistono cani” possa essere reso da “Qualche x è tale che x è un cane”. “Socrate esiste”, invece, diventa “Qualche x è tale che x è (identico a) Socrate”170. Possiamo rintracciare un progenitore di questa tesi nella seguente frase di Platone: “L’espressione ‘qualche cosa’ la pronunciamo sempre a proposito di qualcosa che è”171.

3.5.2. L’eliminazione dei nomi propri Un termine singolare è un’espressione con cui ci si intende riferire a un unico individuo, per esempio un nome proprio come “Socrate”, oppure una descrizione defi nita, cioè un termine complesso come “la Regina d’Inghilterra” o “l’autore di Word and Object”. Il senso della posizione di Quine diventa più nitido se vediamo alcuni esempi di cose che non vanno prese come indicatori di impegno ontologico. Che non lo siano i termini singolari dovrebbe essere già suggerito dal fatto che alcuni di essi, come “il Re di Francia” e “Pegaso”, sono privi di riferimento. C’è però un antico rompicapo fi losofico, noto come Barba di Platone, che riguarda l’apparente impossibilità di dire senza contraddizione che qualcosa non esiste. Prendiamo “Pegaso non esiste”. Se Pegaso non esiste, allora di che cosa si predica la non esistenza? Oppure, detto altrimenti, se non c’è nulla per cui il nome “Pegaso” sta, come fa esso (e gli enunciati che lo contengono) a essere dotato di significato? L’errore per Quine consiste nel confondere significato e riferimento. Di molte espressioni del linguaggio siamo disposti a dire che hanno un significato ma non un riferimento: gli articoli, le congiunzioni, o i termini che occorrono solamente in espressioni idiomatiche, come “cilecca”; perché “Le previsioni meteo hanno nuovamente fatto cilecca” abbia significato non serve che esistano cose come le cilecche. Espressioni diverse possono inoltre differire nel significato eppure avere lo stesso riferimento172, gli esempi di Frege sono “la stella della sera” e “la stella del mattino”, che si riferiscono entrambe al pianeta Venere173. 170 171 172 173

Quine 1968b: 94 (tr. it. 1986: 117). Platone, Sofista: 237d 1-2. Cfr. supra 3.2.5. Quine 1948: 9 (tr. it. 2004: 22); 1950: 264; Frege 1892a.

Una definizione esplicita di un’espressione consiste nel fornire un termine che può essere sostituito ovunque a quell’espressione lasciando inalterato il significato degli enunciati. Una definizione contestuale, invece, è una regola per trasformare ogni enunciato che contiene una data espressione in un altro che ne è privo ma che intuitivamente dice la stessa cosa174. L’analisi che Russell propone per le descrizioni definite175 consiste in una loro definizione contestuale. Nella teoria di Russell “L’autore di Word and Object è americano” diventa “C’è un unico autore di Word and Object ed è americano”, cioè “Qualche x è tale che [x è autore di Word and Object e ogni y è tale che (se y è autore di Word and Object, allora x=y) e x è americano]”. Analogamente, “Non esiste nessun Re di Francia” diventa “Non è vero che, qualche x è tale che [x è Re di Francia e ogni y è tale che (se y è Re di Francia, allora x=y)]”176. Quine propone una definizione contestuale anche per nomi propri come “Socrate” e “Pegaso”. Se “Pegaso” è equivalente a qualche descrizione definita, come “Il cavallo alato che venne catturato da Bellerofonte”, allora basta sostituire questo con quella e applicare direttamente la teoria di Russell. Non è però garantito che ogni nome proprio sia rimpiazzabile da qualche descrizione definita, è anzi probabile che per lo più non sia così, come mostrano alcuni argomenti dovuti a Saul Kripke177. Poco importa, si può introdurre un neologismo costituito da un predicato che per ipotesi sarà irriducibile e inanalizzabile, cioè “essere-Pegaso” o “Pegasizza”. “Pegaso non esiste” e “Pegaso vola” verranno resi, rispettivamente, con “Ogni x è tale che x non Pegasizza” e “Qualche x è tale che, x Pegasizza e x vola”. Lo stesso nome “Pegaso” può allora venire reintrodotto grazie alla teoria di Russell come un’abbreviazione di “La cosa che Pegasizza”. In sostanza ogni nome proprio viene sostituito da un termine generale che è vero solo del riferimento di quel nome, se questo ne ha uno, altrimenti di nulla178. Questa eliminazione dei termini singolari presenta inoltre il vantaggio di evitare il fastidio di avere enunciati privi di valore di verità. Nella concezione di Frege, un enunciato che contiene un termine pri174 175 176 177 178

Quine 1960: § 37. Cfr. supra 3.2.9. Russell 1905a; cfr. supra 3.2. Kripke 1972; 19802. Quine 1948: 7-8 (tr. it. 2004: 20-21).

vo di riferimento è – pur se dotato di senso, nella sua terminologia – né vero né falso179. La presenza di enunciati privi di valori di verità complica però notevolmente l’applicazione della logica al linguaggio.

3.5.3. Il problema degli universali Si potrà obiettare a Quine che, anche se ha mostrato che i termini singolari non sono indicatori di impegno ontologico, quanto ai predicati bisognerà ammettere che esistono delle entità astratte, degli attributi o proprietà, per cui essi stanno. Il termine generale “rosso” sta per la proprietà di essere rosso, o la rossezza, e anche “unicorno” e il neologismo “pegasizza” richiedono una proprietà, per quanto non posseduta da nulla. Ci sono rose rosse, case rosse e tramonti rossi, dunque qualcosa, la rossezza, che essi hanno in comune. È la riedizione dell’antico problema degli universali, rispetto al quale la posizione di Quine richiama la soluzione nominalista: “rosso” si può predicare con verità di molte delle cose esistenti nel mondo, “unicorno” di nulla, ma non guadagniamo nulla, dal punto di vista esplicativo, nel postulare delle entità come le proprietà sopra i singoli individui. A questo punto si potrebbe obiettare a Quine che anch’egli deve concedere che queste espressioni possiedono un significato; ma se è così ci sarà un’entità, il significato appunto, associata a tali espressioni e questo significato può essere ciò che il teorico degli universali chiama attributo o proprietà. Ma secondo Quine dal fatto che un’espressione ha un significato non segue che c’è un’entità, il significato, che quell’espressione ha. “Avere un significato” va inteso come un’espressione idiomatica180. Per riassumere, né l’uso di un termine singolare né quello di un predicato comportano, di per sé, alcun impegno ontologico; solo l’uso implicito o esplicito di variabili vincolate ne comportano uno. Perché l’enunciato “Alcuni cani sono bianchi” sia vero, non si richiede che ci siano né la bianchezza, né la caninità, certo si richiede che esistano cose che allo stesso tempo siano dei cani e siano bianche.

179 180

Cfr. supra 3.2. Quine 1948: 9-12 (tr. it. 2004: 23-25); 1953b: 47-48 (tr. it. 2004: 67-69).

3.5.4. Relatività ontologica Tra le dottrine elaborate da Quine certamente la più celebre e dibattuta è quella dell’indeterminatezza della traduzione. Essa afferma che, dovendo tradurre una lingua in un’altra, è possibile elaborare manuali di traduzione alternativi e incompatibili, tali che una stessa espressione di una lingua viene tradotta con espressioni diverse dell’altra, che in nessun caso potremmo considerare sinonime. Tuttavia non è possibile decidere, in base all’uso che i parlanti fanno della lingua, quale dei manuali sia corretto: d’accordo con Dewey e Wittgenstein, egli sostiene che le proprietà semantiche delle parole siano completamente determinate dal modo in cui vengono usate e, di conseguenza, che questi manuali alternativi incompatibili siano tutti egualmente corretti181. Questa tesi si inserisce all’interno del tentativo di demolire le nozioni di sinonimia e significato. Secondo Quine, per parlare dell’impegno ontologico di una data teoria serve uno schema di riferimento, che sarà costituito da un linguaggio di sfondo nel quale tradurre la teoria di partenza. L’ontologia di una teoria viene così a essere doppiamente relativa: è relativa al linguaggio che si sceglie come linguaggio di sfondo ed è relativa al manuale di traduzione con cui si sceglie di interpretare la teoria. Visto che la traduzione è indeterminata e dunque esistono sempre diversi manuali alternativi corretti, ci sono modi alternativi di specificare l’impegno ontologico di una teoria. Questa è la tesi della relatività ontologica182.

3.5.5. Forma canonica Secondo una veneranda tradizione di pensiero, di cui oltre a Quine fanno parte anche Frege e Russell, i linguaggi naturali sono vaghi e imprecisi. Questa imprecisione non è di per sé un difetto, bensì un aspetto funzionale alla loro praticità e flessibilità negli usi quotidiani, tuttavia rende ardua l’applicazione della logica. D’altra parte una teoria scientifica o filosofica ci risulta tanto più chiara quanto più sono evidenti le implicazioni logiche degli enunciati che la costituiscono. Ecco perché Quine raccomanda l’elaborazione di una forma canonica, ossia 181 182

Quine 1960: cap. 2. Quine 1968a.

un linguaggio irreggimentato in cui ogni enunciato scientifico possa, in linea di principio, venire espresso. La struttura di questo linguaggio è data dalla logica che abbiamo descritto sopra, con i quantificatori, i connettivi e il predicato d’identità. A ciò andranno aggiunti tutti quei predicati non logici richiesti per esprimere i concetti usati nel descrivere la realtà. Egli non raccomanda che questo tipo di linguaggio sia effettivamente utilizzato dallo scienziato o dal filosofo, però ritiene che, affinché una teoria o un sistema di pensiero siano concettualmente limpidi ed enunciati in maniera rigorosa, debbano, almeno in linea di principio, poter venire tradotti nel linguaggio austero della forma canonica, e che sia chiaro come questa traduzione vada effettuata. Una volta che si sappia come tradurre un enunciato o un insieme di enunciati nella forma canonica, sarà possibile valutarne gli impegni ontologici. L’interesse di una simile operazione non è solo pratico, ma anche filosofico: “La ricerca di uno schema globale assai semplice e chiaro di notazione canonica non deve essere distinto da una ricerca di categorie ultime, una descrizione dei tratti più generali della realtà”183. Va sottolineato che queste traduzioni non devono avere alcuna pretesa di sinonimia: visto che non esistono significati, tradurre un enunciato di una teoria nel linguaggio di un’altra non può avere lo scopo di preservare il significato dell’enunciato di partenza. L’unico requisito che questo genere di operazione deve soddisfare è che la teoria, così come viene espressa nel nuovo linguaggio, serva gli stessi scopi comunicativi della teoria di partenza, secondo l’insindacabile giudizio di chi la utilizza. L’irreggimentazione delle teorie ha la sola funzione di chiarificarle, in particolare rendere esplicite le conseguenze logiche degli enunciati e i loro impegni ontologici184. Una teoria soddisfacente del mondo deve, secondo Quine, accettare entità astratte nella sua ontologia, cioè entità non fisiche quali numeri e classi, e questo lo differenzia dai nominalisti. Un numero naturale è un qualsiasi elemento della serie infinita 0, 1, 2,.... Oltre a essi abbiamo i numeri razionali e i numeri reali. Le classi, dette anche insiemi, sono oggetti che possono avere altri oggetti come elementi, dunque la nozione fondamentale della teoria delle classi è quella di appartenenza; la proprietà fondamentale delle classi è data dal principio di estensionalità: se le classi x e y hanno gli stessi elementi, allora x e y sono la stessa classe. 183 184

Quine 1960: 161 (tr. it. 1970: 200). Ivi: § 33; 1981c: 9.

Non è detto che se un numerale occorre all’interno di un enunciato, allora l’impegno ontologico di quest’ultimo include numeri o altre entità astratte, poiché molti usi dei numerali possono essere eliminati tramite definizioni contestuali. Ad esempio, ciò che dice l’enunciato “Ci sono almeno due persone in questa stanza”, può essere espresso nel linguaggio del prim’ordine così: “Qualche x è tale che [qualche y è tale che (x è una persona e x è in questa stanza e y è una persona e y è in questa stanza e x≠y)]”. Non è lo stesso per “Ci sono tante forchette quanti coltelli” e “Alcuni artisti si ammirano fra di loro e non ammirano nessun altro”: per esprimere questi al prim’ordine è indispensabile includere le classi nell’ontologia185. Ad esempio, una volta tradotto in forma canonica, il secondo diventa “Qualche x è tale che, ogni y è tale che {se y appartiene a x allora [y è un artista e ogni z è tale che (y ammira z se e solo se z appartiene a x)]}” D’altra parte molte delle nostre teorie scientifiche, dunque quelle teorie che più efficacemente descrivono la realtà, fanno abbondantemente uso di concetti e dottrine matematiche per le quali il ricorso a entità astratte sembra indispensabile.

3.5.6. “Nessuna entità senza identità” Quine ritiene che in ontologia sia sempre bene cercare di fare un po’ di economia applicando il principio del rasoio di Ockham evocato nel capitolo precedente: gli enti non vanno moltiplicati senza necessità. Un metodo efficace per risparmiare è la riduzione, che consiste nell’identificare alcuni elementi del dominio con altri già presenti. Ad esempio, una volta che abbiamo le classi possiamo eliminare dal dominio un insieme autonomo di numeri naturali, e sostituirlo con dei surrogati scelti tra ciò che rimane. Abbiamo ampia varietà di scelta, va bene una qualsiasi progressione, cioè una serie infinita in cui ogni membro ha solo un numero finito di predecessori186, ad esempio la soluzione di John von Neumann (1903-1957), in cui lo zero è l’insieme vuoto187 e ogni altro numero corrisponde all’insieme di tutti i numeri 185 186

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Ivi: § 55; 1995: 42 (tr. it. 41). Per essere precisi, la progressione deve essere effettiva, tale cioè che la relazione di precedenza nella successione sia sempre computabile meccanicamente; Benacerraf 1965; Quine 1987: 139 (tr. it. 1991: 164). In ogni formulazione della teoria degli insiemi esiste un insieme privo di elementi e, per il principio di estensionalità, esso è unico.

che lo precedono188. Sempre grazie agli insiemi è possibile definire numeri razionali e numeri reali come particolari combinazioni insiemistiche di numeri naturali. È importante osservare che in questo caso l’eliminazione o riduzione riguarda non solo le entità, ma anche i predicati. Difatti sono tutte le nozioni matematiche, come somma, prodotto, le relazioni di maggiore e minore, a poter essere definite nei termini dell’appartenenza insiemistica189. Una regola che Quine ritiene necessario imporre a qualsiasi ontologia è il principio “Nessuna entità senza identità”190. Ci sono termini detti a riferimento diviso, tali cioè che le cose a cui essi si riferiscono possono venire contate, per esempio “coniglio”, “tavolo”, “montagna”, appunto perché è possibile dire “un coniglio”, “due tavoli”, “tre montagne”. Ma affinché ciò che dice un enunciato che contiene uno di questi termini sia chiaro, è necessario che sia chiaro il criterio di individuazione a essi associato. Se ad esempio asserisco “Ho scalato tre montagne”, perché sia possibile stabilire se ciò che ho detto è vero, è importante che si sappia come decidere quando due picchi fanno parte di una stessa montagna oppure costituiscono le vette di due montagne distinte. Quando un termine ha un criterio di identificazione non chiaro, la raccomandazione di Quine è o di renderlo più preciso191, se ciò è possibile e se il termine in questione ha un’utilità accertata all’interno della teoria, o di eliminarlo dal sistema. Questo anatema colpisce soprattutto le nozioni intensionali, quali attributo, proprietà, proposizione, significato. Di solito si ritiene che le proprietà siano entità astratte come gli insiemi, ma con criteri di identificazione più restrittivi della coestensionalità, altrimenti tra essi non vi sarebbe differenza. D’altra parte richiedere che ogni predicato del linguaggio richieda una proprietà distinta è egualmente ridondante. È tuttavia difficile trovare un criterio di identificazione intermedio tra questi due estremi che sia chiaro e soddisfacente. L’insieme dei triangoli equilateri è identico all’insieme dei triangoli equiangoli, ma che dire delle proprietà espresse dai termini “triangolo equilatero” e “triangolo equiangolo”?192 188 189

190 191 192

Quine 1960: 262-264 (tr. it. 1970: 320-323). Per un’introduzione alla teoria degli insiemi si veda Casalegno e Mariani 2004. Quine 1958: 23 (tr. it. 1986: 55). Quine 1960: § 26. Quine 1951a; 1960: §§ 42-44.

3.5.7. Ontologia e ideologia L’ontologia di una teoria è dunque data dal suo dominio di quantificazione. Bisogna a questo punto distinguere tra l’ontologia di una teoria e la sua ideologia, che nel gergo quineano è l’insieme dei concetti esprimibili all’interno della teoria193. Un esempio in cui questo iato si fa particolarmente rilevante è la differenza tra una teoria del mondo fisico e una teoria delle entità psicologiche. Secondo il dualismo psicofisico di stampo cartesiano, la mente e il corpo sono due sostanze distinte che interagiscono l’una sull’altra. Alcuni eventi fisici nel mondo causano modificazioni nella mente attraverso la percezione, e modificazioni della mente hanno invece conseguenze sul piano fisico, cioè i movimenti volontari del corpo. Non è mai stato chiaro come sia possibile l’interazione tra le due sostanze, in particolare come ciò possa avvenire senza che siano violate le leggi di conservazione dell’energia che sembrano valere nel mondo fisico. Oggi saremmo propensi ad ammettere che a ogni stato o evento mentale corrisponda qualche stato o evento fisico, come una modificazione nel cervello o nel sistema nervoso. Ma a questo punto persistere nel sostenere il dualismo delle sostanze è inutilmente ridondante, tanto vale semplificare l’ontologia e identificare lo stato o evento mentale con lo stato o evento fisico che lo realizza, dunque convertirsi al monismo fisicalistico. Il dualismo permane, ma non più per gli oggetti o le sostanze, bensì per i predicati, poiché alcuni di essi continuano a essere irriducibilmente mentalistici. È il monismo anomalo, dottrina psicologica proposta da Donald Davidson194 (1917-2003) e pienamente sottoscritta da Quine195: una teoria del mondo fisico e una teoria psicologica condividono la stessa ontologia di stati e oggetti fisici, eppure raggruppano gli stessi enti in maniere irriducibilmente diverse. Solo la seconda può esprimere concetti come “pensare a Vienna”, “credere che Marco sia andato a Roma”. Quando Quine si fa prendere un po’ la mano, si diverte a mostrare che possiamo portare la riduzione ontologica ben oltre i limiti del 193 194

195

Quine 1953c. Davidson 1970; 1997. Espresso altrimenti, il monismo anomalo dice che sebbene ogni singolo oggetto o evento sia qualcosa di fisico, non esistono leggi che correlino eventi mentali ed eventi fisici. Quine 1987: 133-134 (tr. it. 1991: 150-151); 1995: 87-88 (tr. it. 2001: 83-84).

senso comune. Se accettiamo il fisicalismo, la nostra teoria del mondo può limitarsi a un’ontologia di oggetti fisici e classi. Ma a questo punto un’ulteriore riduzione è possibile. Innanzitutto che cos’è un oggetto fisico? Per Quine è il contenuto materiale di una porzione di spaziotempo196. Poiché a ogni oggetto fisico è associata una e una sola di queste regioni spaziotemporali, è possibile identificare gli oggetti con le rispettive regioni197. Ognuna di queste è un insieme di punti dello spaziotempo e ogni punto è specificabile con una quadrupla di numeri reali, relativamente a un sistema arbitrario di coordinate. L’ultimo passo che si presenta è eliminare un insieme autonomo di regioni spaziotemporali e sostituirle con i corrispondenti insiemi di quadruple di numeri reali. Il risultato è un’ontologia di sole entità astratte che, poiché i numeri sono stati definiti in funzione degli insiemi, comprenderà solo insiemi, una forma estrema di pitagorismo. Quest’esito può lasciare perplessi, ma si consideri che la riduzione riguarda solo l’ontologia e lascia inalterata l’ideologia; non sembra infatti possibile definire i predicati necessari per esprimere le nostre teorie sul mondo con i soli concetti della teoria degli insiemi. In questo senso, la relazione fra teoria fisica e teoria degli insiemi è analoga a quella che sussiste tra psicologia e teoria fisica secondo il monismo anomalo. È notevole il contrasto con la matematica, i cui concetti possono invece venire definiti con il solo vocabolario insiemistico, e in questo caso è anche l’ideologia a venire semplificata. Mostrare che, se si vuole, ci si può limitare a un’ontologia di soli insiemi è solo un altro modo per dimostrare la relatività ontologica198 e la conclusione che Quine ne trae è un ridimensionamento dell’ontologia a vantaggio dell’ideologia: Potremmo reagire nel modo più naturale a questo stato di cose dando meno importanza alle pure considerazioni ontologiche di quanto eravamo soliti fare. Potremmo arrivare a considerare ordinariamente la matematica pura come il luogo dell’ontologia e a considerare piuttosto che è il lessico della scienza naturale, e non l’ontologia, dove ha luogo l’azione metafisica199. 196 197

198 199

Quine 1976a: 497 (tr. it. 1982: 144). Egli mostra che, almeno fi no a questo punto, l’operazione è raccomandata da un’esigenza concettuale interna alla stessa teoria fisica: 1976a: 503 (tr. it. 1982: 150). Quine 1990c: 334. Quine 1976a: 504 (tr. it. 1982: 151).

3.5.8. Il dibattito critico

Non esiste, nel campo analitico tradizionale, una precisa tradizione di pensiero alternativa al criterio ontologico di Quine. Inoltre, essendo questo criterio abbastanza chiaro e persuasivo, inevitabilmente le posizioni rivali si fondano su argomenti sottili e complessi, è pertanto difficile discuterne esaurientemente qui200. La maggior parte delle critiche contesta il privilegio dato alla logica del prim’ordine a scapito di altri sistemi. In particolare della logica modale, che contiene operatori come “necessariamente” e “possibilmente”. Di quella del second’ordine, nella quale, oltre a variabili individuali – cioè variabili che possono occupare le posizioni dei termini singolari – e i relativi quantificatori, ci sono variabili predicative, che possono occorrere nelle posizioni occupate dai predicati e che possono venire vincolate da appositi quantificatori. E di quella sostituzionale, in cui “Qualche x è tale che Fx” è vero non quando esiste qualche cosa che è F, ma se e solo se nel linguaggio c’è qualche termine singolare che, se aggiunto alla formula “F”, dà luogo a un enunciato vero201. In testi di ontologi contemporanei come Charles Parsons, Nino Cocchiarella, David Lewis (1941-2001) e Charles Chihara, queste risorse vengono impiegate ingegnosamente per costruire una matematica nominalista 202. Contro la logica modale, Quine ritiene che necessario e possibile siano nozioni oscure delle quali la scienza può fare a meno203. Anche nei confronti della logica del second’ordine il suo atteggiamento è in generale ostile, non trovandoci vantaggi rispetto all’adozione di logica del prim’ordine e teoria degli insiemi, ma solo oscurità e complicazioni formali204. Poco prima di morire, però, commentando il lavoro di Lewis, ha espresso un parere più conciliante, limitandosi a rimarcare l’unica mancanza di una metafisica nominalista, quella di far risultare false molte apparenti verità matematiche, nel caso in cui l’universo si trovasse a essere popolato da una quantità insufficiente 200

201 202

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Una parziale ma buona rassegna del dibattito è quella di Orenstein 2002: 34-37; 71-73; 114-117. Su questi e altri sistemi alternativi alla logica del prim’ordine, cfr. Haack 1978. C. Parsons 1971; Cocchiarella 1986; D. Lewis 1991; Chihara 2004. Il campo è presentato sinteticamente, ma in maniera chiara e perspicua, in Simons 1993. Quine 1953d; 1960: § 41; 1976b; 1977; 1986: 114-115; 1990a. Quine 1970: 66-68.

di oggetti205. Inoltre, Quine non vede particolari problemi concettuali nella quantificazione sostituzionale, tranne il fatto che un linguaggio con soli quantificatori sostituzionali incontra delle difficoltà quando gran parte delle cose di cui vogliamo parlare non ha un nome206. C’è inoltre chi sostiene che sia contrario al senso comune dire che un’entità astratta come un numero esiste nello stesso senso in cui lo si dice di oggetti concreti come tavoli o gatti, tesi che può essere fatta risalire a Carnap207. La risposta di Quine è che questo equivale ad adottare stili di variabili diverse – e dunque domini di quantificazione distinti – per tipi diversi di entità, cosa che può rendere il linguaggio più maneggevole per alcuni aspetti, ma che non aggiunge nulla, dal punto di vista espressivo, a un linguaggio con uno stile unico di variabili. Detto in altri termini, se si vuole riconoscere una differenza tra l’esistenza di un tavolo e l’esistenza di un’entità astratta, allora essa può venire facilmente ricondotta a quella, abbastanza notevole, che c’è tra il tavolo e l’entità astratta, senza il bisogno di introdurre due sensi distinti di “esistere”208. La tesi della distinzione viene riproposta, per quanto in maniera solo programmatica e alquanto vaga, da Stephen Yablo e Hans-Johann Glock 209. Così come il criterio quineano di impegno ontologico, anche il suo requisito di criteri di identificazione precisi fa ormai parte del senso comune filosofico, ma sono comunque presenti delle posizioni critiche, come in Strawson, di cui si è detto nel capitolo precedente, Michael Jubien, Massimiliano Carrara e Pierdaniele Giaretta210. Maggiori resistenze ha invece incontrato l’eliminazione dei nomi propri, per esempio in Strawson, Paolo Leonardi ed Ernesto Napoli211.

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Quine 1992: 6. Quine 1987: 33-36 (tr. it. 1991: 67-70); 1968b: 104-107 (tr. it. 1986: 125-128); Simons 1993: 255, 261. Carnap 1947 (19562: 205-221; tr. it. 1976: 325-350); cfr. supra 3.3. Quine 1960: 131; 242 (tr. it. 1970: 164-165; 296-297); 1987: 191 (tr. it. 1991: 216). Ma cfr. anche Quine 1990b: 272. Yablo 1998; Glock 2002: 249-252. Strawson 1976; Jubien 1996; Carrara e Giaretta 2004. Strawson 1956; Leonardi e Napoli 1995.

Bibliografia ragionata 1. Sulle posizioni metafisiche e ontologiche di Quine P. Gochet, Ascent to Truth. A Critical Examination of Quine’s Philosophy, München, Philosophia Verlag, 1986 (cap. 3) A. Orenstein, W.V. Quine, Princeton, Princeton University Press, 2002 (capp. 2-3) 2. Critiche alle tesi ontologiche di Quine P.F. Strawson, Singular Terms, Ontology, and Identity, “Mind”, 65 (1956): 433-454 P.F. Strawson, Entity and Identity, in H.D. Lewis, a c. di, Contemporary British Philosophy, Fourth Series, London, George Allen and Unwin, 1976: 193-220; ora in P.F. Strawson, Entity and Identity: and other Essays, Oxford, Oxford University Press, 1997 P. Simons, Who’s Afraid of Higher-Order Logic?, “Grazer Philosophische Studien”, 64 (1993): 253-264 M. Jubien, The Myth of Identity Conditions, “Philosophical Perspectives”, 10 (1996): 343-356 S. Yablo, Does Ontology Rest on a Mistake?, “Proceedings of the Aristotelian Society Supplementary”, 72 (1998): 229-261 H.-J. Glock, Does Ontology Exist?, “Philosophia”, 77 (2002): 235-260 M. Carrara - P. Giaretta, The Many Facets of Identity Criteria, “Dialectica”, 58 (2004): 221-232 3. Sull’indeterminatezza della traduzione e la relatività ontologica A. Orenstein, W.V. Quine, Princeton, Princeton University Press, 2002 (cap. 6) 4. Altre introduzioni al pensiero di Quine R.F. Gibson, The Philosophy of Quine, Tampa, University Press of Florida, 1982 C. Hookway, Quine, Cambridge, Polity Press, 1988 G. Origgi, Introduzione a Quine, Roma-Bari, Laterza, 2000 5. Per approfondimenti e per gli sviluppi ultimi della filosofia di Quine D. Davidson - J. Hintikka, a c. di, Words and Objections: Essays on the Work of W.V. Quine, Dordrecht, Reidel, 1969

L.E. Hahn - P.A. Schilpp, a c. di, The Philosophy of W.V. Quine, La Salle, Open Court, 1986 R. Barrett - R. Gibson, a c. di, Perspectives on Quine, Cambridge (Mass.), Blackwell, 1990 P. Leonardi - M. Santambrogio, a c. di, On Quine, Cambridge, Cambridge University Press, 1995 P. Kotatko - A. Orenstein, a c. di, Knowledge, Language and Logic: Questions for Quine, Dordrecht, Kluwer, 2000

4. STATO DELL’ARTE

4.1. SCIENZE COGNITIVE1 di Roberto Casati 4.1.1. La natura delle domande metafisiche Il nucleo centrale dei problemi filosofici è costituto dai problemi ontologici2; ma anche lo studio dei fondamenti delle discipline scientifiche comporta una parte di studio delle loro ontologie. Esistono le entità sociali, e qual è la loro natura? E lo spazio e il tempo? I numeri? E le entità di cui parla la fisica delle particelle? O non ci sono invece solo gli individui, cui le entità sociali devono essere ridotte? Cui si devono ridurre lo spazio e il tempo? Che cosa sono questi individui, quali sono le loro caratteristiche fondamentali, e in che modo acquisiscono un privilegio rispetto ad altre classi di entità? Si possono vedere 1

2

Le basi di questo capitolo sono in una serie di discussioni con Alvin Goldman durante un soggiorno di ricerca alla Rockfeller Foundation di Bellagio, che viene qui ringraziata per l’eccezionale qualità delle condizioni di lavoro e la generosa disponibilità. Alvin Goldman (n. 1938) – che insegna fi losofia alla Rutgers University in New Jersey e le cui ricerche spaziano dalla fi losofia della mente all’epistemologia e alla metafisica – lavora da più di una decade a un progetto di confronto tra metafisica e scienze cognitive. Il lavoro in comune, in prospettiva, riguarda la possibilità di articolare tale progetto su diversi settori della metafisica contemporanea. Nonostante l’ovvia comunanza di sfondo nelle rispettive vedute, e il mio tentativo di rendere fedelmente la posizione di Goldman, questo articolo non pretende di rappresentare una posizione comune. Come si è visto nella Introduzione del presente volume, la letteratura fa una distinzione tra ontologia e metafisica, che tipicamente si riassume in questo: l’ontologia cerca una risposta alla domanda “le cose del tipo T esistono?”, la metafisica alla domanda “qual è la natura delle cose di tipo T”? Per gli scopi del presente saggio non faremo una distinzione così sottile, che sembra legata a controversie terminologiche, e useremo in modo interscambiabile “ontologia” e “metafisica”; in entrambi i casi si tratta di questioni chiaramente distinte da quelle di ordine semantico, poniamo, o epistemologico.

in queste domande delle questioni tipicamente filosofiche, in quanto opposte a questioni scientifiche; e certamente non sembra possibile mettere a punto un metodo sperimentale, o un qualche tipo di calcolo, per decidere se esistono solo le persone e i sassi o non invece anche le famiglie, le associazioni dei consumatori o i quark. Al tempo stesso non si tratta di questioni completamente estranee alle discipline scientifiche che si destreggiano con le entità menzionate nella nostra lista. Se pure le nozioni fondamentali e le quantità della fisica o della psicologia sociale sono implicitamente definite dalle variabili operative che le descrivono nel contesto delle teorie rispettive, l’operazionalizzazione di queste variabili è una conseguenza, e non una causa, del tipo di concezione preliminare che ci facciamo delle entità in questione. (Ad esempio, posso operazionalizzare la variabile “sicurezza” come numero di arresti effettuati dalla polizia; ma questo numero, per quanto utile, rischia di misurare soltanto l’ardore delle forze dell’ordine e non il senso più generale del concetto di sicurezza che si aveva in mente; il quale senso dev’essere chiarito prima di decidere come passare a una misura quantitativa). Ne consegue che il lavoro di analisi concettuale, il lavoro fi losofico in senso lato, è iscritto nel novero delle pratiche intellettuali di ciascuna disciplina. Ma questo crea un problema di non poco momento. Dato che gli strumenti intellettuali propri della disciplina di volta in volta in questione non hanno né la capacità né la pretesa di essere d’ausilio all’analisi concettuale, che è metadisciplinare (per l’appunto non ci sono esperimenti o protocolli di indagine empirica per decidere se le entità sociali esistono), ci si deve chiedere quali garanzie sono disponibili per l’adeguatezza di tale analisi. È curioso che non sia stata quasi mai data una risposta esplicita a questo problema; ma la risposta implicita è fin troppo chiara; l’analisi concettuale è basata su delle intuizioni, di tipo semantico/concettuale, verbalizzate direttamente o ricavabili da inferenze che mettono in gioco i concetti in questione3. Ma di intuizioni pur sempre si tratta. Un esempio dell’uso delle intuizioni in ontologia riguarda la costituzione (o composizione) e l’identità delle cose materiali. Togli un frammento a un sasso; è la stessa cosa o una cosa diversa? Togli un capello a Socrate: è un altro individuo? Ripara con maniacale precisione la nave di Teseo, conservando i pezzi vecchi; una volta che li hai 3

Goldman e Pust 1998.

sostituiti tutti, ricomponi una nave. Adesso di navi ne hai due, una che è sempre andata per mare, una che esce dalla cantina; quale delle due è la nave di Teseo? Per rispondere a queste domande, richiamiamo alla mente le situazioni descritte, e mettiamo al lavoro l’intuizione. Eventualmente inventiamo delle altre situazioni in cui alcune cose ci sembrano oggetti plausibili per certi versi ma finiscono con l’apparire intuitivamente inaccettabili per altri versi. Se la fonte primaria del lavoro filosofico, e in particolare ontologico, sono le intuizioni, la domanda fondazionalista si trasferisce alla legittimità dell’uso di tale fonte. Possiamo fidarci delle intuizioni? A quale tribunale rimetterci, quale foro è competente?

4.1.2. L’affidabilità delle intuizioni Una proposta la cui articolazione è recente, ma che risale quantomeno a Hume, è stata l’asse della filosofia di Kant e ha avuto negli psicologi dell’Ottocento, da Helmholtz a Stumpf4, interessanti e compiuti difensori, consiste nell’interpellare la psicologia. Le intuizioni (comunque le si operazionalizzi) sono entità mentali, e la loro struttura è oggetto di studio empirico della disciplina che si occupa della mente. Oggi interpellare la psicologia significa chiedere lumi alle scienze cognitive, il cui filone più consensuale e produttivo si riconosce in alcune o tutte le tesi seguenti. Il cervello è una macchina composta di macchine, una delle cui funzioni principali è di trattare l’informazione proveniente dalle interfacce sensoriali per permettere la pianificazione e il controllo di azioni utili alla sopravvivenza dell’organismo. Il modello per il trattamento dell’informazione è costituito dalla metafora rappresentazionale-computazionale-inferenziale. Gli elementi di base della mente sono rappresentazioni, ovvero entità mentali provviste di contenuto semantico (ci sono diverse teorie del modo in cui le rappresentazioni acquisiscono tale contenuto, ma tutte concordano sull’aspetto fondamentale di tale proprietà); le rappresentazioni sono manipolate da moduli che sono specifici a un certo dominio (ce ne sono per la percezione del colore e per la percezione dei volti, per esempio; o per la gestione della prensione di un oggetto) e nella norma sono impermeabili a informazioni provenienti da altri moduli. Le rappresentazio4

Helmholtz 1852; Stumpf 1873.

ni non sono di norma accessibili alla coscienza; ci sono vari livelli di trattamento dell’informazione i cui contenuti sono sub-personali. Va notato che la nozione di rappresentazione usata nelle scienze cognitive non ha se non dei tratti del tutto superficiali in comune con la nozione corrispondente della vita quotidiana (stando alla quale le rappresentazioni sono delle specie di immagini). Il formato delle rappresentazioni mentali non è predefinito apriori e costituisce l’oggetto di una ricerca empirica. Lo statuto epistemologico della nozione di rappresentazione è simile a quello delle nozioni di quark in fisica o di inflazione in economia; si tratta di nozioni intrinsecamente teoriche. L’argomento schematico che sta alla base dell’interesse per una risoluzione cognitiva delle questioni ontologiche è il seguente. Le intuizioni sono dirimenti nella riflessione ontologica. Ma – ed è un fatto empirico – le proprietà dei contenuti delle rappresentazioni possono essere correlate in modo esplicativo a certe proprietà del veicolo di tali rappresentazioni (ovvero, a certi aspetti del tutto contingenti del sistema che usa tali rappresentazioni). Questo limita la portata epistemologica delle intuizioni, o quantomeno richiede che vengano prese delle contromisure adeguate. Vedremo in quanto segue alcuni dettagli di questo schema argomentativo.

4.1.3. Le nozioni in gioco tra metafisica descrittiva e revisionaria Un primo utile impatto dello studio della cognizione è metodologico e riguarda la classificazione (e conseguente chiarificazione) delle nozioni in gioco quando si esercitano le intuizioni metafisiche. Ampliando uno schema introdotto da Noam Chomsky (n. 1928)5, possiamo distinguere tra nozioni del senso comune (nozioni CS, per conservare l’acronimo internazionale), nozioni psicologiche “interne” (nozioni I), revisioni scientifiche (nozioni SR) e revisioni fi losofiche (nozioni PR). Uno stesso termine, come “oggetto materiale” o “evento” o “parte” può dunque essere inteso in (almeno) quattro modi distinti, e l’ambiguità non è foriera di vantaggi teorici. Per esempio, le proprietà che il senso comune attribuisce agli oggetti materiali non sono automaticamente allineate con quelle che attribuisce loro la rappresentazione psicologica (a vari livelli di profondità), e sono sicura5

Chomsky 1992a; 1992b.

mente distinte dalle proprietà postulate dalle revisioni fi losofiche (da teorie come quelle che prevedono entità quadridimensionali) o scientifiche (lo studio delle proprietà dei corpi solidi). Lo spazio dei problemi entro il quale situare il rapporto tra ontologia e scienze cognitive ha a un estremo la linea “metodologica”, che si limita a registrare possibili ambiguità nella formulazione dei problemi ontologici. Discostandocene troviamo posizioni assai più “invadenti”, stando alle quali le domande su che cosa esiste e qual è la sua natura, le domande ontologiche, riceverebbero una risposta dalle discipline scientifiche. Questo può significare in prima battuta due cose. In una versione forte si sosterrà che non c’è questione ontologica (che si tratti di decidere se – per esempio – ci siano oggetti o eventi o entità sociali) per la quale non si sia reperita o non si possa reperire in linea di principio una risposta scientifica. In una versione più debole, le risposte scientifiche sono considerate risposte legittime alle domande ontologiche e devono essere prese in seria considerazione quando si tratta di valutare le risposte filosofiche. La linea metodologica è compatibile con l’asserzione dell’autonomia della filosofia, autonomia che è invece negata dall’una o dall’altra delle posizioni invadenti. Ma nel caso dei rapporti tra ontologia e scienze cognitive ci sono almeno altre tre possibilità. Tutte legano lo studio dell’ontologia a quello delle scienze cognitive. In questo caso una disciplina scientifica (la psicologia sperimentale) non compete con l’ontologia sui contenuti; non offre una visione del mondo differente, volta a sostituire quella proposta dai fi losofi. Offre invece anzitutto una spiegazione del perché i filosofi tendono a proporre certe tesi filosofiche e non altre; la spiegazione si basa sul fatto che i filosofi propugnano le loro tesi basandosi su intuizioni, e le intuizioni disponibili dipendono dal modo in cui è fatta la mente umana. Una teoria empirica della mente umana può quindi contribuire, seppur in modo indiretto, alla fi losofia. Potremmo chiamare questa prima la linea “esplicativa”. A questa si può accompagnare un’altra linea, che chiameremo “cautelativa”: sapendo – grazie alla linea esplicativa – che certe idiosincrasie delle intuizioni umane hanno un ancoraggio nelle profondità della mente, abbiamo una ragione per mettere in dubbio il loro contenuto. Anche qui non c’è una vera e propria competizione con l’ontologia; la linea cautelativa si limita a produrre degli avvertimenti su certi contenuti delle teorie filosofiche. Esiste poi una posizione più estrema, di completa naturalizzazione ed eventualmente

eliminazione dei problemi filosofici, visti fondamentalmente come il risultato di illusioni cognitive. Per riassumere: Lo studio dell’ontologia è autonomo rispetto a quello delle scienze cognitive?



No La linea esplicativa è sufficiente?



No La linea cautelativa è sufficiente?



No Eliminazione dei problemi via naturalizzazione

Questo schema rappresenta un’espansione di una distinzione tra metafisica descrittiva e metafisica revisionaria6 dovuto a Strawson7. La metafisica descrittiva ha come scopo la descrizione delle strutture del nostro pensiero prescientifico – ingenuo – riguardo al mondo; la metafisica revisionaria si propone di sostituire questa visione ingenua del mondo con una visione che considera migliore, più adeguata. Per esempio, la metafisica descrittiva registra il fatto che lo schema concettuale degli umani richiede un’ontologia che assegna un ruolo centrale agli oggetti materiali (i “corpi” di Strawson). Una posizione revisionaria troverà delle ragioni per mettere in dubbio questa ontologia, e vi sostituirà ontologie che prevedono un ruolo chiave per le regioni di spazio, o gli eventi, o i raggruppamenti spaziotemporali arbitrari dei contenuti di regioni di spazio. Il progetto descrittivo e quello revisionario non sono in contraddizione. Un fi losofo come Quine, che

6

7

Il neologismo evita l’uso di “revisionista”, politicamente connotato; non è estraneo al neologismo il significato di “visionario”. Strawson 1959, cfr. supra 3.4.7-8.

certamente si accampa tra i revisionari8, è comunque in sintonia con Strawson nell’asserire che “gli umani sono istintivamente orientati ai corpi”. Di fatto i due progetti sono completamente indipendenti, e la metafisica descrittiva è perfettamente compatibile con uno studio empirico delle basi cognitive per le credenze che essa descrive. Nel contesto presente, metafisica descrittiva e metafisica revisionaria fanno riferimento a discipline o settori di studio; il loro oggetto sono delle ontologie. Per esempio l’oggetto della metafisica descrittiva è l’ontologia ingenua, ovvero il contenuto dello schema concettuale di cui dispongono gli esseri umani (o un sistema cognitivo non umano, o un sottosistema cognitivo); che è anche l’oggetto (spesso non dichiarato) di alcune ricerche psicologiche. L’oggetto della metafisica revisionaria sarà, di volta in volta, l’ontologia che si intende sostituire all’ontologia ingenua. Si noti che non è richiesto essere realisti o non realisti rispetto all’ontologia ingenua in modo uniforme; si può ad esempio essere realisti rispetto al contenuto spaziale dell’esperienza percettiva e non realisti, e quindi revisionari, rispetto a quello cromatico. Per permettere un raccordo con lo studio cognitivo della mente si può proiettare la classica nozione di impegno ontologico dal suo campo di impiego solito (si parla di impegno di una teoria o di un linguaggio o di un enunciato, intendendo il tipo di entità la cui esistenza deve venir postulata perché siano veri o sensati gli enunciati della teoria9) a includere un sistema cognitivo o un sottosistema cognitivo, dove i sistemi cognitivi possono essere definiti in maniera molto frammentaria (la visione, ma anche la visione per l’azione, o la visione cromatica). Viene dunque generalizzata la nozione di impegno ontologico, dal linguaggio alla rappresentazione, e dai sistemi personali, coscienti, ai sistemi sub-personali, inaccessibili alla coscienza. L’impegno ontologico di un sistema cognitivo è dato dal tipo di entità in cui si articola il contenuto rappresentativo del sistema; la rappresentazione in questione può essere cosciente o meno. Per esempio la visione foveale cosciente manifesta un impegno ontologico a favore di oggetti materiali, mentre quella periferica cosciente no: è praticamente impossibile riconoscere degli oggetti presentati agli estremi del campo visivo. La visione periferica per l’azione, non cosciente, reintroduce un impegno ontologico a favore degli oggetti: è possibile afferrare in modo assai 8 9

Cfr. supra 3.5. Cfr. infra 5.6.

accurato (la mano che si protende rappresenta precisamente la forma dell’oggetto) gli oggetti presenti in visione periferica che pure non si riuscivano a riconoscere10.

4.1.4. La metafisica riflessiva e i diversi ruoli delle scienze cognitive Abbiamo proposto una modificazione dello schema bipartito metafisica descrittiva / metafisica revisionaria. Il polo della metafisica revisionaria viene qui ribattezzato metafisica riflessiva, in quanto non si limita a registrare acriticamente l’ontologia ingenua. La metafisica riflessiva ha due classi principali di fonti di conoscenza, le fonti endogene e le fonti esogene. Le fonti endogene sono procedure di controllo interno dell’ontologia ingenua. Per esempio, è noto che le nostre intuizioni sugli oggetti materiali, se sottoposte a un minimo di articolazione concettuale, mostrano un’incoerenza fondamentale. Il caso della Nave di Teseo fornisce un esempio11. L’intuizione per cui ai fini dell’identità conta soprattutto la materia di cui è formata la nave si scontra in modo irriducibile con quella per cui conta invece l’identità di forma o funzione della nave. Se la nave ricostruita è identica alla nave originaria, ma anche la nave al porto è identica alla nave originaria, allora per la transitività dell’identità la nave ricostruita è identica alla nave al porto. Ma la nave ricostruita è diversa dalla nave al porto. Per cui le intuizioni ci portano a una contraddizione. L’euristica è qui completamente endogena; non abbiamo dovuto far altro che confrontare tra loro le intuizioni – entrambe legittime – senza appellarci a un tribunale esterno. Un’euristica esogena può a sua volta dividersi in due fonti principali di conoscenza: fonti empiriche che riguardano l’oggetto della conoscenza e fonti empiriche che riguardano il modo di acquisizione della conoscenza. Le fonti del primo tipo sono tipicamente i risultati delle discipline empiriche che si occupano dell’area di impegno ontologico sotto esame (nel caso degli oggetti materiali si tratta della fisica; nel caso delle entità mentali si tratterà delle scienze cognitive). Le fonti del secondo tipo sono le scienze cognitive. Le scienze cognitive possono comparire dunque in due rami diversi di questo albero, ma avranno ruoli diversi. In un caso, proporranno 10 11

Milner e Goodale 1998. Cfr. anche infra 5.7.3.

eventualmente un’ontologia alternativa a quella del senso comune, come avviene per l’ontologia del mentale. Nel secondo caso offriranno elementi cautelativi, indicando che il contributo della mente alla rappresentazione del mondo, e quindi alla costruzione delle intuizioni cui attingono i metafisici, può ‘colorare’ in modo indelebile queste intuizioni, che possono venir rigettate come fonte di conoscenza ontologica. È l’ultima possibilità che illustreremo ora più in dettaglio. La metafisica è solo descrittiva?



No: metafisica riflessiva Le fonti di conoscenza sono endogene?



No: fonti esogene Le fonti riguardano l’oggetto della conoscenza?

Sì: discipline empiriche come fornitori di ontologie

No: scienze cognitive come spiegazioni alternative dell’impegno ontologico

Goldman12 ritiene che almeno alcune delle intuizioni metafisiche ricorrenti nei dibattiti filosofici siano spiegabili come un riflesso di propensioni indotte dal funzionamento normale di certi sistemi cognitivi. Per esempio l’intuizione stando alla quale la continuità spaziotemporale degli oggetti materiali sarebbe un criterio della loro identità potrebbe essere legata ai principi gestaltici che reggono l’organizzazione del campo visivo in entità discrete e provviste di unità, in particolare al principio di “buona continuazione”, e il fatto che tale principio domina, in generale, quello della “somiglianza”. Percettivamente (nell’adulto umano e in alcune specie animali) due manici di scopa parzialmente nascosti da uno schermo possono far l’effetto di un unico manico se le loro estremità 12

Goldman 1989.

visibili sono allineate in modo tale da sembrare l’una la continuazione dell’altra. Un caso in cui la continuità è stata invocata come criterio per l’identità è quello del teletrasporto. Ci sembra di avere una qualche intuizione per cui la mia copia teletrasportata (ovvero, ricomposta a partire da materiale biologico vergine su un pianeta lontano, usando una fotografia esaustiva della struttura del mio corpo un attimo prima della sua distruzione) sia me stesso; ma questa intuizione è ampiamente dominata da quella per cui (a causa di un incidente capitato alla macchina per il teletrasporto) io sono la persona che resta nella macchina anche se una copia è stata inviata. Questa seconda intuizione domina la prima come quella di buona continuazione domina quella di somiglianza. Sulla falsariga di questo esempio la stessa nozione di “oggetto materiale”, come ricorda Quine13, potrebbe venir sottoposta a una naturalizzazione cognitiva; che per Quine corrisponde a un’eliminazione. Il modo umano spontaneo di suddividere la realtà prevede che le unità in cui termina la suddivisione siano degli oggetti materiali coesi, impenetrabili, incapaci di movimento autonomo, pazienti di azioni effettuate nei loro confronti. Quine considera il primo di questi tratti, la coesione (causale e spaziotemporale), e sostiene che un’ontologia liberale dovrebbe privarsi dei vincoli sulla costruzione degli oggetti che esso impone. Un oggetto quineano può essere composto dalla mia mano sinistra, dal ristorante in cima alla Torre Eiffel, e da un frammento di un asteroide che orbita intorno a un pianeta di un sole lontano; parti insomma che non hanno se non una remotissima e irrilevante connessione causale tra loro, e una chiara mancanza di connessione spaziale. Più banalmente, sono oggetti quineani – oltre agli oggetti materiali riconosciuti dal senso comune – le parti non separate di un qualsiasi oggetto materiale (il frammento dell’asteroide) e gli aggregati di oggetti materiali (il ristorante). Tranne alcuni casi molto ben circoscritti, entità di questo tipo (sub- o supra-oggettuali) sono semplicemente invisibili alla cognizione. Questo fatto di per sé non richiede una spiegazione: se la cognizione si dovesse occupare di tutti gli oggetti quineani, dovrebbe tener sotto controllo troppe entità. Quello che invece richiede una spiegazione è perché tra tutti i tipi di oggetti quineani la cognizione ‘vede’ solo quelli del tipo dei tavoli e delle sedie e, salvo poche eccezioni, non altri. È stato sostenuto che la propensione umana alla segmentazione della realtà in oggetti del tipo 13

Quine 1976a.

dei tavoli e delle sedie (una sottoclasse estremamente limitata degli oggetti quineani) potrebbe essere un prodotto collaterale della ricerca di strutture percettive che corrispondono ad animali (predatori o prede) in situazioni potenzialmente mimetiche14. Il sistema visivo investe molte energie nel cercare di comprendere che cosa si leghi con cosa nel campo percettivo. Si può immaginare una situazione adattiva in cui è importante capire se la porzione a del campo visivo, che è separata dalla porzione b da una porzione c, sia in realtà parte di un unico oggetto assieme a b (a e b corrisponderebbero alla coda e alla zampa anteriore destra di un leopardo, separate visivamente da una zona di fogliame c, per esempio). Si può anche ipotizzare che i principi che governano la percezione e la concettualizzazione degli oggetti materiali siano prodotti collaterali di regole più profonde15 che riguardano la repulsione dei sistemi cognitivi per le coincidenze (regola di cui i principi gestaltici sono una conseguenza).

4.1.5. Il progetto della metafisica postkantiana Il progetto di Goldman è una versione aggiornata di quello di Hume-Kant (spiegare il contenuto della rappresentazione del mondo esterno – e quindi le credenze che riguardano il mondo esterno – in termini di proprietà del veicolo di questa rappresentazione). Aggiornata nel senso che a Hume e Kant faceva difetto una psicologia matura – quella a loro disposizione era ancora largamente infarcita di nozioni del senso comune, e priva di risultati utili. E anche nel senso che la metafisica contemporanea avverte come problematiche questioni diverse da quelle che interessavano a Hume e Kant. Una lista di questioni postkantiane includerebbe per esempio lo studio delle asimmetrie tra categorie o tra aree di impegno ontologico, del perché viene conferito un vantaggio cognitivo agli oggetti rispetto a un certo numero di altre entità, come gli eventi, le proprietà, le regioni di spazio, le entità astratte, i buchi e le ombre. Un altro aspetto del progetto di Goldman riguarda gli avvisi cautelativi che si possono emettere nei confronti della metafisica sulla base delle scoperte cognitive. Questi avvisi non sono molto appaganti 14 15

Ramachandran 2002. Casati 2003a.

teoreticamente, in quanto non si accompagnano in modo automatico a proposte ontologiche costruttive, ma si limitano a disegnare in negativo lo spazio di tali proposte. Se scopriamo che il contenuto della nostra rappresentazione cromatica del mondo è correlato in modo soddisfacente con certe proprietà del sistema di trattamento dell’informazione visiva (piuttosto che, poniamo, con quantità fisiche misurabili), possiamo emettere un avviso cautelativo nei confronti del realismo cromatico (la tesi stando alla quale le cose sono veramente rosse o verdi o di altro colore). Viene lasciato qui spazio a una proposta alternativa “costruttiva” e revisionaria (tra altre possibili) che ‘localizzi’ i colori nella mente piuttosto che sulle superfici degli oggetti; ma questa proposta non è implicata dalla linea cautelativa. Si può rispondere alla posizione cautelativa con una difesa del realismo del contenuto della rappresentazione basata su un argomento evoluzionista16. La difesa richiede che si dia credito al realismo in quanto se gli organismi sono stati selezionati dall’evoluzione anche in base alle loro capacità percettive o di rappresentazione del mondo, questo può essere accaduto solo in quanto i contenuti di tali rappresentazione erano veridici. Rappresentare un leone come mite (contenuto non veridico) conferisce un vantaggio adattivo minore del rappresentarlo come minaccioso (contenuto veridico). Tuttavia questo argomento soffre di una ignoratio elenchi. La veridicità del contenuto non è il solo aspetto della rappresentazione che può permetterle di contribuire all’adattività17. Un sistema cognitivo ‘prudente’ può generare molti falsi positivi (rappresentare non solo i leoni come minacciosi, ma anche altri animali mansueti a pelo fulvo), il che gli conferirebbe un vantaggio adattivo rispetto a sistemi corretti ma meno prudenti. Abbiamo osservato come il caso della nave di Teseo sia interessante perché mostra che si deve considerare con estrema cautela l’intuizione come fonte di conoscenza ontologica; dalle intuizioni di base sulla nave di Teseo risultava una contraddizione. (Lo stesso vale per molti altri casi; si pensi alle intuizioni – se tali le si può considerare – che si possono avere sulla natura divina: Dio non può essere contemporaneamente onnisciente e immutabile, dato che un essere immutabile non può sapere che ore sono – l’ora che è cambia sempre – perdendo quindi l’onniscienza; onniscienza e immutabilità sono dunque con16 17

B. Smith 1995b. Stich 1983.

traddittorie). Ma esiste anche il caso simmetrico a questo, quello dei problemi su cui l’intuizione tace. Per esempio non è chiaro se abbiamo intuizioni sull’identità di mente e cervello (a parte un’assai discutibile ‘intuizione cartesiana’), o sulle particelle subatomiche. Spesso nel vuoto delle intuizioni si inseriscono affabulazioni, o si inventano intuizioni contrarie. Per esempio: la linea che divide una macchia bianca da una macchia nera è bianca o è nera? Quando un corpo inizia a muoversi, si muove o è fermo? Oltre alla sovradeterminazione e alla sottodeterminazione delle intuizioni rispetto a un’area di impegno ontologico, è ipotizzabile anche la presenza di intuizioni parziali. La motivazione per questa ipotesi proviene da un problema che è una conseguenza logica dell’universalismo cognitivo: se c’è una spiegazione delle intuizioni fi losofiche basata su una struttura psicologica soggiacente, e se questa struttura è universale, perché i filosofi propongono ontologie diverse, spesso tra loro incompatibili? Perché non è universale anche l’ontologia dei filosofi? (Si parla qui di metafisici revisionisti, non descrittivi; la metafisica descrittiva deve essere comunque universale, come già aveva visto Strawson18).

4.1.6. Perché le intuizioni divergono? Perché esistono, per esempio, delle controversie come quella tra “unificatori” e “moltiplicatori” nella metafisica degli eventi?19. Gli unificatori sostengono che nel contesto in cui Marco accende la luce durante una visita dei ladri a casa sua, le descrizioni contestualmente definite “la pressione sull’interruttore”, “l’accensione della luce”, “l’allarme dato al ladro” sono coreferenziali, non si riferiscono a tre eventi diversi; cosa che invece sostiene il moltiplicatore, per cui (almeno) tre eventi hanno avuto luogo nella situazione in oggetto. La controversia è stata ricondotta a due diverse concezioni degli eventi, interpretati come individui spaziotemporali (a grana grossa) dagli unificatori, e dai moltiplicatori come entità (a grana fine) simili ai fatti; non è stato possibile trovare un punto di comune accordo o una teoria ponte, ed è evidente che sono qui all’opera intuizioni in profondo conflitto. 18 19

Strawson 1959. J. Kim 1973; Goldman 1971.

Goldman20, peraltro un moltiplicatore della prima ora, ha ipotizzato che in un certo senso entrambe le concezioni potrebbero avere una parte di verità. Le intuizioni alla base di ciascuna concezione proverrebbero da rappresentazioni usate da sistemi cognitivi diversi. Una rappresentazione percettiva degli eventi sarebbe basata sulle loro caratteristiche spaziali e temporali, e quindi interessata soprattutto alle caratteristiche a grana grossa degli eventi; una rappresentazione concettuale degli eventi accoglierebbe uno spettro ampio di proprietà e fatti che li riguardano, producendo così un’individuazione a grana fine. Le intuizioni rispettive degli unificatori e dei moltiplicatori attingerebbero a diversi sistemi di rappresentazione. E si tratterebbe di intuizioni parziali, dato che nei diversi sistemi cognitivi le rappresentazioni avrebbero ruoli diversi, che richiedono l’attivazione di alcuni tratti soltanto tra quelli che potrebbe essere utile rappresentare. Per riassumere, ci sono diverse opzioni che si offrono a chi intende accettare un programma di naturalizzazione cognitiva delle intuizioni che stanno alla base della riflessione in metafisica, da una relativamente anodina linea metodologica alla proposta di risolvere le questioni metafisiche dissolvendole come pseudo-problemi generati dal funzionamento non appropriato e quindi mal interpretato dei sistemi cognitivi. L’attacco alla metafisica – un attacco a volte consapevole e a volte inconsapevole – ha intrapreso, come si è visto nei capitoli precedenti, tre strade principali nel XX secolo; a una linea come quella di Carnap-Wittgenstein, che prevede la dissoluzione linguistica dei problemi metafisici o la terapia linguistica di chi vi indulge, si è sostituita quella di Strawson che ha recuperato la sola metafisica descrittiva, al prezzo di una posizione realista a tutto campo riguardo ai suoi contenuti che si ha più di una ragione di non considerare plausibile (come non si avrebbe ragione di considerare plausibile il realismo nei confronti della fisica ingenua 21). La posizione di Goldman recupera una parte dell’originario progetto di Carnap-Wittgenstein includendo nel novero dei sistemi cognitivi pertinenti per la critica di alcune pretese metafisiche anche sistemi altri dal linguaggio, al tempo stesso riconoscendo una legittimità ai problemi metafisici tradizionali, negata da Carnap-Wittgenstein.

20 21

Goldman 2004. Cfr. supra 2.5.

Bibliografia ragionata 1. Sulla relazione fra metafisica e psicologia cognitiva N. Chomsky, Reflections on Language, Westminster, Alfred Knopf, 1975; poi in Id., On Language, New York, Penguin Academics, 2002 N. Chomsky, New Horizons in the Study of Language and Mind, Cambridge, Cambridge University Press, 1992 A. Goldman, Liaisons: Philosophy Meets the Cognitive and Social Sciences, Cambridge (Mass.), The MIT Press, 1992 R. Casati, Is the Object Concept Formal?, in F. Correia - P. Keller, a c. di, Formal Concepts, fasc. monogr. “Dialectica”, 58/3 (1994): 383-394 B.J. Scholla, Z.W. Pylyshyn, J. Feldman, What is a Visual Object? Evidence from Target Merging in Multiple Object Tracking, “Cognition”, 80 (2001): 159-157 P. Bloom, Descartes’ Baby: How the Science of Child Development Explains What Makes Us Human, New York, Basic Books, 2004; Il bambino di Cartesio. La psicologia evolutiva spiega che cosa ci rende umani, tr. it. di A. Tissoni, Milano, Il Saggiatore, 2005 2. Sulle scienze cognitive A. Goldman, Philosophical Applications of Cognitive Science, Boulder, Westview Press, 1993 S.E. Palmer, Vision Science. Photons to Phenomenology, Cambridge (Mass.), The MIT Press, 1999 D. Marconi, Filosofia e Scienza Cognitiva, Roma - Bari, Laterza, 2000 J. Branquinho, a c. di, The Foundations of Cognitive Science, Oxford, Oxford University Press, 2001 P. Thagard, Cognitive Science, in E.N. Zalta, a c. di, Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2007, URL = http://plato.stanford.edu/entries/cognitivescience/ 3. Sull’uso delle intuizioni in metafisica F. Jackson, From Metaphysics to Ethics: A Defense of Conceptual Analysis, Oxford, Oxford University Press, 1997 T. Szabo Gendler - J. Howthorne, Conceivability and Possibility, Oxford, Oxford University Press, 2002 J.R. Brown, Thought Experiments, in E.N. Zalta, a c. di, Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2007, URL = http://plato.stanford.edu/entries/thoughtexperiment/

4.2. NEUROSCIENZE di Cristina Becchio e Cesare Bertone

4.2.1. Filosofia e neuroscienze Domande come quelle sollevate nel capitolo precedente sorgono da una trasformazione del panorama scientifico che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni. Lo straordinario sviluppo delle neuroscienze ha portato alla progressiva scoperta del cervello e delle sue funzioni, aprendo nuove prospettive di conoscenza e di indagine22. L’interesse della filosofia per il cervello è un risultato naturale di questo sviluppo. Senza delimitare uno specifico campo tematico o definire una specifica metodologia, numerosi tentativi di mettere in relazione filosofia e neuroscienze sono stati compiuti. Un modo per mettere ordine in questo complesso panorama di teorie e approcci è innanzitutto quello di distinguere tra filosofia delle neuroscienze e neurofi losofia. Filosofia delle neuroscienze. La filosofia delle neuroscienze23 o neurofilosofia teoretica 24 concerne questioni fondazionali all’interno del22

23 24

Fino agli anni Settanta l’individuazione delle strutture coinvolte nelle lesioni cerebrali era possibile solo con l’esame autoptico. La maggior parte delle conoscenze sull’anatomia funzionale del cervello derivavano da un lato, dall’analisi dei reperti post mortem, dall’altro, da studi di stimolazione elettrica corticale e ablazioni condotti dai neurochirurghi a scopo diagnostico/terapeutico. Lo sviluppo delle tecniche di neuroimmagine, come la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata), ha comportato una vera e propria rivoluzione, consentendo di fornire in vivo informazioni sulle strutture cerebrali coinvolte in un danno neurologico. Con lo sviluppo di metodi funzionali – PET (Tomografia a Emissione di Positroni) e più recentemente fMRI (Risonanza Magnetica funzionale) – è infine diventato possibile studiare l’attivazione delle aree cerebrali in soggetti normali e patologici durante lo svolgimento di compiti di vario tipo. Bechtel, Mandik e Mundale 2001; Bickle e Mandik 2001. Northoff 2004.

l’ambito delle neuroscienze, occupandosi dei problemi più generali posti dal sapere neuroscientifico. Che cos’è una spiegazione neuroscientifica? In che modo gli strumenti utilizzati dai neuroscienziati (per esempio, tecniche di neuroimmagine, registrazione dell’attività di singoli neuroni, manipolazioni genetiche, simulazioni) contribuiscono a produrre nuove conoscenze? A quali problemi sono applicabili? Descrivere i correlati neurali di un fenomeno, ad esempio la coscienza, equivale a spiegare il fenomeno stesso? In questa accezione, la filosofia delle neuroscienze rientra nell’orizzonte più ampio della filosofia della scienza. Neurofilosofia. Con il termine “neurofilosofia”, utilizzato per la prima volta esplicitamente da Patricia S. Churchland25, si intende generalmente l’applicazione di concetti neuroscientifici a problemi tradizionalmente filosofici. Dal momento che la neurofi losofia così intesa si pone come obiettivo l’esplorazione dei meccanismi neurali sottostanti termini originariamente fi losofici, Northoff26 propone per questa disciplina il termine di “neuroscienza della fi losofia”. Le possibilità di indagine che questa disciplina apre vanno in tre diverse direzioni: x Indagine di fenomeni la cui descrizione è trasversale rispetto ai domini della filosofia e delle neuroscienze, come la libera volontà, l’identità personale, la coscienza, la soggettività. xFalsificazione/verifica di teorie e concetti fi losofici sulla base delle evidenze neuroscientifiche. xRidefinizione di problemi e istanze filosofiche alla luce delle scoperte neuroscientifiche; formulazione di problemi fi losofici ‘nuovi’, che da queste stesse scoperte hanno origine. Sotto il profilo metodologico, un’ipotesi neurofi losofica, definita come un collegamento sistematico fra una teoria filosofica e un’ipotesi neuroscientifica, è soggetta a tre distinte forme di falsificazione. In primo luogo, non diversamente da un’ipotesi fi losofica, è soggetta a una falsificazione logica, la quale ha come obiettivo la consistenza logica 25 26

P.S. Churchland 1986. Northoff 2004.

della ipotesi stessa. In secondo luogo, è sottoposta a una falsificazione empirica, finalizzata a saggiarne la consistenza mediante una validazione empirica. Infine, essa può andare incontro a una falsificazione transdisciplinare, che tiene conto dei principi metodologici che devono guidare il neurofilosofo nella costruzione di un’ipotesi neurofilosofica. Quest’ultima possibilità di falsificazione, essendo propria di un’ipotesi neurofilosofica soltanto, mostra come anche sul piano della falsificazione, un’ipotesi neurofi losofica non sia riducibile a un’ipotesi filosofica, né a un’ipotesi puramente neuroscientifica.

4.2.2. Ontologia e neuroscienze Dall’introduzione del concetto di “neurofi losofia”, l’indagine neurofilosofica si è di fatto orientata a un’esplorazione dei problemi relativi alla cosiddetta “filosofia della mente”. Superato il dualismo cartesiano di mente e corpo è parso ovvio che nel descrivere la mente il filosofo dovesse tenere conto di come il cervello, substrato biologico della mente, funziona. Che lo stesso vincolo debba valere per l’ontologo, che si occupa di studiare le condizioni di realtà ed esistenza, può non apparire altrettanto ovvio. D’accordo con quanto si è detto in più occasioni nel presente volume, l’ontologia si occupa di che cosa c’è, ed eventualmente, di che cos’è; le neuroscienze si occupano invece del cervello e dei processi che hanno luogo al suo interno. Considerati i rispettivi domini di indagine, un’intersezione tra ontologia e neuroscienze sembra esclusa apriori. In che senso un’indagine di ciò che sta dentro la scatola cranica potrebbe infatti essere rilevante rispetto alla comprensione di ciò che sta fuori? Mentre sono concepibili una neuroepistemologia, intesa come studio delle basi neurali delle capacità epistemologiche27, una neuroestetica 28, una neurosociologia e persino una neuroetica, una neurontologia sembra implicare una contraddizione.

27 28

Ivi. Zeki e Kawabata 2004.

4.2.3. Neurontologia Superare la contraddizione richiede innanzitutto di precisare cosa si intenda per ontologia. Il termine “ontologia” si usa infatti con molti significati. A seconda di ciò che si intende per “ontologia”, cambia ciò che si può intendere con “neurontologia”. Neurontologia come ontologia delle neuroscienze. Per “ontologia” possiamo intendere la descrizione delle entità rilevanti all’interno di un certo settore della realtà o teoria scientifica. In questo senso si parla per esempio di ontologia della fisica, ontologia delle scienze biologiche29 e, più recentemente, di ontologia delle scienze biomediche30. Nello stesso significato, il discorso sull’ontologia può riguardare le neuroscienze. Nel caso delle neuroscienze, come nel caso delle scienze biomediche, il compito dell’ontologo non è tanto stabilire se certe entità esistano o meno, quanto piuttosto chiarire i presupposti ontologici su cui si reggono la teoria e la pratica di queste scienze. Come osserva B. Smith a proposito delle scienze mediche, dotare le neuroscienze di una ontologia esplicita e trasversale rispetto ai diversi livelli di analisi e alle diverse prospettive di ricerca, avrebbe tra l’altro il vantaggio di far comunicare tra loro aree di competenza diverse, evitando il rischio di una frammentazione specialistica. Così intesa, la neurontologia utilizza il metodo filosofico dell’analisi concettuale applicandolo allo specifico dominio delle neuroscienze. In questo modo si configura di fatto come un’ontologia delle neuroscienze. Ontologia dei diversi sistemi cerebrali. In un senso più proprio, il termine “neurontologia” può essere applicato al tentativo di descrivere l’ontologia dei diversi sistemi cerebrali, ossia i ‘mattoni di costruzione’ e l’architettura funzionale propria di ciascun sistema cerebrale. Il compito di una neurontologia così intesa è duplice: xDescrivere a livello microfunzionale le strutture neurali che implementano il modello della realtà utilizzato dal cervello. x Rintracciare nell’ontologia cerebrale l’origine delle strutture del pensiero consapevole. 29 30

Cfr. infra 4.3. Smith et al. 2005.

In questo senso, Metzinger e Gallese31 hanno recentemente proceduto a tracciare un’ontologia dell’azione condivisa. Se per “ontologia” si intende una certa descrizione del mondo, allora anche il cervello, inteso come un sistema rappresentazionale, deve possedere una sua propria ontologia. La neurontologia dell’azione condivisa rappresenta un tentativo di descrivere il modello del mondo su cui il cervello si basa nella rappresentazione dell’azione. Questo modello, ci dicono Metzinger e Gallese, comprende scopi, azioni, nonché una rappresentazione degli agenti in quanto agenti intenzionali. Tutto ciò può apparirci ovvio, ma non lo è affatto, basti pensare che entità come gli scopi non sono entità visibili, né siamo dotati di un organo preposto alla loro percezione. Nell’approccio convenzionale, l’osservazione di un’azione intenzionale è equiparata all’osservazione di un qualsiasi altro movimento fisico. Si immagini di osservare un ragazzo lanciare un sasso in un fiume: il sistema visivo rappresenta il ragazzo, la pietra, il fiume, il movimento del braccio, la traiettoria della pietra. L’integrazione di tutti questi elementi separati dà luogo a un input neurale. L’input giunge a un processore centrale, deputato a trarre le inferenze rilevanti: con quale scopo l’azione è stata eseguita, quale intenzione ha mosso l’agente ecc.32 La scoperta di neuroni motori specificamente deputati alla codifica dell’azione intenzionale ha mostrato come questa visione dell’azione sia di fatto incompatibile con l’ontologia cerebrale. Vedere un’azione non è, dal punto di vista neurale, in alcun modo equiparabile all’osservazione di un movimento fisico: mentre l’elaborazione di questo ultimo è infatti esclusivamente visiva, vedere un altro individuo eseguire un’azione dà luogo a un’attivazione non soltanto visiva, ma anche motoria. Osservando un altro individuo agire, si attivano quelle stesse aree cerebrali che si attivano quando sono io stesso a compiere l’azione33. Senza bisogno di compiere alcuna inferenza, o introspezione, quest’attivazione speculare garantisce all’osservatore un accesso immediato alle intenzioni altrui. Neurontologia come neuroscienza dell’ontologia. La concezione della neurontologia può infine rimandare all’ontologia del mondo esterno. 31 32 33

Metzinger e Gallese 2003. Fodor 1983. Di Pellegrino et al. 1992; Rizzolatti et al. 1996; Gallese et al. 1996.

Il compito di una neurontologia così intesa consisterà nel rintracciare a livello neurale la possibilità di ciò che chiamiamo “il mondo esterno”, ossia nel dare conto, in termini di processi e circuiti neurali, di quelle che sono le caratteristiche del mondo: esternalità, indipendenza, oggettività, permanenza nel tempo, continuità nello spazio. A partire da Galileo, si è ritenuto che alcune proprietà del mondo fossero davvero nelle cose, mentre altre proprietà sarebbero esistite esclusivamente nella mente/cervello dell’osservatore. Questa distinzione tra qualità primarie delle cose, come la massa o le relazioni spaziotemporali, e qualità secondarie, puramente soggettive, come i colori, i suoni o gli odori, si trova incorporata in molte concezioni psicologiche e neuroscientifiche34. Un albero che cade nella foresta produce un suono anche se questo suono non giunge a nessun orecchio? Secondo Kandel, Schwarz e Jessell35, possiamo certamente dire che cadendo l’albero produce onde di pressione, ma non che crea un suono. Perché un suono possa prodursi, è necessario che le stesse onde raggiungano una creatura vivente. Mentre le onde di pressione, le onde elettromagnetiche, i composti chimici esistono nel mondo, fuori dal cervello, suoni, colori, odori sono realtà puramente neurali. Come notano P.S. Churchland e P.M. Churchland36, la distinzione tra qualità primarie e secondarie, tra un mondo fuori di noi e un mondo che sta dentro il cervello, non è esente da problemi, basti pensare che anche le qualità primarie, per essere concepite come tali, devono possedere un correlato neurale. E poi, in che senso si può parlare di un dentro e di un fuori? Che cosa significa questa distinzione in termini neurali? Se tanto le qualità primarie quanto le qualità secondarie possiedono un correlato neurale, che cosa fa sì che le prime si connotino come reali e oggettive, mentre le seconde sarebbero puramente soggettive? Infine, che cosa significa, in termini neuroscientifici, che “c’è un mondo che esiste indipendentemente da noi?”. In quanto segue, senza pretendere di fornire risposte defi nitive, mostreremo come queste domande siano sollecitate dall’analisi stessa delle evidenze neuroscientifiche. L’esempio di cui tratteremo è quello di una particolare sindrome neuropsicologica, la negligenza spaziale unilaterale. 34 35 36

Bennett e Hacker 2003. Kandel, Schwarz e Jessell 1995. Churchland e Churchland 2002.

4.2.4. Negligenza: un’ontologia dimezzata I pazienti affetti da negligenza spaziale unilaterale tendono a non rispondere a stimoli, oggetti e persino persone presenti in un lato dello spazio – più frequentemente il lato sinistro37. A seconda della severità della patologia, la negligenza può essere notata semplicemente osservando il comportamento spontaneo dei pazienti: i pazienti affetti da negligenza tendono a non notare oggetti presenti sulla sinistra della scena, non mangiare il cibo nella metà sinistra del piatto, ignorare la parte sinistra delle parole. Se lo sperimentatore si rivolge loro da sinistra, è possibile che essi rispondano volgendosi verso destra, anche se a destra non c’è nessuno38. Tendono inoltre a scontrarsi contro pareti, porte e oggetti sulla sinistra. Possono dimenticare di infilare la manica sinistra della camicia o di mettere la scarpa sinistra, di radere o truccare la metà sinistra del volto. Alcuni di questi comportamenti possono sembrare simili a quelli manifestati da pazienti affetti da emianopsia omonima39, un disordine del campo visivo da cui risulta la cecità di metà del campo visivo. In modo simile ai pazienti affetti da negligenza, questi pazienti possono infatti non accorgersi o mostrare difficoltà nel trovare oggetti nella metà sinistra dello spazio. Possono avere difficoltà nell’evitare ostacoli presenti sulla sinistra, andando a scontrarsi con le persone che si avvicinano loro da quella parte. Inoltre, come i pazienti negligenti, possono incontrare difficoltà nella lettura. Sulla base di queste similarità di comportamento, si potrebbe essere tentati di pensare che i pazienti negligenti ‘negligano’ la metà sinistra del mondo semplicemente perché, non diversamente dai pazienti emianoptici, non la vedono. Questa ipotesi è tuttavia falsificata a livello sia anatomico sia funzionale40. Nell’emianopsia non è percepita alcuna informazione visiva proveniente dall’emicampo controlaterale 37

38 39

40

La negligenza spaziale unilaterale è in genere associata a un danno della regione parietale. È ritenuta essere più frequente e grave in conseguenza di una lesione dell’emisfero destro e si manifesta di conseguenza come un deficit della metà sinistra dello spazio. De Renzi et al. 1982. Il termine “emianopsia omonima” si riferisce a un’alterazione del campo visivo frequentemente osservata in seguito a un danno delle vie visive. Si tratta di un disturbo sensoriale elementare che può coinvolgere sia il campo visivo sinistro che il campo visivo destro. Cfr. Kerkoff 2001.

la lesione (la metà sinistra dello spazio, se la lesione è destra). La rappresentazione spaziale di entrambi gli emispazi è tuttavia intatta ed è pertanto sufficiente che il paziente volga il capo verso sinistra perché l’informazione trascurata possa venire elaborata. In altre parole, gli oggetti della metà sinistra del mondo non sono visti ma continuano a esistere e possono venire recuperati semplicemente spostando lo sguardo. Nella negligenza il deficit si trova a un livello più astratto di rappresentazione, che impedisce al paziente non soltanto di vedere, ma di concepire la metà sinistra dello spazio. A differenza dei pazienti affetti da emianopsia, i pazienti negligenti non soltanto non vedono gli stimoli presenti nella metà sinistra dello spazio, ma si comportano come se quella metà dello spazio non esistesse e mai fosse esistita. L’aspetto più sorprendente della negligenza è forse proprio questo. I pazienti affetti da questa patologia non soltanto non sono in grado di percepire la metà sinistra dello spazio, ma neppure sono in grado di concepirla41. Se, a differenza del paziente emianoptico, il paziente negligente non volge la testa verso sinistra, questo è perché non c’è alcuna metà sinistra del mondo verso cui volgere lo sguardo. Il paziente negligente è incapace di concepire quella parte del mondo che il paziente emianoptico semplicemente non vede. Il mondo che il paziente negligente percepisce è anche il mondo che concepisce: non ha la sensazione che nulla manchi. In questo senso, il mondo percepito non è metà mondo, ma tutto il mondo, tutto il mondo esistente. Noi non vediamo il mondo alle nostre spalle e tuttavia siamo ben consapevoli che il mondo si estende di là dai confini del nostro campo visivo. Per un soggetto negligente, il mondo non si estende di là dai confini dell’emicampo destro. Nella negligenza la metà sinistra del mondo non esiste: o meglio, non c’è nessuna metà sinistra del mondo, dal momento che il mondo non si estende di là dei confini dello spazio destro rappresentato.

4.2.5. Due metà, non un tutto L’approccio neuropsicologico convenzionale enfatizza il carattere spaziale della negligenza. Analizzare la sindrome della negligenza 41

Bisiach 1993.

nelle sue implicazioni ontologiche consente di vedere come un ruolo non meno rilevante nella caratterizzazione della patologia sia giocato dal tempo. La negligenza non si limita infatti alla rappresentazione dello spazio nel presente, ma si estende alle dimensioni del futuro e del passato42. Nell’emianopsia, in cui a essere danneggiata è l’apparenza percettiva, il deficit è confinato alla presenza. Nella negligenza la metà sinistra dello spazio non soltanto non esiste nel presente, ma scompare dal ricordo del passato e dall’aspettativa del futuro. Sul piano sperimentale, numerose evidenze supportano queste considerazioni. L’esperimento più discusso in letteratura è forse quello di Bisiach e Luzzati43. Gli autori chiedevano a due pazienti affetti da negligenza di immaginare sé medesimi a un estremo di una nota piazza (Piazza del Duomo, a Milano) e di descrivere i vari edifici che ‘vedevano’. Come ci si sarebbe aspettati nell’ipotesi di un deficit di rappresentazione spaziale, entrambi i pazienti omettevano di menzionare gli edifici sulla sinistra. La fase successiva dell’esperimento prevedeva che i pazienti immaginassero di guardare la piazza dall’angolazione opposta. Significativamente, in questa seconda condizione, i pazienti tendevano a nominare gli edifici e i luoghi ora situati a destra e in precedenza negletti, e tuttavia dimenticavano di menzionare quelli appena prima descritti. NORMALE Mondo

Percezione

EMIANOPSIA Mondo

Percezione

NEGLIGENZA Mondo

Percezione Per

Figura 1. Rappresentazione schematica della relazione tra mondo e percezione nella normalità, nella emianopsia e nella negligenza. In condizioni normali, il mondo si estende di là dei confini del campo percettivo. Nella emianopsia l’ontologia è intatta: il paziente non percepisce gli stimoli provenienti dall’emicampo di sinistra e tuttavia sa che il mondo continua sulla sinistra. Nella negligenza unilaterale, non soltanto la percezione, ma l’ontologia è tagliata a metà: l’emicampo controlaterale non soltanto non è percepito, ma non esiste.

42 43

Becchio e Bertone 2003; 2006. Bisiach e Luzzati 1978.

Se ciò può apparire sorprendente, ancora più sorprendente è il fatto che i pazienti non mostravano alcun disappunto. Occorre precisare che i soggetti in questione non presentavano alcun deficit di memoria e che probabilmente non sarebbero stati meno sorpresi di chiunque di noi nel vedere un oggetto scomparire improvvisamente alla propria destra. Com’è possibile allora che, mutata angolazione, essi non fossero consapevoli di quanto riportato soltanto poco prima? I pazienti ricordavano entrambe le metà della piazza, ma erano tuttavia incapaci di ricordare l’intera piazza a un tempo. Che cosa impediva loro di ‘incollare’ le due metà in un’ immagine completa? Un deficit nella rappresentazione spaziale potrebbe spiegare perché, in ciascun momento, il paziente non è in grado di rappresentare l’intera piazza, ma non perché le due metà rappresentate in tempi successivi non formino un tutto. Perché questo accada, lo spazio di sinistra non deve essere semplicemente negletto: la sua stessa assenza deve essere negletta. La semplice assenza implica che qualcosa manchi: che qualcosa che c’era, non sia più presente. La cosa è assente, ma non la sua dimenticanza. Come nota Agostino nelle Confessioni, perché qualcosa manchi la sua dimenticanza deve essere tuttavia presente nella memoria. Nella negligenza la metà sinistra dello spazio non è semplicemente assente: è la sua stessa assenza a mancare. Questa assenza dell’assenza rivela una frattura che non è solo spaziale, ma temporale. Mentre la mera assenza implica infatti che l’oggetto non sia presente, l’assenza dell’assenza richiede che non soltanto l’oggetto non esista nel presente, ma non sia mai esistito e mai debba iniziare a esistere. Scomparendo non soltanto dallo spazio, ma dal tempo, l’oggetto cessa di essere. Il tempo è un attributo indispensabile di ogni realtà esterna: gli oggetti esistono prima della loro apparizione (permanenza di anteriorità) e continuano a esistere anche quando hanno cessato di essere visibili (permanenza di posteriorità). Come la negligenza rende evidente, una rottura della temporalità si traduce così in una ‘frana ontologica’.

4.2.6. Ontologia del senso comune: una prospettiva neurontologica Ci sono cose che possiamo dare per scontate. J. Searle44 ne dà la seguente lista: 44

Searle 1998a. Cfr. infra 4.4.

xC’è un mondo che esiste indipendentemente da noi, indipendentemente dalle nostre esperienze, dai nostri pensieri, dal nostro linguaggio. xI sensi, specialmente la visione e il tatto, ci garantiscono un accesso diretto a quel mondo. x Le parole nel nostro linguaggio, parole come coniglio o albero, hanno in genere significati ragionevolmente chiari. Grazie al loro significato, esse possono essere utilizzate per riferirsi e parlare degli oggetti reali nel mondo. xLe nostre affermazioni sono vere o false a seconda che corrispondano o meno a come le cose stanno, ossia ai fatti nel mondo. xLa causazione è una relazione reale tra oggetti ed eventi nel mondo, una relazione per la quale un fenomeno, la causa, ne causa un altro, l’effetto. È fuorviante, nota Searle, descrivere queste proposizioni come punti di vista o ipotesi o opinioni. Queste posizioni scontate non sono parte del senso comune – in questo caso, saremmo legittimati a trattarle come opinioni – piuttosto, esse devono essere considerate come le condizioni di possibilità del senso comune. Quindi, non mere supposizioni, ma presupposizioni, condizioni necessarie di ogni successiva supposizione. Stando a Searle, il carattere apriori di queste proposizioni, preclude ogni possibilità di indagarle: ogni tentativo di giustificarle sembra infatti presupporre ciò che si propone di giustificare. Si prenda, per esempio, l’assunzione di un mondo reale, che esiste indipendentemente da noi (realismo esterno), che è poi la presupposizione forse più fondamentale. Non ha alcun senso – scrive Searle – chiedere una giustificazione del fatto che ci sia un modo in cui le cose sono nel mondo indipendentemente dalle nostre rappresentazioni, perché ogni tentativo di giustificazione presuppone il fatto che si propone di giustificare. Ogni tentativo di indagare il mondo reale presuppone l’esistenza di un mondo reale. Il realismo esterno non può dunque essere considerato come una teoria: si tratta piuttosto della cornice necessaria anche soltanto per avere opinioni e teorie circa le cose nel mondo. Il consiglio di Searle è di lasciar perdere e occuparsi di altro.

Disattendendo il suggerimento di Searle, assumere una prospettiva neurontologica significa occuparsi proprio di questo, ossia del fatto che c’è un mondo esterno. Senza negare le caratteristiche del mondo esterno – quelle caratteristiche di esternalità, indipendenza, oggettività che il nostro agire e pensare al mondo presuppongono – la neurontologia si pone come obiettivo di rendere conto di come queste stesse caratteristiche sono implementate a livello neurale. Un ruolo fondamentale in questo senso ha lo studio delle patologie neuropsicologiche. Comportando la rottura di meccanismi che nel loro funzionamento normale non sono accessibili alla coscienza, patologie come la negligenza spaziale unilaterale, sopra discussa, consentono di svelare la complessità di ciò che nella normalità si presenta come semplice e immediato. Parafrasando P.S. Churchland45, finché il cervello funziona normalmente, i meccanismi alla base di un’ontologia del senso comune rimangono nascosti alla vista: con un cervello danneggiato questi stessi meccanismi divengono trasparenti.

Bibliografia ragionata 1. Neuroscienze e fi losofia W. Bechtel, A Bridge Between Cognitive Science and Neuroscience: The Functional Architecture of Mind, “Philosophical Studies”, 44 (1983): 319-30 P.S. Churchland, Neurophilosophy. Toward a Unified Science of the Mind/ Brain, Cambridge (Mass.), The MIT Press, 1986 J. Bickle - P. Mandik, The Philosophy of Neuroscience, in E.N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2001, URL = http://plato.stanford.edu/ entries/neuroscience/ R. Grush, The Philosophy of Cognitive Science, in P. Machamer - M. Silberstein, a c. di, Blackwell Guide to the Philosophy of Science, Oxford, Blackwell, 2002 (Cap. 13) M.R. Bennett - P.M.S. Hacker, Philosophical Foundations of Neuroscience, Oxford, Blackwell, 2003 Recenti contributi nell’area della neurofilosofia e ulteriori risorse sono reperibili sul sito del Progetto McDonnell, in filosofia e neuroscienze, URL = http://www.sfu.ca/neurophilosophy/

45

P.S. Churchland 1986.

2. Neurontologia 2.1 Tempo e cervello D. Dennett - M. Kinsbourne, Time and the Observer: The Where and When of Consciousness in the Brain, “Behavioral and Brain Sciences”, 15 (1992): 183-201 C. Becchio - C. Bertone, Object Temporal Connotation, “Brain and Cognition”, 52 (2003): 192-196 2.2 Spazio e cervello J. O’Keefe - L. Nadel, The Hippocampus as a Cognitive Map, Oxford, Oxford University Press, 1978 J. O’Keefe, Kant and the Sea-horse: An Essay in the Neurophilosophy of Space, in N. Eilan, R. McCarthy, B. Brewer, a c. di, Spatial Representation: Problems in Philosophy and Psychology, Oxford, Blackwell, 1993: 43-64 2.3 Mondo e cervello M. Velmans, The Relation of Consciousness to the Material World, “Journal of Consciousness Studies”, 2 (1995): 255-265 R. Grush,