Storia del pensiero cristiano tardo-antico
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Zitiervorschau

CLAUDIO

MORESCHINI STORIA DEL PENSIERO CRISTIANO TARDO-ANTICO Presentazione di Giovanni Reale

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE direttore

GIOVANNI REALE

Volume pubblicato con il contributo del Centro di Studi Patristici “Luigi M. Verzé”

CLAUDIO MORESCHINI STORIA DEL PENSIERO CRISTIANO TARDO-ANTICO

Con la collaborazione di Francesco Perono Cacciafoco, Giovanni Catapano, Sara Matteoli, Beatrice Motta, Sara Petri, Pietro Podolak, Claudia Schipani, Chiara Ombretta Tommasi Indici a cura di Vincenzo Cicero

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

Direttore editoriale Bompiani Elisabetta Sgarbi Direttore letterario Mario Andreose Editor Bompiani Eugenio Lio

ISBN 978-88-58-75851-9 © 2013 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano Realizzazione editoriale: Roberto Radice Prima edizione digitale 2013 da prima edizione Il Pensiero Occidentale febbraio 2013

PRESENTAZIONE DI

GIOVANNI REALE

L’OPERA DI MORESCHINI SUL PENSIERO TARDO-ANTICO CRISTIANO E LA SUA IMPORTANZA STORICO-ERMENEUTICA 1. Le difficoltà che implica la trattazione del pensiero tardo-antico cristiano La presente opera non è una semplice storia della Patristica intesa nel senso comune, ma è qualcosa di più. In genere, le trattazioni sul pensiero dei Padri della Chiesa si limitano alle tematiche di carattere religioso-teologico, e danno scarso rilievo alle implicazioni e alla portata filosofica delle medesime, e soprattutto ai nessi fondativi che esse hanno con la filosofia tardo-antica pagana. Ciò si spiega per alcune ragioni di fondo assai significative. 1) In primo luogo, uno studio critico adeguato del pensiero tardo-antico pagano è iniziato solo da poco tempo, sia per quanto concerne le edizioni e le traduzioni dei testi, sia per quanto riguarda la loro adeguata interpretazione. Va ricordato che solo a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, e quindi da poco più di mezzo secolo, Plotino e gli autori del pensiero tardo-antico pagano sono tornati alla ribalta, e si è iniziato a tradurli e a studiarli a fondo (le numerose loro opere pubblicate in questa collana e nella parallela costituiscono una prova significativa). Già in passato alcuni esimi studiosi si erano occupati della materia, ma sono stati pochi e isolati, e i loro messaggi hanno avuto scarsa eco. Solo di recente in qualche Università si sono addirittura introdotti corsi di «Storia della filosofia tardo-antica», in quanto si differenzia dalla Storia della filosofia dell’età antica e classica e dell’età ellenistica, e richiede di conseguenza specifiche trattazioni a motivo delle notevoli differenze rispetto alla filosofia precedente, e delle sue complesse peculiarità. 2) In secondo luogo, si è creduto che lo studio della Patristica dovesse rientrare nell’ambito della trattazione del pensiero medievale, e in molti casi lo si continua a ritenere, asserendo che sarebbe la tradizione a imporlo. Ma gli errori che tale convinzione comporta sono, dal punto di vista dell’esegesi, notevoli.

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È vero che non pochi Padri hanno esercitato un influsso determinante nel corso del pensiero medievale, ma non possono essere intesi in funzione della Wirkungsgeschichte che hanno prodotto nei secoli successivi. Il loro pensiero di per sé non appartiene al pensiero medievale, ma a quello tardo-antico; e quindi, dal punto di vista ermeneutico, non lo si intende in modo corretto leggendolo al di fuori di quella particolare temperie culturale in cui è nato e si è sviluppato. Ed è quindi deviante, in tal senso, interpretare quel pensiero in funzione della successiva «storia degli effetti» da esso prodotti. 3) È inoltre vero che il pensiero dei Padri della Chiesa, in connessione con la fede e con l’interpretazione dei testi sacri, implica un nuovo paradigma culturale rispetto al pensiero pagano, e che quello stesso paradigma caratterizzerà anche il pensiero medievale. Tuttavia le categorie concettuali usate dai Padri saranno differenti rispetto a quelle usate dagli Scolastici. Anche studiosi della levatura di Henri-Irénée Marrou, che pure hanno trattato i problemi con grande finezza e non sono caduti in certi errori commessi da altri, sono stati però vittima di quel presupposto di cui dicevamo. Scrive Marrou: Certo gli schemi intellettuali di sant’Agostino prefigurano, in molti modi, quelli che reggeranno la cultura medievale occidentale. La cultura cristiana di sant’Agostino è già medievale prima di tutto per la sua ispirazione generale, per il suo carattere religioso, per la preoccupazione di porre tutte le manifestazioni dell’intelligenza in dipendenza dalla fede. Tutta la cultura del medioevo cristiano conserverà questo carattere, quali che siano le opposizioni dottrinali che potranno separare su questa questione i suoi vari rappresentanti… (1987, p. 437). Ma pur restando identici l’ispirazione generale e il carattere religioso del pensiero dei Padri e di quello degli Scolastici, la preoccupazione e l’impegno di porre tutte le manifestazioni dell’intelligenza in connessione alla fede sono differenti. Ed è proprio tale differenza che costituisce lo spartiacque fra il pensiero tardo-antico cristiano e il pensiero medievale.

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2. Ulteriori problemi di carattere ermeneutico Nella progettazione ed esecuzione di una storia del pensiero filosofico e teologico, però, ci sono anche altre difficoltà più generali che sono essenziali dal punto di vista ermeneutico. 1) Non bisogna limitarsi a riferire le opinioni degli autori trattati, quindi a rimanere su un piano puramente dossografico. 2) Insieme a ciò che hanno detto, occorre far comprendere il perché lo hanno detto, cioè le motivazioni di fondo del loro pensiero. 3) Occorre inoltre presentare ai lettori anche il modo in cui lo hanno detto, ossia offrire ampi testi scelti opportunamente dalle loro opere. E soltanto pochi studiosi sono in grado di operare così, per le ragioni di cui sotto diremo. In effetti, il modo in cui gli autori esprimono il loro pensiero si può comprendere solo direttamente dalle loro stesse parole. 4) Inoltre non si possono presentare i Padri della Chiesa senza avere una «fede» e ciò che essa comporta, oltre che una adeguata conoscenza degli strumenti scientifici. Martin Heidegger affermava che solamente l’uomo religioso è in grado di comprendere i contenuti dell’esperienza religiosa, altrimenti gli manca l’oggetto stesso di riferimento, e scriveva quanto segue: «Esperienza vissuta e “concetto”. Il nostro scopo non potrà mai essere quello di risvegliare la vita religiosa. Ciò accade solo tramite la vita stessa. Difficoltà: soltanto un uomo religioso può comprendere la vita religiosa, poiché altrimenti non disporrebbe di alcun dato genuino» (Martin Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003, p. 385). 5) Infine, un’opera storica non può mai essere condizionata a priori dal giudizio teoretico sulla dottrina dell’autore trattato. Questo giudizio, semmai, deve seguire e non precedere, e comunque mai influire sulla trattazione. Moreschini rispetta in modo adeguato tutti questi requisiti, e in particolare eccelle in sommo grado nella presentazione dei testi degli autori, la quale costituisce ben più che una sorta di raccolta antologica, in quanto i vari brani si inseriscono al punto giusto e al momento giusto nel corso della trattazione. Ma vediamo per quale motivi Moreschini era nelle migliori condizioni per fare questo.

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3. Moreschini ha composto una storia del pensiero tardo-antico cristiano con adeguata conoscenza del pensiero tardo-antico pagano Per comprendere le ragioni per cui Moreschini ha potuto non incorrere in errori assai diffusi, e quindi presentarci qualcosa di nuovo, partiamo da un testo di Hans-Georg Gadamer a noi particolarmente caro: «Chi vuole comprendere, non potrà fin dall’inizio abbandonarsi alla casualità delle proprie pre-supposizioni, ma dovrà mettersi, con la maggiore coerenza e ostinazione possibile, in ascolto dell’opinione del testo, fino al punto che questa si faccia intendere in modo inequivocabile e ogni comprensione solo presunta venga eliminata. Chi vuol comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa da esso. Perciò una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all’alterità del testo. Tale sensibilità non presuppone né un’obiettiva “neutralità” né un oblio di se stessi, ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni e dei propri pregiudizi. Bisogna essere consapevoli delle proprie prevenzioni perché il testo si presenti nella sua alterità e abbia concretamente la possibilità di far valere il suo contenuto di verità nei confronti delle presupposizioni dell’interprete» (Verità e Metodo. Testo tedesco a fronte, traduzione e apparati di Gianni Vattimo, introduzione di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 20043, pp. 557 s.). I «pre-giudizi», le «prevenzioni» di carattere ermeneutico di molti degli interpreti dei Padri della Chiesa sono proprio quelli che in passato hanno impedito di comprendere l’«alterità» del pensiero dei Padri rispetto al pensiero medievale, e la loro dipendenza filosofica dal pensiero tardo-antico pagano. Due in particolare sono le conoscenze che occorre avere per affrontare il pensiero dei Padri e non cadere negli errori sopra indicati: 1) Platone e il Platonismo nelle sue varie forme; 2) Filone di Alessandria, il quale ha creato l’interpretazione allegorica della Bibbia che è stata accettata e sviluppata in vario modo dai Padri della Chiesa. 1) Il primo punto è stato ampiamente studiato da Moreschini, come dimostrano le seguenti opere. Di Platone ha pubblicato un’edizione critica del Fedro addirittura in sostituzione di quella curata da L. Robin per Les Belles Lettres (Platon, Phèdre. Texte établi par C. Moreschini, traduit par P. Vicaire, Paris 1985), e un’edizione critica del Parmenide (la

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prima edizione era contenuta in: Platonis Parmenides, Phaedrus. Recognovit [...] C. Moreschini, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1966; Platone, Parmenide, Rusconi Libri, Milano 1994, edizione aggiornata). Di Apuleio, e in particolare del suo Medioplatonismo, Moreschini si è occupato a fondo con una monografia essenziale (Apuleio e il Platonismo, Olschki, Firenze 1978) e con un’edizione critica degli scritti filosofici nella celebre collana della Teubner (Apuleius, De philosophia libri. Edidit C. Moreschini, Stutgardiae et Lipsiae in Aedibus B.G. Teubneri 1991). Il Medioplatonismo, che per lungo tempo è stato pressoché ignorato, ha influenzato i primi Padri della Chiesa in maniera determinante. Sono stato io stesso il primo a dare ampie informazioni su di esso (nella mia Storia del pensiero greco e romano, Bompiani, vol. VIII, Milano 20103, pp. 87-183), e in questa collana, a breve distanza dalla presente opera, uscirà la prima raccolta completa di vari autori di questo movimento a cura di Emmanuele Vimercati (opera che contiene: Eudoro – Anonimo commentatore del Teeteto – Gaio – Albino, Prologo e frammenti – Lucio – Nicostrato – Alcinoo, Didascalikos – Apuleio, Opere filosofiche – Attico – Celso, Frammenti del Discorso Vero – Numenio – Cronio). Moreschini ha curato vari saggi e articoli concernenti questo movimento e i suoi influssi. E pure nell’opera che presentiamo gli dedica un ampio spazio, come mai si era fatto in precedenza in lavori sul pensiero tardo-antico cristiano. 2) Anche Filone in passato è stato poco studiato in Italia, e la portata dei suoi influssi sul pensiero tardo-antico cristiano è stata piuttosto sottaciuta. Grazie ai suoi commenti ai testi biblici, Filone è stato considerato da alcuni il primo degli Apologisti. A partire da Eusebio di Cesarea è stato ritenuto addirittura come un Padre della Chiesa. Alcuni studiosi hanno creduto di trovare influssi di Filone nel Prologo del Vangelo di Giovanni, nella Lettera agli Ebrei e in alcuni passi di Paolo. Nel 254 Origene portò da Alessandria a Cesarea l’intero Corpus degli scritti di Filone. Molto curioso è l’approccio di Ambrogio a Filone: nelle sue opere, infatti, il vescovo di Milano cita il nome di Filone una sola volta, ma gli studiosi hanno trovato circa seicento precise corrispondenze (David T. Runia, Filone di

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Alessandria nella prima letteratura cristiana. Introduzione e traduzione di Roberto Radice, Milano 1999). In Italia sono stato innanzitutto io a dare adeguato rilievo a Filone (nella mia Storia del pensiero greco e romano, Bompiani, vol. VIII, Milano 20103, pp. 5-85). Ricordo inoltre che proprio in collane da me dirette ho presentato la prima traduzione italiana integrale di tutto quanto il commentario allegorico di Filone alla Bibbia. Dapprima ho curato la pubblicazione di vari volumi per la Rusconi Libri (Filone di Alessandria, La filosofia mosaica. Contiene: La creazione del mondo secondo Mosè, traduzione di C. Kraus Reggiani, Le allegorie delle Leggi, traduzione, prefazioni, apparati e commentari di R. Radice. Monografia introduttiva di G. Reale e R. Radice, Milano 1987; Idem, Le origini del male. Contiene: I Cherubini, I sacrifici di Abele e Caino, Il malvagio tende a sopraffare il buono, La posterità di Caino, I Giganti, L’Immortalità di Dio, traduzione di C. Mazzarelli, introduzione, prefazioni, note e apparati di R. Radice, Milano 1984; Idem, L’erede delle cose divine, prefazione, traduzione e note di R. Radice, introduzione di G. Reale, Milano 1981; Idem, La migrazione verso l’eterno. Contiene: L’agricoltura, La piantagione di Noé, L’ebrietà, La sobrietà, La confusione delle lingue, La migrazione, presentazione di G. Reale, saggio introduttivo, traduzioni, prefazioni, note e apparati di R. Radice, Milano 1988; Idem, L’uomo e Dio. Contiene: Il connubio con gli studi preliminari, La fuga e il ritrovamento, Il mutamento dei nomi, I sogni sono mandati da Dio. Introduzione, traduzione, prefazioni, note e apparati di C. Kraus Reggiani. Presentazione di G. Reale, Milano 1986). Successivamente per la Bompiani, in questa stessa collana, ho raccolto tutti i precedenti volumi in uno solo con testo a fronte: Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di R. Radice, presentazione di G. Reale, Milano 2005. Si vedrà come Moreschini, in vari punti di quest’opera, si richiami al pensatore alessandrino in modo davvero fruttuoso.

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4. L’imponente conoscenza diretta di Moreschini dei testi dei Padri della Chiesa Dei Padri latini Moreschini ha studiato soprattutto Tertulliano (Tertulliani Adversus Marcionem [...] edidit C. Moreschini, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano 1971; Tertulliano, Opere scelte, introduzione, traduzione e note di Claudio Moreschini, UTET, Torino 1974; Tertullien, Exhortation à la chasteté. Introduction, texte critique et commentaire par C. Moreschini, traduction par J.Cl. Fredouille, «Sources Chrétiennes» 319, Paris 1985). In collaborazione con R. Braun ha anche curato: Tertullien, Contre Marcion, livre IV et livre V, Les Editions du Cerf, Paris 2004-2005. E inoltre: Tertulliano, Opere dottrinali, voll. 3/2a e 3/2b, con la collaborazione di C. Micaelli e Ch. Tommasi Moreschini, Città Nuova, Roma 2010). Su Tertulliano ha pubblicato anche numerosi articoli in varie riviste. Ha dedicato notevole attenzione anche a Sant’Ambrogio (Sant’Ambrogio, Opere Dogmatiche, I, La fede. Introduzione, traduzione, note e indici di C. Moreschini, Biblioteca Ambrosiana, Città Nuova, Roma 1984; Idem, Opere Dogmatiche, II, Lo Spirito Santo. Introduzione, traduzione, note e indici di C. Moreschini, Biblioteca Ambrosiana, Città Nuova, Roma 1979). Dei Cappadoci ha studiato Gregorio di Nazianzo (Gregorio di Nazianzo, Omelie sulla natività. Traduzione, introduzione e note a cura di C. Moreschini, Città Nuova, Roma 1983; Idem, I cinque discorsi teologici [...]. Traduzione, introduzione e note di C. Moreschini, Città Nuova, Roma 1986; Idem, Discours 32-37. Introduction, texte critique et notes par C. Moreschini, traduction par P. Gallay, «Sources Chrétiennes» 318, Paris 1985; Idem, Discours 38-41, introduction, texte critique et notes par C. Moreschini [...], «Sources Chrétiennes» 358, Les Editions du Cerf, Paris 1990. Per questa collana ha curato Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni, in collaborazione con C. Crimi, Ch. Sani e M. Vincelli, Milano 2000). Ha inoltre scritto: Filosofia e letteratura in Gregorio di Nazianzo, Vita e Pensiero, Milano 1997, e Introduzione a Gregorio di Nazianzo, Morcelliana, Brescia 1996. Crediamo che, a tutt’ oggi, nessuno studioso più di Moreschini abbia tradotto opere di Gregorio di Nissa (Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei Cantici. Traduzione, introduzione e note a cura di C. Moreschini, Città Nuova, Roma 1988; Idem, Opere, a

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cura di C. Moreschini, UTET, Torino 1992. Quest’opera contiene: Grande discorso catechetico, Vita di Mosè, Vita della Santa Macrina, L’anima e la resurrezione, Ad Eustazio sulla Santa Trinità, Ai Greci in base alle nozioni comuni, Non sono tre dèi, Sullo Spirito Santo contro i Pneumatomachi seguaci di Macedonio, Lettera a Teofilo, Spiegazione dell’Esamerone, Omelie sulle Beatitudini. Per la Rusconi Libri ha curato Gregorio di Nissa, Teologia trinitaria. Contro Eunomio, Confutazione della professione di fede di Eunomio, Milano 1994). Moreschini ha poi collaborato a vario titolo nella traduzione in lingua italiana del fondamentale saggio di W. Völker sul nostro pensatore (Gregorio di Nissa filosofo e mistico, traduzione dal tedesco e indici di C. O. Tommasi, presentazione e traduzione dei testi greci di C. Moreschini, Vita e Pensiero, Milano 1993). Ricordiamo che sui Cappadoci, oltre alle opere sopra indicate, Moreschini ha scritto anche una Introduzione a Basilio il Grande, Morcelliana, Brescia 2005, e I Padri cappadoci. Storia, letteratura e teologia, Città Nuova, Roma 2008. Di conseguenza, il lettore troverà in quest’opera tante pagine basate su conoscenze di prima mano dei testi e redatte con una competenza d’alta classe. Qualcuno pensa che il Padre della Chiesa più grande sia Origene (cui qui è dedicata quasi una monografia di circa cento pagine), ma l’importanza dei Cappadoci, e in particolare di Gregorio di Nissa, nella storia del pensiero occidentale è addirittura superiore a quella del teologo alessandrino. Werner Jaeger, nell’opera Cristianesimo primitivo e paideia greca (traduzione di S. Boscherini, La Nuova Italia, Firenze 1966), che stiamo per ripubblicare in questa collana (l’edizione originaria, Early Christianity and Greek Paideia, è stata edita a Cambridge Mass. 1961), lo ha messo bene in evidenza in questa pagina veramente esemplare (troppo spesso da molti dimenticata o addirittura ignorata), in cui lo studioso presenta i Cappadoci come i fautori del primo Rinascimento della cultura greca in stretta relazione con il pensiero cristiano: «I Padri cappadoci e Basilio (...) sono dei grandi teologi, ma anche di più. Persino nell’alto giudizio che danno di Origene, cui spesso si riferiscono, mostrano di pensare, come lui, alla teologia come a una grande scienza fondata su un’altissima filologia e su un’indagine filosofica. Anche questa scienza è una parte della civiltà che è la loro e nella quale si sentono di casa. Questo non poteva avvenire se non si fosse profonda-

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mente meditato sui rapporti fra cristianesimo e eredità greca. Origene e Clemente si erano mossi per questa via di alte riflessioni, ma ora occorreva molto di più. Origene aveva certamente dato alla religione cristiana la sua teologia nello spirito della tradizione filosofica greca, ma quello cui miravano nel loro pensiero i Padri della Cappadocia era una civiltà cristiana totale. A questa impresa essi recavano l’apporto di una vasta cultura, che è evidente in ogni parte dei loro scritti. Nonostante i loro convincimenti religiosi che si opponevano a una rinascita della religione greca, che in quel tempo veniva sollecitata da forze potenti nello Stato, non tengono celato il loro alto apprezzamento dell’eredità culturale dell’antica Grecia. Troviamo così una netta linea di demarcazione fra religione greca e cultura greca. E danno vita in una nuova forma e a un diverso livello a quella connessione, positiva senza dubbio e produttiva, fra cristianesimo ed ellenismo, che già abbiamo trovato in Origene. Non è esagerato parlare in questo caso di una specie di neoclassicismo cristiano, che è più di un fatto puramente formale. Per opera sua il cristianesimo si erge ora come l’erede di tutto quanto nella tradizione greca sembrava degno di sopravvivere. Non solo perciò rafforza se stesso e la sua posizione nel mondo civile, ma salva e dà nuova vita a un patrimonio culturale che in gran parte, soprattutto nelle scuole retoriche di quel tempo, era divenuto una forma vacua e artefatta di una tradizione classica ormai irrigidita. – Molto si è già detto sui vari rinascimenti che la cultura classica, sia greca che romana, ha avuto nel corso della storia, in Oriente e in Occidente. Ma poca attenzione si è prestata al fatto che nel quarto secolo, l’età dei grandi Padri della Chiesa, abbiamo un vero e proprio rinascimento che ha dato alla letteratura greco-romana alcune fra le più grandi personalità, le quali hanno esercitato un’influenza sulla storia della cultura dell’età tarda sino ai nostri giorni. E caratterizza bene la diversità dello spirito greco dal romano il fatto che l’Occidente latino ha il suo Agostino, mentre l’Oriente greco è attraverso i Padri Cappadoci che ha prodotto una nuova cultura». Jaeger è stato anche il fondatore e l’iniziatore della grande impresa della nuova edizione critica delle opere di Gregorio di Nissa, che per molti aspetti si è imposta in questo campo come un modello (l’operazione, iniziata presso l’editrice Weidmann a Berlino, è poi passata alla Brill di Leiden).

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5. Su altre opere scientifiche di Moreschini Di Moreschini ricordiamo ancora traduzioni ed edizioni critiche di altri autori. Di notevole rilievo sono altre due opere pubblicate in questa collana: Calcidio, Commentario al Timeo di Platone, 2003; Massimo il Confessore, Ambigua, 2003 (quest’opera è di eccezionale importanza, in quanto presenta la prima traduzione italiana in assoluto dell’opera più impegnativa di Massimo). Moreschini ha curato anche l’edizione critica di Boezio, De consolatione philosophiae, Opuscula theologica, Bibliotheca Teubneriana, seconda edizione, München-Leipzig 2005 (si veda anche il volume Varia Boethiana, D’Auria, Napoli 2003). Ha curato inoltre: Mario Vittorino, Opere teologiche, in collaborazione con C.O. Tommasi, UTET, Torino 2007. Vanno infine ricordate sue opere generali che hanno particolari rapporti con quella che presentiamo. In primo luogo citiamo la cospicua opera sintetica edita in collaborazione con Enrico Norelli: Storia della letteratura cristiana antica greca e latina, vol. I: Da Paolo all’età costantiniana, Morcelliana, Brescia 1995; vol. II: Dal Concilio di Nicea agli inizi del Medioevo, Morcelliana, Brescia 1995 e 1996. E inoltre Storia dell’ermetismo cristiano, Morcelliana, Brescia 2000. Ricordiamo, infine, che ha avuto grande risonanza la sua Storia della filosofia patristica, pubblicata dalla Morcelliana nel 2004, rispetto alla quale la presente opera non solo raddoppia i contenuti, ma si differenzia ampiamente, in particolare con la ricca presentazione dei testi e il taglio filosofico a più vasto raggio. In conclusione, Claudio Moreschini è lo studioso che, al momento, meglio di tutti i cultori del medesimo ambito disciplinare poteva affrontare il compito di tracciare in modo adeguato una sintesi del pensiero tardo-antico cristiano. E questo per via delle notevoli, raffinate competenze specifiche che ha acquisito e che vengono attestate dai cospicui contributi sopra ricordati (cui andrebbe aggiunta l’imponente messe di altri lavori, saggi e articoli, che qui non è stato possibile citare), mediante i quali ha raggiunto un vero e proprio primato, non solo in Italia ma su scala mondiale, come dimostra quest’opera che finora non ha uguali. Giovanni Reale

STORIA DEL PENSIERO CRISTIANO TARDO-ANTICO

Prefazione Una trattazione storico-critica di un momento fondamentale del cristianesimo antico, sostenuta e spiegata dai testi che giustificano le varie interpretazioni: questo, in breve, l’intento della nostra opera. Un esempio calzante e ben riuscito di quanto abbiamo voluto fare ci è dato dalla Storia della Letteratura Cristiana Antica, pubblicata alcuni anni fa dalla Piemme, seguita poco dopo da una Antologia di testi: entrambi i volumi furono curati da due eccellenti studiosi, come Manlio Simonetti ed Emanuela Prinzivalli, e trovarono in questa interpenetrazione reciproca la loro giustificazione e la loro funzione. Di conseguenza, preparare per il lettore moderno un’antologia del pensiero cristiano tardoantico, era un progetto che suscitava da tempo il mio interesse. Si parla, nel titolo di quest’opera, del ‘pensiero cristiano tardoantico’: esso intende mettere in evidenza quell’aspetto peculiare dei testi cristiani, nei quali il pensiero greco e romano è inestricabilmente unito alla tradizione del nuovo messaggio evangelico. Il presente non è, quindi, un trattato di patristica, ma di filosofia antica, e più precisamente della sua presenza ineliminabile nel pensiero cristiano. I testi che accompagnano le varie trattazioni servono a ridare voce a quegli antichi scrittori cristiani, sui quali poggia, anche se questo fatto è spesso misconosciuto o trascurato, l’elaborazione moderna. E poi ho voluto mettere in evidenza un altro fatto: una ‘storia’ del pensiero non può limitarsi a presentare in successione cronologica i ‘pensatori’, ma deve collocarli storicamente nell’ambiente in cui vissero. Per questo motivo ho cercato di fare sempre riferimento alla storia dell’impero romano: tutto il primo libro, ad esempio, è totalmente estraneo (se vogliamo ragionare in termini scolastici) al pensiero cristiano. Per attuare questo progetto mi sono rivolto all’amico Giovanni Reale, il quale ha capito perfettamente quello che intendevo fare e, con quell’apertura culturale che lo caratterizza, lo ha immediatamente accettato. A lui sono grato in prima istanza anche perché mi ha generosamente permesso di riprendere il capitolo sul Medioplatonismo della sua Storia della filosofia greca e romana, vol. 7, Bompiani;

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PREFAZIONE

inoltre ha riletto tutto il presente lavoro, aggiungendovi preziose osservazioni. Poi a Roberto Radice, il quale, con la sua consueta perizia, ha preparato – nonostante i suoi numerosi e gravosi impegni – il volume ‘camera ready’: senza di lui questo libro non sarebbe stato pubblicato. Quindi ricordo con affetto e gratitudine gli amici e gli allievi, ai quali mi sono rivolto e che hanno collaborato allestendo, ciascuno con le proprie competenze, alcuni capitoli dell’opera. Li elenco nell’ordine in cui appaiono in questi volumi: tra gli amici, Chiara Ombretta Tommasi, per il primo capitolo della prima parte (Monoteismo ed enoteismo); Beatrice Motta per la parte del capitolo sui Padri Cappadoci relativa alla polemica antifatalista (§ 4) e per il capitolo su Nemesio di Emesa; Giovanni Catapano per i Dialoghi di Agostino. Tra i miei allievi, Sara Petri è l’autrice del capitolo su Ilario di Poitiers e di quello sul diacono Rustico, Francesco Perono Cacciafoco del capitolo su Optaziano Porfirio, Sara Matteoli di quello su Pelagio e il pelagianesimo, Pietro Podolak del capitolo su Dionigi l’Areopagita. Infine Francesco Perono Cacciafoco mi ha aiutato nella stesura del capitolo su Origene, Claudia Schipani per quello su Tertulliano. A tutte queste persone esprimo il mio ringraziamento. Parimenti, ringrazio quelle Case Editrici che, con un atteggiamento liberale oggidì rarissimo, in tempi di esasperata – e spesso solo cervelloticamente presunta – concorrenza, mi hanno permesso di servirmi delle loro pubblicazioni: UTET, Mondadori, Paoline, e soprattutto Città Nuova, nella persona del direttore ed amico Donato Falmi. Le traduzioni di Origene, quando non sono indicate diversamente, sono tratte dal volume degli scritti di Origene tradotti da Manlio Simonetti e pubblicato da Sansoni, 1975 (I principi; Contra Celsum e altri scritti filosofici; scelta, introduzione, traduzione a note a cura di Manlio Simonetti); altrimenti, quando faccio riferimento alla traduzione pubblicata da UTET 1968, lo indico. Anche le numerose traduzioni di Lattanzio si trovano nel relativo volume di traduzioni, curato da Umberto Boella, e pubblicato da Sansoni, 1973 (Divinae institutiones; de opificio Dei; de ira Dei).

Introduzione generale Mentre Paolo li aspettava in Atene, il suo animo si infiammava di sdegno vedendo come la città era piena di idoli. Intanto discuteva nella sinagoga con i Giudei e con i timorati di Dio ed anche nel mercato ad ogni ora del giorno con quelli che lì capitavano. Anche alcuni dei filosofi epicurei e stoici si misero a parlare con lui ed alcuni dicevano: «Che cosa intende dire questo seminatore di chiacchiere?» Altri, poi, sentendo che predicava Gesù e la risurrezione, dicevano: «Sembra essere un predicatore di divinità straniere». Così lo presero e lo portarono all’Areòpago dicendo: «Possiamo sapere quale è questa nuova dottrina che tu insegni? Infatti le cose che tu dici ci suonano strane. Vogliamo dunque sapere di che cosa si tratta». Tutti gli Ateniesi, infatti, e gli stranieri residenti ad Atene non trovavano migliore passatempo che quello di riferire o di ascoltare le ultime novità. Allora Paolo, ritto in mezzo all’Areòpago, disse: «Ateniesi, sotto ogni punto di vista io vi trovo sommamente religiosi. Infatti, passando ed osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: “Al dio ignoto”. Orbene, quello che voi venerate senza conoscerlo, io vengo ad annunciarlo a voi: il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che in esso si trova. Egli è signore del cielo e della terra e non abita in templi fabbricati dagli uomini, né riceve servizi dalle mani di uomo, come se avesse bisogno di qualcuno, essendo lui che dà a tutti vita, respiro ed ogni cosa. Egli da un solo ceppo ha fatto discendere tutte le stirpi degli uomini e le ha fatte abitare su tutta la faccia della terra, fissando a ciascuno i tempi stabiliti ed i confini della loro dimora, perché cercassero Dio e come a tastoni si sforzassero di trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo e siamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Di lui, infatti, noi siamo stirpe” (Arato, Fenomeni 5).

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INTRODUZIONE GENERALE

Essendo dunque noi della stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile ad oro o ad argento od a pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione dell’uomo. Ma ora, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, Dio fa sapere agli uomini che tutti, e dappertutto, si convertano, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale sta per giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, accreditandolo di fronte a tutti, col risuscitarlo da morte». Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo canzonarono, altri dicevano: «Su questo argomento ti sentiremo ancora un’altra volta». Così Paolo se ne uscì di mezzo a loro. Ma alcuni uomini aderirono a lui ed abbracciarono la fede. Tra essi c’erano anche Dionigi l’Areopagita, una donna di nome Dàmaris ed altri con loro (Atti degli Apostoli 17,16-34).

Questa narrazione di un episodio della vita di Paolo, narrata da Luca, ha un’importanza cruciale per vari motivi. Essa è l’unico passo della Bibbia che ha a che fare con Atene; inoltre costituisce l’unico passo del Nuovo Testamento in cui noi abbiamo notizie di un incontro tra il cristianesimo e la tradizione greca pagana, senza nessun riferimento ad una situazione culturale ebraica. Ed è poi l’unico passo del Nuovo Testamento in cui sono ricordate delle scuole filosofiche greche, anzi, in cui si fa riferimento a dei filosofi. È anche una delle poche testimonianze relative a degli scrittori greci. Inoltre, questo racconto ci presenta un discorso di Paolo nel quale l’apostolo fa ampio uso di idee fondamentali della filosofia greca per sostenere la validità del messaggio cristiano. Questo racconto è stato considerato da molti esegeti degli Atti degli Apostoli come il passo più problematico. Alcuni hanno parlato di “un corpo estraneo” non solamente al Nuovo Testamento, ma anche all’opera di Luca. Questo vale sul piano del contenuto, della teologia e anche della forma linguistica e stilistica. Non esiste nessun parallelo a questo racconto, tanto che potrebbe essere facilmente omesso, senza turbare la struttura dell’opera. L’episodio, quindi, ci presenta l’emergere di un incontro tra la filosofia e il culto pagano, da una parte, e la fede cristiana, dall’altra. Tale incontro è per noi emblematico e di capitale importanza. E ci piace concludere con le pagine di un maestro (Vincenzo Cilento, Medio Evo monastico e scolastico, Milano - Napoli, Ric-

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ciardi 1961, p. 45): Cilento ricorda come, all’inizio, il cristianesimo non fece nessun tentativo per sostituire alla scuola della società pagana altre scuole, ispirate alla nuova religione, anzi, permise che gli studenti «passassero per la trafila delle scuole dei grammatici e dei retori, e vi prendessero, per tutta la vita, il gusto delle lettere antiche». Di conseguenza, coloro i quali si erano nutriti una volta dei grandi scrittori dell’antichità, non potevano dimenticarli mai più; e non potendo rinunziare né alle impressioni della loro giovinezza né alle credenze della loro età matura, essi dovettero tentare di adattare insieme e mescolare in qualche modo la Bibbia e Virgilio, Platone e San Paolo [...]. Un secolo dopo Boezio, l’Islam irruppe nel mondo mediterraneo e, almeno nei primi tempi delle sue conquiste, non volle o non poté assimilare gli elementi estranei alla sua cultura. Al Cristianesimo non poté mai applicarsi, neppure per leggenda, il ragionamento del Califfo Omar, il quale distrusse la biblioteca di Alessandria, affermando che i libri ivi conservati o si adattavano all’insegnamento del Corano, e quindi erano inutili, o erano contrari ad esso, e quindi dovevano essere distrutti.

Parte prima LA DIFFUSIONE DEL PENSIERO CRISTIANO NELL’IMPERO ROMANO E LA REAZIONE PAGANA

Sezione prima

ASPETTI RELIGIOSI E FILOSOFICI DELLA TARDA ANTICHITÀ E POLEMICHE ANTICRISTIANE

Capitolo primo

Monoteismo ed enoteismo 1. La fede in un unico Dio presso i Greci e le sue implicazioni La nozione di un dio supremo, trascendente la moltitudine degli altri dèi, aveva gradualmente guadagnato terreno, sotto la spinta di movimenti di ispirazione platonico-pitagorica e stoica, ed anche, in parte, del contatto con alcune forme di religiosità orientale, in particolare del culto di Iside o Mithra, come pure del Giudaismo, il quale, prima del manifestarsi delle forme di antisemitismo pagano a partire dalla rivolta giudaica del 66 d.C., aveva goduto di un’ampia diffusione e aveva suscitato interesse e viva curiosità da parte della cultura greca, a partire dalla conquista di Alessandro Magno. Gli studiosi si sono dedicati alla ricerca, nella cultura pagana, di forme più o meno latenti o rudimentali di concezioni monoteistiche, sì da sfumare la schematica, e per molti aspetti fuorviante, contrapposizione tradizionale tra paganesimo politeista e giudeo-cristianesimo monoteista. Tale interesse si è manifestato in una messe di contributi già “classici”, ovvero in riprese assai recenti, diversi per mole e spessore critico: il volume curato da P. Athanassiadi e M. Frede, Pagan Monotheism in Late Antiquity, Oxford 1999, malgrado alcuni contributi di notevole spessore critico (Mitchell e Liebeschuetz), a nostro parere resta sostanzialmente deludente: non solo esso muove da premesse non sempre condivisibili, ed animate da eccessiva “correttezza politica”, ma fondamentalmente ambisce a presentarsi come assoluta novità (e come tale lo hanno salutato molti recensori), mentre in realtà ignora disinvoltamente almeno un secolo e mezzo di dibattito critico e bibliografico. Indagare se davvero, e in che misura, la cultura classica sia stata pervasa da istanze monoteistiche, significa riconsiderare il fenomeno religioso antico e tardoantico nel suo complesso di sfaccettature. Viceversa, non prenderemo qui in considerazione il concetto di monoteismo nel Cristianesimo, che è, naturalmente, dato per assunto ed implicito. Esso servirà piuttosto come termine di paragone per le considerazioni che ci accingiamo a svolgere.

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Non possiamo accennare se non brevemente a come nel mondo greco la concezione delle divinità tradizionali di stampo omerico-esiodeo avesse subìto una inesorabile ed irreversibile metamorfosi, favorita sia da una progressiva evoluzione all’interno della cultura letteraria (basti rammentare la tragedia del V secolo), sia, particolarmente, dalla speculazione filosofica, dei Presocratici prima, ma soprattutto delle teologie cosmologiche di Platone e, in diverso modo, di Aristotele e della tradizione posteriore. Quanto si etichetta col termine di “monoteismo” greco – sebbene, per designare il fenomeno, preferiamo servirci, con altri autori, ancora del termine “enoteismo”, coniato da Schelling, e ripreso dallo storico dell’induismo F. Max Müller alla fine dell’Ottocento – piuttosto che rigettare, come è nell’esclusivismo giudaico e cristiano, la moltitudine degli dèi, tendeva a focalizzarsi sulla unità ultima della divinità, oltre cioè le sue manifestazioni in forma plurale. Di natura “inclusiva” o, piuttosto, “gerarchica”, esso mirava ad una sorta di reductio ad unum, di riduzione all’unità, della natura divina. Questa forma religiosa sembra in certo qual modo abbandonare, per le realtà supreme, un modello teologico intrinsecamente pluralizzato, pur non opponendosi apertamente al politeismo del culto: non a caso simili concezioni vennero fatte proprie particolarmente dalle cerchie filosofiche, potendosi spiegare, spesso insieme ad un rifiuto dell’antropomorfismo, nei termini di una particolare potenza divina, al di là o all’interno della natura, che incuteva rispetto e terrore; allo stesso tempo gli dèi continuavano ad esistere nel politeismo tradizionale, assimilati a manifestazioni del numinoso, la cui natura ed il cui carattere erano stati rivelati e la cui identità era andata differenziandosi e fondando la base del culto. 2. Dio è unico perché è il più grande. Il platonismo La cosmogonia del Timeo, in particolare, fu arricchita di significati più complessi da parte degli esegeti posteriori a Platone, i quali mossero dalla dicotomia ivi presente tra le idee ed il Demiurgo che viene da esse costretto e limitato; questo elemento sembra incompatibile con il suo status di principio assolutamente primo: di qui la necessità di postulare un primo dio, assolutamente separato, ed un secondo principio, cui sono demandate funzioni demiurgiche o intellettive, e, a partire da Numenio (II sec.

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d.C.), anche un terzo: la pluralità che viene in tal modo introdotta in una simile articolazione verticale non fa, tuttavia, perdere di vista il fatto che si tratti di ipostatizzazioni di un unico dio. Si può infatti considerare il secondo dio semplicemente come il primo dio, il quale, di per sé, trascende l’essere e sfugge ad ogni possibilità di essere inteso, ma che si rivela al livello dell’essere e dell’intelletto divino. Allo stesso tempo si può considerare una articolazione di tipo orizzontale, ad esempio nell’intelletto, che viene identificato con le idee, ed è dunque una pluralità: il tutto, in ogni caso, non inficia la unità divina. Fu pertanto, unitamente alle filosofie di età ellenistica, l’eredità platonica, saldatasi al pitagorismo e culminata nel medio- e neoplatonismo, ad accentuare progressivamente una simile tendenza enoteista, recepita inoltre da figure di pensatori meno sistematici, i cosiddetti Halbphilosophen o “semifilosofi”, caratteristici della Seconda Sofistica (II-III secolo d.C.): non soltanto Apollonio di Tiana (di cui un frammento conserva il modo di venerare e le caratteristiche del suo “dio unico”) (ne riparleremo a p. 57), ma anche Dione Crisostomo, Elio Aristide, Massimo di Tiro (sofisti greci vissuti tutti el II secolo d.C.), e persino l’autore del romanzo attribuito dalla tradizione a Clemente di Roma, il discepolo e successore di Pietro (le cosiddette Recognitiones) sembrano professare variamente il concetto di un dio unico, inesprimibile e pure venerato in più modi e in varie lingue da tutti i popoli, diffuso nell’universo, e suo reggitore, attorniato da una schiera di divinità minori a lui sottomesse, che di volta in volta potevano essere identificate sia con gli dèi-astri della tradizione accademica e peripatetica, sia con gli dèi della religione ufficiale, sia con figure intermediarie tra questo dio e il mondo terreno, i demoni (cf. anche pp. 31 ss.). La raffigurazione medioplatonica del principio supremo quale essere o intelletto trascendente, largamente adottata nel pensiero religioso dei primi tre secoli dell’era cristiana, in ultima analisi, fu alla base del modello eno-ontologico plotiniano, che si focalizza, in un compendio di dottrine platoniche e aristoteliche, sull’Uno e sulla sua sublimità ineffabile. Allo stesso tempo, parte delle idee di Plotino trovavano un terreno comune nella cultura teologica greca coeva, come si riscontra ad esempio anche nel Corpus Hermeticum e negli Oracula Chaldaica (sui quali cf. G. Reale, Storia della filosofia antica, Bompiani, Milano).

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Non di rado sarebbe stato, inoltre, impiegato il paragone “politico”, con la assimilazione del dio al gran Re persiano attorniato dai satrapi, ovvero, più in generale, ad un monarca ed ai suoi vassalli, come già nel trattato Sul mondo, da molti ritenuto pseudoaristotelico, ma da altri opera autentica dello Stagirita. Con questa metafora, inoltre, si è voluta mettere a confronto la nuova realtà rappresentata dall’impero romano e, già in precedenza, dai regni ellenistici, con l’intento di creare una sorta di corrispondenza tra il modello reale, storico, e quello metafisico. Sono queste le medesime concezioni che il maggior esponente del medioplatonismo in lingua latina, Apuleio (125-180 d.C.), riprenderà e svilupperà nel suo compendio di filosofia, dando al tempo stesso voce alle istanze della religiosità coeva nel trattato su Platone e la sua dottrina: lo fa tramite l’enfatizzazione della dottrina della trascendenza ed ineffabilità divine, basandosi sul noto assunto (apertamente citato) di Timeo 28 C, da lui tuttavia (come da molti altri, medioplatonici pagani e Cristiani) interpretato nel senso di un totale apofatismo di dio. Apuleio scrive che: Questo dio è uno, incommensurabile, padre e artefice di tutte le cose, beato e beatificante, ottimo, di nulla bisognoso, ed egli stesso abbraccia tutte le cose [...] impronunciato, innominabile, invisibile, indistruttibile (Platone e la sua dottrina I 5,190).

Che dio sia “beato e beatificante” è una strana espressione che pare derivare dallo gnosticismo. Tuttavia, benché mediante la connotazione di questa divinità prima come unica Apuleio sembri distaccarsi da Alkinoos e dal suo “primo dio” di matrice platonica, numerosi altri passi che si trovano all’interno dell’opera filosofica apuleiana attestano che non si può parlare di una unicità di dio al modo giudaico-cristiano: esiste, infatti, secondo Apuleio, un dio supremo, padre di tutte le cose, animate e inanimate, benefattore del creato, ma senza diretto contatto con il mondo, che è sine cura sospitator («salvatore, protettore senza affanno»), incomprensibile, se non a pochissimi, grazie ad una illuminazione folgorante, e ineffabile (cf. La magia 64; Il dio di Socrate 3,124). Malgrado, infatti, la critica, secondo alcuni spesso aspra e dissacratoria, che Apollonio di Tiana o Apuleio, al pari di molti altri pagani colti del loro tempo, rivolgevano alle divinità tradizionali, esse però non venivano negate o assimilate al rango di demoni

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malvagi, come invece farà la speculazione cristiana: la possibilità di signoreggiare su una moltitudine di figure di rango inferiore sembrava suggello e garanzia della potenza di simili divinità, ed è forte la polemica contro il monoteismo “esclusivista”giudaico-cristiano, considerato alla stregua di una diminuzione, o privazione divina. Lo si asserisce esplicitamente in un frammento attribuito al filosofo pitagorico Onata, trasmesso da Stobeo (Ecl. I 39), o nel celebre passo dell’Ottavio di Minucio Felice (10,30), in cui l’interlocutore pagano Cecilio dà ancora una volta voce alle istanze tipiche del paganesimo coevo, asserendo che il popolo ebraico è stato vinto poiché il suo Dio è stato abbandonato da tutti e vive in solitudine e desolazione. La unicità divina, nel senso della non esistenza di altri dèi, è, infine, apertamente proclamata come menzogna in un noto passo delle Metamorfosi apuleiane, in cui la critica ha da lungo tempo riconosciuto tracce di polemica anticristiana. La affermazione monoteista trova peraltro la sua formulazione mediante l’aggiunta al termine “dio” dell’epiteto “uno”, più raramente di “solo”: a tali espressioni il giudaismo ellenistico ed il suo massimo rappresentante, Filone, avevano dato un completamento metaforico, desunto dalla vita politica, attribuendo al Dio unico il titolo di “monarca” e il termine “monarchia” era diventato corrente per indicare il monoteismo. Ignorate dagli scrittori neotestamentari, queste espressioni di “monarca” e di “monarchia” si integrarono nella tradizione cristiana a partire dal II secolo. Si può, quindi fare riferimento al primo grande scrittore latino cristiano, Tertulliano (160-230 d.C.), che nell’Apologetico non manca di ribadire con ogni mezzo la sua fede monoteista. È questo, ad esempio, il caso della descrizione del Dio cristiano offerta in Apologetico 17,1-3, per la quale si deve tener conto anche dei destinatari dell’opera, vale a dire potenziali interlocutori pagani; è proprio rivolgendosi ad essi che Tertulliano appare interessato a mettere in luce i punti di contatto tra le due religioni: Quello che noi adoriamo è un Dio unico, il quale creò dal nulla, a ornamento della sua maestà, tutta questa mole insieme a tutto il corredo di elementi, di corpi, di spiriti, con la parola con cui comandò, con la ragione con cui dispose, con la virtù con cui poté; perciò, anche i Greci dettero all’universo il nome di cosmos. 2. Egli è invisibile, sebbene si veda; inafferrabile, sebbene si renda presente per grazia; incomprensibile, sebbene si

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lasci comprendere dalle facoltà umane: per questo è vero e così grande! D’altro canto, ciò che comunemente si può vedere, afferrare, comprendere, è minore degli occhi da cui è percepito, della mano con cui viene a contatto, dei sensi da cui viene scoperto; ciò che invece è incommensurabile, è noto solo a se stesso. 3. Questo è ciò che fa comprendere Dio, il fatto che non lo si può comprendere; così l’immensità della sua grandezza lo presenta agli uomini come noto e ignoto, e in questo sta la colpa principale di coloro che non vogliono riconoscere colui che non possono ignorare.

In questo passo di Tertulliano alcuni attributi, infatti, rassomigliano a quelli apuleiani: «invisibile, incomprensibile, incommensurabile, immenso, ottimo, sommo»; altri sono comuni ad ambedue gli scrittori, sia pure con dei distinguo: «incorruttibile, immutabile, eterno», e il generico «onnipotente» (già presente nella poesia latina, da Virgilio in poi), che andava tuttavia acquisendo nuovi, specifici, significati. Non dimentichiamo che l’Apologetico fu scritto nel 197 d.C. e le Metamorfosi apuleiane probabilmente venti anni prima, ed entrambe le opere erano destinate all’ambiente pagano di Cartagine. Tertulliano, tuttavia, è ben conscio delle peculiarità che separano il Dio cristiano dal primo principio platonico: non solo l’idea di totale trascendenza, che gli appare troppo intellettualistica, in quanto trascura qualunque idea provvidenziale e soteriologica per mettere in luce solamente la impossibilità della conoscenza di Dio, ma anche, e soprattutto, la dottrina di un mondo intelligibile che si affianchi a Dio e, al contrario, la tesi cristiana della creazione dal nulla. Era dunque conforme alla natura della religione pagana non solo il politeismo, ma anche la inclusione e la addizione di ulteriori divinità nel pantheon consacrato dalla tradizione. Perciò da parte delle classi colte una tacita accettazione di tale status quo, che presupponeva l’esistenza del dio trascendente e sommo accanto a numerosi dèi inferiori, rimarrà immutata nel corso di tutta l’età imperiale, come testimoniano numerosi esempi a partire dall’età dei Tetrarchi e di Costantino (285-337 d.C). La linea platonica, rinnovata e rinvigorita dalla originalissima speculazione plotiniana, e dal suo sistema metafisico, appare in certo qual modo presente in tutti i documenti che andremo a considerare, sia pure tenendo conto del fatto che la maggior parte di essi non

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intende presentarsi come testo strettamente filosofico. Essi riflettono, piuttosto, in modo generale, la congiuntura culturale ed il sentire religioso contemporanei, animati, è noto, da tendenze e tentazioni sincretistiche, e, pertanto, necessariamente vaghi. In tal modo, quindi, va intesa la professione di fede nel platonismo o nel neoplatonismo che quegli autori asserivano di praticare e che molto spesso si risolve nella banalizzazione di determinate dottrine – vedi la teologia negativa, con la ripresa più o meno velata dell’assunto di Timeo 28 C – o nella contaminazione con elementi di tipo misteriosofico, o derivanti dallo stoicismo ciceroniano e senecano, anche questo indubbiamente banalizzato. 3. La tarda antichità latina La tarda antichità del mondo occidentale offre in tal senso ulteriori importanti esempi di tendenze enoteistiche, come mostra appunto l’evoluzione della teologia stoica e del suo principio provvidenziale, identificato talora con Zeus/Iuppiter, espressa già chiaramente nel celebre inno-preghiera con cui Seneca intese mediare al mondo latino la forte valenza dello Zeus di Cleante (epist. 107,10-11). Per ambedue gli scrittori la personalità di Giove supera di molto quella tipicamente assegnatagli dallo Stoicismo, arrivando a distinguersi dalla Ragione universale, di cui è considerato sovrano e reggitore: paradigmatici sono in tal senso appunto i quattro versi del testo di Seneca, estremamente stilizzato nella accurata scelta dei termini del registro sacrale, per quanto già si possano rinvenire tendenze simili nel trattamento che del regnator Olympi aveva dato Virgilio, nella sua concezione della natura provvidenziale dello Stato romano. Ecco il testo: Conducimi, o padre e signore dell’alto cielo, / ovunque ti è piaciuto; non indugio ad obbedire; / sono qui, pronto. Immagina che io non voglia: ti seguirò piangendo / e farò da malvagio quello che avrei potuto fare da buono. / I fati conducono colui che si sottomette, mentre colui che si ribella, lo trascinano.

Nella prima età imperiale era stato infatti lo Stoicismo ad aver assunto un ruolo primario nella cultura delle classi elevate. Sul piano teologico, lo Stoicismo, intrinsecamente panteista, poteva quindi salvaguardare da un lato la religione ed i culti tradizionali,

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dall’altro, identificando le singole divinità con parti del mondo materiale, permetteva di concepire l’universo come un organismo vivente, non di rado assumendo coloriture in senso enoteistico. Ancora, lo Stoicismo, già fin da Cicerone, aveva inteso spiegare l’essere divino, nella sua essenza generale, come mens, cioè somma razionalità, una nozione, questa che, depauperata del tecnicismo originario, divenne comune anche a molti letterati di età imperiale. Possono essere paradigmatiche, al riguardo, le due affermazioni contenute nei Panegirici Latini (VIII 10,2) (una raccolta di discorsi in onore di vari imperatori del III e IV secolo, tra i quali Diocleziano, Massimiano e Costantino), che si ritrovano, analoghe, in Firmico Materno e anche in Lattanzio: «in tal modo, quindi, quella mente divina, che governa tutto questo mondo, fa tutto ciò che pensa». Sono le medesime asserzioni riproposte da un poeta latino del quarto secolo, Avieno, il cui lungo e dettagliato proemio degli Aratea mette in luce la natura provvidenziale e razionale di Giove, cantato al modo stoico quale fuoco etereo ed energia vitale degli astri, sole, di essi signore, principio che sovrintende e genera l’universo, dopo aver distrutto il caos originario; mediante il movimento ed un eterno fluire, dispone il mondo e tutto lo pervade, con ordine ed una sorta di amorevole concordia; egli è numero e fondamento delle sfere celesti (secondo una esegesi che risale al ciceroniano Sogno di Scipione), in lui coesistono gli opposti. Altrettanto interessante appare l’opera astrologica di Firmico Materno (Libri di astrologia; Firmico Materno è vissuto sotto Costantino e i suoi figli, è morto intorno al 350 d.C), permeata anch’essa di differenti influssi: dalle riprese in chiave stoica delle dottrine sopra indicate, alla teologia solare, che celebra appunto la preminenza del Sole e lo loda quale intelletto del mondo e reggitore degli dèi, alla impredicabilità del dio sommo, nella linea di teologia negativa che era stata propria della cultura medio- e neoplatonica. Sono importanti esempi di questa tendenza le preghiere proemiali, molto simili tra loro, anteposte al quinto ed al settimo libro dell’opera: esse fanno riferimento ad una figura divina, artefice dell’universo, che ne tempera i contrari e ne dispone ordinatamente le vicende, e, soprattutto, domina col suo potere tutta la schiera delle divinità minori. La prima di queste preghiere (V 3), dopo l’esordio con la formula generalizzante «chiunque tu sia», prosegue poi con una serie di proposizioni relative ed anafore, anche queste proprie della lingua

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sacrale. Seguono nuove invocazioni e l’augurio di portare felicemente a termine l’opera, secondo i dettami della retorica, tra cui una al Sole ottimo massimo, che compone i contrari, ed al cui arbitrio si dispone la potenza del fato. Assai simile, anche nella scelta delle movenze, si presenta l’altra preghiera, in apertura del settimo libro. Alla estrema genericità e vaghezza delle asserzioni e degli attributi impiegati da Firmico fa da contraltare l’enigmatica testimonianza rappresentata agli inizi del quarto secolo dall’Inno all’Onnipotente di Tiberiano (età di Costantino), che si staglia come un unicum, anche in virtù della scarsità di notizie di cui disponiamo in merito a questo personaggio: mentre i manoscritti indicano quest’inno come una traduzione da Platone (una indicazione che andrà letta nel senso di una dipendenza esegetica della cosmogonia del Timeo, di stampo medioplatonico, per via delle consonanze col pensiero di Apuleio, come anche di indubbie connessioni con il neoplatonismo di Porfirio, ben conosciuto in Occidente come «maestro degli intellettuali», secondo la ben nota definizione di Pierre Courcelle). Allo stesso tempo vi si riscontrano numerose altre influenze. Si tratta di una serie di esametri in lode della divinità somma, che non può essere denominata, al cui cenno le forze della natura si tacciono; un dio che è primo ed allo stesso tempo ultimo e mediano […] stirpe di tutti gli dèi, origine ed energia della natura […] dio unico ed innumerabile, dotato di tutti i sessi (vv. 78, 21-23).

L’inno assomma i motivi peculiari dell’enoteismo tardoantico e merita attenzione anche per la componente letteraria, in cui facilmente si possono trovare le stilizzazioni delle preghiere e delle invocazioni, lo snodarsi aretalogico delle «potenze» e, non da ultimo, l’invocazione per l’ottenimento della conoscenza. Al tema assai insistito del nome impronunciabile, che andrà ricondotto alle dottrine dei circoli filosofici piuttosto che alla letteratura magica di natura più popolare, si assommano numerosi echi dell’Orfismo, tra cui l’idea secondo cui dio è primo, ultimo e mediano, come anche quella della sua bisessualità, idea, quest’ultima, presente anche in molti testi ermetici, al pari della polionimia, della inintelligibilità e della eternità. Interessante, infine, appare l’immagine del raggio luminoso cui è paragonata la divinità, ricondotta dalla critica all’interesse mostrato dagli autori neo-

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platonici per la teologia solare (a partire dall’immagine del sesto libro della Repubblica, 509), ma che potrebbe anche essere meno tecnica e rispecchiare piuttosto concezioni diffuse tra le classi elevate, favorite anche da esponenti della casa imperiale. Allo stesso tempo, questo tema appare bene adattarsi alla mentalità dell’epoca della teocrasia, e si riflette in un documento di propaganda ufficiale, come sono i Panegirici Latini: nel nono di essi, dedicato a Costantino, non soltanto si legge di una mente divina universale (con il riecheggiamento in chiave enoteistica della già citata definizione di Cicerone) che sarebbe in segreto contatto con l’imperatore, suffragandone in tal modo il potere regale, ma a questa stessa divinità è dedicata la preghiera, ancora una volta posta nella posizione chiave conclusiva; è opportuno qui mettere in risalto sia il tema della polionimia, sia, per converso, quello della inconoscibilità del vero nome divino, ambedue motivi abbastanza usuali in contesti atti a porre in luce la trascendenza. Di un certo interesse, infine, credo sia il menzionare la preghiera con cui Licinio (secondo il racconto di Lattanzio, che la riporta nel suo scritto su La morte dei persecutori 46), dopo aver avuto una visione angelica in sogno, invocò il favore di un Dio sommo prima della battaglia contro Massimino, del quale erano ben note le convinzioni pagane; è una preghiera non particolarmente elaborata, fin troppo marcata da anafore e ripetizioni, che, nella sua genericità, ben si accorda con le tendenze enoteistiche ed al tempo stesso con la superficiale patina di Cristianizzazione che pervadeva alcuni ambienti nell’epoca della Tetrarchia: sommo dio, ti preghiamo; santo dio, ti preghiamo: ti affidiamo tutta la giustizia, ti affidiamo la nostra salvezza; ti affidiamo il nostro potere. Per tuo mezzo viviamo, per tuo mezzo abbiamo l’esistenza, felici e vincitori. Sommo, santo dio, esaudisci le nostre preghiere; a te tendiamo le nostre braccia; esaudiscici, sommo, santo dio.

Diverso, invece, e più eclatante il caso dell’imperatore Costantino: cristiano in privato, secondo il suo biografo Eusebio, egli tuttavia non fece mai mostra, almeno nel primo periodo di regno, nella attività pubblica della sua fede, per non scontentare la maggioranza dei suoi sudditi, ancora legati alla religione tradizionale. Assai importante è però un documento che ci testimonia la sua adesione alla nuova fede, se se ne accetta, come general-

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mente si è propensi a fare attualmente, la autenticità. Si tratta del Discorso alla assemblea dei santi, pronunziato nel 325 (ad Antiochia o a Costantinopoli): l’opera ribadisce fin dal principio l’errore del politeismo, ma intende mostrare come già alcuni autori, Pitagora e Platone, avevano intravisto un barlume della verità. Tra quanti anticiparono la rivelazione si annovera anche Virgilio, la cui quarta egloga, pervasa di aspettative messianiche e profetiche, nel suo annuncio del ritorno dell’età aurea, viene letta per la prima volta in senso cristiano, unitamente ad una serie di profezie tratte dagli Oracoli della Sibilla. Così la retorica ufficiale dei panegiristi di corte, le convinzioni dello stesso Costantino, gli esempi cui si è sinora accennato, unitamente alle testimonianze dei due maggiori scrittori Cristiani del periodo, Arnobio e Lattanzio, permettono senz’altro di suffragare ciò che è stato osservato con una formula felice da Ramsey Mac Mullen, che «cristianesimo e paganesimo non furono mai tanto vicini dogmaticamente quanto nell’età costantiniana»: infatti le due tradizioni, quella cristiana e quella platonico-stoica, ancora fortemente indipendenti l’una dall’altra nella cultura latina del terzo secolo, appaiono invece fortemente legate tra loro nella prima metà del quarto. La congruenza fra queste due “teologie” risulta, tuttavia, maggiore di quanto in realtà non possa essere, poiché dipende dalla conversione in età matura dei personaggi e dal profondo retaggio della loro cultura pagana: ad esempio, le insidie insite nella ambiguità di determinate formule riguardanti la divinità suprema ed il carattere che deve assumere la fede in un dio unico risaltano in maniera lampante nel Contro i pagani di Arnobio, scrittore il cui cristianesimo, malgrado lo zelo del neoconvertito nel perseguire i miti ed i riti della religione pagana, resta tuttavia alquanto superficiale e non di rado è viziato da errori teorici di fondo: nel caso specifico, egli presenta (I 28 ss.) la tradizionale gerarchizzazione dell’universo e la distinzione tra il dio supremo e gli dèi minori, questi ultimi subordinati al primo in quanto da lui creati e soggetti alla morte; di tali dèi Arnobio non nega l’esistenza, così come nell’asserire la condizione di primato di Dio non riesce a liberarsi dall’impasse se il Dio sia primo semplicemente nel tempo e dunque possano esistere altre divinità dopo di lui. Grande importanza assume tuttavia la preghiera contenuta in Contro i pagani I 31, che facilmente si lascia inquadrare nell’am-

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bito del platonismo che conosciamo fin da Apuleio, ma che nondimeno mette in luce il carattere personale del Dio cristiano, che può e deve essere ringraziato e adorato per i suoi benefici. Dopo una serie di determinazioni negative, usuali a partire dalla già ricordata asserzione del Timeo, tanto celebre da essere ripresa persino in Minucio Felice (vissuto in Africa intorno alla metà del III sec.), la preghiera si conclude con una invocazione al rex summus perché perdoni i suoi nemici e i persecutori della sua religione, un dato di particolare rilevanza, non solo perché tale designazione compare spesso in Arnobio, ma perché sembra diffondersi l’uso di questo termine nel linguaggio religioso dell’epoca della tetrarchia e di Costantino, nella quale il principe assumeva i lineamenti del dio in terra ed era venerato come suo rappresentante e vicario. 4. La tarda antichità greca Dalle testimonianze, in particolare di età costantiniana, si evince come concezioni enoteistiche appaiano saldarsi al sincretismo religioso che di necessità in età tardoellenistica si attua tra le diverse divinità supreme delle varie regioni dell’impero; allo stesso tempo la progressiva universalizzazione del culto tradizionale romano e la apertura verso differenti correnti spirituali necessariamente mutarono il panorama delle credenze e delle convinzioni. Senza volersi spingere a parlare di un «monoteismo» come problema politico, risulta comunque innegabile che i nuovi orizzonti dischiusisi nel secondo Ellenismo, unitamente alla diffusa tendenza enoteistica presente nella maggior parte delle religioni «orientali», ebbero una portata dirompente sull’assetto culturale del mondo e della civiltà classica, che si tradusse, non ultimo, in una attenzione per forme di culto estranee al loro immaginario. Le testimonianze letterarie al riguardo, certo, sono meno numerose di quelle epigrafiche o archeologiche, purtuttavia è possibile isolarne alcune di un certo rilievo. In primo luogo, che un certo tipo di enoteismo fosse praticato in forma più o meno conscia al di fuori delle cerchie intellettuali e fosse appannaggio delle classi meno colte risulta testimoniato da una interessante serie di epigrafi rinvenute soprattutto in Asia Minore, databili alla prima età imperiale, con iscrizioni sul tipo hosios kai dikaios («santo e giusto»), to theion («l’essere divino»),

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pantheos («dio-tutto»), heis kai monos theos («unico e solo dio»), ma anche nella parte latina dell’impero con dediche analoghe. Considerando tali iscrizioni non ci si può sottrarre all’impressione che i credenti pagani della tarda antichità non sapessero esattamente che cosa volessero significare con simili espressioni: esse sono presenti infatti in numerose invocazioni all’unico Zeus, unico Serapide o unico Helios, ma al tempo stesso non escludono la compresenza e la coesistenza di vari dèi (o di figure di messaggeri simili a quelle “angeliche”). Inoltre, proprio perché sottolineano la potenza di quella determinata divinità in un momento particolare o in una occasione specifica, nell’incontro col trend politeista dominante, esse apparivano comunque collidere e produrre di necessità incoerenze o incompatibilità. Su un’analoga linea interpretativa, credo, si può collocare il celebre responso dell’oracolo di Apollo nella città di Claro alla questione su chi fosse dio, che, analogamente ad altre attestazioni della letteratura oracolare di epoca imperiale, riveste grande importanza nella storia culturale della tarda antichità: ad esempio, perché testimonia il costume di singoli individui o di città di interrogare la divinità anche su questioni di tipo teologico o metafisico. L’oracolo è largamente conosciuto – il testo è stato rinvenuto, con qualche variante, su di una lapide posta all’ingresso di una delle porte della città di Enoanda, ma è trasmesso anche da un testo religioso del sesto secolo (la Teosofia di Tubinga) ed in parte da Lattanzio. Esso risale probabilmente al secondo secolo d.C. Si tratta di un testo che si rivela di notevole importanza per le concezioni della divinità ivi espresse: esse, infatti, riecheggiano in forma tanto involuta quanto popolareggiante espressioni simili già incontrate presso altri pensatori pagani. Taluni attributi, tuttavia, sono singolari e degni di maggior approfondimento: è in parte stereotipa l’impossibilità di esprimere il dio mediante parole o discorsi umani, e rientrano nelle caratterizzazioni apofatiche coeve la sua incorruttibilità e la sua immobilità; più interessante è l’asserire che egli è ingenerato ed al contempo autogenerato, un dato che trova riscontro in movimenti speculativi estranei alla cultura schiettamente greca (lo gnosticismo o l’ermetismo); infine, per quanto riguarda la nozione della dimora del dio nel fuoco, gli esegeti hanno talora proposto di individuare, sia pure senza dati certi, una reminiscenza della contemporanea teologia espressa negli Oracoli Caldaici. Appare, per il nostro tema, di estrema importanza il fatto che anche Lattanzio, di cui sono ben noti gli interessi per le

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problematiche religiose della società pagana a lui contemporanea, ce ne tramandi il testo (Istituzioni divine I 7,1): lo scrittore tenta inoltre una sintesi improntata al concordismo per quanto riguarda la nozione degli dèi minori assimilati a messaggeri. Merita almeno un cenno, sempre nella stessa Asia Minore, la larga diffusione del culto di un dio Hypsistos («Altissimo»), connesso forse alla venerazione del fuoco, verisimilmente già in epoca pagana, ma che non avrebbe mancato di essere pervaso di tendenze giudaizzanti e, a sua volta, di influenzare certi movimenti protocristiani. Non desti meraviglia una simile contaminazione ed un riuso da parte pagana di attributi propri della terminologia religiosa giudaica, specialmente in Asia Minore, ove forte era la presenza di comunità ebraiche, e dove più che in altri luoghi poterono maturare esperienze sincretistiche. In linea di massima, tuttavia, la stessa religione ed il Dio degli Ebrei, venerato in forma aniconica e oggetto di un culto esclusivo da parte dei suoi adoratori, i quali rifiutavano ogni tentativo di assimilazione ad altre divinità così come eventuali ampliamenti del loro pantheon, avevano sempre colpito l’immaginario greco-romano, che ne aveva variamente messo in luce l’impossibilità ad essere conosciuto o nominato (o che, talora, aveva cercato di assimilarlo a Zeus/Iuppiter). Nei casi cui abbiamo sinora fatto riferimento della letteratura filosofica o della teosofia oracolare, per giungere alla dottrina ebraico-cristiana, la divinità somma è tratteggiata nella sua più sublime trascendenza ed ineffabilità, con un enfatizzarsi di attributi negativi in accordo alla tendenza comune, propria delle scuole di pensiero dell’epoca e del platonismo in particolare, che tendevano, per così dire, alla spersonalizzazione ed alla eliminazione di qualunque elemento che facesse riferimento alle singole divinità tradizionali ed istituzionalizzate. È comunque possibile tracciare alcuni punti che consentono di notare uno sviluppo del concetto di un dio unico, venerato nelle varie regioni dell’impero con nomi differenti, mediante l’accostamento e la assimilazione di determinate funzioni di sovranità da esso rivestite, e rinvenire, accanto alla polionimia ed a siffatti tentativi complessi di interpretatio, una graduale tendenza alla enoteizzazione di certe divinità, il cui ruolo di preminenza nei vari pantheon locali era andato gradualmente crescendo. Sarà sufficiente qui rimandare ai noti casi di Iside o di Mithra.

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5. Una conciliazione impossibile Gli esempi che abbiamo scelto, pressoché totalmente tratti da fonti pagane, permettono quindi di tracciare un bilancio conclusivo. La tarda età imperiale sviluppò, accanto alla progressiva attenzione per il fenomeno del sincretismo, in differenti modi e forme, ora di carattere popolare e non prive di una certa ingenuità, ora con notevole affinamento teorico, una nozione di enoteismo per molti aspetti analogo al monoteismo cristiano, caratterizzati entrambi da un nobile senso religioso e dalla fede in un dio unico, trascendente, eppure provvidenziale, dotato di qualità eccelse, simbolo e modello ideale per l’uomo e per il raggiungimento di una vita virtuosa. Nonostante tutte le somiglianze, tuttavia, e volendo tacere anche della nozione esclusivamente giudaico-cristiana di un Dio personale e redentore, culminata, come già si avvide San Paolo, nello scandalo dell’incarnazione e della morte di Dio medesimo, la dottrina cristiana non ammette che la natura divina si possa dividere: in questo senso il paganesimo, anche quello più illuminato, come quello dei platonici, rimane, nel suo fondo, politeista, e l’enoteismo, sebbene apertamente proclamato, fallisce, in quanto la mentalità pagana non riesce a conseguire il concetto di un’unica natura divina. Che il monoteismo cristiano non sia potuto giungere né ad una conciliazione né ad una integrazione con l’enoteismo greco-latino lo dimostrano, per esempio, i due casi più famosi della non facile relazione tra pagani e Cristiani sul finire dell’età imperiale, che vedono coinvolti due tra i più celebri Padri della Chiesa latina, Ambrogio e Agostino: intendiamo riferirci alla questione dell’altare della Vittoria, che vede protagonisti il senatore pagano Simmaco ed il vescovo di Milano Ambrogio, e allo scambio epistolare tra Agostino ed il filosofo pagano Massimo di Madaura, portavoce delle istanze di quanti si rivolgevano al modello enoteistico-gerarchico. Più significativa e più celebre la controversia sull’altare della Vittoria: esso era collocato a Roma, davanti all’ingresso della Curia, dove avevano luogo le adunanze del Senato, proprio come segno della fede religiosa del Senato. Più volte rimosso, ad opera di imperatori Cristiani, e ricollocato, in seguito alle insistenze dei senatori, era stato ricollocato al suo posto, e ancora tolto al tempo di Graziano. Sotto Valentiniano II, nel 384, i senatori avevano

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fatto un ultimo tentativo di riottenere quell’altare, ed il loro rappresentante più autorevole, Simmaco, aveva pronunciato davanti all’imperatore una orazione (relatio), in cui difendeva le antiche tradizioni di Roma, facendo intendere che la sua grandezza fosse dovuta, appunto, alla conservazione delle cerimonie religiose e della tradizione antica. In sostanza, secondo Simmaco, erano gli dèi pagani che difendevano Roma, grati del culto che mai era venuto meno. Simmaco, conformemente alla mentalità pagana “inclusiva” che abbiamo cercato di mettere in luce, propose una politica conciliante, cioè di riconoscere che fosse unica la divinità suprema, sia per i Cristiani sia per i pagani, sia pure adorata con riti differenti. A tale richiesta di Simmaco, Ambrogio rispose inviando all’imperatore due lettere, nelle quali negò ogni validità agli argomenti dell’avversario, sostenendo che non erano stati gli idoli pagani a fare grande Roma; ma soprattutto sottolineò come la fede nel vero Dio non potesse permettere l’esistenza di culti diversi. Ambrogio aveva certo intuito il cuore della differenza tra le due mentalità. Ciò che si produce evoluzionisticamente in seno al politeismo stesso è una progressiva riduzione delle figure divine da molte a poche. Al contrario, il monoteismo – ha variamente osservato Raffaele Pettazzoni in L’essere supremo nelle religioni primitive (L’onniscienza di Dio), Torino 1957, p. 17 – è al di fuori di questo processo evolutivo, non può in nessun caso dirsi una estrema riduzione dei pochi all’uno, bensì l’affermazione dell’uno attraverso la negazione dei più: esso procede dal politeismo non per evoluzione, ma per negazione, ossia rivoluzionandolo radicalmente. Lungi dall’essere qualche cosa di necessario e implicito nei progressi del pensiero umano, il monoteismo è invece un fatto storico che si è prodotto raramente e ogni volta con l’intervento di una grande personalità religiosa. Nonostante gli eventuali punti di contatto talora evidenziati, e nonostante anche l’altissimo sviluppo raggiunto nella propria speculazione i Greci e i Romani non riuscirono mai a divenire monoteisti. Ecco le parole di quello studioso: «io ritengo che la teoria del monoteismo primordiale sia viziata in limine da un equivoco. L’equivoco consiste nel chiamare monoteismo ciò che è semplicemente la nozione di un essere supremo. Con ciò si trasferisce in blocco alla più arcaica civiltà religiosa l’idea di Dio propria della nostra civiltà occidentale, quell’idea di Dio che dall’Antico Testamento è passata nel Nuovo

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ed è poi stata successivamente elaborata in seno al Cristianesimo [...] Ciò che i teorici del monoteismo primordiale pongono come forma prima [...] della religione non è il monoteismo quale ci appare nella forma creata dalle grandi religioni monoteistiche storiche, bensì un’idea monoteistica in astratto con gli attributi ad essa assegnati dalla speculazione teologica e dal pensiero filosofico tradizionale dell’Occidente. L’essere supremo dei popoli primitivi soltanto approssimativamente corrisponde a questo ideale monoteistico. [...] Le pretese tendenze monoteistiche che si sono volute trovare in seno a varie religioni politeistiche – egizia, babilonese, assira, cinese, greca, ecc. – rappresentano tutt’al più uno pseudo-monoteismo, in quanto si riducono alla supremazia di una divinità sulle altre, sia all’assorbimento di varie divinità in una sola, ma sempre in modo che accanto alla divinità suprema ne sussistono altre (inferiori), e con ciò il politeismo non si può dire superato». Sull’argomento si vedano anche le recenti considerazioni teoriche e metodologiche svolte con la usuale competenza e precisione da Giulia Sfameni Gasparro, le quali ci sentiamo di condividere pienamente: G. Sfameni Gasparro, Monoteismo pagano nell’Antichità tardiva? Una questione di tipologia storico-religiosa, «Annali di scienze religiose» 8 (2003), pp. 97-127; Ead., Dio unico e “monarchia” divina: polemica e dialogo tra pagani e cristiani (II-V sec. d.C.), Atti del Convegno Monothéisme: exclusivisme, diversité ou dialogue?, Paris, 12-14 settembre 2002, pp. 153-181; Ead., Gli Oracoli Caldei e l’attuale dibattito sul “Monoteismo pagano”, in H. Seng - M. Tardieu (cur.), Atti del Convegno Die Chaldaeischen Orakel: Kontext, Interpretation, Rezeption, Konstanz 15-18.11. 2006 (i tre saggi compaiono ora insieme nel volume: Giulia Sfameni Gasparro, Dio Unico, Pluralità e Monarchia Divina, Morcelliana, Brescia 2010, capp. 3-5).

Capitolo secondo

Tra paganesimo e cristianesimo: la dottrina pagana dei demoni 1. Note introduttive La credenza nei demoni, a proposito della quale siamo informati già per la religione della Grecia classica, ebbe una grande diffusione in età tardoantica e soprattutto nel pensiero platonico contemporaneo al cristianesimo. Platone, certo, non aveva costituito una vera e propria demonologia, pur presentando nei suoi dialoghi alcuni accenni, che servirono come base al platonismo posteriore; in particolare, la trattazione platonica ritenuta successivamente canonica per la demonologia è quella del Simposio, là ove si parla (cf. 202 ss.) della natura intermedia del demone e della sua funzione di «portatore agli uomini degli ordini degli dèi, al dio delle preghiere e delle suppliche degli uomini». Non si legge, infatti, in Platone l’affermazione che il demone deve abitare una regione intermedia, perché è costituito di una natura intermedia; lo afferma l’Epinomide, che distingue i cinque elementi dell’universo e, in tale ambito, attribuisce una precisa sede ai demoni. La sistematizzazione presentata dall’Epinomide si diffonde ampiamente in età imperiale, della cui cultura si può ben dire che costituisca una componente essenziale. Secondo la vecchia ipotesi del rinnovamento del platonismo ad opera di Antioco di Ascalona (il quale, in realtà, stando a quanto dice Cicerone, era un vero e proprio stoico), la demonologia dell’Antica Accademia sarebbe stata «riscoperta» insieme al Platone dogmatico nel corso della successione da Antioco ad Eudoro. Comunque nel primo secolo d.C. la demonologia di tipo platonico appare rappresentata già da una personalità di grande rilievo, quale fu Plutarco. Una spiegazione frequentemente proposta per la diffusione della demonologia nella cultura pagana è quella che la fede nell’esistenza del demone era dovuta all’esigenza dell’uomo di quell’e-

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poca di mediare l’infinita trascendenza che separa il mondo terreno dal dio. Questo, certo, è possibile per il platonismo, ed è dettagliatamente esposto, ad esempio, da Giamblico (filosofo neoplatonico vissuto, all’incirca, tra il 250 e il 325 d.C.); lo dicono anche Apuleio ne Il demone di Socrate, cioè un platonico, che espone il sistema demonologico della sua scuola, debitamente adattato alla società del secondo secolo dell’età imperiale, e Massimo di Tiro, contemporaneo di Apuleio, che conosce superficialmente la filosofia platonica. Va tenuto presente, però, che la spiegazione di Apuleio e di Massimo non è ispirata solamente a un’esigenza di carattere religioso: quegli scrittori ci dicono, infatti, che la necessità di postulare l’esistenza del demone è dovuta alla struttura dell’universo, che è un tutto unico e coerente, armoniosamente collegato in ogni sua parte, senza iati al suo interno, per cui, come esistono esseri animati negli altri elementi di questo mondo, ne debbono esistere anche nell’aria (gli uccelli, infatti, sono sostanzialmente animali terrestri come gli altri). Una volta stabilita l’esigenza di collocare il demone nella scala dell’universo, si afferma anche, sulla scorta dell’insegnamento del Simposio platonico, di cui si è detto, che il demone ha l’incarico di essere ministro degli dèi e interprete degli uomini, portando agli uni le preghiere e le suppliche degli uomini, agli altri gli ordini degli dèi. Ma bisogna osservare che questa esigenza manifestata dal platonismo dell’età imperiale (e, all’interno di esso, più o meno accentuata dall’uno o dall’altro filosofo) si fonda su di un aspetto soltanto della dottrina platonica, cioè quella del demone intermediario, derivata dal Simposio: non se ne deve trascurare un’altra, che sostanzialmente dà significato e giustificazione alla prima, e cioè quella di attribuire, in qualche modo, a dio la creazione dell’universo, e, di conseguenza, garantirne ancora adesso la presenza nelle vicende umane: una convinzione, questa, che si ricava soprattutto dal Timeo, nel quale il demiurgo, se crea il mondo e l’anima cosmica, affida agli dèi inferiori la creazione delle realtà più basse. L’enoteismo, che oramai era comunemente professato dalle persone colte, considerava esistenti al di sotto del dio sommo, astrattamente inteso (cioè un dio non personale), gli dèi delle singole religioni locali, sulla cui esistenza e sulla cui vera realtà, per quanto essi non corrispondessero certo agli dèi della religione omerica o tradizionale, non si avevano dubbi. È verisimile, comunque, che la convinzione dell’esistenza del demone fosse viva in età imperiale tanto quanto lo era

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stata nella Grecia dei secoli anteriori, senza che ciò implicasse in ogni caso una esigenza di sistemazione filosofica. È esistita, anche, come è noto, una demonologia cristiana, di origine tardo-giudaica e ben attestata in Filone d’Alessandria: la storia e la evoluzione della demonologia cristiana furono contemporanee a quelle della demonologia pagana. La demonologia cristiana condivide con quella pagana alcune convinzioni, cioè che il demone possa essere malvagio, anzi, con il procedere del tempo il cristianesimo elaborò la distinzione tra angelo e demone, riservando solo a quest’ultimo la natura malvagia. Ma non è questo il problema a cui vogliamo accennare in questo contesto, dato che una storia della demonologia antica richiederebbe ben altro che le seguenti, limitate considerazioni. Qui vogliamo osservare, in via preliminare, che la certezza del cristiano dell’esistenza del demone e la paura che egli prova per la sua malvagità ci sono attestate da una serie di testimonianze, letterarie o di tipo popolare, estremamente variegate; al contrario, il pagano manifesta la sua credenza nei demoni in un modo che solitamente non implica un atteggiamento di terrore, ma solo di reverenza, attraverso degli scritti che, come la generalità degli scritti del paganesimo antico, debbono essere considerati come un prodotto culturale di un livello medio-alto: da qui il fatto che la dottrina demonologica pagana è quasi sempre dotta, quando non esclusivamente filosofica, e gli elementi di carattere popolare passano con molta difficoltà attraverso il filtro della elaborazione letteraria o filosofica, per cui essi sono raramente riscontrabili e non sempre è agevole stabilire che cosa vi sia, in essa, di origine popolare. Certo, dobbiamo guardarci dal risolvere tutta la demonologia nell’ambito della speculazione filosofica. Di solito a tal proposito si fa riferimento al platonismo, il quale, tra le varie scuole filosofiche, aveva elaborato una dottrina ben costruita e organica, e su tale demonologia molto si è scritto; ma non possiamo certo credere che nella cultura dell’epoca vi fosse solamente la filosofia platonica. O meglio, in tale cultura il platonismo era, sì, presente, ma rielaborato o, addirittura, semplificato e adattato agli intendimenti di chi scriveva e dei suoi destinatari. Ad esempio, talora si può riscontrare che concezioni di origine dotta, vale a dire, prevalentemente platonica, si siano mescolati a elementi di carattere popolare. Ci si deve domandare, dunque, in che modo gli elementi di origine filosofica e risalenti ad alcuni secoli prima, cioè all’Atene

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del quarto secolo a.C., sono stati recepiti dalla cultura dell’età imperiale. Di questi differenti livelli di cultura filosofica possiamo presentare vari esempi. 2. La demonologia di Plutarco di Cheronea Lo stesso Plutarco (40-125 circa), che per tanti aspetti è un platonico, presta volentieri orecchio alle credenze popolari relativamente ai demoni. L’interesse per la realtà demoniaca appare forte, anche se non del tutto coerente, in questo scrittore. Plutarco non riprende, però, la demonologia platonica senza apportarvi alcuna modifica, ma i suoi interventi personali sono sempre difficilmente percepibili, perché davanti ad ogni problema egli si comporta con estrema libertà, impiegando e modificando le fonti a cui attinge. Ad esempio, la demonologia non è presente in quelle trattazioni di carattere filosofico-religioso, come nel dialogo Sull’amore, ove sarebbe stato logico che Plutarco utilizzasse la dottrina del Simposio, in cui l’argomento principale era stato, appunto, l’amore e Amore era stato definito «demone». In un’opera giovanile, La superstizione, Plutarco critica la fede nei demoni malvagi, ma ritiene comunque che i sacrifici umani che si solevano fare a Cartagine in onore degli dèi locali, considerati dei demoni, servivano per allontanare proprio i demoni malvagi e che i riti apotropaici erano destinati a degli esseri di questo genere. Spirito rivolto al passato glorioso della Grecia, Plutarco cerca di restaurare il culto delfico scrivendo Il venir meno degli oracoli, o ricostruendo l’ambiente di Socrate e della Tebe di Epaminonda ne Il demone di Socrate. Ne Il venir meno degli oracoli (10, 415A ss.) Plutarco presenta con notevole fedeltà la dottrina platonica del demone, quale essere intermedio tra gli dèi e gli uomini e costituente un collegamento tra gli uni e gli altri; la sua natura, aggiunge inoltre lo scrittore, è simile a quella della luna e può essere concepita, sul piano geometrico, come un triangolo (e questa sarebbe una elaborazione che risale a Senocrate). Non sappiamo fino a che punto Plutarco esponga dottrine proprie o presenti forme di superstizione, alle quali, però, non aderisce, quando un personaggio di questo dialogo, di nome Cleombroto, pensa che si debba ricorrere alla demonologia per spiegare il declino degli oracoli nella Grecia dell’epoca: gli oracoli sarebbero affidati a dei demoni, i quali possono

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invecchiare e perire, come sarebbe avvenuto al grande Pan. Ancora, apprendiamo, sempre da questo Cleombroto, che era normale la credenza che esistessero dei demoni malvagi; Cleombroto cerca di giustificare tale credenza ricorrendo alla dottrina platonica, e propone anche l’ipotesi, che ritroveremo poi in Apuleio e nella successiva scuola platonica, che i demoni possano essere, oltre che degli spiriti intermedi tra gli dèi e gli uomini, anche le anime che sono scese ad abitare in un corpo umano. Il demone malvagio sarebbe il responsabile delle empietà che leggiamo nei miti, non solo dei Greci, ma anche di altri popoli, come è detto nel trattato su Iside e Osiride (361EF). Questa convinzione, che esistano demoni e anime malvagie, costrette ad incarnarsi a causa dei loro malvagi desideri, si trova anche in Filone di Alessandria (I giganti 17-18). Assai problematica è un’altra dottrina della demonologia di Plutarco, e precisamente là dove, nella conclusione de L’E di Delfi (393F), al dio unico, trascendente, identificato con Apollo (il quale è spiegato come a-polys, cioè «non molteplice»), viene contrapposto un demone chiamato Ade, che potrebbe essere identificato con il creatore del mondo. Questa interessante dottrina trova uno stretto parallelo in un passo del trattato su Iside e Osiride (369E-370C), ove il dualismo del dio buono e del demone malvagio è attribuito da Plutarco, con buona conoscenza dei fatti, alla dottrina di Zoroastro. Il demone produce la dissoluzione e la generazione, mentre il dio è la causa del permanere e dell’eternità. L’esistenza di demoni malvagi è quindi sostenuta da Plutarco nel trattato su Iside e Osiride per spiegare gli eventi del mito, ed è collegata alla soluzione dualistica del problema dell’origine del male (cf. 26,361A sgg.). Il demone buono, comunque, viene identificato in Osiride, e l’interpretazione del mito di Osiride è inquadrata nel più ampio complesso della demonologia. Infatti, come Plutarco dice anche ne Il venir meno degli oracoli e ne Il volto della luna, il demone prende parte alle punizioni dei malfattori. Ne Il volto della luna Plutarco afferma che i demoni puniscono le anime malvagie non perché essi si dilettino a torturarle a causa della loro stessa perversione, ma per un dovere di giustizia (944D). Questa punizione dei malvagi avviene nella luna, che è il luogo connesso alla struttura materiale dell’anima, ed in cui le anime ascendono dopo la loro morte. Dall’anima, una volta che si

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sia purificata, si stacca l’intelletto (a guisa di una seconda morte), che ascende poi al sole, alla cui natura l’intelletto è affine. L’anima, ascendendo e trasformandosi, può diventare eroe, poi demone e infine dio, come è simboleggiato dal mito di Osiride: secondo alcuni studiosi, questa dottrina plutarchea deriverebbe da una interpretazione greco-alessandrina della religione egiziana. Quanto a Il demone di Socrate, l’operetta sembra essere quella che più direttamente si aggancia alla tradizione platonica, ma la demonologia viene rielaborata secondo dottrine neopitagoriche, che possono fornire una adeguata fede religiosa ai contemporanei di Plutarco. I demoni sarebbero delle anime uscite dai corpi, alcune delle quali devono affrontare la loro purificazione. Il volto della luna contiene un interessante mito escatologico, da cui apprendiamo che la luna, concepita come un’isola, appartiene ai demoni, e che in essa ha luogo la rinascita degli uomini. Il demone costituisce la parte veramente immortale dell’uomo, cioè la sua anima razionale, il nous, che, in un certo senso, non è interno come solitamente si crede, ma esterno a noi. Nelle Vite parallele si incontrano casi in cui un demone interviene nelle vicende umane; gli esempi più noti sono quello della vita di Antonio, nella quale Plutarco introduce il demone di Antonio che trema davanti a quello di Ottaviano (cap. 33), e quello della vita di Cesare (cap. 66), ove un demone conduce Cesare alla morte davanti alla statua di Pompeo. L’esempio più famoso è quello della vita di Bruto (cap. 36), ove è narrata l’apparizione a Bruto di un essere malvagio e terrificante, che lo informa di essere il suo demone malvagio e di attenderlo a Filippi, ove, come si sa, Bruto troverà la morte e la punizione dell’assassinio di Cesare. In conclusione, Plutarco cerca di chiarire la natura e la funzione del demone, della cui esistenza egli era informato anche dalla tradizione letteraria e da Esiodo in primo luogo. Un primo tentativo in tal senso è contenuto, quindi, nel dialogo su Il venir meno degli oracoli, che è ancora condizionato dalle convinzioni popolari e tradizionali; nelle opere successive Plutarco cerca di giungere a nuove soluzioni. Egli tende a identificare il demone con l’anima, sia che si trovi nel corpo sia che si trovi fuori del corpo; in questo secondo caso, bisogna vedere quale sia il destino finale dell’anima-demone. Secondo alcuni studiosi, Plutarco era scettico circa l’opportunità di inglobare nella propria filosofia la dottrina dei demoni. Ne Il venir meno degli oracoli e nella Vita di Bruto e di

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Dione, egli se ne serve, e ne riconosce l’aspetto sensazionale, ma, a quanto pare, solo per rifiutarlo. Secondo altri, invece, Plutarco sarebbe stato interessato alla demonologia molto più dagli Stoici, perché avrebbe sperato di risolvere per mezzo di essa il problema del male; la demonologia plutarchea aprirebbe la strada alla successiva demonologia neoplatonica. 3. La demonologia di Apuleio Se Plutarco domina la cultura tra il I e il II secolo, la tradizione platonica nel secolo successivo si diffuse anche in occidente. Nell’Africa romana dell’età degli Antonini, Apuleio (125-180 circa) rappresenta in modo molto interessante la mescolanza di interessi strettamente filosofici e di atteggiamenti più ampiamente divulgativi, alla maniera della sofistica a lui contemporanea. Autore di un manuale di filosofia platonica (Platone e la sua dottrina), senza dubbio schematico e povero di idee nuove, ma che alla critica più recente appare un’interessante testimonianza della storia del platonismo anteriore a Plotino e, soprattutto, del platonismo latino, Apuleio dedicò alla dottrina dei demoni anche una conferenza, tenuta in una città africana non identificata, quella su Il demone di Socrate (che è lo stesso titolo del dialogo di Plutarco): in questa conferenza la demonologia è presentata già organicamente formata e stabilita nei suoi collegamenti. Base di essa è la posizione mediana della natura del demone. Poiché è di natura intermedia, il demone è corporeo come gli uomini, ma possiede un corpo più sottile di loro, e vive in una regione intermedia tra gli dèi e gli uomini, cioè nell’aria; è eterno come gli dèi, ma sottoposto alle passioni, come gli uomini. La medesima posizione intermedia ha valore anche nell’ambito etico-religioso, per cui il demone è intermediario tra gli dei, che non hanno contatto con gli uomini, e gli uomini stessi. Questa dottrina demonologica, che riprende spunti del Simposio platonico, era stata considerata in passato come una elaborazione dell’Antica Accademia, e più in particolare di Senocrate. A proposito dell’interesse di Apuleio per la demonologia, bisogna osservare che egli poteva trovare una conferma per essa proprio in Plutarco, cioè in uno scrittore che egli anche altrove dichiara esplicitamente di conoscere (cf. Metamorfosi I 2 e II 3). La demonologia di Apuleio, tuttavia, non appare influenzata da

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quella, così mutevole e asistematica, di Plutarco, ma è molto più aderente alla tradizione platonica e conserva più fedelmente la dottrina di Senocrate. In Platone e la sua dottrina (I 11,204-205) Apuleio distingue tre generi di dèi: il primo è il dio trascendente, padre dell’universo come aveva insegnato il Timeo; poi vengono gli dèì-astri, e, infine, è detto con una invenzione linguistica che rende più oscure le cose (meglio sarebbe stato se avesse detto semplicemente: daemones), «quelli che gli antichi Romani chiamarono medioximi»: è, questa, una parola rara, dell’uso religioso della Roma antica, che indica gli dèi della superficie terrestre, che stanno nel mezzo, in opposizione a quelli superi e a quelli inferi. Ne Il demone di Socrate, di cui abbiamo già detto, Apuleio traccia innanzitutto una gradazione della realtà divina: al vertice sta il dio sommo, inconoscibile e inesprimibile, di cui parla Platone nel Timeo; al di sotto, gli dèi visibili, cioè le stelle, che si muovono nel cielo (anche questa attribuzione della natura divina agli astri deriva dalla dottrina tardoplatonica e dall’Epinomide), quindi i demoni, che vivono nell’aria e sono invisibili. Si possono distinguere due generi di demoni: il primo è quello di cui già si è detto, cioè l’anima dell’uomo, sia quando è ancora nel corpo, sia quando ne è uscita, vale a dire, per i Romani il Genius, nel primo caso, il Lemur (che può essere Lar familiaris, cioè il dio protettore del focolare domestico, o Larva, a seconda che in vita sia stato buono o malvagio), nel secondo; qualora il demone sia buono, può anche essere chiamato “dio” ed essere onorato con templi e riti sacri, secondo le varie religioni locali (15,132-134). Si osservi questa identificazione tra il daimon greco e il Genius latino: essa risponde, come pure l’impiego dei termini che designano le anime dei defunti, all’intento di Apuleio, di divulgare tra i suoi ascoltatori di lingua latina la demonologia in cui credeva, di origine greca. Inoltre, anche Apuleio, come già Plutarco, credeva nell’esistenza di demoni malvagi. Il demone possiede un’altra importante funzione, cioè quella di essere custode e testimone della vita di ciascun uomo, e la conserverà anche quando, dopo la morte, l’uomo si presenterà ai giudici infernali e dovrà confessare come si è comportato nella propria vita: allora il demone sarà presente, a controllare se egli dice il vero o il falso; il demone, quindi, è come la coscienza dell’uomo, in questa vita e nell’aldilà. Questo demone è personale, ana-

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logo all’“angelo custode” della dottrina cristiana; è custode e consigliere, ed è assegnato a tutti indistintamente. Se si trova presso un uomo sapiente, come è stato Socrate, il demone è da costui religiosamente venerato: Socrate, infatti, ricordava di avere presso di sé un demone che lo distoglieva dal compiere certe azioni. Tale demone appartiene al genere più venerabile di demoni, quelli che non sono mai entrati in un corpo umano, ed eseguono determinati compiti, come Amore (con un riferimento probabile all’Amore di cui si parla nel Simposio) e il Sonno. Anche altrove, e precisamente nella novella di Amore e Psiche, contenuta nelle Metamorfosi, Apuleio presenta Amore come un dio, certo per influsso della tradizione letteraria. Poiché, tuttavia, molti critici sono inclini a vedere nella novella un significato prevalentemente filosofico-religioso, vogliamo ricordare che, in tal caso, non sarebbe da escludere la presenza della demonologia nella novella apuleiana, nel senso che, in tale novella, Amore potrebbe essere un demone, in conformità a quanto si dice ne Il demone di Socrate. La demonologia ha una posizione centrale anche nella visione che Apuleio ha del mondo. La demonologia, infatti, è discussa da Apuleio sia sotto l’aspetto più tecnicamente filosofico (e quindi nella sua sede specifica, cioè nel trattato su Platone e la sua dottrina), sia in una conferenza con scopi di divulgazione culturale, come quella sul Il demone di Socrate, sia, infine, nella Apologia, in una situazione in cui lo scrittore, accusato di magia e passibile, se reo convinto, di condanna a morte, non aveva molti motivi per abbandonarsi ad oziose e tranquille divagazioni di carattere filosofico. Nella Apologia Apuleio riconduce all’azione dei demoni anche la divinazione: Questo e altri episodi simili a proposito degli incantesimi magici e dei fanciulli io leggo presso molti autori, ma sono incerto se accettarli o negarli, sebbene io presti fede a Platone, secondo il quale si trovano situate nel mezzo tra gli dèi e gli uomini delle potestà divine, intermedie per la loro natura e il luogo che abitano; esse sovrintendono a tutti i fenomeni divinatori e ai miracoli dei maghi (cap. 43).

Questo passo è interessante per molti motivi. Il termine «potestà» (potestates) è importante, perché non è di origine platonica, ma si trova, ad esempio, frequentemente in Filone di Alessandria

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(30 a.C. - 45 d.C. circa), la cui importanza per il medioplatonismo emerge ogni giorno di più, grazie soprattutto gli studi di R. Radice e di altri. Anche noi, del resto, avevamo richiamato l’attenzione sull’importanza che possiede Filone come testimone della tradizione medioplatonica. Inutile ricordare che sulla esistenza delle dynameis, intermedie tra il dio sommo e il mondo, si basa la teologia del Trattato sul mondo (se non aristotelico, risale al I sec. d.C.) aristotelico o pseudoaristotelico (un trattato su cui grava ancora la condanna di non autenticità), ripresa in ambiente latino proprio da Apuleio, che rende con potestas il greco dynamis. Importante, infine, il fatto che persino uno scrittore per molti aspetti lontano dal platonismo e poco interessato alla demonologia, come Galeno (130-200 circa), ha sostenuto in una delle sue opere tarde, quella Sulle mie convinzioni, la distinzione tra essenza e potenza divina, strutturalmente analoga a quella, più comunemente diffusa tra i platonici, tra primo e secondo dio, ed ha mantenuto fermamente la tesi dell’intervento divino in questo mondo, manifestato dalle operazioni della (o delle) virtù del demiurgo. Nel corso del dibattito Apuleio deve difendersi dall’accusa di avere esercitato delle pratiche magiche su di un ragazzo, che sembrerebbe fungere da “medium” in una sorta di seduta spiritica, per fornire delle conoscenze ad Apuleio stesso, che lo interrogava. Così ci racconta: Inventarono che un fanciullo, incantato da un mio sortilegio, in assenza di estranei, in un luogo appartato, alla presenza soltanto di un piccolo altare e di una lucerna e di pochi complici, fu incantato, piombò a terra e successivamente fu destato senza che si rendesse conto di quel che gli era successo. E non osarono insistere oltre in questa menzogna, perché, per completare l’invenzione, bisognava aggiungere anche che quel fanciullo aveva fatto molte predizioni. Questo, infatti, è l’utile che ricaviamo dagli incantamenti, cioè il presagio e la divinazione, e che questo prodigio si ottenga dai fanciulli viene confermato non soltanto dall’opinione del volgo, ma anche dall’autorità dei dotti (Apologia, cap. 42).

È interessante osservare che due studiosi inglesi (Butler e Owen), che scrissero un commento alla Apologia nel 1914, rilevavano che ancora ai loro tempi in Italia, nelle lotterie statali, il

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numero è estratto a sorte da un ragazzo vestito di bianco; e Cipriano vescovo di Cartagine conosceva analoghe forme di predizione del futuro: Oltre che durante le visioni che si hanno durante i sogni, di notte, anche di giorno nella nostra comunità cristiana l’età innocente dei bambini è riempita dello spirito santo di Dio, ed essi cadono in estasi, vedono e ascoltano quelle cose con cui Dio si degna di ammonirci e di istruirci (epist. 16,4).

L’accusa permette ad Apuleio di iniziare una serie di trattazioni pseudoscientifiche, alla maniera sofistica, dedicate alla letteratura esistente sull’argomento. Ma da buon platonico Apuleio passa poi, nel capitolo 43, a dare l’interpretazione a suo parere più vera: dopo aver affermato l’esistenza dei demoni, come sopra abbiamo visto, egli così prosegue: Anzi, io considero tra di me che l’animo umano, soprattutto quello dei fanciulli e delle persone semplici, può essere colto da un sopore o in seguito all’estasi prodotta da certi carmi o per l’effetto sedativo di certi profumi; in tal modo l’animo esce fuori di sé fino a obliare le cose presenti e, cessando per un poco il ricordo del proprio corpo, viene ricondotto e ritorna alla sua vera natura, la quale è immortale, come tutti sanno, e divina, e così, come in un sopore, presagisce il futuro. Ma, come stanno le cose, se si deve prestar fede a questi fenomeni, quel fanciullo preveggente, chiunque egli sia, deve esser scelto tra tutti gli altri (a quanto sento dire) perché è bello di corpo e integro e pronto di intelligenza e facondo, in modo che la potestà divina trovi in lui una degna dimora, come una bella casa (se è vero che tale potestà viene racchiusa nel corpo del fanciullo); oppure perché il suo animo stesso rapidamente, una volta che è desto, possa tornare alla sua visione del futuro: essa appare immediatamente presente nell’anima, non sfigurata né resa ottusa dall’oblio, e facilmente viene riafferrata. Ché per scolpire Mercurio non va bene ogni legno, diceva Pitagora.

Dunque, sia il demone sia l’anima umana possono indicare il futuro – e del resto, l’anima non è altro che un demone racchiuso

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in un corpo umano. Ma anche Apuleio, come Plutarco, richiede che lo strumento materiale della divinazione sia degno della divina potestas che è stata racchiusa nel corpo umano, cioè nel fanciullo che deve vaticinare. Un passo di un’opera di Plutarco, Gli oracoli della Pizia, ci offre la descrizione di una sacerdotessa del tempo di Plutarco: essa, certamente, non è una donna letterata, tanto che non è in grado di dare i suoi responsi in versi, come avveniva, invece, nei tempi passati, nelle epoche gloriose della Grecia; ma deriva da una famiglia quanto mai onesta e integra ed ha condotto vita irreprensibile; ma, allevata in una casa di poveri agricoltori, essa non porta seco, scendendo nel penetrale, nulla che sappia di abilità artistica o di qualsiasi altra esperienza o talento. Al contrario, proprio come Senofonte crede che la sposa deve aver visto e udito il meno possibile, prima di andare nella casa del marito, così anche la profetessa, inesperta e ignara quasi di tutto e, in una parola, vergine, davvero, anche nell’anima, si congiunge col dio (22,405C; trad. di Vincenzo Cilento, ed. Sansoni).

Cioè, anche la Pizia deve essere una fanciulla perfettamente pura e adatta al congiungimento con il dio. Apuleio non nega l’esistenza della magia, ma ammette solamente di essersi interessato alla magia filosofica, tesa a scoprire i segreti dell’universo, ben diversa dalla “magia nera”, che si attua violando le leggi fisiche; anche per questo motivo egli merita, per la storia del platonismo, più attenzione di quanto non ne abbia ricevuta finora, in quanto tale distinzione preannuncia quella neoplatonica tra teurgia e goetia. Pertanto Apuleio si presenta come personalità significativa non solo della sua epoca, ansiosamente rivolta alle conoscenze magiche e misteriche, accanto a quelle filosofiche, ma anche della cultura del secondo secolo d.C., che siamo soliti designare con il titolo generale di «Seconda Sofistica» e che, intesa con significato lato, ma non per questo meno rigoroso, comprende anche la cultura latina. Nella Sofistica, e così pure in Apuleio, sofista latino, la tradizione retorico-letteraria si volge anche alla filosofia, e la abbraccia, nel tentativo di proporre una cultura umanistica omogenea, capace, appunto grazie agli strumenti retorici, di raggiungere i più ampi strati della popolazione dell’impero. La Seconda Sofistica, della quale Apuleio fa parte,

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supera il dualismo tra filosofia e retorica che si era instaurato nell’Atene del quarto secolo, con Platone e Isocrate. Una conferma di quanto stiamo dicendo ci è fornita da un contemporaneo di Apuleio, il retore Massimo di Tiro. Questi possiede una discreta conoscenza delle dottrine platoniche che circolano al suo tempo, tanto che gli è stato assegnato un posto nella storia del medioplatonismo, ma a tale filosofia egli si accosta, appunto, con spirito di retore, che tratta, accanto ai problemi filosofici, i più svariati argomenti. Alla demonologia Massimo di Tiro dedica due orazioni (nn. 8 e 9), che mostrano notevoli affinità non solo sul piano letterario (come è logico, trattandosi di conferenze di tipo sofistico), ma anche per il titolo (Che cosa fosse il demone di Socrate) con l’omonima opera apuleiana: ciò sta a mostrare la diffusione della demonologia nella cultura retorica. Massimo di Tiro insiste sul fatto che era logico che Socrate, per la sua superiorità intellettuale e la purezza di vita, avesse accanto a sé un demone che lo consigliava, allo stesso modo in cui il demone è presente negli oracoli e risponde a coloro che lo interrogano, a Delfi, a Dodona, a Trofonio: anche Massimo, dunque, crede che gli oracoli siano retti dai demoni. Quindi, egli si interroga sulla natura del demone: di esso parlava già Omero, che ci presenta Atena che trattiene Achille nel momento in cui sta per scagliarsi, pieno d’ira, su Agamennone, o che consiglia ripetutamente Odisseo. Atena, Era e gli altri dèi, infatti, non devono essere immaginati nella forma in cui li ha rappresentati la pittura o la scultura. Le potenze demoniache si accompagnano agli uomini migliori sia quando sono svegli sia quando dormono, o, in generale, li assistono nella loro ricerca della virtù. Massimo riassume, in un perfetto parallelismo con la conferenza di Apuleio, la demonologia platonica dell’età imperiale: dio, collocato nel luogo che gli compete, amministra con ordine il cielo; ma vi sono al suo servizio delle nature, che sono degli esseri immortali di secondo grado, collocati al confine tra la terra e il cielo, più deboli degli dèi ma più potenti degli uomini, sottomessi agli dèi ma sovrintendenti alla nostra vita. È necessario, infatti, colmare lo iato che si apre tra il divino e l’umano, e a questo provvede la natura demoniaca che, quasi fosse un elemento di armonia, collega la debolezza umana con la potenza divina. E come i Greci sono separati dai barbari per la diversità della lingua, ma si instaura un rapporto reciproco tra Greci e barbari grazie alla attività dell’interprete, altrettanto avviene nel caso

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del demone, che è interprete e “traghettatore” tra gli uni e gli altri. Moltissimi sono gli dèi e svariatissime le loro attività. Il demone possiede la natura passibile, come gli uomini, e l’immortalità, come gli dèi: anche così si manifesta la loro funzione intermediaria e armonizzatrice dell’universo. Analoga è la qualità “media” che possiede l’elemento in cui i demoni abitano, e cioè l’aria: essa sta tra l’aridità della terra e la liquidità dell’acqua. Anche Massimo ritiene che il demone possa essere un’anima che si è spogliata del proprio corpo, e, come Apuleio, afferma che molti sono i demoni che si occupano delle vicende umane: ad essi sono stati elevati templi e in loro onore si celebrano determinati riti. Pertanto può essere una conclusione giustificata ritenere che Apuleio e Massimo di Tiro, entrambi sofisti, entrambi retori, esibissero, nelle loro conferenze, la demonologia che era propria dell’età antoniniana e severiana (II-III secolo d.C.). Un altro esempio di questa cultura filosofico-religiosa non specialistica come quella delle scuole di filosofia, ci è fornito da Filostrato, uno scrittore attivo nei primi decenni del terzo secolo e vissuto alla corte degli imperatori Severi. La sua Vita di Apollonio di Tiana (scritta intorno al 230) presenta la medesima struttura gerarchica dell’universo che, in fondo, era sostenuta anche da Apuleio, vale a dire pone i demoni e gli eroi come intermediari tra gli dèi e gli uomini (sopra agli dèi, naturalmente, si trova il dio sommo): Qualcosa di simile dobbiamo pensare anche a proposito del nostro universo, contemplandolo sotto l’immagine di una nave. Il posto principale e supremo va assegnato al dio che ha generato quest’essere, e quello successivo agli dèi che reggono le sue parti. Accettiamo infatti le opinioni dei poeti, dal momento che affermano esserci molti dèi nel cielo e molti nel mare, molti nelle fonti e nei fiumi, molti sulla terra e alcuni pure sotterra. Ma questi luoghi sotterranei, se pure esistono, preferiamo escluderli dall’universo, poiché vengono celebrati come sede dell’orrore e della morte (cf. pp. 63-64).

Ma di Filostrato, e della Vita di Apollonio di Tiana, parleremo anche in un altro contesto, parimenti importante, quello delle polemiche tra paganesimo e cristianesimo (pp. 56-66).

Capitolo terzo

Celso e le polemiche anticristiane 1. L’ostilità dei pagani verso la dottrina cristiana Non è questo il momento e il luogo per spiegare per quale motivo la diffusione del cristianesimo nel mondo pagano abbia suscitato l’ostilità, progressivamente sempre più dura, delle autorità e delle popolazioni dell’impero romano. Il lettore è informato a sufficienza della esistenza delle cosiddette “persecuzioni” anticristiane: non farà fatica, quindi, a credere che esse siano state accompagnate anche da un diffuso atteggiamento di ostilità manifestato dagli intellettuali pagani. I primi episodi di ostilità anticristiana sono noti: risale agli anni intorno al 112 d.C. il giudizio negativo sul cristianesimo quale «superstizione perversa e smisurata», espresso da Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, nel resoconto che egli fece all’imperatore Traiano del processo e della condanna di alcuni Cristiani (epist. X 96); di pochi anni dopo è il duro insulto di Tacito contro i Cristiani, perché avrebbero nutrito odio nei confronti del genere umano (Annali XV 44). Successivamente, a prescindere dalle accuse volgari delle masse ignoranti (cannibalismo, incesto, adorazione di un asino), le critiche dei pagani, frequentemente rintuzzate dagli apologeti cristiani, si moltiplicano e investono vari aspetti della incultura dei loro nemici, di fronte ai quali appare sempre più necessaria la difesa della tradizione e della civiltà greca. Conosciamo il titolo (solo il titolo, purtroppo) di uno scritto contro i Cristiani, opera di Frontone, un retore originario di Cirta, in Africa, ed influente alla corte di Antonino Pio e di Marco Aurelio (di quest’ultimo era stato precettore). Anche l’imperatore Marco Aurelio, come Plinio, critica soprattutto il comportamento dei Cristiani, da lui considerati irragionevolmente ostinati. Il suicidio, egli dice infatti (A se stesso XI 3), deve derivare da una decisione ben precisa, non da una ostinata opposizione come quella dei Cristiani, e dopo

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adeguata riflessione e con dignità, e per convincere gli altri, non con un esibizionismo da istrioni.

Secondo l’imperatore, l’atteggiamento dei Cristiani è, nella loro ricerca della morte pur di non rinnegare la fede, istrionico ed esibizionista. Analoghe furono le critiche del medico e filosofo Galeno, contemporaneo di Marco Aurelio. Galeno conosce alcuni libri della Scrittura (ad esempio 1 Cor. 2,4). Ma la critica del cristianesimo assunse una nuova dimensione (cioè, non fu più episodica, ma coerentemente organizata) allorquando i fedeli della nuova religione cominciarono ad elaborare dottrine che si opponevano a quelle della filosofia pagana, o che, in parte, le riprendevano trasformandole. Così apprendiamo da Giustino (Apol. II 3 e 11) e da Taziano (Discorso ai Greci 19) (riparleremo di costoro più avanti, pp. 237 ss.) che, quando Giustino istituì a Roma una scuola di filosofia sotto il regno di Antonino Pio (138-161), egli dovette respingere le critiche mosse contro di lui da un filosofo cinico, di nome Crescente. Questo potrebbe essere considerato come il primo attacco ai Cristiani da parte di un filosofo pagano, una prima controversia tra scuole filosofiche pagane e cristiane: Giustino, infatti, pretendeva di presentare il cristianesimo come la vera filosofia. Lo rivedremo a suo tempo. 2. La polemica di Celso contro i Cristiani Ma l’attacco più sistematico e duro venne da un filosofo medioplatonico, Celso, del quale purtroppo non sappiamo niente: le uniche notizie in nostro possesso sono date da colui che lo contestò con analoga durezza, Origene. Origene, infatti, scrisse nel 246 d.C. un Contro Celso nel quale citava vari passi dell’opera del nemico dei Cristiani, intitolata Il discorso vero (Alethès Logos, scritto intorno al 176 d.C.), e presentò Celso sotto una luce negativa. Il discorso vero è andato perduto ed è conosciuto solo grazie alle citazioni che ne fece Origene. Come osserva Giuliana Lanata (cf. Celso, Il discorso vero, a cura di Giuliana Lanata, Adelphi, Torino 19942), Origene vuole dimostrare che Celso fu un epicureo: apparteneva cioè a una genia di filosofi che godeva, agli occhi dei Cristiani e di molti filosofi pagani, di bassissima considerazione. Esistette effettivamente un

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Celso epicureo, che fu autore di un’opera contro la magia e amico di Luciano, il quale gli dedicò un’opera polemica, Alessandro o il falso profeta: Origene volle probabilmente identificarlo con il Celso autore del Discorso vero. Ma il Celso di cui si sta parlando è indubbiamente un medioplatonico, anche se la sua figura di filosofo rimane oscura: fu maestro di una scuola di filosofia o conferenziere, quali ve ne erano molti allora (ad esempio, Massimo di Tiro, di cui abbiamo parlato a pp. 43-44, che fu insieme sofista e filosofo medioplatonico). Comunque, anche Origene considera Celso un filosofo, e molte delle risposte di Origene sono ugualmente ispirate al medioplatonismo. Il nemico per eccellenza, Cristo, e la nuova religione, il cristianesimo, furono oggetto di una critica globale da parte di Celso. Colui che aveva introdotto la nuova religione nel mondo, egli sostenne, non poteva assolutamente pretendere di essere un personaggio divino, anzi, proprio sulla base dei documenti scritti dai suoi seguaci, era da considerarsi uno dei tanti taumaturghi itineranti, che si fermano improvvisamente nelle piazze dei paesi e proclamano di avere origine divina e di essere stati mandati in terra da un dio, ovviamente sconosciuto. Uomini divini o che pretendevano di essere tali, erano, infatti, figure frequenti nel secondo secolo d.C.: il più famoso (e il più autorevole) di essi fu Apollonio di Tiana, taumaturgo aderente al neopitagorismo, vissuto all’epoca di Domiziano. Di lui riparleremo più avanti. Quindi, secondo Celso, Cristo non è assolutamente un dio, ma un mago, e della peggiore specie. In quanto mago, egli non poteva certo avere né la dignità né le forze di sovvertire il Logos che dai tempi più antichi aveva regnato sul mondo greco. Per dimostrare l’origine bassa e meschina di Cristo Celso introduce nei primi due libri del Discorso vero un giudeo che contesta le dottrine cristiane. Con molta abilità lo scrittore mette in evidenza il fatto che egli non sta inventando nulla, ma che le cose che rinfaccia ai Cristiani sono contenute nei loro stessi testi, in particolare nel vangelo di Matteo; si serve, però, anche di fonti ebraiche ostili al cristianesimo. Cristo, quindi, avrebbe avuto una nascita oscura, sarebbe stato figlio di un soldato romano e di una meretrice; la sua vita errabonda dimostra la condizione di uno che era vissuto ai margini della società, ed altrettanto si può dire dei suoi seguaci. Alla falsa divinità di Cristo Celso oppone le vere divinità della tradizione greca e alla stolta teologia dei Cristiani (che nemmeno

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ha titoli per essere considerata tale) la teologia basata sul platonismo, al falso discorso dei Cristiani il discorso vero. Celso sottolinea continuamente l’ignoranza dei Cristiani, un dato che non corrisponde alla realtà dell’epoca in cui Celso visse (la sua opera fu scritta intorno al 176-180 d.C.): la cultura cristiana di quel periodo è attestata dall’apologetica. Del resto, anche Celso è costretto ad ammettere che anche tra i Cristiani esistevano delle persone colte ed in grado di comprendere le allegorie con cui interpretare la religione pagana (I 27) (ed allora questo era indubbiamente vero), e nella conclusione della sua opera egli riconosce che tra i Cristiani non ci sono solo persone rozze e ribelli, ma anche persone capaci di religiosità autentica ed in grado di partecipare alla vita dello Stato (VIII 73 e 75). Ma Celso lascia da parte le critiche più banali e volgari mosse dai pagani più ignoranti e prende di mira il nucleo del sentire cristiano, e precisamente il suo rifiuto della cultura e della civiltà greca (identificata dai Cristiani con il termine, poco comprensibile per dei Greci, di “paganesimo”), e, parimenti, la teologia, la cosmologia e l’antropologia. La teologia platonica non poteva accettare il Dio cristiano, creatore del mondo e connesso alla vicenda della realtà in divenire; un Dio che interviene spesso nella vita dell’uomo; un Dio che si è fatto uomo, e quindi si è connesso con la realtà di second’ordine, quella materiale. La resurrezione dell’uomo è parimenti qualcosa di inammissibile, perché contraddice alle leggi del mondo, che Dio stesso ha fissato, per cui tutto quello che è materiale è destinato a perire. La stessa cultura ebraica, dalla quale il cristianesimo deriva, è considerata un ammasso di favole ridicole e assurde, che nemmeno possono essere interpretate allegoricamente, come si deve fare per i miti greci. Il tentativo di Filone d’Alessandria di interpretare la Scrittura con i mezzi forniti dalla filosofia greca, come vedremo più oltre (pp. 129-139), non ha nessuna eco in Celso, il quale è ostile a entrambe le religioni, quella ebraica e quella cristiana, anche se la seconda riceve da lui le critiche più dure. 3. Celso e la difesa della civiltà pagana Celso, interprete e difensore della tradizione e della civiltà pagana, critica pertanto i Cristiani per avere abbandonato, come avevano fatto gli Ebrei prima di loro, l’unico Logos vero, cioè il

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pensiero razionale, che dette forma alla civiltà greca: esso non era soltanto filosofia, ma anche paideia, costumi, religioni, tutto quello che è raggruppabile nel concetto di “ragione / razionalità”, relativa ad una civiltà. La vera dottrina dei Greci – intesa nel modo ampio che si è detto – risale alle origini dell’umanità ed è eredità comune di tutti. Essa procura agli uomini civili, nonostante le differenze che esistono tra un popolo e l’altro per religioni, costumi, tradizioni, una concezione della vita e del mondo fondamentalmente sana e giusta, un logos comune ed una legge comune. Abbandonare questa legge, a noi giunta fin dalle origini, ed esortare gli altri ad abbandonarla per rivolgersi ad una religione diversa, ad un modo di vivere totalmente nuovo ed in polemica con quanto ci è giunto per tradizione, significa minacciare l’ordine naturale delle cose, scuotere i legami che uniscono tutti i popoli che vivono all’interno dell’impero Romano, minare la coesione e l’ordine sociale. Perciò gli Ebrei per primi, ma soprattutto i Cristiani successivamente, nel loro zelo missionario costituiscono una grave minaccia che sorge proprio dal cuore dell’impero, e proprio in un periodo in cui il pericolo degli attacchi dei barbari (che effettivamente ebbero luogo sotto il regno di Marco Aurelio) si è fatto più grave. I Cristiani, inoltre, a causa delle loro aspettative messianiche, immaginano che sia prossima la fine del mondo, il che significa, logicamente, anche la fine dell’impero romano e della sua civiltà. Quindi, se gli Ebrei furono ribelli all’impero, i Cristiani lo sono ancora di più, tanto che a buon diritto gli stessi Ebrei li possono attaccare e criticare come apostati e disertori della loro dottrina. Celso dà ampio spazio a questa critica degli Ebrei nei confronti dei Cristiani (Contro Celso I 28 - II 79). Già ai tempi di Celso, del resto, il famoso medico Galeno aveva criticato i Cristiani per la loro ingenua arroganza, e l’esclusivismo cristiano, il quale aveva prodotto quella concezione monoteista che mal si conciliava con l’enoteismo pagano di cui abbiamo parlato sopra, appariva stridente in una civiltà tutto sommato tollerante verso le varie religioni al proprio interno, e che tendeva ad una forma di concordismo in filosofia. Quindi Celso organizzò in modo sistematico le varie critiche anticristiane che già esistevano ai suoi tempi, consentendoci di valutare quale fosse l’atteggiamento verso i Cristiani di una società ancora pagana in maggior grado: ci dà l’immagine di un pagano colto, ed in alcuni casi anche erudito; certo, comun-

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que, bene informato del cristianesimo, delle varie sette eretiche e del giudaismo. Celso afferma che esiste un’antica interpretazione della realtà, trasmessa fino ai suoi tempi da una tradizione, che deve essere preservata e difesa a causa della sua natura più nobile ed elevata. Dicendo questo, lo scrittore non era del tutto originale, ma riprendeva anche concezioni già formulate da altri. Ad esempio, quella che esistesse una sapienza barbara accanto a quella greca, e che si era manifestata nella civiltà Egiziana, Persiana, Caldea. Non solo: Celso ricorda anche i Samotraci, gli Eleusinii, i Druidi, i Geti, ed anche popoli non attestati storicamente, ma dei quali parlano i poeti, come gli Iperborei e i Galattofagi. Egli non ha difficoltà a ritenere che i Greci fossero una nazione relativamente giovane. Già il filosofo stoico Posidonio (125-50 a.C. circa) era stato particolarmente interessato a queste civiltà antiche e non greche, tanto da rivolgere i suoi studi anche a quella dei Celti. Cheremone, nel primo secolo d.C., cercò di ricostruire la filosofia degli antichi Egiziani, del periodo pregreco. Celso stesso visse in un secolo nel quale l’interesse per le civiltà orientali fu vivissimo: da qui il suo inglobare anche quelle in un’unica tradizione, che era giunta fino ai suoi tempi e che doveva essere conservata. Tra i platonici, Numenio – lo attesta un cristiano come Clemente di Alessandria – era interessato alla civiltà ebraica; famosa è rimasta la sua affermazione che Platone poteva essere considerato come un Mosè che parlava nella lingua di Atene, nell’attico. Non tutti, del resto, nel secondo secolo d.C., ammettevano che gli Ebrei possedessero veramente una sapienza antica. Questo era asserito da Numenio, come abbiamo detto, ma Celso (probabilmente per le esigenze della polemica anticristiana) preferisce negarlo. Egli rifiuta agli Ebrei lo status di nazione antica e a Mosè la dignità di uomo saggio, e quindi critica coloro che cercano di interpretare allegoricamente la Genesi, sostenendo che quel libro non contiene nessuna sapienza profonda (I 14-17). Asserendo questo, Celso può basarsi su di una antica tradizione antiebraica, forte soprattutto in Egitto, ove vissero Apione e Cheremone. Costoro, infatti, avevano sostenuto che gli Ebrei non erano stati una nazione indipendente, ma erano di origine egiziana e che Mosè aveva corrotto le leggi della sua patria; ribellatosi ad esse, aveva condotto fuori dell’Egitto i suoi simili, parimenti ignoranti e corrotti.

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Anche Celso ritiene che gli Ebrei fossero una schiera di persone incivili, di schiavi fuggitivi, di briganti che erano fuggiti dall’Egitto (III 5 e IV 31). Mosè aveva semplicemente ripreso delle dottrine egiziane, ma le aveva interpretate in modo sbagliato, e aveva convinto i suoi seguaci ad abbandonare le tradizioni egiziane. Per fare questo egli si era servito anche della magia (I 21; V 42). Persone di questo genere, quindi, non potevano aver conservato nessuna sapienza antichissima; Mosè non poteva essere stato altro che uno stregone e nei libri da lui scritti non poteva essere contenuta nessuna sapienza. Al perverso insegnamento di Mosè Celso contrappone quello dei sapienti greci, come Lino, Museo, Orfeo, Ferecide, e anche quelli delle altre nazioni, come Zoroastro. Non conoscendo, poi, fonti scritte dei popoli antichi, egli riprende anche i miti e le tradizioni egiziane, e parla delle vicende degli dèi Osiride, Iside, Tifone, Horos (VI 42). Se apprezza la sapienza dei popoli stranieri, Celso si comporta, comunque, da buon greco, quando distingue tra sapienza e filosofia, e ritiene che solamente i Greci siano stati capaci di concepire che cosa fosse la filosofia; tanto meno l'hanno compresa i Cristiani: essi non sono stati e non saranno mai in grado di essere filosofi. Solo i Greci sono stati capaci di sviluppare e di articolare la sapienza in modo sistematico, di ricostruirla con concetti scientifici e di darle una chiara spiegazione. Affermando questo, Celso vede una forma di sviluppo, che va dalla sapienza originaria, che era possesso di tutti i popoli, barbari e Greci, fino alla civiltà dei suoi tempi: nel corso dei secoli solo i Greci hanno sviluppato la sapienza: Celso, quindi, secondo alcuni, può essere considerato uno “storicista”. I Cristiani, invece, nonostante le loro pretese – Giustino, contemporaneo di Celso pretende, come vedremo, che il cristianesimo sia la vera filosofia – non sono in grado di raggiungere i risultati dei Greci. Essi rifiutano la dialettica, non riescono a procurare degli argomenti a sostegno delle loro credenze, mentre richiedono ai loro seguaci una fede assoluta e immediata (I 9; VI 7. 10-11). I Cristiani, se vogliono avere una loro filosofia, debbono difendere le loro idee in un modo che regga alle esigenze della ragione. Quindi, essi sono inaccettabili per due motivi: innanzitutto la loro sapienza non è affatto ispirata da Dio, ed in secondo luogo, anche se veramente lo fosse, non sono in grado di difenderla e di spiegarla con ade-

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guate ragioni. Celso non era l’unico pagano a considerare inaccettabile questo atteggiamento dei Cristiani: Galeno ripete la stessa critica e vedremo che nella generazione successiva alla sua Clemente di Alessandria cercherà di superare questa critica trovando una conciliazione tra fede e gnosi. 4. L’aspetto politico del “Discorso vero” Celso ritiene che l’accettazione unanime del suo discorso vero (o “Vera dottrina”) sia fondamentale per la conservazione e la durata della società civile. Caratterizza Celso e lo distingue dagli altri filosofi dell’epoca il suo interesse politico, il suo tentativo di fornire qualche forma di giustificazione per l’ordine sociale esistente. Certamente vi è un aspetto politico, oltre che filosofico, nell’attribuzione, da parte di Celso, di una sapienza primitiva a tutti i popoli antichi. Questa convinzione è il riflesso della condizione dell’impero romano e della parificazione sostanziale delle varie popolazioni che lo costituivano. Il fatto che queste tradizioni differenti abbiano una loro origine comune nell’unica vera dottrina originaria fornisce un legame per tutte le varie nazioni nonostante la loro diversità culturale. Così Celso sostiene (V 45) che non fa differenza che noi parliamo di Zeus, dell’Altissimo, di Zen, di Adonai o di Sabaoth o di Amun, il dio degli Egiziani, o di Papeo, il dio degli Sciti: si tratta sempre dello stesso dio sotto nomi diversi. L’enoteismo di cui abbiamo parlato nel primo capitolo si stava imponendo ovunque – ma era, come si è visto, inaccettabile per il cristianesimo. Gli Ebrei avevano avuto origine, come popolo, proprio da una sedizione, da una rivolta. Quindi il loro monoteismo è, per Celso, un modo irrazionale e insufficiente di concepire ed esprimere il primo Principio e la sua trascendenza, e rappresenta il tentativo di avere un dio proprio e di negare l’unità della civilizzazione umana, la quale, in ultima analisi, venera il medesimo dio sotto nomi diversi. Allo stesso modo, il cristianesimo è innanzitutto una sedizione, una rivolta dall’ebraismo: esso distorce la dottrina ebraica e aggiunge ad essa delle nuove invenzioni, di suo conio. E, come Celso certamente sapeva, la separazione dei Cristiani dagli Ebrei aveva prodotto tensioni e rivolte in Palestina, che i Romani avevano faticato a reprimere. I primi Cristiani, nella loro speranza dell’arrivo del Messia, in effetti non si sentivano più parte di quella comunità civi-

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le dell’Impero, ma cercavano un nuovo ordine politico, e anche se (come probabilmente avveniva ai tempi di Celso) stavano abbandonando la speranza dell’imminente ritorno del Signore, si rifiutavano comunque di vedere nell’imperatore l’autorità imposta dagli dèi all’umanità civilizzata. Per questo motivo Celso vedeva nel cristianesimo una minaccia per l’impero, proprio perché i Cristiani non accettavano il “discorso vero”, la Vera Dottrina. 5. La filosofia di Celso Dal punto di vista della storia del pensiero, Celso, nonostante l’etichetta di “epicureo” che Origene gli aveva attribuito (ma senza insistere molto, a dire il vero: Origene stesso doveva essersi accorto che c’era poco di epicureo nel Discorso vero), è stato riconosciuto oramai concordemente come un medioplatonico. Ed è quindi interessante vedere come il platonismo possa prestare le armi alla polemica anticristiana, sì da scuotere la certezza dell’opinione comune che il platonismo possa essere la filosofia più vicina al cristianesimo. Ma di questo riparleremo più avanti. La filosofia di Celso è medioplatonica, per cui ci soffermiamo un poco su di essa. Il filosofo pagano conosce gli gnostici (li cita ampiamente in V 54-65), e da loro prende, all’occasione, le argomentazioni per combattere la Grande Chiesa. Secondo Rinaldi, è esistito un vero e proprio rapporto di circolarità tra pagani e gnostici per l’utilizzo di argomenti polemici anticristiani. Quando intende esporre il suo pensiero filosofico egli sottolinea sempre l’incapacità dei Cristiani di comprenderlo, data la loro scarsa educazione e la loro ignoranza (VII 42). Un passo fondamentale è quello di VII 45: L’essere e il divenire rappresentano la realtà intelligibile e la realtà visibile: la verità è connessa all’essere, mentre l’errore proviene dal divenire. Della verità, dunque, si ha una scienza, del divenire un’opinione; l’intelligenza ha attinenza con l’intelligibile, la vista con il visibile. L’intelletto conosce l’intelligibile, l’occhio il visibile. Dunque, quello che per le cose visibili è il sole, che non è né occhio né vista, ma è la causa, per l’occhio, del vedere, per la vista, del suo esistere grazie al sole, e per le cose visibili, di essere viste, per le cose sensibili di avere l’origine, ed il sole stesso è la

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causa del suo essere visto [una affermazione che deriva da un passo famoso della Repubblica di Platone, cf. 509 A ss.] – ebbene, questo nelle cose intelligibili è colui che non è né mente né intelligenza né scienza, ma è causa, per la mente, di comprendere, per l’intelligenza di esistere, per la scienza di conoscere e per tutte le cose intelligibili, per la verità stessa e per l’essere stesso, del loro esistere, dal momento che è al di là di tutte le cose. Egli è intelligibile soltanto con una potenza inesprimibile [una affermazione di puro carattere medioplatonico]. Queste cose sono state dette per le persone colte; se anche voi ne comprendete qualcuna, meglio per voi.

Questa metafisica è tipica del medioplatonismo. Essa prende le mosse dal Timeo, che distingue (27 D ss.) tra l’ambito dell’essere e l’ambito del divenire, tra l’intelligibile e il sensibile, il demiurgo, da una parte, e la materia dall’altra. Abbiamo a che fare, insomma, con il tradizionale dualismo platonico. Naturalmente, anche la creazione del mondo, secondo Celso, non è una creazione dal nulla. Anche Celso si basa sulla Repubblica di Platone (509 B), identificando dio con l’idea del bene, dalla quale dipende tutto il mondo intelligibile. Per questo motivo non si può dire che esista qualcosa che possa essere identificata con dio o predicata su di lui. Dio non può essere espresso con parole (VI 6; 65; VII 42); non ha qualità (VI 63) e non ha nessuna delle caratteristiche che si attribuiscono alle cose (VI 62); è al di là del movimento (VI 64), e di conseguenza immutabile (IV 14; 18). Facendo ricorso alla famosa settima lettera di Platone (341 CD), Celso ripete, come altri medioplatonici, non solamente che dio è inesprimibile, ma anche che il modo in cui egli si presenta a noi e alla nostra mente, è quello di una illuminazione improvvisa, dopo che noi ci siamo dedicati a meditare su di lui a lungo e nel modo dovuto (VII 42). Come gli altri medioplatonici, egli ricorre alle tre “vie” che conducono alla conoscenza di dio: quelle mediante la sintesi, l’analisi e l’analogia. Il dio trascendente della filosofia di Celso è quel «padre e creatore dell’universo», che è difficile da conoscere e impossibile da comunicare agli altri, di cui parla il Timeo (28 C), un passo famoso presso tutti i medioplatonici, e ripreso anche dagli apologeti

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cristiani. Il problema che si pone è se intendere questo “padre” non solo come il primo, ma anche come l’unico nella gerarchia del primo principio, oppure pensare anche a uno o due dèi inferiori. Certo è che Celso parla di un “primo” dio, il che potrebbe implicare l’esistenza di un secondo o di un terzo (VI 60-61). Tuttavia Celso non lo nomina mai esplicitamente, così come non parla mai di una pluralità di dèi, anche se Origene, nella sua concezione strettamente cristiana, per cui il «secondo Dio» è il Figlio, impiega spesso il termine di «secondo dio» (V 39; VI 61; VII 57). Però vi sono, nel Discorso vero, degli accenni all’esistenza di più di un dio. Sulla base di V 24 sembra che si possa pensare ad un dio che è il logos di tutte le cose, quindi all’Intelletto distinto da dio stesso. Un’altra difficoltà è costituita dal fatto che Celso non parla mai delle idee, anche se l’esistenza di un secondo dio, cioè dell’intelletto, sembrerebbe postularla. Va tenuto presente, tuttavia, che la sua opera ci è giunta frammentaria. Dio non crea niente di mortale (IV 52; 54), per cui l’esistenza delle cose sensibili potrebbe essere dovuta al secondo dio, che sarebbe il demiurgo. Secondo Celso, alcuni platonici affermano che il secondo dio sarebbe da identificarsi con il mondo, mentre altri ritengono che il mondo sarebbe il terzo dio: questo sembra corrispondere alla filosofia di Numenio di Apamea (V 7). Il Logos di dio, egli dice, amministra il mondo (VII 70); esiste anche uno “spirito divino’, che avrebbe ispirato i sapienti dei tempi antichi (VII 45). Celso parla anche frequentemente della materia e del suo movimento disordinato, anteriore alla “creazione” del mondo (IV 66; VI 42). Questo significa che egli riprende la dottrina della opposizione dei due principi, dio e materia, che era propria del medioplatonismo. D’altra parte, non sembra che egli creda nell’esistenza di un’anima cosmica malvagia ed esplicitamente rifiuta l’idea che esista un principio negativo che si oppone a dio. Tuttavia la materia subisce l’influsso negativo dei demoni malvagi, per cui sembra che la materia sia la fonte ultima del male (ma d’altra parte, anche i demoni malvagi sono stati creati da dio). Dio impone l’ordine su questa materia, dando origine, così, al mondo sensibile. Naturalmente, questa origine non ha avuto luogo nel tempo: Celso si rifiuta di parlare dell’inizio e della fine del mondo (VI 52). Secondo lui, esisteranno delle distruzioni parziali, anche se, a suo parere, la conflagrazione totale, sostenuta dagli Stoici, è da respingere. Il mondo, quindi, non è di per sé

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eterno, ma deriva la sua eternità dall’ordine che dio ha posto nella materia. In ogni modo, Celso lo ritiene “divino” (I 24), cosa non strana, sulla base della dottrina del Timeo e conforme a quella di vari altri platonici. Un’altra dottrina tipicamente medioplatonica è rappresentata dalla demonologia, che trova paralleli in Apuleio e Plutarco, con la sua distinzione tra demoni buoni e demoni malvagi. Interessante è il fatto che Celso adoperi il termine “angeli” per indicare i demoni, anche quando non riprende la dottrina cristiana (VII 68). Del suo rifiuto dell’antropocentrismo, infine, parleremo a p. 147. Dopo Celso, che ebbe la funzione di aprire la strada alle polemiche anticristiane di tipo colto, gli intellettuali pagani che percorsero quel cammino (Porfirio, Sossiano Ierocle, Giuliano l’apostata) ripresero da lui, e l’uno dall’altro, molte delle sue critiche e delle sue argomentazioni. Di conseguenza dobbiamo renderci conto che, se è è esistito un platonismo cristiano, quale emerge soprattutto in certi contesti, come quello della scuola di Alessandria e della filosofia dei Padri Cappadoci, il platonismo fu, per altri aspetti, fortemente anticristiano. Esso costituì l’ossatura intellettuale della cosiddetta “reazione pagana” al cristianesimo. Lo andremo a vedere tra poco.

Capitolo quarto

Filostrato 1. Il sapiente pagano contrapposto a Cristo: Filostrato A partire dal terzo secolo, quindi dopo il Discorso vero di Celso e negli anni in cui Origene preparava la sua risposta allo scritto del platonico anticristiano, la cultura pagana cominciò ad elaborare l’ideale dell’“uomo di dio”, cioè dell’uomo eccellente, superiore, tale che potesse essere considerato vicino a dio e suo amico. Questa concezione non soltanto rispondeva alle esigenze religiose dei pagani, ma costituiva anche l’immagine di un personaggio che fosse una specie di anti-Cristo, cioè una figura divina che poteva contrapporsi a quella cristiana del Figlio di Dio. Negli anni in cui Plotino stava progettando il suo viaggio in oriente allo scopo di procurarsi la sapienza di quei popoli lontani e antichissimi, intorno al 240 d.C., un altro scrittore greco, Filostrato, scriveva un romanzo biografico, La vita di Apollonio di Tiana, nella quale informava i suoi lettori che era esistito ai tempi di Nerone e di Domiziano un sapiente e taumaturgo, Apollonio, nato nella citta di Tiana, in Cappadocia: costui per mezzo di una rigorosa ascesi e di una incessante ricerca della perfezione era diventato un «uomo di dio». La Vita di Apollonio di Filostrato è un’opera singolare, perché presenta al lettore due livelli di interpretazione: quello relativo alla figura di Apollonio, il quale modellava la propria vita sulla figura di Pitagora, e quello proposto da Filostrato stesso, lo scrittore. Questa biografia, ed i suoi intenti filosofico – religiosi, rispondevano alle caratteristiche della cultura dell’età dei Severi (193-235 d.C.): il sincretismo religioso, di cui abbiamo già parlato, e il sincretismo filosofico di pitagorismo, cinismo e platonismo. Lo scrittore, pronto ad assecondare le idee religiose dell’imperatrice Giulia Domna, di origine siriaca, è sensibile alle misteriosofie orientali e a tutto quel complesso, confuso e indistinto, di idee e credenze che si trovava in quell’epoca. L’Apollonio di Filostrato è il prodotto e il rappresentante non tanto del I secolo

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d.C., quando visse Apollonio, ma dei primi decenni del terzo, quando il suo biografo ne scrisse la vita. Dell’Apollonio storicamente vissuto conosciamo solo una dottrina, esposta in un passo conservato da Eusebio (Preparazione al Vangelo IV 13,1). È di contenuto teologico, e riguarda la natura di dio e il modo in cui dio deve essere adorato. Lo citiamo nella traduzione di Dario Del Corno (Adelphi Editore, qui e in seguito): Secondo il mio pensiero, tale è il modo migliore di tributare alla divinità gli onori che le sono dovuti, e di ottenere così il suo favore e la sua benevolenza nel più alto grado. Al dio che abbiamo nominato in precedenza, il quale è unico e distinto da tutti gli altri, in quanto non possono essere conosciuti che a partire da lui, non si deve sacrificare primizie, né accendere il fuoco, né dare alcun nome tratto dal mondo sensibile: infatti non ha bisogno di nulla, nemmeno da parte degli esseri più potenti di noi, né esiste prodotto della terra o animale nutrito da essa o dall’aria che non porti in sé qualche contaminazione. A lui ci si deve sempre rivolgere con la parola migliore, voglio dire quella che non passa attraverso la bocca, e all’essere più bello che esista occorre chiedere il bene con la cosa più bella che è in noi: ed è questo lo spirito, che non abbisogna di organo alcuno. Di conseguenza, non si deve assolutamente offrire sacrifici al dio massimo, che sta al di sopra di ogni cosa.

Apollonio, quindi, è un «uomo di dio» la cui religiosità concorda con l’enoteismo che le persone colte dell’età imperiale professavano, per cui egli dichiara che dio è unico; ma d’altra parte dio è anche «il primo», in quanto dopo di lui vengono gli dèi inferiori. Parimenti corrispondono alle idee comunemente diffuse nell’epoca filostratea e più tarda anche le altre convinzioni di Apollonio: dio non ha bisogno di nessuna cosa, nemmeno da parte degli esseri più potenti di noi (Apollonio voleva certo intendere i secondi dèi e i demoni); non può essere nominato con nessun termine che sia ricavato dal mondo sensibile; non c’è niente che sia tanto puro quanto lui. Conformandosi a dio, Apollonio continuamente praticava l’ascesi e ricercava la purezza. Dio deve essere pregato con l’intelletto, e pertanto non è lecito offrire sacri-

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fici al dio sommo: nella Vita di Apollonio l’eroe di Tiana prega il dio in forma “privata”, rifiutando ogni sacrificio di tipo rituale e tradizionale. Fondamentale, a questo riguardo, anche il passo di Vita di Apollonio VI 19: Ma cosa vi è di venerando o di terribile in queste immagini degli dèi? Gli spergiuri, i sacrileghi e la turba dei parassiti è logico che le spregino, anziché averne timore; e se esse ottengono venerazione per il loro senso riposto, gli dèi dell’Egitto sarebbero molto più venerati qualora si rinunciasse affatto a effigiarli, e voi fondaste la vostra teologia su un’altra ragione più sapiente e recondita. Era certo possibile erigere templi in loro onore e istituire altari, stabilire i sacrifici leciti e quelli vietati, definire quando si dovessero fare e in quale misura, con quali formule e con quali riti: e non esporre effigi, bensì lasciare che i devoti si immaginassero da sé l’aspetto degli dèi. La mente sa delineare e plasmare figure meglio dell’arte, ma voi avete sottratto agli dèi il privilegio sia di essere visti sia di essere immaginati secondo bellezza.

La teosofia apolloniana-filostratea era verisimilmente professata dalle persone colte, non solo nell’età severiana e nel circolo di Giulia Domna, ma anche di tutta la cultura pagana dell’età tardoimperiale. Da qui la contrapposizione di Apollonio a Cristo, nella quale intervenne senza dubbio anche l’interesse per il divino, accanto alla protesta del paganesimo, la cui sconfitta appariva imminente, nei confronti della nuova religione. Tale interesse si accentrava attorno alla figura di Apollonio, e se ebbe ampia diffusione negli ultimi secoli dell’impero, esso si era formato già ben presto, quando il personaggio era ancora vivo o poco dopo la sua morte. In tal modo si manifestava l’ostilità che muoveva due culture oramai irrimediabilmente contrapposte tra di loro. Un “uomo di dio” come Apollonio non poteva essere tollerato dai seguaci del Dio in terra: nel mondo antico non vi era posto per entrambi. Volgiamo ora la nostra attenzione all’opera di Filostrato. 2. Filostrato in polemica con la magia Il primo intento di Filostrato è quello di scagionare Apollonio dall’accusa di magia volgarmente intesa. Lo scrittore non nega che il suo eroe possedesse facoltà divinatorie e sopranna-

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turali, ma le attribuisce alla filosofia pitagorica (Vita di Apollonio I 2): Apollonio [...] in modo ancora più divino di Pitagora seppe accostarsi alla sapienza e sollevarsi al di sopra dei tiranni; ma benché sia vissuto in tempi non remoti né troppo recenti, gli uomini non lo conoscono ancora per la vera sapienza, che esercitò da filosofo e secondo virtù. Della sua personalità alcuni esaltano un aspetto, altri un altro; e dato che si incontrò con i magi in Babilonia, con i bramani dell’India e con i ginnosofisti che vivono in Egitto, vi è pure chi lo ritiene un mago e lo accusa di avere praticato la stregonerìa: ma lo fa per ignoranza. Infatti Empedocle e lo stesso Pitagora e Democrito, pure frequentando i magi e rivelando molte verità soprannaturali, non si abbassarono mai all’arte magica. Platone andò in Egitto e inserì nelle sue opere molte dottrine dei profeti e dei sacerdoti di quel paese, al modo di un pittore che aggiunge il colore ai suoi disegni; ma non venne mai considerato un mago, sebbene più di ogni altro uomo fosse invidiato per la sua sapienza. Non si può imputare ad Apollonio il fatto di presentire e preannunziare gli eventi, per ascrivergli una sapienza siffatta; altrimenti, si dovrà accusare pure Socrate per i pronostici appresi dal suo demone, e Anassagora per le sue predizioni.

Questa particolare interpretazione della magia è tipica di Apollonio e di Filostrato, ma tale forma di magia rimaneva ignota a tutti tranne che agli intimi del Tianeo; da qui la definizione vulgata di Apollonio mago. La religione ufficiale risulta inferiore, per dignità ed efficacia, alla magia, ben più alta, del taumaturgo. I maghi di cui parla il volgo, invece, sono i più disgraziati fra gli uomini: essi affermano di poter mutare il corso del destino, gli uni mettendo alla tortura gli spiriti dell’aldilà, altri ricorrendo a barbari sacrifici, altri ancora ad incantesimi e unzioni. Molti invero, sottoposti all’accusa di compiere queste azioni, riconobbero di essere esperti in tali pratiche. Alla magia, dunque, si contrappone la filosofia pitagorica. Uno studioso, il Solmsen, vede nel pitagorismo di Apollonio-Filostrato un momento del percorso di quella filosofia nell’età imperiale, per cui la Vita di Apollonio si può collocare sulla strada che conduce

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a Porfirio, al suo trattato Sull’astenersi dagli esseri animati e al Ritorno dell’anima a dio (De regressu animae). La filosofia di Apollonio, infatti, ha una valenza soprattutto religiosa e ascetica, e il suo pitagorismo, la sua imitazione di Pitagora, si riducono sostanzialmente al risvolto teologico-morale. 3. La vita pitagorica di Apollonio Una volta che ha premesso, e ribadito, che i miracoli di Apollonio non furono il prodotto della stregoneria, ma della filosofia, Filostrato non ha difficoltà a narrare quanto ha appreso su di lui. I suoi miracoli sono noti: è immortale; scompare miracolosamente dal carcere di Roma, in cui è tenuto prigioniero da Domiziano; vede, stando a Efeso, l’uccisione dell’imperatore nel momento stesso in cui essa avviene; sale al cielo in modo soprannaturale. Anche il resto della sua vita contiene azioni fuori dell’ordinario, caratterizzate da una profonda sapienza, che fanno di lui un «uomo di dio» e che Filostrato ci propone, non con tono distaccato e oggettivo, ma con intenti propagandistici. Innanzitutto la dieta vegetariana (che è giustificata con considerazioni che già preannunciano Porfirio): Dopo tali parole si astenne dal cibarsi di carne, dicendo che era impura e appesantiva la mente; e si nutriva di frutta secca e di verdure, sostenendo che è puro tutto ciò che la terra produce direttamente. Affermava inoltre che il vino è sì una bevanda pura in quanto proviene agli uomini da una pianta coltivata, ma che si oppone all’equilibrio della mente poiché turba l’etere che è nell’anima. Dopo avere in tal modo purificato il ventre, scelse di non portare calzatura alcuna, e si vestì di un abito di lino rifiutando le vesti fatte con pelli d’animale; si lasciò crescere la chioma, e viveva nel tempio (I 8).

Fondamentale è anche la continenza sessuale, che Apollonio praticò in maniera ancora più rigorosa di quanto non gli imponessero i precetti di Pitagora: Poiché si lodava Pitagora per avere sentenziato che non si dovessero avere rapporti se non con la propria

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moglie, disse che Pitagora aveva parlato così per gli altri: ma affermò che egli non si sarebbe sposato né avrebbe mai avuto rapporti sessuali, oltrepassando così pure la sentenza di Sofocle. Questi infatti disse che con la vecchiaia si era liberato di un padrone folle e violento mentre egli, grazie alla sua virtù e continenza, neppure nella giovinezza fu schiavo di tale padrone, ma anche nel fiore dell’età e nel pieno del suo vigore conservò il controllo e il dominio della passione (I 13).

Altro caposaldo dell’educazione pitagorica è il mantenimento di un assoluto silenzio, come è ben noto; ebbene, Apollonio lo osservò per cinque anni (I 14-15; cf. anche VI 11). Quindi, l’ascesi richiede anche la rinuncia al lusso, che viene simboleggiato nell’uso del bagno: e Apollonio rifiuta il bagno. Egli non approva i sacrifici cruenti: questa sua convinzione viene ripetuta più e più volte da Filostrato. Insomma, il procedere di Apollonio è guidato dal dio, come suona il precetto pitagorico: «segui il dio». Il passo in cui si enuncia questo precetto è riferito all’intenzione di Apollonio di intraprendere il viaggio nell’Oriente, seguendo l’ispirazione di dio; ma tutta la vita del Tianeo deve essere intesa come una sequela dei. Anche il viaggio in Oriente serve ad Apollonio per approfondire le proprie conoscenze filosofiche: il suo pitagorismo trarrà nuova linfa dalla sapienza degli Indiani. La sua superiorità di indole, di origine divina, era già stata preannunciata dai prodigi che accompagnarono la sua nascita e i primi anni della sua vita, prodigi che già facevano immaginare la eccellenza non solo dell’uomo maturo, ma già del giovinetto: fin nei primi anni della sua vita Apollonio si manifestava come «uomo di dio». Allorquando Apollonio, sotto il principato di Nerone, giunse a Roma, ebbe subito l’amicizia e l’ammirazione di uno dei due consoli, Telesino. Questi gli domandò, «ben consapevole che parlava ad un sapiente», come pregasse gli dèi. La risposta è quella che si conviene ad un sapiente: Apollonio prega «che vi sia giustizia né si contravvenga alle leggi, che i sapienti siano poveri e ricchi tutti gli altri, ma senza frode». O meglio, Apollonio racchiude tutto in una sola preghiera, dicendo: «O dèi, datemi ciò che mi spetta».

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4. La religione di Apollonio-Filostrato L’età di Filostrato, la Seconda Sofistica, non fu dedita solamente all’imitazione, sotto l’aspetto letterario, delle grandi opere della Grecia classica, ma volse la sua attenzione anche alla religione del passato. Analogamente, dunque, Apollonio mostra grande interesse per la vita dei santuari e dei templi, nei quali vide perpetuarsi lo spirito religioso della civiltà greca. Nel tempio, egli si comporta da taumaturgo e da filosofo morale, intervenendo, con le sue parole, pregando la divinità o, d’altro canto, sanando o biasimando le miserie e i vizi degli uomini. Quando fu tornato dai suoi viaggi nell’Oriente, circonfuso dalla fama della sua sapienza, segnalarono la sua presenza anche responsi di vari oracoli: Didima, Colofone e Pergamo vollero che si sapesse che gli uomini dovevano recarsi da lui per essere ammaestrati. Apollonio vuole essere iniziato ai riti eleusini; ad Atene fu iniziato ai misteri; dopo aver trascorso l’inverno passando per tutti i templi della Grecia, si mise in viaggio per l’Egitto verso primavera. Veramente “uomo di dio”, dunque, non soltanto perché accompagnato da prodigi e da manifestazioni di quanto il dio si compiaccia della sua sovrumana eccellenza, ma anche perché è a contatto con lui. Certo, questa divinità adorata da Apollonio è quella della civiltà greca dell'età dei Severi. È significativo il fatto che egli impartì il suo insegnamento ai Greci soltanto, mai a Roma. Viveva dunque nei templi, mutando sede e trasferendosi dall’uno all’altro; e così ne dava ragione: «Neppure gli dèi trascorrono tutto il tempo in cielo, ma vanno in Etiopia, vanno all’Olimpo e sull’Athos; mi pare strano che gli dèi facciano il giro di tutti i popoli, ma gli uomini non vadano a visitare tutti gli dèi. Eppure, se i padroni non si danno cura dei servitori, non tocca loro biasimo alcuno, e ciò viene inteso come un segno di disprezzo per la loro inettitudine; ma i servi che non prestano completa attenzione ai padroni, vengono da loro annientati come esseri abominevoli, nullità in odio agli dèi». In conseguenza dei suoi discorsi intorno ai templi cresceva il culto per gli dèi. La gente accorreva a quei santuari nella convinzione di ottenere maggiori benefici dalla divinità [...]. Non accorreva alle porte dei ricchi, né si insinuava presso i

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potenti: se venivano a lui li accoglieva con gioia, ma teneva con loro gli stessi discorsi che faceva al popolo (IV 40-41).

Gli insegnamenti che Apollonio impartiva ai Greci delle varie città che attraversava erano di morale pratica; tendevano tutti a imprimere nell’animo dei suoi ascoltatori un più alto grado di ascesi, ma non sono, a considerarli attentamente, di particolare profondità o finezza. Egli appare più un taumaturgo vagante che un vero filosofo. Altri suoi insegnamenti appaiono tipici di Filostrato e dell’età severiana, anche se non possiamo escludere che essi appartenessero già al primo secolo dopo Cristo: certe idee e certe concezioni non si possono dividere con un taglio netto, e attribuire le une a un secolo, le altre ad un altro, se non in pochissimi casi. Tale, ad esempio, mi sembrerebbe essere il culto del sole, che Filostrato ci presenta essere stato particolarmente praticato dal Tianeo: è nota l’importanza che ebbe l’eliolatria soprattutto in epoca severiana, ma, in generale, in tutta l’età tardoantica. A proposito del mondo, ecco che cosa egli pensava (III 35): Qualcosa di simile dobbiamo pensare anche a proposito del nostro universo, contemplandolo sotto l’immagine di una nave. Il posto principale e supremo va assegnato al dio che ha generato quest’essere, e quello successivo agli dèi che reggono le sue parti. Accettiamo infatti le opinioni dei poeti, dal momento che affermano esservi molti dèi nel cielo e molti nel mare, molti nelle fonti e nei fiumi, molti sulla terra e alcuni pure sotterra. Ma questi luoghi sotterranei, se pure esistono, preferiamo escluderli dall’universo, poiché vengono celebrati come sede dell’orrore e della morte.

Filostrato-Apollonio riesce a inserire nella sua spiegazione dell’universo un po’ di tutto: i quattro elementi empedoclei, il quinto elemento, di cui si nutrono gli dèi, e persino la concezione orfica (e conosciuta anche dall’ermetismo) del mondo «maschio e femmina». Ma il tutto è illustrato con la raffinatezza del sofista: «Dovremo allora considerare l’universo un essere vivente?», domanda Apollonio. «Certo, se ben rifletti: in quanto esso genera ogni cosa»: è la risposta di Iarca, il sapiente indiano. «Ma dobbia-

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mo pensare che sia femmina, oppure del genere opposto, ossia maschile?». «Partecipa di entrambe le nature», fu la risposta, «in quanto, unendosi a se stesso, svolge le parti del padre e della madre nella generazione degli esseri viventi». 5. Dèi, demoni, eroi Apollonio crede, dunque, nella gerarchia che vede gli dèi inferiori accanto al dio sommo, come si ricava anche dal passo seguente (IV 31): Al suo arrivo [...] (gli Spartani) gli chiesero come si debbono venerare gli dèi; ed egli rispose: «Come padroni». Quindi la stessa domanda gli fu posta per gli eroi, e la risposta fu: «Come padri».

Al di sotto degli dèi, dunque, si collocano gli eroi; anche altrove Filostrato conosce la gerarchia dèi-demoni, mostrando interesse per la demonologia, dottrina tipica della sua epoca e del platonismo a lui contemporaneo (questo interesse è confermato proprio dall’altra opera di Filostrato, il Trattato sugli eroi). I demoni appaiono nella Vita di Apollonio spesso con caratteristiche negative, dominati dalle passioni, come normalmente si legge negli scrittori dell’età imperiale (Plutarco e Apuleio). Dopo i demoni, vengono, nella gerarchia, gli eroi. Apollonio incontra il fantasma di Achille, nella Troade: era di statura sovrumana (alto dodici cubiti), e di bellissimo aspetto. Anche nel trattato Sugli eroi Apollonio parla, ugualmente, di Achille. 6. Filosofia religiosa e politica Apollonio tenne, a Roma, una discussione con il retore Dione di Prusa e il sofista Eufrate alla presenza di Vespasiano, nella quale si esaminò se conveniva all’imperatore rinunciare al potere e affidare ai Romani la scelta della loro costituzione (come suggeriva Dione), o istituire di nuovo la democrazia (come proponeva Eufrate), o governare, sì, da imperatore, ma con equità (come consigliava Apollonio). Questa discussione riflette le idee di Filostrato e della sua epoca. Anche le proposte sono sapientemente disposte in ordine crescente, in relazione al loro valore: «rendere ai Romani il governo del popolo» (V 33) era senza dubbio, in

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età imperiale, la peggior soluzione politica e la più squalificata, e non per nulla è posta in bocca ad Eufrate, il sofista malvagio e invidioso di Apollonio. La proposta di Dione, invece («affida ai Romani la scelta della loro costituzione; e se dovessero scegliere la democrazia, concedila», V 34), appare astratta e irrealizzabile. Apollonio, infine, dà un vero e proprio consiglio amichevole, perché tiene conto del bene dell’imperatore e dei vantaggi dei sudditi: non poteva essere posta in bocca ad altri che al Tianeo ed è un’invenzione dello stesso Filostrato, interessato, come tutti i sofisti, ai problemi politici del suo tempo, in quanto greco e in quanto intellettuale. Che tali discussioni apparissero, sostanzialmente, astratte, era nella realtà dei fatti (come era immaginabile che un imperatore romano rinunciasse al proprio potere e restituisse la libertà ai sudditi?) e l’argomento di esse costituiva un’illusione di questi letterati: ma era un’illusione comune a molti. Ci siamo soffermati a lungo sulle personalità di Apollonio di Tiana e di Filostrato, nonostante che il loro pensiero filosofico sia modesto e di tipo comune. Ma nella storia della civiltà e della cultura anche queste figure minori hanno una loro funzione: gli scrittori cristiani a partire dagli inizi del quarto secolo (Lattanzio, Gerolamo e Agostino) dovranno infatti prendere in considerazione anche Apollonio come un personaggio semidivino, del quale i pagani si servivano per contrapporlo a Cristo, come si è detto, per dimostrare che Cristo non era stato superiore a lui, ma, anzi, aveva fatto dei miracoli semplicemente come lui.

Capitolo quinto

Sossiano Ierocle 1. L’uomo di dio avversario del cristianesimo Tra la fine del terzo e l’inizio del quarto secolo d.C., quando il dominio dell’antica cultura pagana era ormai in declino e la religione cristiana si avviava verso il suo grande sviluppo, il conflitto tra il cristianesimo e il paganesimo entrò nella sua fase ultima e più dura. Il punto culminante di questo scontro fu la persecuzione dell’imperatore Diocleziano. Iniziata ufficialmente nell’anno 303, essa fu la più violenta di tutte quelle che i Cristiani dovettero subire. Diocleziano, sostenuto dai suoi collaboratori, si servì anche della propaganda, perché occorreva spiegare ai pagani la necessità della persecuzione: in vari periodi precedenti, infatti, si era verificata una certa convivenza tra pagani e Cristiani, e la persecuzione non sembrava più una cosa ovvia. La letteratura anticristiana, in questo periodo, era diretta alla numerosa ed influente élite urbana. Nelle intenzioni degli imperatori proprio questo gruppo di intellettuali doveva organizzare la repressione, giacché esso esercitava il potere locale, nelle città e nelle provincie: senza il suo intervento le persecuzioni non avrebbero potuto essere efficaci. Un ruolo essenziale nell’organizzazione di queste misure anticristiane fu svolto da Sossiano Ierocle, un alto funzionario dell’imperatore Diocleziano, sostenitore e consigliere della persecuzione, come dice Lattanzio (La morte dei persecutori 16,4; Istituzioni divine V 2,12). Ierocle apparteneva all’ordine equestre; prima amministrò la provincia dove era situata Palmira, in Siria, poi ricoprì la carica di vicario di una delle diocesi imperiali (probabilmente quella dell’Oriente). Prima dell’inizio della persecuzione diventò il governatore della Bitinia e fece parte della cerchia dei consiglieri di Diocleziano; infine assunse l’incarico di prefetto d’Egitto. L’atteggiamento di Ierocle mostra non solo che gli intellettuali pagani erano sostenitori della religione ufficiale, ma anche la trasformazione del Neoplatonismo in una religione con i propri “santi” e i propri taumaturghi. Entrambi questi atteggiamenti erano reazioni difensive contro l’avanzare del cristianesimo.

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Ierocle scrisse il suo trattato anticristiano durante l’esercizio del vicariato e lo lesse in pubblico a Nicomedia, la sede imperiale di Diocleziano, probabilmente subito all’inizio della persecuzione, nell’anno 303. La lettura ebbe luogo davanti all’élite intellettuale che l’imperatore raccoglieva attorno a sé. In essa si trovava anche Lattanzio, che in quel tempo era professore di retorica a Nicomedia, ed era cristiano. Accanto a Ierocle si trovava un altro filosofo altrettanto ostile ai Cristiani: probabilmente Porfirio, di cui diremo presto, come c’informa appunto Lattanzio. 2. La testimonianza di Lattanzio Ecco, dunque, il racconto di Lattanzio a questo proposito (Istituzioni divine V 2-3); ed è interessante vedere che, come sopra si è detto, Lattanzio fa riferimento proprio agli «uomini di dio» di cui parlavano i pagani (Apollonio di Tiana ed Apuleio, capaci di fare i miracoli): 2. Quando io, chiamato in Bitinia, vi insegnavo eloquenza, nello stesso tempo in cui il tempio di Dio veniva abbattuto, in quel paese apparvero due uomini che si facevano beffe della verità negletta e vilipesa, non so se con più arroganza o sfacciataggine; di questi il primo si professava maestro di filosofia: eppure era così corrotto che, sebbene predicasse la temperanza, non bramava meno ardentemente le ricchezze che i piaceri disonesti, aveva un tenore di vita così splendido che, mentre nella scuola sosteneva i diritti della virtù, esaltava la sobrietà e la povertà, presso la corte imperiale pranzava meno sontuosamente che a casa sua. Tuttavia copriva i suoi vizi con la barba fluente, col mantello e con le ricchezze (che costituiscono il miglior velo); e per accrescerle sapeva penetrare nel cuore dei giudici con incredibili intrighi e d’un tratto li legava a sé con l’autorità d’un falso nome: così non solo riusciva a vendere le loro sentenze, ma anche a trattenere con la sua potenza i vicini, cacciati dalle loro dimore e dai loro campi, dal rivendicare i propri diritti. Costui dunque che distruggeva i suoi insegnamenti con i suoi costumi o meglio condannava i suoi costumi con i suoi insegnamenti ed era giudice severo ed accusatore violentissi-

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mo di se stesso, proprio nel medesimo tempo in cui un popolo giusto veniva scelleratamente straziato, vomitò tre libri contro la religione ed il nome cristiano. Ed egli dichiarò che «innanzitutto è dovere del filosofo rimediare agli errori degli uomini, ricondurli sulla retta via, cioè al culto degli dèi, dalla cui provvidenza e maestà il mondo è governato, e non permettere che gli uomini semplici siano irretiti dalle frodi di certuni, affinché la loro ingenuità non divenga preda ed alimento di uomini astuti». Pertanto egli si era assunto il compito, veramente degno della filosofia, di mostrare a quelli che non vedevano la luce della sapienza, non solo perché, dedicandosi al culto degli dèi, rinsavissero, ma anche perché, desistendo da una cocciuta ostinazione, evitassero le torture e smettessero di voler sopportare atroci quanto inutili tormenti. Affinché poi risultasse chiara la ragione per cui egli aveva composto con tanta cura quell’opera si profuse in lodi sperticate degli imperatori, la cui religiosità e saggezza, a suo avviso, si erano manifestate come nelle altre cose, cosi particolarmente nel difendere il culto degli dèi: finalmente si era provveduto alle cose umane, di modo che, repressa un’empia e sciocca superstizione, tutti gli uomini celebrassero i riti sacri prescritti dalle leggi e sperimentassero il favore degli dèi. Quando poi volle invalidare i princìpi di quella religione, contro la quale lanciava i suoi strali, si rivelò inetto, fatuo, ridicolo; quegli che soleva occuparsi con tanta gravità del bene altrui, non soltanto non sapeva a che cosa rivolgere i suoi attacchi, ma neppure quali parole pronunciare. Infatti quelli dei nostri che erano presenti, pur fingendo di non accorgersene per opportunità, lo derisero nell’animo: avevano davanti a sé un uomo che prometteva di illuminare gli altri, pur essendo cieco, di ricondurli sulla retta via, pur non sapendo dove mettere i piedi, di ammaestrarli nella verità, di cui egli neppure un barlume mai aveva scorto, giacché, maestro di sapienza, cercava di distruggere la sapienza. Tutti disapprovavano che egli, proprio in quel tempo in cui infuriava un’odiosa persecuzione, si fosse accinto a quell’opera. Oh filosofo adulatore e disposto ad uniformarsi servilmente alle circostanze! Ma costui in

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compenso della sua vanità cadde nel più profondo disprezzo; e non riuscì a conseguire il favore che aveva sperato; la gloria poi che si era procurata divenne per lui motivo di colpa e di biasimo. L’altro, che allora faceva parte del consiglio dei giudici e fu tra i più accesi fautori della persecuzione, trattò gli stessi argomenti con maggiore asprezza: e non contento di perseguitare i Cristiani, anche con gli scritti attaccò quelli che aveva sottoposto ai più crudeli tormenti. Compose infatti due opuscoli non contro i Cristiani, affinchè non sembrasse che egli li attaccava da nemico, ma ai Cristiani, affinchè si credesse che egli intendeva consigliarli con gentilezza e con benevolenza; in questi tentò di dimostrare così a fondo la falsità della Sacra Scrittura, come se essa fosse tutta piena di contraddizioni; espose alcuni passi, che sembravano tra di loro contrastanti, e di essi annoverò particolari in sì gran numero, così poco noti che si direbbe che egli una volta sia stato seguace della stessa fede. E se fu così, quale Demostene potrà difendere dall’accusa di empietà lui, che tradì la religione, alla quale aveva appartenuto, la fede, il cui nome aveva assunto, il sacramento che aveva ricevuto? A meno che la Sacra Scrittura non gli sia capitata per caso tra le mani. Che leggerezza era dunque quella di osare demolire gli scritti che nessuno gli aveva mai spiegato? Sta bene, poiché o nulla imparò o nulla comprese. Infatti la Sacra Scrittura è tanto lontana dal contenere contraddizioni, quanto egli è lontano dalla fede e dalla verità; tuttavia in modo particolare fece scempio di Paolo e di Pietro e degli altri discepoli, presentandoli come seminatori di menzogne ed assieme affermando, nondimeno, che essi erano stati rozzi ed incolti: infatti alcuni di loro avevano ricavato guadagno dal mestiere di pescatori; quasi che egli sopportasse a malincuore che quella religione non la avesse illustrata un qualche Aristofane od Aristarco! 3. Dunque i discepoli di Gesù, per la loro rozzezza, furono ben lontani dal proposito di dire menzogne e dall’agire astutamente. O quale uomo incolto potrebbe inventare fandonie ben connesse tra di loro e coerenti, mentre Platone, Aristotele, Epicuro e Zenone hanno fatto affermazioni del tutto contraddittorie? Infatti la

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caratteristica delle menzogne è di non poter andar d’accordo. Il loro insegnamento poi, perché è vero, è perfetto in ogni sua parte ed è del tutto coerente; e riesce persuasivo perché si appoggia su argomenti immutabili. Pertanto non inventarono cotesta religione per ricavarne lucro e vantaggio, coloro che, e nell’insegnamento e nella pratica, seguirono tal genere di vita, che non conosce piaceri e disprezza tutti quelli che comunemente sono ritenuti beni; inoltre non solo affrontarono la morte per la fede, ma anche sapevano di morire e predissero che, in seguito, quanti fossero stati seguaci dei loro princìpi, avrebbero patito trattamenti crudeli ed empi. Egli poi affermò che lo stesso Cristo fu bandito dai Giudei e dopo aver raccolto una schiera di novecento uomini si mise a compiere ruberie. Chi oserebbe opporsi ad una così grande autorità? Prestiamogli piena fede; infatti forse in sogno un qualche Apollo gli diede questa notizia. Tanti ladri in ogni tempo morirono, ogni giorno muoiono; almeno molti tu stesso ne condannasti: chi di loro, dopo essere stato crocifisso, fu chiamato, non dirò dio, ma uomo? Ma tu forse lo credesti, perché voi divinizzaste Marte omicida [...]. Il medesimo gettando il discredito sui suoi miracoli eppure non riuscendo a negarli, volle dimostrare che Apollonio operò prodigi uguali od anche maggiori. È strano che abbia tralasciato Apuleio, di cui si sogliono ricordare molti e meravigliosi fatti. Perché dunque, o mentecatto, nessuno venera Apollonio come un dio? A meno che non lo veneri tu solo, che sei naturalmente degno di un simile dio, col quale il vero Dio ti punirà in eterno. Se Cristo è un mago, perché operò miracoli, Apollonio che, come tu racconti, repentinamente divenne invisibile nel tribunale, allorché Domiziano voleva condannarlo, senz’altro è più valente di chi fu arrestato e crocifisso. Ma forse volle far risaltare la superbia di Cristo fermando l’attenzione proprio sul fatto che si proclamò dio; e perciò sembra che fosse più modesto chi, pur operando miracoli più strepitosi, come costui ritiene, tuttavia non si attribuì la natura divina. Ora tralascio di confrontare le opere di Cristo e di Apollonio, poiché nel libro secondo e nel precedente ho trattato della frode e della fallacia dell’arte magica. Io affermo che

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non esiste uomo il quale non desideri innanzitutto che dopo morte gli tocchi in sorte quel che anche i più grandi re bramano. Perché gli uomini cercano di procurarsi splendidi sepolcri, statue, busti? Perché s’adoprano per acquistarsi la stima pubblica compiendo azioni illustri od anche affrontando la morte per i concittadini? Perché infine tu stesso hai voluto erigere questo monumento abominevole del tuo ingegno, eretto con la stoltezza, direi con fango, se non perché speri che il ricordo del tuo nome ti dia l’immortalità? Pertanto è da stolto ritenere che Apollonio non abbia voluto ciò che soprattutto desidererebbe, se gli fosse possibile, perché non c’è uomo che rifiuti l’immortalità, tanto più che egli, secondo quanto tu dici, da taluni fu adorato come un dio, e ad una sua statua, eretta dagli abitanti di Efeso sotto il nome di Ercole “liberatore dai mali”, ancora si rende onore. Non potè dunque dopo la morte essere ritenuto un dio, poiché era chiaro che egli era un uomo ed un mago; e perciò pretese di essere un dio prendendo in prestito il nome da un altro, perché col suo non poteva né osava apparir tale. Ma il nostro maestro potè essere ritenuto Dio perché non fu un mago; e lo ritennero dio perché tale fu veramente. Non affermo, egli dice, che non si crede che Apollonio sia un dio, perché non volle esserlo: ma affinchè appaia che noi, i quali non giudicammo subito opere divine i miracoli, siamo più assennati di voi che per prodigi di poco conto l’avete ritenuto un dio. Non è strano se tu, che sei tanto lontano dalla sapienza di Dio, non capisci assolutamente nulla di quanto hai letto: i Giudei, che fin dall’inizio si erano dati alla lettura dei profeti ed a cui era stato affidato il mistero di Dio, non si rendevano conto di quel che leggevano. Sappi dunque, se hai un po’ di senno, che noi non abbiamo creduto nella divinità di Cristo solo per i miracoli da lui operati, ma perché abbiamo visto che in lui si sono attuate tutte le predizioni dei profeti. Operò miracoli: l’avremmo ritenuto un mago, come voi ora lo ritenete ed i Giudei un tempo lo ritennero, se tutti i profeti, per effetto di una sola ispirazione, non avessero annunciato che egli avrebbe compiuto proprio quelle azioni meravigliose. Pertanto crediamo nella sua divinità non più fermamente per i prodigi da

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lui operati che per quella stessa croce, che voi come cani leccate, poiché assieme ai prodigi anche quella è stata predetta. Dunque si credette nella divinità di Gesù non per la sua testimonianza (a chi infatti si può prestar fede quando parla di se stesso?), ma per la testimonianza dei profeti che, quanto egli fece e patì, molto prima vaticinarono: e questo né ad Apollonio, né ad Apuleio, né ad alcun altro mago potè o può qualche volta toccare. Costui pertanto, dopo aver messo fuori tali stravaganti prodotti della sua ignoranza ed aver cercato di distruggere completamente la verità, osò intitolare i suoi libri scellerati e nemici di Dio «amanti della verità». O anima cieca! O mente, come dicono, più oscura dell’oscurità Cimmeria! (Trad. di U. Boella, Sansoni Editore).

3. L’opera anticristiana (“L’amico della verità”) di Sossiano Ierocle L’opera di Ierocle non ci è stata conservata, ma ci informano sommariamente del suo contenuto la polemica e le citazioni di alcuni frammenti che ne fanno Lattanzio ed Eusebio di Cesarea (vissuto sotto l’imperatore Costantino), i quali condussero un’aspra polemica contro le argomentazioni dello scrittore pagano. Lattanzio rileva che Ierocle, nel suo scritto, si presentava ipocritamente non come un accanito nemico del cristianesimo, ma piuttosto come un benevolo consigliere; la sua opera era quindi indirizzata non “contro”, ma “ai” Cristiani. Nonostante quest’asserzione, tuttavia, traspariva in essa una forte mordacità nei confronti dei seguaci della nuova religione: il tono di Ierocle, rispetto a quello del filosofo a noi ignoto (che forse era Porfirio), sembrava a Lattanzio più pungente. L’opera di Ierocle era composta di due libri, che l’autore aveva chiamato arrogantemente Philaletheis, vale a dire Amanti della verità oppure Amici della verità. Il titolo stesso mostra che Ierocle intendeva continuare la tradizione filosofica ostile al cristianesimo, rappresentata nel secondo secolo dal Discorso vero di Celso. Anche Eusebio ci informa che Ierocle aveva ripetuto le argomentazioni, le accuse e perfino frasi intere della precedente polemica pagana. Molte di esse già da tempo erano state respinte da Origene nel suo scritto apologetico contro l’attacco di Celso. Eusebio tralascia quindi del tutto queste accuse e riman-

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da coloro che ne cercano una confutazione all’apologia di Origene. Di esse ci ha informato, invece, Lattanzio: le abbiamo viste sopra. Tra le accuse comunemente sollevate contro la religione cristiana e presentate anche da Ierocle c’era quella della falsità della Bibbia. Per dimostrarla, il polemista pagano si richiamava alle numerose contraddizioni che, secondo lui, essa contiene. Lo stesso metodo di critica del cristianesimo è impiegato nella contemporanea opera di Porfirio Contro i Cristiani, come vedremo poi. Altre accuse che Ierocle ha mosso ai Cristiani riguardano anche la persona stessa del fondatore della nuova religione. Ierocle sosteneva che Gesù, esiliato dai Giudei, avrebbe raccolto attorno a sé novecento uomini e commesso violenze e rapine. Sembra che egli confondesse Cristo con uno dei pretendenti al titolo messianico, frequenti nella Palestina dell’età imperiale. Inoltre, lo scrittore accusava Gesù di essere semplicemente un mago. Così facendo, egli metteva in contrasto, quindi, Cristo con Apollonio di Tiana. Come testimonia Lattanzio nel passo sopra citato, Ierocle, pur avendo dichiarato la sua fede in molti dèi della religione grecoromana, celebrò anche il sommo dio e lo riconobbe come «sovrano, essere supremo, artefice di tutte le cose, fonte di ogni bene, padre di tutti, creatore e sostentatore degli esseri viventi». Questa conclusione indicherebbe una convergenza delle idee di Ierocle con la dottrina filosofica dei Neoplatonici e dei Neopitagorici: tale esaltazione del sommo dio, infatti, avrebbero potuto sottoscriverla anche Celso, Porfirio e Apollonio di Tiana. 4. Originalità dell’“Amico della verità” Nell’argomentazione di Ierocle c’era tuttavia un aspetto nuovo e originale: l’interesse per Apollonio e Filostrato, il parallelo tra Apollonio di Tiana e Cristo. Questo raffronto operato da Ierocle introduceva qualcosa di nuovo negli attacchi condotti contro il cristianesimo fino a quel momento; esso richiedeva quindi una speciale risposta polemica da parte di Eusebio. Come afferma Eusebio, alla base di questo confronto c’erano l’ammirazione di Ierocle per Apollonio e la convinzione che egli avesse compiuto dei miracoli non con l’aiuto di artifizi magici, ma grazie ad una sapienza divina e ineffabile. Già Filostrato, come sopra si è visto, si era prefisso lo scopo di confutare la critica

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mossa ad Apollonio di avere usato pratiche magiche e perciò aveva affermato che i miracoli di quell’“uomo di dio” erano stati il frutto della sua straordinaria sapienza. Ierocle inoltre sosteneva che gli atti miracolosi di Apollonio avevano avuto luogo veramente, mentre quelli di Cristo sarebbero stati eseguiti con il ricorso a pratiche magiche. I Cristiani, secondo Ierocle, vanno dicendo ovunque, per glorificare Gesù, che egli ha reso la vista ai ciechi e compiuto altri miracoli simili. A tali affermazioni non dimostrate Ierocle contrappone il punto di vista pagano, che a suo avviso è più serio e più ragionevole: «Consideriamo ora in che modo più intelligente noi accogliamo racconti di questo genere e che cosa pensiamo degli uomini forniti di poteri straordinari». Successivamente, facendo ricorso alla storia greca antica, egli ricorda certi personaggi leggendari, come Aristea di Proconneso e Pitagora, e li addita come esempi di uomini che si erano distinti per la loro virtù straordinaria. Tali esempi erano già stati impiegati da Celso nella sua critica del cristianesimo. Nel suo raffronto critico Ierocle ha quindi scelto lo stesso argomento di Celso, secondo il quale non si poteva conferire a Gesù nessun attributo divino, giacché egli non poteva in nessun modo essere annoverato tra i grandi personaggi storici della religione greca e tra i taumaturghi. Ierocle si è dunque concentrato sulla attività taumaturgica di Apollonio e ne ha elencato le azioni miracolose, scegliendo quelle che avrebbe potuto mettere a confronto con i racconti evangelici. Eusebio, nella sua citazione di Ierocle, così prosegue (Contro Ierocle 2,2): Per quale motivo ho dunque fatto menzione di questi eventi? Perché si potesse confrontare la nostra sicura e rigorosa capacità di giudizio su ogni punto con la leggerezza dei Cristiani, poiché mentre noi non stimiamo un dio colui che ha compiuto tali imprese, ma piuttosto un uomo che ha ricevuto un dono particolare dagli dèi, essi invece proclamano che Gesù è un dio a causa di alcuni piccoli prodigi.

Per l’alto funzionario imperiale la condotta dei seguaci di Cristo era un segno della loro mancanza di responsabilità o della loro stupidità; essa causava disordini, attentava al bene dell’Im-

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pero e doveva quindi essere biasimata e repressa in modo acconcio, vale a dire con una persecuzione. Anche queste accuse avevano costituito la base di tutta la precedente polemica dei pagani. Essi avevano considerato i Cristiani degli empi, che rifiutavano la venerazione degli dèi tradizionali e che per questo disprezzavano i doveri civici nei confronti del bene comune. Spesso erano anche percepiti come sovvertitori, che facevano sorgere disordine nello Stato con la loro pubblica professione di fede in una divinità nuova e straniera. Nella sua polemica Ierocle ricorre ancora ad un altro argomento: Bisogna tenere in considerazione anche questo: che le opere di Gesù sono state raccontate da Pietro e Paolo e da alcuni altri a loro vicini, bugiardi, ignoranti e ciarlatani, mentre quelle di Apollonio da Massimo di Aigai, dal filosofo Damis, suo compagno di viaggi, e da Filostrato di Atene, uomini di grande cultura e rispettosi della verità, i quali, per amore dell’umanità, non hanno voluto che fossero dimenticate le imprese di un uomo nobile e caro agli dèi.

Con questa contrapposizione tra le fonti della vita e dell’attività di Cristo e quelle di Apollonio, Ierocle può porre l’accento sul diverso grado di credibilità delle tradizioni relative ai due personaggi. I discepoli di Cristo furono bugiardi, ignoranti e ciarlatani e la loro mancanza d’istruzione e di educazione era dovuta alla professione di pescatori, da essi esercitata. Ad accuse di questo genere, che miravano a screditare gli apostoli come autori e divulgatori del Vangelo, erano ricorsi già in precedenza gli intellettuali pagani, come Celso. 5. Apollonio, filosofo o stregone? Rispondendo all’Amico della verità con il proprio trattato polemico, Eusebio doveva rendersi conto del pericolo che lo scritto propagandistico di Ierocle, e specialmente il suo raffronto tra Apollonio e Cristo, avrebbe potuto costituire per il cristianesimo. Nel Contro Ierocle Eusebio vuole sventare questa minaccia e per questo tende a screditare sia il contenuto dell’Amico della verità sia il suo autore. L’obiettivo principale della sua polemica è il per-

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sonaggio di Apollonio di Tiana. Eusebio cerca quindi di dimostrare che il Tianeo non era l’uomo ideale elogiato da Ierocle, in quanto già un esame attento della Vita di Apollonio, scritta da Filostrato, porta a conclusioni completamente diverse. All’opposto di quello che sostiene Ierocle, è Apollonio che non è degno non solo di essere annoverato tra i filosofi, ma neppure tra gli uomini moderati ed assennati, meno che mai di essere paragonato al nostro Salvatore, Cristo. Eusebio ritiene che non valga la pena di operare un raffronto fra i due, né di stabilire «chi dei due fosse più divino e compisse miracoli più straordinari o più numerosi». Del resto, alcuni passi della biografia scritta da Filostrato sembrano indicare chiaramente che Apollonio praticava la magia. Molto sospetto per Eusebio è il fatto che quel personaggio, presunto «uomo di dio», vietava a Damis, suo unico vero seguace e compagno, di partecipare a certi incontri con i Magi e con i Bramani. Di conseguenza si può sospettare anche che non fossero vere le sue capacità straordinarie e le sue presunte azioni miracolose. Ierocle, confrontando Apollonio con Cristo, aveva dedicato la parte essenziale del suo scritto anticristiano ad elencare i prodigi del Tianeo, che egli aveva appreso da Filostrato, perché in questo modo voleva dimostrare che erano simili o ancora più grandi di quelli operati da Gesù. A sua volta Eusebio, nel Contro Ierocle, riesamina i passi della Vita di Apollonio, che trattano delle straordinarie facoltà intellettuali e dei miracoli del protagonista, per far palese il loro vero carattere. Egli ironizza sulla scienza di trarre auguri ed auspici, che Apollonio avrebbe appreso dai maestri trovati in India, tanto più che alcuni brani della Vita di Apollonio sembrano contraddire le straordinarie capacità del protagonista di prevedere il futuro e di leggere i pensieri umani. In conclusione, per Eusebio è chiaro che ognuno dei fatti straordinari che si riferivano su Apollonio doveva essere stato compiuto con l’aiuto di un demone. 6. Menzogne di Filostrato e credulità di Ierocle Come abbiamo già detto, Ierocle nel suo scritto anticristiano, per screditare il personaggio di Cristo, aveva disprezzato gli autori dei racconti su di lui, chiamandoli «bugiardi, ignoranti e ciarlatani». Per esaltare Apollonio, invece, aveva elogiato coloro che avevano ricordato gli episodi salienti della vita del Tianeo,

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considerandoli «uomini di grande cultura e rispettosi della verità». Nel Contro Ierocle Eusebio, a sua volta, polemizza con queste opinioni provocatorie e cerca di dimostrare la loro falsità attraverso l’analisi dell’opera di Filostrato. A suo parere, la mancanza di verità e di accuratezza, che si potevano scorgere nei racconti dei fatti e dei miracoli di Apollonio, si rivela soprattutto nel modo in cui Filostrato aveva presentato Apollonio come «uomo divino», che sarebbe stato «superiore ad un filosofo» e avrebbe posseduto una «natura sovrumana». Eusebio intende quindi togliere questa maschera all’Apollonio leggendario e mostrare quello vero. Anche se nel suo trattato polemico Eusebio si concentra soprattutto su Apollonio, la sua critica è rivolta anche a Ierocle stesso e al suo scritto anticristiano. All’inizio Eusebio accusa Ierocle di plagio, affermando che, tranne il confronto tra Apollonio e Cristo, tutti gli altri argomenti addotti da lui «non sono suoi propri, ma sono stati interamente ripresi, senza alcun pudore, dalle opere di altri, non solo nel loro significato, ma anche parola per parola e sillaba per sillaba». A parere di Eusebio, si potrebbe elaborare uno scritto specifico contro di essi, se tali argomenti anticristiani non fossero già stati confutati dal Contro Celso di Origene. Soltanto il paragone tra Apollonio e Cristo, istituito da Ierocle, merita l’attenzione di Eusebio ed esige una confutazione, perché risulta come qualcosa di nuovo negli attacchi letterari contro la fede cristiana. Ed effettivamente nuova era l’accusa, rivolta a Cristo, di essere un mago, e non un “uomo di dio”, come Apollonio.

Capitolo sesto

Porfirio 1. Il più famoso tra i nemici dei Cristiani: il neoplatonico Porfirio Originario della Fenicia, il filosofo neoplatonico Porfirio (il cui nome è la traduzione in greco del nome semitico Malcho, “re” in latino, e “vestito di porpora”, come i re, in greco) nacque nel villaggio di Batanea, a sud di Tiro, intorno al 235. Si formò alla scuola del filosofo ateniese Longino, trasferendosi a trent’anni a Roma, dove frequentò gli ambienti senatorii e conobbe Plotino, il quale, apprezzatene le qualità, lo prese come suo discepolo. Porfirio è famoso per l’ordinamento e la pubblicazione degli scritti di Plotino (le Enneadi) e per avere scritto la biografia del maestro. Un importante lessico bizantino (la cosiddetta “Suda”) afferma che Porfirio avrebbe scritto quindici libri di un trattato Contro i Cristiani. Eusebio di Cesarea, che già abbiamo incontrato e, essendo vissuto nell’età di Costantino, fu posteriore di pochi decenni alla attività filosofica ed erudita del medesimo Porfirio, ci riferisce (Storia della Chiesa VI 19,2) che il filosofo neoplatonico scrisse quell’opera durante il suo soggiorno in Sicilia: ebbene, Porfirio, come apprendiamo dalle informazioni che egli stesso ci ha lasciato nella Vita di Plotino, si era recato in Sicilia su consiglio del maestro nel 268 per curarsi da una crisi di carattere psicologico, a causa della quale egli meditava il suicidio. In Sicilia Porfirio rimase almeno fino al 270, visto che Plotino morì improvvisamente in quell’anno, e Porfirio era ancora a Lilibeo, in Sicilia. Secondo altri studiosi, invece, una datazione più tarda porterebbe l’opera di Porfirio ad un più stretto rapporto con gli eventi che precedettero l’ultima grande persecuzione anticristiana di Diocleziano, nel 303. Si è osservato, infatti, che probabilmente era Porfirio uno dei due scrittori nemici dei Cristiani di cui ci parla Lattanzio nelle Istituzioni divine (V 2), che abbiamo citato a proposito di Ierocle e del suo Discorso amico della verità (p. 68). In tal caso, i tre libri che contenevano le critiche del cristianesimo erano quelli della Filosofia che si deve ricavare dagli oracoli, un’opera di Porfirio che era già stata scritta precedentemen-

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te. Un accenno a questa posizione anticristiana di Porfirio sarebbe ricavabile, secondo alcuni, dalle parole stesse del filosofo, il quale, nella Lettera a Marcella (c. 4), si scusa del fatto di dovere lasciare la moglie dopo solo dieci mesi per recarsi molto lontano, adducendo come motivazione le necessità dei Greci e la volontà degli dèi. È stata infatti avanzata l’ipotesi che l’impegno a cui Porfirio era stato chiamato fosse proprio la partecipazione alla propaganda anticristiana che costituì il preludio alla persecuzione dioclezianea e di cui Lattanzio ci ha lasciato testimonianza nel passo in cui parla dei due intellettuali pagani, da lui ascoltati a Nicomedia. Di conseguenza, le indagini sull’opera specificamente anticristiana di Porfirio si sono spostate, nel tentativo di cogliere atteggiamenti contrari alla nuova religione, alla restante vasta produzione del filosofo neoplatonico. Sono state quindi prese in considerazione la Vita di Plotino, la Lettera a Marcella, la Vita di Pitagora e i trattati Sulle immagini e Sull’astenersi dagli esseri animati. Questa linea interpretativa viene proposta con autorevolezza, tra gli altri, da A. Meredith e da uno studioso italiano, Angelo Raffaele Sodano (A. R. Sodano, Porfirio. Vangelo di un pagano. Lettera a Marcella, Contro Boeto, Sull’anima, Sul conosci te stesso, Milano, Rusconi 1993), di cui seguiamo l’impostazione scientifica del problema e le interpretazioni che egli di volta in volta propone. Sodano fa presente che nella Lettera a Marcella esistono delle affermazioni che sembrano essere derivate dall’utilizzo di certe sentenze dei Vangeli e le interpreta non come degli effettivi influssi dei Vangeli sul testo porfiriano, ma, al contrario, come precise allusioni al cristianesimo, aventi però un significato opposto, cioè di polemica sotterranea. Parimenti, si sono trovati nella Vita di Plotino dei dettagli della descrizione fisica di Plotino stesso, ad opera di Porfirio, che sono riconducibili a dei tratti tipici della agiografia cristiana (ma questa proposta ci sembra meno convincente). In conclusione, la polemica anticristiana del filosofo neoplatonico non si sarebbe limitata ad una sola opera specifica, quella Contro i Cristiani, ma si sarebbe manifestata in vari aspetti della sua produzione letteraria. Riconsideriamo quindi nel loro complesso le critiche di Porfirio alla nuova religione.

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2. Il trattato su “La filosofia che si deve ricavare dagli oracoli” Quest’opera era costituita da una raccolta scritta degli oracoli di Apollo e degli altri dèi e demoni. In essa Porfirio, oltre a mostrare la grandezza delle divinità della religione tradizionale, voleva esortare tutti a praticare la vera filosofia e la vera religione. La filosofia che si deve ricavare dagli oracoli era stata considerata dagli studiosi, in seguito alle ricerche di uno che molto ha meritato di Porfirio, J. Bidez, un’opera giovanile, in quanto l’attribuire tanta importanza alla letteratura oracolare manifestava una forma di religiosità che si poteva spiegare, in Porfirio, se la si attribuiva ad un periodo anteriore alla sua frequentazione del rigoroso e razionale circolo neoplatonico di Plotino. Successivamente, però, si è osservato che lo spirito scientifico con cui Porfirio affronta l’argomento della produzione oracolare avvicina la Filosofia ad opere considerate più mature, come il trattato Sul ritorno dell’anima in cielo (De regressu animae). Inoltre, nella Filosofia dagli oracoli Porfirio intende servirsi degli oracoli come conferma della verità di dottrine filosofiche, pur conservando un atteggiamento critico nei confronti di essi. La filosofia dagli oracoli aveva certamente un atteggiamento anticristiano. Lo attesta un passo di Agostino (La città di Dio XIX 23,1): Nell’opera che intitola La filosofia degli oracoli Porfirio raccoglie e distribuisce i responsi ritenuti divini su argomenti riguardanti la filosofia. Devo usare le stesse sue parole come risultano tradotte dal greco. Egli dice: «A uno che chiedeva quale dio doveva propiziarsi nel ricondurre la moglie dal cristianesimo, Apollo diede questa risposta in versi. Queste sono le parole attribuite ad Apollo: «Forse potrai più facilmente scrivere nell’acqua con lettere stampate o, sbattendo delle leggere piume, volare come un uccello nell’aria, che dissuadere il sentimento dell’empia moglie depravata. Prosegua come vuole, insistendo nelle insignificanti falsità e cantando di compiangere con le falsità il Dio morto, che la morte più obbrobriosa, collegata con l’uso della lancia, ha ucciso negli anni più belli perché condannato da giudici che agivano rettamente». Dopo questi versi di Apollo, tradotti in latino senza metrica, Porfirio ha

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aggiunto le parole: «Con questi versi egli ha svelato il fallimento della loro credenza, perché afferma che i Giudei onorano Dio più dei Cristiani». È il passo in cui, sfigurando il Cristo, ha preferito i Giudei ai Cristiani, perché sostiene che i Giudei onorano Dio. Così ha interpretato i versi di Apollo, nei quali afferma che il Cristo fu fatto uccidere da giudici che agivano rettamente, come se Egli sia stato giustamente punito da loro che giudicavano con onestà. Riflettano su che cosa ha detto di Cristo il menzognero aruspice di Apollo e che Porfirio ha creduto, ovvero egli stesso forse ha immaginato che l’aruspice abbia detto ciò che non ha detto. In seguito esamineremo com’è coerente con se stesso o come faccia corrispondere fra di loro gli stessi oracoli. Al momento afferma che i Giudei, come difensori di Dio, hanno giudicato giustamente il Cristo, perché hanno ritenuto che doveva essere straziato con la morte più obbrobriosa. Quindi si doveva ascoltare il Dio dei Giudei, al quale rende testimonianza, quando dice: «Chi sacrificherà agli dèi e non soltanto al Signore sarà votato allo sterminio» (cf. Es. 22,20). Ma veniamo ad argomenti più evidenti e ascoltiamolo affermare che il Dio dei Giudei è un Dio grande. Così, riguardo alla domanda con cui interrogò Apollo, che cosa sia meglio: la parola, il pensiero o la legge, dice: «Rispose in versi con queste parole». E aggiunge i versi di Apollo, fra i quali vi sono questi che io riporterò quanto può bastare. Dice: «Davanti a Dio, creatore e re prima di tutte le cose, tremano cielo e terra, il mare, i luoghi occulti degli abissi e rabbrividiscono perfino i numi. Loro legge è il Padre che i santi ebrei molto onorano». Con questo oracolo del suo dio Apollo, Porfirio ha affermato che il Dio degli ebrei è tanto grande che perfino gli dèi ne hanno timore. Avendo detto Dio: «Chi sacrifica agli dèi sarà votato allo sterminio», mi meraviglio che lo stesso Porfirio non l’abbia temuto e sacrificando agli dèi non abbia temuto di essere sterminato (trad. di D. Gentili, Città Nuova Editrice, Roma).

Ancor più interessante è un altro, conservatoci anch’esso da Agostino (La città di Dio XIX 23,2), ma anche da Eusebio di

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Cesarea: lo citiamo da questa fonte (Dimostrazione del Vangelo III 6,39-7,2), perché più fedele all’originale porfiriano che non l'elaborazione fattane da Agostino. Così, dunque, Eusebio introduce il passo: Tu, invece, ti dimostri talmente ostinato da non prestare attenzione ai saggi ragionamenti e alla coerenza delle parole, e da non credere alla evidenza delle prove, arrivando a sospettare di tutto ciò che diciamo. Se ascolti i tuoi demoni e gli oracoli degli dèi, ascoltali, non come sei solito fare, quasi testimoniassero che il nostro Salvatore si serve della magia, ma quando attestano la sua pietà, la sua sapienza e la sua ascesa ai cieli. Quale testimonianza potrebbe essere per te più credibile dello scritto del nostro nemico [cioè Porfirio], testimonianza che egli adduce nei libri intitolati Sulla filosofia tratta dagli oracoli?

E poi segue la citazione: Nel terzo libro egli, alla lettera, scrive nel seguente modo: «Ciò che stiamo per dire forse ad alcuni potrà sembrare strano; gli dèi, infatti, hanno considerato Cristo un uomo molto religioso e che è diventato immortale, e lo ricordano in maniera benevola». Più avanti aggiunge: «Dal momento che alcuni avevano domandato se il Cristo fosse Dio, l’oracolo dice: “Tu sai che l’anima immortale procede avanti nel tempo dopo la separazione dal corpo, ma separata dalla sapienza è sempre in errore; quella è l’anima di un uomo insigne per pietà”. L’oracolo dunque ha detto che egli era assai religioso e che la sua anima, proprio come quella degli altri uomini religiosi, dopo la morte è stata resa immortale e i Cristiani la venerano senza conoscere ciò. Ad altri che chiedevano perché egli avesse patito tormenti, la dea vaticinò: “Il corpo è sempre soggetto a tormenti in grado di prostrarlo; l’anima degli uomini religiosi, invece, si incammina verso la sua dimora nella casa celeste”». E poco dopo aver riferito il vaticinio aggiunge: «Costui, dunque, è religioso e, come gli uomini devoti, è andato ad abitare nei cieli. Così tu non lo bestemmierai, ma avrai

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pietà della pazzia degli uomini». Questo è ciò che dice Porfirio (trad. di F. Migliore, Città Nuova).

In conclusione, Porfirio sosteneva che gli stessi dèi pagani riconoscevano che Gesù era stato un grande uomo. Pertanto la sua anima, come quella di tutti i beati, era divenuta immortale e risiedeva nei cieli, mentre i tormenti che egli aveva subito nella passione avevano riguardato soltanto il suo corpo. Contemporaneamente, però, l’oracolo invitava a biasimare i Cristiani che prestavano la loro adorazione a colui che, per quanto persona assai eccellente, comunque era stato solo un uomo. È chiaro che qui è proposta l’assimilazione di Cristo agli eroi della tradizione pagana, i quali erano solamente degli uomini, ma che per i loro meriti avevano ottenuto onori pari a quelli degli dèi. Già Celso, come sappiamo da Origene (Contro Celso III, 22; VII, 53) aveva paragonato Gesù a Eracle e ad Asclepio, cioè a dei grandi uomini che erano stati dei benefattori dell’umanità, e lo aveva fatto per negare che Gesù fosse stato un dio. Di conseguenza l’onore prestato ad essi, così come agli altri dèi, non deve farci dimenticare il rispetto e la devozione che è dovuta al dio sommo, creatore dell’universo, che è in ogni caso infinitamente più grande degli esseri da lui creati. I Cristiani, quindi, agli occhi di Porfirio, erano colpevoli di avere abbandonato il culto del dio supremo, alla cui venerazione si erano attenuti invece i Giudei, che in questo, pertanto, dovevano essere considerati molto migliori di loro, i quali prestavano un culto eccessivo ad un uomo, certo eccellente, ma comunque ben lontano dall’essere dio. Anche Celso (Discorso vero VIII 12) aveva rimproverato i Cristiani del fatto che essi non si limitavano ad adorare Dio soltanto, come andavano dicendo, ma estendevano la loro venerazione ad un essere umano e, così facendo, si ponevano in contrasto con la tradizione ellenica. Questo rispetto per il Cristo in quanto uomo è raccomandato anche da un oracolo che circolava alla fine del terzo secolo e che ci è stato conservato da Lattanzio (Istituzioni divine IV 13,11) e che forse poteva essere stato anch’esso inserito da Porfirio nella sua opera: Egli era nella carne mortale, saggio per le opere straordinarie, ma condannato dal giudizio dei Caldei [cioè, degli Ebrei]; inchiodato sulla croce, subì una morte amara.

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Queste opinioni a proposito di Cristo erano pervicaci. Ancora più di un secolo più tardi Agostino è costretto a confutarle (L’accordo degli evangelisti tra di loro, libro I): 7.11. È però necessario affrontare prima il problema che fa difficoltà a certuni, e cioè perché il Signore di persona non abbia scritto niente, per cui si deve credere a questi altri che di lui hanno scritto. È quel che dicono tante persone, soprattutto pagane, che non osano prendersela col nostro Signore Gesù Cristo né bestemmiarlo, ma gli attribuiscono un’eccezionale sapienza, sempre però a livello umano. Dicono al riguardo che i discepoli hanno detto del loro maestro più di quanto egli non fosse, qualificandolo come Figlio di Dio e Verbo di Dio ad opera del quale sono state create tutte le cose e asserendo che egli e il Padre sono una cosa sola e tutte quelle altre cose di questo genere, contenute negli scritti apostolici, con cui ci si insegna ad adorarlo come il solo Dio insieme col Padre. Essi ritengono, sì, che lo si debba onorare come uomo sapientissimo ma negano che lo si debba adorare come Dio. 9.14. Questi [pagani] sono così stolti da affermare che nei libri che ritengono scritti da Gesù sono contenute norme di arte magica con le quali – a quanto essi credono – egli avrebbe fatto quei miracoli la cui fama s’è diffusa per ogni dove. 10. 15. E che dire del fatto che alcuni di costoro per giudizio divino cadono nell’errore che o credono o vogliono far credere che Cristo abbia scritto tali libri, asserendo inoltre che ad essi sia stato apposto l’indirizzo «a Pietro» o «a Paolo» quasi si trattasse di lettere? In effetti può essere accaduto che o i nemici del nome di Cristo o altri dediti a simili arti detestabili abbiano ritenuto che sarebbero derivati ai loro scritti autorità e prestigio dal nome glorioso di Cristo, e così li abbiano posti sotto il nome di lui o degli Apostoli. Essi sono stati talmente accecati nella loro audacia e menzogna che giustamente se ne ridono anche quei fanciulli che, costituiti nel grado di lettori, conoscono sia pure da ragazzi gli scritti Cristiani. 15.23. E che dire di quei vani parolai, ammiratori di Cristo e calunniatori biechi della religione cristiana?

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Essi non osano dir male di Cristo perché certi loro filosofi – come ha testimoniato nei suoi libri il siciliano Porfirio – hanno consultato i propri dèi su quale responso dessero di Cristo e costoro negli oracoli che pronunziarono furono costretti a lodarlo! Né c’è da stupirsi di questo, se leggiamo nel Vangelo che i demoni lo confessarono (cf. Mc. 1,24), quei demoni di cui leggiamo nei Profeti (Sal. 95,5): «Tutti gli dèi delle genti sono demoni». Per questo motivo costoro, per non agire contro i responsi dei loro dèi, si astengono dallo sparlare di Cristo mentre invece scaricano ingiurie contro i suoi discepoli. Quanto a me, mi sembra che quegli dèi del paganesimo che i filosofi pagani poterono consultare, se fossero interrogati su questo argomento sarebbero costretti a lodare non solo Cristo ma anche i suoi discepoli. 16.24. I pagani sostengono che la distruzione dei templi, la riprovazione dei sacrifici e l’abbattimento dei simulacri non è da ascriversi agli insegnamenti di Cristo ma è colpa dei suoi discepoli, i quali – è loro forte convincimento – hanno insegnato dottrine diverse da quelle che avevano apprese dal Maestro. In tal modo, mentre onorano e lodano Cristo, si propongono di sradicare la religione cristiana, perché è certamente tramite i discepoli di Cristo che sono stati diffusi quei detti e fatti di Cristo sui quali poggia la religione cristiana. La quale religione è, ovviamente, in contrasto con quei pochi nostalgici del passato, tanto pochi che ormai non osano più combatterla anche se brontolano contro di lei. Se pertanto costoro non vogliono credere che Cristo abbia insegnato ciò che insegnano i Cristiani, leggano i Profeti, che non solo comandarono di distruggere le superstizioni idolatriche ma anche predissero che questa distruzione sarebbe avvenuta nell’era cristiana. Se essi si ingannarono, perché così manifestamente la cosa è avvenuta secondo le loro predizioni? Se essi dicevano la verità, perché resistere a una divinità così potente? (Trad. V. Tarulli, Città Nuova, Roma).

Si può dunque concludere che la raccolta di oracoli eseguita da Porfirio aveva lo scopo di riaffermare la religione pagana in contrasto con le assurde pretese del cristianesimo.

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3. L’opera di Porfirio su “Le statue” La polemica anticristiana di Porfirio prosegue in un altro trattato, giuntoci frammentario, e dedicato a Le statue degli dèi. Ancora una volta Eusebio di Cesarea (Preparazione al Vangelo III 6) ci ha lasciato un certo numero di passi porfiriani, i quali sottolineano come la statua del dio fosse insostituibile nel culto greco e romano. Questo era stato ribadito dal filosofo neoplatonico in polemica con la tradizione ebraica, che non ammetteva nessuna raffigurazione di Dio, e la tradizione cristiana, la quale rifiutava ogni adorazione delle statue, considerata una forma di idolatria. Porfirio, invece, intende il culto delle statue come qualcosa che non è né meccanica né esteriore: non è il culto del “manufatto”, ma il culto della potenza divina. Nel terzo e nel quarto secolo si pensava che tale potenza si manifestasse in una molteplicità di forme, cioè rappresentasse vari dèi, caratterizzati come individui: la dea Era simboleggiava l’aria, Helios, il sole, Apollo il dio unico, Zeus. Questo ci è attestato da Eusebio, Preparazione al Vangelo III 9. Non solo, ma, come spiega Sodano, «le immagini e gli altri simboli venerati nei templi sono scritture figurate: il cristallo, il marmo di Paro, l’avorio guidano il pensiero del credente alla luminosità del divino; l’oro lo conduce a considerare la purezza del fuoco, perché è metallo non soggetto a contaminazione; la pietra nera, che è tipica di certe statue egiziane, significa l’invisibilità della natura divina; la raffigurazione umana degli dèi, nella loro bellezza e negli aspetti più differenti, è simbologia della sua razionalità». La medesima spiegazione è data da Porfirio nel Contro i Cristiani (fr. 76 Harnack). Coloro i quali rendono il culto conveniente agli dèi – egli asserisce – non credono che dio sia nel legno o nella pietra o nel bronzo di cui è fatta la statua. Infatti le statue e i templi sono stati costruiti dagli antichi perché gli uomini si ricordassero degli dèi, ed i fedeli, recandosi spesso nei templi, si formassero un’idea di dio e pensassero a lui, oppure, acquistando serenità e purezza d’animo, fossero pronti a offrire suppliche e preghiere nello stato d’animo più conveniente. Ed anche i sacrifici offerti agli dèi non servono tanto per arrecare onore ad essi, quanto per dimostrare la gratitudine di chi li offre. Anche l’antropomorfismo, che pure aveva suscitato fin dai tempi più antichi (ad esempio, dai tempi di Senofane, nel sesto secolo a.C.) forti criti-

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che, è giustificato da Porfirio: non è errato raffigurare gli dèi con immagini umane, perché l’uomo è il più bello degli esseri viventi ed è immagine di dio. E il filosofo, nella sua profonda conoscenza del testo biblico (di cui parleremo tra breve) giunge a rinfacciare ai Cristiani proprio un passo che si legge nella Scrittura (Es. 31,18): «E Dio diede a Mosè due tavole scritte con il dito di Dio», per dimostrare che, in forma umana, dio “scrive”, anche se tale affermazione non è altro che un modo di rappresentare la sua attività e la sua potenza. In questo modo Porfirio superava l’idea, anche questa presente nel paganesimo dell’età imperiale e manifestata due secoli prima da Filostrato, che sopra abbiamo visto, che il dio non avesse bisogno di nulla. Soltanto i Cristiani, quindi, nella loro cecità e nella loro opposizione preconcetta alla religione tradizionale, possono affermare che le statue degli dèi sono solamente dei pezzi di legno o di pietra, così come «coloro che non sanno leggere vedono nelle stele sulle quali si incide una legge o un epigramma o qualcos’altro, solo delle pietre e nelle tavolette su cui si scrive dei pezzi di legno». 4. Il trattato “Contro i Cristiani” Della cronologia di quest’opera abbiamo già detto sopra. Essa, comunque, fu distrutta per ordine degli imperatori dopo che il cristianesimo era diventato la religione ufficiale dello stato, ed è possibile leggerla solo frammentaria grazie alle citazioni degli scrittori Cristiani che la confutarono. Tra costoro, i più noti furono Ambrogio e Agostino; poi la citarono importanti intellettuali del quarto secolo, come Apollinare di Laodicea; ampi frammenti ci sono conservati anche grazie all’opera di figure minori, come Macario di Magnesia (intorno al 400 d.C.). Il Contro i Cristiani fu considerato un’opera particolarmente offensiva, perché, per la prima volta ed in modo molto approfondito, essa riconsiderò la struttura della nuova religione non solamente in base ai concetti filosofici e teologici del neoplatonismo, i quali potevano comunque apparire abbastanza vicini al cristianesimo (tre secoli di storia del platonismo cristiano potevano dare una impressione di somiglianza e di affinità tra platonismo e teologia cristiana). Essa, invece, affronta in modo radicale la questione della legittimità della nuova religione, che sottopone ad analisi

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critica, e offre una decisa confutazione proprio dei dati storici e oggettivi, vale a dire della documentazione vetero- e neotestamentaria. Anche i Cristiani, del resto, ammisero che Porfirio aveva letto attentamente i libri profetici, perché si era dedicato ad essi per molto tempo, quando macchinava la sua opera. Del resto, non è che i Cristiani leggessero ad occhi chiusi, per così dire, il racconto biblico: Eusebio di Cesarea scrisse un’opera di Questioni e soluzioni relative ai testi evangelici, nella quale prendeva in considerazione le contraddizioni contenute nelle narrazioni relative all’infanzia di Gesù e le difficoltà suscitate dal racconto della resurrezione di Cristo. Porfirio, quindi, ritorce contro i Cristiani un metodo esegetico che anch’essi conoscevano. Anche in quest’opera Porfirio afferma, come ne La filosofia dagli oracoli, che, se si può salvare la figura di Gesù come uomo eccellente, attorno a lui, però, era sorta con il passare dei secoli, già fin dai primi tempi del cristianesimo, una pletora di interpretazioni e di notizie false – una posizione critica, questa, che sarà ripresa con una insistenza esasperante più tardi dall’imperatore Giuliano l’apostata (vedi pp. 121 ss.). Gli evangelisti, a parere di Porfirio, erano stati tutti persone inaffidabili, inventori di aneddoti e di menzogne, non veri e propri storici dei fatti attribuiti a Gesù: il titolo stesso delle loro opere, del resto, è «vangeli», non «storie». Poste queste premesse, l’opera anticristiana di Porfirio appare molto meno filosofica di quella di Celso, più rivolta alle persone di media cultura, come quella di Sossiano Ierocle, e assai più erudita e pedante. A Gesù stesso, poi, fu attribuita dai suoi discepoli una serie di paradossi assurdi, come quello che «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che non che un ricco giunga al regno dei cieli» (Mt. 19,24 etc.): questa recisa condanna del ricco coinvolge quindi anche il ricco virtuoso e benefattore? (fr. 15). Tale problematica era stata discussa già fin dai primi tempi del cristianesimo: Clemente di Alessandria, agli inizi del terzo secolo l’aveva studiata in un’opera che si intitolava, appunto, Quale sia il ricco che si salva. La conclusione di Porfirio era che queste parole non erano state dette da Gesù, se è vero che egli insegnava la regola della verità, ma da degli accattoni, i quali volevano, con tali stupidaggini, che fossero tolte ai ricchi le loro sostanze. Ma anche l’interpretazione allegorica, che si era sviluppata almeno a partire dal secondo secolo negli ambienti cristiani, viene

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sottoposta a dura critica da Porfirio. Ne è informato anche Eusebio di Cesarea, il quale così dice (Storia della Chiesa VI 19,2): Ai nostri giorni Porfirio, stabilitosi in Sicilia, ha composto degli scritti contro di noi e si è sforzato per mezzo di essi di denigrare le sacre Scritture. Allorquando egli ricorda coloro che le hanno commentate, poiché non è in condizione di muovere ai nostri insegnamenti nessuna accusa infamante, dalla mancanza di argomentazioni è spinto alle insolenze e a calunniare gli stessi commentatori e tra di essi soprattutto Origene.

Se le critiche al Nuovo Testamento erano dovute ad una buona dose di sottigliezza, quelle all’Antico Testamento erano molto più facili: non è necessario ricordare i numerosi antropomorfismi ivi contenuti, le numerose azioni empie compiute dal popolo eletto per ordine di Dio e, anche, ad opera di Dio stesso, le prescrizioni giudaiche assurde e incomprensibili. Insomma, non diversamente da quella dei pagani e degli gnostici, la critica di Porfirio era ispirata da un rigoroso letteralismo. Così egli irrise il racconto biblico a proposito del profeta Osea, il quale si era unito ad una prostituta (il fatto era stato interpretato dai Cristiani come l’unione di Cristo con il paganesimo); il racconto di Giona, che era rimasto tre giorni nel ventre della balena (spiegato come una prefigurazione della morte di Gesù, della sua discesa agli inferi e della resurrezione dopo tre giorni); l’affermazione di Giobbe (10,13), che niente è impossibile a Dio: contestazione più sottile, questa, perché coinvolgeva la antica questione filosofica se Dio potesse fare tutto, anche il male. Poiché questo è impossibile, allora Dio non può tutto, avevano osservato alcuni filosofi: non può peccare, perché è buono per natura. Porfirio trova assurdo che Dio abbia proibito ad Adamo ed Eva la conoscenza del bene e del male (fr. 42), sviluppando un ragionamento che era già stato avanzato dall’eretico Apelle (cf. più oltre, p. 290). Conosce gli gnostici, perché intende (L’astinenza dagli esseri animati I 31,3) le “tuniche di pelle” di cui si coprirono i nostri progenitori dopo il peccato (cf. Gen. 3,21), come il corpo umano, secondo l’interpretazione dei Valentiniani (degli eretici, di cui parleremo a p. 286). Una lettera di Agostino al presbitero Deogratias (la n. 102) è assai interessante, perché ci ha conservato una serie di obiezioni

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di Porfirio al culto cristiano e alla Scrittura: è come un piccolo trattato di risposta a Porfirio e a tutti i pagani che, in Africa, seguivano le sue critiche del cristianesimo. Per brevità citiamo solo i passi nei quali il filosofo è espressamente nominato: 16. Ed ora vediamo la questione seguente: «I Cristiani biasimano – dice Porfirio – i riti dei sacrifici, le vittime, i grani d’incenso, le altre cerimonie osservate nel culto dei nostri templi, mentre – dice lui – lo stesso culto fu iniziato da essi o dal Dio da essi adorato fin dai tempi antichi, nei quali ci si presenta un Dio bisognoso di primizie». 17. A quest’obiezione si risponde: È evidente ch’essa è desunta dal passo delle nostre Scritture, dove sta scritto che Caino offriva in dono a Dio dei frutti della terra e Abele delle primizie delle sue pecore (cf. Gen. 4,3 ss.). Da questo passo si dovrebbe intuire come il sacrificio sia un’azione sacra in uso fin dall’antichità, che le veridiche e sacre Scritture ci ammoniscono doversi offrire solo all’unico vero Dio: non perché Dio ne abbia bisogno, essendo scritto molto chiaramente nelle stesse Scritture (Sal. 15,2): Ho detto al Signore: mio Dio sei tu, poiché dei miei beni non hai bisogno, ma perché il Signore, nel gradire o disdegnare o accettare tali sacrifici, lo fa solo per il bene degli uomini. In realtà l’adorare Dio torna non al suo, ma a nostro vantaggio. Quando perciò Dio ispira e insegna come dev’essere adorato, non solo non lo fa per proprio bisogno, ma per nostra grandissima utilità. Tali sacrifici poi hanno tutti carattere simbolico, essendo figure di altre realtà, cioè sono figure con cui dobbiamo essere richiamati a scrutare, a riconoscere o a rammentare le realtà di cui essi sono figure. Per un’esauriente esposizione dell’argomento occorrerebbe un discorso più lungo di quello con cui mi sono prefisso di rispondere: si tenga comunque presente che l’ho già trattato a lungo in altre mie opere. Anche altri scrittori, che prima di me hanno spiegato la parola di Dio, hanno pure parlato diffusamente di tali simboli, del Vecchio Testamento, nel senso cioè che essi erano allegorie e prefigurazioni delle realtà future.

E più avanti:

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28. Dopo la suesposta questione, colui che ha avanzato le altre riportandole da Porfirio, aggiunge: «Abbi pure la cortesia d’istruirmi su quest’altra questione: se cioè Salomone ha affermato sul serio che Dio non ha Figlio». 29. Si risponde subito: Non solo Salomone non ha fatto una simile affermazione ma, al contrario, ha affermato espressamente che Dio ha il suo Figlio. La Sapienza, infatti, parlando in un libro di Salomone, così dice: «Io fui generata prima di tutti i monti» (Pr. 8,25). Orbene, cos’altro è Cristo se non la Sapienza di Dio? 30. L’ultima questione riguarda Giona, e non è motivata da Porfirio, ma piuttosto da un’irrisione dei pagani. Ecco in quali termini è espressa: «Che cosa infine – dice – dobbiamo pensare di Giona, il quale si racconta che sia stato tre giorni nel ventre d’un cetaceo? Una simile cosa è incredibile che un uomo fosse ingoiato interamente vestito e rimanesse nell’interno d’un pesce. Se invece si tratta di un’allegoria, ti prego di spiegarmela. Che vuol dire inoltre l’edera nata e cresciuta al di sopra di Giona dopo essere stato vomitato dal pesce (Gion. 2,1; 4,6)? Per qual motivo poi questa sarebbe nata? Ho notato infatti che questo particolare della questione ha suscitato grandi scrosci di risa tra i pagani». 31. A questa obiezione si risponde così: o non si deve credere a nessun miracolo compiuto da Dio o non c’è alcun motivo per non credere a questo. Se la fede dei Cristiani dovesse stare attenta ad evitare le beffe dei pagani, non dovremmo credere neppure alla risurrezione di Cristo avvenuta tre giorni dopo la sua morte. Il nostro amico però non ha avanzato a questo proposito la questione se si debba credere che Lazzaro sia risuscitato il quarto giorno dopo la sua morte o se Cristo stesso sia risorto tre giorni dopo la sua morte; perciò mi stupisco assai che abbia affermato essere incredibile che ciò avvenisse nel caso di Giona: salvo che egli non giudichi la risurrezione d’un morto dal sepolcro più facile della possibilità che uno si conservasse vivo nell’ampio ventre d’un animale. (trad. di L. Carrozzi, Città Nuova).

La critica biblica di Porfirio si dedicò a individuare altri aspetti della tradizione cristiana, che non potevano essere accettati. Il

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Pentateuco (cioè i primi cinque libri biblici) era comunemente attribuito a Mosè, ma Porfirio non lo ritiene una cosa verisimile. Nessuno scritto di Mosè ci è giunto, egli osserva (fr. 68): si dice che tutte le sue opere siano state distrutte insieme con l’incendio del Tempio di Gerusalemme ad opera di Nabuchodonosor. Di conseguenza, tutto quello che circola sotto il suo nome fu compilato, più di mille anni dopo la sua morte, da Esdra e dai suoi collaboratori: sarebbe, questo, un riferimento all’apocrifo quarto libro di Esdra, in cui il sacerdote Esdra scrive (14,21-25) che, bruciati i rotoli della Legge, Dio gli avrebbe comandato di isolarsi dal mondo per quaranta giorni per scrivere quello che gli avrebbe dettato. Più famosa – e tale che ha riscosso l’approvazione anche della critica moderna – fu la dimostrazione di Porfirio della vanità della profezia di Daniele, relativa al succedersi dei vari regni, compresi gli ultimi, quello di Macedonia e quello di Roma: come ci informa Gerolamo nel prologo al suo Commento a Daniele, Porfirio nel dodicesimo libro del Contro i Cristiani avrebbe sostenuto che il libro del profeta Daniele non fu composto ai tempi in cui proclama di vivere (cioè nel quinto secolo a.C.), ma da un ignoto scrittore dei tempi del re di Siria, Antioco IV Epifane (168-161 a.C.), il quale stava perseguitando il popolo ebraico per introdurvi a viva forza i costumi pagani. Quell’ignoto scrittore, infatti, avrebbe composto una profezia ex eventu, cioè sulla base dei fatti che si erano già verificati, tanto è vero che tutto quello che riguardava gli avvenimenti anteriori al regno di Antioco corrispondeva a verità. Ogni sua congettura che non riguardasse quegli avvenimenti era semplicemente un’invenzione (fr. 43). Falsa, quindi, era la sua profezia relativa all’avvento del Messia, il Cristo. Gerolamo aggiunge che Porfirio, per dimostrare la sua tesi della falsità della profezia di Daniele, avrebbe compiuto estese letture, attingendo a numerosi storici pagani, tra i quali i più famosi furono Posidonio, Polibio (180-110 a.C.), Diodoro Siculo (90-30 a.C). Come osserva Sodano, Porfirio, diversamente da Celso, il quale si era limitato a ricordare (cf. Origene, Contro Celso VII 53 e 57) con una certa ammirazione l’eroica figura di Daniele gettato in pasto ai leoni (cf. Dan. 6,17-24), dedicò al libro di Daniele e alle sue profezie tutto il libro dodicesimo e parte del tredicesimo del suo trattato. «E non dovette, Porfirio, limitarsi soltanto ad un’analisi dei fatti storici, ma ricorrere anche all’arma della filologia, che aveva

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imparato ad usare presso Longino. Infatti a proposito dell’episodio di Susanna e dei due anziani e dell’intervento di Daniele (Dan. 13,54-59) egli – informa Gerolamo (Commento a Daniele, prologo) – ne sosteneva l’origine greca, non ebraica, individuando nel gioco di parole da lui usato un gioco etimologico tipicamente greco» (dobbiamo ricordare quanto abbiamo già detto sopra, p. 78, che questo Longino, di cui parla Sodano, fu un erudito ateniese del terzo secolo, del quale Porfirio fu scolaro, e che proprio per questo suo metodo filologico fu criticato da Plotino, il quale negava a Longino il titolo di vero filosofo). Anche per questo motivo (cioè per il fatto che il suo autore conosceva le sottigliezze del greco e non dell’ebraico) il libro di Daniele è evidentemente apocrifo, e non fu scritto nell’ambiente ebraico del quinto secolo, ma in una comunità della diaspora. Anche al Nuovo Testamento Porfirio rivolse le sue critiche: egli volle dimostrarne l’infondatezza e la mancanza di ogni attendibilità storica, in quanto i fatti raccontati da quei libri non potevano essere accaduti proprio in quel modo. Egli sottolineava tutti i lati negativi del racconto evangelico: le contraddizioni, le assurdità, l’ignoranza stessa dei loro autori, quando non si aveva a che fare con una vera e propria menzogna. Ad esempio le narrazioni relative alla genealogia di Gesù non concordano tra di loro; inoltre, Matteo afferma che Gesù fu portato dai genitori da Betlem in Egitto, mentre Luca afferma che fu portato da Gerusalemme a Nazareth; gli evangelisti si contraddicono a proposito dell’ora della morte di Gesù: Matteo Luca e Giovanni la collocano all’ora sesta, Marco alla terza. Ancora più di un secolo più tardi, un dotto cristiano, Teodoro vescovo di Mopsuestia (350-428 d.C.), replicava che proprio le contraddizioni del racconto evangelico erano la prova della sua attendibilità, perché stavano a dimostrare che gli evangelisti non si erano accordati preventivamente per dire il falso, ma ciascuno aveva scritto la propria versione dei fatti, che aveva ritenuto veritiera. Ancora, Porfirio criticò la descrizione della tempesta avvenuta sul lago di Tiberiade, il racconto di Marco (6,48-51) e di Matteo (14,24-32) dell’apparizione di Gesù ai discepoli, quando camminò sulle acque e impose la calma alle onde. Questa, secondo Porfirio, era un’esagerazione tendenziosa, non ammissibile per un lago come quello di Tiberiade, che appositamente gli evangelisti avevano definito “mare”; difficilmente esso poteva essere mosso

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dai venti a tal punto da diventare tempestoso. Di conseguenza Da storie infantili di questo genere abbiamo imparato a conoscere che il vangelo è una scena sofisticata (fr. 55, trad. Sodano).

Anche il racconto apocalittico di Giovanni 12,31, ove si legge che «ora c’è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori» induce Porfirio a negare ogni validità alle affermazioni dei Vangeli, i quali sono attribuibili, a causa della loro oscurità, solo a delle donne, e non a degli uomini. Gli stessi evangelisti, del resto, pur essendo ebrei, non conoscono i testi biblici che citano. Matteo (13,35) aveva scritto che Cristo, parlando in parabole, compiva il detto di Isaia: «Aprirò la mia bocca in parabole». Ma Porfirio coglie l’errore dell’evangelista, perché l’affermazione non era di Isaia, ma di Asaf, nel testo dei Salmi (77,2: «Aprirò in parabole la mia bocca»). Gerolamo cerca di spiegare in qualche modo l’imprecisione dell’affermazione evangelica, affermando che, è vero, quelle parole non si trovano in Isaia, ma era avvenuto un errore di trasmissione: «A me sembra che il testo primitivo», dice Gerolamo, recasse «ciò che disse il profeta Asaph, per cui il primo copista non comprese il nome di Asaph e lo corresse mettendovi il nome di Isaia, che era quello più noto». Errori di attribuzione di un versetto biblico ad un profeta invece che ad un altro sono stati colti da Porfirio anche in altri punti dei Vangeli: Marco (1,2-3), ad esempio, attribuiva semplicemente a Isaia due citazioni, che in realtà erano di Isaia (40,3) e di Malachia (3,1): «Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, perché prepari la tua strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, fate retti i suoi sentieri». Ancora, Giovanni (7,8) scrive che Cristo esorta i discepoli ad andare nella Giudea a partecipare alla festa delle Capanne; egli non ci sarebbe andato, perché, dice, «il mio tempo non è ancora compiuto». Ma poco dopo lo stesso evangelista aggiunge: «Ma dopo che i suoi fratelli furono andati alla festa, vi andò anche lui, sebbene non apertamente, ma quasi di nascosto» (7,10). Qui non è l’evangelista ad essere accusato di contraddizione, ma Gesù stesso, che si comporta in modo incostante e muta le sue decisioni. Gli evangelisti Marco (16,16) e Giovanni (3,18) riferiscono che Cristo avrebbe condannato per il giudizio eterno l’incredulo; ma

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Matteo (7,2) riferisce queste altre parole di Cristo: «con la misura con cui misurate sarete misurati». Allora non è vero che chi non crede avrà una pena eterna, cioè assoluta, dal momento che ogni peccato sarà misurato secondo le proprie “dimensioni”? A questa obiezione Agostino rispose nella già ricordata lettera 102, con una spiegazione faticosa. Di fronte a tutti questi casi di perversa interpretazione del testo sacro, Gerolamo, la cui competenza nell’ambito dell’esegesi biblica è ben nota, si ferma per sottolineare puntigliosamente la “rabbia” e i “latrati” del “cane” Porfirio contro il cristianesimo, per proporre, invece, la sua spiegazione. La critica di Porfirio investe anche i principali apostoli, Pietro e Paolo, l’uno rappresentante del giudaismo che si stava trasformando e che aveva ricevuto la “investitura” da Cristo stesso, l’altro, apostolo che proveniva dalla cultura greca, che pertanto poteva costituire l’esempio del cristiano che accetta il paganesimo per quello che esso poteva offrire di positivo. Anche prima di Porfirio, Pietro era stato accusato di essere un impostore da Celso (Discorso vero II 55), in quanto il Cristo resuscitato aveva mostrato solo a lui le mani trafitte dai chiodi. Ma Pietro si comporta anche in modo disumano. Nel racconto degli Atti (5,1-11) Pietro rimprovera e fa morire Anania e la moglie Saffira, perché, dopo avere venduto i loro beni, non avevano dato alla comunità cristiana l’intero ricavato, ma, mentendo all’apostolo, se ne erano tenuti una parte per le proprie necessità. Ma non aveva Cristo esortato a perdonare settanta volte sette, o, comunque, a perdonare il proprio prossimo? E questa crudeltà nei confronti di Anania e Saffira era stata compiuta da Pietro, il quale aveva avuto il coraggio di tradire il Signore, negando per tre volte di essere stato suo discepolo! Anche qui dovette intervenire l’esegeta Gerolamo (epistola 130,14), spiegando che Pietro non aveva scagliato la morte su Anania e Saffira, ma aveva parlato preso da spirito profetico, annunciando quello che Dio stesso – e non lui, Pietro – stava facendo, cioè la morte fulminea di Anania e di Saffira. Non mancano critiche nemmeno a Paolo. Lo stesso comportamento contraddittorio e irrazionale, che si era visto in Pietro, caratterizza anche Paolo: ora, nella prima epistola ai Corinti (cap. 7), egli elogia la verginità al di sopra del matrimonio, ora la considera causa di caduta nel peccato, quando è richiesta da altri (cioè dagli gnostici); ora difende la santità della Legge mosaica, ora

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dichiara che il peccato esiste proprio perché esiste la Legge; ora (Atti 21,17-26) obbedisce alla Legge, perché entra nel Tempio di Gerusalemme solo dopo essersi purificato, ora, nella epistola ai Galati, rimprovera i Galati perché si sono fatti traviare dai precetti di coloro che sostenevano che non ci si dovesse staccare dai comandamenti della Legge. Ma, osserva Sodano, la polemica di Porfirio contro Paolo è una polemica che investe soprattutto certe dottrine della cultura greca, che Paolo avrebbe travisato: inaccettabili, per Porfirio come per qualunque greco, sono l’escatologia cristiana, il giudizio finale di Cristo, la sua sottomissione al Padre, il suo scendere dal cielo in terra per giudicare i vivi e i morti. Ma soprattutto inaccettabile è l’idea della fine del mondo. Il mondo è eterno e indissolubile, e non è concepibile una sua distruzione finale; la condanna del mondo, e la negazione della sua bellezza e del suo ordine, erano state dottrine anche degli gnostici, e contro di loro si era volto, pochi anni prima, il maestro di Porfirio stesso, Plotino, nel suo scritto contro gli gnostici (cf. più oltre, pp. 149-153). Commentando l’affermazione paolina (1 Cor. 7,31: «Passa la figura di questo mondo»), Porfirio così scrive per respingerla (fr. 34, trad. Sodano leggermente modificata): Come è possibile che la figura di questo mondo “passi”? Chi sarà colui che la farà passare, e a quale scopo? Se sarà il Demiurgo, egli sarà accusato di turbare e di alterare un insieme stabilmente costituito. E se cambierà la figura per migliorarla, egli rimane ancora soggetto alla medesima accusa, perché, quando creò il mondo, non trovò una forma adeguata e appropriata all’universo, ma lo fabbricò imperfetto, privo di una struttura migliore. E come potremo sapere che l’essenza dell’universo si trasformerà in meglio, in qualcosa di bello, al momento della sua fine lontana? Quale vantaggio procurerebbe un cambiamento nell’ordine dei fenomeni? Se veramente la condizione del mondo visibile suscita tristezza, allora tutti insieme dovranno protestare con il Demiurgo, e con giuste accuse, perché dispose gli elementi dell’universo in una condizione così criticabile e contraria al carattere razionale della natura e perché, accortosene, decise di cambiare tutto.

Questa critica di Porfirio, in fondo, è simile a quella che alcuni (gli epicurei) muovevano nei confronti di quei filosofi, come

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Platone, che avevano affermato che il mondo aveva avuto un’origine da dio. Che cosa era avvenuto, che cosa aveva spinto dio perché abbandonasse la sua condizione precedente per volgersi a creare il mondo? Un’altra critica, particolarmente dolorosa per i Cristiani, fu quella che Porfirio mosse nei confronti di Pietro e di Paolo a proposito del cosiddetto «conflitto di Antiochia», di cui parla Paolo nella epistola ai Galati (2,11-16): l’imbarazzo per i Cristiani fu assai forte di fronte a questo dissidio che coinvolse le «colonne degli apostoli» tanto che almeno due personalità eccezionali, come Gerolamo e Agostino, si mossero a contrastare (sia pure con differenti spiegazioni) le accuse e il disprezzo di Porfirio. Stando a quello che si legge nella epistola ai Galati, Paolo aveva affrontato con decisione Pietro affermando che non si comportava rettamente secondo la verità del Vangelo, perché, giunto a Gerusalemme, si teneva a distanza dai pagani, con i quali, invece, precedentemente aveva bevuto e mangiato, e faceva tutto questo perché temeva di scandalizzare alcuni Cristiani circoncisi, cioè alcuni ebrei che si erano convertiti al cristianesimo. Di fronte ad essi, Pietro si sentiva obbligato a tornare alle norme della Legge che vietavano di avere rapporti con i pagani, e così facendo danneggiava l’apertura della fede cristiana verso di loro, che era uno dei punti fermi della predicazione di Paolo. Porfirio, quindi, aveva sottolineato, da un lato, l’errore di Pietro, che non aveva proceduto rettamente nella evangelizzazione, ma, dall’altro, anche la protervia e la superbia di Paolo nei confronti del principe degli apostoli. Paolo sarebbe stato geloso della supremazia di Pietro e avrebbe voluto appositamente umiliarlo. Insomma, la discordia e la meschinità regnavano non solamente nella Chiesa cristiana già alle origini, ma addirittura nel cuore dei due apostoli principali. E poi dobbiamo ammettere che Porfirio aveva ben visto che questo scontro tra Pietro e Paolo era estremamente significativo, perché implicava la separazione del giudaismo dal cristianesimo, della Legge e delle norme tradizionali dalla innovazione della predicazione cristiana a tutti i popoli indifferentemente – cioè proprio quella diffusione del cristianesimo che Porfirio (e l’imperatore Diocleziano) intendevano fermare. E aveva individuato un problema che si era posto effettivamente alle prime comunità cristiane, ma che era stato un po’ alla volta rimosso nei secoli successivi, allorquando il cristianesimo si era definitiva-

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mente staccato dal giudaismo e le conversioni erano quasi esclusivamente dal paganesimo al cristianesimo. Ma nei primi tempi della predicazione apostolica il passaggio dall’ebraismo al cristianesimo e l’atteggiamento da assumere di fronte alla Legge erano due problemi che si ponevano effettivamente sulla strada di ogni conversione. Porfirio ebbe a criticare anche vari punti della dottrina cristiana. Uno, importante, era costituito dalla affermazione di Gesù (Gv. 14,6): «Io sono la via, la verità, la vita». Secondo i Cristiani, questo significava che solamente attraverso di lui si poteva giungere alla salvezza. Invece Porfirio contesta che vi sia una sola “via” per la salvezza, e come lui lo contesteranno gli intellettuali pagani fino alla fine dell’impero. Secondo Porfirio, la strada alla salvezza si percorre in più modi: vi è quella della filosofia, vi è quella della teurgia, insegnata dagli Oracoli Caldaici, e vi può essere, è vero, anche quella del cristianesimo, che però è riserbata alle persone di più modesta levatura intellettuale. Ce ne parla Agostino (La città di Dio X, 27-28, trad. di D. Gentili, Città Nuova): Tu invece hai appreso non da Platone ma da maestri caldei la teoria di innalzare i vizi umani alle alte sfere eteree o empiree e nelle regioni immobili del cielo affinché i vostri dèi potessero indicare i riti religiosi ai teurghi. Tu comunque col pretesto della cultura ti ritieni superiore a questi riti, sicché per te, che sei filosofo, non sembrano affatto necessarie le purificazioni della teurgia. Comunque le fai conoscere agli altri per dare ai tuoi maestri questa plausibile ricompensa, che seduci a tali pratiche chi non è capace di filosofare ma le consideri inutili per te che sei capace di catarsi più elevate. Così coloro che sono lontani dalla dignità della filosofia, che è di pochi perché troppo difficile, mossi dalla tua autorità, vanno in cerca degli uomini della teurgia affinché li purifichino se non nell’anima intellettuale per lo meno in quella spirituale. Poiché la folla di coloro che sono inabili al filosofare è senza confronto più numerosa, quelli che sono spinti a frequentare i tuoi maestri dediti a pratiche occulte e proibite sono di più di quelli che sono invitati a frequentare le scuole di Platone. Infatti, fingendosi dèi eterei, i demoni immondi, di cui sei divenuto annunziatore e messaggero, ti

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hanno fatto intendere che i purificati nell’anima spirituale con la pratica teurgica non tornano, è vero, al Padre ma abiteranno sopra le regioni dell’aria in mezzo agli dèi eterei. Non ascolta questa dottrina la moltitudine degli uomini, per la cui liberazione dal potere dei demoni è venuto il Cristo. In lui infatti conseguono una misericordiosa purificazione della mente, dello spirito e del corpo. Egli ha preso tutto l’uomo senza il peccato appunto per guarire dalla contaminazione del peccato il tutto di cui è composto l’uomo. Magari anche tu lo avessi riconosciuto e ti fossi per una guarigione più sicura affidato a lui anziché alla tua virtù, che è umana, fragile e debole, o a una deleteria curiosità. Egli non ti avrebbe tratto in inganno. [...] I teurghi al contrario o piuttosto i demoni che simulano la sembianza e gli aspetti degli dèi, anziché purificare, contaminano lo spirito umano con l’impostura delle apparizioni e con la burla menzognera di forme vane. Come infatti rendono puro lo spirito umano se hanno impuro il proprio? Altrimenti non sarebbero impediti dalle formule magiche di un individuo malevolo e non inibirebbero per paura o non negherebbero per analoga malevolenza l’inutile favore che sembravano voler concedere. Basta a dimostrarlo che, come tu dici, non è possibile con la catarsi teurgica purificare l’anima intellettuale, cioè la nostra mente. In quanto a quella spirituale, cioè la parte della nostra anima inferiore alla mente, che, a sentir te, si può purificare con simile pratica, tu stesso ammetti che con quel rito non può esser resa immortale ed eterna. Il Cristo invece promette la vita eterna. Per questo il mondo, malgrado la vostra stizza congiunta comunque a meraviglia e stupore, si accalca attorno a lui. Che te ne viene in definitiva? Non hai potuto negare che con la disciplina teurgica gli uomini sono tratti in errore, che moltissimi gabbano mediante un cieco e sciocco responso e che è innegabile errore degradarsi a invocare con pratiche e formule spiriti superiori e angeli. Poi, quasi per dare a vedere che non hai sprecato la fatica apprendendo la teurgia, indirizzi gli uomini dai teurghi affinché per loro mezzo sia purificata l’anima spirituale degli individui che non vivono secondo l’anima intellettuale.

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28. Dunque indirizzi gli uomini a un innegabile errore e non ti vergogni di un’azione così malvagia, sebbene ti professi amatore della virtù e della sapienza. [...] Ammetti tuttavia che anche l’anima spirituale può esser purificata con la virtù della continenza senza le pratiche teurgiche e senza le iniziazioni. Tu allora senza vantaggio ti sei affaticato ad apprenderle. In altri passi dici anche che le iniziazioni non elevano l’anima dopo la morte. Sembra quindi che esse non giovino affatto dopo la fine di questa vita neanche all’anima che chiami spirituale. Tuttavia rigiri queste dottrine in varie maniere e le riesamini al solo intento, come penso, di apparire informato in simili argomenti e di renderti gradito ai curiosi di pratiche illecite o di renderli tu stesso curiosi. Dici bene comunque che la teurgia è da evitarsi, sia per il rischio delle leggi come della pratica in sé. Magari i poveri disgraziati ascoltino da te questo avvertimento e si allontanino da essa per non esserne trascinati o meglio non vi si appressino neanche. Affermi anche che l’ignoranza e i molti vizi che ne conseguono non sono purificati mediante alcuna iniziazione ma solo mediante la mente ossia intelletto del Padre perché conosce la volontà del Padre. Tu non credi che sia il Cristo perché lo disprezzi a causa del corpo ricevuto da una donna e dell’umiliazione della croce. Ti ritieni cioè capace di cogliere dalle sfere superiori una più alta sapienza per avere rifiutato sprezzantemente le cose più basse.

E poi, considerando la cosa sul piano storico: se la salvezza può venire solamente da Cristo, perché Cristo ha atteso così tanti secoli prima di venire a salvare gli uomini? Che ne sarà di quelli – anche onesti – che sono vissuti prima di lui? Una osservazione, questa, che già Celso aveva mosso contro i Cristiani. Ed anche la resurrezione dei corpi fu una dottrina che Porfirio respinse decisamente. In verità, i pagani (ed in particolare i platonici) l’avevano sempre rifiutata, a causa del loro disprezzo della materia, e, più in particolare, del corpo. Già Tertulliano aveva dovuto difendere la dottrina della resurrezione, anche se polemizzando con gli gnostici, più che con i pagani. Celso aveva accusato i Cristiani di contraddizione proprio a causa della dottrina della resurrezione: da un lato amano il corpo e sperano che esso resu-

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sciti, dall’altra lo espongono ai supplizi, come cosa vile, durante la persecuzione; Celso aveva concluso in modo sprezzante che non vale la pena discutere di questo con persone che sono legate strettamente al corpo: costoro sono uomini villani, impuri, irrazionali, gente che per un impulso della propria natura non pensa ad altro che alla rivolta (cf. Discorso vero VIII 49). Porfirio riprese la medesima polemica, ma basandosi, ancora una volta, sul racconto biblico: la resurrezione finale avverrà in modo simile alla resurrezione di Lazzaro o in modo simile a quella di Cristo? Quali saranno la forma e la struttura del corpo umano? 5. Porfirio e Apollonio di Tiana Infine, vanno ricordati tre brani dell’opera di Porfirio, i quali menzionano apertamente Apollonio di Tiana: il saggio greco, l’ «uomo di dio», di cui abbiamo parlato sopra, è considerato anche da Porfirio, oltre che da Sossiano Ierocle, come si è visto, una figura che si può a buon diritto contrapporre a quella di Cristo. Il primo frammento è conservato nell’omelia di Gerolamo su uno dei Salmi: Qualcuno dirà: «Hanno fatto tutto ciò a scopo di lucro»; questo dice infatti Porfirio: «Uomini rozzi e poveri, che non avevano nulla, per mezzo delle arti magiche hanno fatto alcuni prodigi. Ma fare prodigi non è qualcosa di straordinario; infatti anche in Egitto i maghi fecero prodigi contro Mosè; fecero [prodigi] Apollonio e Apuleio, e ne fecero infiniti (fr. 4).

In questo brano Porfirio parla della miracolosa attività dei discepoli di Cristo e afferma che non c’è niente di straordinario nei loro miracoli, perché essi furono operati per mezzo della magia. Il compiere miracoli, secondo lo scrittore pagano, non era affatto una cosa fuori dal comune, giacché anche uomini come Apollonio e Apuleio ne operarono in numero infinito. In questo passo Porfirio sottolinea dunque l’aspetto taumaturgico dell’attività di Apollonio; il raffronto non riguarda direttamente la persona di Cristo, ma piuttosto la missione degli Apostoli. Altri due frammenti si trovano nell’opera che Macario, vescovo di Magnesia, scrisse con il titolo Libro di replica, o piuttosto

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l’Unigenito, ai Greci, attorno al 400. Un pagano nemico del cristianesimo si sarebbe servito proprio delle opinioni di Porfirio. In uno di questi frammenti si legge: È anche possibile mettere in evidenza quest’altro detto poco chiaro, dove Cristo dice: «Guardate che nessuno vi inganni; molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Io sono Cristo”, e trarranno molti in errore». Ed ecco che sono trascorsi trecento o più anni e nessuno, da nessuna parte si è presentato come tale. Potreste peraltro dire [s’intende, voi Cristiani] che Apollonio di Tiana non sia stato un uomo fornito di ogni sorta di sapienza? Del resto voi non ne trovereste un altro [uguale]; ma non è di uno, ma è di molti che egli [Cristo] dice: «Sorgeranno» (fr. 60).

Molto interessante è anche un altro frammento attribuito a Porfirio, contenuto sempre nell’opera di Macario: Per quale motivo Cristo, che era stato portato davanti al sommo sacerdote e davanti al governatore, non disse nulla [che fosse] degno di un uomo saggio e divino, che avrebbe potuto correggere il giudice e i presenti e renderli migliori, e invece ha sopportato di essere percosso con una canna, di essere colpito dagli sputi e incoronato di spine; e [perché] non [fece] come Apollonio che, dopo aver parlato liberamente all’imperatore Domiziano, scomparve dalla corte imperiale, per ricomparire visibilissimo non molte ore dopo nella città di Dicearchia, che ora si chiama Pozzuoli? Cristo invece, anche se doveva soffrire secondo i comandamenti di Dio, bisognava, certamente, che sopportasse la pena, ma non che affrontasse la passione senza parlare liberamente; avrebbe dovuto invece rivolgere a Pilato che lo giudicava alcune [frasi] profonde e sagge, e non farsi oltraggiare come uno dei cafoni [che vengono] dal trivio (fr. 63).

L’anonimo filosofo ostile al cristianesimo e seguace di Porfirio biasima la condotta di Cristo durante il suo processo. Appare chiara, a suo dire, la differenza tra l’atteggiamento dimesso di Cristo davanti ai suoi giudici e il comportamento di Apollonio, il quale, durante il suo processo, non permise a Domiziano di umi-

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liarlo: dopo l’ardita risposta data all’imperatore egli scomparve dalla sala delle udienze e nello stesso giorno apparve a Dicearchia. L’avversario del Cristianesimo conclude dicendo che Cristo non doveva accettare la sua passione senza aver fatto prima un intervento coraggioso: avrebbe potuto rivolgere parole decise e sagge al suo giudice, Pilato, piuttosto che lasciarsi insultare. 6. La distruzione dell’opera di Porfirio Ma non possiamo proseguire esponendo ad una ad una le critiche che Porfirio aveva mosso, in modo veramente globale, alle dottrine, ai testi, alle persone che erano i simboli del cristianesimo. Ci basti osservare, in conclusione, che mai, fino ad allora, i Cristiani si erano trovati di fronte un pagano che li aveva combattuti accanitamente sul loro stesso terreno: Celso, infatti, pur essendo stato un avversario non meno pericoloso di Porfirio, aveva attaccato il cristianesimo soprattutto su di un piano teorico e più strettamente filosofico, Porfirio, invece, si rivolge alla Sacra Scrittura, quella che giustifica l’esistenza dei Cristiani, e dimostra che il loro libro è viziato da falsità, incongruenze e meschinità – insomma, non può essere un libro sacro. Parimenti, i grandi uomini del cristianesimo – gli Apostoli – erano state delle persone umili e spregevoli. L’opera di Porfirio ispirò, come vedremo, un’altra opera anticristiana, scritta sessant’anni dopo dall’imperatore Giuliano l’apostata, quella Contro i Galilei. Contro l’opera di Porfirio fu comminato l’ordine di distruzione, una prima volta poco dopo la pubblicazione, ad opera di Costantino (insieme alle opere dell’eretico Ario), e poi dagli imperatori Teodosio II e Valentiniano III nel 448 d.C. Nel frattempo essa si era imposta come un caposaldo dell’ultima difesa della tradizione religiosa pagana, e dell’estrema reazione al cristianesimo sia in oriente sia in occidente: a Roma vi allude molto spesso un ignoto scrittore cristiano, chiamato «Ambrosiaster»; in Palestina fu contestata da Gerolamo, il quale impiegò soprattutto il criterio dell’esegesi, cioè le stesse armi di Porfirio. Si occupano dello stesso ambito di problemi le anonime Questioni e risposte agli ortodossi, composte da uno scrittore greco appartenente alla scuola antiochena tra il 400 e il 450 d.C.: molte di tali “questioni” risalgono alle critiche di Porfirio; di altre, non è sicura la paternità porfiriana: era possibile, del resto, che

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anche altri pagani a noi non più noti assumessero il medesimo atteggiamento ostile al cristianesimo che era stato tipico del filosofo neoplatonico. A tutte quelle “questioni” dà una “risposta” lo scrittore cristiano. D’altra parte, per quello che riguarda la diffusione del Contro i Cristiani, durante l’età di Agostino, in Africa, furono numerosi i circoli di intellettuali pagani che erano rimasti fedeli alla religione tradizionale: per costoro le critiche di Porfirio al cristianesimo furono utilissime. Dall’epistolario agostiniano apprendiamo i nomi di persone che cercavano di rivitalizzare il culto pagano: Massimo di Madaura, Nettario di Calama, Dioscoro, Longiniano. Tutti questi intellettuali criticano la figura di Cristo sia come uomo sia nella sua missione di salvatore. Oltre alla già ricordata epistola 102 a Deogratias (che però era un cristiano), è assai utile leggere la n. 132 e la n. 135, al pagano Volusiano: esse cercano di spiegare il parto verginale di Gesù (probabilmente già criticato da Porfirio e da altri), la crescita umana del Salvatore, gli esorcismi ed i miracoli da lui compiuti (che, secondo Volusiano, non erano più straordinari di quelli di altri maghi, come Apuleio di Madaura). La fama di Porfirio è attestata anche da Cirillo di Alessandria (intorno al 440 d.C.), il quale scrisse una lunga opera per confutare l’opera di Giuliano l’apostata. Egli sa (I 38) che «Porfirio riversò contro di noi discorsi amari e si può dire che abbia insultato la religione cristiana»; che fu «il duro nemico dei Cristiani» (I 39). Porfirio fu il maestro spirituale di Giuliano (PG 76, III 621A); amico di Giuliano, padre degli insulti rivolti contro di noi (III 633A). «Nonostante che, prima ancora di Giuliano, Porfirio abbia combattuto la gloria di Dio, come si vede da numerosissimi suoi discorsi, tuttavia quello che egli ha pensato e scritto, penso che possa piacere ad ottenere fede» (V 756B).

Capitolo settimo

Giuliano l’apostata Flavio Claudio Giuliano fu imperatore e scrittore, l’ultimo sovrano dichiaratamente pagano, che tentò senza successo di restaurare la religione romana dopo che essa era stata abbandonata a favore del cristianesimo da suo zio Costantino e dal figlio di Costantino, Costanzo II. Fu chiamato l’“Apostata” dai Cristiani, che lo presentarono come un persecutore, ma in realtà nel suo regno vi fu tolleranza nei confronti di tutte le religioni, comprese le diverse eresie. Giuliano scrisse numerose opere di carattere filosofico, religioso, polemico e celebrativo, in molte delle quali criticò il cristianesimo. La sua filosofia fu in gran parte platonica, e più in particolare derivò da quella del neoplatonico Giamblico. L’imperatore scrisse, prima di morire nel 363, una lunga opera polemica contro la nuova religione, intitolata Contro i Galilei: il titolo si spiega in quanto, per lui, i Cristiani non erano veramente Greci (cioè persone civili), ma erano marchiati da una origine umile: provenivano, infatti, come il loro maestro, da una remota regione della Palestina. Il titolo era stato scelto appositamente per essere offensivo nei confronti soprattutto di quegli intellettuali cristiani che non erano meno Greci dei pagani, sia per origine sia per lingua e per cultura. Ma vari motivi anticristiani si trovano anche nelle sue opere filosofiche e nel suo epistolario. 1. Difesa della religione pagana e dei suoi miti Giuliano, che era stato inizialmente cristiano, non nega che la religione pagana sia costituita, nella sua ossatura, da una serie di miti: essi apparentemente sono assurdi e mostruosi, ma proprio per questo motivo debbono essere interpretati allegoricamente. Il problema dell’interpretazione allegorica dei miti pagani era già stato posto da Porfirio, il quale si era domandato se potevano essere utilizzati dalla filosofia. Giuliano pone la medesima questione nella sua opera Contro il cinico Eraclio. Egli riprende l’affermazione di Porfirio, che «la natura ama nascondersi», ma la sua rispo-

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sta è radicalmente diversa: per Porfirio certi miti sono utili e morali, ad esempio nella teologia, che parla degli dèi inferiori e dei demoni, per Giuliano, invece, la mitologia si adatta alla morale personale dell’individuo e alla parte iniziatica e mistica della teologia. Questa profonda modifica della dottrina di Porfirio è probabilmente opera di Giamblico. Più il mito è assurdo e indecente meno esso può essere accettato come tale, e le persone più intelligenti sono stimolate a scoprirne il vero significato. Il mito può essere pericoloso, perché, se inteso alla lettera, può ingannare e pervertire le persone più semplici; però, se inteso e studiato adeguatamente (e lo stesso Giuliano dà una prova di questi studi, proponendo delle interpretazioni personali in vari suoi scritti, come in quello Al Re Helios, e in quello Alla madre degli dèi), può servire ad educare le persone semplici e ignoranti ed infine può servire come strumento per giungere ai misteri ineffabili. Di conseguenza Giuliano accusa i Galilei di avere inventato dei miti falsi e malvagi, i quali, oltre a non contenere niente di divino, presentano, come garanzia di verità, solo una menzogna; soprattutto, Giuliano non vuole che sia dio il responsabile di quelle invenzioni incredibili e grottesche. Ad esempio, tutto il racconto della torre di Babele è frutto di fantasia. E, come se non bastasse che fossero creduli loro solamente, i Galilei cercano di traviare altre persone con le loro invenzioni. L’apostolo Matteo, attribuendo a Cristo quello che era stato detto a proposito di Israele, ingannò i gentili che credettero nei suoi racconti. I Galilei sono stati colpevoli anche per avere inventato dottrine false a proposito del Logos di Dio, di cui non parla la scrittura giudaica. E ugualmente non si capisce perché si debba credere alle parole di Pietro, quando predica negli Atti degli Apostoli. Ma non solo nell’opera contro i Galilei: anche in alcune sue epistole Giuliano sottolinea che le storie che i profeti hanno faticosamente fabbricato sono moralmente dannose. E quando si rivolge al vescovo cristiano Fotino (epistola 79) per dirgli che intendeva scrivere la sua opera contro i Galilei, egli dichiara che intendeva togliere a Gesù quella natura divina, che gli era stata conferita dai Cristiani, narratori di frottole. Tuttavia Giuliano, quando afferma che le dottrine dei Galilei sono assurde e che essi sono stolti, non vuole che siano puniti, ma che siano corretti. Questo giudizio negativo sulla irrazionalità dei Galilei viene esteso da Giuliano anche al suo zio, l’imperatore Costantino, che aveva favorito i Cristiani, una cosa gravissima, di cui Giuliano lo accusa.

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Una tale interpretazione dei miti è però contestata dall’intellettuale cristiano Gregorio Nazianzeno (330-390 d.C.), il quale fu contemporaneo e nemico dell’imperatore (lo aveva conosciuto durante alcuni anni in cui era vissuto ad Atene per motivi di studio). Gregorio Nazianzeno nella sua prima Invettiva contro Giuliano (orat. 4,114 sgg.) osserva che esiste, certamente, un significato esterno nella Sacra Scrittura dei Cristiani: tale significato, però, è secondario mentre il significato più importante è quello più profondo, con il quale si educa la folla dei fedeli. Ma come si comporterà Giuliano, se sarà invitato a fare altrettanto con i suoi testi che contengono i miti della religione greca? Questi testi sono la Teogonia di Esiodo ed i poemi omerici, colmi di racconti immorali. Per cui chi c’è, secondo voi, così elevato e grande e pari a Zeus per senno che possa ricondurre ad una conveniente interpretazione tutti questi racconti, riuniti così saggiamente e variamente e così insoliti? […] Se questi racconti sono veri, non provino vergogna, anzi, ne siano orgogliosi e ci persuadano che non sono indecenti. E che bisogno hanno di ricorrere al mito come di un velo per la loro spudoratezza? Il mito, infatti, non è tipico di persone che parlano con franchezza, ma di persone che hanno paura. Se, invece, questi racconti sono falsi, in primo luogo ci mostrino chi sono i loro puri teologi […], poi ci dicano come è possibile vantarsi, come se fossero solidi argomenti, di quegli stessi miti di cui invece si vergognano e come non sia stolto che proprio quello che potrebbe sfuggire ai più, e cioè a quelli che non hanno ricevuto un’educazione letteraria, sia messo pubblicamente sotto gli occhi di tutti, nelle statue che riproducono gli atteggiamenti degli dèi (orazione 4,117).

Anche i Cristiani, è vero, prosegue Gregorio, hanno dei racconti che posseggono un significato nascosto (sono, evidentemente, quelli dell’Antico Testamento, i quali debbono essere interpretati allegoricamente), ma, in ogni caso, il significato evidente ad una prima lettura non è immorale, mentre il significato nascosto è mirabile. Nell’ambito delle cose divine non è ammissibile che le apparenze siano sconvenienti e indegne del concetto nascosto (cap. 118).

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Presso di voi, invece, il senso nascosto non è credibile e quello immediato è pericoloso […] Questa è la speculazione di costoro [dei pagani], così lontana dalle premesse: essa consiste in primo luogo nel riunire tutti questi argomenti e nel ricondurli ad un’unità, sebbene abbiano provenienza disparata […] voglio dire i miti ed i racconti che li accompagnano (cap. 119).

Queste considerazioni polemiche di Gregorio Nazianzeno sono fondate su di una base solida, e non sono una banale ripetizione di motivi tradizionali: forse egli aveva letto alcune delle opere di Giuliano o del neoplatonico e amico di Giuliano, Sallustio, che si occupa del medesimo problema (Sugli dèi 3,4). Giuliano sostiene quindi che le verità inesprimibili a proposito degli dèi non hanno niente a che fare con le opinioni comuni della gente e dei barbari ignoranti. Nella sua opera contro i Galilei, non li rimprovera di essere solamente degli inventori di miti e di menzogne, che accarezzano la parte più bassa dell’anima umana, ma li accusa di non avere niente di buono da dire perché sono estranei alla cultura greca, alla filosofia greca e alla tradizione che risale fino ai tempi della Grecia classica. Per questo motivo i Galilei non possono mai diventare dei filosofi: Giuliano li sfida a contestare il fatto che Cristo ha proibito loro di dedicarsi alla filosofia, e si indigna moltissimo del fatto che un cristiano, il famoso esegeta Diodoro di Tarso (330-391 d.C.), si sia recato ad Atene ad apprendere la filosofia (epistola 79). Parimenti stolti sono anche i monaci cristiani, i quali proprio in quel periodo stavano acquistando sempre maggiore importanza (è di quei decenni la diffusione del monachesimo in oriente e l’imporsi della ascesi monastica presso i Padri del deserto e altrove). 2. Il fine del filosofo secondo Giuliano: imitare il dio L’antica massima della filosofia di “imitare il dio” risale fino al medioplatonismo e ha luogo anche nell’opera di Giuliano, il quale però se ne serve per i suoi scopi anticristiani. I filosofi che sono degni di essere imitati, secondo lui, sono i cinici dei tempi antichi: le grandi figure del passato, come Diogene e Cratete, famose per il loro disprezzo del mondo e della ricchezza, per la loro ricerca della impassibilità di fronte agli avvenimenti della vita. Questi filosofi cercarono con la loro vita di “imitare il dio”.

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Invece che con i cinici antichi Giuliano ha a che fare, purtroppo, con i cinici del tempo presente: arroganti, atei, ribelli, ignoranti. Ebbene, egli considera i cinici del suo tempo analoghi ai detestati “Galilei”. Esprimendo la sua repulsione nei confronti del cinico Eraclio (Contro il cinico Eraclio 18,224A), l’imperatore afferma di voler attribuire ai cinici il titolo di apotaktistài, il quale designava una setta di encratiti cristiani (e Giuliano aggiunge che egli chiama apotaktistài anche gli “empi Galilei”). Nella orazione Contro i cinici ignoranti (12,192D) Giuliano dice: «tu conosci, io credo, le parole dei Galilei», facendo riferimento ad un passo biblico (Gen 9,3), in base al quale i Cristiani si sentivano autorizzati a non osservare nessuna limitazione nel cibo, per cui Giuliano li chiama con disprezzo «gli onnivori»; questa spregevole libertà è rinfacciata ai Cristiani anche nel Contro i Galilei (cf. fr. 58,23 e 74,3 Masaracchia). Il cinico contro cui si scaglia Giuliano nel Contro i cinici ignoranti, ha, tra gli altri particolari della sua condotta biasimevole, anche quello di ammirare «la macabra vita di donne sciagurate» (20,203C), cioè quella di certe donne che vivevano in maniera ascetica come se fossero morte, rinunciando a tutto quanto di buono offriva la vita. Di fronte alla rozzezza dei cinici e dei Galilei Giuliano si sentì investito del compito di difendere la cultura greca. Tra le altre doti, i Greci hanno anche quella di possedere un fine sentimento religioso e una forte sensibilità, che li porta a comprendere facilmente i misteri. I Greci sono filosofi di natura, e questo già induce a detestare i Galilei, per i quali una delle norme fissate dal loro testo sacro era quella di evitare le sottigliezze della filosofia, come si è avuto occasione più volte di osservare. Le qualità intellettuali e morali dei Greci sono state il dono dei loro dèi, in particolare Helios e Zeus, ed anche Asclepio. Di fronte alle guarigioni di Asclepio e ai suoi interventi provvidenziali i miracoli di Cristo non possono essere altro che una forma di bassa imitazione. 3. La filosofia del “Contro i Galilei” L’importanza di quest’opera nella filosofia di Giuliano è stata sottolineata dagli studiosi, che mettono in rilievo la solidità teorica dell’insieme, fondato su di uno sfondo dottrinale preciso e ben adattato all’obiettivo propostosi. Bisognava attendere Giuliano

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per vedere opporre al cristianesimo una dottrina simmetrica, religiosa e non filosofica, che elevava alla fine, anche se tardi, il paganesimo al rango di un sistema coerente, unificato e veramente “cattolico”, cioè universale. 4. La teologia platonica e la teologia ebraica Nel Contro i Galilei la religione giudaica si inserisce senza difficoltà nel quadro del politeismo universale. Ma è avvenuto che, per colpa di Mosè, i Giudei hanno confuso due divinità diverse. L’una è il dio dell’universo, di cui il Contro i Galilei espone una teologia concisa e precisa. Assimilato al demiurgo del Timeo, questo dio non è il dio supremo: esistono altri dèi che sono più alti di lui (96 C). Il nostro discorso, per l’artefice diretto di questo mondo, sta in questi termini. Mosè infatti non ha detto assolutamente nulla dell’essere superiore a questo, egli che non ha neppure osato accennare alla natura degli angeli; invece ha ripetuto più volte, in vari modi, che essi sono al servizio di dio, anche se non ha in nessun modo precisato se nati o non soggetti a nascita (fr. 18 Masaracchia).

Pur essendo artefice diretto di questo mondo, il dio dell’universo non è solamente il creatore degli dèi visibili, lo è anche degli dèi invisibili, archetipi dei precedenti, che egli genera «nelle realtà intelligibili»: Platone chiama dèi visibili il sole e la luna, le stelle e il cielo, ma questi sono immagini di quelli invisibili: il sole che appare ai nostri occhi è immagine del sole intellegibile e invisibile [...] Platone dunque sa che quegli dèi intellegibili e invisibili sono immanenti al demiurgo e a lui coesistenti, e che hanno avuto vita e origine da lui. È logico, dunque, che il demiurgo platonico dica “dèi” quando si rivolge agli dèi visibili, “degli dèi” [Il riferimento è a Timeo 41 A, come è evidente], cioè figli degli dèi invisibili. Demiurgo comune dei due ordini di divinità è colui che ha modellato cielo e terra, mare e astri, dando vita al mondo intellegibile e ai loro archetipi. […] Perché dice (scl., il demiurgo): la parte immortale (necessariamente esiste in essi per concessione del demiurgo,

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cioè l’anima razionale) […] sarò io a seminarla, a darle inizio, a consegnarvela, ma per il resto provvedete voi a unire l’immortale al mortale? Evidentemente perché gli dèi demiurgici attinsero dal padre loro la potenza demiurgica e diedero vita sulla terra agli esseri viventi che sono mortali. Se infatti il cielo non doveva essere affatto diverso dall’uomo, dalle fiere […] unico e identico doveva essere il demiurgo di tutto. Se invece tra esseri immortali e esseri mortali c’è una grande differenza […] ne consegue che chi dà origine a questi è diverso da chi la dà a quelli (fr. 10).

Il dio d’Abramo, dunque, sembra identificarsi con Helios (il Sole). Questo dio, che è intelligente e creatore e si identifica con Helios e Zeus, gli Ebrei l’hanno in comune con tutti i popoli (cf. epist. 89). La ragione è che se il dio predicato da Mosè fosse l’artefice diretto dell’universo, noi che pensiamo che tale artefice è signore comune di tutto e che esistono altre divinità nazionali ai suoi ordini, simili a viceré, le quali assolvono ciascuna in modo diverso la propria funzione, abbiamo di lui una concezione migliore; e neppure pensiamo che quell’artefice sia un litigioso rivale degli dèi che gli sono sottomessi. Ma se, pur onorando un dio limitato, Mosè pretende di attribuirgli il dominio di tutto, è meglio che i Galilei, conformemente alla nostra opinione, riconoscano il dio universale senza disconoscere quello degli Ebrei, piuttosto che onorare, al posto dell’artefice di tutto, un dio cui è toccato il dominio sulla più piccola regione, cioè sulla Palestina (fr. 28).

Ma gli Ebrei confondono con il dio sommo un altro dio, che è il dio etnarca, cioè il protettore e signore del popolo ebraico al quale il dio dell’universo ha affidato il popolo giudaico: esso è un dio parziale (148C), il cui culto è specifico degli Ebrei. Esso può essere identificato, eventualmente, con il dio della Frigia, Atthis. Il problema è sempre quello di intendere la natura del demiurgo creatore del mondo: Ma badate che dio non abbia dato anche a noi come dèi e valide guide quelli che voi ignorate, i quali non sono per

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nulla inferiori al Dio onorato fin dall’inizio presso gli Ebrei di Giudea, l’unico paese che a lui spettò di proteggere […] Se poi il Dio onorato dagli Ebrei fosse l’artefice diretto dell’universo, noi abbiamo formulato pensieri ancora migliori su di lui; ed è stato lui a concederci beni spirituali e beni esterni, di cui diremo tra breve, superiori a quelli loro, e ci ha infine inviato legislatori niente affatto inferiori a Mosè, ma quasi tutti di gran lunga superiori (fr. 25).

5. La critica del mito ebraico Radicato com’è nella tradizione greca, Giuliano non ammette la validità dei misteri della religione ebraica, a cominciare dal racconto della Genesi a proposito della creazione. Mosè non può certo essere considerato un illustre teologo, perché non ne possedeva i requisiti: non aveva la retta conoscenza degli dèi ed era anche un uomo di scarsa moralità: in effetti, è la filosofia l’unico strumento, l’unica strada per la retta formazione dell’uomo, e solo il filosofo può essere anche un uomo eccellente ed un maestro. Inoltre l’insegnamento di Mosè è poco chiaro: talvolta sembra che egli stia parlando del dio sommo, cioè del dio Helios, talaltra, invece, che stia parlando del creatore del mondo, cioè del dio inferiore. Ebbene, Giuliano trova che nel racconto mosaico della creazione vi siano due gravi errori, che nessun greco avrebbe commesso. Nessun vero filosofo avrebbe detto che dio non sapeva che quello che stava facendo si sarebbe ritorto a suo danno: eppure Mosè sembra dire che Dio non sapeva che Eva, la quale era stata creata per aiutare Adamo, si sarebbe rivelata poi causa della sua rovina. Il secondo errore fu quello di affermare che Dio tolse all’uomo la capacità di distinguere il bene dal male. Se questo fosse stato vero, allora il Dio dei Giudei avrebbe tolto all’uomo il godimento della sapienza e gli avrebbe impedito di possedere l’unica cosa che ne avrebbe fortificato l’intelletto. Questa mancanza di discernimento è la forma estrema della pazzia. Ancora, un grave problema è l’eccessiva semplificazione dell’intero processo della creazione. Parlando di un creatore solamente, Mosè ha ristretto ad uno i tre processi della creazione: la creazione del mondo intelligibile, ad opera del dio Helios; quella del mondo sublunare eseguita dal dio Atthis; e quella del dio nazionale, il dio

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etnarca. Invece, stando al di sotto della realtà intelligibile, su cui regna il dio trascendente, Atthis non creò da solo il mondo variegato della realtà sensibile, ma affidò le varie creazioni ai singoli dèi. Questi possono essere chiamati con vari nomi, e così anche il Dio dei Giudei poteva essere chiamato con un nome diverso, ma non con quello specifico e unico, di “Dio”. È evidente, quindi, che il Dio degli Ebrei, il Dio di Mosè, non merita tout court il nome di “Dio”. Il vero dio non è altri che Helios, mentre il Dio di Mosè è solamente un dio protettore del popolo ebraico, così come altri dèi proteggono altri popoli. Ciononostante Giuliano era disposto a tributare un certo onore al Dio dei Giudei, tanto è vero che, prima di partire per la spedizione militare contro i Persiani, nella quale avrebbe trovato la morte, egli cercò di ricostruire il tempio di Gerusalemme – cosa che fu vista dai Cristiani come un vero e proprio affronto. Il Dio di Mosè, egli ritiene, è anche il Dio di Abramo, come racconta sempre la Scrittura, e il Dio di Abramo aveva a che fare con la tradizione religiosa dei Caldei, un popolo che Giuliano ammirava per la sua antichità. Del resto, nel periodo anteriore all’insegnamento di Mosè, Caino e Abele che offrono i sacrifici a Dio si comportano come i Greci, che offrono sacrifici ai loro dèi. Se Dio aveva rifiutato i sacrifici di Caino e aveva accettato quelli di Abele, questo era dovuto alla diversa natura delle loro offerte. Dio, che è vita e causa della vita, preferisce certo un’offerta viva, che considera perfetta, a quella di oggetti inanimati. Giuliano, lo abbiamo visto più di una volta, era disposto a riconoscere ancora la presenza di una certa moralità e di una certa dignità nei costumi e nelle tradizioni religiose degli Ebrei, le quali, nei tempi anteriori a Mosè, non erano diverse da quelle degli altri popoli antichi. Tuttavia, anche se provava una certa simpatia per le pratiche ebraiche di purificazione, egli era duramente critico per quanto riguardava il comportamento barbarico che veniva usato nei confronti di quelli che violavano la legge. Da questo punto di vista i Giudei non potevano essere certo paragonati ai Greci, i quali si comportavano in modo molto più mite e civilizzato. Non vi era quindi nessun motivo per non credere che il Dio degli Ebrei fosse un Dio potente, ed anche Giuliano impiegò per lui il titolo di “Altissimo”. Certo, però, Mosè, scrivendo la Genesi, non era in grado di manifestare a tutti il dio sommo, il dio Helios; egli descrisse, tutt’al più, il dio Atthis.

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Alla cosmologia ebraica Giuliano contrappone con ampiezza di citazioni la cosmologia platonica del Timeo. Il creatore, cioè il demiurgo, è colui che si dedica ad attuare la perfezione dell’universo. Nell’universo regna una moltitudine di dèi, a seconda delle varie razze e nazioni; tali dèi possono essere chiamati anche “angeli” o “demoni”, o eroi, o anche gli dèi delle singole località, quale è Serapide per la città di Alessandria o Zeus per la città di Antiochia. 6. La critica della teologia di Mosè Il racconto esile e primitivo del Genesi è insoddisfacente e presenta erronee dottrine riguardanti il fine degli uomini. Per questo motivo Mosè non può competere con la teologia greca. Stolti, quindi, sono stati gli Ebrei e i Galilei a preferire Mosè ai filosofi. Le debolezze della dottrina mosaica sono dovute alla incapacità del suo autore di comprendere l’attività di dio nel mondo sublunare, e più precisamente le dottrine banali, da lui insegnate, sono state causate dalla sua superficialità intellettuale, dall’errore di avere attribuito a Dio debolezze morali e fisiche, dalla rozzezza della sua legislazione, insomma dalla sua estraneità alla retta tradizione della cultura greca. Mosè si accontentò, infatti, di dire più volte: «E Dio disse, e così fu fatto», come se questa fosse una spiegazione: era necessario, invece, spiegare in che senso la creazione rispondeva ai comandi di Dio. Per quello che riguarda le divinità subordinate al dio sommo (che esiste, e che secondo Giuliano è Helios), Mosè tace completamente, per cui non trova nessuna spiegazione adeguata delle differenze di costumi e di lingua che esistono tra i vari popoli. La soluzione della torre di Babele è semplicemente “mitica”, e quindi non adatta ad una spiegazione teologica. Non meno assurda è la spiegazione che Mosè dette della «confusione delle lingue»: Dio sarebbe sceso dall’alto sulla terra e la avrebbe compiuta personalmente. Un altro errore del racconto mosaico è costituito dalla concezione della provvidenza divina, che è assolutamente fragile. Mosè fece un grave errore quando sostenne che il creatore scelse il popolo ebraico come popolo di sua spettanza, e che Dio doveva occuparsi di quello soltanto. Mosè insegnò che Dio ebbe cura solamente degli Ebrei, e di nessun altro popolo, e non spiegò in alcuna maniera se e come gli altri popoli fossero governati da un dio. Perché, quindi, i Greci dovrebbero venerare un Dio che non si

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preoccupa affatto di loro? La spiegazione è che Mosè non parla di un Dio effettivamente trascendente, né del vero creatore, ma di una divinità minore: Mosè ha confuso, infatti, ogni distinzione tra il dio sommo e gli dèi locali. Quindi gli Ebrei adorano un dio locale, che si occupa solamente della Giudea, e i Greci non hanno nessun motivo per convertirsi al cristianesimo. Altri aspetti negativi del dio degli Ebrei sono la gelosia, l’invidia, l’orgoglio e la vanagloria, per cui coloro che lo adorano si rivolgono, in sostanza, a delle potenze demoniache. Non solo: la gelosia di Dio è diretta addirittura contro l’uomo, come spiega il racconto della caduta dei progenitori: Dio era geloso che l’uomo diventasse come lui era mangiando il frutto dell’albero proibito, una concezione assolutamente scandalosa. Tale gelosia si manifesta poi nell’intolleranza nei confronti di tutti gli altri dèi, che il Dio di Mosè non vuole che siano adorati. Tali immoralità del Dio di Mosè hanno come conseguenza anche il fatto che si debba dubitare della sua onnipotenza. Prima di tutto è assurdo attribuire a Dio l’ira (un problema che, come si vedrà, preoccuperà anche molti scrittori cristiani, da Tertulliano a Lattanzio): chi mai, uomo o demone che fosse, avrebbe potuto opporsi all’ira di dio? Se poi Dio, nella sua gelosia, non voleva che gli altri dèi fossero adorati, o non fu capace di impedire che lo fossero o non volle che non lo fossero. Entrambe le alternative sono evidentemente indegne di lui. Di conseguenza, il Dio degli Ebrei dovette accettare, sia pur contro voglia, che il suo popolo fosse, in certi momenti della sua storia, governato da dei re di altre nazioni. Le qualità intrinseche di un popolo e la sua prosperità sono la prova evidente della esistenza di un dio che lo protegge, come sostengono i pagani: ma un’oggettiva considerazione di tutta la cultura ebraica conferma la lontananza del popolo ebraico dalla verità e dalla sapienza di Dio. Una valutazione critica della Legge mosaica, quale espressione della natura di un popolo, mostra che il famoso Decalogo, che era stato scritto dal “dito di Dio”, è duro e assurdo e contiene molti elementi di inciviltà e di barbarie. Che non sia esistito un potere divino che difendesse il popolo ebraico e influisse sui suoi costumi è dimostrato anche dalla povertà culturale, scientifica e politica di quel popolo: nessuno può contestare il basso livello che ebbero la cultura e le arti liberali presso gli Ebrei, i quali, in effetti, non furono inventori di nessuna arte. Essi erano privi di ogni sapere e ogni esperienza filosofica: il loro sapiente più famoso, il re Salomone, fu perver-

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tito dalla sua inclinazione agli amori per le donne e per i piaceri. Anche per quello che riguarda il governo dello Stato, è evidente l’inferiorità degli Ebrei. Poiché, in base alla stessa definizione che i Giudei dettero del loro Dio, questi non ha niente a che fare con la vita, le abitudini, le maniere o il buon governo o le costituzioni politiche delle razze e dei popoli estranei al giudaismo, il potere del Dio dei Giudei deve essere valutato solamente sulla base di quello che egli ha fatto per loro. Ebbene, le sue opere non sono grandi. Infatti il sistema politico, i tribunali e l’amministrazione ebraica delle città sono deplorevoli e barbarici. Oltre a questo, gli Ebrei erano stati ridotti in schiavitù o sottomessi da popoli stranieri quasi sempre nel corso della loro storia. Essi non potevano certo vantarsi di avere avuto tra di loro un Alessandro Magno o un Cesare. La loro inferiorità deve quindi essere ricondotta all’inferiorità del loro Dio. Ma la responsabilità di tutto questo errore delle convinzioni giudaiche deve essere attribuita a Mosè, il quale deviò dalla teologia originaria degli Ebrei – che era, come si è detto, quella di Abramo, originario della Caldea – e innovò in materia religiosa; responsabili sono anche le generazioni successive, che innovarono dall’insegnamento di Mosè e pervertirono ancor più il giudaismo iniziale. Nel loro desiderio di sradicare ogni culto degli altri dèi, queste generazioni più tarde aggiunsero al disprezzo anche la bestemmia nei confronti degli dèi stranieri. 7. La paideia greca fu pervertita dai Galilei La civiltà e la cultura greca, rimaste estranee al giudaismo, furono poi pervertite dai Cristiani, i quali si mossero sulla base dello stesso insegnamento giudaico. Di conseguenza non si può ammettere che esistano degli insegnanti cristiani, perché essi non sono in grado di insegnare la paideia greca – l’unica possibile e l’unica esistente: i Cristiani debbono essere esclusi dall’insegnamento. Le Scritture dei Galilei non sono in grado di fornire una educazione adeguata, perché il loro Dio non ha donato loro niente di grande, e, d’altra parte, essi non si giovarono attingendo alla cultura e alla civiltà greca che li circondava. Per questo motivo Giuliano emanò il famoso editto che escluse dall’insegnamento i maestri cristiani. Gli stessi maestri dei Galilei erano persone spregevoli: tali furono i profeti e gli apostoli e lo sono gli stessi Cristiani contempora-

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nei di Giuliano. I profeti non erano stati educati da un adatto programma di studi, mentre i Galilei, a loro volta, tengono in grande considerazione dei racconti che si rivelano essere solamente delle menzogne. Anche i maestri del Nuovo Testamento sono ad un basso livello di cultura. I Galilei, insomma, nel corso dei secoli si riempirono degli errori che avevano insegnato loro dei pescatori ignoranti. Né i Galilei contemporanei a Giuliano erano migliori. Essi sostenevano che l’insegnamento della Scrittura era sufficiente, e cionostante volevano servirsi della paideia greca. Tali erano alcuni vescovi con i quali Giuliano era venuto a contatto (ad esempio Aezio, a cui accenneremo ancora a pp. 728 ss.), i quali, d’altro canto, attribuivano alle lusinghe del demonio le bellezze della letteratura greca. Tutto questo era incoerente, per cui l’unica conseguenza era quella di impedire loro, se non era possibile di leggere le opere dei Greci, almeno di insegnarle a scuola. Essi insegnavano letteratura greca senza essere dei veri Greci e senza credere in quello che insegnavano: tornassero, quindi, alle loro chiese e lì insegnassero i loro testi sacri! In conclusione, gli insegnamenti dei Galilei sono ridicoli e il loro governo della cosa pubblica è pericoloso. Tale è, innanzitutto l’insegnamento di vendere tutto quello che si ha e di distribuire ai poveri il ricavato: se tutti avessero attuato quel comandamento, si sarebbe arrestato il commercio e la vita civile sarebbe morta. Ancora di più Giuliano critica il comportamento dei monaci e degli eremiti, i principi morali del monachesimo che si stava diffondendo con grande impulso proprio intorno a quegli anni, insegnando ad abbandonare la città e a vivere nel deserto. Queste teorie perverse non preparano certo il cristiano alla vita politica e al governo della città. Giuliano domanda agli abitanti di Alessandria, presso i quali il cristianesimo era particolarmente diffuso, anche presso gli intellettuali, se i loro re del passato, i Tolomei, erano stati ispirati dalle parole di Gesù, quando avevano reso prospera la loro città. I Galilei, quindi, si erano staccati dal giudaismo, così come i Giudei, un tempo, a causa dell’insegnamento di Mosè e poi dei profeti, si erano staccati da una base culturale accettabile, perché affine a quella dei Caldei. Ebbene, la depravazione si accentua con il sorgere del cristianesimo, che costituisce una specie di eresia del giudaismo, e quindi una forma di ulteriore perversione e di allontanamento dalla paideia greca. Si è già detto sopra che

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Giuliano, nonostante tutto, nutriva ancora una certa stima dei Giudei, tanto da proporsi la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, probabilmente anche per odio dei Cristiani. L’inciviltà e la volgarità di pensiero e di costumi caratterizza quindi, al massimo grado i veri Galilei, cioè i Cristiani. Ora, anche quello che poteva essere accettato nella civiltà ebraica, era andato perduto con l’insegnamento dei Galilei, falsi greci. Dobbiamo tenere presente che Giuliano era animato da un forte impulso ad un rinnovamento morale, che doveva riguardare anche i riti religiosi; egli spesso accusa i sacerdoti pagani di eseguire le cerimonie religiose, che costituiscono il loro compito, con trascuratezza e disattenzione, e soprattutto senza nessuna vera partecipazione a quello che stavano facendo. Ebbene, immoralità, disinteresse per le cose religiose, abbandono delle tradizioni greche, caratterizzano la morale dei Cristiani, in modo analogo a quello che facevano, come abbiamo detto, i filosofi cinici contemporanei di Giuliano. 8. I Galilei, estrema perversione del giudaismo Come conseguenza, i Galilei erano apostati due volte rispetto alla grecità: i primi apostati erano stati gli Ebrei, e da questi si erano staccati poi i Galilei. I Galilei, comunque, avevano conservato molte cose della Scrittura ebraica, decaduta e pervertita: dall’insegnamento dei profeti ebraici essi avevano desunto le loro pratiche di vita, empie e atee. Oltre che per avere accettato l’ateismo degli Ebrei, i Galilei sono colpevoli anche per la loro visione esclusiva del loro monoteismo (e qui si rientra nell’argomento che abbiamo toccato poco sopra): essi hanno respinto ogni valore positivo, proprio delle altre religioni, anche se in questo, osserva Giuliano, molti tra gli stessi Greci sono così corrotti da avere abbandonato la tradizione ed avere dato impulso a tale pervertimento. I Galilei, quindi, hanno adottato un modo di vita sconcio e riprovevole, che è analogo alla volgarità e alla lascivia dei Greci degenerati. Da entrambe queste civiltà, quella ebraica e quella greca, i Galilei hanno tratto gli elementi peggiori. Giuliano conosce bene alcune delle spiegazioni che i Cristiani avevano addotto per giustificare il loro distacco dall’ebraismo, e le critica duramente. Innanzitutto, è irresponsabile l’affermazione di San Paolo, che Cristo è la fine della Legge (cf. Rm. 10,4) e che Dio sostituì la

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Legge precedente con una nuova, perché quella di Mosè era limitata nel tempo e nello spazio. Secondo Giuliano, queste giustificazioni sono speciose, perché anche la Legge di Mosè, come tutte le altre, deve avere un valore universale. Di conseguenza, i Galilei hanno rifiutato ogni pratica di purificazione cultuale, hanno accolto nelle loro comunità i peccatori e i disonesti, seguendo l’ordine dello stesso Gesù, che invitava tutti i malvagi e i disonesti ad andare da lui. Con la rinuncia alla pratica della purificazione, quindi, si è introdotta la rinuncia ad ogni esigenza morale. Un esempio di questo comportamento fu dato proprio da Costantino, che Giuliano riteneva responsabile dell’apertura alla causa dei Cristiani. Costantino, del resto, era dominato dalla dea della dissolutezza e del piacere, mentre lui, Giuliano, era personaggio di grande moralità e austerità. Oltre a queste colpe, i Galilei si sono macchiati delle violenze tipiche degli Ebrei: hanno distrutto gli altari e i templi (nel corso del quarto secolo, in effetti, cominciarono a verificarsi, fino a diventare cosa usuale alla fine di esso, le rapine degli arredi dei templi pagani, e delle loro strutture architettoniche, che furono trasformate in chiese cristiane). Questa violenza era stata tipica già della famiglia imperiale, che, ancora una volta con Costantino, aveva dato origine a tali malversazioni nei confronti del culto tradizionale; i suoi successori, gli imperatori Costante e Costanzo, avevano proseguito sulla stessa strada. Seguendo il loro cattivo esempio, i Galilei si erano abbandonati a numerosi episodi di violenza e di crudeltà anche sotto il principato di Giuliano, abbandonandosi, inoltre, ad altre pratiche condannabili e proibite dalla legge, come la magia, la superstizione, l’abitudine di dormire nei templi stessi del loro Dio, violandone così la santità. 9. Gesù Gesù e i primi discepoli non continuarono semplicemente ad adottare le usanze ebraiche e le tradizioni dei profeti, ma si pervertirono ulteriormente: ad esempio, introducendo nuove forme di preghiera. Gesù era un individuo miserabile, incapace di portare il peso del suo destino e che quindi aveva bisogno di un angelo che lo confortasse – e questo nonostante che egli fosse ritenuto Dio. L’inferiorità morale di Gesù si spiega, naturalmente, anche con il

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fatto che egli proveniva dall’ebraismo, il cui basso livello culturale è stato più volte sottolineato. A causa di questa umiltà Gesù non può essere paragonato in alcun modo con i grandi eroi dello stoicismo e del cinismo, o della storia greca e romana. Egli poteva, al massimo, essere posto allo stesso livello dei cinici contemporanei, i quali, come già abbiamo visto, erano disprezzati da Giuliano. I Giudei avevano l’obbligo di adorare solamente il loro Dio: come era stato possibile, quindi, che si fossero messi ad adorare un bastardo, che fingeva di essere Dio? Gesù parlava di sè come “figlio di Dio”, ma Mosè non aveva mai detto niente del genere, né aveva mai parlato del Figlio unigenito di Dio o del Logos di Dio o di qualunque essere divino che i Galilei avevano successivamente inventato. Se nell’Antico Testamento non si trovava niente di scritto a proposito di Cristo, si può dire che anche nel Nuovo Testamento niente si dice a proposito della sua natura divina. Né Paolo né Matteo, Marco e Luca osarono mai dire che Cristo era Dio. Il primo ad avere questa sfrontatezza fu Giovanni, e lo fece in modo oscuro, perché non lo chiama mai “Gesù” o “Cristo”, quando dice che era Dio o era Logos. Insomma, uno dei motivi della polemica di Giuliano con i Galilei fu il fatto che essi avevano attribuito a Gesù la natura divina. Nella epistola 79, inviata al vescovo Fotino, Giuliano afferma che era suo intento scrivere un trattato nel quale il nuovo Dio dei Galilei veniva spogliato della sua natura divina. La prova maggiore di questa falsità era costituita – come già da tempo sottolineavano i pagani – dalla morte vergognosa sulla croce e dalla sua sepoltura. Di conseguenza, i Galilei sono giunti ad un punto così basso di perversione da abbandonare il culto degli dèi eterni per abbassarsi al culto di un cadavere. Ridicola, quindi, è anche l’adorazione, da parte dei Galilei, del legno della croce – si ricordi che all’inizio del secolo in cui Giuliano scrisse il suo trattato anticristiano l’imperatrice Elena, la madre di Costantino, aveva cercato a Gerusalemme il legno della croce di Cristo e aveva costruito un tempio per custodirlo. I Galilei pensano che il massimo della teologia consista di due pratiche: l’esorcismo dei demoni malvagi ed il segno della croce, come ricordo di quel Gesù, che invece non fu altri che un empio. E, del resto, Gesù in terra non fece molte altre cose, oltre a quella di esorcizzare i demoni nei villaggi di Betsaida e di Betania. La bassezza di Gesù emerge anche dalla sua genealogia. Se la genealogia del grande dio Helios è sublime, più antica del cielo e

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della terra, Gesù non poté fare altro che chiamare se stesso “figlio dell’uomo”, cioè semplicemente un uomo. E questo, del resto, corrispondeva al messaggio di Mosè, il quale aveva detto che il Messia che doveva venire era semplicemente un uomo, e corrispondeva alla profezia di Isaia, che non aveva mai detto che l’unigenito nato dalla vergine sarebbe stato il Figlio di Dio e il primogenito di tutte le creature. Dai fatti della sua vita e dalla lettura dei Vangeli, si ricava, del resto, che Gesù era privo di ogni potere. E siccome l’Antico Testamento afferma più volte che solamente Dio salva, Giuliano si domanda come possano i Galilei chiamare Gesù “Salvatore”. Quindi anche la missione impartita da Gesù ai suoi discepoli, di andare e battezzare tutti i popoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (cf. Matt. 28,19), è una missione illegittima, perché Gesù non possedeva, in realtà, niente di divino. E l’evangelista Giovanni mente quando afferma che i Galilei videro Dio (Gv. 1,14), ma poi aggiunge che «Dio, nessuno lo vide mai» (1,18). Gesù stesso, del resto, dichiarò di essere figlio di un carpentiere, anche se i Galilei affermano che egli fu concepito di Spirito Santo. Sono, se mai, gli dèi dei Greci quelli che i Galilei debbono adorare; i Galilei debbono sostituire a Gesù Asclepio (il dio che dona agli uomini la guarigione) ed Helios, ché era Asclepio quello che ebbe la prerogativa di essere «presso Dio», come si legge nel Vangelo dei Galilei (Gv. 1,1). Se Gesù era stato capace di effettuare solo qualche guarigione modesta e insignificante quando era in terra, tanto meno il battesimo sarebbe stato in grado di curare i malati. In fondo, il Gesù proclamato dai Galilei si dichiarò egli stesso soggetto a Cesare; non fu in grado di fare niente per innalzare il livello sociale dei suoi famigliari e non parlò mai di santità. 10. La Vergine Maria Analogamente, non esistono basi testimoniali per chiamare Maria “Madre di Dio”, e nemmeno è stato scritto da Mosè che il futuro profeta sarebbe nato da Maria. Le stesse profezie che erano di interpretazione comune tra i Cristiani per attestare la nascita verginale di Cristo non sono valide. Arbitraria, ad esempio, era stata l’interpretazione cristiana di Isaia 7,14, ove si dice che un segno della venuta del Messia sarebbe stato il fatto che una vergine avrebbe partorito. Innanzitutto Isaia non dice che dalla vergine sarebbe

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nato un dio, ma un bambino; e anche ammesso che fosse stato così, questo bambino ritenuto dio non sarebbe nato da una vergine, perché Maria era sposa del carpentiere Giuseppe. Quindi non ha senso che i Galilei sostengano che Maria era la madre di Dio, perché questo non si trova scritto da nessuna parte dell’Antico Testamento. E il concepimento di Gesù nel grembo di Maria contraddice il fatto che Gesù stesso sarebbe stato “prodotto” dalla potenza dell’Altissimo. Può essere interessante ricordare che l’interpretazione cristiana del passo di Isaia era stata contestata anche dagli Ebrei. 11. Gli apostoli La perversione introdotta da Gesù nelle dottrine ebraiche fu ulteriormente proseguita dagli apostoli. Paolo, ad esempio, volle identificare il Dio dei Giudei con gli dèi delle nazioni (cf. Rm. 3,21). Ma la vera, rivoluzionaria, innovazione proposta da Paolo è costituita dal fatto che egli asserì la divinità di Cristo e sostenne che Cristo dovesse essere adorato come Dio. Una tale pratica, ovviamente, rivoluziona i dettami della Legge mosaica, che ordina la venerazione solamente dell’Altissimo. Questo processo di degradazione dalla adorazione di molti dèi, praticata dai Greci, all’adorazione di un Dio solo, voluta da Mosè, all’adorazione di un uomo, voluta dai Galilei, costituisce, quindi, il colmo della assurdità. Tale degradazione implicava l’adorazione di un nuovo Dio della Galilea, conosciuto da meno di trecento anni: secondo lo storico greco Socrate (IV-V sec. d.C.), Giuliano chiamava Gesù «il Dio galileo» (e si ricordi la esclamazione tradizionale – ma non attestata storicamente – di Giuliano che, colpito a morte in battaglia, gridò: «Hai vinto, Galileo» (vicisti, Galilaee), intendendo, quindi, proprio il «Dio galileo»). Questo disgustoso processo di adorare gli esseri umani, istituito dagli apostoli, proseguì nel corso degli anni. Esso prese forma con l’istituzione del culto dei martiri, il quale richiede che siano adorati anche molti miserabili individui che erano stati uccisi come malfattori. Abominevole è anche il fatto che i Cristiani pongano i cadaveri di coloro che sono morti di recente accanto a quelli che sono morti nel passato: è un riferimento alla loro abitudine di collocare nelle chiese o presso le tombe dei martiri i cadaveri delle persone ritenute più meritevoli. Tutte queste pratiche non erano

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state imposte né da Gesù né da Paolo, ma si erano diffuse nel corso degli anni. E nemmeno poteva piacere al severo imperatore il fatto che le donne cristiane di Antiochia (una città che lui detestava a causa della diffusione del cristianesimo in essa) si abbandonassero a una generosa beneficienza verso i poveri: si trattava, infatti, di un trucco escogitato dai Galilei per motivi propagandistici. Il sottolineare il ruolo degli schiavi e dei servi, come facevano i Cristiani, era solo un pretesto per entrare in un promiscuo contatto con le donne. Inoltre i Galilei del tempo di Giuliano, come in passato Gesù e Paolo, si rivolgevano alle classi più umili della popolazione, e quindi la loro religione non poteva godere di nessuna autorevolezza. Paolo, del resto, aveva detto (1 Cor. 6,9-11) che né gli idolatri né gli adulteri né i pervertiti né i sodomiti né i ladri né gli avari possono ereditare il regno di Dio: questo significa che tutti quelli che si erano convertiti alla nuova religione precedentemente avevano avuto quei vizi. Riprendendo le critiche di Porfirio a proposito del dissidio sorto ad Antiochia tra Pietro e Paolo, che sopra abbiamo considerato, anche Giuliano aveva concentrato le sue critiche sul comportamento di Pietro, definendolo un ipocrita, che era stato rimproverato da Paolo perché si preoccupava di vivere ora secondo i costumi dei Greci, ora secondo quelli dei Giudei. E ancora: come hanno potuto i discepoli riconoscere Mosè ed Elia durante la trasfigurazione di Gesù, se presso gli Ebrei non esistevano immagini? Considerata nel complesso, la critica di Giuliano al cristianesimo riprende molti motivi di Porfirio, ma è, nel suo tentativo di essere totalizzante e di esaminare ad uno ad uno i punti critici della religione cristiana, ancora meno filosofica e teorica di quella di Porfirio. Sembra che Giuliano abbia voluto insistere soprattutto sugli aspetti più popolari e conosciuti della religiosità grecoromana, per delinearne la superiorità sul Cristianesimo. Eppure, anche il trattato Contro i Galilei ebbe ampia diffusione presso i pagani, che lo ammirarono a lungo. Ne è un testimone Cirillo, vescovo di Alessandria, il quale scrisse una Replica contro Giuliano imperatore. In essa Cirillo ci fornisce alcune notizie interessanti, come, innanzitutto, un giudizio sull’imperatore Giuliano. Prima della sua ascesa al trono, egli era annoverato tra i fedeli ed era stato ritenuto degno di ricevere il santo battesimo e

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si era esercitato nei libri sacri: Giuliano, infatti, era stato “lettore” prima di essere battezzato. Ma degli uomini spregevoli e dediti alla superstizione dell’idolatria, prosegue il vescovo di Alessandria, che erano divenuti famosi, gli instillarono i ragionamenti dell’apostasia e, con l’aiuto di Satana, lo condussero al modo di vivere degli Elleni e al culto dei demoni impuri, lui che era stato educato nelle sante chiese e nei monasteri. La lingua ben dotata, che possedeva, egli l’affilò contro il Salvatore Gesù: scrisse tre libri contro i santi Vangeli e la veneranda religione dei Cristiani e per mezzo di essi scosse l’animo di molti. Le persone superficiali, che ancor oggi si lasciano traviare, si accostano facilmente alle sue concezioni e sono preda gradita dei demoni; ma talvolta sono turbati anche coloro che hanno progredito nella fede, perché credono che Giuliano conoscesse le Sacre Scritture, dato che egli accumula, nei suoi ragionamenti, numerose testimonianze ricavate da esse. Poiché moltissimi seguaci della superstizione, quando incontrano i Cristiani, li insultano in tutti i modi, esibendo contro di essi gli scritti di Giuliano, e dicono che essi posseggono un’incomparabile efficacia e che nessuno dei nostri dottori ha mai osato replicargli o confutare le sue idee, allora, cedendo all’esortazione di molti, Cirillo si accinge a lacerare la superbia greca che si è levata contro la gloria di Cristo.

Capitolo ottavo

Filosofia pagana e verità cristiana 1. Il cristianesimo fu ostile alla filosofia greca? Una delle affermazioni più frequenti nelle opere degli scrittori cristiani è quella della condanna della filosofia, in quanto essa è considerata come la manifestazione più evidente dell’orgoglio del pensiero umano, destinato ad una ricerca senza fine e, in ultima analisi, sterile, in quanto privo della luce della rivelazione. Spesso ci si rivolgeva, a conferma di tale condanna, alle parole di S. Paolo (Col. 2,8): Badate che nessuno vi faccia sua preda con la “filosofia”, questo fatuo inganno che si ispira alle tradizioni umane, agli elementi del mondo e non a Cristo.

A differenza di quanto si intende oggi, e cioè che queste parole mettevano in guardia i Cristiani di Colossi, affinché non cedessero a certe dottrine pagane – dottrine dei tempi dell’apostolo – le quali interpretavano l’origine del mondo come dovuta all'opera di principi materiali, e non alla volontà di Dio, l’ammonimento fu comunemente interpretato in senso assoluto, come una esortazione a non abbandonarsi allo studio della filosofia. Eppure non ci dobbiamo lasciare ingannare dalle affermazioni di principio degli scrittori cristiani. Accanto a questa sentenza paolina, possiamo trovare spesso delle discussioni dalle quali emerge che la filosofia pagana era considerata, certo, ad un livello inferiore rispetto alla rivelazione cristiana, ma comunque non priva di un suo valore. Inoltre, anche se oramai è stata accettata da tutti tale valutazione dell'ammonizione paolina, in un senso più vicino alla realtà storica, si deve tenere presente che la polemica dei Cristiani contro la filosofia spesso rispondeva solo ad una enunciazione di principio, ma non era seguita da una applicazione pratica. Sul piano teorico mai i Cristiani dubitarono che la filosofia greca, nella migliore delle ipotesi, altro non fosse che una “ancella della teologia”; nel secondo caso, cioè nell’ambito della strutturazione di un pensiero cristia-

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no, la storia ha mostrato quanto profondamente esso abbia elaborato alcune concezioni della filosofia greca, nonostante le polemiche dei pagani, e nonostante il fatto che tali polemiche venissero ispirate proprio dalla filosofia, in particolare dal platonismo (lo si è visto in Celso, Porfirio, Giuliano). Ed ancora fu detto che il cristianesimo greco fu più aperto alla filosofia e alla cultura greca che non il cristianesimo latino. Pure questa affermazione contiene molta parte di verità, ma può essere accolta solo valutando attentamente i singoli casi. Giustamente ha osservato uno studioso moderno, Raniero Cantalamessa, che non è giusta «la tendenza comune, oggi nettissima, di giudicare l’ellenizzazione del cristianesimo come un fatto deteriore, una specie di macchia sulla coscienza della religione cristiana». Questo sarebbe, egli afferma, il primo errore di impostazione: «in se stesso il fatto dell’ellenizzazione è perfettamente in armonia con l’indole del cristianesimo, religione dell’Incarnazione e religione universale: religione cioè che per sua natura è capace di incarnarsi in ogni cultura autenticamente umana […] Coerentemente bisognerebbe fare il processo alla romanizzazione del cristianesimo […] ma anche alla germanizzazione, all’africanizzazione di esso. Su questa linea non rimarrebbe che ritornare alla fase del giudeo-cristianesimo, alle tesi, cioè, di coloro che condannavano ogni tentativo di trapianto del messaggio evangelico fuori dell’universo spirituale della Bibbia. Semmai, è necessario apprezzare la libertà sovrana con cui i Padri piegarono alle esigenze del messaggio cristiano concetti e categorie fondamentali del pensiero greco (come quelli di persona, di ipostasi, di natura)». Tale libertà mostra con quanta intelligenza essi ellenizzarono il cristianesimo. «Non è quindi sul fatto dell’ellenizzazione che deve concentrarsi la discussione, quanto, semmai, sul modo e la misura con cui essa si è verificata» (cf. Cristianesimo primitivo e filosofia greca, in: Il cristianesimo e le filosofie a cura di Raniero Cantalamessa, Vita e Pensiero, Milano 1971, pp. 26-57). 2. Un esempio di conciliazione fra pensiero biblico e filosofia pagana: Filone di Alessandria Precorritrice delle speculazioni cristiane a proposito del valore e dell’impiego della filosofia greca fu la speculazione di Filone di Alessandria: come vedremo anche in seguito, Filone è un per-

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sonaggio di primaria importanza per conoscere il pensiero cristiano tardoantico, soprattutto quello dell’oriente greco. In una sua opera (Il connubio con gli studi preliminari), egli intende spiegare Gen. 16,1-2, un passo che ai tempi di Filone e in un ambiente molto diverso da quello in cui esso era stato scritto non poteva non suscitare perplessità: [1] Sara, moglie di Abramo, non gli aveva dato figli. Ma ella aveva una schiava egiziana, di nome Agar. E Sara disse ad Abramo: «Ecco, il Signore mi ha chiuso il grembo perché non potessi procreare. Va’ dalla mia giovane schiava per avere figli da lei» (Gen. 16,1.2; trad. di Clara Kraus Reggiani, Bompiani, Milano).

L’interpretazione di Filone è che Sara significa la virtù, mentre la giovane schiava (cioè Agar), alla quale Abramo si deve rivolgere per avere figli, rappresenta le discipline di questo mondo. È logico, quindi, che si debba istituire un rapporto tra tali discipline e la virtù. Ora, come Sara è la padrona, e Agar la schiava, così le discipline umane sono serve della virtù, vale a dire (spiegheranno poi i Cristiani), della vera dottrina. La consueta definizione della filosofia quale ancilla theologiae ha in questa concezione filoniana i suoi precedenti. Questa, dunque, è la interessantissima trattazione esegetica di Filone: [2] Il nome di Sara, nell’interpretazione, significa «sovranità su di me». E la saggezza che è in me, la moderazione che è in me, il mio senso personale della giustizia e ciascuna delle altre virtù che sono circoscritte al mio solo io, esercitano solo su di me il loro potere sovrano. Questo potere mi guida e mi domina, e io ho deciso di ubbidirgli perché la sua sovranità scaturisce dalla natura. [3] Mosè raffigura tale sovranità – incredibile paradosso – come sterile e simultaneamente prolifica al massimo, se riconosce che da essa ebbe origine la stirpe più popolosa. In realtà, la virtù è sterile rispetto a tutto ciò che è male, mentre è tanto prolifica di beni che non ha bisogno di intervento ostetrico: infatti partorisce prima che arrivi la levatrice (cf. Es. 1,19) [...] [9] Per questo motivo Mosè non dice che partorisce, bensì che non partorisce per una data persona.

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Giacché noi non siamo in grado di accogliere i frutti della virtù se prima non abbiamo frequentato la sua schiava: e la schiava della sapienza è la cultura raggiunta percorrendo il ciclo degli studi preliminari. […] [11] Bisogna rendersi conto che i grandi assunti richiedono di norma grandi preludi. La virtù è il fine più alto, perché ha per oggetto la materia più nobile, che è la vita dell’uomo nella sua interezza. Di conseguenza è naturale che non si avvalga di preliminari irrilevanti, bensì della grammatica, della geometria, dell’astronomia, della retorica, della musica e di ogni altro ramo di studio che impegni l’intelletto. Di tutto questo è simbolo la schiava di Sara, Agar, come dimostreremo. [12] Il testo suona infatti così: «Sara disse ad Abramo: “Ecco, il Signore mi ha chiuso il grembo perché non potessi procreare. Va’ dalla mia giovane schiava per avere figli da lei”» (Gen. 16,2). Bisogna escludere da questo nostro discorso le unioni fisiche e gli accoppiamenti che hanno come fine il piacere. Si tratta qui del connubio dell’intelletto con la virtù: l’intelletto desidera avere figli da lei, ma, se non può ottenerlo subito, viene istruito a prendere in isposa la sua schiava, che è l’educazione media. […] [19] Le principali caratteristiche dell’educazione media sono indicate da due simboli: la stirpe di origine e il nome. Di origine essa è egiziana e si chiama Agar, che nell’interpretazione significa «soggiorno in paese straniero». In effetti, chi si dedica agli studi dell’educazione enciclica ed è amico del sapere più vario deve di necessità essere assoggettato al corpo terroso e egiziano, perché ha bisogno degli occhi per vedere, delle orecchie per ascoltare e udire, e degli altri sensi per cogliere ognuno degli oggetti sensibili. […] [23] Lo straniero che soggiorna in un posto è alla pari con i cittadini in quanto vi abita, ma alla stregua degli stranieri perché non vi ha residenza stabile e definitiva. Lo stesso si verifica, penso, per i figli adottivi che se da un lato sono alla pari dei figli legittimi in quanto ereditano dai genitori putativi, dall’altro rimangono dei figli spuri perché non sono stati messi al mondo da loro. Lo stesso rapporto che esiste tra padrone e schiava, tra moglie legittima e concubina, risulterà sussistere tra Sara, la virtù, e Agar, l’educazione. Di conseguenza l’uo-

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mo che aspira ardentemente alla speculazione e al sapere, di nome Abramo, ha per moglie Sara, la virtù, e per concubina Agar, l’intera educazione enciclica. [24] Dunque, chi raggiunge la saggezza attraverso l’istruzione, non può sdegnare Agar, perché l’acquisizione delle conoscenze preliminari è assolutamente indispensabile. Ma chi è deciso ad affrontare fino in fondo le dure lotte il cui premio è la virtù e opera con assiduità ininterrotta, senza mai abbandonare l’esercizio, si prenderà due mogli legittime e altrettante concubine, schiave le seconde delle prime. [25] Ognuna di queste ha natura e conformazione diversa. Così delle due mogli legittime l’una è un movimento del tutto sano, regolare e tranquillo, che (Mosè) ha chiamato Lia ( = liscia), deducendolo dalla sua storia. L’altra, invece, assomiglia a una cote e si chiama Rachele; ed è arrotandosi su questa cote che si affila uno spirito desideroso di lottare e di esercitarsi. Il suo nome si interpreta «visione della profanità», non già perché ella veda in maniera profana, bensì perché ritiene non sacre ma profane le cose visibili e sensibili nel confronto con la natura incorruttibile di quelle invisibili e intelligibili. [26] Considerato che la nostra anima è composta di due parti, razionale l’una, irrazionale l’altra, ciascuna di esse possiede una virtù peculiare: la razionale ha Lia, l’irrazionale Rachele. [27] Infatti, la seconda, agendo attraverso le sensazioni e ogni altro aspetto dell’irrazionale, ci esercita a disprezzare ciò di cui non si deve tener conto, come la gloria, la ricchezza, il piacere, che gran parte della massa volgare degli uomini giudica pregevoli e desiderabili, perché ha le orecchie corrotte e corrotto anche il tribunale degli altri sensi. [28] La prima al contrario insegna a evitare il sentiero impervio, accidentato e inaccessibile per le anime rivolte alla virtù, e ad avviarsi invece pianamente lungo la strada maestra dove non c’è pericolo che i piedi inciampino o scivolino. […] [34] Ora, Abramo e Giacobbe, come ci dicono le Sacre Scritture, ebbero non solo più mogli legittime, ma anche più concubine; Isacco, invece, non ebbe più di una moglie né alcuna concubina, ma una sola sposa legittima condivise la sua vita fino all’ultimo. [35] Per quale motivo? Perché la virtù che si consegue con l’insegna-

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mento verso cui tende Abramo, richiede un numero maggiore di studi, legittimi quelli legati alla saggezza, illegittimi gli altri connessi con il ciclo dell’educazione preliminare; e lo stesso vale per la virtù raggiunta con l’esercizio, che Giacobbe sembra essersi proposto come mèta. Gli esercizi, infatti, si compiono con l’adesione a dottrine molteplici e diverse, che guidano o si lasciano guidare, che stanno in testa o rimangono indietro, che comportano fatiche a volte minori, a volte maggiori. [36] Ma la stirpe degli autodidatti cui appartiene Isacco, la gioia, che è la migliore delle passioni buone, è dotata di una natura semplice, pura, immune da commistioni, che non ha bisogno né di esercizio né di insegnamenti, implicanti entrambi la necessità di conoscenze concubinarie oltre alle legittime. Poiché Dio aveva fatto piovere su di lui dall’alto dei cieli il privilegio di apprendere da solo e di insegnare a se stesso, sarebbe stato impossibile che egli vivesse in concubinato con discipline schiave e aspirasse a essere padre di dottrine bastarde. [37] L’uomo che ha avuto questo privilegio è definito sposo della virtù, sua signora e regina: i Greci la chiamano «perseveranza», gli Ebrei, Rebecca. Chi ha trovato questa sapienza disgiunta da fatica e da affanni, grazie alla felicità della sua natura e alla fecondità della sua anima, non cerca più nulla di quanto conduce al perfezionamento. [38] Egli ha pronti, a portata di mano, nella loro pienezza, i doni di Dio, convogliati dal soffio delle grazie più alte: vuole e prega soltanto che non lo abbandonino mai. E mi pare che il Benefattore gli abbia data in isposa la perseveranza proprio per far sì che le Sue grazie rimanessero per sempre in colui che le aveva ricevute. [63] Abbiamo descritto entro i limiti del possibile il connubio dell’intelletto bramoso di contemplazione con le facoltà della moglie legittima e della concubina. Bisogna ora riprendere il filo del discorso con l’esame di quanto segue. Il testo dice: «Ascoltò Abramo la voce di Sara» (Gen. 16,2b), perché chi è in fase di apprendimento deve ubbidire di necessità agli ordini della virtù. [64] Tuttavia non tutti ubbidiscono, bensì quelli soltanto che sono compenetrati da un amore ardente di conoscenza. Quasi ogni giorno le sale di conferenza e i teatri si affol-

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lano e i filosofi dissertano a lungo, imbastendo disquisizioni sulla virtù senza prendere fiato. [65] Ma a che servono questi discorsi? La gente, anziché prestare attenzione, lascia correre la mente altrove: chi pensa alla navigazione e al commercio, chi alle entrate e all’agricoltura, chi alle cariche e alla politica, chi ai guadagni ricavabili dai vari tipi di mestiere o di professione, altri pensano alla vendetta da prendere sul nemico, altri ancora al soddisfacimento dei desideri amorosi: insomma, a ognuno vengono in mente cose diverse. Ne consegue che tutti rimangono sordi all’argomento di cui si discute e sono solo fisicamente presenti, ma mentalmente lontani, in tutto simili a immagini o statue. [66] Ammesso poi che qualcuno presti attenzione, non fanno che star seduti in ascolto, ma una volta che se ne sono andati non ricordano una parola di quel che è stato detto: sono venuti per il piacere dell’orecchio, più che per ricavare qualche giovamento. Perciò la loro anima non ha alcuna capacità di concepire e di procreare: non appena si azzittisce la causa del loro piacere si spegne anche la loro attenzione. [67] Una terza categoria è costituita da quelli che sentono risuonare come un’eco le cose che vengono dette, ma che alla prova rivelano di essere dei sofisti, non dei filosofi: le loro parole meritano lode, la loro vita merita invece biasimo, perché sono capaci di dire il meglio, ma incapaci di metterlo in atto. [68] Si trova raramente un essere dotato insieme di attenzione e di memoria, uno che anteponga l’azione alla parola, qualità tutte attestate per l’uomo desideroso di apprendere con l’espressione «ascoltò (Abramo) la voce di Sara». Egli non viene infatti rappresentato nell’atteggiamento di chi “sente” ma di chi “ascolta”, il termine più appropriato a esprimere assenso e ubbidienza. […] [70] Infatti, a proposito di Giacobbe, quando viene mandato a prendere moglie nella sua famiglia, è detto: «Giacobbe ascoltò suo padre e sua madre e partì per la Mesopotamia» (Gen. 28,7) e non «ascoltò la loro voce e le loro parole», perché l’asceta deve imitare un certo tipo di vita, non ascoltare dei discorsi: il secondo atteggiamento è tipico di chi riceve un’istruzione, il primo di chi lotta strenuamente da solo. Il testo suona così per consentirci ancora una volta di cogliere la differenza tra chi si esercita e chi apprende,

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nel senso che l’uno si regola secondo la persona che parla, l’altro secondo le sue parole. [71] Dice il testo: «Sara, moglie di Abramo, prese Agar l’egiziana, sua giovane schiava e la diede ad Abramo, suo marito» (Gen. 16,3). […] [72] Dunque, quando non siamo ancora in grado di avere figli dalla saggezza, essa ci dà in isposa la propria ancella che è, come ho detto, l’educazione enciclica, la quale svolge in certo senso il ruolo di intermediaria e di pronuba. È detto infatti che ella prese Agar e la diede in moglie al proprio marito. [73] È giusto chiedersi perché Mosè a questo punto chiami di nuovo Sara “moglie di Abramo”, una precisazione già ripetuta più volte in precedenza. Mosè in genere non usa la forma più deplorevole di prolissità che è la tautologia. Che dire allora? Quando Abramo si accinge a prendere in isposa l’ancella della saggezza, l’educazione enciclica, egli non dimentica (così afferma il testo) le promesse di fedeltà che lo legano alla sua padrona, ma sa bene che l’una è sua moglie per legge e per libera scelta, l’altra invece lo è per una imprescindibile necessità del momento. [74] Questo accade a ogni amante del sapere; e chi ne ha fatto esperienza diretta può darne la più fedele testimonianza. Io, ad esempio, quando per la prima volta la filosofia mi spronò con i suoi pungoli al desiderio di possederla, mi accostai in età giovanissima a una delle sue ancelle, la grammatica, e tutto ciò che generai da essa – la capacità di scrivere e di leggere e lo studio della materia poetica – lo dedicai alla padrona. [75] Mi unii poi a un’altra ancella, la geometria, e per quanto fossi affascinato dalla sua bellezza – perché presentava in ogni sua parte simmetria e proporzione – non mi appropriai di alcuno dei figli da lei procreati, ma li portai in dono alla moglie legittima. [76] In seguito sentii l’impulso di unirmi anche a una terza, che era tutta ritmo, armonia, melodia e si chiamava musica, e da lei procreai il genere diatonico, il cromatico, l’enarmonico, le melodie congiunte e disgiunte, conformate alla consonanza di quarta, di quinta e di ottava, e ancora una volta non cercai di tenere segreto nessuno di questi figli, perché la mia sposa legittima fosse arricchita di uno stuolo illimitato di servitù a lei soggetta. [77] Ci sono stati invece di quelli che, ammaliati dalle seduzioni delle schiave, hanno trascura-

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to la padrona, la filosofia, e sono arrivati alla vecchiaia dedicandosi alcuni alla poesia, altri alle figurazioni grafiche, altri ancora alla combinazione di cromatismi musicali, altri infine a innumerevoli altre cose, senza riuscire ad elevarsi fino alla sposa legittima. [78] In realtà, ogni arte ha un proprio fascino e sprigiona delle forze magnetiche, da cui certuni rimangono soggiogati al punto da non sapersene distaccare, dimenticando i loro impegni con la filosofia. Chi invece rimane fedele all’impegno preso cerca di procurarle da ogni parte ogni bene possibile per farle cosa gradita. Giustamente dunque il testo sacro, in segno di ammirazione per la fedeltà di Abramo, dice che Sara era sua moglie anche quando egli, per compiacerla, si unì alla sua giovane schiava. [79] In verità, come le discipline encicliche contribuiscono all’acquisizione della filosofia, così contribuisce la filosofia all’acquisizione della sapienza. La filosofia è ricerca della sapienza e la sapienza è scienza delle cose divine e umane e delle loro cause. Dunque, come la cultura acquisita con gli studi enciclici è schiava della filosofia, così anche la filosofia dovrebbe essere schiava della sapienza. [80] La filosofia insegna la continenza del ventre, la continenza del sesso, la continenza della lingua. Queste tre forme di autocontrollo si dice siano pregevoli in se stesse, ma assumerebbero una veste più nobile se fossero esercitate per onorare Dio e per piacere a Lui. Dobbiamo quindi ricordarci della sovrana quando ci disponiamo a ricercare l’unione con una delle sue schiave; e si dica pure che siamo i loro mariti, purché lei sia la nostra vera sposa, di fatto e non solo di nome. [81] (Sara) non dà (Agar ad Abramo) subito dopo il suo arrivo in terra di Canaan, ma dopo dieci anni di soggiorno (Gen. 16,3). Il significato di questo richiede un attento esame. Nel primo periodo dalla nascita la nostra anima ha per compagne soltanto le passioni – dolori, sofferenze, paure, desideri, piaceri – che la raggiungono tutte con la mediazione dei sensi, perché la ragione non è ancora in grado di vedere e di mettere a fuoco il bene e il male e la differenza che intercorre tra l’uno e l’altro, ma è ancora assopita e ha gli occhi chiusi come in un sonno profondo. [82] Con il passare del tempo, quando

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usciamo dall’età infantile per avvicinarci all’adolescenza ecco spuntare subito da un’unica radice due rami gemelli, la virtù e il vizio; di ambedue prendiamo coscienza, ma scegliamo decisamente uno dei due: i ben dotati la virtù, quelli di indole opposta il vizio. [83] Sulla base di questa premessa, bisogna tener presente che l’Egitto è il simbolo delle passioni e la terra di Canaan quello dei vizi; di conseguenza, è naturale che Mosè porti il popolo nella terra dei Cananei dopo averlo tratto fuori dall’Egitto. [84] L’uomo infatti, come ho detto, al momento della nascita riceve come luogo di dimora la passione egiziana ed è quindi radicato ai piaceri e ai dolori; in una seconda fase cambia residenza ed emigra verso il vizio, perché la sua ragione ha progredito fino a raggiungere una visuale più acuta e sa individuare ambedue le alternative, del bene e del male, ma sceglie il peggio perché è ancora fortemente legato alla componente mortale cui è congenito il male, come il suo contrario, il bene, è congenito a Dio. [85] Queste sono dunque, per natura, le patrie delle due età: dell’infanzia la passione, che è l’Egitto, dell’adolescenza il vizio, che è Canaan. Ma il testo sacro, pur sapendo perfettamente quali sono le patrie della nostra specie mortale, ci suggerisce la via da seguire per il nostro bene, quando ci comanda di odiare gli usi, i costumi e le abitudini di questi paesi, nel punto in cui dice: [86] «E parlò il Signore a Mosè dicendogli: “Rivolgiti ai figli di Israele e dirai loro: Io sono il Signore vostro Dio. Voi non agirete secondo le usanze della terra d’Egitto, nella quale avete abitato. E non agirete secondo le usanze della terra di Canaan, nella quale io vi conduco, e non seguirete le loro leggi. Voi osserverete i miei comandamenti e i miei ordini e camminerete in essi. Io sono il Signore vostro Dio. Voi osserverete tutti i miei ordini e i miei comandamenti e li metterete in atto. Colui che li avrà messi in atto vivrà in essi. Io sono il Signore vostro Dio”» (Lev. 18,1-5). […] [88] Noi sposeremo quindi Agar dieci anni dopo la migrazione presso i Cananei, perché non appena acquistiamo l’uso della ragione facciamo nostra l’ignoranza e l’incultura, per loro natura nocive. Soltanto dopo un certo tempo e sotto il segno del numero perfetto che è il 10 giungiamo

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al desiderio di una educazione conformata alla Legge, che sola può darci giovamento. [146] E c’è un’altra cosa, nota a tutti: che è stata la filosofia a far dono a tutte le arti particolari delle origini e dei semi, da cui sembrano sbocciare le loro speculazioni. Triangoli isosceli o scaleni, cerchi, poligoni e le altre figure sono altrettante scoperte della geometria; ma non è stata la geometria a scoprire la natura del punto, della linea, della superficie e del solido, che sono le radici e i fondamenti di quelle figure. [147] Su quale base potrebbe essa definire che il punto non è scomponibile in parti, che la linea è una lunghezza senza larghezza, che il solido ha tre dimensioni, lunghezza, larghezza e profondità? Questo spetta alla filosofia, ed è campo esclusivo del filosofo lo studio delle definizioni. [148] Così, l’insegnare a scrivere e a leggere è materia della «grammatica» elementare (che certuni con una variante chiamano «grammatistica»), mentre è riservato alla grammatica superiore il compito di spiegare le opere dei poeti e dei prosatori. Ma quando si tratta di spiegare le parti del discorso, i grammatici non ricorrono forse alle scoperte della filosofia, per servirsene con disinvoltura come di un sussidio accessorio? [149] In effetti, è specifico della filosofia stabilire per via d’indagine che cosa siano una congiunzione, un sostantivo, un verbo, un nome comune e un nome proprio, che cosa s’intenda per proposizione ellittica o completa, dichiarativa o interrogativa, generica o specifica, imperativa, ottativa o deprecativa. Ed è la filosofia che abbraccia gli studi sulle espressioni di senso compiuto, siano essere proposizioni o predicati. [150] Ancora: il saper individuare la semivocale, la vocale e la consonante muta, il sapere qual è di ciascuna di queste la pronuncia abituale, e l’intero campo della fonetica, degli elementi del linguaggio, delle parti del discorso, non sono forse stati frutto di elaborazioni e conclusioni dovute alla filosofia? Eppure, i grammatici hanno attinto da essa, come da un torrente, delle piccole gocce che serrano nelle loro anime ancora più piccole e non si vergognano, da veri ladri, di sbandierare il furto quasi fosse una loro proprietà. [151] Perciò, nella loro insolenza, essi ignorano la padrona, cui spettano realmente il predominio e il

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merito di aver consolidato i loro studi. Ma quella, consapevole del loro deprezzamento, li metterà con le spalle al muro e dirà con franchezza: «Io subisco un sopruso e un tradimento perché voi violate l’impegno preso con me. [152] Da quando avete aperto le braccia agli studi preliminari, figli della mia schiava, avete reso onore a lei come alla sposa legittima, e avete respinto me, come se non avessimo mai stretto un patto. Ma forse sono stata io a farmi delle idee sbagliate sul vostro conto, deducendo dalla vostra familiarità con la mia schiava l’esistenza di un’avversione latente per me. D’altronde, a nessuno è possibile sapere se i vostri sentimenti siano all’opposto di quelli che suppongo: saperlo è facile soltanto a Dio». [153] Perciò ella dirà a proposito: «Giudichi Dio tra me e te» (Gen. 16,5), non anticipando la condanna (di Abramo) come fosse colpevole, bensì lasciando aperto il dubbio, quasi che egli possa essere dalla parte del giusto; un dilemma che, del resto, viene chiarito subito dopo, senza possibile equivoco, dalle parole che egli pronuncia insieme a propria difesa e a dissipazione del suo dubbio: «Ecco, la giovane schiava è nelle tue mani: tu, trattala come più ti piace» (Gen. 16,6). [154] Chiamandola «giovane schiava», egli ammette due cose: che è una schiava e che è ancora in tenera età, perché l’espressione «giovane schiava» include entrambi i significati. Ma al tempo stesso egli riconosce indiscutibilmente la realtà di due contrari: della donna adulta contrapposta alla donna bambina e della padrona contrapposta alla schiava. Sembra quasi proclamare ad alta voce, con assoluta franchezza: «Mi è cara l’educazione enciclica in quanto creatura ancora giovane e in quanto schiava, ma la mia devozione è andata sempre alla scienza e alla saggezza, come a una donna adulta e a una sovrana». [155] L’espressione «è nelle tue mani» significa «è in tuo potere». Ma significa anche altro, che si può spiegare così: mentre le attitudini della schiava si trasmettono alle mani del corpo – le discipline encicliche richiedono, infatti, organi e facoltà fisiche –, quelle della padrona si estendono all’anima, perché tutto ciò che attiene a saggezza e scienza poggia sulle facoltà razionali. [156] «Quindi» (egli dice) «di quanto l’intelligenza è superio-

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re alla mano in forza, in efficacia e in tutto il resto, di tanto mi sono convinto che scienza e saggezza superino in pregio la cultura del ciclo preliminare ed è perciò che tributo loro una stima tutta speciale. Tu, dunque, che sei la mia sovrana e che io considero tale, prendi tutta la mia cultura e trattala come fosse una schiava, “come più ti piace”. [157] E quel che a te piace, lo so, altro non può essere che assolutamente buono, se anche non è gradevole, e utile, se anche è ben lungi dalla piacevolezza». Benefico e utile per chi ha bisogno di aprire gli occhi sui propri errori è l’ammonimento che il testo sacro definisce con l’altro nome di “maltrattamento”.

Questo rapporto tra sapienza umana, simboleggiata al massimo grado dalla filosofia, e sapienza cristiana, che si riassume nella rivelazione, è ripresentato da Clemente di Alessandria (150-215 circa) quasi due secoli più tardi (Stromati I 5,30-32), con parole che rendono evidente la sua derivazione dal trattato di Filone. Clemente afferma, infatti (I 5,32,5): Di conseguenza, per dirla in breve, la filosofia deve cercare la verità e la natura di quello che esiste in senso pieno. Anche se la verità è quella a proposito della quale il Signore disse: «Io sono la verità» (Gv. 14,6), comunque, la cultura che ci prepara a fare in modo che noi abitiamo con Cristo esercita la nostra mente e risveglia la nostra intelligenza e stimola un approfondimento, se ci dedichiamo alla vera filosofia. Va tenuto presente, però, che tale filosofia è quella di coloro che conoscono il mistero cristiano, ed è valida perché l’hanno ricevuta da colui che è la Verità stessa.

Ma la concezione di Clemente di Alessandria relativamente alla filosofia è molto più complessa, e non si limita a questo rapporto tra arti propedeutiche e teologia: ne riparleremo a suo tempo.

Sezione seconda

INTERAZIONE TRA LA CULTURA PAGANA E LA CULTURA CRISTIANA

Capitolo primo

Antropocentrismo e negazione del mondo 1. Il mondo e la ragione creatrice Nella cultura greca, fin dall’età ellenistica, e poi anche in quella romana dell’età imperiale, esiste, ed è ampiamente diffusa, la convinzione che il mondo, creato (o organizzato in una entità bene ordinata – appunto, kosmos, cioè “ordine”, “ornamento”) da un Artefice supremo, sia la manifestazione di una suprema razionalità. Una ragione provvidenziale e imperscrutabile ha creato il mondo, quello più grande, il macrocosmo, e quello più piccolo, il microcosmo, che è l’uomo: lo affermano gli Stoici, Cicerone nelle sue opere filosofiche, ma anche Seneca e scrittori amici dello stoicismo, come Plinio il Vecchio (30-79 d.C.). L’uomo è il riflesso del mondo fisico, anzi, è lo stesso mondo fisico, concentrato in dimensioni più piccole, e all’uno e all’altro deve essere rivolta la nostra ammirazione, mentre al dio creatore (od organizzatore) dell’universo e dell’uomo deve essere espressa la nostra gratitudine. Tutto questo, del resto, ben andava d’accordo con la cultura greca fin dai tempi più antichi, che non senza motivo aveva dato il nome di kosmos al mondo in cui viviamo. 2. La bellezza del mondo nel pensiero giudaico e cristiano A questa convinzione della mirabile bellezza e dello straordinario ordine del mondo, al cui interno vive la più perfetta creatura, che è l’uomo, non si sottrasse la cultura giudeo-cristiana che, d’altra parte, aveva, per queste convinzioni, numerosi archetipi nel giudaismo: i libri della Bibbia di origine greca, gli scrittori ebrei della diaspora, come Aristobulo e Filone di Alessandria, ed il giudeocristianesimo. Giudaismo e giudeocristianesimo accolsero ben volentieri la dottrina stoica e la adattarono alla fede in Yahvé. Ed è così che possiamo leggere un testo emblematico del giudaismo alessandrino, il libro della Sapienza:

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Gli uomini, partendo dai beni visibili, non seppero conoscere colui che è; anzi, non riconobbero l’artefice prestando attenzione alle sue opere, ma credettero che fossero dèi il fuoco o il vento o l’aria mossa velocemente o l’orbita delle stelle o la violenza delle acque o i luminari del cielo. Se, dilettati della loro bellezza, li hanno creduti dèi, sappiano quanto il loro Signore è migliore di essi, perché è stato il creatore della bellezza che li ha creati. Oppure, se hanno guardato con meraviglia la loro potenza e la loro opera, apprendano da esse quanto è più potente colui che li ha stabiliti. Infatti, a partire dalla grandezza e dalla bellezza della creatura si può manifestare, in modo da essere conosciuto, il creatore (13,1-5).

E Paolo, il quale era stato educato nel giudaismo e conosceva la cultura greca del suo tempo, nell’Epistola ai Romani così afferma: Infatti le realtà invisibili di Dio, fin dalla creazione del mondo, vengono intese e viste attraverso quelle cose che sono state fatte (1,20).

Altrettanto ripete, poi, la letteratura apologetica, Teofilo di Antiochia (morto intorno al 190 d.C.) come Tertulliano e Minucio Felice, i quali, quando si rivolgono ai pagani per diffondere la fede cristiana, non si esprimono diversamente da come si sarebbe espresso un dotto pagano, stoico o platonico, dell’epoca. E la mente più profonda ed acuta del cristianesimo dei primi tre secoli, Origene, riprende questa convinzione (ma potremmo citare molte altre testimonianze): Le opere della divina provvidenza e l’arte di questo universo sono come dei raggi del Dio, presenti nella natura, se paragonati alla sua stessa sostanza e alla sua natura. Poiché, dunque, la nostra mente di per sé non è in grado di vedere Dio nella sua natura, essa comprende il padre dell’universo basandosi sulla bellezza delle opere e sulla straordinarietà delle creature (I principi I 1,6). Ma Dio, modificando ed adattando con la sua ineffabile sapienza all’utilità ed al progresso comune tutto ciò

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che esiste, richiede concordia e comunione di opere in queste creature [Origene sta parlando delle stelle], nonostante che esse siano diverse l’una dall’altra per disposizione d’animo, sì che, pur con diversi movimenti, esse realizzino la perfezione di un solo mondo e la stessa varietà delle intelligenze celesti tenda ad un solo fine di perfezione (I principi II 1,2).

3. Contro l’antropocentrismo Di fronte a questo coro di lodi nei confronti della creazione del mondo e dell’uomo è opportuno, però, tener conto anche delle voci discordi, che non sono meno interessanti. Tale può essere considerato, ad esempio, nell’ambito della cultura pagana, un testo enigmatico di Plutarco, Le bestie sono esseri razionali. Esso introduce un dialogo tra Odisseo ed uno dei suoi compagni, trasformati in porci da Circe. Odisseo ha la possibilità, come leggiamo in Omero, di ritrasformare in uomini i suoi compagni, ma uno di essi, a cui Plutarco attribuisce il nome inventato di Gryllos, si rifiuta, opponendo ad Odisseo i numerosi motivi per i quali gli animali sono superiori agli uomini. Gryllos, nel corso del dialogo, ha costretto Odisseo ad ammettere che l’anima delle bestie ha una migliore disposizione naturale per produrre la virtù ed è più perfetta: infatti, senza ricevere ordini da altri e senza insegnamento, come un terreno non seminato e non arato, per natura produce e fa crescere la virtù. E quando Odisseo gli domanda quali virtù possiedano mai le bestie, Gryllos risponde che le bestie le posseggono tutte in misura maggiore degli uomini. Ad esempio, quando affrontano i combattimenti, esse non ricorrono a trucchi né ad artifici, ma si difendono con manifesta e nuda fiducia nella forza vera. Senza che vi sia il richiamo di una legge che le obblighi a farlo, esse resistono fino alla morte. Quando sono vinte, non pregano il vincitore di essere risparmiate. Inoltre, le femmine non sono per nulla inferiori ai maschi per coraggio e resistenza fisica. Se ne deduce come conseguenza che non è per natura che gli uomini hanno coraggio, ché, se fosse così, dovrebbero avere la stessa forza anche le donne. Il coraggio degli uomini, dunque, non è spontaneo, ma imposto dalla legge. Si possono citare anche esempi di temperanza delle bestie. Alla castità di Penelope si può contrapporre quella delle cornacchie: ciascuna di loro, se le

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muore il maschio, rimane vedova non per poco tempo, ma per nove generazioni di uomini. E che dire della temperanza di fronte ai cibi? Le bestie hanno anime assolutamente inaccessibili agli influssi provenienti dall’esterno e vivono senza abbandonarsi alla vana opinione. Pertanto non conducono una vita di raffinatezza e basata sul superfluo. La vita delle bestie è per lo più regolata dai desideri e dai piaceri necessari, mentre, se hanno dei desideri naturali, ma non necessari, gli animali non si abbandonano ad essi in modo sregolato o insaziabile (qui Plutarco scherza ironicamente sulla divisione epicurea dei piaceri). Insomma, le bestie sono così assennate che presso di loro non esiste nessuna arte inutile e vana. L’interpretazione di quest’opera così singolare ha suscitato numerose perplessità: c’è chi ha parlato di opera satirica alla maniera dei Cinici, chi di “pastiche” sofistico, chi di scritto antistoico, chi di scritto antiepicureo; inoltre c’è chi lo ha assegnato all’età giovanile di Plutarco, chi all’età matura. Infatti, insieme con gli epicurei, soprattutto gli Stoici furono tenaci assertori della tesi che l’intelligenza è un privilegio esclusivo dell’uomo, e Odisseo, che nel dialogo con Gryllos fa la figura del semplice e dell’ingenuo che non può replicare alle obiezioni, è l’eroe stoico per eccellenza, che incarna l’ideale del sapiente, superiore a qualsiasi avversità. Pertanto lo scritto su Le bestie sono esseri razionali sembra essere rivolto, anche se non in forma di trattato, ma in forma di paignion, di scherzo letterario, contro gli Stoici e gli Epicurei. Plutarco desume soprattutto dai Cinici le argomentazioni espresse da Gryllos. E si può dire ancora qualcosa. Non sembra che solo contro Stoici ed Epicurei fosse rivolta la polemica di Plutarco, bensì anche contro i platonici, o almeno una certa corrente di essi. Lo ricaviamo da un’opera di tutt’altro genere, che implica anche altre problematiche, completamente differenti da quelle di Plutarco, che conviene comunque considerare. Ci riferiamo al Discorso vero di Celso, filosofo platonico della seconda metà del II secolo, di cui abbiamo già parlato. 4. Voci scettiche Le considerazioni in favore delle bestie, che in Plutarco sono uno scherzo letterario, possono risultare pericolose, se portate alle estreme conseguenze, cioè se sono dette sul serio. A queste con-

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seguenze non teme di spingersi il platonico Celso, che già abbiamo incontrato, il quale, volendo confutare il provvidenzialismo dei cristiani, quel provvidenzialismo che risaliva ai loro archetipi giudaici, non esita a sottolineare l’intelligenza degli animali (cf. Origene, Contro Celso IV 81). È evidente che, per gusto polemico anticristiano, per confutare la concezione antropocentrica, sostenuta dal suo contemporaneo, il cristiano Giustino (Apologia I 10,2; II 5,2), Celso ricorre ad una argomentazione che si inquadra nella tematica già incontrata con Plutarco. Lo scrittore, per dimostrare la superiorità degli animali sugli uomini, cita come esempio il comportamento delle api e delle formiche (IV 74-99): la lode di questi animali costituiva, del resto, un esempio classico in tutto il mondo antico, almeno a partire da Platone (cf. Fedone 82 B) e da Aristotele (cf. Politica I 2, 1253a 7 sgg). Un elogio delle formiche si può leggere in Plutarco, La solerzia degli animali 11, 967D ss., e in Plinio, Storia Naturale XI 109 ss. Celso quindi combatte su più fronti: contro gli stoici, contro i giudei e contro i cristiani. La tesi stoica che negava la razionalità agli animali e ne affermava la necessaria servitù all’uomo era stata sostenuta anche da Filone, in un dialogo conservato solo in versione armena, Alessandro, ovvero se gli animali privi di ragione posseggano la ragione. Contro gli Stoici, invece, gli scettici della nuova Accademia avevano sostenuto il contrario; ancora più tardi, lo aveva fatto anche il neoplatonico Porfirio nel terzo libro del trattato Sull’astinenza dagli esseri animati. Celso quindi prende una posizione che era stata anche platonica. Di ben maggiore importanza, però, è il fatto che una polemica filosofica è portata da Celso ad un ambito molto più vasto, quello del contrasto tra cultura pagana e fideismo cristiano: Celso, infatti, vuole condurre una critica serrata contro l’antropocentrismo della nuova religione. Certo, si sarebbe potuto obiettare a Celso che non soltanto i cristiani, ma anche gli Stoici ritenevano che la virtù poteva essere prerogativa solamente degli uomini, perché solo gli uomini avevano la prerogativa dell’intelligenza. Ma le esigenze della polemica fanno sì che il platonico Celso non si scagli contro altri pagani, bensì solamente contro i nemici della tradizione culturale greca.

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5. Contro l’antropocentrismo: gli gnostici Con Celso e la sua polemica anticristiana siamo giunti alla fine del secondo secolo d.C.: il secolo degli Antonini, un Giano bifronte, come è stato definito, per il suo volgersi tenacemente alla idealizzazione del passato e per il prorompere in esso di nuove correnti religiose, come lo gnosticismo e le religioni orientali. Ed è anche il secolo della grande fioritura dello gnosticismo. Sul movimento gnostico si dovrebbe parlare a lungo, per quanto riguarda il deprezzamento del mondo e la polemica contro ogni provvidenzialismo, cristiano o pagano che sia. Può bastare un solo esempio, per quanto attiene la tematica che qui stiamo esaminando. Ci riferiamo ad un testo copto, conservato nella cosiddetta “biblioteca” trovata a Nag-Hammadi, in Egitto, quello che insegna sulla “ipostasi”, cioè sulla esistenza, degli “arconti” delle tenebre, vale a dire delle potestà del cielo delle quali aveva parlato S. Paolo (Ef. 6,12; Col. 1,13). Lo scrittore gnostico (di datazione incerta: IIIII sec. d.C.), infatti, lungi dal respingere la testimonianza paolina, prende lo spunto proprio da essa, parlando con espressioni oscure e apocalittiche: Per quanto riguarda l’ipostasi delle potenze. Nello Spirito del Padre della Verità. Così ci ha detto il grande apostolo (Ef. 6,12), a proposito delle potenze delle tenebre: «La nostra lotta non è contro la carne e il sangue, ma contro le potenze del mondo e gli spiriti della perversità» […] questo, perché tu cerchi a proposito dell’ipostasi delle potenze. Ma il loro Grande è cieco. A causa della sua ignoranza e della sua arroganza ha detto nella sua parola: «Io sono Dio, e non ve ne è un altro al di fuori di me». Dicendo questo, egli peccò contro il tutto, e questa parola giunse fino all’incorruttibilità. Ma ecco che una voce venne dall’incorruttibilità e disse: «Tu erri, Samael», vale a dire, «il dio dei ciechi». I suoi pensieri divennero ciechi. Egli gettò fuori la sua forza, che è la bestemmia che egli aveva detto. Egli la inseguì fino in basso, nel caos e nell’abisso, sua madre, attraverso l’intermediario della Pistis Sophia [...] L’incorruttibilità guardò in basso, nelle parti delle acque. La sua somiglianza si manifestò nelle acque e le potenze delle tenebre l’amarono. Ma essi non furono capaci di raggiungere questa somiglianza che era stata

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manifestata loro nelle acque, a causa della loro debolezza. [...] Gli arconti tennero consiglio e dissero: «Ebbene, facciamo un uomo dalla polvere, a partire dalla terra». Essi plasmarono l’uomo, perché fosse totalmente terreno (II 4,86-87).

Da questo passo (e da tutto il trattato, naturalmente) si ricava la esplicita negazione gnostica del demiurgo e, quindi, per forza di cose, la svalutazione della sua opera: il mondo. Abbiamo citato l’Ipostasi degli arconti, ma se leggiamo anche le testimonianze cristiane sul coevo gnosticismo, la informazione che se ne ricava non è differente: la condanna del demiurgo, del mondo, dell’uomo. 6. Difesa del mondo, contro gli gnostici: Plotino La diffusione dello gnosticismo tra il secondo e il terzo secolo dell’era cristiana fu un fenomeno imponente, del quale non ci rendiamo forse conto a sufficienza a causa del fatto che gran parte della letteratura gnostica ci è conservata in testi né greci né latini, e quindi non immediatamente accessibili a noi. Contro di esso si mosse il cristianesimo che oramai possiamo definire “ortodosso” e, cosa interessante, anche il platonismo, espressione della tradizionale sapienza greca. Famosa è, infatti, la polemica di Plotino contro gli gnostici, svolta soprattutto nel nono trattato della seconda Enneade. Plotino conosceva direttamente certe dottrine gnostiche, perché alcune persone, che erano adepti ad alcune sette gnostiche, avevano frequentato la sua scuola. Il tema che più sta a cuore a Plotino è la difesa della dignità del cosmo, che appunto gli gnostici negavano, attribuendone l’origine ad un dio inferiore; gli gnostici pensavano che il male del mondo fosse causato proprio dalla potenza animatrice del mondo stesso, cioè dall’anima cosmica. Esaminiamo, dunque, alcuni passi del nono trattato della seconda Enneade, contro gli Gnostici. Seguiamo, per questo problema, la interpretazione di Giulia Sfameni Gasparro (Plotino e gli gnostici, Cassiodorus 1, 1995, pp. 125-136), da cui riprendiamo anche le traduzione da Plotino. Il disprezzare il mondo e gli dèi che sono in esso e le altre cose belle non vuol dire diventar buoni. [...] Né si ammetta che questo mondo è nato male, per il fatto che

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vi sono molte cose moleste. Questo, invero, è proprio di chi attribuisce al mondo una dignità maggiore di quella che gli spetta, giacché pretende d’identificarlo col mondo dell’Intelletto e non lo limita, invece, ad essere una sua immagine. [...] Ma il concepire l’anima del tutto allo stesso modo della nostra anima, basandosi sulla nostra, è come se uno, in una città bene amministrata, avendo preso a considerare la classe dei vasai e dei fabbri, biasimasse tutta quanta la città (II 9,4.7).

«Nessuno dovrebbe rimproverare questo mondo come se non fosse bello o il più perfetto degli esseri corporei», dice altrove Plotino (III 2,3). Il cosmo, turbato dalla presenza della materia, può soltanto partecipare alla bellezza e alla vita dell’essere supremo: quindi deve essere inferiore a lui; non meraviglia che vi siano in esso delle insufficienze, ma pure, in quanto prodotto della provvidenza divina, esso è così bello, secondo Plotino, che non ve n’è un altro più bello (III 2,12). Da qui l’attacco contro gli gnostici. Essi biasimano e denigrano i governanti del mondo, identificano il demiurgo ignorante con l’Anima cosmica di Platone, attribuendole le stesse passioni delle anime individuali (II 9,6). In realtà anche questo cosmo viene da dio e tende a lui. Come si può essere pii e negare che la provvidenza penetri in questo mondo e in tutte le sue creature? Chi, tra coloro che sono così irragionevoli e orgogliosi, è altrettanto ben ordinato e previdente come il Tutto? (II 9,13-16). Eppure Plotino ben conosce l’origine di quell’audacia ed arroganza che egli così appassionatamente combatte: «rifiutando onore a questa creazione e a questa terra, essi pretendono che una nuova terra sia stata fatta per loro, una terra a cui si dirigeranno partendo da qui» (II 9,5), una nuova terra che è insieme la loro terra d’origine, il mondo di luce del “pleroma”, che per essi rappresenta l’unica vera realtà. Se il mondo è l’opera di un artefice ignorante e arrogante, lo gnostico è vittima, secondo Plotino, di un’insanabile contraddizione. Il mondo, infatti, non è la conseguenza di un processo di illuminazione continua ed eterna che a partire dall’Uno e attraverso l’Intelletto e l’Anima provvede a mantenere il mondo stesso nella sua costante bellezza e bontà, ma da esso ha avuto origine il male: È necessario, infatti, che questa illuminazione o sia secondo natura o contro natura. Ma se è conforme a

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natura, essa permane eternamente; se invece è contro natura, allora l’elemento contro natura si troverà nelle stesse realtà intelligibili e i mali saranno anteriori a questo mondo; e non il cosmo, ma i mali intelligibili saranno la causa dei mali; e l’Anima non riceverà il male dal mondo, ma sarà essa stessa a portare il male quaggiù; e il ragionamento farà risalire l’incompiutezza del mondo fino ai primi principi (II 9,12).

Ma nell’ambito di questi duri rapporti tra Plotino e gli gnostici non si deve risolvere tutto nella polemica: anche Plotino, per certi aspetti, è stato “gnostico”, ed ha avuto a che fare con i suoi avversari, che in quel momento combatte. Plotino stesso, infatti (II 9,10), parla di quegli gnostici come di «amici, che, essendosi imbattuti in questa dottrina prima di diventare nostri amici, persistono in essa». Ci si basa, come tutti del resto, sulla famosa citazione di Porfirio, Vita di Plotino 16: «la scuola romana di Plotino era frequentata da numerosi altri cristiani, oltre a dei settari (hairetikoi) che provenivano dalla filosofia antica». Secondo il Puech gli altri sono dei cristiani i quali, a differenza dei fedeli comuni, si ispiravano alla filosofia antica, pur interpretandola a loro modo o usandone in maniera “personale”, conforme alla loro “eresia”: si trattava, cioè, di “gnostici cristiani”. E infatti, i personaggi di cui Porfirio riferisce alcuni nomi ed enumera le opere, in particolare le “apocalissi”, di cui si servivano, sono caratterizzabili come gnostici e sono definiti “gnostici” da Porfirio nel titolo da lui dato al trattato II 9. Porfirio, inoltre, definisce il contenuto di quel trattato come rivolto «contro coloro che dicono che il demiurgo del mondo è malvagio e che il mondo è cattivo». Questi sono, infatti, i motivi del contrasto tra Plotino, sostenitore della tradizione greca, formatasi nella dottrina platonica, e gli hairetikoí, che pure lo stesso Plotino crede che siano stati originati dalla medesima tradizione greca. Del resto, tra le dottrine sostenute da questi gnostici, alcune sono di chiara derivazione platonica, e Plotino sottolinea che essi le sostengono a buon diritto. Sono la dottrina dell’immortalità dell’anima, del mondo intelligibile, del dio primo, della necessità per l’anima di fuggire dal corpo, della separazione dell’anima dal corpo, consistente nel fuggire dal mondo della generazione al mondo della realtà (II 9,6). Questi gnostici, dunque, in ogni caso sostengono delle dottrine di deriva-

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zione greca, ed esse meritano di essere conservate; altre, invece, sono oggetto del biasimo di Plotino: sono le novità non greche, introdotte in questo nucleo essenziale di verità. Secondo Plotino, infatti, sarebbe avvenuto uno stravolgimento ed una falsificazione, operata dai “settari”, di una ideologia tradizionale. Questi settari vogliono insegnare le loro dottrine schernendo e ingiuriando i Greci, e questa notizia concorda con quanto Plotino ci fa sapere, cioè che essi insegnavano che Platone non aveva compreso appieno la realtà intelligibile (II 9,16). È, questo, l’atteggiamento generale degli gnostici, che si può cogliere anche nei confronti del giudaismo e del cristianesimo: le dottrine giudaiche e quelle cristiane hanno bisogno di una giusta interpretazione, la quale può essere data solo partendo dalle premesse che gli gnostici stessi posseggono, mentre sono false o parziali le interpretazioni e i dogmi che ne davano i rappresentanti ufficiali di quelle dottrine, cioè i dotti della “Grande Chiesa”. Per quanto riguarda, poi, più dettagliatamente, i temi su cui gli gnostici hanno arbitrariamente innovato, stravolgendo così l’insegnamento tradizionale, essi, secondo Plotino, sono i seguenti: posto come assioma che «le dottrine degli antichi filosofi sugli intellegibili sono molto superiori», gli gnostici hanno preso da loro molte cose, vi hanno fatto delle aggiunte poco convenienti con lo scopo di contraddire, ammettendo che nella realtà intelligibile esistono generazioni e corruzioni di ogni sorta, biasimando questo universo, considerando una colpa l’unione dell’anima con il corpo, criticando colui che governa il nostro mondo, identificando il demiurgo con l’anima ed attribuendo ad esso le stesse passioni che attribuiscono alle anime particolari (II 9,6).

Il primo motivo è noto, si può dire, in tutta la teologia gnostica: è quella ingiustificata moltiplicazione delle ipostasi divine che, di fronte alla razionale semplicità del pensiero triadico, derivante da Platone (uno-bene, intelletto, anima) appare a Plotino stesso espressione di pericolosa irrazionalità, congerie di inutili invenzioni (II 9,1-2). L’invenzione degli gnostici, ciascuno dei quali moltiplica, come se si trattasse di un mito, le entità del mondo intellegibile, deriva dalla convinzione che nella realtà divina ha luogo una degradazione. Questo appare una follia al platonico

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Plotino. Le generazioni e corruzioni inventate dagli gnostici a proposito della realtà intellegibile sono quelle “emanazioni” di cui abbonda la letteratura gnostica. Inoltre, se Plotino è d’accordo con gli gnostici nell’affermare che l’unione dell’anima con il corpo non è, per l’anima, la cosa migliore (e questo, del resto, è affermato da tutta la tradizione greca di ascendenza orfica e pitagorica, oltre che platonica), e se raccomanda la fuga dal corpo e dal sensibile come necessaria premessa al ritorno dell’anima fra gli intelligibili cui per natura appartiene, egli non può assolutamente ammettere che la caduta dell’Anima sia la premessa della creazione del mondo: ciò significherebbe, come vogliono gli avversari, una “produzione malvagia” (II 9,4). Plotino rifiuta l’attribuzione all’anima cosmica e al demiurgo delle passioni che in realtà si trovano solo nelle anime individuali, a causa della loro parte che è legata alla realtà corporea (II 9,7). Gli gnostici esprimono critica o addirittura disprezzo nei confronti della creazione cosmica, di contro alla quale affermano l’esistenza di una “terra nuova” e “straniera”, alla quale aspirano ritornare. Di conseguenza quella che per il platonico Plotino è la migliore e la più bella delle immagini possibili delle realtà intelligibili, per lo gnostico è un’immagine non rassomigliante, quindi una realtà degradata, non commisurabile al suo modello. Questi individui che proclamano di possedere la conoscenza, dice Plotino, e pretendono che dio sia provvidente solo per loro, sono invece degli insensati, che si proclamano superiori alla saggezza. 7. Condanna del mondo: l’ermetismo La svalutazione della realtà umana nel mondo in confronto alla pura esistenza dell’anima, che abbiamo visto essere espressa con termini così aspri dagli gnostici, non deve essere considerata come tipica solamente di questi ultimi; essa si riscontra anche in molti trattati di un movimento teosofico caratteristico della tarda antichità, quello dell’ermetismo. Sono state individuate due correnti all’interno dell’ermetismo (II-III sec. d.C.): una di svalutazione e di condanna del corpo e del mondo, l’altra, certamente di tradizione greca, di ammirazione per l’uno e per l’altro. A testimonianza della prima tendenza, nell’ambito della considerazione della realtà umana, possiamo citare

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alcune enunciazioni: «se tu non nutri odio per prima cosa per il tuo corpo, non puoi amare te stesso» (IV 6: l’«amare te stesso» vuol dire coltivare la propria personalità per mezzo dell’ascesi); «il corpo è il fondamento della malvagità» (VII 1). Viceversa, l’esaltazione del mondo è espressa là dove si propone l’identificazione tra dio e il tutto, e dove si esalta l’ordine e la bellezza del mondo visibile, definito «la pienezza della vita» (XII 15). La corrente definita “ottimista” dà grandissimo valore agli aspetti del mondo materiale, che è considerato componente essenziale dell’universo. L’universo stesso, infatti, è identificato spesso con la stessa divinità. Certo, bisogna riconoscere che l’ermetismo è pur sempre ispirato da concezioni dualistiche, le quali si manifestano nella convinzione che esista una profonda disparità, nell’ordine dei valori e delle sostanze, fra il luminoso regno divino e la natura materiale, caratterizzata dall’oscurità; l’ermetismo attribuisce la formazione del mondo dalla materia ad una serie di esseri divini, quali il Logos e il secondo Intelletto creatore (Corpus Hermeticum I 8-11). Pur regolata dalla legge inflessibile dell’heimarmene, cioè dal destino fissato dai pianeti, che obbediscono ai sette Governatori, la creazione possiede pur sempre i valori positivi espressi dalla nozione di kosmos secondo i canoni tradizionali del pensiero greco. Di conseguenza, l’ermetismo non giunge a quella radicale condanna del mondo che è caratteristica degli gnostici. Il dualismo che oppone il principio intellettuale, divino, al sostrato materiale si coglie, per gli ermetici, soprattutto nell’ambito della costituzione dell’uomo. Nell’intima struttura dell’uomo, infatti, si trova la sua negatività, quel principio oscuro e caotico che rappresenta l’aspetto negativo della realtà. La salvezza dell’uomo consisterà allora nell’acquisire piena coscienza della propria duplicità, della presenza dell’elemento negativo accanto a quello che compone l’uomo in armonia con la perfezione del tutto. Se uno avrà riconosciuto la propria intima realtà, e quindi considererà se stesso come consustanziale al mondo divino e all’Intelletto supremo, ritornerà con la morte, appunto, al mondo divino, dopo essere asceso mediante un viaggio attraverso le sfere planetarie, che lo spoglierà gradualmente dei vizi che si erano sovrapposti alla sua anima durante la discesa attraverso le stesse sfere planetarie fino al mondo.

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8. Esaltazione del mondo: ancora l’ermetismo All’interno dell’ermetismo possiede, secondo noi, un significato particolare un trattato che ebbe amplissima diffusione nell’occidente latino, dalla tarda antichità al Medioevo al Rinascimento, l’Asclepius (esso fu scritto nel II-III sec. d.C. in greco e fu tradotto in latino nel IV sec.) Spiegando al suo discepolo Asclepio l’origine e la natura del mondo, il Trismegisto insegna nel modo seguente: Ascolta, dunque, o Asclepio. Quando il signore e creatore di tutte le cose, che noi con ragione chiamiamo “dio”, ebbe creato un altro dio che è secondo dopo di lui, un dio che può essere visto e sentito [...] allora, poiché lo ebbe creato come suo primo prodotto e secondo dopo di sé, questo dio gli sembrò bello, in quanto era interamente pieno della bontà di ogni cosa, e dio l’amò in quanto era la progenie della sua natura divina. Allora, siccome questo (secondo) dio era così grande e buono, (il primo) dio volle che ci fosse un altro essere che ammirasse quell’unico che egli aveva creato da se stesso: così, immediatamente dio creò il genere umano, imitatore della sua razionalità e del suo amore [...] E così dio, dopo che ebbe creato l’umanità nella sua sostanza e si fu accorto che essa non avrebbe potuto prendersi cura di ogni cosa, se non fosse stata avvolta di un rivestimento materiale, la coprì con una casa corporea e volle che tutti gli esseri umani fossero come questo, mescolando e combinando le due nature in una secondo le loro giuste proporzioni. Perciò dio formò l’umanità con la natura dell’anima e la natura del corpo, cioè con quella eterna e quella mortale, cosicché l’essere umano così conformato potesse mostrarsi corrispondente ad entrambi i suoi principi, guardando con meraviglia gli esseri che sono nel cielo e adorandoli, curando gli esseri mortali e governandoli. Ma io mi accorgo, o Asclepio, che l’impaziente desiderio della tua mente ti spinge ad apprendere come il genere umano possa esercitare la cura e l’amore del cielo e delle cose che ivi si trovano. Ascolta, dunque, Asclepio. Amare il dio del cielo e tutto quello che il cielo contiene non può significare altro che un costante, assiduo

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servizio. Ad esclusione del genere umano soltanto, nessun essere vivente, né divino né mortale, ha mai prestato questo servizio. [...] Pertanto, dal momento che l’uomo fu creato e conformato in questo modo ed il dio sommo gli affidò tale compito e tale mansione, se egli osserva l’ordine del mondo in modo acconcio, se adora dio con devozione, adattandosi doverosamente e conformemente al volere di dio in entrambi i suoi aspetti, quale premio credi tu che un essere simile debba meritare? […] Non dovrà forse, costui, avere il premio che ebbero i nostri antichi e che uno desidererebbe, con la preghiera più devota, che ci venisse dato, se questo fosse gradito a dio? Si tratta, insomma, del premio di essere liberati, una volta terminato il nostro servizio, dalle catene del carcere del mondo, di sciogliere i legami con la condizione mortale, cosicché dio possa restituirci, puri e santi, alla natura della nostra parte migliore, la parte più divina (Asclepius 8-9; 11-12).

Abbiamo, dunque, qui, espressa con parole di entusiasmo, l’ammirazione per la perfezione del mondo e dell’uomo, che meritano il rispetto del filosofo, pur essendo entrambi composti di materia; e, in più, un nuovo concetto: l’obbligo che si pone all’uomo, data la sua posizione preminente nel creato, di prestare il proprio servizio al bene e al mantenimento dell’universo stesso, nonostante che esso sia a lui inferiore.

Capitolo secondo

Poesia greca e rivelazione cristiana 1. Considerazioni introduttive Era abitudine del mondo antico confermare un’affermazione ritenuta importante ricorrendo all’autorità dei poeti, in particolar modo di Omero. Questa consuetudine diventa ancor più frequente con gli Stoici, i quali si servivano dei poeti (oltre che di Omero, anche di Esiodo in primo luogo) per trovare in essi una conferma alle loro dottrine. Gli Stoici impiegarono anche citazioni dei poeti tragici di Atene, e Crisippo, uno dei loro filosofi più importanti, in particolare, seguiva questa pratica. Cicerone (La natura degli dèi I 14,36-15,41) irride questa abitudine della esegesi stoica: così osserva, con tono sarcastico, un personaggio del dialogo ciceroniano, l’epicureo Velleio: anche le affermazioni dei poeti più antichi sono interpretate dagli Stoici in modo tale che, anche se quelli non avevano pensato niente del genere, tuttavia sembra che siano stati degli Stoici.

Più tardi, anche Cicerone, quando rielabora le opere dei filosofi ellenistici, ricorre, oltre che alle citazioni dei tragici latini, alle citazioni dei tragici greci, traducendoli in latino. Successivamente, nel primo e nel secondo secolo dell’età imperiale, contemporaneamente al diffondersi e all’acculturarsi del cristianesimo, Plutarco e i retori della seconda Sofistica ci introducono in un modo di pensare e di leggere gli autori antichi che era oramai ampiamente diffuso: per questi letterati-filosofi e per i loro lettori, che nel secondo secolo dell’età imperiale avevano raggiunto una forma di acculturazione sconosciuta fino ad allora, i poeti del periodo classico servivano a conferire bellezza e autorità ai loro scritti. Gli studi moderni sulla Seconda Sofistica, fenomeno culturale che ora si affianca, ora si intreccia con quello dell’apologetica cristiana e della cultura filosofica coeve, sottolineano con frequenza l’importanza del lettore, accanto a quella dello scrittore.

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2. Gli apologeti cristiani Gli apologeti cristiani, i quali furono contemporanei, da un lato, dei sofisti, e dall’altro, dei filosofi medioplatonici, si volsero alla poesia classica come i sofisti e i filosofi, sia pure con degli scopi differenti, che erano quelli di diffondere la nuova religione e di assegnarle uno status onorevole in mezzo alla cultura pagana. Il primo tra gli apologeti del quale ci siano rimaste opere intere, Giustino, non fa sostanzialmente citazioni poetiche; esse appaiono invece con una certa frequenza nelle opere dei suoi successori, come Taziano, Atenagora e Teofilo, per divenire poi elemento insostituibile della scrittura di Clemente. Tra costoro (vissuti nel II sec. d.C.: cf. più oltre), Atenagora fu scrittore di buona formazione culturale e di vasta informazione: la sua Supplica, oltre ad essere caratterizzata da una notevole cura stilistica (che manca quasi totalmente, invece, in Taziano e Teofilo di Antiochia), deve essere valutata come un buon documento della civiltà letteraria del II secolo. La sua polemica antipagana lascia perciò un certo spazio all’apprezzamento di quella cultura greca nella quale era stato educato. Successivamente, invece, Teofilo di Antiochia fu un apologeta più polemico ed insistette soprattutto sulla fallacia e la contraddittorietà di tutte le opinioni dei filosofi e dei poeti sui problemi di Dio e della provvidenza. Ad esempio, all’affermazione del poeta e filosofo stoico Arato, vissuto nel terzo secolo a.C., che sostenne l’esistenza della provvidenza divina (Fenomeni 1-9), Teofilo contrappone (Ad Autolico II 8) due versi dell’Edipo re (978-979) e anche altri, di Sofocle, che la negano. A chi, dunque, bisogna prestare fede, ad Arato o a Sofocle?, conclude lo scrittore cristiano. Sempre secondo Teofilo, altri poeti, al contrario, sostengono che Dio interviene nelle vicende umane: per questa concezione provvidenzialista, che certo è più vicina alle idee dello scrittore cristiano, ben più numerose, nella sua opera, sono le attestazioni, da Omero e Simonide e soprattutto da Euripide e da Menandro (L’arbitrato 734). La conclusione è che gli autori pagani sono in completo disaccordo tra di loro. Nell’opera di Teofilo le citazioni sono accostate l’una all’altra in modo disordinato e senza un vero commento; l’apologeta si limita a basarsi sulla autorità dei poeti, della quale fa un uso disinvolto (cioè senza preoccuparsi del contesto in cui i versi citati

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erano stati scritti, ma solamente badando al significato che poteva tornare utile). Questo è, sostanzialmente, il metodo degli apologeti, anche dei più dotti e più intelligenti, non soltanto di Teofilo di Antiochia e di altri apologeti minori. 3. Clemente di Alessandria Clemente, vissuto tra il secondo e il terzo secolo, fu scrittore e filosofo molto prolifico, del quale parleremo anche in seguito. Nella sua opera maggiore, gli Stromati, egli annuncia il suo programma culturale: gli Stromati sono destinati alle persone colte di Alessandria, per mostrare loro che solo il cristiano è veramente pio: e ciononostante, egli può, e deve, servirsi della cultura e della lingua dei Greci ed evitare il più possibile di basarsi solamente sulla Scrittura. Di conseguenza, data l’importanza attribuita alla cultura pagana, Clemente si sente autorizzato a servirsi – tra gli altri – anche dell’autorità dei poeti classici. Del resto, da alcuni versi di Sofocle egli ha derivato (così si dice) anche il titolo e il carattere della sua opera (Stromati IV 6,2 ss.). Così, per introdurre la ricerca sulle idee platoniche, egli ricorre (Strom. IV 155,1) ad una citazione di Euripide: Beato colui che ha appreso la disciplina della ricerca, e non si spinge a molestare i concittadini né a compiere inique azioni, ma studia l’ordine che non invecchia della natura immortale, come e in che forma si è costituito. In questi uomini non si trova mai pensiero di vergognose imprese (Euripide, fr. inc. 910 Nauck; trad. di P. Pini, ed. Paoline, con modifiche, qui e in seguito).

È chiaro che l’atteggiamento di Clemente verso la cultura greca è più meditato e problematico di quello degli apologeti e che la sua attenzione, rivolta alla poesia drammatica, si inserisce in un piano più vasto, che oltrepassa la semplice citazione erudita. Il ricorso ai poeti del passato è funzionale ad un progetto culturale ben preciso. L’adattamento della cultura pagana a quella cristiana e il loro confronto reciproco costituiscono, dunque, il motivo centrale della “filosofia” di Clemente. Tenere conto di tutte le citazioni dei poeti effettuate da Clemente è impossibile a causa del loro numero infinito. Talune, poi, appaiono ai nostri occhi inconcludenti e

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poco funzionali, spesso arbitrarie; Clemente non ha il nostro stesso modo di citare e il suo scopo è diverso dal nostro. È inevitabile, quindi, fare una cernita. Certo, gli argomenti per i quali egli va alla ricerca di attestazioni sono i più disparati; più frequenti sono quelli di contenuto morale. Un esempio di quanto vogliamo dire è costituito da una interpretazione della storia greca e della storia ebraica, considerate in parallelo tra di loro. In Stromati I 163,1 ss. Clemente ricorda che, stando al racconto dello storico e geografo di età repubblicana e augustea (90-27 a.C.) Diodoro Siculo (cf. XIV 33), una colonna di fuoco sarebbe stata vista dal politico ateniese Trasibulo, vissuto nel quinto secolo a.C., il quale, esiliato, stava marciando con altri fuorusciti per tornare in patria. Ora, altrettanto avvenne per gli Ebrei durante la loro peregrinazione nel deserto (Es. 13,20). Certi avvenimenti della storia greca confermano, quindi, l’attendibilità della storia ebraica. Anche in un oracolo pagano si dice (Stromati I 63,4): «Dioniso, dalla molta gioia, colonna per i Tebani», e questo essere “colonna” deriva, secondo Clemente, dalla storia ebraica. E anche Euripide, nella tragedia intitolata Antiope, dice : «Dentro stanze di bovaro una colonna del Dio Euios, incoronata di edera»: questa colonna di cui parla Euripide significa l’impossibilità di rappresentare in immagine Dio (163,4-5), mentre la colonna illuminata di cui si legge nell’oracolo, simboleggia la stabile durata di Dio, la sua luce immutabile, cui non si può dar figura: tanto è vero che prima di erigere le statue degli dèi gli antichi erigevano colonne e le veneravano come immagini di Dio. Una spiegazione molto contorta! 4. Il teatro e gli apologeti cristiani: contro il politeismo La condanna del politeismo è, logicamente, l’atteggiamento preliminare degli scrittori cristiani. Le loro argomentazioni a questo riguardo riprendono molti temi della stessa filosofia pagana, in particolare dello scetticismo accademico o dell’evemerismo: a dimostrare quanto stiamo dicendo bastano, qui, solo degli accenni. Secondo Atenagora (Supplica 29,3), se gli dèi erano veramente tali, non dovevano rivolgersi all’oro (come si legge in Euripide), perché non dovevano aver bisogno di niente né paura di morire; l’unica spiegazione di questo desiderio di possedere è che quelli che ora sono venerati come dèi erano stati, precedentemente, soltanto degli uomini, e uomini spregevoli per la loro ignoranza e incapa-

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ci di resistere al desiderio delle ricchezze. Esempi di questo genere, cioè di uomini ritenuti dèi dalle età successive, sono i personaggi mitici Castore, Polluce, Amfiarao, così come anche i naufraghi credono che una fanciulla, di nome Ino, sia divenuta la dea Leucotea, o che Palemone sia divenuto una divinità. Anche Clemente ricorre ai poeti tragici per confutare l’idolatria. La sezione di Strom. V 128 è dedicata alla confutazione dell’esistenza della dea fortuna, una divinizzazione sicuramente di carattere popolare. A questo scopo lo scrittore ricorre ad una citazione di Filemone e ad una di Sofocle. Quest’ultimo frammento è di dubbia autenticità, perché appare influenzato, come altri passi poetici che vedremo, dal monoteismo giudaico: Zeus, infatti, è esaltato come il più grande degli dèi, e addirittura li trascende: Neppure agli dèi tutto avviene secondo la loro scelta, tranne che a Zeus: / egli, sì, possiede il termine e il principio.

5. Il vero Dio La discussione teorica del problema di Dio è affrontata, prima di Clemente, già da Atenagora, il quale osserva (Supplica 5,1) che i poeti e i filosofi non furono ritenuti atei, come avveniva, invece, per i Cristiani, quando si soffermarono a discutere di dio. Euripide, nell’esprimere le sue perplessità a proposito di quelli che le presunzioni volgari consideravano dèi, dice: «Se abita nel cielo, Zeus non dovrebbe rendere infelice il medesimo uomo». E spiega che quello che è intelligibile secondo la scienza è Dio, per cui è calzante questa conclusione: Vedi tu questo eccelso etra infinito / che nell’umide braccia il mondo accoglie? / Zeus riconosci in lui, lui Dio tu stima (trad. di Paolo Ubaldi).

Questa è una sentenza di Euripide (fr. 941) che godette di grande fama, tanto da essere tradotta in latino da Cicerone (La natura degli dèi II 25,65), e fu ben nota in ambiente giudeo-cristiano. Essa, inoltre, è utilizzata anche altrove da Clemente (Protrettico ai Greci 2,25). In questo passo Clemente vi aggiunge i vv. 884-885 delle Troadi di Euripide: o veicolo della terra, e tu che sulla terra hai la tua sede, / chiunque tu sia, difficile a immaginarsi e a vedersi.

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L’affermazione: «chiunque tu sia, difficile a immaginarsi e a vedersi» tornava calzante per lo scrittore cristiano e per la sua concezione che Dio non è esprimibile con le parole umane. Torniamo ad Atenagora e al passo di Supplica 5,2. Lo scrittore prosegue osservando che Zeus, chiunque sia, non lo si conosce se non con la ragione, come aveva già detto Euripide (fr. 480): una affermazione che bene si adatta alla filosofia medioplatonica che Atenagora stesso seguiva; ed in questo concorda con lui anche Sofocle: «Uno solo, sicuramente, uno solo è dio, che fece il cielo e la terra vasta». Questo di Sofocle è il fr. 1025 Nauck, un falso di età ellenistica, che appare, in forma più ampia, anche in Clemente (Strom. V 14,113,2) e in altri apologeti cristiani: Uno solo, sicuramente, uno solo è dio, che fece il cielo / e la terra vasta e l’onda rilucente del mare e la forza dei venti. / Ma noi mortali, errando nel cuore spesse volte, / innalzammo come conforto dei nostri affanni statue di dèi in pietra, / o immagini di bronzo o di oro lavorato o di avorio. / E a questi tributiamo sacrifici e vane feste e ci illudiamo così di essere pii.

Il culto del vero Dio è audacemente assimilato ad una iniziazione misterica da Clemente (ne riparliamo a p. 358), il quale, certo, non vuole asserire che il culto cristiano sia escluso a chi non è iniziato, ma che un certo aspetto sacrale è presente anche in esso. In Strom. IV 162,2-4 Clemente afferma, infatti, che iniziatore al mistero cristiano sarà lo stesso Salvatore, proprio come dice la tragedia (Euripide, Baccanti 470-472; 474; 476), della quale cita i versi che introducono “le orge del dio”. Va tenuto presente che il termine “orgia” non ha nessun significato negativo, ma significa la cerimonia del culto di un dio. Clemente prosegue (Stromati V 14,114,1) citando altri versi famosi. Sono quelli di Eschilo, dalle Eliadi, impiegati anche dal filosofo epicureo Filodemo, vissuto nell’età di Cicerone (Sulla vera devozione – de pietate): Zeus è l’etere, Zeus è la terra, Zeus è il cielo, / Zeus è il tutto e quello che è al di sopra del tutto.

Questi versi, in ogni caso, ben si adattavano anche al panteismo stoico, che Clemente certamente conosceva.

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Passiamo ad un altro punto. In Strom. V 4,24,1 ss. si svolge l’argomentazione che i poeti appresero la scienza divina da alcuni profeti, che spesso presentarono dottrine filosofiche nascoste sotto un testo incomprensibile ad una prima lettura: questo fecero Orfeo, Lino, Museo, Omero ed Esiodo. Il fascino della loro poesia servì come schermo di fronte alla gente; i segni e simboli di cui si servirono sono oscuri per gli uomini, non già perché il dio non volesse che gli uomini li comprendessero, ma perché la ricerca, penetrando nell’interpretazione delle immagini, giungesse a trovare la verità. Così il poeta tragico Sofocle dice (cf. fr. 704 Nauck): io conosco bene la natura di Dio: per i sapienti enigmatico rivelatore di oracoli, per gli sciocchi un maestro dappoco e troppo conciso.

Questo frammento è citato anche da Plutarco (Gli oracoli della Pizia 25,406F): esisteva, quindi, nel primo e secondo secolo dell’età imperiale una cultura filosofica comune a pagani e cristiani; pagani e cristiani conoscevano le stesse nozioni filosofico-religiose. Quale è la natura di Dio? Clemente se ne occupa in modo cursorio, adatto alla istruzione catechetica, in Protrettico ai Greci 6,68. Partendo dalla famosa affermazione di Platone, Timeo 28 C, che conoscere il padre e creatore di questo mondo è ardua impresa, e manifestarlo agli altri è assolutamente impossibile (questa frase di Platone divenne una sentenza particolarmente famosa in tutto il medioplatonismo e nella apologetica: la ritroveremo assai spesso), lo scrittore cita poi due versi di Euripide, ai quali ricorre anche lo Pseudo Giustino (Sul comando di uno solo 2, Giustino fu un apologeta vissuto probabilmente nel III sec. d.C.): Dio, dimmi, come deve concepirsi? / Come colui che tutto vede e non è visto. Per cui sbaglia Menandro (fr. 678 Koerte), quando dice: o sole, te primo degli dèi bisogna adorare, / è per mezzo di te che gli altri dèi si vedono.

Clemente critica Menandro, perché sembra professare il culto del sole, che ai tempi di Clemente era molto diffuso tra i pagani ma che lo scrittore, come cristiano, rifiutava. Inoltre non esiste un tempio che racchiuda Dio (Stromati V 11,74,4-75,1 ss.): lo afferma anche il poeta tragico Euripide: «Quale casa costruita da arte-

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fici potrebbe rinchiudere il corpo divino nei recessi dei muri?» (fr. 1130 Nauck, considerato, anche questo, una falsificazione più tarda). E analogamente per quanto riguarda i sacrifici, Clemente cita Euripide (Eraclidi 1345-1346): «Il dio non ha bisogno di nulla, se davvero è dio. Sono miserabili favole di poeti, queste». Successivamente, la sezione che inizia da Stromati V 14,89 è dedicata da Clemente a smascherare il cosiddetto “furto dei Greci”, cioè, come vedremo meglio a proposito della apologetica, l’affermazione polemica che le dottrine moralmente accettabili della filosofia e della letteratura greca, furono copiate (e, quindi, “rubate”) alla Sacra Scrittura. Così, alcuni passi dei profeti ebraici sono confermati, secondo Clemente, da un lungo passo di Menandro, il quale, naturalmente, aveva rubato alla Scrittura quella giusta dottrina: il dio è giusto e vede le malefatte di tutti, dice Menandro, così come Geremia aveva detto che Dio non è un dio che sta lontano dagli uomini. E ancora, ampiamente Clemente spiega poi (V 14,121-122) in che cosa consista la giustizia di Dio facendo ricorso ad un altro lungo frammento di Menandro e a una serie di versi che la critica ha già da tempo condannato come falsificazioni giudaiche. Tra di esse si trova la citazione di Euripide (fr. 1131): Verrà, verrà quel giorno del tempo, quando l’etere d’oro / aprirà la riserva rigurgitante di fuoco e la fiamma divoratrice arderà, / imperversando, tutto quello che è sulla terra e nel cielo

e quella di Sofocle (fr. 1027): E quando l’universo verrà meno scomparirà tutto l’abisso delle onde / e la terra sarà deserta di dimore, né più l’aria infuocata / sosterrà le famiglie dei pennuti: e poi tutto recupererà quanto aveva prima distrutto.

I poeti classici della Grecia attestarono l’esistenza della bontà di Dio (Strom. V 14,130,3), per cui Clemente ricorre ad una citazione di Menandro (fr. 714); attestarono anche la sua onnipotenza (131,1-2), come è confermato da un lungo frammento di Eschilo (fr. 464). Dio ora appare come fuoco, vampa immane, ora acqua, ora tenebra. / E diviene d’aspetto simile a fiere, vento,

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nuvola, lampo, tuono, pioggia. / E lo servono il mare e le rocce e ogni fonte e raccolta d’acque. / E tremano i monti e la terra e il mostruoso abisso marino e gli alti picchi delle montagne, / quando li guarda l’occhio terribile del padrone: poiché onnipotente / è la gloria dell’altissimo Dio.

Questa citazione serve a confermare dei passi biblici, come Salmo 113,7 («davanti al volto del Signore trema la terra») e Isaia 64,1-2. Anche questa citazione era compresa in un gnomologio ebraico, che conteneva altri versi dei tragici relativi a Dio. 6. Gli angeli Una problematica non di poco conto, perché connessa alla questione dell’origine del male (con tutte le implicazioni di tipo gnostico in essa contenute) è quella della natura e della funzione degli angeli. Dio non è responsabile del male, si affrettano ad asserire gli apologeti in polemica con gli gnostici; ne sono responsabili, invece, gli angeli pervertiti (la dottrina della caduta degli angeli è di origine tardogiudaica e ripresa dal primo cristianesimo). Tra i Cristiani, affronta tale problema Atenagora, Supplica 25-26. Il principe della materia, egli dice, dirige e amministra le cose in modo opposto a quello di Dio. Questo è dimostrato da una citazione di Euripide: spesso mi percorse i precordi il pensiero / se fosse la sorte o se fosse un demone a compiere le cose dei mortali, / contro la loro aspettativa e contro la giustizia.

Bisogna osservare che in questi versi il demone di cui parla Euripide è inteso, come è normale per gli scrittori cristiani, come il demone malvagio. In tal caso, a chi appartiene l’amministrazione delle cose terrene? A proposito di essa si potrebbe dire: e come, vedendo queste ingiustizie, potremo dire che esiste la razza degli dèi / o potremo servirci delle leggi? (fr. 99, di autore ignoto).

La presenza del male indusse anche Aristotele a dire che le cose del mondo in cui viviamo non sono guidate dalla provvidenza, anche se la provvidenza eterna di Dio esiste sempre. Nel Ciclope di Euripide, Polifemo (certo non con l’intenzione che vi

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vede Atenagora) dice: «La terra per necessità, che lo voglia o no, fa crescere l’erba e ingrassa i miei pascoli» (Euripide, Ciclope 332333). E più oltre (26,2) Atenagora afferma che non è logico che sia Dio a spingere l’uomo a compiere quello che è contro natura: la colpa è del demone, che perverte l’uomo (fr. 455 adespoton). Dio, invece, che è perfettamente buono, eternamente fa il bene. 7. Che cosa è la passione? Le occasioni per ricorrere al teatro a proposito delle tematiche morali sono, come è facile immaginare, numerosissime; Euripide era, a questo riguardo, un autore prediletto. Necessariamente scegliamo solo le citazioni più significative. Molte derivano da delle raccolte di sentenze, che erano state compilate in età ellenistica. In Stromati II 63,3-64 Clemente, per discutere dell’influsso dannoso della passione e della lotta che si svolge all’interno dell’animo umano, ricorre ad una citazione di Euripide (Medea 1078-1079): E io capisco quale delitto sto per compiere, / ma la passione è più forte della mia volontà.

Queste parole di Euripide si trovano anche nel Trattato sulle passioni di Crisippo (cf. SVF 840). Anche il tema della passione era discusso nel contemporaneo medioplatonismo, e Clemente sembra accostarsi alla soluzione che ne aveva dato Plutarco (La virtù morale 441D-442B): il corpo è colpevole delle passioni, e non la ragione, come sosteneva Crisippo, secondo il quale la passione era un giudizio errato dell’animo. La stessa discussione si trova in Alkinoos (un filosofo medioplatonico vissuto nel II sec.), il quale asserisce (Manuale di filosofia platonica, o Didascalico, cap. 32) che la passione ha origine dalla parte irrazionale dell’anima e non può essere prodotta dal giudizio dell’intelletto umano. Anche Alkinoos cita i due versi della Medea che abbiamo visto sopra. Tali versi si trovano pure in Plutarco (La virtù morale 446A), nello stesso contesto di discussione: anche qui, dunque, abbiamo a che fare con quella koiné culturale di cui abbiamo detto sopra. Clemente si inserisce, quindi, come Plutarco e Alkinoos, nella discussione del contemporaneo medioplatonismo.

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8. Il piacere In Stromati II 119,6 Clemente ricorda che Diogene, con il linguaggio violento tipico dei cinici, scrive espressamente in una tragedia (TGF fr. incert. p. 808): Quelli che sono sazi nei loro cuori come conseguenza dei piaceri, / della mollezza effeminata, riempita di sterco, che non vogliono faticare nemmeno un poco.

9. Vanità dell’esistenza umana Dopo aver citato (Strom. III 14) una sentenza di Eraclito che disprezza l’esistenza umana, poi dei versi della Sibilla (Oracoli Sibillini fr. 1,1) e di Empedocle; infine quelli, più famosi di tutti, del poeta della Grecia arcaica (VI secolo) Teognide (425-427), sulla vanità dell’uomo e della sua esistenza, Clemente prosegue (Stromati III 15,2) osservando che in accordo con questi versi scrive anche il poeta tragico Euripide, di cui cita quello che è il fr. 449, dal Cresfonte. Ne possediamo una traduzione ad opera di Cicerone, Discussioni di Tuscolo I 48,115: Sarebbe stato giusto, infatti, nel caso che frequentassimo gli abitanti di una casa, piangere, allorquando in essa avessimo trovato uno che veniva allora alla luce, considerando i vari mali della vita umana, mentre avremmo dovuto accompagnare con la lode e con la letizia colui che avesse terminato con la morte i gravi affanni.

Clemente prosegue citando una tragedia (il Poliido) di Euripide: Chi sa se il vivere non sia un morire ed il morire un vivere?

Il verso era famoso: era stato irriso già da Aristofane (Rane 1477) e fu citato poi anche da Origene (Contro Celso VII 50) con la stessa interpretazione che ne dà Clemente, vale a dire che quella vita materiale, a cui gli uomini sono così tenacemente attaccati, in realtà è una forma di morte, se paragonata alla vita dell’aldilà. Un esempio analogo di citazione, che solo a prima vista può sembrare che confermi il pensiero che si vuole enunciare, mentre

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l’autore citato intendeva dire tutt’altro, è quello di Strom. IV 45,1. Secondo Clemente, non è possibile pensare, seguendo la sentenza del Telefo di Eschilo, che «un solo pensiero porta all’Ade»: molte, anzi, sono le vie che vi conducono: sono i peccati con i loro infiniti traviamenti – una tipica interpretazione cristiana. 10. Il matrimonio In Stromati II 23,141,1 Clemente osserva che il comico Menandro, il quale è nemico del matrimonio, ma anche ne rileva, d’altra parte, i vantaggi, a un personaggio che dice: «Non sono ben disposto di fronte a questo affare», fa rispondere: «perché tu ci vedi le angustie e quello che ti affliggerà, ma non ne vedi i vantaggi» (dal Misogino). E poco più oltre (Stromati IV 125,1-126,4) Clemente osserva che «Euripide delinea con lode il ritratto della moglie che ama il marito seriamente», e cita un verso del poeta ateniese. 11. La libertà di parola In Stromati IV 48,1-2 si danno esempi di coraggio: un personaggio femminile, in una tragedia sconosciuta, dice: Quello che vuoi conoscere dalla mia mente non lo saprai, / nemmeno se mi appicchi il fuoco, nemmeno se dalla cima del capo fino in fondo ai piedi / mi fai passare tremenda sega, né se mi avvinci con ogni sorta di catene;

e Antigone, nella tragedia di Sofocle (verso 450) conferma: «Non fu certo Zeus a darmi quest’ordine»; per cui Clemente aggiunge: ma un Dio a noi dà ordini e a lui bisogna obbedire.

12. L’unione con Dio Che l’uomo debba essere unito a Dio è un’esigenza cristiana: Clemente ne parla (Stromati IV 172,1) asserendo che alla fine dell’ascesi ha luogo l’unione del perfetto con Dio. Euripide dal canto suo dice (da tragedia incerta): Ho ali d’oro sul dorso e i graziosi calzari delle Sirene ai piedi, / e mi leverò a volo per l’etere immenso, per unirmi a Zeus.

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Analogamente, conclude lo scrittore cristiano, anche io pregherei lo Spirito di Cristo, perché mi desse ali per volare alla mia Gerusalemme. 13. La continenza Clemente esorta alla continenza in Stromati III 22-23, conducendo, come facevano anche altri scrittori cristiani (ad esempio Tertulliano e Origene) una polemica antignostica. Egli asserisce che i Greci spesso condannarono l’intenzione di generare dei figli, paventandone i disagi, e Marcione e i discepoli (sono degli eretici, dei quali parleremo più diffusamente a pp. 288 ss.) accettarono empiamente queste concezioni, mostrandosi, così, ingrati verso il Creatore. Lo confermano anche i seguenti versi euripidei (fr. 908): è meglio per gli uomini non esser mai nati che nascere. / Poi partorisco figli fra doglie amare. Superato il parto, se li genero / stolti, piango invano, vedendoli perversi e non avendone di buoni. / E se anche li avrò sani, struggerò il mio povero cuore d’apprensione. Quale vantaggio, / dunque, in tutto ciò? Non basta darsi pena per un’anima sola e soffrire per essa?

L’abbondanza delle citazioni attesta la popolarità del tema, in ambito pagano e cristiano. 14. Esaltazione del martirio Clemente (Stromati IV 7,55,1) scrive: Armato di queste armi [cioè quelle dell’insegnamento morale di San Paolo, quale si trova in 1 Cor 10,29-31], lo gnostico [cioè il vero cristiano, secondo Clemente] dice: «O Signore, dammi occasione di cimentarmi e accetta la dimostrazione della mia condotta: venga questo rischio, io disprezzo i pericoli per l’amore che ho per te, «poiché la virtù, sola tra i beni degli uomini, non trae dall’esterno la ricompensa, ma ritrova se stessa come premio dei suoi sforzi» (questa è una citazione di un verso di un poeta ignoto: TGF, adespota 116).

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15. Varie considerazioni morali I precetti morali sono preponderanti anche nel Pedagogo di Clemente Alessandrino. Lo scrittore vuole descrivere gli effetti dell’ebbrezza o affermare che la vera bellezza e la vera bruttezza sono nell’animo, non nel corpo e nell’esterno dell'uomo. Numerose sono le condanne per l’immoralità e la vanità delle donne; si asserisce che il trucco trasforma la donna in prostituta. Anche gli uomini che si truccano sono condannati mediante la citazione di poeti tragici e comici. 16. Passi polemici contro i riti pagani Si trovano in gran numero soprattutto nel settimo libro degli Stromati di Clemente. Il passo di Stromati VII 24,1 contiene una polemica contro la superstizione, la quale induce gli stolti a considerare presagi divini anche gli avvenimenti più banali. Questo è confermato con citazioni da Menandro (Il superstizioso) e dal poeta comico Filemone. In Stromati VII 26,4-27 Clemente contesta le purificazioni esteriori del corpo, che sono inutili, mentre l’unica purificazione è quella dell’anima, ricorrendo a citazioni da un altro poeta comico, l’ateniese Difilo, e da Menandro (Il fantasma). Invece colui che è veramente puro è colui che ha la retta coscienza, e un’autorevole conferma è data da Euripide (Oreste 395-396). In Stromati VII 30,3; 34,3 lo scrittore elenca le offerte ridicole e indegne che vengono presentate agli dèi pagani: questo è un motivo topico dell’apologetica; anche dei poeti (per noi sconosciuti), che Clemente cita, confermano questa stoltezza. 17. Conclusioni sull’apologetica cristiana In conclusione, l’apologetica cristiana, come quella giudaica che l’aveva preceduta, si rivolge al grande teatro ateniese del quinto e quarto secolo a.C. in un’epoca in cui il dramma non è, si può dire, più rappresentato sulla scena: sostanzialmente non è più teatro, ma costituisce una parte della più ampia eredità dei “classici”. Gli scrittori cristiani, certo, non assumono lo stesso atteggiamento dei loro contemporanei sofisti, i quali, come Elio Aristide (117180 d.C.), volevano far rivivere l’antica oratoria ateniese del quarto secolo a.C., anche in contrasto con le contemporanee correnti

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filosofiche; Atenagora e Clemente si rivolgono ai poeti drammatici del quinto e del quarto secolo a.C. con l’atteggiamento di coloro che per principi ideologici sono “estranei” al messaggio pagano: essi eseguono una cernita dei motivi che potevano trovare nella produzione letteraria pagana, ma tra i testi che citano includono anche passi non autentici dei grandi tragici ateniesi. Tale scelta è analoga a quella che è stata eseguita da parte dei pensatori cristiani nei confronti dei filosofi pagani, sulla quale molto di più si è soffermata la critica, come vedremo. Ma è significativo che gli apologeti sostanzialmente trovino un materiale utile, e non criticabile, nella tradizione e nelle eredità dei classici. Ed un’altra cosa è interessante osservare: se poniamo a confronto gli apologeti cristiani da una parte, e gli scrittori – pagani – della Sofistica, dall’altra, colpisce la ricchezza e la varietà degli interessi, e quindi anche delle citazioni dai poeti drammatici, che caratterizzano gli apologeti: i sofisti, con i quali possiamo confrontare gli scrittori cristiani, si interessano quasi esclusivamente di Omero, ma raramente dei poeti tragici, dei quali citano sporadicamente quasi solo Eschilo. Dobbiamo, quindi, concludere che l’apologetica cristiana era già penetrata nella cultura greca, e certamente si sentiva parte di essa; la critica dell’idolatria non significava condanna assoluta della letteratura.

Capitolo terzo

Le “Sentenze” di Sesto 1. Osmosi fra paganesimo e cristianesimo Un esempio interessante di quella cultura comune a paganesimo e cristianesimo, che si era diffusa a partire dal secondo secolo dell’età imperiale, è dato dall’etica. Molti motivi morali di scrittori come Seneca, in ambito latino, o Epitteto, in ambito greco, illustrano il fenomeno di osmosi che si stava instaurando tra cristianesimo e filosofia: dottrine stoiche, pitagoriche e platoniche, smussate delle loro sentenze più acute, “addomesticate”, per dir così, in modo da potere essere accettate da un’ampia cerchia di lettori, si stavano diffondendo nelle classi colte. A questa diffusione venne accostandosi gradualmente anche il cristianesimo, per il quale si può cominciare a parlare dell’esistenza di un’etica come “sistema” filosofico ben caratterizzato. L’insegnamento morale cristiano dopo S. Paolo si adatta lentamente alle dottrine etiche pagane, soprattutto a quelle platoniche e stoiche, prendendo da esse numerosi elementi, come il concetto di “virtù” e le sue specificazioni, insieme all’idea della differenziazione dei peccati: insegnamenti, questi, che erano stati sostanzialmente estranei alla predicazione di Cristo e a buona parte degli scritti neotestamentari. Pertanto, con il diffondersi della nuova religione nelle classi colte dell’impero, il messaggio cristiano nell’ambito dell’etica sempre di più assume anche delle connotazioni filosofiche, pur rimanendo, sostanzialmente, ancora non teorico, ma pratico. Intendiamo dire che l’etica rimane, per i Cristiani, una realtà di carattere quasi esclusivamente concreto, e raramente assume quella valenza teorico-scientifica che essa aveva, invece, nelle varie filosofie greche. Consiste in questo, infatti, una delle caratteristiche, che, in fondo, erano percepite dagli stessi Cristiani, e in base alle quali la nuova religione si differenziava dalle filosofie, anzi, era una filosofia diversa dalle altre, perché era l’unica vera. Dopo la predicazione di Cristo (e, certo in minor misura, dopo quella apostolica) non vi era né possibilità né motivo per un nuovo inse-

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gnamento di carattere “teorico”, indipendentemente dal fatto che né quello di Cristo né quello degli apostoli lo era stato. Se la predicazione cristiana delle origini apparve, alle personalità più intelligenti e vive, per certi problemi alquanto oscura o non bastantemente approfondita, naturalmente sul piano teorico, per cui ben presto, con il sorgere della apologetica nei primi decenni del secondo secolo, si manifestò la necessità di un approfondimento e di un chiarimento e si sentì la necessità di definire “razionalmente” la dottrina cristiana su Dio, ferma restando quella che era chiamata la regula fidei; questa necessità, dicevamo, che dette inizio al vario e profondo pensiero patristico, non fu affatto sentita in ambito etico, per cui durante i primi due secoli la predicazione di Cristo e quella degli apostoli furono considerate dai Cristiani più che sufficienti. Insomma, se per i Greci, e in minor misura anche per i Romani, l’etica era una scienza, tanto che, a partire dall’età ellenistica, essa era entrata a far parte della filosofia come una sezione di essa, insieme alla logica e alla fisica, questo atteggiamento “scientifico” fu del tutto estraneo ai Cristiani, presso i quali non esistono vere e proprie dottrine etiche, ma, se mai, problemi e “comandamenti” concreti e determinati. Di conseguenza, anche le opere di contenuto etico, scritte in quell’epoca, rimasero quasi sempre destinate alle comunità dei fedeli, fino a quando si sentì, agli inizi del secondo secolo, la necessità di convertire i pagani anche alla morale cristiana implicita nella nuova religione. 2. Sesto e le sue “Sentenze” Sulla strada di questa osmosi tra paganesimo e cristianesimo si colloca una raccolta di numerose sentenze, attribuite ad uno sconosciuto Sesto. Origene, nel Contro Celso (VIII 30), scritto intorno al 248, e nel contemporaneo Commento al Vangelo di Matteo (XV 3), ricorda queste Sentenze, e ne cita una che raccomanda il vegetarianesimo. Sesto fu identificato dal cristianesimo successivo con il papa Sisto II, che fu effettivamente un contemporaneo di Origene e morì durante la persecuzione di Valeriano nel 256. Successivamente, nel quarto secolo, le Sentenze di Sesto furono citate da Basilio, vescovo di Cesarea, e da Evagrio Pontico, e tradotte in latino da Rufino di Aquileia ed in siriaco. Questa cristianizzazione di un’opera caratterizzata da una severa moralità, ma certamente pagana, attesta quanto stavamo dicendo, del passag-

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gio non difficile da un ambiente culturale ad un altro. Esse erano rivolte a una comunità cristiana: erano, quindi, l’opera di un cristiano, non di un pagano. Ne presentiamo solamente alcune. Il credente deve perseguire il suo ideale, che consiste nel diventare uguale a Dio: una esigenza diffusa nel contemporaneo medioplatonismo. Certo, una vita estranea alle passioni è lontana dalla natura umana. Bisogna, quindi, in primo luogo, incitare l’anima a destarsi dal suo sonno e a rendersi conto di quello che è il cristiano: un eletto da Dio, chiamato ad essere degno di lui. La via che conduce a Dio comincia dalla fede, ma nessuna ascesa a Dio è possibile senza la purezza morale e senza seguire i comandamenti cristiani. L’uomo che ha deciso di ascendere alla perfezione costituisce, quindi, il secondo livello della realtà: sottomesso alla volontà di Dio, l’uomo comanda, comunque, sull’universo. Egli è superiore anche agli angeli, perché è figlio del Padre celeste; ma, essendo figlio, deve comportarsi come quello vuole. Una prima attuazione di questa grandezza morale si ottiene se si obbedisce al principio etico, espresso dal famoso oracolo di Delfi, del “conosci te stesso”, oppure dal principio “divieni quello che tu effettivamente sei”. L’ideale del cristiano non è qualcosa che debba essere attuato nei tempi escatologici, ma adesso. La grandezza dell’anima richiede la pratica, cioè l’ascesi rivolta al proprio corpo. Il corpo, infatti, ha degli istinti e degli appetiti naturali che debbono essere soddisfatti solamente in parte, e solo allo scopo di mantenere la buona salute. L’anima, invece, esercitandosi, diventerà autosufficiente dal corpo e gli appetiti che non portano alla buona salute dovranno essere estirpati. In conclusione, bisogna rinunciare al corpo per quanto è possibile. Esso, infatti, viene distrutto dal tempo. Tuttavia, la sua inferiorità morale non implica alcun disprezzo: anche il corpo possiede una sua dignità, e deve essere considerato come l’immagine dell’anima, caratterizzato dalle virtù dell’anima stessa. L’impurità, infatti, è una degradazione di tutta la persona umana, non solamente del corpo. Le Sentenze contengono anche molti precetti di morale pratica, ed in particolare sono interessanti perché molte di esse mostrano simpatia per il vegetarianesimo, come si è detto, che è considerato più congruo con una vita elevata. La rinuncia al corpo significa la rinuncia al piacere, ed in primo luogo la rinuncia al piacere sessuale. Anche questa esigen-

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za, che è così specifica del cristianesimo antico, tanto che si concluderà poi nel monachesimo, ha dei validi paralleli nella cultura pagana: l’ascesi e l’astinenza sono degli ideali anche dell’etica neoplatonica e neopitagorica. Le Sentenze di Sesto si interessano, quindi, anche del matrimonio. Se il fedele – uomo o donna che sia – è sposato, deve praticare la continenza in vista del suo ideale più elevato. Tuttavia è lecito al saggio sposarsi ed anche avere dei figli, purché egli li generi con nobili intenti, evitando il piacere volgare. La castità è il più bell’ornamento per il fedele, il quale, in ogni caso, non può praticare il divorzio. Poiché il corpo è un intralcio dell’anima, è cosa buona morire, anche se c’è differenza tra l’essere disposti a morire e il desiderarlo. Questa seconda cosa non è permessa: essa è come una sfida alla generosità del creatore, il quale ci ha donato la vita. Quindi il suicidio – a differenza di quello che pensavano gli Stoici – non è in alcun modo permesso, nemmeno per sfuggire alla persecuzione: nessun persecutore può danneggiare l’anima del cristiano. Il fedele deve praticare l’elemosina. Questo vale soprattutto per le persone più facoltose e che godono di una posizione elevata: sembra che il destinatario delle Sentenze di Sesto sia, appunto, una persona che si trovava in alto nella società, ed amministrava la giustizia. In ogni caso, anche per lui si pone l’esigenza di abbandonare il mondo. Una tematica interessante, che cominciava ad essere discussa nel cristianesimo e nel platonismo del secondo e del terzo secolo, è quella della preghiera. Essa deve essere rivolta dal saggio a Dio, ma non come ringraziamento per dei favori concreti che si presume di aver ricevuto. Infatti l’unico bene è (come insegnavano gli stoici) la virtù, e l’unico male è il male morale. Certo, non vi è molto di cristiano in queste Sentenze: eppure esse godettero di una notevole diffusione e apprezzamento, a dimostrazione di quello che dicevamo, che per i cristiani colti le dottrine morali dei pagani – naturalmente, delle persone di più fine sensibilità e di più profonda cultura – potevano avere un loro significato.

Sezione terza

IL MEDIOPLATONISMO

Capitolo primo

La riscoperta dell’“incorporeo” nel Medioplatonismo 1. L’essere incorporeo, Dio e la sua trascendenza in alcuni importanti testi di Plutarco Abbiamo già fatto cenno più volte alla riscoperta dell’«incorporeo» e della «trascendenza» e alla conseguente nuova concezione della realtà che ne è derivata, e ora dobbiamo esaminare la maniera in cui è stata effettuata tale riscoperta. È evidente che il ricupero dell’incorporeo doveva comportare, in primo luogo, una nuova concezione di Dio e del Divino, e che tale concezione doveva scontrarsi soprattutto con le concezioni degli Stoici, che erano quelle di gran lunga più raffinate, più capziose, e, quindi, più pericolose. Già in Plutarco (La E di Delfi, 393E) questa presa di posizione antistoica risulta chiarissima: Si va cianciando di emanazioni del Dio e di trasformazioni tali che il Dio si risolverebbe in fuoco con l’universo intero e poi, di bel nuovo, si contrarrebbe, quaggiù, e si distenderebbe via via in terra e mare e vento e animali ed entrerebbe nelle forme paurose dei viventi e delle piante: tutto questo, anche a udirlo, è empietà.

E ancora (Al principe incolto, 781E): Non è verosimile né conveniente, come affermano alcuni filosofi, che Dio si trovi mescolato ad una materia soggetta a tutte le affezioni e a cose che subiscono innumerevoli forme di necessità, casualità e mutamento.

Dio – ribadisce Plutarco in Iside e Osiride, 382F – è trascendente nel senso che Egli è la realtà immateriale e immutabile, sempre identica a sé.

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Ma il Dio, in se stesso, è lontanissimo dalla terra, incontaminato, incorruttibile, puro da ogni materia che soggiaccia alla distruzione e alla morte.

2. Una pagina emblematica di Plutarco che riecheggia un testo biblico Il testo di Plutarco più importante è costituito dal finale del trattato La E di Delfi, dove il nostro filosofo definisce Dio come l’«Essere», il «vero Essere», contrapposto all’essere proprio dell’uomo e di tutte le cose del mondo fisico, il quale, in realtà, non è «essere», ma piuttosto «divenire», ossia «essere in mutamento», e, dunque, quasi «non-essere». Dio è l’«Essere atemporale» non affetto dalle vicende dell’«era» e del «sarà»: è l’Essere immobile nella dimensione dell’eterno. La «E» del tempio di Delfi, secondo Plutarco, significa «EI» – che è la seconda persona dell’indicativo del verbo greco essere – vuol dire: «Tu sei». Perciò il Dio accoglie nel Suo tempio l’uomo con il motto «Conosci te stesso», per dire: «Uomo, ricordati che sei mortale»; e l’uomo risponde a Dio con il motto «Tu sei», che significa «Tu sei l’Essere». Leggiamo la pagina (da La E di Delfi, 392A-393B), davvero significativa, nella quale sembra addirittura di poter cogliere l’eco del biblico «Ego sum qui sum» (che – come abbiamo visto – era in primo piano nei trattati filoniani), oltre che l’eco del verbo parmenideo e di quello platonico: Si tratta, per contro, di un modo, anzi del modo più compiuto, in sé e per sé, di rivolgersi al dio e di salutarlo: pronunziare questa sillaba significa già installarsi nell’intelligenza dell’essere divino. Mi spiego: il dio, quasi per accogliere ciascuno di noi nell’atto di accostarci a questo luogo, ci rivolge quel suo ammonimento «Conosci te stesso»,che vale indubbiamente ben più dei consueto «Salve». E noi, in ricambio, confessiamo al dio: «Tu sei -EI», e così pronunziamo l’appellativo preciso, veridico, e che solo si addice a lui solo. In verità, a noi uomini non compete rigorosamente parlando, l’essere. Tutta mortale, invero, è la natura, posta in mezzo com’è, tra il nascere e il morire; ella offre solo

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un fantasma e un’apparenza, fievole e languida, di sé. Per quanto tu fissi la mente a volerla cogliere, gli è come se stringessi con la mano dell’acqua. Più la costringi e tenti di raccoglierla insieme, e più le stesse dita, che la serrano tutt’intorno, la fan scorrere e perdere. Parimenti, la ragione insegua pure, a sua posta, la piena chiarezza di ogni cosa soggetta alle varie influenze e al cambiamento: essa resta delusa, sia volgendosi al suo nascere, sia al suo perire poiché non riuscirà mai a cogliere nulla di stabile, nulla che esista realmente. «Certo, non è dato immergersi due volte nello stesso fiume», al dire di Eraclito, né quindi è dato toccare, due volte, nella stessa situazione, una sostanza mortale. Al contrario, pronti e rapidi mutamenti «la disperdono e di nuovo la radunano» o, meglio, non «di nuovo», «non più tardi», ma «a un tempo» ella si costituisce e vien meno, «entra ed esce». Ond’è che tale sostanza mortale non porta a termine verso la via dell’esistenza tutto quanto in essa entra nel divenire, per il semplice fatto che proprio questo divenire non conosce tregua o riposo, mai. Così, dal germe, essa, in una trasformazione incessante, produce l’embrione e poi il poppante e poi il bimbo, in seguito, l’adolescente, il giovane, e poi l’uomo, l’anziano, il vecchio. distruggendo via via i precedenti stadi dello sviluppo e le varie età, per far posto a quelle che sopraggiungono. Eppure noi – oh, che cosa ridevole! – non temiamo che una sola morte, mentre, in realtà, abbiamo subìto e subiremo infinite morti! Perché, non solamente «la morte del fuoco – al dire di Eraclito – è nascita per l’aria, e la morte dell’aria è nascita per l’acqua», ma la cosa è ben più chiara nel caso nostro: l’uomo maturo muore, quando nasce il vecchio; e il giovane morì per dar luogo all’uomo maturo; e così il fanciullo per il giovane; e il poppante per il fanciullo. L’uomo di ieri è morto per l’uomo di oggi; e l’uomo di oggi muore per l’uomo di domani. Nessuno persevera, nessuno è uno; ma noi diveniamo una moltitudine: intorno a non so quale fantasma, intorno a un sustrato comune di argilla la materia circola e sguscia via. Del resto, come mai, supponendo di perseverare in una identità, noi ci rallegriamo ora di cose diverse da quelle che ci rallegra-

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IL MEDIOPLATONISMO

vano prima? Come mai oggetti contrari suscitano ora amore, ora odio, ora ammirazione, ora biasimo? Perché usiamo parole sempre diverse e siamo soggetti a diverso sentire? Perché non sono mai uguali in noi né l’aspetto, né la figura, né il pensiero? Senza cambiamento, certo, non si spiegano questi stati ognora diversi; e chi cambia, quindi, non è più lo stesso. Ma se uno non è lo stesso non è semplicemente, ma diviene sempre nuovo e diverso dal diverso di prima, proprio nel fatto che cambia. Sbagliano i nostri sensi, per ignoranza dell’essere reale, a dar essere a ciò che appare soltanto. Ma allora che è l’essere reale? L’eterno. Ciò che non nasce. Ciò che non muore. Ciò in cui neppure un attimo di tempo può introdurre cambiamento. Qualcosa che si muove e che appare simultaneo con la materia in movimento; qualcosa che scorre perpetuamente e irresistibilmente, come un vaso di nascita e di morte: ecco il tempo! Persino le parole consuete, il «poi», il «prima», il «sarà», l’«accadde» sono la spontanea confessione del suo non-essere. Infatti, è ingenuo e assurdo dire «è» di qualcosa che non è entrato ancora nell’essere, o di qualcosa che ha già cessato di essere. le nostre espressioni consuete, su cui fondiamo per lo più la nostra nozione di tempo, cioè «esiste», «è presente», «adesso», ci sfumano tutte, allorché il ragionamento le investe sempre più da presso. Il presente, infatti, distanziato com’è necessariamente dal futuro e dal passato, si dilegua come un lampo a coloro che vogliono coglierne il guizzo. Ma, se la natura misurata si trova nella stessa relazione col tempo che la misura, nulla v’è in essa che sia stabile, nulla che sia esistente; ché, anzi, tutto è soggetto alla vicenda della nascita e della morte, sul comune ritmo del tempo. Ond’è che dire, dell’Essere vero, «Esso fu» o «Esso sarà» è quasi un sacrilegio. Tali determinazioni, invero, sono flessioni e alterazioni di ciò che non nacque per durare nell’essere. Ma il dio (occorre dirlo?) «è»; è, dico, non già secondo il ritmo del tempo, ma nell’eterno, ch’è senza moto, senza tempo, senza vicenda; e non ammette né prima né dopo, né futuro né passato, né età di vecchiezza o di giovinezza. No, Egli è uno e nell’unità del presente riempie il «sempre»: ciò che in questo senso

LA RISCOPERTA DELL’“INCORPOREO”

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esiste realmente, quello «è» unicamente: non avvenne, non sarà, non cominciò, non finirà.

3. Dimostrazione dell’incorporeità e della trascendenza di Dio nel “Didascalico” e in Apuleio Analogo ordine di concetti troviamo nel Didascalico e nel cosiddetto «circolo di Gaio». L’autore del Didascalico (secondo alcuni il medioplatonico Alkinoos, di cui si è già detto sopra) espressamente polemizza contro la concezione «pancorporeistica» della Stoa, secondo la quale solamente ciò che è corpo può agire, e fa valere il principio esattamente opposto. Egli scrive, in Didascalico 10,2: Inoltre le cause efficienti non possono essere altro che incorporee; infatti i corpi sono passivi e mutevoli e non si trovano sempre nelle medesime ed identiche condizioni, né sono saldi ed immutabili, e tosto si scopre che sono passivi anche quando pare che in essi vi sia un’attività; come dunque c’è qualcosa di puramente passivo, così bisogna che ci sia anche qualche cosa di assolutamente attivo; e questo non potrebbe essere altro che l’incorporeo.

In particolare, a proposito della incorporeità di Dio, l’autore del Didascalico fornisce (in 10,7-8) la seguente dimostrazione: Dio non ha parti perché non esiste qualcosa prima di lui; infatti la parte e ciò di cui qualcosa è fatto esistono prima di ciò di cui sono parte; infatti la superficie esiste prima del solido e la linea prima della superficie; non avendo dunque parti, è immobile sia per quanto riguarda il mutamento spaziale che per quello qualitativo. Se infatti mutasse, ciò avverrebbe o per se stesso o per altro: se fosse per altro, quest’altro sarebbe più forte di lui: se per se stesso, muterebbe o in peggio o in meglio: entrambe le eventualità sono però assurde. Da tutto ciò risulta anche che esso è senza corpo. Questo si dimostra altresì con i seguenti argomenti: se Dio avesse corpo, sarebbe costituito di materia e di forma; ogni corpo è infatti un composto di materia e della forma che in essa è immanente; questo compo-

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sto è simile alle Idee e partecipa di esse in un modo che è difficile a dirsi; è assurdo, allora, che Dio sia fatto di materia e forma: non sarebbe infatti semplice e originario. Di conseguenza è incorporeo. E ancora: se è corpo, sarebbe fatto di materia, dunque sarebbe o fuoco o acqua o terra o aria o qualche cosa che deriva da questi elementi; ma ciascuno di questi non ha carattere di principio. Inoltre, sarebbe posteriore alla materia, se di materia fosse fatto: stante l’assurdità di queste conclusioni, bisogna concepirlo come incorporeo; infatti, se è corpo, è corruttibile e generato e mutevole: ma ciascuno di questi attributi è assurdo nei suoi riguardi.

Analoghi concetti ribadisce anche Apuleio (Platone I 6,193), il quale, tra l’altro, così riassume la platonica “seconda navigazione”: Secondo Platone ci sono due realtà – che noi diciamo essenze [= sostanze] – dalle quali tutte le cose e il mondo stesso derivano: la prima è colta solamente col pensiero, la seconda può cadere sotto i sensi. Ma la prima, che è colta dagli occhi della mente, si trova sempre nella medesima condizione, uguale e simile a se stessa, come quella che veramente è; la seconda, invece, la quale, come Platone afferma, nasce e muore, è colta dall’opinione sensibile e arazionale. E come la prima viene considerata come il vero essere, così la seconda non è vero essere. La prima sostanza o essenza è il primo Dio e la mente e le forme delle cose e l’anima, la seconda sostanza è tutto ciò che riceve una forma e che si genera ed ha origine dal modello della sostanza superiore, che può cangiare e trasformarsi fuggendo e dileguando come l’acqua dei fiumi.

4. Inconoscibilità dell’essenza di Dio come Intelligenza suprema La marcata sottolineatura della trascendenza di Dio doveva comportare, come conseguenza, la negazione della possibilità per l’uomo di cogliere e di determinare l’essenza di Dio stesso, e, quindi, la negazione della possibilità di esprimerla a parole. Questa dottrina dell’«inconoscibilità» e dell’«ineffabilità» di Dio – che si incontra in Filone di Alessandria (I sacrifici 59) – è

LA RISCOPERTA DELL’“INCORPOREO”

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affermata da alcuni Medioplatonici, e soprattutto dall’autore del Didascalico (10,4), in modo molto chiaro: È ineffabile e coglibile solo con l’intelletto, come si è detto, poiché non è né genere, né specie, né differenza specifica e nemmeno, d’altro canto, gli si addice alcuna determinazione, né cattiva (poiché non è lecito dire questo), né buona (poiché egli sarebbe tale per partecipazione di qualche cosa, e specialmente della bontà); né è indifferente (poiché ciò non corrisponde alla nozione di esso). Né gli si addice qualità (poiché non ha a che fare con qualità ed è perfetto non in dipendenza da qualità), né è senza qualità (poiché non è privato di qualità che gli possano competere). Non è parte di qualche cosa, né, come un tutto, ha parti, né, di conseguenza, è eguale a qualche cosa, né diverso; niente infatti gli si addice in forza di cui possa essere separato dalle altre cose; né muove, né è mosso.

Malgrado queste affermazioni, i Medioplatonici non si spinsero – come fecero, invece, alcuni Neopitagorici – fino al punto di porre Dio anche «al di sopra dell’Intelligenza». La maggior parte di essi, anzi, ritenne che Dio coincidesse proprio con la suprema Intelligenza. Dunque, la metafisica platonica venne ripresa insieme ai guadagni a essa apportati da Aristotele, il quale – come abbiamo spiegato a suo luogo – all’Assoluto inteso come «Idea intelligibile» aveva sostituito l’Assoluto inteso appunto come «suprema Intelligenza», come vedremo. Anzi, questi guadagni vennero ulteriormente arricchiti dai Medioplatonici con un vero e proprio tentativo di mediazione e di superamento delle antitesi sussistenti, in materia di ontologia e di teologia, fra la posizione platonica e quella aristotelica, di cui pure tratteremo.

Capitolo secondo

Ripresa e ripensamento della teoria platonica delle Idee 1. Le Idee come “pensieri di Dio” La metafisica delle Idee come «pensieri di Dio» ha certamente degli antecedenti storici, come abbiamo già avuto modo di dire. Gli studiosi hanno più volte sottolineato come in Senocrate, nella Stoa e in Antioco di Ascalona, si possano rintracciare anticipazioni di questa dottrina. Senonché in Senocrate essa è solo implicita, mentre negli Stoici e in Antioco manca del tutto la concezione dell’«immateriale», e, per conseguenza, la problematica di questi filosofi si colloca su un piano del tutto differente. Anche gli spunti che si trovano in Varrone non portano molto oltre. Le affermazioni di Seneca, poi, non provano nulla, perché questo filosofo – come risulta da quanto dice sulla dottrina platonica – ha già letto scritti medioplatonici. Ben altro rilievo e portata – come s’è visto – questa dottrina assume, invece, in Filone di Alessandria. Ma è da rilevare come Filone sia giunto alla dottrina delle Idee come «pensieri divini» tramite il concetto biblico di creazione, e mediante il concetto di Logos, esso pure legato al concetto biblico della Sapienza e della Parola creatrice di Dio, più che non tramite dottrine elleniche. Invece nel Didascalico la formulazione della dottrina di cui ragioniamo è fatta con categorie desunte esclusivamente dal pensiero greco, e, dunque, in maniera almeno in parte nuova. Data la grande importanza di queste dottrine nella successiva storia del pensiero sia greco che cristiano, è opportuno esporla in maniera dettagliata. Per comprenderla a fondo, è necessario rifarsi alle posizioni di Platone e di Aristotele, che, su questa questione, come sappiamo, erano in antitesi.

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IL MEDIOPLATONISMO

2. Le differenti posizioni di Platone e di Aristotele sull’“Intelligibile” e sulla “Intelligenza” e la mediazione operata dai Medioplatonici Platone aveva posto come Assoluto il mondo delle Idee, ossia l’Intelligibile, e aveva posto questo al di sopra della Mente e dell’Intelligenza (il Demiurgo, che è Intelligenza, si riferisce alle Idee come a entità che lo trascendono dal punto di vista ontologico e assiologico). Aristotele, invece, aveva posto come assoluto l’Intelligenza intesa come pensiero di se medesimo («Pensiero di Pensiero», noesis noeseos), aveva immanentizzato le Idee nel sensibile, trasformandole in «forme» (eide) intrinseche alle cose, ed aveva sostenuto che solo in questa maniera l’intuizione eidetica di Platone poteva reggere. In effetti, la maggior parte delle aporie della metafisica platonica – come abbiamo visto a suo luogo – dipendevano, più che dai motivi addotti da Aristotele, dall’aver posto le Idee al di sopra dell’Intelligenza demiurgica. A sua volta, una serie di aporie dell’ontologia aristotelica dipendevano dall’aver posto le Idee troppo al di sotto dell’Intelligenza divina, mutandole appunto in «forme» immanenti e calandole nella materia. Il «luogo delle forme», per conseguenza, per Aristotele, poteva essere soltanto l’intelletto umano, in quanto le astrae e le pensa, e non l’Intelletto divino che pensa solamente se medesimo. I Medioplatonici si avvidero che era possibile mediare le differenti vedute dei due filosofi, correggendo l’una con l’altra e reciprocamente integrandole. Si potevano mantenere i guadagni teoretici aristotelici e affermare che il principio primo è «Pensiero»; ma si poteva mantenere altresì il platonico mondo delle Idee, facendo di questo il contenuto di quello. Il Dio aristotelico è pensiero che pensa se stesso; ma i pensieri di Dio che pensa se stesso sono, di necessità, eterni e immutabili, sono l’eterno paradigma e la regola di tutte quante le cose: sono, appunto, quello che Platone chiamava Idee. Nel Didascalico (10,3) si legge: Poiché [...] il primo Intelletto è in grado eccelso bello, bisogna che anche il suo Intelligibile sia in grado eccelso bello, ma in nulla più bello di Lui; dunque, pensa se stesso, e i pensieri di se stesso e questa sua attività è appunto l’Idea.

RIPRESA DELLA TEORIA DELLE IDEE

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Ed ecco un secondo passo, in cui, proprio su questa concezione delle Idee come «pensieri di Dio», è costruita addirittura una dimostrazione dell’esistenza delle Idee stesse (Didascalico 9,3): Che le Idee esistano viene provato con le seguenti argomentazioni: se Dio è un intelletto o qualcosa di pensante, ha dei pensieri e questi pensieri sono eterni ed immutabili; ma se le cose stanno così, esistono le Idee. E se la materia è, per sua propria natura, senza misura, bisogna che trovi misura in qualcos’altro, migliore e non materiale; ma l’antecedente è vera, dunque anche la conseguente è vera. Ma se le cose stanno così, allora le Idee esistono come misure non materiali.

3. Distinzione fra “intelligibili primi” o Idee trascendenti e “intelligibili secondi” o forme immanenti È evidente che, così concepite, le «Idee trascendenti» e le «forme immanenti» non solo non si escludono a vicenda, ma risultano essere, le prime, fondamenti e cause, le seconde, invece, conseguenze ed effetti. Le forme immanenti alle singole cose sono le «immagini» o i riflessi dei «modelli» delle Idee impressi dal Demiurgo nella materia. L’autore del Didascalico chiama, coerentemente, le Idee considerate come pensieri divini «intelligibili primi» e le forme immanenti alle cose «intelligibili secondi» (su cui Didascalico 4,7). La sicurezza con cui nel Didascalico vengono esposte queste tesi dimostra che l’autore doveva avere ormai alle spalle una tradizione consolidata, ossia che tali tesi costituivano dogmi in larga misura acquisiti. Interessante è la posizione di Attico, che accoglie e ribadisce questa interpretazione delle Idee, polemizzando, come è suo solito, contro Aristotele, e dando alla medesima una tinta sfumata, in cui i guadagni dello Stagirita non sembrano aver giocato alcun ruolo. Ecco il fr. 9 des Places (trad. Martano): La parte capitale e il cardine della filosofia platonica, cioè la teoria degli intelligibili, è stata combattuta, calpestata, e, per quanto fu nelle possibilità di Aristotele,

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insidiata. Infatti, non potendo capire che le cose grandi, divine, eccellenti, hanno bisogno, per esser conosciute, di qualche facoltà simile alla loro natura, egli, affidandosi a certa sua spicciola e meschina capacità di sottigliezza – che, se poteva indagare nella realtà fisica e cogliere in questa la verità, non era d’altra parte idonea a cogliere la purissima luce di ciò che è realmente la verità – e servendosi di se stesso come di canone e di giudice di cose al di sopra di lui, respinse la realtà di quelle nature ideali che Platone riconobbe, e osò definire quella altissima realtà come cose da poco, cantilene e favole puerili: laddove la somma, la suprema tra le verità platoniche consiste in ciò che riguarda questa intelligibile ed eterna essenza delle idee, dove l’estremo faticoso agone si presenta dinanzi all’anima. Infatti colui che ha aspirato ad essa e l’ha raggiunta, sarà del tutto felice: mentre colui che non è riuscito a raggiungere la contemplazione rimane del tutto privo di felicità. Perciò Platone si batte in tutti i modi per dimostrare la potenza di queste nature ideali. Egli afferma che non si può agevolmente determinare la causa di alcunché, se non ricorrendo alla teoria di una «partecipazione» di quelle realtà, né si può avere, secondo lui, conoscenza di vero se non in rapporto a quelle, né ancora ad alcuno sarà dato di esser partecipe di ragione, se non accetterà la realtà delle idee. Quelli che hanno ritenuto di dover sostenere la dottrina platonica devono vedere in questo argomento il massimo cimento delle loro discussioni. Infatti nulla più rimane di platonico, se qualcuno non avrà concesso a costoro, in difesa di Platone, l’esistenza di quelle nature prime e sovrane. Queste sono le cose in cui egli massimamente sopravanza tutti gli altri. Ed invero egli, concependo un dio padre, demiurgo, padrone e curatore di tutte le cose, e comprendendo, per analogia con la stessa attività, che l’artefice primo ha in mente tutto ciò che sta sul punto di costruire, sicché la visione che egli ha avuto nel suo pensiero può trasformarsi in somiglianza sulle cose; allo stesso modo concepì i pensieri del dio, più antichi delle cose, cause esemplari delle realtà che sono generate, incorporei ed intelligibili, per sé reali e sempre permanenti nello stesso stato – e, anzitutto, e primiera-

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mente, uguali a se stessi – e causa delle altre cose perché siano tali, quali esse si manifestano, proprio per la somiglianza di ciascuna di esse con quei principi; e vedendo egli, inoltre, che quegli enti non sono facilmente visibili, e che neppur chiaramente se ne può dimostrare l’esistenza per via di ragione, quanto si poteva dire ed escogitare intorno ad essi, per preparare la strada a quanti si accingessero a seguirlo, ed essendosi preparato ed uniformando a quell’obiettivo tutti i principi della sua filosofia, sostiene che in essi è riposta sia l’intelligenza che la sapienza e la scienza, attraverso cui si raggiunge il fine umano e la vita felice.

La dottrina delle Idee come «pensieri divini» e la connessa distinzione fra «intelligibili primi» trascendenti e «intelligibili secondi» immanenti rappresentano, probabilmente, uno dei più felici tentativi di sintesi fra Platone e Aristotele fino a questo momento effettuati e un guadagno essenziale di cui Plotino beneficerà largamente.

Capitolo Terzo

Verso una dottrina delle Ipostasi 1. La gerarchia del Divino Una tendenza comune a molti Medioplatonici, espressa in modo chiaro già dai più antichi fra essi, è quella di porre il nous (ossia la mente o l’intelletto) come superiore rispetto alla psyché (ossia all’anima). Questa dottrina (che ha antecedenti in Platone e in Aristotele) nei Medioplatonici ha un significato «antimaterialistico» e «antistoico». Differenziando nettamente l’«intelletto» dall’«anima» e ponendolo come superiore ad essa, si volevano rompere i ponti con l’immanentismo in maniera definitiva. È molto interessante, a questo riguardo, il fatto che Attico, per volere a tutti i costi respingere Aristotele e quindi anche la distinzione in parola che è appunto di genesi aristotelica, retroceda su posizioni perlomeno ambigue. È chiaro che, per questa via, ci si doveva avviare verso una dottrina che preludeva alle plotiniane «ipostasi». Anzi, letti in una certa ottica, non pochi passi di filosofi medioplatonici sembrerebbero addirittura contenere – almeno in nuce – tutte e tre le ipostasi plotiniane, che sono: l’Uno, il Nous e l’Anima. Così, per esempio, in Plutarco, se, accanto all’anima e all’intelletto (che egli distingue con molta chiarezza), noi poniamo il Dio supremo che, per lui, è l’«Essere», ma anche l’«Uno supremo», otteniamo una triade che prefigura, appunto, quella plotiniana. Analoga triade si ricava da un testo di Apuleio (Platone 1, 6,193), il quale distingue: Dio primo, Mente e Idee, Anima: «Et primae quidem substantiae vel essentiae 1) primum deum esse 2) et mentem formasque rerum 3) et animam». La stessa gerarchia ipostatica qualcuno ha creduto di poter ricavare anche dal Didascalico. È peraltro da rilevare che questa costruzione gerarchica è rinvenibile solo da parte del lettore che ha già letto Plotino. Infatti,

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IL MEDIOPLATONISMO

a giudicare dal testo più chiaro che ci è pervenuto in materia, che è un passo del Didascalico, la gerarchia del divino sembra culminare non in una realtà che è al di sopra dell’Intelletto, ma nell’Intelletto medesimo, come risulta dal seguente schema: 1) Primo Dio o Primo Intelletto; 2) Secondo Intelletto, o Intelletto dell’anima del mondo; 3) Anima del mondo. Il primo Intelletto – dice l’autore – «sveglia» l’anima del mondo e la rivolge a sé, e, rivolgendola a sé, genera l’Intelletto di essa. Il cosmo è ordinato non direttamente dal primo Intelletto, ma, mediatamente, dal secondo Intelletto. Ecco il testo (Didascalico 10,2-3): Poiché l’intelletto è migliore dell’anima e dell’intelletto in potenza è migliore quello che in atto pensa tutte le cose insieme e sempre, e più eccellente di questo è la causa di questo e ciò che può esserci al di sopra di questi, tale è il primo Dio, che è causa dell’eterna attività dell’intelletto di tutto il cielo. Esso lo fa muovere pur rimanendo immobile, come fa il sole nei confronti della vista, quando essa lo guarda, e come l’oggetto di desiderio muove il desiderio, pur rimanendo immobile; così appunto anche questo intelletto muoverà l’intelletto di tutto il cielo. Poiché il primo intelletto è in grado eccelso bello, bisogna che anche il suo intelligibile sia in grado eccelso bello, ma in nulla più bello di lui: dunque pensa se stesso e i suoi propri pensieri, e questa sua attività è appunto l’Idea. Inoltre il primo Dio è eterno, ineffabile, perfetto in sé, cioè senza alcun bisogno, eternamente compiuto, cioè eternamente perfetto, interamente compiuto, cioè interamente perfetto: è divinità, sostanzialità, verità, proporzione, bene. Dico ciò, non intendendo separare queste cose, ma intendendo pensare, mediante esse, un’unità. È bene perché benefica ogni cosa per quanto gli è possibile, essendo causa di ogni bene; è bello perché egli per sua natura è perfetto e proporzionato; è verità perché è principio di ogni verità, come il sole è principio di ogni luce; è padre perché è causa di ogni cosa e ordina l’intelletto del cielo e l’anima del mondo in relazione a se stesso e alle sue intellezioni. Secondo la sua volontà, infatti, ha riempi-

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to ogni cosa di se stesso e, avendo risvegliato l’anima del mondo e avendola volta a se stesso, è causa del suo intelletto. Questo intelletto, ordinato dal padre, ordina tutta la natura in questo mondo.

Come ben si vede, l’autore del Didascalico in via puramente ipotetica parla di un «Primo» superiore all’Intelletto, ma poi fa chiaramente coincidere il «Primo Dio» col «primo Intelletto», ossia Ragione e Intelligenza suprema. Plutarco (Il tramonto degli oracoli, 425F s.) scrive: Un solo Dio che governa, in priorità assoluta, tutti i mondi ad uno ad uno ed è guida dell’universo intero, dotato di intelligenza e ragione tale da essere chiamato dagli uomini signore e padre di tutte le cose.

L’identificazione del Dio supremo con l’Intelligenza suprema deve essere considerata come tipica del Medioplatonismo. Celso (in Origene, Contro Celso, VII, 45) sembra invece porre Dio al di sopra dell’Intelligenza e dallo stesso Essere: Ciò che il Sole è nell’ambito delle realtà sensibili [...] Dio lo è nell’ambito delle realtà intelligibili, il quale non è né intelletto, né intellezione, né scienza, ma è causa per l’intelletto del suo pensare [...] e per la stessa essenza è causa dell’essere; essendo al di sopra di tutto, è pensabile con una sorta di potenza indicibile.

Ma il suo discorso – che è guidato più da interessi religiosi e mistici che non filosofici – non sembra spingersi molto oltre le note affermazioni platoniche (cf. Repubblica, VII, 509 B) sull’Idea del Bene. 2. Ragioni per cui nei Medioplatonici la teoria dei Princìpi primi di “Monade” e “Diade” rimane sullo sfondo Il predominio di questa impostazione, che deriva dalla mediazione fra l’aristotelica metafisica dell’Intelligenza e la platonica dottrina delle Idee, spiega – come già sopra abbiamo rilevato – la ragione per cui le dottrine pitagoreggianti del Platone delle «Dottrine non scritte» dell’«Uno» e della «Diade» siano rimaste in ombra. Infatti, spiegata l’origine delle Idee come pensieri dell’Intelletto divino, la Monade e la Diade, che erano state introdotte da

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Platone appunto per poter dedurre il mondo ideale – come abbiamo già accennato – venivano a perdere il loro originario significato e la loro importanza. Eudoro, secondo alcuni studiosi, riprese tale dottrina. Ma Eudoro appartiene alla seconda metà del I secolo a.C., e, d’altra parte, che egli abbia fatta propria la teoria dell’Uno e della Diade non è del tutto certo, e potrebbe averla presentata come teoria tipica dei Pitagorici ma non in proprio. Leggiamo i frammenti in merito: E i Pitagorici, invece, non solo delle realtà fisiche, bensì anche di tutti gli enti in quanto tali, dopo l’uno, che dicevano principio di tutte le cose, ponevano come princìpi secondari ed elementari i contrari, e ad essi, che non sono più principi in senso proprio, subordinavano anche le due serie. Su questo argomento Eudoro scrive quanto segue: «Nel significato più elevato bisogna dire che i Pitagorici affermano che il principio di tutte le cose è l’Uno; in un secondo significato essi dicono, invece, che i princìpi della realtà sono due: l’Uno e la natura contraria all’Uno. Di tutte le cose concepite come contrarie, quella buona è subordinata all’Uno, quella cattiva è subordinata alla natura che gli si contrappone. Perciò questi ultimi non sono neppure princìpi universali, secondo costoro, infatti, se uno è principio di certe cose, l’altro di certe altre, essi non sono princìpi comuni di tutte le cose come l’Uno». (Simplicio, Comm. alla Fisica, p. 181, 17 ss. Diels = fr. 4 Mazzarelli)

E di nuovo: «Perciò, dice, anche per un altro verso i Pitagorici hanno affermato che l’Uno è principio di tutte le cose, in quanto da esso deriverebbero sia la materia sia gli enti tutti. E dicevano che questo principio è anche il Dio supremo». (Simplicio, Comm. alla Fisica, p. 181, 19 ss. Diels = fr. 5 Mazzarelli) E del resto, trattandone con precisione, Eudoro dice che essi pongono come principio l’Uno, e afferma che dall’Uno derivano gli elementi supremi che sono due. Essi chiamano questi elementi con molti nomi: uno di essi, infatti, viene chiamato «ordinato, definito, cono-

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scibile, maschio, dispari, destro, luce», l’altro, contrario a questo, «disordinato, indeterminato, inconoscibile, femmina, sinistro, pari, tenebra». Cosicché come principio è posto l’Uno, come elementi l’Uno e la Diade indeterminata, pur essendo entrambi gli Uno, a loro volta, dei principi. Ed è chiaro che altro è l’Uno principio di di tutte le cose, ed altro è l’Uno che si contrappone alla Diade, e che essi chiamano anche Monade. (tr. Mazzarelli, Eudoro, fr. 5 Mazzarelli)

In ogni caso, dopo di lui, il Medioplatonismo dovette in certa misura disinteressarsi della dottrina in questione. Del resto, è assai indicativa la posizione di Plutarco. Anch’egli (Il tramonto degli oracoli, 428F ss.) riprese la teoria della Monade e della Diade, ma la confinò in un contesto per certi aspetti piuttosto marginale: Tra i princìpi più elevati – io mi riferisco all’unità e alla dualità indeterminata – quest’ultima, essendo un elemento che soggiace a tutto ciò che è privo di forma di ordine, è stata chiamata infinità; ma la natura dell’uno limita e circoscrive ciò che è vuoto, irrazionale e illimitato nella infinità, gli somministra la forma e lo rende in qualche modo capace di sostenere e accogliere la definizione, la quale è il più vicino passo, dopo l’opinione, sulle cose sensibili. Ora questi primi princìpi si manifestano anzitutto nel campo numerico: o, meglio, la pluralità in genere non è, di per sé, numero, a meno che l’unità, entrando nell’esistenza della infinità dell’indeterminato – quasi forma di una materia – venga tagliata in una parte più e meno altrove. Solo allora, infatti, ogni pluralità diviene un numero, quando cioè sia determinata dall’unità. Ma, se l’unità viene soppressa, di nuovo la diade indeterminata getta lo scompiglio nell’universo e gli toglie ritmo, limite, misura. Pure, giacché la forma non significa già distruzione della materia, bensì qualcosa che plasma e ordina la sottostante materia, è necessario, altresì, che nel numero esistano entrambi i princìpi dai quali nasce la prima e più grande differenziazione e diversità. In realtà, il principio indeterminato è il creatore del pari; e l’altro principio, il migliore, è il creatore del dispari. Due è il primo dei numeri pari; e tre è il primo dei dispari; dalla

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somma dei due deriva il cinque, numero che, per il modo della sua composizione, è comune ai due numeri e, nella sua potenzialità propria, è dispari.

Nel Didascalico tale dottrina risulta assente (e, forse, nella maggior parte dei Medioplatonici del II secolo d.C.). Questa dottrina derivante dal filone delle «Dottrine non scritte» di Platone, costituisce, invece, l’asse portante della speculazione neopitagorica, come già abbiamo detto, e meglio vedremo nella parte che segue. 3. Una posizione particolare assunta da Severo Severo (vissuto in epoca imprecisata, alla fine del II sec. d.C.) ha assunto una posizione del tutto particolare, che per alcuni aspetti potrebbe sembrare – come qualcuno ha pensato – in certa misura «monistica». Proclo (Comm. al Timeo, I, p. 227,13-18 Diehl = 4 T Gioè) ci riferisce quanto segue: Nelle definizioni siamo soliti premettere il «che è», e non si tratta di un genere, come pensa il platonico Severo, il quale afferma che questo «qualcosa» (to ti) è genere di ciò che è e di ciò che diviene, e che da esso viene significato «il tutto» (to pan): così infatti sia ciò che diviene sia ciò che è sempre sarebbero «il tutto».

Questa dottrina del «qualcosa» (to ti) deriva indubbiamente dalla dottrina delle categorie della Stoa antica, ma va ben oltre il pensiero degli Stoici. In effetti, il «qualcosa» di Severo, ben lungi dall’essere quell’indeterminato e indeterminabile quid della Stoa, indica «il Tutto» (to pan), inclusivo di «ciò che è» – e perciò della realtà intelligibile – e di «ciò che diviene» – e quindi della realtà sensibile –, ovviamente in maniera non paritetica, e di conseguenza si può pensare – per congettura – in maniera gerarchica. Da una testimonianza di Proclo (Comm. al Timeo, I, p. 225,39 Diehl = 13 T Gioè) risulta anche che Severo poneva una precisa distinzione fra il logos o «ragione» e la nóesis o «conoscenza intellettiva», e considerava la seconda come uno strumento della prima, e quindi considerava la ragione gerarchicamente superiore e la conoscenza intellettiva inferiore:

VERSO UNA DOTTRINA DELLE IPOSTASI

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Questa (la ragione, logos), indirizzata alla visione delle realtà intelligibili, si vale di se stessa e della conoscenza intellettiva (te noesei), non perché la conoscenza intellettiva sia uno strumento che venga utilizzato dalla ragione stessa, come crede il platonico Severo ponendo così la conoscenza intellettiva come inferiore alla ragione, ma perché la conoscenza intellettiva è la luce della ragione, che la perfeziona, la porta in alto e illumina la capacità di conoscere che è in essa.

Anche la posizione assunta dal nostro filosofo sull’origine del cosmo è particolare, come più avanti vedremo. Purtroppo le testimonianze pervenuteci su Severo sono troppo scarse e scheletriche. Pertanto non ci permettono di stabilire se quella sua visione su «il qualcosa» come «il Tutto» costituisca un certo avanzamento oppure un indietreggiamento – a paragone con gli altri Medioplatonici del II secolo d.C. – rispetto al Neoplatonismo. Il fatto che Proclo lo citi e lo discuta di frequente è, in ogni caso, assai significativo.

Capitolo quarto

Ripresa da parte dei Medioplatonici di concetti-base della cosmologia del “Timeo” di Platone 1. I tre principi Il cosmo sensibile, per i Medioplatonici, non è una pura emanazione o un epifenomeno del soprasensibile. Per essere spiegato esso richiede «tre princìpi», ossia, oltre a Dio e alle Idee, un «terzo principio», che è costituito dalla materia. La materia viene intesa sia sulla scorta del Timeo platonico, sia sulla scorta degli ulteriori guadagni aristotelici. Di conseguenza, vengono riprese le celebri immagini con cui Platone indicava la materia, come per esempio «nutrice», «matrice», «spazialità», passate però al filtro dei concetti aristotelici di «sostrato» e di «potenzialità». Ancora una volta, sono i filosofi del «circolo di Gaio» (Gaio fu un filosofo medioplatonico vissuto nella prima metà del II secolo) che ci forniscono i testi più interessanti che riguardano questo problema in particolare. Scrive l’autore del Didascalico in 8,2-3: Essa è dunque chiamata da Platone matrice impressionabile, ricettacolo, nutrice, madre, spazio, sostrato non percepibile con la sensazione e coglibile solo per mezzo di un ragionamento bastardo. Essa ha la proprietà di ricevere ogni cosa che nasce, avendo la funzione di una nutrice nel portare e nel ricevere tutte le figure, ma è di per sé senza forma, senza qualità e senza figura; pur essendo modellata e segnata da queste figure come una matrice impressionabile prende la figura di esse, ma non possiede in sé alcuna figura né qualità. Infatti non sarebbe qualcosa di adatto a ricevere impronte e forme varie, se non fosse priva di qualità e scevra da quelle figure che essa stessa deve accogliere; vediamo infatti che anche coloro che apprestano con olio unguenti profumati, fanno uso del-

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l’olio più inodore e coloro che vogliono plasmare forme con cera ed argilla, levigano e rendono quanto più possibile privi di ogni figura questi materiali. Certo, dunque, bisogna che anche la materia, che tutto accoglie, se deve ricevere in tutta la sua estensione le forme, non abbia in sé alcuna natura di esse, ma sia senza qualità e senza forma, per poter accogliere, appunto, le forme; essendo tale, non è né un corpo né un incorporeo, ma è corpo in potenza, come diciamo che il bronzo è statua in potenza, in quanto diventerà statua una volta assunta la forma.

Ecco ulteriori precisazioni di Apuleio (Platone I, 5,191 s.): Platone rileva che la materia deve essere ingenerabile ed incorruttibile, che non è né fuoco, né acqua, né alcun altro dei principi o elementi originari, ma fra tutti è prima, capace di ricevere forma e di ricevere figura e inoltre bruta e priva di qualificazioni formali: è il Dio artefice che la conforma nella sua totalità. Platone la considera infinita: infatti ciò che è infinito non ha un limite determinato alla sua grandezza e quindi, poiché la materia è priva di termine, la si può giustamente considerare illimitata. Ma Platone non ammette né che sia corporea né incorporea; non la considera, infatti, un corpo, perché nessun corpo può essere privo di forma; peraltro non si può dire che è senza corpo, perché nulla di ciò che è incorporeo può presentare un corpo, mentre potenzialmente e razionalmente gli sembra essere corpo, ed è per questo che essa non è coglibile né col solo tatto, né con la sola congettura razionale. Infatti i corpi si conoscono in virtù della loro evidenza con un ragionamento che è congenere, mentre ciò che è privo di materia corporea vien colto coi ragionamenti. Pertanto la caratteristica di questa materia si coglie con una congettura spuria e come ambigua.

2. Il problema dell’interpretazione della genesi del cosmo presentata nel “Timeo” da Platone La genesi del cosmo è interpretata dai Medioplatonici secondo lo schema del Timeo, ossia come una operazione del Demiurgo che al “disordine” della materia impone un “ordine”, sulla base del paradigma delle Idee.

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Scrive ad esempio Plutarco (Iside e Osiride, 372F): La genesi [del mondo] non è altro che l’immagine dell’essere nella materia; il divenire è un’imitazione dell’essere.

Anche i particolari della narrazione del Timeo sono accolti e ribaditi quasi alla lettera. Su un punto fondamentale si accese però una grossa polemica. Quando Platone parlò di «generazione del cosmo» (e, quindi, anche di generazione dell’anima del cosmo), intese dire che il cosmo ha veramente una origine, ossia un cominciamento cronologico, oppure descrisse la genesi del cosmo intendendo semplicemente illustrare, sotto forma di immagini e di rappresentazioni fantastiche, un altro ordine di pensieri? Insomma: la narrazione della genesi del cosmo va presa alla lettera, oppure come allegoria? Già nell’antica Accademia il problema era stato dibattuto, per le critiche di Aristotele, che, per primo, sostenne l’eternità del mondo, rimproverando a Platone l’assurdità di porre un cosmo che «è nato» e che tuttavia «non perirà». Sappiamo, anche, che gli antichi Accademici (ad esempio Speusippo, fr. 94 Isnardi Parente) avevano ingegnosamente sostenuto che la narrazione platonica aveva carattere didattico e che voleva semplicemente chiarire in modo plastico quale fosse la struttura ontologica del cosmo. Nell’ambito del Medioplatonismo al problema furono date tre differenti soluzioni, fra loro in contrasto: una «allegorica», una invece «letterale», e una «composita», che vogliamo illustrare a una a una. 3. Interpretazione allegorica della genesi del cosmo Forse già Eudoro (fr. 6 Mazzarelli) riprese l’interpretazione allegorica, mentre l’autore del Didascalico (in 14,3) la portò a un maggior grado di chiarezza. Ecco il testo: Quando Platone dice che il mondo è generato, non bisogna intenderlo nel senso che ci fu un tempo in cui il mondo non esisteva, ma che il mondo è sempre in divenire e manifesta un principio più originario del suo essere. E anche l’anima del mondo, che è eterna,

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neppure questa Dio crea, ma la ordina; e si dice che la crea in questo senso: svegliando e volgendo a sé l’intelletto di essa ed essa stessa come da un letargo e da un sonno profondo, affinché guardando verso gli intelligibili di Dio, accolga le Idee e le forme, mirando ai pensieri di esso.

Pertanto, dire che il cosmo è nato (e quindi che vive) significa due cose: 1) che è perennemente trascinato nel processo del nascere, 2) inoltre che esso non è autosufficiente e che, quindi, dipende da un principio superiore (analogamente, dire che l’anima del mondo è nata, significa dire che essa dipende da un principio superiore che la fa essere). Apuleio, poi, specifica – rifacendosi ad una interpretazione a questa parallela – che il mondo, il quale in realtà è ingenerato, può «apparire generato», perché le cose che lo costituiscono nascono tutte quante; tesi, questa, che, con diverse sfumature, troviamo sostenuta anche da Calveno Tauro (vissuto ad Atene intorno alla metà del II sec. d.C.) e da altri Medioplatonici. Una pagina, tratta da Filopono (Sulla eternità del mondo, VI, 21 = Calveno Tauro, 26 T Gioè), che riferisce la posizione assunta da Calveno Tauro sulla questione è particolarmente significativa, ed esprime la posizione di questa corrente in maniera paradigmatica: Quali sono dunque le ragioni in base alle quali Platone suppone generato il cosmo, pur essendo ingenerato? Sono due, ed entrambe di natura filosofica: l’una infatti invita alla devozione religiosa, l’altra è stata accolta per esigenza di chiarezza. Sapendo infatti che i più considerano causa soltanto ciò che è anteriore nel tempo e non credono nell’esistenza di una causa di diverso tipo, e che da questa deriva il pericolo che essi si oppongano all’esistenza della provvidenza, Platone, volendo diffondere la dottrina secondo la quale il cosmo è retto dalla provvidenza, fa comprendere tacitamente a coloro che sono in grado di intendere anche in diverso modo che il cosmo non è generato nel tempo, mentre a coloro che ne sono incapaci spiega che esso è generato, e prega che essi vi credano, perché abbiano fede nel tempo stesso anche nella provvidenza. La seconda ragione è invece

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che le cose di cui si parla risultino più chiare quando trattiamo di esse come se fossero generate; in siffatto modo anche le figure, sebbene non siano composte, le compongono come se fossero generate, e il cerchio, poiché è una figura piuttosto semplice, Euclide lo ha definito «figura compresa da una sola linea, avente uguali fra loro tutte le rette che, tracciate da un solo punto fra quelli interni su questa cadano», mentre volendo mostrare la sfera come se fosse generata l’ha definita «semicerchio fatto ruotare attorno ad un diametro che resta immobile finché non ritorna agli stessi punti»: ma se avesse voluto definire la sfera nella sua realtà sostanziale, l’avrebbe definita «figura racchiusa da una sola superficie, avente uguali fra loro tutte le rette che, tracciate da un solo punto interno, su quella cadono». Per ragioni espositive, dunque, Platone è solito presentare le realtà come generate: in questo modo anche nella Repubblica introduce la città come generata, perché nell’ordinamento di questa risulti più chiara la genesi della giustizia.

4. Interpretazione letterale della genesi del cosmo Plutarco ritornò invece all’interpretazione letterale dell’origine del cosmo, sostenendo che eterna è la materia, ossia la sostanza sensibile informe da cui il cosmo deriva, ma che non è eterno il cosmo stesso. È da rilevare che, secondo Plutarco, la materia, in quanto giace in perenne e caotico movimento, deve avere un’anima che la muove: un’«anima malvagia» e priva di intelligenza, come meglio avremo modo di precisare più avanti. Dunque, da sempre esistette una realtà corporea «informe», dotata di animazione, di vita irrazionale. Pertanto, Dio non creò né la materia, né l’animazione e la vita priva di ragione, ma creò il cosmo, dando «ordine» alla materia «disordinata», e dando «intelligenza» all’anima «priva di ragione». Leggiamo due passi particolarmente significativi: L’anima senza intelligenza e il corpo senza forma coesistevano da sempre e nessuno dei due ha avuto una generazione e un principio. Ma allorché l’anima ebbe parte di Intelligenza e di armonia, fattasi razionale mediante la

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consonanza, divenne causa di mutamento per la materia. Dopo aver dominato mediante i propri movimenti i movimenti della materia, li fece propri e li convertì, e in questo modo il corpo dell’universo fu generato dall’anima, essendo rimodellato e fatto simile a essa (Plutarco, Questioni platoniche, IV, 1003A). Ciò che precedeva la generazione dell’universo era disordine, ed era un disordine non privo di corporeità né privo di movimento né di anima, ma era corporeità amorfa e confusa e dotata di movimento caotico e irrazionale. E questo dipendeva dalla discordanza dell’anima priva di ragione. Dio non ha trasformato né l’incorporeo in corpo, né l’inanimato in anima, ma, così come da un uomo abile nell’accordo musicale e nel ritmo ci si aspetta non già che crei suoni e movimenti, bensì che renda il suono ben intonato e il movimento ritmico, così è anche per Dio: non ha creato lui stesso la tangibilità e la resistenza del corpo, né la facoltà immaginativa e la motività dell’anima, ma, appropriandosi di ambedue i princìpi – il primo vago e oscuro e il secondo confuso e irrazionale, e l’uno e l’altro indefiniti e senza la loro appropriata funzione –, li ha ordinati, ben disposti e armonizzati, producendo da essi un essere vivente supremamente bello e perfetto (Plutarco, La generazione dell’anima, 1014BC).

Anche Attico (vissuto sotto l’imperatore Marco Aurelio, 161180 d.C.) difese l’interpretazione letterale, e soggiunse che Platone sostenne la tesi che il mondo ha avuto origine nel tempo al fine di poter dare un adeguato spazio all’esplicarsi della Provvidenza. Infatti, secondo Attico, la tesi dell’eternità del cosmo esclude la Provvidenza, in quanto la funzione essenziale di questa consisterebbe nel garantire al cosmo, di per sé corruttibile, l’incorruttibilità (cf. Attico, fr. 4, pp. 50-54 des Places). Una tesi analoga sostenne altresì Arpocrazione insieme ad Attico. In uno scolio al Timeo si dice: Arpocrazione e Attico, che interpretano che nel Timeo Platone dice il mondo genetos secondo il tempo, poiché Aristotele nel Del cielo accusa il divino Platone di aver detto il mondo genetos nel tempo – come pure egli stesso intende – e incorruttibile, credono di trovare una

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difesa contro di lui affermando che esso è corruttibile per sua propria natura, mentre rimane incorruttibile per volere del dio (Arpocrazione, 21 T Gioè).

5. La pluralità di mondi generati secondo Plutarco Merita di essere ricordata l’opinione di Plutarco circa la pluralità di mondi, che egli riteneva sostenuta dallo stesso Platone, e scrive: Anzitutto, le considerazioni che impediscono di porre infiniti mondi non precludono, però di porne più d’uno. In realtà, è sempre possibile che dio, divinazione e provvidenza s’estendano a una pluralità di mondi e che, essendo perciò ridotto al minimo l’intervento della fortuna, la maggior parte delle cose e le più importanti nascano e si tramutino con ordine, mentre a voler ammettere l’infinità dei mondi, nessuno di tali valori potrebbe più sussistere. Inoltre, è più conforme a ragione che Dio non si trovi di fronte a un mondo unico e solo. Infatti, essendo perfettamente buono, non c’è virtù di cui Egli sia privo; meno che mai Egli è privo di giustizia e di amore; virtù bellissime, queste, che si addicono agli dèi. E non è nella natura di un dio possedere qualcosa, senza farne uso. E allora esistono, al di là di questo, altri dèi, altri mondi, verso i quali Iddio esercita la virtù di natura sociale; poiché, certo, non è possibile ch’egli usi la giustizia o la grazia verso se stesso o una sua parte, bensì verso altri. Per concludere, non è probabile che questo mondo oscilli avanti e indietro, senza amicizia, senza vicinato, senza connubio, in un vuoto infinito! (Plutarco, Il tramonto degli oracoli, 423CD).

I mondi, secondo Plutarco, sarebbero cinque di numero, e corrisponderebbero ai cinque generi supremi, ai cinque solidi geometrici regolari e ai cinque elementi. Ne Il tramonto degli oracoli (428CE) precisa: Ecco perché Platone, levandosi contro coloro che dichiarano l’unicità dell’universo, afferma l’esistenza di cinque categorie: Essere, Identità, Alterità, e, coronamento di tutto, Movimento e Stabilità.

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Dato, quindi, che esistono queste cinque categorie, nessuna meraviglia che ognuno dei cinque elementi sia stato fatto a immagine e somiglianza di ciascuna di quelle categorie: l’immagine, naturalmente, non è pura e genuina; ma questo è dovuto al fatto che ogni elemento partecipa, nel più alto grado, del principio categoriale solo nell’ambito della sua particolare potenzialità. Comunque, il cubo è, evidentemente, un corpo nato per la Stabilità per via della sicurezza e saldezza delle sue facce piane; nella piramide non è chi non conosca la forma ignea e la Mobilità nella sottigliezza delle sue facce laterali e nell’acutezza dei suoi angoli. La natura del dodecaedro – comprensiva com’è delle altre figure solide – può ben sembrare una immagine dell’Essere, limitata, naturalmente, all’universo corporeo. Quanto ai due solidi rimanenti, l’icosaedro partecipa soprattutto dell’idea dell’Alterità e l’ottaedro a quella dell’Identità. Perciò, questa categoria somministra aria che racchiude ogni sostanza in una sola forma: l’altra, invece, somministra acqua che, attraverso la mescolanza, assume la più grande varietà di qualità. Se è vero, dunque, che la natura esige in ogni cosa una uguale distribuzione, è verosimile che i mondi non siano né più né meno delle categorie esemplari, affinché ciascuna di queste abbia, in ogni modo, la sua funzione predominante e la sua potenza, proprio come l’acquistò nelle costruzioni dei corpi solidi primordiali.

E ancora, in 430E: In verità, non fu il dio a scindere la sostanza e ad assegnarle differenti posti; ma, dopo che essa s’era scissa per sua stessa attività e s’era portata in diversi punti nel più grande disordine, il dio se ne impadronì, per ordinarla e organizzarla mediante le leggi della proporzione e dell’equilibrio; in un secondo momento, Egli stabilì su ogni singola sostanza, in funzione di governatore e custode, il principio razionale e creò tanti mondi quanti erano i corpi primordiali esistenti.

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6. Terza interpretazione della genesi del cosmo Una terza posizione risulta essere quella assunta da Severo, il quale, rifacendosi a un mito platonico contenuto nel Politico, sostenne che il mondo in quanto tale è ingenerato, ma che è generato questo mondo attuale in cui ci troviamo. Proclo (Comm. al Timeo I, p. 289,6-13 Diehl; 6 T Gioè) ci riferisce: Dopo questa opinione esaminiamo quella di Severo, il quale dice che in generale il mondo è eterno, ma che questo che ora è e che si muove è generato; infatti afferma che le rivoluzioni sono di due specie, come mostrò lo Straniero di Elea [scil.: nel Politico], una attorno a cui gira attualmente l’universo, l’altra a questa opposta; è dunque generato ed ebbe un cominciamento il mondo, quello cioè che percorre questa rivoluzione circolare, ma in generale è ingenerato.

Infine Iunco (della sua epoca non si conosce niente di sicuro) sostenne la tesi secondo cui il mondo, così come è stato generato dal Demiurgo, dovrà anche perire, secondo il suo progetto (cf. Stobeo, Antologia, IV, 1108,7 ss.). 7. Il cosmo e l’“anima malvagia” Merita di essere rilevata la coloritura «dualistica» di carattere religioso (e che forse risente di influssi di dottrine orientali), che la cosmologia e in generale la visione del mondo assumono in alcuni Medioplatonici. Abbiamo già accennato al fatto che Plutarco ammette l’esistenza di un’«anima malvagia» insita nella materia. Leggiamo uno dei testi più chiari: Platone chiama «madre» e «nutrice» la materia, che considera causa del male, movimento che muove la materia e che diventa divisibile relativamente ai corpi. È quel movimento disordinato e irrazionale, ma non inanimato, che nelle Leggi egli ha chiamato anima contraria e avversa a quella che è causa di bene. Infatti l’anima è un principio di movimento, mentre l’intelligenza è causa e principio di ordine e di armonia nel movimento. Dio non ha risvegliato la materia dal torpore, ma ha fatto sì che cessasse da essere agitata da una

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causa priva di ragione. E non fornì alla materia il principio di mutamento di affezioni, ma ha rimosso da essa – che era coinvolta in affezioni di ogni genere e in mutamenti disordinati – la molteplice indeterminatezza e l’erranza, avvalendosi come di strumento dell’armonia, della proporzione e del numero, la cui funzione non è quella di infondere nelle cose mediante i mutamenti e i movimenti modificazioni della diversità e della differenziazione, ma piuttosto di renderle non erranti e stabili, e simili alle realtà che sono sempre identiche (Plutarco, La generazione dell’anima, 1015DF).

Plutarco fa richiamo a un testo di Platone contenuto nelle Leggi, (X 896 D ss.) che conviene leggere: ATENIESE – Non dimentichiamoci di quanto sopra abbiamo convenuto, e cioè che se l’anima fosse risultata venire prima del corpo, anche tutto ciò che attiene all’anima avrebbe dovuto essere anteriore rispetto a ciò che fa riferimento al corpo. CLINIA – Senz’altro. ATENIESE – E, dunque, se è vero che l’anima si è formata prima del corpo, anche gli stati d’animo, le abitudini, gli atti di volontà, i ragionamenti, le opinioni vere, le anticipazioni, i ricordi devono aver visto la luce prima della lunghezza, larghezza, profondità e forza dei corpi. CLINIA – È necessario che sia così. ATENIESE – E allora, di questo passo, non è anche necessario che, ponendo l’anima come causa di tutte le cose con l’attribuirle anche la causa del bene e del male, di ciò che è nobile e di ciò che è vergognoso, del giusto e dell’ingiusto e di ogni altra coppia di contrari? CLINIA – Come no? ATENIESE – E se l’anima dirige ogni realtà e inerisce a ogni realtà dotata di movimento, dovunque essa sia, non è forse evidente che essa di necessità è la guida anche del cielo? CLINIA – Non c’è dubbio. ATENIESE – E si tratterà di un’anima sola o di una pluralità di anime? Risponderò io al vostro posto: senz’altro di molte anime. Ammettiamone almeno due: quella che è operatrice di bene e quella che all’opposto può operare il male.

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Oltre a questo passo, a giustificazione delle deduzioni di Plutarco sta anche il fatto che nel Timeo (in 52 D4-E5) Platone afferma che il principio materiale originario era dotato di movimento caotico: La nutrice della generazione inumidita e infuocata, accogliendo in sé le forme di terra e di aria, e ricevendo tutte le altre affezioni che a queste conseguono, appariva multiforme a vedersi. E poiché era piena di forze né somiglianti tra loro né equilibrate, in nessuna parte essa era in equilibrio, ma oscillando da ogni parte irregolarmente, era scossa da essa, e muovendosi a sua volta le scuoteva…

Ora, nella misura in cui la materia originaria «si muoveva» e «si scuoteva», doveva essere dotata di un «principio motore». E nel Fedro Platone parla dell’anima proprio come «principio di movimento» (Fedro, 245 D4-E2). Di conseguenza, proprio per potere essere in movimento, la «nutrice della generazione» doveva avere un’anima, la quale, in quanto disordinata e priva di ragione, doveva essere appunto malvagia. In tal senso l’esegesi di Plutarco aveva una sua coerenza logica e poteva ben risultare «platonica», anche se – come vedremo nel prossimo paragrafo – egli si spingeva per certi aspetti oltre Platone. Anche Attico ammise l’esistenza di un’anima malvagia. Proclo (Comm. al Timeo I, p. 391 6 ss. Diehl = Attico fr. 26 p. 76 des Places) ci riferisce su Attico e sui suoi seguaci: Pongono molti princìpi che legano tra di loro il Demiurgo e le Idee, e dicono che anche la materia, mossa da un’anima ingenerata, irrazionale, malefica, senza ordine né regola, si agiti, e antepongono secondo il tempo la materia al sensibile, l’irrazionalità al razionale, il disordine all’ordine.

8. I due princìpi del Bene e del Male che si fronteggiano nel cosmo e la struttura bipolare del reale secondo Plutarco Più di tutti gli altri Medioplatonici, Plutarco porta in primo piano la questione del nesso inscindibile che sussiste fra il «Bene» e il «Male» nell’universo, e quindi ripresenta in maniera forte la «struttura bipolare» del reale. Fa questo soprattutto nell’opera

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Iside e Osiride, seguendo il criterio dell’interpretazione allegorica dei miti, di cui parleremo più avanti. Iside viene interpretata come simbolo della saggezza. Osiride, il fratello e sposo di Iside, viene ucciso dal malvagio Tifone, il suo corpo viene tagliato a pezzi e le sue membra vengono disperse da tutte le parti. Ma i luoghi in cui furono ritrovate tali membra, per intervento di Iside, si trasformarono in sepolcri sacri e templi, e divennero quindi perenni richiami agli uomini del divino, e quindi divennero una sorta di simbolo del «nesso strutturale» fra l’umano e il divino. Horos, figlio di Iside e di Osiride, riesce a catturare Tifone, e sarebbe in grado di ucciderlo. Ma Iside, malgrado il male che Tifone aveva commesso e che avrebbe continuato a commettere, si oppone a che questo venga fatto: Il duello fra Horos e Tifone durò molti giorni e, infine, prevalse Horos. Iside, però, alla quale Tifone venne consegnato in catene, non lo mandò a morte, ma lo fece andar via libero (Plutarco, Iside e Osiride, 358D).

Ma come mai Iside si oppone all’uccisione del malvagio Tifone? Plutarco vede rispecchiata nel mito la legge suprema della «struttura bipolare» del reale, che presuppone l’esistenza di princìpi opposti, e lo spiega nel modo seguente in Iside e Osiride, 369BD: Secondo Euripide «non possono stare separati i beni e i mali; ma v’è, tra loro, non so quale mescolanza, tale che riesce a buon fine». Di qui, ancora, questa antichissima sentenza, che da teologi e legislatori trapassa in poeti e filosofi, senza che se ne sappia la prima fonte; essa ha con sé una fede ferma e indelebile e non solo nella storia e nelle tradizioni, sì anche nei riti e nei sacrifizi, diffusa dappertutto tra i barbari e tra i Greci: che, cioè, l’universo non è già liberato, per sola virtù meccanica, di per se stesso, senza uno spirito, senza una ragione, senza un pilota; né poi v’è una sola ragione che domina e regge, per così dire, con timore e con docili redini. No. Al contrario la natura ci offre tante esperienze, e tutte miste di mali e di beni, o, meglio, essa, in una parola, non ci dà nulla, quaggiù, che sia

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«puro»; né, d’altra parte, c’è un custode di due grandi vasi che, alla maniera di una dispensiera, distribuisca a noi i nostri scacchi e i nostri successi in mistura; ma è accaduto – quasi risultato di due opposti princìpi e di due forze antagonistiche, una delle quali ci guida lungo un diritto cammino a destra, mentre l’altra ci fa girare alla rovescia e indietro – che la nostra vita sia complessa, e così pure l’universo; e, se prescindiamo dalla sua totalità, è vero però che questo terrestre universo, inclusavi anche la luna, è irregolare e variabile e soggetto a ogni sorta di cambiamenti. Perché questa è la legge di natura, che nulla entri nell’esistenza senza una causa, e, se il bene non può fornire una causa per il male, allora segue che la natura debba avere in se stessa la fonte e l’origine particolare, distinta, del male, proprio come ne ha una tutta sua del bene.

Plutarco illustra questo suo pensiero, prima facendo richiamo a miti dei Persiani e dei Caldei, poi chiamando in causa i filosofi, dai Presocratici a Platone, che esplicitano teoreticamente il concetto, infine indica proprio in Osiride il «principio del Bene» e nella figura di Tifone il «principio del male», in questo bel passo (Iside e Osiride, 371AB): È un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiche, che non sono però equilibrate esattamente, perché la prevalenza appartiene alla forza del bene; ma non è, tuttavia, ammissibile che la forza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell’anima dell’universo, in un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell’anima, intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia su tutto quanto vi ha di meglio, s’identifica con Osiride. Così, nella terra, nel vento, nell’acqua, nel cielo, negli astri, ciò che è ordinato, stabilito, sano, come si rivela attraverso le stagioni, le temperature, i cicli, tutto questo è emanazione di Osiride e immagine riflessa di lui. Tifone, per contro, è la parte dell’anima soggetta a passioni, è l’elemento titanico, è irrazionale e volubile; ed è la parte dell’elemento corporeo che è

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IL MEDIOPLATONISMO

mortale e morbosa e torbida, come si rivela attraverso le cattive stagioni e le intemperie e gli oscuramenti di sole e le scomparse di luna: così si manifestano le turbolente rivolte di Tifone. Tutto ciò è espresso altresì dal nome con cui chiamano Tifone: Seth. Che significa: un girare e rigirare a più riprese; e ancora: un balzare su.

Dunque, Tifone non poteva venire annientato, perché non può essere annientato il principio negativo opposto a quello positivo, senza annientare la legge bipolare del reale e quindi il reale stesso.

Capitolo quinto

Il senso e lo scopo della vita dell’uomo per i filosofi medioplatonici 1. Il fine supremo per l’uomo consiste nell’“assimilazione a Dio e al Divino” La tesi che – come abbiamo già rilevato – esprime il fondamento e la temperie spirituale dell’etica medioplatonica è quella che addita il fine supremo dell’uomo nell’«assimilazione a Dio e al divino». Il principio deriva da Platone, il quale, come abbiamo visto, lo aveva già formulato in modo esplicito. Ma nella speculazione medioplatonica esso viene approfondito e arricchito di corollari inediti, come vedremo. In particolare, è da rilevare che il supremo imperativo «segui Dio» si presenta come il programmatico rovesciamento del principio comune a tutte le grandi filosofie ellenistiche «segui la natura». Il nuovo principio, a ben vedere, esprime la rottura degli orizzonti materialistici di quelle etiche e il totale ricupero dell’orizzonte spiritualistico. È, questo, un punto che, a nostro avviso dagli studiosi è stato solo scarsamente rilevato. Sugli antecedenti platonici, cf. Teeteto 176 A; Fedro 253 AB; Repubblica, X, 613A; Timeo, 90 A; Leggi, IV, 716 C. Su questo consentono quasi tutti i Medioplatonici del I e del II sec. d.C.: Eudoro (fr. 25 Mazzarelli), Plutarco (La superstizione 169E; Della lentezza della punizione divina 550D), Gaio, Alkinoos (Didascalico 13,1), Apuleio (Platone II, 25 s.), Teone di Smirne ( Esposizione 14,18 ss. Hiller), Massimo di Tiro (orat. 26), Iunco (presso Stobeo, Antol., IV, p. 1026,21 ss.), l’Anonimo autore del Commentario al Teeteto (Anonymer Kommentar, col. 7, 14), e anche le fonti dossografiche di estrazione medioplatonica lo ribadiscono in maniera inequivoca (cf. Ippolito, Dottrine filosofiche, 19,17 = Diels, Dossografi greci, p. 569,14 ss.). Teone di Smirne, nella sua Esposizione, afferma che, per giungere alla «imitazione di Dio», l’uomo deve percorrere come una scala

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IL MEDIOPLATONISMO

a cinque gradi, i quali vanno dalla purificazione attraverso le scienze matematiche, all’apprendimento delle dottrine filosofiche (logica, politica e fisica), alla conoscenza degli intelligibili, all’acquisizione della capacità di iniziare anche altri alle supreme conoscenze, alla quinta e ultima tappa, che è «la più perfetta», la quale consiste appunto nell’«imitazione di Dio nella misura del possibile». La seguente pagina dell’autore del Didascalico (28,1-4) costituisce, probabilmente, il punto più avanzato nell’elaborazione di questa dottrina: Platone, in conseguenza di tutte queste cose, pone come fine l’assimilarsi a Dio per quanto è possibile; questa dottrina è trattata in vari modi. Talora inatti dice che l’assimilarsi a Dio è l’essere saggi, giusti e santi, come nel Teeteto, per ciò bisogna anche cercare di fuggire di qui verso l’alto, quanto più presto possibile; la fuga è infatti l’assimilarsi a Dio per quanto possibile. L’assimilarsi è il divenire giusto e santo con il pensiero, talora soltanto l’essere giusto come nell’ultimo libro della Repubblica: non sarà mai infatti ignorato dagli dei colui che desideri divenire giusto e curando la virtù, per quanto possibile all’uomo, voglia assimilarsi a Dio. Nel Fedone, poi, dice che l’assimilarsi a Dio è divenire nello stesso tempo temperanti e giusti, in questo modo pressappoco: « Dunque saranno i più felici e fortunati e andranno nei luoghi migliori, coloro che praticarono la virtù comune e propria del buon cittadino, quella che chiamano temperanza e giustizia ». Talora dice che il fine è assimilarsi a Dio, talaltra che è il seguirlo, come quando afferma: «Dio, secondo l’antica tradizione, principio e fine ecc.». Talora dice entrambe le cose, come quando afferma: «L’anima che segue Dio e che si assimila a lui ecc.». Il bene è il principio di ciò che conviene fare ed anche questo è detto venire da Dio; dunque il fine che consegue al principio, è l’assimilarsi al Dio, al Dio celeste evidentemente e non, per Zeus, a quello sopraceleste, il quale non ha virtù, ma è di essa migliore; per questo si può ben dire che l’infelicità è una cattiva disposizione della divinità interiore, la felicità una buona disposizione. Potremo giungere a divenire simili a Dio, se avremo una natura adatta, dei costumi, un’educazione e una vita secondo la legge e soprattutto

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useremo la ragione, l’insegnamento e la tradizione delle dottrine, così da tenerci lontani dalla maggioranza delle cose umane e da essere sempre intenti alle cose intelligibili. Se si vuole essere iniziati alle conoscenze più alte, la preparazione e la purificazione del demone che è in noi dovranno avvenire tramite la musica, l’aritmetica, l’astronomia e la geometria e dovremo occuparci anche del corpo con la ginnastica, la quale addestra e ben dispone i corpi alla guerra e alla pace.

L’autore anonimo del Commentario al Teeteto (col. 7,14), inoltre, espressamente contrappone l’imitazione di Dio come fondamento della giustizia, ossia della virtù, alla stoica oikeiosis: Platone non deduce dall’oikeiosis la giustizia, bensì dall’assimilazione a Dio.

2. Una particolare specificazione della tesi dell’“assimilazione a Dio” nel “Didascalico” e il suo significato Si sarà notata, nel passo sopra letto del Didascalico, l’affermazione – la quale, di primo acchito, suona alquanto strana – che l’assimilazione a Dio non significa già assimilazione al Primo Dio, che è superiore alla stessa virtù, ma assimilazione al Dio che è nel cielo, cioè al Dio secondo. Il senso di tale affermazione, comunemente mal compresa, viene rivelato dalle seguenti affermazioni dell’autore dello scritto (Didascalico 13,1): Procedendo per ordine, bisogna ora parlare, per sommi capi, delle cose dette da Platone riguardo all’etica. Egli riteneva che il bene più pregevole e più grande non fosse facile da trovare e, trovatolo, non fosse prudente offrirlo a tutti. Per certo pochissimi e scelti discepoli fece partecipi della sua lezione sul Bene. Peraltro, esaminando accuratamente le sue opere, si può vedere che Platone ha posto il nostro bene nella scienza e nella contemplazione del primo Bene, che può essere chiamato Dio e primo intelletto.

Se il supremo bene è la contemplazione del «Dio supremo», o «Intelletto primo», è chiaro che, in questa contemplazione, proprio il «Dio secondo» o Intelletto secondo (Intelletto del cielo)

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IL MEDIOPLATONISMO

raggiunge la sua perfezione paradigmatica, per le ragioni di cui abbiamo parlato trattando della dottrina dalle «ipostasi» contenuta in questo scritto. È questa, appunto, la virtù dell’Intelletto secondo (contemplazione del Dio sommo o Intelletto primo), che è oggetto di imitazione da parte degli uomini. Detto in altri termini: il fine supremo dell’uomo è quello di fare, nella misura in cui ne è capace, ciò che, in modo perfetto, fa l’Intelletto secondo o Dio secondo: contemplare l’Assoluto e fare di esso la regola suprema. 3. La natura spirituale dell’uomo e la concezione dualistica di anima e corpo Questa concezione del fine supremo dell’uomo come «assimilazione a Dio» implica una rifondazione spiritualistica dell’antropologia e, precisamente, una riaffermazione della presenza nell’uomo della dimensione incorporea. Viene, così, energicamente sostenuta l’incorporeità dell’anima e la socratica «cura dell’anima» platonicamente intesa torna a reimporsi, ad esempio in Apuleio, Sul dio di Socrate, 168. L’anima proviene dal Primo Dio, e, per questo, essa è immateriale e incorporea, ed è destinata a ritornare alla sfera del divino dalla quale proviene, nella misura in cui avrà saputo purificarsi tramite le supreme conoscenze, come risulta da Didascalico 28,1-4. A questo proposito bisogna rilevare che alcuni Medioplatonici – quelli che alcuni studiosi chiamano «ortodossi» – sostengono la necessità di ritornare alla concezione puramente platonica dell’anima, giudicando la psicologia aristotelica come decettiva. In particolare, Attico accusa Aristotele di compromettere la dottrina dell’«immortalità dall’anima», che è fondamento dell’etica, con la sua distinzione fra “anima” e “nous”. E se Aristotele ammette l’immortalità del nous – sottolinea Attico (fr. 7, 13, p. 64 des Places) – dimostra tuttavia di non essere in grado di spiegarne né l’origine, né la natura, né i rapporti che esso ha con i singoli individui. Altri Medioplatonici, per contro – come abbiamo già rilevato – sfruttano invece quella distinzione aristotelica fra «anima» e

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«intelletto» proprio in senso «antimaterialistico» e, di conseguenza, per raggiungere, sia pure in modo diverso e ad un più alto livello, quegli stessi obiettivi che Attico si riproponeva. Scrive, per esempio, Plutarco, Il demone di Socrate, 391E: La parte immersa e presa nei movimenti del corpo è detta anima; quanto alla parte incorruttibile, i più la chiamano intelletto e la credono interiore a se medesimi, come i riflessi sono in uno specchio; ma coloro che meglio giudicano la chiamano Demone, come quella che loro è esteriore.

Anche secondo l’autore del Didascalico (27,3) l’intelletto deriva dal Primo Dio e anche da lui è denominato Dèmone, mentre le altre parti dell’anima derivano dagli Dei inferiori. In particolare, poi, è da rilevare che la possibilità stessa dell’«assimilazione a Dio», si fonda proprio su questa «metafisica sporgenza» del nous (Didascalico 27,3): Solo l’intelletto e la ragione in noi possono giungere alla somiglianza dei Bene [che è l’Intelletto supremo].

4. La libertà dell’anima Un ultimo punto va rilevato a questo proposito, vale a dire l’affermazione della libertà dell’anima. L’anima, infatti, nelle sue scelte della virtù – come si ripete con la celebre dottrina platonica – «non ha padroni», in quanto le sue scelte di fondo sono sottratte alla necessità (cf. Didascalico 26,2; 31,1; Apuleio, Platone II, 236). I Medioplatonici, per conseguenza, polemizzano contro la dottrina stoica del fato. E, pur accettando alcune istanze di questa, riescono a conciliare «necessità» e «libertà» assai più e assai meglio di quanto non fosse riuscito Crisippo. Ecco il passo più significativo, a questo riguardo, tratto dal Didascalico 26,1-2 (su questi temi si veda anche Ps. Plutarco, Il fato, 5): Platone dice che tutto avviene conforme alla heimarmene, ma che non tutto è stato deciso da essa. La heimarmene, infatti, ha il medesimo ruolo di una legge, per cui essa non dirà quello che un certo uomo farà o

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IL MEDIOPLATONISMO

un altro subirà, perché questo andrebbe all’infinito, dato che il numero degli individui che nascono è infinito, come le loro vicende. Inoltre, il nostro libero arbitrio sparirebbe, così come il concetto di lode, di biasimo. Ma Platone dice che se un’anima sceglie questa o quella vita e commette questa o quella azione, essa avrà questa o quella conseguenza. L’anima, dunque, è priva di padroni, e dipende da lei fare o non fare qualcosa; niente può costringerla, ma le conseguenze della sua azione dovranno conformarsi alle leggi del destino. Poiché Paride rapì Elena, ne conseguì la spedizione dei Greci contro Troia. È la stessa cosa che Apollo predisse a Laio: «se tu genererai un figlio, colui che nascerà ti ucciderà». È contenuto dall’oracolo sia la figura di Laio sia il fatto che egli generi un figlio, ma la conseguenza di questo fatto dipende dal destino (katheimartai).

Capitolo sesto

Un radicale ribaltamento di concetti-cardine dell’etica epicurea e di quella stoica operato dai Medioplatonici 1. La “tavola dei valori” e la virtù secondo i Medioplatonici Il Medioplatonismo (e in particolare la Scuola di Gaio) riprende quella tavola dei valori che Platone aveva fissato nella sua ultima opera, ossia nelle Leggi, contrapponendola alla riduzione stoica di tutti quanti i valori a uno solo, e reinterpretando alcuni dogmi stoici in modo conforme e questa tavola. Apuleio, per esempio, suddivide i «beni» in due grandi generi: 1) beni divini, 2) beni umani. Egli divide ciascuno di questi generi di beni in due specie: 1 a) Dio, 1 b) la virtù, 2 a) le buone qualità del nostro corpo, 2 b) il possesso di ricchezze, di potenza e simili. Quelli del secondo genere – come osserva Apuleio, Platone II, 219 ss. – sono beni solo se e nella misura in cui sono subordinati ai primi, e sono usati secondo ragione. L’autore del Didascalico presenta una sistemazione ancora più organica. Dopo aver detto che il bene supremo consiste nella contemplazione del Primo Bene, ossia del Primo Dio, che è il Primo Intelletto, egli scrive in 27,2 ss.: Egli pensava che tutte le cose chiamate buone presso gli uomini avessero questo nome per il loro partecipare, in certo qual modo, al primo e più pregevole bene, allo stesso modo in cui le cose dolci e calde hanno tale nome per il loro partecipare al primo dolce e al primo caldo. Solo il nostro intelletto e la nostra ragione possono giungere ad assimilarsi al bene; perciò anche il

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nostro bene è bello, nobile, divino, amabile, proporzionato e denominato con nomi degni del divino. Di quelli che i più chiamano beni, per esempio la salute, la bellezza, la forza, la ricchezza e le altre cose a queste affini, nessuno è in sé un bene, se non è usato virtuosamente; infatti, separati dalla virtù, sono soltanto al livello della materia e divengono dei mali per quelli che li usano sconsideratamente; qualche volta Platone li chiama anche beni mortali e beni per partecipazione.

È chiaro, dunque, che la virtù suprema dell’uomo è la «virtù contemplativa», da cui discende appunto l’«assimilazione a Dio». Tuttavia i Medioplatonici – soprattutto Plutarco in Questioni platoniche, IX, 1009AB, e l’autore del Didascalico (30) – non esitano a far posto anche alle virtù etiche, accogliendo quindi i guadagni aristotelici, e considerando queste appunto come le virtù relative alle parti arazionali dell’anima e come realizzazione del “giusto mezzo” fra “eccesso” e “difetto” e quindi come realizzazione della «giusta misura» . 2. Negazione di ogni valore al piacere e identificazione della felicità non con la fruizione di beni umani ma di quelli divini Anche i Medioplatonici, come già Platone, negano che il piacere possa considerarsi un fine della vita dell’uomo, e, naturalmente, polemizzano con la tesi di Epicuro. Una significativa testimonianza è quella che Aulo Gellio (Notti attiche, IV, 5,1-8 = 18 T Gioè; Gellio è vissuto fra il 120 e il 190 d.C.) ci riferisce riguardo a Calveno Tauro, che vogliamo leggere: Sui piaceri gli antichi filosofi espressero opinioni diverse. Epicuro afferma che il piacere è il sommo bene: lo definisce tuttavia in questo modo: «saldo e tranquillo benessere della carne». E il socratico Antistene dice che è il sommo male; è suo infatti questo detto: «Vorrei piuttosto impazzire che provare piacere». Speusippo e tutta l’Accademia antica affermano che il piacere e il dolore sono due mali fra loro opposti, e che il bene è una realtà intermedia fra i due. Zenone ritenne che il piacere sia un indifferente, cioè qualcosa di neutro, né bene né male, il che egli chiamò con espressione greca adiaphoron. Il peripatetico Critolao dice che il piacere

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è un male e che da se stesso genera molti altri mali, negligenza, inerzia, dimenticanza, ignavia. Platone, prima di tutti questi, discettò sul piacere in modo così vario e multiforme, che tutte le opinioni che ho sopra esposto sembrano essere profluite dalla fonte dei suoi dialoghi; infatti utilizza in egual misura ciascuna di esse, come richiede la natura del piacere stesso, che è molteplice, e come esige la natura delle questioni che tratta e delle conclusioni cui vuole pervenire. Il nostro Tauro, invece, ogni qualvolta veniva fatta menzione di Epicuro, sulla bocca e sulla lingua aveva queste parole dello stoico Ierocle, uomo virtuoso e austero: «Il piacere come fine: una dottrina da puttana; non c’è provvidenza: una dottrina che non è propria neppure di una puttana».

La felicità per i Medioplatonici non solo non sta nel piacere, ma neppure nei «beni umani», ma solo nei «beni divini». L’autore del Didascalico (27,1-2) esprime questo concetto in modo assai chiaro, usando anche formule di estrazione stoica, ma svuotandole del loro significato originario e caricandole di una forte valenza spirituale in senso platonico, in un passo già in parte letto, ma che conviene rileggere: Esaminando accuratamente le opere di Platone si può vedere che egli ha posto il nostro bene nella scienza e nella contemplazione del primo Bene, che può essere chiamato Bene e primo Intelletto. Egli pensava che tutte le cose chiamate buone presso gli uomini avessero questo nome per il loro partecipare, in certo qual modo, al primo e più pregevole bene, allo stesso modo in cui le cose dolci e calde hanno questo nome per il loro partecipare al primo dolce e al primo caldo. Solo il nostro intelletto e la nostra ragione possono giungere ad assimilarsi al bene; perciò anche il nostro bene è bello, nobile, divino, amabile, proporzionato e denominato con nomi degni del divino. Di quelli che i più chiamano beni, per esempio la salute, la bellezza, la forza, la ricchezza e le altre cose a queste affini, nessuno in sé è un bene, se non è usato virtuosamente: infatti, separati dalla virtù, sono soltanto a livello della materia e divengono dei mali per quel-

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li che li usano sconsideratamente; qualche volta Platone li chiama anche beni mortali.

E poco più avanti (Didascalico 27,4), riprendendo formule stoiche e caricandole, come dicevamo, di nuovo significato, scrive. In accordo con queste cose è l’affermare che solo ciò che è moralmente buono è bene e che la virtù è bastante per la felicità. Che poi il bene e il moralmente buono siano nella conoscenza della prima causa, è dimostrato in intere opere, mentre delle cose buone per partecipazione così è detto nel primo libro delle Leggi: «Di due tipi sono i beni, gli uni umani, gli altri divini, ecc.». Se qualcosa, che è separato e non partecipa dell’essenza del primo Bene, è chiamato dagli stolti bene, Platone dice nell’Eutidemo che ciò, per chi lo possiede, è un male assai grande.

La vera felicità non dipende dai beni umani, bensì da quelli divini: sono appunto questi, infatti – e solo questi – che rendono l’anima degna di ritornare a essere compagna degli Dei, e, con essi, a «contemplare la pianura della verità» (Didascalico 28,3). 3. L’etica medioplatonica a confronto con l’etica stoica Si è spesso sottolineato il carattere «eclettico» dell’etica medioplatonica, che, accanto ai guadagni platonici, non esita ad accogliere quelli aristotelici, nonché quelli della Stoa. In effetti, a riprova di tale asserto, si potrebbero addurre numerosi documenti. Tuttavia, non ci sembra che sia stato adeguatamente rilevato il fatto che solo raramente i Medioplatonici accolgono guadagni posteriori a Platone che contrastino con lo spirito platonico. Infatti, nella maggior parte dei casi, essi ripensano e rifondano i nuovi guadagni secondo lo spirito platonico. Così, per esempio, l’autore del Didascalico espressamente dimostra che il celebre dogma stoico secondo cui «solo ciò che è moralmente buono è bene» e la conseguente riduzione di tutti i restanti valori a «indifferenti» equivale alla dottrina platonica secondo cui il bene supremo consiste «nella conoscenza della prima causa» e che solamente questo è «bene divino», mentre tutti gli

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altri sono solamente «beni per partecipazione», ossia «beni umani» e tutte quelle cose che sono «separate dalla prima causa» sono mali. Anche il dogma stoico secondo cui «la virtù basta a se stessa», in quanto contiene in sé la ragione della felicità, è ritenuto dall’autore del Didascalico (27,5) perfettamente platonico, per le ragioni che egli riassume come segue: Colui che possiede la scienza che abbiamo detto è il più fortunato e felice, non tuttavia per gli onori che, essendo tale, riceverà, né per le ricompense, ma anche se dovesse restare ignoto a tutti gli uomini e gli capitassero quelli che sono detti mali, per esempio la perdita di ogni diritto, l’esilio, la morte. Invece chi, senza avere questa scienza, possiede tutti quelli che sono ritenuti beni, come la ricchezza, la potenza regale, la salute del corpo, la vigoria, la bellezza, in nulla è più felice.

4. La “metriopatia” contrapposta all’“apatia” degli Stoici Per quanto concerne il dogma dell’«apatia», già Plutarco mostra chiaramente, dapprima, che è un ideale irraggiungibile per l’uomo, e, successivamente, che è un ideale addirittura decettivo, perché non tiene conto della realtà dell’animo umano, che, per sua stessa natura, non può non avere passioni. Per conseguenza, le passioni si possono e si debbono «moderare», ma non «sradicare». La «metriopatia» che deriva, in ultima analisi, dalla platonica «giusta misura», diviene così l’ideale di Plutarco, sostitutivo dell’«apatia». Ecco tre bei passi tratti dal trattato Sulla virtù morale: Questo è dunque il compito naturale della ragione pratica: rimuovere le smisuratezze e le stonature dalle passioni. Quando, per debolezza e mollezza, o per timore o esitazione, l’impulso cede e rimane al di qua del bene, è qui che la ragione pratica interviene a risvegliarlo e rianimarlo; quando invece l’impulso trabocca riversandosi impetuoso e disordinato, allora è l’eccesso che toglie e arresta. Così delimitando il movimento passionale, essa genera nell’elemento irrazionale le virtù etiche, che sono medietà tra difetto ed eccesso. Non tutte

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le virtù nascono infatti grazie a una medietà: al contrario, c’è una virtù che non necessita dell’elemento irrazionale e si forma nell’intelletto puro e impassibile, e costituisce una certa sommità in sé compiuta e una potenza della ragione, grazie alla quale si realizza l’aspetto più divino e beato della scienza; invece, quella virtù che è necessaria a causa del corpo e necessita della collaborazione della passione come di uno strumento in vista dell’azione – poiché non distrugge o sopprime l’elemento irrazionale dell’anima, ma lo ordina e lo dispone – è una sommità quanto alla potenza e alla qualità, mentre dal punto di vista della quantità diventa una medietà, poiché elimina l’eccesso e il difetto (444BD; trad. di A. Bellanti). Dunque, [l’uomo] partecipa anche dell’elemento irrazionale e insito in lui è il principio della passione, che non è accessorio, ma necessario, né si deve distruggere completamente, ma ha bisogno di cura e di educazione. Perciò la ragione non compie un lavoro da Trace o da Licurgo, e cioè recidere e distruggere gli aspetti utili della passione insieme a quelli nocivi, ma a somiglianza del dio della fecondità e di quello delle vigne, sfronda ciò che hanno di selvaggio ed elimina quanto manca di misura, e poi coltiva e preserva ciò che è utile. Come chi teme di ubriacarsi non versa a terra il vino, così quanti temono il carattere perturbatore della passione non la eliminano, ma la temperano. Nei buoi e nei cavalli sono gli scarti e le resistenze al giogo che si mira ad eliminare, non i movimenti né le energie, e così la ragione si serve delle passioni soggiogate e ammansite, ma non snerva né trancia di netto la componente dell’anima che ha la funzione di servire (451CD). Come nel campo dei suoni la musica non produce l’armonia sopprimendo il grave e l’acuto, o nei corpi la medicina procura salute non distruggendo il caldo e il freddo, ma con simmetrie e quantità definite di elementi mescolati, allo stesso modo nell’anima nasce ciò che è morale, quando dalla ragione si ingenerano nelle facoltà e nei moti passionali moderazione e misura. Infatti, a rendere l’anima simile a un corpo rigonfio e infiammato sono il dolore, la gioia o la paura nella loro

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forma eccessiva, e non semplicemente la gioia, il dolore o la paura… Questo è anche il motivo per cui, nei piaceri, va eliminato l’eccesso nei desideri e, quando ci si difende, l’eccessivo odio verso la malvagità. In questo modo, infatti, uno non sarà insensibile, ma assennato; e sarà giusto, non feroce e inclemente: al contrario, se le passioni fossero completamente distrutte, se anche fosse possibile, in molti la ragione diventerebbe più fiacca e ottusa, simile a un timoniere quando cade il vento (451F-452A).

Ecco, infine, la massima che esprime in maniera perfetta il pensiero del nostro filosofo in modo icastico: Le azioni moralmente buone differiscono da quelle cattive per la loro giusta misura (Plutarco, Vita di Agesilao, 36,2).

Anche nel Didascalico (30) si polemizza contro la concezione stoica delle passioni e contro la loro riduzione a giudizi. Inoltre, si afferma, contro il paradosso stoico che divide categoricamente gli uomini in buoni e in cattivi, l’esistenza di una «posizione intermedia» e di un progresso verso la virtù, e, anche, l’esistenza di una gradazione dei mali. Ed ecco la equilibrata posizione assunta da Calveno Tauro (Aulo Gellio, Noct. att., XII, 5, 11-15 = 17 T, pp. 253 ss. Gioè): Ma poiché infatti l’uomo appena nato, prima del sorgere in lui del giudizio e della ragione, è stato impregnato da queste prime sensazioni del dolore e del piacere, ed è stato dalla natura apparentato al piacere e allontanato e alienato dal dolore come da un pericoloso nemico, per questo la sopraggiunta ragione può a stento estirpare ed estinguere tali affezioni, infuse dal principio e nel profondo. Essa lotta sempre con queste e, mentre si agitano senza freno, le comprime, le schiaccia e le costringe a sottomettersi e obbedire. Così avete visto il filosofo, affidandosi alla ragione dei suoi princìpi, lottare contro la petulanza del morbo e l’insolenza del dolore, per nulla cedere, nulla ammettere né, come i più sono soliti fare quando provano dolore, urlare, né lamentarsi e dichiararsi misero e

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infelice, ma emettere soltanto dei sospiri vigorosi e dei forti gemiti, segni e indizi, questi, non di chi è vinto e oppresso dal dolore, ma di chi si sforza di vincerlo e schiacciarlo. Ma qualcuno forse – disse – potrebbe obiettare al fatto stesso che egli lotta e geme: se il dolore non è un male, che bisogno c’è di gemere e di lottare? Tutte le cose infatti che non sono un male non per questo sono prive di ogni fastidio, ma sono per lo più tali che certamente non arrecano grande danno e rovina, poiché non sono viziose; tuttavia, per una qualche oscura e ineluttabile conseguenza della natura stessa, sono opposte e ostili alla mitezza e alla dolcezza della natura. Questo dunque è ciò che l’uomo saggio può sopportare e vincere, ma non può impediere del tutto che esso abbia accesso alla sua capacità di sentire: l’analghesìa infatti e l’apatheia – disse – non soltanto sono disapprovate e rigettate dal mio giudizio, ma anche da quello di alcuni fra i più sapienti uomini del medesimo Portico, per esempio di Panezio, uomo autorevole e dotto.

5. In che senso l’“intellettualismo” socratico rimane determinante nell’etica dei Medioplatonici Da ultimo, rileviamo il permanere della componente intellettualistica anche nell’etica medioplatonica. L’autore del Didascalico (31,1) afferma che la virtù è volontaria, ma non il vizio: E poiché se qualcosa esiste di dipendente da noi e senza padrone, tale è la virtù (non dovrebbe infatti essere lodato il moralmente buono, se provenisse dalla natura o da qualche divino destino), la virtù è volontaria e consiste in una spinta ardente, nobile e durevole: dal fatto che la virtù è volontaria segue la involontarietà del vizio. Chi infatti sceglierebbe volontariamente di avere, nella parte più bella e più pregevole di se stesso, il peggiore dei mali? Se, infatti, qualcuno aspira al male, in primo luogo, lo fa credendo di aspirare non al male, ma al bene; e se uno ricorre al male, una tale persona è assolutamente ingannata nella sua intenzione di tener lontano un male più grande attraverso un male più piccolo, e in questo modo risulterà involontario il ricorso al

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male; è impossibile infatti che qualcuno aspiri al male, volendo trovare il male stesso, e non per la speranza di un bene o per il timore di un male maggiore.

Affermare che la virtù è «volontaria» e che invece il vizio, che è il suo contrario, è «involontario», è evidentemente contraddittorio. È chiaro che l’ipoteca dell’intellettualismo socratico gioca, ancora una volta, un ruolo determinante. Il discorso di Filone di Alessandria con le sue bibliche implicazioni, per quanto concerne l’intera area della tematica morale, non è stato quasi per nulla recepito dalla cultura dei Greci.

Parte seconda LA FILOSOFIA GRECA NELL’ORGANIZZAZIONE DEL PENSIERO CRISTIANO DEL SECONDO E TERZO SECOLO

Sezione prima

IL PENSIERO CRISTIANO GRECO NEL SECONDO SECOLO

Capitolo primo

Giustino filosofo e martire e gli apologeti greci 1. Gli apologeti greci Gli scrittori cristiani del secondo secolo assumono un comune atteggiamento di difesa della nuova religione dagli attacchi della cultura e della società pagana, per cui sono denominati “apologeti”. E tuttavia questo termine è riduttivo, perché quegli scrittori non furono esclusivamente difensori della religione cristiana, ma si impegnarono fortemente nel tentativo di tracciare una nuova sintesi teologica e furono interpreti della storia e della funzione della nuova religione all’interno della civiltà in cui vivevano. La situazione religiosa di quell’epoca è quella da noi descritta nelle pagine precedenti (pp. 45-126), per cui si vede quanto sia errato considerare questi scrittori solo sotto l’angolo dell’apologetica. Essi, infatti, polemizzano anche contro gli gnostici ed altri eretici, per cui si viene definendo lentamente la nozione di “ortodossia” e di “Chiesa Cattolica”, che gli studiosi moderni preferiscono chiamare “Grande Chiesa”. Sono, quindi, pensatori cristiani – e non solamente apologeti – a tutti gli effetti. Eusebio di Cesarea nella sua Storia della Chiesa (IV 3 ss.) è per noi la principale fonte di informazione. Come osserva Marco Rizzi (Storia della teologia I, p. 47 ss.), gli apologeti greci del secondo secolo sono la prima testimonianza di un volontario rivolgersi della comunità cristiana alla società ad essa estranea, per far valere la propria identità e far conoscere i contenuti della propria fede. Del resto, altrettanto avevano fatto, già nel primo secolo, autori ebrei come Filone Alessandrino e Flavio Giuseppe, i quali avevano scritto dei trattati in difesa della propria tradizione religiosa e illustrato i molteplici aspetti della civiltà ebraica, per meglio informare il pubblico pagano. Gli apologeti furono dei pagani convertiti e possedevano una buona cultura retorica, che era quella comunemente diffusa alla loro epoca. «Rendendosi conto delle accuse grossolane che erano

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rivolte al cristianesimo, essi intendono dare alla proposta cristiana una strutturazione argomentativa e non parenetico-simbolica, come era stato sino ad allora con gli scritti dei Padri Apostolici (così chiamati per indicare la generazione degli scrittori cristiani che successe alla predicazione degli Apostoli). Gli apologisti sono così i primi autori chiamati a collocarsi in una posizione di frontiera – borderline secondo la terminologia anglosassone – tra la comunità dei credenti e la realtà altra, cercando di convincere gli interlocutori a compiere il passo che permetteva di varcare quella frontiera, passo che da loro stessi era già stato compiuto in precedenza», osserva ancora lo studioso. B. Pouderon ritiene che si debba pensare all’esistenza, in questo periodo, di vere e proprie scuole filosofiche cristiane sull’esempio di quelle ellenistiche: della scuola di Giustino e Taziano abbiamo testimonianze esplicite, ma altrettanto si può ipotizzare anche per Atenagora. Per questo motivo Pouderon pensa che si possa parlare di una “scuola di Roma” (quella di Giustino e Taziano), di una “scuola di Atene” (quella di Atenagora) e di una “scuola di Alessandria”, quella comunemente definita come tale: quest’ultima sarebbe iniziata già nel secondo secolo, anche se il suo massimo fiorire è da collocarsi nel terzo. In tali scuole sarebbe esistito un “maestro”, alla maniera greca e romana, la cui funzione era “laica”, differente da quella del “didascalo”, personaggio carismatico che aveva il compito di interpretare i dati della fede, e da quella dei catecheti. 2. Un precedente di Giustino: Aristide di Atene Stando a quello che ci riferisce Eusebio di Cesarea (Storia della Chiesa IV 3), Aristide di Atene scrisse una Apologia della fede cristiana, indirizzata all’imperatore Adriano (negli anni 117-138 d.C.). È molto difficile giungere a conoscere il testo originario di questa Apologia, perché dobbiamo servirci di traduzioni armene e siriache e brevi frammenti in greco, ma si è potuto concludere che le poche dottrine di Aristide che ci sono pervenute hanno un parallelo anche in testi gnostici e medioplatonici: in polemica con il politeismo, Aristide afferma che Dio non è generato né creato, è di natura sempre uguale, senza inizio e senza fine; immortale, perfetto e incomprensibile. Dicendo che è “perfetto”, Aristide intende dire che in Dio non vi sono manchevolezze, ed egli non

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ha bisogno di niente; al contrario, è il mondo materiale che ha bisogno di lui. E quando dice che Dio è senza inizio, Aristide intende anche con questo contrapporre Dio al mondo, che, come ha un inizio, ha anche una fine. Inoltre, Dio non ha nome, perché tutto quello che ha un nome è stato creato. L’impossibilità di dare un nome a Dio è asserita anche da Giustino (p. 244), da Teofilo di Antiochia (Ad Autolico I 3-4), da Clemente di Alessandria (Stromati V 82; 83,1: «tutto quello che cade sotto un nome è stato generato»), da uno scrittore la cui opera (Esortazione ai Greci) fu attribuita a Giustino (cf. cap. 21): «nessun nome proprio può essere applicato a Dio [...] nessuno esisteva prima di Dio, da potergli attribuire un nome»). Non ha somiglianza con niente (e quindi non ha “forma” o “figura”), né composizione di membra, perché colui che ha delle membra è una delle cose create. Non è né maschio né femmina (contrariamente a quanto insegnava la religione pagana, che distingueva dèi e dee). Dio è innominabile e inconoscibile: tutto il mondo è opera sua e ha bisogno della sua provvidenza, sì che gli uomini possono conoscerlo solamente guardando ammirati le meraviglie dell’universo. Anche se in queste affermazioni apparentemente semplici si percepisce l’intento di Aristide di rifiutare gli dèi pagani e di giungere faticosamente a concepire un Dio cristiano veramente trascendente, alcune di esse sono simili alle negazioni, relative alla natura di dio, con le quali il medioplatonismo contemporaneo escludeva la possibilità di conoscerlo. 3. La conversione di Giustino al cristianesimo L’inizio di un’opera di Giustino (100-166 d.C.), il Dialogo con Trifone, è famoso perché ci presenta, da un lato, un esempio di conversione al cristianesimo, da lui considerata come la conversione alla vera filosofia, dall’altro perché ci parla – per testimonianza diretta – delle filosofie contemporanee, e ce ne mostra i contenuti, che lo scrittore ora critica e ora accetta. Ed è interessante vedere questo filosofo cristiano che è in grado di scrivere un dialogo imitando la maniera di Platone. Giustino non ha difficoltà ad affermare che la filosofia è il più grande dei beni e il più prezioso agli occhi di Dio, l’unico che a lui ci conduce e a lui ci unisce, e che sono davvero uomini di Dio

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coloro che hanno volto l’animo alla filosofia. Ciò nondimeno, egli afferma, ai più è sfuggito che cosa sia la vera filosofia e perché mai sia stata donata da Dio agli uomini: se fosse stata conosciuta, non vi sarebbero stati né platonici né stoici né pitagorici, ma tutti sarebbero stati concordi a riconoscere la verità. Unico è il sapere filosofico, infatti, perché la vera filosofia è il cristianesimo – ed anche Clemente di Alessandria concorderà con questa affermazione. Giustino, dunque, com’egli ci racconta, insoddisfatto della sapienza umana e cercando quale fosse la vera filosofia, cominciò a frequentare uno stoico per avere una risposta sul problema di Dio, ma senza alcun profitto: il maestro stoico non sapeva niente di Dio, e d’altra parte diceva che non era necessario conoscerlo. In effetti, gli Stoici non credevano in un dio trascendente, per cui la domanda posta da Giustino apparve vana al filosofo stoico: possiamo percepire, quindi, il contrasto tra la filosofia stoica e le esigenze religiose dei Cristiani. Di conseguenza Giustino abbandonò il maestro stoico e si recò da un peripatetico, il quale, però, non insegnava per il desiderio di far conoscere la verità, ma solo per essere pagato. Per questo motivo Giustino smise di frequentarlo, ritenendo che tale comportamento non si addicesse ad un filosofo. L’accusa di avidità di denaro era assai frequentemente mossa contro tutte le scuole filosofiche dell’epoca. Insoddisfatto di queste prime esperienze, Giustino si recò a scuola da un pitagorico, che insegnava la musica, l’astronomia, la geometria, cioè le discipline che distolgono l’animo dalle cose materiali e lo preparano a trarre frutto da quelle spirituali, sì da giungere a contemplare il bello e il bene: lo ripeterà anche Clemente di Alessandria (pp. 327-330). Conosciamo questi interessi della filosofia pitagorica anche da altre fonti coeve. Ma Giustino dovette accorgersi che il maestro pitagorico non conosceva la dottrina del vero Dio, per cui si rivolse ad un platonico, il quale insegnava la conoscenza delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee. Quella, dunque, gli apparve come la vera filosofia. Successivamente, però, Giustino incontrò un vecchio di aspetto nobile e autorevole, il quale, con una serie di conversazioni, discusse i vari problemi della filosofia e le varie esigenze della natura umana. La questione era quella di sapere se la filosofia è veramente la scienza dell’essere e procura la conoscenza del vero,

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e di conseguenza la felicità. Tuttavia questo non bastava: così si svolge il dialogo tra Giustino e il sapiente (3,5): Ma tu che cos’è che chiami Dio?, chiese. Colui che è sempre uguale a se stesso e che è causa di esistenza di tutte le altre realtà. Ma esiste una scienza che procura la conoscenza delle realtà divine e di quelle umane e quindi la conoscenza della loro divinità e rettitudine? In tal caso, conoscere Dio e l’uomo è la stessa cosa che conoscere la musica, l’aritmetica, l’astronomia e via dicendo? Ma questo è impossibile. Come possono, allora, i filosofi elaborare un corretto pensiero su Dio e dirne qualcosa corrispondente a verità, visto che non ne hanno la scienza? (S. Giustino, Dialogo con Trifone, Introduzione, traduzione e note di Giuseppe Visonà, Edizioni Paoline, Milano 1988, con qualche modifica, qui e in seguito).

Evidentemente, replica Giustino seguendo l’opinione di Platone, non è con gli occhi che i filosofi possono vedere Dio, così come gli altri esseri viventi vedono gli oggetti, ma solo con la mente. Dio, infatti, è causa di tutte le realtà intelligibili e non ha né colore né forma né grandezza, niente di quanto l’occhio può cogliere, ma è solamente l’essere, al di sopra di ogni sostanza, ineffabile e indicibile, unico bene. Solamente l’anima nobile può conoscerlo, grazie alla sua affinità con lui. Tale risposta di Giustino, però, non è soddisfacente (4,2): Quale affinità mai c’è tra noi e Dio?, diceva l’anziano. Forse anche l’anima è divina e immortale, parte di quella mente sovrana? E, come quest’ultima vede Dio, così anche la nostra mente è in grado di cogliere il divino e di conseguenza raggiungere la felicità? E tutte le anime passano indifferentemente attraverso qualunque essere vivente, o è diversa l’anima dell’uomo da quella del cavallo o dell’asino?

Da buon platonico, Giustino risponde che non c’è nessuna differenza se l’anima sia presente in un animale o nell’uomo: l’anima è sempre la stessa in tutti. Ma allora potranno vedere Dio anche i cavalli e gli asini. Invece, neppure la gran parte degli

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uomini lo può vedere, a meno che non conduca una vita retta, purificandosi con la pratica della giustizia e di ogni altra virtù. Di conseguenza, modificando la precedente affermazione, Giustino e il vecchio sapiente giungono alla conclusione che l’uomo non vede Dio in forza di una affinità dell’anima con lui né perché è dotato di intelletto, ma perché è saggio e giusto, e possiede lo strumento con cui conoscerlo. Questo strumento è la mente. L’anima, mentre è nel corpo umano, vede Dio solo grazie alla mente, ma è soprattutto dopo che ha lasciato il corpo e si trova sola con se stessa che consegue ciò che ha sempre desiderato. Il discorso implica, come conseguenza, anche la metempsicosi, che era effettivamente sostenuta dai platonici, e che tuttavia deve essere assolutamente respinta. Alla dottrina dell’immortalità dell’anima si collega quella dell’immortalità del mondo. Giustino sa che vi sono alcuni che affermano che il mondo non è stato creato (questi sono sostanzialmente tutti i filosofi greci), ma esita a seguire la loro opinione (5,2-3): Che fondamento ha, infatti, ritenere che un corpo così solido, resistente, composito, mutevole, che perisce e risorge ogni giorno, non abbia avuto un qualche inizio? Ma se il mondo è creato, anche le anime debbono essere create e, verosimilmente, non esistere più ad un certo punto. Infatti sono venute all’esistenza a motivo degli uomini e degli altri esseri viventi, sempre che tu ammetta che esse nascono separatamente e non assieme ai rispettivi corpi. E purtuttavia non intendo affermare che tutte le anime muoiono, il che sarebbe un vero colpo di fortuna per i malvagi. Pertanto io credo che le anime degli uomini pii soggiornino in un luogo migliore e quelle ingiuste e malvagie in uno peggiore, in attesa del momento del giudizio. Allora quelle che risulteranno degne di Dio non moriranno più, le altre invece saranno punite per il tempo che Dio vorrà che vivano e siano punite.

Anche questo è un punto di contatto con le discussioni dei filosofi platonici: Platone nel Timeo dice che il mondo è per sua natura corruttibile, in quanto ha avuto inizio, ma per volontà di dio non si distruggerà. Tutto ciò che esiste, secondo la dottrina cristiana, è di natura corruttibile, ma di conseguenza – contraria-

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mente a quanto affermavano i platonici a proposito del mondo – deve scomparire e non esistere più, perché solo Dio è increato e incorruttibile, e in questo consiste la sua natura. Il seguito della conversazione tra Giustino e il vecchio sapiente continua a prendere in esame vari problemi del medioplatonismo. La conclusione non può essere altro che il passaggio di Giustino dalla filosofia platonica alla vera filosofia, che è quella cristiana. Il passaggio è avvenuto per gradi, dunque: dai livelli più bassi – cioè dalle concezioni materialistiche e sensiste degli stoici – si sale nella scala dei valori del pensiero; Platone sta al culmine della filosofia pagana, ma neppure lui è in grado di fornire una risposta convincente a tutti i problemi; anzi, su alcuni di essi, come quello della metempsicosi e dell’anima cosmica, che accomuna gli uomini agli animali, la sua soluzione è assolutamente inaccettabile. 4. Giustino filosofo cristiano Successivamente alla sua conversione Giustino divenne filosofo cristiano, e tale fu considerato dalla tradizione successiva, almeno fin dai tempi di Tertulliano (cioè intorno al 210), che lo definisce “filosofo e martire” (Contro i Valentiniani 5,1); d’altra parte, nella seconda Apologia (12,1) egli stesso racconta che un tempo provava interesse nell’insegnamento di Platone e dice al prefetto di Roma, davanti al quale deve difendersi, che, mentre egli aveva cercato di insegnare tutte le filosofie, si era però soffermato soprattutto su quella cristiana, che considerava la più vera. L’esistenza della scuola di Giustino è attestata dal suo discepolo Taziano (Ai Greci 19,2), da Ireneo (Contro le eresie I 28,1) e quindi da Eusebio (Storia della Chiesa IV 11,8) e da Gerolamo (Gli uomini illustri 23). Alla sua scuola si recò forse anche un altro apologeta, Milziade. Altre notizie ci sono fornite dagli Atti del martirio di Giustino (cap. 4,7), che ci riferiscono che un certo Evelpide seguì le sue lezioni, dopo che era già stato convertito, forse per completare la sua formazione. Il cristianesimo, dunque, è la vera filosofia: Se si vuole giudicare rettamente, i nostri insegnamenti non posseggono niente di infamante; al contrario, sono superiori ad ogni filosofia umana (Apologia II 15,3).

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Tale affermazione è interessante, perché Giustino non confronta la religione con le filosofie, ma una dottrina (sia pure rivelata) con altre dottrine. Egli si sente autorizzato a istituire questo confronto perché nella dottrina cristiana, come nelle altre, è presente la razionalità, cioè il logos, che ha origine da Dio. Secondo Pouderon, il titolo di “letteratura apologetica” è un fraintendimento di Eusebio di Cesarea, perché le opere di Giustino e dei suoi successori non “scusano”, non “giustificano” il cristianesimo, ma lo asseriscono come unica e vera religione. Di conseguenza è possibile che Giustino dedicasse una parte del suo insegnamento anche alla costruzione di un pensiero cristiano, e per fare questo si servisse della filosofia greca, naturalmente non per l’interesse intrinseco che i testi filosofici potevano suscitare, ma per la parte di verità che Giustino riteneva che si potesse trovare in essi. Tra tali testi impiegati da Giustino è significativo trovare la seconda Epistola platonica (la quale, tuttavia, è una falsificazione di origine neopitagorica, probabilmente dello stesso secondo secolo): infatti in essa i Cristiani ritennero di poter trovare un’anticipazione della dottrina trinitaria; e tra i testi letti da Giustino si trova anche il Timeo, un dialogo di Platone che fin dai tempi di Filone di Alessandria pareva essere un parallelo pagano del libro della Genesi. Anche i poeti potevano essere oggetto di studio, come si è visto (pp. 157 ss.), anche se sembra che Giustino non si sia interessato molto di essi. La scuola di Giustino sembra avere suscitato l’invidia di un certo Crescente, filosofo cinico: fu, questo, un episodio di concorrenza tra le varie scuole filosofiche, alla quale si aggiunse anche l’accusa, mossa contro di lui, di adesione ad una religio illicita, quale il cristianesimo. Altrove (Dialogo con Trifone 50,1) l’ebreo Trifone, interlocutore di quel dialogo, afferma che Giustino stesso appariva esperto nelle discussioni con i filosofi. Dato il clima dell’epoca, durante la quale regnarono imperatori di grande cultura, come Adriano, o filosofi, come Marco Aurelio, lo scrittore cristiano può permettersi di rivolgersi alla coscienza, e di prenderne a testimone la cultura filosofica, dell’imperatore regnante (in questo caso, Antonino Pio negli anni 138-161 d.C. – Apologia I 7,2-5), mostrando tutto quello che accomuna, e non divide, cristianesimo e filosofia, il cui sforzo congiunto deve essere quello di combattere il politeismo tradizionale. Il politeismo, infatti, è una forma inferiore di religione, non adatta alle persone colte e ancor meno ai filosofi, basata sull’ignoranza e sulla superstizione; tali forme inferiori

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di adorazione sono ispirate dai demoni, che sono nemici del vero Dio. In quanto filosofo e in quanto si rivolge a degli imperatori filosofi, Giustino ricorda loro (Apologia I 3,3) la famosa sentenza di Platone, che uno stato sarebbe stato prospero, se i suoi governanti fossero stati anche filosofi. Pertanto egli espone agli imperatori quale sia la vita dei Cristiani e quali siano le loro dottrine, sottolineandone l’aspetto filosofico, che sarebbe stato certamente apprezzato dai destinatari del suo scritto. Insomma, in quanto maestro della vera filosofia, Giustino intende staccarsi dagli altri filosofi e rivolgersi solo ai competenti. 5. Il platonismo di Giustino Dal racconto della conversione di Giustino si ricava che lo scrittore cristiano si accostò al platonismo mediante la sua frequentazione di un filosofo a lui contemporaneo, più che mediante la lettura delle opere di Platone medesimo. Bisognerà quindi cercare nel platonismo del secondo secolo quegli interessi per la dottrina platonica di cui egli ci parla. Elementi essenziali di esso sono: la dottrina dell’inesprimibilità e della trascendenza di Dio (Apol. II 10), asserita sulla base di un passo famoso del Timeo (28 C: «il padre e creatore dell’universo è difficile trovarlo e, una volta che lo si sia trovato, impossibile manifestarlo a tutti») che è presente in tutti i filosofi medioplatonici; quella della creazione del mondo dalla materia informe e coeterna a dio (Apol. I 20), della presenza del Figlio di Dio (da Giustino identificato con il Logos, come ora vedremo) nell’universo (Apol. I 60), della esistenza dello Spirito (I 60). La conoscenza di Dio, inoltre, è possibile solo con l’intelletto (Dialogo con Trifone 3,6-7), come affermano anche i contemporanei Alkinoos (Didascalico 10) e Apuleio (Platone e la sua dottrina I 5,190). 6. Altri aspetti della filosofia di Giustino Giustino non è solo platonico: egli accetta anche alcuni aspetti dell’etica degli Stoici (Apol. II 7,1), ma critica duramente la loro dottrina del fato e del libero arbitrio (Apologia I 43; II 5,3-9). Egli affronta tale questione perché i Cristiani possedevano nei loro libri sacri una grande quantità di profezie. Ora, gli Stoici sostene-

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vano che la profezia, espressa dagli oracoli nei santuari pagani, fosse la dimostrazione del fatto che tutti gli avvenimenti fossero dovuti al fato: solo per questo motivo essi potevano essere conosciuti in anticipo. Rispondendo agli Stoici, Giustino certamente si serve di dottrine che leggiamo in altri testi contemporanei, soprattutto di origine medioplatonica, come il trattato sul fato attribuito a Plutarco, il trattato su Platone e la sua dottrina di Apuleio e le Dissertazioni di Massimo di Tiro (fiorito nell’era del’imperatore Commodo, 180-192 d.C.). Per questo motivo Giustino sostiene che anche i profeti hanno insegnato che la punizione attende i malvagi e la ricompensa è riserbata ai buoni, il che è incompatibile con il determinismo. 7. La teologia di Giustino: il Padre, o Dio Il Padre è identificato con Dio, senza alcuna idea della distinzione delle Persone, come era abitudine dei primi scrittori cristiani. Di conseguenza, quando Giustino descrive Dio con tutti gli aggettivi negativi che erano in uso nella filosofia platonica dei suoi tempi, egli intende il Padre trascendente e unico, distinto dal Logos, che si è manifestato agli uomini e al mondo, e per questo motivo è molteplice. Dio è quindi non generato, non esprimibile, non nominabile, non corruttibile, immutabile, impassibile; oltrepassa tutte le cose sensibili ed è la causa dell’esistenza di tutto. Queste definizioni risalgono a Platone (cf. Fedone 78 C; Sofista 248 A; Repubblica 484 B), il quale con esse intende definire l’essere vero e reale, la realtà dotata di vera esistenza. Anche se è spesso chiamato “creatore” o “demiurgo”, tuttavia, a causa della sua trascendenza Dio non può essere visto dalle creature, le quali nemmeno gli possono rivolgere la parola. Ma, come è normale per degli scrittori cristiani, anche Giustino riconosce che Dio ha delle caratteristiche – bontà, misericordia, giustizia etc. – che lo rendono un essere personale. 8. La teologia del “Figlio” Gesù di Nazareth è stato l’incarnazione di una potenza razionale (dynamis loghiké). Generato dal Padre per suo stesso volere prima dei tempi, prima di tutte le creature, è chiamato dalle Scritture con vari nomi: “Gloria del Signore”, “Figlio”, “Sapienza”,

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“Dio”, “Signore”, ed anche “Logos” o “Parola” perché è lo strumento della rivelazione di Dio agli esseri umani (cf. Dialogo 128,2). Giustino si rende conto del fatto che parlare di questa “potenza razionale” come se fosse un altro dio sarebbe problematico, per cui spiega che questo secondo Dio è venuto all’esistenza grazie al volere del Padre (Dialogo con Trifone 61,1; 128,4) e che, sebbene distinto da lui quanto al numero, tuttavia non ha mai fatto altro che la volontà del Padre (Dialogo 56,4. 11). La concezione che dio abbia a che fare con la realtà creata per mezzo di un secondo dio ha dei paralleli nella filosofia greca contemporanea. Numenio di Apamea parlava di tre dèi, il primo dei quali rimane in se stesso, semplice e indivisibile, ed è padre del dio creatore. Questo è secondo e terzo dio insieme, nel senso che si sdoppia in due a seconda che abbia o no rapporto con la creazione. Anche Alkinoos distingueva tra un primo dio, l’intelletto, e l’anima del mondo (Didascalico 10,2 ss.). Dio, anche secondo Alkinoos, è detto “padre” in quanto è la causa di tutte le cose e dispone nell’ordine l’intera natura dell’universo. Ma già Filone aveva combinato la tradizione ebraica e quella platonica, sostenendo che Quando la Scrittura parla di Dio che crea l’uomo ad immagine di Dio, come se parlasse di un secondo dio, non si riferisce al Dio superiore, che è il Padre dell’universo, ma al secondo Dio, che è il suo Logos (Questioni sulla Genesi II 62).

9. La teologia del “Logos spermatikós” Se l’espressione scritturistica “Parola di Dio” costituisce il contesto primario e fondamentale della dottrina giustinea del Logos, non si può negare che il filosofo cristiano sia stato attratto dalle risonanze che il termine Logos aveva nella filosofia pagana contemporanea. Quando spiega agli imperatori che cosa significhino “ragione” e “retta ragione” (Apol. I 2,1; 3,1), egli poteva confidare di essere inteso da loro, anche se la parola aveva un significato più profondo, in quanto doveva essere interpretata in senso teologico (12,6). Il Logos di cui Giustino parla si incarnò in Gesù di Nazareth (Apol. II 10,1), ma è anche il principio che rende razionali tutti gli uomini (Apol. II 7,1). Per questo motivo i pagani che vissero in modo conforme alla ragione,

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come Socrate od Eraclito, meritano di essere ritenuti, per qualche aspetto, “cristiani”, così come quelli tra i barbari ai quali si è rivelata la Parola di Dio (Apol. I 46,2-3). Un altro passo (Apol. II 5,3) introduce il problema del Logos interno al Padre e del Logos proferito, cioè manifestatosi: Il Figlio, l’unico che sia con ragione chiamato suo figlio, è il Logos che, prima che ci fossero le creature, era con lui ed era stato generato, allorquando al principio Dio adornò e creò tutte le cose attraverso di lui. Egli è chiamato “Cristo”, perché Dio unse e ordinò l’universo attraverso di lui.

Giustino unisce la concezione teologica del Figlio di Dio come Logos alla dottrina del logos spermatikós, inteso come principio fisico. Gli Stoici usavano il termine logos spermatikós solitamente al plurale e nell’ambito della fisica, volendo indicare i principi attivi che producono lo sviluppo di tutte le cose: Giustino, quindi, ha trasferito il termine dal suo ambito usuale per applicarlo a quello dell’intelletto e della morale. Ma, secondo lui, il logos spermatikós (cioè “seminale”) non è soltanto il logos della mente umana. L’aggettivo “seminale”, infatti, ha significato attivo: ne è una dimostrazione la parabola del buon seminatore (Matt. 13,49), la quale descrive il Logos divino che semina i semi della razionalità nell’intelletto degli uomini. Anche se il seme della ragione, seminato nell’intero genere umano, può essere descritto come una parte del Logos seminale, cioè del Logos che “semina” negli uomini la ragione, non si deve pensare che il logos umano sia in alcun modo identico al Logos stesso. Giustino intende dire che la razionalità umana è in grado di raggiungere, se si sforza, qualche conoscenza del divino e della verità morale, ma non può pervenire alla pienezza del Logos: questi, infatti, si è rivelato solo con l’incarnazione di Cristo, il quale è il Logos nella sua totalità. Nel suo riferirsi a un logos seminale Giustino afferma l’ubiquità della rivelazione, e non, come gli Stoici, dai quali egli riprese la frase, l’universalità della ragione (cf. Apol. I 44). Pertanto se Giustino afferma che gli scrittori pagani, quando espressero qualche verità, la desunsero da una parte del Logos seminale divino (Apol. II 13,3), egli intende dire che la razionalità umana permise loro di intravvedere, anche se oscuramente, delle verità o delle realtà che sono connaturate con il Logos.

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Tutti questi motivi filosofici e religiosi, impostati da Giustino, furono ripresi e riconsiderati dagli apologeti successivi, i quali si mossero, tranne poche modifiche, seguendo la strada da lui tracciata. Per questo motivo, come abbiamo detto altrove (cf. C. Moreschini, Storia della filosofia patristica, Brescia, Morcelliana 2004, p. 77), Giustino è personaggio di grande significato nella storia della filosofia patristica, non tanto per l’originalità delle sue concezioni, quanto perché in lui per la prima volta incontriamo la figura del “filosofo cristiano”. In Giustino l’unione di cultura greca e cristianesimo produsse una sintesi, certo non molto profonda, ma comunque nuova e tale da influire sul pensiero successivo. Per questo motivo molti dei risultati a cui pervenne la sua speculazione si conservarono a lungo nel cristianesimo antico. Esamineremo, quindi, i singoli problemi tenendo in considerazione gli apporti di Giustino e degli apologeti che vissero dopo di lui. Ma prima vediamo le dottrine degli altri apologeti.

Capitolo secondo

Gli altri apologeti greci Taziano, Atenagora, Teofilo e Ireneo 1. Taziano Nella seconda metà del secondo secolo si fanno sempre più vivi il contrasto tra il pensiero cristiano e la filosofia pagana, da una parte, e la polemica contro lo gnosticismo, dall’altra. Si diffonde la communis opinio che l’eresia dipende dalla filosofia dei pagani, per cui si comincia ad assumere un atteggiamento più critico di quello di Giustino, nei confronti di essa. Ippolito (pp. 295 ss.) è l’esempio più evidente di questa nuova tendenza ostile alla filosofia pagana, considerata l’origine di ogni eresia, e quindi errata nel suo fondo. Discepolo di Giustino, Taziano (120-180 d.C.) avrebbe fondato una sua “eresia”, come attestano le fonti greche. In greco hairesis indicava una scuola filosofica, e così deve essere intesa quella di Taziano, cioè come una scuola filosofica che si era staccata e differenziata da quella di Giustino. Da questo fatto si può dedurre che l’intento di Taziano non era solo quello di esporre la dottrina cristiana, ma, pur senza considerarsi “eretico”, quello di sottolineare la diversità del suo insegnamento da quello della cosiddetta “Grande Chiesa”. Inoltre, è probabile che la filosofia greca, alla pari della retorica e della grammatica, non abbia occupato ampio spazio nel suo insegnamento. Taziano intende il cristianesimo come una sapienza antica, dalla quale sarebbe derivata poi la filosofia greca. Ma diversamente dal suo maestro, che era stato aperto ad essa, egli la concepì come una sapienza “barbara”, cioè estranea alla grecità, e polemizzò duramente con quest’ultima. Per molti aspetti Taziano riprende le dottrine di Giustino, ma non in modo fedele: il platonismo, in lui, così ostile alla cultura greca, è molto meno accentuato. Nel cap. 5 del Discorso ai Greci egli attribuisce a Dio delle qualità, che sono quelle tradizionali del medioplatonismo: invisibile, incomprensibile, senza inizio, Dio è il

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principio e il padre di tutte le cose, è conosciuto attraverso la creazione, non ha bisogno di niente. È spirito (pneuma), come afferma la Scrittura (cf. Gv. 4,24), ma poiché il termine pneuma può suscitare dei malintesi, in quanto era impiegato dagli Stoici, che lo consideravano materiale, Taziano distingue lo spirito di Dio dallo spirito che percorre la materia, come, appunto, sostenevano i filosofi pagani, e che, quindi, è materiale. È questo che costituisce l’anima dell’uomo; l’altro, invece, è “immagine e somiglianza con Dio”, vale a dire quello che la tradizione cristiana era abituata a chiamare “spirito” senza ulteriori definizioni, come dono di Dio all’uomo (cap. 12,1). Senza di esso l’uomo non è nulla, nonostante che i filosofi definiscano l’uomo come “essere animato, capace di intelligenza e di scienza”. La costituzione spirituale è propria anche dei demoni, i quali non posseggono la carne: essi sono «riflesso della materia e della malvagità» (cap. 12,3); solo gli uomini che posseggono lo spirito di Dio sono in grado di vedere questi esseri malvagi. Tale affermazione fa pensare che Taziano intenda la materia come qualcosa di malvagio. Infine Taziano polemizza con gli Stoici anche asserendo la dottrina cristiana della resurrezione (cap. 6,1), in quanto la resurrezione non significa il ritorno ciclico delle cose e delle persone alla condizione precedente, come pensavano gli Stoici, ma la ricostituzione in un evo futuro del corpo soggetto alla morte. 2. Atenagora Atenagora (operò sotto gli imperatori Marco Aurelio e Commodo negli anni 171-180) può contendere a Giustino la palma di vero “filosofo” cristiano del secondo secolo, tanto che Pouderon recentemente ha proposto di vedere in lui un vero e proprio caposcuola di filosofia cristiana nella sua città, Atene, la sede per eccellenza del sapere filosofico. In quanto “filosofo”, quindi, sembra che l’esegesi scritturistica non abbia avuto, per lui, lo stesso peso che ebbe per Giustino. I suoi interessi per la filosofia greca, la quale precedette il cristianesimo, sono visibili da questo passo (Supplica agli imperatori 6,1-4): 6,1. E anche Filolao, col dire che Dio, come da un posto di guardia, abbraccia tutte le cose, dimostra che egli è uno e al di sopra della materia. Liside poi e Opsimo, l’uno definisce Dio come numero ineffabile, l’altro come l’eccedenza del massimo dei numeri su

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quello che gli è più vicino. E se numero massimo, secondo i Pitagorici, è il dieci, che è la quaderna e che contiene tutte le progressioni aritmetiche e armoniche, e se vicino a questo sta il nove, Dio è la monade, cioè l’uno, poiché di uno il numero massimo supera quello che gli è più vicino, che gli vien subito dopo per grandezza. 2. […] Ma poiché non mi è possibile, senza allineare dei nomi, dimostrare che noi non siamo i soli a ridurre Dio all’unità, così mi son rivolto alle sentenze. – Dice dunque Platone: «Il fattore pertanto ed il padre di questo universo è difficile saperlo trovare, e chi lo abbia trovato è impossibile che lo indichi a tutti» (cf. Timeo 28 C), poiché, egli pensa, uno è il Dio non genito ed eterno. Che se ne ammette anche altri, come il sole e la luna e gli astri, però li ammette come generati: «Dèi figli di dèi, dei quali io sono creatore e padre di opere che sono indissolubili senza la mia volontà; tutto ciò invero che è legato può sciogliersi» (cf. Timeo 41 A). Se dunque non è ateo Platone, che concepisce come unico e ingenito Dio il fattore dell’universo, neppur noi siamo atei, noi che riconosciamo e teniamo per Dio colui dal quale, per mezzo del Verbo, l’universo fu fatto e per mezzo dello Spirito suo vien conservato. 3. Aristotele poi e i suoi seguaci, affermando un solo Dio simile a un animale composto, dicono Dio risultante di anima e di corpo, ritenendo corpo di lui quello etereo e i pianeti e la sfera delle stelle fisse, le quali cose tutte si muovono circolarmente [...]. 4. E gli Stoici, benché con le denominazioni secondo le mutazioni della materia – attraverso la quale, dicono, penetra lo spirito di Dio – moltiplichino la divinità quanto ai nomi, nel fatto poi concepiscono un Dio unico. Che se Dio è fuoco artista che procede con metodo alla generazione del mondo contenendo in sé tutte quante le ragioni seminali, per cui ogni cosa è prodotta secondo il fato, e se, d’altra parte, lo spirito di lui pervade tutto il mondo, uno solo è Dio, secondo essi, che è nominato Zeus a motivo della parte fervida della materia, Era a motivo dell’aere, ed è chiamato con altri nomi secondo ciascuna parte della materia che esso pervade (trad. di P. Ubaldi, SEI, qui e in seguito).

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Ma anche la filosofia in quanto tale è oggetto dell’interesse di Atenagora (Supplica 7,2-3). Alla filosofia profana egli contrappone la verità ispirata dai profeti: 2. Poeti e filosofi, infatti, in questo come negli altri campi, non fecero che congetturare, mosso ciascuno dalla propria anima per una certa conformità dell’ispirazione divina a ricercare se mai fosse possibile trovare e intendere la verità, ma riuscirono soltanto a girarvi attorno, non già a trovare la realtà, non avendo voluto apprendere da Dio ciò che riguarda Dio, ma ciascuno da se stesso. 3. Noi invece di ciò che pensiamo e teniam per fede abbiamo a testimoni i profeti, i quali con lo spirito pieno di Dio alto hanno parlato e di Dio e delle cose di Dio. Ora potreste dire anche voi, che per intelligenza e per pietà verso la divinità vera superate gli altri, come sia irragionevole trascurar di credere allo spirito di Dio, che ha mosso, come strumento, la bocca dei profeti, per badare alle opinioni umane.

Atenagora definisce non diversamente da Giustino i rapporti tra cristianesimo e filosofia: i filosofi avrebbero cercato la verità solo godendo di una sympatheia, cioè di una comunione con il soffio (pnoè) di Dio, di cui avrebbero sentito l’influsso, e così sarebbero pervenuti ciascuno a dottrine diverse, mentre i Cristiani posseggono, in quanto l’appresero dai profeti, che sono ispirati da Dio stesso, la verità. Qui il logos spermatikós di Giustino è sostituito dalla dottrina della “inspirazione”, con la quale Dio ha arricchito l’anima dell’uomo (cf. Supplica 9,1). Atenagora impiega la sua erudizione (ricavata probabilmente da manuali di filosofia antica, che erano molto frequenti nell’età imperiale) per contestare il politeismo (Supplica 23,5 ss.): 5. Platone poi, sospendendo quanto al resto il suo giudizio, anche lui distingue un Dio increato e quelli che dall’Increato furono fatti per ornamento del cielo, cioè le stelle erranti e le fisse, e i demoni. Quanto ai demoni, disdegnando egli parlarne, vuole che si ponga mente a coloro che ne trattarono (cf. Timeo 40 DE): «Degli altri demoni poi dire e conoscere la generazione è impresa maggiore delle forze nostre, e bisogna

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fidarsi di quelli che ne hanno parlato prima, i quali erano discendenti degli dèi, come affermavano, e certo ben li dovevan conoscere, si capisce, i loro progenitori. È impossibile pertanto non credere ai figli degli dèi, sebbene parlino senza alcuna dimostrazione né sicura né probabile: ma poiché essi dicono che queste generazioni le riferiscono come cosa di famiglia, obbedendo alla legge, ci convien crederle. 6. Pertanto sia pure la generazione di questi dèi anche per noi come essi dicono, e come tale la si ripeta: dalla Terra e dal Cielo nacquero Oceano e Teti; e da questi Forco e Crono e Rea e quanti altri con loro, e da Crono e da Rea Zeus ed Era e tutti quegli altri che sappiamo essere detti fratelli loro, e poi ancora altri discendenti di questi». 7. O dunque Platone che ragionò intorno all’eterno Iddio che con la mente e con la ragione si concepisce, e che dichiarò apertamente i suoi attributi, vale a dire il vero ente, l’unità di natura, il bene che da lui si effonde, cioè la verità, Platone che parlò della prima potenza dicendo (cf. Epist 2, 312 C): «Tutte le cose sono intorno al re dell’universo e per lui sono tutte e di tutte egli è causa», e del secondo e del terzo – « Il secondo intorno alle seconde e il terzo intorno alle terze» – credette egli che fosse superiore alle sue forze il conoscere la verità intorno alle cose che si dicono generate dalle sensibili, cioè dalla terra e dal cielo? No, certo, non lo si può dire. 8. Ma poiché reputò impossibile che gli dèi generassero e venissero partoriti, dal momento che ciò che nasce deve di conseguenza avere una fine, e che ancor più difficile di questo è di far mutare opinione al volgo, il quale accetta senza prove siffatte favole, appunto per questo egli disse che era superiore alle sue forze conoscere e parlare della generazione degli altri demoni, non potendo né pensare né parlare di una nascita degli dèi. 9. E quel suo detto (cf. Fedro 246 E) «Zeus il gran duce nel cielo, che guida il carro alato, procede per primo l’universo ordinando e curando, e a lui tien dietro l’esercito degli dèi e dei demoni», non si riferisce allo Zeus che si dice nato da Crono, ma con questo ei voleva indicare il nome del facitore dell’universo. 10. E lo fa capire anche Platone stesso il quale, non avendo modo di chiamarlo con altro vocabolo, si

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servì del nome popolare non già come proprio di Dio, ma per chiarezza, poiché non è possibile far intendere Dio da tutti, per quanto se ne possa dire, aggiungendo l’epiteto di «grande», al fine di distinguere il celeste Zeus dal terreno, il non generato dal generato, più giovane del cielo e della terra e più giovane dei Cretesi stessi, i quali lo trafugarono perché non venisse ucciso il padre.

In questo testo sono assai interessanti le citazioni dai passi di Platone: essi sono quelli che godevano della più ampia diffusione nel medioplatonismo dell’epoca. Un’altra testimonianza degli interessi filosofici e religiosi di Atenagora è la seguente: primo tra tutti gli scrittori cristiani, egli conosce la dottrina di Ermete Trismegisto, secondo la quale gli dèi dell’Egitto sono dei re divinizzati (Supplica 28). Anche questo dettaglio erudito, quindi, rientra nella sua polemica contro il politeismo pagano. Un’altra eco degli interessi filosofico – religiosi di Atenagora si coglie nel fatto che egli identifica la dea egiziana Iside con l’“Eternità” (aion), un’ipostatizzazione frequente nelle dottrine tardoantiche del dio supremo (Supplica 22). 3. Il platonismo di Atenagora La presenza di numerose citazioni platoniche, che abbiamo visto nei passi sopra citati (forse ancora più frequenti che non in Giustino), e l’ambiente culturale in cui si stava sviluppando l’apologetica fecero sì che anche Atenagora ricorresse al medioplatonismo per la sua teologia. Dio è definito, quindi, con il ricorso alla serie di aggettivi di valenza negativa, secondo quella che alcuni studiosi hanno definito “proto via negativa”, cioè una “via negativa” non così assoluta, come quella dei neoplatonici più tardi, i quali praticavano il metodo della negazione dell’affermazione e della relativa negazione. Secondo Atenagora, Dio è non creato, eterno, accessibile solamente alla ragione, non soggetto a passione, indivisibile, invisibile: tutte denominazioni che si possono agevolmente trovare nel medioplatonismo contemporaneo, ad esempio in Alkinoos (Didascalico 10,3 ss.). La bontà è una caratteristica di Dio, e grazie ad essa Dio ha creato il mondo, come si evince anche dalla trattazione del Timeo platonico. Dio,

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inoltre, è intelletto (Supplica 10,3) e Logos (come già secondo Giustino). La definizione di Dio come spirito (pneuma) (16,3) corrisponde invece alla terminologia stoica. La sua attività è definita dynamis (16,3). E vi sono anche altre concezioni di Atenagora particolarmente interessanti, a testimonianza della sua forma mentis filosofica, che non fu inferiore a quella di Giustino. Ci riferiamo alla dottrina della provvidenza, la quale era oggetto di esame anche da parte del medioplatonismo contemporaneo. Partendo dalla constatazione che una proprietà particolare di Dio consiste nell’aver creato il mondo, Atenagora osserva che la creazione implica anche la presenza in esso di una provvidenza, cioè l’attenzione costante ed eterna portata da Dio al mondo: per questo motivo il provvedere al mondo non fu un’azione unica di Dio, compiuta una volta per tutte, ma deve continuare nel tempo, ed è presente anche ora. Essa non è rivolta solamente all’uomo, e tanto meno solamente al singolo individuo, ma a tutto l’universo, come sostenevano già gli Stoici. Così Atenagora spiega (Supplica 24,3): Dio infatti aveva chiamato all’esistenza gli angeli perché essi vegliassero su quello che, universale e generale, lui stesso aveva messo in ordine, affinché lui stesso, Dio, esercitasse la provvidenza sull’universo, mentre gli angeli preposti alla creazione esercitassero la provvidenza particolare.

Da questa affermazione apprendiamo che esistono due tipi di provvidenza, e che la duplicità delle sue funzioni permette di spiegare e di giustificare anche il disordine che esiste nell’universo (25,2-3). La provvidenza universale, infatti, governa l’armonia cosmica e fissa le leggi che regolano il comportamento delle specie animali, mentre la provvidenza particolare si esercita sugli esseri che ne sono degni. La provvidenza universale, infatti, è simile alla provvidenza stoica, che è contemporaneamente dio, destino, ragione, spirito cosmico. Esiste una “ragione universale” che si esercita sul mondo (Supplica 25,2) e una “razionalità comune”, cioè rivolta a tutti gli individui (25,4). L’opera della provvidenza particolare ha come conseguenza la giustificazione del male e del disordine che esistono nel mondo sublunare. In questo modo Atenagora salva la libertà umana, che, invece, per gli Stoici era soggetta alla provvidenza universale. Egli

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rimprovera quindi Aristotele del fatto che la sua provvidenza non si estende fino al mondo inferiore alla luna (25,2), una dottrina, questa, che non è sicuro che risalga proprio ad Aristotele, ma forse alla sua scuola; essa, di conseguenza, fu duramente criticata da tutti gli scrittori cristiani. Come si vede, il pensiero di Atenagora ha molto in comune con quello di Giustino, in quanto certe concezioni, come quella del Logos, della trascendenza di Dio, della creazione del mondo, erano diventate di dominio comune presso gli scrittori cristiani del secondo secolo; appare, inoltre, più aperto di lui alla filosofia greca, anche se non introduce delle ipotesi innovative come aveva fatto il suo predecessore. 4. Teofilo di Antiochia Secondo alcuni studiosi, invece, il più tardo Teofilo di Antiochia, che scrisse verso la fine del secondo secolo, fu meno interessato al platonismo e alla filosofia greca, per quanto riguardava la teologia, ma più sensibile alla dottrina ebraica di un Dio unico: lo dimostra il fatto che egli insiste su un dettaglio che non si trova né in Giustino né in Atenagora, cioè sulla presenza in Dio di “impulsi” umani, secondo quello che diceva la Scrittura. Ma Teofilo si distingue, in questo, da Atenagora, perché quest’ultimo aveva anche precisato che «né ira né bramosia né desiderio né seme generatore di figli si trova in Dio» (Suppl. 21,1). Anche Teofilo, come Giustino, distingue le funzioni e gli attributi di Dio dal suo essere stesso (Ad Autolico I 3). Non si può dire che Dio è propriamente Logos o Intelletto o Spirito o Sapienza: questi termini esprimono dei suoi modi di essere, non la sua vera natura. Se lo definisco “fuoco”, io mi riferisco alla sua ira, e questa “ira di Dio” deve essere intesa concretamente: lo scrittore non accetta le concezioni filosofiche greche (e probabilmente anche di certi eretici, come i Marcioniti: pp. 288-290), circa l’impassibilità di Dio. Anche Teofilo, come già Atenagora, si serve delle affermazioni di un gran numero di filosofi greci per fare emergere la sua dottrina del vero Dio (Ad Autolico I 4): Dio non ha inizio, perché non è venuto all’esistenza: è immutabile, perché è immortale. È chiamato “Dio” (theós), perché ha disposto (tetheikenai) tutte le cose nella loro stabilità (cf. Salmo 104,5) e a causa del suo

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theein, che significa “correre”, dare movimento, nutrire, esercitare la previdenza, governare e dare la vita a tutte le cose. Egli è Signore, perché signoreggia su tutte le cose, creatore e fattore perché è il fondatore e il fattore di tutte le cose, Altissimo, perché è al di sopra del tutto, controlla tutto.

In questo passo lo scrittore ricorre addirittura ad una etimologia tradizionale, che si trovava già in Platone (Cratilo 397 D): la parola theós deriva da theein, “correre” (in Platone, l’etimologia era riferita agli dèi – stelle, che “corrono” attraverso il cielo). 5. Ireneo Ireneo (130-202 d.C.) è una personalità per alcuni aspetti differente da quella degli apologeti, in quanto meno di loro rivolto al mondo greco contemporaneo, e interessato, invece, soprattutto alla confutazione degli eretici, contro i quali scrisse un trattato, Contro le eresie; e le sue dottrine sono rilevanti anche per altre tematiche di cui qui non ci occupiamo, come l’ecclesiologia e la escatologia. Ciononostante anche Ireneo, persona di ampia cultura, è informato del pensiero greco contemporaneo, anche se la sua informazione non appare così evidente come in Giustino ed Atenagora, ma è sottoposta ad ulteriori riflessioni personali; questo, comunque, costituisce un’ulteriore conferma della fervida attività intellettuale del cristianesimo del secondo secolo. Gli interessi di Ireneo nei confronti della filosofia sono messi in luce dalle seguenti dottrine. I filosofi greci, egli asserisce, ignorarono Dio (Contro le eresie II 14,2), ma «Platone è più religioso degli gnostici» (III 25,5), come testimonia quanto egli aveva affermato in un passo delle Leggi (715 E): Come insegna un’antica dottrina, Dio, per il fatto di essere padrone del principio, del mezzo e della fine di tutti gli esseri, dovunque aggirandosi ineluttabilmente, li porta a compimento, secondo la loro natura (trad. di R. Radice).

e la famosa sentenza di Timeo 29 E: egli era buono, e colui che è buono non può mai nutrire gelosia per nessuna cosa.

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Ireneo intende, e con ragione, questa sentenza come riferita al demiurgo, e quindi al Dio creatore di cui parla la Genesi, in difesa del quale egli scrive contro gli gnostici. Ma Ireneo aveva motivi anche per criticare il platonismo, perché Platone, a torto, aveva insegnato l’esistenza di tre principi, cioè materia, paradigma e dio (II 14,3). Questa accusa è vera per quanto riguarda il platonismo contemporaneo ad Ireneo, nel quale era diffusa la cosiddetta dottrina “dei tre principi”, ma non per quanto riguarda Platone, ed Ireneo pensa che i miti gnostici non siano altro che una versione di questa dottrina. È probabile, quindi, che egli non ignorasse il platonismo contemporaneo e che in certo qual modo, “a distanza”, fosse impegnato in una discussione con esso. Questo non sorprende, dato che Ireneo, inoltre, conosceva le opere di Giustino, il quale pure, come abbiamo visto, era particolarmente interessato al medioplatonismo. Il Dio creatore, sostiene lo scrittore cristiano, contiene entro di sé tutte le cose e procura la vita a tutto quello che ha creato (II 1,1). Egli non era spinto da nessun altro motivo, ma fece tutte le cose liberamente e di sua spontanea volontà (I 5,1): queste parole sono dette in polemica con gli gnostici Valentiniani (p. 286), secondo i quali, invece, il demiurgo crea il mondo inconsciamente. 6. Ireneo e Filone di Alessandria Al di sopra del demiurgo, cioè del Dio creatore, non esiste nessun altro: questa formula appare già in Filone d’Alessandria, che la ripete più volte: Allegorie delle Leggi III 6: E poi, se l’uomo non riesce a nascondersi alle parti del cosmo, o al cosmo stesso, come potrebbe celarsi allo sguardo di Dio? Certo non lo potrebbe. E allora, che cosa significa quel “si nascosero” [scil.: Adamo ed Eva]? Lo stolto pensa che Dio sia in un luogo, non come un contenente, bensì come un contenuto. Proprio per questo crede di potersi “nascondere”, quasi che la Causa non fosse in quel luogo in cui egli ha deciso di celarsi. III 51: L’espressione “dove sei?” può essere intesa in diversi sensi: innanzi tutto, non in senso interrogativo, ma affermativo, come se fosse “tu ti trovi in un luogo”, e in questo caso il pou della doman-

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da pou eî avrebbe l’accento grave. Infatti, se eri convinto che Dio se ne andasse a spasso per il giardino e da quest’ultimo fosse contenuto, sappi che ti sei sbagliato di grosso. Sta’ a sentire, invece, da Dio, detentore della scienza, questo principio assolutamente vero: Dio non è in qualche luogo, perché non è contenuto e, anzi, contiene ogni cosa. Al contrario, il creato si trova in un luogo e, infatti, necessariamente è contenuto e non contiene. [52] In secondo luogo, l’espressione “dove sei?” è equivalente a quest’altra: dove sei finita o anima? quali mali hai scelto e quali beni hai lasciato? Mentre Dio ti chiamava ad avere parte della virtù, tu hai seguito il vizio. Mentre Dio ti dava in godimento «l’albero della vita» (Gen. 2,9), e cioè la Sapienza attraverso la quale potevi vivere, tu ti sei riempita di ignoranza e di corruzione, preferendo l’infelicità, che è la morte dell’anima, alla felicità della vera vita. [53] In un terzo senso ancora equivale ad una domanda che ammette due risposte. Ecco la prima: alla domanda “dove sei?” si risponde: in nessun luogo; in effetti, l’anima dello stolto non ha “nessun posto” in cui possa entrare o stabilirsi, e per questo si dice che lo stolto “non è mai a posto” e, in realtà, il non-essere-mai-aposto è un male difficile da curarsi. Tale è dunque l’uomo che non è virtuoso, sempre agitato e sconvolto, tratto qua e là come brezza volubile, giacché non abbraccia mai fino in fondo alcuna opinione sicura. [54] La seconda risposta potrebbe essere quella che dà Adamo. Senti bene dove sono: io sono dove stanno quelli per i quali è impossibile vedere Dio; dove ci sono quelli che non “ascoltano” Dio, che “si nascondono” alla Causa, quelli che fuggono la virtù, che son “nudi” di sapienza, quelli che, tremanti, “han paura” per la viltà e la codardia della loro anima. Infatti, Adamo, dicendo: «Ho ascoltato la Tua voce nel giardino e ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto» (Gen. 3,10), rappresenta tutto quanto si è appena detto, come anche abbiamo mostrato in precedenza in un discorso più ampio (trad. di R. Radice).

Ireneo riprende la distinzione filoniana tra l’essere di Dio, costituito dalla sua bontà, e le sue potenze:

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Ma Dio riempie il tutto come contenente e non come contenuto e a Lui solo capita di essere dovunque e nello stesso tempo da nessuna parte: in nessun luogo, perché Egli stesso crea il luogo e lo spazio insieme con i corpi (sicché è impossibile affermare che il Creatore sia contenuto in qualcuna delle realtà create); dovunque, perché protendendo le Sue Potenze attraverso la terra, l’acqua, l’aria, il cielo, non ha lasciato alcuna parte del cosmo priva di sé, ma avendo ridotto a unità tutta la realtà, la rinserra in catene invisibili, di modo che non possa più sciogliersi. (La confusione delle lingue 136, trad. di R. Radice)

Ma in ogni caso, prosegue Filone, l’essere di Dio non può essere caratterizzato da epiteti che implichino la posizione nel luogo o il cambiamento di luogo, dal momento che, se così fosse, Dio potrebbe essere oggetto di dimostrazione e di comprensione; in realtà egli trascende tutte le cose (La confusione delle lingue 138). Filone, quindi, intende polemizzare con la filosofia pagana e con la sua cosmologia, la quale implicherebbe che Dio dovrebbe essere collocato all’interno del mondo, per cui in tal modo diventerebbe finito Né il cosmo né l’anima del mondo sono Dio in senso eminente; e neanche gli astri e i loro movimenti sono le cause originarie delle vicende umane, ma tutto questo, nella sua totalità, è tenuto insieme dalle Potenze invisibili che l’Artefice ha disteso dagli estremi lembi della terra fino ai confini del cielo, provvedendo saggiamente che esse restassero come legami indissolubili; e, effettivamente, le Potenze sono i legami saldissimi del tutto (La migrazione di Abramo 181, trad. di R. Radice).

Ireneo sa che i suoi avversari pensano che Dio abiti negli spazi trascendenti e sia anteriore ad ogni inizio e al di là dell’essere, come aveva detto Platone. Questo tipo di linguaggio apofatico sembra avere avuto inizio nel neopitagorismo, ed è passato anche in Filone di Alessandria, e quindi nel pensiero cristiano, oltre che nel medioplatonismo. Anche la cosmogonia degli gnostici, come quella dei pagani, è assurda. Tra gli gnostici, i Valentiniani (fioriti tra il II e il III sec. d. C.) parlano di un Abisso, che sarebbe l’eone supremo e inco-

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noscibile ed ineffabile, ma, allo stesso tempo, impiegano il linguaggio negativo in un modo che, in ultima analisi, lo determina e lo definisce. Ireneo, guidato dalle medesime convinzioni di Ippolito (cf. p. 295), di trovare nella filosofia pagana l’origine delle dottrine gnostiche, ritiene che per gli gnostici il primo dio sia semplicemente un membro della Tetrade pitagorea primogenita (I 1,1), per cui gli eretici collocano colui che nessuno contiene insieme alle cose che sono contenute da lui (II 12,1). Il modo in cui è possibile conoscere Dio è descritto da Ireneo (IV 20,1; 20,4; 6,1) sulla base di Mt. 11,27 e Gv. 1,18: Dio è sconosciuto nella sua grandezza, ma conosciuto grazie al suo amore, che raggiunge gli esseri umani mediante l’incarnazione del suo Unigenito Figlio. Quindi Ireneo è d’accordo con Filone, il quale caratterizza Dio come «virtù trascendente, scienza trascendente, che trascende il bene stesso e la bellezza stessa» (La creazione del mondo 8). Filone, spiegando Genesi 22,16, aveva affermato che nessun essere di quelli che hanno la possibilità di rendersi garanti può con sicurezza dare garanzie su Dio, perché a nessuno Egli ha svelato la Sua natura, ma l’ha tenuta nascosta a tutto il genere umano. Chi, infatti, sarebbe in grado di dire se la Causa è corporea o incorporea, se è qualità o assenza di qualità; oppure, in linea di principio, chi potrebbe esprimere un’opinione fondata sulla Sua sostanza, o sulla Sua qualità, o sulla Sua costituzione, o sul Suo movimento? Dunque, Dio solo potrà osar fare affermazioni su se medesimo, dal momento che Egli solo ha avuto occasione di conoscere da vicino e con chiarezza la Sua propria natura. (Allegorie delle Leggi III 206, trad. di R. Radice) A me sembra che anche prima di cominciare questa ricerca l’interprete delle cose sacre ne abbia compreso l’inutilità: ragion per cui egli supplica l’Essere di rivelare e far conoscere Lui stesso la propria natura: Dice infatti: “Rivelati a me!” (cf. Es. 33,13), mostrando con questo in modo assai efficace che neppure una delle creature è in grado da se stessa di comprendere Dio nel suo essere (La posterità di Caino 16, trad. di C. Mazzarelli, Bompiani).

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7. Ireneo e il medioplatonismo In questo modo Dio non può essere una determinata cosa, ma, come dice anche il medioplatonico Alkinoos, è “privo di qualità” e, di conseguenza, non è possibile comprenderlo con l’intelletto. Ireneo riprende questa linea di pensiero ed insiste sul fatto che Dio non solo è invisibile, ma anche inenarrabilis (IV 20,6) e incomprensibile (IV 20,5), sia a causa della sua grandezza sia a causa del fatto che è privo di limiti (IV 20,1). Perciò sia per Ireneo sia per gli gnostici, Dio è infinito, ma, per Ireneo, l’epiteto ha una connotazione positiva e significa che le potenze di Dio non sono limitate e che la sua bontà è inesauribile (III 10,6); pertanto il termine “infinito” non connota solamente la differenza di Dio dall’ordine delle cose finite, ma anche la sua effettiva presenza in esse, proprio grazie al suo essere al di là di ogni limite e quindi al di fuori di ogni cosa finita. Questo Dio infinito non ha niente che lo preceda, e la sua infinità in direzione dell’inizio è espressa dal termine latino innatus o infectus (IV 38,1); Dio è sempre uguale a se stesso (IV 11,2), autosufficiente, senza inizio e senza fine (III 8,3), non è sottoposto a mutamento od alterazione ed è, quindi, incorruttibile. Ireneo conferma la sua spiegazione dell’attività creatrice di Dio criticando la dottrina medioplatonica dei tre principi, perché, come si è detto, egli ritiene che proprio su questa dottrina si basi l’interpretazione gnostica dell’opera creatrice del demiurgo. Si ricordi che la maggior parte dei medioplatonici non ritenevano che il mito del Timeo indicasse una vera e propria “creazione” del mondo: essi affermavano che il mondo è eterno e che la descrizione platonica della “creazione” voleva semplicemente spiegarne in modo razionale e filosofico le strutture. Così Alkinoos (Didascalico 14,3) negava che il mondo, benché definito da Platone ghenetós, cioè “originato”, avesse avuto un’origine nel tempo. Perciò Ireneo polemizza con i Valentiniani per il fatto che essi sostenevano che il Pleroma (cioè la totalità del mondo trascendente) fosse il modello o l’archetipo del mondo visibile, e quindi l’equivalente del mondo delle idee secondo Platone. Egli domanda: se il demiurgo crea il mondo visibile perché rifletta la forma del Pleroma, donde ricava, il demiurgo, l’idea (figura) del Pleroma stesso)? Infatti se la creazione è un’immagine della realtà superna, che cosa ci impedisce di dire che essa, a sua volta, è immagi-

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ne di una realtà ancora superiore, e così di seguito, fino ad arrivare ad un’infinità di immagini di immagini? (Contro le eresie II 16,1).

La ricerca di un archetipo ideale per il mondo visibile è, quindi, vana come la ricerca di un dio superiore al creatore. Bisogna invece pensare che Dio sia la fonte del suo stesso modello, in base al quale ha creato il mondo. In definitiva il mondo superno dei Valentiniani è superfluo, perché moltiplica gli eoni senza alcun bisogno (Contro le eresie II 7). Molto più logico è il ragionamento contrario: la pienezza (cioè il pleroma) del mondo è una costruzione umana, che è immaginata prendendo come suo modello il mondo visibile (Contro le eresie II 15,1-3). Non esiste pertanto un mondo archetipale, ma solamente il mondo che il creatore ha deciso di creare. I medioplatonici, certo, insegnavano che esistevano tre principi (II 14,3), ma il secondo di essi, cioè la forma, non serve: il demiurgo che ha creato il mondo è l’unico Dio, ed egli prese da se stesso il modello e la forma delle cose che furono create (II 16,1). Dio è spiegazione sufficiente dell’esistenza delle cose e del modo in cui sono. Analogo è il ragionamento, quando Ireneo contesta l’esistenza dell’altro principio, la materia. Egli accusa i suoi oppositori di negare che Dio sia stato creatore anche di essa (II 10,3) e di dare una differente spiegazione della sua origine (II 10,2). Tutte queste affermazioni si basano sul presupposto – certo negato dai Valentiniani – che il creatore debba essere identificato con Dio (per i Valentiniani, il creatore è solamente uno degli eoni, e nemmeno tra i più alti). Ma Ireneo si basava su di una dottrina che allora non era affatto tradizionale, e cioè che Dio avesse creato tutto, compresa la materia, dal non esistente – cioè la dottrina della creatio ex nihilo – una concezione che egli poteva trovare in Teofilo di Antiochia (del II secolo d.C.; cf. Ad Autolico I 4,2; II 10). Ireneo lo afferma in II 10,4: la creazione ex nihilo stabilisce che Dio è il responsabile dell’esistenza di tutte le cose diverse da lui. Dio, di propria iniziativa, creò, mise in ordine e perfezionò il mondo, e la sua volontà procura l’esistenza del tutto (II 30,9). Giustino, invece, aveva affermato che era esistito un sostrato (hypokeimenon) dal quale Dio aveva creato tutte le cose, cioè aveva sostenuto proprio la dottrina che Ireneo attribuisce agli gnostici. Anche Filone aveva parlato di una creazione ex nihilo, ma secondo lui questa

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creazione non impedisce l’esistenza di una materia anteriore al mondo (cf. Le leggi speciali III 3,10 e I 327-329). Da quanto abbiamo detto emerge una figura, quella di Ireneo, che riprende le considerazioni del medioplatonismo, di Filone e di Giustino, ma in un modo personale e intelligente. E questo è valido anche se non vogliamo tener conto della sua intenzione di polemizzare contro gli gnostici, per la quale divenne famoso nel cristianesimo antico. 8. L’“Esortazione ai greci” Anche quest’opera (attribuita a Giustino, ma da collocarsi nel III sec.), che un tempo era attribuita a Giustino, sostiene la assoluta ineffabilità di Dio, il quale non può essere conosciuto mediante nessun nome, e per due motivi (cap. 21). Il primo è quello che conosciamo già da Aristide e da Giustino: niente era anteriore a Dio, sì da potergli attribuire un nome. La seconda spiegazione è che i nomi servono a distinguere le cose all’interno di una molteplicità, il che è impossibile per Dio. Anche questo scrittore anonimo conosce la dottrina medioplatonica delle idee come pensieri di Dio. In un passo (cap. 6) egli la critica, ma in un altro (cap. 22) sostanzialmente la accoglie.

Capitolo terzo

Le dottrine comuni agli Apologeti greci Grazie alla tradizione dell’ebraismo, risalente a Filone di Alessandria, al medioplatonismo, e alla rielaborazione cristiana, effettuata da Giustino, Atenagora, Teofilo di Antiochia ed Ireneo, si venne a costituire nella cultura cristiana del secondo secolo un corpus di dottrine teologiche comuni a tutti gli apologeti e che rappresentano un buon livello di speculazione filosofica. 1. Come si possa intendere la trascendenza e l’ineffabilità di un Dio personale A partire da Giustino si percepisce un contrasto tra l’idea biblica, personale, di Dio, ed una concezione platonica e greca, di dio come realtà astratta ed impersonale. Questa incertezza fu propria di tutto il cristianesimo antico influenzato dal platonismo, ma, in ogni caso, i Cristiani non persero mai la percezione della “personalità” di Dio. Giustino è il primo pensatore cristiano “ortodosso” (usiamo per maggiore comodità questo termine che sarebbe più calzante per i secoli successivi) che ragiona coscientemente sul problema teologico. Il suo pensiero è più profondo di quello di Aristide ed egli elabora, a questo proposito, la tradizione biblica insieme con la filosofia platonica. Tale elaborazione è presente nella sua affermazione che Dio può essere immaginato solamente in termini negativi. Le sue affermazioni, comunque, sono state precedute (e probabilmente influenzate) da quelle di Filone. Basandosi sull’episodio biblico del roveto ardente (Es 3,4), che sembrerebbe, quindi, delimitare Dio entro una realtà materiale, Giustino afferma (Dialogo con Trifone 49) che nel roveto non si trovava Dio stesso, ma un angelo. L’assoluta trascendenza di Dio è affermata in un altro passo del Dialogo con Trifone (127,2) in termini medioplatonici. Ivi Giustino respinge l’interpretazione letterale degli antropomorfismi biblici:

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Infatti l’ineffabile Padre e Signore dell’universo non va da nessuna parte, ma rimane al suo posto, dovunque esso sia, vedendo e ascoltando con chiarezza, ma non con gli occhi e gli orecchi bensì con una potenza indicibile. Sorveglia e conosce ogni cosa [...] Non si muove, dunque, colui che nessun luogo può contenere, neanche il mondo intero, e che era prima che il mondo cominciasse ad esistere (trad. di G. Visonà).

Atenagora si esprime negli stessi termini (Supplica 10,1): Che pertanto noi non siamo atei, ammettendo come unico Dio colui che è increato ed eterno e invisibile e impassibile e incomprensibile e immenso, intellegibile soltanto dalla mente e dalla ragione, circonfuso di luce, di bellezza e di spirito e di potenza inenarrabile, dal quale tutto l’universo, per mezzo del Verbo suo, è stato creato e ordinato ed è conservato, io ve l’ho fatto vedere a sufficienza (trad. di P. Ubaldi).

Anche Taziano afferma (Discorso ai Greci 4) che il Dio perfetto è ineffabile e superiore allo spirito che pervade la materia, contrapponendo, quindi, il Dio trascendente di tipo platonico allo spirito, concepito come entità materiale che percorre il mondo, alla maniera degli Stoici. Dio è incorporeo (cap. 25 e 15), come sostenevano i medioplatonici contemporanei, ed è il padre di quello che è visibile e di quello che è invisibile. Parimenti, Giustino impiega, anche se non ancora in modo sistematico, la teologia negativa, che sarà tipica dei platonici posteriori. Il linguaggio, secondo l’apologeta, non è in grado di descrivere Dio il Padre (Apologia II 6). Nemmeno il nome “Dio” può essere il nome di Dio. I nomi, infatti, derivano da un’autorità superiore, che li assegna alle cose, ed il principio primo non può avere nessun altro prima di lui. “Creatore” e “Signore”, pertanto, non sono veri nomi: essi sono parole o locuzioni mediante le quali ci si riferisce alle opere che il Padre ha fatto, cioè alla creazione e al suo dominio sull’universo creato. Anche la parola “Dio” non è un vero nome: essa sorge dalle impressioni che esistono nella mente dell’uomo, ma non illumina la realtà che essa designa.

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2. Dottrina trinitaria Un primo abbozzo di teologia trinitaria si trova già in Giustino, il quale alla fine della sua Prima Apologia la illustra ricorrendo ad un passo della famosa seconda Epistola platonica (in realtà pseudoplatonica). Tale epistola così dice (312 D): Ogni essere sta intorno al re del tutto; tutto è per merito suo, ed è causa di tutte le cose belle. Le realtà del secondo ordine stanno intorno al Secondo e quelle del terz’ordine al Terzo (trad. di R. Radice).

Questa è l’interpretazione di Giustino (Apol. I 60,7): Mosè, infatti, attribuisce il secondo posto al Logos che è provenuto da Dio […] e il terzo allo Spirito, che è rappresentato come moventesi al di sopra delle acque (cf. Gen. 1,2): le terze cose, dice Platone, stanno attorno al Terzo.

Questo passo dell’epistola pseudo platonica è stato ripreso anche da Atenagora (Supplica 23,7): Platone che parlò della prima potenza dicendo: «Tutte le cose sono intorno al re dell’universo e per lui sono tutte e di tutte egli è causa», e del secondo e del terzo – «il secondo intorno alle seconde e il terzo intorno alle terze».

Anche Clemente di Alessandria ed Eusebio di Cesarea (vissuto nell’età di Costantino, tra il terzo e il quarto secolo) si servirono di questi passi come spiegazione dell’esistenza di una Trinità divina, come vedremo a suo tempo (pp. 344 e 474). 3. Il “Logos” di Dio e la sua generazione dal Padre Nelle opere degli apologeti è corrente l’identificazione del Figlio di Dio con il Logos – cioè il Pensiero – di Dio: tale identificazione ebbe un antecedente nella speculazione greco-giudaica di età ellenistica, e particolarmente nel Libro dei Proverbi (8,21-36), ove si dice che Dio generò un potere razionale, al quale venne dato il nome di “Sapienza”. Questa tradizione speculativa è ripresa nel secondo secolo d.C., dando origine ad una interpretazione filosofica (cioè platonica e

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stoica) del termine “Logos” con cui esordisce il Vangelo di Giovanni. Secondo gli apologeti, il Logos di Dio esiste ora nella sua realtà divina (cioè come il Figlio di Dio), ora nella sua presenza nel mondo in quanto Cristo incarnato e come realtà razionale che ne determina l’esistenza. Il Figlio di Dio deve il nome di “Logos” alla sua funzione, che è, da un lato, quella di rivelare, in quanto è Parola di Dio, e di pensare, in quanto la parola proviene da un pensiero; dall’altro, la Parola fu pronunciata all’inizio dei tempi, quando Dio, stando al racconto della Genesi, “disse” e il mondo ebbe la sua esistenza: di conseguenza, il Logos diviene, da pura razionalità divina (primo stadio), manifestazione ed esecutore della volontà di Dio mediante la creazione (secondo stadio). Si diffonde, infatti, la convinzione che il Padre abbia creato il mondo attraverso il FiglioLogos: Giustino sviluppa in modo particolare questa dottrina, ponendo il Logos divino alla base e all’origine del logos umano, cioè della razionalità e della parola umana. È verisimile che i primi scrittori cristiani siano stati debitori a Filone della dottrina del Logos, anche se Filone, naturalmente, non poteva pensare a un Figlio di Dio alla maniera degli apologeti. Questi ultimi interpretarono il dettato scritturistico secondo la filosofia greca e secondo la spiegazione di Filone, anche se l’ebreo alessandrino non disse mai che il Logos procede dal Padre come una ipostasi distinta, e tanto meno che assunse la carne. Sotto questo aspetto, quindi, il Logos di Filone non è il Logos del quarto Vangelo e nemmeno il Logos dei Cristiani, come Giustino, Atenagora, Clemente e Origene. Come conseguenza di questa interpretazione del Logos divino, la generazione del Figlio dal Padre è illustrata dagli apologeti con il ricorso alla dottrina, di origine stoica, del “logos interno” (endiàthetos) (cioè, interno al Padre) e del “logos proferito” (prophorikós) (cioè il Figlio, in quanto manifestato all’esterno del Padre, perché è ipostasi della parola detta dal Padre al momento della creazione del mondo). Ecco quanto afferma Giustino: Gesù Cristo, lui solo, è stato generato come Figlio di Dio nel senso proprio del termine, lui che è il suo Logos, il suo primogenito, la sua potenza (Apol. I 23,2). Quanto a suo Figlio, colui che solo è chiamato “Figlio” nel senso proprio del termine, il Logos, coesistente con il Padre e generato da lui prima delle creature, quando, all’inizio, Dio creò per mezzo di lui e ordinò l’uni-

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verso, è chiamato “Cristo” […] questo stesso nome ha un significato che sfugge alla nostra conoscenza, così come l’appellazione di “Dio” non è un nome, ma una nozione innata nella natura umana, che serve a designare una realtà difficile a comprendersi (Apol. II 6,3).

Un altro passo importante si trova nel Dialogo con Trifone (cap. 61-62): Dio prima di tutte le cose create generò da se stesso come principio una potenza razionale, che dallo Spirito Santo è chiamata [...] ora Figlio ora Sapienza ora Angelo ora Dio ora Signore e Logos [...] possiede infatti ogni titolo, in quanto è ministra della volontà del Padre ed è stata generata per volontà del Padre. Non vediamo verificarsi anche in noi qualcosa del genere? Proferendo un discorso noi generiamo un discorso, senza proferirlo, però, per separazione, in modo che il logos (cioè la ragione) che è in noi diminuisca. Altrettanto vediamo accadere con il fuoco, dal quale ne sorge un altro senza che diminuisca quel primo fuoco dal quale il secondo è stato acceso; il primo, al contrario, rimane nel suo stato, e il fuoco che è stato acceso dal primo è evidente che esiste anch’esso, senza diminuire quel fuoco che lo ha acceso. Lo testimonia il Logos della Sapienza, che è questo Dio nato dal Padre dell’universo, che è anche Logos e Sapienza e potenza e gloria di Colui che lo ha generato. Citerò le parole di Mosè («Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza»), perché possiamo capire senza possibilità di dubbio che Dio parlava con uno che era diverso per numero, e razionale. Ma senza dubbio questa progenie proferita dal Padre prima di tutte le cose era insieme con il Padre, e con essa parla il Padre: come dimostrano le parole di Salomone, questa che da Salomone è detta Sapienza, è il principio che precede tutte le cose create ed è stata creata come progenie di Dio.

Taziano segue il suo maestro Giustino nella dottrina del Logos. Anche secondo Taziano esistono due stadi del Logos, uno interno e uno manifestatosi all’esterno, quando il Logos fu generato dal Padre (Discorso ai Greci 7 e 10). Egli venne all’esistenza

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per divisione (merismós), non per rescissione, poiché ciò che viene reciso è separato dalla sostanza originale, mentre ciò che deriva per partecipazione non diminuisce la sostanza di colui dal quale deriva. Evidentemente Taziano intende “divisione” nel senso di “distinzione”, in quanto alterità di persona, mentre il termine “divisione” sarà considerato inaccettabile più tardi, ai tempi della controversia ariana, in quanto sarà inteso come differenza ontologica tra il Padre e il Figlio. Di conseguenza Dio non è diminuito dalla nascita del Logos. Tutto questo è spiegato da un passo del Discorso ai Greci (cap. 5): Il Logos è nato per divisione, non per troncamento, giacché quello che viene troncato viene separato dal primo, quello invece che viene fatto partecipe, avendo ricevuto in aggiunta la funzione dell’economia, non impoverisce quello dal quale è stato tratto. Come, infatti, da una sola fiaccola si accendono molti fuochi, e non per questo diminuisce la luce della prima fiaccola, per esserne state accese molte, così anche il Logos, uscito dalla potenza del Padre, non rese il genitore privo di razionalità. Così, anch’io parlo e voi mi ascoltate, e non certo a causa della trasmissione del mio discorso io che parlo rimango privo di discorso [logos = ragione].

In Atenagora la dottrina del Logos è ugualmente sviluppata, ed anche con una coerenza che non troviamo nelle affermazioni sparse degli altri apologeti (Supplica 10,2 ss.): 2. Sì, noi pensiamo anche a un Figlio di Dio. E non mi si reputi cosa ridicola che Dio abbia un Figliuolo. Poiché, non come favoleggiano i poeti, che mostrano gli dèi per nulla migliori degli uomini, noi la pensiamo sia intorno a Dio Padre, sia intorno al Figlio: invece, il Figlio di Dio è il Verbo del Padre in idea e atto; ché ad immagine di lui e per mezzo di lui tutto fu fatto, essendo il Padre e il Figliuolo una cosa sola. Ed essendo il Figlio nel Padre e il Padre nel Figlio per unità e potenza di spirito, Mente e Verbo del Padre è il Figlio di Dio. 3. Che se voi, per la vostra eccelsa intelligenza, amate indagare che voglia dire «il Figlio», ve lo dirò in brevi parole: egli è la prima progenie del Padre, non già come prodotto (ché fin da principio Iddio, mente eter-

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na, aveva in se stesso il Verbo, o ragione, essendo egli eternamente razionale), ma nel senso che, quando tutte quante le cose materiali giacevano a guisa di materia informe e di terra inerte, mescolate le più spesse con le più leggere, egli procedette per essere riguardo ad esse modello e atto. 4. E concorda con questo concetto anche lo Spirito profetico: «Il Signore – dice infatti (cf. Prov. 8,28) – mi creò fin dal principio delle sue vie per le opere sue». Veramente anche lo stesso Spirito Santo che operava nei profeti noi lo diciamo effluvio di Dio, che emana e ritorna come raggio di sole. 5. Chi dunque non rimarrebbe attonito nell’udire che vengon detti atei [è l’accusa di ateismo, frequentemente mossa contro i Cristiani, perché si rifiutavano di adorare gli dèi della religione dello Stato romano] quelli che riconoscono Dio Padre e Dio Figlio e lo Spirito Santo, che ne dimostrano e la potenza nell’unità e la distinzione nell’ordine? Né a ciò si ferma la nostra dottrina teologica, ma ammettiamo anche un gran numero di angeli e di ministri, che Dio, fattore e creatore del mondo, per opera del suo Verbo, distribuì e ordinò a sovrintendere agli elementi e ai cieli e al mondo e a ciò che v’è in esso, e al buon ordine loro.

Ed ecco le considerazioni di Teofilo di Antiochia (Ad Autolico II 10 e II 22): Poiché dunque Dio aveva nelle sue proprie viscere il suo Logos nascosto, lo generò facendolo sgorgare da sé insieme con la sua Sapienza prima di tutte le cose. Dio ebbe in questo Logos il ministro delle sue opere, e per mezzo di lui fece tutte le cose. Il Logos, per mezzo del quale Dio creò tutte le cose, giacché il Logos è la Potenza e la Sapienza di Dio.

Questo passo ci mostra che anche Teofilo parla di due stadi dell’esistenza del Logos: il Logos esiste sempre, avendo dimora nel cuore di Dio, poiché prima della creazione delle cose il Padre aveva il Logos come suo consigliere, in quanto il Logos era la sua mente e il suo pensiero. A questo primo stadio della eterna esistenza nel Padre, ne segue un secondo, che si distingue dalla precedente immanenza per mezzo della generazione. Tale identificazione

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tra il primo livello del logos, quello immanente, e il secondo livello, quello manifestatosi, si legge in Ad Autolico II 22: «aveva questo consigliere, che era il suo intelletto e la sua ragione» Ireneo riprese, come già abbiamo visto, molte considerazioni di Teofilo. Così, anche la distinzione e l’intima connessione intercorrenti, in Dio, tra pensiero e parola sono affermate chiaramente in un passo del Contro le eresie in cui lo scrittore cristiano polemizza con i Valentiniani (II 28,4): Ma Dio, poiché è tutto intero Mente, tutto intero Ragione e tutto intero Spirito operante [con queste parole Ireneo intende le Persone della Trinità] e tutto intero luce, ed esiste sempre uguale a se stesso e sempre nello stesso modo (come è utile per noi pensare a proposito di Dio e come abbiamo appreso dalle Scritture), non sarà opportuno che tali affetti e tali divisioni [scl., come quelle proposte dagli eretici] susseguano alla sua esistenza. [...] Ma Dio, che esiste come Mente tutta intera e Logos tutto intero, esprime quello che pensa e pensa quello che esprime. Infatti il suo pensiero è il Logos, e il Logos è la sua Mente, e la Mente che racchiude tutte le cose, ebbene, questa è il Padre.

Anche Ippolito, l’autore del trattato Contro tutte le eresie, che consideriamo a p. 295, riprende la concezione filoniana dei due stadi del Logos. Egli si basa sull’interpretazione che Filone aveva dato (Allegorie delle Leggi II 1,1-3) della frase di Gen. 2,18: «E disse il Signore Iddio: “Non è bene che l’uomo sia solo, facciamogli un aiuto conforme alle sue esigenze”». Filone aveva osservato: [1] Ma perché mai, o profeta, non è bene che l’uomo sia solo? Perché, dice la Scrittura, è bene che l’esser solo spetti a chi è solo per natura e poiché Dio, per il fatto di essere in sé uno, è solo, nulla v’è che sia simile a Lui (cfr. Is. 46,5). E, inoltre, poiché è bene che Colui che è sia solo – ed, anzi, il bene compete soltanto a Lui –, ecco che «non è bene che l’uomo sia solo». [2] Ma il fatto che Dio sia solo è da intendersi anche così. Come prima della creazione del cosmo non c’era nulla insieme a Dio, così, a creazione avvenuta, nulla v’è che sia al Suo livello: Dio, pertanto, non ha assolutamente bisogno di nulla. L’interpretazione che segue è ancor

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migliore. Dio è solo ed è uno: la Sua natura non è composta, ma semplice, mentre ciascuno di noi uomini, nonché tutte quante le altre creature, siamo di natura molteplice. Ad esempio, io sono fatto di molte parti; di anima e di corpo. E l’anima è fatta di una parte irrazionale e di una razionale e il corpo, a sua volta, del caldo e del freddo, del pesante e del leggero, del secco e dell’umido. Dio, invece, la cui natura non comporta la composizione di molteplici elementi, non è neppure mescolato ad altro. [3] Perché, se qualcosa si aggiungesse a Dio, questo dovrebbe essere o maggiore, o minore, o uguale a Lui. Ma nulla c’è che sia uguale o maggiore di Dio, e, d’altra parte, l’aggiungersi di qualcosa che Gli fosse inferiore non Lo accrescerebbe di nulla, anzi, semmai, Lo sminuirebbe. Ma, se Dio sminuisse, sarebbe corruttibile, e questo non è lecito neppure pensarlo. Dio, dunque, si determina alla luce dell’Uno e della monade, anzi è la Monade che si determina alla luce del Dio uno. Ogni numero, infatti, come del resto il tempo, vien dopo il mondo e Dio è più vecchio del cosmo e ne è il creatore (trad. di R. Radice).

Ippolito, dunque, basandosi su questo passo di Filone, ritiene che sia bene che solo Dio sia solo (Contro Noeto 10). Da ciò egli deduce, come Filone, che Dio esisteva solo, che non aveva nulla che fosse contemporaneo a sé e che oltre a lui non esisteva nulla. Ma, pur essendo solo, egli esisteva in una pluralità, perché non era privo del suo Logos. Ciò segna, dunque, il primo stadio del Logos preesistente: il Logos è in Dio. Ad esso segue il secondo stadio, quando esso è generato da Dio. 4. La cosmologia Nel corso del secondo secolo, ed anche in concomitanza con le discussioni dei medioplatonici contemporanei, gli scrittori cristiani affrontano il problema dell’origine del mondo. Platone, dal momento che sostiene che il mondo è nato, ritiene anche che sia destinato a finire: infatti, i due concetti, principio e fine, sono correlati. Tuttavia la fine del mondo non si verifica: questo è dovuto al fatto che dio, nella sua bontà, lo vuole conservare per l’eternità. Questa concezione è espressa nel Timeo (41 AB):

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O dèi figli di dèi, io sono Artefice e Padre di opere che, generate per mezzo mio, non sono dissolubili, se io non voglio. Infatti tutto ciò che è legato può dissolversi; ma voler dissolvere ciò che è stato connesso in maniera bella e in buona condizione, è da malvagio (trad. di G. Reale).

Giustino interpreta questo passo riferendo le parole del demiurgo del Timeo proprio alla conservazione del mondo ad opera della bontà di Dio: questa interpretazione delle parole di Platone fu propria anche dei medioplatonici Plutarco e Attico, ed anche Celso (VI 52a) sostiene che il mondo è nato, ma è immortale – era stata però contestata da altri, come Alkinoos ed Apuleio, che ritenevano che il mondo non avesse avuto un principio, e quindi mai avrebbe avuto una fine. Giustino, dunque, stabilisce un nesso fra cosmologia biblica e cosmologia medioplatonica, e giunge a sostenere che quanto Platone dice nel Timeo deriva dalle parole di Mosè. Atenagora riprende la dottrina stoica (e certamente divulgata anche al di fuori dello stoicismo) della bellezza del mondo; sostiene che se ne deve dedurre che tale bellezza e razionalità manifestano la grandezza del suo creatore; aggiunge però, sulla base dell’affermazione paolina nella Epistola ai Romani, che non si devono adorare le creature invece del creatore (Supplica 16,1-5): 1. Sì, bello è il mondo ed eccellente per la sua grandezza e per la disposizione così dello zodiaco come del settentrione e per la sua figura sferica; ma non esso, bensì il suo artefice è da adorarsi. 2. Ché neppur i sudditi che vengono alla vostra presenza, tralasciando di mostrarsi ossequiosi a voi, principi e padroni da cui potrebbero ottenere ciò che loro abbisogna, ricorrono alla magnificenza della vostra dimora; essi, se s’imbattono nel palazzo imperiale, ne ammirano sì di passaggio la sontuosità, ma a voi soprattutto ogni onore tributano. 3. E voi, o imperatori, per voi stessi ornate la sede imperiale; mentre il mondo non fu fatto quasi che Dio ne avesse bisogno, poiché Dio è tutto a se stesso, luce inaccessibile, mondo perfetto, spirito, potenza, ragione. Se pertanto il mondo è uno strumento ben intonato che ritmicamente vien mosso, non lo strumento io adoro, ma chi lo armonizzò, e ne trae le note, e canta su di esso la concorde melodia (né, infatti, nelle gare, i giudici tra-

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scurando i citaredi incoronano le loro cetre); o sia esso mondo, come dice Platone, arte di Dio, io ammirandone la bellezza saluto il suo artefice; o sia sostanza e corpo come vogliono i Peripatetici, trascurando di adorar la causa del movimento di questo corpo, non scendiamo a prostrarci ai meschini e deboli elementi, adorando per l’aere, secondo essi, impassibile, la passibile materia; o sia che si reputino potenze di Dio le parti del mondo, non queste potenze, ma il loro fattore e signore noi c’inchiniamo a venerare. 4. Io non chiedo alla materia ciò che non ha, né, trascurando Dio, venero gli elementi, cui non è dato di fare nulla più di quanto fu loro prescritto; ché, sebbene siano belli a vedersi per l’arte del demiurgo, pur sono soggetti a dissolversi per la natura stessa della materia. E fa testimonianza a questo discorso anche Platone (cf. Politico 269 D): «Quello che infatti – dice egli – abbiamo denominato cielo e mondo fu reso partecipe dal padre di molta felicità, ma pure partecipò anche del corpo; donde è impossibile che non sia soggetto a mutazione». 5. Se io dunque ammirando il cielo e gli elementi dell’arte non li adoro come dèi, poiché ne riconosco la legge della dissoluzione che è loro imposta, come mai potrò chiamar dèi queste cose che io so essere opere d’uomini?

5. La “creatio ex nihilo” Nella cosmologia medioplatonica la materia era considerata coesistente a dio e costituiva uno dei tre principi ultimi, insieme a dio e alle idee (identificate da alcuni con i pensieri di dio stesso). Dio avrebbe creato il mondo da essa – o, se non “creato” in senso stretto, certo le avrebbe dato un ordine mirabile, di modo che ne risultasse il mondo, kosmos, cioè “ordine”. Il cristianesimo, a sua volta, ricorse gradualmente (cioè a partire dalla seconda metà del secondo secolo) alla dottrina, estranea, sostanzialmente, alla Settanta, della creatio ex nihilo: un accenno che avrebbe potuto essere usato per giustificarla si trova solo nel tardo (II-I sec. a.C.) Secondo libro dei Maccabei (7,28). Di conseguenza anche Giustino, come i medioplatonici, sostiene che Dio ha creato il mondo dalla materia preesistente (Apol. I

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10), e lo ha fatto “per il bene degli uomini”: quest’ultima considerazione, pur essendo tipicamente cristiana, presenta affinità con il passo del Timeo di Platone (29 A), dove si sostiene che dio è spinto a creare dalla sua bontà, così come si è detto che, secondo Giustino, il mondo è conservato grazie alla bontà di Dio. Il problema della creatio ex nihilo fu ripreso pochi anni dopo da Taziano. Per Taziano, come per il suo maestro Giustino, il Logos è l’autore della creazione del mondo: per far questo, egli pone ordine alla materia (Discorso ai Greci 5,3). Ma la materia costitutiva del mondo era anteriore ad esso; però non poteva essere stata priva di inizio, come Dio, perché in tal caso essa sarebbe un secondo principio uguale a Dio; al contrario, la materia è stata creata da Dio stesso. La creazione, quindi, è avvenuta in due tempi: dapprima Dio ha prodotto senza mediatori il sostrato materiale, e successivamente il Logos ha trasformato nel cosmo tale sostrato. Atenagora riprende la discussione in un contesto ricco di informazioni tratte da altre filosofie (Supplica 19,1-4): 1. Questo fu il principio della generazione di quelli che essi chiamano dèi e dell’universo. Che significa dunque ciò? Ognuna di quelle cose cui viene attribuita la divinità dev’essere corruttibile poiché ha principio. E per vero, se sono nati non esistendo prima, come dicono quelli che intorno ad essi teologizzano, non sono, essendoché una cosa o non è generata, ed è eterna, o è generata, ed è soggetta a perire. 2. E non è che io la pensi così, e in altra maniera i filosofi. «Che è ciò che sempre esiste e che non ha origine, o che è ciò che diventa e non è mai?» Platone, trattando dell’intellegibile e del sensibile, insegna che ciò che sempre è, l’intellegibile, non è generato, mentre ciò che non è, il sensibile, è generato ed ha principio e fine (cf. Timeo 27 E ss.). 3. Per questa stessa ragione anche gli Stoici dicono che l’universo sarà preda del fuoco e di nuovo tornerà ad esistere, e il mondo avrà un altro principio. Che se è impossibile – benché secondo essi due siano le cause del mondo, una agente e iniziale, come è la provvidenza, l’altra paziente e mutabile, com’è la materia, – se è impossibile che il mondo, che è generato, resti nello

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stesso stato, anche se governato dalla provvidenza, come mai può durare la costituzione di questi dèi che non esistono per natura loro, ma furono fatti? E perché han da essere gli dèi più della materia, se ricevono la sussistenza dall’acqua? 4. Ma, secondo loro, né l’acqua è il principio di tutte le cose, – ché da semplici e uniformi elementi qual cosa potrebbe costituirsi? E poi la materia ha bisogno di un artefice e l’artefice della materia; o come mai potrebbero esservi le forme senza la materia o l’artefice? – né vi è ragione per cui la materia sia più antica di Dio, poiché per necessità la causa efficiente ha da precedere le cose fatte.

Anche Atenagora, dunque, pensa che sia esistita una materia coeterna a Dio. Essa, secondo l’apologeta, si presta all’opera di Dio allo stesso modo in cui l’argilla si presta al lavoro del vasaio; la materia è pandechès, cioè “ricettacolo di tutte le forme”, come aveva spiegato Platone (Timeo 51 A) e come ripetevano i medioplatonici contemporanei. Comunque sia, secondo Atenagora non è possibile porre sullo stesso piano la materia corruttibile, precaria e mutevole, ed il Dio increato, eterno e sempre uguale a se stesso (Supplica 22,3; 19,3). La creatio ex nihilo è riproposta, in maniera ancora più netta, da Teofilo. Il secondo libro del suo Ad Autolico presenta un’esegesi del racconto biblico della creazione, ed è il più antico commento cristiano alla Genesi che ci sia pervenuto. Teofilo insiste molto più di Taziano sull’idea che Dio ha creato tutto dal nulla (Ad Autolico II 4.10.13). A sostegno di questa tesi egli porta argomentazioni che divennero un punto di riferimento per gli autori successivi, tanto che la dottrina della creatio ex nihilo verrà accolta nei secoli seguenti come dottrina “ufficiale” del cristianesimo. Origene, ad esempio (I principi II 1,4), si stupisce del fatto che insigni studiosi l’abbiano rifiutata. L’unico a rimanere fedele alla concezione filoniana dell’esistenza di un mondo intelligibile è Clemente, come vedremo a p. 352. Data la sua posizione su questo problema, Teofilo non può che essere critico nei confronti della dottrina platonica del modello del mondo. Egli passa in rassegna le varie dottrine filosofiche riguardanti i rapporti fra Dio e il mondo e analizza le posizioni della Stoa, di Epicuro e di Platone (II 4). La sua critica è analoga a quella di Taziano: se si accetta la dottrina dei Platonici e si sostiene che la materia è innata, allora

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Dio non è in senso stretto l’unico creatore del mondo e non si può più difendere la “monarchia” divina. Proprio perché non è creato, Dio è incorruttibile: di conseguenza anche la materia, se fosse non creata, dovrebbe essere incorruttibile ed essere, quindi, uguale a Dio. Infine, in cosa consisterebbe la grande opera della creazione, se Dio avesse creato il mondo a partire dalla materia preesistente? Egli si sarebbe comportato come un artefice umano, che, per mezzo di quello che ha a sua disposizione, compie ciò che vuole. Pertanto il passo di Gen 1,2 indica chiaramente l’esistenza di una materia che fu creata anch’essa da Dio, a partire dalla quale poi Dio imprime forma e figura al mondo (Ad Autolico II 10). Insomma, anche la materia rientra nell’ambito della creazione di Dio: essa era qualcosa di analogo a quella “terra che era informe e imperfetta”, di cui parla il testo biblico. Teofilo scrisse un trattato, purtroppo andato perduto, contro l’eretico Ermogene, il quale era influenzato dalla cosmologia del medioplatonismo: è probabile che anche in quest’opera Teofilo abbia sostenuto la dottrina della creatio ex nihilo, questa volta in polemica con Ermogene e i platonici. Più complessa e meditata fu la posizione di Ireneo. Ireneo intende confutare, tra le altre dottrine gnostiche, anche la dottrina valentiniana della intermediazione degli eoni tra il dio sommo e il mondo. Questa confutazione è più difficile, in quanto l’ipotesi di una intermediazione era già stata preparata, in fondo, da Paolo, il quale aveva parlato di Cristo come intermediario tra gli uomini e il Padre (1 Cor. 8,6) e aveva detto che tutto era stato creato per mezzo di lui (Gv. 1,3). Anche Teofilo, che era uno degli autori favoriti di Ireneo, aveva affermato che Dio aveva avuto il Logos come suo “assistente” e “lavoratore in subordine” (hypourgós) nella creazione (Ad Autolico II 10) e Filone aveva riferito al Logos di Dio la funzione dell’essere la causa intermediaria nella creazione: Dio è causa, non strumento, e ciò che nasce, nasce sì mediante uno strumento, ma in forza di una causa. Infatti alla nascita di qualcosa devono concorrere molte cose: ciò da cui, ciò di cui, ciò per mezzo di cui, ciò per cui [una distinzione delle cause tipica del medioplatonismo] (I cherubini 125; trad. di C. Mazzarelli).

Ireneo nega che Dio abbia avuto degli angeli come collaboratori nella sua opera di creazione (II 2,3):

LE DOTTRINE COMUNI AGLI APOLOGETI GRECI

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Anche se gli gnostici, come Basilide e i suoi allievi [di costoro parleremo più oltre, p. 284], affermano che gli angeli o il creatore del mondo furono fatti dal Padre originario, che sta all’inizio di una lunga catena di intermediari, ciononostante l’agente da cui ha origine la catena è colui che è la causa delle cose che sono state create.

La moltiplicazione degli intermediari non diminuisce, di per sé, la responsabilità di Dio nei confronti della creazione, perché gli strumenti sono sotto il controllo di colui che li adopera. Ma nemmeno si può pensare che il creatore abbia avuto bisogno di una materia per mezzo della quale creare il cosmo, né può avere avuto bisogno di una moltitudine di strumenti (II 2,4-5). In conclusione, Dio non impiegò altra materia che non fosse il suo libero arbitrio, e non ebbe bisogno di strumenti a lui esterni: gli strumenti sono le sue mani, le quali possono essere identificate con il Logos e Sapienza di Dio e con lo Spirito di Dio, attraverso i quali e nei quali egli creò tutte le cose secondo il suo libero volere (IV 20,1). Quando ricorre alla immagine delle “mani” di Dio, Ireneo manifesta il suo intento di restare fedele ai passi di Paolo e di Giovanni sopra indicati, nei quali si parla di intermediari, e la sua designazione del Logos o Figlio come “paradigma” (exemplum) (IV 20,1) mostra che il linguaggio dei platonici suoi contemporanei non gli era estraneo, così come egli conosceva bene l’interpretazione di Filone. In conclusione, la polemica antignostica di Ireneo mostrava che il monoteismo richiedeva che ogni cosa che fosse nel mondo e sopra il mondo doveva avere Dio come sua origine, ed Ireneo vide – giustamente – che i platonici intendevano la forma e la materia come principi indipendenti da Dio. Un’ultima osservazione a proposito della materia. Fa parte delle convinzioni cristiane, infine, l’affermare che la materia non è l’origine del male, a differenza di quanto sostenevano alcuni medioplatonici (come Numenio e Plutarco), e che l’uomo, anche se composto di materia, è libero di volgersi verso il bene o verso il male. La creazione, del resto, è buona (a differenza di quanto sostenevano gli gnostici), mentre sono stati i demoni a introdurre il male nel mondo.

Capitolo quarto

Gli gnostici ed altri eretici Giustino lo gnostico, Basilide, Valentino, Marco il mago, Marcione, Apelle, Ermogene 1. Caratteri filosofici dello gnosticismo Lo gnosticismo costituisce uno dei più insoliti aspetti del pensiero cristiano tardoantico: a prima vista abbiamo a che fare con una proliferazione selvaggia e disordinata di concezioni misteriosofiche e teologiche estranee al pensiero greco, ma, in realtà, lo gnosticismo non prescinde affatto da esso, tanto da essere definito da Adolf Harnack «acuta ellenizzazione del cristianesimo» o «platonismo imbarbarito» o «platonismo popolare» da studiosi recenti, quali Dodds, Dillon e Theiler (Tommasi Moreschini). Gli gnostici, infatti, ripresero concezioni della filosofia e della mitologia greca; la interpretarono, però, in modo totalmente differente da quella che è, ai nostri occhi, la storia lineare del pensiero antico. Tuttavia, siccome lo gnosticismo, al pari dell’apologetica “ortodossa”, possiede molti tratti comuni anche alle correnti di pensiero ad esso contemporanee, ed in particolare al medioplatonismo, esso deve essere considerato nel contesto di questa nostra ricerca. Il pensiero gnostico, infatti, si sviluppa contemporaneamente a quello cristiano del secondo secolo, e per alcuni aspetti lo precede. Determinati temi, che erano tipici di quell’epoca, come quello dell’origine del mondo e dell’uomo, sono affrontati anche dagli gnostici. Tale è, ad esempio, quello, fondamentale, del desiderio della redenzione ed il sottolineare la trascendenza di Dio. Ancora, gli gnostici più colti, educati nella filosofia, rifiutano non solo la dottrina dell’eternità del mondo, ma anche quella di una materia eterna. La loro interpretazione dell’origine del mondo deriva indubbiamente dal Timeo (cf. 53 AB), ove si dice che il demiurgo e l’anima cosmica pongono ordine al movimento primordiale degli elementi. Favorì la speculazione gnostica anche il dualismo platonico, che ad essa fu antecedente, e che è tuttora

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soggetto a discussioni critiche. Se con dualismo si intende l’esistenza di due principi che fondano, a loro volta, l’esistenza di ciò che è e si manifesta nel mondo, non si potrà negare che la dottrina del Timeo sull’idea e quella sullo spazio (chora) reciprocamente contrapposti è dualista: la materia, infatti, secondo Platone non dipende per la sua esistenza e la sua funzione dalle idee. Anche la dottrina della origine dell’uomo, spiegata in Timeo 42 D e 69 C, con l’intervento degli dèi minori che, per iniziativa del Demiurgo, “creano” i livelli inferiori dell’anima e il veicolo corporeo di essa, vuole liberare dio da ogni responsabilità del male, analogamente a quanto intendono gli gnostici. Un’altra concezione gnostica che trova una corrispondenza nel contemporaneo medioplatonismo è quella dell’anima malvagia, presente nella materia come principio del male: essa è derivata da Platone (Leggi 896 E ss.) e si legge in Plutarco, che nel suo trattato su Iside e Osiride sembra a conoscenza del dualismo iranico, che riconduce all’insegnamento di Platone. Anche il medioplatonico Attico insiste sulla valenza negativa della materia, in un modo che richiama il contemporaneo gnosticismo. La maggior parte dei medioplatonici separa il primo dio da un secondo dio, sottolineando la trascendenza del primo, del quale una prerogativa è l’assoluta impossibilità di essere espresso con parole. Numenio, inoltre, sia in quanto neopitagorico e medioplatonico, sia in quanto conoscitore della cultura orientale, e quindi del dualismo, sembra essere più di ogni altro vicino allo gnosticismo, proponendo la dottrina dell’anima malvagia, attiva nella materia, e la dottrina che ipotizza la presenza, nell’uomo, di due anime in lotta reciproca. Inoltre, secondo gli gnostici e secondo molti medioplatonici, il demiurgo sarebbe esistito in seguito al processo intellettuale del primo dio; il primo dio è creatore del mondo ed è in esso immanente, come anima cosmica o come terzo dio. Secondo alcuni, il titolo di “Legislatore”, attribuito da Numenio al demiurgo platonico, potrebbe essere stato ricavato dal Dio dell’Antico Testamento, che istituì la Legge. Il desiderio della trascendenza è ben presente anche nella speculazione gnostica. Il cosiddetto Trattato tripartito (della fine del II sec.) abbonda di affermazioni sulla non comunicabilità del divino. Gli ambiti più elevati della realtà sono caratterizzati dal silenzio. Quel trattato dichiara l’impossibilità di dare un nome al primo Principio, utilizzando negazioni implicite ed esplicite. Il

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linguaggio è relegato dall’autore di quell’opera ad un basso livello, anche se essa non contiene ancora una sistematica decostruzione concettuale, che è caratteristica specifica del metodo “negativo” di giungere alla conoscenza di dio. Quello che si trova nel Trattato tripartito potrebbe essere definito, se mai, “trascendentalismo”, cioè una profonda tendenza filosofico-religiosa che fornisce l’ambito in cui si situa la via negativa per giungere alla conoscenza di dio, ma non si identifica con essa. Connesso alla accentuazione del trascendente è il forte apofatismo, che costituisce uno dei cardini di tutta la speculazione gnostica e ha un parallelo nelle analoghe dottrine platoniche e pitagoriche. Esaminiamo alcuni degli gnostici più significativi che vissero nel secondo secolo, e furono quindi contemporanei agli scrittori cristiani dell’epoca. 2. Giustino lo gnostico Il dualismo nell’ambito della cosmologia, di cui stiamo parlando, si riscontra nelle dottrine di Giustino lo gnostico (del II secolo). Stando al racconto di Ippolito (Confutazione di tutte le eresie X 15,1 ss.), questa era la sua dottrina: 1. Giustino, che ebbe il coraggio di affermare cose simili a quelle di Basilide, così insegna: tre sono le potenze ingenerate dell’universo, due maschili ed una femminile. Delle due maschili, un principio è chiamato “buono”, e solo lui ha questo nome; conosce in anticipo tutte le cose. L’altro principio è il padre di tutti gli esseri generati, non conosce in anticipo, ed è ignoto e non visto; si chiama Eloìm. 2. La potenza femminile non conosce in anticipo, si adira, ha due opinioni, due corpi, come abbiamo spiegato in modo preciso nella trattazione ad essa riserbata. La sua parte superiore, fino all’inguine, è vergine, mentre le parti in basso, dall’inguine, sono una vipera. Costei è chiamata Eden ed Israele. Giustino dice che questi sono i principi del mondo, dai quali ebbero origine tutte le cose. 3. Ora, Eloìm, senza conoscere in anticipo le cose, venne a desiderare la vergine mescolata alla vipera e, unitosi a lei, generò dodici angeli. [...] E quelli paterni si radunano intorno al padre, quelli materni, intorno alla

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madre. Questi sono [...] le cose scritte nella Legge di Mosè, il quale ha parlato allegoricamente. 4. Tutte le cose sono state fatte da Eloìm e da Eden: gli animali, insieme a tutti gli altri esseri viventi, dalla parte animale, l’uomo, invece, dalla parte superiore all’inguine. E Eden depose nell’uomo l’anima, che era la sua potenza, mentre Eloìm depose lo spirito. 5. Eloìm, dopo che ebbe appreso la sua origine, risalì verso il bene e abbandonò Eden, la quale, adiratasi per questo fatto, escogitò ogni piano contro lo spirito di Eloìm, che era stato depositato nell’uomo. E per questo motivo il padre inviò Baruch, che ordinò ai profeti che lo spirito di Eloìm fosse liberato, e tutti furono trascinati in basso da Eden. 6. Ma dicono che anche Eracle sarebbe stato un profeta, ma che fu sopraffatto da Omfale, vale a dire da Babel, che essi chiamano “Afrodite”. Più tardi, ai tempi di Erode, nacque Gesù, il figlio di Maria e di Giuseppe, al quale Baruch aveva parlato. 7. Eden tese insidie anche a Gesù, ma non riuscì a ingannarlo, e per questo motivo fece in modo che fosse crocifisso; lo spirito di Gesù risalì verso colui che buono. E lo spirito di tutti quelli che prestano fede a questi discorsi sciocchi e vani si salva, mentre il corpo e l’anima di Eden rimangono in basso. Costei è anche chiamata “terra” da quello stupido di Giustino.

3. Basilide Il primo grande nome tra gli gnostici è quello di Basilide (fiorito sotto l’imperatore Adriano), che forse fu anche il primo teologo a servirsi del Vangelo di Giovanni: la sua attività si colloca intorno al 120 d.C. Basilide è un pensatore di notevole significato. Le sue affermazioni sembrano risentire l’influsso del Parmenide di Platone, che, nel secondo secolo, non aveva ancora assunto quel significato centrale che assumerà poi con il neoplatonismo. Ippolito ci fa sapere (Confutazione di tutte le eresie VII 20,1) che, secondo Basilide, c’era un tempo in cui non c’era altro che il nulla, ma il nulla non era una delle cose esistenti, ma era puramente e semplicemente e senza alcuna ambage il nulla assoluto.

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È assai interessante il fatto che Basilide ponga il nulla come lo stato originario da cui derivò la realtà. Tale concezione è assolutamente originale, e non ve ne è nessun’altra che possa essere avvicinata a questa nel corso del secondo secolo. Questo gnostico contesta che sia valida l’esigenza, fondamentale nella filosofia greca e manifestatasi fin dai tempi dei Presocratici, di trovare il principio delle cose. Secondo Mortley, queste concezioni del nulla originario sono il frutto della speculazione sul Parmenide di Platone, ove, a cominciare da 163 B, si afferma e si spiega che l’uno non esiste. L’uno è privo di qualsiasi stato, e questo è quanto afferma Basilide per quello che egli chiama “dio”. Di dio «non si può dire niente» (Ippolito, Confutazione di tutte le eresie VII 20,3); dio è al di là di ogni nome che possa essere pronunciato. Anche questa affermazione si trova nel Parmenide (164 B): non vi è né nome né discorso sull’uno. Al di sopra di tutti i mondi e prima di tutte le epoche esiste, quindi, il dio inconoscibile, del quale nessun predicato è più vero del predicato opposto, cosicché anche la negazione di ogni predicato è un tentativo sbagliato di circoscrivere quello che non può essere limitato. Mentre non si può dire che questo dio esista propriamente, egli è, ciononostante, il padre di tutto ciò che esiste. Questa concezione deriva dalla dottrina medioplatonica della trascendenza di dio, basata dalla famosa affermazione di Platone (Repubblica 509 B), che il Bene è al di là anche dell’essere (epekeina tes ousias), e la accentua. Dio, in seguito alla sua volontà e mediante la sua parola, crea la totalità del mondo terreno e del mondo spirituale, una creazione che proviene dal nulla puro e indeterminato. Ma anche il mondo, che è stato creato dal nulla, è “non esistente”. Per questa forte accentuazione dell’apofatismo e il suo ricorso alla dottrina del Parmenide platonico, considerato, come si è detto, a partire dal terzo secolo d.C. un trattato di contenuto “teologico”, Basilide fu considerato un precursore di Plotino. La prima creazione di dio fu la “panspermia”, cioè la totalità dei semi da cui sarebbe derivata poi la realtà materiale e quella spirituale. Ma anche la dottrina della panspermia deriva dalla filosofia greca, e più precisamente dallo stoicismo: il complesso dei “semi” dai quali viene creato il tutto equivale al logos spermatikós degli stoici, cioè al Logos dal quale, come da un seme, ha origine l’universo. Il Logos del mondo contiene in sé i vari logoi spermatikoì, e

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nel seme si trova in germe la realtà che si svilupperà poi. Nei semi cosmici esiste già in potenza tutto quello che prenderà esistenza nel corso del tempo. La dottrina del logos spermatikós aveva avuto un suo ruolo, come si è visto, nell’apologeta Giustino. Secondo Basilide, dio crea il mondo dal niente servendosi solamente della sua libera decisione. Il seme del mondo non deriva né dall’emanazione, né dalla formazione di una materia preesistente. Questa dottrina di Basilide rappresenta la prima rielaborazione, in ambiente cristiano, della dottrina medioplatonica della creazione del mondo. Infatti il primo teologo cristiano – ortodosso – che afferma che il Dio creatore deve essere inteso diversamente da come si intende un artefice umano, cioè come un demiurgo che non crea il mondo servendosi della materia preesistente, ma dal nulla, è Teofilo di Antiochia, che visse almeno cinquanta anni dopo Basilide. Teofilo, come si è detto, fu uno dei primi scrittori cristiani a sostenere la creazione del mondo ex nihilo: ma Basilide lo aveva preceduto. Il contatto di Basilide con il platonismo si manifesta anche nel fatto che sia lui sia suo figlio Isidoro avrebbero insegnato la dottrina della trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro: in tal modo le ingiustizie inflitte dai pagani ai Cristiani in questo mondo sarebbero state l’espiazione dei peccati commessi in una vita precedente (cf. Clemente Alessandrino, Stromati IV 12,81-83). 4. Valentino Il platonismo avrebbe influenzato la dottrina di Valentino (vissuto verso la metà del II secolo), come era stato universalmente riconosciuto dagli stessi scrittori cristiani. Infatti la sua dottrina degli Eoni, entità ipostatiche, fu interpretata come analoga a quella delle idee platoniche. Tertulliano però in un’altra sua testimonianza (Contro i Valentiniani 4,2) dice che Valentino avrebbe inteso gli eoni come pensieri, affetti e moti esistenti all’interno dell’essere divino, mentre Tolomeo, seguace di Valentino in occidente, ne avrebbe fatto delle realtà personali. Ebbene, l’esistenza di queste entità all’interno o all’esterno del principio primo è stata interpretata come un parallelo alla questione, fortemente dibattuta all’interno del medio- e neoplatonismo, se le idee dovessero essere intese come esistenti all’interno o all’esterno della realtà che le produce, cioè dell’intelletto. L’interpretazione valentiniana di Gen. 1,2, ove si racconta la creazione del mondo, corrisponde a quella tradizionale del giudaismo ellenistico, secondo il quale Dio si sarebbe servito di una mate-

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ria preesistente (e naturalmente il medioplatonismo si pone in parallelo a questa interpretazione della origine del mondo). Valentino asserisce che le sostanze originarie inizialmente si trovavano in una mescolanza dovuta ad una condizione caotica, ma furono poi divise e poste in ordine dal demiurgo: questo corrisponde alle concezioni cosmologiche del medioplatonismo ed è asserito anche da Filone e Atenagora. La concezione di Valentino, che la materia è incorporea, ma possiede la predisposizione a diventare corpo trova un parallelo nella dottrina medioplatonica che la materia è potenzialmente corpo. Quindi i Valentiniani interpretarono analogamente agli altri teologi cristiani del II secolo la storia della creazione, servendosi, cioè, di concetti platonici. 5. Marco il mago Un altro gnostico, Marco il mago (vissuto verso la metà del II secolo), sostiene che il silenzio è il termine più appropriato a descrivere le realtà superiori, mentre la voce serve a parlare solo di quelle inferiori. Il silenzio regna insieme con il Padre assolutamente trascendente, e il silenzio viene rotto allorquando ha luogo la creazione. Il suono, invece, sorge insieme con la percepibilità e la corporeità, e con esso il Padre vuole farsi nominabile e dare forma all’invisibile (Ireneo, Contro le eresie I 14,1 ss.). Le fantasie di Marco, ricordate da Ireneo, mostrano il fascino di cui godeva in quel tempo l’idea del silenzio. Il linguaggio emerge come una realtà inferiore, caratteristica di un più basso livello dell’essere. La vera e propria via negativa è espressa, invece, da un altro trattato gnostico, vale a dire dall’Apocrifo di Giovanni (da collocarsi nel II sec.) studiato approfonditamente da Michel Tardieu: Dio, essendo luce senza misura, senza mescolanza, santo e puro, è inesprimibile non perché è perfetto, incorruttibile e divino nel modo della perfezione, della beatitudine o divinità, ma perché è una realtà al di là delle realtà, non più infinito che finito, ma una realtà superiore alle realtà, né corporeo né incorporeo, né grande né piccolo, senza quantità o qualità, non una creatura né capace di essere abbracciato da chicchessia, né appartiene all’essere, ma è una realtà superiore alle realtà, non solo in quanto è superiore, ma in quanto è coestensivo con se stesso.

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Secondo Tardieu la fonte di queste negazioni è il Parmenide di Platone (137 C ss.), e, secondo Mortley, l’affermazione “né x né y” è caratteristica, più in particolare, della sesta ipotesi di quel dialogo (163 B - 164 A): nella discussione su tale ipotesi dio è sistematicamente escluso da tutte le categorie mediante questo sistema: “né x né y”. Allo stesso modo, l’Apocrifo di Giovanni ripete che dio è superiore alla categoria indicata da ciascuna delle due parti della coppia. Questo riflette l’idea medioplatonica che dio sia superiore all’essere. 6. Marcione Marcione (vissuto negli anni 80-150 circa) fu considerato da Harnack e da molti studiosi che lo seguirono come un pensatore sostanzialmente estraneo allo gnosticismo e ai problemi della filosofia greca, anzi, addirittura nemico di essa. In realtà, studi recenti hanno mostrato che alcuni punti della speculazione di Marcione trovano un corrispondente nella filosofia greca contemporanea o costituiscono una risposta ai problemi posti da essa. L’asserzione di Marcione, che esiste un dio sommo, caratterizzato dalla assoluta bontà, che sovrasta il dio inferiore, collerico e giusto, sarebbe stata desunta dalla filosofia greca e rielaborata sulla base dei dati che emergono dall’Antico Testamento. Il dio sommo deve essere buono, come era stato sempre asserito dalla tradizione platonica (Plutarco e Numenio sostenevano che il demiurgo fosse buono). Accanto al dio sommo, alcuni medioplatonici ponevano un dio inferiore (ma pur sempre dio), così come Marcione colloca il Dio dell’Antico Testamento. La bontà, in Dio, deve coincidere con la misura, con l’ordine, con la razionalità che il demiurgo realizza nell’universo (cf. Platone, Timeo 30 A; 69 B; 43 B; 43 E; 53 AB). Il diteismo di Marcione può essere inteso in maniera analoga alla dottrina dei due dèi del medioplatonismo (il dio sommo e il demiurgo) o, ancora, alla maniera in cui i pagani seguaci di una teologia enoteistica pensavano che esistesse un dio superiore, sotto il quale stavano altre divinità minori, ma pur sempre meritevoli di adorazione (cf. pp. 13 ss.). Anche nell’ambito del problema cosmologico Marcione presupponeva, come i medioplatonici, l’esistenza della materia non nata, non creata e coeterna a dio. Gli Stoici e gli apologeti cristia-

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ni sostenevano che dio aveva impresso la sua razionalità alla struttura e alla essenza del mondo, ma Marcione, in seguito al suo rifiuto del dio creatore, da lui considerato retaggio del giudaismo, non ammetteva questa dottrina e manifestava critica e disprezzo nei confronti del mondo. Anche il problema della bontà di Dio è risolto da Marcione in modo polemico nei confronti della filosofia greca e della apologetica cristiana. Secondo l’eretico, la bontà di dio (cioè del dio sommo rivelatosi in Cristo, non quella del Dio dell’Antico Testamento, il cui Messia è ancora atteso dagli Ebrei) si manifesta nella sua essenza proprio per il fatto che non è rivolta a coloro che gli appartengono: essa, quindi, si attua scardinando il principio stoico della oikeiosis, cioè della famigliarità, del legame di sangue, per cui il primo amore, i primi effetti della bontà debbono essere rivolti verso i consanguinei. Questa dottrina stoica si era diffusa, nel secondo secolo d.C., cioè all’epoca di Marcione, anche presso i medioplatonici (ad esempio, in Apuleio [Platone e la sua dottrina II 2,222] e nell’anonimo commentatore al Teeteto di Platone [§§ 5 e 7]). Ma questo significherebbe, secondo l’eretico, riconoscere gli effetti e la potenza della materia, e quindi proprio di quel mondo che Cristo è venuto ad annullare per volontà del Dio buono: il precetto di Cristo, infatti, è proprio quello di amare tutti indifferentemente, a prescindere da ogni legame umano. Il mondo, dunque, non è una creatura buona, perché è un’opera del dio inferiore; la realtà propriamente divina non è assolutamente presente in esso. Con questa affermazione Marcione non si distanzia da certe correnti che si caratterizzavano per la loro ostilità e il disprezzo del mondo, diffuse nella tarda età imperiale. Il passaggio al punto successivo, che il mondo è caratterizzato dal male, è breve, e richiama analoghe condanne pronunciate da alcune correnti platoniche. La dottrina platonica che il male abbia la sua causa nella materia subisce, ad opera di Marcione, una interpretazione radicalmente diversa. Per i platonici, il ricondurre il male alla materia doveva servire a spiegare perché esistessero nel mondo l’imperfezione e il male, senza che fosse necessario trarre delle conseguenze di tipo dualistico: la presenza del male appartiene necessariamente alla realtà terrena. Invece, secondo Marcione, la creazione del mondo dalla materia malvagia dimostra proprio l’imperfezione e la bassezza del demiurgo. Un dio che si serve della materia non può essere veramente tale, tanto è vero che anche il dio

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superiore è stato creatore, e ha creato un suo mondo celeste e invisibile, che si trova al di sopra del mondo del demiurgo. 7. Apelle Anche Apelle (fine del II sec.), discepolo di Marcione, seguendo la dottrina platonica, ritenne che il suo dio fosse assolutamente trascendente e che quindi non potesse essere compreso dall’uomo. Egli asserì di essere consapevole della sua esistenza, perché ne aveva una conoscenza prerazionale, non perché fosse in grado di addurre delle spiegazioni: questo era in contrasto con la dottrina vulgata nell’apologetica, che Dio potesse essere conosciuto dalla bellezza e dall’ordine razionale presenti nel mondo. Il mondo era stato creato, quindi, non dal dio sommo, ma da un angelo, pure il quale era stato creato da dio e collocato sotto di lui e che con la sua opera doveva riprodurre, sul piano materiale, la realtà intellegibile. In tal modo Apelle poteva, allo stesso modo del platonico-pitagorico Numenio, concepire il dio sommo come estraneo alla creazione del mondo e contemporaneamente affermare che la realtà sensibile, nella quale regnavano il male e il disordine, non era completamente separata dal dio buono, ma stava in rapporto con lui ed era dipendente da lui. L’anima umana, poi, aveva avuto origine dalle stelle: per spiegare come mai una realtà di così pura essenza si trovasse in contatto con la realtà materiale e, più specificamente, con il corpo, Apelle riprese la dicotomia platonica, secondo la quale l’anima, che è incorporea, proviene dalle regioni celesti e divine, mentre il corpo, che è una realtà inferiore, è la causa del male nell’uomo. Di conseguenza il dio trascendente non è responsabile dell’esistenza del male. Apelle respinge, quindi, la dottrina cristiana dell’incarnazione del Figlio di Dio, in modo da potere affrontare le critiche che i pagani colti muovevano ai Cristiani a tal proposito, e che ci sono attestate da Celso (Discorso vero VI 73): è assurdo pensare che una realtà trascendente come Dio possa avere contatto con la materia del corpo. Cristo, infatti, avrebbe avuto un corpo astrale, e non terreno, di cui si era rivestito attraversando, nella sua discesa in terra, le sfere celesti. La cristologia di Apelle, quindi, può essere considerata come un tentativo di spiegare la dottrina del suo maestro Marcione facendo ricorso al pensiero platonico.

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8. Ermogene Anche la derivazione della eresia di Ermogene (vissuto alla fine del II sec.) dalla filosofia greca, e più in particolare da quella medioplatonica, fu riconosciuta già nei tempi antichi (ad esempio da Tertulliano). Infatti Ermogene si avvicinava al medioplatonismo per la sua dottrina dell’esistenza di una materia informe e coeterna a Dio. Questo eretico appare, più ancora di Marcione, estraneo allo gnosticismo e molto vicino alla filosofia greca; si potrebbe addirittura dire di lui che è stato un filosofo medioplatonico a tutti gli effetti. Per questo motivo ci soffermiamo più a lungo su di lui. Che la dottrina della materia fosse ritenuta importante nel pensiero filosofico del secondo e terzo secolo è attestato da Clemente Alessandrino (Stromati V 14, 89). La materia, dice lo scrittore cristiano, è annoverata da tutte le più importanti scuole filosofiche tra i primi principi. I filosofi le attribuivano la caratteristica di essere priva di ogni qualità e figura e per questo motivo essa era detta da Platone “non essere”. Il testo di Gen. 1,2, ove si dice che la terra, prima della creazione, era invisibile e priva di ordine, secondo Clemente, avrebbe fornito ai filosofi l’occasione per concepire una materia priva di qualità. Per capire in che senso Platone avrebbe definito la materia come “non essere”, occorre tenere presente che l’essere, secondo la dottrina aristotelica, era un predicato della forma, intesa come l’essenza specifica della cosa: la materia, dunque, che non ha ancora ricevuto nessuna forma, non è ancora “qualcosa” di specifico, e pertanto, in un certo senso, è “non essere”. Ora, il medioplatonico Alkinoos dice al riguardo (Didascalico 8,2-3; citato già alle pp. 201 s.): In primo luogo parliamo della materia. Essa è dunque chiamata da Platone matrice impressionabile, ricettacolo, nutrice, madre, spazio, sostrato non percepibile con la sensazione e coglibile solo per mezzo di un ragionamento bastardo. Essa ha la proprietà di ricevere ogni cosa che nasce, avendo la funzione di una nutrice nel portare e nel ricevere tutte le figure, ma è di per sé senza forma, senza qualità e senza figura; pur essendo modellata e segnata da queste figure come una matrice impressionabile prende la figura di esse, ma non possiede in sé alcuna figura né qualità. Infatti non

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sarebbe qualcosa di adatto a ricevere impronte e forme varie, se non fosse priva di qualità e scevra da quelle figure che essa stessa deve accogliere [...]. Certo, dunque, bisogna che anche la materia, che tutto accoglie, se deve ricevere in tutta la sua estensione le forme, non abbia in sé alcuna natura di esse, ma sia senza qualità e senza forma, per poter accogliere, appunto, le forme; essendo tale, non è né un corpo né un incorporeo, ma è corpo in potenza, come diciamo che il bronzo è statua in potenza, in quanto diventerà statua una volta assunta la forma.

La materia così intesa viene ad essere un concetto-limite, vale a dire quello di potenzialità pura: è evidente, infatti, che è impossibile conoscere attraverso l’esperienza sensibile una materia del tutto priva di aspetto, qualità e forma: tutto ciò che è conoscibile grazie ai sensi deve avere una forma, una qualità ed una figura. Per questo motivo Aristotele definiva la materia come “inconoscibile” di per sé. Nella tradizione filosofica neoplatonica questa inconoscibilità, causata dalla totale assenza di forma, darà luogo ad un singolare rapporto, di opposizione e insieme di similitudine, tra Dio e la materia, che diventeranno, in un certo senso, i due poli estremi della teologia negativa: di Dio si potrà dire che «non è», in quanto l’essere implica una forma, e per ciò stesso una limitazione, incompatibile con l’infinitezza della natura divina; della materia, invece, si dirà che «non è» in quanto priva di qualunque determinazione dell’essere. Tutte le testimonianze ci confermano che Ermogene avrebbe sostenuto, come principio della propria teologia, che la materia è eterna, innata ed increata, senza inizio e senza fine: da essa, poi, Dio avrebbe creato il tutto. Il negare la creazione dal nulla aveva la funzione, nel pensiero di Ermogene, di liberare Dio da ogni responsabilità circa l’origine del male: creare dal nulla, infatti, significa creare con un puro atto di libera volontà, ma in tal caso la presenza del male sarebbe stata volontariamente prodotta da Dio. Il male, invece, avrebbe avuto origine dal difetto inerente al sostrato dal quale Dio creò il mondo, e tale sostrato sarebbe, appunto, la materia. Secondo Ermogene, inoltre, l’eternità della materia sarebbe postulata dal fatto che Dio, essendo da sempre Signore (dominus), deve sempre avere accanto a sé qualcosa su cui esercitare il proprio dominio, appunto la materia.

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In questo contesto, Ermogene aveva sostenuto che la materia non è corporea né incorporea: anche questa dottrina era comunemente diffusa nel platonismo medio. Essa, inoltre, è infinita: il termine “infinito” può avere una accezione spaziale o temporale: anche Apuleio definiva la materia “infinita”, in quanto sprovvista di una grandezza definita, che l’avrebbe dotata di una forma. Inoltre, Andrea Rescigno ha dimostrato che Ermogene avrebbe affrontato uno dei problemi più spinosi della cosmologia platonica, vale a dire che la materia sarebbe stata disponibile a farsi modificare da Dio, pur non avendo con lui nulla in comune. Questo si ricava da quanto ci dice Tertulliano nel Contro Ermogene (42,1-3): tale affermazione di Ermogene collegherebbe l’eretico vicino al medioplatonico Attico. La caratteristica comune, che rende idonei l’uno all’altro Dio e la materia, è, per Ermogene, il fatto che entrambi questi principi posseggono un movimento spontaneo ed eterno: ordinato quello di Dio, disordinato quello della materia. Dal passo di Tertulliano si ricava anche la spiegazione del modo in cui la materia sarebbe divenuta suscettibile dell’azione ordinatrice di Dio: ad un certo momento si sarebbe verificato un rallentamento, se non una pausa, del movimento della materia, la quale sarebbe divenuta così in grado di subire l’intervento demiurgico. L’azione creatrice di Dio, del resto, sembra presupporre, per Ermogene, una relazione quasi fisica tra Dio e la materia. Ermogene, dunque, ci risulta, alla luce di queste ultime considerazioni, molto più vicino alla tradizione platonica che non allo gnosticismo. Tertulliano stesso, del resto, che fu quasi contemporaneo dell’eretico e doveva conoscerlo bene, ci aveva presentato il traviamento dell’eretico come il prodotto delle sue frequentazioni filosofiche. Non essendoci pervenuto alcuno scritto di Ermogene, gli unici dati a nostra disposizione, per tentare di ricostruire il suo pensiero, ci sono offerti dalle opere di chi lo ha combattuto. Il trattato di Tertulliano Contro Ermogene rappresenta la fonte principale, alla quale vanno aggiunte alcune osservazioni di Ippolito, di Clemente Alessandrino e di Origene. Uno scritto di Teofilo di Antiochia, indirizzato contro Ermogene, con tutta probabilità è stato utilizzato da Tertulliano, ma non è possibile stabilire con certezza il debito del Cartaginese nei confronti dell’apologista greco, in quanto l’opera di quest’ultimo è andata perduta.

Capitolo quinto

Ippolito 1. La filosofia pagana come origine delle eresie L’idea che esistesse un legame tra filosofia ed eresie era molto diffusa nella cultura cristiana antica, e la si legge in Tertulliano, ne Le prescrizioni contro gli eretici, un’opera scritta intorno al 200 d.C., che è un bel documento della cultura variegata di Cartagine in quegli anni, composta di intellettuali pagani, cristiani e gnostici (7,1-10): 1. Queste sono le dottrine degli uomini e dei demoni, nate dallo spirito della sapienza terrena per quelle orecchie che hanno il prurito di udirle. Ma il Signore chiamò “stoltezza” quella sapienza, e scelse ciò che è stolto del mondo per confondere anche la stessa filosofia. 2. Ché la filosofia è la materia della sapienza terrena, interprete temeraria della natura e della disposizione divina. Pertanto, le eresie stesse sono subornate dalla filosofia. 3. Dalla filosofia derivano gli eoni e non so che forme infinite di numero e la triade dell’uomo secondo Valentino: era stato filosofo platonico. Dalla filosofia deriva il dio di Marcione, un dio migliore del nostro grazie alla sua mitezza: era un dio proveniente dallo stoicismo. 4. E perché si dica che l’anima perisce, si osserva Epicuro; e perché si neghi la ricostituzione della carne, si attinge all’insegnamento unanime di tutti i filosofi; e quando si pone la materia sullo stesso piano di Dio, è la dottrina di Zenone; e quando si introduce qualche nozione di un dio di fuoco, interviene Eraclito. 5. Medesime sono le questioni rimuginate dagli eretici e dai filosofi, medesime sono le considerazioni che essi aggrovigliano: donde il male, e perché il male? E donde l’uomo, e in qual modo? E la questione che non molto tempo fa propose Valentino: donde Dio? Si capisce, dall’enthymesis e dall’ectroma […]. 6. Scia-

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gurato Aristotele! Ha insegnato loro la dialettica, architetto nel costruire e nel distruggere, versipelle nelle affermazioni, forzata nelle ipotesi, incomprensibile nelle argomentazioni, produttrice di contese, molesta anche a se stessa, pronta a riesaminare tutto per paura di aver trascurato del tutto qualche punto. 7. Da qui derivano quei miti e quelle genealogie interminabili e quelle questioni sterili e quei discorsi che vanno di traverso come un granchio: da esse ci tiene lontani l’apostolo, dichiarando esplicitamente, quando scrive ai Colossesi, che dobbiamo tenerci in guardia dalla filosofia e dalla vana seduzione di essa (cf. Col. 2,8): «Fate attenzione a che qualcuno non vi inganni per mezzo della filosofia e della sua vana seduzione, secondo la tradizione degli uomini, in contrasto con la provvidenza dello Spirito Santo». 8. Era stato ad Atene, e aveva conosciuto, grazie agli incontri che ivi aveva fatto, questa sapienza umana che pretende di possedere la verità e la corrompe, anch’essa in più modi spartita nelle sue eresie, vale a dire nella varietà delle sue sètte che si contrastano a vicenda. 9. Che hanno in comune, dunque, Atene e Gerusalemme? L’Accademia e la Chiesa? Gli eretici e i cristiani? 10. La nostra disciplina viene dal portico di Salomone, il quale aveva anche insegnato che si doveva cercare Dio in semplicità di cuore. Ci pensino coloro che hanno inventato un cristianesimo stoico e platonico e dialettico. Non abbiamo bisogno della curiosità, dopo Gesù Cristo, né della ricerca dopo il Vangelo.

Tertulliano approfondirà poi questa convinzione, affrontando la polemica contro le varie eresie. 2. L’opera di Ippolito Ma l’accusa di derivazione delle eresie dalla filosofia pagana è illustrata in modo sistematico dall’Elenchos (cioè la Confutazione di tutte le eresie) di Ippolito, uno scrittore vissuto a Roma nei primi decenni del III secolo, ed autore, oltre che di quell’opera, anche di uno scritto polemico contro un eretico, Noeto. Ippolito amplia la sua accusa contro gli eretici, perché la sua polemica non è rivolta solamente alla filosofia greca, bensì anche alle teologie (come egli le chiama) dei Caldei, dei Persiani e degli Egiziani, ed

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inoltre anche all’astrologia, alla divinazione e all’alchimia – cioè, in sostanza, alla “sapienza del mondo” di cui parlava S. Paolo. È interessante, quindi, vedere che Ippolito comprende nella sapienza del mondo anche la sapienza delle popolazioni estranee alla cultura greco – romana, in modo non diverso da quello che aveva fatto – ma in modo positivo – Celso e quello che farà, come vedremo, Clemente di Alessandria, pure il quale è notevolmente aperto alla cultura dei popoli “barbari”. Nell’opera di Ippolito un primo blocco comprende i libri I-IV, ed è dedicato alla sapienza greca (filosofia, astrologia, magia) quale origine delle eresie. Un secondo comprende i libri V-IX e costituisce il vero e proprio corpus delle eresie. Il decimo, e ultimo, libro riassume il contenuto degli altri libri. La polemica antieretica è condotta da questo scrittore secondo dei principi ben precisi. Poiché gli eretici non possono esibire né la vera dottrina di Cristo né proprie idee originali, ma solamente vantarsi di dottrine altrui, Ippolito intende smascherare la loro dipendenza dalla sapienza greca. Talvolta avviene che gli stessi eretici non si rendano conto di questa loro dipendenza, tanto che riproducono con parole diverse, e spesso con errori, le dottrine originarie. Sono, quindi, ignoranti, oltre che in mala fede: gli insulti contro questo o quel personaggio sono assai frequenti nell’opera di Ippolito. È chiaro che non è importante la ricostruzione, eseguita dallo scrittore cristiano, delle dottrine delle varie scuole filosofiche, la cui informazione spesso è inesatta, ma importante è vedere quali sono i filosofi pagani ai quali sono riportate le dottrine eretiche. E perché a quelli? 3. Vari criteri che guidano la polemica di Ippolito La dipendenza dell’eresia dalla filosofia significa corruzione della dottrina originaria, che è stata attuata di proposito dagli eretici, per una volontà malvagia. Ma gli eretici hanno eseguito il loro lavoro in modo poco intelligente. Infatti Simon Mago perversamente deformò le dottrine dei poeti; Ermogene non pensò che le sue favole erano di origine socratica e che Platone era giunto alle sue conclusioni molto meglio di lui; la sapienza dei numeri, che costituisce l’eresia di Monemo, deriva da Pitagora, il quale l’aveva elaborata in modo molto più rigoroso. Senza alcuna abilità i

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Perati hanno messo insieme le dottrine degli astrologi; malamente i Sethiani hanno interpretato quello che era stato detto dalla scuola peripatetica. Il secondo elemento costitutivo della Confutazione di tutte le eresie è rappresentato dal fatto che Ippolito istituisce un legame storico tra giudaismo e cristianesimo, che introduce e contiene la dottrina del vero Dio. Questo rapporto è chiarito in IX 31,2, ove si espone la dottrina cristiana, il logos della verità. La verità cristiana ha la sua origine non nella sapienza greca e nemmeno nelle dottrine segrete degli Egiziani, che vengono tenute in gran conto dai Greci, né negli inganni dei Caldei né nelle sciocche invenzioni dei Babilonesi, ma supera tutti i popoli per antichità e per vicinanza alle origini dell’uomo, cioè a Dio. L’argomento che l’antichità di una dottrina sia garanzia della sua giustezza si trova anche negli apologeti greci. Ippolito, per dimostrare l’antichità della religione cristiana, ricorre alla storia dell’Antico Testamento e del popolo ebraico. L’antichità dell’Antico Testamento è dimostrata con due prove. Una è costituita dal diluvio. Poiché il diluvio del tempo di Noè investì tutto il mondo, a differenza di quelli locali, di cui parlano i Greci, cioè quelli dei tempi mitici, di Deucalione e Pirra, tutta la restante umanità fu separata dalla condizione originaria, mentre gli Ebrei discesero direttamente da Noè. Di conseguenza la stirpe di coloro che adorano il vero Dio è più antica di quella dei Caldei, degli Egiziani e dei Greci. Ippolito aggiunge una seconda periodizzazione, facendo riferimento alla storia del popolo ebraico: il tempo antecedente al soggiorno degli Ebrei in Egitto, durante il quale essi in una tradizione ininterrotta ebbero un solo diritto, un solo maestro, una sola legge, un solo legislatore, è il periodo in cui il popolo ebraico era vissuto nel modo più concorde. Invece, nell’epoca successiva al passaggio del Giordano e all’ingresso nella terra promessa subentrò una divisione all’interno del giudaismo, che causò la perdita di ogni legame con il periodo iniziale. Gli Ebrei si divisero allora in Esseni, Farisei e Sadducei, come già aveva spiegato Giuseppe Flavio, lo storico dell’età dei Flavi, autore della Guerra dei Romani contro i Giudei e delle Antichità ebraiche. Così il cristianesimo (che ha conservato la verità non falsificata del popolo timorato di Dio dei tempi di Noè) ed il giudaismo (per quanto questo è ancora possibile nei tempi cristiani) costituiscono un’unità. Questo è attestato dall’accordo, che giunge fino

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all’uso dei medesimi termini della teologia, tra quel Dio in cui credono tutti i Giudei e la confessione dei Cristiani: Giudei e Cristiani, infatti, confessano un solo Dio, Signore e creatore di tutte le cose, il quale, senza che esistesse una sostanza a lui coeterna (a differenza di quanto sostenevano le eresie e la filosofia pagana contemporanea), ma solo con la sua volontà, creò l’universo. Tuttavia, se il cristiano può dire che il Logos di Dio è stato mandato dal Padre, gli Ebrei cadono nell’errore di non ammettere che tale Logos sia il Cristo mandato da Dio, perché essi non hanno accolto il Gesù che era stato anticamente profetato. I quattro elementi che costituiscono la sapienza pagana esistente ai tempi di Ippolito (Greci, Ebrei, barbari ed eretici) attuano, in una successione graduale, una progressiva perdita della verità. Come si è detto, la rivelazione originaria, conservatasi solo presso i Cristiani, era esistita già presso gli Ebrei, ed è costituita dalla retta dottrina relativa a Dio e alla creazione, mentre fu corrotta relativamente alla concezione del Logos. Successivamente i Greci, che appresero dagli Ebrei la loro concezione di Dio e la dottrina della creazione, le hanno poi corrotte in quanto hanno adorato la creazione invece del creatore, e la perversione è progredita ulteriormente con le stolte invenzioni degli eretici. Lo schema seguito da Ippolito è, quindi, quello dell’unità originaria e della frantumazione successiva. Per condannare la sapienza del mondo e la sua inaffidabilità, Ippolito impiega la critica che era comunemente in uso nelle scuole scettiche dell’età imperiale: la constatazione della mancanza dell’unità e della concordia nelle opinioni dei Greci sta a dimostrare che ogni loro filosofia può essere contraddetta da un’altra, e quindi nessuna di esse è vera. Gli Egiziani, a loro volta, hanno il ruolo di mediatori nel trasferire ai Greci la sapienza ebraica, per cui vengono menzionati i frequenti contatti tra l’uno o l’altro sapiente greco con gli Egiziani, così come la successione Egiziani–Greci–eretici. La polemica di Ippolito con gli eretici non è rivolta solamente all’interno del mondo cristiano, ma intende anche essere un motivo di propaganda nei confronti dei pagani, così come avevano fatto Giustino (Apol. I 26,6-8) e Ireneo (Contro le eresie I 25,3). Ippolito intende spiegare ai pagani che essi non debbono convertirsi né al giudaismo né alle varie sette eretiche, ma solo alla Grande Chiesa. È lo stesso atteggiamento, ma dalla parte pagana, di Celso, il quale pone sullo stesso piano non solamente le varie

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sette cristiane, ma basa la sua opposizione ai cristiani sulle loro divisioni, nonostante che essi impieghino tutti lo stesso nome: Carl Andresen (Logos und Nomos 218-220) suppone che il termine alethès logos, che Ippolito impiega in X 34,1 (e IX 31,2; X 4; IX,1-2; 31,6) rivolgendosi ai popoli pagani, sia detto in polemica con Celso, il quale, come già abbiamo visto, lo aveva usato per polemizzare con i Cristiani. È chiaro, comunque, che Ippolito nel collocare insieme Cristiani e Giudei, sulla cui opposizione reciproca aveva giocato polemicamente Celso e nell'asserire che Cristiani e Giudei si differenziano dagli eretici, è mosso anche da intenti apologetici, che sono manifestati da una allocuzione finale a tutti i popoli affinché si convertano. 4. Le dottrine della “Confutazione di tutte le eresie” Le dottrine del primo libro sono ricavate da un manuale di filosofia, che esisteva ai tempi di Ippolito, e per questo motivo presenta motivi di interesse per gli storici della filosofia antica. Ivi sono discusse, in maniera alquanto disordinata e con una successione talvolta diversa da quella che conosciamo noi, e che è la successione che deriva da Aristotele, le dottrine di Talete e di Pitagora; poi si accenna a Empedocle, a Eraclito e ad altri filosofi “fisici”. Socrate fu l’iniziatore dell’etica, Aristotele della dialettica; scolari di Talete furono Anassimandro, Anassimene, Anassagora ed Archelao di Atene, con cui si conclude la filosofia fisica iniziata da Talete. Vengono esaminati brevemente Parmenide, Leucippo, Democrito, Senocrate; Ecfanto di Siracusa; Ippone di Reggio, Platone, Aristotele, gli Stoici (Crisippo e Zenone), Epicuro (che è condannato perché non crede nelle punizioni dell’Ade) ed infine Pirrone. Poco, invece, è detto a proposito di Socrate. Ippolito lo ricorda solo perché sarebbe stato maestro di Platone, al quale viene ricondotta l’eresia di Ermogene. Interessanti sono alcune interpretazioni di singoli filosofi. Ippolito spiega Empedocle in modo accentuatamente dualistico, identificando il mondo del male (cioè del neikos) con il mondo sensibile e il mondo della philia con il mondo intelligibile. Entrambe queste identificazioni potrebbero essere dovute allo gnosticismo, ma anche al platonismo. Unire insieme Empedocle e Platone è facilitato dal fatto che entrambi erano pitagorici, secon-

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do l’opinione di Ippolito. La frase cruciale che unisce Empedocle a Platone è la seguente (I 4,2): Empedocle disse che il principio dell’universo sono la philia e il dissidio, e che il fuoco intellettuale della monade è buono, e che tutte le cose nascono dal fuoco e si dissolvono nel fuoco.

La medesima associazione della dottrina di Empedocle con quella stoica ed eraclitea della conflagrazione universale è proposta da Clemente Alessandrino (Stromati V 14,103,6). Ippolito afferma anche che Eraclito concordò quasi in tutto con Empedocle (I 4,3): egli disse che il dissidio e l’amore sono il principio di tutte le cose e che dio è un fuoco intellettuale e che tutte le cose si confondono tra di loro e non stanno ferme.

Interessante la conclusione del primo libro (I 24,2), nel quale si adducono dottrine che niente hanno a che fare con le eresie né con il cristianesimo, ma mostrano, comunque, un vivo interesse di Ippolito per le popolazioni barbare, estranee al mondo greco – romano. Tali sono le dottrine dei Bramani e dei Gimnosofisti dell’India, che già abbiamo incontrato nella biografia di Apollonio di Tiana, scritta da Filostrato (pp. 57 ss.), il quale fu contemporaneo di Ippolito: Essi dicono che dio è luce, ma non quella che si vede né quella come il sole o il fuoco, ma dio per loro è un logos, e non il logos articolato, ma quello della gnosi attraverso il quale il saggio vede i misteri nascosti della natura.

I Druidi, sacerdoti della Gallia, hanno derivato la loro dottrina da quella dei Pitagorici. Ippolito (come altri scrittori della prima età imperiale) deriva da Posidonio l’interesse per il mondo celtico e l’interpretazione dei Druidi quali filosofi pitagorici. Lo scrittore prende in considerazione anche la filosofia del poeta Esiodo, ma adduce elementi di pura routine: Esiodo asserisce di aver appreso dalle Muse le sue conoscenze della natura e descrive il concepimento delle nove Muse da Zeus e da Mnemosyne.

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La conclusione del primo libro è la seguente (I 26,3-4): Tutti costoro seguirono, come abbiamo spiegato, il loro parere personale (doxa) a proposito della natura e dell’origine del tutto. Ma tutti rimasero al di sotto della realtà divina (tou theiou) allorquando si dedicarono allo studio della sostanza delle cose create, meravigliati dalla loro grandezza e ritenendo che esse costituissero esattamente la realtà divina; dettero la preferenza chi all’una chi all’altra parte della creazione, ma non conobbero il Dio creatore di esse. Penso di avere illustrato a sufficienza le opinioni di coloro che filosofarono tra i Greci: da essi presero il loro punto di partenza gli eretici, per elaborare le dottrine che noi esporremo tra non molto. Mi sembra opportuno esporre innanzitutto le dottrine segrete e tutto quello che certuni si inventarono con molta curiosità a proposito delle stelle o di certe grandezze: e infatti partendo da loro sembra ad alcuno che essi dicano cose straordinarie. Quindi, secondo la successione logica, noi manifesteremo le loro vane dottrine.

Il quarto libro è rivolto contro le dottrine dei Caldei e contro l’astrologia, della quale si dimostra l’insussistenza. La dottrina platonica sarebbe stata impiegata dagli astrologi a conferma di quanto essi dicono. Di conseguenza, alcuni pazzi, basandosi su queste dottrine astrologiche, da loro ritenute importanti, organizzarono la loro eresia. E vi furono anche altri, i quali si basarono sulla dottrina pitagorica e sulla dottrina dei numeri e degli stoicheia (elementi). Ippolito perciò esamina vari esempi di alchimia e di magia, attuata per mezzo di animali, oppure di magia e di divinazione. Tutti questi esempi convincono gli stolti. In conclusione (IV 43,1-4): Tutti i filosofi ed i teologi della terra discordarono tra di loro relativamente a Dio, per stabilire chi sia o di quale natura sia. Alcuni di loro hanno detto che è uno degli elementi della materia. Questo è accaduto ai sapienti del mondo, come è evidente alle persone assennate, e cioè che, vedendo la grandezza della creazione, i filosofi furono sbigottiti dall’esistenza delle cose e le considerarono troppo grandi da potere pensare che

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esse fossero state create da un altro, e nemmeno credettero che fosse dio l’universo tutto intero, ma pensarono che fornisse uno spunto adatto alla teologia anche una sola cosa tra quelle che essi vedevano. Essi quindi inventarono queste dottrine teologiche perché non riuscirono a spingere più oltre il loro intelletto. Così, i Persiani pensarono che dio fosse la luce diffusa nell’aria, gli Egiziani, convinti di essere i più antichi di tutti, dissero che dio era una monade indivisibile che genera se stessa e che da lei furono disposte tutte le cose.

Ippolito si dedica poi a illustrare la sapienza egiziana, e, poiché essa rientra nella tematica dell’astrologia, spiega anche le dottrine del poeta Arato, autore del poema I fenomeni e i prognostici. Viene ancora una volta la conclusione (IV 51,1): Ma siccome ogni eresia ha trovato, grazie all’arte dei numeri, le misure delle ebdomadi e certe emissioni degli eoni, mentre ora l’uno ora l’altro eretico torceva alla propria concezione l’arte dei numeri, semplicemente mutandone i nomi (e di questi numeri fu maestro Pitagora, il quale fu il primo a portarli in Grecia dall’Egitto), allora bisogna considerare anche Pitagora.

Da Pitagora è derivata l’eresia di Simon Mago, e, per alcuni aspetti, quella di Valentino. Successivamente bisognerà confutare i discepoli di tutti costoro (V 1,1-2): Dopo aver esposto nei primi quattro libri le dottrine dei filosofi greci e barbari a proposito dell’essere divino (theion) e della creazione del mondo, ora ci si accinge alla confutazione degli eretici, a causa dei quali sono state fatte le precedenti considerazioni.

Per fare questo Ippolito inizia rivolgendosi a polemizzare con coloro che ebbero il coraggio e la sfrontatezza di celebrare il serpente del racconto della Genesi, che fu la causa del loro errore. I primi maestri di questa assurda celebrazione del serpente furono i Naasseni, i quali venerano, tra gli altri, anche Ermete psicopompo e psicagogo, ricordato dai poeti. Per Ippolito non è difficile collegare i Naasseni alle dottrine mistiche, in quanto il testo naas-

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seno su cui egli basa la sua illustrazione della dottrina eretica attribuiva grande significato non solamente ai misteri Eleusini, ma anche ai culti di Atthis, di Iside e di Osiride. Per quello che riguarda i filosofi, Ippolito si muove su di un terreno più infido. Egli cita una sentenza del Vangelo di Tommaso e afferma che essa non è di Cristo, ma di Ippocrate (anche se non si trova negli scritti di Ippocrate). Il secondo filosofo citato è Talete, in quanto i Naasseni – una setta eretica – dicono che il serpente è la sostanza umida, ed in questo concordano con Talete. Vengono poi i Perati, la cui dottrina deriva da quella degli astrologhi, perché anch’essi dividono il mondo in tre parti: il mondo delle stelle fisse, il mondo dei pianeti, lo spazio sublunare, mentre ciascuno di quei mondi esercita un influsso su quello sottostante. Ippolito attribuisce ai Perati una tripartizione del mondo, che sembra essere una versione della divisione platonico -aristotelica in forme (che corrispondono al Bene paterno e ingenerato), materia (che è un’infinita molteplicità di potenze autogenerantesi) e origine delle cose. Anche l’eresia dei Sethiani è un composto di dottrine ricavate dai filosofi “fisici” della Grecia. I Sethiani le hanno prese da Museo, Lino e, soprattutto, Orfeo. Secondo quegli eretici, l’origine delle cose è dovuta a un vero e proprio congiungimento sessuale del dio con la materia, per cui questo è un aspetto riconducibile ai misteri dei Greci. I Sethiani credono in una triade di principi, dalla cui mescolanza derivano tutte le cose: luce, tenebra e spirito intermediario tra luce e tenebra. L’eretico Giustino cerca di condurre i suoi ascoltatori alle vane dottrine pagane, abbandonando l’insegnamento degli Evangelisti. Giustino inserisce nei suoi scritti dei racconti favolosi per favorire il suo insegnamento e si serve dei miti dei Greci. I suoi racconti favolosi derivano dalla Storia di Erodoto. Erodoto, infatti, narra che Eracle andò nella Scizia per portare via da Eritea i buoi di Gerione (IV 8-10). Ivi incontrò un essere vivente, che era fanciulla nella sua parte superiore mentre nella parte inferiore era spaventosa e simile ad una vipera. Questa generò a Ercole tre figli, Agatirso, Gelono e Scite. Ebbene, interpretando questo racconto di Erodoto, Giustino – come si è visto sopra, pp. 283-284 – sostiene che esistono tre principi dell’universo, due maschili ed uno femminile. I primi due, quelli maschili, sono veri e propri principi, mentre il terzo, quello femminile, è descritto esattamente come la fan-

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ciulla di cui parla Erodoto, nel senso che essa è l’origine delle cose. Famosissimo fu Simon Mago (I. sec. d.C.). Costui saccheggiò le dottrine di Eraclito, l’oscuro. Quell’eretico insegna che il principio cosmico è il fuoco, che ha le stesse caratteristiche di quel principio che, per Aristotele, esiste in potenza ed in atto o di quello che, per Platone, è intelligibile e sensibile. Simone nella sua opera, intitolata La Grande rivelazione, descrive la realtà alla maniera di Empedocle. Egli interpreta secondo la filosofia di Empedocle la Genesi e le parole di Mosè: «in sei giorni Dio creò il cielo e la terra e nel settimo si riposò da tutte le sue opere», ed altre affermazioni e altri dettagli del racconto genesiaco sono spiegati alla maniera dei poeti. Simon Mago interpretò allegoricamente anche il mito di Elena di Troia, da lui identificata con la Ennoia, cioè la intelligenza divina alla quale lui stesso, Simon Mago, si congiunge. Da questo mito prese le mosse Valentino, i cui eoni: Intelletto, Verità, Logos, Vita, Uomo, Chiesa, derivano dalle sei “radici” di Simone, le quali sono: Nous, Epinoia, Voce, Nome, Ragionamento, Enthymesis. Ippolito illustra anche le pratiche magiche di Simon Mago e afferma che i suoi discepoli usano filtri e si servono dell’aiuto dei demoni. Simone si era ispirato ad Eraclito nella sua interpretazione dell’episodio del roveto ardente (cf. Es. 3,14), perché sostenne che il fuoco è il principio superiore a tutti, tanto è vero che Dio ardeva nel roveto. La distinzione, asserita da Simon Mago, tra il fuoco nascosto e l’aspetto manifesto di esso deriva dalla differenza tra potenza ed atto, stabilita da Aristotele, e da quella tra intelligibile e sensibile, insegnata da Platone. Infine Simone avrebbe derivato da Empedocle la dottrina che tutte le parti del fuoco sono pensanti. L’eresia di Valentino, invece, deriva dal Timeo di Platone e da Pitagora. E infatti Platone nel Timeo mescolò certamente dottrine pitagoriche, e Timeo, il personaggio di quel dialogo, è uno straniero che giunge ad Atene, seguace del pitagorismo. Servendosi della seconda epistola platonica, che ormai abbiamo incontrato più volte, Valentino dimostrò l’esistenza di un “re dell’universo”, che è costituito dal padre, dall’abisso e dal silenzio, mentre quelli che stanno attorno al secondo principio e quelli che stanno attorno al terzo (dei quali parla il testo dell’epistola pseudoplatonica) sono degli altri eoni. Ippolito confuta poi i discepoli di Valentino, Marco il mago, i suoi incantesimi, le falsità e gli

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inganni, smascherati già da Ireneo, ed infine l’aritmologia. Tutte queste vane dottrine derivano dall’astrologia e dall’aritmologia di Pitagora. Valentino, infatti, fu anche seguace del pitagorismo. Secondo i Valentiniani, il primo principio è unico e maschio, una monade ingenerata, che genera una diade femminile e gli altri numeri. Ebbene, la dottrina della monade maschile e della diade, madre di tutte le cose, deriva da Zaratas, che era stato maestro di Pitagora. E in un modo certo strano e poco scientifico, Ippolito collega la decade pitagorica alle dieci categorie di Aristotele, che sono costituite, secondo lui, dalla sostanza e dai nove tipi di accidenti incorporei. Ippolito si riferisce anche al ruolo che i numeri hanno nell’ordinamento dell’universo, mediante considerazioni che implicano una mescolanza di elementi eraclitei ed empedoclei, analoghe a quelle con cui egli aveva caratterizzato l’eresia di Simon Mago. Poiché i numeri possono essere sottoposti a composizione e a sottrazione, così, secondo Pitagora, il mondo è tenuto insieme da un legame aritmetico e musicale, ed è sempre e ovunque conservato nella sua esistenza grazie al legare e allo sciogliere, all’aggiungere e al sottrarre. Per dare sostegno a questa descrizione del mondo, Ippolito cita come pitagorico il fr. 16 di Empedocle, che contiene la descrizione dell’amore e dell’inimicizia onnipresenti nel mondo. Alla fine della sua trattazione sui Valentiniani Ippolito introduce la dottrina della reincarnazione, richiamando l’idea tradizionale e di origine platonica, che il corpo è la tomba dell’anima. Cita quindi come espressione pitagorica queste parole (VI 26,3): Se tu sei lontano da te stesso, non tornare indietro, altrimenti le Erinni, ministre della giustizia, ti puniranno.

L’espressione “te stesso” significa il corpo, mentre le Erinni sono le passioni. Empedocle e Platone furono assertori della reincarnazione delle anime: Ippolito non accusa, è vero, i Valentiniani di credere nella reincarnazione, ma dice che almeno alcuni di loro hanno pensato che l’anima è incarcerata nel corpo ed è soggetta ai demoni, cioè alle passioni. Confutando Basilide, Ippolito afferma che questo eretico deriva da Aristotele: il suo “dio non esistente”, infatti, equivale al “pensiero del pensiero” di Aristotele. Basilide aveva anche detto che non è possibile esprimere i misteri di dio, perché l’o-

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monimia causa confusioni ed errori. Ippolito intende a modo suo la parola “omonimia” ed afferma che Basilide avrebbe promulgato come sua propria la dottrina aristotelica delle categorie, senza fornire dimostrazioni di sorta di quanto sia giustificata questa sua interpretazione. Inoltre, il dio supremo di Basilide coincide con il motore immoto di Aristotele. La cosa sembra strana, ma diventa più chiara se si pensa che, secondo Ippolito, la concezione del primo motore è talmente oscura che anch’essa può essere definita “sconosciuta”, come il dio sconosciuto di Basilide. Anche l’oscura concezione aristotelica dell’anima come entelechia sarebbe stata ripresa da quell’eretico. Inoltre, secondo Basilide la creazione del mondo implica un mucchio di semi mescolati tra di loro (panspermia), dai quali traggono origine i “semi” di tutte le cose (cf. p. 285). Questa “panspermia” indica quello che Aristotele chiama un ghenos, che si divide in infinite idee, come il genere “animale” si divide in infiniti animali. Questa interpretazione suggerisce ad Ippolito una lunga discussione sulla dottrina aristotelica delle categorie, della sostanza, della materia e della privazione. Ippolito conclude la sua critica di Aristotele, condannando la sua divisione del cosmo nel mondo della luna, nel quale non esiste provvidenza, nel mondo che si estende dalla luna alla superficie terrestre, che è governato dalla provvidenza, e nel mondo terreno, nel quale si trova una quinta sostanza. Ampia è l’esposizione delle dottrine di Marcione, ricondotte dallo scrittore a quelle di Empedocle: il diteismo di Marcione deriva, infatti, dalla dottrina empedoclea dei due principi. La philia ed il neikos sono assimilati al principio buono e a quello malvagio di Marcione, secondo un’interpretazione dualistica tipica dell’epoca di Ippolito. Sono ricondotte ad Empedocle anche la dottrina della distruzione dell’opera del demiurgo, accaduta grazie all’intervento del dio buono, e l’ordine, promulgato da Marcione, di astenersi dai rapporti sessuali. Infine, Apelle, seguace di Marcione, sarebbe stato influenzato dalle dottrine dei filosofi fisici (cioè dei cosiddetti presocratici): quell’eretico, infatti, aveva detto che Cristo non sarebbe nato da una Vergine, ma avrebbe costruito il suo corpo dalla sostanza dell’universo, cioè dal caldo e dal freddo, dall’umido e dal secco, e alla sua morte avrebbe restituito all’universo le sostanze che lo componevano.

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IL PENSIERO CRISTIANO GRECO NEL II SECOLO

Ma basta così, crediamo. Tutto questo dà l’impressione di una notevole arbitrarietà e di una serie di fantasticherie. Ippolito è, infatti, uno scrittore strano, ma la sua opera, pur nella deformazione aprioristica che la caratterizza, è assai interessante per ricostruire la dottrina degli eretici ed anche – non lo si direbbe! – per conoscere quella dei filosofi presocratici, dei quali ci ha conservato molti frammenti.

Sezione seconda

LA “SCUOLA DI ALESSANDRIA” PRIMA DI ORIGENE

Capitolo primo

Alessandria e il Cristianesimo 1. Il clima culturale di Alessandria Ad Alessandria d’Egitto fu istituita nella seconda metà del secondo secolo una scuola catechetica, cioè destinata all’istruzione dei pagani che si convertivano al cristianesimo: ce ne parla brevemente Eusebio (Storia della Chiesa V 10,1), informandoci del fatto che essa era guidata, ai tempi dell’imperatore Commodo (180-192 d.C.), da un maestro rinomato, Panteno (di lui parleremo tra breve): Un uomo celeberrimo per la sua cultura, di nome Panteno, dirigeva allora la scuola dei fedeli di quella città, dato che per antica usanza esisteva presso di loro una scuola di dottrina sacra: essa si è conservata fino a noi, e abbiamo saputo che è tenuta da uomini abili nella parola e nello studio delle cose divine.

L’affermazione di Eusebio ha sollevato dei dubbi: si è pensato che l’esistenza di una scuola, ad Alessandria, nel terzo secolo, fosse una leggenda inventata successivamente e proiettata in tempi più antichi, in quanto si pensava che ogni insegnamento dovesse avere avuto luogo all’interno di una tradizione autorizzata. A noi questi dubbi non sembrano giustificati, anche se, naturalmente la scuola di cui si sta parlando non deve essere intesa alla maniera moderna. Una scuola nel mondo antico molto spesso era più semplice che ai nostri tempi: era costituita da un maestro, proclamatosi tale, da un gruppo di ascoltatori regolari ed un’audience più ampia, di ascoltatori occasionali. Se il maestro ha un successore, quest’ultimo ottiene il posto in modo informale, forse dopo essere stato collega del maestro stesso. In questo modo, quindi, poteva essere stata la “scuola catechetica” di Alessandria: essa apparteneva alla chiesa cristiana di Alessandria, ed i catecheti, per essere riconosciuti tali, dovevano avere la sanzione dell’episcopo.

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LA “SCUOLA DI ALESSANDRIA” PRIMA DI ORIGENE

Ad Alessandria, i Cristiani dovettero affrontare i rapporti con altre comunità religiose, come quelle degli Ebrei, degli gnostici, degli adepti ai culti misterici. Nessun’altra città del Mediterraneo ospitava una comunità ebraica così numerosa quanto l’Alessandria dei primi secoli dell’età imperiale: questo significava anche la presenza di rabbini e di numerose persone colte, che conoscevano la Scrittura e la storia di Israele. I Cristiani non potevano non conoscere tutte queste persone che professavano una diversa religione. D’altra parte, non dobbiamo pensare che nel mondo greco esistesse quella radicale dicotomia tra ebraismo e grecità, come quella che si venne instaurando con il passare del tempo tra cristianesimo ed ebraismo. Greci ed Ebrei erano vissuti gli uni a fianco degli altri fin dalla fondazione di Alessandria ad opera di Alessandro Magno (332-331 a.C.), e da allora la comunità ebraica aveva sempre conservato incontestata la sua identità; segno di questa pacifica convivenza (che per gli antichi era cosa ovvia, del resto) fu il fatto che proprio ad Alessandria ebbe luogo nel corso del III secolo a.C. la traduzione in lingua greca della Scrittura ebraica (la cosiddetta “Settanta”). Successivamente Filone, tra il primo secolo a.C. e i primi decenni del primo d.C., mise la sua conoscenza approfondita della filosofia greca al servizio dell’interpretazione della Legge, come abbiamo avuto occasione di vedere. 2. Panteno Proseguendo nella sua narrazione della storia della chiesa cristiana, che abbiamo letto poco sopra, Eusebio di Cesarea ci dice che Panteno (vissuto alla fine del II secolo) «si era distinto tra i più brillanti filosofi di quel tempo, in quanto proveniente dalla scuola filosofica dei cosiddetti Stoici». Anche Origene, in una lettera citata dal medesimo Eusebio (Storia della Chiesa VI 19,3), si giustifica per avere impiegato la cultura greca per discutere con gli eretici, e si richiama, per propria giustificazione, all’esempio di Panteno, il quale aveva posseduto un’ampia preparazione nella filosofia. A conclusione del suo resoconto, Eusebio afferma che questo filosofo cristiano insegnò «commentando a viva voce e con gli scritti i tesori delle dottrine di Dio»; opere scritte di Panteno, tuttavia, non ci sono giunte né sono conosciute. Di lui non ci restano che delle testimonianze indirette e assai brevi.

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Per quello che riguarda lo stoicismo di questo scrittore, a cui accenna Eusebio, non abbiamo notizie più precise. Stando a quanto conosciamo, Panteno si occupò, invece, del problema della creazione del mondo e del rapporto che la unisce a Dio, un problema affrontato anche dagli apologeti e da Ireneo, come sopra abbiamo visto. Dio, secondo la sua concezione, se crea il mondo, non può rimanere estraneo ad esso: prima di tutto per evitare ogni forma di dualismo, che sorgerebbe se si considerassero Dio e il mondo come due entità indipendenti l’una dall’altra, ed in secondo luogo perché è inconcepibile, per Dio, una esistenza che lo escluda da alcuna cosa. La testimonianza più significativa sul pensiero di Panteno a questo riguardo ci è data da Massimo il Confessore, perché, come vedremo a suo tempo (pp.1125-1126), proprio quella tematica coinvolse anche Massimo, ancora nel settimo secolo. Così egli scrive (Ambigua – cioè “discussione dei passi di contenuto incerto” – 7, 1085AB): Allo stesso modo anche quelli della scuola di Panteno, che fu maestro del grande Clemente lo Stromateus, dicono che la Scrittura ama chiamare i logoi di Dio “voleri divini”. Per cui, interrogati da alcuni pagani che erano superbi della loro cultura, in che modo i Cristiani pensassero che Dio conosca quello che esiste, in quanto essi sostenevano che Dio conoscesse in modo intellegibile quello che è intellegibile e in modo sensibile quello che è sensibile, gli allievi di Panteno [in realtà l’espressione indica Panteno medesimo, secondo il modo, tipico della filosofia greca, di indicare il maestro e la sua scuola] risposero che Dio non conosce né in un modo né nell’altro, ché non è possibile che colui che è al di sopra di ciò che esiste possa percepire ciò che esiste secondo ciò che esiste; e quindi noi diciamo che Dio conosce le realtà esistenti in quanto esse sono le sue volontà, e quanto diciamo ha anche una sua logica. Se, infatti, Dio fece tutte le cose con la sua volontà (e nessun discorso lo contesterà), è pio e giusto dire sempre che Dio conosce la propria volontà, e se creò ogni cosa esistente perché lo voleva, allora Dio conosce ciò che esiste perché esso è la sua volontà, dato che ha fatto tutto ciò che esiste perché lo voleva. Pertanto io credo che la Scrittura, seguendo questi ragionamenti, abbia

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LA “SCUOLA DI ALESSANDRIA” PRIMA DI ORIGENE

fatto le seguenti affermazioni: a Mosè, «Io ti ho conosciuto meglio di tutti» (cf. Es. 23,17), e, a proposito di certuni (2 Tm. 2,19): «Il Signore conosce quelli che sono suoi», e ancora, ad altri (Mt 7,23): «Non vi conosco», evidentemente, a seconda di come il libero volere di ciascuno lo aveva disposto ad ascoltare la sua parola, vale a dire secondo la volontà ed il logos o contro la volontà ed il logos di Dio. (Citiamo seguendo la nostra traduzione: cf. Massimo il Confessore, Ambigua … Introduzione, traduzione, note e apparati di C. Moreschini, Bompiani, Milano 2003).

Panteno, dunque, parla di una volontà di Dio, che si esplica con la creazione e si identifica con la sua conoscenza, perché non si dà, in Dio, una molteplicità. Le cose da lui create costituiscono la manifestazione delle sue volontà. Quindi anche secondo Panteno Dio non avrebbe avuto bisogno, per la creazione del mondo, di una materia preesistente.

Capitolo secondo

Clemente di Alessandria Questo maestro della scuola di Alessandria, Clemente (vissuto tra il 150 circa e il 215/216 d.C), in un primo momento sarebbe stato scolaro di Atenagora, che insegnava ad Atene, ed avrebbe poi lasciato quella città verso il 170 per recarsi ad Alessandria d’Egitto. Anche Atenagora (secondo alcuni studiosi) vi avrebbe soggiornato: abbiamo visto, infatti, che l’apologeta conosce bene la cultura greca di Alessandria e dell’Egitto. Ad Alessandria già esisteva una scuola cristiana, ove il primo insegnante che conosciamo era stato Panteno, come si è detto. Clemente dichiara, quindi, di essere stato suo allievo (Stromati I 11,1-2): il suo maestro sarebbe stato come un’ape della Sicilia, che coglieva i fiori nei prati dei profeti e degli apostoli, producendo una scienza pura nell’anima dei suoi ascoltatori.

Ad Alessandria, comunque, Clemente insegnò e scrisse le sue opere e per questo motivo fu chiamato “Alessandrino”, nonostante che fosse originario di Atene. 1. La sapienza barbara Clemente, vivendo in una città grande e di molteplici tradizioni culturali come Alessandria d’Egitto, fu molto più sensibile degli apologeti alle numerose culture non greche, allora esistenti, e, pur definendole, alla maniera greca, “barbare”, le prende in attenta considerazione, come nessuno aveva fatto prima di lui. Egli è pronto ad aprirsi ad esse, pur mettendo in guardia i popoli barbari (ed i Cristiani, che eventualmente li seguissero: cioè i Cristiani non greci) dalla presunzione di essere loro i depositari della verità. La verità è possesso solamente del cristianesimo, che comunque è disposto ad accogliere la “conversione” dei barbari. L’interesse per le sapienze straniere era stato vivace già in epoca ellenistica. Ma uno dei risultati dell’incontro tra l’ellenismo

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e le civiltà del Mediterraneo orientale era stata la convinzione, sorta negli intellettuali di origine non greca, che essi potevano rivendicare a se stessi la maggiore antichità e la paternità della cultura. Un altro effetto era stato la scoperta, da parte dei Greci – una seconda volta, dopo i tempi di Erodoto – della storia dell’Egitto: Ecateo di Abdera (vissuto nel terzo secolo a.C.) scrisse una storia degli Egiziani, che costituì un’opera di propaganda in favore della monarchia tolemaica al suo sorgere, per poterle donare l’eredità prestigiosa dell’Egitto faraonico, facendola derivare da esso; allo stesso modo Berosso aveva scritto una storia di Babilonia e Megastene una storia dell’India per poter celebrare i Seleucidi, che erano i sovrani della Siria. Il giudaismo ellenizzato aveva saputo trarre vantaggio da questi interessi, affermando l’anteriorità di Mosè rispetto alla cultura greca: Mosè era considerato dagli Ebrei dell’età ellenistica come il primo sapiente e l’inventore delle lettere, delle leggi scritte e della filosofia. Flavio Giuseppe e Filone ripresero, nel primo secolo d.C., queste concezioni in difesa della cultura ebraica e Clemente le adattò poi alla sua dottrina della storia della salvezza e dell’apporto della filosofia greca e barbara alla rivelazione cristiana. Clemente, dunque, non poteva trascurare la storia degli Ebrei e dei barbari, che avevano preceduto il cristianesimo. Per questo motivo, egli dice, la distinzione tra Greci e Barbari deve spengersi nel “genere unico” che gli uni e gli altri sono chiamati a formare, cioè quello dei Cristiani. È vero che per Clemente, da buon greco, i “barbari”, talvolta, sono anche gli Ebrei. Ma d’altra parte egli deve ammettere che il piano di Dio attribuisce agli Ebrei il primato nella relazione tra i due popoli, quello ebraico e quello cristiano, poiché Dio donò agli Ebrei la Legge; così, a questo punto, il cristiano deve rivendicare come un titolo d’onore l’appellativo di “barbaro”, perché i barbari costituiscono, ora, un “genere unico”, che è quello della Chiesa cristiana. Ma d’altra parte, anche per Clemente, il quale segue la distinzione biblica tra le nazioni (delle quali fanno parte i Greci) e il popolo eletto, i barbari, con l'eccezione degli Ebrei, sono sullo stesso piano dei Greci, cioè stanno nell’ambito del paganesimo. In ogni caso, tutti i barbari e tutti gli Ebrei sono stati chiamati a far parte del popolo cristiano, se accettano il messaggio di Cristo. Clemente scrive, infatti, basandosi su Gen. 17,5, e Rom. 4,17, che Abramo non fu il padre solamente degli Ebrei, ma anche delle nazioni (Stromati III 2,8,6).

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Di conseguenza Clemente, nonostante il suo interesse per la grecità, è barbaro in quanto è cristiano. In base a questo presupposto egli si considera parte integrante dell’insieme degli Ebrei e dei Cristiani, allorquando, ad esempio, cita senza difficoltà dottrine ebraiche passate poi nel cristianesimo (ed in questo egli si differenzia molto dagli apologeti). In uno dei numerosi passi in cui paragona la validità della filosofia greca con quella dei barbari, egli critica il parlare greco in quanto caratterizzato dalla cura esclusiva dello stile, a danno dei contenuti (Stromati VI 17,151,2). I filosofi, pertanto, debbono mettersi alla scuola dei barbari, per fare fruttificare i doni dati da Dio ai Greci: se la filosofia è stata data dalla Provvidenza divina come propedeutica alla perfezione portata da Cristo, questo avviene a condizione che essa non si vergogni di divenire discepola della sapienza barbara per progredire nella verità (Stromati VI 17,153,1). La filosofia dei Greci, infatti, costituisce la base per la filosofia cristiana, nonostante che i suoi adepti siano sordi alla voce della verità perché disprezzano la lingua dei barbari o temono la morte inflitta dalle leggi a chi è cristiano (Stromati VI 8,67,1). Tutto questo, dunque, trasforma in titolo di gloria l’appellativo “barbaro”, nonostante il significato offensivo comunemente datogli dai Greci. Clemente lo ritorce polemicamente contro i pagani, attaccando quelli che egli chiama “sofisti” (Stromati I 3,22,1). Soprattutto, nell’apologia del cristianesimo che Clemente intende attuare, per mezzo dei suoi scritti, per i Greci colti del suo tempo, la qualità di “barbaro”, resa più valida dal fatto che essa comprendeva la sapienza degli Ebrei, è la migliore risposta all’accusa di innovare la tradizione, mossa contro il cristianesimo da Celso (p. 48). Che Clemente voglia replicare alle accuse di Celso è stato supposto da alcuni studiosi, come Lilla, Droge e Le Boulluec. Secondo costoro, Clemente riprende la valutazione positiva di Celso a proposito della sapienza barbara, ma con un particolare importante: egli insiste sul fatto che l’accesso dei Greci a questa sapienza è avvenuto recentemente (Stromati I 15,71,3; 78,2) – cioè con il sorgere della nuova religione. E, riprendendo il discorso che il sacerdote egiziano aveva fatto a Solone, secondo il famoso racconto del Timeo (22 B e 23 B), Clemente vede nella dottrina egiziana, che era antica, e che ai Greci, invece, mancava, la verità dei barbari, e nei “racconti dei bambini”, di cui parlava quel passo di Platone, la recenziorità dei discorsi dei Greci (I

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29,180,5). Lo scrittore, quindi, mette in evidenza la sapienza di quei barbari che sono diversi dagli Ebrei, e, all’elenco tradizionale dei popoli non greci (Egiziani, Persiani, Caldei), che ci è fornito da Celso, aggiunge gli abitanti della Arabia Felice e quelli della Palestina; o ancora (come Ippolito, cf. p. 301), i Druidi della Gallia, i Samanei della Battriana, i Celti che sono filosofi, gli Sciti, gli Iperborei e i Germani. La simpatia di Clemente per questi popoli si manifesta allorquando egli istituisce (Stromati IV 8,57,2 - 58,1) un parallelismo tra il martire cristiano e i migliori tra i Geti, che pure sono una popolazione barbara e disprezzata dai Greci, pronti a offrirsi come vittime sacrificali. I barbari non furono solamente gli inventori della filosofia, ma di quasi tutte le arti (Stromati I 16,74,1). Si può affermare che tutto quello che gli antichi dissero sulla natura si trova anche presso i filosofi non greci, come i Bramani e i Giudei (Stromati I 15,72,5).

In questo modo Clemente reintroduce nella lista dei popoli sapienti gli Ebrei, che Celso, invece, aveva eliminato per odio nei confronti del cristianesimo: egli, infatti, seguendo i dotti del giudaismo greco, vuole porre nei tempi delle origini la sapienza degli Ebrei. L’Alessandrino ha letto presso gli scrittori ellenistici moltissime notizie e ne ha ricavato una ricchissima documentazione a proposito della dipendenza dei Greci dai Barbari: la lingua barbara è in grado di parlare delle cose divine e delle realtà intelligibili, e raggiunge la sua perfezione nelle scritture degli Ebrei. Così non è strano che la forma di scrittura più complessa, quella dei geroglifici egiziani, serva come prova per giustificare la necessità di interpretare la Bibbia, la cui oscurità deve essere spiegata per mezzo dei simboli e delle allegorie. Clemente, seguendo il dotto egiziano Cheremone (cf. Stromati V 4,20,3-21,2), descrive tre tipi di scrittura egiziana, e questa distinzione ha un ruolo fondamentale nella difesa del “genere simbolico”, cioè dell’allegoria che deve essere applicata alla comprensione delle Scritture. Come ha mostrato Philippe Derchain, la spiegazione di Clemente si basa su quello che si conosceva normalmente ai suoi tempi, nell’Egitto dell’epoca, a proposito dei geroglifici: allora i geroglifici erano impiegati solamente in modo esoterico, ed erano riserbati alle iscrizioni sacre, nelle quali essi esprimevano le speculazioni teologiche di un ristretto numero di sapienti. Di conseguenza, l’incon-

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tro tra l’ellenismo e la filosofia barbara si compie mediante la cristianizzazione dell’ellenismo stesso. La filosofia dei Greci deve assumere un carattere ebraico ed enigmatico insieme (Stromati I 14,60,1). In conclusione gli Ebrei, ed in primo luogo Mosè, sono stati maestri dei Greci, secondo uno schema storiografico sostenuto dall’ebreo Aristobulo (Stromati I 22,150,1-3): Aristobulo, nel primo libro della sua opera dedicata a Tolomeo Filometore, re d’Egitto [terzo sec. a.C.], così scrive: “anche Platone seguì la legge di noi Ebrei, ed è chiaro quanto si sia interessato alle norme in essa contenute. E anche altri, prima di Demetrio Falereo [erudito e uomo politico di Atene, vissuto alla fine del quarto secolo a.C.], cioè anteriormente alla dominazione di Alessandro Magno e dei Persiani, tradussero dal greco all’ebraico gli avvenimenti dell’uscita degli Ebrei dall’Egitto, la rivelazione, che essi ricevettero, degli eventi futuri, la conquista della terra promessa e la spiegazione di tutte le regole della Legge. Per questo motivo è chiaro che Platone, da quel grande filosofo che era, desunse dagli Ebrei molte delle sue dottrine, come aveva fatto Pitagora, che attinse per le sue concezioni a molte delle nostre.

Questa tesi, che gli Ebrei sarebbero stati i maestri dei Greci, risale dunque all’epoca in cui la comunità ebraica di Alessandria era fiorente. Essa fu ripresa dagli apologeti cristiani, che le dettero un tono più fortemente polemico. Clemente, pur così impregnato di filosofia greca, l’ha portata a delle conseguenze ancora più radicali, parlando di “furto dei Greci” (Stromati V 1,10,1). Nemmeno Taziano, infatti, che pure era stato così ostile ai Greci da parlare di “contraffazione” delle dottrine ebraiche ad opera loro, era arrivato ad una affermazione così dura. L’imitazione delle dottrine ebraiche potrebbe essere intesa come un plagio fraudolento, tanto da essere attribuita anche all’intervento del diavolo o delle potenze inferiori, di cui si parla in Gen. 6,2 (Stromati I 16,80,5-81,5). Oppure l’imitazione potrebbe essere stata innocente, in quanto l’accordo di una dottrina ebraica con una greca sarebbe stato solo l’effetto dell’esistenza delle “nozioni naturali” o del “senso comune”, che unisce i Greci agli Ebrei – solo che gli Ebrei vissero prima (Stromati I 19,94,1-7).

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2. Il medioplatonico Numenio e Clemente Su questa base, cioè con la convinzione che la cultura greca fosse dipendente dalla sapienza ebraica, si spiega l’affermazione famosa di Numenio, che Clemente cita (Stromati I 22,150,4) e che, per la sua importanza, sarà ripetuta da Eusebio di Cesarea, vissuto nell’età di Costantino: che cos’altro è Platone, se non un Mosè che parla in attico?

Questo giudizio di Numenio, naturalmente, non deve essere interpretato, come fecero gli scrittori cristiani, nel senso che esso indicava una dipendenza di Numenio dalla sapienza ebraica, ma comunque manifesta un grande interesse, da parte di Numenio, per la figura di Mosè. Il filosofo greco applicava anche alla Bibbia l’interpretazione allegorica e, in accordo con il proprio metodo, armonizzava i passi biblici con la tradizione greca. Di conseguenza egli identifica (fr. 9) Mosè con il sapiente mitico Museo e spiega (fr. 30) il passo di Genesi 1,2 («il soffio di Dio si muoveva sulle acque») citando il frammento di Eraclito (fr. 62 DK), il quale dice che l’umidità porta alle anime gioia e non morte. Bisogna osservare che i testi ai quali Numenio fa riferimento appartengono soprattutto all’Antico Testamento, e non al cristianesimo, ma questo era normale per un pensatore pagano dei primi secoli dell’impero. Ancora, Numenio ricorda il conflitto dei due maghi egiziani Iannes e Iambres con Mosè, raccontato da Esodo 7,11. Certo, bisogna ammettere che la conoscenza che Numenio ebbe della Bibbia non appare molto approfondita (se lo fosse stata, i dotti cristiani che lo citano, lo avrebbero ricordato certamente), ma importante è, comunque, il suo atteggiamento aperto ad essa, contrastante con l’atteggiamento comune dei pagani. In ogni caso, quel filosofo proponeva un’interpretazione del severo monoteismo ebraico che poteva essere compatibile con la dottrina platonica. Parlando, dunque, del Dio degli Ebrei, Numenio affermava che egli è incorporeo, assolutamente diverso dagli altri, è padre degli altri dèi ed esige per sé un culto esclusivo (fr. 56). Il tema della gelosia di Dio, il quale non ammette che gli si renda un culto di cui partecipano anche altri, è, in effetti, tipico dell’Antico Testamento, e Numenio ricorda che non è “comunicabile” ad altri il nome di “Dio”, che Dio stesso possiede. Molto probabilmente, inoltre, Numenio conobbe l’autodesignazione di Dio come di «colui che è» (designazione normale pres-

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so gli scrittori cristiani, invece di quella «io sono colui che sono»), derivata da Esodo 3,14. In quel passo biblico Numenio poteva trovare una conferma alla identificazione, esistente presso alcuni medioplatonici, di dio con l’essere (fr. 13): Come esiste un rapporto tra il coltivatore e il piantatore, così il medesimo rapporto è quello tra il primo dio e il demiurgo. «Colui che è» semina il seme di ogni anima nella totalità degli esseri che partecipano di lui; il legislatore, invece, pianta, distribuisce, trapianta in ciascuno di noi i semi che sono stati seminati inizialmente dal primo dio.

L’immagine di Dio agricoltore ha, in effetti, dei paralleli anche nella Bibbia: queste parole potevano essere giunte al filosofo o da una lettura diretta della Bibbia o, eventualmente, attraverso Filone di Alessandria. Ed anche il termine di “legislatore” ha un parallelo biblico: è Dio stesso il legislatore degli Ebrei. 3. Clemente e la filosofia greca Nonostante l’impiego costante e approfondito della filosofia greca, Clemente non afferma mai, comunque, che essa abbia avuto un’origine divina, ma ne denuncia costantemente le imperfezioni e gli errori: la filosofia serve solo come propedeutica, pur essendo stata donata agli uomini dal disegno di Dio. Se la filosofia greca può essere messa sullo stesso piano dell’“alleanza” ricevuta dagli Ebrei, questo, comunque, vale a condizione che i Greci non rimangano sordi al messaggio cristiano. I Greci hanno avuto il privilegio di averla ricevuta, questa sapienza, ma è necessario che essi abbandonino la loro condizione di “ladri”, e si volgano ad una conversione che li condurrà ad una conoscenza completa. Questo è affermato in Stromati I 5,28,1: Prima che venisse il Signore Gesù Cristo la filosofia era necessaria ai Greci per compiere la giustizia; dopo, invece, la filosofia divenne utile per giungere alla vera religione: la filosofia, quindi, può essere considerata come propedeutica, se vogliamo procurarci la fede [...]: l’importante è che si sia convinti che il bene ha Dio come suo artefice, sia che lo si trovi tra i Greci sia che sia stato insegnato dai Cristiani. Ma Dio è causa di

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tutte le cose buone, di alcune causa personale, ad esempio dell’Antico e del Nuovo Testamento, di altre, come la filosofia, attraverso degli intermediari. La filosofia ha una funzione propedeutica, perché apre la strada a colui che sarà reso perfetto da Cristo. Per certo, una sola è la strada della verità, quella cristiana, ma in essa, come in un fiume perenne, sboccano molti torrenti, provenienti da varie parti.

Clemente riprende la concezione di Filone, che abbiamo incontrato sopra (pp. 128 ss.), quando afferma (I 5,31,1): Se dice [Pr. 5,20]: «Non avere frequenti rapporti con la donna straniera», la Scrittura vuole consigliarci di usare la cultura di questo mondo, ma non di soffermarcisi a lungo: infatti tutto quello che Dio ha donato a ciascun popolo gli fu dato per il suo bene e serve a preparare la parola del Signore.

Ed un altro passo significativo è il seguente (Stromati I 7,37,1): Dunque, la dottrine propedeutiche dei Greci, compresa la filosofia stessa, furono donate agli uomini da Dio: ma Dio non vuole che gli uomini le considerino come la cosa più importante. Dio le donò nel modo in cui cadono le piogge: esse inondano la terra fertile, il letame, le case: le piogge producono ugualmente erba e grano, e persino fra le pietre delle tombe sorgono fichi selvatici o altre piante ancora più resistenti. Ebbene, tutte le piante selvatiche crescono come le piante fruttifere, poiché tutte sono state nutrite dalla pioggia, anche se non sono così buone come quelle nate in un terreno fertile e coltivato; esse, quindi, sono strappate dalla terra e fatte seccare. Lo dimostra la parabola del seminatore [cf. Mt. 13,8]: uno solo è il coltivatore del terreno, l’uomo (cioè Dio), il quale dal principio della creazione del mondo semina i semi commestibili, e vi fa cader sopra, ad ogni occasione, la pioggia della sua parola, che è straordinariamente efficace, mentre le differenze dei frutti sono causate dalle differenti circostanze e dai luoghi in cui quei semi furono gettati. Inoltre, il coltivatore non semina solo grano, e il grano non è tutto della stessa qualità, ma semina anche altri

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semi: orzo, fava, piselli, ceci, semi di ortaggi, di fiori e altri ancora.

4. La filosofia greca e la sua funzione Stabilito quanto si è detto sopra, che la filosofia ha una funzione propedeutica alla religione, Clemente, definito da Alain Le Boulluec «il più greco di tutti gli scrittori cristiani», è il primo a rivolgersi in modo organico e coerente alla filosofia greca allo scopo di dare per suo mezzo una dimostrazione razionale della verità della religione cristiana. La sua costruzione filosofica e religiosa deriva, quindi, soprattutto dalla tradizione filosofica alessandrina, rappresentata dal giudeocristianesimo e da Filone, alla quale egli aggiunge l’apporto delle filosofie greche dei suoi tempi. Clemente fece quello che aveva fatto Giustino prima di lui, ma supera Giustino per abbondanza di informazione e approfondimento filosofico. Egli si rivolge al pubblico colto di Alessandria, invitando i Cristiani ad approfondire la loro fede, in modo da essere all’altezza di una conversazione con i pagani, ma, anche, all’occorrenza, di una loro contestazione. La difficoltà di interpretare il suo pensiero consiste, di conseguenza, in questo: fino a che punto il suo impiego della filosofia greca (e quindi pagana), per quanto destinato a scopi sinceramente apologetici, si adatta alla parola rivelata? E fino a che punto esso rappresenta, invece, una innovazione e una rottura, per quanto non voluta? Va tenuto presente, inoltre, che anche Clemente, come gli apologeti, pur essendo disposto ad aprirsi alle varie filosofie pagane, esclude da esse l’epicureismo (in questo concordando con il platonismo a lui contemporaneo) e mostra un interesse limitato per l’aristotelismo e per lo stoicismo, del quale riprende quasi esclusivamente dottrine afferenti all’etica. Le filosofie che meglio gli forniscono gli strumenti per organizzare il suo sistema sono il medioplatonismo e il neopitagorismo. Questa scelta effettuata da Clemente tra le varie correnti filosofiche greche diventerà poi costante in tutto il pensiero cristiano tardoantico, salvo alcune eccezioni. Clemente distingue quattro parti della “filosofia mosaica”: quella storica e quella legislatrice, che appartengono all’etica, quella liturgica, che rientra nell’ambito della fisica, e quella teolo-

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gica, che rappresenta “la vera dialettica”, la quale, secondo Platone, porta alla contemplazione dei misteri più alti, cioè a quello dell’essere; questa scienza è quella chiamata “metafisica” da Aristotele (cf. Stromati I 28,176,1-39). Tale distinzione, e la considerazione che tali scienze forniscono un’ascesa ai misteri, è tipica della filosofia medioplatonica contemporanea: la si legge anche in Plutarco (Questioni conviviali VIII 2,1,718D) e nel matematico e medioplatonico Teone di Smirne (II secolo), per il quale il terzo grado della iniziazione filosofica costituisce la conoscenza della verità (Esposizione delle matematiche, p. 15,16-18): la trattazione di questa materia è compito di un tipo di osservazione di livello superiore e più profondo. Tale considerazione è chiamata “epoptica”, ed è molto più nobile della fisica e perciò non sembra per nulla adatta a noi che stiamo ora trattando della natura fisica delle cose.

Ma è soprattutto il trattato su Iside e Osiride di Plutarco quello che meglio esprime il rapporto stretto che intercorre tra la pratica filosofica e la pratica religiosa: il sapiente prega per ottenere la conoscenza della verità, per quanto è possibile ad un uomo; egli è felice grazie alla sua sapienza e alla sua ragione (1, 351CD). La ricerca della verità a proposito di dio rappresenta un compito che è più santo di ogni altra pratica morale e religiosa (2, 351E). Secondo Plutarco la filosofia offre il criterio razionale che permette di cogliere la verità, la quale è nascosta sotto i simboli religiosi. 5. Fede e gnosi Nella città di Alessandria dei tempi di Clemente non era facile, per un cristiano, respingere aprioristicamente ogni forma di conoscenza intellettuale in favore della semplice fede né accettare quella condanna della filosofia che Paolo aveva espresso nella sua Epistola ai Colossesi – condanna che, comunque, come abbiamo già osservato (pp. 127-128), non aveva, nelle intenzioni dell’apostolo, un significato assoluto, ma valeva solo in riferimento a quella comunità cristiana e per quel momento. D’altra parte, agli inizi del terzo secolo, il cristianesimo non era più solamente una religione per le masse, di cui i pagani (e ancor più i pagani colti) avrebbero potuto facilmente disinteressarsi: esso era oggetto di

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critiche anche sul piano intellettuale e filosofico, come l’esempio di Celso aveva mostrato. Ed anche gli gnostici criticavano quella che, a loro parere, era la “fede semplice” dei Cristiani della Grande Chiesa, che essi consideravano estranei alla vera gnosi. Una serie di obiezioni, queste, che in parte erano giustificate dal comportamento degli stessi Cristiani, spesso poco propensi ad affrontare i costi e le fatiche per procurarsi l’istruzione necessaria ad una retta comprensione delle Scritture, le quali non sempre si lasciano interpretare secondo il significato superficiale ed immediato. Era quindi necessario, secondo Clemente, sviluppare la fede semplice per giungere ad una forma più alta di conoscenza, cioè alla gnosi. Un passo di una sua opera (Qual è il ricco che si salva? 5,2-4) è significativo a tal proposito: E poiché sappiamo bene che il Signore ammaestra il suo popolo non in un modo puramente umano, ma insegna ogni cosa con una sapienza mistica e divina, noi non dobbiamo intendere alla lettera le sue parole, ma con la necessaria indagine ed intelligenza dobbiamo ricercare dei suoi significati nascosti ed impadronircene. [...] E quando i detti del Salvatore, che si ritiene che siano stati adeguatamente spiegati da lui al più ristretto circolo dei suoi discepoli, proprio a coloro che erano stati chiamati «figli del regno» (Matt. 13,38), ancora richiedono una riflessione ulteriore, certamente quei detti che sembravano essere stati pronunciati in una forma semplice [...] non debbono essere presi così come colpiscono l’orecchio disattento, ma con il tentativo della mente di raggiungere l’intimo spirito del Salvatore e il suo intendimento segreto.

Queste parole rispondono alle critiche degli gnostici e dei pagani: infatti, una volta che la fede si è evoluta fino a comprendere la gnosi, il contrasto viene a cadere. Così facendo, Clemente, come ha osservato Raoul Mortley, compì un passo di grandissima importanza culturale e religiosa, aprendo anche alla cultura e alla filosofia greca la strada della fede cristiana. Restava, naturalmente, da stabilire il sentiero lungo il quale ci si potesse avventurare senza cadere in pericolosi cedimenti verso la cultura pagana, e a questo proposito gli studiosi osservano che più di una volta

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Clemente sembra ragionare più da filosofo greco che da cristiano. La fede, è vero, salva e conduce alla vita eterna. Nel suo grado più semplice essa è propria del principiante, che non è ancora pronto per l’alimentazione solida, come dice Paolo (cf. 1 Cor. 3, 2); successivamente, affinata e irrobustita mediante la stessa paideia greca – ma soprattutto mediante l’adeguato approfondimento dello studio della Scrittura – essa non rimane estranea allo gnostico, ma costituisce il profondo del suo essere. Allo gnostico che pensava in modo contrario all’insegnamento “ortodosso” – cioè a quello della cosiddetta “Grande Chiesa” – Clemente contrappone quindi “il vero gnostico”. Di conseguenza, la conoscenza di Dio e la vera gnosi sono date dal Logos, cioè da quel Dio che è la Parola che insegna agli uomini; il Logos – Cristo sul piano pratico insegna il retto comportamento, ed è quindi “pedagogo” degli uomini, mentre sul piano dottrinale è colui che rivela Dio il Padre. Così è descritta la funzione della gnosi (Stromati VI 11,93,1-2): Alcuni ci contestano e ci domandano a che serva conoscere le cause del movimento del sole e delle altre stelle, esaminare i teoremi della geometria, studiare la dialettica e tutte le altre scienze, poiché nessuna di queste ti dice quali siano i doveri, e costoro sostengono che la filosofia greca non è altro che una scienza umana, perché non è insegnata dalla Verità. A tale gente bisogna rispondere innanzitutto che essi si sbagliano su delle questioni di fondamentale importanza, vale a dire sulla libera scelta del nostro intelletto. […] Infatti è logico credere che lo gnostico sarà il solo a fare santamente tutto quello che deve fare, perché è stato istruito dagli insegnamenti del Signore, anche se li ha ricevuti dagli uomini.

Uno dei due pesci di cui parla l’evangelista (cf. Gv. 6,1-15) rappresenta la cultura enciclopedica, l’altro la filosofia che porta verso l’alto (Stromati VI 11,94,5). E ancora (Stromati VI 15, 123,1-2): Se, dunque, secondo Platone non è possibile acquisire una approfondita conoscenza della verità se non la riceviamo da dio o dai figli di dio (cf. Timeo 40 DE), a giusto titolo noi possiamo essere orgogliosi di scegliere

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le testimonianze contenute nelle parole divine, innanzitutto nella forma delle profezie, poi nella forma di spiegazioni dei problemi, per ricevere infine dal Figlio di Dio l’insegnamento completo della verità. E comunque, quello che serve a scoprire la verità ha pur sempre un suo valore. Così la filosofia ci rivela l’esistenza di una provvidenza e la ricompensa di una vita felice e la punizione di una vita infelice: in questo caso, essa parla di Dio in modo generale, ma non possiede ancora l’esattezza. Infatti essa non procura lo sviluppo intellettuale e morale che forniamo noi cristiani né a proposito del Figlio di Dio né a proposito del piano salvifico voluto dalla Provvidenza, perché la filosofia non ha conosciuto il culto di Dio. Per questo motivo le sette della filosofia barbara, pur affermando l’unicità di Dio e celebrando il suo Cristo, parlano in un modo generico e non conducono alla verità. Esse infatti inventano un altro Dio e concepiscono il Cristo in una maniera diversa da quella delle profezie.

6. La preparazione della gnosi La gnosi è preparata dalle discipline che costituiscono la enkyklios paideia, cioè la “cultura globale”. Tali discipline sono le medesime che saranno distinte, in età medievale, nel cosiddetto “trivio” e nel cosiddetto “quadrivio”. Clemente riprende dal paganesimo le definizioni delle singole discipline profane e le interpreta in senso cristiano. Vari passi degli Stromati ci spiegano il pensiero dell’autore a questo riguardo (Stromati VI 10,82,1 e 83,1-2): Lo gnostico non sarà per nulla inferiore a coloro che si dedicano alle scienze della paideia e alla filosofia greca: egli le studierà, ma, comunque, non come sua attività principale, bensì secondo quello che esige la necessità, in modo secondario e discontinuo. Lo gnostico, infatti, si servirà per ottenere il bene di quello che gli uomini impiegano male, dando origine alle eresie. Se la verità che si trova nella filosofia greca è solamente parziale, la verità vera è come un sole che mette in luce i colori, il bianco e il nero, e mostra le qualità proprie di ciascuna cosa: allo stesso modo la verità vera smaschera tutti i

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discorsi esteriori dei sofisti. Giustamente, quindi, un grande poeta greco disse (Pindaro, fr. 205 Snell): «Principio di una grande virtù, tu sei, o verità sovrana».

Così, ad esempio, è giudicata l’aritmetica (Stromati VI 10): 84,1. Come per l’astronomia noi abbiamo Abramo come esempio, così lo abbiamo anche per la matematica. Infatti, poiché ebbe appreso che Lot era stato fatto prigioniero, egli raccolse i membri della sua casa, che erano in numero di 318, partì all’attacco e catturò un grandissimo numero di nemici. Ora, per la sua forma, la lettera che rappresenta il 300, è, a quanto si dice, la figura del segno del Signore, mentre lo iota e l’eta significano “salvatore”, cioè Gesù. In questo modo si indica che i compagni di Abramo debbono essere collegati con la salvezza, perché, essendosi posti sotto la protezione del segno e del nome, divennero signori di quelli che facevano dei prigionieri e di quelli che li seguivano, cioè i numerosissimi pagani che erano estranei alla fede. Infatti il numero 300 è una triade di 100 e il numero 10 è riconosciuto come un numero assolutamente perfetto. Il numero 8 è il primo cubo, cioè l’uguaglianza in tutte le dimensioni: lunghezza, larghezza e profondità. 86,1. Per quello che riguarda la geometria, prendiamo a testimoni la costruzione della tenda e la fabbricazione dell’arca. Esse sono state eseguite secondo dei rapporti assolutamente razionali, ad opera della ispirazione divina, grazie a un dono di intelligenza che ci ha fatto passare dalle realtà sensibili a quelle intelligibili, e anche da queste alle realtà sante e a quelle più sante di tutte. 88,1. Proseguiamo, e citiamo David per quanto riguarda la musica, dato che David salmodiò contemporaneamente alla profezia, lodando Dio per mezzo di inni melodiosi. Il genere enarmonico si adatta assolutamente all’armonia dorica e il genere diatonico all’armonia frigia, stando a quello che dice Aristosseno. L’armonia del salterio barbaro, che si distingue per la nobiltà della melodia molto antica, procurò un ottimo esempio a Terpandro, allorché egli cantò i suoi Inni a Zeus secondo il modo dorico: «Zeus, inizio di tutte le

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cose, guida di tutte le cose, / Zeus, a te invio questo inizio di inni». Il salmista possiede senza dubbio una cetra, la quale, secondo una nostra precedente allegoria, designa il Signore, e, secondo un’altra spiegazione, designa quelli che colpiscono da vicino le anime, sotto l’azione del Signore, che è guida delle Muse. [...] Grazie a una ispirazione del Logos e a una perfetta conoscenza di Dio, esso rende gloria mediante la musica, perché è toccato dal Logos ed è guidato verso la fede (trad. nostra).

Le varie scienze sono così descritte (Stromati VI 9 e 10): 78,1. Sulla base di un discorso generale, colui che è immutabile non può trovare né fissità né stabilità in colui che è mutevole. D’altra parte, nel mutamento continuo, allorquando per questo motivo la parte direttrice dell’anima diviene instabile, la potenza che conserva una condizione non dura. 2. Infatti quello che sempre si muta a causa degli attacchi e degli assalti che vengono dall’esterno, come potrebbe trovarsi nella condizione e nella disposizione e, insomma, nel possesso della scienza? Tanto è vero che anche i filosofi dicono che le virtù sono delle condizioni dell’animo e delle disposizioni di esso e delle scienze. 78,5. Lo gnostico non si accontenta di conoscere la causa prima e quella che è stata creata da essa […] ma, anche a proposito del bene e del male, della creazione nel suo complesso e, per dirla con una parola sola, delle parole del Signore egli possiede la verità più esatta che ci sia da quando è stato creato il mondo e che dura fino alla fine, perché l’ha appresa dal colui che è la Verità. 80,5. Come i bambini davanti alla maschera della strega, così la gente ha paura della filosofia greca, perché teme che essa la inganni. 81,1. Se la fede che è in loro (non oso parlare di gnosi) è a un livello tale da essere distrutta da dei discorsi speciosi, allora sia pure distrutta, e che essi ammettano per questo motivo che non avranno mai la verità! Infatti la verità è invincibile, si dice, mentre una opinione errata può essere distrutta (trad. nostra).

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Ed ecco la fisica (Stromati IV 1,3,1 e IV 25,155,2-156): 3,1. Passeremo ora a discutere la fisica veramente gnostica, dopo essere stati iniziati ai misteri, andando da quelli meno importanti a quelli più elevati. Così non vi sarà più nessun ostacolo alla reale rivelazione dei misteri divini, perché si sarà precedentemente chiarito e spiegato quello che deve essere preliminarmente spiegato e trasmesso. Comunque sia, la fisica di tradizione gnostica, conforme alla regola della verità, o piuttosto la contemplazione del creato si basa sulla discussione della cosmogonia, sollevandosi da essa al genere teologico. Per questo motivo ben a ragione cominceremo a spiegare la tradizione cristiana dalla Genesi scritta dal profeta, citando in dettaglio le affermazioni degli eretici e sforzandoci, per quanto ci è possibile, di confutarle. 155,2. Con ragione, quindi, Platone dice che colui che si dedica alla contemplazione delle idee vivrà come un dio tra gli uomini; ora, l’intelletto (nous) è il luogo delle idee (chora ideon), e Dio è intelletto. Platone ha detto, dunque, che colui che contempla il Dio invisibile vive come un dio tra gli uomini. E nel Sofista Socrate ha definito “dio” lo straniero di Elea perché era abile a discutere […] Allorquando, infatti, un’anima si sia elevata un poco al di sopra della creazione, è sola con se stessa e conversa con le idee, allora è simile al “corifeo” di cui parla il Teeteto, divenuta da quel momento come un angelo; e sarà con Cristo nella contemplazione, tutta rivolta alla volontà di Dio (trad. nostra).

7. Conoscere Dio La filosofia dell’età imperiale (soprattutto quella platonica e pitagorica) è caratterizzata dall’insistenza sull’apofatismo di dio, cioè sulla impossibilità di spiegare quale sia la sua natura. È un atteggiamento di ricerca del trascendente che spesso sconfina con l’intellettualismo e che ha attratto l’attenzione anche del pensiero cristiano, ma non in modo incondizionato; talora, anzi, suscitando delle cautele di fronte ad esso. Parlare di un “dio sconosciuto” era, per certi versi, un’assurdità per un cristiano, perché il suo Dio

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era ben noto, e, per di più, si era rivelato. Su questa tematica si è scritto moltissimo; per necessità e per brevità accenniamo solo a qualche punto saliente. Una lettura, anche cursoria, delle opere dei medio- e neoplatonici, degli scritti ermetici e dei testi gnostici mostra una grande abbondanza di termini con l’alpha privativo (cioè con valore negativo), impiegati a proposito della divinità. Dio è detto invisibile, innominabile, incomprensibile e così via. L’abbondanza di questi aggettivi negativi manifesta una tendenza ad un tipo di sensibilità religiosa che è propria della cultura greca tardoantica, e mostra la convinzione che la divinità sia nascosta, difficile da cogliere, lontana dall’esperienza umana. D’altra parte, non si deve pensare che la via negativa sia un semplice mezzo per combattere l’antropomorfismo delle religioni pagane. A questo riguardo deve essere sottolineata l’importanza dello studio di A.-J. Festugière, il quale ricondusse alla tradizione puramente greca (e non orientale, come si riteneva fino ad allora, intendendo, certo, quel termine in modo confuso e nebuloso), e segnatamente platonica, l’impiego della cosiddetta “via negativa”. Ci riferiamo al classico studio su La Révélation d’Hermès Trismegiste, ed in particolare al quarto volume di quest’opera, pubblicato a Parigi nel 1954. Dopo Festugière, naturalmente, gli studi sull’argomento sono stati numerosi. La diffusione dei concetti negativi nella filosofia dell’età imperiale fu il risultato dello sviluppo della concezione di Platone, Repubblica 509 B (il bene è «al di là dell’essere»). Il fatto che questi aggettivi negativi fossero usati frequentemente in ambito platonico, e quindi anche nel platonismo cristiano, è una prova di un nuovo trascendentalismo nelle convinzioni religiose, della reverenza di fronte al divino e dell’aspirazione a dio, che regnavano nell’ambiente culturale nel quale si sviluppò il cristianesimo. Tuttavia questa tendenza negativa, che si trova anche nei testi cristiani, non deve essere tout court identificata con la “via negativa”, che è uno dei metodi per conoscere dio, dei quali parleremo subito. La teologia negativa di Proclo e Damascio, per esempio, consiste in una serie di sottili manovre logiche che portano il linguaggio a concludere negando se stesso. Nei loro testi un posto preponderante spetta alla logica della negazione. Di fronte a queste operazioni dei neoplatonici le prime espressioni di negatività appaiono come una teologia “protonegativa”,

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in quanto esse non fanno altro che preparare quanto avverrà poi nel tardo neoplatonismo (così R. Mortley, From Word to Silence II. The way of negation, Christian and Greek, Hanstein, Bonn 1986, pp. 17 ss.; sulla via protonegativa si è detto anche a pp. 282-283, a proposito degli gnostici). Il medioplatonico Alkinoos (Didascalico 10) ci offre alcuni esempi del metodo della “privazione”: ogni proposizione relativa a dio è formata dalla negazione di un predicato che è proprio del mondo visibile; ma spesso è negato anche il contrario di tale predicato. Ad esempio, egli afferma che dio non è né la parte di qualche cosa né un tutto che possiede le parti. Così dio è escluso dal piano del visibile. Ciononostante, per Alkinoos certi predicati sono ammissibili, nonostante che dio sia ineffabile: ad esempio, si può dire che dio è bontà, proporzione, verità, padre etc. Questi due aspetti, positivo e negativo, della nostra conoscenza di dio secondo i platonici, manifestano, a parere di Mortley, il paradosso che è nel cuore del platonismo, quello della relazione tra il divenire e l’essere: si tratta di opposti che vengono riuniti. I platonici si attengono sia alla continuità esistente tra dio e il mondo sensibile sia alla differenza tra questi due piani dell’esistenza. Tuttavia, oltre alla “via negativa”, per i platonici del secondo secolo esistevano altre tre “vie” che conducono alla conoscenza di dio: quelle mediante la sintesi, l’analisi e l’analogia. L’analogia consiste nel paragonare dio, considerato nella sua relazione con il mondo intelligibile, con il sole, il quale è in rapporto con il mondo visibile, come Platone aveva detto in un passo famoso della Repubblica (509 A ss.). La via dell’analisi è spiegata dal medioplatonico Alkinoos e, dopo di lui, da Clemente di Alessandria, i quali usano soprattutto il termine “astrazione”. L’analisi, o astrazione, consiste nell’analizzare ogni cosa nelle sue parti costituenti, cercando di arrivare sempre più in alto nella scala dei principi, fino a raggiungere quelli sempre più astratti, ed infine uno, che si identifica con dio. La terza via, quella della sintesi, è stata definita anch’essa da Alkinoos (p. 165,24 ss.): noi cominciamo a considerare la bellezza degli oggetti, quindi procediamo a considerare quella dell’anima, e poi qualunque tipo di bellezza, finché possiamo concepire quello che è bello al grado supremo, l’oggetto primo del desiderio: questo percorso fu descritto per la prima volta da Platone nel Simposio (208 E). Tutte queste vie, comun-

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que, rimangono inadeguate, se non si giunge a quell’improvviso lampo di luce, che illumina la mente, di cui Platone stesso aveva parlato in un altro passo che ebbe grandissima diffusione nel platonismo della età imperiale, nella Settima Epistola (341 A ss.). La “via negativa”, infine, come abbiamo già visto, può essere definita come la graduale rimozione degli attributi concreti di una cosa, fino a che venga rivelato il carattere essenziale e trascendente di essa; è il processo mediante il quale il pensiero si purifica delle immagini delle realtà materiali. Questo non è mai considerato come un metodo vero e proprio da Platone. Gli artefici o i precursori di questo metodo devono essere considerati Aristotele e il successore di Platone a capo dell’Accademia, Speusippo. Ora, la via negativa non è indicata sempre con un solo termine. Tre termini la designano: la privazione (steresis), l’astrazione (aphairesis), che abbiamo visto poco fa, e la negazione vera e propria (apophasis). I primi due intendono eliminare tutti gli attributi, mentre l’ultimo è il termine specifico della negazione. Tuttavia, come ha osservato Whittaker, sia Alkinoos sia Plotino usano il termine aphairesis (cioè “astrazione”) nel significato aristotelico di apophasis, o “negazione”; in ultima analisi, il termine aphairesis, cioè “astrazione”, fu considerato come un equivalente di apophasis, anche se non dal medioplatonismo. La negazione in questo caso è intesa come una tecnica di astrazione, che attribuisce l’importanza maggiore alla rimozione degli attributi di un oggetto (ed eventualmente anche di dio) mediante un procedimento del pensiero. Essa decompone quello che è molteplice e composto allo scopo di trovare in esso l’unità che vi soggiace. Secondo Mortley, anche se ci sono alcune chiare differenze tra astrazione e negazione, esse scompaiono se vengono esaminate più attentamente. Il prefisso apo-, presente in apophasis, ci dà il sapore di una negazione in greco, perché significa “togliere”, “eliminare”. Tenendo presente questo, è facile vedere che privazione ed astrazione possono confondersi, dal momento che entrambi i termini implicano il togliere gli elementi materiali da un concetto. Togliere un attributo deve essere considerato come una specie di negazione. Lo stesso Aristotele in Metafisica 1022b 33 mette insieme privazione e negazione. Tale processo ha a che fare anche con i procedimenti della geometria. Questo è evidente soprattutto in Proclo. Festugière aveva osservato, infatti, che la fonte di Alkinoos era quasi sicuramente

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un commento di Euclide. Festugière e anche Wolfson sottolineano l’aspetto matematico della via negativa, anche se Mortley ritiene che non si debba esagerare in tal senso. In ogni caso, l’idea di astrazione era comune sia alla filosofia medioplatonica sia alla geometria, almeno fin dai tempi di Aristotele. Whittaker afferma che lo studioso di geometria intende la realtà come il risultato di un suo continuo accrescimento, per cui il mondo materiale ha origine da una realtà priva di sostanza, ma poi ad essa si aggiungono delle qualità inizialmente non presenti in essa. Il mondo materiale che noi conosciamo sarebbe costituito da una serie di strati successivi, che si sono accumulati progressivamente fino a che si è costituita la pienezza della realtà materiale. Il punto costituisce l’inizio, perché esso non ha parti, e quello che segue è il raccogliersi delle parti fino a formare la massa, il volume e le caratteristiche visibili. Sia Platone sia i Pitagorici sostengono che la realtà è costituita da una serie di aggiunte ad un punto iniziale, sia che si tratti di un punto sia che si tratti dell’unità. A questa convinzione si adegua anche la visione geometrica di Euclide. Il metodo di astrazione è una ovvia risposta a questa concezione: se la realtà è costituita da una raccolta di aggiunte, ne consegue che esse debbono essere eliminate, se vogliamo scoprire il sostrato al quale si sono aggiunte. Euclide lo fa nelle sue definizioni, ma questo metodo è frequentemente usato dal tardo Platone e da Aristotele. Whittaker ha individuato questo processo del passaggio dal punto al solido in Filone, Plutarco, Sesto Empirico, Nicomaco di Gerasa, Teone di Smirne e Giamblico. È probabile che il revival del pitagorismo abbia influito sulla diffusione di questo metodo. Questo fu sottolineato già da Dodds (cf. Proclus, The elements of Theology, ed. by E.R. Dodds, Oxford 19612, p. 312). Secondo Whittaker, il neopitagorismo fu all’avanguardia nel rifiutarsi di attribuire al primo principio ogni qualità positiva, anche quella dell’unità, per cui il punto equivale alla monade nello spazio. Tuttavia questo metodo può essere riscontrato già nel Parmenide di Platone e la semplice affermazione che si debbano togliere al concetto dell’uno gli attributi geometrici (dimensione, quantità, altezza etc.) non può essere di per sé una prova dell’influenza del neopitagorismo. L’uso di questa immagine per illustrare i principi della teologia negativa era stato già da tempo assorbito da altre parti della filosofia, come testimonia la sua esistenza in Alkinoos. È l’insi-

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stenza sui numeri quello che testimonia l’influsso del Neopitagorismo. Celso usa il termine di analysis nella sua trattazione delle tre strade che portano alla conoscenza di dio: noi otteniamo la conoscenza della non nominabilità del Primo mediante una sintesi, che è una combinazione di entità, oppure mediante la analysis, che è una separazione di esse, o infine mediante l’analogia. L’analysis è l’equivalente dell’astrazione (aphairesis) e ne costituisce una alternativa, che si trova in Clemente. Origene sembra essere d’accordo con Celso a questo riguardo, anche se Festugière pensa che Origene si sia sbagliato, perché il metodo di Celso sembra incompatibile con quanto Origene dice su di esso; in realtà è probabile che Origene avesse ragione, data la sua conoscenza del medioplatonismo. Egli si era accorto che la filosofia si era appropriata di queste tecniche, prendendole dai metodi della geometria e facendo di essi degli strumenti epistemologici. Tra i medioplatonici, solo Alkinoos e Celso si riferiscono esplicitamente al metodo negativo; tra i Cristiani, Clemente di Alessandria. I numerosi attributi negativi che si trovano in Apuleio e in Numenio sono affermazioni della trascendenza di dio, usuali nel secondo e terzo secolo: essi tendono a negare concetti famigliari allo scopo di definire la divinità suprema, ma hanno poco a che fare con il processo di astrazione, come quello di Alkinoos. 8. La teologia negativa di Clemente Come si è già visto, dunque, l’ideale della conoscenza di Dio non era tipico solamente del cristianesimo, ma era fortemente sentito e raccomandato dal medioplatonismo contemporaneo. Anche secondo Clemente l’ascesa alla contemplazione ha luogo mediante l’analysis, cioè la “separazione”. Il significato del termine è spiegato con riferimento alla geometria: il metodo dell’“analisi” comincia con l’esaminare i dati sensibili e poi sale verso le prime verità e i primi principi. Per Clemente, tuttavia, l’analisi giunge non al Padre Dio, ma alla seconda monade (cioè al Logos, come vedremo poi) (Stromati VIII 3,8; 6,18). Attraverso le varie tappe dell’astrazione, partendo dalle realtà corporee si arriva all’essere puro. La fine del processo di astrazione è costituita dal raggiungere la monade intelligibile: ma anche questa monade,

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come vedremo, costituisce un grado intermedio, perché essa si identifica con il Logos. Il processo di astrazione può proseguire per giungere alla negazione assoluta, che è l’impossibilità di conoscere il Padre. Clemente associa il metodo negativo alla purificazione rituale, che è comune alle pratiche religiose dei Greci e dei barbari (Stromati V 11,71,2 ss.): Il rito di purificazione delle religioni misteriche corrisponde, per noi, alla confessione e quello della visione iniziatica all’“analisi”, avanzando verso il primo Intelletto e sottoponendo all’analisi le realtà che stanno sotto di esso. Noi astraiamo dai corpi le loro proprietà fisiche, togliendo da essi la dimensione della profondità, quindi quella della larghezza ed infine quella della lunghezza. Ultimo rimane il punto, che è l’unità, la quale possiede, per così dire, una sua “posizione”. Se noi, quindi, togliamo anche la posizione, giungiamo a pensare l’unità stessa. Pertanto, se facciamo astrazione da tutte le cose corporee ed anche da quelle incorporee, noi possiamo slanciarci verso la grandezza di Cristo, e da lì muoverci verso l’immensità della sua santità. Riusciamo, quindi, ad ottenere in qualche modo un’idea dell’onnipotente, conoscendo non quello che egli è, ma quello che non è.

Ed ancora: Non si dovrebbe affatto pensare alla forma né al movimento, né alla posizione né al trono di Dio né al posto né alla destra né alla sinistra del Padre dell’universo, anche se queste cose sono state effettivamente scritte […]. No, la causa prima non è nel luogo, ma al di là del luogo, del tempo, del nome e dell’apprendimento. Per questo motivo anche Mosè dice (Es. 33, 13): «mostrati a me», indicando, così, molto chiaramente il fatto che Dio non può essere appreso dagli uomini né essere espresso da discorsi, ma può essere conosciuto solamente attraverso le sue potenze. Ché l’oggetto della nostra ricerca, che è Dio, è senza forma e invisibile, ma la grazia della gnosi proviene da Dio attraverso il Figlio.

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Si noti il riferimento alla funzione della geometria, che riappare anche in Stromati VI 11,90,4: questa disciplina, quando viene appresa, cioè la geometria, rende l’anima particolarmente attenta nell’intendere e capace di percepire quello che è vero e di confutare quello che è falso; inoltre la rende capace di trovare accordi e proporzioni, cosicché può ricercare le somiglianze là dove ci sono le differenze; conduce alla scoperta delle lunghezze prive di ampiezza, del punto senza le parti, e ci trasporta dalle realtà sensibili alle realtà intelligibili.

Il ragionamento di Clemente risale in ultima analisi a Platone, Repubblica 527 B: La geometria infatti è scienza di ciò che sempre è, e non di ciò che in un certo momento si genera e in un altro momento perisce [...] essa, nei confronti dell’anima, è forza trainante verso la verità, è stimolo per il pensiero filosofico ad elevare ciò che ora in maniera sconveniente manteniamo terra terra. (trad. di R. Radice, Bompiani)

I testi che abbiamo citato sono importantissimi e preparano lo sviluppo della teologia negativa neoplatonica. Nonostante la presenza della parola analysis, invece che di aphairesis (“eliminazione”), è stato riconosciuto da tempo che questa, proposta da Clemente, è la via negationis, professata dai testi medioplatonici contemporanei. Del resto, Dio è anche al di là delle virtù, perché non ha bisogno di esse: infatti non ha bisogno di niente (Stromati II 18,81,1): Dio non ha bisogno di niente, non ha passioni, per cui, se vogliamo essere precisi, non ha nemmeno la virtù della continenza.

Come abbiamo visto sopra, del resto, Clemente raccomanda lo studio dell’astronomia, conformemente alla sua convinzione che le “arti enciclopediche” servono come preparazione alla conoscenza di Dio. Tra di esse, in modo particolare l’astronomia serve ad esercitare l’anima in varie attività, includendo il metodo della via negativa; essa ci insegna a concepire la lunghezza senza la lar-

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ghezza, la superficie senza la profondità ed il punto senza le parti. Clemente è, quindi, il pensatore cristiano che meglio ha rappresentato il metodo dell’astrazione concepito dal medioplatonismo contemporaneo: di conseguenza, è colui che più di ogni altro – più ancora dei medioplatonici – ha preparato il neoplatonismo. Origene, come vedremo a suo tempo, sarà molto più riservato a questo proposito. 9. Trascendenza di Dio La trascendenza di Dio è una dottrina che Clemente riprende in modo compiuto e organico, oltrepassando i primi tentativi degli apologeti. Essa era divenuta un caposaldo della filosofia platonica e neopitagorica della prima età imperiale. Festugière ha dedicato a questo tema un’ampia ed esauriente trattazione, in margine al suo studio sull’ermetismo (cf. A.-J. Festugière, La Révélation d’Hermès Trismégiste, IV, Paris 1954, pp. 79 ss.): nonostante che sia un po’ datato, quel lavoro può essere sempre impiegato con profitto. Ma è lecito rifarsi anche a Filone di Alessandria, oltre che al medioplatonismo. Ecco alcune affermazioni di Clemente a proposito della suprema trascendenza di Dio. Dio è al di là dell’intelletto umano (Stromati II 2,6,2: «Dio non è in un luogo [...] ma al di sopra di ogni luogo e tempo e peculiarità delle cose create: perciò non si trova mai in nessun luogo, né perché contenga né perché sia contenuto») e non può essere oggetto di dimostrazione razionale né di scienza (IV 25,156,1); è al di sopra di ogni pensiero (V 10,65,2). Fondamentale è il passo seguente, esempio di teologia negativa (Stromati V 12,81,5-82,4): Non può essere definito in nessun modo Colui che non è né genere né alterità né specie né individuo né numero, e nemmeno accidente né soggetto al quale qualcosa possa capitare come accidente. E nemmeno sarebbe esatto definirlo “il tutto”, perché il tutto rientra nell’ambito della grandezza, mentre Dio è il padre dell’universo. E nemmeno si possono immaginare, in lui, delle parti, poiché l’Uno è indivisibile; per questo motivo è anche infinito, non nel senso che sia impossibile percorrerlo da un estremo all’altro, ma perché in lui non vi sono estensioni né dimensioni, e pertanto è

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senza figura e innominabile. E se mai vogliamo designarlo, e lo designiamo, impropriamente, come l’Uno o il Bene o l’Intelletto o l’Essere in sé o Padre o Dio o Creatore o Signore, non diciamo [queste definizioni] nel senso che proferiamo il suo nome, ma, in mancanza di meglio, ci rivolgiamo a lui con questi nomi, perché il pensiero possa basarsi su di essi senza sbagliare con il ricorrere ad altri: nessun termine può significare Dio, ma tutti i suoi nomi nel loro complesso indicano la potenza dell’Onnipotente. Infatti le cose di cui si parla sono designabili in base alle qualità loro inerenti o alla relazione reciproca; ma niente di ciò può essere ipotizzato a proposito di Dio. E nemmeno Dio può essere raggiunto servendosi della scienza della dimostrazione, perché tale scienza si basa su premesse anteriori e più note, mentre nulla esiste prima dell’Ingenerato. Non ci rimane altro che pensare, ma solo per dono di Dio e del Logos che procede da Dio, colui che è inconoscibile.

Questa importantissima pagina richiama le parole di Alkinoos, Didascalico 10 e numerose affermazioni di Filone. E si osservi anche qui che Clemente sta parlando del Padre, che definisce alla maniera del “primo dio” dei medio- e neoplatonici, mentre attribuisce al Figlio-Logos il compito di far conoscere il Padre. 10. L’essere di Dio Tra i medioplatonici, Plutarco aveva considerato il primo dio non trascendente all’essere, ma identificabile con l’essere assoluto e l’intelletto (La E di Delfi 391F-392A; 393A-B; Iside e Osiride 371A); Celso, invece, aveva collocato il suo dio al di sopra dell’intelletto e dell’essere (Origene, Contro Celso VII 45). E Numenio, secondo alcuni per influsso della cultura ebraica, definisce dio come «colui che è» (fr. 16-17 des Places), mentre un passo di un ignoto scritto ermetico, risalente al II-III secolo d.C. e citato da Lattanzio (Divine Istituzioni I 6,4), si riferisce a dio quando afferma che «colui che è è privo di nomi», perché i nomi lo definiscono, e quindi lo limitano. Questa oscillazione tra la concezione che Dio sia l’essere in senso assoluto o sia al di sopra dell’essere, si incontra in tutti i platonici cristiani. Da un lato, il passo famoso di Es. 3,14, secondo il

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testo della Settanta, è normalmente interpretato dagli scrittori cristiani con: «Io sono colui che è». Li aveva preceduti Filone di Alessandria: Io sono Colui che è fa comprendere che le realtà a Lui inferiori non sono, dal punto di vista ontologico, veri e propri esseri, bensì sono considerate sussistenti solo in virtù dell’opinione corrente (Il malvagio tende a sopraffare il buono 160, trad. di C. Mazzarelli, ed. Rusconi).

Quell’affermazione biblica, prosegue Filone, equivale a: «la mia natura è di essere, non di essere nominato adeguatamente», e ne I sogni sono mandati da Dio (I 231) afferma che l’uomo, se non è in grado di conoscere le qualità di Dio, almeno può conoscerne l’esistenza: Filone introduce così la distinzione, divenuta costante nei secoli successivi, tra esistenza, soggetta alla conoscenza razionale, ed essenza, che trascende ogni cosa, anche l’essere, e quindi è inconoscibile. Nello stesso modo Clemente (Stromati V 34,4) spiega il tetragramma sacro degli Ebrei: esso è simboleggiato dalle quattro colonne che si trovano all’entrata del Santo dei Santi. Il nome di Dio «si pronuncia Iahvè, che s’interpreta “Colui che è e colui che sarà”» (la frase di Clemente riprende, molto probabilmente con l’aggiunta di Apc 1,4.8, la semplice espressione «colui che è»). Il quinto libro degli Stromati si sofferma in modo particolare su questo problema. Abbiamo visto nel passo (V 12,81,4-82,3) sopra citato che Clemente spiega quanto sia difficile parlare di Dio. Pochi capitoli prima Clemente aveva fatto riferimento (V 78,1) al famoso passo del Timeo (28 C), che si trova frequentemente anche nell’apologetica: lo cita anche nel Protrettico (68,1): «conoscere Dio è difficile, e manifestarlo agli uomini è addirittura impossibile». In Stromati (VII 2,2-3) Clemente, parlando della trascendenza di Dio, si riferisce a Platone, definendo Dio “la causa che sta al di là”, un’espressione che richiama il famoso passo della Repubblica 509 B. Altrove (Pedagogo I 8,71,1), sintetizzando il problema della trascendenza e dell’unicità di Dio, similmente afferma: Dio è uno e al di là dell’uno e al di sopra della monade stessa. Così il pronome “tu”, nel suo significato dimostrativo, designa il solo Dio che esiste realmente: colui che è stato, colui che è e colui che sarà [una evidente

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allusione alla Apocalisse di Giovanni, cf. 1,4]; per i tre tempi è impiegato un solo termine: «colui che è».

Questa affermazione di trascendenza richiama passi analoghi di Filone di Alessandria (cf. I premi e le pene 40). Essi non solamente mostrano che Clemente è debitore nei confronti della filosofia greca, ma anche che scrive in un ambiente in cui la filosofia era apprezzata. Ma Clemente è in grado non solamente di usare il linguaggio filosofico del suo tempo, bensì anche di connetterlo al vocabolario della Bibbia. Egli trova infatti conferma alla sua affermazione dell’impossibilità di conoscere Dio non solamente in Platone, ma anche nell’episodio biblico (Es. 19-20) dell’ascesa di Mosè sulla montagna (V 12,78,2): Platone aveva appreso le sue dottrine dal sapientissimo Mosè, il quale era salito in cima alla montagna (cioè alle sommità delle realtà intellettuali mediante la santa contemplazione) e aveva ordinato che nessuno del popolo salisse insieme a lui.

In questo modo Platone aveva semplicemente ripetuto (per non dire che aveva “rubato”) il messaggio di Mosè, modificandolo con le proprie parole. È, questo, un tema comune all’apologetica, presente in tutta l’opera di Clemente. La conclusione è che quando dice che Mosè entrò nella tenebra in cui si trovava Dio, la Scrittura manifesta a coloro che sono in grado di comprenderla che Dio è invisibile e inesprimibile, e che veramente è tenebra l’incredulità e l’ignoranza della gente comune.

Questa mescolanza di linguaggio filosofico e di linguaggio derivato dalla narrazione biblica è tipico non solamente di Clemente, ma lo era già stato anche di Filone. Clemente dipende sicuramente da Filone sia per la scelta del testo biblico da citare a testimonianza della propria interpretazione sia per l’interpretazione stessa. In vari passi lo scrittore ebreo spiega la storia di Mosè come un esempio della contemplazione di Dio e dell’iniziazione ai suoi misteri; allo stesso modo, anche Clemente interpreta alla maniera di Filone l’episodio di Mosè, che si era trovato immerso

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nella tenebra durante l’ascesa alla montagna di Dio. Secondo Filone, quella tenebra indicava il Dio invisibile: Subito, dunque, entrerà nell’oscurità in cui era Dio (Es. 20,21), cioè negli oscuri e impenetrabili pensieri riguardanti l’Essere. La Causa, infatti, non è nell’oscurità, né, in generale, in un luogo, ma al di sopra sia dello spazio sia del tempo (La posterità di Caino 14, trad. di C. Mazzarelli, Rusconi). Così, Mosè solo lì comincia a venerare Dio, e, entrato nella tenebra, la regione invisibile, vi abita mentre viene iniziato ai più sacri misteri (I giganti 54, trad. di C. Mazzarelli, Rusconi). Mosè, dunque, l’uomo che esplorò la natura immateriale (ed era veggente – dicono infatti gli oracoli divini che egli penetrò nelle tenebre, alludendo con esse all’essenza invisibile e incorporea [...] (Il mutamento dei nomi 7, trad. di C. Kraus Reggiani, Rusconi).

Mentre Clemente non aveva bisogno di Filone per citare Platone (questa conoscenza gli proveniva dal suo bagaglio culturale), aveva però bisogno di Filone per individuare il passo biblico che doveva servirgli a illustrare il concetto platonico. Egli ricorre anche al Parmenide di Platone (137 C; 142 A) per esporre la sua teologia negativa, affermando (Stromati V 11,71,5) che la causa prima non si trova nel luogo, ma al di là del luogo, del tempo e della comprensione. Clemente prosegue citando Esodo 33,13, un passo in cui Mosè prega Dio di mostrarsi a lui, ed interpreta questo passo nel senso che Dio non può essere appreso dai molti (dal popolo degli Ebrei, nell’episodio biblico) né espresso da discorsi, ma può essere conosciuto solamente dalle sue potenze. E aggiunge che questo avviene perché colui che è oggetto della ricerca è senza forma e invisibile, mentre la grazia della gnosi proviene da lui attraverso il Figlio.

Anche in questo caso era stato Filone che aveva ispirato a Clemente l’interpretazione di Esodo 33,13, ed in Stromati II 2,5,46,4 Clemente discute il problema se Dio sia lontano o vicino agli uomini citando alla lettera frasi di Filone (La posterità di Caino 5-

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18). Filone aveva illustrato il suo ragionamento mediante vari passi biblici, come Esodo 20,21; 33,13 e Genesi 22,4, concludendo che è impossibile congetturare quale sia la natura di Dio e che nessun essere creato è in grado di raggiungerla con le proprie forze. Clemente quindi riprende il passo di Filone, modificandolo nel senso che egli afferma che è il Figlio, Logos di Dio, colui che manifesta il Padre. In Stromati V 10,65,2 Clemente cita con parole di elogio Platone per mostrare che il Dio dell’universo è al di sopra di ogni parola, di ogni concezione, di ogni pensiero, non può essere trasmesso con lo scritto ed è ineffabile a causa della sua potenza.

Il motivo per cui Dio non ha nomi è spiegato in un capitolo successivo (V 13,83,1): «tutto quello che cade sotto un nome ha avuto un’origine». Pertanto, anche se esistono dei nomi che designano Dio, non dobbiamo credere che Dio li possieda effettivamente, ma che essi gli sono stati attribuiti dalla debolezza del pensiero umano, il quale ha bisogno di un nome per designare una cosa. Per questo motivo non si deve credere agli antropomorfismi di Dio, che si leggono nella Scrittura. Anche Filone aveva affrontato questo problema e aveva asserito che gli uomini non sono in grado di formulare un retto pensiero a proposito di Dio: essi immaginano le cose divine solamente secondo la propria natura (I sacramenti 94-96). Filone, comunque, ammette l’impiego dei nomi di Dio, perché ritiene che essi costituiscano una pratica di cui non si può fare a meno; Clemente, invece, è molto più rigoroso e sostiene che essi e le immagini che sono introdotte dai nomi debbono essere interpretati mediante l’allegoria. Nella questione dei nomi di Dio, quindi, Clemente segue l’apologetica del secondo secolo. Giustino aveva ammesso il loro impiego sostenendo che a Dio può essere attribuito quasi ogni nome. Più tardi, invece, Origene attribuisce un significato quasi magico ai nomi di Dio, quando li considera come degli strumenti che servono al lettore per giungere a lui (Contro Celso VI 65): per questo motivo, secondo Origene, non è indifferente usare questo o quel nome (Dio, Zeus o Osiride), come invece aveva sostenuto il medioplatonico pagano, perché in tal caso si cadrebbe nell’idolatria.

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11. La Trinità Clemente non ha sviluppato compiutamente una teologia trinitaria, poiché, come era ancora naturale ai suoi tempi, non rivolse molta attenzione alla natura, alla posizione gerarchica ed al ruolo dello Spirito Santo. Inoltre, la distinzione tra il Padre quale Monade assoluta ed il Figlio quale Monade composita istituisce una certa forma di subordinazione della seconda Persona alla prima, cosa che era assolutamente normale fino ai tempi del Concilio di Nicea del 325. Clemente – come già Giustino (cf. p. 266) – ritiene che la Trinità cristiana sia stata preannunciata dal passo famoso della seconda lettera di Platone (312 E), che abbiamo più volte incontrato, nel quale si parla dei “tre re”. Dopo aver citato il testo platonico Clemente spiega che è logica e conseguente l’interpretazione che il terzo re è lo Spirito Santo e il secondo è il Figlio, «dal quale ogni cosa è stata fatta» [Gv 1,3], secondo la volontà del Padre.

12. Il Padre Secondo Clemente, l’unità è disgiunta dall’essere, perché l’uno è anche la causa dell’essere stesso. Lo stadio estremo della trascendenza è costituito dal Padre, il quale è l’uno assoluto, senza parti che lo costituiscano, è al di là dell’essere e del parlare. La grandezza di Cristo corrisponde ad una forma minore di unità: ne consegue che il Padre è l’unità assoluta, mentre il Figlio è un’unità costituita da un complesso di parti. J. Whittaker ha fatto notare che Clemente parte dall’interpretazione di una delle prime due ipotesi del Parmenide platonico, che fu propria della scuola neopitagorica di Moderato e poi sarà ripresentata da Plotino. Questo è manifestato chiaramente da Stromati IV 25,156,1-2: Dio, poiché non è oggetto di dimostrazione, non può nemmeno essere oggetto di scienza; il Figlio, al contrario, è sapienza, scienza e verità e tutto quello che è implicito in esse, e quindi può essere oggetto di dimostrazione e di descrizione. Tutte le potenze dello Spirito, ridotte nell’unità di uno solo, giungono al loro completamen-

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to quando sono in lui; tuttavia il Figlio non può essere delimitato in modo preciso [...]. Perciò il Figlio non è né semplicemente l’“uno” in quanto tale, né è molteplice come se avesse molte parti, ma è uno in quanto è l’“uno-tutto”; ne consegue che è tutti gli esseri.

Con questa sua interpretazione di Dio, proveniente, più che dal platonismo, dal neopitagorismo, Clemente preannuncia dunque la posizione di Plotino. Un passo del Protrettico (9, 88,2-3) così suona: Divenuti buoni, cerchiamo di raggiungere in modo analogo l’unità, cercando la buona monade. L’unione dei molti nell’uno, che proviene dalla polifonia o dalla frammentazione, diviene un’unica sinfonia assumendo un’armonia divina. Noi seguiamo un solo corifeo e maestro, il Logos, andando verso la medesima unità, e rimanendovi all’interno gridiamo «Abbà, Padre».

Impiegando la formula che Dio è al di là dell’uno stesso e al di sopra dell’unità (Pedagogo I 8,71,1), Clemente ha voluto sottolineare la grandezza di Dio, rendendolo ancora più trascendente di quanto non aveva fatto Alkinoos, per il quale – come per i medioplatonici in generale – dio è conoscibile con l’intelletto. 13. Il “Logos” di Dio La dottrina del Logos di Dio, identificabile con il Figlio, comune già da un secolo prima di Clemente, appare in quest’ultimo con una ricchezza di approfondimenti particolarmente significativa. In Stromati V 1,6,3 Clemente, usando il linguaggio della filosofia greca e non degli apologeti, contesta coloro che rifiutano a Cristo la sua identità e lo riducono ad una aggiunta al Padre, intendendo il titolo di “Logos” come una espressione verbale propria dell’uomo: Colui che ci dette la partecipazione all’essere e alla vita ci dette anche la partecipazione al logos, volendo che noi vivessimo in modo razionale e in modo onesto. Ché il Logos del Padre non è questo logos proferito, di cui noi ci serviamo, ma è per certo la Sapienza e Bontà di

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Dio, cioè una Potenza veramente onnipotente e divina, che non è incomprensibile nemmeno a coloro che non credono, perché essa è la volontà dell’Onnipotente.

Come osserva Salvatore Lilla, Clemente porta ad una più compiuta formulazione la speculazione sul Logos di Dio, che si era già incontrata nella produzione cristiana del II secolo (Giustino, Taziano, Teofilo di Antiochia). Nel contesto di questa rielaborazione lo scrittore Alessandrino si riallaccia alla filosofia del giudaismo greco, in particolare di Filone. La concezione medioplatonica delle idee come pensieri di Dio aveva portato facilmente ad una formulazione del Logos, quale entità nella quale si riassumono tutte le idee, come realtà metafisica all’interno di Dio e Dio esso stesso. Poteva essere così adeguatamente interpretato in senso filosofico il prologo del Vangelo di Giovanni, ove veniva detto che in principio era il Logos ed il Logos era presso Dio ed il Logos era Dio, parole nelle quali, come ben si sa, non è affatto presente la dottrina del Logos dei secoli successivi, ma il logos di cui si parla è la Parola di Dio, che si fece carne, come poi viene detto nel prologo, e venne in mezzo agli uomini. Con Clemente lo sviluppo della teologia del Logos è portato a termine. In un primo momento all’interno di Dio, egli dice, si trova il suo Intelletto (nous), perché «l’intelletto è il luogo delle idee e l’Intelletto è Dio» (Stromati IV 25,155,2), è «il luogo delle idee, del quale aveva parlato Platone» (Stromati V 11,73,3). Con questa affermazione l’Alessandrino riprende quanto aveva detto Filone, che Dio è «il luogo incorporeo delle idee incorporee» (I cherubini 49). E ne La creazione del mondo di Filone si legge: [24] A voler usare termini più semplici e scoperti, si potrebbe dire che il mondo intelligibile altro non è se non il Logos divino già impegnato nell’atto della creazione. Infatti la città concepita nel pensiero altro non è se non il calcolato ragionamento dell’architetto quando ormai sta progettando di fondare la città che ha in mente. [25] Questa è dottrina di Mosè, non mia. Certo è che nel seguito, descrivendo la creazione dell’uomo, Mosè dichiara esplicitamente che egli fu appunto foggiato a immagine di Dio (Gen. 1,27). Ora, se la parte è immagine di un’immagine e se la forma intera – questo nostro mondo sensibile tutto intero, posto che è maggiore dell’immagine umana – è riproduzione dell’im-

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magine di Dio, ne risulta chiaro che anche il sigillo archetipo, che noi diciamo essere il mondo intelligibile, non può che identificarsi con il Logos divino.

A questa citazione possiamo aggiungere i seguenti passi del medesimo scrittore, del quale non si sottolineerà mai abbastanza, quindi, l’importanza che ebbe per la scuola di Alessandria: il Logos è la bella varietà costituita da innumerevoli idee (Il sacrificio di Abele e di Caino 83); mediante queste potenze di Dio fu introdotto il mondo incorporeo e intellegibile, l’archetipo di questo mondo visibile, costituito dalle idee invisibili (La confusione delle lingue 172); il Logos di Dio, con cui Dio stesso riempì tutto intero l’universo mediante le sue potenze incorporee (I sogni I 62).

Di conseguenza le idee di cui parla la filosofia platonica sono (come interpretava, appunto, il medioplatonismo contemporaneo a Clemente) il pensiero di Dio (Stromati V 3,16,3): l’idea è il pensiero di Dio o, come dicono i barbari [il termine è impiegato qui con ironia, perché indica i Cristiani, la cui sapienza era considerata barbara dai Greci. Vedi quanto abbiamo considerato sopra, p. 316], il Logos di Dio.

Anche in questo l’Alessandrino segue il suo predecessore Filone (La creazione del mondo 18): Poi, dopo aver fissato nella propria anima, come su un modello di cera, la delineazione di ogni singola parte, porta impressa in sé l’immagine della città creata dal suo pensiero. In seguito, grazie alla memoria innata in lui, egli rievoca le immagini e, mentre ne accentua ancora di più i caratteri, alla maniera di un valente artigiano, comincia a costruire la città fatta di pietre e di legname, con l’occhio della mente fisso al modello, adeguando le realtà materiali a ciascuna delle idee incorporee.

Nel suo primo stadio, dunque, il Logos si identifica con l’Intelletto di Dio, e con le idee che sono i suoi pensieri e sono imma-

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nenti in lui. Successivamente «il Logos procede fuori di Dio come causa della creazione» (Stromati V 3,16,5). Riassumendo, nel Logos sono presenti le idee, le quali sono i modelli di tutte le cose esistenti nel mondo: è quindi logico pensare che il Logos debba essere considerato il creatore del mondo, «il principio di tutte le cose, il quale riceve la sua raffigurazione dal Dio invisibile, principio primo e anteriore ai secoli; esso ha dato dopo di sé la forma a tutte le cose che sono venute all’esistenza» (Stromati V 6,38,7). Esso è l’entità unica, generata ab aeterno, grazie alla quale «tutte le cose sono state fatte e senza di lui niente fu fatto» (Gv. 1,3) (Stromati VI 7,58,1). Clemente, dunque, è, insieme con Giustino, uno dei principali rappresentanti di quella “teologia del Logos” di cui si è parlato. Ma Logos è parola, oltre che razionalità, ed il Figlio è Parola di Dio, oltre che Pensiero di Dio. La funzione della Parola che è Dio è quella di farci conoscere Dio il Padre. Anche se il Padre non ha nomi, gli uomini possono, comunque, raggiungere una conoscenza di lui attraverso il Logos, che è “l’energia e la potenza intellettuale di Dio” (Stromati V 2,5,3-5): Perfettissima e santissima e assolutamente dominatrice e assolutamente sovrana e reale e benefica al massimo grado è la natura del Figlio, il quale è strettissimamente connesso all’Uno onnipotente. Questi è l’autorità più elevata, la quale dà ordine a tutte le cose secondo il volere del Padre e regge meravigliosamente il timone dell’universo, eseguendo tutte le cose con inesauribile e instancabile potere, guardando, quando opera, i pensieri nascosti del Padre. Il Figlio, infatti non si stacca mai dalla sua vedetta, e non è diviso né è separato dal Padre né si muove da un luogo all’altro, ma è sempre ovunque e non è mai contenuto da niente; è tutto l’intelletto, tutta la luce del Padre, tutto l’occhio, che vede ogni cosa; egli ascolta ogni cosa, conosce ogni cosa ed investiga le potenze con la sua potenza.

Questo passo è una sottile e profonda rielaborazione del pensiero platonico. L’immagine del “tenere il timone” dell’universo deriva da Eraclito, il quale aveva detto (fr. 64): «Il fulmine tiene il

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timone di tutte le cose». Il concetto che il potere del Logos è inesauribile e indefesso riappare anche in Plotino V 5,12: Tutta la realtà prova una irresistibile attrazione per Lui, per una forma di necessità naturale, quasi presagisse che senza di lui non potrebbe sussistere (trad. R. Radice, Mondadori).

Anche l’immagine della vedetta era stata impiegata da Platone. Nel Protrettico (68,3) Clemente si riferisce apertamente ad essa, sostenendo che i filosofi greci, ed in particolar modo Platone, talvolta raggiunsero la verità. Pertanto loro malgrado, i filosofi riconoscono che Dio è uno, che è indistruttibile e ingenerato, che da qualche parte, negli spazi al di fuori del cielo, egli esiste eternamente nella sua personale vedetta.

Platone (Politico 272 E) impiega entrambe le immagini, affermando che le anime, dopo aver compiuto le loro rotazioni cadono sulla terra e che allora il pilota dell’universo, come abbandonando la barra del timone, si ritirò nel proprio posto di osservazione, e furono di nuovo il destino ed insieme una tensione innata a far volgere indietro l’universo (trad. C. Mazzarelli, Rusconi).

Ma il Logos non si limita a far conoscere Dio; egli ha un continuo rapporto, di ammaestramento e di salvezza, con i credenti (Stromati VII 7,4-8,2): Questa fu la Sapienza di cui si compiacque il Dio onnipotente, ché il Figlio è la potenza di Dio, in quanto è il Logos del Padre senza origine, esistente prima di qualunque cosa che giungesse all’essere; giustamente egli è stato chiamato Sapienza e Maestro di quelli che sono stati educati da lui. Non abbandonerà mai la cura del suo popolo perché desideri qualche altra cosa; quando egli assunse la carne, che era per sua natura suscettibile di pathos, egli sottopose ad ascesi la sua carne perché giungesse alla condizione di impassibilità. Ora, come potrebbe essere Salvatore e Signore, se non fosse il sal-

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vatore e il signore di tutte le cose? Ma il Figlio è il salvatore di coloro che credono, perché essi vogliono avere la gnosi, ed è signore di coloro che non credono, fino a quando essi saranno in grado di confessare la vera fede e di ottenere così i giusti benefici, che hanno meritato e che giungono a loro attraverso di lui. Ogni attività del Signore ha un collegamento con l’Onnipotente, ed il Figlio è, per così dire, la potenza (dynamis) del Padre. Il Salvatore non potrebbe mai odiare gli uomini; a causa del suo incessante amore per loro egli non disdegnò la carne mortale che è suscettibile di pathos, ma si rivestì di essa e venne per la salvezza di tutti gli uomini.

Il Figlio, in questo passo, è descritto come la potenza di Dio. Anche in Stromati IV 25,156,1 Clemente sostiene che il Figlio potrebbe essere considerato come il centro che raccoglie le molteplici potenze di Dio: partendo dal presupposto che Dio non è soggetto a dimostrazione, ma il Figlio lo è, Clemente afferma che tutte le potenze dello spirito, riunite, diventano una cosa sola e concorrono all’unità e all’identità, cioè al Figlio.

Il Logos, quindi, è mediatore tra Dio e il mondo creato. Questo rapporto tra Dio e il Logos, invece, è delineato in termini più filosofici in Stromati IV 25,162,5: Dio, che è senza principio, è il principio perfetto dell’universo ed il creatore del principio. Poiché esiste, è il principio della realtà fisica; poiché è buono, è principio della morale; poiché è l’intelletto (nous), è il principio della scienza della ragione e del discernimento. Perciò il Logos è anche il solo maestro, Figlio dell’Intelletto del Padre, l’educatore degli uomini.

Il Logos è, quindi, l’educatore degli uomini, il vero Pedagogo. Di conseguenza l’impostazione platonica della dottrina di Clemente sul Logos cede il passo ad una concezione biblica. 14. Il “Logos”-Sapienza di Dio L’identificazione del Logos con la Sapienza divina è una dottrina che Clemente ripropone in conseguenza della lunga tradizione dei libri sapienziali dell’Antico Testamento. Infatti già in Eccle-

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siastico 1,4 si legge che «prima di tutte le cose è stata creata la Sapienza» e in Proverbi 8,22 la Sapienza divina dice di se stessa che «il Signore mi creò come principio delle sue strade in funzione delle sue opere». Ancora, secondo la Sapienza di Salomone, la Sapienza assiste Dio nella creazione (Sap. 9,9): «E insieme con te è la Sapienza, la quale conosce le tue opere ed era presente allorquando tu creasti il mondo». Successivamente questo era stato ripetuto da Filone (Allegorie delle Leggi I 65) e da Giustino. Di conseguenza anche Clemente afferma che il Figlio, in quanto è Sapienza, «era stato consigliere del Padre prima della creazione del mondo» (Stromati VII 2,7,4); la Sapienza era stata «la prima creazione di Dio» (Stromati V 14,89,4), così come aveva detto anche Filone (I sogni sono mandati da Dio I 215: «il Figlio suo primogenito, il Logos divino»). Nella sua somma sapienza il Logos è anche il governatore del mondo e la legge dell’universo: questa funzione della Sapienza è considerata, quindi, come una prova della concezione, già di origine stoica, della perfezione e della razionalità dell’universo. Gli Stoici e i medioplatonici avevano parlato anche di “potenza” che pervade l’universo (così Plutarco, Questioni Platoniche 1001B; Iside e Osiride 373D; La creazione dell’anima secondo il Timeo 1026C). Tale convinzione, che Dio pervade l’universo intero, è presente già negli apologeti e sarà una costante della cultura cristiana antica. 15. La fisica. La dottrina del mondo Torniamo a quanto avevamo detto a proposito della gnosi secondo Clemente (p. 324). Prima di conoscere Dio il vero gnostico deve conoscere il mondo, vale a dire, deve rendersi conto di quanto aveva insegnato la Scrittura a tal proposito. Anche in questo ambito di problemi Clemente segue il testo biblico secondo l’esegesi già presentata da Filone ne La creazione del mondo e nel primo libro delle Allegorie delle Leggi, che sopra abbiamo visto. Pertanto prima della realtà materiale, che noi percepiamo in tutte le sue varie forme, esiste una realtà immateriale: il cielo, la terra e la luce di cui parla la Genesi non sono queste realtà visibili e materiali che noi percepiamo, bensì i loro modelli intelligibili (Stromati V 14,93,4-94,1):

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La filosofia barbara parla di un mondo intelligibile e di un mondo sensibile: l’uno è l’archetipo, l’altro è l’immagine di quel mondo esemplare [...] Orbene, non ti pare che Platone derivi da questa dottrina, allorquando pone nel mondo intelligibile le idee delle realtà esistenti e fa derivare le varie specie degli esseri sensibili dal modello, costituito dai generi intelligibili?

Il mondo sensibile, quindi, non è altro che un’immagine del mondo intelligibile, il quale ne è il modello. Anche questo è detto ripetutamente da Filone (cf. La creazione del mondo 16. 36. 129 ed inoltre, Chi sia l’erede delle cose divine 280), ma deriva dalla dottrina platonica del Timeo, e ha un parallelo nel medioplatonismo (cf. Plutarco, Iside e Osiride 373A; La creazione dell’anima secondo il Timeo di Platone 1013C; Alkinoos, Didascalico 11, p. 167, 511; Apuleio, Platone e la sua dottrina I 6,192-8,199). Anche Clemente, come gli apologeti del secondo secolo, suppose l’esistenza di una materia preesistente al mondo. Osserva il Lilla che questa dottrina sarebbe stata affermata da Clemente nelle sue Hypotyposeis (“abbozzi” di dottrine), ora perdute, ed in ogni caso non è contraddetta da quello che si legge negli Stromati. In V 14,89,5-6 si dice che la materia è uno dei principi: anche il medioplatonismo contemporaneo aveva sostenuto che la materia, insieme con dio e le idee, costituisce la triade dei principi primi (la cosiddetta “dottrina dei tre principi”). Essa è chiamata da Platone “non essere”. Inoltre, come si legge nelle opere di Filone e dei medioplatonici ed era già stato accennato da Platone (cf. Timeo 49 E - 50 BC; 50 DE), la materia, priva di qualità e di forma, è “ricettacolo” delle forme. Altrettanto aveva affermato Giustino (Apol. I 10). Pertanto non è probabile che Clemente sostenesse la teoria di una creazione dal nulla. In Stromati V 14,92,1 Clemente sostiene che i filosofi greci, a cominciare da Platone, avevano seguito Mosè nell’affermare che il mondo avrebbe avuto un inizio e ritiene che questa dottrina sia accettabile: egli interpreta, quindi, la Genesi nella maniera in cui i medioplatonici interpretavano il Timeo, per cui l’inizio del mondo non è nel tempo.

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16. L’etica Il concetto di “virtù”, come è noto, è estraneo al Nuovo Testamento, ed è tipicamente greco, nella sua forte connotazione umana (fin dall’età arcaica della Grecia esso indica l’eccellenza dell’uomo). Ora, è interessante osservare che Clemente lo presenta come facente parte della fede cristiana e riprende dallo stoicismo e dal medioplatonismo la sua definizione (Pedagogo I 101,2): La virtù infatti è una disposizione dell’anima conforme al Logos in tutte le circostanze della vita; la filosofia [...] è definita dai filosofi greci come la ricerca della retta ragione (orthós logos), per cui ogni trasgressione, in quanto proviene da un errore commesso contro il logos (ragione) è necessariamente chiamata “peccato”.

Commentando le affermazioni di S. Paolo, il quale aveva sottolineato la superiorità morale e spirituale del cristiano (1 Cor. 4,9 e 11-13), e seguendo la filosofia contemporanea – lo stoicismo ed il medioplatonismo – anche Clemente afferma che la virtù è sufficiente da sola a procurare la felicità (IV 7,52,1-2). Di conseguenza egli è il primo scrittore cristiano a presentare organicamente sviluppata la dottrina delle quattro virtù, dette “cardinali”: prima è la sapienza pratica (cioè la prudenza) che si unisce alla sapienza “teoretica”: anche in questa bipartizione lo scrittore concorda con gli Stoici e con Alkinoos (Didascalico, p. 153,4-6). La prudenza è definita in Stromati II 7,34,4 come «la virtù che prescrive quello che si deve fare e condanna quello che non si deve fare». Anche questa definizione deriva dallo stoicismo e concorda con quella di Alkinoos (Didascalico, p. 182,23-24) e di Apuleio (Platone e la sua dottrina II 228), ed in sostanza lo stesso procedimento, per cui Clemente deriva dallo stoicismo e concorda con il medioplatonismo a lui contemporaneo, può essere riscontrato anche nella definizione delle altre virtù. Lo stesso contatto di Clemente con la tradizione platonica si coglie nella sua convinzione (che, comunque, sarà ripresa da tutta la tradizione del platonismo cristiano) che l’anima umana è divisa nelle tre parti: razionale, irascibile e concupiscibile. Inoltre, insieme ai medioplatonici, anche Clemente attribuisce una virtù specifica ad una parte precisa dell’anima.

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17. Le passioni La dottrina del pathos, cioè della passione (che avrà anch’essa un’amplissima diffusione nella tradizione del platonismo cristiano), è, in Clemente, di derivazione stoica (Stromati II 13,59,6): Un impulso (hormè) è un moto del pensiero verso qualcosa o proveniente da qualcosa; una passione (pathos) è un impulso disordinato o che oltrepassa i limiti fissati dalla ragione, cioè è un impulso sfrenato e che non obbedisce alla ragione. Le passioni pertanto sono un movimento dell’anima contro natura, prodotto dal fatto che essa non obbedisce alla ragione [...]. Per riassumere, le singole passioni, se esaminate con attenzione, sono degli impulsi irrazionali.

A proposito delle passioni, lo stoicismo aveva propugnato una rigorosa e totale estirpazione di esse (la apatheia), mentre la scuola peripatetica aveva ritenuto che la passione potesse sussistere, ma a patto di essere regolata ed indirizzata al bene (la cosiddetta metriopatheia, cioè la “moderazione degli affetti”). La dottrina della “moderazione degli affetti” è sostenuta anche da alcuni filosofi del medioplatonismo, ad esempio da Plutarco; Apuleio la conosce, ma dà il primo posto alla totale assenza delle passioni, alla apatheia. Clemente riprende la dottrina della “moderazione degli affetti”, ma non la considera il grado più alto dell’etica. Ma questa distinzione tra i due gradi dell’etica, costituiti dalla moderazione e dalla mancanza delle passioni, è giunta a Clemente attraverso la mediazione di Filone di Alessandria. 18. Lo gnostico e la sua impassibilità A proposito della perfezione dello gnostico cristiano, si leggano le seguenti affermazioni e descrizioni dell’Alessandrino: Strom. VI 9,71,4. Anche se si pensa che siano buone le passioni di cui ho parlato, allorquando esse si manifestano in modo ragionevole, l’uomo perfetto, comunque, non le deve ammettere […]. 72,1. Egli non cade preda di nessun desiderio, di nessuna brama, e non gli manca nessuna qualità dell’anima, perché è già unito, mediante l’amore, all’amico di cui, per sua scelta, egli è veramen-

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te famigliare. E stando presso di lui in modo più intimo mediante la condizione che è prodotta dall’ascesi, egli è felice a causa del gran numero dei suoi beni, sì che, esattamente grazie ad essi, egli fa ogni sforzo per essere simile al maestro, al punto che può giungere ad una totale assenza di passioni. 2. Il Logos di Dio, infatti, è intelligente, per cui l’immagine dell’intelligenza è riscontrabile solamente nell’uomo, in quanto, nella sua anima, l’uomo buono possiede forma e somiglianza con Dio, mentre Dio ha forma umana, poiché è l’intelligenza quello che caratterizza la forma di Dio e quella dell’uomo. Per questo motivo coloro che commettono un peccato contro un uomo sono empi e sacrileghi. 3. Così è stupido pretendere che lo gnostico e il perfetto non debba essere privo dell’impetuosità e del coraggio, come se, senza di queste passioni, egli non potesse resistere alle difficoltà né sopportare le situazioni che incutono terrore! Strom. VI 9,74,1. Ancora, bisogna togliere allo gnostico ogni passione dell’anima, perché la conoscenza produce un’ascesi, l’ascesi uno stato o una condizione d’essere, ed una tale disposizione produce un’assenza di passioni, e non un senso della misura nelle passioni. Un’assenza di passioni, infatti, è il frutto della soppressione totale del desiderio. 2. Del resto, lo gnostico non ammette nella propria personalità queste qualità di cui si va parlando, vale a dire le cose buone, caratterizzate da passionalità, che stanno accanto alle passioni stesse, come la gioia, la quale è vicina al piacere, la timidezza, che è collegata al dolore, la cautela, che ha a che fare con la paura, o anche l’impetuosità, che è vicina all’ira, anche se alcuni dicono che, in tutto questo, si tratta non di difetti, ma di buone qualità. 75,1. È impossibile, infatti, che colui che si è reso perfetto una volta per tutte grazie all’amore e che eternamente e insaziabilmente si ciba della letizia della contemplazione, trovi ancora delle attrattive nelle cose meschine della terra. 2. Quale motivo ragionevole, infatti, gli resta per volgersi ancora verso i beni del mondo, una volta che ha raggiunto la luce inaccessibile, senza conoscerne ancora il momento e il luogo, appunto grazie a questo

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amore che proviene dalla conoscenza? È l’amore che fa ottenere l’eredità promessa e la ricostituzione (apocatastasis) integrale nell’aldi là […] 3. E non è forse vero che nel suo cammino verso il Signore, grazie all’amore che egli ha per lui, anche se la sua tenda si vede qui in terra, senza fuggire la vita (ché questo non gli è permesso) ha strappato la sua anima alle passioni (cosa, questa, che invece gli è stata permessa)? E ora che ha mortificato i suoi desideri, non vive forse senza più servirsi del suo corpo, se non per permettergli di usare quello che è necessario, allo scopo di evitare la dissoluzione? 76. Tutte le presunte virtù gli sono inutili. (trad. nostra)

19. L’assimilazione a Dio Clemente riprende un’altra dottrina fondamentale dell’etica medioplatonica, e cioè l’ideale del “rendersi simili a Dio” (homoiosis theoi), un tema che ricompare poi costantemente nella tradizione cristiana successiva, fino ai Padri Cappadoci e oltre. Tale esigenza etica era stata enunciata da Platone (Teeteto 176 B), ma senza che il grande filosofo le avesse dato una vera e propria formulazione precettistica. Questa organizzazione di un’esortazione platonica in una dottrina etica avvenne con i medioplatonici, i quali le aggiunsero l’ulteriore specificazione di “per quanto è possibile all’uomo”. Il vero gnostico, quindi, deve vivere cercando di perseguire l’assimilazione a Dio. Ma, come fece a proposito di altri temi, l’Alessandrino rielabora anche questa dottrina mettendola a confronto con la Scrittura. In un famoso passo biblico (Gen. 1,26) si legge che Dio creò l’uomo “a sua immagine e somiglianza”. Di conseguenza Clemente sostiene che “immagine” e “somiglianza” non sono sinonimi, come era stato, invece, nel testo scritturistico: l’essere “a immagine” significa che l’uomo ricevette da Dio il logos, che è effettivamente immagine del Logos di Dio, mentre l’essere “a somiglianza” significa la perfezione morale che l’uomo deve ricercare praticando la virtù. Quindi l’immagine fa parte della natura umana, mentre la somiglianza è il risultato dell’impegno morale (Stromati II 131,5). Questa concezione si trova già in Filone di Alessandria. Il filosofo ebreo sottolinea, sì, che la ragione umana è la fedele riproduzione del Logos divino (La creazione del mondo 15), ma d’altra parte – anticipando Clemente – ritiene

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che l’essere immagine del Logos consiste nel fatto che l’uomo conserva perfettamente puro il proprio logos (Le virtù 205), cioè evitando l’influsso del pathos. Anche Filone, dunque, univa l’ideale etico espresso dal Teeteto platonico alla dottrina della somiglianza, proposta dalla Genesi. La somiglianza tra l’uomo e Dio risiede, secondo Clemente, Filone e il neoplatonismo, nell’assenza di passioni, in quanto Dio, per sua natura, ne è completamente privo (Stromati II 103,1; IV 138,1; 147,1). Altrettanto affermeranno poi Plotino (I 2,3 e 2,6) e Porfirio (Sentenze 32; Sull’astinenza dagli esseri animati II 43). Lo stesso Cristo incarnato è il maestro e il modello dell’impassibilità. In conclusione, Clemente congiunge la dottrina platonica con quella della Genesi. 20. I misteri cristiani Nelle opere dei filosofi greci, il distacco della ragione dai sensi era spesso paragonata ad una iniziazione ai misteri religiosi frequenti nella società antica: i loro riti, per quanto apparentemente osceni ed antiquati, erano comunque superati dalle verità eterne che essi contenevano. Lo schema usuale dell’iniziazione, presso i pagani, constava di tre gradi: la cerimonia, vale a dire la liturgia, era seguita da un discorso di istruzione, e questo, a sua volta, dalla visione del dio, dalla epopteia, che era riserbata a pochi e non era lecito divulgare. Eraclito aveva sostenuto che le enunciazioni dell’allegoria si trovano avvolte nei misteri e Platone si appropria senza scrupolo del linguaggio dei misteri, come nel Simposio (ove si parla delle dottrine perfette e iniziatiche: 210 A) e nel Fedro, ove si descrive come un processo di iniziazione la contemplazione del mondo iperuranio (250 B; 250 E). Filone si rivolse spesso e con grande interesse ai misteri: nonostante la sua origine ebraica, egli non poteva non conoscere le feste pagane che erano celebrate con grande pompa e solennità in Alessandria. Secondo Filone il semplice uso della Thorah è un mistero, l’ascesa contenuta nel mistero è la contemplazione immediata della verità divina in un’“estasi coribantica” (La creazione del mondo 71; Chi è l’erede delle cose divine 69 ss.), come quella che era tipica degli iniziati al culto di Dioniso; ne La migrazione di Abramo 34-35 Filone si vanta di avere esperimentato mille volte tale estasi durante la lettura della Scrittura.

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Nella tradizione platonica il “mistero” che è prerogativa della filosofia ha un ruolo notevole. Secondo Plutarco, la parte più alta della filosofia, cioè la teologia, è “iniziatica”, e la conoscenza della divinità più alta (Iside e Osiride 382D; Questioni conviviali VIII 2, 718CD) è una iniziazione. Alkinoos afferma che l’espressione “essere iniziato” indica lo studio della parte più alta della filosofia (Didascalico, p. 182,8). Il medesimo interesse per l’iniziazione misterica è presente in Massimo di Tiro (Dissertazione 4,5) e Apuleio, nel suo platonismo, dichiara di essersi iniziato ad un gran numero di misteri (La magia 55,9). Anche Clemente ricorre al linguaggio e alla simbologia misterica per mostrare al suo lettore di Alessandria, che certamente era informato dei misteri pagani e dei loro riti, che esiste una nuova iniziazione, quella cristiana. Giulia Sfameni Gasparro ha mostrato che per far questo lo scrittore non solo si serve della terminologia propria dei misteri, ma caratterizza il cristianesimo in modo mistico, e con lui concorda Origene. Nella conclusione del Protrettico, «l’intero processo misterico dei culti pagani, pur essendo stati questi ultimi nel corso del trattato oggetto di impietosa critica e di condanna senza appello, è programmaticamente preso in carico dall’Alessandrino, nei suoi momenti forti e nella sua terminologia tecnica, per schiudere dinanzi allo sguardo degli interlocutori pagani il nuovo, vero “mistero”, quello cristiano, l’unico capace di portare loro purificazione e salvezza». Citiamo le parole di Clemente: Allora contemplerai il mio Dio, sarai iniziato a quei santi misteri e gusterai quelle cose che sono nascoste nei cieli, che sono a me riservate, che «nessun orecchio udì, e non giunsero mai al cuore» (1 Cor. 2,9) di alcuno [...]. Vieni, o pazzo, senza appoggiarti al tirso, senza corone di edera; getta via la benda, getta via le nebride, ritorna in senno: ti mostrerò il Logos e i misteri del Logos, descrivendoli a somiglianza dei tuoi misteri. Oh misteri veramente santi! Oh luce purissima! Illuminato dalle torce del portatore di torcia, in modo tale che posso contemplare i cieli e Dio, divengo santo per mezzo della iniziazione; il Signore è ierofante, e, mentre illumina l’iniziato, lo contrassegna con il suo sigillo e presenta al Padre colui che ha creduto, affinché sia custodito per l’eternità. Queste sono le feste dei miei

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misteri! (Protrettico 118,4-119,1; 120,2: trad. di F. Migliore, ed. Città Nuova).

Clemente descrive i misteri più famosi della Grecia, quelli eleusini, per trasferirli in un contesto cristiano, nel quale il Logos di Dio appare come il Salvatore di colui che crede. Il fedele, a sua volta, è il nuovo iniziato, mentre colui che rimane estraneo ai misteri, è il pagano, che ha rifiutato la salvezza.

Sezione terza

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Capitolo primo

Origene e la filosofia 1. L’insegnamento di Origene ad Alessandria Il problema dei rapporti tra la filosofia pagana e la religione cristiana si presenta prepotentemente con Origene (185-253 d.C.), il quale fu, come già Clemente, maestro nella scuola di dottrina cristiana ad Alessandria, ed è universalmente considerato non solo il più grande teologo del cristianesimo antico, insieme ad Agostino, ma anche profondo conoscitore della filosofia greca. Eusebio, vescovo di Cesarea, ci procura numerose informazioni sul suo insegnamento (Storia della Chiesa VI 15): Quando Origene capì che non era più in grado di perseverare nello studio approfondito delle cose divine, nell’indagine e nella traduzione delle Sacre Scritture, ed anche nella catechesi di coloro che si recavano da lui, che non lo lasciavano neppure respirare, poiché gli uni dopo gli altri frequentavano la sua scuola da mattina a sera, ne divise il numero; scelto tra i discepoli Eracla, studioso delle cose divine, uomo coltissimo e non ignaro di filosofia, lo designò suo collega nella catechesi, affidando a lui l’istruzione di chi imparava i primi elementi, e riservando a sé l’insegnamento superiore.

Questo Eracla di cui parla Eusebio era un personaggio di rilievo tra i Cristiani di Alessandria: un erudito, Giulio Africano (160240 d.C.), suo contemporaneo, nella Cronografia cristiana attesta la grande reputazione di cui Eracla godeva. Eusebio prosegue dandoci testimonianza della grande fama acquistata da Origene nel corso del suo insegnamento (VI 18, 2-4): E numerosi altri uomini colti, essendosi diffusa ovunque la fama di Origene, vennero a lui per avere un saggio della sua abilità nei testi sacri: innumerevoli eretici

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e non pochi dei filosofi più illustri gli prestarono la massima attenzione, per essere da lui istruiti non soltanto nelle cose divine, ma anche nella filosofia pagana. Quanti vedeva dotati per natura, li avviava allo studio delle discipline filosofiche, alla geometria, all’aritmetica e alle altre materie preliminari, e faceva poi conoscere loro le sette esistenti tra i filosofi, di cui commentava ed esaminava dettagliatamente le opere, così che fu proclamato grande filosofo tra i Greci stessi. Ma anche molti dei discepoli meno dotati li avviava al ciclo elementare di studi, affermando che ne avrebbero ottenuto grande vantaggio per lo studio e l’esame delle divine Scritture. Così egli pensava che fosse assolutamente necessario anche per se stesso istruirsi nelle discipline profane e nella filosofia.

Questo rapporto tra le “scienze enciclopediche” e la dottrina cristiana era stato già proposto da Clemente, come abbiamo visto (pp. 327 ss.). A partire dal Rinascimento, fino ai primi decenni del secolo scorso, la critica sottolineò, nella produzione origeniana, soprattutto l’aspetto filosofico; al contrario, la critica dell’ultimo cinquantennio si interessò prevalentemente – e in modo talora anche fortemente polemico nei confronti dell’indirizzo precedente – dell’aspetto esegetico, teologico e mistico dell’opera dell’Alessandrino. Resta comunque innegabile e irriducibile anche l’esigenza, diciamo così, “filosofica”, e, per dirla con De Lubac (Homélies sur la Genèse, Paris, Sources Chrétiennes 1976, p. 12), «i giochi della bilancia implicano sempre un elemento di arbitrarietà, di ingiustizia e di eccesso». Noi preferiamo quindi seguire il giudizio di Ugo Bianchi, il quale così osserva (Presupposti platonici e dualistici di Origene, De principiis, in: Origeniana secunda. Second colloque international des études origéniennes (Bari, 20-23 septembre 1977). Textes rassemblés par H. Crouzel - A. Quacquarelli, Roma, 1980, p. 35): «Ogni tentativo di porre Origene fuori di una linea di pensiero che, per certi fondamentali presupposti ontologici ed ermeneutico-religiosi, si riallaccia a Platone e attraversa le frontiere religiose del giudaismo e del cristianesimo è destinato a urtarsi con i fatti. Una adeguata (e moderna – cioè [...] più rigorosa metodolo-

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gicamente e più informata documentariamente) impostazione secondo la storia della religione o, se si preferisce, secondo la storia delle idee o la storia dello spirito, è inevitabile». 2. Origene e Ammonio L’insegnamento di Origene fu così profondo che rimase famoso. Eusebio continua nel suo racconto della storia della chiesa di Alessandria dicendo che l’eccellenza di tale insegnamento è testimoniata anche dal fatto che Origene fu frequentemente ricordato dai filosofi greci a lui contemporanei, i quali non solo gli dedicavano i loro libri, ma gli facevano vedere preventivamente quanto scrivevano, perché lo consideravano un maestro (Storia della Chiesa VI 19,1). Purtroppo però il medesimo Eusebio fa sorgere un problema che ci procura una grande difficoltà, in quanto le sue parole contrastano con altre testimonianze antiche. Lo storico cristiano ricorda, dispiaciuto, che la grande fama di Origene fu messa in pericolo dalle calunnie di un nemico dei Cristiani, il filosofo neoplatonico Porfirio. Questi, infatti, dice di avere conosciuto Origene quando era giovane e tenta di denigrarlo, e in modo contraddittorio ora lo accusa di essere stato cristiano ora mette in evidenza l’alta qualità dei suoi studi filosofici. Queste sono le parole di Porfirio (i cui sentimenti anticristiani abbiamo già esaminato approfonditamente), citate da Eusebio (VI 19,4): Alcuni [Cristiani], desiderosi di trovare una spiegazione alla malvagità delle Scritture giudaiche, ma senza più rigettarle, hanno fatto ricorso ad interpretazioni incoerenti e discordanti con le cose scritte, prospettando in tal modo non tanto un’apologia di ciò che appare strano, quanto un consenso e una lode delle loro proprie opere. Spacciando, infatti, per enigmi le cose dette con chiarezza da Mosè e proclamandole come oracoli divini di misteri nascosti, prospettano le loro interpretazioni dopo avere incantato le facoltà critiche della mente con la fatuità.

Porfirio, dunque, critica l’impiego, da parte dei commentatori cristiani della Scrittura, dell’esegesi allegorica (che tuttavia egli stesso e molti altri pagani praticavano). E, nella citazione di Eusebio, il filosofo neoplatonico così prosegue (VI 19,5-7):

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Questo genere di assurdità proviene da un uomo che anche io ho incontrato quando ero molto giovane: allora egli godeva di grande stima, così come ancora oggi è famoso per i suoi scritti. Mi riferisco a Origene, che è grandemente famoso tra quelli che insegnano tali dottrine. Origene fu, infatti, allievo di Ammonio, il quale fu un filosofo di grandissima fama ai nostri tempi: Origene acquistò dall’insegnamento di Ammonio un grande profitto nell’abilità della scienza, ma per quanto riguarda la scelta del retto modo di comportarsi egli si rivolse ad un’altra direzione, opposta alla sua.

Seguono delle notizie estremamente problematiche. Infatti, secondo Porfirio ed Eusebio, che lo cita, Ammonio, pur essendo cristiano, educato dai genitori nella dottrina cristiana, allorquando cominciò a ragionare e ad interessarsi della filosofia, ben presto si indirizzò ad un genere di vita conforme alle leggi – cioè si volse dal cristianesimo al paganesimo. Invece Origene, che pure era greco ed era stato educato nella cultura greca, si comportò nel modo opposto: deviò verso il cristianesimo, che era contrario alle leggi dello Stato, ed in questo dette prova di “protervia”. Comportandosi in tal modo, egli guastò la sua abilità negli studi e visse da cristiano; inoltre, riguardo alla dottrina del mondo e di Dio, Origene ellenizzò la scrittura dei Cristiani e inserì le idee dei Greci in favole straniere. Insomma, mentre Ammonio, che era cristiano, si volse alla grecità, Origene, che era greco, deviò verso la protervia barbara dei Cristiani. Porfirio, quindi, riconosce la forte impronta greca della filosofia, pur cristiana, di Origene. Il filosofo neoplatonico, nel successivo resoconto di Eusebio, afferma che Origene visse in seguito come un cristiano, anche se il suo pensiero era quello di un greco. Egli leggeva continuamente Platone e vari altri filosofi: i platonici e pitagorici Numenio, Cronio, Longino, Moderato, Nicomaco; gli stoici Apollofane, Cheremone (che era stato maestro di Nerone), o Cornuto (il maestro del poeta latino Persio). Ora, elementi dell’insegnamento di alcuni di questi filosofi pagani (ad esempio, di Numenio o di Nicomaco) si possono effettivamente rintracciare nel pensiero di Origene, ma non è certo credibile che egli abbia letto questi scrittori con l’assiduità che Porfirio pretende: Porfirio lo asserisce, ma certo per sottolineare l’incongruenza e la contraddittorietà del comportamento del dotto cristiano.

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Eusebio, quindi, mette in guardia il lettore dal credere alle menzogne di Porfirio, esposte nel terzo libro del suo trattato Contro i Cristiani: è vero tutto quello che si dice a proposito della dottrina di Origene, mentre è falsa la presunta conversione di Origene dal paganesimo al cristianesimo (Eusebio, infatti, sa benissimo che Origene era sempre stato cristiano). Parimenti falsa è la conversione di Ammonio in senso opposto, dal cristianesimo al paganesimo. Entrambi, infatti, rimasero cristiani per tutta la loro vita; di Ammonio stesso, del resto, esisteva un’opera dedicata a mettere in luce la Concordanza tra Mosè e Gesù. Ma accanto a queste notizie di Porfirio, conservateci da Eusebio, ne esistono delle altre, forniteci sempre dal filosofo neoplatonico, e che possiamo leggere direttamente, cioè non attraverso citazioni altrui, in una sua opera, vale a dire nella Vita di Plotino, da lui premessa alla edizione delle Enneadi, da lui stesso curata: Dato che Erennio, Origene e Plotino avevano stretto il patto di non svelare mai nessuna delle dottrine di Ammonio, quelle che aveva spiegato loro nelle lezioni orali, Plotino mantenne la promessa e, pur riunendosi con alcuni che andavano da lui, tenne segrete le dottrine apprese da Ammonio. Ma quando Erennio per primo venne meno al patto, Origene ne seguì subito l’esempio. Tuttavia non scrisse nulla, tranne il trattato Sui demoni e, al tempo di Gallieno, «Il Re è l’unico creatore» (Vita di Plotino 3, trad. di G. Girgenti).

In un passo successivo (cap. 14), Porfirio ricorda con poca simpatia nei confronti di Origene i rapporti che sarebbero esistiti tra lui e Plotino, mentre nel cap. 20 egli menziona un giudizio positivo di Longino sulla attività di Origene come filosofo platonico. In tutta la Vita di Plotino Porfirio non fa cenno alla fede cristiana dell’Alessandrino. Di conseguenza è opinione verisimile – avanzata già nel XVII secolo da Enrico di Valois (Henricus Valesius) nella sua edizione della Historia Ecclesiastica di Eusebio e ripresa da molti studiosi, che sarebbero esistiti due Origeni: quello menzionato da Porfirio nella Vita di Plotino dovrebbe essere identificato con un altro Origene, un filosofo neoplatonico, del quale parlano anche altre testimonianze antiche. Costui sarebbe stato contemporaneo di Plotino e avrebbe scritto i due trattati che sono ricordati nella Vita

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di Plotino, uno Sui demoni e un altro intitolato Solo il Re è creatore. Questa seconda opera sarebbe stata scritta, secondo Porfirio, sotto Gallieno, che fu imperatore tra il 253 e il 268: questo si adatta all’Origene neoplatonico, perché noi sappiamo che Origene il cristiano morì durante la persecuzione dell’imperatore Gallo (cioè nel 253). Inoltre, sempre secondo Porfirio (Vita di Plotino, cap. 14), Origene avrebbe incontrato Plotino a Roma nel 244, ma niente ci risulta, a tale proposito, dalle fonti cristiane. In conclusione, Porfirio avrebbe confuso – ma solo nel passo del Contro i Cristiani pervenutoci attraverso il resoconto di Eusebio – l’Origene cristiano con l’Origene pagano, che fu un filosofo neoplatonico abbastanza concretamente definito. Dopo aver citato l’opinione di Porfirio, Eusebio la contesta recisamente, aggiungendo, purtroppo, oscurità a oscurità. Egli afferma che Ammonio, come abbiamo visto, checché ne dicesse Porfirio, sarebbe sempre rimasto cristiano, così come Origene sarebbe nato e vissuto cristiano (VI 19,10). Ma che l’Ammonio da noi conosciuto, cioè Ammonio Sacca (175?-240 d.C.?), che fu maestro di Origene e di Plotino, sia stato cristiano, appare inverosimile, per non dire impossibile. Di conseguenza, o si respinge questa notizia di Eusebio o, come alcuni hanno ipotizzato, sarebbero esistiti, oltre ai due Origeni, di cui si è detto sopra, anche due Ammoni, uno pagano, l’Ammonio Sacca, il maestro di Plotino, e un altro, invece, cristiano. Infatti quel trattato di Ammonio, di cui abbiamo or ora accennato, Sulla concordanza tra Mosè e Gesù, costituisce un argomento impensabile per un pagano. Se non si vuole accettare l’ipotesi della reduplicazione dei due Ammoni e dei due Origeni, confusi da Porfirio (uno scrittore, peraltro, scrupoloso), diviene impossibile conciliare le due testimonianze di Porfirio, quella che leggiamo nella Vita di Plotino e quella del suo trattato Contro i Cristiani. La conclusione è che è verisimile che siano esistiti due Origeni e un solo Ammonio. Non rimane altro che accontentarci del fatto che l’interesse di Origene per la filosofia pagana è attestato da Eusebio e da Porfirio, e viene confermato leggendo i suoi scritti.

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3. Contenuti dell’insegnamento origeniano È necessario, tuttavia, osservare che, nonostante la forte presenza di dottrine pagane nel pensiero origeniano, l’atteggiamento dell’Alessandrino nei confronti della filosofia non è stato così aperto come quello del suo predecessore Clemente, e che egli si esprime assai spesso, su di essa, con una certa cautela. Origene infatti, come Clemente, ne sottolinea spesso l’insufficienza, anche se ammette che essa in qualche punto coincide con la dottrina cristiana. Sulla base della dottrina rivelata egli non esita a criticare i filosofi, anche lo stesso Platone. I filosofi oggetto della sua critica sono quelli condannati dalla tradizione: più dura, come già in Clemente, è la critica rivolta agli Epicurei, a causa della loro morale edonistica, della fisica atomistica e della negazione della provvidenza divina. Altrettanto vale per Aristotele, il quale aveva sostenuto – secondo quanto riferisce di lui una tradizione più tarda – che la provvidenza divina non si estende fino al mondo inferiore alla luna, ma si limita a regolare il moto perfetto dei corpi celesti; ad Aristotele, inoltre, Origene rimprovera la dottrina della distinzione dei beni in beni dell’anima (le virtù), beni del corpo (la salute e la bellezza) e beni esterni (ricchezze e onori). Ugualmente, gli Stoici sono biasimabili per il loro materialismo nella teologia e nella cosmologia, anche se la loro morale mostra dei motivi accettabili, che sono comuni al cristianesimo; inaccettabile, infine è la loro dottrina del fato, che distrugge il libero arbitrio dell’uomo. Il discepolo di Origene, Gregorio il Taumaturgo (di cui parliamo a pp. 461 ss.), ci attesta che il suo maestro era interessato anche alle scienze profane, cosa molto rara nella Chiesa antica. Taziano, infatti, aveva negato recisamente che tale curiosità potesse avere qualche valore (Discorso ai Greci 27), e così Tertulliano (Le prescrizioni 14), una convinzione, questa, condivisa anche da Clemente (Stromati VI 11,93). Origene, invece, mostra un’ampia conoscenza dell’astronomia e della meteorologia, cioè di alcune scienze contemporanee. Di conseguenza la sua cosmologia raggiunge un grado di conoscenze astronomiche precedentemente sconosciuto alla teologia cristiana, anche se molte delle sue concezioni in questo campo derivano, come è logico, dalla scienza ellenistica. L’interesse di Origene per la filosofia greca è manifestato già dal titolo di una delle sue opere giovanili (e pure delle più impor-

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tanti), il trattato su I principi. Il greco arché, cioè “principio”, può significare sia le “verità fondamentali” (in questo caso, le verità fondamentali dei Cristiani), sia i “principi primi” dell’essere. Questa seconda interpretazione meglio si armonizza con l’uso che la filosofia contemporanea a Origene faceva del termine arché. Secondo Simonetti, il trattato su I principi costituisce il tentativo più audace di conciliazione tra cristianesimo e filosofia: nella filosofia Origene vede l’alleata più sicura nella sua lotta contro lo gnosticismo. Essa gli fornisce gli strumenti per chiarire le verità rivelate (e quindi indiscusse), come quella della redenzione, della salvezza e della vita spirituale, che la speculazione gnostica minacciava con le sue assurde mitologie. Quell’opera è «il primo tentativo di dare una esposizione problematica ed approfondita di alcuni dati fondamentali della fede cristiana. Si tenga presente la tradizionale accusa che i pagani rivolgevano ai Cristiani, di essere fanatici ed ignoranti, assolutamente estranei alle esigenze e agli interessi, al modo di pensare della cultura greca. Orbene, I principi costituiscono puntuale confutazione di queste accuse, in quanto i dati della fede cristiana vi sono esposti, esaminati ed approfonditi proprio secondo moduli e parametri offerti dalla filosofia greca. Grazie a questo carattere il pagano si trovava subito a suo agio: vi trovava esposta una problematica familiare: questioni sul libero arbitrio, sulle realtà incorporee, sull’eternità del mondo; la trovava esposta in forma e con procedimenti che gli erano famigliari». Origene possiede anche una vasta conoscenza dello stoicismo, e non solo degli stoici più vicini a lui nel tempo, ma anche di quelli dell’età ellenistica. Ma più in particolare, come è logico e come già si era riscontrato in Clemente, egli conosce perfettamente il medioplatonismo e il neopitagorismo, in particolare le dottrine di Numenio. Egli ha letto, di Platone, Fedone, Fedro, Repubblica, Timeo; conosce le Leggi e le Lettere. Probabilmente ha conosciuto, di Aristotele, L’anima e l’Etica Nicomachea. In conclusione, Origene è bene informato delle caratteristiche essenziali delle varie scuole filosofiche ed è in grado di affrontare una discussione su dei problemi che erano dibattuti ai suoi tempi. Tutto questo conferma sostanzialmente quanto aveva detto su di lui Porfirio.

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4. Il “metodo di lavoro” di Origene e la divisione della filosofia Nonostante la sua conoscenza della filosofia pagana, che non fu inferiore a quella di Clemente, Origene, a differenza del suo predecessore, ricorre assai raramente alle citazioni dei testi di cui si serve: comunque, si può ritenere che egli abbia letto molto più di quanto non abbia citato esplicitamente. Presentiamo adesso alcuni temi trattati da Origene nelle sue opere (molti altri se ne potrebbero trovare), per dare un esempio dei suoi interessi e del suo metodo critico. Origene divide la filosofia nel modo usuale alle scuole filosofiche della sua epoca. Si legge tale divisione nella prefazione al Commento al Cantico dei Cantici (3,1; 3,6-7): Le scienze generali, per mezzo delle quali si giunge alla conoscenza, sono tre: i Greci hanno dato loro il nome di “etica”, “fisica”, “enoptica”, e noi possiamo chiamarle “morale”, “naturale” e “contemplativa”. Alcuni poi, presso i Greci, hanno aggiunto come quarta la logica, che noi possiamo definire “ragionativa”. Invece, secondo altri, la logica non è una scienza autonoma, ma è completamente connessa e compaginata con le tre scienze sopra indicate. Infatti la logica è la scienza che contiene i significati, le proprietà e le improprietà delle parole e delle espressioni, i generi e le specie, e dà spiegazione delle figure che si applicano alle singole parole: conviene perciò che questa disciplina non sia separata dalle altre, ma sia connessa e compaginata con loro. Chiamiamo “morale” la scienza per mezzo della quale viene disposto un onesto modo di vivere e vengono proposte norme che tendono alle virtù. Chiamiamo “naturale” la scienza che esamina la natura di ciascuna cosa, affinché non facciamo, mentre viviamo, niente contro natura, bensì ogni cosa sia applicata agli usi per i quali il creatore l’ha fatta. Chiamiamo “contemplativa” la scienza grazie alla quale, superate le realtà visibili, contempliamo qualcosa delle realtà divine e celesti e le osserviamo solo con la mente, poiché esse oltrepassano l’aspetto corporeo.

Anche Origene partecipa alla comune convinzione dei Cristiani dell’epoca, che i Greci avevano effettuato un “furto”,

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delle dottrine ebraiche, e quindi cristiane. Così egli afferma, nel seguito: Tali scienze, secondo quanto io ritengo, alcuni sapienti tra i Greci le presero da Salomone, che li aveva di gran lunga preceduti nel tempo, e le aveva apprese per opera dello Spirito di Dio; le fecero conoscere come scoperte da loro e, inseritele nei volumi delle loro dottrine, le tramandarono ai posteri.

Salomone, infatti, era stato il sapiente per eccellenza tra gli Ebrei e a lui erano attribuiti tre libri biblici, corrispondenti per contenuto e per impostazione metodologica alle tre parti della filosofia: i Proverbi, il cui contenuto è morale, l’Ecclesiaste, che si occupa della fisica sottolineando la vanità delle cose terrene, in quanto materiali, e il Cantico dei Cantici, che instilla nell’anima l’amore per le realtà celesti e il desiderio delle realtà divine e insegna che attraverso l’amore si deve arrivare all’unione con Dio. 5. Varie opinioni dei filosofi sul piacere, sul bene, su Dio Presentiamo alcuni esempi dell’attività filosofica di Origene: In questo mondo vi sono molti tipi di religioni, molte scuole di filosofi, molte dottrine trasmesse con false affermazioni e redatte con dimostrazioni menzognere, i cui autori, in fama – benché falsamente – sono ritenuti uomini di non però scarsa o spregevole autorità [...] Vi era tra gli uomini una dottrina che proclamava che il piacere è il sommo bene; e in questa dottrina si afferma anche, come conseguenza, che non esiste la provvidenza se davvero si deve vivere seguendo non le leggi ma il piacere: e tali concetti sono esposti in numerosissimi volumi con uno stile piuttosto raffinato ed elegante e con dimostrazioni validissime [...] Così pure vi sono alcuni che sostengono l’esistenza di tre specie di beni: uno concernente l’anima, uno i corpi e il terzo ciò che è esterno. I quali beni, se vengono ciascuno convenientemente posseduti, confermano che da essi risulta il sommo bene. Costoro, escludendo anche la provvidenza di Dio, pretendono che essa giunga solo fino all’orbita della luna e che non scenda affatto giù, cioè pres-

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so gli uomini. Vi sono anche altri che negano che vi sia qualcosa di invisibile e incorporeo, ma considerano come corporeo tutto ciò che esiste, per cui hanno detto che anche Dio, Padre di tutti, è corpo. Ma poiché la logica del loro ragionamento, da cui risulta che ogni corpo è corruttibile, li metteva alle strette al punto che, se dicono che anche Dio è corporeo, senza dubbio lo proclamano anche corruttibile, capovolsero l’artificiosità dell’espressione e dissero che egli è, sì, di natura corruttibile e tuttavia non si corrompe, poiché non vi è nulla a lui superiore da cui possa essere corrotto o annientato (Commento alla lettera ai Romani III 1, 926C927C; traduzione di F. Cocchini, Origene. Commento alla lettera ai Romani, vol. I, 1985; vol II, 1986, Casa Editrice Marietti).

6. La legge di natura e la Legge mosaica È evidente che presso i Giudei vi è la legge di Mosè: presso i gentili invece Paolo dichiara che vi è la legge di natura, la quale rimprovera il malfattore mediante la testimonianza della coscienza [...] Da ciò risulta che un uomo viene a trovarsi sotto la legge allorquando giunge a quell’età in cui può scegliere e discernere cosa sia la legge e che non accoglie da fuori il giogo di quella legge prima di cominciare ad avere in sé la solidità della legge interna e naturale [...] Con ciò certo vuol dimostrare che è nell’infanzia, prima cioè di avere la facoltà di discernere il bene e il male, che di uno si dice che è senza legge, anche se pecca, poiché non vi è in lui la legge, il peccato non gli viene imputato. Quando però ha acquistato il discernimento del bene e del male, allora si dice che per lui è venuta la legge e gli ha consegnato i precetti, ma lì dove c’è la forza del precetto, cioè la coscienza che rimprovera, si dice che il peccato, che in lui era morto, è tornato in vita [...] Allora non mi sembra che irragionevolmente uno dei sapienti abbia indicato che in tutto il genere umano, quando uno è giunto a quell’età in cui acquista il discernimento del bene e del male grazie alla legge naturale entrata in lui, prima di tutto si desta la malizia, dopo di che finalmente, mediante gli insegnamenti, le istruzioni, i consigli, a

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poco a poco essa viene scacciata e si passa alla virtù. Mi sembra che anche Paolo abbia avuto idee consone con questo (Commento alla lettera ai Romani III 2, 930B931A).

7. Le verità conosciute per natura Poiché pertanto anche qui si dice che l’ira di Dio si rivela dal cielo non a quanti ignorano la verità, ma a quanti la possiedono seppure malamente, sembra che Paolo dica che la ragione e la scienza come l’ira di Dio sono state manifestate a coloro a cui la verità è nota, anche se la tengono prigioniera nelle iniquità. E ciò, secondo quanto viene espresso dalle parole che seguono, si intende come detto dei sapienti di questo mondo e degli eruditi e dei filosofi, i quali, pur avendo conosciuto la verità e la giustizia di Dio «non gli hanno dato gloria come Dio, né gli hanno reso grazie, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti» [...] Con ciò l’Apostolo fa capire inoltre che le cose relative alla scienza della verità che invero sono pervenute ai sapienti di questo mondo, vi sono pervenute dietro rivelazione di Dio: però finché essi aspirano alla vanagloria o si lasciano lusingare da errori inveterati o sono frenati dalla paura dei principi, diventano essi stessi i giudici della loro condanna [...] Tale verità gli uomini devono credere di averla riconosciuta tramite le facoltà razionali naturali impresse nell’anima da Dio: a queste facoltà è stata concessa sufficiente saggezza perché essi riconoscano ciò che di Dio è noto, ossia ciò che si può conoscere di Dio per congettura dalla creatura, conoscere ciò che è invisibile di Lui partendo da quelle cose che sono visibili (Commento alla lettera ai Romani I 16, 862A-863B).

8. I sapienti di questo mondo Abbiamo detto infatti che tali parole, pur riguardando tutti gli uomini nei quali è insita la ragione naturale, si riferiscono particolarmente ai sapienti di questo mondo e a coloro che sono chiamati filosofi, i quali hanno il compito di esaminare soprattutto le cose crea-

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te nel mondo e tutto ciò che in esso è stato fatto e, attraverso queste cose che si possono vedere, comprendere con la ragione quelle che non si vedono (Commento alla lettera ai Romani I 17, 864B).

9. La sapienza umana Veramente la sapienza umana non può conoscere e comprendere il Signore né riconoscere i suoi giudizi e la sua misericordia e la sua giustizia che egli ha compiuto sopra la terra; e perciò è indifferente e mediana. Può infatti accadere che uno, istruito da questa umana sapienza, giunga più preparato alla comprensione della sapienza divina, ed essendosi esercitato nella prima, divenga più capace di comprendere l’altra. Lo stesso capita a chi fa uso di quelle realtà che abbiamo definito mediane, perlomeno della forza o delle ricchezze [...] Per questo dunque esse, per natura propria, sono dette indifferenti e mediane poiché, da una parte, associate ad un’azione malvagia possono dirsi cattive, dall’altra, congiunte alle buone opere possono chiamarsi buone (Commento alla lettera ai Romani IV 9, 995AB).

10. Potenza e atto Dobbiamo sapere anche questo: una cosa è che in uno vi sia potenzialità, altra che vi sia atto o attuazione, quella che i Greci chiamano dynamis e energheia. Per esempio: un uomo appena nato è un uomo ragionevole in potenza; infatti può essere ragionevole se cresce. E si dice anche che egli è artigiano e timoniere e grammatico in potenza: difatti è possibile che egli sia uno di questi. Riguardo invece all’atto o all’attuazione, cioè alla realtà stessa e ad essere ormai capace di ragione o ad esercitare in atto qualcosa del mestiere di artigiano o di qualunque altro mestiere, allora si dice che egli è ormai razionale in atto, o artigiano o qualunque altra sia l’opera che egli porta in atto. In questo modo si deve credere che anche Cristo, che è il Verbo di Dio, è in potenza presso di noi, cioè presso ogni uomo, come la ragione sta presso chi è piccolo; si dice invece che egli si trova in atto in me allora, quando avrò confessa-

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to con la mia bocca che Gesù è Signore, e avrò creduto nel mio cuore che Dio lo ha resuscitato dai morti (Commento alla lettera ai Romani VIII 2, 1162C).

11. Il giudizio di Origene sulla filosofia Interessante, anche, è il giudizio di Origene sulla filosofia in quanto tale, perché l’Alessandrino si è reso ben conto che essa costituiva un elemento non secondario della sua stessa speculazione. La filosofia, egli dice, certo è animata dal desiderio della verità: mettendo in evidenza le menzogne di Celso, Origene sostiene che quello di dire il falso non è il comportamento di un vero filosofo. E quando Celso osserva che la morale cristiana, che vuole apparire nuova e inaudita, non è diversa, nei suoi contenuti, dalla morale dei filosofi, Origene è d’accordo, e spiega questa somiglianza ricorrendo alla dottrina della legge di natura, che Dio ha inserito nel cuore degli uomini, dottrina di origine stoica, che si poteva trovare già in S. Paolo (Rm. 2,14-16). Una serie di paralleli, istituiti da Origene nel Contro Celso tra varie vite dei filosofi e quella di Gesù e degli apostoli, lo conferma. Tuttavia l’Alessandrino non intende trascurare il punto fondamentale della religione cristiana, e precisamente il fatto che il filosofo, per quanto lodevole sia, non riconduce il suo comportamento alla fede in Dio. Anch’egli, come molti letterati della sua epoca (ma già ai tempi della conversione di Giustino, che si colloca un secolo prima di Origene), che riprendevano un’antica contesa tra filosofia e retorica, considera i filosofi delle persone gonfie di superbia e animate dall’amore per se stessi e dall’egoismo. L’inferiorità morale del filosofo, quindi, proviene da un’insufficienza che è intrinseca alla filosofia in quanto tale, perché la filosofia non ha contatti, anzi, non ha radici nella vita religiosa. Nonostante l’altezza di certe intuizioni, il filosofo, pertanto, non conosce Dio ed è estraneo alla grazia divina. Talvolta l’atteggiamento del filosofo, così convinto della propria verità, può apparire una vera e propria idolatria (Omelie su Geremia XVI 9). La filosofia non può procurare una vera conoscenza di Dio che serva alla salvezza, e, in essa, il falso è inestricabilmente unito al vero. Questo atteggiamento ostile non è costante nell’opera dell’Alessandrino: si va da una maggiore apertura, percepibile nelle

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opere più speculative, come il trattato su I principi o il Commento al Vangelo di Giovanni, per arrivare ad una continua polemica nel Contro Celso, ove è logico che l’atteggiamento di Origene sia così caratterizzato, in quanto lo scrittore cristiano deve controbattere uno che è pagano e filosofo insieme. Come osserva Crouzel (cf. H. Crouzel, Origène, Paris-Namur 1984, p. 210), il rapporto tra cristianesimo e filosofia è simboleggiato, secondo Origene, da alcuni passi della Scrittura, che Origene stesso interpreta in un modo che sarà accettato anche dal Medioevo. Uno di questi passi narra l’assedio, posto dal popolo ebraico, sotto la guida di Giosuè, alle fortezze di Hebron, Hesebon e Gerico (cf. Omelie su Giosuè VII 1; VII 7; VII 5). Giosuè era, per gli antichi Cristiani, prefigurazione di Cristo: era l’“incarnazione” (se così si può dire) nel mondo dell’Antico Testamento del Cristo futuro, sia in quanto il suo nome era simile a quello di Gesù sia in quanto fu lui – e non Mosè – a guidare il popolo ebraico nella terra promessa, così come Gesù porterà l’umanità intera alla salvezza. Giosuè, dunque, arrivò con gli Ebrei davanti a Gerico: egli rappresentava, così, la dottrina cristiana che si pone in atto ostile davanti alla città dei filosofi. Giosuè, cioè Cristo, era preceduto dai sacerdoti, cioè dagli apostoli, che suonavano le trombe: le trombe simboleggiano gli scritti del Nuovo Testamento. Al loro suono le mura di Gerico, cioè della città dei filosofi, crollarono distrutte. Tuttavia, osserva Crouzel, il confronto si ferma a questo punto: Origene non lo completa, e non istituisce un paragone anche tra l’azione successiva di Giosuè, che distrugge dalle fondamenta la città idolatrica, e la dottrina cristiana: quindi Origene ammette che in qualche modo la filosofia possa rimanere in piedi e continuare nella sua funzione utile per gli uomini. Un’altra esegesi è quella della donna pagana fatta prigioniera in guerra, di cui parla un passo del Deuteronomio (21,10-13). Il testo sacro ordina al guerriero ebreo che vuole sposare una donna pagana, che ha fatto prigioniera, di raderle i capelli e di toglierle tutto quello che è morto e inutile. Questa prescrizione è interpretata da Origene nel senso che il cristiano può impossessarsi delle spoglie del paganesimo, a patto che elimini da esse tutto quello che è idolatrico e dannoso (Omelie sul Levitico VII 6). Allo stesso modo Origene interpreta anche una prescrizione che si legge nell’Esodo (11,2; 12,35), quella data al popolo ebraico di lasciare

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l’Egitto portando con sé le cosiddette “spoglie degli Egiziani”, cioè tutto quello di cui gli Ebrei si erano potuti impadronire durante il loro soggiorno presso quel popolo che li aveva tenuti schiavi. Le spoglie degli Egiziani simboleggiano le discipline della enkyklios paideia, ed il problema del rapporto tra le discipline profane e l’insegnamento cristiano era stato di grande importanza anche per Clemente, come abbiamo avuto modo di vedere. Come gli Ebrei, dunque, anche i Cristiani si serviranno di tutto quello che è utile per costruire la divina filosofia, che è il cristianesimo (la gnosi, per Clemente). Già Ireneo aveva dato un’interpretazione, ma più ampia, di questo episodio: per Ireneo, le spoglie degli Egiziani rappresentano tutto quello che il cristiano riceve dall’ambiente pagano in cui vive. Origene non si oppone a che i giovani cristiani seguano le lezioni dei maestri pagani, purché essi siano in grado di oltrepassare quell’insegnamento e di integrarlo nella prospettiva della fede. La formazione intellettuale da sola, infatti, può produrre sia il bene sia il male. Lo studio della filosofia e delle scienze mostra che il cristianesimo è superiore ad esse, ma d’altra parte quello studio è utile, perché permette di difendere la fede dagli attacchi dei pagani. Una conoscenza approfondita è necessaria al cristiano colto per giustificare la propria fede davanti alle contestazioni degli avversari; egli deve essere capace di confutare i filosofi sul loro terreno; il ruolo delle scienze profane, però, deve, in ogni caso, essere ancillare: questa era già stata, in fondo, già la posizione di Clemente. Lo studio della filosofia, se attuato senza discernimento, procura al cristiano un grave pericolo, quello dell’eresia, che è l’applicazione alla Scrittura del metodo filosofico senza che sia salvaguardata la superiorità della parola di Dio. L’intento fondamentale dell’eretico, infatti, non è molto diverso da quello del filosofo, perché entrambi cadono nell’idolatria: si ricordi che il collegamento tra filosofia ed eresia era corrente nei primi secoli del cristianesimo, come si è visto a suo tempo con Ippolito. Origene, dunque, si mostra piuttosto pessimista circa l’utilità della filosofia, ma non intende proibirne l’uso, bensì vuole avvertire che essa deve essere impiegata con prudenza. Il re Salomone, nonostante la sua sapienza, era stato traviato da numerose concubine, che lo trascinarono nelle loro idolatrie: le concubine rappresentano, appunto, le varie filosofie (cf. Omelie sui Numeri 20,3).

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Lo scopo fondamentale dello studio della filosofia pagana è, dunque – come già per Clemente – la costruzione di un pensiero cristiano. Dopo avere distrutto Hesebon, la città dei pensieri profani, come Origene la interpreta, il cristiano non la lascia distrutta, ma la ricostruisce così come egli vuole che da quel momento essa sia, cioè utilizzando i materiali adatti, che trova nelle rovine della città stessa (Omelie sui Numeri 13,2). La vera saggezza, infatti, è quella cristiana, che è basata sulla Scrittura.

Capitolo secondo

La teologia di Origene e l’influenza della filosofia greca 1. Il Dio unico dei Cristiani L’unicità di Dio è riproposta da Origene sulla base della dottrina tradizionale della perfezione del mondo, che richiede l’esistenza di un perfetto creatore, ben superiore ad ogni divinità idolatrica (Contro Celso I 23): Quanto più evidente, quanto più bello di tutte queste ombre di dèi è convincersi, sulla base della realtà visibile, che il mondo ha un ordine mirabile, e quindi venerare il suo creatore: questi è creatore unico di un mondo che è unico, che concorda ed è in armonia con se stesso in tutte le sue parti e che pertanto non può essere opera di numerosi artefici, come pure non può essere retto da varie anime che muovano l’universo.

Origene prosegue così osservando – anche in questo secondo la dottrina stoica delle “nozioni comuni”, ripresa già dagli apologeti (Contro Celso III 40): Considera quindi se le dottrine della nostra fede, che sono in perfetto accordo con le nozioni comuni, non riescano a convertire quelli che ascoltano con attenzione le nostre parole! Infatti, se anche la perversione, quando viene aiutata da una notevole cultura, ha potuto inserire nella folla l’idea che le statue degli dèi e che gli oggetti fatti d’oro, d’argento, d’avorio e di pietra sono degni di adorazione, tuttavia la comune nozione esige di ritenere che Dio non sia in nessun modo una materia corruttibile e non possa essere onorato in materia inanimata, plasmato dagli uomini a loro immagine o secondo alcuni simboli che lo raffigurano. Per questa ragione viene spontaneo dire, parlando delle immagini,

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che «esse non sono divinità» (Atti 19, 26) e, parlando di tali oggetti fatti dalla mano dell’uomo, che essi non sono paragonabili al Creatore e sono ben piccola cosa di fronte al Dio supremo che ha creato e mantiene e governa tutto l’universo. Ed anche in modo spontaneo, come riconoscendo i suoi legami naturali, l’anima razionale rigetta quelle che prima le erano sembrate essere divinità ed invece riconosce la sua naturale attrazione verso il creatore; a causa di questa attrazione per lui accoglie pienamente anche colui che per primo ha offerto queste cose a tutte le genti per mezzo dei discepoli che egli ha formato ed inviato, con divina virtù ed autorità, a predicare la sua parola su Dio e sul suo regno (trad. di P. Ressa, Morcelliana, con modifiche, qui e in seguito).

2. Dio infinito La dottrina dell’infinitezza è sempre stata al centro del dibattito inerente agli attributi di Dio, che spesso era sviluppato con il ricorso alla teologia negativa, volta a definire Dio attraverso quello che egli non è. L’idea che Dio sia infinito si impose nel corso del quarto secolo, ma alcune tracce se ne trovano già in Origene. I Cristiani vi pervennero opponendosi a certe tendenze della filosofia greca, secondo la quale l’infinitezza ha soltanto una valenza negativa; questa titubanza è presente anche in Origene. Infatti l’infinitezza come concetto positivo non è implicita nella teologia negativa di tipo platonico, che pure Origene professa: un dio trascendente non necessariamente era tale perché era infinito. Il sottrarre a dio ogni delimitazione qualitativa (l’essere senza forma, senza misura, senza materia, senza distinzione etc.) non implica direttamente, dunque, la sua infinitezza. Essa, invece, deve essere considerata sotto due punti di vista che sono caratteristici della natura divina in opposizione alla natura creata: come estensione nel tempo e come immutabilità. Queste due estensioni di infinitezza conducono tutte al medesimo concetto: immutabilità nel bene, nella potenza, nella sapienza, e quindi infinitezza di tutte queste prerogative. Il limite, infatti, può sussistere soltanto per la presenza del relativo contrario, ma siccome la natura di Dio non ha un contrario – ché altrimenti cadremmo in un pericoloso dualismo – essa è immutabile. Il concetto di infinitezza, quindi, è

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superiore anche alla teologia negativa e all’impossibilità di conoscere Dio: l’infinito supera le negazioni delle varie qualità. L’idea dell’eternità di Dio (cioè della sua infinitezza nel tempo) non fu, quindi, estranea alla tradizione pagana e cristiana: essa infatti si trova in Origene (I principi IV 4,1): Quando mai non esistette l’immagine della sostanza ineffabile innominabile e inesprimibile del Padre, la sua impronta, la parola che conosce il Padre? [...] Infatti anche questi nomi, come quando e mai, hanno significato di carattere temporale; invece ciò che si predica del Padre del Figlio e dello Spirito Santo deve essere inteso al di là di ogni tempo e di ogni eternità. Infatti c’è solo la Trinità che ecceda ogni comprensione non solo di carattere temporale, ma anche eterno (trad. M. Simonetti).

3. Dio incorporeo Origene insiste in modo particolare sulla natura immateriale e assolutamente semplice di Dio, la cui realtà egli esprime con un termine della filosofia pitagorica impiegato già da Clemente, vale a dire “monade”, che possiamo rendere con “unità” («egli è in senso assoluto monade e, per così dire, enade», dice nel trattato su I principi I 6,4: un passo su cui torneremo anche a pp. 386 e 399). Egli non ha dubbi a proposito dell’immaterialità di Dio: questa sua insistenza può apparire strana e ingenua a noi, ma si deve ricordare non solo che molti antropomorfismi divini, presenti nella Scrittura, venivano interpretati alla lettera dai Cristiani meno colti, ma anche che alcune correnti filosofiche, come lo stoicismo, ritenevano che dio fosse materiale, non essendo concepibile l’immaterialità: per gli Stoici, infatti, tutto quello che esiste deve essere corporeo. Siffatto materialismo era penetrato anche nel cristianesimo occidentale, tanto da essere sostenuto anche da uno scrittore certo non sprovveduto sul piano intellettuale come Tertulliano, di cui parleremo più oltre. Perciò non ci deve meravigliare il fatto che Origene, seguendo Clemente, abbia ritenuto necessario insistere sull’immaterialità di Dio e che, come sostenevano i medioplatonici, abbia affermato che Dio è conoscibile solo con l’intelletto e non con i sensi: i sensi possono conoscere le sue opere, cioè il mondo che è stato da lui creato, ma non la sua natura.

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L’intento di Origene, di asserire l’assoluta immaterialità di Dio, è manifestato da un lungo passo del Commento al Vangelo di Giovanni (XIII 21,123-22,132), in cui la spiegazione è svolta in modo puntiglioso e con il continuo ricorso all’esegesi del testo sacro. Ne diamo solo alcune sezioni: 21[,123] Poiché molti hanno espresso molte opinioni intorno a Dio e alla sua essenza, affermando alcuni che egli è di essenza corporea sottile e aeriforme, altri invece incorporea, altri ancora che è di essenza per dignità e potenza al di sopra di quelle, è giusto che anche noi vediamo se abbiamo spunto dalla sacra scrittura per dire qualcosa sull’essenza di Dio. [124] Qui è detto come lo spirito sia essenza di Dio: «Spirito infatti è Dio» (Gv. 4,24); e nella Legge è definito fuoco, infatti è scritto: «Il Dio nostro è fuoco che consuma” (Dt. 4,24); e da Giovanni luce: «Dio – dice infatti – è luce e in lui non c’è alcuna tenebra» (1 Gv. 1,5). [125] Se consideriamo queste espressioni un po’ troppo superficialmente, non occupandoci se non del senso letterale, è per noi questa l’occasione di dire che Dio è corpo, in quanto non è dei più scorgere quali incongruenze ne derivino se noi diciamo così. Pochi infatti indagano intorno alla natura dei corpi, e soprattutto di quelli che sono ordinati dal Logos e dalla Provvidenza: ed essi affermano con discorso di carattere generale che il provvedere appartiene alla stessa essenza di coloro che sono oggetto della provvidenza, essenza perfetta ma simile a quella di costoro. Quanti sostengono che Dio è corpo hanno dovuto accettare le assurdità che derivano dal loro discorso, non essendo riusciti ad opporsi agli argomenti che venivano presentati con chiarezza e logica. [126] Dico questo per confutare coloro che affermano che c’è una quinta natura dei corpi, oltre i (quattro) elementi [riferimento ai Peripatetici e alla loro dottrina del quinto corpo, cioè l’etere. Il riferimento è necessario, perché Origene sa che molti di coloro che credevano nell’esistenza dell’etere ritenevano che il dio (o gli dèi) fossero di natura eterea]. [127] Se infatti ogni corpo materiale ha una natura che per proprio principio è priva di qualità, mutevole e alterabile e tale che si può completamente trasformare accogliendo le qualità che le vuole imporre il creatore, ne consegue necessariamente che anche

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Dio, in quanto materiale, è soggetto a mutamento, alterazione, trasformazione. [128] E quelli non si vergognano di affermare che Dio è anche corruttibile in quanto corpo, corpo spirituale e aeriforme, soprattutto nella sua parte dominante. Pur essendo corruttibile, non viene portato a corruzione – essi affermano – perché non c’è chi sia capace di far questo. [129] Se poi noi non riusciamo a vedere ciò che conseguirà se da una parte diciamo Dio corpo, definendolo secondo le scritture come un corpo di tal genere, spirito e fuoco che consuma e luce, e dall’altra non vogliamo accettare ciò che necessariamente consegue a questa affermazione, in tal caso ci dovremmo vergognare come sciocchi che parlano contro l’evidenza. Infatti ogni fuoco, avendo bisogno di alimento, è corruttibile; e ogni spirito, se accettiamo il termine nel senso più semplice, essendo corpo, accoglie, per quanto è nella sua natura, la trasformazione in una costituzione più spessa e consistente. [130] Perciò ne consegue che, considerando in tali espressioni solo il senso letterale, noi dobbiamo accettare tali assurdità; ovvero dobbiamo prendere la strada che molte altre volte abbiamo preso, ed esaminare che cosa possa significare che Dio è detto essere spirito o fuoco o luce. 22[,131] E per prima cosa bisogna dire questo: quando troviamo riferiti a Dio occhi, palpebre, orecchi, e mani, braccia, piedi, e anche ali, interpretiamo allegoricamente queste espressioni, disprezzando coloro i quali attribuiscono a Dio una forma simile a quella degli uomini, e facciamo bene così; in maniera analoga dobbiamo comportarci a proposito dei nomi suddetti, seguendo il modo d’interpretazione che ci sembrerà più efficace. Dio è luce – secondo Giovanni – e in lui non è alcuna tenebra. [132] Osserviamo nella maniera più acconcia possibile in che senso si debba interpretare che Dio è luce. In due sensi infatti s’intende la luce, corporea e spirituale, cioè intelligibile: o, come dicono le scritture, invisibile, e come dicono i Greci, incorporea.

In conclusione (I principi I 1,6): Non si deve credere che Dio sia corpo o sia racchiuso in un corpo, bensì che egli è natura intellettuale sempli-

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ce, [...] egli è in senso assoluto monade e, per così dire, enade: intelligenza e fonte da cui deriva ogni intelligenza e tutta la sostanza intellettuale. Ma l’intelligenza per muoversi ed agire non ha bisogno di spazio materiale né di dimensione sensibile né di figura corporea o di colore, né assolutamente di alcuna di quelle che sono le proprietà del corpo e della materia. Perciò quella natura semplice, che è tutta intelligenza, per muoversi ed agire non può trovare ritardo e indugio: altrimenti sembrerebbe che per tale aggiunta sia in qualche modo limitata ed impedita la semplicità della natura divina; sarebbe composto e molteplice ciò che è il principio di tutte le cose; e sarebbe molteplicità, non unità, ciò che, privo di ogni mescolanza corporea, deve consistere, per cosi dire, nella sola forma della divinità.

Se gli uomini sono compositi, Dio, che è principio di ogni cosa, non lo è: altrimenti risulterebbe che siano anteriori allo stesso principio gli elementi di cui è composta qualsiasi cosa che diciamo composta. Del resto, l’anima stessa dell’uomo (e, a più forte ragione, l’intelligenza, che ivi è compresa), non è corporea (I principi I 1,7): Se poi alcuni ritengono che l’intelligenza – e l’anima stessa – sia corporea, vorrei che mi rispondessero come mai essa sia in grado di accogliere spiegazioni e dimostrazioni di argomenti così importanti, difficili e sottili. Donde a lei la capacità della memoria, donde la capacità di contemplare le realtà invisibili, donde deriva al corpo la comprensione di realtà certamente incorporee? In che modo una natura corporea può applicarsi allo studio della scienza e ricercare la spiegazione razionale delle cose? Donde le deriva conoscenza e intelligenza anche delle verità divine che manifestamente sono incorporee? [...] Ancora a conferma e spiegazione di quanto abbiamo detto sulla superiorità della mente e dell’anima rispetto ad ogni sostanza corporea, si può aggiungere anche questo. A ciascun senso corporeo corrisponde esattamente una sostanza sensibile, su cui il senso corporeo esercita la sua azione. Per esempio, alla vista corrispondono colori figure grandezze, all’udito voci e suoni, all’odorato odori buoni e cattivi, al gusto sapori, al

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tatto oggetti caldi e freddi, duri e molli, ruvidi e lisci. Ma a tutti è manifesto che la sensibilità dell’intelligenza è molto superiore a tutti questi sensi, di cui abbiamo detto. Ma allora come non risulta assurdo che all’azione di questi sensi che sono inferiori corrispondano delle sostanze, là dove a questa facoltà che è superiore, dico il senso dell’intelligenza, non sottostà assolutamente nulla di sostanziale, ma la facoltà della natura intellettuale è accidentale ai corpi e ne deriva? Coloro che dicono questo, senza dubbio lo affermano per far offesa a quella sostanza che in loro è migliore: ma di qui l’offesa si ripercuote su Dio, poiché credono che egli possa essere compreso da una natura corporea, per cui secondo loro deve esser corpo ciò che da un corpo può essere conosciuto e compreso; e non vogliono capire che l’intelligenza ha una certa affinità con Dio, di cui è immagine intellettuale; e per questo essa può conoscere qualcosa della natura divina, soprattutto se è il più possibile purificata e separata dalla materia corporea.

Origene dunque propone un’esemplificazione che si esprime attraverso un parallelismo tra i cinque sensi del corpo umano e l’intelligenza (e, di conseguenza, l’anima). A ciascun senso corporeo, infatti, corrisponde una sostanza sensibile sulla quale il senso corporeo stesso esercita la sua azione. Alla vista corrispondono colori, figure e grandezze, all’udito voci e suoni, all’odorato odori buoni e cattivi, al gusto sapori, al tatto oggetti caldi e freddi, duri e molli, ruvidi e lisci. La sensibilità dell’intelligenza è, invece, molto superiore a tutti i sensi corporei. È, dunque, assurdo affermare che all’azione di questi sensi, che sono inferiori all’intelligenza, corrispondano sostanze. Ed è anche insensato affermare che all’intelligenza non pertenga assolutamente nulla di sostanziale e che la facoltà della natura intellettuale sia accidentale ai corpi e derivi da essi. La realtà delle cose è l’esatto contrario di questo. Nell’introduzione al trattato su I principi (§ 8) Origene solleva la questione se il termine “incorporeo”, che non è scritturistico, faccia parte a buon diritto del linguaggio teologico cristiano, per il quale esso è molto utile e funzionale. Il suo interesse per questo termine deriva dal voler sottolineare la trascendenza divina e trovare dei termini che possano spogliare Dio di ogni immagine antropomorfa:

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Il senso in cui “incorporeo” è adoperato non è lo stesso che è indicato dagli autori greci e profani, allorché tra i filosofi si discute della natura incorporea. Infatti in quest’opera [La dottrina di Pietro, un apocrifo neotestamentario] “demone incorporeo” significa che la figura e l’aspetto del corpo del demone è diverso da quelli del nostro corpo spesso e visibile [...] il corpo che hanno i demoni è sottile per natura, per cui da molti è creduto incorporeo [...] in realtà le persone semplici e ignoranti sono solite definire incorporeo quello che non ha spessore, come se si dicesse “incorporea” l’aria che respiriamo, perché essa non è un corpo che possa essere afferrato e tenuto o tale da apparire duro a chi lo tocca.

Origene, quindi, non vuole nemmeno discutere se Dio abbia o no un corpo, ma intende difendere il giudaismo e il cristianesimo dall’accusa di antropomorfismo. Poiché non è un corpo, Dio è una natura intelligibile e “semplice”, cioè in tutto uguale a se stessa (intellectualis natura simplex: I principi I 6,4). E la conclusione è data in un passo di I principi (I 6,4): Se qualcuno pensa che alla fine del mondo la natura materiale, cioè corporea, perirà completamente, io non riesco proprio a capire come tante sostanze possano vivere e sussistere senza corpo, là dove è prerogativa del solo Dio, cioè del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, esistere senza sostanza materiale e senza alcuna unione con elementi corporei.

Più avanti, come vedremo, Origene discute il problema di che cosa sia la bontà e se essa sia applicabile a Dio e come essa sia partecipata dalle altre Persone della Trinità. In Dio si trova la principalis bonitas e a questo proposito egli cita Lc 18,19: «Nessuno è buono, se non Dio il Padre» (I principi I 2,13). Come può, dunque, una natura simplex essere anche buona? Lo scopo del versetto di Luca, che asserisce che buono è solamente il Padre, è quello di affermare che la bontà del Figlio deriva da quella del Padre e che non vi è differenza o diversità di bontà nel Figlio. Vi sono altri esempi di cose buone e Origene li spiega facendo riferimento alle categorie aristoteliche di “sostanziale” o “accidentale”.

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4. Dio è intelligibile; Dio è l’essere Riconsideriamo la definizione di Dio come intellectualis natura simplex o “realtà intelligente e semplice”. Una tale natura non può essere soggetta ad addizioni o sottrazioni (aphairesis). I corpi materiali, che vi sono soggetti, appartengono all’ambito del mutamento e hanno bisogno di una forza che li sostenga per nutrirli. In un passo della Esortazione al martirio (cap. 47) Origene afferma che mentre ciascuna delle nostre membra possiede una familiarizzazione (oikeiotes) con una certa cosa, gli occhi con le cose visibili, le orecchie con le cose da udire, così l’intelletto la possiede con le cose intelligibili e con Dio, che è al di là di esse.

Nel passo ora citato, dunque, Origene usa il famoso avverbio epekeina (“aldilà”), che, a partire da Platone (Repubblica 509 A), indicava normalmente la trascendenza: il termine “aldilà” è impiegato spesso in questo periodo nei testi filosofici o teologici come esprimente trascendenza (cf. Giustino, Clemente, Numenio); è però importante osservare che la trascendenza non elimina la presenza e la funzione dell’intelletto. L’intelletto è adatto all’intelligibile e a quello che è al di là di esso. Origene afferma quindi che Dio è “compreso” dall’intelletto umano e non rimane fuori di esso; tutto il passo è dedicato alla concezione che Dio può essere afferrato con la mente. Ora, con queste parole Origene in parte segue il medioplatonismo e in parte se ne distanzia. Infatti egli afferma che Dio è il Bene e possiede sostanza (ousia), cioè non è “al di là dell’essere”. In Contro Celso VI 64 Origene discute la relazione tra Dio e la realtà, in conseguenza della polemica di Celso contro la concezione antropomorfica degli Ebrei e dei Cristiani della natura di Dio. La risposta è che Dio è al di là dell’essere per “dignità” (presbeia) e per potenza. Ecco, dunque, il passo di Celso: Ha ragione Celso, quando dice che «Dio non partecipa all’essere». Dio è partecipato, invece di partecipare, ed è partecipato da coloro che posseggono lo Spirito di Dio. Ed il nostro Salvatore non partecipa alla giustizia, ma è la giustizia, e per questo motivo è partecipato dai giusti.

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Se Dio fosse al di là dell’essere, prosegue Origene, egli comunque comunicherebbe mediante la sua parola. Se, d’altra parte, è l’essere, ciononostante sarebbe invisibile e, di conseguenza, incorporeo: anche qui Origene impiega il termine che ne I principi aveva ammesso essere non scritturistico. In questo passo egli sembra incerto se affermare che Dio sia nell’essere o al di là dell’essere. Queste parole manifestano la sua riluttanza a staccarsi dalla terminologia biblica. Celso, nel criticare gli antropomorfismi della Scrittura, aveva detto che Dio non ha né forma né colore: Origene replica che vi sono molte cose a cui Dio non partecipa, tra cui l’essere (ousia). Il termine “partecipare” porta la discussione nell’ambito della concezione platonica della partecipazione delle cose alle forme. In questo modo vengono viste le relazioni causali ed ontologiche, per cui Origene afferma che Dio non può partecipare a niente, ma, al contrario, è partecipato, e coloro che hanno lo spirito di Dio partecipano a lui. Non esistono livelli ed ipostasi che siano ontologicamente antecedenti al Padre e al Figlio. Un passo del Commento al Vangelo di Giovanni (II 13,91 ss.) insiste sul concetto di non-essere, nell’intento di spiegare l’essenza del male. L’argomento del capitolo è l’opera creatrice del Logos e se l’esistenza del male può essere attribuita a lui o no. Origene conclude (96): Il Bene coincide con colui che è. Opposto al bene è il male o la malvagità, ed opposto all’essere è il non essere. Ne consegue che la malvagità e il male sono non essere.

Su questo punto torneremo ancora (p. 420), ma è chiaro, qui, il riferimento al passo di Esodo 3,14, e l’identificazione di Dio con l’essere era già stata discussa da Clemente (cf. p. 339). Origene conclude dicendo che i malvagi sono quelli che hanno abbandonato la loro parte di essere, diventando non essere; un altro passo del genere si trova ne La preghiera 27,7, ove si esamina la preghiera di Cristo al Padre: «dacci oggi il nostro pane quotidiano». “Quotidiano” è, in greco, epiousios, per cui Origene si domanda che tipo di pane possa essere quello che è collegato con il termine ousia e interpreta il passo facendo riferimento a quello di Esodo 19,5, ove si dice: «Tu sarai per me un popolo peculiare (periousios)»; egli allegorizza i due versetti in un unico commento:

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Entrambe le parole mi sembra che siano derivate da ousia (sostanza), e l’una indica il pane che è unito nella sostanza dell’uomo, l’altra indica il popolo che vive vicino alla sostanza (periousios) e che vi partecipa.

5. Dio inconoscibile Nel pensiero origeniano l’inconoscibilità di Dio non è affermata così chiaramente come nella filosofia medioplatonica. Nell’approccio dell’Alessandrino a tale dottrina si riscontra una forte ambiguità, come ha osservato il Mortley (R. Mortley, From Word to Silence, II, Bonn 1986). Tutto questo emerge dalla risposta alquanto tortuosa che egli dà a Celso a proposito di questo problema (Contro Celso VII 43). In tale risposta, infatti, l’insegnamento pervenuto grazie alla tradizione cristiana ha, per Origene, un ruolo non inferiore a quello della filosofia, in particolare quella platonica. L’Alessandrino solleva la questione dell’incomunicabilità di Dio sulla base del famoso passo del Timeo (28 C) che dice che conoscere Dio è difficile e comunicarlo agli altri è addirittura impossibile. Celso se ne era servito a sostegno della sua affermazione che Dio è inesprimibile (arrhetos) (VII 42). Origene giustamente muove delle obiezioni a tale interpretazione, sostenendo che quello non è il vero significato dell’affermazione di Platone, e ritiene che sia inesprimibile non solo Dio, ma lo siano anche altre cose. Origene, infatti, vuole interpretare l’esperienza di Paolo, il quale avrebbe ascoltato nel terzo cielo delle “parole non esprimibili” (2 Cor. 12,4) e, d’altra parte, vuole sottolineare l’importanza che ha l’incarnazione del Signore perché noi possiamo conoscere Dio: conoscendo Cristo incarnato, noi conosciamo Dio il Padre. Paolo ottenne la conoscenza grazie a una sua esperienza, nonostante che essa non fosse esprimibile; tuttavia Paolo “udì”, vale a dire, “comprese”. Adattando queste affermazioni alla terminologia medioplatonica, si può dire che Dio e le altre entità trascendenti sono incomunicabili con il linguaggio, ma si trovano all’interno dell’intelletto, perché è possibile un altro tipo di conoscenza. Origene, invece, nonostante che in tutto questo passo si confronti con l’epistemologia medioplatonica, tratta la questione in termini biblici e si rivolge alla struttura concettuale del medioplatonismo molto meno di quanto non abbia fatto Clemente.

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La sua risposta ai tre modi di conoscere Dio, che sono propri del medioplatonismo (sintesi, analisi e analogia) è la seguente (Contro Celso VII 44): Dio è conosciuto grazie alla bontà e all’amore di Dio per gli uomini, per una certa grazia miracolosa e divina.

Origene è riluttante, quindi, ad unirsi al linguaggio apofatico del medioplatonismo. In un altro passo egli sottolinea l’ineffabilità di Dio e la ristrettezza della mente umana, che non può comprendere i misteri divini. L’incarnazione, egli dice, sorpassa le forze del nostro intelletto, della lingua e del nostro merito (I principi II 6,2). Le dottrine relative al Cristo incarnato sfuggono alla nostra intelligenza per il seguente motivo: Se l’intelletto umano lo crede Dio, lo vede soggetto alla morte; se lo reputa uomo, lo vede tornare dai morti con le spoglie del vinto regno della morte. Perciò con ogni timore e reverenza bisogna considerare come in un solo e stesso essere la realtà di ambedue le nature si riveli in maniera tale che non si possa ammettere alcunché di indegno e sconveniente in quella divina e ineffabile sostanza [...]. Presentare ad orecchie umane e chiarire con dimostrazione questo concetto eccede di gran lunga le capacità della mia intelligenza e della mia parola.

Se si considerano le discussioni dei medioplatonici sul fatto che l’uno trascende l’intelletto, l’affermazione di Origene ha un chiaro significato: egli sostiene che anche la teologia dell’incarnazione è più grande della mente umana e la grandezza dell’avvenimento produce stupore e paura, ma ci fa pur sempre conoscere Dio. Un altro punto del Contro Celso (VII 42) è fondamentale per questa tematica: esso è stato discusso anche da A.-J. Festugière (La révélation d’Hermès Trismégiste, Paris IV 1954, p. 119 ss.). Celso aveva affermato che i sapienti avevano cercato di far conoscere quello che è impossibile esprimere a parole mediante la sintesi, che è la congiunzione di realtà, mediante l’analisi, che è la separazione dalle realtà esistenti, o mediante l’analogia.

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Questo è uno dei passi più importanti per l’epistemologia del medioplatonismo. Il concetto di “analogia” costituisce una questione a parte, perché non rientra nell’approccio negativo, ma si riferisce piuttosto al tentativo di fare delle affermazioni di carattere positivo. Il concetto di “analisi”, invece, è usuale fin dai tempi di Clemente e introduce la nozione di “negazione” (apophasis) e di “astrazione” (aphairesis). Replicando a Celso, pertanto, Origene osserva (VII 44): Celso pensa che Dio sia conosciuto per mezzo della sintesi, che è una combinazione dalle realtà esistenti, come quel processo che gli studiosi di geometria chiamano “sintesi”, o mediante l’analisi dalle realtà esistenti, o mediante l’analogia, anch’essa simile all’analogia impiegata dagli studiosi di geometria.

Il Festugière sostiene che Origene, purtroppo, non ha presentato alla lettera il testo di Celso a proposito delle tre vie, per cui la sua interpretazione è sbagliata: ma questa affermazione non è esatta. Secondo quello studioso, il riferimento che Origene fa alla geometria è errato, perché non lo si legge in altri testi medioplatonici. Ma esiste un passo di Proclo (Commento ad Euclide p. 43,18 Friedlein) che conferma che l’analisi si attua con il movimento verso le prime realtà, cioè non è solo un metodo geometrico, ma effettivamente una via per conoscere Dio, mentre la sintesi parte dai primi principi e ne deduce quello che deriva da essi. Secondo Origene, quindi, l’uso della geometria rientra effettivamente nei tre modi che esistono per conoscere Dio invocati da Celso. Ma Dio, secondo Origene, non può essere considerato come una conseguenza al di là della quale si può ragionare mediante l’analisi e nemmeno si può dedurre Dio usando un principio superiore a lui come punto di partenza (sintesi). In realtà il ricorso alla geometria è normale nel medioplatonismo, e Clemente di Alessandria già aveva affermato (Stromati V 11,71,2): possiamo raggiungere la contemplazione mediante l’ascesa verso il primo Intelletto, adoperando l’analisi. Si comincia con l’analisi degli esseri che sono inferiori all’Intelletto, astraendo le peculiarità fisiche, togliendone la profondità, poi la larghezza e infine la lunghezza. Il punto che resta è l’unità. Essa conserva ancora, però,

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una “posizione”. Se togliamo anche la posizione, si giunge al concetto di unità vera.

Come ha osservato Whittaker, dal momento che sia Celso sia Clemente usano questi termini, è chiaro che essi erano di uso corrente nel medioplatonismo. Quindi il termine di “analisi” è equivalente ad aphairesis, cioè “astrazione” (cfr. pp. 331-335). Mortley insiste sull’importanza del testo di Proclo. L’“analisi”, osserva lo studioso, è interpretata da Proclo come un ragionamento che prende in considerazione qualcosa che è già un dato di fatto e cerca di scoprire da dove tale cosa proviene: in questo modo noi arriviamo ai principi primi. I filosofi medioplatonici trasportano questo procedimento dalla geometria all’ontologia e all’epistemologia: esso è applicabile soprattutto alla “via negativa”, se pensiamo che un certo dato di fatto appartiene alla realtà sensibile. Questo, infatti, è lo scopo delle astrazioni successive che conducono a Dio (o alla monade o all’uno): la geometria serve a farci vedere che la via negativa è un mezzo per scoprire le fonti della realtà sensibile, piuttosto che una distruzione sistematica del pensiero e della ragione. Bisogna prendere come punto di partenza per l’indagine la realtà composta, per scoprire, mediante l’analisi, le sue fonti e le sue parti costitutive. La sintesi, invece, inverte il procedimento. Essa combina gli oggetti della ricerca con le cause antecedenti, solo che esse ora diventano conseguenze. Il primo principio è ricercato attraverso i suoi effetti. La definizione di Proclo sottolinea il collegamento che esiste nella grande catena dell’essere: la sintesi connette successivamente uno stadio con l’altro e questo è il processo a cui si richiama Celso. La contemplazione passa dalla bellezza degli oggetti sensibili a quella dell’anima, quindi al vasto “oceano del bello” ed infine al bene, come aveva insegnato Platone nel Simposio (210 D). Ecco, quindi, la spiegazione, in modo essenziale ed in termini matematici, delle tre vie (o almeno di due di esse) di cui parla Celso. La conclusione è semplice: Origene aveva ragione a spiegare il testo di Celso facendo riferimento ai principi matematici e Celso si collocava, così facendo, nella corrente principale della tradizione del medioplatonismo. Rimane la questione se Origene considerasse il metodo negativo come uno strumento teologico. Origene insiste sull’ineffabilità

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di Dio, sottolineando il fatto che il dio platonico di Celso era, in realtà, comunicabile con il linguaggio e quindi non era così venerabile come il Dio dei Cristiani. Poiché Origene si riferisce all’insufficienza del linguaggio umano, ci si potrebbe aspettare che egli scegliesse la via negativa perché la considerava uno strumento appropriato per conoscere Dio. In realtà questo non avviene: Origene preferisce discutere la questione con un suo linguaggio personale, che è impregnato di citazioni bibliche. Il tema principale della sezione costituita da Contro Celso VII 42-44 si basa sull’uso del Timeo (28 C), fatto da Celso: Origene ne trae due implicazioni, la prima, che il dio di Platone era comunicabile con il linguaggio e che quindi era meno venerabile del Dio dei Cristiani; la seconda, che la concezione platonica implica che dio può essere raggiunto dalla natura umana senza bisogno di aiuto, cioè mediante il solo intelletto, e che questo è falso: Platone può dire che è una cosa difficile scoprire il creatore e padre di questo universo, con questo ammettendo che non è impossibile alla natura umana trovare Dio in un modo degno di lui. Noi invece sosteniamo che la natura umana non è affatto in grado di cercare Dio o di trovarlo mediante la purezza, a meno che non siamo aiutati da colui che è ricercato.

L’incapacità umana di conoscere Dio è di nuovo sottolineata in Contro Celso VII 44, dove si dice che l’amore e la grazia di Dio sono le fonti di tale conoscenza. La replica di Origene alla via negativa e ai tre modi platonici di conoscere Dio è costituita, dunque, dal sottolineare la necessità che Dio ci conceda tale possibilità, e questo corrisponde alla tradizione cristiana. Le tre vie sono delle tecniche sviluppate dall’uomo solamente per il proprio uso. Questo passo del Contro Celso non è uno di quelli in virtù dei quali si può fare di Origene un platonico, contrariamente a quello che si crede. A questa interpretazione estranea al platonismo contribuiscono anche gli interessi mistici di Origene, che sono stati sottolineati soprattutto da Völker e Crouzel. Questo aspetto del suo insegnamento – non filosofico, ma mistico e religioso – acquista sempre maggiore importanza presso gli studiosi moderni. Secondo Mortley, il misticismo di Origene non ricava né le sue immagini né

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le sue idee dal misticismo neoplatonico, che allora era agli inizi. Origene non ne è esente, ma esso non penetra nell’interno del suo pensiero. L’imitazione di Cristo è una delle principali norme, secondo Origene, per la vita del cristiano, come è testimoniato da un passo de I principi (III 6,1): Il sommo bene, a cui tende tutta la natura razionale e che è definito anche come “il fine di tutte le cose”, secondo quanto dicono anche molti filosofi, consiste nell’assimilazione a Dio secondo quanto è possibile. Ma io non credo che siano stati i filosofi a trovare questa concezione, bensì che essa sia stata ricavata dalla Scrittura.

Su questo precetto della “assimilazione a Dio” torneremo anche in seguito (p. 446). Si ha, comunque, in questo passo de I principi la giustificazione per procedere verso l’attuazione di questo ideale: una volta che si è stati formati ad immagine di Dio, ci si deve sforzare per perfezionare la somiglianza con lui. L’imitazione di Dio e di Cristo ha una grande importanza, in Origene, per descrivere il comportamento del perfetto cristiano e ci conduce verso l’ascesi mistica, la quale culmina nella immagine del Cantico dei Cantici, dell’anima che si unisce a Dio: si tratta, quindi, di un ambito mistico, che esula dal medioplatonismo e da ogni forma di “via negativa”. La conclusione, per dirla con le parole di Mortley (p. 84), è che è un fatto straordinario che Origene sia uno dei più grandi pensatori mistici cristiani e ciononostante stia fuori della corrente principale del pensiero greco che si evolveva verso il misticismo. Varie caratteristiche del suo pensiero distinguono Origene dai platonici suoi contemporanei: prima di tutto, il suo misticismo è centrato sull’imitazione di un modello umano, cioè di Cristo. L’assimilazione del saggio a dio è una dottrina comune nel platonismo dell’epoca, ma un modello del saggio in forma umana non era mai stato pensato. In secondo luogo il misticismo di Origene sottolinea il fatto che Dio rende l’anima capace di realizzare lo scopo a cui tende. Il principio teologico secondo il quale il cristiano ha bisogno della grazia di Dio è operante in tutta l’opposizione di Origene all’umanesimo greco, che egli vedeva attuato nelle tre vie del medioplatonismo. Clemente di Alessandria aveva mostrato

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come la via negativa potesse essere inclusa nella formulazione di un approccio cristiano alla conoscenza del trascendente, ma Origene non lo ha seguito in questa affermazione. In terzo luogo, Origene assume, relativamente al linguaggio e alla mente, una posizione che può essere sintetizzata nella concezione che Dio, se è incomprensibile dal linguaggio umano, è comunque accessibile alla mente ed è l’oggetto della conoscenza. Questo si può trovare anche in Alkinoos, che aveva affermato che l’uno è inesprimibile, e tuttavia è appreso dall’intelletto (Didascalico 10, p. 164,7 e 28). Tuttavia – prosegue Mortley – non si può affermare che Origene sia un medioplatonico, anche se è certamente vero che egli formula le sue posizioni in risposta al medioplatonismo, spinto a fare questo in particolare da Celso. Contrastando il medioplatonismo, Origene afferma che il Dio cristiano è veramente incomunicabile, a differenza del dio di Platone, il quale, stando a quanto afferma il Timeo, almeno a pochi è comunicabile. Origene impone a Celso il compito di spiegare come mai ha accentuato arbitrariamente, nella dottrina platonica, il risvolto dell’apofatismo, asserendo che dio è assolutamente inconoscibile (e questa era l’esegesi comune dei medioplatonici). Contro questa ermeneutica inaccettabile Origene adduce l’esempio di Paolo, il quale ascoltò per esperienza parole inesprimibili. Nonostante questo interesse per i temi della teologia negativa, Origene, quindi, si rifiuta di accoglierla. Il medioplatonismo contribuisce poco alla epistemologia di Origene o alla sua teologia mistica. 6. Bontà di Dio Secondo la visione di Origene, Cristo è l’immagine della bontà di Dio, ma non può essere la bontà in toto; trae piuttosto la propria bontà dal Padre, che è la “Bontà in sé”, perché, pur essendo Dio, partecipa, a causa della sua incarnazione, anche della bassezza della natura umana dopo la caduta. Questo concetto di Dio come bontà unica ed unitaria, della quale il Figlio partecipa traendo da essa la propria, è tipicamente platonico (e neoplatonico) ed in esso si riscontra il parallelismo che sussiste tra le figure di Dio e del Cristo nella visione cristiana e quelle del dio primo e del demiurgo (il dio secondo) in quella platonica e neoplatonica.

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Scrive dunque Origene (I principi I 2,13): Resta da esaminare che cosa sia l’immagine della sua bontà (Sap. 7, 26), intorno alla quale credo che convenga intendere le stesse cose che sopra abbiamo detto sull’immagine che si forma nello specchio. Bontà originaria ed assoluta senza dubbio è il Padre; quanto al Figlio che da lei è nato, in quanto immagine perfetta del Padre, giustamente io credo che di lui si possa dire che è l’immagine della bontà di Dio, ma non la bontà in sé: anche il Figlio è buono, ma non assolutamente buono. E come egli è immagine di Dio invisibile [Col. 1, 15] e per questo è Dio, ma non quel Dio di cui proprio Cristo dice: «Affinché conoscano te il solo vero Dio» (Gv. 17, 3), così è immagine della bontà, ma non è buono in forma identica rispetto al Padre. […] Infatti non c’è nel Figlio un’altra seconda bontà oltre a quella che c’è nel Padre. Per cui giustamente proprio il salvatore dice nel Vangelo: «Nessuno è buono se non il solo Dio Padre» (Mc. 10, 18), perché così si comprenda che il Figlio non ha altra bontà se non quella sola che è nel Padre: di tale bontà giustamente è detto immagine, perché non deriva da altro che da questa originaria ed assoluta bontà, affinché non ci sia nel Figlio altra bontà che quella che è nel Padre; e non c’è nel Figlio alcuna dissomiglianza o differenza di bontà. Perciò non si deve vedere una specie di bestemmia nell’espressione: «Nessuno è buono se non il solo Dio Padre» (Mc. 10, 18), sì da credere che con ciò venga negata la bontà del Figlio e dello Spirito santo: ma, come abbiamo detto sopra, si deve intendere la bontà originaria ed assoluta in Dio padre.

In questo brano si avverte tutta l’influenza della concezione platonica (e medioplatonica) dell’identificazione del bene con Dio. Numenio infatti definì dio come il sommo bene, dal quale il demiurgo (il secondo dio) trae la propria bontà. 7. Il Dio cristiano: la Trinità La teologia trinitaria, ancora imperfettamente tracciata da Clemente, giunge ad una piena elaborazione con Origene, anche se con il ricorso usuale al medioplatonismo contemporaneo. Questo

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è avvenuto forse per merito dell’insegnamento di Ammonio Sacca, del quale sia Origene sia Plotino furono discepoli. L’unità assoluta di Dio è espressa da questa affermazione de I principi (I 1,6), che oramai conosciamo: essa colpisce per la precisione e l’uso consapevole dei termini tecnici della filosofia greca: Dio è una natura semplice e intelligibile, una monade, e, per così dire, una enade, un intelletto e la fonte da cui prende inizio tutta la natura intellettuale e la mente.

Partendo, dunque, dai dati della tradizione cristiana e dalla fede battesimale “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, e da questa asserzione essenziale dell’unità di Dio sul piano filosofico, Origene elabora una dottrina trinitaria per certi aspetti più fedele alla tradizione e meno filosofica di Clemente, in quanto tutte e tre le Persone hanno maggior rilievo e appaiono più concretamente “individuali”. Quelle che comunemente noi chiamiamo “Persone” divine sono dall’Alessandrino definite “ipostasi”: Pertanto noi adoriamo il Padre della verità e il Figlio, che è la verità; essi sono due realtà per l’ipostasi, ma una sola quanto alla unanimità, alla concordia e all’identità della volontà. (Contro Celso VIII 12) Noi crediamo che esistano tre ipostasi, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e crediamo che nessuna di esse, all’infuori del Padre, sia “non generata” (Commento al Vangelo di Giovanni II 10,75).

Origene sembra essere stato il primo teologo cristiano ad impiegare il termine “ipostasi”, anche se non ancora con l’accezione specifica della formula “una sostanza in tre ipostasi”, che verrà proposta e difesa nel quarto secolo. Il termine “ipostasi”, in Origene, significa semplicemente “realtà singola”. Ebbene, se tre sono le ipostasi divine per Origene, tre sono le “ipostasi originarie” per Plotino: “ipostasi” era stato il titolo dato da Porfirio al primo trattato della quinta enneade. Il filosofo neoplatonico si distingue tuttavia da Origene, in quanto, a causa della struttura gerarchica della sua dottrina, considera ciascuna ipostasi non solo come realtà ma anche come causa della realtà posta sotto di sé (l’uno è causa dell’intelletto e l’intelletto causa dell’anima cosmica).

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Per difendere la sua dottrina Origene non ricorre, come si era soliti fare fin dai tempi dell’apologetica, al famoso passo della seconda epistola pseudoplatonica. Origene lo ricorda, ma in quanto lo trova citato da Celso, e sostiene che i santi uomini del cristianesimo avevano già conosciuto la stessa dottrina che Celso ammira in Platone (Contro Celso VI 18). Origene spiega come intenda la Trinità cristiana nella prospettiva della storia della cultura greca in un passo famoso (I principi I 3,1): Tutti coloro che, in un modo o nell’altro, pensano che esista una provvidenza, sostengono che esista un Dio non generato, il quale ha creato e dato ordine all’universo: questo sarebbe il Padre del tutto. Che esista un Figlio di questo Padre, nonostante che tale concezione possa sembrare strana a coloro che praticano la filosofia sia presso i Greci sia presso i barbari, non è una dottrina solamente nostra, perché anche alcuni filosofi pensano, a quanto sembra, allo stesso nostro modo, in quanto dicono che l’universo è stato creato dal Logos di Dio [...] Ma che esista anche lo Spirito Santo è una dottrina che è presente solo in coloro che conoscono la Legge e i Profeti e professano di credere in Cristo.

Nel contesto della teologia trinitaria origeniana la seconda ipostasi, il Figlio, sarebbe, secondo un’interpretazione più tarda, ostile all’Alessandrino, ad un livello inferiore rispetto al Padre, così come lo Spirito rispetto al Figlio. Questa accusa fu mossa a partire dal quarto secolo, quando il concilio di Nicea aveva stabilito il dogma di fede secondo il quale il Figlio è consustanziale al Padre; ma ai tempi di Origene era una tendenza comune considerare il Figlio “inferiore” al Padre, non foss’altro perché aveva avuto rapporto con la realtà creata a causa della sua incarnazione; questa subordinazione del Figlio al Padre era stata ancora più accentuata presso i teologi cristiani anteriori ad Origene. Era stata evidente in Clemente, il quale aveva attribuito il concetto di monade assoluta al Padre soltanto, mentre il Figlio sarebbe stato una monade risultante dalla molteplicità (p. 344). Esistono, quindi, alcuni passi origeniani che manifestano in modo chiaro tale subordinazione (cf. Contro Celso VIII 15; Commento al Vangelo di Giovanni XIX 6,37-38).

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Non solo, ma, stando a un passo de I principi (II 10,75), Origene afferma, come passo ulteriore, la subordinazione dello Spirito Santo al Figlio: Lo Spirito Santo è più prezioso di ogni altro essere che ha avuto esistenza attraverso il Logos, e primo nella serie tra tutti quegli esseri che sono stati generati dal Padre attraverso Cristo.

Origene afferma anche che «la potenza del Padre è maggiore di quella del Figlio e dello Spirito santo; quella del Figlio maggiore rispetto allo Spirito santo». Di conseguenza si può anche tracciare un parallelo tra questa gerarchia trinitaria e il neoplatonismo, perché allo stesso modo l’Intelletto, secondo Plotino, è inferiore all’Uno, e l’Anima cosmica è inferiore all’Intelletto. 8. Il Figlio Come già aveva detto Clemente, dunque, mentre il Padre è caratterizzato dalla “unità”, il Figlio, pur essendo Dio, è caratterizzato dalla molteplicità. Tutte le creature razionali partecipano del Figlio, perché il Figlio, in quanto Logos, è principio della razionalità (I principi I 3,5-6). Con una riflessione che comporta molti problemi, sui quali si tornerà in seguito, Origene riconduce questa partecipazione al fatto che Dio è “Colui che è”: Colui che pronunzia queste parole è il Dio buono, ed è a lui che il Salvatore allude, rendendogli gloria, con queste parole: «Nessuno è buono, se non Dio, il Padre» (cf. Mc 10,18; Lc 18,19). Quindi il Buono si identifica con «Colui che è». Ora l’opposto del buono è il male o il malvagio; l’opposto di «Colui che è» è il non-essere: ne consegue che ciò che è cattivo e ciò che è malvagio sono non-essere. […] Pertanto tutti coloro che partecipano a «Colui che è» (e i santi vi partecipano) si possono a buon diritto chiamare “esseri”; coloro invece che hanno rifiutato la partecipazione a «Colui che è», essendo privi di essere, diventano non-esseri (Commento al Vangelo di Giovanni II 13,96-98; trad. di E. Corsini UTET).

Seguendo la “teologia del Logos”, che abbiamo già visto abbozzata in Filone di Alessandria e sviluppata dall’apologetica,

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Origene interpreta la figura del Figlio come Logos attraverso il quale si esplica la volontà di Dio e che è intermediario tra l’assoluta trascendenza del Padre e la contingenza del creato. Egli approfondisce questa dottrina in un passo importante del Commento al Vangelo di Giovanni (II 3,19-21): [19] Ora, però, può accadere che alcuni siano urtati da quanto abbiamo detto, che cioè c’è un solo vero Dio, il Padre, e dopo questo Dio vero numerosi altri, divenuti tali per partecipazione; costoro, infatti, temono che la gloria di colui che supera ogni creatura sia equiparata a quella di tutti gli altri che ricevono l’appellativo di «dèi». E pertanto alla distinzione già fatta in precedenza, secondo la quale abbiamo detto che il Logos che è Dio è ministro della divinità per gli altri dèi, dobbiamo aggiungerne un’altra. [20] Il logos che è in ciascun essere dotato di logos ha, rispetto al Logos che è Dio e che è «nel principio presso Dio», lo stesso rapporto che il Logos che è Dio ha nei confronti di Dio. […] [21] E come ci sono molti dèi, ma per noi c’è un solo Dio, il Padre; e come ci sono molti signori, ma per noi un solo Signore, Gesù Cristo (1 Cor. 8,5 s.), così ci sono molti logoi, ma noi preghiamo che in noi si trovi il Logos che è nel principio e presso Dio, il Logos che è Dio.

La molteplicità del Figlio è l’oggetto del nostro pensiero (epinoia). Il termine epinoia deriva dallo stoicismo e indica l’aspetto concettuale di una determinata realtà, cioè il «considerare un oggetto con il pensiero umano». Origene dedica alla epinoia del Figlio un’ampia sezione del suo Commento a Giovanni (I 20-22), in cui esamina i diversi titoli attribuiti dalle Scritture al Figlio: Sapienza, Logos, immagine di Dio, splendore ecc. L’Alessandrino, dando quindi grande risalto alla funzione di intermediario, che è propria del Figlio, ritiene che queste definizioni esprimano i suoi vari modi di manifestarsi. Ad esempio, pur essendo uno nella sostanza, il Figlio è Sapienza, perché è il «luogo delle idee» secondo le quali è stato creato il mondo; è Logos, perché rappresenta e rivela il piano di Dio; è «l’immagine di Dio», per cui l’uomo, che è stato creato, come dice la Scrittura, «ad immagine e somiglianza di Dio», è «l’immagine dell’immagine» (Commento al Vangelo di Giovanni II 3,20). An-

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che Clemente aveva affermato che nel Figlio si trovano presenti l’unità e la molteplicità insieme. La distinzione tra il Padre ed il Figlio è, secondo Origene, anche terminologica e linguistica, e si esprime, in greco, attraverso l’utilizzo (o il non utilizzo) dell’articolo per definire il Logos (Commento al Vangelo di Giovanni II 2,13-15): [13] Affatto intenzionale e non dovuto sicuramente ad ignoranza dell’uso esatto della lingua greca è anche il fatto che Giovanni talvolta abbia messo e talvolta invece abbia omesso l’articolo: l’ha messo davanti alla parola Logos; quando invece parla di Dio talvolta l’ha messo e talvolta no. [14] Mette l’articolo quando il termine «Dio» si riferisce al Creatore increato dell’universo, lo omette invece quando esso si riferisce al Logos. Come, dunque, c’è differenza tra il termine Dio con l’articolo e senza articolo, così forse c’è differenza tra Logos con l’articolo e senza articolo: [15] come il Dio dell’universo è il “Dio” e non semplicemente “un Dio”, così la fonte del logos che è in ciascun essere dotato di logos è “il Logos”, mentre non sarebbe esatto chiamare “il Logos” con lo stesso titolo del “primo Logos” quello che è in ciascun [essere dotato di logos].

Per rispondere a delle dottrine eretiche, che sono delle deviazioni rispetto alla corretta dottrina cristologica, Origene riprende la distinzione tra il Logos ed i logoi da esso derivati. Proseguendo nella sua spiegazione, afferma: [17] Occorre dire a costoro: Dio è “Dio-in-sé”; e per questo anche il Salvatore, nella sua preghiera al Padre, dice: «Che conoscano te, unico vero Dio» (Gv 17,3). All’infuori del “Dio-in-sé”, tutti quelli fatti per partecipazione alla divinità di lui si devono chiamare più propriamente “Dio” e non “il Dio”. Tra questi di gran lunga il più augusto è il primogenito di ogni creatura (Col 1,15), in quanto, in virtù dell’essere presso Dio, per primo trasse a sé la divinità, divenuto poi ministro di divinizzazione per gli altri dèi che sono dopo di lui (e dei quali Dio è Dio, secondo quanto dice la Scrittura: «Il Dio degli dèi parlò e convocò la terra») (Sal 49, 1), attingendo da Dio e comunicando loro

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abbondantemente, secondo la sua bontà, perché fossero divinizzati. [18] Vero Dio è dunque “il Dio”; coloro, invece, che sono dèi in quanto prendono forma da lui, sono come immagini di un prototipo. E l’immagine archetipa delle varie immagini è il Logos che era presso Dio, che era nel principio; egli rimane sempre Dio per il fatto di essere presso Dio (Gv 1, 1); e non avrebbe questo se non rimanesse presso Dio; non rimarrebbe Dio se non perseverasse nella contemplazione perenne della profondità del Padre.

Questa tematica affrontata da Origene è affine a quella trattata da Plotino (cfr. Enneadi III 8, 8), secondo la quale il Nous esiste in quanto contempla l’Uno. In tutta l’argomentazione di Origene si rileva lo sforzo, non sempre coronato da successo, di difendere, da una parte, l’individualità del Figlio in quanto Dio, contro i modalisti (un’eresia che negava l’esistenza personale del Figlio, distinta da quella del Padre), e, dall’altra, quella di tenere Dio il Figlio separato anche dagli altri esseri (potenze angeliche, astri) che tradizionalmente possono essere denominati “dèi” in senso lato. Da questo deriva lo sforzo origeniano di ridurre il più possibile questa subordinazione nel rapporto Padre/Figlio. 9. Il Figlio “Logos” Origene affronta la questione della figura del Figlio intesa come Sapienza e come Parola creatrice. Dio è la “Sapienza in sé”, ma il Figlio ne partecipa ed è, a sua volta, Sapienza-Logos. Per distinguere gli appellativi di Sapienza e di Logos, Origene vede nella Sapienza specificamente l’attività creatrice e riferisce invece al Logos la rivelazione del piano divino messo in opera dalla Sapienza stessa. Tuttavia tale distinzione non è rigorosamente osservata, sia per la duplicità di significati che possiede la parola “logos” (ragione e parola) sia perché tale oscillazione si trova anche nella tradizione della teologia del Logos, risalente agli apologeti. Origene, comunque, vuole affermare la sussistenza personale del Figlio in quanto Sapienza ed in quanto Logos (cfr. Commento al Vangelo di Giovanni I 24) e nega, dunque, che questi appellativi possano essere intesi soltanto come indicanti facoltà operative del Padre attuate attraverso il Figlio. Cristo, dunque, partecipa

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della Sapienza del Padre ed è Sapienza come Logos creatore, Sapienza egli stesso in quanto principio creatore del mondo ed intermediario tra la trascendenza assoluta del Padre e la contingenza materiale del creato. Anche secondo Plotino il Nous è molteplice ed è tutte le cose. Il rapporto uno / molti, già analizzato da Platone nel Parmenide, viene risolto sia da Origene sia da Plotino concentrando la pluralità nel Logos / Nous divino al di sotto del Dio sommo, che è assoluta unicità (uno, enade, monade). Ci sono diversi livelli di partecipazione al Logos. Quella più alta è la partecipazione al Logos nella sua natura divina, conseguita dai profeti dell’Antico Testamento e dai Cristiani che approfondiscono la conoscenza dei misteri divini. A livelli inferiori si collocano quei Cristiani “semplici” che aderiscono soltanto al Logos incarnato e non sanno elevarsi dall’umanità del Figlio alla sua divinità. In terzo luogo vengono i filosofi pagani, i quali hanno partecipato soltanto del Logos in quanto ragione universale, attingendo a lui qualche parte di verità (e questo era già stato asserito da Giustino e dagli apologeti); all’ultimo livello si collocano quanti, pur partecipando della ragione universale, non hanno saputo da essa trarre la forza per giungere al possesso, sia pure parziale, della verità. Ecco alcuni passi che spiegano il pensiero origeniano a questo riguardo (I principi I 2,1-2): [1] Pertanto prima dobbiamo esaminare che cosa significhi unigenito Figlio di Dio, che è chiamato con molti e diversi nomi a seconda delle circostanze e delle opinioni di coloro che lo nominano. Infatti egli è chiamato Sapienza, come Salomone ha detto in persona della Sapienza: «Il Signore mi ha creato inizio delle sue vie per le sue opere; prima di fare ogni altra cosa, prima dei secoli mi ha stabilito. Al principio, prima che facesse la terra, prima che scaturissero le fonti di acqua, prima che fossero stabiliti i monti, prima di tutti i colli mi generò» (Prv. 8,22-25). Ed è chiamato anche primogenito, come dice l’apostolo Paolo: «Il quale è il primogenito di tutta la creazione» (Col 1,15). E tuttavia il primogenito non è per natura un altro rispetto alla Sapienza, ma uno e medesimo: infatti ancora Paolo dice: «Cristo potenza e sapienza di Dio» (1 Cor. 1,24). [2] Tuttavia nessuno pensi che noi affermiamo qualcosa di insussistente, quando lo chiamiamo Sapienza di

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Dio: cioè, per fare un esempio, che noi non lo intendiamo come un essere sapiente, ma come una proprietà che renda sapienti, presentandosi ed entrando nelle menti di coloro che diventano capaci di accogliere le sue facoltà e la sua intelligenza.

La Sapienza, inoltre, è il mezzo per comprendere i misteri del creato (I principi I 2,3): Nel modo in cui abbiamo inteso che la Sapienza è inizio delle vie del Signore e che essa è detta creata in quanto preordina e contiene in sé ragioni e specie di ogni creatura, nello stesso modo dobbiamo pensare che la Sapienza è parola di Dio in quanto rivela a tutti gli altri esseri, cioè a tutte le creature, l’intelligenza dei misteri e degli arcani, che proprio nella Sapienza di Dio sono contenuti.

La creazione della Sapienza si deve intendere, naturalmente, non in senso cronologico, ma soltanto logico ed ontologico (I principi IV 4,1): D’altra parte l’affermazione che non c’è stato tempo nel quale il Figlio non esisteva deve essere accolta con indulgenza. Infatti anche questi nomi, come quando e mai, hanno significato di carattere temporale: invece ciò che si predica del Padre, del Figlio e dello Spirito santo deve essere inteso al di là di ogni tempo e di ogni eternità.

Origene si sofferma sulla definizione del termine “principio”, per spiegare l’impossibilità di situare nel tempo la generazione del Figlio ad opera del Padre. Il Figlio diventa, quindi, a sua volta, “principio” della creazione (Commento al Vangelo di Giovanni I 19,111): Cristo infatti è in un certo senso creatore, perché è per mezzo di lui che il Padre dice: «Sia fatta la luce e Sia fatto un firmamento» (Gen. 1,3; 1,6). Cristo, però, è creatore, inteso come principio, in quanto è Sapienza; e si chiama principio proprio per il fatto che è Sapienza. Dice infatti la Sapienza nei Proverbi di Salomone: «Dio mi creò principio delle sue vie, in vista delle sue opere» (Prov. 8,22). Cosicché «il Logos era nel principio», cioè

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nella Sapienza, intendendo per Sapienza il sussistere della contemplazione relativa a tutte le cose e tutti i concetti; per Logos, invece, la comunicazione agli esseri dotati di logos di ciò che è contemplato.

Sulla base della distinzione aristotelica delle cause (ma divenuta comune nel Peripato e nel medioplatonismo) Cristo potrebbe essere inteso come causa efficiente, ma abitualmente, sulla base di Gv 1,3 («per mezzo di lui tutto è stato fatto»), il Figlio veniva ritenuto causa strumentale della creazione voluta dal Padre. La Sapienza divina, comunque, è una determinazione anteriore (in senso logico) e superiore a tutti gli altri titoli del Figlio (cf. Commento al Vangelo di Giovanni I 39), perché si identifica con il Figlio; l’altro appellativo, pur così fondamentale, di Logos, è invece un modo di manifestarsi del Figlio. Il Logos, dunque, può essere definito anche “mondo”, in quanto Sapienza multiforme e sorgente archetipica degli enti del mondo creato (Commento al Vangelo di Giovanni XIX 22,147): Alla luce dei diversi significati esaminati, cercherai se il primogenito di ogni creatura possa essere “mondo” in uno di questi significati, soprattutto in quanto è Sapienza multiforme. Ed invero, poiché in lui ci sono le ragioni di qualsiasi essere, le ragioni secondo cui tutte le cose sono state fatte da Dio con sapienza (secondo le parole del profeta: «Hai fatto tutte le cose con sapienza» (Sal. 103, 24), potrebbe essere anch’egli un mondo, tanto più vario di quello sensibile e superiore ad esso, quanto la ragione dell’universo mondo, assolutamente immateriale com’è, supera il mondo materiale.

Questa contrapposizione fra mondo terreno, contingente, e mondo celeste, corrisponde a quella platonica tra il mondo sensibile ed il mondo intelligibile. La presenza del Logos nell’universo si manifesta anche nel particolare statuto ontologico che posseggono le stelle (Commento al Vangelo di Giovanni II 3,24-27): [24] E poi è Dio di coloro che sono veramente dèi, in una parola, è Dio di vivi e non di morti. E allora, forse, il Logos che è Dio è Dio di coloro che si fissano totalmente in lui e di coloro che lo ritengono Padre. [25]

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Invece il sole, la luna e gli astri (secondo l’opinione di alcuni nostri predecessori) furono assegnati a coloro che non erano degni di avere come Dio il Dio degli dèi. […] [26] Come mai Dio ha assegnato il sole, la luna e tutto l’ornamento del cielo a tutti i popoli, mentre non ha fatto altrettanto con Israele? Perché coloro che non erano in grado di elevarsi fino alla natura intelligibile fossero indotti attraverso gli dèi sensibili ad occuparsi della divinità e vi aderissero volentieri, sia pure mediante questi dèi, senza scivolare verso il culto degli idoli e dei demoni. [27] Ci sono dunque, in primo luogo, quelli che hanno come Dio il Dio dell’universo; ci sono poi, in secondo luogo, quelli che conservano ancora il Figlio di Dio, il Cristo di Dio; vengono poi, in terzo luogo, quelli che ritengono [dèi] il sole, la luna e tutto l’ornamento del cielo, allontanandosi bensì con l’errore da Dio, ma con un errore di gran lunga superiore e migliore rispetto a coloro che chiamano dèi opere delle mani dell’uomo, oro ed argento, prodotti dell’arte umana; ultimi vengono coloro che aderiscono a quelli che sono chiamati dèi, ma non lo sono.

Gli astri erano considerati dèi da vari popoli antichi, ma non da Israele che adorava il solo vero Dio. La religione astrale ha per Origene il merito, sia pure parziale, di distogliere gli uomini da altre forme inferiori di religione idolatrica (cf. I principi I 7,2-5).

Capitolo terzo

Rapporti di Origene con il platonismo 1. Le idee. La cosmologia Origene, che sempre nel trattato su I principi (II 3,6) rifiuta l’esistenza del mondo delle idee come mondo a sé stante, colloca le idee platoniche nel Figlio in quanto egli è Sapienza divina e Logos divino, secondo una concezione molto diffusa nel medioplatonismo, che poneva il mondo delle idee nel dio che è inferiore al primo dio (questa è la visione di Alkinoos) o nel Logos inteso come dynamis divina (e questo è il punto di vista di Filone). Origene non segue l’opinione di Clemente (p. 352), che il mondo sia stato “creato” da Dio da una materia preesistente, ma accetta, in conformità con la tradizione cristiana, instauratasi alla fine del secondo secolo, la dottrina della creatio ex nihilo (cf. I principi, pref. 4; I 3,3; 7,1). Questo vale sia per la creazione degli esseri singoli sia per la creazione della materia informe, che la tradizione platonica considerava invece coeterna a Dio (II 1,5; III 6,7; IV 4,6.8). La creazione è opera del Logos, il quale ha attuato in essa i suoi stessi pensieri. Di conseguenza il Logos è il “luogo delle idee”, come affermavano i medioplatonici; le idee sono presenti sia nel Logos sia nel mondo come “forma presente nella materia”. Il Logos divino è formato dall’esistenza incorporea di molte e varie “concezioni razionali” (theoremata), le quali contengono i logoi di tutto ciò che esiste: logos infatti significa congiuntamente “essenza razionale” e “causa razionale” di una cosa. Quindi i logoi di tutte le cose sensibili risiedono nei vari theoremata che costituiscono il Logos divino (Commento al Vangelo di Giovanni I 34 [39.243]). La sapienza di Dio è concepita da Origene come la “composizione” (systasis) dei vari theoremata e dei vari pensieri che riguardano la realtà dell’universo (ibid. I 19,115; cf. inoltre ibid. XIII 42,280, e anche 45,297): Il Padre, infatti, ha affidato alla Sapienza il compito di creare il mondo, ivi compresi i typoi del mondo. Dio

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vede i logoi di ogni cosa e vede che ciascuna cosa è buona, in conformità con il logos secondo il quale essa è stata creata.

Molto importante è la discussione che segue (ibid. XIX 22,146 s., un passo già citato sopra, p. 407): [146] Tuttavia, oltre a questo mondo visibile e sensibile che consta di cielo e terra – o, meglio, di cieli e terra –, c’è un altro mondo nel quale ci sono le cose invisibili. Tutto ciò costituisce un mondo invisibile che, cioè, non è percepibile con gli occhi, ma è intelligibile: della contemplazione e della bellezza di questo mondo godranno i puri di cuore, che da questa visione saranno preparati per giungere a vedere Dio stesso, nella misura in cui Dio, per la sua natura, è visibile. [147] Alla luce dei diversi significati esaminati, cercherai se il primogenito di ogni creatura possa essere “mondo” in uno di questi significati, soprattutto in quanto è Sapienza multiforme. Ed invero, poiché in lui ci sono le ragioni (logoi) di qualsiasi essere, le ragioni secondo cui tutte le cose sono state fatte da Dio con sapienza (secondo le parole del profeta: «Hai fatto tutte le cose con sapienza» [Sal. 103,24]), potrebbe essere anch’egli un mondo, tanto più vario di quello sensibile e superiore ad esso quanto la ragione dell’universo mondo, assolutamente immateriale com’è, supera il mondo materiale.

In questo essere sussistente della Sapienza era virtualmente presente e già formata tutta la creazione futura (deformatio), vale a dire, gli esseri che esistono in primo luogo (principaliter), e quindi le realtà accidentali e accessorie: tutto era già stato preformato e disposto in virtù della sua prescienza (praescientiae praeformata virtute atque disposita). A causa di queste “creature”, che erano nella Sapienza in quanto già disegnate e prefigurate, la Sapienza dice per bocca di Salomone (Prv. 8,22) di essere stata creata «come principio delle vie» di Dio e di contenere in se stessa i principi, le ragioni e le specie di tutta la creazione (I principi I 2,2-3). Altrettanto è detto poco oltre (I principi I 4,4-5): In questa Sapienza che era ab aeterno nel Padre era sempre presente la creazione, in quanto tratteggiata e

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formata (descripta semper inerat ac formata), e non vi fu mai un momento in cui la prefigurazione di quello che sarebbe dovuto esistere non si trovasse nella Sapienza.

E nel Contro Celso (V 39): Dunque, anche quando noi chiamiamo il Logos “secondo Dio”, bisogna sapere che questa denominazione non designa, secondo noi, altro che la Virtù che abbraccia tutte le virtù, il Logos che abbraccia tutti i logoi delle cose che sono state create secondo le leggi della natura, sia in modo principale [cf. principaliter nel passo del trattato su I principi] sia per l’utilità del tutto.

2. Medioplatonismo e neoplatonismo: Numenio e Origene Tra tutti i filosofi greci a lui contemporanei Origene fu vicino soprattutto a Numenio. Costui fu sicuramente una personalità importante nel II secolo d.C.; Origene si accostò, quindi, a lui forse tramite Ammonio Sacca, che fu suo maestro e maestro di Plotino. L’Alessandrino fa riferimento a quel filosofo in vari passi del Contro Celso: lo nomina con rispetto e ricorda una sua opera, intitolata Sull’incorruttibilità dell’anima. Ne possiamo dedurre che Origene possedeva una conoscenza abbastanza precisa di quel filosofo. Gerolamo (epist. 70,4) ricorda un’opera di Origene, intitolata Stromati come quella di Clemente, ma attualmente perduta: in essa l’Alessandrino avrebbe attinto a vari filosofi greci a lui contemporanei, tra i quali potrebbe trovarsi Numenio. Inoltre, è Clemente di Alessandria, cioè un maestro della medesima scuola in cui aveva insegnato Origene, a ricordare la sentenza di Numenio a proposito di Platone, secondo il quale egli sarebbe stato un Mosè che parlava attico (cf. p. 320). Ma soprattutto l’attenzione che Origene ha per Numenio è chiaramente affermata in un passo del Contro Celso (I 14-15), ove lo scrittore cristiano sottolinea la maggiore intelligenza ed apertura mentale di Numenio rispetto alla grettezza e alla litigiosità del polemista pagano: Guardate come si è comportato assurdamente Celso! Lui crede che gli Indiani, i Persiani, gli Egiziani siano sapienti e condanna i Giudei come se fossero assoluta-

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mente stolti! [...] Non ha voluto considerare i Giudei tra i popoli sapienti, come lo furono gli Egiziani, gli Assiri, gli Indiani, i Persiani, gli Odrisi, gli abitanti di Samotracia e di Eleusi. Quanto superiore a lui fu il pitagorico Numenio! Questi manifestò appieno la sua estrema competenza, esaminando numerose dottrine, e fece, a partire da numerose fonti, la sintesi di quelle che gli sembravano vere. Nel suo primo libro Sul Bene, nel quale parla dei popoli che hanno definito Dio “incorporeo”, Numenio ha annoverato tra quei popoli anche gli Ebrei; non solo, ma ha anche citato degli oracoli dei profeti dei Giudei e ha mostrato il loro significato figurato.

Le osservazioni di Origene si riferiscono a un tema della polemica anticristiana di Celso e di altri, quello del carattere recente e menzognero della pretesa saggezza ebraica (e, a maggior ragione, di quella cristiana – si veda quanto si è detto a pp. 48-51). In opposizione a questa critica dello scrittore pagano, Origene cita un altro testimone, appunto Numenio, la cui autorità, sia come filosofo sia come pensatore estraneo al cristianesimo, era superiore a quella di Celso, e certamente incontestata. Celso parla di una “dottrina antica”, che è anche quella vera, patrimonio comune di tutti i popoli e grazie alla quale essi sono imparentati tra di loro; tale dottrina antica è il fondamento di quella filosofia, che è patrimonio tutto particolare dei Greci. Numenio, invece, era aperto alle tradizioni e alle sapienze antiche di ogni popolo: più in particolare, egli aveva mostrato interesse per le dottrine ebraiche e per il ricorso all’esegesi allegorica dei testi biblici, che era stata successivamente praticata dai Cristiani. Porfirio, più tardi (Contro i Cristiani fr. 39), cita Numenio tra quegli scrittori dai quali Origene avrebbe appreso “il metodo metaleptikós”, cioè dell’impiego della metafora, che avrebbe applicato alle Scritture ebraiche. Per cui Origene osserva ancora (Contro Celso IV 51): accogliamo Numenio, piuttosto che Celso e altri Greci, perché Numenio volle esaminare scrupolosamente anche le nostre dottrine e fu spinto a indagare dei testi che hanno valore tropologico, e non sono degli scritti privi di valore [quali quelli cristiani, secondo Celso].

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Esistono dei punti di contatto tra Numenio e Origene per quanto riguarda la loro dottrina. Infatti entrambi considerano il sommo bene come il primo dio, che per Numenio è anche “semplice” (cf. fr. 11,11 e 12-13 des Places). Origene chiama il Figlio “secondo Dio”, ed anche Numenio ritiene che esista un secondo dio, che è inferiore a quello assolutamente trascendente. Il primo dio, secondo Numenio, è un’unità e una singularitas (fr. 52 des Places), ed altrettanto abbiamo visto affermare Origene: entrambi, quindi, impiegano il concetto di “uno” assoluto, per indicare Dio, precorrendo, in questo, Plotino, mentre per i medioplatonici il dio sommo è normalmente indicato come Intelletto. 3. Origene e Plotino Il comune discepolato di Origene e Plotino presso Ammonio Sacca, del quale abbiamo parlato all’inizio di queste pagine, ha spinto molti studiosi a indagare se fosse possibile rintracciare dei paralleli tra i due grandi filosofi, i quali, sia pure nell’autonomia del proprio pensiero e nell’ambito di due tradizioni culturali e religiose differenti (cristiana, l’una, greca e platonica, l’altra), avrebbero elaborato dottrine comuni, ricavate dall’insegnamento del loro maestro Ammonio. Crouzel è stato uno degli studiosi che più ha insistito a esaminare questa tematica (cf. H. Crouzel, Origène et Plotin, in: Origeniana Quarta. Die Referate des 4. Internationalen Origeneskongresses [Innsbruck, 2.-6. September 1985)], pp. 430-435). Presentiamo qui di seguito, in forma sintetica, i risultati della sua ricerca, avvertendo, comunque, che non tutti i passi paralleli addotti da Crouzel sono convincenti. Sia Origene sia Plotino, dunque, secondo lo studioso francese, sostengono, seguendo la tradizione platonica, una concezione esemplarista del mondo, nel senso che il mondo materiale e sensibile è stato creato secondo l’immagine di un’idea o esemplare trascendente: se l’immagine è intrinsecamente imperfetta, perfetto, invece, è l’esemplare, che è il mondo delle idee. Esso, secondo Origene, si trova nel Logos di Dio, secondo Plotino nell’Intelletto (Nous). Sia Numenio sia Origene anticipano la dottrina plotiniana dell’Uno, così come il Figlio, in quanto è Logos (o il “luogo delle

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idee”) anticipa la dottrina plotiniana dell’Intelletto. Non immediatamente chiara, invece, è la corrispondenza tra lo Spirito e la terza ipostasi di Plotino, l’anima cosmica. Del resto, lo stesso Origene, come si è visto sopra (p. 400), afferma che i filosofi non ebbero assolutamente nessuna idea dello Spirito Santo: questa ipostasi, dunque, risulta sostanzialmente estranea alla filosofia greca. Eppure, secondo Crouzel, «qualche confronto si può istituire con un’altra entità, e cioè con l’anima umana di Cristo. Come l’anima cosmica di Plotino contiene in sé tutte le anime, così l’anima di Cristo è nella preesistenza, nell’incarnazione e nella conclusione dei tempi, ed è lo sposo della Chiesa e di tutte le anime che sono in lei». Si aggiunga il fatto che l’anima è, per la filosofia greca, un principio vitale, e che quindi anche Origene poteva vedere in essa un parallelo con lo Spirito, pure il quale «dà la vita». L’anima cosmica, quindi, potrebbe essere un parallelo neoplatonico della concezione cristiana dello Spirito, che dà la vita a tutti gli esseri viventi. L’Uno, secondo una concezione propria di Porfirio, più che di Plotino, è il Bene, ed ugualmente il Padre, secondo Origene, è la bontà in sé. L’Intelletto, secondo Plotino, contemplando il Bene contempla le realtà intelligibili che hanno la forma del bene e, secondo Origene, il Figlio è l’immagine della bontà del Padre e costantemente vive grazie al Padre, in quanto la sua generazione dal Padre è eterna. Il Padre crea nel Figlio, con la sua stessa generazione, il mondo intellegibile. Ma se l’inferiorità della seconda ipostasi plotiniana nei confronti della prima è netta, per Origene si può parlare di subordinazione, non di inferiorità o di diversità. Secondo Plotino, solo l’Intelletto (e non l’Uno) genera quello che viene dopo di lui, ma la sua potenza generatrice comunque viene dall’Uno. Secondo Origene, la creazione è l’opera comune del Padre e del Figlio. Ma il Padre è colui che, nella sua bontà, vuole la creazione, mentre sia il Figlio sia lo Spirito, ciascuno nel proprio ambito, la eseguono. Tuttavia, a differenza dell’Uno plotiniano e conformemente alla rivelazione cristiana, il Padre, secondo Origene, non rimane chiuso in se stesso, ma si apre verso la sua creatura. Origene afferma costantemente l’inconoscibilità e l’ineffabilità di Dio, ma, a differenza dell’Uno di cui parla Plotino, sostiene anche che Dio in qualche modo si rivela. È il Figlio che, in quan-

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to Logos del Padre, lo manifesta. Poiché Dio, nella sua grazia, si fa conoscere all’uomo, questa concezione di Origene si oppone al platonismo rappresentato da Celso (cf. pp. 54-55). Sia secondo Origene sia secondo Plotino, il male è il non essere: nell’esegesi di Gv. 1,3 Origene riferisce al male e al peccato l’espressione «nemmeno una cosa fu creata», cioè l’affermazione che nemmeno una cosa sarebbe stata creata senza il Logos. Secondo una concezione soprannaturale dell’esistenza, che sarebbe partecipazione a Dio, partecipazione a colui che è, i demoni e i malvagi sono detti “non esistenti” e il male è privazione, è insussistenza, è privo di realtà (cf. p. 419). Si trova in Plotino, come già in Celso, l’espressione “il fango del corpo”. Per Origene, il corpo, etereo o celeste che sia, è il segno della condizione di creaturalità e di accidentalità, che lo caratterizza; solo la Trinità è senza corpo. Ma anche il corpo, che è stato creato da Dio in seguito alla caduta delle anime, in quanto è creato da Dio, è buono. Come tutto il mondo sensibile, esso è uno strumento che permette che l’uomo sia messo alla prova e sia premiato. Il peccato, per Origene, consiste nell’attaccarsi al sensibile, che è solamente un’immagine della realtà vera. Il sensibile è, quindi, buono in se stesso, ma buono in modo parziale: per questo motivo, per l’uomo egoista è occasione di tentazione, in quanto è immagine imperfetta dell’assoluto. L’eredità platonica deve, quindi, essere corretta sulla base delle ripetute affermazioni di Gen 1: «E Dio vide che tutto quello che era stato fatto era buono». Le dottrine di Origene e di Plotino sulle virtù mostrano forti paralleli: l’Uno e il Padre ne sono l’origine, ma entrambi sono superiori alle virtù; esse sussistono nell’Intelletto e nel Figlio allo stato di paradigmi, per cui spesso il Logos di Dio è considerato da Origene come la totalità delle virtù.

Capitolo quarto

La morale di Origene e la posizione dell’uomo nel mondo 1. Essere e bene. Natura del male Tutto ciò che esiste, in quanto è stato creato da Dio, è bene, come si legge nel seguente passo del Commento al Vangelo di Giovanni (II 13,91-95; 97-99): [91] Vediamo ora perché è aggiunto: «E senza di lui niente fu fatto» (Gv. 1,3), perché tale affermazione potrà ad alcuni sembrare superflua dopo la precedente: «Tutto fu fatto per mezzo di lui», in quanto che, se qualsiasi cosa è stata fatta per mezzo del Logos, senza di lui niente è stato fatto. Ma dal fatto che niente è stato fatto senza il Logos non deriva ancora che tutto sia stato fatto per mezzo di lui; potrebbe darsi infatti non soltanto che tutto sia stato fatto per mezzo del Logos, ma anche che qualcosa sia stato fatto da lui. [92] Occorre, quindi, vedere in che senso vanno intesi questo «tutto» e questo «niente». Se questi due termini non sono chiariti, è possibile intendere nel senso che nel tutto che è stato fatto per mezzo del Logos siano inclusi il male, tutta l’invasione del peccato ed ogni malvagità, come fatti anch’essi per mezzo del Logos. Ma questo è falso. Non è assurdo pensare che tutte le creature siano state fatte per mezzo del Logos e per mezzo di lui è necessario pensare che siano state compiute tutte le azioni buone e giuste dei beati; ma non sono stati fatti per mezzo di lui né i peccati, né le azioni negative in generale. [...] [94] Vediamo se è possibile, partendo dalle Scritture, rendere questi concetti efficaci al massimo. Stando a ciò che da essi è significato, i termini «niente» e «non essere» sembreranno sinonimi, tanto che possono essere scambiati tra loro. Invero l’Apostolo, identificando non-essere e male morale, sembra applicare il

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termine «non-essere» non già a ciò che è privo completamente di esistenza, ma a ciò che è cattivo, perché dice infatti: «Dio chiama all’essere le cose che non sono» (cf. Rom. 4,17). [...] [96] Ora, per noi che ci vantiamo di appartenere alla Chiesa colui che pronunzia queste parole è il Dio buono ed è a lui che il Salvatore allude, rendendogli gloria, con queste parole: «Nessuno è buono se non Dio, il Padre» (Mc. 10,18). Quindi «il Buono» s’identifica con «Colui che è». Ora, l’opposto del buono è il male od il malvagio; l’opposto di «Colui che è» è il «non-essere»: ne consegue che ciò che è cattivo e ciò che è malvagio sono non-essere. […] [98] Dicendo infatti che egli ha avuto da Dio il suo essere in quanto uomo, non diciamo che egli ha avuto da Dio il suo essere in quanto assassino. Pertanto tutti coloro che partecipano a «Colui che è» (ed i santi vi partecipano), si possono a buon diritto chiamare «esseri»; coloro invece che hanno rifiutato la partecipazione a «Colui che è», essendo privi dell’Essere, diventano «non-esseri». [99] Data l’equivalenza sopra stabilita tra «non-essere» e «niente», non soltanto i «non-esseri» sono «niente», ma è «niente» anche il male di qualunque specie, perché è anch’esso «non-essere» e, se si chiama «niente», è fatto senza il Logos e non è annoverato nel «tutto» [che è fatto per mezzo di lui]. Abbiamo così cercato, nella misura delle nostre forze, di definire quale sia il «tutto» che è fatto per mezzo del Logos e che cosa sia ciò che viene fatto senza di lui, ossia ciò che non esiste in nessun modo ed è perciò chiamato «niente».

Soltanto la Trinità, quindi, possiede il bene nella propria sostanza. Gli enti creati posseggono il bene come accidente e, dunque, possono perderlo. Dice Origene (I principi I 6,2): Infatti nella sola Trinità, che è il creatore di tutto, il bene esiste in modo sostanziale: gli altri esseri lo posseggono in forma accidentale e tale che può venire meno e si trovano nella beatitudine soltanto allorché partecipano della santità della sapienza e della stessa divinità.

Soltanto Dio, che è il Bene assoluto e l’Essere assoluto, non

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può, nella sua libertà infinita, ammettere in sé il male. E nemmeno Cristo, che (I principi I 8,3) è sapienza, e la sapienza non può accogliere la stoltezza; è giustizia, e la giustizia non accoglierà mai l’ingiustizia; è ragione, e la ragione non può diventare irrazionale; è luce, e le tenebre non possono toccare la luce (Gv 1,5).

Tutte le altre nature, anche se sante, ricevono la santità come un beneficio della provvidenza divina e dunque la loro santità non è sostanza, ma accidente. Quindi, come è stata acquisita, così può essere perduta. Questo grado inferiore di perfezione delle nature razionali e degli spiriti creati fa sì che ogni oggetto della creazione possegga i suoi attributi come accidenti e possa, dunque, perderli. Per non perderli, occorre essere degni del dono di Dio (I principi I 8,3): Infatti la bontà di Dio spinge tutti in proporzione a quanto ognuno è degno di lei e li attira a quel fine beato dove vengono meno ed hanno fine ogni dolore, tristezza e lamento (Is. 35,10).

L’esistenza del male ebbe il suo primo apparire con la caduta delle creature razionali. Tale caduta costituisce un problema fondamentale della teologia origeniana: lo riconsidereremo tra breve. La capacità degli esseri razionali di esistere nella condizione in cui furono creati può andare perduta, e non è perpetua. Quando si volge al male, l’anima passa nella sfera della non-esistenza, deviando dal proprio percorso verso il bene ed abbandonando, così, l’ambito dell’essere. Chiaro, a questo riguardo, è il seguente passo (I principi II 9,6): Pertanto la capacità di esistere non dipendeva da loro come facoltà che non avrebbe avuto mai fine, ma era stata data da Dio: infatti non c’era sempre stata; e tutto ciò che è stato dato può essere tolto e venire meno. La causa del venire meno dipende dal fatto che i movimenti degli animi non sono rettamente indirizzati. Infatti il creatore ha concesso alle intelligenze da lui create movimenti volontari e liberi affinché esse facessero proprio il bene loro concesso conservandolo con la propria volontà. Ma inerzia e neghittosità nel con-

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servare il bene ed avversione e trascuratezza delle cose migliori hanno dato inizio all’allontanamento dal bene. Ed allontanarsi dal bene non è altro che cadere nel male, poiché il male è mancanza di bene. Per cui accade che quanto uno si distacca dal bene di tanto si avvicina al male: così ogni intelligenza, trascurando più o meno il bene a causa dei suoi movimenti, veniva tratta al contrario del bene, cioè al male. A causa di ciò il creatore dell’universo, accogliendo tutte quelle cause e quei princìpi di varietà e diversità, in relazione alla diversità delle intelligenze, cioè delle creature razionali (abbiamo detto sopra da quale causa è derivata tale diversità), ha creato il mondo vario e diverso. E quando diciamo vario e diverso, vogliamo indicare proprio questo.

In conclusione, al livello più basso della scala dell’esistenza si trova il male, che, anzi, non è nemmeno un esistente, per cui non si dà nessuna contrapposizione di tipo dualistico, tra il bene ed il male: Origene è molto sensibile a questa tematica, e il suo rifiuto di ogni dualismo è netto. Anche Plotino sostiene sia che la materia non esiste e che è anche il male, sia che è l’origine del male (Enn. I 8), seguendo in questa concezione la dottrina di Numenio. Ma alla medesima conclusione a cui giunse Plotino era già arrivato Origene, il quale nel suo Commento al Vangelo di Giovanni osserva che il Logos di Dio ha fatto ogni cosa. Ma il Logos divino non può produrre il male. Ne consegue che, poiché il Logos è bene e dal bene non può provenire altro che il bene, il male è il niente, contrapposto al tutto creato dal Logos e per mezzo del Logos. Si torna, quindi, al passo del Commento al Vangelo di Giovanni (II 13,93), da noi già citato poco fa. Poco più oltre Origene cita, a sostegno dalla sua concezione che le creature che partecipano del non essere del male, non sono, un passo del libro di Ester e la celeberrima affermazione di Dio, nell’Esodo, riguardo al nome che Dio attribuisce a sé (II 13,95): Anche Mardocheo, nel Libro di Esther, chiama nonesseri i nemici di Israele: «Non consegnare, o Signore, il tuo scettro a quelli che non sono» (Esth. 4,17). Ed il motivo per il quale i cattivi sono chiamati non-esseri a

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causa della loro malvagità si può desumere dal nome che è applicato a Dio nell’Esodo: «Ed il Signore disse a Mosè: “Io sono colui che sono, questo è il mio nome”» (Es. 3,14).

La scelta di passare nella sfera del non-essere, la sfera del male morale, dunque, è atto degli uomini. Questa scelta fu attuata per primo (secondo la tradizione giudeocristiana della caduta degli angeli) dal diavolo, la cui figura Origene interpreta nel modo seguente nel Commento al Vangelo di Giovanni (II 13,97): Forse è stato questo il motivo che ha spinto alcuni a dire che il diavolo non è opera di Dio: infatti, in quanto è diavolo, non è opera di Dio; invece, in quanto è essere, a cui si aggiunge come accidente di essere diavolo, è creatura di Dio, dal momento che non vi è altro creatore all’infuori di Dio. È come se dicessimo che l’assassino non è creatura di Dio, senza negare peraltro che egli sia creato da Dio in quanto uomo.

Il diavolo, dunque, secondo Origene, è creatura di Dio, ma nel male che lo caratterizza (nel suo essere diavolo) non partecipa all’essere di Dio (che è il Bene assoluto e dal quale può essere generato soltanto bene): il diavolo è non essere e dunque, in questo senso, nemmeno esiste, così come l’uomo è creatura di Dio in quanto uomo, ma, se assassino, in quanto tale, è non essere, perché non possiede l’attributo dell’esistenza. In questo senso la concezione origeniana differisce molto da quella ebraica che assegna un attributo di esistenza al diavolo. Satàn, nella tradizione ebraica, è “l’accusatore”, “colui che mette alla prova” (e la parola “diavolo”, dal greco diabàllo, ne è la traduzione più o meno esatta). Satàn è un “funzionario” di Dio adibito allo sgradevole compito di mettere alla prova la fede in Dio degli uomini (compito che rimane nella figura del “diavolo tentatore” anche nella tradizione cristiana). L’esempio più potente, a livello letterario, di questa funzione del Satàn dell’Antico Testamento è dato dal Libro di Giobbe, nel quale tutti i tormenti che toccano all’infelice Giobbe sono il risultato di una sorta di “scommessa” tra Dio e Satàn sulla forza della fede del più pio degli uomini. Ecco che allora, in questo senso, il male prodotto da Satàn è derivato (anche se in maniera indiretta) dalla volontà

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di Dio e dunque, secondo la tradizione ebraica, anche il diavolo partecipa dell’attributo di esistenza che gli giunge direttamente da Dio. Non c’è scelta morale nelle azioni di Satàn, ma si tratta semplicemente dello svolgimento di un compito che gli è stato assegnato. Nella tradizione cristiana la figura del diavolo, invece, assume fin dalle origini il connotato della scelta morale del male, estremizzata nella dicotomia Dio-Bene assoluto contrapposto a diavolo-male antitetico al Bene assoluto di Dio, che produce, nella scala dei livelli dell’essere, l’opposizione netta tra l’Essere assoluto di Dio ed il non-essere del diavolo. 2. L’origine del male e la preesistenza degli esseri razionali Questo tema, centrale nella speculazione di Origene, è uno di quelli che meglio mette in evidenza la sua rielaborazione del pensiero platonico, interpretato nel profondo della sua essenza, che è quella di un dualismo ontologico. Esso implica una vicenda dell’anima, consistente in una sua caduta da un livello più alto, quello intelligibile, ad uno inferiore, sensibile. Ripercorriamo questa problematica sulle orme di Ugo Bianchi (Presupposti platonici e dualistici nell’antropologia di Gregorio di Nissa, Roma, Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri 1978 pp. 83-115), che spesso citiamo qui di seguito. La concezione platonica di una contrapposizione del mondo sensibile a quello intelligibile manifesta un dualismo, che Platone stesso giunge ad affermare con maggiore chiarezza in alcuni dei suoi dialoghi più tardi, come nelle Leggi. «La non stabilità, il divenire non sono, secondo Origene, una riflessione banale sulla situazione e sulla condizione umana, ma si tratta di una motivazione metafisica, fondata su una metafisica platonica, su un dualismo ontologico. La contrapposizione è con Dio e le cose divine, e la colpa è intesa come maniera – unica maniera possibile – in cui si realizza la congenita mutevolezza umana», osserva lo studioso. Tale dualismo è ripreso, con l’utilizzo del testo essenziale per la sua filosofia, cioè l’Antico Testamento, da Filone di Alessandria, il quale sa che si verificò ab initio la caduta dell’uomo da una condizione perfetta (La creazione del mondo 151-152): [151] Ma poiché non vi è nulla di saldo nelle cose create ed esse sottostanno di necessità a variazioni e mutamenti, bisognava che anche il primo uomo sentisse il

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sapore di una qualche disavventura. E alla sua vita colpevole diede inizio la donna. Finché era solo, egli cresceva simile, nella sua unicità, al mondo e a Dio e andava imprimendosi nell’anima i caratteri di ambedue le nature, certo non tutti, ma per lo meno quelli che la costituzione mortale è capace di accogliere. Quando fu plasmata anche la donna ed egli vide una figura uguale alla sua e una forma della sua stessa specie, rimase affascinato da quella vista e le si avvicinò per farle gioiosa accoglienza. [152] La donna dal canto suo, non scorgendo alcun essere animato che più di lui le assomigliasse, si rallegrò e ricambiò pudicamente il suo saluto. Poi sopraggiunse l’amore, che riunisce e riporta alla fusione quelle che sono in qualche modo le due parti divise di un unico essere dimezzato; e l’amore fa nascere in ognuna delle due il desiderio di unirsi all’altra per procreare un essere simile a loro. Ma questo desiderio generò anche il piacere fisico, che è la radice prima di iniquità e prevaricazione; ed è a causa sua che gli uomini scambiano una vita immortale e felice per una vita mortale e infelice (trad. di C. Kraus Reggiani).

Questa inevitabilità della condizione umana è spiegata anche da un altro passo di Filone, La fuga e il ritrovamento 62: Ma bisognava assolutamente assegnare dimore diverse a cose diverse: il cielo ai buoni, le regioni terrestri ai malvagi. Il bene, quindi, tende verso l’alto, anche se talvolta giunge tra noi, perché il Padre suo è munifico, ma è giusto che si affretti a tornare sulla propria strada. Il male invece rimane quaggiù, in una sede lontanissima dal coro divino, per aggirarsi in mezzo alla vita mortale senza possibilità di morte che lo sradichi dal genere umano (trad. di C. Kraus Reggiani).

Questa speculazione manifesta i presupposti di una dottrina della “colpa antecedente”: non senza motivo essa si trova in Filone, il cui influsso sulla scuola di Alessandria è stato tante volte dimostrato. Il paradosso, che il male è presente all’interno della vita mortale, e che d’altra parte non può essere sradicato da dio, significa, per la tradizione platonica, che il male è un principio: l’umanità

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non è la causa di questo male, ma ne partecipa. Plutarco nel suo trattato su Iside ed Osiride dice che il principio del male, cioè Tifone-Seth, è ineliminabile, anzi, è necessario all’armonia dell’universo. E, del resto, che il male non potesse essere sradicato dal mondo era stato detto già da Platone (Teeteto 176 AB), che è esplicitamente citato dallo stesso Filone (La fuga e il ritrovamento 63). E la conclusione sarà la seguente (ibid. 64): Naturalmente, non morirà dunque mai Caino, simbolo della malvagità, che deve vivere per sempre tra gli uomini, nell’ambito della specie mortale.

Più precisamente, questo dualismo si manifesta nella dottrina della preesistenza e della caduta delle anime, che già Platone aveva illustrato nel Fedro. Quello che ivi si legge a proposito della discesa dell’anima in terra corrisponde a quanto dirà Plotino, «sia pure, quest’ultimo, nel quadro di uno scenario in cui gli elementi religiosi e morali sono intensificati da un colore drammatico tipicamente tardo-antico rispetto a quella che è la più sobria e in qualche modo “acerba” o “primitiva” mitologia platonica dell’anima». Il passaggio dell’anima dal mondo superiore al mondo inferiore era stato interpretato già da Plutarco (nel suo trattato Sull’anima, che è citato da Stobeo IV p. 1089) come una necessità contro natura, come un intreccio contro natura dell’anima con il corpo, ove è già presente un irrigidimento della dottrina del Timeo. Così, dopo Origene, Plotino dirà (IV 8,4, trad. R. Radice): Le singole anime hanno, dunque, una naturale attrattiva per ciò che è intelligibile, la quale si esercita nel rivolgersi alla loro origine; e tuttavia esercitano anche un’attività su questo nostro mondo, non diversamente dal raggio di luce che per un capo è lassù, appeso al Sole, per l’altro non risparmia il suo aiuto a ciò che segue. Ora, queste anime sono al sicuro finché restano nel mondo intelligibile in compagnia dell’Anima del tutto, e sempre con essa, nel cielo, partecipano alla conduzione del mondo [...]. Fino a quel momento le anime si trovano insieme nello stesso posto. Ma, a un certo punto, cambiano stato, e passano dall’intero a essere parti e all’essere padrone di sé, e, quasi si fossero stancate della loro vita in comunione con altri, si ritirano, ciascuna nella propria individualità. Orbene, se

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questo loro comportamento si protrae nel tempo, finisce che si allontanano del tutto e, distinguendosi da esso, ne perdono il contatto, in quanto non si rivolgono più all’intelligibile. A tal punto l’Anima si è già ridotta a parte isolata, perdendo forza e disperdendosi in mille impegni e [...] discesa in un solo essere e fuggendo ogni altra cosa, si indirizza e si volge a quell’unica realtà. [...] Le anime sono, dunque, come degli animali anfibi che devono condurre la loro vita un po’ in alto e un po’ nelle profondità; qualcuna, invero, passa più tempo lassù – e si tratta di quelle che hanno più a lungo condiviso la compagnia dell’Intelligenza –, qualcuna quaggiù, come le anime che hanno subito una vicenda opposta per loro natura o per la sorte.

Origene si colloca in questa vicenda metafisica, con le seguenti considerazioni (I principi II 9,2: in parte già citato sopra), tutte ispirate all’ontologia e all’etica platonica: Ma poiché queste creature razionali, che abbiamo detto create all’inizio, sono state create mentre prima non esistevano, per il fatto stesso che non esistevano ed hanno cominciato ad esistere, necessariamente erano soggette a mutamento e a trasformazione, in quanto ogni facoltà di cui era in possesso la loro sostanza non derivava dalla loro natura, ma dal beneficio del creatore. Pertanto la capacità di esistere non dipendeva da loro come facoltà che non avrebbe avuto mai fine, ma era stata data da Dio: infatti non c’era sempre stata; e tutto ciò che è stato dato può esser tolto e venir meno. La causa del venir meno dipende dal fatto che i movimenti degli animi non sono rettamente indirizzati. Infatti il creatore ha concesso alle intelligenze da lui create movimenti volontari e liberi affinché esse facessero proprio il bene loro concesso conservandolo con la propria volontà. Ma inerzia e neghittosità nel conservare il bene e avversione e trascuratezza delle cose migliori hanno dato inizio all’allontanamento dal bene. E allontanarsi dal bene non è altro che cadere nel male, poiché il male è mancanza di bene. Per cui accade che quanto uno si distacca dal bene, di tanto si avvicina al male: così ogni intelligenza, trascurando più o meno il bene a causa dei suoi movimenti,

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veniva tratto al contrario del bene, cioè al male. A causa di ciò il creatore dell’universo, accogliendo tutte quelle cause e quei principi di varietà e diversità, in relazione alla diversità delle intelligenze, cioè delle creature razionali (abbiamo detto sopra da quale causa è derivata tale diversità), ha creato il mondo vario e diverso (trad. di M. Simonetti, UTET).

Un passo di carattere pienamente platonico, come si è detto. In Origene, certo, il concetto di creaturalità, tratto dalla concezione biblica, introduce un elemento nuovo, cioè il fatto che la creatura è nata dalla volontà benefattrice di Dio. Ma anche Origene parla di una necessità ontologica a cui non si può sfuggire, cioè della motivazione della caduta, dovuta a raffreddamento dell’amore verso Dio e a “neghittosità” degli intelletti creati; e la caduta si distingue in diverse gradazioni a seconda della scelta effettuata dagli intelletti preesistenti e del loro esercizio della libera volontà. Essa è interpretata come un graduale allontanamento dal bene e la corrispondente assunzione del male, come già aveva detto Filone. «Quindi la mutabilità, che è propria della creatura, si attua nel suo trasferirsi nel mondo inferiore dell’essere, cioè nel mondo della ghenesis, cioè del passare all’esistenza». La caduta degli intelletti si manifesta con una varietà di casi. Tale varietà è necessaria perché il mondo – che è vario anch’esso – dipenda dalla loro caduta. Secondo Bianchi, il criterio della varietà deve essere inteso come un secondo principio, o come una causa, che si aggiunge al primo principio, che fu la libera iniziativa creatrice di Dio. In tal modo, rimanendo escluso, naturalmente, per Origene, l’esistenza di un secondo dio che si contrapponga al vero Dio, come avrebbero potuto ipotizzare gli gnostici, si attua un dualismo di origine platonica. L’azione creatrice di Dio non è solamente quella biblica, ma presuppone la categoria platonica di un mondo inferiore, che è luogo di abitazione dell’anima caduta, ma che deve anche essere abitato da anime che costituiscano la varietà delle specie esistenti nel mondo. Questo è asserito in I principi II 1,1: Pertanto, poiché tanta è la varietà del mondo e tanta la diversità fra gli stessi esseri razionali […] quale altra causa dovremo assegnare all’origine del mondo, so-

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prattutto se guardiamo a quella fine in cui […] tutto tornerà nella condizione iniziale? In conseguenza di ciò, quale altra causa, ripeto, assegneremo a tanta varietà di questo mondo, se non la varietà e diversità di movimenti e cadute di coloro che son venuti meno dalla iniziale unità e concordia in cui Dio in origine li aveva creati, per cui turbati e distaccatisi dalla condizione di bontà, agitati da diversi movimenti e desideri dell’anima, hanno diviso l’unitaria e indistinta bontà della loro natura in diverse qualità di intelligenze a seconda della diversità della loro inclinazione? (Trad. di M. Simonetti).

Anche qui Origene afferma che l’uomo è, nell’attualità della sua vita corporea, il risultato di una colpa antecedente; tale colpa non è definitiva, ma comunque stabilisce la realtà dell’uomo in questo momento. Inoltre è stata la varietà dei movimenti e dei desideri dell’anima che ha diviso l’unitaria e indistinta bontà originaria delle intelligenze nelle loro diverse qualità. Quindi la diversità e il movimento posseggono una valenza negativa. «In conclusione, la diversità ha una funzione essenziale, tipicamente dualistica e cosmogonica, fino ad assurgere al valore di un secondo principio. Essa è l’equivalente della molteplicità della mentalità greca, che si manifesta, ad esempio, fin dalla filosofia di Empedocle, pure il quale – nella diversità delle concezioni e delle epoche – vedrà la molteplicità riassimilarsi nello Sfero, quasi una specie di “apocatastasi”. Ma tale diversità non significa soltanto la distinzione degli esseri, bensì la separazione e la caduta da Dio. La separazione e la scissione dall’unità originaria non può essere altro che una differenziazione verso il basso. Comunque, non esiste il cosmo senza la caduta graduata degli spiriti. «Si sa che in questa concezione Origene ha voluto combattere lo gnosticismo, che faceva risalire ad una diversità di nature la diversità delle condizioni degli esseri in questo mondo. In seguito a questa polemica, Origene, affermando l’originaria parità delle intelligenze, e quindi di quelli che saranno da una parte angeli, dall’altra uomini e demoni, è andato nella direzione opposta, e non è stato seguito dalla speculazione cristiana successiva. Ora, la parità originaria si trova anche in Platone, secondo il quale le anime, prima della caduta, eseguivano tutte la processione nel mondo iperuranio, come insegna il Fedro. E la caduta degli esseri

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razionali avviene anch’essa secondo lo schema platonico, cioè passando dalla realtà intelligibile alla realtà sensibile, dall’unità alla molteplicità. In questo modo Dio è innocente della futura malvagità, ed anche della futura infelicità, che da essa consegue, degli esseri da lui creati. In questo modo, però, il male si presenta come un destino avverso, nel senso che l’essere razionale su questa terra è costretto nella sua condizione da una colpa antecedente, una condizione alla quale non si è potuto sottrarre. «Alcune intelligenze, comunque, non avrebbero peccato, ma si sarebbero acquistate dei meriti, cioè sarebbero rimaste nella loro condizione originaria. [...] Esiste anche il paradosso della corporeità dei demoni, i quali, stando alla loro responsabilità, sarebbero più colpevoli degli uomini, per cui dovrebbero essere più materiali degli uomini, mentre avviene il contrario. [...] La stessa corporeità non è uniforme: la corporeità spessa è segno di caduta, la corporeità leggera (ché solamente Dio è incorporeo, come sopra si è visto) è segno di integrità e prepara la resurrezione finale. Quindi la corporeità non è, di per sé, negativa. Rimane il fatto che la corporeità, soprattutto quella spessa (tale è anche la corporeità dei pianeti, a differenza di quanto affermava Platone), è legata alla caduta degli spiriti, ed è connessa con la creazione del mondo sensibile. Le è connessa, in quanto è segno e conseguenza. Anche a questo proposito bisogna ricordare che già Platone distingueva tra una corporeità leggera, di tipo igneo, propria degli dèi astri, ed una corporeità più spessa per le anime che, cadendo, incontrano qualcosa di solido e prendono un corpo di terra (Fedro 246 CD)». Così Ugo Bianchi. Gli esseri razionali, dunque, si separarono da Dio a causa del “raffreddarsi” del loro amore, ed in tal modo sono divenuti anime: il termine “anima”, in greco psychè, deriverebbe, infatti, secondo Origene e alcuni grammatici greci, da psychrós, “freddo”. La realtà dell’anima è, quindi, un momento posteriore alla realtà dell’intelletto. Il mondo materiale fu creato in conseguenza della separazione degli intelletti da Dio, il quale volle legare ad un corpo l’essere razionale, perché esso, sempre esercitando il suo libero arbitrio, si purificasse. Con l’eccezione di quella di Cristo, tutte le anime, che un tempo preesistevano ai corpi, caddero lontano da Dio in vari gradi, a seconda del raffreddarsi del loro amore per colui che le aveva create. Gli esseri razionali in quanto tali, cioè nella loro

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natura originaria, non erano diversi tra di loro (I principi III 5,4; II 9,6; IV 4,9; Commento al Vangelo di Giovanni II 23,146). Tra di essi si trovavano anche i corpi celesti, i quali, come ritenevano varie filosofie antiche, sono esseri animati e razionali. Essi non peccarono in modo così grave come gli uomini e come Satana, per cui rimasero nel cielo e non caddero sulla terra, ma anche in essi si verificò una perdita dell’armonia originaria con Dio. Il risultato più evidente di questo fatto, sia per le stelle sia per gli uomini, fu il tipo di corpo in cui essi furono racchiusi, che è un corpo etereo e luminoso, mentre quello degli uomini è spesso e pesante. Che i meriti o i peccati precedenti determinino la posizione che ciascuno ha in questo mondo, era una concezione comune al platonismo e a certe correnti dello stoicismo (cf. il Sogno di Scipione di Cicerone). È una dottrina tipicamente platonica, quella per cui le diversità del mondo esistono solo come conseguenza del corpo, e Origene la sostiene in varie occasioni. Uno dei suoi argomenti preferiti è il racconto biblico della storia di Esaù e di Giacobbe, ove è detto che Dio aveva preferito Giacobbe già prima della nascita (I principi I 7,4; Commento al Vangelo di Giovanni II 31,191-192). 3. La creatura umana La caduta nei corpi, di cui abbiamo parlato, può anche divenire più grave, in seguito allo svilupparsi delle passioni che sono inerenti al corpo stesso: si passa, quindi, in una tematica precipuamente etica, nella quale non è difficile vedere, ancora una volta, l’impostazione platonica. Ma, in senso cristiano, si afferma che la corporeità può aggravare, se non è contrastata, la condizione dell’anima e prolungare la sua lontananza dalla reintegrazione finale nell’ordine originario (la cosiddetta “apocatastasi”). Di conseguenza, la caduta dalla condizione originaria conserva i suoi effetti anche nel mondo materiale, e più precisamente nell’esistenza di una tricotomia nell’uomo (I principi II 10,7): La parte migliore dell’anima è quella che è stata fatta ad immagine e somiglianza di Dio, l’altra, invece, è quella che è stata assunta in un secondo tempo, a causa della caduta provocata dal nostro libero arbitrio, a danno della primitiva creazione e della sua purezza: questa

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parte, in quanto amica e cara alla natura corporea, condividerà la pena degli infedeli.

Ne risulta uno schema di “doppia creazione” molto particolare: come la prima creazione aveva dato vita ad esseri razionali, così la seconda si riproduce all’interno stesso dell’anima, con il sorgere dell’irrazionalità. Di essa ha parlato G. Sfameni Gasparro, in: U. Bianchi (ed.) La “doppia creazione” dell’uomo negli Alessandrini, nei Cappadoci e nella gnosi, Roma, Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri 1978, pp. 45-82. Come si è detto sopra, quando le creature vennero meno all’iniziale slancio d’amore, l’intelletto divenne “anima” (psychè), cioè si raffreddò, secondo una etimologia che collegava psychè a psychrós (“freddo”). Ma uno degli aspetti più controversi della dottrina origeniana delle creature razionali riguarda anche la loro condizione iniziale, se essa sia da intendere come del tutto incorporea ovvero se già nella primitiva creazione le intelligenze fossero rivestite di un corpo, sia pure purissimo e spirituale. Tale problema ha attinenza anche con quello dello status escatologico delle creature, in quanto Origene riteneva, come molti altri esponenti della cultura greca, che la fine sarà uguale agli inizi. Come si è detto, infatti, solo Dio è assolutamente immateriale. Seguendo Filone, Origene non ammette che la condizione di “immagine” possa riferirsi al corpo dell’uomo, ma afferma che essa si riferisce solamente alla sua intelligenza. Lo dice in Allegorie delle Leggi I 31-34.42.88 (trad. R. Radice): [31] «Dio plasmò l’uomo prendendo del fango dalla terra e soffiò sul suo volto un soffio di vita, e l’uomo divenne un’anima vivente» (Gen. 2,7). Ci sono due generi di uomini: l’uno è l’uomo celeste e l’altro è l’uomo terrestre. Quello celeste, in quanto è generato “a immagine” di Dio (Gen. 1,26 ss.), non partecipa alla sostanza corruttibile e, in generale, “terrestre”. L’uomo terrestre, invece, è costituito di materia qualsiasi che la sacra Scrittura chiama “fango”. Per questo motivo non si dice che l’uomo celeste è stato “plasmato”, ma creato “a immagine” di Dio. L’uomo terrestre è, dunque, un impasto di terra prodotto dall’Artefice, e non una sua generazione. [32] Orbene, bisogna pensare che l’uomo di terra è l’intelletto destinato al corpo, ma

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non quello che vi è effettivamente introdotto. Questo intelletto sarebbe, in realtà, terrestre e corruttibile, se Dio non soffiasse in esso il principio attivo della vera vita. In tale preciso momento l’intelletto diviene anima (ma, allora, non è più “plasmato”), non un’anima passiva e informe, ma intelligibile e veramente “vivente”. Per questo si dice che «l’uomo divenne anima vivente». [33] Qualcuno potrebbe domandarsi perché, in linea di massima, Dio ritenne degno del suo “soffio” l’intelletto terrestre e amico del corpo e non l’intelletto generato secondo l’Idea e “a Sua immagine”. In secondo luogo, ci si potrebbe domandare che cosa significa l’espressione “soffiò”. In terzo luogo, perché Dio abbia soffiato “sul volto”. In quarto luogo, perché, pur avendo dimostrato di conoscere il nome “Spirito”, quando dice: «e lo Spirito di Dio aleggiava sull’acqua» (Gen. 1,2), ora, invece, parla di “soffio” e non di Spirito. [34] Per ciò che concerne il primo problema c’è da dire solo questo: che il Dio che ama donare, fa dono dei Suoi benefici anche a coloro che non sono perfetti, esortandoli a partecipare della virtù e a perseguirla, e mostrando la Sua straordinaria ricchezza, la quale è a disposizione anche di chi non saprà trarne un grande vantaggio. Altrove si dà una conferma quanto mai significativa di questo fatto. Invero, quando Dio fa piovere sul mare e suscita fonti nei luoghi più deserti e, facendo traboccare i fiumi in piena, irrora il terreno magro, pietroso e per nulla fertile, cos’altro mostra se non la straordinaria misura della Sua ricchezza e della Sua bontà? Questo è il motivo per cui non ha fatto nessuna anima infeconda di bene, anche se poi alcuni si mostrano incapaci di metterlo in pratica. [42] La sacra Scrittura ha parlato di “soffio” e non di Spirito, come se fra i due termini ci fosse una differenza. Lo Spirito si distingue dalla forza, dalla tensione e dalla potenza; il “soffio”, invece, è come una brezza e un alito placido e dolce. L’intelletto fatto “a immagine” e secondo l’Idea lo si potrebbe dire partecipe dello Spirito: il suo pensiero, infatti, possiede vigore. L’altro intelletto, invece, lo si direbbe partecipe della sostanza di cui si compone la brezza leggera e lieve; un qualcosa di volatile, del tipo di quello che emana dagli aromi.

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Questi, conservati allo stato naturale e senza bisogno di bruciarli, emettono comunque un soave profumo [88] «E il Signore Iddio prese l’uomo che aveva creato e lo pose nel giardino, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen. 2,15). L’uomo che Dio ha creato differisce, come ho già detto, da quello plasmato. Infatti, quello plasmato è un intelletto più terrestre, quello creato è un intelletto più immateriale, che non partecipa della materia corruttibile, in quanto si trova ad avere una struttura costitutiva più pura e più semplice. [89] Orbene, Dio prende questo intelletto puro non lasciando che esca da sé e, tenendolo saldo, lo pone fra le virtù che radicano e germogliano, perché le “coltivi” e “se ne prenda cura”.

L’esercizio del libero arbitrio permette alle anime di diventare angeliche già in questa vita, o anche di diventare ancora più bestiali (Commento al Vangelo di Giovanni XIX 22). La dottrina della preesistenza e della caduta delle anime si prestò, nei secoli successivi all’insegnamento di Origene, all’accusa di metempsicosi. Effettivamente, tale questione fu discussa in un passo del Commento al Vangelo di Giovanni VI 14 (7), ma, in ossequio all’insegnamento della Chiesa, Origene fu sempre e fermamente contrario ad essa; altrove (Contro Celso V 29) egli distingue con precisione la dottrina della incorporazione delle anime in corpi materiali, da lui effettivamente professata, da quella della trasmigrazione da un corpo all’altro. 4. Il mondo creato La natura corporea, visibile, è nettamente distinta da quella incorporea, invisibile (I principi III 6, 7): Pertanto da tutto questo ragionamento risulta che Dio ha creato due nature generali: la natura visibile, cioè corporea, e la natura invisibile, che è incorporea. Ambedue queste nature possono subire svariati mutamenti. Quella invisibile, che è dotata di ragione, muta per disposizione d’animo, perché è dotata di libero arbitrio: perciò si trova qualche volta nel bene, qualche volta nel male. Invece la natura corporea riceve mutamenti nella sostan-

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za: perciò qualsiasi cosa vorrà creare o modificare, Dio creatore di tutto si serve di questa materia pronta a tutto, sì da trasformare la natura corporea in qualsiasi forma ed aspetto vorrà, secondo quanto richiedono meriti e demeriti. A questo evidentemente allude il profeta quando dice: «Dio che fa e trasforma tutto» (Amos 5,8).

Della natura corporea, della materia, Origene parla ne I principi (II 1,4), affermando che senza corpi non ci può essere diversità nel mondo e che per “materia” intendiamo ciò che forma il sostrato dei corpi, ciò per cui essi sussistono con l’aggiunta delle qualità. Le qualità primarie che vengono a caratterizzare la materia sono il caldo, il freddo, il secco e l’umido. Questi elementi non sono inerenti alla materia originaria, ma le si aggiungono in un secondo momento. Nessun essere razionale e nessuno spirito creato possono essere totalmente privi di materia corporea e l’unico essere che può sussistere senza l’attributo della materia corporea è Dio, come già si è detto sopra (pp. 384 ss.) (I principi II 2,2): Se poi è assolutamente impossibile affermare che qualche altra natura possa vivere senza corpo oltre il Padre, il Figlio e lo Spirito santo, la coerenza del ragionamento spinge a ritenere che gli esseri razionali siano stati creati primariamente, ma che la sostanza materiale solo in teoria e col pensiero possa essere separata da loro e sembrare creata prima o dopo, perché essi non possono vivere, né avere vissuto senza materia: infatti solo la Trinità può vivere priva di corpo.

Così la natura corporea, la materia, è attributo sia degli esseri visibili, corporei in tutto e per tutto, sia degli esseri invisibili, e forma i corpi celesti: esiste, infatti, un corpo spirituale per gli angeli e per le anime dei risorti (I principi II 2,2): Pertanto, come abbiamo già detto, la sostanza materiale che per natura è tale da potersi trasformare da tutto in tutto, quando è tratta alle creature inferiori, prende forma in corpo spesso e solido, così da distinguere le varie specie visibili del mondo; ma quando presta la sua opera a creature più perfette e beate, risplende nel fulgore dei corpi celesti ed adorna con

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corpo spirituale sia gli angeli di Dio, sia i figli della resurrezione (cf. 1 Cor. 15,40.44; Mt. 22,30; Lc. 20,36): di tutti costoro sarà formato lo stato vario e diverso dell’unico mondo.

Affrontando il problema della cosmologia, Origene osserva che del mondo fanno parte non soltanto le realtà materiali, ma anche quelle razionali e gli spiriti creati, nonché i corpi celesti e luminosi in una scala di differenziazione che verrà definita con scrupolo ed estrema precisione in seguito, nelle teorizzazioni teologiche medievali. Scrive Origene (I principi II 9,3): Chiamiamo ora mondo tutto ciò che è sopra i cieli, nei cieli, sulla terra, in quello che chiamiamo inferno ed in qualsiasi altro luogo oltre a questi e coloro che in questi luoghi abitano. In questo mondo si dice che ci sono esseri iperurani, cioè collocati in dimore più beate e dotati di corpi più celesti e luminosi: tra costoro ci sono molte differenze, come, per esempio, ha detto anche l’Apostolo che «altra è la gloria del sole, altra della luna, altra delle stelle», e che «una stella differisce dall’altra per gloria» (1 Cor. 15,41). Altri esseri sono detti terrestri (1 Cor. 15,40) ed anche tra loro, cioè tra gli uomini, non è piccola differenza.

Origene si occupa anche del problema dell’inizio e della fine del mondo. Tutto tornerà alla condizione iniziale, secondo l’Alessandrino, alla fine di questo mondo, in un movimento ciclico che richiama la dottrina stoica, anche se egli non riprende dallo stoicismo l’idea che il mondo rinato dalla conflagrazione riproduca in tutto e per tutto il mondo precedente. Questo è detto in un passo del Contro Celso (IV 68): Celso dunque asserisce che soltanto il periodo della vita mortale, secondo determinati cicli, è stato, è, e sarà sempre lo stesso; invece la maggior parte degli Stoici afferma che non solo il periodo dei mortali è fatto così, ma anche quello degli esseri immortali e di quelli che vengono considerati come divinità. Difatti per loro dopo la conflagrazione del mondo, che è avvenuta una quantità infinita di volte ed avverrà altrettante infinite volte, lo stesso ordine delle cose,

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dall’inizio sino alla fine, è avvenuto ed avverrà. D’altra parte, cercando di attenuare in qualche modo le inverosimiglianze, gli Stoici affermano che – non si sa come – tutti gli uomini nel corso di un periodo saranno del tutto simili a quelli dei periodi precedenti, di guisa che non è Socrate che nascerà di nuovo, ma uno del tutto simile a Socrate, il quale sposerà una donna del tutto simile a Santippe, e sarà accusato da uomini del tutto simili ad Anito ed a Meleto. Ma io non capisco allora come si possa dire che il mondo è sempre lo stesso, e non del tutto simile l’uno all’altro, dal momento che le cose che in esso si trovano non sono le medesime, ma solo molto simili (trad. di P. Ressa, con modifiche).

Ma cos’è, dunque, il mondo? Conformemente alle opinioni delle varie filosofie greche (stoicismo, epicureismo), anche Origene intende darne una definizione (I principi II 3,6): Dopo aver discusso, secondo le nostre possibilità, sul mondo, non sembra fuor di luogo esaminare anche che cosa significhi il nome “mondo”, che è adoperato spesso nelle sacre scritture con diverso significato. Ciò che in latino diciamo “mondo” [questa affermazione (come le altre analoghe, che seguono) non è evidentemente, di Origene, il quale era greco e parlava greco, ma del suo traduttore Rufino di Aquileia, il quale tradusse in latino il trattato su I principi all’inizio del quinto secolo] i Greci chiamano kosmos, e i significa non solo “mondo” ma anche “ornamento”. Infatti in Isaia, quando il rimprovero è rivolto alle figlie potenti di Sion, è detto: «Invece dell’ornamento aureo del capo avrai calvizie a causa delle tue opere» (Is. 3,17.24), dove “ornamento” è indicato con la parola che significa “mondo”, cioè kosmos. Ed è detto anche che nella veste del pontefice è contenuta la spiegazione del mondo, come troviamo nella Sapienza di Salomone, dove è detto: «Nella veste sacerdotale c’era tutto il mondo» (Sap. 18,24). “Mondo” è chiamata anche la nostra terra con i suoi abitanti, come quando la scrittura dice che «tutto il mondo è in possesso del maligno» (1 Gv. 5,19).

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5. Le stelle Come asserivano le filosofie di matrice pitagorico-platonica, ivi compreso l’aristotelismo, anche Origene ritiene che le stelle siano esseri viventi ed animati, esseri razionali affini per origine a quelli che si sono poi incarnati nei corpi umani. Le stelle posseggono, quindi, anche una forma di conoscenza non diversa da quella degli uomini (I principi I 7,2-5): 2. Prima vediamo che cosa il ragionamento ci permette di acquisire sul conto del sole, della luna e delle stelle, se è esatto ciò che alcuni pensano, cioè che esse non possono subire mutamento; e per quanto è possibile, cominciamo col proporre ciò che afferma la Scrittura. Infatti Giobbe sembra rivelare che le stelle non solo possono essere soggette al peccato, ma che effettivamente esse non sono pure dal contatto del peccato. Infatti così è scritto: «Neppure le stelle sono pure al suo cospetto» (Gb 25,5). E ciò non va inteso dello splendore del loro corpo, come se, per esempio, dicessimo: il vestito non è pulito; perché, se intendessimo così, attribuiremmo a ingiustizia del creatore l’impurità dello splendore del loro corpo. Se infatti le stelle non hanno potuto ottenere corpo più luminoso grazie alla loro operosità né meno luminoso a causa della loro inerzia, perché sono incolpate di non essere pure, dal momento che non potrebbero neppure essere lodate per la loro purezza? 3. Per capire meglio questo punto, dobbiamo prima esaminare se si tratti di esseri animati ed intelligenti; poi se le loro anime siano nate insieme con i corpi oppure siano anteriori; infine se dopo la fine del mondo si distaccheranno dai corpi, e come noi cesseremo di vivere qui, così anch’esse cesseranno di illuminare il mondo. Benché questa ricerca sembri piuttosto audace, poiché siamo spinti dal desiderio di conseguire la verità, non ritengo fuor di luogo provare ed esaminare fin dove, con l’aiuto dello Spirito santo, sarà possibile.

In tal senso Origene interpreta il passo di Giobbe: esso indica, come sopra si è detto, che anche la condizione degli astri è

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conseguenza di un peccato, ovviamente molto minore di quello commesso dalle creature diventate uomini e demoni, poiché la Scrittura dice che gli astri ricevono ordini da Dio. 4. Dice infatti il comando: «Io ho comandato a tutte le stelle» (Is. 45,12). Di quali comandi si tratta? Evidentemente che ogni astro secondo il suo ordine ed il suo corso somministri al mondo la quantità di luce che gli è stata concessa. Infatti con certo ordine si muovono gli astri che si chiamano pianeti e con altro quelli che chiamano stelle fisse. A questo proposito si rivela chiaramente che nessun corpo si può muovere senza anima e che mai un essere animato può restare immobile. Dal momento poi che le stelle si muovono in maniera così ordinata e razionale che il loro corso non trova mai alcun impedimento, come non riterremo stolto oltre ogni limite dire che un ordine così perfetto ed una regola tanto sapiente e razionale sono osservati da esseri non dotati di ragione? Del resto in Geremia la luna è detta regina del cielo (cf. Ger. 44,17). E se le stelle sono esseri animati e dotati di ragione, senza dubbio fra loro ci possono essere progressi e regressi. Mi sembra che questo abbia voluto significare Giobbe quando ha detto: «Neppure le stelle sono pure al suo cospetto». 5. Ma vediamo se possiamo trovare qualche passo della Scrittura che si riferisca proprio alle creature celesti. Paolo dice: «Poiché la creazione è stata assoggettata alla vanità, senza che lo volesse, ma a causa di colui che l’ha assoggettata nella speranza che la creazione sarà liberata dalla servitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rom. 8,20 s.). A quale vanità la creazione è stata assoggettata? E qual è la creazione? E perché senza che lo volesse, e con quale speranza? E in che modo la creazione sarà liberata dalla servitù della corruzione? E in un altro luogo l’apostolo dice ancora: «Infatti la creazione in attesa attende la rivelazione dei figli di Dio» (Rom. 8,19). E in un altro passo ancora: «Non solo, ma la stessa creazione geme e si addolora finora» (Rom. 8,22). Perciò bisogna cercare quali siano i suoi gemiti ed i suoi dolori. Prima vediamo quale sia la

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vanità cui la creazione è stata assoggettata. Io credo che essa non sia altro che il corpo: infatti il corpo degli astri, benché fatto di etere, è pur sempre materiale. Onde mi sembra che anche Salomone si rivolga a tutta la natura corporea, in quanto pesante e tale da ostacolare la vivacità dello spirito, in questo modo: «Vanità delle vanità, tutto è vanità, disse l’Ecclesiaste, tutto è vanità. Osservai infatti e vidi tutto ciò che c’è sotto il sole: ecco, tutto è vanità» (Eccl. 1,2.14). A tale vanità è stata assoggettata la creazione, in primo luogo quelle creature che hanno prerogativa dell’ufficio più elevato ed importante in questo mondo: cioè, il sole la luna e le stelle son dette assoggettate alla vanità in quanto introdotte nei corpi e assegnate all’ufficio di illuminare il genere umano. E senza che lo volessero queste creature sono state assoggettate alla vanità: infatti non per loro volontà hanno assunto l’incarico di servire alla vanità, ma poiché lo voleva colui che le sottometteva, cioè a causa di colui che le aveva sottomesse e che prometteva ad esse, che non per loro volontà si sottomettevano alla vanità, che, dopo aver espletato il magnifico incarico loro affidato, sarebbero state liberate da questa servitù di corruzione e di vanità, allorché sarebbe giunto il tempo della redenzione e della gloria dei figli di Dio. Avuta questa speranza e sperando che la promessa sarà realizzata, tutta la creazione ora nel frattempo geme per l’affetto che porta a coloro cui serve, e si addolora nella sopportazione, sperando ciò che le è stato promesso. E guarda se a costoro che sono stati assoggettati alla vanità, anche se non per loro volontà ma per volontà di colui che li ha assoggettati e nella speranza delle promesse, guarda se a costoro, dico, si possono adattare anche queste parole di Paolo: «Desidererei infatti andarmene ed essere con Cristo: sarebbe molto meglio» (Fil. 1,23). Credo infatti che anche il sole similmente potrebbe dire che desidererebbe andarsene ed essere con Cristo: sarebbe infatti molto meglio. Ma Paolo aggiunge: «Ma rimanere nella carne è più necessario a causa vostra» (Fil. 1,24). E il sole potrebbe dire: Rimanere in questo corpo celeste e luminoso è più necessario per la rivelazione dei figli di Dio. E lo

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stesso si può pensare e dire della luna e delle stelle. Vediamo ora quale sarà la liberazione della creazione e la fine della servitù. (Alla fine del mondo, quando le anime e le creature razionali saranno, per così dire, spinte dal signore fuori dalle sbarre e dai cancelli, alcune per la loro inerzia si muoveranno più lentamente, altre invece voleranno velocemente per il loro zelo. Poiché tutte hanno il libero arbitrio e liberamente possono acquistare virtù e vizi, alcune si troveranno in condizione molto peggiore di ora, altre conseguiranno condizione migliore, poiché diversi movimenti e varie inclinazioni nell’una e nell’altra parte apporteranno condizione diversa, sì che gli angeli potranno diventare uomini e demoni, e questi di nuovo uomini e angeli). Quando poi Cristo avrà consegnato il regno a Dio Padre (1 Cor. 15,24), allora anche questi esseri animati, che già prima erano diventati parte del regno di Cristo, col resto del regno saranno consegnati al Padre perché questi vi eserciti il suo imperio: così quando Dio sarà tutto in tutti (1 Cor. 15,28), poiché anche costoro fan parte di tutti, Dio sarà in loro come in tutti.

6. Origine e fine del mondo. L’“apocatastasi” Si è già visto a suo tempo come l’idea della creatio ex nihilo, la quale implica, per converso, la fine del mondo (perché tutto quello che ha avuto un inizio avrà necessariamente una fine), si fosse lentamente imposta nella speculazione cristiana a partire dalla fine del secondo secolo. Che il mondo creato da Dio sia eterno o no, era una questione discussa anche dal platonismo contemporaneo. Ad esso si collegava l’altra, posta anche dagli epicurei, di che cosa facesse Dio prima della creazione del mondo, se, cioè, Dio fosse stato ozioso; se non lo era stato, il mondo doveva essere coeterno a lui. Di conseguenza Origene afferma (I principi I 2,10) che dovevano essere sempre esistiti degli esseri sui quali Dio aveva regnato. Ma la dottrina della creatio ex nihilo si stava progressivamente imponendo nel pensiero cristiano, per cui, se Clemente l’aveva rifiutata, Origene, invece, la accoglie (cf. I principi I pref. 4; I 3,3; Commento al Vangelo di Giovanni I 17 [18]). La soluzione è che Dio è eternamente attivo e benefico, ma attua la sua bontà ab aeterno sul

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mondo delle idee, delle forme ideali delle cose, eternamente presente nel Logos (I principi I 4,3 ss.). La fine del mondo è concepita da Origene alla maniera dei Greci, come un ritorno all’unità originaria nel bene di tutte le creature razionali e la loro reintegrazione nella condizione e nella dignità iniziali, quando Dio sarà tutto in tutti (I principi I 6,1; III 5,6-7). Come osserva Simonetti, si tratta «della massima concessione che Origene abbia fatto all’influsso della filosofia greca, tale da snaturare la concezione rettilinea del tempo tipica del giudaismo e del cristianesimo, a beneficio di un eterno ritorno circolare in cui l’ephapax del sacrificio di Cristo sembra perdere valore e significato di evento decisivo della storia del mondo». Dopo la morte, e prima della resurrezione, l’anima conserva un certo rivestimento corporeo, come si può ricavare dalla parabola del ricco epulone e di Lazzaro, che soffrono materialmente nell’inferno, oppure dal racconto biblico dell’apparizione dell’anima di Samuele a Saul. Metodio di Olimpo (cfr. pp. 464-466) assimila il corpo risorto al “veicolo dell’anima” di cui parla il platonismo, cioè ad una realtà eterea, ma pur sempre materiale, di cui si serve l’anima durante la discesa nel mondo terreno e nella sua risalita al mondo celeste (Aglaofonte o della resurrezione III, 17,2-5). In realtà, il corpo risorto non ha un vero e proprio spessore, ma, secondo Crouzel (Origène, p. 129), è in rapporto con il corpo terreno allo stesso modo in cui, secondo S. Paolo, il seme di grano sta in rapporto con la spiga, mantenendo l’identità della sostanza, per cui ha luogo una modifica della qualità. Una differenza essenziale tra quelli che risorgono per la gloria e quelli che risorgono per la condanna consiste nel fatto che questi ultimi non hanno più lo spirito, perché Dio si è ripreso il dono che aveva fatto loro. Il problema della resurrezione era stato da sempre considerato tra i più spinosi dal cristianesimo antico. La resurrezione del corpo non è menzionata nei Vangeli, e di essa parla per primo S. Paolo in 1 Cor 15,34-54. Ben presto, nel mondo cristiano, sorse il problema di come interpretare la resurrezione, se in modo spirituale, come sostenevano gli gnostici (cioè come il risorgere dall’errore e dal peccato del paganesimo – o comunque dell’ignoranza della vera dottrina – alla gnosi della verità), o in modo materiale, cioè di una resurrezione del corpo. Ai tempi di Origene non era stata ancora adeguatamente risolta questa contraddizione tra il

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concetto di resurrezione materiale ed il concetto di resurrezione spirituale, anche se il primo sembrava essere quello che sempre più si stava imponendo nella Grande Chiesa (Tertulliano è un esempio in tal senso). Origene cercò di risolvere questo problema partendo da un intento apologetico, in quanto il suo avversario pagano Celso aveva insistito a mettere in evidenza l’assurdità della dottrina di una resurrezione materiale (cf. Contro Celso V 14). Ammettendo anch’egli che questa era una delle dottrine cristiane più difficili ad essere accettate, Origene cercò di percorrere una strada intermedia tra le opinioni dei fedeli “semplici”, secondo i quali il corpo risorto non era diverso dal corpo materiale di questa vita, e la dottrina di vari gruppi eretici, che davano alla resurrezione un significato puramente spirituale, come si è detto. Era necessario anche opporsi al materialismo della dottrina millenaristica, diffusa in quell’epoca, secondo la quale la resurrezione avrebbe introdotto in terra un millennio durante il quale gli uomini giusti sarebbero stati ricompensati, in modo materiale, delle sofferenze patite in questa vita; in seguito, passati i mille anni, sarebbe avvenuta la resurrezione finale. Origene sostenne che quello che sarebbe stato resuscitato l’ultimo giorno non è il corpo fisico, che, in quanto tale, sarebbe stato sempre soggetto alla trasformazione (secondo la concezione platonica), ma la sua “forma”, che ne è il principio. Questo principio è contenuto nell’anima, ed è questo, e non il corpo, che costituisce l’immagine di Dio e che garantisce la vita eterna (Contro Celso VIII 49). Il corpo come entità puramente fisica si corrompe, ma il suo principio, che equivale a quello che S. Paolo (1 Cor 15,38) chiama “seme” del corpo che risorge, diventa il fondamento della vita nuova. In tal modo Origene poteva affermare di credere nella resurrezione di quel corpo che noi adesso possediamo (Commento a Matteo XVII 29; I principi III 6,6). 7. L’antropologia L’antropologia di Origene è tripartita, e si basa sulla dottrina della seconda Epistola ai Tessalonicesi (5,23), nella quale Paolo distingue tra corpo, anima e spirito. Su questa tripartizione si inseriscono alcuni elementi dell’antropologia platonica: lo spirito (pneuma) assume certe volte la natura dell’intelletto (nous), anche se non si identifica totalmente con esso, in quanto lo spirito è

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quella parte dell’intelletto che è di origine divina ed è attiva nella vita spirituale, mentre l’intelletto in quanto funzione razionale sembrerebbe essere una specie di ricettacolo di tale attività: esso, infatti, è posseduto anche da coloro che non sono “spirituali” (ad esempio, i filosofi pagani). Origene pensa in maniera tipicamente cristiana, quando divide l’anima in una parte, cioè nell’intelletto, che è caduta ed è esposta al peccato, ed in un’altra, che non è caduta e che è lo spirito. Seguendo la tradizione platonica, comunque, egli considera incorporeo lo spirito, in quanto affine all’intelletto, mentre per molti cristiani e la tradizione ebraica lo spirito è qualcosa di materiale (I principi I 7,1,10-14). Pur essendo distinto dallo Spirito santo, lo spirito dell’uomo è, comunque, una forma di partecipazione ad esso. Quando non discute di tale qualità di origine divina, Origene impiega comunemente i termini della filosofia greca, come nous, cioè “intelletto”, ed anche quello, di origine stoica, di heghemonikón (“parte dominante dell’uomo”). L’anima razionale, nella quale non esiste ancora l’elemento spirituale, è comunque la sede del libero arbitrio, della capacità della scelta. Se segue lo spirito senza opporsi a lui, l’anima diviene tutta spirituale, mentre se si volge alla carne, allora l’elemento inferiore le toglie la capacità di guidare l’uomo, per cui diviene carnale. Durante la preesistenza, precedentemente alla sua caduta e all’assunzione di un corpo, l’elemento superiore, cioè l’intelligenza, era stato l’unico che costituisse l’anima: l’intelligenza, infatti, era stata creata secondo l’immagine di Dio, cioè secondo il Logos, e quindi l’anima si identificava con l’intelletto. Origene, in conformità con la sua dottrina trinitaria, precisa il significato di questa affermazione scritturistica asserendo che l’uomo è stato fatto “ad immagine dell’immagine” di Dio, appunto perché ad immagine del Logos. Da qui anche l’affermazione che l’essere a immagine di Dio consiste in primo luogo nell’esercitare le proprie capacità razionali. Origene intende in modo molto concreto la sostanza dell’anima, attribuendole anche dei “sensi” veri e propri – sensi che, comunque, debbono essere intesi in modo differente dai sensi del corpo, perché sono “sensi spirituali”. In seguito alla sua caduta, all’intelletto fu aggiunto non solamente il corpo, ma anche l’aspetto corporeo e materiale, cioè il volgersi alla materialità. La materialità è stata spesso identificata da Origene con le due parti inferiori dell’anima, in questo seguen-

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do la dottrina di Platone, cioè con il thymikón e con l’epithymetikón, con la parte irascibile e quella concupiscibile. Il corpo umano, comunque, come tutte le cose create da Dio, è buono: appartiene a quelle cose di cui Dio, dopo averle create, disse che erano buone, come si legge nel primo capitolo della Genesi. Origene lo afferma in un passo del Commento al Vangelo di Giovanni (XIII 42,280): Ma forse le campagne che già biancheggiano (cf. Gv. 4,35), pronte per la mietitura, sono, per chi vi leva gli occhi, tutte le cose sensibili fino al cielo e a ciò che esso contiene. [...] Infatti l’espressione «e Dio vide che era buono», ripetuta per ciascuna delle cose create, vuol significare più o meno questo, che Dio ha considerato le ragioni d’essere (logoi) di ciascuna cosa e ha visto in che modo ciascuna è buona, tenute presenti le ragioni d’essere secondo cui è stata creata (trad. di E. Corsini).

8. Il libero arbitrio e la ricerca della perfezione morale Il libero arbitrio possiede un ruolo centrale nella dottrina di Origene. È sulla base del libero arbitrio che si giustificano le differenze – altrimenti inspiegabili – esistenti tra gli esseri razionali (angeli, demoni e uomini), di cui si è detto precedentemente. La punizione degli esseri razionali, costretti a ricoprirsi di un corpo materiale e quindi ad essere collegati alla materialità in seguito alla loro caduta, possiede, tuttavia, secondo Origene, uno scopo educativo, non è solamente la conseguenza di una colpa. Il mondo in cui viviamo, infatti, mette alla prova non soltanto l’anima umana, ma anche l’anima degli angeli. Origene cristianizzò in questo modo la demonologia medioplatonica, che poneva spesso sullo stesso piano i demoni (buoni o malvagi) e l’anima umana. La tentazione di compiere il male e la decisione di volgersi al bene sono delle condizioni che valgono per tutte le creature razionali. Nemmeno gli angeli sono tutti uguali tra di loro né hanno tutti lo stesso compito. Essi governano ogni parte del mondo ed hanno differenti responsabilità ed atteggiamenti nei confronti degli uomini. Seguendo Clemente e le tradizioni del platonismo e del giudaismo, Origene pensò che un angelo governasse ciascun popolo (cf. I principi III 3,3; Commento al Vangelo di Giovanni

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XIII 50,333; Contro Celso V 30); parimenti, che vi fossero angeli “custodi” delle singole anime (ed anche questo si legge nella demonologia medioplatonica, cf. Apuleio, Il demone di Socrate 15). Anche gli angeli dovranno render conto, nell’ultimo giudizio, delle loro azioni. Ma torniamo al libero arbitrio. Un discorso approfondito su di esso, con il ricorso a molte delle tematiche stoiche e alla terminologia stoica, è svolto ne I principi III 1,2-5, ove si legge: Delle cose soggette a movimento alcune ne hanno in sé la causa, altre invece ricevono il movimento soltanto dall’esterno. [...] Hanno in sé il principio del movimento gli animali le piante e in generale tutti gli esseri che sono tenuti uniti dall’anima o dalla natura: fra questi alcuni collocano anche i metalli; oltre a questi anche il fuoco si muove da sé e forse anche le fonti. Degli esseri che hanno in sé il principio del movimento dicono che alcuni si muovono per sé altri da sé: per sé gli esseri privi di anima, da sé quelli dotati di anima. [...] Invece l’animale razionale oltre la capacità rappresentativa possiede anche la ragione, che giudica le rappresentazioni respingendone alcune ed accettandone altre, affinché l’essere animato agisca secondo esse. D’altra parte poiché nella natura della ragione c’è capacità di giudicare il bene ed il male, noi in base ad essa giudicando il bene ed il male scegliamo il bene ed evitiamo il male, e siamo degni di lode se ci diamo alla pratica del bene, degni di biasimo se facciamo l’opposto. [...] Orbene, esser soggetti a impulsi esterni che provocano questa o quella rappresentazione senza dubbio non dipende da noi; ma giudicare se dobbiamo servirci in un modo oppure nell’altro dell’impressione subita non è opera di altri che della ragione, che è in noi e che a seconda delle occasioni ci spinge verso gli impulsi che ci invitano a fare ciò che è bene e conveniente ovvero ci dirige in senso opposto. Se poi uno dice che l’impulso esterno è tale che è impossibile resistervi quando ci si presenta, esamini i suoi affetti e i suoi impulsi, se non c’è valutazione positiva, assenso e spinta della ragione verso questo o quello a causa della sua forza di persuasione. [...] Stando così le cose per noi, accusare gli impulsi esterni e libe-

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rare se stessi da ogni responsabilità dichiarandosi simili a legni e pietre che sono mosse da agenti esterni non è né vero né assennato, ma è ragionamento di chi vuole svisare il concetto del libero arbitrio. Se infatti chiediamo a costui che cosa sia il libero arbitrio, egli ci risponderà che esso consiste nel non imbattersi, quando si è deciso di fare qualcosa, in nessuna circostanza esterna che tragga in senso opposto. Ma voler addossare la colpa alla sola costituzione naturale è contro l’evidenza, perché anche i più incontinenti e i più rozzi sono soggetti a ricevere l’educazione, se ne assecondano la spinta, ed a cambiare. [...] Vediamo invece persone equilibrate e serie che, per essersi volte a cattive occupazioni, respingono serietà ed equilibrio e cambiano volgendosi all’intemperanza: spesso essi cominciano ad essere intemperanti in età già matura e si abbandonano ad un modo di vita disordinato quando è già passata la giovinezza che per natura è più instabile. Perciò il ragionamento dimostra che gl’impulsi esterni non dipendono da noi, che però è opera nostra che la ragione che li riceve se ne serva in una maniera o nell’altra, vagliandoli ed esaminando come bisogna reagire ad essi.

Solo colui che impiega il libero arbitrio volgendolo al bene merita di ottenere l’“assimilazione a Dio”, di cui aveva parlato già così a lungo Clemente Alessandrino (cf. p. 356). Così si esprime Origene, riprendendo delle considerazioni che erano già state degli apologeti, oltre che dei medioplatonici (I principi III 6,1): Se la Scrittura ha detto: «Lo fece a immagine di Dio» (Gen. 1,26) e non ha parlato della somiglianza, questo significa che l’uomo fin dall’inizio della sua creazione ebbe la dignità dell’immagine di Dio, mentre la perfezione dell’assimilazione a Dio egli la otterrà alla fine, nel senso che egli la otterrà imitando Dio con il suo comportamento.

È chiaro che anche per Origene il concetto di “immagine” deve essere inteso nel suo significato più forte, nel senso di “riproduzione dell’archetipo”. Anche qui è evidente l’impiego del linguaggio platonico. “Archetipo” con riferimento al rapporto tra la natura divina e la natura umana è usato soprattutto nel platoni-

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smo dell’età imperiale, a partire da Filone di Alessandria, il quale aveva affermato: Ora, se la parte è immagine di un’immagine e se la forma intera – questo nostro mondo sensibile tutto intero, posto che è maggiore dell’immagine umana – è riproduzione dell’immagine di Dio, ne risulta chiaro che anche il sigillo archetipo, che noi diciamo essere il mondo intelligibile, non può che identificarsi con il Logos divino (La creazione del mondo 25; trad. di C. Kraus Reggiani); prima dell’intelletto individuale e particolare esisteva un’Idea che è come il suo archetipo e paradigma (Allegorie delle Leggi I 22; trad. di R. Radice); lo spirito umano è simile a Dio, in quanto è stato fatto secondo il modello di un’Idea archetipale, che è il Logos supremo (Le leggi speciali III 207).

Oltre che nella scuola di Alessandria, la dottrina dell’“assimilazione a Dio”, grazie alla tradizione medioplatonica, si trova anche in Plotino, il quale la considera come l’ideale della vita del filosofo (cf. VI 9,10-11; I 6,8 etc.); l’assimilazione a dio significa pervenire a una condizione di pura razionalità, all’unione con l’uno, alla «fuga di solo a solo». Essa non è estranea nemmeno alla dottrina di Porfirio. 9. Libero arbitrio e determinismo In opposizione al determinismo stoico e all’astrologia, particolarmente diffusa nell’età imperiale, secondo la quale le stelle sarebbero la causa degli avvenimenti di questo mondo e quindi determinerebbero le decisioni degli uomini (anche numerosi Cristiani cadevano in questa credenza errata), Origene ritiene che il determinismo e l’astrologia siano incompatibili con la dottrina cristiana, perché distruggono il libero arbitrio, tolgono ogni valore al comportamento umano (morale o immorale che sia) e sono in contrasto con la dottrina del giudizio di Dio. Che le stelle esercitassero un ruolo particolare sulla vita umana era stato affermato anche dal filosofo peripatetico Alessandro di Afrodisia. Esse determinano la provvidenza: questa, a sua volta, produce la formazione e la conservazione di tutto quello che esi-

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ste, influendo sulla natura dei corpi, ma non si cura dei singoli individui, che appartengono al genere. La provvidenza deriva dal movimento ordinato dei corpi celesti, i quali a causa della loro incorruttibilità possono avere soltanto un movimento circolare, ininterrotto e regolare. Origene riprende questo concetto in I principi II 11,7, e lo svolge in modo analogo a quello di Alessandro, il quale dice: se i fenomeni celesti non si compissero in modo regolare, allora noi non soltanto dovremmo fare a meno di tutte le altre cose sulla terra, ma anche le piante e gli animali e anche i corpi semplici la cui conservazione si basa su di un mutamento regolare l’uno nell’altro, non potrebbero più sussistere.

Ciononostante, Alessandro e Origene non considerano allo stesso modo il movimento delle stelle. Alessandro ritiene che esso, in quanto moto circolare ed eterno, ininterrotto e regolare, sia l’unico che si addica alle stelle, mentre Origene afferma che esse si muovono con ordine e regolarità, ma lo fanno perché obbediscono al comando di Dio (I principi I 7,3; La preghiera 5 e 7). Secondo gli avversari di Origene, i quali affermavano che la preghiera fosse inutile, sarebbe stolto se uno pregasse che il sole tramontasse, perché costui vorrebbe, con la sua preghiera, che avvenisse qualcosa che succederebbe anche senza di essa. In La preghiera 7 Origene risponde a questa concezione: Anche il sole ha un suo libero arbitrio. E se io non prego inutilmente quando ho a che fare con il libero arbitrio di un altro, questo avverrà tanto più a proposito del libero arbitrio delle stelle che si muovono nel cielo per la salvezza dell’universo.

Certo, le stelle non sono di natura divina e quindi non possono influire di propria volontà sulle vicende umane, diversamente da quanto pensavano le scuole filosofiche ellenistiche. Solo Dio esercita la provvidenza; essa si indirizza a tutto il cosmo ed è visibile nel sole, nella luna e nelle stelle più ancora che nelle vicende umane. Il ruolo particolare delle stelle è sottolineato da Origene anche nel Commento alla Genesi. Ivi egli dice che esse sono dei segni che vengono dati agli uomini dalle potenze che si occupano dell’amministrazione delle vicende umane, seguendo la provvi-

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denza di Dio. In questa concezione della provvidenza Origene introduce una tripartizione che assomiglia a quella medioplatonica: la provvidenza primaria prescrive alle stelle il loro ordine, cosicché esse sono segni di quanto è già noto a Dio in precedenza: a loro volta, esse costituiscono una seconda provvidenza e comunicano il loro compito alle potenze celesti, le quali costituiscono la terza provvidenza. A differenza dai medioplatonici, però, Origene ritiene che esista una sola vera provvidenza, che è quella di Dio, in quanto né le stelle né le potenze celesti sono provvidenti in senso pieno. Pasquale Arfé ha opportunamente citato (cf. P. Arfé, “E servano da segni” (Gen. 1,14). La confutazione del fatalismo astrologico nel Commento a Genesi di Origene, Augustinianum 49,2,2009, pp. 321-358, p. 323 n. 7) le seguenti parole di Franz Boll, Astronomia e astrologia nel mondo antico, tr. ital. a cura di F. Voltaggio, Torino 2008, p. 40: «Si sono sempre contrapposte al riguardo due distinte concezioni: l’una, supponente una certa azione delle stelle, è sostenuta dalla filosofia aristotelica e da quella stoica. L’altra crede di vedere nella “scrittura celeste” dei simboli dell’esistenza umana: per chi è in grado di leggerli i segni interpretano il futuro. È questa una visione che ricorre negli scritti orfici e neoplatonici e la sua origine può essere rintracciata nei luoghi del Timeo [...]. Anche il cristianesimo ha finito con il cedere a questa visione della funzione interpretativa delle stelle assai più volentieri che non a quella che insiste su una loro azione, e gli apologeti Cristiani hanno potuto giovarsene ove questa concezione si colleghi alla stella di Betlemme e ai Re Magi in quel sia pur profondo imbarazzo che portava a leggere quale espressione indelebile di astrologia le parole del Vangelo di Matteo: “Abbiamo veduto levarsi la sua stella” (Mt. 2,2)». La trattazione di Origene a proposito dell’astrologia è contenuta soprattutto nella prima delle sue Omelie sulla Genesi e prende lo spunto dall’esegesi di Gen. 1,14, ove si dice che Dio volle che le stelle «servano da segni». Il termine “segno” appare importante a Origene. Già l’astrologia greca, infatti, si era domandata se le stelle “eseguissero” gli eventi naturali o li “segnalassero”, e quindi se fossero le cause o i segni delle vicende umane. Pasquale Arfé ha ricordato l’interpretazione di Anthony Arthur Long a questo proposito, secondo il quale in un sistema filosofico l’astrologia possiede un significato “forte”, quando le stelle sono cause

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e segno, insieme, delle vicende umane, mentre possiede un significato “debole”, quando sono ritenute solamente segni. In vari passi Origene polemizza con i sostenitori dell’astrologia. Come osserva Arfè, il Contro Celso (V 8 e 10) combatte l’astrolatria e ipotizza che gli astri abbiano il potere di profetizzare (V 12), mentre attribuisce alla sola stella dei Magi, che Origene per primo identificò come una cometa, la funzione esclusiva di segnalare un evento straordinario, perché era stata attestata in una profezia di Balaam, riferita da Mosè (cf. Nm 24,17) (Contro Celso I 59). Seguendo il medesimo studioso, osserviamo che nel trattato su I principi (I 7,2-5) Origene affronta il problema della natura delle stelle. Sulla base di Gen. 1,16, dove si dice che Dio creò i due luminari del sole e della luna come “principi” del giorno e della notte, Origene si domanda che genere di esseri creati essi siano, quale sia la loro posizione nel cielo: il termine “principi”, qui, non significa “inizio”, ma, come permette la lingua greca, “signori”, in quanto cioè le stelle appartengono alla gerarchia angelica dei “principati”, conosciuti già da S. Paolo. Seguendo dottrine molto diffuse nell’antichità, Origene afferma che le stelle, poiché eseguono dei compiti loro affidati, sono animate e, poiché si muovono ordinatamente, sono razionali: di conseguenza, come tutti gli esseri razionali, possono volgersi al bene e al male, perché sono dotate di libero arbitrio. Del resto, avevamo visto che Origene introduceva questa dottrina a proposito della caduta delle anime razionali, alcune delle quali si incorporarono nelle stelle. Il problema è affrontato ancora nel Commento alla Genesi, i cui estratti ci sono conservati nella antologia chiamata Philocalia, allestita nel quarto secolo forse da Basilio e Gregorio Nazianzeno. Nel cap. 23 di questa antologia Origene vuole mostrare la retta interpretazione di Gen. 1,14 e motivare la sua polemica antiastrologica. Le stelle debbono servire da segni, e quindi non esercitano un influsso sulle vicende umane che sia estraneo alla volontà di Dio. Questo va sottolineato, dice Origene, per combattere l’errore dei pagani, i quali credono che tutto ciò che accade sulla terra sia la conseguenza della connessione tra i pianeti e le costellazioni dello zodiaco, e quindi per difendere dal fatalismo astrologico la libertà del nostro arbitrio e la morale del nostro comportamento, che richiederà le punizioni o le ricompense. Questa dottrina origeniana mostra una notevole somiglianza con quello che dice

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Plotino: anche Plotino ritiene che le stelle siano come delle lettere, le quali sono “segni” delle cose e degli avvenimenti futuri; anche per Plotino le stelle sono prive di ogni causalità. Inoltre Origene, servendosi delle critiche mosse comunemente dagli scettici contro la validità degli oroscopi e contro l’astrologia, scardina ogni credenza nelle leggi fisse dell’astrologia: il fatto che muoiano congiuntamente e in momenti uguali delle persone che hanno avuto una nascita che fu influenzata dalle stelle in modo differente toglie ogni validità a quella scienza. Vale a dire, ammesso che gli oroscopi ci permettano di conoscere il destino del singolo, la previsione della sua morte dovrebbe essere condivisa dai diversi oroscopi delle persone a lui congiunte: ma come è possibile che differenti configurazioni astrali di questo o di quel congiunto abbiano determinato la morte del singolo? Allo stesso modo, la diversità delle usanze dei barbari pone un’obiezione che si configura nel modo seguente: come è possibile «che in Giudea all’atto della nascita di quasi tutti gli uomini la configurazione astrale è tale che essi ricevono la circoncisione nell’ottavo giorno, mentre presso gli Ismailiti la configurazione è tale che sono circoncisi all’età di tre anni?» (Arfé, p. 350). Già il siriaco Bardesane di Edessa, contemporaneo di Origene, si era servito di questa obiezione. Non è possibile, quindi, negare il valore della causalità astrale per l’aruspicina e la scienza degli auguri, come facevano i Cristiani in polemica con il paganesimo, ma conservarlo per la scienza degli oroscopi. Il successivo capitolo 25 della Philocalia, prosegue sempre Arfè, è destinato, invece, a studiare un altro grave problema che minaccia di influire sui rapporti tra il libero arbitrio e la prescienza divina: il passo è tratto dal Commento alla lettera ai Romani, ove si dice «Paolo, servo di Cristo Gesù, eletto apostolo prescelto per annunciare il Vangelo di Dio». Origene in questo passo contesta l’interpretazione degli gnostici, i quali sostengono che la salvezza o la perdizione degli uomini non derivano dalla loro volontà, ma dalla loro natura. Per trovare la retta interpretazione di quell’affermazione di Paolo, Origene si sofferma su Rm 8,29-30: Dio giustifica dopo avere chiamato, per cui la chiamata precede la giustificazione, e Dio chiama dopo avere predestinato. Quindi Dio predestina perché ha preconosciuto. Così si stabilisce la catena che risale dalla giustificazione alla chiamata, dalla chiamata alla predestinazione e alla prescienza. Tra prescienza e predestinazio-

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ne non esiste un rapporto di causa ed effetto, mentre tale rapporto esiste, al contrario, tra predestinazione e prescienza. Infatti un evento non si verifica perché Dio lo ha preconosciuto, ma, poiché si verifica, Dio lo preconosce. Così l’uomo non è predestinato da Dio, ma è lui stesso che si predestina, e di conseguenza viene la predestinazione di Dio, il quale interviene solo in quanto preconosce. Ma se ab aeterno Dio preconosce le azioni di ogni uomo, Origene deve affrontare il problema di come possa esistere il libero arbitrio. A questo scopo egli polemizza con le dottrine di alcuni empi Greci, secondo i quali la prescienza di Dio determina l’agire umano, distruggendo, quindi, il libero arbitrio: questi Greci sono, probabilmente, degli Accademici che polemizzavano con il determinismo degli Stoici. Origene ha bisogno di respingere sia gli uni sia gli altri, per cui propone un argomento che egli definisce “paradossale, ma veritiero”, che cioè non è la prescienza divina ad essere causa degli avvenimenti futuri, ma viceversa sono gli avvenimenti futuri ad essere causa della prescienza divina. Perciò se uno pensa che sia necessario che avvenga ciò che è conosciuto da Dio in anticipo, sbaglia contro il libero arbitrio; interpreta, invece, rettamente l’enunciato, se lo intende nel senso che quell’avvenimento si verificherà, ma potrebbe anche non verificarsi. Di conseguenza Boezio, nel quarto e nel quinto libro de La consolazione della filosofia, partendo da un’impostazione filosofica assolutamente diversa, e precisamente dal neoplatonismo, respinge questa spiegazione origeniana, perché essa dà l’impressione che la conoscenza di Dio, ancorché ab aeterno, ancorché preconoscenza, sia determinata dagli avvenimenti contingenti. Origene così continua il suo ragionamento: le profezie che esprimono la prescienza divina contemplano la possibilità che una cosa si verifichi ed anche possa non verificarsi, nonostante che Dio certamente sappia se si verifica o no. Ma è necessario che l’uomo non conosca il verificarsi degli avvenimenti futuri, perché, se lo conoscesse, la morale cristiana crollerebbe. Se le stelle sono dei segni che rivelano la volontà di Dio, gli uomini non sono determinati dal loro influsso, ma sono istruiti dalla prescienza divina attraverso di esse. Nel cielo, quindi, e nelle sue stelle, che sono dei “segni” (leggibili dallo studio degli uomini, come se fossero delle “lettere”), si può “leggere” la volontà di Dio. Ma tali segni non sono conoscibili a tutti: l’astrologia come scienza non è possibile; essa indica gli astri come segni di un lin-

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guaggio misterioso, che rimane impenetrabile all’uomo, ad eccezione che ai santi ed ai profeti. «Gli astrologi pretenderebbero, secondo Origene, di raggiungere un’esattezza nelle loro operazioni di calcolo, che è preclusa dalle medesime leggi dell’astronomia, e più precisamente dalla legge della precessione degli equinozi [...]. Gli astrologi pertanto sarebbero incapaci di calcolare con esattezza la posizione dei pianeti nella sfera dello zodiaco. Questa critica di Origene, nuova nel panorama degli argomenti antiastrologici del suo tempo, ci mostra anche la sua sorprendente preparazione scientifica» (Arfè, p. 352). In conclusione, la sapienza umana non è in grado di creare una scienza astrale, ma solamente di conoscere il linguaggio astrale. La sapienza degli angeli – stelle consiste anche nel fatto che gli uomini osservano gli astri per conoscere il futuro, mentre gli angeli penetrano gli astri in modo a noi ignoto, per gioire della conoscenza e per meglio eseguire i compiti posti dalla sapienza divina (Arfè, p. 357). Sulla base di quanto è stato detto sopra, è possibile quindi introdurre una conciliazione tra il libero arbitrio e la provvidenza di Dio, che fin dall'età ellenistica erano stati oggetto di contrasto tra gli stoici e gli accademici. Anche secondo Origene, come per gli stoici, la provvidenza è alla base del governo del mondo, creato da Dio. Ora, come si può salvare il nostro libero arbitrio, dato che Dio conosce ab aeterno le azioni degli uomini? Nel modo seguente: l’assoluta prescienza di Dio non è messa in discussione dal fatto che le stelle debbano servire da segno, perché esse servono da segno proprio secondo la volontà di Dio. Una cosa è dare l’informazione sui fatti che accadranno, un’altra è esserne la causa. Dio conosceva benissimo il futuro tradimento di Giuda, ma non ne fu certo la causa, ed altri fatti raccontati dall’Antico Testamento debbono essere interpretati in modo analogo. In questa discussione Origene si riallaccia al dibattito condotto dai medioplatonici contemporanei. Celso aveva affermato che Dio ha predetto una determinata cosa e ciò che è stato predetto da Dio deve verificarsi. Origene replica (Contro Celso II 20) che la preconoscenza del futuro, che il profeta possiede, non lo causa né lo rende necessario (cf. anche Commento alla lettera ai Romani 1126B ss.). A questo proposito egli cita l’esempio dell’oracolo di Apollo a Laio, che è un esempio ricorrente nella contemporanea filosofia medioplatonica: se Laio genererà un figlio, questo

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figlio, cioè Edipo, lo ucciderà, ma niente obbliga Laio a unirsi con la moglie Giocasta e a generare un figlio. Un esempio dell’interazione tra Dio e l’uomo è dato dall’episodio biblico della perdizione del Faraone, conseguenza dell’indurimento del suo cuore, prodotto da Dio stesso, come dice la Scrittura (Es. 4,21 e 7,3): Origene ne tratta in un’importante sezione de I principi (III 1,10-14). Gli gnostici sostenevano, sulla base del fatto che questo indurimento del cuore del Faraone era stato provocato da Dio, che non esistesse nessuna libera scelta e che la redenzione dell’uomo non dipendesse dalla sua libertà, ma dalla sua natura: la natura del Faraone era tale che egli era destinato alla perdizione, per cui Dio indurì il suo cuore. Origene obietta che se veramente l’intenzione di Dio era quella di far perire il Faraone, egli non aveva bisogno di indurirne il cuore, ed intende questa espressione scritturistica nel senso che Dio ha misericordia di chi vuole e indurisce il cuore di chi vuole, ma non in quanto intende indurire, bensì in quanto l’indurimento è la conseguenza di una cattiva intenzione dell’uomo. A causa della malvagità dell’uomo, la quale deriva dalla sua libertà di decisione, un’azione di Dio, che pure è buona, può indurire, perché esiste nell’uomo un sostrato di malvagità, che perverte quella buona azione e produce da essa effetti malvagi. La parola “indurimento”, quindi, non deve essere intesa come se quel comportamento perverso fosse stato voluto appositamente da Dio. Anche Paolo, infatti, dice che il malvagio attira su di sé l’ira di Dio con la sua durezza di cuore (Rm 2,5): Dio tiene conto, semplicemente, delle conseguenze della sua azione. Egli lascia che gli uomini continuino a vivere, e non li punisce, tanto che i loro peccati si accumulano, affinché i loro demeriti possano esser valutati sulla base della loro libera decisione (I principi III 1,12). Di conseguenza la punizione è un beneficio, come già aveva asserito Platone nel Gorgia. I buoni debbono manifestare, mediante la prova, di essere tali, mentre i malvagi trovano più tardi la strada della guarigione. 10. L’esegesi Uno degli ambiti più importanti dell’attività filosofica e teologica di Origene è costituito dall’esegesi del testo sacro, per la quale egli fu famoso. Origene esercitò un influsso fortissimo durante la tarda antichità e per tutto il Medio Evo, anche occiden-

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tale, grazie alle traduzioni in lingua latina che delle sue opere furono fatte tra il quarto e il quinto secolo. Anche per questo interesse per l’interpretazione del testo sacro Origene fu un uomo del suo tempo, vicino alla filosofia greca, pur non essendo direttamente influenzato da essa. La novità dell’esegesi origeniana consiste soprattutto nell’applicazione in modo sistematico al testo sacro dell’esegesi che si suole definire, in modo un po’ impreciso e semplificatorio, “allegorica”. Essa era stata praticata già dagli Stoici nei confronti dei testi basilari della cultura e dell’educazione greca, cioè quelli di Omero ed Esiodo, considerati non solo e non tanto come poeti, quanto come maestri di morale e di verità. L’interesse per l’esegesi fu vivo anche ai tempi di Origene e, dopo di lui, proseguì nel neoplatonismo. Infatti gli Stoici e i Platonici ritenevano che i “sapienti” e i “teologi” della Grecia antica e addirittura delle civiltà “barbare”, i quali erano vissuti in un’epoca non lontana da quella degli dèi, avessero insegnato la verità: era solo necessario interpretare le loro parole. L’esempio di Clemente Alessandrino ne è una dimostrazione: ed anche dei platonici, come Plutarco e Massimo di Tiro, cercarono nella poesia e nella teologia antica un sostegno della propria filosofia. A sua volta, anche la scienza grammaticale, sviluppatasi ad Alessandria d’Egitto a partire dal III secolo a.C., e a Pergamo, a partire dal II, si dedicò all’esegesi. Essa si rivolse soprattutto al testo di Omero, che fino a quei tempi circolava in Grecia e nel mondo ellenistico in varie guise e caratterizzato da particolarità di lingua e di lessico diverse da una città all’altra, da un centro culturale all’altro; furono stabiliti norme e criteri per eseguire l’edizione “scientifica” di un testo. Origene, dunque, fu erede della tradizione esegetica e grammaticale della Grecia, e applicò gli strumenti di tale tradizione all’interpretazione del testo sacro. Ai suoi tempi, infatti, era necessario per i Cristiani spiegare in modo convincente i vari antropomorfismi dell’Antico Testamento, i quali, se intesi alla lettera, erano oggetto di dileggio e di critica da parte dei pagani colti e servivano agli eretici a giustificare le loro arbitrarie costruzioni teologiche. Ed anche varie dottrine veterotestamentarie potevano suscitare scandalo nei fedeli, se intese alla lettera. Certo, Origene non fu in tutto e per tutto il primo ad impiegare quei metodi: Clemente e gli apologeti se ne erano serviti, ma in modo non così sistematico;

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prima ancora, Filone di Alessandria aveva reinterpretato filosoficamente l’Antico Testamento con una ciclopica, anche se talvolta farraginosa, opera di esegesi. Il fatto stesso che l’arte di spiegare il testo sacro, che Origene possedeva, sia stata apprezzata da uno scrittore, pure anticristiano, come Porfirio (cf. quanto si è visto a pp. 365 ss.), sta a dimostrare che la sua fama in questo campo non fu modesta, ma fu apprezzata proprio da chi – in quanto platonico – proveniva dalla medesima tradizione e si serviva degli stessi metodi di lettura del testo. D’altra parte, l’allegorismo, che appare in Origene quasi come un’ossessione, non esclude il suo opposto, cioè l’interesse per l’interpretazione letterale e per gli strumenti scientifici che le sono collegati. Facendo questo, Origene si differenzia da Filone e Clemente, perché si mostra attento lettore del testo, di cui coglie i significati storici, linguistici, concreti, così come non fu loro seguace allorquando attuò – e non raramente – un’interpretazione letterale, per la quale seguì, invece, soprattutto la tradizione ebraica. Applicando questi metodi esegetici, grammaticali, allegorici, egli eseguì anche una nuova edizione del testo sacro (i cosiddetti Hexapla, cioè il testo disposto su sei colonne parallele: quella dell’originale ebraico e le colonne contenenti le varie traduzioni in greco) e compose vari libri di esegesi su di esso (Origene fu autore di numerosi commenti ai testi dell’Antico e del Nuovo Testamento). Spesso egli esamina i passi nei quali i manoscritti presentano varie lezioni, si sofferma sulla loro validità e le vaglia attentamente, prima di ricorrere alla anagogia (che possiamo anche, per semplificare, chiamare “allegoria” in senso lato): la anagogia, infatti, è considerata da Origene come il criterio definitivo per l’interpretazione di lezioni discordanti. L’anagogia è giustificata dal cosiddetto defectus litterae, cioè si rende necessaria allorquando il testo, inteso alla lettera, dà un significato inaccettabile (ad esempio, il testo del Cantico dei Cantici). Anche in questo Origene segue un criterio della critica alessandrina, perché il famoso grammatico Aristarco aveva sostenuto che, nei casi nei quali non è possibile fare intervenire il criterio oggettivo della storia del testo, si deve ricorrere al giudizio critico, cioè alla scelta personale di carattere letterario. E così anche Origene ritiene di dovere “spiegare Omero con Omero”, cioè spiegare un passo dubbio della Scrittura ricorrendo ai loci paralleli di essa, la cui interpretazione è certa. Accanto all’impiego di strumenti ese-

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getici, si colgono, nell’esegesi origeniana, forti interessi eruditi, ad esempio gli interessi per l’etimologia: essa, come sostenevano gli Stoici, contiene il significato profondo e vero della parola, perché la parola deriva dalla cosa. L’esegesi era stata coltivata, anche prima di Origene, da alcuni medioplatonici di rilievo. Uno di questi fu Plutarco. Questo filosofo fu, secondo Origene, attuale, perché interpretò dei testi e dei miti greci, egiziani, orientali, stabilendo dei criteri per la sua esegesi (Contro Celso V 57). La forma “enigmatica”, metaforica e allegorica con cui si presentano, nel racconto mitico, le varie manifestazioni di dio, dice Plutarco (Gli oracoli della Pizia 24-30), è dovuta alla volontà di adattare quel racconto alla comprensione delle persone ignoranti. La forma espressiva del testo poetico di contenuto teologico (ad esempio quello di Omero o di Esiodo) è talora superficiale, ma è utile per l’istruzione di coloro che non posseggono una mentalità filosofica. Una spiegazione interessante si legge in un passo in cui Plutarco interpreta il mito di Iside, di Osiride e di Horos (Iside ed Osiride 20,358E): Quanto abbiamo riferito costituisce i punti essenziali del mito di Iside e di Osiride, con l’eccezione degli episodi più sconvenienti, come quelli che riguardano lo smembramento del corpo di Osiride, effettuato da Horos, e la decapitazione di Iside. Perché se gli Egiziani credono e affermano queste cose a proposito della natura beata e incorruttibile, alla quale soprattutto si adatta il nostro concetto di “dio”, come se esse si fossero veramente attuate e accadute, non c’è bisogno di dire quello che disse Eschilo [fr. 310b], che «si deve sputare e purificarsi la bocca». Perché tu stessa non tolleri le persone che nutrono tali assurde e barbare idee a proposito degli dèi, ma sai che questi miti non assomigliano affatto alle stolte e vane invenzioni che poeti e prosatori intrecciano e diffondono, escogitandole di testa propria, come dei ragni, ma contengono narrazioni di patimenti e di passioni.

Plutarco interpreta allegoricamente Omero ed Esiodo, i poemi orfici, ed anche i racconti egiziani e frigi, i misteri e i riti sacrificali. Al mito egli contrappone la spiegazione razionale, in quanto il mito è l’espressione simbolica, e la spiegazione razionale costituisce il significato del testo.

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Un altro medioplatonico, Massimo di Tiro, sostiene che le varie forme del mito sono il nutrimento dell’anima umana quando è ancora fanciulla; una volta che è cresciuta, essa conserva solo quelle dottrine che può comprendere, servendosi, allora, di chiari concetti filosofici, invece che di immagini mitiche. Al mito, quindi, subentra la filosofia. In ogni caso, il mito ha una sua funzione ed una sua utilità nell’ambito della religione, e non deve essere razionalizzato a viva forza. Il linguaggio mitico dona solennità e grandiosità alla verità e stimola alla ricerca, in quanto nasconde l’oggetto religioso. Massimo scrisse anche un’orazione (n. 4) dal titolo: Chi abbia trattato meglio il problema degli dèi, il filosofo o il poeta. In essa egli dice che, stando al loro nome, poesia e filosofia sono realtà differenti, ma sostanzialmente si identificano. La poesia è più antica, la filosofia più recente. Origene riprende la concezione di Massimo di Tiro a proposito della funzione del linguaggio metaforico, allegorico e mitologico ed anche a proposito del pericolo che un linguaggio troppo esplicito possa produrre dei fraintendimenti in ambito religioso. Egli afferma che la debolezza umana non può ascoltare le parole di Dio se non attraverso parole e attraverso contenuti che già conosce; per questo motivo noi ci rappresentiamo Dio che possiede delle membra uguali alle nostre e che agisce alla maniera degli uomini. Nel Contro Celso (VII 10) egli afferma che i profeti hanno annunciato, secondo la volontà di Dio e in modo esplicito, quanto poteva essere vantaggioso e utile alla correzione dei costumi dei loro ascoltatori. Quanto invece era più misterioso ed esoterico e comportava una contemplazione superiore al comune ascolto, i profeti lo manifestarono «attraverso enigmi» ed allegorie, attraverso quelli che vengono chiamati «discorsi oscuri» e le cosiddette “parabole” o “proverbi”. E questo affinché coloro che non fuggono la fatica, ma accettano ogni pena per raggiungere la virtù e la verità, dopo avere cercato, trovassero, e dopo avere trovato, si regolassero come la ragione impone.

Come Plutarco, Origene contrappone il mito al logos, ed afferma che il mito può essere privo di logos, tanto è vero che le storie e le leggi dei Giudei appaiono solo come miti e vane parole, se non sono intese alla luce del Nuovo Testamento (Contro Celso I 20). Il mito può anche contenere in modo enigmatico un signifi-

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cato più profondo (Contro Celso III 43), ed Origene contrappone il mito alla storia, e contesta Marcione, il quale chiamava “miti” in senso dispregiativo gli scritti degli Ebrei (Contro Celso V 54). In tal modo Origene, seguendo questo criterio esegetico, poteva polemizzare con Celso, perché costui negava ogni significato più profondo alla religione ebraica e a quella cristiana, e, di conseguenza, le considerava umili e meschine, e pertanto indegne di essere considerate religioni. A causa di questa presunta umiltà di contenuti e di espressione, Celso non credeva che per quelle religioni fosse necessaria l’esegesi allegorica. In conclusione, la convinzione che la rivelazione divina, per poter essere compresa dall’uomo, debba rivestirsi di un corpo materiale, che la ricopre come un velo, è comune a Origene e ai medio- e neoplatonici. «L’inerranza della Scrittura, osserva Eugenio Corsini, non sta nella veridicità storica, nella lettera, ma nel senso profondo voluto dallo Spirito». 11. Il mistero cristiano Secondo Origene, il rapporto tra il mito e il logos è analogo a quello che intercorre tra il mistero e la rivelazione. Infatti la rivelazione, che è contenuta da un involucro materiale, è chiamata dall’Alessandrino anche “mistero”, i cui tratti esteriori sono i “segni”, i “tipi”, le “immagini”, i “simboli” (per questo capitolo seguiamo l’eccellente studio di G. Sfameni Gaparro, La terminologia misterica nel linguaggio della rivelazione in Origene, in: Origene e la tradizione origeniana in Occidente. Letture storicoreligiose, Roma, 1998, pp. 195-236). Le concezioni di Origene a questo proposito, e cioè il suo considerare la verità cristiana come un “mistero”, implicano, da un lato, la ripresa del significato profondo che i pagani attribuivano ai culti misterici (dai quali, beninteso, quello cristiano si distacca per verità, per eticità e per razionalità), dall’altra l’accordo con certe concezioni filosofiche dei platonici suoi contemporanei, che consideravano un “mistero” il nucleo essenziale e più profondo della filosofia loro e di quella di Platone. In questo atteggiamento Origene non si discosta da quello che abbiamo già visto in Clemente e nei medioplatonici. Così, il platonico Teone di Smirne, autore di un sommario sulle conoscenze matematiche che sono necessarie per conoscere la filosofia platonica, afferma:

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Possiamo paragonare la filosofia all’iniziazione di una vera e propria cerimonia sacra e alla rivelazione dei veri misteri,

ed Alkinoos aveva detto (Didascalico 30, p. 183): L’iniziazione e la purificazione preliminari del demone che è in noi, se egli deve essere iniziato agli insegnamenti più elevati, devono compiersi grazie alla musica, all’aritmetica, all’astronomia e alla geometria.

Origene impiega concezioni e termini misterici per definire la rivelazione cristiana soprattutto nel Contro Celso, l’opera in cui, tra l’altro, egli respinge le religioni misteriche pagane (che Celso accettava) e contrappone ad esse il mistero cristiano. Egli osserva che i misteri esistevano anche presso i filosofi pagani, come i Pitagorici, e ovunque nel mondo greco, e che, in ogni caso, non erano oggetto di calunnia; solo i Cristiani – i quali, comunque, non insegnavano una dottrina segreta – erano invece ingiustamente calunniati perché professavano dei misteri (Contro Celso I 7): Ma che esistano, oltre alle discipline insegnate pubblicamente, alcuni punti inaccessibili alla massa dei profani, non è cosa specifica solamente della dottrina cristiana; questo è il caso anche dei filosofi, dei quali alcune dottrine sono esoteriche, altre aperte a tutti.

Celso poneva sullo stesso piano i Cristiani e gli adepti delle religioni misteriche, ma Origene osserva che, dopo un periodo nel quale ha professato una fede semplice, il fedele può anche dedicarsi all’esame razionale delle dottrine della propria religione. Anche i Cristiani, osserva l’Alessandrino, hanno attuato, e certo non ad un livello inferiore di verisimiglianza, delle ricerche approfondite sulle credenze e sulle spiegazioni degli enigmi profetici, sulle parabole evangeliche e su numerosi altri fatti, narrati dalla Scrittura, che hanno un valore simbolico, anche se la gran folla dei fedeli non è in grado di comprendere in maniera razionale quei fatti, quegli enigmi e quelle parabole. Ma altrettanto avevano fatto anche i sapienti degli Egiziani, egli prosegue. Analogo è il caso dei Persiani, pure presso i quali esistono delle iniziazioni, che sono interpretate razionalmente dalle persone colte, mentre le cerimonie popolari si compiono attraverso dei riti che sono solamente

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dei simboli. Origene è convinto, infatti, che i riti di tipo misterico, così come le narrazioni mitiche che li riferiscono, e addirittura l’intero complesso di testi relativi alle tradizioni religiose contengano un insegnamento segreto. Egli impiega, quindi, anche i vari termini del linguaggio misterico pagano, come epopteia (illuminazione) e mistagogia (iniziazione). Il battesimo è considerato come simbolo della purificazione, e non è diverso, in quanto tale, dalle purificazioni preliminari alla conoscenza del mistero, che esistono nei riti pagani. Anche Origene distingue tra “progredienti” e “principianti” sulla via della salvezza e della conoscenza, così come le religioni misteriche stabilivano una gradazione nel cammino della iniziazione. Le immagini dell’illuminazione e della luce, da lui impiegate, vogliono manifestare il processo di approfondimento nella verità cristiana, così come i culti misterici parlano di una “illuminazione”. L’esegesi, se applicata adeguatamente, permette quindi di penetrare nei misteri.

Capitolo quinto

La scuola di Origene L’intensa attività del maestro alessandrino, della quale abbiamo parlato sopra, si manifesta anche nel fatto che – a differenza di quanto non era accaduto per Clemente – si segnalarono alla sua scuola anche alcune personalità di un certo rilievo (solo per Giustino si verificò qualcosa del genere: anch’egli fu maestro di filosofia, ed ebbe uno scolaro, Taziano). L’insegnamento di Origene, comunque, si protrasse idealmente per tutti i secoli successivi, anche se numerose volte fu contestato ed anche sottoposto a condanna sul piano dogmatico. 1. Gregorio il Taumaturgo Secondo quanto ci riferisce Eusebio (Storia della Chiesa VI 30), nel tempo in cui Origene svolgeva a Cesarea i suoi doveri abituali, si recavano da lui non solo innumerevoli persone del luogo, ma anche numerosi allievi stranieri che avevano abbandonato la loro patria: tra costoro conosciamo come particolarmente illustri Teodoro, chiamato anche Gregorio, che è ora vescovo illustre, e suo fratello Atenodoro, entrambi molto interessati alle discipline greche e romane. Tuttavia Origene, dopo aver destato in loro un grande amore per la filosofia, li esortò a trasformare il loro primo interesse in amore per l’ascesi divina.

Questo «Teodoro, chiamato anche Gregorio» e che fu uno dei discepoli di Origene, è identificato per tradizione con un Gregorio, famoso evangelizzatore della Cappadocia e dell’Armenia (vissuto all’incirca negli anni 213-270 d.C.), chiamato “Taumaturgo”, cioè “operatore di miracoli”. A lui è attribuito un Discorso di ringraziamento a Origene, nel quale l’autore descrive, tra l’altro, quale fosse stato, nell’attività pratica del suo insegnamento, l’atteggiamento di Origene nei confronti della

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filosofia. Recentemente Marco Rizzi ha ritenuto che tale Discorso di ringraziamento debba essere attribuito, invece, ad un altro personaggio, sconosciuto, ma pur sempre allievo di Origene. Esaminiamo qualche passo interessante, ai fini della nostra tematica, trascurando il problema dell’autenticità dell’opera in questione. 2. Il Discorso di ringraziamento di Gregorio rivolto a Origene Ebbene, Origene, stando al Discorso di ringraziamento, voleva che i suoi discepoli apprendessero tutte le dottrine relative al divino, ed insisteva soprattutto sul tema essenziale, quello della “conoscenza della Causa di tutto”. Così afferma lo scrittore: Origene riteneva opportuno che praticassimo la filosofia, leggendo con la massima attenzione tutti gli scritti esistenti degli autori antichi, sia filosofi sia poeti, senza che operassimo omissioni o rifiuti [...] con l’esclusione però di quanto fosse opera degli atei, che affermano che non esiste Dio né la provvidenza, con ciò essendosi distaccati dall’opinione comune degli uomini (tali scritti, infatti, non è opportuno siano letti, perché nell’incontrarli non ci si insozzi l’anima, destinata alla vera religiosità, ma costretta ad ascoltare ragionamenti contrari al servizio di Dio [...] così le loro opere non vanno neppure messe nel numero di quelle prese in considerazione dalle persone che fanno professione di essere religiose; ma voleva che affrontassimo e dialogassimo con tutti gli altri, senza che preferissimo o al contrario rigettassimo nessun genere e discorso filosofico, né greco né barbaro, e invece li ascoltassimo tutti (14,150153; trad. di M. Rizzi, ed. Paoline).

Ma, ancora, l’autore aggiunge che Origene ci consigliava di non legarci a nessun filosofo in particolare, nemmeno a quello che godesse della massima riputazione presso gli uomini, bensì solamente a Dio e ai suoi profeti (15,173).

Forse è proprio questo il motivo per cui l’Alessandrino faceva leggere ai suoi discepoli i filosofi di tutte le scuole (con l’eccezione degli epicurei, come si è visto), vale a dire perché essi

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non si legassero a nessun filosofo in particolare, ma rimanessero cristiani. Chiunque sia stato l’autore di questo Ringraziamento, il titolo stesso dell’opera ci fa capire che costui, in quanto discepolo del grande Alessandrino, ne riproduce sostanzialmente le dottrine, anche se alcuni studiosi hanno a tal punto sottolineato questo dato di fatto da volere rintracciare nelle opere di Origene le dottrine di Gregorio, senza tenere conto della personalità di questo scrittore: una cosa, questa, eccessiva. È verisimile, comunque, che le dottrine di Gregorio (se così lo possiamo chiamare) siano uno sviluppo, più o meno autonomo, di quelle di Origene. Ebbene, la filosofia del Discorso di ringraziamento prende in considerazione soprattutto i problemi morali e ascetici, non quelli metafisici e teologici. Così, anche Gregorio ribadisce la necessità della “assimilazione a Dio” (cf. II 10; IX 116), la quale sarebbe stata splendidamente attuata proprio dal maestro Origene (II 13). Pertanto egli afferma (12,148): il fine di tutto io credo che non sia altro che il farsi simile a Dio mediante la purificazione e accostarsi a lui e rimanere in lui.

Altre osservazioni dello scrittore sono facilmente inquadrabili nell’etica della scuola di Alessandria: bisogna praticare assiduamente la purezza, perché solo essa ci permette di dedicarci poi alla filosofia (VI 79). Come aveva insegnato Platone nell’Alcibiade primo (132 E), l’uomo deve purificare la propria anima, fino a renderla brillante alla maniera di uno specchio (IX 119 e XI 142); solo se avrà raggiunto quell’elevato grado di purezza, potrà contemplare al proprio interno, come in uno specchio, l’Intelletto di Dio, che vi si è riflesso. Questa contemplazione di Dio entro di sé costituisce già una forma di “divinizzazione”. Bisogna quindi raccogliersi in se stessi e trascurare il mondo materiale e le sollecitazioni che ne provengono (XI 140-142), come aveva già insegnato Platone nel Fedone. Una forma di ascesi, che è propedeutica alla teologia, è costituita dallo studio della matematica e dell’astronomia (VIII 114), come aveva detto già Clemente Alessandrino (cf. pp. 327 ss.). Seguendo l’insegnamento del medesimo Clemente, che riprendeva la Repubblica platonica, Gregorio accoglie e definisce le cosiddette virtù “cardinali” (IX 122 e XII 149).

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Anche Gregorio distingue, infine, come gli Alessandrini, due livelli della realtà, secondo la dottrina platonica: quello transeunte e destinato alla distruzione, e quello della realtà sempre uguale, che si trova nel mondo trascendente, cioè nel mondo di Dio (II 12). 3. Metodio di Olimpo Nato intorno al 250, vissuto qualche decennio dopo l’autore del Discorso di ringraziamento a Origene e morto probabilmente intorno al 320 d.C., Metodio, nonostante che la sua produzione letteraria risalga alla fine del III secolo, discusse alcune tematiche che ancora risentono fortemente dell’influsso di Origene. Nella sua scrittura egli si mostra fortemente influenzato dalla retorica e dalla poesia greca, di cui si serve per i suoi scopi conformi alla fede. Un esempio di questa trasformazione cristiana della retorica pagana, da parte di Metodio, è fornito dall’immagine con la quale Omero descriveva la feroce Chimera: la Chimera, secondo lo scrittore è il demonio, che è distrutto dal Cristo: Ma confidando nei prodigi del Padre lo distrusse / il Cristo Signore: esso aveva fatto perire molti, e nessuno aveva sopportato / mentre vomitava dalla bocca una schiuma esiziale (Il banchetto VIII 12, 157D-160A).

Un altro esempio della cultura retorico-filosofica di Metodio è dato dall’impiego della metafora, tipica della filosofia cinica, che descrive la vita come una “scena” teatrale, nella quale ciascuno di noi si presenta per esercitare il suo ruolo (VIII 1,140B). 4. Il platonismo di Metodio L’opera più nota di questo scrittore è Il banchetto: in essa Metodio riprende l’omonimo dialogo di Platone, componendo una serie di discorsi in lode della verginità, pronunciati, però, da alcuni personaggi femminili, così come Platone aveva messo in scena alcuni personaggi (Agatone, Aristofane, Socrate e altri) perché parlassero in lode dell’amore. Ciononostante, le dottrine di Metodio sono filosofiche in modo molto superficiale. Dio, egli sostiene, è “il perfetto artefice”, il quale «con la sua potenza creatrice, vale a dire, il Cristo, muta la forma e la pittura

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delle idee» (II 6): un’espressione che riprende in modo non chiaro la dottrina medioplatonica e alessandrina del “mondo delle idee”, modelli per la creazione del mondo. La realtà si dispone nei due piani, quello trascendente, che «per sua propria natura è bello e giusto e santo», e quello «che diventa tale per partecipazione» (III 7). Mediante l’impiego dell’immagine, tratta dal Fedro platonico, dell’“ala dell’anima”, lo scrittore vuole chiarire il processo con cui l’anima si solleva al di sopra delle cose terrene (VIII 1), così come “la perdita delle ali” significa, viceversa, il cadere in basso nei piaceri. La realtà ultraterrena è descritta alla maniera del “mondo iperuranio” del Fedro platonico (250 B): Metodio sostituisce le “bellezze” trascendenti, insegnate dalla dottrina cristiana (l’amore, le virtù, i valori per eccellenza, come la verginità), alle idee platoniche (VIII 2-3); di tali “idee” platonico-cristiane noi abbiamo, qui in terra, solamente “l’immagine”. Pertanto alla visione della giustizia in sé e della temperanza in sé, che si trova nell’opera platonica, il cristiano Metodio aggiunge la contemplazione “dell’agape”, cioè dell’amore, in sé; le idee delle virtù cristiane non possono essere viste con occhi umani, ma solamente dagli occhi che sono divenuti puri nell’aldilà. 5. Il libero arbitrio secondo Metodio Metodio scrisse un’opera, intitolata Il libero arbitrio. Una lunga sezione di essa è dedicata alla difesa del libero arbitrio e alla polemica contro il determinismo: non si tratta, tuttavia, di una confutazione della dottrina stoica del fato, come si potrebbe credere, con la quale Origene si era scontrato, quanto di un attacco violento contro l’astrologia, la quale, diffusissima e popolarissima nella tarda antichità, era costante oggetto di confutazione da parte degli scrittori cristiani, che vedevano in essa una distruzione del libero arbitrio, come conseguenza dall’influsso delle stelle sulla vita dell’uomo: tutto ciò era inaccettabile. Lo stesso Origene si era occupato dell’argomento. A tale influsso, secondo gli astrologi, nessuno può scampare: di conseguenze i meriti e le colpe, e quindi i premi e le pene, non hanno più ragion d’essere. Per confermare la sua negazione del fatalismo Metodio cita un verso omerico (Odissea I 34): «è per colpa della loro stoltezza che gli uomini incorrono nelle disgrazie volute dal destino».

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In questo trattato Metodio si sofferma a considerare un tema tipicamente origeniano, ma lo tratta in modo alquanto divulgativo e superficiale. Si tratta del problema, strettamente connesso a quello del libero arbitrio, dell’origine del male, sul quale la filosofia medio- e neoplatonica si era a lungo soffermata. Il male era considerato come il prodotto della materia oppure, come volevano gli gnostici, aveva un’origine metafisica. Nella trattazione di Metodio si trovano, perciò, le considerazioni collegate per tradizione a questo problema: la materia è coeterna a Dio, come avevano voluto i medioplatonici e ancora Clemente Alessandrino, ma era stato negato già da Teofilo di Antiochia e, più recentemente, da Origene. Per questo motivo Metodio rifiuta ogni dualismo e professa la creatio ex nihilo; la materia, pertanto, non costituisce un principio metafisico e non è l’origine del male: il male, infatti, come è detto anche nel Banchetto, è prodotto dal libero arbitrio dell’uomo, che decide di staccarsi dal bene – un tema, anche questo, tipicamente origeniano. 6. Eusebio di Cesarea Vescovo di Cesarea e influente consigliere dell’imperatore Costantino, Eusebio (vissuto all’incirca fra il 265-340 d.C.) può essere considerato come uno dei dotti più significativi della sua epoca per la varietà degli interessi che lo animarono: apologeta, raccoglitore delle dottrine pagane meritevoli di attenzione, teologo, anche se non tra i più profondi. Grandissime furono la sua fama e la sua autorevolezza, anche come seguace di Origene, ed il suo influsso si esercitò sui teologi contemporanei e su quelli della generazione a lui successiva quale esponente di un arianesimo moderato; di Ario e della sua teologia parleremo tra poco (pp. 476 ss.). L’attività letteraria di Eusebio inizia durante la persecuzione di Diocleziano; come Lattanzio, egli compone delle opere apologetiche, ma di un tipo diverso, presentando un’apologetica adeguata ai suoi tempi. All’inizio del quarto secolo il cristianesimo è fatto oggetto delle considerazioni e delle polemiche degli intellettuali pagani, non solamente delle masse incolte. Come abbiamo visto a suo tempo, il grande filosofo ed erudito Porfirio, seguendo l’esempio di Celso, scrisse poco prima dell’inizio della persecuzione (cioè prima del 303) un Contro i Cristiani, dando voce non solo alle proprie convinzioni, ma anche a quelle di molti altri pagani:

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egli considerava il cristianesimo frutto di ignoranza, di superstizione, di non-cultura e ne contestava la pretesa di essere l’unica vera religione di un Dio sommo, l’unica via di salvezza. L’opera di Porfirio fu distrutta quando la nuova religione trionfò; essa è conservata, come spesso avveniva, in quei passi che gli scrittori cristiani successivamente citarono per confutarli. Eusebio comunque non scrisse niente appositamente contro Porfirio, ma tenne conto delle critiche del nemico dei Cristiani nelle sue prime opere: la Preparazione del Vangelo e la Dimostrazione del Vangelo, precedute da una Introduzione generale elementare, in nove o dieci libri, della quale ci sono rimasti i libri dal sesto al decimo con il titolo di Ecloghe dai profeti, che dimostrano la veridicità delle profezie messianiche. Anche la Preparazione del Vangelo e la Dimostrazione del Vangelo, insieme al breve scritto Contro Ierocle (sul quale cf. pp. 76 ss.), hanno uno scopo polemico, perché vogliono fornire, con una massa enorme di citazioni di prima mano da scrittori e filosofi, pagani e cristiani, le nozioni essenziali della vera religione, che, per un verso ha presentato le stesse dottrine proprie della civilizzazione greca, ma dall’altro le è stata comunque immensamente superiore. Sottolineando i rapporti, di derivazione e di polemica, del cristianesimo con il paganesimo, Eusebio sviluppava considerazioni ispirate al desiderio di dare un’interpretazione storica dell’esistenza e dello sviluppo della nuova religione. 7. Eusebio apologeta: il “Contro Ierocle” Già si è detto dell’opera anticristiana scritta da Sossiano Ierocle, L’amico della verità, in occasione della persecuzione scatenata da Diocleziano nel 303. Cessata la persecuzione, Eusebio scrisse, con grande urgenza, una confutazione dello scrittore pagano. Esponendo, in quest’opera, quali siano le leggi e i limiti della natura umana, Eusebio afferma che essa è disposta dalle leggi della Provvidenza. Tale rapporto tra Dio e gli uomini è una manifestazione della bontà di Dio. La natura divina, infatti, è definita da Eusebio «benefattrice, salvatrice, che si prende cura di tutti gli esseri in modo provvidenziale». A sostegno di questa tesi Eusebio si richiama all’autorità di Platone, citando la sentenza famosa, asserita a proposito della bontà di dio, nel cui essere non abita l’invidia (cf. Timeo 29 E). Sulla base di questa affermazione, Eusebio afferma che Dio, in quanto è buono, governa tutto l’universo, e si

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cura dei corpi e delle anime degli uomini (Contro Ierocle 6,4), premiando con le sue “grazie” quelli che si sono comportati in modo eccellente. Le “grazie” di cui si parla sono come dei “raggi di luce” che provengono da Dio. Tale “irradiazione” di bontà trova il suo culmine nell’invio agli uomini di quelle persone che sono più vicine a Dio stesso (ad esempio, i profeti e i legislatori ebraici). Uno di questi uomini “vicini a Dio” fu lo stesso Salvatore. Di origine celeste, egli fu mandato in terra e «dopo avere purificato la sua mente e dissipato la nube della sua mortalità potrà veramente essere considerato divino, perché porta nell’anima l’immagine di qualche grande dio». La virtù di colui che è stato mandato da Dio consiste nel compimento della sua missione e nel proprio perfezionamento. L’avere «purificato la sua mente e avere dissipato la nube della mortalità» indica le due qualità necessarie che caratterizzano, nella cultura dell’età imperiale, quelli che sono chiamati “uomini divini”. Un personaggio così grande, secondo Eusebio, fu in grado di illuminare l’umanità più di quanto il sole illumini il mondo: questa affermazione sembrerebbe potersi intendere come un riferimento polemico al culto del sole, che in quell’epoca era particolarmente praticato presso i pagani. Già Filone aveva sottolineato la grandezza di Dio rispetto a quella del sole (Le leggi speciali I 279). Bisogna ricordare anche che, stando al racconto di Filostrato, la divinità suprema venerata da Apollonio di Tiana era forse il dio Sole (cf. p. 64). Eusebio, quindi, voleva contestare l’immagine dell’“uomo divino” propagandata da Filostrato e dal suo sostenitore Sossiano Ierocle. Del resto, Eusebio afferma anche che l’attività di Cristo dura per sempre, mentre altrettanto non si era potuto dire per Apollonio, il cui influsso sugli uomini – nonostante che i pagani lo chiamassero “uomo divino” – era stato breve e limitato nello spazio. Questo personaggio inviato dal cielo offrì all’umanità un esempio della propria natura, una natura che non era affatto inferiore alle sculture tratte dalla materia senza vita. Al culto idolatrico delle statue e degli oggetti materiali si contrappone, quindi, colui che fu mandato dal cielo, il quale possiede la grandezza donatagli da Dio stesso. Certo, vi sarebbe molto da dire a proposito di questa presentazione del Salvatore sceso in terra. È evidente che si tratta del Figlio di Dio, ma Eusebio appositamente non ne fa il nome, così

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come omette i vari titoli cristologici (Cristo, Signore, Salvatore), e non si esprime chiaramente nemmeno a proposito del fatto che il Salvatore sia Figlio di Dio, della sua incarnazione e della sua missione: anche se il Contro Ierocle risale al primo periodo della attività letteraria di Eusebio, la cristologia era già ampiamente sviluppata quando Eusebio scriveva. Eusebio, invece, sembra ignorarla appositamente. Non si trovano, nel Contro Ierocle, riferimenti ai testi biblici, ma solo allusioni alla tradizione filosofica pagana. Dobbiamo quindi supporre che egli abbia evitato volutamente di presentare quegli elementi della fede cristiana che le persone colte pagane avrebbero fatto fatica ad accettare. Egli dette, invece, al suo trattato un aspetto filosofico, che avrebbe potuto essere accettato, almeno in parte, anche da chi fosse estraneo alla fede. In parte simile era stato, forse, l’insegnamento di Origene nella sua scuola a Cesarea; Eusebio compì la sua formazione culturale in quella città, come discepolo di Pamfilo, fervente origeniano. La scuola di Cesarea sembra che sia stata assai aperta all’accoglienza dei pagani di formazione colta: Origene li introduceva al cristianesimo dopo aver fatto leggere loro le varie dottrine filosofiche greche, come si è visto a p. 462, a proposito di Gregorio il Taumaturgo. Di conseguenza, quanto Eusebio dice a proposito delle leggi, poste dalla Provvidenza divina e presenti nell’universo, e dei limiti della natura umana, vuole suscitare nel lettore la convinzione che questi principi filosofici generali trovano la loro conferma nella persona di Cristo, e non in quella di Apollonio, celebrata da Filostrato e in seguito da Ierocle. L’“inviato dal cielo” partecipa alla natura di Dio e porta la salvezza all’umanità; soltanto grazie a lui l’uomo ha la possibilità di entrare in contatto con Dio. Certo, tutte queste considerazioni si muovono ad un livello molto superficiale della dottrina cristiana. Forse si può vedere in questa sbiadita figura di mediatore tra Dio e l’uomo un precorrimento dell’arianesimo e della sua negazione della piena divinità del Figlio di Dio, di cui parliamo tra poco. Eusebio inserisce nel Contro Ierocle un’altra trattazione: una difesa del libero arbitrio e una critica del fatalismo, che era stato sostenuto, invece, da Apollonio di Tiana. Costui aveva difeso la dottrina tradizionale del destino, delle Moire e della Necessità, e aveva sostenuto che la forza del destino è insuperabile per gli uomini. Per dimostrare che il destino è invincibile, Filostrato aveva fatto riferimento sia ad avvenimenti recenti della storia

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romana sia ad alcuni episodi della mitologia, come quello di Laio, che invano aveva cercato di uccidere il figlio Edipo, perché l’oracolo di Apollo aveva predetto che Edipo, cresciuto, avrebbe detronizzato e ucciso suo padre. Apollonio concluse, secondo il racconto di Filostrato (Vita di Apollonio di Tiana VIII 7,47) la sua trattazione con queste parole: Colui che è destinato a diventare un carpentiere, lo sarà anche se le sue mani saranno tagliate, e colui che dovrà ottenere la vittoria nelle corse di Olimpia, vincerà anche se si sarà rotto una gamba, e colui al quale le Parche abbiano dato l’abilità di tirare con l’arco non fallirà il bersaglio nemmeno se avrà perso la vista.

A queste considerazioni di Apollonio e Filostrato Eusebio obietta che, se le cose stessero così, scomparirebbe totalmente il libero arbitrio dell’uomo (Contro Ierocle 45). Eusebio si richiama alla filosofia platonica, della quale cita due frasi famose: una è quella che riguarda la natura dell’anima, la quale si muove da sé come conseguenza della sua immortalità (Fedro 245 C), e l’altra, ugualmente famosa, è ricavata dalla Repubblica (617 E): La responsabilità è di colui che ha compiuto la scelta, Dio non è responsabile.

Eusebio inserisce quindi nelle sue riflessioni alcune considerazioni a proposito della tesi che «la natura che sempre si muove» (aeikinetos), secondo la definizione di Platone è l’anima: essa non può essere condotta contro la propria volontà e la propria scelta (Contro Ierocle 45,1). Non si può affermare che l’anima sia mossa da qualche forza esterna, come se fosse un corpo inanimato o una marionetta. È infondata anche l’affermazione che l’anima non può pretendere per se stessa la responsabilità dei suoi atti. Le conseguenze morali di una tale concezione sarebbero gravi: non si potrebbe approvare né condannare nessuno per il suo comportamento, se ogni decisione fosse dovuta ad una forza esterna, sulla quale l’uomo non fosse in grado di esercitare il suo controllo. Se si accettassero le concezioni deterministiche di Apollonio e Filostrato, non si dovrebbero criticare nemmeno gli imperatori Nerone e Domiziano, che pure sono presentati negativamente da Filostrato stesso; non si dovrebbero condannare né i maghi né gli

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assassini (45,2-3); non avrebbe alcun significato nemmeno l’esortazione di Apollonio, a correggere le proprie colpe. Il grande Pitagora sarebbe stato il “giocattolo delle Moire”. Di conseguenza, persino la religiosità di Apollonio, così esaltata dai pagani, è in contrasto con le sue opinioni deterministiche, e quindi è insussistente. Quindi Apollonio, se avesse voluto essere coerente con il suo amore per la religione, avrebbe dovuto abbandonare la fede negli dèi pagani, perché essi non sono in grado di cambiare quello che è già stato destinato agli uomini. In conclusione, rivolgendosi ai pagani nella sua polemica con Sossiano Ierocle, Eusebio cerca di conciliare la dottrina cristiana con la filosofia greca. Egli mostra di conoscere il pensiero greco, quello ebraico e quello cristiano, in particolar modo quello insegnato nella scuola di Alessandria ed intende confermare le sue idee mediante quelle dei filosofi più famosi. 8. Eusebio e la filosofia greca Occuparsi di questo tema sarebbe un compito estremamente lungo, a causa della grande quantità e della enorme estensione delle opere che Eusebio scrisse sull’argomento. Presentiamo solamente alcuni esempi dell’attenzione da lui rivolta al medioplatonismo, che ancora ai tempi di Eusebio era vivo e suscitava interesse, nonostante che Plotino e Porfirio avessero già pubblicato i propri scritti. Questa nostra attenzione per il medioplatonismo è giustificata dal fatto che da un’interpretazione di quella filosofia e dall’accentuazione dei suoi capisaldi intellettuali sorgerà l’eresia di Ario, come andremo a vedere. Eusebio ci conservò ampi estratti di un’opera del medioplatonico Attico, intitolata Contro coloro che credono di potere interpretare le dottrine di Platone per mezzo di quelle di Aristotele, per dimostrare che l’insegnamento di Aristotele è immorale e diseducativo, mancando del rigore e della severità che si addicono ad un filosofo, mentre Platone, nel definire il telos dell’uomo, si era schierato dalla parte di Mosè e dei Profeti (fr. 2 des Places). Analogo accordo tra Platone e il cristianesimo risulta, secondo Eusebio, dalla polemica di Attico contro Aristotele, in quanto lo Stagirita, secondo una tradizione instauratasi in età imperiale, aveva negato l’esistenza della provvidenza divina (fr. 3). E se Aristotele aveva sostenuto la dottrina dell’eternità del mondo, anche

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in questo egli si era opposto a Mosè e a Platone, il quale aveva insegnato, invece, che il mondo era stato creato (fr. 4). Neppure può essere accettata, prosegue Eusebio, la dottrina aristotelica del quinto elemento (fr. 5) o quella della struttura del cielo (fr. 6). Ancora, Aristotele, sempre in disaccordo con Platone, aveva negato, come Attico sottolinea, l’immortalità dell’anima – e così di seguito: Attico contesta Aristotele per altre dottrine, come quella dell’anima entelechia (fr. 7bis), quella dell’anima cosmica che pervade l’universo (fr. 8), quella del rifiuto delle idee di Platone, che pure si trovavano già – interviene Eusebio – nelle Scritture ebraiche (fr. 9). Eusebio è la nostra fonte più importante anche per conoscere la filosofia di Numenio: il vescovo di Cesarea gli attribuisce un’importanza molto superiore a quella di Plotino. Lo stesso contesto ce lo dimostra: i primi frammenti numeniani sono citati nel libro undicesimo della Preparazione del Vangelo, in cui Eusebio espone la teologia e la storia degli Ebrei; in quello stesso libro il vescovo di Cesarea cita frequentemente Numenio per mostrare i paralleli che esistono tra la dottrina platonica e la rivelazione biblica. Il libro quattordicesimo è dedicato alla confutazione delle scuole filosofiche pagane e contiene un’altra serie importante di passi di Numenio. L’opera di questo filosofo ha quindi trovato numerosi lettori nei circoli pagani e cristiani del II e III secolo, ad Alessandria, Atene e Roma. Porfirio senza dubbio ebbe a che fare con l’opera di Numenio negli anni della sua formazione e forse anche durante gli anni del suo soggiorno presso Plotino. Quest’ultimo, infatti, faceva leggere ai suoi scolari le opere di Cronio e di questo filosofo, oltre che di altri medioplatonici e stoici. Un altro allievo di Plotino, e cioè Amelio, aveva appreso a memoria le opere di Numenio, tanto da poter respingere l’accusa che veniva mossa a Plotino, di avere plagiato costui. Per quello che riguarda i rapporti tra Porfirio e Numenio, è significativa una affermazione di Proclo, il quale, commentando l’episodio della lotta tra gli Ateniesi e gli abitanti di Atlantide, narrata dal Timeo (20 D ss.), osserva che essa era stata commentata da Origene e da Numenio, e cita Porfirio: sarebbe stato strano, infatti, che Porfirio si fosse allontanato dall’opinione di Numenio.

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9. La dottrina di Dio di Eusebio Eusebio, anche quando non scrive opere apologetiche, rimane ancorato alla dottrina medioplatonica di Dio e del Logos. In lui si è conservato, notevolmente semplificato, però, il pensiero origeniano, che nel medioplatonismo aveva trovato una conferma. Dio, in quanto “bene inesprimibile” o “sostanza inesprimibile”, si trova nell’ambito delle realtà che sono “al di là dell’universo” (La teologia della Chiesa III 6). Il Padre è nel Figlio nello stesso modo in cui il Figlio vuole essere in noi. Il Padre concede al Figlio la partecipazione alla sua gloria, come il Figlio, ad imitazione del Padre, concede ai suoi fedeli la partecipazione a se stesso. Il Padre pensa l’ordine del mondo, il Figlio osserva i pensieri del Padre ed attua nel mondo la razionalità del Padre (III 3). La divinità del Figlio, che non è “il Dio”, cioè l’unico e vero Dio, ma “Dio”, vale a dire gode della natura divina, ma non è il primo Dio (una dottrina che discende da Origene, cf. p. 403), è legata alla sua funzione di creatore e conservatore della creazione, nella quale egli esercita il ruolo della provvidenza (II 7; III 2). Nella Preparazione al Vangelo (XI 9-13) Eusebio ci offre una sintesi dei temi della riflessione teologica preplotiniana. Egli imposta il confronto tra le concezioni bibliche e quelle platoniche relativamente all’essere, all’inesprimibilità del divino, all’unità e all’unicità di Dio. Eusebio cita Esodo 3,14 ed Eccl. 1,9-10 come testi chiave della concezione biblica dell’essere, e ne riassume la dottrina affermando che il complesso della realtà si divide nell’intelligibile (che è anche incorporeo, razionale, incorruttibile, immortale) e il sensibile (che è sottoposto al flusso, alla corruzione, al mutamento), ma l’uno e l’altro ambito della realtà risalgono ad un principio unico, che è «uno, l’ingenerato, quello che è in senso proprio e vero». Questa affermazione è seguita dalla citazione di due passi del Timeo: 27 D - 28 A e 37 E - 38 B, che sono messi in relazione con i due versetti biblici sopra indicati. Quindi Eusebio cita quattro frammenti tratti dal trattato di Numenio Sul bene, contenenti la dottrina dell’incorporeità, della atemporalità e dell’intelligibilità dell’essere, ed una lunga citazione dell’E di Delfi di Plutarco (capp. 17-20), per mostrare la corrispondenza tra le dottrine dei filosofi greci (in questo caso sono entrambi medioplatonici) e la dottrina biblica, dalla quale essi – come solitamente affermavano gli scrittori cristiani – dipendono.

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Questo tema ebbe un’importanza centrale anche nella più tarda speculazione cristiana. 10. La teologia trinitaria di Eusebio Nel contesto della convinzione, comune ai Cristiani e che abbiamo già indicato sopra, che la filosofia greca derivi dalla rivelazione ebraica, Eusebio afferma che la filosofia di Platone era stata preceduta dagli “oracoli” della Sacra Scrittura (Preparazione del Vangelo XI 21,20,1-3). Per dimostrarlo, egli istituisce un confronto con testi e dottrine che già conosciamo, cioè tra la seconda epistola platonica, ove si parla dei “tre dèi” e dei tre mondi, o ambiti della realtà, che stanno “attorno” a ciascuno di essi, e la dottrina cristiana della Trinità divina: sia il confronto sia l’impiego di quel preciso passo platonico si erano già trovati in Atenagora e in Clemente Alessandrino. Ed Eusebio segue questa tradizione esegetica: i tre dèi dell’epistola platonica sono anche secondo lui le tre ipostasi della Trinità. Ma l’interpretazione cristiana di tale epistola deve, all’epoca di Eusebio, tener conto anche della filosofia dei platonici contemporanei, i quali riferiscono le parole di Platone al primo dio, alla seconda causa e, in terzo luogo, all’anima del mondo, che considerano il terzo dio. Eusebio ha presente, quindi, la speculazione di Plotino, o, più probabilmente, quella di Porfirio. E così, la Sapienza di cui parla la Sacra Scrittura è identificata da Eusebio con l’Intelletto di Plotino e con il secondo dio di Numenio. Questa identificazione, che certo non era nuova, ma era stata adattata da Eusebio al neoplatonismo contemporaneo, tornerà, nel quarto secolo, in Didimo di Alessandria e, nel quinto secolo, nella Confutazione dell’imperatore Giuliano l’Apostata di Cirillo, vescovo della medesima città. 11. Ario

Ario (256-336 d.C.) è noto soprattutto nella storia del cristianesimo antico per avere dato origine ad una eresia che suscitò fortissime polemiche. Essa sosteneva che il Figlio di Dio non fosse di natura uguale al Padre, ma “creato”, e non generato; per condannare le affermazioni di Ario fu convocato a Nicea, non lontano da Costantinopoli, nel 325, un concilio che rimase famoso e fu considerato come il primo concilio ecumenico. Eppure l’eresia di

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Ario merita di essere esaminata anche dal punto di vista filosofico, e non solo della tradizione cristiana. La posizione di rottura che l’eretico assunse non nacque dal nulla. Ario si colloca, infatti, alla fine di una lunga tradizione che aveva le sue origini nel medioplatonismo e che abbiamo già visto manifestata nell’apologetica greca e nella scuola di Alessandria. Per questo motivo si può dire, sia pure semplificando, che Ario portò alle estreme conseguenze alcune concezioni che si possono trovare già nella speculazione di Clemente e di Origene. Ne consegue che si può collocare anche Ario, sebbene a prima vista ne sia estraneo, nella “scuola di Origene”, intesa in senso ampio, così come vi abbiamo collocato Eusebio di Cesarea. Sulla filosofia di Ario e dei suoi immediati discepoli è fondamentale lo studio di F. Ricken, Nikaia als Krisis des altchristlichen Platonismus, Theologie und Philosophie 44, 1969, pp. 321-341. Si è già visto più volte che la dottrina dell’essere, corrente nella tarda antichità, fu caratterizzata dalla questione della trascendenza: tale problematica condiziona il sistema della gnosi valentiniana, il medioplatonismo e la filosofia di Plotino. La trascendenza di Dio, inoltre, era confermata e dimostrata, per quei filosofi, dall’impiego dei predicati negativi di Dio stesso. Bisogna quindi collocare nella tradizione del medioplatonismo le affermazioni di Ario a questo riguardo. Se esaminiamo i pochi frammenti di una sua opera in versi, la Thalia (che si potrebbe tradurre con Fioritura), conservatici da Atanasio (I sinodi 15,3), leggiamo: Dio, in quanto è, è inesprimibile (arrhetos) per tutti; noi però lo definiamo “ingenerato”, perché nella sua natura egli non è generato. Noi lo cantiamo come “privo di inizio”, a causa di colui che ha un’origine. Lo veneriamo come eterno a causa di colui che è nato nel tempo. Sufficiente è la prova che Dio è invisibile a tutti. Per coloro che hanno avuto un’origine attraverso il Figlio e per il Figlio stesso egli è il medesimo invisibile. In breve: per il Figlio, il Padre è inesprimibile (arrhetos), perché il Padre per se stesso è quello che è. Questo significa che egli non può essere detto, cosicché il Figlio non può esprimere nessuna delle affermazioni che servono a comprendere la natura di Dio. È impossibile, infatti, per il Figlio cercare il Padre, il quale è in se stesso.

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Questo frammento espone all’inizio, in forma volutamente ambigua, l’impossibilità che Dio sia insieme conosciuto e non conosciuto, trascendente e non trascendente. Ma si cade in questa contraddizione, se si pensa che il Padre e il Figlio costituiscano la natura di Dio. Per evitare questa assurdità, l’unica via di uscita è quella di considerare il Figlio non come Dio, ma come creatura. In questi versi, il predicato attribuito a Dio è arrhetos (cioè inesprimibile). Esso si trova comunemente nel medioplatonismo, come più volte abbiamo visto. Non è difficile trovare anche in questi versi di Ario un altro influsso del medioplatonismo, e precisamente del passo del Timeo (28 C) che è spessissimo citato nel cristianesimo orientale: «Scoprire il padre e creatore di questo universo è difficile, e, dopo che lo si sia scoperto, manifestarlo a tutti, è impossibile». Anche il termine “ingenerato” rimanda alla medesima tradizione platonica: infatti gli studiosi hanno osservato che i termini greci aghennetos (“non generato”) e aghenetos (“non portato all’esistenza”) fino alla metà del quarto secolo, e non solamente in ambito cristiano (presso Atanasio, ad esempio) non si distinguono, in quanto entrambi vogliono indicare la derivazione, la “generazione” di una cosa dall’altra, senza distinzione. Che Dio sia “privo di inizio” è detto anche dai medioplatonici: Alkinoos, ad esempio, nega che esista qualcosa che sia anteriore a dio. Per Celso, dio non proviene da nulla (Origene, Contro Celso VI 65). “Eterno” non è termine solamente cristiano, ma si trova anche in Alkinoos, Numenio e Massimo di Tiro. Ario adopera anche il termine “monade” per designare Dio il Padre: esso non era stato estraneo a Origene, come si è già visto, ma deriva sicuramente dalla tradizione pitagorica e si trova anche negli Oracoli Caldaici. Un discepolo di Ario, di nome Asterio, di cui parleremo tra poco, definisce “re” Dio, allo stesso modo dei medioplatonici Attico e Numenio. In conclusione, se nel pensiero di Ario troviamo, da una parte, un influsso del medioplatonismo contemporaneo, ancora vivo agli inizi del quarto secolo, dall’altra si attua la prosecuzione di concezioni che risalivano fino all’apologetica e che si sono trovate in Clemente e in Origene. Tutti questi termini che abbiamo elencato (“inesprimibile”, “ingenerato”, “privo di inizio”, “eterno”, “invisibile”, “monade”) si trovano nella speculazione cristiana anteriore ad Ario. Se Clemente di Alessandria (Stromati V 77-82)

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aveva spiegato che Dio è inconoscibile, ma si rende conoscibile per un proprio intervento di grazia, nei frammenti delle opere di Ario non troviamo nessun accenno alla grazia divina: egli, evidentemente, porta alle estreme conseguenze quello che Clemente aveva affermato. Ario è debitore nei confronti della tradizione del platonismo cristiano anche per altri aspetti. Il medioplatonismo aveva mostrato una forte tendenza ad accentuare al massimo la suprema trascendenza di dio, staccandolo del tutto dal mondo creato, e a postulare l’esistenza di un secondo dio, intermedio tra il primo dio e il mondo: questo secondo dio si occupa del mondo stesso, e quindi non è trascendente. L’esistenza di un secondo Intelletto accanto al primo, trascendente, era stata affermata da Alkinoos, e Numenio aveva parlato apertamente di un primo e di un secondo dio: il primo assolutamente trascendente, il secondo, invece, rivolto al mondo (o, addirittura, tale dio si “sdoppiava”, manifestandosi ora come intelletto cosmico ora come anima cosmica). Ebbene, come si è avuto modo di osservare più volte, la teologia cristiana dei primi tre secoli, anteriore al concilio di Nicea, aveva ipotizzato, in modo non esattamente chiaro, l’esistenza di un secondo Dio accanto a Dio il Padre: questo secondo Dio era il Logos divino, il quale, pur avendo origine dal Padre e stando presso di lui, era però rivolto verso il mondo: lo aveva creato, lo governa, ha a che fare con gli uomini; le teofanie dell’Antico e del Nuovo Testamento sono sua opera, perché in esse non si manifesta il Padre, che rimane assolutamente trascendente, ma il Logos. Questa tendenza a concepire il Logos di Dio come originato dal Padre, e quindi eterno, sì, ma non privo di inizio, per cui può essere inteso come un secondo Dio, si manifesta in modo più o meno ambiguo (una ambiguità suscitata dall’intento di non cadere nel politeismo) negli apologeti: Giustino, Taziano, Atenagora. Per costoro, ed anche per Clemente, il Logos ha creato il mondo per volontà del Padre. Questa tendenza a sottolineare l’assoluta trascendenza del Padre e ad identificare il Figlio con il Logos, vale a dire, alla maniera dei medioplatonici, con i pensieri di Dio, si fa ancora più forte con Origene. Dio (cioè il Padre) è, per Origene, «una realtà unica e semplice» ed è «al di là dell’essere», mentre nel Logos si è manifestato il passaggio dall’unità alla molteplicità, per cui il Logos costituisce il “mondo delle idee”, le quali sono i “pensieri di Dio”. Il rapporto che esi-

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ste tra il Padre e il Logos è analogo a quello che esiste tra il Logos e gli altri esseri razionali. È evidente, quindi, la posizione mediana, di intermediario, che il Logos possiede secondo Origene. Corrispondentemente a questa gradazione, il Padre è “il Dio”, il Figlio è “Dio”; dopo di lui vengono “gli dèi” (Commento al Vangelo di Giovanni II 2-3). Per gli apologeti e la scuola di Alessandria, Dio è razionale fin dall’eternità, e procura una propria sussistenza al Logos per un atto di libera decisione, prima della creazione del mondo (lo si è visto in Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo di Antiochia). In questo modo si pone la questione della differenza tra la maniera in cui Dio produce nel Logos i modelli delle cose e il modo in cui egli stesso crea le cose. La risposta era stata che la produzione dei modelli originari, cioè del Logos, era considerata come il primo stadio della creazione. Questo era ritenuto vero ancora al principio del quarto secolo, in quanto il medioplatonismo aveva interpretato le idee come i pensieri di dio. Di conseguenza, opponendosi a questa concezione, Origene aveva introdotto la dottrina dell’eterna generazione del Logos, ma non aveva abbandonato l’idea che esistesse un rapporto tra l’origine del Logos e l’origine del mondo. Origene infatti spiega che, se Dio è creatore fin dall’eternità, devono essere esistite fin dall’eternità delle creature. E queste creature sono i suoi pensieri, che costituiscono il Logos (I principi I 4,3 ss.): bastava semplificare questa concezione origeniana per introdurre un confine tra Dio e il Logos, quello che esiste tra creatore e creatura. Una volta che il termine “ingenerato” fu usato solamente per il Padre, sorgeva la questione di come potesse essere definito l’essere del Figlio. Se si ragionava secondo le categorie del Timeo platonico, il Figlio non poteva essere collocato altro che nell’ambito delle cose “generate” (cf. Timeo 28 C; 34 B; 37 CD; 41 A). Questo, tuttavia, non era ancora chiaro nel medioplatonismo: lo dimostrano le numerose controversie che sorsero a proposito della origine del mondo, se essa avvenne nel tempo o se esistesse dalla eternità. Alkinoos, ad esempio, aveva affermato che non dobbiamo pensare che esistesse un tempo in cui non era esistito il mondo (Didascalico 14). Secondo questa concezione medioplatonica, dio ha creato l’anima del mondo. L’interpretazione opposta, sempre tra i medioplatonici, intendeva, con il concetto di “generato”, qualcosa che avesse avuto una causa antecedente alla sua sussi-

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stenza. Ora, chi attribuiva solamente al Padre la qualità di essere “ingenerato” e aderiva all’esegesi della eterna dipendenza del mondo dal creatore, poteva sviluppare in questo senso la questione, cioè che con questa categoria di “ingenerato” si poteva intendere anche la generazione del Figlio: esistente non ab aeterno, e derivato dal padre. Tutte queste difficoltà giunsero al punto di rottura con Ario. L’arianesimo accentuò, infatti, una tendenza della teologia che era già presente nel medioplatonismo. La convinzione di Ario, di attribuire al Figlio una posizione intermedia tra il Padre e la realtà creata, si manifesta in una sua lettera al vescovo Alessandro di Alessandria: il Figlio, egli scrive, è perfetta creatura di Dio, ma non come una delle creature; è genitura di Dio, ma non come una delle realtà generate. Il poema che già abbiamo ricordato, la Thalia, distingue tra un ambito di Dio, un ambito del Figlio ed uno del mondo, che è stato creato dal Figlio. Il Figlio è estraneo all’ambito di Dio e a quello del mondo. Come il Padre, anche il Figlio ha i predicati di “immutabile” e “inalterabile”. Ario lo chiama “Dio”, ma, a differenza del Padre, non lo definisce come “il Dio”. Se il Figlio è stato definito “generato”, questa particolarità deve essere intesa secondo la categoria del Timeo. Nella Thalia Ario dice anche: Sappi che la monade esisteva, ma la diade non esisteva ancora prima di giungere all’esistenza.

Si è osservato che in questo passo la parola “diade” non significa “il Padre e il Figlio”, ma “il numero due”. Ario impiega, qui, per il Logos un termine che gli Oracoli Caldaici attribuivano al secondo Intelletto, il quale si trovava accanto al primo Intelletto, e che apparteneva all’ambito degli intelligibili e, insieme, della sensazione. Analogamente, Numenio definisce “duplice” il secondo dio. 12. Asterio Asterio (prima metà del IV secolo), seguace di Ario, afferma che il Logos ha appreso l’arte del creare da Dio, maestro e architetto. Anche secondo Numenio il secondo dio è “imitatore” del primo dio e, quando pone ordine alla materia, si rivolge a lui. Negli Oracoli Caldaici il Padre consegna al secondo Intelletto il

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ORIGENE E I SUOI DISCEPOLI

mondo delle idee che lui stesso ha prodotto, e questo secondo Intelletto governa la materia. Il secondo Intelletto, secondo Alkinoos, ottiene dal padre la razionalità, che egli poi colloca nel mondo. Se gli ariani attribuiscono al Logos una posizione intermedia tra le realtà intelligibili e il mondo sensibile, analoga a quella che ha la seconda ipostasi presso Alkinoos, Numenio e gli Oracoli Caldaici, allora si comprende il fr. 23 di Asterio: egli è il primo delle realtà create ed una delle nature intelligibili. E come il sole, nell’ambito del visibile, è solamente uno dei corpi che illuminano, ma tutto il mondo splende secondo l’ordinamento di colui che lo ha creato, così appare e risplende anche il Figlio, il quale è uno tra le realtà intelligibili, che sono tutte nel mondo intelligibile.

La funzione di modello del mondo, che il Logos possiede, appare anche nel fr. 26 di Asterio: Allorquando Dio volle creare la natura che ebbe origine e vide che essa non poteva partecipare alla forte mano del Padre e alla creazione che da lui proveniva, egli fece e creò per prima cosa un essere unico, e lo chiamò “Figlio” e “Logos”, in modo che egli fosse l’intermediario, cosicché anche il tutto potesse avere una origine attraverso di lui.

Parte terza LA FILOSOFIA GRECA E IL PENSIERO CRISTIANO DI OCCIDENTE NEL TERZO E QUARTO SECOLO

Sezione prima

TERTULLIANO E LA SUA INFLUENZA

Capitolo primo

Tertulliano e la filosofia 1. L’Africa cristiana La cultura cristiana si manifesta, in Africa, abbastanza tardi, negli ultimi anni del secondo secolo (testimonianze della sua esistenza a Roma risalgono, invece, almeno alla fine del primo). Ma, nonostante questo ritardo, l’Africa era una delle provincie più civilizzate dell’impero romano fin dall’età di Augusto, e Cartagine, che ne era la capitale, era famosa per la sua prosperità. La cultura, costituita non solo dagli studi di lingua latina, ma anche da una buona conoscenza del greco, era particolarmente fiorente in quei luoghi. Per questo motivo non meraviglia vedere che le prime speculazioni cristiane nell’occidente abbiano avuto luogo a Cartagine, e ivi si sia manifestata, nelle comunità cristiane, l’apertura alla cultura del mondo orientale: per certi aspetti, infatti, i primi scrittori cristiani, come Tertulliano, Cipriano, Minucio Felice, furono i continuatori dell’apologetica greca. Anche in questo caso, dunque, Roma fu debitrice della Grecia, ma, come era già avvenuto nella letteratura pagana, la cultura latina cristiana rielaborò in modo autonomo e indipendente il pensiero che le era giunto dall’esterno. Certo, mancò nell’Occidente qualcosa che equivalesse alla scuola catechetica di Alessandria, qualcosa, cioè, che convogliasse in un contesto omogeneo di organizzazione teologica, di polemica antignostica e di assorbimento della cultura pagana, le più vivaci forze intellettuali cristiane. Non conosciamo nessuno scrittore che sia vissuto nello stesso ambiente di Tertulliano o di Cipriano; Novaziano e Minucio Felice furono personalità di notevole importanza nel terzo secolo, ma su di essi l’influsso di Tertulliano e di Cipriano, che certamente vi fu, non si esercitò come una ripresa costante e durevole dei motivi filosofici e teologici (da Tertulliano) od ecclesiali (da Cipriano). Insomma, la continuità di una “scuola”, quale abbiamo riscontrato in Oriente da Panteno a Clemente a Origene, per giungere fino ad Ario, in Occidente non vi fu.

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Dopo un primo fiorire dell’eccellenza del pensiero a Cartagine, precisamente durante il terzo secolo, il meglio della produzione letteraria e filosofica cristiana si ebbe in Italia e a Roma, nel quarto secolo. Nell’intervallo si colloca il forte sincretismo culturale dell’età costantiniana, rappresentato soprattutto da Lattanzio. 2. Eresie e filosofia Tertulliano (160/170 - 230/240 d.C.) rivolse con decisione e ripetutamente alla filosofia pagana l’accusa di avere nutrito, con le proprie false dottrine, l’eresia: questa convinzione era stata propria anche di Ippolito, suo contemporaneo e vissuto probabilmente a Roma, come abbiamo già visto sopra, pp. 295 ss. Di conseguenza Tertulliano indubbiamente è più ostile alla filosofia che non gli apologeti greci. La sua concezione negativa della filosofia diventerà famosa, e sarà ripresa da tutti gli scrittori cristiani d’occidente, almeno sul piano teorico. Oltre che a condannare la filosofia in quanto tale, Tertulliano segue gli scrittori giudeocristiani e cristiani del secolo a lui precedente, asserendo che le dottrine valide, che eventualmente si trovano nella filosofia pagana, non sono altro che il risultato di un “furto”. I filosofi, imitando le Scritture, le hanno però corrotte; ne è un esempio la dottrina del demone di Socrate: questo demone, anche se ebbe il suo ruolo, per quanto modesto e limitato, nel far pervenire un pagano, Socrate appunto, alla conoscenza della verità, era pur sempre, e solamente, un demone. Insomma, secondo Tertulliano la verità è sostanzialmente assente dalla filosofia pagana ed è inutile rifarsi ad essa quando già si possiede il dono della fede. Di conseguenza Tertulliano vuole mostrare che il cristianesimo è qualcosa di più di una filosofia: egli non aspira al titolo di “filosofo cristiano”, come Giustino. Non tenne una scuola di filosofia cristiana, e l’atteggiamento della scuola di Alessandria è assolutamente lontano dalle sue convinzioni. Ma non si deve cadere nell’errore, che una volta si trovava in tutti i manuali, che Tertulliano sia stato un sostenitore dell’irrazionalismo. Egli non scrisse mai la celebre frase che gli viene attribuita: credo, quia absurdum. Egli affermò semplicemente che lo scandalo della croce e dell’incarnazione del Signore, irrise dagli intellettuali pagani a causa della loro irrazionalità, sono «una cosa credibile, perché sono una cosa stolta» (La carne di Cristo 5,4).

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3. Tertulliano e le filosofie dei suoi tempi Tertulliano fu noto, nell’antichità cristiana, per l’ampiezza e la varietà delle sue conoscenze. Questo merito, che gli fu attribuito, comprende anche la conoscenza delle varie correnti filosofiche pagane: in tale ambito egli nutrì un atteggiamento fortemente critico verso gli Epicurei (e questo rientrava nella tradizione), e neppure ebbe molta simpatia per i platonici, ai quali rimproverava soprattutto la dottrina della metempsicosi (ed in questa scarsa simpatia per Platone egli si distaccò fortemente dal contemporaneo pensiero cristiano, quale abbiamo incontrato nell’apologetica greca e nella Scuola di Alessandria). Molto più interessato egli fu nei confronti dello stoicismo. 4. La filosofia platonica Tertulliano polemizzò a lungo con Platone, respingendo la sua dottrina delle idee. Conobbe il medioplatonico del II sec. d. C., Albino, dal quale egli trasse la sua conoscenza delle dottrine platoniche nel trattato su L’anima. Tuttavia, per sostenere che l’anima è immortale, Tertulliano ricorre (La resurrezione 3,2) anche alla sentenza di Platone (cf. Fedro 245 C), che «ogni anima è immortale», sentenza notissima e diffusa, in età imperiale, anche fuori delle scuole di filosofia. Egli conosce la dottrina del corpo–sepolcro, di origine orfica e misterica, fatta propria anche da Platone in nesso con la falsa etimologia soma–sema, cioè «il corpo è il sepolcro dell’anima» (Cratilo 400 C; Fedone 62 B; cf. La resurrezione 19,7). 5. Lo stoicismo Tertulliano fu, invece, più interessato allo stoicismo, come si è detto. Nel suo trattato su La resurrezione (15,3) egli afferma che anche i pensieri sono riconducibili alla natura del corpo, e quindi non esiste una realtà immateriale: si tratta di un debito evidente nei confronti dello stoicismo, la cui dottrina, come è ben noto, era ispirata ad un rigido materialismo. Egli colloca nel cuore la funzione direttiva dell’anima, e questa sua convinzione parrebbe debitrice della psicologia di Zenone e Crisippo, mentre Cleante collocava l’egemonico nella testa.

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Nel nesso ex utriusque substantiae concretione («in seguito alla compenetrazione dell’una e dell’altra sostanza»), che serve a Tertulliano per rappresentare l’unione, in Cristo, della natura divina e di quella umana, il termine concretio corrisponde al greco krasis, usato dagli stoici per indicare la mescolanza che implica una compenetrazione totale (cf. Contro Prassea 7,9). Un esempio significativo dell’interesse di Tertulliano per l’etica stoica si trova nel suo scritto su La pazienza, con il quale egli vuole sottolineare la specificità e la superiorità di questa virtù cristiana. Infatti, nonostante questo intento, egli descrive la pazienza soprattutto come una virtù stoica. Per il saggio stoico essa è la conseguenza dell’impassibilità e del proprio autodominio nelle avversità. Il saggio è, quindi, autosufficiente. Tertulliano usa, per la sua dimostrazione, concetti pagani, e più precisamente di Seneca (da lui definito saepe noster, cioè «spesso uno di noi» per le sue dottrine), il quale aveva asserito che grande è il ruolo della pazienza nella pratica della saggezza. La pazienza cristiana deve prendere come esempio e giustificazione la pazienza mostrata da Cristo durante la passione o quella che Dio stesso ebbe più volte nei confronti dei peccatori. Una forte esigenza di concretezza muove Tertulliano ad opporsi alla nebulosità e ai fantasmi degli gnostici. Per questo motivo egli giunge a citare persino l’epicureo Lucrezio (I 304), nonostante che Lucrezio certo non godesse di buona fama presso i Cristiani. Ma quella sentenza epicurea («infatti non è possibile, se non è presente un corpo, toccare ed essere toccati»), da lui citata per necessità di polemica, è addirittura considerata come una dottrina valida fornitaci dalla sapienza del secolo (Contro Marcione IV 8,3). Ma a proposito dello stoicismo di Tertulliano, il discorso merita di essere approfondito. 6. Primi scritti stoici Secondo quello che Gerolamo ci riferisce (Epistola 22,22), Tertulliano avrebbe scritto un trattato De angustiis nuptiarum, cioè su Gli inconvenienti del matrimonio, che dovrebbe essere, quindi, di etica non teorica, ma pratica, conforme ad una tematica della filosofia stoica e cinica, che sconsigliava il sapiente dal contrarre le nozze; quest’opera sarebbe stata dedicata Ad un filo-

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sofo mio amico e risalirebbe alla giovinezza dello scrittore, secondo quanto ci dice sempre Gerolamo nel Contro Gioviniano (I 13, PL 23,260). Alcuni hanno perciò ipotizzato che essa sia stata scritta prima della conversione. L’amico filosofo a cui l’opera era dedicata era probabilmente un pagano. 7. La conoscenza di Dio per natura Allo stoicismo può essere ricondotta anche la dottrina che l’anima è “cristiana per natura” (naturaliter christiana). Nell’Apologetico (17,3-6) lo scrittore considera il problema della conoscenza di Dio, che, secondo lui, non può essere altri che il Dio dei Cristiani. Anche a questo proposito Tertulliano ricorre allo stoicismo, perché secondo la filosofia stoica, l’“idea” che gli uomini hanno di dio è il frutto di una “nozione comune” (koiné ennoia), procurata dalla stessa natura umana e dal logos che è insito in essa. Pertanto la colpa dei pagani consiste nel non voler riconoscere colui che non possono ignorare per forza della loro stessa natura. Tertulliano riprende questo argomento anche in un’altra opera, La testimonianza dell’anima (De testimonio animae). In essa egli afferma che l’anima umana, se priva dei pregiudizi e delle menzogne di cui si riveste con il passare del tempo e che le vengono inserite in seguito, nel corso della sua vita, per l’influsso di una società corrotta e corruttrice, possiede la conoscenza del vero Dio; lo adora come unico, sovrano, onnipotente, buono e giusto; l’anima conosce, inoltre, la propria immortalità. Pertanto, in quanto tale, l’anima è, come dice l’Apologetico con una frase famosa, naturaliter christiana. L’opera, su La testimonianza dell’anima, pur essendo di estensione assai ridotta, è, dal punto di vista contenutistico, una delle più significative ed interessanti della produzione tertullianea. Il primo capitolo chiarisce le motivazioni dello scritto: esso vuole condurre delle ricerche sulla cultura pagana per elaborare delle argomentazioni in difesa del cristianesimo. Questo è un compito assai faticoso e raramente raggiunge il suo scopo, perché la gente comune non presta fede a chi ha assunto la difesa dei Cristiani; il fare riferimento alle Scritture, del resto, è inutile quando ci si rivolge ai pagani, che non ne riconoscono l’autorità. Tertulliano si appella quindi alla testimonianza dell’anima, quando essa è ancora “ingenua”, cioè nello stato in cui è stata creata da Dio, non cor-

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rotta dalla civiltà – dalla civiltà che è pagana. Espressioni spontanee come “buon Dio”, “Dio mi vede”, “Dio giudicherà” e simili, indicano che essa possiede, innata nella propria coscienza, la nozione dell’unicità e della bontà di Dio, la certezza che Dio è giudice e giusto (cap. 2). L’anima sa anche che esistono i demoni, che mirano alla perdizione dell’uomo (cap. 3). Il cap. 4 è dedicato alle nozioni dell’escatologia: l'anima, nonostante che abbia appreso delle dottrine filosofiche che insegnano il contrario, è convinta della resurrezione, della sopravvivenza dopo la morte e delle pene che vengono riservate negli inferi ai malvagi. La sua testimonianza, quindi, è del tutto degna di fede perché deriva da Dio; anche ammettendo, per assurdo, che essa derivi dall’educazione ricevuta, se ne dovrà ammettere la veridicità, poiché la letteratura e la filosofia dei pagani sono derivate dalla Bibbia, che le precede nel tempo (cap. 5). Anche se diffidente nei confronti della filosofia e della letteratura, il pagano non potrà non prestare fede alla propria anima, tramite cui Dio gli parla; il cristiano, d’altro canto, dovrà restare fedele ai dettami della propria intima coscienza. Già gli apologisti greci, riprendendo delle argomentazioni di origine stoica, avevano tentato di dimostrare ai pagani l’esistenza di un unico Dio sulla base dell’armonia e dell’ordine che regnano nel creato. L’originalità di Tertulliano rispetto ai suoi predecessori, che si appellavano agli scritti dei poeti, dei filosofi e degli altri maestri pagani, consiste nel fatto che egli volle percorrere una strada diversa, cercando una testimonianza ricavata non dalla dottrina o dalla filosofia, ma dalla voce stessa dell’anima. Ovviamente, proponendo questa dottrina, Tertulliano non poté sbarazzarsi della cultura profana acquisita in precedenza. Infatti, come ha giustamente posto in luce Carlo Tibiletti, la dottrina della testimonianza dell’anima, sostenuta da Tertulliano, presenta notevoli analogie con la teoria della prolepsis (conoscenza anticipata, precedente all’esperienza) elaborata dagli stoici. Questa particolare forma di conoscenza della divinità da parte dell’uomo, anteriore all’esperienza dei sensi (cioè anteriore all’osservazione della bellezza e della razionalità che si trovano nel mondo), costituirebbe per Tertulliano una sorta di vaticinio, reso possibile dal rapporto di parentela che l’anima intrattiene con Dio. Ma il passo più famoso sull'anima naturaliter christiana è il seguente (Apologetico 17,3-6):

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Questo è ciò che fa comprendere Dio, il fatto che non lo si può comprendere; così l’immensità della sua grandezza lo presenta agli uomini come noto e ignoto, e in questo sta la colpa principale di coloro che non vogliono riconoscere colui che non possono ignorare. 4. Volete che lo proviamo dalle sue opere, che sono tante e tali, dalle quali siamo circondati, sostentati, allietati, anche spaventati? Volete che lo proviamo in base alla testimonianza dell’anima stessa? 5. Essa, sebbene rinchiusa nel carcere del corpo, sebbene circondata da malvagi insegnamenti, sebbene svigorita da passioni e concupiscenze, sebbene asservita a false divinità, tuttavia, quando ritorna in sé, come dopo l’ubriachezza, il sonno o una qualche malattia, e recupera il possesso delle sue facoltà, nomina Dio con questo solo nome, poiché è proprio del Dio vero: «Dio buono e grande», «quello che Dio concederà» sono le parole di tutti. 6. Lo testimonia anche come giudice: «Dio vede» e «a Dio mi affido» e «Dio me lo renderà». O testimonianza dell’anima naturalmente cristiana! Infine, pronunciando queste parole, volge lo sguardo non al Campidoglio, ma al cielo: conosce infatti la sede del Dio vivente: da lui e di là essa è discesa. E in un’altra opera Tertulliano afferma: Dio ha dei testimoni: tutto quel che noi siamo e in cui noi siamo [cioè la razionalità dell’uomo e la bellezza del mondo] (Contro Marcione I 10,4).

E poiché abbiamo detto che il concetto della nozione innata di dio risale allo stoicismo, citiamo alcuni passi di scrittori latini influenzati dagli Stoici. Uno di questi è Cicerone, il quale ne La natura degli dèi introduce a parlare uno stoico, la cui opinione è la seguente: Per tutti gli uomini l’esistenza degli dèi è un’idea innata e per così dire scolpita nell’anima (La natura degli dèi II 4,12),

ed anche in Seneca leggiamo:

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In ogni animo è insita la fede negli dèi (epist. 117,6).

La conoscenza naturale di Dio è considerata da Tertulliano anteriore alla profezia e alla Bibbia, e il fatto che popoli diversi, ignari del nome e degli scritti di Mosè, tuttavia conoscano il Dio di Mosè e lo nominino, non fa che ribadire l’universalità della testimonianza dell’anima. Mentre la concezione che l’esistenza di Dio è insita nella natura umana viene utilizzata da Tertulliano soprattutto in polemica con i pagani, più frequente è, invece, il ricorso all’argomento cosmologico in un’opera antieretica, vale a dire nel Contro Marcione: ciò si spiega in considerazione del fatto che Tertulliano contesta l’esistenza del dio sommo, sostenuta da Marcione (cf. p. 288), in quanto manca una prova visibile dell’esistenza di questo dio e della manifestazione della sua presunta bontà. La sua rivelazione – sostiene Tertulliano – non può basarsi su alcuna testimonianza della natura, poiché il dio di Marcione non possiede una sua natura, ma deriva dalla semplice congettura di un uomo, cioè dell’eretico Marcione, mentre il Creatore può contare su una realtà concreta che è in grado di attestare convincentemente la sua esistenza. Questo argomento cosmologico si trova sia nella Scrittura (ad esempio in Paolo [Rom. 1,20], il quale afferma che le cose invisibili di Dio si possono intuire grazie alla sua creazione del mondo, grazie alle sue opere) sia nella filosofia greca, in particolare stoica. I filosofi del Portico, infatti, vedono nella bellezza e nell’armonia del mondo la presenza e l’attività di un artefice divino. Nel trattato su La natura degli dèi (III 7,16; II 5,13-15) Cicerone attesta che quattro sono, secondo lo stoico Cleante, le prove dell’esistenza degli dèi: la possibilità concessa agli uomini di prevedere eventi futuri (da essa deriva l’arte degli aruspici); il terrore davanti ai fenomeni naturali (come la pioggia, i fulmini, i terremoti, le epidemie), il quale fa sì che l’uomo immagini l’esistenza di una forza celeste e divina; i benefici di cui l’uomo può godere grazie al clima temperato, alla fecondità della terra e a molti altri vantaggi; infine, l’ordine, la bellezza del cosmo e il perfetto movimento degli astri. E quest’ultimo argomento soprattutto sarà ripreso dagli autori cristiani: il vantaggio di ricorrervi consisteva nell’utilizzare concetti familiari ai pagani, così da permettere un loro avvicinamento alla dottrina cristiana e, nello stesso tempo, presenti nelle Sacre Scritture. Prima di Tertulliano, ne avevano già fatto uso gli apologisti greci; Taziano, nel suo Discorso ai Greci (4,3), afferma:

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Noi conosciamo Dio dalla sua creazione, e dalle opere sue concepiamo l’invisibile sua potenza attiva.

La frase di Taziano riprende senza dubbio il versetto della lettera ai Romani di San Paolo sopramenzionato e ribadisce l’importanza della creazione per giungere alla conoscenza anche di ciò che è invisibile. Allo stesso modo Teofilo d’Antiochia: Tutte queste cose Dio le fece essere dal nulla, affinché per mezzo delle sue opere si conoscesse e comprendesse la sua grandezza (Ad Autolico I 4,5).

Ma anche in Aristide e Atenagora si trovano frequentemente queste argomentazioni e si può affermare che si trattava di una concezione ben radicata nel cristianesimo antico. Ma forse si può essere più precisi. La dottrina delle “nozioni comuni”, e, più in particolare, l’idea di Dio e del bene, apparteneva anche al platonismo del II sec. d. C., ed è presente in uno scrittore cristiano influenzato dal platonismo contemporaneo, Giustino (cf. Apologia II 6 e 14). Poiché anche nella dottrina del Logos divino Giustino è stato, per Tertulliano, uno scrittore di indiscussa autorità, non ci sarebbe niente di strano che anche a proposito della dottrina della conoscenza innata di Dio, che tocca così da vicino il problema etico-religioso, Tertulliano si fosse rifatto, pochi anni dopo la sua conversione, a uno degli scrittori più significativi della nuova religione, e che non abbandonerà nemmeno in seguito.

Capitolo secondo

La teologia di Tertulliano 1. Il Dio dei Cristiani Presentando ai pagani colti di Cartagine la teologia della nuova religione, Tertulliano così afferma (Apologetico 17,1-3): 1. Ciò che noi adoriamo è un Dio unico che creò dal nulla, a ornamento della sua maestà, tutta questa mole insieme a tutto il corredo di elementi, di corpi, di spiriti, con la parola con cui comandò, con la ragione con cui dispose, con la virtù con cui poté; perciò, anche i Greci dettero all’universo il nome di kosmos. 2. Egli è invisibile, sebbene si veda; inafferrabile, sebbene si renda presente per grazia; incomprensibile, sebbene si lasci comprendere dalle facoltà umane: per questo è vero e così grande! D’altro canto, ciò che comunemente si può vedere, afferrare, comprendere, è minore degli occhi da cui è percepito, della mano con cui viene a contatto, dei sensi da cui viene scoperto; 3. ciò che invece è incommensurabile, è noto solo a se stesso.

Esaminiamo, dunque, alcuni di questi termini riferiti a Dio. 2. Dio unico L’unicità di Dio, già asserita con forza in quel passo dell’Apologetico (prima opera scritta da Tertulliano dopo la conversione al cristianesimo), viene riconsiderata anche in alcune opere più tarde. Nel Contro Marcione, infatti, queste sono le parole del Cartaginese: E per sapere che Dio deve essere unico, tu devi indagare su che cosa Dio sia, e non lo troverai altro che unico. Stando a quello che noi, nella nostra condiz