Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall'interno
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Zitiervorschau

Cervello di gallina

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Giorgio V allortigara

Cervello di gallina Visite (guidate) tra etologia e neuroscienze

Bollati Boringhieri

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Prima edizione maggio

2005

© 2005 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati Stampato in Italia dalla Litografia «Il Mettifoglio» di Torino ISBN 88-339-1610-3

Schema grafico della copertina di Pietro Palladino e Giulio Palmieri Stampato su carta Palatina delle Cartiere Miliani Fabriano

Indice

Prefazione, di Edoardo Boncinelli

7

Ringraziamenti

n

Cervello di gallina Introduzione I.

Un mondo di oggetti

33

2.

Ciò che sta davanti e ciò che sta dietro

45

3. Cosa c'è dietro l'angolo

52

4. Sapere cosa e sapere come

Go

5. Ruotando immagini nella testa

68

6. Facce, bambini e pulcini

78

7. La gallina delle tre e quattordici (vista di profilo)

86

8. Geometria per i polli

97

9. Cervelli destri e pensieri sinistri

I09

IO.

Dormire con un occhio solo

11.

Matematici naturali

6

INDICE

La gallina pensierosa

r 26

12.

r35

13. Badare all'audience

r42

14. La gallina e le menti altrui

r53

Appendice. Perché la gallina ha attraversato la strada?

r57

Fonti delle figure

Prefazione Edoardo Boncinelli

Si starebbe dc::_lle ore a osservare gli animali, soprattutto quelli più vicini a noi. E difficile sottrarsi al fascino che sprigiona da quel complesso di azioni, spontanee o stimolate, legate presumibilmente fra di loro da un filo di consequenzialità i cui dettagli spesso ci sfuggono che chiamiamo comportamento. Solo gli animali si comportano, cioè si muovono per compiere certe funzioni e per raggiungere certi fini. Il mondo inanimato non ha né fini né funzioni. La funzione compare con le prime forme viventi. Non esiste metabolismo né fisiologia senza strutture organiche, piccole e grandi, conformate e assemblate in modo tale che a noi appaiano volte ad assolvere una funzione. Si dice così che la membrana esterna ha la funzione di proteggere l'interno della cellula, mettendolo nello stesso tempo in comunicazione con l'esterno; che i ribosomi hanno la funzione di sostenere la sintesi delle proteine; che i mitocondri hanno quella di fornire l'energia necessaria per tutte le operazioni cellulari e così via. Anche le cellule più semplici mostrano un embrione di comportamento: si allontanano da una sorgente di sostanze tossiche e si accostano a una di materiale nutritizio. Possiamo riguardare queste semplici risposte alle sollecitazioni dell'ambiente esterno come funzioni, o complesso di funzioni, o come comportamento, sia pure elementare. Gli organismi pluricellulari, dal canto loro, devono provvedere a un certo coordinamento delle funzioni delle cellule delle quali sono composti e soprattutto a controllare l'attività del corpo nel suo complesso, attività che si apprezza soprattutto come movimento, o

8

EDOARDO BONCINELLI

per meglio dire come quella serie coordinata di movimenti che noi chiamiamo azione. Per far questo occorre un sistema nervoso che riceva gli stimoli, li elabori e metta in cantiere un'azione. Salendo lungo la scala evolutiva, che a noi sembra condurre alla nostra specie, il sistema nervoso si presenta sempre più centralizzato e cefalizzato. Vi acquista cioè sempre più importanza il cervello, una sorta di elaboratore centrale collocato nella testa dove sono concentrati anche i principali organi di senso. Le informazioni sensoriali confluiscono nel cervello e dal cervello partono i comandi per l'azione. Siamo usi chiamare mente tutto ciò che si interpone fra questi due momenti. Sulla mente, e solo su quella, noi abbiamo due tipi distinti di informazioni: quelle che ci derivano dall'osservazione del mondo esterno, cioè del comportamento dei nostri simili e degli animali, e quelle che ci derivano dalla nostra personale esperienza interiore, cioè dalla percezione ed eventualmente dall'analisi dei nostri pensieri, sentimenti, motivi e ragioni. Un tale stato di cose, al quale per altro siamo abbondantemente avvezzi, rappresenta uno dei problemi più difficili da risolvere nel quadro del nostro tentativo di capire qualcosa del mondo, se non ne costituisce addirittura il dramma centrale. Poiché noi abbiamo esperienza diretta del nostro mondo interiore e, entro certi limiti, della motivazione delle nostre azioni, assumiamo che processi analoghi a quelli che osserviamo in noi avvengano nella testa dei nostri simili e, mutatis mutandis, in quella degli animali con i quali più siamo a contatto. Una tale assunzione è fondamentale per condurre la nostra vita quotidiana, ma è pur sempre un'assunzione e genera non poche difficoltà teoriche, che i filosofi hanno delineato da tempo e lepoca in cui viviamo sta mettendo impietosamente a fuoco. A partire dal concetto stesso di mente. Tale concetto deriva essenzialmente dall'osservazione fatta su noi stessi, ma è stato per così dire imposto e sovrapposto all'osservazione del comportamento degli altri esseri viventi. Il risultato è che non sappiamo dire né che cosa è la mente, né dove sta. Il comportamentismo americano della prima metà del Novecento ha cercato di ovviare a questo difetto, facendo di tutto per non tirare mai in ballo la nozione di mente, ma ha spinto questo protocollo programmatico un po' troppo in là e la comunità scientifica si è progressivamente ribellata a un tale atteggiamento esasperato ed esa-

PREFAZIONE

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sperante, soprattutto se applicato agli esseri umani. Negli ultimi cinquant'anni si è assistito al ritorno del concetto di mente, anche se in verità più come assunzione che come ipotesi di lavoro. Il migliore antidoto a queste difficoltà e a questi drammi intellettuali è rappresentato dall'osservazione paziente e assennata di soggetti non umani, che è quanto costituisce l'affascinante mestiere di Giorgio Vallortigara, che ha riversato in questo libro godibilissimo i tesori conoscitivi e speculativi di anni di studio, suoi e di altri scienziati. Il soggetto di osservazione da lui prediletto è il pollo. Di questo volatile, e non solo di questo, ci racconta cose interessantissime, viste nel quadro di una più ampia problematica etologica e con l'orecchio costantemente teso a cogliere eventuali assonanze e consonanze con la sua e la nostra mente. La quale è tutta presa dal desiderio di conoscere e di conoscersi.

Ringraziamenti

Vari amici e colleghi sono stati cosi gentili da discutere con me alcuni dei problemi affrontati in questo libro; in particolare ringrazio Patrizia T abossi (il ruolo del linguaggio nei processi di pensiero), Bjorn Forkman (la percezione e il riconoscimento d'aggetti parzialmente occlusi), Lesley Rogers, Richard Andrew, Onur Giinriirkiin e Stefano Ghirlanda (le asimmetrie del cervello), Toshiya Matsushima (le relazioni di omologia/analogia nei cervelli dei mammiferi e degli uccelli) e Orazio Miglino (come liberarci delle rappresentazioni). Desidero ringraziare Edoardo Boncinelli senza il cui personale impegno e incoraggiamento questo libro non sarebbe mai giunto alle stampe, e Giorgio Celli, Sandro Pagnini e Giulio Giorello per l'interesse dimostrato. Ringrazio inoltre Giorgio Celli e Danilo Mainardi per i preziosi consigli (spero non troppo disattesi) su come si dovrebbe fare la divulgazione scientifica. Mia moglie, Valeria, ha rivisto e corretto l'intero manoscritto (e sopportato con grazia le mie latitanze). Grazie di tutto. Vari collaboratori e amici mi hanno aiutato con il materiale iconografico: il loro contributo è riconosciuto nelle fonti delle illustrazioni. Grazie anche a Elisabetta Versace per aver rivisto le bozze. Le ricerche condotte nel mio laboratorio e in parte raccontate qui sono state rese possibili dall'enorme passione di molti ottimi collaboratori; troppi per mei:izionarli tutti qua: i loro nomi e il loro ruolo sono palesati nei riferimenti bibliografici. Un'eccezione però è dovuta alla mia più «vecchia» allieva, Lucia Regolin (la definizione è sua e quindi non si risentirà), oggi affermata ricercatrice, e

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RINGRAZIAMENTI

a Luca Tommasi, cervello in fuga in quel di Altenberg, che spero presto di veder rientrare in patria. Mentre concludevo la stesura del libro una nuova mente giungeva ad abitare nel mondo - il mio primo figliolo - mentre un'altra, tragicamente, a poco a poco l'abbandonava - mio padre. Questo libro è dedicato a loro. E alle menti di tutte le creature.

Cervello di gallina

Introduzione

Una percentuale significativa degli scienziati che oggigiorno si trovano impegnati nello studio della mente e del cervello conduce le proprie osservazioni su animali di svariate specie, nella convinzione che i principi più generali del funzionamento delle menti, di tutte le menti, inclusa quella umana, possano venire ricavati dallo studio di organismi anche molto diversi da noi. Capita che codesti studiosi incrocino sul pianerottolo, al ristorante o accompagnando i bambini a scuola, persone che svolgono altri mestieri - geometri, elettricisti, direttori del personale e indossatrici - le quali manifestano spesso una certa perplessità attorno al senso dell'intera impresa: che c'entra la nostra mente con la loro? Ammesso che loro, gli altri animali, una mente ce l'abbiano ... Lo scienziato britannico Steven Rose ha diffuso la congettura secondo cui per ciascun problema biologico Dio avrebbe creato un organismo ideale in cui studiarlo. Pensate a quel che ha rappresentato per i genetisti la Drosophila melanogaster, il comune moscerino della frutta, oppure, per i biologi molecolari, l'Escherichia coli, il batterio ospite dell'intestino umano. Nelle neuroscienze e nelle scienze cognitive evidentemente ci sono troppi problemi, perché gli animali favoriti da Dio proliferano. I miei colleghi neuroscienziati frequentano una varietà di creature: sanguisughe e piccioni, ratti e lumache, scimmie e cornacchie ... L'animale favorito da Dio cui personalmente mi dedico è il pulcino di pollo domestico. Professionalmente sono interessato alle abilità, differenti e complementari, delle metà destra e sinistra del cervello, nonché alle origini evoluzionistiche del modo in cui si spartiscono i compiti i due emisferi cere-

r6

INTRODUZIONE

brali. Il pulcino costituisce un eccellente modello per lo studio di questi fenomeni, ma di ciò mi occuperò solo marginalmente nel libro. Spesso mi è stato chiesto perché uno scienziato che cerca di capire come funziona la mente preferisca studiare i pulcini anziché gli uomini. Cosa c'entra la gallina con l'origine dei pensieri? Come altri studiosi affaccendati con cervelli più o meno esotici, ho dovuto mettere a punto col tempo una spiegazione per i non addetti ai lavori sufficientemente chiara ed esauriente, che propino oramai con una certa indulgenza. Tuttavia avverto un senso di disagio. Tra quelle domestiche, il pollo è certamente la specie più sfruttata e meno rispettata: non si dice forse «cervello di gallina» per suggerire che una persona mostra scarsa inclinazione alla vita della mente? In effetti non mi arreca disturbo che circoli un tale pregiudizio intellettualistico: la cattiva reputazione delle galline potrebbe essere il frutto di alcune malelingue; al giorno d'oggi non sono molte le persone che hanno contatti diretti e frequenti con questi animali. Ciò che mi procura disagio è che non sono sicuro che noi sappiamo davvero cosl tanto sul funzionamento della nostra mente da poter tranciare giudizi netti. Non sono neppure certo che le manifestazioni della vita mentale nel mondo biologico, quando sono ridotte alla loro essenzialità, differiscano in maniera cosl drammatica nelle varie specie. Ad ogni modo, per chi come me annovera le menti tra i prodotti della selezione naturale, le differenze sono importanti quanto le somiglianze. Sebbene le galline siano ospiti meno frequenti dei laboratori di ricerca di quanto lo siano i piccioni o i topi, negli ultimi anni sono state raccolte molte prove della loro attività mentale. Cosl tante da consentire la compilazione di un manualetto d'introduzione alla scienza cognitiva, quello che avete ora tra le mani, che ha per protagonista (o per pretesto) proprio la gallina. Gli argomenti considerati coprono i capitoli tradizionali di un vero manuale di psicologia cognitiva: la percezione, la rappresentazione, la memoria, il ragionamento e finanche il linguaggio e la coscienza. L'obiettivo del libro non è però di forzarvi a rivedere i vostri pregiudizi sulla mente della gallina, bensl di indurvi alla formazione di giudizi sulla mente umana. Se dalle pagine che seguono c'è da trarre qualche ragione di meraviglia, questa riguarda il fatto che processi mentali cosl generali da essere condivisi da specie tanto diverse siano ancora cosl poco compresi.

I.

Un mondo di oggetti

Una gallina paurosa vide una camicia stesa ad asciugare e la scambiò per un fantasma. Corse dalle sue compagne e raccontò che i fantasmi hanno le braccia ma non le gambe. Il giorno dopo vide un paio di pantaloni stesi ad asciugare e

ritornò dalle compagne a raccontare che i fantasmi vanno in giro a pezzi, le braccia da una parte le gambe dall'altra. L. Malerba'

Conoscete il trucco del dito che si spezza? A scuola molti ragazzini lo praticano. Io ricordo di averlo visto per la prima volta in una comica di Stanlio e Ollio. Piegate l'indice della mano sinistra in modo che ne manchi un pezzo, come in figura.

Per completare la porzione mancante usate la falangetta del pollice dell'altra mano, in questo modo:

1 Questa e le altre citazioni poste in esergo ai singoli capitoli sono tratte da Le galline pensierose di Luigi Malerba (Einaudi, Torino 1980; quindi Mondadori, Milano 1994).

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CAPITOLO PRIMO

Adesso con l'indice della mano destra coprite la giunzione, tenendo le mani ben diritte di fronte al vostro osservatore.

Poi muovete avanti e indietro la mano destra e otterrete un indice che si spezza e si ricompone, si spezza e si ricompone ...

Una volta che vi siate esercitati un poco allo specchio, potrete sbalordire gli amici che non conoscono il trucco. Il fatto che rimangano sorpresi e un poco schifati non deve destare meraviglia: l'anatomia proibisce di produrre fenomeni di questo tipo. Anche a trucco svelato, comunque, c'è ancora qualcosa che dovrebbe destare stupore, ma che di solito non viene apprezzato: per quale motivo quando componiamo il pezzo di indice con il pezzo di pollice vediamo un dito intero? Certo, l'altro indice occlude la giunzione e c'impedisce di notarla. Nondimeno, in linea di principio, non potrebbe essere che dall'una e dall'altra parte dell'indice che

UN MONDO DI OGGETI1

19

funge da occludente stiano due pezzi separati e indipendenti, come in effetti è? E, se sl, perché non si vedono questi due pezzi separati e indipendenti, ma si vede invece il dito come intero? Voi direte: be', il fatto è che noi abbiamo sempre visto le dita come intere, siamo abituati a vederle cosl, sappiamo che le dita sono fatte cosl. Sebbene contenga una parte di verità, la spiegazione non è davvero soddisfacente, perché il trucco funziona anche' con oggetti con i quali risulta difficile sostenere di aver avuto grande familiarità. Provate a osservare una figura come questa:

Convenite che la figura potrebbe derivare semplicemente dalla giustapposizione di due pezzi fatti cosl?

E allora, se ne convenite, perché si tende invece a percepire la figura parzialmente coperta come fatta all'incirca nel modo seguente?

CAPITOLO PRIMO

20

Voi siete convinti di vedere il dito come intero perché sapete che le dita, tranne che dopo gli incontri con i serial killer, sono intere. Guardate però questa figura:

L'avete vista bene? Avete imparato com'è fatta? D'accordo, allora adesso copritene il centro con un dito, in questo modo:

/A

Si vede un triangolo, vero? E a dispetto del fatto che voi sapete che non si tratta di un triangolo. Potete provare a coprire e scoprire la parte mediana della figura quante volte vi pare: ogni volta che viene coperta, la figura apparirà sempre come un triangolo.

UN MONDO DI OGGETI'I

2I

Gli psicologi della percezione utilizzano il termine «completamento amodale» per designare questo genere di fenomeni: amodale nel senso che è un completamento che si verifica senza che venga stimolata la modalità appropriata (visiva, in questo caso); la luce riflessa dalle porzioni occluse degli oggetti non può infatti raggiungere direttamente i vostri occhi. Siamo cosl abituati a completare gli oggetti parzialmente occlusi che non facciamo caso a quanto ciò sia straordinario. Si tratta di un'operazione che la mente compie in modo completamente automatico. Provate a guardarvi attorno: molto probabilmente pochi o pochissimi degli oggetti che vi circondano sono completamente e direttamente accessibili ai vostri occhi; la gran parte è parzialmente occlusa da altri oggetti. Eppure non c'è dubbio: in nessun momento avete avuto la sensazione di vivere in un mondo di frammenti; gli oggetti sono vissuti come interi anche quando se ne vede soltanto una porzione. Come si fa a sapere se anche gli altri animali completano gli oggetti parzialmente occlusi? Un modo è di addestrarli a categorizzare gli oggetti come completi oppure non-completi. Ad esempio, si può insegnare agli animali a distinguere un disco intero da uno amputato di un quadrante, premiando con del cibo la scelta del primo ma non del secondo disco. Giusto

,. Sbagliato

E poi li si può porre di fronte alle due alternative seguenti: Qual è giusto?

""•

22

CAPITOLO PRIMO

Se gli animali percepiscono il disco come amodalmente completato dietro il quadrato, come accade a noi, allora la scelta sarà facile: la figura associata alla ricompensa sarà quella di sinistra, nonostante il fatto che, fisicamente, in tutti e due i casi siano presenti solo e soltanto due porzioni di disco. Esperimenti di questo genere sono stati condotti sulle scimmie e sui topi, che si comportano proprio come noi. Non così i piccioni, che nelle stesse situazioni agiscono come se non completassero le figure parzialmente occultate. Difficile dire se davvero il mondo visivo dei piccioni sia un mosaico di frammenti indipendenti. Difficile anche solo pensarlo, dal nostro punto di vista. Considerate cosa accade quando muovete il capo o vi spostate in un ambiente in cui siano presenti due oggetti, uno che sta davanti e uno che sta dietro, parzialmente coperto dal primo. Porzioni via via diverse dell'oggetto che sta dietro vengono scoperte oppure coperte in relazione ai vostri movimenti. Se voi percepite le porzioni non occluse come completate amodalmente, queste variazioni non producono alcuna instabilità nel vostro mondo percettivo: l'oggetto è uno, sempre lo stesso e della stessa grandezza, semplicemente se ne vedono porzioni diverse. Ma se vedete solo quello che è direttamente accessibile - le porzioni non occluse - allora il vostro mondo percettivo deve essere davvero molto strano: solamente gli oggetti in primo piano rimangono stabili, tutti gli altri mutano continuamente di forma e di dimensioni mentre voi vi muovete. Chissà, forse per il piccione è davvero così. Il problema, però, è che le tecniche di addestramento basate su premi e punizioni possono determinare strategie di analisi affatto peculiari; potrebbe darsi che il piccione si concentri sulle parti, sulle porzioni degli oggetti a causa della procedura stessa di addestramento, che tutto sommato è abbastanza innaturale. Opportunamente addestrati, anche noi possiamo fare lo stesso: con un certo sforzo possiamo guardare alle scene visive astraendo dal completamento amodale, per cercare di percepire solo i frammenti direttamente visibili degli oggetti. È difficile, ma non impossibile: pittori e grafici compiono quest'operazione abitualmente. L'ideale sarebbe quindi poter interrogare gli animali sulle loro percezioni, utilizzando situazioni in cui essi dovrebbero esibire naturalmente capacità che richiedono il

lJN MONDO DI OGGETTI

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completamento degli oggetti parzialmente nascosti alla vista. Pensate a quando un pulcino vede la propria madre parzialmente coperta da un arbusto o da un'altra gallina. Ne percepirà solo un pezzetto? Forse sl, in fondo anche un pezzetto potrebbe essere sufficiente al riconoscimento. Ma ciò non sembra per nulla garantito dal momento che non è dato di sapere in anticipo quale frammento della gallina (la testa o il sedere?) rimarrà effettivamente visibile. Allevati da subito dopo la schiusa assieme a un oggetto scelto del tutto arbitrariamente, come per esempio un triangolo rosso penzolante nel mezzo della loro gabbietta, i pulcini trattano il triangolo come se fosse la loro mamma. Se avete letto L'anello di Re Salomone saprete già che questo notevole fenomeno si chiama «imprinting» e che, in condizioni normali, i piccoli delle specie nidifughe precoci, che da subito possono muoversi e lasciare il nido, sviluppano tale forma di attaccamento sociale nei confronti della loro madre naturale. Se però non c'è una chioccia in circolazione, l'etologo Konrad Lorenz oppure, come in questo caso, un triangolo colorato possono andare altrettanto bene.

I pulcini si affezionano moltissimo alla mamma-triangolo: se questa è rimossa dalla loro gabbietta, pigolano e si muovono per cercarla. Si può allora congegnare un semplice esperimento ponen-

CAPITOLO PRIMO

do alle opposte estremità di un corridoio due versioni un poco differenti della mamma-triangolo: da una parte un triangolo amputato di una porzione e dall'altra uno che, invece di essere amputato, è solo coperto, per quella medesima porzione, da una barretta. Per fare le cose per b.ene e rendere le due situazioni eguali faremo meglio a mettére una barretta anche vicino al triangolo amputato, vicino ma non sovrapposta, solo accostata. In tali condizioni i pulcini scelgono decisamente di avvicinare il triangolo coperto, comportandosi quindi come se vedessero il completamento del triangolo dietro la barra che l'occlude.

Mentre, come dicevamo, per il piccione la cosa è abbastanza incerta, c'è una categoria di creature per la quale siamo ragionevolmente sicuri che il mondo visivo è costituito di frammenti che non si completano: quella dei neonati della nostra specie fino a circa quattro mesi di vita. Studiare il riconoscimento di oggetti parzialmente occlusi nei neonati richiede lo stesso ingegno che studiarlo negli animali. In tutti e due i casi non è possibifo S('tnpliccmcnte chiedere loro di dirci quello che vedono, ma dohhiamo trovare un modo indiretto, non legato al linguaggio, per scoprirlo. Ìì istruttivo confrontare i pulcini con i neonati: le dtw s1wdt• sono infatti molto diverse per quel che riguarda i processi di sviluppo. I nostri

UN MONDO DI OGGETI1

cuccioli vengono al mondo in uno stato d'inettitudine pressoché completo: da soli non potrebbero né muoversi né cibarsi. I pulcini di pollo domestico, invece, sono tipici rappresentanti delle specie cosiddette precoci: appena usciti dall'uovo già zampettano e becchettano in giro in piena autonomia. Uno stratagemma molto usato da chi studia la mente dei neonati è quello di affidarsi al fatto che tutti gli organismi si annoiano e cessano di rispondere alla presentazione ripetuta dello stesso stimolo, mentre riguadagnano rapidamente l'interesse qualora lo stimolo venga cambiato. Supponiamo che un bastoncino parzialmente coperto da uno schermo rettangolare venga fatto scorrere avanti e indietro di fronte agli occhi di un neonato.

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Dopo un po', comprensibilmente, il neonato volgerà il suo interesse altrove. Ora togliamo lo schermo e proponiamo al nostro piccolo l'una o l'altra delle alternative seguenti. Un bastoncino intero

oppure i due frammenti corrispondenti alle parti di bastoncino che in precedenza sporgevano visibili dietro lo schermo:

-

-/

-

CAPITOLO PRIMO

Quale delle due alternative pensate che il neonato guarderà più a lungo? Tutto dipende da cosa avrà percepito prima, e proprio in questo sta il trucco. Se, come capita a noi, il neonato percepisce il completamento amodale del bastoncino dietro l'occludente, allora vedere il bastoncino intero non susciterà grande meraviglia: è esattamente quello che uno si aspetta ci sia dietro lo schermo. Invece, vedere i due pezzetti separati sarà stupefacente, esattamente come quando si osserva il dito che si spezza. Quel che effettivamente accade quando si prova a fare l'esperimento è che, fino a quattro mesi circa, i neonati guardano più a lungo il bastoncino intero e solo dopo quest'età danno segno di percepire il completamento guardando più a lungo il bastoncino spezzato. Fino a quattro mesi di vita, quindi, i neonati non sembrano percepire il completamento amodale degli oggetti parzialmente occlusi. I pulcini, invece, a due giorni di vita, si comportano come faremmo noi adulti, sorprendendosi che il bastoncino dietro lo schermo sia in realtà due bastoncini. Niente di strano in tutto ciò se ci pensate bene. Saper riconoscere che quella parzialmente coperta è la mamma risulta utile se si è capaci di muoversi per andarle incontro; se invece non si è in grado di farlo, perché un neonato di Homo sapiens sapiens a quell'età non si regge in piedi, allora è meglio aspettare che sia la mamma ad avvicinarsi e rimandare lo sviluppo degli aspetti più sofisticati della percezione visiva ai mesi a venire. Gli oggetti parzialmente occlusi sono parenti stretti di cc.rti altri oggetti abbastanza inquietanti. Guardate la figma qua sotto. Si chiama «triangolo di Kanizsa», dal nome di uno psirnlogo Lricstino che ha dedicato molti sforzi al tentativo di svela.rii\' I.a nnlura.

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7

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UN MONDO DI OGGETTI

27

Il triangolo indubitabilmente si vede. È ci( un bel bianco, più chiaro e compatto dello sfondo, copre parzialm'ènt~ un triangolo a solo contorno con la punta in giù e tre gruppi di cerèhi concentrici che appaiono completarsi amodalmente. Come avrete già capito, il triangolo fisicamente non c'è. Se andaste a misurare con uno strumento (che si chiama fotometro) la quantità di luce riflessa nella zona dove si vede il triangolo e nella zona esterna ad esso trovereste che è esattamente la medesima, ma, a dispetto di ciò, continuereste a vedere il triangolo come più chiaro dello sfondo. Allora il triangolo esiste secondo i vostri occhi, ma non secondo lo strumento. Vi fidate di più dello strumento? Liberissimi. Ma con che cosa andate a vedere ciò che misura lo strumento? Con gli occhi? Ah ... Gaetano Kanizsa pensava che il meccanismo in base al quale si forma questo triangolo fantasma fosse lo stesso che determina la formazione del completamento amodale. Per essere completati in cerchi interi, i tre moncherini di cerchio richiedono che un oggetto di forma appunto triangolare renda conto della loro parziale copertura. Questo naturalmente è un modo un po' semplificato di dire le cose, ma che non fa troppo torto al grande psicologo triestino. Su queste basi, noi, che qui siamo interessati a comparare le menti dei diversi organismi, potremmo azzardare una previsione: se una specie completa amodalmente gli oggetti parzialmente occlusi, allora sarà probabilmente suscettibile a illusioni come quella del triangolo di Kanizsa. Per le scimmie sappiamo che è davvero cosl. E anche per il pulcino e il barbagianni. Per altri animali disponiamo solo d'informazioni insufficienti: sappiamo che i topi vedono il completamento amodale, ma nessuno ha provato a controllare se vedono il triangolo di Kanizsa. Per quel che riguarda i piccioni sappiamo che possono percepire il triangolo di Kanizsa, il che induce a sospettare che probabilmente vedono anche il completamento amodale e che le difficoltà menzionate prima potrebbero essere davvero legate alla procedura impiegata. Per le api, invece, sappiamo che vedono il triangolo di Kanizsa, ma nessuno ha ancora provato a controllare se percepiscono il completamento amodale. Forse vi chiederete come si fa a sapere che le api vedono il triangolo di Kanizsa. Un metodo è quello di addestrarle a distinguere tra due rettangoli di diversa orientazione, cosa che si può ottenere facilmente ponendo sopra a un rettangolo un premio, per esempio

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CAPITOLO PRIMO

un contenitore con acqua e zucchero, e sopra all'altro rettangolo un contenitore con dell'acqua soltanto. In breve tempo le api apprendono a scegliere il rettangolo «giusto» (supponiamo, quello che sta a destra nella figura qua sotto). Giusto

Sbagliato

o

A questo punto possiamo mostrare loro dei rettangoli à la Kanizsa. Qual è giusto?

Per essere sicuri che le api non sfruttino i segmenti orientati dei

pac-man, si può impiegare una condizione di controllo come quella mostrata nella figura seguente. Qual è giusto?

Quel che si osserva è che le api continuano a scegliere il rettangolo corretto nella condizione in cui anche noi vediamo i rettangoli di Kanizsa, ma non nella condizione di controllo. Le creature viventi abitano mondi percettivi che possono essere molto differenti tra di loro. Come si usa dire, a ciascuno il proprio tipo di prigione. In questo caso la prigione altro non sarebbe che

UN MONDO DI OGGETTI

l'insieme degli adattamenti di ciascuna specie alla propria nicchia ecologica. Molto tempo fa il biologo Jacob von Uexkiill aveva cercato di descrivere il mondo percettivo di una zecca. Questo animale può starsene appeso a un ramo per tempi anche lunghissimi, incurante di tutto. Uno e uno solo specialissimo stimolo riesce a solleticare il suo interesse: l'odore di acido butirrico emanato dalla pelle dei mammiferi. Quando lo sente, la zecca abbandona la presa sul ramo e si lascia cadere sul suo odoroso ospite. Il mondo sensoriale di una zecca è molto povero dal nostro punto di vista e ci viene da sorridere al pensiero di quanto sia limitata la sua conoscenza della realtà. Ma non dovremmo dimenticarci che anche la nostra conoscenza della realtà deve essere parimenti limitata, in modi che, per l'appunto, non ci è neppure dato conoscere. (Dice Woody Allen: «Epossibile conoscere la conoscenza? E, se no, come facciamo a saperlo?»). Tuttavia, la varietà dei mondi percettivi delle altre specie non può essere illimitata, perché vi sono cose che un organismo deve sapere del suo ambiente che valgono per tutti gli ambienti. Per esempio, il mondo visivo delle specie che possono focalizzare la luce per formare immagini deve essere caratterizzato dalla presenza di figure segregate e ben distinte rispetto allo sfondo. Date le proprietà della luce, ci sono pochi modi per ottenere ciò. Un modo, generalissimo, è di ricavare margini o bordi laddove la stimolazione fisica rivela delle differenze. Il problema naturalmente è che in molte circostanze tali variazioni fisiche possono essere assai poco nette, per non dire indistinte, oppure possono essere presenti solo a tratti (pensate a un animale che si muove nel fitto del fogliame). Ecco allora che per mezzo della selezione naturale sono stati messi a punto dei meccanismi di interpolazione che, usando regole piuttosto semplici basate sulle regolarità statistiche dell'ambiente (similarità di colore, chiarezza e tessitura, continuità di direzione, movimento comune delle parti ecc.), estraggono, a uso e consumo dell'animale che ne ha bisogno, margini anche laddove non ve ne sono. C'è da preoccuparsi che tanta parte della nostra percezione (forse tutta?) sia fatta di fantasmi? No davvero, visto che siamo qui a discuterne. Benché invenzioni delle menti, gli oggetti completati amodalmente e i margini illusori servono egregiamente al loro scopo, che è quello di consentire a noi e agli altri animali di muoversi e di agire appropriatamente nel mondo.

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CAPITOLO PRIMO

Il succo della faccenda (e qualche suggerimento per ulteriori letture) Quando si parla di percezione la cosa più difficile è capire che c'è sotto un problema. Apriamo gli occhi e si stende davanti a noi un panorama di oggetti, immediatamente disponibile alla nostra esperienza soggettiva senza alcuno sforzo apparente. Diventa irresistibile pensare che il cervello non debba fare nulla se non registrare _(>assivamente l'esistenza di oggetti che ci sono davvero «là fuori». E vero, infatti, che il postulato dell'oggettività della natura, come lo chiamava Jacques Monod, il ritenere cioè che là fuori ci sia davvero un mondo reale indipendente dalle nostre esperienze e aspettative è la condizione necessaria per fare scienza (e per sopravvivere!). Ciò nonostante un problema sussiste perché, qualsiasi cosa ci sia davvero là fuori, gli organismi biologici non possono accedervi direttamente, ma solo per il tramite di una cascata di processi di mediazione. Non ci sono copie degli oggetti che scivolano dentro i nostri occhi, ma solo fotoni, quanti di luce riflessi (o eventualmente emessi) dagli oggetti del mondo fisico. E questi fotoni piovono su di un esteso tappeto di unità fotorecettrici distinte, la retina oculare. Queste unità fotorecettrici trasformano l'energia luminosa in segnali elettrochimici individuali che viaggiano nel tessuto nervoso. L'oggetto di partenza, se pure ci fosse stato, a questo punto se n'è già andato, inghiottito nel brulichio dei neuroni e delle sinapsi. Eppure esso è destinato a fare la sua apparizione (l'unica possibile, in effetti) nel teatro della coscienza. Gli oggetti, le «cose» della nostra esperienza percettiva, sono fatti reali; chi oserebbe dubitarne? Essi derivano la loro esistenza, in qualche modo, dalle proprietà dell'ambiente in cui sono immersi gli organismi e dalle proprietà di funzionamento dei cervelli degli organismi stessi. Il problema cui ho cercato di introdurvi si riduce infine a questa crucialissima domanda: le regole, i principi, attraverso cui vengono estratti, ricavati e organizzati gli oggetti dell'esperienza percettiva sono sempre gli stessi? oppure la varietà delle creature che popola il pianeta possiede regole e quindi cataloghi di realtà assai dissimili? Scrive Borges: «Pensai che le nostre percezioni erano eguali, ma che Argo le combinava diversamente e costruiva con esse altri oggetti; pensai che forse per lui non esistevano oggetti, ma un vertiginoso

UN MONDO DI OGGETI'I

e continuo gioco d'impressioni brevissime». Che lo scrittore non stia parlando davvero di un cane poco importa. Le prestazioni della gallina cognitiva e delle altre creature delle cui abilità vi ho raccontato suggeriscono che, almeno in parte, la risposta sia affermativa: che le nostre percezioni degli oggetti siano davvero eguali, almeno per gli aspetti trattati qui, e che lo siano perché vi sono problemi comuni a tutti gli organismi nella pur ragguardevole varietà delle loro nicchie ecologiche, perché comuni sono le leggi del mondo fisico e perché nei cervelli esse vengono a essere rispecchiate. Per sapeme di più Gli esperimenti sul completamento amodale nel pulcino sono descritti in: - L. Regoline G. Vallortigara, Perception of Partly Occluded Obiects by Young Chicks, in «Perception and Psychophysics», 57, 1995. pp. 971-76; - S. E. G. Lea, A. M. Slater e C. M. E. Ryan, Perception of Obiect Unity in Chicks. A Comparison with the Human Infant, in «lnfant Behavior and Development», 19, 1996, pp. 501-04; e recentemente confermati nell'animale adulto in: - B. Forkman, Hens Use Occlusion to Judge Depth in a Two-Dimensional Picture, in «Perception», 27, 1998, pp. 861-67. Dati su piccioni, topi e primati sono sparsi nella letteratura scientifica: - L.J. van Hamme, E. A. Wasserman e I. Biederman, Discrimination of ContourDeleted Images by Pigeons, in «Journal of Experimental Psychology. Animai Behavior Processes», 18, 199>, pp. 387-99; - G. Kanizsa, P. Renzi, S. Conte, C. Compostela e L. Guerani, Amodal Completion in Mouse Vision, in «Perception», 2>, 1993, pp. 713-22; - A. B. Sekuler,J. A. Lee e S.J. Shettleworth, Pigeons Do Not Complete Partly Occluded Figures, in «Perception», 25, 1996, pp. uo9-20; - A. Sato, S. Kanazawa e K. Fujita, Perception of Obiect Unity in a Chimpanzee (Pan troglodytes), in «Japanese Psychological Research», 39, 1997, pp. 191-99. Gli esperimenti sul completamento degli oggetti parzialmente occlusi nei neonati si trovano in:

- P.J. Kellman ed E. S. Spelke, Perception of Partly Occluded Ob;ects in Infancy, in «Cognitive Psychology», 15, 1983, pp. 483-524; - S. P. Johnson e R. N. Aslin, Perception of Obiect Unity in 2-Month-Old Infants, in «Developmental Psychology», 31, 1995, pp. 739-45. Gli esperimenti che dimostrano che i pulcini, i barbagianni e gli insetti vedono i contorni soggettivi li potete trovare in: - M. Zanforlin, Visual Perception of Complex Forms (Anomalous Surfaces) in Chicks, in «ltalianJournal of Psychology», 8, 1981, pp. 1-16;

32

CAPITOLO PRIMO

- G. A. Horridge, S. W. Zhang e D. O'Carroll, Insect Perception o/Illusory Contours, in «Philosophical Transactions of the Royal Society of London», B, 337, 1992, pp. 59-64; - G. Celli e B. Maccagnani, The Perception o/ Subiective Contours in the Bumb!ebee Bombus terrestris L. (Hymenoptera Apidae), in «lnsect Socia! Life», 2 (Atti del 7° Congresso AISASP, Bologna, 11-13 settembre 1997), 1998, pp. 199-205; - A. Nieder e H. Wagner, Perception ami Neuronal Coding o/ Sub;ective Contours in the Owl, in «Nature Neuroscience», z, 1999, pp. 660-63. La dimostrazione che i piccioni vedono il triangolo di Kanizsa mi è stata riferita da Onur Gi.inti.irki.in e Helmut Prior, che hanno condotto gli esperimenti all'Università della Ruhr a Bochum; il resoconto di queste ricerche non è ancora stato pubblicato se non nella forma di un abstract di congresso: - H. Priore O. Gi.inti.irklin, Pattems o/Visual Lateralization in Pigeons. Seeing What Is There and Beyond, in «Perception», Suppl. 28, 1999, p. 22. Perché i piccioni non manifestino come i pulcini e le galline la capacità di completare amodalmente gli oggetti parzialmente occlusi rimane un problema aperto. Forse la difficoltà riguarda gli stimoli impiegati. Ad esempio Joel Fagot con i suoi collaboratori al CNRS di Marsiglia ha osservato che anche i babbuini si comportano come i piccioni se si impiegano diapositive o immagini prodotte sullo schermo di un computer, mentre mostrano di percepire il completamento amodale quando si impiegano figure in cartoncino: - C. Deruelle, I. Barbet, D. Dépy, eJ. Fagot, Perception o/ Partly Occluded Figures by Baboons (Papio papio), in «Perception», 29, 2000, pp. 1483-97. Una possibilità alternativa, suggerita dallo psicologo giapponese Kazuo Fujita, è che vi siano differenze di specie associate al comportamento alimentare. I piccioni beccano solo il cibo che vedono; pulcini e galline, invece, sono abituati a razzolare e a estrarre dal terreno vermi e insetti: - K. Fujita, Perceptual Completion in Rhesus Monkeys (Macaca mulatta) and Pigeons (Columba livia), in «Perception and Psychophysics», 63, 2001, pp. rr5-25. Tuttavia proprio mentre mi appresto a consegnare questo libro all'editore uno dei miei collaboratori mi segnala un articolo pubblicato da Ed Wasserman, uno psicologo statunitense, che assieme ai suoi colleghi sembra avere risolto il problema. Se i piccioni durante laddestramento sono abituati a osservare situazioni in cui un oggetto bidimensionale giace sopra un bordo, la linea di confine di superfici differenti, anche senza che vi sia occlusione, essi poi appaiono capaci di riconoscere oggetti parzialmente occlusi. Come tante altre volte nello studio della cognizione animale si trattava solo di essere abbastanza astuti (noi ricercatori, dico, non i piccioni) e di trovare il giusto modo di interrogare la natura: - N. T. DiPietro, E. A. Wasserman e M. E. Young, E//ects o/ Occlusion on Pigeons' VisualObiect Recognition, in «Perception», 31, 2002, pp. 1299-312. Per un resoconto divulgativo su tutti questi temi si può consultare anche: - G. Vallortigara, L. Regolin, L. Tommasi e P. Zucca, Altro che cervello di gallina! in «Le Scienze», 367, 2000, pp. 88-95; e per una trattazione un poco più sofisticata: - G. Vallortigara, Altre menti. Lo studio comparato della cognizione animale, Il Mulino, Bologna 2000.

2.

Ciò che sta davanti e ciò che sta dietro

Una gallina astronoma disse che tutte le galassie dell'universo messe insieme non erano altro che nuvolette di polvere sollevate da una gallina che ruspa in un universo infinitamente più grande. >, l, 1996, pp. 200-05.

C'è da dire peraltro che la preferenza per i volti alla nascita potrebbe essere spiegata senza ricorrere a meccanismi specifici per i volti, ma supponendo che le immagini di volti attivino maggiormente certe popolazioni di neuroni nel cervello. Su quest'idea vale la pena di leggere la rassegna di Francesca Acerra e Stefano Ghirlanda: - F. Acerra e S. Ghirlanda, Influenze genetiche e ambientali sulle preferenze per i volti. Quanto ne sappiamo?, in «Sistemi intelligenti», 14, 2002, pp. 217-44. Sull'espressività delle facce si veda anche: - P. Bozzi, Fisica ingenua, Garzanti, Milano 1990.

FACCE, BAMBINI E PULCINI

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Vari articoli sulle proprietà di risposta delle cellule nervose della corteccia inferotemporale si possono trovare nel numero monografico che la rivista « Behavioural Processes» ha dedicato al tema del riconoscimento individuale e della discriminazione sociale: - K. Kendrick, Neurobiologica! Correlates o/Visual and Olfactory Recognition in Sheep, in «Behavioural Processes», 33, 1994, pp. 89-1n; - E. T. Rolls, Brain Mechanisms /or Invariant Visual Recognition and Learning, in «Behavioural Processes», 33, 1994, pp. l 13-38. Considerazioni interessanti sullo stesso argomento si possono trovare in:

- A. Treves, Come funziona la memoria. Le basi neurali della capacità di ricordare, Bruno Mondadori, Milano 1998. Sull'istinto che guida l'appendimento si può leggere: - J. L. Gould e P. Marler, P. Apprendimento e istinto, in «Le Scienze», 223, 1987, pp. 29-38.

7. La gallina delle tre e quattordici (vista di profilo)

Una gallina gallinologa dopo avere studiato molto il problema disse che le galline non erano animali e non erano nemmeno uccelli. «E allora che cosa sono?» domandarono le compagne. «Le galline sono galline», disse la gallina gallinologa e se ne andò via impettita.

L. Malerba

Un mondo mentale privo di concetti sembra l'invenzione di un racconto di Borges. Provate a pensarci: non possedere alcun concetto per «gatto» significherebbe che tutti i singoli gatti che vedrete nel corso di una vita costituirebbero entità uniche, ciascuna delle quali non avrebbe nulla a che spartire con le altre. E lo stesso varrebbe per i gatti immaginati o pensati. Non ci sarebbero più i «gatti», ma solo Fuffi, Diavolo, Micio, Teresina ... Un bel problema, sia per la memoria che per il lessico: ci sarebbe bisogno di una memoria prodigiosa per contenere una tale proliferazione d'individui e di un numero di parole praticamente illimitato per nominarli. I concetti permettono infatti di condensare in un'unica entità astratta (per esempio l'idea che ciascuno di noi ha del gatto) e in una parola («gatto») le caratteristiche particolari di tutti i gatti incontrati e pensati. In effetti un simile racconto Borges l'ha scritto, sebbene il suo tema centrale non venga di solito riconosciuto per quello che è. Si tratta della storia di Funes il «memorioso», il ragazzo che non dimenticava nulla. Con la sua acutezza il favolista di Buenos Aires ci pone di fronte al più terribile degli svantaggi dell'assenza di oblio, l'impossibilità stessa del pensiero per mancanza di concetti. Funes, infatti, ci dice Borges, era pressoché incapace d'idee generali: «Non solo gli era difficile di comprendere come il simbolo generico cane potesse designare un cosl vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e per forma; ma anche l'infastidiva che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte)».

LA GALLINA DELLE TRE E QUATTORDICI (VISTA DI PROFILO)

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Possedere concetti - o categorie - semplifica la vita perché consente di disporre di regole inferenziali per l'azione: un topo scappa quando vede Fuffi, Diavolo, Micia o Teresina anche senza averli mai incontrati prima, perché un tale comportamento è appropriato per qualunque esemplare della categoria «gatto». Una covata di pulcini è costituita da una dozzina di individui. Ciascuno di questi, dopo poche ore, sa riconoscere la chioccia. Vale anche l'inverso. La chioccia sa riconoscere individualmente ciascuno dei suoi pulcini. Se nel pollaio è introdotto un pulcino estraneo, la chioccia lo rifiuta e lo becca. Lo stesso fanno i pulcini della covata, che oltre a riconoscere la chioccia sanno quindi riconoscersi l'un l'altro. Pensate a quale formidabile problema debba affrontare il cervello della chioccia. Il pulcino delle dieci e trenta minuti visto di profilo è lo stesso di quello delle dieci e trentuno visto di fronte. E poi di lato. E poi di scorcio. E poi accovacciato ... Ma c'è di più. A parte le variazioni relative al punto di vista, il pulcino è una tappa nel tragitto che conduce un uovo a diventare un pollo. Nella figura alla pagina seguente potete osservare le trasformazioni nell'aspetto visivo del pulcino da due a sessantacinque giorni di età. Quando ha raggiunto la piena indipendenza, a sessantacinque giorni, l'animale è all'incirca quattro volte più grande di quanto fosse a due giorni e ha assunto il piumaggio adulto la cui colorazione è completamente differente da quella che aveva da pulcino. Anche il suo comportamento e il repertorio vocale sono cambiati. Come può la chioccia mantenere un senso d'identità e continuità a fronte di uno stimolo cosl mutevole? Una possibilità è che l'animale generalizzi sulla base di un insieme ristretto di caratteristiche, per esempio morfologiche, utilizzando come punto di riferimento l'aspetto del pulcino alla nascita oppure nel momento di massima coesione del gruppo familiare (entro i primi dieci giorni). Un'alternativa interessante potrebbe invece essere che la categorizzazione mentale del partner sociale venga periodicamente aggiornata dalla chioccia (ma anche dagli stessi pulcini per quel che riguarda il riconoscimento dei loro fratelli) nel corso dello sviluppo. Catriona Ryan e Stephen Lea, all'Università di Exeter, hanno ottenuto risultati interessanti a favore dell'ipotesi dell'aggiornamento periodico (updating, si dice in inglese) delle categorie mentali di chiocce e pulcini. Utilizzando dia-

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CAPITOLO SETI'IMO

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positive delle immagini degli animali, prese nei vari momenti dello sviluppo, hanno dapprima provato a verificare se, una volta appresa una particolare discriminazione, le galline fossero in grado di generalizzarla a età diverse. Tre diversi gruppi di galline imparavano a distinguere tra loro due pulcini di due, trentatré, o sessantacinque giorni. Tutte le chiocce imparavano bene il compito, indipendentemente dall'età dei pulcini che dovevano essere discriminati. Dopodiché, a ciascun gruppo erano presentate diapositive degli stessi pulcini a tutte le sette età considerate. Per esempio, il

LA GALLINA DELLE TRE E QUATIORDICI (VISTA DI PROFILO)

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gruppo di chiocce addestrato con pulcini di due giorni si trovava di fronte coppie di pulcini di dodici, ventitré, trentatré, quarantatré, cinquantacinque e sessantacinque giorni. Quello che i ricercatori britannici hanno trovato è che la generalizzazione alle differenti età non è uniforme, come ci si poteva aspettare nel caso in cui le chiocce rispondessero a un cambiamento graduale e continuo. Ad esempio, le chiocce inizialmente addestrate con diapositive di pulcini di trentatré giorni mostravano una buona capacità di trasferire quel che avevano appreso a immagini di pulcini di ventitré giorni e di dodici giorni (più giovani) e di quarantatré giorni (più vecchi). Tuttavia la prestazione calava in maniera drammatica per immagini raffiguranti pulcini di due giorni oppure di cinquantacinque o sessantacinque giorni. Le chiocce inizialmente addestrate con immagini di pulcini di due giorni mostravano buona generalizzazione fino ai quarantacinque giorni, dopodiché le loro risposte diventavano casuali. Lo stesso, alla rovescia, per le chiocce addestrate con immagini di pulcini di sessantacinque giorni, che trasferivano bene alle età di cinquantacinque e quarantatré giorni, ma non alle età inferiori. La semplice generalizzazione visiva non sembra quindi in grado di sostenere i processi di riconoscimento lungo l'intero periodo di sviluppo dell'animale; un qualche meccanismo di aggiornamento periodico sembra essere necessario per mantenere il senso dell'identità individuale. Consideriamo la situazione dal punto di vista di un pulcino che debba far fronte alle modificazioni progressive di un suo compagno di covata. Una prima possibilità è che esso non operi alcun aggiornamento delle memorie, ma che si limiti a rispondere agli stimoli effettivamente presenti. Cosl, quando l'animale ha quattro giorni d'età, il suo originale compagno di covata, la cui fisionomia è stata «fissata» subito dopo la schiusa per il tramite dell'imprinting, non esiste più, nel senso che il suo aspetto è ormai cambiato, e il pulcino si limiterà quindi a seguire ciò che di più simile vi sia nei paraggi, ovvero il compagno coetaneo. Secondo questa ipotesi, se il pulcino avesse la possibilità di scegliere tra il suo compagno originario e il suo effettivo coetaneo, sceglierebbe il compagno originario. Dal punto di vista biologico si tratta di un'eventualità che evidentemente non può realizzarsi, ma in laboratorio la difficoltà può essere aggirata facilmente. Supponiamo, come hanno fatto Ryan e Lea, di

CAPITOLO SETTIMO

utilizzare come oggetto d'imprinting una stringa di quattro palline da ping-pong di colore bianco. Ogni quattro giorni il colore di una delle palline della stringa cambia, passando da bianco a marrone; in questo modo al diciassettesimo giorno la stringa di palline sarà costituita di quattro palline identiche di colore marrone. In un altro gruppo di pulcini, invece, adottiamo un cambiamento improvviso: fino al sedicesimo giorno alleviamo gli animali con la stringa di quattro palline bianche, che poi, al diciassettesimo giorno, sono cambiate con quattro palline marroni. Nel ventunesimo giorno proviamo a fare un test; i pulcini possono scegliere di avvicinare l'uno o l'altro dei due stimoli: la stringa di quattro palline bianche oppure quella di quattro palline marroni. Quale stimolo dovrebbero preferire? Proviamo a ragionarci sopra. Se non vi è alcun aggiornamento delle memorie, i pulcini sottoposti al cambiamento graduale, che emula, rozzamente, quel che accade in natura, dovrebbero preferire la stringa originale di quattro palline bianche a quella nuova di quattro palline marroni. Se, invece, la memoria dell'aspetto visivo del partner sociale è periodicamente aggiornata, i pulcini dovrebbero preferire la versione nuova (quattro palle marroni) a quella originale (quattro palle bianche). Bene, nessuna di queste due eventualità è quella che si realizza effettivamente. I pulcini allevati con il cambiamento graduale avvicinano sia l'uno che l'altro stimolo. Non c'è dubbio però che gli animali siano in grado di riconoscere i due oggetti come diversi. I pulcini sottoposti al cambiamento brusco, infatti, mostrano di preferire l'oggetto originario (quattro palle bianche). Il pulcino, durante lo sviluppo, sembra allargare progressivamente la sua categoria del partner sociale, in maniera tale da incorporare l'iniziale aspetto dell'oggetto d'imprinting (la prima cosa vista subito dopo la schiusa) e poi, successivamente, tutti i progressivi cambiamenti dello stesso oggetto. I risultati che si ottengono con il cambiamento brusco della stringa di palline suggeriscono, inoltre, che la gradualità del cambiamento è una caratteristica cruciale per l' aggiornamento e l'incorporazione della «novità» nella categoria. Quest'idea cieli' allargamento categoriale spiega bene alcuni fenomeni apparentemente paradossali. Anni or sono l'etologo di Cambridge Patrick Bateson aveva scoperto che animali allevati per qualche tempo con due stimoli differenti trovavano poi difficile discriminarli tra

LA GALLINA DELLE TRE E QUATTORDICI (VISTA DI PROFILO)

di loro. La cosa appare bizzarra, perché la familiarità con uno stimolo dovrebbe facilitarne il riconoscimento. Supponiamo di allevare un animale con dei cerchi rossi alle pareti della sua tana e poi di addestrarlo a distinguere cerchi rossi da triangoli verdi, ad esempio premiando con del cibo la scelta dei primi ma non dei secondi; è facile prevedere che imparerà più in fretta di un animale che non abbia mai visto prima né cerchi rossi né triangoli verdi. Se però sulle pareti della tana ci sono sia cerchi rossi sia triangoli verdi, l'animale impiegherà più tempo a discriminarli di quanto non ne occorrerebbe a un animale che non abbia mai veduto prima né cerchi rossi né triangoli verdi. Bateson aveva compiuto i suoi esperimenti con i pulcini e con le scimmie. Non mi è noto che qualcuno abbia tentato l'esperimento con i bambini, ma sarei pronto a scommettere che l'esito sarebbe il medesimo. La spiegazione di tutto ciò sembra risiedere nel fatto che gli organismi in queste circostanze tendono a classificare assieme i due stimoli, cioè a farli diventare membri di una stessa categoria. Questo è probabilmente il processo che consente al pulcino di integrare in una categoria unitaria le varie «viste» dell'oggetto di imprinting percepito di lato, da sotto, davanti, dietro, di profilo ... E probabilmente si tratta dello stesso identico meccanismo elementare attraverso cui tutte le creature si formano concetti e categorie nella mente.

Il succo della faccenda (e qualche suggerimento per ulteriori letture) Un collega giapponese, Shigeru Watanabe, ha ottenuto qualche anno fa l'IgNobel, quale riconoscimento per le sue ricerche sulla capacità di discriminazione degli stili pittorici da parte dei piccioni. (L'IgNobel è stato inventato da un gruppo di scienziati burloni di Harvard, per sbeffeggiare ogni anno, in concomitanza con l'attribuzione del premio Nobel, i risultati delle ricerche scientifiche più bizzarre e inutili). Sono sicuro che «Shige» ha accettato con senso dell'umorismo il conferimento del premio, consapevole che le curiosità di uno scienziato cognitivo possano apparire singolari ai più. Si trattava di questo. I piccioni erano dapprima addestrati a discriminare immagini di dipinti di Monete di Picasso, cosa che

CAPITOLO SETrIMO

imparavano a fare con estrema facilità. Nulla di sorprendente in ciò: i dipinti di Monet e di Picasso sono stimoli visivi come altri, perfettamente distinguibili dal sistema visivo di un piccione. La cosa interessante è stata che, dopo l'addestramento, i piccioni si dimostravano capaci di trasferire la discriminazione a dipinti degli stessi autori mai veduti prima. Ma non solo: gli animali mostravano generalizzazione dai dipinti di Monet a quelli di Cézanne e Renoir, e da quelli di Picasso a quelli di Braque e Matisse. Dire che i piccioni sono capaci di riconoscere i dipinti come impressionisti o cubisti è ovviamente una forzatura, perché la generalizzazione dei piccioni avviene su base squisitamente percettiva e nulla ha di storico-culturale. Ma il punto per gli scienziati cognitivi è proprio questo: come fanno i piccioni a operare questo genere di classificazioni percettive? E come facciamo noi? W atanabe ha scelto un po' retoricamente di impiegare gli stili pittorici per porre in evidenza il problema, ma il medesimo problema si pone per qualsivoglia concetto visivo. Che cos'è un albero? O una sedia? Come facciamo a categorizzare come «sedia» un oggetto che non abbiamo mai visto prima? Magari un prodotto del design più moderno, che non ha gambe né schienale e che, nondimeno, si vede che è una sedia ... Ma che cos'è che si vede esattamente? Quando il piccione tratta allo stesso modo il dipinto di Picasso e di Braque non sta evidentemente rispondendo a una specifica qualità fisica della stimolazione che è presente simultaneamente e identicamente nei due esemplari, ma a una qualche proprietà relazionale più astratta. È molto difficile capire come i cervelli siano capaci di fare questo. Per saperne di più Le ricerche sul riconoscimento dei conspecifici e l'allargamento categoriale nelle galline sono riportate in: - C. M. E. Ryan e S. E. G. Lea, Pattern Recognition, Updating, and Fifiaf Imprinting in the Domestic Chicken (Gallus gallus), in M. L. Commons e altri (a cura di), Quantitative Anafyses of Behavior, voi. 8, Behaviouraf Approaches to Pattern Recognition and Concept Formation, Erlbaum, Hillsdale (NJ) 1990, pp. 89-110. Il fenomeno dell'allargamento categoriale è stato riportato per la prima volta in: - P. P. G. Bateson e D. F. Chantrey, Retardation ofDiscrimination Learning inMonkeys and Chicks Previousfy F.xposed to Both Stimu!i, in «Nature>>, 237, 197>, pp. 173-74.

LA GALLINA DELLE TRE E QUATTORDICI (VISTA DI PROFILO)

Le ricerche sulla categorizzazione degli stili pittorici nel piccione sono riportate in: - S. Watanabe,]. Sakamoto e M. Wakita, M. Pigeons' Discrimination o/ Paintings by Monetand Picasso, in «Journal of the Experimental Analysis of Behavior», 63, 1995, pp. 165-74.

Un passo ulteriore nei processi di categorizzazione consiste nel raggruppare gli oggetti o gli eventi del mondo sulla base di relazioni di ordine superiore che sono completamente indipendenti dalle loro specifiche caratteristiche fisiche. Un esempio è il concetto di eguale/differente. Di recente è stato dimostrato che anche le api maneggiano questo concetto:

- M. Giurfa, S. Zhang, A. Jenett, R. Menzel e M. Srinivasan, The Concepts of«Sameness» and «Di/ference» in an Insect, in «Nature», 410, 2001, pp. 930-33.

8. Geometria per i polli

Una gallina appassionata di geometria andava in giro per i prati a cercare triangoli, trapezi, quadrati, rettangoli, pentagoni, linee rette e linee curve, cerchi, ellissi e altre forme geometriche. Fu molto delusa di non trovarne nemmeno una e riprese quindi a cercare vermetti, semi di grano, di lino, di orzo, di veccia, di cicerchia.

L. Malerba

Come in un racconto di Edgar Allan Poe, siete stati rinchiusi in una stanza rettangolare, completamente spoglia, le pareti perfettamente bianche; una giovane pallida appare in un angolo a indicarvi una via d'uscita, voi vi avvicinate ma, prima che possiate scappare, qualcuno vi afferra, vi mette un cappuccio in testa e vi fa ruotare velocemente su voi stessi, fino a stordirvi e disorientarvi. Poi il cappuccio vi viene tolto. Nella stanza non c'è più nessuno. Potete fuggire ma avete una sola possibilità di scelta: dovete ricordarvi quale sia l'angolo giusto, dove era apparsa la ragazza pallida. Che fate? D

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A

B

Di primo acchito si direbbe che se la procedura di disorientamento è stata efficace e se nella stanza non vi è effettivamente alcun indizio - una crepa, una macchia - che consenta di distinguere una parete dall'altra, allora non vi è modo di ritrovare l'angolo giusto; non si può che rispondere a caso, con la probabilità di azzeccarci una volta su quattro. Se ci riflettete bene, però, vi accorgerete che le cose non stanno proprio cosl.

GEOMETRIA PER I POLLI

Consideriamo cosa è accaduto quando vi siete avvicinati all'angolo giusto, supponiamo l'angolo A. Guardando verso l'angolo (o verso la ragazza) avevate sulla vostra destra una parete corta e sulla vostra sinistra una parete lunga. Quali altri angoli della stanza danno luogo alla medesima disposizione geometrica delle pareti rispetto all'osservatore? Soltanto uno: quello che si trova sulla diagonale opposta all'angolo giusto, cioè l'angolo C. Gli angoli A e C sono quindi geometricamente indistinguibili. Ma gli angoli B e D possono facilmente venire scartati: quando siete in faccia a B o a D, la parete lunga si trova infatti sulla vostra destra e quella corta sulla vostra sinistra. Quindi avete un bel 50 per cento di probabilità di cavarvela, non soltanto un 25 per cento! Sembra una cosa complicata raccontata cosl, ma probabilmente non lo è. Le galline risolvono questo problema con facilità. Se si mostra del cibo nell'angolo A e poi lo si fa sparire progressivamente sotto uno strato di segatura sul pavimento, il comportamento di ricerca delle galline non appare casuale: esse cercano sistematicamente in due angoli soltanto, l'angolo A e l'angolo C. Lo stesso accade con i ratti e anche con i piccioni. Con gli uomini si può aggiungere un' osservazione interessante: molte persone, dopo il test, dichiarano di non saper dire esattamente su che cosa avessero basato la loro scelta. In questo senso affermo che il problema non è cosi complicato quando lo si debba risolvere concretamente: si vede se ci si trova nell' angolo giusto o sbagliato, senza fare tanti ragionamenti. La situazione assomiglia a quella in cui ci si potrebbe imbattere allorquando elementi molto familiari dell'ambiente subiscano una modificazione improvvisa. Immaginate che da domani le posizioni del rosso (in alto) e del verde (più in basso) nei semafori venissero scambiate. Sono sicuro che la gente troverebbe che c'è qualcosa di strano nelle strade, ma non saprebbe dire cosa. È un po' come quando si torna in una città dopo tanto tempo. Alcuni aspetti del paesaggio urbano sono cambiati e lo si vede, per altri c'è come una confusa sensazione di novità, di qualcosa di sbagliato, ma non si saprebbe indicare che cosa. Adesso proviamo a modificare un poco la stanza rettangolare, colorando una parete di blu (indicata nella figura a pagina seguente con il tratteggio). Dovrebbe essere facile distinguere tra loro gli angoli A e C in questo caso. Nell'angolo giusto, A, non ci sono pareti blu.

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CAPITOLO OTTAVO

D

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A

B

Linda Hermer e Elizabeth Spelke, della Cornell University, che hanno condotto l'esperimento, hanno però scoperto che i bambini fino a cinque-sei anni sembrano incapaci di utilizzare questa fonte di informazione aggiuntiva, di tipo non geometrico, per distinguere l'angolo A dall'angolo C. Risultati simili erano stati ottenuti in precedenza con i ratti. Ciò ha indotto a ipotizzare che gli animali e i bambini più piccoli sarebbero in possesso di una specie di «modulo geometrico» per l'orientamento nello spazio, impenetrabile ad altre fonti di informazione. Il modulo utilizzerebbe le sole proprietà metriche dell'ambiente (per esempio la lunghezza delle pareti) e la distinzione destra-sinistra, ma sarebbe cieco ad altri aspetti (per esempio il colore, l'odore o la tessitura delle pareti o di altri oggetti presenti nell'ambiente). La nostra specie, tuttavia, secondo Hermer e Spelke, supererebbe queste limitazioni nel corso dello sviluppo: sottoposte allo stesso test, le persone adulte sono infatti capaci di usare l'informazione non geometrica e di scegliere l'angolo A rispetto a C. I ratti adulti, invece, continuano a sbagliare, confondendo A e C. Si tratta di una speculazione interessante, ma quasi certamente sbagliata, almeno per quel che riguarda l'aspetto comparativo. Sottoposti agli stessi test, infatti, i pulcini, i piccioni e perfino i pesci si comportano come i soggetti umani adulti e non come i ratti (o i bambini più piccoli). Se si dispongono dei pannelli diversamente colorati in corrispondenza dei quattro angoli e poi li si fa ruotare, in maniera tale che la locazione definita sulla base della geometria dell'ambiente sia in contrapposizione con quella fornita dai pannelli, i pulcini cercano senza esitare il cibo vicino al pannello giusto, anche se è nella posizione sbagliata. Nella figura seguente potete

GEOMETRIA PER I POLLI

vedere le percentuali di scelta di un gruppo di pulcini addestrati dapprima a trovare il cibo vicino al pannello A (a sinistra) e poi sottoposti nuovamente al test dopo la rotazione dei pannelli (a destra). I pulcini paiono in grado di utilizzare perfettamente l'informazione di tipo non geometrico.

D

e

1%

A

B

0%

.,

Naturalmente questi bei giochetti sono possibili soltanto in una stanza rettangolare. In una quadrata, dove la lunghezza di tutte le pareti è identica, non c'è modo di distinguere due locazioni geometricamente corrette e due geometricamente sbagliate. Però in una stanza quadrata si possono fare altri giochi. Supponiamo che questa volta per scappare dobbiate mettervi nel centro. Quando siete nel centro, arriva la ragazza pallida che vi porta fuori di U. Siccome però è una giovane un po' maligna, non vi libera ma vi conduce in un'altra stanza, ancora quadrata, solo molto più grande. E adesso siete nei guai, perché vi sono almeno due possibili soluzioni. La posizione giusta, quella magica che vi fa uscire, potrebbe essere definita in termini assoluti oppure in termini relativi. Nel primo caso, quello che conta è l'effettiva distanza dalle pareti: dovete ricordarvi qual era la distanza tra il centro e le pareti nella stanza piccola e collocarvi, nella stanza grande, a quella precisa distanza. Per esempio, preso un certo angolo, contate tre passi. Ovviamente non ci sarà più un «punto» giusto, ma un'intera area che definisce, rispetto a ciascuna parete, la zona di fuga. Nel secondo caso, invece, non conta la distanza assoluta dalle pareti, ma il fatto che il punto giusto sia equidistante da tutte le pareti. Se la ragazza vi desse un'indicazione verbale precisa, come «mettiti nel centro», voi sapreste come comportarvi in qualsiasi tipo di stanza, grande o piccola che

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sia. Ma in assenza di specificazioni, non sapreste dire se la distanza giusta che avete appreso nella stanza piccola è la distanza assoluta dalle pareti oppure la distanza relativa rispetto alle pareti. Che fa la gallina nella stessa situazione? Per scoprirlo abbiamo condotto un esperimento congegnato nel modo seguente. Dapprima la gallina imparava a trovare del buon cibo razzolando nel centro di un'arena completamente uniforme, sul cui pavimento c'era della segatura. Una volta appreso il compito, la gallina veniva trasferita in un'arena più grande. Quella che vedete qua sotto è una rappresentazione del suo comportamento di ricerca (in effetti, la media di un gruppo di otto galline) in un'arena di forma triangolare (a sinistra nell'arena di addestramento iniziale; a destra in un'arena più grande); le aree più scure rappresentano le zone in cui la gallina razzolava maggiormente.

Il comportamento di ricerca nell'arena grande sembra un po' caotico. C'è in effetti un po' di ricerca nell'area centrale, ma anche in altre zone più vicine agli angoli, cui riesce difficile dare un senso. Considerate però il problema dal punto di vista della gallina (o dal vostro, nella stessa situazione): se usate le distanze assolute apprese nell'arena più piccola, non avete alcun vincolo su quale punto della parete utilizzare per effettuare la misura nell'arena grande. Una buona idea potrebbe essere usare gli angoli, che sono locazioni ben definite, ma, ovviamente, galline diverse possono selezionare angoli

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differenti come punti di riferimento. Proviamo allora a cambiare

il modo di rappresentare i risultati. Questa volta costruiamo una distribuzione media delle raspate rispetto al centro, con una serie di aree concentriche. Se le galline hanno utilizzato la distanza asso· luta appresa nell'arena piccola, dovremmo poter evidenziare un'area di ricerca ben precisa, localizzata all'incirca alla stessa distanza che c'era tra le pareti e il centro nell'arena piccola.

Osservate come in effetti emergano ora due differenti e ben delimitate zone di ricerca nell'arena più grande: una che corrisponde al centro e una che definisce una sorta di anello interno, localizzato a una distanza dalle pareti analoga a quella che c'era tra le pareti e il centro nell'arena più piccola, di addestramento iniziale. Le galline memorizzano tutti e due i tipi di informazione durante l'addestramento: la distanza assoluta e la distanza relativa. Ciò è notevole perché esse non sono state esplicitamente addestrate a farlo. Se si prova a eseguire l'esperimento contrario, passando da un'arena grande a una piccola, si osserva solo una singola area di ricerca, nella zona centrale. Ovvio: la distanza assoluta rispetto a una certa parete in questo caso si collocherebbe al di fuori dell'arena stessa, perciò la preferenza per la distanza relazionale appare essere obbligata. Tutto ciò dimostra che la gallina è capace di rappresentarsi una locazione nello spazio utilizzando una relazione di tipo geometrico; cioè non semplicemente sulla base della relazione tra il punto cer-

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cato e un particolare punto di riferimento, ma sulla base di una relazione tra punti di riferimento. La gallina possiede quindi qualcosa come un concetto di centro? Se inteso come concetto percettivo parrebbe proprio di sì. Quando viene trasferita da un'arena di una certa forma (per esempio quadrata) ad altre arene di forma diversa (per esempio circolare o triangolare), la gallina continua a cercare nella posizione centrale (vedi figura qua sotto).

Perché dovremmo credere che questa faccenda delle relazioni tra gli oggetti nello spazio sia così importante? Il fatto è che si sa da parecchio tempo che nel cervello degli animali, dei ratti per esempio, in una regione che si chiama ippocampo, vi sono «cellule dei posti». Queste cellule nervose entrano in agitazione, aumentano cioè la loro frequenza di scarica, quando l'animale si trova in un certo posto. Ciò è rimarchevole, perché suggerisce che la loro attività «stia per» un luogo nel mondo. Ma come fanno le cellule dei posti a codificare un luogo nel mondo? Usano la presenza di indizi? Rispondono al fatto che in un certo posto c'è una certa cosa? Sì e no. In effetti hanno bisogno che vi siano certi indizi, superfici e oggetti quali sono resi disponibili dalla vista, ma nessuno di questi oggetti o di queste superfici è importante in sé. Quello che conta è la loro relazione reciproca. Immaginate di collocare un ratto in un ambiente relativamente povero di stimoli. Una stanzetta che ha una sedia su una parete, una finestra sull'altra, un quadro sulla terza e per finire voi stessi seduti con le spalle al muro sulla parete vuota. Dopo un po' di tempo una cellula di posto diventa selettivamente sensibile per tale ambiente. Ora, se proviamo a spogliare la stanza dei suoi pochi

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orpelli possiamo comprendere a che cosa sia diventata sensibile la cellula. Se eliminiamo un singolo potenziale indizio (poniamo il quadro) la cellula mantiene la sua selettività di risposta, ma se ne togliamo due o tre comincia ad avere delle difficoltà. Lo stesso se manteniamo tutti i potenziali indizi, ma riorganizzandoli in maniera completamente diversa. Per esempio disponendo il quadro, la finestra e voi stessi tutti addossati alla medesima parete, la cellula non riconosce più il posto. Eppure, ci sono le stesse cose. Ma non ci sono le stesse relazioni tra le cose. Pian piano stiamo rispolverando (e forse risolvendo) i vecchi problemi della teoria della conoscenza, quelli che ci hanno lasciato in eredità pensatori come Newton e Kant da una parte e Cartesio e Leibniz dall'altra. I primi credevano che lo spazio fosse una specie di contenitore vuoto, nel quale gli oggetti andavano a collocarsi; i secondi che lo spazio fosse definito nei termini delle posizioni relative tra gli oggetti e che, anzi, quello di spazio fosse un concetto privo di significato, se non quando accompagnato dal concetto di oggetto. Così le cellule dei posti sembrano inclinare più verso Cartesio che verso Kant.

Il succo della faccenda (e qualche suggerimento per ulteriori letture) Un aspetto curioso del test della stanza rettangolare con il muro blu è che i bambini si dimostrano capaci di risolverlo nel momento in cui nel loro vocabolario compaiono frasi che integrano tra loro aspetti geometrici e non geometrici nella descrizione dell'ambiente. Frasi come «a destra del muro blu» o «il muro blu là a destra». Elizabeth Spelke, la psicologa (ora ad Harvard) che ha notato la difficoltà dei bambini a risolvere il test della stanza rettangolare con il muro blu, ritiene che sia proprio il linguaggio a consentire la soluzione del problema. La sua ipotesi è di ordine molto generale. Noi sappiamo, dice la Spelke, di condividere con le altre specie animali un kit di abilità specializzate - abilità che a volte gli scienziati cognitivi chiamano «moduli» - che comprende la capacità di riconoscere gli oggetti parzialmente occlusi, di mantenere l'identità degli oggetti quando spariscono alla vista, di localizzarli nello spazio, di valutarne il numero e cosi via (concetti che abbiamo in parte gii\

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discusso o che, come quello di numero, esamineremo nei prossimi capitoli). Ma se queste sono tutte abilità condivise con le altre specie che cos'è che ci fa differenti, a noi umani? Secondo la Spelke noi possediamo una marcia in più quando si tratta di integrare tra loro i risultati dei vari moduli, perché il linguaggio serve da medium, da veicolo per l'integrazione. Il test della stanza rettangolare sarebbe esemplificativo di ciò. Nella stanza ci sono potenzialmente due fonti d'informazioni, ciascuna ricavabile da un modulo specializzato. Il modulo per la geometria, che usa le proprietà metriche dell' ambiente (parete corta, parete lunga) e le proprietà di senso (destra, sinistra), e il modulo per le proprietà non geometriche che usa il colore (oppure la forma, l'odore o quant'altro) di una parete. I bambini posseggono già da piccolissimi ciascuna di queste due sapienze, solo che non saprebbero metterle assieme. Bisogna aspettare che sia il linguaggio a maturare e a consentire di combinare assieme le informazioni fornite dai due moduli. È una bellissima idea, ma non mi convince perché molti animali, che sicuramente il linguaggio non l'hanno, per esempio i pesci, sono capaci di usare in modo combinato le informazioni geometriche e non geometriche. Il filosofo Peter Carruthers ha argomentato che forse lo fanno in maniera sequenziale, usando cioè prima l'una e poi l'altra fonte di informazione, mentre solo con il linguaggio si possono combinare le due informazioni in un unico pensiero. Rimango scettico visto che la prestazione delle diverse specie, linguistiche e non, è identica. Se c'è una differenza nelle strutture cognitive questa deve tradursi in un qualche vantaggio o differenza nelle prestazioni comportamentali. Al momento non vi è alcuna prova di ciò. Magari la coincidenza temporale nello sviluppo della capacità di risolvere il test e nello sviluppo del linguaggio spaziale è puramente accidentale. Oppure la relazione di causalità va forse intesa in direzione rovesciata: a un certo momento dello sviluppo, a causa della maturazione di certe strutture cognitive che consentono di integrare tra loro le informazioni geometriche e non geometriche, nel linguaggio del bambino compaiono frasi che riflettono tale capacità di integrazione.

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Per saperne di più La nozione di «modulo puramente geometrico» è stata introdotta per la prima volta in esperimenti con i ratti: - K. Cheng, A Purely Geometrie Module in the Rat's SpatiafRepresentation, in «Cognition», 23, 1986, pp. 149-78; e poi estesa, nell'ordine, ai pulcini: - G. Vallortigara, M. Zanforlin e G. Pasti, Geometrie Modules in Animals' Spatial Representations. A Testwith Chieks (Gallus gallus domesticus), in «Journal of Comparative Psychology», 104, 1990, pp. 248-54; - G. Vallortigara, P. Pagni e V. A. Sovrano, Separate Geometrie and Non-Geometrie Modules /or Spatial Reorientation. Evidenee /rom a Lopsided Animai Brain, in «Journal of Cognitive Neuroscience», 16, 2004, pp. 390-400; ai bambini: - L. Hermer ed E. Spelke, Modularity and Development. The Case o/ Spatial Reorientation, in «Cognition», 61, 1996, pp. 195-232; ai piccioni: - D. M. Kelly, M. L. Spetch e C. D. Heth, Pigeons (Colomba livia) Eneoding o/Geometrie and Featural Properties o/ a Spatial Environment, in «Journal of Comparative Psychology», n2, 1998, pp. 259-69; alle scimmie: - S. Gouteux, C. Thinus-Blanc e]. Vauclair, Rhesus Monkeys Use Geometrie and Nongeometric Information during a Reorientation Task, in «Journal of Experimental Psychology. Generai», 130, 2001, pp. 505-19; e ai pesci: - V. A. Sovrano, A. Bisazza e G. Vallortigara, Modularity and Spatial Reorientation in

a Simple Mind. Encoding o/ Geometrie and Nongeometrie Properties o/a Spatial Environment by Fish, in «Cognition», 85, 2002, pp. 51-59; - V. A. Sovrano, A. Bisazza e G. Vallortigara, Modularity as a Fish Views It. Conioining Geometrie and Nongeometrie Information /or Spatial Reorientation, in «]ournal of Experimental Psychology. Animai Behaviour Processes», 29, 2003, pp. 199-210. Gli esperimenti sull'apprendimento del «centro» nella gallina sono riportati in: - L. Tommasi, G. Vallortigara e M. Zanforlin, Young Chickens Learn to Loealize the Centre o/a Spatial Environment, in «Journal of Comparative Physiology. A: Sensory, Neural and Behavioral Physiology», 180, 1997, pp. 567-72; - L. Tommasi e G. Vallortigara, Searehing /or the Centre. Spatial Cognition in the Domestic Chiek, in «Journal of Experimental Psychology. Animai Behaviour Processes», 26, 2000, pp. 477-86. Sulle cellule dei posti e le mappe cognitive si può leggere ancora con profitto il classico: - ]. O'Keefe e L. Nadel, The Hippocampus as a Cognitive Map, Clarendon Press, Oxford 1978.

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Sulla questione della modularità, dell'integrazione delle informazioni geometriche e non geometriche e del ruolo del linguaggio: - P. Carruthers, The Cognitive Functions o/Language, in « Behavioral and Brain Sciences », 25, 2002, pp. 657-726; - G. Vallortigara e V. A. Sovrano, Conioining In/ormation /rom Di/ferent Modules. A Comparative Perspective, in «Behavioral and Brain Sciences», 25, 2002, pp. 701-02; - E. S. Spelke, What Makes Us Smart? Core Knowledge and Natural Language, in D. Gentner e S. Goldin-Meadow (a cura di), Language in Mind. Advances in the Study o/Languageand Thought, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2003, pp. 277-31i.

9. Cervelli destri e pensieri sinistri

Una gallina un po' svagata diceva di sentire un gran vuoto dentro la testa, proprio nella parte dove di solito si trova il cervello. «Ho paura di non avercelo il cervello - diceva la povera gallina piangendo, - se lo avessi me lo sentirei». Ma le altre galline la rassicurarono dicendo che non se lo sentivano nemmeno loro.

L. Malerba

Provate a chiedere a un amico di concentrarsi e di elencarvi tutte le parole che indicano un animale e che cominciano con la lettera «A». Poi chiedetegli di immaginare la piazza più importante del paese e di dirvi quanti caffè si trovano sul lato che sta proprio in faccia al municipio. Osservate come il vostro amico muove gli occhi e orienta il capo mentre riflette nel tentativo di risolvere ciascun problema. Di solito le persone girano la testa e muovono gli occhi verso sinistra con il primo tipo di problema e verso destra con il secondo. Se avete molti amici, e la pazienza di metterne alla prova l'abilità in test di tipo verbale (come nel primo problema) o di tipo percettivo-spaziale (come nel secondo), dovreste poter pervenire a una generalizzazione ancora più interessante: i soggetti bravi nei compiti spaziali tendono a orientare occhi e capo verso sinistra, quelli maggiormente inclini alle attività verbali tendono a orientare occhi e capo verso destra. Tutti sanno oramai che gli emisferi cerebrali destro e sinistro nella nostra specie svolgono funzioni parzialmente distinte, essendo il primo implicato nei meccanismi di tipo percettivo-spaziale e il secondo in quelli del linguaggio verbale. Perciò non sorprende che I' emisfero sinistro sia più bravo nel primo tipo di problemi e il destro nel secondo. Nel caso dei problemi cui avete sottoposto il vostro amico, però, accade qualcosa di speciale. Compiti di tipo diverso, che danno luogo presumibilmente ad attività mentali diverse, fanno sl che le persone orientino il capo e gli occhi verso un lato o verso I' altro. E il lato prescelto appare essere quello opposto all' emisfero cerebrale che è dominante per quel particolare tipo di pro-

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blema: con il problema verbale, che è di competenza dell'emisfero sinistro, gli occhi girano verso destra; con il problema spaziale, che è di competenza dell'emisfero destro, gli occhi girano verso sinistra. Per capire che cosa succede conviene tornare alla nostra gallina. Avete mai fatto caso a come ci guarda la gallina? Volge la testa e ci fissa in quel modo curioso, di sguincio, usando un occhio soltanto. Quasi tutti gli uccelli fanno cosl. Vi siete mai chiesti, però, se usano sempre lo stesso occhio per guardarci? Richard Andrew, un etologo dell'Università del Sussex, in Gran Bretagna, ha trovato che, quando guardano una gallina, i pulcini preferiscono usare l'occhio destro. Durante l'esperimento i pulcini potevano osservare la gallina attraverso un foro in una parete, mentre una telecamera dall'alto registrava i movimenti del loro capo. A parte ritrarre la testa dal foro, in tale situazione i pulcini erano abbastanza limitati nelle loro possibilità di movimento; tuttavia c'è una dimostrazione divertente di come l'uso preferenziale di un occhio possa influenzare il comportamento degli animali liberi di muoversi. Nel mio laboratorio abbiamo interposto tra il pulcino e la sua mamma (in realtà la solita pallina di plastica con cui l'animale è allevato da subito dopo la schiusa) un ostacolo costituito da una serie di bastoncini verticali.

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Per ricongiungersi con la mamma il pulcino doveva aggirare l'ostacolo e il buon senso vorrebbe che laggirarlo a destra o a sinistra fosse per lui assolutamente indifferente. Quel che accadeva, invece, era che laggiramento avveniva quasi sempre sul lato sinistro, il che è esattamente quello che ci si aspetta se il pulcino tiene «sotto fissazione» la sua mamma usando l'occhio destro. Non si tratta infatti di una preferenza motoria: la direzione di movimento dipende dall'occhio usato per fissare l'oggetto durante l'aggiramento. Se la pallina cambia di colore, il pulcino tende a fissarla con l'occhio sinistro, perché l'emisfero destro del cervello è specializzato nell'analisi della novità e, come risultato di ciò, l' aggiramento dell'ostacolo avviene questa volta sul lato destro. I pulcini, come altri uccelli, sono capaci di muovere i due occhi in maniera indipendente. La retina di ciascun occhio comprende una parte frontale, che è utilizzata soprattutto per fissare gli oggetti vicini (per esempio, durante la beccata), e una parte laterale, usata per fissare gli oggetti più distanti. La parte frontale consente un certo grado di sovrapposizione e messa in corrispondenza delle immagini viste da ciascun occhio (ciò che è chiamato visione stereoscopica): le informazioni che giungono su questa parte delle due retine interessano ambedue gli emisferi cerebrali. La parte laterale di ciascuna retina, invece, comunica quasi soltanto con l'emisfero cerebrale posto sul lato opposto del capo. Il pulcino, quindi, dispone di una semplice strategia per far sl che uno stimolo particolarmente interessante venga analizzato, ad esempio, dall'emisfero cerebrale sinistro: basta che esso guardi lo stimolo utilizzando il campo di visione laterale dell'occhio destro. Questo sembra abbastanza strano per noi, perché siamo abituati a utilizzare i movimenti oculari coniugati (e obbligati) dei due occhi per fissare binocularmente qualsiasi stimolo susciti il nostro interesse. Tuttavia, un meccanismo in certo modo simile a quello usato dal pulcino sembra essere disponibile anche per la nostra specie quando, muovendo il capo e gli occhi, orientiamo lo sguardo nell'emispazio controlaterale all'emisfero che vogliamo, per cosl dire, mettere in azione. Se un emisfero (il sinistro, poniamo) è impegnato selettivamente nell'esecuzione di un certo compito (trovare nomi di animali che cominciano con la lettera «A»), la nostra attenzione viene diretta nell'emispazio di pertinenza dell'emisfero attivato

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tramite l'orientazione del capo e degli occhi verso destra. Apparentemente noi possiamo, come il pulcino, compiere anche l'azione complementare: attivare selettivamente l'analisi delle informazioni da parte dell'emisfero cerebrale sinistro (o destro) orientando la direzione dello sguardo verso destra (o verso sinistra). La presenza di asimmetrie nel comportamento di animali tanto giovani come i pulcini farebbe pensare al dispiegarsi di un programma genetico. Ciò è vero in parte, ma c'è dell'altro. Lesley Rogers all'Università del New England, in Australia, ha compiuto un'osservazione molto importante. Se si apre un uovo attorno al diciottesimo giorno d'incubazione (poco prima della schiusa, che avviene nel ventunesimo giorno) si può osservare che l'embrione di pulcino è orientato in maniera tale che il suo occhio sinistro risulta completamente coperto dal corpo, mentre quello destro è rivolto verso l'esterno. Poiché una certa quantità di luce è in grado di attraversare sia la superficie dell'uovo che le membrane sottostanti, accade che i due occhi risultino essere diversamente stimolati.

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IOI

Lesley Rogers ha dimostrato che talune asimmetrie del cervello dipendono criticamente da questo fattore embriologico-ambientale, al punto che modificando la posizione del capo dell'embrione, in maniera tale che sia l'occhio sinistro a ricevere più luce del destro, si può rovesciarne la direzione. Ad esempio, quando debbono discriminare granelli di cibo frammisti a sassolini sparsi sul pavimento, i pulcini che provengono da uova normalmente esposte alla luce sono più bravi quando utilizzano l'occhio destro (cioè l'emisfero cerebrale sinistro); quelli provenienti da uova mantenute al buio non presentano alcuna asimmetria oculare, mentre quelli in cui il capo viene rovesciato dentro l'uovo poco prima della schiusa, che ricevono quindi la luce sul lato sinistro anziché destro, sono più bravi a discriminare il cibo dai sassolini quando utilizzano l'occhio sinistro (cioè l'emisfero cerebrale destro). Tutto questo pare essere molto interessante anche nei riguardi della condizione umana. Un'importante manifestazione del diverso ruolo delle metà destra e sinistra del cervello è la preferenza nell'uso di una mano. La grandissima maggioranza degli individui della nostra specie è destrimano. Si sa che i bambini non presentano una chiara preferenza manuale prima di una certa età. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che talune aree del cervello ancora non hanno raggiunto la maturità. George F. Miche!, dell'Università del Massachusetts, ha osservato, però, che il 65 per cento dei neonati giace supino con la testa preferenzialmente girata verso destra e solo il 15 per cento con la testa girata verso sinistra. A partire da questa preferenza neonatale sembra si possano predire le successive preferenze manuali: i neonati che tendono a girare il capo verso destra diventano destrimani e quelli che tendono a girare il capo verso sinistra mancini. Nei bambini l'asimmetria nella rotazione del capo scompare con l'età, ma sembra che almeno una sua epifania persista nell'età adulta. Onur Gi.inti.irki.in, dell'Università della Ruhr a Bochum, in Germania, ha osservato che quando si baciano sulle guance le persone, in paesi diversi e in circostanze diverse, usano in gran maggioranza iniziare con un bacio sulla guancia destra, quindi ruotando il capo verso destra. Tutto ciò non significa, naturalmente, che le preferenze manuali siano causate da queste asimmetrie nella rotazione del capo: entrambe sono probabilmente generate da primigenie asimmetrie del cervello.

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Per molto tempo si è creduto che il diverso ruolo dei due emisferi cerebrali nei processi mentali - ciò che tecnicamente viene chiamato «lateralizzazione» - fosse un'esclusiva della nostra specie, per via del fatto che la sua primissima manifestazione osservata è stata quella associata al linguaggio: nella gran maggioranza delle persone, le lesioni di certe aree dell'emisfero sinistro producono afasia, ovvero deficit nella comprensione e produzione linguistica, mentre le lesioni delle aree corrispondenti nell'emisfero destro non producono disturbi di tipo linguistico. L'associazione tra lateralità e linguaggio ha fatto sl che si pensasse che l'una non potesse esistere senza l'altro, ma, in realtà, la lateralizzazione cerebrale è comparsa molto prima del linguaggio. In questi ultimi anni se ne sono trovate manifestazioni sorprendenti in organismi filogeneticamente disparati. Ad esempio, l'uso preferenziale della mano destra in una varietà di compiti, che è probabilmente l'espressione più evidente della lateralizzazione cerebrale e che tradizionalmente è stato ritenuto una peculiarità della nostra specie, è stato descritto anche in altri primati. I miei colleghi e io abbiamo addirittura scoperto che certe specie di rospi usano preferenzialmente la zampa destra per rimuovere dal muso un pezzetto di carta. L'asimmetria non riguarda solo le zampe anteriori: quando vengono rovesciati pancia ali' aria come mostrato in figura, i rospi utilizzano preferenzialmente la zampa posteriore destra per darsi la spinta necessaria a effettuare il ribaltamento e riguadagnare cosl la posizione canonica. A

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È sorprendente la corrispondenza che si osserva nella direzione delle asimmetrie cerebrali in specie le cui linee evolutive si sono separate da qualcosa come 250-300 milioni di anni. La probabilità di attaccare un conspecifico è molto più elevata quando i polli si guardano con l'occhio sinistro rispetto al destro. E lo stesso vale per i babbuini, per i rospi e per i camaleonti americani. Strana coincidenza, vero? Nel caso dei camaleonti il fenomeno è particolarmente spettacolare, perché durante i combattimenti questi animali cambiano la colorazione della loro livrea, che assume una tonalità più pallida, ma solamente quando i due contendenti si fronteggiano fissandosi con l'occhio sinistro. Probabilmente non si tratta di coincidenza, ma di ciò che i biologi chiamano omologia. L'asimmetria di funzioni è, io credo, comparsa molto anticamente nel sistema nervoso dei vertebrati, in qualche primigenio cordato che è stato un antenato comune dei moderni pesci, anfibi, rettili, uccelli e mammiferi; è per questo che oggi ne osserviamo le tracce in animali cosi diversi tra loro. A suo tempo mi è stato insegnato a camminare sul lato esterno del marciapiede accompagnando una signora. Ma ora penso agli occhi e ai cervelli con un po' d'inquietudine quando la direzione di marcia fa si che il lato esterno del marciapiede stia alla sinistra della mia accompagnatrice. Il succo della faccenda (e qualche suggerimento per ulteriori letture) Gustav Fechner, uno dei padri fondatori della moderna psicologia sperimentale, evocò, nel 1860, la possibilità di un esperimento straordinario. Il cervello è un organo a simmetria bilaterale, le sue due metà, l'emisfero destro e sinistro, appaiono grossolanamente identiche, l'una l'immagine speculare dell'altra. C'è una specie di solco tra i due emisferi, dove li unisce un grosso fascio di fibre, il corpo calloso. Che accadrebbe, si chiese Fechner, se i due emisferi venissero separati mediante un taglio netto del corpo calloso? La sua idea era che l'attività nervosa associata a ciascuna metà sarebbe stata accompagnata dalla sua propria corrente di coscienza. Due menti in un unico cervello.

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Fechner riteneva che un tale esperimento fosse tecnicamente irrealizzabile. Ma nei primi anni sessanta, Roger Sperry, psicobiologo del Caltech e premio Nobel, ha avuto l'opportunità, per la prima volta, di studiare dei pazienti cosiddetti split brain (cervello diviso), persone che a causa di una forma di epilessia intrattabile erano state sottoposte a resezione del corpo calloso. A prima vista queste persone appaiono normali, ma Sperry ha potuto dimostrare che esse posseggono due sfere separate di coscienza, una per ciascun emisfero. Se un paziente con cervello diviso esplora al tatto, ma senza poterlo vedere, un oggetto familiare, egli è in grado di ritrovarlo successivamente, sempre al tatto, in mezzo ad altri oggetti simili usando la stessa mano; se però deve farlo con l'altra mano non ci riesce. Quando la mano usata è la destra, l'informazione giunge all'emisfero sinistro e il paziente può nominare l'oggetto; non cosl se l'informazione giunge al solo emisfero destro (tramite la mano sinistra), che è «muto». lo credo che i pazienti split brain rivelino in una forma estrema una condizione che è in effetti diffusa tra tutti i vertebrati. Gli esperimenti che sono stati condotti con i pulcini (e con molti altri animali) mostrano che i due emisferi elaborano in modo differente l'informazione che arriva dai sensi e memorizzano aspetti differenti di un medesimo episodio di esperienza. Vorrei descrivervi brevemente un esperimento condotto nel mio laboratorio che illustra molto bene questo aspetto. Immaginate che una «mamma» (in realtà la solita pallina di imprinting) si muova sotto gli occhi del pulcino, mentre questi è confinato in una scatola trasparente, e vada a nascondersi dietro a uno di due schermi opachi. Uno degli schermi è di colore rosso, l'altro di colore verde. Lo schermo rosso è collocato a sinistra, quello verde a destra. Dopo la scomparsa della mamma, una tendina opaca è collocata di fronte alla scatola trasparente nella quale si trova il pulcino e, senza che l'animale lo noti, la posizione dei due schermi è invertita: lo schermo rosso è collocato a destra e quello verde a sinistra. La tendina è poi rimossa e il pulcino è lasciato libero di cercare la sua mamma. Dove la cercherà? Dietro lo schermo di colore giusto, ma nella posizione sbagliata, oppure dietro lo schermo nella posizione giusta, ma del colore sbagliato? La risposta è: dipende da quale occhio il pulcino sta usando! Se usa solo l'occhio sinistro (perché il destro glielo abbiamo temporaneamente ben-

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dato), l'animale si dirige senza esitazioni verso lo schermo nella posizione giusta (ignorando il colore), mentre se usa l'occhio destro si dirige verso lo schermo del colore giusto (ignorando la posizione). Ancora una volta, due menti separate e indipendenti dentro una sola teca cranica. Perché gli animali hanno cervelli asimmetrici? Questa domanda sottende due problemi distinti. Un problema concerne i vantaggi che sono conferiti al funzionamento del cervello dall'essere asimmetrico. Probabilmente ce ne sono parecchi. Ad esempio, si risparmia materiale (neuroni) facendo sl che le due metà del cervello svolgano funzioni diverse, senza ridondanti duplicazioni dei meccanismi. Inoltre, molti compiti richiedono di essere svolti da meccanismi differenti a causa di certe incompatibilità intrinseche al funzionamento delle differenti strategie di elaborazione delle informazioni. Oggi sappiamo che le asimmetrie «pagano», nel senso che gli individui asimmetrici mostrano dei chiari e misurabili vantaggi in talune prestazioni comportamentali. Per dirne solo uno, si è visto che la famosa pesca delle termiti con l'uso di un bastoncino è svolta con maggiore efficienza dagli scimpanzé che presentano una marcata preferenza nell'uso di una zampa rispetto a quelli che usano indifferentemente la zampa destra o sinistra. Tutto ciò rappresenta però solo metà della storia. Il possesso di un cervello asimmetrico può migliorare le prestazioni dell'animale indipendentemente dalla direzione dell'asimmetria. Ma se è cosl perché allora la maggior parte degli animali all'interno di una popolazione dovrebbe mostrare asimmetrie proprio nella stessa direzione? Provo a spiegarmi meglio. Le asimmetrie di cui stiamo parlando sono asimmetrie «direzionali», nel senso che più del 50 per cento degli individui mostra asimmetria nella stessa direzione. Pensate all'uso della mano destra nella nostra specie. Esso si osserva in più del 90 per cento della popolazione umana. Assumiamo che vi siano dei vantaggi legati alla differente funzionalità delle due mani (e dei due emisferi). Evidentemente questi vantaggi sono relativi all'asimmetria in sé, non alla sua direzione. Potremmo avere il 50 per cento degli individui che preferisce l'uso della mano destra e il 50 per cento quello della mano sinistra. Sarebbero tutti avvantaggiati dal fatto di essere asimmetrici, pur senza mostrare asimmetria direzionale (cioè dallo stesso lato). Perché si è verificato allora che le asimmetrie sono (in

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molte specie e in molti compiti, perlomeno) di tipo direzionale piuttosto che individuale? Si potrebbe immaginare che ciò sia il sottoprodotto accidentale di una determinazione di tipo genetico, in cui l'asimmetria è specificata fin dall'inizio con una particolare direzione. Gli individui erediterebbero quindi il fatto di essere asimmetrici assieme a una ben specificata direzione di asimmetria. È possibile che in qualche modo le cose stiano davvero cosl, ma ciò solleva un nuovo ordine di problemi. Come abbiamo visto, negli animali con gli occhi posti lateralmente sul capo le asimmetrie cerebrali possono manifestarsi con l'uso preferenziale di un occhio. Ora, il fatto di avere un occhio (e quindi una parte di campo visivo) che è più bravo (o meno bravo) dell'altro nell'esecuzione di certi compiti può implicare grossi svantaggi. Certo non sembra molto sensato che l'individuazione di un predatore debba essere più o meno efficiente a seconda che il predatore compaia sul lato destro o sinistro del corpo! Considerando poi le risposte motorie anziché quelle percettive, gli svantaggi associati al possesso di asimmetrie direzionali divengono ancora più marcati. Se, per esempio, la gran parte dei pesci di una certa specie tende a scappare verso sinistra quando avvista un predatore, il fattore di prevedibilità associato a una tale asimmetria può essere sfruttato dal predatore. Se ciascun pesce di quella specie è invece asimmetrico solo a livello individuale (ma non a livello di popolazione) il predatore non ha modo di prevedere quando un particolare individuo fuggirà a destra oppure a sinistra. Se allineare le asimmetrie nei diversi individui determina tali evidenti svantaggi, per quale ragione allora la selezione naturale ha prodotto le asimmetrie direzionali? Non era meglio limitarsi a costruire organismi con cervelli individualmente asimmetrici, cioè con una direzione equiprobabile delle asimmetrie, 50 per cento a destra e 50 per cento a sinistra? Io ritengo che una soluzione plausibile dell'enigma possa emergere quando si considera il fatto che molti organismi posseggono una vita di relazione. Il tipo di socialità che ho in mente qui è qualcosa di molto semplice e riguarda tutte quelle situazioni in cui ciò che è meglio fare per un individuo (asimmetrico) dipende da ciò che fanno gli altri individui (pure loro asimmetrici) del suo gruppo. Per esempio, è vero che pesci che scappassero sempre a sinistra mostrerebbero un comportamento prevedibile che potrebbe essere sfruttato dai predatori, ma è anche vero che

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molte specie di pesci nuotano in banchi. Ci sono vantaggi a stare in un banco e le dimensioni del banco sono calibrate in relazione a questi vantaggi. Nel banco è importante che il comportamento degli individui sia coordinato: per un pesce asimmetrico all'interno del banco è cruciale l'allineamento della sua asimmetria con quella degli altri membri del gruppo. Se tutti i suoi compagni girano a sinistra quando vedono un predatore mentre lui gira a destra, si troverà a essere un pesce isolato, alla mercé del predatore. Insomma, le asimmetrie direzionali potrebbero avere vantaggi specifici (che ne compenserebbero gli svantaggi) quando si passa a considerare il comportamento degli individui singoli in relazione a quello degli altri individui. Una previsione facile che si può ricavare da quest'ipotesi è che, a parità di altre condizioni, le asimmetrie di tipo individuale dovrebbero essere presenti nelle specie più solitarie, mentre quelle di tipo direzionale nelle specie gregarie. Per saperne di più Rassegne sull'evoluzione della specializzazione degli emisferi cerebrali si possono trovare in:

- J. Bradshaw e L.J. Rogers, The Evolution o/ Latera! Asymmetries, Language, Tao! Use, and Intellect, Academic Press, San Diego 1993; - G. Vallortigara, L'evoluzione della lateralizzazione cerebrale, Cleup, Padova 1994. Le asimmetrie oculoneurali durante l'aggiramento di ostacoli nel pulcino sono riportate in: - G. Vallortigara, L. Regoline P. Pagni, Detour Behaviour, Imprinting and Visual Lateralization in the Domestic Chick, in «Cognitive Brain Research», 7, i999, pp. 307-20;

e per le asimmetrie cognitive si può leggere anche: - G. Vallortigara, Gli oggetti visti dal cervello, in «Mente & cervello»,

1,

2003, pp. 20-27.

Le preferenze nell'uso delle zampe nei rospi sono state descritte in: - A. Bisazza, C. Cantalupa, A. Robins, L.J. Rogers, e G. Vallortigara, Right-Pawedness in Toads, in «Nature», 379, 1996, p. 408; - A. Robins, G. Lippolis, A. Bisazza, G. Vallortigara e L.J. Rogers, Lateralized Aggressive Responses and Hind Limb Use in Toads, in «Animai Behaviour», 56, 1998, pp. 875-8r. Un'esposizione divulgativa dei risultati ottenuti con pesci, anfibi, uccelli e mammiferi si può trovare anche in: - G. Vallortigara e A. Bisazza, L'asimmetria del cervello nei vertebrati, in «Le Scienze», 34z, febbraio 1997, pp. 54-63.

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Sul problema delle origini delle asimmetrie si può leggere: - G. Vallortigara Comparative Neuropsychology of the Dual Brain. A Stroll through Animals' Left and Right Perceptual Worlds, in «Brain and Language», 73, 2000, pp. 189-219; - G. Vallortigara e A. Bisazza, How Ancient Is Brain Lateralization?, in R.J. Andrew e L.J. Rogers (a cura di). Comparative Vertebrate Lateralization, Cambridge University Press, Cambridge 2ooz, pp. 9-69; - G. Vallortigara e L.J. Rogers, Survival with an Asymmetrical Brain. Advantages and Disadvantages of Cerebral Lateralization, in «Behavioral and Brain Sciences», 2005 (in stampa). Sui vantaggi «computazionali» dell'avere un cervello asimmetrico: - L.J. Rogers, P. Zucca e G. Vallortigara, Advantages of Having a Lateralized Brain, in «Proceedings of the Royal Society. Biologica! Sciences», 271, 1, suppi. 6, 2004, pp. 420-22 Assieme a Stefano Ghirlanda, fisico ed etologo teorico dell'Università di Stoccolma, ho cercato di verificare se, dal punto di vista matematico, regge l'idea che le asimmetrie direzionali si siano evolute come «Strategie evolutivamente stabili», strate-

gie cioè in cui ciò che conviene fare a un individuo dipende da ciò che fa la maggior parte degli individui del gruppo. Sembra che funzioni. Se avete voglia di dare un'occhiata alle equazioni le potete trovare in: - S. Ghirlanda e G. Vallortigara, The Evolution of Brain Lateralization. A Game Theoretical Analysis of Population Structure, in «Proceedings of the Royal Society», B,271, 2004,pp. 853-57. Il concetto di «strategia evolutivamente stabile» è stato introdotto daJohn MaynardSmith, grande biologo evoluzionista ed esperto nell'applicazione di quella branca della matematica che va sotto il nome di «teoria dei giochi» allo studio del comportamento degli animali: - J. Maynard-Smith,J. The Theory o/Gamesand the Evolution of Anima!Conflict, in «Journal of Theoretical Biology», 47, 1974, pp. 209-21.

IO.

Dormire con un occhio solo

Una gallina ingorda mangiò troppi sassolini e si appesantl lo stomaco. Durante la notte sognò di essere una gallina. Rimase talmente turbata da questo sogno che la mattina dopo prese la strada del bosco e da allora nessuno ebbe più notizie di lei. L. Malerba

Immagino non vi sia capitato spesso di starvene a spiare il sonno di una gallina. A me è accaduto di farlo per ragioni professionali. Il tracciato elettroencefalografico durante il sonno della gallina è simile a quello di un mammifero, come per esempio l'uomo, ma la periodicità è diversa. La fase REM (quella caratterizzata dai movimenti oculari rapidi) nel pollo adulto dura pochi secondi; nel pulcino un po' di più, arrivando anche a qualche minuto, mentre il neonato umano trascorre in fase REM la maggior parte del tempo dedicato al sonno. Ma non chiedetemi cosa possa mai sognare la gallina. Non lo so. Non lo sa nessuno. Interessante è osservare gli occhi dell'animale assieme al tracciato dell'elettroencefalogramma. Ogni tanto si verifica un fenomeno curioso: un occhio viene aperto, uno soltanto, pur rimanendo l'animale addormentato. Nel pulcino questi periodi di «sonno monoculare» possono essere abbastanza lunghi: dieci, venti secondi, qualche volta di più. Gli animali dormono, questo lo sappiamo tutti. Ma per alcune specie dormire è una faccenda complicata. I delfini, per esempio, sono soggetti alla «maledizione di Ondina»: la loro respirazione è volontaria, perciò non possono allo stesso tempo dormire e salire in superficie per respirare. Questi animali hanno risolto il problema dormendo alternativamente con solo una metà del cervello: mentre un emisfero cerebrale dorme, l'altro rimane attivo (e può controllare i comportamenti necessari alla respirazione). Problemi simili li hanno incontrati gli uccelli migratori, che in volo dormono con un solo emisfero, mentre l'altro rimane sveglio. Tuttavia il fenomeno

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del sonno uniemisferico si presenta anche nelle specie che migratrici non sono, come la gallina. Negli uccelli le vie nervose del sistema visivo sono pressoché completamente crociate - ciò che arriva all'occhio destro viene elaborato, almeno inizialmente, dalla parte sinistra del cervello e viceversa - perciò l'apertura e la chiusura dell'occhio indicano quale emisfero sta dormendo e quale invece sta sveglio. In effetti, quando sposto lo sguardo dagli occhi del pulcino al tracciato elettroencefalografico la relazione appare chiara: occhio destro aperto, emisfero sinistro del cervello sveglio ed emisfero destro addormentato; occhio sinistro aperto, emisfero destro sveglio ed emisfero sinistro addormentato. Emisfero sinistro

Emisfero destro

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Questo curioso fenomeno potrebbe svelare aspetti interessanti dell'attività del cervello, in particolare per ciò che concerne la memoria. Che possa esistere una relazione tra le varie fasi del sonno e la memoria è un'idea antica. Nel pulcino quest'idea trova sostegno nell'osservazione che, subito dopo l'imprinting, si verifica un incremento cospicuo di sonno REM. Forse per fissare la memoria della mamma? Forse. L'imprinting, almeno nella sua fase iniziale, interessa l'emisfero sinistro del cervello e, subito dopo l'imprinting, il sonno unilaterale si verifica principalmente nell'emisfero sinistro. Ma a che cosa può servire aprire un occhio ogni tanto? Magari si tratta di un fenomeno accidentale, legato a un'attività tutta interna

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III

al cervello. Un'osservazione interessante può aiutarci a capirne qualcosa di più. Se l'oggetto d'imprinting nella gabbietta di un pulcino cambia improvvisamente d'aspetto, per esempio se una pallina da ping-pong usata come surrogato di mamma cambia colore, il pulcino, com'è naturale, si inquieta alquanto. Quando poi si osserva l'animale mentre dorme, si può notare un incremento nella frequenza di episodi di apertura dell'occhio sinistro. L'emisfero destro del cervello, che riceve gran parte delle informazioni dall'occhio sinistro, è specializzato nella rilevazione e nell'analisi della novità. L'apertura di un occhio durante il sonno potrebbe quindi essere un fenomeno adattativo. Per un animale a rischio di predazione l'attivazione periodica di mezzo cervello, con la conseguente apertura di un occhio per effettuare un rapido monitoraggio dell'ambiente, può costituire un grande vantaggio. Un esempio di ciò viene offerto da alcuni esperimenti condotti sugli anatroccoli. Quando gli anatroccoli si trovano a dormire all'interno di gabbie trasparenti accostate l'una all'altra a formare una fila, si è potuto osservare che quelli che occupano le posizioni centrali, che hanno entrambi i fianchi coperti da un altro animale, mostrano una scarsa attività di sonno monoculare. Tale decremento non è invece riscontrabile negli anatroccoli collocati nelle gabbie alle estremità della fila, che tendono ad aprire sistematicamente l'occhio in corrispondenza del fianco che rimane scoperto. Non so se l'espressione «dormire con un occhio aperto», che viene a volte riferita alla condizione umana, abbia avuto origine dall'osservazione di fenomeni come questo. Però Chaucer fa menzione esplicita in uno dei prologhi dei Canterbury Ta!es del dormire con un occhio solo dei polli, là dove dice « ... and smale fowles ... slepen at the night with open ye». Tenere sveglio mezzo cervello - o svegliarlo periodicamente per operare un monitoraggio dell'ambiente - è una soluzione brillante al problema di coniugare opposte esigenze nell'organizzazione dei comportamenti, quella di riposare e quella di mantenersi ali' erta contro il rischio di essere oggetto di predazione. Certamente non era l'unica soluzione possibile. La selezione naturale poteva adottare la strategia di far dormire tutto il cervello, ma per un periodo di tempo inferiore. Statisticamente se ne sarebbe ottenuto un vantaggio simile. C'è dell'altro, però, perché il sonno sembra essere in relazione con la memoria.

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Certe specie di cince nascondono il cibo negli incavi degli alberi, per recuperarlo successivamente a distanza di ore o di giorni. Nicky Clayton, all'Università di Oxford, ha provato a bendare temporaneamente un occhio agli animali per verificare successivamente se la memoria del luogo in cui era stato nascosto il cibo fosse disponibile anche all'altro occhio, cioè all'emisfero cerebrale che non aveva ricevuto informazioni. Infatti, benché le fibre nervose da ciascuna delle due retine proiettino principalmente all'emisfero posto sul lato opposto del capo, i due emisferi cerebrali possono, almeno parzialmente, parlarsi e trasferire le informazioni da una parte all'altra mediante certi fasci di fibre chiamate commessure. Nicky ha trovato che fino a un intervallo di ritenzione di circa tre ore tra la fase di occultamento e quella di recupero dei semi non vi è alcuna differenza tra i due occhi, mentre dopo un intervallo di ventiquattro ore vi è un fenomeno di trasferimento unilaterale della memoria: memorie formate con il solo occhio sinistro diventano accessibili all'occhio destro, ma non viceversa. Quindi, quando l'uccello memorizza un sito di occultamento usando il solo occhio destro o il solo occhio sinistro, la memoria della posizione del sito rimane disponibile, per ciascun occhio, fino a circa tre ore. Dopo ventiquattro ore la memoria si trasferisce da un occhio (e da un emisfero) all'altro, ma in una direzione soltanto: se l'animale ha appreso usando il solo occhio sinistro, dopo ventiquattro ore dimostra di sapere dov'è il sito anche quando viene sottoposto a test usando il solo occhio destro; se invece ha imparato usando il solo occhio destro, dopo ventiquattro ore l'occhio sinistro non mostra più alcun ricordo della locazione del sito di occultamento. Quindi, in un periodo compreso tra le tre e le ventiquattro ore dopo l'apprendimento, vi sarebbe un trasferimento della memoria dall'emisfero destro al sinistro. Se si esamina la prestazione degli animali in una fase intermedia del trasferimento, per esempio dopo sette ore dall'occultamento delle provviste, la memoria «in transito» appare deteriorata negli animali che usano solo l'occhio sinistro, ma non ancora accessibile agli animali che usano l'occhio destro. Cosa accade quando le cince utilizzano l'occhio sinistro durante l'occultamento e il loro ricordo è poi saggiato in condizioni di visione binoculare a tre, sette e sedici ore di distanza? Sulla base delle nostre intuizioni circa il modo in cui si verifica l'oblio dovremmo

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aspettarci un decadimento lineare, con un ricordo via via meno buono con il trascorrere del tempo. E invece, a causa del trasferimento unilaterale delle memorie, accade che il ricordo sia buono dopo tre ore, pessimo dopo sette ore e nuovamente buono dopo ventiquattro ore. Voi direte: be'. .. interessante, ma che c'entra tutto ciò con noi? Si è mai visto, nell'uomo, che un ricordo sbiadito col trascorrere delle ore torni poi indietro dal suo viaggio verso l' oblio? Ebbene si, questo è esattamente quello che accade in certe circostanze anche nella nostra specie, perché il fissaggio delle memorie, un po' come quello delle fotografie, richiede del tempo. Avi Karni e Dov Sagi, due neuroscienziati del Weizmann Institute, in Israele, hanno addestrato alcuni volontari in un compito di apprendimento percettivo, nel quale si dovevano individuare delle barrette con una particolare orientazione mascherate in mezzo ad altre simili barrette orientate in maniera diversa. La prestazione dei soggetti era misurata dopo una seduta di addestramento; la stessa misurazione veniva poi ripetuta a intervalli di varie ore. Poiché durante gli intervalli non veniva effettuato alcun nuovo addestramento, sarebbe stato logico aspettarsi che la prestazione rimanesse invariata col passare delle ore o, più probabilmente, che decadesse via via. E, invece, dopo esattamente otto ore (ma, non,. per esempio, dopo solo due, quattro o cinque ore), la prestazione dei soggetti risultava all'improvviso migliorata. Ciò suggerisce l'esistenza di una fase latente nei processi di memoria, durante la quale il cervello procede al consolidamento per il tramite di processi neurochimici che durano parecchie ore. È probabile che tali processi siano i medesimi nelle diverse specie. L'intervallo magico di circa otto ore si ritrova infatti pari pari nei tempi necessari alla fissazione del!'oggetto di imprinting nel pulcino, una specie filogeneticamente molto distante da quella umana. Certe fasi del sonno potrebbero quindi fungere da intervalli durante i quali le memorie vengono fissate. Tutti abbiamo fatto l'esperienza da ragazzini di andare a letto abbastanza inquieti sulla nostra preparazione attorno al capitolo del libro sul quale avevamo passato un pomeriggio faticoso, per scoprire poi, il mattino dopo, che la nostra memoria del contenuto del capitolo si rivelava essere più che soddisfacente. L'interpretazione tradizionale di questi fenomeni è che la fatica sia la responsabile della variazione nella pre-

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stazione: la mattina, come ci dicevano le nostre mamme, ci si sveglia più freschi. Può darsi. Ma certo questa non è tutta la storia. Karni e Sagi hanno studiato gli effetti di una notte di sonno sul loro compito di apprendimento percettivo dell'orientazione di barrette. Svegliando i soggetti dell'esperimento ogni volta che il tracciato elettroencefalografico mostrava l'inizio di un periodo REM, hanno trovato che questa fase del sonno era essenziale affinché il mattino seguente la prestazione risultasse migliorata. Lo stesso non accadeva, invece, svegliando i soggetti durante le fasi non-REM. Inoltre, la deprivazione di sonno REM manifestava i suoi effetti solo se il compito era stato appreso da poco; compiti già appresi, e che avevano quindi superato la fase latente di otto ore, non risentivano in alcun modo della deprivazione di sonno REM. Tutto ciò è a mio avviso assolutamente incantevole, ma, purtroppo, ancora non ci aiuta a capire la funzione del sonno, che rimane uno dei misteri meglio celati dal cervello. Se il consolidamento dopo otto ore si verifica anche durante la veglia, qual è la funzione specifica del sonno? È ovvio che una funzione debba esserci, perché se il miglioramento fosse analogo a quello che occorre nello stato di veglia non dovrebbe dipendere selettivamente dal sonno REM. È una storia ingarbugliata. Il mio maestro a Padova di tanti (troppi!) anni fa mi diceva sempre (e ancora mi dice) che voleva presto o tardi scrivere un libro su tutto quello che non conosceva, su tutto quello che non era riuscito a capire, ma che gli sarebbe tanto piaciuto sapere ...

Il succo della faccenda (e qualche suggerimento per ulteriori letture) Visto che il sonno uniemisferico combina i vantaggi del sonno e quelli della veglia è logico chiedersi perché non sia diffuso in tutto il regno animale. Nella nostra specie, ad esempio, sebbene siano stati descritti fenomeni di asimmetria nei tracciati EEG tra i due emisferi, il sonno è sempre biemisferico, anche nei pazienti che sono andati incontro a una resezione del corpo calloso per ragioni terapeutiche o in quelli in cui il corpo calloso manca dalla nascita. Forse i mammiferi non hanno mai posseduto il sonno uniemisferico oppure forse l'hanno posseduto e poi perduto. La filogenesi del

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sonno uniemisferico non è stata ancora completamente chiarita. Apparentemente esso è diffusissimo tra gli uccelli. Fenomeni di apertura asincrona degli occhi sono stati descritti nei rettili, sebbene la relazione con lo stato elettroencefalografico dei due emisferi non sia stata ben documentata. I rettili moderni peraltro non sono molto rappresentativi delle forme rettiliari ancestrali. A ogni modo, se assumiamo, per amore di discussione, che i rettili antichi - progenitori di uccelli e mammiferi - possedevano il sonno uniemisferico, come mai oggi lo possiamo osservare solo in alcuni mammiferi acquatici (per esempio nei delfini)? Forse per i primi mammiferi, piccoli insettivori simili ai toporagno, che dormivano di giorno all'interno di cunicoli, al sicuro dai predatori rettili, il sonno uniemisferico era un costo inutile. Cosl quando iniziò la radiazione dei mammiferi, che andarono a occupare le nicchie diurne lasciate libere dopo lestinzione dei grandi rettili, la capacità di dormire con un solo emisfero probabilmente era già stata perduta. I costi necessari a ricostituirla, nei termini della riorganizzazione del tessuto nervoso, erano probabilmente troppo grandi per la maggior parte dei mammiferi e troppo piccoli i vantaggi, fatta eccezione per alcune specie, come i mammiferi acquatici, per i quali poter dormire con un occhio solo rimane davvero essenziale. Per saperne di più Sul sonno monoculare del pulcino si può leggere: - G. G. Mascetti, M. Rugger e G. Vallortigara, Visual Lateralization and Monocular Sleep in the Domestic Chick, in «Cognitive Brain Research», 4, 1999, pp. 451-63; - G. G. Mascetti e G. Vallortigara, Why Do Birds Sleep with One Eye Open?, in «Current Biology», II, 2001, pp. 971-74; - D. Bobbo, F. Galvani, G. G. Mascetti e G. Vallortigara, Light Exposure of the Chick Embryo Influences Monocular sleep, in «Behavioural Brain Research», l 34, 2002, pp. 44 7-66. Sugli effetti dell'imprinting sul sonno REM nel pulcino si può vedere: - M. Solodkin, A. Cardona e M. Corsi-Cabrera, Paradoxical Sleep Augmentation after Imprinting in the Domestic Chick, in «Physiology and Behavior», 35, 1985, pp. 343-48. L'esperimento sulla funzione antipredatoria del sonno uniemisferico negli anatroccoli è riportato in: - N. C. Rattenborg, S. L. Lima e C.J. Amlaner, Half-Awake to the Risk of Predation, in «Nature», 397, 1999. pp. 397-98.

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Per una rassegna generale sul sonno uniemisferico si può leggere: - N. C. Rattenborg, C.J. Amlaner e S. L. Lima, Behavioral, Neurophysiological and Evolutionary Perspectives on Unihemispheric Sleep, in «Neuroscience and Biobehavioral Reviews», 24, 2000, pp. 817-42. L'apprendimento a fase latente di otto ore nella nostra specie è stato descritto in: - A. Karrù e D. Sagi, The Time Course o/Learning a Visual Skill, in «Nature», 365, 1993, pp. 250-52.

Gli effetti della deprivazione di sonno REM sull'apprendimento percettivo nell'uomo sono riportati in: - A. Karni, D. Tanne, B. S., Rubenstein,J.J. M. Askenasy e D. Sagi, Dependenceon REM Sleep of Overnight Improvement of a Perceptual Skill, in «Science», 265, 1994, pp. 679-82.

I I.

Matematici naturali

Una gallina che aveva imparato a contare fino a quattro pretendeva che le compagne la chiamassero professoressa e voleva scacciare il gallo per prendere il suo posto. Le altre galline le strapparono tutte le penne e poi dissero che l'avrebbero chiamata professoressa solo se fosse stata capace

di contare tutte le penne che le avevano strappato. L. Malerba

I progressi delle nostre conoscenze sulla natura dei numeri sembrano essere stati accompagnati a tratti da una sorta di ritrosia psicologica e da turbamenti, come quelli che sperimenta il giovane Ti:irless, nel romanzo di Musil, quando scopre i numeri immaginari. Secondo una famosa leggenda, Ippaso di Metaponto, della scuola di Pitagora, fu gettato in mare per avere rivelato il segreto dell'esistenza dei numeri irrazionali. È verosimile che la gallina sia destinata a rimanere del tutto imperturbata di fronte a numeri irrazionali e immaginari; queste nozioni hanno già percorso molta strada all'interno della cultura umana e, oramai, sono lontane dai fondamenti biologici del concetto di numero. Tuttavia, un po' come farebbe uno psicoanalista, se vogliamo capire le origini dei nostri turbamenti dobbiamo risalire all'infanzia. Siamo cosl abituati a pensare ai numeri come etichette verbali che rischiamo di non considerare quel che abbiamo sotto gli occhi. E cioè che gli animali, in molte circostanze, si comportano come dei «matematici naturali», pur non possedendo alcun talento linguistico. Ad esempio, sono capaci di valutare che «di più» è meglio di «di meno». Lo psicologo Geza Révész in un esperimento fornl a delle galline la possibilità di scegliere tra due mucchietti di grano, trovando che esse preferivano tre grani a due grani, quattro grani a tre grani, cinque grani a quattro grani e sei grani a cinque. Ciò corrisponde a un apprezzamento immediato e intuitivo della numerosità. In un altro ingegnoso esperimento, Révész formò una fila di granelli di cibo incollandone uno sl e uno no al pavimento. Le galline impararono presto a raccogliere il cibo evitando di beccare ogni

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CAPITOLO UNDICESIMO

secondo granello, anche quando questo non era più incollato al pavimento. L'esperimento funzionava anche se la spaziatura tra i granelli era modificata in maniera casuale, in modo tale che la distanza tra di essi e la loro collocazione rispetto all'ambiente non potesse fungere da indicatore. Risultati del tutto simili furono ottenuti incollando al pavimento ogni terzo granello della fila. Un gran numero di specie ha mostrato di possedere le stesse abilità. Ciò suggerisce che gli animali siano dotati di un «Senso del numero», una capacità naturale di considerare piccole quantità per effettuare stime di numerosità. Questa tornerebbe utile in tutte quelle circostanze in cui una creatura debba effettuare delle valutazioni su oggetti o eventi come le dimensioni di una cucciolata, la quantità di semi presenti in due luoghi differenti o magari la distanza da percorrere per raggiungere un obiettivo quando non si disponga di altri indizi. Ad esempio, si è provato ad addestrare delle api a volare dall'alveare lungo un tragitto rettilineo di trecento metri, segnato da quattro punti di riferimento identici ed equispaziati, costituiti da tendine disposte sul terreno, per raggiungere un contenitore di cibo che si trovava a mezza strada tra il terzo e il quarto punto di riferimento. Ad apprendimento raggiunto, il numero dei punti di riferimento tra l'alveare e il contenitore di cibo era cambiato. Si è potuto così osservare che le api modificavano il loro comportamento in relazione alla variazione del numero dei punti di riferimento piuttosto che delle distanze. Infatti, se il numero dei punti di riferimento era aumentato, le api tendevano ad atterrare a una distanza più breve di quella appresa precedentemente; se invece il numero era diminuito, esse tendevano ad atterrare a una distanza maggiore. Come se, per stabilire la posizione della fonte di cibo, le api utilizzassero una procedura di conteggio, considerando, in maniera ordinata, il numero di punti di riferimento sopra i quali era necessario transitare per giungere alla posizione cercata. Possiamo immaginare che questo senso del numero si estenda anche alle capacità di effettuare operazioni aritmetiche sui numeri? Un animale capace di far di conto sembra appartenere più al regno delle vignette umoristiche che alla scienza degna di questo nome. Ma immaginate di essere in cerca di una tana. In quella bella grotta là in fondo avete appena visto entrare due orsi. E adesso ne sta uscendo uno. Vi fidereste ad andare a occupare la tana? E se invece ne fossero usciti due di orsi? Gli orsi che sono entrati nella tana non

MATEMATICI NATURALI

hanno cessato di esistere. Sapete che ci sono ancora, anche se non li vedete più. (Come ricorderete dal capitolo 3, gli animali e i bambini sono capaci di rappresentarsi mentalmente oggetti scomparsi alla vista e agli altri sensi). Se uno solo degli orsi è uscito dalla tana, la vostra mente conterrà una rappresentazione del fatto che ora nella tana c'è ancora un orso? Mare Hauser, psicologo e neuroscienziato cognitivo ad Harvard, ha allestito un teatrino per i macachi rhesus dell'isola di Cayo Santiago. Si alza il sipario mostrando sul palcoscenico due melanzane, autentiche bontà per questi animali. Poi il sipario si abbassa, una mano si avvicina, penetra dietro lo schermo e fuoriesce portandosi via una melanzana. Ed ecco, il sipario si alza di nuovo. Sul proscenio si vede una melanzana: due meno uno fa uno, nessuna meraviglia. Versione magica della «pièce»: il sipario si alza e questa volta si vedono due melanzane. Ohibò, due meno uno fa ancora due? Questa volta i macachi guardano la scena molto più a lungo, incuriositi e sorpresi. (Altri esempi delle capacità aritmetiche delle scimmie li potete vedere nella figura alla pagina seguente). È stata Karen Wynn, una psicologa dello sviluppo dell'Università dell'Arizona, a inventare questo pezzo di teatro. Lei per prima ha scoperto che misurando i tempi di fissazione oculare di bambini di soli cinque mesi si poteva dimostrare che questi sanno perfettamente che due meno uno fa esattamente uno e non due e neppure tre. E che uno più uno fa esattamente due e non uno oppure tre. Hauser ha ottenuto lo stesso risultato con le scimmie. Forse però questo non è il vero sottrarre o addizionare. Si potrebbe obiettare che magari i bimbi e le scimmie valutano la quantità di materia percettivamente presente, anziché gli oggetti individuali. Ma Hauser ha provato a sostituire a due melanzane, dopo la sottrazione di una melanzana, una singola melanzana grande il doppio, e ha trovato che in questo caso le scimmie non erano sorprese come quando l' aritmetica veniva violata. Se siete dei genitori o degli insegnanti avrete già considerato le implicazioni pratiche di queste scoperte. Noi tutti, creature biologiche, sembriamo essere capaci, fin da piccolissimi, ben prima di poter parlare, di «far di conto»: sappiamo addizionare e sottrarre piccole quantità utilizzando gli interi positivi. Questa dotazione naturale andrebbe trattata come l'ovvio punto di partenza per l' apprendimento della matematica.

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Melanzana singola

Melanzana aggiunta

Rimozione dello schermo

~

Circa

1

secondo

~

Attesa

Circa304 secondi

Ippaso e il giovane Torless sono rimasti turbati dai numeri irrazionali e dai numeri immaginari, che sono delle prelibatezze matematiche. I comuni mortali incontrano difficoltà con molto meno, a causa dello zero per esempio. L'introduzione dello zero è avvenuta sorprendentemente tardi nella storia del pensiero matematico. Il sistema di notazione introdotto dai babilonesi non aveva un simbolo per lo zero ed è rimasto tale per circa millecinquecento anni.

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I) I

Parimenti tardiva è la comparsa della capacità di comprendere lo zero nello sviluppo mentale dei bambini. Anche dopo averne appreso la parola e il simbolo, i bambini necessitano di parecchio tempo per apprezzare il fatto che lo zero è un valore numerico. Richiesti di dire quale sia il più piccolo tra due numeri quando uno di questi sia lo zero, i bambini in età prescolare spesso rispondono a caso, mentre non incontrano difficoltà con gli interi positivi. E se gli si chiede di dire qual è il numero più piccolo rispondono che questo è l'uno e non lo zero! Insomma lo zero, psicologicamente, non fa parte del sistema naturale dei numeri, ma sembra essere qualcosa di completamente differente, un sinonimo per «nulla» o «niente» piuttosto che un vero numero. Ci vuole tempo per imparare a maneggiare lo zero come un numero, proprio perché bisogna impararlo, mentre uno, due, tre e quattro (Hauser ha trovato che le scimmie non sembrano capaci di andare oltre il quattro) sembra siano già Il, nel cervello. Il senso del numero pare basarsi su di un semplice meccanismo di accumulazione. Immaginate un generatore periodico d'impulsi di un qualche tipo, come una macchinetta che sputa palline con periodica regolarità. Il generatore può essere collegato, tramite un interruttore, con un recipiente che funge da accumulatore degli impulsi. Con l'aprirsi e il chiudersi dell'interruttore si rende disponibile un meccanismo per contare. L'interruttore si chiude e le palline cominciano a passare nell'accumulatore. Poi l'interruttore si apre e gli impulsi vengono perduti all'esterno. Il primo numero è rappresentato dall'altezza raggiunta dalle palline nel contenitore. L'interruttore si chiude di nuovo e le palline ricominciano a cadere nell'accumulatore. Poi l'interruttore si apre: il secondo numero, a questo punto, è stato rappresentato. L'altezza delle palline nel contenitore adesso «sta per» la somma dei due numeri. Molti dati suggeriscono che questo semplice modello possa costituire il fondamento del nostro senso del numero. Per esempio, si sa che con l'uso di certe sostanze, le amfetamine, si può aumentare la velocità del generatore d'impulsi, con la conseguente tendenza a sovrastimare le quantità numeriche. (Si ritiene che il meccanismo per la valutazione del numero sia lo stesso della valutazione delle durate: infatti le amfetamine possono produrre l'impressione che il tempo scorra più in fretta). Quel che è interessante nel modello dell'accumulatore è che esso non ha modo di rappresentare lo zero. Infatti, il contenitore vuoto

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non sta per lo zero, ma semplicemente costituisce un elemento inattivo. Il conteggio inizia sempre e soltanto nel momento in cui qualcosa entra nel contenitore. Questo che può apparire di primo acchito come uno svantaggio rende conto invece piuttosto bene delle difficoltà sopra menzionate. Il senso del numero si è evoluto come un meccanismo per enumerare collezioni di entità del mondo reale (numero di granellini di cibo, numero di predatori, numero dei miei fratelli ... ) e nessuna collezione di entità del mondo reale è fatta di «nessun» membro. Gli interi positivi sembrano avere perciò uno statuto privilegiato nella mente e lo zero può trovarci posto solo successivamente, come risultato di un processo istruttivo, spesso faticoso e psicologicamente perturbante, perché lo zero, come numero, non sarebbe compreso nella dotazione di partenza. A riprova di questo Karen Wynn ha fornito una dimostrazione davvero interessante, sottoponendo a dei bambini la sottrazione con risultato erroneo uno meno uno uguale uno. Sul palcoscenico compare Topolino. Poi uno schermo lo copre. Una mano appare di lato, scompare dietro lo schermo, riappare con Topolino e se lo porta via ... Se i bimbi sanno che due meno uno fa uno e che uno più uno fa due ci aspetteremmo che sappiano anche che uno meno uno fa zero. Se abbassiamo lo schermo e, magicamente, facciamo vedere che c'è ancora un Topolino dovrebbero, meravigliati, guardare molto più a lungo questo evento aritmeticamente impossibile rispetto a quello, possibile, in cui lo schermo si abbassa mostrando che dietro non è rimasto più nulla. E invece no. I bambini guardano indifferenti e per lo stesso tempo l'uno o l'altro evento. La comparsa magica di Topolino non li sorprende assolutamente. Noi sappiamo che quando vedono un oggetto coperto da uno schermo i bambini sanno che l'oggetto non ha cessato di esistere. E allora come mai dopo aver visto che l'oggetto che stava dietro lo schermo è stato sottratto, i bambini non si-meravigliano della sua ricomparsa? Il fatto è che l'accumulatore vuoto non è che segnali che Il non c'è più niente, semplicemente non segnala niente! Quel che sconcerta, però, è che i bambini potrebbero accorgersi che qualcosa non va anche indipendentemente dal loro senso del numero, utilizzando semplicemente i meccanismi cerebrali di valutazione della permanenza degli oggetti. Sembra però che la mente

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disponga di aspettative differenti circa il perdurare in esistenza e l'apparire in esistenza degli oggetti e che tali aspettative si sviluppino in tempi diversi. A una certa età, i bambini sembrano possedere una conoscenza solo parziale del principio della continuità spaziotemporale degli oggetti: sanno che gli oggetti che esistono e che hanno veduto debbono «durare» e mantenersi in esistenza, ma non sembrano possedere aspettative circa le condizioni nelle quali gli oggetti possono assurgere all'esistenza. Un Topolino non può sparire all'improvviso. E un coniglio non può essere inghiottito nel cilindro di un mago. Ma un Topolino potrebbe apparire all'improvviso dietro uno schermo. E un coniglio balzare dal cilindro del mago. Già, perché no?

Il succo della faccenda (e qualche suggerimento per ulteriori letture) Agli inizi del Novecento gli studiosi di psicologia animale furono scossi dall'affaire «Hans, il cavallo intelligente». L'animale pareva in grado di effettuare operazioni aritmetiche complicate, come moltiplicazioni e divisioni, a comando del suo padrone, battendo con gli zoccoli un numero di volte corrispondente alla risposta giusta. Esaminate dallo psicologo Oskar Pfungst, le straordinarie capacità di Hans non ressero alla prova dei fatti. L'animale rispondeva ai sottili - seppur inconsapevoli - segnali facciali forniti dal suo addestratore, che gli indicavano quando iniziare a battere con la zampa e quando arrestarsi. Hans era davvero intelligente quindi, ma non in senso matematico. Purtroppo l'incidente ebbe la conseguenza di gettare il discredito sui tentativi di dimostrare che, entro precisi limiti, anche le specie animali non verbali posseggono capacità numeriche. L'espressione «effetto cavallo Hans» divenne l'emblema di tutti quei casi in cui la prestazione apparentemente brillante di un animale derivava da un suggerimento inconsapevole fornito dallo sperimentatore e perciò, in ultima analisi, da un errore metodologico. Oggi sappiamo che gli animali in molte circostanze esibiscono capacità da matematici naturali. Però queste nuove ed eccitanti acquisizioni non devono renderci ciechi di fronte alla sottigliezza inerente il concetto di numero. Il fatto che il senso del numero si fermi a quattro-cinque elementi è significativo. C'è un momento nella vita di ogni bambino in cui a scuola egli realizza che c'è l'uno,

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il due, il tre ... e cosl di seguito. Questo «e cosl di seguito» corrisponde alla realizzazione che I' applicazione ricorsiva dell'aggiunta di una unità produce una infinità numerabile. Il concetto di numero è infatti indissociabile da quello di una successione che si estende all'infinito, il che sembra essere al di là delle capacità di comprensione di qualsiasi specie che non sia la nostra. Sul perché debba essere cosl torneremo nel capitolo 13, dopo aver discusso del linguaggio, perché la nozione di «ricorsività» potrebbe essere la chiave per spiegare questa e altre differenze tra le menti che parlano e le menti silenziose. Per saperne di più Le ricerche di Révész e Katz sul senso del numero nelle galline sono descritte nel libro: - D. Katz, Animals and Men, Penguin Books, Harmondsworth 1953 (1' ed. Longmans Green, London 1937). Con Lucia Regolin, dell'Università di Padova, stiamo studiando la capacità dei pulcini di «contare» gli oggetti di imprinting. Allevati con una o due palline, i pulcini scelgono poi di avvicinare lo stimolo originario (allevati con 1 scelgono 1, allevati con 2 scelgono 2). Se però la differenza è pronunciata (1 vs 3), allora i pulcini scelgono sempre di andare là dove ci sono «più» palline (allevati con 1 vanno verso 3, allevati con 3 preferiscono comunque avvicinare 3). Esperinienti di controllo suggeriscono che effettivamente gli animali trattano le palline come unità individuali (fratelli, potremmo dire) e che fanno qualcosa che assomiglia più a una valutazione numerica che non a una stima della «quantità di materia» presente: - L. Regolin, R. Rugani, S. Loiacono e G. Vallortigara, WhenMore Is Betterthan Less. Number Sense far Imprinted Objects in the Domestic Chick (Gallus gallus), comunicazione presentata al 2 1° Convegno nazionale della Società italiana di etologia (Padova, 15-17 settembre 2004). Riassunti delle comunicazioni (Cleup, Padova), p. 97.

Il «conteggio» nelle api è stato riportato in: - L. Chittka e K. Geiger, Can Honey Bees Count Landmarks?, in «Animai Behaviour», 49, 1995, pp. 159-64.

Le capacità aritmetiche dei primati sono riportate in: - M. D. Hauser, P. MacNeilage e M. Ware, Numerica! Representations in Prima/es, in «Proceedings of the National Academy of Sciences USA», 93, 1996, pp. 1514-17; mentre quelle dei bambini in: - K. Wynn, Addition and Subtraction by Human Infants, in «Nature», 358, 1992, pp. 749-50; - K. Wynn, Psycho!ogica! Foundations of Number. Numerica! Competence in Human Infants, in «Trends in Cognitive Sciences», 2, 1998, pp. 296-303.

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I problemi posti dall'uso dello zero nei bambini sono illustrati in: - K. Wynn e W. C. Chiang, Limits to Infants' Knowledge o/ Obiects. The Case o/Magica! Appearance, in «Psychological Science», 9, 1998, pp. 448-55. Parecchie notizie sul modo in cui i numeri vengono rappresentati nel cervello si possono trovare nel libro del matematico-neuropsicologo francese Stanislas Dehaene: - S. Dehaene, La basse des maths, Odile Jacob, Paris 1997 (trad. it. Il pallino della matematica, Mondadori, Milano 2000).

12.

La gallina pensierosa

Una gallina ingegnosa aveva, in tempi molto lontani, inventato la ruota. La mostrò alle sue compagne che si misero a ridere e dissero che non serviva a niente. Fu cosl che la civiltà delle galline rimase in arretrato rispetto a quella degli uomini, i quali presero il sopravvento e ostacolarono il loro cammino sulla strada del progresso.

L. Malerba

Se vi dico che Chiara è più alta di Patrizia e che Patrizia è più alta di Marta, voi ne ricavate immediatamente che Chiara è anche più alta di Marta. E finalmente, aggiungerete, quassù, sulle cime rarefatte del ragionamento inferenziale, la gallina non ci potrà più raggiungere. Però aspettate un poco. Tutti i meccanismi di cui dispone la nostra mente debbono essere stati, almeno in origine, specializzazioni adattative: cioè soluzioni di specifici problemi posti dalla nostra nicchia di adattamento evolutivo; oppure modificazioni di altre, preesistenti, modificazioni adattative. Per esempio, la capacità di risolvere problemi di inferenza transitiva (cosl si chiama tecnicamente il tipo di ragionamento che avete condotto attorno ali' estensione verticale di Chiara, Patrizia e Marta) potrebbe essere la conseguenza (anche inaspettata) del possesso di un linguaggio verbale. L'ipotesi in effetti non è molto convincente perché, come vedremo, i bambini possono risolvere i problemi di inferenza transitiva anche prima di aver cominciato a parlare. Ma, d'altra parte, sembra dubbio che la capacità di svolgere questo genere di ragionamenti si sia evoluta per proteggerci da quella particolare specie di predatori che sono i professori di filosofia nel pericoloso e ancestrale ambiente del liceo. Mentre è facile vedere una generica utilità nel possedere meccanismi che consentono di trarre inferenze transitive, non è facile capire dove essi debbano essersi rivelati veramente necessari. Nella moneta di scambio della selezione naturale, «veramente necessari» vuole dire che averli avuti oppure non averli avuti deve aver significato, per certi organismi, aver lasciato o meno copie dei propri geni.

LA GALLINA PENSIEROSA

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Le galline posseggono un'organizzazione sociale nota come «ordine di beccata», una gerarchia lineare, un po' come quella dei militari, che va dall'individuo alpha, dominante, giù giù fino all'individuo omega. Si chiama ordine di beccata perché stabilisce, tra le altre cose, la priorità nell'accesso al cibo nel pollaio: l'individuo alpha ha diritto di accesso privilegiato alla mangiatoia, poi segue l'individuo beta, poi il gamma e cosl via. La gerarchia di beccata può produrre un ordinamento sequenziale, lineare e transitivo, in cui se l'individuo A è dominante su Be se B è dominante su C, allora A è dominante su C. Ovviamente tutto ciò può emergere in maniera automatica dall'incontro di ciascun individuo del gruppo con ciascun altro. Un caso più interessante è però dato dalla circostanza in cui un animale può osservare e tenere a mente le relazioni di dominanza-sottomissione tra altri individui del gruppo, per poterle poi usare come fonte d'informazioni circa la propria condotta in situazioni nuove. Se osservo l'individuo A, che è in una posizione gerarchica superiore alla mia, combattere con un individuo B estraneo, che non ho mai veduto prima d'ora, e noto che B riesce a prevalere su A, non ho bisogno di scontrarmi direttamente con B per misurare la sua forza: posso prevedere che se ingaggio un combattimento con lui soccomberò e quindi eviterò di farlo. Ora, pare che le galline si comportino esattamente in questo modo. Se assistono al combattimento tra due galline, di cui una familiare e il cui ordine gerarchico è superiore al proprio, e una estranea, quando la gallina estranea viene vista uscire vittoriosa, le osservatrici, una volta entrate in contatto con essa, evitano di iniziare un attacco e, se vengono attaccate, si sottomettono prontamente. Quando la gallina estranea viene invece vista soccombere nella contesa, le galline osservatrici si comportano nei successivi incontri con essa come se avessero qualche chance di vittoria: iniziano un attacco in media nel 50 per cento dei casi e, con questa medesima percentuale, escono vincitrici da eventuali combattimenti. Se ci chiediamo, quindi, in quali circostanze possedere la capacità di compiere inferenze transitive sia davvero adattativo e vantaggioso la risposta è chiara: laddove c'è vita di relazione e laddove essa sia sufficientemente articolata. Non è un caso, probabilmente, che molti studiosi abbiano sottolineato come una vita sociale complessa possa essere stata la molla cruciale per lo sviluppo dell'intel-

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CAPITOLO DODICESIMO

ligenza. Pensate solo ai vantaggi ottenibili nei riguardi dei comportamenti agonistici. Ci sono animali, come certe specie di scimmie, che vivono in gruppi sociali costituiti da qualche centinaio d'individui. A volte possono trascorrere mesi senza che due individui s'incontrino. Se la gerarchia sociale dovesse essere stabilita sulla base di tutti i possibili incontri diadici tra i componenti del gruppo, si richiederebbe un tempo enorme. Inoltre, i combattimenti sono costosi per gli animali, si sprecano energie e si rischia la vita. La possibilità di imparare qualcosa della propria posizione nella struttura sociale semplicemente osservando le interazioni aggressive altrui, senza esservi coinvolti direttamente, costituisce un vantaggio ragguardevole. Tutti gli anni faccio l'esperienza di mostrare ai miei studenti il test d'intelligenza che potete vedere qui sotto, sottolineando perfidamente che i piccioni non hanno difficoltà a risolverlo. Molti ragazzi, sicuramente intelligenti, si trovano in imbarazzo di fronte ad esso.

LA GALLINA PENSIEROSA

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In effetti si tratta semplicemente della versione non verbale di un problema d'inferenza transitiva che in origine era stato sviluppato, in forma più semplice, per i bambini piccoli, quelli che ancora non sanno intendere il linguaggio. Immaginiamo di presentare a un piccione una serie di coppie di stimoli, sgorbietti senza senso come quelli mostrati in figura. Ciascuna coppia è caratterizzata dal fatto che è presente uno stimolo arbitrariamente designato come «giusto» e uno come «sbagliato». Se il piccione becca lo stimolo giusto lo premieremo con del cibo, se becca quello sbagliato invece no. Gli stimoli giusti, per comodità, li indicheremo con un«+» e quelli sbagliati con un«-». Utilizzeremo un totale di cinque sgorbietti, A, B, C, D ed E, che presenteremo accoppiati nel modo che segue: A+ B-, B+ C-, C+ D-, D+ E-. Come potete immaginare il piccione, ma anche un bimbo o una persona adulta, non ha difficoltà a imparare tutto ciò. La cosa si fa interessante, però, se dopo l'apprendimento viene presentata una coppia nuova, BD, i cui due sgorbietti, presi singolarmente, sono ben noti, ma che assieme non sono stati mai mostrati prima di allora. Voi cosa fareste? Becchereste Bo D? È abbastanza facile rispondere: se B «vince» su C, e C «vince» su D, allora ne segue che B deve «vincere» anche su D. Larisposta giusta è beccare B. E, infatti, alla prima presentazione della coppia BD, benché non abbia mai veduto prima quell'accoppiamento, il piccione becca B ed evita di beccare D. Notate, e questo è il punto importante, che i due sgorbietti della coppia sono stati «premiati» e «non premiati» esattamente lo stesso numero di volte e non c'è quindi modo di distinguerli su tale base: la beccata a B è stata premiata nella coppia B+ C-, ma non premiata nella coppia A+ B-; la beccata a D è stata premiata nella coppia D+ E-, ma non premiata nella coppia C + D-. Se provate ad appiccicare delle etichette come A, B, C ecc. agli sgorbietti nel problema che vi proponevo sopra, potete verificarne la soluzione in forma simbolica. In questo caso sarà come nella figura alla pagina seguente. Come fanno gli animali (non solo le galline e i piccioni, ma anche, ovviamente, le scimmie o gli uomini) a risolvere i problemi d'inferenza transitiva? Se riteniamo che un qualche genere di linguaggio sia necessario per risolvere questo tipo di problemi, allora forse dobbiamo dar ragione a chi pensa che sottostante le manifestazioni del linguaggio verbale umano ci sia una specie di linguaggio del pensiero,

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A+B-

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un «mentalese» posseduto anche dalle specie animali non umane e quindi non verbali. Però forse non abbiamo bisogno di una spiegazione così sofisticata. In effetti si può dimostrare che meccanismi di apprendimento assolutamente elementari sono. sufficienti per spiegare la prestazione dei piccioni. Iniziamo con la coppia A+ B-. Siccome A è sempre premiato, esso tenderà a essere via via sempre più scelto durante l'addestramento; ciò significa che B sarà progressivamente meno scelto e quindi anche poco penalizzato. Questo, a sua volta, incoraggerà la scelta di B rispetto a C nella coppia B+ C-, dove tale scelta sarà sempre ricompensata. Adesso consideriamo la coppia D + E-. Siccome E è consistentemente penalizzato, D tenderà a essere scelto, il che però favorirà la scelta, penalizzata, per D nella coppia C + D - . Insomma, tutto avviene come se lo stimolo B acquisisse un po' di attrattività, indirettamente, per via del suo accoppiamento con lo stimolo A, che viene sempre premiato, mentre lo stimolo D perdesse, indirettamente, un po' di attrattività per via del suo accoppiamento con E, che

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viene sempre punito. Lo stimolo C avrà ovviamente un valore intermedio in questa graduatoria. Quindi, nell'ordine, A sarà più attraente di B, che sarà più attraente di C, che sarà più attraente di D che sarà più attraente di E. Vi è venuto il mal di testa? Be', pensate al povero piccione ... Ma d'altra parte non è che il nostro animale debba realmente compiere tutti questi ragionamenti. Quella che abbiamo appena condotto è una ricostruzione verbale di come la storia passata di premi e nonpremi esperita dal piccione possa condurlo alla soluzione transitiva del problema. Se dobbiamo prestar fede alla nostra esperienza introspettiva, però, non sembra essere questo il modo in cui noi risolviamo il problema: noi il problema lo capiamo, non è semplicemente che la soluzione giusta ci venga Il per Il sulla base di un lavorio tutto interno della mente di cui non sappiamo dire nulla; noi consideriamo che Chiara è più alta di Patrizia, e che Patrizia è più alta di Marta, ci rappresentiamo nella mente queste relazioni e poi ricaviamo (in modo esplicito) che Chiara è più alta di Marta. O no? La faccenda è un po' più complicata, ma anche terribilmente interessante. Ci sono molte cose che facciamo, anche piuttosto bene, senza sapere come le facciamo. Ci sono cose che abbiamo imparato senza sapere cosa abbiamo imparato. Vi ricordate il momento in cui, durante l'infanzia, per la prima volta vi è riuscito quel gioco che consiste nel far star ritto in verticale sopra un dito il manico di una scopa? Che cosa avevate imparato, esattamente? Se provate a osservare dei bambini mentre eseguono il gioco, e confrontate la loro prestazione prima e dopo la sua riuscita, potrete verificare che si tratta essenzialmente di un apprendimento a guardare nel punto giusto: bisogna guardare la scopa in alto, là in cima, altrimenti, se si guarda il dito, il gioco di equilibrio non riesce. Anche quando si è imparato a eseguirlo, si rimane, per così dire, ciechi a che cosa si è appreso. Fenomeni di questo tipo avvengono anche nella sfera dell'attività ragionativa. Juan Delius, dell'Università di Costanza, che ha condotto assieme ai suoi collaboratori molti esperimenti sull'inferenza transitiva nei piccioni, ha provato a sottoporre lo stesso problema alle persone, presentandolo però nella forma di un videogioco. Immaginate di visitare sullo schermo di un calcolatore un castello incantato. Percorrete un corridoio che conduce a due porte. Su ciascuna di esse sta uno degli sgorbietti che ormai vi sono

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familiari. Se scegliete la porta giusta arrivate nella stanza del tesoro e ricevete delle monete d'oro, se scegliete quella sbagliata dovete invece cedere un po' di monete a un mendicante. Gli sgorbietti sulla porta cambiano e sono ovviamente organizzati secondo le consuete coppie A+ B-, B+ C-, C+ D-, D+ E-. Poi, in una fase ormai avanzata del gioco, Delius introduce surrettiziamente una coppia nuova, BD. Non tutti i soggetti risolvono il problema. Una parte risponde a caso. Ma la cosa veramente interessante è che tra i «solutori» solo una porzione di questi dichiara di aver compreso la natura del problema. Richiesti di ordinare i cinque stimoli, questi soggetti li dispongono, correttamente, secondo la sequenza A>B>C >D >E. Ma gli altri soggetti dichiarano candidamente di aver sempre e semplicemente tirato a indovinare e di non aver mai capito, e per la verità neppure pensato, che ci potesse essere una qualche regola transitiva dietro la scelta delle due porte BD. Eppure, nella prova cruciale, questi solutori impliciti scelgono B rispetto a D nella stessa percentuale dei solutori espliciti. Riescono a far star su il manico della scopa guardando nel punto giusto senza essere consapevoli di farlo ... Ma qui la situazione è anche più sorprendente, perché nel caso del manico di scopa dopo la rivelazione del trucco le persone diventano in un certo senso consapevoli della loro attività percettiva - dicono: è vero, non ci avevo pensato, ma ora che me lo fai notare mi rendo conto che, effettivamente, ho imparato a guardare la punta in alto, più lontana della scopa-, mentre invece qui i soggetti rimangono cognitivamente ciechi - dicono: ho compiuto un'inferenza transitiva? ma guarda, io proprio non lo sapevo, pensavo di rispondere a caso! Un collega britannico, molto famoso e molto intelligente, quando fa il chairman alle conferenze chiede sempre al relatore quando questi ha finito: « What does all this mean?». Qual è il punto di tutto ciò? Forse possedere il linguaggio verbale rende diverso il modo in cui nella nostra specie vengono risolti i problemi di inferenza transitiva. Ma non c'è alcuna prova che questo sia vero. Sembra molto più plausibile che i meccanismi di base dell'inferenza siano sempre e soltanto i semplici processi associativi che sono stati svelati negli altri animali e che nella nostra specie il linguaggio possa, eventualmente, rendere esplicito (ma non sempre e non in tutte le persone) parte del lavorio condotto nel cervello da meccanismi filogenetica-

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mente molto antichi, i cui prodotti guidano il nostro comportamento anche senza che noi diventiamo consapevoli delle effettive regole di produzione.

Il succo della faccenda (e qualche suggerimento per ulteriori letture) Quello dei rapporti tra pensiero e linguaggio è un vecchio problema della tradizione filosofica. Tra gli scienziati interessati al linguaggio vi è chi ha adottato una strategia di indagine in apparenza paradossale: studiare quelle creature che il linguaggio non lo possiedono proprio, le specie animali non umane. La logica sottostante a una tale opzione è stringente: che cosa è il pensiero senza il linguaggio? E fino a che punto si può spingere? Quali limitazioni incontra (se ne incontra)? Le inferenze di galline, piccioni e scimmie ci costringono a riconsiderare con attenzione l'idea che certi processi mentali (cosiddetti «superiori») possano svolgersi compiutamente senza il tramite di un medium linguistico. È importante capire che cosa davvero conta in questi risultati. L'argomento retorico dell' «avete visto? lo sanno fare anche loro!» può magari impressionare il giornalista che deve fare un pezzo di colore sulla nuova scienza cognitiva o i cosiddetti «amici degli animali», ma non è davvero importante. Ricerche come quelle diJuan Delius sono cruciali per capire la mente dell'uomo, non solo quella del piccione. Esse ci costringono a una raffinatezza logica e metodologica nell'analisi dei nostri stessi processi mentali che non può dare niente per scontato. Neppure l'idea che per fare inferenze transitive ci vogliano meccanismi di tipo simbolico, linguistico o comunque linguistico-simili (cioè codici proposizionali). Curiosamente sono stati proprio i nostri stessi pregiudizi a essere di aiuto. Piaget aveva sostenuto che nei bambini la capacità di condurre inferenze transitive poteva essere osservata solo dopo che essi avevano acquisito la cosiddetta «funzione simbolica», cioè un grado sufficiente di sviluppo linguistico. Negli anni settanta, però, alcuni ricercatori si resero conto che molte delle apparenti limitazioni dei bambini più piccoli potevano essere superate a condizione che il compito non eccedesse un certo carico di memoria. I test dovevano necessariamente essere adattati all'immaturità linguistica dei bambini, dovevano cioè essere di tipo non verbale. Ciò ha aperto

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la strada all'esecuzione dei medesimi test anche sui primati, con esiti del tutto simili a quelli osservati negli esseri umani adulti e nei bambini. Trattandosi di scimmie e di scimpanzé, all'inizio si pensò bene di spiegare i risultati estendendo un poco le capacità cognitive di questi animali, piuttosto che ripensando criticamente quelle della nostra specie. Si sostenne allora che forse gli scimpanzé possedevano un qualche genere di mentalese, di linguaggio interno del pensiero, anche in assenza di un vero linguaggio verbale. Poi, però, quando si vide che i test d'inferenza transitiva li risolvevano anche i piccioni la cosa divenne un poco imbarazzante. Solo a questo punto, finalmente, qualcuno ha cominciato a chiedersi se le prestazioni d'inferenza transitiva non potevano essere spiegate in maniera più semplice, sia nell'uomo che nel piccione. Questa che vi ho raccontato non è, evidentemente, una storia conclusa. Forse il mentalese i piccioni ce l'hanno davvero. Ma che cosa si possa pensare di più e di meglio avendo la possibilità di utilizzare il linguaggio verbale è un problema ancora tutto da esplorare. In compenso abbiamo cominciato ad avere le idee più chiare su che cosa sia pensare senza linguaggio. Per saperne di più Le risposte «transitive» delle galline sono state descritte in: - M.-E. Hogue, J. P. Beaugrand e P. C. Lague, Coherent Use of Information by Hens Observing Their Former Dominant Defeating or Being Defeated by a Stranger, in «Behavioural Processes», 38, 1996, pp. 241-52. Gli esperimenti sull'inferenza transitiva nel piccione sono riportati in: - L. von Fersen, C. D. L. Wynne,J. D. Delius eJ. E. R. Staddon, Transitive Inference Formation in Pigeons, in «Journal of Experimental Psychology. Animai Behavior Processes», 17, 1991, pp. 334-41; e quelli sull'inferenza transitiva nell'uomo in: - M. Siemann e J. D. Delius, Implicit Deductive Responding in Humans, in «Naturwissenschaften», 80, 1993, pp. 364-66. Una rassegna degli studi sull'inferenza transitiva in varie specie si può trovare in: - J. D. Delius e M. Siemann, Transitive Responding in Animals and Humans. &aptation rather than Adaptation?, in «Behavioural Processes», 4z, 1998, pp. 107-37. Un'esposizione tecnica degli argomenti presentati qua si può trovare in: - G. Vallortigara, L. Tommasi e V. A. Sovrano, La cognizione animale. Due principi, un corollario e un problema aperto nello studio delle «altre» menti, in «Giornale italiano di psicologia», 28, 2001, pp. 21-45.

13. Badare ali' audience

Una gallina enciclopedica aveva imparato a memoria più di mille parole. A questo punto credeva di essere diventata sapiente e quando stava con le compagne ogni tanto diceva «rombo» oppure «cratere» oppure «Ortica». A chi le domandava che cosa significassero quelle parole lei rispondeva che il mondo è fatto di parole e che se non ci fossero le parole non ci sarebbe nenuneno il mondo~ comprese le galline. L. Malerba

Sebbene io sia un sostenitore appassionato dell'intelligenza delle galline, sono disposto a concedere che le loro abilità linguistiche siano scarse. Scarse, però, non significa inesistenti. Considerate le parole del linguaggio umano. Si usa diie che queste sono «funzionalmente referenziali», cioè che «stanno per» (o possono stare per) oggetti ed eventi del mondo esterno. Quando dico «ravanello» ecco che subito vi viene in mente l'oggetto a cui mi sto riferendo, sebbene la relazione tra il suono della parola e l'oggetto per cui sta sia arbitraria e convenzionale, tant'è vero che in altre lingue il ravanello si può chiamare radish oppure radis. Le galline posseggono delle «parole» in questo senso? In natura, quando un galletto vede approssimarsi un predatore terrestre, per esempio un cane, lancia un richiamo d'allarme caratteristico, costituito da una serie di suoni pulsanti a larga banda e di breve durata; quando vede approssimarsi un predatore aereo, per esempio un falco, lancia un richiamo d'allarme molto diverso dal punto di vista acustico, costituito di due unità, un suono iniziale più breve e uno successivo più lungo e sostenuto, che assomiglia a un grido. Le galline si comportano diversamente a seconda del tipo di richiamo: quando sentono il richiamo per il predatore aereo cercano di infilarsi sotto qualche copertura, oppure si accucciano e guardano in alto; quando sentono il richiamo per il predatore terrestre stanno tutte impettite nella classica postura vigile ed eretta, scrutando l'ambiente al livello del terreno e dell'orizzonte. Sono stati condotti esperimenti di playback, utilizzando un altoparlante, per controllare se le galline non reagiscano, più che al richiamo

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d'allarme in sé, al comportamento dell'animale che lancia il richiamo d'allarme attuando comportamenti simili ai suoi; si è visto che anche quando il richiamo viene emesso da un altoparlante, e quindi non vi è traccia nell'ambiente né di un reale predatore né dell'animale che ha lanciato il richiamo, le galline rispondono in maniera appropriata all'uno e all'altro tipo di segnale. Per poter affermare che questi richiami d'allarme sono come parole che stanno per, rispettivamente, «cane» o «falco» o, più genericamente, per «pericolo dal basso» e «pericolo dall'alto», dobbiamo però considerare qualche possibilità alternativa. Ad esempio si è spesso sostenuto che i suoni della comunicazione animale riflettano gli stati affettivi di chi produce i suoni piuttosto che le circostanze e gli stimoli del mondo esterno che scatenano i suoni stessi. I due tipi di richiamo di allarme dei polli potrebbero rispecchiare gradazioni differenti di pericolo, ovvero una differente urgenza di scappare. Il richiamo per il predatore aereo potrebbe indicare una elevata urgenza di fuga e quello per il predatore terrestre una più moderata. Se così fosse, però, dovrebbe essere possibile indurre nei galli la propensione a emettere l'uno o l'altro tipo di richiamo allo stesso tipo di stimolo semplicemente variandone la distanza. Quel che si è trovato, invece, è che se i galli vedono un falco molto lontano non emettono alcun richiamo o, quando lo emettono, si tratta sempre del richiamo per il predatore aereo. In maniera simile, quando avvistano un predatore terrestre a brevissima distanza, e perciò, molto presumibilmente, in una condizione di estrema urgenza di fuga, i galli emettono sempre e comunque il richiamo per il predatore terrestre, mai quello per il predatore aereo. Un altro tipo di richiamo sonoro molto importante nella vita quotidiana dei polli è associato al cibo. I galli, quando trovano del cibo, emettono dei richiami caratteristici la cui funzione è di attrarre le galline. A quanto pare, la struttura di questi suoni convoglia informazioni sulla qualità del cibo: il cibo più appetibile induce l'emissione di un maggior numero di richiami che sono prodotti con una frequenza più elevata; il cibo meno appetibile induce l' emissione di un numero più ridotto di richiami e con una frequenza meno elevata. La probabilità che una pollastra avvicini un galletto che sta emettendo i richiami è positivamente correlata con il tipo di richiamo, vale a dire è maggiore per i richiami che indicano cibo

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appetibile e minore per i richiami che indicano cibo meno appetibile. Poiché la pollastra in questione non sa che cibo effettivamente il galletto abbia trovato, la variazione nella propensione ad avvicinarsi al galletto indica chiaramente che i richiami forniscono informazioni sulla qualità del cibo. Ci si potrebbe domandare, tuttavia, se il galletto intenda informare la gallina sulla qualità del cibo. Nel caso del linguaggio umano la presenza di un'intenzione a comunicare viene assunta sulla base dell'introspezione. Non è detto che questo sia vero per altre forme di comunicazione animale. Un segnale può essere informativo senza essere comunicativo: cioè può convogliare informazioni a chi lo riceve senza che chi l'ha spedito intendesse comunicare alcunché. Nel caso del nostro galletto, il fatto che l'avvicinamento della pollastra sia per lui vantaggioso è irrilevante ai fini della dimostrazione che egli intenda comunicare o intenda far avvicinare la pollastra. È evidente che le cose stanno in maniera tale per cui quei galletti che in presenza di cibo buono emettono certi suoni hanno più probabilità di attrarre una gallina. Ma il fatto che il comportamento funzioni, non implica che i galletti facciano quello che fanno - emettere dei richiami - con un'intenzione di comunicare. È sufficiente che essi posseggano un meccanismo riflesso che fa sl che certi suoni siano emessi in presenza di certi stimoli. Come potete immaginare, la distinzione tra i semplici segnali informativi e i segnali autenticamente comunicativi è molto sottile. Se non glielo si può chiedere, come si fa a capire se il galletto intende comunicare quello che comunica alla pollastra o se semplicemente egli trasmette informazioni senza saperlo? Tutta la distinzione sembra poggiare su un unico cardine: la possibilità, da parte di chi invia il segnale, di poter operare una scelta. Se il comportamento è puramente informativo, il galletto non ha alcuna possibilità di decidere se emettere o non emettere il segnale: ogni volta che sia presente lo stimolo giusto, egli emetterà il segnale, che ci sia o che non ci sia attorno una gallina ad ascoltarlo. Per capire come stanno le cose sono state ideate le due situazioni seguenti. Nella prima, ad alcuni galletti erano forniti dei vermetti appetitosissimi in diverse condizioni: in presenza di una gallina del loro pollaio, di una gallina estranea, di un altro maschio oppure in assenza di qualsiasi audience. Quel che si è osservato è che l'emis-

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sione dei richiami per il cibo era praticamente nulla in presenza di un altro maschio o in assenza di audience, mentre era massima in presenza di una femmina, sia estranea che familiare. Sembra chiaro perciò che il galletto ha una certa possibilità di decidere se emettere o non emettere i richiami. Tuttavia è sempre molto difficile discernere l'intenzionalità nel comportamento. Potremmo infatti formulare una versione dell'obiezione ancora più sofisticata: il galletto risponde in maniera riflessa a certi stimoli, solo che questi stimoli non sono limitati al cibo, ma comprendono anche gli aspetti del1'ambiente di tipo sociale. Il galletto ha un programma nella testa che gli dice: «Quando trovi del cibo buono, se c'è in giro una gallina, allora emetti i richiami». Dopotutto, una gallina è uno stimolo come un altro; tutto quel che si richiede è che il galletto sappia riconoscerla o che sappia distinguere una gallina da un gallo. Questa spiegazione puzza un po' perché è evidente che dati un numero sufficiente di« se ... allora ... » diventa possibile spiegare qualsiasi segmento del comportamento senza alcun riferimento all'intenzionalità, il che svuota di significato la distinzione tra segnali informativi e comunicativi. Comunque, prima di decidere vediamo la seconda situazione. Questa volta ai galletti era fornito del cibo assai poco appetibile, gusci vuoti di nocciola. Di norma, quando li trovano, a meno che la fame non sia moltissima, i galletti e le galline rifiutano di mangiarli. Come ci si poteva aspettare, i richiami per il cibo si riducono in maniera drastica. Però non scompaiono del tutto. In particolare sono emessi in presenza della gallina estranea (in circa il 50 per cento dei casi rispetto a solo circa il r 7 per cento in presenza della gallina familiare). Qui sembrerebbe esserci qualcosa di più della mera intenzione di comunicare. Pare che i galletti facciano il gioco sporco: vogliono ingannare la femmina e lo fanno in particolare in presenza di una femmina straniera, nei confronti della quale la motivazione a formare un legame sociale è più spiccata. Il fatto che ciò accada in media solo il 50 per cento delle volte è in linea con l'ipotesi di un inganno intenzionale: se si grida al lupo troppo spesso l'inganno non funziona più. Ora, in tutta franchezza, io non so se davvero i galletti posseggano intenzioni a comunicare e se davvero in certe circostanze sappiano intenzionalmente mentire. Mi limito a registrare i risultati di que-

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sti esperimenti, compiuti da ricercatori di prim'ordine, come gli etologi Peter Marler e Chris Evans, e cerco di rifletterci sopra. Anche per questa seconda condizione, in fondo, potremmo inserire un certo numero di nuove istruzioni nel cervello del nostro galletto-robot per rendere conto delle sue azioni: «Galletto, tutte le volte che trovi del cibo che fa schifo, evita di lanciare sempre i segnali d'allarme, lanciane solo qualcuno ogni tanto, diciamo una volta sì e una no, specialmente se c'è in giro una femmina nuova». Ma perché allora non usare lo stesso modello di spiegazione per il comportamento comunicativo umano? Troppo complicato? E allora, se è più semplice, perché non concedere che il nostro galletto possieda delle intenzioni? Nella diatriba tra spiegazioni mentalistiche e comportamentistiche, sembra che si arrivi sempre al famoso punto in cui la differenza non fa più alcuna differenza.

Il succo della faccenda (e qualche suggerimento per ulteriori letture) Sul linguaggio non vorrei essere frainteso, si tratta con ogni probabilità di una caratteristica specie-specifica: ce l'hanno gli uomini, ma non le galline, esattamente come (l'esempio è dello psicolinguista Steven Pinker) gli elefanti hanno la proboscide e gli uomini invece no. Però «linguaggio» è un termine che comprende parecchie cose. Alcune sono probabilmente una dotazione specie-specifica; ad esempio, io sospetto, i meccanismi della sintassi. Altre invece sembrano comuni ai sistemi comunicativi posseduti dagli altri animali. Con questo non voglio sostenere che i sistemi comunicativi delle altre specie siano dei linguaggi «più semplici», che siano cioè come il linguaggio umano con qualcosa in meno. Sono sistemicomunicativi completi per gli scopi per i quali sono stati previsti. Ma sono diversi dal linguaggio umano. Cos'ha di speciale il linguaggio umano? Fondamentalmente il fatto di essere creativo: consiste di un numero finito di elementi (per esempio le parole - sarebbe meglio riferirsi però a quelli che i linguisti chiamano morfemi) con i quali, applicando ricorsivamente un numero finito di regole, si può generare un numero pressoché infinito di frasi grammaticalmente corrette. Abbiamo già incontrato quest'idea della potenziale infinitezza, ricordate? Quando, nel ca-

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pitolo 11, si parlava del concetto di numero come associato a quello di un'infinità numerabile. Gli psicolinguisti riferendosi al linguaggio parlano di «infinità discreta», una nozione intuitivamente familiare a chiunque usi il linguaggio: ci sono frasi di quattro parole, di cinque parole ecc., ma non ci sono frasi di 4,5 parole. E non esiste la «frase più lunga»: data una qualsiasi frase io la posso fare ancora più lunga (anche se questo vale solo in linea di principio, perché possono esserci limiti imposti dalla nostra memoria a breve termine). Tutte queste proprietà del linguaggio ricordano piuttosto da vicino le proprietà dei numeri (ma anche quelle della musica). Forse allora tutto ciò che il linguaggio umano ha di speciale si riduce alla capacità di effettuare computazioni ricorsive. Non sappiamo ancora per certo se la ricorsività sia comparsa solo con il linguaggio. Forse è presente nei sistemi cognitivi degli altri animali per risolvere certi tipi di problemi, quali l'orientamento nello spazio o l'organizzazione delle relazioni sociali, ma magari non è stata inserita nei loro sistemi comunicativi. Oppure, semplicemente, i nostri sistemi cerebrali operano ricorsivamente in numerosi domini cognitivi - dal linguaggio, ai numeri, alla musica - mentre quelli degli altri animali possono farlo solo in pochi, ristretti domini. Sembra essersi trattato di una piccola, sottile differenza nella storia dell'evoluzione, che però ha prodotto gli effetti di una valanga. Per saperne di più Gli esperimenti che suggeriscono che i richiami d'allarme dei galli siano funzionalmente referenziali, sono stati descritti in: - C. S. Evans, L. Evans e P. Marler, On the Meaning af Alarm Cali. Functianal Reference in an Avian Vaca! System, in «Animai Behaviour», 46, 1993, pp. 23-38; mentre quelli sull'effetto audience nei richiami per il predatore e in quelli per il cibo sono stati descritti in: - P. Marler, A. Dufty e R. Pickert, Vaca! Cammunicatian in the Damestic Chicken: I.

Daes a Sender Cammunicate Informatian about the Quality afa Foad Referent to a Receiveri", n. Isa Sender Sensitive to the Presence and Nature afa Receiver?, in «Animai Behaviour», 34, 1986, pp. 188-93 e 194-98; - M. Gyger, S. Karakashian e P. Marler, AvianA!arm Calling. Is Therean Audience Effect?, in «Animai Behaviour», 34, 1986, pp. 1570-72.

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Sul ruolo del linguaggio nella nostra specie si può leggere: - F. Cimatti, La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani, Editori Riuniti, Roma 2002. Sull'idea che la ricorsività sia alla base della facoltà del linguaggio umano si veda: - M. D. Hauser, N. Chomsky e W. T. Fitch, The Faculty of Language. What Is It, Who Has It, and How Did It Evolve?, in «Science», 298, 2002, pp. r569-79.

14. La gallina e le menti altrui

Una gallina bugiarda si alzò una mattina lamentandosi per

il gran mal di denti. Quando le fecero notare che le galline non hanno i denti si vergognò moltissimo e andò a nascondersi sotto una siepe.

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Una delle ragioni per cui il problema delle menzogne dei galletti è cruciale è che l'inganno può implicare la capacità di attribuire stati mentali alle altre creature. Ovviamente, ci sono circostanze in cui questa ipotesi non è affatto necessaria. E forse queste circostanze riguardano tutte le specie animali escluso l'uomo. Ad esempio molte specie si mimetizzano, oppure posseggono vari tipi di strategia difensiva come l'immobilizzazione. Qualche anno fa in televisione c'era un mago che «ipnotizzava» i rospi. In realtà costui semplicemente induceva una reazione antipredatoria che potrebbe essere descritta, antropomorficamente, come dar finta» di essere morti. È un trucchetto che si ritrova in una varietà di specie, molte delle quali lontane l'una dall'altra dal punto di vista filetico: avete mai visto da ragazzini uno di quei ragnetti che a un vostro tocco leggero si ribaltano zampe ali' aria e se ne stanno fermi come fossero morti? Voi siete lì che vi chiedete come diavolo sia successo, visto che lo avete appena sfiorato e, infatti, dopo qualche minuto il ragnetto pare come scuotersi, per poi sgusciare via veloce e assolutamente incolume ... In questi casi non sembra davvero ragionevole attribuire agli animali un'intenzione consapevole a ingannare. L'ingannatrice è semmai la selezione naturale, che ha promosso certi comportamenti che si sono rivelati così felicemente adattativi. Ma come possiamo capire se gli animali sono in grado di attribuire conoscenze, desideri, credenze ad altri animali? Quando il ragnetto se ne sta immobile spera forse di indurre nel predatore la credenza di essere morto? In realtà non abbiamo bisogno di ipotizzare nulla di simile. Possiamo ritenere che il predatore abbia degli stati mentali

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(io, almeno, lo credo senz'altro) e cioè che egli voglia catturare il ragnetto, desideri il ragnetto, forse anche che pensi che il ragnetto sia morto. Ma non abbiamo bisogno di attribuire al ragnetto stati mentali sullo stato mentale del predatore. Non si tratta di essere «specisti», perché il dubbio vale per i ragnetti ma anche per le scimmie. Ad esempio i cercopitechi grigioverdi dell'Africa orientale posseggono un sistema di richiami di allarme simile a quello dei galli, con segnali differenti che indicano predatori terrestri, aerei e anche «da albero» come i leopardi. I piccoli di cercopiteco imparano con l' esperienza a emettere i segnali giusti agli stimoli giusti. Un uccello innocuo, una farfalla o una foglia che cade sono in grado di determinare negli animali più giovani l'emissione erronea del segnale d'allarme per il predatore aereo. Niente di strano in ciò, quello che è singolare è il comportamento dei genitori, i quali sembrano non curarsi di questi errori e non provvedono in alcun modo a correggere il comportamento dei loro piccoli. Forse non c'è bisogno di farlo, visto che alla fine i giovani animali imparano comunque. Però c'è anche un'altra possibile spiegazione. Apparentemente, se l'adulto ha veduto lo stimolo al quale il piccolo ha impropriamente risposto dovrebbe essere in grado di rendersi conto dell'errore, cioè dovrebbe comprendere che il piccolo possiede una conoscenza sbagliata o imperfetta. Ma se le scimmie fossero incapaci di attribuire stati mentali agli altri, una tale prestazione sarebbe completamente al di fuori della loro portata. Vi sono probabilmente vari gradi di sofisticazione cognitiva che precedono la piena capacità di attribuire stati mentali ad altre creature. Sicuramente, comunque, nei processi di insegnamento una sensibilità agli errori del discente è un primo passo cruciale. Finora, a parte l'uomo, ciò è stato dimostrato in condizioni controllate soltanto in una specie animale: proprio lei, sl, la gallina ... La chioccia esibisce una speciale parata di segnali per dirigere l'attenzione dei propri pulcini verso le cose buone da mangiare; gli inglesi chiamano tidbitting questo comportamento, che consiste nel raccogliere il cibo nel becco per poi lasciarlo cadere ripetendo più e più volte l'azione e accompagnandola con dei suoni caratteristici. Si può riprodurre una versione semplificata del fenomeno becchettando con una matita sul fondo della gabbietta: i pulcini subito accorrono attorno a questo succedaneo di madre. Dato l'automa-

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tismo nell'evocazione della risposta d'avvicinamento e di beccata nei pulcini, per molto tempo si è pensato che il comportamento della chioccia fosse sl efficiente, ma anche abbastanza stereotipato e rigido. Recentemente, però, Christine Nicol, un'etologa dell'Università di Bristol, ha compiuto un esperimento interessante. Dapprima venivano mostrati ad alcune chiocce due tipi di cibo, diversamente colorato, uno buono da mangiare e l'altro no. Appreso ciò, le chiocce potevano vedere i loro pulcini nutrirsi o di cibo buono, diciamo rosso, oppure di quello cattivo, per esempio blu. Ovviamente le cose erano state predisposte in maniera da ingannare le chiocce, perché in realtà tutto il cibo offerto ai pulcini era buono e differiva soltanto nella colorazione. Ebbene, si è trovato che quando le chiocce vedevano i loro pulcini nutrirsi del cibo blu, quello «sbagliato», esse tendevano ad aumentare in maniera cospicua il comportamento di tidbitting rispetto a quando vedevano i loro pulcini nutrirsi del cibo rosso, quello «giusto». Non c'è al momento alcuna prova che vi sia intenzionalità nella variazione di risposta delle chiocce agli errori percepiti nel comportamento dei pulcini. Ma ovviamente l'ipotesi non può neppure essere scartata. Personalmente, credo sia eccessivo ritenere che le galline attribuiscano una conoscenza erronea ai loro pulcini. Qui siamo probabilmente allo stadio in cui la «teoria della mente», come la chiamano gli psicologi, inizia a vedere la luce sulla base di un'informazione che è di tipo squisitamente percettivo. Come dire: si vede che i pulcini fanno qualcosa di sbagliato, esattamente come, a volte, si vede che una persona è amichevole, aggressiva, timida e cosl via. È una faccenda che attiene ancora al comportamento manifesto, ma il comportamento viene anche caricato d'intenzionalità. Il punto, infatti, è che nelle specie non umane la comunicazione sembra servire a modificare il comportamento, non gli stati mentali. Nella nostra specie, però, le cose vanno altrimenti. I bambini piccoli, fino a circa quattro anni, sono incapaci di attribuire conoscenze fallaci agli altri. C'è un test ormai classico per provarlo, che potete vedere schematizzato qui di seguito. La risposta giusta alla domanda: «Dove cercherà la biglia Sally?» è ovviamente: «Nel cestino». Sally possiede una falsa credenza, perché non sa che la biglia è stata cambiata di posto da Anna. Solo i bambini più grandi riescono ad attribuire questa falsa conoscenza

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Questa è Sally

Questa è Anna

Sally ha un cestino

Anna ha una scatola

Sally ha una biglia e la mette nel cestino

Sally esce a fare una passeggiata

Anna prende la biglia e la mette nella scatola

Ora Sally ritorna

Vuole giocare con la biglia

Dove cercherà la biglia Sally?

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a Sally, mentre quelli più piccoli dicono che Sally cercherà la palla nella scatola, ritenendo che quello che sanno loro sia lo stesso che sa anche Sally. Anche nel caso dei pulcini c'è una sorta di falsa credenza. Non sanno che il cibo blu è cattivo. Ma la chioccia lo sa e, apparentemente, regola il suo comportamento sulla base delle abilità mostrate dai pulcini. Però potrebbe farlo semplicemente rispondendo agli errori dei piccoli senza attribuire loro alcuno stato mentale, limitandosi a giudicarne il comportamento come appropriato o meno. In altri animali si è cercato di mettere a punto situazioni più simili a quelle del test di Sally e Anna. Per esempio, alcuni scimpanzé potevano vedere due persone, una (quella che «tirava a indovinare») che lasciava la stanza temporaneamente, l'altra (quella che «sapeva») che riempiva di buon cibo uno di quattro contenitori senza che l'animale potesse vedere quale. Rientrata nella stanza, la prima persona indicava allo scimpanzé un contenitore «sbagliato», la seconda il contenitore «giusto». Gli scimpanzé imparavano rapidamente a fidarsi della persona che sapeva piuttosto che di quella che tirava a indovinare. Ma effettuavano la discriminazione perché erano capaci di distinguere tra «sapere» e «tirare a indovinare», attribuendo quindi certi precisi e differenti stati mentali alle due persone, o semplicemente perché utilizzavano il fatto di allontanarsi dalla stanza come stimolo discriminativo cruciale? Per capirlo, si è tentata una variazione nell'esperimento. Questa volta la persona che tirava a indovinare rimaneva nella stanza per tutto il tempo, ma, durante la fase di nascondimento del cibo (che era effettuato da una terza persona), sul capo portava un cappuccio che le impediva di vedere. Anche in questo caso gli scimpanzé si fidavano delle indicazioni della persona che sapeva (che aveva potuto assistere al nascondimento senza cappuccio) rispetto a quella che tirava a indovinare (che non poteva sapere quale fosse il contenitore giusto perché il cappuccio le aveva impedito di vedere il nascondimento del cibo). Gli esami, si sa, non finiscono mai: forse gli scimpanzé avevano imparato a usare un indizio molto sofisticato, quale il fatto che un organismo abbia una vista non ostruita da alcun ostacolo di un certo obiettivo, come un indicatore dell'affidabilità di quell'organismo nell'indicare la locazione dell'obiettivo. Gli scimpanzé potrebbero scegliere sulla base di questo indizio senza attribuire alcuno stato

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mentale all'una e all'altra persona. In effetti l'analisi dei dati di questi esperimenti sembra suggerire che nella prima presentazione gli animali tendono a rispondere casualmente e che quindi imparano la risposta giusta. Daniel Povinelli, lo studioso che ha condotto queste ricerche, ha assunto recentemente una posizione alquanto scettica. In una nuova serie di esperimenti egli ha cercato di verificare se gli scimpanzé comprendano per davvero il fatto che gli altri possono vedere. I bambini di due-tre anni sembrano afferrare questo concetto. Posti di fronte alla possibilità di chiedere cibo a due sperimentatori-attori, uno dei quali bendato e l'altro normalmente «vedente», gli scimpanzé, a differenza dei bambini, non mostravano di differenziare il loro comportamento in relazione allo stato di «vedente» inferibile negli attori: essi chiedevano normalmente il cibo anche a chi non poteva vederli. Ciò contrasta alquanto con l'ipotesi che gli scimpanzé possano attribuire ad altri degli stati mentali anche semplici come quello del percepire qualcosa. Però non tutti gli studiosi sono cl' accordo con Povinelli. Josep Cali ha ideato delle ingegnose situazioni di competizione sociale, nelle quali uno scimpanzé dominante e uno subordinato vengono confinati ai lati opposti di un'arena da dove il subordinato può osservare la presenza di cibo in due differenti condizioni. In una condizione una barriera opaca impedisce al dominante di notare la presenza di cibo; nell'altra una barriera trasparente consente anche al dominante di vedere il cibo. Se il subordinato ha la capacità di rappresentarsi che cosa vede il dominante ci aspettiamo che esso vada a recuperare il cibo con maggiore probabilità nella prima situazione; Cali ha osserv.